Cittadini europei.

 

Cittadini europei.

 

 

L’Europa di Tutti…

o Forse No…

Conoscenzealconfine.it – (18 Giugno 2024) - Manlio Lo Presti – ci dice:

 

Anche con questa tornata farsa di votazioni europee, si conferma la drammatica scarsa rilevanza del voto dei cittadini europei.

I Paesi europei sono membri di una struttura comunitaria chiusa, ostile, fredda, gigantesca che tutela prioritariamente gli interessi industriali e finanziari delle multinazionali prima, e dei due/tre Paesi, poi.

I segnali dal futuro non lasciano intendere che avverrà un mutamento per accrescere il peso dei cittadini alla vita della mega struttura UE.

 Ci sono troppi miliardi che limitano pesantemente o perfino eliminano eventuali ingerenze.

La catena di comando espressa dai due-trecento componenti dei consigli di amministrazione delle aziende multinazionali non mollerà le redini nemmeno un po’.

 

Semmai aumenteranno lo stritolamento con un aumentato uso di sistemi elettronici e robotici di controllo, con l’obbligo di esibire nuove forme di lasciapassare addirittura da un settore all’altro delle cosiddette città-da-quindici-minuti, elettriche, inclusive, lodate per motivi ecologici con la velocità dei veicoli a 30 km orari.

 Tutto questo scenario poco rilassante è costellato da centinaia di migliaia di telecamere per il riconoscimento facciale di massa da archiviare per fini di controllo.

La lista dei controlli incrociati aumenta.

Se non riusciamo a fermare in tempo questa gente, la vita sociale sarà un inferno. Fine della proprietà privata con l’imposizione di ristrutturazioni ecologiche costosissime e obbligatorie, che costringeranno l’ottanta percento dei proprietari a vendere sottocosto ad acquirenti che rappresentano immobiliari quasi tutte di provenienza nordeuropea.

La megamacchina di Bruxelles non parla di concrete azioni per ridurre la immensa disoccupazione di 185 milioni di licenziati per aziende fallite o fatte fallire e di espulsi dai cicli produttivi a causa della robotica.

La fenomenologia della rappresentanza di parlamentari appena nominati è la seguente:

si ricollocano in gruppi prestabiliti dall’alto, IN PIENA AUTONOMIA E SGANCIANDOSI DAI PAESI CHE LI HANNO VOTATI!

 Quale spazio di manovra ha il cittadino europeo fronte di tutto ciò, il cittadino europeo spaventato, espropriato di tutto, vessato, minacciato, offeso, precarizzato?

NON HA NULLA PER DIFENDERSI e allora rinuncia.

 

Il partito che ha vinto queste elezioni è stato appunto il 51% del PARTITO DELLA RINUNCIA.

 Il fatto che le destre fondamentalmente euroscettiche abbiano avuto voti IN UN PAESE DOVE È NATA L’UNIONE EUROPEA CON IL TRATTATO RI ROMA è un vero e proprio smacco vergognoso di un progetto europeo totalmente ingegnerizzato dalla anglosfera soprattutto in quota USA, per creare una megamacchina antisovietica e oggi ancora di più antirussa.

Il meccanismo di rappresentanza comunitario è abilmente costruito per sterilizzare eventuali effetti condizionati del voto democratico.

 Un voto per riempire un parlamento europeo inerme e inutile che è l’unico del pianeta che NON HA INIZIATIVA LEGISLATIVA, demandata ai soliti 27 pretoriani chiamati commissari.

È troppo facile accusare, criminalizzare, infangare i cittadini che non hanno votato e nemmeno nel “modo giusto”.

 Mi porrei molte domande su un meccanismo ostile che ha finito per racchiudere in un recinto gli umani sempre più fragili e ricattati dalla miseria e dalla disoccupazione: 185.000.000 di bocche inutili di cui non parla nessuno.

In un mio articolo del giorno 11 giugno 2024 (lapekoranera.it/2024/06/11/si-vendicheranno-brutalmente-contro-la-popolazione-europea/) ho ipotizzato quale sarà il ruolino di marcia del nuovo sinedrio UE.

La mia personale opinione è il rapidissimo concretizzarsi di una metodica, spietata, matematica vendetta dei nuovi insediati UE contro i partiti di destra mediante la più grande CACCIA ALL’UOMO della storia occidentale.

 Costoro hanno iniziato a farsi sentire.

 La Dama germanica ha subito detto che non avrà alcun contatto con le destre. Alla faccia dell’EUROPA DI TUTTI.

La reazione a questa dichiarazione ha costretto ad una parziale ritrattazione.

Essi lanciano il messaggio.

Attendono le reazioni e poi ricalibrano le loro esternazioni.

 È un metodo infallibile per tastare il polso della popolazione e per ritornarci dopo tempo.

La segretaria “globalista” INCLUSIVA del Pd non ha parlato di lavoro, sanità, bambini alla fame, scuola, fine della guerra russo-ucraina, ecc. ha subito detto STIAMO ARRIVANDO… Dobbiamo intenderla come una minaccia?

(Manlio Lo Presti -Scrittore ed esperto di banche e finanza)

(lapekoranera.it/2024/06/13/leuropa-di-tutti-o-forse-no/)

 

 

 

I diritti connessi alla cittadinanza

dell’Unione Europea.

Unipd-centrodirittiumani.it – Redazione – Università di Padova – (10-4-2017) – ci dice:

L’articolo 20 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea stabilisce:

 

“È istituita la cittadinanza dell’Unione. È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce”.

 

Essere cittadino dell'Unione significa avere garantiti una serie di diritti, senza alcuna discriminazione in base alla nazionalità:

 

il diritto alla libera circolazione e il diritto di soggiorno sul territorio degli Stati membri. I cittadini europei hanno il diritto di viaggiare nei 28 paesi dell'UE e di stabilirsi in uno qualsiasi di essi. Si applicano tuttavia alcune condizioni, come, a volte, esibire un documento d'identità, o soddisfare alcuni requisiti, a seconda del motivo della permanenza.

 

il diritto di voto attivo e passivo alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello stato membro di residenza con le stesse condizioni previste per i cittadini di questo Stato. Ogni cittadino dell'UE ha il diritto di votare e di candidarsi alle elezioni del Parlamento europeo o alle elezioni comunali in qualsiasi paese dell'UE in cui decida di soggiornare alle stesse condizioni dei cittadini di tale paese.

 

il diritto di beneficiare sul territorio di uno Stato terzo (non appartenente quindi all'UE) della protezione diplomatica o consolare di uno qualsiasi dei 28 Stati membri nel caso in cui lo Stato di origine non sia rappresentato nel paese.

 

il diritto di petizione al Parlamento europeo e il diritto di rivolgersi al Mediatore europeo, per reclami riguardanti la cattiva amministrazione da parte di un'istituzione o un organo dell'UE, oltre che il diritto di scrivere alle Istituzioni e agli organi dell'Unione europea in una qualsiasi delle lingue ufficiali degli Stati membri.

 

il diritto di accedere ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione come specificato nell'articolo 15 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea. Il Parlamento europeo ha pertanto provveduto a istituire un apposito Registro dei documenti elettronico che contiene i riferimenti dei documenti elaborati ma anche di quelli ricevuti dal Parlamento europeo sin dal 2001.

 

− il diritto di ‘iniziativa’ legislativa, così descritto dal comma 4 dell’art. 11 del Trattato sull’Unione Europea:

“Cittadini dell’Unione, in numero di almeno 1 milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono prendere l’iniziativa d’invitare la Commissione Europea, nell’ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei Trattati”.

 

 

 

Tre secoli di soldi e potere.

La leggenda dei Rothschild.

Agit.it – (30 giugno 2018) - Alessandro Galiani – ci dice:

 

L'intricata saga della dinastia di banchieri più famosa e potente del mondo, intrecciata a doppio filo con la storia d'Europa e creditrice di tanti grandi del passato, da Napoleone al duca di Wellington.

Tra colossali speculazioni, teorie della cospirazione e storie forse vere e forse no. Come quella sulla battaglia di Waterloo.

ROTHSCHILD.

Ieri i due principali rami della famiglia Rothschild hanno raggiunto un importante accordo sul nome delle rispettive ditte.

 Dietro questa intesa c'è una storia di soldi e potere lunga quasi tre secoli, un intricato, leggendario e spesso segreto racconto, che è tutt'uno con la storia della finanza europea e mondiale.

(Lo storico logo, uno scudo rosso con l'aquila romana)

 

Nel 1743, cinquant'anni dopo che la Banca d'Inghilterra ha aperto i battenti, un mercante e cambiavalute di nome “Amschel Moses Bauer”, un ebreo tedesco con la passione per i prestiti, fonda nella “Jugengass”e, la via che raccoglie il ghetto ebraico di Francoforte, una ditta di contabilità.

 Sull'entrata del negozio colloca un'insegna con un'aquila romana su uno scudo rosso, che diventa l'emblema, oggi diremmo il logo, dei Bauer, una famiglia che è tutt'uno con la sua attività:

 la ditta dallo Scudo Rosso, in tedesco Rothschild.

Nasce così il nome della dinastia di banchieri più famosa e potente del mondo.

 

I banchieri che fomentano guerre

Il motto di famiglia lo conia il figlio maggiore del capostipite, “Mayer Amschel” (1744-1812), che non si chiama più Bauer ma di cognome fa Rothschild:

"La nostra politica è quella di fomentare le guerre, dirigendole in modo che tutte le Nazioni coinvolte sprofondino sempre più nel loro debito e quindi sempre più in nostro potere".

Mayer Amschel eredita la ditta nel 1755, alla morte del padre. È lui il vero fondatore dell'impero, esce dal ghetto, crea una banca ad Hannover, il cui principale cliente è il principe ereditario dell'Assia, che diventerà uno degli uomini più ricchi del Vecchio Continente.

 

 Meyer Amschel Rotschild

Cinque fratelli alla conquista dell'Europa.

Mayer Amschel è un collezionista di monete rare, sposa una ricca ereditiera, da cui ha 10 figli, di cui 5 maschi.

Il maggiore, Amschel, rimane a Francoforte.

 Gli altri quattro vengono inviati come emissari nelle principali capitali d'Europa, per conquistarle finanziariamente, fondando gli altri rami dell'impresa:

Nathan, il più famoso (1777-1836), è inviato a Londra nel 1798, Solomon (1774-1855) va a Vienna, Carlmann (1788-1855) a Napoli e Jakob (1792-1868), il più giovane, va a Parigi nel 1811.

I fratelli Rothschild si scambiano favori e informazioni e, nell'arco di meno di mezzo secolo, a partire dagli inizi dell'800, si espandono su scala internazionale e moltiplicano il capitale, passando dai 3 milioni di franchi del 1812 agli oltre 100 milioni del 1825.

 La loro specialità è quella di muovere il denaro, non necessariamente il loro, soprattutto quello delle principali case regnanti, verso le attività più redditizie, che poi sono essenzialmente due:

 i prestiti a tasso elevato diretti alle nazioni che intendono entrare in guerra e i titoli del debito pubblico ad alto rendimento acquistati dai Paesi che, usciti dalla guerra, si apprestano alla ricostruzione.

Per l'alta finanza è dunque essenziale sapere, prima degli altri, chi vuole la guerra e poi, ripristinata la pace, quando si comincerà a ricostruire.

A questo servono i legami familiari dei Rothschild, che si scambiano informazioni e stringono saldi rapporti con le grandi case reali che governano le sorti dell'Europa. In tal modo riescono a prevenire e influenzare gli eventi, giocando sullo scacchiere politico e intascando profitti stratosferici.

(È Nathan, il creditore di Napoleone e Wellington).

Nel 1823 diventano Guardia tesori del Vaticano, ma il posto chiave per le sorti della dinastia è quello che ricopre Nathan a Londra durante le guerre napoleoniche.

A soli 21 anni, Nathan è inviato dal padre a Manchester, che è il cuore della rivoluzione industriale britannica.

 Nathan dispone di un cospicuo capitale, che presta ai magnati dell'industria tessile.

 A 27 anni si sposta a Londra, dove fonda una banca e investe nella City, specializzandosi in prestiti di guerra e in titoli di Stato.

Presta soldi a tutti, compresa la Francia di Napoleone, anche se il suo 'core business' è il finanziamento dell'Inghilterra e dei suoi Stati satelliti.

Nathan diventa l'uomo di fiducia del duca di Wellington, l'artefice della vittoria su Napoleone e Waterloo.

(Lo stemma dei Rothschild diventa famoso).

La leggenda del banchiere che speculò su Waterloo.

Per conto di Londra, Nathan dirige gli aiuti agli Stati alleati, cioè controlla spedizionieri, corrieri e diligenze che trasportano in gran segreto per l'Europa i traffici d'oro che servono a finanziare gli eserciti.

 Può contare sulla rete di informazione di famiglia, che funziona meglio di un servizio segreto.

A questo proposito gira una storia, che forse non corrisponde del tutto a verità, oppure è vera, o semplicemente è stata esagerata, non si sa, ma che merita di essere raccontata per dare l'idea dell'alone leggendario che circonda i Rothschild.

 Si narra che nel 1815 Nathan avrebbe assistito personalmente alla vittoria di Wellington a Waterloo.

Per sfruttarla economicamente, avrebbe intrapreso un viaggio pazzesco, via nave, facendosi trasportare da un peschereccio sul mare in tempesta.

Così sarebbe riuscito a tornare a Londra il 21 giugno, 24 ore prima che la notizia diventasse di dominio pubblico e, diabolicamente, l'avrebbe trasformata in oro colato.

In che modo?

Si racconta che l'avrebbe fatto con un'operazione a cavallo tra insider trading e 'fake news', cioè diffondendo la voce che a Waterloo avesse vinto Napoleone e iniziando lui stesso a vendere i titoli del debito pubblico inglese in suo possesso, per provocarne il crollo in Borsa.

Nel frattempo, in gran segreto, avrebbe ordinato ai suoi agenti di ricomprarli a prezzi stracciati, prima che la notizia della vittoria di Wellington si diffondesse e che il valore di quei titoli andasse alle stelle.

 Vero, falso?

Impossibile dirlo, sicuramente Nathan non era a Waterloo quel giorno, anche se poteva avvalersi di una formidabile rete di corrieri e delle confidenze degli agenti di Wellington, cioè di un servizio informazioni senza pari per l'epoca.

Sta di fatto che la speculazione sui titoli inglesi è avvenuta e ha ulteriormente arricchito i Rothschild, anche se nessuno ha mai potuto consultare i loro archivi e le operazioni finanziarie di questa dinastia sono sempre rimaste avvolte nel mistero, contribuendo ad alimentare il mito dei banchieri ebrei, plutocrati, padroni del mondo, geni del male e cosmopoliti affamatori di Nazioni e di popoli.

Nel 1825 Nathan Rothschild è riuscito ad aumentare di 2.500 volte la somma iniziale affidatagli dal padre e ha abbastanza soldi da finanziare la Banca d'Inghilterra, evitando che scoppi una crisi di liquidità.

 

Le fortune degli altri rami di famiglia.

Il ramo austriaco della famiglia è quello creato da “Salomon”, che diventa il braccio finanziario di Metternich, ottiene nel 1820 un titolo nobiliare, cioè il diritto di usare il 'von' prima del cognome e fa un sacco di soldi investendo in miniere e ferrovie.

A Napoli” Carlmann”, ovvero Carl, diventa il finanziatore dei Borbone, dei Granduchi di Toscana e del Papa, poi si trasferisce in Spagna, dove questo ramo della famiglia ben presto si eclissa.

In compenso ci pensa Jacob, da Parigi, a tenere alte le sorti della famiglia, fondando la” Rothschild Frére”, con gli altri tre fratelli maggiori come partner e Re Leopoldo del Belgio e Re Luigi Filippo di Francia come principali clienti.

Nel 1850 Jacob dispone di un patrimonio di 600 milioni di franchi, cioè 150 milioni in più di tutti gli altri banchieri francesi messi insieme.

I primi finanziatori degli Stati Uniti d'America.

L'ammontare strepitoso della fortuna dei Rothschild si presta a far lievitare leggende e teorie cospiratorie sul loro conto.

Si dice che Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, ministro del Tesoro di George Washington e fondatore della prima banca federale Usa, sia stato un loro agente.

Impossibile dimostrarlo, sta di fatto che la “First Bank of the United States”, fondata nel 1791, fortemente avversata da “Thomas Jefferso”n e dotata di un mandato ventennale, era effettivamente un'emanazione della finanza internazionale.

Non è escluso che tra i finanziatori della First Bank ci fossero anche i Rothschild, i quali contribuirono così alla creazione del debito pubblico Usa, schierandosi tra le banche che prestarono alla neonata banca centrale statunitense i soldi che le servivano per garantire le prime emissioni di bond governativi Usa, cioè i titoli del debito pubblico coi quali finanziare le attività del nuovo Stato federale, creare un esercito nazionale e ripagare i debiti dei singoli Stati.

"Datemi una moneta e me ne infischio delle leggi."

La banca centrale Usa aveva anche il potere di stampare moneta e questo spiegherebbe la famosa frase del vecchio, Mayer Amschel Rothschild, il quale disse:

"Datemi il controllo sulla valuta di una Nazione e me ne infischio di chi fa le leggi". Per circa un secolo i Rothschild sono la famiglia più ricca e più potente del mondo e per la comunità ebraica internazionale rappresentano quanto di più simile ci possa essere a una famiglia reale.

Come tutti i reali tendono a sposarsi tra di loro, hanno residenze sontuose, si circondano di preziose quadrerie, di oggetti rari e preziosi, frequentano principi e capi di Stato, sono filantropi.

La famiglia tocca l'apogeo intorno al 1850, quando la seconda generazione è ancora in vita.

 

 Guy de Rothschild appare in pubblico con la moglie Marie-Hélène.

Con il telegrafo inizia la decadenza.

Tuttavia, già nel 1851 Jacob Rothschild si lamenta che con l'invenzione del telegrafo "chiunque ha accesso alle notizie", una merce che fino a quel momento la sua famiglia aveva quasi completamente monopolizzato.

Con la terza generazione inizia la decadenza, che con la quarta si accentua.

 I cinque rami della ditta ormai non marciano più all'unisono, mentre sui membri della famiglia piovono riconoscimenti.

Lionel Rothschild (1808-79), figlio di Nathan, è il primo ebreo praticante a sedersi come membro del Parlamento britannico, mentre suo figlio Nathaniel (1840- 1915), detto Natty, è il primo ebreo a sedere alla Camera dei Lord.

 Entrambi sono pari del Regno, frequentano la corte, Natty è amico intimo del principe di Galles, il futuro Edoardo VII, figlio della regina Vittoria.

 I Rothschild sono ricchissimi, mondani, sfavillanti ma il loro prestigio sulla scena finanziaria si va indebolendo.

Nel 1914 il grande banchiere americano “John Pierpoint Morgan” ha ormai eclissato il primato dei Rothschild, che si defilano, perdono la ribalta.

 Insomma, diventa una storia minore.

 L'ultimo capitolo è quello scritto ieri dai due rami della dinastia, rappresentanti dalla Edmond Rothschild e dalla Rothschild & Co, a capo della quale si è da poco insediato Alexandre de Rothschild, il primo banchiere della settima generazione.

(Alcune fonti anonime sostengono che sia il ramo inglese dei Rothschild che ha insegnato alle università inglesi di economia la tenuta dei libri contabili delle banche scritti secondo i loro dettami e principi contabili.

In definitiva il principio contabile essenziale doveva essere quello di “creare il denaro dal nulla” e tutti i prestiti concessi alla clientela dovevano essere annotati come “PASSIVO” bancario.

Dopo l’approvazione del Bilancio bancario annuale da parte dei proprietari della banca, doveva essere sottoposto all’approvazione, “corretta” per definizione, di appositi istituti finanziari di controllo dei bilanci bancari con sede all’estero.

Questi istituti di proprietà dei Rothschild si accorgevano che tutti i prestiti concessi alla clientela della banca, sotto controllo contabile, erano un “ATTIVO” reale   e non un passivo.
Le disposizioni loro impartite erano che tutti i nuovi “attivi scoperti” dovevano confluire in apposti conti bancari siti nei paradisi fiscali come indicato in segreto dai Rothschild. Tutta questa nuova ricchezza risultava attribuita, così, solo ai “nuovi proprietari” della Banca.

Facciamo il caso di un Bilancio Globale attuale delle nostre banche e poniamo che il totale dei prestiti concessi alla clientela dalle banche in un anno ammonti a 1.500 miliardi di euro.
Dato che le banche inseriscono nei loro bilanci annuali nel PASSIVO una somma di importo sopra indicato, ne risulta che nell’attivo è stato sottratto un ATTIVO tassabile di pari importo.

Se solo detto importo fosse tassato dallo stato con una aliquota di 20%, ne discenderebbe che circa trecento miliardi ogni anno risulterebbero sottratti alla tassazione fiscale. Possibile? N.D.R.)

 

 

 

Cenni sulla leadership

Politica.

Sophiauniversity.org - Paolo Giusta – (5-2-2024) – ci dice:

 

Cos’è la leadership, chi è il leader?

Quando pensiamo alla leadership, in genere, ciò che ci viene in mente non è tanto la leadership, ma un leader, una persona in carne ed ossa: il capo di un partito politico, un manager importante, qualcuno che occupa una posizione di comando. E, per contrasto con il leader che comanda, dei follower che eseguono i suoi ordini, che subiscono le conseguenze, positive o negative, delle sue decisioni.

 

Perché è così?

 

Siamo condizionati dall’uso comune della parola “leadership”, nei media e spesso in letteratura, che riflette quella che i coniugi Denhardt definiscono la “vecchia job description” del leader:

il compito del leader è

“elaborare buone idee sulla direzione che il gruppo, l’organizzazione o la società dovrebbe prendere,

 determinare una linea di azione da seguire o un obiettivo da perseguire e esercitare la propria influenza o controllo nello spingere in quella direzione”.

Il primo problema con questo modo di intendere la leadership è che non funziona più:

il mondo è diventato straordinariamente complesso, i problemi che ogni organizzazione deve affrontare multifaceted:

come può un uomo, o una donna, soli al comando, sapere come affrontare una data situazione, risolvere un problema, e orientare il gruppo dei follower nella direzione da lui determinata?

 

Il secondo problema con il concetto tradizionale del leader-capo è che non è corretto.

 Se il leader fosse (solo) il capo non ci sarebbe bisogno di un concetto distinto da quello di capo, manager, boss, segretario di un partito, Presidente del Consiglio, ministro.

La leadership è qualcosa di diverso e più ricco di una posizione, sia essa di management o di responsabilità politica.

 

Se la leadership non coincide con una posizione, che cos’è, allora?

 

Una definizione più corretta di leadership è quella data dal manuale di riferimento di “Peter Northouse”:

“la leadership è un processo attraverso il quale una persona influenza un gruppo di persone per raggiungere un obiettivo comune”.

 

Esaminiamo le varie componenti di questa definizione.

 

La leadership è un processo,

È innanzitutto qualcosa che accade, qualcosa che si può osservare.

La leadership è legata ad una situazione, a ciò che succede nelle interazioni tra le persone coinvolte in una situazione, e non è semplicemente legata ad una singola persona, quella del leader.

Si dice spesso: “leader si nasce”.

Non è così: leader si è quando, in un momento dato, si esercita influenza.

I tratti del carattere del leader, le caratteristiche della sua personalità, possono essere importanti, ma non fanno la leadership.

Come non fa la leadership il semplice fatto che il leader occupi o meno una data posizione:

“La leadership non deve essere vista solo come la posizione che qualcuno occupa, ma come qualcosa che succede in un gruppo o in un’organizzazione, qualcosa che va e che viene, come la marea, durante il corso del lavoro del gruppo o dell’organizzazione.

 Ognuno può essere un leader, per un momento, per alcune ore, giorni, settimane, o per anni”.

 

La leadership implica influenza.

L’influenza è, in essenza, il contenuto della leadership.

Essere leader significa influenzare.

 

È un’influenza che il leader esercita su altri: non si può essere leader solo di se stessi.

Anche se la leadership comincia con il diventare innanzitutto leader di se stessi, col prendere in mano la propria vita, diventare persone autonome, non si può fermare a questo stadio, e l’influenza del leader deve esercitarsi su altre persone, su un gruppo.

Allo stesso tempo, i membri del gruppo, con le loro idee, le loro aspirazioni, i loro comportamenti, hanno un impatto sul leader e l’influenza è sempre, pur in diversa misura, reciproca, mai unidirezionale (pensiamo all’influenza reciproca tra un eletto e al sua comunità di riferimento).

 

La leadership avviene in seno a un gruppo di persone.

Non c’è leadership senza un gruppo di persone (i follower) che accetta di essere influenzato dall’azione del o dei leader.

Può trattarsi di un gruppo più o meno piccolo (una squadra di lavoro, una piccola e media impresa, …) o di un gruppo grande, fino all’intera comunità nazionale o mondiale.

Pensiamo all’impatto planetario di Greta Thunberg o Malala Yousafzai, che esercitano un’enorme influenza, senza essere a capo di alcunché e senza avere alcuna posizione di potere.

Il processo di influenza in cui consiste la leadership si traduce in un’interazione, una relazione, quella tra i leader e i follower.

 I ruoli sono diversi, ma entrambi gli elementi del binomio leader-follower hanno una responsabilità, diversa come diversi sono i ruoli, ma indispensabile, nel perseguimento degli obiettivi comuni.

 

Spesso, inoltre, l’influenza tra leader e follower non è unidirezionale, ma reciproca. Un approccio teorizza la leadership come un processo “co-creato”, risultante dall’interazione tra il comportamento dei follower con quello del leader.

l’interazione follower-leader.

La leadership comporta obiettivi comuni.

Senza quest’ultimo elemento non possiamo parlare di leadership.

Un poeta può ispirare le folle con la forza della sua arte, ma solo chi propone, o suscita, scopi condivisi è un leader.

 Sono leader, ad esempio, attiviste come le due ragazze appena citate: non si limitano a denunciare, ma propongono soluzioni, hanno una linea molto chiara su ciò che andrebbe fatto, e mobilitano chiunque sia disposto ad aderire al loro messaggio a rimboccarsi le maniche e passare all’azione per mettere per far sì che questi obiettivi comuni diventino realtà.

In politica, chi esercita la leadership?

Cos’è la leadership “politica”?

Se la leadership è un processo e non ha necessariamente a che vedere con una posizione, allora potremmo definire la leadership politica come un processo di mutua influenza tra cittadini ed eletti (con l’aggiunta dell’apparato amministrativo), avente come obiettivo il bene comune, l’interesse generale.

Questa definizione si applica, ovviamente, a un regime democratico un cui elezioni libere e regolari sono possibili.

il processo di leadership politica.

  «Eletti»: include anche chi è scelto dagli eletti per esercitare funzioni politiche.

 

La leadership politica originaria: il cittadino.

“[…] La sovranità appartiene al popolo […]” (articolo 1 della Costituzione italiana).

In democrazia, la leadership politica originaria non è quella dei “leader politici” come li intendiamo comunemente: gli eletti e i governanti.

La leadership politica originaria è quella del cittadino:

è da lì che parte il movimento della politica.

È, per primo, il cittadino che esercita la sua influenza, cioè agisce da leader, votando, decidendo chi merita di governarlo, in funzione delle qualità personali e di partito e in funzione delle finalità che, esercitando il voto, il cittadino intende supportare.

Finalità su cui si fonda il progetto politico dei candidati a cariche pubbliche elettive, che il cittadino dovrebbe supportare perché riflette i suoi valori e la sua scelta informata.Si potrebbe obiettare che questa non è vera leadership, perché mancano le altri componenti del concetto di leadership: “una persona”, “un gruppo di persone”, l’“obiettivo comune”.

In realtà la leadership non deve necessariamente essere esercitata da una sola persona (questa è una forma di leadership, quella individuale).

Il voto è un’espressione di leadership collettiva:

 è un insieme di persone (i votanti) ad essere coinvolto, come attore, nel processo di influenza.

Il “gruppo” che viene influenzato è l’insieme delle persone sottoposte all’azione di governo (nazionale o locale; sovranazionale nel caso delle elezioni per il Parlamento europeo, il solo organo elettivo di un’organizzazione internazionale dotato di poteri decisionali), dato che il governo che emerge dal voto attuerà politiche diverse secondo il risultato delle elezioni, l’obiettivo comune è il programma, di un partito o di una coalizione, la cui attuazione è resa possibile dal risultato del voto.

 

Questo tipo di leadership politica è aperto a tutti, almeno chi ha acquisito il diritto ad esercitare l’elettorato attivo.

L’influenza esercitata dai cittadini non si limita al momento del voto.

 Il voto non è una delega in bianco, il momento in, cui ogni tot anni, il cittadino abdica al suo ruolo di leader politico.

Ogni cittadino può, e dovrebbe, svolgere un ruolo attivo, contribuendo ad orientare l’azione politica ed amministrativa verso il bene comune.

 Ciò può avvenire in almeno tre modi:

non lasciare solo l’eletto, ma sostenerlo, accompagnarne l’azione.

 Se da una parte il potere può inebriare, dall’altra separa, pone l’eletto una situazione di solitudine, a volte profonda.

Il cittadino può scrivere all’eletto (o a chi svolge un ruolo istituzionale senza essere stato eletto), incoraggiarlo, renderglisi vicino, dirgli che apprezza il suo operato o fagli saper quando pensa che stia sbagliando.

Chi governa lo fa in nome e per conto del popolo: non è male se, ogni tanto, il “cliente” fa sentire la sua voce;

proporre, attraverso le forme previste istituzionalmente (secondo gli ordinamenti: referendum propositivo, petizioni a enti di governo o legislativi, iniziative di legge popolare, bilancio partecipativo, …) o attraverso altre forme (petizioni online, raccolte di firme, …).

Far sentire la propria voce e integrare così il programma di governo, che non è scolpito nella roccia ma deve evolvere, come evolvono la realtà e i bisogni della società;

controllare l’operato di chi legifera e di chi governa, verificando se gli eletti fanno quello che avevano detto che avrebbero fatto, e lo fanno fare all’amministrazione che è al servizio dell’azione di governo degli eletti.

Un altro tipo di leadership, non praticato dalla maggioranza dei cittadini ma abbastanza diffuso, è l’esercizio, da parte di non eletti, di influenza in campo politico, a livello locale o nazionale, attraverso l’impegno personale (gli attivisti, gli influencer) o attraverso le associazioni che operano nella società civile.

Più rari, ma possibili, sono i casi di persone che, senza ricoprire alcuna carica pubblica, hanno esercitato un’influenza politica su larga scala:

 abbiamo citato Greta Thunberg e Malala Yousafzai, che perseguono scopi di cui si occupa, o dovrebbe occuparsi, l’azione politica (la tutela dell’ambiente ed i diritti delle donne) nel loro ruolo non di elette, ma di attiviste; Jean Monnet e Gandhi, mai eletti, hanno cambiato il destino del continente europeo e del subcontinente indiano.

 

 La leadership dell’eletto come leadership derivata.

L’eletto, che vediamo come chi sta in cima alla piramide del potere, non è leader per la sua posizione (lo scranno di deputato, il ruolo di governo, l’essere a capo di un partito) ma perché qualcuno lo ha messo lì: i cittadini con il loro voto o gli iscritti ad un partito, cioè quella parte di cittadini che hanno deciso di esercitare il “diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (articolo 49 della Costituzione italiana).

 

Gli eletti sono quindi leader di riflesso, come conseguenza della leadership originaria esercitata dai cittadini.

Hanno nelle mani un potere più o meno grande, quello di decidere delle sorti di una comunità o della società – o di farsi, con maggiori mezzi a disposizione, gli affari loro con leggi ad personam ed altri provvedimenti, come purtroppo è accaduto.

 Questo potere, tuttavia, è stato loro affidato, come Dio ha affidato la terra ad Adamo ed Eva: non è loro proprietà e può, almeno ad ogni tornata elettorale, essere loro tolto.

Il primo vettore (dai cittadini agli eletti) della leadership riflessa, cioè derivata da quella dei cittadini, degli eletti è il mandato a rappresentarli.

Ogni cittadino, votando, dà mandato a un certo numero di eletti non di rappresentare lui, ma l’intera comunità.

 La rappresentanza conferisce legittimità all’esercizio del potere da parte degli eletti.

 

Attraverso il voto si instaura tra elettori ed eletti un rapporto di fiducia, in base al quale i primi delegano l’esercizio della sovranità, che appartiene ai cittadini, agli eletti (e agli amministratori non eletti, che gestiscono la cosa pubblica in base alle direttive degli eletti).

Può trattarsi di una fiducia cieca, se il cittadino vota senza essere ben informato del programma del partito o senza sapere a chi gioverà il suo voto;

 oppure di una fiducia ben riposta, se il cittadino ha una ragionevole certezza che sono presenti gli ingredienti che rendono possibile la fiducia:

competenza (l’eletto è esperto delle materie su cui deve decidere, o possiede le qualità per diventare esperto in corso di mandato) e onestà (l’eletto persegue l’interesse generale, e non interessi particolari o il suo interesse personale).

La fiducia, se c’è, si nutre di un rapporto costante nel corso del mandato, che non si esercita unicamente nel momento in cui, votando, il cittadino ha la possibilità di revocare la delega di rappresentanza all’eletto.

Questo rapporto dovrebbe essere tale da permettere all’elettore di verificare se l’eletto rispetta gli impegni presi nel momento in cui non era ancora eletto, ma candidato.

Dato che l’eletto non rappresenta l’elettore, ma l’intera comunità, non dovrebbe trattarsi di impegni ad attivarsi per assecondare gli interessi di una persona o di un gruppo ristretto.

“Tarcisio Pacati”, deputato nelle due prime legislature della Repubblica Italiana, soleva dire, a chi gli chiedeva favori in cambio del voto: “Non posso promettere nulla, e certamente non in campagna elettorale”.

Altri vettori della leadership riflessa degli eletti, che esprimono la responsabilità politica degli eletti nei confronti dei cittadini in modo da permettere a questi ultimi di esercitare un controllo sugli eletti (e sull’amministrazione che ne esegue le direttive), sono:

la responsiveess, cioè il fatto che i rappresentanti politici devono conoscere i problemi e i bisogni della società, della comunità che rappresentano, e operare scelte che rispondano a questi problemi e bisogni.

Idealmente, rispondere in modo congruo alle istanze del maggior numero, di chi ha più bisogno, nel caso in cui sia necessario allocare risorse limitate, e non scegliere di soddisfare i bisogni degli amici, dei “poteri forti”, o i propri interessi personali;

l’accountability, cioè il fatto, per gli eletti di rendere conto agli elettori delle scelte fatte, dell’uso delle risorse, delle decisioni prese.

Per rendere l’accountability effettiva è necessaria la trasparenza:

 come possono i cittadini controllare l’operato degli eletti se non sanno ciò che essi fanno?

Trasparenza attraverso l’informazione disponibile sui siti delle istituzioni pubbliche, e trasparenza attraverso i mezzi di informazione, la cui missione è rendere un servizio, attraverso la critica e la verità, alla collettività, e non agli imprenditori che spesso ne detengono la proprietà ed ai loro interessi.

Per riassumere.

E’ possibile sintetizzare le relazioni di mutua influenza tra eletti ed elettori nella leadership politica.

 

Vettori di influenza nella leadership politica

 Nascita e morte della leadership politica.

Nascita della leadership politica: la leadership come scelta.

Dato che la leadership è un processo (in cui si esercita influenza su un gruppo per orientarlo verso obiettivi comuni) e non una posizione (di comando, di potere), essere leader è una scelta.

 

La leadership nasce quando una o più persone decidono di compiere questa scelta.

 

In campo politico, tutti – non solo gli eletti, o il capo di un partito o del governo – possono fare questa scelta, dato che, come abbiamo visto, tutti possono essere leader in un certo momento e in determinate situazioni.

Il primo passo, nella scelta di essere leader, di esercitare la leadership, consiste nel decidere di smettere di “considerarsi vittima delle circostanze, e di contribuire a creare nuove circostanze”.

 

Il contrario della leadership, infatti, non è la follower ship, è il vittimismo.

Chi si ritiene vittima rinuncia ad esercitare l’influenza che potrebbe esercitare, quindi ad essere leader nella sfera in cui potrebbe esserlo. Come vedremo, un’attitudine di vittimismo da parte dei cittadini ha conseguenze molto negative sull’esercizio della leadership politica.

 

La scelta degli eletti di diventare leader avviene in genere in un momento determinato.

Idealmente, è il momento in cui un comune cittadino si rende conto di un problema cui la politica non ha saputo rispondere, di un’istanza che non ha trovato rappresentanza, e sente la chiamata – una vera e propria vocazione alla leadership politica – a attivarsi lui, o lei, per risolvere quel problema, e decide di farlo.

L’impegno politico di “Lucia Fronza Crepaz”, deputata per due legislature a cavallo del 1990, è nato quando, giovane mamma, si è accorta che i marciapiedi della sua città erano troppo alti, e non permettevano alle carrozzine di accedervi agevolmente.

Così succede anche per la scelta di chi decide di impegnarsi per un bene più grande, per la vocazione a “fare politica” pur senza essere eletto:

Il 7 giugno 1893, il giovane avvocato “Mohandas Karamchand Gandhi,” buttato fuori dal treno, solo perché indiano e benché avesse in tasca un biglietto di prima classe, alla stazione sudafricana di “Pietmaritzburg”, decide di oltrepassare il sentimento di vendetta per l’affronto subito, di dimenticare il suo dolore personale, per farsi carico dell’atroce discriminazione che subiscono, in quel paese africano, i suoi connazionali.

Diventerà così il paladino della causa indiana, fino a guidare la lotta per la liberazione dell’India dal giogo coloniale britannico.

Però, forse, Gandhi non sarebbe diventato il “Mahatma” senza l’episodio della “stazione di Pietmaritzburg”.

 

La morte della leadership politica del cittadino.

La crisi della leadership politica del cittadino è collegata al concetto contrario a quello di leadership, il vittimismo:

 il cittadino che si sente vittima, impotente di fronte agli eventi ed ai giochi di potere degli eletti, abdica alla sua funzione di leader originario, rinuncia a esercitare l’influenza che è intrinseca alla quota di sovranità che, in quanto cittadino, gli appartiene.

Le forme di questa rinuncia sono varie:

 

la rinuncia ad informarsi.

Informarsi è un’operazione piuttosto dolorosa, soprattutto in un paese come l’Italia, in cui i mezzi tradizionali d’informazione (giornali e televisione) appartengono a imprenditori, gruppi di potere o a chi è momentaneamente al governo, e quindi tendono a dare notizie o a esprimere opinioni funzionali non tanto alla verità, quanto agli interessi dei gruppi che gestiscono tali mezzi d’informazione;

la rinuncia al voto, sia nella forma dell’astensione, sia nella forma del voto di protesta, votando per partiti di cui è chiara la posizione “contro”, ma molto meno chiare sono le proposte per il bene comune;

la rinuncia a partecipare, ad esercitare un ruolo nella dimensione politica che non sia il semplice esercizio del voto, per esempio l’impegno in un’associazione che si occupa di problemi del territorio, la partecipazione ad una scuola di formazione politica, l’adesione ad un partito o ad un movimento politico;

la rinuncia ad esercitare il controllo su chi governa (che, non dimentichiamolo, governa sempre per conto dei cittadini).

 Le forme di questo controllo sono varie:

dal voto ad un’altra formazione politica, per punire chi ha governato male, alla firma di una petizione, alla verifica dell’attività degli eletti sui siti delle istituzioni cui appartengono (per esempio, i siti di Camera, Senato, Parlamento europeo dettagliano l’attività di ogni singolo parlamentare in corso di legislatura), alle lettere all’eletto o ai mezzi di comunicazione per denunciare comportamenti scorretti (per esempio l’assenteismo in aula).

Ogniqualvolta si considera vittima, il cittadino non è in realtà più cittadino ma suddito. Accetta passivamente tutto quanto gli eletti decidono per conto suo, senza neanche sapere cosa decidono e per quali motivi lo fanno. Non ha più alcuna influenza, nessuna possibilità se non quella di accettare supinamente, come succedeva ai sudditi delle monarchie assolute.

 

In particolare astenendosi dal voto, i cittadini rinunciano a influenzare attraverso l’esercizio di un attributo fondamentale della sovranità popolare quale è il voto.

 Ciò facendo, in una sorta di trasferimento della sovranità non verso l’alto (dal cittadino al rappresentante politico) ma in orizzontale (verso altri cittadini), invece di influenzare subiscono l’influenza di altri:

 i cittadini votanti, che decidono anche per chi si astiene (e che questi ultimi neppure conoscono, quindi di cui non si possono fidare perché mancano completamente le condizioni per la fiducia).

La leadership politica del cittadino muore:

se i cittadini si considerano sudditi, gli eletti sono liberi di fare quello che vogliono, non quello che devono, cioè operare scelte che perseguano il bene comune.

 

La morte della leadership politica dell’eletto.

C’è una morte buona della leadership politica dell’eletto:

 quando, finito il suo mandato o, avendo promesso di farlo in seguito ad una sconfitta politica importante, il politico si fa da parte, lasciando il posto ad altri, e mette la sua esperienza, in nuove forme (preferibilmente non posizioni in imprese private o conferenze da esse profumatamente pagate), a servizio della società, non più come eletto ma da cittadino che ha avuto un’esperienza diretta delle istituzioni.

La vera eredità del leader – anche il leader politico eletto – è creare altri leader, suscitare vocazioni alla leadership, non la consunzione nel ruolo.

Una prima cattiva morte del leader politico eletto è quando, avendo detto la sua parola, compiuto la sua missione, si aggrappa alla poltrona, e diventa un pericoloso relitto alla deriva.

 Il potere, una volta gustato, può inebriare: conosciamo bene in Italia il cancro dell’attaccamento al potere, mentre, in altri Paesi, leader politici anche giovani, dopo essere stati capi del governo, lasciano la politica attiva dopo una sconfitta elettorale.

Una seconda cattiva morte del leader rappresentante politico è anche quando, invece di essere eletto, è, grazie a leggi elettorali che privano i cittadini del potere di scegliersi i rappresentanti, nominato dai capipartito, lasciando agli elettori l’unica apparente libertà di mettere una croce accanto al simbolo di un partito.

 La leadership politica del rappresentante muore perché egli, invece di rispondere e rendere conto ai cittadini, deve rispondere e rendere conto a chi lo ha inserito in posizione utile sulla lista, pena la perdita del potere al prossimo giro.

 La leadership politica muore perché l’eletto-nominato non segue una vocazione “alta” che lo ha chiamato ad occuparsi dei problemi della collettività, ma si mette a servizio di un padrone.

E perché, se in tal modo eletto, invece di esercitare il potere che gli è conferito nell’interesse generale della comunità, sarà obbligato ad agire nell’interesse transitorio di chi si trova ad essere a capo del partito nel momento in cui si formano o si formeranno le liste.

E quali interessi persegue il capopartito di turno?

Chi li verifica?

 

Una terza cattiva morte del leader rappresentante politico è quando non svolge, o non svolge più, il suo ruolo, che è quello di operare scelte nell’interesse di tutti, in vista del bene comune (leadership è orientare l’azione collettiva verso obiettivi “comuni”, non particolari né individuali).

La buona leadership politica degli eletti muore quando essi fanno scelte di parte, favoriscono pochi, avvantaggiano chi ha già risorse (e magari è in grado di garantire loro il perpetuarsi del potere), invece di chi ha più bisogno.

Ancor più muore quando gli eletti fanno scelte autoreferenziali, orientate al mantenimento dei privilegi di casta, alla conquista o alla preservazione del potere fine a sé stesso, al prestigio personale.

 

 Per riassumere

Si può sintetizzare le possibili patologie delle relazioni di mutua influenza tra eletti ed elettori, in cui ognuno dei vettori di influenza tra leader e follower della leadership politica può entrare in crisi.

 

Patologie della leadership politica.

La (possibile) resurrezione della leadership politica.

Mi sembra siano necessarie quattro condizioni, per permettere alla leadership politica di risorgere laddove è morta.

La prima è l’educazione individuale e collettiva:

cittadini che abbiano a disposizione strumenti educativi (non necessariamente educazione politica, ma anche storica, artistica, metereologica, …) e l’interesse a farne uso ad un certo punto alzano lo sguardo dal proprio “particulare” e sentono la casa comune (fino alla casa di tutti, il pianeta, la comunità umana universale) come casa propria.

 L’educazione, l’informazione, la conoscenza permettono di interessarsi veramente ai problemi complessi della politica, cercare di capirli, rendersi conto quando chi governa – o chi dall’opposizione contesta – prende cantonate…

La seconda condizione è l’esistenza di una sana sfera pubblica, dove sia possibile dibattere, far emergere idee, vagliare proposte.

Il ruolo dei media nel rendere possibile, mantenere e far crescere questa sfera pubblica è primordiale.

Media cui si richiede una buona dose di castità: non servilismo al potere politico e ai potentati economici, ma servizio alla verità; servizio, quindi, alla collettività.

La terza condizione sono partiti sani, per cui la legalità non sia solo uno slogan, che siano capaci di espellere (loro, non la magistratura) le mele marce e facciano emergere candidati competenti e onesti.

La quarta è un rapporto diretto e funzionante tra elettori e eletti, che obblighi questi ultimi a rendere conto, permetta il controllo del loro operato e, quindi, il premio (rielezione) o la punizione (mandarli a casa).

 

 

 

 

LA FORZA DELLA DEMOCRAZIA,

UNA SFIDA PER IL FUTURO

   It.gariwo.it - Gabriele Nissim –(7- 2 -2024) ci dice:

 

Nell’ultimo libro di “Edgar Morin” “Ancora un momento”, “Raffaello Cortina” Editore, c’è un testo sulla democrazia che potrebbe diventare un manifesto culturale per le prossime elezioni europee, in un mondo che sembra inghiottito da autocrazie totalitarie e pericolosi populismi.

La democrazia, ricorda “Morin”, è anzitutto la separazione dei poteri.

Il potere esecutivo che comanda, il potere legislativo che fa le leggi e il potere giudiziario che rende giustizia.

Questi poteri devono essere indipendenti.

Una dittatura non permette tutto questo, come abbiamo visto con l’assassinio di Stato di Aleksej Naval’nyj in Russia, dove” Putin” ha potuto decidere la condanna a morte del suo oppositore e la sistematica repressione di tutte le voci indipendenti attraverso il controllo del potere giudiziario.

 Ciò che lui vuole, dal suo posto di comando, è legge assoluta, che i magistrati debbano applicare non godendo di nessuna autonomia di giudizio.

Non solo, oggi c’è anche il rischio di una deriva nelle stesse democrazie consolidate, dove populisti come Trump e Orban cercano in vario modo di porre dei bavagli al potere legislativo e giudiziario.

Una democrazia è vitale quando permette la pluralità di idee e opinioni, il confronto e l'opposizione libera e che tutti vivano il piacere e il gusto di questo scambio creativo.

Una democrazia senza opinioni differenti non ha senso.

E per questo bisogna persino accettare “un certo grado di sofferenza” per delle “idee che ci fanno orrore”.

C’è però un punto che non viene capito, ad esempio nel nostro paese, dove lo scontro politico è sempre tra bianco e nero, tra quella che sembra una verità assoluta di chi sta al potere contrapposta all’errore dell’avversario.

Lo ricorda “Pascal”: “Il contrario di una verità è una verità contraria”.

Ossia, spiega “Edgar Morin”, non c’è sempre una verità che si oppone all’errore, ma molte volte l’avversario esprime un altro aspetto della realtà.

Una buona democrazia è quella in cui i politici con umiltà siano in grado di riprendere i buoni spunti dell’avversario per integrarli nella propria politica.

Nella democrazia si sviluppa sempre un pensiero collettivo che nasce dal confronto e dallo scambio reciproco.

 E questo è il deficit democratico del nostro paese, dove la politica (come si vede negli squallidi talk show e nell’uso diseducativo dei social) è concepita come una resa dei conti permanente contro l’avversario trattato come un nemico da sconfiggere e umiliare.

Passa sempre l’idea ridicola che chi ha governato prima abbia sempre sbagliato e chi si trova al potere porti alla resurrezione salvifica.

Così non si crea mai un senso del bene comune che deve andare oltre alla logica dei partiti.

Questa modalità inquina profondamente l’etica dei cittadini, che vengono così disabituati a considerare l’uomo democratico come colui che è predisposto a cambiare opinione e ad ascoltare l’altro.

 La democrazia vive quando le persone si abituano a superare costantemente i propri pregiudizi.

Al contrario, si creano dei cittadini che si comportano come tribù contrapposte che si insultano a vicenda (vedi i social).

Un punto critico della democrazia è nella sua capacità di difendersi da quanti dall’interno mirano alla sua distruzione.

Ricordiamoci che il partito nazista ottenne democraticamente una maggioranza in parlamento.

Ecco perché, come sostiene Karl Popper, la democrazia deve essere intollerante verso gli intolleranti.

Ma quale è la soglia di autodifesa?

 Si pensi oggi agli Stati Uniti dove i democratici sono consapevoli dei progetti di Trump.

La democrazia deve sempre trovare il modo di difendersi quando si trova di fronte a forze eversive che la vogliono minare.

 Bisogna educare la società a riconoscere i gruppi antidemocratici, anche quando sono minoritari.

Come ha messo bene in luce “Claude Lefort”, ricordato da “Morin”, bisogna difendere la democrazia dai portatori di verità assoluta, perché nessuna democrazia si deve basare su una sola verità, a differenza di un regime teocratico o totalitario. (ll pensiero unico alla base della verità reale! N.D.R).

Si deve creare un argine quando i partiti cercano di imporre una loro concezione del mondo, e lasciare sempre aperto il confronto.

La laicità è un valore che va sempre preservato di fronte a chi ha la tentazione di imporre la propria ideologia.

 “La democrazia non ha una verità”, è un principio fondamentale per la sua esistenza.

“Edgar Morin” ricordando la grande ignoranza sui regimi totalitari del passato - quando molti credevano ai magnifici ideali di fraternità e di uguaglianza propagandati dalla Russia, dalla Cina o da Cuba - ritiene che bisogna costantemente lavorare sull’informazione, affinché il cittadino possa essere consapevole dello stato del mondo in tutte le sue scelte.

Se gli europei fossero stati maggiormente consapevoli della “politica di Putin”, dalla repressione interna, alla sua politica in Cecenia e in Georgia, sarebbero stati più capaci di comprendere quanto stava accadendo in Ucraina.

 E maggiore conoscenza ci dovrebbe essere sulla Cina o sui regimi fondamentalisti del Medio Oriente.

 Se si conoscesse il pericolo delle nuove autocrazie, ci sarebbe più sensibilità nel percorso di integrazione europea e sulla necessità di una politica di difesa comune per non trovarci un giorno subalterni e disarmati.

 L’ideale della democrazia è il messaggio più importante che l’Europa può lanciare al mondo.

E l’educazione non la si deve immaginare solo sui banchi di scuola, ma attraverso nuovi strumenti in un percorso che accompagna l’intera vita dei cittadini.

Senza conoscenza e formazione non ci può essere, né un buon cittadino né un elettore maturo, in un clima dove i social e la rete veicolano fake news e i politici cercano un facile consenso attraverso semplificazioni e promesse basate sul populismo.

Nel suo piccolo la “fondazione Gariwo ” ha immaginato che i “Giardini dei Giusti” potessero essere un veicolo di conoscenza sullo stato del mondo e sui temi della responsabilità individuale, facendo circolare idee e storie non solo nelle grandi città, ma in periferia e nei piccoli centri.

 Quando ho incontrato” Alice Wairimu Nderitu”, l’”adviso”r delle Nazioni Unite sulla prevenzione dei genocidi, mi ha colpito una sua osservazione:

 “Come si possono impedire tante atrocità di massa nel mondo, in Africa e Asia, se nessuno le conosce?”

(Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo).

 

 

 

 

 

GIORGIO AGAMBEN,

QUANDO LA CASA BRUCIA.

Quodlibet.it – Giorgio Agamben – (5 ottobre 2020) – ci dice:

 

Quando la casa brucia.

«Tutto quello che faccio non ha senso, se la casa brucia».

Eppure proprio mentre la casa brucia occorre continuare come sempre, fare tutto con cura e precisione, forse ancora più studiosamente – anche se nessuno dovesse accorgersene.

Può darsi che la vita sparisca dalla terra, che nessuna memoria resti di quello che è stato fatto, nel bene e nel male.

Ma tu continua come prima, è tardi per cambiare, non c’è più tempo.

«Quel che accade intorno a te / non è più affar tuo».

 Come la geografia di un paese che devi lasciare per sempre.

Eppure in che modo ancora ti riguarda?

Proprio ora che non è più affar tuo, che tutto sembra finito, ogni cosa e ogni luogo appaiono nella loro veste più vera, ti toccano in qualche modo più da vicino – così come sono: splendore e miseria.

 

La filosofia, lingua morta.

 «La lingua dei poeti è sempre una lingua morta… curioso a dirsi: lingua morta che si usa a dar maggior vita al pensiero».

Forse non una lingua morta, ma un dialetto.

Che filosofia e poesia parlino in una lingua che è più meno della lingua, questo dà la misura del loro rango, della loro speciale vitalità.

 Pesare, giudicare il mondo commisurandolo a un dialetto, a una lingua morta e, tuttavia, sorgiva, dove non c’è da cambiare nemmeno una virgola.

Continua a parlare questo dialetto, ora che la casa brucia.

 

Quale casa sta bruciando?

 Il paese dove vivi o l’Europa o il mondo intero?

 Forse le case, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere.

Di alcune restano solo dei pezzi di muro, una parete affrescata, un lembo del tetto, dei nomi, moltissimi nomi, già morsi dal fuoco.

 E, tuttavia, li ricopriamo così accuratamente con intonachi bianchi e parole mendaci, che sembrano intatti.

 Viviamo in case, in città arse da cima a fondo come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovine quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo.

E ora la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda, ma proprio per questo è ancora più vicina, ci sta addosso e circonda in ogni istante.

Che una civiltà – una barbarie – sprofondi per non più risollevarsi, questo è già avvenuto e gli storici sono abituati a segnare e datare cesure e naufragi.

 Ma come testimoniare di un mondo che va in rovina con gli occhi bendati e il viso coperto, di una repubblica che crolla senza lucidità né fierezza, in abiezione e paura?

La cecità è tanto più disperata, perché i naufraghi pretendono di governare il proprio naufragio, giurano che tutto può essere tenuto tecnicamente sotto controllo, che non c’è bisogno né di un nuovo dio né di un nuovo cielo – soltanto di divieti, di esperti e di medici.

 Panico e furfanteria.

Che cosa sarebbe un Dio al quale non si rivolgessero né preghiere né sacrifici?

E che cosa sarebbe una legge che non conoscesse né comando né esecuzione?

 E che cosa una parola che non significa né comanda, ma si tiene veramente nel principio – anzi prima di esso?

 

Una cultura che si sente alla fine, senza più vita, cerca di governare come può la sua rovina attraverso uno stato di eccezione permanente.

La mobilitazione totale nella quale” Jünger” vedeva il carattere essenziale del nostro tempo va vista in questa prospettiva.

 Gli uomini devono essere mobilitati, devono sentirsi ogni istante in una condizione di emergenza, regolata nei minimi particolari da chi ha il potere di deciderla.

Ma mentre la mobilitazione aveva in passato lo scopo di avvicinare gli uomini, ora mira a isolarli e a distanziarli gli uni dagli altri.

Da quanto tempo la casa brucia?

Da quanto tempo è bruciata?

Certamente un secolo fa, fra il 1914 e il 1918, qualcosa è avvenuto in Europa che ha gettato nelle fiamme e nella follia tutto quello che sembrava restare di integro e vivo;

poi nuovamente, trent’anni dopo, il rogo è divampato ovunque e da allora non cessa di ardere, senza tregua, sommesso, appena visibile sotto la cenere.

 Ma forse l’incendio è cominciato già molto prima, quando il cieco impulso dell’umanità verso la salvezza e il progresso si è unito alla potenza del fuoco e delle macchine.

Tutto questo è noto e non serve ripeterlo.

Piuttosto occorre chiedersi come abbiamo potuto continuare a vivere e pensare mentre tutto bruciava, che cosa restava in qualche modo integro nel centro del rogo o ai suoi margini.

Come siamo riusciti a respirare fra le fiamme, che cosa abbiamo perduto, a quale relitto – o a quale impostura – ci siamo attaccati.

Ed ora che non ci sono più fiamme, ma solo numeri, cifre e menzogne, siamo certamente più deboli e soli, ma senza possibili compromessi, lucidi come mai prima d’ora.

 

Se solo nella casa in fiamme diventa visibile il problema architettonico fondamentale, allora puoi ora vedere la posta in gioco nella vicenda dell’Occidente, che cosa essa ha cercato a ogni costo di cogliere e perché non poteva che fallire.

È come se il potere cercasse di afferrare a ogni costo la nuda vita che ha prodotto e, tuttavia, per quanto si sforzi di appropriarsene e controllarla con ogni possibile dispositivo, non più soltanto poliziesco, ma anche medico e tecnologico, essa non potrà che sfuggirgli, perché è per definizione inafferrabile.

Governare la nuda vita è la follia del nostro tempo.

Uomini ridotti alla loro pura esistenza biologica non sono più umani, governo degli uomini e governo delle cose coincidono.

L’altra casa, quella che non potrò mai abitare, ma che è la mia vera casa, l’altra vita, quella che non ho vissuto mentre credevo di viverla, l’altra lingua, che compitavo sillaba per sillaba senza mai riuscire a parlarla – così mie che non potrò mai averle…

Quando pensiero e linguaggio si dividono, si crede di poter parlare dimenticando che si sta parlando.

Poesia e filosofia, mentre dicono qualcosa, non dimenticano che stanno dicendo, ricordano il linguaggio.

Se ci si ricorda del linguaggio, se non si dimentica che possiamo parlare, allora siamo più liberi, non siamo costretti alle cose e alle regole.

 Il linguaggio non è uno strumento, è il nostro volto, l’aperto in cui siamo.

 

Il volto è la cosa più umana, l’uomo ha un volto e non semplicemente un muso o una faccia, perché dimora nell’aperto, perché nel suo volto si espone e comunica. Per questo il volto è il luogo della politica.

Il nostro tempo impolitico non vuole vedere il proprio volto, lo tiene a distanza, lo maschera e copre.

Non devono esserci più volti, ma solo numeri e cifre.

Anche il tiranno è senza volto.

Sentirsi vivere:

essere affetti dalla propria sensibilità, essere delicatamente consegnati al proprio gesto senza poterlo assumere né evitare.

 Sentirmi vivere mi rende la vita possibile, fossi anche chiuso in una gabbia.

E nulla è così reale come questa possibilità.

 

Negli anni a venire ci saranno solo monaci e delinquenti.

E, tuttavia, non è possibile farsi semplicemente da parte, credere di potersi trar fuori dalle macerie del mondo che ci è crollato intorno.

 Perché il crollo ci riguarda e ci apostrofa, siamo anche noi soltanto una di quelle macerie.

E dovremo imparare cautamente a usarle nel modo più giusto, senza farci notare.

Invecchiare: «crescere solo nelle radici, non più nei rami».

 Sprofondare nelle radici, senza più fiori né foglie.

O, piuttosto, come una farfalla ebbra svolare su ciò che è stato vissuto.

Ci sono ancora rami e fiori nel passato.

E se ne può fare ancora miele.

Il viso è in Dio, ma le ossa sono atee. Fuori, tutto ci spinge verso Dio; dentro, l’ostinato, beffardo ateismo dello scheletro.

Che l’anima e il corpo siano indissolubilmente congiunti – questo è spirituale.

 Lo spirito non è un terzo fra l’anima e il corpo: è soltanto la loro inerme, meravigliosa coincidenza.

 La vita biologica è un’astrazione ed è questa astrazione che si pretende di governare e curare.

Per noi da soli non ci può essere salvezza:

 c’è salvezza perché ci sono altri.

E questo non per ragioni morali, perché io dovrei agire per il loro bene.

 Soltanto perché non sono solo c’è salvezza: posso salvarmi solo come uno fra tanti, come altro fra gli altri.

Da solo – questa è la speciale verità della solitudine – non ho bisogno di salvezza, sono anzi propriamente insalvabile.

 La salvezza è la dimensione che si apre perché non sono solo, perché c’è pluralità e moltitudine.

Dio, incarnandosi, ha cessato di essere unico, è diventato un uomo fra tanti.

Per questo il cristianesimo ha dovuto legarsi alla storia e seguirne fino in fondo le sorti – e quando la storia, come oggi sembra avvenire, si spegne e decade, anche il cristianesimo si avvicina al suo tramonto.

La sua insanabile contraddizione è che esso cercava, nella storia e attraverso la storia, una salvezza al di là della storia e quando questa finisce, il terreno gli manca sotto i piedi.

La chiesa era in realtà solidale non della salvezza, ma della storia della salvezza e poiché cercava la salvezza attraverso la storia, non poteva che finire nella salute.

 E quando il momento è venuto, non ha esitato a sacrificare alla salute la salvezza.

Occorre strappare la salvezza dal suo contesto storico, trovare una pluralità non storica, una pluralità come via di uscita dalla storia.

Uscire da un luogo o da una situazione senza entrare in altri territori, lasciare un’identità e un nome senza assumerne altri.

Verso il presente si può solo regredire, mentre nel passato si procede diritto.

Ciò che chiamiamo passato non è che la nostra lunga regressione verso il presente. Separarci dal nostro passato è la prima risorsa del potere.

Quel che ci libera dal peso è il respiro.

Nel respiro non abbiamo più peso, siamo spinti come in volo al di là della forza di gravità.

Dovremo imparare da capo a giudicare, ma con un giudizio che non punisce né premia, non assolve né condanna

. Un atto senza scopo, che sottrae l’esistenza a ogni finalità, necessariamente ingiusta e falsa.

Solo un’interruzione, un istante in bilico fra il tempo e l’eterno, in cui balena appena l’immagine di una vita senza fine né progetti, senza nome né memoria – per questo salva, non nell’eternità, ma in una «specie di eternità».

Un giudizio senza criteri prestabiliti e, tuttavia, proprio per questo politico, perché restituisce la vita alla sua naturalezza.

Sentire e sentirsi, sensazione e auto affezione sono contemporanei.

 In ogni sensazione c’è un sentirsi sentire, in ogni sensazione di sé un sentire altro, un’amicizia e un volto.

 

La realtà è il velo attraverso cui percepiamo il possibile, ciò che possiamo o non possiamo fare.

Saper riconoscere quali dei nostri desideri infantili sono stati esauditi non è facile. E, soprattutto, se la parte dell’esaudito che confina con l’inesaudibile sia sufficiente a farci accettare di continuare a vivere.

Si ha paura della morte perché la parte dei desideri inesauditi è cresciuta senza possibile misura.

«I bufali e i cavalli hanno quattro zampe: ecco ciò che io chiamo Cielo.

Mettere la cavezza ai cavalli, perforare le narici del bufalo:

ecco ciò che chiamo umano.

Per questo dico: bada che l’umano non distrugga il Cielo dentro di te, bada che l’intenzionale non distrugga il celeste».

Resta, nella casa che brucia, la lingua.

Non la lingua, ma le immemorabili, preistoriche, deboli forze che la custodiscono e ricordano, la filosofia e la poesia.

E che cosa custodiscono, che cosa ricordano della lingua?

Non questa o quella proposizione significante, non questo o quell’articolo di fede o di malafede.

Piuttosto, il fatto stesso che vi è linguaggio, che senza nome siamo aperti nel nome e in questo aperto, in un gesto, in un volto siamo inconoscibili e esposti.

La poesia, la parola è la sola cosa che ci è rimasta di quando non sapevamo ancora parlare, un canto oscuro dentro la lingua, un dialetto o un idioma che non riusciamo a intendere pienamente, ma che non possiamo fare a meno di ascoltare – anche se la casa brucia, anche se nella loro lingua che brucia gli uomini continuano a parlare a vanvera.

Ma c’è una lingua della filosofia, come c’è una lingua della poesia?

 Come la poesia, la filosofia dimora integralmente nel linguaggio e solo il modo di questa dimora la distingue dalla poesia.

Due tensioni nel campo della lingua, che s’incrociano in un punto per poi instancabilmente separarsi.

 E chiunque dice una parola giusta, una semplice, sorgiva parola dimora in questa tensione.

Chi si accorge che la casa brucia, può essere spinto a guardare i suoi simili che sembrano non accorgersene con disdegno e disprezzo.

Eppure non saranno proprio questi uomini che non vedono e non pensano i lemuri cui dovrai rendere conto nell’ultimo giorno?

Accorgersi che la casa brucia non t’innalza al di sopra degli altri:

al contrario, è con loro che dovrai scambiare un ultimo sguardo quando le fiamme si faranno più vicine.

Che cosa potrai dire per giustificare la tua pretesa coscienza a questi uomini così inconsapevoli da sembrare quasi innocenti?

Nella casa che brucia continui a fare quello che facevi prima – ma non puoi non vedere quello che ora le fiamme ti mostrano a nudo.

 Qualcosa è cambiato, non in quello che fai, ma nel modo in cui lo lasci andare nel mondo.

Una poesia scritta nella casa che brucia è più giusta e più vera, perché nessuno potrà ascoltarla, perché nulla assicura che possa scampare alle fiamme.

Ma se, per un caso, essa trova un lettore, allora questi non potrà in nessun modo sottrarsi all’apostrofe che lo chiama da quell’inerme, inspiegabile, sommesso vocìo.

Può dire la verità solo chi non ha nessuna probabilità di essere ascoltato, solo chi parla da una casa che intorno a lui le fiamme stanno implacabilmente consumando.

L’uomo oggi scompare, come un viso di sabbia cancellato sul bagnasciuga.

 Ma ciò che ne prende il posto non ha più un mondo, è solo una nuda vita muta e senza storia, in balia dei calcoli del potere e della scienza.

 Forse è però soltanto a partire da questo scempio che qualcos’altro potrà un giorno lentamente o bruscamente apparire – non un dio, certo, ma nemmeno un altro uomo – un nuovo animale, forse, un’anima altrimenti vivente

(Giorgio Agamben)

 

 

 

 

 

La macchina della propaganda.

Lafionda.org – (5 Gen , 2023) - Alberto Bradanini – ci dice;

 

Secondo la narrativa dominante, la propaganda, vale a dire la sistemica produzione di falsità, colpirebbe solo le nazioni prive di libertà di espressione, i paesi autocratici, autoritari o dittatoriali (appellativi, invero, attribuiti a seconda delle convenienze).

 Nei paesi autoritari, con qualche diversità dall’uno all’altro, il quadro è piuttosto evidente, domina la censura: alcune cose si possono fare, altre no.

 A dispetto delle apparenze, tuttavia, anche nelle cosiddette democrazie, l’obiettivo è il medesimo, controllare il disagio della maggioranza contro i privilegi della minoranza, cambia solo la tecnica, una tecnica basata sulla Menzogna, che opera in modo sofisticato, creando notizie dal nulla, mescolando bugie e verità, omettendo fatti e circostanze, rimestando abusivamente passato e futuro, paragonando ostriche a elefanti.

Confondendo ulteriormente il quadro, per il discorso del potere – in cima al quale, a ben guardare, troviamo sempre l’impero americano in qualche sua incarnazione – i paesi autoritari sono poi quelli che non si piegano al dominio dell’unica nazione indispensabile al mondo (Clinton, 1999), colonna portante del Regno del Bene.

Coloro che dominano la narrativa pubblica, dunque, controllano la società e per la proprietà transitiva la ricchezza e le inquietudini che vi si aggirano.

 D’altra parte, persino chi siede in cima alla piramide è inquieto, preso dall’angoscia di perdere ricchezza e potere.

 E la coercizione non basta, occorre il consenso e il ruolo della propaganda è quello di disarticolare il conflitto, contenere quel malessere che si aggira ovunque come un felino in attesa della preda.

Essa è anche un aspetto costitutivo della più vasta nozione di egemonia, nell’accezione gramsciana del termine, secondo la quale il ceto dominante, oggi transnazionale, ha bisogno di guidare la narrazione pubblica, servendosi di un’impalcatura di servizio, politici, militari/burocrati, giornalisti, accademici.

Il potere è slegato da ogni ideologia, non essendo fondato su valori, ma solo su interessi:

liberalismo o socialismo, conservatorismo o progressismo, fondamentalismo cristiano o islamico, suprematismo o meticciamento e via dicendo, il fine è solo uno, la massificazione di sé stesso e dei profitti correlati.

Il Regno del Bene non ha sfumature di pensiero, tanto meno di azione.

La narrativa pubblica diffonde inoltre un messaggio inconscio:

 “sappiamo bene che la situazione non è ideale, le cose dovrebbero andar meglio, ma, ahimè, non vi sono alternative.

D’altro canto, si faccia attenzione perché le cose potrebbero andare molto peggio, e solo noi siamo in grado di evitare che la situazione precipiti”.

 

Taluni sono persuasi che solo chi vive ai margini, i poveri di spirito e gli individui senza istruzione o acume siano esposti al sortilegio della propaganda.

Uno sguardo disincantato rivela invece che tale dipendenza non ha nulla a che vedere con la cultura o l’intelligenza.

Anzi, entrambe tendono a rafforzare la resistenza a riconoscere la porosità alla manipolazione.

 La capacità di opporsi al mainstream appare invero connessa con l’umile qualità di saper riconoscere i propri errori, e all’occorrenza la propria credulità.

Si tratta di una caratteristica critica dell’essere umano che esprime maturità emotiva e spessore culturale.

 Sul piano filosofico, invece, l’abilità a smascherare l’inganno discende dall’aderenza al principio di verità, che non può prescindere da una vita condotta in coerenza.

 Si tratta di peculiarità poco diffuse, ma che fioriscono in ogni genere di individui e sono essenziali per la vita e la prosperità del genere umano.

Il trampolino della propaganda.

Nell’incipit del saggio “The Propaganda Multiplier”, lo svizzero “Konrad Hummler” afferma che “davanti a qualsiasi genere di informazione non dovremmo mai tralasciare di chiederci: perché ci giungono queste notizie, perché in questa forma e in questo momento? In fin dei conti si tratta sempre di questioni che riguardano il potere”.

Forse, ciò chiarisce perché nessuno dà conto della singolare congiuntura – è questo un esempio tra i tanti – per la quale i cittadini russi possono leggere i nostri giornali e ascoltare le nostre TV, mentre noi non abbiamo il diritto di reciprocare, leggere e ascoltare i media russi.

In attesa di venirne informati, ci soccorre il vocabolario orwelliano, nel quale si scrive pace per significare guerra, democrazia per intendere oligarchia–plutocrazia, sovranità per esprimere sottomissione, libertà di giustizio per la sua soppressione.

“Hummler” aggiunge che un aspetto sostanzialmente ignoto del sistema mediatico riguarda la struttura del suo funzionamento, in specie la circostanza che la quasi totalità delle notizie che ci giungono sugli eventi del mondo è generato da tre sole agenzie internazionali di stampa.

 Il loro ruolo è talmente centrale che i fruitori mediatici – TV, giornali e internet – coprono quasi sempre gli stessi eventi con i medesimi argomenti, lo stesso taglio, il medesimo formato.

Si tratta di agenzie che godono di coperture e sostegni di governi, apparati militari e intelligence, essendo da questi utilizzate quali piattaforme di diffusione di informazioni pilotate.

 

Come fa il giornale (o la TV) che leggo (o ascolto) a conoscere ciò che afferma di conoscere su un argomento internazionale? – si chiede “Hummler” – e la risposta è banale: quel giornale o quella TV non sa nulla, si limita a copiare da una delle citate agenzie.

Queste lavorano in modo felpato, dietro le quinte.

La prima ragione di tale discrezione è beninteso il controllo della notizia, la seconda risiede nella circostanza che giornali e TV non hanno interesse a far conoscere ai loro lettori di non essere in grado di raccogliere notizie indipendenti su quanto raccontano.

Le tre agenzie in questione sono:

Associated Press (AP), che ha oltre 4000 dipendenti sparsi nel mondo. AP ha la forma di società cooperativa, ma è di fatto controllata da finanziarie quotate a Wall Street; dall’aprile 2017, il suo presidente è Steven Swartz, il quale è anche CEO di Hearst Communications, il colosso Usa dei media. AP fornisce informazioni a oltre 12.000 giornali e TV internazionali, raggiungendo ogni giorno oltre metà della popolazione mondiale;

Agence France-Presse (AFP), partecipata dallo stato francese, ha circa 4000 dipendenti e trasmette ogni giorno oltre 3000 reportage a testate mediatiche di tutto il mondo;

Agenzia Reuters, con sede a Toronto, con migliaia di persone in ogni dove, dal luglio 2018 il 55% del suo capitale è proprietà di Blackstone Group, quotata a Wall Street;

nel 2008 è stata acquisita dalla canadese Thomson Corporation e si è poi fusa nella Thomson-Reuters.

Le corporazioni statunitensi (e con esse gli apparati militari e di sicurezza, lo stato profondo, etc…) dominano anche il mondo internet, poiché le prime dieci società mediatiche online, tranne una, sono di proprietà americana e hanno tutte sede negli Usa.

Essendo tale impalcatura alla radice della creazione, soppressione e adulterazione mediatica degli accadimenti nel mondo, è curioso che siano poche le persone interessate a conoscerne ruolo e meccanismi operativi.

Un ricercatore svizzero (“Blum”) ha rilevato che nessun quotidiano occidentale può far a meno di tali agenzie se vuole occuparsi di questioni internazionali.

Noi conosciamo solo ciò su cui queste decidono di riferire.

La Grande Menzogna nella quale è immersa la popolazione (con eccezioni, beninteso) sta devastando l’etica pubblica e la sensibilità collettiva.

 Il lavaggio del cervello è implacabile, tutto è piegato alle esigenze del potere (l’Occidente e quella parte del mondo pilotata dall’Occidente), così gerarchicamente ordinato: impero Usa (corporazioni, stato profondo, forza militare), élite europee (finanza, banche, in prevalenza nordiche), classi dirigenti nazionali (politici, media, accademia).

 

Sebbene molti paesi dispongano di proprie agenzie – la tedesca DPA, l’austriaca APA, la svizzera SDA, l’italiana Ansa e così via – la carta stampata e le TV private/pubbliche, se vogliono occuparsi di temi internazionali, sono costrette a rivolgersi alle tre menzionate, le quali si sono appropriate di un ruolo insostituibile potendo contare su risorse, copertura geografica e capacità operativa:

i reportage di tali agenzie vengono tradotti e copiati, talvolta utilizzati senza citare la fonte, altre volte parzialmente riscritti, altre ancora ravvivati e arricchiti con immagini e grafici per farli apparire un prodotto originale.

 Il giornalista che lavora su un dato argomento seleziona i passaggi che ritiene importanti, li manipola, li rimescola con qualche svolazzo e poi li pubblica (“Volker Braeutigam”).

 

Quelli che il pubblico ritiene contributi originali del giornale o della TV sono in realtà rapporti fabbricati a New York, Londra o Parigi.

Non sorprende che le notizie siano le stesse a Washington, Berlino, Parigi o Roma. Un fenomeno da brividi, poco dissimile dalle vituperate pratiche dei cosiddetti paesi illiberali.

 

Quanto ai corrispondenti, gran parte dei media non se ne può permettere nessuno. Quando esistono, coprono diversi paesi, anche dieci o venti, e si può immaginare con quale competenza!

Nelle zone di guerra, raramente si avventurano fuori dall’hotel dove vivono, e pochissimi possiedono le competenze linguistiche per capire cosa succede intorno. Sulla guerra in Siria, scrive” Hummler”, molti riferivano da Istanbul, Beirut, Il Cairo, Cipro, mentre le citate agenzie dispongono di corrispondenti ovunque e ben addestrati.

 

Nel suo libro “People Like Us”:

Misrepresenting the Middle East, il corrispondente olandese dal Medio Oriente, “Joris Luyendijk”, ha descritto candidamente come lavorano i corrispondenti e in quale misura dipendono dalle tre sorelle:

“pensavo che questi fossero degli storici del momento, che davanti a un evento di rilievo, scoprissero cosa stesse davvero succedendo e riferissero in proposito.

 In verità nessuno va mai a verificare cosa accade.

Quando succede qualcosa, la redazione chiama, invia per fax o e-mail comunicati-stampa già confezionati e il corrispondente in loco li rimbalza con parole sue, commentandoli alla radio o TV, oppure ne fa un articolo per il giornale di riferimento.

 Le notizie vengono nastro-trasportate.

 Su qualsiasi argomento o evento i corrispondenti aspettano in fondo al tapis-roulant, fingendo di aver prodotto qualcosa, ma è tutto falso”.

In altre parole, il corrispondente solitamente non è in grado di produrre inchieste indipendenti e si limita a rimodellare resoconti confezionati nelle redazioni o da una delle tre agenzie.

 È così che nasce l’effetto mainstream.

Ci si potrebbe chiedere perché i giornalisti non provano a produrre inchieste indipendenti.

 

“Luyendijk” scrive in proposito: “ho provato a farlo, ma ogni volta, a turno, le tre sorelle intervenivano sulla redazione e imponevano la loro storia, punto.

Talvolta alla TV alcuni giornalisti mostrano una preparazione che suscita ammirazione, perché rispondono con competenza e disinvoltura a domande difficili.

 La ragione, tuttavia, è banale: conoscono in anticipo le domande.

Quello che si vede è puro teatro.

Talora, per risparmiare, alcuni media si servono dei medesimi corrispondenti e in tal caso i reportage che giungono alle testate sono due gocce d’acqua”.

 

Nel libro “The Business of News”, “Manfred Steffens”, ex-redattore dell’agenzia tedesca DPA, afferma

 “non si capisce la ragione per la quale una notizia sarebbe attendibile se ne viene citata la fonte. Anzi, può esser vero il contrario, poiché la responsabilità viene in tal caso attribuita alla fonte citata, potenzialmente altrettanto inattendibile“.

 

Ciò che le agenzie ignorano non è mai avvenuto.

Nella guerra in Siria, l’Osservatorio siriano per i diritti umani – un’organizzazione di scarsa indipendenza, con sede a Londra e finanziata dal governo britannico – ha avuto un ruolo di primo piano.

 L’Osservatorio ha inviato i suoi reportage alle tre agenzie, che li hanno inoltrati ai media, i quali a loro volta hanno informato milioni di lettori e telespettatori in tutto il mondo.

 La ragione per la quale le agenzie hanno fatto riferimento a tale Osservatorio – e chi lo finanziava – resta tuttora misteriosa.

Mentre alcuni temi sono semplicemente ignorati, altri sono enfatizzati, anche se non dovrebbero esserlo:

“una plateale falsità o una messa in scena sono digerite senza obiezioni davanti alla presunta rispettabilità di una blasonata agenzia di stampa o una rinomata testata, poiché in questi casi il senso critico tende a sfiorare lo zero”.

 Tra gli attori più efficaci nell’iniettare menzogne troviamo i ministeri della difesa (in Occidente tutti a vario modo penetrati dall’intelligence Usa).

 Nel 2009, il capo dell’agenzia AP, “Tom Curley,” ha pubblicamente affermato che il Pentagono impiegava oltre 27.000 specialisti in pubbliche relazioni che con un budget annuale di cinque miliardi di dollari diffondevano quotidianamente informazioni manipolate (da allora budget e numero di specialisti sono cresciuti di molto!).

Le agenzie di sicurezza americane hanno l’abitudine di raccogliere e distribuire a giornali e TV informazioni create a tavolino con una tecnica che rende impossibile conoscerne l’origine, facendo ricorso a formule quali ‘secondo fonti d’intelligence, secondo quanto confidenzialmente trapelato o lasciato intendere da questo o quel generale, e così via”.

Nel 2003, dopo l’inizio della guerra in Iraq, “Ulrich Tilgner”, veterano del Medio Oriente per TV tedesche e svizzere, ha parlato dell’attività manipolatoria dei militari e del ruolo dei media.

“Con l’aiuto di questi ultimi, i militari costruiscono la percezione pubblica e la usano per i loro scopi, diffondendo scenari inventati.

 In questo genere di guerra, gli strateghi mediatici statunitensi svolgono una funzione simile a quella dei piloti dei bombardieri”.

 Ciò che è noto all’esercito Usa lo è anche ai servici d’intelligence.

 In tema di disinformazione, un ex-funzionario dell’intelligence Usa e un corrispondente della Reuters hanno riferito quanto segue alla TV britannica Channel 4:

“Un ex-agente della Cia, “John Stockwell”, ha rivelato che occorreva far sembrare la guerra angolana come un’aggressione nemica.

Per tale ragione abbiamo sostenuto in ogni paese coloro che condividevano questa tesi.

Un terzo del mio staff era formato da diffusori di propaganda, pagati per inventare storie e trovare il modo per farle arrivare alla stampa.

Di solito, le redazioni dei giornali occidentali non sollevano dubbi quando ricevono notizie in linea con la narrazione dominante.

Abbiamo inventato tante storie, che stanno ancor in piedi, ma è tutta spazzatura“.

“Fred Bridgland”, riferendo del suo lavoro come corrispondente di guerra per “la Reuters”, afferma:

 “abbiamo basato i nostri rapporti sulle comunicazioni ufficiali.

Solo alcuni anni dopo siano stati informati che un piccolo esperto di disinformazione della “Cia” da una scrivania situata in un’ambasciata degli Stati Uniti produceva comunicati che non avevano alcuna relazione con la verità o i fatti sul campo.

 Fondamentalmente, per dirla in modo crudo, puoi fabbricare qualsiasi schifezza e farla pubblicare su un giornale “.

 

I servizi d’intelligence, certamente, dispongono di un’infinità di contatti per far passare le loro menzogne, ma senza il ruolo servizievole delle tre agenzie in questione, la sincronizzazione mondiale della propaganda e della disinformazione non sarebbe così efficace.

 Attraverso questo meccanismo moltiplicatore, racconti interamente fabbricati da governi, servizi militari e d’intelligence raggiungono il pubblico senza alcun filtro. La professione del cosiddetto giornalista “meainstream”, ormai ridotta a strapuntino del potere, si concretizza nel rabberciare, sulla scorta di veline elaborate altrove, questioni complesse di cui sanno poco o nulla in un linguaggio privo di logica fattuale e indicazione di fonti.

 

Per l’ex-giornalista di “AP”, “Herbert Altschull”,

“secondo la prima legge del giornalismo i mezzi d’informazione sono ovunque uno strumento del potere politico e/o economico.

Giornali, periodici, stazioni radiofoniche e televisive di mainstream non operano mai in modo indipendente, anche quando ne avrebbero la possibilità”.

 

Sino a poco fa, la libertà di stampa era ancor più teorica, date le elevate barriere d’ingresso, le licenze da ottenere, le frequenze da negoziare, i finanziamenti e le infrastrutture tecniche necessarie, i pochi canali disponibili, la pubblicità da raccogliere e altre restrizioni.

 Oggi, grazie a Internet, la prima legge di “Altschull” è stata parzialmente infranta. È così emerso un giornalismo di qualità finanziato dai lettori, di livello superiore rispetto ai media tradizionali, in termini di capacità critica e indipendenza.

Ciononostante, i media tradizionali restano cruciali, poiché disponendo di risorse ben più copiose sono in grado di catturare una moltitudine di lettori anche online. E tale capacità è collegata al ruolo delle tre agenzie, i cui aggiornamenti al minuto costituiscono la spina dorsale della maggior parte dei siti mainstream reperibili in rete.

In quale misura il potere politico ed economico, secondo la legge di “Altschull”, riuscirà a mantenere il controllo dell’informazione davanti all’avanzare di notizie incontrollate, cambiando così la struttura del potere e almeno in parte la consapevolezza della popolazione, solo il futuro potrà dirlo.

 Se si guarda ai rapporti di forza l’esito parrebbe scontato.

 L’uomo resta, tuttavia, arbitro del proprio destino.

La lotta è sempre in corso.

 

Gli operatori mediatici internazionali.

“Noam Chomsky”, forse il più grande intellettuale vivente, nel suo saggio “What makes the mainstream media mainstream “, afferma che:

“se rompi gli schemi il potere ha molti modi per rimetterti in riga.

Eppure, si può e si deve comunque reagire.

Alcuni grandi giornalisti affermano che nessuno ha mai detto loro cosa scrivere. Chomsky chiarisce così tale apparente contraddizione:

 “costoro non sarebbero lì se non avessero già dimostrato di scrivere o dire ogni volta, e spontaneamente, la cosa giusta.

 Se avessero iniziato la carriera scrivendo cose sbagliate, non sarebbero mai arrivati nel luogo dove ora possono dire, in apparenza, ciò che vogliono.

 Lo stesso vale per le facoltà universitarie nelle discipline che contano“.

Il giornalista britannico ”John Pilger”, noto per le sue inchieste coraggiose, scrive di aver incontrato negli anni Settanta una delle principali propagandiste del regime di “Hitler”,” Leni Riefenstahl”, secondo la quale per giungere alla totale sottomissione del popolo tedesco era stato necessario, ma non difficile, manipolare le menti della borghesia liberale e istruita;

 il resto era venuto in automatico.

La tragedia di tale scenario è che gli accadimenti di valenza politica, geopolitica o economica con risvolti internazionali (ma in genere tutti gli argomenti sensibili) vengono accolti con minimo senso critico.

 I media occidentali vivono di pubblicità (corporazioni private) o di sovvenzioni pubbliche, e riflettono gli interessi della narrativa atlantica, sotto l’egida dell’architettura economica e di sicurezza americana.

I mass-media hanno l’obiettivo di distogliere le persone dalle questioni centrali: “puoi pensare quel che vuoi, ma siamo noi che gestiamo lo spettacolo. Lascia che s’interessino di sport, di cronaca, scandali sessuali, problemi delle celebrità, della finta dialettica governo-opposizioni, ma non di cose serie, poiché quelle sono riservate ai grandi“.

 

Inoltre, le persone-chiave dei media principali vengono cooptate dall’élite transatlantica, ottenendo in cambio carriere e posizioni.

I circoli ristretti del potere transnazionale – quali il Council for Foreign Relations, il Gruppo Bilderberg, la Commissione Trilaterale, l’Aspen Institute, il World Economic Forum, Chatham House e altrireclutano a man bassa operatori mediatici (i nomi degli italiani, insieme agli uomini politici, sono disponibili in rete).

 

Per “Chomsky” le università non fanno la differenza.

La narrazione prevalente riflette quella mainstream.

 Esse non sono indipendenti.

 Possono esserci professori indipendenti, e questo vale anche per i media, ma l’istituzione come tale non lo è, poiché dipende da finanziamenti esterni o dal governo (a sua volta piegato ai menzionati poteri).

 Coloro che non si conformano sono accantonati strada facendo.

Il sistema premia conformismo e obbedienza.

 Nelle università si apprendono le buone maniere, in particolare come interloquire con i rappresentanti delle classi superiori.

È così che, senza dover ricorrere alla menzogna esplicita, l’accademia e i media interiorizzano valori e posture del potere da cui dipendono.

Come noto, ne “La fattoria degli animali” George Orwell fa una satira spietata dell’Unione Sovietica.

Trent’anni dopo si scopre però che, nell’introduzione da lui scritta a suo tempo, e che qualcuno aveva soppresso, egli scriveva:

 “la censura letteraria in Inghilterra è efficace come quella di un sistema totalitario, sola la tecnica è diversa, anche qui, a ulteriore evidenza che le menti indipendenti, quelle che generano riflessioni sbagliate, vengono ovunque ostacolate o estirpate”.

Il Presidente statunitense “Woodrow Wilson” fu eletto nel 1916 su una piattaforma contro la guerra.

La gente non voleva combattere guerre altrui.

 Pace senza vittoria, dunque senza guerra, era stato lo slogan.

Una volta eletto, Wilson cambiò idea e si pose la domanda:

come si fa a convertire una nazione pacifista in una disposta a far la guerra ai tedeschi?

Fu così istituita la prima, e formalmente unica, agenzia di propaganda statale nella storia degli Stati Uniti, il “Comitato per l’Informazione Pubblica” (bel titolo orwelliano!), chiamato “Commissione Creel”, dal nome del suo direttore.

L’obiettivo di spingere la popolazione nell’isteria bellicista e sciovinista fu raggiunto senza troppe difficoltà.

 In pochi mesi gli Stati Uniti entrarono in guerra.

Tra coloro che furono impressionati da tale successo, troviamo anche “Adolf Hitler”.

In “Mein Kampf”, questi afferma che la Germania fu sconfitta nella Prima guerra mondiale perché perse la battaglia dell’informazione, e promise:

 la prossima volta sapremo reagire con un adeguato sistema di propaganda, come in affetti avvenne quando giunse al potere.

“Walter Lippmann”, esponente di punta della “Commissione Creel” tra i più rispettati del giornalismo americano per circa mezzo secolo, affermava:

 “in democrazia esiste un’arte chiamata fabbricazione del consenso”, che non ha beninteso nulla di democratico.

 “Se si riesce a farla funzionare, si può accettare persino il rischio che il popolo vada a votare.

Con adeguato consenso si riesce a rendere irrilevante anche il voto.

Affinché gli umori siano allineati ai desideri di chi comanda occorre mantenere l’illusione che sia il popolo a scegliere governi e orientamenti politici.

 In tal modo, la democrazia funzionerà come deve.

Ecco cosa significa applicare la lezione della propaganda”.

Del resto, “James Madison”, uno dei padri della costituzione americana, affermava che l’obiettivo principale del sistema era quello di proteggere la minoranza dei ricchi contro la maggioranza dei poveri.

E ancora una volta, a tal fine, lo strumento principe era la propaganda.

Il già citato “John Pilger “ricorda che negli ultimi 70 anni gli Stati Uniti hanno rovesciato o tentato di rovesciare oltre cinquanta governi, in gran parte democrazie.

Hanno interferito nelle elezioni democratiche di una trentina di Paesi.

Hanno bombardato le popolazioni di trenta nazioni, la maggior parte povere e indifese.

Hanno tentato di assassinare i dirigenti politici di una cinquantina di stati sovrani. Hanno finanziato o sostenuto la repressione contro movimenti di liberazione nazionale in una ventina paesi.

 La portata e l’ampiezza di questa carneficina viene evocata ogni tanto, ma subito accantonata, mentre i responsabili continuano a dominare la vita politica americana.

Lo scrittore statunitense “Harold Pinter”, ricevendo il premio Nobel per la letteratura nel 2005, aveva affermato:

“la politica estera degli Stati Uniti si può definire come segue:

 baciami il culo o ti spacco la testa.

Essa è semplice e cruda, e l’aspetto interessante è che funziona perché gli Usa hanno risorse, tecnologie e armi per spargere disinformazione attraverso una retorica distorsiva, riuscendo a farla franca.

Essi sono dunque persuasivi, specie agli occhi degli sprovveduti e dei governi sottomessi.

 In definitiva, si tratta di una montagna di menzogne, ma funziona.

I crimini degli Stati Uniti sono sistematici, costanti, feroci, senza remore, ma pochissime persone ne parlano e ne prendono coscienza.

Essi manipolano in modo patologico il mondo intero, presentandosi come paladini del Regno del Bene.

Un meccanismo di ipnosi collettiva che è sempre all’opera”.

Il lavaggio del cervello è sofisticato e va chiamato con il suo vero nome, se vi vuole contenerne gli effetti letali.

I limitati spazi, un tempo aperti anche alle intelligenze controcorrente, si sono chiusi.

Siamo in attesa di uomini valorosi, come negli “anni Trenta contro il fascismo”, insieme a intellettuali (quelli autentici), agli indignati, alle menti inquiete, a coloro che hanno pietà per i propri simili, a chi non deve vendere l’anima per dare un senso all’esistenza.

La catarsi di una rivoluzione culturale, che resta il sale della storia, un giorno potrebbe forse indurci a gridare insieme a voce alta: basta, lorsignori, adesso basta!

 D’ora in avanti, il popolo spegne i vostri funesti apparati, generatori di menzogne e turpitudini, e torna a calpestare i sentieri della verità e della vita.

Si sta facendo tardi, non c’è più molto tempo.

 

 

 

 

Ecco il “populismo informatico”:

come gli “algoritmi” stanno

uccidendo la democrazia.

Agendadigitale.eu – Maurizio Ferraris – (07 Dic. 2018) – ci dice:

(Maurizio Ferraris - professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino).

 

Cultura Digitale.

Sempre più il programma di governo è confezionato su misura degli elettori, perché gli algoritmi ne permettono l’esatta conoscenza delle aspettative, e viene adeguato “in tempo reale”.

Ed è un grosso problema per la democrazia.

Ecco come ci siamo arrivati e una soluzione per uscirne:

 il reddito di mobilitazione.

 

È l’algoritmo quello che governa nell’età del web?

Potrebbe sembrare così, stando ai timori di chi propone scenari di controllo e orientamento dei comportamenti delle masse legati all’analisi della enorme mole di informazioni raccolte dal web.

La verità, però, è un’altra e ben più complessa:

siamo di fronte a una crisi dell’idea stessa di governo e di governabilità, perché i governanti ora sono come banderuole al vento degli umori degli elettori.

Umori sempre cangianti, confusi e contraddittori, che i governanti (o pseudo tali) possono ora conoscere bene e in tempo reale grazie agli algoritmi.

È questo che ora chiamano populismo; ma bisognerebbe definirlo “populismo informatico”.

 La fine del governo.

Per comprendere bene il problema bisogna partire da lontano.

 

Bentham, Foucault e la prigione panottica.

C’è una grande preoccupazione, dai tempi del “Golem”, circa l’eventualità di essere governati dalle macchine, e ora dagli algoritmi, come macchine universali e polivalenti che agiscono attraverso il web generando quella che è stata definita “governabilità algoritmica”.

Il sostantivo foucaultiano di “governabilità” disegna il quadro, e l’aggettivo elettrifica una intuizione ormai veneranda per l’età.

 Il governo degli algoritmi sarebbe la realizzazione, sul piano della intera società, della prigione panottica progettata da Bentham all’inizio dell’Ottocento, ed eretto a modello della società da Foucault in “Sorvegliare e punire”.

La visione carceraria era propedeutica alla formazione della idea di “governabilità” che Foucault coniò poco dopo per indicare il carattere intrinsecamente tecnico (e non meramente ideologico) del governo degli umani.

 Il tutto nel quadro di quella riflessione appena accennata da Foucault, ma poi ampiamente ripresa dopo di lui che va sotto il nome di “biopolitica”, e che si può sintetizzare nell’idea di uno stato ficcanaso che non si limita ad amministrare la giustizia e a riscuotere le imposte, ma sbircia nella vita privata dei cittadini.

 A farla breve, il sogno di “controllo di Bentham”, che però doveva contentarsi di esercitarlo sui carcerati, e l’”incubo di Foucault”, che ne temeva l’estensione microfisica e biopolitica (i due aggettivi alla fine si equivalgono) diventerebbe realtà nell’età del Web.

 È dunque l’algoritmo quello che governa nell’età del web?

 

In cosa consiste il potere degli algoritmi?

A prima vista, i motivi per un “tutto il potere agli algoritmi” non mancano.

 La metafora carceraria è diventata letterale con il web, perché in effetti tutte o quasi le nostre azioni sono tracciate, molto più che se fossimo in cella, perché lì, probabilmente, non avremmo connessione.

 Se questo è vero, oggi abbiamo “Frankenstein” sul ponte di comando, con un apparato che funziona davvero bene, e con la concreta possibilità che il “machine learning” trasformi l’apparato di controllo in un “Golem” che si autonomizza e prende il potere governando al posto degli umani.

Tuttavia, è tutt’altro che certo che quello degli algoritmi sia un governo effettivo, e questo per ragioni metafisiche difficilmente aggirabili:

 un meccanismo non può avere intenzioni, e dunque non può esercitare azioni di governo, ma solo amministrare decisioni prese da altri.

In effetti, non è chiaro in cosa consista il potere degli algoritmi:

 indubbiamente raccolgono delle informazioni, ma poi cosa se ne fanno?

Per adoperarli, dovrebbero possedere degli obiettivi, ma è proprio ciò che le macchine non hanno.

Immaginare che il mio computer decida di prendere il potere non è diverso dall’immaginare che si annoi a leggere le parole che sto scrivendo.

 Le occasioni di noia non gli mancano, quello che gli fa difetto sono i motivi.

Per desiderare il potere, proprio come per annoiarsi, bisogna disporre di un organismo, che subisce delle pressioni ambientali ed è il risultato di una storia evolutiva ancora in corso.

Un organismo ha un corpo, ossia una fine, e dunque anche uno o più fini autonomi, non possiede finalità interne; un meccanismo no, ha solo finalità esterne.

 E se è dubbio che un organismo possieda una speciale intenzionalità, è a maggior ragione dubbio che queste finalità siano a disposizione di un algoritmo;

nella migliore delle ipotesi, si tratta delle intenzioni di chi lo programma.

 Ma confondere queste intenzioni con una qualche intenzionalità algoritmica non è diverso dal pensare che l’intenzione di uccidere Cesare stesse nei pugnali e non nei congiurati.

 

Così, addossare agli algoritmi, per esempio, la responsabilità di un incidente prodotto da un’automobile a guida automatica non è diverso, in ultima istanza, dall’addossare la responsabilità di un incidente prodotto da un’automobile a guida umana all’auto invece che al pilota.

Dire che gli algoritmi ci comandano è da questo punto di vista una espressione inappropriata, che nasconde una verità di tutt’altro tipo:

e cioè che il web è potente perché, raccogliendo comportamenti e orientandoli in base a delle procedure, agisce in termini che Foucault avrebbe definito come “disciplinari”.

Il mandante è un altro, ma chi?

Chi è il mandante.

In effetti, quando si sostiene che gli algoritmi ci assoggettano, si focalizza un rapporto esclusivo tra chi comanda e chi esegue, sottovalutando come le nostre decisioni siano determinate molto più estesamente, e non da oggi, da condizionamenti sociali, psicologici politici, economici, religiosi, e da tecniche che non hanno niente a che fare con gli algoritmi, e che in effetti sono molto più antiche.

 

Se il potere degli algoritmi è disciplinare, abbiamo a che fare con l’automazione e il potenziamento del potere burocratico.

Come aveva notato “Schmitt”, la rapidità di esecuzione dei decreti legge nell’età di Weimar, a dispetto del cambio completo di orientamenti ideologici, getta una continuità tra “Weimar” e il “Terzo Reich”. C

hi davvero comanda non sono gli algoritmi, ma la tecnica nel suo insieme, il sistema di imposizione che “Heidegger” definisce come “Gestell”, l’apparato, e che ritroviamo nelle considerazioni di “Schmitt” sulla burocrazia.

Non va però trascurato che in” Schmitt” il potere autonomo della burocrazia rispetto alla decisione umana avveniva in un contesto apologetico, volto a ridurre la responsabilità del Terzo Reich e stabilendo una continuità con l’era di Weimar.

 Si ritroverà questa postulazione di un valore autonomamente decisionale della tecnica, per alleggerire le responsabilità umane, nelle autodifese dei gerarchi nazisti a Norimberga.

Senza dimenticare l’intera riflessione di “Heidegger” sulla tecnica, parallela a queste autodifese e non estranea a esse.

 Insomma, “eseguivo gli ordini” e “sono governato dagli algoritmi” non è molto diverso da “sono guidato dagli extraterrestri”: la responsabilità del “Gestell” è una scusa che si presenta in tribunale, dopo averla fatta grossa.

Non ci sono imposizioni della tecnica, non c’è” Gestell”, ci sono solo umani che realizzano tecniche con certe caratteristiche.

 E degli umani che hanno ricevuto una certa educazione, per esempio basata sulla gerarchia e l’obbedienza, e che condividono certi valori, in particolare quello dell’autorità, che in forza di tutte queste circostanze, che non sono direttamente collegate con la tecnica, sono predisposti a obbedire a ingiunzioni mediate dalla tecnica che su altri non avrebbero avuto alcun esito.

Basti considerare che l’annuncio radio di Hitler, il 20 luglio 1944 dopo l’attentato, secondo cui la guerra continuava e i colpevoli sarebbero stati puniti provocò effettivamente gli effetti auspicati.

 Mentre l’annuncio dell’armistizio dato alla radio da Badoglio l’8 settembre, in cui si precisava che le truppe italiane si sarebbero difese, non ebbe alcun esito perché l’esercito si sbandò.

Esclusi gli algoritmi e il Gestell, chi comanda?

 

Lo Stato.

In termini foucaultiani, la risposta è abbastanza ovvia, lo Stato, “il più gelido dei mostri”, come diceva Nietzsche.

Ma ne siamo sicuri?

Permettetemi di rispondere prendendo la cosa apparentemente alla lontana.

A lungo, la riflessione sulle ricadute sociali del Web si è limitata alla privacy, non considerando che centinaia di milioni di persone rinunciano senza problemi alla loro privacy esponendosi sui social network.

 Il punto è un altro.

Quello che interessava a chi comprava le informazioni raccolte e classificate da “Cambridge Analytica” non era conoscere la vita privata delle persone, bensì profilare con esattezza degli individui per poter formulare su questa base delle previsioni.

I nomi non contano, contano i comportamenti.

Lo stato disciplinare di Foucault era un misto fra i sogni della tecnocrazia francese dell’epoca di Giscard d’Estaing, i ricordi del “planisme” elaborato nel Belgio di “Hendrik de Man”, i grandi piani quinquennali sovietici.

Insomma, Foucault pensava a una economia di guerra in cui sorveglianza e punizione vanno di pari passo.

Ma questo non è (almeno in Occidente, per la Cina si dovrebbe fare un discorso ancora diverso) il caso della società attuale.

 

Prendiamo il caso della post-verità, del flusso di fake news prodotte dalla babele documentale.

Se nella tua “echo chamber” sono convinti che la Luna è fatta di formaggio ti apparirà del tutto naturale pensare che chi dice che è fatta di pietra è parte di un complotto.

 E questo non vale ovviamente solo per la materia di cui è fatta la Luna, ma viene a toccare elementi più sensibili come il funzionamento dei mercati, le conseguenze delle manovre economiche, l’utilità dei dazi, le conseguenze socioeconomiche delle migrazioni.

Si osservi questo:

un sistema statale inteso a sorvegliare e punire avrebbe duramente sanzionato la tesi secondo cui la luna è fatta di formaggio, cercando di estirpare l’eresia formaggista.

 O, viceversa, se per qualche motivo lo stato fosse incline al formaggianesimo, lo avrebbe imposto come religione di Stato.

 Ma niente di questo avviene, appunto perché raramente la gestione degli algoritmi è pertinenza di Stati più o meno disciplinari, ma semplicemente ha luogo nel quadro di imprese commerciali interessate all’utilità economica e non al controllo politico.

 

Il Kapitale.

Con questo, però, e in apparenza, la risposta ci viene servita su un piatto d’argento.

 Se il movente di chi ha installato gli algoritmi è economico, il mandante, e il decisore di ultima istanza, non può che essere il” Kapitale”, l’ultimo residuo della “Provvidenza” e della “filosofia della storia” di cui amano parlare i predicatori televisivi.

Il Kapitale, in effetti, è un indiziato perfetto, costituendo una entità mitologica e potente, anche più ubiqua e vaga della tecnica.

 Ma credo che anche in questo caso si tratti di un grande equivoco.

 

Al Kapitale (diversamente che agli stati, di vecchio o nuovo regime) i nostri comportamenti non interessano per ragioni normative, ma semplicemente per ragioni conoscitive.

Vogliono sapere che cosa facciamo, senza giudicare né tantomeno sanzionare, il che, sia detto di passaggio, spiega perché siano così poco interessate a sapere chi noi siamo e il nostro nome.

 Quella struttura di imputabilità che è il nome proprio non interessa al Kapitale, e le conoscenze che accumulano non hanno scopi punitivi (di nuovo, si consideri quanto è facile per un terrorista servirsi del Web) ma solo conoscitivi.

Importa sapere, conoscere il target, profilare gli individui, classificare i comportamenti e le tendenze, e tanto basta.

 

Insomma, governare è l’ultimo degli interessi del Kapitale (ammesso e non concesso che esista).

 Le strutture capitalistiche, che ovviamente esistono, non sono interessate al governo, bensì al guadagno, e questo si consegue conoscendo, e non governando.

E se, lasciata da parte la figura vaga del “Kapitale”, volessimo venire più concretamente al “GAFAM”, ai grandi del Web, Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, si scoprirebbe che la loro funzione è piuttosto quella dei ministri negli Stati di antico regime, che informano e magari valutano, ma non decidono.

Il Sovrano.

Se le cose stanno in questi termini, l’indiziato (come non averci pensato prima?) è il sovrano, il detentore carismatico del potere politico potenziato dalla conoscenza assicurata dagli algoritmi.

Ma neppure questo è il caso.

Le caratteristiche di un sovrano che possa veramente dirsi tale sono infatti tre. Anzitutto, una vita privata radicalmente separata da quella pubblica

 Di Xi Jinping, potentissimo presidente cinese, oppure del dominus polacco Jarosław Kaczyński, sappiamo pochissimo;

 visto che nessuno è grande per il proprio cameriere, è una pessima idea la popolarizzazione del potere che caratterizza l’occidente, e che non porta a nulla di buono, tranne a inondare il mondo con tweet di politici grandi e piccoli, pieni di futili (e umilianti) frammenti di vita privata.

In secondo luogo, un sovrano non è tale senza la possibilità di prendere delle decisioni impopolari.

 Non c’è grande politico che non abbia preso decisioni contrarie al sentire comune del suo popolo.

 Se Churchill o Roosevelt avessero seguito gli umori dei rispettivi popoli il primo avrebbe fatto la pace con Hitler nel luglio 1940 e il secondo si sarebbe guardato bene dal fare la guerra con il Giappone.

Se De Gaulle avesse dovuto dar retta ai Francesi, la guerra d’Algeria non sarebbe finita mai.

Infine, un sovrano prende decisioni di fronte alla storia, cioè anzitutto di fronte alle generazioni future, che al momento non hanno ancora voce.

 Queste decisioni possono essere sbagliate, o estremamente impopolari.

 La storia ne è piena, e in quei momenti chi decideva non aveva il conforto di tweet o di bagni di folla, o la riconoscenza dei compagni di partito che avrebbero continuato il loro confortevole mandato parlamentare con la speranza di una rielezione.

Ci sono momenti in cui promettere sangue, sudore e lacrime significa dire addio alla politica politicante, e se già Roosevelt non poteva permettersi le stesse perdite in guerra di Hitler e di Stalin, figuriamoci le perdite che si potrebbe permettere Trump.

Nessuna classe dirigente occidentale dispone oggi di queste condizioni.

Si consideri la politica populista al tempo del web.

 Il programma di governo è confezionato su misura a partire dalla esatta conoscenza delle aspettative degli elettori, e viene adeguato in tempo reale.

 Come risultato, gli elettori sono sempre pienamente soddisfatti, ma non saranno mai rimborsati per la fiducia data attraverso il voto, giacché non avranno mai un governo, ma solo lo specchio dei loro desideri.

 La governabilità algoritmica, ben lungi dal sostenere un totalitarismo efficiente e silenzioso, determina il passaggio dei politici da classe dirigente a classe diretta, perché quello a cui rispondono non è una opinione pubblica vaga e impalpabile, o qualificata in organi rappresentativi ben definiti, bensì una quantificazione e rappresentazione esatta del gradimento degli elettori.

E se prevale, poniamo, la dottrina della luna fatta di formaggio, allora sarà politicamente doveroso dar vita alla lega del formaggio e al movimento della luna.

Gli eletti, purché abbiano comprato dati da “Cambridge Analytica” o simili, conoscono nei dettagli i desideri degli elettori (anche meglio di quanto non li conoscano gli elettori stessi).

Gli elettori ne sono consapevoli, e si regolano.

Per questa via, la classe dirigente cessa di governare, giacché il governo significa anzitutto la capacità, nell’arco del proprio mandato, di non farsi condizionare in ogni secondo dagli umori dell’elettorato.

A questo punto i governanti sanno benissimo come farsi eleggere, perché basta fabbricare un programma che risponda ai bisogni degli elettori.

Ma, una volta eletti, non possono più governare autonomamente, visto che conoscono benissimo ogni singolo stormir di fronda degli eletti.

È una situazione ideale che, una volta realizzata dalla tecnica, non appare così ideale come potevano immaginarla i suoi fautori.

La vera trasformazione sta appunto nella circostanza per cui – con un vantaggio senza precedenti rispetto agli stati di antico regime e alle democrazie parlamentari – la governabilità può disporre (grazie ai GAFAM, e non autonomamente: non siamo più ai tempi di Foucault e dello statalismo) di una conoscenza dettagliata delle preferenze, degli orientamenti e delle abitudini dei cittadini.

Questa microfisica del sapere permette in teoria di capovolgere il funzionamento del sistema democratico trasformandolo in uno stato totalitario.

In pratica, però, avviene il contrario, e se qualcosa come la tirannide si realizza in questo quadro, ricorda molto di più l’oclocrazia, il dominio delle moltitudini, che non un dirigismo elitario come nei totalitarismi del secolo scorso.

 

La dittatura del proletariato.

Non c’è un nesso tra la governabilità algoritmica e la creazione di una società totalitaria.

Al contrario – ed è quello che vorrei portare al centro dell’attenzione – assistiamo a una crisi della leadership che costituisce la causa principale dell’attuale populismo, che non è, ricordiamolo, la dottrina di un leader che guida il popolo, ma piuttosto quella di una moltitudine che, con il suo consenso o dissenso, fa fare al leader quello che vuole lei.

Insomma, più che un governo dall’alto che eserciterebbe un controllo biopolitico, quello che abbiamo è una conoscenza dettagliatissima (una profilazione) delle credenze, delle intenzioni, dei gusti e dei desideri dei governati.

Il che però non permette ai governanti di schiavizzarli, visto che nei paesi liberali (altro, ovviamente, è il discorso per la Russia e per la Cina, ma non dipende dagli algoritmi) non ne hanno il modo, giacché gli elettori possono sempre rimandarli a casa.

Anzi, il vantaggio elettorale costituisce una enorme limitazione del potere politico di cui i teorici del potere come “panopticon”, che guarda senza esser visto, non avevano tenuto conto.

Il risultato della governabilità algoritmica è così proprio la decostruzione della sovranità di cui parlava “Derrida”, considerandola a giusto titolo come una sovranità in decostruzione, precisamente per opera di trasformazioni tecniche che noi vediamo oggi molto meglio di lui.

 

Questo fa riflettere su quanto inappropriate siano state le interpretazioni della politica post-ideologica come politica carismatica.

 Se c’è qualcosa di cui i leader contemporanei sono privi, e per le ragioni strutturali che ho cercato di illustrare, è il carisma.

 La guida contemporanea è narcisistica, non carismatica:

 il leader rispecchia quello che siamo noi, come nella “Fenomenologia di Mike Bongiorno”.

 La rivoluzione documentale più che a un “Dispotismo del Kapitale”, ha dato luogo a una “Dittatura del Proletariato”, sicché da ultimo “tutto il potere agli algoritmi” sarebbe soltanto la versione aggiornata di “tutto il potere ai soviet”.

 

Il Popolo.

Se le cose stanno così, il vero indiziato è il più insospettabile, l’eterna vittima:

 il Popolo, che finalmente fa sentire la sua voce attraverso gli algoritmi.

 Si dice che l’attuale vicepremier italiano Matteo Salvini sia orientato da un algoritmo, “la bestia”, ma i suoi collaboratori assicurano che la bestia è lui.

Le due circostanze non sono incompatibili, basterà richiamarsi alle riflessioni svolte da “Derrida” sul nesso tra bestia e sovrano.

Dalle origini la sovranità è collegata con una bestialità, che è anzitutto la forza delle bestie mitologiche con cui si rappresenta lo Stato, o quella del sovrano come capo militare.

Non dimentichiamo però un’altra figura dell’animalità: il popolo bue.

 Si tratta di una solenne ovvietà, di una vera e propria lettera rubata, di qualcosa che è insieme la premessa di ogni politica (che parte sistematicamente da questo presupposto) e l’innominabile di qualunque discorso intellettuale.

 Invece che con Frankenstein o con il Golem abbiamo dunque a che fare con un altro mostro, il Popolo, che, d’accordo con Guicciardini, è “uno animale pazzo”.

Futile e fortunatamente inattuabile è la speranza del filosofo di guidare i politici: da “Platone” a “Heidegger” è un susseguirsi di scacchi e di umiliazioni che ci hanno messo al riparo da una eventualità probabilmente funesta.

 Ma un governo di non filosofi o di anti filosofi non è necessariamente migliore. Come la carta dell’ONU che sanciva libertà di espressione per ogni membro dell’umanità non poteva prevedere che con questo si dava – in un futuro tecnologico ancora imprevedibile – spazio al razzismo, all’odio, e soprattutto a quell’erba sempre così rigogliosa che è l’imbecillità, così nessuno mai avrebbe immaginato che il Popolo potesse diventare trasparente, trovando il modo per far sentire, chiaro e forte, la sua voce.

Il problema del popolo sta però nell’essere una entità mitologica non meno del Kapitale.

Per i populisti sarebbe una massa sacrificata, lavoratrice, piena di valori, quando con ogni evidenza (e per sua e nostra fortuna) è la folla che riempie le discoteche, i ristoranti, gli aeroporti, e intasa le strade di Venezia e di New York.

Non uno di loro si ammazza di lavoro, molti sono disoccupati, ma tutti producono valore attraverso la loro mobilitazione sul web.

Onore al merito, che però non ha nulla a che fare con il merito ideologico e mitologico che viene attribuito al Popolo dei Populisti.

Sopravvivono le fasce di reddito, ma scompaiono le classi in quando catalizzatrici di idee, consuetudini, forme di pensiero e di comportamento.

Nella rivoluzione in corso cadono le divisioni sociali:

 padrone e servo operano nello stesso spazio e fanno le stesse cose attraverso gli stessi media.

Contemporaneamente, però, al posto della massificazione abbiamo un livellamento, una orizzontalità di monadi che prende il posto della verticalità di classe capitalista.

Le monadi posseggono dei valori esclusivi e condivisi in piccoli gruppi e camere di risonanza, che a loro volta possono comunicare con altri gruppi, ma sempre in maniera orizzontale, senza la verticalità (da una autorità emittente a dei destinatari) che caratterizzava l’età industriale e postindustriale.

 Le credenze si atomizzano, privatizzano e si fanno identitarie.

Tuttavia, se si hanno buoni motivi per pensare che quella di “classe” sia una nozione romantica, e inconsistente, questo vale a maggior ragione per la nozione di “popolo”.

E quando una nozione è inconsistente, ogni equivoco è possibile.

È in questo ambito che ha luogo la confusione sistematica e fatale tra popolo sovrano (una fictio iuris), popolo come classe (cioè un obscurum per obscurius) e popolo come nazione (idea antropologica), che permette un mix di marxismo e nazionalismo, tanto più problematica in quanto il popolo che viene evocato non è che una somma di monadi, dunque la cosa meno vicina a un popolo in qualunque senso lo si voglia intendere.

Il “panopticon” capovolto.

Quello che si fa avanti, il vero titolare del potere nel web, è allora la moltitudine, e quello che si attua è la dittatura del proletariato.

 Marx nomina la dittatura del proletariato solo due volte, e si ha ragione di credere che si riferisse alla “Comune di Parigi”, che in effetti ha moltissimi aspetti fascisti e populisti nel nostro senso contemporaneo.

In effetti, ciò che ha luogo oggi è la realizzazione di ciò che appariva soltanto un sogno, o un incubo.

 Invece che un dispotismo tecnocratico, quello che si realizza è la dittatura del proletariato, ossia ciò che correntemente oggi si chiama “populismo”, un governo delle masse, appunto delle moltitudini che (chissà perché) spesso si rappresentano come rivoluzionarie, e che si attua proprio oggi perché solo oggi esistono gli strumenti tecnici per conoscere nel dettaglio gli orientamenti degli elettori.

Il panopticon esiste dunque, ma è un panopticon capovolto, in cui i governati governano i governanti, e questo non perché questi ultimi siano in una qualche casa di vetro, ma semplicemente perché il Palazzo conosce davvero troppo bene cosa vogliono gli elettori.

Se il governante è semplicemente l’applausometro degli umori dei governati, questa non è la realizzazione della democrazia e della politica, ma è “oclocrazia”, l’incubo delle masse al governo (concretamente: vi fareste governare da quelli che posteggiano in terza fila? Bene, l’oclocrazia è questo).

 

Proprio come la conoscenza analitica del mercato paralizza lo scambio, la microfisica del potere capovolge la democrazia.

 Si disegna un gioco in cui tutti perdono, e questo, dopotutto, è il risultato della governabilità algoritmica.

La democrazia richiede un doppio velo di ignoranza e un sistema di informazione non troppo pervasivo.

Chi formula una proposta elettorale si immagina solo a grandi linee, e non nel dettaglio, le aspettative degli elettori, e le sintetizza armonizzandole in un quadro ideologico che costituisce il canovaccio del suo operato;

 gli elettori non sanno sino in fondo quali sono le loro aspettative;

e la formula di governo può essere portata avanti senza continue correzioni dettate dai sondaggi e dall’opinione pubblica.

Già il populismo mediatico ha mutato questa condizione:

grazie all’auditel, un proprietario di televisioni conosce molto meglio dei partiti tradizionali (specie se fortemente ideologizzati: cattolici, comunisti) i gusti veri e magari inconfessabili e inconfessati degli elettori;

 inoltre, non avendo osservanze ideologiche da rispettare, può riformulare costantemente la linea di governo alla luce dei sondaggi.

 

Il populismo informatico fa un passo in avanti:

il programma di governo è confezionato su misura a partire dalla esatta conoscenza delle aspettative degli elettori, e viene adeguato “in tempo reale”.

Ma quello che ci assicura la “governabilità algoritmica” è un processo differente: i governanti sono governati dai sondaggi, il che significa la fine del concetto di leadership.

In effetti, se guardiamo alla società politica che si è venuta formando attraverso il web è un apparato che strutturalmente rende impossibile l’esercizio di una sovranità degna di questo nome.

Un effetto collaterale, simmetrico e anche più significativo, consiste nell’annullamento non solo della sovranità degli eletti, ma anche di quella degli elettori. (l’IA regna sovrana! N.D.R) .

 “Spinoza” diceva giustamente che se una pietra che cade potesse pensare, penserebbe di farlo liberamente.

 Noi non siamo, ontologicamente parlando, liberi.

Ciò che appare come libertà non è un fatto ontologico, bensì epistemologico, ossia l’imprevedibilità (anche per noi stessi) dei nostri comportamenti.

 Quando un sapere dell’individuale come quello raccolto dagli algoritmi permette di anticipare con crescente certezza e automatismo i comportamenti, non scompare la libertà (che in senso stretto non c’è mai stata), ma semplicemente risulta molto più prevedibile il comportamento umano, ossia quella imprevedibilità che a torto viene identificata con la libertà.

Come risultato, gli elettori sono sempre pienamente soddisfatti, ma non saranno mai rimborsati per la fiducia data attraverso il voto, giacché non avranno mai un governo, ma solo un rispecchiamento delle loro confuse e contraddittorie aspettative, e soprattutto dei loro astratti furori.

Quel che più conta è che gli elettori non sapranno mai veramente ciò che vogliono, né perché, né il quadro della situazione, perché questo è a disposizione di chi detiene i mezzi di interpretazione, della piattaforma, e non dei suoi utenti.

Che fare?

Siamo partiti dal “ci governeranno i computer” e siamo giunti a una condizione molto diversa: i governanti saranno governati dalla moltitudine.

Non che sia molto meglio:

 la moltitudine non realizza una gloriosa rivoluzione, ma semplicemente una sovversione.

La dittatura del proletariato ha infatti, indubbiamente, un carattere sovversivo (in quanto sovverte la sovranità) e regressivo, in quanto lo fa in nome di istanze superate che si riferiscono, nella vita come nel lavoro, a forme di organizzazione passate.

 Confondere la sovversione con la rivoluzione non è molto diverso dal confondere la vendetta con la giustizia, eppure l’una e l’altra cosa costituiscono la regola dei populismi nati dal web.

 Si impone a questo punto la domanda “Che fare”, cui si possono dare tre risposte in un grado di crescente concretezza.

La prima è la speranza.

La dittatura del proletariato è una fase necessaria, e non per imponderabili leggi della storia, ma a causa di trasformazioni tecniche che abbiamo sotto gli occhi e che hanno il merito di liberare dalla fatica fisica e dal bisogno un numero crescente di esseri umani. Inoltre, è la manifestazione del farsi avanti del primo principio dell’illuminismo secondo Kant, ossia della capacità di pensare con la propria testa.

La seconda è l’intelligenza.

 L’illuminismo secondo Kant comportava altre due regole, il saper pensare mettendosi nella testa degli altri e il saper pensare d’accordo con sé stessi, ossia in modo conseguente.

Né l’una né l’altra regola paiono attuarsi nel tempo presente.

Questo però non esclude che, nel futuro, possano realizzarsi, proprio come si sono attuati progressi sociali, come il cosmopolitismo e il superamento della subordinazione femminile, che apparivano inconcepibili pochi decenni fa.

Si può sperare che, se i progetti più nettamente regressivi del populismo non troveranno attuazione, una crescente cultura comune potrà condurre – in tempi lunghi o lunghissimi – alla realizzazione di un illuminismo completo.

La terza è il realismo.

Il sapere è un lungo cammino.

 Soprattutto, non è un bene a cui (piaccia o meno ad Aristotele) l’umanità tiene in modo particolare.

Gli uomini preferiscono le tenebre alla luce, e la post-verità ne è la dimostrazione contemporanea:

tengono ad aver ragione, non al fatto che le loro ragioni siano vere.

Se dunque il sapere è una via così lunga e tortuosa, si può per l’intanto seguire la via del fare, riducendo lo scontento sociale.

E per farlo, invece che prendersela con l’Europa, il Kapitale e altri numi, o proporre redditi di cittadinanza improbabili e impagabili, basterebbe che una Europa Unita imponesse ai “GAFAM” una tassa sul plusvalore prodotto dalle moltitudini mobilitate sul web, e la ridistribuisse sotto forma di “salario di mobilitazione.”

Le elezioni europee

come specchio.

Unz.com - PATRICK LAWRENCE – (16 GIUGNO 2024) - ci dice:

 

Ah, le elezioni della scorsa settimana per il Parlamento europeo, in cui gli elettori di tutta l'Unione europea hanno dato un bel colpo ai tecnocrati, ai fondamentalisti del mercato e agli autoritari liberali che ora detengono il potere in gran parte del continente: tentiamo ciò che non dovremmo mai intraprendere.

 Cerchiamo di capirli.

Il Parlamento dell'Unione Europea, per chiarire alcuni dettagli di base, è uno dei pilastri dello sgabello a tre gambe di cui è fatta l'unione:

 i tecnocrati non eletti sono a Bruxelles, i banchieri centrali non eletti sono a Francoforte e la legislatura eletta è a Strasburgo.

Belgio, Germania e Francia:

la distribuzione del potere istituzionale in questo modo è intesa come una dimostrazione dell'unità duramente conquistata del continente.

Il problema, e la ragione per cui io e molti altri siamo scesi dall'autobus dell'UE anni fa, è che i legislatori di Strasburgo sono essenzialmente impotenti.

 Sì, hai ispirato europarlamentari come “Claire Daly” e il suo collega “Mick Wallace”, entrambi irlandesi (e devi amare la sua cadenzata francesina).

Hanno fatto uso delle camere legislative di Strasburgo per articolare posizioni di principio su Gaza, l'Ucraina e altre questioni simili, ma non c'è mai stata alcuna questione sul fatto che il Parlamento dell'UE aveva il potere di legiferare sulla direzione dell'unione.

Tra parentesi, Daly e Wallace sono stati destituiti dalle elezioni della scorsa settimana.

L'UE è come è stata a lungo:

 un'istituzione antidemocratica in cima alla quale siedono ideologi neoliberisti e banchieri centrali austeri, tecnocrati che non si interessano al processo democratico o ai desideri dei cittadini dell'UE.

 I lettori ricorderanno la brutalità con cui Bruxelles e Francoforte hanno fatto mangiare agli ateniesi dai bidoni della spazzatura nove anni fa per proteggere gli interessi degli investitori obbligazionari che detenevano debito sovrano greco. Questa era l'UE in azione, l'UE che ha pervertito la degna visione dei suoi fondatori del dopoguerra.

Quando guardiamo alle elezioni tenutesi dal 6 al 9 giugno in tutto il continente, dobbiamo riconoscere un certo paradosso.

Gli eurodeputati eletti avranno poco potere, come sanno gli elettori europei meglio di chiunque altro, ma è proprio per protestare contro la corruzione della democrazia europea che questi elettori hanno inferto un colpo così duro ai partiti tradizionali e ai tecnocrati di Bruxelles da cui sono praticamente inseparabili.

 

La domanda in sospensione nelle capitali europee ora è se la profonda animosità evidente nei risultati elettorali della scorsa settimana si ripercuoterà sulle urne nazionali previste nelle prossime stagioni politiche.

Figure come Emmanuel Macron pensano che nelle competizioni legislative che avranno conseguenze reali, gli elettori insoddisfatti si tireranno indietro dall'orlo del baratro:

 il voto dell'UE come una messa in scena, chiamiamolo ragionamento.

Non sono sicuro che il presidente francese abbia ragione su questo.

 Le condizioni che hanno prodotto i risultati della scorsa settimana in tutta l'UE stanno chiaramente portando una sostanziale migrazione dal "centro" di cui gli autoritari liberali parlano come di una sorta di spazio sacro.

Qualche numero è d'obbligo.

Misurano un cambiamento molto considerevole nel sentimento politico europeo nei confronti dei partiti comunemente chiamati "di estrema destra" e di varie altre descrizioni di questa linea.

Di seguito sono riportati i risultati francesi e tedeschi;

il modello altrove nell'UE ha generalmente seguito quello di quella che chiamiamo “Core Europe.

 

Il partito rinascimentale di Macron ha solo otto anni e sembra già poco più di un piccolo club di neoliberisti con un background, come quello di Macron, nel settore bancario, finanziario, del private equity e in altri campi simili.

La scorsa settimana ha gareggiato con una piccola coalizione di partner insignificanti sotto il nome di “Besoin d'Europe”, "Abbiamo bisogno dell'Europa", all'incirca, e ha ottenuto il 15,2% dei voti francesi, una perdita di poco inferiore a un terzo rispetto ai risultati del 2019.

 Mettetelo a confronto con quelli del “Rassemblement National”, del Rassemblement , del partito di Marine Le Pen.

 Ha ottenuto il 31,37 per cento dei voti, un guadagno di oltre un terzo rispetto alle ultime elezioni europee di cinque anni fa.

Nel contesto dell'UE, Rassemblement è ora il primo partito francese con un margine di oltre il 100 per cento.

Un simile spostamento di potere si è verificato nel voto tedesco.

Non potrei essere più contento che i Verdi, che hanno perso la loro strada molto tempo fa e ora sono un partito di guerrafondai neoliberisti, hanno perso meno di tre quarti dei loro consensi, finendo con l'11,9 per cento dei voti.

I socialdemocratici al governo hanno perso di meno, ma hanno ottenuto solo il 14 per cento dei voti tedeschi.

Passiamo ora all'AfD, Alternative für Deutschland.

È tornato a casa con il 15,8 per cento dei voti, con un aumento di circa il 44 per cento.

 Ora è il partito numero 2 della Germania nel contesto dell'UE.

Gli occupanti del "centro" sono a dir poco fuori di testa, ovviamente.

Macron ha immediatamente sciolto l'Assemblea nazionale, la camera bassa della legislatura, che è una prerogativa costituzionale del presidente francese.

 "Dopo questo giorno, non posso andare avanti come se nulla fosse successo", ha dichiarato in un discorso nazionale.

 È probabile che lo farà, secondo la mia lettura:

 lo fa sempre quando si trova di fronte a sfide di questo tipo, il movimento dei "gilet gialli" del 2018, per esempio.

Ma il panico del leader francese è evidente e condiviso tra gli altri grandi appartenenti alle élite neoliberiste europee.

Il Canada potrebbe non avere nulla a che fare con le elezioni dell'UE, ma “Justin Trudeau” ha detto qualcosa di estremamente rivelatore del pensiero (o del non pensiero) mainstream all'apertura del vertice del G7 in Italia il 13 giugno. "Abbiamo visto in tutto il mondo un'ascesa di forze populiste di destra in quasi tutte le democrazie", ha affermato il primo ministro canadese.

"È preoccupante vedere i partiti politici scegliere di strumentalizzare la rabbia, la paura, la divisione, l'ansia".

Questa stupida affermazione al di là di ogni credenza merita di essere presa in considerazione.

Non solo riflette il vile rifiuto dei leader europei in carica di venire a patti con i loro ampi fallimenti nel servire i loro cittadini;

 è anche un chiaro incapsulamento della stessa identica dinamica politica all'estero tra le élite liberali americane.

 Gli europei ci 'R' in questo confronto tra coloro che abusano del potere che detengono e coloro che li detestano per questo.

L'AfD, il Rassemblement National e partiti simili al di là dell'Europa centrale:

gli americani dovrebbero ascoltare con attenzione e cautela i continui licenziamenti dei leader europei.

Non sono così rozzi da definire i sostenitori sempre più presenti di questi partiti "un cesto di deplorevoli", secondo la memorabile frase di “Hillary Clinton”, ma se consideriamo ciò che viene detto in Europa ora, possiamo sentire più chiaramente ciò che viene detto in America.

 

Abbiamo letto per mesi dell'ascesa dell'"estrema destra", dell'"estrema destra", dell'"estrema destra", della "destra", dei "nazionalisti" in Europa, tutto questo con l'occasionale accenno di tendenze neonaziste tra questi partiti di opposizione. Sono tutti colpevoli del più imperdonabile dei peccati: sono populisti. Nel riportare i risultati elettorali di giovedì scorso, il New York Times ha avvertito che "l'estrema destra" ora "scatenerà il caos". La mia preferita in questa riga è quella di un corrispondente da Parigi che contribuisce occasionalmente con articoli di opinione al Times.

 Commentando le imminenti elezioni anticipate in Francia – due tornate da completare il 7 luglio – “Cole Stengler”, che ha scritto alcune cose molto belle in passato, ha avvertito i lettori del Times: "La Francia è sull'orlo di qualcosa di terrificante".

Terrificante per chi?

 È una buona domanda anche se nessuno si ferma a farla.

Terrificante, a quanto pare, per le élite delle capitali europee e, naturalmente, per i media che le servono.

Per quanto riguarda coloro che hanno vinto le elezioni della scorsa settimana, non hanno nomi né volti.

Le etichette andranno bene, "terrificante" ora aggiunto ad esse.

E i loro partiti non hanno piattaforme:

stanno semplicemente "strumentalizzando" tutto ciò che è sulla lista di Trudeau:

 la gente può essere arrabbiata, impaurita, ansiosa e stare contro di noi, ma come osano questi astuti bastardi che gestiscono i partiti di opposizione dare agli elettori veicoli per esprimere queste cose nelle cabine elettorali?

Fin dall'inizio ho trovato tutte le sciocchezze iperboliche dispiegate contro “Donald Trump” – un dittatore, un tiranno, un fascista che porrà fine alle elezioni – trasparenti tentativi di spaventare quegli strani americani che insistono sul fatto che c'è un motivo per votare.

È anche profondamente distruttivo il discorso politico americano.

E finalmente sono arrivato ad ascoltare tutte le descrizioni degli autoritari liberali dei partiti di destra europei allo stesso modo.

Unisciti a me per esaminare alcune domande a questo proposito.

Una maggiore sovranità nazionale in risposta all'arroganza prepotente dei tecnocrati non eletti e degli adoratori del mercato a Bruxelles e Francoforte, un'Europa indipendente che rifiuta l'asservimento dei suoi leader a Washington, relazioni pacifiche con la Russia e la fine del regime di sanzioni economiche rovinose che gli Stati Uniti hanno imposto all'Europa, la fine, inoltre, del sostegno finanziario, materiale e politico ai ladri, Il regime neonazista di Kiev e la guerra per procura condotta a caro prezzo:

 queste sono alcune delle principali posizioni dei partiti che hanno appena vinto le elezioni europee.

 Ditemi, per favore, che cosa c'è di "estrema destra" o di "caos" in tutto questo.

 

C'è la questione dell'immigrazione.

 I vincitori delle elezioni della scorsa settimana, in particolare l'AfD, sono notoriamente contrari alla continua immigrazione dal Nord Africa e dal Medio Oriente.

 E sì, la sua piattaforma include il sostegno ad alcune misure molto dure.

Pensate a questo: l'AfD è più forte negli stati che in precedenza appartenevano alla Repubblica Democratica Tedesca, più debole negli stati ricchi della Germania occidentale (con la "w" minuscola).

E sono gli stati della vecchia DDR, che tendono ad avere un carattere operaio, che devono assorbire le più alte concentrazioni di immigrati.

 La mia domanda:

è utile liquidare gli elettori dell'AfD come razzisti, o sarebbe politicamente più responsabile affrontare il problema dell'immigrazione senza gli epiteti?

Seguo con una certa attenzione il reportage di “Erika Solomon”, corrispondente dell'ufficio di Berlino del “Times”, dalla scorsa primavera.

La nostra Erika è molto lunga sugli "estremisti" dell'AfD – 10.000 secondo il conteggio dell'intelligence tedesca – sui complotti del partito per rovesciare il governo, sulle dichiarazioni naziste di questa o quella figura del partito ("Tutto per la Germania") , sui legami segreti con la Russia.

Potete leggere alcune di queste cose.

Quello che mi piace dei file di “Erika Solomon” è che raramente c'è qualcosa al loro interno.

È tutta insinuazione, implicazione, suggerimento, sospetto – e non dimentichiamo l'iperbole e l'errata interpretazione.

Questo è molto utile per valutare la veridicità delle incessanti grida degli autoritari liberali secondo cui l'AfD minaccia la seconda venuta del Reich e quindi la fine della democrazia tedesca.

Ho perso molto tempo fa per distinzioni come "sinistra" e "destra".

Per prima cosa, a meno che non si continuano persone come “Michelle Goldberg” – per favore non fatemelo – non c'è più sinistra negli Stati Uniti, il che presenta un problema retorico fin dall'inizio.

In secondo luogo, se metti tutti in una scatola con un'etichetta, ti perdi qualcosa. Ero a favore di una nuova distensione con i russi, del ritiro dalla Siria e dall'Iraq, della rivalutazione della NATO, tutte posizioni che Trump ha favorito fino a quando coloro che lo circondavano non lo hanno segretamente sventato.

Lo stesso vale per i partiti di estrema destra europei su questa o quella questione. Né Trump né i partiti più a destra d'Europa sono la mia tazza.

Ma la verità nel nostro tempo spesso non è né di destra né di sinistra.

 È semplicemente vero, senza alcun imperativo ideologico ad esso collegato.

A questo proposito, qualcosa di interessante è iniziato tra i francesi subito dopo il ritorno dell'UE.

Nelle sue edizioni dell'11 giugno, Le Monde ha riferito che dopo una maratona di colloqui organizzati in fretta e furia, i vari partiti della sinistra francese hanno deciso di formare un “nouveau front populaire” , un nuovo fronte popolare, per schierare candidati comuni alle elezioni legislative che Macron ha dichiarato due giorni prima.

 L'intento è quello di unire "tutte le forze della sinistra umanista, i sindacati, le associazioni ei cittadini", come ha dichiarato giovedì “Manuel Bompard”, leader de” La France Insoumise”,” France Unbowed”, il partito di “Jean-Luc Mélenchon”. E da “Olivier Faure”, primo segretario del Partito socialista: "È stata scritta una pagina di storia francese".

La sinistra francese ci ha già provato una volta con la “Nuova Unione Popolare Ecologica e Social”e, che è crollata alla fine dell'anno scorso dopo una vita breve e infelice.

Ma questa nuova alleanza, la cui notizia è stata immediatamente su tutti i media francesi, sembra più ambiziosa, seria e interessante.

Riunisce tutti i principali partiti di sinistra: i socialisti, i verdi, France Unbowed di Mélenchon e il buon vecchio Parti Byzantine Français.

Far sì che socialisti e comunisti francesi si trovino sulla stessa piattaforma è di per sé un risultato.

Lo fecero durante il famoso Fronte Popolare degli anni '30, non dimentichiamolo. Forse il nome a cui si fa riferimento suggerisce che le parti coinvolte vedono il nostro momento come altrettanto grave.

Non vedo ancora molto per quanto riguarda gli assi in detta piattaforma.

Quale sarà la posizione su Israele, la Russia (su questo la presenza del PCF è intrigante), l'Ucraina, l'indipendenza europea, l'immigrazione?

Non è ancora chiaro.

Ma la carica politica derivante dalle elezioni europee e il rischio di elezioni anticipate di Macron suggeriscono che la sinistra in una grande nazione europea vede un'apertura.

Nel migliore dei casi, le posizioni valide sulle questioni appena menzionate arriveranno da qualche parte diversa dall'energica estremità destra del giardino politico europeo.

 

 

 

 

L'egemone ordina all'Europa:

scommetti sulla guerra e

ruba i soldi della Russia.

 

Unz.com - PEPE ESCOBAR – (18 GIUGNO 2024) – ci dice:

Il kabuki svizzero della "pace" andava e veniva – e il vincitore è stato Vladimir Putin. Non c'era nemmeno bisogno che si presentasse.

Nessuno dei Big Player lo ha fatto.

Oppure, nel caso in cui inviassero i loro emissari, ci fu un significativo rifiuto di firmare la vacua dichiarazione finale – come nei paesi BRICS Brasile, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Sud Africa.

Senza i BRICS, non c'è assolutamente nulla che l'Occidente collettivo – come in (The Hegemon” e vassalli assortiti – possa fare per alterare lo scacchiere della guerra per procura in Ucraina.

Nel suo discorso attentamente calibrato ai diplomatici e alla leadership del Ministero degli Affari Esteri russo,” Putin” ha delineato un approccio incredibilmente moderato e strategico per risolvere il problema dell'Ucraina.

Nel contesto dell'escalation del via libera da parte dell'egemone – in realtà ormai da diversi mesi – a Kiev per attaccare più in profondità nella Federazione Russa, l'offerta di Putin è stata estremamente generosa.

Questa è un'offerta diretta all'egemone e all'Occidente collettivo – poiché l'attore sudato in maglietta di Kiev, oltre ad essere illegittimo, è più che irrilevante.

Com'era prevedibile, la NATO – attraverso quell'epilettico pezzo di legno norvegese – ha già proclamato il suo rifiuto di negoziare, anche se alcuni membri relativamente svegli della “Verkhovna Rada” (il parlamento ucraino) hanno iniziato a discutere l'offerta, secondo il presidente della Duma “Vyacheslav Volodin ”.

 

Mosca vede la “Verkhovna Rada” come l'unica entità legittima in Ucraina – e l'unica con la quale sarebbe possibile raggiungere un accordo.

Il rappresentante russo dell'ONU” Vasily Nebenzya” va al sodo – diplomaticamente:

se la generosa proposta viene rifiutata, la prossima volta le condizioni per l'avvio dei negoziati saranno "diverse".

 È "molto più sfavorevole", secondo il capo della commissione di difesa della Duma, “Andrei Kartapolov”.

Mentre “Nebenzya” sottolineava che in caso di rifiuto l'Occidente collettivo si assumerebbe la piena responsabilità di un ulteriore spargimento di sangue, “Kartapolov” elaborava il quadro generale:

il vero obiettivo della Russia è creare un sistema di sicurezza completamente nuovo per lo spazio eurasiatico.

 

E questo, ovviamente, è un anatema per le élite dell'egemone.

La visione di sicurezza di Putin per l'Eurasia si rifà a questo leggendario discorso alla “Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007”.

Ora, con il costante progresso di un irreversibile nuovo sistema multinodale (il corsivo è mio) e multicentrico di relazioni internazionali, il Cremlino sta spingendo per una soluzione urgente – considerando l'escalation estremamente pericolosa di questi ultimi mesi.

 

Putin ha dovuto ricordare ancora una volta ai sordi, ai muti e ai ciechi l'ovvio:

"Gli appelli a infliggere una sconfitta strategica alla Russia, che possiede il più grande arsenale di armi nucleari, dimostrano l'estremo avventurismo dei politici occidentali.

O non comprendono la portata della minaccia che essi stessi creano, oppure sono semplicemente ossessionati dalla fiducia nella propria immunità e nella propria esclusività.

 Entrambi possono trasformarsi in una tragedia".

Rimangono sordi, muti e ciechi.

Una proposta che non risolve nulla?

Un acceso dibattito infuria nei circoli informati in Russia sulla proposta di Putin.

 I critici la bollano come una capitolazione, forzata da oligarchi selezionati e influenti circoli economici, contrari a una "quasi guerra" (il motto preferito) che continua a rimandare l'inevitabile sciopero di decapitazione.

Io critico sostengo che la strategia militare è totalmente subordinata a una strategia politica.

 E questo spiegherebbe i gravi problemi nel Mar Nero e in Transnistria: il centro politico del potere si rifiuta di conquistare l'obiettivo economico/militare numero uno, che è Odessa.

Inoltre, le catene di approvvigionamento di armi dell'Ucraina non vengono adeguatamente interrotte.

Il punto critico chiave è "ci vuole troppo tempo". Basta guardare l'esempio di Mariupol.

Nel 2014, Mariupol è stata lasciata sotto il controllo di “bande nazi-banderistiche” come parte di un accordo finanziario con “Rinat Akhmetov”, il proprietario dello stabilimento” Azovstal”.

Questo è un classico caso di oligarchi e finanzieri che prevalgono sugli obiettivi militari.

 

La generosità di Putin, visibile in quest'ultima offerta di pace, suscita anche un parallelo con ciò che è accaduto a “Dara'a” in Siria:

anche la Russia ha negoziato quello che all'inizio sembrava un accordo di pace. Eppure “Dara'a” rimane un caos, estremamente violento, con soldati siriani e russi a rischio.

Diventa davvero complicato quando l'attuale proposta chiede solo alla NATO di non invadere Kiev;

ma allo stesso tempo Kiev potrà avere un esercito, sulla base dei negoziati (interrotti) di aprile 2022 a Istanbul.

I critici sostengono anche che Putin sembra credere che questa proposta risolverà la guerra.

Non proprio.

 Una vera campagna di denazificazione è una faccenda di decenni – che coinvolge qualsiasi cosa, dalla completa smilitarizzazione allo sradicamento dei centri dell'ideologia estremista.

Una vera rivoluzione culturale.

L'attuale escalation è già in sintonia con gli ordini impartiti dalla rarefatta plutocrazia che realmente dirige lo spettacolo ai messaggeri – e agli agenti: le bande nazi-banderiste scateneranno una guerra di terrore in Russia per anni.

Dal territorio dell'Ucraina.

Proprio come Idlib in Siria rimane un ambiente favorevole al terrorismo.

Il dossier di Odessa.

La strategia di Putin potrebbe puntare a qualcosa che sfugge ai suoi critici. Il suo desiderio di un ritorno della pace e del ristabilimento di solide relazioni con Kiev e l'Occidente deve essere uno stratagemma, poiché è il primo a sapere che ciò non accadrà.

È chiaro che Kiev non cederà volentieri i territori:

 questi dovranno essere conquistati sul campo di battaglia.

Inoltre la NATO semplicemente non può firmare la sua umiliazione cosmica sulla linea tratteggiata, accettando che la Russia ottenga ciò che chiede dal febbraio 2022.

Il primo obiettivo di Putin, quello diplomatico, è già stato raggiunto.

Ha chiaramente dimostrato alla maggioranza globale di essere disponibile a risolvere il dilemma in un'atmosfera serena, mentre la NATO confusa continua a gridare "Guerra!" ogni altro minuto.

L'egemone vuole la guerra? Quindi sarà la guerra – fino all'ultimo ucraino.

E questo ci porta al caso Odessa.

Putin, soprattutto, non ha detto nulla su Odessa.

Questa è l'ultima possibilità di Kiev di tenere Odessa.

Se la proposta di pace verrà respinta definitivamente, Odessa comparirà nella prossima lista di non negoziabili.

Il ministro degli Esteri” Sergey Lavrov,” ancora una volta, ha fatto centro: "Putin è paziente. Chi ha orecchie udrà, chi ha cervello capirà".

Nessuno dovrebbe aspettarsi che in Occidente spuntino cervelli funzionanti.

 Il premier ungherese Viktor Orban ha confermato come la Nato stia pianificando massicce installazioni in Polonia, Romania e Slovacchia per "coordinare il trasferimento di armi all'Ucraina".

A ciò si aggiunga l'epilettica lastra di legno norvegese che afferma che la NATO sta "discutendo" di portare le proprie armi nucleari in uno stato di prontezza al combattimento "di fronte alla crescente minaccia di Russia e Cina".

Ancora una volta “Old Stolty” svela il gioco: si noti che si tratta della paranoia dell'Egemone con le due principali "minacce esistenziali", il Partenariato strategico Russia-Cina.

Cioè, i leader dei BRICS che coordinano la spinta verso un mondo multipolare, multinodale (corsivo mio), "armonico" (terminologia di Putin).

Rubare denaro russo è legale.

Poi c'è il palese furto di asset finanziari russi.

Durante il triste spettacolo in Puglia, nel sud Italia, il G7 – alla presenza dell'illegittimo attore sudato in maglietta – ha accettato di concedere ulteriori 50 miliardi di dollari in prestiti all'Ucraina, finanziati dagli interessi sui prestiti congelati della Russia e per tutti gli scopi pratici.

Beni Rubati.

Con una logica impeccabilmente distorta, il primo ministro italiano Giorgia Meloni – il cui taglio di capelli e il rinnovamento del guardaroba non si applicavano in definitiva al suo cervello – ha affermato che il G7 "non confischerà i beni congelati della Federazione Russa"; "stiamo parlando degli interessi che accumulano nel tempo."

Per quanto riguarda le truffe finanziarie, questa è una cosa meravigliosa.

In sostanza, il principale cliente (l'egemone) e il suo strumento (l'UE) stanno cercando di mascherare l'effettivo furto di quei beni sovrani russi "congelati" come se si trattasse di una transazione legale.

L'UE trasferirà i beni "congelati" – qualcosa come circa 260 miliardi di dollari – allo status di garanzia per il prestito americano.

Questo è tutto, perché solo il reddito derivante dal patrimonio non basterebbe come garanzia per garantire il prestito.

Diventa ancora più difficile. Questi fondi non lasceranno Washington per Kiev; Rimarranno in città a beneficio del complesso industriale-militare che sforna altre armi.

Così l'UE ruba i beni, con un fragile pretesto legalese (Janet Yellen ha già detto che va bene) e li trasferisce negli Stati Uniti. Washington è immune se tutto va storto – come accadrà.

Solo uno sciocco crederebbe che gli americani darebbero un prestito considerevole a un paese di fatto con un rating del debito sovrano nell'abisso.

Il lavoro sporco è affidato agli europei: spetta all'UE cambiando lo status dei beni rubati/"congelati" della Russia in garanzia.

E aspetta l'ultima mossa rischiosa.

L'intero schema riguarda “Euroclear”, in Belgio, dove è parcheggiata la maggior parte dei fondi russi.

Eppure la decisione su questa truffa di riciclaggio di denaro sporco non è stata presa dal Belgio, e nemmeno dall'UErocrats.

Questa è stata una decisione impostata dall'Egemone del G7.

Il Belgio non fa nemmeno parte del G7.

Eppure, alla fine, sarà la "credibilità" dell'UE nel suo complesso che andrà in malora in tutta la maggioranza globale.

E i sordi, i muti e i ciechi, prevedibilmente, non ne sono nemmeno consapevoli.

 

 

 

 

 

Ammutinamento europeo

all'Ordine Illiberale.

 Unz.com - ALASTAIR CROOKE – (14 GIUGNO 2024) – ci dice:

 

L'ammutinamento è scoppiato perché molti in Occidente vedono fin troppo chiaramente che la struttura dominante occidentale è un "sistema di controllo" meccanico illiberale.

Scrivo da tempo che l'Europa (e gli Stati Uniti) stanno attraversando un periodo di alternanza tra rivoluzione e guerra civile.

 La storia ci avverte che tali conflitti tendono ad estendersi, con episodi culminanti che sono rivoluzionari (quando il paradigma prevalente si incrina per la prima volta);

eppure che, in realtà, non sono altro che modalità alternative della stessa – un "alternarsi" tra i picchi rivoluzionari e il lento "faticoso" di un'intensa guerra culturale.

 

Siamo, credo, in un'epoca del genere.

Ho anche suggerito che una nascente controrivoluzione si stesse lentamente formando, una controrivoluzione riluttante a ritrattare i valori morali tradizionalisti, né disposta a sottomettersi a un ordine internazionale illiberale oppressivo che si spaccia per liberale.

Quello che non mi aspettavo era che la "prima scarpa a cadere" si verificasse in Europa – che sarebbe stata la Francia a rompere per prima lo stampo illiberale. (Avevo pensato che si sarebbe rotto prima negli Stati Uniti).

L'esito delle elezioni europee per gli eurodeputati potrebbe essere visto come la "prima rondine" che segnala un cambiamento sostanziale del tempo.

Ci saranno elezioni anticipate in Gran Bretagna e Francia, e la Germania (e gran parte dell'Europa) è in uno stato di disordine politico.

 

Non fatevi illusioni però!

La fredda realtà è che le "strutture di potere" occidentali possiedono la ricchezza, le istituzioni chiave della società e le leve dell'attuazione.

Per essere chiari: detengono le "altezze di comando".

Come gestiranno un Occidente che si avvia verso il collasso morale, politico e forse finanziario?

Molto probabilmente raddoppiando, senza compromessi.

 

E quel prevedibile "raddoppio" non sarà necessariamente limitato ai combattimenti nell'arena del "Colosseo".

Certamente interferirà con la geopolitica ad alto rischio.

 

Indubbiamente, le "strutture" statunitensi saranno state profondamente sconcertate dal presagio elettorale europeo.

Cosa implica l'ammutinamento anti-establishment europeo per le strutture di governo di Washington, soprattutto in un momento in cui tutto il mondo vede “Joe Biden” visibilmente vacillare?

 

Come distrarranno "noi" da questa prima crepa nel loro “Edificio Strutturale internazionale”?

C'è già un'escalation militare guidata dagli Stati Uniti – apparentemente collegata all'Ucraina – ma il cui obiettivo è chiaramente quello di provocare la ritorsione della Russia.

Aumentando progressivamente le violazioni della NATO delle "linee rosse" strategiche della Russia, sembra che i falchi statunitensi cerchino di ottenere un vantaggio crescente su Mosca, lasciando a Mosca il dilemma su quanto effettuare ritorsioni.

Le élite occidentali non credono pienamente agli avvertimenti di Mosca.

Questo stratagemma provocatorio potrebbe plausibilmente offrire un'immagine artigianale degli Stati Uniti "vincenti" ("fissare Putin"), o in alternativa, arrivare a fornire un pretesto per rinviare le elezioni presidenziali americane (mentre le tensioni globali aumentano) – dando così tempo allo Stato permanente per mettere le sue "anatre in fila" per gestire una successione anticipata di Biden.

Questo calcolo, tuttavia, dipende da quanto presto l'Ucraina imploderà militarmente o politicamente.

Un'implosione dell'Ucraina prima del previsto potrebbe diventare il palcoscenico per una svolta degli Stati Uniti sul "fronte" di Taiwan – una contingenza che è già in preparazione.

 

Perché l'Europa è in ammutinamento?

L'ammutinamento è scoppiato perché molti in Occidente ora vedono fin troppo chiaramente che la struttura dominante occidentale non è un progetto liberale di per sé, ma piuttosto un "sistema di controllo" meccanico dichiaratamente illiberale (tecnocrazia manageriale) – che” fraudolentemente si spaccia per liberalismo”.

Chiaramente molti in Europa sono alienati dall'establishment.

Le cause possono essere molteplici – l'Ucraina, l'immigrazione o il calo del tenore di vita – eppure tutti gli europei conoscono la narrazione secondo cui la storia si è piegata al lungo arco del liberalismo (nel periodo post-Guerra Fredda).

 

Eppure ciò si è rivelato illusorio.

La realtà è stata il controllo, la sorveglianza, la censura, la tecnocrazia, i blocchi e l'emergenza climatica.

Illiberalismo, perfino quasi totalitarismo, in breve.

 (Von der Leyen è andata oltre recentemente, sostenendo che "Se si pensa alla manipolazione dell'informazione come a un virus, invece di curare un'infezione una volta che ha preso piede ... è molto meglio vaccinare in modo che il corpo venga inoculato").

 

Quando, allora, il liberalismo tradizionale (nella definizione più ampia) è diventato illiberale?

 

Il "dietrofront" avvenne negli anni '70.

 

Nel 1970,” Zbig Brzezinski” (che sarebbe diventato consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter) pubblicò un libro intitolato:” Between Two Ages: America's Role in the Technetronic Era” .

 In esso, Brzezinski sosteneva:

 

"L'era tecnetronica comporta la graduale apparizione di una società più controllata. Una società del genere... dominata da un'élite, non vincolata dai valori tradizionali... [e che pratica] una sorveglianza continua su ogni cittadino ... [insieme alla] manipolazione del comportamento e del funzionamento intellettuale di tutte le persone ... [diventerebbe la nuova norma]."

 

Altrove ha sostenuto che " lo stato-nazione come unità fondamentale della vita organizzata dell'uomo ha cessato di essere la principale forza creativa: le banche internazionali e le multinazionali agiscono e pianificano in termini che sono molto in anticipo rispetto ai concetti politici della nazione- stato". (Vale a dire il cosmopolitismo aziendale come futuro.)

David Rockefeller e gli intermediari del potere intorno a lui – insieme al suo gruppo Bilderberg – hanno colto l'intuizione di Brzezinski per rappresentare la terza tappa per garantire che il 21 San secolo sarebbe davvero il 'secolo americano'.

 Le altre due gambe erano il controllo delle risorse petrolifere e l'egemonia del dollaro.

Seguì poi un rapporto chiave,”Limits to Growth”, (1971, Club of Rome (ancora una volta una creazione di Rockefeller), che fornì la base "scientifica" profondamente imperfetta a Brzezinski:

predisse la fine della civiltà, a causa della crescita della popolazione, combinata con l'esaurimento delle risorse ( compreso, e soprattutto, l'esaurimento delle risorse energetiche).

Questa terribile previsione è stata imputata a dire che solo gli esperti di economia, gli esperti di tecnologia, i leader delle multinazionali e delle banche avevano la lungimiranza e la comprensione tecnologica per gestire la società – soggetti alla complessità dei “Limiti alla Crescita”.

La proposta era sbagliata, ma la politica era giusta!

La politica economica è stata stravolta, sulla base di un'analisi errata.

 

"Tra questi figuravano il Club neo-malthusiano di Roma; lo studio redatto dal MIT: 'Limiti alla crescita', e la Commissione Trilaterale".

La “Commissione Trilaterale”, tuttavia, era il cuore segreto della matrice.

"Quando Carter entrò in carica nel gennaio 1976, il suo gabinetto proveniva quasi interamente dai ranghi della “Commissione Trilaterale di Rockefeller” – in misura così sorprendente che alcuni addetti ai lavori di Washington la chiamarono la 'Presidenza Rockefeller' ", scrive Engdahl.

 

“Craig Karpel”, nel 1977, scrisse anche:

"La presidenza degli Stati Uniti e i dipartimenti chiave del governo federale sono stati rilevati da un'organizzazione privata dedita alla subordinazione degli interessi interni degli Stati Uniti agli interessi internazionali delle banche e delle società multinazionali.

Sarebbe ingiusto affermare che la Commissione Trilaterale domina l'amministrazione Carter.

La Commissione Trilaterale è l'Amministrazione Carter ".

 

"Ogni incarico chiave nella politica estera ed economica del governo americano, a partire da Carter, è stato ricoperto da una Trilaterale ", scrive” Engdahl”.

 E così continua – una matrice di membri sovrapposti che è poco visibile al pubblico, e che molto vagamente si può dire abbia costituito lo "stato permanente".

 

Esisteva in Europa? Sì, filiali in tutta Europa.

 

Qui sta la radice dell'ammutinamento europeo dello scorso fine settimana: molti europei rifiutano il concetto di un universo controllato.

Molti sono riluttanti a rinnegare i loro stili di vita tradizionali o la loro fedeltà nazionale.

 

Il patto faustiano di Rockefeller degli anni '70 prevedeva la secessione di un ristretto segmento dei quadri dirigenti americani dalla nazione americana per occupare una realtà separata in cui smontavano un'economia organica a beneficio dell'oligarchia, con la "compensazione" che veniva solo dal loro abbraccio all'economia organica con politiche identitarie e la "giusta" rotazione di alcune diversità all'interno dei gruppi dirigenziali aziendali.

Visto in questo modo, l'accordo Rockefeller può essere visto come un parallelo con l'"accordo" sudafricano che pone fine all'apartheid:

le élite anglo-elitarie mantennero le risorse economiche e il potere, mentre l'ANC, dall'altra parte dell'equazione, ottenne una facciata” Potëmkin “della loro presa del potere politico.

 

Per gli europei, questa "disposizione" faustiana degrada gli esseri umani a unità identitarie che occupano gli spazi tra i mercati, piuttosto che i mercati sono l'accessorio di un'economia organica incentrata sull'uomo, come scrisse “Karl Polanyi” circa 80 anni fa ne “La grande trasformazione”.

 

Ha fatto risalire i tumulti della sua epoca a una causa:

la convinzione che la società possa, e debba, essere organizzata attraverso mercati autoregolati.

Per lui, questo rappresentava niente di meno che una rottura ontologica con gran parte della storia umana.

Prima del XIX secolo, insisteva, l'economia umana era sempre stata "incorporata" nella società:

 era subordinata alla politica locale, ai costumi, alla religione e alle relazioni sociali.

Il contrario (il paradigma tecnocratico illiberale e identitario di Rockefeller) porta solo all'attenuazione dei legami sociali; l'atomizzazione della comunità; alla mancanza di contenuto metafisico e quindi all'assenza di scopo e significato esistenziali.

L'illiberalismo è insoddisfacente.

 Dice: non conti. Non appartieni.

Evidentemente molti europei ora lo capiscono.

Il che in qualche modo ci riporta alla questione di come gli strati occidentali reagiranno al nascente ammutinamento contro l'Ordine Internazionale che sta accelerando in tutto il mondo – e che ora è emerso in Europa, anche se con colorazioni diverse e qualche bagaglio ideologico.

Non è probabile – per ora – che gli strati dominanti scendano a compromessi. Coloro che dominano tendono ad avere paura esistenziale: o continuano a dominare, oppure perdono tutto.

Vedono solo un gioco a somma zero.

 Lo stato di ciascuna parte viene congelato.

Le persone si incontrano sempre più solo come "avversari".

 I concittadini diventano una minaccia pericolosa, alla quale bisogna opporsi.

Consideriamo quindi il conflitto israelo-palestinese.

 I leader degli strati dominanti degli Stati Uniti comprendono molti zelanti sostenitori di un Israele sionista.

Mentre l'ordine internazionale inizia a incrinarsi, anche questo segmento del potere strutturale negli Stati Uniti rischia di non scendere a compromessi, temendo un risultato a somma zero.

C'è una narrazione israeliana della guerra e una "narrativa del resto del mondo" – e in realtà non si incontrano.

Come organizzare le cose?

 L'effetto trasformativo di vedere gli "altri" in modo diverso – israeliani e palestinesi – al momento non è sul tavolo.

Questo conflitto ha il potenziale per peggiorare molto – e per un periodo più lungo.

 

Gli "strati dominanti" – alla disperata ricerca di un risultato certo – potrebbero cercare di piegare (e cercare di nascondere) gli orrori di questa lotta dell'Asia occidentale all'interno di una più ampia guerra geo-strategica?

Uno in cui moltitudini più grandi vengono sfollate (facendo così impallidire un orrore regionale)?

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