Qual’ è il nemico dell’Europa?
Qual’
è il nemico dell’Europa?
Contro
L’Unione Europea
per il
Bene dell’Europa.
Conoscenzealconfine.it
– (7 Giugno 2024) - Marcello Veneziani – ci dice:
Sono
contro l’Europa perché è contro l’Europa.
Come,
in che senso?
Nel
senso che il peggior nemico dell’Europa, degli europei e delle nazioni europee
è oggi l’Unione Europea.
Gioca
contro sé stessa e fa di tutto per farsi del male, sfigurarsi e sfigurare.
Scherza col fuoco della guerra mondiale.
Non
genera integrazione europea, ma disintegrazione nazionale.
In
politica estera l’UE assume posizioni che di fatto indeboliscono l’Europa, le
fanno perdere ogni ruolo strategico di mediazione e ogni centralità, creano
nuovi nemici e rafforzano antichi odii in tutto il resto del mondo, la mettono
al rimorchio della Nato e degli Stati Uniti anche quando giocano contro gli
interessi europei e compromettono proficui rapporti commerciali, la dissanguano
economicamente e militarmente.
L’Europa
ha perso la faccia e gioca contro i suoi interessi in Ucraina, assecondando gli
Usa, è uno zombie in Medio Oriente, in Palestina, sulla scena mondiale;
non ha il coraggio di condannare Netanyahu
come ha condannato Putin, inimicandosi il resto del mondo;
non sa
come arginare i flussi migratori e come proteggere gli interessi europei reali
nel mondo.
Noto
invece con piacere che l’Italia ha corretto il tiro rispetto all’UE
sull’intervento in Ucraina e sulla tragedia palestinese.
In
politica interna, l’Europa non è in grado di esprimere una linea efficace e
unitaria in tema di sicurezza, di controllo degli sbarchi, di sanità, di
diritti sociali, di difesa dei popoli e dei loro interessi primari.
È la
prima nemica dei popoli europei, tra vessazioni, mancate tutele e primato
costante degli assetti contabili sulla vita reale della gente.
Fa
piovere denari su cose inutili o dannose e tace sulle reali esigenze primarie e
sulle politiche sociali. In questo frangente internazionale, tra venti di
guerra che rischiano di coinvolgerci, crescente antipatia del mondo intero
verso l’occidente euro-atlantico e gravi instabilità nelle aree attigue, l’Unione Europea alle porte delle
elezioni, ha deciso di giocare la sua faccia e il suo profilo sul tema dei
diritti lgbtq+, con diciotto paesi contro nove (tra i quali, meno male, c’è
l’Italia) che hanno votato per promuovere politiche europee a favore delle
comunità transgender, dopo aver giurato guerra all’omotransfobia.
Stiamo
pericolosamente scivolando verso una terza guerra mondiale e l’Europa si
balocca coi gay pride…
Ora
non si tratta di essere pro o contro gli lgbtq+ e nemmeno di associarsi al Papa
denunciando la “frociaggine” pervasiva, ma di riportare le cose alla realtà e
al diritto:
ogni
cittadino europeo ha pari diritti e doveri degli altri, di qualunque etnia,
sesso o inclinazione;
bastano
le norme civili e penali esistenti nei paesi europei per condannare chiunque
usi e abusi con violenze, offese, discriminazioni; senza creare speciali
categorie protette.
Anche perché le vere categorie fragili sono i
malati, i bambini e i vecchi.
Le
leggi valgono per tutti, sono universali, non possono diventare di genere o di
tendenza, a tutela di singole minoranze, gruppi o lobbies.
Poi il giudice applicherà le aggravanti e le
attenuanti valutando caso per caso.
Se qualcuno aggredisce o offende un gay o un
trans, ci sono già le leggi per condannarlo, se ci sono realmente gli estremi.
Questa
idea che si debba legiferare ogni volta che accade un episodio di violenza o si
accende un tema sui media e si debbano generare nuove apposite norme, inasprite
e speciali, uccide il principio giuridico fondamentale della legge uguale per
tutti e non mutevole;
la quantità eccessiva di leggi, si sa,
danneggia la giustizia e la sua applicazione; rende la giurisprudenza una
variabile subalterna alla cronaca e alle tendenze di moda, e – come si vede –
non serve nemmeno a far diminuire i fenomeni e i reati.
Pensate
pure ai femminicidi;
più si mobilitano e si studiano leggi speciali
e più accadono;
o perlomeno accadono comunque, nonostante le
leggi speciali.
Stuprando
i codici, vanificando l’universalità delle leggi, non si raggiungono nemmeno i
risultati per cui sono introdotte le norme ad hoc.
In
ogni caso, è veramente assurdo che di fronte a problemi enormi sul piano
militare, strategico, sociale, economico, sanitario, l’Unione Europea (e la sua
periferica locale, il Mattarella) debba occuparsi di omotransfobia, come se ci
fosse una persecuzione di massa e si trattasse di una priorità per i popoli
europei.
O in
alternativa col torcicollo, davanti agli imponenti nemici reali di oggi e ai
falsi amici e alleati, è assurdo che l’Europa si debba preoccupare del Nemico Assoluto ed Eterno, il
pericolo nazi-fascista (anche qui la sua periferica locale è il Mattarella, più uno
sciame di prefiche nostrane).
E
debba perciò innalzare cordoni sanitari per sbarrare la strada a chiunque non
la pensi come il mainstream.
Infine,
l’Europa di oggi si vergogna della civiltà da cui proviene, rinnega e cancella
la sua storia, le sue tradizioni civili e religiose, il sentire comune.
L’ultimo caso non proviene dai paesi più
sradicati e scristianizzati d’Europa ma da un paese che è stato il simbolo di
una cristianità vera, vivente, partecipata, la Polonia di Woytila.
Il sindaco di Varsavia, già candidato alla guida della
Polonia, “Rafal Trzaskowski,” sostenitore dei transgender, ha firmato
un’ordinanza in contrasto con la tradizione e con la costituzione polacca, per
vietare croci, immagini di santi e altri simboli religiosi dai muri, dalle
scrivanie dei dipendenti pubblici e bandirli da ogni evento civile.
Magari
sarà possibile esibire simboli lgbtq+ ma non la croce, non i simboli cristiani.
E dire che nel preambolo della Costituzione polacca, fa notare il
corrispondente polacco a Roma, “Vladimiro Redzioch”, è scritto:
“Grati
ai nostri antenati per il loro lavoro, per la lotta per l’indipendenza pagata
con enormi sacrifici, per la cultura radicata nel patrimonio cristiano della
Nazione e nei valori umani universali”.
Se
persino a Varsavia si vuol cancellare la tradizione cristiana, figuratevi a
Parigi o a Bruxelles.
Smobilitando la civiltà europea, l’alternativa
che resta è tra nichilismo globale o islamizzazione radicale.
O peggio, il loro mix.
La
cancellazione riguarda non solo la tradizione religiosa, investe pure le
tradizioni civili, nazionali, laiche, l’arte, la letteratura, la storia e i
suoi protagonisti.
Stanno smantellando pezzo su pezzo l’edificio
della civiltà europea.
Per
questo, quando sento ogni santo giorno queste professioni di europeismo da
parte di chi mira in realtà ad affossarla, quando sento che c’è bisogno di più
Europa e che il vero spartiacque nel voto di domenica prossima sarà tra chi è
pro e chi è contro l’Europa, la sua linea e i suoi diritti civili, penso che se davvero ci tieni
all’Europa e agli europei, la prima cosa da fare è bocciare coloro che parlano
in suo nome e concorrono poi a negarla e affossarla.
Il primo nemico dell’Europa vera è l’Europa
finta, di cartongesso, detta UE, Ubriachi Eunuchi.
(Marcello
Veneziani) - (La Verità – 2 giugno 2024)
(inchiostronero.it/contro-lunione-europea-per-il-bene-delleuropa/)
«CIBERNETICA,
FUSIONE NUCLEARE,
BIOTECNOLOGIE:
LA FOLLIA
FINALE
DEGLI SCEMI DI GUERRA».
Inchiostronero.it
– (7-6 – 2024) - Sonia Savioli – ci dice:
Purtroppo
siamo tutti “scemi di guerra.”
LA
FOLLIA FINALE DEGLI SCEMI DI GUERRA.
Purtroppo
siamo tutti scemi di guerra.
Tutti
noi, appartenenti ai popoli “civilizzati” e industrializzati, eredi degli
imperi e dei colonizzatori, siamo il risultato piuttosto deforme di una società
da millenni basata sulla guerra, sul conflitto intraspecifico, sulla divisione
in classi e lo sfruttamento, sulla competizione sociale che si manifesta come
continua, primaria se non unica, parossistica ricerca di denaro-potere.
E la
prima e più funesta guerra che stiamo facendo è quella alla natura, cioè alla
vita.
Come
una cellula tumorale, l’uomo moderno pensa di poter vivere senza tenere conto
del sistema vivente cui appartiene.
Le
civiltà contadine e primitive, ormai praticamente estinte, ridotte a qualche
nicchia rimasta nei luoghi più impervi e sperduti del pianeta, imparavano la
natura-vita perché ne facevano parte.
Imparavano anche ad assecondare ed utilizzare
ciò ch’essa produceva, seguendone le leggi e restando dentro le logiche di
quelle leggi.
Le
civiltà industriali sono nate dallo stravolgimento e dall’ignoranza di quelle
leggi, dal superamento dei limiti della vita, dalla distruzione della sua rete.
Hanno
modificato la combustione estraendo dalle viscere della terra sostanze fossili
createsi in milioni di anni, avendo deciso che si dovevano produrre più
velocemente più cose di quelle che servivano, e poi che si doveva viaggiare più
veloci su più lunghe distanze.
Sempre
più.
Così
il petrolio, che nemmeno sappiamo cosa sia (le ipotesi si sprecano), è
diventato il fondamento di una società sempre più malata.
Perché
bruciarlo, e ancor prima estrarlo e raffinarlo, crea e diffonde veleno.
Avvelenando terra, acqua, aria:
gli
unici elementi indispensabili alla nostra vita.
Ma ci
ha preso gusto, la società industriale e dunque, dal petrolio in poi, è
precipitata senza più freni, di follia in follia (detta “progresso”, “conquiste
della scienza e della tecnica” e altre simili stupidaggini), verso la
distruzione finale della vita e l’annichilimento della specie umana.
Una
tappa importante in tale percorso è stata la scissione di quelle minuscole,
invisibili particelle, fondamento di ogni materia, vivente e non, chiamate
“atomi”.
Atomo
vuol dire “indivisibile”, ma la moderna scienza di storpiamento della natura ha
voluto dividere l’indivisibile, per ricavarne un’energia che ha distrutto
finora milioni di vite umane e non sappiamo quante altre vite, tra bombe,
rifiuti radioattivi, centrali nucleari andate in merda.
Con
una distruzione sempre più irreversibile. Sempre più.
Maschera
contro i rifiuti tossici.
Ma non
era ancora abbastanza.
Siamo
alle soglie della fusione nucleare.
In Francia si sta costruendo un reattore
termonucleare sperimentale del costo stimato di 20 miliardi di dollari.
Il sogno è di produrre energia infinita e
illimitata, e illimitati e infiniti rifiuti radioattivi.
Per
ottenere la fusione nucleare, cioè riprodurre sulla terra l’energia del sole
(un “solicello”? un “soletto”? una “sola”?) bisogna arrivare alla temperatura
di 100 milioni di gradi e, per non arrostire irrimediabilmente l’intero
pianeta, bisogna creare un “anello” magnetico che confini il calore.
E noi
che ci preoccupavamo per le radiazioni elettromagnetiche dei telefonini!
Ci
sono tutti nel grande affare della fusione nucleare:
tutti
uniti nella follia megalomane.
I paesi in blocco dell’Unione Europea, più
USA, Russia, Cina, Giappone, India, Corea del Sud.
A dimostrare che, nonostante le divergenze
furiose, il mondo capitalistico-industrialista è unito nella malattia mentale.
Comunque,
possiamo ancora sperare che non riescano a fondere il pianeta su cui ormai
precariamente viviamo (sapete, se non funzionasse l‘anello magnetico di
confinamento, a 100 milioni di gradi diventeremmo tutti magma), ma, come dicevo, possiamo sperare:
l’esperimento doveva partire nel 2025, adesso la buona notizia è che per vari e
variabili “problemi tecnici” (si disfano le giunture, si crepano i metalli, e questo già
in fase pre-parto) la data, molto probabilmente, slitterà.
Altri
miliardi e altro lavoro proficuo per le tasche degli scienziati a scopo di
lucro.
Se
volete poi capire meglio, come farebbe uno psichiatra, quale sia il livello di
tale malattia mentale, potete sempre leggervi il documento di questo link.
(Fusi)
(Il
nucleo del tokamak Joint European Torus. Reattori a fusione: non quello che si
dice siano).
“Atomino”
Bip Bip.
Tornando
ai bei tempi di “Atomino” e del progresso petrolifero, si verificava, come
effetto collaterale dell’uso di petrolio, il “progresso” dei materiali
sintetici, ottenuti separando molecole che in natura stavano assieme e
piazzandole assieme ad altre a loro del tutto estranee.
Non
sappiamo quanta distruzione i materiali chimico-sintetici abbiano causato.
Nessuno ha mai fatto il calcolo di quanti trilioni di api e insetti, miliardi
di uccelli insettivori, milioni di creature di ogni specie siano state da essi
distrutte.
Qualcosa
però sappiamo.
Sappiamo che sono cancerogeni e mutageni,
oltre che tossici.
Sappiamo che nell’oceano ci sono milioni di
chilometri quadrati coperti di quel materiale sintetico che chiamiamo
“plastica”, e che questi continenti di plastica uccidono tutte le creature che
capitano sotto di essi;
sappiamo
che nanoparticelle di plastica sono persino nel nostro sangue, dato che ormai
le mangiamo beviamo respiriamo, e che ci danneggiano;
sappiamo
che di avvelenamento diretto da pesticidi muoiono più di duecentomila
braccianti e contadini ogni anno, e possiamo immaginare quanto bene ci faccia
mangiarli e respirarli;
possiamo anche immaginare quanti uccelli,
pesci, insetti, mammiferi e rettili che incappano in tali prodotti
dell’avanzata scienza e tecnica muoiano nel mondo ad ogni stagione.
Ah!
Sappiamo
anche che più della metà delle acque dolci italiane, comprese quelle di falda,
sono contaminate dai suddetti prodotti e in particolare dai diserbanti.
Tutto
questo “progresso” nella distruzione della vita e nella trasgressione e
abbattimento di tutte le leggi che la regolano, ci ha portati finalmente alla
rivelazione della follia. Un’esplosione di follia
tecnico-scientifico-finanziaria che non riesce più a nascondere il suo delirio
paranoide e megalomane.
Quarta
Rivoluzione Industriale. I rischi della quarta rivoluzione industriale.
Dopo
aver sbiellato il clima, arrivando a bruciare ogni giorno quattordici miliardi
e passa di litri di petrolio e decine di milioni di tonnellate di carbone e
gas, la società autonominatasi della” Quarta Rivoluzione Industriale” cerca dei
rimedi lucrativi e brevettabili per farlo ritornare alla normalità, e magari
anche controllarlo, con la cosiddetta “geoingegneria climatica”.
Le
proposte sono molteplici:
dallo
spargere nell’atmosfera grandi quantità di anidride solforosa, al riempirla di
specchi riflettenti, allo sbiancare le nuvole con questa o quella sostanza, per
aumentare la loro capacità riflettente.
Tutto
questo per diminuire l’effetto serra, mentre si continuano a tagliare milioni
di ettari di foreste e boschi ogni anno, per far soldi, e per far soldi si
fanno viaggiare navi da crociera che consumano (e bruciano) 150.000 litri di
gasolio al giorno, e non sto ad elencarvi tutte le altre follie, come produrre
neve artificiale e irrorarne le Alpi per il divertimento, e i guadagni lauti,
del fine settimana.
A queste follie si aggiungerebbe lo spargere
in atmosfera particelle di inquinanti, consumando allo scopo migliaia di
tonnellate di combustibili fossili.
Queste
sono le idee e le soluzioni che la società del dominio e del profitto contempla
per raffreddare ciò che la sua smania di profitto, dominio, ascesa sociale e
ostentazione, con le sue guerre, consumismo, grandi opere, agricoltura
industriale, allevamenti intensivi, pseudo svaghi insensati, ha
irrimediabilmente scaldato per le prossime migliaia di anni.
E
continua a scaldare. Sempre più.
Ma il
miraggio di soldi e potere è più forte della logica e del buonsenso.
Il
potere di modificare a proprio piacimento, secondo i propri interessi,
elementi, clima, pianeta e, perché no, universo intero, è il sogno di una
civiltà passata dallo squilibrio mentale alla pazzia furiosa nel giro di una
cinquantina d’anni.
E
questa pazzia furiosa si manifesta con particolare evidenza nella cibernetica e
nelle biotecnologie.
Dal
computer personale siamo arrivati al telefono-computer portatile, che permette
a miliardi di esseri umani di perdere il ben dell’intelletto, di non essere
ormai in grado di leggere un testo lungo più di tre righe, di fare un discorso
sensato e coerente, di osservare la realtà che li circonda, di ricordare,
intuire, dedurre, ascoltare, raccontare, orientarsi, chiedere, rispondere,
capire, scegliere.
Dementi
digitali, e non è un modo di dire ma una malattia neurologica, conseguenza
della morte di una parte delle cellule cerebrali per inutilizzo, sono milioni
di adolescenti e giovani e non mancano neanche gli adulti.
Infine,
siamo arrivati alle biotecnologie.
La tecnologia della vita.
Che, come se la vita fosse una tecnica e gli
esseri viventi delle macchine, si propone di modificarli.
Per
renderli più efficienti. O più lucrativi.
Piante
modificate geneticamente per poterne brevettare i semi ed esserne i padroni
assoluti:
avere
i “diritti d’autore” su degli esseri viventi resi mostruosi e inadatti alla
vita.
Ma
finora funzionava;
mais e
soia OGM devono sopravvivere una sola stagione e, se per farlo hanno bisogno di
un notevole surplus di prodotti chimico-sintetici sparsi nei campi, questo è un
profittevole effetto collaterale:
il
guadagno è doppio per i parassiti, non estirpabili coi pesticidi, che ne
detengono le quote azionarie.
Adesso
però c’è una nuova “tecnica della vita”.
Più
ambiziosa e più pericolosa per le vite in questione.
Sempre più.
È una
tecnica che da tanto si studia e sperimenta nelle università e, finalmente, la
covid – pan-demenza ha abbattuto tutte le barriere al suo utilizzo.
Oplà:
un bel
salto oltre il limite che separa la vita dalla morte, la salute e l’integrità
degli organismi dal loro sgretolamento interno.
Applicare
le biotecnologie all’organismo umano direttamente, modificarne il funzionamento
attraverso molecole viventi sintetiche.
Che, essendo viventi, sono imprevedibili e
imperscrutabili ma, essendo di facile realizzazione (a volte basta una coltura
di batteri sintetici per produrne quante ne vuoi) sono estremamente
remunerative.
Un po’ come la cocaina, ma senza il rischio
della galera.
La
(inco)scienza biotecno illogica è arrivata anche alla modifica del DNA umano
attraverso farmaci una cui sola dose, e una sola ne serve, costa allo Stato
complice dai 2 ai 3 milioni di dollaroni.
Quando
è stato lanciato nel 2019, “Zolgensma” era il farmaco più costoso mai messo in
commercio.
(Illustrazione:
Helen James).
Meglio
della scoperta dell’America per riempire le casse.
Peccato che uno degli effetti avversi sia la
morte, e questo sta limitando un po’ le vendite.
Invece
vanno alla grande i farmaci prodotti col taglia e cuci del DNA di batteri,
lieviti, funghi.
Sfrucugliando
all’interno dell’interno della cellula, cioè nel nucleo, si può togliere un
pezzo di DNA e mettercene un altro “costruito “in laboratorio.
Più o
meno alla cieca.
Quello
che lo fanno, nella nostra società avanzata e avanzante (verso il precipizio),
vengono chiamati scienziati.
Si
tratta in realtà di avventurieri megalomani e privi di scrupoli, che inseguono
profitti e potere, fama e carriera.
Ma non
coraggiosi come gli avventurieri dei romanzi di avventura, e quindi ancora più
spregevoli, in quanto non rischiano nulla.
Almeno, gli avventurieri della finanza
rischiano i propri soldi, oltre a quelli degli altri.
Modificando
cellule e batteri, creano farmaci brevettabili, di poco costo per produrli e di
grande profitto nel venderli.
È così
grande il profitto, e ancor più grande la speranza di guadagnare sempre di più,
sempre più, che tutte le multinazionali della finanza vi stanno investendo a
carrettate.
Investire
in Big Pharma!
È questa la tendenza del momento e,
naturalmente, se il mercato investe, la (inco)scienza ci guadagna anche lei.
“…
impennata nel settore delle bioscienze… fusioni… acquisizioni… alimentate dalle
riserve di capitali… ci si aspetta che crescano i profitti.”
Provano
anche a modificare il DNA di animali d’allevamento, deformandoli perché abbiano
cosce più grosse o una stazza mostruosamente enorme, per vendere più carne.
E fare
più soldi. Sempre più.
Ma gli
animali geneticamente modificati si ammalano di terribili malattie e muoiono di
terribili morti.
Niente
di tutto questo serve a fermare il progresso.
La
società della guerra, del dominio e del profitto e la sua (inco)scienza vanno
avanti a tutta randa, come un carrarmato con un guidatore cieco passa sulle
macerie e si dirige verso l’abisso nel quale precipiterà dopo aver fatto
sfracelli.
Il
nome appropriato per quelle chiamate bioscienze o scienze della vita sarebbe
“scienze di deformazione della vita”.
«CHI
RIFIUTA LA CARNE SINTETICA È DI DESTRA?».
Dai
batteri, lieviti, microfunghi modificati per produrre farmaci, latte e carne
artificiali, agli anticorpi biosintetici fatti passare per farmaci, si arriva
ai vegetali OGM di nuova generazione, detti non più OGM ma TEA (Tecniche di
Evoluzione Assistita).
Pensano
davvero di far “evolvere” la vita in laboratorio, e nemmeno sanno cos’è la
vita.
Ma
ecco che il passo seguente è far “evolvere” l’essere umano.
I
nuovi OGM non sono più “ibridati” con pezzi di DNA di altri organismi, o
“forzati” a mutare attraverso manipolazioni delle loro cellule, no:
adesso
la (inco)scienza della vita, detta biotecnologia o ingegneria genetica, li fa
lei direttamente, i pezzi di DNA da introdurre nella cellula e poi… sta a
vedere quello che succede.
La
chiamano evoluzione assistita.
Quello
che è successo all’uomo a cui hanno trapiantato il rene di un maiale “di
evoluzione assistita” è che è morto.
Esattamente
come il maiale.
Ma,
dopo aver strombazzato la nuova prodezza scientifica, di produrre reni
“compatibili” con l’organismo umano, da maiali geneticamente modificati, il
risultato molto più scientifico e prevedibile, cioè la morte del trapiantato,
quello lo hanno bisbigliato per non farvelo sentire.
Chiamarla
“evoluzione assistita” la dice lunga sul livello di malattia mentale della
ingegneria genetica.
Pensano
di essere onnipotenti, e tale disturbo li rende ottusi:
non
capiscono la vita, i suoi fenomeni, la sua complessa e intuibile semplicità;
della
rete inestricabile e del suo meraviglioso disegno vedono solo i fili, e la
distruggono.
«VACCINI
E COVID- FATTI E CIFRE DELLA PIÙ GRANDE RAPINA DEL SECOLO»
Intanto
la multinazionale AstraZeneca ha ritirato dal commercio il suo vaccino bio tecno
illogico a base di RNA messaggero sintetico.
Quel
“messaggero” che in natura viene inviato dal DNA i ribosomi per costruire le
proteine che servono a far funzionare muscoli, cervello, cuore, sistema
circolatorio, organi vari e le stesse cellule.
Ma il messaggero artificiale, creato in
laboratorio dai novelli Faust, sta creando anche lui qualcosa: confusione.
Confusione
nelle cellule, nel codice della sintesi proteica, e di conseguenza in quegli
organismi naturali chiamati “umani”.
Che, a causa di tale confusione, possono anche
ammalarsi e morire.
Sembra
che persino la scienza ufficiale cominci a rendersene conto: “Ribosomal frameshifts as unintende
consequences of mRna vaccines”. Involontari, inaspettati spostamenti della sintesi
delle proteine nei ribosomi.
Vedete
che guai può provocare la mancanza di immaginazione unita al disprezzo e
sottovalutazione della natura, della vita naturale.
Dato
che in Gran Bretagna tale possibilità di ammalarsi e morire si è realizzata per
molte persone, le cui famiglie, in numero di 51, hanno fatto causa ad
AstraZeneca, la multinazionale ha deciso di non venderlo più.
Dato
poi che più non si vendeva.
Se vi
state domandando come mai l’”mRna monster” ammali e uccida solo i cittadini
britannici, rispondetevi da soli.
Forse i cittadini dell’Unione Europea sono
immuni… alla verità.
Ci
sono due tipi di scienza nella putrescente società del capitalismo globale:
la scienza finalizzata al profitto e quella
finalizzata al bene comune.
Ancora più precisamente e veridicamente, si
potrebbe definirle la scienza pro-natura e la scienza contronatura.
Gli
scienziati pro-natura devono elemosinare i fondi per il loro prezioso lavoro,
una parte del quale viene svolto come puro volontariato.
Gli scienziati contro natura sono arruolati
ormai nelle schiere del global-capitalismo furioso, il cui scopo è impadronirsi
di tutto ciò che esiste sul pianeta e brevettarlo.
Siccome
non si può brevettare ciò che ha fatto madre natura, bisogna prima deformarlo.
Loro
dicono “migliorarlo”, e i più scemi tra loro ci credono anche.
Pensano
di migliorare anche l’essere umano, non nel senso di renderlo più intelligente,
pacifico, solidale, responsabile.
No, anche perché tale miglioramento segnerebbe
la fine della società di guerra e progresso e del suo ultimo stadio, il
capitalismo globale.
(Usa,
trans incinta del suo compagno gay prima di diventare uomo- “Noi oggetto di
molestie”).
Il
loro sogno è rendere l’essere umano indistruttibile, eterno, onnipotente, bi o
tri sessuale: un “Nembo Kid uomo donna trans”, a cui poter vendere anche la
vita.
Nei
tentativi, lo stanno distruggendo.
Per
immunizzarlo da qualsiasi malattia usano decine di vaccini (molto remunerativi, il mercato del
presente e del futuro, pensano) e così lo intossicano e disintegrano il suo sistema
immunitario: la vera e miglior difesa di ogni organismo.
Sperimentando
molecole viventi modificate, guastano il funzionamento delle sue cellule.
Dimostrando, ancora una volta, che cercare di
impadronirsi della vita per storpiarla, violentarla, forzarla in una logica
artificiale può produrre un solo cambiamento: la morte.
Facendo
passare l’omosessualità per una scelta (scelta che richiede pratiche
farmaceutiche costose e pericolose ma, sempre, remunerative per chi le vende) minano la salute di adolescenti:
la “triptorelina” (farmaci orfani, li chiamano, ma
quasi sempre riescono a farli adottare dal sistema sanitario), usata infine per bloccare la pubertà
delle ragazzine che vogliono essere maschi, era un trattamento per
l’infertilità femminile.
Questi
sono i rischi dichiarati:
può
ridurre la densità delle ossa; depressione anche severa;
tachicardia, fibrillazione e morte improvvisa,
emorragia genitale, spasmi e debolezza muscolare, sincope, disturbi della
memoria…, e tanti altri che non sto ad elencarvi, ma li trovate tranquillamente
nella scheda tecnica dell’”AIFA”, cosa che non impedisce ai nostri angeli,
detti anche “medici”, di somministrarla e… vedere cosa succede.
In
questo cammino di scienza megalomane, asservita alla grande finanza
internazionale, e di profitto economico come unica morale, unico obiettivo,
unico ideale e ragione di vita,
CHI
NON SI FERMA È PERDUTO.
…
lontano dalla folla impazzita e dal suo ignobile conflitto,
i loro
sobri desideri non hanno mai imparato a deviare; lungo la fresca e appartata
valle della vita hanno conservato il quieto tenore della loro vita…
(Thomas Gray).
CLUB
BILDERBERG.
“L’OLIGARCHIA
A PORTE CHIUSE”
Inchiostronero.it - Roberto Pecchioli -
È in
corso a Madrid la riunione annuale del Club Bilderberg.
È in
corso a Madrid, presso il lussuoso complesso alberghiero “Mirasierras”, la
riunione annuale del Club Bilderberg,il circolo riservato dei potenti politici,
economici, finanziari, militari, giornalistici del Silenzio mascherato mondo
occidentale.
Fondato nel 1954 dal principe Bernardo, marito
della regina Giuliana d’Olanda della ricchissima casata Orange, a lungo diretto
da Etienne Davignon, diplomatico, politico e finanziere belga con un lungo
curriculum nella Comunità Economica Europea, è un luogo d’incontro della classe
dirigente del mondo occidentale.
Non è
esagerato affermare che tra le ovattate stanze dei suoi incontri oligarchici si
decide una parte rilevante del nostro destino.
A
porte chiuse, senza comunicati ufficiali, senza che nulla trapeli.
Solo
all’ultimo momento il Club indica luogo, data, invitati alla riunione,
rigorosamente riservata e sotto la protezione di un imponente, costoso apparato
di sicurezza pubblico e privato.
Strane
precauzioni per un incontro presentato per decenni come poco più di una
scampagnata tra amici uniti dall’appartenenza all’élite europea e
nordamericana. Tra i nomi italiani spicca un’assenza, quella di “Franco Bernabè”,
banchiere, ex amministratore di “Eni”, titolare di un numero impressionante di
incarichi. L’ “habituè del Club “è degnamente sostituito da” Lorenzo Bini
Smaghi”, già membro dell’esecutivo della BCE, banchiere d’affari, attuale
presidente del” colosso finanziario francese Société Générale”, ex presidente
di” Italgas”.
La
pattuglia italiana (per modo di dire,
poiché tutti, al Bilderberg, rappresentano interessi globalisti apolidi) è
completata da alcuni banchieri poco conosciuti al grande pubblico come “Michele
Dalla Vigna “( Goldman Sachs) e “Marco
Alverà” ( veneziano ma cittadino Usa, 8ex Snam ed Eni) , dal politologo docente
della celebre facoltà parigina di Scienze Politiche” Giuliano Da Empoli ,
nonché da un volto conosciuto al pubblico televisivo, la giornalista “Lilli
Gruber”, invitata di lungo corso del Bilderberg.
Non
mancano il Commissario Europeo ed ex primo ministro italiano” Paolo Gentiloni
Silverj” e il senatore a vita, banchiere d’affari, funzionario dell’oligarchia,
economista e tante altre cose “Mario Monti£, ex capo del governo italiano dopo
il golpe bianco italo-europeo-finanziario (l’arma dello spread) che cacciò
l’ultimo governo Berlusconi nel 2011.
Gli
scarni bollettini del Club – da qualche tempo costretto a un minimo di
comunicazione – rivelano che i temi di quest’anni sono i seguenti:
lo
stato e la sicurezza dell’Intelligenza Artificiale; le grandi novità della
biologia (farmaci, sieri, nanotecnologie?);
il
clima; il futuro della guerra; il paesaggio geopolitico; le sfide e economiche
di Europa e Stati Uniti; il panorama politico Usa; l’Ucraina e il mondo; Medio
Oriente; Cina; Russia.
Vasto
programma.
Come
sempre, non sapremo nulla di ciò che è detto e soprattutto delle decisioni
prese, poiché il Bilderberg prende a porte chiuse decisioni che interesseranno
tutti e ciascuno.
I
presenti sono vincolati al silenzio, in particolare i giornalisti di sistema,
tra i quali, oltre alla nostra” Lilli,” spiccano gli editorialisti capi dell’”Economist”,
del “Financial Times” e del sito e” TV economica Bloomberg”, insieme con
numerosi editori e dirigenti dei media mainstream, giunti, immaginiamo, per
ricevere le disposizioni di chi “detta la linea”.
Il
resto dei partecipanti è un autentico “parterre des roi”.
Un sovrano regnante è presente:
“
Guglielmo Alessandro d’Orange Nassau”, re d’Olanda, padrone di casa in quanto
nipote del fondatore del Bilderberg.
La
Spagna che ospita l’elevato consesso è rappresentata da due ministri in carica,
“José Manuel Albares” ( Esteri) e “Carlos Cuerpo “(Economia e Commercio), da un
politico di opposizione, dal “governatore del Banco di Spagna” e da “Ana Botìn”,
presidente del colosso” Banco di Santander”.
Nelle
lussuose suites del “Mirasierras” sono ospitati il segretario della Nato “Stoltenberg”,
“Albert Bourla “del gruppo farmaceutico Pfizer, “Eric Schmidt “di Google, il
ministro degli Esteri ucraino” Kuleba”, i massimi dirigenti di giganti
finanziari come “Deutsche Bank” e “Goldman Sachs”, tecnologi e tecnocrati di
Microsoft e Google.
Posti
d’onore per militari e uomini del “deep State americano e occidentale”:
i più
noti sono “David Petraeus”, ex direttore della CIA e “David Phillips”, dell’”USIC”
(United States Intelligence Community), l’organismo direttivo delle sedici
principali agenzie di intelligence americane.
Porte
spalancate per Wopke Hoekstra, Commissario Europeo per il Clima, Charles
Michel, Presidente del Consiglio Europeo, per il presidente della Finlandia
(neo membro Nato) e per Mark Rutte, sino a qualche giorno fa primo ministro
olandese, uomo forte della politica dei Paesi Bassi.
Uno
dei banchieri più influenti d’Europa è lo svedese Marcus Wallenberg, presidente
di Skandinaviska Enskilda Banken AB, dai cui uffici è partito sin da febbraio
l’invito al Bilderberg- con l’indicazione di luogo e data ancora sconosciuti –
per il Ministro degli Affari Europei svedese, peraltro assente.
Presenti alti dirigenti del sistema di
intrattenimento ( Gerhard Zeiler presidente di Warner Bros Discovery
International, i vertici della televisione CNN, altissimi esponenti delle
maggiori aziende energetiche ( Shell, British Petroleum, Total, BP) ministri
canadesi ed europei, perfino Anatoly Chubais, politico ed economista liberale
russo filo occidentale, la pasionaria guerrafondaia antirussa e primo ministro
estone Kaja Kallas, oltre a numerosi oligarchi del mondo tecnologico,
finanziario, universitario, industriale.
La
presenza alla riunione annuale del Bilderberg non è citata, per i numerosi
politici, membri di governo, parlamenti e istituzioni dell’Unione Europea,
nelle rispettive agende ufficiali. Sono a Madrid- così dobbiamo credere- come
privati cittadini che si riuniscono altrettanto privatamente per discettare
amabilmente delle sorti del mondo.
Il
Bilderberg Club non è l’unico laboratorio di potere riservato del mondo; forse
non è neppure il più influente.
Da
settant’anni, tuttavia, riunisce i vertici dei vari ambienti di potere
dell’Occidente, designa responsabili politici, esprime la linea e l’agenda dei
padroni di questa parte del mondo.
Dimostra
nei fatti che dietro le vane parole d’ordine di libertà, democrazia, sovranità
nazionale e popolare esiste – ormai a volto scoperto- una trama di circoli,
gruppi, consorterie di potere – non sempre d’accordo tra loro- impegnate a
orientare, dirigere, imporre- le scelte geopolitiche, economiche, culturali del
mondo, implementare questioni tecnologiche epocali come l’Intelligenza
Artificiale (tema di quest’anno), scegliere i referenti governativi che
dovranno portare avanti – e far accettare
ai popoli- le decisioni prese dal sinedrio a porte chiuse.
Solo
da pochi anni una parte dell’opinione politica conosce l’importanza, i circoli e i volti di chi davvero comanda.
Moltissimi, i più, neppure sanno
dell’esistenza di questi gruppi oligarchici.
Chi
dovrebbe informarli tace e addirittura fa parte della struttura.
L’intera
catena di potere globalista è rappresentata al Bilderberg e in altre strutture
riservate: è già molto che lo si sappia.
Al
Mirasierras in questi giorni, tutto l’anno in altri ambulacri del dominio,
qualcuno dirige il mondo sopra le nostre teste contro i nostri interessi,
calpestando i nostri principi, modificando le nostre vite. I popoli si
dissanguano nelle guerre, l’opinione pubblica si divide e si combatte su mille
questioni- spesso futili- mentre i padroni del mondo si incontrano
periodicamente per gestire risorse e potere, imporci scelte, visioni del mondo,
tecnologie, conflitti.
Crediamo
ancora alle parole d’ordine del sistema, alla libertà, alla democrazia
rappresentativa, al potere dei popoli, al “libero” voto?
In tempi di inganno universale, la lista dei
presenti alla riunione del Club Bilderberg- ( l’elenco completo è alla pagina
web Bilderberg 2024 en Madrid: temas elegidos por la élite global, españoles
seleccionados y listado completo de participantes – Kontrainfo
(noticiasholisticas.com.ar) – è uno squarcio di verità nel villaggio globale.
Purtroppo
sono così potenti, così convinti della nostra incapacità di capire e reagire
che non si nascondono più.
(Roberto
PECCHIOLI).
Vento
di destra in Europa.
La Le
Pen doppia Macron.
Msn.com – Il Giornale - Francesco Giubilei –
(8-6-2024) - ci dice:
Sono
aperti da questa mattina i seggi per le elezioni nelle principali nazioni
europee in una giornata che si preannuncia come il vero “election day” con la
maggioranza dei 373 milioni di cittadini aventi diritto chiamati a votare per
eleggere 720 europarlamentari in tutti 27 gli stati membri.
Se in
Italia le urne sono aperte da ieri e chiuderanno questa sera alle 23, in
Francia, Germania, Spagna e Polonia si può votare solo oggi.
Lo stesso vale per Austria, Belgio, Bulgaria,
Croazia, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Ungheria, Lituania,
Lussemburgo, Portogallo, Romania e Slovenia, mentre in altre nazioni si sono
già concluse le operazioni di voto.
I primi ad essere chiamati alle urne sono
stati gli olandesi giovedì 6 giugno, venerdì è stato il turno dell'Irlanda
mentre ieri si è votato in Lettonia, Malta, Slovacchia e Repubblica Ceca.
In
attesa dei risultati veri e propri, dall'Olanda arrivano i primi responsi degli
exit poll che danno in forte crescita i sovranisti di Wilders (da uno a sette seggi) con la
sinistra in vantaggio sulla destra (otto seggi contro sette).
Secondo
gli ultimi sondaggi diffusi prima del voto di domani per le europee, il
prossimo Europarlamento dovrebbe essere più sbilanciato verso destra ma la vera
partita si gioca sul tema delle alleanze.
I sondaggi attribuiscono tra i 180 e i 183
eurodeputati al Partito popolare europeo, tra i 131 e i 138 ai Socialisti, tra
83 e 86 ai Liberali di Renew, tra i 74 e i 78 ai Conservatori e riformisti
europei, tra i 66 e i 72 al gruppo Identità e Democrazia, tra i 54 e i 58 ai
Verdi e tra i 41 e i 46 europarlamentari alla Sinistra.
In questo scenario occorre tenere in
considerazione che vari partiti politici non sono ad oggi affiliati a nessun
gruppo (per esempio gli ungheresi di Fidesz o i rumeni di Aur) mentre potrebbe
verificarsi la nascita di nuovi gruppi.
Dopo
l'annuncio di Marine Le Pen e Matteo Salvini di non voler rinnovare l'alleanza
con i tedeschi di Afd, potrebbe crearsi un nuovo gruppo di ultradestra.
In
attesa dei primi risultati ufficiali che arriveranno in serata, vale la pena
ripercorrere le previsioni di voto nelle quattro principali nazioni europee
(oltre l'Italia): Germania, Francia, Spagna, Polonia.
GERMANIA
Elegge
96 europarlamentari e, secondo i sondaggi, i popolari della Cdu/Csu sono in
vantaggio con il 30% dei voti seguiti dai socialisti della Spd con il 14% e dai
verdi (Grunen).
Anche
la destra dell'Afd si attesta poco sopra questa percentuale con un calo nelle
ultime settimane ma con un risultato superiore al 10,97% del 2019.
L'ultima media dei sondaggi fornita da
Euronews il 5 giugno indica: il 30,1% per Cdu/Csu; 16,3% Afd; 15,1% Spd; 13,9%
Verdi.
FRANCIA
Si
decidono 81 seggi con il “Rassemblement National di Marine Le Pen” guidato da
“Jordan Bardella” in ampio vantaggio al 32% rispetto alla coalizione liberale
del presidente Emmanuel Macron al 15,5% e al Partito socialista al 13,5%.
Seguono
il partito di sinistra La France Insoumise (7,6%), Les Rèpublicains (7,1%), Les
Ecologistes (5,9%) e Reconquete guidato da Marion Merèchal al 5,8% con la
soglia di sbarramento al 5%.
SPAGNA
Si
eleggono 61 europarlamentari con il Partito Popolare e i socialisti del Psoe
che si contendono il primato (rispettivamente al 33,5% e al 30%) mentre Vox
dovrebbe crescere passando da 3 a 6 europarlamentari.
La sinistra di Sumar dovrebbe ottenere il 6,3%
davanti alla coalizione nazionalista Ahora Repùblicas (4,5%) e il partito di
sinistra Podemos (3,3%).
POLONIA
Si
vota per 53 seggi, la partita è tra la lista della Coalizione civica guidata
dal partito dell'attuale premier Donald Tusk (al 34%) e la lista del partito
Legge e giustizia (Pis) che governava fino a sei mesi fa (al 31%).
I
nemici dell’Europa stanno
a
Bruxelles e Strasburgo.
Marcelloveneziani.com
- Marcello Veneziani – (11 Maggio 2022)
- ci dice:
Ma chi
è il nemico principale dell’Europa?
Non
cercatelo fuori d’Europa e nemmeno al suo interno, tra i nazionalismi e i
populismi.
L’antieuropeismo
è a Bruxelles, a Strasburgo, nel cuore dell’Unione europea, nei suoi palazzi e
nelle sue istituzioni.
È
tempo di avviare un processo politico che parta dalla realtà e non
dall’ideologia, e non abbia timore di toccare i poteri dell’eurocrazia.
Con la
guerra in Ucraina, l’Unione europea ha chiaramente e nettamente dimostrato di
non avere a cuore il ruolo, la sovranità, gli interessi e i valori europei, e
di adottare scelte decisamente contrarie ai bisogni dei popoli europei.
Poteva
avere un ruolo autonomo e sovrano importante, come soggetto terzo rispetto al
conflitto tra Russia e Stati Uniti e poteva diventare l’asse di equilibrio per
trovare un compromesso, un punto di mediazione.
Invece
ha scelto di schierarsi all’ombra degli Stati Uniti, sotto la cappa della Nato,
pagando un costo spropositato sul piano economico, energetico e politico.
Ha
perfino accettato la finzione che gli Stati Uniti e la Nato siano scesi in
campo per difendere l’Europa.
E ha perfino gridato che la Russia di Putin
aveva dichiarato guerra all’Europa e stava cominciando a invaderla a partire
dall’Ucraina.
Anche
ad attribuire le peggiori intenzioni all’autocrate russo, il suo scopo era
quello di riprendere quello spazio che per secoli fu l’Impero zarista e poi
sovietico, riportando la Crimea e magari il Donbass nell’alveo russo.
Ma
Putin non ha mai pensato né dichiarato di minacciare l’Europa e fagocitarla in
un disegno di espansione e d’impero.
Ma non
solo:
ritenendoci attaccati e invasi, l’Europa ha di
fatto dichiarato di essere belligerante nel conflitto contro la Russia,
precludendosi ogni negoziato in cui porsi come un soggetto terzo, autonomo,
indipendente, punto d’equilibrio tra le pretese egemoniche della Russia e
l’egemonia planetaria degli Stati Uniti.
L’UE
ha accettato di tornare a essere un satellite, una propaggine degli Stati
Uniti, totalmente e servilmente allineati, sposando peraltro la linea di
Johnson che è uscito dall’Europa e ha ripristinato l’asse atlantico con
l’America del nord.
E dire
che l’Unione europea fu possibile solo quando, alla caduta dell’Unione
sovietica, del Muro di Berlino e del Patto di Varsavia, potemmo finalmente
sganciarci dalla tutela americana e dall’ombrello della Nato.
Non
erano stati infatti i nazionalismi a impedire, come invece falsamente si
racconta, l’unificazione europea;
ma la
divisione del mondo in due blocchi ci impediva di uscire di casa e di avere le
chiavi di casa; ci impediva di unificarci.
Solo quando si rese inutile il ruolo della Nato e non
più necessaria la patria potestà statunitense, fu possibile portare a
compimento nel 1992 l’Unione europea.
Ora
abbiamo di fatto abdicato alla sovranità e all’indipendenza dell’Europa e
abbiamo accettato di emettere sanzioni che oltre a compromettere ogni relazione
con la Russia si ritorcono contro gli interessi primari dell’Europa, a partire
dai suoi paesi più grandi come la Germania, la Francia e l’Italia stessa.
Per
compiere questo passaggio abbiamo accettato la riduzione dell’Europa
all’Occidente, che sottintende il primato americano e la strategia Nato, e
abbiamo finto di ritenere che l’Occidente fosse il mondo intero.
Mentre è ormai evidente che la globalizzazione
non è più l’occidentalizzazione del mondo ma è un processo controverso e
polimorfo dove il maggiore soggetto globale è la Cina, insieme al sud est
asiatico.
L’Occidente
come noi l’intendiamo non comprende nemmeno la sua parte più popolosa che è
l’America Latina ma l’Europa, gli Stati Uniti e il Canada, che sono i paesi con
il più alto tasso di denatalità e una popolazione anziana e sovrappeso che
arriva a malapena alla decima parte del pianeta.
Ma poi
è evidente ormai da anni che i nostri interessi reali, economici, strategici e
geopolitici divergono nettamente da quelli degli Usa.
Non sono un fautore dell’Eurasia, ma credo che
sia interesse primario dell’Europa trattare con la Russia e con l’Oriente senza
il permesso dei genitori americani.
Di questo se ne accorgono le singole nazioni
come la Francia, la Germania, l’Ungheria; l’Unione europea no.
Volendo
risalire alle origini di questo antieuropeismo in seno all’Unione europea,
credo che il rifiuto delle radici europee sin dall’atto costitutivo e la
ripetuta negazione della nostra civiltà cristiana, greca e romana, ne siano
state le premesse ideali.
Poi
l’Europa dette priorità ai tecnici e alla finanza e fu disegnata a contrario,
non come una realtà differenziata al suo interno e unita all’esterno ma
l’opposto: l’Unione Europea comprime e deprime le identità nazionali che la
costituiscono, tiranneggia i popoli, mortifica le differenze economiche al suo
interno e la sovranità degli Stati nazionali, impone norme e strettoie.
E invece appare imbelle, disarmata rispetto al mondo
esterno, incapace di una sua linea politica, strategica e militare autonoma,
incapace di tutelare i suoi confini, di fronteggiare in modo unito la
concorrenza asiatica, i flussi migratori, l’invasione commerciale cinese.
A
fronte della tenaglia che oggi ci stringe, ovvero la dominazione degli Stati
Uniti e l’espansione cinese, eleviamo a nemico principale dell’Europa la Russia
di Putin, che certamente è un’autocrazia che ha invaso l’Ucraina, ma a
differenza di Usa e Cina non ha pretese egemoniche sull’Europa né ci invade coi
suoi prodotti e i suoi modelli.
Per
questo se cercate dove si annidano i nemici dell’Europa li trovate alla guida
della Commissione Europea, tra i suoi alti commissari, ai vertici e nella
maggioranza dell’Europarlamento, nelle corti di Strasburgo, tra gli eurocrati e
i zelanti funzionari euro-atlantici, come ce ne sono anche da noi, alla guida
dell’Italia…
L’Europa
cova serpi nel suo seno.
Qual è
il più acerrimo nemico
dell'Europa?
Gli Stati Uniti!
Fai.informazione.it
– (05/02/2024) – Federico Mattei – ci dice:
"Intendiamo
intraprendere ulteriori attacchi e ulteriori azioni per continuare a inviare un
chiaro messaggio che gli Stati Uniti risponderanno quando le nostre forze
verranno attaccate, quando la nostra gente verrà uccisa".
Questo
è quanto ha detto domenica in una intervista alla “NBC” il consigliere per la
sicurezza nazionale della Casa Bianca, “Jake Sullivan”, a giustificazione degli
attacchi effettuati negli ultimi due giorni dagli americani contro gruppi
sostenuti da Teheran in Iraq, Siria e Yemen, dove Stati Uniti e Gran Bretagna
hanno colpito 36 obiettivi Houthi, che a loro volta hanno già annunciato che
risponderanno anche contro i mezzi che parteciperanno alla missione “Aspides”,
viste le minacce lanciate all'Italia.
Quindi,
la domanda conseguente è come si può credere che gli Stati Uniti vogliano
realmente che il conflitto in Medio Oriente non si allarghi - come dicono -
andando poi a bombardare a tappeto, utilizzando i B-1 Lancer, movimenti
filoiraniani?
Contemporaneamente,
supportano il genocidio in atto a Gaza tentando di finanziare Israele che lo
mette in atto con oltre 14 miliardi di dollari.
Inoltre,
hanno favorito e applaudito l'allargamento della Nato a Svezia e Finlandia,
approfittando della guerra in Ucraina, in relazione alla quale gli Usa hanno
una bella fetta di responsabilità... una responsabilità che risale al 2014.
Gli
Stati Uniti, grazie alla colonizzazione culturale dell'Europa nata con le
migrazioni di inizio 900 e poi deflagrata alla fine della seconda guerra
mondiale, vengono considerati dagli europei come loro alleati e paladini di
giustizia e libertà.
Ma è
vero che gli Stati Uniti sono - soprattutto negli ultimi anni - alleati
dell'Europa, ammesso che lo siano stati in passato?
La
Nato viene spacciata come ombrello difensivo del vecchio continente.
In realtà, soprattutto dopo il crollo
dell'Unione Sovietica, è il mezzo per Washington di avere basi operative e
logistiche a ridosso di Medio Oriente e Asia, per controllare più facilmente e
rapidamente quelle zone di mondo.
Dopo
non aver fatto nulla (dal punto di vista politico) per evitare il conflitto in
Ucraina, l'amministrazione Biden ha fatto di tutto perché si creassero le
condizioni perché tale conflitto potesse prolungarsi il più possibile, tanto da
incancrenirsi come sta avvenendo adesso.
Qualcuno
si è chiesto il perché Washington non abbia fin da subito fornito a Kiev le
armi necessarie per evitare l'invasione russa dell'Ucraina a est e a sud?
Le uniche armi fornite in abbondanza agli ucraini sono
state” javelin” e “stinger”, utili per fermare l'avanzata su Kiev dal nord,
dove foreste, laghi e acquitrini non permettevano l'uso di artiglieria pesante
come nel Donbass e negli oblast a nord della Crimea, conquistati da Mosca in
poche settimane.
Successivamente, Washington ha poi fornito a
Zelensky tutte le armi richieste all'inizio, ma solo quando queste erano
necessarie a fermare l'ulteriore avanzata dei russi.
Curioso.
Così,
adesso, in Ucraina si profila un conflitto senza possibilità che vi siano vinti
e vincitori e che potrebbe durare anni.
Un
guaio per gli Stati Uniti? No.
Il
guaio è solo per l'Europa, perché la Russia era un partner commerciale ideale
per il vecchio continente, perché forniva energia e acquistava qualsiasi
prodotto arrivasse dall'Europa.
L'attuale recessione in Germania, che presto
si estenderà all'Italia per ragioni di fatto visto che siamo fornitori di
componentistica per le aziende di quel Paese, è una delle conseguenze pratiche
del conflitto in Ucraina.
E
perché gli Stai Uniti non vengono danneggiati?
Perché
gli Stati Uniti non hanno mai avuto rapporti di scambio con Mosca, se non
quelli relativi al possibile reciproco invio di testate nucleari!
La
guerra in Ucraina, mentre per l'Europa è una iattura, per gli Stati Uniti è
un'opportunità.
Finanziare
Kiev, per una nazione che spende metà del suo Pil per sostenere un proprio
esercito che è pronto a combattere in ogni parte del mondo, è una goccia nel
mare e, oltretutto, un'opportunità di sviluppo duplice.
Infatti, da una parte fa crescere/stabilizza
l'occupazione in America finanziando la produzione di armi e tutta l'industria
necessaria a quel settore e dall'altra mette in sempre maggiore difficoltà un
concorrente come l'Europa che, più che dureranno i conflitti nel proprio
cortile, più continuerà ad essere in crisi.
La
guerra in Medio Oriente, per Washington e il Regno Unito post Brexit, sono
un'ulteriore occasione per mettere in ginocchio l'Unione europea ed è per
questo che cercano in ogni modo possibile e immaginabile qualsiasi mezzo perché
il conflitto regionale in atto già adesso possa essere
"formalizzato", in modo da aumentare i problemi già esistenti nel
vecchio continente, per metterlo ulteriormente in ginocchio.
L'aspetto
grottesco è che tutto questo è facilmente leggibile da chiunque, ma gli unici
che non se ne stanno accorgendo sono i leader dei Paesi europei e i loro
rappresentanti a Bruxelles che parlano di Washington come di un alleato, mentre
Washington sta sistematicamente sgretolando economicamente, e di conseguenza
politicamente, il progetto di Europa comune.
Pertanto,
non c'è speranza che la classe politica attuale, oltretutto sempre più imbevuta di nazionalismo (che
sconfina anche nel nazifascismo), si possa accorgere dei propri errori, tanto
che la fino a ieri neutrale Svezia invita i cittadini a "prepararsi
mentalmente per la guerra", il ministro degli esteri lituano dichiara che
"non esiste uno scenario in cui l'Ucraina non vinca la guerra e le cose
finiscano bene per l'Europa»", la Polonia - che già destina alla difesa il
4% del proprio Pil - sottolinea come a questo punto nessuno scenario possa
essere escluso e il ministro della Difesa Crosetto parli di minaccia ibrida
globale, proponendo tra l'altro di creare una riserva militare e la produzione
di più carri armati.
Ma
come è possibile essere così ottusi e ciechi di fronte a realtà tanto semplici
da comprendere?
(Federico
Mattei)
Il
nemico alle porte: luci
e
ombre della risposta Europea,
Geopolitica.info - DAVIDE BRUSEGHIN – (16/09/2023) – ci
dice:
Dopo
decenni di pace, il 24 febbraio 2022, il fantasma della guerra è tornato, e le
conseguenze di questo evento sono importanti per il futuro dell’Unione.
La
risposta all’invasione, con poche eccezioni, è stata ferma, ma la rilevanza dei
contributi economici e militari all’Ucraina è molto diversa tra gli alleati,
mancando una vera pianificazione e con un contributo importante proveniente
dagli Stati Uniti.
Dopo
un anno di combattimenti, la questione del coordinamento del sostegno a Kiev è
ancora un tema dibattuto, lasciando spesso l’iniziativa a singoli paesi.
Quali
sono le prospettive di una cooperazione europea in materia di sicurezza?
Panoramica
della reazione dell’Europa.
Dopo
l’immenso shock che ha seguito l’invasione e la resistenza inaspettata
dell’esercito ucraino, i membri della NATO e dell’Unione europea si sono
ritrovati in una complessa impasse.
Come
risolvere a breve e lungo termine le crescenti esigenze militari ed economiche
di Kiev necessarie per arrestare l’esercito russo e riconquistare le terre
sottratte?
Parlando dei fatti, la maggior quantità di
aiuti proviene chiaramente dagli Stati Uniti, con 113 miliardi di dollari
approvati dal Congresso nell’anno fiscale 2022, di cui circa 70 miliardi già
utilizzati in aiuti militari e finanziari secondo l’istituto economico di Kiel.
Ci
sono molteplici ragioni per spiegare questa magnitudo:
la storica assertività di Washington, la
disponibilità di scorte negli arsenali statunitensi, e un’occasione unica per
neutralizzare un vecchio avversario.
Naturalmente,
queste non sono le uniche risorse mobilitate per aiutare Kiev:
le
istituzioni dell’Unione Europea e diversi paesi europei inviano aiuti diretti e
offrono sostegno in settori come l’accoglienza e l’aiuto ai rifugiati, la
condivisione di informazioni con l’intelligence ucraina, l’applicazione di
sanzioni commerciali e finanziarie contro la Russia e così via.
In totale, i contributi provenienti dagli
Stati membri dell’UE e da altri paesi europei sono vicini alla somma
proveniente dagli Stati Uniti, pari a circa 68 miliardi di euro.
Ma il
diavolo sta nei dettagli, e se separassimo le diverse forme di aiuto, è chiaro
che senza il massiccio supporto militare di Washington, è probabile che sul
campo difficilmente si osserverebbe una controffensiva.
Infatti
sul totale dei finanziamenti, “solo” 21 miliardi, più 6 provenienti dal Regno
Unito, sono collegati alle forniture militari necessarie per il mantenimento
delle operazioni belliche.
L’impegno
militare europeo può essere definito come “singhiozzante”:
ad
esempio, dopo i primi mesi di conflitto in cui sono state inviate attrezzature
e armi per più di 20 miliardi di euro per sostenere la difesa, i flussi di
materiale sono rallentati di molto, per poi riprendere ad aumentare quando era
necessario fornire a Kiev sistemi di difesa aerea per proteggere le principali
città e le truppe e contrastare l’offensiva invernale russa, come suggerito
dall’Istituto economico di Kiel.
Un
simile schema è osservabile nel 2023, quando dopo un inverno pieno di
contributi necessari per preparare la controffensiva, si osserva un cambiamento
nel flusso in termini negativi.
Naturalmente,
vi sono molti settori essenziali in cui l’aiuto europeo è prevalente, sia in
termini di donazioni umanitarie che finanziarie, e c’è una bozza di impegno a
lungo termine per la protezione di Kiev.
Esempi di questo investimento prolungato sono
i contratti firmati con il gigante tedesco “Rheinmetall” per la fornitura di
munizioni, veicoli e carri armati ristrutturati, nonché per la costruzione di
una fabbrica sul territorio ucraino in collaborazione con “Ukroboronprom”.
Un’altra
iniziativa di origine tedesca è il “Ringtausch“, un programma di compensazione
per incoraggiare i paesi orientali a donare veicoli, munizioni e sistemi d’arma
dell’epoca sovietica in cambio di ricevere controparti moderne dalle industrie
tedesche.
Questi
sono certamente segnali positivi, ma non possiamo nascondere l’impatto moderato
al fine di rinnovare la stabilità del continente.
Occidente
versus Oriente: prospettive diverse.
La
crisi iniziata nel 2022 ha avuto un grande impatto sull’Europa, ma il
significato di questo evento non è lo stesso per tutti i paesi.
La
maggioranza degli ex membri del Patto di Varsavia è pienamente impegnata
dall’inizio del conflitto per contrastare l’invasione russa, con la Polonia e
gli Stati baltici alla testa del gruppo, e in tempi recenti, una dichiarazione
di undici stati balcanici, tra cui la Serbia, un alleato storico della Russia,
ha confermato il loro sostegno unificato a Kiev.
Una
chiara motivazione per questo approccio diretto, a differenza della reazione
iniziale dei paesi dell’Europa occidentale, si trova nell’occupazione storica
dell’ex Unione Sovietica e in tutte le tracce lasciate da quel periodo, ma è
anche una questione di sicurezza in luoghi in cui solo l’alleanza NATO concede
una forma di protezione reciproca.
Per i
due nuovi membri aggiunti alla lista della NATO come conseguenza diretta della
guerra, altri vecchi membri sono meno soddisfatti di lasciare tutta la
responsabilità all’alleanza per affrontare le questioni di sicurezza.
Particolare
è l’esempio della Polonia, leader nell’Unione europea come uno dei maggiori
donatori militari verso Kiev e in processo di espandere le sue forze armate in
numeri senza precedenti, con una spesa prevista di almeno il 4% del suo PIL per
la difesa entro il 2024.
Un
altro segno di diverse vedute su cosa fare in termini pratici è la “dichiarazione
di Tallinn”, che ribadisce la necessità di fornire agli ucraini tutto il
sostegno e gli strumenti di cui hanno bisogno per respingere i russi fuori dai
confini internazionali.
Non
sorprende che sia stato firmato nel gennaio 2023 dai rappresentanti di Estonia,
Regno Unito, Polonia, Lettonia, Lituania, Danimarca, Repubblica Ceca, Paesi
Bassi e Slovacchia, e corrisponda anche ai paesi il cui contributo è maggiore
rispetto alla propria economia.
Le
nazioni occidentali, ad eccezione del Regno Unito, hanno dimostrato meno
cooperazione e decisione a sostegno della causa di Kiev, nonostante gli
innegabili contributi dispiegati.
Questo
è il risultato di numerose e lunghe discussioni su quali e quanti sistemi
debbano essere consegnati al governo ucraino, come il prolungato dibattito
sulle forniture di armi pesanti.
In ordine: artiglieria a lungo raggio
all’inizio dell’estate 2022, sistemi di difesa aerea nell’autunno del 2022, e
carri armati nell’inverno del 2023, tutto in nome di una lenta escalation il
cui risultato principale è allungare i tempi di risoluzione del conflitto.
A
questo punto sorge una domanda: cosa sta facendo l’Unione Europea per
correggere questa situazione?
Integrazione
o status quo?
Il
nuovo livello di crisi raggiunto ha portato alla consapevolezza dello stato
generale della difesa europea, che per lungo tempo si è affidata al suo potente
alleato nordamericano.
Qualcosa
sembra muoversi nell’ultimo anno:
in primo luogo, la nuova strategia chiamata “Strategic
Compass”, dichiarata nel marzo 2022 dalla Commissione Europea con l’obiettivo
di sviluppare una serie di nuovi strumenti come un corpo di intervento rapido
di almeno 5000 unità, una strategia comune su spazio, la Cyber security e il
controllo marittimo, più un importante aumento del bilancio militare da parte
di tutti i membri e una stretta cooperazione con la NATO, l’ONU, ASEAN e altri
partner nell’organizzazione dell’OCSE.
Più
focalizzata sul breve periodo è la legge a sostegno della produzione di
munizioni, basata sulle osservazioni sulle necessità per un conflitto su vasta
scala come si vede in Ucraina.
I
problemi principali relativi alla costruzione di una infrastruttura di difesa
comune per l’Europa sono rispettivamente i tempi di attuazione delle politiche
e all’effettiva volontà dei governi di sostenere questi investimenti.
Come
spiega un report di “Politico”, diversi amministratori delegati e
rappresentanti della difesa industriale europea si lamentano della mancanza di
ordini per promuovere gli investimenti effettuati al fine di sostenere la
crescente necessità di rifornire le scorte europee e di mantenere aperto il
flusso di aiuti all’Ucraina.
Un’altra
questione sottolineata nella relazione è la difficile gestione dei progetti di
joint venture, dove gli interessi e le esigenze nazionali differenti ritardano
il processo di sviluppo e creano sfiducia tra i partner.
Esempi
di questo sono il “Future Air Combat System”, progetto franco-tedesco su un
nuovo velivolo da combattimento, e il simile programma “Global Compact Air
Programme” guidato dall’Italia, dal Regno Unito e dal Giappone, progetti simili
ma sovrapposti che evidenziano i problemi di coordinamento e sviluppo tra paesi
membri e che di fatto rallentano l’entrata in servizio di questi mezzi e ne
complicano la logistica comune.
Un caso simile è il “Main Ground Combat System”,
un progetto per la creazione di un carro armato comune per sostituire i vecchi
e differenti modelli in uso, ma le continue discussioni tra Francia e Germania
sulla realizzazione stanno allungando i tempi, causando una perdita di
interesse tra alcuni potenziali partner che spostano la loro attenzione verso
industrie extra-europee.
La
Polonia è il principale esempio di questo processo, intenzionata ad acquistare
sistemi d’arma coreani e americani.
Infine,
la già discussa tendenza ad affidarsi a industrie extraeuropee, in particolare
quelle degli Stati Uniti, è particolarmente visibile nei paesi dell’Europa
orientale, che sentono l’urgenza di costruire un sistema di difesa forte e
aggiornato contro la minaccia proveniente dall’est.
Le difficoltà nella costruzione di
un’architettura di difesa integrata per l’Europa sono numerose ed alcuni passi
stanno cominciando a essere compiuti, ma il problema riguarda i tempi in cui
queste strategie verranno implementate, con il concreto rischio di essere
nuovamente impreparati allo scoppio di un’altra crisi.
La vera questione in questo momento è più
politica che tecnica:
l’Europa è davvero pronta a mettere da parte i diversi
interessi nazionali per salvaguardare il benessere comune e i principi
cardinali della sua Unione?
La risposta a questo interrogativo potrebbe
valere una trasformazione chiave per il futuro del vecchio continente, ma vi
sono ancora molti nodi decisivi che andranno risolti e i tempi con i quali
verranno affrontati ci diranno di più sulla futura faccia della difesa Europea.
L’accelerazione
dell’UE verso
la
neutralità climatica:
un futuro
che fa ben sperare?
Geopolitica.info - FEDERICA ATTIANESE – (31/05/2024)
– ci dice:
Risale
al 29 aprile scorso il via libera del Parlamento europeo al testo della “CSDDD”
(Corporate Sustainability Due Diligence Directive), la nuova direttiva sul
dovere di diligenza che impone alle aziende di ridurre il loro impatto negativo
su ambiente e diritti umani, e sono attualmente sottoposti a consultazione
pubblica i nuovi standard “ESRS” “VSME” per le PMI non quotate, un’opportunità
che potrebbe rivelarsi chiave per rispecchiare le esigenze di proporzionalità
di queste ultime.
Riuscirà
dunque l’Europa nel suo intento di diventare il primo continente a impatto
climatico zero?
Quali sono le più recenti riforme in vista del
raggiungimento dell’obiettivo?
L’”European
Green Deal” e la “NRFD”: verso la “climate neutrality.”
Negli
ultimi anni, l’Unione europea ha avviato una serie di riforme con l’obiettivo
di raggiungere una posizione di vantaggio nell’ambito della transizione
sostenibile rispetto al resto del mondo.
Attraverso il suo sforzo verso la neutralità
climatica da raggiungere entro il 2050, e le misure legate all’”Industrial
Green Deal”, l’Europa sta infatti operando alla realizzazione di un sistema
economico-finanziario sempre più sostenibile, volto a rendere le imprese e più
responsabili del proprio impatto sul pianeta, e a rafforzare la competitività
dell’industria europea stessa.
In questo senso, la “Direttiva 2014/95/EU” – la “NRFD”
(Non Financial Reporting Directive) riguardante l’obbligo di comunicazione di
informazioni di carattere non finanziario per le imprese di grandi dimensioni –
ha rappresentato uno step cruciale in questa direzione.
Tuttavia,
essa è stata a lungo soggetta a critiche per la mancanza di linee guida
dettagliate, il che ha avuto come conseguenze principali la mancata
comunicazione da parte delle imprese sulle informazioni sulla sostenibilità, la
non attendibilità delle informazioni comunicate, o ancora la difficoltà di
reperimento delle informazioni.
L’innovazione
della “CSRD”
È in
questo contesto che si colloca la “Direttiva 2022/2464/EU” riguardante la
rendicontazione societaria di sostenibilità, la cosiddetta “CSRD “(Corporate
Sustainability Reporting Directive), che modificando la “NRFD”, ha lo scopo
principale di estenderne l’ambito di applicazione, allargando il numero di
imprese sottoposte all’obbligo di rendicontazione, e definendo requisiti più
stringenti sulle informazioni da rendicontare.
Non solo, con essa cambiano anche le modalità
di realizzazione dei bilanci di sostenibilità, attraverso cinque principali
novità.
La prima è l’analisi di doppia materialità, che richiede alle imprese di
fornire informazioni materiali di sostenibilità sia in merito all’impatto delle
proprie attività sulle persone e sull’ambiente (materialità dell’impatto), sia
riguardo al modo in cui i fattori di sostenibilità incidono su di esse e sui
loro risultati (materialità finanziaria).
Tale
analisi deve essere effettuata secondo gli standard di rendicontazione “ESRS”
(European Sustainability Reporting Standards), stabiliti dall’”EFRAG” (European
Financial Reporting Advisory Group), volti a garantire omogeneità nelle
modalità di elaborazione.
La Direttiva prevede inoltre il cosiddetto
“obbligo di assurance”, in base al quale la revisione del report di
sostenibilità deve essere effettuato da un accreditato “statutory auditor”;
l’obbligo
di digitalizzazione dell’informazione presente nei report, utilizzando il linguaggio “XHTML” e
il linguaggio di “marcatura “XBRL”;
la
collocazione dell’informativa di sostenibilità all’interno della “Relazione
sulla Gestione” e non in un documento a sé stante, al fine di garantire una maggiore
integrazione tra informazioni di carattere finanziario e non;
e infine, l’integrazione degli aspetti ESG
lungo la Value Chain, per cui le imprese, nel rendicontare l’informativa di
sostenibilità, dovranno includere anche le informazioni sugli impatti
materiali, sui rischi e sulle opportunità connesse all’intera catena del valore
risultanti delle attività di due diligence e dell’analisi di materialità.
Le
novità e le critiche derivanti dalla “CSDDD”.
La “CSDDD”
(Corporate
Sustainability Due Diligence Directive) rappresenta un ulteriore step nella
stessa direzione, una sorta di corollario della CSRD, ma in cui l’UE guarda per
la prima volta all’”intera supply chain”, estendendo dunque a tutta la filiera gli obblighi di trasparenza
ESG.
La direttiva mira a far sì che le aziende
prendano una maggiore consapevolezza e intervengano responsabilmente sui propri
impatti sociali e ambientali.
Il
processo di approvazione del testo da parte del Parlamento europeo è stato
tutt’altro che lineare, e ha incluso varie modifiche che non sono state esenti
da critiche.
Nella
nuova versione della direttiva, infatti, non è più previsto che imprese
operanti in settori ad alto rischio ricadano nel suo ambito di applicazione.
Ne
deriva che non sono attenzionati alcuni settori particolarmente a rischio di
violazione di diritti umani e/o depauperamento dell’ambiente quali per esempio
il petrolifero, l’estrattivo, e la pesca.
Ancora,
non è più prevista la legittimità dei sindacati ad avviare azioni dirette
contro le aziende per far valere la loro responsabilità in sede civile per un
risarcimento del danno, ma è rinviata agli Stati membri in sede di recepimento
della CSDDD nei loro ordinamenti nazionali la possibilità di autorizzare i
sindacati ad azionare rimedi giuridici per tutelare i soggetti lesi dall’azione
delle aziende.
Ciò comporta non solo un livello di tutela
differenziata tra la violazione delle norme in materia di lavoro e quelle di
tutela ambientale, ma anche il rischio di livelli diversi di tutela in materia
sociale da Paese a Paese.
E per
le PMI non quotate? L’importanza degli Standards VSME.
Un
ulteriore strumento su cui è importante porre attenzione è dato dagli standards
volontari di rendicontazione di sostenibilità per le PMI non quotate, o ESRS
VSME (Voluntary standards for non-listed SMEs).
Tali
standards sono stati sviluppati parallelamente agli standards ESRS LSME (ESRS
for listed small- and medium-sized enterprises), i quali sono invece rivolti
alle PMI quotate soggette alla CSRD ed entreranno in vigore il 1° gennaio 2026.
L’introduzione degli ESRS VSME mira a offrire alle PMI una guida chiara per
stimare e perfezionare le loro pratiche sostenibili nell’articolata arena degli
standards sulla sostenibilità, con la speranza di semplificare il panorama
normativo.
A
guidare tali standards è il principio di proporzionalità, che assicura un
percorso di rendicontazione sostenibile che tiene conto delle caratteristiche
fondamentali delle singole entità.
Verso
la giusta direzione?
Senza
alcun dubbio, l’Unione europea, attraverso le numerose riforme in materia di
sostenibilità, sta delineando un panorama normativo in cui le imprese dovranno
integrare sempre di più la responsabilità sociale e ambientale nelle loro
pratiche commerciali.
La CSRD ha già posto importanti obblighi di
trasparenza che le imprese devono rispettare, e la CSDDD – nonostante alcuni
punti ancora critici e il ridimensionamento subito nel percorso verso
l’approvazione – si muove nella stessa direzione, ampliandone il perimetro.
Sarà
cruciale porre attenzione soprattutto sugli ESRS VSME, che offrono alle PMI non
quotate uno strumento molto flessibile per adeguarsi alle nuove necessità senza
dover subire eccessivi oneri burocratico-finanziari.
Grazie alla presenza di un numero sempre
maggiore di strumenti normativi, il futuro dell’UE fa dunque ben sperare, ma
sarà solo tramite un impegno comune sia da parte degli Stati membri che delle
imprese che gli obiettivi potranno finalmente essere raggiunti.
Verso un’autonomia strategica:
una valutazione
della risposta
fornita
dal” Fondo Europeo per la Difesa”.
Geopolitica.info
- MARTINA CANESI – (04/06/2024) – ci dice:
Il
Fondo Europeo per la Difesa (EDF) rappresenta un cambiamento cruciale nella
strategia di sicurezza europea: con l’obiettivo di rafforzare l’autonomia
strategica dell’Unione, i fondi rappresentano un primo passo verso una politica
industriale comune nel mercato della difesa.
Sebbene l’EDF dimostri progressi significativi
verso un mercato comune europeo della difesa, permangono sfide critiche, come
la necessità di una coerenza strategica a lungo termine, e di bilanciamento tra
la liberalizzazione del mercato e la competitività industriale.
Nonostante gli ostacoli, lo slancio verso un mercato
della difesa coeso continua a crescere, alimentato dai cambiamenti geopolitici
e dall’imperativo dell’autonomia strategica.
Dal
fallimento della Comunità Europea di Difesa negli anni ’50, l’Unione europea ha
visto un atteggiamento prudente nel campo della sicurezza e della difesa,
storicamente smorzato dalla resistenza degli Stati membri a qualsiasi rinuncia
alla sovranità nazionale.
Nell’ultimo
decennio, la necessità di una strategia comune in grado di colmare il divario
nella produzione e nello sviluppo della ricerca e della tecnologia nella difesa
è diventata necessaria non solo da un punto di vista geopolitico, ma anche per
affrontare le sfide presentate da un settore economico privo di coordinamento
europeo.
Una
risposta a questi imperativi richiede lo stanziamento di risorse finanziarie
per accelerare le iniziative sviluppate a livello nazionale ed in partnership
con altri Stati membri dell’UE.
L’istituzione
del Fondo Europeo per la Difesa (EDF) nel 2021 dimostra il passaggio dalla
liberalizzazione del mercato della difesa alla politica industriale, che
utilizza direttamente le risorse finanziarie del bilancio dell’UE per
incoraggiare la ricerca e lo sviluppo delle capacità di difesa.
Attraverso
la comprensione del suo contesto istituzionale, questa analisi vuole valutare
la solidità della soluzione offerta dall’EDF alle problematiche del mercato.
Il
contesto europeo sulla difesa comune.
Sebbene
il “Trattato sul funzionamento dell’Unione europea” (TFUE) non menzioni la
difesa come una delle competenze, le istituzioni UE hanno progressivamente
incluso i mercati della sicurezza e della difesa sotto la loro influenza,
definendoli come settori critici per lo sviluppo del mercato unico.
La
significativa frammentazione indicata dalla duplicazione delle risorse e dalla
varietà degli armamenti acquisiti dagli Stati membri è una caratteristica del
mercato europeo della difesa e un segnale eloquente del suo spreco.
Le
sfide alla sicurezza dei primi anni 2010, come la guerra in Ucraina, gli
attacchi terroristici in Europa del 2015-2017 e la crisi migratoria, hanno
rafforzato l’urgenza di una risposta comune.
La
necessità di ridurre la frammentazione è stata inizialmente affrontata
attraverso lo sviluppo di una serie di programmi a partire dalla” Commissione
Junker”.
Attraverso
l’istituzione dell’Azione preparatoria sulla ricerca in materia di difesa
(PADR) tra il 2017 e il 2019 e del “Programma europeo di sviluppo industriale
della difesa” (EDIDP) nel 2019 e 2020, sono state gettate le basi del futuro”
Fondo Europeo per la Difesa”).
Con
l’approvazione del Parlamento europeo ad aprile 2019, l’accordo di base della
Commissione europea sul EDF ha presentato il fondo come uno stimolo opportuno
per la ricerca e l’innovazione avanzata nel settore della difesa, in
particolare nelle aree delle tecnologie e dell’ottimizzazione del suo bilancio.
Il
clima internazionale e il suo impatto.
Il
passaggio dalla liberalizzazione all’implementazione della politica industriale
nel mercato della difesa è stato motivato da diversi fattori di rischio messi
in luce da uno scenario internazionale progressivamente più cauto.
La tendenza globale alla messa in sicurezza
dei materiali critici e il rilancio del concetto di sicurezza economica hanno
sollevato interrogativi sulla dipendenza strategica dell’Europa dall’alleato
transatlantico.
La
necessità di una soluzione è stata ulteriormente sottolineata dall’insediamento
nel 2016 di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti e dalle sue aperte
critiche alla NATO, perno centrale della sicurezza europea.
La
riduzione dei fondi destinati alla difesa e il sotto-investimento sistemico
nella ricerca e sviluppo in materia di sicurezza, hanno portato ad una carenza
di prodotti e forniture che ha a sua volta hanno motivato l’affidamento a
soluzioni straniere, come i prodotti già sviluppati negli Stati Uniti, o lo
sviluppo di soluzioni nazionali, contribuendo alla frammentazione del settore
europeo.
La
risposta ai cambiamenti geoeconomici e il rischio di un disaccoppiamento degli
Stati Uniti in materia di sicurezza hanno dimostrato la necessità di sviluppare
un piano industriale che non dipendesse da attori stranieri.
La
soluzione europea.
Il “Fondo
Europeo per la Difesa” (EDF) è stato ufficialmente inserito nel Quadro
finanziario pluriennale (2021-2027) come catalizzatore vitale per il
rafforzamento della difesa dell’UE, spingendo l’Europa verso un primo passo
nella direzione di un’autonomia strategica.
Le
ingenti risorse finanziarie fornite dall’EDF, pari a 8 miliardi di euro, sono
suddivise in 5,3 miliardi di euro per progetti di sviluppo collaborativo delle
capacità che integrano i contributi nazionali e 2,7 miliardi di euro per la
ricerca collaborativa nel settore della difesa per affrontare le sfide e le
minacce emergenti e future.
L’EDF viene inoltre dipinto dai leader dell’UE come
uno strumento vitale per promuovere una maggiore cooperazione in ambito
strategico.
Per lo
stesso motivo, è stato fissato un requisito relativo al coinvolgimento di
almeno tre Stati membri, che dovrebbe fornire incentivi per le iniziative che
coinvolgono diverse piccole e medie imprese di diversi Paesi.
Il
Fondo Europeo per la Difesa non solo dimostra un ruolo trasformato della
Commissione europea nella cooperazione europea in materia di sicurezza, ma
anche un passo avanti nella direzione di una politica industriale coesa.
Mentre
la Commissione si allontana dal suo ruolo tradizionale in materia di difesa,
gli obiettivi generali di rendere l’industria della difesa più competitiva e
coordinata sono sostenuti dalla creazione di una strategia comune.
Con un
impegno di finanziamento di 1,5 miliardi di euro all’anno oltre il 2021, l’EDF
contribuisce quindi a “rendere la cooperazione la norma” nella R&S della
difesa dell’UE, oltre ad affrontare il calo degli investimenti della difesa nei
Paesi EU.
Una
valutazione critica.
Sebbene
l’EDF abbia fornito una base per lo sviluppo, il Fondo presenta una serie di
criticità che possono essere riassunte in tre categorie.
In
primo luogo, un’iniziativa politica di questo tipo richiede una strategia più
di lungo termine, soprattutto in considerazione della continuità temporale
richiesta dai programmi di ricerca e sviluppo la cui durata è inevitabilmente
influenzata dalla complessità degli obiettivi perseguiti e dei risultati
effettivamente raggiunti. Il limite temporale predisposto al 2027 allo scadere del
Quadro finanziario pluriennale (2021-2027) costituisce dunque un orizzonte non
sufficiente per sviluppare una strategia comune di lungo periodo.
Una
seconda questione è strettamente legata all’approccio di liberalizzazione del
mercato che non è stato veramente abbandonato dalla Commissione ed è stato
mutuato dalla sua lunga esperienza in campo civile e soprattutto per i beni di
consumo.
Se
l’obiettivo è quello di rafforzare la base tecnologica e industriale europea
nel settore della difesa, questo approccio dovrebbe essere accompagnato da una
più attenta valutazione dell’impatto delle scelte sul tessuto industriale,
privilegiando l’aumento della competitività delle imprese piuttosto che quello
della concorrenza in termini assoluti.
Questo
può significare che le aziende leader nel campo delle alte tecnologie
dovrebbero essere rafforzate, piuttosto che rischiare di indebolirle favorendo
la creazione di una potenziale concorrenza.
Infine,
il riconoscimento dell’identità europea delle imprese europee da parte di
gruppi internazionali, in particolare americani, rappresenta ancora una
questione fondamentale.
La
difficoltà di valutare se le capacità tecnologiche e industriali e il relativo
management hanno sede nell’UE è strettamente legata alla conoscenza di
informazioni, anche sensibili, sulla governance del gruppo industriale di
appartenenza.
Il problema è reso ancora più complicato dalla
diversità dei quadri giuridici nazionali per il controllo degli investimenti
esteri e dal possibile esercizio di “poteri speciali” da parte degli Stati
membri volti a proteggere i propri interessi nazionali. Un quadro veramente
comune per lo sviluppo di un mercato europeo della difesa comporterebbe lo
sviluppo di una soluzione per il riconoscimento dell’identità dell’UE.
Le
tendenze future.
Nonostante
il quadro di graduale integrazione del mercato fornito dall’EDF, i Paesi
europei continuano a utilizzare le eccezioni all’”articolo 346 del TFUE” per
ignorare le regole dell’UE e favorire le imprese nazionali nelle gare d’appalto
(l’80-90% del budget per le nuove attrezzature viene ancora speso su base
nazionale).
Le
carenze del programma già esistente e il corso incerto dei recenti eventi
internazionali, rappresentati dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia
nel febbraio 2022 e dall’inasprimento della competizione globale con la Cina,
hanno progressivamente evidenziato l’imminente necessità di creare un’industria
della difesa veramente europea.
La
Commissione europea ha raddoppiato i suoi sforzi nel settore della difesa
attraverso la sua più recente “Strategia Industriale di Difesa Europea” (EDIS),
proposta il 5 marzo 2024, come diretta conseguenza dell’incapacità dei
precedenti programmi di soddisfare le immediate esigenze di sicurezza degli
Stati membri dell’UE.
Facendo
leva sullo slancio politico, l’integrazione ai programmi esistenti rivela la
possibilità di colmare le lacune lasciate dall’EDF.
Le
nazioni europee, ad esempio, acquistano ancora più da fornitori extra-UE che da
fornitori UE:
circa
il settanta per cento degli acquisti complessivi nel periodo 2022-2023 proviene
da nazioni extra-UE, con il sessantatré per cento solo dagli Stati Uniti.
I
continui sforzi in direzione dello sviluppo di un mercato comune europeo della
difesa riflettono un interesse che è cresciuto solo nell’ultimo decennio, e
l’attenzione alla difesa dovrà essere al centro dell’agenda legislativa della
prossima legislatura europea eletta a giugno.
(Martina
Canesi).
Il
principale nemico
della
Ue resta Macron.
Italiaoggi.it - Franco Adriano – (18-4-2024) –
ci dice:
«È
l'Europa che si è concentrata sulle cose sbagliate».
Mario Draghi l'ha affermato in relazione al
fatto che i paesi europei si fanno concorrenza, in nome di un falso concetto
della competitività, anche nei settori, come per esempio la difesa e l'energia,
in cui hanno forti interessi comuni.
Circostanza
che per "SuperMario" ci impone di agire come Unione europea “come mai
prima d'ora”.
Un'osservazione
che si potrebbe estendere più in generale alla manifesta incapacità di tanta
classe dirigente politica europea di focalizzarsi sulle cose che contano, persa
nell'illogico conflitto fra conservatori e riformisti sui cosiddetti diritti,
teorie gender e quant'altro, che domina il dibattito.
L'esempio
più eclatante è rappresentato da “Emmanuel Macron” che a parole apprezza Draghi
ma mai appoggerebbe la sua proposta di creare dei colossi Ue nei settori di
energia, difesa e telecomunicazioni (a meno che rappresentassero un dominio
francese).
Piuttosto,
il presidente francese appare impegnato ad orientare l'opinione pubblica su
questioni che nulla hanno di urgente in Europa:
dopo il via libera unanime del suo parlamento
riunito a Versailles, sul diritto dell'aborto nella costituzione francese, ha
indotto l'Eurocamera ad esprimersi per inserirlo nella “Carta dei diritti
fondamentali” dell'Unione europea.
Una
politica divisiva che suscita naturalmente reazioni nella parte politica più
conservatrice dell'intero continente.
Una perdita di tempo e di energie che
distoglie l'attenzione dalle vere emergenze e che ricorda di converso quanto
sta avvenendo in Argentina, dove “Libertad Avanza”, il partito del presidente
“Javier Milei”, dopo il clamoroso flop sulla radicale riforma economica
promessa in campagna elettorale, ha presentato un disegno di legge che
riclassifica l'aborto come un crimine punibile con pene detentive per le donne.
Evidentemente
non è di questi scontri ideologici che i popoli hanno bisogno, anche se vi si
appassionano.
Lungi
da una deriva sudamericana, in Europa serve
«una
ridefinizione della nostra Unione non meno ambiziosa di quella operata dai
padri fondatori 70 anni fa», dice ancora Draghi.
Oggi,
non è scontato fare innanzitutto ciò che serve per sopravvivere in questo
mondo.
Occorre capirlo.
Le
crisi dell’Europa.
Laciviltacattolica.it
– E’tienne Perrot – (4-2-2023) – ci dice:
Come
un viandante che procede a piedi – ovvero che progredisce a forza di cadute in
avanti, com’è necessario a chi si muove mettendo sempre un piede davanti
all’altro per mantenere l’equilibrio –, l’Europa passa di crisi in crisi.
Ma che
cos’è una crisi?
È qualcosa che, si tratti di un evento
psicosomatico, culturale o sociale, pone l’organismo davanti a un bivio;
è il luogo «critico», dove a determinare il
percorso da seguire sarà il criterio al momento dominante.
La crisi europea è quel luogo instabile in cui
il subcontinente esita tra due percorsi: quello della stabilità, che non è
immobilità, ma una tensione verso l’equilibrio;
o
quello di un’ulteriore svolta verso lo squilibrio, che può portare alla
disintegrazione.
Le
basi culturali delle crisi europee.
Nel
1935 “Paul Hazard” analizzava la crisi europea causata dal razionalismo nel
XVII secolo.
Ricordiamo
solo la sua famosa diagnosi:
«La maggioranza dei Francesi pensava come il Bossuet;
tutt’a un tratto, i Francesi pensano come il
Voltaire: è una rivoluzione».
Era il
trionfo di una ragione incentrata sulla padronanza individuale del proprio
sapere – in contrapposizione alla comunità credente, reputata alienante –, che
trovava il proprio riferimento in” Descartes”.
Nello stesso anno, vale a dire nel maggio
1935, una famosa conferenza tenuta a Vienna dal filosofo “Edmund Husserl”
veniva intitolata
«La crisi dell’umanità europea e la
filosofia», ossia una crisi letta come il tentativo delle scienze sociali e dei
filosofi contemporanei di prendere le distanze dalla modernità.
A poco
a poco, alla maniera di “Max Horkheimer” e “Theodor W. Adorno”, veniva
riconosciuta l’impossibilità di dare compimento al razionalismo strumentale
nato dall’Illuminismo:
«Il
mito è già Illuminismo, e l’Illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia».
Oggi,
l’idea che l’Europa ha della crisi si basa su questi fondamenti culturali.
Poiché è incapace di dominarla tramite la ragione all’interno di una
rappresentazione coerente, la polarizza nelle sue divergenti manifestazioni:
di volta in volta crisi economiche, politiche,
ecologiche e finanziarie, nonché crisi della governance europea, tutte vissute
nella cupa prospettiva della disoccupazione, dell’aumento dei prezzi,
dell’insicurezza e dei dubbi sul futuro dell’Europa stessa.
Solo
pochi moralisti e qualche teologo collegano le odierne crisi europee a una
coscienza frammentata e a un’umanità dispersa.
Così, papa Francesco parla di complessità; afferma che
più logiche irriducibili interagiscono in «una sola e complessa crisi
socio-ambientale».
I
rimedi ipotizzati, riecheggiando la crisi culturale dell’Europa, divergono
quanto le analisi che vengono proposte.
Se gli esperti, i politici o gli economisti
non fossero esitanti, non si parlerebbe affatto di crisi dell’Europa, ma
semplicemente di soluzioni dettate dalla ragione.
Le terapie che conducono a tante analisi
disparate sono molto divergenti.
È la
visione terapeutica che presiede le analisi, perché, in nome della razionalità
strumentale, sono gli strumenti che pensiamo di avere in mano che
inconsapevolmente modellano le diagnosi.
È la
sindrome del martello:
quando
l’unico strumento di cui si dispone è un martello, tutti i problemi sembrano
chiodi da piantare!
«Nella
modernità culturale, la ragione viene definitivamente privata della propria
esigenza di validità e assimilata a mero potere»: questa affermazione,
fortunatamente, porta l’avallo e la firma di “Jürgen Habermas.
Crisi
superate.
L’Europa
è davvero in crisi?
Se la
salute, secondo il filosofo francese “Georges Canguilhem”, è la capacità
dell’organismo di trasformarsi per «reagire alle infedeltà dell’ambiente», si
può dire che l’Europa finora sia stata in buona salute.
Infatti
nell’ultimo mezzo secolo ci sono state molte «infedeltà dell’ambiente», cioè
colpi ricevuti dall’esterno, da cui l’Europa ha saputo riprendersi:
il 15 agosto 1971, la decisione unilaterale
degli Stati Uniti di sospendere l’applicazione gli accordi di Bretton Woods,
che dal 1944 avevano stabilizzato il sistema dei tassi di cambio
internazionali;
qualche
anno dopo, un aumento di cinque volte del prezzo del petrolio;
poi,
la disgregazione del blocco sovietico alla fine degli anni Ottanta;
quindi,
i problemi finanziari asiatici nel decennio successivo;
e
ancora, la crisi finanziaria dei subprime proveniente dagli Stati Uniti alla
fine degli anni Duemila;
successivamente,
gli attacchi del Covid-19;
infine,
la recente guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina.
Per
fare solo un esempio di questa resilienza europea, la crisi finanziaria del
2008 ha dato alla Ue l’occasione per correggere due delle maggiori debolezze
strutturali dell’Europa finanziaria:
la mancanza di un’unione bancaria e l’assenza
di strumenti specifici per combattere la speculazione.
Altre
decisioni scaturite dalla crisi dei subprime, che avrebbero reso il sistema
troppo complicato, non sono state attuate.
In
primo luogo, il riassetto delle regole del deficit e del debito per i Paesi
europei.
“Canguilhem”
sosteneva che la malattia è soprattutto uno sforzo per trovare un nuovo
equilibrio, e che «l’organismo provoca una malattia per guarirsi».
Se
questo è vero, in tal caso si può affermare che l’Europa è davvero sana, perché
ha sconfitto le crisi riorganizzandosi.
Per
dirla con Machiavelli, ogni attacco che non uccide l’Europa la rende più forte.
Lo hanno dimostrato le crisi del debito greco, il salvataggio delle banche
europee nel 2010, più recentemente l’accettazione del meccanismo di resilienza
e reazione rapida ai disastri naturali e, infine, ma non meno importante, la
coesione di fronte alla Brexit.
Per il
prossimo futuro stanno emergendo tre crisi:
la più immediata è l’inflazione monetaria;
la più difficile da superare è la difesa
europea;
la più
pericolosa è l’ascesa del nazionalismo.
Le
cause dell’inflazione monetaria.
La
suddivisione internazionale del lavoro e l’interconnessione tra Paesi, imposte
dalla ricerca della produttività e del profitto, fanno parte della logica
universale del capitale che – per ragioni istituzionali, oltre che culturali –
colpisce l’Europa più degli Stati Uniti o di altre nazioni.
Inoltre,
la finanza ha avuto il suo peso nell’instillare quell’abitudine – che viene dal
sistema contabile che impera oltre Atlantico – che fa della redditività
immediata, misurata dal valore di mercato, il criterio per una buona gestione
di aziende, famiglie e Stati.
Ma
alcuni Paesi – pensiamo ai colossi Cina e India – sono riusciti, meglio
dell’Europa, a sottrarsi a questo dominio culturale.
L’economia
europea, già indebolita dalla lotta commerciale tra Cina e Stati Uniti, deve
fronteggiare per conto suo un ulteriore pericolo.
Agli effetti economici dell’isolamento e dei vincoli
economici sull’approvvigionamento si aggiungono le conseguenze della guerra in
Ucraina, di cui l’Europa sta pagando gran parte dei costi, e ciò sta portando a
restrizioni delle attività e genera ansia sia nei consumatori sia nei
lavoratori.
Già
qualche anno fa, nel 2020, le prime misure di contenimento cinesi avevano fatto
avvertire le severe ripercussioni di una domanda mondiale al collasso;
ora a
risentirne sono le capacità produttive.
Di
conseguenza, la criticità più immediata è indubbiamente l’inflazione causata
dalla ripresa dell’attività globale dopo la pandemia e amplificata dalla guerra
russa sul territorio europeo.
Due anni fa, gli analisti ignoravano
l’inflazione.
Il
problema era la deflazione, cioè i prezzi stabili, o addirittura in calo, che
rischiavano di ridurre la crescita economica e l’occupazione a causa della
debolezza della domanda.
Furono
promossi i cosiddetti «pacchetti di stimolo keynesiani», basati sulla spesa
pubblica.
Per
finanziare questa spesa, la Bce ha seguito l’esempio statunitense, creando
denaro in cambio di crediti verso gli Stati.
A questo si sono aggiunti i 750 miliardi di
prestiti europei destinati a finanziare la lotta agli effetti deleteri della
pandemia.
Le ragioni per non temere l’inflazione sembravano
attendibili:
l’effetto
stabilizzante sui prezzi al consumo, causato dalla concorrenza di prodotti e
servizi provenienti dalla Cina e da altri Paesi in via di sviluppo, e
l’invecchiamento della popolazione europea, che favorisce un aumento del
risparmio e quindi una moderazione della domanda.
Allo
stesso modo, anche il potere d’acquisto creato ex nihilo dalla Bce veniva
dirottato su immobili e titoli.
Sfortunatamente,
questi fattori antinflazionistici hanno messo a nudo i propri limiti.
Il rialzo dei prezzi, accentuato
dall’impennata causata dalla guerra russa in Ucraina, tende a riflettersi su
aumenti salariali che rischiano di trascinare tutti i prezzi in un circolo
vizioso.
Squilibri
causati dall’inflazione.
Riguardo
all’aumento dei prezzi al consumo, ci sono grandi differenze tra i vari Paesi
dell’Unione.
Lo si
deve non solo al mix energetico di ciascun Paese, ma anche alla varietà delle
politiche nazionali.
Ad
esempio, l’aumento della Lituania è del 22%, quello del Belgio del 13%.
In Italia, l’inflazione media nel corso del
2022 è stata dell’8,1%, il dato più alto dal 1985.
La
Germania protegge le sue industrie più che i suoi consumatori, e ne è
conseguita un’inflazione di oltre il 12%.
La
Francia, invece, ha adottato uno «scudo tariffario» che ha limitato
l’inflazione interna al 6%.
L’inflazione a due cifre – oltre il 10% annuo
– è una realtà che non si vedeva dalla metà degli anni Ottanta, e oggi è alle
porte dell’Europa.
Secondo
le stime della Bce di fine dicembre 2022, nel 2023 i prezzi dovrebbero
aumentare di oltre il 6,3%.
Il fatto che l’impennata resti leggermente
inferiore a quella degli Stati Uniti non è di grande consolazione.
Contrariamente
agli economisti che in questa inflazione scorgono una buona notizia, essa può
rappresentare un pericolo economico e politico, oltreché – e soprattutto –
sociale.
Da un
lato, l’inflazione fa bene al bilancio dello Stato, alle imprese o alle
famiglie indebitate, almeno per i debiti non indicizzati all’inflazione.
Per
quanto riguarda lo Stato, per il fatto che le risorse legate all’Iva si
accrescono automaticamente con l’aumentare dei prezzi, e anche per il fatto che
il debito, e quindi il suo rimborso, diminuiscono in termini reali.
D’altra
parte, l’inflazione stimola – almeno inizialmente – i consumi, per non dover
pagare di più domani il prodotto che si può acquistare oggi a un prezzo
inferiore. Questo finché il timore dell’aumento del costo della vita, per non
parlare delle tasse, non porta i consumatori a risparmiare di più.
D’altra
parte, sul piano strettamente finanziario, la situazione europea si sta
deteriorando.
Sospinto
dall’inflazione europea, l’euro sta scendendo sul mercato dei cambi – nel corso
del 2022 si è registrato un calo di oltre il 10% rispetto al dollaro, prima di
riprendersi nelle prime settimane del 2023 –, e ciò fa salire il prezzo delle
importazioni, incluso il petrolio, e aumenta il servizio del debito per i
debiti denominati in dollari.
Per
rallentare tale declino, la Bce medita di alzare il tasso di interesse, ma
questo desiderio viene rintuzzato dal già eccessivo indebitamento dei Paesi
dell’Europa meridionale.
Sebbene
non tutti i debiti si debbano oggi – la scadenza media è di poco superiore agli
otto anni –, i prestiti periodici che ripagheranno tali debiti saranno a tassi
di interesse sempre più elevati.
Le obbligazioni societarie europee a cinque
anni con rating BBB oggi rendono circa il 4,50%, rispetto allo 0,25%
dell’inizio del 2022.
Nel
2023, Francia o Germania prenderanno in prestito sui mercati tra i 300 e i 500
miliardi di euro.
Qualsiasi aumento di un punto base – per
esempio dal 2% al 3% – costerà quindi tra i 3 e i 5 miliardi.
«Le
ferite del denaro non sono fatali», replicano gli ottimisti, soprattutto se si
può contare sulla creazione di denaro ex nihilo da parte della Bce;
tanto
più che, esclusi i beni alimentari e l’energia, la cosiddetta «inflazione core»
sembra stabile, nonostante la guerra in Ucraina.
Inoltre,
un numero crescente di dati sembra indicare che l’inflazione potrebbe
stabilizzarsi.
Anche i recenti cali dei prezzi di una serie
di materie prime «pesanti» (legno e metalli) e «leggere» (prodotti agricoli
industriali) suggeriscono che il peggio sia passato.
Allo
stesso tempo – e sull’altro piatto della bilancia – questo possibile
livellamento dell’inflazione potrebbe semplicemente indicare un rallentamento
dell’attività economica.
Gli
effetti sociali dell’inflazione.
Gli
effetti divergenti delle politiche antinflazionistiche adottate nei diversi
Stati membri dell’Ue stanno provocando distorsioni della concorrenza tra i
Paesi europei del Nord e del Sud.
Il
futuro dell’inflazione è tanto più incerto in quanto la guerra in Ucraina sta
gettando un’ombra lunga sull’economia mondiale.
Qualunque
sia il futuro economico e geostrategico dell’Europa, l’inflazione presenterà
questi svantaggi:
l’aumento
dei tassi di interesse ostacolerà gli investimenti e i consumi a credito;
la
distorsione della struttura generale dei prezzi porterà a investimenti sprecati
perché calcolati su false basi.
Ma il
pericolo principale riguarda la giustizia sociale.
Questi
effetti sociali dell’inflazione monetaria devono essere ricordati ai tecnocrati
che guardano solo alle loro tabelle di cifre.
L’inflazione
arrecherebbe pochi effetti sociali dannosi se tutti i redditi fossero
indicizzati.
Ma è tutt’altro che così.
I pensionati se ne accorgono da tempo, e la
modesta rivalutazione delle pensioni di base nell’estate 2022 non colmerà le
lacune accumulate negli ultimi anni sia nella previdenza primaria sia in quella
complementare.
Per i
pensionati che contavano sui fondi pensione per avere una pensione dignitosa,
la politica monetaria della Bce – fino al 2021 – di abbassare i tassi di
interesse non è una buona notizia.
È
quella che Keynes chiamava cinicamente «l’asfissia dei risparmiatori».
Parlando
in generale, tutti coloro che non sono né salariati né dipendenti pubblici
troveranno più difficile proteggersi dall’inflazione.
A ciò
si aggiunge un fenomeno meno percepito, derivante dalla struttura dei consumi
per livello di reddito.
L’inflazione
è più alta nei settori alimentare ed energetico, che insieme rappresentano in
media il 30% dei bilanci delle famiglie europee, rispetto al 20% di quelle
svizzere.
Queste semplici medie celano forti disparità.
La
maggiore inflazione colpisce infatti le persone più precarie e le famiglie con
redditi modesti.
E ciò
spiega perché l’inflazione, che in Europa nel 2022 è oscillata intorno al 6%,
raggiunga oltre il 10% nel caso delle famiglie più vulnerabili.
I
costi aggiuntivi – esclusi gli aiuti sociali, spesso di difficile accesso per
motivi burocratici e culturali – legati all’abitazione, all’automobile o agli
elettrodomestici in Europa sono stimati in 1.500 euro all’anno per le famiglie
povere.
La
complessità della situazione deriva dal fatto che i vantaggi per i debitori –
Stato, imprese indebitate, famiglie indebitate – e gli svantaggi per i
creditori, soprattutto per i più poveri tra i risparmiatori, non sono gli
stessi per le diverse categorie sociali.
Per
superare la crisi sociale causata da questa complessità, l’Unione europea dovrà
fare una scelta chiara.
La
decisione è molto più difficile di quanto non faccia intendere l’aforisma «più
ti indebiti, più penalizzi le generazioni future!».
Infatti ciò non è del tutto vero.
L’inflazione
generata da questa politica taglia la ricchezza dei risparmiatori attuali, non
futuri.
Anche
in questo caso il fenomeno monetario opera un subdolo prelievo obbligatorio,
non controllato dal Parlamento, che avrebbe questo ruolo primario.
È qui che si cela una deviazione discreta
dalle pratiche democratiche.
La
difesa europea.
Dopo
la Seconda guerra mondiale, il trattato di Parigi creò nel 1951 la Comunità europea
del carbone e dell’acciaio (Ceca), che entrò in vigore il 23 luglio 1952, per
concludersi il 23 luglio 2002.
In quel periodo prevaleva uno spirito di pace,
ben lontano dall’ostilità manifestata nei trattati precedenti.
Questo
spirito di pace animò i primi fondatori, l’italiano Alcide De Gasperi, il
tedesco Konrad Adenauer, il francese Jean Monnet, il belga Paul-Henri Spaak,
l’olandese Johan Willem Beyen, tutti cristiani, coordinati da Robert Schuman.
Questi,
nel suo celebre discorso del 9 maggio 1950, aveva sancito l’appassionato
obbligo di cooperazione tra i Paesi europei, compresi la Repubblica federale di
Germania e l’Italia, che erano state escluse dai trattati precedenti.
Il
trattato della Ceca ha delineato l’orizzonte verso il quale l’Europa si sta
muovendo, non senza esitazioni o passi indietro.
Alla
sua guida, infatti, era posta una «Alta Autorità» che poteva intervenire
sovranamente in ogni Paese membro, ma solo sulle questioni riguardanti
direttamente la produzione indispensabile per l’industria degli armamenti.
La sovranazionalità era dunque già presente,
seppure orientata alle condizioni economiche della guerra.
Con la
guerra in Ucraina, le condizioni odierne si ribaltano.
Quella
logica del dopoguerra è stata dimenticata quando, nel 1987, fu firmato l’”Atto
unico europeo”, che infranse la regola dell’unanimità per alcune decisioni.
Ammissibile quando il numero dei membri era ridotto (sei), la regola
dell’unanimità diventava proibitiva nel momento in cui quel numero aumentava.
Certo,
alcune decisioni europee – la più importante delle quali riguarda la tassazione
– richiedono ancora l’unanimità.
D’altro
canto, in un numero crescente di ambiti – ulteriormente ampliati nel 1992 dal “Trattato
di Maastricht”, sulla scia dell’”Atto unico europeo” – è sufficiente la
maggioranza qualificata.
Ma la
maggioranza qualificata comporta un problema di giustizia nella rappresentanza
di Paesi il cui peso demografico ed economico è molto diverso. Come si fa a
garantire che il Lussemburgo, la Croazia o il Belgio siano ascoltati allo
stesso modo della Germania, dell’Italia o della Francia?
Questo
è il motivo per cui, nella storia dell’Europa, l’Atto unico europeo del 1987
segna il passaggio dell’Europa da una logica del dopoguerra a una logica di
giustizia tra i Paesi membri.
L’attacco
russo del febbraio 2022 contro l’Ucraina ha riportato in auge il vecchio e
dimenticato approccio militare in reazione al quale è nata l’Unione europea.
Ma questo attacco segna l’inversione dello
scopo.
Non si
tratta ormai tanto di contenere la capacità di ciascuno dei Paesi membri
riguardo ai propri arsenali e armamenti, quanto di promuovere la collaborazione
militare in Europa di fronte a un nemico comune.
Mentre
l’attuazione di una difesa militare autonoma dell’Unione è di là da venire,
l’industria militare americana approfitta dell’assenza di un coordinamento
europeo per vendere i propri equipaggiamenti.
La Germania, che sta allargando il suo divario
industriale rispetto alla Francia e agli altri Paesi dell’Unione (come attesta
il suo rifiuto a fissare un tetto al prezzo del gas), sospetta che la Francia,
con il pretesto della cooperazione europea, voglia favorire la propria
industria degli armamenti.
Tra gli altri membri dell’Unione si manifesta un
fastidio crescente sul «privilegio» di cui gode la Francia in quanto titolare
di un seggio permanente nel” Consiglio di sicurezza dell’Onu”;
desiderano
sempre più apertamente che esso venga trasferito all’Unione.
D’altra
parte, la Francia non vuole rinunciare alle proprie risorse nucleari senza
averne qualcosa in cambio.
Nel
marzo 2022, pochi giorni dopo l’inizio dell’attacco russo all’Ucraina, sotto la
presidenza francese, l’Ue ha adottato una «bussola strategica per la sicurezza
e la difesa».
Questo libretto di 47 pagine offre una
panoramica dei possibili conflitti militari nel mondo.
Gli Stati Uniti sono presentati come «una
potenza globale che contribuisce alla pace, alla sicurezza, alla stabilità e
alla democrazia nel nostro continente» e rimangono «il più leale e il più
importante partner strategico dell’Ue».
È lecito pensare che, pur concordando sul fatto che
gli Usa restano il partner «più importante», l’espressione «partner leale» sia
discutibile;
abbiamo
visto gli errori americani in Vietnam, Somalia, Afghanistan, Iraq, Libia,
Siria;
il
loro atteggiamento verso la Francia nella vicenda dei sottomarini venduti
all’Australia;
le
flagranti distorsioni della concorrenza contro l’Europa, nello scorso dicembre
2022, con i massicci sussidi ai produttori locali di automobili.
In linea con questo pensiero, si può
scommettere che gli Usa difenderanno Taiwan contro la Cina continentale, fino a
quando non avranno ricostruito una buona industria dei semiconduttori sul suolo
americano;
e il sospetto
sembra condiviso da alcuni leader taiwanesi.
Qualunque
sia la futura geopolitica mondiale, nella sua rubrica sulla rivista Études,
pubblicata nel giugno 2022, “Thomas Gomart”, direttore dell”’Ifri” (Istituto
francese di relazioni internazionali), sottolinea «il divario a dir poco
problematico tra la dichiarata determinazione a “difendere l’ordine di
sicurezza europeo” e le relative capacità di agire».
Il
nerbo della guerra, la finanza.
Anche
se l’Europa si rafforzasse e respingesse gli attacchi dall’esterno, riuscirebbe
a superare gli inevitabili contrasti finanziari?
Bisogna
fare i conti con quanto è accaduto alla solidarietà finanziaria in Europa, con
la solitudine della Bce alle prese con la gestione della crisi energetica, le
sanzioni alla Russia, il blocco del “Pnrr” (Piano nazionale di ripresa e
resilienza), i fondi all’Ungheria e alla Polonia, la lotta all’inflazione con
l’innalzamento dei tassi.
La
Norvegia, il più grande produttore di energia, appare cinica e non sostiene il
resto della comunità.
Germania
e Olanda non vogliono avallare la creazione di un programma di aiuti simile a
quello tentato con il Covid-19 per aiutare i Paesi colpiti dall’aumento dei
costi energetici.
Il
punto centrale è l’articolazione della politica europea con la finanza, ovvero
le due facce delle crisi che vengono dall’interno dell’Europa.
Questione
ardua, ben sintetizzata dall’aforisma attribuito a “Joseph-Dominique Louis”
(detto «Baron Louis»):
«Sire,
dateci buona politica e io vi darò buona finanza».
Ma la
difficoltà da allora si è raddoppiata, perché la finanza può anche eludere la
volontà politica.
Il
prototipo europeo di un tale aggiramento della volontà politica da parte della
finanza è stato senz’altro la guerra condotta da “Otto von Bismarck “contro
l’Austria.
Per
completare l’unità degli Stati tedeschi intorno alla Prussia, il cancelliere
decise di dichiarare guerra agli Asburgo che a Vienna governavano ciò che
restava del Sacro Romano Impero.
Chiese
al Parlamento prussiano i crediti militari necessari, che furono negati.
A quel punto, si rivolse al banchiere “Gerson
von Bleichröder”, che organizzò un consorzio di banche in grado di finanziare
la guerra della Prussia.
Ciò
condusse alla vittoria gli eserciti prussiani sotto la guida del generale “Helmuth
von Moltke” – il 3 luglio 1866, a “König Gratz” –, nota come la vittoria di “Sadowa”.
Ecco come la finanza può sovvertire la volontà politica.
Tuttavia,
non tutte le impasse di bilancio sono necessariamente un’elusione
antidemocratica del potere politico.
Una situazione di stallo di bilancio si
verifica quando il Parlamento decide di non coprire con le tasse la totalità
delle spese preventivate, perché fa affidamento sui prestiti.
Come in una partita a carte, lo stallo è una
scommessa:
in questo caso, una scommessa sulla fiducia
della società civile, i cui risparmiatori di fatto potranno accordare i
prestiti necessari o rifiutarsi di farlo.
Viceversa,
l’appello alla banca centrale per finanziare l’impasse – indirettamente, perché
farlo direttamente è vietato dalla normativa europea – attesta uno
scavalcamento della sfera finanziaria da parte del potere politico.
L’ascesa
del nazionalismo.
Per
quanto il nemico esterno possa risultare utile per riunificare le nazioni
europee, questo basterà a compensare le forze centrifughe che minacciano
l’Europa?
Il nazionalismo in Europa sta prendendo a
pretesto, oltre che i migranti del Sud e dell’Est del Mediterraneo, alcune
sentenze della “Corte di giustizia europea” che vietano, in nome dei diritti
umani, l’espulsione degli stranieri che hanno commesso reati sul territorio
nazionale.
L’invasione
dell’Ucraina ha portato ad attuare la direttiva del 4 marzo 2022 sulla
«protezione temporanea» – di un anno, rinnovabile per due volte – dei migranti
che provengono dall’Ucraina.
D’ora in poi, nonostante i tre accordi di
Dublino (omologhi dello spazio Schengen del 1985) che obbligano il Paese di
ingresso a trattare la domanda di asilo, i residenti ucraini possono stabilirsi
nel Paese europeo di loro scelta;
beneficiano
automaticamente del permesso di soggiorno, del diritto al lavoro e della
copertura sociale, anche per l’istruzione.
Ciò ha permesso alla Polonia – e in misura
minore all’Ungheria –, sotto minaccia di «rilasciare» la massa di profughi che
hanno raccolti in Occidente, di fare pressione con successo sull’Unione europea
nella vertenza in corso con loro.
Il
blocco dei fondi del” Pnrr “a Ungheria e Polonia è stata la risposta
dell’Europa ad alcuni comportamenti ritenuti contrari ai valori europei.
Dal 2019 la Commissione europea chiedeva lo
smantellamento della “Sezione disciplinare istituita dal governo polacco presso
la Corte suprema” con il compito di pronunciarsi sulle cause riguardanti lo
status e l’esercizio di funzioni dei giudici della Corte stessa.
La
Corte di giustizia europea ha ritenuto tale istituzione non conforme allo stato
di diritto, fondato sull’indipendenza dell’autorità giudiziaria.
Da
parte sua, la Corte costituzionale polacca ha reagito con la celebre sentenza
del 7 ottobre 2021, ribadendo che gli organismi dell’Unione, quando tentano di
imporre alla Polonia la modifica delle proprie istituzioni giudiziarie,
«operano al di fuori delle competenze loro affidate dai trattati».
In
realtà, la controversia è molto più complessa di quanto possa sembrare,
rilanciando l’annosa questione del corretto bilanciamento tra le esigenze
derivanti dal principio di sovranità statale e il principio di sussidiarietà
nell’Unione.
Sta di fatto che, a prescindere dalle
interpretazioni giuridiche e giornalistiche che ne vengono date, la Commissione
europea aveva congelato il pagamento dei 23,9 miliardi di euro di contributi e
degli 11,5 miliardi di prestiti previsti per la Polonia.
E,
nonostante una legge approvata lo scorso maggio dalla Camera bassa del
Parlamento polacco preveda di sostituire la Sezione disciplinare con una nuova
Sezione della responsabilità professionale, più conforme ai dettami del diritto
europeo, la decisione di Bruxelles di approvare il” Pnrr” della Polonia resta
comunque vincolata al raggiungimento di ben 283 «milestones and targets», al
fine di sbloccare i pagamenti a Varsavia.
Nel
caso dell’Ungheria, il motivo della sospensione dei previsti 6,3 miliardi di
euro è stata la corruzione.
Le
riserve opposte a questo Stato rispondono alla condizione che gli aiuti europei
non vengano dilapidati, avallata dal Parlamento europeo su richiesta dei Paesi
del Nord Europa – in testa, l’Olanda – durante la trattativa per il piano di
rilancio europeo durante il primo attacco del Covid-19, nel 2020.
Polonia
e Ungheria sono state riluttanti a dare il loro assenso su materie europee per
le quali vige la regola dell’unanimità, in particolare la tassazione.
Già nel dicembre 2021 i due Paesi si erano
dimostrati riluttanti quando si è trattato della tassa sui profitti delle
società transnazionali e della carbon tax.
Alla
fine l’Ungheria ha revocato il veto nel dicembre 2022, per 18 miliardi di euro,
e ha acconsentito all’introduzione della «tassa sul carbonio» ai confini
dell’Europa, nonché della aliquota minima del 15% sugli utili delle società
multinazionali con sede in un qualsiasi Paese dell’Unione.
La Bce
da sola non può superare le crisi europee.
Negli
ultimi trent’anni, la consuetudine di finanziare i disavanzi pubblici creando
denaro ha contribuito ad attutire gli shock ciclici provenienti dall’esterno
dell’Europa.
D’altra
parte, questa politica del denaro facile, attuata fino al 2021, ha accecato i
governi europei riguardo al fatto che le riforme strutturali non possono essere
rinviate all’infinito.
È vero
che uno dei più grandi presidenti della Commissione europea, “Jacques Delors”,
era solito affermare che l’euro avrebbe portato pace, prosperità e
competitività.
Ma
dobbiamo ammettere che l’unione monetaria non è in grado, da sola, di aumentare
la produttività.
Tanto più che il livello di indebitamento
raggiunto dai Paesi dell’Europa meridionale impedisce alla Bce di alzare i
tassi di interesse al livello che sarebbe necessario per svolgere adeguatamente
il proprio ruolo economico.
Per renderlo possibile, i tassi reali – cioè
tenuto conto dell’inflazione – dovrebbero essere positivi, mentre sono ancora
ampiamente negativi.
La Bce si accontenta, quindi, di salvaguardare
la propria credibilità alzando i tassi leggermente al di sopra dello zero.
Già
questo comporterà un aumento dell’onere finanziario dei Paesi coinvolti.
Come
la legge non è fatta per il macellaio o il falegname, ma per il cittadino, così
la moneta europea non è concepita per gli attori economici – le famiglie, le
imprese e, sempre più, gli Stati dell’Unione –, ma per l’economia europea.
Nella
pratica, ogni Paese membro la usa secondo la sua situazione particolare, e ne
beneficia – o ne risente – in maniera diversa.
Quando modifica l’allocazione delle risorse e
dei rischi, l’azione della Bce assume un ruolo politico sempre più evidente.
Questo ruolo si rafforzerà se si accetterà –
come propongono alcuni economisti – che la Bce finanzi direttamente le imprese
in settori privilegiati, come la transizione ecologica, la ricerca nel
digitale, le imprese del settore dell’idrogeno o delle celle a combustibile, o
ancora la formazione.
L’attuale
politica della Bce, spostando i rischi finanziari sui Paesi del Sud, non può
che affievolirne non il potere, che dipende solo dai trattati europei e dal
lassismo con cui vengono interpretati, ma l’autorità.
Un’autorità
di cui essa ha bisogno per mantenere il necessario sostegno popolare che l’euro
ha convogliato e accresciuto.
Certo,
la condivisione dei rischi non è l’unica condizione per mantenere la fiducia
nel funzionamento del sistema finanziario europeo:
sta
alla Bce proporre ancora obiettivi monetari precisi e mezzi proporzionati,
tutti requisiti che ne diminuiscono il potere.
Resta
il fatto che l’autorità – e non solo il potere – dell’istituzione monetaria è
indispensabile per il buon funzionamento dell’economia europea.
Conclusione.
Le
autorità politiche europee (Consiglio, Commissione, Parlamento), ma allo stesso
modo le sue autorità giudiziarie (Corte di giustizia europea), non possono
sottrarsi alla crisi latente della modernità, lontana incarnazione sia della
ragione sovrana (Hazard) sia dell’umanità europea (Husserl).
La crisi latente della modernità sta nella
scelta cruciale tra il «globale» e il «locale».
I politici attuali non possono più rifugiarsi
nella «partecipazione di tutti» o nascondersi dietro l’«etica» e i loro
«Comitati», per non assumersi le decisioni.
Devono
discernere caso per caso, come suggerisce “Habermas”, basandosi soltanto su
regole capaci di federare valori da applicare alla pratica.
Sono
decisioni difficili, perché, nella modernità, non possiamo conoscere il
«globale» esplorando solo il «locale».
E
viceversa, il «locale» non è del tutto deducibile dalla logica del «globale».
Dovremmo «pensare “locale” e agire “globale”» perché «per agire, dobbiamo
localizzare»?
O, al contrario, come sostenevano i
rivoluzionari del Chiapas, dovremmo «pensare “globale” e agire “locale”»?
È infatti necessario tenere insieme queste due
posizioni contraddittorie:
è la
croce della politica e la fonte permanente delle attuali crisi dell’Europa,
così come di qualsiasi Paese in mutazione.
Per
dirla al modo in cui “Stephan Zweig” si espresse a proposito di “Erasmo da
Rotterdam”, l’Europa potrà superare le sue crisi solo «resistendo alle tonanti
sirene delle vane pretese di re, faziosi ed egoismi nazionali».
È
Partita la Carica:
Vaccini
per Tutto…
Conoscenzealconfine.it
– (9 Giugno 2024) - Max Del Papa – ci dice:
Vaccini
per tutto con prospettiva ventennale. Ovviamente da imporre con la solita
ricetta totalitaria.
Tutti
i media da destra a sinistra, finita l’operazione Covid, sono passati a
pubblicizzare i vaccini omnibus “per non ammalarsi nei prossimi venti, trent’anni”.
Per
questo non ne usciremo, se mai, rivivremo tutto, come e peggio di prima.
A meno che…
Se fai
questo mestiere da trentacinque anni non puoi stupirti di come funziona, non
puoi stupirti più di niente.
Se una
mattina trovi che tutti i giornali da destra a sinistra pompano i vaccini per
le malattie che non ci sono ma ci saranno, vaccini per ogni genere di cancro
possibile, di infarto eventuale, vaccini per tutto, da sinistra a destra tu
capisci subito alcune cose,
una:
che
l’industria farmaceutica è tornata alla carica e li paga tutti,
due:
che
bisogna far dimenticare in fretta le scoperte e le ammissioni sul vaccino Covid
che ha fatto più morti del virus Covid, nato da alchimie di laboratorio
sofisticate e prolungate come appena ammesso da Fauci al Congresso americano e
meglio dettagliato dalla biologa molecolare canadese “Alina Chan” che lavora al
“Massachusetts Institute of Technology” (Mit) e ad “Harvard” e ha scritto il
libro “Viral:
The Search for the Origin of Covid-19”:
una mole crescente di prove fa pensare che il
virus sia “fuoriuscito da un laboratorio di ricerca di Wuhan, in Cina; se così
fosse, si tratterebbe dell’incidente più dannoso nella storia della scienza”.
Calcolato
in almeno 25 milioni di vittime, ma per difetto, mentre l’ottimistica leggenda
sui 20 milioni di vite salvate dai vaccini sa tanto di trovata esoterica, come
quelle di Fauci, “I made up everything”, e sicuramente per esubero.
(Si continua con questa storia del
virus uscito da un laboratorio… ma è l’ennesima menzogna.
Se può
anche essere vero che abbiano provato a creare un virus letale, possiamo dire
che non gli sia riuscito molto bene, visto che in ospedale dovevano
somministrare ai malcapitati farmaci per eutanasia, intubarli fino a far loro
scoppiare i polmoni e altre “cure” mortifere per arrivare a conteggiare così
tanti morti.)
La
verità è questa… che purtroppo quasi nessuno ammette… quasi nessuno ne parla se
non quei pochi testimoni sopravvissuti alle “cure” o che sono riusciti a
scappare… o i parenti di altri che hanno in seguito testimoniato di come i loro
parenti siano stati uccisi negli ospedali in circostanze assurde – da medici e
infermieri pagati all’inverosimile per tenersi la bocca chiusa e applicare i
mortali protocolli – e spacciati come morti per covid.
Per
non dire dell’altra squallida menzogna:
codificare come “morti per covid” tantissime
persone morte per tutt’altro.
In
questo modo hanno creato i morti di cui avevano bisogno e che servivano alla
narrazione della “pandemia” per poi poter spacciare al mondo i salvifici
sieri… – nota di conoscenze al confine)
“Ne
usciremo?” mi chiedono amici e giornalisti.
No,
rispondo, non si esce dalla ruota, non si esce dal condizionamento perenne,
dall’incubo perenne.
Ci
sono giovanissimi, potenziali neo elettori che dicono, o gli fanno dire, ma
loro non si sottraggono, che “voterebbero per Draghi”, quanto a dire il più feroce
distruttore delle loro libertà fondamentali, del loro futuro immediato.
Speranza
gira ancora a provocare le vittime vaccinali e i loro parenti e querela chi fa
libri critici del suo operato.
Nessuno
col coraggio di dire:
ci
siamo sbagliati, abbiamo esagerato.
Lo
stesso Conte si dà la zappa sui piedi, in una trasmissione radio del servilismo
pubblico ammette di avere mentito su tutto,
“Pensavamo saremmo morti tutti, non sapevo
cosa fare perché nessuno mi informava” (sapevate benissimo cosa facevate… –
nota di conoscenze al confine):
lo
sbando totale, ma lui si presentava e diceva:
sappiamo tutto, abbiamo tutto sotto controllo.
Poi in
segreto, coi suoi, diceva: ma com’è che non si ribellano, ma davvero possiamo fargli
tutto questo?
Ma
sentite un passaggio di questa propaganda giornalistica di cui è inutile citare
la fonte perché si trova, pressoché identica, su tutti i giornali da destra a
sinistra:
“In Gran Bretagna migliaia di persone ammalate
di cancro in stato avanzato sono state coinvolte ed arruolate, a spese del
servizio sanitario pubblico, in una vasta sperimentazione che mette a
disposizione vaccini prodotti con la “tecnologia mRna”, personalizzati caso per
caso, e progettati per preparare il sistema immunitario di ogni singolo
paziente oncologico selezionato, a riconoscere e distruggere tutte le cellule
tumorali in circolo, in modo da debellare la malattia presente e ridurre a zero
il rischio di recidiva”.
Coinvolte
ed arruolate, più da cavie, da sotto uomini che da esseri umani, individui
inviolabili.
E parlano di sperimentazione, dai cancri
all’Alzheimer, alla demenza, con proiezione decennale, roba che una volta si
riservava agli animali da laboratorio, obbrobrio ora superato ma solo perché a
un certo punto si è scoperto che costava troppo, si poteva passare direttamente agli
umanoidi e poi dire che li salvavano mentre li ammazzavano.
Wuhan (…la farsa covid – nota di conoscenze
al confine),
la pietra
tombale sulle residue illusioni democratiche, sulle distinzioni ideologiche di
lana caprina tra mondo libero e regimi totalitari, anche su quanto resta
dell’informazione che sforma, disinforma e se ne vanta.
Più
personaggi pubblici muoiono e più si ha cura di omettere la causa e questa coda
di paglia è segno sicuro di effetto avverso.
Crolla
una costumista Rai,” Francesca Frongia”, e nella tempesta di messaggi e
cuoricini da scuola dell’obbligo, “sei una stella”, “sei la vita”, “sei sempre
con noi”, e il fatidico “come faremo senza di te”, non c’è modo di capire di
cosa accidente sia morta questa poveretta.
Ho
dovuto girare una dozzina di testate per intercettare un passaggio allusivo e
sibillino, “il male che l’ha consumata”.
Quale?
In quanto tempo?
Dopo
quante dosi?
Il
sindaco “Sala”, primo cittadino di una metropoli ormai fuori controllo, trova il tempo
di ricevere in pompa magna il cantante “Vasco Rossi” che dice:
“Milano la prima a capirmi”, ma cosa c’era da capire in uno che
recitava il vitalismo dannunziano, “sono drogato, drogato, drogato” e si
definisce “super vissuto”, con enfasi semantica dannunziana, e poi si avventura
in lezioni di politica spericolata:
“Con la Meloni si va verso l’autoritarismo, siamo agli
anni Venti, libertà derise e sono molto preoccupato”.
Non lo
era però quando i predecessori Conte e Draghi rinchiudevano tutti, ricattavano,
mentivano, imponevano la vaccinazione di massa che non immunizzava ma
avvelenava e insomma applicavano tutte le prescrizioni sino-americane che “Fauci”
si era “inventato
sapendo che non avevano senso ma qualcosa dovevo fare, dovevo alzare il
polverone perché se la gente la terrorizzi la smette con le stronzate e
ubbidiscono tutti come cani”.
Allora
il “Blasco” non era preoccupato, non sentiva soffiare il vento diciannovista,
anzi si produceva, fingendo di barcollare sul palco, lui è uno che sul falso
mito della rockstar barcollante ci campa da una vita, farfugliando “mi sono vaccinato, tre dosi ne ho
fatto”! e il pubblico coglione gli mandava
l’ovazione. Lui come tutti gli altri preoccupati dall’autoritarismo di una che
non è in grado, perché non vuole, perché vuole durare, di arginare nessuna
forma di disordine, di provocazione teppistoide a prato basso.
Lui come il Venditti sempre più somigliante a
un personaggio di “Stephen King”, come il Pelù diventato sordo dopo non si sa
quante dosi di vaccino ma lui scarica la colpa su un fonico che gli ha fatto
esplodere le cuffie nelle orecchie.
E
l’informazione complice finge di prendere per buone tutte queste stronzate, per
dirla come Fauci.
Ne
usciremo? Assolutamente no.
Le
illusioni democratiche seppellite a Wuhan, la tecnologia del controllo che ogni
giorno fa passi da gigante, la lezione del terrore vecchia ma sempre attuale,
sempre efficace.
Quel
che è peggio, l’assoluta concordia di tutti, da destra a sinistra, dall’”OMS “all’Italietta
via UE “che bisogna cambiare”, nell’inventare nuove pandemie per imporre nuovi
vaccini a prezzo di nuove vessazioni, sotto l’ombrello del presidente in carica
o di quello che verrà.
L’orrore ciclico che ci attende.
Ma se
ieri il rumore di fondo ci stordiva, ci confondeva, adesso abbiamo
l’esperienza, condotta su noi stessi, sulle cavie che siamo stati.
Solo
la memoria potrà salvarci ma dipenderà dal nostro istinto di conservazione,
dalla consapevolezza che i vampiri al potere non muoiono mai e, in caso, si
riproducono.
(Max
Del Papa).
(ilgiornaleditalia.it/news/salute/618179/e-partita-la-carica-vaccini-per-tutto-con-prospettiva-ventennale-ovviamente-da-imporre-con-la-solita-ricetta-totalitaria.html)
Come
si è arrivati a identificare
il
nemico nella Russia e a
preparare
gli europei alla guerra.
Ilfattoquotidiano.it
- Stefano Briganti – (22-3-2024) – ci dice:
“Il
tempo della pace è finito e la guerra non è più impossibile. Dobbiamo
prepararci perché se la Russia vincerà in Ucraina potrà decidere di continuare
ad invadere l’Europa” (von der Leyen).
Anche
l’affermazione di Michel che riprende il motto “si vis pacem para bellum”
lascia stupiti in quanto sottende una politica che si basa sulla deterrenza
della forza militare, opposta alla costruzione di relazioni internazionali
pacifiche basate su mutui interessi economici e di sicurezza, che sono principi
fondativi della Ue.
Una
guerra si basa sul presupposto di avere un nemico contro cui farla o dal quale
difendersi e perciò un passaggio obbligato è quello di creare il nemico.
Nella
guerra russo-ucraina le dichiarazioni di Biden, dopo febbraio 2022, hanno
indicato gli obiettivi che un’alleanza occidentale avrebbe dovuto raggiungere.
Lo sgretolamento della economia russa, il suo
isolamento internazionale, la riduzione delle capacità di difesa militare e la
impossibilità di ricostituirle per decenni.
Insomma
riportare la Russia agli anni 90 quando, dopo il collasso dell’Urss, anche
l’economia della neonata Federazione Russa collassò fino al default del 1998,
permettendo alla finanza occidentale di intervenire per tenere la Russia in uno
stato di coma controllato.
La
narrazione costruita a partire da febbraio 2022 è stata invece incentrata su
“c’è un aggressore e un aggredito”, sull’Occidente che intendeva aiutare Kiev a
difendersi da Mosca ma assicurando di non essere in guerra con la Russia.
La
nobiltà degli intenti, la demonizzazione della Russia ripetuta quotidianamente
dai media, il silenziare ogni voce per una soluzione diplomatica, ha portato
l’opinione pubblica ad approvare in modo massiccio gli interventi occidentali
in Ucraina.
Si è
rafforzata in Europa la costruzione del nemico-Russia, figura opposta a quella
con la quale l’Europa fino al 2021 aveva ottimi rapporti commerciali e le cui
fonti energetiche avevano contribuito a far diventare la Germania la
“locomotiva d’Europa”.
Partì
il flusso di armi a Kiev in una spirale verso l’alto mentre la narrazione
dipingeva la difesa militare russa assolutamente inadeguata, che però non
cedeva.
La
spirale aveva un costo importante divenuto sempre più pesante man mano che gli
effetti boomerang della guerra economica lanciata contro Mosca si facevano
sentire in Europa.
Dopo
la fallita controffensiva ucraina dell’estate 2023, gli Usa e la Ue hanno
cominciato a capire che i veri obiettivi occidentali non potevano essere
raggiunti per il tramite dell’Ucraina, l’approvazione pubblica iniziava a
contrarsi e così la narrazione è cambiata.
Si è
sfumato il principio “dobbiamo aiutare l’Ucraina a difendersi da Mosca-Putin” e
in Europa si è costruito un nuovo principio:
“dobbiamo
prepararci ad entrare in guerra contro la Federazione Russa per difenderci
dall’inevitabile avanzata in Europa dell’esercito russo e dalla minaccia alla
sicurezza globale in caso di vittoria di Mosca su Kiev”.
Per arrivare alla guerra si devono convincere
gli europei dell’esistenza del nemico e della possibilità di entrare in guerra
contro di lui.
È il
principio della finestra di Overton.
Rendere qualcosa di impensabile fino a ieri
una cosa accettata e legittima domani.
I
passaggi sono:
1) Impensabile.
2) Divieto, con qualche eccezione. Si apre il
dibattito.
3) Accettabile. Si entra nella sfera del
possibile. Scendono in campo la propaganda e l’informazione per sostenere la
validità della ipotesi di una guerra contro la Russia e portare l’opinione
pubblica a cambiare il giudizio sulla guerra da ’”impensabile” a “motivata”.
4)
Ragionevole. L’idea di guerra perde l’iniziale carico eversivo. Diviene
comprensibile, normale… anzi necessaria.
5)
Diffuso. La guerra alla Russia rappresenta un sentire comune condiviso e la
popolazione la accetta come una cosa legittima e giusta da attuare contro il
nemico.
A
questo punto si può passare alla guerra col pieno appoggio della popolazione.
Credo
che abbiano già fatto metà strada.
La
nuova destra mondiale di Giorgia
e
Marine ha poche idee e tanti nemici.
Linkiesta.it
- Amedeo La Mattina – (20-5-2024) – ci dice:
I
sovranisti radunati a Madrid tuonano contro socialisti e popolari, ma non
esprimono una linea comune su geopolitica, difesa, Putin, energia, tecnologia e
transizione verde.
C’era
la nuova destra mondiale ieri a Madrid adunata da Santiago Abascal. C’erano
trumpiani arrivati da Oltreoceano, che non vedono l’ora di terminare il lavoro
iniziato dal capo golpista e ossigenato.
C’era
il “sobrio” presidente argentino Javier Milei:
dopo
aver cantato, ha attaccato i socialisti «cancerogeni e assassini», esaltato il
capitalismo senza regole, bocciato la giustizia sociale («è sempre un furto»),
insultato il premier spagnolo Pedro Sánchez e la «sua moglie corrotta».
Poi si
è aperta la discussione elettorale dei Conservatori e il colpo di scena è stata
Marine Le Pen che dovrebbe essere impegnata anima e corpo a portare voti al suo
“Rassemblement national” e alle liste di “Identità e Democrazia”, in
competizione teoricamente con i Conservatori stessi.
E
invece l’ospite francese (assente Matteo Salvini) è stata accolta come una di
loro e lei ha parlato come una della stessa famiglia politica che di fatto si è
formata sul palco di Vox.
È la
novità di questa tornata elettorale alla quale Giorgia Meloni è la protagonista
federatrice di un blocco unico della destra di cui fa parte anche Viktor Orbán.
I
nemici li ha indicati la stessa premier collegata da Roma con l’arena
Vistalegre e salutata con un boato dai «queridos patriotas».
Sono i socialisti e liberali della maggioranza
Ursula che devono finire all’opposizione per fare largo a una coalizione di
centrodestra dentro la quale fare prigionieri i Popolari.
Un
delirio.
Non una parola su Ursula von der Leyen,
nessuna visione comune su come affrontare la Russia e combattere in Ucraina,
temi che tagliano nettamente questo blocco della destra.
Non
c’è una strategia comune sull’immigrazione perché questi gruppi politici che
pensano di governare l’Europa vogliono chiudersi ermeticamente.
Vogliono
distruggere il Green Deal perché ha spalancato l’elettrico ai cinesi.
Sul
banco degli imputati, anche su questo, sempre socialisti, in particolare Franz
Timmermans come se il Ppe fosse passato da Bruxelles fischiettando.
Ma
loro, l’accozzaglia di destre nazionaliste, xenofobe, putiniane ma anche
anti-putiniani come i polacchi del “PiS”, si spacciano per i veri difensori
dell’Europa mentre gli altri la distruggono.
«Ci sono punti in comune. Meloni e Salvini
hanno a cuore la libertà.
Non
c’è dubbio che ci siano delle convergenze per la libertà dei popoli che vivono
in Europa», ha detto la presidente del “Rassemblement national”.
Peccato
che a Madrid non c’era pure il leader leghista impegnato in Italia in una
durissima competizione con Fratelli d’Italia e Forza Italia, a braccetto con il
generale Vannacci.
Ma i patrioti marciano divisi per colpire
uniti e conquistare Bruxelles, per difendere la famiglia tradizionale che deve
tornare a fare figli, evitando la sostituzione etnica.
Poi,
il 10 giugno si sveglieranno dal sogno elettorale e si troveranno divisi come e
più di prima, a guardare in cagnesco, dai rispettivi Paesi, i conti pubblici
degli altri, a cominciare dai patriotti nordici che non vedono l’ora di tirare
fuori il cartellino rosso in faccia all’Italia con su scritto i parametri del
nuovo Patto di stabilità.
Usciranno
dalla paccottiglia propagandistica e si accorgeranno che una parte di loro
dovrà seguire Meloni nell’abbraccio, che oggi definiscono innaturale, non solo
con i Popolari ma con gli odiati macroniani e socialisti.
Ovviamente
tutto dipenderà dalla sorpresa che verrà fuori dalle urne.
I sondaggi non danno per fortuna un grande
vantaggio al blocco unico della destra destinato a franare un minuto dopo il
voto perché gli interessi delle singole Nazioni (Italia in testa) vanno ben
oltre.
Per il
momento c’è questa deriva di Meloni che accetta la liaison con Le Pen,
immaginando che due donne a capo di due partiti con le migliori performance
elettorali, possano dare le carte a Bruxelles e a Strasburgo.
E
rianimare quell’Europa che la premier italiana ha definito stanca, debole,
viziata, in declino.
E vuole rianimarla con chi ha nel suo “dna” la
volontà di schiantarla ancora un po’, che parla di sovranismo nazionale e non
di sovranismo europeo nella tecnologia, nella difesa, nella geopolitica,
nell’energia.
Se la
destra o anche una sua parte di essa, con Meloni-Le Pen come perno, dovesse
avere la meglio e fare prigioniero il Ppe, sarebbe la fine di quel poco di
senso comune europeo che ancora rimane.
Ci
tocca andare a votare e sperare che la deriva della leader di Fratelli d’Italia
sia un bluff, pronta ad altre metamorfosi.
Viktor
Orbàn: l’uomo che
diventa
più forte nei conflitti.
Irpi.media.irpi.eu
– (24 – 4 – 2024) - Viktória Serdült – ci dice:
Salvatore
dell’Europa cristiana o autocrate che ha costruito una democrazia illiberale
corrotta nel cuore dell’Unione europea?
Orbán
governa l’Ungheria con una super maggioranza dal 2010.
Ha giurato di cambiare l’Unione europea. Da
solo.
Molto
prima di diventare il più longevo leader europeo e la bestia nera di Bruxelles,
Viktor Orbán ha iniziato la sua carriera in un campo molto diverso: quello da
calcio.
Il suo coinquilino e futuro leader del partito
liberale ungherese SzDSz (Alleanza dei liberi democratici), “Gábor Fodor”, con
Orbán ha fatto anche servizio militare nell’Est Ungheria a metà degli anni
Ottanta.
A
distanza di quarant’anni, Fodor ancora ricorda un aneddoto particolare:
«Viktor
voleva andare a vedere una partita di calcio, così saltò la recinzione della
base militare e iniziò a fare l’autostop.
A un
certo punto si fermò una Volga nera con all’interno un ufficiale dell’esercito
che gli chiese cosa stesse facendo, lui scappò a gambe levate in un campo di
grano – ha raccontato Fodor in una recente intervista video per la testata
ungherese HVG 360 -.
Provarono
a rincorrerlo, ma invano. E nonostante questo, non tornò alla base ma andò a
vedere la partita.
Tornò
un paio di giorni dopo e venne incarcerato per alcuni giorni».
Nato
nel 1963, figlio maggiore di padre ingegnere agrario e madre insegnante di
sostegno, Orbán, da ragazzo, preferiva il calcio alla scuola.
Nonostante
la decisione di abbandonare la carriera da calciatore professionista – dicendo
che non sarebbe «mai stato Dio, e non vale la pena essere niente meno di
quello» – gli insegnamenti appresi sul campo da calcio hanno plasmato il suo
approccio in politica.
«Scappare
dai pericoli va bene ed evitare i rischi può essere una prodezza, ma uno aspira
a più di così – dalla vita ci si aspetta più di così.
Anche
nel calcio vince la squadra che riesce a fare più goal, non quella che ne evita
di più», ha detto Orbán nel suo discorso alla nazione quest’anno.
CHI
VUOLE DISGREGARE L’EUROPA.
Il
risveglio politico.
Il
risveglio politico di Orbán è iniziato nel 1983, quando frequentò la “Eötvös
Loránd University” a Budapest e successivamente si unì al prestigioso “Bibó
College”.
In
Ungheria era un’epoca di sconvolgimenti.
L’Unione
Sovietica, che aveva occupato il Paese a partire dalla Seconda Guerra Mondiale,
si stava disintegrando e stava perdendo il polso sull’Est Europa.
Dopo
quattro decenni sotto la guida di un unico partito, il futuro dell’Ungheria era
incerto.
Fu nel
bel mezzo di questo clima febbrile che Orbán fondò il partito “Fidesz” con
alcuni tra i suoi compagni di università.
Molti
di questi compagni rimangono tra gli alleati più vicini anche oggi:
“
János Áder”, diventato poi presidente del Paese,” László Kövér”, presidente del
parlamento, “József Szájer”, che in precedenza è stato legislatore dell’Unione
europea per Fidesz, e “Zsolt Németh,” presidente della commissione “Affari
esteri” del parlamento ungherese.
“Fidesz”
iniziò come movimento semi-clandestino pensato per infervorare i giovani che
volevano opporsi al regime socialista.
La
partecipazione, inizialmente limitata a chi aveva meno di 35 anni, era arrivata
a sfiorare le migliaia e il gruppo organizzava proteste in strada, presto
entrate nel mirino della polizia.
Il
punto di svolta arrivò quando Orbán parlò alla cerimonia di sepoltura di” Imre
Nagy”, il primo ministro martirizzato dopo la rivolta ungherese del 1956.
In piedi nella Piazza degli Eroi di Budapest – un maestoso monumento agli storici
re ungheresi vicino al luogo in cui il partito comunista aveva tenuto le
annuali marce del Primo maggio – Orbán scioccò la folla chiedendo il ritiro delle
truppe sovietiche dal Paese.
Per
quanto il discorso lo consacrasse come contendente, Orbán era indeciso sul
dedicare la sua vita alla politica.
Nello stesso anno, il 1988, Orbán vinse una
borsa di studio finanziata dal miliardario di origine ungherese “George Soros”
per studiare politica all’Università di Oxford.
(La
fondazione di “Soros “ha anche aiutato “Fidesz” a muovere i primi passi,
fornendo al gruppo denaro, computer e una fotocopiatrice – anche se il partito
avrebbe poi demonizzato il suo benefattore una volta in carica).
Dopo
solo quattro mesi, Orbán tornò per candidarsi alle elezioni ungheresi del 1990,
le prime elezioni libere dopo decenni.
Con
molta sorpresa dei fondatori, Fidesz vinse 22 seggi al parlamento e il 27enne
Orbán all’improvviso si ritrovò politico di professione.
Il
cambiamento dell’ideologia.
L’ambiguo
approccio di Orbán alla politica – appreso nel campo da calcio e affinato come
organizzatore nel movimento giovanile – portò a delle frizioni quando Fidesz,
da movimento popolare nato dal basso, provò a evolversi in qualcosa di più
simile a un partito politico tradizionale. Quando, nel 1993, Orbán venne eletto
presidente del partito la situazione cambiò.
“Fodor”,
che apparteneva all’ala più liberale di Fidesz, temeva che il suo ex compagno
di stanza stesse trascinando il partito verso destra.
Abbandonò allora il partito per unirsi ai
liberali, spingendo circa altri 200 membri a fare lo stesso.
La scissione fece sì che Fidesz ottenesse solo
il 7% dei voti alle elezioni dell’anno successivo.
Orbán
però non si leccò le ferite a lungo.
Quando
il primo ministro di allora,” József Antall”, morì in seguito a una lunga
battaglia contro il cancro, “Orbàn” ci vide un’opportunità e si tuffò nel vuoto
politico lasciato da “Forum democratico ungherese” (Mdf), il partito di centro
destra.
È
difficile dire quanto Orbán, che all’epoca era vicepresidente
dell’Internazionale liberale (associazioni di partiti da tutto il mondo fondata
nel 1947, ndt), credesse personalmente al conservatorismo.
Come movimento giovanile, Fidesz si era
posizionato come radicale, liberale, alternativo e aveva apertamente criticato
il clero.
Ma
dopo il 1993 Orbán trasformò il partito in un movimento campione di valori
tradizionali e religiosi.
Fece
un tour nelle campagne, dove molte persone si sentivano abbandonate dalla
politica tradizionale, ascoltò i problemi delle persone e le fece sentire parte
di una comunità.
La
strategia funzionò meglio del previsto:
Fidesz
e i suoi partner di coalizione vinsero le elezioni del 1998 e, all’età di 35
anni, Viktor Orbán diventò il più giovane primo ministro ungherese di sempre.
Molti
considerano il primo mandato di Orbán, dal 1998 al 2002, l’era moderata del
partito, durante il quale attuò politiche orientate verso l’Occidente e aderì
alla Nato.
Orbán però manteneva un certo gusto per il
conflitto.
In un’intervista a “HVG 360,” l’ex
parlamentare del “Mdf “Károly “Herényi” ha raccontato di aver provato a
convincerlo a sanare le divisioni nella società attraverso il suo mandato
elettorale.
“Herényi”
ricorda ancora cosa rispose Orbán:
«È fuori questione, siamo più numerosi, il
divario deve essere allargato perché le cose restino invariate».
Ma
mentre l’Ungheria diventava più polarizzata, Fidesz perdeva elettori nei centri
urbani.
Il partito perse le successive elezioni vinte,
invece, da una coalizione di socialisti e liberali.
Dopo
solo quattro anni, Orbán era fuori dai giochi.
Il
ritorno politico.
A
detta di tutti, Orbán era devastato dalla sconfitta.
Secondo
il biografo” József Debreczeni”, il primo ministro, scherzando, gli disse che
avrebbe lasciato la politica per tornare nel villaggio di Felcsút, a circa 45
minuti dalla capitale, per allevare bestiame.
Invece,
negli otto anni successivi, Orbán trasformò Fidesz in un partito conservatore
basato sull’ideologia nazionalista.
Costruì
e curò la propria immagine, rilasciando interviste sulla sua vita privata ai
tabloid e assunse un consulente incaricato di definire la strategia politica
nel 2006. Orbán riscosse un tale successo da riuscire a rimanere leader del
partito nonostante Fidesz non avesse vinto le elezioni quell’anno.
Dopo
aver nuovamente perso, Fidesz cambiò rotta.
Quando
il primo ministro socialista in carica confessò, in un discorso trapelato
all’opinione pubblica, di aver mentito agli elettori, Orbán scese per le strade
per protestare pacificamente contro il governo.
Capitalizzando l’insoddisfazione per i suoi
leader e per la crisi economica mondiale, il giovane politico condusse il
proprio partito alla vittoria elettorale nel 2010.
Con la
super maggioranza di due terzi che Fidesz si assicurò assieme al suo partner di
coalizione minore, i cristiano-democratici, Orbán aveva il potere di cambiare
il sistema politico.
E ha usato questa posizione praticamente
incontestabile per rimodellare il Paese come meglio credeva.
Il
nuovo primo ministro ungherese ha rapidamente estromesso tutti i socialisti e i
liberali dalle posizioni di potere e riscritto la costituzione del Paese per
assicurarsi che, da allora, fosse difficile battere Fidesz alle elezioni.
Gli
emendamenti promulgati all’inizio del 2012 hanno dimezzato il numero di
legislatori in parlamento, ridisegnando la mappa elettorale e consentendo a un
maggior numero di deputati di essere eletti in collegi uninominali.
Orbán
ha inoltre abolito il sistema di voto a doppio turno, impedendo ai partiti di
opposizione di unirsi contro Fidesz, e ha concesso il diritto di voto alle
minoranze ungheresi dei Paesi confinanti.
Sono
questi cambiamenti che hanno assicurato a Fidesz il 67% dei seggi in parlamento
con solo il 49% dei voti alle elezioni del 2018.
Nonostante
il nuovo primo ministro ami dire che la nuova costituzione è «solida come il
granito», è stata emendata mediamente una volta all’anno a partire dal 2012,
consolidando i valori del partito di Orbán come parte dell’eredità culturale
ungherese.
In una delle modifiche più controverse, è
stato adottato un linguaggio per impedire, di fatto, alle coppie LGBTQ di
adottare.
Si afferma che l’educazione dei bambini deve
essere basata «sulla cultura cristiana del nostro Paese».
L’ascesa
degli oligarchi.
Allora
è cominciata l’ascesa degli oligarchi ungheresi, tra i quali spicca” Lajos
Simicska”, un altro degli amici intimi di Orbán al collegio di Bibó.
Simicska
ha qualche anno in più di Orbán e preferisce una vita più tranquilla, evitando
aperitivi e feste.
Praticamente
sconosciuto fino a quando Orbán non lo ha nominato direttore finanziario di
Fidesz, aveva un importante vantaggio:
«Era più intelligente di tutti noi», ha
ricordato Orbán in un’intervista.
Fino al 2014 l’improbabile coppia ha
praticamente gestito l’Ungheria insieme. Orbán governava, mentre Simicska si
occupava del sostegno finanziario.
La
casa di Simicska a Budapest era diventato il luogo in cui venivano prese tutte
le decisioni importanti della pubblica amministrazione e in cui venivano
mediati accordi segreti.
Sebbene
le strutture societarie opache rendano difficile stimarne beni e proprietà, gli
esperti concordano nel dire che nel giro di un paio d’anni” Simicska” fosse
diventato tra le persone più benestanti dell’Ungheria.
Ma non
ci volle molto prima che il rapporto tra lui e Orbán si rompesse perché
entrambi si contendevano l’influenza politica.
Non è
chiaro perché i due abbiano litigato.
“Simicska”
ha pubblicamente accusato Orbán di avere posizioni filorusse ma i commentatori
credono che la rottura tra i due sia dovuta alla crescente influenza politica
di “Simicska”, e in particolare al fatto che lui possedesse diversi media.
È
stato riportato che Orbán ritenesse che “Simicska” gli impedisse di guadagnare.
“Simicska” ha risposto finanziando i rivali di Fidesz alle elezioni del 2018,
ma dopo che Orbán ha vinto ancora una volta, ha ammesso la sconfitta.
È stato costretto a vendere le sue attività
commerciali e a ritirarsi nella sua casa in campagna.
Dopo
la fine politica di “Simicska”, Orbán ha creato una nuova classe di
imprenditori facendo vincere i contratti pubblici ai suoi fedelissimi e si è
guardato bene dal permettere a chiunque di rivaleggiare il suo potere.
Da
tempo i reporter investigativi hanno dimostrato come il denaro pubblico sia
andato a persone appartenenti ai circoli più stretti di Orbán, inclusi suo
padre e suo genero.
L’uomo
che ha rimpiazzato “Simicska” come oligarca più potente d’Ungheria, “Lőrinc
Mészáros,” è amico d’infanzia di Orbán, un ex tecnico del gas di Felcsút. Con
l’aiuto di Orbán, ha costruito una fortuna stimata in 600 miliardi di fiorini
(1,5 miliardi di euro) in soli dieci anni.
Con
Fidesz al potere, la corruzione è diventata endemica in Ungheria.
“
József Péter Martin”, direttore esecutivo della sezione locale di “Transparency
International”, ha stimato che un terzo degli aiuti dati dall’Unione europea al
Paese tra il 2014 e il 2020 potrebbe essere finito nelle mani sbagliate.
«L’Ungheria è il Paese più corrotto dell’Unione
europea», ha dichiarato in occasione della pubblicazione dell’ultimo rapporto
sull’indice di corruzione di Transparency International.
La
macchina della propaganda.
A
lungo i giornalisti ungheresi hanno fatto congetture sul fatto che il primo
ministro abbia dato la colpa delle sue sconfitte elettorali del 2002 e del 2006
ai media.
Anche
se nessuno lo sa con certezza, è indiscutibile che Orbán, dopo il successo alle
urne nel 2010, si sia scagliato contro l’informazione con una forza senza
precedenti.
Il governo ha utilizzato la propria super
maggioranza per riscrivere la legge sui media e blindare l’organo regolatore
dei media ungherese con funzionari fedelissimi a Fidesz.
Dopo
una grande ondata di licenziamenti, l’emittente pubblica “MTVA” è stata
trasformata in megafono del governo dando a Fidesz il controllo completo del
discorso pubblico in ampie zone del Paese.
Le
comunità rurali ungheresi hanno poco accesso a Internet e molte persone,
soprattutto quelle anziane, si informano esclusivamente tramite l’emittente
pubblica.
In un
recente rapporto, “Human Rights” Watch ha citato interviste con ex-dipendenti e
dipendenti attuali di MTVA che hanno raccontato come ai giornalisti venga detto
quali argomenti trattare e persino che parole usare nei loro servizi.
Se non vogliono seguire la linea del partito,
viene detto loro di andarsene.
Nel
2018 il governo ha istituito la fondazione “KESMA”, che controlla i media
ceduti gratuitamente da oligarchi amici.
Oggi
controlla 476 organi di informazione in tutto il Paese, che ripetono tutti la
narrazione del governo, pubblicando gli stessi articoli e, a volte, persino le
stesse copertine.
Testate
che sono generosamente sovvenzionate dalla pubblicità del governo.
Nel
frattempo, i media indipendenti sono in difficoltà e alcuni tra loro, anche
importanti, tra cui il quotidiano “Népszabadság”, hanno chiuso per la
pressione.
Altri,
come i due siti “Origo” e “Index”, sono stati integrati nella macchina della
propaganda del governo:
Orbán
usa questi media addomesticati per diffamare coloro che considera nemici.
Prima, la propaganda governativa ha preso di mira la Banca mondiale, poi il
Fondo monetario internazionale e, quando la posta in gioco è diventata più
alta, l’ex benefattore di Orbán, George Soros.
Un
cartellone che mostra la presidente della Commissione europea “Ursula von der
Leyen e Alexander Soros”, figlio del miliardario ungherese-statunitense George
Soros, con la scritta «Non balliamo ai loro ritmi! Consultazione nazionale»,
2023 © FTM.
Apparso
su manifesti e in video con toni antisemiti, il miliardario di origine
ungherese è stato mostrato come un nemico nazionale:
un
multimiliardario così potente che, per sconfiggerlo, l’intera nazione doveva
unirsi dietro Orbán.
Campagne
diffamatorie, analisi degli elettori e sondaggi continui sono diventati gli
strumenti principali di Fidesz finalizzati a mostrare le ripetute vittorie
elettorali.
La
mente dietro a tutto questo non è altro che “Arthur Finkelstein”, stratega
conservatore statunitense, un uomo che una volta ha detto al “New York Times”
che sperava di «cambiare il mondo».
La
formula di “Finkelstein” ha continuato a funzionare, anche dopo la sua morte
nel 2017.
In quell’anno è stata presentata al Parlamento
una legge che prende di mira le ong che ricevono finanziamenti stranieri.
L’anno
successivo la “Central European University”, fondata da Soros, è stata
costretta a lasciare l’Ungheria.
Nel
2019, una campagna di cartelloni pubblicitari con Soros e l’allora presidente
della Commissione europea “Jean-Claude Juncker “ha colpito le strade ungheresi,
per poi ripetersi nel 2023 con “Ursula von der Leyen”.
Il
nuovo nemico.
Per
molti anni, anche quando stava trasformando l’Ungheria in uno Stato illiberale,
Orbán ha continuato a presentare un volto più moderato all’Unione europea.
Mentre
all’interno reprimeva la società civile e il giornalismo indipendente, a
Bruxelles teneva conferenze stampa di ore e ore per rispondere alle domande dei
media.
La
cosa tra i giornalisti ungheresi si è persino trasformata in una battuta
ricorrente:
se
vuoi fare una domanda al primo ministro, compra un biglietto per Bruxelles.
Protetto dal Partito popolare europeo (Ppe) – una coalizione di fazioni
politiche conservatrici di tutta l’Ue a cui Fidesz ha aderito nel 2000 – il
primo ministro ungherese era considerato più un fastidio che una minaccia.
Nonostante
Orbán potesse fare la voce grossa su alcune questioni, come l’immigrazione, era
comunque disposto a stare al gioco.
La
politica estera dell’Ungheria si è sempre basata sulla geo-strategia:
pur
essendo un membro dell’Ue e della Nato, Orbán ha cercato di mantenere un
rapporto amichevole anche con la Russia di Vladimir Putin, che ha fornito
all’Ungheria – priva di sbocchi sul mare – petrolio e gas, e, in misura minore,
con la Cina.
In una
cena privata, secondo un articolo pubblicato dal suo direttore politico “Balázs
Orbán “(non è parente di Viktor, ndr), Orbán ha sostenuto che la «sfida
strategica che l’Ungheria deve affrontare è diventare un’economia sviluppata e
raggiungere lo status di media potenza in Europa centrale».
Per
molti anni Orbán ha cercato di nascondere le sue tendenze autoritarie quando
trattava con l’Unione europea.
Quando
Manfred Weber, leader del gruppo del Ppe, ha visitato Budapest nel 2019, i
cartelloni con Soros e Juncker sono stati rapidamente rimossi dalle strade.
Due
anni dopo, le cose sono cambiate:
Fidesz ha lasciato il Ppe e l’Ue ha sospeso i
finanziamenti all’Ungheria a causa degli attacchi di Orbán alla società civile
e allo stato di diritto. Non avendo più bisogno di salvare le apparenze, Orbán
ha trasformato Bruxelles nel suo nuovo nemico.
(Il
Presidente Vladimir Putin incontra il Primo Ministro ungherese Viktor Orban a
margine del Terzo Forum Belt and Road a Pechino il 17 ottobre 2023 © FTM).
Quando
la Russia ha invaso l’Ucraina a febbraio 2022 – poche settimane dopo che Orbán
aveva trascorso cinque ore a colloquio con Putin seduto al famoso tavolo lungo
al Cremlino – Fidesz ha colto l’opportunità per volgere la crisi a vantaggio
del partito.
Secondo
il sito “Direkt36”, nel primo pomeriggio del 24 febbraio 2022, “Antal Rogán”,
“ministro della Propaganda” ungherese, avrebbe convocato i responsabili dei
media governativi, dicendo loro che la guerra era un’occasione per rafforzare
il governo in carica.
La
macchina della propaganda ha rapidamente iniziato a sfornare messaggi che
predicavano la pace e chiedevano all’Unione europea di non intervenire nella
guerra e i cartelloni pubblicitari raffiguranti bombe, con sopra scritto «Le
sanzioni di Bruxelles ci distruggeranno», hanno fatto la loro comparsa per le
strade.
«Marcia
su Bruxelles»
Pur
avendo conquistato un potere senza precedenti in Ungheria, la politica estera
di Orbán, le continue critiche a Bruxelles, la stretta di mano con Putin e
l’aperto sostegno a Donald Trump lo hanno lasciato sempre più isolato in
Europa. Il leader ungherese ha risposto costruendo nuove alleanze con i leader
dell’estrema destra del blocco e proteggendo gli interessi di Putin.
Ha
ostacolato le votazioni su questioni chiave come gli aiuti europei all’Ucraina
e l’adesione della Svezia alla Nato, ha annacquato le sanzioni contro la Russia
e minacciato addirittura di votare contro l’avvio dei colloqui di adesione con
Kyiv.
Nel
frattempo, il governo ungherese ha speso miliardi per costruire le proprie basi
di soft power all’interno dell’Unione europea tramite discorsi e giornali
conservatori in lingua inglese.
In
diversi Paesi hanno fatto la propria comparsa think tank sponsorizzati da
Budapest, tra cui anche la cosiddetta “Casa ungherese” a poche centinaia di
metri dal Palazzo Reale di Bruxelles.
Nel
marzo 2024, in occasione di un comizio politico per commemorare la rivoluzione
ungherese e la lotta per la libertà contro l’impero asburgico, Orbán ha
dichiarato di voler portare la propria battaglia a Bruxelles.
«Nel 1848 ci siamo fermati a “Schwechat”. Non lo
faremo ora. Ora marceremo su Bruxelles e saremo noi stessi a cambiare l’Unione
europea», ha detto alla folla. Nonostante gli appelli romantici, rischia di
finire più isolato che mai all’interno dell’Unione europea.
Europa.
Una colossale esercitazione
della
Nato contro il “nemico russo”
Volerelaluna.it
– (14-02-2024) - Toni Muzzioli – ci dice:
Nonostante
la più volte evocata “stanchezza” e la comunemente riconosciuta impossibilità
di sbloccare la situazione di stallo, sembra proprio che la guerra Russia-Nato
per interposta Ucraina sia destinata a continuare, almeno per quest’anno, e
finché gli ucraini avranno gente da mandare al macello (sempre che, nel frattempo, non
diventi mondiale, nel qual caso non c’è più bisogno di preoccuparsi perché
andrà avanti per conto suo, e soprattutto durerà poco).
Questo
almeno è l’intento dell’Occidente collettivo.
Coloro
che, come chi scrive, si sono brevemente illusi che – vista la mala parata
della situazione sul fronte russo-ucraino, l’apertura di un nuovo fronte a Gaza
dove è impegnato il proprio fidato alleato locale, nonché l’allargamento
apparentemente incontrollato di quel conflitto ad altri attori regionali –
Washington cambiasse registro e decidesse di chiudere il fronte ucraino,
rendendo possibile quanto meno un cessate il fuoco, si deve purtroppo
ricredere.
È ben vero infatti che gli Stati Uniti ormai
appaiono molto “distratti” rispetto alla vicenda ucraina e, come prevedibile,
stanno entrando in un momento di introflessione tipico del periodo
pre-elettorale, e che oltretutto l’ultima tranche promessa da Biden all’Ucraina
continua a rimanere bloccata dalle schermaglie parlamentari.
Ma, d’altra parte, la linea dell’Impero non
cambia:
guerra ad oltranza contro la Russia, nonché
sostegno incondizionato (a parte i distinguo di facciata) a Israele nel suo
massacro indiscriminato ai danni dei palestinesi di Gaza.
Del
resto, l’estensione del conflitto di Gaza allo scenario mediorientale non è più
una prospettiva ma una realtà.
Da
mesi l’intervento delle milizie degli Houti yemeniti (notoriamente sostenuti e
guidati dall’Iran) non appare affatto un’iniziativa episodica ma un organico
contributo a quello che appare già un conflitto generalizzato o in via di
generalizzazione.
Il disturbo delle rotte nel Mar Rosso,
infatti, ha subito dato i suoi effetti: aumento delle assicurazioni marittime,
conseguente aumento dei costi di tutte le merci che passano di lì, con la
concreta prospettiva di un’ulteriore impennata dell’inflazione in Occidente
(basti pensare che il costo del viaggio di un container tra Shanghai e Genova è
salito tra metà dicembre 2023 e metà gennaio 2024 di quasi tre volte!).
In
altre parole: altro che “ribelli yemeniti”, questa è una sofisticata operazione
di guerra ibrida, volta a indebolire il mondo occidentale, mandandogli un
segnale (dopo quello che nel febbraio 2022 mandò la Russia) che il mondo non è
più disposto ad accettare qualunque cosa l’Occidente collettivo decida di fare
pro domo sua (in quest’ultimo caso, l’accanimento terroristico su due milioni
di disgraziati nella striscia di Gaza).
Non è un caso che la milizia yemenita non intenda
colpire il traffico mercantile nel Mar Rosso in quanto tale, ma solo le navi
israeliane o riconducibili a interessi israeliani nell’area, mentre lascia
passare le navi cinesi o russe ecc.
Ebbene,
tornando al fronte russo-ucraino, gli Stati Uniti non hanno cambiato linea;
hanno solo ridotto l’interesse e mandano ora
avanti di preferenza altri loro partner.
Così si possono interpretare gli accordi
bilaterali che, in questo inizio d’anno, Kiev ha stretto con la Gran Bretagna
(da sempre capofila del fronte antirusso), con la Francia e con il Canada.
Si tratta di accordi molto importanti (in
particolare quello con Londra, che prevede lo stanziamento di 2,5 miliardi di
sterline nel biennio 2024/25), tesi a garantire all’Ucraina linee di
approvvigionamento sicure di qui al prossimo anno o due, a fronte, forse,
dell’incertezza che grava sul futuro degli Usa (se vince Trump, che succede?),
oltre che naturalmente profitti assicurati per le industrie militari di questi
sub-imperialismi.
Qualcosa
di simile vale per l’Unione europea che, il 1° febbraio, è riuscita a far
passare un altro enorme finanziamento all’Ucraina (50 miliardi di euro per i
prossimi anni), dopo aver superato le forti resistenze dell’Ungheria che lo
stava bloccando.
Non
per niente il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si è vantato:
«L’Ue sta assumendo la leadership e la
responsabilità nel sostenere l’Ucraina» (“Francesca Basso”, I leader
disinnescano Orban. Accordo Ue per i fondi a Kiev, “Corriere della sera”, 2
febbraio 2024, p. 2-3).
Ma è
soprattutto dalla Nato che arrivano i segnali più inquietanti.
Il 25
gennaio, infatti, ha preso inizio (con la partenza da Norfolk, in Virginia, di
un’importante nave da sbarco alla volta dell’Europa) “Steadfast Defender 2024”,
una colossale esercitazione militare che coinvolgerà 90.000 uomini, 50 navi da
guerra, oltre mille mezzi blindati, ed è la più grande operazione di questo
tipo dal 1988 e durerà fino al 31 maggio.
L’operazione
si concentrerà sui confini con la Russia, per mostrare la capacità di
intervento della Nato per difendere Paesi baltici e Polonia, ma sarà anche
l’occasione per testare le capacità di trasporto truppe e mezzi, la logistica,
la rapidità, la «interoperabilità» ecc. (formiche.net/2024/01/steadfast-defender-esercitazione-nato-guerra-fredda-ecco-i-dettagli/) e,(ansa.it/europa/notizie/rubriche/altrenews/2024/01/18/la-nato-lancia-unesercitazione-anti-russia.html).
Alla
conferenza stampa di presentazione dell’operazione, svoltasi il 18 gennaio, i
tre alti ufficiali presenti – l’ammiraglio “Rob Bauer” e i generali Christopher
Cavoli” e “Chris Badia” – sembravano meno interessati alla presentazione
dell’operazione militare in sé che a fare una riflessione a voce alta, di
carattere sociologico e filosofico, e con scoperti intenti pedagogici, sul tema
della guerra e del suo rapporto con la vita sociale:
«Bisogna
che comprendiamo tutti insieme – ha spiegato l’ammiraglio Bauer – che la guerra
non è qualcosa che riguarda solo i militari.
Io
credo che una nazione debba capire che quando arriva una guerra come quella in
Ucraina ci troviamo di fronte a un fatto sociale totale [a whole of society
event].
E per molti decenni abbiamo avuto questa idea
dell’esercito professionale che avrebbe risolto tutti i problemi di sicurezza
che avevamo (in Afghanistan, in Iraq…), ma per una difesa collettiva gli
apparati militari attuali non sono più sufficienti, tu hai bisogno di più gente
che sostenga gli eserciti, hai bisogno che l’industria produca più munizioni,
più carri armati, più navi, più velivoli, più pezzi d’artiglieria…
Tutto
questo rientra in questa riflessione sulla guerra come fatto che coinvolge
l’intera società. […]
È l’intera
società che deve sentirsi coinvolta, che le piaccia o no» (qui la registrazione della conferenza
stampa: youtube.com/watch?v=G1cDW_O1PbU).
Non
sappiamo se i tre generali siano appassionati della letteratura tedesca del
primo dopoguerra e se conoscano “Ernst Jünger,” ma la mente corre al concetto
di «mobilitazione totale» [totale Mobilmachung], introdotto appunto dallo
scrittore tedesco per indicare la novità introdotta dalla Prima guerra
mondiale:
la
guerra non più come un evento a sé stante, ma come un fenomeno organicamente
collegato al movimento complessivo della nuova realtà sociale e produttiva,
della società ridotta a sua volta ad apparato tecnico-industriale (Ernst Jünger, La mobilitazione
totale, “Il Mulino”, n. 301 / 1985, p. 753-770).
Alla
domanda di una giornalista svedese, che descriveva l’isteria che si sta
diffondendo nel paese per la paura di un’invasione russa (gente che fa scorte,
che compra radio a batteria ecc.), il generale” Bauer” ha risposto che va
benissimo così, perché in questo modo la gente si prepara a «sopravvivere alle
prime 36 ore» in caso di attacco nemico, perché «non si può dare per certo che
nei prossimi vent’anni tutto sia pianificabile e tranquillo» («non dico che sarà domani, ma
bisogna che ci rendiamo conto che non è un dato scontato che saremo in pace, ed
è per questo che abbiamo i piani, per questo che ci stiamo preparando al
conflitto con la Russia e con i gruppi terroristi se dovesse accadere»).
Molto
chiare e spaventose le “riflessioni” dei tre militari:
le
nazioni europee si abituino all’idea di spostare grandi risorse all’esercito e
al settore militar-industriale;
la
questione del reclutamento di massa sia riaperta;
i civili si preparino a uno sconvolgimento
generale del loro modo di vivere per far fronte alla mobilitazione bellica che
ci attende;
la
stessa possibilità che si debba affrontare il nemico sul nostro stesso
territorio sia tenuta in considerazione.
Talmente
inquietanti che non stupisce che la stampa più acquiescente alla Nato (cioè
praticamente tutta) abbia creduto bene di tenere la notizia per ora totalmente
sotto traccia (il “Corriere della sera” la dava in un micro-box a fondo pagina…).
Non
c’è niente da fare.
Le
classi dirigenti dell’Occidente collettivo (dovremmo dire gli Stati Uniti ma gli
europei hanno perduto – posto che mai l’abbiano avuto – qualunque margine di
azione autonoma e appaiono come dei ventriloqui della Casa Bianca) non hanno un piano B e non se lo
vogliono dare.
Si
sono troppo esposte nella guerra totale contro la Russia, apice visibile di un
ben più vasto sommovimento che vede come posta in gioco il mantenimento
dell’ordine geopolitico a egemonia americana.
Hanno
scelto come soluzione la guerra, che già negli anni Quaranta del Novecento si
rivelò il modo in cui il capitalismo risolse la sua crisi generale esplosa nel
1929.
E noi,
cosa aspettiamo a mobilitarci contro questa follia?
(ideeinformazione.org/2024/02/03/mobilitazione-totale/).
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