Tutti i popoli del mondo sono contrari alla guerra. Ma alcuni stati la stanno facendo.
Tutti
i popoli del mondo sono contrari alla guerra.
Ma
alcuni stati la stanno facendo.
L’EUROPA
TRA DUE GUERRE.
Legrandcontinent.eu
– (3-1-2024) - IL GRAND CONTINENT – Josep Borrel – ci dice:
Dall’Ucraina
a Gaza, le bombe cadono su un mondo fratturato.
Il 2023 è stato l’anno delle due guerre; il
2024 sarà quello delle elezioni.
Una
diagnosi sull’Europa davanti alla svolta firmata “Josep Borrell” al “Grand
Continent Summit”.
Due
guerre mortali si sviluppano ai nostri confini e dominano l’agenda europea:
la guerra di aggressione russa contro
l’Ucraina e la guerra che è di nuovo divampata in Medio Oriente.
Mi
concentrerò qui sulle conseguenze di queste guerre per l’Europa e non tratterò
quindi altri temi importanti per la nostra politica estera, come le relazioni
con la Cina, l’impatto del cambiamento climatico o le tensioni nel Sahel.
Quando
ho iniziato il mio mandato nel 2019, avevo già intuito che le questioni di
sicurezza sarebbero diventate sempre più importanti.
È per
questo motivo che ci eravamo impegnati nello sviluppo dello “Strategic
Compass”, la “Bussola strategica”, una nuova strategia per la nostra politica
di sicurezza e di difesa comune.
Quando
l’ho presentata nel novembre 2021, avevo detto che «l’Europa era in pericolo».
L’Europa
è in pericolo.
Al
tempo, molti pensavano che stessi esagerando, che si trattasse solo di una
manovra di marketing per «vendere» lo “Strategic Compass”.
All’epoca,
la maggior parte degli osservatori credeva ancora che la Russia stesse
accumulando le sue truppe ai confini dell’Ucraina per fare pressione
sull’Occidente, affinché questo facesse ulteriori concessioni.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, era
«raramente stato così calmo», come diceva “Jake Sullivan”, consigliere per la
“Sicurezza nazionale” del Presidente “Biden”, ancora lo scorso settembre.
Venivo
regolarmente scoraggiato dall’interessarmi alla questione israelo-palestinese.
In
ogni caso, era impossibile trovare una soluzione a questo conflitto e con gli
“accordi di Abramo” la situazione tra Paesi arabi e Israele si andava evolvendo
positivamente.
Certo,
i palestinesi subivano violenze crescenti in Cisgiordania e gli insediamenti
illegali continuavano a rosicchiare il territorio di un potenziale “Stato
palestinese”, ma nessuno prestava più attenzione.
L’opinione
diffusa era che la questione palestinese si sarebbe risolta da sola.
Venivo
regolarmente scoraggiato dall’interessarmi alla questione israelo-palestinese.
(JOSEP
BORRELL).
Ma
poche settimane dopo la presentazione della “Bussola strategica”, la guerra
faceva il suo brutale ritorno alle frontiere dell’Unione, e dal 7 ottobre la
situazione nelle nostre immediate vicinanze si è ulteriormente aggravata.
La
drammatica situazione a Gaza è diventata la questione più urgente da
affrontare, ma la guerra contro l’Ucraina rimane un tema fondamentale perché
rappresenta una minaccia esistenziale per l’Unione europea.
Sebbene
i loro attori e le loro origini siano molto differenti, questi due conflitti
sono interconnessi.
Il
modo in cui il conflitto a Gaza viene percepito da quello che oggi è noto come
«Sud globale» rischia di indebolire il sostegno di molti di questi Paesi
all’Ucraina contro l’aggressione russa.
Il
momento Demostene dell’Europa.
Quando,
all’epoca della pandemia di COVID-19, abbiamo istituito “Next Generation EU”
attraverso l’emissione di debito comune, alcuni hanno parlato di un momento
hamiltoniano, in riferimento alla decisione presa nel 1790 da “Alexander
Hamilton”, primo Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, di farsi carico del
debito degli Stati federati, creando così un debito federale comune.
Questa analogia è però discutibile nella
misura in cui “Next Generation EU” non ha riguardato lo stock di debiti degli
Stati membri ed è stata un’operazione una tantum, che non era destinata a
ripetersi.
Oggi,
altri parlano di un “momento Demostene”, in riferimento alle azioni del grande
oratore e statista ateniese che, a partire dal 351 a.C., mobilitò i suoi
concittadini con una serie di famosi discorsi, “le Filippiche”, al fine
difendere l’indipendenza di Atene e la sua democrazia contro l’imperialismo di “Filippo
di Macedonia”, padre di “Alessandro Magno”.
Ecco un paragone più azzeccato:
siamo
infatti confrontati all’imperialismo di una grande potenza che minaccia non
solo l’Ucraina, ma la nostra democrazia e l’intera Unione Europea.
Temo
che se non cambiamo rapidamente rotta, se non mobilitiamo tutte le nostre
capacità, se lasciamo che “Putin” vinca in Ucraina, se lasciamo che la tragedia
subita dalla” popolazione di Gaza” continui, il progetto europeo sarà
seriamente minacciato.
Temo
che se lasciamo che Putin vinca in Ucraina, se lasciamo che la tragedia subita
dalla popolazione di Gaza continui, il progetto europeo sarà seriamente
minacciato.
(JOSEP
BORRELL)
Esaminiamo
quindi più dettagliatamente queste due guerre e il modo in cui possiamo
influenzarne il corso.
Ci era
stato spesso detto che la geografia non contava più, che era scomparsa dai
conflitti.
Ma
questi due conflitti riguardano ancora questioni territoriali.
Nel
caso dell’Ucraina, il conflitto è tra uno Stato sovrano, l’Ucraina, e una
potenza imperialista, la Russia.
La Russia non è mai riuscita a diventare un vero Stato
nazionale.
È sempre stata un impero, sia sotto gli zar,
sia sotto i sovietici, ora sotto Putin. Finché questa identità imperialista non
sarà messa in discussione, la Russia continuerà a essere una minaccia per i
suoi vicini, in particolare per noi europei, e il suo regime politico rimarrà
autoritario, nazionalista e violento.
Molti
pensatori russi lo hanno già sottolineato:
finché
la Russia non abbandonerà il suo progetto imperialista, non sarà in grado di
democratizzarsi o riformarsi.
Due
popoli e una sola terra.
Il
conflitto tra Israele e Palestina è di natura diversa, ma riguarda anch’esso
una questione territoriale.
Si
tratta di due popoli che lottano per la stessa terra su cui entrambi hanno
diritti legittimi, e sono ormai cent’anni che questo conflitto perdura.
Abbiamo
avuto una guerra dei cent’anni in Europa, ma questa è la guerra dei cent’anni
in Medio Oriente.
Come
ne usciamo?
Delle due, l’una: o questi due popoli
condividono questa terra, oppure uno dei due dovrà andarsene, morire o
diventare un popolo di cittadini di seconda classe sotto la dominazione
dell’altro.
Il
futuro delineato dalla seconda opzione non sarebbe accettabile.
Bisogna
preferire la prima opzione.
Questo è il senso della soluzione dei due
Stati, di cui si discute da più di 30 anni con gli accordi di Oslo.
Ma da
allora ben poco è stato fatto per attuarla. Eppure l’intera comunità
internazionale sostiene questa soluzione, così come tutti gli Stati membri
dell’Unione europea.
Gli
estremisti di entrambe le parti, “Hamas” da una parte e i “fondamentalisti
della destra israeliana” dall’altra, si oppongono e hanno fatto di tutto per
rendere impossibile una soluzione a due Stati fino ad oggi.
In
particolare, gli “accordi di Oslo£ non hanno fermato la colonizzazione della
Cisgiordania, ovvero, come in Ucraina, l’occupazione di terre altrui in
violazione di tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite.
Oggi si contano in Cisgiordania 700.000 coloni
israeliani, il quadruplo di quelli presenti all’epoca degli “accordi di Oslo”,
con il chiaro obiettivo di rendere impossibile la creazione di uno “Stato
palestinese”.
Gli
estremisti di entrambe le parti, Hamas da un lato e i fondamentalisti della
destra israeliana dall’altro, hanno fatto di tutto per rendere fino a oggi
impossibile una soluzione a due Stati.
(JOSEP
BORRELL)
Il
governo israeliano rifiuta la soluzione dei due Stati.
“Hamas” si oppone all’esistenza stessa
dello Stato di Israele.
Ma
anche l’attuale governo israeliano è contrario alla soluzione dei due Stati, e
lo è da molto tempo.
“Benyamin
Netanyahu,” l’attuale Primo Ministro, si è presentato ai suoi concittadini
promettendo che “uno Stato palestinese non avrebbe mai visto la luce”,
nonostante l’intera comunità internazionale fosse favorevole.
Anche
questa comunità ha quindi un problema con la politica di Benyamin Netanyahu.
Altre voci si levano però all’interno della società
israeliana, come quella dell’ex Primo ministro israeliano “Ehud Olmert” o quella di una giovane sopravvissuta
all’attacco del Kibbutz Be’erii, la cui testimonianza mi ha molto toccato, per
sottolineare” la necessità di un tale Stato palestinese”.
Sono
convinto che la sua esistenza è indispensabile per la sicurezza a lungo termine
dello Stato d’Israele.
La
tragedia del 7 ottobre 2023 ha tuttavia segnato il crollo di uno status quo
insostenibile, anche se non volevamo vederlo.
A mio
parere, ci sono due lezioni da trarre da questa tragedia.
La prima è che la soluzione non può essere
trovata dalle stesse parti in conflitto, ma deve essere imposta dall’esterno
dalla comunità internazionale, dai vicini arabi, dagli Stati Uniti e
dall’Europa.
In secondo luogo, dobbiamo cambiare i nostri
metodi.
A
Oslo, il punto d’arrivo del negoziato non è stato definito.
Dobbiamo
invertire il processo.
Prima
di tutto, dobbiamo definire questo punto di arrivo, che la comunità
internazionale deve imporre.
E poi dobbiamo cercare, attraverso il
negoziato, il modo per raggiungerlo.
Oggi
gli Stati arabi stanno dicendo chiaramente, compresi quelli che hanno
riconosciuto Israele e mantengono relazioni con esso, che è completamente
escluso che loro paghino ancora una volta per ricostruire Gaza se non c’è
alcuna garanzia che la soluzione dei due Stati sarà effettivamente attuata.
Se
questo non accade, la pace non tornerà mai stabilmente.
Non
c’è una soluzione militare al conflitto israelo-palestinese.
Non
esiste una soluzione militare al conflitto israelo-palestinese.
”
Hamas “rappresenta soprattutto un’idea, e non si può uccidere un’idea con le
bombe.
L’unico modo per uccidere una cattiva idea è
proporne una migliore, che dia speranza e fiducia in un futuro in cui la pace
sia possibile.
Questa può e deve essere l’attuazione della
soluzione dei due Stati.
Ma
torniamo all’Europa e poniamoci una domanda fondamentale: qual è la nostra
capacità di agire collettivamente di fronte a questi conflitti?
Non siamo uno Stato e nemmeno una federazione
di Stati.
La nostra politica estera e di sicurezza è
definita all’unanimità, il che significa che basta che uno Stato vi si opponga
perché non possiamo agire.
“Hamas”
rappresenta soprattutto un’idea, e non si può uccidere un’idea con le bombe.
L’unico modo per uccidere una cattiva idea è proporne una migliore.
(JOSEP
BORRELL).
E
ovviamente è difficile raggiungere tale unanimità di fronte a problemi
complessi. Se avessimo un sistema di voto a maggioranza qualificata o una
regola decisionale che non richiedesse l’unanimità totale, potremmo far muovere
tutti per trovare un punto di convergenza.
Ci
sarebbe un incentivo a negoziare, perché a nessuno piace essere isolato.
Ma se
possiamo bloccare l’intera Unione rimanendo isolati, c’è la grande tentazione
di usare questa leva per ottenere concessioni da altri Paesi.
È
quello che è successo all’ultimo Consiglio europeo quando è stata presa la
decisione di aprire i negoziati di adesione con l’Ucraina.
Se un
Paese può imporre il veto, gli altri sono costretti a contrattare il suo
ritorno al consenso generale.
E
questa contrattazione è spesso molto costosa, e fa soprattutto perdere molto
tempo.
Reagiamo troppo lentamente agli eventi, e
spesso la paghiamo cara per questo.
In pratica, non sempre la forza dei numeri è
sufficiente e, nei momenti critici, le nostre regole spesso ci impediscono di
agire.
L’allargamento
dell’Europa all’Ucraina, alla Moldavia e ai Paesi balcanici solleva la
questione della riforma dell’Unione europea.
Non
riesco a immaginare come possiamo continuare a funzionare con 37 membri se
manteniamo la regola dell’unanimità.
Dobbiamo
lavorare in modo diverso se vogliamo agire con sufficiente rapidità e forza in
questo ambiente pericoloso.
Davanti
alla guerra contro l’Ucraina, una reazione europea notevole.
Nel
caso dell’Ucraina, tuttavia, l’unanimità è stata fortunatamente raggiunta molto
rapidamente.
Prima
dell’inizio della guerra, avevo visitato il Donbass nel gennaio 2022.
Avevo
incontrato “Denys Shmyhal”, il primo ministro ucraino.
Mi
disse che tra pochi giorni i russi avrebbero invaso la regione e mi chiese se
li avremmo aiutati, non inviando truppe, ma consegnando armi affinché gli
ucraini potessero difendersi.
All’epoca non sapevo come rispondere, perché
non ero sicuro che avremmo avuto l’unanimità necessaria per farlo.
Ma
fortunatamente, quando è arrivato il giorno, l’abbiamo avuta.
La reazione
europea alla guerra contro l’Ucraina è stata davvero notevole. Innanzitutto,
siamo riusciti a ridurre drasticamente la nostra dipendenza energetica da
Mosca, cosa che sembrava quasi impossibile all’inizio con una dipendenza del
40% dal gas russo.
Inoltre, Mosca pensava che questa dipendenza
ci avrebbe impedito di reagire. Invece l’abbiamo fatto.
Il prezzo da pagare, però, è stato alto.
L’inflazione si è riaccesa e l’economia è
stata frenata.
Abbiamo
anche pagato un prezzo geopolitico significativo, perché abbiamo acquistato il
gas disponibile a un prezzo che molti Paesi non potevano permettersi di pagare,
privandoli così di questa risorsa.
Ma ci
siamo liberati dalla dipendenza energetica dalla Russia, che costituiva un
vincolo importante per la nostra politica estera.
Abbiamo
anche imposto sanzioni senza precedenti contro la Russia.
Sebbene
non abbiano fermato la macchina da guerra di Putin, hanno indebolito l’economia
russa facendo scendere il valore del rublo e facendo salire l’inflazione.
Infine,
per la prima volta, abbiamo fornito sostegno militare a un Paese in guerra.
Abbiamo fornito all’Ucraina attrezzature militari per un valore di quasi 30
miliardi di euro, in particolare mobilitando lo “Strumento europeo per la pace”.
Non
era stato originariamente concepito per questo scopo, ma sono molto orgoglioso
di essere riuscito a metterlo al servizio dell’Ucraina.
Ed è grazie al nostro aiuto che l’Ucraina è
riuscita a resistere.
Gli
aiuti militari americani sono stati certamente maggiori dei nostri.
Ma se
si sommano gli aiuti militari, finanziari, economici e umanitari, l’Europa ha
sostenuto l’Ucraina molto più degli Stati Uniti.
Questa
unità durerà?
Che cosa faremo se gli americani ridurranno il
loro sostegno all’Ucraina eleggendo un nuovo presidente, o forse anche prima?
Sono
domande a cui bisognerà rispondere.
Durante
il” Grand Continent Summit”, qualcuno mi ha chiesto se crediamo che Putin possa
vincere la guerra in Ucraina.
Non è
una domanda pertinente: quello che ognuno di noi pensa sull’argomento è di
scarso interesse.
La domanda a cui dobbiamo rispondere è cosa
siamo disposti a fare per garantire che Putin perda questa guerra.
Siamo
disposti a fare tutto il necessario per raggiungere questo risultato? Vogliamo
davvero impedire la vittoria di Vladimir Putin, ovvero l’insediamento a Kiev di
un governo fantoccio, come quello della Bielorussia?
Per quanto mi riguarda, penso che dobbiamo
fare di più e farlo più rapidamente per sostenere l’Ucraina, perché la Russia
rappresenta una grande minaccia strategica per l’Unione europea, anche se devo
ammettere che non tutti gli Stati membri concordano sulla natura di questa
minaccia.
Non
dobbiamo infatti sottovalutare i nostri avversari.
La
Russia è ancora in grado di mobilitare un gran numero di truppe, nonostante le
pesanti perdite che ha subito finora.
Nel
febbraio 2022, c’erano 150.000 truppe russe ammassate al confine con l’Ucraina.
Oggi sono 450.000 in Ucraina.
La controffensiva ucraina non è riuscita a
sfondare le linee russe, ma sarebbe stato molto difficile farlo senza il
supporto aereo, che abbiamo promesso loro ma non abbiamo ancora fornito.
Putin
si è sbagliato sulle capacità del suo esercito.
Si è sbagliato sugli ucraini.
Si è sbagliato sulla volontà di unità degli
europei.
Si è
sbagliato sulla forza del legame transatlantico. Eppure è ancora lì.
È
ancora disposto a lasciar morire migliaia di russi per conquistare Kiev. Il suo
esercito e il suo popolo stanno soffrendo, ma lui non sa cosa significhi
tornare indietro.
Vladimir
Putin non vuole davvero negoziare.
Prima
della guerra, tutti sono andati a Mosca, Emmanuel Macron, Olaf Scholz… per
cercare di dissuadere Vladimir Putin dall’invadere l’Ucraina.
Non
c’è stato alcun risultato. Questo vale ancora adesso.
Vladimir
Putin è determinato a continuare finché non avrà ottenuto la vittoria dal suo
punto di vista.
Basta
guardare la sua ultima conferenza stampa per rendersene conto.
È chiaro che non ha intenzione di
accontentarsi di prendere un pezzo di Ucraina e lasciare che il resto entri
nell’Unione Europea.
Al
contrario, sta già iniziando a minacciare altri Paesi, in particolare la
Finlandia. In ogni caso, non cercherà di placarsi prima delle elezioni
americane, che spera diano un esito che giovi ai suoi piani imperialisti.
La guerra ad alta intensità quindi continuerà
e noi dobbiamo prepararci.
Per
cominciare, dobbiamo sviluppare la nostra industria della difesa, che non è
assolutamente all’altezza delle sfide che dobbiamo affrontare.
Difendere
l’Ucraina significa difendere la nostra stessa sicurezza.
Se l’Ucraina dovesse perdere la guerra,
incoraggerebbe la Russia ad accrescere ulteriormente i suoi appetiti
imperialisti.
Ma,
come ho detto, questo non è il punto di vista di tutti gli Stati membri.
Alcuni
non vedono la Russia di Vladimir Putin come una minaccia strategica.
La
divisione su questa questione esistenziale minaccia il futuro dell’Unione
europea?
È
impossibile dirlo in questa fase.
Da
parte mia, sono convinto in ogni caso che l’Europa debba fare tutto il
possibile per evitare una vittoria di Vladimir Putin in Ucraina, che sarebbe
straordinariamente grave.
E su questo lavorerò instancabilmente nei
prossimi mesi.
Sono
convinto che questa minaccia possa, al contrario, contribuire a cementare la
nostra unione e a renderci più forti.
L’Europa
divisa sul conflitto israelo-palestinese.
Davanti
al conflitto israelo-palestinese, la situazione è molto diversa.
La percezione di questo conflitto varia molto
da uno Stato membro all’altro, in particolare a causa degli eventi legati alla
pagina più buia della storia europea, la Shoah.
Tuttavia, il “Consiglio europeo” ha raggiunto
un accordo minimo tra gli europei, affermando che Israele ha il diritto di
difendersi in conformità con il diritto internazionale e che non avremmo
richiesto un cessate il fuoco ma delle pause umanitarie.
Quando
però, in due occasioni, è stata messa ai voti una risoluzione alle Nazioni
Unite che chiedeva tale cessate il fuoco, ci siamo divisi, cosa che ci
indebolisce.
Tuttavia,
tra le due votazioni, il numero di Stati membri dell’UE che sostenevano la
richiesta è aumentato da 8 a 14, mentre il numero di quelli contrari è sceso da
4 a 2, mentre i rimanenti si sono astenuti.
Che
capacità abbiamo di influenzare gli attori di questo dramma?
Siamo
il maggior fornitore di aiuti ai palestinesi e in particolare il maggior
finanziatore dell’”Autorità nazionale palestinese”.
La Commissione europea ha appena passato al
microscopio questi aiuti per verificare se il denaro potesse andare in qualche
modo a “Hamas”.
Non è così e spero che gli aiuti europei ai
palestinesi continuino a essere commisurati alle necessità, perché senza l’”Autorità
nazionale palestinese” la situazione sul campo sarebbe ancora più difficile.
Siamo
anche il principale partner commerciale di Israele e abbiamo con esso l’accordo
di associazione più stretto che abbiamo al mondo.
Quindi sì, avremmo gli strumenti per influenzare gli
attori del conflitto se lo volessimo, ma finora non abbiamo voluto usarli,
soprattutto per quanto riguarda Israele.
Da
parte mia, credo che l’Europa debba essere molto più impegnata nella
risoluzione del conflitto israelo-palestinese e che abbiamo finora delegato
troppo agli Stati Uniti la ricerca di una soluzione a un conflitto che ci
riguarda molto da vicino.
Avremmo
gli strumenti per influenzare gli attori del conflitto se lo volessimo, ma
finora non abbiamo voluto usarli, soprattutto per quanto riguarda Israele.
(JOSEP
BORRELL).
Problemi
di coerenza e credibilità.
La
concomitanza di questi due conflitti pone problemi di coerenza e credibilità
nei confronti del resto del mondo.
Nel caso dell’Ucraina, abbiamo difeso il rispetto
della sovranità del Paese, della sua integrità territoriale e dei “principi
fondamentali” della Carta delle Nazioni Unite.
E la
comunità internazionale ci ha seguito: 145 Paesi hanno condannato l’aggressione
russa e sostenuto l’Ucraina alle Nazioni Unite.
Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che molti di
questi Paesi non condividono il nostro senso di indignazione per l’aggressione
russa contro l’Ucraina.
Sono
certamente d’accordo nel condannare questa invasione alle Nazioni Unite, ma si
fermano lì.
Non
hanno alcuna intenzione di seguire il nostro esempio per quanto riguarda le
sanzioni.
E ci
chiedono di porre fine a questa guerra il prima possibile, perché ne soffrono
le conseguenze, in particolare sui prezzi dell’energia e dei prodotti
alimentari. Inoltre, tendono a diffidare della nostra politica, che dovrebbe
essere basata su principi immutabili, ma che per molti di loro è in realtà una
politica a geometria variabile in funzione dei nostri interessi.
Nel
caso del conflitto israelo-palestinese, la nostra mancanza di unità ha
indebolito la nostra credibilità in materia di difesa della legalità
internazionale. Quando 144 Stati sostengono l’Ucraina all’Assemblea generale
delle Nazioni Unite, crediamo che siano dalla parte giusta della storia e che
sia la comunità internazionale a parlare.
Ma
quando 153 Paesi chiedono un cessate il fuoco umanitario a Gaza, facciamo
fatica a credere che sia lo stesso.
È difficile appellarsi al giudizio della
comunità internazionale e al voto alle Nazioni Unite in un caso e non
nell’altro.
Questa
sfasatura pone all’Europa dilemmi politici e morali essenziali che devono
essere affrontati con lucidità e coraggio.
Questo
è uno dei motivi principali per cui il conflitto tra Israele e Palestina e la
guerra in Ucraina sono strettamente legati, nonostante siano di natura molto
diversa.
Se non vogliamo perdere la nostra posizione in gran
parte del mondo, se non vogliamo che quanto sta accadendo a Gaza indebolisca il
sostegno dato all’Ucraina da molti Paesi, e non solo da quelli musulmani o
arabi, ma anche da quelli dell’America Latina, per esempio, allora dobbiamo
difendere i nostri principi e i nostri interessi in un modo che sia molto più
compatibile con la percezione che il resto del mondo ha di quanto sta accadendo
in un luogo e nell’altro.
Ci
sono, ovviamente, molte altre questioni che svolgono un ruolo importante nella
nostra politica estera e di sicurezza ma, nel contesto attuale, ho scelto di
concentrarmi sui due principali conflitti che stiamo affrontando, sui rischi
esistenziali che essi rappresentano per l’Europa e sull’assoluta necessità che
la società europea li comprenda e che i suoi leader politici agiscano di
conseguenza.
Vi
ringrazio per l’attenzione.
Zelensky
chiede agli alleati
un
maggiore coinvolgimento
nella
guerra di difesa contro la Russia.
Euractiv.it
– (21 mag. 2024) - EURACTIV.com con Reuters – intervista – ci dice:
Il
presidente ucraino “Volodymyr Zelensky” rilascia un'intervista all'”AFP” il 18
maggio 2024.
[Sito
web del presidente dell'Ucraina]
Gli
alleati occidentali stanno impiegando troppo tempo per prendere decisioni
chiave sul sostegno militare all’Ucraina, ha detto a Reuters il presidente “Volodymyr
Zelensky” in un’intervista esclusiva a Kyiv lunedì (20 maggio).
Nell’intervista,
il presidente ucraino ha anche detto di stare facendo pressioni sui partner
dell’Ucraina ad essere maggiormente coinvolti nella guerra, aiutando a
intercettare i missili russi sull’Ucraina e permettendo a Kyiv di usare armi
occidentali contro l’equipaggiamento militare nemico che si accumula vicino al
confine.
L’appello
ad accelerare gli aiuti e a spingere le cosiddette “linee rosse” di impegno nel
conflitto riflette la crescente pressione a cui sono sottoposte le forze di
Zelensky lungo oltre 1.000 km di linea del fronte nel nord-est, nell’est e nel
sud del Paese.
Un
appassionato Zelensky, vestito con la sua familiare maglietta e pantaloni color
kaki, ha detto che la situazione sul campo di battaglia era “una delle più
difficili” che avesse conosciuto dall’inizio dell’invasione su vasta scala
della Russia nel febbraio 2022.
Nelle
ultime settimane le truppe di Mosca hanno effettuato incursioni nel nord-est
dell’Ucraina, mettendo ulteriormente alla prova le difese già indebolite di
Kiev. Allo stesso tempo, la Russia ha conquistato il territorio nella regione
orientale del Donbass attraverso battaglie talvolta feroci.
“Un’ondata
(di combattimenti) molto potente è in corso nel Donbass…
Nessuno
si accorge nemmeno che in realtà ci sono più battaglie nell’est del Paese, in
particolare nella direzione del Donbas: Kurakhove, Pokrovsk, Chasiv Yar”.
Ha
aggiunto, tuttavia, che la situazione a nord di “Kharkiv” è ora “sotto
controllo”.
Il
46enne ha parlato nel quinto anniversario del suo insediamento come presidente.
Non ha
contestato le elezioni a causa della legge marziale imposta a causa
dell’invasione.
Zelensky
ha nuovamente chiesto aiuti militari più rapidi da parte degli Stati Uniti e di
altri partner.
Armi e
munizioni provenienti da un pacchetto statunitense recentemente approvato
stanno ora arrivando in Ucraina, ma sono stati ritardati per mesi a causa di
dispute politiche interne.
“Ogni
decisione a cui noi, e poi tutti insieme, arriviamo è in ritardo di circa un
anno”, ha detto “Zelensky”.
“Ma è
quello che è: un grande passo avanti, ma prima ancora due passi indietro.
Quindi dobbiamo cambiare un po’ il paradigma”, ha aggiunto.
Per il
presidente della Bulgaria la vittoria dell'Ucraina sulla Russia è
"impossibile".
Il
presidente bulgaro “Rumen Radev” ha definito “impossibile” la vittoria
dell’Ucraina sulla Russia e ha collegato i due anni di guerra con la Russia
all’attentato al primo ministro slovacco “Robert Fico”.
“Ogni
giorno che questa guerra continua è disastroso per l’Ucraina, …
Rischio
di escalation?
“Zelensky” ha affermato che voleva che
i suoi partner fossero coinvolti più direttamente nella guerra, ma ha capito
che erano cauti nell’inimicarsi la Russia.
“È una
questione di volontà”, ha detto.
“Ma
tutti dicono una parola che suona uguale in ogni lingua: tutti hanno paura
dell’escalation.
Tutti
si sono abituati al fatto che gli ucraini stanno morendo: questa non è
un’escalation per le persone”. Il presidente ucraino ha proposto che le Forze
armate dei vicini Paesi NATO possano intercettare i missili russi in arrivo sul
territorio ucraino per aiutare Kyiv a proteggersi.
La
Russia ha lanciato migliaia di missili e droni contro l’Ucraina dall’inizio del
conflitto più ampio e le difese aeree sono una priorità per Kyiv.
“I
russi utilizzano 300 aerei sul territorio dell’Ucraina. Abbiamo bisogno di
almeno 120, 130 aerei per resistere in cielo”, ha detto.
L’Ucraina
sta aspettando la consegna degli F-16 progettati dagli Stati Uniti che devono
ancora essere utilizzati.
Ha
detto che, se i Paesi non potessero fornire immediatamente gli aerei,
potrebbero comunque farli volare dai vicini Stati della NATO e abbattere i
missili russi.
Il
leader ucraino ha anche detto che Kyiv sta negoziando con i partner
internazionali per usare le loro armi per colpire l’hardware militare russo al
confine e più all’interno del territorio russo.
“Finora
non c’è nulla di positivo”, ha aggiunto.
Il
presidente russo “Vladimir Putin” probabilmente considererebbe tali sviluppi
come un’”escalation”.
Considera
la guerra come parte di una battaglia esistenziale con un Occidente in declino
e decadente che, a suo dire, ha umiliato la Russia dopo la caduta del muro di
Berlino nel 1989, invadendo quella che considera la sfera di influenza di
Mosca, compresa l’Ucraina.
L’Ucraina
e l’Occidente respingono tale interpretazione, definendo l’invasione un furto
di terra non provocato.
Zelensky
ha ribadito di non aver violato gli accordi con gli alleati di non usare le
loro armi all’interno della Russia.
“Non
possiamo mettere a rischio l’intero volume di armi”.
Palcoscenico
internazionale.
L’Ucraina
si sta preparando per i colloqui internazionali in Svizzera il mese prossimo
che escluderanno la Russia e mirano a cercare di unificare e indurire
l’opinione contro Mosca.
Putin
ha affermato di ritenere che i colloqui potrebbero trasformare le richieste
ucraine per il ritiro russo in un ultimatum per la Russia, una strategia che,
secondo lui, fallirebbe.
Zelensky
ha affermato che è fondamentale riunire quanti più paesi possibile attorno al
tavolo.
“E poi
la Russia dovrà rispondere alla maggior parte del mondo, non all’Ucraina. …
Nessuno dice che domani la Russia sarà d’accordo, ma è importante che noi
abbiamo l’iniziativa”.
Pechino
deve ancora dire se parteciperà, anche se il presidente cinese Xi Jinping e
Putin si sono incontrati la scorsa settimana in Cina e hanno promesso una
“nuova era” di partnership tra i due più potenti rivali degli Stati Uniti.
“È
molto importante che loro (la Cina) siano lì”, ha detto Zelensky. “Perché in
linea di principio, dopo questo vertice, diventa chiaro chi vuole porre fine
alla guerra e chi vuole mantenere forti rapporti con la Federazione Russa”.
Per
quanto riguarda la politica statunitense, ha cercato di smorzare i timori che
un’eventuale vittoria del candidato repubblicano Donald Trump alle elezioni di
novembre potrebbe comportare problemi per l’Ucraina.
Trump è uno scettico sugli aiuti all’Ucraina
che ha sottolineato le politiche “America First”.
“Non
credo che i repubblicani siano contrari al sostegno all’Ucraina, ma alcuni
messaggi che arrivano da loro sollevano preoccupazione”.
Zelensky,
un ex comico, ha detto che lascerebbe che altri giudicassero la sua performance
come leader di un paese in guerra, ma ha espresso la sua gratitudine al popolo
ucraino per il suo stoicismo di fronte alle avversità.
Ha
anche insistito sul fatto che l’Ucraina potrebbe ancora vincere la guerra,
nonostante le battute d’arresto degli ultimi mesi.
“Penso
che dobbiamo percorrere questa strada fino alla fine, preferibilmente
vittoriosa”, ha detto.
“Anche
se oggi la gente guarda con un po’ di scetticismo alla parola ‘vittoria’,
capisco che sia difficile, perché è lunga”.
L’Ucraina
è stanca di guerra,
ma una
pace giusta è lontana.
CHIESADIMILANO.IT
- Vincenzo CESAREO – (23 Febbraio 2024) – ci dice:
(Professore emerito di Sociologia all’Università
cattolica del Sacro Cuore
e presidente del Comitato scientifico Fondazione
Ismu Ets ).
Con 14
milioni di sfollati, un enorme disastro ambientale ed economico, un crollo
delle nascite mai visto prima, il Paese vede diminuire anche il consenso
interno e il sostegno internazionale.
E continua a pagare il prezzo per aver osato
scegliere la libertà dalla Russia.
La riflessione di Vincenzo Cesareo pubblicata
sul numero di febbraio.
Da “Il
Segno di febbraio”.
L’aggressione
russa all’Ucraina, iniziata il 24 febbraio 2022, ha bruscamente interrotto i
tanti anni di pace vissuti da un’ampia parte della popolazione europea, dopo il
dramma della Seconda guerra mondiale.
Una pace ritenuta ormai talmente consolidata
da indurre a prevederne la proiezione nel futuro.
La
guerra in atto da quasi due anni nel cuore dell’Europa ha messo in crisi questa
speranza e almeno per ora non si intravedono soluzioni affinché questo scontro
abbia termine e possa ritornare la pace, nonostante l’impegno delle cancellerie
di alcuni Stati, di istituzioni internazionali e di papa Francesco, sempre
vicino a questa martoriata popolazione.
Otto
milioni di rifugiati.
Negli
ultimi mesi il perdurare dello scontro sta facendo emergere quella che è stata
definita la “stanchezza” delle popolazioni europee e anche dei loro governi che
finora hanno convintamente sostenuto Kiev.
Lo Statuto delle Nazioni Unite chiede ai
propri Stati membri di astenersi dall’uso della forza contro l’integrità di
qualsiasi Stato, ma vi è un’ulteriore importante ragione per sottolineare la
gravità dell’aggressione.
Si
tratta del poco noto “Memorandum di Budapest del 1994” – sottoscritto da Usa,
Gran Bretagna, Russia, Francia, Cina e Ucraina – con il quale quest’ultimo
Paese (allora terza potenza nucleare al mondo) si è impegnato a rinunciare al
proprio arsenale nucleare (4 mila testate) a condizione di avere garantita la
propria indipendenza e l’inviolabilità dei suoi confini.
Il
prolungamento del conflitto, oltre a creare preoccupazione nei Paesi che finora
hanno sostenuto Kiev, si riflette anche inevitabilmente sia in Ucraina sia
nella Federazione russa.
Per
quanto riguarda l’Ucraina la continuazione del conflitto comporta una
stabilizzazione del numero dei profughi che è il maggior spostamento di
popolazione di un Paese europeo dopo la Seconda guerra mondiale e che riguarda
un terzo dei suoi 43 milioni di abitanti:
8 milioni di rifugiati in altri Stati e 6
milioni e mezzo di sfollati interni che hanno lasciato le loro residenze per
altre località in territorio ucraino.
Nelle zone occupate continuano i trasferimenti
forzati verso la Russia anche di minori, le torture, gli stupri, le violenze
nei confronti di civili, oltre 10 mila dei quali sono detenuti.
Nei territori
sotto il controllo di Kiev aumenta la povertà, l’inverno demografico con un
tasso di fertilità tra i più bassi al mondo (0,7% nel 2023).
I
danni di guerra sono enormi (per la ricostruzione si prevedono oltre 400
miliardi di dollari) a cui si aggiunge una vera e propria catastrofe
ambientale.
Dall’autunno
del 2023 Mosca ha intensificato gli attacchi con un crescente accanimento
contro i civili che vengono uccisi anche se inermi sostano alla fermata degli
autobus.
I
crimini di guerra accertati sono 40 mila.
Vengono colpite sempre più le infrastrutture
energetiche, gli ospedali, le scuole e moltissime abitazioni.
Anche in Ucraina comincia a serpeggiare una
certa “stanchezza” nei confronti della guerra, con una flessione del consenso
popolare per il governo che continua però a raccogliere l’approvazione di una
solida maggioranza di cittadini i quali, orgogliosi della loro raggiunta
indipendenza, non hanno alcuna intenzione di rinunciare a nessuna parte della
loro patria.
Anche
in Russia si riscontrano conseguenze derivanti dal prolungarsi della guerra in
Ucraina.
Cresce
la repressione del dissenso e viene messa a tacere ogni forma di opposizione,
tant’è che per le prossime elezioni presidenziali ci sarà solo un candidato:
Putin, mentre il suo più noto oppositore è
stato rinchiuso in un carcere di massima sicurezza lontano da Mosca.
Si
rischia una condanna fino a 7 anni per il solo proferire la parola “guerra”.
È aumentato il numero degli oligarchi caduti
in disgrazia che si tolgono la vita gettandosi da una finestra.
Neutralizzato
il tentativo di rivolta da parte di “Prigozhin”, capo della milizia privata
Wagner, la Russia è ormai sotto il totale controllo del despota del Cremlino e
dei suoi sodali, provenienti in gran parte dagli efficienti servizi segreti ai
quali è appartenuto Putin.
Aspettative
troppo diverse.
A
tutto ciò vanno aggiunte le diverse aspettative dei due leader.
Zelensky
è impegnato nel tentativo di riconquistare i territori occupati, nel
consolidare la democrazia, lottare contro la corruzione, attuare un pluralismo
culturale per garantire le minoranze, entrare a far parte dell’Ue e forse della
Nato.
Putin
è invece impegnato a consolidare l’autocrazia e l’inclusione nella Federazione
russa delle zone sottratte a Kiev, ma anche a preservare il tesoro accumulato
negli anni e stimato in 250 miliardi di dollari che lo farebbe l’uomo più ricco
del mondo, ma messo a rischio dalle sanzioni.
Le sue
mire imperiali gli impongono anche di ampliare il proprio dominio annettendo
ulteriori Paesi, poiché la storia dimostra che gli imperi necessitano di
conquistare nuovi territori per non rischiare di sgretolarsi o addirittura di
scomparire.
Va inoltre evidenziato che Putin è in grado di
protrarre l’aggressione a lungo perché non deve rendere conto a nessuno delle
sue scelte autoritarie, comprese quelle di mandare a morire tante persone
(scelte in prevalenza fra le minoranze etniche) e di investire prevalentemente
nell’industria bellica.
Al
contrario Zelensky deve rispondere ai suoi cittadini e rischia di perdere il
sostegno dei Paesi democratici per cui ha bisogno quanto prima di concludere la
guerra anche per il profilarsi di una pericolosa vittoria di Trump negli Usa
nelle prossime elezioni presidenziali.
Benché,
almeno per ora, non si intraveda una soluzione del conflitto, mentre altri
stanno proliferando nel mondo, occorre intensificare gli sforzi per arrivare
alla pace.
Una
pace che sia giusta, cioè che non penalizzi un Paese ingiustamente aggredito,
che per secoli è stato vassallo degli Zar, poi dei governanti comunisti e
infine di Putin, il quale odia l’Ucraina e la vuole distruggere perché essa ha
osato scegliere la via della libertà e di rifiutare di tornare sotto il giogo
di Mosca.
Grigory
Yudin: “La guerra contro l’Ucraina
è
catastrofica anche per la società russa.”
Affarinternazionali.it - Nona Mikhelidze – (27
Giugno 2022) – Intervista – ci dice:
“Grigory
Yudin” è uno scienziato politico e sociologo russo, un esperto di opinione
pubblica e sondaggi in Russia.
Il
podcast dell’intervista realizzata da “Nona Mikhelidze”, ricercatrice senior
dell’”Istituto Affari Internazionali”, è disponibile.
Vorrei
iniziare con una domanda sul 24 febbraio.
Si aspettava lo scoppio della guerra su larga
scala?
E cosa significa questa guerra per la Russia e
per il suo futuro?
Sì,
purtroppo me l’aspettavo!
Avevo
capito già nel 2020 che ci sarebbe stata una grande guerra contro l’Ucraina. E
credo che dalla metà del 2021 tutto sia diventato ancora più chiaro.
Voglio
dire, era chiaro che ci sarebbe stato un grande scontro tra la Russia e la
Nato.
E dal 2021 era ovvio che la prima fase di
questa guerra sarebbe avvenuta in Ucraina.
Penso
che fosse abbastanza ovvio soprattutto dopo la comparsa del famoso articolo del
presidente Putin sull’Ucraina, al quale hanno fatto seguito molte analisi
militari.
Parlavano dell’imminente invasione, quindi
aspettavo ogni giorno che la guerra scoppiasse.
Questo, ovviamente, non ha reso la vicenda
meno dolorosa!
Ho
cominciato ad avvertire la gente di questa guerra imminente, sia in Europa,
parlando con i politici europei, sia in Russia.
Cercavo
di far capire loro l’inevitabilità della guerra.
Praticamente
senza successo però, tutti erano scettici al riguardo.
Così
siamo arrivati al 24 febbraio.
Ora,
parlando di cosa significa questa guerra per il futuro del Paese, la diagnosi
generale è che a lungo termine tutto questo sarà devastante per la Russia.
È una guerra suicida.
La
Russia ha avuto guerre ingloriose nel suo passato, ma questa è la guerra più
stupida, la più catastrofica per il Paese stesso, perché fondamentalmente
distrugge i legami che la Russia ha con quasi tutti i Paesi.
La
Russia è davvero legata e culturalmente vicina agli ucraini, ovviamente, ma
anche ai bielorussi che sono molto, molto coinvolti in questa guerra.
Questo
è il primo aspetto.
Il secondo
aspetto è la cosiddetta fratellanza slava, che ora si sta distruggendo.
E poi l’appartenenza più ampia all’Europa, che
è anche, ovviamente, assolutamente cruciale per la Russia.
La Russia è un Paese molto speciale.
Ha un posto speciale nella storia europea e
non può essere separata dall’Europa.
È assurdo che le persone ora parlino
dell’avvicinamento alla Cina.
Voglio
dire, non capiscono nemmeno di cosa stiano parlando.
La Russia è sempre stata un Paese europeo, da
Kaliningrad a Vladivostok.
E questo è estremamente evidente quando si
esce per strada.
Si tratta quindi di un suicidio, di un colpo
di testa!
E poi
come se non bastasse, è una guerra che non si può vincere.
Non può essere vinta, non c’è nessuno scenario
in cui la Russia possa avere successo a lungo termine.
Quindi
le conseguenze per la Russia saranno totalmente devastanti.
Onestamente
penso che questa sia una delle decisioni peggiori di tutta la storia russa… e
la storia russa è ricca di decisioni non ponderate.
Questa
probabilmente è la peggiore.
E
allora perché è stata presa questa decisione?
Beh,
la decisione è stata presa da Putin e probabilmente anche da alcune persone a
lui molto vicine.
Ma ora
dobbiamo rivalutare anche questo aspetto, perché prima pensavamo almeno che ci
fosse un’élite di potere dietro di lui, ma dopo questa famosa riunione del
Consiglio di sicurezza abbiamo dovuto riconsiderare questa assunzione perché
molte delle persone che si pensavano molto, molto vicine al processo
decisionale, si sono rivelate dei burattini, come tutti hanno avuto modo di
vedere.
Quindi
la decisione è stata presa dal Presidente stesso e per lui si tratta di una
guerra difensiva.
Si sta
difendendo, si sente minacciato esistenzialmente.
Pensa
di essere molto vicino a essere ucciso e vuole proteggere la sua vita.
E
l’unico modo per proteggere la sua vita è rimanere al potere.
Stiamo
parlando di due cose inseparabili: deve rimanere al potere per proteggere la
sua vita e la sua posizione.
La
situazione negli ultimi anni si è lentamente deteriorata, sia internamente che
esternamente.
C’era un crescente senso di stanchezza per il
governo di Putin, anche tra le persone che generalmente gli sono grate, era
abbastanza evidente che c’era un significativo distacco dei giovani dal regime.
Soprattutto negli ultimi quattro o cinque anni
abbiamo assistito a una netta spaccatura negli atteggiamenti della popolazione
tra gli anziani e i giovani. Questa era una parte del problema.
L’altra
parte del problema era rappresentata dal fatto che l’Ucraina, in quanto Paese
culturalmente molto vicino alla Russia, per lui era sul punto di ottenere
un’alleanza militare con gli Stati Uniti.
E questo avrebbe trasformato l’Ucraina in una
roccaforte per le forze di opposizione contro Putin.
Credo
che il modo migliore per capire questo sia il paragone con il colonnello
Gheddafi che ha affrontato il movimento di resistenza in Libia.
Era pronto a schiacciarlo, a uccidere le
persone, probabilmente centinaia di migliaia.
Gli è
stato impedito dalla Nato e alla fine è stato rovesciato e ucciso.
E sappiamo che impressione ha avuto la morte
di Gheddafi su Vladimir Putin.
Ne è
rimasto assolutamente scioccato, terribilmente scioccato.
Queste
due cose di cui parlavo, le cause interne e le cause esterne, non vanno
distinte perché qualsiasi tipo di opposizione o malcontento in Russia, Putin lo
percepisce immediatamente come un complotto contro di lui orchestrato
dall’Occidente.
E anche questi atteggiamenti critici dei
giovani sono intesi come il risultato della propaganda occidentale.
Quindi
per lui l’unico motivo per cui la gente potrebbe essere scontenta del regime è
perché c’è una propaganda occidentale che opera per distorcere i valori russi
che per lui sono importanti.
È così
che si è arrivati all’idea di condurre una guerra inevitabile contro
l’Occidente, contro la Nato e contro gli americani.
Questi
termini sono usati in modo intercambiabile e l’Ucraina è diventata solo il
primo campo di battaglia, come dice lui, che la vede come anti-Russia.
L’ha
ripetuto molte volte, e questo è il significato:
in sostanza da qui si può vedere che
l’esistenza stessa dell’Ucraina è sentita come una minaccia per la Russia.
E per Russia, ovviamente, intende sé stesso.
Quindi
l’esistenza stessa dell’Ucraina è già una minaccia mortale per la sua vita. Ecco come siamo arrivati
all’inevitabilità di questa guerra.
Prima
ha detto che per lei era chiaro che doveva esserci uno scontro con la Nato, e
poi ha parlato delle cause interne ed esterne, delle ragioni che hanno portato
Putin a invadere Ucraina. In tanti pensano che una delle cause per scatenare
questa guerra fosse anche o soprattutto l’allargamento della Nato.
Sono
d’accordo, ma solo con riserva.
La
stessa esistenza della Nato sarà sempre un fattore provocatorio per Putin per
iniziare una guerra, a meno che non venga sciolta.
Negli
anni Novanta si era creata una chiara prospettiva di scioglimento della Nato
dopo la fine della guerra e del Patto di Varsavia.
Se il
Patto di Varsavia non esisteva più, perché la Nato non avrebbe dovuto
sciogliersi?
O almeno rimodellare o riformulare in modo
significativo i suoi obiettivi?
Oppure
si poteva parlare di inclusione della Russia in un sistema di sicurezza più
ampio in Europa.
Beh,
questo è stato fatto, in una certa misura, con il consiglio Russia-Nato, ma
dopotutto, forse ci si aspettava proprio il suo scioglimento.
Non si è sciolta anche per ragioni
comprensibili, perché c’erano i paesi dell’Europa orientale che giustamente si
sentivano minacciati dalla Russia e facevano pressione per unirvisi.
È così
che la Nato, forse anche non intenzionalmente, si è estesa a est, nonostante le
promesse di non farlo. Promesse che non sono mai state formalizzate: non c’è
mai stato un obbligo formale da parte della Nato di non espandersi, ma per la
Russia si è trattato di un abuso della sua fiducia.
Ma in
realtà, basta parlare della Nato… il vero problema è che la Russia, e in
particolare Putin, non hanno mai considerato i vicini come paesi sovrani con i
quali cercare un linguaggio comune dopo la dolorosa esperienza sovietica di
coesistenza.
La
Russia non si è mai preoccupata di fornire le garanzie di sicurezza a quei
Paesi, le garanzie che li avrebbero dissuasi dall’entrare nella Nato.
Anzi,
la Russia ha fatto di tutto per incoraggiarli a entrarci e sotto il governo di
Putin la Nato si è espansa in modo significativo verso est.
Quindi,
in pratica, ora Putin con questa guerra sta cercando di coprire il completo
fallimento della sua politica estera.
Lui
non è stato in grado di impedire ai paesi vicini di entrare in questo blocco
militare.
Perché
non li ha mai trattati come partner, li ha sempre considerati come nazioni
inesistenti, paesi inesistenti.
E
questa è la vera radice del problema.
Si può quindi parlare dello scioglimento o non
scioglimento della Nato, ma poi la colpa è solo della folle politica estera di
Putin.
Ripeto,
non è stata la Nato ad espandersi. Sono stati i Paesi realmente, genuinamente
volenterosi ad entrare in questo blocco. E questo è un problema enorme per la
Russia, perché significa che quei Paesi hanno paura della Russia.
Una
politica ragionevole, ovviamente, sarebbe stata quella di renderli meno
timorosi, di offrire loro qualcosa, di includerli in un sistema di sicurezza
diverso, invece di ricattarli con il gas o con le armi, come ha sempre fatto
Putin.
Questo, secondo me, è vero fallimento per
Putin.
Passando
alla parte ideologica di questa guerra e all’idea di Putin di creare “Ruskyi
Mir”, il mondo russo:
il
concetto, da come è stato disegnato, ha sempre riguardato un mondo fatto da
popoli ma non da cittadini con senso civico, non dalla società civile.
Insomma, un concetto che rispecchiava la
Russia dove i russi sono sottomessi al sistema autoritario.
Quindi
stiamo parlando di un modello completamente opposto a quello Ucraino dove,
soprattutto dal 2014, dopo la “rivoluzione di Euromaidan”, stiamo assistendo
alla creazione di una società civile vibrante e di una governance liberale.
Due
cose che il Cremlino ha sempre impedito che accadessero in Russia.
Non
pensa che questa guerra sia anche lo scontro fra questi due mondi diversi?
Credo
sia giusto descrivere questa guerra come una lotta tra due sistemi politici
molto diversi, visioni politiche molto diverse di ciò che costituisce lo spazio
post-sovietico.
Una
può essere sommariamente descritta come il “sistema imperiale”, non
necessariamente nel senso espansionistico, nonostante abbia anche questa
caratteristica, ma piuttosto il modo di strutturare il sistema politico, che è monarchico
in Russia.
Non so
se la gente ne sia consapevole, ma in realtà la concentrazione di potere in
Russia è quasi senza precedenti per il nostro Paese.
Non è
vero che la Russia è sempre stata così.
Ci
sono probabilmente episodi nella storia russa in cui abbiamo avuto questa
concentrazione di potere politico, ma non spesso.
Probabilmente
è successo con Stalin ad un certo punto.
Probabilmente, anche se il paragone non è
esatto, con “Ivan il Terribile” e, in una certa misura, con “Pietro il grande”.
Altri,
come “Nicola I”, hanno cercato di farlo, ma in realtà non ci sono mai riusciti.
Quindi ora stiamo assistendo a qualcosa di quasi senza precedenti nella storia.
Si
tratta di uno Stato ultra-monarchico.
Questa
è l’immagine della struttura dello spazio politico.
E
questo vale per tutta la Russia, perché ovunque, a ogni livello, ci sono quei
piccoli Putin che pensano fondamentalmente che usare la violenza e la forza sia
l’unico modo per governare nel servizio pubblico e nelle imprese.
Questa
è l’intera filosofia.
E poi
c’è la filosofia repubblicana, che è il caso dell’Ucraina, che si contrappone
ad essa con una posizione molto più pluralistica e con una maggiore fiducia in
alcune fazioni indipendenti del potere.
Perciò nel sistema politico ucraino l’élite è
molto meno consolidata attorno ad un unico leader.
Il sistema è oligarchico, ma ha anche un
significativo elemento democratico, perché sappiamo che gli ucraini hanno
sviluppato una cultura politica che ha sempre il potenziale per una rivolta,
per una rivoluzione.
Si
tratta quindi di due visioni molto, molto diverse ed è importante vedere come
queste visioni si riflettono in ciascuno di questi Paesi.
Guardate
cosa sta succedendo in Ucraina.
C’è la
prevalenza di questo punto di vista repubblicano, ma ci sono anche persone che
sono felici di essere, diciamo così, liberate da Putin, perché hanno questo
atteggiamento imperiale, si sentono più naturali nel ripristinare l’impero.
Si
pensi alla Bielorussia:
lì c’è una situazione molto interessante.
Abbiamo
il presidente che appoggia questa visione imperiale e più o meno tutta la
popolazione è contraria e viene terrorizzata per questo.
I bielorussi sono ovviamente per la maggior
parte dei repubblicani.
E poi
ci sono i russi, ma c’è lo stesso problema: la stessa lotta tra coloro che
sostengono Putin e quelli che cercano un’impostazione repubblicana nel Paese.
Quindi, in sostanza, in questi Paesi c’è la stessa, identica lotta.
E
questo spiega, ovviamente, perché alcune persone in Russia provano maggiore
simpatia per gli ucraini, non perché siano grandi fan dell’Ucraina o della
cultura ucraina o di qualsiasi altra cosa, o del nazionalismo ucraino, ma solo
perché vedono la situazione come uno scontro tra la visione repubblicana e
imperialista. Lo stesso vale per la Bielorussia e il Kazakistan in una certa
misura.
Questo
è ciò che stiamo vedendo.
Ed è
per questo che penso che etichettare questa guerra come guerra russo-ucraina
sia in realtà fuorviante.
Non si tratta di russi contro ucraini.
Si
tratta di una guerra fra due modelli politici molto diversi.
Come
viene percepita oggi la guerra dalla società russa?
E che
dire dell’indice di gradimento del presidente Putin? Se non sbaglio, il centro
di Levada lo dava intorno all’82% ad aprile…
Ora,
capisco che non possiamo prendere sul serio i sondaggi condotti in sistemi
autoritari, specialmente in tempo di guerra, ma forse possiamo comunque
spiegare qualcosa sui sentimenti dei russi e della società nei confronti della
guerra.
Permettetemi
di introdurre il concetto.
La
Russia è un sistema plebiscitario, il che significa che il potere
dell’imperatore si basa sul ricevere il sostegno popolare attraverso i
plebisciti.
Quindi
l’imperatore sovrasta l’intero sistema politico, sostenendo di avere una
legittimità popolare e per lui anche democratica!
E
questo è fondamentalmente il bastone con cui minaccia la sua élite, la sua
burocrazia, ma anche il popolo stesso, perché la Russia è un Paese molto
depoliticizzato.
L’unico
modo per i russi di sapere cosa pensano i russi è guardare la televisione e
osservare i numeri dei sondaggi, perché normalmente i russi non comunicano tra
di loro.
Quindi il modo più semplice per sapere cosa
pensa il tuo vicino è accendere la TV e guardare gli ultimi numeri dei
sondaggi.
Dialogare,
comunicare con il prossimo non è usuale per molte persone in Russia.
Si tratta quindi di un sistema plebiscitario
in cui il leader riceve la cosiddetta “acclamazione” da parte del popolo.
Ora abbiamo diverse istituzioni per
l’“acclamazione”.
Abbiamo,
naturalmente, le elezioni, che sono di carattere plebiscitario e “acclamazione”
significa che coloro che partecipano alle elezioni o a qualsiasi tipo di
votazione non le vedono come un meccanismo per fare una scelta tra vari
candidati, ma piuttosto come una convalida di una decisione già presa.
Quindi
c’è il leader che prende la decisione e il popolo che acclama questa decisione.
Questa
è l’idea delle elezioni in Russia sia durante il voto nazionale o presidenziale
che alle amministrative.
Questo
è anche il caso dei veri e propri plebisciti.
Nel 2020 abbiamo avuto una sorta di gioco
costituzionale, quando a Putin si è data la possibilità di rimanere al potere
fino al 2036.
Dico
gioco costituzionale perché ha costituito una convalida di una decisione già
presa ed era anche inquadrata in questo modo, perché tecnicamente il plebiscito
non era necessario dal punto di vista costituzionale, era superfluo, ma doveva
essere convalidato dalla popolazione.
La
stessa cosa accade con i sondaggi d’opinione che funzionano anch’essi in questo
modo, in modo che la gente capisca che le si chiede di acclamare il leader.
E
questo è ancora più vero durante i periodi di emergenza come questo, perché
fondamentalmente tutti coloro che vengono contattati con il sondaggio capiscono
che gli viene chiesto di acclamare il leader.
Probabilmente
le persone reagirebbero in modo diverso.
Alcuni direbbero: “no, non acclamerei, odio
Putin”, ma questo non cambia il quadro generale.
Il
quadro di base è che viene chiesto di acclamare.
Ovviamente
è possibile sfidarlo, ma è comunque inteso come una richiesta di acclamazione.
Non
tutti i russi sono disposti a giocare a questo gioco.
E
quindi il segreto che viene nascosto è che i tassi di risposta sulle domande
poste dai sondaggi sono molto, molto bassi.
Questi
dati di solito non vengono riportati ma, dall’esperienza che abbiamo avuto
sappiamo che sono, in qualche modo, a seconda della metodologia, tra il 7 e il
15% del campione iniziale.
Cosa
pensa il resto della gente non lo sappiamo, perché le persone tendono a non
rispondere.
Piuttosto
che sfidarlo o acclamarlo, tendono fondamentalmente a non rispondere.
Questo
ci dice molto sui russi, perché i russi non vogliono avere a che fare con la
politica.
Vivono la loro vita privata.
Ed è
così che è stato costruito questo regime.
Gli è stato chiesto di non occuparsi della
politica, quindi alla gente non interessa la politica e non importa
dell’Ucraina.
L’unica cosa di cui si preoccupano è la loro
vita privata orientata al consumismo. Ai russi interessa pagare i mutui e forse
fare carriera.
Quindi questo è ciò di cui si preoccupano.
Il
resto può essere delegato al Putin di turno.
Putin
è lì, pensa lui a tutto.
Se lui
pensa che gli ucraini siano nazisti, beh, saprà lui come affrontarli.
Quindi
la popolazione è molto depoliticizzata.
E
credo che il modo migliore per spiegare questo, per spiegare questi indici di
gradimento, sia di immaginare il 24 febbraio in un modo diverso.
Immaginiamo che Putin avesse detto che per
motivi di sicurezza la Russia dovesse restituire Donetsk e Lugansk all’Ucraina.
Il
tasso di approvazione sarebbe stato esattamente lo stesso di oggi.
Assolutamente lo stesso, perché l’approccio è questo: Putin sa meglio di noi.
Allora
questo vuol dire che in realtà c’è una via d’uscita da questa guerra per Putin,
perché qualsiasi tipo di risultato può essere descritto come una vittoria e
verrà accettato dalla società.
Credo
che questo sia vero solo fino ad un certo punto.
Voglio
dire, se si sottolinea la sua capacità di imporre ogni tipo di decisione alla
popolazione e di ottenere l’acclamazione, penso che allora lei abbia ragione.
Ma dal momento che la posta in gioco è alta e
ovviamente richiede alcuni sacrifici da parte della popolazione russa – ed è
molto, molto chiaro che ci saranno sacrifici – allora penso che ci sia
un’aspettativa generale di una vittoria significativa.
Ormai
questa guerra è stata inquadrata come la lotta esistenziale per la Russia.
Questa non è una lotta per il Donbass.
Non so perché le persone in Europa abbiano
questa idea folle che si tratti di una lotta per il Donbass.
No,
questa è una lotta esistenziale per la Russia, con la quale la Russia deve
sconfiggere l’Occidente.
Questa
è la missione e non quella di prendere Kramatorsk.
Questo
aspetto è così secondario rispetto a ciò che sta accadendo.
Il 99%
dei russi non sa neanche dove si trovi Kramatorsk.
Quindi
questa è una lotta esistenziale e conquistare Kramatorsk è solo il primo passo.
Ma se
l’esercito russo dovesse davvero fallire in Ucraina, cedendo, ad esempio, i
territori controllati prima del 24 febbraio, sarebbe davvero difficile per
Putin venderla come una vittoria.
Il problema non sono tanto i numeri dei
sondaggi, ma alcuni strati della società russa, che si renderebbero
improvvisamente conto che Putin può anche fallire, perché l’intero potere
politico si regge sulla forte convinzione che Putin vince sempre.
Se lui non vince, se qualcuno comincia a
dubitare della sua vittoria, la situazione cambierebbe.
Il
cambiamento, però, non si rifletterebbe subito nei sondaggi d’opinione, perché
lì funziona al contrario:
ci
sarà per primo un vero e proprio cambio di potere, e poi si vedrà come questo
si rifletterà nei sondaggi d’opinione, e non il contrario.
Non
vincere questa guerra, credo, potrebbe significare la fine di questo regime.
Ma
nella realtà russa che sta descrivendo, cosa potrebbe essere percepito come un
fallimento dell’operazione militare e cosa come una vittoria? Cioè, qual è il
minimo che dovrebbe essere raggiunto per dichiarare la vittoria?
È
difficile a dirsi. Beh, per quanto riguarda il fallimento, è abbastanza facile:
in realtà dovrebbe essere una sconfitta militare, una vera e propria sconfitta,
che non lascia spazio per le interpretazioni. Quindi…
…
quindi lo status quo prima del 24 febbraio?
Si, ma
ormai il 24 febbraio è militarmente impossibile perché se l’Ucraina riuscisse a
respingere le forze armate russe fino alle posizioni pre-24 febbraio, perché
dovrebbe fermarsi lì?
Voglio
dire, in Donbass non ci sono confini naturali.
La
Crimea è una questione diversa, forse lì ci sono confini naturali, ma, per
quanto riguarda il Donbass, il pre-24 febbraio è andato per sempre.
Non
sarà mai ripristinata quella linea di separazione delle forze.
Quindi
questa sarebbe una vera e propria sconfitta.
Per
quanto riguarda la vittoria, come ho detto, la conquista e l’annessione delle
quattro regioni – Zaporizhia, Kherson e dell’intero Lugansk e Donetsk – sarebbe
la prima tappa.
Questa sarebbe una sorta di vittoria, visto
che Putin non controllava tutte le quattro regioni prima.
Si tratterebbe quindi di un’acquisizione e credo che
sarebbe un passo preliminare per un’ulteriore espansione, che includerebbe
sicuramente “Transnistria” e presumo anche l’”intera Moldavia”.
Ora abbiamo questo limbo con il sud Ossezia.
L’Abkhazia è forse più difficile, ma il sud
Ossezia sicuramente verrebbe incluso in Russia.
Quindi
questo sarebbe un passo preliminare verso ulteriori annessioni.
E poi si andrà sempre più avanti perché,
ancora una volta, qua non si tratta di ripristinare l’appartenenza imperiale
all’Unione Sovietica, no, si tratta di spezzare la schiena all’Occidente.
Per
questo motivo mi aspetto che il prossimo passo avvenga molto presto dopo questa
sorta di vittoria.
Quindi
non ci sarà nessun negoziato fra Russia e Ucraina in un futuro vicino?
Assolutamente
no!
La
maggior parte delle sanzioni occidentali prende di mira l’economia e
l’establishment politico della Russia, mentre altre mirano specificamente
all’arte e alla cultura russa.
Questo
sta causando molte discussioni e speculazioni qui in Occidente sulla “cancel
culture”.
Qual è
la sua opinione in merito?
A dire
il vero, credo che sia un fenomeno enormemente esagerato.
Voglio
dire, a parte alcuni casi spiegabili di reazione eccessiva, personalmente non
ne sono stato colpito.
Nessuna
persona che conosco è stata colpita da una sorta di boicottaggio immeritato o
qualcosa del genere.
Ammetto
che ci siano stati casi di reazione eccessiva, ma sono abbastanza
comprensibili.
E dietro c’è una lobby ucraina.
Posso
capirli. Ad essere onesti, penso che stiano facendo qualcosa di
controproducente per loro stessi, perché fondamentalmente dicendo: “beh,
guardate che tutti i russi sono come Putin”, stanno rendendo il miglior
servizio a Putin stesso, perché in questo modo trasmettono questo tipo di
messaggio agli italiani, per esempio, o ai tedeschi…
E come
vuoi che reagiscano gli Europei?
Diranno
che se tutta la Russia è così, allora è meglio negoziare con Putin, tanto non
si può fare la guerra e sconfiggere l’intera Russia.
Quindi
forse gli ucraini sbagliano quando promuovono la narrazione che tutti i russi
sono uguali, anche se capisco perfettamente la loro rabbia.
E
penso che questa reazione sia in misura significativa giustificata.
In
generale penso che, anziché lamentarsi di un trattamento immeritato, si
dovrebbe far sentire la propria voce e esprimersi contro la guerra.
Altrimenti
è un’ipocrisia.
Se si
sostiene questa enorme guerra fondamentalmente contro l’intera Europa, cosa ci
si può aspettare?
Un’accoglienza
di benvenuto da parte degli europei?
Questa è ipocrisia.
Perché
qua non si chiede di sostenere gli ucraini.
La questione è diversa, perché ovviamente i
soldati russi stanno morendo e questo crea naturalmente un problema morale per
i russi.
Bisogna
semplicemente dire “non in mio nome! questa guerra non in mio nome!”. Penso che
questo sarebbe sufficiente per far capire che si è contrari alla guerra.
Non
credo che si tratti veramente di “cancel culture” o come la chiamate ora.
Ovviamente ci sono misure che colpiscono tutti e, ad essere onesti,
personalmente subisco un danno collaterale.
Viaggiare
in Europa è diventato complicato.
Proprio ieri sera stavo pensando a come
viaggiare in Germania.
È logisticamente molto difficile.
E poi non posso pagare il biglietto per il
viaggio perché le mie carte sono bloccate. Quindi è davvero difficile, ma c’è
poco da lamentarsi.
È la guerra.
Voglio
dire, gli ucraini sono stati e continuano ad essere bombardati quindi perché
dobbiamo sorprenderci che le sanzioni ci portino dei danni collaterali?
Ci
sono alcune misure o azioni alle quali non dobbiamo opporci e lamentarci.
Non
penso che siano moralmente sbagliate, penso solo che sanzioni contro le
strutture di istruzione e cultura siano controproducenti.
Non me
ne lamento: gli europei sono liberi di imporle.
Penso solo che siano controproducenti.
Voglio
dire, guardate per esempio, all’università di Tartu in Estonia: ora non sono
più disposti ad accettare gli studenti russi…
Ripeto,
non mi lamento, ma credo solo che azioni simili siano controproducenti perché
in pratica fanno il gioco di Putin consolidando la sua immagine come
rappresentante di tutti i russi, il che non è assolutamente vero.
Lei ha
detto che alcune persone appoggiano questa guerra mentre altri forse dicono
“non in mio nome”.
Fino a
che punto è responsabile la società russa di questa guerra?
E, in termini generali, cosa pensa della colpa
collettiva e della responsabilità collettiva?
Perché
la società russa sia responsabile della guerra, dovremmo avere chiaro cosa sia
la società russa.
Ma non
esiste nulla che possa esser definito come “la società russa”.
Si
pensa che sia la collettività a prendere questa decisione, ma non è vero.
Ancora una volta, l’intero regime politico è
stato costruito sulla distruzione di qualsiasi tipo di soggettività politica.
È
difficile, credo, per molte persone in Europa capire fino a che punto sia stata
distrutta la concezione di essere soggetti, attori in politica.
Qualsiasi
discorso su qualsiasi tipo di azione politica, qualsiasi tipo di pensiero
normativo, tutto è diventato illegittimo in Russia.
Tanto per fare un esempio:
anche
solo pensare di discutere di migliorare qualcosa nelle nostre vite è già
percepito come un’assurdità perché, per come è strutturato il mondo, le cose
non possono essere migliorate.
Questo è come i russi si approcciano alla vita
e al loro posto nella vita politica.
I
russi pensano che il mondo sia fondamentalmente un brutto posto.
Lo ha
detto anche Putin: durante la conferenza stampa dopo l’incontro con Biden, è
stato abbastanza chiaro nel dichiarare che “nel mondo non esiste la felicità”.
Perché mi chiedete di migliorare il mondo? Il mondo non può essere migliore di
quello che è. È solo un luogo in cui gli esseri umani si uccidono a vicenda.
Questo è normale. Questo è ciò che gli esseri umani fanno normalmente”.
E
questo è un pensiero abbastanza diffuso in Russia.
Un
pensiero notevolmente sottovalutato ma che preclude qualsiasi possibilità di
azione politica collettiva.
Se non
ti fidi di nessuno, perché dovresti impegnarti in qualcosa con il prossimo?
Così uno finisce a preoccuparsi solo di sé stesso, dei suoi soldi, dei suoi
affari personali.
Quindi,
credo, che l’intera questione della responsabilità della società russa sia del
tutto irrilevante.
Naturalmente
questo non esime i russi dalla responsabilità individuale, ma credo che la
responsabilità stia nell’altro…
Dobbiamo
distinguere due cose: non si tratta dei russi che sostengono davvero questa
guerra, non è questo il caso finora, ma si tratta della loro indifferenza.
Vedo
una sorta di fascistizzazione della società e questo è molto pericoloso.
Questa
completa indifferenza alla sofferenza umana è un problema importante. Ma questo
è sempre stato un problema in Russia:
i russi sono indifferenti non solo nei
confronti degli ucraini ma anche verso i propri compaesani.
Per esempio, lei pensa che la gente si
preoccupi davvero delle sofferenze della gente di, non so, Krasnodar?
No,
per niente!
Finché
non è un mio problema non mi interessa!
Quindi
questo è il vero problema:
la
totale mancanza di idea di responsabilità per i problemi politici e sociali, e
questo è ciò che rende le cose terribilmente pericolose.
Implica,
infatti, che qualsiasi azione da parte del governo venga percepita come
qualcosa al di fuori del controllo del singolo, che quindi non ha alcuna
responsabilità su qualsiasi cosa stia accadendo in Russia.
Questo credo sia terribile e qui sta il
problema, perché la gente dice:
“Non
mi piace questa guerra, ma cosa ha a che fare con me?
Non è affar mio, non potrei cambiare nulla,
come potete chiedermi di oppormi a questa guerra?
Potrei
oppormi, ma in quel caso probabilmente perderei il lavoro”.
Questo
senso di impotenza diffusa nella società è stato alimentato e poi
strategicamente usato da Putin.
E in
questo e, voglio sottolineare questo punto, Putin è stato aiutato in modo
significativo dagli europei, dalle élite globali in generale, ma soprattutto
dagli europei.
Perché ogni volta che i russi cercavano di
trovare una soggettività politica, di condurre qualche azione politica, di
resistere, di impedire che accadessero le cose peggiori, ogni volta Putin
riceveva un enorme sostegno dall’Europa, enormi contratti finanziari, enormi
investimenti…
Insomma,
si è creata inevitabilmente una situazione strana.
Beh,
voglio dire, non stiamo chiedendo aiuto per risolvere i nostri problemi, ma
potreste per favore non aiutare Putin almeno in modo massiccio?
Ogni volta che c’è un movimento di resistenza,
lui ottiene immediatamente un grande accordo che porta milioni in Russia e che
viene poi investito nell’esercito per sopprimere la protesta…
Beh,
questo ovviamente fa sentire la gente disperata.
Questo
sentimento di disperazione può essere spiegato, ma non è sufficiente.
Project
2025: un’agenda conservatrice
per il
futuro dell’America.
Project2025 – Benedetta Agrillo - Il team di
Jefferson – (22 Maggio 2024) – ci dice:
Nel
panorama politico degli Stati Uniti, il 2024 sembra essere un’epoca di “déjà
vu” elettorale.
Come nel sequel di un film che ha mantenuto i
suoi protagonisti, gli Stati Uniti si preparano a un’altra campagna elettorale
presidenziale con gli stessi contendenti del 2020.
A
cambiare significativamente è invece il contesto sociale americano, ormai molto
diverso dallo scenario pre-Covid durante il quale Trump e Biden si sono
confrontati per la prima volta.
Con le
tensioni in corso in Europa e Medio Oriente a complicare il panorama politico
internazionale, una crisi migratoria al confine sud degli Stati Uniti e la
ridiscussione in atto in molti stati del diritto all’aborto, entrambi i
candidati devono procedere con estrema cautela.
Da una
parte, “Joe Biden” ha adottato una strategia focalizzata sull’idea di difesa
della democrazia dalla minaccia Trump.
Dall’altra,
il tycoon mette in guardia i suoi sostenitori da altri quattro anni dalle
politiche del Presidente in carica, che identifica come le cause del declino
americano.
La linea d’azione scelta dell’ex-inquilino
della Casa Bianca si fonda proprio su un presunto dovere Repubblicano di
riportare gli Stati Uniti a godere del benessere economico e sociale che le
amministrazioni democratiche hanno distrutto negli anni.
In
pratica una rielaborazione del “Make America Great Again”, ma aggiornata al quadro politico
attuale, con il dito puntato contro Biden e non più contro Obama.
Stavolta
però, il piano di riconquista del potere ha un nome ben preciso, un manifesto e
degli obiettivi da raggiungere.
Si chiama “Project 2025”, e sulla pagina ufficiale di
questo manuale per la ricostruzione del Paese è illustrato il progetto di
transizione dal nocivo Governo liberale, verso un’America conservatrice, che
inizia con l’elezione di Trump a Presidente.
Il
percorso poggia su quattro fondamenta essenziali che lavoreranno sinergicamente
per
preparare il terreno a un’amministrazione conservatrice di successo:
l’agenda politica, la selezione di un
personale adeguato, un programma formativo e un piano operativo di 180 giorni.
Promosso
finanziato e reso possibile da” The Heritage Foundation”, che vanta un lungo
impegno nella storia politica dell’America Repubblicana nello sviluppare una
serie di policy note oggi come “Mandate for Leadership”.
Queste proposte hanno giocato un ruolo ai
vertici presidenziali, fin dall’Amministrazione Reagan, e sono state
particolarmente importanti durante il mandato Trump.
Al
vertice del team dietro “Project 2025” ci sono “Paul Dans”, ex capo dello staff
presso l’Ufficio per la Gestione del Personale (OPM) durante l’amministrazione
Trump e attuale direttore del” Progetto di Transizione Presidenziale 2025”, e
“Spencer Chretien”, ex assistente speciale del presidente e direttore associato
del “Personale Presidenziale”, nonché del progetto.
Project
2025: i temi di un’agenda conservatrice.
Il
manuale del “Project 2025” è il frutto del lavoro di un think thank e presenta
uno o più autori con una vasta conoscenza in diverse aree, che analizzano
approfonditamente un dipartimento o un’agenzia specifica.
I temi trattati sono molteplici e generali:
dall’economia,
al clima, ai diritti.
Allo stesso tempo, sono ben applicabili a
specifiche questioni in discussione, in questo momento, negli Stati Uniti.
Sulle
politiche ambientali e l’energia si prevede la cancellazione dell’approccio
Biden, ponendo fine all’attenzione rivolta al cambiamento climatico e ai
sussidi verdi, abolendo “ Clean Energy Corp” e il “Climate Hub Office”,
revocandone i relativi finanziamenti.
Centrale
anche il ritiro dagli “accordi sul cambiamento climatico”, definiti
incompatibili con la prosperità degli Stati Uniti.
Per il
tema di gestione della salute pubblica si propone un abbandono del ruolo del
governo nella promozione della salute pubblica per bambini e adulti americani,
facendo riferimento alla gestione della pandemia di Covid-19 in cui il governo federale viene
tacciato di una gestione eccessivamente dettagliata, disinformata e
politicizzata.
Grande
attenzione viene riservata alla “Family Agenda”, che promette di riportare
l’attenzione verso una struttura familiare ideale, votata al diritto dei
bambini di essere cresciuti dagli uomini e dalle donne che li hanno concepiti.
Viene enfatizzato il concetto di famiglia
tradizionale, con una critica esplicita verso qualsiasi altra forma di
genitorialità che vada oltre il concepimento tradizionale.
A questi presupposti viene bizzarramente legato il
discorso delle malattie sessualmente trasmissibili e le gravidanze non
desiderate, che si propone di prevenire rafforzando il concetto di matrimonio
come possibile strategia di prevenzione dei rischi sessuali.
Per quanto riguarda invece i diritti LGBTQ+, si parla di revocare le normative che
vietano la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale, dell’identità
di genere, dello stato transgender e delle caratteristiche sessuali.
Questo porterebbe a una pericolosa e consequenziale
legittimazione del razzismo di genere persino sul luogo di lavoro.
Inoltre, si prevede una stretta anche nelle
politiche anti-abortiste, con l’obiettivo di garantire una proliferazione delle
“policy pro-life” e una limitazione del diritto di scelta nelle future
legislazioni.
Grande
chiusura mostrata anche nelle proposte sulle politiche migratorie, che
prevedono una chiusura dei confini e una gestione rigida dell’enorme flusso di
immigrati ai confini messicani.
Tra le tematiche affrontate in questa guida,
il punto a cui viene data maggiore importanza, è l’ufficio della Casa Bianca,
di cui parla nel primo capitolo “Rick Dearborn”, ex vicecapo di gabinetto di
Trump, focalizzandosi sulla necessità di una concentrazione dei poteri nelle
mani del Presidente.
Inoltre, si parla del “Dipartimento di Stato”
e del “Dipartimento di Giustizia”, come organi suscettibili a influenze poco
raccomandabili e predisposti a dissentire dalla visione di un presidente
conservatore.
Il
progetto e la campagna Trump.
Il
progetto ha recentemente coinvolto oltre 100 partner della coalizione per il
suo consiglio consultivo.
Il
raggiungimento di questo traguardo consentirà loro di concentrarsi maggiormente
sullo sviluppo del piano operativo di 180 giorni di regolamenti e decreti
presidenziali che Trump potrebbe attuare una volta insediato in carica.
È
necessario sottolineare però, che il “Progetto 2025” non è vincolato
esclusivamente a un’unica figura politica come Trump o alla sua
amministrazione.
Al
contrario, si propone di sostenere qualsiasi candidato o futuro Presidente che
abbracci i principi e l’ideologia conservatrice su cui si basa il progetto.
Questa flessibilità evidenzia il suo scopo più
ampio di promuovere e implementare politiche in linea con i valori
conservatori, indipendentemente dall’individuo al potere.
Allo
stesso tempo, la campagna di Trump ha cercato più volte di prendere le distanze
da gruppi come il “Project 202”5, ma molte delle sue proposte sono basate su
reali commenti passati di Trump.
Questa
dinamica rappresenta dunque una sfida per il “team di Trump”, che tenterà fino
a novembre di non legarsi alle posizioni più controverse, che potrebbero
rivelarsi dannose per la campagna.
(Benedetta
Agrillo)
«Ignorare
la guerra»:
le
società civili russe e l’Ucraina.
Legrandcontinent.eu
- Benjamin Quénelle – (24 Febbraio 2023) – ci dice:
Prospettive.
La
vera vittoria di Vladimir Putin non è di aver neutralizzato l’opposizione e
messo a tacere l’opinione pubblica.
È di aver orchestrato un’apatia generalizzata,
una passività mista a paura, alimentando il caos.
Da un
anno Benjamin Quénelle discute con i russi di quello che sta succedendo – ecco
la sua testimonianza.
Allo
studente e al professore basta uno sguardo per capirsi.
Gennaio
2022, è un banale giorno di esami all’istituto di linguistica di Mosca.
Nel
bel mezzo delle domande dell’orale, nell’anonimato di un’aula, viene chiesto
allo studente: «definisca cos’è un eufemismo e fornisca degli esempi».
Domanda
anodina, non necessariamente politica, quella del professore.
Quanto
alla risposta, non è priva di malizia.
«“L’operazione militare speciale” è un buon
esempio attuale di formule attenuate che vengono utilizzate per evitare
espressioni più scioccanti e sgradevoli, ma più crude e reali…», dice lo
studente, con la risposta pronta.
Il
professore reagisce con un sorriso complice.
«Tra oppositori all’invasione russa in
Ucraina, a questa guerra che non è la nostra, ci siamo capiti!», confiderà poi.
Con prudenza però, una precauzione necessaria
nel bel mezzo di un’ondata di repressioni che in Russia soffoca ogni voce
critica nei confronti del governo.
È per proteggere le nostre fonti quindi che
nel presente articolo resteremo vaghi in merito all’identità dei nostri
numerosi interlocutori.
Dal 24
febbraio 2022, data dell’inizio dell’“operazione militare speciale” del
Cremlino in Ucraina, secondo la litote ufficiale, la società civile russa si è
abituata tanto alle espressioni semplicistiche quanto alle circonvoluzioni
simboliche.
Da una
parte, la propaganda, in televisione ma anche grazie a molteplici intermediari
nella società, ripete le formule di Vladimir Putin tese a giustificare una
presunta operazione di “liberazione” dei territori russi.
Dall’altra,
chi si oppone alle litoti ufficiali, che si esprime in modo indiretto, con
immaginazione e inventiva, e rischia una pena fino a quindici anni di prigione,
secondo le nuove norme sul “discredito” delle forze armate.
Agli antipodi, queste reazioni opposte hanno
spesso causato tensioni intergenerazionali all’interno delle famiglie:
i più
anziani guardano la televisione e si schierano dalla parte del Cremlino, i più
giovani s’informano su Internet e osano opporsi al governo.
I
primi garantiscono che si tratta di un’operazione salvifica di
“demilitarizzazione” e di “denazificazione” del Paese vicino, inevitabile per
contrastare la minaccia occidentale.
I secondi confessano la loro vergogna e il
loro disgusto, raccontano il coraggio e la paura davanti alle difficoltà a cui
si confronta ogni forma di contestazione pubblica.
Gli
uni si barricano davanti alle televisioni che trasmettono i canali pubblici —
riflesso tipico dei telespettatori-elettori fedeli al Cremlino.
Gli altri s’ingegnano, per esempio, per
esprimere in modo simbolico il proprio dissenso:
declamare
una poesia contro la guerra in una cantina trasformata in modesto teatro,
scrivere un semplice “pace” sulle banconote che passano di mano in mano,
lasciare qualche fiore e una candela ai piedi di un memoriale improvvisato in
omaggio alle vittime ucraine…
Gesti
solidali, più di disperazione che di ribellione.
In
realtà, oggi la maggioranza dei russi non appartiene a nessuno dei due gruppi.
Alla fine, si è preferito ignorare la guerra, smettendo di seguire le
informazioni, tenendosi a distanza dalle fonti di propaganda come da ogni forma
di opposizione, concentrandosi sulla vita privata, rimanendo cauti nelle
discussioni (perfino in famiglia) e stando attenti alle possibili delazioni (al
lavoro, all’università).
Una
specie d’“immigrazione interna” già ben nota all’epoca sovietica.
Alcuni si rifugiano nell’alcol o negli
antidepressivi, il cui consumo sarebbe aumentato nell’ultimo anno.
Altri
cercano una scappatoia altrove:
a
Mosca, le sale dei teatri sono piene, e tra il pubblico dei cinema in cui si
proiettano cartoni animati per bambini si scorgono a volte adulti venuti a
cercare un po’ di ossigeno.
Sempre di più, il conflitto in Ucraina è
diventato un argomento da evitare durante le cene di famiglia.
Una
forma di passività.
Riguarda
le nonne sazie di propaganda, ma anche i giovani istruiti, con un buon impiego,
che non credono né a Putin né alla propaganda ma la cui sola ambizione è di
restare in disparte e salvaguardare i propri interessi.
La
sofferenza degli ucraini ha creato un’indifferenza diffusa.
Nonostante
i media indipendenti siano stati chiusi e numerosi siti Internet bloccati,
informarsi è ancora possibile.
Ma la
gran parte dei russi non lo fa, si affida al governo.
Nel
paese regna una forma di passività che riguarda le nonne sazie di propaganda,
ma anche i giovani istruiti, con un buon impiego, che non credono né a Putin né
alla propaganda ma la cui sola ambizione è di restare in disparte e
salvaguardare i propri interessi.
(BENJAMIN
QUÉNELLE)
Questa
fiducia passiva spiega il forte tasso di sostegno dell’“operazione speciale”,
tra il 70 e l’80%, anche se i risultati dei sondaggi sono da prendere con le
pinze come in ogni regime autoritario.
In
passato la popolarità di Vladimir Putin aveva raggiunto il suo picco al momento
delle guerre (in Cecenia, in Georgia, per l’annessione della Crimea, durante
l’operazione in Siria), e anche stavolta il Presidente e le sue decisioni non
sono state rimesse in causa, né il conflitto in Ucraina pare aver suscitato una
presa di coscienza in merito alla natura stessa del suo potere.
Di
fronte all’offensiva in Ucraina, come da anni di fronte alla profonda
degradazione delle libertà e dello stato di diritto, la maggioranza dei russi
si è rintanata in un’apatia, in un fatalismo che ha preso la forma di
un’incoscienza generalizzata.
«Quella
che lei chiama “apatia”, e che io chiamo “assenza, nelle situazioni, di
qualsiasi istinto biologico di protezione”, è sempre esistita tra i russi: sono
sovietici, è un retaggio ancora forte.
È una
questione di genetica, di psichiatria, di sociologia, di psicanalisi…», spiega
ironica “Valentina Melnikova” in un’intervista a “La Croix L’hebdo”.
A
settantasette anni, questa veterana della difesa dei diritti umani è
un’instancabile osservatrice delle contraddizioni della società civile del suo
Paese.
Presidentessa
del Comitato delle madri dei soldati, nel corso degli oltre vent’anni di
Vladimir Putin al Cremlino, dalle guerre in Cecenia fino all’attuale
“operazione speciale”, è sempre stata al fianco delle donne, mogli e madri,
combattute tra il desiderio di verità e le conseguenze dello scetticismo e del
fatalismo post-sovietico.
Per “Valentina
Melnikova”, come per molti esperti attivisti per i diritti umani in Russia, non
c’è dubbio:
in realtà la “società russa”, al singolare,
intesa come una società civile unica, non esiste.
Sotto Vladimir Putin come sotto l’Unione
sovietica, è soprattutto il regno dell’ognuno fa per sé.
Con la
creazione del “Comitato delle madri dei soldati” e di altre organizzazioni come
“Memorial”, una società civile unita aveva cominciato a vedere la luce negli
anni Novanta quando, parallelamente a questo tipo di attività associative, sono
apparsi alcuni partiti politici, comunisti e nazionalisti ma anche liberali e
indipendenti.
Tuttavia, a partire dalle elezioni legislative
del 2003, solo i membri dei movimenti sotto il controllo dello Stato hanno il
diritto di essere eletti nella Duma.
La vita politica vera e propria è allora
terminata.
«Senza
partiti rappresentativi non può esistere una vera società», avverte Valentina
Melnikova.
A
differenza di “Memorial”, classificato come “agente straniero” e ormai bandito,
il suo “Comitato delle madri dei soldati” è stato mantenuto, così come altre
organizzazioni che aiutano i migranti, gli orfani e i disabili.
«Ma siamo solo uffici di assistenza: le
persone vanno e vengono. Non si tratta di una partecipazione generale alla
società», si rammarica “Valentina Melnikova,” sorpresa e delusa, per esempio,
che l’ondata di rabbia che ha seguito la mobilitazione militare di settembre
non abbia provocato sconvolgimenti politici.
Improvvisamente,
però, la guerra era entrata nella vita quotidiana delle famiglie russe,
colpendo direttamente le famiglie con uomini in età di leva.
Il
malcontento è stato espresso pubblicamente ma, per via del fatalismo o di una
vera adesione, soltanto per denunciare l’organizzazione caotica e arbitraria
della mobilitazione, l’equipaggiamento scarso e la mancanza di un addestramento
che avrebbe dovuto precedere l’invio degli uomini al fronte.
«Ci
sono state certo delle reazioni: alcune famiglie ci hanno chiamato, gli uomini
sono fuggiti dal Paese», constata “Valentina Melnikova”.
«Ancora una volta, tuttavia, le risposte sono
rimaste individuali. I russi hanno reagito come uccelli che, avvertendo il
pericolo, volano via all’improvviso. Ognuno per sé».
Quanto
alla propaganda, è riuscita a diffamare “i traditori”.
Tra
lutto e rabbia, altrettanto numerose in Russia sono state le reazioni dopo
l’annuncio della morte di quasi 100 soldati, uccisi in un attacco ucraino
durante la notte di Capodanno nella base di” Makiïvka”, nel mezzo del “Donbass”
— regione considerata sotto controllo russo.
Il
bilancio delle vittime è probabilmente più elevato, ma le autorità si sono
saggiamente mantenute al di sotto dei 100 morti per evitare di dichiarare un
lutto nazionale.
In
dieci mesi di “operazione speciale”, è stata la prima volta che il governo ha
ammesso una tale battuta d’arresto e, soprattutto, un bilancio così pesante.
Sui social network, e perfino in televisione,
sono apparsi alcuni segnali di protesta. Tuttavia, il Cremlino ha continuato ad
orchestrare una trasparenza tutta relativa.
E la
propaganda, ancora una volta, ha potuto manipolare le opinioni e preparare la
popolazione.
Ampiamente coperta dai media, la morte dei
soldati ha permesso di alimentare il desiderio di vendetta e di alimentare la
narrazione ufficiale in vista di una possibile intensificazione dell’offensiva
e di una nuova ondata di mobilitazioni militari.
Sono,
invece, passate inosservate le scomode rivelazioni sull’incompetenza
dell’esercito, in particolare sul fatto che le munizioni sarebbero state
immagazzinate nello stesso edificio in cui si trovavano i soldati, o che questi
ultimi sarebbero stati autorizzati a telefonare con il cellulare permettendo,
di fatto, la loro geolocalizzazione da parte dall’artiglieria ucraina.
Qualcosa è stato rimesso in questione, nulla
in causa.
Per
alcuni russi abituati da tempo a stare lontani dalla politica, l’improvviso
esilio per evitare la mobilitazione militare è stato un momento di rivelazione.
Paradossalmente, i giovani che hanno trovato rifugio in “Georgia”, a volte con
le loro compagne, hanno scoperto che il loro Paese, quattordici anni prima
dell’invasione dell’Ucraina, aveva già preso possesso del 20 % del territorio
di questa ex repubblica del Caucaso.
A “Tbilisi”, confrontati spesso per la prima
volta con le conseguenze delle politiche adottate dal loro Presidente, hanno
percepito il risentimento dei loro ospiti nei confronti dei russi.
E quindi anche contro di loro che, assentendo
da più di vent’anni in modo più o meno tacito, sostengono indirettamente il
regime di “Vladimir Putin” rimanendo indifferenti alla sua politica.
I georgiani non sono lontani dal condividere
ciò che la maggioranza degli ucraini afferma da un anno:
il Cremlino di Vladimir Putin è colpevole, ma
tutti i russi sono responsabili. Improvvisamente messi di fronte a questa
realtà, gli esuli hanno sperimentato un brusco risveglio alla coscienza
politica.
A “Tbilisi”, confrontati spesso per la prima
volta con le conseguenze delle politiche adottate dal loro Presidente, hanno
percepito il risentimento dei loro ospiti nei confronti dei russi.
E quindi anche contro di loro che, assentendo
da più di vent’anni in modo più o meno tacito, sostengono indirettamente il “regime
di Vladimir Putin” rimanendo indifferenti alla sua politica
(BENJAMIN
QUÉNELLE)
Questo
cambiamento riguarda anche quelle poche centinaia di individui che,
allontanatisi dall’anonimato della loro sala da pranzo e dalla solitudine delle
ore passate davanti allo schermo del computer — un’“opposizione da divano”,
come ironizza uno di loro — hanno osato riunirsi attorno ai memoriali
improvvisati in tutta la Russia dopo il bombardamento della città ucraina di “Dnipro”,
in memoria dei 46 morti del 14 gennaio.
Fonti anonime lo confermano.
È vero che un anno prima, subito dopo l’inizio
dell’“operazione speciale”, alcuni si erano opposti all’offensiva pubblicando
messaggi di collera sui social network.
Li avevano però presto cancellati per paura di
subire ripercussioni, soprattutto al lavoro, o di farne subire ai figli a
scuola.
Da
allora, la gran parte dei russi ha preso l’abitudine di astenersi.
E non
è mai uscita a manifestare, nemmeno in settembre quando è stata lanciata la
mobilitazione militare.
A
mezza voce, i russi oggi ammettono che questo comportamento non è altro che una
forma di “codardia”.
Ecco
perché, dopo la “tragedia di Dnipro”, andare a deporre un semplice mazzo di
garofani ai piedi di questi memoriali improvvisati è stato per loro un atto di
liberazione e un gesto vitale di rispetto per sé stessi.
Non è molto, ma resta un segnale discreto che
ricorda come non tutti i russi sostengano il Cremlino.
Si
tratta di una piccola minoranza.
Ben
prima del conflitto ucraino, sociologi e politici indipendenti stimavano, senza
potersi basare su supporti statistici veramente affidabili, che il 15-20% dei
russi in età di voto avrebbe potuto esprimere la propria opposizione al
Cremlino di “Vladimir Putin” se il sistema politico e mediatico lo avesse
permesso, se le elezioni fossero state libere.
Oggi,
una percentuale simile è probabilmente contraria all’offensiva in Ucraina.
L’espressione di questa opposizione, con un possibile effetto valanga tra la
popolazione, è tanto più difficile dal momento in cui, dopo gli oltre 22.000
arresti nelle prime settimane del conflitto, ogni forma di manifestazione è
stata vietata. In più, le autorità hanno intensificato la repressione delle
voci critiche a ridosso dell’anniversario dell’inizio del conflitto.
Nel
2022, la loro tattica consisteva nell’alimentare la paura e nel costringere i
ribelli, soprattutto i media critici, a rispettare regole molto rigide.
Ad esempio, un’organizzazione classificata
come “agente straniero” – stigma che oltretutto complica il lavoro – veniva
tollerata a condizione di rispettare vincoli pesanti e umilianti.
Doveva per esempio tenere una contabilità
dettagliata di ogni entrata e di ogni uscita e, per ogni pubblicazione, anche
sui social network, aggiungere il messaggio:
“diffuso
da un’organizzazione riconosciuta come agente straniero”.
Una
strategia politica per marginalizzare ancora di più le voci ribelli.
Nel
2023, si è ormai arrivati al divieto puro e semplice e alla messa al bando,
come è successo per “Meduza”, definita ‟organizzazione indesiderabile” il 25
gennaio.
Qualsiasi
partecipazione alle attività dei media dichiarati “indesiderabili” può generare pene fino a quattro anni di
carcere per i giornalisti, e fino a sei anni per i suoi organizzatori.
Il messaggio è chiaro, tanto più che perfino
la condivisione sui social network degli articoli di “Meduza” da parte degli
utenti può potenzialmente essere considerata come una “partecipazione” alle sue
attività e perciò perseguita.
Lo
stesso 25 gennaio i tribunali hanno ordinato lo scioglimento della più longeva “ONG
per i diritti umani”, vietandone le attività sul territorio russo:
il “Gruppo
Helsinki di Mosca, diretto per decenni da Lyudmila Alexeeva.
Entrambe
le messe al bando sono state accolte nell’indifferenza generale dell’opinione
pubblica.
Questo arsenale di misure repressive, così
come i continui procedimenti giudiziari per “fake news” in merito a questioni
militari o per “discredito” dell’esercito, hanno rafforzato la verticalità del
potere, una “verticalità della paura” che da tempo preparava l’offensiva in
Ucraina sulla scena politica interna, eliminando tutte le sentinelle, anche tra
le élite.
Allergico
al minimo cambiamento che rischi di turbare la sacrosanta “stabilità” garantita
dal Cremlino, Vladimir Putin ha inoltre nobilitato i suoi attacchi
antioccidentali conferendo loro una dimensione morale.
Una tale operazione, militare e politica, mira
a convincere il popolo russo che il Presidente, impegnato nella lotta contro
quella che chiama la “quinta colonna”, ha avuto la meglio anche nella lotta
antiliberale che conduce in difesa dei valori tradizionali.
Fin dalla sua rielezione nel 2018, da buon
ideologo mascherato, “Vladimir Putin” assicura che, a fronte di un Occidente in
pieno declino, Mosca sta costruendo il futuro, quello del Paese e del mondo.
Nella sua retorica, l’Occidente è un nemico
che cerca di umiliare e distruggere la Russia.
Un messaggio come questo fa eco al
risentimento di molti russi che ritengono di essere stati trattati
ingiustamente dopo la fine della Guerra Fredda.
Alcuni
si sentono finalmente liberi dopo tre decenni di restrizioni, pronti a sfidare
ogni apparenza democratica e liberale per riconquistare una forma di
“autenticità” russa che per essenza, ai loro occhi, è definita precisamente da
questa opposizione all’Occidente.
L’inizio del conflitto, un anno fa, aveva
assunto le sembianze di una vendetta.
I più
radicali non nascondevano di voler “dare una lezione all’Occidente” e oggi,
nonostante le difficoltà sul fronte militare, credono ancora fermamente
all’inevitabile vittoria russa.
Nel
suo discorso del 30 settembre 2022, che ufficializzava l’annessione di quattro
territori ucraini, Vladimir Putin ha comparato la “propaganda occidentale”, con
“il suo oceano d’illusioni e false notizie”, alle “bugie di Goebbels”, a capo
della propaganda nella Germania nazista.
Ne ha
dato una lunga dimostrazione:
la sua
“operazione militare speciale” va ben oltre il conflitto in Ucraina.
Il Presidente ha ripetuto di essere andato a
difendere la Russia dall’Occidente, che accusa di tutti i mali, e ha in
particolare criticato il “satanismo” che si celerebbe dietro alla presunta
decadenza perfida e ipocrita degli europei.
Il
discorso ha finito per rassicurare e convincere alcuni, mentre ha ripugnato e
preoccupato altri.
Soprattutto, in verità, è stato accolto con
indifferenza dalla maggioranza dell’opinione pubblica.
La
vera vittoria di “Vladimir Putin” non è quindi solo quella di aver annientato
l’opposizione e messo a tacere la società civile, ma innanzitutto quella di
aver orchestrato questa apatia generale.
Per
tenersi le mani libere, il Cremlino ha contribuito a creare una mentalità
dell’indifferenza e della passività.
Altamente
organizzata, la propaganda, capace di provocare effetti profondi – non solo in
televisione, ma anche nelle chiese, nelle scuole, nelle università, negli
ambienti culturali e sportivi … – non ha solo invaso i cervelli, li ha
accecati.
Spesso
grossolana, ha diffuso, per esempio, l’idea di una superiorità spirituale e
culturale dei russi sugli occidentali.
Sistematica e permanente, con effetti
sottovalutati, ha però soprattutto imposto una forma di relativismo.
È riuscita a provocare scetticismo
nell’osservare i fatti e fatalismo nel considerare la verità.
Si spiega così il totale rifiuto delle accuse
sulle atrocità commesse dai soldati russi in Ucraina.
Agli occhi della maggioranza dei russi, tali
atrocità sono inconcepibili per mano degli eredi dell’esercito del “Paese che
ha sconfitto il fascismo” — presentati come soldati che, avendo compiti di
protezione e di non-aggressione, non mirano mai obiettivi civili.
Eppure,
i video e le inchieste degli occidentali lo dimostrano.
Altre
fonti sotto il controllo di Mosca proverebbero, però, il contrario.
Tra i
russi, la confusione è grande: tutto viene messo sullo stesso piano e non c’è
alcun senso critico.
Nel
paese si assiste a un permanente spettacolo di illusioni, una vera e propria
messa in scena che da anni condiziona la società civile.
Le
televisioni, per esempio, organizzano dibattiti per mantenere una parvenza di
vita democratica, ma il messaggio è chiaro.
Ed è pro-Cremlino.
La
Russia di Putin non ha un’ideologia, ma ha il suo 9 maggio, base dell’intera
strategia internazionale e nazionale del Presidente, e soprattutto punto di
riferimento dell’identità nazionale attorno al quale unire il Paese.
Vi
contribuiscono anche gli scritti sull’Ucraina o sul “patto Ribbentrop-Molotov”
di Vladimir Putin, lo storico.
(BENJAMIN
QUÉNELLE)
Anche
le scuole sono servite da tramite.
Le banali riunioni genitori-insegnanti
all’inizio del trimestre si sono trasformate nell’ultimo anno in lezioni di
storia.
Il
preside dà la parola a un ufficiale che, salito in cattedra, alimenta la
narrazione contro i “nazisti” di ieri e di oggi, poi ripete ciò che le famiglie
hanno già sentito sui canali televisivi del Cremlino.
Le
lezioni di alzabandiera e quelle per imparare a cantare l’inno nazionale, che
sono organizzate nei cortili delle scuole ogni lunedì mattina, seguite dalle
“lezioni sulle cose importanti” (tra cui il patriottismo), sono servite alla
propaganda per raggiungere anche i più giovani.
In
realtà non è altro che la continuazione di quanto iniziato anni fa, con le
tradizionali mostre sulla “Grande Guerra patriottica” del 1941-1945, nei
cortili delle scuole, che sono state il punto di partenza per tutto un insieme
di insegnamenti patriottici unidirezionali.
Tra
passato e presente, per capire la società civile russa, la sua tendenza a
sostenere senza alcun senso critico l’offensiva in Ucraina, una data s’impone:
il 9 maggio.
È una data chiave per i russi, una delle loro
feste preferite, momento di raccoglimento e di celebrazione in memoria della
“Grande Guerra patriottica” e dei soldati sovietici che sconfissero la Germania
nazista.
La
parata militare sulla Piazza Rossa non è che l’evento più visibile di quelli
organizzati per celebrare l’eroismo russo di fronte al nemico e alimentare il
patriottismo per diverse settimane.
All’inizio
dell’offensiva in Ucraina, tra febbraio e marzo 2022, ben prima che il
conflitto si complicasse, erano molti i russi che, con aria di sfida,
ripetevano in televisione un argomento ben collaudato:
«L’Occidente avrebbe dovuto capirlo fin dalla nostra
vittoria nel 1945:
è inutile fare pressione sulla Russia.
Napoleone e Hitler hanno fallito. Non ci riuscirete nemmeno questa volta».
La
storia è in effetti una delle basi su cui si fonda il regno di Vladimir Putin e
la sua azione sulla società civile.
Ben prima dell’offensiva in Ucraina, “operazione
speciale” per cacciare i fascisti da Kiev secondo la spiegazione ufficiale, per
anni il Cremlino ha incentrato la sua narrazione politica sulla vittoria
dell’URSS contro la Germania nazista, vera e propria cornice ideologica creata
grazie alla sacralizzazione della “Grande Guerra patriottica”.
La
Russia di Putin non ha un’ideologia, ma ha il suo 9 maggio, base dell’intera
strategia internazionale e nazionale del Presidente, e soprattutto punto di
riferimento dell’identità nazionale attorno al quale unire il Paese.
Vi contribuiscono anche gli scritti
sull’Ucraina o sul patto Ribbentrop-Molotov di Vladimir Putin, lo storico.
Questo
clima politico influenza soprattutto i giovani, un pubblico prioritario a cui
la propaganda del Cremlino si rivolge per condizionare la società civile.
Ogni
anno, in occasione del 9 maggio, “Memorial” organizza un concorso di resoconti
storici per i giovani tra i 14 e i 18 anni.
Se si
leggono gli elaborati pubblicati nel corso degli anni, ci si rende conto che l’”ONG”
lo aveva previsto:
il passato sovietico è idealizzato molto più
di quanto non lo fosse vent’anni fa, con Stalin presentato prima di tutto come
l’eroe che ha vinto il nazismo.
Il lavoro di “Memorial”, ormai vietato,
operava contro il discorso ufficiale.
A
differenza della Germania post-nazista, nella Russia post-sovietica gli sforzi
per produrre una riflessione critica sul passato nazionale sono stati rari,
tanto più che la caotica uscita dal comunismo ha creato nella società una
profonda nostalgia per la cosiddetta “stabilità” della vita sotto l’Unione
sovietica.
Una
“stabilità” che le conseguenze economiche causate dal conflitto in Ucraina
mettono però ormai in discussione.
Anche
dal punto di vista delle élite, questa “stabilità” è perturbata.
Ma il
mutismo del mondo degli affari e delle poche figure liberali un tempo influenti
ha confermato che non ci sono crepe nel sostegno di questa parte della società
al regime di Putin.
Dietro
le quinte, certamente molti sono critici nei confronti dell’offensiva in
Ucraina.
Tra
frustrazione e irritazione, sono numerosi a mettere in questione il Cremlino –
in questione, ma non per questo sotto accusa…
Vinti
dalla stessa apatia generale e ansiosi di proteggere innanzitutto i loro
interessi economici, la stragrande maggioranza degli uomini d’affari non si è
espressa, né ha incoraggiato un ricambio del potere politico.
Tra rabbia e preoccupazione, l’élite russa si
lascia di fatto andare al tempo stesso al proprio malessere e all’inazione.
Molti
desiderano la fine di Putin.
Ma
nessuno è pronto a impegnarsi per provocarla.
Il
dubbio, tuttavia, riguarda gli obiettivi stessi del Cremlino:
alcune
tra le figure più influenti del mondo degli affari che in passato gravitavano
attorno al Cremlino non esitano più a definirlo un «enorme errore».
I
membri della comunità imprenditoriale confessano, con giri di parole, di non
capire, a un anno dall’inizio del conflitto, quale sia l’obiettivo del Cremlino
contro l’Ucraina e al di là, contro l’Occidente.
Ma
quasi tutti continuano a fare affari — in modo diverso, certo, a causa delle
sanzioni occidentali.
Per il
momento, cercano di salvare ciò che possono in Russia, avendo perso molto in
Occidente a causa delle misure statunitensi ed europee.
Per
quanto riguarda l’élite politica liberale, che più di tutte potrebbe
incoraggiare il cambiamento, non è mai stata tanto marginalizzata.
Ad esempio, è vero che l’ex ministro delle
Finanze “Alexei Kudrin”, oppostosi in privato all’offensiva e alle sue
conseguenze ma assente dai radar pubblici, è tornato alla ribalta.
Ma
solo per accettare una nuova posizione in “Yandex”, il “Google russo”, che
dovrà ora aiutare a destreggiarsi tra la libertà di Internet e l’acquisizione
da parte dello Stato.
Anche tra i liberali, i pochi grandi nomi
ancora attivi hanno accettato di continuare a ricoprire ruoli chiave nel
sistema di Vladimir Putin.
Ad
esempio, “German Gref”, amministratore delegato di “Sberbank”, la più grande
banca del Paese, osa appena mettere discretamente in guardia in merito alle
conseguenze negative dell’operazione militare sull’economia.
Insomma, non c’è una figura che sembri poter
incarnare l’autorità di un movimento di protesta.
La
maggior parte dei liberali un tempo influenti e degli imprenditori
fondamentalmente contrari agli attuali avvenimenti a Mosca hanno lasciato il
Paese.
Se ne
stanno con le mani in mano e aspettano che il peggio passi.
L’atmosfera
è molto diversa da quella che si respirava alla fine degli anni Novanta quando,
al tramonto dell’era Eltsin e all’alba dell’era Putin, il sistema era in
frantumi.
Le
élite non vi si riconoscevano più, e gli appetiti aumentavano: dietro le
quinte, tutti si davano da fare, brigavano.
Oggi,
al contrario, moltissimi si sono rifugiati nella loro vita privata, silenziosi
e in attesa, a Dubai o sulle spiagge del Venezuela.
Si
muoveranno solo quando i loro interessi lo richiederanno.
Le
sanzioni occidentali contro i russi dello scorso anno, che vietavano loro di
volare, effettuare trasferimenti bancari e ottenere visti, hanno avuto in gran
parte un effetto controproducente, perché hanno colpito soprattutto la classe
media di Mosca e delle principali città.
Paradossalmente, si tratta proprio di quella parte
della popolazione che si oppone maggiormente al Cremlino.
(BENJAMIN
QUÉNELLE).
Peraltro,
le sanzioni occidentali contro i russi dello scorso anno, che vietavano loro di
volare, effettuare trasferimenti bancari e ottenere visti, hanno avuto in gran
parte un effetto controproducente, perché hanno colpito soprattutto la classe
media di Mosca e delle principali città.
Paradossalmente, si tratta proprio di quella
parte della popolazione che si oppone maggiormente al Cremlino.
La classe operaia cara a Vladimir Putin, i
russi più poveri, rimarrà indigente e fedele.
I più
ricchi, dipendenti dal regime, rimarranno benestanti e fedeli.
Tra i
due, la classe media rimane bloccata.
Additata dall’Ucraina, punita dall’Europa, la
classe media non è incoraggiata nei suoi slanci anti-Cremlino.
Al
contrario: molti si trovano costretti a sostenere il regime quando potrebbero
invece essere il motore del cambiamento a Mosca.
Tre
decenni dopo la fine dell’Unione sovietica, che aveva suscitato speranze in un
Paese senza tradizione democratica, questa ondata generalizzata di apatia nei
confronti del conflitto in Ucraina contrasta con le manifestazioni
anti-Cremlino del 2011-2012.
Dieci
anni prima dell’“operazione militare speciale”, fino a 100mila manifestanti
gridavano «Ukhodi!» nelle strade di Mosca.
Questo
«Vattene!» era rivolto a Vladimir Putin.
La dinamica classe media assetata di libertà
politiche che protestava all’epoca si è poi ammorbidita, assorbita nelle
preoccupazioni quotidiane.
I più politicizzati hanno continuato, ma le
centinaia di incarcerazioni e le crescenti minacce di procedimenti giudiziari
sono riuscite a intimidirli.
Tanto più che un ribelle può essere arrestato
non solo il giorno stesso in cui compie la sua azione ma anche più tardi,
grazie al riconoscimento facciale e alle migliaia di telecamere installate
ovunque.
L’estensione del campo di applicazione della
lista degli “agenti stranieri” ha rafforzato questo clima di paura.
Il
campionato del radicalismo si sta intensificando.
Una
sorta di gara dell’assurdo in cui i falchi che volano attorno a Vladimir Putin
sembrano voler dimostrare al leader che stanno combattendo i presunti nemici, i
presunti membri di questa “quinta colonna” finanziata dall’estero.
Parallelamente,
la propaganda ha finito per conquistare e convincere anche molte famiglie:
alcuni
degli oppositori del 2012 sono diventati nel 2022 sostenitori dell’offensiva in
Ucraina.
Di fronte al sistema occidentale, considerato
ormai in declino, il Cremlino mette in scena la propria visione della
democrazia.
È un
discorso che piace ad alcuni russi, anche tra gli ex contestatori.
Ma in realtà la stragrande maggioranza non è
né favorevole né contraria.
I più
anziani ricordano il caos degli anni Novanta dopo l’uscita dal comunismo, e
associano la democrazia alla crisi economica, alla corruzione della politica e
all’ascesa degli oligarchi.
I più giovani hanno imparato a vivere la loro
vita senza interessarsi alla politica. Per la Russia non si può parlare di
un’opposizione – termine che si riferisce alla democrazia parlamentare.
Ben
prima delle conseguenze negative della mobilitazione militare dello scorso
settembre, qualche malcontento aveva già scosso la società a causa del calo del
potere d’acquisto, dei danni ecologici, della corruzione e del record di
mortalità dovuto al Covid-19.
In realtà, sono numerose le questioni sociali
(scuola, giustizia, elezioni locali, ecc.) al centro delle preoccupazioni
quotidiane dei russi che rinviano indirettamente al problema della libertà.
Ma, al di là di certo un microcosmo, chi non è
contento non protesta.
E
manca una visione generale che guidi il desiderio di cambiamento in un
movimento più ampio.
Confrontandosi
a queste contraddizioni, troppo a lungo gli osservatori occidentali hanno
scambiato i propri desideri per realtà, anticipando le ondate di protesta.
La
Russia e le sue “società civili”, al plurale, sono spesso viste e giudicate con
occhi e prismi europei:
ci si
limita così a Vladimir Putin, alle torri del Cremlino, alla mancanza di libertà
di espressione e alla semplicistica conclusione «non hanno che da fare la loro
rivoluzione come gli ucraini hanno fatto la loro Maidan».
Questa interpretazione ignora la realtà della
società civile russa per la quale la libertà in quanto tale è ben lungi
dall’essere una priorità.
Perché
gran parte del Sud del mondo
sostiene
la Russia e non l'Ucraina?
It.euronews.com
- Joshua Askew – (29/03/2023) – ci dice:
Mentre
l'Occidente si è in gran parte schierato con l'Ucraina, impegnandosi a fare
tutto il necessario per aiutare a respingere le truppe russe, molti nel Sud del
mondo hanno una visione piuttosto diversa.
Non
tutti sono contro Putin:
mentre l'Occidente si è in gran parte
schierato con l'Ucraina, impegnandosi a fare tutto il necessario per aiutare a
respingere le truppe russe, molti nel Sud del mondo hanno una visione piuttosto
diversa.
Certo,
il Sud del mondo è assai vasto:
gli
atteggiamenti nei confronti della devastante guerra - ora al suo 14° mese -
variano considerevolmente in America Latina, Africa, Asia e Oceania.
Tuttavia,
i sondaggi di opinione in luoghi come Cina, India e Turchia mostrano una chiara
preferenza per la fine immediata della guerra, anche se ciò significa che
l'Ucraina deve rinunciare al proprio territorio.
"Se
si prende il quadro globale, allora il sostegno all'Ucraina e alla lotta
dell'Occidente contro la Russia non è del tutto solido, di gran lunga", ha
affermato “Paul Rogers”, professore di “sicurezza internazionale
“all'Università di Bradford.
Antiamericanismo.
Soprattutto
in Medio Oriente, sostiene che i passati interventi militari degli Stati Uniti
e dei loro alleati hanno creato uno stato d'animo cinico nei confronti delle
azioni dell'Occidente in Ucraina.
Tuttavia,
invece di tradursi in un sostegno alla Russia che "pochi Paesi hanno a
livello di leadership o pubblico", Rogers afferma che i combattimenti sono
visti più come una "piaga per entrambe le fazioni".
"Non
è semplicemente visto come i bravi ragazzi in Occidente contro i cattivi in
Russia - ha detto a Euronews - ci sono dubbi sul fatto che l'invasione di Mosca
non sia dissimile da ciò che hanno fatto i Paesi occidentali".
Più di
929.000 persone sono state uccise nelle zone di guerra dopo l'11 settembre in
Afghanistan, Iraq, Siria e altri, luoghi in cui le Forze armate occidentali
hanno svolto un ruolo significativo.
Memorie
del colonialismo.
Questioni
storiche più profonde influiscono anche sul modo in cui la guerra in Ucraina
viene percepita altrove.
"In
gran parte del Sud del mondo, in particolare nell'Africa sub-sahariana, la
Russia non è vista come una delle grandi potenze coloniali che l'hanno
controllata per secoli, a differenza di altre potenze europee - ha spiegato
Rogers - tuttavia gran parte del mondo semplicemente non è consapevole della
portata del commercio di armi, del potere e, francamente, della corruzione in
Russia".
Sebbene
l'eredità coloniale non crei sentimenti filorussi - con la maggior parte delle
persone profondamente consapevoli di quanto sia stata "dolorosa" la
guerra per gli ucraini - per Rogers significa che c'era "meno simpatia per
la posizione occidentale".
La
Cina instaura relazioni diplomatiche con l'Honduras, duro colpo per Taiwan.
L'eredità
del colonialismo è molto controversa:
i
critici sottolineano le indicibili atrocità, il razzismo e lo sfruttamento
commessi dagli europei in tutto il mondo, mentre i difensori affermano che ha
portato sviluppo economico e politico.
Molti
dicono che il controllo della Russia su parti dell'Asia centrale e dell'Europa
orientale, compresa l'Ucraina, sotto l'URSS equivaleva al colonialismo.
Una
buona base geopolitica.
Ma il
Sud del mondo non pensa solo con il cuore, usa anche la testa:
sebbene
non tanto quanto Paesi come la Cina, negli ultimi decenni Mosca ha stretto
forti legami economici e partenariati strategici in gran parte del mondo.
"I
legami commerciali sono importanti - ha affermato “Ivan Kłyszcz”, analista di
politica estera russa - Paesi come il Brasile e l'India stanno investendo in
buone relazioni con la Russia, perché credono che ciò aiuterà le loro agende
internazionali".
L'opinione
globale è molto divisa quando si tratta di imporre sanzioni alla Russia: in
media, il 45% sostiene l'idea che il proprio Paese debba applicare sanzioni
economiche più severe contro la Russia, mentre il 25% è contrario, secondo un
sondaggio” IPSOS”.
Molti
Stati si sono astenuti dalle risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano
Mosca, chiedendo invece negoziati.
A
ottobre, la Corea del Nord, la Bielorussia, la Siria e il Nicaragua hanno
votato contro una mozione che esortava la Russia a revocare immediatamente
l'annessione illegale di quattro regioni ucraine, mentre 19 Paesi africani si
sono astenuti, tra cui Sudafrica, Cina, India, Pakistan e Cuba.
"Il
Sud del mondo è guidato da un senso di urgenza che le ostilità finiscano,
quindi almeno non ci saranno combattimenti e il commercio potrà riprendere come
un anno fa" - ha ribadito” Kłyszcz a Euronews” - è una sfortunata realtà,
ma la guerra è contro gli interessi di questi Paesi".
La
cura della sicurezza.
La
gente comune in Africa e Medio Oriente è stata colpita dall'aumento dei prezzi
dei prodotti alimentari, che ha raggiunto livelli record nel 2022 a causa della
guerra in Ucraina e della siccità indotta dal cambiamento climatico.
Sebbene
avvertito in tutto il mondo, ciò ha innescato una crisi globale della sicurezza
alimentare, spingendo milioni di persone sull'orlo della carestia.
Secondo
“Kłyszcz”, l'influenza della Russia è aiutata da un "apparato di
comunicazione molto sofisticato che trasmette la propaganda in tempo di
guerra", mentre "molti Paesi semplicemente non conoscono l'Ucraina
così tanto".
Allo
stesso tempo, le narrazioni a sostegno della lotta dell'Ucraina contro la
Russia – siano esse “democrazia contro autocrazia”, “diritti umani” o
“antimperialismo” – non sono state “in grado di muovere l'ago dell'opinione
pubblica così tanto” fuori dall'Occidente, ha aggiunto.
“Rogers”
ritiene che le opinioni del Sud del mondo nei confronti dell'Ucraina siano
state ampiamente marginalizzate nei "media tradizionali".
Ramadan
di guerra
a Gaza
e dintorni.
Geopolitica.info
- LUCA MERCURI – (29/03/2024) ci dice:
La
sera di domenica 10 marzo, poco dopo il tramonto, per molti musulmani nel mondo
è iniziato il
mese di Ramadan, il nono del calendario lunare islamico in cui i fedeli digiunano
dall’alba al tramonto e dedicano maggior tempo alla preghiera e alle opere
meritorie.
L’annuncio
è stato dato, come di consueto, dalle autorità saudite, dopo aver scrutato il
cielo per individuare il novilunio.
Tuttavia,
l’avvistamento può variare in base alla posizione geografica e alle condizioni
atmosferiche, facendo slittare di un giorno l’inizio del digiuno in altri
Paesi.
In alcuni casi, tale divergenza è stata
strumentalizzata per questioni politiche che spesso hanno contrapposto il
blocco sunnita (a guida saudita) a quello sciita (legato all’Iran), ma anche
per sancire la propria autonomia (come il Marocco, la Turchia o l’Oman).
Ciononostante, a unire la Ummah islamica quest’anno è la tragica situazione a
Gaza, dove l’offensiva israeliana non accenna ad arrestarsi da ormai più di
cinque mesi.
A
livello popolare, le comunità islamiche di tutto il mondo hanno organizzato
delle raccolte fondi mentre si continua a pregare per le vittime del conflitto.
Nel frattempo, gli appelli e gli sforzi dei
leader non accennano a dare dei risultati concreti per una fine della crisi.
Dal
“ciclone di Al-Aqsa” alla marcia sulla Spianata:
la
retorica di “Hamas”.
L’ormai
noto attacco terroristico del 7 ottobre che ha lasciato sgomenta Israele
(uccidendo più di mille persone fra civili e militari e con il rapimento di
circa 250 di altri), rivendicato da “Hamas”, è stato ribattezzato
dall’organizzazione stessa come “l’operazione Ciclone di Al-Aqsa”.
Sebbene
Gaza sia relativamente distante da Gerusalemme, il terzo santuario più
importante dell’Islam è spesso utilizzato dal movimento per promuovere le
proprie azioni e far leva sul sentimento popolare dei palestinesi e, più
genericamente, di tutti i musulmani nel mondo.
Per il
gruppo islamista, da sempre vicino alla Fratellanza Musulmana, la moschea da
cui il profeta Muhammad, secondo il Corano, è asceso al cielo durante il
celebre viaggio notturno, rappresenta il fondamento della propria lotta armata,
contraddistinta da quella dei movimenti laici come “Al-Fath “o marxisti come il
“Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina” (FPLP).
Non è
un caso che il canale televisivo di “Hamas” si chiami proprio “Al-Aqsa” e abbia
come logo l’effigie della celeberrima “Cupola della Roccia”, adiacente la
moschea.
Tale
effigie campeggia anche sulla bandiera del “Movimento per il Jihad Islamico” in
Palestina, altro gruppo islamista che ha collaborato con Hamas per la
pianificazione degli attacchi del 7 ottobre.
Simbologia a parte,” Al-Aqsa “testimonia
frequenti scontri fra i fedeli e le forze armate israeliane che, in alcune
circostanze, limitano gli accessi alla moschea e intervengono spingendosi
all’interno del luogo di culto per evacuarlo.
Con
l’arrivo del mese di Ramadan, i controlli si sono intensificati inevitabilmente.
L’appello del portavoce di Hamas, “Ismail Haniyeh”, a
“rompere l’assedio di Al-Aqsa” è stato accolto da migliaia di fedeli
provenienti dalla Cisgiordania e da Gerusalemme che hanno sfidato le
restrizioni imposte dalle forze di sicurezza israeliane per partecipare alle
prime preghiere notturne.
Anche in occasione del primo venerdì di
Ramadan, la moschea ha accolto circa 80.000 fedeli, stando a quanto riportato
dal “Waqf” (il dipartimento per il patrimonio islamico della capitale contesa).
Ciononostante,
fatta eccezione per qualche fermo, non sono stati segnalati particolari
disordini e, almeno per ora, non sembrano esserci gli elementi per una nuova
intifada (quasi
certamente auspicata da “Hamas”).
Gli
auguri che non ti aspetti.
È
indubbio che Israele non goda di molta popolarità nel mondo arabo-islamico e,
dopo la recente guerra a Gaza, i suoi consensi stanno vacillando anche in molti
Paesi occidentali.
Tuttavia, l’immagine che lo Stato ebraico vuol
dare di sé all’estero e alle minoranze all’interno dei propri territori (in
larga parte arabi) è quella di una società aperta e tollerante che garantisce
la piena libertà di culto e di parola.
Dal 2005, l’IDF (Israel Defense Forces) ha un
portavoce di lingua araba, il colonnello “Avichay Adraee”.
Nato
in una famiglia di origini siro-irachene,” Adraee “parla fluentemente l’arabo
e, oltre a concedere interviste ai principali media arabofoni (Al-Jazeera e
Al-Arabiya), appare spesso sulle maggiori piattaforme social per promuovere la
cultura israeliana e la sua diversità.
Nonostante
i suoi sforzi, però, il colonnello è stato spesso fatto oggetto di derisione o
satira da parte della stragrande maggioranza degli utenti social arabi.
Tuttavia,
non è affatto raro che il governo israeliano si congratuli con le comunità
cristiana e islamica in occasione delle proprie festività e ogni anno, come di
consueto, arrivano gli auguri di “Netanyahu” a Natale così come per “Ramadan”.
Ma
quest’anno i musulmani residenti in Israele e nei territori occupati hanno
ricevuto un videomessaggio da una delle figure di primo piano coinvolte nel
recente conflitto nella Striscia:
si
tratta di “Yoav Gallant”, ministro della” Difesa” di Tel Aviv.
Dopo un’introduzione con le tradizionali
espressioni in arabo, “Gallant” ha assicurato il pieno rispetto della libertà
di culto durante il mese sacro (specialmente ad Al-Aqsa), ma, al tempo stesso,
ha lanciato un avvertimento:
“a chi vuole trasformare il mese del Corano e
del ricongiungimento familiare in un mese di jihad, diciamo che siamo pronti,
dunque non commettete errori”.
Il riferimento è evidentemente rivolto ai
simpatizzanti di “Hamas” e a tutti coloro che potrebbero rispondere all’appello
dei leader del movimento a compiere attentati in territorio israeliano.
Come
se non bastasse, il ministro si è fatto immortalare in delle immagini che lo
riprenderebbero insieme ad altri militari a partecipare a un” iftar” (pasto
rituale di rottura del digiuno) presso una famiglia araba del Negev.
Ciò potrebbe considerarsi anche un tentativo
di fare ammenda a seguito dei molteplici video apparsi sui social nei mesi
scorsi in cui soldati dell’IDF hanno profanato delle moschee a Gaza e in
Cisgiordania o si facevano riprendere mentre schernivano i fedeli musulmani.
La
comunità internazionale e la promessa “da marines” di Biden.
L’esorbitante
numero di vittime civili e le precarie condizioni in cui versano i
sopravvissuti ai bombardamenti israeliani hanno portato sempre più voci a
levarsi per chiedere un cessate il fuoco.
A
livello popolare, si sono susseguite manifestazioni di piazza nelle maggiori
città occidentali e del mondo islamico, mentre i decisori politici hanno
reagito in modo diverso fra loro.
Da
subito è arrivata la condanna unanime delle azioni israeliane dal” re di
Giordania Abdallah II” e dal “presidente turco Erdogan”, il quale è
recentemente finito nell’occhio del ciclone dopo aver augurato pubblicamente
“la distruzione del premier Netanyahu”, ma anche dall’”emiro Tamim “del Qatar
che, oltre a offrirsi come mediatore fra le parti per raggiungere una tregua,
avrebbe iniziato a mettere in discussione i propri rapporti con gli “islamisti
di Hamas (la cui leadership politica risiederebbe proprio a Doha).
Anche
l’Arabia Saudita, ribadendo la necessità dell’instaurazione di uno Stato
palestinese indipendente come conditio sine qua non per il riconoscimento di
Israele, si è offerta di mediare, mentre il presidente egiziano al-Sisi avrebbe
minacciato di sospendere il trattato di pace con Tel Aviv se l’IDF dovesse
attaccare Rafah, ultimo agglomerato urbano finora risparmiato dai combattimenti
e situato a ridosso del confine con l’Egitto.
Per
quanto si possa escludere un coinvolgimento diretto di altri attori nel
conflitto, l’Iran avrebbe tentato di intervenire sfruttando i suoi proxy nella
regione: Hezbollah nel sud del Libano e gli Houthi nello Yemen.
I primi hanno iniziato a lanciare razzi in
Galilea da poche settimane dell’inizio della guerra, mentre gli ultimi sono
riusciti a imporre de facto un blocco navale al largo del Mar Rosso prendendo
di mira tutte le navi commerciali dirette verso Israele.
In un primo periodo gli Stati Uniti avrebbero
tollerato tale situazione escludendo un intervento militare, fin quando hanno
deciso di lanciare l’operazione “Prosperity Guardian” congiuntamente con la
Gran Bretagna e formata da una coalizione di circa venti membri.
Più recentemente, l’Unione europea ha
istituito una propria task force, nominata “Eunavfor Aspides”, operante
nell’ampia zona che va dalle acque internazionali del Mar Rosso fino allo
stretto di Hormuz, nel Golfo Persico.
La
missione ha il suo quartier generale in Grecia e a guidarla è il commodoro
Vasilios Griparis, mentre il contrammiraglio italiano Stefano Costantino è a
capo delle forze navali.
Di
fronte a un blocco occidentale compatto nella vicinanza a Israele, Russia e
Cina si sono mantenute tendenzialmente neutrali, auspicando una de-escalation e
una risoluzione del conflitto che preveda i due Stati per i due popoli.
A intraprendere azioni di condanna nei
confronti dello Stato ebraico, finora, è stato il Sudafrica, accusando
formalmente Israele di “condotta genocidaria” di fronte alla Corte
Internazionale di Giustizia, la quale ha imposto delle misure cautelative per
impedire il proliferare di vittime civili.
Tuttavia,
la posizione più critica e instabile appare quella americana.
Dopo
un iniziale e convinto sostegno all’alleato israeliano, “Biden” si è trovato a
far fronte alle crescenti pressioni dell’opinione pubblica che chiede a gran
voce un cessate il fuoco immediato nella Striscia.
All’indomani della tragica immolazione di un
militare USA contrario alla guerra di fronte all’ambasciata israeliana a
Washington, il Presidente è stato interrogato sulla crisi mentre era intento a
mangiare un gelato.
Dopo
un certo ottimismo in cui prospettava una fine del conflitto in occasione
dell’inizio di Ramadan, Biden ha bollato come “molto difficile” un cessate il
fuoco per quella data.
Nel
suo tradizionale messaggio di auguri alle comunità islamiche, l’inquilino della
Casa Bianca ha promesso di lavorare a tale obiettivo e ha ribadito la sua
vicinanza al popolo palestinese “che sta soffrendo”.
Attualmente,
però, il bilancio delle vittime civili delle incursioni israeliane è salito
drammaticamente (superando i 32.000 morti), centinaia di migliaia di
palestinesi si ritrovano senza una casa, né viveri o cure di prima necessità,
mentre i 130 ostaggi nelle mani di Hamas non vedono ancora la luce in fondo al
tunnel.
Di
fronte alla determinazione di “Netanyahu” nel proseguire la guerra per la
“distruzione totale di Hamas” anche a costo dell’isolamento internazionale, la
promessa di Biden rischia di non essere mantenuta nemmeno per l’”Eid al-fitr”
(festa di fine Ramadan). (Luca Mercuri).
La
guerra per l’Occidente.
Balcanicaucaso.org
– (27/03/2024) - Sławomir Sierakowski – Ivan Krastev – ci dicono:
(“Project
Syndicate” e ripreso da “Peščanik”)
Con
grande lucidità e schiettezza l’analista politico Ivan Krastev offre un’analisi
dettagliata della scena internazionale, a partire dalla situazione bellica
scatenata con l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia.
La
guerra in Ucraina è entrata nel suo terzo anno e in pochi credono che la Russia
possa essere sconfitta.
Lei
come vede il futuro dell’Ucraina?
Penso
che la sua osservazione sia troppo cupa.
Gli
eventi degli ultimi due anni testimoniano un palese fallimento strategico del
presidente russo “Vladimir Putin”.
Quando
aveva lanciato la sua “operazione speciale” credeva che l’Ucraina sarebbe
caduta in tre giorni.
D’altra
parte però, Putin è riuscito a convincere gran parte dei russi di essere
coinvolti in una guerra infinita contro l’Occidente, guerra che [secondo Putin]
non è stata innescata dalla Russia.
Perché
questo punto è importante?
Perché
dimostra che nessuno in Russia rimprovera a Putin il fatto di non aver
raggiunto l’obiettivo prefissato.
È
proprio grazie a questo clima, e alla capacità di Putin di normalizzare la
guerra a livello della vita quotidiana – il tenore di vita dei cittadini russi
non è peggiorato (almeno non dal punto di vista economico) – che il presidente
russo riesce a portare avanti la sua strategia a lungo termine.
Putin
è convinto che il tempo giochi a suo favore:
il sostegno occidentale all’Ucraina diminuirà
portando gli ucraini allo stremo, così la Russia non dovrà intraprendere
un’altra offensiva.
Questo punto è importante, perché un’eventuale
perdita di altri soldati russi in una nuova grande offensiva potrebbe
danneggiare Putin.
Quindi, il presidente russo aspetta, e nel
frattempo distrugge le infrastrutture ucraine.
Vi è
un altro aspetto che va a vantaggio di Putin.
Come
dimostrano i risultati di un sondaggio condotto dal “Consiglio europeo per le
relazioni estere” (ECFR), la maggior parte dei cittadini dei paesi non
occidentali (ad eccezione della Corea del Sud) crede che assistiamo ad una
“proxy war” (guerra per procura) tra gli Stati Uniti (e l’Occidente) da una
parte e la Russia dall’altra.
Questo
significa che la narrativa bellica russa ha preso piede in diverse parti del
mondo, comprese le nuove potenze come Brasile, India e Cina.
Da
questo punto di vista, la Russia non è così isolata come molti sono portati a
credere.
Perché
l’atteggiamento nei confronti delle prospettive militari dell’Ucraina è
cambiato così tanto?
L’attuale
debolezza dell’Ucraina è dovuta innanzitutto alla riduzione del sostegno
occidentale (sia economico che militare).
Tuttavia,
l’Ucraina ha anche un problema demografico.
Si
stima che l’età media dei soldati ucraini sia intorno ai 43 anni.
Per
questo l’Ucraina sta cambiando il suo approccio alla guerra difensiva.
Gli ucraini con ogni probabilità riusciranno a
difendere le loro posizioni, ma non otterranno di più.
Un
altro punto riguarda i negoziati di pace.
Dubito
che Putin sia disposto a impegnarsi in un dialogo prima delle elezioni
americane, anche se potrebbe far intendere che la Russia sia pronta a
negoziare, pur di portare ad un ulteriore indebolimento del sostegno
occidentale all’Ucraina.
Una
tattica che i paesi occidentali, che auspicano la fine della guerra, potrebbero
non riuscire a valutare in modo oggettivo.
Talvolta ho l’impressione che la leadership
ucraina sottovaluti le difficoltà che Stati Uniti ed Europa hanno nel tentativo
di fornire aiuti finanziari e armi [all’Ucraina].
Ad
ogni modo, l’esito delle elezioni europee a giugno e di quelle americane a
novembre sarà cruciale per lе prospettive dell’Ucraina.
Però conta anche la situazione politica
interna.
Le
tensioni tra quelli che sono in prima linea e il resto della popolazione si
stanno acuendo.
Diversi
gruppi danno la colpa dell’attuale situazione ad alcuni attori politici,
suggerendo che la prossima grande sfida per l’Ucraina sarà mantenere l’unità
politica del paese.
Qual è
l’obiettivo generale di Putin?
Spera ancora di conquistare l’intera Ucraina o
soltanto di mantenere i territori già annessi?
Mi
torna in mente un'affermazione dell’ex
consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti “Zbigniew Brzezinski”,
secondo cui senza l’Ucraina non può esserci un impero russo…
Il
piano poggia sulla seguente logica:
ciò
che desideri dipende da ciò che puoi ottenere.
La leadership russa con ogni probabilità sta
valutando diversi scenari.
Se si presenterà l’occasione di conquistare
città come “Odessa” o “Mykolaiv” – uno scenario che potrebbe emergere a causa
dell’evidente debolezza dell’Ucraina e dei paesi occidentali – i russi la
sfrutteranno.
Per
quanto riguarda invece la conquista dell’Ucraina occidentale, sono perplesso,
soprattutto perché non sarebbe facile tenere insieme e controllare quell’intero
territorio.
Putin
improvvisa, come un musicista jazz.
Quando vede la debolezza, la sfrutta.
È
importante tenere a mente questo aspetto in caso di eventuali negoziati.
Detto questo, a meno che la Russia non venga
completamente sconfitta, l’unica pace che Putin potrebbe accettare è quella in
cui la Russia mantiene il controllo dei territori finora occupati.
Fin
dove si spingerà Putin? È ancora interessato a prendere Kyiv?
Dipende
da come valuta la situazione in un dato momento.
C’è
stato un periodo in cui la conquista della capitale ucraina sembrava un’ipotesi
tutt’altro che irrealistica.
Inoltre, molti punti critici dell’economia
ucraina – dai porti alla principale industria della difesa nell’area di Dnipro
e Kharkiv – si trovano nel raggio di 160 chilometri (100 miglia) dal campo di
battaglia.
Non dimentichiamolo. I russi cercheranno di
conquistare questi punti se ne avranno l’occasione. È assurdo credere il
contrario.
Va
bene, però nello scenario più probabile Putin cercherà di creare una situazione
di stallo oppure di preservare i territori già occupati.
Sembra
che l’Occidente stia pian piano accettando questo scenario.
Se lo status quo dovesse protrarsi per mesi, o
persino per anni, quale impatto avrebbe tale situazione sui paesi occidentali?
Lo
status quo è una guerra.
Potremmo
invece chiederci cosa accadrebbe se l’Occidente accettasse di lasciare una
parte del territorio ucraino sotto il controllo di Putin.
Una recente ricerca dell’ECFR può offrire
alcuni spunti.
È curioso notare come la maggior parte degli
europei e degli americani non creda che i loro paesi siano in guerra contro la
Russia.
Eppure,
l’opinione generale è:
se
l’Ucraina vincerà, sarà una nostra vittoria; se invece l’Ucraina perderà, la
sconfitta sarà tutta sua.
Le
stesse persone che credono che la Russia vincerà, per la maggior parte credono
anche che tra vent’anni non ci sarà più l’Unione europea.
Vi è un grande divario tra il vero significato
della guerra in Ucraina e la percezione che ne ha l’opinione pubblica di molti
paesi.
L’Ucraina
accetterebbe di rinunciare ad alcuni territori solo se dovesse avere garanzie
di sicurezza, cioè l’adesione alla NATO o un nuovo accordo bilaterale con paesi
come gli Stati Uniti o il Regno Unito, accompagnato dalla promessa di adesione
all’UE.
Altrimenti, nel paese continuerà a regnare la
totale instabilità, sia dal punto di vista economico che militare.
C’è
qualche buona notizia?
La
buona notizia è che la situazione lungo la linea del fronte sta cambiando.
La situazione quotidiana è ancora ben lungi
dall’essere rosea, non dimentichiamo però quanto fosse terribile una settimana
dopo l’invasione, quando la Russia controllava un’area molto più ampia.
L’Ucraina forse riuscirà a garantire armi
sufficienti grazie ai propri impianti di produzione e all’aiuto dell’Occidente,
così da poter portare avanti la mobilitazione e recuperare una parte dei
territori perduti (anche se i leader militari non annunceranno questa ipotesi
in anticipo).
Al
momento, però, la Russia è in vantaggio, ed è importante essere realisti su
questo punto.
È
facile per gli europei e gli americani far finta che non siamo in guerra,
essendo ancora incantati dalla sorpresa del 2022, quando un susseguirsi di
vittorie dell’Ucraina aveva creato l’illusione che la Russia fosse una tigre di
carta sul punto di sbriciolarsi.
Nel
frattempo, il Cremlino ha compiuto con successo il passaggio ad una guerra
economica.
La mobilitazione russa non è più sostenuta da
motivazioni nazionaliste, bensì da interessi commerciali.
La Russia è riuscita a mobilitare le persone
giuste che hanno soldi.
Inoltre,
la qualità dell’esercito russo è migliorata rispetto ai primi mesi di guerra.
Se
oggi gli occidentali sembrano troppo pessimisti, è in parte perché prima erano
troppo ottimisti.
Negli
ultimi mesi i falliti tentativi degli Stati Uniti e dell’Europa di raggiungere
un accordo su un invio tempestivo di armi e di pacchetti di aiuti [all’Ucraina]
hanno riportato in superficie alcune debolezze dell’Occidente.
Come
interpretare questa dinamica?
Uno
degli aspetti più importanti che osservo è che le minacce esterne ormai non
bastano più a generare qualsiasi forma di unità o mobilitazione nazionale nelle
democrazie occidentali.
La
Polonia ne è un ottimo esempio.
Vi è un ampio consenso pubblico sul fatto che
la guerra russa in Ucraina rappresenti una minaccia per la Polonia, eppure la
politica polacca è ancora incentrata sulla lotta contro i nemici interni.
Lo
stesso vale per gli Stati Uniti.
Per Donald Trump e i suoi seguaci, il
presidente “Joe Biden” rappresenta una minaccia molto più grande di Putin.
Ecco perché i politici assumono posizioni
pensate esclusivamente nell’ottica di una vittoria alle prossime elezioni,
senza preoccuparsi affatto delle conseguenze della guerra.
Temo
che i vertici ucraini siano sempre più preoccupati non solo per la
disponibilità delle tecnologie più avanzate, ma anche per la fornitura di armi
e munizioni essenziali.
Questa preoccupazione porterà a ulteriori
scontri politici, come quello a cui si è assistito di recente con la rimozione
del capo [dell’esercito ucraino].
Tali
escalation si verificano quando non ci sono alternative.
I prossimi mesi saranno estremamente
importanti, perché con l’avvicinarsi delle elezioni negli Stati Uniti, Biden
avrà sempre meno opzioni.
I
repubblicani hanno dimostrato di non essere disposti a collaborare con Biden in
alcun modo.
Lei è
pessimista riguardo al futuro dell’UE e degli Stati Uniti?
Non
sono particolarmente ottimista, ma non credo nemmeno che il corso degli eventi
sia predeterminato.
Nonostante la situazione in Russia sia
abbastanza stabile, il paese sarà costretto a fare i conti con grossi problemi
a lungo termine.
Quindi,
dovremmo chiederci se [in Europa] ci sia una leadership adeguata e un’opinione
pubblica abbastanza attenta per comprendere che era dagli anni ’40 che l’Europa
non affrontava una situazione come quella attuale.
Ci
sono talmente tante crisi globali che risulta difficile mantenere alta
l’attenzione e l’interesse delle persone.
È
molto più facile concentrarsi sui giochi politici interni.
Un
aspetto altrettanto importante riguarda i social media, che in molti paesi
hanno alimentato una polarizzazione politica così profonda che i cittadini
percepiscono gli stessi eventi in modo radicalmente diverso.
Alcuni
credono che il destino dell’Ucraina non avrà alcun impatto sull’Europa, altri
invece – come il governo ungherese e quello slovacco – pensano che l’UE non
debba nemmeno interessarsi della questione ucraina.
Non
dovremmo essere così critici nei confronti della Russia – dicono – lasciamo che
conquisti l’Ucraina, così sarà impegnata nel processo di annessione di un
intero paese.
Ovviamente, è uno scenario irrealistico.
[Un’eventuale
conquista dell’Ucraina da parte della Russia] scatenerebbe invece una crisi nei
paesi baltici e in altri paesi vicini (ad eccezione forse della Scandinavia) e
la gestione degli affari europei diventerebbe ancora più difficile.
Perché
la guerra in Ucraina non è un campanello d’allarme per tutti gli stati membri
dell’UE?
Il
problema è che anche chi si è svegliato può rimanere a letto, come hanno fatto
molti in Europa.
Una
recente ricerca dell’ECFR dimostra che i cittadini europei sono divisi in
cinque gruppi in base alla loro percezione delle crisi.
Se in
alcuni paesi, come Polonia ed Estonia, la guerra in Ucraina è considerata la
crisi più grande, in Germania a preoccupare maggiormente i cittadini è
l’immigrazione, in Italia l’economia e nel Regno Unito il Covid 19.
Le
probabilità che Biden venga rieletto sono così scarse come sembra, oppure ci
sono dinamiche che a noi (e ai media) europei sfuggono?
Ci
sono due candidati impopolari.
Pur
essendo entrambi anziani, l’età sembra essere il problema più grande per Biden.
Tuttavia,
negli ultimi due mesi la fiducia dei consumatori statunitensi è cresciuta e
Biden con ogni probabilità può contare sul fatto che questa tendenza prosegua.
Il punto più importante però è la capacità di
mobilitare gli elettori.
Nonostante
il bacino dei potenziali elettori dei democratici sia più ampio, Trump è assai
persuasivo nel mobilitare la base del Partito repubblicano.
In
politica però otto mesi sono tanti.
Biden si trova ad affrontare alcuni grossi
problemi, e né la guerra in Ucraina né il conflitto in Medio Oriente giocano a
suo favore.
Gli
americani sono stanchi delle guerre.
Durante
una recente visita negli Stati Uniti, parlando con i politici repubblicani,
sono rimasto colpito dal loro isolazionismo.
“Cosa
stiamo facendo in Ucraina?”, hanno chiesto.
“Cosa stiamo facendo in Medio Oriente?”.
Per
molti repubblicani che sostengono Trump (e lo sostiene la maggior parte dei
repubblicani), l’unica guerra che vale la pena combattere è quella contro
l’odiato “Stato profondo”, che comprende non solo il Pentagono e la CIA, ma
anche le aziende big tech, la grande industria farmaceutica, etc.
Altrettanto
rilevante è il divario generazionale, emerso prepotentemente durante la guerra
di Gaza.
Il
problema qui non è che Biden sia ignaro della presenza dei suoi giovani
elettori nelle università, è che non riesce a capire cosa stiano facendo, come
anche loro non capiscono perché Biden sostenga Israele.
Si tratta di una divisione alquanto nuova, e
molto importante, all’interno del Partito democratico.
A tal
proposito, mi tornano in mente le elezioni russe del 1996.
Da un
lato c’era “Boris El’cin,” ormai anziano e sempre meno adatto [all’incarico di
presidente], i cui sostenitori dicevano:
“Questa
è una lotta per la democrazia; pur non essendo il candidato migliore, è l’unico
candidato che abbiamo”.
Dall’altro
c’era “Gennadij Zjuganov” del Partito comunista, candidato che avrebbe cambiato
tutto.
All’indomani
delle elezioni, vinte da “El’cin”, molti si chiesero: “Chi è veramente al
potere?”.
Credo
che tale incertezza negli Stati Uniti avrebbe gravi ripercussioni sul mondo
intero.
A mio
avviso, Biden ha fatto tutto il possibile per rafforzare il ruolo degli Stati
Uniti a livello globale.
Un’impresa
che però implica anche la necessità di comprendere i limiti del potere
americano.
Se
pensiamo a quanto sta accadendo in Yemen, dove i miliziani [huthi] hanno
bloccato le rotte commerciali, è chiaro che l’influenza esercitata dagli Stati
Uniti sui suoi alleati, come Israele e Ungheria, col tempo è diminuita.
Il
livello di incertezza e insicurezza raggiunto è tale che nessuna vittoria
elettorale può innescare un immediato ritorno alla stabilità.
Ritiene
che oggi i leader politici siano meno capaci di raggiungere gli obiettivi
prefissati rispetto al passato?
L’importanza
della leadership politica è diminuita man mano che è aumentata l’importanza di
grandi forze sociali, economiche e tecnologiche?
Se di
recente si è assistito all’indebolimento dell’influenza di alcuni leader
politici, di certo non si può parlare di un fenomeno universale.
Da un lato, la Cina non è riuscita a incidere
sulle recenti elezioni a Taiwan, e ora si trova costretta a sopportare un
presidente taiwanese che non le piace.
D’altro lato, i leader politici di alcune
delle cosiddette potenze medie stanno diventando sempre più influenti, come il
presidente turco” Recep Tayyip Erdoğan”, il primo ministro indiano “Narendra
Modi”, il principe ereditario saudita “Mohammed bin Salman” e altri.
Alcuni
esponenti della leadership ucraina mi hanno detto che ripongono fiducia in
Erdoğan, considerandolo capace di aiutare l’Ucraina nel conflitto con la
Russia. Erdoğan è uno di quei leader che dialogano con tutti gli attori
globali, e all’improvviso sono diventati molto più influenti di quanto ci si
aspettasse due o tre anni fa.
Anche
all’interno dell’UE un solo leader può praticamente bloccare una decisione
appoggiata da tutti gli altri stati membri, invertendo così il corso della
politica europea.
Date
queste premesse, non si può affermare che la leadership politica stia perdendo
importanza.
Prendiamo
l’esempio della Polonia, che dimostra fino a che punto un cambio della
leadership politica riesce a trasformare il modo in cui un paese percepisce il
mondo circostante.
Un
problema ancora maggiore per le democrazie è che ogni tornata elettorale
assomiglia sempre più ad un cambio di regime, il cui esito potrebbe cambiare
radicalmente l’identità o la posizione strategica di un paese.
Quando
pensiamo allo scontro tra l’Occidente da un lato e la Russia o la Cina
dall’altro, tendiamo a ignorare l’esistenza di queste medie potenze che lei ha
appena citato.
Come la loro nuova assertività incide sulle
relazioni internazionali?
Si
tratta di paesi molto attivi sulla scena geopolitica.
I loro
leader sono onnipresenti e stanno diventando importanti partner di dialogo.
Basti pensare all’Azerbaijan, paese che, grazie alle sue manovre geopolitiche,
recentemente è riuscito a realizzare ciò a cui aspirava da oltre tre decenni:
strappare il “Nagorno Karabakh “all’Armenia.
Questo
esempio mette in luce uno dei principali cambiamenti avvenuti negli ultimi due
anni.
Se prima, di fronte ad una moltitudine di
conflitti congelati in tutto il mondo, c’era una percezione diffusa che il
ricorso alle armi non potesse essere un’opzione, ora ci stiamo rendendo conto
che ci sono anche “soluzioni” che implicano l’utilizzo delle armi.
Quali
vantaggi potrebbero trarre gli altri paesi dall’ascesa delle medie potenze?
Considerando l’attuale contesto geopolitico, quali sono le prospettive per i
paesi come Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Singapore?
Questi
paesi si trovano in una situazione difficile perché – come la maggior parte
delle nazioni asiatiche – vedono l’ascesa della Cina come una minaccia alla
propria sicurezza economica e politica.
Nessuno
dei paesi che lei ha citato – paesi che devono gran parte del loro successo
agli Stati Uniti – può contrastare la Cina da solo.
Erano
entusiasti della decisione di Biden di consolidare le alleanze esistenti, ora
però si chiedono se la politica statunitense sia destinata a cambiare.
È
curioso notare come la disponibilità di alcuni di questi paesi a fornire
sostegno all’Ucraina non fosse legata tanto alla loro preoccupazione per quanto
stava accadendo in Europa quanto al desiderio di mettere alla prova la
credibilità degli Stati Uniti riguardo agli impegni assunti e alla garanzia di
sicurezza.
Hanno buoni motivi per essere nervosi, ora che
l’Occidente si sta dimostrando incapace di mantenere le promesse di sostegno
all’Ucraina.
Va
inoltre ricordato che questi paesi sono polarizzati.
Alle ultime elezioni a Taiwan, addirittura il
60% degli elettori ha appoggiato candidati favorevoli ad una politica più
amichevole nei confronti della Cina rispetto a quella portata avanti
dall’attuale presidente taiwanese.
Quindi, non bisogna dare per scontato che la
posizione strategica dei paesi asiatici sia immutabile.
In
altre parole, il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan sostengono l’Ucraina per
dare maggior peso alle garanzie statunitensi, in modo da evitare che le dispute
che li vedono coinvolti vengano risolte militarmente?
Questi
paesi intervengono solo se lo fa anche l’America, punto.
Sono
disposti a impegnarsi attivamente e a fornire sostegno all’interno di
un’alleanza a guida americana.
Non
continuerebbero però a inviare armi e aiuti finanziari all’Ucraina se gli Stati
Uniti dovessero tirarsi indietro.
È
irrealistico pensare il contrario.
Lo
stesso discorso vale per Taiwan: se gli Stati Uniti dovessero arretrare,
l’Europa non prenderebbe il loro posto e si assumerebbe la responsabilità della
difesa dell’isola.
Inoltre,
molti paesi semplicemente non hanno la capacità di fornire un forte sostegno
militare agli altri.
Forse non tutti sanno che l’anno scorso la
Corea del Nord ha prodotto e inviato alla Russia più proiettili di artiglieria
convenzionale di quanti l’Europa ne abbia forniti all’Ucraina.
Pur
disponendo delle risorse necessarie, l’UE non riesce ad avviare una produzione
industriale su larga scala nel settore della difesa.
Questa
incapacità è in parte legata al fatto che ogni stato membro è più interessato a
mantenere viva la propria industria della difesa che a coordinarsi con gli
altri stati per massimizzare la produzione.
La
Commissione europea sostiene che l’UE entro la fine dell’anno produrrà 1,1
milioni di proiettili di artiglieria per l’Ucraina.
Forse
anche riusciremo a produrli, resta però da vedere se li consegneremo.
Molti
stati membri saranno tentati di tenere le armi prodotte per i propri eserciti.
Quali
sono le sue previsioni per le elezioni presidenziali francesi del 2027?
Siamo
ancora lontani dal 2027, quindi non credo che al momento si possano fare
previsioni.
Sembra
però che la leader della destra francese Marine Le Pen possa vincere le
elezioni per il Parlamento europeo di quest’anno.
Il suo partito è in vantaggio di dieci punti
percentuali rispetto al partito del presidente Macron.
Alcuni recenti sondaggi suggeriscono che in
sette paesi dell’UE, tra cui Italia e Francia, vincerà la destra nazionalista.
Anche se dovesse ottenere un buon risultato
alle imminenti elezioni, l’estrema destra europea non si è mai dimostrata
capace di promuovere una cooperazione tra i suoi membri, e ciò che conta a
livello europeo è proprio la cooperazione.
Un
altro dato interessante emerso dai sondaggi indica che il sostegno di cui gode
l’estrema destra nell’UE (ad eccezione della Germania e di altri due o tre
stati membri) è legato non tanto alla paura dell’immigrazione quanto alla “preoccupazione
per le conseguenze catastrofiche del
Green Deal” (oltre al persistente sentimento di contrarietà ai vaccini e al
lockdown).
È
curioso che, anche quando l’estrema destra sale al potere, l’immigrazione
spesso non diminuisca.
L’Italia
ne è un ottimo esempio.
Secondo
quel recente sondaggio condotto dall’ECFR a cui abbiamo accennato prima, solo
il 10% degli italiani percepisce l’immigrazione come la crisi più grave con cui
il paese deve fare i conti.
Nel
primo anno di governo di destra, in Italia il numero di immigrati è aumentato
rispetto all’anno precedente.
D’altra
parte però, secondo la ricerca condotta dall’ECFR, solo il 10% degli italiani
percepisce l’immigrazione come la crisi più grave con cui il paese deve fare i
conti.
Anche
in Polonia si è assistito allo stesso scenario…
Esatto.
Ricordo
i primi anni ’90, quando l’allora presidente polacco “Lech Wałęsa” aveva
affermato che “si può fare una zuppa di pesce da un acquario, ma non si può fare un
acquario con una zuppa di pesce”.
Non è
facile tornare allo stato di diritto e alla normalità dopo un governo
populista.
Quando,
nel 2007, Donald Tusk per la prima volta era salito al potere dopo Jarosław
Kaczyński e il suo partito Diritto e Giustizia (PiS), si poteva ancora parlare
di normalità.
Oggi
invece la Polonia è talmente divisa che le elezioni e altri processi
democratici iniziano a somigliare ad una guerra civile infinita.
Tutti
sono continuamente mobilitati.
Perdere
le elezioni non equivale più a lasciare che l’altra parte salga al potere. Come
superare questa politica in cui gli oppositori non sono più percepiti come
avversari da sconfiggere, bensì come nemici da distruggere?
Se una
parte promuove il concetto del politico di Carl Schmitt, l’altra è costretta a
fare lo stesso.
Non è
però un problema circoscritto alla Polonia.
L’UE
sostiene lo stato di diritto e le istituzioni imparziali, però in un ambiente
politico fortemente polarizzato ormai nessuno crede nel principio di
imparzialità.
Come
appaiono i cambiamenti in Polonia a chi guarda dall’esterno?
Ci si
rende conto quanto sia complicato il compito di “Tusk” oppure si pensa che il
primo ministro stia solo cercando di vendicarsi di “Kaczyński”?
Le
percezioni variano perché le persone tendono ad osservare i paesi stranieri
attraverso la lente dell’esperienza del proprio paese.
Per
come la vedo io, il “PiS,” attualmente all’opposizione, è fermamente deciso a
non permettere al nuovo governo di governare.
Il presidente, sempre fedele al “PiS”, ha
fatto tutto il possibile per posticipare la formazione del nuovo esecutivo, poi
ha bloccato tutto ciò che poteva bloccare.
Vi è una perversa ironia nel fatto che è ora
il “PiS” a invocare lo stato di diritto, criticando gli sforzi di Tusk di
rimettere in sesto il paese.
Gli
osservatori occidentali capiscono queste dinamiche?
La
situazione in Polonia suscita una sensazione di disagio nella maggior parte
delle persone, soprattutto all’interno delle istituzioni dell’UE.
Credono
che i tribunali debbano essere apolitici.
Ma
questo atteggiamento davvero aiuta in un contesto, come quello polacco, dove il
“Pi”S ha riempito i tribunali con persone ad esso leali, nominate ricorrendo a
metodi inopportuni.
Anche
a chi osserva dall’esterno dovrebbe essere chiaro che “Tusk” ha scelto una
delle poche, se non l’unica strada che aveva a disposizione.
Viene
però da chiedersi fin dove il premier polacco possa arrivare.
Ad esempio, per sbloccare i fondi UE congelati
a causa delle riforme giudiziarie del precedente governo, la Polonia deve
soddisfare alcuni requisiti tecnici.
E se
il presidente decide di bloccare gli sforzi del governo di soddisfare i criteri
europei?
L’UE
può semplicemente ignorare i propri criteri?
Solitamente,
in un paese democratico chi perde le elezioni cerca di riorganizzarsi mentre
governa chi ne è uscito vincitore.
Il “PiS”
invece si comporta come se non avesse visto i risultati delle elezioni, e lo fa
probabilmente pensando alle elezioni amministrative che quest’anno si terranno
in Polonia, oppure alla possibilità che Trump – in cui il “PiS” vede un grande
alleato – vinca a novembre.
Il PiS
è un grande partito che col tempo è riuscito a consolidare il suo bacino
elettorale.
Dicono: “Puoi anche avere la maggioranza, ma
ciò non significa che ti lasciamo governare”.
Tale
atteggiamento potrebbe diventare una nuova realtà della politica europea.
Quanto sta accadendo in Polonia potrebbe accadere anche altrove.
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