L’arma dell’energia.
L’arma
dell’energia.
L’Arma
dell’Energia di UE e Ucraina
Contro Ungheria e Slovacchia.
Conoscenzealconfine.it
– (25 Luglio 2024) - Gianandrea Gaiani – analisi difesa -ci dice:
Una
“tempesta perfetta” sembra pronta ad abbattersi su Budapest e Bratislava.
Mentre
diverse nazioni della UE annunciano di voler boicottare la presidenza di turno
dell’Ungheria e il premier Victor Orban, “colpevole” di cercare (per conto di
Donald Trump) la pace nel conflitto in Ucraina, una “tempesta perfetta” sembra
pronta ad abbattersi su Budapest e Bratislava.
Anche
la Slovacchia è nel mirino della UE da quando al governo è tornato Robert Fico,
che ha sospeso le sanzioni a Mosca e gli aiuti militari all’Ucraina venendo poi
quasi ucciso in un attentato.
Slovacchia
e Ungheria hanno dichiarato il 18 luglio di aver smesso di ricevere petrolio
dal fornitore chiave “Lukoil”, dopo che l’Ucraina il mese scorso ha imposto un
divieto di transito alle risorse dalla compagnia energetica russa attraverso il
suo territorio.
L’iniziativa
evidenzia l’instabilità delle rimanenti forniture di petrolio russo all’Europa
attraverso l’oleodotto sovietico “Druzhba”, l’ultima grande via di rifornimento
di petrolio russo verso il continente.
Sia la
Slovacchia che l’Ungheria hanno affermato che continuano a ricevere petrolio da
altre società russe, nonostante l’interruzione delle forniture da parte di
Lukoil.
Budapest dipende dal petrolio russo per il 70
per cento del suo fabbisogno e non ha mai aderito agli appelli di USA e UE a
diversificare i fornitori rinunciando all’energia di fonte russa:
anzi, Orban ha firmato negli ultimi due anni
nuove intese energetiche con Mosca.
l
ministero dell’Economia slovacco ha dichiarato il 18 luglio che le consegne di
petrolio da Lukoil hanno smesso di fluire verso la Slovacchia attraverso
l’Ucraina, in seguito all’inclusione della società nell’elenco delle sanzioni
ucraine.
“Secondo
i dati della compagnia petrolifera slovacca “Transpetrol”, le consegne di
petrolio russo alla Slovacchia non sono state fermate. Secondo la raffineria
slovacca “Slovnaft” il problema sono le consegne del fornitore Lukoil“, ha
detto il ministero, aggiungendo che” Slovnaft” si è assicurata le consegne da
un altro fornitore.
Il
ministero ha riferito anche che sta discutendo la questione con i partner
ucraini mentre il primo ministro slovacco Robert Fico ha detto che “l’inclusione della Lukoil russa
nell’elenco delle sanzioni, sia solo un altro esempio di una sanzione assurda
che non danneggia la Russia, ma soprattutto alcuni paesi dell’UE, il che è
inaccettabile”, si legge nella nota.
Tra
l’altro i nuovi ordini dell’industria slovacca sono scesi dell’1,2 per cento
tra maggio 2023 e maggio 2024, come ha reso noto ieri l’Ufficio di statistica
di Bratislava.
Il
presidente slovacco Peter Pellegrini ha detto che la Slovacchia non si unirà al
boicottaggio della presidenza ungherese dell’UE dopo la visita del premier Viktor
Orbán a Kiev, Mosca e Pechino nel tentativo di avviare un negoziato per la pace
in Ucraina.
“Voglio chiarire che finché l’Ungheria
presiederà il Consiglio dell’Ue, la Slovacchia non si unirà a nessun tentativo
di boicottaggio dell’Ungheria”, ha detto Pellegrini.
“La
Slovacchia non vede alcun motivo per punire l’Ungheria, che è un Paese
indipendente, per le azioni del suo primo ministro, anche se non piacciono a
nessuno.
Ha
aggiunto che nessuno può essere punito per aver voluto instaurare un dialogo e
la Slovacchia non lo farà”.
Fico
aveva già dichiarato che i rappresentanti della Slovacchia nelle istituzioni
dell’Ue non avrebbero appoggiato la punizione dell’Ungheria per la visita di
Orban a Mosca e a Pechino.
Orban si è recato a Kiev il 2 luglio, dove ha
incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky;
il 5
luglio è arrivato a Mosca per incontrare il presidente Vladimir Putin; l’8
luglio ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping a Pechino.
Il
giorno successivo è arrivato a Washington, dove ha incontrato il presidente
turco Recep Tayyip Erdogan nell’ambito del vertice NATO: un viaggio che ha suscitato
un’ondata di critiche da parte dell’Unione Europea.
La
Russia continua a fornire gas all’Europa attraverso l’Ucraina, nonostante
l’invasione di Mosca nel febbraio 2022 e il conseguente conflitto militare.
Il 16
luglio il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto, ha affermato che le
spedizioni di gas dalla Russia all’Ungheria fluiscono senza ostacoli attraverso
il gasdotto “Turkstream” sul Mar Nero, ma il petrolio non viene più trasferito
da Lukoil attraverso l’Ucraina.
“A causa di una nuova situazione legale in Ucraina,
Lukoil non effettua più consegne in Ungheria; ora stiamo lavorando a una
soluzione che consentirà di riavviare il transito, poiché il petrolio russo è
molto importante per la nostra sicurezza energetica”.
Come
ricorda l’agenzia di stampa “Energia Oltre”, alcune fonti del settore affermano
che circa 1,1 milioni di tonnellate al mese di petrolio russo (circa 250.000
barili al giorno) sono state esportate attraverso il tratto meridionale di “Druzhba”,
di cui circa 900.000 tonnellate sono quasi equamente divise tra Slovacchia e
Ungheria.
La
compagnia energetica ungherese MOL possiede raffinerie in Ungheria e Slovacchia, entrambe alimentate dal tratto
meridionale dall’oleodotto” Druzhba”.
Le raffinerie necessitano di ingenti
investimenti per diversificare le raffinerie del Danubio e di Slovnaft lontano
dal petrolio Urals.
Szijjarto ha dichiarato che una soluzione
legale su cui MOL sta lavorando consentirebbe a Lukoil di trasportare petrolio
in Ungheria attraverso l’Ucraina e la Bielorussia.
Il
portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha definito le interruzioni del transito
petrolifero russo attraverso l’Ucraina “una crisi” per gli acquirenti di
petrolio interessati, ma ha detto che c’è poco spazio per colloqui con le
società di transito ucraine, perché la decisione è politica.
“Non
penso avremo la possibilità di entrare in contatto con le aziende ucraine che
forniscono il transito. Questa decisione non è stata presa a livello tecnico,
ma politico”, ha detto Peskov, aggiungendo che “non abbiamo dialogo, la
situazione è piuttosto critica per i nostri beneficiari di petrolio, ma non
dipende da noi”
La
compagnia energetica ungherese MOL possiede raffinerie in Ungheria e
Slovacchia, entrambe alimentate dallo sperone meridionale dell’oleodotto
Druzhba.
Il
ramo meridionale dell’oleodotto Druzhba corre attraverso l’Ucraina verso la
Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria, ed è da anni la principale fonte
di approvvigionamento per le loro raffinerie.
Rosneft,
Lukoil e Tatneft sono stati i principali esportatori russi lungo questa rotta.
Per
comprendere il clima che si è creato in alcuni stati membri della Ue nei
confronti dell’Ungheria, basta osservare le dichiarazioni del ministro degli
Esteri estone, Margus Tsahkna:
“Abbiamo
il dovere di inviare all’Ungheria un forte messaggio politico che le azioni
intraprese durante la sua presidenza del Consiglio dell’Ue sono inaccettabili e
che, qualora continuasse a tenere immutato il proprio profilo, tra pochi mesi
non sarà più possibile collaborare”.
(clima surreale… chi cerca di avviare
un tentativo di pacificazione viene visto di malocchio e boicottato in tutti i
modi… questa è la “democratica” Europa! – nota di conoscenze al confine)
Tsahkna ha a tal proposito sottolineato che
la possibilità di applicare la limitazione del diritto di voto dell’Ungheria è
stata presa in considerazione in sede Ue, sebbene nessuna decisione sia stata
ancora adottata.
Il ministro ha inoltre ribadito la necessità
di sostenere l’Ucraina con misure concrete.
“L’Ucraina
combatte per la libertà e il futuro di tutti noi”, ha detto Tsahkna.
“Sono
convinto che sia lo strumento europeo per la pace e che l’utilizzo delle
entrate dei beni statali congelati dalla Russia per sostenere l’Ucraina daranno
buoni frutti “.
Per
comprendere la posizione dell’Estonia basti pensare che il governo ha dato il
via alla costruzione di 600 bunker di cemento al confine con la Federazione
Russa per frenare una (possibile secondo loro) “invasione”.
Le
autorità estoni prevedono di iniziare a creare una linea difensiva lungo il
confine russo nel 2025, che comprenderà anche barriere anticarro e filo
spinato, come ha riferito il portale statale estone ERR.
Come
ha ricordato” Analisi Difesa”, a fine anno cesseranno anche i flussi di gas
russo attraverso i gasdotti ucraini, aspetto che metterà in crisi soprattutto
Ungheria, Slovacchia e Austria tenuto conto che, al di là delle dichiarazioni
dei vertici della UE, nei mesi di maggio e giugno il maggior fornitore di gas
all’Unione Europea è stata proprio la Russia.
Le tre
nazioni della Mitteleuropa, nessuna delle quali arma Kiev, rischiano quindi di
subire danni molto gravi dall’interruzione delle forniture energetiche russe
via Ucraina e restano quindi suscettibili di pressioni politiche ed economiche
da parte di Kiev e della UE.
Del
resto uno degli obiettivi della seconda Commissione von der Leyen è la riforma
dei trattati per togliere potere ai “piccoli” stati europei tra i quali vengono
sicuramente considerati Slovacchia e Ungheria.
Come
spesso accade ed è accaduto nella UE, il rigore si applica solo ai “piccoli” e
ai governi dissenzienti rispetto alle politiche comunitarie che – dal sostegno
militare all’Ucraina al riarmo, dalle sanzioni alla Russia alle politiche green
– stanno mettendo in ginocchio le economie europee e continueranno a farlo.
Basti
pensare che nonostante le sanzioni contro la flotta mercantile russa, numerose
navi con la bandiera della Federazione continuano a raggiungere i porti e le
chiuse tedesche grazie alle deroghe concesse alla norma comunitaria.
Ben
132 i casi rilevati secondo l’Ufficio federale dell’economia e del controllo
delle esportazioni, come riporta “Der Spiegel”.
Nel 2022, 80 navi russe hanno potuto fare
scalo in Germania, 38 l’anno scorso e 14 dall’inizio dell’anno.
Per
fare un confronto: nel 2021, prima dell’entrata in vigore delle sanzioni, ci
sono stati 365 arrivi nei porti tedeschi.
Le
eccezioni per la flotta russa, che conta un totale di circa 2.800 navi,
riguardano principalmente l’acquisto, l’importazione e il trasporto di prodotti
agricoli come fertilizzanti, alimenti o prodotti medici e farmaceutici.
Esistono
anche permessi per materie prime o prodotti chimici.
Molte
eccezioni riguardavano anche il Canale di Kiel, che divide lo
Schleswig-Holstein all’incirca a metà.
Oltre
alle navi russe che si dirigono verso le chiuse e i porti tedeschi, riporta
ancora “Der Spiegel”, ci sono una serie di altre navi che, nonostante le
sanzioni, continuano a portare molti soldi nelle casse di guerra di Mosca,
spesso sotto la bandiera di un altro paese.
È il
caso della “flotta ombra” creata dal 2022 e che sostiene le esportazioni di
petrolio russo.
Allianz
Commercial stima che siano tra le 600 e le 1.400 navi che salpano per l’Asia
per vendere il petrolio sanzionato in Occidente.
(Gianandrea
Gaiani)
(analisidifesa.it/2024/07/larma-energetica-di-ue-e-ucraina-contro-ungheria-e-slovacchia/)
Sindrome
dell’Avana, la denuncia in un’inchiesta: “È effetto di un arma a microonde
sviluppata da Mosca”. Le vittime: “Trattati come isterici”
Repubblica.it
– (1° aprile 2024) - Tonia Mastrobuoni – ci dice:
Un'indagine
durata un anno, condotta da “The Insider” in collaborazione con “60 Minutes” e”
Der Spiegel” accusa l'unità russa “GRU 29155” di aver utilizzato microonde o
ultrasuoni contro personale governativo statunitense e alcuni membri delle loro
famiglie.
Ufficialmente
il giallo della “sindrome dell’Avana” è ancora irrisolto:
le
cause dello strano malessere che colpì dozzine di diplomatici americani e
canadesi a Cuba nel 2016 sono avvolte nel mistero.
Quel che è certo è che quegli attacchi di
nausea, quei mal di testa lancinanti associati a problemi di equilibrio e di
assordanti fischi alle orecchie, quell’insonnia persistente e quei danni alla
memoria, all’udito e alle capacità cognitive sofferti dal personale delle
ambasciate - spesso con conseguenze a lungo termine - non sono un caso isolato.
E
potrebbero essere causati da una sofisticata arma a microonde sviluppata a
Mosca e impiegata diffusamente dalle spie militari russe della famigerata unità
29155, un commando di assassini e sabotatori del Gru diffusi in tutto il mondo.
E’ l’unità di sicari, per dire, che avvelenò
sei anni fa l’ex agente russo Sergej Skripal a Londra con il gas nervino.
Un
nuovo incubo proveniente dal Cremlino.
La
“sindrome dell’Avana” è il nuovo incubo con cui il Cremlino sta terrorizzando
diplomatici, funzionari e agenti dei servizi segreti al livello globale.
Quegli
episodi continuano a essere definiti “sindrome dell’Avana” perché il paziente
zero fu individuato nella capitale cubana.
Ma
secondo ricerche di Spiegel, Insider e 60 Minutes, il fenomeno è molto più
ampio ed è riconducibile al commando di sicari del Cremlino incaricato di
eliminare i nemici in Occidente e di diffondere il panico tra spie,
ambasciatori e servitori dello Stato.
I casi.
Incidenti
simili a quelli avvenuti all’Avana si sono ripetuti ad Hanoi, Shanghai,
Belgrado, Vienna, Ginevra, Mosca, Tiblisi e Berlino.
E
un’operazione cruciale, trascurata dalle autorità americane, potrebbe essere
avvenuta a Francoforte, ben due anni prima dell’incidente a Cuba.
All’inizio
di novembre del 2014 un pugno di diplomatici del consolato americano lamentò
gli stessi sintomi descritti due anni dopo dai loro colleghi all’Avana.
Mark Lenzi era uno di loro, fu risarcito dallo
Stato ma accusa Washington di non aver indagato abbastanza, allora.
Quei
casi sono la chiave di tutto “e avrebbero dovuti essere indagati con più
attenzione”, ha raccontato allo Spiegel.
Le
testimonianze.
Per
capire di cosa stiamo parlando basta ascoltare la testimonianza di un’altra
vittima che ha parlato con “Insider” sotto falso nome: “Joy”.
È la
moglie di un funzionario dell’ambasciata americana a Tiblisi, in Georgia.
Il 7
ottobre del 2021 la donna sta tirando fuori la biancheria dall’asciugatrice
quando sente un suono acuto, simile a quello che viene usato nei film dopo una
bomba.
“Mi
perforò le orecchie, mi travolse da sinistra, come se qualcosa fosse entrato
dalla finestra direttamente nel mio orecchio”.
Joy si
sentì “immediatamente la testa pesante e mi scoppiò un mal di testa
lancinante”.
Per
fortuna la moglie del diplomatico è addestrata a situazioni d’emergenza: si
precipita con un balzo fuori dalla lavanderia. Quando raggiunge il bagno,
vomita.
Nonostante
il travolgente malessere, Joy ha la prontezza di spirito di uscire di casa, e
scorge una Mercedes nera parcheggiata fuori.
Accanto
c’è un uomo che guarda nella sua direzione. Lei lo fotografa, lui entra nella
macchina e parte.
Lei
fotografa anche la targa.
Tre
anni dopo, quando le fanno vedere la foto di una spia dell’unità 29155 del Gru,
dei servizi militari russi, la donna lo riconosce subito.
L’uomo
fermo davanti alla sua porta di casa pochi minuti dopo l’attacco è la spia
russa” Albert Averyanov”.
L’ex-Urss
e gli esperimenti.
Per
chi conosce le cronache degli orribili esperimenti condotti con materiali
radioattivi o con determinate armi acustiche o onde dai servizi segreti della
Germania comunista, la Stasi, non è una novità.
Alcuni
dissidenti furono bombardati durante la prigionia nelle famigerate carceri
politiche della “Ddr” con raggi Roentgen - i raggi X - e morirono, anni dopo,
di rarissime forme di cancro.
Anche
gli esperimenti con le microonde vengono condotti da decenni dalla Cina, dalla
Russia ma anche dagli Stati Uniti.
Tra
gli Anni ’50 e ’70 l’ambasciata americana di Mosca fu colpita regolarmente da
raggi definiti nel tempo il “segnale di Mosca”.
Da allora gli esperti di ritengono che gli
esperimenti siano andati molto avanti.
Il
settimanale Spiegel ha anche rintracciato un documento che ne parla
esplicitamente, scoperto quasi per caso.
Quando
a uno degli uomini più ricercati in Europa, l’ex vicecomandante dell’unità
29155 per le operazioni in Europa, “Ivan Terentjev”, viene chiesto
dall’autorità anticorruzione russa di spiegare l’origine di 100mila euro finiti
sul suo conto, l’agente spiega che si tratta di soldi che provengono da una
fondazione militare per una serie di esperimenti.
L’allegato
della mail che Terentjev manda ai funzionari russi ha un titolo inequivocabile:
“Potenziale
impiego di armi acustiche non mortali nei combattimenti in zone urbane”.
Effetti
devastanti.
Per
molte vittime l’attacco russo ha avuto effetti devastanti anche sulle loro vite
professionali.
Per “Marc Polymeropoulos” ha significato ad
esempio la fine della sua carriera nella Cia.
Nel
2017 è al Marriott Hotel di Mosca quando un dolore atroce lo strappa al sonno.
La sua testa rimbomba, si sente come se
qualcuno gliela trapanasse, ed è colpito da una nausea travolgente e un fruscìo
assordante nelle orecchie. Polymeropoulos pensa a un avvelenamento alimentare,
si fa prescrivere un farmaco contro la nausea.
Ma a
distanza di sette anni quei dolori e quel malessere continuano a torturarlo.
L’agente ha dovuto rassegnare le dimissioni dalla Cia.
“Ci
hanno trattati come gente afflitta da un’isteria di massa”, sostiene.
Eppure
a lui non era assolutamente venuta in mente la “sindrome dell’Avana”.
Polymeropoulos è convinto che il governo americano non voglia sapere davvero
cosa si nasconda dietro a questi micidiali attacchi che si moltiplicano in
tutto il mondo.
Cosa
accadrebbe, si chiede, se Washington scoprisse ufficialmente che il Cremlino
sta attaccando funzionari e diplomatici occidentali in tutto il mondo con
atroci armi che si rivelano spesso invalidanti?
“Gli
Stati Uniti sarebbero costretti a reagire con durezza. Evidentemente non ne
hanno molta voglia”.
Le
armi ad energia diretta:
tra
proliferazione e prospettive.
Cesi – Italia.org - Emmanuele Panero e Andrea
Russo – (18.07.2024) – ci dicono:
Giovedì
11 Luglio 2024 la “Defence Acquisition Program Administration” (DAPA) della
“Repubblica della Corea del Sud” ha annunciato l’inizio della fase di
dispiegamento di un’arma ad energia diretta lungo il confine della Zona
Demilitarizzata tra le due Coree, al fine di contrastare il rischio derivante
dalla potenziale penetrazione di droni di Pyongyang nello spazio aereo di Seul.
L’arma,
nota con il nome di “Laser Anti-Air Weapon Block I”, è prodotta dalla compagnia
nazionale “Hanwha” e risponde ai requisiti emersi all’indomani di un incidente
di sicurezza verificatosi nel Dicembre 2022, quando alcuni sistemi aerei senza
pilota (UAV – Unmanned Aerial Vehicle) nordcoreani valicarono il 38° Parallelo,
entrando nello spazio aereo della Corea del Sud.
In
quell’occasione, nonostante lo scramble dei jet di Seul, i droni non vennero
individuati né ingaggiati, riuscendo a ritornare indenni al di là della Zona
Demilitarizzata.
Al fine di rafforzare e diversificare
l’architettura di difesa aerea Seul ha effettuato da allora significativi
investimenti, soprattutto nel settore delle armi ad energia diretta.
La
Corea del Sud si aggiunge dunque al numero sempre più consistente di Paesi
intenti a condurre attività di ricerca e sperimentazione avanzata riguardo a
questo tipo di armamenti.
Se gli Stati Uniti e Israele hanno infatti
dato il via a programmi militari volti allo sviluppo di armi ad energia diretta
ormai svariati anni fa, in tempi recenti anche Francia, Regno Unito, Cina,
Russia ed India hanno prodotto prototipi e condotto test di simili sistemi al
fine di incrementare le loro capacità di difesa aerea, in modo particolare
contro assetti a pilotaggio remoto.
Si
definiscono armi ad energia diretta quelle che usano energia elettromagnetica
concentrata per incapacitare, danneggiare, disabilitare o distruggere
equipaggiamento, strutture o personale nemico.
Sebbene i laser siano entrati nell’immaginario
popolare come le armi ad energia diretta per eccellenza sin dagli anni Ottanta
(quando l’allora Amministrazione Reagan annunciò la “Strategic Defence
Initiative”, subito ribattezzata “Star Wars”, anche per via dell’ipotetico
impiego massiccio dei laser nell’architettura difensiva progettata), solo i
progressi tecnologici contemporanei hanno permesso di immaginarne
realisticamente l’uso sui campi di battaglia.
Tra i
molti impieghi teorizzati per questi sistemi d’arma, il segmento più
significativo nell’ultimo lustro concerne la difesa anti-aerea ed anti-missile,
soprattutto a corto raggio.
La
caratteristica fondamentale che distingue le armi ad energia diretta è
l’impiego dello spettro elettromagnetico per generare effetti cinetici sul
bersaglio, neutralizzando la minaccia.
L’ambiente elettromagnetico, uno dei due
ambienti operativi trasversali ai cinque domini, è stato storicamente impiegato
nella condotta delle operazioni militari in un ampio spettro di attività che
vanno dalle telecomunicazioni alla guerra elettronica fino alla guida del
munizionamento di precisione (si pensi alle bombe a guida laser, le Paveway, impiegate
dalla US Air Force sin dai primi anni Settanta).
Lo
sfruttamento dello spettro elettromagnetico per generare effetti cinetici
tramite “sistemi hard-kill” è tuttavia di più recente sviluppo.
Sebbene
i primi studi risalgano alla metà degli anni Novanta, infatti, sia le
progettualità industriali che la concezione e le dottrine di impiego sono
radicalmente mutati nel corso degli anni, in particolare in tempi recenti, a
causa della convergenza tra la maturazione tecnologica e le esigenze operative
sorte a seguito dell’incremento della minaccia aerea low-end.
Rispetto
agli armamenti tradizionali, queste armi non impiegano l’energia sprigionata
dalla deflagrazione del propellente come vettore di movimento di una munizione,
quanto piuttosto
l’energia stessa diventa la munizione da indirizzare sul bersaglio.
I
sistemi d’arma ad energia diretta possono essere, in particolare, suddivisi in
due macrocategorie, a seconda del loro principio di funzionamento:
i
sistemi basati sull’utilizzo di un laser ad alta energia (HEL – High Energy
Laser) e quelli che impiegano microonde ad alto potenziale (HPM – High Power
Microwaves).
I primi sistemi producono un fascio coerente
di energia elettromagnetica indirizzato sul bersaglio in grado di penetrare
attraverso il metallo in pochi secondi.
Questo
raggio laser, la cui potenza raggiunge solitamente le centinaia di kilowatt,
danneggia le componenti elettroniche o di propulsione di un vettore d’attacco
in avvicinamento, causandone l’abbattimento o la detonazione prematura ad una
distanza di sicurezza dal sistema d’arma.
Le armi ad energia diretta che impiegano
microonde ad alto potenziale, invece, emettono, in maniera continuativa o
intermittente, delle radiofrequenze comprese tra uno megahertz e cento
gigahertz, su un’aerea di dimensioni variabili.
Le radiofrequenze, capaci di operare in banda
stretta, larga e ultra-larga, sono in grado di danneggiare o sensibilmente
degradare i circuiti e i sensori dei proietti e dei velivoli che transitano nel
raggio d’azione del sistema d’arma, compromettendone così le capacità di
raggiungere il bersaglio.
Tali
differenze tecniche si riflettono principalmente nella capacità dei “sistemi
HPM” di ingaggiare più bersagli simultaneamente, mentre le “armi HEL” devono
necessariamente indirizzare il loro raggio su un obiettivo singolo.
I test
effettuati dalle Forze Armate sudcoreane sono solo gli ultimi in ordine
cronologico:
a
Gennaio 2024, infatti, il Regno Unito aveva sperimentato con successo il “DragonFire”,
un’arma ad energia diretta di “tipologia HE”L sviluppata congiuntamente da “MBDA”,”
Leonardo UK” e “QinetiQ”, sotto la supervisione del “Laboratorio per le Scienze
e la Tecnologia della Difesa” (DSTL – Defence Science and Technology
Laboratory).
Secondo
quanto dichiarato dal Ministero della Difesa britannico, i risultati del test
sono stati assolutamente positivi, con il sistema che si è rivelato capace di
centrare un bersaglio delle dimensioni di una moneta ad oltre un chilometro di
distanza.
Sei mesi prima, nel Giugno del 2023, la “Direzione
Generale degli Armamenti” (DGA - Direction Général des Armements) della
Repubblica Francese aveva annunciato l’inizio delle prove in mare del sistema “High
Energy Laser for Multiple Applications-Power” (HELMA-P), per l’occasione
installato sul cacciatorpediniere classe “Orizzonte Forbin”.
Nel
corso del test, il sistema ha abbattuto con successo un drone quadrocottero in
avvicinamento verso la nave, dimostrando concretamente il contributo che simili
apparati possono fornire alla difesa aerea di punto.
Tra i
sistemi più rinomati di questa categoria spicca l’”Iron Beam” israeliano, il
cui sviluppo è iniziato nel 2010 ed è stato portato avanti tramite una
collaborazione tra l’azienda locale “Rafael” e la statunitense “Lockheed Martin”.
Gli
eventi del 7 Ottobre 2023 e la conseguente guerra nella Striscia di Gaza hanno
accelerato lo sviluppo ed il dispiegamento di questo sistema, i cui prototipi
sono stati schierati al confine meridionale di Israele con l’enclave
palestinese.
È
probabile che il sistema sia stato sperimentato nel corso degli attacchi
portati da Hamas verso il territorio israeliano mediante salve di razzi tra il
Novembre 2023 ed il Gennaio 2024.
Qualora tali supposizioni venissero
confermate, si tratterebbe del primo impiego di un’arma ad energia diretta in
un contesto operativo reale.
L’entrata in servizio di “Iron Beam” è
tuttavia attesa per il 2025.
I
recenti conflitti in Nagorno-Karabak, in Ucraina ed in Medio Oriente hanno
evidenziato l’emergere di un trend generalizzato, basato sulla proliferazione
della “minaccia low-end” tramite l’impiego di tattiche di saturazione delle
difese aeree con una moltitudine di sistemi d’arma quali munizioni circuitanti,
razzi, missili, droni e proietti d’artiglieria.
Questa
dinamica ha posto in primo piano il problema dell’asimmetria tra il costo del
sistema intercettore, solitamente consistente, ed il prezzo del vettore
d’attacco, che spesso non eccede le poche decine di migliaia di dollari.
In tal
senso, i sistemi HEL possono rappresentare una soluzione costo-efficace in
grado di risolvere, almeno parzialmente, tale criticità.
Sotto questo profilo, queste armi sono in
grado di svolgere compiti di difesa a corto e cortissimo raggio (SHORAD -
Short-Range Air Defense e VSHORAD - Very Short Range Air Defense) sia
anti-aerea che anti-missile per proteggere obiettivi ad alta valenza strategica
da “sistemi aeromobili unmanned “di diversa tipologia (C-UAS – Counter-Unmanned
Air Systems) e da proietti di artiglieria, colpi di mortaio e razzi (C-RAM –
Counter-Rocket, Artillery and Mortar) ad un costo per colpo irrisorio,
solitamente inferiore ai dieci dollari.
In confronto, i missili superficie-aria
deputati alla protezione delle navi da guerra dalle minacce aeree quali gli
Aster 15, gli Aster 30 e gli SM-2 hanno costi eccedenti il milione di dollari
(più del doppio per quanto riguarda il missile statunitense SM-2).
Anche
i Close-In Weapon Systems (CIWS) per la difesa di punto, quali il Phalanx e i
cannoni multiruolo Otobreda 76/62 Super Rapido e Bofors Mk-110 presentano dei
costi di utilizzo incomparabilmente più alti.
A
titolo esemplificativo, una singola munizione DART impiegabile dal cannone
Otobreda ha un costo pari a circa 23.000 dollari.
La dicotomia tra il costo di questi vettori ed
il valore dei bersagli abbattuti è stata particolarmente avvertita durante la
crisi in Mar Rosso, dove diverse unità navali europee e statunitensi hanno
impiegato questi sistemi per neutralizzare droni e missili, spesso di
produzione locale, lanciati dai ribelli Houthi dalla costa yemenita.
L’integrazione
delle armi HEL garantirebbe inoltre requisiti logistici più contenuti e una
maggiore disponibilità immediata di colpi rispetto alle munizioni tradizionali,
posto che sia fornito al sistema un adeguato apporto energetico.
Al
contempo, tali sistemi non rappresentano una panacea in grado di neutralizzare
ogni minaccia.
A dispetto del loro considerevole livello di
sofisticazione, le armi ad energia diretta presentano ancora alcuni limiti
operativi che, al pari delle loro controparti tradizionali, le rendono
vulnerabili ad alcune tattiche di attacco aereo a bassa quota.
In particolare,
i sistemi HEL sono capaci di ingaggiare bersagli unicamente in modalità
Line-Of-Sight (LOS), ossia entro la linea dell’orizzonte e posti direttamente
in linea di tiro, a differenza di altre tipologie di armamenti intelligenti.
Inoltre,
questo tipo di difesa aerea risulta scarsamente efficace in condizioni
metereologiche avverse quali maltempo, umidità e la presenza di vapore e
polveri di vario genere nell’aria.
Queste
problematiche appaiono particolarmente rilevanti per quanto concerne l’impiego
dei suddetti sistemi sulle unità navali, il cui ambiente operativo appare
fortemente condizionato da queste variabili.
Un’ulteriore
fonte di preoccupazione riguarda il meccanismo di funzionamento stesso di
queste armi:
al
fine di danneggiare la componente elettronica di un vettore d’attacco, il laser
deve agganciare il medesimo e rimanere in puntamento per un tempo variabile
(solitamente alcuni secondi) in base a diversi elementi, inclusi l’intensità
del laser e la velocità del vettore.
Tale caratteristica, unita a dei limiti
fisiologici in materia di rateo di fuoco e di surriscaldamento, rendono il
sistema vulnerabile alle stesse tattiche di saturazione in grado di superare le
difese imperniate su sistemi difensivi più classici, quali i CIWS e i missili
superficie-aria.
Pertanto, i sistemi HEL non dovrebbero essere
concepiti quali soluzioni stand-alone per rimpiazzare gli altri sistemi di
difesa aerea a corto raggio, quanto piuttosto come un’utile risorsa a basso
costo da integrare in un sistema di difesa aerea multilivello in grado di
neutralizzare diversi tipi di minacce, anche in simultanea.
Attualmente,
il primario segmento di impiego appare riguardare la loro integrazione quali
sistemi imbarcati per la difesa di punto, con la Royal Navy che ha annunciato
l’intenzione di equipaggiare la prima unità navale con il sistema DragonFire
entro il 2027, per poi terminarne la distribuzione a tutte le principali navi
della flotta di Sua Maestà entro il 2032.
In tale veste, il DragonFire andrebbe ad
affiancare i sistemi superficie-aria PAAMS (Sea Viper secondo la denominazione
britannica) e CAMM Sea Ceptor, entrambi impiegati sulle fregate Type 26 e Type
31, denominate rispettivamente classe City e classe Inspiration, attualmente in
costruzione e destinate ad entrare in servizio nei prossimi anni.
Analogamente, il sistema Iron Beam dovrebbe
aggiungersi ad un già stratificato sistema di difesa aerea integrato come
quello israeliano, composto dai sistemi Iron Dome, David’s Sling, Arrow 2 ed
Arrow 3.
In particolare, il sistema laser dovrebbe
interagire con il più longevo Iron Dome, sfruttando i medesimi assetti deputati
all’individuazione ed al tracciamento dei bersagli, nonché alla conseguente
decisione se ingaggiarli o meno a seconda del loro punto di impatto stimato.
In
ultimo, tra il 2019 e il 2021 Lockheed Martin ha annunciato lo sviluppo di due
programmi volti ad installare armi ad energia diretta su aeromobili, incluso
uno, denominato Tactical Airborne Laser Weapon System (TALWS), finalizzato alla
realizzazione di un pod di dimensioni sufficientemente contenute da poter
equipaggiare un caccia multiruolo (l’artist conception pubblicata dall’impresa
statunitense raffigurava un F-16C del 20th Fighter Wing) e progettato anche per
l’ingaggio di bersagli aerei.
Come
funzionano le armi laser e come
gli
Stati le usano nei nuovi contesti militari.
Geopop.it
– msantoro -Redazione – (27 Ottobre 2023) – ci dice:
La
tecnologia delle armi laser sta rivoluzionando il concetto di conflitto, in un
futuro prossimo tutti gli eserciti del mondo ne saranno forniti.
Ma
come funzionano queste armi altamente tecnologiche dal punto di vista tecnico?
Le
armi laser rientrano nelle cosiddette “armi a energia diretta”, cioè armi che
letteralmente “sparano” energia.
In
questa categoria rientrano le armi acustiche e le armi elettromagnetiche, ma
noi in questo video ci concentreremo su quest’ultima categoria, che è quella in
cui rientrano le armi laser una tecnologia militare di altissima precisione nel
colpire un bersaglio.
I
fasci laser di queste armi sono estremamente veloci, riducendo al minimo le
possibilità da parte del nemico di evitare l'attacco.
Sono
utilizzate da diversi Stati perché capaci di raggiungere un bersaglio molto
velocemente e sono soprattutto usate per colpire oggetti molto piccoli, come
ordigni artigianali ma anche disattivare il motore di un camion, bruciare un
gommone o abbattere un drone.
Cos'è
un raggio laser?
LASER
è un acronimo di «light amplification by stimulated emission of radiation», in
italiano "amplificazione della luce mediante emissione stimolata della
radiazione".
Si
tratta di una forma di luce altamente concentrata e con una frequenza ben
definita.
La
caratteristica chiave che distingue un raggio laser dalla luce ordinaria è che
i raggi che escono da un laser sono allineati in maniera parallela – in gergo
tecnico si dice che sono “collimati”.
Infatti
se prendiamo una semplice lampadina bianca, qui le onde che emette si
disperdono in tutte le direzioni.
Nel
laser invece, essendo radiazione collimata, il raggio appare perfettamente
rettilineo.
Laser
con diverse colorazioni.
La
collimazione quindi rende il raggio laser incredibilmente potente con la
capacità di concentrare l'energia su un punto molto piccolo.
Un
altro aspetto importante di un raggio laser è la sua monocromaticità, il che
significa che la sua luce è composta praticamente da una sola lunghezza d'onda
di luce – a differenza, ad esempio, delle lampadine, che hanno una luce bianca
perché contiene praticamente tutte le lunghezze d’onda visibili.
In più
il laser, almeno quello che viene usato nelle armi, produce un fascio di luce
molto stretto, di solito nella regione dell'infrarosso quindi è invisibile, a
differenza dei puntatori che possiamo comprare che lavorano nella banda del
visibile – e infatti di puntatori laser su internet se ne possono trovare di
tutti i colori.
Ovviamente
quello militare è invisibile perché così il nemico avrà maggiori difficoltà nel
determinare l'origine del raggio.
Come
funzionano tecnicamente le armi laser?
Un’arma
laser è composta da 3 parti principali:
un
mezzo ottico attivo, cioè un materiale (che può essere gas, cristallo o
liquido) che se stimolato elettricamente emette luce;
un
sistema di pompaggio, che fornisce energia al mezzo attivo;
una
cavità ottica, dove si genera il raggio.
Il funzionamento di un'arma laser si suddivise
in diverse fasi.
Il dispositivo quando viene attivato invia
elettricità al mezzo ottico attivo che stimola gli atomi o le molecole a
emettere fotoni, cioè – spiegandola in modo semplice – le particelle che
compongono la luce.
ZDF –
Sistema semplificato del funzionamento di un laser.
Questa
luce rimbalza tra due specchi altamente riflettenti all'interno del dispositivo
in un processo noto come "riflessione tra specchi".
Questa
fase non solo amplifica il numero di fotoni ma mantiene anche la loro
collimazione – cioè, come abbiamo visto prima, il parallelismo tra i raggi.
Una
cosa interessante è che durante questo processo l'energia luminosa cresce in
modo esponenziale, se prendiamo in esempio il “sistema di difesa LaWS”, quando raggiunge
il punto di saturazione il laser raggiunge una potenza massima di 30 kW,
ragazzi è una potenza incredibile, a differenza di un normale laser possono
avere una potenza che va dai 5mW ai 3000mW, qui si capisce che grande
differenza c’è tra i due sistemi.
Infine,
una piccola frazione dei fotoni viene rilasciata attraverso un foro che si
trova in uno dei due specchi, creando un potente fascio laser, che può essere
indirizzato verso un bersaglio specifico.
Come
vengono utilizzate le armi laser?
Come
riportato dal sito di uno dei principali produttori di armi di questo tipo,
l’energia passa attraverso un sistema di specchi e lenti per raggiungere il
bersaglio e può disattivare il motore di un camion, bruciare un gommone o
abbattere un drone.
Le
armi laser, con la loro avanzata tecnologia, svolgono un ruolo cruciale in
numerosi contesti militari e difensivi.
Innanzitutto,
le armi laser sono efficaci strumenti per la difesa contro minacce aeree:
possono
abbattere razzi, droni anti-aerei e aerei nemici, contribuendo a proteggere lo
spazio aereo da intrusioni ostili.
Le armi laser possono essere anche impiegate
per la difesa missilistica, abbattendo missili balistici in volo e proteggendo
il territorio da possibili attacchi. Lo sviluppo di queste armi è in crescita
soprattutto da quando l'uso di droni nelle operazioni militari è più diffuso, e
le armi laser rappresentano una risposta efficace per neutralizzare droni
nemici che minacciano le forze militari o infrastrutture critiche.
US
Department of Defense.
Le
armi laser possono essere usate anche contro le persone, infatti se puntate
contro il viso, possono causare disorientamento e un accecamento temporaneo del
soldato.
Attenzione, dico temporaneo perché
l’accecamento permanente è vietato dalle nazioni unite dal 1995.
Oltre
a essere armi offensive, i laser sono anche strumenti di sorveglianza o di
difesa, infatti tramite la tecnologia laser è possibile identificare con
precisione un bersaglio così da indirizzare correttamente missili per trovare e
distruggere il bersaglio.
Possono
anche rilevare oggetti e fornire misurazioni estremamente accurate, supportando
attività di monitoraggio e raccolta di dati.
Lo sviluppo di queste armi è in costante
crescita anche per abbattere i missili ipersonici, infatti le armi laser in
teoria sono le uniche in grado di disattivare questi sistemi.
Chi
possiede le armi laser e i loro pro e contro?
Gli
Stati Uniti, ad esempio, stavano lavorando su sistemi di armi laser, inclusi il
Laser Weapon System (LaWS) e il sistema di difesa antimissile a energia diretta
(DASER), mentre l'esercito Israliano usa “Iron Beam” come sistema di puntamento
nel sistema anti razzi Iron Dome.
Anche
Russia e Cina stanno sviluppando armi laser sia per difesa che per attacco.
Sviluppare questo tipo di armi può essere vantaggioso perché non usando
proiettili, ciascun “colpo” costa meno e le armi hanno una potenza di fuoco
virtualmente infinita.
Come
contro, ancora non si sanno gli effetti sulla salute a lungo termine delle armi
laser, in più hanno un range più ridotto delle armi convenzionali, oltre al
fatto che sono sensibili alle condizioni meteo – come tempeste e nebbia.
Per
concludere:
è importante notare che l'efficacia di un'arma
laser dipende da tanti fattori, come ad esempio la potenza del raggio laser, la
precisione e il tipo di materiale del bersaglio.
Tuttavia,
il loro utilizzo è soggetto a regolamentazioni e normative, visto che possono
sollevare questioni etiche e legali, specialmente quando si tratta di utilizzo
in situazioni di conflitto.
(How
Laser Weapons are Changing the Defense Equation)
(High
Energy Laser Directed Energy Weapons)
(geopop.it/cosa-sono-le-armi-laser-e-come-vengono-utilizzate-nei-nuovi-contensti-miltari/)
(geopop.it/)
L’era
del carbone è davvero finita?
Lifegate.it – (14 ottobre 2021) - Rudi Bressa
– ci dice:
Le
centrali italiane si stanno spegnendo, ma il carbone continua ad alimentare
alcuni paesi europei e i colossi asiatici. Un ritardo che peserà sui
consumatori.
Una
lenta, inesorabile agonia.
Pare
essere questa la fine a cui sta andando incontro il carbone, uno dei
combustibili fossili più inquinanti e dalle maggiori emissioni.
Almeno in Europa.
Brutto,
sporco, ma economico e disponibile, ha segnato e continua a segnare la
produzione energetica a livello globale.
Ma il
cosiddetto “phase out” (abbandono) sembra ormai iniziato, nonostante i numeri
più recenti paiono dire il contrario, tanto da aver spinto l’Europa lo
scorso gennaio 2021 a chiederne l’abbandono a livello globale.
Il mondo brucia
ancora troppo carbone.
Il phase out
italiano dal carbone è già cominciato.
Il nodo occupazione
dopo l’abbandono del carbone.
La transizione
energetica italiana passa dal gas.
Il capacity market.
Risorsa o bluff?
Cosa fare delle
vecchie centrali, il caso Monfalcone.
Carbone.
Il
mondo brucia ancora troppo carbone.
Che il
carbone sia ormai in forte declino in tutta Europa è un dato di fatto, anche se
i segnali sono piuttosto discordanti e causati indubbiamente dalla pandemia
prima e dalla ripresa economica dopo.
Infatti la produzione globale di carbone è
scesa solo del 4 per cento nel 2020, a circa 6,9 miliardi di tonnellate.
Tutto
il mondo occidentale comunque ha visto una forte contrazione della domanda di
carbone, con 390 milioni di tonnellate nel 2020:
una riduzione del 22 per cento rispetto al
2019.
Al
contrario, la domanda del combustibile fossile in Asia è rimasta sostenuta,
tanto che la produzione cinese si è attestata a 3.690 milioni di tonnellate,
stesso valore del 2019.
Non
solo, ma l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), prevede un forte rimbalzo
nel 2021 con una domanda globale di carbone in aumento del 4,5 per cento
rispetto al 2019.
Ripresa
visibile proprio in uno dei più grandi produttori di carbone in Europa dopo la
Polonia: la Germania.
Qui la
produzione di lignite nel primo trimestre del 2021 è aumentata del 25 per cento
rispetto all’anno precedente.
(La
Cina ha ordinato -da subito -alle sue miniere di aumentare la produzione di
carbone!)
Ma è
la stessa “Aie” ad affermare, che per raggiungere le emissioni nette entro il
2050, sarà fondamentale cancellare gli investimenti “in nuovi progetti di
fornitura a combustibili fossili e nessuna ulteriore decisione di investimento
per nuove centrali a carbone”.
A
confermare che il trend sia questo c’è il recente annuncio di Enel, uno dei
principali provider energetici nazionale ed internazionale:
“A livello globale stiamo uscendo da
questa tecnologia, secondo un piano che prevede di completare il “phase out”
entro il 2027, anticipato di 3 anni rispetto al precedente obiettivo 2030”,
spiega a “LifeGate” “Luigi La Pegna”, responsabile “Hydro, geothermal and
thermal generation di Enel global power generation”.
Centrale
Andrea Palladio di Fusina.
Il “phase
out” italiano dal carbone è già cominciato.
La
tendenza italiana sembra questa.
Infatti
nel 2019 il ministero dello Sviluppo economico e del lavoro, in collaborazione
con l’allora ministero dell’Ambiente (oggi della Transizione ecologica), aveva
deciso la chiusura delle centrali a carbone entro il 2025, in linea con il
Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) di allora.
“Non
siamo lontanissimi”, spiega a “LifeGate” “Filippo Taglieri”, campaigner di
Re:common.
“Anche
se ogni centrale ha la sua storia.
Ad
esempio quelle di La Spezia e di Fusina sono in chiusura nel 2023, anche se
andavano già al minimo.
Civitavecchia
invece che abbiamo visitato recentemente ha un solo gruppo funzionante”.
In
tutto sono ancora otto le centrali funzionanti sul territorio nazionale, che
rappresentano circa 8 gigawatt (GW) di capacità installata.
“In
Italia per favorire e accelerare l’uscita dal carbone è necessario realizzare
un importante piano di sviluppo delle fonti rinnovabili e nuova capacità
flessibile in grado di rispondere alle esigenze della rete:
accumuli e, in alcuni limitati casi, nella
misura strettamente necessaria per garantire la sicurezza del sistema elettrico
nazionale, impianti a gas ad alta efficienza”, sottolinea La Pegna.
Ma se
per il responsabile della società energetica è necessario aumentare la quota di
rinnovabili e dei sistemi di accumulo, sarà fondamentale anche “ lavorare
sull’intera filiera, dalla produzione di energia elettrica al trasporto fino al
consumo”, per avere un’elettricità “prodotta sempre più da fonti rinnovabili, e
quindi senza emissioni, immessa in reti intelligenti e sempre più resilienti”.
(Gasdotto
- Italia e transizione energetica, oltre al gas c'è di più).
Nel
2020 i volumi di carbone acquistati e bruciati nelle centrali Enel sono stati
complessivamente pari a circa 6 milioni di tonnellate, parte di queste
provengono dalla miniera del Cerrejón, in Colombia, definita anche come la
“miniera della discordia”.
Come
spiega “Re:common” il Cerrejón è una delle più grandi miniere a cielo aperto
del mondo, che ha causato negli anni lo spostamento forzato di comunità
indigene e afro-colombiane e l’inquinamento diffuso dell’aria e dell’acqua.
Enel conferma che il gruppo acquista carbone
della miniera colombiana Cerrejon, attraverso la società collegata Cmc-Coal
Marketing (Cmc), ma che ad oggi sono in essere contratti stipulati in anni
precedenti con termine delle consegne entro dicembre 2021.
In linea con la strategia globale di
decarbonizzazione, il gruppo ha acquistato negli ultimi anni quantità di
carbone sempre decrescenti che a oggi rappresentano una quota marginale
dell’acquisto di combustibili.
Per quanto concerne la “Cmc” in particolare nel corso
di quest’anno 2021 è previsto l’acquisto di circa 9oomila tonnellate di
carbone.
Carbone.
Nel
frattempo la centrale termoelettrica “Federico II di Brindisi”, in funzione fin
dal 1997, lo scorso gennaio ha chiuso il primo gruppo.
Ad
oggi è tra le centrali più grandi d’Europa, e la seconda più grande in Italia:
con
oltre 10 milioni di tonnellate di CO2 emesse ogni anno, si contende il primo
posto con la centrale laziale di “Torrecavadaliga Nord” (a Civitavecchia) per
emissioni e per valore economico dei danni associati all’inquinamento.
Per lo
stesso motivo rientra anche tra le venticinque centrali col più alto impatto
ambientale d’Europa, come riportato dal think tank “Beyond Coal”.
“A
fine 2019 Enel ha chiuso la centrale di “Bastardo”, a fine 2020 ha chiuso il “Gruppo
2 “della centrale Federico II di Brindisi mentre i “gruppi 1 e 2” della Andrea
Palladio di Fusina saranno dismessi a fine di questo anno (2021, ndr), in linea
con le autorizzazioni delle autorità competenti”, conferma “La Pegna”.
Il
nodo occupazione dopo l’abbandono del carbone.
Negli
ultimi mesi ha però tenuto banco il nodo occupazionale, sia per quanto riguarda
Brindisi che Civitavecchia, due dei poli più grandi del settore energetico del
paese.
“L’impatto
sui lavoratori era già stato annunciato e lo si è notato con il calo della
domanda di energia”, spiega Taglieri.
“Sicuramente c’è un problema perché occorre
ricollocare i lavoratori: le centrali a turbogas hanno bisogno della metà dei
dipendenti, anche se la società non dovrebbe avere problemi a ricollocare
numeri che sono dell’ordine di qualche centinaio di persone”.
Attualmente
la Federico II di Brindisi occupa circa 300 persone dirette, e la prossima
chiusura significherebbe la perdita dell’indotto che si basa sulle attività
legate alla movimentazione del carbone e quindi anche sulle attività portuali,
oltre alla manutenzione e alla logistica.
(Carbone.
La centrale a carbone di Brindisi.)
Per
quanto riguarda Civitavecchia, la posizione dei sindacati e della Regione Lazio
parrebbe orientata ad una riconversione “verde” della centrale.
Per la Cisl Lazio “l’impulso per la svolta energetica
dovrebbe partire da una modernizzazione della rete elettrica e da incentivi che
permettano una transizione sempre più consistente verso la scelta di energie
rinnovabili”.
Centrale
di carbone in Germania.
Chi ha
promesso di abbandonare il carbone nel mondo.
Un
discorso a parte andrebbe fatto per la Sardegna, dove sono ancora operative le
centrali Porto Torres e di Portovesme.
La proposta che arriva sia dal governo, da
Terna (gestore della rete elettrica) e da Enel (proprietaria degli impianti in
questione) è quella di fare della regione “una vera a propria ‘isola verde’
entro il 2030, attraverso una produzione energetica a zero emissioni e
l’elettrificazione di attività e consumi”, spiega La Pegna.
“In
considerazione di alcune caratteristiche specifiche del territorio, come un
utilizzo praticamente nullo di gas e una previsione di un significativo
incremento della connessione elettrica con la penisola grazie alla
realizzazione di un nuovo collegamento (Thyrrenian Link), l’azienda ha proposto
per la Sardegna di passare direttamente ad un’alimentazione energetica da sole
fonti rinnovabili supportate da sistemi di accumulo”.
(Carbone.
Per
gli analisti di “Carbon Tracker” i piani di costruzione di nuove centrali a gas
in Italia potrebbero mettere a rischio gli obiettivi climatici.)
La
transizione energetica italiana passa dal gas.
Nonostante
le proposte in essere e un’apparente volontà di ulteriore sviluppo delle
rinnovabili, la conversione energetica dell’Italia è tutta concentrata sul gas
naturale come “combustibile di transizione”.
Per
sopperire all’uscita dal carbone, le utility prevedono infatti di costruire,
nel prossimo decennio, nuove centrali a gas per una capacità complessiva di 14
GW, di cui 5,8 GW sono già garantiti da contratti di approvvigionamento
aggiudicati nel mercato della capacità (capacity market) e che dovrebbero
entrare in servizio entro il 2023.
“Lo
sviluppo di capacità flessibile a gas, nella misura strettamente necessaria per
la stabilità e la sicurezza del sistema elettrico nazionale, è indicato dal “Pniec”
come strumento di medio periodo indispensabile e necessario per una adeguata e
progressiva transizione verso la generazione basata sempre più su fonti
rinnovabili”, spiega La Pegna.
“Sarà
l’effettiva evoluzione del sistema elettrico nazionale dei prossimi anni a
determinare per quanto tempo saranno necessari questi impianti per la sicurezza
e la stabilità della rete, ma si tratta di una tecnologia transitoria che va a
supporto di un modello più sostenibile con l’obiettivo di una generazione
completamente da fonti rinnovabili”.
(Impianto
eolico).
Pnrr,
come evitare il rischio di un'occasione sprecata.
Ma per
gli analisti di Carbon Tracker i piani di costruzione di nuove centrali a gas
in Italia potrebbero mettere a rischio gli obiettivi climatici del paese e
comportare perdite fino a 11 miliardi di euro in investimenti, mancando
l’occasione di ridurre i consumi domestici di energia elettrica.
È
piuttosto interessante notare come già ad aprile 2021 gli esperti del think
tank avvisavano che “se l’Italia continua a puntare sulla generazione di
energia elettrica tramite le centrali a gas anziché su soluzioni basate su
energia pulita a basso costo, i consumatori vedranno un aumento in bolletta”.
Non
solo, ma un recente rapporto del” Centre for research on energy and clean air”
(Crea), dal titolo “Ripe for closure: accelerating the energy transition and
saving money by reducing excess fossil fuel capacity”, mostra come nove degli Stati
europei, tra cui l’Italia, potrebbero da subito chiudere le centrali a
combustibili fossili per un totale di 48,8 GW di potenza installata senza
mettere a rischio le forniture di elettricità per famiglie ed imprese.
Si
tratta di ben il 17 per cento di tutta la potenza installata in centrali
fossili in Europa.
Con il pensionamento anticipato delle centrali
non necessarie, il risparmio dei costi fissi operativi e di manutenzione
sarebbe di quasi 2 miliardi di euro l’anno.
Il
capacity market. Risorsa o bluff?
Ad
essere sotto accusa è il mercato della capacità:
approvato nel 2019, è nato con l’obiettivo di
affiancare la progressiva dismissione delle centrali a carbone tutelando al
tempo stesso la capacità della rete di garantire adeguate forniture
programmabili di energia elettrica. Il meccanismo introdotto da questo mercato
punta a remunerare i grandi impianti in base alla loro disponibilità a produrre
energia in caso di necessità o, in alternativa, a premiare gli operatori della
gestione della domanda per la disponibilità a ridurre i consumi.
“Si
tratta di remunerare gli impianti termici indipendentemente dalla quantità di
energia che producono”, spiega a LifeGate Matteo Leonardi, co-fondatore di “Ecco”,
think tank indipendente.
“Questo sistema porta ad acquisire nuova
capacità, con un incentivo a costruire nuove centrali indipendentemente che
vengano usate o meno”.
Si
tratterebbe dunque di un sistema che incentiva in modo sproporzionato,
premiando la produzione elettrica da parte di impianti a gas, esistenti e nuovi.
Nel
frattempo “le nuove aste per attribuire i sussidi per il 2024 e 2025 previste
in estate sono state rimandate, ma probabilmente di poco”, spiega “Re:common”
in una nota stampa.
“Oltre
che calmierare i sovrapprezzi nelle bollette elettriche – per altro dovuti
all’aver puntato in maniera ottusa solo sul gas negli ultimi anni – una
autentica transizione ecologica che sia anche giusta richiederebbe di fermare
subito le nuove centrali a gas senza se e senza ma”.
Cosa
fare delle vecchie centrali, il caso Monfalcone.
Altro
nodo cruciale sono le bonifiche e le riconversioni dei siti produttivi, una
volta saranno dismessi.
“Si tratta di riqualificare gli impianti in
un’ottica di economia circolare, valorizzando le aree su cui sorgono le
strutture e riutilizzando, laddove possibile, materiali e parti degli impianti
stessi, per ridurre il consumo di materie prime”, spiega La Pegna.
Un esempio virtuoso lo si può trovare nella
centrale spagnola Teruel, in Andorra che prevede un investimento di oltre 1.487
milioni di euro e ha l’obiettivo finale di installare 1.725 MW di energia
rinnovabile, di cui 1.585 MW da energia solare, facendone il più grande
impianto in costruzione per tale tecnologia in Europa, e 140 MW da energia
eolica, oltre ad un sistema di accumulo di energia su larga scala fino a 160
MW.
“In
Italia per il sito di Porte Tolle in Veneto è stato siglato un preliminare di
vendita con un “gruppo del turismo open air “per realizzare un innovativo
villaggio ricettivo;
completate le attività propedeutiche sono ad
oggi in corso le demolizioni sugli asset on funzionali al progetto di
sviluppo”, continua La Pegna.
“L’ex
centrale di Carpi è già stata trasformata in un moderno polo logistico, mentre
per i siti a carbone che dovranno essere dismessi entro il 2025 l’obiettivo è
dar vita a poli energetici integrati in cui convivano rinnovabili, sistemi di
accumulo e impianti gas”.
La
società ha inoltre dato vita ad” Enel Logistics”, società che opera in Italia
per il recupero e la valorizzazione di aree e strutture esistenti all’interno
di siti industriali del gruppo, situati nelle vicinanze di luoghi strategici
come porti, aeroporti e interporti, da riconvertire a depositi doganali per la
logistica, la movimentazione e lo stoccaggio di merci.
“L’obiettivo è attirare nuovi flussi di merci
in Italia e al contempo intercettare parte di quei flussi che oggi transitano
nel Mediterraneo e che, per mancanza di infrastrutture, proseguono verso il
Nord Europa”, specifica La Pegna.
Cosa
accadrà invece alle centrali a carbone di La Spezia, Fusina, Brindisi e
Civitavecchia?
“ A
luglio 2020 abbiamo lanciato quattro concorsi, ‘Nuovi spazi per l’energia’,
chiedendo ad architetti e designer di disegnare il nuovo volto delle quattro
centrali.
Ai
partecipanti è stato chiesto di progettare nuovi poli energetici in cui
convivranno fonti rinnovabili (solare fotovoltaico), batterie per l’accumulo di
energia e, nella misura strettamente necessaria al sistema elettrico nazionale,
impianti a gas ad altissima efficienza sempre più integrati con l’ambiente
circostante, grazie a soluzioni che ridurranno l’impatto paesaggistico
disegnando un’idea nuova e aperta di centrale elettrica, prevedendo anche degli
spazi a disposizione delle comunità locali”, continua il responsabile di Enel.
“I concorsi sono portati avanti in
collaborazione con le Università di Genova, lo Iuav di Venezia, della Tuscia e
del Salento”.
Sono stati circa 350 tra studi di architettura
e professionisti ad aver manifestato interesse per i concorsi, per i quali è
stata favorita la partecipazione di giovani talenti.
I progetti proposti sono stati valutati sulla
base dei criteri e principi del bando e da una commissione formata da
rappresentanti del gruppo e istituzioni e università dei territori coinvolti.
Al momento sono stati aggiudicati i concorsi
di Fusina, Civitavecchia e Brindisi.
(Una
centrale eolica on shore in costruzione.
L’idea
per la riconversione delle centrali a carbone è di l’obiettivo è di dar vita a
poli energetici integrati in cui convivano rinnovabili, sistemi di accumulo.)
Piuttosto
emblematica è invece la situazione della centrale di Monfalcone in provincia di
Gorizia e ubicata lungo la sponda orientale del canale Valentinis, e che sorge
su un’area di circa 30 ettari, occupando un terzo della banchina del porto.
Da
circa un anno produce al minimo e la chiusura è prevista entro il 2025.
La proprietà A2A ha proposto di convertire il
sito in una centrale di 850 MW alimentata a gas e lo scorso fine settembre i
ministeri della Transizione ecologica e quello della Cultura hanno dato il via
libera al progetto.
All’idea
di conversione si è strenuamente opposta l’amministrazione comunale che critica
il progetto:
“La realizzazione di un nuovo impianto di
generazione a gas a Monfalcone trova convenienza solamente per il meccanismo
del capacity market che, mettendo a disposizione una cifra di 900 milioni,
praticamente doppia del valore dell’investimento, consente alla società una
vantaggiosa operazione finanziaria, pagata dalla città al prezzo sociale di una
produzione di CO2 triplicata”, spiega il sindaco Anna Maria Cisint in una nota
dello scorso 4 ottobre.
Secondo
il think tank “Ecco”, si tratta di un’area che ha già pagato a caro prezzo,
anche sulla salute e sulla qualità dell’aria, la presenza di una centrale a
carbone, e che oggi potrebbe riscattarsi con una “giusta transizione”, ma che
invece non solo rischia di non avvantaggiarsi delle politiche di uscita dal
carbone, ma di trovarsi una centrale molto più grande che quando accesa
emetterebbe emissioni dannose paragonabili a quelle della precedente.
C’è
poi il nodo occupazione: una centrale di queste dimensioni prevede l’impiego di
30 persone rispetto alle attuali 130.
Invece il progetto del Comune avrebbe un
indotto di oltre 4mila unità solo prevedendo lo spostamento del 10 per cento
del traffico crociere di Venezia, e senza calcolare tutte le ricadute positive
sul turismo.
”Le
prospettive di occupazione sono nei territori non sul gas. Monfalcone ha detto
no, perché vorremmo vedere attivata la capacità di crescita locale”, conclude
Matteo Leonardi di Ecco.
“Se
non lo si fa lì, dove dovremmo farlo?”.
(Questo
articolo è stato realizzato col supporto del “Clew – Clean Energy Wire).
(Licenza
Creative Commons).
L'ERA
DEL DIESEL È QUASI FINITA PER BMW:
L'AZIENDA
TEDESCA SI PREPARA AL FUTURO.
Auto.everyey.it
- Lorenzo Fiorentino – (13/05/2024) – ci dice:
Il futuro del settore automotive sembra essere
ormai già segnato; beh, più o meno...
Il
cammino della transizione, infatti, si è rivelato essere molto più difficoltoso
di quanto pronosticato, ma dall'altra parte anche un determinato motore termico
inizia a calare nelle vendite, spazientendo BMW.
L'Unione
Europea sognava una mobilità completamente ecologica a partire dal 2035.
Ecco,
questo sogno probabilmente rimarrà tale.
Al momento non sembrano esserci le
caratteristiche necessarie, sia di mercato che di produzione, per dare vita a
una transizione di tale portata.
Comunque, è sicuro che l'ambizione green non
verrà accantonata, o perlomeno non verrà accantonata del tutto.
Sul
lato produttivo, invece, sono stati molti i produttori che hanno sposato, anche
perché in qualche modo costretti, il sogno di un mondo automotive a emissioni
zero, annunciando varie date in cui le loro gamme avrebbero eliminato i
tradizionali (e inquinanti) propulsori termici.
Tra
queste aziende non c'era BMW (La nuova BMW X4 su base Neue Classe X).
O
meglio: il brand di Monaco di Baviera ha deciso di andarci piano con la
transizione, modelli elettrici sì, ma senza rinunciare a quelli termici,
alimentati sia a benzina che con il gasolio.
Ma è
proprio quest'ultimo carburante che inizia a dare qualche problema.
Il
diesel, infatti, sembra non rendere più quanto prima sul mercato e adesso BMW
sta pensando se prendere dei provvedimenti.
I risultati deludenti li rivela l'Acea
(l'associazione dei costruttori europei), secondo cui nel 2023 i modelli con
motore diesel hanno raggiunto una quota di mercato del 13,6%, inferiore
rispetto a quella delle auto elettriche già in calo.
Dall'inizio dell'anno corrente allo scorso
marzo, invece, quella percentuale è ulteriormente scesa a 12,8%;
un
declino costante, e secondo l'azienda bavarese non si tratta solamente di un
trend momentaneo, ma di una discesa che non avrà rialzi e le cause sono i nuovi
sistemi ibridi e il miglioramento dei motori a benzina.
La
soluzione, quindi, secondo BMW, è quella di continuare a produrre ancora
modelli alimentati a gasolio, ma di diminuirli sistematicamente con l'avanzare
del tempo
(BMW, svelate le 40 nuove auto in uscita: 'Incredibili, Tesla dovrebbe iniziare
a tremare'). (MOTOR).
Auto
diesel ora è la fine,
arriva
la svolta epocale in Italia:
non
era mai successo.
Fuoristrada.it
– (Giugno 29, 2024) - Angelo Papi – ci dice:
Svolta
per quanto concerne il mondo del diesel: cambia tutto con i vecchi carburanti
in Italia e adesso si va incontro ad un cambiamento epocale.
Per
lunghi tratti il diesel è stata una delle tipologie di auto più utilizzate sul
mercato internazionale, potendo offrire prezzi più convenienti della benzina e
consumi più moderati.
Con il
tempo si è andato quasi equiparando e ora la sua fine è vicina.
Per
quanto riguarda la mobilità su gomma siamo arrivati ad un punto di svolta, che
riguarda non solo il nostro paese.
Si
perché i carburanti tradizionali, come sentito annunciare da più parti, sono
destinati a scomparire.
Si va verso una rivoluzione totale in favore
dell’elettrico e dell’ecologico, con benzine in grado di garantire zero
emissioni.
L’ibrido è ormai la realtà maggiormente
gradita per i nuovi acquisti di auto e il futuro a breve medio termine sembra
essere nelle sue mani.
Ma
cosa ne sarà del tanto diffuso diesel?
Per
anni è stata la scelta più gettonata, garantendo migliori consumi della benzina
e prestazioni ormai quasi alla pari.
Dopo
lo scandalo che ha colpito il marchio Volkswagen, relativo proprio alle
emissioni, è iniziato un declino che sembra inarrestabile.
Tutte
le case costruttrici hanno impostato un discorso diverso e questo sta portando
alla fine dell’era diesel.
Ora anche in Italia il tema è piuttosto chiaro
e si arricchisce di una svolta da non sottovalutare.
In
particolare facciamo riferimento alla Regione Veneto e alla sua decisione di
annullare i rifornimenti per i motori a gasolio, in un’ottica di abbattimento
delle emissioni di CO2.
Addio
al diesel tradizionale: la variante HVO è già presente in Italia.
Nello
specifico nell’area di Costantin di Merlara, nella provincia di Padova, nascerà
il primo distributore di biodiesel, che fornirà solo diesel HVO di nuova
generazione. Quindi a cominciare da questa stazione di servizio non sarà più
possibile fare rifornimento con il diesel classico.
Novità
sul fronte dei diesel
Per il
diesel non sarà più come una volta (Fuoristrada – ANSA)
La
sigla del nuovo HVO sta ad indicare l’”Hydrogenated Vegetable Oil”, un
carburante basato sul vegetale idrogenato, che nasce dal recupero di materie
prime rinnovabili.
Fino
ad oggi in Italia sono state allestite 24 stazioni di servizio in grado di
erogarlo, che stanno prendendo il posto dei normali distributori.
Un primo passo verso una sostituzione
definitiva dei carburanti che riguarderà tanto il nostro paese quanto gli
altri.
A
livello europeo il benchmark del 2035 per l’abbattimento dei motori benzina e
diesel resta valido e oltre all’elettrico si punterà proprio sui carburanti
ecologici, per riutilizzare anche i motori esistenti senza doverli mandare per
forza in pensione.
Il
futuro è dietro l’angolo.
La
Cina è
fuori strada rispetto
a tutti gli impegni chiave sul clima
mentre continuano le approvazioni
per l’energia a carbone.
Globalenergymonitor.org – (21 Febbraio 2024)
– Redazione – ci dice:
La
Cina è fortemente lontana dal raggiungere diversi obiettivi climatici fissati
dal paese per il 2025 a causa dell’aumento dell’uso del carbone e degli
investimenti nell’energia a carbone, rileva un nuovo rapporto Centro di ricerca
su energia e aria pulita più Monitoraggio globale dell'energia.
Raggiungere
la maggior parte degli obiettivi è ancora possibile, ma richiede un’azione
determinata.
Il
rapporto mostra che la Cina ha approvato almeno 106 gigawatt (GW) di capacità
di energia da carbone e ha iniziato la costruzione di 70 GW nel 2023,
accelerando ulteriormente il ritmo frenetico di autorizzazioni visto nel 2022,
l’equivalente di due nuove centrali a carbone a settimana, oltre ad avviare la
costruzione di un nuovo impianto a settimana.
La
Cina ha inoltre commissionato 47 GW di capacità alimentata a carbone e ha
annunciato 108 GW in nuovi progetti nel 2023.
A
seguito della sua “L’impegno per il 2021” di “controllare rigorosamente” la
nuova energia a carbone, le approvazioni cinesi di nuove centrali elettriche a
carbone sono quadruplicate tra il 2022 e il 2023, rispetto al precedente
periodo di cinque anni tra il 2016 e il 2020.
Dall’inizio
del 2022 sono stati autorizzati circa 218 GW di nuove centrali a carbone. 89 GW
di questa capacità aveva già iniziato la costruzione alla fine del 2023, mentre
altri 128 GW dovevano ancora essere avviati.
L’impegno
a “controllare rigorosamente” la nuova energia a carbone è solo uno degli
impegni climatici che la Cina sta lottando per rispettare.
L’impegno
determinato a livello nazionale (NDC) della Cina ai sensi dell’accordo di
Parigi si impegna a limitare rigorosamente la crescita del consumo di carbone;
ridurre l'intensità energetica; e ridurre l’intensità del carbonio.
I piani quinquennali del Paese fissano inoltre
obiettivi di aumento della quota di combustibili non fossili al 20% del mix
energetico e di derivazione di oltre il 50% dell'aumento del consumo energetico
da fonti rinnovabili.
Tutti
questi obiettivi sono gravemente fuori strada dopo il 2023, sulla base di
un’analisi CREA per Carbon Brief.
La
diffusione dell’energia pulita da parte della Cina ha subito un’accelerazione
drammatica nel 2023.
La maggior parte degli obiettivi climatici del
Paese per il 2025 possono ancora essere raggiunti se si mantiene questo ritmo
accelerato, la crescita della domanda di energia ritorna ai livelli pre-Covid e
i permessi per nuove centrali a carbone vengono rivisti.
“Lauri
Myllyvirta”, analista capo, “CREA”:
“Il
governo cinese è orgoglioso di aver rispettato o superato in modo affidabile i
suoi precedenti impegni sul clima.
Tuttavia,
la modalità di crescita economica ad alta intensità di energia e carbonio
durante e dopo l’emergenza Covid-2023 ha portato il Paese fuori strada rispetto
ai suoi obiettivi attuali, minacciando di minare la credibilità della Cina.
Tuttavia, l’espansione record dell’energia
pulita e dello stoccaggio di elettricità nel XNUMX offre l’opportunità di
invertire la rotta”.
“Flora
Champenois”, analista di ricerca, “Global Energy Monitor”:
“I
permessi per gli impianti a carbone in corso in Cina e il boom edilizio
continuano a essere in contrasto con l’impegno del presidente “Xi” di
controllare rigorosamente i nuovi progetti di energia a carbone, e al passo con
il resto del mondo.
Sovraccaricare
il carbone “per ogni evenienza” e con un approccio del tipo “ci occuperemo più
tardi” è una scommessa costosa e rischiosa, soprattutto quando sono disponibili
soluzioni alternative per raggiungere gli obiettivi e affrontare la sicurezza
energetica”.
(Lauri
Myllyvirta, analista capo, CREA; lauri@energyandcleanair.org
Flora
Champenois, analista di ricerca, Global Energy Monitor;
flora.champenois@globalenergymonitor.org)
Nota
ai redattori:
L'analisi
dei progressi della Cina rispetto agli obiettivi climatici del 2025 è
pubblicata su “Carbon Brief “contemporaneamente al rapporto GEM-CREA: Analisi:
calo record delle emissioni di CO2 della Cina
necessarie per raggiungere l'obiettivo del 2025.
(carbonbrief.org/analysis-record-drop-in-chinas-co2-emissions-needed-to-meet-2025-target/)
Informazioni
su Centro Ricerche sull'Energia e l'Aria Pulita (CREA).
“CREA”
è un’organizzazione di ricerca indipendente focalizzata sulla rivelazione delle
tendenze, delle cause e degli impatti sulla salute, nonché sulle soluzioni
all’inquinamento atmosferico.
Utilizziamo
dati scientifici, ricerche e prove per sostenere gli sforzi di governi, aziende
e organizzazioni di campagna in tutto il mondo nei loro sforzi per spostarsi
verso energia pulita e aria pulita.
(energyandcleanair.org)
(Global
Energy Monitor (GEM) sviluppa e condivide informazioni a sostegno del movimento
mondiale per l'energia pulita.
Studiando
l'evoluzione del panorama energetico internazionale e creando database,
rapporti e strumenti interattivi che migliorano la comprensione, GEM cerca di
costruire una guida aperta al sistema energetico mondiale.)
Energia-
In Cina il carbone
torna
a correre.
Focus.it
– (3-5-2022) – Redazione – Luigi Bignami – ci dice:
Nonostante
le promesse della COP26, la Cina e altri Paesi asiatici continuano a investire
in centrali a carbone.
(Infatti
il carbone è la più economica fonte di energia! N.D.R.)
Nonostante
le molte iniziative che la Cina sta prendendo per produrre energia da fonti
rinnovabili, il Paese è responsabile di più della metà delle centrali a carbone
in costruzione su tutto il Pianeta.
Durante l'ultima Conferenza delle Parti per il
clima, la COP26, quasi 200 Paesi avevano "promesso" di ridurre
l'utilizzo del carbone, seppure in modo graduale e differenziato, ma la realtà
dice che la situazione non sta ancora prendendo la strada giusta.
Secondo
i dati della “Global Energy Monitor”, un gruppo di ricerca senza scopi di
lucro, si scopre che a livello globale il numero di centrali a carbone sta
aumentando:
il
numero di quelle in costruzione è superiore a quelle dismesse o in dismissione.
ALLA
CINA IL RECORD.
Il
maggior numero di centrali a carbone in fase di costruzione si trova in Asia,
con la Cina che produrrà il 52% dei 176 gigawatt programmati per il futuro da
una ventina di Paesi asiatici.
La
proiezione è leggermente diminuita rispetto a quanto si ipotizzava nel 2020,
quando si parlava di centrali per 181 gigawatt, ma, spiega “Lauri Myllyvirta”
(Center for Research on Energy and Clean Air),
«stiamo
assistendo a una situazione paradossale:
quasi
ovunque al di fuori della Cina i piani per costruire nuove centrali elettriche
a carbone sono stati drasticamente ridimensionati, mentre le aziende cinesi
hanno continuato ad annunciare nuove centrali e da parte del Governo vi è un
chiaro sostegno a loro favore».
Stando agli analisti, non ci si aspetta che la
Cina cambi rotta sul carbone nel vicino futuro, anche se sono stati bloccati i
finanziamenti per progetti per la costruzione di centrali a carbone in altri
Paesi per un totale di 13 gigawatt e impianti per altri 37 gigawatt potrebbero
non trovare sostegno.
RECORD
DELL'USO DEL CARBONE.
In
ogni caso vi è un altro dato che preoccupa:
l'anno
scorso è stata bruciata una quantità record di carbone, probabilmente a causa
dell'aumento di prezzo del gas.
Tuttavia,
benché anche il gas sia un combustibile fossile è comunque auspicabile che
torni a essere conveniente rispetto al carbone, che resta il combustibile
peggiore per quel che riguarda le emissioni di anidride carbonica. (Luigi Bignami)
(È molto
strano che nei ricchi paesi occidentali si ritenga che la fonte di energia del
carbone sia “La peggiore” esistente! N.D.R.)
Corea
del Sud: Sviluppata la Prima
Tecnologia
di Controllo Mentale Remoto.
Conoscenzeaconfine.it
- 26 Luglio 2024) – Redazione – ci dice:
La prima”
tecnologia di controllo mentale remoto” al mondo è stata sviluppata in Corea
del Sud.
È
previsto l’utilizzo di un dispositivo remoto per il controllo mentale “a lungo
raggio” e “ad alto volume” per procedure mediche “non invasive”.
L’hardware
manipola il cervello a distanza utilizzando campi magnetici.
Gli
scienziati hanno testato la tecnologia inducendo istinti “materni” nei topi
femmine.
In un
altro esperimento, hanno esposto un gruppo di topi da laboratorio a campi
magnetici progettati per ridurre l’appetito, provocando una perdita del 10% del
peso corporeo, ovvero circa 4,3 grammi.
“Questa
è la prima tecnologia al mondo in grado di controllare liberamente aree
specifiche del cervello utilizzando campi magnetici”, afferma il professore di
chimica e nanomedicina che ha contribuito a condurre il nuovo lavoro.
Il
ricercatore, il dottor Jeong Jinwoo,” ha affermato che si aspetta che le nuove
apparecchiature vengano utilizzate in una varietà di aree dell’assistenza
sanitaria, dove afferma che sono “disperatamente necessarie”.
Ci
aspettiamo che venga ampiamente utilizzato nella ricerca per comprendere le
funzioni cerebrali e le complesse reti neurali artificiali.
(Il
futuro che ci aspetta se non ci svegliamo… nota di conoscenze al confine)
(t.me/VociDallaStrada).
La
Cina presenta
un ambizioso piano per dimezzare le emissioni di energia elettrica dal carbone
entro il 2027
grazie
a nuove tecnologie.
Esgnews.com – Redazione - Notizie ESG · (Luglio
16, 2024) – ci dice:
Tecnologie
innovative:
La
Cina sperimenterà impianti a carbone utilizzando ammoniaca verde, biomassa e
cattura del carbonio.
Obiettivi
di emissione: Puntare a una riduzione del 50% dell’intensità di carbonio entro
il 2027.
Strategia
economica:
Integrazione
con progetti di energia rinnovabile e sostegno finanziario da parte delle
istituzioni.
La
Cina ha annunciato un piano globale per ridurre le emissioni di carbonio nel
suo settore energetico a carbone, sottolineando l’uso di tecnologie innovative
come l’ammoniaca verde, la biomassa e la cattura, utilizzo e stoccaggio del
carbonio (CCUS).
L’iniziativa
mira a trasformare il settore dell’energia elettrica dal carbone, ad alta
intensità di carbonio, che rimane la fonte di energia primaria nel principale
consumatore di energia del mondo.
Il
piano, pubblicato congiuntamente dalla “Commissione nazionale per lo sviluppo e
la riforma” (NDRC) e dalla “Amministrazione nazionale per l’energia” (NEA),
delinea una tabella di marcia per l’implementazione di queste tecnologie per
ridurre le emissioni di carbonio del 20% entro il 2025 e del 50% entro il 2027
rispetto ai livelli del 2023.
Tecnologie
innovative.
La
Cina sperimenterà le tecnologie di decarbonizzazione in centrali elettriche a
carbone selezionate.
La
NDRC ha invitato i governi provinciali e le imprese statali a nominare progetti
per questa iniziativa, segnando il primo programma nazionale centralizzato
rivolto alle centrali elettriche a carbone con queste tecnologie avanzate.
La
dichiarazione della NDRC, rilasciata il 15 luglio, il primo giorno del 20°
Terzo Plenum cinese, sottolinea l'importanza di questo incontro politico
incentrato sulle riforme economiche.
Il
piano prevede la co-combustione del carbone con biomassa e ammoniaca verde,
derivata da idrogeno rinnovabile, e l’implementazione delle tecnologie CCUS.
“Miscelare
carbone con biomassa e ammoniaca verde può ridurre significativamente le
emissioni, anche se permangono sfide nell’approvvigionamento e nei costi del
carburante.", ha affermato “Shen Xinyi”, analista del Centro per la ricerca
sull'energia e l'aria pulita.
Obiettivi
di emissione.
Il
governo ha fissato un punto di riferimento per le emissioni di carbonio del
settore energetico a carbone, confrontandole con l’elettricità generata dal gas
naturale.
Entro il 2027, l’obiettivo è che le emissioni
delle centrali a carbone raggiungano quelle delle centrali a gas.
“Ridurre
del 50% l’intensità di carbonio delle centrali a carbone le porterà vicino ai
livelli di emissione delle centrali elettriche a gas,"ha affermato la
NDRC.
L'iniziativa
mira a migliorare l'utilizzo dei megaprogetti di energia rinnovabile, in
particolare quelli nelle remote aree desertiche della Cina.
Questi
progetti devono far fronte a bassi tassi di utilizzo a causa della mancanza di
reti di trasmissione di energia a lunga distanza.
La
produzione di ammoniaca verde può creare una domanda localizzata per l’energia
rinnovabile in eccedenza, integrandosi con gli sforzi di decarbonizzazione del
settore energetico a carbone.
Strategia
economica
Il
piano cinese incoraggia le autorità locali a sostenere e sovvenzionare progetti
a basse emissioni di carbonio, nonostante le preoccupazioni degli analisti
sulla fattibilità e sugli alti costi di implementazione delle nuove tecnologie.
“Le
centrali elettriche a biomassa in Cina non sono finanziariamente sostenibili
senza sussidi,” osservò “Shen”.
Le
istituzioni finanziarie sono esortate a sostenere questi progetti pilota per
garantirne il successo.
L’agenda
del Terzo Plenum prevede l’accelerazione dell’implementazione delle tecnologie
di decarbonizzazione nei settori ad alta intensità di emissioni.
Ciò è in linea con l’iniziativa “Nuove forze
produttive” del presidente “Xi Jinping”, che sostiene l’uso di nuove tecnologie
e innovazione per migliorare le industrie convenzionali e stimolare la crescita
economica.
(La Cina domina già la costruzione
mondiale di energia eolica e solare).
Il
sistema di scambio delle emissioni (ETS) della Cina copre anche le centrali
elettriche alimentate a carbone, fissando obiettivi annuali per ridurre
l’intensità di carbonio.
L’annuncio della “NDRC” potrebbe segnalare una
richiesta di “obiettivi ETS” più rigorosi e di un finanziamento più rapido
delle tecnologie di decarbonizzazione. “Questo annuncio mette in discussione il
fatto che il Ministero dell’Ambiente sia troppo indulgente con gli obiettivi
ETS e troppo lento nel finanziare le tecnologie di decarbonizzazione di
frontiera.” ha detto a “S&P Global Commodity Insights” un analista
energetico con sede in Cina.
L’audace
piano di decarbonizzazione della Cina per il settore energetico a carbone
rappresenta un passo significativo verso un futuro più verde.
Sfruttando
tecnologie innovative, fissando obiettivi ambiziosi in materia di emissioni e
integrando progetti di energia rinnovabile, la Cina mira a trasformare il
proprio panorama energetico e a ridurre le sue sostanziali emissioni di gas
serra.
La
Cina domina la costruzione
mondiale
di energia eolica e solare.
Esgnews.com
– Redazione- Notizie ESG · (Luglio 12,
2024) – ci dice:
La
Cina è in testa con 339 GW di energia solare ed eolica in costruzione, quasi il
doppio del resto del mondo.
Il solare
e l’eolico rappresentano ora il 37% della capacità elettrica totale della Cina,
destinata a superare il carbone nel 2024.
La
rapida crescita delle energie rinnovabili in Cina suggerisce un potenziale
picco anticipato delle emissioni di carbonio prima del 2030.
L’impennata
delle rinnovabili in Cina:
La
Cina sta consolidando la sua posizione di leader globale nel settore delle
energie rinnovabili con 180 GW di energia solare e 159 GW di energia eolica
attualmente in costruzione.
Secondo
il Global Energy Monitor (GEM), questi 339 GW combinati sono quasi il doppio di
quelli del resto del mondo messo insieme e sufficienti ad alimentare tutta la
Corea del Sud.
Crescita
significativa nel 2023:
Nel
2023, la Cina ha aggiunto quasi il doppio della capacità solare ed eolica su
scala industriale rispetto a qualsiasi anno precedente.
Entro
il primo trimestre del 1, la capacità totale della Cina, compreso il solare
distribuito, ha raggiunto 2024 GW.
L’eolico
e il solare rappresentano ora il 1,120% della capacità elettrica totale della
Cina, con un aumento dell’37% rispetto al 8, e si prevede che supereranno la
quota del 2022% del carbone nel 39.
Espansione
solare distribuita:
La
capacità solare della Cina è cresciuta di più nel 2023 rispetto ai tre anni
precedenti messi insieme, con il solare distribuito in testa.
Quasi
la metà dell’energia solare distribuita aggiunta nel 2023 è stata installata
sui tetti residenziali, seguendo il modello “solare dell’intera contea”.
Il solare distribuito rappresenta ora il 41%
della capacità solare totale, crescendo più rapidamente del solare
centralizzato dal 2021 grazie ai costi inferiori e al forte sostegno politico.
Rimbalzo
dell’energia eolica:
Dopo
un breve rallentamento nel 2022, l’installazione di energia eolica è
raddoppiata nel 2023.
Il Global Wind Power Tracker di GEM ha
registrato un aumento di 51 GW della capacità eolica dal 2023, superando la
capacità totale di qualsiasi paese ad eccezione degli Stati Uniti.
Proiezioni
future:
La
Cina è sulla buona strada per raggiungere 1,200 GW di capacità eolica e solare
installata entro la fine del 2024, sei anni in anticipo rispetto al suo
impegno. Sebbene la Cina non abbia firmato l’impegno COP28 di triplicare le
energie rinnovabili, sostiene l’obiettivo e mira a triplicare la propria
capacità di energia rinnovabile entro il 2030.
Sfide
in arrivo:
Nonostante
la rapida crescita, la Cina deve affrontare sfide nell’integrazione delle
energie rinnovabili nella sua rete incentrata sul carbone.
L’intermittenza delle energie rinnovabili e la
limitata capacità di trasmissione sono questioni chiave.
I tassi di riduzione hanno superato il 5% a
livello nazionale nel marzo 2024, con alcune province che hanno superato il
10%.
Responsabili
provinciali:
Le
province nordoccidentali e settentrionali dominano gli impianti solari ed
eolici su larga scala, mentre le province centrali e meridionali sono leader
nel solare distribuito.
L’energia
eolica offshore sta crescendo rapidamente, con province come il Fujian che
stanno facendo progressi significativi.
Prospettive
sulle emissioni di carbonio:
Uno
studio condotto da “Lauri Myllyvirta” dell’”Asia Society Policy Institute”
suggerisce che le emissioni di CO2 della Cina potrebbero aver raggiunto il
picco nel 2023, con il 90% dell’aumento della domanda di energia soddisfatto
dall’energia eolica e solare.
Tuttavia,
i funzionari cinesi mirano a raggiungere il picco non prima del 2030 per
sostenere l’elettrificazione di altri settori ed evitare costi irrecuperabili
dell’energia a carbone.
(L'ente
regolatore cinese lancia il primo centro tecnico per il carburante sostenibile
per l'aviazione (SAF) del Paese)
La
spinta incessante della Cina nella costruzione di energia eolica e solare
garantisce che rimarrà il leader globale nel settore delle energie rinnovabili,
determinando
significative riduzioni delle emissioni di carbonio e stabilendo un punto di riferimento
per il resto del mondo.
Da
dove viene la nostra energia.
Repubblica.it
-Redazione - Italy for Cimate – (14-3-2022) - ci dice:
Petrolio,
gas e carbone: oggi l'Italia è dipendente dall'estero per il 77% dell'energia che
consumiamo
Da
alcuni anni il gas ha superato il petrolio diventando la prima fonte energetica
in Italia.
Le
rinnovabili sono cresciute arrivando a soddisfare il 19% del fabbisogno
energetico nazionale, il carbone e l'import elettricità contribuiscono in modo
minore.
Nel
2021 più di tre quarti della domanda di energia in Italia è stata soddisfatta
da import dall'estero di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) e meno
di un quarto da produzione nazionale (principalmente rinnovabili).
La
dipendenza energetica dell'Italia è fra le più alte in Europa.
La
Russia è il primo Paese da cui l'Italia dipende per soddisfare il proprio
consumo di fonti fossili (petrolio, gas e carbone).
A
seguire ci sono Algeria, Azerbaijan e Libia.
La produzione nazionale nel complesso copre
circa il 5% del consumo di tutti i combustibili fossili dell'Italia.
La
Russia è anche l'unico Paese da cui dipendiamo per tutte le fonti fossili:
è il primo fornitore nazionale di carbone e
gas e il terzo di petrolio.
Dall'Algeria
dipendiamo soprattutto per il gas, mentre le importazioni da Azerbaijan e Libia
riguardano principalmente il petrolio.
La
produzione nazionale di gas nel 2021 ha soddisfatto il 4% dei consumi del 2021.
il 90% di quello che importiamo deriva solamente da 4 Paesi: Russia, Algeria,
Azerbaijan e Qatar.
Il
greggio estratto in Italia nel 2021 è stato pari al 7% del consumo nazionale di
prodotti petroliferi.
Rispetto al gas la dipendenza è più
diversificata, ma bastano cinque Paesi per soddisfare i due terzi del nostro
import: Azerbaijan, Libia, Russia, Iraq, Arabia Saudita.
L'Italia
è totalmente dipendente dall'estero per soddisfare il proprio fabbisogno di
carbone.
Quasi
tre quarti del carbone consumato nel 2021 è arrivato da due soli Paesi: Russia
e Usa.
Il
ministero dello Sviluppo economico ha aggiornato l'ultima stima delle riserve
italiane di combustibili fossili il 31 dicembre 2019.
Secondo
queste stima in Italia le riserve accertate di gas sono pari a 46 miliardi di
metri cubi e quelle di petrolio a 73 milioni di tonnellate.
Se
includiamo anche le riserve classificate come probabili e possibili saliamo
rispettivamente a 112 miliardi di metri cubi e 207 milioni di tonnellate.
Se
immaginassimo di soddisfare la nostra fame di combustibili fossili per gli usi
energetici azzerando le importazioni e dando fondo a tutte le risorse
nazionali, per quanto tempo potremo andare avanti?
Negli
ultimi trent'anni si è ridotta di meno di 10 punti percentuali. Praticamente
tutta la riduzione della dipendenza energetica italiana si è verificata fra il
2008 e il 2014, proprio il periodo di massima crescita delle fonti rinnovabili
con il raddoppio della produzione nazionale di elettricità verde.
Oggi
l'Italia è dipendente dall'estero per il 77% dell'energia che consumiamo.
Centrando il target europeo del -55% di emissioni al 2030, in meno di 10 anni
grazie all'efficienza energetica e alle fonti rinnovabili l'Italia potrebbe
diventare un Paese in grado di soddisfare la maggior parte del proprio
fabbisogno energetico tramite le risorse del proprio territorio.
(Italy
for Climate è l'iniziativa italiana sul clima della Fondazione per lo sviluppo
sostenibile)
Negli
Stati Uniti l’energia rinnovabile
supera per la prima volta il carbone:
un
cambiamento epocale nella produzione
di
energia.
Sigmaearth.com - Dottor Tanushree Kain – (11
Maggio 2023) - ci dice:
(Energia rinnovabile)
Per la
prima volta in assoluto, le fonti energetiche rinnovabili hanno superato il
carbone come fonte di produzione di energia negli Stati Uniti.
Ciò segna una pietra miliare significativa
nella transizione del Paese verso una produzione di energia più pulita, poiché
il carbone è stato storicamente la fonte principale di elettricità negli Stati
Uniti.
Secondo i dati dell’Amministrazione
statunitense per le informazioni sull'energia (EIA), le fonti rinnovabili come
l'energia eolica, solare, idroelettrica e geotermica hanno rappresentato il 20%
della produzione di elettricità negli Stati Uniti nell'aprile 2020, mentre il
carbone ha rappresentato il 15%.
Si tratta di un cambiamento epocale nella
produzione di energia, poiché il carbone è stato a lungo la fonte di
elettricità di riferimento per molte aziende di servizi pubblici statunitensi
grazie al suo basso costo e all’affidabilità della fornitura.
Lo
spostamento verso le energie rinnovabili è guidato da una combinazione di
fattori, tra cui il calo dei costi, gli incentivi statali e la crescente
domanda pubblica di energia più pulita.
Si
prevede che questa tendenza continui nei prossimi anni, poiché sempre più
aziende di servizi pubblici passeranno alle fonti rinnovabili di produzione di
energia.
Cos'è
l'energia rinnovabile?
L’energia
rinnovabile è definita come energia prodotta da fonti naturali che vengono
reintegrate a un ritmo più rapido di quello consumato.
Il sole e il vento sono due esempi di tali fonti che
si riforniscono costantemente.
Le fonti energetiche rinnovabili abbondano e
sono ovunque intorno a noi.
Carbone,
petrolio e gas sono risorse non rinnovabili formatesi nel corso di centinaia di
milioni di anni.
Quando
i combustibili fossili vengono utilizzati per generare energia, emettono
pericolosi gas serra come l’anidride carbonica.
L’energia rinnovabile produce molte meno
emissioni rispetto alla combustione di combustibili fossili.
La transizione dai combustibili fossili, che
ora rappresentano la maggior parte delle emissioni, e verso le energie
rinnovabili è fondamentale per affrontare la catastrofe climatica.
Ulteriori
informazioni sull'energia rinnovabile.
In che
modo l’energia rinnovabile ha superato per la prima volta il carbone negli
Stati Uniti?
Storicamente,
il legno è stata la fonte energetica primaria negli Stati Uniti fino alla metà
del 1800.
Era l’unica fonte di energia rinnovabile su
scala commerciale del paese fino a quando le prime centrali idroelettriche non
iniziarono a produrre elettricità negli anni ’1880 dell’Ottocento.
Il
carbone veniva utilizzato come combustibile per barche e treni a vapore e per
produrre l'acciaio all'inizio del 1800, e successivamente fu impiegato per
generare elettricità negli anni '1880 dell'Ottocento.
La US
Energy Information Administration (EIA) iniziò a stimare l’energia nel 1635.
L'EIA
converte le fonti energetiche in unità di calore standard note come Unità
termiche britanniche (Btu) per confrontare diversi tipi di energia riportati in
unità fisiche separate (barili, piedi cubi, tonnellate, kilowattora, ecc.).
Utilizzando
un combustibile fossile equivalente, la VIA calcola il consumo di elettricità
eolica, idroelettrica, solare e geotermica.
Le
energie rinnovabili superano per la prima volta il carbone negli Stati Uniti.
Caduta
del consumo di carbone.
Secondo
la “Monthly Energy Review” della “US Energy Information Administration “(EIA),
nel 1885 il consumo di energia rinnovabile negli Stati Uniti ha superato
l’utilizzo del carbone per la prima volta da prima del 2019.
Questo
risultato indica il costante calo dell’utilizzo del carbone per la produzione
di energia nell’ultimo decennio e un aumento delle energie rinnovabili,
principalmente eolica e solare.
Rispetto al 2018, l’uso del carbone negli
Stati Uniti è diminuito di circa il 15%, mentre il consumo totale di energie
rinnovabili è aumentato dell’1%.
L’allontanamento
da “King Coal” è attribuibile a variabili stagionali e al calo a lungo termine
delle centrali a carbone negli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti, la tarda primavera e
l’inizio dell’autunno spesso registrano il consumo di elettricità più basso a
causa della minore domanda di riscaldamento e raffreddamento.
Nel
frattempo, l’energia idroelettrica, la più importante fonte di energia
rinnovabile, raggiunge il picco in primavera, quando lo scioglimento del manto
nevoso aumenta la disponibilità di acqua negli impianti a valle.
Aumento
delle energie rinnovabili.
Per
raggiungere gli obiettivi sul cambiamento climatico, il governo ha spinto la
transizione verso l’energia verde attraverso sussidi per la generazione
rinnovabile e azioni punitive contro gli impianti di carbone.
Secondo il “Dipartimento dell’Energia e dei
Cambiamenti Climatici”, l’elevata quota di produzione rinnovabile rappresenta
un aumento della capacità rinnovabile, come lo sviluppo di nuovi e
significativi parchi eolici offshore e “condizioni meteorologiche più
favorevoli per la generazione rinnovabile”.
La
velocità del vento è aumentata di 1.4 nodi, con conseguente aumento della
produzione delle turbine, mentre il tempo piovoso a maggio e giugno ha
aumentato la produzione di energia idroelettrica.
L’energia
da biomasse, anch’essa classificata come rinnovabile, è aumentata grazie alla
conversione di una parte della “Drax”, la più grande centrale elettrica a
carbone della Gran Bretagna, per bruciare legna invece che carbone.
Il
calo dell’energia a carbone riflette la chiusura o l’arresto temporaneo di
altre centrali a carbone e un aumento del prezzo del carbone nel Regno Unito,
rendendo il funzionamento delle centrali a carbone meno redditizio.
Nel corso del periodo, il gas è stata la fonte
di energia più importante nel Regno Unito, rappresentando il 30.2% della
produzione totale di energia, mentre il nucleare ha rappresentato il 21.5%.
Consumo
di energia rinnovabile negli Stati Uniti.
Nel
2019, il consumo di carbone degli Stati Uniti è diminuito per il sesto anno.
La
produzione di elettricità alimentata a carbone è diminuita drasticamente negli
ultimi dieci anni, raggiungendo nel 42 il livello più basso degli ultimi 2019
anni.
L’utilizzo
del gas naturale nel settore dell’energia elettrica è aumentato in modo
significativo negli ultimi anni, sostituendo gran parte della produzione di
energia da impianti a carbone dismessi.
Il
consumo complessivo di energia rinnovabile negli Stati Uniti è aumentato per il
quarto anno nel 2019, raggiungendo il livello record di 11.5 quadrilioni di
Btu.
Dal
2015, la crescita delle energie rinnovabili negli Stati Uniti è stata quasi
interamente attribuita all’utilizzo dell’energia eolica e solare nel settore
dell’energia elettrica.
Sebbene
un tempo il carbone fosse ampiamente utilizzato nei settori industriale, dei
trasporti, residenziale e commerciale, ora viene utilizzato principalmente per
generare energia negli Stati Uniti.
Circa il 90% dell’utilizzo del carbone negli
Stati Uniti è nel settore dell’energia elettrica, mentre il resto è quasi
interamente nel settore industriale.
Tutti
i settori negli Stati Uniti utilizzano sempre più energie rinnovabili.
Circa
il 56% dell’energia rinnovabile fornita commercialmente negli Stati Uniti viene
utilizzata nel settore dell’energia elettrica, principalmente da energia eolica
e idroelettrica.
Tuttavia,
altre forme si trovano nei settori industriale (22%), dei trasporti (12%),
residenziale (7%) e commerciale (2%).
Biomassa,
che comprende legno, rifiuti biogenici e i biocarburanti sono utilizzati in
tutti i settori.
Le
principali fonti rinnovabili utilizzate nelle industrie sono il legno, le
perdite e i coprodotti della produzione di biocarburanti.
Al
contrario, i biocarburanti come l’etanolo e il biodiesel vengono utilizzati nel
settore dei trasporti.
Legno,
rifiuti, energia solare e geotermica sono le fonti di energia diretta più
popolari nei settori domestico e commerciale.
Osservazioni
finali.
Il
consumo di energia rinnovabile negli Stati Uniti ha messo in ombra l’uso del
carbone nel 2019 per la prima volta da quando la legna da ardere era la
principale fonte di combustibile più di 130 anni fa.
La
mossa evidenzia un crollo decennale dell’industria del carbone, guidato dai
tentativi del governo di limitare le emissioni di gas serra e dalla forte
concorrenza delle fonti di gas naturale, eolico e solare.
Negli Stati Uniti, circa il 56% dell’energia
rinnovabile generata commercialmente viene utilizzata principalmente da energia
eolica e idroelettrica.
Il
calo dell’energia a carbone riflette la chiusura o l’arresto temporaneo di
altre centrali a carbone e un aumento del prezzo del carbonio nel Regno Unito,
rendendo il funzionamento delle centrali a carbone meno redditizio.
(Il carbone - per la Cina - è attualmente il
combustibile fossile più a buon mercato! N.D.R.)
Per
raggiungere gli obiettivi sul cambiamento climatico, il governo ha spinto per
una transizione energetica verde attraverso sussidi per la generazione
rinnovabile e azioni punitive contro le centrali a carbone.
L’energia
rinnovabile viene utilizzata sempre più in tutte le aree degli Stati Uniti.
(Dottor
Tanushree Kain)
(Tanushree
è un ambientalista appassionato con un dottorato in scienze ambientali).
La
politica energetica dell’India
e le
sue possibili ripercussioni geopolitiche
Rivistapolitica.eu
- Rosa Tagliamonte – Analisi – (10-12 -
2023) - ci dice:
Nello
scenario internazionale globalizzato contemporaneo hanno assunto un peso via
via maggiore le cosiddette economie emergenti, rappresentate da Brasile,
Russia, India, Cina e Sud Africa, più sinteticamente conosciuti come «Brics».
Questi
paesi stanno vivendo una fase di crescita economica e sociale senza precedenti
in un periodo congiunturale non favorevole per il resto del mondo tanto che nel
2013 per la prima volta i cosiddetti paesi emergenti hanno prodotto la maggior
parte dei beni e dei servizi del mondo.
Gli
imperativi della crescita economica dei «Brics», desiderosi di entrare a pieno
titolo nel club dei grandi del mondo, chiamano inevitabilmente in causa l’altra
faccia della medaglia dello sviluppo, rappresentata dalla questione energetica.
Lo
sviluppo industriale di un paese è, infatti, strettamente collegato alle
necessità e alle capacità di produzione e di utilizzo di energia dello stesso,
risultando sempre più evidente il legame esistente tra politica energetica,
politica estera e sicurezza, in quanto la capacità degli attori statuali di
esercitare la propria autorevolezza sullo scenario globale è influenzata dalla
propria capacità di essere energeticamente indipendenti dagli altri paesi:
uno
Stato dipendente dalle importazioni di fonti energetiche, infatti, è
vulnerabile alla minaccia dell’interruzione delle forniture.
L’approvvigionamento di risorse per produrre
energia, e quindi sviluppo, è un imperativo categorico per la sicurezza
energetica di una nazione.
In
questo articolo si è scelto di focalizzare l’attenzione sull’India che, data la
sua collocazione geopolitica e le sue potenzialità di crescita demografica, è
destinata a diventare, in un tempo misurabile in decenni e non in secoli,
un’importante arteria della crescita economica e sociale della pulsante area
asiatica.
L’India,
come molti altri paesi, deve oggi districarsi abilmente nell’intreccio sempre
più stretto tra politica energetica, politica estera e politica di sicurezza,
tematica ormai principe nelle relazioni internazionali.
Viviamo
in un’epoca caratterizzata da una generalizzata difficoltà nel soddisfare
l’incremento della domanda energetica, che provoca il rapido aumento dei prezzi
degli idrocarburi, condizionando le scelte dei governi e rendendo sempre più
palese il nesso esistente tra la sicurezza energetica e lo sviluppo economico.
Il vertiginoso aumento dei consumi di fonti
energetiche a livello mondiale ha elevato quest’ultime al rango di drivers
delle relazioni internazionali.
Allo
stesso tempo il petrolio, principale fonte energetica dal secondo dopoguerra ad
oggi, è stato al centro di numerose crisi internazionali caratterizzate
dall’innalzamento della domanda petrolifera, dovuta sicuramente all’ingresso di
nuovi paesi nel mercato energetico, che ha contribuito a sbilanciare un
rapporto tra domanda e offerta di energia comunque già in crisi.
La
permanenza di Delhi tra i grandi del mondo dipende dalla sua capacità di
continuare a stimolare la crescita e lo sviluppo economico.
In questo scenario la politica energetica
assume rilevanza strategica:
l’energia
rappresenta, infatti, una gigantesca forza motrice per l’economia nazionale in
quanto ne sostiene l’espansione e si configura come asset imprescindibile su
cui si proietta il successo dello sviluppo indiano.
La questione energetica, inoltre, è tanto più
interessante se si considera che la competizione per le risorse naturali
strategiche, come i combustibili fossili e i minerali, si è intensificata in
Asia, dove la crescita demografica e il rapido sviluppo economico hanno
generato un appetito insaziabile per le forniture assai limitate di prodotti
chiave.
In un
contesto regionale come quello asiatico caratterizzato da esigue riserve di
idrocarburi e dalla crescente concorrenza della Cina, altra colossale economia
emergente, la sicurezza energetica indiana non potrà dipendere solo da
dinamiche interne ma, soprattutto, dalla capacità di intessere rapporti con
l’estero, principalmente se si considera che le politiche energetiche dei vari
attori sul palcoscenico mondiale sono interdipendenti in quanto, al netto degli
aumenti di produzione, l’accrescimento della sicurezza energetica di un paese
implica una proporzionale diminuzione della sicurezza dei suoi concorrenti che
avranno più difficoltà ad approvvigionare materie prime.
La sicurezza energetica sta sempre più configurandosi
come elemento determinante delle politiche estere dei maggiori paesi dell’Asia:
quest’area,
caratterizzata da alti tassi di crescita economica e demografica e dalla forte
urbanizzazione, vede ampliarsi il divario tra produzione di energia e consumo
energetico, alimentando l’insicurezza energetica della regione e le rivalità
tra i paesi.
Di
fronte alle gravi limitazioni di approvvigionamento le economie asiatiche
stanno intensificando lo sfruttamento delle risorse minerarie e dei
combustibili fossili di altri paesi.
La
concorrenza sempre più intensa per le risorse naturali tra gli Stati asiatici
sta condizionando la geopolitica delle risorse, compresa la costruzione di
oleodotti e gasdotti.
In
questo breve articolo si tenta di proporre, per ogni fonte energetica,
l’analisi del contesto geopolitico relativo al suo accesso, esponendo alcune
riflessioni al riguardo.
L’obiettivo è fornire una sintetica chiave di
lettura per la comprensione della politica energetica sviluppata dall’India,
alla luce delle peculiarità politiche ed economiche dall’area geografica in cui
si trova a operare, cercando di offrire uno squarcio sulle possibili
conseguenze di carattere internazionale.
Mix energetico
e relazioni internazionali dell’elefante indiano.
La forte crescita che sta interessando l’India ormai
già da un decennio, l’ha vista diventare, con i suoi oltre 1.250.000.000
abitanti (2013), la seconda nazione più popolosa al mondo dopo la Cina e,
stante l’attuale tasso di crescita annuo della sua popolazione (1,24%), è
destinata a sorpassarla entro la metà del secolo.
Il suo straordinario sviluppo, però, non è
solamente demografico.
Nel
2011, infatti, il Pil indiano, a parità di potere d’acquisto, è stato il terzo
del mondo, dopo Usa e Cina, confermando ancora il suo trend di crescita annuo
che, da due lustri, è tra l’8% e il 10%.
Anche
se di recente, a causa della crisi finanziaria globale, la crescita è
rallentata, si stima che l’economia indiana continuerà a crescere tra il 7% e
l’8% per i prossimi due decenni.
La combinazione di questi due fattori,
popolazione e Pil, fa dell’India il quinto consumatore di energia al mondo.
Negli
ultimi venti anni, il consumo energetico del paese è aumentato di circa il 65%,
mentre la produzione interna di energia è cresciuta pressappoco del 50%, il gap
è stato colmato impiegando fonti rinnovabili ed energia elettrica importata.
Il
consumo di energia è cresciuto in maniera più che proporzionale rispetto alla
sua generazione, ciò implica che il grado di dipendenza energetica del paese,
dal 1980, è costantemente cresciuto.
Considerato
il tasso di crescita indiano e supportati dall’analisi grafica basata sui dati
storici consolidati, è possibile ipotizzare che i consumi energetici indiani
proseguiranno secondo il trend non lineare crescente già impostato fino a
pressoché triplicare nell’arco di venti anni.
Gli
elevati tassi di crescita economica, inoltre, si traducono in un fabbisogno di
energia destinato ad aumentare in futuro, soprattutto se si considera che circa
il 70% della popolazione indiana vive in aree rurali in cui il tasso di
elettrificazione risulta molto basso (66,9%) rispetto alle aree urbane (93,9%).
Il
fabbisogno energetico indiano è oggi soddisfatto da diverse fonti, in primis
dal carbone che soddisfa circa il 54,52% dei consumi nazionali, configurandosi
come la fonte energetica più importante per l’economia indiana.
Si
presume che in futuro assumeranno un peso sempre maggiore il petrolio, che
attualmente assicura circa il 29,46% dei consumi, il gas naturale e le fonti
rinnovabili.
Nel 2013 l’impiego di gas naturale ha
raggiunto l’7,78%, mentre tutte le rinnovabili, compreso il nucleare, hanno
toccato l’8,24% del totale.
L’India
è il quinto produttore mondiale di energia:
nel paese sono presenti ingenti risorse di
carbone e, in misura minore, di petrolio e di gas naturale, mentre le
importazioni soddisfano un quarto dell’energia consumata.
Tuttavia
il settore energetico indiano, dominato da società a partecipazione statale, è
affetto da evidenti inefficienze, frammentazione e mancanza di investimenti.
Numerose,
infatti, sono ancora tutt’oggi le lacune e le carenze infrastrutturali della
rete elettrica che generano frequenti blackout, creando, oltre ai disagi, anche
un danno d’immagine per un paese che, al momento, non può fare a meno di
fattori esterni per sostenere il proprio sviluppo.
In
questo scenario, la crescita economica sostenuta determina un aumento del
fabbisogno energetico a tal punto che, anche nella fase economica recessiva
vissuta nel 2009, il paese è stato il quarto consumatore mondiale di petrolio
dopo Stati Uniti, Cina e Giappone, registrando una crescita nei consumi del
5,46% rispetto all’anno precedente.
Considerata
l’elevata dipendenza indiana dalle risorse energetiche estere, il governo ha
tentato di diversificare le importazioni di gas e petrolio:
tra i
maggiori partner energetici si annoverano i paesi del Golfo (Arabia Saudita,
Qatar, Kuwait) e l’Iran.
Una percentuale minore di energia proviene
anche dalla Russia, da alcuni paesi africani come la Nigeria, dal Venezuela e
da altri paesi.
Rilevanti
sono, inoltre, i rapporti che l’India intesse con la Russia sia a livello di
forniture sia per la crescente cooperazione in campo energetico che riguarda
anche l’ambito del nucleare.
L’energia
nucleare, infatti, rappresenta un settore su cui l’India sta puntando per
garantire la propria sicurezza energetica nel lungo periodo.
Ad
oggi l’energia nucleare soddisfa circa l’1,26% dell’energia consumata e il 2,2%
dell’elettricità, ma si stima che entro il 2050 il nucleare dovrebbe produrre
il 25% dell’elettricità.
In
questa prospettiva, recentemente l’India ha concluso accordi bilaterali con
numerosi paesi tra cui Stati Uniti, Francia, Russia, Kazakistan e Canada.
Settore
con grandi potenzialità di sviluppo è oggi, inoltre, quello delle fonti
energetiche rinnovabili, che sempre più concorrono alla crescita economica
indiana grazie alla capacità di assorbire quote crescenti di domanda
energetica.
Terzo
paese al mondo per la produzione di carbone, l’India ospita sul suo territorio
più del 7% delle riserve mondiali accertate, rilevanti quantità di carbone sono
presenti soprattutto nel Bihar e nel Bengala Occidentale.
La
concomitante vicinanza di ricchi giacimenti di ferro ha favorito il sorgere di
una potente industria siderurgica nella valle del Dāmodar, conosciuta come
«Ruhr indiana».
Nonostante
la grande produzione interna, il carbone non soddisfa ad oggi i consumi
indiani.
Paradossalmente,
pur potendo soddisfare il 100% del fabbisogno nazionale di carbone, la “Coal
India Limited”, il gigante statale della produzione del carbone, non vi riesce
perché, da una parte, è vincolata dalle politiche imposte dal Governo indiano
in materia di tutela ambientale, e, dall’altra, è limitata dalla bassa
produttività e da una rete distribuzione inefficiente, rendendo necessario il
ricorso alle importazioni, soprattutto per assorbire la domanda nel settore
della generazione elettrica:
il 68% dell’energia elettrica in India è oggi
prodotta tramite centrali a carbone.
(Il carbone è la fonte di energia elettrica
più economica! N.D.R.)
Il
carbone si configura quale vero e proprio driver della politica energetica
interna. Esso, sebbene non di ottima qualità, è la fonte più impiegata ed è
lecito aspettarsi che lo sia anche nel prossimo futuro.
La forte domanda dell’India, unitamente a
quella cinese, continua a sostenere la crescita dei prezzi di questa risorsa:
l’effetto
può essere meglio compreso se si considera che il carbone è la risorsa più
usata per la produzione di energia elettrica e secondo l’International Energy
Association (Iea) ad oggi circa l’80% dell’energia elettrica deriva da centrali
a carbone.
La
combustione di carbone, e in generale dei combustibili fossili, genera massicce
quantità di agenti inquinanti:
CO2,
polveri sottili, idrocarburi policiclici volatili, ossidi di zolfo e di azoto,
mercurio, arsenico.
(Tutte queste sostanze chimiche
possono essere neutralizzate nell’atmosfera con appositi filtri oggi già
esistenti! N.D.R.)
Per
ovviare a tale problema, molti Stati hanno impostato strategie che prevedono la
riduzione dell’uso delle fonti fossili in favore dell’aumento del gas naturale,
delle rinnovabili e dell’energia nucleare.
In
questo contesto, le autorità indiane in materia di tutela ambientale hanno
recentemente imposto un rallentamento nella produzione interna che ha avuto
riflesso in un significativo aumento delle importazioni di carbone:
nel
2013 il carbone importato ha coperto quasi il 30% dei consumi.
Tale
dato potrebbe ulteriormente crescere nel prossimo decennio e quindi si impone
la ricerca di partnership strategiche che rendano sostenibile l’aumento dei
consumi di carbone.
In
particolare, tre dei maggiori esportatori di carbone, Australia, Indonesia e
Sud Africa, sono territorialmente molto vicini all’India che sta cercando di
inserirsi nei loro circuiti commerciali per assicurarsi approvvigionamenti
stabili per il futuro.
Nel
computo generale dei consumi energetici indiani, il petrolio copre, ad oggi,
più di un quarto delle esigenze.
Nella
regione asiatica, l’India è il terzo consumatore di questa risorsa, dopo Cina e
Giappone.
Le
riserve di petrolio indiane, costituite in prevalenza da greggi leggeri a basso
tenore di zolfo, ammontano a 5,7 miliardi di barili.
La
produzione complessiva nazionale è di circa 42 milioni di tonnellate di
petrolio grezzo ed è praticamente costante da più di un decennio, mentre i
consumi sono passati da 2,5 milioni di barili al giorno nel 2003, ai 3,7 nel
2013.
I dati
più recenti evidenziano come gli attuali consumi si avvicinino ai 175,2 milioni
di tonnellate (2013), rendendo effettiva una dipendenza dalle importazioni
prossima al 70% per soddisfare il fabbisogno interno.
Si
stima che le importazioni di petrolio dell’India dovrebbero crescere in valore
assoluto fino a raggiungere i 6,7 milioni di barili al giorno entro il 2035.
L’aumento della domanda generale di petrolio,
e quindi del suo prezzo, provoca un consistente aggravio di spesa per garantire
la sicurezza energetica del paese.
Sebbene
le riserve nazionali offrano petrolio ancora per circa venti anni, si rende
sempre più importante stabilire relazioni a livello internazionale per
sopperire all’accelerazione dei consumi.
Analizzando le riserve di paesi vicini, si
nota che l’Asia orientale, sud-orientale e l’Oceania sono regioni povere di
greggio e che, nel complesso, la situazione del sud-est asiatico non offre
grandi prospettive.
Il Vicino Oriente costituisce un bacino
importante per i rifornimenti di petrolio indiano: l’Arabia Saudita ne fornisce
il 19%, l’Iraq il 14%, l’Iran l’11% e il Kuwait il 10%.
Nonostante
il tentativo del governo indiano di diversificare le importazioni, si evidenzia
una dipendenza dal petrolio mediorientale nel lungo periodo e, in particolare,
da quello proveniente dall’Iran.
Quest’ultimo
per molti anni è stato il secondo fornitore di petrolio più importante per
l’India, dopo i sauditi, configurandosi come un partner strategico nella
regione. Tuttavia, Delhi sta tentando di ridurre la quota di Teheran al fine di
allinearsi alle politiche statunitensi ed europee volte a scoraggiare accordi
con l’Iran a causa dei suoi presunti programmi di sviluppo nucleare ai fini
militari.
Negli
ultimi anni la quota iraniana è stata ridimensionata e, verosimilmente, lo sarà
ancora in futuro.
La
strada indiana che porta al petrolio mediorientale passa per l’Oceano Indiano
che si configura come essenziale porta d’accesso a questa importante risorsa.
La favorevole contiguità con l’Asia
occidentale, tuttavia, non rappresenta la panacea per la sicurezza energetica
dell’India: a causa della diffusa pirateria nel Golfo di Aden la marina indiana
è costretta a monitorare e proteggere costantemente le rotte di interesse.
Ma il
petrolio mediorientale deve essere tutelato anche dalla domanda proveniente
dalla Cina, con cui l’India compete nella regione, soprattutto per aver fallito
numerosi tentativi di assumere il ruolo di partner strategico dei paesi
mediorientali.
Il più
recente approccio geostrategico adottato dall’India prevede che la nazione si
proponga quale paese di scalo lungo le rotte dell’Oceano Indiano, per assumere
un ruolo chiave nella raffinazione e nella riesportazione di parte del greggio
mediorientale in transito.
Nel
2009 la “Reliance Industries “ha creato il più grande polo mondiale di
raffinazione, capace di lavorare 3,6 milioni barili al giorno, collocando
l’India al quinto posto nel mondo.
A
dispetto delle annose rivalità commerciali, India e Cina stanno tentando di
trovare un accordo per l’approvvigionamento delle riserve petrolifere medio orientiali
attraverso la sigla, nel giugno 2012, di un protocollo d’intesa tra la “India’s
Oil and Natural Gas Corp e la “China National Petroleum Corp” che prevede il
rafforzamento delle attuali operazioni di esplorazione e produzione in Myanmar,
Sudan e Siria, nonché la partecipazione congiunta alle aste per l’attribuzione
di nuovi campi petroliferi e di gas per operazioni future di esplorazione e
produzione.
Questo accordo è foriero di notevoli vantaggi
per i due paesi in quanto, collaborando, potranno sostenere costi inferiori per
l’assegnazione dei lotti di esplorazione e produzione dell’area pacifica;
aumentare
la sicurezza dell’approvvigionamento energetico;
avere
un peso maggiore nel mercato energetico della regione e in campo
internazionale.
Le
lungimiranti decisioni adottate dal governo indiano in campo internazionale non
sono accompagnate da scelte altrettanto avvedute sul mercato interno dove sono
presenti notevoli elementi distorsivi, derivanti, in primis, dai sussidi ai
prezzi dei prodotti petroliferi che costringono le compagnie petrolifere
pubbliche, e quindi il governo, a sopportare notevoli perdite nei bilanci.
Nel
2010 si è tentato di porre rimedio a questa situazione attraverso la
liberalizzazione dei prezzi della benzina.
L’iniziativa
ha avuto però un impatto poco significativo dal momento che la benzina
rappresenta solo una piccola quota della domanda di petrolio:
la
maggior parte della domanda riguarda, infatti, cherosene, gasolio e gas di
petrolio liquefatto (Gpl), più diffusamente utilizzati dalle classi
economicamente svantaggiate.
Il gas
naturale rappresenta una valida alternativa ad altre fonti fossili in quanto
consente di limitare sensibilmente le emissioni di CO2.
Pertanto, è ragionevole aspettarsi un aumento
della domanda dovuto alle pressioni delle autorità ambientali nazionali e alla
crescente sensibilità ambientale.
Fino a
qualche anno fa la maggior parte del gas proveniva dalle riserve offshore
presenti nella zona di Mumbai.
Le
recenti scoperte di risorse gassifere nel Golfo del Bengala e al largo delle
coste degli Stati di Orissa, Andhra Pradesh e Gujarat hanno spostato il fulcro
della produzione in quest’area, quasi raddoppiando le riserve nazionali
nell’ultimo ventennio fino ad arrivare, nel 2013, a 1,4 miliardi di metri cubi.
Tuttavia,
agli attuali tassi di estrazione e consumo, pur aumentando le stime sulla
durata delle riserve, ritenendole sufficienti per quasi un trentennio, l’India,
che dal 2004 ha iniziato a importare gas naturale, dovrà continuare a farlo con
trend crescente anche in futuro.
L’importazione
di gas naturale è fortemente influenzata dal trasporto. Il gas, a temperatura e
pressione ambiente, si presenta allo stato aeriforme, può quindi essere
trasportato solo tramite gasdotti.
Questi
ultimi sono infrastrutture molto costose e rappresentano un forte vincolo per
il mercato del gas, in quanto, di fatto, impongono poche rotte fisse.
In questo caso, la posizione geografica è
sfavorevole per l’India, in quanto le maggiori riserve di gas più vicine si
trovano a nord ovest del paese, nella zona che si affaccia sul Caspio.
L’accesso a questa zona è ostacolato, in primo
luogo, dalla presenza del Pakistan, con il quale è aperta la disputa sulla
sovranità del Kashmir, e anche dall’Afghanistan con il quale, per la situazione
di instabilità attuale del paese, è molto rischioso pianificare progetti
infrastrutturali.
I due più importanti progetti di gasdotti,
proposti negli anni novanta, sono il “Tapi” (gasdotto
Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India) e l’”Ipi” (gasdotto
Iran-Pakistan-India).
Nonostante
quest’ultimo preveda il coinvolgimento di un numero minore di paesi e non
contempli il territorio afghano, è stato abbandonato nel 2011 per la
contrarietà degli Stati Uniti a un accordo tra India e Iran e per il regime di
autosufficienza energetica impostato da Teheran che possiede le seconde riserve
mondiali di gas naturale.
Il “Tapi”,
di contro, è a uno stadio più avanzato, infatti, i primi intensi negoziati si
sono conclusi a marzo 2011;
ciononostante,
il progetto sarà difficilmente operativo prima del 2018.
La
possibilità di importare gas naturale dal nord est, in particolare dal Myanmar
via Bangladesh, percorsa dall’India fino al 2006, non è più esistente dal
momento in cui la Cina ha acquistato l’intera nuova produzione.
Alla
luce del quadro delineato, Delhi ha sviluppato investimenti in impianti
costieri per la rigassificazione.
Oggi
tutto il gas importato è gas naturale liquefatto che approda in India via mare.
Quindi,
l’importazione di gas per via marittima, messa a sistema con le difficoltà a
implementare l’approvvigionamento tramite gasdotti, impone al governo indiano,
sul fronte della sicurezza energetica, di conferire un’elevatissima priorità
alla protezione delle rotte dell’Oceano Indiano che lambiscono le sue coste.
Considerata
anche la crescente dipendenza dall’importazione via mare dalla regione del
Golfo, del petrolio e dei suoi derivati, si comprende chiaramente quale
necessità abbia l’India di proteggere le rotte marittime, vitali per i suoi
interessi economici e strategici.
L’India
deve necessariamente considerare anche l’altra faccia della medaglia dello
sviluppo economico caratterizzata dall’aumento delle importazioni, a causa del
divario tra energia richiesta ed energia prodotta.
Le importazioni indiane sono aumentate
nettamente:
da 82
miliardi di dollari nel 2010 a 145 miliardi di dollari nel 2012, diventando la
maggiore componente dell’attuale deficit che caratterizza i conti pubblici del
paese.
Il
problema dell’India è che ha un quinto della popolazione mondiale, ma solo un
trentesimo dell’energia:
questo
significa che non produce abbastanza da soddisfare il suo fabbisogno.
Di
conseguenza il paese è costretto a importare energia, in forma di petrolio, gas
e, sempre più spesso, carbone.
Secondo molte stime le importazioni indiane
continueranno ad aumentare da circa il 30% della domanda energetica fino a
circa il 50% entro il 2030.
Dagli
attuali consumi di energia primaria si comprende benissimo quale sia
l’andamento della crescita della domanda che, negli ultimi anni, ha assunto un
trend quasi esponenziale.
Domanda
caratterizzata dalla preponderanza delle fonti fossili, in particolare del
carbone.
Le fonti di natura termica, come petrolio, gas
naturale e carbone, negli ultimi venticinque anni hanno sostenuto la crescita
del paese, contribuendo, nel 2013, per circa il 70% del mix energetico alla
produzione di energia elettrica.
Nonostante
la grande importanza di queste risorse per lo sviluppo economico, l’India dovrà
via via ridurne il consumo.
Le autorità nazionali e internazionali per la
tutela ambientale, infatti, spingono da tempo per l’abbattimento delle
emissioni inquinanti e per l’incremento dell’efficienza energetica.
Al
fine di allinearsi alle linee guida ambientali, l’India dovrà sempre più
puntare sulla diversificazione delle fonti energetiche per assicurare una
riduzione delle emissioni di CO2.
La
sfida più pressante che Delhi oggi si trova ad affrontare riguarda proprio la
possibilità di diversificare il proprio mix nazionale, diminuendo l’uso del
carbone, attuando investimenti in fonti rinnovabili di energia e nel nucleare,
soprattutto per soddisfare la crescente domanda d’elettricità.
L’energia
nucleare per usi civili rappresenta un settore su cui l’India sta puntando per
garantire la propria sicurezza energetica nel lungo periodo.
Nonostante
nell’ultimo decennio Delhi abbia aumentato la produzione di energia nucleare di
circa il 31%, nel 2011 è riuscita a soddisfare solo l’1% dei consumi e il 3%
dell’elettricità, ma si stima che entro il 2050 il nucleare dovrebbe produrre
il 25% dell’elettricità.
Lo
sviluppo dell’energia nucleare in India è stato improntato a indipendenza e
autosufficienza, soprattutto a causa dell’esclusione dagli accordi
internazionali di sviluppo del nucleare conseguente alla mancata ratifica del
Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) del 1970 e del rischio di
confronto nucleare tra Delhi e Islamabad che ha spinto molti paesi a limitare,
o a sospendere del tutto, la collaborazione sul nucleare e le forniture di
uranio al paese.
Tuttavia,
ultimamente, la situazione sembra mutata.
Nel
2008 il Congresso degli Stati Uniti d’America ha aperto alla cooperazione
nucleare civile con l’India attraverso un partenariato strategico, favorendo
una distensione con l’Occidente che ha portato nuove iniziative di investimento
nel nucleare in India e alla conclusione di accordi bilaterali con numerosi
paesi tra cui Francia, Russia, Kazakistan e Canada, oltre agli Stati Uniti.
Il
futuro programma nucleare indiano è uno dei maggiori al mondo, assieme a quello
cinese, e i piani sono di aumentare il contributo dell’energia nucleare al mix
energetico per il raggiungimento dell’indipendenza energetica in prossimità del
2050.
Il
programma di sviluppo del nucleare è incentrato sulla realizzazione in patria
di reattori e sul raggiungimento dell’autosufficienza nel ciclo del combustibile,
in questo senso molto dipenderà dalla capacità del paese di sfruttare le vaste
risorse di torio di cui dispone.
Il
governo indiano non accetta la partecipazione straniera nella costruzione di
centrali nucleari;
l’accordo
siglato con gli Stati Uniti prevede solo la fornitura del combustibile e il
trasferimento del know-how:
in
tale contesto, le prospettive di generazione elettrica di origine nucleare
appaiono ancora fortemente limitate dal momento che l’India deve importare il
combustibile nucleare.
Del
resto, l’uranio è una risorsa non facilmente reperibile, quindi, nella misura
in cui si sia costretti ad aumentare le importazioni di questa materia prima,
lo sviluppo del comparto nucleare non basta ad aumentare la sicurezza
energetica del paese.
La
questione dell’uranio è alla base dei rapporti economici e politici fra l’India
e l’Australia, uno dei più grandi produttori mondiali di uranio.
Dopo
due anni di trattative, il 4 settembre 2014, a Delhi, il primo ministro
australiano Tony Abbott e il suo omologo indiano Narendra Modi hanno firmato un
accordo di cooperazione per il nucleare civile che prevede la vendita
dell’uranio australiano all’India.
L’accordo
è stato definito storico perché è il primo di questo genere firmato tra
l’Australia e un paese che non ha ratificato il “Tnp”.
Questa
decisione, in contrasto con il Tnp, avrà sicuramente riflessi in campo
politico, economico e militare tali da influenzare l’assetto geopolitico
dell’area, soprattutto in considerazione del fatto che la Cina è stata
contraria sin dal principio a nuovi accordi fra India e Australia:
in
primo luogo, visto che l’India non ha firmato il Tnp, si teme che nel tempo la
partnership sul nucleare civile possa traslare in campo militare.
La Cina, inoltre, paventa che l’India, grazie
a tale sinergia, possa consolidare la propria crescita economica in Asia e nel
Pacifico, ostacolando in tal modo l’ascesa cinese nell’area.
L’India, invece, teme le relazioni che la Cina
ha instaurato con i vicini paesi Nepal, Bangladesh, Myanmar, Sri Lanka, ma
soprattutto con il Pakistan:
le
relazioni sino-pakistane riguardano essenzialmente accordi militari che
prevedono aiuti cinesi al Pakistan per costruire reattori nucleari volti a
soddisfare il fabbisogno energetico del paese.
Questa alleanza può essere considerata la
risposta agli accordi stipulati fra Stati Uniti e India, in base ai quali
quest’ultima ha preso parte al commercio nucleare civile con Washington pur non
avendo aderito al Tnp.
L’India
auspica l’interruzione dello sviluppo nucleare in Pakistan, valutato come una
minaccia alla propria sicurezza nazionale.
D’altro
canto, la presenza cinese in Asia meridionale è vista con diffidenza dal
governo indiano che, al fine di arginarla, ha applicato quella che è stata
definita la “Look East Policy”, stringendo accordi di tipo militare e politico
con molti paesi geograficamente vicini alla Cina, primo fra tutti il Giappone.
L’accordo sul nucleare tra India e Australia
si inserisce dunque in un contesto particolare e avrà dei sicuri risvolti
geopolitici.
Anche
se l’accordo con Washington offre a Delhi quell’accesso al mercato nucleare che
anela da tempo per affrontare i gravi problemi energetici del paese, non
risponde a tutte le necessità dell’India:
l’accordo,
infatti, presume che la crescente domanda indiana di energia possa essere
facilmente soddisfatta importando reattori nucleari.
Secondo
molti studiosi, questa importazione non farebbe altro che determinare
insicurezza energetica e costi esorbitanti con il rischio di non riuscire
comunque a soddisfare la domanda totale del paese.
Il
sistema energetico indiano registra, inoltre, un gap tra domanda e produzione
di energia elettrica destinata agli utenti connessi alla rete nazionale.
La riduzione di questo gap è oggi una delle
principali sfide che l’India deve affrontare sul piano della politica interna
al fine di continuare a garantire la crescita economica del paese.
È
stato stimato che per fornire un’adeguata quantità di energia elettrica
all’intera popolazione, l’India dovrà più che raddoppiare l’attuale capacità
installata;
in
quest’ottica si comprende come le fonti rinnovabili siano destinate a giocare
un ruolo sempre più da protagonista sullo scenario energetico indiano.
Un
segnale in questa direzione è stato sicuramente la creazione nel 1992 di uno
specifico ministero destinato a promuovere proprio queste forme d’energia.
Per la generazione di energia elettrica un
ruolo determinante nel campo delle rinnovabili è giocato dal settore
idroelettrico.
Un
grafico propone un’istantanea della capacità attualmente installata per la
generazione elettrica dalla quale si nota, da una parte, il ruolo determinante
delle fonti di natura termica e, dall’altra il peso del settore idroelettrico
nel campo delle risorse rinnovabili.
Considerando
le singole fonti rinnovabili, tranne quella idroelettrica, si nota invece come
l’energia eolica contribuisca per il 70% alla generazione di energia, mentre,
il settore fotovoltaico, nonostante il vigoroso irraggiamento solare del
territorio indiano, vi partecipi per il solo 4%.
L’India
dovrà, necessariamente, mettere a punto politiche capaci di sviluppare il
comparto dell’energia solare, ciò al fine di centrare, entro il 2017
l’obiettivo fissato dal governo, a prima vista ambizioso, di raggiungere i 55 Gw
di potenza installata da fonti rinnovabili.
Il
raggiungimento di questo obiettivo è tanto più necessario in considerazione del
fatto che, secondo l’agenzia di rating “Goldman Sachs”, entro il 2050 l’India
diverrà la terza economia mondiale, dopo Cina e Stati Uniti.
Questa
prospettiva, sino a poco tempo fa impensabile, oggi appare persino prudente e
dovrà coniugarsi con le esigenze di tutela ambientale.
Per
favorire lo sviluppo delle energie rinnovabili, il ministero ha adottato misure
di sostegno specifiche per le diverse filiere. “
A tale
scopo, esso dispone di un organismo pubblico, l’Agenzia Indiana per lo Sviluppo
delle Energie Rinnovabili” (Indian Renewable Energy Development Agency-Ireda),
che elargisce aiuti per finanziare progetti di vario genere.
Questi aiuti possono essere richiesti sia
dagli utilizzatori finali, privati o imprese, sia dagli intermediari finanziari
o dagli enti pubblici (banche, agenzie governative, alcune Ong).
In questo settore, inoltre, per i progetti
legati alla generazione e alla distribuzione dell’energia i capitali stranieri
possono raggiungere anche il 100% del capitale sociale.
L’India
possiede le risorse naturali necessarie allo sviluppo delle fonti rinnovabili:
percorso dai monsoni, il paese dispone di risorse eoliche utilizzabili stimate
a 45.000 megawatt (Mw) che ben si adattano alla realizzazione di wind farm[60]
sia onshore sia offshore.
Vaste
porzioni di territorio ricevono un elevato irraggiamento solare (tra i 520 e i
630 W/mq) che presagisce il naturale sviluppo del settore dell’energia solare
tra le fonti rinnovabili, mentre la presenza di numerosi corsi d’acqua offre
potenzialità di sviluppo di impianti idroelettrici.
L’agricoltura,
che continua a essere la principale attività economica per poco meno della metà
della popolazione indiana, apre ottime prospettive per l’utilizzo dei rifiuti
verdi in impianti di produzione di biomassa, il cui potenziale è stimato in
12.000 Mw, esclusi gli biocarburanti che non generano solo calore, ma anche
elettricità.
Le
biomasse, inoltre, possono essere adoperate per migliorare l’efficienza della
combustione dei combustibili fossili, per la sostituzione integrale del
petrolio e del carburante da trasporto, nonché per alleviare l’annoso problema
dei rifiuti nelle periferie urbane.
Le
fonti rinnovabili si configurano quindi come un asset strategico per l’India in
quanto sfruttano risorse naturali di cui il paese è ricco, consentendo, in
generale, di ridurre i problemi di sicurezza energetica e di importazione delle
fonti, proteggendo dalla volatilità dei prezzi dei combustibili fossili;
di
soddisfare la domanda di energia elettrica nelle aree più remote e rurali,
spesso non connesse alla rete di trasmissione; di fornire un importante
contributo al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di
CO2 stabiliti dal Napcc nel giugno 2008.
Sul
piano internazionale l’India lavora per l’accrescimento dell’efficienza del
sistema energetico trovando oggi un partner importante nell’Unione Europea con
cui, dal 2012, collabora nell’ambito del progetto Sahyog che prevede il
gemellaggio tra India e Unione Europea per la produzione di biomassa e la
conversione di rifiuti organici attraverso approcci biotecnologici.
Geopolitica,
aspirazioni regionali e responsabilità globali
Nell’ambito
della competizione energetica mondiale l’ingresso delle economie emergenti ha
sicuramente alterato i termini della partita cosiddetta «geo-energetica».
In questo scenario l’India ha appena iniziato
a strutturarsi come potenza mondiale, non potendo essere paragonabile ancora ai
grandi del mondo.
Tuttavia,
la sua impetuosa crescita economica sta contribuendo a ridefinire gli equilibri
economici internazionali che risultano, inoltre, influenzati dalla contestuale
crisi dell’eurozona, spostando l’attenzione verso il continente asiatico dove
l’India spicca nettamente, assieme ad altri paesi come la Cina, per dimensione
geografica, demografica ed economica e per le notevoli performance di crescita
dovute anche alle politiche energetiche introdotte.
Gli
indirizzi di politica energetica dell’India devono, ovviamente, calarsi
all’interno di un contesto geopolitico particolare, sul quale oggi è puntata
l’attenzione di moli altri paesi; ciò offre alcuni importanti spunti di
riflessione utili a delineare possibili scenari per il futuro della sicurezza
energetica del paese.
Una
prima riflessione si focalizza sui rapporti tra Stati Uniti e India, per la
comprensione dei quali è necessario chiamare in causa anche la Cina.
In
questa relazione a tre, le possibili tensioni tra due delle parti, Stati Uniti
e Cina, si riverberano anche sulla terza parte indiana.
Gli
Stati Uniti, anche se strettamente legati alla Cina sul piano economico,
mantengono con essa un rapporto ambiguo in quanto aspirano a conservare il
primato di potenza mondiale, non sopportando l’idea di un possibile sorpasso
cinese.
In
questo rapporto ambivalente con la Cina, gli Stati Uniti chiamano in causa
anche l’India, in funzione anti-cinese, per assicurare la massima libertà
possibile al commercio che avviene nell’Oceano Indiano.
Il
Pentagono fa, infatti, affidamento sulla marina indiana – con la quale da
ottobre 2003 ha cominciato a tenere manovre congiunte – per controllare le
linee marittime della regione, mentre Washington lavora per migliorare i
rapporti fra l’India e le altre democrazie asiatiche per far fronte alla
crescente influenza cinese.
L’India
è così schiacciata tra due giganti: anche se più vicina agli Stati Uniti che
alla Cina, evita di schierarsi palesemente, tendendo a far pendere il piatto
della bilancia da una parte o dall’altra a seconda delle situazioni. I
n
questo contesto, sicuramente le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e India
creano una partnership destinata a influenzare buona parte del ventunesimo
secolo.
Un’altra
riflessione è legata ai rapporti tra India e Cina.
Queste
due economie emergenti, congiuntamente ai paesi del Medio Oriente,
determineranno una grande crescita del fabbisogno mondiale di combustibili
liquidi.
Il
dipartimento dell’energia statunitense prevede, infatti, un incremento del
fabbisogno del 38% entro il 2040, spinto dalla domanda di Cina, India e delle
altre economie emergenti asiatiche, lasciando ipotizzare che Cina e India, per
garantire la rispettiva sicurezza energetica, sviluppino una escalation nelle
tensioni diplomatiche.
Nonostante
la reciproca e annosa diffidenza tra Cina e India, nello scacchiere asiatico si
comincia ad assistere a prove di dialogo tra i due colossi:
l’incontro
al vertice fra il Primo Ministro indiano Manmohan Singh e la sua controparte
cinese Li Keqiang sembra possa essere un passo concreto verso la riduzione
delle distanze tra le due nazioni più popolate dell’Asia, unite da una
frontiera da sempre contestata, con un potenziale di scambi commerciali e
sostegno politico reciproco mai realizzato, per quanto in crescita, che
potrebbe fare avanzare la pace e la prosperità in Asia e nel mondo.
Senza
un approvvigionamento energetico continuo, sicuro e a prezzi sostenibili, lo
sviluppo dell’India potrebbe essere intaccato.
La competizione in campo energetico nell’Asia centrale
ha determinato un aumento del costo dell’energia, limitandone le disponibilità
e rivelando squilibri nel settore.
In
questo contesto, l’India, invece di sviluppare una strategia energetica
dinamica nell’area centroasiatica, sembra bloccata in una tattica di contrasto
al Pakistan.
È questo il caso del gasdotto “Ipi” che, per
le ingerenze statunitensi, è stato abbandonato malgrado Delhi ne abbia bisogno
per colmare il suo crescente fabbisogno energetico.
Resta
il gasdotto “Tapi” che potrebbe dare impulso all’economia afghana, generando
migliaia di posti di lavoro e il trasferimento del know-how dall’India
all’Afghanistan.
L’interessamento
della russa Gazprom al progetto “Tapi “sembra aver dato nuovo vigore agli
approvvigionamenti energetici terrestri, che consentirebbero di instaurare un
canale di dialogo in Asia centro-meridionale anche nella prospettiva del ritiro
delle forze Nato dall’Afghanistan entro il 2014:
il “Tapi” potrebbe, infatti, fungere da
elemento di stabilizzazione dell’Afghanistan e da catalizzatore della
cooperazione regionale, scongiurando la possibilità che sia l’Iran, attraverso
il concorrente progetto di gasdotto verso il Pakistan (Ipi), a far fronte alla
crescente domanda di gas dei mercati asiatico-meridionali.
Per
quanto riguarda gli idrocarburi, si sottolinea la tendenza alla loro
importazione da parte indiana, ciò appare come la soluzione più immediata per
sopperire alle carenze di produzione.
Nell’attuazione di questa decisione l’India
manca ancora di elementi importanti per poter agire con pieno successo,
soprattutto a causa della diplomazia indiana che non risulta efficace
nell’acquisire forniture energetiche estere in quanto, da una parte, il paese
ha sviluppato la questione energetica solo in termini economici, trascurando
gli interessi politici legati al petrolio e, dall’altra, le tensioni storiche e
politiche con i paesi confinanti ostacolano i rapporti dell’India con questi
ultimi a tal punto che il governo di Delhi risulta quasi completamente isolato
dai paesi circostanti, allontanando l’India dalle sue aspirazioni di potenza
regionale.
Oggi
per il subcontinente indiano risulta, dunque, importante istituire con gli
altri paesi asiatici una cooperazione politica ed economica che al contempo
abbia riflessi sulla propria politica strategica di sicurezza:
in questo scenario il settore marittimo con la
protezione delle rotte energetiche e sicurezza delle coste, assume
un’importanza fondamentale perché consente all’India di affermarsi sempre più
quale polo regionale per la raffinazione dei prodotti petroliferi.
A ciò,
ovviamente deve anche affiancarsi una rilevante crescita delle proprie
infrastrutture:
la
costruzione di strade, oleodotti e gasdotti, infatti, consentirebbe l’aumento
degli scambi con i paesi circostanti e permetterebbe a Delhi di aumentare la
propria influenza nello scacchiere asiatico.
Nell’immediato
futuro l’India dovrà impostare strategie di approvvigionamento di fonti
energetiche che tengano nel giusto conto i seguenti elementi: estrema
diversificazione delle fonti, per evitare l’impatto devastante che avrebbe la
mancanza di una componente del mix energetico;
differenziazione dei paesi fornitori per
ciascuna fonte, così da contenere le conseguenze di eventuali crisi interne a
un singolo paese fornitore;
disponibilità
di molteplici vie di trasporto, in modo da poter gestire l’impossibilità di
usare una specifica infrastruttura (oleodotto, rigassificatore, etc.) o di
transitare esclusivamente in una limitata area geografica (ad esempio un valico
o uno stretto);
intensificazione delle relazioni con i paesi
fornitori e di transito per assicurarsi accordi politici di reciproca utilità,
partnership strategiche, privilegi di carattere commerciale o anche sostegno
economico.
Auto
elettrica vs consumi petroliferi:
lo strano caso della Norvegia.
Rivistaenergia.it
– Redazione – (24 Luglio 2024) – ci dice:
Nonostante
l’eccezionale penetrazione dell’auto elettrica, in Norvegia non si riscontra
nessun calo significativo dei consumi petroliferi, né di conseguenza delle
emissioni di carbonio.
Com’è
possibile?
Goehring e Rozencwajg ne spiegano le ragioni
in articolo pubblicato su “ENERGIA 2.24”.
Secondo loro, la sostituzione degli “Ice” con
gli “Ev” non solo non ridurrà la domanda petrolifera, ma aumenterà
sostanzialmente le emissioni di carbonio.
L’auto
elettrica è largamente considerata un mezzo fondamentale per ridurre se non
azzerare le emissioni sul fronte della mobilità privata.
Alimentando
l’automobile con elettricità decarbonizzata, generata da fonti rinnovabili o
nucleare, si evita il consumo di benzina o diesel.
Le
emissioni prodotte durante il ciclo di costruzione dell’automobile, e in
particolare quelle relative alla batteria, si sostiene siano comunque inferiori
a quelle generate nel ciclo di vita di una tradizionale automobile a motore
termico.
Vi
sono poi altri vantaggi, come la riduzione degli inquinanti locali o i minori
costi di manutenzione, sebbene non siano certo quelli che spingono per una
rivoluzione indotta dell’intero comparto automobilistico.
Auto
elettrica sì, auto elettrica no?
Questa
impostazione è raccomandata dalle più importanti istituzioni internazionali in
materia di energia e clima (come l’IPCC e la Iea), tanto che l’Unione Europea
ha deciso lo stop ai motori termici a partire dal 2035.
Tuttavia, non tutti convengono sui citati
vantaggi e in più vi contrappongono una serie di svantaggi o criticità, a
partire dai rischi per un’industria europea di pregio come quella automotive e
quelli geopolitici di una forte dipendenza dalla Cina. (Per una disamina di questo confronto
tra le ragioni del sì e del no all’auto elettrica si rimanda all’articolo di
Enzo Di Giulio).
In un
articolo pubblicato sul numero 2.24 della rivista ENERGIA, Leigh R. Goehring e
Adam A. Rozencwajg muovono una nuova forte critica ai supposti vantaggi
dell’auto elettrica.
Vi
sostengono infatti che la domanda petrolifera non verrà scalfita da una
maggiore penetrazione dei modelli elettrici nel parco circolante.
“I
sostenitori della mobilità elettrica ritengono che la sostituzione dei
combustibili fossili sia essenziale per frenare il riscaldamento globale.
Non
siamo d’accordo: la sostituzione degli Ice con gli Ev aumenterà sostanzialmente
le emissioni di carbonio e potrebbe peggiorare il problema”.
A
riprova di questa tesi gli autori prendono a riferimento il caso della
Norvegia, paese simbolo dell’elevata penetrazione delle auto elettriche, che
nel 2022 hanno rappresentato l’80% delle vendite di auto nuove e il 20% del
parco auto circolante.
Nonostante
alcuni sussidi siano stati tolti, un residente di Oslo può ancora aspettarsi un
totale di 8.000 dollari all’anno.
Un
vero e proprio “case study” per sostenitori delle auto elettriche, ma che
Goehring e Rozencwajg prendono in esame per giungere alle conclusioni opposte. Non solo, o tanto, per una questione
finanziaria o di giustizia sociale, ma per l’impatto su quello che dovrebbe
essere il loro primario se non unico obiettivo: ridurre i consumi di petrolio.
“La
Norvegia è uno dei paesi più ricchi del mondo, con un Pil pro-capite di 106.000
dollari nel 2022.
Nonostante
l’impressionante livello di benessere, il governo deve ancora incentivare
finanziariamente i suoi cittadini ad acquistare gli Ev, con importanti
ripercussioni sulle finanze norvegesi” (1. Un peso per la spesa pubblica,
che crea iniquità).
Oltre
agli incentivi fiscali all’acquisto, vi sono l’esenzione da qualsiasi pedaggio
stradale e traghetto, l’utilizzo delle corsie preferenziali, parcheggi e
ricarica gratuiti nelle aree comunali, «diritti di ricarica» nei condomini.
Quasi
4 miliardi di dollari di spesa pubblica all’anno (tanto quanto per la manutenzione di
autostrade e infrastrutture pubbliche) hanno consentito l’incredibile
livello di penetrazione dell’auto elettrica in Norvegia, senza tuttavia
registrare nessun calo significativo dei consumi petroliferi (par. 2), né di conseguenza, delle emissioni di
carbonio.
(L’emissione di CO2 nell’atmosfera è
semplicemente una gigantesca bufala! Come fa la Co2 a volare nell’alta
atmosfera se è più pesante dell’aria? N.D.R.)
“Nonostante
il 20% di tutti i veicoli in circolazione sia elettrico, la domanda di benzina
e diesel in Norvegia è diminuita solo del 4%”.
Numeri
solo apparentemente contraddittori.
Com’è
possibile un simile risultato?
La
risposta sembrerebbe piuttosto semplice: acquistare un’auto elettrica non
equivale ad usarla o a sostituire un motore termico.
“Dal
2010 al 2022, la Norvegia ha aggiunto 550.000 Ev, ma il numero di Ice su
strada, invece di diminuire, è aumentato di 32.630 unità”.
Questo perché famiglie molto abbienti possono
permettersi di acquistare, grazie al generoso sussidio pubblico, e mantenere
entrambe le tipologie di auto per usarle a seconda delle necessità.
“Quando
una famiglia preferisce evitare un pedaggio stradale o il costo del traghetto,
avere accesso a parcheggi o tariffe gratuite, o evitare la congestione
utilizzando le corsie riservate agli autobus, utilizza il proprio veicolo
elettrico, mentre quando va nelle case di montagna, usa l’auto tradizionale”.
A
questo esiguo calo dei consumi di benzina e diesel vanno poi contrapposti le
emissioni provocate dalla produzione dell’auto elettrica, anche se avvenute
altrove, soprattutto in Cina.
Secondo i calcoli degli autori,
“l’introduzione degli “Ev” in Norvegia ha aumentato drasticamente le emissioni
di CO2 lungo l’intero ciclo di vita.
Ciò è incredibilmente vero nonostante la
Norvegia abbia il sistema idroelettrico a più basso contenuto di carbonio al
mondo”.
Meno
efficienti di quanto si pensi.
La
seconda parte dell’articolo è dedicata a smontare un secondo radicato
convincimento relativo all’auto elettrica: la sua maggiore efficienza
energetica rispetto a un veicolo” Ice”.
“Secondo
un’ampia letteratura, gli “Ice” sono efficienti solo al 40% (…).
Un
motore elettrico, invece, trasferisce quasi il 90% della sua energia elettrica direttamente
alle ruote.
La differenza porta molti a concludere
erroneamente che un “Ev” sia quasi tre volte più efficiente di un” Ice”.
Questa
comune argomentazione è fondamentalmente errata per tre ragioni: innanzitutto,
non considera l’energia necessaria per produrre la batteria;
in secondo luogo, non distingue tra energia
termica ed elettrica;
e in
terzo luogo, non tiene conto della scarsa efficienza energetica delle energie
rinnovabili”.
Ragioni
che vengono opportunamente argomentate da Goehring e Rozencwajg con un generoso
utilizzo di dati e stime, in particolare il terzo punto sull’inefficienza delle
rinnovabili, che gli autori rafforzano con un sottoparagrafo dedicato al
ritorno energetico sull’investimento (par. 3.1), parametro che indica l’energia
totale richiesta per produrre varie forme di energia e integrato per calcolare
l’efficienza automobilistica:
“assumendo 100 kWh di energia termica
disponibile, quanta distanza può aspettarsi di percorrere un conducente su un “Ice”
rispetto a un “Ev”? (…) Utilizzando questo approccio, la gara non è nemmeno
serrata: l’Ice
vince «a mani basse»”.
Nette
le conclusioni (par 4): “Mai nella storia un «motore primario» meno efficiente ne ha
sostituito uno più efficiente. Crediamo che questa volta non sarà diverso”.
Realtà
e illusioni della transizione energetica.
Proprio
come recita il titolo dell’articolo (L’illusione norvegese), quella dell’auto
elettrica come soluzione per ridurre i consumi petroliferi, e quindi le
emissioni, sarebbe una vera e propria illusione, così come lo è prendere a
riferimento il caso della Norvegia, per molti aspetti più unico che raro.
Ed è
per questo che l’articolo va a comporre, all’interno del numero 2.24 della
rivista ENERGIA, un blocco dedicato alle realtà e illusioni della transizione
energetica assieme a quelli di GB Zorzoli e di Vaclav Smil.
Il
primo solleva la questione dei danni atmosferici alle rinnovabili,
apparentemente ovvia ma troppo a lungo colpevolmente negata in Europa dai
promotori delle rinnovabili per “l’inconscio timore di non riuscire a contrastare
tempestivamente il cambiamento climatico”.
Lo
studioso ceco mette a nudo i fabbisogni materiali della transizione ribadendo
che “la difficoltà e la complessità della decarbonizzazione dell’offerta
energetica globale sono state ampiamente e ripetutamente sottovalutate” e dal
quale emerge l’irrisolvibile paradosso di una domanda temporaneamente più
elevata di energie fossili per favorire lo sviluppo delle rinnovabili.
(Il
post presenta l’articolo di Leigh R. Goehring e Adam A. Rozencwajg L’illusione
norvegese pubblicato su ENERGIA 2.24 -pp. 22-26)
(Leigh
R. Goehring e Adam A. Rozencwajg -Goehring & Rozencwajg)
L’inganno
massonico dell’ufologia,
degli
alieni e della New Age.
Lacrunadellago.net- (25/07/2024) – Cesare
Sacchetti – ci dice:
Quando
il celebre regista di Quarto Potere, Orson Welles, annunciò nel 1938, nel corso
del suo programma radiofonico sulla CBS, che era in corso una invasione
marziana sulla Terra, si scatenò del vero e proprio panico tra il pubblico
americano.
Il
cittadino comune americano credeva veramente che degli esseri da altri mondi
stessero venendo per colonizzare il pianeta Terra in quella che è stata una
vera e propria anticipazione, o forse dovremmo inizio di programmazione, di
tutta la cinematografia hollywoodiana della seconda metà del’900.
A
Hollywood la fantascienza è diventato non soltanto uno strumento per raccontare
di storie di presunti visitatori di mondi lontani e stimolare così
l’immaginario collettivo degli spettatori affascinati dalla possibilità che
laggiù nel profondo della galassia potesse esserci qualche altra forma di vita.
Il
cinema è servito a ben altro.
Il
cinema è servito a preparare il grande pubblico all’idea che là fuori ci sono
dei cosiddetti “extraterrestri” che da un momento all’altro potrebbero sbarcare
sulla Terra e colonizzare tutto ciò che c’è questo pianeta e ridurre la razza
umana in uno stato di schiavitù permanente.
È
l’idea di fondo della pellicola uscita nel 1996 “Independence Day” nel quale il
presidente degli Stati Uniti, sin troppo scontato come scenario, stringe
attorno a sé i potenti del mondo in una sorta di coalizione globale per
sconfiggere la minaccia esterna e dare vita ad una sorta di governance mondiale
sotto l’egida ovviamente di Washington.
E
negli anni precedenti a questo film, è stato proprio un presidente degli Stati
Uniti, Ronald Reagan, frequentatore del “club esoterico del Bohemian Grove” nel
quale i potenti dell’America si riunivano ogni anno, a ventilare la possibilità
che un giorno il mondo avrebbe dovuto stringersi attorno ad un corpo
governativo mondiale per respingere appunto la fantomatica minaccia venuta
dallo spazio.
Gli
annunci di Reagan su una possibile invasione “aliena”.
I leader
del mondialismo sono da tempo alla ricerca di una qualche crisi ideale, una
sorta di tempesta perfetta, per poter creare uno stato di emergenza artificiale
e costringere così le nazioni a rinunciare alla loro sovranità come abbiamo
potuto vedere ai tempi della farsa pandemica.
Costoro
vogliono la fine della civiltà del passato delle nazioni e dei loro poteri, ma
soprattutto vogliono l’inizio di una nuova civiltà nella quale il governo
mondiale mette definitivamente al bando la religione cristiana e soprattutto
quella cattolica tradizionalista considerata la vera e propria bestia nera
della massoneria, degli ambienti iniziatici e dell’ebraismo che ha fatto di
tutto per soggiogare la Chiesa e infiltrarla, riuscendoci purtroppo con il
nefasto Concilio Vaticano II.
Si
pensi per un istante al passaggio che la Chiesa Cattolica ha compiuto dopo la
morte del compianto Pio XII, pontefice ancora oggi calunniato dalla stampa
liberale a differenza invece di Roncalli e Montini, pontefici iscritti, secondo
fonti molto serie, alla massoneria e sempre pronti a ricevere i capi delle
logge, anche ebraiche, come accadeva nel 1966 quando Paolo VI dava udienza ai
leader della massoneria ebraica del “B’nai B’rith.”
L’ufologia
però è forse ancora più insidiosa nella lotta al Nuovo Ordine Mondiale, poiché
ci sono diverse persone, alcune in buonafede altre in malafede, che affermano
che si possa combattere questa battaglia anche da posizioni che non siano
necessariamente allineate alla cristianità ma anche da punti di vista
esoterici.
Quanti
sono là fuori coloro che si proclamano seguaci del negromante e occultista “Giordano
Bruno”, già spia della monarchia britannica, eretto dalla massoneria a falso mito
del libero pensiero di radica illuminista e illuminata?
Non
sappiamo quantificarli ma di una cosa siamo certi.
Non sono contro la massoneria, non sono
davvero contro l’idea di un moloch mondialista, e se in cuor loro pensano in
qualche modo di esserlo purtroppo si sbagliano di grosso in quanto stanno predicando la
religione del Nuovo Ordine Mondiale.
Le
origini dell’ufologia: la teosofia di Madame Blavatsky.
L’ufologia
è parte di questa falsa religione e le sue radici infatti sono puramente
occulte ed esoteriche.
I
primi a dichiarare di aver aperto dei portali o dei metodi di contatto con gli
“esseri celesti” sono stati i seguaci della” società teosofica di madame
Blavatksy” vissuta nel XIX secolo.
Appare
surreale ma c’è davvero qualcuno convinto che la donna che ha fondato tale
società nel 1875, e che era iscritta alla loggia massonica dell’Antico e
Primitivo Rito fondata dal libero muratore inglese “John Yarker”, il quale
aveva insignito l’occultista di origini russe di un certificato massonico di
alto grado, sia in qualche modo un riferimento contro i poteri che dominano, o
meglio che dominavano, questo mondo.
Who
was Helena Blavatsky?
Madame
Blavatksy nel suo celebre saggio “La dottrina segreta” affermava esplicitamente
che il vero dio ai suoi occhi non era quello cristiano, chiamato “Adonai” e
descritto come una sorta di sadico tiranno, ma “Lucifero” che avrebbe liberato
gli uomini dal giogo di Dio per consegnare loro il dono della conoscenza o meglio della “gnosis” che avrebbe
fatto degli uomini delle divinità viventi.
L’inganno
gnostico è quello di far credere all’uomo che egli possa raggiungere la sua
salvezza da sé, senza passare dal sacrificio di Cristo che si è fatto uomo per
consentire all’umanità di ricucire quel rapporto tra Dio e uomo che era stato
incrinato, per così dire, dopo che era stato commesso il peccato originale.
Cristo
cambia la storia.
Cristo consente all’uomo di tornare a Dio, ma
lo gnosticismo alla base della filosofia di madame Blavatksy lo porta invece a seguire un culto che mette l’uomo
al centro dell’universo e non dio, consegnando l’uomo ad uno stato di
dannazione eterna.
E’
l’inganno luciferiano esaltato dalla fondatrice della società teosofica che
aveva talmente tanta ammirazione per Lucifero dal chiamare la sua rivista “Lucifer”,
così come una delle sue eredi, “Alice Bailey”, nota esponente della teosofia, e
che fondò nel 1922 una organizzazione chiamata “Lucifer Trust” – il cui nome poi è stato cambiato in “Lucis”
perché “Lucifer” era evidentemente troppo rivelatore – che ancora oggi dispone di un seggio
permanente alle Nazioni Unite.
Tale
circostanza ci aiuta a comprendere quale filosofia governa davvero le Nazioni
Unite nate sulle macerie della seconda guerra mondiale.
L’ONU
non è altro che un archetipo del governo mondiale e la sua religione è lungi dall’essere
quella cristiana, quando in realtà essa è di chiara ispirazione esoterica e pagana come si può vedere nella stanza
presente nel palazzo di vetro dedicata non alla preghiera ma alla meditazione.
Non
c’è rapporto con Dio in questi luoghi ma con una religione panteista ed
ecumenica che mira ad accomunare ogni singolo credo presente sul pianeta in una
unica fede umanista ed umanistica nella quale alla fine il “vero” dio assume le
sembianze di Satana.
La “Blavatksy”
è stata la prima nell’età moderna ad inaugurare la scuola dei cosiddetti “contattisti”,
coloro che dichiarano di poter comunicare con entità spirituali di altri mondi,
tra i quali si annovera un certo “Rakorski”, figura centrale nella teosofia e
maestro illuminato che aiuterà l’umanità, a detta dei teosofi, ad entrare nella cosiddetta “Età
dell’Acquario,” un periodo storico nel quale non ci sarà più la civiltà cristiana “sostituita
da questo culto esoterico globale”.
“Rakorski”
è un nome interessante e sul quale torneremo più avanti. Ora ci interessa
approfondire il passaggio successivo nell’era dei contatti con esseri venuti da
altri mondi e a raccogliere il testimone della “Blavatksy” è stato senza dubbio
il
famigerato mago e occultista “Aleister Crowley”.
Crowley
e l”alieno” Lam.
Crowley,
che amava farsi chiamare la” bestia 666”, numero del Diavolo, nel marzo del
1918 in un appartamento nei pressi di Central Park, a New York, aveva iniziato
dei complessi riti esoterici chiamati “i lavori di Alamantrah” con i quali era riuscito ad entrare
in contatto con una entità di nome “Lam” che, come i lettori stessi possono
vedere qui sotto, non è altro che la fotocopia di quello che oggi viene
chiamato “alieno grigio”.
L’entità
demoniaca chiamata” Lam” da “Crowley” è la fotocopia del cosiddetto “alieno
grigio”.
Crowley
apriva dei portali esoterici attraverso i quali queste entità demoniache
trasmettevano i loro messaggi e iniziavano l’uomo al culto di un’altra
religione, molto distante da quella cristiana, e di natura gnostica e satanica.
L’ufologia
esplose poi definitivamente dopo la seconda metà del’900 quando iniziarono a
pullulare tutta una serie di culti quali i raeliani, Scientology e l’Ordine del
Tempio Solare.
Non si
tratta, come si vede, soltanto di provare a dimostrare l’ipotesi erronea che
altri essere intelligenti esisterebbero in altre parti dell’universo, ma si
tratta di fondare un nuovo culto dove Dio sostanzialmente sparisce per essere
sostituito dai cosiddetti “alieni” che altro non sono che i tradizionali demoni
sotto mentite spoglie.
“Padre
Amorth “ci aveva messo in guardia su questo.
Padre Amorth aveva chiaramente detto che le
manifestazioni dei cosiddetti UFO e degli alieni altro non sono che attività
sataniche che cercano di ingannare l’uomo e fargli credere che i creatori del
pianeta e dell’umanità siano degli immaginari esseri extra terresti venuti da
remoti piani.
E la
prova di quanto detto dal compianto esorcista è nelle testimonianze di tutte
quelle persone che sono state vittime dei famigerati “rapimenti alieni”.
Se si
dà uno sguardo al sito “Alien Resistance” di “Guy Malone”, un autore americano
vittima di tale esperienza come molte altre persone, si vede chiaramente come
coloro che subiscono il “rapimento” sono vittime della classica possessione
demoniaca e presentano tutti i sintomi di tale problema, quando iniziano a parlare
in antiche lingue sconosciute, a levitare e manifestare tutta una serie di
altri fenomeni chiaramente preternaturali.
Queste
persone non sono tormentate dai marziani ma dai demoni e questo è l’inganno più
grande che il mondo ufologico vuole perpetuare.
Lo
stretto rapporto tra mondialismo e ufologia.
Non
stupisce infatti che attorno a tali ambienti ci siano personaggi molto potenti
e vicini a istituzioni globaliste, quali “Maurice Strong”, già sottosegretario
generale delle Nazioni Unite nel 1970, spia della intelligence britannica e
membro dell’”Ordine dell’Alba Dorata”, una influente società segreta esoterica
fondata nel 1887 da “William Robert Woodman”, “William Wynn Westcott”, e “Samuel
Liddell Mathers”, tutti e tre membri della massoneria.
Maurice
Strong nel 1972.
Strong
aveva un ranch nel Sud del Colorado, il ranch di Baca, dove erano
frequentissimi gli avvistamenti di UFO e altri fenomeni di natura paranormale.
Baca
divenne un vero e proprio tempio della meditazione esoterica nel quale
pullulavano culti buddisti, tempi indù, riti sciamanici e vedici ma non, come
avranno notato alcuni lettori, culti cristiani tantomeno cattolici
tradizionalisti, considerati come il fumo negli occhi da tali esoteristi.
Ad
assistere alla realizzazione di una sorta di tempio per l’edificazione di un
nuovo ordine planetario, ci fu l’influente think-tank dei “Rockefelle”r, l’”istituto
Aspen”, del quale fanno parte in Italia tra gli altri, “Romano Prodi” e “Giulio
Tremonti”, e talmente questo luogo divenne iconico e significativo per i
mondialisti che si recarono in pellegrinaggio a visitarlo persino gli stessi
Rockefeller assieme ai Rothschild e a Henry Kissinger.
Il
cuore del Nuovo Ordine Mondiale aveva e ha un fortissimo interesse per
l’ufologia, a questo punto definibile come una branca della demonologia, poiché
essa serve a scardinare l’idea che l’uomo è stato creato da Dio per aprire la
porta invece alla falsa religione gnostica luciferiana.
Se si
giunge ai tempi più moderni per ciò che riguarda il filone dei contattisti,
crediamo che molti già sappiano chi sia “David Icke”.
Icke
non nasce inizialmente come divulgatore della teoria che i cosiddetti
rettiliani governino il mondo ma come un calciatore e un politico del partito
verde che poi successivamente viene reinventato come “diffusore della teoria
aliena”.
La
storia degli “alieni” rettiliani che governerebbero il mondo in realtà non è
nemmeno di Icke stesso.
Il
primo a diffondere tale “idea” è stato l’occultista “Maurice Doreal” che negli
anni’30 del secolo scorso fondò la” Fratellanza del Tempio Bianco, e diffuse la
storia che presunte entità rettiliane erano quelle che in realtà controllavano
il mondo.
Doreal
si ispirava largamente alle teorie della teosofia che sono alla base anche di
quelle di David Icke.
Icke
infatti afferma di essere entrato in contatto con la stessa entità con la quale
erano in contatto la Blavatksy e la Bailey, il citato Rakorski, definito dal
divulgatore britannico come “il signore di tutta la creazione” e “responsabile
per tutto il cambiamento che la Terra subirà”.
L’esoterista,
perché di questo chiaramente si tratta, britannico afferma inoltre che tale
Rakorski in realtà non sarebbe altri che una presunta manifestazione del misterioso conte francese di Saint
Germain.
Saint
Germain era noto ai suoi tempi, nel XVIII secolo, per essere un frequentatore
dell’alta società e un massone di altissimo rilievo.
C’è un
alone di mistero sulle sue origini, e si pensa che sia originario di una
famiglia portoghese di origini ebraiche, ma durante la sua epoca viene
ricordato soprattutto per le straordinarie doti linguistiche e musicali di cui
era in possesso, tanto da far dire che il conte suonava come se fosse un’unica
orchestra.
Talmente
“mitica” divenne la sua figura che nel secolo successivo la teosofia lo colloca
tra i “Maestri della Sapienza”, attribuendogli poteri magici e mistici che
soltanto questi pochi “eletti” avrebbero.
“Icke”
è da tali fonti che trae ispirazione per la sua attività divulgativa, e appare
chiaro che attorno alla sua figura c’è una evidente aura massonica, poiché
tutta la sua stessa filosofia è massonica.
Non
desta stupore dunque che il divulgatore della teoria dei rettiliani sia stato
anche accusato di essere un membro della massoneria e sono state mostrate delle
sue fotografie che lo ritraggono all’interno delle logge, e se ciò dovesse
essere vero, riteniamo sia perfettamente coerente con quanto affermato dall’ex
membro del partito verde.
“Icke”
serve perfettamente gli scopi delle logge attraverso le sue menzogne New Age
sugli “alieni” e contribuisce a fare ciò che questi ambienti iniziatici
vogliono, ovvero la scristianizzazione delle masse.
Non
deve sorprendere nemmeno che “Icke” ripeta il motto del “ci salviamo da soli”
in quanto tale mantra gnostico, così di casa anche sui canali della falsa
controinformazione italiana, conduce l’uomo alla sua rovina e lo allontana
dall’unica possibilità di salvezza che è quella della fede in Cristo.
Questa
rete di canali e blog che insistono molto sulle tematiche della “New Age”,
della teosofia, dell’esoterismo, dello yoga e degli “alieni” non hanno altro
scopo che condurre sulla strada della rovina quegli ingenui, in diversi casi
veri e propri stolti, che li frequentano e che si illudono di essere usciti
dalla rete del mondialismo, quando in realtà sono rientrati in tale sistema da
un ingresso secondario.
La
falsa controinformazione può essere definita in questo senso una sorta di “backdoor”
dei media mainstream.
Dal
momento che le masse non credono più ai media, allora sono stati costruiti
questi canali alternativi nei quali pullulano gli stessi inganni esoterici e
gnostici che si trovano sui mezzi di comunicazione tradizionali usati dalla
massoneria.
È
evidente l’allineamento in questo senso dei due poli.
Soltanto
un mese fa, La Stampa e La Repubblica di proprietà degli Elkann pubblicavano un
articolo nel quale si riferiva che i fantomatici alieni vivrebbero nascosti
sotto la Terra.
A fare
tale affermazione sono stati i ricercatori di una delle università più vicine
all’establishment, quale quella di “Harvard”.
Se si
fa un giro sui cosiddetti canali dei media alternativi, si incorre negli stessi
inganni.
Potremmo
definire tutto ciò come un assalto finale.
La partita politica del mondialismo è stata
perduta dopo il fallimento della farsa pandemica e ora si cerca di dannare
spiritualmente le persone tramite la menzogna degli extraterrestri come
creatori della vita umana.
Noi ci
sentiamo soltanto di fare questa raccomandazione finale.
Qualora
i lettori dovessero incappare in questa rete e qualora si ritrovino a dover
fare i conti con divulgatori che parlano di “alieni” e di tutto ciò che attiene
al mondo della New Age sappiano che sono finiti dritti tra le braccia degli
emissari delle massonerie.
C’è
una semplice evidenza da seguire. Non si può combattere il Nuovo Ordine Mondiale con
la sua stessa falsa religione.
Lo si
può combattere soltanto con la fede cattolica e cristiana.
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