Lasciateci vivere in pace.
Lasciateci
vivere in pace.
Schwab:
“l’Era degli Eventi Shock”
Sta
Arrivando (Prima delle Elezioni del 2024)!
Conoscenzealconfine.it
– (1° Settembre 2024) – Giovanni Frajese – ci dice:
Il
World Economic Forum di Klaus Schwab ha appena lanciato l’allarme (ci
“avvertono”… ):
in vista delle elezioni statunitensi del 2024
si profila una “era di eventi shock”, mentre l’élite mondiale si prepara a
scatenare il caos nella società.
in un
articolo distopico (weforum.org/agenda/2024/08/4-global-risks-to-look-out-for-in-the-post-pandemic-era/), il WEF avverte che i cittadini
che si recheranno alle urne a novembre dovrebbero aspettarsi “eventi
destabilizzanti”, tra cui una “pandemia informatica – intenzionale”, l’emergere
di un “nuovo gruppo estremista globale” e disastri climatici accelerati, tra
cui un improvviso innalzamento del livello del mare che sommergerà una nazione
insulare.
L’élite
globalista è disperata perché vuol fare in modo che le elezioni del 2024 vadano
a loro favore, mentre continua a tentare di eludere l’azione penale per i
crimini contro l’umanità perpetrati nell’era post-pandemica.
In questo contesto non sorprende che il WEF ci
stia avvertendo di “prestare attenzione ai rischi globali che saranno
ulteriormente esacerbati da eventi shock inaspettati e destabilizzanti”.
Cosa
sta pianificando l’élite globale?
Forse
la frase più preoccupante dell’articolo è in riferimento agli attacchi
intenzionali alla sicurezza informatica.
Dato il lungo interesse di Klaus Schwab nello
scatenare un “attacco informatico devastante” nel mondo, questo avvertimento
non dovrebbe essere preso alla leggera.
Facendo
riferimento all’interruzione della sicurezza informatica globale di “Crowdstrike”
di luglio, il WEF ha affermato: “Immaginate se un malintenzionato facesse questo,
intenzionalmente e su scala ancora più grande?”
Il WEF
ha anche affermato che stiamo vivendo in un “momento di opportunità” in cui un “gruppo estremista globale” potrebbe emergere e scatenare il
caos in tutto il mondo senza subire troppe conseguenze.
Nel
frattempo, sembra che la “crisi climatica” verrà sfruttata dall’élite globale
per promuovere la propria agenda.
Secondo
Schwab e il WEF, all’ordine del giorno rientrano anche i sistemi di pagamento
tramite valuta digitale della banca centrale (CBDC) e ID digitale.
Ciò porterà il Sud del mondo ad abbandonare le
negoziazioni in dollari statunitensi, tentando persino un nuovo sistema di
pagamento basato su blockchain.
(t.me/vannifrajeseofficial)
- (Giovanni Frajese – Piccole luci nel buio).
(weforum.org/agenda/2024/08/4-global-risks-to-look-out-for-in-the-post-pandemic-era/)
(thepeoplesvoice.tv/klaus-schwab-says-era-of-shock-events-is-coming-ahead-of-2024-election/)
Lo
Stato sionista di Israele potrebbe
scomparire
entro un anno?
Chuckbaldwinlive.com
– (29 agosto 2024) – Chuck Baldwin – ci dice:
In una
straordinaria intervista con il giudice “Andrew Napolitano”, l'ex analista
della CIA “Larry Johnson” cita funzionari di alto livello del governo
israeliano che hanno espresso la loro preoccupazione che se Israele mantiene i
suoi attuali metodi guerrafondai, lo Stato sionista potrebbe scomparire entro
un anno.
“Johnson”
descrive anche il fanatismo religioso radicale di molti israeliani dietro
l'infatuazione della nazione per la guerra. (Un fanatismo molto simile esiste
nella maggior parte delle chiese evangeliche, tra l'altro.)
“Johnson”
spiega anche perché il miscredente “Benjamin Netanyahu” non porrà mai fine alle
guerre di Israele:
sa che
non appena la guerra finirà, sarà arrestato e processato per molteplici atti
criminali all'interno di Israele (senza contare i crimini di guerra
internazionali di cui è accusato) e probabilmente passerà il resto della sua
vita in prigione.
In
conclusione: Netanyahu sta intenzionalmente mantenendo in vita le guerre di Israele
per la sua personale autoconservazione.
Ecco
alcuni estratti dall'intervista del giudice “Nap.” a “Larry Johnson”:
Napolitano:
Israele
sta commettendo un suicidio nazionale, Larry?
Johnson:
Certo
che sembra così. Sai quando sei in una lotta, e in particolare in una guerra,
l'ultima cosa che vuoi fare è combattere una guerra civile, essere in guerra
l'uno contro l'altro a casa.
C'è il
capo dell'esercito, fondamentalmente l'esercito israeliano, il portavoce
dell'IDF, che esce allo scoperto e si oppone a Netanyahu.
C'è il capo del Mossad che si oppone a Netanyahu, e il
Mossad è come la versione israeliana della CIA.
C'è lo “Shin Bet”, che è, lo descrivo così, è come l'
“FBI con un tocco della CIA”, perché in realtà non è tanto un gruppo di forze
dell'ordine quanto un gruppo di intelligence interna/sicurezza interna.
Tutti
loro stanno uscendo allo scoperto e condannando Netanyahu.
E Netanyahu a sua volta li ha definiti codardi
e deboli.
E poi,
in aggiunta a questo, ci sono alcuni membri molto importanti o ex membri delle
Forze di Difesa Israeliane.
C'è il
generale “Yitzhak Brik”, che ha pubblicato un editoriale su “Haaretz durante il
fine settimana.
E,
ragazzi, non ha tirato pugni.
Uscì
allo scoperto e disse che Israele, se continua su questa strada, crollerà entro
un anno, che il paese andrà in pezzi.
Napolitano:
Beh, alcune di queste cose che il “generale
Brik” ha detto sono strategiche, e alcune di esse sono personali.
Ad esempio, ha detto del primo ministro
Netanyahu:
"Ha
perso la sua umanità, la moralità, le norme, i valori e il senso di
responsabilità".
Questo
è il massimo che si possa ottenere.
Non
sta parlando della personalità di Netanyahu; sta parlando delle sue decisioni di
massacrare innocenti e di usare i riservisti e l'IDF con cui farlo.
Johnson: Esatto.
Napolitano:
Netanyahu
e la sua squadra hanno un guru accademico o teologico, un rabbino, che predica
tutto questo nello stesso momento in cui predica facendo saltare in aria
moschee e autobus carichi di arabi?
Johnson: Sì, non Netanyahu.
Netanyahu,
è tutto incentrato sul potere e sul prendersi cura di sé stesso.
Ma lo “Smotrich”
e il “Ben-Gvir”, sì, questo rabbino “Dov Lior”, è stato piuttosto influente e
piuttosto estremo.
Quindi,
c'è una dimensione religiosa in questo; Non possiamo scartarlo.
Penso
che la tendenza di molti esperti occidentali sia quella di non approfondire gli
aspetti religiosi di questo.
Ma sono reali per quanto riguarda queste
persone.
Ed è
questo che li spinge.
Voglio
dire, parte della loro premessa è che in realtà hanno un patto con Dio, e che
questo è stato stabilito 3.000 anni fa, e hanno diritto a questa terra, e hanno
il diritto di fare tutto ciò che devono fare per eliminare coloro che non sono
stati scelti da Dio per viverci.
E
così, quando si prende una credenza religiosa come quella e poi la si traduce
in politica, ovviamente si possono uccidere i bambini palestinesi, perché sono solo
rifiuti nel modo in cui è necessario eliminarli.
E
quindi questo è parte di ciò che ha allarmato così tanto il capo dello “Shin
Bet”.
E lui
ha detto:
"Guarda,
sono cresciuto in una famiglia di sopravvissuti all'Olocausto e, sai, abbiamo
creduto che non ci fossimo mai più".
Ma lui
fa:
"Mio
Dio, quello che sto vedendo uscire da queste bocche ebraiche sulla supremazia
ebraica, e non solo, 'Ehi, siamo più intelligenti, siamo più realizzati', ma in
realtà, 'Siamo esseri umani; Voi non siete esseri umani'".
Dice
che questa mentalità è ciò che lo allarma, e che ha preso piede in un grande
segmento all'interno di Israele.
Questo
è il pericolo.
Napolitano:
È un
punto di vista della maggioranza, questa credenza messianica?
"Dio
Padre ci ha dato questa terra, e noi possiamo schiacciare e distruggere
qualsiasi cosa o persona che si metta sulla nostra strada. Possiamo stabilire
la nostra moralità perché siamo gli eletti".
Johnson: Sì, a quanto pare.
Almeno
ora è oltre il 50% in Israele.
E di nuovo, quel numero potrebbe aumentare man
mano che gli israeliani che erano laici stanno lasciando Israele, tornando
negli Stati Uniti, andando in Europa, andando in altri luoghi, perché non lo
accettano.
Quando
se ne vanno, ciò significa che coloro che credono in ciò diventano una
percentuale maggiore della popolazione.
Nel giro di pochi mesi dopo il 7 ottobre, è
stato ben documentato che oltre 500.000 israeliani avevano lasciato Israele su
una popolazione totale di poco più di 9 milioni.
Ma
proprio ieri, il colonnello Douglas Macgregor ha suggerito al giudice “Andrew
Napolitano” che la popolazione di Israele oggi è di 4 milioni e mezzo a 5
milioni.
Se questo è vero, significherebbe che circa la
metà della popolazione israeliana è fuggita dal paese da quando è iniziata la
guerra genocida di Israele contro Gaza.
L”'IDF”
non sta uccidendo tizi che sono vestiti con giubbotti antiproiettile e portano,
sai, giochi di ruolo.
Stanno uccidendo donne e bambini in generale,
e le immagini sono spaventose. Sono orribili.
Voglio dire, proprio negli ultimi giorni, le
foto dei bambini sono state bruciate. Voglio dire, è disgustoso.
Bambini a cui mancano pezzi della testa.
Ora
abbiamo sentito gli israeliani dopo il 7 ottobre parlare di:
"Oh,
Hamas ha ucciso 40 bambini".
Non
abbiamo mai visto una sola foto; Non abbiamo mai sentito un solo nome. Ma
quello che sta venendo fuori dalla Palestina sono nomi e immagini orribili.
E sta
stabilendo una realtà.
E
questo sta mettendo a dura prova questi soldati israeliani.
Napolitano: Netanyahu vuole la guerra!
Netanyahu
e i suoi fanatici religiosi credono che questo sia il momento in cui Dio ha
ordinato loro di uccidere tutti coloro che li ostacolano.
Johnson:
Gli
Stati Uniti potrebbero porre fine a tutto questo immediatamente.
Dici a
Netanyahu: "Ok,
gli aiuti militari sono finiti e ti stiamo tagliando fuori economicamente. Non
avrete un'altra goccia fino a quando non vi sederete e non farete un serio
negoziato con i palestinesi".
Il
generale “Yitzhak Brik” ha pubblicato un editoriale su “Haaretz” [un giornale
israeliano] durante il fine settimana.
E,
ragazzi, non ha tirato pugni. Uscì allo scoperto e disse che Israele, se continua su questa
strada, crollerà entro un anno.
Questo
generale israeliano non è il primo israeliano a dirlo.
E non sarà l'ultimo.
Molti
esperti di Medio Oriente dicono che Israele è sulla strada
dell'autodistruzione.
Se il colonnello Mac Gregor ha ragione nel
suggerire che metà della popolazione israeliana è già fuggita dal paese,
l'unica ragione logica per un esodo così massiccio e spontaneo sarebbe perché
si aspettano che lo Stato di Israele collassi presto.
(Esorto
i lettori a guardare il mio DVD di tre messaggi proprio su questo argomento.
Questi messaggi sono stati consegnati poco dopo l'inizio della guerra genocida
israeliana contro Gaza. Il titolo del DVD è “End-Time Israel”).
E le
dottrine guerrafondaie radicali del sionismo cristiano in America sono fondamentalmente
le stesse delle dottrine guerrafondaie radicali del sionismo ebraico in Israele.
L'unica
differenza è che i guerrafondai ebrei vanno in guerra nel tentativo di portare
avanti il Messia, mentre i guerrafondai cristiani vanno in guerra nel tentativo
di riportare indietro il Messia.
Ma sia i sionisti cristiani che quelli ebrei
credono che Dio voglia che uccidano tutto il popolo palestinese nel nome del
loro Messia.
Chiedo
ai miei amici evangelici che sono così estasiati (scusate il gioco di parole)
dal “Futurismo Profetico” e che credono che l'Israele sionista sia l'Israele
biblico e che la terra di Palestina appartenga all'Israele sionista:
avete mai studiato il” capitolo undici su
Romani” senza leggere gli appunti inondati di sionisti di Scofield (o di Ryrie
o MacArthur)?
Ecco
cosa insegna veramente il capitolo 11 di Romani sul popolo eletto di Dio e
sulla terra.
Oltre
a questo, hai mai incontrato un palestinese?
Avete
mai parlato con un cristiano palestinese?
Avete
mai visto una famiglia palestinese?
Avete
mai incontrato un pastore palestinese?
Avete mai adorato con una congregazione
cristiana palestinese?
No. Ne ho incontrati centinaia quando ho
viaggiato e ho parlato in tutta la Palestina.
E
lasciate che vi dica che, nel complesso, non troverete un popolo più gentile,
umile, gentile, amante della pace in nessuna parte della terra.
I cristiani palestinesi fanno vergognare i
cristiani americani!
E
mentre i cristiani palestinesi vengono massacrati, i cristiani americani fanno
il tifo per i massacratori.
Se il
popolo americano avesse sopportato l'uno per cento di quello che i palestinesi
hanno sopportato sotto i pesanti talloni dell'occupazione israeliana, decenni
fa si sarebbe trovato in una guerra totale.
Ma sto
divagando.
Torniamo
alla previsione del generale israeliano secondo cui, se Israele continua sulla
stessa strada guerrafondaia, potrebbe cessare di esistere entro un anno.
Credo
che il “giudice Napolitano” avesse ragione quando ha detto che, finché Benjamin
Netanyahu sarà primo ministro, non ci sarà alcun accordo di pace, nessuna
interruzione della guerra.
E la verità è che, per come si stanno
delineando i dati demografici della popolazione israeliana, non ci sarebbe
alcun cambiamento nella brama di guerra di Israele, non importa chi sia il
primo ministro.
Come
molti in Israele hanno detto, Israele è uno stato razzista e di apartheid che è
guidato dalle emozioni dell'odio e della supremazia ebraica.
E
quando si guarda alle politiche degli Stati Uniti riguardo a Israele e
Palestina, poco importa chi viene eletto presidente o eletto al Congresso.
Il denaro israeliano li controlla tutti.
Ma la
mia grande domanda è per i cristiani evangelici:
cosa
faranno quando Israele cesserà di esistere, come prevedono il generale
israeliano e il capo israeliano dello Shin Bet?
Tutto
ciò che credono che la Bibbia insegni riguardo alla profezia è basato su
Israele.
TUTTO!
La
dottrina "benedici Israele e sii benedetto".
Il Rapimento Pre-Tribolazione. L'Anticristo.
La tribolazione di sette anni.
La Seconda Venuta. Il Millennio.
Il re Davide dell'Antico Testamento che regna
di nuovo a Gerusalemme.
La
nazione ebraica "eterna".
È
tutto basato su Israele.
La maggior parte dei pulpiti evangelici, la
maggior parte dei collegi e seminari evangelici, la maggior parte degli autori
evangelici, la maggior parte delle emittenti radiofoniche e televisive
evangeliche, la maggior parte dei “podcaster” evangelici e la maggior parte
degli editori evangelici sono immersi nella profezia basata su Israele.
Che
cosa faranno quando Dio distruggerà l'ateo Israele sionista come ha distrutto
il tempio apostata dell'Antica Alleanza?
E
quando dico di distruggere l'Israele sionista, non sto parlando del popolo
ebraico;
Sto
parlando del governo e dello stato sionista.
Per
oltre mille anni – prima che lo stato sionista fosse creato nel 1948 – ebrei,
musulmani e cristiani in Palestina hanno vissuto pacificamente fianco a fianco.
La
creazione dello Stato sionista non ha portato a nulla se non alla pulizia
etnica e al genocidio del popolo palestinese ed è diventata nient'altro che un
terreno fertile per la guerra in tutta la regione.
(Esorto
i lettori a leggere il libro di successo del famoso storico israeliano Ilan
Pappe, “La pulizia etnica della Palestina”.)
Senza
uno stato sionista, cosa insegnerebbero i pastori e i professori evangelici
sulla Fine dei Tempi?
Cosa farebbero milioni di cristiani evangelici
e migliaia di chiese evangeliche?
Gli
evangelici un giorno si sveglieranno e si renderanno conto che tutto ciò che “John
Darby” e “Cyrus Scofield” hanno detto loro sulla profezia era una bugia, che
tutto ciò che il “Seminario Teologico” di Dallas ha insegnato loro sulla
profezia era una bugia, che ogni libro di profezie che leggevano era una bugia,
che ogni sermone di profezia che sentivano era una bugia.
Cosa
faranno quel giorno?
Getteranno
via le classifiche di Clarence Larkin.
Getteranno
via i libri di “Jerry Jenkins” e “Hal Lindsey”.
E
getteranno via i DVD delle profezie di “John Hagee” e “Robert Jeffress”.
Questo è ciò che faranno.
(Chuck
Baldwin)
I
padroni del mondo.
Laterza.it
- (10-6-2024) – Autore Alessandro Volpi – Redazione – ci dice:
Come i
fondi finanziari stanno
distruggendo
il mercato e la democrazia.
Più
forti dei singoli Stati, decisivi nella tenuta delle monete e del debito
pubblico, proprietari di quote sbalorditive di economia reale: i fondi
speculativi – a cominciare da “Vanguard e BlackRock” – sono diventati i
‘padroni del mondo ’.
Ancora
marginali all’inizio del nuovo millennio, hanno cavalcato le crisi, hanno
beneficiato dell’operato delle banche centrali e dei governi e hanno sfruttato,
accelerandolo, il processo di smantellamento degli Stati sociali e di
privatizzazione della società.
Ma
come è stata possibile una simile concentrazione del capitalismo che ha
cancellato l’idea stessa di mercato?
Questo
libro prova a spiegarlo, tracciando un quadro chiaro dei numeri di tale
monopolio e ricostruendo, al contempo, le storie dei protagonisti di una simile
incredibile scalata al potere.
Il
partito di Jamie Axelsson
crede
nei miracoli della crisi climatica.
Tecnosuper.net
- Cirillo Lombardi – (Febbraio 12, 2024) – ci dice:
Solo
Putin trae vantaggio dalla dipendenza dell’Europa dai combustibili fossili.
Gli
agricoltori europei stanno protestando contro l’aumento dei costi operativi, la
riduzione dei prezzi dei loro prodotti e le leggi più severe sul clima dell’UE
nel contesto delle elezioni europee che si terranno dal 6 al 9 giugno.
La
Commissione europea propone di ridurre le emissioni nette del 90% entro il
2040, proposta che è stata oggetto di reazioni trasversali.
I
socialdemocratici sostengono l’iniziativa e vogliono aumentare le ambizioni,
mentre la destra svedese ritiene che sia troppo presto per fissare nuovi
obiettivi.
I
leader dell'Aftonbladet ritengono che la questione climatica evidenzi le
differenze tra i socialdemocratici e i democratici svedesi nelle prossime
elezioni europee, rendendo le elezioni cruciali per la futura politica
ambientale dell'Europa.
La sintesi è stata preparata con il supporto
degli strumenti “AI “di OpenAI e il controllo di qualità di “Aftonbladet”.
Gli
agricoltori francesi hanno bloccato l'ingresso al Parlamento europeo a
Strasburgo in segno di protesta mentre i politici si riunivano per un incontro
la settimana scorsa.
Strasburgo
Al Parlamento Europeo.
A Strasburgo si è sentito un violento suono di
clacson proveniente dall'esterno.
I trattori sono in fila all'ingresso.
Gli
agricoltori arrabbiati sono diventati un movimento potente e un fattore
importante nel periodo che precede le elezioni europee, che gli Stati membri
voteranno dal 6 al 9 giugno di quest’anno.
“Sono
qui perché sono stanco di politici che dicono qualcosa e poi votano contro”,
dice “Kranz Germain”, un contadino del sud della Francia venuto qui per
protestare contro la politica agricola dell'Unione europea.
Le
rivolte contadine si diffusero in tutta Europa.
Dalla Germania, Belgio e Polonia alla Francia,
dove sono state chiuse le strade che portano a Parigi.
Gli
agricoltori protestano perché tutto sta diventando più caro e che i prezzi dei
loro prodotti stanno diminuendo a causa delle importazioni dall'Ucraina e dal
Sudamerica.
Criticano
il fatto che le leggi climatiche dell’UE sui pesticidi stanno diventando più
rigorose e tutta la gestione richiesta oggi alle aziende agricole.
Il
governo del presidente francese Emmanuel Macron ha dovuto accogliere in una
certa misura gli agricoltori, abbassando i prezzi del diesel e allentando le
normative sui prodotti chimici.
La
situazione è tesa quando la polizia è costretta ad arrestare Zuma in Sudafrica.
Fa
rima male “Con obiettivi climatici di alto livello” in fase di negoziazione nel
Parlamento europeo.
La
settimana scorsa, la Commissione europea ha formulato una raccomandazione su “Obiettivo
climatico comune entro il 2040.
Ciò
significa ridurre le emissioni nette del 90% entro il 2040.
I
combustibili fossili devono essere gradualmente eliminati e devono essere
sviluppate foreste e nuove tecnologie per catturare l’anidride carbonica.
Le
reazioni agli obiettivi del 2040 variano da partito a partito.
Oppure: i rossoverdi e i liberali sostengono e
vogliono aumentare le ambizioni.
La destra svedese ha preso una posizione
negativa.
È troppo presto per fissare nuovi obiettivi.
Abbiamo
appena adottato leggi ambientali fino al 2030 e dobbiamo prima valutarle,
afferma “Charlie Weimers”, membro dei Democratici svedesi, quando lo incontro
con un gruppo di giornalisti svedesi.
Weimar
è Il primo nome sulla lista del partito SD per le elezioni del Parlamento
europeo di questa primavera.
Parla
del fatto che la politica deve lavorare fianco a fianco con gli agricoltori e
la gente comune affinché le persone vogliano il cambiamento.
Per
quanto riguarda il modo in cui la Svezia o l’Unione Europea riusciranno a
diventare climaticamente neutrali entro il 2050 al più tardi, come l’Unione
Europea ha già deciso, “Weimers” non è altrettanto chiaro.
L’energia
nucleare, lo scambio di emissioni e le tecnologie di stoccaggio del carbonio
che ancora non esistono sono la panacea che risolverà i problemi.
Come
molti all’interno del gruppo del partito “ECR”, con cui i democratici svedesi
siedono al Parlamento europeo, “Charlie Weimers” è preoccupato che il rapido
cambiamento climatico possa portare le industrie a lasciare l’Europa.
È un
argomento potente che potrebbe auto-convalidarsi.
Perché
se gli Stati membri dell’UE non cambiano, la nuova industria verde individuerà
naturalmente le sue fabbriche e i suoi servizi altrove.
“Helen
Fritzon” Il primo nome dei socialdemocratici alle elezioni.
Il suo
partito vuole andare oltre e raggiungere una riduzione del 95% delle emissioni
di anidride carbonica entro il 2040.
Crede
che sia giunto il momento che il governo di destra svedese mostri rispetto.
Dobbiamo andare avanti più velocemente se
vogliamo approvare l'Accordo di Parigi, ha detto durante una pausa dalla
discussione in sala plenaria.
Soprattutto perché ora in Svezia abbiamo un
governo conservatore di destra guidato dai democratici svedesi.
Per la prima volta in due decenni, le
emissioni sono in aumento in Svezia. Abbiamo un ministro del clima che è
completamente invisibile e non vuole discutere di clima.
L’Unione Europea e gli Stati Uniti esortano
la Georgia a fermare il controverso disegno di legge.
La
questione climatica è legata anche alla sicurezza dell’Europa.
Per
questo sottolinea che il lavoro di transizione non dovrebbe essere rallentato
dai populisti di destra che affermano di essere dalla parte della gente comune
durante il prossimo mandato.
Vogliamo liberarci dei combustibili fossili e
porre fine alla guerra, è molto importante metterla fine Gas russo.
Riteniamo che il petrolio debba essere
etichettato in modo che si sappia che il denaro non finisce nel forziere di
guerra di Putin.
“S” e “SD”
si sono nominati principali oppositori alle elezioni europee.
Le differenze tra le parti non potrebbero
essere più chiare che sulla questione climatica.
Per
gli elettori si tratterà di un’elezione che influenzerà in maniera decisiva il
futuro dell’Europa.
Il
clima è una questione importante per te nelle elezioni europee?
Dovremmo
avere il coraggio di aumentare un po’ le emissioni se è possibile ridurle molto
da qualche parte, ad esempio aumentando la produzione alimentare svedese per
ridurre i prezzi dei prodotti in Svezia.
Henrik.
Ma poi
è stato possibile ridurre le emissioni in un altro modo.
Come
ad esempio non ridurre l’impegno di riduzione di benzina e diesel al livello
più basso dell’Unione Europea.
Proprio
questa decisione del governo farà sì che le emissioni di anidride carbonica
della Svezia aumenteranno di 4 milioni di tonnellate nel 2024 rispetto al 2023!
Non ci
sarà alcun cambiamento nell’opinione pubblica finché gli appassionati di
fossili resteranno chiusi nelle loro chat isolate, leggendo e condividendo le
stesse pagine web.
Le
loro abitudini di lettura.
La
polarizzazione è già un problema, anche sul clima.
Quindi
sono preoccupato per i tagli profondi che si stanno verificando oggi nelle
società di servizi pubblici.
In SR
hanno, tra le altre cose, preso il controllo del servizio di corrispondente sul
clima.
Era la
persona con competenze all’avanguardia sulla questione climatica e ha aiutato
il resto del comitato editoriale ad affrontare una questione che presentava una
scienza molto complessa che doveva essere compresa da noi laici per comprendere
la situazione.
Il
clima è importante, ma allo stesso tempo i politici si stanno muovendo nella
direzione sbagliata.
Vogliono
abolire le mucche perché scoreggiano, ma allo stesso tempo sostengono tutte le
guerre.
Gli agricoltori non dovrebbero usare i
trattori, ma l’esercito può guidare i carri armati.
I politici vanno a Bruxelles perché è bello
incontrarsi (non vogliono usare la tecnologia/riunioni video), ma gli
infermieri saltano il caffè perché è troppo costoso.
Nessuno vuole la guerra, quindi i politici
devono lavorare per la pace.
Oppure
si annullano e allora sono solo i soldi a governare.
Sofia.
Hai
davvero messo il dito su molte delle principali ipocrisie di oggi!
Allo
stesso tempo, è possibile sostenere la stessa argomentazione:
perché
dovremmo fare qualcosa quando Cina e India sono i più grandi criminali
climatici?
Deve
essere possibile controllare la produzione agricola ed energetica e allo stesso
tempo aiutare l’Ucraina a combattere l’invasione russa, ecc.
I
viaggi a Bruxelles e Strasburgo sono davvero un dilemma.
Naturalmente penso che andrebbero utilizzati i
treni, ma sono riluttante a utilizzare sempre le riunioni online.
È
sempre meglio incontrare persone nella vita reale, giusto?
Soprattutto
quando si tratta di politica, dove i conflitti su questioni sono la base su cui
le persone vengono coinvolte.
Sì, la
questione climatica è molto importante.
A mio
avviso, l’uso del biogas come combustibile e per il riscaldamento è qualcosa
che è completamente scomparso.
Ho
guidato un’auto senza combustibili fossili per oltre 10 anni, e molte più
persone potrebbero farlo se ai negazionisti del clima non fosse permesso di
restare. Qualsiasi motore a combustione convenzionale può essere convertito per
funzionare a biogas.
È
possibile ridurre le emissioni minime e la produzione di nuovi veicoli.
La
nostra Terra non può gestire una maggiore produzione di elettricità per far
funzionare auto elettriche, riscaldare case, produrre elettricità per sale
server, ecc. Le materie prime necessarie vengono prodotte in condizioni
disgustose.
Chi
vuole contribuire? Non io comunque…
BASTA “SD”!
Aria.
Il
biogas è in realtà una risorsa non sfruttata.
La raccolta differenziata dei rifiuti
alimentari è obbligatoria solo a Stoccolma, ad esempio, dal gennaio 2023.
Dovrebbe
essere obbligatoria ovunque, in modo che possiamo trarne vantaggio, che si
trasforma in energia rinnovabile.
Se il
clima non è la questione più importante del nostro tempo, allora le persone con
un’opinione diversa devono essere sorde e cieche a tutto ciò che sta accadendo
all’ambiente nel mondo in questo momento.
Kenneth.
Potresti
pensarlo.
Al più
tardi ieri l'Aftonbladet ha pubblicato un articolo sul possibile crollo del
canale della Corrente del Golfo.
Dovrebbe
far capire a tutti che la situazione è urgente, indipendentemente dal proprio
partito di appartenenza.
Ma, stranamente,
il mondo si è capovolto.
La
green economy è un bluff,
serve
un’altra economia.
Lorenzoguadagnucci.wordpress.com
– (23 Maggio 2020) – ci dice:
Le
economie sono a soqquadro e la fase 2 dell’emergenza Covid-19, appena
cominciata, fa già intravedere le principali linee di tendenza.
La
parola d’ordine è tornare alla “normalità”, per quanto tutti sappiamo che
all’origine dei nostri mali e della stessa pandemia c’è proprio tale
“normalità”. Una normalità di predazioni, di ingiustizie e di attacco
sistematico agli ecosistemi di un pianeta allo stremo.
La
metafora del virus come risposta della natura agli eccessivi abusi che deve
sopportare è un’efficace rappresentazione del passaggio che stiamo vivendo.
Il
“modello di sviluppo” dominante è incompatibile con la salute della biosfera,
giunta vicina al limite di sopportazione.
Ciò
nonostante, l’intenzione dichiarata di chi oggi guide le danze dalle stanze del
potere è “ripartire”, costi quel che costi.
Si è
arrivati al punto di rinnegare molte delle regole fino a ieri ritenute
inviolabili – sussidi di stato, indebitamento, garanzie pubbliche di prestiti
privati, sforamento dei vincoli di bilancio e via elencando – pur di rimettere
in moto il sistema così com’era.
Non
sarà possibile.
Il
coronavirus, nel breve termine, lo impedirà, alimentando l’inevitabile
recessione (ci
saranno, già ci sono meno consumi, meno viaggi, più disoccupazione), e più avanti – se l’attacco agli
ecosistemi non cesserà – avremo nuovi virus, crescenti conflitti fra stati,
nuove instabilità.
È
facile prevedere che vivremo mesi, anni di passione e di contrapposizioni.
Ci sarà una lotta fra il ritorno alla
normalità – oggi sostenuta dai potenti di turno – e chi vorrà promuovere una
nuova normalità.
Serviranno
delle bussole, specie per quanti vorranno agire in quest’ultima direzione.
Una di
queste bussole, un aiuto a capire lo stato delle cose e le prospettive di
cambiamento, può essere il libro di “Paolo Cacciari ““Ombre verdi”, pubblicato
in ebook da” Altr’economia”, rivista e casa editrice a sua volta da tenere
d’occhio come costante punto di riferimento.
Sono due i principali meriti del libro di
Cacciari.
Primo, togliere ogni illusione sul sistema
economico dominante, votato a un distruttivo estrattivismo e incapace di
considerare l’esistenza di limiti biofisici allo sviluppo:
“L’aria”,
scrive per esempio Cacciari, e prendiamo questa frase come sintesi di analisi
più analitiche e documentate, “è una merce e respirare ha un prezzo. Prima la
si rende scarsa inquinandola, poi la si tecnologizza, infine la si rivende.
Così come avviene già per l’acqua, per l’etere (onde elettromagnetiche), per i
genomi (brevettati), per le foreste (date in concessione), per non dire delle
terre rubate ai popoli indigeni”.
Secondo
merito,
la
meticolosa opera di demolizione di un’illusione che molti coltivano nella
speranza di mitigare il disastro ecologico in corso senza cambiare troppo il
modello economico esistente, cioè l‘idea che la via di salvezza passi per la
“green economy”, gli “investimenti verdi”, la “economia circolare”.
Cacciari
mostra – studi e dati alla mano – l’inconsistenza di tali ipotesi e sintetizza
così:
“L’obiettivo
vero della ricerca di uno ‘sviluppo sostenibile’ è lo sviluppo economico, non
la sostenibilità. La sostenibilità è un attributo secondario, una leva, un
accessorio, un abbellimento dello sviluppo. La sostenibilità può qualificare o
meno lo sviluppo, ma rimane la variabile subordinata”.
E
ancora: “La
green economy rivitalizza il mercato, non l’ambiente. Il partito del Pil ha
inglobato anche il sociale e il sostenibile. La ‘economia verde’ ha la strana
pretesa di salvare la natura vendendola al miglior offerente”.
Siamo
al cuore della questione.
Il
punto è stato messo a fuoco da tempo:
l’ideologia e la pratica della crescita delle
produzioni, dei consumi, dell’estrazione di risorse dev’essere combattuta e
superata.
Il
libero mercato e gli spiriti animali del capitalismo sono all’origine dei
nostri guai: non è da lì che verranno le soluzioni.
Servono
un nuovo pensiero e una nuova prassi, un’altra idea di economia.
Cacciari
da tempo studia le “altre economie” (oggi va di moda l’espressione “economia
trasformativa”) e in altri libri ha documentato il pullulare di esperienze in
corso nella base della società, esperienze che non sono riuscite finora a fare
sistema e a proporsi come modello di valenza generale.
La
ricerca tuttavia continua e la risposta che cerchiamo alla crisi ecologica
globale verrà – se verrà – da questi ambienti.
E attraverso, naturalmente, un’intensa azione
collettiva in più direzioni:
nella
sperimentazione di nuovi modelli di produzione e consumo ma anche nella lotta
ideologica, sociale e politica con il potere dominante.
Cacciari
cita più volte, come testo politico importante, l’enciclica “Laudato sì di papa
Francesco”, ma in appendice al libro mette anche il Manifesto eco socialista
del 2009.
Sono
indicazioni da meditare.
Il
socialismo verde,
il
fine dell’ideologia green.
Lanuovabq.it
– Maurizio Milano – (17-12-2022) – ci dice:
I
gruppi ecologisti chiedono un nuovo modello socioeconomico per “salvare il
pianeta”. Volenti o nolenti, sono la cassa di risonanza delle élite, da Davos
alla Commissione UE (Green Deal), all’Onu (Agenda 2030).
Il
catastrofismo è funzionale a un nuovo socialismo, che ha i tratti di una
“religione civile” contraria alla vita e alla libertà, a danno di famiglie e
ceti medi.
L’ecologia
è altro.
L’uomo
del XXI secolo, orfano di prospettive religiose autentiche e disilluso dai
surrogati delle varie ideologie - liberale, socialista e marxista - trova
conforto in una nuova “religione civile”:
la
sostenibilità ambientale in salsa Onu, una visione paganeggiante del pianeta,
in cui l’uomo è l’unico elemento di perturbazione in un ordine altrimenti
perfetto e compiuto.
Su
tali premesse si innesta l’utopia di un nuovo sistema economico, sociale e
politico, all’insegna della “pianificazione democratica” e dello “statalismo
climatico”, per costruire un mondo migliore.
In mancanza di meglio, in qualcosa bisogna pur
credere.
Un
esempio tra i tanti dell’ideologia green si trova nelle posizioni deliranti
dell’ex ministro della transizione ecologica, “Roberto Cingolani”, che ha
definito l’essere umano «biologicamente un parassita perché consuma energia senza
produrre nulla», in un mondo «progettato per tre miliardi di persone»:
senza
chiarire, evidentemente, né la fonte di tale sorprendente rivelazione né che
cosa pensasse di fare con i circa cinque miliardi di “parassiti” in eccesso.
Una dichiarazione che appare anche paradossale
alla luce del suicidio demografico in atto nei Paesi sviluppati, che rischia di
rendere insostenibile la sostenibilità dell’”Agenda Onu 2030” per mancanza e
non per eccesso di persone.
Un
autentico amore per la natura non può convivere con l’odio nei confronti
dell’essere umano, da cui tutta la propaganda anti-natalità e pro-eutanasia,
fino a volere prometeicamente riplasmare l’uomo seguendo l’ideologia Lgbt, in
ostilità alla natura dell’uomo e alla famiglia naturale.
Amare
la natura e odiare l’uomo, e la “natura dell’uomo”, non è forse una
contraddizione in termini?
Si tratta di un attacco frontale alla
concezione giudaico-cristiana dell’uomo e del creato, oltre che al semplice
buonsenso sempre meno comune purtroppo;
un
attacco che rischia di diffondersi anche tra gli stessi credenti ingenui.
Bene
l’ecologia, certamente;
purché
sia un’autentica “ecologia umana”, che rispetti innanzitutto la natura
dell’uomo, e conseguentemente anche tutto il resto del creato.
Nei
programmi dei movimenti che compongono la variegata galassia ecologista, dai
gruppi pacifici del tipo” Fridays For Future “a quelli che imbrattano le opere
d’arte nei musei in favore di telecamere, da quelli che bloccano la
circolazione stradale, ferroviaria o aerea ai gruppi eco-terroristi, è ben
visibile, al di là dei mezzi differenti, un fil rouge:
rosso
è proprio il termine adeguato per indicare il filo che lega insieme questi
ambienti, che agiscono di sponda all’iniziativa del “Great Reset” portata
avanti, a tappe forzate post-Covid, dal Forum di Davos, dall’Agenda Onu 2030,
dal Build Back Better dell’Amministrazione Biden, dal Green Deal della
Commissione Europea.
Per
giustificare gli enormi sacrifici richiesti - pensiamo ai forti rialzi dei
costi energetici e alimentari aggravati dalla folle transizione ecologica in
atto - le élite tecnocratiche portano avanti la “grande narrazione” di un
pianeta destinato all’autodistruzione, per colpa dell’essere umano.
E lo
fanno inducendo paura e ansia, soprattutto ai danni delle giovani generazioni,
per mantenere uno stato permanente di crisi e insicurezza, funzionale
all’implementazione dei piani programmati.
Prima si sollecitano le emozioni e i
sentimenti con l’incombente emergenza climatica, poi se ne fornisce la
soluzione:
una
revisione completa dei sistemi economici, sociali e politici, una “quarta
rivoluzione industriale” per un “nuovo umanesimo”, verso una nuova normalità,
caratterizzata da diminuzione della popolazione, decrescita economica,
restrizioni alla proprietà privata, ai consumi e alla libertà di movimento.
La
narrazione promossa dai vertici viene amplificata dagli attivisti verdi e
ripresa dai media.
Si
nota un afflato religioso e vagamente gnostico in tali movimenti, un nuovo
pauperismo dove l’austerità e la decrescita sono viste come la salutare
penitenza dei supposti peccati ecologici commessi dall’uomo, nella prospettiva
della giustizia e solidarietà climatica, di una catarsi globale, dove la
salvezza proposta è quella del pianeta-Gaia, salvezza dall’uomo ovviamente:
il
tutto nell’interesse delle future generazioni, “ça va sans dire”, sempre che ci
siano ancora se prosegue tale propaganda, pessimista e ansiogena, ostile alla
vita, alla famiglia e alla libertà.
Due
punti da sottolineare:
1.
“Green is the new Red”:
l’ecologismo
catastrofista è il grimaldello per arrivare a un nuovo “socialismo verde”, che
si crede possa funzionare laddove ha fallito il socialismo d’antan.
Una sorta di “socialismo liberale del XXI secolo”, caratterizzato da un
neocorporativismo clientelare pubblico-privato ai massimi livelli, dove si
conservano le strutture liberal-democratiche accentrando però risorse e
decisioni in cabine di regia sempre più elevate, al di sopra degli stessi Stati
nazionali, in nuove nomenklature;
2. I
movimenti ecologisti sbraitano contro i governi, le grandi imprese e la grande
finanza.
Non è
curioso, tuttavia, che ripetano in fondo lo stesso verbo promulgato da anni
dalla “Community di Davos”, dove tali poteri pubblici e privati, ai livelli più
alti, si incontrano per “plasmare le agende” nazionali e sovranazionali?
Gli
attivisti verdi sono la cassa di risonanza del grande potere contro cui, almeno
a livello di militanti di base, ci si illude di combattere:
alla
fine si porta acqua allo stesso mulino.
Proprio
come gli "utili idioti" della migliore tradizione comunista.
L'ideologia
di chi parla
di
"ideologia green."
Huffingtonpost.it
- Marco D'Egidio – (17 Luglio 2023) – ci dice:
L'ideologia
di chi parla di ideologia green.
I
conservatori, non avendo il coraggio di sfidare apertamente le evidenze ormai
troppo grandi anche per loro sul cambiamento climatico, mirano a posticipare
gli obiettivi green perché le tabelle di marcia sarebbero troppo rigide e
serrate, imponendo costi eccessivamente alti in termini produttivi e sociali
Il
dibattito sulla transizione ecologica ed energetica è destinato a ridisegnare i
confini tra le posizioni politiche di destra e di sinistra nell'anno scarso che
ci separa dalle elezioni europee, e probabilmente anche nel medio e lungo
periodo.
Come si è visto negli ultimi giorni nelle
vicende europarlamentari sulla legge sul ripristino della natura, sono in gioco
due visioni diametralmente opposte che investono la concezione stessa
dell'Europa:
la
destra euroscettica e sovranista, messo da parte il bersaglio di un decennio
rappresentato dalla moneta unica - contro cui tuonavano fino all'altro ieri i
partiti che oggi governano l'Italia e molti altri Paesi del continente -, ha
identificato nelle politiche green il nuovo nemico dei popoli, mentre la
sinistra progressista sempre più in difficoltà storica si aggrappa all'ambiente
per trovare una nuova ragion d'essere in un mondo in cui le classiche battaglie
sul lavoro e il sociale hanno perso appeal presso le proprie constituency
tradizionali.
In
questo modo l'Europa diventa, ma sarebbe meglio dire torna a essere, terreno di
battaglia tra élite urbane e cosmopolite e una sorta di provincia profonda
transnazionale.
Come
ogni dibattito politico fondativo, anche questo si serve di "colpi
bassi" e scorrettezze propagandistiche capaci di fare presa diretta
sull'opinione pubblica in epoca di voto liquido ed emotivo.
La
principale distorsione riguarda l'etichetta di ideologia applicata all'ambiente.
In
questo caso, essa è infatti utilizzata, da destra, come sinonimo di
esagerazione, esasperazione antiscientifica, concetto di comodo per fare finta
di sposare posizioni "realiste" o presunte "razionali"
sulle transizioni sopra dette.
In altre parole, i conservatori, non avendo il
coraggio di sfidare apertamente le evidenze ormai troppo grandi anche per loro
sul cambiamento climatico (anche se la tentazione del negazionismo è sempre
dietro l'angolo), mirano a posticipare, ritardare gli obiettivi green perché le
tabelle di marcia sarebbero troppo rigide e serrate, imponendo costi
eccessivamente alti in termini produttivi e sociali.
Il
risultato di questa operazione è comunque indistinguibile, nei fatti, da chi è
ostile tout court alla transizione ecologica, per il semplice motivo che la
velocità delle trasformazioni naturali in atto nel pianeta è tale che qualsiasi
ritardo decisionale oggi si sommerebbe al ritardo originario, ormai acquisito,
con cui già ci stiamo muovendo:
il
tempo delle decisioni è già passato, e per quanto ci sembri di avere tempo, in
realtà ne abbiamo già pochissimo, o forse per nulla.
Non si
tratta di sposare visioni apocalittiche o, come sentiamo dire furbescamente,
ideologiche, ma di prendere atto di quello che la scienza, quella vera
(aggettivo che sarebbe pleonastico se solo si conoscesse a livello diffuso
l'abc del consenso scientifico), ha già dimostrato.
Chi
pensa di avere tempo e di poter prendere altro tempo sul surriscaldamento
globale, sta solo perdendo tempo, e se non se ne rende conto, è pure peggio.
Vi è anche un secondo motivo per cui l'accusa
di ideologia green risulta risibile, ed è economico.
Le
posizioni conservatrici, facendosi scudo con l'eufemismo della neutralità
tecnologica, che tante volte ricorre di questi tempi andando a braccetto
proprio con l'accusa di ideologia contro il fronte delle rinnovabili e
dell'elettrico, proteggono nicchie di mercato, tanto oggi, quanto in futuro.
Gli e-fuel, i biocarburanti, lo stesso
idrogeno per il trasporto leggero non sono tecnologie che meritano il beneficio
del dubbio, ma comparti produttivi destinati a rimanere marginali.
Legittimo
difenderli alla luce del sole, meno lo è illudersi, o illudere, che possano
cambiare le regole del gioco nella transizione, che sarà prevalentemente
elettrica: non (solo) per decreto, ma (soprattutto) per scelta delle aziende a
livello globale. Anche in questo caso prendere tempo altro non è che perdere
tempo, cioè competitività nei confronti del resto del mondo.
Il
momento degli investimenti è ora:
non
farli o ritardarli potrà forse dare sollievo transitorio, ma nel medio termine
acuirà le sofferenze proprio di quei settori o comparti che si vorrebbero
tutelare.
Il
mondo (e l'Est) non aspetta certo l'Europa.
Queste considerazioni dovrebbero essere l'assunto di
partenza di qualsiasi dibattito politico non ideologico sul clima, l'esatto
contrario di quanto sta avvenendo.
Ciò non significa che siano automaticamente
sensati e scientificamente fondati tutti i provvedimenti che provengono da
sinistra;
ma, al
contrario, significa per la destra (almeno) rinunciare a ribaltare l'accusa di
ideologia sugli avversari, perché l'unica ideologia visibile è travestire come
esasperazione o eccessiva accelerazione un'urgenza che dovrebbe essere da tutti
condivisa.
Nell'interesse
di tutti.
Purtroppo questo non avverrà per il motivo di
cui si è parlato all'inizio:
le
elezioni europee saranno il banco di prova di nuove formazioni politiche
continentali, e la polarizzazione del dibattito rientra nelle convenienze per
un grande ridisegno ideologico degli schieramenti, di uno in particolare, che
peraltro ha già il vento in poppa e tutta l'intenzione di fare cappotto.
L’Europa
è un bluff?
Sussidiarieta.net
- Lucio Caracciolo - (10 GIU. 2024) ci dice:
L’Europa
è un bluff dal punto di vista geopolitico perché non è un soggetto geopolitico.
E questo ha precise implicazioni nei rapporti
con le superpotenze o imperi.
Stati Uniti in testa.
Ci sono ragioni storiche e interessi dei
singoli Paesi europei alla base di un europeismo che, nella sostanza, è fin qui
mancato.
Un
progetto difettoso perché pensato dalle élite per le élite.
Dunque,
un’Europa che non è fatta dagli europei, ma un’Europa che è fatta per gli
europei.
(L’intervento
del direttore del mensile “Limes” alla Scuola di politica della Fondazione per
la Sussidiarietà.)
Per
argomentare il “bluff” parto dalla premessa che il mio, ovviamente, è un punto
di vista geopolitico;
il che
vuol dire che l’Europa, secondo me, è un bluff dal punto di vista geopolitico,
perché non è un soggetto geopolitico.
Sento
sempre dire “l’Europa è, l’Europa fa, l’Europa vuole”, ma di cosa stiamo
parlando?
Dal
mio punto di vista significa apparire ciò che non si è.
Ma è necessario ricordare, seppur in breve, il
percorso storico di questa parola, Europa.
Un
grande Rotary.
L’idea
geopolitica di Europa nasce quando le potenze europee cominciano ad auto
distruggersi dopo la Prima guerra mondiale e finiscono di farlo con la Seconda.
Non è
un giudizio di valore, è una constatazione di fatto.
Il
primo ad articolare in maniera compiuta, e anche brillante, l’idea di un
soggetto geopolitico europeo è uno strano personaggio che si chiamava “Richard
von Coudenhove-Kalergi”, figlio di mamma giapponese e di padre aristocratico
boemo, che subito dopo la Prima guerra mondiale pubblica il libro “Pan Europa”
in cui sviluppa una tesi che ritroveremo articolata variamente dall’europeismo
classico fino ai nostri giorni e cioè quella del mondo che si sta costituendo
in grandi imperi regionali o continentali.
Le
potenze europee hanno perso i loro imperi e per poter contare qualcosa nel
mondo devono mettersi insieme e poter difendere gli interessi comuni nella
partita diventata intercontinentale.
Von
Coudenhove-Kalergi sostiene che ci siano un impero americano, un impero russo,
parla addirittura di un impero sino giapponese, e così via.
Quindi
ci deve essere un impero europeo, una pan-Europa e, a differenza di molti, se
non quasi tutti, gli europeisti successivi, spiega anche di che spazio deve
trattarsi:
lo spazio che va dal Portogallo al confine con
la Russia, quindi, fino alla Polonia e comprende – questo è importante
ricordarlo – quello che residua, e all’epoca ne residuava parecchio, delle
colonie europee, soprattutto in Africa ma anche in Asia.
Il
progetto di von Coudenhove-Kalergi, come quasi sempre i progetti europeisti, è
un progetto di élite, cioè si svolge in un ambito che potremmo chiamare anche
massonico, che riguarda una parte non fondamentale, ma comunque importante
delle élite europee.
Coudenhove
organizzò anche una “società paneuropea”, si tenne un congresso in cui
parteciparono grandi intellettuali, ma il problema dell’europeismo è che tende
a essere un discorso di élite per élite o, per usare una frase di un
contemporaneo, il commissario europeo “Barnier”, l’Europa non è fatta dagli
europei, l’Europa è fatta per gli europei.
Questo
è l’ideale europeista lanciato dal movimento paneuropeo che però era una specie
di “grande Rotary”, in cui ci si incontrava tra personalità del mondo
industriale, culturale, qualche politico, magari si facevano delle petizioni.
In
seguito, l’europeismo rinasce in un contesto completamente diverso – parliamo
della fine della Seconda guerra mondiale e della fine degli imperi coloniali.
Un europeismo che, malgrado le resistenze, in
particolare dei francesi, si consuma in un contesto in cui il mondo cambia di
paradigma:
ci
sono adesso solamente due grandi potenze che si affrontano, gli Stati Uniti
d’America e l’Unione Sovietica.
Uno
degli aspetti meno indagati della geopolitica è che da parte americana, già
durante la Seconda guerra mondiale, esisteva un contrasto non solo con l’Unione
Sovietica ma anche con il Regno Unito e in generale con gli imperi europei.
La mia
tesi è che esista un forte nesso tra l’affermazione degli Stati Uniti d’America
come superpotenza in contrasto, in nome dell’Occidente, con l’Unione Sovietica
e il mondo dell’ideologia comunista e la nascita di un europeismo che in
qualche modo fruisce di questo contrasto e si pone chiaramente nell’ambito
americano-occidentale.
Per
essere ancora più chiaro:
se gli americani non fossero rimasti in Europa
nel 1945, se cioè avessero fatto quello che fecero nel 1919, cioè tornarsene a
casa, non ci sarebbe stato l’europeismo che c’è stato.
Qual è
il nesso tra l’affermazione della potenza americana e la nascita di un nuovo
europeismo?
Il contesto della sfida tra un Occidente a
guida americana e l’Unione Sovietica, in cui l’Europa gioca, dal punto di vista
americano, un notevole ruolo.
Ancora
oggi noi viviamo in uno spazio euro-atlantico e lo vediamo semplicemente da un
fatto, molto banale:
i
Paesi che stanno nell’Unione Europea sono oggi anche quasi tutti Paesi che
stanno nella NATO e non è un caso.
Il progetto dell’Europa ha come premessa
logica e fattuale la decisione americana di restare nel vecchio continente e di
organizzarlo come un proprio impero informale ma quantomai cogente, che si
concretizza nelle seguenti tappe:
•
1945, gli americani restano in Europa, si comincia a organizzare il blocco
europeo in funzione antisovietica in particolare contro il blocco di Europa
controllato dall’URSS;
•
1947, piano Marshall, cioè teniamo in piedi le economie europee per impedire
che il comunismo attecchisca approfittando delle crisi e degli orrori del
dopoguerra;
•
1949, nasce la NATO, e questo è un passo fondamentale, cioè l’organizzazione
anche militare della presenza americana in Europa che vige tuttora;
• anni Cinquanta, nascono le cosiddette
comunità europee.
C’è un
aspetto particolare nella nascita della prima Europa: essa recava una forte
impronta francese perché americani e francesi, pur essendo molto diversi, hanno
sempre convenuto e tuttora convengono che la Germania vada tenuta sotto
controllo.
Uno
degli aspetti fondamentali della costruzione europea è impedire che la Germania
diventi di nuovo dominante in Europa.
Il
fatto forse più clamoroso nei tempi più recenti di questa vocazione anti
tedesca dell’Europa, che rende paradossale costruire un progetto continentale
in cui il problema è quello di impedire che il principale soggetto di questo
continente diventi troppo importante, è ovviamente la nascita dell’euro;
ovvero, quando i francesi decisero che, allo
scopo di punire i tedeschi per essersi riunificati, dovevano cedere il marco
contro la loro volontà e il primato della Bundesbank.
Questo
movimento pro-europeo della Francia si configura come un prolungamento della
Francia stessa.
Va anche detto che quasi tutti i Paesi che
entrano poi gradualmente nello spazio comunitario e poi nell’Unione, lo fanno a
partire dai propri interessi.
Si tende a negarlo, ma si entra in Europa per
migliorare la propria condizione, il proprio rango.
Ad esempio, la Polonia quando entra
nell’Unione Europea lo fa essenzialmente per avere i fondi europei e, fra
l’altro, a differenza nostra, li gestisce anche piuttosto bene.
Alcuni Paesi, come la Spagna, vedono
nell’Europa un volano economico…
La
Francia fu il Paese decisivo per ammettere l’Italia nella NATO perché, dal
punto di vista francese, noi siamo una specie di piattaforma logistica che
connette l’Europa all’Africa e, quindi, era importante che questa piattaforma
logistica italiana potesse servire all’idea di “Eur africa” come si chiamava
all’epoca.
Questa
è la mia interpretazione di come questo sistema europeo che vediamo oggi sotto
forma di “Unione Europea” sia figlio di un progetto geopolitico
fondamentalmente americano, in parte francese e poi utilizzato dai tedeschi per
riabilitare sé stessi dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale.
L’utile
ambiguità.
Questo
progetto europeo ha come caratteristica fondamentale quello di non essere mai
stato identificato in modo preciso, non si sa mai bene dove cominci e dove
finisca questa Europa, non si sa mai bene se sia uno Stato federale o
semplicemente un mercato comune o qualche via di mezzo.
E
questa ambiguità è fondamentale perché permette a ciascuno di interpretare il
progetto secondo il proprio punto di vista, secondo i propri interessi, secondo
la propria cultura e, quindi, ne permette teoricamente un allargamento
illimitato.
Nessuno
ha ancora definito quale sia l’Europa, chi può legittimamente ambire a entrare
in questo spazio.
Vedremo se ci entrerà l’Ucraina, ma non credo
che questo, eventualmente, potrà succedere in tempi ravvicinati.
Vedremo
che cosa ne sarà dei Balcani, ma la vaghezza è fondamentale.
Come
diceva “Jean Monnet”, l’importante non è sapere dove si va, ma è procedere in
un modo brillante, svelto, per non dover verificare l’esito delle proprie
azioni.
Perché
dicevo che è un bluff?
Nella
parola bluff non c’è semplicemente il tentativo di mostrare come le apparenze e
la realtà siano piuttosto diverse, ma c’è il fatto che questo sistema europeo
non è mai diventato un soggetto geopolitico.
La Francia, la Germania, un po’ meno l’Italia e altri
Paesi sono protagonisti della scena internazionale e della competizione
geopolitica internazionale per conto loro.
Nessuno
pensa che esista una politica europea e che il signor “Borrell” rappresenti
qualcosa, però noi continuiamo con questa finzione perché, evidentemente, ci dà
il senso di avere una soggettività.
Quando
si tratta di parlare di questioni concrete di geopolitica non si va a parlare
con” Borrell “o con la signora “von der Leyen” ma si va a parlare con quelli
che contano, che siano” Macron”, “Meloni” o “Scholz”, cioè i titolari di quello
che c’è ancora di sovrano in questi Stati.
Il
popolo europeo che non c’è.
Quello
che spicca nel sistema europeo è che, per definizione, non può essere un
sistema democratico.
Questo
è un aspetto che viene considerato quasi normale.
Noi
definiamo Parlamento qualcosa che in qualsiasi Stato democratico non potrebbe
essere mai considerato tale.
Il
Parlamento europeo non controlla un governo europeo che non c’è o fa delle
leggi di propria iniziativa.
Quindi
non ha, perché non potrebbe averla, una base democratica e una delle ragioni è
che non esiste un popolo europeo.
Esistono popoli europei, esistono anche popoli
che dentro le nazioni europee pretendono di avere un proprio Stato, penso ai
catalani, penso ai corsi, ce n’è per tutti i gusti, ma certamente non esiste un
popolo europeo e la riprova di questo, se ce ne fosse bisogno, sta nel fatto
che non esiste nessun media che sia spendibile ugualmente dall’Irlanda a Cipro,
dalla Lettonia al Portogallo.
Non si
può parlare allo stesso modo a questi popoli europei come se fossero un solo
popolo, perché l’Europa è un continente geograficamente piccolo ma molto
complesso dal punto di vista storico, in cui anzi oggi ciascun Paese tende
sempre di più a enfatizzare la propria storia, a reinventarsela, a
ricostruirsela per legittimare il proprio status; e non è evidentemente
immaginabile che un polacco pensi di essere come un portoghese o viceversa.
Un’altra
evidenza di questa impossibilità di costituire una statualità europea consiste
nella impossibilità di avere una difesa europea, a meno di non pensare che la
difesa europea non sia un gruppo di mercenari che si mette al servizio della
signora” von der Leyen”.
Per
avere un esercito si deve avere uno Stato, e non essendoci uno Stato europeo
non si capisce come si possa immaginare una difesa europea, a meno di non
immaginare un sistema di rotazione nel quale per sei mesi comanda un generale
polacco e quindi, magari, attacca la Russia;
sei
mesi dopo comanda un generale portoghese che si occupa d’altro e un generale
italiano, quando gli tocca questa responsabilità, si chiude nella sua caserma.
La difesa europea avrebbe senso a due
condizioni:
la
dissoluzione degli Stati Uniti d’America, cioè del collante strategico e
militare dell’Europa e, contemporaneamente, la nascita degli Stati Uniti
d’Europa.
Un
altro paradosso è che, da quando abbiamo costruito le comunità e poi l’Unione
Europea, in Europa si sono moltiplicati gli Stati, gli staterelli, i mezzi
Stati, nello spazio europeo, così come viene descritto normalmente dai
geografi, esistono, a seconda di come si contano, più o meno 55 Stati.
Nell’Unione Europea ce ne sono 27, quindi meno
della metà.
Alcuni
Stati esistono sulla carta ma non esistono di fatto, altri esistono di fatto ma
non sulla carta, un esempio del primo tipo è la Bosnia, un esempio del secondo
tipo potrebbe essere il Kosovo che, secondo noi, è uno Stato indipendente,
mentre secondo gli spagnoli non lo è.
Questa
diversità all’interno dello spazio euroatlantico, sottolineo atlantico, è resa
più evidente dalle guerre in corso, in particolare dalla guerra in Ucraina e
dalla crisi della superpotenza che, appunto, dal 1945 ha strutturato in gran
parte il nostro sistema, l’America.
A mio
avviso si tratta di una crisi strutturale, identitaria, non semplicemente di un
passaggio di fase e questo, evidentemente, complica la nostra situazione perché
obbliga i vari Paesi europei, tra cui il nostro che non è abituato, ad assumere
le responsabilità che prima delegava e tuttora delega agli Stati Uniti in campo
militare o alla Germania in campo di politiche fiscali, monetarie ed
economiche.
L’avanguardia
antirussa.
Le
guerre accentuano le divisioni all’interno dell’Europa;
accentuano
gli egoismi nazionali, ognuno cerca di farsi i fatti propri e di scaricare
sugli altri i suoi problemi.
In
particolare, se guardiamo la guerra in Ucraina e guardiamo lo spazio
euroatlantico, vediamo innanzitutto una fascia di Paesi che va dalla
Scandinavia fino alla Romania e alla Bulgaria, con la Polonia che funge da
perno di questo sistema e che il presidente Biden, in un momento di lucidità,
ha definito l’avanguardia antirussa.
Paesi
che per ragioni storiche, strategiche e culturali o sono stati invasi o hanno
invaso la Russia, hanno una profonda diffidenza nei confronti di questo Paese,
qualunque sia il suo regime e il suo sistema e sperano che questa guerra non
solo finisca con la ritirata russa dall’Ucraina, ma con la ritirata russa da se
stessa, cioè finisca con la dissoluzione dell’impero russo.
Non è questa certamente la visione che hanno i
francesi, i tedeschi, gli italiani o gli spagnoli, quindi possiamo distinguere
un’Europa orientale, del nord-est e un’Europa occidentale.
Allargando
il discorso, abbiamo sul fronte sud un Paese atlantico non europeo che è la
Turchia che, pur essendo e restando membro della NATO, si muove come se fosse
un Paese totalmente autonomo e dedito a ricostruire una sua dimensione
imperiale a cui non vuole rinunciare.
E, a
proposito della guerra in Ucraina, si tratta, sostanzialmente, di una guerra
che dura da più di cento anni in varie forme e in diverse fasi.
E
rischia di continuare ancora per parecchio tempo.
Dovremmo
occuparci dello spazio ucraino che è più o meno il doppio dell’Italia. Sarà
difficile risolvere questo problema, a meno di non accettare l’idea che se ne
occupino i russi.
La mia
personale impressione è che i russi, più di tanto, non solo non possono ma non
vogliano occuparsene perché significherebbe dover gestire un Paese che in gran
parte è contrario alla Russia e non accetterebbe di buon grado la sua
dominazione.
L’articolo
è una sintesi dell’intervento a” Europa Futuro Presente”, sesta edizione della
Scuola di formazione politica “Conoscere per decidere”, organizzata da Società
Umanitaria, Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine e Fondazione per la
Sussidiarietà, Milano, Società Umanitaria, 12 marzo 2024.
(Lucio
Caracciolo è giornalista e scrittore italiano, dirige la rivista italiana di
geopolitica “Limes” e Scuola di Limes; è stato caporedattore di “MicroMega”.
Insegna Studi strategici all’Università Luiss di Roma e Geopolitica
all’Università San Raffaele di Milano.)
Significati
Impliciti
nell’Affondamento
del “Bayesian.”
Conoscenzealconfine.it
– (2 Settembre 2024) - Claudio Martinotti Doria – ci dice:
Agire
in modo così deciso e diretto significa lanciare un messaggio duro che andrà
certamente a destinazione ben interpretato dalla controparte.
Non ci
sono spazi per gli equivoci o i malintesi.
Il “Bayesian”
è un grande veliero moderno (yacth – nave) da 56 mt di lunghezza con un albero
da 75 mt di altezza, talmente importante e peculiare da essere descritto in
un’apposita scheda su Wikipedia.
Non è
una nave comune e diffusa come modello, la “Perini Navi di Viareggio” ne ha
costruite solo una decina su commissione, con un lusso e una dotazione
strumentale tecnologica senza precedenti.
L’azienda
produttrice tiene corsi di formazione e aggiornamento per gli equipaggi che poi
dovranno occuparsi di farli navigare per conto degli acquirenti, già questo
fatto fa decadere ogni dubbio su eventuali incompetenze per rendere il
personale di bordo responsabile di qualche colpa, o capro espiatorio.
Senza
contare la dotazione tecnologica di bordo, talmente avveniristica che diventa
difficile descriverla, per cui a eventuali manchevolezze umane provvederebbe in
automatico qualche sistema di allarme.
Si
potrebbe dire che ogni possibile rischio è stato previsto adottando adeguate
contromisure.
Se i
giornalisti avessero letto la scheda tecnica sulla nave non avrebbero scritto
quelle assurdità sulle improbabili (spesso ridicole) cause dell’improvviso
affondamento.
Il mio
breve intervento non ha alcuna intenzione d’informare su fatti di cronaca
inerenti l’ evento, di articoli sul web ne troverete a iosa, con la lista dei
passeggeri, delle vittime e delle ipotetiche cause, motivazioni, mandanti,
strane coincidenze e correlazioni, ecc …
Mi
limito solo a riflettere su cosa possa significare un simile grave evento nella
panoramica generale dell’attuale momento storico e geopolitico che stiamo
vedendo e che ci riserva quasi ogni giorno delle sorprese, spesso per nulla
piacevoli per non definirle angoscianti.
A
bordo del veliero c’erano persone potenti e colluse con alcuni servizi segreti
occidentali e similmente all’episodio avvenuto l’anno scorso sul Lago Maggiore,
erano a bordo apparentemente per festeggiare qualcosa.
Una
specie di gita turistica finita male.
Similitudini
paradossali e tragiche.
Il
veliero era ritenuto inaffondabile, i tecnici spiegano che è strutturato in un
modo tale che tramite sottostante zavorra (sotto lo scafo) è in grado di
inclinarsi lateralmente fino a 75 gradi, quindi neppure una tempesta oceanica o
un uragano potrebbe scalfirlo e/o affondarlo.
Infatti
pare sia attualmente in fondo al mare a poca distanza da Palermo a 50 mt di
profondità, piegato con il lunghissimo albero ancora integro in posizione
orizzontale, e pare non vi siano danni allo scafo, anche se i servizi segreti
britannici pare impediscano di immergersi e scattare foto (a volte non saprei dire se siamo più
una colonia britannica o statunitense … ).
Se
c’erano a bordo documenti sensibili e una scatola nera, avranno già provveduto
a farli sparire o sostituire con qualcosa di innocuo.
Da un
evento di una tale gravità si può evincere qualche concetto di base.
In
primo luogo per colpire persone tanto potenti occorre esserlo altrettanto, se
non di più, quindi chiaramente c’è una lotta in corso tra “titani”, in parte
scoperta, ma perlopiù nascosta, sottotraccia, dissimulata, camuffata, resa
invisibile tramite abili sotterfugi e coperture, in modo che passi perlopiù
inosservata.
In
secondo luogo occorre possedere mezzi, strumenti e armi altamente tecnologiche
e sofisticate, ignote al pubblico, quindi mai usate pubblicamente e riportate
mediaticamente, ma semmai collaudate segretamente e sempre utilizzate con
cautela e riservatezza, prendendo ogni precauzione per evitare testimoni e
fughe di notizie.
In
terzo luogo avere la determinazione di agire in modo così deciso e diretto
significa lanciare un messaggio duro che andrà certamente a destinazione ben
interpretato dalla controparte.
Non ci sono spazi per gli equivoci o i
malintesi.
Le
motivazioni possono essere molteplici, possiamo solo ipotizzare non avendo
sufficienti elementi per un’analisi accurata.
Potrebbe
essere una punizione o vendetta, una ritorsione, un’azione preventiva per
evitare che arrecassero danni, nel caso tramassero qualcosa, ecc…
Una
cosa è certa, le armi che a noi sembrano già alquanto tecnologicamente
avanzate, che stanno provando e perfezionando sugli scenari di guerra in corso,
sono un’inezia in confronto a quelle di cui dispongono le grandi potenze, forse
frutto di retro-ingegneria, che sono in grado di colpire chiunque e ovunque,
simulando un evento climatico o accidentale, come sono convinto sia avvenuto ad
esempio nell’isola di Maui nelle Hawaii l’estate scorsa.
Temo
che il possesso di tali armi micidiali e l’impunità cui sono ormai abituati da
troppo tempo i veri detentori del potere e le sempre più estese complicità e
alleanze reciproche, potrebbero indurre queste forze contrapposte a ricorrervi
sempre di più fino ad abusarne, rendendoci sempre più spettatori passivi e
perplessi, se non a volte vittime di effetti collaterali.
Non so
voi, ma io sono alquanto preoccupato e inquieto.
Un
caro saluto.
(Cav.
Dottor Claudio Martinotti Doria)
(cavalieredimonferrato.it/)
Riprendere
in mano
l’autogoverno
delle società.
Suissidarietà.net
- Nadia Urbinati - Redazione di Nuova Atlantide – (6 -GIU. 2024) – ci dice:
La
frammentazione e il disordine globale.
Le debolezze di Stati Uniti, Russia e Cina e
il riassetto dei blocchi.
Il
possibile protagonismo dei Paesi del sud del mondo.
Gli
attori politici e sociali oggi nelle democrazie e nelle autocrazie.
Quel
che resta del popolo. La crisi dei partiti e delle rappresentanze.
L’ineguaglianza di intermediazioni.
La
storia “creativa” della democrazia.
La post industrializzazione, la rinascita del
sociale e la buona politica.
Dialogo
a tutto campo con la docente di Teoria Politica alla Columbia University di New
York.
Negli
ultimi quattro anni, a livello mondiale, è successo un po’ di tutto.
Tra le
altre cose una pandemia globale, una guerra di invasione, una crisi energetica
senza precedenti, un arretramento degli Stati rispetto alle disuguaglianze che
incrementano, il numero degli abitanti del mondo retti da governi democratici
che diminuisce;
e ancora dal 7 ottobre 2023 un conflitto in
Medio Oriente che si è già esteso in maniera preoccupante, oltre a un numero di
guerre – che vengono definite a bassa intensità ma comunque guerre – sparse per
il mondo di cui ci si occupa nulla o quasi ma che a loro modo contribuiscono
allo stato di alterazione del pianeta.
Ce n’è a sufficienza per affermare la crisi
conclamata della globalizzazione per come l’abbiamo fin qui conosciuta e
vissuta.
Siamo
nel pieno della frammentazione, del disordine.
Noi avvertiamo l’urgenza di dare spazio a una
domanda di comprensione. Professoressa Urbinati, a suo avviso questo tentativo di
messa a fuoco su cosa dovrebbe concentrare prima di tutto l’attenzione?
Per
provare a comprendere quel che sta succedendo a livello globale, occorre porre
l’attenzione, innanzitutto, sulle debolezze di Stati Uniti, Russia e Cina.
È in
corso un processo di trasformazione di questi poli, di questi blocchi, diciamo
di questi imperi, che sta mettendo in discussione la loro capacità di dominio
sull’intero mondo.
E di misurazione delle loro rispettive forze o
debolezze, preludio a un nuovo ordine mondiale.
Che,
difficilmente, sarà bipolare.
Forse
tripolare;
un
ordine che imponga una sorta di autocontrollo che agisca su interessi
incrociati o timori reciproci dei tre soggetti.
Va
detto che le decisioni che si assumono a livello mondiale risentono e dipendono
dalle debolezze interne di questi Paesi.
Negli Stati Uniti (dove, a differenza degli
altri due Paesi, le questioni politiche sono di dominio pubblico) lo si vede in
misura eclatante.
La
prevedibilità che vi era in passato sembra oggi svanita a causa della “scheggia
impazzita” che si chiama” Donald Trump”, un fattore di incertezza e di
eccezionalità di cui non si può non tener conto.
Un
elemento di altrettanta imprevedibilità domina la Russia.
Ovviamente
la politica di Putin è assai meno aperta all’imponderabilità, poiché quello che
di essa sappiamo è quello che il Cremlino vuole farci sapere.
Circa
la Cina, essa sta attraversando una fase di trasformazione non solo politica
(ulteriore accentramento del potere del leader), ma anche demografica ed
economica.
Il declino delle nascite e la necessità di
aprire all’immigrazione sono fenomeni destinati a mutare il volto di quel
Paese.
Un processo trasformativo che toccherà anche
il livello di consenso e di armonia che, in una qualche misura, nel bene e nel
male, finora la società cinese ha avuto. Dunque, la questione del nuovo ordine
internazionale è strettamente correlata al disordine o alle trasformazioni
interne agli Stati imperiali.
E
nello scenario prospettico appena disegnato avranno un ruolo i Paesi del sud
del mondo?
L’Asia
sente in misura molto conflittuale, preoccupata, il ruolo della Cina.
L’India,
in modo particolare, non accetta di essere una realtà subalterna a Pechino. Il metodo cinese prevede la creazione
di rapporti di dipendenza e di alleanze con i Paesi che domina, come in America
Latina (con il Cile come pure, in parte, con l’Argentina) e in Africa.
La
Cina compra e costruisce: le relazioni di stretta dipendenza le attiva soprattutto
per via mercantile.
Pensiamo
alla sua presenza nel Golfo Persico, laddove oggi ha un’influenza molto
significativa mentre gli Stati Uniti – lo vediamo nel disordine in Medio
Oriente – ha difficoltà a controllare i propri Paesi di riferimento o a tenere
sotto controllo i conflitti.
Lo
stesso vale per la Russia, ad esempio, presente in Medio Oriente ma non più con
un ruolo di protagonista.
Qual è
il nesso tra la “crisi delle democrazie” all’interno e l’incapacità di
governare all’esterno?
Io
cercherei di usare la parola “crisi” con oculatezza.
Nel
senso che le democrazie sono il governo della crisi, da quando esistono, perché
aperte alle possibilità di diverse maggioranze, perché aperte positivamente al
conflitto e quindi alla contestazione.
Tutto
quello che si sa delle democrazie, non si sa, invece, dei Paesi autocratici.
Ad esempio:
cosa
sappiamo noi della Cina rispetto a quello che sappiamo degli Stati Uniti?
Ciò
non significa che in Cina, perché non lo sappiamo, non vi siano crisi. Questo
per ribadire che utilizzerei la parola “crisi” riferita alle democrazie con
molta parsimonia:
sono
governi della crisi.
Il
problema, semmai, è se riescono a governare le contestazioni interne; il
problema riguarda i protagonisti della crisi, gli attori politici e sociali.
Gli Stati
Uniti si trovano oggi in questa contingenza che è segnata da una polarizzazione
che appare impermeabile al compromesso e quindi può essere destabilizzante.
Il problema sta negli attori, non nelle
istituzioni.
Ecco perché tra i democratici si riscontra una
rivalutazione del ruolo indipendente dello Stato rispetto alle maggioranze
politiche.
Se “Donald
Trump” dovesse diventare di nuovo presidente la sua prima azione, facendosi
forte del precedente mandato, sarà sostituire i giudici, soprattutto quelli che
si occupano della giustizia elettorale;
e gestire così, in pratica, non solo le
campagne elettorali, ma anche il giudizio sulla legittimità delle stesse, come
abbiamo visto in Georgia e altrove.
Ci si
deve aspettare che Trump attui misure molto problematiche per lo Stato di
diritto; tenterà di infiltrarsi nella macchina dello Stato, destabilizzandola.
L’America
oggi dimostra di avere più una crisi a livello di leadership politiche
piuttosto che nelle istituzioni.
È una
crisi dei partiti e, per il partito repubblicano, è una crisi di sistema.
Trump
ha messo in discussione il concetto di opposizione legittima e lo ha voluto
manifestare in molti modi e in diverse occasioni.
Si
tratta di un tentativo di erosione della possibilità della normale alternanza
elettorale che si era venuta a costruire nel corso della storia americana e che
trova riscontro teorico nell’”idea di Schumpeter” di democrazia come metodo di
competizione e selezione della leadership.
Cioè
come normale circolazione della classe politica di governo, attraverso le
elezioni e non con il ricorso alla violenza.
Questo
è il problema serissimo della crisi della democrazia americana. Trump, per la prima volta, ha messo
gli elettori di fronte al problema della non accettazione del loro voto
nell’eventualità di un esito elettorale non favorevole.
Un processo di vera e propria
destabilizzazione.
Ciò
non succede nella democrazia, dove non si fa saltare il tavolo se si perde e
non si abusa della propria vittoria se si vince.
Trump
ha cercato di far saltare quel tavolo.
Quando
rivendica l’immunità per i disordini del 6 gennaio 2021, dopo aver perso le
elezioni presidenziali, lui compie un gesto nella direzione della tirannia, che
significa mettere qualcuno al di sopra della legge.
Trump
tira la corda su un aspetto che i costituzionalisti chiamano “tiranno fobia”,
sulla quale è nata la Repubblica americana.
Questa
situazione è l’espressione di una crisi profonda della classe politica statunitense.
Una situazione che non può non preoccupare.
In
tutto questo si avverte un grande assente: il popolo.
O,
perlomeno, una trasformazione del suo ruolo, della sua funzione; un deciso
minor protagonismo nelle democrazie che nella sostanza si riduce all’esercizio
del voto.
Questo
è un tema assai importante. E riguarda l’interpretazione della democrazia che,
nella sua versione più minimalista, entro la quale noi tutti ci muoviamo, ha
collocato il popolo nella Costituzione come “fictio iuris”, come finzione
giuridica necessaria per stabilire la legittimità delle decisioni che vengono
prese da chi opera nelle istituzioni.
Però
il “Popolo” e il “popolo” non sono la stessa cosa;
politicamente
parlando, il popolo non è uno, ma è plurale e diviso, bisognoso di
intermediazione, di associazioni e di partiti per aggregarsi in interessi e prospettive
politiche con le quali concorrere al governo del Paese.
E, in
questo modo, pur in maniera indiretta, il popolo plurale partecipa alla vita
pubblica.
Il
problema del nostro tempo è che molta di questa ricchezza politica è deperita,
per cui è rimasto il “Popolo” della Costituzione che, senza la sua parte pratica e
politica acquista il carattere di una finzione più che giuridica – una finzione
vera.
Eppure,
non è propriamente esatto dire che oggi non vi siano intermediazioni.
Il problema è che assistiamo, piuttosto, a
un’ineguaglianza di intermediazioni, a un’ineguaglianza di potere sociale in
grado di influire sul potere politico.
Ineguaglianza
perché una parte della società – la classe media e la classe alta ben
strutturate, preponderanti economicamente e socialmente – beneficia di
intermediazioni.
È
l’altra parte della popolazione – i più poveri o i più disagiati – che viene
privata di questa forza e quindi la sua voce non è sentita e misurata.
Pertanto,
disponiamo di una democrazia nella quale la parte sociale più solida e più
organizzata riesce ad avere una reale influenza politica.
È
questo schema che Trump ha esaltato diventando il leader populista che abbiamo
imparato a conoscere;
egli è
stato capace di catturare i voti di coloro che non avevano intermediazioni
forti, in grado di influire sul potere di Washington.
Questa
è la fotografia della società postindustriale.
Gli
effetti che sta producendo sono drammatici.
Il
professor “Angus Deaton”, premio Nobel per l’Economia, nel suo libro “Deaths of
despair and the future of the capitalism”, scritto insieme ad” Anne Case,”
offre un resoconto puntuale di come negli Stati Uniti sono aumentati, nella
fascia socialmente più fragile della popolazione, i suicidi per disperazione
economica ed esistenziale.
Una popolazione dell’America di mezzo, cioè
dal Montana all’Illinois, abbandonata a sé stessa.
È un’America che non ha più lavoro; un’America
priva di luoghi di incontro, di realtà di mutuo soccorso, con la caduta
verticale della partecipazione alla vita delle chiese e dei sindacati.
Vi è una solitudine sociale vera, un’assenza
di relazioni umane e politiche che è diventata – per questa popolazione – anche
una questione di salute mentale.
Di qui
l’incremento di suicidi e depressioni e l’uso massiccio di oppiacei, ormai una
piaga sanitaria e sociale.
Il
popolo oggi è come diviso in due parti.
Una
parte impotente, impoverita, abbandonata;
una
plebe ormai senza alcuna struttura associativa.
Mentre
l’altra parte si ritrova ancora nel Popolo della Costituzione perché, in un certo qual modo, riesce
a influenzare la politica.
Ecco,
la disuguaglianza politica – o di mezzi – per influenzare la decisione.
Ma
allora, in una democrazia indiretta come la nostra in quanto basata sulla
rappresentanza elettorale, è accettabile che una parte di popolo, per un
certificato senso di impotenza, non vada più a votare?
Questa parte di popolo avverte tutta l’incapacità di
poter incidere.
Senza potenza associativa il voto vale
veramente solo uno; e uno rispetto a milioni è meno di niente.
Questo
è il vuoto associativo che diventa indebolimento della democrazia.
Questa
parte di popolo si trova fuori dai radar, fuori dall’azione effettiva.
In
diversi casi – e ormai solo in quelli – vediamo questo popolo emergere come i
soffioni di Pozzuoli, così all’improvviso, generando forme di ribellione, di
scontento evidente.
Per
farsi vedere, per dare un segno di sé al mondo politico, al mondo dell’audience
che non ha – perché l’audience si occupa esclusivamente di quel che misura in
termini di piacevolezza, desiderio, opinione.
Pertanto,
i media interrogano una parte e solo quella parte lì;
e
quello scampolo diventa tutto il popolo.
Oggi lo scampolo dei media diventa “il popolo
dice”, “l’opinione dice”, che è una costruzione risibile, in quanto
rappresentativa di una piccola percentuale costruita per lo scopo che si
intende ottenere, secondo un criterio di proporzionalità dei gruppi sociali più
rappresentativi e rappresentati.
L’audience costruisce un popolo a sua immagine e
somiglianza.
La
scomparsa del sociale è il punto drammatico delle democrazie.
Perché
il sociale è il luogo dell’aggregazione, della solidarietà autonoma dalla
politica, che lievita dal basso, che si auto crea.
La sua scomparsa ha prodotto una politica
divenuta l’espressione della parte più forte del popolo.
Oggi,
in generale, viviamo una politica decisamente più oligarchica.
Mi
sembra che viviamo l’assenza di contrapposte e vere visioni politiche.
Io ho letto recentemente i diari di Nenni.
A un
certo punto lui si sofferma sulle elezioni.
Scrive che nel 1963 in Italia votava il 92,9%
degli aventi diritto, nel 1968 il 92,1%. Ebbene, il leader socialista
sottolinea con preoccupazione il calo di duecentomila persone, la sopraggiunta
incapacità di coinvolgerle, ma allora c’erano i partiti che si preoccupavano.
Progressivamente
tale preoccupazione è andata a scemare.
Oggi
siamo arrivati all’assenza dell’offerta politica.
E sono
stati gli stessi partiti ad auto-suicidarsi.
Ricordo
che nel 1981 ci fu una rissa estiva che coinvolse il quotidiano l’Unità.
L’acceso confronto fu tra Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano.
Il
segretario del PCI aveva rilasciato una famosa intervista a Eugenio Scalfari su
la Repubblica nella quale, affrontando il tema della questione morale,
attaccava i partiti responsabili, a suo dire, di aver perso la loro funzione.
Gli aveva risposto il futuro Presidente della
Repubblica con un pensiero che condivido:
“È
inutile stare a vedere e difendere quello che eravamo noi o che siamo noi.
Cerchiamo di adeguarci”.
I
partiti hanno costruito la democrazia.
La
democrazia non c’è se non ci sono i partiti. Le due cose si tengono insieme,
cadono e vivono insieme.
Quali
che siano i partiti.
Può
essere un partito organizzato capillarmente nella società, può essere un
partito di notabili, o può essere un gruppo di interesse, ma è sempre una
parte. Partecipare vuol dire stare da una parte:
posizionarsi
in una parte dello spazio politico.
Quindi
la partecipazione è “partito”, è parte.
Il
problema è come sono i partiti.
Perché i partiti ci sono sempre e ci saranno
finché c’è democrazia.
E senza democrazia saranno clandestini, ma ci
saranno.
Perché
noi siamo esseri di parte, non siamo esseri imparziali, anche se lo
desidereremmo.
Il
problema è la forma.
“Bernard
Manin” nel suo libro “Principi del governo rappresentativo” fa una specie di
storia della democrazia elettorale scandita in base alla forma delle
aggregazioni politiche.
Nell’Ottocento
erano notabili, poi, nel Novecento, sono diventati partiti di massa.
Oggi
noi abbiamo da un lato i partiti cartello e dall’altro lato l’audience.
Ma,
nell’Ottocento, i partiti dei notabili erano la rappresentazione di una società
non democratica, ovvero degli interessi dei pochi che votavano.
Erano contenti di quella realtà proto democratica.
La
percentuale massima di aventi diritto al voto erano, nell’Inghilterra della
riforma del 1832, circa il 20%.
Nell’Italia
postrisorgimentale la percentuale era ancora più bassa.
Questo
per dire che c’è una correlazione tra chi è il popolo e chi lo rappresenta. Con il processo di estensione del
suffragio, i partiti dei notabili sono andati in crisi.
Si è affermato un attore collettivo nuovo,
rappresentativo di una pluralità di interessi e, quindi, anche di una legittima
contrapposizione:
i partiti sono la forma condivisa di istanze
che emergono dalla società.
Nascono
così i partiti di massa.
E sono
questi a essere andati in crisi. La crisi dei partiti di massa è la crisi della democrazia dei partiti
di massa.
Che
cosa è diventato oggi il partito politico?
È dal 1994 che in Italia stiamo producendo
populismo.
Via
via, senza interruzioni
. E
ciò vale per tutti i partiti.
Se poi
si vuole ricostruire la storia della crisi, occorrerebbe tornare al primo
convegno che si tenne, nel 1966, alla “fondazione Gaetano Salvemini” di Firenze
proprio sulla crisi dei partiti.
Allora
si trattava di un’analisi della parlamentarizzazione dei partiti che li portava
a diventare degli apparati.
Adesso
non sono più neanche quello;
diventati
candidature “à la carte” che durano il tempo di un pranzo, cioè di una campagna
elettorale, di una vittoria elettorale, e via di questo passo.
Si è
esaltato il partito leggero, liquido, con grande entusiasmo;
si è
tifato senza freni per l’antipartitismo perché, con tangentopoli, i partiti
erano ormai solo un fattore negativo.
“I
partiti sono tutti uguali” era lo slogan populista di quegli anni e degli anni
a venire.
Addirittura, il partito come fattore
pestilenziale.
Da qui
bisogna ripartire. Beninteso, senza tornare indietro perché i parti di massa
sono finiti per sempre. La strada è reinventarli. E la reinvenzione avviene a
partire dalla società.
Quello
che manca, e di cui c’è assoluta necessità, è che la società si costruisca in
corpi intermedi referenti.
E non
è la società civile di cui si parlava negli anni Ottanta, vale a dire gli
imprenditori che diventano bravi leader politici.
No, sono i bisogni sociali che devono trovare voce
politica.
E questi bisogni sociali vanno organizzati,
tenuti insieme.
Parlare di bisogno significa una cosa precisa:
che c’è un bisogno di quel tipo di politica
anziché di questa che circola ora.
Si tratta, prima di tutto, di avviare un
percorso di costruzione relazionale dal basso.
L’alternativa
è quella di adattarsi a diverse forme di democrazie populistiche.
E
avanti così verso forme monocratiche che procedono, a loro volta, verso forme
autoritarie di democrazia che dovremmo definire tecnicamente come “autocrazie
elettive”.
E come
si può invertire la rotta?
È difficile perché c’è l’audience che oggi domina la
formazione del consenso. Insomma, è una sfida.
Tuttavia,
siccome io sono un’ottimista, dico che le democrazie sono sempre state capaci
di trovare una soluzione, anche quando hanno dovuto soffrire nel deserto e fare
una lunga traversata.
La storia della democrazia è una
lunghissima storia “creativa”. Questo è un momento di grandissima crisi di alcune
istituzioni, abbiamo appena descritto quella dei partiti.
Ci
sono difficoltà reali di un sistema che non funziona come in passato e, quindi,
è il momento di promuovere opportunità.
Di
attivarsi con interventi creativi.
Il
fattore tempo è prezioso.
Oggi, nel mondo della scienza politica, in una parte
di essa legata ad alcuni think tank, vanno sviluppandosi riflessioni su forme
antielettorali di democrazia.
Una
nuova democrazia basata su sorteggi selettivi, cioè pezzi di popolazione divisi
secondo comunanze varie:
donne,
età o per condizione sociale e così via.
Da
questi scampoli di società derivano rappresentanti sorteggiati che in assemblee
decidono su un singolo problema per volta.
Senza
più l’unità che è caratteristica propria dell’assemblea nazionale o, comunque,
popolare. Siamo in una fase storica di forte ricerca, anche grazie alle nuove
tecnologie.
C’è
un’ala interna alle analisi sulla democrazia che non vede più il futuro nelle
elezioni.
Oppure, se le elezioni devono continuare ad
esserci, è solo per eleggere singole figure, per esempio il presidente.
Mentre
per i corpi collegiali o collettivi vanno pensate altre forme.
È
certo una cosa avveniristica.
Ma
desta preoccupazione anche il solo pensarlo.
Intanto
la Cina usa le assemblee sorteggiate per risolvere problemi senza
conflittualità.
Occorre
consapevolezza dei rischi che contengono queste forme tecnocratiche e non
politiche.
Si
tratta di risposte sbagliate a problemi veri.
Non si
può accettare che i partiti diventino soggetti “cartellizzati”.
Che
non ci rappresentino in qualche modo.
Mi par
di capire che si può tentare una comprensione di un possibile nuovo ordine
mondiale indagando qual è la vita vera, quali sono i rapporti tra il sociale e
la politica e quindi, come dire, riflettere sulle governance interne a ciascuna
realtà.
Focalizzarsi
innanzitutto su quello per poi capire quale può essere un discorso di nuova
globalizzazione possibile che può venire, come afferma il professor Rajan” nel
suo Terzo pilastro dal contributo decisivo delle comunità locali che si mettono
insieme.
Direi
che al lavoro sulle governance interne (nazional statali) debba affiancarsene
un altro, quello che investe le regioni del globo.
Le attività di interrelazione fra regioni sono
decisive;
oggi va compreso come operano, chi le tiene
mano.
E
bisogna dire che, purtroppo, non sono le associazioni a essere protagoniste.
Paradossalmente,
nel mondo della difficile globalizzazione, ritorna importante che vi sia una
comunità locale alla radice di tutta la piramide.
Oggi,
anche se sembra poca cosa, è opportuno ripartire, riprendere in mano
l’autogoverno delle società;
rilanciare
e riportare in auge un argomento così minoritario.
Il che
significa tornare a un tema totalmente obliterato:
riaccendere
l’attenzione sulla questione sociale.
Occuparsene
significa porre le condizioni per incidere sull’economia e, quindi, sul modello
di sviluppo dello Stato sociale.
Ritengo
che nell’epoca della post industrializzazione il sociale resti il punto cardine
da cui rimettersi in moto.
La buona politica non è quella che sta
lontano. La
buona politica è quella che si lega, che si relaziona per davvero con il mondo
delle umane condizioni sociali.
Oggi
abbiamo il problema della crisi della rappresentanza.
Lei ha
parlato dell’urgenza di riavviare dal basso forme di aggregazione sociale.
Le chiedo:
come
dar voce e rappresentare questo sociale che si riaggrega per superare la logica
dell’individualismo?
Ho
cominciato a studiare la democrazia scegliendo di occuparmi del principio della
rappresentanza.
Perché
c’è una lunga tradizione che individua in essa una violazione della democrazia
in quanto autogoverno diretto.
Ebbene,
secondo tale concezione, la democrazia rappresentativa è un ossimoro. Ma così
non è.
Infatti, anche le democrazie dirette sono
rappresentative del popolo.
La
rappresentanza è parte fondamentale della politica che è costruzione di
progetti e visione di Paese e di vita.
La più significativa dal punto di vista
politico è quella che nasce dall’incontro tra aggregazioni sociali e partiti,
nel nome di una condivisione di temi e problemi da risolvere.
La
crisi dei partiti è la crisi della rappresentanza politica. L’insoddisfazione verso le
rappresentanze rischia di tradursi, nei cittadini, in insoddisfazione per la
democrazia tout court.
Questo
è il problema che abbiamo oggi e al quale diamo la forma della crisi.
Ecco perché, in questa grama stagione della
politica, se si vuole difendere la democrazia, diventa cruciale l’impegno
dell’associazionismo e dei movimenti, anche nella funzione di sprone ai
partiti.
Come
lo si possa fare non lo so, nessuno di noi lo sa. Ma ci si deve provare.(Nadia Urbinati è titolare della
cattedra di Scienze politiche alla Columbia University di New York; politologa
e giornalista italiana è naturalizzata statunitense).
Bergoglio
“Virologo” Asseconda
Ancora
i Piani Criminali dell’Elite Globalista.
Conoscenzealconfine.it
– (3 Settembre 2024) – Carlo Maria Viganò – ci dice:
L’arcivescovo
Carlo Maria Viganò ha commentato le parole di Bergoglio all’Angelus di domenica
25 agosto, dove si è dedicato al tema del vaiolo delle scimmie che sembra
essere spinto come nuova emergenza sanitaria globale.
“Desidero
manifestare la mia solidarietà alle migliaia di persone colpite dal vaiolo
delle scimmie, che costituisce ormai un’emergenza sanitaria globale “ha
dichiarato Bergoglio in Piazza San Pietro, domenica 25 agosto.
“Prego per tutte le persone
contagiate, specialmente la popolazione della Repubblica Democratica del Congo,
così provata.
Esprimo
la mia vicinanza alle Chiese locali dei Paesi più colpiti da questa malattia e
incoraggio i governi e le industrie private a condividere la tecnologia e i
trattamenti disponibili affinché a nessuno manchi l’adeguata assistenza
medica”.
“Bergoglio
smette provvisoriamente i panni dell’esperto climatologo nei quali ha
rilanciato ossessivamente la narrazione dell’agenda green, per indossare il
camice del virologo e dare il suo sostegno alla propaganda psico pandemica sul
vaiolo delle scimmie, che altro non è se non uno degli effetti avversi indotti
dal siero sperimentale che aveva tanto insistentemente raccomandato all’epoca
della farsa del COVID” scrive su “X” monsignor Viganò.
“Non
solo: egli non ritratta nulla del suo appoggio criminale e sconsiderato a
quella vaccinazione di massa che oggi sappiamo ufficialmente essere inefficace,
gravemente dannoso e mortale;
e tace sul fatto che i sieri mRNA siano
prodotti con linee cellulari di feti abortiti”, continua il prelato.
“Il suo zelo nell’assecondare i piani
criminali dell’élite globalista è ormai talmente palese da sortire l’effetto
opposto: i fedeli hanno capito che la vera epidemia che affligge la Chiesa è
l’ideologia modernista, conciliare e sinodale “.
“Bergoglio
è climatologo e virologo come è Papa” chiosa infine monsignore.
Come
riportato da “Renovatio 21”, in questi anni l’arcivescovo già nunzio apostolico
negli Stati Uniti non ha risparmiato i suoi strali contro l’appoggio diabolico
fornito da Bergoglio alla cricca vaccinal-mondialista, definendo il gesuita
argentino come “sponsor” e “piazzista” delle case farmaceutiche.
A
inizio anno Viganò intervenne per condannare la nomina alla “Pontificia
Accademia per la Vita” per “Katalin Kariko”, inventrice dei vaccini mRNA,
prodotti a partire da linee cellulare di feto abortito.
(renovatio21.com/francesco-virologo-asseconda-i-piani-criminali-dellelite-globalista-mons-vigano-sullangelus-di-bergoglio-dedicato-al-vaiolo-delle-scimme/)
Europa
e Alleanza atlantica:
il
ruolo dell’America.
Sussidiarieta.net
– (2 giugno 2024) - Marta Dassù – ci
dice:
La
fotografia americana è quella di una realtà abbastanza forte dal punto di vista
economico e assai debole per quanto riguarda la politica.
Questo
stato delle cose è destinato a caratterizzare in modo diverso lo storico
rapporto fra USA e Vecchio continente maturato alla fine della Seconda guerra
mondiale.
Già,
ma in quale direzione?
E
quali gli interessi prevalenti nel contesto di un quadro internazionale denso
di nubi?
Le
elezioni presidenziali di fine anno diranno molto. Con un’opinione pubblica
statunitense per nulla soddisfatta dei due candidati.
Dopo
una storia di relazioni transatlantiche che non ha avuto scossoni particolari,
anche se crisi ci sono sempre state, dalla Seconda guerra mondiale in poi, oggi
la relazione tra Stati Uniti ed Europa è aperta a vari interrogativi,
soprattutto per le direzioni non chiare che potrebbe prendere l’America.
Gli
Stati Uniti sono alle prese con una sorta di “rematch”, si rigioca la partita
fra Donald Trump e Joe Biden.
È una situazione che non piace agli americani
stessi, tutti i sondaggi indicano che la scelta tra questi due candidati – in
modo diverso problematici, sicuramente vecchi, senza un ricambio generazionale
né nel partito repubblicano né in quello democratico – non ha l’appoggio della
maggioranza dell’opinione pubblica, che avrebbe voluto vedere un gioco diverso.
I precedenti storici di un “rematch”, del
resto, sono molto pochi.
Questo
problema di un’America ripiegata su sé stessa, l’“America first” di Donald
Trump, si ripresenta e pone all’Europa la questione di dover pensare in modo
più evidente di quanto non fosse prima la sua stessa sicurezza e difesa in una
fase peraltro resa molto critica dalla guerra in Ucraina e dalla contemporanea
guerra in Medio Oriente, quindi due fronti per l’Europa.
Trump
controlla la base del partito repubblicano, è riuscito a mobilitarla, non
controlla tutto il partito.
Trump
è da sempre contro quella che sarebbe una linea molto ovvia per il partito
repubblicano, che ha sempre visto nell’Unione Sovietica prima e poi nella
Russia un nemico storico degli Stati Uniti.
Trump
è convinto che con la Russia di Putin si possa raggiungere un accordo sulla
divisione in sfere di influenza dello spazio ex sovietico, in pochissimo tempo:
una
specie di slogan ed è in generale uno slogan quello di Trump di sostenere che
con lui al potere negli Stati Uniti, l’America non avrebbe più problemi di
guerre.
In effetti, da parte sua, ha il fatto che
durante la sua presidenza dal 2016 al 2020 non ci sono state nuove guerre in
cui gli americani siano stati coinvolti, mentre con Biden gli eventi esterni
hanno riportato l’America in gioco, l’Ucraina prima e poi il Medio Oriente,
Israele e Gaza dopo il 7 ottobre.
Biden
come candidato non va bene secondo una parte dei democratici stessi, per
ragioni fondamentalmente di età.
Dalla
parte di Biden c’è il fatto che, come presidente, è riuscito a tenere
abbastanza bene insieme le varie fazioni dei democratici che, da un certo punto
di vista, costituiscono un partito più simile alle formazioni politiche
europee, un partito più strutturato anche se in America i partiti sono
fondamentalmente dei cartelli elettorali, ma questa sua capacità di tenere
insieme i dem si sta erodendo proprio nell’anno delle elezioni.
E uno
dei fattori per cui questo accade è proprio il teatro mediorientale, perché una
parte della nuova generazione dei democratici contesta fortemente l’appoggio
del governo Biden al dramma dell’aggressione di Hamas, l’appoggio cioè al
governo di Netanyahu che, all’inizio, l’America ha dato in modo abbastanza
deciso.
È un fatto importante per la politica interna perché
il voto della comunità araba- americana è decisivo in una parte degli Stati in
bilico.
In particolare, è importante nel Michigan dove
Biden rischia di perdere e perdere le elezioni in Michigan non è uno scherzo
perché il sistema elettorale americano si basa sul meccanismo del collegio
elettorale.
Biden
è un presidente che ha un indice di gradimento bassissimo, uno dei più bassi
della storia americana, una specie di Jimmy Carter dell’epoca e rischia – come
Jimmy Carter – di fare un solo mandato.
Trump
ha una situazione che a noi europei pare abbastanza incredibile, cioè ha
quattro grandi processi, uno dei quali riguarda il gennaio del 2020, l’assalto
a Capitol Hill, e gioca tutta la sua campagna elettorale su una strategia di
tensione fra la battaglia legale e la battaglia elettorale.
Una
spartizione del Paese.
Quanto
è in crisi la democrazia americana e quanto lo sarebbe con un Trump di nuovo
presidente degli Stati Uniti?
È una domanda importante.
I costituzionalisti rispondono in modo
variegato ma sempre tenendo conto di una cosa che è importante per capire
l’America.
A differenza dell’Europa, la visione dei padri
fondatori degli Stati Uniti è che la funzione del governo è ridotta.
Il
governo deve essere quel tanto di necessario che serve per fare andare bene la
cosa pubblica, ma non deve avere un ruolo preponderante.
Certamente
non per i repubblicani, storicamente, ma in fondo neanche tanto per i
democratici.
Un’altra
cosa importante per capire l’America di oggi è che le tradizionali
“constituents”, le classi sociali che hanno appoggiato i due partiti, i
repubblicani e i democratici, non sono più quelle di una volta.
Il fenomeno più rilevante è il passaggio ai
repubblicani della classe operaia bianca e della classe rurale bianca come
effetto dello schiacciamento della classe media che ha sempre costituito
l’ossatura portante della democrazia americana a seguito della globalizzazione.
Quindi
si sono invertite le parti, i repubblicani rappresentano la working class
bianca, i democratici rappresentano l’élite istruita.
I
democratici sono in larga parte liberal, nell’accezione anglosassone:
difendono i diritti delle minoranze, difendono
i diritti LGBT, difendono il diritto all’aborto – che è stato un tema
importante dell’elezione di midterm nel 2020 –, quindi è una battaglia che si
gioca su dei valori fondamentali al punto che la sensazione generale è che non
esista più l’America.
Esistono
due Americhe che non si riconoscono a vicenda, in cui l’avversario politico è
in realtà un nemico a cui non si attribuisce nessuna legittimità e sono due
Americhe l’una contro l’altra armate, al punto che una parte degli osservatori
teme una sorta di nuova guerra civile.
Personalmente
la ritengo una forzatura di tipo intellettuale e giornalistico, ma sicuramente
c’è una spartizione del Paese che è diviso anche geograficamente, in cui una
parte delle persone per perseguire i propri diritti decide semplicemente di
cambiare Stato.
Dal
punto di vista politico questa mancanza di un terreno di consenso bipartisan,
che aveva sempre reso grande l’America politicamente, è un vero problema per
due ragioni.
Da un
lato rende davvero difficile il funzionamento del ramo legislativo:
oggi
far passare a Washington dei provvedimenti è diventato molto difficile.
Il
secondo punto da tenere presente è che il consenso bipartisan era sempre stato
chiaro sul ruolo dell’America nel mondo.
Ora
questa mancanza di un consenso bipartisan interno rende debole l’America nel
mondo, in una fase in cui difendere il ruolo dell’America nel mondo è già
difficile di per sé per il tipo di scosse che sta vivendo il sistema
internazionale.
I politologi la definiscono l’“età della poli crisi”,
delle crisi continue:
il Covid, la crisi finanziaria, le guerre o
l’età della grande incertezza ma in cui tutto sommato la supremazia degli Stati
Uniti è messa in discussione dagli sfidanti autoritari rivali.
La
forza economica a stelle e strisce.
La
Cina ha una sua agenda, la Russia ha una sua agenda, ed esistono una serie di
potenze che chiamiamo potenze di mezzo, potenze regionali, che giocano le loro
carte su tutti i tavoli possibili.
Esempio:
la Turchia è un Paese che, pur essendo membro dell’alleanza atlantica, decide
di avere dei rapporti molto stretti con la Russia.
L’Arabia
Saudita, che è in teoria un alleato degli Stati Uniti e a cui gli Stati Uniti
hanno promesso di fornire tecnologia di difesa e tecnologia nucleare, non
applica le sanzioni alla Russia e, anzi, dà una mano nell’illusione delle
sanzioni e nell’OPEC, così importante per il petrolio, gioca di sponda con
Mosca.
Quindi è un mondo molto, complicato.
Il “Financial Times” l’ha definito il mondo à
la carte in cui si ha l’impressione che gli Stati Uniti – che pure restano in
termini relativi il numero uno – non riescano più a controllare il sistema e
questo si vede molto bene, ad esempio, in Medio Oriente.
La
crisi politica dell’America è abbastanza evidente ma non è un’America in crisi
economica e questo è un altro punto importante da considerare:
la
forza economica dell’America dipende fondamentalmente dalla vitalità della sua
società, che resta effettivamente vitale con un tasso di innovazione
tecnologica molto forte.
Le
prime dieci imprese americane, che poi sono le prime dieci imprese del mondo,
non esistevano 15 anni fa e l’America è uscita molto bene dalla successione di
crisi – da quella finanziaria del 2008 al Covid, dalla guerra in Ucraina alla
guerra in Medio Oriente –, meglio di quanto ci si attendeva.
La
cosa interessante a cavallo fra economia e politica è che questa solidità
dell’economia americana non si traduce in un appoggio a Biden;
solitamente, quando l’economia va bene,
l’amministrazione in carica dovrebbe essere apprezzata.
Questo
non avviene perché, tutto sommato, la gente non pensa di stare meglio di cinque
anni fa, pensa di stare peggio sia perché l’inflazione ha comunque un effetto a
lungo termine e riduce il potere d’acquisto, sia perché i tassi di interesse
per ora sono rimasti più alti e quindi ottenere il mutuo per la casa – che per
gli americani è parte integrante dell’american dream – è diventato più
difficile.
Biden ha poi un altro problema.
Essendo palesemente malmesso dal punto di
vista fisico, è evidente che si tema che a un certo punto della prossima
amministrazione, il vicepresidente possa prendere il suo posto.
Kamala
Harris, la vicepresidente di Biden, è una vera liability, direbbero gli
americani, un vero punto debole, ma è molto difficile da sostituire perché è
una donna e quindi il problema di Biden è di non perdere il voto delle donne,
che può facilmente andare invece a Trump;
e non può perdere una donna di colore, perché
il voto delle minoranze sia ispaniche che afro-americans resta molto
importante.
Quindi questa è l’America di oggi, molto
debole politicamente e abbastanza forte economicamente;
in un
mondo che sta cambiando moltissimo nel senso che la vecchia pax americana è
chiaramente finita.
Questo
significa che l’Europa è in grosse difficoltà.
L’indipendenza
energetica.
C’è
un’evidenza molto importante di cui parla spesso “Mario Draghi”.
Negli
ultimi vent’anni circa, l’Europa ha perso moltissimo in competitività rispetto
agli Stati Uniti perché vent’anni fa il “size”, l’entità delle due economie,
era più o meno simile.
Oggi
l’Europa ha un’economia che è più o meno il 65% di quella americana, quindi c’è
stato un arretramento di quello che l’Europa vede come il terzo polo del
sistema internazionale (Stati Uniti, Cina, Europa).
Se
cerchiamo di capire le ragioni di questo arretramento credo che siano
sostanzialmente tre.
La prima è che siamo entrati in un’epoca di
ritorno della politica industriale.
Il paradigma dell’economia è cambiato e questo
è un punto molto importante.
È
cambiato perché il problema della sicurezza e della geopolitica ha contagiato
in modo molto pesante l’economia.
Nessuno
crede più che l’aumento di integrazione economica generi anche degli effetti
pacifici. Questa era l’illusione degli anni Novanta, quando la Cina fu ammessa
nel WTO.
Oggi si ritiene che, nel concepire le proprie
catene del valore, sia importante tenere conto di un elemento fondamentale: la
sicurezza.
Quindi
c’è una gestione politica di una parte dell’attività economica, si cerca di
rafforzare le basi della propria autonomia economica, cosa che l’America può
fare molto meglio di quanto non possa fare l’Europa perché l’America, prima di
tutto, è diventata un produttore indipendente di energia.
L’America vende l’energia, a noi vende del gas
liquefatto naturale ma, in generale, l’America è diventata uno dei grandi “swing
producer, “è un grande produttore di energia.
Secondariamente,
l’Europa è un continente trasformatore, ma deve importare energie, deve vendere
sui mercati esteri e uno degli effetti più importanti della crisi ucraina è
stato che l’Europa e il cuore dell’Europa, cioè il modello industriale tedesco,
ha dovuto interrompere i rapporti energetici favorevoli con la Russia che
aveva, ma che prescindevano dalla sicurezza, quindi non può più importare
facilmente energia dalla Russia.
L’importazione
si è ridotta all’8 per cento, rispetto al circa 50 per cento iniziale. L’Italia
su questo è stata molto abile e rapida, grazie all’ENI più che al governo, nel
riconvertire le proprie fonti energetiche da est verso sud.
In realtà non è che il sud sia così meno
problematico, se pensiamo a Paesi come l’Algeria.
L’energia
da noi costa un terzo in più di quello che costa in America ed è difficile
essere competitivi pagando l’energia tre volte di più.
Secondo
fattore, la scarsa propensione dell’Europa all’innovazione tecnologica per
mancanza di soldi.
Il tasso di investimento di risorse comuni
europee in tecnologia è molto basso.
In chiave comparativa, molto basso rispetto
all’America e molto basso rispetto alla Cina e, se guardiamo per esempio
all’Intelligenza Artificiale – che è la frontiera della competizione futura –,
questo rimane un dato di cui preoccuparsi.
Terzo,
la crisi del vecchio modello di sviluppo di cui ho già detto più sopra, in
particolare del modello tedesco, perché i motori lì erano tre:
energia
a basso costo dalla Russia, difesa garantita degli Stati Uniti ed esportazione
in Cina.
Per
ragioni diverse questi motori sono tutti entrati in crisi.
E,
quarto, c’è la grande questione geopolitica e della difesa.
L’ormai
incerta protezione americana.
Noi
siamo abituati dal 1949, dalla fondazione della Nato, a dare per scontata la
protezione americana.
Ora,
questa protezione americana non è che sia finita, ma è diventata molto più
incerta.
Qualunque
presidente americano da Clinton in poi chiede di aumentare le spese per la
difesa e gli americani continueranno a pensare che la divisione vera del lavoro
debba essere quella che gli europei si occupino dell’Europa con un ruolo degli
Stati Uniti che si può definire di “offshore balancing”, cioè una garanzia
nucleare ultima che rimarrà ma senza un impegno diretto così sostanziale come
quello di oggi.
Loro
invece si occuperanno fondamentalmente dell’Indo-Pacifico dove stanno
costruendo una serie di alleanze per contenere la Cina.
Il tema difesa non è più un gioco
intellettuale o una mania degli europeisti che ritengono che senza la difesa
l’Europa resti incompleta.
È,
obiettivamente, una vera necessità, specie nella misura in cui la Russia di
Putin è tornata a essere una minaccia convenzionale e classica.
Si
entra in un altro tipo di ragionamento, un ragionamento di politica industriale
per l’Europa.
Dobbiamo
riuscire non solo a spendere abbastanza – e questo, in fondo, paradossalmente,
lo facciamo già.
Se
consideriamo la spesa militare aggregata europea siamo già a una spesa che è di
350 miliardi di euro, che significa una spesa superiore a quella della Russia o
che ci si avvicina molto, nel senso che la Russia è diventata un’economia di
guerra, ha aumentato le spese militari e, quindi, andrebbero rifatti i calcoli.
È comunque una spesa ragguardevole, ma
inefficiente, perché è frantumata fra i vari Stati membri e, quindi, crea una
serie di inefficienze mentre non si giova di nessuna economia di scala.
Un’altra
implicazione della difesa europea è che è tornata importante anche la massa, la
difesa convenzionale.
In
questo momento la minaccia russa è una minaccia in parte convenzionale e in
parte nucleare.
Ma la
difesa convenzionale è la prima linea della deterrenza.
E qui
c’è un problema.
Nel
periodo in cui la NATO era considerata inutile, alla ricerca di un ruolo –
fondamentalmente fra il 1989 e l’invasione dell’Ucraina – abbiamo smantellato
gli eserciti, nel senso che abbiamo deciso che non ci serviva avere delle forze
convenzionali così rilevanti e abbiamo deciso di avere delle forze
professionali piccole.
Il
cosiddetto “man power”, la destinazione alla difesa di forze più ingenti, è
tornato, invece, a essere di attualità.
Il
terzo grande problema è la dissuasione nucleare, perché effettivamente il
nucleare è un tabù in Europa.
Lo è dal punto di vista energetico con
l’eccezione della Francia, ma lo è anche dal punto di vista militare, nel senso
che gli unici due Paesi che hanno delle testate nucleari nell’ordine di 300
ciascuno sono la Francia – che non è integrata nel meccanismo di pianificazione
nucleare della NATO – e il Regno Unito – che è uscito dall’Unione Europea e fa
parte invece del “nuclear planning” congiunto della NATO.
Come passare a una capacità di dissuasione
nucleare che possa prescindere dalla protezione americana è molto difficile da
immaginare;
tenuto
conto che i francesi tendono a dire che la forza nucleare appartiene,
naturalmente, a loro.
Nella
sostanza:
il pollice sul bottone resta quello di
Emmanuel Macron.
Gli
altri non ci stanno, evidentemente, e quindi è tutta una discussione che deve
aprirsi.
Ma è
interessante vedere come, in materia di difesa, alla fine rimanga una
diffidenza di fondo fra gli europei e questo spiega l’importanza delle
relazioni atlantiche perché la verità è che dopo la Seconda guerra mondiale
l’America è stata quello che gli esperti politologi definiscono un grande
equalizzatore.
Se non
fosse stato per l’America – che, in fondo, metteva un po’ tutti d’accordo
esercitando il suo ruolo da protagonista – le tensioni sarebbero state molto
forti.
È solo grazie al fatto che ci sia stata
l’America con il piano Marshall e poi con la creazione della NATO che, nel
1949, abbiamo accettato il riarmo tedesco, una cosa che per i francesi era
inaccettabile.
D’altronde,
la diffidenza fra Francia e Germania riaffiora quasi sempre nel momento in cui
c’è un minore peso degli Stati Uniti.
UE: i
motivi di preoccupazione.
L’ultimo
punto sull’Europa è che le leadership politiche europee non sono probabilmente
all’altezza di tempi come questi, all’insegna della grandissima discontinuità.
Nella
trasformazione del sistema internazionale di oggi, che va verso il contagio fra
sicurezza, economia e frammentazione, l’Europa non sa come posizionarsi, non ha
una politica industriale, non ha abbastanza fondi comuni, non ha la difesa.
Ci vorrebbe una leadership politica autorevole
rispetto a quella che abbiamo oggi, ma è molto difficile trovarla sul mercato
perché la realtà, come dimostra anche l’America, è che la politica è un settore
di lavoro squalificato perché ti espone moltissimo, è molto meno remunerativo
che in passato e nel quale è molto più difficile ottenere quello che speri di
ottenere.
Come
europei bisogna prepararsi a tempi difficili.
Siamo
il continente dove, in fondo, si vive ancora meglio, ma che appare
inesorabilmente in declino per le ragioni che abbiamo esposto e, in parte, per
ragioni demografiche.
Se
guardiamo ai processi di aging, di invecchiamento, l’Europa viene per prima;
in
parte per la grande rivoluzione tecnologica in atto e in cui siamo
drammaticamente indietro.
Per
l’insieme di queste ragioni e per le guerre ai nostri confini dovremmo stare
molto attenti come giovani europei.
E preoccuparci molto, perché non siamo su una
traiettoria virtuosa.
(L’articolo
è una sintesi dell’intervento a Europa Futuro Presente, sesta edizione della
Scuola di formazione politica “Conoscere per decidere”, organizzata da Società
Umanitaria, Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine e Fondazione per la
Sussidiarietà, Milano, Società Umanitaria, 2 marzo 2024.)
(Marta
Dassù è giornalista, studiosa di politica internazionale è Senior Advisor “European
Affairs” dell’Aspen Institute).
Il
contributo europeo per
un
nuovo equilibrio mondiale.
Sussidiarieta.net
- Enzo Moavero Milanesi – (4- 6 – 2024) – ci dice:
Si
vive a livello globale una situazione di preoccupante disequilibrio.
Due i
motivi: le guerre e l’evoluzione sociale ed economica nel mondo.
Laddove l’Unione Europea appare oggi non certo
come un soggetto protagonista di un positivo riequilibrio.
Perché
la sua architettura è inadeguata, rimanendo forte l’ingerenza degli Stati
nazionali.
Lo
spazio di una operosa centralità ci sarebbe.
“Ritengo che l’Unione Europea possa
rappresentare ancora una soluzione alle tante questioni che ci circondano, alle
tante paure che tutti condividiamo, ma disilludiamoci che l’attuale Unione
Europea, così com’è, rappresenti una risposta.
È necessaria una svolta costituente, visto che
l’UE è l’unica dimensione di riferimento per gli europei che può ancora pesare
nel mondo in senso positivo”.
Parlando
di equilibrio mondiale, non possiamo non partire dalla considerazione che è un
equilibrio instabile, fondamentalmente per due motivi.
Uno, purtroppo, è sotto i nostri occhi
quotidianamente, oramai già da qualche anno, ed è il ritorno del flagello più
terribile che ci sia, la guerra nel continente europeo e il riaccendersi della
guerra nella riva sud del Mediterraneo, che è il fianco meridionale del nostro
continente.
Questo
è un motivo di disequilibrio che ci preoccupa, ci scombussola, ci riporta ad
anni che credevamo oramai lontani e pensavamo di avere relegato ai libri di
storia.
Il
secondo motivo per cui il mondo attuale è in disequilibrio è dovuto alla
velocissima dinamica che, non da oggi, ma in maniera accentuata negli ultimi
20-25 anni, hanno preso l’evoluzione sociale e quella economica nel mondo.
Alla fine degli anni Novanta si cominciò a
parlare di qualcosa che era già avvenuto molte volte nella storia, la
globalizzazione.
Si
vedeva la globalizzazione da punti di vista differenti, ma si convergeva nel
ritenere che avrebbe portato complessivamente a una crescita nell’ambito
dell’equilibrio mondiale:
una
crescita economica, positiva, che avrebbe tolto da situazioni di fame o di
grande arretratezza tante persone che vivevano in aree del mondo meno favorite
di altri.
A un
certo punto si è incominciato a notare che la nuova globalizzazione di fine
secolo e inizio nuovo millennio era forse la prima nella storia, da quando la
storia è studiata e scritta, che non vedeva l’Europa protagonista attivo.
Se noi
pensiamo a un altro esempio di globalizzazione molto evidente e spesso
ricordato, è quello a opera di Cristoforo Colombo con la scoperta dell’America,
il Nuovo Continente, grazie all’attivarsi dei commerci:
allora erano gli stati europei che andavano in
America.
Se pensiamo alla globalizzazione del periodo
coloniale, al di là del giudizio che si può avere sul colonialismo in quanto
tale, erano gli Stati europei che si auto definivano potenze, e tali erano
sotto il profilo militare ed economico, in quanto in grado di estendere la loro
influenza e il loro dominio.
La
globalizzazione che noi abbiamo vissuto – a partire dal nuovo secolo in maniera
più accentuata – è una dinamica che non ha visto l’Europa alla guida.
Ha
visto altre realtà e, addirittura, potremmo dire con il senno di poi, è una
globalizzazione che è entrata in Europa.
La grande espansione dell’economia cinese è
l’esempio più evidente, ma non si tratta solo di fattori economico-finanziari o
di commercio di merci, di beni, di prodotti o di servizi.
La
globalizzazione va anche guardata nell’ottica delle grandi migrazioni.
Quando
gli europei – che si chiamassero conquistadores o che si chiamassero in altri
modi – si espandevano nel continente americano, era un’Europa in grande
crescita demografica che portava le persone nate nel suo spazio continentale
altrove.
Oggi
la realtà è diversa, ci sono grandi spostamenti di popolazioni migranti,
tendenzialmente da sud verso nord, ma anche dalle aree economicamente
svantaggiate o colpite dal cambiamento climatico verso le aree più
avvantaggiate.
C’è
una migrazione da aree dell’Asia anche verso l’Australia o verso altre zone che
hanno economie più funzionanti.
Il
cambiamento climatico è un altro grande fattore che caratterizza la nostra
epoca, che determina i movimenti migratori, che influisce pesantemente sulle
sorti economiche degli Stati.
Questo
dinamismo e questo disequilibrio ci fanno capire che la dimensione Stato in
Europa è diventata ininfluente.
Anche
gli Stati più importanti del continente europeo, che facciano o non facciano
parte dell’Unione Europea, ad esempio la Germania, il Regno Unito, la Francia,
anche la nostra Italia, sullo scenario mondiale pesano poco.
Non
riescono più ad avere una influenza incisiva di fronte ai grandi fenomeni come
il cambiamento climatico o le migrazioni.
Gli
Stati europei non riescono a gestire, a governare, a dare un minimo di
organizzazione a fenomeni che li travalicano totalmente.
Pensiamo allo sviluppo tecnologico.
Le grandi potenze europee dell’Ottocento e
della prima parte del Novecento fondavano il loro essere potenza anche grazie
al controllo delle grandi tecnologie dell’epoca.
Tecnologie industriali e tecnologie purtroppo
anche militari, tecnologie nutrite da materie prime, come il carbone, che in
Europa abbondavano.
Se
guardiamo alle tecnologie di oggi, ma anche a quelle di uno ieri successivo
alle guerre mondiali, a cominciare dal petrolio, oppure alle nuove tecnologie
basate sulle cosiddette terre rare, su minerali come il litio, vediamo che nel
nostro continente non ci sono.
Sono
materiali indispensabili per lo sviluppo delle attuali tecnologie.
Si
trovano in altre parti del mondo che ne hanno un controllo e uno sfruttamento
pressoché totali.
Ben
venga l’Unione Europea.
Ci
stiamo rendendo conto, di fronte alla terribile guerra in Ucraina, che l’Europa
non ha nemmeno una capacità di produzione di armamenti che permetta di
compensare la capacità della Russia, rispetto a questa guerra che ci preoccupa
tutti quanti.
Se gli
Stati europei non sono più in grado individualmente di influire perché il
periodo della loro potenza è oramai parte di un passato che non tornerà, ben
venga allora l’esistenza dell’Unione Europea perché, invece, può dare ancora un
peso al nostro continente a livello di economia, a livello di capacità
produttiva, a livello di ruolo e capacità commerciale nel mondo.
I dati
sono estremamente lusinghieri.
Se poi
guardiamo ad alcune caratteristiche della nostra realtà socio-economica, ai
nostri sistemi previdenziali, a quello che oramai tutti ci siamo abituati a
chiamare welfare, lì l’Europa è addirittura all’avanguardia come capacità e
garanzia di assistenza previdenziale a chi vive nell’ambito dello spazio
dell’Unione Europea e dei nostri spazi nazionali.
Ma non
basta.
Dobbiamo
invece chiederci perché anche la dimensione dell’Unione Europea non è tale da
rassicurarci.
La
dimensione dello Stato nazionale in Europa è legata a elementi molto positivi
di democrazia, di partecipazione, di garanzia di libertà, di Stato di diritto,
però è dimensionalmente insufficiente di fronte a un mondo in cui si muovono
insiemi estremamente più grandi del singolo Stato europeo, per i motivi che
abbiamo detto.
Di
cosa è fatta la dimensione europea?
Non è
una realtà di oggi o di appena ieri, è una realtà che si avvicina a compiere 75
anni di vita perché la prima comunità europea, la comunità del carbone e
dell’acciaio, nasce nel 1952.
La dimensione europea nasce con
un’architettura che nei primissimi anni Cinquanta era di grande avanguardia.
Era costituita da un esecutivo centrale,
un’istituzione con compiti prettamente esecutivi, non esattamente come un
governo ma simile;
un’assemblea
fatta all’inizio di delegati dei parlamenti nazionali, poi a partire dagli anni
Settanta direttamente eletta dai cittadini, quindi un Parlamento, e infine
un’istituzione rappresentativa degli Stati membri, che ha un nome proprio, si
chiama Consiglio.
In
seguito, si è aggiunta la grande intuizione della creazione di una Corte di
Giustizia che diventava l’interprete ultimo per affermare dal punto di vista
giuridico le norme europee.
Sono passati molti anni ma se guardiamo
all’attuale struttura dell’Unione Europea non è poi così diversa da allora.
Si è
aggiunta la Banca Centrale Europea, per i più meticolosi si è aggiunta anche
una Corte dei Conti Europea, ma la struttura fondamentale, operativa,
rappresentativa, è imperniata su un Parlamento che prima si chiamava Assemblea,
su una Commissione che brevemente ai tempi della comunità del carbone e
dell’acciaio si chiamava Alta Autorità, con compiti esecutivi, su un Consiglio
che rappresenta gli Stati, su una capacità di produrre norme giuridiche
vincolanti.
Nonostante
tutto questo non si è mai arrivati a creare quella federazione europea che pure
nella dichiarazione fatta nel 1950 da Robert Schumann, l’allora ministro
francese che dette inizio a tutto il processo, era già focalizzata come
obiettivo.
Ne
parlavano De Gasperi e Adenauer negli anni Cinquanta.
L’idea
di questi cosiddetti padri fondatori, era che settant’anni dopo la federazione
ci sarebbe stata.
Invece
l’Europa è rimasta con questa sorta di attesa un po’ messianica di un qualcosa
che deve arrivare, di cui però si ha paura a parlare, di cui quando si parla si
finisce con litigare.
L’inadeguata
architettura.
E
allora che architettura abbiamo oggi?
Abbiamo
un’architettura inadeguata.
L’Unione Europea non è riuscita a sostituire
gli Stati nazionali, né politicamente, né istituzionalmente, né nel peso
politico complessivo sullo scenario mondiale, perché è rimasta in mezzo al
guado.
Cos’è
che in particolare rende l’Unione Europea anchilosata?
Lo si
legge quasi quotidianamente:
decisioni
che in un sistema autoritario si prendono nello spazio di ore, decisioni che in
un sistema democratico, ma ben strutturato, si prendono magari nello spazio di
qualche giorno, in Europa richiedono mesi.
E a
volte neanche arrivano.
Ci si
scaglia contro quello che viene giudicato immobilismo, causa del quale sarebbe
il voto all’unanimità.
Ma non
è vero. È vero in certi settori, anche delicati, non è vero in altri.
Osserviamo
il caso di uno di questi settori definiti delicati, quello dell’immigrazione.
Il trattato europeo è molto chiaro, non parla
solo di norme sull’asilo o sulla difesa delle frontiere, parla di una politica
per le migrazioni, che è qualcosa di molto più complesso, parla di solidarietà
che deve guidare questa politica, parla di meccanismi condivisi, il che vuol
dire non solo aiutare queste persone quando stanno affogando in mare.
Parla
anche della presa di coscienza che l’Europa si trova in un triste calo
demografico e che per continuare a funzionare, per reggere nei sistemi di
welfare, nelle capacità produttive, ha anche bisogno, oltre che di figli
propri, anche di persone che arrivano da fuori.
L’evoluzione degli Stati Uniti non è avvenuta
solo perché avevano una capacità di proliferazione particolarmente elevata, è
avvenuta anche perché arrivavano grandi ondate di migranti.
In
materia di politica delle migrazioni si decide a maggioranza, non
all’unanimità. Eppure, in tanti anni, si contano sulle dita di una mano le
norme europee che sono state adottate e decise.
Il
vero punto è che l’Europa non riesce a darsi quella trasformazione di cui ci
sarebbe indubbiamente bisogno perché rimane legata a egoismi ombelico-centrici
degli Stati e dei governi che ne fanno parte.
Non è
nemmeno corretto dare la colpa agli Stati, entità astratta.
Andiamo
a focalizzare i veri colpevoli.
I veri
colpevoli sono i governi degli Stati perché gli Stati sono governati da governi
e negli Stati europei dove vige democrazia e libertà sono governati da governi
democraticamente eletti.
Quindi siamo noi alla fine che li esprimiamo.
Allora
sono i governi dei vari Stati che non trovano le maggioranze, sono i governi
dei vari Stati che non riescono a trovare un accordo per esprimere determinate
linee politiche, sono i governi dei vari Stati che laddove è prescritta
l’unanimità non convergono all’unanimità.
Il
Parlamento europeo non esprime il governo dell’UE.
Abbiamo
visto che i singoli Stati non hanno più il peso che avevano negli anni Sessanta
e Settanta e siamo coscienti che l’Europa manca di una struttura. Abbiamo il
Parlamento europeo, del quale spesso sentiamo dire che non fa nulla, ma non è
vero.
Il
Parlamento europeo è legislatore, per giunta legislatore di norme delicatissime
in materia di salute, di ambiente, di industria, di svolte verdi, di sanità.
Decisioni
che ci toccano da vicino.
Ogni
vestito che noi portiamo ha un’etichetta con indicazioni che dipendono da
normative europee.
Quello che mangiamo sta scritto sulle
confezioni.
È tutto disciplinato dalle normative europee.
Senza la politica agricola comune non ci
sarebbe agricoltura in Europa.
È sovvenzionata, costa a tutti quanti noi come
contribuenti, però abbiamo un’autosufficienza alimentare e anche qualcosa di
più.
Il Parlamento europeo prende decisioni
importanti, ma questa istituzione esprime con una sua maggioranza politica un
governo politico dell’Unione Europea?
La risposta è no.
Perché
il Parlamento europeo indubbiamente voterà, dopo la designazione fatta dai capi
di Stato e di governo, il presidente o la presidente della Commissione.
Il Parlamento europeo darà un voto di
investitura all’insieme dei commissari, quindi a tutta la compagine della
Commissione, anche dopo delle audizioni severe. Però, alla fine, i nomi di chi
farà parte della Commissione – che è l’esecutivo dell’Unione Europea –
usciranno dai governi nazionali, perché anche se il Parlamento Europeo potrà
bocciarne qualcuno, però poi il governo nazionale ne indicherà un altro che più
o meno farà parte della famiglia politica che esprime l’equilibrio di governo
di ciascuno Stato.
Difficile immaginare che un governo in carica
di un Paese segnali un candidato per la Commissione che faccia parte
dell’opposizione.
Quindi,
in realtà, il Parlamento europeo, con tutti i suoi importanti compiti
legislativi, non esprime, come avviene normalmente in democrazia, il governo
dell’Unione Europea.
Per giunta il ruolo legislativo del Parlamento
europeo è amputato di alcune decisioni delicate che il Consiglio – e dunque gli
Stati – hanno tenuto per loro: materia tributaria, materia di bilancio, certe
materie economiche precise, materia di difesa, materia di politica estera.
Andiamo
a vedere la Commissione.
La Commissione è l’esecutivo.
Peccato
che in due materie super delicate, come la politica estera e la politica di
difesa, sia completamente tagliata fuori.
La Commissione non entra in queste due
materie.
Sono
riservate al Consiglio che rappresenta gli Stati.
La
Commissione, inoltre, è l’unica istituzione che può fare proposte legislative a
livello europeo, quindi le normative europee nascono da una proposta che può
essere fatta solo dalla Commissione.
I parlamentari europei non possono.
E poi
ha dei poteri in più che, in ultima analisi, in un meccanismo più
collaudatamente conosciuto, non dovrebbe avere.
Il
Consiglio ha la funzione di rappresentare gli Stati.
Ha
funzione anche esecutiva in materie come esteri e difesa, ma anche legislativa,
in alcuni casi condivisa col Parlamento e in altri esclusivo.
Il punto è allora capire i poteri che singoli
Stati si sono tenuti per loro.
Né
federazione, né confederazione.
L’Unione
Europea vive di competenze che gli Stati le hanno attribuito, ma gli Stati
hanno tenuto per loro una serie di questioni e, in alcune, si sono riservati
completamente mano libera e l’intero potere decisionale.
Questa
Unione Europea, che è una sorta di complesso ircocervo con caratteristiche
indubbiamente democratiche ma incomplete, imperfezioni, lentezze, presenta un
ruolo ancora molto preponderante degli Stati rispetto all’idea di un peso
maggiore e determinante delle istituzioni europee.
Oggi
non è né la federazione a cui pensavano De Gasperi e Adenauer, a cui perfino
incoraggiava, anche se ne chiamava fuori come britannico, Winston Churchill
alla fine degli anni Quaranta.
No,
non è diventata quella federazione, ne ha qualche carattere, ma non lo è
nell’architettura funzionale.
Ma non
è neppure una confederazione.
Perché
la confederazione detiene le deleghe come elementi centrali del sistema di
alcune competenze – di solito proprio in materia di esteri e difesa.
Dunque,
l’Unione Europea non è diventata né una federazione né una confederazione.
Non è
più un’organizzazione internazionale classica, perché ovviamente è molto di
più, però in questo essere di più e non essere ancora, sta la sua grande
debolezza. Che è poi la nostra.
Personalmente
ritengo che l’Unione Europea possa rappresentare ancora una soluzione alle
tante questioni che ci circondano, alle tante paure che tutti condividiamo, ma
disilludiamoci che l’attuale Unione Europea, così com’è, rappresenti una
risposta.
È
necessaria una svolta costituente, visto che l’Unione Europea è l’unica
dimensione di riferimento per gli europei che può ancora pesare nel mondo in
senso positivo.
Bisogna
avere il coraggio di mettere al centro la questione costituzionale dell’Unione
Europea.
Procediamo
verso un modello collaudato, conosciuto, non rimaniamo in questo sistema che
tra lacci, lacciuoli, blocchi e possibilità di piccole fughe in avanti e di
grandi marce indietro rischia di non portarci da nessuna parte.
(L’articolo
è una sintesi dell’intervento a Europa Futuro Presente, sesta edizione della
Scuola di formazione politica “Conoscere per decidere”, organizzata da Società
Umanitaria, Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine e Fondazione per la
Sussidiarietà, Milano, Società Umanitaria, 6 aprile 2024.)
(Enzo
Moavero Milanesi è professore di Diritto dell’Unione Europea al College of
Europe di Bruges e all’Università Luiss-Guido Carli di Roma; è stato ministro
degli Affari esteri e degli Affari europei.)
Il
gruppo di pressione segreto dell'UE
da 6
milioni di euro che paga
i
legislatori per alloggiare in hotel di lusso.
Politico.u
– (28 agosto 2024) - Hannah Brenton – ci dice:
Considerando
che le quote associative si aggirano intorno ai 50.000 euro, l'enorme aumento
del bilancio di “Eurofi” solleva preoccupazioni circa il suo potere
nell'elaborazione delle politiche finanziarie.
Sebbene
non vi siano dubbi circa l'illecito, la situazione solleva preoccupazioni sulla
natura del lobbying nell'UE.
LONDRA
― Un opaco
"think tank" autoproclamatosi tale che offre alle aziende l'accesso
ai politici e alle autorità di regolamentazione dell'UE ha incassato quasi 6
milioni di euro in commissioni dal settore finanziario, come può rivelare
POLITICO, alimentando preoccupazioni sulla mancanza di trasparenza e sul denaro
in cambio di influenza.
L'enorme
entità dei ricavi di “Eurofi” ne fa oggi uno dei più grandi gruppi di lobbying
presso l'UE, nonostante abbia solo tre dipendenti a tempo pieno e non abbia
conti pubblici.
La sua
attività principale consiste nell'organizzare due volte l'anno un evento di
lobbying a porte chiuse in vista delle riunioni dei ministri delle finanze
dell'UE, che attrae alti funzionari europei, banchieri centrali e addetti ai
lavori della finanza.
I
membri più anziani del Parlamento europeo che ricoprono ruoli influenti nella
legislazione finanziaria hanno dichiarato che “Eurofi” ha pagato i loro
soggiorni in hotel di lusso e parte dei loro viaggi.
Secondo
le informative sulla trasparenza di luglio, le prime informazioni pubbliche
sulle sue finanze da anni, l'organizzazione ha raggiunto un budget di 5,7
milioni di euro nel 2023 attraverso le quote dei suoi membri, tra cui figurano
le più grandi banche, borse e giganti della tecnologia, tra cui BlackRock,
Goldman Sachs e American Express.
Sebbene
non vi siano dubbi su un illecito, la situazione solleva preoccupazioni sulla
natura del lobbying nell'UE:
chi paga e quanto, e che tipo di influenza sta
acquistando il loro denaro?
L'influenza
del settore finanziario a Bruxelles è stata visibile negli ultimi anni, con
l'introduzione di norme più leggere per banche e assicuratori rispetto a quelle
richieste dagli enti regolatori, e un notevole successo nel moderare le riforme
che potrebbero danneggiare gli interessi del settore.
"È
uno dei gruppi più opachi a cui riesco a pensare", ha affermato “Kenneth
Haar”, ricercatore presso “Corporate Europe Observatory”, un organismo di
campagna senza scopo di lucro.
"È davvero strano avere un budget così
grande con solo poche persone".
Accesso
ai decisori.
L'impostazione
di “Eurofi” è diversa da quella di altre grandi lobby di Bruxelles, che
accrescono i propri uffici per cercare di influenzare la politica e conquistare
l'attenzione dei principali eurocrati.
“Eurofi
“insiste sul fatto che non rappresenta gli interessi del settore finanziario e
fornisce semplicemente una piattaforma per la discussione.
Ma il
suo peso finanziario ora la eleva a una delle più grandi organizzazioni di
lobbying a Bruxelles, subito dietro a giganti della tecnologia come Google e
Apple, che hanno investito enormi risorse per influenzare i meccanismi di
Bruxelles.
Ha una
base associativa di oltre 100 attori finanziari e il suo budget è aumentato di
quasi il 50 percento dall'ultima cifra disponibile di 3,9 milioni di euro per
il 2020, rendendo solo” Insurance Europe” un gruppo di lobbying più grande per
il settore finanziario.
Ciò
significa che dispone di più risorse delle principali lobby bancarie, della
potente lobby dell'industria farmaceutica (la Federazione europea delle
industrie e delle associazioni farmaceutiche) e del gruppo imprenditoriale”
Business Europe”.
"Ha
un accesso molto facile ai dipendenti pubblici e ai decisori e, quando
aumenteranno il loro budget, avranno ancora più accesso", ha affermato
“Haar”.
L'agenda
per la festa di Budapest di settembre, vista da POLITICO, sembra un chi è chi
al vertice della regolamentazione finanziaria e include il governatore della
Banca centrale francese “François Villeroy de Galhau”, la presidente della
Banca europea per gli investimenti “Nadia Calviño” e il vicepresidente della
Commissione europea “Valdis Dombrovskis”.
Si
prevede che parteciperanno centinaia di rappresentanti del settore.
I
membri senior del Parlamento europeo con ruoli influenti nella legislazione
finanziaria hanno rivelato che “Eurofi” ha pagato i loro soggiorni in hotel di
lusso e parte dei loro viaggi.
Diversi
lobbisti della finanza hanno dichiarato a POLITICO di avere dei dubbi su “Eurofi”
a causa dei suoi costi esorbitanti e della sua organizzazione privata, ma
ritengono che perderebbero qualcosa se non partecipassero alle sue conferenze.
"Non
un lobbista."
POLITICO
ha tentato ripetutamente di contattare “Eurofi” affinché potesse rispondere
alle domande sollevate in questo articolo, tra cui quella relativa alla sua
mancanza di trasparenza.
Diverse
e-mail a un indirizzo sul suo sito web sono rimaste senza risposta.
“Jean-Marie
Andres”, senior fellow di “Eurofi”, che ha risposto a una chiamata a un numero elencato
nel registro della trasparenza, ha inizialmente risposto alle domande ma poi ha
inviato un'e-mail per dire che non era autorizzato a parlare con i giornalisti.
Il
succo di ciò che ha detto è che “Euro fi” non dovrebbe essere visto come un
lobbista, ma come un organizzatore di discussioni.
Il suo
budget più grande rifletteva l'inflazione e la necessità di assumere sedi più
grandi.
Nella
sua comunicazione pubblica, “Euro fi “insiste sul fatto che “non rappresenta
interessi commerciali” e agisce “in una prospettiva di interesse generale per
il miglioramento del mercato finanziario complessivo”.
I
sostenitori della trasparenza affermano che ciò è in contrasto con il fatto che
è finanziato da grandi società finanziarie come” Amazon Web Services” e “JP
Morgan,” che pagano” Euro fi” per il privilegio di poter mettere all'angolo gli
enti di regolamentazione durante le sue conferenze.
“Eurofi”
insiste sul fatto che “non rappresenta interessi commerciali”, ma è finanziata
da grandi società finanziarie come “Amazon Web Service”s e “JP Morgan”.
“Eurofi”
addebita ai suoi membri del settore commissioni pari a 50.000 €, affermano gli
addetti ai lavori finanziari.
Un
tavolo alla cena di gala, una sala per riunioni o un posto per un CEO in un
panel comportano tutti costi aggiuntivi.
Fascino
ufficiale
La
credibilità di “Eurofi “deriva dalla sua storia (è stata fondata dall'ex
governatore della banca centrale francese Jacques de Larosière) e dai suoi
legami con la presidenza del Consiglio dell'UE, che cambia a rotazione ogni sei
mesi.
È
capeggiato da “David Wright”, ex funzionario britannico dell'UE, e guidato
quotidianamente dal francese “Didier Cahen”.
Le
conferenze si svolgono nei giorni che precedono un incontro dei ministri delle
finanze del paese in carica, il che significa che i funzionari di alto livello
sono già in città.
Lobbisti,
autorità di regolamentazione, funzionari e diplomatici affermano tutti che la
conferenza vera e propria è uno spettacolo secondario e noioso, pieno di panel
riservati agli uomini e dibattiti controllati, rispetto al festino di lobbying
che si svolge tra caffè e drink informali.
Si
svolge interamente a porte chiuse.
I giornalisti sono banditi e POLITICO è stato
espulso dalla hall dell'hotel che ospitava la conferenza dell'autunno scorso a
Santiago de Compostela, in Spagna.
L'organizzazione
ha raggiunto un budget di 5,7 milioni di euro nel 2023 attraverso le quote dei
suoi membri, che includono le più grandi banche, borse e giganti della
tecnologia, tra cui BlackRock, Goldman Sachs e American Express.
Nonostante
le critiche sui costi e la mancanza di trasparenza, i funzionari dell'UE
continuano a partecipare in massa.
Secondo
i documenti pubblici, “Eurofi “ha coperto i costi per far partecipare i
politici che hanno promosso la riscrittura delle norme finanziarie.
Il
parlamentare tedesco “Markus Ferber” , l'eurodeputata francese “Stéphanie
Yon-Courtin” , il parlamentare olandese “Paul Tang e l'eurodeputato spagnolo “Jonás
Fernández” hanno tutti dichiarato che “Eurofi” ha pagato hotel di lusso e parte
dei loro viaggi per partecipare agli eventi tra il 2021 e il 2023.
Harris
e Trump si
preparano allo
sprint
finale nelle "elezioni anticipate."
Politico.eu
– (9-3-2024) - Eli Stokols e Alex Isenstadt – ci dicono:
La
competizione non è serrata solo a livello nazionale, ma coinvolge anche una
gamma più ampia di stati rispetto al passato.
Kamala
Harris indica mentre parla sul podio.
Kamala
Harris ha ribaltato a suo favore il divario di entusiasmo, il divario
finanziario e il divario nei sondaggi nelle sei settimane trascorse da quando
ha sostituito Joe Biden come candidato democratico.
In un
momento in cui le campagne presidenziali tradizionalmente formulano le loro
arringhe conclusive, Kamala Harris sta ancora facendo le sue presentazioni.
La
vicepresidente ha ribaltato il divario di entusiasmo, il divario di denaro e il
divario nei sondaggi a suo favore nelle sei settimane da quando ha sostituito
il presidente Joe Biden come candidata democratica.
Ma la gara tra Harris e Donald Trump rimane serrata
non solo a livello nazionale, ma in una gamma di stati più ampia rispetto a
prima.
La
corsa di due mesi che ne consegue è quella che “Donna Brazile”, la confidente
di Harris che ha gestito la campagna di “Al Gore” del 2000, ha descritto come
la prima "elezione anticipata" americana.
La
sfida che la campagna di Harris sta affrontando ora è come estendere la sua
impennata di fine estate fino all'autunno.
"Ha avuto le prime cinque settimane o
le ultime cinque settimane migliori che abbia mai visto da quando Barack Obama
ha vinto [le primarie del 2008 in South Carolina] e ha dato il massimo e si è
assicurato la nomination", ha detto “Jim Messina”, responsabile della
campagna di Obama del 2012 che ha svolto il ruolo di consigliere informale di
Harris.
"Ma
in ogni singolo stato in bilico, siamo ancora entro il margine di errore".
I
sondaggi mostrano tutti gli stati indecisi entro il margine di errore.
Ma la
spinta, per ora, sembra essere dalla parte di Harris.
La
prova più chiara di ciò è stato un sondaggio Gallup della scorsa settimana che
ha mostrato i democratici con un vantaggio di 14 punti su quale partito gli
elettori erano più entusiasti di votare, un cambiamento importante rispetto al
sondaggio di marzo dell'organizzazione che mostrava i repubblicani con un
vantaggio di 4 punti in quella che era allora una competizione tra due
candidati impopolari, Biden e Trump.
"Certo
che le persone sono motivate a votare contro qualcuno. Ma quando sono motivate
quanto o più a votare per qualcuno, allora c'è magia", ha detto “David
Plouffe”, un consulente senior della campagna di Harris.
Trump,
che non ha ancora trovato un attacco che faccia effetto a Harris, entra nel
dibattito diretto della prossima settimana in una posizione molto meno comoda
rispetto a quando ha lasciato il palco dopo aver massacrato Biden il 27 giugno.
Potrebbe
essere la sua migliore opportunità rimasta per smussare lo slancio del suo
avversario e cambiare la traiettoria della corsa.
E un
passo falso di Harris su quel palco, o su qualsiasi altro, potrebbe avere
proprio questo effetto.
"Ho
sempre pensato che il” Labor Day “sarebbe stato il momento in cui... l'euforia
da zucchero di Kamala inizia a svanire", ha detto “Jason Roe”, stratega
repubblicano ed ex direttore esecutivo del “GOP” statale nel Michigan.
"È
durato troppo a lungo e non c'è molto altro rimasto per spingerlo".
Mentre
per settimane, ha detto” Roe”, Harris ha beneficiato dell'essere "un po'
indefinita", gli sforzi dei repubblicani per evidenziare le sue mutevoli
posizioni politiche significano che ora "otterrà una piccola
definizione".
Il dibattito, ha detto, "potrebbe essere
una delle poche opportunità in cui [Trump] può metterla sulla difensiva".
Ma se
Harris non vacillerà la prossima settimana, c'è motivo di credere che potrebbe
essere in una posizione unica per espandere i suoi numeri con gli elettori
indecisi negli stati chiave.
A differenza di Biden o Trump, un presidente e
un ex presidente, ed entrambi elementi fissi della politica da anni, la
candidatura di Harris è così nuova che una rapida introduzione, seguita da un
controllo relativamente minimo da parte dell'elettorato, potrebbe giovarle.
"È
lei quella con spazio per crescere", ha detto “Plouffe”.
"Il
Trump del '16, gli elettori volevano saperne di più su di lui. Ora, quando
Trump esce, fa campagna e rilascia interviste, è discutibile quanto sia utile.
Con Harris, è molto utile. Abbiamo un mercato di elettori là fuori che vogliono
saperne di più su di lei".
L'entusiasmo
suscitato da Harris, ancora più evidente dopo mesi di tiepido sostegno a Biden,
ha ricordato ad alcuni democratici la corsa di Obama del 2008, che molti hanno
descritto più come un movimento che come una semplice campagna politica.
"Quello
che succede con un movimento è che non aspettano che l'alto comando della
campagna mandi loro spille e poster, lo fanno da soli", ha detto “Brazile”.
"Non aspettano che la campagna organizzi raduni, lo fanno da soli. La
vicepresidente ha un movimento alle spalle e può usarlo a suo vantaggio".
Questo
è uno dei motivi per cui la candidatura di Harris ha stappato una valanga di
fondi (oltre 540 milioni di $ raccolti dal suo lancio) e ha migliorato la sua
posizione in diversi sondaggi degli stati indecisi.
Finora,
è riuscita a fare di sé, da vicepresidente in carica, una candidata del
cambiamento tanto quanto Trump, che ha faticato ad adattarsi al suo nuovo
avversario.
L'ostacolo
per Harris è che anche la campagna di Trump del 2016 non è stata niente meno
che un movimento.
E in molte fasce rosse del paese (e, in modo
significativo, negli stati chiave) rimane tale.
Otto
anni dopo che Trump ha vinto la Casa Bianca, ha rifatto il GOP a sua immagine,
trasformando il “Republican National Committee” in una sussidiaria a conduzione
familiare dopo aver represso gran parte della resistenza repubblicana al suo
movimento "MAGA", almeno tra i funzionari eletti.
Anche
gli alleati di Harris riconoscono quanto sia vicina la corsa. Come ha detto “Brazile”,
"Queste elezioni sono tutt'altro che finite".
La
campagna di Harris ritiene che abbia più percorsi per assicurarsi i 270 voti
elettorali necessari per vincere la Casa Bianca.
I suoi
recenti passaggi in Arizona, Nevada, North Carolina e Georgia hanno
sottolineato l'improvvisa competitività degli stati che Trump, quando si
opponeva a Biden, sembrava aver bloccato.
Ma la sua posizione negli stati del "Blue
Wall" di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, dove i colletti blu bianchi
rappresentano la maggior parte dell'elettorato, rimane poco chiara.
Lunedì, è apparsa con Biden, ancora popolare
tra i bianchi della classe operaia e i membri dei sindacati, durante una parata
del “Labor Day “a Pittsburgh.
"C'è
molta eccitazione, ma c'è sicuramente un senso di trepidazione mentre le
persone trattengono il fiato e aspettano che cada l'altra scarpa", ha
affermato “Adrian Hemond”, CEO di “Grassroots Midwest”, una società di
consulenza bipartisan con sede nel Michigan, dove Harris ha anche fatto
campagna lunedì.
"I
democratici sono chiaramente eccitati", ha detto.
"Sono in una posizione molto migliore di
prima, sotto questo aspetto. Ma c'è molta apprensione per qualsiasi cosa strana
possa succedere in seguito".
“Jen
O'Malley Dillon”, che guida la campagna di Harris, ha descritto il ticket
democratico come "chiaramente sfavorito" in un promemoria pubblicato
domenica che prevedeva che i margini di voto nei principali stati in bilico
sarebbero stati di nuovo "esigui".
Confrontando
l'agenda di Harris con il “Progetto 2025”, il controverso progetto della “Heritage
Foundation “per la prossima amministrazione repubblicana da cui Trump ha
cercato di prendere le distanze, galvanizzare gli elettori attorno all'appello
di Harris di ripristinare le libertà riproduttive e appoggiarsi a un esercito
più ampio di truppe di terra, ha affermato “Dillon”, potrebbe fare la
differenza a novembre.
"Manteniamo
molteplici percorsi per raggiungere i 270 voti elettorali e stiamo rafforzando
la nostra posizione tra i diversi tipi di elettori che decidono le elezioni in
ogni campo di battaglia", ha scritto.
Nonostante
il chiaro cambiamento nella corsa nelle ultime settimane, i consiglieri di
Trump affermano di avere più strade per la vittoria rispetto a Harris.
Hanno
sostenuto che se Trump riuscisse a vincere in North Carolina, dove ha vinto nel
2016 e nel 2020, e a battere la Pennsylvania e un altro stato che Biden ha
vinto quattro anni fa, supererebbe la soglia dei 270 voti elettorali.
Un'altra possibile strada, affermano, è quella
di conquistare i quattro stati competitivi della “Sun Belt”:
North Carolina, Georgia, Arizona e Nevada.
Ciò
costringerebbe Harris a conquistare gli stati della “Rust Belt”, tra cui la
Pennsylvania, dove i sondaggi hanno mostrato un pareggio virtuale.
Il
consigliere senior della campagna di Trump, “Chris La Civita”, ha descritto
Harris come la "titolare" della corsa, riflettendo lo sforzo della
campagna di legare il vicepresidente a Biden.
Nella
sua intervista televisiva della scorsa settimana, ha detto che Harris "ha
difeso la sua gestione e quella di Biden delle peggiori condizioni economiche
di una generazione, ... possedendole tutte".
"Lei
è proprietaria delle decisioni politiche, e ora è proprietaria del percorso
politico", ha detto.
"Sessantacinque
giorni sono un'eternità in politica, ... troppo lunghi perché gli elettori
americani non scoprano il suo carattere debole e la sua visione pericolosamente
liberale dell'America".
Ma uno
stratega repubblicano della Carolina del Nord, a cui è stata concessa
l'anonimato per parlare apertamente, ha ammesso che le cose si sono inasprite
nello stato.
"Penso ancora che Trump sia leggermente
favorito qui, ma le cose sono cambiate", ha detto lo stratega del GOP.
"L'ansia è che Kamala sembra avere
risultati migliori con i 'doppi odiatori'", ha aggiunto lo stratega,
riferendosi agli elettori che vedevano sia Trump che Biden in modo sfavorevole
prima dello scambio di candidati democratici.
Nelle
ultime settimane della corsa, la campagna di Harris si appoggerà pesantemente a
un'organizzazione sul campo, progettata nell'ultimo anno per trascinare gli
elettori alle urne a sostegno di Biden.
Allo
stesso tempo, è pronta a dedicare una percentuale maggiore del suo budget
pubblicitario a pagamento agli spot digitali, cercando di capitalizzare il suo
forte sostegno da parte degli elettori più giovani che non erano stati
entusiasti di Biden.
Nel
frattempo, la campagna di Trump sta contando su diversi gruppi esterni ben
finanziati per trascinare Harris verso il basso.
Tra
questi c'è “Preserve America”, un super PAC che è ampiamente finanziato dalla
mega-donatrice repubblicana “Miriam Adelson”.
L'organizzazione
è pronta a iniziare una campagna pubblicitaria televisiva e digitale da 30
milioni di dollari a settembre, secondo una persona a conoscenza dei piani del
gruppo e a cui è stata concessa l'anonimato per discuterne.
Il primo spot si concentrerà
sull'immigrazione, un problema che Trump ha reso centrale nella sua campagna.
Lo
spot presenta un uomo della California, che si identifica come un ex
sostenitore di Harris, che racconta di come suo figlio sia stato ucciso da un
immigrato clandestino mentre Harris era procuratore generale dello Stato.
"La
luna di miele di Kamala è finita e abbiamo intenzione di regalarle il peggior
settembre che abbia mai avuto", ha affermato “Dave Carney”, stratega
repubblicano di lunga data e consigliere senior del “super PAC Preserve America”.
"La
seconda fase della nostra pubblicità renderà le sue intenzioni socialiste
abbondantemente chiare a ogni elettore che sta cercando di ingannare".
Un
altro “super PAC pro-Trump”, “Right for America”, è pronto a lanciare una
campagna pubblicitaria da 60 milioni di dollari a partire da settembre.
Il primo spot pubblicitario del gruppo è
rivolto in modo simile a Harris sull'immigrazione.
La
campagna di Harris schiererà la propria artiglieria.
Ha
riservato 370 milioni di dollari in spot televisivi per raggiungere gli
elettori indecisi durante le ultime nove settimane della campagna.
E gran
parte di quella spesa sarà mirata a focalizzare gli elettori sul “Progetto 2025”.
Mentre
Trump ha cercato di prendere le distanze dal modello politico, questo spot, che
va in onda anche nel mercato di casa di Trump, Palm Beach, Florida, in una
frecciatina scherzosa al candidato del GOP, mette in evidenza i commenti
dell'ex presidente sulla vendetta sui suoi nemici, qualora dovesse vincere di
nuovo la Casa Bianca.
“Future Forward”, il principale “super
PAC democratico” che sostiene Harris, è anche pronto a spendere 300 milioni di
dollari in pubblicità televisive e digitali prima della fine della campagna.
Gran
parte del messaggio anti-Trump dei democratici si è concentrato sui diritti
riproduttivi e sulla nomina da parte dell'ex presidente di tre giudici
conservatori necessari per ribaltare la sentenza “Roe contro Wade” nel 2022.
Tale
questione, che ha aiutato i democratici a evitare il tipico fallimento alle
elezioni di medio termine più avanti nello stesso anno e ha spinto le donne a
opporsi ad ulteriori restrizioni sul diritto all'aborto persino in stati
repubblicani come il Kansas, sembra rappresentare un grosso problema per Trump,
che ha cercato di neutralizzare la scorsa settimana con un sorprendente
annuncio:
se
eletto, avrebbe reso le procedure di fecondazione in vitro gratuite per tutti.
Non è
chiaro se questo aiuterà Trump a colmare il crescente divario di genere nella
corsa, con i sondaggi che mostrano che Trump sta perdendo ancora più terreno
tra le elettrici ora che Harris è la candidata democratica.
Trump,
che ha presentato” Hulk Hogan” alla convention repubblicana di luglio, spera di
compensare questo con uno sforzo aggressivo per costruire un sostegno tra i
giovani uomini.
Secondo
un sondaggio della “Quinnipiac University” pubblicato la scorsa settimana,
Trump è in testa a Harris tra gli uomini, 57 percento contro 39 percento.
Nelle
ultime settimane Trump è apparso in una serie di podcast che sono popolari tra
gli uomini, tra cui quelli ospitati da “Logan Paul”, “Theo Von” e i “Nelk Boys”.
Ma
sull'aborto, Trump ha cercato negli ultimi giorni di confondere le acque.
Apparentemente consapevole dei suoi
impegni con gli attivisti anti-aborto e che le sue dichiarazioni e azioni
passate sono sempre più una responsabilità politica, la scorsa settimana ha
fatto diversi commenti contrastanti, suggerendo che avrebbe potuto votare per
una misura elettorale della Florida che avrebbe consacrato le protezioni
dell'aborto nella costituzione dello stato prima di dichiarare che non lo
avrebbe fatto.Trump, in un post su” Truth Social “all’inizio della settimana, ha
scritto, forse con speranza, che sarebbe stato “fantastico per le donne e i
loro diritti riproduttivi”.
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