L’arma dell’energia.

 

L’arma dell’energia.

 

 

 

L’Arma dell’Energia di UE e Ucraina

 Contro Ungheria e Slovacchia.

Conoscenzealconfine.it – (25 Luglio 2024) - Gianandrea Gaiani – analisi difesa -ci dice:

 

Una “tempesta perfetta” sembra pronta ad abbattersi su Budapest e Bratislava.

Mentre diverse nazioni della UE annunciano di voler boicottare la presidenza di turno dell’Ungheria e il premier Victor Orban, “colpevole” di cercare (per conto di Donald Trump) la pace nel conflitto in Ucraina, una “tempesta perfetta” sembra pronta ad abbattersi su Budapest e Bratislava.

Anche la Slovacchia è nel mirino della UE da quando al governo è tornato Robert Fico, che ha sospeso le sanzioni a Mosca e gli aiuti militari all’Ucraina venendo poi quasi ucciso in un attentato.

Slovacchia e Ungheria hanno dichiarato il 18 luglio di aver smesso di ricevere petrolio dal fornitore chiave “Lukoil”, dopo che l’Ucraina il mese scorso ha imposto un divieto di transito alle risorse dalla compagnia energetica russa attraverso il suo territorio.

L’iniziativa evidenzia l’instabilità delle rimanenti forniture di petrolio russo all’Europa attraverso l’oleodotto sovietico “Druzhba”, l’ultima grande via di rifornimento di petrolio russo verso il continente.

Sia la Slovacchia che l’Ungheria hanno affermato che continuano a ricevere petrolio da altre società russe, nonostante l’interruzione delle forniture da parte di Lukoil.

 Budapest dipende dal petrolio russo per il 70 per cento del suo fabbisogno e non ha mai aderito agli appelli di USA e UE a diversificare i fornitori rinunciando all’energia di fonte russa:

 anzi, Orban ha firmato negli ultimi due anni nuove intese energetiche con Mosca.

 

l ministero dell’Economia slovacco ha dichiarato il 18 luglio che le consegne di petrolio da Lukoil hanno smesso di fluire verso la Slovacchia attraverso l’Ucraina, in seguito all’inclusione della società nell’elenco delle sanzioni ucraine.

“Secondo i dati della compagnia petrolifera slovacca “Transpetrol”, le consegne di petrolio russo alla Slovacchia non sono state fermate. Secondo la raffineria slovacca “Slovnaft” il problema sono le consegne del fornitore Lukoil“, ha detto il ministero, aggiungendo che” Slovnaft” si è assicurata le consegne da un altro fornitore.

 

Il ministero ha riferito anche che sta discutendo la questione con i partner ucraini mentre il primo ministro slovacco Robert Fico ha detto che “l’inclusione della Lukoil russa nell’elenco delle sanzioni, sia solo un altro esempio di una sanzione assurda che non danneggia la Russia, ma soprattutto alcuni paesi dell’UE, il che è inaccettabile”, si legge nella nota.

 

Tra l’altro i nuovi ordini dell’industria slovacca sono scesi dell’1,2 per cento tra maggio 2023 e maggio 2024, come ha reso noto ieri l’Ufficio di statistica di Bratislava.

Il presidente slovacco Peter Pellegrini ha detto che la Slovacchia non si unirà al boicottaggio della presidenza ungherese dell’UE dopo la visita del premier Viktor Orbán a Kiev, Mosca e Pechino nel tentativo di avviare un negoziato per la pace in Ucraina.

 “Voglio chiarire che finché l’Ungheria presiederà il Consiglio dell’Ue, la Slovacchia non si unirà a nessun tentativo di boicottaggio dell’Ungheria”, ha detto Pellegrini.

 

“La Slovacchia non vede alcun motivo per punire l’Ungheria, che è un Paese indipendente, per le azioni del suo primo ministro, anche se non piacciono a nessuno.

Ha aggiunto che nessuno può essere punito per aver voluto instaurare un dialogo e la Slovacchia non lo farà”.

Fico aveva già dichiarato che i rappresentanti della Slovacchia nelle istituzioni dell’Ue non avrebbero appoggiato la punizione dell’Ungheria per la visita di Orban a Mosca e a Pechino.

 Orban si è recato a Kiev il 2 luglio, dove ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky;

il 5 luglio è arrivato a Mosca per incontrare il presidente Vladimir Putin; l’8 luglio ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping a Pechino.

Il giorno successivo è arrivato a Washington, dove ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan nell’ambito del vertice NATO: un viaggio che ha suscitato un’ondata di critiche da parte dell’Unione Europea.

La Russia continua a fornire gas all’Europa attraverso l’Ucraina, nonostante l’invasione di Mosca nel febbraio 2022 e il conseguente conflitto militare.

Il 16 luglio il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto, ha affermato che le spedizioni di gas dalla Russia all’Ungheria fluiscono senza ostacoli attraverso il gasdotto “Turkstream” sul Mar Nero, ma il petrolio non viene più trasferito da Lukoil attraverso l’Ucraina.

 “A causa di una nuova situazione legale in Ucraina, Lukoil non effettua più consegne in Ungheria; ora stiamo lavorando a una soluzione che consentirà di riavviare il transito, poiché il petrolio russo è molto importante per la nostra sicurezza energetica”.

 

Come ricorda l’agenzia di stampa “Energia Oltre”, alcune fonti del settore affermano che circa 1,1 milioni di tonnellate al mese di petrolio russo (circa 250.000 barili al giorno) sono state esportate attraverso il tratto meridionale di “Druzhba”, di cui circa 900.000 tonnellate sono quasi equamente divise tra Slovacchia e Ungheria.

La compagnia energetica ungherese MOL possiede raffinerie in Ungheria e Slovacchia, entrambe alimentate dal tratto meridionale dall’oleodotto” Druzhba”.

 Le raffinerie necessitano di ingenti investimenti per diversificare le raffinerie del Danubio e di Slovnaft lontano dal petrolio Urals.

 Szijjarto ha dichiarato che una soluzione legale su cui MOL sta lavorando consentirebbe a Lukoil di trasportare petrolio in Ungheria attraverso l’Ucraina e la Bielorussia.

Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha definito le interruzioni del transito petrolifero russo attraverso l’Ucraina “una crisi” per gli acquirenti di petrolio interessati, ma ha detto che c’è poco spazio per colloqui con le società di transito ucraine, perché la decisione è politica.

“Non penso avremo la possibilità di entrare in contatto con le aziende ucraine che forniscono il transito. Questa decisione non è stata presa a livello tecnico, ma politico”, ha detto Peskov, aggiungendo che “non abbiamo dialogo, la situazione è piuttosto critica per i nostri beneficiari di petrolio, ma non dipende da noi”

La compagnia energetica ungherese MOL possiede raffinerie in Ungheria e Slovacchia, entrambe alimentate dallo sperone meridionale dell’oleodotto Druzhba.

Il ramo meridionale dell’oleodotto Druzhba corre attraverso l’Ucraina verso la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria, ed è da anni la principale fonte di approvvigionamento per le loro raffinerie.

Rosneft, Lukoil e Tatneft sono stati i principali esportatori russi lungo questa rotta.

Per comprendere il clima che si è creato in alcuni stati membri della Ue nei confronti dell’Ungheria, basta osservare le dichiarazioni del ministro degli Esteri estone, Margus Tsahkna:

“Abbiamo il dovere di inviare all’Ungheria un forte messaggio politico che le azioni intraprese durante la sua presidenza del Consiglio dell’Ue sono inaccettabili e che, qualora continuasse a tenere immutato il proprio profilo, tra pochi mesi non sarà più possibile collaborare”.

(clima surreale… chi cerca di avviare un tentativo di pacificazione viene visto di malocchio e boicottato in tutti i modi… questa è la “democratica” Europa! – nota di conoscenze al confine)

 

Tsahkna ha a tal proposito sottolineato che la possibilità di applicare la limitazione del diritto di voto dell’Ungheria è stata presa in considerazione in sede Ue, sebbene nessuna decisione sia stata ancora adottata.

 Il ministro ha inoltre ribadito la necessità di sostenere l’Ucraina con misure concrete.

“L’Ucraina combatte per la libertà e il futuro di tutti noi”, ha detto Tsahkna.

“Sono convinto che sia lo strumento europeo per la pace e che l’utilizzo delle entrate dei beni statali congelati dalla Russia per sostenere l’Ucraina daranno buoni frutti “.

Per comprendere la posizione dell’Estonia basti pensare che il governo ha dato il via alla costruzione di 600 bunker di cemento al confine con la Federazione Russa per frenare una (possibile secondo loro) “invasione”.

Le autorità estoni prevedono di iniziare a creare una linea difensiva lungo il confine russo nel 2025, che comprenderà anche barriere anticarro e filo spinato, come ha riferito il portale statale estone ERR.

Come ha ricordato” Analisi Difesa”, a fine anno cesseranno anche i flussi di gas russo attraverso i gasdotti ucraini, aspetto che metterà in crisi soprattutto Ungheria, Slovacchia e Austria tenuto conto che, al di là delle dichiarazioni dei vertici della UE, nei mesi di maggio e giugno il maggior fornitore di gas all’Unione Europea è stata proprio la Russia.

Le tre nazioni della Mitteleuropa, nessuna delle quali arma Kiev, rischiano quindi di subire danni molto gravi dall’interruzione delle forniture energetiche russe via Ucraina e restano quindi suscettibili di pressioni politiche ed economiche da parte di Kiev e della UE.

Del resto uno degli obiettivi della seconda Commissione von der Leyen è la riforma dei trattati per togliere potere ai “piccoli” stati europei tra i quali vengono sicuramente considerati Slovacchia e Ungheria.

Come spesso accade ed è accaduto nella UE, il rigore si applica solo ai “piccoli” e ai governi dissenzienti rispetto alle politiche comunitarie che – dal sostegno militare all’Ucraina al riarmo, dalle sanzioni alla Russia alle politiche green – stanno mettendo in ginocchio le economie europee e continueranno a farlo.

Basti pensare che nonostante le sanzioni contro la flotta mercantile russa, numerose navi con la bandiera della Federazione continuano a raggiungere i porti e le chiuse tedesche grazie alle deroghe concesse alla norma comunitaria.

Ben 132 i casi rilevati secondo l’Ufficio federale dell’economia e del controllo delle esportazioni, come riporta “Der Spiegel”.

 Nel 2022, 80 navi russe hanno potuto fare scalo in Germania, 38 l’anno scorso e 14 dall’inizio dell’anno.

Per fare un confronto: nel 2021, prima dell’entrata in vigore delle sanzioni, ci sono stati 365 arrivi nei porti tedeschi.

Le eccezioni per la flotta russa, che conta un totale di circa 2.800 navi, riguardano principalmente l’acquisto, l’importazione e il trasporto di prodotti agricoli come fertilizzanti, alimenti o prodotti medici e farmaceutici.

Esistono anche permessi per materie prime o prodotti chimici.

Molte eccezioni riguardavano anche il Canale di Kiel, che divide lo Schleswig-Holstein all’incirca a metà.

Oltre alle navi russe che si dirigono verso le chiuse e i porti tedeschi, riporta ancora “Der Spiegel”, ci sono una serie di altre navi che, nonostante le sanzioni, continuano a portare molti soldi nelle casse di guerra di Mosca, spesso sotto la bandiera di un altro paese.

È il caso della “flotta ombra” creata dal 2022 e che sostiene le esportazioni di petrolio russo.

Allianz Commercial stima che siano tra le 600 e le 1.400 navi che salpano per l’Asia per vendere il petrolio sanzionato in Occidente.

(Gianandrea Gaiani)

(analisidifesa.it/2024/07/larma-energetica-di-ue-e-ucraina-contro-ungheria-e-slovacchia/)

 

 

 

Sindrome dell’Avana, la denuncia in un’inchiesta: “È effetto di un arma a microonde sviluppata da Mosca”. Le vittime: “Trattati come isterici

Repubblica.it – (1° aprile 2024) - Tonia Mastrobuoni – ci dice:

 

Un'indagine durata un anno, condotta da “The Insider” in collaborazione con “60 Minutes” e” Der Spiegel” accusa l'unità russa “GRU 29155” di aver utilizzato microonde o ultrasuoni contro personale governativo statunitense e alcuni membri delle loro famiglie.

Ufficialmente il giallo della “sindrome dell’Avana” è ancora irrisolto:

le cause dello strano malessere che colpì dozzine di diplomatici americani e canadesi a Cuba nel 2016 sono avvolte nel mistero.

 Quel che è certo è che quegli attacchi di nausea, quei mal di testa lancinanti associati a problemi di equilibrio e di assordanti fischi alle orecchie, quell’insonnia persistente e quei danni alla memoria, all’udito e alle capacità cognitive sofferti dal personale delle ambasciate - spesso con conseguenze a lungo termine - non sono un caso isolato.

E potrebbero essere causati da una sofisticata arma a microonde sviluppata a Mosca e impiegata diffusamente dalle spie militari russe della famigerata unità 29155, un commando di assassini e sabotatori del Gru diffusi in tutto il mondo.

 E’ l’unità di sicari, per dire, che avvelenò sei anni fa l’ex agente russo Sergej Skripal a Londra con il gas nervino.

 

Un nuovo incubo proveniente dal Cremlino.

La “sindrome dell’Avana” è il nuovo incubo con cui il Cremlino sta terrorizzando diplomatici, funzionari e agenti dei servizi segreti al livello globale.

Quegli episodi continuano a essere definiti “sindrome dell’Avana” perché il paziente zero fu individuato nella capitale cubana.

Ma secondo ricerche di Spiegel, Insider e 60 Minutes, il fenomeno è molto più ampio ed è riconducibile al commando di sicari del Cremlino incaricato di eliminare i nemici in Occidente e di diffondere il panico tra spie, ambasciatori e servitori dello Stato.

I casi.

Incidenti simili a quelli avvenuti all’Avana si sono ripetuti ad Hanoi, Shanghai, Belgrado, Vienna, Ginevra, Mosca, Tiblisi e Berlino.

E un’operazione cruciale, trascurata dalle autorità americane, potrebbe essere avvenuta a Francoforte, ben due anni prima dell’incidente a Cuba.

All’inizio di novembre del 2014 un pugno di diplomatici del consolato americano lamentò gli stessi sintomi descritti due anni dopo dai loro colleghi all’Avana.

 Mark Lenzi era uno di loro, fu risarcito dallo Stato ma accusa Washington di non aver indagato abbastanza, allora.

Quei casi sono la chiave di tutto “e avrebbero dovuti essere indagati con più attenzione”, ha raccontato allo Spiegel.

Le testimonianze.

Per capire di cosa stiamo parlando basta ascoltare la testimonianza di un’altra vittima che ha parlato con “Insider” sotto falso nome: “Joy”.

È la moglie di un funzionario dell’ambasciata americana a Tiblisi, in Georgia.

Il 7 ottobre del 2021 la donna sta tirando fuori la biancheria dall’asciugatrice quando sente un suono acuto, simile a quello che viene usato nei film dopo una bomba.

“Mi perforò le orecchie, mi travolse da sinistra, come se qualcosa fosse entrato dalla finestra direttamente nel mio orecchio”.

Joy si sentì “immediatamente la testa pesante e mi scoppiò un mal di testa lancinante”.

Per fortuna la moglie del diplomatico è addestrata a situazioni d’emergenza: si precipita con un balzo fuori dalla lavanderia. Quando raggiunge il bagno, vomita.

Nonostante il travolgente malessere, Joy ha la prontezza di spirito di uscire di casa, e scorge una Mercedes nera parcheggiata fuori.

Accanto c’è un uomo che guarda nella sua direzione. Lei lo fotografa, lui entra nella macchina e parte.

Lei fotografa anche la targa.

Tre anni dopo, quando le fanno vedere la foto di una spia dell’unità 29155 del Gru, dei servizi militari russi, la donna lo riconosce subito.

L’uomo fermo davanti alla sua porta di casa pochi minuti dopo l’attacco è la spia russa” Albert Averyanov”.

L’ex-Urss e gli esperimenti.

Per chi conosce le cronache degli orribili esperimenti condotti con materiali radioattivi o con determinate armi acustiche o onde dai servizi segreti della Germania comunista, la Stasi, non è una novità.

Alcuni dissidenti furono bombardati durante la prigionia nelle famigerate carceri politiche della “Ddr” con raggi Roentgen - i raggi X - e morirono, anni dopo, di rarissime forme di cancro.

Anche gli esperimenti con le microonde vengono condotti da decenni dalla Cina, dalla Russia ma anche dagli Stati Uniti.

Tra gli Anni ’50 e ’70 l’ambasciata americana di Mosca fu colpita regolarmente da raggi definiti nel tempo il “segnale di Mosca”.

 Da allora gli esperti di ritengono che gli esperimenti siano andati molto avanti.

Il settimanale Spiegel ha anche rintracciato un documento che ne parla esplicitamente, scoperto quasi per caso.

Quando a uno degli uomini più ricercati in Europa, l’ex vicecomandante dell’unità 29155 per le operazioni in Europa, “Ivan Terentjev”, viene chiesto dall’autorità anticorruzione russa di spiegare l’origine di 100mila euro finiti sul suo conto, l’agente spiega che si tratta di soldi che provengono da una fondazione militare per una serie di esperimenti.

L’allegato della mail che Terentjev manda ai funzionari russi ha un titolo inequivocabile:

“Potenziale impiego di armi acustiche non mortali nei combattimenti in zone urbane”.

Effetti devastanti.

Per molte vittime l’attacco russo ha avuto effetti devastanti anche sulle loro vite professionali.

 Per “Marc Polymeropoulos” ha significato ad esempio la fine della sua carriera nella Cia.

Nel 2017 è al Marriott Hotel di Mosca quando un dolore atroce lo strappa al sonno.

 La sua testa rimbomba, si sente come se qualcuno gliela trapanasse, ed è colpito da una nausea travolgente e un fruscìo assordante nelle orecchie. Polymeropoulos pensa a un avvelenamento alimentare, si fa prescrivere un farmaco contro la nausea.

Ma a distanza di sette anni quei dolori e quel malessere continuano a torturarlo. L’agente ha dovuto rassegnare le dimissioni dalla Cia.

 

“Ci hanno trattati come gente afflitta da un’isteria di massa”, sostiene.

Eppure a lui non era assolutamente venuta in mente la “sindrome dell’Avana”. Polymeropoulos è convinto che il governo americano non voglia sapere davvero cosa si nasconda dietro a questi micidiali attacchi che si moltiplicano in tutto il mondo.

Cosa accadrebbe, si chiede, se Washington scoprisse ufficialmente che il Cremlino sta attaccando funzionari e diplomatici occidentali in tutto il mondo con atroci armi che si rivelano spesso invalidanti?

“Gli Stati Uniti sarebbero costretti a reagire con durezza. Evidentemente non ne hanno molta voglia”.

 

 

 

Le armi ad energia diretta:

tra proliferazione e prospettive.

 Cesi – Italia.org - Emmanuele Panero e Andrea Russo – (18.07.2024) – ci dicono:

 

Giovedì 11 Luglio 2024 la “Defence Acquisition Program Administration” (DAPA) della “Repubblica della Corea del Sud” ha annunciato l’inizio della fase di dispiegamento di un’arma ad energia diretta lungo il confine della Zona Demilitarizzata tra le due Coree, al fine di contrastare il rischio derivante dalla potenziale penetrazione di droni di Pyongyang nello spazio aereo di Seul.

L’arma, nota con il nome di “Laser Anti-Air Weapon Block I”, è prodotta dalla compagnia nazionale “Hanwha” e risponde ai requisiti emersi all’indomani di un incidente di sicurezza verificatosi nel Dicembre 2022, quando alcuni sistemi aerei senza pilota (UAV – Unmanned Aerial Vehicle) nordcoreani valicarono il 38° Parallelo, entrando nello spazio aereo della Corea del Sud.

In quell’occasione, nonostante lo scramble dei jet di Seul, i droni non vennero individuati né ingaggiati, riuscendo a ritornare indenni al di là della Zona Demilitarizzata.

 Al fine di rafforzare e diversificare l’architettura di difesa aerea Seul ha effettuato da allora significativi investimenti, soprattutto nel settore delle armi ad energia diretta.

La Corea del Sud si aggiunge dunque al numero sempre più consistente di Paesi intenti a condurre attività di ricerca e sperimentazione avanzata riguardo a questo tipo di armamenti.

 Se gli Stati Uniti e Israele hanno infatti dato il via a programmi militari volti allo sviluppo di armi ad energia diretta ormai svariati anni fa, in tempi recenti anche Francia, Regno Unito, Cina, Russia ed India hanno prodotto prototipi e condotto test di simili sistemi al fine di incrementare le loro capacità di difesa aerea, in modo particolare contro assetti a pilotaggio remoto.

Si definiscono armi ad energia diretta quelle che usano energia elettromagnetica concentrata per incapacitare, danneggiare, disabilitare o distruggere equipaggiamento, strutture o personale nemico.

 Sebbene i laser siano entrati nell’immaginario popolare come le armi ad energia diretta per eccellenza sin dagli anni Ottanta (quando l’allora Amministrazione Reagan annunciò la “Strategic Defence Initiative”, subito ribattezzata “Star Wars”, anche per via dell’ipotetico impiego massiccio dei laser nell’architettura difensiva progettata), solo i progressi tecnologici contemporanei hanno permesso di immaginarne realisticamente l’uso sui campi di battaglia.

Tra i molti impieghi teorizzati per questi sistemi d’arma, il segmento più significativo nell’ultimo lustro concerne la difesa anti-aerea ed anti-missile, soprattutto a corto raggio.

La caratteristica fondamentale che distingue le armi ad energia diretta è l’impiego dello spettro elettromagnetico per generare effetti cinetici sul bersaglio, neutralizzando la minaccia.

 L’ambiente elettromagnetico, uno dei due ambienti operativi trasversali ai cinque domini, è stato storicamente impiegato nella condotta delle operazioni militari in un ampio spettro di attività che vanno dalle telecomunicazioni alla guerra elettronica fino alla guida del munizionamento di precisione (si pensi alle bombe a guida laser, le Paveway, impiegate dalla US Air Force sin dai primi anni Settanta).

Lo sfruttamento dello spettro elettromagnetico per generare effetti cinetici tramite “sistemi hard-kill” è tuttavia di più recente sviluppo.

Sebbene i primi studi risalgano alla metà degli anni Novanta, infatti, sia le progettualità industriali che la concezione e le dottrine di impiego sono radicalmente mutati nel corso degli anni, in particolare in tempi recenti, a causa della convergenza tra la maturazione tecnologica e le esigenze operative sorte a seguito dell’incremento della minaccia aerea low-end.

Rispetto agli armamenti tradizionali, queste armi non impiegano l’energia sprigionata dalla deflagrazione del propellente come vettore di movimento di una munizione, quanto piuttosto l’energia stessa diventa la munizione da indirizzare sul bersaglio.

I sistemi d’arma ad energia diretta possono essere, in particolare, suddivisi in due macrocategorie, a seconda del loro principio di funzionamento:

i sistemi basati sull’utilizzo di un laser ad alta energia (HEL – High Energy Laser) e quelli che impiegano microonde ad alto potenziale (HPM – High Power Microwaves).

 I primi sistemi producono un fascio coerente di energia elettromagnetica indirizzato sul bersaglio in grado di penetrare attraverso il metallo in pochi secondi.

Questo raggio laser, la cui potenza raggiunge solitamente le centinaia di kilowatt, danneggia le componenti elettroniche o di propulsione di un vettore d’attacco in avvicinamento, causandone l’abbattimento o la detonazione prematura ad una distanza di sicurezza dal sistema d’arma.

 Le armi ad energia diretta che impiegano microonde ad alto potenziale, invece, emettono, in maniera continuativa o intermittente, delle radiofrequenze comprese tra uno megahertz e cento gigahertz, su un’aerea di dimensioni variabili.

 Le radiofrequenze, capaci di operare in banda stretta, larga e ultra-larga, sono in grado di danneggiare o sensibilmente degradare i circuiti e i sensori dei proietti e dei velivoli che transitano nel raggio d’azione del sistema d’arma, compromettendone così le capacità di raggiungere il bersaglio.

Tali differenze tecniche si riflettono principalmente nella capacità dei “sistemi HPM” di ingaggiare più bersagli simultaneamente, mentre le “armi HEL” devono necessariamente indirizzare il loro raggio su un obiettivo singolo.

 

I test effettuati dalle Forze Armate sudcoreane sono solo gli ultimi in ordine cronologico:

a Gennaio 2024, infatti, il Regno Unito aveva sperimentato con successo il “DragonFire”, un’arma ad energia diretta di “tipologia HE”L sviluppata congiuntamente da “MBDA”,” Leonardo UK” e “QinetiQ”, sotto la supervisione del “Laboratorio per le Scienze e la Tecnologia della Difesa” (DSTL – Defence Science and Technology Laboratory).

Secondo quanto dichiarato dal Ministero della Difesa britannico, i risultati del test sono stati assolutamente positivi, con il sistema che si è rivelato capace di centrare un bersaglio delle dimensioni di una moneta ad oltre un chilometro di distanza.

 Sei mesi prima, nel Giugno del 2023, la “Direzione Generale degli Armamenti” (DGA - Direction Général des Armements) della Repubblica Francese aveva annunciato l’inizio delle prove in mare del sistema “High Energy Laser for Multiple Applications-Power” (HELMA-P), per l’occasione installato sul cacciatorpediniere classe “Orizzonte Forbin”.

Nel corso del test, il sistema ha abbattuto con successo un drone quadrocottero in avvicinamento verso la nave, dimostrando concretamente il contributo che simili apparati possono fornire alla difesa aerea di punto.

Tra i sistemi più rinomati di questa categoria spicca l’”Iron Beam” israeliano, il cui sviluppo è iniziato nel 2010 ed è stato portato avanti tramite una collaborazione tra l’azienda locale “Rafael” e la statunitense “Lockheed Martin”.

Gli eventi del 7 Ottobre 2023 e la conseguente guerra nella Striscia di Gaza hanno accelerato lo sviluppo ed il dispiegamento di questo sistema, i cui prototipi sono stati schierati al confine meridionale di Israele con l’enclave palestinese.

È probabile che il sistema sia stato sperimentato nel corso degli attacchi portati da Hamas verso il territorio israeliano mediante salve di razzi tra il Novembre 2023 ed il Gennaio 2024.

 Qualora tali supposizioni venissero confermate, si tratterebbe del primo impiego di un’arma ad energia diretta in un contesto operativo reale.

 L’entrata in servizio di “Iron Beam” è tuttavia attesa per il 2025.

 

I recenti conflitti in Nagorno-Karabak, in Ucraina ed in Medio Oriente hanno evidenziato l’emergere di un trend generalizzato, basato sulla proliferazione della “minaccia low-end” tramite l’impiego di tattiche di saturazione delle difese aeree con una moltitudine di sistemi d’arma quali munizioni circuitanti, razzi, missili, droni e proietti d’artiglieria.

Questa dinamica ha posto in primo piano il problema dell’asimmetria tra il costo del sistema intercettore, solitamente consistente, ed il prezzo del vettore d’attacco, che spesso non eccede le poche decine di migliaia di dollari.

In tal senso, i sistemi HEL possono rappresentare una soluzione costo-efficace in grado di risolvere, almeno parzialmente, tale criticità.

 Sotto questo profilo, queste armi sono in grado di svolgere compiti di difesa a corto e cortissimo raggio (SHORAD - Short-Range Air Defense e VSHORAD - Very Short Range Air Defense) sia anti-aerea che anti-missile per proteggere obiettivi ad alta valenza strategica da “sistemi aeromobili unmanned “di diversa tipologia (C-UAS – Counter-Unmanned Air Systems) e da proietti di artiglieria, colpi di mortaio e razzi (C-RAM – Counter-Rocket, Artillery and Mortar) ad un costo per colpo irrisorio, solitamente inferiore ai dieci dollari.

 In confronto, i missili superficie-aria deputati alla protezione delle navi da guerra dalle minacce aeree quali gli Aster 15, gli Aster 30 e gli SM-2 hanno costi eccedenti il milione di dollari (più del doppio per quanto riguarda il missile statunitense SM-2).

Anche i Close-In Weapon Systems (CIWS) per la difesa di punto, quali il Phalanx e i cannoni multiruolo Otobreda 76/62 Super Rapido e Bofors Mk-110 presentano dei costi di utilizzo incomparabilmente più alti.

A titolo esemplificativo, una singola munizione DART impiegabile dal cannone Otobreda ha un costo pari a circa 23.000 dollari.

 La dicotomia tra il costo di questi vettori ed il valore dei bersagli abbattuti è stata particolarmente avvertita durante la crisi in Mar Rosso, dove diverse unità navali europee e statunitensi hanno impiegato questi sistemi per neutralizzare droni e missili, spesso di produzione locale, lanciati dai ribelli Houthi dalla costa yemenita.

L’integrazione delle armi HEL garantirebbe inoltre requisiti logistici più contenuti e una maggiore disponibilità immediata di colpi rispetto alle munizioni tradizionali, posto che sia fornito al sistema un adeguato apporto energetico.

Al contempo, tali sistemi non rappresentano una panacea in grado di neutralizzare ogni minaccia.

 A dispetto del loro considerevole livello di sofisticazione, le armi ad energia diretta presentano ancora alcuni limiti operativi che, al pari delle loro controparti tradizionali, le rendono vulnerabili ad alcune tattiche di attacco aereo a bassa quota.

In particolare, i sistemi HEL sono capaci di ingaggiare bersagli unicamente in modalità Line-Of-Sight (LOS), ossia entro la linea dell’orizzonte e posti direttamente in linea di tiro, a differenza di altre tipologie di armamenti intelligenti.

Inoltre, questo tipo di difesa aerea risulta scarsamente efficace in condizioni metereologiche avverse quali maltempo, umidità e la presenza di vapore e polveri di vario genere nell’aria.

Queste problematiche appaiono particolarmente rilevanti per quanto concerne l’impiego dei suddetti sistemi sulle unità navali, il cui ambiente operativo appare fortemente condizionato da queste variabili.

Un’ulteriore fonte di preoccupazione riguarda il meccanismo di funzionamento stesso di queste armi:

al fine di danneggiare la componente elettronica di un vettore d’attacco, il laser deve agganciare il medesimo e rimanere in puntamento per un tempo variabile (solitamente alcuni secondi) in base a diversi elementi, inclusi l’intensità del laser e la velocità del vettore.

 Tale caratteristica, unita a dei limiti fisiologici in materia di rateo di fuoco e di surriscaldamento, rendono il sistema vulnerabile alle stesse tattiche di saturazione in grado di superare le difese imperniate su sistemi difensivi più classici, quali i CIWS e i missili superficie-aria.

 Pertanto, i sistemi HEL non dovrebbero essere concepiti quali soluzioni stand-alone per rimpiazzare gli altri sistemi di difesa aerea a corto raggio, quanto piuttosto come un’utile risorsa a basso costo da integrare in un sistema di difesa aerea multilivello in grado di neutralizzare diversi tipi di minacce, anche in simultanea.

 

Attualmente, il primario segmento di impiego appare riguardare la loro integrazione quali sistemi imbarcati per la difesa di punto, con la Royal Navy che ha annunciato l’intenzione di equipaggiare la prima unità navale con il sistema DragonFire entro il 2027, per poi terminarne la distribuzione a tutte le principali navi della flotta di Sua Maestà entro il 2032.

 In tale veste, il DragonFire andrebbe ad affiancare i sistemi superficie-aria PAAMS (Sea Viper secondo la denominazione britannica) e CAMM Sea Ceptor, entrambi impiegati sulle fregate Type 26 e Type 31, denominate rispettivamente classe City e classe Inspiration, attualmente in costruzione e destinate ad entrare in servizio nei prossimi anni.

 Analogamente, il sistema Iron Beam dovrebbe aggiungersi ad un già stratificato sistema di difesa aerea integrato come quello israeliano, composto dai sistemi Iron Dome, David’s Sling, Arrow 2 ed Arrow 3.

 In particolare, il sistema laser dovrebbe interagire con il più longevo Iron Dome, sfruttando i medesimi assetti deputati all’individuazione ed al tracciamento dei bersagli, nonché alla conseguente decisione se ingaggiarli o meno a seconda del loro punto di impatto stimato.

In ultimo, tra il 2019 e il 2021 Lockheed Martin ha annunciato lo sviluppo di due programmi volti ad installare armi ad energia diretta su aeromobili, incluso uno, denominato Tactical Airborne Laser Weapon System (TALWS), finalizzato alla realizzazione di un pod di dimensioni sufficientemente contenute da poter equipaggiare un caccia multiruolo (l’artist conception pubblicata dall’impresa statunitense raffigurava un F-16C del 20th Fighter Wing) e progettato anche per l’ingaggio di bersagli aerei.

 

 

 

Come funzionano le armi laser e come

gli Stati le usano nei nuovi contesti militari.

Geopop.it – msantoro -Redazione – (27 Ottobre 2023) – ci dice:

 

La tecnologia delle armi laser sta rivoluzionando il concetto di conflitto, in un futuro prossimo tutti gli eserciti del mondo ne saranno forniti.

Ma come funzionano queste armi altamente tecnologiche dal punto di vista tecnico?

Le armi laser rientrano nelle cosiddette “armi a energia diretta”, cioè armi che letteralmente “sparano” energia.

In questa categoria rientrano le armi acustiche e le armi elettromagnetiche, ma noi in questo video ci concentreremo su quest’ultima categoria, che è quella in cui rientrano le armi laser una tecnologia militare di altissima precisione nel colpire un bersaglio.

I fasci laser di queste armi sono estremamente veloci, riducendo al minimo le possibilità da parte del nemico di evitare l'attacco.

Sono utilizzate da diversi Stati perché capaci di raggiungere un bersaglio molto velocemente e sono soprattutto usate per colpire oggetti molto piccoli, come ordigni artigianali ma anche disattivare il motore di un camion, bruciare un gommone o abbattere un drone.

 

Cos'è un raggio laser?

LASER è un acronimo di «light amplification by stimulated emission of radiation», in italiano "amplificazione della luce mediante emissione stimolata della radiazione".

Si tratta di una forma di luce altamente concentrata e con una frequenza ben definita.

La caratteristica chiave che distingue un raggio laser dalla luce ordinaria è che i raggi che escono da un laser sono allineati in maniera parallela – in gergo tecnico si dice che sono “collimati”. 

Infatti se prendiamo una semplice lampadina bianca, qui le onde che emette si disperdono in tutte le direzioni.

Nel laser invece, essendo radiazione collimata, il raggio appare perfettamente rettilineo.

Laser con diverse colorazioni.

La collimazione quindi rende il raggio laser incredibilmente potente con la capacità di concentrare l'energia su un punto molto piccolo.

Un altro aspetto importante di un raggio laser è la sua monocromaticità, il che significa che la sua luce è composta praticamente da una sola lunghezza d'onda di luce – a differenza, ad esempio, delle lampadine, che hanno una luce bianca perché contiene praticamente tutte le lunghezze d’onda visibili. 

In più il laser, almeno quello che viene usato nelle armi, produce un fascio di luce molto stretto, di solito nella regione dell'infrarosso quindi è invisibile, a differenza dei puntatori che possiamo comprare che lavorano nella banda del visibile – e infatti di puntatori laser su internet se ne possono trovare di tutti i colori. 

Ovviamente quello militare è invisibile perché così il nemico avrà maggiori difficoltà nel determinare l'origine del raggio.

Come funzionano tecnicamente le armi laser?

Un’arma laser è composta da 3 parti principali:

un mezzo ottico attivo, cioè un materiale (che può essere gas, cristallo o liquido) che se stimolato elettricamente emette luce; 

un sistema di pompaggio, che fornisce energia al mezzo attivo; 

una cavità ottica, dove si genera il raggio.

 Il funzionamento di un'arma laser si suddivise in diverse fasi.

 Il dispositivo quando viene attivato invia elettricità al mezzo ottico attivo che stimola gli atomi o le molecole a emettere fotoni, cioè – spiegandola in modo semplice – le particelle che compongono la luce.

 

ZDF – Sistema semplificato del funzionamento di un laser.

Questa luce rimbalza tra due specchi altamente riflettenti all'interno del dispositivo in un processo noto come "riflessione tra specchi".

Questa fase non solo amplifica il numero di fotoni ma mantiene anche la loro collimazione – cioè, come abbiamo visto prima, il parallelismo tra i raggi.

Una cosa interessante è che durante questo processo l'energia luminosa cresce in modo esponenziale, se prendiamo in esempio il “sistema di difesa LaWS”, quando raggiunge il punto di saturazione il laser raggiunge una potenza massima di 30 kW, ragazzi è una potenza incredibile, a differenza di un normale laser possono avere una potenza che va dai 5mW ai 3000mW, qui si capisce che grande differenza c’è tra i due sistemi.

Infine, una piccola frazione dei fotoni viene rilasciata attraverso un foro che si trova in uno dei due specchi, creando un potente fascio laser, che può essere indirizzato verso un bersaglio specifico.

Come vengono utilizzate le armi laser?

Come riportato dal sito di uno dei principali produttori di armi di questo tipo, l’energia passa attraverso un sistema di specchi e lenti per raggiungere il bersaglio e può disattivare il motore di un camion, bruciare un gommone o abbattere un drone.

Le armi laser, con la loro avanzata tecnologia, svolgono un ruolo cruciale in numerosi contesti militari e difensivi. 

Innanzitutto, le armi laser sono efficaci strumenti per la difesa contro minacce aeree:

possono abbattere razzi, droni anti-aerei e aerei nemici, contribuendo a proteggere lo spazio aereo da intrusioni ostili.

 Le armi laser possono essere anche impiegate per la difesa missilistica, abbattendo missili balistici in volo e proteggendo il territorio da possibili attacchi. Lo sviluppo di queste armi è in crescita soprattutto da quando l'uso di droni nelle operazioni militari è più diffuso, e le armi laser rappresentano una risposta efficace per neutralizzare droni nemici che minacciano le forze militari o infrastrutture critiche.

US Department of Defense.

Le armi laser possono essere usate anche contro le persone, infatti se puntate contro il viso, possono causare disorientamento e un accecamento temporaneo del soldato.

 Attenzione, dico temporaneo perché l’accecamento permanente è vietato dalle nazioni unite dal 1995.

Oltre a essere armi offensive, i laser sono anche strumenti di sorveglianza o di difesa, infatti tramite la tecnologia laser è possibile identificare con precisione un bersaglio così da indirizzare correttamente missili per trovare e distruggere il bersaglio. 

Possono anche rilevare oggetti e fornire misurazioni estremamente accurate, supportando attività di monitoraggio e raccolta di dati.

 Lo sviluppo di queste armi è in costante crescita anche per abbattere i missili ipersonici, infatti le armi laser in teoria sono le uniche in grado di disattivare questi sistemi.

Chi possiede le armi laser e i loro pro e contro?

Gli Stati Uniti, ad esempio, stavano lavorando su sistemi di armi laser, inclusi il Laser Weapon System (LaWS) e il sistema di difesa antimissile a energia diretta (DASER), mentre l'esercito Israliano usa “Iron Beam” come sistema di puntamento nel sistema anti razzi Iron Dome.

Anche Russia e Cina stanno sviluppando armi laser sia per difesa che per attacco. Sviluppare questo tipo di armi può essere vantaggioso perché non usando proiettili, ciascun “colpo” costa meno e le armi hanno una potenza di fuoco virtualmente infinita.

Come contro, ancora non si sanno gli effetti sulla salute a lungo termine delle armi laser, in più hanno un range più ridotto delle armi convenzionali, oltre al fatto che sono sensibili alle condizioni meteo – come tempeste e nebbia.

Per concludere:

 è importante notare che l'efficacia di un'arma laser dipende da tanti fattori, come ad esempio la potenza del raggio laser, la precisione e il tipo di materiale del bersaglio.

Tuttavia, il loro utilizzo è soggetto a regolamentazioni e normative, visto che possono sollevare questioni etiche e legali, specialmente quando si tratta di utilizzo in situazioni di conflitto.

(How Laser Weapons are Changing the Defense Equation)

(High Energy Laser Directed Energy Weapons)

(geopop.it/cosa-sono-le-armi-laser-e-come-vengono-utilizzate-nei-nuovi-contensti-miltari/)

(geopop.it/)

 

 

 

L’era del carbone è davvero finita?

 Lifegate.it – (14 ottobre 2021) - Rudi Bressa – ci dice:

Le centrali italiane si stanno spegnendo, ma il carbone continua ad alimentare alcuni paesi europei e i colossi asiatici. Un ritardo che peserà sui consumatori.

Una lenta, inesorabile agonia.

Pare essere questa la fine a cui sta andando incontro il carbone, uno dei combustibili fossili più inquinanti e dalle maggiori emissioni.

 Almeno in Europa.

Brutto, sporco, ma economico e disponibile, ha segnato e continua a segnare la produzione energetica a livello globale.

Ma il cosiddetto “phase out” (abbandono) sembra ormai iniziato, nonostante i numeri più recenti paiono dire il contrario, tanto da aver spinto l’Europa lo scorso gennaio 2021 a chiederne l’abbandono a livello globale.

 

Il mondo brucia ancora troppo carbone.

Il phase out italiano dal carbone è già cominciato.

Il nodo occupazione dopo l’abbandono del carbone.

La transizione energetica italiana passa dal gas.

Il capacity market. Risorsa o bluff?

Cosa fare delle vecchie centrali, il caso Monfalcone.

 

Carbone.

Il mondo brucia ancora troppo carbone.

Che il carbone sia ormai in forte declino in tutta Europa è un dato di fatto, anche se i segnali sono piuttosto discordanti e causati indubbiamente dalla pandemia prima e dalla ripresa economica dopo.

 Infatti la produzione globale di carbone è scesa solo del 4 per cento nel 2020, a circa 6,9 miliardi di tonnellate.

Tutto il mondo occidentale comunque ha visto una forte contrazione della domanda di carbone, con 390 milioni di tonnellate nel 2020:

 una riduzione del 22 per cento rispetto al 2019.

Al contrario, la domanda del combustibile fossile in Asia è rimasta sostenuta, tanto che la produzione cinese si è attestata a 3.690 milioni di tonnellate, stesso valore del 2019.

Non solo, ma l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), prevede un forte rimbalzo nel 2021 con una domanda globale di carbone in aumento del 4,5 per cento rispetto al 2019.

Ripresa visibile proprio in uno dei più grandi produttori di carbone in Europa dopo la Polonia: la Germania.

Qui la produzione di lignite nel primo trimestre del 2021 è aumentata del 25 per cento rispetto all’anno precedente.

 

(La Cina ha ordinato -da subito -alle sue miniere di aumentare la produzione di carbone!)

Ma è la stessa “Aie” ad affermare, che per raggiungere le emissioni nette entro il 2050, sarà fondamentale cancellare gli investimenti “in nuovi progetti di fornitura a combustibili fossili e nessuna ulteriore decisione di investimento per nuove centrali a carbone”.

A confermare che il trend sia questo c’è il recente annuncio di Enel, uno dei principali provider energetici nazionale ed internazionale:

A livello globale stiamo uscendo da questa tecnologia, secondo un piano che prevede di completare il “phase out” entro il 2027, anticipato di 3 anni rispetto al precedente obiettivo 2030”, spiega a “LifeGate” “Luigi La Pegna”, responsabile “Hydro, geothermal and thermal generation di Enel global power generation”.

 

Centrale Andrea Palladio di Fusina.

Il “phase out” italiano dal carbone è già cominciato.

La tendenza italiana sembra questa.

Infatti nel 2019 il ministero dello Sviluppo economico e del lavoro, in collaborazione con l’allora ministero dell’Ambiente (oggi della Transizione ecologica), aveva deciso la chiusura delle centrali a carbone entro il 2025, in linea con il Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) di allora.

“Non siamo lontanissimi”, spiega a “LifeGate” “Filippo Taglieri”, campaigner di Re:common.

“Anche se ogni centrale ha la sua storia.

Ad esempio quelle di La Spezia e di Fusina sono in chiusura nel 2023, anche se andavano già al minimo.

Civitavecchia invece che abbiamo visitato recentemente ha un solo gruppo funzionante”.

 

In tutto sono ancora otto le centrali funzionanti sul territorio nazionale, che rappresentano circa 8 gigawatt (GW) di capacità installata.

“In Italia per favorire e accelerare l’uscita dal carbone è necessario realizzare un importante piano di sviluppo delle fonti rinnovabili e nuova capacità flessibile in grado di rispondere alle esigenze della rete:

 accumuli e, in alcuni limitati casi, nella misura strettamente necessaria per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale, impianti a gas ad alta efficienza”, sottolinea La Pegna.

Ma se per il responsabile della società energetica è necessario aumentare la quota di rinnovabili e dei sistemi di accumulo, sarà fondamentale anche “ lavorare sull’intera filiera, dalla produzione di energia elettrica al trasporto fino al consumo”, per avere un’elettricità “prodotta sempre più da fonti rinnovabili, e quindi senza emissioni, immessa in reti intelligenti e sempre più resilienti”.

 

(Gasdotto - Italia e transizione energetica, oltre al gas c'è di più).

Nel 2020 i volumi di carbone acquistati e bruciati nelle centrali Enel sono stati complessivamente pari a circa 6 milioni di tonnellate, parte di queste provengono dalla miniera del Cerrejón, in Colombia, definita anche come la “miniera della discordia”.

Come spiega “Re:common” il Cerrejón è una delle più grandi miniere a cielo aperto del mondo, che ha causato negli anni lo spostamento forzato di comunità indigene e afro-colombiane e l’inquinamento diffuso dell’aria e dell’acqua.

 Enel conferma che il gruppo acquista carbone della miniera colombiana Cerrejon, attraverso la società collegata Cmc-Coal Marketing (Cmc), ma che ad oggi sono in essere contratti stipulati in anni precedenti con termine delle consegne entro dicembre 2021.

 In linea con la strategia globale di decarbonizzazione, il gruppo ha acquistato negli ultimi anni quantità di carbone sempre decrescenti che a oggi rappresentano una quota marginale dell’acquisto di combustibili.

 Per quanto concerne la “Cmc” in particolare nel corso di quest’anno 2021 è previsto l’acquisto di circa 9oomila tonnellate di carbone.

 

Carbone.

Nel frattempo la centrale termoelettrica “Federico II di Brindisi”, in funzione fin dal 1997, lo scorso gennaio ha chiuso il primo gruppo.

Ad oggi è tra le centrali più grandi d’Europa, e la seconda più grande in Italia:

con oltre 10 milioni di tonnellate di CO2 emesse ogni anno, si contende il primo posto con la centrale laziale di “Torrecavadaliga Nord” (a Civitavecchia) per emissioni e per valore economico dei danni associati all’inquinamento.

Per lo stesso motivo rientra anche tra le venticinque centrali col più alto impatto ambientale d’Europa, come riportato dal think tank “Beyond Coal”.

“A fine 2019 Enel ha chiuso la centrale di “Bastardo”, a fine 2020 ha chiuso il “Gruppo 2 “della centrale Federico II di Brindisi mentre i “gruppi 1 e 2” della Andrea Palladio di Fusina saranno dismessi a fine di questo anno (2021, ndr), in linea con le autorizzazioni delle autorità competenti”, conferma “La Pegna”.

 

 

Il nodo occupazione dopo l’abbandono del carbone.

Negli ultimi mesi ha però tenuto banco il nodo occupazionale, sia per quanto riguarda Brindisi che Civitavecchia, due dei poli più grandi del settore energetico del paese.

“L’impatto sui lavoratori era già stato annunciato e lo si è notato con il calo della domanda di energia”, spiega Taglieri.

 “Sicuramente c’è un problema perché occorre ricollocare i lavoratori: le centrali a turbogas hanno bisogno della metà dei dipendenti, anche se la società non dovrebbe avere problemi a ricollocare numeri che sono dell’ordine di qualche centinaio di persone”.

Attualmente la Federico II di Brindisi occupa circa 300 persone dirette, e la prossima chiusura significherebbe la perdita dell’indotto che si basa sulle attività legate alla movimentazione del carbone e quindi anche sulle attività portuali, oltre alla manutenzione e alla logistica.

 

(Carbone. La centrale a carbone di Brindisi.)

Per quanto riguarda Civitavecchia, la posizione dei sindacati e della Regione Lazio parrebbe orientata ad una riconversione “verde” della centrale.

 Per la Cisl Lazio “l’impulso per la svolta energetica dovrebbe partire da una modernizzazione della rete elettrica e da incentivi che permettano una transizione sempre più consistente verso la scelta di energie rinnovabili”.

 

Centrale di carbone in Germania.

Chi ha promesso di abbandonare il carbone nel mondo.

Un discorso a parte andrebbe fatto per la Sardegna, dove sono ancora operative le centrali Porto Torres e di Portovesme.

 La proposta che arriva sia dal governo, da Terna (gestore della rete elettrica) e da Enel (proprietaria degli impianti in questione) è quella di fare della regione “una vera a propria ‘isola verde’ entro il 2030, attraverso una produzione energetica a zero emissioni e l’elettrificazione di attività e consumi”, spiega La Pegna.

“In considerazione di alcune caratteristiche specifiche del territorio, come un utilizzo praticamente nullo di gas e una previsione di un significativo incremento della connessione elettrica con la penisola grazie alla realizzazione di un nuovo collegamento (Thyrrenian Link), l’azienda ha proposto per la Sardegna di passare direttamente ad un’alimentazione energetica da sole fonti rinnovabili supportate da sistemi di accumulo”.

 

(Carbone.

Per gli analisti di “Carbon Tracker” i piani di costruzione di nuove centrali a gas in Italia potrebbero mettere a rischio gli obiettivi climatici.)

La transizione energetica italiana passa dal gas.

Nonostante le proposte in essere e un’apparente volontà di ulteriore sviluppo delle rinnovabili, la conversione energetica dell’Italia è tutta concentrata sul gas naturale come “combustibile di transizione”.

Per sopperire all’uscita dal carbone, le utility prevedono infatti di costruire, nel prossimo decennio, nuove centrali a gas per una capacità complessiva di 14 GW, di cui 5,8 GW sono già garantiti da contratti di approvvigionamento aggiudicati nel mercato della capacità (capacity market) e che dovrebbero entrare in servizio entro il 2023.

 

“Lo sviluppo di capacità flessibile a gas, nella misura strettamente necessaria per la stabilità e la sicurezza del sistema elettrico nazionale, è indicato dal “Pniec” come strumento di medio periodo indispensabile e necessario per una adeguata e progressiva transizione verso la generazione basata sempre più su fonti rinnovabili”, spiega La Pegna.

“Sarà l’effettiva evoluzione del sistema elettrico nazionale dei prossimi anni a determinare per quanto tempo saranno necessari questi impianti per la sicurezza e la stabilità della rete, ma si tratta di una tecnologia transitoria che va a supporto di un modello più sostenibile con l’obiettivo di una generazione completamente da fonti rinnovabili”.

 

(Impianto eolico).

Pnrr, come evitare il rischio di un'occasione sprecata.

Ma per gli analisti di Carbon Tracker i piani di costruzione di nuove centrali a gas in Italia potrebbero mettere a rischio gli obiettivi climatici del paese e comportare perdite fino a 11 miliardi di euro in investimenti, mancando l’occasione di ridurre i consumi domestici di energia elettrica.

È piuttosto interessante notare come già ad aprile 2021 gli esperti del think tank avvisavano che “se l’Italia continua a puntare sulla generazione di energia elettrica tramite le centrali a gas anziché su soluzioni basate su energia pulita a basso costo, i consumatori vedranno un aumento in bolletta”.

 

Non solo, ma un recente rapporto del” Centre for research on energy and clean air” (Crea), dal titolo “Ripe for closure: accelerating the energy transition and saving money by reducing excess fossil fuel capacity”, mostra come nove degli Stati europei, tra cui l’Italia, potrebbero da subito chiudere le centrali a combustibili fossili per un totale di 48,8 GW di potenza installata senza mettere a rischio le forniture di elettricità per famiglie ed imprese.

Si tratta di ben il 17 per cento di tutta la potenza installata in centrali fossili in Europa.

 Con il pensionamento anticipato delle centrali non necessarie, il risparmio dei costi fissi operativi e di manutenzione sarebbe di quasi 2 miliardi di euro l’anno.

 

Il capacity market. Risorsa o bluff?

Ad essere sotto accusa è il mercato della capacità:

 approvato nel 2019, è nato con l’obiettivo di affiancare la progressiva dismissione delle centrali a carbone tutelando al tempo stesso la capacità della rete di garantire adeguate forniture programmabili di energia elettrica. Il meccanismo introdotto da questo mercato punta a remunerare i grandi impianti in base alla loro disponibilità a produrre energia in caso di necessità o, in alternativa, a premiare gli operatori della gestione della domanda per la disponibilità a ridurre i consumi.

“Si tratta di remunerare gli impianti termici indipendentemente dalla quantità di energia che producono”, spiega a LifeGate Matteo Leonardi, co-fondatore di “Ecco”, think tank indipendente.

 “Questo sistema porta ad acquisire nuova capacità, con un incentivo a costruire nuove centrali indipendentemente che vengano usate o meno”.

Si tratterebbe dunque di un sistema che incentiva in modo sproporzionato, premiando la produzione elettrica da parte di impianti a gas, esistenti e nuovi.

Nel frattempo “le nuove aste per attribuire i sussidi per il 2024 e 2025 previste in estate sono state rimandate, ma probabilmente di poco”, spiega “Re:common” in una nota stampa.

“Oltre che calmierare i sovrapprezzi nelle bollette elettriche – per altro dovuti all’aver puntato in maniera ottusa solo sul gas negli ultimi anni – una autentica transizione ecologica che sia anche giusta richiederebbe di fermare subito le nuove centrali a gas senza se e senza ma”.

Cosa fare delle vecchie centrali, il caso Monfalcone.

Altro nodo cruciale sono le bonifiche e le riconversioni dei siti produttivi, una volta saranno dismessi.

 “Si tratta di riqualificare gli impianti in un’ottica di economia circolare, valorizzando le aree su cui sorgono le strutture e riutilizzando, laddove possibile, materiali e parti degli impianti stessi, per ridurre il consumo di materie prime”, spiega La Pegna.

 Un esempio virtuoso lo si può trovare nella centrale spagnola Teruel, in Andorra che prevede un investimento di oltre 1.487 milioni di euro e ha l’obiettivo finale di installare 1.725 MW di energia rinnovabile, di cui 1.585 MW da energia solare, facendone il più grande impianto in costruzione per tale tecnologia in Europa, e 140 MW da energia eolica, oltre ad un sistema di accumulo di energia su larga scala fino a 160 MW.

 

“In Italia per il sito di Porte Tolle in Veneto è stato siglato un preliminare di vendita con un “gruppo del turismo open air “per realizzare un innovativo villaggio ricettivo;

 completate le attività propedeutiche sono ad oggi in corso le demolizioni sugli asset on funzionali al progetto di sviluppo”, continua La Pegna.

“L’ex centrale di Carpi è già stata trasformata in un moderno polo logistico, mentre per i siti a carbone che dovranno essere dismessi entro il 2025 l’obiettivo è dar vita a poli energetici integrati in cui convivano rinnovabili, sistemi di accumulo e impianti gas”.

La società ha inoltre dato vita ad” Enel Logistics”, società che opera in Italia per il recupero e la valorizzazione di aree e strutture esistenti all’interno di siti industriali del gruppo, situati nelle vicinanze di luoghi strategici come porti, aeroporti e interporti, da riconvertire a depositi doganali per la logistica, la movimentazione e lo stoccaggio di merci.

 “L’obiettivo è attirare nuovi flussi di merci in Italia e al contempo intercettare parte di quei flussi che oggi transitano nel Mediterraneo e che, per mancanza di infrastrutture, proseguono verso il Nord Europa”, specifica La Pegna.

 

Cosa accadrà invece alle centrali a carbone di La Spezia, Fusina, Brindisi e Civitavecchia?

“ A luglio 2020 abbiamo lanciato quattro concorsi, ‘Nuovi spazi per l’energia’, chiedendo ad architetti e designer di disegnare il nuovo volto delle quattro centrali.

Ai partecipanti è stato chiesto di progettare nuovi poli energetici in cui convivranno fonti rinnovabili (solare fotovoltaico), batterie per l’accumulo di energia e, nella misura strettamente necessaria al sistema elettrico nazionale, impianti a gas ad altissima efficienza sempre più integrati con l’ambiente circostante, grazie a soluzioni che ridurranno l’impatto paesaggistico disegnando un’idea nuova e aperta di centrale elettrica, prevedendo anche degli spazi a disposizione delle comunità locali”, continua il responsabile di Enel.

 “I concorsi sono portati avanti in collaborazione con le Università di Genova, lo Iuav di Venezia, della Tuscia e del Salento”.

 Sono stati circa 350 tra studi di architettura e professionisti ad aver manifestato interesse per i concorsi, per i quali è stata favorita la partecipazione di giovani talenti.

 I progetti proposti sono stati valutati sulla base dei criteri e principi del bando e da una commissione formata da rappresentanti del gruppo e istituzioni e università dei territori coinvolti.

 Al momento sono stati aggiudicati i concorsi di Fusina, Civitavecchia e Brindisi.

 

(Una centrale eolica on shore in costruzione.

L’idea per la riconversione delle centrali a carbone è di l’obiettivo è di dar vita a poli energetici integrati in cui convivano rinnovabili, sistemi di accumulo.)

Piuttosto emblematica è invece la situazione della centrale di Monfalcone in provincia di Gorizia e ubicata lungo la sponda orientale del canale Valentinis, e che sorge su un’area di circa 30 ettari, occupando un terzo della banchina del porto.

Da circa un anno produce al minimo e la chiusura è prevista entro il 2025.

 La proprietà A2A ha proposto di convertire il sito in una centrale di 850 MW alimentata a gas e lo scorso fine settembre i ministeri della Transizione ecologica e quello della Cultura hanno dato il via libera al progetto.

All’idea di conversione si è strenuamente opposta l’amministrazione comunale che critica il progetto:

 “La realizzazione di un nuovo impianto di generazione a gas a Monfalcone trova convenienza solamente per il meccanismo del capacity market che, mettendo a disposizione una cifra di 900 milioni, praticamente doppia del valore dell’investimento, consente alla società una vantaggiosa operazione finanziaria, pagata dalla città al prezzo sociale di una produzione di CO2 triplicata”, spiega il sindaco Anna Maria Cisint in una nota dello scorso 4 ottobre.

 

Secondo il think tank “Ecco”, si tratta di un’area che ha già pagato a caro prezzo, anche sulla salute e sulla qualità dell’aria, la presenza di una centrale a carbone, e che oggi potrebbe riscattarsi con una “giusta transizione”, ma che invece non solo rischia di non avvantaggiarsi delle politiche di uscita dal carbone, ma di trovarsi una centrale molto più grande che quando accesa emetterebbe emissioni dannose paragonabili a quelle della precedente.

C’è poi il nodo occupazione: una centrale di queste dimensioni prevede l’impiego di 30 persone rispetto alle attuali 130.

 Invece il progetto del Comune avrebbe un indotto di oltre 4mila unità solo prevedendo lo spostamento del 10 per cento del traffico crociere di Venezia, e senza calcolare tutte le ricadute positive sul turismo.

”Le prospettive di occupazione sono nei territori non sul gas. Monfalcone ha detto no, perché vorremmo vedere attivata la capacità di crescita locale”, conclude Matteo Leonardi di Ecco.

“Se non lo si fa lì, dove dovremmo farlo?”.

(Questo articolo è stato realizzato col supporto del “Clew – Clean Energy Wire).

(Licenza Creative Commons).

 

 

 

 

L'ERA DEL DIESEL È QUASI FINITA PER BMW:

L'AZIENDA TEDESCA SI PREPARA AL FUTURO.

 

Auto.everyey.it - Lorenzo Fiorentino – (13/05/2024) – ci dice:

 

 Il futuro del settore automotive sembra essere ormai già segnato; beh, più o meno...

Il cammino della transizione, infatti, si è rivelato essere molto più difficoltoso di quanto pronosticato, ma dall'altra parte anche un determinato motore termico inizia a calare nelle vendite, spazientendo BMW.

L'Unione Europea sognava una mobilità completamente ecologica a partire dal 2035.

Ecco, questo sogno probabilmente rimarrà tale.

 Al momento non sembrano esserci le caratteristiche necessarie, sia di mercato che di produzione, per dare vita a una transizione di tale portata.

 Comunque, è sicuro che l'ambizione green non verrà accantonata, o perlomeno non verrà accantonata del tutto.

Sul lato produttivo, invece, sono stati molti i produttori che hanno sposato, anche perché in qualche modo costretti, il sogno di un mondo automotive a emissioni zero, annunciando varie date in cui le loro gamme avrebbero eliminato i tradizionali (e inquinanti) propulsori termici.

Tra queste aziende non c'era BMW (La nuova BMW X4 su base Neue Classe X).

O meglio: il brand di Monaco di Baviera ha deciso di andarci piano con la transizione, modelli elettrici sì, ma senza rinunciare a quelli termici, alimentati sia a benzina che con il gasolio.

Ma è proprio quest'ultimo carburante che inizia a dare qualche problema.

Il diesel, infatti, sembra non rendere più quanto prima sul mercato e adesso BMW sta pensando se prendere dei provvedimenti.

 I risultati deludenti li rivela l'Acea (l'associazione dei costruttori europei), secondo cui nel 2023 i modelli con motore diesel hanno raggiunto una quota di mercato del 13,6%, inferiore rispetto a quella delle auto elettriche già in calo.

 Dall'inizio dell'anno corrente allo scorso marzo, invece, quella percentuale è ulteriormente scesa a 12,8%;

un declino costante, e secondo l'azienda bavarese non si tratta solamente di un trend momentaneo, ma di una discesa che non avrà rialzi e le cause sono i nuovi sistemi ibridi e il miglioramento dei motori a benzina.

La soluzione, quindi, secondo BMW, è quella di continuare a produrre ancora modelli alimentati a gasolio, ma di diminuirli sistematicamente con l'avanzare del tempo (BMW, svelate le 40 nuove auto in uscita: 'Incredibili, Tesla dovrebbe iniziare a tremare'). (MOTOR).

Auto diesel ora è la fine,

arriva la svolta epocale in Italia:

non era mai successo.

Fuoristrada.it – (Giugno 29, 2024) - Angelo Papi – ci dice:

Svolta per quanto concerne il mondo del diesel: cambia tutto con i vecchi carburanti in Italia e adesso si va incontro ad un cambiamento epocale.

Per lunghi tratti il diesel è stata una delle tipologie di auto più utilizzate sul mercato internazionale, potendo offrire prezzi più convenienti della benzina e consumi più moderati.

Con il tempo si è andato quasi equiparando e ora la sua fine è vicina.

Per quanto riguarda la mobilità su gomma siamo arrivati ad un punto di svolta, che riguarda non solo il nostro paese.

Si perché i carburanti tradizionali, come sentito annunciare da più parti, sono destinati a scomparire.

 Si va verso una rivoluzione totale in favore dell’elettrico e dell’ecologico, con benzine in grado di garantire zero emissioni.

 L’ibrido è ormai la realtà maggiormente gradita per i nuovi acquisti di auto e il futuro a breve medio termine sembra essere nelle sue mani.

Ma cosa ne sarà del tanto diffuso diesel?

Per anni è stata la scelta più gettonata, garantendo migliori consumi della benzina e prestazioni ormai quasi alla pari.

Dopo lo scandalo che ha colpito il marchio Volkswagen, relativo proprio alle emissioni, è iniziato un declino che sembra inarrestabile.

 

Tutte le case costruttrici hanno impostato un discorso diverso e questo sta portando alla fine dell’era diesel.

 Ora anche in Italia il tema è piuttosto chiaro e si arricchisce di una svolta da non sottovalutare.

In particolare facciamo riferimento alla Regione Veneto e alla sua decisione di annullare i rifornimenti per i motori a gasolio, in un’ottica di abbattimento delle emissioni di CO2.

 

Addio al diesel tradizionale: la variante HVO è già presente in Italia.

Nello specifico nell’area di Costantin di Merlara, nella provincia di Padova, nascerà il primo distributore di biodiesel, che fornirà solo diesel HVO di nuova generazione. Quindi a cominciare da questa stazione di servizio non sarà più possibile fare rifornimento con il diesel classico.

Novità sul fronte dei diesel

Per il diesel non sarà più come una volta (Fuoristrada – ANSA)

La sigla del nuovo HVO sta ad indicare l’”Hydrogenated Vegetable Oil”, un carburante basato sul vegetale idrogenato, che nasce dal recupero di materie prime rinnovabili.

Fino ad oggi in Italia sono state allestite 24 stazioni di servizio in grado di erogarlo, che stanno prendendo il posto dei normali distributori.

 Un primo passo verso una sostituzione definitiva dei carburanti che riguarderà tanto il nostro paese quanto gli altri.

A livello europeo il benchmark del 2035 per l’abbattimento dei motori benzina e diesel resta valido e oltre all’elettrico si punterà proprio sui carburanti ecologici, per riutilizzare anche i motori esistenti senza doverli mandare per forza in pensione.

Il futuro è dietro l’angolo.

La Cina è fuori strada rispetto

 a tutti gli impegni chiave sul clima

 mentre continuano le approvazioni

 per l’energia a carbone.

  Globalenergymonitor.org – (21 Febbraio 2024) – Redazione – ci dice:

 

La Cina è fortemente lontana dal raggiungere diversi obiettivi climatici fissati dal paese per il 2025 a causa dell’aumento dell’uso del carbone e degli investimenti nell’energia a carbone, rileva un nuovo rapporto Centro di ricerca su energia e aria pulita più Monitoraggio globale dell'energia.

Raggiungere la maggior parte degli obiettivi è ancora possibile, ma richiede un’azione determinata.

Il rapporto mostra che la Cina ha approvato almeno 106 gigawatt (GW) di capacità di energia da carbone e ha iniziato la costruzione di 70 GW nel 2023, accelerando ulteriormente il ritmo frenetico di autorizzazioni visto nel 2022, l’equivalente di due nuove centrali a carbone a settimana, oltre ad avviare la costruzione di un nuovo impianto a settimana.

La Cina ha inoltre commissionato 47 GW di capacità alimentata a carbone e ha annunciato 108 GW in nuovi progetti nel 2023.

A seguito della sua “L’impegno per il 2021” di “controllare rigorosamente” la nuova energia a carbone, le approvazioni cinesi di nuove centrali elettriche a carbone sono quadruplicate tra il 2022 e il 2023, rispetto al precedente periodo di cinque anni tra il 2016 e il 2020.

Dall’inizio del 2022 sono stati autorizzati circa 218 GW di nuove centrali a carbone. 89 GW di questa capacità aveva già iniziato la costruzione alla fine del 2023, mentre altri 128 GW dovevano ancora essere avviati.

L’impegno a “controllare rigorosamente” la nuova energia a carbone è solo uno degli impegni climatici che la Cina sta lottando per rispettare.

L’impegno determinato a livello nazionale (NDC) della Cina ai sensi dell’accordo di Parigi si impegna a limitare rigorosamente la crescita del consumo di carbone; ridurre l'intensità energetica; e ridurre l’intensità del carbonio.

 I piani quinquennali del Paese fissano inoltre obiettivi di aumento della quota di combustibili non fossili al 20% del mix energetico e di derivazione di oltre il 50% dell'aumento del consumo energetico da fonti rinnovabili.

Tutti questi obiettivi sono gravemente fuori strada dopo il 2023, sulla base di un’analisi CREA per Carbon Brief.

La diffusione dell’energia pulita da parte della Cina ha subito un’accelerazione drammatica nel 2023.

 La maggior parte degli obiettivi climatici del Paese per il 2025 possono ancora essere raggiunti se si mantiene questo ritmo accelerato, la crescita della domanda di energia ritorna ai livelli pre-Covid e i permessi per nuove centrali a carbone vengono rivisti.

“Lauri Myllyvirta”, analista capo, “CREA”:

“Il governo cinese è orgoglioso di aver rispettato o superato in modo affidabile i suoi precedenti impegni sul clima.

Tuttavia, la modalità di crescita economica ad alta intensità di energia e carbonio durante e dopo l’emergenza Covid-2023 ha portato il Paese fuori strada rispetto ai suoi obiettivi attuali, minacciando di minare la credibilità della Cina.

 Tuttavia, l’espansione record dell’energia pulita e dello stoccaggio di elettricità nel XNUMX offre l’opportunità di invertire la rotta”.

“Flora Champenois”, analista di ricerca, “Global Energy Monitor”:

“I permessi per gli impianti a carbone in corso in Cina e il boom edilizio continuano a essere in contrasto con l’impegno del presidente “Xi” di controllare rigorosamente i nuovi progetti di energia a carbone, e al passo con il resto del mondo.

Sovraccaricare il carbone “per ogni evenienza” e con un approccio del tipo “ci occuperemo più tardi” è una scommessa costosa e rischiosa, soprattutto quando sono disponibili soluzioni alternative per raggiungere gli obiettivi e affrontare la sicurezza energetica”.

(Lauri Myllyvirta, analista capo, CREA; lauri@energyandcleanair.org

Flora Champenois, analista di ricerca, Global Energy Monitor; flora.champenois@globalenergymonitor.org)

Nota ai redattori:

L'analisi dei progressi della Cina rispetto agli obiettivi climatici del 2025 è pubblicata su “Carbon Brief “contemporaneamente al rapporto GEM-CREA: Analisi:

 calo record delle emissioni di CO2 della Cina necessarie per raggiungere l'obiettivo del 2025.

(carbonbrief.org/analysis-record-drop-in-chinas-co2-emissions-needed-to-meet-2025-target/)

 

Informazioni su Centro Ricerche sull'Energia e l'Aria Pulita (CREA).

“CREA” è un’organizzazione di ricerca indipendente focalizzata sulla rivelazione delle tendenze, delle cause e degli impatti sulla salute, nonché sulle soluzioni all’inquinamento atmosferico.

Utilizziamo dati scientifici, ricerche e prove per sostenere gli sforzi di governi, aziende e organizzazioni di campagna in tutto il mondo nei loro sforzi per spostarsi verso energia pulita e aria pulita. 

(energyandcleanair.org) 

(Global Energy Monitor (GEM) sviluppa e condivide informazioni a sostegno del movimento mondiale per l'energia pulita.

Studiando l'evoluzione del panorama energetico internazionale e creando database, rapporti e strumenti interattivi che migliorano la comprensione, GEM cerca di costruire una guida aperta al sistema energetico mondiale.)

 

 

 

 

Energia- In Cina il carbone

torna a correre.

Focus.it – (3-5-2022) – Redazione – Luigi Bignami – ci dice:

 

Nonostante le promesse della COP26, la Cina e altri Paesi asiatici continuano a investire in centrali a carbone.

(Infatti il carbone è la più economica fonte di energia! N.D.R.)

Nonostante le molte iniziative che la Cina sta prendendo per produrre energia da fonti rinnovabili, il Paese è responsabile di più della metà delle centrali a carbone in costruzione su tutto il Pianeta.

 Durante l'ultima Conferenza delle Parti per il clima, la COP26, quasi 200 Paesi avevano "promesso" di ridurre l'utilizzo del carbone, seppure in modo graduale e differenziato, ma la realtà dice che la situazione non sta ancora prendendo la strada giusta.

Secondo i dati della “Global Energy Monitor”, un gruppo di ricerca senza scopi di lucro, si scopre che a livello globale il numero di centrali a carbone sta aumentando:

il numero di quelle in costruzione è superiore a quelle dismesse o in dismissione.

ALLA CINA IL RECORD.

Il maggior numero di centrali a carbone in fase di costruzione si trova in Asia, con la Cina che produrrà il 52% dei 176 gigawatt programmati per il futuro da una ventina di Paesi asiatici.

La proiezione è leggermente diminuita rispetto a quanto si ipotizzava nel 2020, quando si parlava di centrali per 181 gigawatt, ma, spiega “Lauri Myllyvirta” (Center for Research on Energy and Clean Air),

«stiamo assistendo a una situazione paradossale:

quasi ovunque al di fuori della Cina i piani per costruire nuove centrali elettriche a carbone sono stati drasticamente ridimensionati, mentre le aziende cinesi hanno continuato ad annunciare nuove centrali e da parte del Governo vi è un chiaro sostegno a loro favore».

 Stando agli analisti, non ci si aspetta che la Cina cambi rotta sul carbone nel vicino futuro, anche se sono stati bloccati i finanziamenti per progetti per la costruzione di centrali a carbone in altri Paesi per un totale di 13 gigawatt e impianti per altri 37 gigawatt potrebbero non trovare sostegno.

RECORD DELL'USO DEL CARBONE.

In ogni caso vi è un altro dato che preoccupa:

l'anno scorso è stata bruciata una quantità record di carbone, probabilmente a causa dell'aumento di prezzo del gas.

Tuttavia, benché anche il gas sia un combustibile fossile è comunque auspicabile che torni a essere conveniente rispetto al carbone, che resta il combustibile peggiore per quel che riguarda le emissioni di anidride carbonica. (Luigi Bignami)

(È molto strano che nei ricchi paesi occidentali si ritenga che la fonte di energia del carbone sia “La peggiore” esistente! N.D.R.)

 

Corea del Sud: Sviluppata la Prima

Tecnologia di Controllo Mentale Remoto.

Conoscenzeaconfine.it - 26 Luglio 2024) – Redazione – ci dice:

La prima” tecnologia di controllo mentale remoto” al mondo è stata sviluppata in Corea del Sud.

È previsto l’utilizzo di un dispositivo remoto per il controllo mentale “a lungo raggio” e “ad alto volume” per procedure mediche “non invasive”.

L’hardware manipola il cervello a distanza utilizzando campi magnetici.

Gli scienziati hanno testato la tecnologia inducendo istinti “materni” nei topi femmine.

In un altro esperimento, hanno esposto un gruppo di topi da laboratorio a campi magnetici progettati per ridurre l’appetito, provocando una perdita del 10% del peso corporeo, ovvero circa 4,3 grammi.

“Questa è la prima tecnologia al mondo in grado di controllare liberamente aree specifiche del cervello utilizzando campi magnetici”, afferma il professore di chimica e nanomedicina che ha contribuito a condurre il nuovo lavoro.

Il ricercatore, il dottor Jeong Jinwoo,” ha affermato che si aspetta che le nuove apparecchiature vengano utilizzate in una varietà di aree dell’assistenza sanitaria, dove afferma che sono “disperatamente necessarie”.

Ci aspettiamo che venga ampiamente utilizzato nella ricerca per comprendere le funzioni cerebrali e le complesse reti neurali artificiali.

(Il futuro che ci aspetta se non ci svegliamo… nota di conoscenze al confine)

(t.me/VociDallaStrada).

 

La Cina presenta un ambizioso piano per dimezzare le emissioni di energia elettrica dal carbone entro il 2027

grazie a nuove tecnologie.

 Esgnews.com – Redazione - Notizie ESG · (Luglio 16, 2024) – ci dice:

Tecnologie innovative:

La Cina sperimenterà impianti a carbone utilizzando ammoniaca verde, biomassa e cattura del carbonio.

Obiettivi di emissione: Puntare a una riduzione del 50% dell’intensità di carbonio entro il 2027.

Strategia economica:

Integrazione con progetti di energia rinnovabile e sostegno finanziario da parte delle istituzioni.

La Cina ha annunciato un piano globale per ridurre le emissioni di carbonio nel suo settore energetico a carbone, sottolineando l’uso di tecnologie innovative come l’ammoniaca verde, la biomassa e la cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio (CCUS).

L’iniziativa mira a trasformare il settore dell’energia elettrica dal carbone, ad alta intensità di carbonio, che rimane la fonte di energia primaria nel principale consumatore di energia del mondo.

Il piano, pubblicato congiuntamente dalla “Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma” (NDRC) e dalla “Amministrazione nazionale per l’energia” (NEA), delinea una tabella di marcia per l’implementazione di queste tecnologie per ridurre le emissioni di carbonio del 20% entro il 2025 e del 50% entro il 2027 rispetto ai livelli del 2023.

Tecnologie innovative.

La Cina sperimenterà le tecnologie di decarbonizzazione in centrali elettriche a carbone selezionate.

La NDRC ha invitato i governi provinciali e le imprese statali a nominare progetti per questa iniziativa, segnando il primo programma nazionale centralizzato rivolto alle centrali elettriche a carbone con queste tecnologie avanzate.

La dichiarazione della NDRC, rilasciata il 15 luglio, il primo giorno del 20° Terzo Plenum cinese, sottolinea l'importanza di questo incontro politico incentrato sulle riforme economiche.

Il piano prevede la co-combustione del carbone con biomassa e ammoniaca verde, derivata da idrogeno rinnovabile, e l’implementazione delle tecnologie CCUS.

“Miscelare carbone con biomassa e ammoniaca verde può ridurre significativamente le emissioni, anche se permangono sfide nell’approvvigionamento e nei costi del carburante.", ha affermato “Shen Xinyi”, analista del Centro per la ricerca sull'energia e l'aria pulita.

Obiettivi di emissione.

Il governo ha fissato un punto di riferimento per le emissioni di carbonio del settore energetico a carbone, confrontandole con l’elettricità generata dal gas naturale.

 Entro il 2027, l’obiettivo è che le emissioni delle centrali a carbone raggiungano quelle delle centrali a gas.

“Ridurre del 50% l’intensità di carbonio delle centrali a carbone le porterà vicino ai livelli di emissione delle centrali elettriche a gas,"ha affermato la NDRC.

L'iniziativa mira a migliorare l'utilizzo dei megaprogetti di energia rinnovabile, in particolare quelli nelle remote aree desertiche della Cina.

Questi progetti devono far fronte a bassi tassi di utilizzo a causa della mancanza di reti di trasmissione di energia a lunga distanza.

La produzione di ammoniaca verde può creare una domanda localizzata per l’energia rinnovabile in eccedenza, integrandosi con gli sforzi di decarbonizzazione del settore energetico a carbone.

Strategia economica

Il piano cinese incoraggia le autorità locali a sostenere e sovvenzionare progetti a basse emissioni di carbonio, nonostante le preoccupazioni degli analisti sulla fattibilità e sugli alti costi di implementazione delle nuove tecnologie.

“Le centrali elettriche a biomassa in Cina non sono finanziariamente sostenibili senza sussidi,” osservò “Shen”.

Le istituzioni finanziarie sono esortate a sostenere questi progetti pilota per garantirne il successo.

L’agenda del Terzo Plenum prevede l’accelerazione dell’implementazione delle tecnologie di decarbonizzazione nei settori ad alta intensità di emissioni.

 Ciò è in linea con l’iniziativa “Nuove forze produttive” del presidente “Xi Jinping”, che sostiene l’uso di nuove tecnologie e innovazione per migliorare le industrie convenzionali e stimolare la crescita economica.

(La Cina domina già la costruzione mondiale di energia eolica e solare).

Il sistema di scambio delle emissioni (ETS) della Cina copre anche le centrali elettriche alimentate a carbone, fissando obiettivi annuali per ridurre l’intensità di carbonio.

 L’annuncio della “NDRC” potrebbe segnalare una richiesta di “obiettivi ETS” più rigorosi e di un finanziamento più rapido delle tecnologie di decarbonizzazione. “Questo annuncio mette in discussione il fatto che il Ministero dell’Ambiente sia troppo indulgente con gli obiettivi ETS e troppo lento nel finanziare le tecnologie di decarbonizzazione di frontiera.” ha detto a “S&P Global Commodity Insights” un analista energetico con sede in Cina.

L’audace piano di decarbonizzazione della Cina per il settore energetico a carbone rappresenta un passo significativo verso un futuro più verde.

Sfruttando tecnologie innovative, fissando obiettivi ambiziosi in materia di emissioni e integrando progetti di energia rinnovabile, la Cina mira a trasformare il proprio panorama energetico e a ridurre le sue sostanziali emissioni di gas serra.

 

 

 

 

La Cina domina la costruzione

mondiale di energia eolica e solare.

Esgnews.com – Redazione-   Notizie ESG · (Luglio 12, 2024) – ci dice:

 

La Cina è in testa con 339 GW di energia solare ed eolica in costruzione, quasi il doppio del resto del mondo.

Il solare e l’eolico rappresentano ora il 37% della capacità elettrica totale della Cina, destinata a superare il carbone nel 2024.

La rapida crescita delle energie rinnovabili in Cina suggerisce un potenziale picco anticipato delle emissioni di carbonio prima del 2030.

L’impennata delle rinnovabili in Cina:

La Cina sta consolidando la sua posizione di leader globale nel settore delle energie rinnovabili con 180 GW di energia solare e 159 GW di energia eolica attualmente in costruzione.

Secondo il Global Energy Monitor (GEM), questi 339 GW combinati sono quasi il doppio di quelli del resto del mondo messo insieme e sufficienti ad alimentare tutta la Corea del Sud.

 

Crescita significativa nel 2023:

Nel 2023, la Cina ha aggiunto quasi il doppio della capacità solare ed eolica su scala industriale rispetto a qualsiasi anno precedente.

Entro il primo trimestre del 1, la capacità totale della Cina, compreso il solare distribuito, ha raggiunto 2024 GW.

L’eolico e il solare rappresentano ora il 1,120% della capacità elettrica totale della Cina, con un aumento dell’37% rispetto al 8, e si prevede che supereranno la quota del 2022% del carbone nel 39.

 

Espansione solare distribuita:

La capacità solare della Cina è cresciuta di più nel 2023 rispetto ai tre anni precedenti messi insieme, con il solare distribuito in testa.

Quasi la metà dell’energia solare distribuita aggiunta nel 2023 è stata installata sui tetti residenziali, seguendo il modello “solare dell’intera contea”.

 Il solare distribuito rappresenta ora il 41% della capacità solare totale, crescendo più rapidamente del solare centralizzato dal 2021 grazie ai costi inferiori e al forte sostegno politico.

 

Rimbalzo dell’energia eolica:

Dopo un breve rallentamento nel 2022, l’installazione di energia eolica è raddoppiata nel 2023.

 Il Global Wind Power Tracker di GEM ha registrato un aumento di 51 GW della capacità eolica dal 2023, superando la capacità totale di qualsiasi paese ad eccezione degli Stati Uniti.

Proiezioni future:

La Cina è sulla buona strada per raggiungere 1,200 GW di capacità eolica e solare installata entro la fine del 2024, sei anni in anticipo rispetto al suo impegno. Sebbene la Cina non abbia firmato l’impegno COP28 di triplicare le energie rinnovabili, sostiene l’obiettivo e mira a triplicare la propria capacità di energia rinnovabile entro il 2030.

 

Sfide in arrivo:

Nonostante la rapida crescita, la Cina deve affrontare sfide nell’integrazione delle energie rinnovabili nella sua rete incentrata sul carbone.

 L’intermittenza delle energie rinnovabili e la limitata capacità di trasmissione sono questioni chiave.

 I tassi di riduzione hanno superato il 5% a livello nazionale nel marzo 2024, con alcune province che hanno superato il 10%.

 

Responsabili provinciali:

Le province nordoccidentali e settentrionali dominano gli impianti solari ed eolici su larga scala, mentre le province centrali e meridionali sono leader nel solare distribuito.

L’energia eolica offshore sta crescendo rapidamente, con province come il Fujian che stanno facendo progressi significativi.

Prospettive sulle emissioni di carbonio:

Uno studio condotto da “Lauri Myllyvirta” dell’”Asia Society Policy Institute” suggerisce che le emissioni di CO2 della Cina potrebbero aver raggiunto il picco nel 2023, con il 90% dell’aumento della domanda di energia soddisfatto dall’energia eolica e solare.

Tuttavia, i funzionari cinesi mirano a raggiungere il picco non prima del 2030 per sostenere l’elettrificazione di altri settori ed evitare costi irrecuperabili dell’energia a carbone.

(L'ente regolatore cinese lancia il primo centro tecnico per il carburante sostenibile per l'aviazione (SAF) del Paese)

La spinta incessante della Cina nella costruzione di energia eolica e solare garantisce che rimarrà il leader globale nel settore delle energie rinnovabili, determinando significative riduzioni delle emissioni di carbonio e stabilendo un punto di riferimento per il resto del mondo.

 

 

 

Da dove viene la nostra energia.

Repubblica.it -Redazione - Italy for Cimate – (14-3-2022) - ci dice:

Petrolio, gas e carbone: oggi l'Italia è dipendente dall'estero per il 77% dell'energia che consumiamo

Da alcuni anni il gas ha superato il petrolio diventando la prima fonte energetica in Italia.

Le rinnovabili sono cresciute arrivando a soddisfare il 19% del fabbisogno energetico nazionale, il carbone e l'import elettricità contribuiscono in modo minore.

Nel 2021 più di tre quarti della domanda di energia in Italia è stata soddisfatta da import dall'estero di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) e meno di un quarto da produzione nazionale (principalmente rinnovabili).

La dipendenza energetica dell'Italia è fra le più alte in Europa.

La Russia è il primo Paese da cui l'Italia dipende per soddisfare il proprio consumo di fonti fossili (petrolio, gas e carbone).

A seguire ci sono Algeria, Azerbaijan e Libia.

 La produzione nazionale nel complesso copre circa il 5% del consumo di tutti i combustibili fossili dell'Italia.

La Russia è anche l'unico Paese da cui dipendiamo per tutte le fonti fossili:

 è il primo fornitore nazionale di carbone e gas e il terzo di petrolio.

Dall'Algeria dipendiamo soprattutto per il gas, mentre le importazioni da Azerbaijan e Libia riguardano principalmente il petrolio.

La produzione nazionale di gas nel 2021 ha soddisfatto il 4% dei consumi del 2021. il 90% di quello che importiamo deriva solamente da 4 Paesi: Russia, Algeria, Azerbaijan e Qatar.

Il greggio estratto in Italia nel 2021 è stato pari al 7% del consumo nazionale di prodotti petroliferi.

 Rispetto al gas la dipendenza è più diversificata, ma bastano cinque Paesi per soddisfare i due terzi del nostro import: Azerbaijan, Libia, Russia, Iraq, Arabia Saudita.

L'Italia è totalmente dipendente dall'estero per soddisfare il proprio fabbisogno di carbone.

Quasi tre quarti del carbone consumato nel 2021 è arrivato da due soli Paesi: Russia e Usa.

Il ministero dello Sviluppo economico ha aggiornato l'ultima stima delle riserve italiane di combustibili fossili il 31 dicembre 2019.

Secondo queste stima in Italia le riserve accertate di gas sono pari a 46 miliardi di metri cubi e quelle di petrolio a 73 milioni di tonnellate.

Se includiamo anche le riserve classificate come probabili e possibili saliamo rispettivamente a 112 miliardi di metri cubi e 207 milioni di tonnellate.

Se immaginassimo di soddisfare la nostra fame di combustibili fossili per gli usi energetici azzerando le importazioni e dando fondo a tutte le risorse nazionali, per quanto tempo potremo andare avanti?

Negli ultimi trent'anni si è ridotta di meno di 10 punti percentuali. Praticamente tutta la riduzione della dipendenza energetica italiana si è verificata fra il 2008 e il 2014, proprio il periodo di massima crescita delle fonti rinnovabili con il raddoppio della produzione nazionale di elettricità verde.

Oggi l'Italia è dipendente dall'estero per il 77% dell'energia che consumiamo. Centrando il target europeo del -55% di emissioni al 2030, in meno di 10 anni grazie all'efficienza energetica e alle fonti rinnovabili l'Italia potrebbe diventare un Paese in grado di soddisfare la maggior parte del proprio fabbisogno energetico tramite le risorse del proprio territorio.

(Italy for Climate è l'iniziativa italiana sul clima della Fondazione per lo sviluppo sostenibile)

 

 

 

 

Negli Stati Uniti l’energia rinnovabile

 supera per la prima volta il carbone:

un cambiamento epocale nella produzione

di energia.

 Sigmaearth.com - Dottor Tanushree Kain – (11 Maggio 2023) - ci dice:

 (Energia rinnovabile)

 

Per la prima volta in assoluto, le fonti energetiche rinnovabili hanno superato il carbone come fonte di produzione di energia negli Stati Uniti.

 Ciò segna una pietra miliare significativa nella transizione del Paese verso una produzione di energia più pulita, poiché il carbone è stato storicamente la fonte principale di elettricità negli Stati Uniti.

 Secondo i dati dell’Amministrazione statunitense per le informazioni sull'energia (EIA), le fonti rinnovabili come l'energia eolica, solare, idroelettrica e geotermica hanno rappresentato il 20% della produzione di elettricità negli Stati Uniti nell'aprile 2020, mentre il carbone ha rappresentato il 15%.

 Si tratta di un cambiamento epocale nella produzione di energia, poiché il carbone è stato a lungo la fonte di elettricità di riferimento per molte aziende di servizi pubblici statunitensi grazie al suo basso costo e all’affidabilità della fornitura.

Lo spostamento verso le energie rinnovabili è guidato da una combinazione di fattori, tra cui il calo dei costi, gli incentivi statali e la crescente domanda pubblica di energia più pulita.

Si prevede che questa tendenza continui nei prossimi anni, poiché sempre più aziende di servizi pubblici passeranno alle fonti rinnovabili di produzione di energia.

 

Cos'è l'energia rinnovabile?

L’energia rinnovabile è definita come energia prodotta da fonti naturali che vengono reintegrate a un ritmo più rapido di quello consumato.

 Il sole e il vento sono due esempi di tali fonti che si riforniscono costantemente.

 Le fonti energetiche rinnovabili abbondano e sono ovunque intorno a noi.

Carbone, petrolio e gas sono risorse non rinnovabili formatesi nel corso di centinaia di milioni di anni.

Quando i combustibili fossili vengono utilizzati per generare energia, emettono pericolosi gas serra come l’anidride carbonica.

 L’energia rinnovabile produce molte meno emissioni rispetto alla combustione di combustibili fossili.

 La transizione dai combustibili fossili, che ora rappresentano la maggior parte delle emissioni, e verso le energie rinnovabili è fondamentale per affrontare la catastrofe climatica.

 

Ulteriori informazioni sull'energia rinnovabile.

 

In che modo l’energia rinnovabile ha superato per la prima volta il carbone negli Stati Uniti?

Storicamente, il legno è stata la fonte energetica primaria negli Stati Uniti fino alla metà del 1800.

 Era l’unica fonte di energia rinnovabile su scala commerciale del paese fino a quando le prime centrali idroelettriche non iniziarono a produrre elettricità negli anni ’1880 dell’Ottocento.

Il carbone veniva utilizzato come combustibile per barche e treni a vapore e per produrre l'acciaio all'inizio del 1800, e successivamente fu impiegato per generare elettricità negli anni '1880 dell'Ottocento.

La US Energy Information Administration (EIA) iniziò a stimare l’energia nel 1635.

L'EIA converte le fonti energetiche in unità di calore standard note come Unità termiche britanniche (Btu) per confrontare diversi tipi di energia riportati in unità fisiche separate (barili, piedi cubi, tonnellate, kilowattora, ecc.).

Utilizzando un combustibile fossile equivalente, la VIA calcola il consumo di elettricità eolica, idroelettrica, solare e geotermica.

 

Le energie rinnovabili superano per la prima volta il carbone negli Stati Uniti.

Caduta del consumo di carbone.

Secondo la “Monthly Energy Review” della “US Energy Information Administration “(EIA), nel 1885 il consumo di energia rinnovabile negli Stati Uniti ha superato l’utilizzo del carbone per la prima volta da prima del 2019.

Questo risultato indica il costante calo dell’utilizzo del carbone per la produzione di energia nell’ultimo decennio e un aumento delle energie rinnovabili, principalmente eolica e solare.

 Rispetto al 2018, l’uso del carbone negli Stati Uniti è diminuito di circa il 15%, mentre il consumo totale di energie rinnovabili è aumentato dell’1%.

L’allontanamento da “King Coal” è attribuibile a variabili stagionali e al calo a lungo termine delle centrali a carbone negli Stati Uniti.

 Negli Stati Uniti, la tarda primavera e l’inizio dell’autunno spesso registrano il consumo di elettricità più basso a causa della minore domanda di riscaldamento e raffreddamento.

Nel frattempo, l’energia idroelettrica, la più importante fonte di energia rinnovabile, raggiunge il picco in primavera, quando lo scioglimento del manto nevoso aumenta la disponibilità di acqua negli impianti a valle.

 

Aumento delle energie rinnovabili.

Per raggiungere gli obiettivi sul cambiamento climatico, il governo ha spinto la transizione verso l’energia verde attraverso sussidi per la generazione rinnovabile e azioni punitive contro gli impianti di carbone.

 Secondo il “Dipartimento dell’Energia e dei Cambiamenti Climatici”, l’elevata quota di produzione rinnovabile rappresenta un aumento della capacità rinnovabile, come lo sviluppo di nuovi e significativi parchi eolici offshore e “condizioni meteorologiche più favorevoli per la generazione rinnovabile”.

La velocità del vento è aumentata di 1.4 nodi, con conseguente aumento della produzione delle turbine, mentre il tempo piovoso a maggio e giugno ha aumentato la produzione di energia idroelettrica.

L’energia da biomasse, anch’essa classificata come rinnovabile, è aumentata grazie alla conversione di una parte della “Drax”, la più grande centrale elettrica a carbone della Gran Bretagna, per bruciare legna invece che carbone.

Il calo dell’energia a carbone riflette la chiusura o l’arresto temporaneo di altre centrali a carbone e un aumento del prezzo del carbone nel Regno Unito, rendendo il funzionamento delle centrali a carbone meno redditizio.

 Nel corso del periodo, il gas è stata la fonte di energia più importante nel Regno Unito, rappresentando il 30.2% della produzione totale di energia, mentre il nucleare ha rappresentato il 21.5%.

 

Consumo di energia rinnovabile negli Stati Uniti.

Nel 2019, il consumo di carbone degli Stati Uniti è diminuito per il sesto anno.

La produzione di elettricità alimentata a carbone è diminuita drasticamente negli ultimi dieci anni, raggiungendo nel 42 il livello più basso degli ultimi 2019 anni.

L’utilizzo del gas naturale nel settore dell’energia elettrica è aumentato in modo significativo negli ultimi anni, sostituendo gran parte della produzione di energia da impianti a carbone dismessi.

Il consumo complessivo di energia rinnovabile negli Stati Uniti è aumentato per il quarto anno nel 2019, raggiungendo il livello record di 11.5 quadrilioni di Btu.

Dal 2015, la crescita delle energie rinnovabili negli Stati Uniti è stata quasi interamente attribuita all’utilizzo dell’energia eolica e solare nel settore dell’energia elettrica.

Sebbene un tempo il carbone fosse ampiamente utilizzato nei settori industriale, dei trasporti, residenziale e commerciale, ora viene utilizzato principalmente per generare energia negli Stati Uniti.

 Circa il 90% dell’utilizzo del carbone negli Stati Uniti è nel settore dell’energia elettrica, mentre il resto è quasi interamente nel settore industriale.

Tutti i settori negli Stati Uniti utilizzano sempre più energie rinnovabili.

Circa il 56% dell’energia rinnovabile fornita commercialmente negli Stati Uniti viene utilizzata nel settore dell’energia elettrica, principalmente da energia eolica e idroelettrica.

Tuttavia, altre forme si trovano nei settori industriale (22%), dei trasporti (12%), residenziale (7%) e commerciale (2%).

Biomassa, che comprende legno, rifiuti biogenici e i biocarburanti sono utilizzati in tutti i settori.

Le principali fonti rinnovabili utilizzate nelle industrie sono il legno, le perdite e i coprodotti della produzione di biocarburanti.

Al contrario, i biocarburanti come l’etanolo e il biodiesel vengono utilizzati nel settore dei trasporti.

Legno, rifiuti, energia solare e geotermica sono le fonti di energia diretta più popolari nei settori domestico e commerciale.

Osservazioni finali.

Il consumo di energia rinnovabile negli Stati Uniti ha messo in ombra l’uso del carbone nel 2019 per la prima volta da quando la legna da ardere era la principale fonte di combustibile più di 130 anni fa.

La mossa evidenzia un crollo decennale dell’industria del carbone, guidato dai tentativi del governo di limitare le emissioni di gas serra e dalla forte concorrenza delle fonti di gas naturale, eolico e solare.

 Negli Stati Uniti, circa il 56% dell’energia rinnovabile generata commercialmente viene utilizzata principalmente da energia eolica e idroelettrica.

Il calo dell’energia a carbone riflette la chiusura o l’arresto temporaneo di altre centrali a carbone e un aumento del prezzo del carbonio nel Regno Unito, rendendo il funzionamento delle centrali a carbone meno redditizio.

 (Il carbone - per la Cina - è attualmente il combustibile fossile più a buon mercato! N.D.R.)

Per raggiungere gli obiettivi sul cambiamento climatico, il governo ha spinto per una transizione energetica verde attraverso sussidi per la generazione rinnovabile e azioni punitive contro le centrali a carbone.

L’energia rinnovabile viene utilizzata sempre più in tutte le aree degli Stati Uniti.

(Dottor Tanushree Kain)

(Tanushree è un ambientalista appassionato con un dottorato in scienze ambientali).

 

 

 

 

La politica energetica dell’India

e le sue possibili ripercussioni geopolitiche

Rivistapolitica.eu - Rosa Tagliamonte – Analisi –  (10-12 - 2023) - ci dice:

 

Nello scenario internazionale globalizzato contemporaneo hanno assunto un peso via via maggiore le cosiddette economie emergenti, rappresentate da Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, più sinteticamente conosciuti come «Brics».

Questi paesi stanno vivendo una fase di crescita economica e sociale senza precedenti in un periodo congiunturale non favorevole per il resto del mondo tanto che nel 2013 per la prima volta i cosiddetti paesi emergenti hanno prodotto la maggior parte dei beni e dei servizi del mondo.

Gli imperativi della crescita economica dei «Brics», desiderosi di entrare a pieno titolo nel club dei grandi del mondo, chiamano inevitabilmente in causa l’altra faccia della medaglia dello sviluppo, rappresentata dalla questione energetica.

Lo sviluppo industriale di un paese è, infatti, strettamente collegato alle necessità e alle capacità di produzione e di utilizzo di energia dello stesso, risultando sempre più evidente il legame esistente tra politica energetica, politica estera e sicurezza, in quanto la capacità degli attori statuali di esercitare la propria autorevolezza sullo scenario globale è influenzata dalla propria capacità di essere energeticamente indipendenti dagli altri paesi:

uno Stato dipendente dalle importazioni di fonti energetiche, infatti, è vulnerabile alla minaccia dell’interruzione delle forniture.

 L’approvvigionamento di risorse per produrre energia, e quindi sviluppo, è un imperativo categorico per la sicurezza energetica di una nazione.

In questo articolo si è scelto di focalizzare l’attenzione sull’India che, data la sua collocazione geopolitica e le sue potenzialità di crescita demografica, è destinata a diventare, in un tempo misurabile in decenni e non in secoli, un’importante arteria della crescita economica e sociale della pulsante area asiatica.

L’India, come molti altri paesi, deve oggi districarsi abilmente nell’intreccio sempre più stretto tra politica energetica, politica estera e politica di sicurezza, tematica ormai principe nelle relazioni internazionali.

Viviamo in un’epoca caratterizzata da una generalizzata difficoltà nel soddisfare l’incremento della domanda energetica, che provoca il rapido aumento dei prezzi degli idrocarburi, condizionando le scelte dei governi e rendendo sempre più palese il nesso esistente tra la sicurezza energetica e lo sviluppo economico.

 Il vertiginoso aumento dei consumi di fonti energetiche a livello mondiale ha elevato quest’ultime al rango di drivers delle relazioni internazionali.

Allo stesso tempo il petrolio, principale fonte energetica dal secondo dopoguerra ad oggi, è stato al centro di numerose crisi internazionali caratterizzate dall’innalzamento della domanda petrolifera, dovuta sicuramente all’ingresso di nuovi paesi nel mercato energetico, che ha contribuito a sbilanciare un rapporto tra domanda e offerta di energia comunque già in crisi.

La permanenza di Delhi tra i grandi del mondo dipende dalla sua capacità di continuare a stimolare la crescita e lo sviluppo economico.

 In questo scenario la politica energetica assume rilevanza strategica:

l’energia rappresenta, infatti, una gigantesca forza motrice per l’economia nazionale in quanto ne sostiene l’espansione e si configura come asset imprescindibile su cui si proietta il successo dello sviluppo indiano.

 La questione energetica, inoltre, è tanto più interessante se si considera che la competizione per le risorse naturali strategiche, come i combustibili fossili e i minerali, si è intensificata in Asia, dove la crescita demografica e il rapido sviluppo economico hanno generato un appetito insaziabile per le forniture assai limitate di prodotti chiave.

In un contesto regionale come quello asiatico caratterizzato da esigue riserve di idrocarburi e dalla crescente concorrenza della Cina, altra colossale economia emergente, la sicurezza energetica indiana non potrà dipendere solo da dinamiche interne ma, soprattutto, dalla capacità di intessere rapporti con l’estero, principalmente se si considera che le politiche energetiche dei vari attori sul palcoscenico mondiale sono interdipendenti in quanto, al netto degli aumenti di produzione, l’accrescimento della sicurezza energetica di un paese implica una proporzionale diminuzione della sicurezza dei suoi concorrenti che avranno più difficoltà ad approvvigionare materie prime.

 La sicurezza energetica sta sempre più configurandosi come elemento determinante delle politiche estere dei maggiori paesi dell’Asia:

quest’area, caratterizzata da alti tassi di crescita economica e demografica e dalla forte urbanizzazione, vede ampliarsi il divario tra produzione di energia e consumo energetico, alimentando l’insicurezza energetica della regione e le rivalità tra i paesi.

Di fronte alle gravi limitazioni di approvvigionamento le economie asiatiche stanno intensificando lo sfruttamento delle risorse minerarie e dei combustibili fossili di altri paesi.

La concorrenza sempre più intensa per le risorse naturali tra gli Stati asiatici sta condizionando la geopolitica delle risorse, compresa la costruzione di oleodotti e gasdotti.

In questo breve articolo si tenta di proporre, per ogni fonte energetica, l’analisi del contesto geopolitico relativo al suo accesso, esponendo alcune riflessioni al riguardo.

 L’obiettivo è fornire una sintetica chiave di lettura per la comprensione della politica energetica sviluppata dall’India, alla luce delle peculiarità politiche ed economiche dall’area geografica in cui si trova a operare, cercando di offrire uno squarcio sulle possibili conseguenze di carattere internazionale.

Mix energetico e relazioni internazionali dell’elefante indiano.

 La forte crescita che sta interessando l’India ormai già da un decennio, l’ha vista diventare, con i suoi oltre 1.250.000.000 abitanti (2013), la seconda nazione più popolosa al mondo dopo la Cina e, stante l’attuale tasso di crescita annuo della sua popolazione (1,24%), è destinata a sorpassarla entro la metà del secolo.

 Il suo straordinario sviluppo, però, non è solamente demografico.

Nel 2011, infatti, il Pil indiano, a parità di potere d’acquisto, è stato il terzo del mondo, dopo Usa e Cina, confermando ancora il suo trend di crescita annuo che, da due lustri, è tra l’8% e il 10%.

Anche se di recente, a causa della crisi finanziaria globale, la crescita è rallentata, si stima che l’economia indiana continuerà a crescere tra il 7% e l’8% per i prossimi due decenni.

 La combinazione di questi due fattori, popolazione e Pil, fa dell’India il quinto consumatore di energia al mondo.

Negli ultimi venti anni, il consumo energetico del paese è aumentato di circa il 65%, mentre la produzione interna di energia è cresciuta pressappoco del 50%, il gap è stato colmato impiegando fonti rinnovabili ed energia elettrica importata.

Il consumo di energia è cresciuto in maniera più che proporzionale rispetto alla sua generazione, ciò implica che il grado di dipendenza energetica del paese, dal 1980, è costantemente cresciuto.

Considerato il tasso di crescita indiano e supportati dall’analisi grafica basata sui dati storici consolidati, è possibile ipotizzare che i consumi energetici indiani proseguiranno secondo il trend non lineare crescente già impostato fino a pressoché triplicare nell’arco di venti anni.

Gli elevati tassi di crescita economica, inoltre, si traducono in un fabbisogno di energia destinato ad aumentare in futuro, soprattutto se si considera che circa il 70% della popolazione indiana vive in aree rurali in cui il tasso di elettrificazione risulta molto basso (66,9%) rispetto alle aree urbane (93,9%).

Il fabbisogno energetico indiano è oggi soddisfatto da diverse fonti, in primis dal carbone che soddisfa circa il 54,52% dei consumi nazionali, configurandosi come la fonte energetica più importante per l’economia indiana.

Si presume che in futuro assumeranno un peso sempre maggiore il petrolio, che attualmente assicura circa il 29,46% dei consumi, il gas naturale e le fonti rinnovabili.

 Nel 2013 l’impiego di gas naturale ha raggiunto l’7,78%, mentre tutte le rinnovabili, compreso il nucleare, hanno toccato l’8,24% del totale.

L’India è il quinto produttore mondiale di energia:

 nel paese sono presenti ingenti risorse di carbone e, in misura minore, di petrolio e di gas naturale, mentre le importazioni soddisfano un quarto dell’energia consumata.

Tuttavia il settore energetico indiano, dominato da società a partecipazione statale, è affetto da evidenti inefficienze, frammentazione e mancanza di investimenti.

Numerose, infatti, sono ancora tutt’oggi le lacune e le carenze infrastrutturali della rete elettrica che generano frequenti blackout, creando, oltre ai disagi, anche un danno d’immagine per un paese che, al momento, non può fare a meno di fattori esterni per sostenere il proprio sviluppo.

In questo scenario, la crescita economica sostenuta determina un aumento del fabbisogno energetico a tal punto che, anche nella fase economica recessiva vissuta nel 2009, il paese è stato il quarto consumatore mondiale di petrolio dopo Stati Uniti, Cina e Giappone, registrando una crescita nei consumi del 5,46% rispetto all’anno precedente.

Considerata l’elevata dipendenza indiana dalle risorse energetiche estere, il governo ha tentato di diversificare le importazioni di gas e petrolio:

tra i maggiori partner energetici si annoverano i paesi del Golfo (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait) e l’Iran.

 Una percentuale minore di energia proviene anche dalla Russia, da alcuni paesi africani come la Nigeria, dal Venezuela e da altri paesi.

Rilevanti sono, inoltre, i rapporti che l’India intesse con la Russia sia a livello di forniture sia per la crescente cooperazione in campo energetico che riguarda anche l’ambito del nucleare.

L’energia nucleare, infatti, rappresenta un settore su cui l’India sta puntando per garantire la propria sicurezza energetica nel lungo periodo.

Ad oggi l’energia nucleare soddisfa circa l’1,26% dell’energia consumata e il 2,2% dell’elettricità, ma si stima che entro il 2050 il nucleare dovrebbe produrre il 25% dell’elettricità.

In questa prospettiva, recentemente l’India ha concluso accordi bilaterali con numerosi paesi tra cui Stati Uniti, Francia, Russia, Kazakistan e Canada.

Settore con grandi potenzialità di sviluppo è oggi, inoltre, quello delle fonti energetiche rinnovabili, che sempre più concorrono alla crescita economica indiana grazie alla capacità di assorbire quote crescenti di domanda energetica.

Terzo paese al mondo per la produzione di carbone, l’India ospita sul suo territorio più del 7% delle riserve mondiali accertate, rilevanti quantità di carbone sono presenti soprattutto nel Bihar e nel Bengala Occidentale.

La concomitante vicinanza di ricchi giacimenti di ferro ha favorito il sorgere di una potente industria siderurgica nella valle del Dāmodar, conosciuta come «Ruhr indiana».

Nonostante la grande produzione interna, il carbone non soddisfa ad oggi i consumi indiani.

Paradossalmente, pur potendo soddisfare il 100% del fabbisogno nazionale di carbone, la “Coal India Limited”, il gigante statale della produzione del carbone, non vi riesce perché, da una parte, è vincolata dalle politiche imposte dal Governo indiano in materia di tutela ambientale, e, dall’altra, è limitata dalla bassa produttività e da una rete distribuzione inefficiente, rendendo necessario il ricorso alle importazioni, soprattutto per assorbire la domanda nel settore della generazione elettrica:

 il 68% dell’energia elettrica in India è oggi prodotta tramite centrali a carbone.

(Il carbone è la fonte di energia elettrica più economica! N.D.R.)

Il carbone si configura quale vero e proprio driver della politica energetica interna. Esso, sebbene non di ottima qualità, è la fonte più impiegata ed è lecito aspettarsi che lo sia anche nel prossimo futuro.

 La forte domanda dell’India, unitamente a quella cinese, continua a sostenere la crescita dei prezzi di questa risorsa:

l’effetto può essere meglio compreso se si considera che il carbone è la risorsa più usata per la produzione di energia elettrica e secondo l’International Energy Association (Iea) ad oggi circa l’80% dell’energia elettrica deriva da centrali a carbone.

La combustione di carbone, e in generale dei combustibili fossili, genera massicce quantità di agenti inquinanti:

CO2, polveri sottili, idrocarburi policiclici volatili, ossidi di zolfo e di azoto, mercurio, arsenico.

(Tutte queste sostanze chimiche possono essere neutralizzate nell’atmosfera con appositi filtri oggi già esistenti! N.D.R.)

Per ovviare a tale problema, molti Stati hanno impostato strategie che prevedono la riduzione dell’uso delle fonti fossili in favore dell’aumento del gas naturale, delle rinnovabili e dell’energia nucleare.

In questo contesto, le autorità indiane in materia di tutela ambientale hanno recentemente imposto un rallentamento nella produzione interna che ha avuto riflesso in un significativo aumento delle importazioni di carbone:

nel 2013 il carbone importato ha coperto quasi il 30% dei consumi.

Tale dato potrebbe ulteriormente crescere nel prossimo decennio e quindi si impone la ricerca di partnership strategiche che rendano sostenibile l’aumento dei consumi di carbone.

In particolare, tre dei maggiori esportatori di carbone, Australia, Indonesia e Sud Africa, sono territorialmente molto vicini all’India che sta cercando di inserirsi nei loro circuiti commerciali per assicurarsi approvvigionamenti stabili per il futuro.

Nel computo generale dei consumi energetici indiani, il petrolio copre, ad oggi, più di un quarto delle esigenze.

Nella regione asiatica, l’India è il terzo consumatore di questa risorsa, dopo Cina e Giappone.

Le riserve di petrolio indiane, costituite in prevalenza da greggi leggeri a basso tenore di zolfo, ammontano a 5,7 miliardi di barili.

La produzione complessiva nazionale è di circa 42 milioni di tonnellate di petrolio grezzo ed è praticamente costante da più di un decennio, mentre i consumi sono passati da 2,5 milioni di barili al giorno nel 2003, ai 3,7 nel 2013.

I dati più recenti evidenziano come gli attuali consumi si avvicinino ai 175,2 milioni di tonnellate (2013), rendendo effettiva una dipendenza dalle importazioni prossima al 70% per soddisfare il fabbisogno interno.

Si stima che le importazioni di petrolio dell’India dovrebbero crescere in valore assoluto fino a raggiungere i 6,7 milioni di barili al giorno entro il 2035.

 L’aumento della domanda generale di petrolio, e quindi del suo prezzo, provoca un consistente aggravio di spesa per garantire la sicurezza energetica del paese.

Sebbene le riserve nazionali offrano petrolio ancora per circa venti anni, si rende sempre più importante stabilire relazioni a livello internazionale per sopperire all’accelerazione dei consumi.

 Analizzando le riserve di paesi vicini, si nota che l’Asia orientale, sud-orientale e l’Oceania sono regioni povere di greggio e che, nel complesso, la situazione del sud-est asiatico non offre grandi prospettive.

 Il Vicino Oriente costituisce un bacino importante per i rifornimenti di petrolio indiano: l’Arabia Saudita ne fornisce il 19%, l’Iraq il 14%, l’Iran l’11% e il Kuwait il 10%.

Nonostante il tentativo del governo indiano di diversificare le importazioni, si evidenzia una dipendenza dal petrolio mediorientale nel lungo periodo e, in particolare, da quello proveniente dall’Iran.

Quest’ultimo per molti anni è stato il secondo fornitore di petrolio più importante per l’India, dopo i sauditi, configurandosi come un partner strategico nella regione. Tuttavia, Delhi sta tentando di ridurre la quota di Teheran al fine di allinearsi alle politiche statunitensi ed europee volte a scoraggiare accordi con l’Iran a causa dei suoi presunti programmi di sviluppo nucleare ai fini militari.

Negli ultimi anni la quota iraniana è stata ridimensionata e, verosimilmente, lo sarà ancora in futuro.

La strada indiana che porta al petrolio mediorientale passa per l’Oceano Indiano che si configura come essenziale porta d’accesso a questa importante risorsa.

 La favorevole contiguità con l’Asia occidentale, tuttavia, non rappresenta la panacea per la sicurezza energetica dell’India: a causa della diffusa pirateria nel Golfo di Aden la marina indiana è costretta a monitorare e proteggere costantemente le rotte di interesse.

Ma il petrolio mediorientale deve essere tutelato anche dalla domanda proveniente dalla Cina, con cui l’India compete nella regione, soprattutto per aver fallito numerosi tentativi di assumere il ruolo di partner strategico dei paesi mediorientali.

Il più recente approccio geostrategico adottato dall’India prevede che la nazione si proponga quale paese di scalo lungo le rotte dell’Oceano Indiano, per assumere un ruolo chiave nella raffinazione e nella riesportazione di parte del greggio mediorientale in transito.

Nel 2009 la “Reliance Industries “ha creato il più grande polo mondiale di raffinazione, capace di lavorare 3,6 milioni barili al giorno, collocando l’India al quinto posto nel mondo.

A dispetto delle annose rivalità commerciali, India e Cina stanno tentando di trovare un accordo per l’approvvigionamento delle riserve petrolifere medio orientiali attraverso la sigla, nel giugno 2012, di un protocollo d’intesa tra la “India’s Oil and Natural Gas Corp e la “China National Petroleum Corp” che prevede il rafforzamento delle attuali operazioni di esplorazione e produzione in Myanmar, Sudan e Siria, nonché la partecipazione congiunta alle aste per l’attribuzione di nuovi campi petroliferi e di gas per operazioni future di esplorazione e produzione.

 Questo accordo è foriero di notevoli vantaggi per i due paesi in quanto, collaborando, potranno sostenere costi inferiori per l’assegnazione dei lotti di esplorazione e produzione dell’area pacifica;

aumentare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico;

avere un peso maggiore nel mercato energetico della regione e in campo internazionale.

Le lungimiranti decisioni adottate dal governo indiano in campo internazionale non sono accompagnate da scelte altrettanto avvedute sul mercato interno dove sono presenti notevoli elementi distorsivi, derivanti, in primis, dai sussidi ai prezzi dei prodotti petroliferi che costringono le compagnie petrolifere pubbliche, e quindi il governo, a sopportare notevoli perdite nei bilanci.

Nel 2010 si è tentato di porre rimedio a questa situazione attraverso la liberalizzazione dei prezzi della benzina.

L’iniziativa ha avuto però un impatto poco significativo dal momento che la benzina rappresenta solo una piccola quota della domanda di petrolio:

la maggior parte della domanda riguarda, infatti, cherosene, gasolio e gas di petrolio liquefatto (Gpl), più diffusamente utilizzati dalle classi economicamente svantaggiate.

Il gas naturale rappresenta una valida alternativa ad altre fonti fossili in quanto consente di limitare sensibilmente le emissioni di CO2.

 Pertanto, è ragionevole aspettarsi un aumento della domanda dovuto alle pressioni delle autorità ambientali nazionali e alla crescente sensibilità ambientale.

Fino a qualche anno fa la maggior parte del gas proveniva dalle riserve offshore presenti nella zona di Mumbai.

Le recenti scoperte di risorse gassifere nel Golfo del Bengala e al largo delle coste degli Stati di Orissa, Andhra Pradesh e Gujarat hanno spostato il fulcro della produzione in quest’area, quasi raddoppiando le riserve nazionali nell’ultimo ventennio fino ad arrivare, nel 2013, a 1,4 miliardi di metri cubi.

Tuttavia, agli attuali tassi di estrazione e consumo, pur aumentando le stime sulla durata delle riserve, ritenendole sufficienti per quasi un trentennio, l’India, che dal 2004 ha iniziato a importare gas naturale, dovrà continuare a farlo con trend crescente anche in futuro.

L’importazione di gas naturale è fortemente influenzata dal trasporto. Il gas, a temperatura e pressione ambiente, si presenta allo stato aeriforme, può quindi essere trasportato solo tramite gasdotti.

Questi ultimi sono infrastrutture molto costose e rappresentano un forte vincolo per il mercato del gas, in quanto, di fatto, impongono poche rotte fisse.

 In questo caso, la posizione geografica è sfavorevole per l’India, in quanto le maggiori riserve di gas più vicine si trovano a nord ovest del paese, nella zona che si affaccia sul Caspio.

 L’accesso a questa zona è ostacolato, in primo luogo, dalla presenza del Pakistan, con il quale è aperta la disputa sulla sovranità del Kashmir, e anche dall’Afghanistan con il quale, per la situazione di instabilità attuale del paese, è molto rischioso pianificare progetti infrastrutturali.

 I due più importanti progetti di gasdotti, proposti negli anni novanta, sono il “Tapi” (gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India) e l’”Ipi” (gasdotto Iran-Pakistan-India).

Nonostante quest’ultimo preveda il coinvolgimento di un numero minore di paesi e non contempli il territorio afghano, è stato abbandonato nel 2011 per la contrarietà degli Stati Uniti a un accordo tra India e Iran e per il regime di autosufficienza energetica impostato da Teheran che possiede le seconde riserve mondiali di gas naturale.

Il “Tapi”, di contro, è a uno stadio più avanzato, infatti, i primi intensi negoziati si sono conclusi a marzo 2011;

ciononostante, il progetto sarà difficilmente operativo prima del 2018.

La possibilità di importare gas naturale dal nord est, in particolare dal Myanmar via Bangladesh, percorsa dall’India fino al 2006, non è più esistente dal momento in cui la Cina ha acquistato l’intera nuova produzione.

Alla luce del quadro delineato, Delhi ha sviluppato investimenti in impianti costieri per la rigassificazione.

Oggi tutto il gas importato è gas naturale liquefatto che approda in India via mare.

Quindi, l’importazione di gas per via marittima, messa a sistema con le difficoltà a implementare l’approvvigionamento tramite gasdotti, impone al governo indiano, sul fronte della sicurezza energetica, di conferire un’elevatissima priorità alla protezione delle rotte dell’Oceano Indiano che lambiscono le sue coste.

Considerata anche la crescente dipendenza dall’importazione via mare dalla regione del Golfo, del petrolio e dei suoi derivati, si comprende chiaramente quale necessità abbia l’India di proteggere le rotte marittime, vitali per i suoi interessi economici e strategici.

L’India deve necessariamente considerare anche l’altra faccia della medaglia dello sviluppo economico caratterizzata dall’aumento delle importazioni, a causa del divario tra energia richiesta ed energia prodotta.

 Le importazioni indiane sono aumentate nettamente:

da 82 miliardi di dollari nel 2010 a 145 miliardi di dollari nel 2012, diventando la maggiore componente dell’attuale deficit che caratterizza i conti pubblici del paese.

Il problema dell’India è che ha un quinto della popolazione mondiale, ma solo un trentesimo dell’energia:

questo significa che non produce abbastanza da soddisfare il suo fabbisogno.

Di conseguenza il paese è costretto a importare energia, in forma di petrolio, gas e, sempre più spesso, carbone.

 Secondo molte stime le importazioni indiane continueranno ad aumentare da circa il 30% della domanda energetica fino a circa il 50% entro il 2030.

 

Dagli attuali consumi di energia primaria si comprende benissimo quale sia l’andamento della crescita della domanda che, negli ultimi anni, ha assunto un trend quasi esponenziale.

Domanda caratterizzata dalla preponderanza delle fonti fossili, in particolare del carbone.

 Le fonti di natura termica, come petrolio, gas naturale e carbone, negli ultimi venticinque anni hanno sostenuto la crescita del paese, contribuendo, nel 2013, per circa il 70% del mix energetico alla produzione di energia elettrica.

Nonostante la grande importanza di queste risorse per lo sviluppo economico, l’India dovrà via via ridurne il consumo.

 Le autorità nazionali e internazionali per la tutela ambientale, infatti, spingono da tempo per l’abbattimento delle emissioni inquinanti e per l’incremento dell’efficienza energetica.

Al fine di allinearsi alle linee guida ambientali, l’India dovrà sempre più puntare sulla diversificazione delle fonti energetiche per assicurare una riduzione delle emissioni di CO2.

La sfida più pressante che Delhi oggi si trova ad affrontare riguarda proprio la possibilità di diversificare il proprio mix nazionale, diminuendo l’uso del carbone, attuando investimenti in fonti rinnovabili di energia e nel nucleare, soprattutto per soddisfare la crescente domanda d’elettricità.

L’energia nucleare per usi civili rappresenta un settore su cui l’India sta puntando per garantire la propria sicurezza energetica nel lungo periodo.

Nonostante nell’ultimo decennio Delhi abbia aumentato la produzione di energia nucleare di circa il 31%, nel 2011 è riuscita a soddisfare solo l’1% dei consumi e il 3% dell’elettricità, ma si stima che entro il 2050 il nucleare dovrebbe produrre il 25% dell’elettricità.

Lo sviluppo dell’energia nucleare in India è stato improntato a indipendenza e autosufficienza, soprattutto a causa dell’esclusione dagli accordi internazionali di sviluppo del nucleare conseguente alla mancata ratifica del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) del 1970 e del rischio di confronto nucleare tra Delhi e Islamabad che ha spinto molti paesi a limitare, o a sospendere del tutto, la collaborazione sul nucleare e le forniture di uranio al paese.

Tuttavia, ultimamente, la situazione sembra mutata.

Nel 2008 il Congresso degli Stati Uniti d’America ha aperto alla cooperazione nucleare civile con l’India attraverso un partenariato strategico, favorendo una distensione con l’Occidente che ha portato nuove iniziative di investimento nel nucleare in India e alla conclusione di accordi bilaterali con numerosi paesi tra cui Francia, Russia, Kazakistan e Canada, oltre agli Stati Uniti.

Il futuro programma nucleare indiano è uno dei maggiori al mondo, assieme a quello cinese, e i piani sono di aumentare il contributo dell’energia nucleare al mix energetico per il raggiungimento dell’indipendenza energetica in prossimità del 2050.

Il programma di sviluppo del nucleare è incentrato sulla realizzazione in patria di reattori e sul raggiungimento dell’autosufficienza nel ciclo del combustibile, in questo senso molto dipenderà dalla capacità del paese di sfruttare le vaste risorse di torio di cui dispone.

Il governo indiano non accetta la partecipazione straniera nella costruzione di centrali nucleari;

l’accordo siglato con gli Stati Uniti prevede solo la fornitura del combustibile e il trasferimento del know-how:

in tale contesto, le prospettive di generazione elettrica di origine nucleare appaiono ancora fortemente limitate dal momento che l’India deve importare il combustibile nucleare.

Del resto, l’uranio è una risorsa non facilmente reperibile, quindi, nella misura in cui si sia costretti ad aumentare le importazioni di questa materia prima, lo sviluppo del comparto nucleare non basta ad aumentare la sicurezza energetica del paese.

La questione dell’uranio è alla base dei rapporti economici e politici fra l’India e l’Australia, uno dei più grandi produttori mondiali di uranio.

Dopo due anni di trattative, il 4 settembre 2014, a Delhi, il primo ministro australiano Tony Abbott e il suo omologo indiano Narendra Modi hanno firmato un accordo di cooperazione per il nucleare civile che prevede la vendita dell’uranio australiano all’India.

L’accordo è stato definito storico perché è il primo di questo genere firmato tra l’Australia e un paese che non ha ratificato il “Tnp”.

Questa decisione, in contrasto con il Tnp, avrà sicuramente riflessi in campo politico, economico e militare tali da influenzare l’assetto geopolitico dell’area, soprattutto in considerazione del fatto che la Cina è stata contraria sin dal principio a nuovi accordi fra India e Australia:

in primo luogo, visto che l’India non ha firmato il Tnp, si teme che nel tempo la partnership sul nucleare civile possa traslare in campo militare.

 La Cina, inoltre, paventa che l’India, grazie a tale sinergia, possa consolidare la propria crescita economica in Asia e nel Pacifico, ostacolando in tal modo l’ascesa cinese nell’area.

 L’India, invece, teme le relazioni che la Cina ha instaurato con i vicini paesi Nepal, Bangladesh, Myanmar, Sri Lanka, ma soprattutto con il Pakistan:

le relazioni sino-pakistane riguardano essenzialmente accordi militari che prevedono aiuti cinesi al Pakistan per costruire reattori nucleari volti a soddisfare il fabbisogno energetico del paese.

 Questa alleanza può essere considerata la risposta agli accordi stipulati fra Stati Uniti e India, in base ai quali quest’ultima ha preso parte al commercio nucleare civile con Washington pur non avendo aderito al Tnp.

L’India auspica l’interruzione dello sviluppo nucleare in Pakistan, valutato come una minaccia alla propria sicurezza nazionale.

D’altro canto, la presenza cinese in Asia meridionale è vista con diffidenza dal governo indiano che, al fine di arginarla, ha applicato quella che è stata definita la “Look East Policy”, stringendo accordi di tipo militare e politico con molti paesi geograficamente vicini alla Cina, primo fra tutti il Giappone.

 L’accordo sul nucleare tra India e Australia si inserisce dunque in un contesto particolare e avrà dei sicuri risvolti geopolitici.

Anche se l’accordo con Washington offre a Delhi quell’accesso al mercato nucleare che anela da tempo per affrontare i gravi problemi energetici del paese, non risponde a tutte le necessità dell’India:

l’accordo, infatti, presume che la crescente domanda indiana di energia possa essere facilmente soddisfatta importando reattori nucleari.

Secondo molti studiosi, questa importazione non farebbe altro che determinare insicurezza energetica e costi esorbitanti con il rischio di non riuscire comunque a soddisfare la domanda totale del paese.

 

Il sistema energetico indiano registra, inoltre, un gap tra domanda e produzione di energia elettrica destinata agli utenti connessi alla rete nazionale.

 La riduzione di questo gap è oggi una delle principali sfide che l’India deve affrontare sul piano della politica interna al fine di continuare a garantire la crescita economica del paese.

È stato stimato che per fornire un’adeguata quantità di energia elettrica all’intera popolazione, l’India dovrà più che raddoppiare l’attuale capacità installata;

in quest’ottica si comprende come le fonti rinnovabili siano destinate a giocare un ruolo sempre più da protagonista sullo scenario energetico indiano.

Un segnale in questa direzione è stato sicuramente la creazione nel 1992 di uno specifico ministero destinato a promuovere proprio queste forme d’energia.

 Per la generazione di energia elettrica un ruolo determinante nel campo delle rinnovabili è giocato dal settore idroelettrico.

 

Un grafico propone un’istantanea della capacità attualmente installata per la generazione elettrica dalla quale si nota, da una parte, il ruolo determinante delle fonti di natura termica e, dall’altra il peso del settore idroelettrico nel campo delle risorse rinnovabili.

Considerando le singole fonti rinnovabili, tranne quella idroelettrica, si nota invece come l’energia eolica contribuisca per il 70% alla generazione di energia, mentre, il settore fotovoltaico, nonostante il vigoroso irraggiamento solare del territorio indiano, vi partecipi per il solo 4%.

L’India dovrà, necessariamente, mettere a punto politiche capaci di sviluppare il comparto dell’energia solare, ciò al fine di centrare, entro il 2017 l’obiettivo fissato dal governo, a prima vista ambizioso, di raggiungere i 55 Gw di potenza installata da fonti rinnovabili.

Il raggiungimento di questo obiettivo è tanto più necessario in considerazione del fatto che, secondo l’agenzia di rating “Goldman Sachs”, entro il 2050 l’India diverrà la terza economia mondiale, dopo Cina e Stati Uniti.

Questa prospettiva, sino a poco tempo fa impensabile, oggi appare persino prudente e dovrà coniugarsi con le esigenze di tutela ambientale.

Per favorire lo sviluppo delle energie rinnovabili, il ministero ha adottato misure di sostegno specifiche per le diverse filiere. “

A tale scopo, esso dispone di un organismo pubblico, l’Agenzia Indiana per lo Sviluppo delle Energie Rinnovabili” (Indian Renewable Energy Development Agency-Ireda), che elargisce aiuti per finanziare progetti di vario genere.

 Questi aiuti possono essere richiesti sia dagli utilizzatori finali, privati o imprese, sia dagli intermediari finanziari o dagli enti pubblici (banche, agenzie governative, alcune Ong).

 In questo settore, inoltre, per i progetti legati alla generazione e alla distribuzione dell’energia i capitali stranieri possono raggiungere anche il 100% del capitale sociale.

L’India possiede le risorse naturali necessarie allo sviluppo delle fonti rinnovabili: percorso dai monsoni, il paese dispone di risorse eoliche utilizzabili stimate a 45.000 megawatt (Mw) che ben si adattano alla realizzazione di wind farm[60] sia onshore sia offshore.

Vaste porzioni di territorio ricevono un elevato irraggiamento solare (tra i 520 e i 630 W/mq) che presagisce il naturale sviluppo del settore dell’energia solare tra le fonti rinnovabili, mentre la presenza di numerosi corsi d’acqua offre potenzialità di sviluppo di impianti idroelettrici.

L’agricoltura, che continua a essere la principale attività economica per poco meno della metà della popolazione indiana, apre ottime prospettive per l’utilizzo dei rifiuti verdi in impianti di produzione di biomassa, il cui potenziale è stimato in 12.000 Mw, esclusi gli biocarburanti che non generano solo calore, ma anche elettricità.

Le biomasse, inoltre, possono essere adoperate per migliorare l’efficienza della combustione dei combustibili fossili, per la sostituzione integrale del petrolio e del carburante da trasporto, nonché per alleviare l’annoso problema dei rifiuti nelle periferie urbane.

Le fonti rinnovabili si configurano quindi come un asset strategico per l’India in quanto sfruttano risorse naturali di cui il paese è ricco, consentendo, in generale, di ridurre i problemi di sicurezza energetica e di importazione delle fonti, proteggendo dalla volatilità dei prezzi dei combustibili fossili;

di soddisfare la domanda di energia elettrica nelle aree più remote e rurali, spesso non connesse alla rete di trasmissione; di fornire un importante contributo al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 stabiliti dal Napcc nel giugno 2008.

Sul piano internazionale l’India lavora per l’accrescimento dell’efficienza del sistema energetico trovando oggi un partner importante nell’Unione Europea con cui, dal 2012, collabora nell’ambito del progetto Sahyog che prevede il gemellaggio tra India e Unione Europea per la produzione di biomassa e la conversione di rifiuti organici attraverso approcci biotecnologici.

Geopolitica, aspirazioni regionali e responsabilità globali

Nell’ambito della competizione energetica mondiale l’ingresso delle economie emergenti ha sicuramente alterato i termini della partita cosiddetta «geo-energetica».

 In questo scenario l’India ha appena iniziato a strutturarsi come potenza mondiale, non potendo essere paragonabile ancora ai grandi del mondo.

Tuttavia, la sua impetuosa crescita economica sta contribuendo a ridefinire gli equilibri economici internazionali che risultano, inoltre, influenzati dalla contestuale crisi dell’eurozona, spostando l’attenzione verso il continente asiatico dove l’India spicca nettamente, assieme ad altri paesi come la Cina, per dimensione geografica, demografica ed economica e per le notevoli performance di crescita dovute anche alle politiche energetiche introdotte.

Gli indirizzi di politica energetica dell’India devono, ovviamente, calarsi all’interno di un contesto geopolitico particolare, sul quale oggi è puntata l’attenzione di moli altri paesi; ciò offre alcuni importanti spunti di riflessione utili a delineare possibili scenari per il futuro della sicurezza energetica del paese.

Una prima riflessione si focalizza sui rapporti tra Stati Uniti e India, per la comprensione dei quali è necessario chiamare in causa anche la Cina.

In questa relazione a tre, le possibili tensioni tra due delle parti, Stati Uniti e Cina, si riverberano anche sulla terza parte indiana.

Gli Stati Uniti, anche se strettamente legati alla Cina sul piano economico, mantengono con essa un rapporto ambiguo in quanto aspirano a conservare il primato di potenza mondiale, non sopportando l’idea di un possibile sorpasso cinese.

In questo rapporto ambivalente con la Cina, gli Stati Uniti chiamano in causa anche l’India, in funzione anti-cinese, per assicurare la massima libertà possibile al commercio che avviene nell’Oceano Indiano.

Il Pentagono fa, infatti, affidamento sulla marina indiana – con la quale da ottobre 2003 ha cominciato a tenere manovre congiunte – per controllare le linee marittime della regione, mentre Washington lavora per migliorare i rapporti fra l’India e le altre democrazie asiatiche per far fronte alla crescente influenza cinese.

L’India è così schiacciata tra due giganti: anche se più vicina agli Stati Uniti che alla Cina, evita di schierarsi palesemente, tendendo a far pendere il piatto della bilancia da una parte o dall’altra a seconda delle situazioni. I

n questo contesto, sicuramente le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e India creano una partnership destinata a influenzare buona parte del ventunesimo secolo.

Un’altra riflessione è legata ai rapporti tra India e Cina.

Queste due economie emergenti, congiuntamente ai paesi del Medio Oriente, determineranno una grande crescita del fabbisogno mondiale di combustibili liquidi.

Il dipartimento dell’energia statunitense prevede, infatti, un incremento del fabbisogno del 38% entro il 2040, spinto dalla domanda di Cina, India e delle altre economie emergenti asiatiche, lasciando ipotizzare che Cina e India, per garantire la rispettiva sicurezza energetica, sviluppino una escalation nelle tensioni diplomatiche.

Nonostante la reciproca e annosa diffidenza tra Cina e India, nello scacchiere asiatico si comincia ad assistere a prove di dialogo tra i due colossi:

l’incontro al vertice fra il Primo Ministro indiano Manmohan Singh e la sua controparte cinese Li Keqiang sembra possa essere un passo concreto verso la riduzione delle distanze tra le due nazioni più popolate dell’Asia, unite da una frontiera da sempre contestata, con un potenziale di scambi commerciali e sostegno politico reciproco mai realizzato, per quanto in crescita, che potrebbe fare avanzare la pace e la prosperità in Asia e nel mondo.

Senza un approvvigionamento energetico continuo, sicuro e a prezzi sostenibili, lo sviluppo dell’India potrebbe essere intaccato.

 La competizione in campo energetico nell’Asia centrale ha determinato un aumento del costo dell’energia, limitandone le disponibilità e rivelando squilibri nel settore.

In questo contesto, l’India, invece di sviluppare una strategia energetica dinamica nell’area centroasiatica, sembra bloccata in una tattica di contrasto al Pakistan.

 È questo il caso del gasdotto “Ipi” che, per le ingerenze statunitensi, è stato abbandonato malgrado Delhi ne abbia bisogno per colmare il suo crescente fabbisogno energetico.

Resta il gasdotto “Tapi” che potrebbe dare impulso all’economia afghana, generando migliaia di posti di lavoro e il trasferimento del know-how dall’India all’Afghanistan.

L’interessamento della russa Gazprom al progetto “Tapi “sembra aver dato nuovo vigore agli approvvigionamenti energetici terrestri, che consentirebbero di instaurare un canale di dialogo in Asia centro-meridionale anche nella prospettiva del ritiro delle forze Nato dall’Afghanistan entro il 2014:

 il “Tapi” potrebbe, infatti, fungere da elemento di stabilizzazione dell’Afghanistan e da catalizzatore della cooperazione regionale, scongiurando la possibilità che sia l’Iran, attraverso il concorrente progetto di gasdotto verso il Pakistan (Ipi), a far fronte alla crescente domanda di gas dei mercati asiatico-meridionali.

Per quanto riguarda gli idrocarburi, si sottolinea la tendenza alla loro importazione da parte indiana, ciò appare come la soluzione più immediata per sopperire alle carenze di produzione.

 Nell’attuazione di questa decisione l’India manca ancora di elementi importanti per poter agire con pieno successo, soprattutto a causa della diplomazia indiana che non risulta efficace nell’acquisire forniture energetiche estere in quanto, da una parte, il paese ha sviluppato la questione energetica solo in termini economici, trascurando gli interessi politici legati al petrolio e, dall’altra, le tensioni storiche e politiche con i paesi confinanti ostacolano i rapporti dell’India con questi ultimi a tal punto che il governo di Delhi risulta quasi completamente isolato dai paesi circostanti, allontanando l’India dalle sue aspirazioni di potenza regionale.

Oggi per il subcontinente indiano risulta, dunque, importante istituire con gli altri paesi asiatici una cooperazione politica ed economica che al contempo abbia riflessi sulla propria politica strategica di sicurezza:

 in questo scenario il settore marittimo con la protezione delle rotte energetiche e sicurezza delle coste, assume un’importanza fondamentale perché consente all’India di affermarsi sempre più quale polo regionale per la raffinazione dei prodotti petroliferi.

A ciò, ovviamente deve anche affiancarsi una rilevante crescita delle proprie infrastrutture:

la costruzione di strade, oleodotti e gasdotti, infatti, consentirebbe l’aumento degli scambi con i paesi circostanti e permetterebbe a Delhi di aumentare la propria influenza nello scacchiere asiatico.

Nell’immediato futuro l’India dovrà impostare strategie di approvvigionamento di fonti energetiche che tengano nel giusto conto i seguenti elementi: estrema diversificazione delle fonti, per evitare l’impatto devastante che avrebbe la mancanza di una componente del mix energetico;

 differenziazione dei paesi fornitori per ciascuna fonte, così da contenere le conseguenze di eventuali crisi interne a un singolo paese fornitore;

disponibilità di molteplici vie di trasporto, in modo da poter gestire l’impossibilità di usare una specifica infrastruttura (oleodotto, rigassificatore, etc.) o di transitare esclusivamente in una limitata area geografica (ad esempio un valico o uno stretto);

 intensificazione delle relazioni con i paesi fornitori e di transito per assicurarsi accordi politici di reciproca utilità, partnership strategiche, privilegi di carattere commerciale o anche sostegno economico.

 

 

 

 

 

Auto elettrica vs consumi petroliferi:

 lo strano caso della Norvegia.

Rivistaenergia.it – Redazione – (24 Luglio 2024) – ci dice:

Nonostante l’eccezionale penetrazione dell’auto elettrica, in Norvegia non si riscontra nessun calo significativo dei consumi petroliferi, né di conseguenza delle emissioni di carbonio.

Com’è possibile?

 Goehring e Rozencwajg ne spiegano le ragioni in articolo pubblicato su “ENERGIA 2.24”.

 Secondo loro, la sostituzione degli “Ice” con gli “Ev” non solo non ridurrà la domanda petrolifera, ma aumenterà sostanzialmente le emissioni di carbonio.

L’auto elettrica è largamente considerata un mezzo fondamentale per ridurre se non azzerare le emissioni sul fronte della mobilità privata.

Alimentando l’automobile con elettricità decarbonizzata, generata da fonti rinnovabili o nucleare, si evita il consumo di benzina o diesel.

Le emissioni prodotte durante il ciclo di costruzione dell’automobile, e in particolare quelle relative alla batteria, si sostiene siano comunque inferiori a quelle generate nel ciclo di vita di una tradizionale automobile a motore termico.

Vi sono poi altri vantaggi, come la riduzione degli inquinanti locali o i minori costi di manutenzione, sebbene non siano certo quelli che spingono per una rivoluzione indotta dell’intero comparto automobilistico.

Auto elettrica sì, auto elettrica no?

Questa impostazione è raccomandata dalle più importanti istituzioni internazionali in materia di energia e clima (come l’IPCC e la Iea), tanto che l’Unione Europea ha deciso lo stop ai motori termici a partire dal 2035.

 Tuttavia, non tutti convengono sui citati vantaggi e in più vi contrappongono una serie di svantaggi o criticità, a partire dai rischi per un’industria europea di pregio come quella automotive e quelli geopolitici di una forte dipendenza dalla Cina. (Per una disamina di questo confronto tra le ragioni del sì e del no all’auto elettrica si rimanda all’articolo di Enzo Di Giulio).

 

In un articolo pubblicato sul numero 2.24 della rivista ENERGIA, Leigh R. Goehring e Adam A. Rozencwajg muovono una nuova forte critica ai supposti vantaggi dell’auto elettrica.

Vi sostengono infatti che la domanda petrolifera non verrà scalfita da una maggiore penetrazione dei modelli elettrici nel parco circolante.

“I sostenitori della mobilità elettrica ritengono che la sostituzione dei combustibili fossili sia essenziale per frenare il riscaldamento globale.

Non siamo d’accordo: la sostituzione degli Ice con gli Ev aumenterà sostanzialmente le emissioni di carbonio e potrebbe peggiorare il problema”.

A riprova di questa tesi gli autori prendono a riferimento il caso della Norvegia, paese simbolo dell’elevata penetrazione delle auto elettriche, che nel 2022 hanno rappresentato l’80% delle vendite di auto nuove e il 20% del parco auto circolante.

Nonostante alcuni sussidi siano stati tolti, un residente di Oslo può ancora aspettarsi un totale di 8.000 dollari all’anno.

Un vero e proprio “case study” per sostenitori delle auto elettriche, ma che Goehring e Rozencwajg prendono in esame per giungere alle conclusioni opposte. Non solo, o tanto, per una questione finanziaria o di giustizia sociale, ma per l’impatto su quello che dovrebbe essere il loro primario se non unico obiettivo: ridurre i consumi di petrolio.

“La Norvegia è uno dei paesi più ricchi del mondo, con un Pil pro-capite di 106.000 dollari nel 2022.

Nonostante l’impressionante livello di benessere, il governo deve ancora incentivare finanziariamente i suoi cittadini ad acquistare gli Ev, con importanti ripercussioni sulle finanze norvegesi” (1. Un peso per la spesa pubblica, che crea iniquità).

Oltre agli incentivi fiscali all’acquisto, vi sono l’esenzione da qualsiasi pedaggio stradale e traghetto, l’utilizzo delle corsie preferenziali, parcheggi e ricarica gratuiti nelle aree comunali, «diritti di ricarica» nei condomini.

Quasi 4 miliardi di dollari di spesa pubblica all’anno (tanto quanto per la manutenzione di autostrade e infrastrutture pubbliche) hanno consentito l’incredibile livello di penetrazione dell’auto elettrica in Norvegia, senza tuttavia registrare nessun calo significativo dei consumi petroliferi (par. 2), né di conseguenza, delle emissioni di carbonio.

(L’emissione di CO2 nell’atmosfera è semplicemente una gigantesca bufala! Come fa la Co2 a volare nell’alta atmosfera se è più pesante dell’aria? N.D.R.)

“Nonostante il 20% di tutti i veicoli in circolazione sia elettrico, la domanda di benzina e diesel in Norvegia è diminuita solo del 4%”.

Numeri solo apparentemente contraddittori.

Com’è possibile un simile risultato?

La risposta sembrerebbe piuttosto semplice: acquistare un’auto elettrica non equivale ad usarla o a sostituire un motore termico.

“Dal 2010 al 2022, la Norvegia ha aggiunto 550.000 Ev, ma il numero di Ice su strada, invece di diminuire, è aumentato di 32.630 unità”.

 Questo perché famiglie molto abbienti possono permettersi di acquistare, grazie al generoso sussidio pubblico, e mantenere entrambe le tipologie di auto per usarle a seconda delle necessità.

“Quando una famiglia preferisce evitare un pedaggio stradale o il costo del traghetto, avere accesso a parcheggi o tariffe gratuite, o evitare la congestione utilizzando le corsie riservate agli autobus, utilizza il proprio veicolo elettrico, mentre quando va nelle case di montagna, usa l’auto tradizionale”.

A questo esiguo calo dei consumi di benzina e diesel vanno poi contrapposti le emissioni provocate dalla produzione dell’auto elettrica, anche se avvenute altrove, soprattutto in Cina.

 Secondo i calcoli degli autori, “l’introduzione degli “Ev” in Norvegia ha aumentato drasticamente le emissioni di CO2 lungo l’intero ciclo di vita.

 Ciò è incredibilmente vero nonostante la Norvegia abbia il sistema idroelettrico a più basso contenuto di carbonio al mondo”.

Meno efficienti di quanto si pensi.

La seconda parte dell’articolo è dedicata a smontare un secondo radicato convincimento relativo all’auto elettrica: la sua maggiore efficienza energetica rispetto a un veicolo” Ice”.

 

“Secondo un’ampia letteratura, gli “Ice” sono efficienti solo al 40% (…).

Un motore elettrico, invece, trasferisce quasi il 90% della sua energia elettrica direttamente alle ruote.

 La differenza porta molti a concludere erroneamente che un “Ev” sia quasi tre volte più efficiente di un” Ice”.

Questa comune argomentazione è fondamentalmente errata per tre ragioni: innanzitutto, non considera l’energia necessaria per produrre la batteria;

 in secondo luogo, non distingue tra energia termica ed elettrica;

e in terzo luogo, non tiene conto della scarsa efficienza energetica delle energie rinnovabili”.

Ragioni che vengono opportunamente argomentate da Goehring e Rozencwajg con un generoso utilizzo di dati e stime, in particolare il terzo punto sull’inefficienza delle rinnovabili, che gli autori rafforzano con un sottoparagrafo dedicato al ritorno energetico sull’investimento (par. 3.1), parametro che indica l’energia totale richiesta per produrre varie forme di energia e integrato per calcolare l’efficienza automobilistica:

 “assumendo 100 kWh di energia termica disponibile, quanta distanza può aspettarsi di percorrere un conducente su un “Ice” rispetto a un “Ev”? (…) Utilizzando questo approccio, la gara non è nemmeno serrata: l’Ice vince «a mani basse»”.

Nette le conclusioni (par 4): “Mai nella storia un «motore primario» meno efficiente ne ha sostituito uno più efficiente. Crediamo che questa volta non sarà diverso”.

Realtà e illusioni della transizione energetica.

Proprio come recita il titolo dell’articolo (L’illusione norvegese), quella dell’auto elettrica come soluzione per ridurre i consumi petroliferi, e quindi le emissioni, sarebbe una vera e propria illusione, così come lo è prendere a riferimento il caso della Norvegia, per molti aspetti più unico che raro.

Ed è per questo che l’articolo va a comporre, all’interno del numero 2.24 della rivista ENERGIA, un blocco dedicato alle realtà e illusioni della transizione energetica assieme a quelli di GB Zorzoli e di Vaclav Smil.

Il primo solleva la questione dei danni atmosferici alle rinnovabili, apparentemente ovvia ma troppo a lungo colpevolmente negata in Europa dai promotori delle rinnovabili per “l’inconscio timore di non riuscire a contrastare tempestivamente il cambiamento climatico”. 

Lo studioso ceco mette a nudo i fabbisogni materiali della transizione ribadendo che “la difficoltà e la complessità della decarbonizzazione dell’offerta energetica globale sono state ampiamente e ripetutamente sottovalutate” e dal quale emerge l’irrisolvibile paradosso di una domanda temporaneamente più elevata di energie fossili per favorire lo sviluppo delle rinnovabili.

(Il post presenta l’articolo di Leigh R. Goehring e Adam A. Rozencwajg L’illusione norvegese pubblicato su ENERGIA 2.24 -pp. 22-26)

(Leigh R. Goehring e Adam A. Rozencwajg -Goehring & Rozencwajg)

 

 

 

 

 

L’inganno massonico dell’ufologia,

degli alieni e della New Age.

  Lacrunadellago.net- (25/07/2024) – Cesare Sacchetti – ci dice:

 

Quando il celebre regista di Quarto Potere, Orson Welles, annunciò nel 1938, nel corso del suo programma radiofonico sulla CBS, che era in corso una invasione marziana sulla Terra, si scatenò del vero e proprio panico tra il pubblico americano.

Il cittadino comune americano credeva veramente che degli esseri da altri mondi stessero venendo per colonizzare il pianeta Terra in quella che è stata una vera e propria anticipazione, o forse dovremmo inizio di programmazione, di tutta la cinematografia hollywoodiana della seconda metà del’900.

A Hollywood la fantascienza è diventato non soltanto uno strumento per raccontare di storie di presunti visitatori di mondi lontani e stimolare così l’immaginario collettivo degli spettatori affascinati dalla possibilità che laggiù nel profondo della galassia potesse esserci qualche altra forma di vita.

Il cinema è servito a ben altro.

Il cinema è servito a preparare il grande pubblico all’idea che là fuori ci sono dei cosiddetti “extraterrestri” che da un momento all’altro potrebbero sbarcare sulla Terra e colonizzare tutto ciò che c’è questo pianeta e ridurre la razza umana in uno stato di schiavitù permanente.

 

È l’idea di fondo della pellicola uscita nel 1996 “Independence Day” nel quale il presidente degli Stati Uniti, sin troppo scontato come scenario, stringe attorno a sé i potenti del mondo in una sorta di coalizione globale per sconfiggere la minaccia esterna e dare vita ad una sorta di governance mondiale sotto l’egida ovviamente di Washington.

E negli anni precedenti a questo film, è stato proprio un presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, frequentatore del “club esoterico del Bohemian Grove” nel quale i potenti dell’America si riunivano ogni anno, a ventilare la possibilità che un giorno il mondo avrebbe dovuto stringersi attorno ad un corpo governativo mondiale per respingere appunto la fantomatica minaccia venuta dallo spazio.

Gli annunci di Reagan su una possibile invasione “aliena”.

I leader del mondialismo sono da tempo alla ricerca di una qualche crisi ideale, una sorta di tempesta perfetta, per poter creare uno stato di emergenza artificiale e costringere così le nazioni a rinunciare alla loro sovranità come abbiamo potuto vedere ai tempi della farsa pandemica.

Costoro vogliono la fine della civiltà del passato delle nazioni e dei loro poteri, ma soprattutto vogliono l’inizio di una nuova civiltà nella quale il governo mondiale mette definitivamente al bando la religione cristiana e soprattutto quella cattolica tradizionalista considerata la vera e propria bestia nera della massoneria, degli ambienti iniziatici e dell’ebraismo che ha fatto di tutto per soggiogare la Chiesa e infiltrarla, riuscendoci purtroppo con il nefasto Concilio Vaticano II.

Si pensi per un istante al passaggio che la Chiesa Cattolica ha compiuto dopo la morte del compianto Pio XII, pontefice ancora oggi calunniato dalla stampa liberale a differenza invece di Roncalli e Montini, pontefici iscritti, secondo fonti molto serie, alla massoneria e sempre pronti a ricevere i capi delle logge, anche ebraiche, come accadeva nel 1966 quando Paolo VI dava udienza ai leader della massoneria ebraica del “B’nai B’rith.”

L’ufologia però è forse ancora più insidiosa nella lotta al Nuovo Ordine Mondiale, poiché ci sono diverse persone, alcune in buonafede altre in malafede, che affermano che si possa combattere questa battaglia anche da posizioni che non siano necessariamente allineate alla cristianità ma anche da punti di vista esoterici.

Quanti sono là fuori coloro che si proclamano seguaci del negromante e occultista “Giordano Bruno”, già spia della monarchia britannica, eretto dalla massoneria a falso mito del libero pensiero di radica illuminista e illuminata?

Non sappiamo quantificarli ma di una cosa siamo certi.

 Non sono contro la massoneria, non sono davvero contro l’idea di un moloch mondialista, e se in cuor loro pensano in qualche modo di esserlo purtroppo si sbagliano di grosso in quanto stanno predicando la religione del Nuovo Ordine Mondiale.

Le origini dell’ufologia: la teosofia di Madame Blavatsky.

L’ufologia è parte di questa falsa religione e le sue radici infatti sono puramente occulte ed esoteriche.

I primi a dichiarare di aver aperto dei portali o dei metodi di contatto con gli “esseri celesti” sono stati i seguaci della” società teosofica di madame Blavatksy” vissuta nel XIX secolo.

Appare surreale ma c’è davvero qualcuno convinto che la donna che ha fondato tale società nel 1875, e che era iscritta alla loggia massonica dell’Antico e Primitivo Rito fondata dal libero muratore inglese “John Yarker”, il quale aveva insignito l’occultista di origini russe di un certificato massonico di alto grado, sia in qualche modo un riferimento contro i poteri che dominano, o meglio che dominavano, questo mondo.

Who was Helena Blavatsky?

Madame Blavatksy nel suo celebre saggio “La dottrina segreta” affermava esplicitamente che il vero dio ai suoi occhi non era quello cristiano, chiamato “Adonai” e descritto come una sorta di sadico tiranno, ma “Lucifero” che avrebbe liberato gli uomini dal giogo di Dio per consegnare loro il dono della conoscenza o meglio della “gnosis” che avrebbe fatto degli uomini delle divinità viventi.

L’inganno gnostico è quello di far credere all’uomo che egli possa raggiungere la sua salvezza da sé, senza passare dal sacrificio di Cristo che si è fatto uomo per consentire all’umanità di ricucire quel rapporto tra Dio e uomo che era stato incrinato, per così dire, dopo che era stato commesso il peccato originale.

Cristo cambia la storia.

 Cristo consente all’uomo di tornare a Dio, ma lo gnosticismo alla base della filosofia di madame Blavatksy lo porta invece a seguire un culto che mette l’uomo al centro dell’universo e non dio, consegnando l’uomo ad uno stato di dannazione eterna.

E’ l’inganno luciferiano esaltato dalla fondatrice della società teosofica che aveva talmente tanta ammirazione per Lucifero dal chiamare la sua rivista “Lucifer”, così come una delle sue eredi, “Alice Bailey”, nota esponente della teosofia, e che fondò nel 1922 una organizzazione chiamata “Lucifer Trust” –  il cui nome poi è stato cambiato in “Lucis” perché “Lucifer” era evidentemente troppo rivelatore – che ancora oggi dispone di un seggio permanente alle Nazioni Unite.

Tale circostanza ci aiuta a comprendere quale filosofia governa davvero le Nazioni Unite nate sulle macerie della seconda guerra mondiale.

L’ONU non è altro che un archetipo del governo mondiale e la sua religione è lungi dall’essere quella cristiana, quando in realtà essa è di chiara ispirazione esoterica e pagana come si può vedere nella stanza presente nel palazzo di vetro dedicata non alla preghiera ma alla meditazione.

Non c’è rapporto con Dio in questi luoghi ma con una religione panteista ed ecumenica che mira ad accomunare ogni singolo credo presente sul pianeta in una unica fede umanista ed umanistica nella quale alla fine il “vero” dio assume le sembianze di Satana.

La “Blavatksy” è stata la prima nell’età moderna ad inaugurare la scuola dei cosiddetti “contattisti”, coloro che dichiarano di poter comunicare con entità spirituali di altri mondi, tra i quali si annovera un certo “Rakorski”, figura centrale nella teosofia e maestro illuminato che aiuterà l’umanità, a detta dei teosofi, ad entrare nella cosiddetta “Età dell’Acquario,” un periodo storico nel quale non ci sarà più la civiltà cristiana “sostituita da questo culto esoterico globale”.

“Rakorski” è un nome interessante e sul quale torneremo più avanti. Ora ci interessa approfondire il passaggio successivo nell’era dei contatti con esseri venuti da altri mondi e a raccogliere il testimone della “Blavatksy” è stato senza dubbio il famigerato mago e occultista “Aleister Crowley”.

Crowley e l”alieno” Lam.

Crowley, che amava farsi chiamare la” bestia 666”, numero del Diavolo, nel marzo del 1918 in un appartamento nei pressi di Central Park, a New York, aveva iniziato dei complessi riti esoterici chiamati “i lavori di Alamantrah” con i quali era riuscito ad entrare in contatto con una entità di nome “Lam” che, come i lettori stessi possono vedere qui sotto, non è altro che la fotocopia di quello che oggi viene chiamato “alieno grigio”.

L’entità demoniaca chiamata” Lam” da “Crowley” è la fotocopia del cosiddetto “alieno grigio”.

Crowley apriva dei portali esoterici attraverso i quali queste entità demoniache trasmettevano i loro messaggi e iniziavano l’uomo al culto di un’altra religione, molto distante da quella cristiana, e di natura gnostica e satanica.

L’ufologia esplose poi definitivamente dopo la seconda metà del’900 quando iniziarono a pullulare tutta una serie di culti quali i raeliani, Scientology e l’Ordine del Tempio Solare.

Non si tratta, come si vede, soltanto di provare a dimostrare l’ipotesi erronea che altri essere intelligenti esisterebbero in altre parti dell’universo, ma si tratta di fondare un nuovo culto dove Dio sostanzialmente sparisce per essere sostituito dai cosiddetti “alieni” che altro non sono che i tradizionali demoni sotto mentite spoglie.

“Padre Amorth “ci aveva messo in guardia su questo.

 Padre Amorth aveva chiaramente detto che le manifestazioni dei cosiddetti UFO e degli alieni altro non sono che attività sataniche che cercano di ingannare l’uomo e fargli credere che i creatori del pianeta e dell’umanità siano degli immaginari esseri extra terresti venuti da remoti piani.

E la prova di quanto detto dal compianto esorcista è nelle testimonianze di tutte quelle persone che sono state vittime dei famigerati “rapimenti alieni”.

Se si dà uno sguardo al sito “Alien Resistance” di “Guy Malone”, un autore americano vittima di tale esperienza come molte altre persone, si vede chiaramente come coloro che subiscono il “rapimento” sono vittime della classica possessione demoniaca e presentano tutti i sintomi di tale problema, quando iniziano a parlare in antiche lingue sconosciute, a levitare e manifestare tutta una serie di altri fenomeni chiaramente preternaturali.

Queste persone non sono tormentate dai marziani ma dai demoni e questo è l’inganno più grande che il mondo ufologico vuole perpetuare.

Lo stretto rapporto tra mondialismo e ufologia.

Non stupisce infatti che attorno a tali ambienti ci siano personaggi molto potenti e vicini a istituzioni globaliste, quali “Maurice Strong”, già sottosegretario generale delle Nazioni Unite nel 1970, spia della intelligence britannica e membro dell’”Ordine dell’Alba Dorata”, una influente società segreta esoterica fondata nel 1887 da “William Robert Woodman”, “William Wynn Westcott”, e “Samuel Liddell Mathers”, tutti e tre membri della massoneria.

 

Maurice Strong nel 1972.

Strong aveva un ranch nel Sud del Colorado, il ranch di Baca, dove erano frequentissimi gli avvistamenti di UFO e altri fenomeni di natura paranormale.

Baca divenne un vero e proprio tempio della meditazione esoterica nel quale pullulavano culti buddisti, tempi indù, riti sciamanici e vedici ma non, come avranno notato alcuni lettori, culti cristiani tantomeno cattolici tradizionalisti, considerati come il fumo negli occhi da tali esoteristi.

Ad assistere alla realizzazione di una sorta di tempio per l’edificazione di un nuovo ordine planetario, ci fu l’influente think-tank dei “Rockefelle”r, l’”istituto Aspen”, del quale fanno parte in Italia tra gli altri, “Romano Prodi” e “Giulio Tremonti”, e talmente questo luogo divenne iconico e significativo per i mondialisti che si recarono in pellegrinaggio a visitarlo persino gli stessi Rockefeller assieme ai Rothschild e a Henry Kissinger.

 

Il cuore del Nuovo Ordine Mondiale aveva e ha un fortissimo interesse per l’ufologia, a questo punto definibile come una branca della demonologia, poiché essa serve a scardinare l’idea che l’uomo è stato creato da Dio per aprire la porta invece alla falsa religione gnostica luciferiana.

Se si giunge ai tempi più moderni per ciò che riguarda il filone dei contattisti, crediamo che molti già sappiano chi sia “David Icke”.

Icke non nasce inizialmente come divulgatore della teoria che i cosiddetti rettiliani governino il mondo ma come un calciatore e un politico del partito verde che poi successivamente viene reinventato come “diffusore della teoria aliena”.

La storia degli “alieni” rettiliani che governerebbero il mondo in realtà non è nemmeno di Icke stesso.

Il primo a diffondere tale “idea” è stato l’occultista “Maurice Doreal” che negli anni’30 del secolo scorso fondò la” Fratellanza del Tempio Bianco, e diffuse la storia che presunte entità rettiliane erano quelle che in realtà controllavano il mondo.

Doreal si ispirava largamente alle teorie della teosofia che sono alla base anche di quelle di David Icke.

Icke infatti afferma di essere entrato in contatto con la stessa entità con la quale erano in contatto la Blavatksy e la Bailey, il citato Rakorski, definito dal divulgatore britannico come “il signore di tutta la creazione” e “responsabile per tutto il cambiamento che la Terra subirà”.

L’esoterista, perché di questo chiaramente si tratta, britannico afferma inoltre che tale Rakorski in realtà non sarebbe altri che una presunta manifestazione del misterioso conte francese di Saint Germain.

 

Saint Germain era noto ai suoi tempi, nel XVIII secolo, per essere un frequentatore dell’alta società e un massone di altissimo rilievo.

C’è un alone di mistero sulle sue origini, e si pensa che sia originario di una famiglia portoghese di origini ebraiche, ma durante la sua epoca viene ricordato soprattutto per le straordinarie doti linguistiche e musicali di cui era in possesso, tanto da far dire che il conte suonava come se fosse un’unica orchestra.

Talmente “mitica” divenne la sua figura che nel secolo successivo la teosofia lo colloca tra i “Maestri della Sapienza”, attribuendogli poteri magici e mistici che soltanto questi pochi “eletti” avrebbero.

“Icke” è da tali fonti che trae ispirazione per la sua attività divulgativa, e appare chiaro che attorno alla sua figura c’è una evidente aura massonica, poiché tutta la sua stessa filosofia è massonica.

Non desta stupore dunque che il divulgatore della teoria dei rettiliani sia stato anche accusato di essere un membro della massoneria e sono state mostrate delle sue fotografie che lo ritraggono all’interno delle logge, e se ciò dovesse essere vero, riteniamo sia perfettamente coerente con quanto affermato dall’ex membro del partito verde.

“Icke” serve perfettamente gli scopi delle logge attraverso le sue menzogne New Age sugli “alieni” e contribuisce a fare ciò che questi ambienti iniziatici vogliono, ovvero la scristianizzazione delle masse.

Non deve sorprendere nemmeno che “Icke” ripeta il motto del “ci salviamo da soli” in quanto tale mantra gnostico, così di casa anche sui canali della falsa controinformazione italiana, conduce l’uomo alla sua rovina e lo allontana dall’unica possibilità di salvezza che è quella della fede in Cristo.

Questa rete di canali e blog che insistono molto sulle tematiche della “New Age”, della teosofia, dell’esoterismo, dello yoga e degli “alieni” non hanno altro scopo che condurre sulla strada della rovina quegli ingenui, in diversi casi veri e propri stolti, che li frequentano e che si illudono di essere usciti dalla rete del mondialismo, quando in realtà sono rientrati in tale sistema da un ingresso secondario.

La falsa controinformazione può essere definita in questo senso una sorta di “backdoor” dei media mainstream.

Dal momento che le masse non credono più ai media, allora sono stati costruiti questi canali alternativi nei quali pullulano gli stessi inganni esoterici e gnostici che si trovano sui mezzi di comunicazione tradizionali usati dalla massoneria.

È evidente l’allineamento in questo senso dei due poli.

Soltanto un mese fa, La Stampa e La Repubblica di proprietà degli Elkann pubblicavano un articolo nel quale si riferiva che i fantomatici alieni vivrebbero nascosti sotto la Terra.

A fare tale affermazione sono stati i ricercatori di una delle università più vicine all’establishment, quale quella di “Harvard”.

Se si fa un giro sui cosiddetti canali dei media alternativi, si incorre negli stessi inganni.

Potremmo definire tutto ciò come un assalto finale.

 La partita politica del mondialismo è stata perduta dopo il fallimento della farsa pandemica e ora si cerca di dannare spiritualmente le persone tramite la menzogna degli extraterrestri come creatori della vita umana.

Noi ci sentiamo soltanto di fare questa raccomandazione finale.

Qualora i lettori dovessero incappare in questa rete e qualora si ritrovino a dover fare i conti con divulgatori che parlano di “alieni” e di tutto ciò che attiene al mondo della New Age sappiano che sono finiti dritti tra le braccia degli emissari delle massonerie.

C’è una semplice evidenza da seguire. Non si può combattere il Nuovo Ordine Mondiale con la sua stessa falsa religione.

Lo si può combattere soltanto con la fede cattolica e cristiana.

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Ci vogliono uccidere!