I popoli non sono una congrega di cretini.
I
popoli non sono una congrega di cretini.
È nata
la società
dei
cretini.
Italiaoggi.it
- Gianfranco Morra – (16 – 3- 2018) – ci dice:
L'uomo
postmoderno infatti di tutto parla e tutto giudica su ciò
che
non sa e, pertanto, odia e disprezza quelli che ancora sanno, i competenti e
gli esperti.
Per
millenni la cultura dei popoli si è svolta su due linee parallele.
C'era
quella dotta di chi «sapeva latino».
Ma la maggioranza degli uomini erano analfabeti, si
lasciavano guidare dal buon senso, dettato loro dalla natura, dalla religione,
dalla famiglia, dalla tradizione. Solo l'epoca moderna, a partire dalla Bibbia
di Lutero,” estese l'alfabetizzazione al popolo, con la scuola elementare, dove
si imparava a leggere, scrivere e far di conto, e soprattutto quel buon senso
che era il sistema di valori prevalente.
Tutto
cambia con la scoperta, la diffusione e il predominio dei mass-media.
Soprattutto di quello, demonizzato da “Hans Magnus Enzensberger”, prodotto da
«nostra sorella cretina Tv»:
un analfabetismo di ritorno.
Accompagnato
dalla presunzione di sapere tutto e di poter parlare di tutto. L'”homo videns “ha
ibernato quello “sapiens”, l'immagine ha cancellato il concetto, il sapere
tutto e subito ha reso inutili la ricerca e la riflessione.
È nata
una società di cretini, che non sa e, pertanto, odia e disprezza quelli che
ancora sanno, i competenti e gli esperti (non di rado fastidiosi per la loro
presunzione).
Disinformato
o male informato l'uomo postmoderno di tutto parla e tutto giudica. È una vera
ribellione contro la competenza.
Che si
ritrova soprattutto nel populismo, che non è solo difesa del popolo, ma diviene
un suo privilegio di attaccare e condannare tutto ciò che è esperienza e
cultura.
Come esprime benissimo il blog del M5s:
«Democrazia vuol dire che uno vale uno».
Tanti «piccoli fratelli» tutti uguali,
obbedienti al “Grande fratello elettronico”.
Non
solo i grillini, anche se loro più degli altri.
Ne
sono derivati atteggiamenti di barbarie intellettuale, che nega molti di quei
progressi che hanno prodotto una società meno malata e affamata.
Si
pensi alla campagna contro i vaccini, che sono stati l'invenzione più grandiosa
per metter fine alle malattie endemiche.
O alla
pretesa che l'ogm sia in ogni caso cancerogeno.
Non è
difficile scorgere negli uomini manipolati dai media atteggiamenti di rabbia
contro tutto ciò che è sapere o scienza.
I
grillini lo hanno espresso e anche realizzato con la convinzione che per fare i
parlamentari ciò che conta non sono la cultura e l'esperienza:
«Meglio di tutti una mamma con famiglia
monoreddito e con quattro figli» (Beppe Grillo, Com. pol. 32).
Più che la cultura valgono la diffidenza e la
repulsione per coloro che hanno istruzione e competenza.
Più uno è ignorante, più sarebbe onesto e
puro, quindi adatto a fare il parlamentare.
Questa
rivolta dei cretini non avviene solo in Italia e in Europa.
Uno
studioso americano, “Thomas M. Nichols”, ha studiato questo fenomeno in un
libro intitolato “The Death of Expertise”, da poco tradotto in italiano col
titolo mutato “La conoscenza e i suoi nemici”.
L'era dell'incompetenza e i rischi per la
democrazia (Luiss
University Press, pp. 248.
Di
uomini colti e di specialisti la nostra società, divenuta così complessa, ha
bisogno più di quelle che l'hanno preceduta:
«Una società moderna non può funzionare senza
una divisione sociale del lavoro e senza affidarsi a esperti, professionisti e
intellettuali».
Tutti ce ne serviamo, ma la loro cultura
altamente specialistica infastidisce e anche offende.
Almeno a partire dagli anni Sessanta del
Novecento, quando esplose nei giovani il disprezzo per la cultura, lo studio
individuale, la scuola e l'università:
«La conoscenza e la competenza stesse sono
diventate il bersaglio del risentimento e della rabbia dell'uomo comune».
Che
oggi sono cresciute e si sono diffuse alle masse, inducendole a credere a
grossolane sciocchezze e fandonie (soprattutto nella medicina e nella
politica).
Non
hanno abbastanza intelligenza e cultura per capire di cosa parlano, anche
perché il vecchio buon senso dei loro trisavoli analfabeti è stato cancellato.
Come diceva il “poeta Giuseppe Giusti” già
nell'Ottocento:
«Il
Buonsenso, che già fu caposcuola, / ora in parecchie scuole è morto affatto;
/la Scienza, sua figliola/l'uccise, per veder com'era fatto».
Altrimenti
come avrebbero potuto persone di buon senso votare per il M5s, sperando di
ricevere quel reddito di cittadinanza, che porterebbe alla rovina i conti
pubblici?
Potente
e prepotente è l'opera dei padroni dei social, che non producono cultura, ma
industria culturale:
«Pseudo intellettuali senza qualifica,
inqualificabili e squalificati dalla loro stessa costituzione mentale», come li
definiva” José Ortega y Gasset “nel suo “La ribellione delle masse” (1930).
Sotto
la squallida uniforme della razionalità tecnologica premono e trionfano il mito
e la superstizione, un nuovo primitivismo dionisiaco e orgiastico:
chiese
vegane e sodalizi nudisti, tribù orientaliste, psico sette macrobiotiche,
liturgie dietetiche, confraternite di medicina alternativa e di cultori delle
stelle.
Come
aveva previsto “Giambattista Vico”, esaurito il «corso» arriva il «ricorso»:
«dopo la fierezza generosa della barbarie del senso, ecco la fierezza vile
della barbarie della riflessione, che fa delle città delle selve e delle selve
covili d'uomini» (Scienza
nuova, conclusione).
In questo rientrano l'odio e il disprezzo per
la cultura e la scienza.
Che si
sposano volentieri con il populismo, sia nella vita quotidiana che nella
politica.
Superata
la soglia del 50% di non
votanti:
la crisi della democrazia
liberale
appare irreversibile.
Lacrunadellago.net
– Cesare Sacchetti – (10/06/2024) – ci dice:
A
nulla sono valsi gli appelli dei vari inquilini delle istituzioni della
disgraziatissima repubblica dell’anglosfera.
A
nulla sono valsi gli spot televisivi accompagnati da una carrellata di immagini
nei quali si vedono una serie di persone dai volti inquietanti che invitano a
partecipare al voto per difendere la “democrazia”, sempre nel reiterato e
futile tentativo di voler far ancora apparire tale disfunzionale sistema come
un bene prezioso da salvare.
E a
nulla sono valse le aperture straordinarie in anticipo dei seggi già il sabato
alle 15 fino ad arrivare ad avere 25 ore di urne aperte.
Il
governo Meloni probabilmente se avesse potuto li avrebbe tenuti aperti una
settimana, ma quello che c’era dentro l’urna non avrebbe cambiato assolutamente
nulla.
Così
come a nulla è valso l’accorpamento con le amministrative sempre alla disperata
ricerca di gonfiare un po’ i numeri dell’affluenza che, ricordiamolo, va vista
anche con i numeri delle schede bianche e nulle che al momento non sono ancora
disponibili.
Il
risultato non è cambiato.
Le
urne sono state disertate, come ci si attendeva che fossero con delle
percentuali di votanti che hanno raggiunto la misera soglia del 49,6%,
diventando di fatto la minoranza che ancora si illude in cuor suo che il votare
la presente, e declinante, offerta politica faccia in qualche modo la
differenza.
Per la
prima volta nella tormentata storia della repubblica del 1946-48 gli italiani
che non partecipano al voto sono più numerosi di quelli che partecipano.
Sono
saltati del tutto i fragili equilibri che reggevano il sistema costituzionale
concepito, non è un segreto, da diversi membri della libera muratoria.
L’Italia
ad un punto cruciale della sua storia.
La
fase del consenso liberal-democratico è definitivamente conclusa e in seguito
se ne approfondiranno meglio le ragioni.
In
questo momento siamo al giro di boa della storia della repubblica
dell’anglosfera iniziata nel lontano 1943 sotto la tenda di Cassibile quando il
generale “Castellano” cedette la sovranità di questa nazione alle potenze
angloamericane non avendo nemmeno l’autorità per farlo,
in quanto
il legittimo presidente del Consiglio era a tutti gli effetti Benito Mussolini
che era stato spodestato con un colpo di Stato nel luglio del’43 e che commise
in precedenza il fatale errore di allearsi con la Germania Nazista di Hitler,
verso il quale ha sempre nutrito una certa diffidenza accompagnata da un non
malcelato disprezzo.
L’Italia,
com’è noto, ha scontato il fardello di quella sciagurata decisione nei decenni
successivi, ritrovandosi a diventare uno Stato satellite la cui politica estera
è stata in larga parte scritta da Washington ma soprattutto dalle potenti lobby
che governano le amministrazioni presidenziali americane, su tutte quella
sionista che ha di fatto scritto la politica estera americana fino al 2016,
anno nel quale salì al potere Trump che ha messo fine alla stagione delle
guerre permanenti degli Stati Uniti scatenate in nome e per conto dello stato
ebraico.
La
classe dirigente della Prima Repubblica nonostante il perimetro ristretto della
sovranità tracciato da Washington aveva saputo ugualmente perseguire gli
interessi nazionali italiani tanto da rendere l’Italia una straordinaria
eccezione all’interno della NATO, quando questo Paese è stato quello che più di
tutti era vicino alla causa palestinese.
Non è
un segreto che il solco della politica estera tracciato da Andreotti e Craxi
non era certo gradito da Israele e dal movimento sionista mondiale poiché
l’Italia è un Paese a vocazione mediterranea, e se questo è vicino al mondo
arabo ciò rappresenta certamente un problema per i propositi imperialistici di
Israele.
Nonostante
tutti i limiti di tale sistema e nonostante la condizione di sovranità
limitata, tale classe dirigente era riuscita a portare sviluppo e benessere ad
un Paese che dalle macerie della seconda guerra mondiale costruì una delle
potenze industriali più forti del mondo.
All’epoca,
la politica era ancora tale.
I
partiti avevano un vero rapporto con la loro base elettorale e il cittadino
comune si sentiva effettivamente rappresentato dal politico che mandava nelle
istituzioni, poiché questi rispondeva e aveva a cuore gli interessi di chi lo votava e
non quelli dei poteri della finanza anglo sionista e delle varie istituzioni
sovranazionali.
La
politica era legata al territorio, e il territorio credeva nella politica tanto
è vero che le percentuali di partecipazione al voto raggiungevano soglie del
90%, impensabili ai tempi moderni in quanto oggi la politica è qualcosa di
molto diverso da quello che era 40 o 50 anni.
Il
1992 è ciò che rompe questo rapporto.
Quella
rivoluzione colorata partorita dagli ambienti dello stato profondo americano
aveva la necessità di liquidare quella classe politica, giudicata troppo
indipendente per i parametri di Washington, e il potere decisionale è passato
dalle mani della politica a quelle di oscuri e ignoti commissari europei che
non passano nemmeno dalla legittimazione popolare delle urne.
La
politica da affare per molti diviene un affare per pochi.
Non è
più Roma a decidere, ma Bruxelles, Londra e Washington tanto che sono le
istituzioni europee a scrivere le manovre finanziarie, circostanza
semplicemente impensabile un tempo, e oggi divenuta “normalità”.
Il
trasferimento del potere da Roma a centri di potere esteri ha inevitabilmente
allargato la distanza tra il popolo e le istituzioni.
Nell’uomo
comune si diffonde la consapevolezza che votare non cambia poi molto perché in
ultima istanza non sono certo gli interessi dell’uomo della strada ad essere
rappresentati nei palazzi, ma quelli di influenti lobby che aspirano ad una
concentrazione del potere a livello globale, chiamata dai vari tecnocrati
“governance mondiale”.
La
farsa pandemica e la irreversibile crisi della liberal-democrazia.
La
farsa pandemica non ha fatto altro che accelerare enormemente la presa di
consapevolezza che nella democrazia liberale non esistono vere ed essenziali
distinzioni di sorta tra uno schieramento e l’altro.
Semplicemente,
l’operazione che i “vari signori del globalismo predatorio” avevano
accuratamente preparato molti anni prima ha mostrato che la politica ormai era
ridotta ad essere una protesi del cartello farmaceutico, di Bill Gates, di
George Soros, delle famiglie Rothschild, Rockefeller, e Warburg soltanto per
citare alcuni degli uomini più influenti del pianeta.
A cosa
serve in fin dei conti il voto se poi il “mio” rappresentante una volta eletto
agisce per attuare la visione del Nuovo Ordine Mondiale e consegnare la
sovranità del Paese a questo manipolo di oligarchi che sogna di costruire un
governo mondiale?
Senza
tanti orpelli, è questa la semplice e fondamentale intuizione al quale è giunto
l’uomo comune.
Questa
offerta politica è fatta per rappresentare gli interessi di altri, e non quelli
della nazione e del popolo, ed è per questo che dopo il 2020 la democrazia
liberale è entrata in una fase ancora più acuta della sua crisi iniziata nel
1992.
Il
risultato delle europee è lì a dimostrare il requiem della repubblica
dell’anglosfera.
Adesso
ci si chiede quale futuro attende l’Italia dopo le ultime elezioni europee.
Quale
sarà il futuro di questo Paese dopo il fallimento delle ultime consultazioni
per il Parlamento europeo?
Il
popolo ha parlato e ha espresso chiaramente tutto il suo distacco dalla
presente offerta politica poiché essa nella sua interezza non è certo fatta per
chiudere l’esperienza del liberalismo ma piuttosto per preservarla.
Questo
ha dato vita ad un processo, a nostro avviso, irreversibile.
La
crisi di fiducia delle istituzioni repubblicane si è aggravata ancora di più,
anche perché queste ormai restano avviluppate su sé stesse dentro la loro bolla
dedicandosi allo scialbo esercizio della autocelebrazione, immuni a quanto
accade nel mondo reale.
Il
popolo non vorrà più saperne della politica fino a quando essa non tornerà ad
essere un’arte al servizio del bene comune e non una invece al servizio del
male di molti e del bene di pochissimi.
Questa
politica poi ha finito con il perdere anche la protezione del vecchio garante
angloamericano in quanto esso dopo l’avvento di Trump si è disimpegnato dalla
partecipazione alla governance e ha lasciato orfani non pochi peones qui in
Italia.
La
fase attuale è quella che prevede un aggravarsi di questa crisi strutturale.
Siamo
entrati ormai nel territorio del quale parlò Giulio Andreotti nel 1984.
Siamo
nel territorio dove la linfa vitale delle istituzioni parlamentari,
rappresentata dal voto, si svuota e toglie alla repubblica dell’anglosfera
l’ossigeno di cui ha bisogno per restare in vita.
Ciò
spiega l’irritazione non solo dei partiti dell’establishment ma anche di tutti
quelli della piccola galassia del falso sovranismo che hanno rovesciato non
pochi improperi e minacce nei riguardi di coloro che giustamente non vogliono
più saperne di una partita truccata dove vince sempre il banco.
La
fase successiva a nostro avviso sarà quella del probabile stallo governativo
poiché non è un segreto che la Meloni stia guardando a Bruxelles, dove è stata
già eletta, per avere qualche altro incarico e lasciare così l’ingombrante
ruolo di parafulmine a palazzo Chigi che nessuno vuole e può occupare dopo di
lei.
Abbiamo
probabilmente davanti un biennio o triennio di complessiva instabilità politica
che porterà via via all’uscita di scena dei vari attori rimasti sul
palcoscenico, che ora sono passati a farsi la guerra tra di loro nel tentativo
di sopravvivere a questa fase.
Siamo
giunti all’epilogo della esperienza repubblicana di “Cassibile”?
Difficile
dirlo con certezza, ma i segnali di una generale dismissione sembrano esserci
tutti.
L’Italia
ha alle sue spalle un lungo viaggio.
Un
viaggio fatto di dolore, sofferenza, tradimenti e saccheggi.
E tale
viaggio non è stato fatto sotto qualche “totalitarismo fascista”, ricordiamolo.
È
stato fatto nella tanto, non da noi, celebrata democrazia liberale.
È nel
liberalismo che l’Italia ha perso la sua sovranità.
È nel liberalismo che l’Italia ha rinunciato
alla sua identità cristiana e latina, per adottarne un’altra di natura
protestante e nord-europea.
Sotto
certi aspetti, la crisi delle istituzioni liberali odierne ricorda assai quella
che precedette la loro fine prima dell’avvento del fascismo.
E
questa appare essere una prospettiva che terrorizza non poco i vari peones
dello stato profondo italiano che continuano a celebrare compulsivamente i loro
riti nei quali si celebra l”antifascismo” e la costituzione nata con
l’occupazione americana e con il tradimento di Cassibile.
Il
problema, per lor signori, è che a partecipare a questi riti ci sono soltanto
loro e quando questo accade ci sono persino zuffe furiose come visto l’ultimo
25 aprile con la brigata ebraica che se le dava di santa ragione con gli altri
nostalgici dei partigiani rossi, le cui mani intrise di sangue scrissero poi la
carta alcuni anni dopo.
Questo
è il punto nel quale è giunta la repubblica di Cassibile.
È
giunta al punto nel quale dentro di essa le sue bande si combattono mentre al
di fuori di essa c’è soltanto disprezzo accompagnato a diffidenza.
La
maggioranza degli italiani ieri ha fatto capire che è stufa di tale farsa e non
vuole altro che il sipario cali presto su di essa.
La
bomba dell’ex senatore PCI:
”
tutti prendevano tangenti e
D’Alema
sapeva che Mani Pulite
avrebbe risparmiato il PDS.”
Lacrunadellago.net - Cesare Sacchetti – (06/06/2024)
– ci dice:
A
volte gli scheletri nell’armadio restano ben piegati tra i cassetti e non se ne
vanno.
Le
loro ossa stanno lì, soltanto apparentemente sepolte, in attesa che qualcuno
possa ritirarle fuori e riportare in vita gli spettri del passato.
È
quello che sembra aver appena fatto l’ex senatore del PCI, “Pellegrino”, che in
una, a dir poco, clamorosa intervista al “Corriere della Sera” parla di un nodo
mai veramente sciolto riguardo alla controversa inchiesta di Mani Pulite.
Il
pool in quegli anni era composto da personaggi quali “Antonio Di Pietro”,
Piercamillo Davigo”, da poco condannato in appello per rivelazione di segreto
d’ufficio, “Gherardo Colombo” ed era guidato da “Francesco Saverio Borrelli”
che negli anni dopo pronunciò la famigerata frase “resistere, resistere,
resistere” rivolto al governo Berlusconi dei primi anni 2000, a dimostrazione
di come certe toghe avessero da tempo dismesso i panni dei giudici e indossati
quelli di attori politici.
Erano
descritti come degli “eroi” senza macchia da tutto l’apparato mediatico
dell’epoca che si dava da fare il più possibile per agitare davanti agli occhi
della opinione pubblica lo straccio rosso dell’antipolitica e della caccia al
politico.
L’antipolitica
prim’ancora che con il M5S, che ne raccoglierà soltanto l’infausta eredità,
nacque nel laboratorio della falsa rivoluzione giudiziaria di Milano, come la
chiamava puntualmente Bettino Craxi, poiché Mani Pulite serviva ad assolvere
molteplici scopi.
Certamente
quello prioritario di liberarsi ormai di una classe dirigente, con la sola
eccezione del PDS, che ormai non era più considerata “affidabile” dagli
ambienti dell’anglosfera che avevano già in mente un percorso molto preciso e
alquanto più stretto e tortuoso di quello che già non fosse stato quello
tracciato dall’infame armistizio di Cassibile, che ha consegnato le chiavi della
sovranità italiana a Londra e Washington.
L’anglosfera
doveva essere assolutamente certa che nella fase più avanzata del progetto,
definito dai vari tecnocrati di Bruxelles e del FMI come “governance mondiale”, non ci fosse alcuno ostacolo sulla
via e lasciare
sul palcoscenico della Prima Repubblica personaggi della statura di Bettino
Craxi e Giulio Andreotti era certamente un rischio per i vari “signori del
mondialismo”.
Craxi
aveva già dato prova di tutta la sua spina dorsale quando a Sigonella nel 1985
difese la sovranità dell’Italia e rispose ad un arrogante “Michael Ledeen”,
accademico americano di origini ebraiche e “membro delle potente lobby sionista”,
che l’Italia non era una sorta di portaerei del Mediterraneo dove lo stato profondo americano poteva
fare il comodo che voleva.
Andreotti
aveva dato prova della stessa sapienza e lungimiranza politica quando nel 1984
disse chiaramente che l’unificazione della Germania avrebbe rappresentato un
rischio per l’Europa intera, poiché il saggio ex presidente del Consiglio era
perfettamente consapevole che l’UE che volevano far nascere certi ambienti sarebbe stata a
trazione teutonica e che avrebbe soffocato l’economia italiana con il cappio
dell’euro.
Questi
dirigenti avevano troppo peso e troppa statura per questi ambienti ed è per
questo che dovevano essere rimossi attraverso una vera e propria rivoluzione
colorata che assunse le vesti del golpe giudiziario.
Il
PDS: il “vincitore” del golpe giudiziario di Milano.
Ora
ciò che è noto dell’inchiesta giudiziaria di Milano è che essa agì
chirurgicamente per asportare dalla politica tutti i partiti con la sola
eccezione del PDS, ex PCI, che non venne toccato dalle indagini dei giudici.
Eppure
che il PCI fosse finanziato in maniera illecita era il segreto di Pulcinella
così come lo era il fatto che tale sistema illecito si fondava sul ruolo delle
onnipresenti cooperative rosse.
“Pellegrino”,
che si risveglia da un letargo di decenni e sul quale dopo diremo di più,
afferma esplicitamente quanto segue quando “Verderami” del “Corriere”,
giornalista alquanto vicino allo stato profondo italiano, gli chiede delle
tangenti ricevute dal PCI.
“Tutti
i partiti godevano di finanziamenti irregolari.“
“Apparentemente
il mio partito non prendeva soldi. Però nella cordata vincitrice di ogni
appalto c’era sempre una cooperativa rossa con una percentuale di lavori.
Dal 10
al 15%”
“Pellegrino”
sembra lasciar chiaramente capire che il sistema dal quale affluivano i fondi
neri al partito comunista italiano che attraverso la vincita di appalti, per
così dire “pilotati”, riceveva poi i finanziamenti da far affluire nelle casse
del partito.
Questi
fondi poi passavano dalle mani delle cooperative a quelle del partito e a spiegarlo non è stato qualche
anticomunista incallito, ma il vicepresidente di Federcoop, Vincenzo Bertolini, che
rivelò come con una cadenza di due settimane queste tangenti venivano portate direttamente ai segretari
dell’ex PCI nella storica sede di via delle Botteghe Oscure.
E
quanto “Bertolini” afferma che tali tangenti venivano portate ai segretari del
PCI è impossibile non pensare quanta ipocrisia trasudasse la “questione morale” sollevata da
Enrico Berlinguer, segretario del PCI fino al 1984, quando il suo partito era una vera e
propria centrale di riciclaggio di finanziamenti illeciti.
Questa
centrale però non attira le attenzioni di Mani Pulite.
I giudici di Milano sembrano chiaramente avere
altre intenzioni e sono decisi a risparmiare il PCI, che intanto era divenuto
PDS in quella che sarà l’inizio di una lunga serie di mutazioni del serpentone
comunista che cambierà pelle negli anni a venire, ma soltanto per camuffarsi
meglio di volta in volta e per provare a trasmettere una falsa immagine di
rinnovamento attraverso degli interventi di chirurgia estetica politica che mai
cambieranno però il marcio che c’è nelle viscere della sinistra progressista
italiana.
A
Milano intanto va in scena la rivoluzione colorata e i magistrati del pool
dimostrano subito di avere una certa affinità con gli ambienti angloamericani,
se si considera che uno degli “eroi” del pool, “Di Pietro”, nel 1992 compie
tutta una serie di viaggi negli Stati Uniti nei quali si incontra con
rappresentanti del governo americano quali l’ex ambasciatore “Reginald
Bartholomew” e l’ex console “Peter Semler”.
Nessuno
all’epoca, tantomeno i media che invece erano impegnati nel suonare la
grancassa del presunto eroismo di questi togati, portò all’attenzione pubblica
il fatto che “Di Pietro” aveva già travalicato da un pezzo il seminato della
magistratura ed era entrato in quello della politica, in quanto si stava
incontrando, non avendo titolo per farlo, con dei rappresentanti di un governo
straniero che sembravano avere tutto l’interesse a favorire il golpe
giudiziario.
In
America si dischiudono persino le porte dell’FBI per Di Pietro e dunque è
chiaro che dev’esserci stato una chiara autorizzazione da parte dei vertici
dell’amministrazione di George H. Bush, l’uomo che nei suoi discorsi parlava di
“Nuovo Ordine Mondiale”, a ricevere il magistrato italiano e a farlo entrare in
contatto con ambienti dell’intelligence americana che manifestavano un vivissimo
interesse a quanto stava facendo il togato, stimatissimo nei giri
dell’establishment americano.
È una
liaison evidente, lapalissiana, ma nemmeno mai sfiorata dal CSM che dormiva il
sonno dell’ingiusto e che voleva che la magistratura fosse lasciata libera di
eseguire le sue inchieste “etero dirette”, per così dire, e compiacere così i
disegni dell’anglosfera.
Falcone: l’uomo che stava per arrivare alla
verità sui fondi neri PCI.
Il
PDS, come si diceva prima, non viene sfiorato da questi togati ma c’era un uomo
che invece aveva iniziato un’inchiesta che sarebbe arrivata laddove certi
ambienti euro atlantici non avrebbe mai voluto che questa arrivasse.
Quell’uomo
era Giovanni Falcone, magistrato siciliano, inviso ai suoi colleghi che già gli
avevano consegnato due polpette avvelenate negli anni precedenti quando gli
avevano sbarrato la strada della guida della procura di Palermo, preferendogli
il “collega” “Antonino Meli”, e poi quella della guida della direzione
nazionale antimafia.
Falcone
non veniva
impallinato da destra e dagli ambienti cattolici.
Veniva impallinato dagli ambienti della
sinistra progressista italiana che nel frattempo su Repubblica gli avevano
anche riservato l’appellativo di “guitto” prima che i compagni si impegnassero
a far “sparire” quel controverso editoriale dopo la strage di Capaci.
Falcone
stava arrivando dove il pool di Milano non aveva nemmeno messo il naso.
Se
quanto affermato da Bertolini è corretto ovvero che le tangenti delle
cooperative rosse affluivano nelle casse del PCI, è pur vero che manca un
tassello fondamentale nella ricostruzione di questo massiccio traffico di fondi
neri.
Il
tassello fondamentale è quello di Mosca. Mosca era la centrale del
finanziamento di tutti i partiti comunisti europei e soprattutto di quello
italiano, in quanto questo era il più forte e aveva consensi superiori a tutti
gli altri in Europa.
Falcone in quell’anno era diventato
direttore generale degli affari penali e aveva iniziato tale indagine su
richiesta dell’ex presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, che gli chiese di
fare luce sul saccheggio del tesoro dell’ex URSS che in quell’anno era guidata
dal presidente fantoccio” Boris Eltsin”.
L’allora
ambasciatore russo chiese a Roma di aiutarlo a capire dove stavano finendo
tutti i soldi dell’ex PCUS e per fare luce su tale enorme ruberia era
necessaria la collaborazione degli italiani poiché i soldi finivano in Italia.
Falcone si mette all’opera e inizia a
collaborare con il suo omologo russo, il procuratore russo “Stepankov”, per
comprendere tutti i passaggi che quei fondi neri stavano compiendo e in quali
società le cooperative rosse li lavassero e poi consegnassero “puliti” all’ex
PCI.
Non
fece in tempo a scoprirlo poiché, è noto, fu fatto saltare il viadotto
dell’autostrada di Capaci sul quale stava passando quella nefasta giornata del
23 maggio del 1992.
Le
tracce dell’attentato non portavano certo in qualche masseria siciliana ma ad
ambienti militari angloamericani in quanto l’esplosivo risultava essere
utilizzato da navi inglesi e americane, ma tale tracce non furono mai seguite
dagli ineffabili togati che ovviamente preferirono coprire gli apparati
atlantici e invece spostare tutta l’attenzione su “Giovanni Brusca”, fatto
diventare ormai una sorta di eminenza grigia nell’organizzazione di un
attentato che non era chiaramente nelle sue possibilità, né direttive né
logistiche.
D’Alema
sapeva che Mani Pulite avrebbe risparmiato il PDS.
Ora “Pellegrino”
non sfiora, né tantomeno “Verderami” pensa minimamente di chiederglielo,
l’indagine di Falcone che è semplicemente cruciale ai fini di quanto lui rivela
forse perché la materia per lui scotta troppo, però l’ex senatore del PCI fa
altre affermazioni che chiaramente suggeriscono che il PDS sapeva che
l’inchiesta di Milano era addomesticata e che loro sarebbero stati risparmiati.
“Pellegrino”
temeva che Mani Pulite arrivasse al PDS ma in un incontro con Massimo D’Alema
nel 1993, l’ex presidente del Consiglio gli disse questo.
“Come
al solito voi avvocati siete contro i pubblici ministeri.
Volete
capirlo che questi di Milano stanno facendo una rivoluzione?
E le
rivoluzioni si sono sempre fatte con le ghigliottine e i plotoni di esecuzione.
Perciò cosa vuoi che sia qualche avviso di garanzia o qualche mandato di
cattura di troppo… Eppoi Luciano mi ha detto che possiamo stare tranquilli,
perché Mani Pulite non se la prenderà con noi…”.
D’Alema
non aveva nulla da dire sulla rivoluzione giudiziaria di Milano in quanto
sapeva benissimo, a detta di “Pellegrino”, che tale rivoluzione non avrebbe
minimamente sfiorato il PDS, e che, piuttosto, avrebbe spianato la strada a
quest’ultimo.
Il
garante, per così dire, di questa “copertura” era nientemeno che “Violante”, ex
magistrato e presidente della Camera negli anni successivi al golpe
giudiziario, il quale sembrava avere un filo diretto con i giudici di Milano ed
era apparentemente al tempo stesso informato che le” inchieste di Pietro e dei
suoi sodali” non avrebbero mai sfiorato i “vincitori” di quella falsa
rivoluzione che si apprestavano ad entrare a palazzo Chigi soltanto pochi anni
dopo, nel 1996.
Gli
uomini che non furono nemmeno sfiorati dal pool avevano già guadagnato le
simpatie degli angloamericani e il terreno era stato preparato accuratamente da
“Giorgio Napolitano” che usava già da diversi anni andare regolarmente negli
Stati Uniti per incontrarsi con” Henry Kissinger”, esponente di primo piano del
“gruppo Bilderberg”, del “club di Roma” e del “Council on Foreign Relations”.
Ai
nuovi referenti di Washington fu affidata la missione di rinchiudere definitivamente
l’Italia nella gabbia dell’euro e di terminare la svendita delle partecipazioni
statali iniziata da Draghi sul panfilo della regina Elisabetta, il Britannia, a
pochi giorni di distanza dalla strage di Capaci.
La
“missione” fu compiuta e fu così che l’Italia si guadagnò il “primato” del
Paese che eseguì il record di privatizzazioni che fecero la fortuna di vari oligarchi e la sciagura invece dello Stato e
degli interessi nazionali.
Questo
“improvviso” risveglio di “Pellegrino”, che soltanto a distanza di 32 anni
rivela come i dirigenti del PDS sapessero che Tangentopoli non avrebbe toccato
il partito e come anche l’ex PCI ricorreva ampiamente a finanziamenti illeciti,
difficilmente però appare essere il risultato di un tardivo pentimento, ma
piuttosto la diretta conseguenza della chiusura di una fase storica iniziata proprio
in quell’anno, il 1992.
Mani
Pulite fu voluta dall’anglosfera per raggiungere un obiettivo preciso e per
consentire al PDS di salire al potere indisturbato.
Nessuno
doveva mettersi di traverso, pena subire la stessa sorte di Falcone e
Borsellino.
L’attuale
congiuntura vede ora un progressivo disfacimento della classe politica e dei
suoi succedanei nata da quel golpe.
Il
potere angloamericano che volle quel processo “rivoluzionario” viaggia verso la
sua dismissione con il disimpegno americano dall’impero atlantico nato dopo il
dopoguerra e con la nascita del blocco multipolare che sta portando alla fine
dell’unilateralismo della NATO.
La
storia è andata in un’altra direzione e il primo a saperlo è stato proprio uno
di quei “vincitori” di quella rivoluzione colorata, ovvero nuovamente Massimo
D’Alema, che in una intervista di 2 anni fa disse chiaramente che il Nuovo Ordine
Mondiale aveva fallito, e che erano tornati sulla scena gli Stati nazionali con
le loro originarie prerogative.
Il
fatto che” Pellegrino” dica tutto questo solo ora lascia pensare che qualcuno
nell’establishment voglia ritirare fuori questi ingombranti scheletri sepolti
nell’armadio e che erano stati lasciati indisturbati per tanti anni.
Difficile
pensare ad una coincidenza, se si considera che ormai i vecchi referenti
angloamericani che vollero quel golpe giudiziario sono decaduti e ormai qui in
Italia l’attuale classe politica è in declino pieno ed è orfana delle antiche
protezioni.
Gli
indugi allora sono stati rotti.
I
guantoni sono stati tolti e le bande di questo sistema in declino si sono date
alla guerra più feroce in cerca della difficile sopravvivenza politica.
Lo si
vede con la quotidiana guerra giudiziaria partita con le procure che hanno
avviato inchieste incrociate sui rispettivi referenti politici, e lo si vede
con quella strana scia di suicidi che sembra il diretto risultato di una guerra
senza precedenti nella massoneria italiana, lacerata dai conflitti e dai
contrasti.
Qualcuno
forse ha pensato di aprire l’armadio con gli scheletri del’92 per colpire
ancora più duramente di quanto fatto fino ad ora, e allora occorre essere
preparati.
Cadranno
nomi ancora più eccellenti e verranno fuori verità ancora più inconfessabili.
La
storia del Britannia: uno
dei”
tradimenti più infami”
della
repubblica dell’anglosfera.
Lacrunadellago.net-
Cesare Sacchetti – (04/06/2024) – ci dice:
A
bordo del panfilo della regina Elisabetta quella notte del 2 giugno del 1992
c’erano molti personaggi.
C’era il giovane Mario Draghi, allora
direttore generale del Tesoro, che sarà poi il cerimoniere ufficiale, per così
dire, del tradimento che venne messo in atto quella notte.
C’era
“Riccardo Gallo” del glorioso” Istituto per la Ricostruzione Industriale”,
c’era Giovanni Bazoli” dell’”Ambro veneto” assieme ad un’altra pletora di
dirigenti pubblici che quella notte non erano lì per tutelare la ricchezza del
patrimonio industriale pubblico dell’Italia e degli italiani.
E non
erano nemmeno lì per salvaguardare quel formidabile sistema bancario che aveva
consentito all’Italia di avere un modello talmente virtuoso ed equilibrato tale
da fargli guadagnare lo scettro del Paese con le banche più stabili del mondo
assieme all’altra preziosa medaglia del Paese con il più alto tasso di
risparmio privato sul pianeta assieme al Giappone.
Su
quella nave c’era tutto il compianto modello dello Stato imprenditore che in
una prolusione di qualche tempo fa “Benito Livigni”, ex collaboratore di
“Enrico Mattei”, presidente dell’ENI, definiva alquanto efficacemente la “terza
via”.
E
l’Italia da Paese unico e straordinario qual’ è aveva trovato di fatti una sua
via in economia che non era quello del capitalismo anglosassone protestante
integrato di fatto con la “finanza askenazita”, né tantomeno l’”altra falsa
alternativa del collettivismo statale di natura comunista” che aveva messo al
bando la proprietà privata e instaurato non il dominio del proletariato come”
ipocritamente affermava Karl Marx, membro della massoneria”, ma piuttosto
quello di un’altra borghesia che non differiva per nulla da quella capitalista.
La
storia dell’URSS è lì a ricordare che a prendere il potere non sono stati certo
dei proletari russi emarginati sotto il regno dello zar Nicola poi trucidato
dai bolscevichi, ma un manipolo di sovversivi in larghissima parte di origini ebraiche che
avevano strettissimi rapporti con la finanza di New York, tanto che Trotskij è proprio nella
capitale della speculazione internazionale che trovò rifugio, laddove era
generosamente finanziato da personaggi quali “Jacob Schiff” e “Max Warburg”,
circostanza nota a tutti i governi europei dell’epoca.
Non è
certo un segreto poi che a consentire il ritorno di Lenin in Russia
nell’infausto anno della rivoluzione d’ottobre non fu qualche operaio tedesco
simpatizzante della causa bolscevica, ma “Paul Warburg”, fratello del citato
Max, che nel suo ruolo di “vicepresidente della Federal Reserve Bank americana”
si assicurò che Lenin ricevesse i fondi necessari per intraprendere la sua
spedizione in Russia e rovesciare l’odiato zar Nicola.
Questi
nomi saranno già famigliari a molti lettori.
Sono
coloro che soltanto 5 anni prima della rivoluzione bolscevica attraverso una
controversa legge, la “Federal Reserve Act”, divennero i veri proprietari della
banca centrale americana e dell’economia di una delle nazioni più forti del
mondo.
Non
deve sorprendere che ciclicamente la FED abbia infranto il suo “dogma” di
consentire al mercato di autogovernarsi secondo il fantomatico principio del
neoliberismo che vuole che i mercati funzionino perfettamente da soli, senza
alcuna “ingerenza” da parte dello Stato.
Non
deve sorprendere perché i signori della FED quali “Morgan”, “Schiff”,
“Rockefeller” e “Warburg” hanno utilizzato la facoltà di creare moneta ex nihil
non certo per garantire agli Stati Uniti crescita e sviluppo, o per salvare le imprese mandate al
macero dalla finanza e dalla globalizzazione, ma esclusivamente per salvare le
proprie banche da quelle crisi cicliche che il capitalismo speculativo senza
alcuna regolamentazione comporta.
Il
modello cattolico italiano: lo Stato imprenditore.
Nulla
di tutto questo era penetrato in Italia né durante il fascismo né dopo la
seconda guerra mondiale.
Le
sane radici cattoliche dell’Italia avevano consentito a questo Paese di
percorrere la via già indicata da papa Leone XIII che nella sua enciclica”
Rerum Novarum” condannava sia il modello capitalista sia quello comunista, in
quanto entrambi non garantivano il benessere del popolo e finivano
inevitabilmente per creare una contrapposizione in classi che poi, come si è
visto nelle applicazioni pratiche del comunismo, finiscono inevitabilmente per
avvantaggiare il dominio del capitale.
Quando
ci fu la famigerata crisi del’29, il duce, che già aveva messo al bando uno dei
circoli eletti del capitale, le massonerie, pensò di istituire un istituto industriale pubblico
che rilevò le partecipazioni delle industrie e delle banche colpite dalla crisi
per renderle aziende di Stato.
Soltanto
pochi anni prima, attraverso la famosa legge bancaria del 1926, il governo di
Benito Mussolini aveva stabilito un principio fondamentale per l’attuazione
dell’economia mista.
La
facoltà di stampare moneta, prima rimessa anche nelle mani di istituti bancari
privati, si
veda il famigerato scandalo giolittiano della banca romana al riguardo, era stata trasferita esclusivamente
nelle mani della banca d’Italia, all’epoca controllata dallo Stato.
Se si
pensa invece al percorso che abbiamo compiuto negli ultimi 35-40 anni, ci si
accorgerà facilmente che siamo tornati in pratica alle stesse condizioni, se
non peggio, nelle quali ci si trovava nello Stato liberale voluto fortemente dalla
massoneria nel 1861, laddove era una ristretta élite di latifondisti e
capitalisti ad avere il controllo della cosa pubblica.
Il
fascismo mette fine al dominio del privato sul pubblico e ristabilisce la
supremazia dello Stato sui processi economici che devono avere l’obiettivo di
garantire la crescita di un Paese e non quella di un manipolo di spregiudicati
finanzieri e capitalisti di ventura che attraverso il neoliberismo si
sostituiscono in tutto e per tutto allo Stato.
Quando
finisce la seconda guerra mondiale, il conto delle macerie è molto alto ma
l’allora classe dirigente della repubblica dell’anglosfera non aveva una
visione predatoria a differenza di quella sorta dopo l’infausta notte del
Britannia e la rivoluzione colorata di Mani Pulite.
L’IRI
diventa il perno della rinascita economica dell’Italia.
Lo Stato imprenditore è ciò che garantisce
all’Italia di avere una delle crescite economiche più alte del secondo
dopoguerra.
Se si
pensa a cosa c’era dentro l’IRI, si resta sbalorditi.
C’era
dentro l’Ansaldo, gli Aeroporti di Roma, le autostrade, l’Alfa Romeo, lo SME
(Motta, Alemagna, Buitoni), la Telecom, il banco di Roma, la banca nazionale
del Lavoro, l’Italsider, l’Italcantieri, la società degli Autogrill, e
l’Alitalia.
C’era,
in altre parole, tutta la spina dorsale economica ed industriale della nazione.
C’era
un modello economico che aveva garantito allo Stato di sfuggire alla morsa del
capitale finanziario e degli oligarchi che da tempo volevano impossessarsi del
tesoro dell’Italia e diventare loro i veri padroni di questa nazione.
Il
saccheggio del Britannia.
Quella
famigerata notte ci riuscirono.
Ci
riuscirono perché stava avendo luogo uno dei golpe più infami della storia di
questa nazione, inferiore soltanto forse a quello di Cassibile, quando il “generale
Castellano” ha preso le chiavi della sovranità italiana e le ha consegnate
all’anglosfera e ai suoi referenti finanziari.
A
voler mettere le mani su quel tesoro erano gli esponenti di banche quali” JP
Morgan”, “Goldman Sachs”, la “Baring
& Co”., la “S.G. Warburg”, “Merryll Lynch” e “Solomon Brothers”.
Gli
uomini più potenti della city di Londra e di Wall Street salgono su quel
panfilo e riescono a comprare a prezzo di saldo il patrimonio industriale
pubblico dell’Italia che verrà smantellato in nome del falso dogma neoliberale
che il privato è più virtuoso del pubblico, quando l’unica “virtù” del privato,
soprattutto quello finanziario, è semmai quella di arricchire sé stesso a
discapito di una comunità intera.
Quel
golpe è stato possibile perché la magistratura stava conducendo una operazione
giudiziaria che si può definire scientifica attraverso la rimozione di quei
partiti della vecchia classe dirigente della Prima Repubblica, su tutti il PSI
e la DC, che venivano eliminati per lasciare posto al PDS.
I
post-comunisti erano infatti stati già scelti come “vincitori” di questa falsa
rivoluzione, come amava chiamarla Craxi, e che diedero poi negli anni successivi il
colpo di grazia allo Stato imprenditore liquidando ciò che era rimasto dell’IRI
negli anni 90 e facendo regalie di vario tipo a oligarchi quali i Benetton che si
presero in concessione le autostrade con i risultati che tutti hanno potuto
vedere attraverso un aumento dei pedaggi e un vertiginoso crollo della qualità
del servizio, di cui il crollo del Ponte Morandi è soltanto l’esempio più
manifesto.
Tale
manovra eversiva non è mai stata studiata a fondo da un punto di vista anche
giuridico, se si vuole.
Nessuno
si pone mai il quesito di chi aveva autorizzato Draghi e gli altri a salire a
bordo di quel panfilo, nave di una nazione straniera ricordiamolo, e mettere in
atto una svendita che definire danno erariale sarebbe un eufemismo da parte
nostra.
Il 2
giugno del 1992 l’Italia non aveva un governo pienamente in carica, in quanto
il governo Andreotti poteva compiere solo il disbrigo degli affari correnti e
non risulta che l’ex presidente del Consiglio abbia mai autorizzato nulla del
genere.
L’anno
dopo per lui fu approntata un’altra macchina del fango persino più infame di
quella di Mani Pulite che prese le sembianze del processo per mafia del quale
abbiamo parlato in un altro contributo.
Draghi,
Bazoli e gli altri non sono mai stati messi sotto inchiesta poiché la
magistratura, salvo rare eccezioni, è un corpo che serve a coprire le malefatte
dello stato profondo e della massoneria, e non farle venire alla luce.
E il
’92 è la prova regina della funzione della magistratura nella tanto, non da
noi, decantata democrazia liberale.
Soltanto
alcuni magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino quell’anno stavano provando a seguire
le tracce di una inchiesta, quella sui fondi neri del PCI, che se fosse andata
in porto avrebbe spazzato via con ogni probabilità il PDS e i suoi dirigenti
deputati a prendere il posto della classe dirigente della Prima Repubblica.
Non si
può poi non notare una sequenza temporale altrettanto inquietante.
Quando
Falcone salta in aria il 23 maggio a Capaci, il panfilo della Regina Elisabetta
sbarca a Palermo e il 27 si reca sul luogo dell’attentato assieme al marito
Filippo, noto membro della massoneria britannica.
Soltanto
5 giorni dopo la Regina metteva a disposizione il suo panfilo per mettere in
atto un vero e proprio attacco alla sovranità economica del Paese.
La
Gran Bretagna aveva tutto l’interesse che le banche e gli istituti finanziari
anglo sionisti rilevassero i gioielli dell’economia italiana in quanto l’Italia
era un pericoloso concorrente industriale e, al tempo stesso, poiché la corona
britannica è da tempo un garante degli interessi di questi poteri finanziari.
Nessuno,
anche in questa occasione, pensò bene di diramare una nota formale di protesta
contro Londra che di fatto era partecipe di un atto di aggressione nei
confronti dell’Italia.
Né
tantomeno lo fece il successore di Andreotti, Amato, che sarà colui che quando
salirà al potere nel luglio di quell’anno darà il via libero definitivo al
saccheggio nell’estate di quell’anno, non prima però di aver depredato
nottetempo i conti correnti degli italiani, in nome della falsa emergenza
dovuta alla partecipazione dello SME, che se fosse stato abbandonato a
tempo debito avrebbe risparmiato all’Italia un salasso di 48 miliardi di
dollari eseguito per gentile concessione di Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca
governatore di Bankitalia, che pensò bene di fare le fortune del “Quantum Fund
di Soros” in una scellerata e suicida difesa a oltranza del cambio fisso della
lira con il marco.
Su
quel panfilo poi c’erano anche personaggi del calibro di “Beppe Grillo” a detta
di “Emma Bonino” che non è mai stata smentita dal comico genovese.
I
signori dell’anglosfera volevano assicurarsi di preparare una opposizione di
comodo già in quella lontana epoca poiché erano alquanto consapevoli che il
neoliberismo, l’ingresso nell’UE e nell’euro avrebbero portato ad un
depauperamento che difficilmente sarebbe stato digerito dalla popolazione e
pertanto occorreva costruire un laboratorio del dissenso e darne la custodia al
“guitto di Genova” che poi passerà il testimone alla Lega negli anni più
recenti.
Questa
è la storia di un golpe e dell’omicidio economico di un Paese che era stato
voluto già decenni prima, quando nei primi anni 70, il “club di Roma” di
influenza rockefelleriana decise che la nazione sede della cristianità mondiale
andava portata al declino, pena l’impossibile avanzata del Nuovo Ordine
Mondiale che è un sistema fondato sulla repressione della religione cristiana
ma soprattutto cattolica, in particolar modo nella sua versione più autentica
della Chiesa pre-conciliare e non quella liberale e secolare partorita dal
nefasto Concilio Vaticano II.
Quanto
accaduto all’Italia allora e negli anni precedenti deve essere una lezione per
il futuro.
Studiare
la storia, quella vera e non quella raccontata dai vari propagandisti
liberal-progressisti, serve a comprendere quale assalto ha ricevuto questa
nazione e cosa la finanza askenazita ha portato via all’Italia.
E in
questa fase storica laddove assistiamo al declino di quella falsa rivoluzione
del 92 e dei suoi protagonisti è necessario pensare che occorre ripartire dalla
vera identità dell’Italia per dare un futuro a questa nazione.
La
vera identità dell’Italia non è quella di un sistema economico fondato sul
neoliberalismo protestante ma sul cattolicesimo sociale e sulla rinascita
dell’IRI.
L’IRI
è stato il perno della rinascita passata, e non potrò necessariamente che
essere il perno della rinascita futura.
Se
l’Italia entrasse in guerra oggi
chi
verrebbe richiamato alle armi
per
essere arruolato?
Geopop.it
– Rachele Renno – (27- 5 - 2024) – ci dice:
In
Italia è tornato al centro del dibattito il tema della chiamata alle armi.
La
leva obbligatoria oggi non è obbligatoria ma c'è una proposta di legge per
reintrodurla.
In ogni caso, è reato sottrarsi alla chiamata
alle armi, salvo gravi problemi di salute.
Il
nostro Paese fa parte della NATO e secondo il Patto Atlantico, trattato
fondatore della NATO nel 1949, esiste il cosiddetto "sistema di difesa
collettiva", sancito nell’art.5, secondo il quale in caso di attacco ad
uno Stato membro l’Italia e gli altri Paesi membri sono obbligati ad
intervenire in sua difesa.
Anche
per la sua appartenenza all'Unione Europea, secondo l'art.42 del Trattato
istitutivo dell'UE (TUE), per attuare la politica di difesa e sicurezza comune,
l’Italia e gli altri Paesi membri mettono a disposizione il proprio supporto,
anche militare, con tutti i mezzi in loro possesso previa delibera
all'unanimità del Consiglio Europeo.
Ma se
l'Italia entrasse in guerra chi sarebbe richiamato alle armi?
Solo
le forze militari o anche i normali cittadini?
In
caso di chiamata alle armi, l'art.52 della Costituzione stabilisce che rifiutarsi
costituisce reato.
L'Italia
può entrare in guerra? I casi in cui potrebbe succedere.
La
Costituzione italiana all’articolo 11 sancisce che:
«l’Italia ripudia la guerra come strumento di
offesa agli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali».
Questo però non esclude che in caso di attacco
il nostro Paese può fare ricorso alle armi a scopo difensivo, così come in caso
di attacco militare ad uno Stato membro della NATO e dell’Unione Europea,
organizzazioni internazionali e sovranazionali di cui l’Italia fa parte.
L'art.78 della Costituzione italiana infatti
dichiara che le Camere possono deliberare lo stato di guerra dando al governo i
poteri necessari.
Se
dovesse dunque configurarsi un conflitto e l’entrata ufficiale in guerra del
nostro Paese i primi ad essere coinvolti sarebbero le forze armate ufficiali:
Esercito,
Marina Militare, Carabinieri, Guardia di finanza, Aeronautica militare.
Ad essere esclusi sono invece le forze di
polizia ad ordinamento civile, come i Vigili del Fuoco, la Polizia Locale e la
Polizia penitenziaria.
In
secondo luogo, sarebbero chiamati alle armi gli ex militari che hanno raggiunto
il proprio termine di servizio da meno di 5 anni.
In
Italia da anni si dibatte sulla questione dei "riservisti", personale
militare o addestrato, su base volontaria, che non dovrebbe superare le 10.000
unità e che sarebbe impiegato prevalentemente per supporto logistico e attività
di cooperazione.
Chi
verrebbe chiamato alle armi? L'arruolamento dei civili.
Se il
personale militare volontario non dovesse essere in numero sufficiente si
potrebbe allora ricorrere all’arruolamento dei civili:
è
importante chiarire che solo se il personale in servizio è insufficiente si
ricorrerebbe a questa eventualità.
A
essere chiamati alle armi sarebbero i cittadini maschi dai 18 ai 45 anni
dichiarati idonei alle visite mediche sulla base delle liste di leva.
Infatti,
al termine delle visite mediche, sono tre i possibili esiti:
idonei e quindi che possono essere arruolati,
rivedibili, ossia al momento della visita non sono risultati idonei ma possono
essere sottoposti a nuove visite mediche e riformati, infine non idonei al
servizio militare in modo permanente.
Le
donne in gravidanza sono escluse dalle liste di leva obbligatoria.
Proprio
riguardo l'insufficienza di unità militari a disposizione, a dicembre
2023 è stato approvato un decreto legislativo sulla revisione dello
strumento militare che ha aumentato da 150.000 a 160.000 le unità delle forze
armate, a partire dal 1° gennaio 2034.
Si può
rifiutare la chiamata alle armi? La leva obbligatoria in Italia.
In
caso di chiamata alle armi non è possibile sottrarsi alla chiamata, a meno che
non ci siano gravi problemi di salute, da verificare tramite le visite mediche
specifiche.
Infatti, secondo l’art.52 della nostra
Costituzione
“La
difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è
obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non
pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti
politici."
In
caso quindi di rifiuto si tratterebbe di reato.
In
Italia la leva obbligatoria è stata sospesa con la legge n.226 del 23 agosto
2004 per tutti i cittadini nati dopo il 1° gennaio 1986 ed entrata in vigore
nel 2005.
In
realtà però la chiamata alla leva è stata sospesa, quindi non eliminata in modo
definitivo.
Secondo il nostro ordinamento militare infatti
il servizio di leva può essere nuovamente messo in atto con decreto del
Presidente della Repubblica in caso di mancato raggiungimento del numero di
personale arruolato.
A tal
proposito, il 21 maggio scorso il ministro delle infrastrutture italiano Matteo
Salvini ha presentato alla Camera dei deputati una proposta di legge per
introdurre di nuovo la leva obbligatoria nel nostro Paese:
sei mesi di servizio militare o civile per i
giovani tra i 18 e i 26 anni, da svolgere in Italia, nella propria regione di
appartenenza.
Questa proposta ha riacceso il dibattito sulla
leva obbligatoria e sul coinvolgimento volontario dei giovani in attività non
solo collegate a scopi militari ma anche di protezione civile.
(geopop.it/se-litalia-entrasse-in-guerra-oggi-chi-verrebbe-richiamato-alle-armi-per-essere-arruolato/).
(geopop.it/)
«Equidem
ego ad pacem hortari non desino, quae vel iniusta utilior est quam iustissimum
bellum –Personalmente, non smetto di esortare alla pace, che, per quanto
ingiusta, è sempre meglio della guerra più giusta con i concittadini»
(Cicerone).
Latinorum.it
– Redazione – (11-1-2023) – ci dice:
Riguardo
alla guerra in Ucraina, sempre più frequenti sono gli appelli ad una “pace
giusta”:
«Sosterremo l’Ucraina nel perseguire una pace
giusta», ha affermato il presidente americano Joe Biden, nel corso
dell’incontro alla Casa Bianca con Volodymyr Zelensky.
E ha
poi aggiunto: «Il popolo americano è orgogliosamente a fianco di quello
ucraino.
Gli
Stati Uniti sono dalla sua parte e dalla parte dei cittadini e delle cittadine
coraggiose dell’Ucraina […]
Faremo
quello che serve per portare avanti una strategia di difesa, in particolare di
quella aerea.
Forniremo
ulteriori armi all’Ucraina».
Ideologia
della pace e ideologia della guerra risultano così strettamente collegate, ma
la pace resta palesemente in totale subordine.
I
fautori dell’antico” si vis pacem para bellum” non mancano, al riguardo, di
rifarsi al mondo romano, citando sia l’Epitome sull’arte della guerra di Publio
Flavio Vegezio Renato, sia il ben più famoso Cicerone della VII Filippica;
e
ricordando le riflessioni degli antichi sul concetto della “guerra giusta” e
della giusta difesa armata da parte di chi viene aggredito.
Ben pochi si chiedono quali fossero le posizioni degli
antichi sulla pace, a prescindere dal suo collegamento con la guerra.
Ebbene,
contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, dal mondo antico non ci è
pervenuto alcuno scritto che sviluppi espressamente il tema della pace: probabilmente, ciò è dovuto al fatto
che gli antichi consideravano per così dire normale la condizione dello stato
di guerra e che, conseguentemente, vedendo la pace come una sorta di tregua fra
una guerra e l’altra, non le attribuivano una vera e propria autonomia
concettuale.
In
ogni caso, riflessioni interessanti sull’idea di pace, assieme all’elaborazione
più o meno sistematica di sue concezioni positive, si possono trovare in
diversi momenti di svolta del mondo antico.
Per
quanto concerne la romanità, il periodo del tramonto della Repubblica vede
Cicerone occupare un ruolo di primo piano:
egli ebbe infatti alcune intuizioni originali,
sviluppando considerazioni politiche sulla pace ed elaborando concezioni
teoriche abbastanza nuove.
Dal
complesso dei suoi scritti – pur fra incertezze e ondeggiamenti, sia nelle
prese di posizione politiche, sia nella formulazione del pensiero filosofico
intorno all'idea di pace –, emergono fondamentalmente tre modi di considerare
la pace, riguardanti l'uno la pace del sapiente e gli altri due la pace del
cittadino:
il cittadino inteso come membro della comunità
e in essa impegnato, e il cittadino coinvolto nelle guerre civili.
Tralasciando
la pace del sapiente, gli altri due aspetti del problema riguardano dunque la
pace di Roma con gli altri popoli e la pace in Roma tra i cittadini.
Vero è
che Cicerone, riflettendo sulla natura umana, celebra molto spesso la pace come
prerogativa dell’uomo e condanna la guerra come “bestiale”;
vero è
che, qua e là, soprattutto nelle sue opere filosofiche, si trovano spiragli in
direzione di una visione della pace diversa da quella della sua imposizione con
la forza, ma complessivamente, il rimedio ai mali presenti – nel periodo di
grave crisi sociale e istituzionale in cui si trova a vivere – sembra per lui
consistere prevalentemente in un ritorno al passato, non escluse le guerre
condotte per mantenere i propri impegni o per la propria salvezza:
di
fatto, in una sorta di anticipazione di quello che sarà il pensiero virgiliano
– con l’attribuzione a Roma della missione provvidenziale di instaurare la pace
nel mondo –, per lui è Roma che, in occasione di conflitti, dona la pace agli
avversari, purché si arrendano a lei, ne riconoscano la superiorità morale, ne
accettino la supremazia politica, ne seguano i precetti.
Altrettanto
vero è però che le sue affermazioni sull'importanza dell'impegno politico
civile rispetto a quello militare, sulla preminenza dello strumento della
diplomazia in confronto allo strumento della guerra nei rapporti con gli altri
popoli, sono
segni inequivocabili di una nuova, conquistata, consapevolezza dell'esistenza
di valori superiori a quelli fondati sullo spirito di sopraffazione e di
violenza.
Quasi
certamente a causa del coinvolgimento diretto della popolazione, delle
istituzioni e di Cicerone stesso, il discorso si fa più complesso e
contraddittorio in rapporto ai turbamenti della vita politica interna di Roma,
all’importanza della pace interna fra i cittadini, al rifiuto e al superamento
della guerra civile.
Al riguardo, sono frequentissime le
dichiarazioni dell'oratore di essere, e di essere stato, sempre, nella vita
politica della sua città, auctor pacis, pacis alumnus, defensor pacis:
ma ciò
non gli impedì, sul finire della propria vita, di sostenere la necessità della
guerra civile fra Marco Antonio e Ottaviano, in nome del fatto che la pace non
è accettabile qualora porti con sé la servitus, perché solo se unita alla
libertas, la pace è securitas.
La pace, insomma, deve essere una “pace
giusta”, una pace honesta, garantendo quella sicurezza che solo la libertà può
dare:
una
libertà il cui concetto è peraltro ben diverso da quello odierno, non avendo
quel valore universale che le si attribuisce oggi, ma avendo il compito
squisitamente politico di bilanciare il potere in un equilibrio armonico.
In
ogni caso, Cicerone è stato spesso visto come uno dei più insigni celebratori e
difensori della libertà, tanto da far scrivere già al Leopardi che le sue
Filippiche – ovvero le orazioni contro Marco Antonio degli anni 44/43 – erano
«l’ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov’ella sia difesa e
predicata apertamente» (Zibaldone, 459).
Particolarmente
significativa al riguardo è la già ricordata orazione VII, databile agli inizi
del 43, che testimonia il clima di guerra civile ormai consolidato fra Marco
Antonio e Ottaviano:
c’è
chi vuole trattare con Antonio – dice Cicerone –, c’è chi sostiene che le sue
richieste siano moderate, mi accusano di volere la guerra, sostengono che non
bisognasse irritare Antonio.
Chi
sono costoro?
Sono
quelli che si sono creati la fama di democratici, e che oggi scelgono di essere
non più democratici ma cattivi cittadini.
Nessun
tempo è mai stato tanto decisivo come l’attuale, «e così io, che sono sempre
stato un fautore della pace […] io, che per così dire mi nutro di pace […],
ebbene io, che – ripeto ancora – ho sempre lodato e promosso la pace, proprio
io ora non voglio che ci sia la pace con Marco Antonio.
Perché
dunque non voglio la pace? Perché la pace sarebbe vergognosa, pericolosa,
impossibile […]
E non è che io non voglia la pace, ma ho paura di una
guerra che si nasconda sotto la falsa sembianza di pace:
perciò,
se vogliamo usufruire della pace, bisogna fare la guerra;
perciò, se rinunciamo ora alla guerra, non
usufruiremo mai della pace (Quare, si pace frui volumus, bellum gerendum est; si bellum
omittimus, pace numquam fruemur).
È proprio della vostra saggezza, Senatori, guardare il
più lontano possibile nel futuro» (1, 3- 6,19).
Sennonché,
la varietà delle angolature secondo cui Cicerone, all’interno di tutte le sue
opere, sviluppa considerazioni politiche sulla pace, e la varietà delle
concezioni teoriche espresse dipendono dal fatto che egli si pronuncia sempre
partendo dalla valutazione della situazione politica in cui le sue diverse
posizioni prendono forma: considerando il contesto, sia alla dichiarazione che
l’unica pace possibile sia quella “giusta”, sia alla conseguente affermazione
che, per usufruire della pace, si debba fare la guerra, non si può dunque
attribuire alcun intento o valore universalistico.
Esse
sono fondamentalmente riferite alla situazione contingente:
una
situazione in cui Cicerone, convinto di poterlo manovrare, e sicuro della sua
vittoria, aveva deciso di appoggiare Ottaviano contro Antonio – da lui
considerato un pericolo per la repubblica –, riportandolo sotto la tutela del
Senato.
E mai egli si sarebbe aspettato il voltafaccia
di Ottaviano, che, dopo avere sconfitto Antonio a Modena, aveva stretto con lui
e con Lepido un accordo, dando vita ad un triumvirato, e procedendo ad una
sistematica persecuzione degli oppositori, fra cui lo stesso Cicerone:
un errore di valutazione che gli costò la vita.
A
dimostrazione del fatto che alle affermazioni di Cicerone, al suo ‘inno’ alla
guerra in nome di una pace honesta e sicura, non possono essere riconosciuti
intenti o valori universalistici, essendo esse esclusivamente riferite ad una
situazione contingente, basti ricordare il ben diverso atteggiamento assunto
dallo stesso Cicerone in relazione alle tragiche vicende della guerra civile
fra Cesare e Pompeo: perché, anche ammettendo che, teoricamente, solo se unita
alla libertas, la pace sia per Cicerone in grado di garantire sicurezza, la prassi si
allontana dalla teoria quando una causa, pur se giusta, appare disperata;
quando,
per la disparità delle forze, si dispera della vittoria;
quando,
in una guerra fratricida, la scelta è fra il continuare ad uccidersi e il
sopravvivere; quando, infine, ad essere in gioco sono il proprio futuro e la
propria stessa vita.
Molto
interessanti al riguardo sono le lettere di Cicerone relative a quella prima
guerra civile:
fermo
restando che, se rispetto a vari temi appare sempre segnato da qualche
diversità l’atteggiamento di Cicerone politico e di Cicerone filosofo, non
possono non rilevarsi ulteriori diversità nella dimensione privata di un
epistolario.
Nella
notte fra l’11 e il 12 gennaio del 49 a. C., Cesare attraversa il Rubicone,
dando così ‘ufficialmente’ inizio alla guerra civile;
il 17 gennaio Pompeo fugge da Roma in
direzione di Brindisi, seguito da una parte dei senatori.
Cicerone
parteggia per Pompeo, ma, fin dall’inizio del conflitto, si mostra pieno di
dubbi e di dilemmi, cercando di muoversi per una pacificazione e rimanendo
costantemente incerto sull’ipotesi di offrire la propria partecipazione diretta
alla guerra di Pompeo, come testimoniano le numerose sue lettere all’amico
Attico, nonché quelle allo stesso Pompeo, a Cesare e ad altri.
Peraltro, non va dimenticato il complesso e
controverso rapporto personale che, negli anni, lega Cicerone a Cesare,
rapporto all’interno del quale si comprendono i suoi diversi tentativi di
mediazione.
Che la
guerra potesse assumere dimensioni planetarie pericolose, Cicerone lo capisce
ben presto, non appena assiste alla mossa di Pompeo di lasciare Roma.
È
della fine di gennaio, ad esempio, una sua lettera all’amico Attico (Att. VII,
14), in cui fra l’altro si legge: «Spero che per il momento avremo la pace»; e
ancora: «Personalmente, non smetto di esortare alla pace, che, per quanto
ingiusta, è sempre meglio della guerra più giusta con i concittadini (Equidem ego ad pacem hortari non
desino, quae vel iniusta utilior est quam iustissimum bellum cum civibus)».
Ancora,
alla fine di febbraio dello stesso anno, in una lettera inviata a Pompeo e
trasmessa anche ad Attico (Att. VIII, 11d), Cicerone scrive:
«Credo che tu ricordi quale fu sempre il mio
parere: principalmente, conservare la pace anche se la pace comporta condizioni
inique (Mea
quae semper fuerit sententia, primum de pace vel iniqua condicione
retinenda,…meminisse te arbitror )».
I suoi
dilemmi sono del resto ben chiariti in una lettera scritta sempre all’amico
Attico il 12 marzo (Att. IX, 4), quando Pompeo è ancora a Brindisi, assediato
da Cesare:
Cicerone si chiede se si debba restare in
patria anche quando a reggerla è un tiranno;
se si
debba ad ogni costo cercare di abbattere la tirannide, anche quando ciò
comporti per la patria un rischio mortale;
se chi si propone di abbattere il tiranno
debba però anche salvaguardare se stesso;
se non
sia preferibile soccorrere la patria oppressa con un’azione politica tempestiva
e con la parola, piuttosto che con la guerra;
se si possa considerare come un comportamento
politico l’andarsene lontano dalla patria, anziché affrontare qualunque
pericolo per la libertà;
se ci
si debba comunque arruolare anche se non si approva l’abbattimento del tiranno
attraverso la guerra;
se in
guerra si debba comunque correre tutti i rischi al fianco degli amici e dei
benefattori, anche quando le loro scelte politiche non appaiono condivisibili;
se chi
ha già tanto patito per la patria debba di propria iniziativa esporsi ad
ulteriori rischi, ecc.
Solo
il 7 giugno, Cicerone si imbarcherà per congiungersi con le forze di Pompeo,
ma, di fatto non ci sarà mai un suo coinvolgimento diretto nelle azioni
militari: sarà presente a Durazzo (dove Cesare, dopo alterne vicende, non
riuscì ad avere ragione di Pompeo e fu costretto a desistere dai suoi
propositi, trasferendosi con i suoi in Tessaglia), ma non seguirà Pompeo in
Grecia (dove, nell’estate del 48 ebbe poi luogo il decisivo scontro di Farsalo
fra Cesare e Pompeo).
Dopo
Farsalo, Pompeo si rifugiò in Egitto, dove venne proditoriamente ucciso per
ordine del re Tolomeo, che intendeva con questo ingraziarsi Cesare.
Sarà
Cicerone stesso a descrivere poi questa fase della sua vita, dal momento della
partenza dall’Italia per ricongiungersi a Pompeo, fino al successivo ritorno a
Roma, evidenziando la propria presa di distanza dalla scelta pompeiana di
proseguire nella guerra.
Siamo
nel luglio del 46, e Cicerone scrive all’amico Marco Mario (Fam. VII, 3):
racconta di come, prima di raggiungere Pompeo in Epiro, fosse confuso e
dubbioso sulla decisione da prendere, e non perché si preoccupasse della
propria salvezza personale, ma per le domande che si poneva sull’onore e
sull’opinione pubblica.
Una
volta raggiunto Pompeo – continua – non tardò a pentirsi della propria
decisione:
le
forze di Pompeo erano scarse e poco agguerrite, fra i suoi seguaci c’erano
persone oberate dai debiti e desiderose di saccheggio;
anche se la causa era giusta, lì non c’era
niente di buono, e la cosa migliore da proporre poteva essere solo quella pace
che del resto lui aveva sempre consigliato.
Pompeo
era però sordo ad ogni possibilità di un esito pacifico, e, in alternativa,
Cicerone gli suggerì di portare la guerra alle lunghe il più possibile:
cosa che Pompeo inizialmente accettò, ma poi,
spinto da qualche successo militare, decise di affrettare lo scontro.
Di
fronte alla ineluttabilità di una sconfitta, Cicerone decise di tornare a Roma,
uscendo da una situazione che non gli
offriva altre alternative se non quelle di morire armi alla mano, o cadere in
un'imboscata, o diventare preda del vincitore, condannandosi all'esilio o al
suicidio.
Il destino più tollerabile sarebbe stato
l’esilio, ma Cicerone preferì ad esso scegliere la propria casa e la propria
famiglia.
La sua coscienza – scrive – è pulita, la sua
passione per le lettere e la gloria del proprio nome gli sono di supporto;
non
aveva mai voluto che qualcuno si impadronisse della repubblica; una volta
compresa l’ineluttabilità della sconfitta aveva solo desiderato la pace;
dopo
la sconfitta, si era sempre ostinato a volere la pace, e, vedendo che rimaneva
inascoltato, non gli era rimasto che chiamarsi fuori dalla lotta.
Quanto
a quelli che lo attaccano e che considerano come colpa il fatto che egli sia
vivo, ebbene, la sua morte non sarebbe certo servita alla repubblica («Sunt
enim qui, quum meus interitus nihil fuerit Rei publicae profuturus, criminis
loco putent esse quod vivam»:
non si
rendono conto che già in troppi sono morti, e che, se gli avessero dato
ascolto, quei morti «vivrebbero una pace ottenuta sì a condizioni ingiuste ma
onorevole.
Noi, infatti, non avevamo la forza, ma il
diritto era comunque dalla nostra parte (Quibus ego certo scio non videri
satis multos perisse: qui, si me audissent, quamvis iniqua pace, honesta tamen
viverent. Armis enim inferiores, non causa fuissent)».
Sempre
del 46 è l’epistola ad Aulo Cecina (Fam. VI, 6), di impostazione simile, in cui
si legge:
«È
sorta la causa per la guerra: che cosa ho trascurato, io, sia in consigli che
in lamenti e proteste, quando ho persino anteposto una pace più che iniqua ad
una più che giusta guerra? (Causa orta belli est: quid ego praetermisi aut
monitorum aut querelarum, cum vel iniquissimam pacem iustissimo bello
anteferrem?)».
C’è
chi ha notato come, nel rievocare in queste ultime due lettere la difficile e
complessa situazione, Cicerone appaia per così dire reticente, e, soprattutto,
come egli cerchi di giustificare il proprio comportamento, sottraendolo ad ogni
accusa di incoerenza e opportunismo;
e c’è
chi ha asserito che il suo convincimento pacifista sconfini pericolosamente in
un comodo disimpegno:
sennonché,
non solo l’idea che, nella situazione specifica, anche una pace iniqua fosse
preferibile alla guerra è espresso fin dall’inizio della guerra civile, ma
soprattutto non va dimenticato che –
come si è già detto – le considerazioni politiche di Cicerone (sulla pace, ma
non solo) sono sempre strettamente connesse alle sue valutazioni sulla
situazione politica del momento, e, pur considerando l’aspetto umano e personale delle
sue lettere agli amici, pur non sottovalutando le istanze di auto rappresentazione
in esse celate, nelle sue parole non è difficile riconoscere innanzitutto il
pragmatismo che in ambito politico lo caratterizza e lo caratterizzerà per
tutta la vita.
Due
guerre civili, due diverse valutazioni sugli schieramenti e sulle possibilità
di vittoria, due posizioni politiche diverse:
da un
lato, le ripetute esortazioni alla pace, che, per quanto ingiusta, è sempre
meglio della guerra più giusta; dall’altro, le esortazioni alla guerra in nome
della pace.
Da un lato, la convinzione – poi dimostratasi
corretta – che la causa di Pompeo fosse perdente;
dall’altro,
un errore di valutazione sulle forze in campo, sulle persone, sulle possibili
alleanze, e conseguentemente sui rischi effettivi:
e le
sue scelte ‘pragmatiche’, basate sull’errore, si rivelarono necessariamente, in
quel frangente, come scelte sbagliate.
Va da
sé che, così come è erroneo attribuire valore universalistico alla frase della
VII Filippica «si pace frui volumus, bellum gerendum est», ed è fuorviante considerarla come
espressione del pensiero filosofico-politico di Cicerone, altrettanto sbagliato
e fuorviante
sarebbe ‘generalizzare’ le sue
affermazioni sulla necessità di anteporre «una pace più che iniqua ad una più
che giusta guerra», e fare di Cicerone un fautore del ‘pacifismo’, o, peggio
ancora, accusarlo di incoerenza, opportunismo, disimpegno, tacciando di falsità
il suo preteso pacifismo.
Ma
sbagliato sarebbe anche non tener conto di come – a fronte di dubbi, incertezze
e timori sulle forze politiche in campo, sulle persone coinvolte, sugli esiti
del conflitto, sul debito di vite umane da pagare, sulle scelte non
condivisibili operate dai contendenti – Cicerone, spesso considerato
riferimento culturale e modello politico da imitare si schieri pragmaticamente
a favore della pace, quale che essa sia.
In
ogni caso, a prescindere dalla indispensabile contestualizzazione delle
dichiarazioni ciceroniane, a prescindere dal suo pragmatismo e dai possibili
errori di valutazione e di scelte, a prescindere infine dalla veridicità o meno
del suo convincimento pacifista in relazione alla guerra civile fra Cesare e
Pompeo, le
sue parole sulla pax iniusta o iniqua o iniquissima, comunque preferibile anche
alla guerra più giusta, furono riprese, nel Cinquecento, da un pensatore
considerato a pieno titolo come il primo pacifista dell’Europa moderna, ovvero”
Erasmo da Rotterdam”.
Per
Erasmo, la pace è il pensiero dominante fin dal 1504, come si evince dal suo
Panegyricus ad Philippum Austriae ducem (Panegirico a Filippoduca d’Austria)
pubblicato appunto in quell’anno , in cui, fra le altre cose, la guerra è definita come un gioco
concertato dai potenti per mantenere la propria tirannia.
Nel
1511 esce l’Encomium morae (Elogio della follia), in cui si afferma che la
guerra è «opera di parassiti, lenoni, ladri, sicari, contadini, imbecilli,
falliti, tutta quanta insomma la feccia della società» (XXV).
Del 1514 è una lettera ad Antonio di Bergen
(P. S. Allen, Opus Epistolarum Des. Erasmi Roterodami, vol. I, Lettera n. 288,
Oxford 1906, pp. 551-554), in cui si legge: «pensa ancora quanti crimini si
commettono col pretesto della guerra, quando le buone leggi tacciono nello
strepito delle armi: quante rapine, quanti sacrilegi e rapimenti e altre azioni
infami, da vergognarsi soltanto a nominarle. Questo sfacelo morale dura per
molti anni, anche quando la guerra è finita. Calcola, ora, quanto costa la
guerra: anche se si vince, il danno supera sempre il guadagno. Come si può
stimare che la vita e il sangue di tante migliaia di uomini valgano un regno? E
poi, la maggior parte delle sciagure ricade su chi alla guerra non è affatto
interessato. I vantaggi della pace, invece, toccano tutti. In guerra, quasi
sempre, piange anche chi riporta la vittoria».
Del
1515 è il testo definitivo del Dulce bellum inexpertis (Dolce è la guerra per chi non l’ha
vista in faccia), negli Adagia (Proverbi) insieme ad altri scritti contro la guerra.
Nel
1517 è pubblicata la Querela pacis, undique gentium eiectae profligataeque (Lamento – ma anche denuncia, protesta
– della pace scacciata e respinta da tutte le nazioni), ecc.
Erasmo
scrive la Querela pacis nel 1516, in vista della conferenza di Cambrai, volta a
stringere vincoli di pace tra Francia, Spagna e Impero:
i destinatari immediati – coloro che si cerca
di convincere – sono i principi, i principi cristiani, dal cui potere può
derivare la pace.
Ma
l’opuscolo, col suo accorato appello a dar voce alla pace, offre anche una
sintesi di quella che, sulla pace, è la costante riflessione di Erasmo: un pacifismo che sottende la sua
intera attività, e che si lega strettamente al suo progetto di promozione della
cultura, rigenerata dal messaggio cristiano, come lotta contro la violenza e il
fanatismo.
«Già
da un pezzo – leggiamo – sento le scuse di uomini con la disposizione naturale
a far danno a sé stessi.
Lamentano di essere costretti e trascinati in
guerra a loro dispetto.
Togliti
quella maschera, elimina il belletto, interroga il tuo cuore.
Troverai
che a trascinarti furono l’ira, l’ambizione, la follia, non la necessità. […] E
intanto si tengono solenni suppliche, s’invoca la pace a gran voce, si alza un
grido immenso:
“Donaci la pace, t’imploriamo. Ascoltaci”.
Non
potrebbe Dio rispondere loro, a buon diritto, “Perché mi prendete in giro? Mi
chiedete di allontanare ciò che voi stessi chiamate volontariamente a voi?
Deprecate ciò che da voi stessi vi siete procurato?”
Se
un’offesa qualsiasi genera una guerra, chi mai non avrà di grazia motivo di
lamentarsi? […]
Esistono
le leggi, esistono uomini eruditi, venerandi abati, reverendi vescovi, grazie
alla cui salutare saggezza la contesa potrebbe essere ricomposta.
Perché
non scegliere piuttosto costoro come arbitri?
Ché di
sicuro non si potrebbe trovarne di così dannosi da non risolvere la questione
con un danno minore del ricorso alle armi.
Quasi
nessuna pace è così ingiusta da non essere preferibile anche alla più giusta
delle guerre (Vix ulla tam iniqua pax, quin bello vel aequissimo sit potior).
Valuta
prima attentamente cosa richiede o comporta una guerra, e capirai quale
guadagno te ne deriverà (XVIII-XIX).
[…] Se poi la guerra è inevitabile, sia
condotta in modo tale che la maggior parte dei mali ricadano sulla testa di
coloro che l’hanno causata.
Ora i
principi combattono al sicuro, i comandanti aumentano di grado, la massima
parte dei mali si riversa sui contadini e sulla plebe, che con la guerra non
hanno a che fare e non ne sono in alcun modo responsabili (XX). […]
Pretesti
di guerra vanno stroncati immediatamente.
Su
qualcosa si deve cedere, la condiscendenza indurrà ad essere condiscendenti.
Qualche volta la pace va comprata.
Se dal
prezzo toglierai le risorse consumate dalla guerra e le vite dei cittadini
risparmiate, la pace sembrerà comprata a poco prezzo anche se pagata molto, dal
momento che, oltre al sangue dei tuoi sudditi, molto di più avresti dovuto
spendere per la guerra.
Fai il
conto di quanti mali hai evitato e di quanti beni hai protetto, e non ti
rincrescerà la spesa (XXI,5).
[…]
Che se poi la pace ti sembrerà avere qualcosa di ingiusto, guardati dal pensare
“perdo questo”, ma pensa piuttosto “questo è il prezzo della pace” (XXVI)».
Putin
respinge le accuse secondo cui Mosca
starebbe
pianificando un attacco alla NATO
come
allarmismo da parte dei falchi della guerra.
Naturalnews.com – (10/6/2024) - Richard Brown –
ci dice:
Il
presidente russo Vladimir Putin ha respinto le accuse secondo cui Mosca
starebbe pianificando un attacco all'Organizzazione del Trattato del Nord
Atlantico (NATO) come una presunta debole tattica dei falchi della guerra
occidentali per sostenere il loro dominio attraverso l'allarmismo.
Parlando
ai leader delle principali agenzie di stampa al” Forum economico internazionale
di San Pietroburgo”, Putin ha deriso l'idea che la Russia nutra tali intenzioni
come ridicole e mirate a manipolare le popolazioni occidentali per rafforzare
le forniture di armi all'Ucraina.
Putin
si è fatto beffe di questa idea, mettendo in dubbio la sanità mentale di coloro
che propagano tali affermazioni e insinuando che siano guidati da secondi fini.
Ha sostenuto che queste narrazioni servono a
mantenere il senso di superiorità delle potenze occidentali, in particolare in
paesi come la Germania e la Francia, mentre la Russia cerca semplicemente di
proteggere i propri interessi in Ucraina.
"Non
fatevi un'immagine della Russia come un nemico", ha detto Putin.
"Avete
inventato che la Russia vuole attaccare la NATO. Hai perso completamente la
testa? Chi l'ha inventato? È spazzatura. È un'assurdità assoluta".
Nel
corso dell'ampia discussione, Putin ha ribadito le ragioni alla base del
coinvolgimento della Russia in Ucraina, citando il colpo di stato e la
rivoluzione colorata del 2014 sostenuti dagli Stati Uniti, le azioni del
governo di Kiev contro la maggioranza della popolazione etnica russa della
regione del Donbas e l'inefficacia del processo di pace di Minsk.
Ha sostenuto che il coinvolgimento americano in
Ucraina non deriva da una genuina preoccupazione per il suo popolo, ma dal
desiderio di affermare il dominio sulla scena globale.
Putin
ha affermato che la Russia non ha intenzione di invadere l'Europa, ma ha
avvertito di potenziali ritorsioni contro gli Stati Uniti e i suoi alleati per
aver armato l'Ucraina con armi avanzate.
Ha
accennato alla possibilità di fornire armi simili agli avversari dell'Occidente
in regioni strategicamente significative in risposta.
Inoltre,
Putin ha sottolineato la necessità per il pubblico occidentale di valutare
criticamente le informazioni che riceve e ha messo in guardia dal formarsi
opinioni sulla Russia sulla base di affermazioni infondate.
Ha
esortato a una comprensione più sfumata della situazione, evidenziando le
complessità del panorama geopolitico e il contesto storico dietro le azioni
della Russia.
Putin:
l'Ucraina perde circa 50.000 soldati al mese.
Mentre
il conflitto in Ucraina entra nel suo terzo anno, Putin ha affermato che le
vittime russe sono state significativamente inferiori a quelle dell'Ucraina,
citando cifre che suggeriscono una perdita mensile di circa 50.000 soldati
ucraini.
Tuttavia,
persistono rapporti contrastanti sulle vittime, con il presidente ucraino “Volodymyr
Zelensky” che afferma che solo 31.000 militari ucraini sono stati uccisi entro
febbraio di quest'anno.
Fonti di intelligence occidentali suggeriscono
che la cifra effettiva potrebbe essere più alta.
L'Ucraina ha anche affermato di aver ucciso,
ferito o catturato oltre 500.000 soldati russi.
Putin
ha rivolto critiche specifiche alla Germania per la sua fornitura di armi
all'Ucraina, evidenziando lo shock morale ed etico all'interno della società
russa alla vista dei carri armati tedeschi sul suolo ucraino.
Ha
lamentato il potenziale deterioramento delle relazioni russo-tedesche, in
particolare alla luce della decisione della Germania di consentire l'uso di
missili forniti dalla Germania all'Ucraina, mirati a obiettivi all'interno del
territorio russo per difendere la città di Kharkiv, situata a sole 12 miglia
dal confine russo.
"Se
volete fermare le ostilità in Ucraina, smettete di fornire armi", ha detto
Putin.
Joe
Rogan appoggia la filosofia utopica globalista
comunista con l'elargizione del reddito
di
base alle masse che non dovranno
lavorare.
Naturalnews.com
– (09/06/2024) - Belle Carter – ci dice:
Il
commentatore americano “Joe Rogan” ha sostenuto una teoria utopica comunista,
in base alla quale gli americani che perdono il lavoro a causa dell'avvento
dell'intelligenza artificiale e di altri progressi tecnologici, riceveranno una
notevole quantità di denaro gratuito attraverso un sistema di reddito di base
universale (UBI).
Ha
suggerito l'importo di $ 200.000 all'anno a persona.
Il
reddito di base è un concetto di programma governativo in cui ogni cittadino
riceve regolarmente una determinata somma di denaro.
Gli
obiettivi di un sistema di reddito di base sono quelli di alleviare la povertà
e sostituire altri programmi sociali basati sui bisogni che potenzialmente
richiedono un maggiore coinvolgimento burocratico.
In un
recente episodio di "Joe Rogan Experience", si è seduto con “Billy
Carson”, autore e fondatore e CEO della rete televisiva in streaming”
4BiddenKnowledgeTV”.
I due
hanno affrontato il rapido tasso di intelligenza artificiale nei media e il
modo in cui i robot potrebbero prendere il posto di lavoro degli americani.
"Hanno
appena rilasciato questo ChatGPT e altri strumenti di robotica sull'umanità, il
che è fantastico. Farà molto bene per noi", ha continuato “Carson”.
"Ma
allo stesso tempo, se hai intenzione di sostituire il lavoro di qualcuno, devi
togliergli le responsabilità finanziarie.
Non
puoi aspettarti che abbiano ancora le responsabilità finanziarie e tolgano il
lavoro, quindi questo sarà il dilemma.
Sto
aspettando di vedere come andrà a finire".
“Rogan”
ha risposto dicendo che le persone non dovrebbero preoccuparsi perché ci sono
abbastanza soldi nel paese per sostenere coloro che perdono il lavoro a causa
del progresso tecnologico.
"Immaginate
che l'intero paese riceva solo 200.000 dollari gratuiti all'anno [a persona];
Non dovrai mai preoccuparti del cibo.
Non dovrai mai preoccuparti di un posto dove
vivere.
Sei
bravo", ha detto nel podcast.
"Hai
200.000 dollari all'anno perché tutto è automatizzato e tutto è fatto dal
governo, poi dovrai trovare qualcosa.
Dovrai
trovare uno scopo".
Il
podcast ha suggerito che i salari gratuiti potrebbero dare alle persone la
libertà di esplorare le loro vere passioni, che si tratti di arte, altre aree
della creatività o continuare a lavorare.
«Non sarebbe meglio del lavoro?» disse.
"Perché
per la maggior parte delle persone c'è una grande soddisfazione nel lavorare e
nel portare a termine una dura giornata di lavoro.
Ricevi il tuo stipendio e ti senti come se
avessi realizzato qualcosa".
Ha
inoltre insinuato che con questo approccio, le persone otterranno denaro gratis
perché i robot controllano tutto.
"Niente
più posti di lavoro", ha detto.
"I
responsabili delle industrie del futuro non dovrebbero pagare uno stipendio a
questi robot, ma solo i costi di riparazione e i costi di gestione".
Nel
frattempo, i critici ritengono che “Rogan”, il cui “podcast” vanta 14,5 milioni
di abbonati su “Spotify”, abbia delineato una visione che è essenzialmente l'”utopia
comunista” (ora globalista) raffigurata nel popolare franchise di fantascienza “Star
Trek”, dove il capitalismo e il denaro sono stati aboliti e il problema della
scarsità di risorse è stato superato.
Il
padrino dell'IA sostiene l'UBI al governo del Regno Unito
Il
rinomato esperto di tecnologia “Geoffrey Hinton”, lo scienziato informatico che
è stato etichettato come il "padrino" dell'intelligenza artificiale
(AI), ha raccomandato al governo britannico di prendere in considerazione
l'adozione di un reddito di base per i britannici adulti.
"Sono
stato consultato da persone a Downing Street e ho detto loro che il reddito di
base era una buona idea", ha detto Hinton alla BBC.
Secondo lui, la rivoluzione dell'intelligenza
artificiale andrà a beneficio soprattutto dei ricchi.
I dipendenti regolari, come gli operai e
quelli che svolgono lavori che possono essere automatizzati, potrebbero perdere
i loro mezzi di reddito.
"Questo sarà un male per la
società", ha avvertito “Hinton”.
Ha
detto di temere che l'IA possa diventare una minaccia a livello di estinzione
per gli esseri umani nei prossimi 5-20 anni.
Ha
messo in guardia sul crescente uso di “chatbot AI”, dicendo che "una forma
di questo è semplicemente migliore dell'intelligenza biologica".
“Hinton”
ha anche sottolineato che la competizione per sviluppare rapidamente i prodotti
significava che c'era il rischio che le aziende tecnologiche "possano decidere autonomamente di
uccidere le persone" aumentando la loro dipendenza dall'intelligenza artificiale.
(Infatti il
miliardario” Elon Musk” afferma che l'IA finirà per sostituire quasi tutti i
lavoratori umani.)
Secondo
gli analisti, sarebbe estremamente costoso e sottrarrebbe fondi ai servizi
pubblici, senza necessariamente contribuire ad alleviare la povertà.
Nel
frattempo, un portavoce del governo britannico ha dichiarato che "non ci
sono piani per introdurre un reddito di base universale".
“Hinton”
è il pioniere delle reti neurali, che costituiscono la base teorica
dell'attuale esplosione dell'intelligenza artificiale.
Lavorava a “Google”, ma ha lasciato il gigante
della tecnologia per poter parlare più liberamente dei pericoli dell'“IA non
regolamentata”.
Proprio
come il micidiale vaccino a mRNA,
il
nuovo” DIGITAL I.D”. non è ancora obbligatorio, ma lo sarà molto presto.
Naturalnews.com – (10/6/2024) - S.D. Wells –
ci dice:
Tutto
ciò che riguarda la pandemia riguarda l'iniezione di miliardi di persone con
miliardi di prioni proteici mortali, incluso l'ID digitale quasi obbligatorio.
Ti
piace il tuo diritto di viaggiare?
Possono
essere facilmente portati via.
Ti
piacciono i tuoi diritti di essere curato in ospedale per malattia o
infortunio? Anche questo può esservi facilmente tolto.
Ti
piace avere soldi in un conto di risparmio, 401k o conto pensionistico?
Anche
questo può essere "chiuso" come un rubinetto controllato dai
globalisti. Preparatevi all'arrivo dell'ID digitale apparentemente obbligatorio
come un ago pieno di veleno.
L'ID
digitale dello stato di polizia consente ai “democratici comunisti” di
congelare tutto il denaro, imporre lockdown permanenti e iniettare forzatamente
i prioni nelle masse.
L'ID
digitale dello stato di polizia renderà maturo per i federali sequestrare tutti
i tuoi soldi o "congelarli" per scopi di "emergenza
nazionale".
Potrebbe
trattarsi di qualsiasi cosa il “regime di Biden” metta in scena o causi, come
un massiccio scenario di griglia, una "insurrezione" del 2 gennaio o
la terza guerra mondiale.
"I
soldi nei vostri conti bancari saranno usati per salvare l'America", ci
verrà detto a tutti (o almeno a tutti i conservatori del paese).
Questo è uno dei motivi principali per cui
l'ID digitale sarà presto "obbligatorio", o almeno sembra che lo sia.
Avrai
bisogno del tuo ID digitale dello “stato di polizia” per presentarti al lavoro
(a meno che l'intelligenza artificiale non ti abbia rubato il lavoro),
viaggiare ovunque all'estero (o non sarai in grado di tornare negli Stati
Uniti), fare benzina (ciò che ne rimane), fare la spesa (se ce ne sono) e
utilizzare i bancomat (che magicamente non funzioneranno).
L'ID
digitale dello Stato di polizia sostituisce il "passaporto vaccinale"
che il regime Biden e l'”Organizzazione mondiale della sanità” hanno così
disperatamente cercato di installare in tutto il mondo.
L'ID digitale dello Stato di Polizia
utilizzerà scanner facciali, scanner oculari, scanner manuali, scanner di
impronte digitali e qualsiasi altra cosa che impedisca a chiunque di
imbrogliare il sistema comunista globalista.
Questo
assicurerà che ogni zombie sottoposto a lavaggio del cervello e cerebralmente
morto venga vaccinato con milioni di prioni tossici all'anno (o forse anche
trimestralmente), quindi il sogno globalista di “Bill Gates” filantropo di
ridurre la popolazione mondiale di diversi miliardi di persone facendo un
"ottimo lavoro con i vaccini" si realizza in pieno.
L'ID
digitale dello stato di polizia cancella istantaneamente il valore del
contante, in modo che chiunque abbia denaro di cui il governo comunista
americano non è a conoscenza, non possa sopravvivere usandolo.
Nessun
baratto del mercato nero per te.
Molto
probabilmente diventerà anche illegale utilizzare metalli preziosi, come oro o
argento, per il baratto.
I federali dovranno controllare anche questo.
L'ID
digitale dello stato di polizia consente al governo criminalizzato di sapere
esattamente dove ti trovi in ogni momento, per cosa stai spendendo soldi e
quanto.
Questo
è vitale per il comunismo globalista, poiché il governo deve sapere se stai
comprando armi, munizioni o qualsiasi altra cosa che puoi usare per proteggere
la tua famiglia, la tua terra e le tue risorse durante la grande conquista
della Repubblica.
I
proprietari terrieri con armi automatiche possono salvare l'America.
Vedete,
la più grande minaccia per il regime di Biden (o come si chiama quando gracchia
o non riesce a ricordare chi è), sono i conservatori che possiedono vaste aree
di terra e hanno armi automatiche, granate e altre armi vitali provenienti da
guerre, spettacoli di armi e frenesia di acquisto di armi durante i tentativi
di accaparramento delle armi da parte di Obama e Biden.
Immaginate la ribellione del “Bundy Ranch”
moltiplicata per un milione.
L'ID
digitale dello Stato di polizia aiuterebbe il regime di Biden a sapere quali
ranch invadere per primi, utilizzando l'FBI, il DHS, la CIA e altre
"agenzie" di 3 lettere del “Nuovo Ordine Mondiale”.
E ora
le élite si
mettano
in gioco
Gognablog.sherpa-gate.com
– (15 Gennaio 2019) - Alessandro Baricco – ci dice:
(Repubblica
del 10 gennaio 2019)
Parole
più semplici contro parole difficili.
Maggioranza
povera contro minoranza ricca. Risposte facili contro ragionamenti complessi.
Risentimento
contro impotenza. Ecco come il mondo si è diviso e come l’era digitale ha
amplificato la rabbia di chi non si sente parte del “Game”.
E come
uscirne vivi.
E ora
le élite si mettano in gioco.
“There
Is No Alternative (Margaret Thatcher)”
Dunque,
riassumendo:
è
andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha
deciso di fare da sola.
Non è
proprio un’insurrezione, non ancora.
È una
sequenza implacabile di impuntature, di mosse improvvise, di apparenti
deviazioni dal buon senso, se non dalla razionalità.
Ossessivamente,
la gente continua a mandare – votando o scendendo in strada – un messaggio
molto chiaro: vuole che si scriva nella Storia che le élites hanno fallito e se ne
devono andare.
Come
diavolo è potuto succedere?
Capiamoci
su chi sono queste famose élites.
Il medico, l’insegnante universitario,
l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della
vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di
successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli
d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna,
tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri:
potrei
andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti.
I
confini della categoria possono essere labili, ma insomma, le élites sono loro,
son quegli umani lì.
(Alessandro
Baricco)
Sono
pochi (negli Stati Uniti sono uno su dieci), possiedono una bella fetta del
denaro che c’è (negli Stati Uniti hanno otto dollari su dieci, e non sto
scherzando), occupano gran parte dei posti di potere.
Riassumendo: una minoranza ricca e molto
potente.
Osservati
da vicino, si rivelano essere, per lo più, umani che studiano molto, impegnati
socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti.
I
soldi che spendono li hanno in parte ereditati, ma in parte li guadagnano ogni
giorno, facendosi un mazzo così.
Amano
il loro Paese, credono nella meritocrazia, nella cultura e in un certo rispetto
delle regole.
Possono essere di sinistra come di destra.
Una
sorprendente cecità morale – mi sento di aggiungere – impedisce loro di vedere
le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono.
Dormono dunque sereni, benché spesso con l’ausilio di psicofarmaci.
Forti
di questo andare per il mondo vivono in un habitat protetto che ha poche
interazioni con il resto degli umani:
i quartieri in cui vivono, le scuole a cui
mandano i figli, gli sport che praticano, i viaggi che fanno, i vestiti che
indossano, i ristoranti in cui mangiano:
tutto,
nella loro vita, delimita una zona protetta all’interno della quale quei
privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono
estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi.
Da
quell’elegante parco naturale, tengono per i coglioni il mondo.
Oppure,
volendo: lo tengono in piedi. Se non addirittura: lo salvano.
Ultimamente
ha preso piede la prima versione.
Ed è
lì che è saltato quel tacito patto di cui parlavamo, e che descriverei così:
la gente concede alle élites dei privilegi e
perfino una sorta di sfumata impunità, e le élites si prendono la
responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio
per tutti vivere.
Tradotto
in termini molto pratici descrive una comunità in cui le élites lavorano per un
mondo migliore e la gente crede ai medici, rispetta gli insegnanti dei figli,
si fida dei numeri dati dagli economisti, sta ad ascoltare i giornalisti e
volendo crede ai preti.
Che piaccia o no, le democrazie occidentali
hanno dato il meglio di sé quando erano comunità del genere: quando quel patto
funzionava, era saldo, produceva risultati.
Adesso
la notizia che ci sta mettendo in difficoltà è: il patto non c’è più.
Ha
iniziato a traballare una ventina d’anni fa, ora si sta sbriciolando.
Lo sta
facendo più in fretta dove la gente è più sveglia (o esasperata):
l’Italia, ad esempio.
La
gente qui ha iniziato a non fidarsi neanche più dei medici, o degli insegnanti.
Quanto al
potere politico, prima lo ha affidato a un super-ricco che odiava le élites
(trucco che poi gli americani avrebbero copiato), poi ha provato un’ultima
volta con Renzi, scambiandolo per uno che non c’entrava con le élites: alla
fine ha decisamente stracciato il patto e se n’è andata direttamente a
comandare.
Cos’è
che li ha fatti così arrabbiare?
Una
prima risposta è facile: la crisi economica.
Intanto
le élites non l’avevano prevista.
Poi
hanno tardato ad ammetterla. Infine, quando tutto ha iniziato a franare, hanno
messo al sicuro se stesse e hanno rimbalzato i sacrifici sulla gente.
Possiamo
dire, ripensando alla crisi del 2007-2009 che sia accaduto veramente questo?
Non lo
so con certezza, ma è vero che la percezione della gente è stata quella.
Dunque, superata l’emergenza, la gente si è presentata a regolare i conti, per
così dire.
È
andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi:
il
reddito di cittadinanza, o il cancellamento delle cartelle di Equitalia, non
sono altro che quello.
Non
sono politica economica o visioni del futuro: sono riscossione crediti.
La
seconda ragione è più sofisticata e l’ho veramente capita solo quando mi son
messo a studiare la rivoluzione digitale e ho scritto “The Game”.
La
riassumerei così.
Tutti
i device digitali che usiamo quotidianamente hanno alcuni tratti genetici
comuni che vengono da una certa visione del mondo, quella che avevano i
pionieri del “Game”.
Uno di
questi tratti è decisamente libertario: polverizzare il potere e distribuirlo a
tutti.
Tipico
esempio:
mettere
un computer sulla scrivania di tutti gli umani.
Potendo,
nelle tasche di ogni umano. Fatto.
Non va
sottovalutata la portata della cosa.
Oggi,
con uno smartphone in mano, la gente può fare, tra le altre cose, queste
quattro mosse:
accedere
a tutte le informazioni del mondo, comunicare con chiunque, esprimere le
proprie opinioni davanti a platee immense, esporre oggetti (foto, racconti,
quello che vuole) in cui ha posato la propria idea di bellezza.
Bisogna essere chiari:
questi
quattro gesti, in passato, potevano farli solo le élites.
Erano
esattamente i gesti che fondavano l’identità delle élites.
Nel
Seicento, per dire, erano forse qualche centinaio le persone che in Italia
potevano farli.
Ai
tempi di mio nonno, forse qualche migliaio di famiglie.
Oggi? Un italiano su due ha un profilo
Facebook, fate voi.
Così –
occorre capire – il “Game” ha abbattuto delle barriere psicologiche secolari,
allenando la gente a sconfinare nel terreno delle élites e togliendo alle
élites quei monopoli che la rendevano mitologicamente intoccabile.
È
chiaro: da lì in poi la situazione prometteva di diventare esplosiva.
Non sarebbe forse successo niente se non fosse
per un altro tratto del “Game”, una sua imprecisione fatale.
Il “Game” ha ridistribuito il potere, o almeno
le possibilità: ma non ha ridistribuito il denaro.
Non c’è nulla, nel “Game”, che lavori a una
ridistribuzione della ricchezza.
Del
sapere, della possibilità, dei privilegi, sì.
Della
ricchezza, no.
La dissimmetria è evidente. Non poteva che
ottenere, alla lunga, una rabbia sociale che è dilagata silenziosamente come
un’immensa pozzanghera di benzina.
Devo
aver già detto che poi la crisi economica ci ha tirato un fiammifero dentro.
Acceso.
Dopo,
quel che è successo lo sappiamo.
Ma non
sempre lo vogliamo veramente sapere. Riassumo io, per comodità.
La
gente, senza perdere un certo aplomb, si è recata a prendere il potere;
perfino
in modo composto, ma con una sicurezza di sé e un’assenza di timore
reverenziale che da tempo non si vedeva.
Lo ha
fatto, per lo più, votando. Cosa?
Il
contrario di quello che suggerivano le élites. Chi?
Chiunque
non facesse parte delle élites o fosse odiato dalle élites.
Quali idee?
Qualsiasi
idea che fosse l’opposto di cosa avevano in mente le élites.
Semplice, ma efficace.
Posso fare un esempio sgradevole che però
riassume bene la situazione?
L’Europa.
Quella
dell’unità europea è chiaramente un’idea forgiata dalle élites.
Di
certo non l’ha chiesta la gente, scendendo in strada e invocandola a gran voce.
È un’intuizione di pochi illuminati che si può facilmente spiegare così:
spaventata
da cosa era riuscita a combinare nel ‘900, e incalzata dalle due grandi potenze
americana e sovietica, l’élite europea ha capito che le conveniva piantarla lì
con questa lotta selvaggia e secolare, tirare giù le frontiere e formare
un’unica forza politica ed economica.
Naturalmente non era un piano di facilissima
realizzazione.
Per secoli l’élite aveva lavorato a costruire
il sentimento nazionalista, di cui aveva avuto bisogno per affermarsi, e
perfino l’odio per lo straniero, che le era stato utile quando si era trattato
di picchiare:
adesso
bisognava smontare tutto, e invertire il senso di marcia.
Prima
le erano serviti milioni di soldati, adesso le servivano milioni di pacifisti.
Gente che aveva da poco finito di sgozzarsi l’un l’altro con la baionetta in
mano avrebbe dovuto trasformarsi in un unico popolo, con una moneta comune e
un’unica bandiera: non proprio una passeggiata.
Per
questo, con indubbia abilità, l’élite impose un modello di unità europea che
potremmo definire ad alta drammaticità:
una
volta fatta, l’unità doveva diventare irreversibile.
Bruciarono
le navi alle spalle, per evitare che alla gente (o magari anche alle frange
dissidenti delle élites) potesse venire voglia di tornare indietro.
Non lo
avrebbero fatto perché era tecnicamente impossibile farlo.
Se alla gente veniva qualche dubbio, il metodo
era la pazienza:
su” Le
Monde Diplomatique” (non esattamente un organo di informazione populista) mi è
accaduto di leggere, recentemente, una bel riassuntino che mi permetto di
copiare e incollare qui:
“Nel
1992, i Danesi hanno votato contro il trattato di Maastricht: sono stati
obbligati a tornare alle urne.
Nel
2001 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Nizza:
sono
stati obbligati a tornare alle urne.
Nel
2005 i Francesi e gli Olandesi hanno votato contro il trattato costituzionale
europeo (Tce): gliel’hanno poi imposto con il nome di Trattato di Lisbona.
Nel
2008 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Lisbona:
sono
stati obbligati a tornare alle urne.
Nel
2015, il 61,3% dei Greci ha votato contro il piano di austerità di Bruxelles:
gli è
stato inflitto lo stesso”.
Impressionante
litania, bisogna ammetterlo. Dice che un piano B non c’era.
“
There Is No Alternative”.
Il
tratto limpidamente elitario dell’Europa Unita si è rafforzato quando, fatta
l’Europa, si è sedimentato il sistema di potere europeo:
le
istituzioni, gli organi di governo, e perfino le personalità deputate a
governare. Difficile immaginare qualcosa che renda meglio l’idea di un’élite
magari sapiente ma lontana, irraggiungibile, detentrice di ragioni e numeri
incomprensibili, e scarsamente consapevole della vita reale della gente.
Non è
escluso che nel frattempo facciano anche molte cose a favore della gente: ma
certo la loro prima funzione sembra essere quella di ricordare in modo
definitivo che il pianoforte c’è chi lo suona e chi lo porta su per le scale, e
a suonarlo, qui, è l’élite.
Così,
nell’istante in cui ne ha avuto basta del patto, la gente si è voltata verso di
loro, subito:
l’Europa era il simbolo più evidente, era il
bersaglio immediatamente visibile all’orizzonte.
Aveva un’aura di invincibilità che però, si è
scoperto il giorno dopo il referendum sulla Brexit, funzionava solo per le
élites:
per
gli altri cittadini del “Game”, l’incantesimo si era spezzato.
Potremmo
dire, alla luce di tutto questo, che la gente è contro l’Europa?
No,
non potremmo veramente dirlo.
Contro questa Europa, piuttosto, contro l’Europa come
simbolo del primato delle élites, questo sì.
Antieuropeista,
oggi, significa più che altro anti-élite.
Circola
già la formuletta buona: l’Europa dei popoli.
Non
vuole dire niente ma vuol dire una cosa chiarissima: non è l’unità in sé che
vogliamo spezzare, è l’unità voluta e gestita in quel modo dalle élites.
L’Europa
è solo un esempio.
Quel
che sto cercando di dire è che soppesare l’opportunità di tutto ciò che la
gente oggi sembra volere (che sia il ritorno alla Lira come la gogna della
Società Autostrade o la libertà sui vaccini) è una perdita di tempo se non si
legge in filigrana l’unica cosa che davvero la gente vuole:
liberarsi delle élites.
Il
punto è quello, ed è lì che si ci si deve chinare e osservare bene, per quanto
faccia schifo, o paura, o fatica.
Perché è in quel preciso punto che si gioca
una battaglia decisiva per il nostro futuro.
La
prima cosa che accadrà di notare, volendo davvero andare a guardare là dentro,
è come si è mossa l’élite una volta che si è trovata sotto attacco.
Si è
irrigidita nelle proprie certezze allestendo rapidamente una narrazione che
mettesse le cose a posto:
la
gente si era bevuta il cervello, probabilmente manovrata da una nuova
generazione di leader privi di responsabilità, disposti a giocare sporco, e
furbi nel rivolgersi alla pancia dei cittadini dribblandone l’eventuale
intelligenza.
Termini vaghi e inesatti come” fake news”, “populismo”,
se non addirittura “fascismo”, sono stati ingaggiati per veicolare meglio il
messaggio a etichettare sommariamente gli insorti.
Sullo sfondo, una certezza:
“There
Is No Alternative”, ripetuta come un mantra, coltivata come un’ossessione,
inflitta come una profezia e una minaccia.
Neanche
per un attimo, sembrerebbe, l’élite si è fermata a chiedersi se per caso non
avesse sbagliato da qualche parte, e in modo così marchiano da generare, a
slavina, quel gran casino.
Se l’avesse fatto, non le sarebbe stato poi
così difficile registrare almeno tre fenomeni che a me, come a molti, sembrano
di un’evidenza solare:
1.) La sua idea di sviluppo e di
progresso non riesce a generare giustizia sociale, distribuisce la ricchezza in
un modo delirante, distrugge lavoro più di quanto riesca a generarne, lascia il
centro del gioco a potenze economiche scarsamente controllabili, continua a
essere fondata su un feroce controllo di intere zone deboli del pianeta e mette
in serio pericolo la Terra, dimenticandosi che è la casa di tutti, non la
discarica di pochi.
2.) Le élites sono da tempo preda di un
torpore profondo, una sorta di ipnosi da cui declinano un pensiero unico,
allestendo raffinati teoremi i cui risultato è sempre lo stesso, totemico: “There
Is No Alternative”.
Si
sarà notato che non reagiscono più a nulla, sono ipnotizzate da sé stesse,
hanno perso completamente contatto con la vita che fa la gente, spendono più
della metà del tempo a contemplarsi e arredare i propri privilegi.
Stanno
arrestando la storia, e allevando degli eredi incapaci di pensare qualcosa di
diverso dalle ossessioni dei padri.
3.)
Una sola volta, negli ultimi cinquant’anni, le élites hanno generato un
pensiero alternativo:
ed è stato quando le son sfuggiti alcuni
contro-pensatori, più che altro tecnici, dalla cui eresia è poi nata
l’insurrezione digitale.
Dal
loro torpore, le élites l’hanno registrata in ritardo, bollandola come una
deriva commerciale di dubbio gusto e pensando di risolverla così.
Era
invece una rivoluzione che si proponeva di azzerare proprio loro, le élites
novecentesche, e di sostituirle con una nuova élite, una nuova intelligenza,
perfino una nuova moralità.
Non ci
hanno capito niente, e questo vuol dire che il” Game” è cresciuto tra le pieghe
del loro potere, e a poco a poco le ha delegittimate, consegnandole alla gente
quando ormai non avevano la forza per difendersi.
Nel
tempo in cui questo accadeva, l’unico riflesso brillante delle élites è stato
usare il Game per fare soldi:
che
vendessero le reliquie del Novecento o finanziassero start up, si sono messi a
vendere i biglietti per assistere alla propria condanna a morte.
Strano
modo di cavalcare la Storia.
Fai
errori del genere e poi, con chi si presenta a staccarti la spina, pensi di
cavartela dandogli del fascista?
Altrettanto
interessante, va detto, è andare a vedere come si è mossa la gente, quando ha
deciso di sfasciare il patto e fare da sola.
Potenzialmente
aveva davanti una sorta di nuovo orizzonte, immenso:
ma si
è fermata al primo passo, quello della resa dei conti pura e semplice.
Rimandati i sogni, sfoga risentimento.
Incapace di futuro, recupera il passato.
Si è
scelta leader che le offrono una vendetta quotidiana e una retromarcia al
giorno: è quello che sanno fare.
Non riescono a immaginare un granché, si
limitano a cercare di correggere l’esistente ereditato dalle élites.
Spesso
non riescono nemmeno tanto a farlo, per incompetenza, scarsa attitudine al
governo, improvvisa scoperta dei propri limiti, obbiettiva tostaggine del
nemico e vertiginosa complessità del sistema.
Ritrovano coraggio in una sorta di tono di
voce che è divenuta il loro vero segno distintivo, un misto di schiettezza,
aggressività, urlo da mercato e slogan pubblicitario.
La
gente lo trova rassicurante e ha finito per assumerlo come un modo di pensare:
ci trova una sorta di intelligenza elementare che sostituisce alle raffinatezze
e ai sofismi della riflessione delle élites il movimento limpido, diretto,
vagamente virile, a suo modo puro, di uomini che finalmente vano diritti alle
cose, smantellando vecchi trucchi e ipocrisie.
La
santificazione di questo modo di pensare – è necessario capire – è l’arma con
cui la gente, oggi, sta sferrando l’aggressione più violenta alle élites:
è la
vera breccia che sta aprendo nelle loro mura difensive.
Se
passa quel modo di leggere il mondo, le élites sono spacciate.
Finita
la pacchia.
Il punto che a me, come a molti altri, risulta
di un’evidenza solare è che una vittoria di questo genere avrebbe un prezzo
devastante:
non
per le élites, chissenefrega, ma per tutti.
Perché
il mito di un accosto diretto, puro e vergine alle cose, opposto all’andatura
decadente, complicata e anche un po’ narcisistica della riflessione colta, è
una creatura fantastica che ci abbiamo messi secoli a smascherare: recuperarla
sarebbe da dementi.
Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è
meglio sapere molto delle cose prima di cambiarle, che è meglio conoscere molti
uomini per capire se stessi, che è meglio condividere i sentimenti degli altri
per gestire i nostri, che è meglio avere molte parole piuttosto che poche
perché vince chi ne sa di più.
Abbiamo
un termine per definire questo modo di difenderci dalla durezza feroce della
realtà grazie all’uso paziente e raffinato dell’intelligenza e della memoria:
cultura.
Sostituirla con l’apparente chiarezza di un
pensiero elementare, quasi una sorta di furbizia popolare, equivale a
disarmarsi volontariamente e andare al massacro.
Voglio
essere chiaro:
ogni volta che ci facciamo bastare certe
parole d’ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita collettiva
spesi a non farci fottere dall’apparente semplicità delle cose:
non
noi élites, sto parlando di tutti quanti.
Ci
condanniamo a prendere cantonate colossali.
Che
so, considerare un’importante minaccia al nostro benessere l’ovvio transumare
di un numero in fondo contenuto di umani da continenti che abbiamo stritolato e
continuiamo a tenere per le palle.
Cose
così. Enormità.
Alla fine, occorre registrare un fenomeno che
a me, come a molti altri, sembra di una evidenza solare:
la gente si sveglia ogni giorno per andare
all’assalto della fortezza delle élites:
e più
lo fa, e più vince, più si fa del male.
Così
attraversiamo tempi cupi, e siamo come terra in cui passano eserciti,
saccheggiando.
Nessuno
sembra in grado di vincere, per cui è difficile vedere la fine.
Ogni
giorno che passa, diminuiscono le scorte:
di
forza, di bellezza, di rispetto, di umanità, perfino di umorismo.
Niente
che non abbiamo già vissuto, in passato:
ma noi
che non immaginavamo questo, è questo che dobbiamo proprio vivere?
C’è qualcosa che possiamo fare, per cambiare
l’inerzia di questa disfatta?
Che io
sappia, ammettere che la gente ha ragione.
Riprendere contatto con la realtà e accorgersi
del casino che abbiamo combinato. Mettersi immediatamente al lavoro per
ridistribuire la ricchezza.
Tornare
a occuparci di giustizia sociale.
Staccare
la spina alle vecchie élites novecentesche e affidarsi alle intelligenze figlie
del “Game”:
farlo
con la dovuta eleganza ma con ferocia.
Dare
un significato nuovo a parole come progresso e sviluppo, quello che hanno è
ormai avvelenato.
Liberare
le intelligenze capaci di portarci fuori dal pensiero unico del “There Is No
Alternative”.
Smetterla
di dare alla politica tutta l’importanza che le diamo:
non
passa da lì la nostra felicità.
Tornare
a fidarci di coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi.
Buttare via i numeri con cui misuriamo il mondo (primo fra tutti l’assurdo Pil)
e coniare nuovi metri e misure che siano all’altezza delle nostre vite.
Riacquistare
immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire sull’educazione,
sempre.
Non smettere di leggere libri, tutti, fino a
quando l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto sarà
un’immagine che ci fa vomitare.
Entrare nel “Game”, senza paura, affinché ogni
nostra inclinazione, anche la più personale o fragile, vada a comporre la rotta
che sarà del mondo intero.
Usarlo, il “Game”, come una grande chance di
cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o
generare diseguaglianze economiche ancora più grandi.
Ritirare
su tutti i muri che abbiamo abbattuto troppo presto;
abbatterli
di nuovo non appena tutti saranno in grado di vivere senza di loro. Lasciare
che i più veloci vadano avanti, a creare il futuro, riportandoli però tutte le
sere a cenare al tavolo dei più lenti, per ricordarsi del presente.
Fare
la pace con noi stessi, probabilmente, perché non si può vivere bene nel
disprezzo o nel risentimento.
Respirare.
Spegnere ogni tanto i nostri device.
Camminare.
Smetterla
di sventolare lo spettro del fascismo.
Pensare in grande. Pensare.
Niente
che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la
pazienza, il coraggio.
Gli
errori delle élite
sulla
globalizzazione.
Corriere.it - Mauro Magatti – (23 aprile 2017)
– ci dice:
«La
globalizzazione è la condizione economica in cui un esercito di schiavi produce
per un esercito di disoccupati».
La formula di Marine Le Pen in poche parole coglie una
delle contraddizioni del tempo che viviamo.
Il
giudizio è ovviamente impietoso.
La
globalizzazione non ha fatto solo disastri:
ha ridotto la distanza tra le diverse parti
del mondo, migliorando le condizioni di vita di milioni di persone.
E
tuttavia, questo slogan, al di là delle intenzioni, tocca questioni vere.
In realtà, per molti anni le magagne della
crescita sono state nascoste da una finanziarizzazione in grado di sostenere
consumi a debito.
Ma
dopo il 2008 il gioco non ha più funzionato.
Quello
che le élite non hanno capito è che, nelle nuove condizioni in cui ci troviamo
a vivere, la «globalizzazione» viene letta come un modello che avvantaggia solo
pochi a danno di molti (a cui si chiede di portare pazienza).
É
questo il disagio che i sistemi politici registrano.
I temi
su cui i populisti prosperano sono, infatti, tutti reali.
Pur
portando molte responsabilità per quello che è successo, in questi anni la
finanza si è mostrata assai poco generosa nei confronti della società
circostante.
La
capacità del sistema di correggere le proprie esagerazioni è stata fino a oggi
limitata.
Anzi,
sfruttando a proprio vantaggio le enormi risorse immesse dalle politiche
monetarie ultra-espansive di questi anni, la finanza ha continuato a
guadagnare;
non
solo vanificando buona parte dello sforzo sostenuto dalle banche centrali, ma
anche creando le premesse per una nuova crisi, che rischia di essere più grave
della precedente.
Nell’aprile del 2017, il livello di
indebitamento delle famiglie americane ha superato il picco che aveva toccato
prima della crisi.
Sul
piano culturale, la globalizzazione ha deriso la questione dell’identità.
Ma un
conto è dire che il tema può (e deve) venire rimodulato in rapporto alle nuove
condizioni di vita;
un
conto è dichiararne l’irrilevanza in nome di un generico sogno cosmopolitistico.
Nonostante
la crisi migratoria duri da anni, nessuno ha pensato di impostare una politica
internazionale seria capace di affrontare e gestire gli enormi flussi umani
che, al di là di tutte le generosità, sono alla lunga insostenibili senza
misure adeguate.
Sia
per i paesi di arrivo che per quelli di partenza.
Si può dire che la globalizzazione ha
sottovalutato le conseguenze della mobilità che essa stessa ha indotto?
Nei
decenni passati, buona parte della politica si è abituata a stare al rimorchio
degli interessi economici internazionali.
Ciò ha provocato una selezione avversa delle
classi dirigenti.
Tanto più che, nell’era dell’espansione
finanziaria, sperperare le risorse collettive (ingigantendo la burocrazia e
alimentando la corruzione) era un problema relativo (vedi ahimè il caso
italiano).
Oggi,
invece, il vuoto lasciato dalla fine della globalizzazione espansiva chiama di
nuovo in causa la politica.
Ma il
problema è che mancano le idee e persino la preparazione:
i parvenu di questi anni, cresciuti lontano
dai Palazzi, più che di risposte sono portatori della domanda di cambiamento.
Ma non
è questo ciò che storicamente capita quando ci sono i cambi di sistema?
Che
Stati Uniti e Gran Bretagna abbiano cominciato a percorrere una strada diversa
da quella battuta negli ultimi 30 anni dovrebbe essere una evidenza sufficiente
per spingere anche il più riottoso degli oppositori a riflettere attentamente
su quello che sta accadendo.
Ci
sono dei problemi strutturali nel modello di crescita degli ultimi anni che
solo una forte azione politica può tentate di sanare.
Bisogna
intervenire, e intervenire in fretta.
É
chiaro, infatti, che le tre questioni ricordate rischiano di ricevere risposte
disastrose.
La
transizione economica può diventare l’occasione per una svolta neo
mercantilistica che produrrebbe più problemi di quelli che è in grado di
risolvere.
Ma
rimane la domanda:
come
si crea nuovo lavoro e come si produce la ricchezza, se si assume che la
finanza da sola non può più risolvere il problema?
La
domanda di identità può essere trasformata in odio etnico, razziale o
religioso. Ma quale significato e quale forma (cioè, quali limiti, quale
misura) deve allora assumere l’identità culturale oggi?
Il
bisogno di una nuova politica può essere la miccia per far lievitare sentimenti
anti-democratici.
Ma
come tornare a parlare di legame sociale senza produrre odio e
contrapposizioni?
I
problemi posti dai populisti sono reali e urgenti e aspettano risposte
adeguate.
Dovunque
— Italia compresa — occorre al più presto superare lo schema
establishment/anti-establishment.
Ma
ancor prima bisogna ammettere che il disegno di una globalizzazione capace di
sostenersi solo attraverso il mercato, la finanza e la tecnologia — al di là
dei suoi nobili intenti — si è dimenticato della carne e del sangue delle
persone.
CHI
PAGA IL CONTO QUANDO
IL POTENTE FA IL DEMENTE.
Comedonchisciotte.org - Redazione CDC –
Comidad – (11 Giugno 2024) – ci dice:
Purtroppo
noi italiani ci facciamo sempre riconoscere.
Tutte le altre democrazie occidentali vibrano
di ardori guerrieri, concedono a Kiev di usare le armi atlantiche per colpire
il suolo russo, parlano persino di inviare truppe sul terreno;
qui da
noi invece la Meloni invita alla prudenza, Tajani dice che non siamo in guerra
con la Russia, Salvini canta “Blowin’ in the wind” e si mette addirittura a
insultare Macron e Stoltenberg.
Insomma, una sguaiata esibizione della propria
strizza, e giustamente il professor Parsi se ne indigna sulle colonne del
“Foglio”.
Comunque Parsi non deve disperare:
dopo le elezioni europee, una volta passato il
rischio di regalare voti alle opposizioni, vedrà che i leader del governo di
destra torneranno alla piena disciplina atlantica;
anche
perché nelle cose importanti il governo conta poco ed il Consiglio Supremo di
Difesa è presieduto da Mattarella, al quale Crosetto deve rispondere.
A smentire le volgarità di Salvini c’è
nientemeno la parola di Putin in persona, che in una conferenza stampa ha
dichiarato di aver incontrato “Stoltenberg” quando questi era nel governo
norvegese, per risolvere con lui questioni inerenti al Mare di Barents;
ebbene,
a detta di Putin, in quegli incontri “Stoltenberg” non gli aveva mai dato
l’impressione di soffrire di demenza.
Se non
è un demente Stoltenberg, si potrebbe legittimamente arguire che a dispetto
dell’evidenza non lo sia neppure Macron; perciò possiamo dormire sonni
tranquilli.
Bisogna quindi smetterla una buona volta con questo
malvezzo di mettere in dubbio la sanità mentale dei nostri leader.
Anche nei confronti del presidente argentino
“Javier Milei” sono circolate calunnie del genere, tanto che si è arrivati a
chiamarlo “el loco”, il pazzo.
Fortunatamente
il “Fondo Monetario Internazionale” si è incaricato di rimediare a questa
pioggia di sospettosa malevolenza, pubblicando un rapporto molto lusinghiero
nei confronti dei risultati dei suoi primi mesi di governo.
Il rapporto” FMI” ha avuto molta risonanza sui
media ed ha avallato le ricette economiche liberiste.
Ovviamente non potevano mancare i soliti
incontentabili “precisini” che hanno osservato che nel rapporto FMI non c’è una
sola affermazione circostanziata, che si tratta esclusivamente di generiche
sviolinate senza pezze d’appoggio.
In particolare risulta fumoso il paragrafo
sulla politica fiscale, in cui si cantano lodi, ma non ci si dice mai dove
“Milei” sta prendendo i soldi.
Il liberalismo non è una dottrina che brilla per
concretezza;
anzi
pare un po’ ingenua l’idea di una separazione tra i poteri (esecutivo,
legislativo e giudiziario);
il potere infatti se ne frega di tutte le
separazioni e distinzioni giuridiche, e tende ad essere trasversale alle
istituzioni, al pubblico ed al privato, e persino al legale ed all’illegale.
Il
conflitto di interessi (ma sarebbe meglio dire l’intreccio di interessi
pubblici e privati) è ciò che conferisce incisività, sostanza e vischiosità al
potere, dandogli le occasioni per fare cordate d’affari.
Negli USA le commistioni e le porte girevoli
tra il congresso, le agenzie federali e le multinazionali sono ad un livello
irraggiungibile per qualsiasi altro paese;
però anche nella nostra umile Italietta ci
diamo da fare.
A
“Leonardo ex Finmeccanica” si sono succeduti due presidenti provenienti dalla
direzione dei servizi segreti;
ora invece alla presidenza di Leonardo c’è un
ex ambasciatore.
Lo
Stato è una finzione giuridica ed un’etichetta solenne con cui indicare regimi
o sordidi sistemi di potere;
ma
oggi la statualità non c’è più nemmeno come narrazione, perciò la porta
girevole tra carriere pubbliche e private non soltanto non delegittima un
funzionario dello Stato, ma addirittura gli conferisce prestigio personale ed
un alone di competenza.
A differenza del vaniloquente neoliberalismo
attuale, il liberalismo classico di “Montesquieu” e di “Locke” riusciva almeno
ad esprimere un concetto concreto, e cioè che politica e fisco sono due nomi
diversi per la stessa cosa;
infatti
i parlamenti dovevano servire appunto a questo, a limitare il potere del re di
tassare i proprietari.
Nessuno
oserebbe tassare le multinazionali, tantomeno “Milei”, che va a scodinzolare da
Zuckerberg e dagli altri potenti;
perciò puoi tassare solo i poveri, con lo
strumento più rapido e sicuro, quello delle imposte indirette.
“Milei”
ha aumentato le tasse sui carburanti, tanto che in pochi mesi il prezzo è più
che raddoppiato, siamo già al 115%.
Quando
i poveri devono comprare benzina o nafta non hanno la possibilità di scaricare
su nessuno il maggior costo, perciò alla fine è il prelievo sul reddito dei
poveri a reggere il sistema.
Il bello è che, in base alla narrativa
mediatica, la destra sarebbe anti-tasse mentre la sinistra è pro tasse; ma è
tutto giocato sull’equivoco di indicare come “tasse” solo quelle dirette,
dimenticandosi dell’IVA e delle accise, cioè le tasse che pagano solo i poveri,
visto che sono l’ultimo anello della catena e non possono rivalersi scaricando
il costo su altri.
Tutta la fiaba liberista a questo si riduce:
spostare
il carico fiscale dai ricchi ai poveri tramite le imposte indirette.
La
stessa cosa che ha fatto la Thatcher in Gran Bretagna, come risulta dalla
documentazione reperibile sul sito della “Fondazione Thatcher”.
Ovviamente la sedicente “sinistra” si presta
all’equivoco e partecipa alla pantomima.
C’era
pure il ministro “Padoa Schioppa” (lo stesso che voleva rieducarci alla
“durezza del vivere”), il quale diceva che le tasse sono bellissime e bisogna
pagarle con gioia.
Certo, perché si può tagliare all’infinito
sulla sanità pubblica, ma ci deve pur essere qualcuno che paga per le armi da
inviare in Ucraina.
C’è un
nucleo arcano e misterico della scienza economica, quel segreto innominabile
che viene rivelato solo a pochi iniziati, ed è appunto lo sfruttamento fiscale
dei poveri;
il che, detto in linguaggio ancora più tecnico
e criptico, significa che alla fine ci sono sempre i fessi che pagano.
Ed è giusto così, altrimenti i potenti non
potrebbero permettersi il lusso della propria demenza.
(Comidad)
(comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=1216)
Israele
e l'errore di
valutazione
della realtà.
Unz.com - ALASTAIR CROOKE – (10 GIUGNO 2024)
– ci dice:
La
dura verità è che la “Resistenza” ha compreso la realtà della situazione
migliore delle sue controparti occidentali.
Su
tutti i fronti, il paradigma interno israeliano si sta incrinando; ed
esternamente, l'Occidente stesso si sta spaccando, e sta diventando un paria
sulla scena globale.
L'esplicita
facilitazione da parte delle leadership occidentali di una sanguinosa pulizia
dei palestinesi ha inciso il vecchio spettro dell'"orientalismo" e
del colonialismo all'orizzonte.
E sta
spingendo l'Occidente ad essere "l'intoccabile del mondo" (insieme a
Israele).
Nel
complesso, l'obiettivo del governo israeliano sembra essere quello di
convergere e poi incanalare le molteplici tensioni in un'ampia escalation
militare (una grande guerra) che in qualche modo porterebbe a un ripristino
della deterrenza.
Un
racconto corso implica contemporaneamente che Israele volterebbe le spalle alle
suppliche occidentali di agire in qualche modo "ragionevolmente".
L'Occidente
definisce questa "ragionevolezza" per lo più come l'accettazione da
parte di Israele della chimera di un passaggio verso la "normalità"
che arriva attraverso il principe ereditario saudita che lo concede, in cambio
di un Israele contrito che annulla sette decenni di suprematismo ebraico (cioè
l'accettazione di uno Stato palestinese).
La
tensione centrale all'interno del calcolo occidentale-israeliano è che gli
Stati Uniti e l'UE si stanno muovendo in una direzione – tornando all'approccio
fallimentare di Oslo – mentre i sondaggi sottolineano che gli elettori ebrei
marciano fermamente nella direzione opposta.
Un
recente sondaggio condotto dal “Jerusalem Center for Public Affairs” mostra che
dal 7 ottobre, il 79% di tutti gli ebrei intervistati si oppone alla creazione
di uno Stato palestinese sulla base del 1967 (il 68% era contrario prima del 7
ottobre);
Il 74%
è contrario anche in cambio di una normalizzazione con l'Arabia Saudita.
E riflettendo la divisione interna israeliana,
"solo il 24% degli elettori di sinistra sostiene uno Stato [palestinese]
senza condizioni".
In
breve, mentre la leadership istituzionale occidentale si aggrappa alla sinistra
laica liberale israeliana che si sta restringendo, gli israeliani nel loro
insieme (compresi i giovani) si stanno spostando a destra.
Un recente sondaggio “Pew” mostra che il 73%
dell'opinione pubblica israeliana sostiene la risposta militare a Gaza, anche
se un terzo degli israeliani si è lamentato che non è andato abbastanza
lontano.
Una pluralità di israeliani pensa che Israele
dovrebbe governare la Striscia di Gaza.
E
Netanyahu, all'indomani della minaccia di arresto del CPI, sta superando Gantz
(leader dell'Unione Nazionale) negli indizi di gradimento.
Sembra
che il "consenso occidentale" preferisca non accorgersi di queste
dinamiche scomode.
Inoltre,
un'altra divisione israeliana riguarda lo scopo della guerra:
si
tratta di restituire ai cittadini ebrei il senso di sicurezza personale e
fisica, che è stato perso sulla scia del 7 ottobre?
Vale a
dire: è il senso di Israele come una ridotta, uno spazio sicuro in un mondo
ostile che viene restaurato?
Oppure,
in alternativa, l'attuale lotta è quella di stabilire un Israele completamente
giudaizzato nella "Terra di Israele" (cioè tutta la terra tra il
fiume e il mare) l'obiettivo primario?
Si
tratta di un diverso fondamentale.
Coloro
che vedono Israele principalmente come la ridotta sicura in cui gli ebrei
potrebbero fuggire dalla scia dell'olocausto europeo, sono naturalmente più
cauti nel rischio di una guerra più ampia (ad esempio con Hezbollah) – una
guerra che potrebbe vedere le "retrovie" civili attaccare
direttamente dal vasto arsenale missilistico di Hezbollah.
Per
questa circoscrizione, la sicurezza è un premio.
D'altra
parte, la maggioranza degli israeliani vede il rischio di una guerra più ampia
come inevitabile – anzi da accogliere con favore da molti, se il progetto
sionista deve essere pienamente stabilito nella Terra di Israele.
Questa
realtà può essere difficile da comprendere per gli occidentali laici, ma il 7
ottobre ha ridato energia alla visione biblica in Israele, piuttosto che
suscitare un eccesso di cautela sulla guerra, o un desiderio di riavvicinamento
con gli Stati arabi.
Il
punto qui è che una "Nuova Guerra d'Indipendenza" può essere tenuta
in alto davanti al pubblico israeliano come la "visione" metafisica
della via da seguire, mentre il governo israeliano tenta di combattere la
strada più banale di giocare il gioco a lungo termine, portando al pieno
controllo di matrice militare sulla terra tra il fiume e il mare e
l'allontanamento delle popolazioni che non si sottometteranno alla “dispensa di
Smotrich” di "acconsentire o andarsene".
Lo
scisma tra Israele come "spazio sicuro" laico e post-olocausto e la
visione biblica e sionista contrastante pubblicato un confine tra i due
zeitgeist che è poroso ea volte si sovrappone.
Ciononostante, questa divisione israeliana si
è riversata nella politica degli Stati Uniti e, in modo più dispersivo, è
entrata nel sistema politico europeo.
Per la
diaspora ebraica che vive in Occidente, mantenere Israele come uno spazio
sicuro è di vitale importanza poiché, nella misura in cui Israele diventa
insicuro, gli ebrei sentono che la loro insicurezza personale peggiora, pari
passo.
In un
certo senso, la proiezione israeliana di una forte deterrenza in Medio Oriente
è un "ombrello" che si estende fino a coprire anche la diaspora.
Vogliono
la tranquillità nella regione.
La "visione" biblica ha un aspetto
francamente troppo polarizzante.
Eppure,
quelle stesse strutture di potere che si sforzano di sostenere il paradigma
dell'uomo forte israeliano nella coscienza occidentale ora scoprono che i loro
sforzi tendono a distruggere quelle strutture politiche occidentali, da cui
dipendono, alienando così gli elettori chiave, in particolare i giovani.
Un recente sondaggio tra i giovani di età
compresa tra i 18 ei 24 anni in Gran Bretagna ha rilevato che la maggioranza
(54%) concorda sul fatto che "lo Stato di Israele non dovrebbe esistere
".
Solo
il 21% non è d'accordo con questa affermazione.
L'esercizio
del potere della lobby per costringere l'Occidente a sostenere Israele ei suoi
obiettivi deterrenti – insieme a una mancanza di empatia umana per i
palestinesi – sta infliggendo pesanti perdite alle strutture di leadership
istituzionale mentre i partiti tradizionali sottostanti si fratturano in
direzioni diverse.
Il
danno è esacerbato dal "punto cieco della realtà" del campo pacifista
occidentale.
Lo
sentiamo dire in continuazione:
l'unica soluzione è quella di due Stati che
vivono pacificamente fianco a fianco sulla falsariga del 1967 (come sancito
dalle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite).
Oltre
che in Occidente, lo stesso mantra viene ripetuto (come ci ricorda il campo
pacifista) anche dalla Lega Araba.
Sembra
così semplice.
È
davvero "semplice", ma solo ignorando la realtà che un racconto Stato
palestinese può diventare sovrano solo attraverso la forza, attraverso la forza
militare.
La
realtà è che ci sono 750.000 coloni che si occupano la Cisgiordania e
Gerusalemme Est (e altri 25.000 coloni che vivono sulle alture del Golan in
Siria).
Chi li
rimuoverà? Israele non lo farà.
Combatteranno
fino all'ultimo colono; molti dei quali sono zeloti.
Sono
stati invitati e collocati lì negli anni successivi alla guerra del 1973 (in
gran parte dai successivi governi laburisti), proprio per ostacolare la nascita
di un possibile stato palestinese.
Alla
domanda a cui rispondono coloro che dicono "la soluzione è semplice"
– due Stati che vivono a fianco in pace – non rispondono:
l'Occidente
ha la volontà o la volontà politica di creare un'istanza di uno Stato
palestinese con la forza delle armi, contro l'attuale volontà di una pluralità
di israeliani?
La
risposta, inevitabilmente, è "no".
L'Occidente
non ha la "volontà" – e sorge allora il sospetto che in cuor loro lo
sanno.
(C'è forse il desiderio di una soluzione, e
l'inquietudine per il fatto che, in assenza di una "calma a Gaza", le
tensioni aumenteranno anche nella diaspora).
La
dura verità è che la Resistenza ha compreso la realtà della situazione meglio
delle sue controparti occidentali:
un presunto Stato palestinese si è solo
allontanato dalle prospettive del processo di Oslo del 1993, piuttosto che
essere avanzato di un millimetro.
Perché l'Occidente non ha intrapreso azioni
correttive per tre decenni, e solo allora si è ricordato del dilemma quando è
diventato una crisi?
La
Resistenza sta meglio comprendendo l'intrinseca contraddizione insostenibile di
un popolo che si appropria di diritti e privilegi speciali su un altro,
condividendo la stessa terra, e che un racconto scenario non potrebbe
persistere a lungo, senza spaccare la regione (come testimoniano le guerre e le
devastazioni a cui il mantenimento del paradigma esistente ha già portato).
La
regione si trova ai margini; e gli "eventi" in qualsiasi momento
possono spingerlo oltre quel limite, nonostante gli sforzi degli attori
regionali per controllare il movimento incrementale verso l'alto nella scala
dell'escalation. Questa sarà probabilmente una lunga guerra.
E una
soluzione probabilmente emergerà solo attraverso Israele, in un modo o
nell'altro, affrontando la contraddizione del paradigma interno al sionismo – e
cominciando a vedere il futuro in modo diverso.
E di
questo non c'è, per ora, alcun segno.
I tre
messaggi chiave di San Pietroburgo
alla maggioranza globale.
Unz.com
- PEPE ESCOBAR- (10 GIUGNO 2024) – ci dice:
Nell'anno
della presidenza russa dei BRICS, il Forum Economico Internazionale di San
Pietroburgo (SPIEF) doveva offrire qualcosa di speciale.
E così
è stato:
oltre
21.000 persone in rappresentanza di non meno di 139 nazioni – un vero
microcosmo della Maggioranza Globale, che ha discusso ogni aspetto della spinta verso un mondo
multipolare, multinodale e policentrico.
San
Pietroburgo, al di là di tutte le reti e le frenetiche trattative – 78 miliardi
di dollari conquistati in soli tre giorni – ha creato tre messaggi chiave
intrecciati che già risuonano in tutta la maggioranza globale.
Messaggio
numero uno:
Putin
ha mostrato come la Russia abbia ancora il potenziale per lanciare non meno di
nove cambiamenti strutturali radicali – globali, una spinta a tutto campo che
coinvolga la sfera federale, regionale e municipale.
Tutto
è in gioco:
dal
commercio globale e dal mercato del lavoro alle piattaforme digitali, alle
tecnologie moderne, al rafforzamento delle piccole e medie imprese e
all'esplorazione del potenziale fenomenale ancora non sfruttato delle regioni
della Russia.
Ciò
che è stato reso perfettamente chiaro è come la Russia sia riuscita a
riposizionarsi oltre ad eludere lo tsunami – illegittimo – delle sanzioni e a
creare un sistema solido e diversificato, orientato al commercio globale – e
completamente legato all'espansione dei BRICS.
Gli
stati amici della Russia rappresentano già i tre quarti del fatturato
commerciale di Mosca.
L'enfasi
di Putin sulla spinta accelerata della maggioranza globale a rafforzare la
sovranità era direttamente collegata al fatto che l'Occidente collettivo faceva del suo meglio – anzi, del
peggio – per minare la fiducia nelle proprie infrastrutture di pagamento.
E
questo ci porta a...
“Glazyev”
e “Dilma” scuotono le acque.
Messaggio
numero due:
Questa
è stata senza dubbio la svolta più importante a San Pietroburgo.
Putin
ha dichiarato che i BRICS stanno lavorando sulla propria infrastruttura di
pagamento, indipendentemente dalle pressioni/sanzioni dell'Occidente
collettivo.
Putin
ha avuto un incontro speciale con “Dilma Rousseff”, presidente della Nuova
Banca di Sviluppo dei BRICS (NDB).
Hanno parlato in dettaglio dello sviluppo della banca
– e soprattutto, come poi confermato da Rousseff, di “The Unit”, i cui
lineamenti sono stati rivelati per la prima volta in esclusiva da “Sputnik”:
una
forma apolitica e transazionale di pagamenti transfrontalieri, ancorata all'oro
(40%) e alle valute BRICS+ (60%).
Il
giorno dopo l'incontro con Putin, la presidente “Dilma” ha avuto un incontro
ancora più cruciale alle 10 del mattino in una stanza privata dello “SPIEF” con
“Sergey Glazyev”, ministro della macroeconomia dell'Unione economica
eurasiatica (EAEU) e membro dell'Accademia russa delle scienze.
“Glazyev”,
che in precedenza aveva fornito pieno sostegno accademico al concetto
dell'Unità, spiegò tutti i dettagli al presidente “Dilma”.
Entrambi
erano estremamente soddisfatti dell'incontro.
Una raggiante “Rousseff” ha rivelato di aver
già discusso di “The Unit” con Putin. È stato concordato che ci sarà una
conferenza speciale presso l'“NDB” di Shanghai su “The Unit” nel mese di
settembre.
Ciò
significa che il nuovo sistema di pagamento ha tutte le possibilità di essere
al tavolo del vertice BRICS di ottobre a “Kazan”, e di essere adottato dagli
attuali “BRICS 10” e dal prossimo futuro “BRICS+ “ampliato.
Ora
passiamo a...
Messaggio
numero tre:
Naturalmente
si trattava dei BRICS, che tutti, Putin compreso, sottolineano, saranno
notevolmente ampliati.
La
qualità delle sessioni relative ai BRICS a San Pietroburgo ha dimostrato come
la maggioranza globale si trovi ora ad affrontare una congiuntura storica unica
– con una possibilità reale, per la prima volta negli ultimi 250 anni, di
impegnarsi a tutto campo per un cambiamento strutturale del mondo come sistema.
E non
si tratta solo di BRICS.
A San
Pietroburgo è stato confermato che non meno di 59 nazioni hanno in programma di
aderire non solo ai BRICS, ma anche all' “Organizzazione per la Cooperazione di
Shanghai” (SCO) e all'”Unione Economica Eurasia” (EAEU).
Non
c'è da stupirsi: queste organizzazioni multilaterali ora si sono finalmente
affermate in prima linea nella spinta verso il multimodale – e per citare Putin nel suo discorso
– "mondo
multipolare armonico".
Le
sessioni principali per ulteriori riferimenti.
Tutto
quanto sopra ha potuto essere seguito, in diretta, durante i due giorni e mezzo
frenetici di sessioni del forum.
Questo
è un esempio di quelli probabilmente più coinvolgenti. Le trasmissioni
dovrebbero essere molto utili come riferimento per il futuro, fino al vertice
dei BRICS di ottobre e oltre.
Sulla
Rotta del Mare del Nord (NSR) e sull'espansione dell'Artico.
Miglior motto della sessione:
"Abbiamo
bisogno di rompighiaccio!"
La
discussione essenziale per comprendere come le attuali catene di
approvvigionamento del commercio globale non siano più affidabili e come la NSR
sia più veloce, più economica e affidabile.
Sugli
obiettivi BRICS per un vero nuovo ordine mondiale.
Sui 10
anni della EAEU.
Sulla
più stretta integrazione tra EAEU e ASEAN.
La
tavola rotonda BRICS+ sul corridoio internazionale dei trasporti nord-sud
(INSTC).
Questa
sessione è stata particolarmente cruciale.
Gli
attori chiave dell'INSTC sono la Russia, l'Iran e l'India, tutti membri dei
BRICS. Gli attori ai margini che trarranno vantaggio dall'INSTC – dal Caucaso
all'Asia centrale e meridionale – sono già interessati a far parte dei BRICS+.
Igor Levitin, uno dei principali consiglieri
di Putin, è stato una figura chiave in questa sessione.
Il Partenariato
per la Grande Eurasia (GEP).
Questa
è stata una discussione essenziale su quello che è eminentemente un progetto di
civiltà, in contrasto con l'approccio escludente collettivo dell'Occidente.
La
discussione mostra come il GEP si interconnette con SCO, EAEU e ASEAN e
sottolinea l'inevitabile complementarità dei trasporti, della logistica,
dell'energia e della struttura dei pagamenti in tutta l'Eurasia.
“Glazyev”,
il vice primo ministro” Alexey Overchuk” e l'ex ministro degli Esteri austriaco
“Karin Kneissl” – sempre ultra tagliente – sono i partecipanti chiave.
Bonus
extra – sorprendente –:
Adul
Umari, ministro del Lavoro ad interim nell'Afghanistan talebano, che
interagisce con i suoi partner eurasiatici.
Sulla
filosofia della multipolarità.
Concettualmente,
questa sessione interagisce con la sessione GEP.
Offre la prospettiva di un dialogo
interculturale conciso nell'ambito dei “BRICs+”. Tra i partecipanti ci sono “Alexander
Dugin”, l'incontenibile “Maria Zakharova” e il professore “Zhang Weiwei” della “Fudan
University”.
Sulla
policentricità.
Ciò
coinvolge tutte le istituzioni della maggioranza globale:
BRICS,
SCO, EAEU, CIS, CSTO, CICA, Unione Africana, il rinnovato Movimento dei Non
Allineati (NAM).
Glazyev,
Maria Zakharova, il senatore Pushkov e Alexey Maslov – direttore dell'Istituto
di studi asiatici e africani dell'Università statale di Mosca – discutono su
come costruire un sistema policentrico di relazioni internazionali.
Mentre
il progetto Ucraina affronta il destino...
Infine,
è inevitabile contrastare l'atmosfera – piena di speranza e di buon auspicio –
dello “SPIEF” con l'isteria collettiva dell'Occidente mentre il “Progetto
Ucraina” si trova ad affrontare la catastrofe.
Putin
lo ha detto chiaramente: la Russia prevarrà, qualunque cosa accada. L'Occidente
collettivo potrebbe riaccendere "la soluzione di Istanbul", come ha
osservato Putin, ma modificata "in base alla nuova realtà" sul campo
di battaglia.
Putin
ha anche abilmente disinnescato tutta la paranoia nucleare prefabbricata e
insensata che infestava i circoli atlantisti.
Tuttavia,
ciò non sarà sufficiente.
Nei
corridoi affollati dello” SPIEF” e negli incontri informali, c'era una totale
consapevolezza dell'atteggiamento guerrafondaio alimentato dalla disperazione
dell'egemone mascherato da "difesa".
Non
c'erano illusioni sul fatto che l'attuale demenza che si spaccia per
"politica estera" stia scommettendo su un genocidio non solo per il
bene della "portaerei" dell'Asia occidentale, ma soprattutto per
costringere la maggioranza globale alla sottomissione.
Ciò
solleverebbe la seria possibilità che la “Maggioranza Globale “abbia bisogno di
costruire un'alleanza militare per incoraggiare questa – pianificata – “Guerra
Globale”.
Russia-Cina,
naturalmente, più l'Iran è la credibile deterrenza araba – con lo Yemen che
indica la strada:
tutto
questo potrebbe diventare un must.
Un'alleanza
militare a maggioranza globale dovrà manifestarsi in un modo o nell'altro: o
prima del disastro – imminente, pianificato – per mitigarlo; o dopo che ha
completamente inghiottito l'Asia occidentale in una guerra mostruosa e feroce.
Minacciosamente,
potremmo essere quasi arrivati.
Ma
almeno San Pietroburgo offriva barlumi di speranza.
Putin: "La Russia sarà il cuore del mondo
armonico multipolare".
Ecco come si conclude un discorso di un'ora.
La
Germania lancia un’offerta
dell’undicesima ora per evitare
la guerra commerciale con la Cina.
Politico.eu
– Redazione – (11 giugno 2024) – ci dice:
(DI
CAMILLE GIJS, JORDYN DAHL, ANTONIA ZIMMERMANN, HANS VON DER BURCHARD E JAKOB
HANKE VELA).
La
Germania vuole che l’UE fissi le tariffe sui veicoli elettrici a un livello
basso per evitare gravi ritorsioni da parte di Pechino.
La
Germania resiste alle richieste francesi di colpire i veicoli elettrici cinesi
con dazi punitivi.
La
Germania ha lanciato un tentativo dell’ultima ora per evitare una guerra
commerciale su vasta scala tra Europa e Cina, resistendo alle richieste
francesi di colpire i veicoli elettrici cinesi con dazi punitivi.
Con
una decisione imminente da parte della “Commissione europea”, sia Parigi che
Berlino hanno intensificato i loro sforzi di lobbying, con messaggi
contrastanti su quanto duro dovrebbe essere l’esecutivo di “Ursula von der
Leyen” nei confronti di Pechino.
Si
prevede che l’esecutivo dell’UE informerà mercoledì i produttori cinesi di
veicoli elettrici dei dazi temporanei derivanti dall’indagine sui sussidi
statali ingiusti.
I paesi membri dell’UE voterebbero quindi
quest’autunno per confermare i dazi, rendendo vitale per “von der Leyen”
fissarli a un livello con cui i due pesi massimi del blocco possano convivere.
L’atmosfera
attorno all’annuncio è tesa:
il
Cancelliere Olaf Scholz e il Presidente Emmanuel Macron hanno entrambi subito
pesanti sconfitte nelle elezioni europee di domenica.
Il
leader francese ha risposto indicendo rischiose elezioni generali.
Ora”
von der Leyen” ha bisogno del loro sostegno per assicurarsi un secondo mandato
come “presidente della Commissione”.
Nonostante
tutti i discorsi su una soluzione basata sull’evidenza e conforme alle regole
del commercio globale, si tratta di “una decisione politica”, ha ammesso un
funzionario della Commissione.
"Sarà deciso al massimo livello, dal
“gabinetto von der Leyen", ha aggiunto il funzionario, a cui è stato
concesso l'anonimato a causa della delicatezza della questione.
Un
altro funzionario della Commissione ha confermato che l'annuncio sarebbe atteso
mercoledì.
L’UE
ora applica una tariffa del 10% su tutte le importazioni di automobili,
inferiore al 15% della Cina.
Rendendosi conto che non sarà in grado di
evitare le tariffe, Berlino ora sta spingendo per mantenerle il più basse
possibile, idealmente ad un livello reciproco che la Cina impone anche all'UE,
ovvero al 15%.
Due
mesi dopo che Scholz si era ampiamente inchinato davanti a Pechino, il ministro
dell’Economia tedesco” Robert Habeck” dovrebbe recarsi in Cina la prossima
settimana per un’ulteriore missione di controllo dei danni.
Parigi
ha esercitato forti pressioni a favore dell’indagine, annunciata da “von der
Leyen” nel suo discorso annuale lo scorso autunno.
E,
nonostante la minaccia di Pechino di rispondere ai produttori francesi di
cognac in un’indagine antidumping, Parigi vuole dazi molto più alti sui veicoli
elettrici cinesi.
"Una
percentuale intorno al 20-30% darebbe ai produttori europei un po' di respiro
per accelerare i loro investimenti nel settore e mantenere la loro quota di
mercato in Europa", ha affermato “Elvire Fabry”, ricercatore senior presso
l'”Istituto Jacques Delors” di Parigi.
Un
funzionario francese si è opposto all'idea che la decisione fosse politica.
“Si
tratta di un’indagine obiettiva da parte della Commissione. Non è un negoziato
politico”, ha detto il funzionario.
L'anello
più debole.
Una
decisione sui dazi cinesi sui veicoli elettrici è stata rinviata fino a dopo le
elezioni europee, ma viste le tempistiche rigorose delle indagini commerciali
dell’UE non può essere ritardata ulteriormente.
Le
forze centrifughe in gioco mentre l’UE negozia la sua transizione
post-elettorale saranno accolte con favore a Pechino, che da tempo cerca di
allontanare i paesi dell’UE da Bruxelles.
“Finché
i singoli Stati membri vengono messi in gioco l’uno con l’altro in questo modo,
ciò è nell’interesse di Pechino e soddisfa i loro interessi più dell’interesse
europeo in generale”,” Jacob Gunter”, analista capo del think tank cinese “MERICS”,
disse.
La
Cina ha già avvertito che prenderà di mira i settori agricolo e aeronautico
dell’UE, due settori sensibili che la Francia sarebbe ansiosa di proteggere.
Se Pechino dovesse reagire, non sarebbe una
buona notizia a livello nazionale per Macron, la cui alleanza centrista è stata
annientata da una rinascente estrema destra nelle elezioni europee.
Berlino
potrebbe benissimo cercare di evitare proprio questo tipo di dura ritorsione.
Ma la sua spinta per una tariffa speculare
“mina la legittimità dell’intero sforzo”, ha avvertito “Niclas Poitiers,”
economista del think tank “Bruegel” con sede a Bruxelles.
La
posizione della Germania è “problematica”, ha affermato:
mentre
le grandi case automobilistiche tedesche intrattengono ancora buoni legami con
Pechino, questo non è necessariamente il caso delle imprese più piccole, il che
significa che “l’economia tedesca nel suo insieme ha interesse ad una politica
più assertiva nei confronti della Cina”.
Secondo
i dati di “Schmidt Automotive Research,” negli ultimi dieci anni BMW, Audi e
Mercedes-Benz hanno venduto 19,2 milioni di automobili in Cina, pari al 30-40%
delle vendite globali di ciascuna casa automobilistica.
Tuttavia,
anche il dazio più elevato – il 25% – non sarebbe sufficiente a scoraggiare i
marchi cinesi grazie ai loro enormi vantaggi in termini di costi e tecnologia.
Le vendite cinesi di veicoli elettrici in
Europa sono cresciute del 23%, raggiungendo quasi 120.000 unità, nei primi
quattro mesi di quest’anno.
“Possono
abbassare i prezzi e continuare a essere competitivi. Abbiamo già visto ciò
accadere in Francia”, ha detto “Matthias Schmidt”, un analista automobilistico
europeo.
(Camille
Gijs, Jordyn Dahl, Antonia Zimmermann e Jakob Hanke hanno riferito da
Bruxelles. Hans von der Burchard ha riferito da Berlino. Koen Verhelst e Stuart
Lau hanno contribuito con un reportage da Bruxelles”.)
I tre
cigni neri del prossimo mese:
Biden
out, Meloni al posto
di Von der Leyen e i preparativi
per il
post 30.9.
Mittdolcino.com
– Mitt Dolcino – (10 giugno 2024) – ci dice:
Le
elezioni EU sembrano aver scatenato gli eventi.
In
realtà i problemi erano ben presenti, da molti mesi se non anni, oggi si
velocizza solo la crisi terminale dell’EU.
Ovvero di una istituzione fondata su enormi ed
insanabili squilibri socioeconomici e geostrategici (l’EU esiste ancora solo grazie agli
interessi cinesi, ndr).
Partiamo
dai fatti, per punti, notizie di ieri sera:
– Nel
giro di 7 giorni l’Entente Cordiale, che NECESSITA di una guerra in Europa, va
alle elezioni da fine giugno prossimo, Londra e Parigi –
Davos serra i ranghi, auguri.
– Il
premier belga De Croo si è appena dimesso.
– In
Germania è stato chiesto il voto di fiducia al governo.
L’impressione
è che nessuno vuole intestarsi l’imminente guerra che “Davos” ha già
programmato per l’EU.
Poi,
dati surreali di affluenza in Italia secondo cui tra le 19 le 23 di domenica
sera, cena inclusa, avrebbero votato circa il 10% degli italiani, mentre – per
altro – in gran parte del nord Italia imperversavano forti temporali.
Come
capite la fronda EU “hard line pro transizione Green” ovvero pro guerra alla
Russia da questa sera perde pezzi da 90.
Ben
sapendo che USA e Russia non vogliono alcuna guerra, solo selezionati paesi
europei la necessitano, su tutti Francia e Gran Bretagna lato Remainers (ne abbiamo scritto alcune settimane
fa, entente cordiale, ora entrambi i paesi vanno sorprendentemente ed
inaspettatamente al voto, stessi giorni, che caso!).
È
parimenti chiaro che la fine della “transizione Green” in EU condurrebbe
all’implosione dell’export cinese, per interi settori merceologici (detta transizione Green EU
rappresenta un epocale – e folle – trasferimento di ricchezza e benessere
dall’Europa alla Cina, vedasi pannelli solari ed auto elettriche, solo per fare
due esempi).
In
tale contesto, due dati ulteriori, da valutare con attenzione in quanto
speculativi:
–
Ultime notizie:
la
condanna di Trump potrebbe essere probabilmente dichiarata nulla dopo che una
persona (sedicente cugina di un giurato) ha affermato che egli ha pubblicato
sulla pagina Facebook della corte, il giorno prima della sentenza, che Trump
sarebbe stato condannato.
–
secondo la CBS il vantaggio di Trump sfiorerebbe i 40 punti percentuali, su
Biden.
Dulcis
in fundo, siamo dunque pronti a scommettere su una partecipazione al voto
italiana (amica degli USA) per la tornata EUropea, leggermente inferiore al 50%
(azzardiamo, ndr):
quanto
basta, nel caso, per giustificare una disaffezione all’ EUropa del Paese a
forma di stivale (giusti o, più probabilmente, tarocchi siano i dati di affluenza, ndr).
Vedasi
il prosieguo, per i driver, ovvero quanto potrebbe accadere, terzo punto.
Resta
che un’affluenza inferiore al 50% condurrebbe all’OBIEZIONE di coscienza
massiva, in caso di guerra chiamata dall ‘EU… (…).
Con
conseguenze devastanti per l’Unione Europea, nel caso.
Ora i
3 probabili cigni neri, da valutare:
-1.)
Ursula non trova la maggioranza necessaria e dunque Giorgia Meloni, filo
atlantica, unico leader Europeo partecipante al G7 che ha consolidato la sua
posizione, diventa il capo della Commissione EU.
Probabilità:
incredibilmente molto più Alta di quanto si immagini.
-2.)
Biden viene ritenuto perdente verrà sostituito, il 13.6, dalle prossime
presidenziali.
Dal
gov. “Newsome” della California.
Probabilità:
Altissima, il candidato “Newsome” sembra perfetto, difficilmente riteniamo si
propenderebbe per “Michele Obama”, ma lasciamo aperta la porta anche a tale
eventualità.
-3.)
->30.9. Gli eventi già schedulati per fine settembre 2024 impongono un
cambiamento di governo a Londra e Parigi, Parigi sull’orlo della crisi
finanziaria (…)
Per
adesso, a caldo, vogliamo solo gettare il sasso nello stagno.
Nei
prossimi giorni gli approfondimenti.
Ma ciò che sta accadendo avvicina l’ineluttabile fine
dell’euro, l’EU vedremo in che forma sopravviverà (non appena il trade balance
aggregato della zona EU diventerà negativo – come quando fu necessario nominare
Monti Prèmier, che infatti torno’ al surplus in aggregato voluto dai tedeschi,
“abbiamo distrutto la domanda interna”, detta in inglese, da Lui, alla CNN, il
suo bel compitino – l’euro salterà per decisione interna, our 2 cts)
(…).
(Mit
Dolcino).
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