Inizia la battaglia contro il bando termico europeo.
Inizia
la battaglia contro il bando termico europeo.
La
Lega chiede la revoca del bando
delle
auto termiche entro il 2035.
Msn.com
– Mondo Motori – Redazione - Christian Luca Di Benedetto – (6-9-2024) – ci
dice:
La
Lega, guidata da Matteo Salvini, si oppone allo stop alle auto a benzina e
diesel previsto per il 2035.
I
dettagli.
Il
tema dello stop alla vendita di auto a benzina e diesel entro il 2035 continua
a essere al centro del dibattito politico.
La Lega, guidata da Matteo Salvini, ha
recentemente annunciato la sua intenzione di opporsi a questo provvedimento,
che vieterebbe la vendita di vetture con motori termici a partire da quella
data.
In un comunicato ufficiale, il partito ha
espresso la sua preoccupazione per le conseguenze economiche che questa misura
potrebbe comportare.
La
Lega si oppone allo stop delle auto a benzina e diesel nel 2035
“La
Lega è pronta a chiedere la revoca del bando dei motori benzina e diesel dal
2035″, si legge nella nota.
“Lo stop alla loro produzione sta già creando
gravissimi danni all’economia europea, senza alcuna certezza di ottenere
miglioramenti significativi dal punto di vista ambientale.
Non a caso, la revoca del bando è tema di
dibattito anche in Germania”.
Con
queste parole, il partito di Salvini si prepara a presentare una mozione sia in
Parlamento italiano sia in sede europea, chiedendo che il provvedimento venga
rivisto.
Ripercussioni
economiche e dubbi sulla transizione elettrica.
Secondo
la Lega, il bando delle auto a combustione interna rischia di mettere in
ginocchio settori industriali cruciali, portando a una massiccia perdita di
posti di lavoro e danni economici irreversibili.
Salvini
e i suoi alleati sostengono che una transizione così rapida verso l’elettrico
potrebbe non essere sostenibile, soprattutto considerando che l’infrastruttura
necessaria per supportare un parco auto interamente elettrico è ancora largamente
insufficiente.
In
particolare, il partito solleva dubbi sulla disponibilità di risorse necessarie
per la produzione di batterie e sulla rete di ricarica europea, che al momento
non sarebbe in grado di gestire un aumento esponenziale della domanda.
Inoltre, si teme che il costo della
transizione ricada eccessivamente sui cittadini e sulle aziende.
La
Lega propone dunque un approccio più equilibrato alla riduzione delle
emissioni, valutando anche soluzioni alternative come i carburanti sintetici e
l’idrogeno, che potrebbero offrire una via intermedia tra la tutela ambientale
e la salvaguardia dell’economia.
L’obiettivo
del partito è quello di evitare decisioni affrettate, garantendo che la
transizione sia sostenibile sia dal punto di vista ecologico che economico.
Il “greenwashing”
degli eserciti
è un
paradosso grottesco.
Lucysullacultura.com
– (17 Maggio 2024) - Camilla Capasso – ci dice:
Gli
eserciti più importanti del mondo si stanno sempre più posizionando a favore
della sostenibilità climatica, cercando di spacciare per "verdi"
persino le guerre.
Una
scelta che sembra essere dettata, più che da una reale preoccupazione per la
causa, da logiche di reclutamento e da meri interessi economici.
Lo
scorso anno l’esercito del Regno Unito ha pubblicato un breve video
promozionale di 40 secondi in cui un gruppo di militari interviene durante
un’alluvione per soccorrere una madre rimasta intrappolata in auto con il
proprio bambino.
Il video mostra un quartiere residenziale
inglese completamente allagato, case e veicoli sono inagibili e i militari che
avanzano tra i detriti con l’acqua alla vita.
Dopo
aver raggiunto l’auto e messo in salvo la madre, uno dei militari prende in
braccio il neonato, lo culla dolcemente e sussurra piano per tranquillizzarlo:
Shhh I
got you, I got you (“Ti ho preso, ti ho preso”).
Lo
spot, che è parte di una campagna di reclutamento per raccogliere nuove
adesioni, termina con uno slogan dai toni aspirazionali:
“The army is more advanced than ever, but
nothing can do what a soldier can do” (“L’esercito è più avanzato che mai,
ma niente può fare ciò che fa un soldato”) a sottolineare che nessuna
tecnologia, per quanto all’avanguardia, possa sostituire le qualità umane di un
militare in carne e ossa.
Al di
là del messaggio, quello che più colpisce del video è il racconto di uno
scenario ormai sempre più familiare anche in zone dove prima non lo era: quello
delle alluvioni.
Nel 2023 quasi ogni regione del mondo è stata
colpita da forti alluvioni che hanno causato numerosi morti e feriti, oltre che
danni ingenti.
Gli eventi estremi che hanno toccato
Emilia-Romagna e Toscana hanno lasciato cicatrici profonde, ma anche Spagna e
Grecia sono state colpite duramente.
In
Libia, a settembre 2023, più di 4.000 persone sono morte a causa delle
inondazioni provocate dal passaggio dell’uragano Daniel.
I tifoni non hanno risparmiato nemmeno
“Taiwan” e “Hong Kong,” così come molte zone degli Stati Uniti e del Brasile.
I dati
climatici raccolti negli ultimi decenni dimostrano come dietro l’aumento del
numero di eventi climatici estremi, e della loro intensità, si celino gli
effetti del riscaldamento globale.
I dati ci dicono anche che quella cui stiamo
assistendo è solo l’inizio, e che eventi finora classificati come estremi sono
destinati ad aumentare.
Le
forze armate del Regno Unito, questo, sembrano averlo capito molto bene e in un
mondo stravolto dai cambiamenti climatici si stanno ritagliando un ruolo
preciso:
quello
di alleati.
Il soldato che nel video salva il neonato
dall’alluvione è lì per rassicurare la popolazione che la presenza più utile da
avere al nostro fianco nella crisi climatica è proprio l’esercito.
D’altra
parte “nothing
can do what a soldier can do”.
Ma la
loro strategia “verde” non si limita a questo.
Già
nel 2021, l’esercito del Regno Unito ha adottato l’”Approccio Strategico per il
Cambiamento Climatico e la Sostenibilità”, un “piano climatico per affrontare
i cambiamenti ambientali”, ridurre le proprie emissioni e arrivare a soddisfare
gli obiettivi della strategia nazionale net zero.
I britannici non sono gli unici:
negli ultimi anni, in linea con una crescente
consapevolezza a livello globale, le forze armate di diversi paesi – Italia
compresa – stanno investendo sempre maggiore tempo e risorse nel posizionarsi
rispetto al tema dei cambiamenti climatici; sia a livello strategico che
comunicativo.
Nel
2022, anche il Pentagono pubblica la propria strategia sul clima e anche in
quel caso gli obiettivi sono ambiziosi:
convertire
le infrastrutture militari ad energia elettrica entro il 2030, raggiungere
emissioni net zero entro il 2045, sviluppare veicoli tattici elettrici entro il
2050 e preparare l’esercito ad intervenire in un mondo segnato dagli effetti
della crisi climatica.
“Le
forze armate del Regno Unito, questo, sembrano averlo capito molto bene e in un
mondo stravolto dai cambiamenti climatici si stanno ritagliando un ruolo
preciso: quello di alleati”.
Nella
prefazione alla strategia, il Segretario dell’Esercito “Christine Wormuth”
scrive:
“Il
cambiamento climatico minaccia la sicurezza dell’America e sta alterando il
panorama geostrategico così come lo conosciamo.
Per i
soldati di oggi che operano in ambienti con temperature estreme, che combattono
gli incendi boschivi e che offrono supporto durante e dopo il passaggio degli
uragani, il cambiamento climatico non è un futuro lontano, ma una realtà”.
Qualche
mese più tardi l’esercito francese adotta una “Strategia per la Difesa e il
Clima” in cui si prefigge di ridurre il consumo di combustibili fossili e le
emissioni di gas serra delle infrastrutture militari, proteggere gli ecosistemi
presenti all’interno delle proprietà militari e adottare veicoli corazzati
ibridi entro il 2025.
Anche
in Italia, dichiaratamente in linea con gli “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile”,
nel 2022 il Governo presenta un documento che delinea la transizione ecologica
della Difesa.
L’obiettivo,
si legge, è quello di raggiungere maggiore efficienza e indipendenza energetica
contenendo le spese e tutelando l’ambiente.
Una
delle iniziative descritte è quella delle “Caserme Verdi” di cui già si parlava nel 2019 e
che prevede un investimento di 1,5 miliardi di euro nell’arco di vent’anni per
la costruzione di infrastrutture militari che seguano “i principi della green economy, del
risparmio energetico e della tutela ambientale”.
La
comunicazione, su questi temi, gioca un ruolo importante, soprattutto se
l’obiettivo è quello di superare un momento storico in cui sempre meno persone
decidono di arruolarsi.
Le
campagne di reclutamento puntano sulla sensibilità di una generazione cresciuta
con la minaccia climatica e le offrono, arruolandosi, l’opportunità di
riavvicinarsi alla natura e creare comunità.
Ne è un ottimo esempio la campagna “This Is
Belonging”, lanciata nel Regno Unito con l’obiettivo di spingere più “millennials
ad arruolarsi”, e che mostra soldati in ambienti naturali – selvaggi e
bellissimi – che finalmente sentono, arruolandosi, di appartenere a un gruppo.
In una
recente analisi delle principali motivazioni che spingono i giovani ad
arruolarsi, il desiderio di riavvicinarsi alla natura occupa in effetti una
posizione sempre più rilevante.
Intervistato
dagli autori dello studio, “Younes” (nome di fantasia) dichiara di essersi
arruolato nelle forze armate svedesi perché “desideroso di allontanarsi dalla
città, di conoscere sé stesso trascorrendo del tempo nella natura e allo stesso
tempo di restituire qualcosa al suo Paese”.
Per
quanto paradossale possa sembrare, quindi, l’ecologia offre alle forze armate
nuove opportunità.
Da un
lato, quella di militarizzare la crisi climatica, richiedendo maggiori investimenti e
adesioni per far fronte a quelle che saranno le conseguenze ambientali e
geopolitiche dei cambiamenti climatici.
Dall’altro,
quella di ridefinire la propria immagine, posizionandosi come alleati di
sostenibilità.
Si
tratta, di fatto, di “greenwashing”:
una
strategia marketing usata soprattutto dalle aziende per costruire un’immagine
di sé falsamente green con il duplice scopo di mascherare gli effetti negativi
delle proprie operazioni sull’ambiente e di guadagnarsi la fiducia dei
consumatori.
Ma se
è vero che i cambiamenti climatici non faranno altro che peggiorare i conflitti
globali e le tensioni sociali portandoci verso un mondo molto più insicuro,
siamo certi che investire in eserciti più sostenibili – qualunque cosa
significhi – sia una soluzione auspicabile?
A
inizio anno il «Guardian» ha pubblicato un articolo sull’ impatto ambientale del conflitto a
Gaza:
numeri che impallidiscono davanti ai costi
umani, ma che è comunque importante identificare.
Secondo i dati analizzati, nei suoi primi 60 giorni,
l’offensiva di Israele ha avuto” un costo ambientale” equivalente alla
combustione di almeno 150.000 tonnellate di carbone.
Questo
dato comprende la CO2 emessa dai veicoli militari e dalla fabbricazione ed
esplosione delle bombe, ma anche quella emessa dagli aerei cargo americani che
trasportavano rifornimenti militari a Israele.
Globalmente,
si stima che i conflitti armati producano il 5% delle emissioni, un dato
significativo ma parziale che non tiene conto della distruzione degli ambienti
naturali e dell’inquinamento degli ecosistemi – conseguenze non da poco di
qualsiasi conflitto armato, come anche la guerra in Ucraina sta dimostrando.
Tra il
1950 e il 2000, si stima che l’80% dei conflitti armati abbia avuto luogo
all’interno di aree considerate “biodiversity hotspots”, cioè molto ricche da
un punto di vista della biodiversità.
In
generale, poi, c’è anche poca chiarezza per quanto riguarda le emissioni
prodotte dalle attività militari non conflittuali:
spesso
bisogna ricorrere a stime approssimative per calcolarne la portata.
Nello
studio citato dal «Guardian», ad esempio, si è cercato di calcolare l’impatto
ambientale dell’esercito israeliano nel 2019 partendo dalla spesa militare
della difesa.
Secondo
questa stima, Israele – uno stato per molti versi all’avanguardia nella ricerca
di tecnologia “verde” – ha avuto, nel 2019, un impatto ambientale legato alle
attività militari non conflittuali di quasi 7 milioni di tonnellate metriche di
CO2, cioè l’equivalente di tutta la CO2 emessa da Cipro in un anno.
“Globalmente,
si stima che i conflitti armati producano il 5% delle emissioni, un dato
significativo ma parziale che non tiene conto della distruzione degli ambienti
naturali e dell’inquinamento degli ecosistemi”.
Per
quanto potenzialmente accurate possano essere, poi, tutte le stime rimangono
approssimative:
le
forze armate non sono tenute a dichiarare le emissioni dovute alle proprie
attività militari, se non su base volontaria.
Ad
oggi è impossibile, inoltre, monitorare qualsiasi progresso rispetto agli
obiettivi riportati nelle strategie climatiche degli eserciti perché le forze
armate non sono tenute a dichiarare il proprio impatto ambientale.
E la
possibilità di fare “greenwashing” fiorisce in questa opacità, che permette
agli stati di non dover rispondere delle proprie emissioni militari.
Durante
la “COP28 a Dubai” il dibattito si è fatto molto acceso, soprattutto nei
confronti della partecipazione di Israele, ma le accuse di greenwashing non
hanno, almeno per il momento, portato a nessun reale cambiamento politico.
Eppure
è difficile ignorare il legame stretto tra conflitti e combustibili fossili, i
principali responsabili della crisi climatica.
Gas e
petrolio non sono solo ingredienti vitali delle guerre ma anche una delle loro
principali cause e l’industria dei combustibili fossili beneficia ampiamente
dai conflitti armati.
A
febbraio di quest’anno, «Global Witness» ha pubblicato un’indagine sui legami
tra i profitti delle compagnie oil & gas europee e americane e la guerra in
Ucraina.
I
risultati erano in parte prevedibili: le maggiori compagnie fossili europee e
statunitensi hanno realizzato profitti per oltre un quarto di trilione di
dollari da quando la Russia ha invaso l’Ucraina.
“Patrick Galey”, uno degli autori
dell’indagine ed esperto di combustibili fossili, ha dichiarato:
“Indipendentemente
da ciò che accade in prima linea, le grandi compagnie fossili sono i principali
vincitori di questa guerra.
Hanno
accumulato ricchezze incalcolabili grazie a morte e distruzione e all’aumento
vertiginoso dei prezzi dell’energia.
Ora
stanno spendendo i loro guadagni in elargizioni agli investitori e in una
produzione sempre maggiore di gas e petrolio, di cui l’Europa non ha bisogno e
che il clima non può sopportare.”
Che la
guerra sia un affare sporco – con o senza carri armati alimentati ad energia
solare – non è una sorpresa, è ormai evidente che dietro le strategie militari
per il clima e la comunicazione sostenibile si nascondano tattiche di
greenwashing.
La mancanza di qualsiasi meccanismo di
controllo nazionale ed internazionale permette agli eserciti di disegnare
liberamente la propria comunicazione nel tentativo di manipolare la narrazione
collettiva.
Le
implicazioni di questo” greenwashing militare” sono preoccupanti. Raccontare il “cambiamento climatico
come una questione di sicurezza nazionale” pone le questioni ambientali nelle
mani di un’istituzione per definizione belligerante, e rischia di indirizzare
la maggior parte delle risorse e dei finanziamenti per il clima verso il
settore militare.
In
parte questo sta già succedendo:
se da
un lato la spesa militare è cresciuta di oltre un quarto nell’ultimo decennio,
superando i 2,2 miliardi di dollari nel 2022, raggiungere gli obiettivi
economici da destinare alla crisi climatica è sempre più difficile.
Uno
studio ha recentemente stabilito che se il 5% della spesa militare globale
venisse destinato al fondo climatico, si raccoglierebbero 110 miliardi di
dollari – una cifra superiore all’obiettivo annuale di 100 miliardi che gli
stati fanno fatica a raggiungere.
“Le implicazioni
di questo ‘greenwashing’ militare sono preoccupanti. Raccontare il cambiamento
climatico come una questione di sicurezza nazionale pone le questioni
ambientali nelle mani di un’istituzione per definizione belligerante”.
Non
solo:
anziché
promuovere un cambiamento di rotta verso un mondo più sostenibile e
collaborativo, adottare questa prospettiva suggerisce implicitamente che
l’unico futuro possibile sia quello dominato da conflitti climatici.
Questo
solleva serie questioni etiche riguardo alla militarizzazione di ciò che
dovrebbe essere un obiettivo condiviso.
In
altre parole: può davvero un mondo, che immaginiamo sostenibile, essere
militarizzato?
(Camilla
Capasso.)
(Camilla
Capasso scrive di cambiamenti climatici, accesso alla terra e sicurezza
alimentare per organizzazioni internazionali, ONG e agenzie delle Nazioni
Unite.)
Perché
gli attivisti per il clima e
l’ambiente prende di mira
le opere d’arte?
Bnews.unimib.it
- Enzo Scudieri – (01 Febbraio 2023) – Redazione - protesteclima.png – ci dice:
Da
Goya a Van Gogh, ma anche Monet fino al più recente Cattelan, sono davvero
molte le opere d’arte prese di mira dagli attivisti per il clima negli ultimi
mesi.
Una
nuova forma di protesta per la difesa dell’ambiente, che si è diffusa nelle
principali città europee.
“Il
nostro non è vandalismo, ma il grido di allarme di cittadini disperati che non
si rassegnano ad andare incontro alla distruzione del Pianeta e, con esso,
della propria vita”, dichiarano gli attivisti contro il clima.
“Non
ce ne faremo nulla dell’arte e dei capolavori su un pianeta che brucia. Servirà
a poco la bellezza quando non avremo acqua né cibo”.
Approfondiamo
il tema con la professoressa “Carmen Leccardi”, emerita di “Sociologia della
cultura” presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università
di Milano-Bicocca.
Nelle
scorse settimane, a Milano, gli attivisti di “Ultima Generazione” hanno
introdotto una serie di azioni di protesta per il clima prendendo di mira le
opere d’arte.
Cosa
ne pensa dunque di queste nuove forme di contestazione giovanile?
È
fondamentale partire dalla considerazione che epoche storiche e periodi
differenti utilizzano forme di protesta diverse.
Forme
così eclatanti sicuramente non sarebbero potute esistere, ad esempio,
all’interno del movimento del Sessantotto.
In
quel periodo storico la speranza del cambiamento era assolutamente prevalente;
il
contrario della disillusione – in un certo senso anche della disperazione – che
caratterizza l'attuale fase storica.
A mio
giudizio, una chiave di lettura per capire le forme di protesta odierna ha
certamente a che fare con il tema del tempo.
Perché i musei e i luoghi dell’arte presi di
mira dagli attivisti per il clima racchiudono opere immortali, e dunque senza
tempo.
La
protesta riguarda infatti l’impossibilità di accettare la fine del tempo che la
distruzione del pianeta a cui la crisi climatica rinvia porta inevitabilmente
con sé.
Sul
piano simbolico, versare della vernice sui vetri che proteggono questi
capolavori dell’umanità, o altre forme di protesta inusuali (come incollare le
proprie mani a questi vetri) richiamano l’impossibilità stessa della creazione
artistica in un universo che va verso l’auto-distruzione.
Si protesta in questo modo anche contro
l’ideologia del produttivismo a tutti i costi, e l'indifferenza etica che lo
guida.
La
battaglia contro le diseguaglianze sociali sempre più forti si intreccia dunque
a quella per la salvaguardia del pianeta e del vivente, umano e non umano, che
esso esprime.
E questo, va sottolineato, ignorando gli
appelli sempre più drammatici della scienza.
Dunque,
se mai prima ci siamo trovati di fronte a forme di protesta così particolari
come quelle odierne, occorre anzitutto riflettere sul particolare periodo
sociale e storico a cui esse sono collegate.
Quando
gruppi come “Extinction Rebellion” o “Ultima Generazione” realizzano proteste
di questo tipo esprimono la determinazione delle generazioni più giovani ad
opporsi a forme di sfruttamento delle risorse del pianeta ad esclusivo fine di
lucro.
Il
tema della crisi ambientale è davvero urgente, capace di bloccare le
aspirazioni e le speranze di coloro che entrano nella vita sociale e per questo
molto sentito dai “Millenials” e “post Millenials”.
Non
necessariamente le proteste del climattivismo sono così estreme -.o devono
essere estreme.
Un
movimento come “Fridays for Future”, ad esempio, da diversi anni porta avanti forme di protesta
meno clamorose ed eclatanti, ma non meno efficaci.
Di
tanto in tanto, ad ogni modo, anche questo movimento si affida a mobilitazioni
che non esiterei a definire a loro volta clamorose.
È
accaduto ad esempio nel mese di gennaio di quest’anno, in Germania.
Il
governo tedesco ha deciso l’espansione di una miniera di carbone a cielo aperto
– complice la crisi energetica generata dall’invasione russa dell’Ucraina - e
ragazze e ragazzi di FFF si sono opposte/i occupando il terreno e facendosi
‘portare via’ dalla polizia (Greta Thunberg inclusa).
Due
villaggi dovranno essere rasi al suolo per procedere alla realizzazione di
questa operazione.
In
questa fase storica in cui l’equilibrio geopolitico del pianeta è
particolarmente critico, quello che noi adulti dovremmo forse chiederci è se
davvero preferiremmo che le nuove generazioni fossero più “silenziose".
La
loro voce, le loro lotte, credo, sono preziose perché ci impediscono di
prendere sonno – un sonno che potrebbe essere letale.
Il
Louvre di Parigi, la National Gallery a Londra, il Museo del 900 a Milano, gli
Uffizi a Firenze.
Questi
sono solo alcuni dei luoghi presi di mira durante le recenti proteste per il
clima.
Ma non
c’è alcun collegamento diretto con il tema stesso della protesta.
Che
rapporto c'è quindi per questi giovani attivisti tra il mezzo e il fine?
Sicuramente,
come già accennato, il focus sta proprio nel simbolismo stesso delle forme di
protesta.
Le
opere d’arte patrimonio dell’umanità, infatti, sono sempre protette da vetri e
chiaramente con queste azioni non c’è una reale volontà di danneggiare l’opera
d’arte in quanto tale.
Piuttosto, azioni quali lanciare vernice,
incatenarsi alle opere, attaccare i musei si propongono, a mio parere, un
obiettivo specifico.
Fin qui i grandi artisti espressi dalla storia
hanno lavorato per mettere a disposizione dell’umanità le proprie straordinarie
abilità, per lasciare nella memoria collettiva il segno della bellezza
immortale.
Le
opere d’arte prese di mira rappresentano infatti la possibilità di bypassare i
limiti del tempo.
Van Gogh, Klimt, Goya, Botticelli, Monet …sono
tutte chiaramente opere senza tempo.
Ma se
la “catastrofe climatica” verso la quale siamo avviati contiene il messaggio
della distruzione, dell’impossibilità della continuazione della vita sul nostro
pianeta, allora anche le opere d’arte, e la possibilità stessa dell’espressione
artistica è messa in forse.
Alla
luce di queste considerazioni atti estremi ed apparentemente insensati come
quelli di cui stiamo discutendo possono rappresentare forme di provocazione non
del tutto assurde.
Le
emissioni di gas serra sembrano impossibili da contenere, il riscaldamento
della superficie terrestre in parallelo.
Non si
tratta, purtroppo, di questioni astratte.
Gli
eventi climatici estremi sono uno degli indicatori di questo squilibrio;
anche
il nostro paese, l’Italia, sempre più spesso è coinvolto direttamente in questo
processo distruttivo.
Pensiamo
ad esempio a tutte le difficoltà e i problemi che il caldo torrido della scorsa
estate, e la mancanza di piogge, ha provocato in una città come Milano – così
come nel resto dell’Italia e dell’Europa, per restare in questo emisfero.
Siamo esseri umani, il nostro corpo e la
nostra mente vivono in stretta dipendenza con l’ambiente e dunque con il
pianeta, i suoi ritmi, i suoi cicli.
Se il
pianeta perde la propria armonia, anche noi inevitabilmente la perdiamo. Forse
spesso ci dimentichiamo di questo aspetto, o comunque non ci riflettiamo sopra
a sufficienza.
Si tratta invece di un aspetto strategico.
Se
Gaia è in armonia anche il vivente, umano e non umano, lo è.
Il nostro benessere è collegato, è il suo.
Tornando
più specificamente alla domanda da cui siamo partiti, è chiaro che in questo
scenario c’è una forte correlazione tra il fine ultimo dell’azione degli
attivisti per il clima e i mezzi attraverso i quali la loro azione viene
perseguita.
In
gioco oggi c’è l’urgenza di arrestare questa deriva che porta dritta verso la
distruzione.
Attraverso
queste forme di lotta, quindi, ragazze e ragazzi esprimono il loro tentativo di
opporsi alla fine del pianeta, dunque anche alla fine della vita stessa.
Gli
stessi nomi scelti da questi gruppi di attivisti ambientalisti dovrebbero
indurci alla riflessione:
“Extinction Rebellion” (Ribellione
all’estinzione), “Ultima generazione”… per citare alcuni tra i più noti.
Quando
non compare direttamente l’evocazione della fine, della vita e del tempo, è il
tema del futuro a presentarsi.
Ad
esempio, per Fridays for Future, il gruppo meno implicato nelle azioni eclatanti di cui
stiamo discutendo, più aperto alla possibilità del cambiamento, alla speranza,
la relazione con il tempo è comunque presente, anche se qui declinata in
positivo.
Costruire
un futuro diverso, nonostante tutto, è ancora possibile, ed è il cuore del suo
messaggio.
In sostanza, per comprendere veramente queste
forme di protesta dobbiamo prima di tutto capire che cosa sta succedendo
intorno a noi.
Professoressa
“Leccardi”, ha ancora senso oggi usare forme di protesta così controverse?
Il
vero punto della questione, in realtà, non sono queste forme di protesta, ma
gli obiettivi a cui queste azioni sono dirette.
Gli/le
attiviste per il clima domandano, per loro tramite, risposte concrete dai
governi, dai politici, dalle istituzioni.
In
passato la mediazione tra le forme di protesta di movimento e la loro
espressione istituzionale è stata garantita - almeno idealmente - in primo
luogo dai partiti politici.
La crisi contemporanea di questi ultimi
asciuga le radici stesse di tale possibilità. Se è vero che la giustizia
climatica va oggi considerata espressione della giustizia sociale in senso
lato, allora altre istituzioni devono farsi carico di questa mediazione.
A
partire, a mio giudizio, da quelle formative, per definizione espressione
dell’approccio scientifico alla vita.
In
concreto questo significa che “per risolvere il problema dobbiamo prima
comprenderlo” (come scrive Greta Thunberg in ‘The Climate Book’, pubblicato in
italiano nel 2022).
Le istituzioni di alta formazione come le
università giocano dunque un ruolo strategico a questo livello.
Sono i
dati scientifici relativi al riscaldamento globale e alla crisi ambientale in
generale a confermare che il pianeta non è più in grado di tollerare questa
situazione.
Il tema della transizione energetica è
cruciale, così come quello di un modello di sviluppo in sintonia con la “lingua
del pianeta”.
La
protezione della biodiversità, i danni irreversibili della deforestazione, lo
smaltimento delle plastiche (le cosiddette microplastiche in particolare), il
rapporto tra salute umana e salute del pianeta, e in generale l’analisi delle
interdipendenze all’interno del “sistema Gaia” sono altrettanti aspetti di una
medesima realtà.
Una realtà che richiede una crescita di
consapevolezza collettiva in tempi strettissimi.
In
sostanza, i movimenti ambientalisti e le loro dinamiche, incluse le forme di
mobilitazione, sono molto diversi dal passato perché diversa è la posta in
gioco.
Le
migrazioni, le risorse decrescenti di gran parte della popolazione mondiale di
contro alla crescita di ricchezza di una super minoranza sono, direttamente o
indirettamente, collegate alla lotta per la sopravvivenza nel nuovo regime
climatico.
Vorrei
anche ricordare qui il cosiddetto ‘paradosso dell’incertezza’ in relazione al
climattivismo.
Le
nuove generazioni sono cresciute confrontandosi quotidianamente con il tema
dell’incertezza.
Sul
piano sociale e esistenziale l’incertezza permea le loro vite:
dal
lavoro alle relazioni affettive alla mobilità territoriale, dall’identità
personale a quella sociale le ultime generazioni devono confrontarsi con
l’assenza di approdi sicuri.
Paradossalmente,
in questo paesaggio connotato dall’incertezza la sola certezza inconfutabile,
sulla base dei rilievi scientifici, è la minaccia alla vita del e sul pianeta.
Da qui
anche, io credo, la scelta di modalità di protesta estreme.
In
questo quadro minaccioso noi adulti che non siamo attivisti, non siamo
politici, ma semplici cittadini e cittadine, magari anche indignati/e di fronte
a questi attacchi all’arte, anziché giudicare questi gruppi come “nemici della democrazia” dovremmo forse prima di tutto
domandarci cosa stiamo facendo di concreto per salvare il pianeta, e dunque
anche le nostre vite.
Come
sono cambiate negli ultimi anni le forme di protesta e attivismo giovanile?
Se
pensiamo all’Italia, negli ultimi decenni del Novecento ci sono stati diversi
movimenti capaci di segnare in profondità il clima culturale.
Accanto
al movimento operaio e alle sue lotte il movimento del Sessantotto, quello
femminista, il movimento del Settantasette hanno indubbiamente - tra gli altri
effetti - modernizzato l’Italia.
Accompagnando
la nostra espansione economica (e le sue crisi), ma anche democratica e
culturale.
Durante
la ‘stagione dei movimenti’, come è stata chiamata, le lotte si esprimevano
attraverso manifestazioni di piazza, sit-in e così via.
Forme
di lotta tradizionali, diremmo oggi.
In quell’epoca, tuttavia, considerate forme
eversive tout-court.
Tra
l'inizio degli anni Ottanta e la fine del secolo l’attenzione si è poi spostata
sul cosiddetto fenomeno del riflusso, ovvero una chiusura nel privato che in
realtà si è rivelata più apparente che effettiva.
È
stato infatti rimesso in discussione il rapporto tra quello che è considerato
‘privato’ e ciò che era, almeno fin lì, considerato ‘politico’.
Il
grande tema dei diritti, a partire dall’espressione ad esempio di una
sessualità auto-determinata, è balzato al centro della scena pubblica;
così è stato, in parallelo, per i rapporti tra
donne e uomini.
L’area
del ‘politico’ si è via via estesa - fino ad includere, oggi, l’intero pianeta
e la sua cura.
È
necessario riflettere anche su questi aspetti per comprendere ciò che sta
accadendo nelle forme di protesta.
Con
l’inizio del secolo, e con l’accentuazione delle diseguaglianze sociali, ci
sono state anche in questo caso nuove forme di lotta e di mobilitazione, spesso
e volentieri introdotte da piccoli collettivi.
Ma
anche accompagnati, di volta in volta, da grandi mobilitazioni di massa – si
pensi ad esempio agli” indignados spagnoli” (e ai loro ‘accampamenti).
Così è accaduto anche per il femminismo del
nuovo secolo, che ha via via costruito forme di lotta inedite (si pensi, per
fare un esempio, allo ‘sciopero delle donne dell'8 Marzo).
Accanto a forme forse meno visibili, ma certo
non meno importanti sul piano quotidiano.
In
questo nuovo contesto sociale e politico, individuale e collettivo si
rimescolano e si ridefiniscono.
L’espressione di sé, delle proprie capacità e
competenze, ma anche dei propri bisogni e sentimenti diventa sempre più terreno
di lotta e di mobilitazione.
Fino
ad arrivare ai giorni nostri, e alla recente pandemia.
Che ha
accentuato la sensazione di incontrollabilità del mondo.
Ma,
allo stesso tempo, ha fatto nascere, non solo in Italia, diverse azioni di
solidarietà e di sostegno - nel quartiere, nell’isolato, nel singolo caseggiato
-a favore di coloro che sono apparsi socialmente meno forti ed attrezzati.
Non
solo sotto il profilo economico, ma anche, ad esempio, per ragioni di salute,
per capitale sociale e culturale, e così via.
In
sostanza, è bene a mio giudizio comprendere che le lotte per la giustizia
climatica sono strettamente imparentate alle numerose forme di azione
collettiva diventate particolarmente visibili nel nuovo secolo, per lo più
intrecciate alla crescente centralità dei processi di individualizzazione (come
qualche anno fa abbiamo scritto, con Paolo Volonté, nel libro “Un nuovo
individualismo?”) L’approccio dei movimenti per la giustizia climatica
rappresenta dunque non un’anomalia, ma un’espressione dei movimenti sociali del
nostro tempo.
Questo
recente fenomeno è in qualche modo riconducibile anche alla "cancel
culture"?
Non
credo che questo tipo di proteste possa essere legato alla” cancel culture” e alle sue
dinamiche.
Qui
non è in gioco il passato ‘bianco’ del potere nel mondo, e le sue espressioni
che perdurano.
Penso
invece ad un diverso quadro, a richieste dirette in primo luogo alle
istituzioni, ma anche a tutti noi, affinché venga assunta la responsabilità che
a ciascuno/a compete.
Possiamo
ancora cambiare la situazione, ma il tempo rimasto è davvero pochissimo.
È
necessario uscire dal letargo.
A mio
parere, la forza delle azioni di protesta contro le opere d’arte si basa
proprio su questo simbolismo potente legato al tempo che scorre, e ci porta non
verso il progresso, ma sempre più verso la distruzione.
La
strategia italiana per l'AI.
Bnews.uniomib.it
- Andrea Rossetti – (08 Agosto 2024) – ci dice:
Non
bisogna pensare che l’unico strumento di regolazione dell’IA sia il regolamento
europeo (le puntate precedenti di questa serie di articoli);
poco dopo
la pubblicazione sulla Gazzetta dell’Unione, è stato pubblicato il documento
contenente la “Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale 2024-2026”.
Il testo è stato elaborato da un Comitato di
esperti per assistere il Governo nella creazione di una normativa nazionale e
delle strategie riguardanti questa tecnologia.
Il
Comitato, formato da quattordici membri, ha lavorato per analizzare l’impatto
dell’intelligenza artificiale e sviluppare un piano strategico volto a guidare
lo sviluppo dell'IA in modo responsabile e inclusivo.
Come
spesso accade questi documenti che mirano ad essere generali, sono invece solo
generici:
raccolte
di buoni propositi e promesse che non sempre vengono recepite dal legislatore
di cui invece dovrebbero indirizzare l’opera.
L'intelligenza
artificiale è riconosciuta dal Comitato di esperti come un potente
catalizzatore per lo sviluppo economico e sociale dell'Italia, con applicazioni
che spaziano dall'ottimizzazione dei processi aziendali e pubblici alla salute,
dall'educazione alla sostenibilità ambientale.
L'efficacia crescente dell'IA nel potenziare
la produttività e la qualità dei servizi è già una realtà, e le sue capacità di
migliorare la qualità della vita e la gestione delle risorse sono evidenti.
Il
nostro paese si trova quindi di fronte all'opportunità di sfruttare le sue
peculiarità nazionali per potenziare la competitività e la qualità della vita
attraverso l'IA.
Questo
richiede un impegno per sviluppare tecnologie adatte al contesto specifico
italiano, non possiamo come paese limitarci a importare e sfruttare tecnologie
che siano state sviluppate altrove (per ora negli Stati Uniti, ma in
prospettiva anche in Cina).
L'Italia deve attuare strategie su quattro
macroaree principali:
Ricerca,
Pubblica Amministrazione, Imprese e Formazione.
La ricerca dovrà concentrarsi su innovazioni
specifiche per il contesto italiano e sulla promozione di una collaborazione
interdisciplinare.
Per le pubbliche amministrazioni e le imprese,
è essenziale l'adozione di soluzioni di IA che migliorino l'efficienza e aprano
nuove opportunità di crescita.
Infine, la formazione dovrà mirare a elevare
le competenze nazionali in IA, con un forte accento sull'interdisciplinarità e
sull'integrazione di questioni etiche e sociali. Questo ampio impegno
strategico e operativo permetterà all'Italia di trasformare l'IA in un motore
di crescita sostenibile e inclusivo.
In
particolare la strategia per la ricerca scientifica (una delle due che come
Università ci tocca più da vicino), ha come obiettivo quello di migliorare la
qualità della vita delle persone e del contesto sociale.
In un contesto di rapida evoluzione
tecnologica, l'Italia deve rafforzare la propria competitività internazionale
attraverso un robusto impegno nella ricerca.
È essenziale valorizzare sia la ricerca
applicata sia quella orientata alla sostenibilità ecologica, sociale, etica e
legale, in linea con i valori dell'Italia e dell'Europa.
Ciò include il consolidamento del
trasferimento tecnologico, il supporto alla mobilità e al ritorno di talenti
italiani dall'estero, l'attrazione di talenti stranieri. Parallelamente, si
propone di rafforzare le sinergie tra università, centri di ricerca e il
settore produttivo, particolarmente nel settore ICT, per supportare
l'innovazione e mantenere la competitività a livello globale.
Questi sforzi mirano a creare un ambiente
fertile per lo sviluppo di spin- off e start-up innovative e per sostenere
l'economia italiana nelle sfide globali future.
Per
quello che riguarda la strategia per la formazione (l’altra che come Ateneo ci
interessa particolarmente), lo studio auspica l’adozione di un ampio piano di
formazione che includa l'intero sistema educativo, dagli Istituti Tecnologici
Superiori (ITS) alle università, con un focus particolare sui dottorati di
ricerca.
Questo
impegno dovrebbe anche affrontare questioni sociali come la riduzione del
“gender gap” nelle” discipline STEM” e la necessità di una formazione
interdisciplinare.
Parallelamente, per non lasciare indietro i
lavoratori attuali, è cruciale implementare programmi di “reskilling” e
“upskilling” che li reintegrino nel ciclo produttivo e li rendano capaci di
utilizzare consapevolmente le nuove tecnologie.
Inoltre,
per garantire che i benefici dell'IA si estendano a tutta la società e per
ridurre i rischi di una crescente divisione digitale, è necessario espandere la
formazione sull'IA a tutti i livelli della società.
Ciò
include l'introduzione di programmi educativi nelle scuole, campagne
informative e percorsi di alfabetizzazione digitale per cittadini di tutte le
età, particolarmente concentrati sulle categorie più vulnerabili.
Il
dibattito globale sull'Intelligenza Artificiale (IA) ha messo in luce anche
numerosi rischi che l’adozione di questa tecnologia, come ogni altra
tecnologia, porta con sé;
rischi che possono oscurare i suoi potenziali
benefici per l'economia e la società.
Uno
dei pericoli principali è la potenziale accelerazione delle disuguaglianze
sociali e i rischi per la democrazia.
Inoltre, la natura "non neutrale"
dell'IA, influenzata dalle informazioni e scelte umane, richiede una gestione
attenta e consapevole.
C’è
anche il rischio di omogeneizzazione culturale:
l'adozione
di sistemi di” IA generativa”, come ad esempio “chatGPT”, principalmente
sviluppati all'estero e partendo unicamente dalla lingua inglese, potrebbe non
rispecchiare i valori e la cultura giuridica italiana ed europea.
D’altra
parte, l'iper -regolazione potrebbe soffocare l'innovazione, mentre il divario
digitale e il rischio di inefficacia delle strategie sono preoccupazioni
costanti.
Questi
rischi richiedono un approccio metodologico che include la promozione di
modelli di IA che rispettino i valori democratici e etici, l'implementazione
dell'IA secondo i regolamenti dell'Unione Europea, e strategie per minimizzare
l'inefficacia attraverso coordinamento e monitoraggio continuo.
La strategia nazionale deve quindi essere
agile, mirata, e rispettosa dei valori costituzionali e culturali italiani.
Vedremo, nel prossimo articolo, come il DDL
sull’intelligenza artificiale proposto dal governo cerchi di attualizzare la
strategia italiana per l’IA.
Da
dove viene l’eco-fascismo:
quando
la destra si appropria dell’ecologia.
Editorialedomani.it
- Alice Valeria Oliveri – (28 maggio 2024) – ci dice:
«Considerare
l’ecologia un sistema ideologico progressista e di sinistra è un” bias
cognitivo”», scrive “Francesca Santolini” nel suo saggio “Eco-fascismo”
pubblicato di recente da Einaudi.
Un
percorso sorprendentemente rivelatore, una ricostruzione dei rapporti tra
l’estrema destra e l’ecologia:
l’idea che l’ambiente possa essere usato da
una fazione politica che in apparenza si fa forte del suo machismo
anti-ecologista, è molto più sensata e pericolosa di quanto si possa pensare.
Siamo
abituati al fatto che i “deliri negazionisti del cambiamento climatico “di personaggi onnipresenti in
televisione, sui giornali, tra le “stories del Pd “che incita goffamente a
ignorarli siano parte del dibattito pubblico.
Siamo
abituati agli sproloqui di vecchi giornalisti che inveiscono contro “Greta
Thunberg” e contro qualsiasi forma di protesta per il “riscaldamento globale”,
ai programmi radiofonici ascoltati da centinaia di migliaia di persone che
“demonizzano il dissenso giovanile”, ridicolizzando realtà come quella di
“Ultima generazione”, parlando di “eco-vandali” ed “estremismo green”.
«Consiglio
la lettura soprattutto ai talebani del green», scrive “Nicola Porro” a
proposito di uno dei tanti articoli pubblicati sul suo blog che smontano la
narrazione ecologista e catastrofista contemporanea, colpevole di gettare il
panico in una situazione perfettamente sotto controllo.
L’ecologia,
insomma, non è roba per la destra italiana con i suoi intellettuali organici,
che alle auto elettriche preferisce quelle tradizionali, che alla carne
sintetica preferisce una cara vecchia bistecca e che, a chi imbratta i
monumenti per capriccio, preferisce chi tutela il patrimonio artistico e la
tradizione, quella che promuove con grandiose campagne in stile “Open to
Meraviglia”.
(Ambiente.
Rivoluzione
anziana: l’attivismo climatico ha bisogno degli over 65.
Ferdinando
Cotugno.)
Dall’altro
lato, il cliché vuole che l’ecologia sia retaggio di una certa” cultura new
age.”
Cibo
biologico, abiti equi e solidali, lana cotta, fricchettoni con i fiori nei
cannoni, vegani che rompono le scatole alle grigliate di Pasquetta, negozi che
emanano forte odore di “patchouli”.
I
movimenti come “Fridays for Future “ed “Extinction Rebellion” hanno dato una
nuova linfa all’immaginario ambientalista, aggiungendo un elemento di protesta
giovanile e di rabbia per la poca reattività delle istituzioni nei confronti di
un tema così fondamentale, ma restando comunque nel campo semantico del
progressismo.
È quel
che viene più semplice e intuitivo credere.
«Considerare
l’ecologia un sistema ideologico progressista e di sinistra è un bias
cognitivo», scrive Francesca Santolini, giornalista scientifica esperta di temi
ambientali, nel suo saggio “Eco-fascisti” pubblicato di recente da Einaudi.
Ed è
un percorso sorprendentemente rivelatore, quello che traccia nella
ricostruzione dei rapporti tra l’estrema destra e l’ecologia:
nonostante gli stereotipi dentro cui
costruiamo le nostre convinzioni, l’idea che l’ambiente possa essere usato da
una fazione politica che in apparenza non solo non ha alcun interesse, ma, al
contrario, si fa forte del suo machismo antiecologista è molto più sensata e
pericolosa di quanto si possa pensare.
(Politica.
Una
campagna elettorale senza idee. Cosa succede se a sinistra dimenticano
l’ambiente
Gianfranco
Pellegrino – filosofo.)
Partiamo
da un presupposto lontano, un immaginario che conosciamo attraverso la storia
che studiamo a scuola, i film, i racconti, le giornate della memoria:
«Per quanto possa sembrare incredibile, gli
“ecologisti” nazisti trasformarono l’agricoltura biologica, il culto della
natura e di temi correlati in elementi chiave non solo della loro ideologia ma
anche nelle loro politiche di governo», scrive “Santolini”.
“Blut”
und “Boden”, sangue e suolo, il motto nazista che sintetizza l’idea di
purificazione della razza anche attraverso un ritorno alle origini, in simbiosi
con la natura, tra misticismo romantico e difesa del proprio territorio,
potrebbe sembrare distante anni luce da una concezione contemporanea
dell’ecologia in termini di difesa dell’ambiente.
Nessuno
farebbe mai un’associazione mentale tra il “Terzo Reich” e i supermercati “Natura
Sì”, nessuno direbbe che la difesa della natura potrebbe essere una scusa per
difendere i confini, la razza, la propria nazione e la superiorità di un popolo
eletto.
Sono immaginari distanti, che nella nostra
visione del mondo hanno poco a che vedere l’uno con l’altro, la difesa della
razza e la difesa della respirabilità dell’aria, degli ecosistemi, dello
sfruttamento degli esseri umani per la produzione, quella degli animali per
l’allevamento intensivo.
Eppure, la ricerca che troviamo nel saggio di “Santolini”
dimostra che non è così.
Sangue
e suolo.
Se da
un lato abbiamo una destra che perpetra il negazionismo delle origini
antropiche del cambiamento climatico, facendo leva sul sollevamento delle
responsabilità umane di tale evento e usando questi temi per fare propaganda –
pensiamo anche solo a” Matteo Salvini “e alla sua difesa di casa e macchina,
come se l’obiettivo dell’ecologia fosse strapparle dai cittadini – dall’altro
esiste un movimento che si estende nel tempo, che affondava le sue origini in
teorie tardo ottocentesche, e al quale oggi possiamo dare il nome di eco fascismo.
(Cultura.
La
crisi climatica è in tavola ma millennial e politici lo ignorano.
Caterina
Orsenigo.)
Il
verde dell’ecologia che incontra il nero dell’estrema destra:
difendere
il rapporto tra la natura e l’uomo in chiave nazionalista, protezionista,
sovranista e razzista.
Fare eco-bordering, ossia chiudere le
frontiere ai migranti che mescolano le razze e vengono a esaurire le nostre
risorse ambientali, negare di conseguenza la realtà dell’immigrazione
climatica, condannare chi pratica il nomadismo in quanto privo di radici, trascurare
le relazioni strutturali tra temi climatici e modello di sviluppo capitalista
in favore di una ideologia reazionaria e protezionista che abbia come obiettivo
quello di pensare solo alla salvaguardia del proprio orto, sia letteralmente
che metaforicamente.
Invece
di attribuire la questione climatica al consumo eccessivo delle risorse
naturali da parte dei paesi più ricchi del mondo, come fa la comunità
scientifica all’unanimità, l’eco-fascismo, che più che un movimento organizzato
è una modalità organizzativa, sposta l’attenzione sulla difesa dei suoli
nazionali, della purezza del sangue, ancora una volta “Blut und Boden”.
In
Italia.
L’eco-fascismo
è un laboratorio dentro cui si possono riversare frange verdi di destra del “Rassemblement
National francese”, o del “British National Party”, dell’”alt-right americana”
che brulica nei forum e nel sottobosco trumpiano, nel “partito spagnolo Vox” o
nel manifesto di un suprematista bianco come il responsabile dell’”attentato di
Christchurch “in Nuova Zelanda o in quello del “terrorista di El Paso” che ha
ucciso ventitré persone per difendere i confini statunitensi dall’invasione
messicana, minaccia per le persone e per l’ambiente.
In
Italia l’eco-fascismo sembra ancora molto distante dalla vulgata di destra che
vede il green come un pericolo talebano e gli attivisti come dei pagliacci da
usare per nutrire” flame televisivi” o radiofonici, tra ragazzini che bloccano
il traffico e vernice sulle statue contro cui inveire.
(Ambiente.
Il
declino definitivo di un pensiero ambientalista a destra.
Gianfranco
Pellegrino -filosofo)
Eppure,
qualcosa in comune tra questo universo verde-nero e la nostra destra c’è:
sentir parlare di difesa dei confini, di chiusura nei confronti della
migrazione intesa come invasione – e non come un’emergenza, anche di tipo
climatico – e di difesa del suolo nazionale in termini esplicitamente xenofobi
e complottisti è all’ordine del giorno.
Finché
la difesa della macchina e dei combustibili fossili sarà strumentale per fare
propaganda politica, l’avanzare dell’eco-fascismo potrebbe essere lontano.
Cosa
succederà invece quando la “questione climatica” diventerà davvero un tema che
non si potrà più ignorare, e dunque facile da strumentalizzare, a prescindere
dal proprio orientamento politico?
Allarmismo
climatico ed
eco-ansia:
cui prodest?
Centrostudilivatino.it
– (Ago 14, 2023) – Maurizio Milano – ci dice:
Terra
surriscaldata.
I
media mainstream hanno colto l’occasione del rialzo delle temperature, un
fenomeno che accompagna generalmente l’inizio del periodo estivo, per paventare
un’emergenza climatica causata dall’uomo, che richiederebbe misure radicali e
urgenti.
Il
Segretario Generale delle Nazioni Unite, “António Guterres”, ha parlato
dell’inizio dell’«era dell’ebollizione globale», affermando che «il cambiamento
climatico è qui.
È terrificante. Ed è solo l’inizio».
Poi le temperature sono bruscamente ridiscese
e con esse, almeno per un po’, anche i toni.
Deve
trattarsi dell’”effetto Seneca”.
Il celebre filosofo latino, Lucio Anneo Seneca
(4 a.C.-65 d.C.), nell’Epistula XVIII delle “Lettere morali a Lucilio”,
scriveva infatti:
«Omnis
aestas hominibus calidissima semper videtur», e cioè
«Ogni estate sembra agli uomini la più calda
di sempre».
Non si
dovrebbe però confondere il meteo, per sua natura variabile e capriccioso, col
clima, le cui tendenze si misurano su scale temporali pluridecennali, se non
secolari.
Ci sono pochi dubbi sul fatto che anche il
clima sia naturalmente soggetto a cambiamento, e ciò non da quando esiste
l’uomo o a partire dalla rivoluzione industriale, ma da quando esiste il mondo.
Eppure l’ipotesi della predominante
responsabilità umana nel (recente?) cambio del clima ha acquisto nel corso
degli ultimi lustri un consenso crescente all’interno del mondo politico,
economico-finanziario, di parte dell’accademia e dell’informazione globale.
La
teoria del «riscaldamento globale» di supposta origine antropica (l’acronimo
inglese è “AGW”: “Anthropogenic Global Warming”) e del più ampio concetto di «cambiamento climatico» che ne deriverebbe – al centro
dell’attività dell”’Intergovernmental Panel on Climate Change” (IPCC),
un’agenzia dell’Onu dedicata allo studio dell’impatto umano sul cambiamento
climatico – è però solamente un’ipotesi, non dimostrata e non dimostrabile.
Sono
moltissimi gli scienziati autorevoli che la criticano apertamente:
per
rimanere al nostro Paese scienziati di fama mondiale come “Antonino Zichichi”,
“Carlo Rubbia” e il climatologo “Franco Prodi “che la definisce una
“suggestione”, per di più non esente da conflitti di interesse, qualificando la
climatologia come una «disciplina acerba».
Le
loro critiche sono considerate scomode in quanto contraddicono la narrazione
dominante, e quindi non trovano spazio nei media mainstream.
Recentemente il “Fondo Monetario
Internazionale” ha cancellato una conferenza già programmata del celebre fisico
statunitense e premio Nobel, “John Francis Clauser (1942), dopo che aveva
dichiarato:
«Posso dire con fiducia che non c’è reale
crisi climatica, e che il cambiamento climatico non causi condizioni
metereologiche o eventi estremi».
Diviene
difficile per la vulgata dominante screditare scienziati di tale livello
rubricandoli a terrapiattisti, meglio allora oscurarli dal pubblico dibattito
come venne fatto durante la crisi sanitaria col biologo e virologo francese, il
premio Nobel “Luc Montagnier” (1932-2022).
I più
zelanti propendono di risolvere definitivamente la questione con la forza
pubblica,” istituendo
il reato di negazionismo climatico”.
“
Schwab” scrive che «particolare attenzione dovrà essere prestata a quelli che
non riconoscono o semplicemente negano la scienza (sic) del cambiamento
climatico»(Cfr.
Klaus Schwab, Thierry Malleret, The Great Narrative, For a Better Future, ed.
Forum Publishing, 2021, § 2.3.3).
Se poi, “malauguratamente”, la temperatura dovesse
ridiscendere nessun problema:
il
riscaldamento c’è ma non si vede, come la nebbia di Milano in un famoso film di
Totò.
Insomma, passeremmo dal malato asintomatico al
“riscaldamento
globale asintomatico”.
Per
contro, il metodo scientifico presupporrebbe toni pacati, esperimenti e
verifiche sul campo, senza preconcetti o agende nascoste, senza chiudere la
bocca a nessuno e senza diffondere paura e ansia tra le persone.
Il magnate-filantropo “Bill Gates”, in
analogia e prosecuzione ideale con la pandemia CoViD-19, parla invece di
un’incombente pandemia climatica.
Nel
suo libro “How
to avoid a climate disaster” ha introdotto il concetto di «green premium», «premio verde», per indicare l’extra costo legato
all’utilizzo dell’energia verde, cioè l’aumento dei costi su materiali e
prodotti energetici dovuti alla transizione verso le energie rinnovabili.
In tempi non sospetti, un anno esatto prima
dell’inizio del conflitto in Ucraina, “Gates” stimava in 5mila miliardi di
dollari Usa annui (su un’economia globale che valeva circa 80mila miliardi di
dollari) l’incremento di costi per attuare la transizione climatica.
Ecco
allora che l’esplosione dell’inflazione a partire dall’estate del 2021, e poi
attribuita principalmente al conflitto russo-ucraino, iniziato però nel
febbraio 2022, è attribuibile in realtà in buona misura proprio alla
transizione energetica, con sotto-investimenti nei combustibili fossili, oltre
che alle politiche monetarie e fiscali ultra-espansive e alla frammentazione
delle filiere produttive-distributive a seguito dei lockdown attuati dai
governi durante la crisi sanitaria.
Stiamo andando, insomma, verso una sorta di socialismo verde e quando avanza il socialismo sono a
rischio proprietà privata, privacy e libertà, non solo economica:
la contrazione in atto della classe media ne è
un sintomo evidente.
“Bill
Gates” afferma che tali costi, per quanto immani, sono però necessari «per
evitare l’incombente disastro climatico», dipinto con tinte così fosche da
rivaleggiare con le bibliche sette piaghe d’Egitto:
«tempeste, incendi, rinnalzamento dei livelli
dei mari, miseria e migrazioni dai Paesi poveri, guerre».
“Gates”
sostiene anche che se non iniziamo a bloccare subito le emissioni di gas serra,
ogni anno moriranno milioni di persone per il cambiamento climatico, e contro
ciò, dice con una certa compiaciuta ironia, non ci sarà nessun “vaccino”
disponibile.
E dire
che l’Articolo 658 del codice penale prevederebbe sanzioni contro «chiunque,
annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme»,
senonché nel caso del clima purtroppo sono proprio «l’Autorità, gli enti e le
persone che esercitano un pubblico servizio» a rendersi responsabili di tale
“procurato allarme”.
Ecco
allora spiegato il senso dell’allarmismo climatico:
solo
se le persone saranno persuase che non ci sono alternative si potrà procedere
nella direzione indicata dall’”Agenda Onu 2030” per il cosiddetto “sviluppo
sostenibile” e portata avanti dalla «iniziativa del Great Reset» di Davos, che
si prefigge il prometeico obiettivo di «ripensare, reimmaginare e resettare
il nostro mondo», come scrive il prof. Klaus Schwab nel suo famoso testo “CoViD-19: The
Great Reset”, pubblicato nel luglio 2020.
I
programmi decisi dall’alto trovano sponda nell’operato dei movimenti
ecologisti, da “Fridays For Future” a “Extinction Rebellion”, da quelli che
imbrattano le opere d’arte nei musei in favore di telecamere a quelli che
bloccano la circolazione stradale, ferroviaria o aerea, fino ai gruppi
eco-terroristi.
Pensare
che i giovani protestano perché il piano delineato dai potenti del mondo sia
attuato ancora più in fretta e in modo ancora più radicale fa sorridere, e
spiace che la buona fede della base, per quanto così mal riposta, sia
strumentalizzata in modo così cinico.
“La
nostra casa è in fiamme” è il verbo eco-catastrofista propagandato dalla
giovane ambientalista svedese “Greta Thunberg” (2003) e dagli “attivisti green”,
con afflato religioso, richieste di pentimento, sacrifici ed espiazione, che
purtroppo sta creando tra i giovani una nuova “patologia”, l’eco-ansia,
alimentata dalla propaganda dei media e, purtroppo, dalle stesse istituzioni.
Ma
come è possibile spingere le persone ad andare contro i propri interessi?
Lo
spiega molto bene l’antropologo, psicologo e sociologo francese “Gustave le Bon”
(1841-1931):
«In una folla, ogni sentimento, ogni atto è
contagioso, e contagioso al punto che l’individuo sacrifica molto facilmente il
proprio interesse personale all’interesse collettivo.
È un’attitudine fortemente contraria alla sua
natura, e l’uomo ne è capace solo quando fa parte di una folla» (Cfr. Gustave Le Bon, Psychologie
des foules, Livre I, Cap. 1., ed. Felix Alcan, Parigi 1895).
Le Bon introduce il concetto di “folla
psicologica”, in cui l’individuo, preso da solo magari anche intelligente e
colto, perde la coscienza dei propri pensieri e dei propri atti, e diviene come
ipnotizzato.
L’importante,
per fare presa sulle folle, è «esagerare, affermare, ripetere, e mai tentare di
dimostrare con un ragionamento» (Ibidem, Cap. 2 § 3.).
L’autore evidenzia il grande potere delle
parole, al punto che «scegliendo le giuste parole si possono fare accettare
alle folle le cose più odiose» (Ibidem, Livre II, Cap. 2 § 1).
Le
giovani generazioni, più facilmente suggestionabili, sono considerate come gli
agenti ideali per promuovere un cambiamento radicale, a fronte di:
«ineguaglianze di reddito, cambiamento climatico, riforme economiche,
eguaglianza di genere e diritti LGBTQ, tutte parti di un più generale problema
di ineguaglianza.
La
giovane generazione è fermamente all’avanguardia del cambiamento sociale. Non
ci sono dubbi che sarà il catalizzatore del cambiamento» (Cfr. Klaus Schwab, Thierry Malleret,
The Great Narrative, For a Better Future, op. cit., § 2.5).
Il clima, come si vede, è il grimaldello verde
per portare avanti un’agenda molto più ampia.
L’adesione
entusiasta del mondo politico nei confronti di quella che possiamo definire “ideologia
climatica” è spiegata dall’accentramento di risorse e decisioni reso possibile
dall’implementazione di tali agende;
l’adesione
dei settori economici che godranno degli incentivi è ovviamente comprensibile,
come anche quella della cosiddetta finanza sostenibile che vede schiudersi
straordinarie opportunità di profitto da un business aperto “ope legis” dalla
politica;
il
mondo dell’accademia allineato può beneficiare di fondi copiosi, mentre gli
scienziati dissenzienti si vedono chiuse opportunità di carriera e visibilità;
i media mainstream fanno poi da cassa di
risonanza per diffondere una voce il verbo green.
D’altronde,
come si può convincere qualcuno della fallacia di idee su cui si basa la sua
fortuna?
Oltre
ai costi esorbitanti e ai cattivi investimenti, un altro rischio di tali
visioni ideologiche è quello di distogliere l’attenzione da quanto si potrebbe
e dovrebbe fare, a partire dal singolo e dalle comunità locali, per convivere
con fenomeni metereologici talvolta estremi.
Lo
stesso tifone che semina morte e distruzione su “Haiti” porta danni decisamente
inferiori in Florida: la differenza, in positivo, la fa l’uomo.
Ecco allora che la soluzione dovrebbe pragmaticamente
seguire la logica del principio di sussidiarietà, perseguendo il bene
possibile, dal basso verso l’alto;
esattamente
l’opposto di quanto propugnato da Davos, secondo cui problemi globali
richiederebbero soluzioni globali imposte dall’alto, sollevando di conseguenza
gli amministratori locali dalle proprie responsabilità.
Qualsiasi
cosa accada è colpa del clima, e quindi dell’umanità che emette gas serra, e
perciò l’unica strada è resettare alla base il sistema produttivo, distributivo
e di consumo, dalle auto alle città, dall’alimentazione alle case.
Invece
di distogliere preziose risorse per combattere contro le emissioni di anidride
carbonica e di altri gas serra, non avrebbe invece più senso investire nella
cura del territorio e nella prevenzione dei rischi?
Se davvero il clima sta cambiando perché non
cercare di adattarci, come abbiamo sempre fatto nella nostra breve storia sul
pianeta terra?
Perché
non perseguire un’autentica ecologia integrale, rispettosa della natura
dell’uomo e quindi anche del creato, dono di Dio?
Gli
approcci ideologici, purtroppo, hanno poco rispetto del principio di realtà.
A fronte della perdita del senso comune, nel suo libro
Eretici del 1905 il celebre scrittore inglese “Gilbert Keith Chesterton”
(1874-1936) affermava:
«Fuochi verranno attizzati per testimoniare
che due più due fa quattro.
Spade
saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate».
Visto
l’andazzo corrente occorre forse completare la frase aggiungendo «…e che in
estate fa caldo!».
Una
volta, quando si incontrava qualcuno con cui non si era in confidenza si
parlava del tempo, un argomento che a differenza della politica e della
religione era considerato non divisivo, sicuro:
ora
che il clima ha assunto rilevanza politica e un afflato religioso, di che cosa
potremo ancora parlare senza correre il rischio di essere tacciati (anche) di
negazionismo climatico?
(Maurizio
Milano).
Il
‘nuovo mondo’ di Davos: dalla transizione
ecologica
al controllo sociale?
Centrostudilevantino.it
– (Dic. 21, 2021) – Maurizio Milano – ci dice:
Secondo
Klaus Schwab, fondatore ed Executive Chairman del World Economic Forum (WEF) di
Davos, il paradigma sociale ed economico dominante nel secondo dopoguerra, in
crisi già da alcuni decenni, è giunto oramai al punto di non-ritorno.
Solo la conversione dallo “shareholder capitalism”
allo “stakeholder capitalism” del XXI secolo potrà consentire alle “società
capitalistiche di sopravvivere e prosperare nell’attuale era, caratterizzata da
cambiamento climatico, globalizzazione e digitalizzazione”.
La “soluzione” proposta, tuttavia, va nella
direzione opposta a quella desiderabile, aggravando ulteriormente i mali che si
pretenderebbe voler curare.
1. Nel
suo recente libro “Stakeholder Capitalism”:
A
Global Economy that Works for Progress, People and Planet, il prof. Klaus
Schwab afferma che il modello sociale, economico e politico attuale è giunto al
capolinea.
Secondo il leader del WEF, le prime avvisaglie
di tale crisi erano già evidenti negli anni 1970, a partire dal “Rapporto
Meadows” del 1972, commissionato dal “Club di Roma» di Aurelio Peccei, che
individuava i “limiti dello sviluppo” nella crescita “eccessiva” della
popolazione rispetto alle risorse disponibili.
I
documenti e i programmi dell’ultimo mezzo secolo, concretizzatisi nelle varie
Conferenze dell’ONU incentrate sul cosiddetto “sviluppo sostenibile” – dal
Rapporto Brundtland della “Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo”
(WCED) del 1987 (in cui venne introdotta la nozione di “sostenibilità”) fino ad
arrivare all’”Accordo di Parigi” sul clima nel 2015 con l’approvazione
dell’”Agenda Onu 2030“, nella quale sono definiti “17 Obiettivi per lo Sviluppo
Sostenibile” – hanno portato avanti una visione neo-malthusiana, in cui il
focus iniziale sull’inadeguatezza delle risorse a sostenere il modello di
crescita economica si è progressivamente spostato sui presunti effetti negativi
dell’uomo sull’ambiente.
A
partire dal 1996, introdotta da “Mathis Wackernagel” e da “William Rees”, si è
diffusa, infatti, l’ipotesi della cosiddetta “impronta ecologica “, che
misurerebbe l’impatto negativo dell’uomo sulla Terra mediante un complesso
indicatore aggiornato periodicamente dal WWF a partire dal 1999.
Per l’ideologia “verde” oggi dominante, la
popolazione è indubbiamente considerata come la principale minaccia per la
“salute” stessa del pianeta, anche al di là del solito tema dei presunti
squilibri tra crescita della popolazione e risorse disponibili.
Il
concetto di “sostenibilità” si inscrive quindi all’interno di un quadro di
riferimento culturale che viene da molto lontano, ostile alla vita e alla
famiglia naturale, anche se, ovviamente, non tutti ne sono consapevoli.
Benedetto XVI, in “Caritas in veritate”, non parlava
mai di “sviluppo sostenibile” bensì di “sviluppo umano integrale” che poi, in
fondo, è l’unico sviluppo davvero “sostenibile”, anche sul piano materiale.
L’invecchiamento
demografico congiunto al crollo della natalità, infatti, comporta dei
progressivi problemi di “sostenibilità” a livello economico e sociale a causa
dei crescenti costi – sanitari, previdenziali ed assistenziali – che si
scaricano su una popolazione in età lavorativa in costante contrazione.
Un
rischio che persino la Cina ha compreso, introducendo a fine maggio 2021 la
possibilità per le famiglie di avere fino a tre figli:
è
certamente la solita visione statalista e ideologica che considera le persone
come una “massa” da manovrare a seconda dei mutevoli interessi economici e
politici, ma comunque un segno evidente di come il “reale” alla lunga si
imponga sempre sull’ideologia.
2.
Schwab si focalizza poi sulla svolta definita come «neo-liberista», iniziata
negli anni 1980 con la Reaganomics e il Thatcherismo, incentrata “maggiormente
su fondamentalismo del mercato e individualismo e meno sull’intervento statale
o sull’implementazione di un contratto sociale”, giudicandola “un errore”.
Egli
afferma che il modello dominante – che definisce “shareholder capitalism”
perché la responsabilità delle imprese è limitata alla produzione di utili per
gli azionisti, senza ulteriori implicazioni “sociali” – dev’essere urgentemente
superato nella direzione di quello che definisce lo “stakeholder capitalism del
XXI secolo”, dove debbono essere presi in considerazione tutti i “portatori di
interesse”, dai clienti ai lavoratori, dai cittadini alle comunità, dai governi
al pianeta, in una prospettiva non più locale o nazionale ma “globale”, che
richiede quindi un nuovo “multilateralismo”.
In
linea di principio, la logica dello “stakeholder capitalism” è anche
condivisibile, giacché le imprese non vivono nel vacuum, ma in contesti sociali
e politici.
Quindi,
oltre alla generazione di profitto per i propri azionisti, servendo al meglio i
clienti in una libera e leale concorrenza, è equo che sostengano i costi delle
eventuali esternalità e si assumano responsabilità più ampie, secondo il
principio del bene comune a cui tutti sono tenuti a contribuire.
Che
cosa si intende però esattamente col termine “stakeholder capitalism del XXI
secolo”?
Al cuore di tale modello secondo Schwab vi
sono due realtà: le “persone” e il “pianeta”.
2.1.
Le “persone”:
Schwab scrive che “il benessere delle persone
in una società influisce su quello di altre persone in altre società, e spetta
a tutti noi come cittadini globali ottimizzare il benessere di tutti”.
I “cittadini globali” astratti indicati da
Schwab esistono però solo nelle visioni ideologiche:
le “persone” concrete hanno sempre relazioni,
a partire dalla famiglia e dalla società circostante, e sono sempre portatrici
di una storia – e di una geografia –, nonché di una visione del mondo.
Non
esistono i “cittadini del mondo”, se non tra le élite tecnocratiche apolidi a
cui si indirizza, evidentemente, il prof. Schwab.
Nella
prospettiva evocata, la sussidiarietà e la stessa sovranità nazionale
verrebbero sostituite da prospettive centralistiche e dirigistiche.
2.2.
Il “pianeta”:
Schwab
lo definisce come “lo stakeholder centrale nel sistema economico globale, la
cui salute dovrebbe essere ottimizzata nelle decisioni effettuate da tutti gli
altri stakeholder.
In
nessun altro punto ciò è divenuto più evidente come nella realtà del
cambiamento climatico planetario e nei conseguenti eventi climatici estremi
provocati”.
La teoria del “riscaldamento globale” di
supposta origine antropica (l’acronimo inglese è “AGW”: Anthropogenic Global
Warming) e del più ampio concetto di “cambiamento climatico” che ne deriverebbe
– al centro dell’attività dell’Intergovernmental Panel on Climate Change
(IPCC), un’agenzia dell’Onu dedicata allo studio dell’impatto umano sul
cambiamento climatico – è appunto soltanto una teoria, su cui molti scienziati
autorevoli non concordano (per es. gli scienziati di fama mondiale Antonino
Zichichi e Carlo Rubbia, per restare all’Italia), non una realtà, in quanto
manca di conferme scientifiche certe.
A ben
guardare, pur considerando l’uomo come il “cancro” del pianeta, l’ideologia
ecologista pecca paradossalmente per eccesso di “antropocentrismo” perché
attribuisce all’essere umano un potere che nei fatti è ben lungi da avere:
non è forse prometeico pretendere di abbassare
la temperatura del pianeta come si fa col climatizzatore dell’ufficio e pensare
di potere cambiare il clima della Terra come se fosse quello della serra
dell’orto di casa?
A ciò
si aggiunga che tutte le previsioni catastrofistiche fatte in passato
sull’evoluzione del clima e sugli impatti sul pianeta e sull’uomo si sono
rivelate erronee.
Ovviamente,
con ciò non si vuole sminuire l’importanza di contrastare l’inquinamento e di
migliorare costantemente nella gestione dei beni creati, anche nel senso della
cosiddetta “economia circolare” e nella continua innovazione tecnologica per
ridurre gli sprechi:
questa
corretta “ecologia” non ha però nulla a che spartire con l’approccio ideologico
e ostile all’uomo – e alla natalità – della decarbonizzazione e della
transizione energetica degli approcci sopra indicati.
È ideologico, non scientifico, trasformare una teoria
in una certezza, su cui poi impostare azioni di portata colossale e con costi
astronomici.
Nella
prospettiva del cosiddetto “cambiamento climatico” – che è per definizione
globale – è chiaro che la sovranità nazionale dovrebbe cedere il passo al
multilateralismo e alla governance mondiale: a problemi globali soluzioni
globali. Cui prodest?
3.
Schwab non ne parla nel libro citato, ma la “transizione ecologica” a guida ONU
non si limiterà alle tematiche di tipo “energetico”, con l’abbandono dei
combustibili fossili – che stanno già comportando fortissimi rialzi delle
materie prime energetiche con ricadute in termini di dinamiche inflazionistiche
sui prodotti e sui servizi –, ma si estenderà anche al cambio dei modelli
alimentari, incentivando, ad esempio, la “conversione” al veganesimo e al
consumo di “carne sintetica”; per non parlare della “suggestione” ad avere
preferibilmente un solo figlio per famiglia, ad adottare uno stile di vita
all’insegna dell’austerità, rinunciando a viaggiare per non inquinare oppure
preferendo andare a piedi o in bicicletta e utilizzare solo i mezzi pubblici; e
chissà cos’altro in futuro, perché la rivoluzione verde, come tutte le
rivoluzioni, è un processo in divenire perenne, e quindi non può arrestarsi.
I
costi saranno probabilmente stratosferici:
Bill
Gates li stima in 5.000 miliardi di dollari annui, che potranno
progressivamente scendere nel corso del tempo, grazie all’innovazione
tecnologica, fino a “soli” 250 miliardi di dollari annui di extra-costo nel
2050.
Tale
extra-costo è indicato col termine green premium.
Sembra
proprio che ogniqualvolta compare l’aggettivo “verde” dobbiamo preoccuparci:
i nuovi e pesanti costi, infatti, hanno già iniziato a scaricarsi su
contribuenti e consumatori, con inevitabili gravi alterazioni della
concorrenza, e quindi delle stesse prospettive di crescita economica futura, a
danno dei più e a beneficio delle industrie favorite da tali progetti, oltre che
della cosiddetta “finanza sostenibile”. Per non parlare delle pesanti
restrizioni alla libertà, che abbiamo già iniziato ad “assaporare”: una
decrescita, insomma, davvero poco felice.
4. Se
lo “stakeholder capitalism del XXI secolo” del prof. Klaus Schwab si fonda su
questi due pilastri, su “cittadini” ridotti a monadi e su un “pianeta” da
difendere dagli attacchi dell’uomo – e quindi non più un “creato” che dell’uomo
costituisce la dimora –, c’è da temere derive liberticide.
Mentre le società e l’iniziativa economica nascono
logicamente e storicamente dal basso, a partire dalle persone concrete,
inserite in famiglie e in comunità, per poi svilupparsi secondo logiche
sussidiarie nei vari corpi intermedi, qui ci troviamo di fronte a una visione
distopica fondata su un’antropologia distorta, e conseguentemente su una
sociologia “rovesciata”.
Una prospettiva atomistica e materialistica,
centralistica e dirigistica, dove i “migliori” vorrebbero guidare dal centro e
dall’alto, come nella città ideale vagheggiata da molti utopisti che si sono
industriati, nel corso dei secoli, di immaginare un “mondo migliore”.
5. Con
riferimento ai pretesi “eccessi di libertà” dei “privati” che avrebbero portato
fuori strada il paradigma di crescita impostosi nel secondo dopoguerra, occorre
poi fare una precisazione.
Di
quali “privati” si sta parlando?
I Paesi contemporanei sono caratterizzati
tutti, chi più chi meno, da una presenza molto forte dello Stato nella vita
economica e sociale, da un livello di pressione fiscale e contributiva
importante, da un’elevata collusione dei grandi gruppi industriali e finanziari
col potere politico – il cosiddetto capitalismo clientelare – e da un monopolio
statale sul denaro, la cui quantità viene manipolata ad libitum dalle
rispettive Banche centrali che negli ultimi lustri intervengono in modo sempre
più attivo e spregiudicato per orientare i sistemi finanziari, e quindi
economici, dei propri Paesi.
Negli
stessi USA, considerati l’emblema dell’economia libera, il potere politico è
colluso con i grandi gruppi privati e lo stesso andamento di Wall Street –
nell’immaginario collettivo icona del “capitalismo selvaggio” e del
“turbo-capitalismo” – dipende in realtà sempre più dalla politica, in
particolare dalle politiche monetarie ultra-espansive attuate dal 2009 dalla
Federal Reserve statunitense, solo formalmente indipendente dall’establishment
politico-economico.
Non ci
sono dubbi che esista una “liaison malsana” tra i grandi gruppi privati e la
politica, in forte crescita nell’ultimo quarto di secolo, e ciò va denunciato
col termine di “capitalismo clientelare”:
aumentando
ulteriormente la spesa pubblica non si farebbe altro che accrescere ancora la
quota di ricchezza nazionale gestita da tali élite politico-economiche, a tutto
beneficio di chi è più vicino ai rubinetti della spesa e a danno di tutti gli
altri che pagheranno il conto.
Lo
vedremo, molto probabilmente, con l’implementazione del “Piano di rilancio
europeo” denominato “Next Generation EU “(il cosiddetto Recovery Fund), per la
ricostruzione post-pandemica, a cui è collegato il piano di attuazione italiano
(il cosiddetto Piano nazionale di ripresa e resilienza – PNRR):
entrambi
di tipo top-down, basati sul debito e calati dall’alto in modo
dirigistico-accentratore.
Nel sistema
che si sta disegnando, la piccola e la media impresa, che già hanno poca voce
in capitolo adesso, rischiano di essere ancora più marginalizzate.
6.
Com’è noto, infatti, la prospettiva di Davos è quella del “Great Reset” dei
sistemi economici-sociali-politici attuali per andare verso un “New Normal”,
una sorta di governance mondiale, dove delle “cabine di regia” sempre più alte,
composte da organismi sovranazionali, Stati, Banche centrali, grandi gruppi
finanziari ed economici, media globali, think tank come Davos, assumeranno il
ruolo di direttori d’orchestra per decidere dove andare, con quali mezzi e in
che modo, per “ricostruire il mondo in modo migliore”, secondo lo slogan
B3W-Build Back a Better World del Presidente statunitense Joe Biden, condiviso
dai Paesi del G7.
Ma
come imporre tali cambiamenti?
In un
suo libro precedente, molto conosciuto, “COVID-19: The Great Reset”, il prof.
Schwab scriveva che l’epidemia CoVid-19 costituisce una “grande opportunità”
per “ripensare, reimmaginare e resettare il nostro mondo”.
Il
leader del WEF sottolinea che al di là dei dati di fatto, della “realtà”, «”le
nostre azioni e reazioni umane […] sono determinate dalle emozioni e dai
sentimenti: le narrazioni guidano il nostro comportamento”, lasciando cioè
intendere che, con uno story-telling adeguato, sarà possibile indurre un po’
per volta il cambiamento dall’alto, creando il consenso con un mix di bastone e
di carota.
L’importanza
della “narrazione” per guidare il cambiamento era già stata indicata da Schwab
come una priorità in un altro suo testo del 2016 dedicato alla Quarta
Rivoluzione Industriale, “The Fourth Industrial Revolution”:
il
passaggio dalla narrazione alla propaganda rischia di essere molto veloce, e
particolarmente pericoloso se si aggiunge al controllo dei flussi finanziari, a
regolamentazioni sempre più rigide, fino alla stessa limitazione della libertà
di movimento personale.
L’attuazione
della “iniziativa del Grande Reset” verso il “Brave New World post-pandemico”
sembra procedere, in questi mesi, con quella «fretta» raccomandata da Schwab
come condizione di efficacia.
Schwab
non ne parla ma è una strategia che ricorda molto quella della “Fabian Society”,
il più antico think tank politico britannico, fondata a Londra nel 1884 e da
allora punto di riferimento della sinistra mondiale:
“For
the right moment you must wait […] but when the time comes you must strike
hard”, cioè “devi attendere il momento giusto […] ma quando arriva devi colpire
duramente”.
L’immagine scelta dai fabiani, un lupo
travestito da agnello, completa il quadro.
7. In
conclusione, lo “stakeholder capitalism del XXI secolo” del prof. Schwab sembra
delineare una sorta di “socialismo benevolo”, un’evoluzione su scala planetaria
di quel mito evergreen che è lo Stato-assistenziale dei Paesi dell’Europa
settentrionale.
La collaborazione stretta tra grande finanza,
big-tech, media e capitalismo clientelare è, ovviamente, necessaria alla
realizzazione del progetto:
promesse di “salute” e “sicurezza”, garantite
dall’alto (nella forma di maggiori sussidi pubblici e di “reddito universale di
cittadinanza”);
più
tasse, meno libertà (e meno responsabilità), meno privacy e meno scelta
individuale.
Un
“socialismo liberale”, insomma, un po’ gnostico e un po’ fabiano, che intende
mantenere la sovrastruttura liberal-democratica, ridotta però a un guscio
vuoto, mentre le risorse e le decisioni importanti sono destinate ad essere
sempre più accentrate presso “tecnici” e “competenti”, presso “cabine di regia”
sempre più lontane.
Una
prospettiva distopica che ricorda più quella evocata nel “Nuovo Mondo” di Aldous
Huxley (1894-1963) che non quella paventata in “1984” di George Orwell
(1903-1950).
Quos
Deus perdere vult, dementat prius:
qualsiasi
progetto contrario alla natura dell’uomo e all’ordine delle cose è destinato
inevitabilmente al fallimento finale, ma può tuttavia arrecare dei seri danni,
per molti anni a venire.
Quando
torneremo, dunque, alla normalità?
“Quando? Mai”, scrive Schwab.
Ė scritto nero su bianco, basta prendersi la
briga di andare a leggere e studiare quello che scrive.
Ciò
non è rassicurante:
occorre
approfondire queste tematiche con un serio studio in ordine alla realtà delle
cose e ai costi sociali, insostenibili per gli uomini concreti, che sono
esigiti per la costruzione del “mondo migliore” immaginato da Schwab. (Maurizio Milano).
«“GENE-EDITED”
VS “GENETICAMENTE
MODIFICATO”: QUAL È LA DIFFERENZA?»
Inchiostronero.it
- Kit Cavalleresco – Redazione – (8-9-2024) – ci dice:
Hai
sentito?
Le
colture e il bestiame geneticamente modificati sono qui per risolvere tutti i
nostri problemi!
Sì,
tutto, dalle pandemie alla crisi del costo della vita ai cambiamenti climatici,
sta per migliorare notevolmente.
Non è
un sollievo?
Cinque
giorni fa, il” WaPo” ha riferito che esistono i “gene-editor”.
Tre settimane
prima, lo stesso giornale aveva parlato di alberi geneticamente modificati per
produrre carta.
Nel
Regno Unito possiamo aspettarci che il primo grano geneticamente modificato
venga raccolto quest’anno.
Negli
Stati Uniti, le foglie di insalata geneticamente modificate non sono molto
lontane.
Il
Giappone ha approvato anni fa i “super pomodori” che possono “abbassare la
pressione sanguigna”.
Patate
geneticamente modificate vengono create in Sud America.
Grano in Egitto. Cotone e mais in Etiopia.
Già
nel 2022 avevo segnalato che gli alimenti geneticamente modificati venivano già
venduti al pubblico come “più economici” , “più nutrienti” e “in grado di
prevenire future pandemie” .
Due
settimane fa il “Japan Times” ha dichiarato che crede in queste affermazioni.
Ora,
nel caso in cui siate preoccupati, vi assicuro che stanno parlando di cibo
geneticamente modificato, il che è fantastico, NON di organismi geneticamente
modificati (OGM), che sappiamo tutti essere una cosa negativa.
Ma
qual è la differenza effettiva?
A
volte è difficile dirlo, soprattutto perché i media tradizionali tendono ancora
a usare i termini in modo intercambiabile (ad esempio, l’articolo del Japan
Times di cui sopra usa “gene-edited” nel titolo, ma “OGM” nel sottotitolo).
Esiste
una scheda informativa “DEFRA” del governo del Regno Unito del 2021 per alcuni
chiarimenti in merito.
È
stata individuata la parola scappatoia super speciale?
Avviciniamoci
per osservare più da vicino.
Che
posto strano per inserire la parola “generalmente”.
Una
persona cinica potrebbe dire che la sua presenza rende l’intera frase priva di
significato.
Non
preoccupatevi, puoi star certo che una differenza c’è sicuramente, anche se
questa differenza è in gran parte normativa.
In
merito esiste un nuovo foglio informativo del” DEFRA”.
Ah,
interessante….
Vi
sorprenderebbe sapere che il governo del Regno Unito ha modificato tali regole
tramite il “Genetic Technology” (Precision Breeding) Act 2023 ?
Da
oggi in poi la precedente regolamentazione sugli organismi geneticamente
modificati non si applica più agli organismi “geneticamente modificati”.
La
legge stessa evita “Geneticamente modificato” in favore di “Allevato con
precisione” (probabilmente perché suona più naturale) e definisce un organismo
“allevato con precisione” in merito…ma sembra ancora piuttosto vago.
Certamente,
esiste il potenziale affinché la differenza tra “geneticamente modificato” (GE)
e “geneticamente modificato” (GM) diventi in gran parte semantica.
Ho
notato nel mio precedente articolo che la campagna di pubbliche relazioni
pro-gene editing era globale.
E la
spinta del Regno Unito per la deregolamentazione è allo stesso modo
rispecchiata in tutto il mondo, qualcosa che è sempre degno di nota di per sé.
A
febbraio di quest’anno, l’Unione Europea ha votato per “semplificare la
regolamentazione delle colture geneticamente modificate.”
Tre
settimane fa, il “Genetic Literacy Project” con sede negli Stati Uniti ha
intitolato “Nella
speranza di ridurre l’uso di pesticidi, la Svizzera si avvicina alla
legalizzazione dell’editing genetico delle colture.”
Solo
pochi giorni fa, è stato riferito che la “Food Standards Australia New Zealand”
(FSANZ) avrebbe utilizzato una “nuova definizione” di organismi geneticamente
modificati che escludeva le colture geneticamente modificate.
Tutto
questo parlare di deregolamentazione e di “nuove definizioni” dovrebbe far
drizzare un sopracciglio a tutti. Chiaramente, c’è il potenziale per la madre
di tutte le scappatoie.
Le
notizie non sono migliori dall’altra parte della nuova cortina di ferro.
La
Russia è sempre stata la nazione più apertamente contraria agli OGM, vietandone
l’importazione, la coltivazione e la distribuzione sul suolo russo.
Ciò ha
rappresentato una fonte di grande speranza per coloro che hanno investito
nell’idea che la Russia e le nazioni BRICS in generale si oppongano
all’incipiente distopia che si sta sviluppando in Occidente.
Purtroppo,
però, la Russia investe miliardi di rubli nell ’“editing genetico” dal 2019.
La
Cina sta andando nella stessa direzione. A maggio 2023 lo è stato riportato.
Esattamente
un anno dopo, la Cina ha ufficialmente approvato il grano geneticamente
modificato per il consumo umano.
Sembra
quindi che le colture geneticamente modificate siano nel menù,
indipendentemente da chi vincerà la tanto attesa Terza Guerra Mondiale.
I
governi e le grandi aziende agricole di tutto il mondo stanno salutando
l’ascesa di una nuovissima e geniale tecnologia di “editing genetico”,
lasciando le normative sulla stupida e vecchia “modifica genetica” a guardia di
una stanza vuota.
Questo
è semplicemente il modo in cui va il mondo nell’era post-Covid, post-verità,
dove i poteri forti riformulano, ridefiniscono e reinterpretano le parole come
ritengono necessario.
I fatti sono temporanei.
La realtà malleabile.
Modifica
Wikipedia e hai cambiato la storia, se mai ne avessi bisogno puoi semplicemente
cambiarla di nuovo.
Finora
abbiamo parlato delle presunte differenze tra “geneticamente modificato” e
“geneticamente modificato”, forse dovremmo prenderci un momento per discutere
di alcune somiglianze.
Ad
esempio, sia i semi che le colture geneticamente modificati (GE) potrebbero
essere brevettati, conferendo un enorme potere a pochi giganti internazionali
della biotecnologia, che potrebbero così esercitare un controllo sulla
fornitura di sementi e, di conseguenza, sulla fornitura di cibo.
Lo riporta
anche Politico.
Allo
stesso modo, le colture geneticamente modificate potrebbero essere soggette a
tecnologie di restrizione dell’uso genetico (GURT) o “semi terminatori”, il che
significa che non possono riprodursi naturalmente.
Ciò,
si sostiene, è necessario per proteggere la proprietà intellettuale e impedire
l’incrocio con specie selvatiche o non geneticamente modificate.
Forse
questa argomentazione ha un certo fondamento, ma l’impatto reale delle colture
sterili porterebbe gli agricoltori a dipendere completamente dai giganti della
biotecnologia per i semi in ogni stagione di semina.
Torniamo
quindi alla nostra domanda iniziale: qual è la differenza tra “geneticamente
modificato” e “geneticamente modificato”?
La
risposta è potenzialmente molto semplice.
Gli “organismi geneticamente modificati” sono una tecnologia relativamente
nuova e in gran parte sperimentale che ha il potere di cedere il controllo
della fornitura alimentare a una manciata di aziende biotecnologiche ed è
soggetta a un’ampia regolamentazione legale.
Gli “alimenti geneticamente modificati” sono una tecnologia relativamente
nuova e ampiamente sperimentale che ha il potere di cedere il controllo della
fornitura alimentare a una manciata di aziende biotecnologiche… e che NON è soggetta a una
regolamentazione legale estesa.
(Kit
Cavalleresco).
Dall'agrarismo
al transumanesimo:
la
lunga marcia verso la distopia.
Globalresearch.ca
– (18 agosto 2024) - Colin Todhunter – ci dice:
"È
in corso una demolizione totale delle precedenti forme di esistenza: il modo in
cui si viene al mondo, il sesso biologico, l'educazione, le relazioni, la
famiglia, persino la dieta che sta per diventare sintetica".
(“Silvia
Guerini,” ecologa radicale, in "Dal corpo 'neutro' al cyborg
-postumano: una critica dell'ideologia di genere" - 2023)
Attualmente
stiamo assistendo a un'accelerazione del consolidamento aziendale dell'intera
filiera agroalimentare globale.
I conglomerati dei big data, tra cui Amazon,
Microsoft, Facebook e Google, si sono uniti ai giganti tradizionali dell' agro-business
, come Corteva, Bayer, Cargill e Syngenta, nel tentativo di imporre il loro
modello di alimentazione e agricoltura al mondo.
Anche
la Fondazione Bill e Melinda Gates e le grandi istituzioni finanziarie, come
BlackRock e Vanguard, sono coinvolte, sia attraverso l'acquisto di enormi
tratti di terreni agricoli , sia attraverso la promozione di tecnologie
alimentari biosintetiche (false) e di ingegneria genetica o, più in generale,
facilitando e finanziando gli obiettivi delle mega multinazionali
agroalimentari.
Gli
interessi miliardari dietro a questo cercano di ritrarre il loro
tecno-soluzionismo come una sorta di sforzo umanitario:
salvare
il pianeta con "soluzioni rispettose del clima", "aiutare gli
agricoltori" o "nutrire il mondo".
Ma in
realtà si tratta di riconfezionare e fare “greenwashing” delle strategie
espropriative dell'imperialismo.
Si
tratta di uno spostamento verso una " agricoltura mondiale " sotto il
controllo dell' “agritech” e dei giganti dei dati, che deve essere basata su
sementi geneticamente modificate, prodotti creati in laboratorio che
assomigliano al cibo, agricoltura "di precisione" e "basata sui
dati" e agricoltura senza agricoltori, con l'intera catena agroalimentare,
dal campo (o laboratorio) alla vendita al dettaglio, governata da piattaforme
di e-commerce monopolistiche determinate da sistemi di intelligenza artificiale
e algoritmi.
Coloro
che stanno portando avanti questa agenda hanno una visione non solo per gli
agricoltori, ma anche per l'umanità in generale.
Le
élite, attraverso il loro complesso militare-digitale-finanziario
(Pentagono/Silicon Valley/Big Finance) vogliono usare le loro tecnologie per
rimodellare il mondo e ridefinire cosa significa essere umani.
Considerano
gli esseri umani, le loro culture e le loro pratiche, come la natura stessa,
come un problema e carenti.
Gli
agricoltori devono essere spostati e sostituiti con droni, macchine e computer
basati su cloud.
Il
cibo deve essere ridefinito e le persone devono essere nutrite con prodotti
sintetici e geneticamente modificati.
Le culture devono essere sradicate e l'umanità
deve essere completamente urbanizzata, sottomessa e disconnessa dal mondo
naturale.
Ciò
che significa essere umani come esseri radicalmente trasformati.
Ma
cosa ha significato essere umani fino ad ora o almeno prima della
(relativamente recente) rivoluzione industriale e dell'urbanizzazione di massa
associata?
Per
rispondere a questa domanda, dobbiamo discutere del nostro legame con la natura
e di ciò in cui la maggior parte dell'umanità era coinvolta prima
dell'industrializzazione: coltivare il cibo.
Molti
degli antichi rituali e celebrazioni dei nostri antenati sono stati costruiti
attorno a storie, miti e rituali che li hanno aiutati a venire a patti con
alcune delle domande più fondamentali dell'esistenza, dalla morte alla
rinascita e alla fertilità. Queste credenze e pratiche culturalmente radicate servivano a
santificare il loro rapporto pratico con la natura e il suo ruolo nel sostenere
la vita umana.
Poiché
l'agricoltura divenne la chiave per la sopravvivenza umana, la semina e la
raccolta dei raccolti e altre attività stagionali associate alla produzione
alimentare erano fondamentali per queste usanze.
Gli
esseri umani hanno celebrato la natura e la vita a cui ha dato vita. Antiche
credenze e rituali erano intrisi di speranza e rinnovamento e le persone
avevano un rapporto necessario e immediato con il sole, i semi, gli animali, il
vento, il fuoco, la terra e la pioggia e il mutare delle stagioni che nutrivano
e portavano la vita. Le nostre relazioni culturali e sociali con la produzione
agraria e le divinità associate avevano una solida base pratica.
La
vita delle persone è stata legata alla semina, al raccolto, ai semi, al suolo e
alle stagioni per migliaia di anni.
“Silvia
Guerini”, la cui citazione introduce questo articolo, sottolinea l'importanza
delle relazioni profonde e dei rituali che le riaffermano.
Dice
che attraverso i rituali una comunità riconosce sé stessa e il suo posto nel
mondo.
Creano
lo spirito di una comunità radicata contribuendo a radicare e a far durare
un'unica esistenza in un tempo, in un territorio, in una comunità.
Il
professore “Robert W. Nicholls” spiega che i culti di “Woden” e “Thor” si
sovrapposero a credenze molto più antiche e meglio radicate legate al sole e
alla terra, alle colture e agli animali e alla rotazione delle stagioni tra la
luce e il calore dell'estate e il freddo e il buio dell'inverno.
Il
rapporto dell'umanità con l'agricoltura e il cibo e le nostre connessioni con
la terra, la natura e la comunità hanno definito per millenni cosa significa
essere umani.
Prendiamo
l'India, per esempio.
Lo
scienziato ambientale “Viva Kermani” afferma che l'induismo è la più grande
religione basata sulla natura del mondo che:
“…
riconosce e cerca il Divino nella natura e riconosce tutto come sacro.
Considera la terra come nostra Madre e quindi sostiene che non dovrebbe essere
sfruttata. La perdita di questa comprensione che la terra è nostra madre, o
piuttosto una deliberata ignoranza di questo, ha portato all'abuso e allo
sfruttamento della terra e delle sue risorse.
“Kermani”
osserva che le antiche scritture insegnavano alle persone che gli animali e le
piante che si trovano in India sono sacri e, quindi, tutti gli aspetti della
natura devono essere venerati.
Aggiunge che questa comprensione e riverenza
verso l'ambiente è comune a tutti i sistemi religiosi e spirituali indiani:
induismo, buddismo e giainismo.
Secondo
“Kermani,” le divinità vediche hanno un profondo simbolismo e molti strati di
esistenza.
Una di
queste associazioni è con l'ecologia.
“Surya”
è associato al sole, la fonte di calore e luce che nutre tutti;” Indra” è
associato alla pioggia, ai raccolti e all'abbondanza; e “Agni” è la divinità
del fuoco e della trasformazione e controlla tutti i cambiamenti.
Osserva
che il “Vrikshayurveda”, un antico testo sanscrito sulla scienza delle piante e
degli alberi, contiene dettagli sulla conservazione del suolo, la semina, la
semina, il trattamento, la propagazione, come affrontare parassiti e malattie e
molto altro ancora.
Come “Nicholls”,
“Kermani” fornisce una visione di alcuni dei profondi aspetti culturali,
filosofici e pratici del legame dell'umanità con la natura e la produzione
alimentare.
Questa
connessione risuona con l'agrarismo, una filosofia basata sul lavoro cooperativo e
sull'amicizia, che è in netto contrasto con i valori e gli impatti della vita urbana,
del capitalismo e della tecnologia che sono visti come dannosi per
l'indipendenza e la dignità.
Anche l'agrarismo sottolinea una dimensione spirituale
e il valore della società rurale, delle piccole aziende agricole, della
proprietà diffusa e del decentramento politico.
L'eminente
sostenitore dell'agrarismo “Wedell Berry” dice :
"La
rivoluzione iniziata con le macchine e i prodotti chimici continua ora con
l'automazione, i computer e le biotecnologie".
Per “Berry”,
l'agrarismo non è un desiderio sentimentale di un tempo passato.
Gli
atteggiamenti coloniali, nazionali, stranieri e ora globali, hanno resistito al
vero agrarismo quasi fin dall'inizio:
non
c'è mai stata un'economia completamente sostenibile, stabile, adattata
localmente, basata sulla terra.
Tuttavia,”
Berry” fornisce molti esempi di piccole (e più grandi) aziende agricole che
hanno una produzione simile a quella dell'agricoltura industriale con un terzo
dell'energia.
Nella
sua poesia "A Spiritual Journey", Berry scrive quanto segue:
"E
il mondo non può essere scoperto con un viaggio di miglia,
non
importa quanto lungo,
ma
solo con un viaggio spirituale, un viaggio di un pollice, molto arduo,
umiliante
e gioioso,
attraverso
il quale arriviamo a terra ai nostri piedi,
e
impariamo a essere a casa".
Ma
nella fredda, centralizzata, tecnocratica distopia che è stata pianificata, il
legame spirituale dell'umanità con la campagna, il cibo e la produzione agraria
devono essere gettati nella pattumiera della storia.
“Silvia
Guerini” ci dice:
"Il
passato diventa qualcosa da cancellare per spezzare il filo che ci lega a una
storia, a una tradizione, a un'appartenenza, per il passaggio verso una nuova
umanità sradicata, senza passato, senza memoria... una nuova umanità
disumanizzata nella sua essenza, totalmente nelle mani dei manipolatori della
realtà e della verità".
Questa
umanità disumanizzata e separata dal passato fa parte della più ampia agenda
del transumanesimo.
Ad
esempio, non stiamo solo assistendo a una spinta verso un mondo senza
agricoltori e tutto ciò che ci ha legato alla terra ma, secondo “Guerini”,
anche un mondo senza madri.
Sostiene
che coloro che stanno dietro ai bambini in provetta e alla maternità surrogata
ora hanno gli occhi puntati sull'ingegneria genetica e sugli uteri artificiali,
che taglierebbero le donne fuori dal processo riproduttivo.
“Guerini”
prevede che gli uteri artificiali potrebbero prima o poi essere richiesti, o
meglio commercializzati, come un diritto per tutti, comprese le persone
transgender.
È interessante notare che il linguaggio
intorno alla gravidanza è già contestato con l'omissione di "donne"
da affermazioni come "persone che possono rimanere incinte".
Naturalmente,
da tempo si è diffusa una linea di demarcazione tra biotecnologia, eugenetica e
ingegneria genetica.
Le
colture geneticamente modificate, i gene drive e l'editing genetico sono ora
una realtà, ma l'obiettivo finale è sposare l'intelligenza artificiale, la
bionanotecnologia e l'ingegneria genetica per produrre il transumano di un
mondo unico.
A
spingerlo sono potenti interessi che, secondo “Guerini”, stanno usando una “sinistra
arcobaleno, transgenica e organizzazioni LGBTQ+” per promuovere una nuova identità
sintetica e rivendicare nuovi diritti.
Dice che questo è un attacco alla vita, alla
natura, a "ciò che è nato, al contrario dell'artificiale" e aggiunge
che tutti i legami con il mondo reale, naturale, devono essere recisi.
È
interessante notare che nel suo rapporto “Future of Food” , il gigante
britannico dei supermercati “Sainsburys” celebra un futuro in cui siamo
microchippati e tracciati e i lacci neurali hanno il potenziale per vedere
tutti i nostri dati genetici, sanitari e situazionali registrati, archiviati e
analizzati da algoritmi che potrebbero capire esattamente di quale cibo
(consegnato da un drone) abbiamo bisogno per sostenerci in un particolare
momento della nostra vita.
Il
tutto venduto come "ottimizzazione personale".
Inoltre,
è probabile, secondo il rapporto, che otterremo nutrienti chiave attraverso gli
impianti.
Parte
di questi nutrienti arriverà sotto forma di cibo coltivato in laboratorio e
insetti.
Un
laccio neurale è una rete ultrasottile che può essere impiantata nel cranio,
formando una raccolta di elettrodi in grado di monitorare la funzione
cerebrale. Crea un'interfaccia tra il cervello e la macchina.
“Sainsburys”
fa un buon lavoro nel cercare di promuovere un futuro distopico in cui
l'intelligenza artificiale ha preso il tuo lavoro, ma, secondo il rapporto, hai
un sacco di tempo per celebrare il meraviglioso mondo distorto della
"cultura del cibo" creato dal supermercato e dai tuoi signori
digitali.
Il
tecno-feudalesimo incontra il transumanesimo, tutto per la vostra comodità,
ovviamente.
Ma
niente di tutto questo accadrà da un giorno all'altro. E resta da vedere se la
tecnologia sarà all'altezza. Coloro che stanno promuovendo questo nuovo mondo
potrebbe aver esagerato con la loro mano, ma passeranno i decenni successivi a
cercare di portare avanti la loro visione.
Ma
l'arroganza è il loro tallone d'Achille.
C'è
ancora tempo per educare, organizzarsi, resistere e agitarsi contro questa
arroganza, non da ultimo sfidando i giganti alimentari industriali e il sistema
che li sostiene e sostenendo e creando movimenti alimentari di base ed economie
locali che rafforzino la sovranità alimentare.
Il
mondo sta camminando con gli
occhi
bendati verso una guerra nucleare?
Globalresarch.ca
- Prof. Rodrigue Tremblay – (08 settembre 2024) – ci dice:
"Attraverso
il rilascio dell'energia atomica, la nostra generazione ha portato al mondo la
forza più rivoluzionaria dalla scoperta del fuoco da parte dell'uomo
preistorico.
Questo potere fondamentale dell'universo non
può essere inserito nel concetto antiquato di nazionalismi ristretti.”
“Dichiarazione
del Comitato di Emergenza degli Scienziati Atomici, presieduto da Albert
Einstein, 22 gennaio 1947.”
"Non
so con quali armi si combatterà la Terza Guerra Mondiale, ma la Quarta Guerra
Mondiale sarà combattuta con bastoni e pietre".
(Albert
Einstein (1879-1955), fisico teorico tedesco (in un'intervista in "Liberal
Judaism", aprile-maggio 1949)
"Mentre
difendono i nostri interessi vitali, le potenze nucleari devono evitare questi
scontri, che portano un avversario a scegliere tra una ritirata umiliante o una
guerra nucleare.
Adottare
questo tipo di linea di condotta nell'era nucleare sarebbe solo la prova del
fallimento della nostra politica, o di un desiderio collettivo di morte per il
mondo John F. Kennedy (1917-1963), 35° Presidente degli Stati Uniti, 1961-1963,
(nel suo discorso di inaugurazione intitolato "Una strategia di pace" pronunciato all' Università Americana
di Washington, DC, lunedì 10 giugno 1963)
Introduzione.
Durante
il fatidico anno 2024, l'attenzione del mondo è stata distratta, in primo luogo
dalla guerra in corso e in espansione provocata da Stati Uniti e NATO contro la
Russia, "per indebolire la Russia" dal segretario alla Difesa, il
generale “Lloyd Austin” , una guerra per procura pianificata molto tempo fa,
nel 1991, dopo il crollo dell'Unione Sovietica .
È un
dato di fatto, questa è stata una guerra per procura fin dall'inizio tra Stati
Uniti e Russia, promossa dai neoconservatori americani.
Si tratta di una guerra che è iniziata
ufficialmente con il governo degli Stati Uniti che ha finanziato il
rovesciamento violento del governo filo-russo eletto dal presidente” Viktor
Yanukovich”, nel febbraio 2014.
In
secondo luogo, c'è il conflitto in corso tra Israele e i palestinesi a Gaza,
iniziato con un attacco di Hamas nell'ottobre 2023.
A
questo ha fatto seguito l'uccisione di oltre 40.000 palestinesi da parte del
governo israeliano Netanyahu.
Un
massacro così diffuso di civili e la distruzione hanno lasciato orfani migliaia
di bambini, scioccati gli storici del genocidio e svergognato la coscienza del
mondo. Ciononostante,
il massacro moderno del popolo palestinese sembra non avere fine in vista.
D'altra
parte, quest'anno abbiamo anche assistito allo svolgimento delle grandiose
Olimpiadi estive di Parigi.
Quella
grande celebrazione della pace tra le nazioni è stata seguita da una saga
politica nella campagna elettorale presidenziale americana, quando il
presidente democratico in carica “Joe Biden” è stato costretto a ritirare la
sua candidatura a favore della vicepresidente” Kamala Harris”.
Tuttavia,
altri sviluppi più spaventosi si sono verificati nell'ombra.
In
effetti, il “New York Time”s ha rivelato martedì 20 agosto che lo scorso marzo
il presidente” Joe Biden”, in una pericolosa esibizione di politica del rischio
calcolato, ha segretamente approvato una nuova strategia nucleare americana
coordinata.
Si
tratta di un piano per scontri nucleari simultanei degli Stati Uniti con la
Russia, la Cina e la Corea del Nord.
Che
esista un piano del genere non è molto rassicurante, considerando che gli Stati
Uniti sono stati il primo e unico paese ad aver sganciato bombe nucleari sulle
città, quelle di Hiroshima e Nagasaki, nell'agosto del 1945, provocando
centinaia di migliaia di morti.
Che
una guerra nucleare mondiale al giorno d'oggi possa essere considerata
possibile, persino probabile, è sbalorditiva.
Come
illustra la citazione del presidente John F. Kennedy nel suo discorso del
giugno 1963, "adottare quel tipo di corso nell'era nucleare sarebbe solo
la prova del fallimento o della nostra politica, o di un desiderio collettivo
di morte per il mondo".
Le
terribili conseguenze dei paesi che si preparano a una guerra nucleare.
I
programmi di spesa nucleare delle tre maggiori potenze nucleari – Cina, Russia
e Stati Uniti – minacciano di innescare una corsa agli armamenti nucleari a
tre, mentre l'architettura mondiale del controllo degli armamenti crolla.
La
Russia e la Cina stanno espandendo le loro capacità nucleari e a Washington
aumenta la pressione, soprattutto tra i sostenitori del complesso
militare-industriale (MIC) degli Stati Uniti, affinché gli Stati Uniti
rispondano allo stesso modo.
La
mancanza di fiducia e la volontà di controllare e limitare la produzione di
armi nucleari può annunciare una nuova era di sviluppo di nuove armi nucleari,
compreso il dispiegamento di armi nucleari offensive a raggio
intercontinentale.
Ciò
significa che le principali potenze nucleari potrebbero espandere lo sviluppo
di nuove armi nucleari proprio mentre le tensioni geopolitiche continuano ad
aumentare.
Questo
è destinato a mettere in pericolo la sicurezza di tutte le nazioni.
L'orologio
dell'Apocalisse dell'umanità si sta avvicinando sempre di più alla mezzanotte.
Secondo
il “Bulletin of the Atomic Scientists”, la sua metafora o simbolo dell'”Orologio
dell'Apocalisse” , creato nel 1947, è stato impostato su 90 secondi a
mezzanotte nel gennaio 2023.
È stato mantenuto a quel punto alto nel
gennaio 2024, perché l' umanità continua
ad affrontare un alto livello di pericolo in tre aree principali:
il maggior rischio di guerra nucleare , le conseguenze
negative in corso del cambiamento climatico e la nuova minaccia
dell'Intelligenza Artificiale.
Nel
luglio del 1991, alla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti (il presidente
George HW Bush) e l'Unione Sovietica/Russia (il presidente Mikail S.
Gorbatchev) firmarono il Trattato bilaterale per la riduzione delle armi
strategiche (START I), progettato per promuovere il disarmo nucleare.
Ha
dato mandato a entrambe le parti di ridurre i loro arsenali di armi nucleari
offensive strategiche.
L'orologio
dell'apocalisse degli scienziati atomici è stato quindi impostato su 17 minuti
dalla mezzanotte.
(NB:
START I è stato un successo. Ha avuto l'effetto di rimuovere circa l'80% di
tutte le armi nucleari strategiche allora esistenti, quando la sua attuazione
finale è stata completata, alla fine del 2001.)
Oggi,
tuttavia, con il mondo gettato in una nuova “Seconda Guerra Fredda”, con
l'acuirsi delle tensioni geopolitiche tra USA-UE-NATO, da un lato e
Russia-Cina-Corea del Nord-Iran, dall'altro, i rischi di un grande cataclisma
nucleare globale è molto alto.
A
partire dallo “START I”, la maggior parte degli accordi sul controllo degli
armamenti sono falliti.
Dopo
il successo del trattato “START I”, ci sono stati due ulteriori trattati
firmati tra gli Stati Uniti e la Russia per ridurre ulteriormente le scorte di
armamenti nucleari. Entrambi sono falliti.
In
primo luogo, nel gennaio 1993, il presidente americano George HW Bush e il
presidente russo Boris Eltsin firmarono un nuovo “Trattato per la Riduzione
delle Armi Strategiche chiamato START II”, per ampliare ciò che il trattato
START I aveva realizzato.
Tuttavia,
questo nuovo trattato non entrò mai in vigore.
Questo
perché l'amministrazione di George W. Bush ha deciso, nel giugno 2002, di
ritirarsi dal trattato sui missili anti-balistici (ABM) che esisteva tra gli
Stati Uniti e l'URSS dal 1972, e che era una delle condizioni per lo sviluppo
dello START II.
Molti
osservatori considerano il ritiro americano del “trattato ABM” come il primo
passo verso l'abbandono di efficaci vincoli legali sulla proliferazione
nucleare.
In
secondo luogo, il presidente Barack Obama ha tentato di rilanciare la riduzione
reciproca delle armi nucleari offensive per garantire un mondo più sicuro,
quando ha firmato un nuovo trattato START, nell'aprile 2010, con l'allora
presidente della Federazione Russa Dmitry Medvedev.
Tuttavia,
c'era un crescente scetticismo sulle riduzioni delle armi nucleari tra alcuni
senatori repubblicani degli Stati Uniti e dai think tank di Washington DC, come
la “Heritage Foundation”.
Il
trattato “New START “doveva durare dieci anni, con la possibilità di rinnovarlo
per un massimo di cinque anni con l'accordo di entrambe le parti.
Tuttavia,
nel febbraio 2017, l'allora presidente Donald Trump disse al presidente russo
Vladimir Putin che si sarebbe ritirato dal nuovo trattato START, esprimendo
l'opinione che fosse troppo favorevole alla Russia e che si trattasse di un
"cattivo accordo negoziato dall'amministrazione Obama".
Tutti
i tentativi tra Trump e Putin di redigere un sostituto del nuovo trattato START
prima della sua scadenza nel 2021 sono falliti.
La Russia è arrivata al punto di accusare
l'amministrazione Trump di aver "deliberatamente e intenzionalmente"
smantellato gli accordi internazionali sul controllo degli armamenti e ha fatto
riferimento al suo approccio "controproducente e apertamente
aggressivo" nei colloqui.
Ciononostante,
nel gennaio 2001, la neoeletta amministrazione Biden accettò la proposta russa
di estendere il trattato “New START” sulla riduzione delle armi nucleari per
cinque anni, cioè fino al 2026.
Questo
è stato l'ultimo tentativo da parte degli Stati Uniti e della Russia di
aumentare la loro reciproca sicurezza nucleare attraverso i negoziati
bilaterali.
Uno
storico precedente.
Le
relazioni politiche tra Stati Uniti e Russia sono diventate sempre più tese,
soprattutto dopo che la Russia ha invaso la vicina Ucraina nel febbraio 2022.
Il
governo russo ha evocato due ragioni principali per la sua mossa: proteggere la
minoranza russofona ucraina dalle esazioni di Kiev e impedire a quest'ultimo
paese di aderire alla NATO, il che significherebbe il dispiegamento di missili
nucleari americani al confine con la Russia.
Questa
guerra ha provocato enormi distruzioni, sofferenze e numerose morti. È una
guerra che si sarebbe potuta evitare con un minimo di buona fede, diplomazia e
qualche concessione.
Il
conflitto ricorda la crisi missilistica cubana del 1962.
L'Unione Sovietica aveva piazzato missili
nucleari a Cuba, a 90 miglia dalla costa degli Stati Uniti, in risposta agli
schieramenti americani di missili nucleari in Italia e Turchia.
Alla
fine fu raggiunto un compromesso tra il presidente Kennedy e il presidente
Krusciov:
il
governo sovietico avrebbe smantellato le sue armi offensive a Cuba e il governo
degli Stati Uniti accettò, segretamente, di smantellare tutte le armi offensive
che aveva schierato in Turchia.
Conclusioni.
Il
mondo è diventato sempre più un luogo caotico e pericoloso. Ciò ha molto a che
fare con l'attuale mancanza di accordi di deterrenza nucleare tra le principali
potenze nucleari.
Se un paese nucleare dovesse lanciare un
attacco con un'arma nucleare in un clima di sfiducia, ciò potrebbe creare una
minaccia esistenziale per centinaia di milioni di abitanti del Pianeta.
Una
guerra nucleare devastante non avrebbe solo tragiche conseguenze umane, ma
anche economiche.
Sarebbe un enorme spreco di risorse, ma
potrebbe anche creare un inverno nucleare con ricadute dannose sui raccolti che
porterebbero alla carestia, oltre a essere una delle principali fonti di
inquinamento atmosferico.
Una
guerra nucleare potrebbe giovare all'industria nucleare militare in alcuni
paesi, ma creerebbe il caos nell'economia globale, causando la caduta nei paesi
coinvolti e creando stagflazione nel settore privato delle economie nazionali.
Se i
leader delle nazioni con armi nucleari continuano a “banalizzare” la minaccia
di una guerra nucleare su vasta scala e a fantasticare sull'idea demenziale di poter
"vincere" una guerra nucleare, il mondo potrebbe dirigersi dritto
verso una catastrofe esistenziale.
Pertanto,
spetta a tutti, leader e cittadini, lavorare per l'abolizione delle guerre, che
non fanno progredire l'umanità, ma piuttosto la fanno arretrare.
(Dr.
Rodrigue Tremblay.)
"Un'invasione
della Russia nucleare da parte della NATO è attualmente in corso, e il mondo
non sa che si tratta di una terza guerra mondiale". La pazienza del
presidente Putin ha raggiunto i suoi limiti?
Globalresearch.ca
- Peter Koenig – (08 settembre 2024) – ci dice:
Tutte
le linee rosse attraversate - più volte.
È
attualmente in corso un'invasione della Russia nucleare da parte della NATO e
il mondo non sa che si tratta di una terza guerra mondiale, come riportato da
“Megatron” (14 agosto 2024).
La
regione russa di Kursk è attualmente piena di armi, truppe, logistica e altro
ancora, molti dei quali distruttivi.
Esiste
una mappa in merito.
L'Ucraina mira a destabilizzare la Russia con
l'incursione di Kursk.
Le
riprese video provengono da dozzine di veicoli della NATO, sistemi di difesa
aerea, carri armati e altro ancora; anche se distrutta e catturata dalle forze
russe nella regione di Kursk.
Le
forze di Kiev, di circa 11.600 uomini, sotto la guida delle truppe della NATO,
non sono riuscite a conquistare la città di Kurchatov e la sua centrale
nucleare.
A
quanto pare, il presidente Zelenskyj ha utilizzato tutte le truppe rimanenti di
Kiev, oltre alle forze extra polacche (NATO).
Le
perdite di Kiev sono più di 2.000.
Il
generale” Allaudin” prevede inoltre che l'operazione speciale di Kiev si
concluderà entro la fine del 2024, con una vittoria totale dell'esercito russo
e la resa del regime di Kiev e dei suoi padroni a Washington e Londra. (Borzzikman 15 agosto 2024)
Resta
da vedere se la resa da parte dell'Occidente avverrà davvero.
Non è un'abitudine dell'Occidente, anche in
condizioni terminali, perdere la faccia – quindi, ulteriori aggressioni, forse
di un attacco diretto della NATO alla Russia, è una possibilità.
A
questo punto, il presidente Putin si rifiuta ancora di dichiarare guerra, anche
se il territorio della Russia è stato invaso e i russi sono stati uccisi sul
loro territorio dalle forze della NATO.
Potrebbero
essere pianificati attacchi più diretti della NATO.
Per
ora, Washington la sta facendo franca con un "omicidio";
letteralmente.
Passo
dopo passo, Washington e i suoi partner della NATO hanno attraversato una linea
rossa dopo l'altra.
In
primo luogo, le armi della NATO in Ucraina;
poi
truppe NATO in Ucraina;
poi la
caccia all'F-16 in Ucraina;
poi i
soldati della NATO che comandano le sofisticate armi fornite dall'Occidente;
poi le
truppe della NATO sui territori russi; poi i droni e gli aerei della NATO che
attaccano obiettivi russi sul territorio russo – e infine le truppe della NATO
che tentano di prendere il controllo di un intero distretto russo, prendendo
prigionieri russi, uccidendo russi.
Gli
aeroporti di tutta la Russia sono stati costantemente bombardati per diverse
settimane dai droni della NATO.
Il 9
agosto 2024, i media statali russi hanno riferito di un'esplosione, seguita da
un incendio nella base aerea russa nella regione di” Lipetsk”, a circa 280
chilometri dal confine con l'Ucraina nord-orientale, come se le forze
ucraine/NATO hanno attaccato l'aeroporto e distrutto un magazzino e diverse
altre strutture con bombe aeree guidate; guidati da esperti della NATO.
Alcuni
ipotizzano che Kiev/la NATO possano aver utilizzato una piccola arma tattica
nucleare.
Non ci sono, tuttavia, provano di una storia
di aggressione e la Russia rimane in silenzio.
Secondo
l'esercito russo, la loro offensiva (russa) ha coinvolto circa 1.000 soldati e
più di due dozzine di veicoli blindati e carri armati.
L'esercito
russo avanza costantemente nel Donbass, difendendo la popolazione di lingua
russa dai vigliacchi attacchi azov-nazisti che hanno ucciso negli ultimi 10
anni circa 18.000 persone, la maggior parte delle quali donne e bambini.
La
Russia, sul suo territorio, riceve colpi pesanti e dolorosi dalle armi della
NATO. La NATO è ovunque, con le comunicazioni, la logistica e il comando della
NATO.
Oltre
35 paesi stanno investendo centinaia di miliardi di dollari dei contribuenti
per fornire all'Ucraina armi per effettuare questi attacchi mortali contro la
Russia – sul territorio russo, con i soldati della NATO, che l'Occidente ama
chiamare "mercenari stranieri".
Circa
80 anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando la Russia sconfisse la Germania
nazista, i carri armati tedeschi – dati all'Ucraina – come 80 anni dopo la
Seconda Guerra Mondiale, quando la Russia sconfisse la Germania nazista, i
carri armati tedeschi – dati all'Ucraina
Ma il
fascismo oggi ticchetta ed è ben vivo, ricordando i tempi degli anni '40.
Putin
è stato irremovibile nello sradicare il nazismo in Ucraina, rendendo l'Ucraina
un paese neutrale e libero dalla NATO, una condizione chiave per i negoziati di
pace.
La
NATO sta tentando di creare gradualmente brigate nell'Europa orientale, con
l'obiettivo di affrontare la Russia.
È un
gioco di osservazione, " fin dove possiamo arrivare ", osservando
attentamente la reazione della Russia.
Le
difficoltà che potrebbero avere, sono quelle di dotare le brigate di soldati,
poiché i giovani europei non sono disposti a morire per i guerrafondai
occidentali e per i profitti delle industrie belliche occidentali.
Secondo
“Megatron”, è molto probabile che la NATO intenda invadere la Bielorussia.
Putin
e i suoi consiglieri hanno calcolato male l'audacia della NATO, sperando di non
passare dall'Ucraina ai territori russi, per evitare un'ulteriore escalation?
E ora
che tutte le linee rosse sono state superate, e più di una volta?
In una
recente dichiarazione, l'ex presidente russo Dmitry Medvedev ha affermato che
la Russia non dovrebbe più tirarsi indietro:
"Da
questo momento, l'operazione militare speciale [di Kiev] dovrebbe diventare
apertamente di natura extraterritoriale", ha sostenuto Medvedev, che
ricopre il ruolo di vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, in un post
giovedì.
"Possiamo
e dovremmo andare oltre ciò che esiste ancora come Ucraina. A Odessa, Kharkov,
Dnepropetrovsk, Nikolaev. A Kiev è oltre. Non dovrebbero esserci restrizioni in
termini di confini riconosciuti".
Se il
presidente Putin sta aspettando ancora più aggressioni occidentali / NATO sul
territorio russo, può darsi che abbia in serbo una risposta forte, che non può
essere accusata come risposta a una "false flag", perché ciò che Kiev
e la NATO stanno facendo sui territori russi non è chiaramente una "false
flag", ma pura provocazione.
La
Russia ha la capacità militare di spazzare via contemporaneamente i centri
decisionali e militari occidentali, così come i centri finanziari, con armi
nucleari tattiche ultra-precise e supersoniche, mantenendo la perdita di vite
umane al minimo, ma disabilitando le strutture di potere occidentali.
(Peter
Koenig).
La
"governance globale" e l'adozione
del
controverso "Patto per il futuro."
Globalresearch.ca
- Jacob Nordangard – (05 settembre 2024) – ci dice:
(Le
cronache di Pharos – Jacob Nordangård, PhD).
Si
svolgerà 33 anni dopo la pubblicazione dello scioccante documento
"Iniziativa per la Carta della Terra Eco-92".
Il
documento ha inquietanti somiglianze con le recenti "azioni di governance
ambientale raccomandate" dalla Global Challenges Foundation.
La
terza revisione del Patto per il Futuro è stata pubblicata il 27 agosto.
È ora
sotto procedura tacita fino al 3 settembre.
Se
nessuno si opponga, sarà accettato. Il Patto, la cui adozione è prevista per
domenica 22 settembre in occasione del Vertice del futuro, afferma in modo
drammatico che:
Siamo
in un momento di profonda trasformazione globale.
Ci
troviamo di fronte a crescenti rischi catastrofici ed esistenziali, molti dei
quali causa dalle scelte che facciamo.
Gli altri esseri umani stanno sopportando
terribili sofferenze.
Se non cambiamo rotta, rischiamo di
precipitare in un futuro di crisi e collasso persistenti.
Secondo
le Nazioni Unite, il sistema di governance globale deve essere aggiornato per
salvaguardare gli interessi delle generazioni presenti e future ed essere in
grado di gestire shock globali complessi.
Per
una strana coincidenza, l'adozione avverrà esattamente 33 anni dopo che un
documento inquietante è stato distribuito in una conferenza a “Des Moines “dall'Associazione
delle Nazioni Unite” dell'Iowa, in preparazione della conferenza ambientale delle Nazioni
Unite a Rio de Janeiro nel 1992.
Il
documento, chiamato "The Initiative for Eco-92 Earth Charter" dal Segretariato per l”'Ordine Mondiale dei Cobden Clubs” , affermava che il tempo stringeva,
e diceva senza mezzi termini che non erano stati fatti progressi sufficienti
nella riduzione della popolazione.
Ciò ha
richiesto un'azione immediata e decisiva:
Il “Consiglio
di Sicurezza dell'ONU,” guidato dalle “Grandi Potenze Nazionali anglosassoni”,
decreterà che d'ora in poi il Consiglio di Sicurezza informerà tutte le nazioni
che la sua sofferenza sulla popolazione è cessata, che tutte le nazioni hanno
citato di RIDUZIONE su base annua , che saranno applicati dal Consiglio di
Sicurezza mediante embargo selettivo o totale del credito, articoli di
commercio, tra cui cibo e medicine, o con la forza militare, quando necessario.
Il “Consiglio
di Sicurezza dell'ONU” informerà tutte le nazioni che le nozioni antiquate di
sovranità nazionale saranno scartate e che il Consiglio di Sicurezza ha
completa giurisdizione legale, militare ed economica in qualsiasi regione del
mondo.
Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU si impossesserà di tutte le risorse
naturali, compresi i bacini idrografici e le grandi foreste, da utilizzare e
preservare per il bene delle Grandi Nazioni del Consiglio di Sicurezza.
Il
Consiglio di Sicurezza dell'ONU spiegherà che non tutte le razze e i popoli
sono uguali, né dovrebbero esserlo.
Quelle
razze che si sono dimostrate superiori grazie a risultati superiori dovrebbero
governare le razze inferiori, prendendosi cura di loro con la sofferenza che
collaborano con il Consiglio di Sicurezza.
Il
processo decisionale, compresi i piani bancari, commerciali, valutari e di
sviluppo economico, sarà preso sotto la guida delle principali nazioni.
Il
documento è stato rivelato dal consulente aziendale “George W. Hunt “£, la cui
compagnia è riuscita ad entrare in un incontro privato (non consentito al
pubblico) con gli addetti ai lavori alla conferenza e a portare con sé il
documento.
Secondo
Hunt, il Cobden Clubs era un think tank che promuoveva il "sistema di
razza anglosassone" britannico.
Sebbene
Hunt abbia detto di non sapere se il documento fosse vero o uno scherzo, le
dichiarazioni hanno alcune inquietanti somiglianze con le recenti "azioni
di governance ambientale raccomandate" per il Summit of the Future dalla Global
Challenges Foundation , dal Potsdam Institute for Climate Impact Research e
dall'Università delle Nazioni Unite .
Considerando
che la popolazione mondiale è passata da 5,4 miliardi a 8,2 miliardi dal 1991,
le soluzioni più severe sono state riproposte sul tavolo.
Per
ovvie ragioni, la loro proposta congiunta viene spogliata del linguaggio rozzo
e inquietante dei “Cobden Club” e parla invece di "proteggere"
l'umanità dal superamento di "pericolosi punti di non ritorno"
espandendo il concetto di "beni comuni globali" per includere tutti i
sistemi di supporto alla vita – "l'atmosfera (aria), l'idrosfera (acqua),
la biosfera (vita), la litosfera (terra) e la criosfera (ghiaccio)" – e
propone che questi "dovrebbero essere gestiti collettivamente: "
La
governance dei beni comuni planetari richiederebbe un passaggio dagli attuali
approcci nazionalistici e a compartimenti stagni alla protezione dell'ambiente,
riconoscendo il fatto fondamentale che il nostro pianeta è composto da sistemi
interconnessi e interdipendenti.
Invece di un sistema frammentato e basato su
trattati, l'approccio dei beni comuni planetari propone una struttura di
governance "nidificata" che coinvolge più livelli di regolamentazione
che attuano risposte locali altamente personalizzate, il tutto supervisionato
da un organo di governance globale.
Sembra
proprio una cattura di tutte le risorse del mondo! Come ho scritto in un precedente
articolo, la
“Global Challenges Foundation” è stata fondata dal finanziere miliardario “László
Szombatfalvy” con l'obiettivo di sviluppare "modelli decisionali globali
migliorati".
E se –
John Lennon fosse stato l'ultimo visionario che ha predetto i tempi della
globalizzazione e la dottrina del globalismo, Szombatfalvy scrisse articoli di
opinione insieme al presidente del “Club di Roma Anders Wijkman” sul
"problema della popolazione", e donò denaro al Progetto
Sovrappopolazione”, con il suo motto:
"Troppe
persone che consumano troppo".
Una
delle loro soluzioni prescritte era:
Creare
un “nuovo trattato globale” per porre fine alla crescita demografica, con tutti
i paesi che scelgono obiettivi demografici ogni mezzo decennio con un piano su
come raggiungerli.
Ciò
significa che Szombatfalvy condivideva essenzialmente la stessa visione del
mondo malthusiana dei "British Race Patriots" e degli "sponsor
viventi della volontà del grande Cecil Rhodes", che affermava di essere
l'autore del documento "The Initiative for Eco-92 Earth Charter" e
che chiedeva un Nuovo Ordine Mondiale, in cui "tutte le nazioni, regioni e
razze coopereranno con le decisioni delle principali nazioni del Consiglio di
Sicurezza".
Va
notato che il “Royal Institute of International Affairs” (Chatham House) nel
Regno Unito e il suo ramo americano “Council on Foreign Relations” (CFR) sono
stati lanciati come organizzazioni di facciata del “Round Table Movement “, che
era stato creato per portare avanti la volontà dell “imperialista britannico
Cecil Rhodes” di federare il mondo anglofono e promuovere i valori dell'élite
britannica.
Questo è stato successivamente ampliato fino all'obiettivo di una federazione
mondiale di tutte le nazioni della Terra.
Come
ha scritto “Carroll Quigley “, storico del CFR e professore alla “Georgetown
Universit”y, in “Tragedy and Hope” :
Gli
scopi principali di questa elaborata organizzazione semi-segreta erano in gran
parte lodevoli:
coordinare
le attività internazionali e le prospettive di tutto il mondo di lingua inglese
in un unico (che sarebbe stato in gran parte, è vero, quello del gruppo di
Londra) ;
lavorare
per mantenere il ritmo; aiutare le aree arretrate, coloniali e sottosviluppate
a progredire verso la stabilità, la legge e l'ordine e la prosperità lungo
linee in qualche modo simili a quelle insegnate a Oxford e all'Università di
Londra.
“Quigley”
considerava
questi uomini come "gentiluomini gentili e colti con un'esperienza sociale
piuttosto limitata che erano molto preoccupati per la libertà di espressione
delle minoranze e lo stato di diritto per tutti", ma obiettava sui loro desideri di
rimanere sconosciuti e su alcuni dei loro metodi.
Lo “Stimson
Center”, che insieme alla “Global Challenges Foundation” è stato il principale
coordinatore durante i preparativi per il” Summit of the Future”, è stato
fondato dai “membri del CFR Barry Blechman e Michael Krepon”, e prende il nome dal membro
"quintessenziale" del CFR Henry Stimson, Segretario alla Guerra degli
Stati Uniti dal 1940 al 1945.
Stimson
era un avvocato presso” JP Morgan, la potente dinastia bancaria che è stata la
forza principale dietro il “CFR” nei suoi anni di fondazione.
Il CFR
, presieduto da David Rockefeller dal 1970 al 1985, è anche strettamente
correlato al “think tank Trilateral Commission” fondato da Rockefeller.
Ogni
presidente del CFR da David è stato membro del “TriCom”.
L'attuale
presidente del CFR,”Gruppo Carlyle”.
Il
Quarto Congresso sulla Natura Selvaggia.
George
W. Hunt, volontario al” Fourth World Wilderness Congress” in Colorado nel 1987, rimase scioccato da ciò che vide e
udì alla conferenza e cominciò a mettere in guardia contro una completa
acquisizione del mondo attraverso il pretesto della protezione ambientale.
Tra i
partecipanti che “Hunt” ebbe la sorpresa di incontrare c'erano i membri della “Commissione
Trilaterale “David Rockefeller”, “Edmond de Rothschild”, William Ruckelshaus ,
Maurice Strong , il presidente del FMI “Michel Camdessus “, il presidente della
“Banca Mondiale” “Barber B. Conable Jr.” e il segretario generale della “Commissione
Brundtland” “Jim Mac Neill”.
Le
discussioni durante la conferenza hanno rivelato alcune opinioni ciniche e
fredde.
Il banchiere d'investimento canadese “David
Lank “ha affermato durante una delle sessioni:
Suggerisco
quindi che questo non venga venduto attraverso un processo democratico, che
richiederà troppo tempo e divorerà troppi fondi per educare la carne da
cannone, purtroppo, che popola la terra.
David
Rockefeller ha scritto nel libro della “conferenza For the” Conservation of
Earth” che:
Attribuire
tutta la colpa di un comportamento ambientale inaccettabile
all'industrializzazione o alle grandi aziende, tuttavia, è chiaramente
grossolanamente impreciso.
Gran
parte della devastazione dell'ambiente mondiale, specialmente nel mondo di
oggi, è dovuta a individui che sono privati di potere e che sono intrappolati
in una povertà opprimente.
La
deforestazione, ad esempio, è spesso più il prodotto di azioni intraprese per
disperazione dai poveri piuttosto che attraverso lo sfruttamento irresponsabile
da parte dei giganti industriali.
Circa
il 70% della popolazione mondiale in rapida crescita si affida attualmente alla
legna per l'energia per cucinare e riscaldarsi.
Le
conseguenze di questo fatto sono a dir poco disastrose.
La
super classe ultra-ricca sembra mostrare un profondo disprezzo per i poveri e
vuole privarli del diritto di utilizzare le risorse del mondo.
Non sono inclusi nel gioco.
Sono
invece incolpati per i mali del mondo e ritratti come il nemico inquinante
della Terra che emette carbonio.
Hanno
quindi bisogno di essere governati dai "re filosofi illuminati" e di
servire come sudditi nell'utopia sostenibile immaginata dalle élite.
Sono
le "pratiche commerciali sostenibili" degli ultra-ricchi, come
delineato nel rapporto della “Commissione Trilaterale Oltre l'interdipendenza”:
“l'intreccio
tra l'economia mondiale e l'ecologia della Terra", che salveranno il mondo
dalla distruzione ambientale dei poveri e dalla caccia illegale alla fauna
selvatica.
Il
primo “World Wilderness Congress” è stato ospitato dal Sudafrica nel 1977 con
il banchiere franco-svizzero “Edmond de Rothschild” e l'ambientalista sud africano
Ian Player nei ruoli di primo piano.
Il
giocatore ha ricevuto l'Ordine dell'Arca d'Oro dal principe Bernardo dei Paesi
Bassi nel 1981.
La
controversa scelta della location non fu probabilmente una coincidenza, dato
che “Cecil Rhodes”, con il sostegno di Rothschild & Co, creò il monopolio
del commercio mondiale dei diamanti attraverso la società sudafricana di
diamanti” De Beers”.
Come
primo ministro della Colonia del Capo, Rhodes espropriò le terre agli africani
neri e istigò la colonizzazione dell'area in seguito chiamata Rhodesia (ora
Zimbabwe).
Usò quindi la sua grande fortuna per fondare
una "Società Segreta, il cui vero scopo e oggetto sarà l'estensione del
dominio britannico in tutto il mondo", con l'obiettivo finale di gettare
"le fondamenta di una potenza così grande da rendere impossibile" le
guerre e promuovere i migliori interessi dell'umanità".
(Jacob
Nordangard).
Furia
Distruttrice
di
Israele Senza Fine!
Conoscenzealconfine.it – (8 Settembre 2024) -
Alessandro Ferretti – ci dice:
Cisgiordania
allo stremo e attacchi agli operatori umanitari.
L’esercito
israeliano, mentre continua incessantemente i bombardamenti su quel che resta
di Gaza, sta distruggendo ogni infrastruttura in Cisgiordania, con l’intento
sempre più evidente di rendere inabitabile ai palestinesi l’intera area.
E il
sistema mediatico sistematicamente nasconde tutto ciò.
La
situazione a “Jenin” è gravissima: i residenti del campo profughi sono senza
accesso a cibo, acqua ed elettricità, mentre le forze israeliane ostacolano
l’arrivo di aiuti umanitari e bloccano le ambulanze, mettendo in pericolo la
vita dei feriti. Almeno 24 palestinesi sono stati uccisi durante questo
assalto, con molti altri feriti o detenuti.
Le
autorità israeliane hanno anche distrutto gran parte delle infrastrutture
cittadine:
il 70%
delle strade e il 20% delle reti idriche e fognarie sono state demolite,
lasciando l’80% del campo profughi senza acqua potabile.
L’assedio
di “Jenin” fa parte di una più ampia campagna militare israeliana in
Cisgiordania, parallela all’intensificazione dei bombardamenti su Gaza, che
hanno già causato oltre 40.000 morti tra i palestinesi.
Secondo
“Kenneth Roth”, ex direttore di “Human Rights Watch”, “Israele sta trasformando
la sua campagna militare in una vera e propria guerra contro la popolazione
civile, impedendo l’accesso a beni di prima necessità e servizi medici, il che
rappresenta un chiaro crimine di guerra.”
Insomma,
una pulizia etnica in piena regola.
Ma
l’Occidente non muove un dito, anzi, con i propri media copre tutto questo,
quando non lo sostiene apertamente.
L’Attacco
ai Convogli Umanitari.
Sabato
scorso Israele ha bombardato il camion guida di un convoglio di aiuti
umanitari, pienamente segnalato e concordato, ammazzando così cinque persone
che stavano portando carburante e medicine all’ospedale di Rafah.
L’attacco
è avvenuto in pieno giorno e l’esercito israeliano ha tranquillamente ammesso
la responsabilità diramando una spiegazione che definire “lunare” è riduttivo:
hanno
detto che “un gruppo di uomini armati” aveva preso il controllo del camion e
che “l’attacco ha rimosso la minaccia che prendesse il controllo dell’intero
convoglio”.
Assolutamente
nulla di tutto ciò si è mai verificato, come afferma con forza l’”ONG Anera”
che gestiva il convoglio, e viene da domandarsi come sia possibile che
l’ipertecnologico esercito di Israele veda un assalto armato dove non ce n’è
stata alcuna traccia.
Peraltro,
il convoglio era in continuo contatto con l’esercito israeliano al quale
sarebbe bastato parlare con i responsabili per capire immediatamente la
situazione.
Ma la
telefonata non c’è stata perché sono tutte balle in libertà:
come ricorda il” Financial Times”, questo è il
quarto attacco israeliano a convogli e operatori umanitari a Gaza nel giro di
una settimana, ed avviene giusto il giorno dopo l’attacco israeliano contro
un’auto delle Nazioni Unite, anch’essa notificata, segnalata e autorizzata.
Dieci colpi di mitra tutti contro i
finestrini, fortunatamente antiproiettile e che hanno retto i colpi.
Qui
neanche i più biechi apologeti del massacro possono trovare scuse:
quattro
attacchi ad operatori umanitari nel giro di una settimana non avvengono per
sbaglio, avvengono perché l’obiettivo di Israele sono proprio gli operatori
umanitari che ostacolano il progetto di far morire di fame, sete, ferite,
malattie e dolore il più grande numero possibile di palestinesi che si ostinano
a non farsi rubare la loro terra.
(Alesssandro
Ferretti)
(kulturjam.it/in-evidenza/furia-distruttrice-di-israele-senza-fine-cisgiordania-allo-stremo-e-attacchi-agli-operatori-umanitari/)
Ce
n’era un Gran Bisogno.
Conoscenzealconfine.it
– (9 Settembre 2024) - Lorenzo Merlo – ci dice:
Considerazioni
su chi comanda il mondo.
In un
blog leggo: “Ce n’era un gran bisogno”.
Era il
commento di un noto economista italiano in merito a ciò che aveva scritto
un’altra persona, da lui definita “antisistema”.
Si
tratta della medesima persona, dottore, professore e chissà quant’altro, alla
quale a suo tempo avevo chiesto se, a suo parere, il capitalismo era la miglior
forma economica disponibile.
Senza
incertezza, né timore, aveva risposto affermativamente.
E
tutte le sue manchevolezze? Avevo ribattuto.
Non
c’è problema, per quelle, occorrono gli aggiustamenti necessari, aveva
concluso.
Dall’origine
del capitalismo, la ricchezza si è accentrata nelle tasche di pochi, le spese a
suo sostegno si sono distribuite tra i più.
A parte la prima fase, ancora – per modo di dire – a
sfondo familiare e, in qualche misura, leale, in cui il profitto non
prevaricava la dimensione umana (tralasciamo sulle giornate di 12 e più ore di
lavoro e le condizioni generali della classe operaia. Non eravamo già nel
miglior sistema sociale possibile?), il sistema capitalistico, non ha che
degradato il mondo, la cultura umanistica, il senso spirituale e quello etico.
Non ha distribuito che scorie e alienazioni,
nonché legittimato la violenza. L’assenza di un’etica a che altro porta?
Non ha
che depredato la terra e gli uomini.
In
questa fase contemporanea, detta del capitalismo finanziario, ha lasciato alla
concreta produzione e relativa – risicata – distribuzione della ricchezza
soltanto la facciata, almeno per chi crede nelle favole.
Denaro, lavoro e uomini sono mutati in
personaggi di un racconto che i media, estensioni funzionali, strutturali e
sostanziali del sistema capitalistico, spacciano agli ingenui che credono di
vivere in una democrazia, che credono che il loro voto abbia un peso.
Quale democrazia è possibile se la prima legge
è quella del mercato?
Se chi
l’ha imposta e alimentata ora deve difendere la ricchezza accumulata?
E per
farlo distribuisce guerre come autolegittimato strumento per mantenere la pace?
O ho
capito male, egregio professore?
I
potentati del capitalismo hanno talmente tanto denaro da poter possedere tutto.
Si sono comprati la politica, se volessero – e di fatto lo stanno facendo – si
potrebbero comprare interi stati, potrebbero avere il loro esercito e, nel
caso, lo avranno, quando non riusciranno più ad impiegare quello apparentemente
di altri.
Che
pecette possiamo porre a tutto ciò egregio dottore?
Ora
che Russia, Cina, India, Pakistan, eccetera, da terzo mondo, sono divenuti
concorrenti dai quali guardarsi, il capitalismo occidentale, dai costi
esorbitanti rispetto a quello dei dirimpettai d’oriente, ha inscenato – sempre
per il bene comune – il Great Reset.
Un
progetto imposto dagli esponenti intoccabili di una piccola parte della
popolazione del mondo, che ha come fine primo proprio quello della riduzione dei
costi di autosostentamento del capitalismo, al fine di far fronte a quello
dell’est, di mantenere l’egemonia o il controllo del mondo, o di non sopperire.
A tal
fine si rende necessario evitare di spendere sui servizi sociali
(privatizzazioni), ridurre il costo delle pensioni (abbandono degli anziani e
innalzamento dell’età pensionabile), quello del lavoro (precariato e
immigrazione disposta a tutto pur di restare nel – secondo loro – paese del
bengodi), e puntare alla censura ormai a scena aperta, alla salarizzazione dei
giornalisti, alla realizzazione del mondo orwelliano a suon di spot h24 per
vendere un mondo al rovescio.
E, per
ora, ci sono riusciti.
Risparmi
necessari ad implementare tutta la tecnologia (dipendenza e controllo), le
forze armate (meno scuole, ospedali, servizi, manutenzione infrastrutture
sociali), riduzione e controllo della popolazione mondiale, la cui quantità
tende ad essere ingestibile, se non con la semina di paure, bisogni, vita a
punti, obbedienze e zelanti devozioni;
la cui complessità tende a generare
autocombustioni (leggi mancanza di rispetto nei confronti del sistema) improvvise.
Suicidi,
omicidi, rivolte, stragi, violenza, malessere esistenziale, nichilismo sono il
prodotto del “miglior sistema del mondo”.
Quello
che, per chi non se ne è ancora accorto, va avanti sull’inerzia ben pasturata
del consumismo di futilità e sulla fertile terra delle guerre, prima campi di
battaglia, cioè rivendite di armi, poi campi di cemento, cioè ricostruzione,
quindi campi di controllo ed espansione a est.
Fortunatamente,
sempre nello stesso blog, ma da parte di una persona di tutt’altra stirpe
rispetto al nostro noto economista progressista, si legge:
“Negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta molto
spesso bastava una sola persona per mantenere una famiglia.
Ora ne servono quasi sempre due, sottopagate”.
Per
tacere sul fallimento dell’Unione Europea, nient’altro che il figlio dannato di
genitori materialisti, scientisti, capitalisti.
Esimio
dottore, al contrario di quanto affermi, è proprio di te e di quelli come te
che non se ne sentiva il bisogno.
Quelli
che siccome hanno in casa il frigorifero, la lavatrice, l’utilitaria per tutti
e l’ospedale con la risonanza magnetica, inconsapevoli adulatori della tua
stessa fede e ideologia, ti rispondono vai n Cina allora.
O in
Russia, adesso.
Grazie a questi, la curva umanistica della
vita, non ha fatto che scendere.
Molto
si poteva fare ma l’opulenza e l’edonismo, due carte del mazzo capitalista,
hanno imbambolato il senso comune e l’individualismo, un’altra sua carta, l’ha
annientato.
Ora
stiamo precipitando tutti, anche quelli abbracciati al televisore, alla
villetta e alla poltrona.
E anche loro, progressisti in testa, e i loro
sodali in cima alla piramide.
Molti
di questi ultimi cadranno in piedi.
E con
bel sorriso imbonitore e modi gentili, dopo aver abbruttito e svenduto valli,
coste e pianure, venderanno tutto ciò che resta loro ai musi gialli – business
is business – in cambio di qualche cammello battriano sul quale saranno
comunque ancora in sella, galoppini del nuovo padrone.
Ce
n’era un gran bisogno.
(Lorenzo
Merlo)
Il
negazionismo non negazionista
dell'Olocausto
di Tucker Carlson.
Unz.com - Thomas Dalton – (6 settembre 2024)
ci dice:
Bene,
la lobby ebraica è di nuovo all'opera.
Nell'ultimo putiferio sulla "negazione
dell'Olocausto", gli ebrei e i loro sicofanti sono in subbuglio per
un'“intervista podcast” andata in onda il 2 settembre in cui “Tucker Carlson”
ha parlato a lungo con uno "storico popolare" di nome “Darryl
Cooper”.
L'episodio
di due ore è intitolato "La vera storia del culto di “Jones Town”, della
seconda guerra mondiale e di come Winston Churchill ha rovinato l'Europa",
un po' esagerato per un singolo spettacolo, ma con il tema centrale che la
storia convenzionale o ortodossa è spesso sbagliata su eventi piccoli e grandi,
e quindi spesso ha bisogno di revisione.
La
storia non è scritta solo dai vincitori, ma è sostenuta da potenti lobby che
hanno un interesse personale in una certa interpretazione degli eventi passati.
Questo
è così ovvio che non c'è quasi bisogno di menzionarlo.
Eppure,
quando si tratta della Seconda Guerra Mondiale e in particolare dell'Olocausto,
tutte le regole vanno fuori dalla finestra.
I
"vincitori" non possono essere nominati;
Non
sono ammesse interpretazioni alternative;
e il
revisionismo è dichiarato un crimine.
Nell'intervista,
Cooper offre la più mite delle dichiarazioni riguardo ai suoi pensieri sulla
Seconda Guerra Mondiale e su ciò che è accaduto ai "civili e ai
prigionieri di guerra" in quel momento.
Due
punti sembravano aver suscitato la più grande ira:
che
Churchill, non Hitler, fosse il vero cattivo della guerra;
e che i milioni di persone che morirono –
intendendo milioni di ebrei – furono, in effetti, vittime accidentali piuttosto
che bersagli di un genocidio premeditato e pianificato.
I nostri guardiani culturali sono sconvolti
dal primo punto, ma veramente infuriati dal secondo.
L'orrore
di affermare tali opinioni è stato troppo sia per i nostri media ebraici che
per il nostro regime di Biden di ispirazione ebraica.
I
titoli sono allarmanti: " Tucker Carlson critico per aver ospitato un
revisionista dell'Olocausto " (NYT);
"
Tucker Carlson dà il benvenuto a un'apologeta di Hitler nel suo spettacolo
" (NYT, Michelle Goldberg);
"
La Casa Bianca condanna l'intervista di Tucker Carlson alla 'propaganda
nazista' come 'insulto disgustoso e sadico'" (CNN);
Tucker Carlson è stato fatto saltare in aria
per un'intervista con un revisionista dell'Olocausto " (The Hill).
La CNN
riferisce che l'amministrazione Biden ha preso l'insolita decisione di
"denunciare Tucker Carlson" e il suo ospite.
Il
vice segretario stampa “Andrew Bates” ha rilasciato una dichiarazione formale,
non solo definendo l'intervista "un insulto disgustoso e sadico a tutti
gli americani", ma anche condannando Carlson per "aver dato un
microfono a un negazionista dell'Olocausto che diffonde propaganda nazista
".
La
principale preoccupazione di Bates sembra essere per "gli oltre 6 milioni
di ebrei che sono stati assassinati per il genocidio di Adolf Hitler".
"Hitler
è stata una delle figure più malvagie della storia umana", ci assicura “Bates,
"punto e basta".
Certamente non è consentito alcun revisionismo
in questa nazione più "amante della libertà".
L'intero
incidente merita una certa riflessione.
Permettetemi
di iniziare con ciò che ha detto esattamente Cooper.
Ecco le dichiarazioni rilevanti (dalle 46:30
alle 49:00):
Quando
[i tedeschi] andarono all'Est, nel 1941, lanciarono una guerra in cui erano
completamente impreparati ad affrontare i milioni e milioni di prigionieri di
guerra, i prigionieri politici locali, e così via, che avrebbero dovuto
gestire.
Sono
entrati senza alcun piano per questo.
E
hanno semplicemente gettato queste persone nei campi e milioni di persone sono
finite morte lì.
Già
nel luglio, nell'agosto del 1941 ci sono lettere dei comandanti di questi campi
di fortuna che stanno allestendo per questi milioni di persone che si arrendono
o che stanno radunando.
E sono
passati due mesi dal lancio dell'Operazione Barbarossa a giugno, e stanno
scrivendo all'alto comando di Berlino dicendo:
"Non possiamo sfamare questa
gente..."
E uno
di loro in realtà dice: "Piuttosto che aspettare che muoiano tutti
Lentamente di fama quest'inverno, non sarebbe più umano finirli in fretta
ora?"
Alla
fine della giornata, [Hitler] lanciò quella guerra [contro l'URSS] senza alcun
piano per prendersi cura dei milioni e milioni di civili e prigionieri di
guerra che sarebbero finiti sotto il [suo] controllo.
E milioni di persone sono morte a causa di
questo.
Per
valutare ciò che Cooper sta dicendo qui, dobbiamo ricordare a noi stessi i
fatti fondamentali:
Hitler lanciò la sua guerra contro la Polonia
all'inizio di settembre del 1939.
Sulla base di un patto di non aggressione
reciproca, Stalin attaccò la Polonia da est due settimane dopo, e le due grandi
potenze divisero rapidamente la Polonia a metà.
L'Inghilterra
e la Francia dichiararono guerra alla Germania, non viceversa (aspettate, chi
era di nuovo l'aggressore?), e così Hitler fu costretto a dirigere i suoi
sforzi militari verso ovest.
Non ha mai voluto una guerra a ovest e, come
spiega Cooper, Hitler cercò spesso di fare la pace con Chamberlain (non ancora
Churchill).
Chamberlain cercò un compromesso, ma il resto
del suo governo diviso, incluso Churchill, preferì continuare una guerra che
non erano in grado di combattere.
La
Germania invase i Paesi Bassi nel maggio 1940, Chamberlain si dimise e
Churchill fu elevato a primo ministro.
Per
tutta la seconda metà del 1940 e nella prima metà del 1941, Hitler continuò la
sua impressionante serie di vittorie.
La
Francia era quasi sconfitta e l'Inghilterra era agli sgoccioli.
Poi,
improvvisamente, il 22 giugno 1941, Hitler ruppe il suo patto con Stalin e
invase l'Unione Sovietica ("Operazione Barbarossa").
Questa,
dice Cooper, fu la guerra in cui la Germania era impreparata a gestire
"milioni" di prigionieri.
E
infatti, più di 3 milioni di prigionieri di guerra sovietici passarono sotto il
controllo della Germania entro la fine del 1941, molti dei quali si arresero o
disertarono.
Inizialmente furono ospitati nei quasi 100
campi ad hoc istituiti nella Russia controllata dai tedeschi, e le condizioni
erano davvero orribili, come suggerisce Cooper.
Più di
500.000 prigionieri di guerra sovietici morivano ogni mese:
circa
due milioni di morti alla fine del 1941.
Per
quanto ne sappiamo, questo non era pianificato;
i
tedeschi erano troppo occupati a combattere al fronte per prendersi cura dei
loro 3 milioni di prigionieri appena catturati.
In
effetti semplicemente "sono finiti morti", come dice Cooper.
In
particolare, da nessuna parte Cooper parla dei prigionieri ebrei.
L'intera
discussione è incentrata sui prigionieri di guerra sovietici e su altri
prigionieri politici, di cui c'erano relativamente pochi ebrei.
Gli
ebrei hanno pagato un prezzo durante il Barbarossa, ma è stato perché erano
combattenti partigiani: attaccavano le truppe tedesche da dietro le linee del
fronte.
Secondo
le regole internazionali della guerra, i partigiani devono essere trattati allo
stesso modo dei soldati, il che significa che potrebbero essere catturati o
uccisi.
E i tedeschi preferirono uccidere i
partigiani; questo era logico, dati i loro campi di prigionia ad hoc già
sovraffollati.
Questo
ha portato al vero inizio dell'"Olocausto", se vogliamo chiamarlo
così. Migliaia di ebrei partigiani furono fucilati sul fronte orientale, forse
30.000 o 40.000 nel 1941, sulla base di tempi ragionevoli (certamente non i
400.000 o 500.000 che i nostri storici ortodossi vorrebbero farci credere).
Ma
Cooper non stava discutendo di queste morti.
Anche
gli ebrei morirono nei ghetti nel 1941, forse altri 40.000 o 50.000, la maggior
parte per cause naturali (vecchiaia, malattia, incidente, suicidio).
E
precisamente zero ebrei morirono nelle "camere a gas omicide" o nei
"campi di sterminio" nel 1941;
nessuno
dei famigerati sei campi – Auschwitz, Belzec, Sobibor, Treblinka, Chełmno e
Majdanek – era operativo quell'anno.
Del
resto, esattamente zero ebrei morirono nelle "camere a gas omicide"
durante l'intera guerra, proprio perché tali cose non esistevano.
Ma né
Carlson né Cooper hanno osato entrare in quel ticket appiccicoso.
Quindi,
in difesa di Cooper (e Carlson), il brano in questione non dice nulla sugli
ebrei e quindi nulla sull'"Olocausto".
Tutto
ciò che Cooper ha detto lì era fattualmente corretto.
Infatti,
nell'intera intervista di oltre due ore, gli ebrei sono stati menzionati solo
una manciata di volte, e l'"Olocausto" nemmeno una volta, che io
ricordi.
Gli
ebrei vanno all'attacco.
Ma non
è così che la vede la nostra lobby ebraica. Ogni riferimento a
"milioni" di morti è, per loro, un riferimento in codice agli ebrei.
Anche
solo parlare di Hitler come di qualcuno che non sia un pazzo comicamente
malvagio significa che sei un simpatizzante nazista, un
"negazionista" (qualunque cosa significhi), o semplicemente
"disgustoso e sadico".
Un
buon esempio della risposta ortodossa assurdamente insulsa si può trovare
nell'editoriale di “Michelle Goldberg” (ebrea) sul New York Times(ebreo) del 6
settembre.
Il
presunto "apologeta di Hitler" Darryl Cooper non è riuscito a seguire
la linea del partito sulla malvagità incondizionata dei nazisti, e quindi la
condanna nei termini più forti, senza nemmeno sapere di cosa sta parlando.
Chiaramente non le piace l'idea che
l'Olocausto sia la nostra attuale "religione di stato" (e lo è), ed è
infuriata quando Cooper menziona giustamente i "fattori emotivi" che
ci impediscono di porre domande difficili.
A
Goldberg, Cooper ci offre solo "formulazioni retoriche intelligenti"
che sono presentate in un "modo pacato, finto-ragionevole".
È così sopraffatta dall'audacia di Carlson e
Cooper che si riduce alla seguente idiozia:
"La
simpatia nazista è il punto di arrivo naturale di una politica basata sul
disinvolto contro arianesimo sulla trasgressione di destra e sul risentimento
etnico".
Questo,
da un giornalista del “New York Times”.
Più
precisamente, nonostante la totale mancanza di menzione dell'Olocausto
nell'intervista,” Goldberg è fissato su questa presunta deduzione.
Lamenta "la svolta di Carlson verso lo
scetticismo sull'Olocausto";
si
preoccupazione per "l'autore caduto in disgrazia e negazionista
dell'Olocausto “David Irving" (come se fosse rilevante qui);
e si
lamenta del fatto che "ci sono pochi troll migliori dei negazionisti
dell'Olocausto".
Quei
negazionisti intelligenti "amano atteggiarsi a ricercatori di verità
eterodosse" ed "eccellono nell'imitare le forme e il linguaggio della
legittima erudizione", quando in realtà il loro livello di erudizione
spesso eguaglia o supera quello dei nostri cosiddetti esperti convenzionali.
I
negazionisti "colpiscono i loro avversari con dettagli storici fuori
contesto e domande in malafede" (Come osano entrare nei dettagli! Come
osano fare domande!).
Alla
fine, "sanno solo usare la rozza provocazione per attirare
l'attenzione", dice l'ebrea in cerca di attenzione.
Uno
dei più grandi timori di Goldberg è che, nel suo universo ideologico
controllato dagli ebrei, la situazione potrebbe essere compromessa.
Si preoccupa della convinzione della destra
che fa la pillola rossa "che tutto ciò che ti è stato detto sulla natura
della realtà è una bugia, e quindi tutto è in palio".
In effetti, molto di ciò che ci è stato detto
dalla nostra ortodossia di ispirazione ebraica è stata una bugia, o una mezza
verità, o altrimenti profondamente ingannevole, e Goldberg teme che sempre più
persone lo stiano capendo.
E ha
ragione a preoccuparsi: un risveglio di massa significherà grossi guai per lei
e i suoi co-etnici.
Infine,
alla fine del suo pezzo, mette il dito su un po' di verità:
"In
definitiva, la negazione dell'Olocausto non riguarda affatto la storia, ma ciò
che è ammissibile nel presente e immaginabile nel futuro".
Hitler e i nazisti devono essere visti
"come la negazione dei nostri valori più profondi", altrimenti saremo
"addolciti" per il fascismo alla Trump.
La
negazione dell'Olocausto, ovvero mettere in discussione a fondo i presupposti
di base di quell'evento, non riguarda davvero la storia semplicemente perché i
revisionisti hanno vinto:
la storia ortodossa delle "camere a gas
omicide", "dei 6 milioni" e il presunto folle complotto
nazionalsocialista per uccidere tutti gli ebrei, sono stati tutti completamente
demoliti.
Gli
storici ortodossi non provano nemmeno più a rispondere ai revisionisti perché
sanno che saranno disonorati.
Invece, loro e i loro potenti sostenitori
ebrei ricorrono alla censura, alla “law fare”, alla calunnia, all'intimidazione
e (in molti paesi) alla prigionia per soffocare il revisionismo.
Tali
cose sono un segno sicuro di sconfitta.
Quanto
alla sua osservazione su ciò che è ammissibile e immaginabile, anche questa è
corretta:
la storia standard dell'Olocausto è la chiave
di volta del potere ebraico odierno negli Stati Uniti e in Occidente;
tutto
si basa sulla nostra colpa collettiva e tutte le atrocità ebraiche/israeliane
sono quindi giustificate.
Il
potere ebraico dichiara attualmente che mettere in discussione l'Olocausto è
inammissibile;
e che
una società in cui Hitler e il nazionalsocialismo sono visti in modo neutrale o
addirittura positivo è non immaginabile.
Ma
questo cambierà presto.
Quando
il revisionismo dell'Olocausto diventerà ammissibile e il nazionalsocialismo
diventerà immaginabile, allora tutto, tutto, cambierà.
Quel giorno non può arrivare abbastanza
presto.
La
grande ironia di tutto questo tanto rumore per nulla è che avrebbe potuto
essere qualcosa:
Carlson
e Cooper avrebbero potuto discutere effettivamente i molti problemi con la
storia dell'Olocausto, e avrebbero potuto effettivamente porre le difficili
domande a cui l'ortodossia non può rispondere.
Avrebbero
potuto esaminare le numerose opere di “German Rudolf “o “Carlo Mattogno”;
avrebbero
potuto esaminare le ragioni per cui le camere a gas omicide erano tecnicamente
impossibili;
avrebbero
potuto spiegare che le migliori prove fino ad oggi suggeriscono che forse
500.000 ebrei sono morti durante la guerra, non 6 milioni.
E
quando tutto questo verrà fuori, Michelle Goldberg e i suoi amici avranno
davvero qualcosa da temere.
(Thomas
Dalton, PhD, è autore o curatore di diversi libri e articoli sulla politica, la
storia e la questione ebraica.)
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