I popoli non sono una congrega di cretini.

 

 

I popoli non sono una congrega di cretini.

 

 

 

È nata la società

dei cretini.

Italiaoggi.it - Gianfranco Morra – (16 – 3- 2018) – ci dice:

 

L'uomo postmoderno infatti di tutto parla e tutto giudica su ciò

che non sa e, pertanto, odia e disprezza quelli che ancora sanno, i competenti e gli esperti.

Per millenni la cultura dei popoli si è svolta su due linee parallele.

C'era quella dotta di chi «sapeva latino».

 Ma la maggioranza degli uomini erano analfabeti, si lasciavano guidare dal buon senso, dettato loro dalla natura, dalla religione, dalla famiglia, dalla tradizione. Solo l'epoca moderna, a partire dalla Bibbia di Lutero,” estese l'alfabetizzazione al popolo, con la scuola elementare, dove si imparava a leggere, scrivere e far di conto, e soprattutto quel buon senso che era il sistema di valori prevalente.

Tutto cambia con la scoperta, la diffusione e il predominio dei mass-media. Soprattutto di quello, demonizzato da “Hans Magnus Enzensberger”, prodotto da «nostra sorella cretina Tv»:

 un analfabetismo di ritorno.

Accompagnato dalla presunzione di sapere tutto e di poter parlare di tutto. L'”homo videns “ha ibernato quello “sapiens”, l'immagine ha cancellato il concetto, il sapere tutto e subito ha reso inutili la ricerca e la riflessione.

È nata una società di cretini, che non sa e, pertanto, odia e disprezza quelli che ancora sanno, i competenti e gli esperti (non di rado fastidiosi per la loro presunzione).

Disinformato o male informato l'uomo postmoderno di tutto parla e tutto giudica. È una vera ribellione contro la competenza.

Che si ritrova soprattutto nel populismo, che non è solo difesa del popolo, ma diviene un suo privilegio di attaccare e condannare tutto ciò che è esperienza e cultura.

 Come esprime benissimo il blog del M5s: «Democrazia vuol dire che uno vale uno».

 Tanti «piccoli fratelli» tutti uguali, obbedienti al “Grande fratello elettronico”.

Non solo i grillini, anche se loro più degli altri.

Ne sono derivati atteggiamenti di barbarie intellettuale, che nega molti di quei progressi che hanno prodotto una società meno malata e affamata.

Si pensi alla campagna contro i vaccini, che sono stati l'invenzione più grandiosa per metter fine alle malattie endemiche.

O alla pretesa che l'ogm sia in ogni caso cancerogeno.

Non è difficile scorgere negli uomini manipolati dai media atteggiamenti di rabbia contro tutto ciò che è sapere o scienza.

I grillini lo hanno espresso e anche realizzato con la convinzione che per fare i parlamentari ciò che conta non sono la cultura e l'esperienza:

 «Meglio di tutti una mamma con famiglia monoreddito e con quattro figli» (Beppe Grillo, Com. pol. 32).

 Più che la cultura valgono la diffidenza e la repulsione per coloro che hanno istruzione e competenza.

 Più uno è ignorante, più sarebbe onesto e puro, quindi adatto a fare il parlamentare.

Questa rivolta dei cretini non avviene solo in Italia e in Europa.

Uno studioso americano, “Thomas M. Nichols”, ha studiato questo fenomeno in un libro intitolato “The Death of Expertise”, da poco tradotto in italiano col titolo mutato “La conoscenza e i suoi nemici”.

 L'era dell'incompetenza e i rischi per la democrazia (Luiss University Press, pp. 248.

Di uomini colti e di specialisti la nostra società, divenuta così complessa, ha bisogno più di quelle che l'hanno preceduta:

 «Una società moderna non può funzionare senza una divisione sociale del lavoro e senza affidarsi a esperti, professionisti e intellettuali».

 Tutti ce ne serviamo, ma la loro cultura altamente specialistica infastidisce e anche offende.

 Almeno a partire dagli anni Sessanta del Novecento, quando esplose nei giovani il disprezzo per la cultura, lo studio individuale, la scuola e l'università:

 «La conoscenza e la competenza stesse sono diventate il bersaglio del risentimento e della rabbia dell'uomo comune».

Che oggi sono cresciute e si sono diffuse alle masse, inducendole a credere a grossolane sciocchezze e fandonie (soprattutto nella medicina e nella politica).

Non hanno abbastanza intelligenza e cultura per capire di cosa parlano, anche perché il vecchio buon senso dei loro trisavoli analfabeti è stato cancellato.

 Come diceva il “poeta Giuseppe Giusti” già nell'Ottocento:

«Il Buonsenso, che già fu caposcuola, / ora in parecchie scuole è morto affatto; /la Scienza, sua figliola/l'uccise, per veder com'era fatto».

Altrimenti come avrebbero potuto persone di buon senso votare per il M5s, sperando di ricevere quel reddito di cittadinanza, che porterebbe alla rovina i conti pubblici?

Potente e prepotente è l'opera dei padroni dei social, che non producono cultura, ma industria culturale:

 «Pseudo intellettuali senza qualifica, inqualificabili e squalificati dalla loro stessa costituzione mentale», come li definiva” José Ortega y Gasset “nel suo “La ribellione delle masse” (1930).

Sotto la squallida uniforme della razionalità tecnologica premono e trionfano il mito e la superstizione, un nuovo primitivismo dionisiaco e orgiastico:

chiese vegane e sodalizi nudisti, tribù orientaliste, psico sette macrobiotiche, liturgie dietetiche, confraternite di medicina alternativa e di cultori delle stelle.

Come aveva previsto “Giambattista Vico”, esaurito il «corso» arriva il «ricorso»: «dopo la fierezza generosa della barbarie del senso, ecco la fierezza vile della barbarie della riflessione, che fa delle città delle selve e delle selve covili d'uomini» (Scienza nuova, conclusione).

 In questo rientrano l'odio e il disprezzo per la cultura e la scienza.

Che si sposano volentieri con il populismo, sia nella vita quotidiana che nella politica.

 

 

 

 

Superata la soglia del 50% di non

votanti: la crisi della democrazia

liberale appare irreversibile.

Lacrunadellago.net – Cesare Sacchetti – (10/06/2024) – ci dice:

 

A nulla sono valsi gli appelli dei vari inquilini delle istituzioni della disgraziatissima repubblica dell’anglosfera.

A nulla sono valsi gli spot televisivi accompagnati da una carrellata di immagini nei quali si vedono una serie di persone dai volti inquietanti che invitano a partecipare al voto per difendere la “democrazia”, sempre nel reiterato e futile tentativo di voler far ancora apparire tale disfunzionale sistema come un bene prezioso da salvare.

E a nulla sono valse le aperture straordinarie in anticipo dei seggi già il sabato alle 15 fino ad arrivare ad avere 25 ore di urne aperte.

Il governo Meloni probabilmente se avesse potuto li avrebbe tenuti aperti una settimana, ma quello che c’era dentro l’urna non avrebbe cambiato assolutamente nulla.

Così come a nulla è valso l’accorpamento con le amministrative sempre alla disperata ricerca di gonfiare un po’ i numeri dell’affluenza che, ricordiamolo, va vista anche con i numeri delle schede bianche e nulle che al momento non sono ancora disponibili.

Il risultato non è cambiato.

Le urne sono state disertate, come ci si attendeva che fossero con delle percentuali di votanti che hanno raggiunto la misera soglia del 49,6%, diventando di fatto la minoranza che ancora si illude in cuor suo che il votare la presente, e declinante, offerta politica faccia in qualche modo la differenza.

Per la prima volta nella tormentata storia della repubblica del 1946-48 gli italiani che non partecipano al voto sono più numerosi di quelli che partecipano.

Sono saltati del tutto i fragili equilibri che reggevano il sistema costituzionale concepito, non è un segreto, da diversi membri della libera muratoria.

L’Italia ad un punto cruciale della sua storia.

La fase del consenso liberal-democratico è definitivamente conclusa e in seguito se ne approfondiranno meglio le ragioni.

In questo momento siamo al giro di boa della storia della repubblica dell’anglosfera iniziata nel lontano 1943 sotto la tenda di Cassibile quando il generale “Castellano” cedette la sovranità di questa nazione alle potenze angloamericane non avendo nemmeno lautorità per farlo, in quanto il legittimo presidente del Consiglio era a tutti gli effetti Benito Mussolini che era stato spodestato con un colpo di Stato nel luglio del’43 e che commise in precedenza il fatale errore di allearsi con la Germania Nazista di Hitler, verso il quale ha sempre nutrito una certa diffidenza accompagnata da un non malcelato disprezzo.

L’Italia, com’è noto, ha scontato il fardello di quella sciagurata decisione nei decenni successivi, ritrovandosi a diventare uno Stato satellite la cui politica estera è stata in larga parte scritta da Washington ma soprattutto dalle potenti lobby che governano le amministrazioni presidenziali americane, su tutte quella sionista che ha di fatto scritto la politica estera americana fino al 2016, anno nel quale salì al potere Trump che ha messo fine alla stagione delle guerre permanenti degli Stati Uniti scatenate in nome e per conto dello stato ebraico.

La classe dirigente della Prima Repubblica nonostante il perimetro ristretto della sovranità tracciato da Washington aveva saputo ugualmente perseguire gli interessi nazionali italiani tanto da rendere l’Italia una straordinaria eccezione all’interno della NATO, quando questo Paese è stato quello che più di tutti era vicino alla causa palestinese.

Non è un segreto che il solco della politica estera tracciato da Andreotti e Craxi non era certo gradito da Israele e dal movimento sionista mondiale poiché l’Italia è un Paese a vocazione mediterranea, e se questo è vicino al mondo arabo ciò rappresenta certamente un problema per i propositi imperialistici di Israele.

Nonostante tutti i limiti di tale sistema e nonostante la condizione di sovranità limitata, tale classe dirigente era riuscita a portare sviluppo e benessere ad un Paese che dalle macerie della seconda guerra mondiale costruì una delle potenze industriali più forti del mondo.

All’epoca, la politica era ancora tale.

I partiti avevano un vero rapporto con la loro base elettorale e il cittadino comune si sentiva effettivamente rappresentato dal politico che mandava nelle istituzioni, poiché questi rispondeva e aveva a cuore gli interessi di chi lo votava e non quelli dei poteri della finanza anglo sionista e delle varie istituzioni sovranazionali.

La politica era legata al territorio, e il territorio credeva nella politica tanto è vero che le percentuali di partecipazione al voto raggiungevano soglie del 90%, impensabili ai tempi moderni in quanto oggi la politica è qualcosa di molto diverso da quello che era 40 o 50 anni.

Il 1992 è ciò che rompe questo rapporto.

Quella rivoluzione colorata partorita dagli ambienti dello stato profondo americano aveva la necessità di liquidare quella classe politica, giudicata troppo indipendente per i parametri di Washington, e il potere decisionale è passato dalle mani della politica a quelle di oscuri e ignoti commissari europei che non passano nemmeno dalla legittimazione popolare delle urne.

La politica da affare per molti diviene un affare per pochi.

Non è più Roma a decidere, ma Bruxelles, Londra e Washington tanto che sono le istituzioni europee a scrivere le manovre finanziarie, circostanza semplicemente impensabile un tempo, e oggi divenuta “normalità”.

Il trasferimento del potere da Roma a centri di potere esteri ha inevitabilmente allargato la distanza tra il popolo e le istituzioni.

Nell’uomo comune si diffonde la consapevolezza che votare non cambia poi molto perché in ultima istanza non sono certo gli interessi dell’uomo della strada ad essere rappresentati nei palazzi, ma quelli di influenti lobby che aspirano ad una concentrazione del potere a livello globale, chiamata dai vari tecnocrati “governance mondiale”.

La farsa pandemica e la irreversibile crisi della liberal-democrazia.

La farsa pandemica non ha fatto altro che accelerare enormemente la presa di consapevolezza che nella democrazia liberale non esistono vere ed essenziali distinzioni di sorta tra uno schieramento e l’altro.

Semplicemente, l’operazione che i “vari signori del globalismo predatorio” avevano accuratamente preparato molti anni prima ha mostrato che la politica ormai era ridotta ad essere una protesi del cartello farmaceutico, di Bill Gates, di George Soros, delle famiglie Rothschild, Rockefeller, e Warburg soltanto per citare alcuni degli uomini più influenti del pianeta.

A cosa serve in fin dei conti il voto se poi il “mio” rappresentante una volta eletto agisce per attuare la visione del Nuovo Ordine Mondiale e consegnare la sovranità del Paese a questo manipolo di oligarchi che sogna di costruire un governo mondiale?

Senza tanti orpelli, è questa la semplice e fondamentale intuizione al quale è giunto l’uomo comune.

Questa offerta politica è fatta per rappresentare gli interessi di altri, e non quelli della nazione e del popolo, ed è per questo che dopo il 2020 la democrazia liberale è entrata in una fase ancora più acuta della sua crisi iniziata nel 1992.

Il risultato delle europee è lì a dimostrare il requiem della repubblica dell’anglosfera.

Adesso ci si chiede quale futuro attende l’Italia dopo le ultime elezioni europee.

Quale sarà il futuro di questo Paese dopo il fallimento delle ultime consultazioni per il Parlamento europeo?

Il popolo ha parlato e ha espresso chiaramente tutto il suo distacco dalla presente offerta politica poiché essa nella sua interezza non è certo fatta per chiudere l’esperienza del liberalismo ma piuttosto per preservarla.

Questo ha dato vita ad un processo, a nostro avviso, irreversibile.

La crisi di fiducia delle istituzioni repubblicane si è aggravata ancora di più, anche perché queste ormai restano avviluppate su sé stesse dentro la loro bolla dedicandosi allo scialbo esercizio della autocelebrazione, immuni a quanto accade nel mondo reale.

Il popolo non vorrà più saperne della politica fino a quando essa non tornerà ad essere un’arte al servizio del bene comune e non una invece al servizio del male di molti e del bene di pochissimi.

Questa politica poi ha finito con il perdere anche la protezione del vecchio garante angloamericano in quanto esso dopo l’avvento di Trump si è disimpegnato dalla partecipazione alla governance e ha lasciato orfani non pochi peones qui in Italia.

La fase attuale è quella che prevede un aggravarsi di questa crisi strutturale.

Siamo entrati ormai nel territorio del quale parlò Giulio Andreotti nel 1984.

Siamo nel territorio dove la linfa vitale delle istituzioni parlamentari, rappresentata dal voto, si svuota e toglie alla repubblica dell’anglosfera l’ossigeno di cui ha bisogno per restare in vita.

Ciò spiega l’irritazione non solo dei partiti dell’establishment ma anche di tutti quelli della piccola galassia del falso sovranismo che hanno rovesciato non pochi improperi e minacce nei riguardi di coloro che giustamente non vogliono più saperne di una partita truccata dove vince sempre il banco.

La fase successiva a nostro avviso sarà quella del probabile stallo governativo poiché non è un segreto che la Meloni stia guardando a Bruxelles, dove è stata già eletta, per avere qualche altro incarico e lasciare così l’ingombrante ruolo di parafulmine a palazzo Chigi che nessuno vuole e può occupare dopo di lei.

Abbiamo probabilmente davanti un biennio o triennio di complessiva instabilità politica che porterà via via all’uscita di scena dei vari attori rimasti sul palcoscenico, che ora sono passati a farsi la guerra tra di loro nel tentativo di sopravvivere a questa fase.

Siamo giunti all’epilogo della esperienza repubblicana di “Cassibile”?

Difficile dirlo con certezza, ma i segnali di una generale dismissione sembrano esserci tutti.

L’Italia ha alle sue spalle un lungo viaggio.

Un viaggio fatto di dolore, sofferenza, tradimenti e saccheggi.

E tale viaggio non è stato fatto sotto qualche “totalitarismo fascista”, ricordiamolo.

È stato fatto nella tanto, non da noi, celebrata democrazia liberale.

È nel liberalismo che l’Italia ha perso la sua sovranità.

 È nel liberalismo che l’Italia ha rinunciato alla sua identità cristiana e latina, per adottarne un’altra di natura protestante e nord-europea.

Sotto certi aspetti, la crisi delle istituzioni liberali odierne ricorda assai quella che precedette la loro fine prima dell’avvento del fascismo.

E questa appare essere una prospettiva che terrorizza non poco i vari peones dello stato profondo italiano che continuano a celebrare compulsivamente i loro riti nei quali si celebra l”antifascismo” e la costituzione nata con l’occupazione americana e con il tradimento di Cassibile.

Il problema, per lor signori, è che a partecipare a questi riti ci sono soltanto loro e quando questo accade ci sono persino zuffe furiose come visto l’ultimo 25 aprile con la brigata ebraica che se le dava di santa ragione con gli altri nostalgici dei partigiani rossi, le cui mani intrise di sangue scrissero poi la carta alcuni anni dopo.

Questo è il punto nel quale è giunta la repubblica di Cassibile.

È giunta al punto nel quale dentro di essa le sue bande si combattono mentre al di fuori di essa c’è soltanto disprezzo accompagnato a diffidenza.

La maggioranza degli italiani ieri ha fatto capire che è stufa di tale farsa e non vuole altro che il sipario cali presto su di essa.

 

 

 

La bomba dell’ex senatore PCI:

” tutti prendevano tangenti e

D’Alema sapeva che Mani Pulite

 avrebbe risparmiato il PDS.”

  Lacrunadellago.net - Cesare Sacchetti – (06/06/2024) – ci dice: 

 

A volte gli scheletri nell’armadio restano ben piegati tra i cassetti e non se ne vanno.

Le loro ossa stanno lì, soltanto apparentemente sepolte, in attesa che qualcuno possa ritirarle fuori e riportare in vita gli spettri del passato.

È quello che sembra aver appena fatto l’ex senatore del PCI, “Pellegrino”, che in una, a dir poco, clamorosa intervista al “Corriere della Sera” parla di un nodo mai veramente sciolto riguardo alla controversa inchiesta di Mani Pulite.

Il pool in quegli anni era composto da personaggi quali “Antonio Di Pietro”, Piercamillo Davigo”, da poco condannato in appello per rivelazione di segreto d’ufficio, “Gherardo Colombo” ed era guidato da “Francesco Saverio Borrelli” che negli anni dopo pronunciò la famigerata frase “resistere, resistere, resistere” rivolto al governo Berlusconi dei primi anni 2000, a dimostrazione di come certe toghe avessero da tempo dismesso i panni dei giudici e indossati quelli di attori politici.

Erano descritti come degli “eroi” senza macchia da tutto l’apparato mediatico dell’epoca che si dava da fare il più possibile per agitare davanti agli occhi della opinione pubblica lo straccio rosso dell’antipolitica e della caccia al politico.

L’antipolitica prim’ancora che con il M5S, che ne raccoglierà soltanto l’infausta eredità, nacque nel laboratorio della falsa rivoluzione giudiziaria di Milano, come la chiamava puntualmente Bettino Craxi, poiché Mani Pulite serviva ad assolvere molteplici scopi.

Certamente quello prioritario di liberarsi ormai di una classe dirigente, con la sola eccezione del PDS, che ormai non era più considerata “affidabile” dagli ambienti dell’anglosfera che avevano già in mente un percorso molto preciso e alquanto più stretto e tortuoso di quello che già non fosse stato quello tracciato dall’infame armistizio di Cassibile, che ha consegnato le chiavi della sovranità italiana a Londra e Washington.

L’anglosfera doveva essere assolutamente certa che nella fase più avanzata del progetto, definito dai vari tecnocrati di Bruxelles e del FMI come “governance mondiale”, non ci fosse alcuno ostacolo sulla via e lasciare sul palcoscenico della Prima Repubblica personaggi della statura di Bettino Craxi e Giulio Andreotti era certamente un rischio per i vari “signori del mondialismo”.

Craxi aveva già dato prova di tutta la sua spina dorsale quando a Sigonella nel 1985 difese la sovranità dell’Italia e rispose ad un arrogante “Michael Ledeen”, accademico americano di origini ebraiche e “membro delle potente lobby sionista”, che l’Italia non era una sorta di portaerei del Mediterraneo dove lo stato profondo americano poteva fare il comodo che voleva.

Andreotti aveva dato prova della stessa sapienza e lungimiranza politica quando nel 1984 disse chiaramente che l’unificazione della Germania avrebbe rappresentato un rischio per l’Europa intera, poiché il saggio ex presidente del Consiglio era perfettamente consapevole che l’UE che volevano far nascere certi ambienti sarebbe stata a trazione teutonica e che avrebbe soffocato l’economia italiana con il cappio dell’euro.

Questi dirigenti avevano troppo peso e troppa statura per questi ambienti ed è per questo che dovevano essere rimossi attraverso una vera e propria rivoluzione colorata che assunse le vesti del golpe giudiziario.

Il PDS: il “vincitore” del golpe giudiziario di Milano.

Ora ciò che è noto dell’inchiesta giudiziaria di Milano è che essa agì chirurgicamente per asportare dalla politica tutti i partiti con la sola eccezione del PDS, ex PCI, che non venne toccato dalle indagini dei giudici.

Eppure che il PCI fosse finanziato in maniera illecita era il segreto di Pulcinella così come lo era il fatto che tale sistema illecito si fondava sul ruolo delle onnipresenti cooperative rosse.

“Pellegrino”, che si risveglia da un letargo di decenni e sul quale dopo diremo di più, afferma esplicitamente quanto segue quando “Verderami” del “Corriere”, giornalista alquanto vicino allo stato profondo italiano, gli chiede delle tangenti ricevute dal PCI.

Tutti i partiti godevano di finanziamenti irregolari.“

“Apparentemente il mio partito non prendeva soldi. Però nella cordata vincitrice di ogni appalto c’era sempre una cooperativa rossa con una percentuale di lavori.

Dal 10 al 15%”

“Pellegrino” sembra lasciar chiaramente capire che il sistema dal quale affluivano i fondi neri al partito comunista italiano che attraverso la vincita di appalti, per così dire “pilotati”, riceveva poi i finanziamenti da far affluire nelle casse del partito.

Questi fondi poi passavano dalle mani delle cooperative a quelle del partito e a spiegarlo non è stato qualche anticomunista incallito, ma il vicepresidente di Federcoop, Vincenzo Bertolini, che rivelò come con una cadenza di due settimane queste tangenti venivano portate direttamente ai segretari dell’ex PCI nella storica sede di via delle Botteghe Oscure.

E quanto “Bertolini” afferma che tali tangenti venivano portate ai segretari del PCI è impossibile non pensare quanta ipocrisia trasudasse la “questione morale” sollevata da Enrico Berlinguer, segretario del PCI fino al 1984, quando il suo partito era una vera e propria centrale di riciclaggio di finanziamenti illeciti.

Questa centrale però non attira le attenzioni di Mani Pulite.

 I giudici di Milano sembrano chiaramente avere altre intenzioni e sono decisi a risparmiare il PCI, che intanto era divenuto PDS in quella che sarà l’inizio di una lunga serie di mutazioni del serpentone comunista che cambierà pelle negli anni a venire, ma soltanto per camuffarsi meglio di volta in volta e per provare a trasmettere una falsa immagine di rinnovamento attraverso degli interventi di chirurgia estetica politica che mai cambieranno però il marcio che c’è nelle viscere della sinistra progressista italiana.

A Milano intanto va in scena la rivoluzione colorata e i magistrati del pool dimostrano subito di avere una certa affinità con gli ambienti angloamericani, se si considera che uno degli “eroi” del pool, “Di Pietro”, nel 1992 compie tutta una serie di viaggi negli Stati Uniti nei quali si incontra con rappresentanti del governo americano quali l’ex ambasciatore “Reginald Bartholomew” e l’ex console “Peter Semler”.

Nessuno all’epoca, tantomeno i media che invece erano impegnati nel suonare la grancassa del presunto eroismo di questi togati, portò all’attenzione pubblica il fatto che “Di Pietro” aveva già travalicato da un pezzo il seminato della magistratura ed era entrato in quello della politica, in quanto si stava incontrando, non avendo titolo per farlo, con dei rappresentanti di un governo straniero che sembravano avere tutto l’interesse a favorire il golpe giudiziario.

In America si dischiudono persino le porte dell’FBI per Di Pietro e dunque è chiaro che dev’esserci stato una chiara autorizzazione da parte dei vertici dell’amministrazione di George H. Bush, l’uomo che nei suoi discorsi parlava di “Nuovo Ordine Mondiale”, a ricevere il magistrato italiano e a farlo entrare in contatto con ambienti dell’intelligence americana che manifestavano un vivissimo interesse a quanto stava facendo il togato, stimatissimo nei giri dell’establishment americano.

È una liaison evidente, lapalissiana, ma nemmeno mai sfiorata dal CSM che dormiva il sonno dell’ingiusto e che voleva che la magistratura fosse lasciata libera di eseguire le sue inchieste “etero dirette”, per così dire, e compiacere così i disegni dell’anglosfera.

Falcone: l’uomo che stava per arrivare alla verità sui fondi neri PCI.

Il PDS, come si diceva prima, non viene sfiorato da questi togati ma c’era un uomo che invece aveva iniziato un’inchiesta che sarebbe arrivata laddove certi ambienti euro atlantici non avrebbe mai voluto che questa arrivasse.

Quell’uomo era Giovanni Falcone, magistrato siciliano, inviso ai suoi colleghi che già gli avevano consegnato due polpette avvelenate negli anni precedenti quando gli avevano sbarrato la strada della guida della procura di Palermo, preferendogli il “collega” “Antonino Meli”, e poi quella della guida della direzione nazionale antimafia.

Falcone non veniva impallinato da destra e dagli ambienti cattolici.

 Veniva impallinato dagli ambienti della sinistra progressista italiana che nel frattempo su Repubblica gli avevano anche riservato l’appellativo di “guitto” prima che i compagni si impegnassero a far “sparire” quel controverso editoriale dopo la strage di Capaci.

Falcone stava arrivando dove il pool di Milano non aveva nemmeno messo il naso.

Se quanto affermato da Bertolini è corretto ovvero che le tangenti delle cooperative rosse affluivano nelle casse del PCI, è pur vero che manca un tassello fondamentale nella ricostruzione di questo massiccio traffico di fondi neri.

Il tassello fondamentale è quello di Mosca. Mosca era la centrale del finanziamento di tutti i partiti comunisti europei e soprattutto di quello italiano, in quanto questo era il più forte e aveva consensi superiori a tutti gli altri in Europa.

Falcone in quell’anno era diventato direttore generale degli affari penali e aveva iniziato tale indagine su richiesta dell’ex presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, che gli chiese di fare luce sul saccheggio del tesoro dell’ex URSS che in quell’anno era guidata dal presidente fantoccio” Boris Eltsin”.

L’allora ambasciatore russo chiese a Roma di aiutarlo a capire dove stavano finendo tutti i soldi dell’ex PCUS e per fare luce su tale enorme ruberia era necessaria la collaborazione degli italiani poiché i soldi finivano in Italia.

Falcone si mette all’opera e inizia a collaborare con il suo omologo russo, il procuratore russo “Stepankov”, per comprendere tutti i passaggi che quei fondi neri stavano compiendo e in quali società le cooperative rosse li lavassero e poi consegnassero “puliti” all’ex PCI.

Non fece in tempo a scoprirlo poiché, è noto, fu fatto saltare il viadotto dell’autostrada di Capaci sul quale stava passando quella nefasta giornata del 23 maggio del 1992.

Le tracce dell’attentato non portavano certo in qualche masseria siciliana ma ad ambienti militari angloamericani in quanto l’esplosivo risultava essere utilizzato da navi inglesi e americane, ma tale tracce non furono mai seguite dagli ineffabili togati che ovviamente preferirono coprire gli apparati atlantici e invece spostare tutta l’attenzione su “Giovanni Brusca”, fatto diventare ormai una sorta di eminenza grigia nell’organizzazione di un attentato che non era chiaramente nelle sue possibilità, né direttive né logistiche.

D’Alema sapeva che Mani Pulite avrebbe risparmiato il PDS.

 

Ora “Pellegrino” non sfiora, né tantomeno “Verderami” pensa minimamente di chiederglielo, l’indagine di Falcone che è semplicemente cruciale ai fini di quanto lui rivela forse perché la materia per lui scotta troppo, però l’ex senatore del PCI fa altre affermazioni che chiaramente suggeriscono che il PDS sapeva che l’inchiesta di Milano era addomesticata e che loro sarebbero stati risparmiati.

“Pellegrino” temeva che Mani Pulite arrivasse al PDS ma in un incontro con Massimo D’Alema nel 1993, l’ex presidente del Consiglio gli disse questo.

Come al solito voi avvocati siete contro i pubblici ministeri.

Volete capirlo che questi di Milano stanno facendo una rivoluzione?

E le rivoluzioni si sono sempre fatte con le ghigliottine e i plotoni di esecuzione. Perciò cosa vuoi che sia qualche avviso di garanzia o qualche mandato di cattura di troppo… Eppoi Luciano mi ha detto che possiamo stare tranquilli, perché Mani Pulite non se la prenderà con noi…”.

D’Alema non aveva nulla da dire sulla rivoluzione giudiziaria di Milano in quanto sapeva benissimo, a detta di “Pellegrino”, che tale rivoluzione non avrebbe minimamente sfiorato il PDS, e che, piuttosto, avrebbe spianato la strada a quest’ultimo.

Il garante, per così dire, di questa “copertura” era nientemeno che “Violante”, ex magistrato e presidente della Camera negli anni successivi al golpe giudiziario, il quale sembrava avere un filo diretto con i giudici di Milano ed era apparentemente al tempo stesso informato che le” inchieste di Pietro e dei suoi sodali” non avrebbero mai sfiorato i “vincitori” di quella falsa rivoluzione che si apprestavano ad entrare a palazzo Chigi soltanto pochi anni dopo, nel 1996.

Gli uomini che non furono nemmeno sfiorati dal pool avevano già guadagnato le simpatie degli angloamericani e il terreno era stato preparato accuratamente da “Giorgio Napolitano” che usava già da diversi anni andare regolarmente negli Stati Uniti per incontrarsi con” Henry Kissinger”, esponente di primo piano del “gruppo Bilderberg”, del “club di Roma” e del “Council on Foreign Relations”.

Ai nuovi referenti di Washington fu affidata la missione di rinchiudere definitivamente l’Italia nella gabbia dell’euro e di terminare la svendita delle partecipazioni statali iniziata da Draghi sul panfilo della regina Elisabetta, il Britannia, a pochi giorni di distanza dalla strage di Capaci.

La “missione” fu compiuta e fu così che l’Italia si guadagnò il “primato” del Paese che eseguì il record di privatizzazioni che fecero la fortuna di vari oligarchi e la sciagura invece dello Stato e degli interessi nazionali.

Questo “improvviso” risveglio di “Pellegrino”, che soltanto a distanza di 32 anni rivela come i dirigenti del PDS sapessero che Tangentopoli non avrebbe toccato il partito e come anche l’ex PCI ricorreva ampiamente a finanziamenti illeciti, difficilmente però appare essere il risultato di un tardivo pentimento, ma piuttosto la diretta conseguenza della chiusura di una fase storica iniziata proprio in quell’anno, il 1992.

Mani Pulite fu voluta dall’anglosfera per raggiungere un obiettivo preciso e per consentire al PDS di salire al potere indisturbato.

Nessuno doveva mettersi di traverso, pena subire la stessa sorte di Falcone e Borsellino.

L’attuale congiuntura vede ora un progressivo disfacimento della classe politica e dei suoi succedanei nata da quel golpe.

Il potere angloamericano che volle quel processo “rivoluzionario” viaggia verso la sua dismissione con il disimpegno americano dall’impero atlantico nato dopo il dopoguerra e con la nascita del blocco multipolare che sta portando alla fine dell’unilateralismo della NATO.

La storia è andata in un’altra direzione e il primo a saperlo è stato proprio uno di quei “vincitori” di quella rivoluzione colorata, ovvero nuovamente Massimo D’Alema, che in una intervista di 2 anni fa disse chiaramente che il Nuovo Ordine Mondiale aveva fallito, e che erano tornati sulla scena gli Stati nazionali con le loro originarie prerogative.

Il fatto che” Pellegrino” dica tutto questo solo ora lascia pensare che qualcuno nell’establishment voglia ritirare fuori questi ingombranti scheletri sepolti nell’armadio e che erano stati lasciati indisturbati per tanti anni.

Difficile pensare ad una coincidenza, se si considera che ormai i vecchi referenti angloamericani che vollero quel golpe giudiziario sono decaduti e ormai qui in Italia l’attuale classe politica è in declino pieno ed è orfana delle antiche protezioni.

Gli indugi allora sono stati rotti.

I guantoni sono stati tolti e le bande di questo sistema in declino si sono date alla guerra più feroce in cerca della difficile sopravvivenza politica.

Lo si vede con la quotidiana guerra giudiziaria partita con le procure che hanno avviato inchieste incrociate sui rispettivi referenti politici, e lo si vede con quella strana scia di suicidi che sembra il diretto risultato di una guerra senza precedenti nella massoneria italiana, lacerata dai conflitti e dai contrasti.

Qualcuno forse ha pensato di aprire l’armadio con gli scheletri del’92 per colpire ancora più duramente di quanto fatto fino ad ora, e allora occorre essere preparati.

Cadranno nomi ancora più eccellenti e verranno fuori verità ancora più inconfessabili.

 

 

 

 

La storia del Britannia: uno

dei” tradimenti più infami”

della repubblica dell’anglosfera.

 

Lacrunadellago.net- Cesare Sacchetti – (04/06/2024) – ci dice:

A bordo del panfilo della regina Elisabetta quella notte del 2 giugno del 1992 c’erano molti personaggi.

 C’era il giovane Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, che sarà poi il cerimoniere ufficiale, per così dire, del tradimento che venne messo in atto quella notte.

C’era “Riccardo Gallo” del glorioso” Istituto per la Ricostruzione Industriale”, c’era Giovanni Bazoli” dell’”Ambro veneto” assieme ad un’altra pletora di dirigenti pubblici che quella notte non erano lì per tutelare la ricchezza del patrimonio industriale pubblico dell’Italia e degli italiani.

E non erano nemmeno lì per salvaguardare quel formidabile sistema bancario che aveva consentito all’Italia di avere un modello talmente virtuoso ed equilibrato tale da fargli guadagnare lo scettro del Paese con le banche più stabili del mondo assieme all’altra preziosa medaglia del Paese con il più alto tasso di risparmio privato sul pianeta assieme al Giappone.

Su quella nave c’era tutto il compianto modello dello Stato imprenditore che in una prolusione di qualche tempo fa “Benito Livigni”, ex collaboratore di “Enrico Mattei”, presidente dell’ENI, definiva alquanto efficacemente la “terza via”.

E l’Italia da Paese unico e straordinario qual’ è aveva trovato di fatti una sua via in economia che non era quello del capitalismo anglosassone protestante integrato di fatto con la “finanza askenazita”, né tantomeno l’”altra falsa alternativa del collettivismo statale di natura comunista” che aveva messo al bando la proprietà privata e instaurato non il dominio del proletariato come” ipocritamente affermava Karl Marx, membro della massoneria”, ma piuttosto quello di un’altra borghesia che non differiva per nulla da quella capitalista.

La storia dell’URSS è lì a ricordare che a prendere il potere non sono stati certo dei proletari russi emarginati sotto il regno dello zar Nicola poi trucidato dai bolscevichi, ma un manipolo di sovversivi in larghissima parte di origini ebraiche che avevano strettissimi rapporti con la finanza di New York, tanto che Trotskij è proprio nella capitale della speculazione internazionale che trovò rifugio, laddove era generosamente finanziato da personaggi quali “Jacob Schiff” e “Max Warburg”, circostanza nota a tutti i governi europei dell’epoca.

Non è certo un segreto poi che a consentire il ritorno di Lenin in Russia nell’infausto anno della rivoluzione d’ottobre non fu qualche operaio tedesco simpatizzante della causa bolscevica, ma “Paul Warburg”, fratello del citato Max, che nel suo ruolo di “vicepresidente della Federal Reserve Bank americana” si assicurò che Lenin ricevesse i fondi necessari per intraprendere la sua spedizione in Russia e rovesciare l’odiato zar Nicola.

Questi nomi saranno già famigliari a molti lettori.

Sono coloro che soltanto 5 anni prima della rivoluzione bolscevica attraverso una controversa legge, la “Federal Reserve Act”, divennero i veri proprietari della banca centrale americana e dell’economia di una delle nazioni più forti del mondo.

Non deve sorprendere che ciclicamente la FED abbia infranto il suo “dogma” di consentire al mercato di autogovernarsi secondo il fantomatico principio del neoliberismo che vuole che i mercati funzionino perfettamente da soli, senza alcuna “ingerenza” da parte dello Stato.

Non deve sorprendere perché i signori della FED quali “Morgan”, “Schiff”, “Rockefeller” e “Warburg” hanno utilizzato la facoltà di creare moneta ex nihil non certo per garantire agli Stati Uniti crescita e sviluppo, o per salvare le imprese mandate al macero dalla finanza e dalla globalizzazione, ma esclusivamente per salvare le proprie banche da quelle crisi cicliche che il capitalismo speculativo senza alcuna regolamentazione comporta.

Il modello cattolico italiano: lo Stato imprenditore.

Nulla di tutto questo era penetrato in Italia né durante il fascismo né dopo la seconda guerra mondiale.

Le sane radici cattoliche dell’Italia avevano consentito a questo Paese di percorrere la via già indicata da papa Leone XIII che nella sua enciclica” Rerum Novarum” condannava sia il modello capitalista sia quello comunista, in quanto entrambi non garantivano il benessere del popolo e finivano inevitabilmente per creare una contrapposizione in classi che poi, come si è visto nelle applicazioni pratiche del comunismo, finiscono inevitabilmente per avvantaggiare il dominio del capitale.

Quando ci fu la famigerata crisi del’29, il duce, che già aveva messo al bando uno dei circoli eletti del capitale, le massonerie, pensò di istituire un istituto industriale pubblico che rilevò le partecipazioni delle industrie e delle banche colpite dalla crisi per renderle aziende di Stato.

Soltanto pochi anni prima, attraverso la famosa legge bancaria del 1926, il governo di Benito Mussolini aveva stabilito un principio fondamentale per l’attuazione dell’economia mista.

La facoltà di stampare moneta, prima rimessa anche nelle mani di istituti bancari privati, si veda il famigerato scandalo giolittiano della banca romana al riguardo, era stata trasferita esclusivamente nelle mani della banca d’Italia, all’epoca controllata dallo Stato.

Se si pensa invece al percorso che abbiamo compiuto negli ultimi 35-40 anni, ci si accorgerà facilmente che siamo tornati in pratica alle stesse condizioni, se non peggio, nelle quali ci si trovava nello Stato liberale voluto fortemente dalla massoneria nel 1861, laddove era una ristretta élite di latifondisti e capitalisti ad avere il controllo della cosa pubblica.

Il fascismo mette fine al dominio del privato sul pubblico e ristabilisce la supremazia dello Stato sui processi economici che devono avere l’obiettivo di garantire la crescita di un Paese e non quella di un manipolo di spregiudicati finanzieri e capitalisti di ventura che attraverso il neoliberismo si sostituiscono in tutto e per tutto allo Stato.

Quando finisce la seconda guerra mondiale, il conto delle macerie è molto alto ma l’allora classe dirigente della repubblica dell’anglosfera non aveva una visione predatoria a differenza di quella sorta dopo l’infausta notte del Britannia e la rivoluzione colorata di Mani Pulite.

 

L’IRI diventa il perno della rinascita economica dell’Italia.

 Lo Stato imprenditore è ciò che garantisce all’Italia di avere una delle crescite economiche più alte del secondo dopoguerra.

Se si pensa a cosa c’era dentro l’IRI, si resta sbalorditi.

C’era dentro l’Ansaldo, gli Aeroporti di Roma, le autostrade, l’Alfa Romeo, lo SME (Motta, Alemagna, Buitoni), la Telecom, il banco di Roma, la banca nazionale del Lavoro, l’Italsider, l’Italcantieri, la società degli Autogrill, e l’Alitalia.

C’era, in altre parole, tutta la spina dorsale economica ed industriale della nazione.

C’era un modello economico che aveva garantito allo Stato di sfuggire alla morsa del capitale finanziario e degli oligarchi che da tempo volevano impossessarsi del tesoro dell’Italia e diventare loro i veri padroni di questa nazione.

 

Il saccheggio del Britannia.

Quella famigerata notte ci riuscirono.

Ci riuscirono perché stava avendo luogo uno dei golpe più infami della storia di questa nazione, inferiore soltanto forse a quello di Cassibile, quando il “generale Castellano” ha preso le chiavi della sovranità italiana e le ha consegnate all’anglosfera e ai suoi referenti finanziari.

A voler mettere le mani su quel tesoro erano gli esponenti di banche quali” JP Morgan”, “Goldman Sachs”,  la “Baring & Co”., la “S.G. Warburg”, “Merryll Lynch” e “Solomon Brothers”.

Gli uomini più potenti della city di Londra e di Wall Street salgono su quel panfilo e riescono a comprare a prezzo di saldo il patrimonio industriale pubblico dell’Italia che verrà smantellato in nome del falso dogma neoliberale che il privato è più virtuoso del pubblico, quando l’unica “virtù” del privato, soprattutto quello finanziario, è semmai quella di arricchire sé stesso a discapito di una comunità intera.

Quel golpe è stato possibile perché la magistratura stava conducendo una operazione giudiziaria che si può definire scientifica attraverso la rimozione di quei partiti della vecchia classe dirigente della Prima Repubblica, su tutti il PSI e la DC, che venivano eliminati per lasciare posto al PDS.

I post-comunisti erano infatti stati già scelti come “vincitori” di questa falsa rivoluzione, come amava chiamarla Craxi, e che diedero poi negli anni successivi il colpo di grazia allo Stato imprenditore liquidando ciò che era rimasto dell’IRI negli anni 90 e facendo regalie di vario tipo a oligarchi quali i Benetton che si presero in concessione le autostrade con i risultati che tutti hanno potuto vedere attraverso un aumento dei pedaggi e un vertiginoso crollo della qualità del servizio, di cui il crollo del Ponte Morandi è soltanto l’esempio più manifesto.

Tale manovra eversiva non è mai stata studiata a fondo da un punto di vista anche giuridico, se si vuole.

Nessuno si pone mai il quesito di chi aveva autorizzato Draghi e gli altri a salire a bordo di quel panfilo, nave di una nazione straniera ricordiamolo, e mettere in atto una svendita che definire danno erariale sarebbe un eufemismo da parte nostra.

Il 2 giugno del 1992 l’Italia non aveva un governo pienamente in carica, in quanto il governo Andreotti poteva compiere solo il disbrigo degli affari correnti e non risulta che l’ex presidente del Consiglio abbia mai autorizzato nulla del genere.

L’anno dopo per lui fu approntata un’altra macchina del fango persino più infame di quella di Mani Pulite che prese le sembianze del processo per mafia del quale abbiamo parlato in un altro contributo.

Draghi, Bazoli e gli altri non sono mai stati messi sotto inchiesta poiché la magistratura, salvo rare eccezioni, è un corpo che serve a coprire le malefatte dello stato profondo e della massoneria, e non farle venire alla luce.

E il ’92 è la prova regina della funzione della magistratura nella tanto, non da noi, decantata democrazia liberale.

Soltanto alcuni magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino quell’anno stavano provando a seguire le tracce di una inchiesta, quella sui fondi neri del PCI, che se fosse andata in porto avrebbe spazzato via con ogni probabilità il PDS e i suoi dirigenti deputati a prendere il posto della classe dirigente della Prima Repubblica.

Non si può poi non notare una sequenza temporale altrettanto inquietante.

Quando Falcone salta in aria il 23 maggio a Capaci, il panfilo della Regina Elisabetta sbarca a Palermo e il 27 si reca sul luogo dell’attentato assieme al marito Filippo, noto membro della massoneria britannica.

Soltanto 5 giorni dopo la Regina metteva a disposizione il suo panfilo per mettere in atto un vero e proprio attacco alla sovranità economica del Paese.

 

La Gran Bretagna aveva tutto l’interesse che le banche e gli istituti finanziari anglo sionisti rilevassero i gioielli dell’economia italiana in quanto l’Italia era un pericoloso concorrente industriale e, al tempo stesso, poiché la corona britannica è da tempo un garante degli interessi di questi poteri finanziari.

Nessuno, anche in questa occasione, pensò bene di diramare una nota formale di protesta contro Londra che di fatto era partecipe di un atto di aggressione nei confronti dell’Italia.

Né tantomeno lo fece il successore di Andreotti, Amato, che sarà colui che quando salirà al potere nel luglio di quell’anno darà il via libero definitivo al saccheggio nell’estate di quell’anno, non prima però di aver depredato nottetempo i conti correnti degli italiani, in nome della falsa emergenza dovuta alla partecipazione dello SME, che se fosse stato abbandonato a tempo debito avrebbe risparmiato all’Italia un salasso di 48 miliardi di dollari eseguito per gentile concessione di Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca governatore di Bankitalia, che pensò bene di fare le fortune del “Quantum Fund di Soros” in una scellerata e suicida difesa a oltranza del cambio fisso della lira con il marco.

Su quel panfilo poi c’erano anche personaggi del calibro di “Beppe Grillo” a detta di “Emma Bonino” che non è mai stata smentita dal comico genovese.

I signori dell’anglosfera volevano assicurarsi di preparare una opposizione di comodo già in quella lontana epoca poiché erano alquanto consapevoli che il neoliberismo, l’ingresso nell’UE e nell’euro avrebbero portato ad un depauperamento che difficilmente sarebbe stato digerito dalla popolazione e pertanto occorreva costruire un laboratorio del dissenso e darne la custodia al “guitto di Genova” che poi passerà il testimone alla Lega negli anni più recenti.

Questa è la storia di un golpe e dell’omicidio economico di un Paese che era stato voluto già decenni prima, quando nei primi anni 70, il “club di Roma” di influenza rockefelleriana decise che la nazione sede della cristianità mondiale andava portata al declino, pena l’impossibile avanzata del Nuovo Ordine Mondiale che è un sistema fondato sulla repressione della religione cristiana ma soprattutto cattolica, in particolar modo nella sua versione più autentica della Chiesa pre-conciliare e non quella liberale e secolare partorita dal nefasto Concilio Vaticano II.

Quanto accaduto all’Italia allora e negli anni precedenti deve essere una lezione per il futuro.

Studiare la storia, quella vera e non quella raccontata dai vari propagandisti liberal-progressisti, serve a comprendere quale assalto ha ricevuto questa nazione e cosa la finanza askenazita ha portato via all’Italia.

E in questa fase storica laddove assistiamo al declino di quella falsa rivoluzione del 92 e dei suoi protagonisti è necessario pensare che occorre ripartire dalla vera identità dell’Italia per dare un futuro a questa nazione.

La vera identità dell’Italia non è quella di un sistema economico fondato sul neoliberalismo protestante ma sul cattolicesimo sociale e sulla rinascita dell’IRI.

L’IRI è stato il perno della rinascita passata, e non potrò necessariamente che essere il perno della rinascita futura.

 

Se l’Italia entrasse in guerra oggi

chi verrebbe richiamato alle armi

per essere arruolato?

Geopop.it – Rachele Renno – (27- 5 - 2024) – ci dice:

 

In Italia è tornato al centro del dibattito il tema della chiamata alle armi.

La leva obbligatoria oggi non è obbligatoria ma c'è una proposta di legge per reintrodurla.

 In ogni caso, è reato sottrarsi alla chiamata alle armi, salvo gravi problemi di salute.

Il nostro Paese fa parte della NATO e secondo il Patto Atlantico, trattato fondatore della NATO nel 1949, esiste il cosiddetto "sistema di difesa collettiva", sancito nell’art.5, secondo il quale in caso di attacco ad uno Stato membro l’Italia e gli altri Paesi membri sono obbligati ad intervenire in sua difesa.

Anche per la sua appartenenza all'Unione Europea, secondo l'art.42 del Trattato istitutivo dell'UE (TUE), per attuare la politica di difesa e sicurezza comune, l’Italia e gli altri Paesi membri mettono a disposizione il proprio supporto, anche militare, con tutti i mezzi in loro possesso previa delibera all'unanimità del Consiglio Europeo.

Ma se l'Italia entrasse in guerra chi sarebbe richiamato alle armi?

Solo le forze militari o anche i normali cittadini?

In caso di chiamata alle armi, l'art.52 della Costituzione stabilisce che rifiutarsi costituisce reato.

L'Italia può entrare in guerra? I casi in cui potrebbe succedere.

La Costituzione italiana all’articolo 11 sancisce che:

 «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa agli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

 Questo però non esclude che in caso di attacco il nostro Paese può fare ricorso alle armi a scopo difensivo, così come in caso di attacco militare ad uno Stato membro della NATO e dell’Unione Europea, organizzazioni internazionali e sovranazionali di cui l’Italia fa parte.

 L'art.78 della Costituzione italiana infatti dichiara che le Camere possono deliberare lo stato di guerra dando al governo i poteri necessari.

Se dovesse dunque configurarsi un conflitto e l’entrata ufficiale in guerra del nostro Paese i primi ad essere coinvolti sarebbero le forze armate ufficiali:

Esercito, Marina Militare, Carabinieri, Guardia di finanza, Aeronautica militare.

 Ad essere esclusi sono invece le forze di polizia ad ordinamento civile, come i Vigili del Fuoco, la Polizia Locale e la Polizia penitenziaria.

In secondo luogo, sarebbero chiamati alle armi gli ex militari che hanno raggiunto il proprio termine di servizio da meno di 5 anni.

In Italia da anni si dibatte sulla questione dei "riservisti", personale militare o addestrato, su base volontaria, che non dovrebbe superare le 10.000 unità e che sarebbe impiegato prevalentemente per supporto logistico e attività di cooperazione.

Chi verrebbe chiamato alle armi? L'arruolamento dei civili.

Se il personale militare volontario non dovesse essere in numero sufficiente si potrebbe allora ricorrere all’arruolamento dei civili:

è importante chiarire che solo se il personale in servizio è insufficiente si ricorrerebbe a questa eventualità.

A essere chiamati alle armi sarebbero i cittadini maschi dai 18 ai 45 anni dichiarati idonei alle visite mediche sulla base delle liste di leva.

Infatti, al termine delle visite mediche, sono tre i possibili esiti:

 idonei e quindi che possono essere arruolati, rivedibili, ossia al momento della visita non sono risultati idonei ma possono essere sottoposti a nuove visite mediche e riformati, infine non idonei al servizio militare in modo permanente.

Le donne in gravidanza sono escluse dalle liste di leva obbligatoria.

Proprio riguardo l'insufficienza di unità militari a disposizione, a dicembre 2023 è stato approvato un decreto legislativo sulla revisione dello strumento militare che ha aumentato da 150.000 a 160.000 le unità delle forze armate, a partire dal 1° gennaio 2034.

Si può rifiutare la chiamata alle armi? La leva obbligatoria in Italia.

In caso di chiamata alle armi non è possibile sottrarsi alla chiamata, a meno che non ci siano gravi problemi di salute, da verificare tramite le visite mediche specifiche.

 Infatti, secondo l’art.52 della nostra Costituzione

 “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici."

In caso quindi di rifiuto si tratterebbe di reato.

In Italia la leva obbligatoria è stata sospesa con la legge n.226 del 23 agosto 2004 per tutti i cittadini nati dopo il 1° gennaio 1986 ed entrata in vigore nel 2005.

In realtà però la chiamata alla leva è stata sospesa, quindi non eliminata in modo definitivo.

 Secondo il nostro ordinamento militare infatti il servizio di leva può essere nuovamente messo in atto con decreto del Presidente della Repubblica in caso di mancato raggiungimento del numero di personale arruolato.

A tal proposito, il 21 maggio scorso il ministro delle infrastrutture italiano Matteo Salvini ha presentato alla Camera dei deputati una proposta di legge per introdurre di nuovo la leva obbligatoria nel nostro Paese:

 sei mesi di servizio militare o civile per i giovani tra i 18 e i 26 anni, da svolgere in Italia, nella propria regione di appartenenza.

 Questa proposta ha riacceso il dibattito sulla leva obbligatoria e sul coinvolgimento volontario dei giovani in attività non solo collegate a scopi militari ma anche di protezione civile.

(geopop.it/se-litalia-entrasse-in-guerra-oggi-chi-verrebbe-richiamato-alle-armi-per-essere-arruolato/).

(geopop.it/)

 

 

 

«Equidem ego ad pacem hortari non desino, quae vel iniusta utilior est quam iustissimum bellum –Personalmente, non smetto di esortare alla pace, che, per quanto ingiusta, è sempre meglio della guerra più giusta con i concittadini» (Cicerone).

Latinorum.it – Redazione – (11-1-2023) – ci dice:

 

Riguardo alla guerra in Ucraina, sempre più frequenti sono gli appelli ad una “pace giusta”:

 «Sosterremo l’Ucraina nel perseguire una pace giusta», ha affermato il presidente americano Joe Biden, nel corso dell’incontro alla Casa Bianca con Volodymyr Zelensky.

E ha poi aggiunto: «Il popolo americano è orgogliosamente a fianco di quello ucraino.

Gli Stati Uniti sono dalla sua parte e dalla parte dei cittadini e delle cittadine coraggiose dell’Ucraina […]

Faremo quello che serve per portare avanti una strategia di difesa, in particolare di quella aerea.

Forniremo ulteriori armi all’Ucraina».

Ideologia della pace e ideologia della guerra risultano così strettamente collegate, ma la pace resta palesemente in totale subordine.

I fautori dell’antico” si vis pacem para bellum” non mancano, al riguardo, di rifarsi al mondo romano, citando sia l’Epitome sull’arte della guerra di Publio Flavio Vegezio Renato, sia il ben più famoso Cicerone della VII Filippica;

e ricordando le riflessioni degli antichi sul concetto della “guerra giusta” e della giusta difesa armata da parte di chi viene aggredito.

 Ben pochi si chiedono quali fossero le posizioni degli antichi sulla pace, a prescindere dal suo collegamento con la guerra.

 

Ebbene, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, dal mondo antico non ci è pervenuto alcuno scritto che sviluppi espressamente il tema della pace: probabilmente, ciò è dovuto al fatto che gli antichi consideravano per così dire normale la condizione dello stato di guerra e che, conseguentemente, vedendo la pace come una sorta di tregua fra una guerra e l’altra, non le attribuivano una vera e propria autonomia concettuale.

In ogni caso, riflessioni interessanti sull’idea di pace, assieme all’elaborazione più o meno sistematica di sue concezioni positive, si possono trovare in diversi momenti di svolta del mondo antico.

Per quanto concerne la romanità, il periodo del tramonto della Repubblica vede Cicerone occupare un ruolo di primo piano:

 egli ebbe infatti alcune intuizioni originali, sviluppando considerazioni politiche sulla pace ed elaborando concezioni teoriche abbastanza nuove.

Dal complesso dei suoi scritti – pur fra incertezze e ondeggiamenti, sia nelle prese di posizione politiche, sia nella formulazione del pensiero filosofico intorno all'idea di pace –, emergono fondamentalmente tre modi di considerare la pace, riguardanti l'uno la pace del sapiente e gli altri due la pace del cittadino:

 il cittadino inteso come membro della comunità e in essa impegnato, e il cittadino coinvolto nelle guerre civili.

Tralasciando la pace del sapiente, gli altri due aspetti del problema riguardano dunque la pace di Roma con gli altri popoli e la pace in Roma tra i cittadini.

Vero è che Cicerone, riflettendo sulla natura umana, celebra molto spesso la pace come prerogativa dell’uomo e condanna la guerra come “bestiale”;

vero è che, qua e là, soprattutto nelle sue opere filosofiche, si trovano spiragli in direzione di una visione della pace diversa da quella della sua imposizione con la forza, ma complessivamente, il rimedio ai mali presenti – nel periodo di grave crisi sociale e istituzionale in cui si trova a vivere – sembra per lui consistere prevalentemente in un ritorno al passato, non escluse le guerre condotte per mantenere i propri impegni o per la propria salvezza:

di fatto, in una sorta di anticipazione di quello che sarà il pensiero virgiliano – con l’attribuzione a Roma della missione provvidenziale di instaurare la pace nel mondo –, per lui è Roma che, in occasione di conflitti, dona la pace agli avversari, purché si arrendano a lei, ne riconoscano la superiorità morale, ne accettino la supremazia politica, ne seguano i precetti.

Altrettanto vero è però che le sue affermazioni sull'importanza dell'impegno politico civile rispetto a quello militare, sulla preminenza dello strumento della diplomazia in confronto allo strumento della guerra nei rapporti con gli altri popoli, sono segni inequivocabili di una nuova, conquistata, consapevolezza dell'esistenza di valori superiori a quelli fondati sullo spirito di sopraffazione e di violenza.

Quasi certamente a causa del coinvolgimento diretto della popolazione, delle istituzioni e di Cicerone stesso, il discorso si fa più complesso e contraddittorio in rapporto ai turbamenti della vita politica interna di Roma, all’importanza della pace interna fra i cittadini, al rifiuto e al superamento della guerra civile.

 Al riguardo, sono frequentissime le dichiarazioni dell'oratore di essere, e di essere stato, sempre, nella vita politica della sua città, auctor pacis, pacis alumnus, defensor pacis:

ma ciò non gli impedì, sul finire della propria vita, di sostenere la necessità della guerra civile fra Marco Antonio e Ottaviano, in nome del fatto che la pace non è accettabile qualora porti con sé la servitus, perché solo se unita alla libertas, la pace è securitas.

 La pace, insomma, deve essere una “pace giusta”, una pace honesta, garantendo quella sicurezza che solo la libertà può dare:

una libertà il cui concetto è peraltro ben diverso da quello odierno, non avendo quel valore universale che le si attribuisce oggi, ma avendo il compito squisitamente politico di bilanciare il potere in un equilibrio armonico.

In ogni caso, Cicerone è stato spesso visto come uno dei più insigni celebratori e difensori della libertà, tanto da far scrivere già al Leopardi che le sue Filippiche – ovvero le orazioni contro Marco Antonio degli anni 44/43 – erano «l’ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov’ella sia difesa e predicata apertamente» (Zibaldone, 459).

Particolarmente significativa al riguardo è la già ricordata orazione VII, databile agli inizi del 43, che testimonia il clima di guerra civile ormai consolidato fra Marco Antonio e Ottaviano: 

c’è chi vuole trattare con Antonio – dice Cicerone –, c’è chi sostiene che le sue richieste siano moderate, mi accusano di volere la guerra, sostengono che non bisognasse irritare Antonio.

Chi sono costoro?

Sono quelli che si sono creati la fama di democratici, e che oggi scelgono di essere non più democratici ma cattivi cittadini.

Nessun tempo è mai stato tanto decisivo come l’attuale, «e così io, che sono sempre stato un fautore della pace […] io, che per così dire mi nutro di pace […], ebbene io, che – ripeto ancora – ho sempre lodato e promosso la pace, proprio io ora non voglio che ci sia la pace con Marco Antonio.

Perché dunque non voglio la pace? Perché la pace sarebbe vergognosa, pericolosa, impossibile […]

 E non è che io non voglia la pace, ma ho paura di una guerra che si nasconda sotto la falsa sembianza di pace:

perciò, se vogliamo usufruire della pace, bisogna fare la guerra;

 perciò, se rinunciamo ora alla guerra, non usufruiremo mai della pace (Quare, si pace frui volumus, bellum gerendum est; si bellum omittimus, pace numquam fruemur).

 È proprio della vostra saggezza, Senatori, guardare il più lontano possibile nel futuro» (1, 3- 6,19).

Sennonché, la varietà delle angolature secondo cui Cicerone, all’interno di tutte le sue opere, sviluppa considerazioni politiche sulla pace, e la varietà delle concezioni teoriche espresse dipendono dal fatto che egli si pronuncia sempre partendo dalla valutazione della situazione politica in cui le sue diverse posizioni prendono forma: considerando il contesto, sia alla dichiarazione che l’unica pace possibile sia quella “giusta”, sia alla conseguente affermazione che, per usufruire della pace, si debba fare la guerra, non si può dunque attribuire alcun intento o valore universalistico.

Esse sono fondamentalmente riferite alla situazione contingente:

una situazione in cui Cicerone, convinto di poterlo manovrare, e sicuro della sua vittoria, aveva deciso di appoggiare Ottaviano contro Antonio – da lui considerato un pericolo per la repubblica –, riportandolo sotto la tutela del Senato.

 E mai egli si sarebbe aspettato il voltafaccia di Ottaviano, che, dopo avere sconfitto Antonio a Modena, aveva stretto con lui e con Lepido un accordo, dando vita ad un triumvirato, e procedendo ad una sistematica persecuzione degli oppositori, fra cui lo stesso Cicerone:

 un errore di valutazione che gli costò la vita.

A dimostrazione del fatto che alle affermazioni di Cicerone, al suo ‘inno’ alla guerra in nome di una pace honesta e sicura, non possono essere riconosciuti intenti o valori universalistici, essendo esse esclusivamente riferite ad una situazione contingente, basti ricordare il ben diverso atteggiamento assunto dallo stesso Cicerone in relazione alle tragiche vicende della guerra civile fra Cesare e Pompeo: perché, anche ammettendo che, teoricamente, solo se unita alla libertas, la pace sia per Cicerone in grado di garantire sicurezza, la prassi si allontana dalla teoria quando una causa, pur se giusta, appare disperata;

quando, per la disparità delle forze, si dispera della vittoria;

quando, in una guerra fratricida, la scelta è fra il continuare ad uccidersi e il sopravvivere; quando, infine, ad essere in gioco sono il proprio futuro e la propria stessa vita.

Molto interessanti al riguardo sono le lettere di Cicerone relative a quella prima guerra civile:

fermo restando che, se rispetto a vari temi appare sempre segnato da qualche diversità l’atteggiamento di Cicerone politico e di Cicerone filosofo, non possono non rilevarsi ulteriori diversità nella dimensione privata di un epistolario.

 

Nella notte fra l’11 e il 12 gennaio del 49 a. C., Cesare attraversa il Rubicone, dando così ‘ufficialmente’ inizio alla guerra civile;

 il 17 gennaio Pompeo fugge da Roma in direzione di Brindisi, seguito da una parte dei senatori.

Cicerone parteggia per Pompeo, ma, fin dall’inizio del conflitto, si mostra pieno di dubbi e di dilemmi, cercando di muoversi per una pacificazione e rimanendo costantemente incerto sull’ipotesi di offrire la propria partecipazione diretta alla guerra di Pompeo, come testimoniano le numerose sue lettere all’amico Attico, nonché quelle allo stesso Pompeo, a Cesare e ad altri.

 Peraltro, non va dimenticato il complesso e controverso rapporto personale che, negli anni, lega Cicerone a Cesare, rapporto all’interno del quale si comprendono i suoi diversi tentativi di mediazione.

Che la guerra potesse assumere dimensioni planetarie pericolose, Cicerone lo capisce ben presto, non appena assiste alla mossa di Pompeo di lasciare Roma.

 

È della fine di gennaio, ad esempio, una sua lettera all’amico Attico (Att. VII, 14), in cui fra l’altro si legge: «Spero che per il momento avremo la pace»; e ancora: «Personalmente, non smetto di esortare alla pace, che, per quanto ingiusta, è sempre meglio della guerra più giusta con i concittadini (Equidem ego ad pacem hortari non desino, quae vel iniusta utilior est quam iustissimum bellum cum civibus)».

Ancora, alla fine di febbraio dello stesso anno, in una lettera inviata a Pompeo e trasmessa anche ad Attico (Att. VIII, 11d), Cicerone scrive:

 «Credo che tu ricordi quale fu sempre il mio parere: principalmente, conservare la pace anche se la pace comporta condizioni inique (Mea quae semper fuerit sententia, primum de pace vel iniqua condicione retinenda,…meminisse te arbitror )».

 

I suoi dilemmi sono del resto ben chiariti in una lettera scritta sempre all’amico Attico il 12 marzo (Att. IX, 4), quando Pompeo è ancora a Brindisi, assediato da Cesare:

 Cicerone si chiede se si debba restare in patria anche quando a reggerla è un tiranno;

se si debba ad ogni costo cercare di abbattere la tirannide, anche quando ciò comporti per la patria un rischio mortale;

 se chi si propone di abbattere il tiranno debba però anche salvaguardare se stesso;

se non sia preferibile soccorrere la patria oppressa con un’azione politica tempestiva e con la parola, piuttosto che con la guerra;

 se si possa considerare come un comportamento politico l’andarsene lontano dalla patria, anziché affrontare qualunque pericolo per la libertà;

se ci si debba comunque arruolare anche se non si approva l’abbattimento del tiranno attraverso la guerra;

se in guerra si debba comunque correre tutti i rischi al fianco degli amici e dei benefattori, anche quando le loro scelte politiche non appaiono condivisibili;

se chi ha già tanto patito per la patria debba di propria iniziativa esporsi ad ulteriori rischi, ecc.

Solo il 7 giugno, Cicerone si imbarcherà per congiungersi con le forze di Pompeo, ma, di fatto non ci sarà mai un suo coinvolgimento diretto nelle azioni militari: sarà presente a Durazzo (dove Cesare, dopo alterne vicende, non riuscì ad avere ragione di Pompeo e fu costretto a desistere dai suoi propositi, trasferendosi con i suoi in Tessaglia), ma non seguirà Pompeo in Grecia (dove, nell’estate del 48 ebbe poi luogo il decisivo scontro di Farsalo fra Cesare e Pompeo).

Dopo Farsalo, Pompeo si rifugiò in Egitto, dove venne proditoriamente ucciso per ordine del re Tolomeo, che intendeva con questo ingraziarsi Cesare.

Sarà Cicerone stesso a descrivere poi questa fase della sua vita, dal momento della partenza dall’Italia per ricongiungersi a Pompeo, fino al successivo ritorno a Roma, evidenziando la propria presa di distanza dalla scelta pompeiana di proseguire nella guerra.

Siamo nel luglio del 46, e Cicerone scrive all’amico Marco Mario (Fam. VII, 3): racconta di come, prima di raggiungere Pompeo in Epiro, fosse confuso e dubbioso sulla decisione da prendere, e non perché si preoccupasse della propria salvezza personale, ma per le domande che si poneva sull’onore e sull’opinione pubblica.

Una volta raggiunto Pompeo – continua – non tardò a pentirsi della propria decisione:

le forze di Pompeo erano scarse e poco agguerrite, fra i suoi seguaci c’erano persone oberate dai debiti e desiderose di saccheggio;

 anche se la causa era giusta, lì non c’era niente di buono, e la cosa migliore da proporre poteva essere solo quella pace che del resto lui aveva sempre consigliato.

Pompeo era però sordo ad ogni possibilità di un esito pacifico, e, in alternativa, Cicerone gli suggerì di portare la guerra alle lunghe il più possibile:

 cosa che Pompeo inizialmente accettò, ma poi, spinto da qualche successo militare, decise di affrettare lo scontro.

Di fronte alla ineluttabilità di una sconfitta, Cicerone decise di tornare a Roma, uscendo   da una situazione che non gli offriva altre alternative se non quelle di morire armi alla mano, o cadere in un'imboscata, o diventare preda del vincitore, condannandosi all'esilio o al suicidio.

 Il destino più tollerabile sarebbe stato l’esilio, ma Cicerone preferì ad esso scegliere la propria casa e la propria famiglia.

 La sua coscienza – scrive – è pulita, la sua passione per le lettere e la gloria del proprio nome gli sono di supporto;

non aveva mai voluto che qualcuno si impadronisse della repubblica; una volta compresa l’ineluttabilità della sconfitta aveva solo desiderato la pace;

dopo la sconfitta, si era sempre ostinato a volere la pace, e, vedendo che rimaneva inascoltato, non gli era rimasto che chiamarsi fuori dalla lotta.

Quanto a quelli che lo attaccano e che considerano come colpa il fatto che egli sia vivo, ebbene, la sua morte non sarebbe certo servita alla repubblica («Sunt enim qui, quum meus interitus nihil fuerit Rei publicae profuturus, criminis loco putent esse quod vivam»:

non si rendono conto che già in troppi sono morti, e che, se gli avessero dato ascolto, quei morti «vivrebbero una pace ottenuta sì a condizioni ingiuste ma onorevole.

 Noi, infatti, non avevamo la forza, ma il diritto era comunque dalla nostra parte (Quibus ego certo scio non videri satis multos perisse: qui, si me audissent, quamvis iniqua pace, honesta tamen viverent. Armis enim inferiores, non causa fuissent)».

Sempre del 46 è l’epistola ad Aulo Cecina (Fam. VI, 6), di impostazione simile, in cui si legge:

«È sorta la causa per la guerra: che cosa ho trascurato, io, sia in consigli che in lamenti e proteste, quando ho persino anteposto una pace più che iniqua ad una più che giusta guerra? (Causa orta belli est: quid ego praetermisi aut monitorum aut querelarum, cum vel iniquissimam pacem iustissimo bello anteferrem?)».

 

C’è chi ha notato come, nel rievocare in queste ultime due lettere la difficile e complessa situazione, Cicerone appaia per così dire reticente, e, soprattutto, come egli cerchi di giustificare il proprio comportamento, sottraendolo ad ogni accusa di incoerenza e opportunismo;

e c’è chi ha asserito che il suo convincimento pacifista sconfini pericolosamente in un comodo disimpegno:

sennonché, non solo l’idea che, nella situazione specifica, anche una pace iniqua fosse preferibile alla guerra è espresso fin dall’inizio della guerra civile, ma soprattutto non va dimenticato che   – come si è già detto – le considerazioni politiche di Cicerone (sulla pace, ma non solo) sono sempre strettamente connesse alle sue valutazioni sulla situazione politica del momento, e, pur considerando l’aspetto umano e personale delle sue lettere agli amici, pur non sottovalutando le istanze di auto rappresentazione in esse celate, nelle sue parole non è difficile riconoscere innanzitutto il pragmatismo che in ambito politico lo caratterizza e lo caratterizzerà per tutta la vita.

Due guerre civili, due diverse valutazioni sugli schieramenti e sulle possibilità di vittoria, due posizioni politiche diverse:

da un lato, le ripetute esortazioni alla pace, che, per quanto ingiusta, è sempre meglio della guerra più giusta; dall’altro, le esortazioni alla guerra in nome della pace.

 Da un lato, la convinzione – poi dimostratasi corretta – che la causa di Pompeo fosse perdente;

dall’altro, un errore di valutazione sulle forze in campo, sulle persone, sulle possibili alleanze, e conseguentemente sui rischi effettivi:

e le sue scelte ‘pragmatiche’, basate sull’errore, si rivelarono necessariamente, in quel frangente, come scelte sbagliate.

 

Va da sé che, così come è erroneo attribuire valore universalistico alla frase della VII Filippica «si pace frui volumus, bellum gerendum est», ed è fuorviante considerarla come espressione del pensiero filosofico-politico di Cicerone, altrettanto sbagliato e fuorviante sarebbe  ‘generalizzare’ le sue affermazioni sulla necessità di anteporre «una pace più che iniqua ad una più che giusta guerra», e fare di Cicerone un fautore del ‘pacifismo’, o, peggio ancora, accusarlo di incoerenza, opportunismo, disimpegno, tacciando di falsità il suo preteso pacifismo.

Ma sbagliato sarebbe anche non tener conto di come – a fronte di dubbi, incertezze e timori sulle forze politiche in campo, sulle persone coinvolte, sugli esiti del conflitto, sul debito di vite umane da pagare, sulle scelte non condivisibili operate dai contendenti – Cicerone, spesso considerato riferimento culturale e modello politico da imitare si schieri pragmaticamente a favore della pace, quale che essa sia.

In ogni caso, a prescindere dalla indispensabile contestualizzazione delle dichiarazioni ciceroniane, a prescindere dal suo pragmatismo e dai possibili errori di valutazione e di scelte, a prescindere infine dalla veridicità o meno del suo convincimento pacifista in relazione alla guerra civile fra Cesare e Pompeo, le sue parole sulla pax iniusta o iniqua o iniquissima, comunque preferibile anche alla guerra più giusta, furono riprese, nel Cinquecento, da un pensatore considerato a pieno titolo come il primo pacifista dell’Europa moderna, ovvero” Erasmo da Rotterdam”.

Per Erasmo, la pace è il pensiero dominante fin dal 1504, come si evince dal suo Panegyricus ad Philippum Austriae ducem (Panegirico a Filippoduca d’Austria) pubblicato appunto in quell’anno , in cui, fra le altre cose, la guerra è definita come un gioco concertato dai potenti per mantenere la propria tirannia.

Nel 1511 esce l’Encomium morae (Elogio della follia), in cui si afferma che la guerra è «opera di parassiti, lenoni, ladri, sicari, contadini, imbecilli, falliti, tutta quanta insomma la feccia della società» (XXV).

 Del 1514 è una lettera ad Antonio di Bergen (P. S. Allen, Opus Epistolarum Des. Erasmi Roterodami, vol. I, Lettera n. 288, Oxford 1906, pp. 551-554), in cui si legge: «pensa ancora quanti crimini si commettono col pretesto della guerra, quando le buone leggi tacciono nello strepito delle armi: quante rapine, quanti sacrilegi e rapimenti e altre azioni infami, da vergognarsi soltanto a nominarle. Questo sfacelo morale dura per molti anni, anche quando la guerra è finita. Calcola, ora, quanto costa la guerra: anche se si vince, il danno supera sempre il guadagno. Come si può stimare che la vita e il sangue di tante migliaia di uomini valgano un regno? E poi, la maggior parte delle sciagure ricade su chi alla guerra non è affatto interessato. I vantaggi della pace, invece, toccano tutti. In guerra, quasi sempre, piange anche chi riporta la vittoria».

Del 1515 è il testo definitivo del Dulce bellum inexpertis (Dolce è la guerra per chi non l’ha vista in faccia), negli Adagia (Proverbi) insieme ad altri scritti contro la guerra.

Nel 1517 è pubblicata la Querela pacis, undique gentium eiectae profligataeque (Lamento – ma anche denuncia, protesta – della pace scacciata e respinta da tutte le nazioni), ecc.

 

Erasmo scrive la Querela pacis nel 1516, in vista della conferenza di Cambrai, volta a stringere vincoli di pace tra Francia, Spagna e Impero:

 i destinatari immediati – coloro che si cerca di convincere – sono i principi, i principi cristiani, dal cui potere può derivare la pace.

Ma l’opuscolo, col suo accorato appello a dar voce alla pace, offre anche una sintesi di quella che, sulla pace, è la costante riflessione di Erasmo: un pacifismo che sottende la sua intera attività, e che si lega strettamente al suo progetto di promozione della cultura, rigenerata dal messaggio cristiano, come lotta contro la violenza e il fanatismo.

«Già da un pezzo – leggiamo – sento le scuse di uomini con la disposizione naturale a far danno a sé stessi.

 Lamentano di essere costretti e trascinati in guerra a loro dispetto.

Togliti quella maschera, elimina il belletto, interroga il tuo cuore.

Troverai che a trascinarti furono l’ira, l’ambizione, la follia, non la necessità. […] E intanto si tengono solenni suppliche, s’invoca la pace a gran voce, si alza un grido immenso:

 “Donaci la pace, t’imploriamo. Ascoltaci”.

Non potrebbe Dio rispondere loro, a buon diritto, “Perché mi prendete in giro? Mi chiedete di allontanare ciò che voi stessi chiamate volontariamente a voi? Deprecate ciò che da voi stessi vi siete procurato?”

Se un’offesa qualsiasi genera una guerra, chi mai non avrà di grazia motivo di lamentarsi? […]

Esistono le leggi, esistono uomini eruditi, venerandi abati, reverendi vescovi, grazie alla cui salutare saggezza la contesa potrebbe essere ricomposta.

Perché non scegliere piuttosto costoro come arbitri?

Ché di sicuro non si potrebbe trovarne di così dannosi da non risolvere la questione con un danno minore del ricorso alle armi.

Quasi nessuna pace è così ingiusta da non essere preferibile anche alla più giusta delle guerre (Vix ulla tam iniqua pax, quin bello vel aequissimo sit potior).

Valuta prima attentamente cosa richiede o comporta una guerra, e capirai quale guadagno te ne deriverà (XVIII-XIX).

 […] Se poi la guerra è inevitabile, sia condotta in modo tale che la maggior parte dei mali ricadano sulla testa di coloro che l’hanno causata.

Ora i principi combattono al sicuro, i comandanti aumentano di grado, la massima parte dei mali si riversa sui contadini e sulla plebe, che con la guerra non hanno a che fare e non ne sono in alcun modo responsabili (XX). […]

Pretesti di guerra vanno stroncati immediatamente.

Su qualcosa si deve cedere, la condiscendenza indurrà ad essere condiscendenti. Qualche volta la pace va comprata.

Se dal prezzo toglierai le risorse consumate dalla guerra e le vite dei cittadini risparmiate, la pace sembrerà comprata a poco prezzo anche se pagata molto, dal momento che, oltre al sangue dei tuoi sudditi, molto di più avresti dovuto spendere per la guerra.

Fai il conto di quanti mali hai evitato e di quanti beni hai protetto, e non ti rincrescerà la spesa (XXI,5).

[…] Che se poi la pace ti sembrerà avere qualcosa di ingiusto, guardati dal pensare “perdo questo”, ma pensa piuttosto “questo è il prezzo della pace” (XXVI)».

 

 

 

Putin respinge le accuse secondo cui Mosca

starebbe pianificando un attacco alla NATO

come allarmismo da parte dei falchi della guerra.

 Naturalnews.com – (10/6/2024) - Richard Brown – ci dice:

 

Il presidente russo Vladimir Putin ha respinto le accuse secondo cui Mosca starebbe pianificando un attacco all'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) come una presunta debole tattica dei falchi della guerra occidentali per sostenere il loro dominio attraverso l'allarmismo.

Parlando ai leader delle principali agenzie di stampa al” Forum economico internazionale di San Pietroburgo”, Putin ha deriso l'idea che la Russia nutra tali intenzioni come ridicole e mirate a manipolare le popolazioni occidentali per rafforzare le forniture di armi all'Ucraina.

Putin si è fatto beffe di questa idea, mettendo in dubbio la sanità mentale di coloro che propagano tali affermazioni e insinuando che siano guidati da secondi fini.

 Ha sostenuto che queste narrazioni servono a mantenere il senso di superiorità delle potenze occidentali, in particolare in paesi come la Germania e la Francia, mentre la Russia cerca semplicemente di proteggere i propri interessi in Ucraina.

"Non fatevi un'immagine della Russia come un nemico", ha detto Putin.

"Avete inventato che la Russia vuole attaccare la NATO. Hai perso completamente la testa? Chi l'ha inventato? È spazzatura. È un'assurdità assoluta".

Nel corso dell'ampia discussione, Putin ha ribadito le ragioni alla base del coinvolgimento della Russia in Ucraina, citando il colpo di stato e la rivoluzione colorata del 2014 sostenuti dagli Stati Uniti, le azioni del governo di Kiev contro la maggioranza della popolazione etnica russa della regione del Donbas e l'inefficacia del processo di pace di Minsk.

 Ha sostenuto che il coinvolgimento americano in Ucraina non deriva da una genuina preoccupazione per il suo popolo, ma dal desiderio di affermare il dominio sulla scena globale.

Putin ha affermato che la Russia non ha intenzione di invadere l'Europa, ma ha avvertito di potenziali ritorsioni contro gli Stati Uniti e i suoi alleati per aver armato l'Ucraina con armi avanzate.

Ha accennato alla possibilità di fornire armi simili agli avversari dell'Occidente in regioni strategicamente significative in risposta.

Inoltre, Putin ha sottolineato la necessità per il pubblico occidentale di valutare criticamente le informazioni che riceve e ha messo in guardia dal formarsi opinioni sulla Russia sulla base di affermazioni infondate.

Ha esortato a una comprensione più sfumata della situazione, evidenziando le complessità del panorama geopolitico e il contesto storico dietro le azioni della Russia.

Putin: l'Ucraina perde circa 50.000 soldati al mese.

Mentre il conflitto in Ucraina entra nel suo terzo anno, Putin ha affermato che le vittime russe sono state significativamente inferiori a quelle dell'Ucraina, citando cifre che suggeriscono una perdita mensile di circa 50.000 soldati ucraini.

Tuttavia, persistono rapporti contrastanti sulle vittime, con il presidente ucraino “Volodymyr Zelensky” che afferma che solo 31.000 militari ucraini sono stati uccisi entro febbraio di quest'anno.

 Fonti di intelligence occidentali suggeriscono che la cifra effettiva potrebbe essere più alta.

 L'Ucraina ha anche affermato di aver ucciso, ferito o catturato oltre 500.000 soldati russi.

Putin ha rivolto critiche specifiche alla Germania per la sua fornitura di armi all'Ucraina, evidenziando lo shock morale ed etico all'interno della società russa alla vista dei carri armati tedeschi sul suolo ucraino.

Ha lamentato il potenziale deterioramento delle relazioni russo-tedesche, in particolare alla luce della decisione della Germania di consentire l'uso di missili forniti dalla Germania all'Ucraina, mirati a obiettivi all'interno del territorio russo per difendere la città di Kharkiv, situata a sole 12 miglia dal confine russo.

"Se volete fermare le ostilità in Ucraina, smettete di fornire armi", ha detto Putin.

 

 

Joe Rogan appoggia la filosofia utopica globalista

comunista con l'elargizione del reddito

di base alle masse  che non dovranno lavorare.

Naturalnews.com – (09/06/2024) - Belle Carter – ci dice:

 

Il commentatore americano “Joe Rogan” ha sostenuto una teoria utopica comunista, in base alla quale gli americani che perdono il lavoro a causa dell'avvento dell'intelligenza artificiale e di altri progressi tecnologici, riceveranno una notevole quantità di denaro gratuito attraverso un sistema di reddito di base universale (UBI).

Ha suggerito l'importo di $ 200.000 all'anno a persona.

Il reddito di base è un concetto di programma governativo in cui ogni cittadino riceve regolarmente una determinata somma di denaro.

Gli obiettivi di un sistema di reddito di base sono quelli di alleviare la povertà e sostituire altri programmi sociali basati sui bisogni che potenzialmente richiedono un maggiore coinvolgimento burocratico.

In un recente episodio di "Joe Rogan Experience", si è seduto con “Billy Carson”, autore e fondatore e CEO della rete televisiva in streaming” 4BiddenKnowledgeTV”.

I due hanno affrontato il rapido tasso di intelligenza artificiale nei media e il modo in cui i robot potrebbero prendere il posto di lavoro degli americani.

"Hanno appena rilasciato questo ChatGPT e altri strumenti di robotica sull'umanità, il che è fantastico. Farà molto bene per noi", ha continuato “Carson”.

"Ma allo stesso tempo, se hai intenzione di sostituire il lavoro di qualcuno, devi togliergli le responsabilità finanziarie.

Non puoi aspettarti che abbiano ancora le responsabilità finanziarie e tolgano il lavoro, quindi questo sarà il dilemma.

Sto aspettando di vedere come andrà a finire".

“Rogan” ha risposto dicendo che le persone non dovrebbero preoccuparsi perché ci sono abbastanza soldi nel paese per sostenere coloro che perdono il lavoro a causa del progresso tecnologico.

"Immaginate che l'intero paese riceva solo 200.000 dollari gratuiti all'anno [a persona];

 Non dovrai mai preoccuparti del cibo.

 Non dovrai mai preoccuparti di un posto dove vivere.

Sei bravo", ha detto nel podcast.

"Hai 200.000 dollari all'anno perché tutto è automatizzato e tutto è fatto dal governo, poi dovrai trovare qualcosa.

Dovrai trovare uno scopo".

Il podcast ha suggerito che i salari gratuiti potrebbero dare alle persone la libertà di esplorare le loro vere passioni, che si tratti di arte, altre aree della creatività o continuare a lavorare.

 «Non sarebbe meglio del lavoro?» disse.

"Perché per la maggior parte delle persone c'è una grande soddisfazione nel lavorare e nel portare a termine una dura giornata di lavoro.

 Ricevi il tuo stipendio e ti senti come se avessi realizzato qualcosa".

Ha inoltre insinuato che con questo approccio, le persone otterranno denaro gratis perché i robot controllano tutto.

"Niente più posti di lavoro", ha detto.

"I responsabili delle industrie del futuro non dovrebbero pagare uno stipendio a questi robot, ma solo i costi di riparazione e i costi di gestione".

Nel frattempo, i critici ritengono che “Rogan”, il cui “podcast” vanta 14,5 milioni di abbonati su “Spotify”, abbia delineato una visione che è essenzialmente l'”utopia comunista” (ora globalista) raffigurata nel popolare franchise di fantascienza “Star Trek”, dove il capitalismo e il denaro sono stati aboliti e il problema della scarsità di risorse è stato superato.

Il padrino dell'IA sostiene l'UBI al governo del Regno Unito

Il rinomato esperto di tecnologia “Geoffrey Hinton”, lo scienziato informatico che è stato etichettato come il "padrino" dell'intelligenza artificiale (AI), ha raccomandato al governo britannico di prendere in considerazione l'adozione di un reddito di base per i britannici adulti.

"Sono stato consultato da persone a Downing Street e ho detto loro che il reddito di base era una buona idea", ha detto Hinton alla BBC.

 Secondo lui, la rivoluzione dell'intelligenza artificiale andrà a beneficio soprattutto dei ricchi.

 I dipendenti regolari, come gli operai e quelli che svolgono lavori che possono essere automatizzati, potrebbero perdere i loro mezzi di reddito.

 "Questo sarà un male per la società", ha avvertito “Hinton”.

Ha detto di temere che l'IA possa diventare una minaccia a livello di estinzione per gli esseri umani nei prossimi 5-20 anni.

Ha messo in guardia sul crescente uso di “chatbot AI”, dicendo che "una forma di questo è semplicemente migliore dell'intelligenza biologica".

“Hinton” ha anche sottolineato che la competizione per sviluppare rapidamente i prodotti significava che c'era il rischio che le aziende tecnologiche "possano decidere autonomamente di uccidere le persone" aumentando la loro dipendenza dall'intelligenza artificiale. (Infatti il miliardario” Elon Musk” afferma che l'IA finirà per sostituire quasi tutti i lavoratori umani.)

 

Secondo gli analisti, sarebbe estremamente costoso e sottrarrebbe fondi ai servizi pubblici, senza necessariamente contribuire ad alleviare la povertà.

Nel frattempo, un portavoce del governo britannico ha dichiarato che "non ci sono piani per introdurre un reddito di base universale".

“Hinton” è il pioniere delle reti neurali, che costituiscono la base teorica dell'attuale esplosione dell'intelligenza artificiale.

 Lavorava a “Google”, ma ha lasciato il gigante della tecnologia per poter parlare più liberamente dei pericoli dell'“IA non regolamentata”.

 

 

 

Proprio come il micidiale vaccino a mRNA,

il nuovo” DIGITAL I.D”. non è ancora obbligatorio, ma lo sarà molto presto.

 Naturalnews.com – (10/6/2024) - S.D. Wells – ci dice:

 

Tutto ciò che riguarda la pandemia riguarda l'iniezione di miliardi di persone con miliardi di prioni proteici mortali, incluso l'ID digitale quasi obbligatorio.

Ti piace il tuo diritto di viaggiare?

Possono essere facilmente portati via.

Ti piacciono i tuoi diritti di essere curato in ospedale per malattia o infortunio? Anche questo può esservi facilmente tolto.

Ti piace avere soldi in un conto di risparmio, 401k o conto pensionistico?

Anche questo può essere "chiuso" come un rubinetto controllato dai globalisti. Preparatevi all'arrivo dell'ID digitale apparentemente obbligatorio come un ago pieno di veleno.

L'ID digitale dello stato di polizia consente ai “democratici comunisti” di congelare tutto il denaro, imporre lockdown permanenti e iniettare forzatamente i prioni nelle masse.

L'ID digitale dello stato di polizia renderà maturo per i federali sequestrare tutti i tuoi soldi o "congelarli" per scopi di "emergenza nazionale".

Potrebbe trattarsi di qualsiasi cosa il “regime di Biden” metta in scena o causi, come un massiccio scenario di griglia, una "insurrezione" del 2 gennaio o la terza guerra mondiale.

"I soldi nei vostri conti bancari saranno usati per salvare l'America", ci verrà detto a tutti (o almeno a tutti i conservatori del paese).

 Questo è uno dei motivi principali per cui l'ID digitale sarà presto "obbligatorio", o almeno sembra che lo sia.

Avrai bisogno del tuo ID digitale dello “stato di polizia” per presentarti al lavoro (a meno che l'intelligenza artificiale non ti abbia rubato il lavoro), viaggiare ovunque all'estero (o non sarai in grado di tornare negli Stati Uniti), fare benzina (ciò che ne rimane), fare la spesa (se ce ne sono) e utilizzare i bancomat (che magicamente non funzioneranno).

L'ID digitale dello Stato di polizia sostituisce il "passaporto vaccinale" che il regime Biden e l'”Organizzazione mondiale della sanità” hanno così disperatamente cercato di installare in tutto il mondo.

 L'ID digitale dello Stato di Polizia utilizzerà scanner facciali, scanner oculari, scanner manuali, scanner di impronte digitali e qualsiasi altra cosa che impedisca a chiunque di imbrogliare il sistema comunista globalista.

Questo assicurerà che ogni zombie sottoposto a lavaggio del cervello e cerebralmente morto venga vaccinato con milioni di prioni tossici all'anno (o forse anche trimestralmente), quindi il sogno globalista di “Bill Gates” filantropo di ridurre la popolazione mondiale di diversi miliardi di persone facendo un "ottimo lavoro con i vaccini" si realizza in pieno.

 

L'ID digitale dello stato di polizia cancella istantaneamente il valore del contante, in modo che chiunque abbia denaro di cui il governo comunista americano non è a conoscenza, non possa sopravvivere usandolo.

Nessun baratto del mercato nero per te.

Molto probabilmente diventerà anche illegale utilizzare metalli preziosi, come oro o argento, per il baratto.

 I federali dovranno controllare anche questo.

L'ID digitale dello stato di polizia consente al governo criminalizzato di sapere esattamente dove ti trovi in ogni momento, per cosa stai spendendo soldi e quanto.

Questo è vitale per il comunismo globalista, poiché il governo deve sapere se stai comprando armi, munizioni o qualsiasi altra cosa che puoi usare per proteggere la tua famiglia, la tua terra e le tue risorse durante la grande conquista della Repubblica.

I proprietari terrieri con armi automatiche possono salvare l'America.

Vedete, la più grande minaccia per il regime di Biden (o come si chiama quando gracchia o non riesce a ricordare chi è), sono i conservatori che possiedono vaste aree di terra e hanno armi automatiche, granate e altre armi vitali provenienti da guerre, spettacoli di armi e frenesia di acquisto di armi durante i tentativi di accaparramento delle armi da parte di Obama e Biden.

 Immaginate la ribellione del “Bundy Ranch” moltiplicata per un milione.

L'ID digitale dello Stato di polizia aiuterebbe il regime di Biden a sapere quali ranch invadere per primi, utilizzando l'FBI, il DHS, la CIA e altre "agenzie" di 3 lettere del “Nuovo Ordine Mondiale”.

 

 

 

 

E ora le élite si

mettano in gioco

Gognablog.sherpa-gate.com – (15 Gennaio 2019) - Alessandro Baricco – ci dice:

(Repubblica del 10 gennaio 2019)

Parole più semplici contro parole difficili.

Maggioranza povera contro minoranza ricca. Risposte facili contro ragionamenti complessi.

Risentimento contro impotenza. Ecco come il mondo si è diviso e come l’era digitale ha amplificato la rabbia di chi non si sente parte del “Game”.

E come uscirne vivi.

E ora le élite si mettano in gioco.

“There Is No Alternative (Margaret Thatcher)”

Dunque, riassumendo:

è andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola.

Non è proprio un’insurrezione, non ancora.

È una sequenza implacabile di impuntature, di mosse improvvise, di apparenti deviazioni dal buon senso, se non dalla razionalità.

Ossessivamente, la gente continua a mandare – votando o scendendo in strada – un messaggio molto chiaro: vuole che si scriva nella Storia che le élites hanno fallito e se ne devono andare.

Come diavolo è potuto succedere?

Capiamoci su chi sono queste famose élites.

 Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri:

potrei andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti.

I confini della categoria possono essere labili, ma insomma, le élites sono loro, son quegli umani lì.

(Alessandro Baricco)

 

Sono pochi (negli Stati Uniti sono uno su dieci), possiedono una bella fetta del denaro che c’è (negli Stati Uniti hanno otto dollari su dieci, e non sto scherzando), occupano gran parte dei posti di potere.

 Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente.

Osservati da vicino, si rivelano essere, per lo più, umani che studiano molto, impegnati socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti.

I soldi che spendono li hanno in parte ereditati, ma in parte li guadagnano ogni giorno, facendosi un mazzo così.

Amano il loro Paese, credono nella meritocrazia, nella cultura e in un certo rispetto delle regole.

 Possono essere di sinistra come di destra.

Una sorprendente cecità morale – mi sento di aggiungere – impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono. Dormono dunque sereni, benché spesso con l’ausilio di psicofarmaci.

Forti di questo andare per il mondo vivono in un habitat protetto che ha poche interazioni con il resto degli umani:

 i quartieri in cui vivono, le scuole a cui mandano i figli, gli sport che praticano, i viaggi che fanno, i vestiti che indossano, i ristoranti in cui mangiano:

tutto, nella loro vita, delimita una zona protetta all’interno della quale quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi.

Da quell’elegante parco naturale, tengono per i coglioni il mondo.

Oppure, volendo: lo tengono in piedi. Se non addirittura: lo salvano.

Ultimamente ha preso piede la prima versione.

Ed è lì che è saltato quel tacito patto di cui parlavamo, e che descriverei così:

 la gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e le élites si prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere.

Tradotto in termini molto pratici descrive una comunità in cui le élites lavorano per un mondo migliore e la gente crede ai medici, rispetta gli insegnanti dei figli, si fida dei numeri dati dagli economisti, sta ad ascoltare i giornalisti e volendo crede ai preti.

 Che piaccia o no, le democrazie occidentali hanno dato il meglio di sé quando erano comunità del genere: quando quel patto funzionava, era saldo, produceva risultati.

Adesso la notizia che ci sta mettendo in difficoltà è: il patto non c’è più.

Ha iniziato a traballare una ventina d’anni fa, ora si sta sbriciolando.

Lo sta facendo più in fretta dove la gente è più sveglia (o esasperata):

 l’Italia, ad esempio.

La gente qui ha iniziato a non fidarsi neanche più dei medici, o degli insegnanti. Quanto al potere politico, prima lo ha affidato a un super-ricco che odiava le élites (trucco che poi gli americani avrebbero copiato), poi ha provato un’ultima volta con Renzi, scambiandolo per uno che non c’entrava con le élites: alla fine ha decisamente stracciato il patto e se n’è andata direttamente a comandare.

Cos’è che li ha fatti così arrabbiare?

Una prima risposta è facile: la crisi economica.

Intanto le élites non l’avevano prevista.

Poi hanno tardato ad ammetterla. Infine, quando tutto ha iniziato a franare, hanno messo al sicuro se stesse e hanno rimbalzato i sacrifici sulla gente.

Possiamo dire, ripensando alla crisi del 2007-2009 che sia accaduto veramente questo?

Non lo so con certezza, ma è vero che la percezione della gente è stata quella. Dunque, superata l’emergenza, la gente si è presentata a regolare i conti, per così dire.

È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi:

il reddito di cittadinanza, o il cancellamento delle cartelle di Equitalia, non sono altro che quello.

Non sono politica economica o visioni del futuro: sono riscossione crediti.

La seconda ragione è più sofisticata e l’ho veramente capita solo quando mi son messo a studiare la rivoluzione digitale e ho scritto “The Game”.

La riassumerei così.

Tutti i device digitali che usiamo quotidianamente hanno alcuni tratti genetici comuni che vengono da una certa visione del mondo, quella che avevano i pionieri del “Game”.

Uno di questi tratti è decisamente libertario: polverizzare il potere e distribuirlo a tutti.

Tipico esempio:

mettere un computer sulla scrivania di tutti gli umani.

Potendo, nelle tasche di ogni umano. Fatto.

Non va sottovalutata la portata della cosa.

Oggi, con uno smartphone in mano, la gente può fare, tra le altre cose, queste quattro mosse:

accedere a tutte le informazioni del mondo, comunicare con chiunque, esprimere le proprie opinioni davanti a platee immense, esporre oggetti (foto, racconti, quello che vuole) in cui ha posato la propria idea di bellezza.

 Bisogna essere chiari:

questi quattro gesti, in passato, potevano farli solo le élites.

Erano esattamente i gesti che fondavano l’identità delle élites.

Nel Seicento, per dire, erano forse qualche centinaio le persone che in Italia potevano farli.

Ai tempi di mio nonno, forse qualche migliaio di famiglie.

 Oggi? Un italiano su due ha un profilo Facebook, fate voi.

Così – occorre capire – il “Game” ha abbattuto delle barriere psicologiche secolari, allenando la gente a sconfinare nel terreno delle élites e togliendo alle élites quei monopoli che la rendevano mitologicamente intoccabile.

È chiaro: da lì in poi la situazione prometteva di diventare esplosiva.

 Non sarebbe forse successo niente se non fosse per un altro tratto del “Game”, una sua imprecisione fatale.

 Il “Game” ha ridistribuito il potere, o almeno le possibilità: ma non ha ridistribuito il denaro.

 Non c’è nulla, nel “Game”, che lavori a una ridistribuzione della ricchezza.

Del sapere, della possibilità, dei privilegi, sì.

Della ricchezza, no.

 La dissimmetria è evidente. Non poteva che ottenere, alla lunga, una rabbia sociale che è dilagata silenziosamente come un’immensa pozzanghera di benzina.

Devo aver già detto che poi la crisi economica ci ha tirato un fiammifero dentro. Acceso.

Dopo, quel che è successo lo sappiamo.

Ma non sempre lo vogliamo veramente sapere. Riassumo io, per comodità.

La gente, senza perdere un certo aplomb, si è recata a prendere il potere;

perfino in modo composto, ma con una sicurezza di sé e un’assenza di timore reverenziale che da tempo non si vedeva.

Lo ha fatto, per lo più, votando. Cosa?

Il contrario di quello che suggerivano le élites. Chi?

Chiunque non facesse parte delle élites o fosse odiato dalle élites.

 Quali idee?

Qualsiasi idea che fosse l’opposto di cosa avevano in mente le élites.

 Semplice, ma efficace.

 Posso fare un esempio sgradevole che però riassume bene la situazione?

 L’Europa.

Quella dell’unità europea è chiaramente un’idea forgiata dalle élites.

Di certo non l’ha chiesta la gente, scendendo in strada e invocandola a gran voce. È un’intuizione di pochi illuminati che si può facilmente spiegare così:

spaventata da cosa era riuscita a combinare nel ‘900, e incalzata dalle due grandi potenze americana e sovietica, l’élite europea ha capito che le conveniva piantarla lì con questa lotta selvaggia e secolare, tirare giù le frontiere e formare un’unica forza politica ed economica.

 Naturalmente non era un piano di facilissima realizzazione.

 Per secoli l’élite aveva lavorato a costruire il sentimento nazionalista, di cui aveva avuto bisogno per affermarsi, e perfino l’odio per lo straniero, che le era stato utile quando si era trattato di picchiare:

adesso bisognava smontare tutto, e invertire il senso di marcia.

Prima le erano serviti milioni di soldati, adesso le servivano milioni di pacifisti. Gente che aveva da poco finito di sgozzarsi l’un l’altro con la baionetta in mano avrebbe dovuto trasformarsi in un unico popolo, con una moneta comune e un’unica bandiera: non proprio una passeggiata.

Per questo, con indubbia abilità, l’élite impose un modello di unità europea che potremmo definire ad alta drammaticità:

una volta fatta, l’unità doveva diventare irreversibile.

Bruciarono le navi alle spalle, per evitare che alla gente (o magari anche alle frange dissidenti delle élites) potesse venire voglia di tornare indietro.

Non lo avrebbero fatto perché era tecnicamente impossibile farlo.

 Se alla gente veniva qualche dubbio, il metodo era la pazienza:

su” Le Monde Diplomatique” (non esattamente un organo di informazione populista) mi è accaduto di leggere, recentemente, una bel riassuntino che mi permetto di copiare e incollare qui:

“Nel 1992, i Danesi hanno votato contro il trattato di Maastricht: sono stati obbligati a tornare alle urne.

Nel 2001 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Nizza:

sono stati obbligati a tornare alle urne.

Nel 2005 i Francesi e gli Olandesi hanno votato contro il trattato costituzionale europeo (Tce): gliel’hanno poi imposto con il nome di Trattato di Lisbona.

Nel 2008 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Lisbona:

sono stati obbligati a tornare alle urne.

Nel 2015, il 61,3% dei Greci ha votato contro il piano di austerità di Bruxelles:

gli è stato inflitto lo stesso”.

Impressionante litania, bisogna ammetterlo. Dice che un piano B non c’era.

“ There Is No Alternative”.

Il tratto limpidamente elitario dell’Europa Unita si è rafforzato quando, fatta l’Europa, si è sedimentato il sistema di potere europeo:

le istituzioni, gli organi di governo, e perfino le personalità deputate a governare. Difficile immaginare qualcosa che renda meglio l’idea di un’élite magari sapiente ma lontana, irraggiungibile, detentrice di ragioni e numeri incomprensibili, e scarsamente consapevole della vita reale della gente.

Non è escluso che nel frattempo facciano anche molte cose a favore della gente: ma certo la loro prima funzione sembra essere quella di ricordare in modo definitivo che il pianoforte c’è chi lo suona e chi lo porta su per le scale, e a suonarlo, qui, è l’élite.

Così, nell’istante in cui ne ha avuto basta del patto, la gente si è voltata verso di loro, subito:

 l’Europa era il simbolo più evidente, era il bersaglio immediatamente visibile all’orizzonte.

 Aveva un’aura di invincibilità che però, si è scoperto il giorno dopo il referendum sulla Brexit, funzionava solo per le élites:

per gli altri cittadini del “Game”, l’incantesimo si era spezzato.

Potremmo dire, alla luce di tutto questo, che la gente è contro l’Europa?

No, non potremmo veramente dirlo.

 Contro questa Europa, piuttosto, contro l’Europa come simbolo del primato delle élites, questo sì.

Antieuropeista, oggi, significa più che altro anti-élite.

Circola già la formuletta buona: l’Europa dei popoli.

Non vuole dire niente ma vuol dire una cosa chiarissima: non è l’unità in sé che vogliamo spezzare, è l’unità voluta e gestita in quel modo dalle élites.

L’Europa è solo un esempio.

Quel che sto cercando di dire è che soppesare l’opportunità di tutto ciò che la gente oggi sembra volere (che sia il ritorno alla Lira come la gogna della Società Autostrade o la libertà sui vaccini) è una perdita di tempo se non si legge in filigrana l’unica cosa che davvero la gente vuole:

 liberarsi delle élites.

Il punto è quello, ed è lì che si ci si deve chinare e osservare bene, per quanto faccia schifo, o paura, o fatica.

 Perché è in quel preciso punto che si gioca una battaglia decisiva per il nostro futuro.

La prima cosa che accadrà di notare, volendo davvero andare a guardare là dentro, è come si è mossa l’élite una volta che si è trovata sotto attacco.

Si è irrigidita nelle proprie certezze allestendo rapidamente una narrazione che mettesse le cose a posto:

la gente si era bevuta il cervello, probabilmente manovrata da una nuova generazione di leader privi di responsabilità, disposti a giocare sporco, e furbi nel rivolgersi alla pancia dei cittadini dribblandone l’eventuale intelligenza.

 Termini vaghi e inesatti come” fake news”, “populismo”, se non addirittura “fascismo”, sono stati ingaggiati per veicolare meglio il messaggio a etichettare sommariamente gli insorti.

 Sullo sfondo, una certezza:

“There Is No Alternative”, ripetuta come un mantra, coltivata come un’ossessione, inflitta come una profezia e una minaccia.

Neanche per un attimo, sembrerebbe, l’élite si è fermata a chiedersi se per caso non avesse sbagliato da qualche parte, e in modo così marchiano da generare, a slavina, quel gran casino.

 Se l’avesse fatto, non le sarebbe stato poi così difficile registrare almeno tre fenomeni che a me, come a molti, sembrano di un’evidenza solare:

1.) La sua idea di sviluppo e di progresso non riesce a generare giustizia sociale, distribuisce la ricchezza in un modo delirante, distrugge lavoro più di quanto riesca a generarne, lascia il centro del gioco a potenze economiche scarsamente controllabili, continua a essere fondata su un feroce controllo di intere zone deboli del pianeta e mette in serio pericolo la Terra, dimenticandosi che è la casa di tutti, non la discarica di pochi.

2.) Le élites sono da tempo preda di un torpore profondo, una sorta di ipnosi da cui declinano un pensiero unico, allestendo raffinati teoremi i cui risultato è sempre lo stesso, totemico: “There Is No Alternative”.

Si sarà notato che non reagiscono più a nulla, sono ipnotizzate da sé stesse, hanno perso completamente contatto con la vita che fa la gente, spendono più della metà del tempo a contemplarsi e arredare i propri privilegi.

Stanno arrestando la storia, e allevando degli eredi incapaci di pensare qualcosa di diverso dalle ossessioni dei padri.

3.) Una sola volta, negli ultimi cinquant’anni, le élites hanno generato un pensiero alternativo:

 ed è stato quando le son sfuggiti alcuni contro-pensatori, più che altro tecnici, dalla cui eresia è poi nata l’insurrezione digitale.

Dal loro torpore, le élites l’hanno registrata in ritardo, bollandola come una deriva commerciale di dubbio gusto e pensando di risolverla così.

Era invece una rivoluzione che si proponeva di azzerare proprio loro, le élites novecentesche, e di sostituirle con una nuova élite, una nuova intelligenza, perfino una nuova moralità.

Non ci hanno capito niente, e questo vuol dire che il” Game” è cresciuto tra le pieghe del loro potere, e a poco a poco le ha delegittimate, consegnandole alla gente quando ormai non avevano la forza per difendersi.

Nel tempo in cui questo accadeva, l’unico riflesso brillante delle élites è stato usare il Game per fare soldi:

che vendessero le reliquie del Novecento o finanziassero start up, si sono messi a vendere i biglietti per assistere alla propria condanna a morte.

Strano modo di cavalcare la Storia.

Fai errori del genere e poi, con chi si presenta a staccarti la spina, pensi di cavartela dandogli del fascista?

Altrettanto interessante, va detto, è andare a vedere come si è mossa la gente, quando ha deciso di sfasciare il patto e fare da sola.

Potenzialmente aveva davanti una sorta di nuovo orizzonte, immenso:

ma si è fermata al primo passo, quello della resa dei conti pura e semplice. Rimandati i sogni, sfoga risentimento.

 Incapace di futuro, recupera il passato.

Si è scelta leader che le offrono una vendetta quotidiana e una retromarcia al giorno: è quello che sanno fare.

 Non riescono a immaginare un granché, si limitano a cercare di correggere l’esistente ereditato dalle élites.

Spesso non riescono nemmeno tanto a farlo, per incompetenza, scarsa attitudine al governo, improvvisa scoperta dei propri limiti, obbiettiva tostaggine del nemico e vertiginosa complessità del sistema.

 Ritrovano coraggio in una sorta di tono di voce che è divenuta il loro vero segno distintivo, un misto di schiettezza, aggressività, urlo da mercato e slogan pubblicitario.

La gente lo trova rassicurante e ha finito per assumerlo come un modo di pensare: ci trova una sorta di intelligenza elementare che sostituisce alle raffinatezze e ai sofismi della riflessione delle élites il movimento limpido, diretto, vagamente virile, a suo modo puro, di uomini che finalmente vano diritti alle cose, smantellando vecchi trucchi e ipocrisie.

La santificazione di questo modo di pensare – è necessario capire – è l’arma con cui la gente, oggi, sta sferrando l’aggressione più violenta alle élites:

è la vera breccia che sta aprendo nelle loro mura difensive.

Se passa quel modo di leggere il mondo, le élites sono spacciate.

Finita la pacchia.

 Il punto che a me, come a molti altri, risulta di un’evidenza solare è che una vittoria di questo genere avrebbe un prezzo devastante:

non per le élites, chissenefrega, ma per tutti.

Perché il mito di un accosto diretto, puro e vergine alle cose, opposto all’andatura decadente, complicata e anche un po’ narcisistica della riflessione colta, è una creatura fantastica che ci abbiamo messi secoli a smascherare: recuperarla sarebbe da dementi.

 Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è meglio sapere molto delle cose prima di cambiarle, che è meglio conoscere molti uomini per capire se stessi, che è meglio condividere i sentimenti degli altri per gestire i nostri, che è meglio avere molte parole piuttosto che poche perché vince chi ne sa di più.

Abbiamo un termine per definire questo modo di difenderci dalla durezza feroce della realtà grazie all’uso paziente e raffinato dell’intelligenza e della memoria: cultura.

 Sostituirla con l’apparente chiarezza di un pensiero elementare, quasi una sorta di furbizia popolare, equivale a disarmarsi volontariamente e andare al massacro.

Voglio essere chiaro:

 ogni volta che ci facciamo bastare certe parole d’ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita collettiva spesi a non farci fottere dall’apparente semplicità delle cose:

non noi élites, sto parlando di tutti quanti.

Ci condanniamo a prendere cantonate colossali.

Che so, considerare un’importante minaccia al nostro benessere l’ovvio transumare di un numero in fondo contenuto di umani da continenti che abbiamo stritolato e continuiamo a tenere per le palle.

Cose così. Enormità.

 Alla fine, occorre registrare un fenomeno che a me, come a molti altri, sembra di una evidenza solare:

 la gente si sveglia ogni giorno per andare all’assalto della fortezza delle élites:

e più lo fa, e più vince, più si fa del male.

Così attraversiamo tempi cupi, e siamo come terra in cui passano eserciti, saccheggiando.

Nessuno sembra in grado di vincere, per cui è difficile vedere la fine.

Ogni giorno che passa, diminuiscono le scorte:

di forza, di bellezza, di rispetto, di umanità, perfino di umorismo.

Niente che non abbiamo già vissuto, in passato:

ma noi che non immaginavamo questo, è questo che dobbiamo proprio vivere?

 C’è qualcosa che possiamo fare, per cambiare l’inerzia di questa disfatta?

Che io sappia, ammettere che la gente ha ragione.

 Riprendere contatto con la realtà e accorgersi del casino che abbiamo combinato. Mettersi immediatamente al lavoro per ridistribuire la ricchezza.

Tornare a occuparci di giustizia sociale.

Staccare la spina alle vecchie élites novecentesche e affidarsi alle intelligenze figlie del “Game”:

farlo con la dovuta eleganza ma con ferocia.

Dare un significato nuovo a parole come progresso e sviluppo, quello che hanno è ormai avvelenato.

Liberare le intelligenze capaci di portarci fuori dal pensiero unico del “There Is No Alternative”.

Smetterla di dare alla politica tutta l’importanza che le diamo:

non passa da lì la nostra felicità.

Tornare a fidarci di coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi. Buttare via i numeri con cui misuriamo il mondo (primo fra tutti l’assurdo Pil) e coniare nuovi metri e misure che siano all’altezza delle nostre vite.

Riacquistare immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire sull’educazione, sempre.

 Non smettere di leggere libri, tutti, fino a quando l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto sarà un’immagine che ci fa vomitare.

 Entrare nel “Game”, senza paura, affinché ogni nostra inclinazione, anche la più personale o fragile, vada a comporre la rotta che sarà del mondo intero.

 Usarlo, il “Game”, come una grande chance di cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare diseguaglianze economiche ancora più grandi.

Ritirare su tutti i muri che abbiamo abbattuto troppo presto;

abbatterli di nuovo non appena tutti saranno in grado di vivere senza di loro. Lasciare che i più veloci vadano avanti, a creare il futuro, riportandoli però tutte le sere a cenare al tavolo dei più lenti, per ricordarsi del presente.

Fare la pace con noi stessi, probabilmente, perché non si può vivere bene nel disprezzo o nel risentimento.

 Respirare.

 Spegnere ogni tanto i nostri device. Camminare.

Smetterla di sventolare lo spettro del fascismo.

 Pensare in grande. Pensare.

Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio.

 

 

 

 

Gli errori delle élite

sulla globalizzazione.

 Corriere.it - Mauro Magatti – (23 aprile 2017) – ci dice:

 

«La globalizzazione è la condizione economica in cui un esercito di schiavi produce per un esercito di disoccupati».

 La formula di Marine Le Pen in poche parole coglie una delle contraddizioni del tempo che viviamo.

Il giudizio è ovviamente impietoso.

La globalizzazione non ha fatto solo disastri:

 ha ridotto la distanza tra le diverse parti del mondo, migliorando le condizioni di vita di milioni di persone.

E tuttavia, questo slogan, al di là delle intenzioni, tocca questioni vere.

 In realtà, per molti anni le magagne della crescita sono state nascoste da una finanziarizzazione in grado di sostenere consumi a debito.

Ma dopo il 2008 il gioco non ha più funzionato.

Quello che le élite non hanno capito è che, nelle nuove condizioni in cui ci troviamo a vivere, la «globalizzazione» viene letta come un modello che avvantaggia solo pochi a danno di molti (a cui si chiede di portare pazienza).

É questo il disagio che i sistemi politici registrano.

I temi su cui i populisti prosperano sono, infatti, tutti reali.

Pur portando molte responsabilità per quello che è successo, in questi anni la finanza si è mostrata assai poco generosa nei confronti della società circostante.

La capacità del sistema di correggere le proprie esagerazioni è stata fino a oggi limitata.

Anzi, sfruttando a proprio vantaggio le enormi risorse immesse dalle politiche monetarie ultra-espansive di questi anni, la finanza ha continuato a guadagnare;

non solo vanificando buona parte dello sforzo sostenuto dalle banche centrali, ma anche creando le premesse per una nuova crisi, che rischia di essere più grave della precedente.

 Nell’aprile del 2017, il livello di indebitamento delle famiglie americane ha superato il picco che aveva toccato prima della crisi.

Sul piano culturale, la globalizzazione ha deriso la questione dell’identità.

Ma un conto è dire che il tema può (e deve) venire rimodulato in rapporto alle nuove condizioni di vita;

un conto è dichiararne l’irrilevanza in nome di un generico sogno cosmopolitistico.

Nonostante la crisi migratoria duri da anni, nessuno ha pensato di impostare una politica internazionale seria capace di affrontare e gestire gli enormi flussi umani che, al di là di tutte le generosità, sono alla lunga insostenibili senza misure adeguate.

Sia per i paesi di arrivo che per quelli di partenza.

 Si può dire che la globalizzazione ha sottovalutato le conseguenze della mobilità che essa stessa ha indotto?

Nei decenni passati, buona parte della politica si è abituata a stare al rimorchio degli interessi economici internazionali.

 Ciò ha provocato una selezione avversa delle classi dirigenti.

 Tanto più che, nell’era dell’espansione finanziaria, sperperare le risorse collettive (ingigantendo la burocrazia e alimentando la corruzione) era un problema relativo (vedi ahimè il caso italiano).

Oggi, invece, il vuoto lasciato dalla fine della globalizzazione espansiva chiama di nuovo in causa la politica.

Ma il problema è che mancano le idee e persino la preparazione:

 i parvenu di questi anni, cresciuti lontano dai Palazzi, più che di risposte sono portatori della domanda di cambiamento.

Ma non è questo ciò che storicamente capita quando ci sono i cambi di sistema?

Che Stati Uniti e Gran Bretagna abbiano cominciato a percorrere una strada diversa da quella battuta negli ultimi 30 anni dovrebbe essere una evidenza sufficiente per spingere anche il più riottoso degli oppositori a riflettere attentamente su quello che sta accadendo.

Ci sono dei problemi strutturali nel modello di crescita degli ultimi anni che solo una forte azione politica può tentate di sanare.

Bisogna intervenire, e intervenire in fretta.

É chiaro, infatti, che le tre questioni ricordate rischiano di ricevere risposte disastrose.

La transizione economica può diventare l’occasione per una svolta neo mercantilistica che produrrebbe più problemi di quelli che è in grado di risolvere.

Ma rimane la domanda:

come si crea nuovo lavoro e come si produce la ricchezza, se si assume che la finanza da sola non può più risolvere il problema?

La domanda di identità può essere trasformata in odio etnico, razziale o religioso. Ma quale significato e quale forma (cioè, quali limiti, quale misura) deve allora assumere l’identità culturale oggi?

Il bisogno di una nuova politica può essere la miccia per far lievitare sentimenti anti-democratici.

Ma come tornare a parlare di legame sociale senza produrre odio e contrapposizioni?

I problemi posti dai populisti sono reali e urgenti e aspettano risposte adeguate.

Dovunque — Italia compresa — occorre al più presto superare lo schema establishment/anti-establishment.

Ma ancor prima bisogna ammettere che il disegno di una globalizzazione capace di sostenersi solo attraverso il mercato, la finanza e la tecnologia — al di là dei suoi nobili intenti — si è dimenticato della carne e del sangue delle persone.

 

 

 

 

 

CHI PAGA IL CONTO QUANDO

 IL POTENTE FA IL DEMENTE.

 Comedonchisciotte.org - Redazione CDC – Comidad – (11 Giugno 2024) – ci dice: 

 

Purtroppo noi italiani ci facciamo sempre riconoscere.

 Tutte le altre democrazie occidentali vibrano di ardori guerrieri, concedono a Kiev di usare le armi atlantiche per colpire il suolo russo, parlano persino di inviare truppe sul terreno;

qui da noi invece la Meloni invita alla prudenza, Tajani dice che non siamo in guerra con la Russia, Salvini canta “Blowin’ in the wind” e si mette addirittura a insultare Macron e Stoltenberg.

 Insomma, una sguaiata esibizione della propria strizza, e giustamente il professor Parsi se ne indigna sulle colonne del “Foglio”.

 Comunque Parsi non deve disperare:

 dopo le elezioni europee, una volta passato il rischio di regalare voti alle opposizioni, vedrà che i leader del governo di destra torneranno alla piena disciplina atlantica;

anche perché nelle cose importanti il governo conta poco ed il Consiglio Supremo di Difesa è presieduto da Mattarella, al quale Crosetto deve rispondere.

 A smentire le volgarità di Salvini c’è nientemeno la parola di Putin in persona, che in una conferenza stampa ha dichiarato di aver incontrato “Stoltenberg” quando questi era nel governo norvegese, per risolvere con lui questioni inerenti al Mare di Barents;

ebbene, a detta di Putin, in quegli incontri “Stoltenberg” non gli aveva mai dato l’impressione di soffrire di demenza.

Se non è un demente Stoltenberg, si potrebbe legittimamente arguire che a dispetto dell’evidenza non lo sia neppure Macron; perciò possiamo dormire sonni tranquilli.

 Bisogna quindi smetterla una buona volta con questo malvezzo di mettere in dubbio la sanità mentale dei nostri leader.

 Anche nei confronti del presidente argentino “Javier Milei” sono circolate calunnie del genere, tanto che si è arrivati a chiamarlo “el loco”, il pazzo.

Fortunatamente il “Fondo Monetario Internazionale” si è incaricato di rimediare a questa pioggia di sospettosa malevolenza, pubblicando un rapporto molto lusinghiero nei confronti dei risultati dei suoi primi mesi di governo.

 Il rapporto” FMI” ha avuto molta risonanza sui media ed ha avallato le ricette economiche liberiste.

 Ovviamente non potevano mancare i soliti incontentabili “precisini” che hanno osservato che nel rapporto FMI non c’è una sola affermazione circostanziata, che si tratta esclusivamente di generiche sviolinate senza pezze d’appoggio.

 In particolare risulta fumoso il paragrafo sulla politica fiscale, in cui si cantano lodi, ma non ci si dice mai dove “Milei” sta prendendo i soldi.

 Il liberalismo non è una dottrina che brilla per concretezza;

anzi pare un po’ ingenua l’idea di una separazione tra i poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario);

 il potere infatti se ne frega di tutte le separazioni e distinzioni giuridiche, e tende ad essere trasversale alle istituzioni, al pubblico ed al privato, e persino al legale ed all’illegale.

Il conflitto di interessi (ma sarebbe meglio dire l’intreccio di interessi pubblici e privati) è ciò che conferisce incisività, sostanza e vischiosità al potere, dandogli le occasioni per fare cordate d’affari.

 Negli USA le commistioni e le porte girevoli tra il congresso, le agenzie federali e le multinazionali sono ad un livello irraggiungibile per qualsiasi altro paese;

 però anche nella nostra umile Italietta ci diamo da fare.

A “Leonardo ex Finmeccanica” si sono succeduti due presidenti provenienti dalla direzione dei servizi segreti;

 ora invece alla presidenza di Leonardo c’è un ex ambasciatore.

Lo Stato è una finzione giuridica ed un’etichetta solenne con cui indicare regimi o sordidi sistemi di potere;

ma oggi la statualità non c’è più nemmeno come narrazione, perciò la porta girevole tra carriere pubbliche e private non soltanto non delegittima un funzionario dello Stato, ma addirittura gli conferisce prestigio personale ed un alone di competenza.

 A differenza del vaniloquente neoliberalismo attuale, il liberalismo classico di “Montesquieu” e di “Locke” riusciva almeno ad esprimere un concetto concreto, e cioè che politica e fisco sono due nomi diversi per la stessa cosa;

infatti i parlamenti dovevano servire appunto a questo, a limitare il potere del re di tassare i proprietari.

Nessuno oserebbe tassare le multinazionali, tantomeno “Milei”, che va a scodinzolare da Zuckerberg e dagli altri potenti;

 perciò puoi tassare solo i poveri, con lo strumento più rapido e sicuro, quello delle imposte indirette.

“Milei” ha aumentato le tasse sui carburanti, tanto che in pochi mesi il prezzo è più che raddoppiato, siamo già al 115%.

Quando i poveri devono comprare benzina o nafta non hanno la possibilità di scaricare su nessuno il maggior costo, perciò alla fine è il prelievo sul reddito dei poveri a reggere il sistema.

 Il bello è che, in base alla narrativa mediatica, la destra sarebbe anti-tasse mentre la sinistra è pro tasse; ma è tutto giocato sull’equivoco di indicare come “tasse” solo quelle dirette, dimenticandosi dell’IVA e delle accise, cioè le tasse che pagano solo i poveri, visto che sono l’ultimo anello della catena e non possono rivalersi scaricando il costo su altri.

 Tutta la fiaba liberista a questo si riduce:

spostare il carico fiscale dai ricchi ai poveri tramite le imposte indirette.

La stessa cosa che ha fatto la Thatcher in Gran Bretagna, come risulta dalla documentazione reperibile sul sito della “Fondazione Thatcher”.

 Ovviamente la sedicente “sinistra” si presta all’equivoco e partecipa alla pantomima.

C’era pure il ministro “Padoa Schioppa” (lo stesso che voleva rieducarci alla “durezza del vivere”), il quale diceva che le tasse sono bellissime e bisogna pagarle con gioia.

 Certo, perché si può tagliare all’infinito sulla sanità pubblica, ma ci deve pur essere qualcuno che paga per le armi da inviare in Ucraina.

C’è un nucleo arcano e misterico della scienza economica, quel segreto innominabile che viene rivelato solo a pochi iniziati, ed è appunto lo sfruttamento fiscale dei poveri;

 il che, detto in linguaggio ancora più tecnico e criptico, significa che alla fine ci sono sempre i fessi che pagano.

 Ed è giusto così, altrimenti i potenti non potrebbero permettersi il lusso della propria demenza.

(Comidad)

(comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=1216)

 

 

Israele e l'errore di

valutazione della realtà.

   Unz.com - ALASTAIR CROOKE – (10 GIUGNO 2024) – ci dice:

 

La dura verità è che la “Resistenza” ha compreso la realtà della situazione migliore delle sue controparti occidentali.

Su tutti i fronti, il paradigma interno israeliano si sta incrinando; ed esternamente, l'Occidente stesso si sta spaccando, e sta diventando un paria sulla scena globale.

L'esplicita facilitazione da parte delle leadership occidentali di una sanguinosa pulizia dei palestinesi ha inciso il vecchio spettro dell'"orientalismo" e del colonialismo all'orizzonte.

E sta spingendo l'Occidente ad essere "l'intoccabile del mondo" (insieme a Israele).

Nel complesso, l'obiettivo del governo israeliano sembra essere quello di convergere e poi incanalare le molteplici tensioni in un'ampia escalation militare (una grande guerra) che in qualche modo porterebbe a un ripristino della deterrenza.

Un racconto corso implica contemporaneamente che Israele volterebbe le spalle alle suppliche occidentali di agire in qualche modo "ragionevolmente".

L'Occidente definisce questa "ragionevolezza" per lo più come l'accettazione da parte di Israele della chimera di un passaggio verso la "normalità" che arriva attraverso il principe ereditario saudita che lo concede, in cambio di un Israele contrito che annulla sette decenni di suprematismo ebraico (cioè l'accettazione di uno Stato palestinese).

 

La tensione centrale all'interno del calcolo occidentale-israeliano è che gli Stati Uniti e l'UE si stanno muovendo in una direzione – tornando all'approccio fallimentare di Oslo – mentre i sondaggi sottolineano che gli elettori ebrei marciano fermamente nella direzione opposta.

Un recente sondaggio condotto dal “Jerusalem Center for Public Affairs” mostra che dal 7 ottobre, il 79% di tutti gli ebrei intervistati si oppone alla creazione di uno Stato palestinese sulla base del 1967 (il 68% era contrario prima del 7 ottobre);

Il 74% è contrario anche in cambio di una normalizzazione con l'Arabia Saudita.

 E riflettendo la divisione interna israeliana, "solo il 24% degli elettori di sinistra sostiene uno Stato [palestinese] senza condizioni".

In breve, mentre la leadership istituzionale occidentale si aggrappa alla sinistra laica liberale israeliana che si sta restringendo, gli israeliani nel loro insieme (compresi i giovani) si stanno spostando a destra.

 Un recente sondaggio “Pew” mostra che il 73% dell'opinione pubblica israeliana sostiene la risposta militare a Gaza, anche se un terzo degli israeliani si è lamentato che non è andato abbastanza lontano.

 Una pluralità di israeliani pensa che Israele dovrebbe governare la Striscia di Gaza.

E Netanyahu, all'indomani della minaccia di arresto del CPI, sta superando Gantz (leader dell'Unione Nazionale) negli indizi di gradimento.

Sembra che il "consenso occidentale" preferisca non accorgersi di queste dinamiche scomode.

Inoltre, un'altra divisione israeliana riguarda lo scopo della guerra:

si tratta di restituire ai cittadini ebrei il senso di sicurezza personale e fisica, che è stato perso sulla scia del 7 ottobre?

Vale a dire: è il senso di Israele come una ridotta, uno spazio sicuro in un mondo ostile che viene restaurato?

Oppure, in alternativa, l'attuale lotta è quella di stabilire un Israele completamente giudaizzato nella "Terra di Israele" (cioè tutta la terra tra il fiume e il mare) l'obiettivo primario?

Si tratta di un diverso fondamentale.

Coloro che vedono Israele principalmente come la ridotta sicura in cui gli ebrei potrebbero fuggire dalla scia dell'olocausto europeo, sono naturalmente più cauti nel rischio di una guerra più ampia (ad esempio con Hezbollah) – una guerra che potrebbe vedere le "retrovie" civili attaccare direttamente dal vasto arsenale missilistico di Hezbollah.

Per questa circoscrizione, la sicurezza è un premio.

D'altra parte, la maggioranza degli israeliani vede il rischio di una guerra più ampia come inevitabile – anzi da accogliere con favore da molti, se il progetto sionista deve essere pienamente stabilito nella Terra di Israele.

Questa realtà può essere difficile da comprendere per gli occidentali laici, ma il 7 ottobre ha ridato energia alla visione biblica in Israele, piuttosto che suscitare un eccesso di cautela sulla guerra, o un desiderio di riavvicinamento con gli Stati arabi.

Il punto qui è che una "Nuova Guerra d'Indipendenza" può essere tenuta in alto davanti al pubblico israeliano come la "visione" metafisica della via da seguire, mentre il governo israeliano tenta di combattere la strada più banale di giocare il gioco a lungo termine, portando al pieno controllo di matrice militare sulla terra tra il fiume e il mare e l'allontanamento delle popolazioni che non si sottometteranno alla “dispensa di Smotrich” di "acconsentire o andarsene".

Lo scisma tra Israele come "spazio sicuro" laico e post-olocausto e la visione biblica e sionista contrastante pubblicato un confine tra i due zeitgeist che è poroso ea volte si sovrappone.

 Ciononostante, questa divisione israeliana si è riversata nella politica degli Stati Uniti e, in modo più dispersivo, è entrata nel sistema politico europeo.

Per la diaspora ebraica che vive in Occidente, mantenere Israele come uno spazio sicuro è di vitale importanza poiché, nella misura in cui Israele diventa insicuro, gli ebrei sentono che la loro insicurezza personale peggiora, pari passo.

In un certo senso, la proiezione israeliana di una forte deterrenza in Medio Oriente è un "ombrello" che si estende fino a coprire anche la diaspora.

Vogliono la tranquillità nella regione.

 La "visione" biblica ha un aspetto francamente troppo polarizzante.

Eppure, quelle stesse strutture di potere che si sforzano di sostenere il paradigma dell'uomo forte israeliano nella coscienza occidentale ora scoprono che i loro sforzi tendono a distruggere quelle strutture politiche occidentali, da cui dipendono, alienando così gli elettori chiave, in particolare i giovani.

 Un recente sondaggio tra i giovani di età compresa tra i 18 ei 24 anni in Gran Bretagna ha rilevato che la maggioranza (54%) concorda sul fatto che "lo Stato di Israele non dovrebbe esistere ".

Solo il 21% non è d'accordo con questa affermazione.

L'esercizio del potere della lobby per costringere l'Occidente a sostenere Israele ei suoi obiettivi deterrenti – insieme a una mancanza di empatia umana per i palestinesi – sta infliggendo pesanti perdite alle strutture di leadership istituzionale mentre i partiti tradizionali sottostanti si fratturano in direzioni diverse.

Il danno è esacerbato dal "punto cieco della realtà" del campo pacifista occidentale.

Lo sentiamo dire in continuazione:

 l'unica soluzione è quella di due Stati che vivono pacificamente fianco a fianco sulla falsariga del 1967 (come sancito dalle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite).

Oltre che in Occidente, lo stesso mantra viene ripetuto (come ci ricorda il campo pacifista) anche dalla Lega Araba.

Sembra così semplice.

È davvero "semplice", ma solo ignorando la realtà che un racconto Stato palestinese può diventare sovrano solo attraverso la forza, attraverso la forza militare.

La realtà è che ci sono 750.000 coloni che si occupano la Cisgiordania e Gerusalemme Est (e altri 25.000 coloni che vivono sulle alture del Golan in Siria).

Chi li rimuoverà? Israele non lo farà.

Combatteranno fino all'ultimo colono; molti dei quali sono zeloti.

Sono stati invitati e collocati lì negli anni successivi alla guerra del 1973 (in gran parte dai successivi governi laburisti), proprio per ostacolare la nascita di un possibile stato palestinese.

 

Alla domanda a cui rispondono coloro che dicono "la soluzione è semplice" – due Stati che vivono a fianco in pace – non rispondono:

l'Occidente ha la volontà o la volontà politica di creare un'istanza di uno Stato palestinese con la forza delle armi, contro l'attuale volontà di una pluralità di israeliani?

La risposta, inevitabilmente, è "no".

L'Occidente non ha la "volontà" – e sorge allora il sospetto che in cuor loro lo sanno.

 (C'è forse il desiderio di una soluzione, e l'inquietudine per il fatto che, in assenza di una "calma a Gaza", le tensioni aumenteranno anche nella diaspora).

 

La dura verità è che la Resistenza ha compreso la realtà della situazione meglio delle sue controparti occidentali:

 un presunto Stato palestinese si è solo allontanato dalle prospettive del processo di Oslo del 1993, piuttosto che essere avanzato di un millimetro.

 Perché l'Occidente non ha intrapreso azioni correttive per tre decenni, e solo allora si è ricordato del dilemma quando è diventato una crisi?

La Resistenza sta meglio comprendendo l'intrinseca contraddizione insostenibile di un popolo che si appropria di diritti e privilegi speciali su un altro, condividendo la stessa terra, e che un racconto scenario non potrebbe persistere a lungo, senza spaccare la regione (come testimoniano le guerre e le devastazioni a cui il mantenimento del paradigma esistente ha già portato).

La regione si trova ai margini; e gli "eventi" in qualsiasi momento possono spingerlo oltre quel limite, nonostante gli sforzi degli attori regionali per controllare il movimento incrementale verso l'alto nella scala dell'escalation. Questa sarà probabilmente una lunga guerra.

E una soluzione probabilmente emergerà solo attraverso Israele, in un modo o nell'altro, affrontando la contraddizione del paradigma interno al sionismo – e cominciando a vedere il futuro in modo diverso.

E di questo non c'è, per ora, alcun segno.

 

 

 

I tre messaggi chiave di San Pietroburgo

alla maggioranza globale.

Unz.com - PEPE ESCOBAR- (10 GIUGNO 2024) – ci dice:

 

Nell'anno della presidenza russa dei BRICS, il Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo (SPIEF) doveva offrire qualcosa di speciale.

E così è stato:

oltre 21.000 persone in rappresentanza di non meno di 139 nazioni – un vero microcosmo della Maggioranza Globale, che ha discusso ogni aspetto della spinta verso un mondo multipolare, multinodale e policentrico.

San Pietroburgo, al di là di tutte le reti e le frenetiche trattative – 78 miliardi di dollari conquistati in soli tre giorni – ha creato tre messaggi chiave intrecciati che già risuonano in tutta la maggioranza globale.

 

Messaggio numero uno:

Putin ha mostrato come la Russia abbia ancora il potenziale per lanciare non meno di nove cambiamenti strutturali radicali – globali, una spinta a tutto campo che coinvolga la sfera federale, regionale e municipale.

Tutto è in gioco:

dal commercio globale e dal mercato del lavoro alle piattaforme digitali, alle tecnologie moderne, al rafforzamento delle piccole e medie imprese e all'esplorazione del potenziale fenomenale ancora non sfruttato delle regioni della Russia.

Ciò che è stato reso perfettamente chiaro è come la Russia sia riuscita a riposizionarsi oltre ad eludere lo tsunami – illegittimo – delle sanzioni e a creare un sistema solido e diversificato, orientato al commercio globale – e completamente legato all'espansione dei BRICS.

Gli stati amici della Russia rappresentano già i tre quarti del fatturato commerciale di Mosca.

L'enfasi di Putin sulla spinta accelerata della maggioranza globale a rafforzare la sovranità era direttamente collegata al fatto che l'Occidente collettivo faceva del suo meglio – anzi, del peggio – per minare la fiducia nelle proprie infrastrutture di pagamento.

E questo ci porta a...

“Glazyev” e “Dilma” scuotono le acque.

Messaggio numero due:

Questa è stata senza dubbio la svolta più importante a San Pietroburgo.

Putin ha dichiarato che i BRICS stanno lavorando sulla propria infrastruttura di pagamento, indipendentemente dalle pressioni/sanzioni dell'Occidente collettivo.

Putin ha avuto un incontro speciale con “Dilma Rousseff”, presidente della Nuova Banca di Sviluppo dei BRICS (NDB).

 Hanno parlato in dettaglio dello sviluppo della banca – e soprattutto, come poi confermato da Rousseff, di “The Unit”, i cui lineamenti sono stati rivelati per la prima volta in esclusiva da “Sputnik”:

una forma apolitica e transazionale di pagamenti transfrontalieri, ancorata all'oro (40%) e alle valute BRICS+ (60%).

Il giorno dopo l'incontro con Putin, la presidente “Dilma” ha avuto un incontro ancora più cruciale alle 10 del mattino in una stanza privata dello “SPIEF” con “Sergey Glazyev”, ministro della macroeconomia dell'Unione economica eurasiatica (EAEU) e membro dell'Accademia russa delle scienze.

“Glazyev”, che in precedenza aveva fornito pieno sostegno accademico al concetto dell'Unità, spiegò tutti i dettagli al presidente “Dilma”.

Entrambi erano estremamente soddisfatti dell'incontro.

 Una raggiante “Rousseff” ha rivelato di aver già discusso di “The Unit” con Putin. È stato concordato che ci sarà una conferenza speciale presso l'“NDB” di Shanghai su “The Unit” nel mese di settembre.

Ciò significa che il nuovo sistema di pagamento ha tutte le possibilità di essere al tavolo del vertice BRICS di ottobre a “Kazan”, e di essere adottato dagli attuali “BRICS 10” e dal prossimo futuro “BRICS+ “ampliato.

Ora passiamo a...

Messaggio numero tre:

Naturalmente si trattava dei BRICS, che tutti, Putin compreso, sottolineano, saranno notevolmente ampliati.

La qualità delle sessioni relative ai BRICS a San Pietroburgo ha dimostrato come la maggioranza globale si trovi ora ad affrontare una congiuntura storica unica – con una possibilità reale, per la prima volta negli ultimi 250 anni, di impegnarsi a tutto campo per un cambiamento strutturale del mondo come sistema.

E non si tratta solo di BRICS.

A San Pietroburgo è stato confermato che non meno di 59 nazioni hanno in programma di aderire non solo ai BRICS, ma anche all' “Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai” (SCO) e all'”Unione Economica Eurasia” (EAEU).

 

Non c'è da stupirsi: queste organizzazioni multilaterali ora si sono finalmente affermate in prima linea nella spinta verso il multimodale – e per citare Putin nel suo discorso – "mondo multipolare armonico".

Le sessioni principali per ulteriori riferimenti.

Tutto quanto sopra ha potuto essere seguito, in diretta, durante i due giorni e mezzo frenetici di sessioni del forum.

Questo è un esempio di quelli probabilmente più coinvolgenti. Le trasmissioni dovrebbero essere molto utili come riferimento per il futuro, fino al vertice dei BRICS di ottobre e oltre.

Sulla Rotta del Mare del Nord (NSR) e sull'espansione dell'Artico.

 Miglior motto della sessione:

"Abbiamo bisogno di rompighiaccio!"

La discussione essenziale per comprendere come le attuali catene di approvvigionamento del commercio globale non siano più affidabili e come la NSR sia più veloce, più economica e affidabile.

 

Sugli obiettivi BRICS per un vero nuovo ordine mondiale.

Sui 10 anni della EAEU.

Sulla più stretta integrazione tra EAEU e ASEAN.

La tavola rotonda BRICS+ sul corridoio internazionale dei trasporti nord-sud (INSTC).

Questa sessione è stata particolarmente cruciale.

Gli attori chiave dell'INSTC sono la Russia, l'Iran e l'India, tutti membri dei BRICS. Gli attori ai margini che trarranno vantaggio dall'INSTC – dal Caucaso all'Asia centrale e meridionale – sono già interessati a far parte dei BRICS+.

 Igor Levitin, uno dei principali consiglieri di Putin, è stato una figura chiave in questa sessione.

 

Il Partenariato per la Grande Eurasia (GEP).

Questa è stata una discussione essenziale su quello che è eminentemente un progetto di civiltà, in contrasto con l'approccio escludente collettivo dell'Occidente.

La discussione mostra come il GEP si interconnette con SCO, EAEU e ASEAN e sottolinea l'inevitabile complementarità dei trasporti, della logistica, dell'energia e della struttura dei pagamenti in tutta l'Eurasia.

“Glazyev”, il vice primo ministro” Alexey Overchuk” e l'ex ministro degli Esteri austriaco “Karin Kneissl” – sempre ultra tagliente – sono i partecipanti chiave.

Bonus extra – sorprendente –:

Adul Umari, ministro del Lavoro ad interim nell'Afghanistan talebano, che interagisce con i suoi partner eurasiatici.

 

Sulla filosofia della multipolarità.

Concettualmente, questa sessione interagisce con la sessione GEP.

 Offre la prospettiva di un dialogo interculturale conciso nell'ambito dei “BRICs+”. Tra i partecipanti ci sono “Alexander Dugin”, l'incontenibile “Maria Zakharova” e il professore “Zhang Weiwei” della “Fudan University”.

Sulla policentricità.

Ciò coinvolge tutte le istituzioni della maggioranza globale:

BRICS, SCO, EAEU, CIS, CSTO, CICA, Unione Africana, il rinnovato Movimento dei Non Allineati (NAM).

Glazyev, Maria Zakharova, il senatore Pushkov e Alexey Maslov – direttore dell'Istituto di studi asiatici e africani dell'Università statale di Mosca – discutono su come costruire un sistema policentrico di relazioni internazionali.

Mentre il progetto Ucraina affronta il destino...

Infine, è inevitabile contrastare l'atmosfera – piena di speranza e di buon auspicio – dello “SPIEF” con l'isteria collettiva dell'Occidente mentre il “Progetto Ucraina” si trova ad affrontare la catastrofe.

Putin lo ha detto chiaramente: la Russia prevarrà, qualunque cosa accada. L'Occidente collettivo potrebbe riaccendere "la soluzione di Istanbul", come ha osservato Putin, ma modificata "in base alla nuova realtà" sul campo di battaglia.

Putin ha anche abilmente disinnescato tutta la paranoia nucleare prefabbricata e insensata che infestava i circoli atlantisti.

Tuttavia, ciò non sarà sufficiente.

Nei corridoi affollati dello” SPIEF” e negli incontri informali, c'era una totale consapevolezza dell'atteggiamento guerrafondaio alimentato dalla disperazione dell'egemone mascherato da "difesa".

Non c'erano illusioni sul fatto che l'attuale demenza che si spaccia per "politica estera" stia scommettendo su un genocidio non solo per il bene della "portaerei" dell'Asia occidentale, ma soprattutto per costringere la maggioranza globale alla sottomissione.

Ciò solleverebbe la seria possibilità che la “Maggioranza Globale “abbia bisogno di costruire un'alleanza militare per incoraggiare questa – pianificata – “Guerra Globale”.

Russia-Cina, naturalmente, più l'Iran è la credibile deterrenza araba – con lo Yemen che indica la strada:

tutto questo potrebbe diventare un must.

Un'alleanza militare a maggioranza globale dovrà manifestarsi in un modo o nell'altro: o prima del disastro – imminente, pianificato – per mitigarlo; o dopo che ha completamente inghiottito l'Asia occidentale in una guerra mostruosa e feroce.

Minacciosamente, potremmo essere quasi arrivati.

Ma almeno San Pietroburgo offriva barlumi di speranza.

 Putin: "La Russia sarà il cuore del mondo armonico multipolare".

 Ecco come si conclude un discorso di un'ora.

 

 

 

 

La Germania lancia un’offerta

 dell’undicesima ora per evitare

 la guerra commerciale con la Cina.

Politico.eu – Redazione – (11 giugno 2024) – ci dice:

(DI CAMILLE GIJS, JORDYN DAHL, ANTONIA ZIMMERMANN, HANS VON DER BURCHARD E JAKOB HANKE VELA).

 

La Germania vuole che l’UE fissi le tariffe sui veicoli elettrici a un livello basso per evitare gravi ritorsioni da parte di Pechino.

La Germania resiste alle richieste francesi di colpire i veicoli elettrici cinesi con dazi punitivi.

La Germania ha lanciato un tentativo dell’ultima ora per evitare una guerra commerciale su vasta scala tra Europa e Cina, resistendo alle richieste francesi di colpire i veicoli elettrici cinesi con dazi punitivi.

Con una decisione imminente da parte della “Commissione europea”, sia Parigi che Berlino hanno intensificato i loro sforzi di lobbying, con messaggi contrastanti su quanto duro dovrebbe essere l’esecutivo di “Ursula von der Leyen” nei confronti di Pechino.

Si prevede che l’esecutivo dell’UE informerà mercoledì i produttori cinesi di veicoli elettrici dei dazi temporanei derivanti dall’indagine sui sussidi statali ingiusti.

 I paesi membri dell’UE voterebbero quindi quest’autunno per confermare i dazi, rendendo vitale per “von der Leyen” fissarli a un livello con cui i due pesi massimi del blocco possano convivere.

L’atmosfera attorno all’annuncio è tesa:

il Cancelliere Olaf Scholz e il Presidente Emmanuel Macron hanno entrambi subito pesanti sconfitte nelle elezioni europee di domenica.

Il leader francese ha risposto indicendo rischiose elezioni generali.

Ora” von der Leyen” ha bisogno del loro sostegno per assicurarsi un secondo mandato come “presidente della Commissione”.

Nonostante tutti i discorsi su una soluzione basata sull’evidenza e conforme alle regole del commercio globale, si tratta di “una decisione politica”, ha ammesso un funzionario della Commissione.

"Sarà deciso al massimo livello, dal “gabinetto von der Leyen", ha aggiunto il funzionario, a cui è stato concesso l'anonimato a causa della delicatezza della questione.

 

Un altro funzionario della Commissione ha confermato che l'annuncio sarebbe atteso mercoledì.

L’UE ora applica una tariffa del 10% su tutte le importazioni di automobili, inferiore al 15% della Cina.

 Rendendosi conto che non sarà in grado di evitare le tariffe, Berlino ora sta spingendo per mantenerle il più basse possibile, idealmente ad un livello reciproco che la Cina impone anche all'UE, ovvero al 15%.

Due mesi dopo che Scholz si era ampiamente inchinato davanti a Pechino, il ministro dell’Economia tedesco” Robert Habeck” dovrebbe recarsi in Cina la prossima settimana per un’ulteriore missione di controllo dei danni.

Parigi ha esercitato forti pressioni a favore dell’indagine, annunciata da “von der Leyen” nel suo discorso annuale lo scorso autunno.

E, nonostante la minaccia di Pechino di rispondere ai produttori francesi di cognac in un’indagine antidumping, Parigi vuole dazi molto più alti sui veicoli elettrici cinesi.

"Una percentuale intorno al 20-30% darebbe ai produttori europei un po' di respiro per accelerare i loro investimenti nel settore e mantenere la loro quota di mercato in Europa", ha affermato “Elvire Fabry”, ricercatore senior presso l'”Istituto Jacques Delors” di Parigi.

Un funzionario francese si è opposto all'idea che la decisione fosse politica.

“Si tratta di un’indagine obiettiva da parte della Commissione. Non è un negoziato politico”, ha detto il funzionario.

L'anello più debole.

Una decisione sui dazi cinesi sui veicoli elettrici è stata rinviata fino a dopo le elezioni europee, ma viste le tempistiche rigorose delle indagini commerciali dell’UE non può essere ritardata ulteriormente.

Le forze centrifughe in gioco mentre l’UE negozia la sua transizione post-elettorale saranno accolte con favore a Pechino, che da tempo cerca di allontanare i paesi dell’UE da Bruxelles.

 

“Finché i singoli Stati membri vengono messi in gioco l’uno con l’altro in questo modo, ciò è nell’interesse di Pechino e soddisfa i loro interessi più dell’interesse europeo in generale”,” Jacob Gunter”, analista capo del think tank cinese “MERICS”, disse.

La Cina ha già avvertito che prenderà di mira i settori agricolo e aeronautico dell’UE, due settori sensibili che la Francia sarebbe ansiosa di proteggere.

 Se Pechino dovesse reagire, non sarebbe una buona notizia a livello nazionale per Macron, la cui alleanza centrista è stata annientata da una rinascente estrema destra nelle elezioni europee.

Berlino potrebbe benissimo cercare di evitare proprio questo tipo di dura ritorsione.

 Ma la sua spinta per una tariffa speculare “mina la legittimità dell’intero sforzo”, ha avvertito “Niclas Poitiers,” economista del think tank “Bruegel” con sede a Bruxelles.

La posizione della Germania è “problematica”, ha affermato:

mentre le grandi case automobilistiche tedesche intrattengono ancora buoni legami con Pechino, questo non è necessariamente il caso delle imprese più piccole, il che significa che “l’economia tedesca nel suo insieme ha interesse ad una politica più assertiva nei confronti della Cina”.

Secondo i dati di “Schmidt Automotive Research,” negli ultimi dieci anni BMW, Audi e Mercedes-Benz hanno venduto 19,2 milioni di automobili in Cina, pari al 30-40% delle vendite globali di ciascuna casa automobilistica.

Tuttavia, anche il dazio più elevato – il 25% – non sarebbe sufficiente a scoraggiare i marchi cinesi grazie ai loro enormi vantaggi in termini di costi e tecnologia.

 Le vendite cinesi di veicoli elettrici in Europa sono cresciute del 23%, raggiungendo quasi 120.000 unità, nei primi quattro mesi di quest’anno.

“Possono abbassare i prezzi e continuare a essere competitivi. Abbiamo già visto ciò accadere in Francia”, ha detto “Matthias Schmidt”, un analista automobilistico europeo.

(Camille Gijs, Jordyn Dahl, Antonia Zimmermann e Jakob Hanke hanno riferito da Bruxelles. Hans von der Burchard ha riferito da Berlino. Koen Verhelst e Stuart Lau hanno contribuito con un reportage da Bruxelles”.)

 

 

 

 

I tre cigni neri del prossimo mese:

Biden out, Meloni al posto

 di Von der Leyen e i preparativi

per il post 30.9.

Mittdolcino.com – Mitt Dolcino – (10 giugno 2024) – ci dice:

 

Le elezioni EU sembrano aver scatenato gli eventi.

In realtà i problemi erano ben presenti, da molti mesi se non anni, oggi si velocizza solo la crisi terminale dell’EU.

 Ovvero di una istituzione fondata su enormi ed insanabili squilibri socioeconomici e geostrategici (l’EU esiste ancora solo grazie agli interessi cinesi, ndr).

Partiamo dai fatti, per punti, notizie di ieri sera:

– Nel giro di 7 giorni l’Entente Cordiale, che NECESSITA di una guerra in Europa, va alle elezioni da fine giugno prossimo, Londra e Parigi –

 Davos serra i ranghi, auguri.

– Il premier belga De Croo si è appena dimesso.

– In Germania è stato chiesto il voto di fiducia al governo.

L’impressione è che nessuno vuole intestarsi l’imminente guerra che “Davos” ha già programmato per l’EU.

Poi, dati surreali di affluenza in Italia secondo cui tra le 19 le 23 di domenica sera, cena inclusa, avrebbero votato circa il 10% degli italiani, mentre – per altro – in gran parte del nord Italia imperversavano forti temporali.

Come capite la fronda EU “hard line pro transizione Green” ovvero pro guerra alla Russia da questa sera perde pezzi da 90.

Ben sapendo che USA e Russia non vogliono alcuna guerra, solo selezionati paesi europei la necessitano, su tutti Francia e Gran Bretagna lato Remainers (ne abbiamo scritto alcune settimane fa, entente cordiale, ora entrambi i paesi vanno sorprendentemente ed inaspettatamente al voto, stessi giorni, che caso!).

È parimenti chiaro che la fine della “transizione Green” in EU condurrebbe all’implosione dell’export cinese, per interi settori merceologici (detta transizione Green EU rappresenta un epocale – e folle – trasferimento di ricchezza e benessere dall’Europa alla Cina, vedasi pannelli solari ed auto elettriche, solo per fare due esempi).

In tale contesto, due dati ulteriori, da valutare con attenzione in quanto speculativi:

– Ultime notizie:

la condanna di Trump potrebbe essere probabilmente dichiarata nulla dopo che una persona (sedicente cugina di un giurato) ha affermato che egli ha pubblicato sulla pagina Facebook della corte, il giorno prima della sentenza, che Trump sarebbe stato condannato.

– secondo la CBS il vantaggio di Trump sfiorerebbe i 40 punti percentuali, su Biden.

Dulcis in fundo, siamo dunque pronti a scommettere su una partecipazione al voto italiana (amica degli USA) per la tornata EUropea, leggermente inferiore al 50% (azzardiamo, ndr):

quanto basta, nel caso, per giustificare una disaffezione all’ EUropa del Paese a forma di stivale (giusti o, più probabilmente, tarocchi siano i dati di affluenza, ndr).

Vedasi il prosieguo, per i driver, ovvero quanto potrebbe accadere, terzo punto.

Resta che un’affluenza inferiore al 50% condurrebbe all’OBIEZIONE di coscienza massiva, in caso di guerra chiamata dall ‘EU… (…).

Con conseguenze devastanti per l’Unione Europea, nel caso.

 

Ora i 3 probabili cigni neri, da valutare:

-1.) Ursula non trova la maggioranza necessaria e dunque Giorgia Meloni, filo atlantica, unico leader Europeo partecipante al G7 che ha consolidato la sua posizione, diventa il capo della Commissione EU.

Probabilità: incredibilmente molto più Alta di quanto si immagini.

-2.) Biden viene ritenuto perdente verrà sostituito, il 13.6, dalle prossime presidenziali.

Dal gov. “Newsome” della California.

 

Probabilità: Altissima, il candidato “Newsome” sembra perfetto, difficilmente riteniamo si propenderebbe per “Michele Obama”, ma lasciamo aperta la porta anche a tale eventualità.

 

-3.) ->30.9. Gli eventi già schedulati per fine settembre 2024 impongono un cambiamento di governo a Londra e Parigi, Parigi sull’orlo della crisi finanziaria (…)

Per adesso, a caldo, vogliamo solo gettare il sasso nello stagno.

Nei prossimi giorni gli approfondimenti.

 Ma ciò che sta accadendo avvicina l’ineluttabile fine dell’euro, l’EU vedremo in che forma sopravviverà (non appena il trade balance aggregato della zona EU diventerà negativo – come quando fu necessario nominare Monti Prèmier, che infatti torno’ al surplus in aggregato voluto dai tedeschi, “abbiamo distrutto la domanda interna”, detta in inglese, da Lui, alla CNN, il suo bel compitino – l’euro salterà per decisione interna, our 2 cts)

(…).

(Mit Dolcino).

 

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