I padroni di “BlackRock” vogliono un mondo unico governato da loro.

 

I padroni di “BlackRock” vogliono un mondo unico governato da loro.

 

 

Il popolo inglese si rivolta?

Che strano...

 Maurizioblondet.it - Maurizio Blondet – (4 Agosto 2024) – ci dice:

 

Qui da noi i media tacciono perché gli è stato ordinato cosi, quindi pochi sanno che l’Inghilterra è in rivolta dopo la strage di tre bambini di “Southport” ammazzati a coltellate da un ruandese.

A Manchester, Londra e altre città i cittadini sono in piazza (con le cattive) e chiedono uno stop all’accoglienza degli immigrati cantando “rivogliamo il nostro Paese”.

 La Polizia carica… e le prende.

Si sono visti anche immigrati col machete intenzionati ad attaccare chi protesta.

Le comunità di migranti continuano a scendere nelle strade delle città britanniche contro i manifestanti anti-migranti che il mainstream bolla e attacca dei violenti appartenenti all’ultradestra del Regno Unito.

 

Tra non molto assisteremo all’ennesimo grido di accusa “E’ stato Putin”?

 

Il fatto è che la “sinistra” (laborista) al governo è quella scelta dalla plutocrazia al potere con un colpo di mano.

Appena visto dai sondaggi che il governo “conservatore” guidato dal miliardario indù Sunak, i miliardari hanno messo a capo dei laburisti questo “Starner”, dopo aver eliminato dalla corsa il vero capo laborista Corbyn in quanto ”antisemita.”

(maurizioblondet.it/il-laborista-starmer-nuovo-capo-del-governo-uk/).

 

E’ di “sinistra” questo “Starner”- come no raccomandato apertamente e direttamente da “Blackrock”, come ha spiegato  il “Guardian” esplicitamente:

 

“Starner” ha un piano:

chiederà a BlackRock di ricostruire la Gran Bretagna.

Pensa che un governo a corto di soldi che vuole evitare aumenti delle tasse non ha altra scelta che collaborare con” la grande finanza”, attraendo investimenti privati ​​per ricostruire le infrastrutture che stanno crollando dopo anni di sotto investimenti dei conservatori.

 Il partito laburista ha già fatto i conti:

per mobilitare 3 sterline di capitale privato da investitori istituzionali, è necessario offrire loro 1 sterlina in sussidi pubblici.

Ma ogni volta che senti il ​​partito laburista annunciare una simile partnership infrastrutturale, pensa alla politica nascosta.

BlackRock privatizzerà la Gran Bretagna, i nostri alloggi, l’istruzione, la sanità, la natura e l’energia verde, con i soldi dei nostri contribuenti come dolcificante.

 Capito?

 il Mega Capitale Privato otterrà da “Starner” sussidi pubblici peri il 25% di quel che investe:

 dopo di che diverrà proprietario delle opere pubbliche e che ha rimodernato, ferrovie, autostrade, centrali elettriche o che so io.

Insomma la privatizzazione pagata dai contribuenti. E’ o non  è il “laborista ideale” per la Plutocrazia?

Ma forse tutto sommato il regime plutocratico non è troppo simpatico al popolino inglese, impoverito e da ultimo spaventato dl fatto che il governo offe qualche migliaio di sterline ai coltivatori perché smettano di produrre generi alimentari, ovviamente nel “programma green” denominato “agricoltura sostenibile”:

 insomma il “Programma Fame per le Bocche Inutili” dell’Agenda 2030 attivato anche qui in Italia con gli espropri decretati da Draghi per coprire i campi di fotovoltaico.

Si aggiunga che questa gente impoverita abita e vive a contatto con   gli africani e i musulmani, e ne subisce la “cultura” senza difesa.

 

Come ha scritto  “The Critic”:

“Solo nelle ultime settimane, i titoli dei media sono stati dominati da eventi che, nel complesso, indicano un rapido declino dell’ordine pubblico.

L’11 luglio, il nuovo governo laburista ha annunciato che 5.000 prigionieri sarebbero stati rilasciati in anticipo, per alleviare il sovraffollamento delle carceri.

Il 15 luglio, sono emerse segnalazioni secondo cui la Metropolitan Police di Londra, un tempo grandiosa, non era riuscita a risolvere un singolo furto con scasso, furto di telefono o furto di auto in 166 quartieri di Londra negli ultimi tre anni.

Il 17 luglio, un rifugiato giordano che aveva aggredito un’agente di polizia donna a Bournemouth è stato risparmiato dai lavori socialmente utili perché non sapeva parlare inglese, e il 18 luglio, due richiedenti asilo dall’Egitto che avevano rubato un orologio dal valore di £ 25.000 nel West End di Londra sono stati risparmiati dal carcere.

Nello stesso giorno si sono verificati due casi distinti di rivolta.

Nella zona di Harehills a Leeds, la polizia è stata attaccata e un autobus a due piani è stato incendiato dai residenti locali dopo che quattro bambini rom sono stati presi in carico dai servizi sociali.

Nel distretto di Tower Hamlets, a East London, a maggioranza bengalese, sono scoppiate rivolte in risposta ai disordini politici in Bangladesh.

Vorrei sottolinearlo ancora una volta: tutti questi incidenti si sono verificati nell’arco di una sola settimana.

Negli anni passati, ognuno di questi incidenti di alto profilo avrebbe dominato l’attenzione nazionale e provocato una conversazione sullo stato della legge e dell’ordine in questo paese.

 Oggi, sono poco più che carne da macello per il ciclo di notizie 24 ore su 24, fugaci come storie di drammi di celebrità insulsi o di noiose trame politiche.

E la lista continua.

23 luglio,” Anjem Choudhary” viene accusato di aver diretto un gruppo terroristico islamico.

 24 luglio, ai cadetti britannici di una caserma dell’esercito a Gillingham viene detto di non indossare uniformi in pubblico dopo che un ufficiale è stato preso di mira e accoltellato.

 26 luglio, scoppiano proteste dopo che la polizia della “Greater Manchester” viene registrata mentre trattiene due fratelli visti litigare con i passeggeri all’aeroporto di Manchester.

 27 luglio, sei persone arrestate dopo una sparatoria a Watford.

29 luglio, un uomo morto e altri due feriti dopo una rissa con i coltelli nell’East London.

 30 luglio, scoppia una rissa con i machete a “Southend” e i dimostranti scendono in piazza a” Southport” dopo un brutale attacco con coltello in una scuola di danza, in cui sono morte tre ragazze e ne sono rimaste ferite altre otto “.

Un amico più complottista di me sospetta che sia il Potere a provocare la guerra civile…

Io voglio solo sperare che la rivolta inglese sia spontanea;

 la plebe inglese ha coraggio fisico e fierezza;

certo non credo che vincerà – subirà quello che Macron ha fato ai Gilet Gialli – e almeno il “Potere Anglo” avrà meno agio di fare la guerra a Putin.

 E certo questo è un intoppo dell’“Occidente, adesso siamo NOI”  che loro  chiamano:  impostori, “democrazia”.

 

 

 

 

I fondi d’investimento:

I padroni del mondo.

 Sbilanciamoci.info - Alessandro Volpi -Recensioni – (20 Giugno 2024) – ci dice:

 

Economia e finanza.

L’economia mondiale è sempre più controllata dai grandi fondi d’investimento.

Un terzo della proprietà delle 500 maggiori imprese mondiali è nelle mani di 10 fondi finanziari.

Le analisi del libro di Alessandro Volpi, “I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia”.

Il 2022 ha segnato un anno record per i patrimoni gestiti da grandi fondi finanziari. I primi dieci fondi del pianeta hanno registrato attivi per 44 mila miliardi di dollari e due soli di essi – BlackRock e Vanguard – ne gestiscono quasi la metà.

 In pratica, due soli fondi gestiscono un valore pari ad un quinto dell’intero Pil mondiale.

Ma non finisce qui:

gli stessi 10 fondi detengono ormai circa il 30% – secondo alcuni studi il 40% – delle prime 500 società mondiali.

Una concentrazione di potere, e di capacità di incidere sul panorama politico e sociale, oltre che economico, mai conosciuta nella storia contemporanea.

 Per fare un confronto, i due più grandi fondi sovrani del mondo, “di proprietà” degli Stati, il Fondo petrolifero norvegese e il Fondo cinese, superano di poco i 2.000 miliardi di dollari

 Neppure le politiche pubbliche di investimento dei grandi paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, possono competere con una simile liquidità disponibile.

 Basterebbe considerare la portata del bilancio dell’Unione Europea o programmi come “Next Generation Eu” e lo statunitense “Inflation Reduction Act2 per comprendere la siderale distanza dalla potenza di fuoco dei grandi fondi.

 

Alla luce di ciò è difficile capire dove siano oggi il “libero mercato” e gli spazi per le politiche pubbliche.

 Vanguard, BlackRock e pochi altri fondi gestiscono i risparmi di chi non avrà più lo Stato sociale e possono offrire a questo popolo di risparmiatori una platea di titoli praticamente infinita, nell’illusione perenne del “portafoglio senza perdite”.

 I “padroni del mondo”, che hanno sostituito i ben più contenuti “padroni del vapore” di rossiana memoria, sembrano nelle condizioni di garantire una sorta di continua moltiplicazione delle risorse, attraverso un vero e proprio monopolio mondiale capace di generare rendimenti finanziari favorevoli, adoperando le dinamiche dei dividendi.

 I “clienti” globali dei fondi, più o meno benestanti, che si consegnano a simili colossi costituendone gli enormi attivi, diventano parte decisiva di un sistema finanziario concentratissimo che controlla vastissime parti del sistema produttivo e della finanza speculativa.

Il processo in atto è molto lineare.

I giganti della finanza sono in grado di fare i prezzi dei mercati attraverso gli strumenti della finanza derivata (le scommesse), che creano in maniera pressoché infinita.

Con tali strumenti riescono a garantire alti rendimenti ai risparmiatori che affidano loro i propri risparmi e, con queste risorse, comprano porzioni decisive della proprietà delle imprese e delle società, di cui manipolano i titoli così da ottenere dividendi sempre più rilevanti.

In tal modo i grandi fondi operano una radicale concentrazione del potere economico e sostituiscono, in gran parte, la finanza all’economia della produzione, trasformando i profitti in rendimenti finanziari.

In ultima analisi sono tali fondi a decidere i prezzi e, di conseguenza, a scegliere cosa deve continuare ad essere oggetto della produzione e a quali condizioni.

L’apparente democraticità delle gestioni patrimoniali svuota le politiche economiche e fa appassire i sistemi di welfare.

 Questi fondi mirano anche a creare una volatilità finanziaria gestibile, nell’ambito della quale le oscillazioni dei prezzi dei titoli e dei beni non dovrebbero essere mai casuali ma dovrebbero, al contrario, rispondere alle dinamiche costruite dagli stessi fondi che hanno bisogno di periodi di inflazione ma anche di un successivo raffreddamento di prezzi per evitare che i redditi dei propri clienti si riducano di più dei vantaggi finanziari che sono in grado di garantire loro.

Quanto avvenuto tra la metà del 2021 e la fine del 2023 ben illustra un simile andamento:

dopo un’impennata folle dei prezzi, da dicembre del 2022 è iniziata una discesa, soprattutto dei prezzi dell’energia, che è stata spinta, ancora una volta, da operazioni di Borsa e che è servita ad evitare una recessione troppo brusca.

Esiste l’elenco dei 20 maggiori fondi d’investimento del mondo nel 2022.

(Thinking Ahead di WTW Investments e IPE).

 

L’Europa in questo quadro ha un peso limitato rispetto all’assoluta centralità degli Stati Uniti:

le prime dieci società europee che si occupano di risparmio gestito hanno attivi per poco meno di 13 mila miliardi e, in realtà, quelle che gestiscono più di mille miliardi di euro sono solo cinque, con Amundi, controllata dal Credit Agricole, che ne gestisce, da sola, quasi 2 mila.

In alcuni casi, in tali società europee compaiono partecipazioni di fondi a stelle e strisce.

I maggiori fondi d’investimento europei.

 

Apple, grazie alla lievitazione delle proprie quotazioni, ha superato i 3.000 miliardi di dollari di capitalizzazione nel 2022, in pratica più del Pil francese, con un incremento del valore del titolo del 53%;

nel 2023, la capitalizzazione è scesa sensibilmente conoscendo una ripresa nel corso dell’anno.

 Ma di chi sono questi titoli? e dunque chi ha guadagnato così tanto?

La risposta è semplice.

 I due già ricordati fondi finanziari più grandi del pianeta, Vanguard e BlackRock, possiedono azioni Apple rispettivamente per 255 e 200 miliardi di dollari e, se si aggiungono altri due fondi, che rappresentano il terzo e il quarto azionista di Apple, si arriva ad un valore azionario di 700 miliardi di dollari.

Come è naturale, le impennate del titolo fanno lievitare i rendimenti di tali fondi.

Dopo Apple, nella classifica delle società quotate con maggiore valore azionario si collocano Microsoft (di cui tre fondi possiedono quasi 500 miliardi – Vanguard, in particolare, 220 miliardi di dollari) e Alphabet, di cui gli stessi fondi possiedono azioni per oltre 100 miliardi (Vanguard ne possiede per oltre 50 miliardi di dollari).

Non è certo un caso che proprio i grandi fondi insistano con continuità sull’esigenza di mantenere alti i prezzi di Borsa delle azioni, anche a discapito di strategie di investimento non immediatamente remunerative.

Considerazioni analoghe sono possibili per la nuova “star” delle Borse, “Nvidia”, la società high tech che è cresciuta di più nel 2023 superando i 1000 miliardi di dollari di capitalizzazione e le cui azioni sono possedute da Vanguard e BlackRock per 87 e 77 miliardi di dollari.

La corsa è continuata nel 2004 arrivando a superare i 2500 miliardi, con un’ulteriore crescita delle quote delle Big Three.

La tecnologia crea aspettative, che, se ben veicolate in un sistema di scambi dove pochissimi player fanno i prezzi, generano subito, ancor prima della verifica reale dell’efficienza dei servizi o dei prodotti delle società, una colossale ricchezza finanziaria destinata ad alimentare un gigantesco supermarket dove condurre anche milioni di piccoli risparmiatori.

Il tutto con una forza e una velocità in grado di travolgere regole, programmazioni, dati reali e dunque di cancellare la prerogativa del mercato di svolgere la propria funzione di attribuzione più o meno coerente del valore.

L’elenco delle partecipazioni dei grandi fondi è davvero sterminato, con una concentrazione pressoché sconosciuta in passato.

 Si tratta infatti di un fenomeno decisamente recente.

Nel 2001, Vanguard, BlackRock e State Street detenevano solo il 7% del valore azionario delle società che compongono l’indice S&P.

Tale percentuale, già raddoppiata nel 2013, oggi si avvicina al 30%.

In merito a ciò è significativo rilevare che anche i diritti di voto dei tre colossi in questione nelle assemblee degli azionisti di tali società sono saliti dal 12,5% a ben oltre il 33% attuale.

È, questo, un dato utile per smentire la tesi, assai diffusa, secondo cui i grandi fondi utilizzino poco tali diritti di voto:

 in realtà la presenza di loro rappresentanti nelle assemblee dei soci e nei consigli di amministrazione è frequentissima e molto condizionante.

Naturalmente pesano poi le partecipazioni incrociate;

i grandi fondi possiedono azioni di altri fondi, di banche e assicurazioni che a loro volta sono azionisti degli stessi fondi.

 State Street, Vanguard e Black Rock, di fatto, si controllano a vicenda essendo fondi di fondi senza alcuna trasparenza e presentando al loro interno gli incroci di cui si è parlato in premessa.

In pratica ciascuno dei fondi ha partecipazione negli altri due e a sua volta è partecipato da società che appartengono al fondo capofila, in una sequenza praticamente non ricostruibile dove compaiono, nella proprietà, gli stessi amministratori.

In diverse di queste società è presente anche il fondo di” Warren Buffett” – “Berkshire Hathaway” – ovviamente a sua volta partecipato dagli altri tre.

 

C’è però un dato che merita una particolare considerazione.

 I grandi fondi non sono presenti nelle società asiatiche, a partire da “Tencent”, “Alibaba” e numerose altre.

 In pratica sembra profilarsi una distinzione fra le società “occidentali” e quelle legate al sistema cinese dove invece i fondi non sono ancora entrati.

 In questo senso, i miliardari cinesi devono buona parte della loro fortuna a concessioni “pubbliche” e a forme di “privilegio” legate allo stretto rapporto con “uomini forti” e vertici di partito che hanno impedito, finora, l’approdo delle “Big Three”.

Tuttavia qualche eccezione sembra emergere.

“ Berkshire Hathaway” ha infatti comprato, nel novembre del 2022, 60 milioni di azioni, pari a 4 miliardi di dollari, della società” Taiwan Semiconductor Manifacturing Company”, che vale in Borsa 400 miliardi e produce chip e semiconduttori con una posizione quasi monopolista. 

 

È possibile conoscere le quote di proprietà delle maggiori imprese mondiali detenute da quattro maggiori fondi d’investimento.

Ed anche la percentuale sul capitale totale che è la somma delle azioni detenute come investitori istituzionali e come fondi comuni.

Ecco le quattro maggiori fondi di investimento.

 Black Rock” ,“Vanguard”,”State Street Corp.” e“Geode Capital Mgmt.

Una valutazione a parte merita, nella descrizione del successo dei fondi, il volume dei premi delle assicurazioni, da quelle sanitarie a quelle contro le calamità naturali, che sta rapidamente crescendo, sostituendosi, in moltissimi casi, alle forme del welfare.

Se si scorre l’elenco delle principali compagnie assicurative per premi raccolti, si trovano alcune realtà davvero molto grandi:

United Health Group, che peraltro ha una capitalizzazione di quasi 500 miliardi di dollari, Elevance Health, Prudential Financial e Centene Corporation.

Chi sono i maggiori azionisti, anche in questo caso?

Non è difficile immaginarlo: Vanguard, BlackRock e State Street che possiedono, in tutte le società appena ricordate, oltre il 20% delle azioni.

Alle “Big Three“, si aggiunge, nel mondo delle assicurazioni, il fondo Berkshire Hathaway.

La gestione dei rischi, nel monopolio finanziario del super capitalismo, non può che essere affidato ai “padroni del mondo” che, naturalmente, possiedono tutti i mezzi per definire cosa sia realmente rischioso e cosa non lo sia.

 

 

 

Il culto dei miliardari per il futuro

distrae dalle storture del presente»

valori.it – Maurizio Bongioanni – (6-5-2024) – ci dice:

 

Da filosofia nata nei circoli dei super-ricchi a culto:

il “lungo termismo” sarà il nuovo neoliberismo?

(Finanza etica ed economia sostenibile).

Uno dei capisaldi del “lungo termismo” sta nella colonizzazione dello spazio.

Ne “L’utopia dei miliardari”, edito da Edizioni Tlon, la giornalista “Irene Doda” ci racconta degli «autoproclamati creatori del futuro»:

 professori di Oxford, miliardari della Silicon Valley, ideologi e guru ultra-ricchi. Tutti uniti da un’unica filosofia: quella del “lungo termismo”.

Ma di cosa parliamo quando diciamo “lungotermismo”?

 Lo abbiamo chiesto direttamente a” Irene Doda”.

 

Irene Doda, che cos’è il “lungotermismo”?

Il lungotermismo è una filosofia, un’ideologia, un culto, una para religione.

In poche parole, è un modo di pensare alle cose.

È nata nei circoli legati ai miliardari tech e ai filosofi dell’università di Oxford. Parliamo quindi di contesti molto elitari, molto bianchi e molto maschili.

 I principali pilastri del “lungotermismo sono tre”.

Per prima cosa, la priorità morale non è fare del bene per il presente, o per il futuro dei nostri figli.

L’impatto di ciò che facciamo deve essere a lungo termine, lunghissimo, in termini di milioni di anni.

Agisco oggi su ciò che avrà un impatto sui miei discendenti.

Una falla logica che però fa parlare molto di colonizzazione dello spazio e di diritti delle generazioni future, con implicazioni anche politiche.

Il secondo aspetto riguarda il numero di persone: più l’umanità è prospera e più si sta bene.

È un’equazione che di fatto non trova nessun riscontro nella realtà.

Non perché siamo malthusiani e dobbiamo ridurre drasticamente la popolazione mondiale, ma perché semplicemente non abbiamo un sistema economico che permette il benessere a tutti.

 Il sistema andrebbe prima cambiato, altrimenti l’attuale assetto geopolitico mondiale continuerà a privilegiare enormemente sempre una piccola parte della popolazione.

 

Il terzo pilastro del “lungotermismo” è l’idea che noi, persone vive oggi, abbiamo gli stessi diritti e lo stesso valore degli esseri umani che saranno vivi tra un milione di anni e che pertanto vanno tutelati.

 

Se qualcuno mi dicesse che i diritti delle persone del futuro sono gli stessi diritti delle persone del presente, tendenzialmente non mi verrebbe da smentirlo.

Se penso ai cambiamenti climatici, per esempio, si dice spesso che ciò che facciamo non lo stiamo facendo solo per l’attuale generazione, ma per quelle che verranno. Qualcuno non potrebbe obiettare che anche questo è “lungotermismo”?

Il problema è la scala che applico alle soluzioni che voglio adottare.

Mi spiego: quando parlo di cambiamenti climatici, le domande che mi pongo riguardano il tipo di società che voglio lasciare alle persone che verranno dopo di me.

Quindi mi farò delle domande su quali tipi di comportamenti ambientali voglio adottare e su come questi ridurranno la mia impronta di CO2, come redistribuisco le risorse per avere una società più equa, come riduco il consumo di suolo per creare una società più sana, come creo dei beni pubblici accessibili a tutti, eccetera.

Sono tutte domande molto concrete, che mettono in discussione il nostro attuale modo di vivere e il nostro sistema politico-economico-geopolitico.

Insomma, che mettono in discussione il nostro modo di agire.

 Il” lungotermismo”, invece, non si pone affatto queste domande pratiche.

 Il suo modo di agire è talmente ipotetico e riguarda un futuro talmente lontano che il sistema dominante non viene messo in discussione.

Una chiara distinzione. Tra l’altro hai accennato a implicazioni politiche: a cosa ti riferivi?

Per esempio:

chi decide i diritti soggettivi dell’umanità “in potenza”, cioè dell’umanità del futuro?

Le idee del “lungotermismo” sono facilmente mutuabili da frange conservatrici.

Pensiamo al caso dell’aborto:

se un embrione è una vita in potenza, va tutelato in ogni modo, anche a spese della vita e dell’autodeterminazione delle donne.

Questo è quello che si intende quando si dice che l’essere umano di oggi ha gli stessi diritti di quello che verrà.

È molto problematico a livello politico.

È un po’ il dilemma del carrello applicato su scala mondiale:

se lascio morire migliaia di persone per salvare un ipotetico milione di nuovi nati che domani prospererà su un altro pianeta, ecco, il lungotermismo mi dice di fare di tutto per salvare l’umanità che verrà, non quella del presente.

 E quel che è peggio è che un paradosso morale così pericoloso e utilitaristico viene propugnato da un manipolo di persone che oggi hanno un sacco di potere nelle proprie mani.

 

Forse l’esempio più lampante del “lungotermismo” è Elon Musk, ma non è il solo che citi, giusto?

Nel libro cito diversi personaggi:

alcuni più conosciuti, come “Elon Musk”, e altri meno, come “Vitalik Buterin”, il fondatore della criptovaluta “Ethereum”.

 Poi ci sono “Dustin Moskovitz”, cofondatore di Facebook, e “William MacAskill”, tra i creatori del “movimento dell’altruismo efficace,” una filosofia “parente” del lungotermismo.

 E “Nick Bostrom”, uno dei padri del lungotermismo, che parla della colonizzazione del superammasso della Vergine, l’insieme delle galassie che contiene la nostra.

Sono tutti personaggi che non sentirai mai mettere in discussione l’attuale modello di sviluppo perché sono loro a condurlo.

Sono miliardari che approfittano dei benefici di questo sistema e, in sostanza, fanno quello che gli pare.

Qual è il rapporto del” lungotermismo” con la tecnologia e con i cambiamenti climatici?

Questa filosofia ritiene che i cambiamenti climatici siano un rischio esistenziale e quindi cerca il più possibile di rendere l’umanità resiliente a essi.

Fin qui tutto bene, ma come lo fa?

Ad esempio colonizzando lo spazio o lasciandosi indietro la Terra e cercando risorse sugli asteroidi.

Anche in questo caso non c’è nessuna analisi sociale dei cambiamenti climatici che tra le loro cause, e non solo tra gli effetti, hanno le disuguaglianze.

 Infatti, chi è maggiormente colpito dagli eventi climatici estremi non vive nei nostri appartamenti riscaldati nel Nord del mondo e non fa parte della cricca del lungotermismo.

 

L’industria tecnologica, in questo, ha un enorme impatto ambientale.

 Prendiamo ad esempio i data center per l’intelligenza artificiale. Ma la visione di questi guru tecnologici non è improntata a risolvere questi problemi pratici, ma è molto più catastrofica:

l’IA diventerà autocosciente e causerà l’estinzione della specie umana.

 Quindi, il miliardario di turno à la Elon Musk viene investito di un’aura messianica come il solo capace di domare questa forza sovrannaturale.

Ma è tutta una strategia di marketing per non condividere la loro tecnologia con il resto del mondo, ma mantenerla una scoperta elitaria, per pochi.

È il marketing della catastrofe, come dice il giornalista “Andrea Signorelli”: timori che distraggono dal vero dibattito sull’intelligenza artificiale che riguarda chi la produce, come viene prodotta, cosa c’è dietro, per cosa si usa.

E qui ci ricolleghiamo con quello che dicevamo all’inizio:

 tutte queste domande interrogano il presente, ma il presente non è l’orizzonte del lungotermismo.

 

Per chiudere ti chiedo: nel tuo libro parli anche di un lungotermismo buono.

Esiste?

C’è bisogno di pensare nel lungo termine, d’accordo, però c’è bisogno di pensarlo in altri modi.

E gli altri modi che io propongo sono ad esempio quello di un’azione ovviamente molto più critica e radicale del sistema in cui viviamo, un approccio “dal basso” e poi un’analisi del beneficio: da chi è creato il “bene”? Oppure: il mio “bene” è lo stesso che intendono i lungotermisti? Evidentemente no.

L’idea di un’umanità che sta tutta sulla stessa barca di fronte a grandi rischi esistenziali è poco accurata.

Ci sono sì dei rischi che riguardano tutta l’umanità, ad esempio i cambiamenti climatici, ma non riguarderanno tutti allo stesso modo.

Perché ci saranno i miliardari che andranno a rifugiarsi nei bunker e quindi hanno sicuramente più opportunità di noi e del Sud del mondo di sfuggire alla catastrofe. Ora, non sappiamo se il “lungotermismo” dominerà il mondo come ha fatto il neoliberismo, però è sicuramente interessante parlarne perché, se hai tanti soldi e molta influenza, anche le idee più pazzoidi possono affermarsi su larga scala.

 

 

 

 

Gli ultra-ricchi hanno guadagnato

 1.500 miliardi di dollari nel 2023.

Valori.it – Andrea Barolini – (02.01.2024) – ci dice:

 

Il “Billionaires index” pubblicato dall'agenzia Bloomberg conferma che il 2023 ha sorriso ai patrimoni dei miliardari più ricchi del mondo.

Tra questi vi è anche il miliardario sudafricano, naturalizzato americano, Elon Musk.

Il 2023 è stato un anno che ha fatto sorridere la piccolissima quota di persone più ricche del Pianeta.

 I 500 tra uomini e donne con i patrimoni più alti del mondo, infatti, hanno visto crescere la loro ricchezza di ben 1.500 miliardi di dollari nei dodici mesi appena conclusi.

 A riferirlo è il “Billionaires index” pubblicato dall’agenzia di stampa “Bloomberg”. Secondo il quale, in questo modo, è stata totalmente compensata la perdita di 1.400 miliardi che era stata registrata nell’anno precedente.

Tra gli ultra-ricchi, vincono i magnati del settore tecnologico.

Secondo quanto indicato dalla stessa agenzia americana, a far lievitare i patrimoni degli ultra-ricchi sono state soprattutto le performance degli asset tecnologici. Questi ultimi, infatti, hanno fatto registrare nuovi record, nonostante la congiuntura economica non favorevole.

 Ciò grazie soprattutto alla crescita dell’industria legata all’intelligenza artificiale.

I proprietari delle aziende del settore high-tech, infatti, hanno visto la loro ricchezza aumentare del 48%.

Con una crescita netta di 658 miliardi di dollari.

A sorridere, più di tutti, è stato il cofondatore e amministratore delegato di Tesla, Elon Musk.

 Il magnate di origini sudafricane ha visto il proprio patrimonio aumentare di ben 95,4 miliardi di dollari.

 Grazie non soltanto all’azienda specializzata in veicoli elettrici, ma anche per via delle performance di “SpaceX”.

Il che consolida la sua posizione di uomo più ricco del mondo, davanti al francese “Bernard Arnault”, proprietario del “marchio di lusso LVMH”.

Al terzo posto c’è Jeff Bezos, fondatore di Amazon, la cui ricchezza è aumentata di 70 miliardi di dollari.

Seguono poi il fondatore di Microsoft Bill Gates e l’ex amministratore delegato della stessa azienda Steve Ballmer.

Ma il secondo aumento più corposo è stato quello di Mark Zuckerberg:

 il numero uno di Meta ha guadagnato infatti più di 80 miliardi di dollari.

Nel mondo vi sono 1,1 miliardi di poveri: perché gli ultra-ricchi sono indecenti.

In controtendenza il miliardario indiano “Goutam Adani”, che ha perso 37,3 miliardi di dollari.

 In buona parte a causa dell’operazione legata alla vicenda della “Hindenburg Research”, piccola società di ricerca finanziaria con sede a New York che nello scorso gennaio aveva accusato il “gruppo Adani” di aver manipolato i titoli delle sue società e di frode commerciale.

Un macigno che aveva fatto perdere al più grande gruppo industriale dell’India 70 miliardi di dollari.

 

A fronte di ciò, secondo i dati della “Oxford Poverty and Human Development Initiative”, sempre nel 2023, nelle 110 nazioni meno ricche del mondo, 1,1 miliardi di persone su 6,1 miliardi vivono in condizioni di povertà (534 milioni di loro risultano concentrati nella sola Africa subsahariana).

 Ma 730 milioni di poveri sono cittadini di Paesi a medio reddito.

Quasi 100 milioni di persone risultano in condizioni di povertà estrema.

Il che significa che sono costrette a privarsi di almeno la metà, se non la totalità dei beni necessari per uscire dalla soglia di indigenza.

È la fotografia di un mondo sempre più diseguale e ingiusto.

 E a poco servono la beneficenza o le iniziative filantropiche.

Ciò che è sempre più necessario è un cambiamento profondo nel nostro mondo di concepire il rapporto con la creazione e la distribuzione della ricchezza.

Le cifre contenute nel “Billionaires index” sono infatti, semplicemente, indecenti. Con buona pace di chi ancora sostiene la tanto vecchia quanto smentita dai fatti ricetta neoliberista nota come “trickle-down theory”, secondo la quale l’accumulo di ricchezza sarebbe utile perché qualche briciola potrebbe poi piovere anche sulle middle class e sui poveri.

 

 

 

 

Il Peccato Originale della Cerimonia

 d’Apertura delle Olimpiadi.

Conoscenzealconfine.it – (5 Agosto 2024) - Rodolfo Casadei – ci dice:

 

Prima di kitsch, blasfemia, oscenità, conformismo e bruttezza, si è vista la negazione della permanenza dell’identità delle cose, l’affermazione della loro plasmabilità infinita:

Parigi non era più Parigi.

È questa l’ideologia contemporanea.

All’indomani della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici una gragnuola di commenti negativi si è abbattuta sugli organizzatori, colpevoli di aver dato vita con grande dispiego di mezzi a uno spettacolo contrassegnato da volgarità, kitsch, blasfemia, oscenità, conformismo ideologico, bruttezza.

 La polemica con coloro che invece lodano lo stile innovativo e i contenuti ideologici dello spettacolo, soprattutto i suoi aspetti dissacratori, andrà avanti per anni.

La farsa dell’Ultima Cena trasformata in convivio transessuale o di Maria Antonietta che canta con la sua testa decapitata in mano, il Dioniso più simile a un bevitore sovrappeso che al dio greco, la Guardia Repubblicana ridotta a fare da orchestrina danzante all’”afrobeat” di “Aya Nakamura”, gli accenni a una scena di sesso a tre, saranno citati per decenni come segni dell’improvvisa accelerazione della decadenza della Francia, soprattutto perché acclamati come apogei di grandezza dalle autorità politiche francesi (Macron, Attal, Le Maire, ecc).

 

Il Peccato Originale dell’Inaugurazione delle Olimpiadi.

In realtà, il peccato originale da cui discendono tutti questi peccati più o meno mortali sta, appunto in quanto originale, a monte:

la decisione di svolgere cerimonia d’inaugurazione e gran parte dei giochi nel cuore della città, in parte usandola come telone di fondo, come sfondo scenografico dell’una e degli altri, in parte utilizzando strade, acque ed edifici per destinazioni d’uso diverse da quelle per cui sono state create.

 Il peccato originale è stato quello di strappare la cerimonia di inaugurazione e parte dei giochi ai luoghi che sin dall’antichità sono deputati ad ospitare gli eventi sportivi: gli stadi.

Per realizzare il suo sogno (evidentemente condiviso dal governo nazionale e dal capo dello Stato) di fare di Parigi stessa il fondale di uno spettacolo in mondovisione di quattro ore, il comitato organizzatore ha preso in ostaggio la capitale della Francia coi suoi cittadini, che da mesi vivono in stato di assedio, limitati all’estremo nella libertà di movimento e di attività economica, sia perché bisognava, con costosissimi lavori, attrezzare per eventi sportivi aree, strutture ed edifici nati per altro, sia per ragioni di sicurezza.

I Giochi Olimpici sono nati nell’antica Grecia anche come momento di tregua dalle guerre, invece per garantire la sicurezza degli attuali giochi che si svolgono in uno dei luoghi più nevralgici del mondo come obiettivo di attentati terroristici, sono stati mobilitati ben 53 mila poliziotti, gendarmi e militari francesi, più 2.500 stranieri.

 

Un’Ideologia più Forte del Woke.

L’ideologia contemporanea non è riassumibile nel politicamente corretto, nel woke, nell’inclusione che in realtà include solo quello che decidono di includere gli inclusori, nel genderismo, nel post-storicismo;

a monte di tutto questo ci sta la negazione della permanenza dell’identità delle cose, l’affermazione della loro plasmabilità infinita e della fungibilità dei significati.

Non c’è più nulla in natura che sia naturale, ma non c’è nemmeno più nulla di artificiale e storico che debba rimanere nei limiti dell’identità e delle funzioni che chi l’ha creato ha assegnato nel corso della storia.

Perciò una città può non essere più una città, cioè un luogo di socialità e di scambi forgiato da una storia di secoli, ma il palcoscenico di uno spettacolo, la parete su cui si proiettano luci e immagini, un deserto percorso da poliziotti armati fino ai denti, in definitiva:

 il pretesto per impartire una lezione di “valori” al mondo.

Al di là della condivisibilità o meno dei “valori” esibiti, usando un massimo di violenza contro la città di Parigi – paragonabile a usare la schiena di uno studente come lavagna – il punto dolente sta nel fatto stesso di strumentalizzare la “Ville Lumière” per qualcosa che è altro da essa.

Il Messaggio di Parigi alle Olimpiadi 2024.

Una città, qualunque città, è un messaggio in sé stessa, per il fatto che è un luogo portatore di tutta la sua storia e di tutto il suo presente, coi suoi splendori e i suoi angoli bui;

nel momento in cui la strumentalizzo per farle dire non quel che lei dice con la sua dinamica esistenza, ma quel che voglio io, io sto violentando quella città.

E sto dimostrando a tutti che fra i miei valori e fra i princìpi guida della mia vita, non c’è il rispetto per l’identità di quella realtà, per la sua natura intrinseca e storica insieme.

Persino di un organismo vibrante e imponente come una città il Potere può decidere di fare quello che vuole.

La Visione Post-Moderna del Mondo.

Parliamoci chiaro:

 lo stravolgimento del significato delle città non comincia coi Giochi Olimpici 2024 di Parigi.

Facciate di chiese medievali e palazzi rinascimentali o neoclassici sono diventate nel primo scorcio del XXI secolo, teloni cinematografici per proiettare documentari su specie animali in via di estinzione o sequenze di variopinti addobbi natalizi, piazze come quella del Duomo di Milano sono diventate boschetti tropicali con palme e banani, ecc.

(Rodolfo Casadei) - (tempi.it/olimpiadi-cerimonia-apertura-peccato-originale).

Tutti i miliardari under 30

hanno ereditato la loro ricchezza.

Econopoly.ilsole24ore.com – (11 Aprile 2024) - Post di Massimo Taddei – ci dice:

 

Nella classifica dei miliardari nel mondo c’è molto poco spazio per i giovani.

 Delle 2.781 persone menzionate nella lista Forbes del 2024, che raccoglie tutti i miliardari conosciuti sul Pianeta, solo 15 hanno meno di 30 anni.
Il dato più preoccupante, però, riguarda la ragione di questa ricchezza:

in tutti i casi questi giovani sono diventati miliardari ereditando la loro fortuna.

La distribuzione della ricchezza tra poco meno di tremila persone, ossia lo 0,00004 per cento della popolazione globale, ci interessa poco per capire il livello delle disuguaglianze globali, ma la tendenza registrata tra i super ricchi sembra replicare quello che avviene anche nel resto della popolazione.

 Il calo demografico, la fine della crescita esponenziale nei paesi avanzati a favore di uno sviluppo più moderato nel tempo e, in generale, le peggiori condizioni economiche cui si trovano di fronte i giovani di oggi stanno rendendo l’eredità sempre più fondamentale come metodo per accumulare ricchezza.

 

Come Zuckerberg e Musk, avremo altri giovani miliardari tech?

In un precedente articolo, avevamo raccontato come i” Millennial” siano destinati a diventare la generazione più benestante della storia, ma solo grazie alla ricchezza che erediteranno dai loro genitori.

Anche tra i miliardari, la tendenza sembra essere quella:

nel giro dei prossimi trent’anni, passeranno tra generazioni oltre 5 mila miliardi di dollari, ossia la quota di ricchezza in mano agli over 70 nella lista Forbes.

Sembra essere finita l’epoca dei giovani imprenditori tech, come Mark Zuckerberg o Elon Musk, che riescono ad accumulare in breve tempo una fortuna grazie a delle innovazioni dirompenti, come Facebook o PayPal.

 Inizia invece il periodo dei” nepo babies”, come si direbbe negli Stati Uniti, ossia di chi riesce ad avere successo grazie al lavoro fatto nelle generazioni passate dalla propria famiglia.

Non solo i miliardari under 30 sono solo 15, ma la loro ricchezza è anche molto concentrata su poche industrie.

Ad occupare le prime cinque posizioni, per esempio, sono i fratelli Firoz e Zahan Mistry, ereditieri del colosso multinazionale indiano” Tata”, e Leonardo Maria, Luca e Clemente Del Vecchio, figli del patron di “Luxottica” scomparso nel 2022.

Basta miliardari fai-da-te?

Il fatto che sempre meno miliardari si siano “fatti da soli” può far pensare che sia ormai impossibile avere successo nella vita partendo da una condizione svantaggiata.

Non è necessariamente così: il numero di milionari, per esempio, è cresciuto di molto dal 2000 a oggi.

Nei soli Stati Uniti, si è passati da circa 7 milioni all’inizio del Millennio a oltre 22 milioni nel 2022.

L’idea del self-made man (o woman) sembra però essere diventata sempre più un’ideale piuttosto che un fenomeno concreto nelle economie avanzate.

È un fatto che non riguarda solo i più ricchi, anche perché per diventare miliardari occorre spesso tempo e raggiungere questo traguardo prima dei 30 anni può essere molto difficile, ma anche le persone comuni che vogliono migliorare la propria condizione.

In Italia 5 generazioni per la scalata del reddito.

Secondo l’Ocse, per esempio, in Italia ci vogliono cinque generazioni per passare dal 10 per cento più povero fino a raggiungere il reddito medio.

Se nasci povero, le probabilità di rimanere tale sono quindi molto alte.

Anche se si trova un lavoro, poi, è più difficile che sia ben retribuito e che permetta una crescita tale da poter puntare a diventare milionario, miliardario o anche solo più ricco dei propri genitori.

 Secondo una ricerca di “Nicola Bianchi” (Northwestern University) e “Matteo Paradisi “(Einaudi Institute for Economics and Finance), nel 1985, gli under 35 italiani guadagnavano in media il 23,7 per cento in meno rispetto agli over 50, mentre oggi questo divario è salito al 44,3 per cento.

 Se già un tempo era più semplice diventare ricchi al crescere dell’età, anche grazie all’esperienza e ai risparmi già accumulati, oggi per i giovani diventa sempre più difficile stare al passo con i propri genitori.

Le prospettive economiche poco rosee e la mancanza di modelli di successo, anche tra i giovani miliardari, potrebbero contribuire ancora di più alla fine dell’ideale del self-made man.

Certo, l’idea che nella vita sia necessario avere successo a tutti i costi può portare a una cultura tossica sul lavoro e nella vita, ma è anche vero che, se nella società andranno avanti sempre più solo gli ereditieri, sempre meno persone potrebbero crescere con il sogno di avere successo.

 E le conseguenze sulla capacità innovativa delle nostre economie rischiano di essere disastrose.

 

 

 

L’Iran Tiene il Mondo con il Fiato Sospeso.

Conoscenzealconfine.it – (6 Agosto 2024) – Redazione- Simplicius76 (CptHook) – ci dice:

 

Il Medio Oriente è di nuovo in una fase di riscaldamento.

Stranamente, è durante le Olimpiadi che ancora una volta una grande guerra minaccia di infiammarsi.

 Alcuni ricorderanno che fu durante le Olimpiadi estive di Pechino, l’8 agosto 2008 che la Russia fu costretta ad entrare in Georgia, e che fu durante le Olimpiadi invernali di Pechino del febbraio 2022 che prese il via l’Operazione Militare Speciale.

Ora siamo nel bel mezzo delle Olimpiadi di Parigi e l’Iran minaccia una risposta “senza precedenti” all’uccisione del leader di Hamas Ismail Haniyeh il 31 luglio a Teheran.

In attesa, gli Stati Uniti hanno iniziato a portare nella regione importanti rinforzi, tra cui F-22, bombardieri stealth B-2 Spirit, un’armata con il gruppo della portaerei USS Roosevelt e navi da sbarco anfibio con 4.000 Marines statunitensi a bordo.

Durante i grandi attacchi di aprile, gli Stati Uniti hanno dichiarato che sarebbe stato molto difficile replicare il loro presunto successo nel fermare i missili iraniani. “Riteniamo che sarà molto difficile replicare l’enorme successo che abbiamo avuto nello sconfiggere l’attacco se l’Iran lancerà di nuovo centinaia di missili e droni – e gli israeliani lo sanno”, ha detto un altro funzionario statunitense.

Uno dei motivi è che per cercare di abbattere le centinaia di droni e missili balistici iraniani, è stata consumata un’enorme quantità di missili.

Dal momento che per abbattere un singolo bersaglio sono solitamente necessari più missili di difesa aerea, sarà sempre necessario che Stati Uniti e complici sparino molti più missili, che sono già di per sé molto più costosi.

L’intera industria della Difesa ha suonato per mesi un campanello d’allarme sul fatto che le forze statunitensi nella regione si stanno avvicinando a un punto di crisi per quanto riguarda la loro capacità di rifornire le risorse di difesa aerea. Anche in una eventuale guerra contro la Cina, sanno che sarebbero in grave difficoltà.

Ora alcuni rapporti sostengono che l’Iran si stia ancora trattenendo in attesa di colpire in un momento di sua scelta:

“Iran ed Hezbollah si preparano ad attaccare Israele nel giorno sacro di” Tisha B’Av” – “Sky News Arabia”.

“Fonti di intelligence occidentali hanno riferito a “Sky News Arabia” che l‘Iran sta pianificando un attacco contro Israele nel giorno di Tisha B’Av (12-13 agosto) in risposta all’uccisione del leader di Hamas Ismail Haniya”.

“L’attacco sarà coordinato con Hezbollah.

 La Guida Suprema iraniana Ali Khamenei ha annunciato l’intenzione di vendicare la morte di Haniya”.

“La scelta della data per l’attacco è legata al significato simbolico del “giorno di Tisha B’Av”, quando gli ebrei piangono la distruzione del Primo e del Secondo Tempio.

Ciò potrebbe esercitare una pressione psicologica sugli israeliani e ripristinare il morale dei gruppi filo-iraniani”.

Per quanto riguarda l’assistenza che la Russia potrebbe fornire all’asse della resistenza mediorientale, c’è una notizia non confermata secondo cui l’Iran avrebbe ricevuto uno dei più potenti strumenti di guerra elettronica della Russia, il complesso “Murmansk”:

“L’Iran, a quanto pare, ha ricevuto i sistemi russi di guerra elettronica a lunghissimo raggio Murmansk-BN.

In precedenza, questi complessi erano stati dispiegati nella Flotta del Nord e in Crimea (il 475° Centro di guerra elettronica era responsabile del loro utilizzo).

La loro caratteristica distintiva è un raggio di soppressione fino a 5 mila chilometri. Il complesso” Murmansk-BN” si trova su sette camion.

Le sue antenne sono montate su quattro supporti telescopici alti fino a 32 metri”.

A sostegno di questa tesi, ci sono le nuove notizie secondo cui sarebbero arrivati a Teheran due velivoli da trasporto russi, Il-96 e Il-76:

“Volo cargo IL-76 della ‘Gelix Airlines’ (reg. RA-76360) Mosca (VKO)=> Teheran (IKA).

Questa compagnia di charter è nota per i trasferimenti di armi, non sono sicuro di cosa sia questo volo, ma è interessante, è la prima volta che viene visto in Iran”.

 

Inoltre, due articoli illuminanti hanno rivelato che la Russia sarebbe stata sul punto di consegnare grandi quantità di armi agli “Houthi”, ma che gli Stati Uniti l’hanno fatta desistere in una sorta di compromesso dell’ultimo minuto:

“La Russia si stava preparando a consegnare missili e altre attrezzature militari ai ribelli “Houthi” in “Yemen” alla fine del mese scorso, ma si è tirata indietro all’ultimo minuto in mezzo a una raffica di sforzi dietro le quinte da parte degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita per fermarla”, riferisce la CNN.

Inoltre, nuove notizie indicano che dietro la serie di successi degli “Houthi” sulle navi del Mar Rosso, ci siano ufficiali del servizio russo di intelligence GRU.

Quindi, come tutti possono vedere, la Russia è già stata abbastanza attiva nell’opporsi asimmetricamente all’imperialismo americano, come ho detto molte volte rispondendo alle domande su come la Russia intenda “controbattere” agli Stati Uniti che usano l’Ucraina come proxy per danneggiare gli interessi russi.

Ora il mondo intero è sulle spine in attesa di ciò che accadrà.

Il senatore Lindsay Graham ha presentato al Congresso una risoluzione per autorizzare una guerra su larga scala contro l’Iran.

Il campanello d’allarme ha squillato al Pentagono, indicando importanti tavole rotonde di pianificazione a tarda notte e preparativi di guerra.

Secondo quanto riferito, Biden ha avuto un “discorso duro” con Netanyahu, in cui avrebbe detto che, per questa volta, gli Stati Uniti lo sosterranno, ma che, se alzerà nuovamente la tensione, non potrà contare sull’appoggio degli Stati Uniti, il che è abbastanza aperto all’interpretazione.

A questo punto è chiaro, come abbiamo già scritto molte volte qui, che Netanyahu ha bisogno di un’escalation perpetua per salvare il suo regime in crisi.

Solo mantenendo la gente in perenne paura e angoscia può impedire loro di raccogliere i mezzi e il consenso per rovesciarlo.

 Inoltre, Israele sembra temere il confronto con gli “Hezbollah”, che hanno l’appoggio dell’Iran, e vorrebbe che gli Stati Uniti vincolassero l’Iran in una guerra, o lo eliminassero del tutto, prima di intraprendere la rischiosa sfida con gli Hezbollah.

L’ultima cosa che l’amministrazione Biden probabilmente vuole è una guerra su larga scala alla vigilia delle elezioni presidenziali, che si ripercuoterebbe negativamente sulla campagna di Kamala Harris.

 Pertanto, le notizie sull’esasperazione dell’amministrazione nei confronti di Israele sono probabilmente vere.

(Simplicius76) – (simplicius76.substack.com/p/iran-keeps-world-on-pins-and-needles).

(comedonchisciotte.org/liran-tiene-il-mondo-con-il-fiato-sospeso).

 

 

 

 

La pace è sempre possibile,

non dobbiamo mai rassegnarci.

 Famigliacristiana.it – (04/04/2024) - Andrea Riccardi – ci dice:

Solo Francesco ha il coraggio di gridarlo contro chi ritiene la Terza Guerra mondiale inevitabile.

Il terribile attentato a Mosca ha sconvolto tutti per l’assurda violenza contro gente innocente.

L’attribuzione, da parte russa, di una responsabilità agli ucraini suscita paura.

C’è il rischio che una tale interpretazione porti a un’escalation del conflitto.

Ora sembra che la pista del terrorismo islamico sia incontrovertibile.

Tuttavia l’atmosfera è densa di odio.

Basta poco: può incendiare le polveri, un incidente reale o amplificato.

 Viene da pensare all’attentato di Sarajevo, nel 1914, che – centodieci anni fa – portò alla Prima guerra mondiale.

Un mese dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico, l’Impero di Vienna era già in guerra con la Serbia.

Seguì il conflitto mondiale con nove milioni di caduti militari e cinque milioni di morti civili.

 La guerra è come il fuoco:

quando scoppia, non è facile controllarlo, perché travolge tutti, al di là delle intenzioni.

In un mondo pieno di conflitti, in cui sono coinvolti molti Stati e in cui il terrorismo è un attore rilevante dall’Africa all’Europa, non si rischia una guerra più grande delle attuali.

Una guerra mondiale?

È la domanda che ci poniamo in molti, che teniamo dentro di noi, cui non troviamo risposte rassicuranti.

Osserviamo gli eventi che si dipanano sotto i nostri occhi con un sentimento cupo: non verrà un giorno in cui tutto scoppierà?

Del resto, prima dell’attacco russo dell’Ucraina, l’invasione sembrava impossibile, nonostante le prove.

 Poi è successo.

Ed eccoci in guerra da due anni!

Questo sentimento cupo sul futuro viene dal fatto che, ormai, non si immagina più la pace.

 La pace sembra impossibile.

 La pace, come destino comune dell’umanità, è scivolata (speriamo non del tutto) dalle agende degli attori internazionali.

Siamo preoccupati, ma impotenti.

Ci si arma e ci si prepara a un’eventualità che i più non vogliono, un conflitto più grande.

Bisogna avere il coraggio di ripudiare l’atteggiamento rassegnato e rimettere la pace al centro.

La gente non vuole la guerra.

La sostiene in qualche Paese, manipolata dalla propaganda.

 Bisogna far emergere la profonda volontà di pace della maggioranza.

Giovanni XXIII, che aveva vissuto da militare la Prima guerra mondiale, lanciò un messaggio prima del Vaticano II:

 «Le madri e i padri di famiglia detestano la guerra:

la Chiesa, madre di tutti indistintamente, solleverà una volta ancora la conclamazione (...) per effondersi in supplichevole precetto di pace:

pace che previene i conflitti delle armi, pace che nel cuore di ciascun uomo deve avere sue radici e sua garanzia».

Dobbiamo dar voce all’«anelito dei popoli», delle madri e dei padri, delle donne che non vogliono la guerra.

Non possiamo rassegnarci fatalisticamente a che, un giorno, la guerra verrà.

In Italia e in altri Paesi europei, il sentimento della maggioranza è che si eviti la guerra e si percorrano le vie di un forte e vero dialogo.

Allora bisogna gridare!

E agire come e dove si può per ridare alla pace il suo posto nel futuro del mondo. Papa Francesco, troppo criticato per le sue parole di pace, ha il coraggio di rompere il conformismo ufficiale e mediatico, che ha cancellato la pace dai discorsi pubblici e dal nostro orizzonte.

Con la voce e a mani nude si può ancora fermare la rassegnazione alla guerra.

La pace è possibile:

dipende dalla congiuntura internazionale, ma in fondo dipende anche da noi!

 

 

 

Dobbiamo liberarci

dalla follia della guerra

sbilanciamoci.info – (2 Aprile 2024) - Michael Von der Schulenburg – ci dice:

 

Discorso di Michael von der Schulenburg, ex diplomatico tedesco all’Onu, alla marcia per la pace di Pasqua a Berlino sulla necessità di un negoziato vero per la pace e per un voto europeo contro guerra e razzismo.

Marcia della Pace a Berlino il 30 marzo 2024.

Michael von der Schulenburg.

Cari amici,

vorrei darvi il benvenuto e ringraziarvi per aver dimostrato il coraggio e l’impegno di venire a queste marce di Pasqua.

 Anche se non siamo più in tanti, siete ancora la coscienza della Germania che si oppone alla follia che la pace in Europa e nel mondo possa essere raggiunta solo attraverso la vittoria militare.

Questo ha un significato molto particolare per noi cittadini dell’Unione Europea. Perché solo l’Unione Europea è minacciata da tante guerre e conflitti pericolosi nelle nostre immediate vicinanze.

Né gli Stati Uniti né la Cina si trovano in una situazione geografica così pericolosa come la nostra.

 Inoltre, la guerra più grande e pericolosa, in cui le armi nucleari hanno un’importanza strategica per la prima volta nella storia dell’umanità, si sta svolgendo sul suolo europeo, in Ucraina.

Eppure le nostre responsabili élite politiche dell’Unione Europea sono cadute in una logica di guerra che può essere descritta solo come una follia.

È la follia dell’irresponsabilità politica nei momenti di maggior pericolo per l’umanità.

È la follia dei generali tedeschi che contemplano la possibilità di usare i missili “Taurus” e il modo in cui la responsabilità tedesca potrebbe essere nascosta.

 Il fatto che l’uso di un’arma del genere, che potrebbe distruggere il Cremlino senza alcun preavviso, porterebbe a un contraccolpo nucleare, non sembra giocare un ruolo in queste considerazioni.

È la follia di un presidente francese che contempla il dispiegamento di truppe NATO nella guerra in Ucraina e del suo capo di Stato maggiore che propone la mobilitazione di 60.000 soldati NATO per scatenare una guerra paneuropea.

È la follia di un dibattito al Bundestag in cui, dopo due anni di guerra, le proposte della coalizione “Ampel” e dell’”opposizione CDU/CSU” sembrano ancora dichiarazioni di guerra senza nemmeno un accenno alla volontà di trovare soluzioni pacifiche.

 

È la follia dei fautori della guerra che continuano a parlare di voler sconfiggere la Russia pur accettando di distruggere l’intera Ucraina nel processo.

È la follia dei politici verdi che vogliono farci credere che non dobbiamo avere paura di una guerra nucleare anche se partecipiamo direttamente a questa guerra contro la potenza nucleare russa.

È la follia di un presidente della Commissione europea che si reca a Kiev nel secondo anniversario della guerra e pretende di difendere i valori europei a fianco del primo ministro italiano, le cui radici affondano nel passato fascista dell’Italia.

È una follia dell’Unione europea voltare le spalle a un progetto di pace europeo e distribuire sempre più spesso miliardi di sussidi alle industrie della difesa.

È una follia permettere che questa guerra si protragga per un terzo anno, ben sapendo che l’Ucraina non può più vincere questa guerra e che costerà solo più vite umane.

È la follia dei nostri politici responsabili, ossessionati dalla loro retorica di guerra, che gridano dai loro salotti accoglienti agli ucraini nelle trincee di continuare a combattere e di lasciarli morire e soffrire per noi.

 

È una follia che dopo due anni della più pericolosa e terribile guerra sul suolo europeo, noi europei non abbiamo finora ottenuto nulla per porre fine a questa guerra attraverso i negoziati.

Perché gli ucraini sono il popolo tradito che deve pagare con il proprio sangue tutta questa follia.

 E siamo anche noi europei che siamo stati ingannati dai nostri politici responsabili e che dobbiamo pagare per le conseguenze di questa guerra, indebolendo l’Europa come sede di affari, riducendo i nostri salari reali, le nostre pensioni e le nostre prestazioni sociali, nonché aumentando le spese per la difesa e concedendo sussidi sempre più ampi ai rifugiati ucraini.

Ma questa follia oggi va ben oltre la guerra in Ucraina.

Oggi domina la follia globale di credere che i conflitti possano essere risolti solo con l’uso della forza militare e non più con la diplomazia.

È una follia che i nostri ministri degli Esteri sembrino sempre più dei guerrafondai e non i principali diplomatici dei nostri Paesi, il cui compito principale dovrebbe essere quello di prevenire le guerre e cercare soluzioni pacifiche laddove le guerre sono scoppiate.

È una follia accettare il fatto che oggi nel mondo ci siano le guerre più intense dalla fine della guerra fredda.

È una follia credere che la nostra sicurezza possa essere trovata solo in una spesa per la difesa sempre più alta e che la stiamo acquistando con meno protezione del clima, meno giustizia sociale, ma con più fame, più povertà, più rifugiati, più migranti e più, anzi più sacrifici umani.

È una follia credere di poter promuovere la democrazia e lo Stato di diritto nel mondo esportando sempre più armi.

Ed è una follia il rapido sviluppo di sistemi d’arma sempre più potenti e tecnologicamente molto complessi, sistemi d’arma che non conoscevamo nemmeno durante la Guerra Fredda e che potrebbero distruggere completamente il nostro mondo e tutta la vita sulla terra più volte nel giro di pochi minuti.

Ed è una follia che, in un’epoca di sistemi d’arma sempre più potenti, abbiamo annullato tutti i trattati sulla limitazione degli armamenti e tutte le misure di controllo reciproco di questi trattati che avevamo concluso durante la Guerra Fredda e nel periodo immediatamente successivo per rendere il mondo più sicuro.

È una follia aver creato un mondo “libero” da ogni vincolo morale e umano per un’industria degli armamenti sempre più perversa e sovvenzionarla con fondi pubblici.

È la follia dello smantellamento di tutte le misure di rafforzamento della fiducia che un tempo miravano a rassicurare gli uni e gli altri che non ci sarebbero stati attacchi a sorpresa.

È la follia dei nostri attuali armamenti che fanno esattamente il contrario e mirano a sorprendere il nemico, dandogli sempre meno tempo per reagire

E la finestra di opportunità sempre più breve per reagire agli attacchi porta alla follia finale di uno sviluppo in cui lasciamo sempre più all’intelligenza artificiale il compito di decidere tra guerra e pace.

La sopravvivenza del nostro pianeta, la sopravvivenza dell’umanità, potrebbe quindi essere decisa da un’intelligenza artificiale.

Dobbiamo fare delle elezioni europee un voto a favore della pace.

 

È urgente che tutti noi ripensiamo, che sollecitiamo i nostri governi a ripensare per porre fine a questa follia.

Non siamo più in grado di organizzare grandi manifestazioni per la pace come all’epoca della guerra illegale di aggressione contro l’Iraq, anche se oggi la situazione della sicurezza nel mondo è molto più pericolosa per l’umanità di quanto non fosse nel 2003.

Eppure c’è speranza.

 Perché ci sono segni di un cambiamento nell’opinione pubblica.

Nonostante tutti i media guerrafondai, oggi in Europa c’è una maggioranza crescente contraria a ulteriori forniture di armi e favorevole ai negoziati. Dobbiamo fare leva su questo!

Dobbiamo riuscire a trasformare questa tendenza della popolazione in una forza politica.

Per farlo, dobbiamo invitare i cittadini europei a fare delle elezioni europee un voto a favore della pace.

In queste elezioni europee c’è ora un’alternativa politica per votare a favore della pace senza dover accettare obiettivi nazionalisti o addirittura razzisti.

Invito quindi tutti voi a votare il 9 giugno per la pace, per il buon senso, per le soluzioni pacifiche e per la giustizia sociale.

(Michael von der Schulenburg è un ex diplomatico della OSCE e Assistent Secretary-General delle Nazioni Unite. )

 

 

 

 

 

 

L’eclisse delle classi dirigenti.

 Sbilanciamoci.info - Giulio Marcon – (5 Agosto 2024) - ci dice:

 

Negli ultimi 30 anni le classi dirigenti, a livello nazionale e globale, ci hanno condotto sull’orlo del collasso sociale e ambientale: negli stessi giorni in cui si ritroveranno al workshop dello Studio Ambrosetti, Sbilanciamoci! promuove il Forum dell’alternativa al paradigma dell’economia dominante.

Quando si parla di classi dirigenti, tutti pensano alla politica e ai partiti.

Troppo comodo, troppo facile.

 Le classi dirigenti – capaci di condizionare e influenzare le decisioni e di avere potere – attraversano diversi ambiti, dove si annida l’élite di una società: magistratura, chiesa, giornalismo, impresa…

Tra i diversi ambiti delle classi dirigenti si stabiliscono alleanze, complicità, mutui affari.

 In Gran Bretagna (e negli Stati Uniti) si preferisce parlare di establishment, ma più o meno si tratta della stessa cosa.

Gramsci ricordava che in certe epoche della nostra storia le classi dirigenti, quando non riescono a esercitare l’egemonia sulla società, diventano sovversive, ricorrendo al ribaltamento della democrazia e delle regole del gioco per rimanere in sella.

Accadde in Italia con il fascismo, ma sta avvenendo in dosi omeopatiche e con forme forse meno drammatiche anche oggi.

Quella che lo scrittore jugoslavo “Predrag Matvejevic”, riferendosi ai paesi nati dalla disgregazione della Jugoslavia, chiamava “democratura” – crasi tra democrazia e dittatura – si potrebbe applicare a diversi altri paesi nel mondo attuale.

Si potrebbe parlare ad esempio di Trump, di Orban e di altri.

Le pulsioni autoritarie si avvertono ovunque, anche in Italia.

Le tre riforme targate Fratelli d’Italia (premierato), Forza Italia (giustizia) e Lega (autonomia differenziata) vanno in quella direzione.

 Per non parlare di ciò che succede nel mondo dell’informazione.

Quando perdono la calma, le pulsioni autoritarie degli uomini e delle donne al governo tornano a galla come riflessi pavloviani.

Tra le classi dirigenti ci sono anche gli imprenditori che negli anni ’20 del secolo scorso, in gran parte, non ebbero dubbi:

si schierarono con il sovversivismo fascista, anzi lo finanziarono.

 Nel secondo dopoguerra, abbiamo avuto imprenditori illuminati o animati dalla responsabilità sociale e pubblica:

Olivetti, Falck, Pirelli, per citarne alcuni.

Oggi abbiamo in gran parte figuranti – non tutti, ci sono anche begli esempi – disposti a vendersi per un piatto di lenticchie (sconti fiscali).

La cosa buffa è che molti imprenditori non si sentono “classe dirigente”, dimenticandosi che abbiamo avuto un premier imprenditore – Berlusconi – per 9 anni e una trentina di ministri provenienti dall’establishment imprenditoriale dagli anni ’80 ad oggi.

 

Tra meno di due mesi (6-8 settembre) una parte di questo mondo si ritroverà a Cernobbio, sulle sponde del lago di Como, in occasione del workshop dello Studio Ambrosetti.

Non vogliamo generalizzare:

 qualcosa di buono potrà venir fuori dall’incontro.

Ma sicuramente mancherà un esame critico di come l’establishment negli ultimi 30 anni ci abbia portato al collasso sociale e ambientale, a una crisi strutturale del paradigma insostenibile dell’economia dominante.

Ecco perché negli stessi giorni dell’evento organizzato dallo Studio Ambrosetti, Sbilanciamoci! terrà il suo Forum a Cernobbio – e a Como – per esprimere un punto di vista diverso, alternativo a un modello di sviluppo insostenibile e ingiusto (sbilanciamoci.info/laltra-cernobbio-torna-il-forum-di-sbilanciamoci/).

Parleremo di guerre, di giusta transizione, di diritti, di quello che sta succedendo di drammatico al nostro pianeta.

Oggi è in gioco il futuro della nostra amata terra, l’unica che abbiamo.

 

 

 

 

La guerra sta tornando?

 Ilbolive.unipd.it – (10 giugno 2024) - Daniele Mont D'Arpizio – ci dice:

 

 Dulce et decorum est pro patria mori.

Per quasi due secoli è stato insegnato che dare il proprio sangue, anche a costo di uccidere e di massacrare, era la più nobile delle azioni per il cittadino moderno:

un sogno – poi divenuto incubo – a lungo alimentato dagli Stati nazionali per poi eclissarsi nella ricca e sazia Europa postbellica.

 Fino ai nostri giorni, nei quali il demone del conflitto armato torna prepotentemente ad affacciarsi negli orizzonti europei, ammesso che ne sia mai uscito.

Ed è proprio l’aggressione all’Ucraina ad aver spinto uno storico come Marco Mondini a scrivere il suo ultimo libro:

“Il ritorno della guerra, Combattere, uccidere e morire in Italia 1861-2023” (Il Mulino 2024) racconta come fin dall’inizio la nostra storia assomigli a un’unica narrazione fatta di uomini in armi, sacrifici, guerre e combattimenti.

“In Italia la guerra è strettamente connessa alla fondazione della nazione – spiega Mondini, che insegna “storia contemporanea e history of conflicts” presso l’università di Padova –.

Per oltre un secolo gli italiani sono andati a morire prima per l’indipendenza e poi per la difesa della patria, credendo che questo facesse parte del patto di cittadinanza: un’attitudine sopravvissuta persino al disastro della seconda guerra mondiale”.

 

Ma la Costituzione del ’48 non ha ripudiato la guerra?

 

“Ha ripudiato le guerre di aggressione, ma allo stesso tempo indica chiaramente che la difesa è sacro dovere del cittadino.

 E non poteva essere diversamente, dato che nasce dalla Resistenza, una guerra che contiene al suo interno molteplici guerre e tanti progetti, ma la cui essenza è la volontà di centinaia di migliaia di uomini, e per la prima volta anche le donne, di mettere a rischio la vita per un’idea di Paese e di democrazia.

Senza che gli venga chiesto, ma spesso anzi contro le stesse autorità.

D’altra parte, fino all’inizio degli anni ’60, l’Italia è un Paese in pieno riarmo, anche perché presidia il fianco mediterraneo e quello sud-orientale dell’Alleanza atlantica.

Si investe ad esempio moltissimo nelle fortificazioni della cosiddetta soglia di Gorizia, con una spesa per la difesa ben oltre il 4% del Pil: oggi ci affanniamo per raggiungere il 2%”.

Poi che succede?

“Nel 1961 ad Assisi si tiene la prima grande marcia per la pace ed è la spia di una profonda svolta sul piano politico e culturale:

 poco a poco il pacifismo assume le forme di un grande movimento di massa, in grado di fare opinione e spostare consensi.

 Una parte crescente della popolazione maschile adulta inizia a pensare che la leva sia una tassa non solo inutile e scomoda, ma anche illegittima;

negli anni ’80 poi l'obiezione di coscienza diventa addirittura maggioritaria:

un fenomeno fino a poco prima inimmaginabile”.

Che c’è di male?

 

“Di per sé nulla, se non fosse che – anche spesso preferiamo ignorarlo – siamo figli della rivoluzione francese, che ha tolto il monopolio della violenza al principe per consegnarlo ai cittadini.

 Per oltre due secoli la guerra è stata il momento supremo della sopravvivenza della nazione, che in quanto tale riguardava tutti: i maschi adulti partivano al fronte, tutti gli altri li sostenevano.

Poi a un certo punto questa narrativa si è inceppata, anche perché ci siamo trasformati da cittadini in consumatori:

 i cittadini hanno innanzitutto doveri, i consumatori solo diritti e spesso anche delle pretese.

A lungo gli italiani, come gli altri europei, hanno voluto credere che la guerra non fosse non solo impossibile ma anche impensabile.

Il 24 febbraio 2022, anche se in realtà i segnali della crisi erano presenti da tempo, ha definitivamente rotto quest’illusione:

la guerra è tornata a far parte della nostra quotidianità e a questo dobbiamo rassegnarci”.

In questo momento però non sono le nostre frontiere ad essere minacciate.

“È perlomeno ingenuo pensare che nel 21° secolo un conflitto non ci riguardi, sia sul piano tecnico che politico, solo perché si svolge a poche centinaia di chilometri. La guerra non è solo quella che si combatte sui campi di battaglia ma anche quella cibernetica e ibrida:

 da questo punto di vista negli ultimi anni siamo stati anche noi oggetto di forme di aggressione e di intimidazione”.

Molti comunque preferirebbero non immischiarsi.

 

“La leadership russa ha detto chiaramente che il suo obiettivo non è solo l’Ucraina ma la ricostituzione del “russkiy mir”, che in quanto tale comprenderebbe Paesi che, come i Baltici, fanno parte della nostra coalizione politico-militare.

Putin è permanentemente in conflitto dal 2007 e il suo regime, come per certi versi il fascismo, deve continuare a fare la guerra per rimanere in sella.

In questo sta l’equivoco di parte del nostro pacifismo:

con un leader così, che peraltro ha stracciato tutti i trattati di pace che ha firmato, non si può ragionare con le nostre stesse categorie costi/benefici”.

Ha comunque l’atomica.

“Ma non è un suicida e sa bene che la Russia non ha le risorse militari e soprattutto economiche per reggere uno scontro diretto con la Nato.

La guerra di massa moderna è una funzione dell’economia, non dovremmo mai dimenticarlo, e la tanto conclamata superiorità militare russa negli anni scorsi è stata impiegata solo in conflitti asimmetrici, contro avversari molto più deboli e disorganizzati.

Lo scontro con un vero esercito regolare ben motivato come quello ucraino, anche se molto meno armato, è stato un colossale fiasco.

Detto questo, molto dipenderà dalle elezioni presidenziali in America.

Una vittoria di Trump probabilmente comprometterebbe la tenuta della Nato.

Non c’è insomma alternativa alla violenza?

“Più che altro bisogna tornare a pensare alla sicurezza in termini di responsabilità collettiva:

lo abbiamo già visto con la pandemia, che non a caso ha attinto largamente all’immaginario e alla terminologia militare.

 Tutto però deve ripartire dal nesso tra individuo e comunità.

Paesi più piccoli come Svezia e Danimarca hanno reintrodotto la coscrizione obbligatoria, estendendola alle donne.

Noi per il momento non andiamo verso quella direzione, ma dobbiamo comunque pensare a come allargare la platea delle persone mobilitabili in caso di necessità, ad esempio con un più ampio ricorso al personale della riserva”.

Per concludere, proprio gli italiani non farebbero bene a tenersi alla larga da armi e battaglie?

Che gli italiani che non sappiano combattere è un anti mito fin dai tempi di “Erasmo da Rotterdam”, anche se durante il Rinascimento i più grandi professionisti della guerra venivano dalla Penisola.

 Certi luoghi comuni però vanno anche smontati; innanzitutto perché non ci sono popoli che combattono meglio o peggio:

 i tedeschi, che pur avendo perso due guerre mondiali hanno fama di popolo guerriero, a partire dal 1945 hanno vissuto una demilitarizzazione culturale così profonda da compromettere l’attuale efficienza della” Bundeswehr”.

 C’è però un altro motivo per cui è ingiusto oltre che ingrato insistere sulla natura imbelle degli italiani:

il fatto che questi, nonostante e spesso anche contro generali e politici non all’altezza, abbiano comunque continuato a fare quello che ritenevano il loro dovere, facendosi massacrare pur di resistere sul Piave come a Cefalonia, ma anche in guerre di aggressione sbagliate come quelle del fascismo”.

Un aspetto quasi schizofrenico della nostra storia.

“…che non può essere spiegato solamente con la costrizione dei tribunali militari e le decimazioni, e che finora è stato sorprendentemente poco indagato dai colleghi storici.

Per questo ho voluto approfondirlo in questo libro”.

 

 

 

Macron alla tv francese: "L'Europa deve

essere pronta alla guerra se vuole la pace"

Rainews.it – (14-3-2024) – Reuters – Redazione – Intervista all’ Elisione – ci dice:

 

"Se la guerra dovesse estendersi in Europa, sarebbe unica scelta e responsabilità della Russia.

Ma decidere, noi oggi, di essere deboli, decidere, oggi, che non risponderemo, è già essere sconfitti". Ma questo, io non lo voglio".

Sono alcuni passi delle dichiarazioni, dal tono molto deciso, rilasciate dal presidente francese “Emmanuel Macron” in un'intervista alle tv francesi France 2 e Tf1.

L'inquilino dell'Eliseo ha detto che l'Europa dovrebbe prepararsi alla guerra se vuole la pace, definendo la Russia del presidente Vladimir Putin un avversario che non si fermerebbe in Ucraina se sconfiggesse le truppe di Kiev nel conflitto che ormai dura da due anni.

 

"Due anni fa abbiamo detto che non avremmo mai inviato carri armati.

L'abbiamo fatto.

Due anni fa abbiamo detto che non avremmo mai inviato missili a medio raggio. L'abbiamo fatto.

 Abbiamo detto che non avremmo mai inviato aerei, alcuni sono in procinto di farlo.

Abbiamo quindi posto troppi limiti, se così posso dire, nel nostro vocabolario.

Non siamo in un'escalation, non siamo in guerra con la Russia.

Semplicemente, dobbiamo essere chiari, non dobbiamo lasciare che la Russia vinca".

Macron aveva già suscitato ampie polemiche il mese scorso con l'affermazione di non poter escludere il dispiegamento di truppe in Ucraina in futuro, ricavando l'immediata reazione di molti leader che hanno subito preso le distanze mentre altri, soprattutto nell'Europa orientale, hanno espresso sostegno.

"Se la Russia vince questa guerra, la credibilità dell'Europa sarà ridotta a zero", ha proseguito Macron nell'intervista televisiva.

Il leader francese ha affermato che è importante che l'Europa non tracci linee rosse, che segnalerebbero debolezza al Cremlino e lo incoraggerebbero a proseguire con l'invasione dell'Ucraina.

Ma si è rifiutato di fornire dettagli su come potrebbe essere messo in pratica l'eventuale dispiegamento delle truppe in Ucraina.

Incalzato dalle domande, ha detto che la Francia non inizierebbe mai un'offensiva contro la Russia e che Parigi non è in guerra con Mosca, nonostante il fatto che la Russia abbia lanciato attacchi aggressivi contro gli interessi francesi all'interno e all'esterno dei suoi confini.

“Non condurremo mai un'offensiva, non prenderemo mai l'iniziativa”, ha detto il presidente francese.

"La Francia è una forza di pace.

 Semplicemente, oggi per avere la pace in Ucraina, non dobbiamo essere deboli e quindi dobbiamo guardare lucidamente alla situazione, e dobbiamo con determinazione, volontà, coraggio, dire che siamo pronti a usare i mezzi per raggiungere il nostro obiettivo che è che la Russia non vinca".

 

Macron ha quindi affermato che l'Ucraina si trova in una situazione "difficile" sul terreno e che è necessario un maggiore sostegno da parte degli alleati.

 Ha anche detto di sperare che arrivi un giorno il momento in cui negoziare la pace con un presidente russo "chiunque esso sia", quasi auspicando la possibilità che in un prossimo futuro Putin non sia più al potere in Russia.

 

 

 

Von der Leyen e Macron, davvero non

 escludete la Terza guerra mondiale?

Valori.it - Andrea Barolini – (01.03.2024) – ci dice:

 

Alcune dichiarazioni sulla guerra in Ucraina di Emmanuel Macron e di Ursula von der Leyen hanno lasciati sinceramente sgomenti.

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente francese Emmanuel Macron hanno partecipato ad un recente vertice della Nato.

Nelle ultime settimane tre notizie si sono susseguite, e con esse un’altalena di speranze, timori e sconcerto.

 La prima è giunta da Mosca: Vladimir Putin ha rilasciato un’intervista a “Tucker Carlson”, ex presentatore di Fox News.

Il presidente russo ha dichiarato che Washington dovrebbe convincere l’Ucraina ad aprire un tavolo di negoziati.

Era la prima volta che Putin si lasciava intervistare da un giornalista occidentale, da quando ha deciso di invadere la nazione guidata da Volodymyr Zelensky.

E non stupisce che il leader del Cremlino abbia scelto proprio Carlson:

un conservatore, vicino a Trump, che in passato ha insultato il presidente ucraino. Ma tant’è:

 Putin evoca un tavolo di negoziati e questa resta una notizia.

 Se ci sia o meno da fidarsi, è un’altra partita ovviamente.

Lo “zar” fa sul serio?

 È solo propaganda? Impossibile dirlo.

 Putin ha invaso una nazione vicina, provocando morte e distruzione.

Ma non si può neppure evitare di registrare quella che, almeno in linea teorica, potrebbe rappresentare un’apertura.

 

La seconda notizia è arrivata lunedì 26 febbraio dalla Francia.

 Il presidente Emmanuel Macron, nel corso di una riunione internazionale tenuta a Parigi, ha ribadito la necessità di «assicurare la sconfitta» della Russia.

 E, fin qui, niente di nuovo.

Quindi ha chiesto un «sussulto» agli alleati.

Che non implicherebbe però soltanto il “solito” invio di armi a Kiev.

No: stavolta il presidente ha evocato a chiare lettere l’ipotesi di inviare truppe in Ucraina.

«Molti tra coloro che oggi dicono “mai, mai” sono gli stessi che dicevano “mai carri armati, mai aerei, mai missili a lungo raggio” due anni fa», ha argomentato il leader transalpino.

Immediate e sdegnate le reazioni dell’opposizione: «È una follia», ha tagliato corto il primo segretario del Partito socialista, “Olivier Faure”.

“Léon Deffontaines”, del Partito comunista, ha definito le dichiarazioni di Macron «irresponsabili», e avvertito che potrebbero «portare la Francia e il mondo intero in guerra».

Mentre la co-presidente del gruppo GUE del parlamento europeo, “Manon Aubry,” ha parlato di «escalation guerrafondaia» e ha chiesto che ci si mobiliti per «utilizzare tutti i mezzi che la Francia ha a disposizione per agire per la pace».

 

Perfino il presidente dei Repubblicani, il conservatore “Eric Ciotti” si è chiesto se queste parole fossero «davvero riflettute».

 E Macron non ha mancato di rispondere, confermando quanto detto e spiegando che le sue sono state affermazioni «pensate, pesate e misurate».

La terza notizia, più recente, è giunta da Bruxelles.

In un discorso al Parlamento europeo, la presidente della Commissione ha lanciato un appello ad investire nelle armi e nella difesa.

 Lanciandosi in un incomprensibile paragone tra l’acquisto di vaccini anti-Covid e quello di bombe, carri armati e missili.

 Ma soprattutto, parlando di un possibile conflitto in Europa, ha detto che «dobbiamo essere preparati».

L’aria che tira è pesantissima.

 Se Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen avessero agitato volutamente lo spauracchio di una guerra mondiale per convincere tutti a fare ciò che vuole la Nato, ovvero avviare un’enorme fase di riarmo, investendo miliardi pubblici e privati, sarebbe davvero irresponsabile.

 Perché la storia ci ha insegnato (o almeno dovrebbe) che non è certo riempiendo il mondo di caccia bombardieri o testate nucleari che si garantiscono sicurezza e pace.

Qualora invece stessero davvero pensando ad avviare un’opera di convincimento verso l’opinione pubblica per lanciarsi in una guerra contro la Russia (e magari, chissà, anche contro quei Paesi che si sentirebbero a quel punto di sostenere Putin), si tratterebbe di qualcosa di talmente folle e lunare da lasciare basiti.

Il 23 febbraio, nel corso di una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il segretario generale “António Guterres” ha spiegato che «è davvero il momento di instaurare la pace.

Una pace giusta, fondata sulla Carta dell’Onu, sul diritto internazionale e sulle risoluzioni del Consiglio di sicurezza».

Tra pochi mesi saremo chiamati alle urne in Europa.

 Forse ad orientare i nostri voti dovrebbero essere prima di tutto le intenzioni dei candidati in merito alla volontà o meno di trascinarci nella Terza guerra mondiale.

(P.S. Disclaimer a vantaggio chi vive con il dito puntato sulla tastiera pronto a dare del filo-putiniano a chiunque (e soprattutto a caso). Questa testata non si è mai schierata con Putin e non apprezza il comportamento della Russia (e non solo con l’Ucraina).

Ci riserviamo il sacrosanto diritto di schierarci con la pace, con le popolazioni civili, con gli oppressi. Esattamente come nel conflitto a Gaza, nel quale la condanna del barbaro e crudele attacco di Hamas del 7 ottobre non ci impedisce di schierarci contro la barbara, mortifera e crudele invasione di Israele.)

 

Borrell a Kiev: l’Europa deve

sostenere l’Ucraina «a qualunque costo».

Legrandcontinent.eu – (12-2-2024) – Redazione – ci dice:

 

«Lo stato naturale delle cose rimane la lotta tra grandi potenze. Nel mondo di oggi, la geopolitica sta tornando in auge e la Russia non ha dimenticato la propria illusione imperiale.

 Ecco perché la vostra guerra è stata un campanello d'allarme per l'Unione Europea.

 Dal 24 febbraio 2022, questa guerra non è stata solo una questione di assistenza militare e finanziaria per la maggior parte di noi, ma è stata soprattutto una rivoluzione nella nostra mentalità...

Ora dobbiamo anche cambiare l'intero quadro istituzionale dell'Unione Europea per adattarlo a questa nuova realtà geostrategica».

(Lel Grand Continent)

 

La scorsa settimana l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione europea, “Josep Borrell”, ha visitato l’Ucraina per la sesta volta dall’invasione massiccia della Russia.

Il capo della diplomazia europea si è rivolto alla “Rada”, il Consiglio supremo, il parlamento unicamerale dell’Ucraina.

Il suo discorso si è svolto in un contesto di tensione.

Dopo il fallimento della controffensiva ucraina, gli annunci della ripresa economica della Russia e la sempre più evidente presa di distanza degli Stati Uniti, il capo della diplomazia europea ha dichiarato che gli europei devono «cambiare paradigma e passare dal sostegno all’Ucraina “finché serve” all’impegno a sostenere l’Ucraina “costi quel che costi».

Signor Presidente, membri della Rada, signore e signori, 

sono molto onorato di essere ancora una volta qui con voi a Kyiv.

E vi ringrazio di aver issato la bandiera dell’Unione europea.

Questa è la mia sesta visita in Ucraina, la quarta dall’inizio della guerra, e in una città che, negli ultimi dieci anni, è stata più consapevole della propria identità europea di qualsiasi altra capitale del continente.

Come ha scritto “Yuri Andrukhovych” – i cui libri sono sempre più tradotti in molte lingue europee –

«Kyiv ha vinto il competizione per diventare lo scenario della più bella di tutte le rivoluzioni: la rivoluzione di Kyiv, la rivoluzione della dignità».

Abbiamo appena celebrato il decimo anniversario di questa rivoluzione ‘hidnista’, della dignità in ucraino, e so che per difenderla avete pagato e state ancora pagando un prezzo terribile. 

Nato nel 1960 a Ivano-Frankivsk, nell’Ucraina occidentale, “Yuri Andrukhovych” è una delle figure più popolari della letteratura ucraina contemporanea, tradotto in venti lingue.

Poeta, saggista, romanziere e performer, ha fondato il gruppo letterario Bu-Ba-Bu (Burlesque-Balagan-Bouffonnade).

 

Molti degli eroi della vostra rivoluzione sono morti sul fronte, combattendo contro gli invasori russi per la vostra libertà.

Come, ad esempio,” Roman Ratushny”, attivista contro la corruzione. Non aveva neppure 25 anni.

Vladimir Putin pensava che la guerra sarebbe durata solo una settimana, ma due anni dopo, siete ancora qui.

Alcuni dei vostri soldati combattono in prima linea dall’inizio della guerra.

 Sono stati gli eroi della battaglia di Kyiv, quando le truppe russe erano a 8 chilometri di distanza.

Sono stati gli eroi di Kharkiv, un nome che oggi tutti in Europa conoscono.

Lo hanno fatto – lo avete fatto – con il vecchio equipaggiamento sovietico, senza poter contare ancora sull’aiuto dell’Occidente.

Lo avete fatto grazie alla motivazione dell’esercito e del popolo. 

Oggi avete liberato metà del territorio che la Russia aveva preso e avete tolto il blocco nel Mar Nero.

In ogni città liberata, le vostre truppe sono state accolte da persone la cui gioia per la liberazione era pari al dolore che avevano patito.

 I vostri soldati hanno visto ovunque morte e devastazione e hanno scoperto ovunque fosse comuni.

Lo so perché l’ho visto di persona a “Bucha”.

 

La guerra è costata la vita a tanti.

Ma permettetemi di citare una persona in particolare: “Victoria Amelina”, finalista al premio dell’Unione Europea per la Letteratura.

Lavorava come investigatrice di crimini di guerra e invece di mettersi al riparo, e’ andata nell’Ucraina orientale per raccontare le storie delle persone che vivevano sotto occupazione.

L’estate scorsa un missile russo, come quelli caduti su Kyiv ieri sera, l’ha uccisa mentre cenava in una nota pizzeria.

Era certamente un obiettivo. Aveva solo 37 anni.

È diventata “Colei che è volata via troppo presto”, come aveva scritto in una delle sue poesie.

Parlo di lei non potendo parlare di tutte le vittime e gli eroi di questa guerra.

Ci sono molte tragedie come quella di Victoria Amelina.

E tutte ci ricordano ciò per cui il popolo ucraino sta combattendo: la libertà e la propria terra.

 I soldati russi non sanno per cosa stanno combattendo.

 I soldati ucraini combattono per la loro stessa esistenza, per la vita delle loro famiglie, per il futuro dei loro figli, per la vostra libertà, per la vostra cultura. Perché la lingua ucraina non sia zittita e i vostri libri – come quello di Victoria – non restino incompiuti. 

Sapete qual è il vero confine tra Russia e Ucraina?

Non è solo la linea del fronte sul campo di battaglia: è la linea del fronte politico tra un mondo governato dalla legge e dalla libertà e un mondo in cui i potenti impongono la loro volontà in patria e in altri paesi.

È la linea del fronte tra democrazia e regimi autoritari.

Niente di meno.

Un’Ucraina che si oppone alla guerra di annientamento della Russia dà un forte contributo alla sicurezza dell’Europa nel suo complesso.

Visto il mio ruolo di “Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza”, potete facilmente comprendere quanto questo tema mi stia a cuore.

Non si tratta di una frase retorica per strappare un applauso, ma della cruda realtà.

 L’Ucraina dà un enorme contributo alla sicurezza dell’Europa nel suo complesso.

E il miglior impegno che possiamo assumere per la sicurezza dell’Ucraina è di integrarla nell’Unione europea.

 

Permettetemi di ricordarvi cos’è l’Unione Europea.

 L’Unione Europea non è un’alleanza militare.

L’Unione Europea è stata costruita intorno all’economia, per disinnescare i conflitti tra gli europei attraverso negoziati e compromessi.

E ha funzionato.

Dopo le due terribili guerre mondiali del secolo scorso, l’Unione Europea ha goduto di pace per quasi 80 anni.

Il vecchio antagonismo tra gli ex imperi europei è scomparso.

I confini sono diventati invisibili.

Ma questo è anche il motivo per cui molti europei hanno dimenticato che il mondo può essere un luogo terrificante in cui chi ha potere può imporre la sua ragione. Abbiamo fatto pace gli uni con gli altri e tendiamo a credere che la pace sia lo stato naturale delle cose, il che purtroppo non è vero.

Lo stato naturale delle cose è ancora la lotta tra grandi potenze. Nel mondo di oggi, la geopolitica sta tornando in auge e la Russia non ha dimenticato la propria illusione imperiale.

Ecco perché la vostra guerra è stata un campanello d’allarme per l’Unione Europea.

Dal 24 febbraio 2022, questa guerra non è stata solo una questione di assistenza militare e finanziaria per la maggior parte di noi, ma soprattutto una rivoluzione del nostro modo di pensare.

 Abbiamo preso coscienza di quanto sia pericoloso il mondo a due passi da noi.

Questo ci ha fatto cambiare mentalità.

Ora dobbiamo anche cambiare l’intero quadro istituzionale dell’Unione Europea per adattarlo a una nuova realtà geostrategica.

 La ragion d’essere dell’UE non è più fare la pace tra noi, ma affrontare le sfide ai nostri confini.

Esattamente due anni fa, il 6 gennaio 2022, quando la Russia stava già ammassando le sue truppe sul confine, mi trovavo nel Donbass e incontrai il primo ministro “Denys Shmyhal”.

Stavamo parlando nel suo ufficio e mi chiese: “Quando ci invaderanno – perché ci invaderanno – ci sosterrete?

Ci fornirete le armi di cui abbiamo bisogno per difenderci?”.

Non dimenticherò mai quella domanda e quel momento della mia vita:

“Ci aiuterà?”.

All’epoca non riuscii a dare una risposta netta, perché l’Unione Europea non aveva mai fornito aiuti militari a un Paese in guerra.

Ma quando poche settimane dopo vi fu l’invasione, reagimmo in un modo inedito. Da allora e fino a ora siamo rimasti uniti e abbiamo fornito – non una promessa ma un dato di realtà – 28 miliardi di euro in aiuti militari e in totale quasi 90 miliardi di euro in aiuti umanitari, economici e finanziari. 

La scorsa settimana, gli Stati membri dell’UE – come sapete – hanno concordato un ulteriore pacchetto da 50 miliardi di euro per fornirvi finanziamenti certi per i prossimi anni e per aiutarvi a pagare stipendi e pensioni, e a fornire servizi pubblici.

Perché dovete vincere la guerra e vincere la pace allo stesso tempo. 

Permettetemi di dire che la Presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, e il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, hanno avuto il merito di mettere insieme questo pacchetto di aiuti, di averlo sottoposto al Consiglio Europeo e di aver lavorato duramente per farlo approvare da tutti gli Stati membri.

 Tuttavia, il pacchetto deve ancora essere presentato al Parlamento europeo, che è l’autorità di bilancio dell’Unione.

È necessario un accordo tra il Consiglio e il Parlamento sulla proposta della Commissione.

Sono fiducioso che arriverà entro la fine del mese. 

 

Ma so che dobbiamo andare oltre.

Ho già detto che questa è la mia sesta visita in Ucraina.

Dobbiamo cambiare il paradigma, passare dal sostegno all’Ucraina “per tutto il tempo necessario” all’impegno a sostenere l’Ucraina “costi quel che costi”.

 Non è una questione di durata: più breve è la guerra, meglio è.

E perché la guerra duri meno, il nostro sostegno deve essere più forte.

Dobbiamo fare tutto il necessario per garantire la vittoria dell’Ucraina.

Il riferimento è esplicito al famoso “whatever it takes” di Mario Draghi (la cui fonte latina todo modo è senza dubbio riconducibile all’educazione gesuitica dell’ex banchiere centrale), ripreso dal Presidente francese Emmanuel Macron con il “quoi qu’il en coûte” durante la crisi pandemica.

 Per quanto riguarda il conflitto in Ucraina, vale la pena notare che il presidente lettone “Edgars Rinkēvičs” ha dichiarato, in occasione di una conferenza stampa congiunta con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Riga l’11 gennaio, che è giunto il momento che gli europei cambino la retorica del «sostenere l’Ucraina finché serve» e si impegnino invece a sostenere l’Ucraina fino alla vittoria totale «costi quel che costi».

Sentiamo dire da qualcuno che l’Ucraina non può vincere:

 questo è disfattismo.

“Perché continuare a sostenere l’Ucraina se non può vincere? Non è vero. Dobbiamo contrastare questa idea.

 La Russia ha perso molte guerre nella sua storia.

E dobbiamo anche smentire chi dice che “il sostegno occidentale non durerà”.

Sono consapevole del peso delle mie parole in questo momento storico, qui davanti ai rappresentanti del popolo ucraino.

E con questa consapevolezza dico che quanti sostengono che Putin deve essere placato si sbagliano.

 Si sbagliavano nel 2022 e si sbagliano oggi. 

È stato lo stesso Putin a dire: “Vogliamo porre fine a questo conflitto il prima possibile, ma solo alle nostre condizioni”.

E quali sono queste condizioni?

Denazificazione, smilitarizzazione e smantellamento.

 Questa è la ricetta di Putin per l’Ucraina.

 E queste parole significano solo una cosa: capitolazione dell’Ucraina. 

 

Vladimir Putin ha dimostrato più volte di non negoziare in buona fede e di non rispettare gli accordi presi.

La sua, ha chiaramente detto, è una guerra contro l’intero Occidente.

Dunque, invece di cercare l’acquiescenza, dovremmo ricordare le lezioni che abbiamo imparato dal 2022, evitare di ripetere gli errori commessi e raddoppiare i nostri sforzi dove abbiamo avuto successo. 

Guardiamo in faccia la realtà.

Nel 2023 la Russia non ha compiuto praticamente alcun progresso sul campo di battaglia.

 Le vostre forze armate sono riuscite a indebolire il dominio aereo russo in prima linea e a rompere il blocco dei porti del Mar Nero. 

Avete costretto la Russia a ritirare la maggior parte della sua flotta dalla Crimea occupata e le esportazioni di grano ucraino si stanno nuovamente avvicinando ai livelli prebellici.

Il blocco alle vostre esportazioni di grano è saltato.

Ed è finito non grazie ad accordi con la Russia, ma grazie alla vostra lotta e ai corridoi di solidarietà introdotti dall’UE, che hanno rappresentato un importante sostegno per le esportazioni ucraine.

  Avete dimostrato anche una ingegnosità incredibile.

 Due anni fa, l’Ucraina aveva sette impianti di produzione di droni militari.

 Oggi ne ha centinaia. Ieri ne ho visitati due.

È davvero qualcosa di rivoluzionario.

 Non lo dico perché me l’hanno detto, ma perché l’ho visto con i miei occhi.

 Ho visto giovani appassionati, con molto ingegno e creatività, mettere a disposizione

 le loro competenze tecniche e trasformate vecchie fabbriche in impianti per attrezzature ad alta tecnologia, come droni che costano 300 euro e possono distruggere carri armati.

 L’ingegnosità ucraina è incredibile. 

Sono certo che, quando questa guerra sarà finita, l’Ucraina sarà uno dei principali produttori mondiali di nuove attrezzature militari.

Permettetemi quindi di congratularmi con voi e con il vostro popolo.

Allo stesso tempo, la Russia sta ’cannibalizzando’ – se così si può dire – il proprio futuro.

Putin ha mobilitato l’intera economia, società e sistema politico per lo sforzo bellico.

 I talenti – quando possono – lasciano il Paese e il declino demografico sta accelerando.

 Tuttavia, dobbiamo anche riconoscere che la Russia è stata in grado di adattarsi alla guerra e che la sua economia è più resistente del previsto. 

Dobbiamo guardare in faccia la realtà:

è vero, le sanzioni stanno avendo un pesante impatto sull’economia russa e sullo sforzo bellico.

Colpiscono quasi 2.000 entità e individui, e c’è stata una riduzione del 60% dello   scambio commerciale con la Russia rispetto a prima della guerra.

Ci siamo liberati della dipendenza energetica dalla Russia.

Oggi diamo priorità alla lotta contro l’elusione delle sanzioni, che è un compito molto difficile, ma sta funzionando:

lentamente ma inesorabilmente.

Ci stiamo concentrando sul monitoraggio preciso dei flussi commerciali e sul blocco della riesportazione di beni che potrebbero essere utilizzati sul campo di battaglia. È un lavoro certosino che facciamo ogni giorno.

Soprattutto, abbiamo urgente bisogno di rilanciare l’industria europea della difesa.

 So che vi aspettate da noi più sostegno militare, più munizioni, più tutto.

Negli ultimi due anni, la maggior parte del nostro sostegno militare è arrivato dalle scorte dei nostri eserciti.

 Ricostituire queste scorte continuando a fornirvi più armi e munizioni è una sfida importante per la nostra industria della difesa, che aveva ridotto la produzione a livelli da tempo di pace.

Tuttavia, abbiamo già invertito questa tendenza. La capacità produttiva della nostra industria è già aumentata del 40% dall’inizio della guerra. Entro la fine dell’anno raggiungeremo una capacità produttiva di 1,4 milioni di munizioni. 

Voglio essere franco.

 Ho parlato con i vostri militari e so che il fabbisogno di munizioni è maggiore. Tuttavia, stiamo lavorando duramente su questo tema ed entro la fine dell’anno forniremo all’Ucraina oltre un milione di proiettili.

Questo si aggiunge alle munizioni che l’industria europea vende all’Ucraina.

Per essere chiari.

 L’Ucraina viene rifornita attraverso due canali: donazioni ed esportazioni.

Quando parliamo di un milione di proiettili, parliamo solo di donazioni.

Questo è ovviamente un grosso problema, perché si tratta di munizioni gratuite per l’Ucraina.

Di là dalle donazioni, la nostra industria sta già producendo e vendendo una quantità simile di munizioni;

non posso darvi un numero preciso perché siamo in tempo di guerra, ma il totale è molto più alto delle cifre di cui il pubblico sente parlare.

Stiamo cercando di dare priorità alle forniture all’Ucraina, dicendo alle nostre forze armate e ai nostri clienti nei Paesi terzi che possono aspettare perché non sono in guerra.

 La priorità deve essere data all’Ucraina.

Come ho detto, con 28 miliardi di euro abbiamo già fornito un significativo sostegno militare.

Per quest’anno – 2024 – i nostri Stati membri stanno pianificando ulteriori aiuti militari per circa 20 miliardi di euro, sia a livello bilaterale sia attraverso l’Unione Europea.

Conoscete queste cifre, ma vorrei ricordarvele perché è importante che l’opinione pubblica comprenda l’importanza del nostro sostegno. 

Ma c’è un’altra battaglia che si sta combattendo in questa guerra, una battaglia di narrazioni, la battaglia per conquistare le menti e non solo riconquistare territorio.

Questa battaglia di narrazioni si sta svolgendo in tutto il mondo.

La percezione che il resto del mondo ha della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina è decisiva per isolare Putin e far funzionare le sanzioni.

 E nell’Unione Europea, sono io a essere responsabile anche di questa battaglia.

Tutti, non solo in occidente, ma anche in Africa, Sud America, Sud-Est asiatico, devono capire le cause profonde di questa guerra, perché sta infuriando e qual’ è la vostra battaglia.

 

L’esperienza che più ha segnato la storia di gran parte dei popoli nel mondo è stata il colonialismo e noi europei siamo stati le potenze coloniali.

Eppure, paradossalmente, molti di coloro che hanno subito il colonialismo non vedono la Russia come una potenza imperialista e colonialista.

Dobbiamo contrastare la narrazione russa.

Questa non è una guerra “dell’Occidente contro tutti gli altri”, dei Paesi occidentali contro il resto del mondo.

È una guerra per difendere la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina.

 È una guerra per difendere i principi della Carta delle Nazioni Unite.

In un mondo che sta diventando sempre più transazionale, è più importante che mai che questi principi universali siano protetti, compresi dai cittadini e rispettati dai leader mondiali.

È proprio perché nasce da questi principi di sovranità e integrità territoriale che la formula di pace presentata dall’Ucraina è al momento l’unica cornice per una pace giusta e duratura. 

Se vogliamo contrastare la propaganda anti-occidentale russa, dobbiamo evitare di usare due pesi e due misure ed essere coerenti con i nostri principi in tutto il mondo.

Ad essere onesti, non sono sicuro che sia sempre stato così, ma deve esserlo. 

Ecco perché l’Unione europea, e io personalmente, siamo così determinati a porre fine alla tragedia della popolazione civile di Gaza e a garantire il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas.

 E poi arrivare finalmente alla soluzione dei due Stati che la comunità internazionale sostiene da decenni. 

Anche questo fa parte dei nostri sforzi per costruire un mondo che resista alla legge del più forte, con Paesi potenti in grado di cambiare i confini a piacimento e i deboli che cadono preda della sopraffazione.

Finora la strategia di Putin è stata un fallimento. E deve rimanere tale.

Se avesse successo, incoraggerebbe la Russia e altre autocrazie a perseguire le loro agende imperialistiche contro i loro vicini. 

Dobbiamo mostrare la Russia per quello che è: l’ultimo impero coloniale europeo, un anacronismo.

 Come scrisse lo scrittore russo “Mikhail Shishkin” nella sua lettera a uno sconosciuto ucraino: “Il mio Paese è scivolato fuori dal tempo”.

Oggi la Russia rimane una potenza imperialista incapace di liberarsi di una visione colonialistica della propria identità.

Finché la questione dell’identità non sarà risolta, la Russia rimarrà una minaccia per tutti i suoi vicini in Europa.

 Come disse una volta Václav Havel:

“La Russia non sa dove inizia e dove finisce”.

Finché un Paese non sa dove inizia e dove finisce, rimane una seria sfida per i suoi vicini.

Putin lo ha confermato di recente facendo scrivere nei suoi manifesti di propaganda elettorale che “i confini della Russia non hanno limiti “.

 Finché la questione non sarà risolta, il sistema politico russo rimarrà quello che è: autoritario, nazionalistico e violento.

Nessuno lo sa meglio di voi, ucraini.

Per secoli siete stati vittime dell’imperialismo russo, relegati al rango di ‘piccoli russi’ – un modo di dire puramente colonialista – affamati durante l’”Holodomor” o deportati in Siberia.

 E l’imperialismo russo resta purtroppo una brutale realtà.

Putin è ossessionato dalle sue fantasie sulle ‘terre storiche russe’, nonostante lei, caro Presidente, mi abbia mostrato mappe del 1.600 in cui l’Ucraina era chiaramente una nazione sovrana.

Ecco perché stiamo assistendo ancora una volta alla repressione della vostra lingua e alle deportazioni nell’Ucraina occupata.

Assistiamo in particolare alle orribili adozioni forzate di migliaia di bambini ucraini per ‘russificarli’ e far loro dimenticare le radici ucraine, i genitori e le famiglie.

Ma voi non siete più il vassallo di qualche impero; non siete un oggetto, siete un soggetto.

 Gli ucraini sono padroni del proprio destino.

Nel corso della storia, avete ripetutamente dimostrato la vostra determinazione a essere un Paese libero.

Ed è insieme che scriveremo il prossimo capitolo di questa storia.

 

Cari membri del Parlamento,

Il vostro futuro è nell’Unione Europea. Questo è ciò che volete. È anche ciò che i leader dell’Unione Europea hanno deciso lo scorso dicembre. E questa decisione deve ora diventare realtà.

Non sono solo chiacchiere.

 È un impegno serio e anche voi dovrete fare uno sforzo. 

Avete rinnovato la scelta europea in molte occasioni.

E capisco i vostri sentimenti.

Quando ero un giovane spagnolo immerso nelle tenebre della dittatura, l’Europa era per me il faro della libertà politica, della prosperità economica e crescita sociale.

Come voi, volevo assolutamente far parte di questa Unione Europea.

10 anni fa, piazza Maidan si è trasformata in un mare di giallo e blu.

Il giallo e il blu delle bandiere ucraine si mescolavano al giallo e al blu delle bandiere europee.

Oggi, e ne ho avuto conferma nei miei incontri, la scelta europeista raccoglie il consenso unanime delle forze politiche, della società civile e delle imprese.

 Ma questo consenso deve essere preservato.

Dovete mantenere questa unità.

Sarà essenziale, perché il vostro percorso di adesione richiederà molti sforzi e compromessi da parte vostra, membri della Rada, da parte vostra, governo, ma anche da parte dei cittadini, delle imprese, della società civile.

Richiederà una profonda e completa modernizzazione della governance, dell’economia e della società.

 Con l’Ucraina, l’Unione Europea sarà diversa.

E all’interno dell’Unione Europea, l’Ucraina sarà un Paese diverso.

Questo viaggio richiederà un grande sforzo e voi dovete essere pronti ad affrontarlo.

Vi sosterremo in ogni fase del percorso. Ma come ogni altro Paese candidato, dovrete attuare e applicare tutte le regole attuali dell’Unione Europea.

E permettetemi di essere franco:

 per molti anni, la corruzione è stata il punto debole della società ucraina.

È costata all’Ucraina un notevole ritardo nel suo sviluppo negli ultimi 30 anni.

 Il Presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelenskyy, è stato eletto con il mandato di combattere la corruzione.

 Di recente sono stati compiuti progressi sia in termini di legislazione sia di applicazione della legge e la vostra posizione sta migliorando nell’indice annuale di “Transparency International”, che misura il modo in cui un Paese affronta le sfide della corruzione.

Si tratta chiaramente di uno sviluppo positivo, ma la strada da percorrere è ancora lunga.

La corruzione sta compromettendo in modo significativo l’efficacia dello sforzo bellico e, in futuro, comprometterà l’efficacia della ricostruzione, ma sta anche compromettendo il sostegno che ricevete dalle aziende dell’Unione Europea.

Il processo di adesione all’UE sarà accompagnato anche da un grande sforzo di ricostruzione nei prossimi anni.

 Questi due processi devono andare di pari passo.

 Quando ricostruite case, strade, ponti, porti, dovete farlo in conformità con gli standard europei, soprattutto in termini di efficienza energetica.

Ma ancora più importanti delle infrastrutture fisiche sono le infrastrutture invisibili che sono alla base delle democrazie.

La separazione dei poteri, la governance inclusiva, il rispetto dei diritti umani, la coesione sociale e l’uguaglianza sono le infrastrutture invisibili che rendono un Paese libero e unito, sono il cuore di ogni società democratica.

 Sono più difficili da costruire e mantenere rispetto a strade, ponti e porti, ma sono la spina dorsale di società sane.

So che è particolarmente difficile raggiungere questo obiettivo in un Paese in guerra.

Per questo ho già detto che bisogna vincere due battaglie contemporaneamente: vincere la guerra e vincere la pace.

Queste due battaglie non devono essere combattute una dopo l’altra, ma insieme.

In tempi di guerra, la tentazione di accentrare il potere e limitare la libertà di espressione è sempre forte.

 Ma il rispetto dello Stato di diritto e la promozione del dialogo democratico tra governo e opposizione rafforzeranno la resistenza e la capacità del Paese di vincere la guerra. 

 

Cari membri della Rada, questo non è un messaggio di parte.

Essere una società democratica e inclusiva è il vostro più grande vantaggio contro la dittatura di Putin.

 So che un detto popolare ucraino dice che “per ogni due ucraini, ci sono tre hetman”, o capi cosacchi.

In Spagna si dice che se quattro spagnoli che cenano insieme, ci sono cinque partiti politici.

 È chiaro che il pluralismo può essere talvolta difficile da gestire.

Ma la pluralità di opinioni è la differenza assoluta tra società democratiche e regimi autoritari, ed è la forza delle società europee.

Questo è Putin non lo capirà mai.

Sono stato Presidente del Parlamento europeo e so cosa significa un Parlamento. Questa Rada deve essere il forum in cui la pluralità – questa forza – trova spazio. Deve essere il forum in cui si discutono le riforme.

Deve essere trasparente e tutti i gruppi sociali devono essere rappresentati.

Proprio come avete fatto quando avete concordato la data e le circostanze delle elezioni, una volta revocata la legge marziale.

 È stato un segnale molto importante per l’Ucraina e per il mondo.

 

Infine, signore e signori della Rada.

Poco prima di arrivare in Ucraina ho controllato il numero di allarmi aerei che sono risuonati nei vostri cieli, nelle vostre notti, dopo la massiccia invasione della Russia.

 Sono stati quasi 40.000. 

40.000 volte il popolo ucraino è dovuto correre al riparo – come abbiamo fatto noi ieri sera.

40.000 volte bambini hanno dovuto leggere e fare i compiti nei rifugi.

55 allarmi al giorno, in posti bellissimi come Kharkiv, Dnipro e Leopoli.

Noi visitatori stranieri andiamo e veniamo, ma voi rimanete. E rimanete sotto questa enorme pressione.

Dopo le elezioni di giugno, un’altra generazione di leader europei salirà sui treni per visitare Kyiv.

Treni che, tra l’altro, non sono mai in ritardo, nemmeno sotto i bombardamenti.

 I treni continueranno a portare nuovi dirigenti che condivideranno con voi queste difficili circostanze.

Ma sono convinto che quella nuova generazione di leader europei vi accompagnerà nel vostro viaggio verso l’Unione europea.

Perché – e questo è il messaggio più importante che voglio darvi – sappiamo che ciò che state difendendo è anche la nostra sicurezza ai confini orientali dell’Europa. E quando diciamo “Per la nostra e vostra libertà”, significa che abbiamo un debito con voi.

 E questo debito ci impedisce di cedere alla stanchezza.

Gli unici che avrebbero il diritto di essere stanchi di questa guerra siete voi e non potete esserlo. 

Le guerre si vincono con l’impegno e la motivazione della gente.

 Guardate cosa è successo in molti Paesi del mondo dall’Afghanistan alla Spagna contro Napoleone.

Quante guerre sono state vinte da chi aveva meno armi?

Sono state vinte da persone che sapevano per cosa stavano combattendo.

Non credo proprio che voi cederete alla stanchezza della guerra.

 E se non lo farete voi, non lo faremo neppure noi.

Grazie infinite.

 

 

 

Il negoziato necessario

per giungere alla pace.

Azionecattolica.it – Marco Mascia – (7 giugno 2024) – ci dice:

 

Da «Dialoghi».

Nell’era del nucleare e dell’interdipendenza planetaria asimmetrica, lo strumento per risolvere le controversie non può che essere il negoziato.

La strategia della deterrenza legata agli arsenali nucleari delle due superpotenze ha segnato la politica internazionale del passato, nello scorso secolo, anzi nello scorso millennio.

 Correva l’era del bipolarismo, dello scontro ideologico e militare tra Est e Ovest che ha provocato più di 150 guerre in 70 paesi con 20 milioni di morti.

Conflitti combattuti tra i paesi in via di sviluppo e nei paesi in via di sviluppo.

 La deterrenza appartiene ad un’altra epoca.

Oggi non è più in grado di dare stabilità al sistema.

 

Soltanto il negoziato, ancor più se multilaterale, può riportare un minimo di ordine nel sistema internazionale.

Il 26 gennaio del 2022, papa Francesco al termine dell’Angelus afferma:

 «Faccio un accorato appello a tutte le persone di buona volontà, perché elevino preghiere a Dio onnipotente, affinché ogni azione e iniziativa politica sia al servizio della fratellanza umana, più che di interessi di parte».

Nella lettera enciclica Fratelli tutti (2020) le parole di papa Francesco sono forti e chiare:

«Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. […]

Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale».

Nell’era del nucleare e dell’interdipendenza planetaria la negoziazione è una necessità.

Nell’era del nucleare e dell’interdipendenza planetaria asimmetrica che esaspera la conflittualità, la negoziazione non può non passare da una condizione di subalternità rispetto alla guerra ad una di priorità, anzi di necessarietà.

Gli Stati sono di fatto obbligati a negoziare, sia fuori sia dentro le organizzazioni internazionali.

Parafrasando “von Clausewitz” in ottica irenica, possiamo dire che, in presenza di conflitto, il negoziato internazionale è oggi la naturale continuazione della politica con gli stessi mezzi.

Il Diritto internazionale dei diritti umani, che ha le sue radici nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei diritti umani, definisce la guerra come “flagello”, la ripudia.

È un diritto per la vita e per la pace.

È un diritto per la cura che opera all’insegna del detto si vis pacem para pacem.

Poiché oggi, diversamente che nel passato, ci si può difendere e fare giustizia con mezzi diversi dalla guerra, questa è non soltanto giuridicamente illegittima, ma anche moralmente non giustificabile neppure come ultima ratio o male minore.

 

Dinamiche del negoziato.

Il principale strumento per risolvere le controversie internazionali è il negoziato, cioè quel processo attraverso il quale due o più parti combinano punti di vista diversi in un’unica decisione.

 Nella sostanza, il negoziato è una forma di comunicazione bilaterale o multilaterale destinata a produrre un accordo tra soggetti, in primis gli Stati, che posseggono allo stesso tempo interessi comuni e interessi opposti.

Perché un negoziato sia tale e non un “rito” simbolico, occorre che le parti siano portatrici di obiettivi flessibili e siano quindi disposte a modificare le rispettive posizioni iniziali.

Durante i quarant’anni dell’era del bipolarismo, i negoziati cosiddetti “per il disarmo” tra i blocchi dell’Ovest e dell’Est – macro-attori ideocratici, quindi porta- tori di valori non flessibili – sono stati più “rito” che negoziato reale.

L’obiettivo naturale del negoziato è quello di pervenire ad un accordo, formale o informale, tra le parti.

In considerazione della densità e dell’estensione della prassi del negoziato nella vita di relazione internazionale, la relativa tipologia è molto ampia.

I negoziati si distinguono per situazione reale e per contenuti.

I negoziati si distinguono innanzitutto a seconda delle situazioni reali da cui traggono origine: conflitto oppure complessità.

Nel primo caso si tratta di trovare una posizione comune per far cessare il conflitto, nel secondo di gestire una situazione che crea difficoltà all’esercizio delle capacità di governo degli attori in campo.

Avuto riguardo al numero delle parti coinvolte, il negoziato si distingue in bilaterale e multilaterale.

Disarmo, sicurezza (multidimensionale), cambiamento climatico e riequilibrio dei rapporti tra paesi a diverso grado di sviluppo postulano una struttura necessariamente globale di negoziato.

Se si fa riferimento all’area geografica di operatività del processo, i negoziati si distinguono in regionali, continentali, globali.

 Il negoziato può essere segreto (es. Yalta, febbraio 1945) o, più frequentemente, pubblico.

Ovviamente non si può parlare di democrazia per le relazioni internazionali se persiste la pratica delle intese segrete.

A seconda dei contenuti, i negoziati si qualificano come economici, militari, culturali, umanitari, istituzionali, politici.

 Un nuovo tipo di negoziato è quello che fa interagire attori di diverse specie:

Stati, organizzazioni internazionali intergovernative, networks di società civile globale, singole “autorità”.

 Tra i principali esiti negoziali, si ricordano la “Convenzione di Ottawa” per la messa al bando delle mine antipersona, lo “Statuto di Roma” che ha dato vita alla “Corte penale internazionale”, il “Trattato per la messa al bando delle armi nucleari”.

Tutte le Convenzioni internazionali sui diritti umani sono il risultato di questa negoziazione tra attori pubblici e privati, intergovernativi e transnazionali, locali e internazionali.

Questo tipo di negoziazione è il più democratico e trasparente, oltre che per il fatto di essere pubblico, anche e soprattutto perché consente la partecipazione di organizzazioni della società civile.

Un negoziato può avere esito positivo o negativo, o dare luogo a uno stallo.

È appena il caso di sottolineare che, nell’interazione negoziale, ciascun attore esercita un potere che non dipende soltanto dalla potenza dello Stato di cui è rappresentante (potere istituzionale), ma anche dalle sue proprie risorse.

Un potere personale che si manifesta attraverso la capacità di comunicare, la simpatia, il bagaglio culturale, ma anche attraverso minacce, ricatti, promesse di ricompensa, appello al senso dell’etica e dell’onore, alla buona fede ecc.

L’esito del negoziato può essere positivo o negativo, a seconda che si raggiunga o meno la posizione comune.

Ma, come abbiamo ricordato sopra, può anche dar luogo a situazioni di stallo, nel senso di continuare indefinitamente come processo negoziale:

in questo caso, è la continuazione temporale, più o meno produttiva, a costituire in quanto tale un esito.

Un significativo esempio è quello del “negoziato” fra palestinesi e israeliani.

Riflessioni sulla possibilità di un negoziato tra Russia e Ucraina.

Alla luce di queste premesse, ci domandiamo:

esistono allo stato attuale del conflitto bellico le premesse per l’avvio di un negoziato tra Russia e Ucraina?

Come dovrebbe essere il negoziato?

 Bilaterale o multilaterale, regionale o globale, territoriale o multidimensionale, solo intergovernativo o anche transnazionale, segreto o pubblico?

Le parti sono portatrici di obiettivi flessibili e quindi aperte a modificare le rispettive posizioni di partenza?

Oppure sono ideologicamente distanti e (ancora) incapaci di esprimere una effettiva volontà negoziale?

La guerra in Ucraina, provocata dall’invasione russa, sta mettendo a repentaglio la pace e la sicurezza internazionale, anche in ragione del fatto che sono militarmente coinvolti, a fianco della stessa Ucraina, Stati Uniti e Unione europea.

È del tutto evidente che un eventuale negoziato non potrà che avere un raggio d’azione globale e coinvolgere una pluralità di attori, statuali e intergovernativi, sopranazionali e transnazionali, economici e militari.

Dovrebbe svolgersi sotto l’autorità dell’Onu, cioè di quella organizzazione internazionale multilaterale creata all’indomani della Seconda guerra mondiale per mantenere pace e sicurezza internazionale e che oggi è l’unica che continua ad esplorare possibili vie per aprire un negoziato.

Il dato di fatto è che nessuna delle due parti in guerra è in questo momento disponibile ad aprire un negoziato.

L’Ucraina insiste sul suo piano di pace articolato in dieci punti.

La Russia difende le sue conquiste territoriali.

L’Ue non ha mai voluto assegnarsi un ruolo terzo e proporsi come negoziatore.

Fin dall’inizio dell’invasione russa, gli stati membri dell’Ue e le tre principali istituzioni europee, Consiglio, Commissione e Parlamento, non hanno mai voluto assegnare all’Ue un ruolo terzo, si sono invece apertamente schierati per la guerra con la convinzione di poterla vincere.

Insomma, non c’è traccia di una seppur piccola volontà negoziale da parte dell’Ue e dei suoi Stati membri, della Nato e degli Stati Uniti.

 Ciò che questa leadership politica “occidentale” si ostina a non capire è che negoziare non vuol dire cedere alla guerra e alla legge della forza ma fermare la sua pericolosa escalation militare.

Diversamente dal passato, la nostra epoca ci offre un ventaglio di strumenti, in primis il diritto internazionale dei diritti umani e l’Organizzazione delle Nazioni Unite, idonei a risolvere pacificamente con il negoziato i conflitti e a prevenire la guerra, qualsiasi guerra.

 La loro efficacia dipende dalla conoscenza e dalla volontà politica di farli rendere.

Nell’enciclica” Pacem in terris”, papa Giovanni XXIII indica tra i “segni dei tempi” l’Organizzazione delle Nazioni Unite (l’istituzione) e la Dichiarazione universale dei diritti umani (la legge).

 

Bandiera bianca, un invito al dialogo in tempi di conflitto.

È in questa cornice che devono essere lette le parole di papa Francesco che tanto clamore hanno suscitato.

Nel diritto internazionale bandiera bianca è “un segnale esplicito di richiesta di colloquio”.

Vuole dire “veniamo in pace”.

Il fondatore del Diritto internazionale moderno, “Ugo Grozio”, ci dice che con il simbolo della bandiera bianca si vuole avviare un negoziato, non arrendersi.

Ancora “Grozio” diceva che durante una guerra ci possono essere dei momenti di interruzione dei combattimenti.

Li chiamava “isole di accordo nel mezzo di una belligeranza” e affermava che è possibile anche con i nemici.

È questo il senso delle parole di papa Francesco: il nemico è sempre nemico, ma conserva lo status di interlocutore.

A livello universale con bandiera bianca si vuole segnalare al nemico la richiesta di una tregua, di trattative.

Generalmente, chi la mostra indica di non essere nelle condizioni di sostenere l’offensiva del nemico.

Le tregue servono per addormentare un conflitto, per ridurre il dispendio di sangue, per fare in modo che i combattimenti si interrompano.

 Per dare respiro alle persone che stanno soffrendo, per consentire ai malati di essere curati e l’accesso di aiuti umanitari.

 La tregua è la premessa per l’avvio di un negoziato.

 

Nessuno deve rassegnarsi alla guerra e alla corsa al riarmo.

Ma bandiera bianca è anche un simbolo citato esplicitamente nel diritto internazionale umanitario.

Il modo in cui dev’essere utilizzata è formalizzato nell’articolo 32 delle Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907 che, assieme alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e ai successivi Protocolli aggiuntivi, costituiscono la base del diritto internazionale umanitario.

L’articolo specifica che chi si presenta con una bandiera bianca è «autorizzato da uno dei belligeranti a entrare in trattative coll’altro» e «ha diritto all’inviolabilità».

È urgente l’apertura di un negoziato multilaterale serio, strutturato, concreto, onesto e coraggioso sotto l’autorità delle Nazioni Unite.

Guardando al presente ma anche al futuro.

Per fermare le indicibili sofferenze del popolo ucraino.

 Per scongiurare la catastrofe atomica.

Per impedire l’esplosione di una nuova devastante crisi sociale e ambientale in Europa e nel mondo.

Nessuno deve rassegnarsi alla guerra e alla corsa al riarmo.

 Nessuno deve piegarsi alle leggi della violenza.

Non esiste una violenza giusta così come non esiste una guerra giusta.

 Le guerre costituiscono una criminale sequela che ha le caratteristiche del circolo vizioso: guerra chiama guerra.

Perché il cerchio si spezzi occorre che vengano meno gli attributi militari degli Stati-nazione, si affermino strutture democratiche di governo mondiale, si metta in funzione il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, si renda obbligatoria per tutti gli Stati la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia.

Questa deve essere la bussola per i governi che vogliono porre fine alle guerre e costruire un ordine internazionale più giusto, equo, solidale e democratico.

 

Papa Francesco: «Voi siete chiamati ad essere protagonisti e non spettatori del futuro».

Ma papa Francesco, rivolgendosi lo scorso 19 aprile nell’Aula Paolo VI ai seimila alunni e insegnanti della Rete nazionale delle scuole di pace, ci richiama tutti alla responsabilità individuale e collettiva:

«Voi siete chiamati ad essere protagonisti e non spettatori del futuro. […] Tutti siamo interpellati dalla costruzione di un avvenire migliore e, soprattutto, che dobbiamo costruirlo insieme! […]

Non possiamo solo delegare le preoccupazioni per il “mondo che verrà” e per la risoluzione dei suoi problemi alle istituzioni deputate e a co- loro che hanno particolari responsabilità sociali e politiche.

È vero che queste sfide richiedono competenze specifiche, ma è altrettanto vero che esse ci riguardano da vicino, toccano la vita di tutti e chiedono a ciascuno di noi partecipazione attiva e impegno personale. […]

 In questo tempo ancora segnato dalla guerra, vi chiedo di essere artigiani della pace;

in una società ancora prigioniera della cultura dello scarto, vi chiedo di essere protagonisti di inclusione;

in un mondo attraversato da crisi globali, vi chiedo di essere costruttori di futuro, perché la nostra casa comune diventi luogo di fraternità».

(Questo articolo è tratto da Dialoghi (n. 2-2024) in uscita nei prossimi giorni. Marco Mascia è docente di Relazioni internazionali all’Università di Padova dove è presidente del Centro di Ateneo per i Diritti Umani “Antonio Papisca” e titolare della Cattedra Unesco Diritti umani, democrazia e pace.)

 

 

 

Viktor Orbán: "La Commissione Ue ha fallito

su tutto: dalla guerra ai migranti.

Ora rinasca la destra: Meloni e Le Pen

si mettano d'accordo."

Ilgiornale.it - Francesco Giubilei – (4 Giugno 2024) – ci dice:

 

Il primo ministro ungherese: "Vogliamo aderire all’Ecr anche se siamo consapevoli dei temi che possono dividerci. Con Giorgia ci conosciamo da molti anni, al governo ha fatto molto bene."

Viktor Orbán: "La Commissione Ue ha fallito su tutto: dalla guerra ai migranti. Ora rinasca la destra: Meloni e Le Pen si mettano d'accordo."

 

Viktor Orbán mi accoglie in una sala del monastero carmelitano di Budapest, oggi sede dell'ufficio del primo ministro ungherese, circondato da libri antichi e un grande mappamondo affacciato sul Danubio.

 È un luogo importante per l'identità ungherese poiché, quando i turchi conquistarono Buda, fu trasformato in una moschea prima di essere ricostruito come un monastero carmelitano.

Indossa un paio di jeans, una camicia azzurra e una giacca blu: «Devo andare a fare campagna elettorale per le elezioni europee in una città in Romania per la comunità magiara».

 Nella Romania occidentale vivono oltre un milione di magiari con passaporto ungherese che rappresentano un'importante comunità.

Orbán è un fiume in piena e, appena mi accoglie, chiede se sono stato alla manifestazione per la pace che si è svolta a Budapest lo scorso fine settimana:

«È stato un grande evento per difendere la pace e la dignità nato dalla società civile», spiega il primo ministro ungherese aggiungendo «avrebbe dovuto vedere quante persone erano presenti, la politica non può essere solo social, bisogna dimostrare di avere il consenso del popolo».

E Orbán, piaccia o meno, ha un elevato consenso in Ungheria.

 

Primo ministro, tra pochi giorni ci saranno le europee, cosa si aspetta da queste elezioni?

 Pensa sia possibile un cambio di maggioranza a Bruxelles?

«Mi aspetto soprattutto due cose: rinforzare la democrazia e avete una nuova maggioranza di destra.

Questa Commissione europea ha fallito sull'agricoltura, sulla guerra, sull'immigrazione, sull'economia, ora devono lasciare.

Rinforzare la democrazia significa eleggere una diversa Commissione da quella attuale che, da quanto governo, è stata la peggiore.

 Al tempo stesso serve una rinascita della destra in Europa, abbiamo un'opportunità storica per cambiare la maggioranza.

I partiti di destra devono collaborare, siamo nelle mani di due donne che devono trovare un accordo».

 

Fidesz entrerà nel gruppo dei conservatori europei Ecr presieduto da Giorgia Meloni?

«Noi vogliamo aderire all'Ecr anche se siamo consapevoli ci siano temi che possono dividerci da alcuni partiti che ne fanno parte a cominciare dalla visione sulla guerra in Ucraina».

È un'ipotesi anche l'adesione al gruppo di Identità e Democrazia dopo l'uscita di Afd?

«Abbiamo varie opzioni, anche l'ipotesi di un nuovo grande gruppo di destra europeo, la priorità è fare qualcosa di utile per l'Europa».

Nell'ultima legislatura europea l'Ungheria ha subito una procedura di infrazione per il rispetto dello Stato di diritto, pensa sia stata una decisione politica dell'UE?

«L'Unione europea utilizza strumenti di ricatto, nei confronti dell'Italia lo fa con la leva economica e finanziaria a causa del vostro alto debito pubblico, nei nostri confronti con le politiche sul gender e l'immigrazione.

 È una questione politica, non c'entra niente il rispetto dello stato di diritto.

Noi resistiamo, abbiamo strategie per difendere la nostra sovranità.

Per l'Italia è diverso, senza Italia non ci può essere l'Unione europea ma noi siamo una nazione con 10 milioni di abitanti.

 La nostra lotta contro il federalismo di Bruxelles può però rappresentare un esempio per tante altre nazioni europee».

Pensa che il debito pubblico rappresenti un problema per l'Italia?

«Avere un alto debito pubblico è un problema per la sovranità nazionale per tutti, noi siamo passati da un rapporto debito pil all'83% al 70% e prima del covid eravamo scesi sotto al 70%, è una questione di indipendenza.

Certo per voi è diverso perché avete l'euro e quindi non avete margini sulle politiche monetarie».

L'Ungheria è accusata di non sostenere l'Ucraina, accusa che lei ha sempre respinto. Può spiegare ai lettori italiani qual è la posizione ungherese sulla guerra in Ucraina?

«L'Ungheria confina con l'Ucraina, non è una guerra qualsiasi ma al nostro confine.

L'Italia è lontana geograficamente, per voi è un'altra cosa.

 Ci sono cittadini ungheresi della minoranza magiara in Ucraina che combattono con l'esercito ucraino e perdono la vita, siamo l'unica nazione dell'Ue i cui cittadini perdono la vita in Ucraina.

La guerra è stata iniziata dalla Russia, su questo non ci sono dubbi ma noi dobbiamo chiederci come agire.

Siamo a un bivio: o isolare il conflitto e trovare una strada diplomatica o andare più a fondo nella guerra.

Se permetteremo all'Ucraina con le armi che fornisce anche l'Italia di colpire in Russia ci saranno conseguenze con una forte reazione russa e il rischio di un coinvolgimento della Nato è a un passo».

 

Non è quindi d'accordo con la strategia europea sul conflitto ucraino?

«La strategia dell'Ue è fallimentare anche tatticamente, non ci rendiamo conto che stiamo giocando con il fuoco.

L'idea dell'Unione europea è nata su un progetto di pace, dopo la seconda guerra mondiale l'Europa si è resa conto che non sarebbe sopravvissuta a un'altra guerra. Dovremmo chiederci qual è l'interesse strategico dell'Europa e chiedere il cessate il fuoco.

Tutto ciò è sbagliato e l'opinione pubblica vuole la pace, non la guerra che non è un gioco politico».

L'immigrazione è una delle principali sfide che le nazioni europee devono affrontare, quale pensa dovrebbe essere il modo per fermare l'immigrazione illegale?

«La Commissione europea ha fallito anche nell'ambito dell'immigrazione, non è riuscita a trovare una soluzione se non ipotizzando quote di immigrati da gestire tra i paesi europei.

Ma questo, oltre al fatto che sono in completo disaccordo, non significa risolvere il problema dell'immigrazione, noi dobbiamo risolverlo una volta per tutte».

 

Qual è la ricetta ungherese?

«Fin dall'inizio l'ho detto ai partner europei: l'Ungheria dice no all'immigrazione, punto.

La nostra posizione è semplice, siamo un popolo di dieci milioni di abitanti, vogliamo mantenere la nostra identità e il nostro sistema di welfare stabile.

Io difendo i confini del nostro paese perché il mio compito, da capo di governo, è tutelare gli ungheresi».

Quindi qual è secondo lei la soluzione all'immigrazione incontrollata dal Nord Africa all'Europa?

«Dobbiamo aiutarli a casa loro tramite progetti di cooperazione e sviluppo tra l'Unione Europea e l'Africa.

 Da cristiano sto male ogni volta che vedo persone soffrire ma dire che la soluzione ai loro problemi consiste nel venire in Europa significa non raccontare la verità. Come fece “Tony Abbott” (il primo ministro australiano ideatore del progetto No Way, ndr) dobbiamo evitare a livello europeo l'arrivo di immigrati irregolari nel territorio europeo, nessuno deve più arrivare in Europa senza permesso degli stati nazionali».

In Italia il caso di Ilaria Salis è molto discusso, la sinistra italiana accusa l'Ungheria di non rispettare i suoi diritti di detenuta e la magistratura di non essere indipendente, come risponde?

«Noi ungheresi amiamo le donne italiane, non c'è perciò nessuna preclusione nei suoi confronti.

Non amiamo però quando uno straniero viene in Ungheria per compiere un reato picchiando cittadini ungheresi.

Io non conosco il sistema giudiziario italiano ma da noi funziona così, lo dico a tutti gli italiani preoccupati per il trattamento che la vostra concittadina Ilaria Salis ha ricevuto qui in Ungheria:

ha avuto un trattamento uguale a tutti gli altri detenuti in Ungheria, dovrebbe smettere di fare la vittima.

Inoltre lo scorso dicembre il nostro sistema giudiziario è stato giudicato dall'Unione europea totalmente indipendente dopo due anni di indagine».

Cosa pensa della candidatura di Ilaria Salis alle elezioni europee con l'estrema sinistra?

«In Ungheria non sarebbe apprezzata una candidata che va in un altro paese a fare quello che ha fatto Ilaria Salis con motivazioni politiche e ideologiche, non so in Italia»

Conosce Giorgia Meloni da molti anni, qual è la sua opinione sul suo governo?

«Con Giorgia Meloni ci conosciamo da molti anni, la sostenevo già quando era leader di un partito al 4%.

 La prima volta che la incontrai pensai:

 farà strada perché ha due doti più importanti per chi fa politica, carattere e personalità.

Inoltre è una donna cristiana che ama la propria nazione, è quello che ci vuole. Certo, ora che è al governo ha maggiori responsabilità ma nell'anno e mezzo di governo ha fatto molto bene ed è rispettata in Europa, lo vedo perché sono anche io nel consiglio europeo.

Ora ha un ruolo importante anche in Europa e molto dipenderà dalle sue decisioni».

Lei era un amico di Silvio Berlusconi, che ricordo ha di lui?

«Berlusconi era un amico, la politica europea è spesso noiosa e Berlusconi rompeva gli schemi del politicamente corretto ma era anche un lottatore che non mollava mai.

Nonostante tutto quello che gli ha fatto la sinistra in Italia con i media e la giustizia non ha mai perso l'ottimismo.

 Lo rispettavo molto perché era uno dei politici più intelligenti che abbia mai conosciuto, mi manca e prego per lui».

Qualche mese fa ha incontrato Donald Trump, con cui ha un rapporto stretto, pensa che possa vincere le elezioni presidenziali?

In che modo una vittoria di Trump potrebbe cambiare anche la politica europea?

«Penso che Trump abbia possibilità di diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti.

 Serve un presidente non globalista che superi la visione dei democratici di esportare la democrazia, è la cosa più stupida che abbia mai sentito.

Trump è stato l'unico presidente che non ha fatto guerre e ha cercato una soluzione di pace in Medio Oriente».

Crede che la guerra tra Russia e Ucraina potrebbe risolversi se Trump fosse eletto?

«Se Trump e l'Unione Europea volessero, la guerra terminerebbe in 24 ore.

La guerra, non bisogna dimenticarlo, è fatta da uomini e gli stessi uomini, se c'è la volontà, hanno tutta la capacità di fare la pace.

Penso che se Trump diventasse presidente in un giorno riuscirebbe a garantire il cessate il fuoco in Ucraina per poi aprire le trattative».

L'Italia sta vivendo un grave inverno demografico mentre in Ungheria, grazie alle politiche familiari del suo governo, la natalità è tornata a crescere, può spiegarci quali sono le misure principali delle politiche familiari del suo governo?

«Il calo delle nascite è dovuto a un cambiamento dei valori avvenuto negli anni in modo graduale in Europa, è necessario dare garanzie e aiuti alle donne.

Serve un sistema che protegga le donne con agevolazioni e incentivi ma anche tramite un sistema fiscale amico della famiglia come abbiamo realizzato in Ungheria dove il tasso di natalità è cresciuto negli ultimi anni anche se in modo non ancora sufficiente».

L'Ungheria è diventata un luogo in cui arrivano conservatori da tutto il mondo grazie ai suoi think tank e fondazioni, come mai un'attenzione così importante per la cultura?

«In un oceano liberal, c'è una sola isola conservatrice ed è l'Ungheria.

Un'isola di libertà in cui si può criticare il gender, le politiche sull'immigrazione e la guerra senza conseguenze.

 Oggi in Europa la libertà è in pericolo per il politicamente corretto e la prossima generazione di europei rischia di non essere più libera, dobbiamo lottare per loro».

 

 

 

 

 

Chi ha causato la guerra in Ucraina?

Unz.com - John J. Mearsheimer – (5 agosto 2024) – ci dice:

La questione di chi sia responsabile della guerra in Ucraina è stata una questione profondamente controversa da quando la Russia ha invaso l'Ucraina il 24 febbraio 2022.

 

La risposta a questa domanda è enormemente importante perché la guerra è stata un disastro per una serie di motivi, il più importante dei quali è che l'Ucraina è stata effettivamente distrutta. Ha perso una parte sostanziale del suo territorio ed è probabile che ne perda di più, la sua economia è a brandelli, un numero enorme di ucraini sono sfollati interni o sono fuggiti dal paese e ha subito centinaia di migliaia di vittime. Naturalmente, anche la Russia ha pagato un prezzo significativo del sangue. A livello strategico, le relazioni tra Russia ed Europa, per non parlare di Russia e Ucraina, sono state avvelenate per il prossimo futuro, il che significa che la minaccia di una grande guerra in Europa sarà con noi ben dopo che la guerra in Ucraina si sarà trasformata in un conflitto congelato. Chi sia responsabile di questo disastro è una domanda che non scomparirà presto e se qualcosa è probabile che diventi più importante man mano che l'entità del disastro diventa più evidente a più persone.

 

La saggezza convenzionale in Occidente è che Vladimir Putin sia responsabile della guerra in Ucraina. L'invasione mirava a conquistare tutta l'Ucraina e a renderla parte di una grande Russia, così si sostiene. Una volta raggiunto questo obiettivo, i russi si sarebbero mossi per creare un impero nell'Europa orientale, proprio come fece l'Unione Sovietica dopo la seconda guerra mondiale. Pertanto, Putin è in ultima analisi una minaccia per l'Occidente e deve essere affrontato con forza. In breve, Putin è un imperialista con un piano generale che si inserisce perfettamente in una ricca tradizione russa.

 

L'argomento alternativo, con cui mi identifico, e che è chiaramente l'opinione minoritaria in Occidente, è che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno provocato la guerra. Questo non vuol dire, ovviamente, che la Russia abbia invaso l'Ucraina e abbia iniziato la guerra. Ma la causa principale del conflitto è la decisione della NATO di portare l'Ucraina nell'alleanza, che praticamente tutti i leader russi vedono come una minaccia esistenziale che deve essere eliminata. L'espansione della NATO, tuttavia, fa parte di una strategia più ampia che mira a rendere l'Ucraina un baluardo occidentale al confine con la Russia. Portare Kiev nell'Unione Europea (UE) e promuovere una rivoluzione colorata in Ucraina – trasformandola in una democrazia liberale filo-occidentale – sono gli altri due pilastri della politica. I leader russi temono tutti e tre i fronti, ma temono di più l'espansione della NATO. Per far fronte a questa minaccia, il 24 febbraio 2022 la Russia ha lanciato una guerra preventiva.

 

Il dibattito su chi abbia causato la guerra in Ucraina si è recentemente acceso quando due importanti leader occidentali – l'ex presidente Donald Trump e l'eminente deputato britannico Nigel Farage – hanno sostenuto che l'espansione della NATO è stata la forza trainante del conflitto. Non sorprende che i loro commenti siano stati accolti con un feroce contrattacco da parte dei difensori della saggezza convenzionale. Vale anche la pena notare che il segretario generale uscente della NATO, Jens Stoltenberg, ha detto due volte nell'ultimo anno che "il presidente Putin ha iniziato questa guerra perché voleva chiudere la porta della NATO e negare all'Ucraina il diritto di scegliere la propria strada". Quasi nessuno in Occidente ha contestato questa notevole ammissione del capo della NATO, che non l'ha ritrattata.

 

Il mio obiettivo qui è quello di fornire un'introduzione, che esponga i punti chiave che supportano l'idea che Putin abbia invaso l'Ucraina non perché fosse un imperialista intenzionato a rendere l'Ucraina parte di una grande Russia, ma principalmente a causa dell'espansione della NATO e degli sforzi dell'Occidente per rendere l'Ucraina una roccaforte occidentale al confine con la Russia.

 

*

Permettetemi di iniziare con le SETTE RAGIONI PRINCIPALI per rifiutare la saggezza convenzionale.

 

IN PRIMO luogo, semplicemente non ci sono prove precedenti al 24 febbraio 2022 che Putin volesse conquistare l'Ucraina e incorporarla alla Russia. I sostenitori della saggezza convenzionale non possono indicare nulla di ciò che Putin ha scritto o detto che indichi che era intenzionato a conquistare l'Ucraina.

 

Quando vengono sfidati su questo punto, i fornitori della saggezza convenzionale forniscono prove che hanno poca o nessuna attinenza con le motivazioni di Putin per invadere l'Ucraina. Ad esempio, alcuni sottolineano che ha detto che l'Ucraina è uno "stato artificiale" o non uno "stato reale". Tali commenti opachi, tuttavia, non dicono nulla sul motivo per cui è andato in guerra. Lo stesso vale per la dichiarazione di Putin che vede russi e ucraini come "un solo popolo" con una storia comune. Altri sottolineano che ha definito il crollo dell'Unione Sovietica "la più grande catastrofe geopolitica del secolo". Ma Putin ha anche detto: "Chi non sente la mancanza dell'Unione Sovietica non ha cuore. Chi lo vuole indietro non ha cervello". Altri ancora, puntano il dito contro un discorso in cui dichiarò che "l'Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia o, per essere più precisi, dalla Russia bolscevica e comunista". Ma questo non costituisce certo una prova che fosse interessato a conquistare l'Ucraina. Inoltre, ha detto nello stesso discorso: "Certo, non possiamo cambiare gli eventi passati, ma dobbiamo almeno ammetterli apertamente e onestamente".

 

Per sostenere che Putin era intenzionato a conquistare tutta l'Ucraina e a incorporarla nella Russia, è necessario fornire prove che 1) pensava che fosse un obiettivo desiderabile, 2) pensava che fosse un obiettivo fattibile e 3) intendeva perseguire tale obiettivo. Non ci sono prove negli atti pubblici che Putin stesse contemplando, tanto meno l'intenzione di porre fine all'Ucraina come Stato indipendente e di renderla parte della grande Russia quando ha inviato le sue truppe in Ucraina il 24 febbraio 2022.

 

In effetti, ci sono prove significative che Putin ha riconosciuto l'Ucraina come un paese indipendente. Nel suo noto articolo del 12 luglio 2021 sulle relazioni russo-ucraine, che i sostenitori della saggezza convenzionale spesso indicano come prova delle sue ambizioni imperiali, dice al popolo ucraino: "Volete stabilire un vostro Stato: siete i benvenuti!" Riguardo a come la Russia dovrebbe trattare l'Ucraina, scrive: "C'è solo una risposta: con rispetto". Conclude quel lungo articolo con le seguenti parole: "E cosa sarà l'Ucraina, spetta ai suoi cittadini decidere". Queste dichiarazioni sono direttamente in contrasto con l'affermazione che Putin voleva incorporare l'Ucraina all'interno di una grande Russia.

 

In quello stesso articolo del 12 luglio 2021 e di nuovo in un importante discorso pronunciato il 21 febbraio 2022, Putin ha sottolineato che la Russia accetta "la nuova realtà geopolitica che ha preso forma dopo la dissoluzione dell'URSS". Lo ha ribadito per la terza volta il 24 febbraio 2022, quando ha annunciato che la Russia avrebbe invaso l'Ucraina. In particolare, ha dichiarato che "non è nostro piano occupare il territorio ucraino" e ha chiarito di rispettare la sovranità ucraina, anche se solo fino a un certo punto: "La Russia non può sentirsi al sicuro, svilupparsi ed esistere di fronte a una minaccia permanente dal territorio dell'Ucraina di oggi". In sostanza, Putin non era interessato a rendere l'Ucraina parte della Russia; era interessato a fare in modo che non diventasse un "trampolino di lancio" per l'aggressione occidentale contro la Russia.

 

In secondo luogo, non ci sono prove che Putin stesse preparando un governo fantoccio per l'Ucraina, coltivando leader filo-russi a Kiev, o perseguendo misure politiche che avrebbero reso possibile occupare l'intero paese e alla fine integrarlo nella Russia.

 

Questi fatti sono in contrasto con l'affermazione che Putin era interessato a cancellare l'Ucraina dalla carta geografica.

 

In terzo luogo, Putin non aveva abbastanza truppe per conquistare l'Ucraina.

 

Cominciamo con i numeri complessivi. Ho stimato a lungo che i russi hanno invaso l'Ucraina con al massimo 190.000 soldati. Il generale Oleksandr Syrskyi, l'attuale comandante in capo delle forze armate ucraine, ha recentemente dichiarato in un'intervista a The Guardian che la forza di invasione russa era composta da soli 100.000 uomini. In effetti, il Guardian usava lo stesso numero prima dell'inizio della guerra. Non c'è modo che una forza di 100.000 o 190.000 uomini possa conquistare, occupare e assorbire tutta l'Ucraina in una grande Russia.

 

Si consideri che quando la Germania invase la metà occidentale della Polonia nel settembre 1939, la Wehrmacht contava circa 1,5 milioni di uomini. L'Ucraina è geograficamente più di 3 volte più grande della metà occidentale della Polonia nel 1939 e l'Ucraina nel 2022 aveva quasi il doppio delle persone rispetto alla Polonia quando i tedeschi hanno invaso. Se accettiamo la stima del generale Syrskyi secondo cui 100.000 soldati russi hanno invaso l'Ucraina nel 2022, significa che la Russia aveva una forza di invasione di 1/15esimo le dimensioni delle forze tedesche che entrarono in Polonia. E quel piccolo esercito russo stava invadendo un paese che era molto più grande della Polonia sia in termini di dimensioni territoriali che di popolazione.

 

Numeri a parte, c'è la questione della qualità dell'esercito russo. Per cominciare, si trattava di una forza militare in gran parte progettata per difendere la Russia dall'invasione. Non era un esercito pronto a lanciare una grande offensiva che avrebbe finito per conquistare tutta l'Ucraina, tanto meno minacciare il resto d'Europa. Inoltre, la qualità delle forze combattenti lasciava molto a desiderare, poiché i russi non si aspettavano una guerra quando la crisi ha iniziato a scaldarsi nella primavera del 2021. Pertanto, avevano poche opportunità di addestrare una forza d'invasione qualificata. In termini di qualità e quantità, la forza d'invasione russa non era vicina ad essere l'equivalente della Wehrmacht tra la fine degli anni '30 e l'inizio degli anni '40.

 

Si potrebbe obiettare che i leader russi pensavano che l'esercito ucraino fosse così piccolo e così disarmato che il loro esercito avrebbe potuto facilmente sconfiggere le forze ucraine e conquistare l'intero paese. In realtà, Putin e i suoi luogotenenti erano ben consapevoli che gli Stati Uniti e i loro alleati europei avevano armato e addestrato l'esercito ucraino da quando è scoppiata la crisi il 22 febbraio 2014. La grande paura di Mosca era che l'Ucraina stesse diventando un membro de facto della NATO. Inoltre, i leader russi hanno osservato che l'esercito ucraino, che era più grande della loro forza di invasione, combatteva efficacemente nel Donbass tra il 2014 e il 2022. Sicuramente hanno capito che l'esercito ucraino non era una tigre di carta che poteva essere sconfitta rapidamente e con decisione, soprattutto perché aveva un potente sostegno dall'Occidente.

 

Infine, nel corso del 2022, i russi sono stati costretti a ritirare il loro esercito dall'oblast di Kharkiv e dalla parte occidentale dell'oblast di Kherson. In effetti, Mosca ha ceduto il territorio che il suo esercito aveva conquistato nei primi giorni della guerra. Non c'è dubbio che la pressione dell'esercito ucraino abbia avuto un ruolo nel forzare il ritiro russo. Ma, cosa più importante, Putin e i suoi generali si sono resi conto di non avere forze sufficienti per tenere tutto il territorio che il loro esercito aveva conquistato a Kharkiv e Kherson. Quindi, si sono ritirati e hanno creato posizioni difensive più gestibili. Questo non è certo il comportamento che ci si aspetterebbe da un esercito che è stato costruito e addestrato per conquistare e occupare tutta l'Ucraina. Naturalmente, non è stato progettato per quello scopo e quindi non poteva raggiungere quel compito erculeo.

 

In quarto luogo, nei mesi precedenti l'inizio della guerra, Putin ha cercato di trovare una soluzione diplomatica alla crisi che si stava preparando.

 

Il 17 dicembre 2021, Putin ha inviato una lettera sia al presidente Joe Biden che al capo della NATO Stoltenberg proponendo una soluzione alla crisi basata su una garanzia scritta che: 1) l'Ucraina non avrebbe aderito alla NATO, 2) nessuna arma offensiva sarebbe stata stazionata vicino ai confini della Russia e 3) le truppe e le attrezzature della NATO spostate nell'Europa orientale dal 1997 sarebbero state rimosse nell'Europa occidentale. Qualunque cosa si pensi della fattibilità di raggiungere un accordo basato sulle richieste di apertura di Putin, su cui gli Stati Uniti si sono rifiutati di negoziare, dimostra che stava cercando di evitare la guerra.

 

In quinto luogo, subito dopo l'inizio della guerra, la Russia ha contattato l'Ucraina per avviare negoziati per porre fine alla guerra ed elaborare un modus vivendi tra i due paesi.

 

I negoziati tra Kiev e Mosca sono iniziati in Bielorussia appena quattro giorni dopo l'ingresso delle truppe russe in Ucraina. Quella pista bielorussa è stata alla fine sostituita da una pista israeliana e da una pista di Istanbul. Tutte le prove disponibili indicano che la Russia stava negoziando seriamente e non era interessata ad assorbire il territorio ucraino, ad eccezione della Crimea, che aveva annesso nel 2014, e forse del Donbass. I negoziati si sono conclusi quando gli ucraini, con la spinta della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, si sono allontanati dai negoziati, che stavano facendo buoni progressi quando si sono conclusi.

 

Inoltre, Putin riferisce che quando i negoziati erano in corso e stavano facendo progressi, gli è stato chiesto di rimuovere le truppe russe dall'area intorno a Kiev come gesto di buona volontà, cosa che ha fatto il 29 marzo 2022. Nessun governo in Occidente o ex politico ha contestato l'affermazione di Putin, che è direttamente in contrasto con l'affermazione che era intenzionato a conquistare tutta l'Ucraina.

 

Sesto, mettendo da parte l'Ucraina, non c'è una scintilla di prova che Putin stesse contemplando la conquista di altri paesi dell'Europa orientale.

 

Inoltre, l'esercito russo non è nemmeno abbastanza grande da invadere tutta l'Ucraina, tanto meno per cercare di conquistare gli Stati baltici, la Polonia e la Romania. Inoltre, tutti questi paesi sono membri della NATO, il che significherebbe quasi certamente una guerra con gli Stati Uniti e i suoi alleati.

 

Settimo, quasi nessuno in Occidente ha sostenuto che Putin avesse ambizioni imperiali dal momento in cui ha preso le redini del potere nel 2000 fino all'inizio della crisi ucraina il 22 febbraio 2014. A quel punto, è diventato improvvisamente un aggressore imperiale. Perché? Perché i leader occidentali avevano bisogno di un motivo per incolparlo di aver causato la crisi.

 

Probabilmente la migliore prova che Putin non è stato visto come una seria minaccia durante i suoi primi quattordici anni in carica è che è stato invitato al vertice della NATO dell'aprile 2008 a Bucarest, dove l'alleanza ha annunciato che l'Ucraina e la Georgia sarebbero diventate membri. Putin, ovviamente, era infuriato per quella decisione e ha reso nota la sua rabbia. Ma la sua opposizione a quell'annuncio non ha avuto quasi alcun effetto su Washington perché l'esercito russo è stato giudicato troppo debole per fermare un ulteriore allargamento della NATO, proprio come era stato troppo debole per fermare le ondate di espansione del 1999 e del 2004. L'Occidente pensava di poter spingere ancora una volta l'espansione della NATO in gola alla Russia.

 

A questo proposito, l'allargamento della NATO prima del 22 febbraio 2014 non mirava a contenere la Russia. Dato il triste stato della potenza militare russa, Mosca non era in grado di conquistare l'Ucraina, tanto meno di perseguire politiche revansciste nell'Europa orientale. Significativamente, l'ex ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca Michael McFaul, che è uno strenuo difensore dell'Ucraina e un feroce critico di Putin, osserva che la presa della Crimea da parte della Russia nel 2014 non era stata pianificata prima dello scoppio della crisi; è stata una mossa impulsiva in risposta al colpo di stato che ha rovesciato il leader filo-russo dell'Ucraina. In breve, l'espansione della NATO non era destinata a contenere una minaccia russa, perché l'Occidente non pensava che ce ne fosse una.

 

È stato solo quando è scoppiata la crisi ucraina nel febbraio 2014 che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno improvvisamente iniziato a descrivere Putin come un leader pericoloso con ambizioni imperiali e la Russia come una seria minaccia militare che la NATO doveva contenere. Questo brusco cambiamento di retorica è stato progettato per servire a uno scopo essenziale: consentire all'Occidente di incolpare Putin per la crisi e assolvere l'Occidente dalla responsabilità. Non sorprende che questo ritratto di Putin abbia guadagnato molta più trazione dopo che la Russia ha invaso l'Ucraina il 24 febbraio 2022.

 

C'è una svolta nella saggezza convenzionale che vale la pena menzionare. Alcuni sostengono che la decisione di Mosca di invadere l'Ucraina abbia poco a che fare con Putin stesso e invece faccia parte di una tradizione espansionistica che precede di molto Putin ed è profondamente radicata nella società russa. Questa propensione all'aggressione, che si dice sia guidata da forze interne, non dall'ambiente di minaccia esterna della Russia, ha spinto praticamente tutti i leader russi nel tempo a comportarsi violentemente nei confronti dei loro vicini. Non si può negare che Putin sia al comando in questa storia o che abbia portato la Russia alla guerra, ma si dice che abbia poca influenza. Quasi tutti gli altri leader russi avrebbero agito allo stesso modo.

 

Ci sono due problemi con questo argomento. Per cominciare, non è falsificabile, poiché il tratto di lunga data nella società russa che produce questo impulso aggressivo non viene mai identificato. Si dice che i russi siano sempre stati aggressivi – non importa chi sia al comando – e lo saranno sempre. È quasi come se fosse nel loro DNA. La stessa affermazione è stata fatta una volta a proposito dei tedeschi, che nel corso del XX secolo sono stati spesso ritratti come aggressori congeniti. Argomenti di questo tipo non sono presi sul serio nel mondo accademico per una buona ragione.

 

Inoltre, quasi nessuno negli Stati Uniti o nell'Europa occidentale ha descritto la Russia come intrinsecamente aggressiva tra il 1991 e il 2014, quando è scoppiata la crisi ucraina. Al di fuori della Polonia e degli Stati baltici, la paura di un'aggressione russa non è stata una preoccupazione frequentemente espressa durante quei ventiquattro anni, come ci si aspetterebbe se i russi fossero stati programmati per l'aggressione. Sembra chiaro che l'improvvisa comparsa di questa linea di argomentazione sia stata una comoda scusa per incolpare la Russia di aver causato la guerra in Ucraina.

 


Permettetemi di cambiare marcia e di esporre le TRE RAGIONI PRINCIPALI per pensare che l'espansione della NATO sia stata la causa principale della guerra in Ucraina.

 

In primo luogo, i leader russi hanno detto più volte prima dell'inizio della guerra che consideravano l'espansione della NATO in Ucraina una minaccia esistenziale che doveva essere eliminata.

 

Putin ha rilasciato numerose dichiarazioni pubbliche in cui espone questa linea di argomentazione prima del 24 febbraio 2022. Parlando al Consiglio del Ministero della Difesa il 21 dicembre 2021, ha dichiarato: "quello che stanno facendo, o cercando o pianificando di fare in Ucraina, non sta accadendo a migliaia di chilometri di distanza dal nostro confine nazionale. Si trova sulla soglia di casa nostra. Devono capire che semplicemente non abbiamo più nessun posto dove ritirarci. Pensano davvero che non vediamo queste minacce? O pensano che staremo semplicemente a guardare l'emergere di minacce alla Russia?" Due mesi dopo, in una conferenza stampa del 22 febbraio 2022, pochi giorni prima dell'inizio della guerra, Putin ha dichiarato: "Siamo categoricamente contrari all'adesione dell'Ucraina alla NATO perché rappresenta una minaccia per noi, e abbiamo argomenti a sostegno di ciò. Ne ho parlato più volte in questa sala". Ha poi chiarito che riconosceva che l'Ucraina stava diventando un membro de facto della NATO. Gli Stati Uniti e i loro alleati, ha detto, "continuano a pompare le attuali autorità di Kiev piene di moderni tipi di armi". Ha continuato dicendo che se questo non fosse stato fermato, Mosca "sarebbe rimasta con un 'anti-Russia' armato fino ai denti. Questo è totalmente inaccettabile".

 

Anche altri leader russi – tra cui il ministro della Difesa, il ministro degli Esteri, il vice ministro degli Esteri e l'ambasciatore russo a Washington – hanno sottolineato la centralità dell'espansione della NATO per causare la crisi ucraina. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov lo ha ribadito in modo sintetico in una conferenza stampa del 14 gennaio 2022: "La chiave di tutto è la garanzia che la NATO non si espanderà verso est".

 

Si sente spesso l'argomento che i timori russi erano infondati perché non c'era alcuna possibilità che l'Ucraina si unisse all'alleanza nel prossimo futuro, se mai lo avrebbe fatto. In effetti, si dice che gli Stati Uniti e i loro alleati europei abbiano prestato poca attenzione a portare l'Ucraina nella NATO prima della guerra. Ma anche se l'Ucraina entrasse a far parte dell'alleanza, ciò non rappresenterebbe una minaccia esistenziale per la Russia, perché la NATO è un'alleanza difensiva. Pertanto, l'espansione della NATO non può essere stata una causa della crisi originaria, scoppiata nel febbraio 2014, o della guerra iniziata nel febbraio 2022.

 

Questa linea di argomentazione è falsa. In effetti, la risposta occidentale agli eventi del 2014 è stata quella di raddoppiare la strategia esistente e avvicinare ancora di più l'Ucraina alla NATO. L'alleanza ha iniziato ad addestrare l'esercito ucraino nel 2014, con una media di 10.000 soldati addestrati all'anno per i successivi otto anni. Nel dicembre 2017, l'amministrazione Trump ha deciso di fornire a Kiev "armi difensive". Altri paesi della NATO sono presto entrati in azione, spedendo ancora più armi all'Ucraina. Inoltre, l'esercito, la marina e l'aeronautica ucraini hanno iniziato a partecipare a esercitazioni militari congiunte con le forze della NATO. Lo sforzo dell'Occidente di armare e addestrare l'esercito ucraino spiega in buona parte perché se l'è cavata così bene contro l'esercito russo nel primo anno di guerra. Come titolava il Wall Street Journal dell'aprile 2022, "Il segreto del successo militare dell'Ucraina: anni di addestramento della NATO".

 

Mettendo da parte gli sforzi in corso dell'alleanza per rendere l'esercito ucraino una forza combattente più formidabile in grado di operare a fianco delle truppe della NATO, nel 2021 c'è stato un rinnovato entusiasmo in Occidente per l'ingresso dell'Ucraina nella NATO. Allo stesso tempo, il presidente Zelensky, che non aveva mai mostrato molto entusiasmo per l'ingresso dell'Ucraina nell'alleanza e che era stato eletto nel marzo 2019 su una piattaforma che chiedeva di lavorare con la Russia per risolvere la crisi in corso, ha invertito la rotta all'inizio del 2021 e non solo ha abbracciato l'adesione alla NATO per l'Ucraina, ma ha anche adottato un approccio intransigente nei confronti di Mosca.

 

Il presidente Biden, che si è insediato alla Casa Bianca nel gennaio 2021, era da tempo impegnato a portare l'Ucraina nella NATO ed era un super-falco nei confronti della Russia. Non sorprende che, il 14 giugno 2021, la NATO abbia emesso un comunicato al vertice annuale di Bruxelles, in cui affermava: "Ribadiamo la decisione presa al vertice di Bucarest del 2008 che l'Ucraina diventerà membro dell'Alleanza". Il 1° settembre 2021, Zelensky ha visitato la Casa Bianca, dove Biden ha chiarito che gli Stati Uniti erano "fermamente impegnati" nelle "aspirazioni euro-atlantiche dell'Ucraina". Poi, il 10 novembre 2021, il segretario di Stato Antony Blinken e il suo omologo ucraino, Dmytro Kuleba, hanno firmato un importante documento: la "Carta USA-Ucraina sul partenariato strategico". L'obiettivo di entrambe le parti, si legge nel documento, è quello di "sottolineare... un impegno per l'attuazione da parte dell'Ucraina delle riforme profonde e complete necessarie per la piena integrazione nelle istituzioni europee ed euro-atlantiche". Riafferma inoltre esplicitamente l'impegno degli Stati Uniti nei confronti della "Dichiarazione del vertice di Bucarest del 2008".

 

Sembra che ci siano pochi dubbi sul fatto che l'Ucraina sia sulla buona strada per diventare membro della NATO entro la fine del 2021. Ciononostante, alcuni sostenitori di questa politica sostengono che Mosca non avrebbe dovuto preoccuparsi di quel risultato, perché "la NATO è un'alleanza difensiva e non rappresenta una minaccia per la Russia". Ma non è così che Putin e gli altri leader russi pensano della NATO, ed è ciò che pensano che conta. In breve, non c'è dubbio che Mosca vedesse l'adesione dell'Ucraina alla NATO come una minaccia esistenziale che non poteva essere tollerata.

 

In secondo luogo, un numero considerevole di individui influenti e molto apprezzati in Occidente riconobbe prima della guerra che l'espansione della NATO – specialmente in Ucraina – sarebbe stata vista dai leader russi come una minaccia mortale e alla fine avrebbe portato al disastro.

 

William Burns, che ora dirige la CIA, ma era l'ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca al momento del vertice della NATO dell'aprile 2008 a Bucarest, scrisse un memo all'allora segretario di Stato Condoleezza Rice che descrive succintamente il pensiero russo di portare l'Ucraina nell'alleanza. "L'ingresso dell'Ucraina nella NATO", ha scritto, "è la più luminosa di tutte le linee rosse per l'élite russa (non solo per Putin). In più di due anni e mezzo di conversazioni con i principali attori russi, dai tirapugni nei recessi oscuri del Cremlino ai più acuti critici liberali di Putin, devo ancora trovare qualcuno che veda l'Ucraina nella NATO come qualcosa di diverso da una sfida diretta agli interessi russi". La NATO, ha detto, "si vedrebbe... come lanciare il guanto di sfida strategico. La Russia di oggi risponderà. Le relazioni russo-ucraine entreranno in un profondo congelamento... Creerà un terreno fertile per l'ingerenza russa in Crimea e nell'Ucraina orientale".

 

Burns non è stato l'unico politico occidentale nel 2008 a capire che portare l'Ucraina nella NATO era pieno di pericoli. Infatti, al vertice di Bucarest, sia la cancelliera tedesca Angela Merkel che il presidente francese Nicolas Sarkozy si sono opposti all'adesione dell'Ucraina alla NATO perché capivano che avrebbe allarmato e fatto infuriare la Russia. La Merkel ha recentemente spiegato la sua opposizione: "Ero molto sicura... che Putin non lascerà che ciò accada. Dal suo punto di vista, sarebbe una dichiarazione di guerra".

 

Per fare un ulteriore passo avanti, numerosi politici e strateghi americani si opposero alla decisione del presidente Clinton di espandere la NATO negli anni '90, quando la decisione era in discussione. Quegli oppositori capirono fin dall'inizio che i leader russi l'avrebbero vista come una minaccia ai loro interessi vitali e che la politica alla fine avrebbe portato al disastro. L'elenco degli oppositori include figure di spicco dell'establishment come George Kennan, sia il segretario alla Difesa del presidente Clinton, William Perry, che il suo presidente del Joint Chiefs of Staff, il generale John Shalikashvili, Paul Nitze, Robert Gates, Robert McNamara, Richard Pipes e Jack Matlock, solo per citarne alcuni.

 

La logica della posizione di Putin dovrebbe avere perfettamente senso per gli americani, che sono stati a lungo impegnati nella Dottrina Monroe, che stabilisce che a nessuna grande potenza lontana è permesso di formare un'alleanza con un paese dell'emisfero occidentale e di collocare lì le sue forze militari. Gli Stati Uniti interpreterebbero una mossa di questo tipo come una minaccia esistenziale e farebbero di tutto per eliminare il pericolo. Naturalmente, questo è ciò che accadde durante la crisi dei missili di Cuba nel 1962, quando il presidente Kennedy chiarì ai sovietici che i loro missili a testata nucleare avrebbero dovuto essere rimossi da Cuba. Putin è profondamente influenzato dalla stessa logica. Dopotutto, le grandi potenze non vogliono che grandi potenze lontane si trasferiscano nel loro cortile.

 

In terzo luogo, la centralità della profonda paura della Russia che l'Ucraina aderisca alla NATO è illustrata da due sviluppi che si sono verificati dall'inizio della guerra.

 

Durante i negoziati di Istanbul che si svolsero subito dopo l'inizio dell'invasione, i russi resero evidente che l'Ucraina doveva accettare la "neutralità permanente" e non poteva aderire alla NATO. Gli ucraini hanno accettato la richiesta della Russia senza alcuna seria resistenza, sicuramente perché sapevano che altrimenti sarebbe stato impossibile porre fine alla guerra. Più di recente, il 14 giugno 2024, Putin ha formulato due richieste che l'Ucraina avrebbe dovuto soddisfare prima di accettare un cessate il fuoco e l'inizio dei negoziati per porre fine alla guerra. Una di queste richieste era che Kiev dichiarasse "ufficialmente" "che abbandona i suoi piani di adesione alla NATO".

 


Niente di tutto ciò sorprende, poiché la Russia ha sempre visto l'Ucraina nella NATO come una minaccia esistenziale che deve essere prevenuta a tutti i costi. Questa logica è la forza trainante della guerra in Ucraina.

 

Infine, è evidente dalla posizione negoziale della Russia a Istanbul e dai commenti di Putin sulla fine della guerra nel suo discorso del 14 giugno 2024 che non è interessato a conquistare tutta l'Ucraina e a renderla parte di una grande Russia.

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