Lasciateci vivere in pace.

 

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Schwab: “l’Era degli Eventi Shock”

Sta Arrivando (Prima delle Elezioni del 2024)!

Conoscenzealconfine.it – (1° Settembre 2024) – Giovanni Frajese – ci dice:

 

Il World Economic Forum di Klaus Schwab ha appena lanciato l’allarme (ci “avvertono”… ):

 in vista delle elezioni statunitensi del 2024 si profila una “era di eventi shock”, mentre l’élite mondiale si prepara a scatenare il caos nella società.

in un articolo distopico (weforum.org/agenda/2024/08/4-global-risks-to-look-out-for-in-the-post-pandemic-era/), il WEF avverte che i cittadini che si recheranno alle urne a novembre dovrebbero aspettarsi “eventi destabilizzanti”, tra cui una “pandemia informatica – intenzionale”, l’emergere di un “nuovo gruppo estremista globale” e disastri climatici accelerati, tra cui un improvviso innalzamento del livello del mare che sommergerà una nazione insulare.

L’élite globalista è disperata perché vuol fare in modo che le elezioni del 2024 vadano a loro favore, mentre continua a tentare di eludere l’azione penale per i crimini contro l’umanità perpetrati nell’era post-pandemica.

 In questo contesto non sorprende che il WEF ci stia avvertendo di “prestare attenzione ai rischi globali che saranno ulteriormente esacerbati da eventi shock inaspettati e destabilizzanti”.

Cosa sta pianificando l’élite globale?

Forse la frase più preoccupante dell’articolo è in riferimento agli attacchi intenzionali alla sicurezza informatica.

 Dato il lungo interesse di Klaus Schwab nello scatenare un “attacco informatico devastante” nel mondo, questo avvertimento non dovrebbe essere preso alla leggera.

Facendo riferimento all’interruzione della sicurezza informatica globale di “Crowdstrike” di luglio, il WEF ha affermato: “Immaginate se un malintenzionato facesse questo, intenzionalmente e su scala ancora più grande?”

Il WEF ha anche affermato che stiamo vivendo in un “momento di opportunità” in cui un “gruppo estremista globale” potrebbe emergere e scatenare il caos in tutto il mondo senza subire troppe conseguenze.

Nel frattempo, sembra che la “crisi climatica” verrà sfruttata dall’élite globale per promuovere la propria agenda.

Secondo Schwab e il WEF, all’ordine del giorno rientrano anche i sistemi di pagamento tramite valuta digitale della banca centrale (CBDC) e ID digitale.

 Ciò porterà il Sud del mondo ad abbandonare le negoziazioni in dollari statunitensi, tentando persino un nuovo sistema di pagamento basato su blockchain.

(t.me/vannifrajeseofficial) - (Giovanni Frajese – Piccole luci nel buio).

(weforum.org/agenda/2024/08/4-global-risks-to-look-out-for-in-the-post-pandemic-era/)

(thepeoplesvoice.tv/klaus-schwab-says-era-of-shock-events-is-coming-ahead-of-2024-election/)

 

 

 

 

Lo Stato sionista di Israele potrebbe

scomparire entro un anno?

Chuckbaldwinlive.com – (29 agosto 2024) – Chuck Baldwin – ci dice:     

 

In una straordinaria intervista con il giudice “Andrew Napolitano”, l'ex analista della CIA “Larry Johnson” cita funzionari di alto livello del governo israeliano che hanno espresso la loro preoccupazione che se Israele mantiene i suoi attuali metodi guerrafondai, lo Stato sionista potrebbe scomparire entro un anno.

“Johnson” descrive anche il fanatismo religioso radicale di molti israeliani dietro l'infatuazione della nazione per la guerra. (Un fanatismo molto simile esiste nella maggior parte delle chiese evangeliche, tra l'altro.)

“Johnson” spiega anche perché il miscredente “Benjamin Netanyahu” non porrà mai fine alle guerre di Israele:

sa che non appena la guerra finirà, sarà arrestato e processato per molteplici atti criminali all'interno di Israele (senza contare i crimini di guerra internazionali di cui è accusato) e probabilmente passerà il resto della sua vita in prigione.

In conclusione: Netanyahu sta intenzionalmente mantenendo in vita le guerre di Israele per la sua personale autoconservazione.

Ecco alcuni estratti dall'intervista del giudice “Nap.” a “Larry Johnson”:

 

Napolitano:

Israele sta commettendo un suicidio nazionale, Larry?

Johnson:

Certo che sembra così. Sai quando sei in una lotta, e in particolare in una guerra, l'ultima cosa che vuoi fare è combattere una guerra civile, essere in guerra l'uno contro l'altro a casa.

C'è il capo dell'esercito, fondamentalmente l'esercito israeliano, il portavoce dell'IDF, che esce allo scoperto e si oppone a Netanyahu.

 C'è il capo del Mossad che si oppone a Netanyahu, e il Mossad è come la versione israeliana della CIA.

 C'è lo “Shin Bet”, che è, lo descrivo così, è come l' “FBI con un tocco della CIA”, perché in realtà non è tanto un gruppo di forze dell'ordine quanto un gruppo di intelligence interna/sicurezza interna.

Tutti loro stanno uscendo allo scoperto e condannando Netanyahu.

 E Netanyahu a sua volta li ha definiti codardi e deboli.

E poi, in aggiunta a questo, ci sono alcuni membri molto importanti o ex membri delle Forze di Difesa Israeliane.

C'è il generale “Yitzhak Brik”, che ha pubblicato un editoriale su “Haaretz durante il fine settimana.

E, ragazzi, non ha tirato pugni.

Uscì allo scoperto e disse che Israele, se continua su questa strada, crollerà entro un anno, che il paese andrà in pezzi.

 

Napolitano:

 Beh, alcune di queste cose che il “generale Brik” ha detto sono strategiche, e alcune di esse sono personali.

 Ad esempio, ha detto del primo ministro Netanyahu:

"Ha perso la sua umanità, la moralità, le norme, i valori e il senso di responsabilità".

Questo è il massimo che si possa ottenere.

Non sta parlando della personalità di Netanyahu; sta parlando delle sue decisioni di massacrare innocenti e di usare i riservisti e l'IDF con cui farlo.

 

Johnson: Esatto.

Napolitano:

Netanyahu e la sua squadra hanno un guru accademico o teologico, un rabbino, che predica tutto questo nello stesso momento in cui predica facendo saltare in aria moschee e autobus carichi di arabi?

 

Johnson: Sì, non Netanyahu.

Netanyahu, è tutto incentrato sul potere e sul prendersi cura di sé stesso.

Ma lo “Smotrich” e il “Ben-Gvir”, sì, questo rabbino “Dov Lior”, è stato piuttosto influente e piuttosto estremo.

Quindi, c'è una dimensione religiosa in questo; Non possiamo scartarlo.

Penso che la tendenza di molti esperti occidentali sia quella di non approfondire gli aspetti religiosi di questo.

 Ma sono reali per quanto riguarda queste persone.

Ed è questo che li spinge.

Voglio dire, parte della loro premessa è che in realtà hanno un patto con Dio, e che questo è stato stabilito 3.000 anni fa, e hanno diritto a questa terra, e hanno il diritto di fare tutto ciò che devono fare per eliminare coloro che non sono stati scelti da Dio per viverci.

E così, quando si prende una credenza religiosa come quella e poi la si traduce in politica, ovviamente si possono uccidere i bambini palestinesi, perché sono solo rifiuti nel modo in cui è necessario eliminarli.

E quindi questo è parte di ciò che ha allarmato così tanto il capo dello “Shin Bet”.

E lui ha detto:

"Guarda, sono cresciuto in una famiglia di sopravvissuti all'Olocausto e, sai, abbiamo creduto che non ci fossimo mai più".

Ma lui fa:

"Mio Dio, quello che sto vedendo uscire da queste bocche ebraiche sulla supremazia ebraica, e non solo, 'Ehi, siamo più intelligenti, siamo più realizzati', ma in realtà, 'Siamo esseri umani; Voi non siete esseri umani'".

Dice che questa mentalità è ciò che lo allarma, e che ha preso piede in un grande segmento all'interno di Israele.

Questo è il pericolo.

Napolitano:

È un punto di vista della maggioranza, questa credenza messianica?

"Dio Padre ci ha dato questa terra, e noi possiamo schiacciare e distruggere qualsiasi cosa o persona che si metta sulla nostra strada. Possiamo stabilire la nostra moralità perché siamo gli eletti".

 

Johnson: Sì, a quanto pare.

Almeno ora è oltre il 50% in Israele.

 E di nuovo, quel numero potrebbe aumentare man mano che gli israeliani che erano laici stanno lasciando Israele, tornando negli Stati Uniti, andando in Europa, andando in altri luoghi, perché non lo accettano.

Quando se ne vanno, ciò significa che coloro che credono in ciò diventano una percentuale maggiore della popolazione.

 

 Nel giro di pochi mesi dopo il 7 ottobre, è stato ben documentato che oltre 500.000 israeliani avevano lasciato Israele su una popolazione totale di poco più di 9 milioni.

Ma proprio ieri, il colonnello Douglas Macgregor ha suggerito al giudice “Andrew Napolitano” che la popolazione di Israele oggi è di 4 milioni e mezzo a 5 milioni.

 Se questo è vero, significherebbe che circa la metà della popolazione israeliana è fuggita dal paese da quando è iniziata la guerra genocida di Israele contro Gaza.

L”'IDF” non sta uccidendo tizi che sono vestiti con giubbotti antiproiettile e portano, sai, giochi di ruolo.

 Stanno uccidendo donne e bambini in generale, e le immagini sono spaventose. Sono orribili.

 Voglio dire, proprio negli ultimi giorni, le foto dei bambini sono state bruciate. Voglio dire, è disgustoso.

 Bambini a cui mancano pezzi della testa.

Ora abbiamo sentito gli israeliani dopo il 7 ottobre parlare di:

"Oh, Hamas ha ucciso 40 bambini".

Non abbiamo mai visto una sola foto; Non abbiamo mai sentito un solo nome. Ma quello che sta venendo fuori dalla Palestina sono nomi e immagini orribili.

E sta stabilendo una realtà.

E questo sta mettendo a dura prova questi soldati israeliani.

Napolitano: Netanyahu vuole la guerra!

Netanyahu e i suoi fanatici religiosi credono che questo sia il momento in cui Dio ha ordinato loro di uccidere tutti coloro che li ostacolano.

Johnson:

Gli Stati Uniti potrebbero porre fine a tutto questo immediatamente.

Dici a Netanyahu: "Ok, gli aiuti militari sono finiti e ti stiamo tagliando fuori economicamente. Non avrete un'altra goccia fino a quando non vi sederete e non farete un serio negoziato con i palestinesi".

Il generale “Yitzhak Brik” ha pubblicato un editoriale su “Haaretz” [un giornale israeliano] durante il fine settimana.

E, ragazzi, non ha tirato pugni. Uscì allo scoperto e disse che Israele, se continua su questa strada, crollerà entro un anno.

Questo generale israeliano non è il primo israeliano a dirlo.

 E non sarà l'ultimo.

Molti esperti di Medio Oriente dicono che Israele è sulla strada dell'autodistruzione.

 Se il colonnello Mac Gregor ha ragione nel suggerire che metà della popolazione israeliana è già fuggita dal paese, l'unica ragione logica per un esodo così massiccio e spontaneo sarebbe perché si aspettano che lo Stato di Israele collassi presto.

(Esorto i lettori a guardare il mio DVD di tre messaggi proprio su questo argomento. Questi messaggi sono stati consegnati poco dopo l'inizio della guerra genocida israeliana contro Gaza. Il titolo del DVD è “End-Time Israel”).

 

E le dottrine guerrafondaie radicali del sionismo cristiano in America sono fondamentalmente le stesse delle dottrine guerrafondaie radicali del sionismo ebraico in Israele.

L'unica differenza è che i guerrafondai ebrei vanno in guerra nel tentativo di portare avanti il Messia, mentre i guerrafondai cristiani vanno in guerra nel tentativo di riportare indietro il Messia.

 Ma sia i sionisti cristiani che quelli ebrei credono che Dio voglia che uccidano tutto il popolo palestinese nel nome del loro Messia.

Chiedo ai miei amici evangelici che sono così estasiati (scusate il gioco di parole) dal “Futurismo Profetico” e che credono che l'Israele sionista sia l'Israele biblico e che la terra di Palestina appartenga all'Israele sionista:

 avete mai studiato il” capitolo undici su Romani” senza leggere gli appunti inondati di sionisti di Scofield (o di Ryrie o MacArthur)?

Ecco cosa insegna veramente il capitolo 11 di Romani sul popolo eletto di Dio e sulla terra.

Oltre a questo, hai mai incontrato un palestinese?

Avete mai parlato con un cristiano palestinese?

Avete mai visto una famiglia palestinese?

Avete mai incontrato un pastore palestinese?

 Avete mai adorato con una congregazione cristiana palestinese?

 

No. Ne ho incontrati centinaia quando ho viaggiato e ho parlato in tutta la Palestina.

E lasciate che vi dica che, nel complesso, non troverete un popolo più gentile, umile, gentile, amante della pace in nessuna parte della terra.

 I cristiani palestinesi fanno vergognare i cristiani americani!

E mentre i cristiani palestinesi vengono massacrati, i cristiani americani fanno il tifo per i massacratori.

Se il popolo americano avesse sopportato l'uno per cento di quello che i palestinesi hanno sopportato sotto i pesanti talloni dell'occupazione israeliana, decenni fa si sarebbe trovato in una guerra totale.

Ma sto divagando.

Torniamo alla previsione del generale israeliano secondo cui, se Israele continua sulla stessa strada guerrafondaia, potrebbe cessare di esistere entro un anno.

Credo che il “giudice Napolitano” avesse ragione quando ha detto che, finché Benjamin Netanyahu sarà primo ministro, non ci sarà alcun accordo di pace, nessuna interruzione della guerra.

 E la verità è che, per come si stanno delineando i dati demografici della popolazione israeliana, non ci sarebbe alcun cambiamento nella brama di guerra di Israele, non importa chi sia il primo ministro.

Come molti in Israele hanno detto, Israele è uno stato razzista e di apartheid che è guidato dalle emozioni dell'odio e della supremazia ebraica.

E quando si guarda alle politiche degli Stati Uniti riguardo a Israele e Palestina, poco importa chi viene eletto presidente o eletto al Congresso.

 Il denaro israeliano li controlla tutti.

Ma la mia grande domanda è per i cristiani evangelici:

cosa faranno quando Israele cesserà di esistere, come prevedono il generale israeliano e il capo israeliano dello Shin Bet?

Tutto ciò che credono che la Bibbia insegni riguardo alla profezia è basato su Israele.

TUTTO!

La dottrina "benedici Israele e sii benedetto".

 Il Rapimento Pre-Tribolazione. L'Anticristo. La tribolazione di sette anni.

 La Seconda Venuta. Il Millennio.

 Il re Davide dell'Antico Testamento che regna di nuovo a Gerusalemme.

La nazione ebraica "eterna".

È tutto basato su Israele.

 La maggior parte dei pulpiti evangelici, la maggior parte dei collegi e seminari evangelici, la maggior parte degli autori evangelici, la maggior parte delle emittenti radiofoniche e televisive evangeliche, la maggior parte dei “podcaster” evangelici e la maggior parte degli editori evangelici sono immersi nella profezia basata su Israele.

Che cosa faranno quando Dio distruggerà l'ateo Israele sionista come ha distrutto il tempio apostata dell'Antica Alleanza?

E quando dico di distruggere l'Israele sionista, non sto parlando del popolo ebraico;

Sto parlando del governo e dello stato sionista.

Per oltre mille anni – prima che lo stato sionista fosse creato nel 1948 – ebrei, musulmani e cristiani in Palestina hanno vissuto pacificamente fianco a fianco.

La creazione dello Stato sionista non ha portato a nulla se non alla pulizia etnica e al genocidio del popolo palestinese ed è diventata nient'altro che un terreno fertile per la guerra in tutta la regione.

(Esorto i lettori a leggere il libro di successo del famoso storico israeliano Ilan Pappe, “La pulizia etnica della Palestina”.)

Senza uno stato sionista, cosa insegnerebbero i pastori e i professori evangelici sulla Fine dei Tempi?

 Cosa farebbero milioni di cristiani evangelici e migliaia di chiese evangeliche?

Gli evangelici un giorno si sveglieranno e si renderanno conto che tutto ciò che “John Darby” e “Cyrus Scofield” hanno detto loro sulla profezia era una bugia, che tutto ciò che il “Seminario Teologico” di Dallas ha insegnato loro sulla profezia era una bugia, che ogni libro di profezie che leggevano era una bugia, che ogni sermone di profezia che sentivano era una bugia.

Cosa faranno quel giorno?

Getteranno via le classifiche di Clarence Larkin.

Getteranno via i libri di “Jerry Jenkins” e “Hal Lindsey”.

E getteranno via i DVD delle profezie di “John Hagee” e “Robert Jeffress”.

 Questo è ciò che faranno.

(Chuck Baldwin)

 

 

 

 

I padroni del mondo.

Laterza.it - (10-6-2024) – Autore Alessandro Volpi – Redazione – ci dice:

 

Come i fondi finanziari stanno

distruggendo il mercato e la democrazia.

 

Più forti dei singoli Stati, decisivi nella tenuta delle monete e del debito pubblico, proprietari di quote sbalorditive di economia reale: i fondi speculativi – a cominciare da “Vanguard e BlackRock” – sono diventati i ‘padroni del mondo ’.

Ancora marginali all’inizio del nuovo millennio, hanno cavalcato le crisi, hanno beneficiato dell’operato delle banche centrali e dei governi e hanno sfruttato, accelerandolo, il processo di smantellamento degli Stati sociali e di privatizzazione della società.

Ma come è stata possibile una simile concentrazione del capitalismo che ha cancellato l’idea stessa di mercato?

Questo libro prova a spiegarlo, tracciando un quadro chiaro dei numeri di tale monopolio e ricostruendo, al contempo, le storie dei protagonisti di una simile incredibile scalata al potere.

 

 

 

 

Il partito di Jamie Axelsson

crede nei miracoli della crisi climatica.

Tecnosuper.net - Cirillo Lombardi – (Febbraio 12, 2024) – ci dice:

 

Solo Putin trae vantaggio dalla dipendenza dell’Europa dai combustibili fossili.

Gli agricoltori europei stanno protestando contro l’aumento dei costi operativi, la riduzione dei prezzi dei loro prodotti e le leggi più severe sul clima dell’UE nel contesto delle elezioni europee che si terranno dal 6 al 9 giugno.

La Commissione europea propone di ridurre le emissioni nette del 90% entro il 2040, proposta che è stata oggetto di reazioni trasversali.

I socialdemocratici sostengono l’iniziativa e vogliono aumentare le ambizioni, mentre la destra svedese ritiene che sia troppo presto per fissare nuovi obiettivi.

I leader dell'Aftonbladet ritengono che la questione climatica evidenzi le differenze tra i socialdemocratici e i democratici svedesi nelle prossime elezioni europee, rendendo le elezioni cruciali per la futura politica ambientale dell'Europa.

 La sintesi è stata preparata con il supporto degli strumenti “AI “di OpenAI e il controllo di qualità di “Aftonbladet”.

 

Gli agricoltori francesi hanno bloccato l'ingresso al Parlamento europeo a Strasburgo in segno di protesta mentre i politici si riunivano per un incontro la settimana scorsa.

Strasburgo Al Parlamento Europeo.

 A Strasburgo si è sentito un violento suono di clacson proveniente dall'esterno.

 I trattori sono in fila all'ingresso.

Gli agricoltori arrabbiati sono diventati un movimento potente e un fattore importante nel periodo che precede le elezioni europee, che gli Stati membri voteranno dal 6 al 9 giugno di quest’anno.

Sono qui perché sono stanco di politici che dicono qualcosa e poi votano contro”, dice “Kranz Germain”, un contadino del sud della Francia venuto qui per protestare contro la politica agricola dell'Unione europea.

Le rivolte contadine si diffusero in tutta Europa.

 Dalla Germania, Belgio e Polonia alla Francia, dove sono state chiuse le strade che portano a Parigi.

Gli agricoltori protestano perché tutto sta diventando più caro e che i prezzi dei loro prodotti stanno diminuendo a causa delle importazioni dall'Ucraina e dal Sudamerica.

Criticano il fatto che le leggi climatiche dell’UE sui pesticidi stanno diventando più rigorose e tutta la gestione richiesta oggi alle aziende agricole.

Il governo del presidente francese Emmanuel Macron ha dovuto accogliere in una certa misura gli agricoltori, abbassando i prezzi del diesel e allentando le normative sui prodotti chimici.

 

La situazione è tesa quando la polizia è costretta ad arrestare Zuma in Sudafrica.

Fa rima male “Con obiettivi climatici di alto livello” in fase di negoziazione nel Parlamento europeo.

La settimana scorsa, la Commissione europea ha formulato una raccomandazione su “Obiettivo climatico comune entro il 2040.

Ciò significa ridurre le emissioni nette del 90% entro il 2040.

I combustibili fossili devono essere gradualmente eliminati e devono essere sviluppate foreste e nuove tecnologie per catturare l’anidride carbonica.

Le reazioni agli obiettivi del 2040 variano da partito a partito.

 Oppure: i rossoverdi e i liberali sostengono e vogliono aumentare le ambizioni.

 La destra svedese ha preso una posizione negativa.

 È troppo presto per fissare nuovi obiettivi.

Abbiamo appena adottato leggi ambientali fino al 2030 e dobbiamo prima valutarle, afferma “Charlie Weimers”, membro dei Democratici svedesi, quando lo incontro con un gruppo di giornalisti svedesi.

Weimar è Il primo nome sulla lista del partito SD per le elezioni del Parlamento europeo di questa primavera.

Parla del fatto che la politica deve lavorare fianco a fianco con gli agricoltori e la gente comune affinché le persone vogliano il cambiamento.

Per quanto riguarda il modo in cui la Svezia o l’Unione Europea riusciranno a diventare climaticamente neutrali entro il 2050 al più tardi, come l’Unione Europea ha già deciso, “Weimers” non è altrettanto chiaro.

L’energia nucleare, lo scambio di emissioni e le tecnologie di stoccaggio del carbonio che ancora non esistono sono la panacea che risolverà i problemi.

Come molti all’interno del gruppo del partito “ECR”, con cui i democratici svedesi siedono al Parlamento europeo, “Charlie Weimers” è preoccupato che il rapido cambiamento climatico possa portare le industrie a lasciare l’Europa.

È un argomento potente che potrebbe auto-convalidarsi.

Perché se gli Stati membri dell’UE non cambiano, la nuova industria verde individuerà naturalmente le sue fabbriche e i suoi servizi altrove.

 

“Helen Fritzon” Il primo nome dei socialdemocratici alle elezioni.

Il suo partito vuole andare oltre e raggiungere una riduzione del 95% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2040.

Crede che sia giunto il momento che il governo di destra svedese mostri rispetto.

 Dobbiamo andare avanti più velocemente se vogliamo approvare l'Accordo di Parigi, ha detto durante una pausa dalla discussione in sala plenaria.

 Soprattutto perché ora in Svezia abbiamo un governo conservatore di destra guidato dai democratici svedesi.

 Per la prima volta in due decenni, le emissioni sono in aumento in Svezia. Abbiamo un ministro del clima che è completamente invisibile e non vuole discutere di clima.

  L’Unione Europea e gli Stati Uniti esortano la Georgia a fermare il controverso disegno di legge.

La questione climatica è legata anche alla sicurezza dell’Europa.

Per questo sottolinea che il lavoro di transizione non dovrebbe essere rallentato dai populisti di destra che affermano di essere dalla parte della gente comune durante il prossimo mandato.

 Vogliamo liberarci dei combustibili fossili e porre fine alla guerra, è molto importante metterla fine Gas russo.

 Riteniamo che il petrolio debba essere etichettato in modo che si sappia che il denaro non finisce nel forziere di guerra di Putin.

“S” e “SD” si sono nominati principali oppositori alle elezioni europee.

 Le differenze tra le parti non potrebbero essere più chiare che sulla questione climatica.

Per gli elettori si tratterà di un’elezione che influenzerà in maniera decisiva il futuro dell’Europa.

Il clima è una questione importante per te nelle elezioni europee?

Dovremmo avere il coraggio di aumentare un po’ le emissioni se è possibile ridurle molto da qualche parte, ad esempio aumentando la produzione alimentare svedese per ridurre i prezzi dei prodotti in Svezia.

Henrik.

Ma poi è stato possibile ridurre le emissioni in un altro modo.

Come ad esempio non ridurre l’impegno di riduzione di benzina e diesel al livello più basso dell’Unione Europea.

Proprio questa decisione del governo farà sì che le emissioni di anidride carbonica della Svezia aumenteranno di 4 milioni di tonnellate nel 2024 rispetto al 2023!

Non ci sarà alcun cambiamento nell’opinione pubblica finché gli appassionati di fossili resteranno chiusi nelle loro chat isolate, leggendo e condividendo le stesse pagine web.

 

Le loro abitudini di lettura.

La polarizzazione è già un problema, anche sul clima.

Quindi sono preoccupato per i tagli profondi che si stanno verificando oggi nelle società di servizi pubblici.

In SR hanno, tra le altre cose, preso il controllo del servizio di corrispondente sul clima.

Era la persona con competenze all’avanguardia sulla questione climatica e ha aiutato il resto del comitato editoriale ad affrontare una questione che presentava una scienza molto complessa che doveva essere compresa da noi laici per comprendere la situazione.

Il clima è importante, ma allo stesso tempo i politici si stanno muovendo nella direzione sbagliata.

Vogliono abolire le mucche perché scoreggiano, ma allo stesso tempo sostengono tutte le guerre.

 Gli agricoltori non dovrebbero usare i trattori, ma l’esercito può guidare i carri armati.

 I politici vanno a Bruxelles perché è bello incontrarsi (non vogliono usare la tecnologia/riunioni video), ma gli infermieri saltano il caffè perché è troppo costoso.

 Nessuno vuole la guerra, quindi i politici devono lavorare per la pace.

Oppure si annullano e allora sono solo i soldi a governare.

Sofia.

Hai davvero messo il dito su molte delle principali ipocrisie di oggi!

Allo stesso tempo, è possibile sostenere la stessa argomentazione:

perché dovremmo fare qualcosa quando Cina e India sono i più grandi criminali climatici?

Deve essere possibile controllare la produzione agricola ed energetica e allo stesso tempo aiutare l’Ucraina a combattere l’invasione russa, ecc.

I viaggi a Bruxelles e Strasburgo sono davvero un dilemma.

 Naturalmente penso che andrebbero utilizzati i treni, ma sono riluttante a utilizzare sempre le riunioni online.

È sempre meglio incontrare persone nella vita reale, giusto?

Soprattutto quando si tratta di politica, dove i conflitti su questioni sono la base su cui le persone vengono coinvolte.

Sì, la questione climatica è molto importante.

A mio avviso, l’uso del biogas come combustibile e per il riscaldamento è qualcosa che è completamente scomparso.

Ho guidato un’auto senza combustibili fossili per oltre 10 anni, e molte più persone potrebbero farlo se ai negazionisti del clima non fosse permesso di restare. Qualsiasi motore a combustione convenzionale può essere convertito per funzionare a biogas.

È possibile ridurre le emissioni minime e la produzione di nuovi veicoli.

La nostra Terra non può gestire una maggiore produzione di elettricità per far funzionare auto elettriche, riscaldare case, produrre elettricità per sale server, ecc. Le materie prime necessarie vengono prodotte in condizioni disgustose.

Chi vuole contribuire? Non io comunque…

BASTA “SD”!

Aria.

Il biogas è in realtà una risorsa non sfruttata.

 La raccolta differenziata dei rifiuti alimentari è obbligatoria solo a Stoccolma, ad esempio, dal gennaio 2023.

Dovrebbe essere obbligatoria ovunque, in modo che possiamo trarne vantaggio, che si trasforma in energia rinnovabile.

Se il clima non è la questione più importante del nostro tempo, allora le persone con un’opinione diversa devono essere sorde e cieche a tutto ciò che sta accadendo all’ambiente nel mondo in questo momento.

Kenneth.

Potresti pensarlo.

Al più tardi ieri l'Aftonbladet ha pubblicato un articolo sul possibile crollo del canale della Corrente del Golfo.

Dovrebbe far capire a tutti che la situazione è urgente, indipendentemente dal proprio partito di appartenenza.

Ma, stranamente, il mondo si è capovolto.

 

La green economy è un bluff,

serve un’altra economia.

Lorenzoguadagnucci.wordpress.com – (23 Maggio 2020) – ci dice:

 

Le economie sono a soqquadro e la fase 2 dell’emergenza Covid-19, appena cominciata, fa già intravedere le principali linee di tendenza.

La parola d’ordine è tornare alla “normalità”, per quanto tutti sappiamo che all’origine dei nostri mali e della stessa pandemia c’è proprio tale “normalità”. Una normalità di predazioni, di ingiustizie e di attacco sistematico agli ecosistemi di un pianeta allo stremo.

La metafora del virus come risposta della natura agli eccessivi abusi che deve sopportare è un’efficace rappresentazione del passaggio che stiamo vivendo.

Il “modello di sviluppo” dominante è incompatibile con la salute della biosfera, giunta vicina al limite di sopportazione.

Ciò nonostante, l’intenzione dichiarata di chi oggi guide le danze dalle stanze del potere è “ripartire”, costi quel che costi.

Si è arrivati al punto di rinnegare molte delle regole fino a ieri ritenute inviolabili – sussidi di stato, indebitamento, garanzie pubbliche di prestiti privati, sforamento dei vincoli di bilancio e via elencando – pur di rimettere in moto il sistema così com’era.

 

Non sarà possibile.

Il coronavirus, nel breve termine, lo impedirà, alimentando l’inevitabile recessione (ci saranno, già ci sono meno consumi, meno viaggi, più disoccupazione), e più avanti – se l’attacco agli ecosistemi non cesserà – avremo nuovi virus, crescenti conflitti fra stati, nuove instabilità.

È facile prevedere che vivremo mesi, anni di passione e di contrapposizioni.

 Ci sarà una lotta fra il ritorno alla normalità – oggi sostenuta dai potenti di turno – e chi vorrà promuovere una nuova normalità.

Serviranno delle bussole, specie per quanti vorranno agire in quest’ultima direzione.

 

Una di queste bussole, un aiuto a capire lo stato delle cose e le prospettive di cambiamento, può essere il libro di “Paolo Cacciari ““Ombre verdi”, pubblicato in ebook da” Altr’economia”, rivista e casa editrice a sua volta da tenere d’occhio come costante punto di riferimento.

 Sono due i principali meriti del libro di Cacciari.

Primo, togliere ogni illusione sul sistema economico dominante, votato a un distruttivo estrattivismo e incapace di considerare l’esistenza di limiti biofisici allo sviluppo:

“L’aria”, scrive per esempio Cacciari, e prendiamo questa frase come sintesi di analisi più analitiche e documentate, “è una merce e respirare ha un prezzo. Prima la si rende scarsa inquinandola, poi la si tecnologizza, infine la si rivende. Così come avviene già per l’acqua, per l’etere (onde elettromagnetiche), per i genomi (brevettati), per le foreste (date in concessione), per non dire delle terre rubate ai popoli indigeni”.

Secondo merito,

la meticolosa opera di demolizione di un’illusione che molti coltivano nella speranza di mitigare il disastro ecologico in corso senza cambiare troppo il modello economico esistente, cioè l‘idea che la via di salvezza passi per la “green economy”, gli “investimenti verdi”, la “economia circolare”.

Cacciari mostra – studi e dati alla mano – l’inconsistenza di tali ipotesi e sintetizza così:

“L’obiettivo vero della ricerca di uno ‘sviluppo sostenibile’ è lo sviluppo economico, non la sostenibilità. La sostenibilità è un attributo secondario, una leva, un accessorio, un abbellimento dello sviluppo. La sostenibilità può qualificare o meno lo sviluppo, ma rimane la variabile subordinata”.

E ancora: “La green economy rivitalizza il mercato, non l’ambiente. Il partito del Pil ha inglobato anche il sociale e il sostenibile. La ‘economia verde’ ha la strana pretesa di salvare la natura vendendola al miglior offerente”.

Siamo al cuore della questione.

Il punto è stato messo a fuoco da tempo:

 l’ideologia e la pratica della crescita delle produzioni, dei consumi, dell’estrazione di risorse dev’essere combattuta e superata.

Il libero mercato e gli spiriti animali del capitalismo sono all’origine dei nostri guai: non è da lì che verranno le soluzioni.

Servono un nuovo pensiero e una nuova prassi, un’altra idea di economia.

Cacciari da tempo studia le “altre economie” (oggi va di moda l’espressione “economia trasformativa”) e in altri libri ha documentato il pullulare di esperienze in corso nella base della società, esperienze che non sono riuscite finora a fare sistema e a proporsi come modello di valenza generale.

La ricerca tuttavia continua e la risposta che cerchiamo alla crisi ecologica globale verrà – se verrà – da questi ambienti.

 E attraverso, naturalmente, un’intensa azione collettiva in più direzioni:

nella sperimentazione di nuovi modelli di produzione e consumo ma anche nella lotta ideologica, sociale e politica con il potere dominante.

Cacciari cita più volte, come testo politico importante, l’enciclica “Laudato sì di papa Francesco”, ma in appendice al libro mette anche il Manifesto eco socialista del 2009.

Sono indicazioni da meditare.

 

 

 

 

Il socialismo verde,

il fine dell’ideologia green.

 

Lanuovabq.it – Maurizio Milano – (17-12-2022) – ci dice:

 

I gruppi ecologisti chiedono un nuovo modello socioeconomico per “salvare il pianeta”. Volenti o nolenti, sono la cassa di risonanza delle élite, da Davos alla Commissione UE (Green Deal), all’Onu (Agenda 2030).

Il catastrofismo è funzionale a un nuovo socialismo, che ha i tratti di una “religione civile” contraria alla vita e alla libertà, a danno di famiglie e ceti medi.

L’ecologia è altro.

L’uomo del XXI secolo, orfano di prospettive religiose autentiche e disilluso dai surrogati delle varie ideologie - liberale, socialista e marxista - trova conforto in una nuova “religione civile”:

la sostenibilità ambientale in salsa Onu, una visione paganeggiante del pianeta, in cui l’uomo è l’unico elemento di perturbazione in un ordine altrimenti perfetto e compiuto.

Su tali premesse si innesta l’utopia di un nuovo sistema economico, sociale e politico, all’insegna della “pianificazione democratica” e dello “statalismo climatico”, per costruire un mondo migliore.

 In mancanza di meglio, in qualcosa bisogna pur credere.

 

Un esempio tra i tanti dell’ideologia green si trova nelle posizioni deliranti dell’ex ministro della transizione ecologica, “Roberto Cingolani”, che ha definito l’essere umano «biologicamente un parassita perché consuma energia senza produrre nulla», in un mondo «progettato per tre miliardi di persone»:

senza chiarire, evidentemente, né la fonte di tale sorprendente rivelazione né che cosa pensasse di fare con i circa cinque miliardi di “parassiti” in eccesso.

 Una dichiarazione che appare anche paradossale alla luce del suicidio demografico in atto nei Paesi sviluppati, che rischia di rendere insostenibile la sostenibilità dell’”Agenda Onu 2030” per mancanza e non per eccesso di persone.

Un autentico amore per la natura non può convivere con l’odio nei confronti dell’essere umano, da cui tutta la propaganda anti-natalità e pro-eutanasia, fino a volere prometeicamente riplasmare l’uomo seguendo l’ideologia Lgbt, in ostilità alla natura dell’uomo e alla famiglia naturale.

Amare la natura e odiare l’uomo, e la “natura dell’uomo”, non è forse una contraddizione in termini?

 Si tratta di un attacco frontale alla concezione giudaico-cristiana dell’uomo e del creato, oltre che al semplice buonsenso sempre meno comune purtroppo;

un attacco che rischia di diffondersi anche tra gli stessi credenti ingenui.

Bene l’ecologia, certamente;

purché sia un’autentica “ecologia umana”, che rispetti innanzitutto la natura dell’uomo, e conseguentemente anche tutto il resto del creato.

Nei programmi dei movimenti che compongono la variegata galassia ecologista, dai gruppi pacifici del tipo” Fridays For Future “a quelli che imbrattano le opere d’arte nei musei in favore di telecamere, da quelli che bloccano la circolazione stradale, ferroviaria o aerea ai gruppi eco-terroristi, è ben visibile, al di là dei mezzi differenti, un fil rouge:

rosso è proprio il termine adeguato per indicare il filo che lega insieme questi ambienti, che agiscono di sponda all’iniziativa del “Great Reset” portata avanti, a tappe forzate post-Covid, dal Forum di Davos, dall’Agenda Onu 2030, dal Build Back Better dell’Amministrazione Biden, dal Green Deal della Commissione Europea.

Per giustificare gli enormi sacrifici richiesti - pensiamo ai forti rialzi dei costi energetici e alimentari aggravati dalla folle transizione ecologica in atto - le élite tecnocratiche portano avanti la “grande narrazione” di un pianeta destinato all’autodistruzione, per colpa dell’essere umano.

E lo fanno inducendo paura e ansia, soprattutto ai danni delle giovani generazioni, per mantenere uno stato permanente di crisi e insicurezza, funzionale all’implementazione dei piani programmati.

 Prima si sollecitano le emozioni e i sentimenti con l’incombente emergenza climatica, poi se ne fornisce la soluzione:

una revisione completa dei sistemi economici, sociali e politici, una “quarta rivoluzione industriale” per un “nuovo umanesimo”, verso una nuova normalità, caratterizzata da diminuzione della popolazione, decrescita economica, restrizioni alla proprietà privata, ai consumi e alla libertà di movimento.

La narrazione promossa dai vertici viene amplificata dagli attivisti verdi e ripresa dai media.

Si nota un afflato religioso e vagamente gnostico in tali movimenti, un nuovo pauperismo dove l’austerità e la decrescita sono viste come la salutare penitenza dei supposti peccati ecologici commessi dall’uomo, nella prospettiva della giustizia e solidarietà climatica, di una catarsi globale, dove la salvezza proposta è quella del pianeta-Gaia, salvezza dall’uomo ovviamente:

il tutto nell’interesse delle future generazioni, “ça va sans dire”, sempre che ci siano ancora se prosegue tale propaganda, pessimista e ansiogena, ostile alla vita, alla famiglia e alla libertà.

Due punti da sottolineare:

 

1. “Green is the new Red”:

l’ecologismo catastrofista è il grimaldello per arrivare a un nuovo “socialismo verde”, che si crede possa funzionare laddove ha fallito il socialismo d’antan.

 Una sorta di “socialismo liberale del XXI secolo”, caratterizzato da un neocorporativismo clientelare pubblico-privato ai massimi livelli, dove si conservano le strutture liberal-democratiche accentrando però risorse e decisioni in cabine di regia sempre più elevate, al di sopra degli stessi Stati nazionali, in nuove nomenklature;

 

2. I movimenti ecologisti sbraitano contro i governi, le grandi imprese e la grande finanza.

Non è curioso, tuttavia, che ripetano in fondo lo stesso verbo promulgato da anni dalla “Community di Davos”, dove tali poteri pubblici e privati, ai livelli più alti, si incontrano per “plasmare le agende” nazionali e sovranazionali?

Gli attivisti verdi sono la cassa di risonanza del grande potere contro cui, almeno a livello di militanti di base, ci si illude di combattere:

alla fine si porta acqua allo stesso mulino.

Proprio come gli "utili idioti" della migliore tradizione comunista.

 

 

 

 

L'ideologia di chi parla

di "ideologia green."

 

Huffingtonpost.it - Marco D'Egidio – (17 Luglio 2023) – ci dice:

 

L'ideologia di chi parla di ideologia green.

I conservatori, non avendo il coraggio di sfidare apertamente le evidenze ormai troppo grandi anche per loro sul cambiamento climatico, mirano a posticipare gli obiettivi green perché le tabelle di marcia sarebbero troppo rigide e serrate, imponendo costi eccessivamente alti in termini produttivi e sociali

Il dibattito sulla transizione ecologica ed energetica è destinato a ridisegnare i confini tra le posizioni politiche di destra e di sinistra nell'anno scarso che ci separa dalle elezioni europee, e probabilmente anche nel medio e lungo periodo.

 Come si è visto negli ultimi giorni nelle vicende europarlamentari sulla legge sul ripristino della natura, sono in gioco due visioni diametralmente opposte che investono la concezione stessa dell'Europa:

la destra euroscettica e sovranista, messo da parte il bersaglio di un decennio rappresentato dalla moneta unica - contro cui tuonavano fino all'altro ieri i partiti che oggi governano l'Italia e molti altri Paesi del continente -, ha identificato nelle politiche green il nuovo nemico dei popoli, mentre la sinistra progressista sempre più in difficoltà storica si aggrappa all'ambiente per trovare una nuova ragion d'essere in un mondo in cui le classiche battaglie sul lavoro e il sociale hanno perso appeal presso le proprie constituency tradizionali.

In questo modo l'Europa diventa, ma sarebbe meglio dire torna a essere, terreno di battaglia tra élite urbane e cosmopolite e una sorta di provincia profonda transnazionale.

Come ogni dibattito politico fondativo, anche questo si serve di "colpi bassi" e scorrettezze propagandistiche capaci di fare presa diretta sull'opinione pubblica in epoca di voto liquido ed emotivo.

La principale distorsione riguarda l'etichetta di ideologia applicata all'ambiente.

In questo caso, essa è infatti utilizzata, da destra, come sinonimo di esagerazione, esasperazione antiscientifica, concetto di comodo per fare finta di sposare posizioni "realiste" o presunte "razionali" sulle transizioni sopra dette.

 In altre parole, i conservatori, non avendo il coraggio di sfidare apertamente le evidenze ormai troppo grandi anche per loro sul cambiamento climatico (anche se la tentazione del negazionismo è sempre dietro l'angolo), mirano a posticipare, ritardare gli obiettivi green perché le tabelle di marcia sarebbero troppo rigide e serrate, imponendo costi eccessivamente alti in termini produttivi e sociali.

Il risultato di questa operazione è comunque indistinguibile, nei fatti, da chi è ostile tout court alla transizione ecologica, per il semplice motivo che la velocità delle trasformazioni naturali in atto nel pianeta è tale che qualsiasi ritardo decisionale oggi si sommerebbe al ritardo originario, ormai acquisito, con cui già ci stiamo muovendo:

il tempo delle decisioni è già passato, e per quanto ci sembri di avere tempo, in realtà ne abbiamo già pochissimo, o forse per nulla.

Non si tratta di sposare visioni apocalittiche o, come sentiamo dire furbescamente, ideologiche, ma di prendere atto di quello che la scienza, quella vera (aggettivo che sarebbe pleonastico se solo si conoscesse a livello diffuso l'abc del consenso scientifico), ha già dimostrato.

Chi pensa di avere tempo e di poter prendere altro tempo sul surriscaldamento globale, sta solo perdendo tempo, e se non se ne rende conto, è pure peggio.

 Vi è anche un secondo motivo per cui l'accusa di ideologia green risulta risibile, ed è economico.

Le posizioni conservatrici, facendosi scudo con l'eufemismo della neutralità tecnologica, che tante volte ricorre di questi tempi andando a braccetto proprio con l'accusa di ideologia contro il fronte delle rinnovabili e dell'elettrico, proteggono nicchie di mercato, tanto oggi, quanto in futuro.

 Gli e-fuel, i biocarburanti, lo stesso idrogeno per il trasporto leggero non sono tecnologie che meritano il beneficio del dubbio, ma comparti produttivi destinati a rimanere marginali.

Legittimo difenderli alla luce del sole, meno lo è illudersi, o illudere, che possano cambiare le regole del gioco nella transizione, che sarà prevalentemente elettrica: non (solo) per decreto, ma (soprattutto) per scelta delle aziende a livello globale. Anche in questo caso prendere tempo altro non è che perdere tempo, cioè competitività nei confronti del resto del mondo.

Il momento degli investimenti è ora:

non farli o ritardarli potrà forse dare sollievo transitorio, ma nel medio termine acuirà le sofferenze proprio di quei settori o comparti che si vorrebbero tutelare.

Il mondo (e l'Est) non aspetta certo l'Europa.

 Queste considerazioni dovrebbero essere l'assunto di partenza di qualsiasi dibattito politico non ideologico sul clima, l'esatto contrario di quanto sta avvenendo.

 Ciò non significa che siano automaticamente sensati e scientificamente fondati tutti i provvedimenti che provengono da sinistra;

ma, al contrario, significa per la destra (almeno) rinunciare a ribaltare l'accusa di ideologia sugli avversari, perché l'unica ideologia visibile è travestire come esasperazione o eccessiva accelerazione un'urgenza che dovrebbe essere da tutti condivisa.

Nell'interesse di tutti.

 Purtroppo questo non avverrà per il motivo di cui si è parlato all'inizio:

le elezioni europee saranno il banco di prova di nuove formazioni politiche continentali, e la polarizzazione del dibattito rientra nelle convenienze per un grande ridisegno ideologico degli schieramenti, di uno in particolare, che peraltro ha già il vento in poppa e tutta l'intenzione di fare cappotto.

 

L’Europa è un bluff?

Sussidiarieta.net - Lucio Caracciolo - (10 GIU. 2024) ci dice:

 

L’Europa è un bluff dal punto di vista geopolitico perché non è un soggetto geopolitico.

 E questo ha precise implicazioni nei rapporti con le superpotenze o imperi.

 Stati Uniti in testa.

 Ci sono ragioni storiche e interessi dei singoli Paesi europei alla base di un europeismo che, nella sostanza, è fin qui mancato.

Un progetto difettoso perché pensato dalle élite per le élite.

Dunque, un’Europa che non è fatta dagli europei, ma un’Europa che è fatta per gli europei.

(L’intervento del direttore del mensile “Limes” alla Scuola di politica della Fondazione per la Sussidiarietà.)

Per argomentare il “bluff” parto dalla premessa che il mio, ovviamente, è un punto di vista geopolitico;

il che vuol dire che l’Europa, secondo me, è un bluff dal punto di vista geopolitico, perché non è un soggetto geopolitico.

Sento sempre dire “l’Europa è, l’Europa fa, l’Europa vuole”, ma di cosa stiamo parlando?

Dal mio punto di vista significa apparire ciò che non si è.

 Ma è necessario ricordare, seppur in breve, il percorso storico di questa parola, Europa.

Un grande Rotary.

L’idea geopolitica di Europa nasce quando le potenze europee cominciano ad auto distruggersi dopo la Prima guerra mondiale e finiscono di farlo con la Seconda.

Non è un giudizio di valore, è una constatazione di fatto.

Il primo ad articolare in maniera compiuta, e anche brillante, l’idea di un soggetto geopolitico europeo è uno strano personaggio che si chiamava “Richard von Coudenhove-Kalergi”, figlio di mamma giapponese e di padre aristocratico boemo, che subito dopo la Prima guerra mondiale pubblica il libro “Pan Europa” in cui sviluppa una tesi che ritroveremo articolata variamente dall’europeismo classico fino ai nostri giorni e cioè quella del mondo che si sta costituendo in grandi imperi regionali o continentali.

Le potenze europee hanno perso i loro imperi e per poter contare qualcosa nel mondo devono mettersi insieme e poter difendere gli interessi comuni nella partita diventata intercontinentale.

Von Coudenhove-Kalergi sostiene che ci siano un impero americano, un impero russo, parla addirittura di un impero sino giapponese, e così via.

Quindi ci deve essere un impero europeo, una pan-Europa e, a differenza di molti, se non quasi tutti, gli europeisti successivi, spiega anche di che spazio deve trattarsi:

 lo spazio che va dal Portogallo al confine con la Russia, quindi, fino alla Polonia e comprende – questo è importante ricordarlo – quello che residua, e all’epoca ne residuava parecchio, delle colonie europee, soprattutto in Africa ma anche in Asia.

 

Il progetto di von Coudenhove-Kalergi, come quasi sempre i progetti europeisti, è un progetto di élite, cioè si svolge in un ambito che potremmo chiamare anche massonico, che riguarda una parte non fondamentale, ma comunque importante delle élite europee.

Coudenhove organizzò anche una “società paneuropea”, si tenne un congresso in cui parteciparono grandi intellettuali, ma il problema dell’europeismo è che tende a essere un discorso di élite per élite o, per usare una frase di un contemporaneo, il commissario europeo “Barnier”, l’Europa non è fatta dagli europei, l’Europa è fatta per gli europei.

Questo è l’ideale europeista lanciato dal movimento paneuropeo che però era una specie di “grande Rotary”, in cui ci si incontrava tra personalità del mondo industriale, culturale, qualche politico, magari si facevano delle petizioni.

In seguito, l’europeismo rinasce in un contesto completamente diverso – parliamo della fine della Seconda guerra mondiale e della fine degli imperi coloniali.

 Un europeismo che, malgrado le resistenze, in particolare dei francesi, si consuma in un contesto in cui il mondo cambia di paradigma:

ci sono adesso solamente due grandi potenze che si affrontano, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica.

Uno degli aspetti meno indagati della geopolitica è che da parte americana, già durante la Seconda guerra mondiale, esisteva un contrasto non solo con l’Unione Sovietica ma anche con il Regno Unito e in generale con gli imperi europei.

La mia tesi è che esista un forte nesso tra l’affermazione degli Stati Uniti d’America come superpotenza in contrasto, in nome dell’Occidente, con l’Unione Sovietica e il mondo dell’ideologia comunista e la nascita di un europeismo che in qualche modo fruisce di questo contrasto e si pone chiaramente nell’ambito americano-occidentale.

Per essere ancora più chiaro:

 se gli americani non fossero rimasti in Europa nel 1945, se cioè avessero fatto quello che fecero nel 1919, cioè tornarsene a casa, non ci sarebbe stato l’europeismo che c’è stato.

Qual è il nesso tra l’affermazione della potenza americana e la nascita di un nuovo europeismo?

 Il contesto della sfida tra un Occidente a guida americana e l’Unione Sovietica, in cui l’Europa gioca, dal punto di vista americano, un notevole ruolo.

Ancora oggi noi viviamo in uno spazio euro-atlantico e lo vediamo semplicemente da un fatto, molto banale:

i Paesi che stanno nell’Unione Europea sono oggi anche quasi tutti Paesi che stanno nella NATO e non è un caso.

 Il progetto dell’Europa ha come premessa logica e fattuale la decisione americana di restare nel vecchio continente e di organizzarlo come un proprio impero informale ma quantomai cogente, che si concretizza nelle seguenti tappe:

• 1945, gli americani restano in Europa, si comincia a organizzare il blocco europeo in funzione antisovietica in particolare contro il blocco di Europa controllato dall’URSS;

• 1947, piano Marshall, cioè teniamo in piedi le economie europee per impedire che il comunismo attecchisca approfittando delle crisi e degli orrori del dopoguerra;

• 1949, nasce la NATO, e questo è un passo fondamentale, cioè l’organizzazione anche militare della presenza americana in Europa che vige tuttora;

  anni Cinquanta, nascono le cosiddette comunità europee.

 

C’è un aspetto particolare nella nascita della prima Europa: essa recava una forte impronta francese perché americani e francesi, pur essendo molto diversi, hanno sempre convenuto e tuttora convengono che la Germania vada tenuta sotto controllo.

Uno degli aspetti fondamentali della costruzione europea è impedire che la Germania diventi di nuovo dominante in Europa.

Il fatto forse più clamoroso nei tempi più recenti di questa vocazione anti tedesca dell’Europa, che rende paradossale costruire un progetto continentale in cui il problema è quello di impedire che il principale soggetto di questo continente diventi troppo importante, è ovviamente la nascita dell’euro;

 ovvero, quando i francesi decisero che, allo scopo di punire i tedeschi per essersi riunificati, dovevano cedere il marco contro la loro volontà e il primato della Bundesbank.

Questo movimento pro-europeo della Francia si configura come un prolungamento della Francia stessa.

 Va anche detto che quasi tutti i Paesi che entrano poi gradualmente nello spazio comunitario e poi nell’Unione, lo fanno a partire dai propri interessi.

 Si tende a negarlo, ma si entra in Europa per migliorare la propria condizione, il proprio rango.

 Ad esempio, la Polonia quando entra nell’Unione Europea lo fa essenzialmente per avere i fondi europei e, fra l’altro, a differenza nostra, li gestisce anche piuttosto bene.

 Alcuni Paesi, come la Spagna, vedono nell’Europa un volano economico…

La Francia fu il Paese decisivo per ammettere l’Italia nella NATO perché, dal punto di vista francese, noi siamo una specie di piattaforma logistica che connette l’Europa all’Africa e, quindi, era importante che questa piattaforma logistica italiana potesse servire all’idea di “Eur africa” come si chiamava all’epoca.

Questa è la mia interpretazione di come questo sistema europeo che vediamo oggi sotto forma di “Unione Europea” sia figlio di un progetto geopolitico fondamentalmente americano, in parte francese e poi utilizzato dai tedeschi per riabilitare sé stessi dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale.

L’utile ambiguità.

Questo progetto europeo ha come caratteristica fondamentale quello di non essere mai stato identificato in modo preciso, non si sa mai bene dove cominci e dove finisca questa Europa, non si sa mai bene se sia uno Stato federale o semplicemente un mercato comune o qualche via di mezzo.

E questa ambiguità è fondamentale perché permette a ciascuno di interpretare il progetto secondo il proprio punto di vista, secondo i propri interessi, secondo la propria cultura e, quindi, ne permette teoricamente un allargamento illimitato.

Nessuno ha ancora definito quale sia l’Europa, chi può legittimamente ambire a entrare in questo spazio.

 Vedremo se ci entrerà l’Ucraina, ma non credo che questo, eventualmente, potrà succedere in tempi ravvicinati.

Vedremo che cosa ne sarà dei Balcani, ma la vaghezza è fondamentale.

Come diceva “Jean Monnet”, l’importante non è sapere dove si va, ma è procedere in un modo brillante, svelto, per non dover verificare l’esito delle proprie azioni.

Perché dicevo che è un bluff?

Nella parola bluff non c’è semplicemente il tentativo di mostrare come le apparenze e la realtà siano piuttosto diverse, ma c’è il fatto che questo sistema europeo non è mai diventato un soggetto geopolitico.

 La Francia, la Germania, un po’ meno l’Italia e altri Paesi sono protagonisti della scena internazionale e della competizione geopolitica internazionale per conto loro.

Nessuno pensa che esista una politica europea e che il signor “Borrell” rappresenti qualcosa, però noi continuiamo con questa finzione perché, evidentemente, ci dà il senso di avere una soggettività.

Quando si tratta di parlare di questioni concrete di geopolitica non si va a parlare con” Borrell “o con la signora “von der Leyen” ma si va a parlare con quelli che contano, che siano” Macron”, “Meloni” o “Scholz”, cioè i titolari di quello che c’è ancora di sovrano in questi Stati.

 

Il popolo europeo che non c’è.

Quello che spicca nel sistema europeo è che, per definizione, non può essere un sistema democratico.

Questo è un aspetto che viene considerato quasi normale.

Noi definiamo Parlamento qualcosa che in qualsiasi Stato democratico non potrebbe essere mai considerato tale.

Il Parlamento europeo non controlla un governo europeo che non c’è o fa delle leggi di propria iniziativa.

Quindi non ha, perché non potrebbe averla, una base democratica e una delle ragioni è che non esiste un popolo europeo.

 Esistono popoli europei, esistono anche popoli che dentro le nazioni europee pretendono di avere un proprio Stato, penso ai catalani, penso ai corsi, ce n’è per tutti i gusti, ma certamente non esiste un popolo europeo e la riprova di questo, se ce ne fosse bisogno, sta nel fatto che non esiste nessun media che sia spendibile ugualmente dall’Irlanda a Cipro, dalla Lettonia al Portogallo.

Non si può parlare allo stesso modo a questi popoli europei come se fossero un solo popolo, perché l’Europa è un continente geograficamente piccolo ma molto complesso dal punto di vista storico, in cui anzi oggi ciascun Paese tende sempre di più a enfatizzare la propria storia, a reinventarsela, a ricostruirsela per legittimare il proprio status; e non è evidentemente immaginabile che un polacco pensi di essere come un portoghese o viceversa.

Un’altra evidenza di questa impossibilità di costituire una statualità europea consiste nella impossibilità di avere una difesa europea, a meno di non pensare che la difesa europea non sia un gruppo di mercenari che si mette al servizio della signora” von der Leyen”.

Per avere un esercito si deve avere uno Stato, e non essendoci uno Stato europeo non si capisce come si possa immaginare una difesa europea, a meno di non immaginare un sistema di rotazione nel quale per sei mesi comanda un generale polacco e quindi, magari, attacca la Russia;

sei mesi dopo comanda un generale portoghese che si occupa d’altro e un generale italiano, quando gli tocca questa responsabilità, si chiude nella sua caserma.

 La difesa europea avrebbe senso a due condizioni:

la dissoluzione degli Stati Uniti d’America, cioè del collante strategico e militare dell’Europa e, contemporaneamente, la nascita degli Stati Uniti d’Europa.

Un altro paradosso è che, da quando abbiamo costruito le comunità e poi l’Unione Europea, in Europa si sono moltiplicati gli Stati, gli staterelli, i mezzi Stati, nello spazio europeo, così come viene descritto normalmente dai geografi, esistono, a seconda di come si contano, più o meno 55 Stati.

 Nell’Unione Europea ce ne sono 27, quindi meno della metà.

Alcuni Stati esistono sulla carta ma non esistono di fatto, altri esistono di fatto ma non sulla carta, un esempio del primo tipo è la Bosnia, un esempio del secondo tipo potrebbe essere il Kosovo che, secondo noi, è uno Stato indipendente, mentre secondo gli spagnoli non lo è.

Questa diversità all’interno dello spazio euroatlantico, sottolineo atlantico, è resa più evidente dalle guerre in corso, in particolare dalla guerra in Ucraina e dalla crisi della superpotenza che, appunto, dal 1945 ha strutturato in gran parte il nostro sistema, l’America.

A mio avviso si tratta di una crisi strutturale, identitaria, non semplicemente di un passaggio di fase e questo, evidentemente, complica la nostra situazione perché obbliga i vari Paesi europei, tra cui il nostro che non è abituato, ad assumere le responsabilità che prima delegava e tuttora delega agli Stati Uniti in campo militare o alla Germania in campo di politiche fiscali, monetarie ed economiche.

 

L’avanguardia antirussa.

Le guerre accentuano le divisioni all’interno dell’Europa;

accentuano gli egoismi nazionali, ognuno cerca di farsi i fatti propri e di scaricare sugli altri i suoi problemi.

In particolare, se guardiamo la guerra in Ucraina e guardiamo lo spazio euroatlantico, vediamo innanzitutto una fascia di Paesi che va dalla Scandinavia fino alla Romania e alla Bulgaria, con la Polonia che funge da perno di questo sistema e che il presidente Biden, in un momento di lucidità, ha definito l’avanguardia antirussa.

Paesi che per ragioni storiche, strategiche e culturali o sono stati invasi o hanno invaso la Russia, hanno una profonda diffidenza nei confronti di questo Paese, qualunque sia il suo regime e il suo sistema e sperano che questa guerra non solo finisca con la ritirata russa dall’Ucraina, ma con la ritirata russa da se stessa, cioè finisca con la dissoluzione dell’impero russo.

 Non è questa certamente la visione che hanno i francesi, i tedeschi, gli italiani o gli spagnoli, quindi possiamo distinguere un’Europa orientale, del nord-est e un’Europa occidentale.

Allargando il discorso, abbiamo sul fronte sud un Paese atlantico non europeo che è la Turchia che, pur essendo e restando membro della NATO, si muove come se fosse un Paese totalmente autonomo e dedito a ricostruire una sua dimensione imperiale a cui non vuole rinunciare.

E, a proposito della guerra in Ucraina, si tratta, sostanzialmente, di una guerra che dura da più di cento anni in varie forme e in diverse fasi.

E rischia di continuare ancora per parecchio tempo.

Dovremmo occuparci dello spazio ucraino che è più o meno il doppio dell’Italia. Sarà difficile risolvere questo problema, a meno di non accettare l’idea che se ne occupino i russi.

La mia personale impressione è che i russi, più di tanto, non solo non possono ma non vogliano occuparsene perché significherebbe dover gestire un Paese che in gran parte è contrario alla Russia e non accetterebbe di buon grado la sua dominazione.

L’articolo è una sintesi dell’intervento a” Europa Futuro Presente”, sesta edizione della Scuola di formazione politica “Conoscere per decidere”, organizzata da Società Umanitaria, Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine e Fondazione per la Sussidiarietà, Milano, Società Umanitaria, 12 marzo 2024.

(Lucio Caracciolo è giornalista e scrittore italiano, dirige la rivista italiana di geopolitica “Limes” e Scuola di Limes; è stato caporedattore di “MicroMega”. Insegna Studi strategici all’Università Luiss di Roma e Geopolitica all’Università San Raffaele di Milano.)

 

 

 

 

Significati Impliciti

nell’Affondamento del “Bayesian.”

Conoscenzealconfine.it – (2 Settembre 2024) - Claudio Martinotti Doria – ci dice:

 

Agire in modo così deciso e diretto significa lanciare un messaggio duro che andrà certamente a destinazione ben interpretato dalla controparte.

Non ci sono spazi per gli equivoci o i malintesi.

Il “Bayesian” è un grande veliero moderno (yacth – nave) da 56 mt di lunghezza con un albero da 75 mt di altezza, talmente importante e peculiare da essere descritto in un’apposita scheda su Wikipedia.

Non è una nave comune e diffusa come modello, la “Perini Navi di Viareggio” ne ha costruite solo una decina su commissione, con un lusso e una dotazione strumentale tecnologica senza precedenti.

L’azienda produttrice tiene corsi di formazione e aggiornamento per gli equipaggi che poi dovranno occuparsi di farli navigare per conto degli acquirenti, già questo fatto fa decadere ogni dubbio su eventuali incompetenze per rendere il personale di bordo responsabile di qualche colpa, o capro espiatorio.

Senza contare la dotazione tecnologica di bordo, talmente avveniristica che diventa difficile descriverla, per cui a eventuali manchevolezze umane provvederebbe in automatico qualche sistema di allarme.

Si potrebbe dire che ogni possibile rischio è stato previsto adottando adeguate contromisure.

Se i giornalisti avessero letto la scheda tecnica sulla nave non avrebbero scritto quelle assurdità sulle improbabili (spesso ridicole) cause dell’improvviso affondamento.

Il mio breve intervento non ha alcuna intenzione d’informare su fatti di cronaca inerenti l’ evento, di articoli sul web ne troverete a iosa, con la lista dei passeggeri, delle vittime e delle ipotetiche cause, motivazioni, mandanti, strane coincidenze e correlazioni, ecc …

 

Mi limito solo a riflettere su cosa possa significare un simile grave evento nella panoramica generale dell’attuale momento storico e geopolitico che stiamo vedendo e che ci riserva quasi ogni giorno delle sorprese, spesso per nulla piacevoli per non definirle angoscianti.

A bordo del veliero c’erano persone potenti e colluse con alcuni servizi segreti occidentali e similmente all’episodio avvenuto l’anno scorso sul Lago Maggiore, erano a bordo apparentemente per festeggiare qualcosa.

Una specie di gita turistica finita male.

Similitudini paradossali e tragiche.

Il veliero era ritenuto inaffondabile, i tecnici spiegano che è strutturato in un modo tale che tramite sottostante zavorra (sotto lo scafo) è in grado di inclinarsi lateralmente fino a 75 gradi, quindi neppure una tempesta oceanica o un uragano potrebbe scalfirlo e/o affondarlo.

Infatti pare sia attualmente in fondo al mare a poca distanza da Palermo a 50 mt di profondità, piegato con il lunghissimo albero ancora integro in posizione orizzontale, e pare non vi siano danni allo scafo, anche se i servizi segreti britannici pare impediscano di immergersi e scattare foto (a volte non saprei dire se siamo più una colonia britannica o statunitense … ).

Se c’erano a bordo documenti sensibili e una scatola nera, avranno già provveduto a farli sparire o sostituire con qualcosa di innocuo.

Da un evento di una tale gravità si può evincere qualche concetto di base.

In primo luogo per colpire persone tanto potenti occorre esserlo altrettanto, se non di più, quindi chiaramente c’è una lotta in corso tra “titani”, in parte scoperta, ma perlopiù nascosta, sottotraccia, dissimulata, camuffata, resa invisibile tramite abili sotterfugi e coperture, in modo che passi perlopiù inosservata.

In secondo luogo occorre possedere mezzi, strumenti e armi altamente tecnologiche e sofisticate, ignote al pubblico, quindi mai usate pubblicamente e riportate mediaticamente, ma semmai collaudate segretamente e sempre utilizzate con cautela e riservatezza, prendendo ogni precauzione per evitare testimoni e fughe di notizie.

In terzo luogo avere la determinazione di agire in modo così deciso e diretto significa lanciare un messaggio duro che andrà certamente a destinazione ben interpretato dalla controparte.

 Non ci sono spazi per gli equivoci o i malintesi.

Le motivazioni possono essere molteplici, possiamo solo ipotizzare non avendo sufficienti elementi per un’analisi accurata.

Potrebbe essere una punizione o vendetta, una ritorsione, un’azione preventiva per evitare che arrecassero danni, nel caso tramassero qualcosa, ecc…

Una cosa è certa, le armi che a noi sembrano già alquanto tecnologicamente avanzate, che stanno provando e perfezionando sugli scenari di guerra in corso, sono un’inezia in confronto a quelle di cui dispongono le grandi potenze, forse frutto di retro-ingegneria, che sono in grado di colpire chiunque e ovunque, simulando un evento climatico o accidentale, come sono convinto sia avvenuto ad esempio nell’isola di Maui nelle Hawaii l’estate scorsa.

Temo che il possesso di tali armi micidiali e l’impunità cui sono ormai abituati da troppo tempo i veri detentori del potere e le sempre più estese complicità e alleanze reciproche, potrebbero indurre queste forze contrapposte a ricorrervi sempre di più fino ad abusarne, rendendoci sempre più spettatori passivi e perplessi, se non a volte vittime di effetti collaterali.

Non so voi, ma io sono alquanto preoccupato e inquieto.

Un caro saluto.

(Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria)

(cavalieredimonferrato.it/)

 

 

 

 

Riprendere in mano

l’autogoverno delle società.

Suissidarietà.net - Nadia Urbinati - Redazione di Nuova Atlantide – (6 -GIU. 2024) – ci dice:

 

La frammentazione e il disordine globale.

 Le debolezze di Stati Uniti, Russia e Cina e il riassetto dei blocchi.

Il possibile protagonismo dei Paesi del sud del mondo.

Gli attori politici e sociali oggi nelle democrazie e nelle autocrazie.

Quel che resta del popolo. La crisi dei partiti e delle rappresentanze. L’ineguaglianza di intermediazioni.

La storia “creativa” della democrazia.

 La post industrializzazione, la rinascita del sociale e la buona politica.

Dialogo a tutto campo con la docente di Teoria Politica alla Columbia University di New York.

 

Negli ultimi quattro anni, a livello mondiale, è successo un po’ di tutto.

Tra le altre cose una pandemia globale, una guerra di invasione, una crisi energetica senza precedenti, un arretramento degli Stati rispetto alle disuguaglianze che incrementano, il numero degli abitanti del mondo retti da governi democratici che diminuisce;

 e ancora dal 7 ottobre 2023 un conflitto in Medio Oriente che si è già esteso in maniera preoccupante, oltre a un numero di guerre – che vengono definite a bassa intensità ma comunque guerre – sparse per il mondo di cui ci si occupa nulla o quasi ma che a loro modo contribuiscono allo stato di alterazione del pianeta.

 Ce n’è a sufficienza per affermare la crisi conclamata della globalizzazione per come l’abbiamo fin qui conosciuta e vissuta.

Siamo nel pieno della frammentazione, del disordine.

 Noi avvertiamo l’urgenza di dare spazio a una domanda di comprensione. Professoressa Urbinati, a suo avviso questo tentativo di messa a fuoco su cosa dovrebbe concentrare prima di tutto l’attenzione?

 

Per provare a comprendere quel che sta succedendo a livello globale, occorre porre l’attenzione, innanzitutto, sulle debolezze di Stati Uniti, Russia e Cina.

È in corso un processo di trasformazione di questi poli, di questi blocchi, diciamo di questi imperi, che sta mettendo in discussione la loro capacità di dominio sull’intero mondo.

 E di misurazione delle loro rispettive forze o debolezze, preludio a un nuovo ordine mondiale.

Che, difficilmente, sarà bipolare.

Forse tripolare;

un ordine che imponga una sorta di autocontrollo che agisca su interessi incrociati o timori reciproci dei tre soggetti.

Va detto che le decisioni che si assumono a livello mondiale risentono e dipendono dalle debolezze interne di questi Paesi.

 Negli Stati Uniti (dove, a differenza degli altri due Paesi, le questioni politiche sono di dominio pubblico) lo si vede in misura eclatante.

La prevedibilità che vi era in passato sembra oggi svanita a causa della “scheggia impazzita” che si chiama” Donald Trump”, un fattore di incertezza e di eccezionalità di cui non si può non tener conto.

Un elemento di altrettanta imprevedibilità domina la Russia.

Ovviamente la politica di Putin è assai meno aperta all’imponderabilità, poiché quello che di essa sappiamo è quello che il Cremlino vuole farci sapere.

Circa la Cina, essa sta attraversando una fase di trasformazione non solo politica (ulteriore accentramento del potere del leader), ma anche demografica ed economica.

 Il declino delle nascite e la necessità di aprire all’immigrazione sono fenomeni destinati a mutare il volto di quel Paese.

 Un processo trasformativo che toccherà anche il livello di consenso e di armonia che, in una qualche misura, nel bene e nel male, finora la società cinese ha avuto. Dunque, la questione del nuovo ordine internazionale è strettamente correlata al disordine o alle trasformazioni interne agli Stati imperiali.

E nello scenario prospettico appena disegnato avranno un ruolo i Paesi del sud del mondo?

 

L’Asia sente in misura molto conflittuale, preoccupata, il ruolo della Cina.

L’India, in modo particolare, non accetta di essere una realtà subalterna a Pechino. Il metodo cinese prevede la creazione di rapporti di dipendenza e di alleanze con i Paesi che domina, come in America Latina (con il Cile come pure, in parte, con l’Argentina) e in Africa.

La Cina compra e costruisce: le relazioni di stretta dipendenza le attiva soprattutto per via mercantile.

Pensiamo alla sua presenza nel Golfo Persico, laddove oggi ha un’influenza molto significativa mentre gli Stati Uniti – lo vediamo nel disordine in Medio Oriente – ha difficoltà a controllare i propri Paesi di riferimento o a tenere sotto controllo i conflitti.

Lo stesso vale per la Russia, ad esempio, presente in Medio Oriente ma non più con un ruolo di protagonista.

 

Qual è il nesso tra la “crisi delle democrazie” all’interno e l’incapacità di governare all’esterno?

Io cercherei di usare la parola “crisi” con oculatezza.

Nel senso che le democrazie sono il governo della crisi, da quando esistono, perché aperte alle possibilità di diverse maggioranze, perché aperte positivamente al conflitto e quindi alla contestazione.

Tutto quello che si sa delle democrazie, non si sa, invece, dei Paesi autocratici.

 Ad esempio:

cosa sappiamo noi della Cina rispetto a quello che sappiamo degli Stati Uniti?

Ciò non significa che in Cina, perché non lo sappiamo, non vi siano crisi. Questo per ribadire che utilizzerei la parola “crisi” riferita alle democrazie con molta parsimonia:

sono governi della crisi.

Il problema, semmai, è se riescono a governare le contestazioni interne; il problema riguarda i protagonisti della crisi, gli attori politici e sociali.

Gli Stati Uniti si trovano oggi in questa contingenza che è segnata da una polarizzazione che appare impermeabile al compromesso e quindi può essere destabilizzante.

 Il problema sta negli attori, non nelle istituzioni.

 Ecco perché tra i democratici si riscontra una rivalutazione del ruolo indipendente dello Stato rispetto alle maggioranze politiche.

Se “Donald Trump” dovesse diventare di nuovo presidente la sua prima azione, facendosi forte del precedente mandato, sarà sostituire i giudici, soprattutto quelli che si occupano della giustizia elettorale;

 e gestire così, in pratica, non solo le campagne elettorali, ma anche il giudizio sulla legittimità delle stesse, come abbiamo visto in Georgia e altrove.

Ci si deve aspettare che Trump attui misure molto problematiche per lo Stato di diritto; tenterà di infiltrarsi nella macchina dello Stato, destabilizzandola.

L’America oggi dimostra di avere più una crisi a livello di leadership politiche piuttosto che nelle istituzioni.

È una crisi dei partiti e, per il partito repubblicano, è una crisi di sistema.

Trump ha messo in discussione il concetto di opposizione legittima e lo ha voluto manifestare in molti modi e in diverse occasioni.

Si tratta di un tentativo di erosione della possibilità della normale alternanza elettorale che si era venuta a costruire nel corso della storia americana e che trova riscontro teorico nell’”idea di Schumpeter” di democrazia come metodo di competizione e selezione della leadership.

Cioè come normale circolazione della classe politica di governo, attraverso le elezioni e non con il ricorso alla violenza.

Questo è il problema serissimo della crisi della democrazia americana. Trump, per la prima volta, ha messo gli elettori di fronte al problema della non accettazione del loro voto nell’eventualità di un esito elettorale non favorevole.

 Un processo di vera e propria destabilizzazione.

Ciò non succede nella democrazia, dove non si fa saltare il tavolo se si perde e non si abusa della propria vittoria se si vince.

Trump ha cercato di far saltare quel tavolo.

Quando rivendica l’immunità per i disordini del 6 gennaio 2021, dopo aver perso le elezioni presidenziali, lui compie un gesto nella direzione della tirannia, che significa mettere qualcuno al di sopra della legge.

Trump tira la corda su un aspetto che i costituzionalisti chiamano “tiranno fobia”, sulla quale è nata la Repubblica americana.

Questa situazione è l’espressione di una crisi profonda della classe politica statunitense. Una situazione che non può non preoccupare.

In tutto questo si avverte un grande assente: il popolo.

O, perlomeno, una trasformazione del suo ruolo, della sua funzione; un deciso minor protagonismo nelle democrazie che nella sostanza si riduce all’esercizio del voto.

Questo è un tema assai importante. E riguarda l’interpretazione della democrazia che, nella sua versione più minimalista, entro la quale noi tutti ci muoviamo, ha collocato il popolo nella Costituzione come “fictio iuris”, come finzione giuridica necessaria per stabilire la legittimità delle decisioni che vengono prese da chi opera nelle istituzioni.

Però il “Popolo” e il “popolo” non sono la stessa cosa;

politicamente parlando, il popolo non è uno, ma è plurale e diviso, bisognoso di intermediazione, di associazioni e di partiti per aggregarsi in interessi e prospettive politiche con le quali concorrere al governo del Paese.

E, in questo modo, pur in maniera indiretta, il popolo plurale partecipa alla vita pubblica.

Il problema del nostro tempo è che molta di questa ricchezza politica è deperita, per cui è rimasto il “Popolo” della Costituzione che, senza la sua parte pratica e politica acquista il carattere di una finzione più che giuridica – una finzione vera.

Eppure, non è propriamente esatto dire che oggi non vi siano intermediazioni.

 Il problema è che assistiamo, piuttosto, a un’ineguaglianza di intermediazioni, a un’ineguaglianza di potere sociale in grado di influire sul potere politico.

Ineguaglianza perché una parte della società – la classe media e la classe alta ben strutturate, preponderanti economicamente e socialmente – beneficia di intermediazioni.

È l’altra parte della popolazione – i più poveri o i più disagiati – che viene privata di questa forza e quindi la sua voce non è sentita e misurata.

Pertanto, disponiamo di una democrazia nella quale la parte sociale più solida e più organizzata riesce ad avere una reale influenza politica.

È questo schema che Trump ha esaltato diventando il leader populista che abbiamo imparato a conoscere;

egli è stato capace di catturare i voti di coloro che non avevano intermediazioni forti, in grado di influire sul potere di Washington.

Questa è la fotografia della società postindustriale.

Gli effetti che sta producendo sono drammatici.

Il professor “Angus Deaton”, premio Nobel per l’Economia, nel suo libro “Deaths of despair and the future of the capitalism”, scritto insieme ad” Anne Case,” offre un resoconto puntuale di come negli Stati Uniti sono aumentati, nella fascia socialmente più fragile della popolazione, i suicidi per disperazione economica ed esistenziale.

 Una popolazione dell’America di mezzo, cioè dal Montana all’Illinois, abbandonata a sé stessa.

 È un’America che non ha più lavoro; un’America priva di luoghi di incontro, di realtà di mutuo soccorso, con la caduta verticale della partecipazione alla vita delle chiese e dei sindacati.

 Vi è una solitudine sociale vera, un’assenza di relazioni umane e politiche che è diventata – per questa popolazione – anche una questione di salute mentale.

Di qui l’incremento di suicidi e depressioni e l’uso massiccio di oppiacei, ormai una piaga sanitaria e sociale.

Il popolo oggi è come diviso in due parti.

Una parte impotente, impoverita, abbandonata;

una plebe ormai senza alcuna struttura associativa.

Mentre l’altra parte si ritrova ancora nel Popolo della Costituzione perché, in un certo qual modo, riesce a influenzare la politica.

Ecco, la disuguaglianza politica – o di mezzi – per influenzare la decisione.

Ma allora, in una democrazia indiretta come la nostra in quanto basata sulla rappresentanza elettorale, è accettabile che una parte di popolo, per un certificato senso di impotenza, non vada più a votare?

 Questa parte di popolo avverte tutta l’incapacità di poter incidere.

 Senza potenza associativa il voto vale veramente solo uno; e uno rispetto a milioni è meno di niente.

Questo è il vuoto associativo che diventa indebolimento della democrazia.

Questa parte di popolo si trova fuori dai radar, fuori dall’azione effettiva.

In diversi casi – e ormai solo in quelli – vediamo questo popolo emergere come i soffioni di Pozzuoli, così all’improvviso, generando forme di ribellione, di scontento evidente.

Per farsi vedere, per dare un segno di sé al mondo politico, al mondo dell’audience che non ha – perché l’audience si occupa esclusivamente di quel che misura in termini di piacevolezza, desiderio, opinione.

Pertanto, i media interrogano una parte e solo quella parte lì;

e quello scampolo diventa tutto il popolo.

 Oggi lo scampolo dei media diventa “il popolo dice”, “l’opinione dice”, che è una costruzione risibile, in quanto rappresentativa di una piccola percentuale costruita per lo scopo che si intende ottenere, secondo un criterio di proporzionalità dei gruppi sociali più rappresentativi e rappresentati.

 L’audience costruisce un popolo a sua immagine e somiglianza.

La scomparsa del sociale è il punto drammatico delle democrazie.

Perché il sociale è il luogo dell’aggregazione, della solidarietà autonoma dalla politica, che lievita dal basso, che si auto crea.

 La sua scomparsa ha prodotto una politica divenuta l’espressione della parte più forte del popolo.

Oggi, in generale, viviamo una politica decisamente più oligarchica.

Mi sembra che viviamo l’assenza di contrapposte e vere visioni politiche.

 Io ho letto recentemente i diari di Nenni.

A un certo punto lui si sofferma sulle elezioni.

 Scrive che nel 1963 in Italia votava il 92,9% degli aventi diritto, nel 1968 il 92,1%. Ebbene, il leader socialista sottolinea con preoccupazione il calo di duecentomila persone, la sopraggiunta incapacità di coinvolgerle, ma allora c’erano i partiti che si preoccupavano.

Progressivamente tale preoccupazione è andata a scemare.

Oggi siamo arrivati all’assenza dell’offerta politica.

E sono stati gli stessi partiti ad auto-suicidarsi.

Ricordo che nel 1981 ci fu una rissa estiva che coinvolse il quotidiano l’Unità. L’acceso confronto fu tra Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano.

Il segretario del PCI aveva rilasciato una famosa intervista a Eugenio Scalfari su la Repubblica nella quale, affrontando il tema della questione morale, attaccava i partiti responsabili, a suo dire, di aver perso la loro funzione.

 Gli aveva risposto il futuro Presidente della Repubblica con un pensiero che condivido:

“È inutile stare a vedere e difendere quello che eravamo noi o che siamo noi. Cerchiamo di adeguarci”.

I partiti hanno costruito la democrazia.

La democrazia non c’è se non ci sono i partiti. Le due cose si tengono insieme, cadono e vivono insieme.

Quali che siano i partiti.

Può essere un partito organizzato capillarmente nella società, può essere un partito di notabili, o può essere un gruppo di interesse, ma è sempre una parte. Partecipare vuol dire stare da una parte:

posizionarsi in una parte dello spazio politico.

Quindi la partecipazione è “partito”, è parte.

 

Il problema è come sono i partiti.

 Perché i partiti ci sono sempre e ci saranno finché c’è democrazia.

 E senza democrazia saranno clandestini, ma ci saranno.

Perché noi siamo esseri di parte, non siamo esseri imparziali, anche se lo desidereremmo.

Il problema è la forma.

“Bernard Manin” nel suo libro “Principi del governo rappresentativo” fa una specie di storia della democrazia elettorale scandita in base alla forma delle aggregazioni politiche.

Nell’Ottocento erano notabili, poi, nel Novecento, sono diventati partiti di massa.

Oggi noi abbiamo da un lato i partiti cartello e dall’altro lato l’audience.

Ma, nell’Ottocento, i partiti dei notabili erano la rappresentazione di una società non democratica, ovvero degli interessi dei pochi che votavano.

 Erano contenti di quella realtà proto democratica.

La percentuale massima di aventi diritto al voto erano, nell’Inghilterra della riforma del 1832, circa il 20%.

Nell’Italia postrisorgimentale la percentuale era ancora più bassa.

Questo per dire che c’è una correlazione tra chi è il popolo e chi lo rappresenta. Con il processo di estensione del suffragio, i partiti dei notabili sono andati in crisi.

 Si è affermato un attore collettivo nuovo, rappresentativo di una pluralità di interessi e, quindi, anche di una legittima contrapposizione:

 i partiti sono la forma condivisa di istanze che emergono dalla società.

Nascono così i partiti di massa.

E sono questi a essere andati in crisi. La crisi dei partiti di massa è la crisi della democrazia dei partiti di massa.

Che cosa è diventato oggi il partito politico?

 È dal 1994 che in Italia stiamo producendo populismo.

Via via, senza interruzioni

. E ciò vale per tutti i partiti.

Se poi si vuole ricostruire la storia della crisi, occorrerebbe tornare al primo convegno che si tenne, nel 1966, alla “fondazione Gaetano Salvemini” di Firenze proprio sulla crisi dei partiti.

Allora si trattava di un’analisi della parlamentarizzazione dei partiti che li portava a diventare degli apparati.

Adesso non sono più neanche quello;

diventati candidature “à la carte” che durano il tempo di un pranzo, cioè di una campagna elettorale, di una vittoria elettorale, e via di questo passo.

Si è esaltato il partito leggero, liquido, con grande entusiasmo;

si è tifato senza freni per l’antipartitismo perché, con tangentopoli, i partiti erano ormai solo un fattore negativo.

“I partiti sono tutti uguali” era lo slogan populista di quegli anni e degli anni a venire.

 Addirittura, il partito come fattore pestilenziale.

Da qui bisogna ripartire. Beninteso, senza tornare indietro perché i parti di massa sono finiti per sempre. La strada è reinventarli. E la reinvenzione avviene a partire dalla società.

Quello che manca, e di cui c’è assoluta necessità, è che la società si costruisca in corpi intermedi referenti.

E non è la società civile di cui si parlava negli anni Ottanta, vale a dire gli imprenditori che diventano bravi leader politici.

 No, sono i bisogni sociali che devono trovare voce politica.

 E questi bisogni sociali vanno organizzati, tenuti insieme.

 Parlare di bisogno significa una cosa precisa:

 che c’è un bisogno di quel tipo di politica anziché di questa che circola ora.

 Si tratta, prima di tutto, di avviare un percorso di costruzione relazionale dal basso.

L’alternativa è quella di adattarsi a diverse forme di democrazie populistiche.

E avanti così verso forme monocratiche che procedono, a loro volta, verso forme autoritarie di democrazia che dovremmo definire tecnicamente come “autocrazie elettive”.

 

E come si può invertire la rotta?

 È difficile perché c’è l’audience che oggi domina la formazione del consenso. Insomma, è una sfida.

Tuttavia, siccome io sono un’ottimista, dico che le democrazie sono sempre state capaci di trovare una soluzione, anche quando hanno dovuto soffrire nel deserto e fare una lunga traversata.

La storia della democrazia è una lunghissima storia “creativa”. Questo è un momento di grandissima crisi di alcune istituzioni, abbiamo appena descritto quella dei partiti.

Ci sono difficoltà reali di un sistema che non funziona come in passato e, quindi, è il momento di promuovere opportunità.

Di attivarsi con interventi creativi.

Il fattore tempo è prezioso.

 Oggi, nel mondo della scienza politica, in una parte di essa legata ad alcuni think tank, vanno sviluppandosi riflessioni su forme antielettorali di democrazia.

Una nuova democrazia basata su sorteggi selettivi, cioè pezzi di popolazione divisi secondo comunanze varie:

donne, età o per condizione sociale e così via.

Da questi scampoli di società derivano rappresentanti sorteggiati che in assemblee decidono su un singolo problema per volta.

Senza più l’unità che è caratteristica propria dell’assemblea nazionale o, comunque, popolare. Siamo in una fase storica di forte ricerca, anche grazie alle nuove tecnologie.

C’è un’ala interna alle analisi sulla democrazia che non vede più il futuro nelle elezioni.

 Oppure, se le elezioni devono continuare ad esserci, è solo per eleggere singole figure, per esempio il presidente.

Mentre per i corpi collegiali o collettivi vanno pensate altre forme.

È certo una cosa avveniristica.

Ma desta preoccupazione anche il solo pensarlo.

Intanto la Cina usa le assemblee sorteggiate per risolvere problemi senza conflittualità.

Occorre consapevolezza dei rischi che contengono queste forme tecnocratiche e non politiche.

Si tratta di risposte sbagliate a problemi veri.

Non si può accettare che i partiti diventino soggetti “cartellizzati”.

Che non ci rappresentino in qualche modo.

Mi par di capire che si può tentare una comprensione di un possibile nuovo ordine mondiale indagando qual è la vita vera, quali sono i rapporti tra il sociale e la politica e quindi, come dire, riflettere sulle governance interne a ciascuna realtà.

Focalizzarsi innanzitutto su quello per poi capire quale può essere un discorso di nuova globalizzazione possibile che può venire, come afferma il professor Rajan” nel suo Terzo pilastro dal contributo decisivo delle comunità locali che si mettono insieme.

 

Direi che al lavoro sulle governance interne (nazional statali) debba affiancarsene un altro, quello che investe le regioni del globo.

 Le attività di interrelazione fra regioni sono decisive;

 oggi va compreso come operano, chi le tiene mano.

E bisogna dire che, purtroppo, non sono le associazioni a essere protagoniste.

Paradossalmente, nel mondo della difficile globalizzazione, ritorna importante che vi sia una comunità locale alla radice di tutta la piramide.

Oggi, anche se sembra poca cosa, è opportuno ripartire, riprendere in mano l’autogoverno delle società;

rilanciare e riportare in auge un argomento così minoritario.

Il che significa tornare a un tema totalmente obliterato:

riaccendere l’attenzione sulla questione sociale.

Occuparsene significa porre le condizioni per incidere sull’economia e, quindi, sul modello di sviluppo dello Stato sociale.

Ritengo che nell’epoca della post industrializzazione il sociale resti il punto cardine da cui rimettersi in moto.

 La buona politica non è quella che sta lontano. La buona politica è quella che si lega, che si relaziona per davvero con il mondo delle umane condizioni sociali.

Oggi abbiamo il problema della crisi della rappresentanza.

Lei ha parlato dell’urgenza di riavviare dal basso forme di aggregazione sociale.

 Le chiedo:

come dar voce e rappresentare questo sociale che si riaggrega per superare la logica dell’individualismo?

Ho cominciato a studiare la democrazia scegliendo di occuparmi del principio della rappresentanza.

Perché c’è una lunga tradizione che individua in essa una violazione della democrazia in quanto autogoverno diretto.

Ebbene, secondo tale concezione, la democrazia rappresentativa è un ossimoro. Ma così non è.

 Infatti, anche le democrazie dirette sono rappresentative del popolo.

La rappresentanza è parte fondamentale della politica che è costruzione di progetti e visione di Paese e di vita.

 La più significativa dal punto di vista politico è quella che nasce dall’incontro tra aggregazioni sociali e partiti, nel nome di una condivisione di temi e problemi da risolvere.

La crisi dei partiti è la crisi della rappresentanza politica. L’insoddisfazione verso le rappresentanze rischia di tradursi, nei cittadini, in insoddisfazione per la democrazia tout court.

Questo è il problema che abbiamo oggi e al quale diamo la forma della crisi.

 Ecco perché, in questa grama stagione della politica, se si vuole difendere la democrazia, diventa cruciale l’impegno dell’associazionismo e dei movimenti, anche nella funzione di sprone ai partiti.

Come lo si possa fare non lo so, nessuno di noi lo sa. Ma ci si deve provare.(Nadia Urbinati è titolare della cattedra di Scienze politiche alla Columbia University di New York; politologa e giornalista italiana è naturalizzata statunitense).

Bergoglio “Virologo” Asseconda

Ancora i Piani Criminali dell’Elite Globalista.

Conoscenzealconfine.it – (3 Settembre 2024) – Carlo Maria Viganò – ci dice:

 

L’arcivescovo Carlo Maria Viganò ha commentato le parole di Bergoglio all’Angelus di domenica 25 agosto, dove si è dedicato al tema del vaiolo delle scimmie che sembra essere spinto come nuova emergenza sanitaria globale.

“Desidero manifestare la mia solidarietà alle migliaia di persone colpite dal vaiolo delle scimmie, che costituisce ormai un’emergenza sanitaria globale “ha dichiarato Bergoglio in Piazza San Pietro, domenica 25 agosto.

Prego per tutte le persone contagiate, specialmente la popolazione della Repubblica Democratica del Congo, così provata.

Esprimo la mia vicinanza alle Chiese locali dei Paesi più colpiti da questa malattia e incoraggio i governi e le industrie private a condividere la tecnologia e i trattamenti disponibili affinché a nessuno manchi l’adeguata assistenza medica”.

“Bergoglio smette provvisoriamente i panni dell’esperto climatologo nei quali ha rilanciato ossessivamente la narrazione dell’agenda green, per indossare il camice del virologo e dare il suo sostegno alla propaganda psico pandemica sul vaiolo delle scimmie, che altro non è se non uno degli effetti avversi indotti dal siero sperimentale che aveva tanto insistentemente raccomandato all’epoca della farsa del COVID” scrive su “X” monsignor Viganò.

 

“Non solo: egli non ritratta nulla del suo appoggio criminale e sconsiderato a quella vaccinazione di massa che oggi sappiamo ufficialmente essere inefficace, gravemente dannoso e mortale;

 e tace sul fatto che i sieri mRNA siano prodotti con linee cellulari di feti abortiti”, continua il prelato.

 

Il suo zelo nell’assecondare i piani criminali dell’élite globalista è ormai talmente palese da sortire l’effetto opposto: i fedeli hanno capito che la vera epidemia che affligge la Chiesa è l’ideologia modernista, conciliare e sinodale “.

“Bergoglio è climatologo e virologo come è Papa” chiosa infine monsignore.

Come riportato da “Renovatio 21”, in questi anni l’arcivescovo già nunzio apostolico negli Stati Uniti non ha risparmiato i suoi strali contro l’appoggio diabolico fornito da Bergoglio alla cricca vaccinal-mondialista, definendo il gesuita argentino come “sponsor” e “piazzista” delle case farmaceutiche.

A inizio anno Viganò intervenne per condannare la nomina alla “Pontificia Accademia per la Vita” per “Katalin Kariko”, inventrice dei vaccini mRNA, prodotti a partire da linee cellulare di feto abortito.

(renovatio21.com/francesco-virologo-asseconda-i-piani-criminali-dellelite-globalista-mons-vigano-sullangelus-di-bergoglio-dedicato-al-vaiolo-delle-scimme/)

 

 

 

Europa e Alleanza atlantica:

il ruolo dell’America.

Sussidiarieta.net (2 giugno 2024) - Marta Dassù – ci dice:

 

La fotografia americana è quella di una realtà abbastanza forte dal punto di vista economico e assai debole per quanto riguarda la politica.

Questo stato delle cose è destinato a caratterizzare in modo diverso lo storico rapporto fra USA e Vecchio continente maturato alla fine della Seconda guerra mondiale.

Già, ma in quale direzione?

E quali gli interessi prevalenti nel contesto di un quadro internazionale denso di nubi?

Le elezioni presidenziali di fine anno diranno molto. Con un’opinione pubblica statunitense per nulla soddisfatta dei due candidati.

Dopo una storia di relazioni transatlantiche che non ha avuto scossoni particolari, anche se crisi ci sono sempre state, dalla Seconda guerra mondiale in poi, oggi la relazione tra Stati Uniti ed Europa è aperta a vari interrogativi, soprattutto per le direzioni non chiare che potrebbe prendere l’America.

Gli Stati Uniti sono alle prese con una sorta di “rematch”, si rigioca la partita fra Donald Trump e Joe Biden.

 È una situazione che non piace agli americani stessi, tutti i sondaggi indicano che la scelta tra questi due candidati – in modo diverso problematici, sicuramente vecchi, senza un ricambio generazionale né nel partito repubblicano né in quello democratico – non ha l’appoggio della maggioranza dell’opinione pubblica, che avrebbe voluto vedere un gioco diverso.

 I precedenti storici di un “rematch”, del resto, sono molto pochi.

Questo problema di un’America ripiegata su sé stessa, l’“America first” di Donald Trump, si ripresenta e pone all’Europa la questione di dover pensare in modo più evidente di quanto non fosse prima la sua stessa sicurezza e difesa in una fase peraltro resa molto critica dalla guerra in Ucraina e dalla contemporanea guerra in Medio Oriente, quindi due fronti per l’Europa.

Trump controlla la base del partito repubblicano, è riuscito a mobilitarla, non controlla tutto il partito.

Trump è da sempre contro quella che sarebbe una linea molto ovvia per il partito repubblicano, che ha sempre visto nell’Unione Sovietica prima e poi nella Russia un nemico storico degli Stati Uniti.

Trump è convinto che con la Russia di Putin si possa raggiungere un accordo sulla divisione in sfere di influenza dello spazio ex sovietico, in pochissimo tempo:

una specie di slogan ed è in generale uno slogan quello di Trump di sostenere che con lui al potere negli Stati Uniti, l’America non avrebbe più problemi di guerre.

 In effetti, da parte sua, ha il fatto che durante la sua presidenza dal 2016 al 2020 non ci sono state nuove guerre in cui gli americani siano stati coinvolti, mentre con Biden gli eventi esterni hanno riportato l’America in gioco, l’Ucraina prima e poi il Medio Oriente, Israele e Gaza dopo il 7 ottobre.

Biden come candidato non va bene secondo una parte dei democratici stessi, per ragioni fondamentalmente di età.

Dalla parte di Biden c’è il fatto che, come presidente, è riuscito a tenere abbastanza bene insieme le varie fazioni dei democratici che, da un certo punto di vista, costituiscono un partito più simile alle formazioni politiche europee, un partito più strutturato anche se in America i partiti sono fondamentalmente dei cartelli elettorali, ma questa sua capacità di tenere insieme i dem si sta erodendo proprio nell’anno delle elezioni.

E uno dei fattori per cui questo accade è proprio il teatro mediorientale, perché una parte della nuova generazione dei democratici contesta fortemente l’appoggio del governo Biden al dramma dell’aggressione di Hamas, l’appoggio cioè al governo di Netanyahu che, all’inizio, l’America ha dato in modo abbastanza deciso.

 È un fatto importante per la politica interna perché il voto della comunità araba- americana è decisivo in una parte degli Stati in bilico.

 In particolare, è importante nel Michigan dove Biden rischia di perdere e perdere le elezioni in Michigan non è uno scherzo perché il sistema elettorale americano si basa sul meccanismo del collegio elettorale.

Biden è un presidente che ha un indice di gradimento bassissimo, uno dei più bassi della storia americana, una specie di Jimmy Carter dell’epoca e rischia – come Jimmy Carter – di fare un solo mandato.

Trump ha una situazione che a noi europei pare abbastanza incredibile, cioè ha quattro grandi processi, uno dei quali riguarda il gennaio del 2020, l’assalto a Capitol Hill, e gioca tutta la sua campagna elettorale su una strategia di tensione fra la battaglia legale e la battaglia elettorale.

Una spartizione del Paese.

Quanto è in crisi la democrazia americana e quanto lo sarebbe con un Trump di nuovo presidente degli Stati Uniti?

 È una domanda importante.

 I costituzionalisti rispondono in modo variegato ma sempre tenendo conto di una cosa che è importante per capire l’America.

 A differenza dell’Europa, la visione dei padri fondatori degli Stati Uniti è che la funzione del governo è ridotta.

Il governo deve essere quel tanto di necessario che serve per fare andare bene la cosa pubblica, ma non deve avere un ruolo preponderante.

Certamente non per i repubblicani, storicamente, ma in fondo neanche tanto per i democratici.

Un’altra cosa importante per capire l’America di oggi è che le tradizionali “constituents”, le classi sociali che hanno appoggiato i due partiti, i repubblicani e i democratici, non sono più quelle di una volta.

 Il fenomeno più rilevante è il passaggio ai repubblicani della classe operaia bianca e della classe rurale bianca come effetto dello schiacciamento della classe media che ha sempre costituito l’ossatura portante della democrazia americana a seguito della globalizzazione.

Quindi si sono invertite le parti, i repubblicani rappresentano la working class bianca, i democratici rappresentano l’élite istruita.

I democratici sono in larga parte liberal, nell’accezione anglosassone:

 difendono i diritti delle minoranze, difendono i diritti LGBT, difendono il diritto all’aborto – che è stato un tema importante dell’elezione di midterm nel 2020 –, quindi è una battaglia che si gioca su dei valori fondamentali al punto che la sensazione generale è che non esista più l’America.

Esistono due Americhe che non si riconoscono a vicenda, in cui l’avversario politico è in realtà un nemico a cui non si attribuisce nessuna legittimità e sono due Americhe l’una contro l’altra armate, al punto che una parte degli osservatori teme una sorta di nuova guerra civile.

Personalmente la ritengo una forzatura di tipo intellettuale e giornalistico, ma sicuramente c’è una spartizione del Paese che è diviso anche geograficamente, in cui una parte delle persone per perseguire i propri diritti decide semplicemente di cambiare Stato.

Dal punto di vista politico questa mancanza di un terreno di consenso bipartisan, che aveva sempre reso grande l’America politicamente, è un vero problema per due ragioni.

Da un lato rende davvero difficile il funzionamento del ramo legislativo:

oggi far passare a Washington dei provvedimenti è diventato molto difficile.

Il secondo punto da tenere presente è che il consenso bipartisan era sempre stato chiaro sul ruolo dell’America nel mondo.

 

Ora questa mancanza di un consenso bipartisan interno rende debole l’America nel mondo, in una fase in cui difendere il ruolo dell’America nel mondo è già difficile di per sé per il tipo di scosse che sta vivendo il sistema internazionale.

 I politologi la definiscono l’“età della poli crisi”, delle crisi continue:

 il Covid, la crisi finanziaria, le guerre o l’età della grande incertezza ma in cui tutto sommato la supremazia degli Stati Uniti è messa in discussione dagli sfidanti autoritari rivali.

 

La forza economica a stelle e strisce.

La Cina ha una sua agenda, la Russia ha una sua agenda, ed esistono una serie di potenze che chiamiamo potenze di mezzo, potenze regionali, che giocano le loro carte su tutti i tavoli possibili.

Esempio: la Turchia è un Paese che, pur essendo membro dell’alleanza atlantica, decide di avere dei rapporti molto stretti con la Russia.

L’Arabia Saudita, che è in teoria un alleato degli Stati Uniti e a cui gli Stati Uniti hanno promesso di fornire tecnologia di difesa e tecnologia nucleare, non applica le sanzioni alla Russia e, anzi, dà una mano nell’illusione delle sanzioni e nell’OPEC, così importante per il petrolio, gioca di sponda con Mosca.

 Quindi è un mondo molto, complicato.

 Il “Financial Times” l’ha definito il mondo à la carte in cui si ha l’impressione che gli Stati Uniti – che pure restano in termini relativi il numero uno – non riescano più a controllare il sistema e questo si vede molto bene, ad esempio, in Medio Oriente.

La crisi politica dell’America è abbastanza evidente ma non è un’America in crisi economica e questo è un altro punto importante da considerare:

la forza economica dell’America dipende fondamentalmente dalla vitalità della sua società, che resta effettivamente vitale con un tasso di innovazione tecnologica molto forte.

Le prime dieci imprese americane, che poi sono le prime dieci imprese del mondo, non esistevano 15 anni fa e l’America è uscita molto bene dalla successione di crisi – da quella finanziaria del 2008 al Covid, dalla guerra in Ucraina alla guerra in Medio Oriente –, meglio di quanto ci si attendeva.

La cosa interessante a cavallo fra economia e politica è che questa solidità dell’economia americana non si traduce in un appoggio a Biden;

 solitamente, quando l’economia va bene, l’amministrazione in carica dovrebbe essere apprezzata.

Questo non avviene perché, tutto sommato, la gente non pensa di stare meglio di cinque anni fa, pensa di stare peggio sia perché l’inflazione ha comunque un effetto a lungo termine e riduce il potere d’acquisto, sia perché i tassi di interesse per ora sono rimasti più alti e quindi ottenere il mutuo per la casa – che per gli americani è parte integrante dell’american dream – è diventato più difficile.

 Biden ha poi un altro problema.

 Essendo palesemente malmesso dal punto di vista fisico, è evidente che si tema che a un certo punto della prossima amministrazione, il vicepresidente possa prendere il suo posto.

Kamala Harris, la vicepresidente di Biden, è una vera liability, direbbero gli americani, un vero punto debole, ma è molto difficile da sostituire perché è una donna e quindi il problema di Biden è di non perdere il voto delle donne, che può facilmente andare invece a Trump;

 e non può perdere una donna di colore, perché il voto delle minoranze sia ispaniche che afro-americans resta molto importante.

 Quindi questa è l’America di oggi, molto debole politicamente e abbastanza forte economicamente;

in un mondo che sta cambiando moltissimo nel senso che la vecchia pax americana è chiaramente finita.

Questo significa che l’Europa è in grosse difficoltà.

 

L’indipendenza energetica.

 

C’è un’evidenza molto importante di cui parla spesso “Mario Draghi”.

Negli ultimi vent’anni circa, l’Europa ha perso moltissimo in competitività rispetto agli Stati Uniti perché vent’anni fa il “size”, l’entità delle due economie, era più o meno simile.

Oggi l’Europa ha un’economia che è più o meno il 65% di quella americana, quindi c’è stato un arretramento di quello che l’Europa vede come il terzo polo del sistema internazionale (Stati Uniti, Cina, Europa).

 

Se cerchiamo di capire le ragioni di questo arretramento credo che siano sostanzialmente tre.

 La prima è che siamo entrati in un’epoca di ritorno della politica industriale.

 Il paradigma dell’economia è cambiato e questo è un punto molto importante.

È cambiato perché il problema della sicurezza e della geopolitica ha contagiato in modo molto pesante l’economia.

Nessuno crede più che l’aumento di integrazione economica generi anche degli effetti pacifici. Questa era l’illusione degli anni Novanta, quando la Cina fu ammessa nel WTO.

 Oggi si ritiene che, nel concepire le proprie catene del valore, sia importante tenere conto di un elemento fondamentale: la sicurezza.

Quindi c’è una gestione politica di una parte dell’attività economica, si cerca di rafforzare le basi della propria autonomia economica, cosa che l’America può fare molto meglio di quanto non possa fare l’Europa perché l’America, prima di tutto, è diventata un produttore indipendente di energia.

 L’America vende l’energia, a noi vende del gas liquefatto naturale ma, in generale, l’America è diventata uno dei grandi “swing producer, “è un grande produttore di energia.

Secondariamente, l’Europa è un continente trasformatore, ma deve importare energie, deve vendere sui mercati esteri e uno degli effetti più importanti della crisi ucraina è stato che l’Europa e il cuore dell’Europa, cioè il modello industriale tedesco, ha dovuto interrompere i rapporti energetici favorevoli con la Russia che aveva, ma che prescindevano dalla sicurezza, quindi non può più importare facilmente energia dalla Russia.

L’importazione si è ridotta all’8 per cento, rispetto al circa 50 per cento iniziale. L’Italia su questo è stata molto abile e rapida, grazie all’ENI più che al governo, nel riconvertire le proprie fonti energetiche da est verso sud.

 In realtà non è che il sud sia così meno problematico, se pensiamo a Paesi come l’Algeria.

L’energia da noi costa un terzo in più di quello che costa in America ed è difficile essere competitivi pagando l’energia tre volte di più.

Secondo fattore, la scarsa propensione dell’Europa all’innovazione tecnologica per mancanza di soldi.

 Il tasso di investimento di risorse comuni europee in tecnologia è molto basso.

 In chiave comparativa, molto basso rispetto all’America e molto basso rispetto alla Cina e, se guardiamo per esempio all’Intelligenza Artificiale – che è la frontiera della competizione futura –, questo rimane un dato di cui preoccuparsi.

Terzo, la crisi del vecchio modello di sviluppo di cui ho già detto più sopra, in particolare del modello tedesco, perché i motori lì erano tre:

energia a basso costo dalla Russia, difesa garantita degli Stati Uniti ed esportazione in Cina.

Per ragioni diverse questi motori sono tutti entrati in crisi.

E, quarto, c’è la grande questione geopolitica e della difesa.

L’ormai incerta protezione americana.

Noi siamo abituati dal 1949, dalla fondazione della Nato, a dare per scontata la protezione americana.

Ora, questa protezione americana non è che sia finita, ma è diventata molto più incerta.

Qualunque presidente americano da Clinton in poi chiede di aumentare le spese per la difesa e gli americani continueranno a pensare che la divisione vera del lavoro debba essere quella che gli europei si occupino dell’Europa con un ruolo degli Stati Uniti che si può definire di “offshore balancing”, cioè una garanzia nucleare ultima che rimarrà ma senza un impegno diretto così sostanziale come quello di oggi.

Loro invece si occuperanno fondamentalmente dell’Indo-Pacifico dove stanno costruendo una serie di alleanze per contenere la Cina.

 Il tema difesa non è più un gioco intellettuale o una mania degli europeisti che ritengono che senza la difesa l’Europa resti incompleta.

È, obiettivamente, una vera necessità, specie nella misura in cui la Russia di Putin è tornata a essere una minaccia convenzionale e classica.

Si entra in un altro tipo di ragionamento, un ragionamento di politica industriale per l’Europa.

Dobbiamo riuscire non solo a spendere abbastanza – e questo, in fondo, paradossalmente, lo facciamo già.

Se consideriamo la spesa militare aggregata europea siamo già a una spesa che è di 350 miliardi di euro, che significa una spesa superiore a quella della Russia o che ci si avvicina molto, nel senso che la Russia è diventata un’economia di guerra, ha aumentato le spese militari e, quindi, andrebbero rifatti i calcoli.

 È comunque una spesa ragguardevole, ma inefficiente, perché è frantumata fra i vari Stati membri e, quindi, crea una serie di inefficienze mentre non si giova di nessuna economia di scala.

 

Un’altra implicazione della difesa europea è che è tornata importante anche la massa, la difesa convenzionale.

In questo momento la minaccia russa è una minaccia in parte convenzionale e in parte nucleare.

Ma la difesa convenzionale è la prima linea della deterrenza.

E qui c’è un problema.

Nel periodo in cui la NATO era considerata inutile, alla ricerca di un ruolo – fondamentalmente fra il 1989 e l’invasione dell’Ucraina – abbiamo smantellato gli eserciti, nel senso che abbiamo deciso che non ci serviva avere delle forze convenzionali così rilevanti e abbiamo deciso di avere delle forze professionali piccole.

Il cosiddetto “man power”, la destinazione alla difesa di forze più ingenti, è tornato, invece, a essere di attualità.

Il terzo grande problema è la dissuasione nucleare, perché effettivamente il nucleare è un tabù in Europa.

 Lo è dal punto di vista energetico con l’eccezione della Francia, ma lo è anche dal punto di vista militare, nel senso che gli unici due Paesi che hanno delle testate nucleari nell’ordine di 300 ciascuno sono la Francia – che non è integrata nel meccanismo di pianificazione nucleare della NATO – e il Regno Unito – che è uscito dall’Unione Europea e fa parte invece del “nuclear planning” congiunto della NATO.

 Come passare a una capacità di dissuasione nucleare che possa prescindere dalla protezione americana è molto difficile da immaginare;

tenuto conto che i francesi tendono a dire che la forza nucleare appartiene, naturalmente, a loro.

 

Nella sostanza:

 il pollice sul bottone resta quello di Emmanuel Macron.

Gli altri non ci stanno, evidentemente, e quindi è tutta una discussione che deve aprirsi.

Ma è interessante vedere come, in materia di difesa, alla fine rimanga una diffidenza di fondo fra gli europei e questo spiega l’importanza delle relazioni atlantiche perché la verità è che dopo la Seconda guerra mondiale l’America è stata quello che gli esperti politologi definiscono un grande equalizzatore.

Se non fosse stato per l’America – che, in fondo, metteva un po’ tutti d’accordo esercitando il suo ruolo da protagonista – le tensioni sarebbero state molto forti.

 È solo grazie al fatto che ci sia stata l’America con il piano Marshall e poi con la creazione della NATO che, nel 1949, abbiamo accettato il riarmo tedesco, una cosa che per i francesi era inaccettabile.

D’altronde, la diffidenza fra Francia e Germania riaffiora quasi sempre nel momento in cui c’è un minore peso degli Stati Uniti.

UE: i motivi di preoccupazione.

L’ultimo punto sull’Europa è che le leadership politiche europee non sono probabilmente all’altezza di tempi come questi, all’insegna della grandissima discontinuità.

Nella trasformazione del sistema internazionale di oggi, che va verso il contagio fra sicurezza, economia e frammentazione, l’Europa non sa come posizionarsi, non ha una politica industriale, non ha abbastanza fondi comuni, non ha la difesa.

 Ci vorrebbe una leadership politica autorevole rispetto a quella che abbiamo oggi, ma è molto difficile trovarla sul mercato perché la realtà, come dimostra anche l’America, è che la politica è un settore di lavoro squalificato perché ti espone moltissimo, è molto meno remunerativo che in passato e nel quale è molto più difficile ottenere quello che speri di ottenere.

Come europei bisogna prepararsi a tempi difficili.

Siamo il continente dove, in fondo, si vive ancora meglio, ma che appare inesorabilmente in declino per le ragioni che abbiamo esposto e, in parte, per ragioni demografiche.

Se guardiamo ai processi di aging, di invecchiamento, l’Europa viene per prima;

in parte per la grande rivoluzione tecnologica in atto e in cui siamo drammaticamente indietro.

Per l’insieme di queste ragioni e per le guerre ai nostri confini dovremmo stare molto attenti come giovani europei.

 E preoccuparci molto, perché non siamo su una traiettoria virtuosa.

(L’articolo è una sintesi dell’intervento a Europa Futuro Presente, sesta edizione della Scuola di formazione politica “Conoscere per decidere”, organizzata da Società Umanitaria, Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine e Fondazione per la Sussidiarietà, Milano, Società Umanitaria, 2 marzo  2024.)

(Marta Dassù è giornalista, studiosa di politica internazionale è Senior Advisor “European Affairs” dell’Aspen Institute).

 

Il contributo europeo per

un nuovo equilibrio mondiale.

Sussidiarieta.net - Enzo Moavero Milanesi – (4- 6 – 2024) – ci dice:

 

Si vive a livello globale una situazione di preoccupante disequilibrio.

Due i motivi: le guerre e l’evoluzione sociale ed economica nel mondo.

 Laddove l’Unione Europea appare oggi non certo come un soggetto protagonista di un positivo riequilibrio.

Perché la sua architettura è inadeguata, rimanendo forte l’ingerenza degli Stati nazionali.

Lo spazio di una operosa centralità ci sarebbe.

 “Ritengo che l’Unione Europea possa rappresentare ancora una soluzione alle tante questioni che ci circondano, alle tante paure che tutti condividiamo, ma disilludiamoci che l’attuale Unione Europea, così com’è, rappresenti una risposta.

 È necessaria una svolta costituente, visto che l’UE è l’unica dimensione di riferimento per gli europei che può ancora pesare nel mondo in senso positivo”.

Parlando di equilibrio mondiale, non possiamo non partire dalla considerazione che è un equilibrio instabile, fondamentalmente per due motivi.

 Uno, purtroppo, è sotto i nostri occhi quotidianamente, oramai già da qualche anno, ed è il ritorno del flagello più terribile che ci sia, la guerra nel continente europeo e il riaccendersi della guerra nella riva sud del Mediterraneo, che è il fianco meridionale del nostro continente.

Questo è un motivo di disequilibrio che ci preoccupa, ci scombussola, ci riporta ad anni che credevamo oramai lontani e pensavamo di avere relegato ai libri di storia.

Il secondo motivo per cui il mondo attuale è in disequilibrio è dovuto alla velocissima dinamica che, non da oggi, ma in maniera accentuata negli ultimi 20-25 anni, hanno preso l’evoluzione sociale e quella economica nel mondo.

 Alla fine degli anni Novanta si cominciò a parlare di qualcosa che era già avvenuto molte volte nella storia, la globalizzazione.

Si vedeva la globalizzazione da punti di vista differenti, ma si convergeva nel ritenere che avrebbe portato complessivamente a una crescita nell’ambito dell’equilibrio mondiale:

una crescita economica, positiva, che avrebbe tolto da situazioni di fame o di grande arretratezza tante persone che vivevano in aree del mondo meno favorite di altri.

A un certo punto si è incominciato a notare che la nuova globalizzazione di fine secolo e inizio nuovo millennio era forse la prima nella storia, da quando la storia è studiata e scritta, che non vedeva l’Europa protagonista attivo.

Se noi pensiamo a un altro esempio di globalizzazione molto evidente e spesso ricordato, è quello a opera di Cristoforo Colombo con la scoperta dell’America, il Nuovo Continente, grazie all’attivarsi dei commerci:

 allora erano gli stati europei che andavano in America.

 Se pensiamo alla globalizzazione del periodo coloniale, al di là del giudizio che si può avere sul colonialismo in quanto tale, erano gli Stati europei che si auto definivano potenze, e tali erano sotto il profilo militare ed economico, in quanto in grado di estendere la loro influenza e il loro dominio.

La globalizzazione che noi abbiamo vissuto – a partire dal nuovo secolo in maniera più accentuata – è una dinamica che non ha visto l’Europa alla guida.

Ha visto altre realtà e, addirittura, potremmo dire con il senno di poi, è una globalizzazione che è entrata in Europa.

 La grande espansione dell’economia cinese è l’esempio più evidente, ma non si tratta solo di fattori economico-finanziari o di commercio di merci, di beni, di prodotti o di servizi.

La globalizzazione va anche guardata nell’ottica delle grandi migrazioni.

Quando gli europei – che si chiamassero conquistadores o che si chiamassero in altri modi – si espandevano nel continente americano, era un’Europa in grande crescita demografica che portava le persone nate nel suo spazio continentale altrove.

Oggi la realtà è diversa, ci sono grandi spostamenti di popolazioni migranti, tendenzialmente da sud verso nord, ma anche dalle aree economicamente svantaggiate o colpite dal cambiamento climatico verso le aree più avvantaggiate.

C’è una migrazione da aree dell’Asia anche verso l’Australia o verso altre zone che hanno economie più funzionanti.

Il cambiamento climatico è un altro grande fattore che caratterizza la nostra epoca, che determina i movimenti migratori, che influisce pesantemente sulle sorti economiche degli Stati.

Questo dinamismo e questo disequilibrio ci fanno capire che la dimensione Stato in Europa è diventata ininfluente.

Anche gli Stati più importanti del continente europeo, che facciano o non facciano parte dell’Unione Europea, ad esempio la Germania, il Regno Unito, la Francia, anche la nostra Italia, sullo scenario mondiale pesano poco.

Non riescono più ad avere una influenza incisiva di fronte ai grandi fenomeni come il cambiamento climatico o le migrazioni.

Gli Stati europei non riescono a gestire, a governare, a dare un minimo di organizzazione a fenomeni che li travalicano totalmente.

 Pensiamo allo sviluppo tecnologico.

 Le grandi potenze europee dell’Ottocento e della prima parte del Novecento fondavano il loro essere potenza anche grazie al controllo delle grandi tecnologie dell’epoca.

 Tecnologie industriali e tecnologie purtroppo anche militari, tecnologie nutrite da materie prime, come il carbone, che in Europa abbondavano.

Se guardiamo alle tecnologie di oggi, ma anche a quelle di uno ieri successivo alle guerre mondiali, a cominciare dal petrolio, oppure alle nuove tecnologie basate sulle cosiddette terre rare, su minerali come il litio, vediamo che nel nostro continente non ci sono.

Sono materiali indispensabili per lo sviluppo delle attuali tecnologie.

Si trovano in altre parti del mondo che ne hanno un controllo e uno sfruttamento pressoché totali.

 

Ben venga l’Unione Europea.

 

Ci stiamo rendendo conto, di fronte alla terribile guerra in Ucraina, che l’Europa non ha nemmeno una capacità di produzione di armamenti che permetta di compensare la capacità della Russia, rispetto a questa guerra che ci preoccupa tutti quanti.

Se gli Stati europei non sono più in grado individualmente di influire perché il periodo della loro potenza è oramai parte di un passato che non tornerà, ben venga allora l’esistenza dell’Unione Europea perché, invece, può dare ancora un peso al nostro continente a livello di economia, a livello di capacità produttiva, a livello di ruolo e capacità commerciale nel mondo.

I dati sono estremamente lusinghieri.

Se poi guardiamo ad alcune caratteristiche della nostra realtà socio-economica, ai nostri sistemi previdenziali, a quello che oramai tutti ci siamo abituati a chiamare welfare, lì l’Europa è addirittura all’avanguardia come capacità e garanzia di assistenza previdenziale a chi vive nell’ambito dello spazio dell’Unione Europea e dei nostri spazi nazionali.

Ma non basta.

Dobbiamo invece chiederci perché anche la dimensione dell’Unione Europea non è tale da rassicurarci.

La dimensione dello Stato nazionale in Europa è legata a elementi molto positivi di democrazia, di partecipazione, di garanzia di libertà, di Stato di diritto, però è dimensionalmente insufficiente di fronte a un mondo in cui si muovono insiemi estremamente più grandi del singolo Stato europeo, per i motivi che abbiamo detto.

Di cosa è fatta la dimensione europea?

Non è una realtà di oggi o di appena ieri, è una realtà che si avvicina a compiere 75 anni di vita perché la prima comunità europea, la comunità del carbone e dell’acciaio, nasce nel 1952.

 La dimensione europea nasce con un’architettura che nei primissimi anni Cinquanta era di grande avanguardia.

 Era costituita da un esecutivo centrale, un’istituzione con compiti prettamente esecutivi, non esattamente come un governo ma simile;

un’assemblea fatta all’inizio di delegati dei parlamenti nazionali, poi a partire dagli anni Settanta direttamente eletta dai cittadini, quindi un Parlamento, e infine un’istituzione rappresentativa degli Stati membri, che ha un nome proprio, si chiama Consiglio.

In seguito, si è aggiunta la grande intuizione della creazione di una Corte di Giustizia che diventava l’interprete ultimo per affermare dal punto di vista giuridico le norme europee.

 Sono passati molti anni ma se guardiamo all’attuale struttura dell’Unione Europea non è poi così diversa da allora.

Si è aggiunta la Banca Centrale Europea, per i più meticolosi si è aggiunta anche una Corte dei Conti Europea, ma la struttura fondamentale, operativa, rappresentativa, è imperniata su un Parlamento che prima si chiamava Assemblea, su una Commissione che brevemente ai tempi della comunità del carbone e dell’acciaio si chiamava Alta Autorità, con compiti esecutivi, su un Consiglio che rappresenta gli Stati, su una capacità di produrre norme giuridiche vincolanti.

Nonostante tutto questo non si è mai arrivati a creare quella federazione europea che pure nella dichiarazione fatta nel 1950 da Robert Schumann, l’allora ministro francese che dette inizio a tutto il processo, era già focalizzata come obiettivo.

Ne parlavano De Gasperi e Adenauer negli anni Cinquanta.

L’idea di questi cosiddetti padri fondatori, era che settant’anni dopo la federazione ci sarebbe stata.

Invece l’Europa è rimasta con questa sorta di attesa un po’ messianica di un qualcosa che deve arrivare, di cui però si ha paura a parlare, di cui quando si parla si finisce con litigare.

 

L’inadeguata architettura.

 

E allora che architettura abbiamo oggi?

Abbiamo un’architettura inadeguata.

 L’Unione Europea non è riuscita a sostituire gli Stati nazionali, né politicamente, né istituzionalmente, né nel peso politico complessivo sullo scenario mondiale, perché è rimasta in mezzo al guado.

Cos’è che in particolare rende l’Unione Europea anchilosata?

Lo si legge quasi quotidianamente:

decisioni che in un sistema autoritario si prendono nello spazio di ore, decisioni che in un sistema democratico, ma ben strutturato, si prendono magari nello spazio di qualche giorno, in Europa richiedono mesi.

E a volte neanche arrivano.

Ci si scaglia contro quello che viene giudicato immobilismo, causa del quale sarebbe il voto all’unanimità.

Ma non è vero. È vero in certi settori, anche delicati, non è vero in altri.

Osserviamo il caso di uno di questi settori definiti delicati, quello dell’immigrazione.

 Il trattato europeo è molto chiaro, non parla solo di norme sull’asilo o sulla difesa delle frontiere, parla di una politica per le migrazioni, che è qualcosa di molto più complesso, parla di solidarietà che deve guidare questa politica, parla di meccanismi condivisi, il che vuol dire non solo aiutare queste persone quando stanno affogando in mare.

Parla anche della presa di coscienza che l’Europa si trova in un triste calo demografico e che per continuare a funzionare, per reggere nei sistemi di welfare, nelle capacità produttive, ha anche bisogno, oltre che di figli propri, anche di persone che arrivano da fuori.

 L’evoluzione degli Stati Uniti non è avvenuta solo perché avevano una capacità di proliferazione particolarmente elevata, è avvenuta anche perché arrivavano grandi ondate di migranti.

In materia di politica delle migrazioni si decide a maggioranza, non all’unanimità. Eppure, in tanti anni, si contano sulle dita di una mano le norme europee che sono state adottate e decise.

Il vero punto è che l’Europa non riesce a darsi quella trasformazione di cui ci sarebbe indubbiamente bisogno perché rimane legata a egoismi ombelico-centrici degli Stati e dei governi che ne fanno parte.

Non è nemmeno corretto dare la colpa agli Stati, entità astratta.

Andiamo a focalizzare i veri colpevoli.

I veri colpevoli sono i governi degli Stati perché gli Stati sono governati da governi e negli Stati europei dove vige democrazia e libertà sono governati da governi democraticamente eletti.

 Quindi siamo noi alla fine che li esprimiamo.

Allora sono i governi dei vari Stati che non trovano le maggioranze, sono i governi dei vari Stati che non riescono a trovare un accordo per esprimere determinate linee politiche, sono i governi dei vari Stati che laddove è prescritta l’unanimità non convergono all’unanimità.

 

Il Parlamento europeo non esprime il governo dell’UE.

Abbiamo visto che i singoli Stati non hanno più il peso che avevano negli anni Sessanta e Settanta e siamo coscienti che l’Europa manca di una struttura. Abbiamo il Parlamento europeo, del quale spesso sentiamo dire che non fa nulla, ma non è vero.

Il Parlamento europeo è legislatore, per giunta legislatore di norme delicatissime in materia di salute, di ambiente, di industria, di svolte verdi, di sanità.

Decisioni che ci toccano da vicino.

Ogni vestito che noi portiamo ha un’etichetta con indicazioni che dipendono da normative europee.

 Quello che mangiamo sta scritto sulle confezioni.

 È tutto disciplinato dalle normative europee.

 Senza la politica agricola comune non ci sarebbe agricoltura in Europa.

 È sovvenzionata, costa a tutti quanti noi come contribuenti, però abbiamo un’autosufficienza alimentare e anche qualcosa di più.

 Il Parlamento europeo prende decisioni importanti, ma questa istituzione esprime con una sua maggioranza politica un governo politico dell’Unione Europea?

 La risposta è no.

Perché il Parlamento europeo indubbiamente voterà, dopo la designazione fatta dai capi di Stato e di governo, il presidente o la presidente della Commissione.

 Il Parlamento europeo darà un voto di investitura all’insieme dei commissari, quindi a tutta la compagine della Commissione, anche dopo delle audizioni severe. Però, alla fine, i nomi di chi farà parte della Commissione – che è l’esecutivo dell’Unione Europea – usciranno dai governi nazionali, perché anche se il Parlamento Europeo potrà bocciarne qualcuno, però poi il governo nazionale ne indicherà un altro che più o meno farà parte della famiglia politica che esprime l’equilibrio di governo di ciascuno Stato.

 Difficile immaginare che un governo in carica di un Paese segnali un candidato per la Commissione che faccia parte dell’opposizione.

Quindi, in realtà, il Parlamento europeo, con tutti i suoi importanti compiti legislativi, non esprime, come avviene normalmente in democrazia, il governo dell’Unione Europea.

 Per giunta il ruolo legislativo del Parlamento europeo è amputato di alcune decisioni delicate che il Consiglio – e dunque gli Stati – hanno tenuto per loro: materia tributaria, materia di bilancio, certe materie economiche precise, materia di difesa, materia di politica estera.

Andiamo a vedere la Commissione.

 La Commissione è l’esecutivo.

Peccato che in due materie super delicate, come la politica estera e la politica di difesa, sia completamente tagliata fuori.

 La Commissione non entra in queste due materie.

Sono riservate al Consiglio che rappresenta gli Stati.

La Commissione, inoltre, è l’unica istituzione che può fare proposte legislative a livello europeo, quindi le normative europee nascono da una proposta che può essere fatta solo dalla Commissione.

 I parlamentari europei non possono.

E poi ha dei poteri in più che, in ultima analisi, in un meccanismo più collaudatamente conosciuto, non dovrebbe avere.

Il Consiglio ha la funzione di rappresentare gli Stati.

Ha funzione anche esecutiva in materie come esteri e difesa, ma anche legislativa, in alcuni casi condivisa col Parlamento e in altri esclusivo.

 Il punto è allora capire i poteri che singoli Stati si sono tenuti per loro.

 

Né federazione, né confederazione.

L’Unione Europea vive di competenze che gli Stati le hanno attribuito, ma gli Stati hanno tenuto per loro una serie di questioni e, in alcune, si sono riservati completamente mano libera e l’intero potere decisionale.

Questa Unione Europea, che è una sorta di complesso ircocervo con caratteristiche indubbiamente democratiche ma incomplete, imperfezioni, lentezze, presenta un ruolo ancora molto preponderante degli Stati rispetto all’idea di un peso maggiore e determinante delle istituzioni europee.

Oggi non è né la federazione a cui pensavano De Gasperi e Adenauer, a cui perfino incoraggiava, anche se ne chiamava fuori come britannico, Winston Churchill alla fine degli anni Quaranta.

No, non è diventata quella federazione, ne ha qualche carattere, ma non lo è nell’architettura funzionale.

Ma non è neppure una confederazione.

Perché la confederazione detiene le deleghe come elementi centrali del sistema di alcune competenze – di solito proprio in materia di esteri e difesa.

Dunque, l’Unione Europea non è diventata né una federazione né una confederazione.

Non è più un’organizzazione internazionale classica, perché ovviamente è molto di più, però in questo essere di più e non essere ancora, sta la sua grande debolezza. Che è poi la nostra.

Personalmente ritengo che l’Unione Europea possa rappresentare ancora una soluzione alle tante questioni che ci circondano, alle tante paure che tutti condividiamo, ma disilludiamoci che l’attuale Unione Europea, così com’è, rappresenti una risposta.

È necessaria una svolta costituente, visto che l’Unione Europea è l’unica dimensione di riferimento per gli europei che può ancora pesare nel mondo in senso positivo.

Bisogna avere il coraggio di mettere al centro la questione costituzionale dell’Unione Europea.

Procediamo verso un modello collaudato, conosciuto, non rimaniamo in questo sistema che tra lacci, lacciuoli, blocchi e possibilità di piccole fughe in avanti e di grandi marce indietro rischia di non portarci da nessuna parte.

(L’articolo è una sintesi dell’intervento a Europa Futuro Presente, sesta edizione della Scuola di formazione politica “Conoscere per decidere”, organizzata da Società Umanitaria, Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine e Fondazione per la Sussidiarietà, Milano, Società Umanitaria, 6 aprile 2024.)

(Enzo Moavero Milanesi è professore di Diritto dell’Unione Europea al College of Europe di Bruges e all’Università Luiss-Guido Carli di Roma; è stato ministro degli Affari esteri e degli Affari europei.)

 

 

 

 

 

Il gruppo di pressione segreto dell'UE

da 6 milioni di euro che paga

i legislatori per alloggiare in hotel di lusso.

Politico.u – (28 agosto 2024) - Hannah Brenton – ci dice:

 

Considerando che le quote associative si aggirano intorno ai 50.000 euro, l'enorme aumento del bilancio di “Eurofi” solleva preoccupazioni circa il suo potere nell'elaborazione delle politiche finanziarie.

 

Sebbene non vi siano dubbi circa l'illecito, la situazione solleva preoccupazioni sulla natura del lobbying nell'UE.

LONDRA ― Un opaco "think tank" autoproclamatosi tale che offre alle aziende l'accesso ai politici e alle autorità di regolamentazione dell'UE ha incassato quasi 6 milioni di euro in commissioni dal settore finanziario, come può rivelare POLITICO, alimentando preoccupazioni sulla mancanza di trasparenza e sul denaro in cambio di influenza.

L'enorme entità dei ricavi di “Eurofi” ne fa oggi uno dei più grandi gruppi di lobbying presso l'UE, nonostante abbia solo tre dipendenti a tempo pieno e non abbia conti pubblici.

La sua attività principale consiste nell'organizzare due volte l'anno un evento di lobbying a porte chiuse in vista delle riunioni dei ministri delle finanze dell'UE, che attrae alti funzionari europei, banchieri centrali e addetti ai lavori della finanza.

I membri più anziani del Parlamento europeo che ricoprono ruoli influenti nella legislazione finanziaria hanno dichiarato che “Eurofi” ha pagato i loro soggiorni in hotel di lusso e parte dei loro viaggi.

Secondo le informative sulla trasparenza di luglio, le prime informazioni pubbliche sulle sue finanze da anni, l'organizzazione ha raggiunto un budget di 5,7 milioni di euro nel 2023 attraverso le quote dei suoi membri, tra cui figurano le più grandi banche, borse e giganti della tecnologia, tra cui BlackRock, Goldman Sachs e American Express.

Sebbene non vi siano dubbi su un illecito, la situazione solleva preoccupazioni sulla natura del lobbying nell'UE:

 chi paga e quanto, e che tipo di influenza sta acquistando il loro denaro?

L'influenza del settore finanziario a Bruxelles è stata visibile negli ultimi anni, con l'introduzione di norme più leggere per banche e assicuratori rispetto a quelle richieste dagli enti regolatori, e un notevole successo nel moderare le riforme che potrebbero danneggiare gli interessi del settore.

"È uno dei gruppi più opachi a cui riesco a pensare", ha affermato “Kenneth Haar”, ricercatore presso “Corporate Europe Observatory”, un organismo di campagna senza scopo di lucro.

 "È davvero strano avere un budget così grande con solo poche persone".

Accesso ai decisori.

L'impostazione di “Eurofi” è diversa da quella di altre grandi lobby di Bruxelles, che accrescono i propri uffici per cercare di influenzare la politica e conquistare l'attenzione dei principali eurocrati.

“Eurofi “insiste sul fatto che non rappresenta gli interessi del settore finanziario e fornisce semplicemente una piattaforma per la discussione.

Ma il suo peso finanziario ora la eleva a una delle più grandi organizzazioni di lobbying a Bruxelles, subito dietro a giganti della tecnologia come Google e Apple, che hanno investito enormi risorse per influenzare i meccanismi di Bruxelles.

Ha una base associativa di oltre 100 attori finanziari e il suo budget è aumentato di quasi il 50 percento dall'ultima cifra disponibile di 3,9 milioni di euro per il 2020, rendendo solo” Insurance Europe” un gruppo di lobbying più grande per il settore finanziario.

Ciò significa che dispone di più risorse delle principali lobby bancarie, della potente lobby dell'industria farmaceutica (la Federazione europea delle industrie e delle associazioni farmaceutiche) e del gruppo imprenditoriale” Business Europe”.

 

"Ha un accesso molto facile ai dipendenti pubblici e ai decisori e, quando aumenteranno il loro budget, avranno ancora più accesso", ha affermato “Haar”.

 

L'agenda per la festa di Budapest di settembre, vista da POLITICO, sembra un chi è chi al vertice della regolamentazione finanziaria e include il governatore della Banca centrale francese “François Villeroy de Galhau”, la presidente della Banca europea per gli investimenti “Nadia Calviño” e il vicepresidente della Commissione europea “Valdis Dombrovskis”.

Si prevede che parteciperanno centinaia di rappresentanti del settore.

I membri senior del Parlamento europeo con ruoli influenti nella legislazione finanziaria hanno rivelato che “Eurofi” ha pagato i loro soggiorni in hotel di lusso e parte dei loro viaggi.

Diversi lobbisti della finanza hanno dichiarato a POLITICO di avere dei dubbi su “Eurofi” a causa dei suoi costi esorbitanti e della sua organizzazione privata, ma ritengono che perderebbero qualcosa se non partecipassero alle sue conferenze.

"Non un lobbista."

POLITICO ha tentato ripetutamente di contattare “Eurofi” affinché potesse rispondere alle domande sollevate in questo articolo, tra cui quella relativa alla sua mancanza di trasparenza.

Diverse e-mail a un indirizzo sul suo sito web sono rimaste senza risposta.

“Jean-Marie Andres”, senior fellow di “Eurofi”, che ha risposto a una chiamata a un numero elencato nel registro della trasparenza, ha inizialmente risposto alle domande ma poi ha inviato un'e-mail per dire che non era autorizzato a parlare con i giornalisti.

Il succo di ciò che ha detto è che “Euro fi” non dovrebbe essere visto come un lobbista, ma come un organizzatore di discussioni.

Il suo budget più grande rifletteva l'inflazione e la necessità di assumere sedi più grandi.

Nella sua comunicazione pubblica, “Euro fi “insiste sul fatto che “non rappresenta interessi commerciali” e agisce “in una prospettiva di interesse generale per il miglioramento del mercato finanziario complessivo”.

I sostenitori della trasparenza affermano che ciò è in contrasto con il fatto che è finanziato da grandi società finanziarie come” Amazon Web Services” e “JP Morgan,” che pagano” Euro fi” per il privilegio di poter mettere all'angolo gli enti di regolamentazione durante le sue conferenze.

“Eurofi” insiste sul fatto che “non rappresenta interessi commerciali”, ma è finanziata da grandi società finanziarie come “Amazon Web Service”s e “JP Morgan”.

“Eurofi” addebita ai suoi membri del settore commissioni pari a 50.000 €, affermano gli addetti ai lavori finanziari.

Un tavolo alla cena di gala, una sala per riunioni o un posto per un CEO in un panel comportano tutti costi aggiuntivi.

Fascino ufficiale

La credibilità di “Eurofi “deriva dalla sua storia (è stata fondata dall'ex governatore della banca centrale francese Jacques de Larosière) e dai suoi legami con la presidenza del Consiglio dell'UE, che cambia a rotazione ogni sei mesi.

È capeggiato da “David Wright”, ex funzionario britannico dell'UE, e guidato quotidianamente dal francese “Didier Cahen”.

Le conferenze si svolgono nei giorni che precedono un incontro dei ministri delle finanze del paese in carica, il che significa che i funzionari di alto livello sono già in città.

Lobbisti, autorità di regolamentazione, funzionari e diplomatici affermano tutti che la conferenza vera e propria è uno spettacolo secondario e noioso, pieno di panel riservati agli uomini e dibattiti controllati, rispetto al festino di lobbying che si svolge tra caffè e drink informali.

Si svolge interamente a porte chiuse.

 I giornalisti sono banditi e POLITICO è stato espulso dalla hall dell'hotel che ospitava la conferenza dell'autunno scorso a Santiago de Compostela, in Spagna.

 

L'organizzazione ha raggiunto un budget di 5,7 milioni di euro nel 2023 attraverso le quote dei suoi membri, che includono le più grandi banche, borse e giganti della tecnologia, tra cui BlackRock, Goldman Sachs e American Express.

Nonostante le critiche sui costi e la mancanza di trasparenza, i funzionari dell'UE continuano a partecipare in massa.

Secondo i documenti pubblici, “Eurofi “ha coperto i costi per far partecipare i politici che hanno promosso la riscrittura delle norme finanziarie.

Il parlamentare tedesco “Markus Ferber” , l'eurodeputata francese “Stéphanie Yon-Courtin” , il parlamentare olandese “Paul Tang e l'eurodeputato spagnolo “Jonás Fernández” hanno tutti dichiarato che “Eurofi” ha pagato hotel di lusso e parte dei loro viaggi per partecipare agli eventi tra il 2021 e il 2023.

 

 

 

Harris e Trump si preparano allo

sprint finale nelle "elezioni anticipate."

Politico.eu – (9-3-2024) - Eli Stokols e Alex Isenstadt – ci dicono:

 

La competizione non è serrata solo a livello nazionale, ma coinvolge anche una gamma più ampia di stati rispetto al passato.

 

Kamala Harris indica mentre parla sul podio.

Kamala Harris ha ribaltato a suo favore il divario di entusiasmo, il divario finanziario e il divario nei sondaggi nelle sei settimane trascorse da quando ha sostituito Joe Biden come candidato democratico.

In un momento in cui le campagne presidenziali tradizionalmente formulano le loro arringhe conclusive, Kamala Harris sta ancora facendo le sue presentazioni.

La vicepresidente ha ribaltato il divario di entusiasmo, il divario di denaro e il divario nei sondaggi a suo favore nelle sei settimane da quando ha sostituito il presidente Joe Biden come candidata democratica.

 Ma la gara tra Harris e Donald Trump rimane serrata non solo a livello nazionale, ma in una gamma di stati più ampia rispetto a prima.

La corsa di due mesi che ne consegue è quella che “Donna Brazile”, la confidente di Harris che ha gestito la campagna di “Al Gore” del 2000, ha descritto come la prima "elezione anticipata" americana.

La sfida che la campagna di Harris sta affrontando ora è come estendere la sua impennata di fine estate fino all'autunno.

 

"Ha avuto le prime cinque settimane o le ultime cinque settimane migliori che abbia mai visto da quando Barack Obama ha vinto [le primarie del 2008 in South Carolina] e ha dato il massimo e si è assicurato la nomination", ha detto “Jim Messina”, responsabile della campagna di Obama del 2012 che ha svolto il ruolo di consigliere informale di Harris.

"Ma in ogni singolo stato in bilico, siamo ancora entro il margine di errore".

I sondaggi mostrano tutti gli stati indecisi entro il margine di errore.

Ma la spinta, per ora, sembra essere dalla parte di Harris.

La prova più chiara di ciò è stato un sondaggio Gallup della scorsa settimana che ha mostrato i democratici con un vantaggio di 14 punti su quale partito gli elettori erano più entusiasti di votare, un cambiamento importante rispetto al sondaggio di marzo dell'organizzazione che mostrava i repubblicani con un vantaggio di 4 punti in quella che era allora una competizione tra due candidati impopolari, Biden e Trump.

 

"Certo che le persone sono motivate a votare contro qualcuno. Ma quando sono motivate quanto o più a votare per qualcuno, allora c'è magia", ha detto “David Plouffe”, un consulente senior della campagna di Harris.

Trump, che non ha ancora trovato un attacco che faccia effetto a Harris, entra nel dibattito diretto della prossima settimana in una posizione molto meno comoda rispetto a quando ha lasciato il palco dopo aver massacrato Biden il 27 giugno.

Potrebbe essere la sua migliore opportunità rimasta per smussare lo slancio del suo avversario e cambiare la traiettoria della corsa.

E un passo falso di Harris su quel palco, o su qualsiasi altro, potrebbe avere proprio questo effetto.

 

"Ho sempre pensato che il” Labor Day “sarebbe stato il momento in cui... l'euforia da zucchero di Kamala inizia a svanire", ha detto “Jason Roe”, stratega repubblicano ed ex direttore esecutivo del “GOP” statale nel Michigan.

 

"È durato troppo a lungo e non c'è molto altro rimasto per spingerlo".

Mentre per settimane, ha detto” Roe”, Harris ha beneficiato dell'essere "un po' indefinita", gli sforzi dei repubblicani per evidenziare le sue mutevoli posizioni politiche significano che ora "otterrà una piccola definizione".

 Il dibattito, ha detto, "potrebbe essere una delle poche opportunità in cui [Trump] può metterla sulla difensiva".

Ma se Harris non vacillerà la prossima settimana, c'è motivo di credere che potrebbe essere in una posizione unica per espandere i suoi numeri con gli elettori indecisi negli stati chiave.

 A differenza di Biden o Trump, un presidente e un ex presidente, ed entrambi elementi fissi della politica da anni, la candidatura di Harris è così nuova che una rapida introduzione, seguita da un controllo relativamente minimo da parte dell'elettorato, potrebbe giovarle.

"È lei quella con spazio per crescere", ha detto “Plouffe”.

"Il Trump del '16, gli elettori volevano saperne di più su di lui. Ora, quando Trump esce, fa campagna e rilascia interviste, è discutibile quanto sia utile. Con Harris, è molto utile. Abbiamo un mercato di elettori là fuori che vogliono saperne di più su di lei".

L'entusiasmo suscitato da Harris, ancora più evidente dopo mesi di tiepido sostegno a Biden, ha ricordato ad alcuni democratici la corsa di Obama del 2008, che molti hanno descritto più come un movimento che come una semplice campagna politica.

"Quello che succede con un movimento è che non aspettano che l'alto comando della campagna mandi loro spille e poster, lo fanno da soli", ha detto “Brazile”. "Non aspettano che la campagna organizzi raduni, lo fanno da soli. La vicepresidente ha un movimento alle spalle e può usarlo a suo vantaggio".

 

Questo è uno dei motivi per cui la candidatura di Harris ha stappato una valanga di fondi (oltre 540 milioni di $ raccolti dal suo lancio) e ha migliorato la sua posizione in diversi sondaggi degli stati indecisi.

Finora, è riuscita a fare di sé, da vicepresidente in carica, una candidata del cambiamento tanto quanto Trump, che ha faticato ad adattarsi al suo nuovo avversario.

L'ostacolo per Harris è che anche la campagna di Trump del 2016 non è stata niente meno che un movimento.

 E in molte fasce rosse del paese (e, in modo significativo, negli stati chiave) rimane tale.

Otto anni dopo che Trump ha vinto la Casa Bianca, ha rifatto il GOP a sua immagine, trasformando il “Republican National Committee” in una sussidiaria a conduzione familiare dopo aver represso gran parte della resistenza repubblicana al suo movimento "MAGA", almeno tra i funzionari eletti.

Anche gli alleati di Harris riconoscono quanto sia vicina la corsa. Come ha detto “Brazile”, "Queste elezioni sono tutt'altro che finite".

La campagna di Harris ritiene che abbia più percorsi per assicurarsi i 270 voti elettorali necessari per vincere la Casa Bianca.

I suoi recenti passaggi in Arizona, Nevada, North Carolina e Georgia hanno sottolineato l'improvvisa competitività degli stati che Trump, quando si opponeva a Biden, sembrava aver bloccato.

 Ma la sua posizione negli stati del "Blue Wall" di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, dove i colletti blu bianchi rappresentano la maggior parte dell'elettorato, rimane poco chiara.

 Lunedì, è apparsa con Biden, ancora popolare tra i bianchi della classe operaia e i membri dei sindacati, durante una parata del “Labor Day “a Pittsburgh.

"C'è molta eccitazione, ma c'è sicuramente un senso di trepidazione mentre le persone trattengono il fiato e aspettano che cada l'altra scarpa", ha affermato “Adrian Hemond”, CEO di “Grassroots Midwest”, una società di consulenza bipartisan con sede nel Michigan, dove Harris ha anche fatto campagna lunedì.

"I democratici sono chiaramente eccitati", ha detto.

 "Sono in una posizione molto migliore di prima, sotto questo aspetto. Ma c'è molta apprensione per qualsiasi cosa strana possa succedere in seguito".

 

“Jen O'Malley Dillon”, che guida la campagna di Harris, ha descritto il ticket democratico come "chiaramente sfavorito" in un promemoria pubblicato domenica che prevedeva che i margini di voto nei principali stati in bilico sarebbero stati di nuovo "esigui".

Confrontando l'agenda di Harris con il “Progetto 2025”, il controverso progetto della “Heritage Foundation “per la prossima amministrazione repubblicana da cui Trump ha cercato di prendere le distanze, galvanizzare gli elettori attorno all'appello di Harris di ripristinare le libertà riproduttive e appoggiarsi a un esercito più ampio di truppe di terra, ha affermato “Dillon”, potrebbe fare la differenza a novembre.

 

"Manteniamo molteplici percorsi per raggiungere i 270 voti elettorali e stiamo rafforzando la nostra posizione tra i diversi tipi di elettori che decidono le elezioni in ogni campo di battaglia", ha scritto.

Nonostante il chiaro cambiamento nella corsa nelle ultime settimane, i consiglieri di Trump affermano di avere più strade per la vittoria rispetto a Harris.

Hanno sostenuto che se Trump riuscisse a vincere in North Carolina, dove ha vinto nel 2016 e nel 2020, e a battere la Pennsylvania e un altro stato che Biden ha vinto quattro anni fa, supererebbe la soglia dei 270 voti elettorali.

 Un'altra possibile strada, affermano, è quella di conquistare i quattro stati competitivi della “Sun Belt”:

 North Carolina, Georgia, Arizona e Nevada.

Ciò costringerebbe Harris a conquistare gli stati della “Rust Belt”, tra cui la Pennsylvania, dove i sondaggi hanno mostrato un pareggio virtuale.

Il consigliere senior della campagna di Trump, “Chris La Civita”, ha descritto Harris come la "titolare" della corsa, riflettendo lo sforzo della campagna di legare il vicepresidente a Biden.

Nella sua intervista televisiva della scorsa settimana, ha detto che Harris "ha difeso la sua gestione e quella di Biden delle peggiori condizioni economiche di una generazione, ... possedendole tutte".

"Lei è proprietaria delle decisioni politiche, e ora è proprietaria del percorso politico", ha detto.

"Sessantacinque giorni sono un'eternità in politica, ... troppo lunghi perché gli elettori americani non scoprano il suo carattere debole e la sua visione pericolosamente liberale dell'America".

Ma uno stratega repubblicano della Carolina del Nord, a cui è stata concessa l'anonimato per parlare apertamente, ha ammesso che le cose si sono inasprite nello stato.

 "Penso ancora che Trump sia leggermente favorito qui, ma le cose sono cambiate", ha detto lo stratega del GOP.

 "L'ansia è che Kamala sembra avere risultati migliori con i 'doppi odiatori'", ha aggiunto lo stratega, riferendosi agli elettori che vedevano sia Trump che Biden in modo sfavorevole prima dello scambio di candidati democratici.

Nelle ultime settimane della corsa, la campagna di Harris si appoggerà pesantemente a un'organizzazione sul campo, progettata nell'ultimo anno per trascinare gli elettori alle urne a sostegno di Biden.

Allo stesso tempo, è pronta a dedicare una percentuale maggiore del suo budget pubblicitario a pagamento agli spot digitali, cercando di capitalizzare il suo forte sostegno da parte degli elettori più giovani che non erano stati entusiasti di Biden.

Nel frattempo, la campagna di Trump sta contando su diversi gruppi esterni ben finanziati per trascinare Harris verso il basso.

Tra questi c'è “Preserve America”, un super PAC che è ampiamente finanziato dalla mega-donatrice repubblicana “Miriam Adelson”.

L'organizzazione è pronta a iniziare una campagna pubblicitaria televisiva e digitale da 30 milioni di dollari a settembre, secondo una persona a conoscenza dei piani del gruppo e a cui è stata concessa l'anonimato per discuterne.

 Il primo spot si concentrerà sull'immigrazione, un problema che Trump ha reso centrale nella sua campagna.

Lo spot presenta un uomo della California, che si identifica come un ex sostenitore di Harris, che racconta di come suo figlio sia stato ucciso da un immigrato clandestino mentre Harris era procuratore generale dello Stato.

"La luna di miele di Kamala è finita e abbiamo intenzione di regalarle il peggior settembre che abbia mai avuto", ha affermato “Dave Carney”, stratega repubblicano di lunga data e consigliere senior del “super PAC Preserve America”. "La seconda fase della nostra pubblicità renderà le sue intenzioni socialiste abbondantemente chiare a ogni elettore che sta cercando di ingannare".

Un altro “super PAC pro-Trump”, “Right for America”, è pronto a lanciare una campagna pubblicitaria da 60 milioni di dollari a partire da settembre.

 Il primo spot pubblicitario del gruppo è rivolto in modo simile a Harris sull'immigrazione.

La campagna di Harris schiererà la propria artiglieria.

Ha riservato 370 milioni di dollari in spot televisivi per raggiungere gli elettori indecisi durante le ultime nove settimane della campagna.

E gran parte di quella spesa sarà mirata a focalizzare gli elettori sul “Progetto 2025”.

Mentre Trump ha cercato di prendere le distanze dal modello politico, questo spot, che va in onda anche nel mercato di casa di Trump, Palm Beach, Florida, in una frecciatina scherzosa al candidato del GOP, mette in evidenza i commenti dell'ex presidente sulla vendetta sui suoi nemici, qualora dovesse vincere di nuovo la Casa Bianca.

Future Forward”, il principale “super PAC democratico” che sostiene Harris, è anche pronto a spendere 300 milioni di dollari in pubblicità televisive e digitali prima della fine della campagna.

Gran parte del messaggio anti-Trump dei democratici si è concentrato sui diritti riproduttivi e sulla nomina da parte dell'ex presidente di tre giudici conservatori necessari per ribaltare la sentenza “Roe contro Wade” nel 2022.

Tale questione, che ha aiutato i democratici a evitare il tipico fallimento alle elezioni di medio termine più avanti nello stesso anno e ha spinto le donne a opporsi ad ulteriori restrizioni sul diritto all'aborto persino in stati repubblicani come il Kansas, sembra rappresentare un grosso problema per Trump, che ha cercato di neutralizzare la scorsa settimana con un sorprendente annuncio:

se eletto, avrebbe reso le procedure di fecondazione in vitro gratuite per tutti.

Non è chiaro se questo aiuterà Trump a colmare il crescente divario di genere nella corsa, con i sondaggi che mostrano che Trump sta perdendo ancora più terreno tra le elettrici ora che Harris è la candidata democratica.

Trump, che ha presentato” Hulk Hogan” alla convention repubblicana di luglio, spera di compensare questo con uno sforzo aggressivo per costruire un sostegno tra i giovani uomini.

Secondo un sondaggio della “Quinnipiac University” pubblicato la scorsa settimana, Trump è in testa a Harris tra gli uomini, 57 percento contro 39 percento.

Nelle ultime settimane Trump è apparso in una serie di podcast che sono popolari tra gli uomini, tra cui quelli ospitati da “Logan Paul”, “Theo Von” e i “Nelk Boys”.

Ma sull'aborto, Trump ha cercato negli ultimi giorni di confondere le acque.

 Apparentemente consapevole dei suoi impegni con gli attivisti anti-aborto e che le sue dichiarazioni e azioni passate sono sempre più una responsabilità politica, la scorsa settimana ha fatto diversi commenti contrastanti, suggerendo che avrebbe potuto votare per una misura elettorale della Florida che avrebbe consacrato le protezioni dell'aborto nella costituzione dello stato prima di dichiarare che non lo avrebbe fatto.Trump, in un post su” Truth Social “all’inizio della settimana, ha scritto, forse con speranza, che sarebbe stato “fantastico per le donne e i loro diritti riproduttivi”.

 

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