Libertà di parola e verità.
Libertà
di parola e verità.
La
Cina si sta preparando
per
dichiarare guerra all’Occidente?
Ottolinatv.it
– (6 -2 – 2024) – Redazione – ci dice:
Quante
probabilità ci sono che la Cina inizi una guerra?
A
lanciare l’allarme su “Foreign Policy “sono “Michael Beckley “della prestigiosa
“Università di Tufts”, nei sobborghi di Boston, e “Hal Brands”, professore di
relazioni internazionali alla “John Hopkins University”, un esempio da manuale
del rovesciamento totale della realtà che alberga nelle menti distorte dei
suprematisti liberaloidi;
i due ricercatori denunciano come in alcuni
ambienti accademici USA prevalga spesso una certa ingenuità:
“Alcuni
studiosi” sottolineano “sostengono che il pericolo sarebbe gestibile se solo
Washington evitasse di provocare Pechino.
Altri”
continuano “ricordano come la Cina non abbia più avviato una guerra di
invasione da quella con il Vietnam del ‘79, che durò appena tre settimane”.
“Ma
tutta questa fiducia” ci mettono in guardia “riteniamo che sia pericolosamente
mal riposta”.
I due
ricercatori ci ricordano come storici e scienziati politici abbiano
individuato, in particolare, 4 fattori che determinano la propensione alle
avventure belliche di un paese e “se si considerano questi quattro fattori”
allertano “diventa chiaro che molte delle condizioni che un tempo hanno
favorito un’ascesa pacifica, oggi potrebbero invece incoraggiare una discesa
violenta”.
Ah
beh, certo, la famosa discesa cinese, un tracollo proprio.
Si
parte benissimo, diciamo, e si procede meglio: gli autori, infatti,
sottolineano come “il fatto che Pechino si sia astenuta da grandi guerre –
mentre gli Stati Uniti ne hanno combattute diverse – ha permesso ai funzionari
cinesi di affermare che il loro Paese sta seguendo un percorso unico e pacifico
verso il potere globale”.
Cioè,
pensa te quanto so’ manipolatori questi cinesi:
al
solo scopo di farci credere che sono pacifici e che non vogliono la guerra, per
farci abbassare la guardia e coglierci di sorpresa effettivamente non fanno
guerre. Geniale!
Tipo
la storia di “Kubrik “che aveva il compito di simulare per la NASA
l’allunaggio, ma era così meticoloso che, per simularlo, è andato a girarlo
direttamente sulla Luna;
ma
tranquilli, perché il bello deve ancora arrivare e, da qui in poi, il fuffo-metro
è tutto in crescendo.
Il
primo dei famosi 4 fattori presi in considerazione, infatti, sono le contese
territoriali coi vicini:
in
tutte le controversie, affermano i due ricercatori, “la Cina sta diventando sempre meno
incline al compromesso e alla risoluzione pacifica di quanto non lo sia stata
in passato, rendendo la politica estera un gioco a somma zero”.
Eh
già: i cinesi sono talmente aggressive che se dopo 50 anni che sostieni
formalmente la politica di “Una Sola Cina”, per la prima volta nella storia
approvi un pacchetto di aiuti militari diretti (come ha fatto in agosto Biden)
contraddicendoti in maniera plateale, se la prendono pure, come se la prendono
anche quando ti fai consegnare un’intera fetta di territorio filippino per
metterci un’altra sfilata di missili puntati direttamente contro di loro.
Eh, ma
quanto so’ suscettibili però, eh?
Si
vede proprio che non fanno altro che cercare un pretesto per incazzarsi, un po’
come Putin che si lamenta dell’espansione della NATO contro le promesse che –
come dicono i nostri amici analfo-liberali – ‘ndo sta scritta sta promessa, eh?
Metti
il link!
Il
secondo fattore preso in considerazione, comunque, è ancora meglio:
“Le
dittature personaliste” sostengono infatti gli autori “hanno più del doppio
delle probabilità di scatenare guerre rispetto alle democrazie, e anche alle
autocrazie, dove comunque il potere è detenuto in molte mani.
I dittatori” infatti, continuano “iniziano più guerre,
perché sono meno esposti ai costi del conflitto:
negli
ultimi 100 anni, i dittatori che hanno perso le guerre sono caduti dal potere
solo il 30% delle volte”;
precedenti
particolarmente allarmanti, ovviamente, perché – manco a dirlo – “Xi ha trasformato la Cina in una
dittatura personalista particolarmente incline a disastrosi errori di calcolo e
guerre costose”.
Insomma:
la Cina, nonostante 1,5 miliardi di abitanti, la più grande potenza produttiva
del pianeta e un partito con 100 milioni di iscritti sarebbe, in realtà,
dominata da un uomo solo al comando che, senza nessun contro – potere e senza
nessun bisogno di mediare con chicchessia, potrebbe tranquillamente svegliarsi
la mattina e decidere di bombardare un paese a caso giusto per ammazzare un po’
la noia, e senza rischiare nulla manco in casa di sconfitta;
d’altronde,
mica so’ occidentali bianchi quelli.
Je poi
fa’ quello che te pare, mica se n’accorgono:
ed è
esattamente quello che fa Xi il sadico, dai “brutali lockdown anti – covid ai
campi di concentramento in Xinjiang”.
Dal
vademecum delle puttanate sino-fobe degli analfo-liberali manca giusto la carne
di cane.
Tutte
“forme di aggressione interna” sostengono gli autori, che “dovrebbero renderci
molto nervosi per l’aggressione esterna che potrebbe verificarsi”.
Ovviamente,
e fortunatamente, questa storia dell’uomo solo al comando è una barzelletta in
ogni stato moderno con una certa complessità;
figurarsi in un vero e proprio continente come
la Cina dove i centri di potere – sia pubblici che privati – sono infiniti,
dove ci sono aziende di Stato che sono Stati dentro lo Stato con fatturati che
si avvicinano al PIL di interi paesi e dove vige un federalismo molto spinto,
con le singole regioni che gestiscono direttamente una fetta enorme delle loro
entrate fiscali che autonomia differenziata scansate proprio.
Ma
questi sono tutti distinguo da professoroni che non possono intralciare i
deliri del pragmatismo guerrafondaio di un vero cowboy che si rispetti.
Purtroppo,
comunque, la lista dei fattori che fanno suonare l’allarme rosso nei confronti
della Cina non è ancora finita.
E il
terzo fattore, tutto sommato, ha anche un che di ragionevole:
“L’equilibrio
militare in Asia” ricordano infatti gli autori “si sta modificando in modi che
potrebbero rendere Pechino pericolosamente ottimista sull’esito della guerra”.
Oh, lo
vedi?
Anche
due propagandisti suprematisti, dai e dai qualcosa di sensato riescono a dirlo:
avranno
realizzato che mentre prendi gli schiaffi in Ucraina e mentre sei diventato
incredibilmente vulnerabile anche in Medio Oriente – che fino a ieri trattavi
come terra di scorribande senza rischiare nessuna ritorsione – che tu possa
reggere un terzo fronte nel Pacifico non è molto credibile.
Macché;
con un virtuosismo da manuale, dopo poche righe ecco che ribaltano di nuovo
completamente la frittata:
“Un
punto di vista” affermano così a caso, senza senso, a un certo punto – infatti
“è che la guerra della Russia in Ucraina renda meno probabili altre guerre di
aggressione”.
Il
fatto sarebbe, sostengono gli autori, che questa guerra dimostrerebbe “quanto
le guerre di aggressione possono ritorcersi contro” e così “dall’indecente
furto di terre da parte di Putin” continuano “la Cina sta imparando lezioni
importanti”. Tipo? Secondo gli autori, Pechino starebbe imparando:
UNO:
“quanto possa essere difficile la conquista contro un difensore impegnato”;
DUE:
“quanto le forze armate autocratiche possano sottoperformare in combattimento”;
TRE:
“quanto sia abile l’intelligence statunitense nell’individuare piani di
predazione” e
QUATTRO:
“quanto duramente il mondo democratico possa penalizzare i paesi che sfidano le
norme dell’ordine liberale”.
Cioè,
dopo due anni pieni di schiaffi a due mani dati con nonchalance dalla Russia a
tutta la NATO messa insieme nella guerra per procura in Ucraina, questi
vogliono trarre insegnamenti su come affrontare la Cina partendo dal
presupposto che l’Ucraina ha vinto la guerra:
bene,
ma non benissimo, diciamo.
Ma
soprattutto, qui oltre a un’overdose di pensiero magico, non si capisce proprio
manco la logica:
cioè,
da un lato dici che la Cina potrebbe essere spinta a gettare il cuore oltre
l’ostacolo dal fatto che i rapporti di forza sembrano avvantaggiarla un po’ e
poi, nel periodo dopo, dici che dalla guerra in Ucraina dovrebbero aver
imparato che quando un uomo con gli occhi a mandorla si trova di fronte a un
marine, l’uomo con gli occhi a mandorla è un uomo morto.
Prodigi
dell’analfo-liberalismo suprematista.
Ma la
vera chicca arriva alla fine:
“Le
grandi potenze” scrivono infatti i nostri due autori “diventano bellicose
quando temono il futuro declino”.
Dai,
dai che dicono una roba sensata!
Quando
“la concorrenza geopolitica si fa feroce e spietata” continuano “le nazioni
difendono nervosamente la loro ricchezza relativa e il loro potere”;
“pesantemente
armata, ma sempre più ansiosa” insistono “una grande potenza sull’orlo del
declino sarà ansiosa, persino disperata, e tenderà a respingere le tendenze
sfavorevoli con ogni mezzo necessario”.
Oh, ecco: finalmente parlano della sindrome da
declino degli USA.
Bravi! Ah, no?
Cioè,
quando dicono potenza in declino pesantemente armata in preda al panico non si
riferiscono a Washington?
Eh,
voi pensavate ci fosse una soglia minima di dignità anche per gli accademici
suprematisti, eh?
Macché;
qui siamo di fronte a un vero e proprio capolavoro:
secondo
gli autori, gli esempi di queste forze in declino in preda alla disperazione
sarebbero, infatti, nientepopodimeno che “la Germania nazista, l’impero
giapponese e la Russia di Putin”.
Ora,
si può buttare a ridere – che ridere non fa mai male, ma (Imprecazioni, ndr),
questi insegnano in università con rette da 100 mila euro l’anno e non
pubblicano sul Foglio o fanno le dirette sul canale di Ivan Grieco, ma
pubblicano articoli sulla più autorevole rivista di politica internazionale del
pianeta e affermano serenamente che quando la Germania nazista è entrata in
guerra era una potenza in declino, e pure il Giappone:
cioè,
due paesi all’apice della loro potenza politica, economica e militare
dichiarano guerra al resto del mondo per conquistarlo e assoggettarlo, e
secondo loro sono potenze in declino.
Cioè,
ci si può anche ridere, ma quando l’intera élite intellettuale di un paese che,
da solo, spende in armi più di tutti gli altri messi insieme non capisce un
cazzo a questi livelli, non so quanto ci sia da ridere ecco, soprattutto quando
dalla storia passano all’attualità:
“Man
mano che le prospettive militari a breve termine della Cina migliorano”
scrivono infatti i ricercatori “le sue prospettive economiche a lungo termine
si stanno oscurando” e questa, sottolineano “è una combinazione che in passato,
spesso, ha reso le potenze revisioniste più violente”.
Un’analisi
completamente scollegata dalla realtà ed estremamente pericolosa perché da
questo punto di vista – dal momento che, senza nessuna motivazione plausibile,
pensi che la Cina sia in declino – non solo crei allarmismo ingiustificato
perché, appunto, sostieni che le rimane solo da lanciare una guerra disperata,
ma ti fai anche un viaggio totalmente strampalato su cosa dovresti fare per
ridurre i rischi, un trip delirante che, infatti, arriva subito:
“I
requisiti per frustrare l’ottimismo della Cina sull’esito di un’eventuale
guerra” sostengono i due autori “sono abbastanza semplici”;
si
comincia con “una Taiwan irta di missili antinave, mine marine, difese aeree
mobili e altre capacità economiche ma letali”, si prosegue poi con un bel
“esercito americano in grado di utilizzare droni, sottomarini, aerei furtivi e
quantità prodigiose di capacità di attacco a lungo raggio per portare una
potenza di fuoco decisiva nel Pacifico occidentale”,
si
passa poi a “accordi con alleati e partner che danno alle forze statunitensi
l’accesso a più basi nella regione e minacciano di coinvolgere altri paesi
nella lotta contro Pechino” e si finisce con “una coalizione globale di paesi
che può colpire l’economia cinese con sanzioni e soffocare il suo commercio
transoceanico”.
“Washington
e i suoi amici” ammettono gli autori “stanno già portando avanti ognuna di
queste iniziative.
Ma” lamentano “non si stanno muovendo con la
velocità, le risorse o l’urgenza necessarie per superare la minaccia militare
cinese in rapida maturazione”.
Insomma:
partendo da un’analisi storica completamente strampalata e da un’analisi
economica che non sta né in cielo né in terra, i nostri autori arrivano alle
considerazioni di un “Edward Luttwack “qualsiasi:
sono
selvaggi, bombardiamoli; almeno “Luttwack”, però, per dire ‘ste cose mica
studia.
Passa
da un buffet all’altro: se devi dire solo puttanate, almeno goditela, diciamo;
imparate da Zio Silvio così almeno, quando – a questo giro – i vostri deliri si
paleseranno per le gigantesche cazzate che sono, potrete dire che almeno ve la
siete spassata.
Sfortunatamente
per i nostri due autori, l’idea strampalata del declino economico cinese non
poteva arrivare in un momento meno adatto;
due
giorni fa, infatti, il “Fondo Monetario Internazionale” – che non è esattamente
un braccio della propaganda di Pechino – ha ribadito, numeri alla mano, l’ovvio
che ormai sfugge solo a Rampini e a Scacciavillani:
“Anche
quest’anno” ha affermato “Steven Barnett” al China Daily “la Cina offrirà il
contributo di gran lunga maggiore alla crescita globale con oltre un quarto
della crescita stessa” e fino a qui, diciamo – a parte chi legge Rampini – lo
sapevamo.
La
cosa importante, invece, è che sempre il Fondo Monetario sottolinei quanto
questo risultato sia straordinario e dimostri tutta la resilienza dell’economia
cinese, dal momento che avviene non solo mentre la crescita globale va a
rilento – e quindi la situazione economica generale non è delle migliori – ma,
in particolare, mentre due degli elementi fondamentali dell’economia cinese
sono in profonda crisi:
il
mercato immobiliare e l’export.
Non è
un risultato da poco:
la
Cina, in 30 anni, si è trasformata da un paese agricolo fatto di contadini che
vivono in campagna, in una potenza industriale fatta di operai che vivono nelle
città:
questo, che è in assoluto e di gran lunga il
più grande processo di urbanizzazione della storia dell’umanità – e che ho
descritto in dettaglio nel mio CEMENTO ROSSO, il secolo cinese, mattone dopo
mattone (che, per inciso, è il primo e unico mio libro, visto il clamoroso
fallimento editoriale) – ha rappresentato, ovviamente, una componente
gigantesca del miracolo economico cinese;
ora
quella spinta propulsiva è arrivata al capolinea, e alla crescita cinese manca
un tassello enorme.
Molte
altre economie sono andate gambe all’aria per molto, ma molto meno:
la
Cina, invece, è continuata a crescere anche quest’anno del 5,2% e, secondo
l’IMF, anche il prossimo anno – di poco meno, e senza introdurre chissà che
incentivi, eh?
Al
contrario del 2008 – e al contrario degli USA, infatti – la Cina, a questo
giro, ha deciso di non schiacciare troppo sull’acceleratore degli interventi
anticiclici finanziati a debito, ma quello che ha ancora più del miracoloso è
che tutto questo avveniva mentre anche la seconda componente storica del
miracolo cinese subiva una contrazione piuttosto significativa:
parliamo
delle esportazioni, che hanno subito una battuta d’arresto non solo e non tanto
per la guerra commerciale combattuta a suon di retorica su “decoupling” e “reshoring”
– che è più fuffa propagandistica che altro – ma soprattutto perché, appunto, i
mercati più ricchi dove i cinesi vendevano un sacco di roba (a partire
dall’eurozona) sono tutti più o meno in recessione a parte gli USA, dove però
la crescita è tutta a debito ed è dovuta agli investimenti privati sostenuti
dai soldi pubblici.
Insomma:
per essere in declino non male, diciamo;
per 30
anni fondi il tuo miracolo su due gambe, fai un incidente, te le tronchi tutte
e due eppure cominci ad andare in meta.
Non so
quante volte sia successo in passato, sinceramente;
come
sia possibile, l’ha spiegato in modo piuttosto convincente in un recente
articolo “Richard Baldwin”, professore di Economia Internazionale alla “Business
School di Losanna” – come l’IMF, non esattamente una bimba di Xi, diciamo – ma
a differenza di Rampini e dei due prof di Foreign Policy, evidentemente, manco
uno che vive in un mondo parallelo tutto suo.
“Non
sono un esperto di Cina” esordisce Baldwin “ma durante il lavoro in corso sulle
interruzioni della catena di approvvigionamento globale, non ho potuto fare a
meno di riflettere su un fatto evidente che però non credo sia così ampiamente
noto come dovrebbe essere:
la
Cina oggi è l’unica superpotenza manifatturiera mondiale”.
Baldwin
sottolinea, infatti, come la Cina rappresenti oggi una quota di produzione
manifatturiera superiore alla somma dei successivi 10 paesi, dagli Stati Uniti
al Giappone, per arrivare al Regno Unito, una cosa mai vista e che, sottolinea
Baldwin, è avvenuta con una rapidità senza precedenti:
“L’ultima
volta che il re della collina manifatturiera è stato spodestato dal trono”
scrive Baldwin “è stato quando gli Stati Uniti hanno superato il Regno Unito
poco prima della Prima Guerra Mondiale.
Un
passaggio di consegne che è durato poco meno di un secolo.
Il
passaggio tra Cina e Stati Uniti invece ha richiesto meno di 20 anni. L’industrializzazione della Cina, in
breve” conclude Baldwin “non può essere paragonata a nessun altro evento del
passato”.
Contro
questa ascesa impetuosa e inarrestabile, agli USA non rimane che buttarla tutta
in un altro settore dove invece la superpotenza, almeno sulla carta, continuano
a essere indiscutibilmente loro;
esattamente
come la Cina nella produzione di cose che rendono la nostra vita migliore, gli
USA – infatti – primeggiano in cose che la nostra vita la annientano del tutto:
la spesa militare di Washington è superiore
alla somma delle spese militari dei 10 paesi successivi.
La strada, quindi, sembra segnata:
la Cina produce e ha bisogno di pace e di
sicurezza nelle rotte commerciali per vendere, gli USA son buoni solo a
spendere quattrini in armi di ogni genere e per arrestare il loro inarrestabile
declino non hanno opzione migliore che scatenare la guerra.
In
realtà, però, Baldwin sottolinea due aspetti che complicano ulteriormente il
quadro:
il
primo si chiama GGR, “Gross Globalisation Ratio”, che sta per “rapporto lordo
di globalizzazione” ed è un indice che rappresenta la quota di produzione
manifatturiera venduta all’estero;
a
differenza del PIL manifatturiero, che indica soltanto le vendite di beni
finiti, include tutte le vendite di tutti i produttori presenti in Cina.
“Durante
la sua ascesa allo status di superpotenza manifatturiera” scrive Baldwin “il
GGR della Cina è aumentato vertiginosamente, quasi raddoppiando”:
tradotto,
la Cina è diventata enormemente più dipendente dalle esportazioni ma, a
differenza di quanto generalmente si pensi, questa impennata in realtà è
sostanzialmente tutta concentrata tra il 1999 e il 2004;
“quel
periodo” sottolinea Baldwin, effettivamente “ha rappresentato lo straordinario
effetto della globalizzazione, ed è probabilmente il motivo per cui così tanti
pensano alla Cina come a un’economia incredibilmente dipendente dalle
esportazioni”.
“Ma la
storia” continua Baldwin “non è finita nel 2004.
Da allora infatti il GGR cinese è in costante
calo.
E nel 2020 è ritornato ai livelli del 1995”.
Cosa
significa?
Molto
semplicemente che “la produzione cinese non è più dipendente dalle esportazioni
come molti potrebbero credere” e questo, continua Baldwin “sfata il mito
secondo cui il successo della Cina può essere interamente attribuito alle
esportazioni.
A
partire dal 2004 circa, piuttosto, la Cina è diventata sempre più il miglior
cliente di sé stessa”;
tradotto:
continuare a sperare che la Cina continui ad accettare ogni sorta di ritorsione
commerciale da parte di chi non è in grado di competere sul piano produttivo
perché è troppo dipendente dai nostri mercati e senza la domanda delle nostre
economie decotte crollerebbe da un momento all’altro, potrebbe rivelarsi – e in
parte si è già rivelato – puro “wishful thinking”.
E non
è tutto perché nel frattempo, invece, la dipendenza degli USA dai prodotti
cinesi – compresi i semilavorati e tutta la componentistica – non ha fatto che
aumentare a dismisura, mentre quella cinese nei confronti dei prodotti USA è
leggermente, ma costantemente, diminuita.
Insomma: “Nel suo documento di ricerca” scrive
il sempre ottimo Ben Norton “Baldwin dimostra che gli USA sono molto più
dipendenti dall’acquisto di manufatti cinesi di quanto la Cina dipenda dal
mercato statunitense per vendere i propri prodotti”;
“I
politici che indulgono in chiacchiere sul disaccoppiamento dalla Cina” conclude
Baldwin “avrebbero probabilmente bisogno di valutare con un po’ più di lucidità
questi fatti oggettivi:
il
disaccoppiamento sarebbe difficile, lento, costoso e distruttivo, soprattutto
per i produttori del G7”.
Insomma:
per
mesi si è parlato di quanto la Cina fosse ormai in una profonda crisi economica
e di come, sostanzialmente, la tenevamo per le palle perché più era in crisi e
più aveva bisogno dei nostri ricchi mercati per le sue merci;
oggi
scopriamo che non c’è nessuna crisi e che abbiamo più bisogno noi della Cina
che lei di noi e che, anche a questo giro, andando dietro alla retorica
bellicista USA non facciamo altro che darci l’ennesima martellata sui coglioni.
Forse, e dico forse, avremmo bisogno di un
media che non ci racconta fregnacce per convincerci a darci altre martellate
sui coglioni;
forse, e dico forse, avremmo bisogno di un vero e
proprio media che dia voce al 99%.
L’Occidente
Vuole un’Escalation
del
Conflitto Russia-Ucraina?
Conoscenzealconfine.it
– (21 Novembre 2024) – Redazione – ci dice:
Sergey
Lavrov:
Gli
attacchi alla regione di Bryansk con i missili ATACMS sono ovviamente un
segnale che l’Occidente vuole un’escalation.
Gli
attacchi ATACMS sarebbero stati impossibili senza la partecipazione degli
americani.
Risposta
della rappresentante ufficiale del Ministero degli Esteri russo M.V. Zakharova,
alla domanda dei media sul presunto permesso concesso a Kiev di lanciare
attacchi missilistici in profondità in Russia.
Domanda:
I media occidentali stanno diffondendo notizie
secondo cui J. Biden avrebbe dato a Kiev il permesso di colpire in profondità
il territorio russo con i missili americani ATACMS, e da parte di Francia e
Gran Bretagna rispettivamente con i loro missili SCALP e STORM SHADOW.
Come
potrebbe commentare queste informazioni?
M.V.
Zakharova:
“Non è ancora noto se queste accuse siano
basate su fonti ufficiali. Una cosa è chiara: sullo sfondo delle sconfitte del
regime di Kiev, i suoi sostenitori occidentali scommettono sulla massima
escalation della guerra ibrida scatenata contro la Russia, cercando di
raggiungere l’obiettivo illusorio di ‘infliggere una sconfitta strategica a
Mosca’.
Tuttavia, nessuna ‘arma miracolosa’ per la
quale Zelenskyj e i suoi seguaci pregano, è in grado di influenzare il corso
della guerra.
Ricordiamo
che il presidente russo V. Putin ha dichiarato chiaramente il 25 ottobre cosa
significa effettivamente la dicitura ‘dare il permesso’ per l’uso delle armi a
lungo raggio ad alta precisione della NATO.
Lui ha
sottolineato che l’Ucraina stessa non ha la capacità di effettuare tali
attacchi senza l’uso di satelliti spaziali e senza l’introduzione di missioni
di volo da parte del personale militare dei paesi della NATO.
L’uso
di missili a lungo raggio da parte di Kiev per attaccare il nostro territorio
significherà la partecipazione diretta degli Stati Uniti e dei suoi satelliti
alle ostilità contro la Russia, nonché un cambiamento radicale nell’essenza e
nella natura del conflitto.
In questo caso la risposta della Russia sarà
adeguata e tangibile “.
Cosa
Ha Detto Putin il 12/09/2024.
“Non
stiamo parlando di permettere o vietare al regime di Kiev di colpire il
territorio russo.
Lo
infligge già con l’aiuto di veicoli aerei senza pilota e altri mezzi.
Ma
quando si tratta di utilizzare armi di precisione a lungo raggio di
fabbricazione occidentale, la storia è completamente diversa.
Il
fatto è che – ne ho già parlato, e tutti gli esperti lo confermeranno sia qui,
sia in Occidente – l’esercito ucraino non è in grado di colpire con i moderni
sistemi a lungo raggio ad alta precisione di produzione occidentale.
Non
può farlo.
Ciò è
possibile solo utilizzando i dati di intelligence provenienti dai satelliti,
che l’Ucraina non possiede, si tratta solo di dati provenienti dai satelliti
dell’Unione Europea o degli Stati Uniti – in generale, dai satelliti della
NATO.
Questo è il primo.
Il
secondo e
molto importante, forse la chiave, è che le missioni di volo di questi sistemi
missilistici possono, infatti, essere effettuate solo da personale militare dei
paesi NATO.
Il personale militare ucraino non può farlo.
Pertanto non si tratta di permettere o meno al
regime ucraino di colpire la Russia con queste armi.
Si
tratta di decidere se i Paesi della NATO sono direttamente coinvolti in un
conflitto militare oppure no.
Se
questa decisione verrà presa, non significherà altro che la partecipazione
diretta dei Paesi della NATO, degli Stati Uniti e dei Paesi europei alla guerra
in Ucraina.
Questa
è la loro partecipazione diretta e questo, ovviamente, cambia in modo
significativo l’essenza stessa, la natura stessa del conflitto.
Ciò
significherà che i Paesi della NATO, gli Stati Uniti e i Paesi europei saranno
in guerra contro la Russia.
E se è
così, allora, tenendo presente il cambiamento nell’essenza stessa di questo
conflitto, prenderemo le decisioni appropriate in base alle minacce che
verranno create per noi “.
Cosa
Ha Detto Sergey Lavrov.
“Gli
attacchi alla regione di Bryansk con i missili ATACMS sono ovviamente un
segnale che l’Occidente vuole un’escalation.
Gli
attacchi ATACMS sarebbero stati impossibili senza la partecipazione degli
americani.
La
Federazione Russa percepirà i lanci di missili a lungo raggio controllati da
esperti militari americani come una fase qualitativamente nuova della guerra da
parte dell’occidente.
Vladimir Putin aveva avvertito che la
posizione della Russia sarebbe cambiata in caso di attacco al suo territorio
con armi a lungo raggio provenienti dall’Occidente.
Non è
possibile sapere se quanto pubblicato dal “New York Times” corrisponda al vero
o se sia un tentativo di sondare il terreno.
In
realtà, questa non è un’autorizzazione all’impiego di missili a lungo raggio,
ma un annuncio:
‘Ora colpiremo fino a 300 km’.
Oggi
sono stati pubblicati ufficialmente i ‘Fondamenti della politica statale della
Federazione Russa nel campo della deterrenza nucleare’.
Spero
leggano questa dottrina.
Ma non
nel modo in cui leggono la Carta delle Nazioni Unite, vedendo solo quello di
cui hanno bisogno, ma che leggano i Fondamenti in tutta la loro completezza e
interconnessione.
Mosca
reagirà di conseguenza alla decisione degli Stati Uniti di colpire in
profondità la Federazione Russa.
La
Russia è rigorosamente impegnata a prevenire la guerra nucleare.
I
Fondamenti della politica statale della Federazione Russa nel campo della
deterrenza nucleare sono stati approvati con decreto presidenziale”.
Trump:
“Dobbiamo Porre Fine a Questa Ridicola Guerra in Ucraina”
Donald
Trump:
“La situazione in Ucraina è molto pericolosa,
esplosiva e in aumento di giorno in giorno.
La debolezza e l’incompetenza di Joe Biden ci
hanno portato sull’orlo di una guerra nucleare, e ora Biden sta facendo ciò che
disse 10 mesi fa e che avrebbe portato alla Terza guerra mondiale.
Sta
inviando i carri armati americani.
È il
tempo in cui le parti coinvolte perseguano una fine pacifica della guerra in
Ucraina prima che questa catastrofe, già orribile, vada fuori controllo e
finisca per portare davvero alla Terza guerra mondiale.
E
questa sarebbe una guerra come nessun’altra guerra perché questa sarebbe una
guerra nucleare.
Come
ho già detto molte volte, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non
sarebbe mai accaduta se fossi stato alla Casa Bianca, nemmeno a pensarci,
nemmeno una possibilità.
Dobbiamo porre fine a questa ridicola guerra
in Ucraina e chiedere la pace ora prima che peggiori.
Che ci
crediate o no, sarebbe molto facile da fare”.
A
breve sapremo come…
(t.me/Rossella
Fidanza).
Fico
Contro Biden sui Missili
Contro
la Russia. Scholz
Frena
sui “Taurus.”
Conoscenzealconfine.it
– (20 Novembre 2024) – Redazione – ci dice:
Rimuovere
le restrizioni all’uso da parte dell’Ucraina di missili a lungo raggio forniti
dagli Stati Uniti contro obiettivi in territorio russo è insensato e
controproducente, ha affermato il primo ministro slovacco “Robert Fico”.
Biden
avrebbe rimosso le restrizioni all’uso dei missili ATACMS da parte
dell’Ucraina, secondo un rapporto del New York Times di domenica.
La Casa Bianca non ha rilasciato dichiarazioni
ufficiali.
“Si
tratta di un’escalation di tensioni senza precedenti”, ha affermato lunedì
Fico, definendola un tentativo di influenzare negativamente le politiche del
presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump e di “frustrare e ritardare”
qualsiasi colloquio di pace.
Fico
ha aggiunto di essere sorpreso dalla rapidità con cui alcuni Stati membri
dell’UE hanno accolto con favore la mossa segnalata.
“Questa è semplicemente la conferma che
l’Unione Europea non è in grado di formulare da sola posizioni fondamentali di
politica estera e che l’Occidente vuole che la guerra in Ucraina continui a
tutti i costi “, ha affermato il premier slovacco.
Il
ministro della Difesa slovacco “Robert Kalinak” e il ministro degli Esteri
“Juraj Blanar” hanno ricevuto l’ordine di “opporsi a questa decisione americana
in qualsiasi forum mondiale”, ha osservato Fico.
Bratislava
“è fortemente in disaccordo” con la decisione degli Stati Uniti, considerandola
una mossa “insensata” che minaccia gli interessi nazionali della Slovacchia,
secondo Fico.
Come vicina dell’Ucraina, la Slovacchia vuole
vedere il conflitto finire il prima possibile.
La
Slovacchia è membro sia dell’UE che della NATO, ma Fico si è discostato dalla
politica di entrambi i blocchi riguardo al loro sostegno incondizionato a Kiev,
unendosi invece alle richieste della vicina Ungheria di cessate il fuoco e di
pace.
Anche
la Germania sta prendendo le distanze dalla svolta sui missili per attaccare in
profondità la Russia.
Secondo il ministro della Difesa “Boris Pistorius”, il
governo tedesco non ha intenzione di approvare la fornitura di missili da
crociera a lungo raggio all’Ucraina per attacchi in profondità nella Russia,
nonostante un presunto cambiamento di opinione sulla questione negli Stati
Uniti.
Il
presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha concesso all’Ucraina un permesso
limitato per attacchi a lungo raggio contro obiettivi in profondità
all’interno della Russia con missili ATACMS donati dagli americani, hanno
riferito domenica diverse fonti di informazione.
Mosca
ha affermato che qualsiasi attacco del genere supererebbe una linea rossa e
costituirebbe un atto di guerra diretto con un paese della NATO.
In precedenza, Stati Uniti, Regno Unito e
Francia avevano fornito armi a lungo raggio all’Ucraina, ma la Germania si è
rifiutata di farlo.
La
decisione di Washington “non cambia la nostra valutazione al momento”, ha detto
Pistorius ai giornalisti lunedì, quando gli è stato chiesto se il cancelliere
Olaf Scholz avrebbe revocato il divieto di inviare missili lanciati dall’aria
Taurus a Kiev.
Attualmente
non c’è “nessuna ragione per prendere una decisione diversa”, ha aggiunto
Pistorius, parlando durante una visita a uno stabilimento di elicotteri in
Baviera.
Invece,
l’esercito tedesco intende fornire 4.000 droni che utilizzano il pilotaggio
assistito dall’Intelligenza Artificiale, ha detto.
Washington
ha informato Berlino in anticipo del cambiamento di politica, ha detto un
portavoce del governo tedesco.
Il Ministero degli Esteri ha sottolineato che
nessuna delle armi tedesche donate all’Ucraina è considerata a lungo raggio.
Scholz
ha giustificato il suo rifiuto di dare missili Taurus all’esercito ucraino
dicendo che la mossa renderebbe la Germania una parte diretta del conflitto.
Il cancelliere è stato criticato per la sua
posizione da alcuni dei suoi partner nella coalizione di governo ormai fallita,
così come da alcune figure di spicco dell’opposizione.
Come
riportato da “Renovatio 21”, i democristiani tedeschi della CDU ad inizio anno
hanno spinto per la fornitura dei Taurus a Kiev.
Il
ministro degli Esteri tedesco “Annalena Baerbock “ha invece accolto con favore
le notizie sulla decisione di Biden.
Il suo
partito, i Verdi, “vede questa questione allo stesso modo dei nostri partner
dell’Europa orientale, britannici, francesi e americani”, ha affermato il
funzionario in un’intervista con RBB Info-radio lunedì.
Marie-Agnes
Strack-Zimmermann, parlamentare del Partito Democratico Libero (FDP) e
presidente del Bundestag Defense Committee, ha definito la mossa americana
attesa da tempo.
Parlando alla radio Deutschland funk, ha
esortato Scholz a cambiare idea sulle donazioni di Taurus.
I
Verdi e l’FDP erano partner minori nella coalizione guidata dai
Socialdemocratici di Scholz, che è crollata all’inizio di questo mese.
Anche
i cristianodemocratici, il principale partito di opposizione tedesco,
sostengono l’invio di missili “Taurus in Ucraina.
Mentre altri politici che sono stati critici
dell’intero approccio occidentale al conflitto, hanno goduto di un’impennata di
popolarità quest’anno.
Come
riportato da” Renovatio 21”, lo scorso settembre il ministro degli Esteri
tedesco “Annalena Baerbock” in visita a Kiev è stata di fatto insultata
dall’omologo ucraino “Dmytro Kuleba” che in conferenza stampa congiunta ha
accusato la Germania di perdere tempo con le decisioni sulle forniture
militari, quando il risultato, disse con boria piuttosto rara in diplomazia, è
noto a tutti:
la
Germania alla fine darà i missili all’Ucraina, ha assicurato Kuleba guardando
la Baerbock, pure nota per il suo filo ucrainismo totale (ha dichiarato che sosterrà Kiev
anche contro il volere degli elettori, e che l’Europa è in guerra con la
Russia).
Esistono
tuttavia sacche di resistenza anche dentro al Bundestag, come la deputata “Sevim
Dagdelen”, già nota ai lettori di “Renovatio 21” per i suoi avvertimenti
sull’incipiente Terza Guerra Mondiale, la quale lo scorso settembre aveva
espresso preoccupazione per i missili da crociera a lungo raggio Taurus,
temendo che questi missili potessero essere potenzialmente dotati di testate
nucleari.
La
deputata di “Die Linke” – partito di opposizione sempre più apertamente critico
del governo Scholz e della sua guerra NATO – ha respinto come “ingenua” la
convinzione della coalizione di governo tedesca secondo cui “l’Ucraina sarà in
grado di controllarsi ed evitare di colpire obiettivi in Russia con queste
armi”.
Si
prevede che in Germania si terranno elezioni federali anticipate all’inizio del
2025.
Come
riportato da “Renovatio 21”, un audio trapelato sui media russi ad inizio 2024
testimoniava discussioni tra alti funzionari dell’esercito tedesco riguardo
all’attacco sul ponte di Crimea.
La
portavoce degli Esteri Maria Zakharova ha dichiarato che la Germania deve
ancora essere “denazificata”.
A
marzo il vicepresidente della commissione di sorveglianza del Parlamento
tedesco “Roderich Kiesewetter” aveva dichiarato che l’edificio del Ministero
della Difesa russo o la sede dei servizi segreti nazionali nel centro di Mosca
sono obiettivi legittimi da attaccare.
(renovatio21.com/fico-contro-biden-sui-missili-contro-la-russia-scholz-ancora-frena-sui-taurus/).
Astensionismo
e democrazia:
idee
(bizzarre) per ridare valore al voto.
Avvenire.it - Andrea Lavazza – (22 novembre
2024) – ci dice:
Caro
Avvenire, da anni aumenta il numero di coloro che non votano.
Restano
inascoltati gli accorati messaggi delle autorità che invitano a recarsi alle
urne e che ci ricordano che votare è un diritto/dovere e un bene per la
democrazia. Tutto vano.
Lo
evidenziano anche i dati dell’affluenza in Emilia-Romagna e in Umbria.
Suggerirei un’idea bizzarra, ma non troppo:
realizzare una “tessera per la raccolta punti”
che dopo un certo numero di votazioni dia diritto a partecipare a un sorteggio
con premio adeguato.
Raffaele Pisani:
Caro Pisani, il tema dell’astensione dal voto
è a mio avviso drammatico, ma ci sta anche scherzarci sopra, e per questo
pubblico la sua proposta paradossale.
Sono
molti i lettori che avvertono l’urgenza della situazione, a cominciare dai
signori” Carnacina” e “Veronesi”, che nei loro messaggi evidenziano varie
ragioni della disaffezione che colpisce il nostro Paese, come tante altre
democrazie mature.
Reintrodurre l’obbligo di recarsi alle urne
potrebbe contrastare la tendenza se si associasse una sanzione al mancato
adempimento, eppure non la vedo come soluzione facilmente praticabile.
Analisi
del sentiment degli elettori sembrano indicare che le persone pensano che il
risultato delle urne sia ininfluente per la loro vita e, razionalmente, si
evitano una fatica e una perdita di tempo, seppure in genere minima.
Dovremmo
sapere comunicare che la società ha bisogno della loro voce, che non può farne
a meno.
Ecco che allora, bizzarria per bizzarria, caro
Pisani, potremmo ipotizzare di subordinare la validità delle preferenze
espresse alla numerosità dei partecipanti, un po’ come accade per il
referendum, mettendo però un quorum più alto del 50%, diciamo il 65% per ora.
Se
però il referendum decade senza il raggiungimento della soglia stabilita, le
elezioni – politiche, regionali o amministrative – dovrebbero essere
semplicemente ripetute la settimana successiva.
Alla prima chiamata partecipa il 52% degli
aventi diritto?
Si
bruciano le schede senza aprirle e si riaprono i seggi la domenica successiva
(senza appendici del lunedì).
Non si
arriva al 65% nemmeno nella seconda tornata?
Se ne
predispone una terza consecutiva.
Qualora nemmeno in quella si ottenesse la
partecipazione prefissata, si prenderebbe comunque per buono l’esito ottenuto.
Lo so: le procedure costano, ci sarebbero
disagi nelle scuole, si creerebbe incertezza nel Paese.
Eppure,
se crediamo che la democrazia sia importante, dobbiamo dedicarle impegno e
risorse, sacrificando qualcosa per la sua conservazione in salute.
Diciamo
ai cittadini che la loro presenza attiva ci interessa al punto da ripetere il
voto.
In questo modo, anche i politici avrebbero uno
stimolo in più a invitare alla mobilitazione, al di là di qualche attuale frase
di circostanza, visto che alla fine si governa con qualunque affluenza, anche
inferiore alla metà degli aventi diritto, come accaduto in Emilia-Romagna.
In definitiva, servono idee e passioni per
fare comprendere soprattutto ai giovani quanto è prezioso quel gesto di entrare
in una spoglia cabina di legno e mettere una croce su un nome o una lista.
L’apatia e l’indifferenza non portano mai
nulla di buono nella storia.
Viene
in mente una vecchia canzone di “Samuele Bersani”:
“Lo
scrutatore non votante / Prepara un viaggio, ma non parte / Pulisce casa, ma
non ospita / Conosce i nomi delle piante / Che taglia con la sega elettrica...”
Come
aggirare la
Costituzione
democratica.
Labottegadelbarbieri.org – (7 Novembre 2023)
– Redazione - Pietro Garbarino e di Lorenzo Zamponi – ci dicono:
Libertà
e dittatura nella maggioranza.
(Pietro
Garbarino)
Nel
linguaggio politico comune si distingue abitualmente fra dittatura e
democrazia, nel senso che una esclude l’altra.
Ma
tali termini possono invece coesistere?
Nella
materia giuridico-istituzionale esistono dei principi che fungono da discrimine
rispetto alla qualificazione dello Stato – inteso come comunità organizzata di
cittadini – e la cui differenziazione porta a ritenere tale Stato come
democratico o totalitario.
Nell’accezione
più comune di tale definizione lo Stato totalitario corrisponde ad una comunità
dominata da una non discutibile detenzione permanente del potere politico, in
grado di imporre ai cittadini le regole di organizzazione e convivenza.
Lo
Stato democratico invece è quello che si fonda su periodici orientamenti della
maggioranza dei cittadini, ritenuti soggetti liberi, pensanti ed eguali, ma
contempla anche che tale maggioranza possa divenire minoranza ed essere
sostituita da altri soggetti e/o schieramenti.
È
proprio tale presupposto di interscambiabilità o comunque di possibile e
agevole modificazione delle maggioranze a costituire il punto nodale del
sistema democratico, che si differenzia dal totalitarismo per la sua
dinamicità, dipendente dal divenire degli orientamenti politici dei cittadini.
Non
per questo una società politica democratica si deve caratterizzare per la
continua modificazione dei suoi indirizzi di governo, cioè con la prevalenza di
taluni orientamenti politici, ma ciò dipende in buona parte dalla capacità di
chi è al potere, in quanto attuale maggioranza, di rapportarsi alle esigenze e
agli interessi dei cittadini, interpretandoli correttamente e traducendoli in
atti politici e amministrativi condivisi.
Dunque
può ritenersi democratico anche uno Stato in cui, per decenni e decenni, lo
stesso partito politico risulta liberamente preferito dalla maggioranza degli
elettori, mentre
non si ritiene democratico uno stato in cui un solo partito politico governa
per lungo e indefinito tempo, ma senza controllo democratico e possibilità di
ricambio.
Stabilito
ciò, si deve però considerare che quei saggi principi, che costituiscono l’ABC
della distinzione politologica fra le due diverse tipologie di Stato sopra
menzionate, qualora vengano interpretati in modo rigido e forzato, possano
trasformarsi da rassicuranti regole che garantiscono una vita istituzionale
equilibrata e ordinata, nel pieno rispetto dei diritti del cittadino, in
tragiche farse che della democrazia non hanno più nulla.
Un
chiaro esempio, che funge da paradigma di quanto appena affermato, è la
cosiddetta “dittatura della maggioranza”;
cioè l’affermazione che la maggioranza
politica che esce vincitrice dalle elezioni abbia l’assoluto potere di disporre
a tutto campo delle leggi dello stato, dei vari e complessi settori
dell’amministrazione, della dirigenza e controllo dei minori enti pubblici che
fanno capo allo Stato e al suo Governo, sino addirittura a voler condizionare
le scelte e il funzionamento di quello tra i poteri dello Stato che deve essere
più autonomo e protetto; e cioè la magistratura.
Uno
Stato democratico, nel senso integrale di tale termine, oltre a riconoscere e
tutelare i diritti dei propri cittadini, nella indispensabile condizione
dell’eguaglianza degli stessi – eguaglianza che ben si intende come
sostanziale, ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione – deve tenere presente che i propri
cittadini, i quali devono potere esprimere un voto del tutto libero in coerenza
con le proprie opinioni politiche, non sono solo coloro che hanno votato il
partito o la coalizione di governo, ma tutti quanti gli elettori e perfino
quanti non hanno esercitato tale diritto-dovere.
Dunque,
è dovere del governo eletto non solo garantire a tutti, senza distinzione
alcuna, l’esercizio dei diritti fondamentali, ma anche di svolgere i propri
compiti tenendo conto dell’orientamento e degli interessi dell’intero
elettorato e di tutta la cittadinanza.
Quando
l’articolo 1 della Costituzione dichiara “la sovranità appartiene al popolo…” non intende affatto conferire tale
somma facoltà solo a chi ha votato per il governo in carica, bensì a tutto il popolo, inteso come
comunità.
Sembra
invece che chi ci governa (e non solo attualmente, ma già dai primi anni 2000)
si ritenga autorizzato, in nome di un’investitura elettorale che non è affatto
un’investitura della sovranità popolare ma molto meno, a disporre dello Stato,
delle sue leggi (Costituzione compresa) e della sua organizzazione e relative
articolazioni, in modo pieno e assoluto.
Un
popolo (quello che ha la sovranità) è una collettività di persone che hanno
idee, propensioni, interessi molti diversi e la funzione del governare, che
comprende proprio il dotare lo Stato di leggi, amministrandole oculatamente,
presuppone che si governi in nome dell’intero popolo e non in nome delle
peraltro momentanee propensioni dei propri elettori e sostenitori.
E così
i programmi elettorali, con i quali si conquista il consenso degli elettori,
non sono e non devono essere la clava con la quale percuotere e abbattere
coloro che hanno opinioni e programmi diversi ma, una volta che chi li propone
divenga forza di governo, debbono a loro volta divenire la sintesi degli interessi
prevalenti in tutta la cittadinanza, e non solo a beneficio e per la
soddisfazione di chi ha votato i partiti al governo.
E ciò
a maggior ragione in una fase storica in cui l’esercizio attivo del diritto di
voto è in regresso e spesso le stesse maggioranze elettorali (quasi sempre
relative) rappresentano poco più della metà degli aventi diritto al voto e non
danno rappresentanza a larghe fasce di cittadini, delusi e confusi.
Per di
più con un Parlamento ridotto nei numeri da un malinteso referendum popolare
indetto in modo populistico e qualunquista.
Infatti,
con una simile concezione dell’investitura politica, diviene possibile fare
leggi “ad personam” o emanare provvedimenti di natura amministrativa ed
economica che favoriscono grandi elettori del partito (o dei partiti) di
governo; legittimare provvedimenti che rendono stabili, consolidano, o
addirittura perpetuano posizioni di potere dalle quali trarre vantaggio
politico futuro.
Ma ciò
che più preoccupa di una simile concezione della propria investitura elettorale
sono i riflessi sul piano istituzionale e costituzionale.
Ho già
scritto in precedenza come alcuni meccanismi e procedimenti amministrativi –
alcuni dei quali di grande importanza – vengono sempre più spesso saltati a piè
pari mediante le nomine di Commissari o con l’istituzione di non meglio
identificate “cabine di regia”.
Cioè,
là dove è previsto un confronto dialettico democratico fra enti e istituzioni a
ciò deputati dalla legge per affrontare alcuni problemi (grandi opere
pubbliche, per esempio) si procede con diffuso fervore a nomina di
“commissari”, dotati di poteri straordinari e dunque fuori da ogni controllo
politico, che dovrebbero procedere per fare avanzare la realizzazione
dell’obbiettivo.
In
altri termini, si procede con logiche e provvedimenti emergenziali anche quando
non vi è alcuna emergenza, al solo scopo di eludere le norme ordinarie e il
confronto istituzionale democratico.
Senonché i Commissari risultano quasi sempre
essere persone obbedienti al potere politico e ai poteri amministrativi
centrali, con buona pace dei princìpi del decentramento amministrativo che
presuppone che ciascuna parte del paese venga amministrata, nei limiti
costituzionali, dalle istituzioni democratiche locali.
Invece
le nomine di “commissari e registi” determinano proprio la fine dell’autonomia
politica locale e dei relativi processi di elaborazione, la cui lentezza non
sempre è un fatto negativo, ma corrisponde alla ricerca della soluzione più
idonea e condivisa a raggiungere lo scopo.
Ma,
ancor più il tema si fa delicato e cruciale allorché si parla di riforme
istituzionali.
Non
basta che la rappresentatività dei cittadini sia stata taglieggiata dalla
riduzione dei membri delle Camere, con conseguente inevitabile vantaggio del
potere esecutivo;
adesso si vuole addirittura modificare il
fulcro centrale del nostro apparato istituzionale, rendendo il potere esecutivo
(cioè il governo politico), non solo indipendente dall’organo rappresentativo
dai cittadini tramite l’elezione diretta, ma di farlo divenire il potere
centrale e prevalente tra quelli attribuiti allo Stato.
In
altri termini la repubblica parlamentare, che prevede che il governo politico
dello Stato sia espressione della maggioranza, anche politicamente composita,
degli elettori, dovrà cedere il passo ad un “Capo di Governo “che, investito
dal voto popolare del momento, avrà sostanziali poteri di controllo nel
Parlamento, addirittura con il potere di scioglierlo, come prevede il
cosiddetto “premierato”, che è già concretamente nell’agenda politica nazionale
e che è allo studio del ministro competente.
Ma qui
viene in evidenza la concezione predatoria e autoritaria di chi ritiene che,
avendo la maggioranza elettorale, si abbia anche la sovranità popolare.
Si
opina così che chiunque abbia ricevuto un momentaneo successo elettorale, e che
forse alle successive elezioni non lo avrà più, possa modificare a suo piacere
e servizio la “Carta fondamentale”, che costituisce il patto fondante dello
Stato democratico.
Ora,
bisogna capire che una comunità nazionale (e non nazionalistica, come qualcuno
vorrebbe) è costituita da un articolato complesso di situazioni politiche e
sociali, di condizioni economiche, e che è opportuno che tutte quelle
circostanze trovino idonea rappresentanza, secondo i principi di democrazia e
uguaglianza.
Solo
in tale modo si potrà avere un dibattito, nelle massime istituzioni statali,
che preveda leggi e provvedimenti equilibrati che contemperino i vari diversi,
e talvolta contrapposti, interessi.
E ciò
comporta discussioni di necessaria ampiezza, con i relativi tempi.
Da
qualche decina d’anni sembra invece che l’attenzione della politica sia rivolta
all’aspetto della rapidità delle decisioni.
Ma
spesso la tempestività a “tambur battente” non si accorda con la completezza,
chiarezza ed equilibrio del provvedimento approvato, con la conseguenza che, o
si emanano provvedimenti imperfetti, o si deve successivamente provvedere a
colmarne le lacune.
Per
assicurarsi tale lacunosa rapidità buona parte delle forze politiche oggi
puntano su una maggiore efficienza e operatività del governo, ma ciò va
ovviamente a discapito del controllo democratico del Parlamento, che è l’organo rappresentativo
proprio di quel popolo che ha la sovranità e che si vorrebbe restringere a
coloro che hanno votato i partiti di governo.
E
allora bisogna rispolverare con ben altre letture quel concetto di sovranità
popolare, che non significa affatto sovranità di chi vince le elezioni, ma
anche di chi, anche a causa di meccanismi e regole elettorali assai
discutibili, ha minore rappresentanza politica nelle istituzioni
rappresentative.
E ciò
ha una ricaduta anche sulle norme che regolano la vita della collettività, la
quale deve essere considerata non come entità diversificata politicamente, ma
come un unico grande interlocutore della politica.
In
altri termini, chi gestisce il potere statale non può agire con leggi e
provvedimenti solo nei termini graditi al proprio elettorato, ma deve agire
nell’interesse di tutti i cittadini.
Per
chi governa, infatti, i cittadini sono tutti quanti i consociati, e non solo
quelli che hanno votato per quella parte politica.
Dunque
ogni riforma si deve fare nell’interesse di tutti i cittadini, perché la
comunità è fatta di maggioranze politiche ma anche di minoranze e postula il
pluralismo delle idee.
Nel
corso della tanto aborrita “prima repubblica” questo concetto era assai chiaro;
infatti vigeva la regola che nelle istituzioni ci fosse sempre posto anche per
l’opposizione.
L’esempio
più evidente era costituito dalla presidenza delle due camere parlamentari;
una
presidenza spettava alla maggioranza uscita dalle precedenti elezioni, e una
presidenza spettava alla minoranza all’opposizione.
Ma ciò
che più conta è che non possono, per ogni legislatura che si avvicenda, essere
modificate le leggi fondamentali che regolano la vita dei cittadini, perché
l’impianto legislativo di uno Stato non è qualcosa che si plasma sulla base
della volontà della maggioranza politica del momento.
Codici
civili e penali, codici di procedura, leggi in materia pensionistica, norme
sugli appalti di opere pubbliche e molte altre ancora, non sono disposizioni
buone per un’unica stagione, ma debbono garantire diritti e prerogative dei
cittadini per periodi ben più lunghi di una o due legislature.
Anche
la stessa legge elettorale, modificata per ben quattro volte negli ultimi 20
anni, non può essere uno strumento a disposizione degli interessi politici di
parte del momento.
Ed
ancor più la Costituzione, che è il patto fondamentale che dà le regole
fondamentali per lo svolgimento della vita della comunità nel tempo, prova ne
sia che la stessa Costituzione degli Stati Uniti d’America, sopravvive, nei
suoi contenuti originari, dai tempi della rivoluzione americana, e cioè dalla
fine del 1700.
In
conclusione, e per tornare ai concetti espressi in apertura, le leggi dello stato non sono uno
strumento per perpetrare il proprio potere compiacendo il proprio odierno
elettorato.
Sono
lo strumento per governare la vita di una complessa comunità che è fatta di
cittadini benestanti ma anche di meno agiati;
di
persone di diverse opinioni religiose e politiche; di culture e origini
diverse, ma che hanno tutti pari dignità e diritti.
Intervenire
sulla legge significa dare a tutti le stesse opportunità, facoltà, diritti e
anche doveri.
Non si
tratta dunque di mantenere il consenso elettorale, comunque sempre più
ristretto per il progressivo preoccupante calo del numero dei votanti, ma di
governare nel modo maggiormente condiviso da parte della collettività, come
invece auspica la Costituzione, la cui preoccupazione principale non risiede
nella tutela di chi ha, bensì di chi non ha, indipendentemente dalla quantità
di rappresentanza politica, perché la pari dignità dei cittadini è un fatto giuridico
che non deve dipendere da fattori economici, ma deve riguardare proprio chi non
ha i mezzi per conseguirla.
L’articolo
3 il cui 2° comma inizia con l’allocuzione “E’ compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli…” è un vero a proprio manifesto della principale motivazione
costitutiva e fondante della Repubblica Italiana.
Stravolgere
quello spirito e quei princìpi in nome di interessi particolari, contingenti e
transitori, significa abbandonare il dettato di quella Carta, che non solo ha
introdotto i princìpi della democrazia nel nostro Paese ma ha fatto sì che,
seguendo quella strada, l’Italia sia diventata uno degli Stati più importanti
del mondo.
Ma se
tale fosse l’intento di chi ambisce a governare questo Paese, bisognerebbe
ritenere che è in corso una vera e propria tendenza a rifondare uno Stato
totalitario.
Abbiamo
però fiducia che il popolo sovrano questa volta possa respingere quella odiosa
tentazione.
IL
PREMIERATO HARD.
(Lorenzo
Zamponi).
La destra entra a gamba tesa nell’architettura
costituzionale come mai nessuno aveva fatto.
Nel
contrastarla, non bisogna rifuggire la sfida di costruire un rapporto
funzionante tra rappresentanti e rappresentati.
La
destra ci riprova, a riscrivere la Costituzione, e stavolta punta in alto.
In nessuna democrazia costituzionale al mondo
una sola persona, il capo del governo, concentra su di sé un controllo del
potere esecutivo e di quello legislativo, senza rendere conto sostanzialmente a
nessuno se non agli elettori del proprio operato, quale quello delineato nella
proposta di riforma costituzionale varata dal consiglio dei ministri, a firma della presidente del
consiglio Giorgia Meloni e della ministra delle riforme costituzionali Maria
Elisabetta Alberti Casellati.
Solo
in un’Italia assuefatta da trent’anni di retorica antiparlamentare e
antipartitica una proposta del genere può essere definita, come ha fatto nei
giorni scorsi un’agenzia di stampa, «premierato soft».
Il governo Meloni entra a gamba tesa
nell’architettura costituzionale come mai nessuno aveva fatto (neanche le
riforme bocciate dai referendum, quella di Berlusconi del 2005 e quella di
Renzi del 2015, arrivavano a tanto), proponendo la creazione di un super premier
eletto direttamente dai cittadini in forma plebiscitaria, con un parlamento
automaticamente allineato grazie a un premio di maggioranza inserito
direttamente in Costituzione, e la capacità, di fatto, di mandare a casa quel
parlamento nel caso, remoto, in cui dissentisse su qualcosa.
Altro
che «premierato soft»:
si
trasformerebbe l’Italia in uno strano ibrido tra parlamentarismo e
presidenzialismo, senza le garanzie e gli equilibri di nessuno dei due sistemi.
Difficile
capire se si tratti di una strategia del governo che «spara alto» per poi
negoziare in parlamento un compromesso che somigli a qualcosa di già visto nel
mondo civile, oppure se Giorgia Meloni e i suoi alleati intendano veramente
andare fino in fondo, fino al terzo referendum costituzionale in meno di
vent’anni.
Di
certo, serve un’opposizione netta, in parlamento, nel dibattito pubblico e
nelle piazze, a un disegno che porterebbe a compimento la transizione italiana
nel modo più autoritario possibile.
Una
mobilitazione che però non può limitarsi a denunciare una proposta che si
potrebbe facilmente definire eversiva dell’ordine costituzionale, se
quest’ordine non fosse già stato gradualmente indebolito e distorto da decenni.
Questa
proposta di riforma è figlia delle retoriche e delle scorciatoie che tutti i
governi della Seconda Repubblica hanno utilizzato per nascondere sotto il
tappeto la crisi strutturale di rappresentanza che caratterizza l’Italia da
trent’anni e che è stata ulteriormente aggravata dal quindicennio post-2008.
Da una
parte, Giorgia Meloni cavalca l’onda di un trentennio in cui l’elezione diretta
del presidente del consiglio è spesso esistita di fatto se non nella norma, e
in cui slogan come «ci vuole il sindaco d’Italia» e «la sera delle elezioni si
deve sapere chi governa» sono stati sulla bocca di ogni leader di
centrosinistra:
con
che credibilità, ora, si dà battaglia contro la realizzazione di quelle
promesse?
Dall’altra,
instabilità governativa, trasformismi, cambi di maggioranza e ricorso frequente
a «governi
tecnici» privi di una legittimazione popolare hanno effettivamente creato uno
scontento che questa riforma può provare a catalizzare, ovviamente in forma
verticistica e autoritaria.
Insomma:
si è giocato col fuoco per decenni, e ora qualcuno ha
deciso di incendiare tutto. Denunciare «l’attacco alla Costituzione» non basta:
serve prendere sul serio la crisi della rappresentanza.
Pieni
poteri.
La
proposta di riforma inserirebbe nel testo costituzionale quattro principali
novità:
l’elezione
diretta del presidente del consiglio;
la
contestualità tra l’elezione del presidente del consiglio e quella del
parlamento, che avverrebbero addirittura su una sola scheda, con l’obbligo che
la legge elettorale assicuri alle liste collegate al presidente del consiglio
una maggioranza del 55% in ognuna delle due camere tramite un apposito premio;
l’impossibilità,
in caso di dimissioni del presidente del consiglio o di sfiducia nei suoi
confronti da parte del parlamento, di nominarne un altro, se non nell’ambito
della stessa maggioranza e per la realizzazione dello stesso programma.
L’elezione
diretta del presidente del consiglio è già di per sé un’anomalia.
La
figura del primo ministro, infatti, è tipica dei sistemi parlamentari, in cui è
appunto il parlamento, sede del potere legislativo, il depositario della
volontà popolare, mentre gli altri poteri, compreso quello esecutivo, dipendono
dalla legittimazione parlamentare.
Normalmente, quindi, nei sistemi parlamentari,
il capo
del governo è nominato dal capo dello stato (il Presidente della Repubblica nel
caso italiano o tedesco, il re o la regina nel caso spagnolo o britannico), per poi essere votato dal parlamento,
oppure direttamente eletto dal parlamento stesso (come nel caso giapponese).
L’elezione
diretta del capo del governo, invece, è tipica dei sistemi presidenziali, in
cui sia il potere legislativo (il parlamento) sia l’esecutivo (il presidente,
che a quel punto è sia capo dello stato sia capo del governo) sono eletti
direttamente dal popolo, come ad esempio negli Stati uniti o in Francia.
Meloni
propone di far eleggere dai cittadini il presidente del consiglio, ma di
mantenerlo separato dal capo dello stato e di farlo passare comunque per la
fiducia parlamentare (ridotta a un passaggio formale senza significato).
Una
bizzarria che non esiste sostanzialmente da nessun’altra parte.
Ci
provò Israele negli anni Novanta, con risultati tutt’altro che soddisfacenti,
tanto che la norma fu revocata meno di dieci anni dopo il suo varo.
Non si
capisce, se si ritiene che il capo del governo debba essere scelto direttamente
dai cittadini, senza la mediazione parlamentare, perché non passare
direttamente al presidenzialismo.
L’impressione
è che i motivi per questa scelta bizzarra da parte del governo Meloni siano
due:
da una
parte, evitare l’immagine plebiscitaria, personalistica e tendenzialmente
autoritaria che il presidenzialismo si porta dietro in Europa, proponendo la
stessa ricetta sotto le vesti più «soft» del «premierato»;
dall’altra,
evitare le garanzie e i contrappesi che, normalmente, il presidenzialismo si
porta dietro, e che contraddirebbero gli obiettivi pienamente autoritari di
questa riforma.
Il
fulcro autoritario della proposta Meloni è, infatti, il secondo punto:
l’elezione
contestuale di capo del governo e parlamento, lo stesso giorno, sulla stessa
scheda elettorale e con un sistema che assicuri al presidente del consiglio, a
prescindere dal risultato elettorale, una maggioranza assoluta in entrambe le
camere.
Questo
è un meccanismo che non esiste in alcuna democrazia al mondo.
Nessuno
elegge parlamento e capo del governo con lo stesso voto:
o si
vota solo il parlamento (sistemi parlamentari) o si votano entrambi ma in modo
diverso (sistemi presidenziali).
Nei
sistemi presidenziali, infatti, la possibilità di avere un parlamento di colore
politico diverso da quello del presidente è una garanzia democratica.
In
molti casi, avvengono in giornate diverse (come in Francia e in parte negli
Stati uniti) e, anche quando avvengono lo stesso giorno (come in Cile e nella
Turchia di Erdogan, in questo più liberale dell’Italia che Meloni propone), si
vota con due schede diverse, con meccanismi elettorali diversi e con risultati
reciprocamente indipendenti.
Già la
legge elettorale è unica al mondo:
nessun
altro sistema, infatti, assicura che sempre, con qualsiasi risultato, ci sia
una maggioranza assoluta uscita dalle urne.
Perfino
nel sistema più maggioritario d’Europa, quello britannico, è successo (l’ultima
volta nel 2010) che nessun partito avesse la maggioranza e si dovesse formare
una coalizione in parlamento.
Solo
in Italia ciò è considerato talmente scandaloso da doverlo proibire per
Costituzione.
Ipotizzando il caso di quattro candidati alla
presidenza del consiglio più o meno di simile peso elettorale, se uno dei loro
prendesse il 27% dei voti e gli altri, magari, rispettivamente il 26%, il 25% e
il 24%, il primo sarebbe eletto presidente del consiglio e ai partiti che lo
sostengono andrebbe il 55% delle due camere.
Una
distorsione enorme della volontà popolare, tanto che la Corte Costituzionale
già due volte (prima contro il «Porcellum» di Roberto Calderoli e poi contro
«l’Italicum» di Matteo Renzi) ha bocciato la possibilità di un premio di maggioranza che
non preveda almeno una soglia minima di accesso.
Per
questo Casellati e Meloni vogliono inserire questo meccanismo direttamente in
Costituzione:
per
evitare che risulti incostituzionale.
In
questo modo, il capo del governo eletto direttamente dai cittadini si
troverebbe di fronte un parlamento perfettamente allineato dal punto di vista
politico, anche se votato da una più o meno ristretta minoranza di elettori.
Un
meccanismo che fonderebbe presidenzialismo e parlamentarismo evitando le
garanzie di ciascun sistema, e rendendo impossibile la coabitazione tra un capo
del governo di una parte politica e un parlamento non allineato, cosa invece
normalissima nei sistemi presidenziali:
Joe Biden ha di fronte un Congresso a
maggioranza repubblicana, così come Emmanuel Macron deve confrontarsi con
un’Assemblea Nazionale in cui il suo partito ha la maggioranza relativa ma non
quella assoluta.
Per
non parlare di Gabriel Boric, presidente del Cile: non solo la sua coalizione
di sinistra radicale, alle elezioni per il parlamento, ha preso solo il 21% dei
voti, ma anche l’alleanza costruita poi con il centrosinistra non arriva alla
maggioranza assoluta.
O di
Lula, che nel Congresso brasiliano può contare su poco più di un terzo dei
deputati.
Insomma,
normalmente in democrazia si deve scegliere:
o c’è
omogeneità politica tra governo e parlamento, ma si vota solo per il secondo
(parlamentarismo), o si vota direttamente sia il parlamento sia il capo del
governo, ma in maniera indipendente e accettando il rischio di coabitazione
(presidenzialismo).
Meloni,
invece, vuole la legittimazione popolare diretta e anche un parlamento che
approvi qualsiasi cosa gli venga proposto: in Veneto si direbbe «voer a musa e
anca i trenta schei» (volere l’asina e anche i trenta soldi).
L’asservimento
totale del parlamento al capo del governo raggiunge livelli insperati al terzo
punto della riforma.
Se con l’elezione diretta del capo del governo
ha perso di senso il voto di fiducia (cioè il potere più rilevante di un
parlamento), e con la maggioranza assoluta automatica il presidente del
consiglio è liberato dal fastidio di dover in caso negoziare con un parlamento
avverso, la
cosiddetta «norma anti-ribaltoni» toglie al parlamento l’ultima forma possibile
di controllo sul governo: la sfiducia nei confronti del presidente del
consiglio.
O
meglio:
come
il voto di fiducia è rimasto formalmente, ma è stato svuotato di fatto
dall’elezione diretta del presidente del consiglio, il voto di sfiducia resta
un’eventualità considerata dalla Costituzione, ma è reso difficilissimo da
esercitare in termini concreti.
Nel
caso, infatti, che un presidente del consiglio venisse sfiduciato dal
parlamento oppure decidesse spontaneamente di dimettersi, il Presidente della Repubblica lo
potrebbe sostituire solo con un parlamentare eletto nelle stesse liste, e solo
per realizzare il programma del capo del governo eletto dai cittadini.
Altrimenti,
si torna a votare.
Insomma:
o la sostituzione del presidente del consiglio è una mera staffetta interna
alla coalizione di maggioranza senza alcuna variazione programmatica (cosa
avvenuta molto raramente nella storia della Repubblica), oppure le camere vanno
sciolte.
Nella
pratica, il presidente del consiglio, che già ha a disposizione un parlamento
fatto al 55% di suoi sostenitori, può, nel caso remoto in cui qualcuno tra essi
decida di dire la propria, minacciare molto chiaramente:
«se
non fate come vi dico, mi dimetto, e, a meno che non siate in grado di
sostituirmi con qualcuno che vada bene a tutta la maggioranza uscente, mio
partito compreso, si va a casa tutti».
Un’arma
di ricatto potentissima:
di
fatto, sarebbe il presidente del consiglio a poter sfiduciare il parlamento,
più che viceversa.
E
anche il potere di sciogliere le camere e convocare nuove elezioni, sulla carta
ancora del Presidente della Repubblica, passerebbe di fatto al presidente del
consiglio.
Il Presidente
della Repubblica sarebbe così ridotto a una figura sostanzialmente ornamentale
e il capo del partito di maggioranza relativa avrebbe pieni poteri, con il
controllo di esecutivo e legislativo (per fortuna non siamo ancora all’attacco
al potere giudiziario e alla libertà d’espressione, come nell’Ungheria
dell’amico Orbán), per cinque anni.
«La
madre di tutte le riforme»
Nella
conferenza stampa di presentazione della proposta, Meloni l’ha definita «la
madre di tutte le riforme», attribuendole lo status di «priorità» dell’azione
del governo e giustificandola con due obiettivi:
«mettere
fine alla stagione dei ribaltoni, dei giochi di palazzo, del trasformismo,
delle maggioranze arcobaleno, dei governi tecnici» e «garantire la stabilità
del governo per cinque anni, una condizione sostanziale per costruire una
strategia e per avere una credibilità a livello nazionale e internazionale».
Il
secondo punto è stranoto: abbiamo avuto sessantotto governi in settantasette anni di
Repubblica, il più lungo dei quali, il Berlusconi II, non arrivò neanche a
quattro anni.
La
ricerca ossessiva della governabilità, della possibilità che un presidente del
consiglio possa lavorare in pace per cinque anni senza dover fastidiosamente
rendere conto a un sistema di partiti e a un parlamento, è stato uno degli assi
portanti della Seconda Repubblica.
Dove
le mille riforme elettorali hanno fallito, provando a forzare la volontà
popolare in camicie costruite ad hoc per costruire maggioranze durature, Meloni
interviene puntando direttamente la Costituzione.
Non è
la prima volta.
Già la
bicamerale presieduta prima dal democristiano Ciriaco De Mita e poi dalla
post-comunista Nilde Iotti, tra il ’93 e il ’94, propose una forma di
premierato (costruita sul modello tedesco, e molto più sensata di quella in
discussione ora), poi riproposta dal centrosinistra nella bicamerale di Massimo
D’Alema del ’97-’98 (successivamente accantonata in nome del
semi-presidenzialismo alla francese per venire incontro alla destra) e riemersa
(in forma più radicale, ma ancora estremamente soft rispetto alla proposta
attuale) nella riforma Berlusconi-Calderoli bocciata dagli elettori nel 2005.
Di
riequilibrare la forma di governo a favore dell’esecutivo, insomma, si parla da
trent’anni.
Dietro
a questa tendenza da una parte c’è il tentativo di ricostruire
nell’identificazione diretta tra popolo e capo del governo i legami di
rappresentanza che la crisi dei partiti ha fatto saltare tra popolo e
parlamento; dall’altra l’idea che le democrazie parlamentari, nella loro lentezza e
macchinosità, costituiscano un ostacolo all’implementazione rapida delle
riforme di aggiustamento strutturale che il neoliberismo prevede.
Come
illustrava il celebre documento The Euro area adjustment: about halfway there (L’aggiustamento dell’area euro: quasi
a metà strada) pubblicato nel maggio 2013 dal centro di ricerca sulla politica
economica della banca d’affari JP Morgan, gli esecutivi deboli dell’area
mediterranea sono un’eredità scomoda delle transizioni dal fascismo alla
democrazia, da cancellare per rendere più agile e priva di qualsiasi attrito,
anche quello morbido di parlamenti tutt’altro che all’altezza del proprio
ruolo, l’implementazione delle decisioni prese dalle élite finanziarie
transnazionali.
Ma a
essere fondamentale nella costruzione di un potenziale consenso intorno alla
proposta Meloni-Casellati è il primo dei punti esposti dalla presidente del
consiglio:
basta con «ribaltoni» e governi tecnici.
Qui si
toccano nodi scoperti della politica italiana degli ultimi decenni.
Se
l’idea del cambio di maggioranza parlamentare come «ribaltone» è un’invenzione
berlusconiana, parte della retorica antiparlamentare di cui sopra, è innegabile
che i livelli di trasformismo della Seconda Repubblica abbiano spesso raggiunto
il parossismo.
I
governi pre-1993 duravano tendenzialmente pochi mesi, ma le maggioranze erano
fin troppo stabili, con la Dc e i suoi alleati, magari non sempre nella stessa
formazione, saldamente al governo del paese per quarant’anni.
L’Italia
del bipolarismo, invece, ha visto un fiorire di passaggi, collettivi e
individuali, da una coalizione all’altra, contribuendo all’idea diffusa della
politica come un gioco di potere interno alla «casta».
L’apice
di tutto ciò fu raggiunto proprio dal governo in cui Giorgia Meloni era
ministra, il Berlusconi IV, rimasto in sella a dicembre 2010 grazie al soccorso
interessato di parlamentari eletti col centrosinistra.
Una
vergogna che ha lasciato il segno nell’opinione pubblica.
Così
come è innegabile l’anomalia democratica rappresentata dal governo Monti
(2011-2013) e dal governo Draghi (2021-2022), esecutivi «tecnici» nati
dall’iniziativa autonoma dei Presidenti della Repubblica Giorgio Napolitano e
Sergio Mattarella forzando la mano a parlamenti deboli.
È così
strano che si diffonda la sfiducia nel parlamentarismo, quando questo si
concretizza non nella centralità della volontà popolare attraverso la
rappresentanza, bensì della negazione della volontà popolare attraverso la formazione di
governi «tecnici” che non rispondono a nessuno del proprio operato?
Meloni
cavalca il giusto disgusto per queste degenerazioni della politica
contemporanea.
Lo fa
cogliendo l’occasione per indirizzarlo in senso autoritario, quando soluzioni
più semplici sarebbero state a portata di mano:
basti pensare alla cosiddetta «sfiducia costruttiva», in vigore in Germania e Spagna,
che permette di sfiduciare un presidente del consiglio solo presentando e
votando un suo sostituto.
Un
meccanismo che eviterebbe «crisi al buio» e governi nati fuori dal parlamento e
dai partiti.
Ma
che, evidentemente, non rassicura abbastanza la destra al governo.
E
quindi il “premierato” di cui si parla non prevede ciò che la stessa etichetta
aveva indicato in passato (potere di nomina e revoca dei ministri da parte del
presidente del consiglio, sfiducia costruttiva) e ciò che molti capi di governo
hanno in altri paesi, bensì un mostro costituzionale basato sulla logica muscolare
dei “pieni poteri” e della delega totale al leader.
Difendere
la Costituzione non basta.
Questa
riforma può passare?
Per la
maggioranza dei due terzi richiesta dalla Costituzione mancano 27 voti alla
Camera e 17 al Senato:
un gap
che il «soccorso bianco» del centro di Matteo Renzi, già annunciato, non
basterà a colmare.
Quindi
o il negoziato parlamentare porterà a un accordo di compromesso (cosa che il
carattere «estremo» di questa prima proposta suggerirebbe, ma che appare
difficilmente compatibile con il clima fortemente polarizzato del campo
politico attuale) o si andrà a un nuovo referendum.
Conviene
a Giorgia Meloni farlo, sapendo che non c’è quorum e che la mobilitazione
dell’opposizione potrebbe risultare decisiva, come già accaduto alla riforma
Berlusconi-Calderoli nel 2005 e a quelli Renzi-Boschi nel 2015?
Difficile
dirlo.
Dietro
all’iniziativa, ci potrebbe essere la volontà di rimarcare un punto identitario
della destra, controbilanciando l’egemonia leghista sull’autonomia
differenziata, e lasciando un segno indelebile del passaggio della fiamma
tricolore al governo, nella Costituzione.
Oppure
potrebbe essere un ballon d’essai, lanciato per poter dire, intanto, di aver
fatto una proposta, e poi vedere come evolvono le cose.
Di
certo la mobilitazione non può aspettare, ma chi ha chiacchierato di «sindaco
d’Italia» per trent’anni ha poca credibilità.
Una
battaglia in difesa di prerogative parlamentari già erose e di un ordine
costituito in cui nessuno crede, ha poco senso.
Bisogna
discutere sul serio di come ricostruire un sistema di rappresentanza degno di
questo nome.
Da una
parte parlando, anche a sinistra, di riforme costituzionali
(mono/bicameralismo, iniziativa popolare e referendum, legge elettorale non da
rivedere a ogni legislatura, rapporti stato-regioni, legge sui partiti che ne
garantisca la democrazia interna, ecc.).
Dall’altra,
proponendo un discorso radicalmente alternativo a un dibattito sul potenziamento
dell’esecutivo a danno di un parlamento ormai ridotto a passacarte, di partiti
in agonia e di un elettorato a cui richiedere solo periodici plebisciti al capo
(e meno
gente vota meglio è).
Il
punto è ragionare di come ricostruire un rapporto funzionante tra
rappresentanti e rappresentati, invece di puntare solo a ridurre l’attrito per
imporre più rapidamente ed efficacemente le decisioni della governance.
Uscire
dall’ossessione per le riforme istituzionali e porre la questione democratica
nel suo insieme:
servono
organizzazioni collettive generali che rispondano alla crisi dei partiti di
massa e all’insufficienza delle attivazioni locali e settoriali, organizzazioni
unitarie, radicate in termini di classe e capaci di riflettere e ricomporre le
mille appartenenze e le mille identità del mondo di oggi;
va
ricostruita un’efficacia materiale della democrazia, sgretolata dai vincoli
europei, dalla globalizzazione, dalle privatizzazioni;
e
servono anche riforme istituzionali che restituiscano un orizzonte democratico
progressivo, da nuovi strumenti di democrazia diretta alla democrazia interna
ai partiti e alle comunità.
Un
dibattito su chi comanda e chi deve comandare nella nostra società, e non solo
su chi governa, per quanto tempo, e con quali poteri.
Introduzione.
Il
popolo senza politica.
Questionegiustizia.it
- Enrico Scoditti – (6-5-2024) – ci dice:
Non
poteva mancare, in un momento in cui “populismo” è il centro della discussione
politologica e costituzionale in Europa e non solo, una riflessione collettiva
di Questione Giustizia sul tema, naturalmente secondo l’angolo prospettico
della Rivista.
«Populismo
e diritto» dunque, riprendendo il titolo di un contributo di carattere
introduttivo pubblicato nel settembre scorso e che qui viene ripubblicato,
all’inizio del fascicolo, perché ha rappresentato la sollecitazione di alcuni
degli interventi.
Un
capitolo del tema «populismo e diritto» è anche quello del fenomeno migratorio
e del diritto di asilo cui Questione Giustizia ha già dedicato un fascicolo (il
n. 2 del 2018 su «L’ospite straniero. La protezione internazionale nel sistema
multilivello di tutela dei diritti fondamentali») ed a cui presta costante
attenzione con la rubrica «Diritti senza confini».
L’odierno
fascicolo si divide in due parti, una prima in cui viene affrontato il problema
generale, la seconda nella quale i contributi assumono un punto di vista
particolare, con una particolare attenzione al diritto penale, quale punto
sensibile dell’impatto del populismo sul diritto.
Si tratta di un complesso di interventi che mira ad
aprire una discussione sul profilo giuridico del fenomeno populistico, nella
consapevolezza che l’oggetto della riflessione è in incessante trasformazione.
Il
rapporto fra cittadino e potere, nel Novecento affidato alla mediazione dei
grandi soggetti collettivi, è in una fase di cambiamento.
Il mutamento in corso sembra toccare livelli
profondi della stessa struttura antropologica dell’uomo europeo.
Da quando i partiti di massa hanno cominciato
ad evidenziare i primi segni del declino abbiamo, sempre più con il progredire
degli anni, affidato al livello di incidenza delle Carte di diritti, e delle
Corti (nazionali e sovranazionali) preposte alla loro applicazione, il metro
esclusivo di misurazione del grado di civiltà di una società, quasi che
enunciare diritti ed istituire i relativi giudici fosse sufficiente a segnare
il complessivo avanzamento sociale.
Inseguivamo
le “magnifiche sorti e progressive” di Corti e Carte dei diritti e non vedevamo
il lato oscuro della luna, in quali forme stesse evolvendo l’essere sociale al
di là dell’astratta enunciazione del dover essere giuridico.
La
crisi dell’irreggimentazione politica della società, cui erano preposti i
soggettivi collettivi novecenteschi, apriva nuovi percorsi sociali, che
potevano restare non visibili se lo sguardo restava limitato a quello del
giurista.
Il
vero è che la democrazia è costitutivamente fragile perché fondata su quello
che “Gino Germani” definiva l’agire elettivo.
Ciò
che connota il percorso della modernizzazione per il grande sociologo è il
passaggio dall’agire prescrittivo, basato su nuclei normativi che non lasciano
spazio alle decisioni individuali, all’agire elettivo, basato sul principio
della scelta individuale.
Le moderne procedure legali, ha scritto “Lawrence M.
Friedman” nel suo “The Republic of Choice”, sono luoghi di esplicazione di
scelte individuali.
Proprio
perché l’agire elettivo è basato su decisioni individuali è necessaria una
struttura di supporto che consenta all’individuo di sentirsi parte di una
comunità, che lo renda capace di bilanciare le proprie con le altrui ragioni.
La
scelta individuale è un bilanciamento fra sé e l’altro.
Il partito politico novecentesco ha
contribuito in modo determinante alla formazione dell’ossatura necessaria
dell’agire elettivo.
Senza
quell’ossatura l’elezione individuale è esposta alle più diverse derive
depoliticizzanti, fino alle opzioni estreme per una democrazia autoritaria.
La democrazia non è solo una questione di
forme, ma anche di contenuti.
Il
costituzionalismo, quale tecnica di divisione del potere per prevenirne la
concentrazione in poche mani, costituisce un argine importante alla tirannia
delle maggioranze, secondo un classico pensiero, ma quell’argine potrebbe
essere insufficiente se la democrazia perde del tutto la sua sostanza politica.
Gli
stessi diritti, nel passaggio dalla dimensione oppositiva al potere a quella
pretensiva di prestazioni sociali e di partecipazione decisionale, rischiano di convergere con
dinamiche individualistiche e depoliticizzanti se la società nel suo complesso non è
retta da un’anima politica.
Questo
fascicolo è denominato «Populismo e diritto» perché sono le ricadute sul
diritto che ci interessano, ma dovrebbe, in modo più pertinente, chiamarsi
«Populismo e politica», perché il cuore del fenomeno risiede in quest’ultima.
Del
resto questo ha a che fare con i tratti epocali dello Stato moderno, il quale
nasce con la fine dell’ordine sociale medievale, irrigidito sull’ordine
giuridico, e con l’introduzione del nuovo concetto di trasformazione sociale,
della quale diventa responsabile la politica.
Il diritto cambia posizione, da intima struttura della
società a mero limite della politica quale potenza di mutamento sociale. Ecco perché essenziale barometro di
civiltà nel mondo moderno è la politica.
Ad un
certo punto anche la forma costituzionale partecipa di questo disegno
trasformatore, perché le Costituzioni novecentesche, come è noto, non sono più
solo limite del potere politico, ma anche programma di società, indirizzo
fondamentale dello stesso agire politico ed istituzionale.
Il Novecento è stato il secolo del titanismo
politico, della possibilità di pensare nuovi ordini sociali e dunque della
plasmabilità quasi senza limiti della struttura sociale.
Non
era concepibile un popolo sovrano in questo contesto di disponibilità
dell’ordine sociale senza una trama di soggettivi epocali che provvedesse a
“formare” il popolo, a politicizzarne l’agire collocandolo su grandi disegni di
cambiamento di una comunità nel suo insieme.
Il
popolo era ancora comunità grazie alla politica.
C’è
qui una prima caratteristica del populismo contemporaneo, o “populismo 2.0”
come è stato definito:
una
natura profondamente anti-comunitaria e individualistica, che si lega del resto
al rapporto immediato, senza alcuna intermediazione, fra individuo e potere.
L’espressione
“populismo” ha origini nobili, se si pensa ai movimenti politico-culturali
della Russia pre-rivoluzionaria o a talune personalità della Francia della
prima metà dell’Ottocento e del Risorgimento italiano.
“Alberto
Asor Rosa” poteva così aprire il suo fortunato volume della metà degli anni
Sessanta del secolo scorso, “Scrittori e popolo”.
Saggio
sulla letteratura populista in Italia, dando di “populismo” la definizione di
«rappresentazione positiva del popolo in chiave progressista».
Quel
popolo era però comunità, attraversato com’era da forme di appartenenza
collettiva, mentre oggi populismo rinvia alla polverizzazione individuale della
società.
Populismo
è in realtà la forma di un’atomizzazione individualistica nella quale il
cittadino è solo con il potere, nell’ambito di una relazione priva di
intermediari che non siano la comunicazione digitale ed il circuito mediatico
in genere.
Della
politica del Novecento il populismo recepisce la carica trasformatrice radicale
la quale però, privata della struttura politica di governo e del fondamento
comunitario dell’agire politico, sembra non conoscere limiti di sorta.
È questo il punto debole anche delle letture
del populismo, declinate in senso non individualistico, che vengono
dall’America Latina ed in particolare dall’Argentina (si pensi a “La ragione
populista “di Ernesto Laclau ed a “Per un populismo di sinistra” di Chantal
Mouffe).
La
politica populistica è una politica che non conosce limiti, non solo nel senso
dei vincoli che il diritto frappone all’agire politico, come dimostra la deriva
del diritto penale, piegato da limite a strumento del potere punitivo, ma anche
nel senso degli ostacoli tecnici che la realtà oppone alla realizzazione di
determinati disegni.
Ristabilire
i limiti tecnici della politica non vuol dire assumere atteggiamenti di
rassegnazione, ma significa restituire peso alla comunità, reintrodurre un
fattore di ponderazione fra le ragioni del sé e quelle dell’altro.
Del
resto la stessa forma costituzionale del diritto non è più nei termini
dell’alternativa secca fra un programma fondamentale da realizzare ed i diritti
da preservare, ma è nel senso del bilanciamento fra i diversi principi
concorrenti, come dimostra la teoria e la prassi della giustizia costituzionale.
La
naturale ostilità del populismo per il pluralismo, come categoria sia
istituzionale che politica, trova la propria base nella radicale pretermissione
delle ragioni dell’altro che deriva da un agire privo del senso del limite.
Con il
famoso esempio del direttore d’orchestra contenuto nel terzo libro de Il
capitale Marx coglieva nell’attività di comando in fabbrica per un verso
l’espressione del conflitto di classe per l’altro l’esigenza di coordinamento e
direzione propria ad ogni processo produttivo.
Fino a che punto l’assetto sociale è
espressione di una gerarchia di interessi che può essere modificata e fino a
che punto è invece un dato neutrale non modificabile?
Una
politica di segno anti-populista dovrebbe oggi guardare alla giustizia sociale,
ma allo stesso tempo dovrebbe restare consapevole delle rigidità tecniche che
la realtà pone, e su questo doppio movimento formare un popolo e ricostituire
il legame sociale.
Dovrebbe
tornare in definitiva alle ragioni del “pubblico”, che è responsabilità per
l’insieme, e su questo costruire una sfera pubblica di partecipanti alla
politica, consapevoli del loro essere situati in una rete di rapporti.
Il
popolo politicamente inteso, come ci ricorda “Mario Tronti”, non è il tutto
indifferenziato cui rinvia il populismo, è una parte che si contrappone ad
un’altra parte, ma, proprio perché si tratta di popolo in senso politico, è una
parte che guarda all’insieme.
Rispetto
alla grande questione delle nuove povertà indotte dalla globalizzazione c’è la
risposta autoreferenziale del populismo e c’è quella che guarda, o cerca di
guardare, all’insieme.
La
considerazione della pluralità dei punti di vista, quale peculiarità del
“pubblico”, rinvia, per concludere, alla forma della giustizia.
Per “Emmanuel
Lévinas” il proprium del giudicare risiede nell’apparizione del terzo fra il
giudice ed il caso.
Ciò
che salvaguarda il giudice, che voglia andare oltre l’astratta legalità, dalla
perdita di una giusta distanza nei confronti del caso è la presenza del terzo
rispetto a colui che domanda giustizia.
Quest’ultimo è l’altro del giudice e il terzo
è l’altro di chi domanda giustizia, è cioè l’altro dell’altro rispetto al
giudice.
C’è sempre l’altro dell’altro.
La
giustizia è lo sguardo a trecentosessanta gradi. Pensare il mondo come l’altro
dell’altro è la strada, non facile, della politica dopo il populismo.
Intervento
del Presidente Meloni
all'incontro “La Costituzione di tutti.
Dialogo
sul premierato.”
Governo.it
– Presidente Meloni – (Mercoledì, 8 Maggio 2024) – ci dice:
Buonasera
a tutti,
davvero
grazie, ringrazio la “Fondazione De Gasperi” e la “Fondazione Craxi”, i
Presidenti Alfano e Boniver, per aver voluto organizzare questa iniziativa così
autorevole, grazie per l’invito a prenderne parte.
Saluto il Presidente Fontana, e lo ringrazio
anche per ospitarci, saluto il Ministro Alberti Casellati, tutte le autorità,
tutte le persone presenti.
Voglio soprattutto ringraziare i nostri
autorevoli relatori, il Professor Orsina, il Professor Clementi, la
Professoressa Poggi, il Presidente Violante, grazie a Maria Latella, davvero è
stato un dibattito molto molto importante, molto interessante, e soprattutto è
stato un dibattito all’altezza di quello che ci si aspetta da un dibattito
intorno al tema della Costituzione, molto prezioso anche per chi poi deve
politicamente prendere delle decisioni.
Voglio ringraziare gli organizzatori di questo
evento, salutando le autorità ma soprattutto gli imprenditori, i
professionisti, gli accademici, gli scienziati, gli artisti e gli sportivi che
sono oggi in questa sala:
la
composizione di questa sala è uno spaccato molto bello e la scelta che il
presidente Alfano e la Presidente Boniver hanno fatto organizzando una
iniziativa il cui titolo è “La Costituzione di tutti. Dialogo sul premierato”, cioè un confronto sulle riforme
istituzionali, che normalmente si considera essere circoscritto agli addetti ai
lavori, e
invece far partecipare a quel dibattito una platea fatta di personalità che
rappresentano l’impresa, la cultura, lo sport, l’Italia che produce, la
considero una scelta intelligente perché, come dice il titolo di quest’evento, la
Costituzione, ciò che sancisce il modo in cui articola il funzionamento delle
Istituzioni repubblicane, non riguarda affatto solo gli addetti ai lavori.
Noi
dobbiamo soprattutto partire da qui, cioè la Costituzione delinea i principi, i
valori, le forme entro le quali la nostra Nazione - in tutte le sue
articolazioni - cresce e si sviluppa, anche e soprattutto dal punto di vista
economico, sociale, culturale.
Ecco
perché la Costituzione è di tutti, partiamo da qui, perché tocca tutti, nessuno
escluso, e a tutti fornisce gli strumenti per orientare ciò che ognuno decide
di realizzare nella propria vita:
fornisce gli strumenti a chi, come me, ha
scelto l’impegno politico, ai chi invece si è dedicato all’impresa, alla
produzione, alla ricerca, allo sport.
La Costituzione è di tutti perché delinea quel
patrimonio comune di valori, di principi, di diritti e di doveri nei quali
tutti ci riconosciamo e all’interno del quale le differenti posizioni devono
trovare sempre un terreno comune di confronto.
Nata
dalle rovine della guerra, la Costituzione nasce con l’obiettivo di far
convergere forze e culture politiche diverse e antagoniste, i padri costituenti
si posero il problema di pacificare il conflitto e di garantire pluralismo e
libertà.
È così
riuscita a incanalare le profonde trasformazioni della società italiana, e a
mantenerla unita nonostante tutto.
Ha garantito la libertà e la democrazia nei
passaggi più difficili, penso al contrasto al terrorismo, alla lotta alla
mafia, e oggi sotto la sua guida affrontiamo il ritorno della guerra in Europa,
in un’altra incredibile stagione della nostra storia, una stagione che forse
qualche anno fa non avremmo considerato possibile.
La forza della nostra Costituzione è
fondamentalmente impedire la lotta di tutti contro tutti, di essere il luogo,
nel quale il nostro popolo si riconosce e riconosce al di là delle legittime
differenze, la sua unità politica e sociale e qui veniva citato “Valerio Onida”
negli interventi che mi hanno preceduto.
Valerio
Onida scrive in modo molto autorevole che la Costituzione esprime ciò che è
tendenzialmente stabile nella vita della società e ammette una pluralità di
orientamenti e di scelte politiche diverse nel tempo, ma tutti compatibili con
i suoi principi.
Ora
questo vuol dire anche che la costituzione offre una cornice, fissa dei
paletti, ma allo stesso tempo garantisce l’autonomia alla politica.
E lo fa dando spazio alle scelte dei partiti,
del Parlamento, del Governo, poiché si fonda sulla sovranità popolare, che è la
principale fonte di legittimazione del sistema.
Quindi
nel quadro costituzionale si sviluppa la democrazia e la democrazia si poggia
sul principio di maggioranza.
Questa
è la cornice entro cui noi lavoriamo.
E
quando diciamo che la Costituzione esprime ciò che è stabile nella vita della
società, però, non intendiamo dire che la Costituzione è un Moloch intangibile.
Negli
oltre 75 anni in cui la Costituzione è stata in vigore non è mai stata
pietrificata, ma è vissuta dell’interpretazione che ne hanno dato e ne danno i
diversi attori della nostra democrazia.
Lo
dico per dire che anche nell’attuale dibattito al quale assistiamo, chi ritiene
di essere il depositario esclusivo della Costituzione ne mette, per paradosso,
in crisi la funzione unificante che è propria della Costituzione:
se la
Costituzione deve essere di tutti, ed è di tutti, la sua interpretazione non
può privilegiare una sola cultura politica o un solo punto di vista.
La
Costituzione va letta e applicata in modo che tutti in essa si riconoscano.
Oggi, in questa sala, abbiamo ascoltato un
saggio di quella pluralità di culture politiche che hanno dato e danno vita
alla Costituzione, che nella Costituzione si riconoscono, ma che della
Costituzione prospettano declinazioni non sovrapponibili, pur nella
condivisione degli stessi comuni principi.
C’è
chi ha posto l’accento su alcuni aspetti, chi su altri.
Chi ha richiamato l’attenzione su talune forme
istituzionali, chi su altre. Ripeto voglio ringraziare con sincerità i
relatori, perché è questo tipo di dialogo - nel merito e nei contenuti – dal
quale emergono anche oggettive e interessanti questioni utili, soprattutto per
la politica, è il dibattito che io mi auguro possa accompagnare l’iter di
questa riforma, della quale oggi inizia l’esame nell’aula del Senato.
Penso
che sarebbe un errore approcciare a questi temi con un’impostazione ideologica,
o legata a esigenze o a interessi contingenti, che è però purtroppo
l’orientamento prevalente che vedo finora in questo dibattito.
Dall'altra
parte, però penso anche che sarebbe un errore da parte della politica, di
fronte a questo atteggiamento, indietreggiare e gettare la spugna.
Per
cui io credo che più noi riusciamo a stare nel merito e meno fondiamo questo
dibattito su posizioni di partito preso e più possiamo arrivare a un testo, non
so quanto condiviso - poi ci arrivo - ma magari migliore.
Purché
si parli del merito della questione.
Allora
io parto dagli obiettivi che noi ci siamo posti con questa riforma.
Come
sapete la riforma ha il suo cuore nell’elezione diretta del Presidente del
Consiglio e sostanzialmente si pone due grandi obiettivi.
Il
primo di questi obiettivi è garantire il diritto dei cittadini di scegliere da
chi farsi governare mettendo fine alla stagione dei ribaltoni, alla stagione
dei governi tecnici, alla stagione della maggioranza arcobaleno, che nessuna
corrispondenza hanno con il voto popolare.
Ora
qui voglio fare un breve inciso.
Diceva
prima la professoressa” Poggi” che nessun potere è assoluto, cioè neanche la
sovranità popolare è un potere assoluto.
Eppure nel dire che neanche la sovranità
popolare è un potere assoluto, noi riconosciamo che la sovranità popolare è il
potere preminente - articolo uno della Costituzione.
Ora,
uscendo ad un livello un po’ più di attualità, cioè di questo dibattito,
prendiamo ad esempio la scorsa legislatura.
Il
potere preminente è la sovranità popolare.
Nella
scorsa legislatura abbiamo avuto tre governi guidati da due Presidenti del
Consiglio.
Nessuno
di quei due Presidenti del Consiglio aveva avuto alcuna forma di legittimazione
popolare diretta, non si erano neanche presentati alle elezioni, hanno guidato
due governi composti da maggioranze che erano formate da partiti che in
campagna elettorale avevano dichiarato la loro alternatività, che era una parte
del consenso acquisito da quei partiti.
Hanno
realizzato programmi che nella loro interezza non sono mai stati sottoposti al
vaglio dei cittadini e la fiducia a quei governi è stata votata da parlamentari
che sono eletti con delle liste bloccate.
Ora,
dall'essere un potere assoluto all'essere arrivati a una democrazia nella quale
i cittadini non scelgono il Presidente del Consiglio, il programma, la
maggioranza e neanche i parlamentari ci passa una bella differenza.
Chiaramente,
a scanso di equivoci, è tutto costituzionalmente legittimo, non voglio che poi
si facciano le polemiche.
È
tutto costituzionalmente legittimo.
Qual è
il punto, secondo me?
È che i padri Costituenti non potevano
immaginarlo, perché era un altro mondo, perché le cose sono cambiate, perché ci
troviamo in un'altra epoca.
Ci
sono delle cose che vanno inevitabilmente, noi lo possiamo prevedere, lo
abbiamo visto accadere, ma allora lo possiamo anche correggere. Che è il punto
che io mi pongo.
Allora
il primo obiettivo, dicevamo, è quello di garantire che i cittadini abbiano
voce in capitolo - e arrivo anche al tema dei parlamentari, perché penso che il Presidente
Violante conosca la mia posizione su questo.
Il
secondo obiettivo che noi ci siamo dati con questa riforma è assicurare che chi
viene scelto dal popolo per governare possa farlo con un orizzonte di
legislatura, e avere il tempo necessario per portare avanti il programma con
cui si è presentato ai cittadini, perché il tempo, la stabilità di governo, è
una condizione determinante per
costruire qualsiasi strategia e dunque per restituire credibilità alle nostre
Istituzioni agli occhi dei cittadini e restituire credibilità a questa Nazione
con i suoi interlocutori internazionali.
Sono
obiettivi di sistema, per noi irrinunciabili, e non sono, come è stato detto in
molti interventi che mi hanno preceduto, nuovi nella storia repubblicana, a
partire dai lavori dell’Assemblea costituente, e ricorrenti nel dibattito
politico, parlamentare, costituzionale e accademico degli ultimi cinquant’anni.
Ringrazio
il Presidente Alfano per aver fatto una sintetica ricostruzione di questo ampio
dibattito.
Da cosa nasce questa esigenza di riforma?
Da un
problema che tutti, trasversalmente, riconoscono e che riguarda l’efficacia e
il funzionamento della nostra forma di governo.
Negli anni, autorevoli costituzionalisti e
numerose Commissioni di riforma si sono interrogati su come assicurare
stabilità e capacità decisionale al Governo, nel quadro di un robusto sistema
di garanzie e contrappesi.
Non si
è mai riusciti a fare passi avanti, a trovare una soluzione, forse proprio per
la tendenza ad approcciare queste materie, soprattutto da parte della politica,
guardando al dito e non alla luna, all’attualità piuttosto che alla storia, all’interesse
di parte in luogo dell’interesse del sistema.
Presidente
Violante, io mi sono interrogata molte volte su come i miei avversari politici
utilizzerebbero questa riforma se fossero al Governo, non mi spaventa e non mi
preoccupa perché sono convinta della bontà di questa riforma.
Ora mi
prenderò qualche insulto per dirlo ma dal mio punto di vista la sto facendo per
chiunque arrivi domani.
Io non
ho questi problemi oggi, questo è un Governo solido, stabile, io non avrei
bisogno di fare questa riforma, è un rischio per me.
Ma se
chi ha l’occasione per la prima volta dopo davvero molti anni di lasciare un
cambiamento che possa domani essere utilizzato da tutti in positivo cioè la
possibilità di avere chiaramente un mandato chiaro dai cittadini e avere la
possibilità di avere cinque anni per realizzarlo, se io non lo facessi, non
cogliessi questa occasione, non per me ma per chi ci sarà tra molti anni o nella prossima
legislatura perché la politica è così, non sarei in pace con la mia coscienza.
Quindi
sì, mi sono esattamente posta il problema di come può essere utilizzata da
chiunque e penso che possa essere utilizzata da chiunque in positivo una
riforma di questo tipo.
Nell’ambito
di questo lungo dibattito, a me piace citare “Costantino Mortati”, uno dei
padri del costituzionalismo italiano, che nei primi anni settanta diceva:
“Non sembra dubbio che la preferenza debba
andare alla elezione popolare del Primo Ministro, ciò soprattutto allo scopo di porre
accanto a questo organo responsabile davanti al popolo dell’indirizzo politico
di cui è espressione, un Capo dello Stato, che non desuma la sua investitura
direttamente dal popolo”.
Lo
stesso ragionamento è stato fatto con accenti diversi da Bettino Craxi, che si
era fatto promotore di una riforma in senso presidenziale.
Penso
alla proposta elaborata da Cesare Salvi, durante la Bicamerale presieduta da
Massimo D’Alema, che aveva l’assenso dei popolari, della sinistra democratica e
dei verdi, che
prevedeva l’elezione diretta del Presidente del Consiglio.
Non dimentico, ovviamente, il contributo,
politico e culturale, che a questa causa ha portato, lungo tutta la storia
repubblicana, la destra:
dal
Msi, passando per Alleanza nazionale, fino a Fratelli d’Italia.
Perché
lo dico? Lo dico perché la proposta di un'elezione diretta del Capo del
governo, a ben guardare, non è una proposta di destra e non è una proposta di
sinistra.
È una
proposta che, pure con accenti diversi e soluzioni diverse, è stata sostenuta
in modo assolutamente trasversale, anche da quelle culture politiche che ora ne
parlano come se fosse la spia di un disegno intimamente autoritario.
Oggi
leggo di leader politici che parlano di fermare la riforma con i loro corpi, e
non so se lo devo leggere come una minaccia o come una sostanziale mancanza di
argomentazione nel merito.
Però è difficile.
Faccio
riferimento insomma al Prof. Clementi quando diceva dialogo.
Certo, anche io preferirei, preferisco e farò
quello che posso fare per lavorare a una riforma che abbia un consenso più
ampio, ma quando la risposta è ‘la fermeremo con i nostri corpi’, professore la
vedo dura.
Nel senso che, se si ponesse una questione di
merito, io posso nel merito rispondere, se si dice ‘frapponiamo i nostri
corpi’, il merito è un po' più difficile.
E
quando arriva questo genere di dibattito le scelte sono solo due: gettare la
spugna o proseguire.
Gettare la spugna è fare quello che è accaduto
in tutti questi anni e quindi lasciare che il sistema rimanga quello che è, con
gli italiani che lo pagano - e poi ci arrivo – oppure, secondo quello che i
padri costituenti hanno previsto, lasciare un'altra possibilità, perché è vero
che i padri costituenti preferivano una riforma approvata a due terzi della
maggioranza parlamentare, ma non hanno escluso che questo non accadesse.
Cioè
capivano anche lo stallo che poteva venire dalla tattica politica sulla riforma
costituzionale.
E io
penso che di fronte alla tattica politica, il tentativo di chiedere agli
italiani che cosa pensino di questa proposta che viene fatta per loro, se non
si riesce ad approvare la riforma con i due terzi del Parlamento, debba essere
esplorata.
Del
resto, certo che è sempre meglio non arrivare a un referendum divisivo sulla
Costituzione, ma mi corre l'obbligo di ricordare che è la Repubblica è nata sul
referendum divisivo, molto divisivo.
È nata
ed è stato un bene. Quindi è la democrazia.
E i
padri costituenti hanno previsto che questo potesse essere un modo per fare ciò
che i cittadini a maggioranza condividevano anche quando le forze politiche non
erano d'accordo a stragrande maggioranza.
Quindi,
dicevamo che la proposta è stata fatta trasversalmente in questi anni, così
come trasversalmente è stato riconosciuto da tutti come vi fosse un problema
nel nostro sistema, cioè la debolezza della funzione di Governo, la sua tragica
precarietà, che porta con sé come un domino diversi problemi che noi abbiamo
conosciuto.
Questo
è un fatto testimoniato dalla storia e dai numeri:
in 75
anni di Repubblica, in Italia si sono succeduti 68 governi, con 31 Presidenti
del Consiglio; la durata media dei Governi è stata poco più di un anno.
Vi
basti sapere che con i suoi 564 giorni di governo oggi, attualmente il governo
che io presiedo è il sedicesimo in longevità su 68 della storia d’Italia.
Se
questo governo arriverà alle elezioni europee sarà tredicesimo, se dovesse
mangiare il panettone diventerebbe il sesto.
Tanto
è facile risalire questa illuminante classifica sulla durata dei governi nella
storia d’Italia.
E qual
è il problema?
Ogni volta che il governo è cambiato, per
un’altra tendenza che è un po’ tutta italiana, si è anche ricominciato da capo
su tutto, un po’ per necessità e un po’ per scelta.
Questo
non accade in altri sistemi dove su alcune grandi questioni fondamentali,
indipendentemente dal mutare dei governi, le cose vanno avanti seguendo sempre
una stessa linea.
Da noi
non è così, quindi noi dobbiamo anche valutare l’impatto che il nostro
funzionamento ha sul popolo, sulla realtà politica che siamo.
Si è
ricominciato su tutto e chiaramente - come dicevo - questa instabilità a
cascata porta con sé molti problemi importanti e significativi.
Il primo è chiaramente l'impossibilità di
perseguire qualsiasi strategia anche solo di medio periodo, fare qualsiasi
riforma strutturale, cioè affrontare i problemi profondi di questa Nazione.
Quando tu navighi a vista, non puoi
permetterti di interrogarti su quale sarà il destino dei tuoi figli e dei tuoi
nipoti, perché sei troppo concentrato a interrogarti su quale sarà il destino
tuo.
Quando
il tuo orizzonte è troppo breve, non puoi permetterti di fare investimenti,
sapete perché?
Perché
gli investimenti, che hanno un moltiplicatore, in termini di crescita,
infinitamente superiore a quello che ha la spesa corrente, per dispiegare i
loro risultati hanno bisogno di tempo.
E questo è il motivo per cui in Italia gli
investimenti non sono stati fatti e invece la spesa corrente ci ha portato ad
avere il debito pubblico che noi abbiamo, perché quando l'orizzonte è breve,
quello che io sono portato a introdurre è quello che mi dà un consenso
nell'immediato.
Lo
abbiamo visto con una spesa sugli investimenti ferma e con un debito pubblico
che generava consenso immediato alle stelle.
E
quando io un orizzonte breve non mi interessa chi pagherà quel debito pubblico.
Qualcuno lo pagherà.
Perché
se dovessi ripagarlo io, probabilmente ci farai maggiore attenzione.
E
potrei fare decine di esempi come questo.
È la
storia italiana.
Il
secondo tragico effetto dell'instabilità è la credibilità internazionale.
Chi è
esattamente che costruisce delle partnership strategiche quando l’interlocutore
con il quale si siede cambia a ogni incontro?
Perché anche questo purtroppo è accaduto.
Come
si fa a costruire una centralità, che – consentitemi – è fatta anche di
rapporti personali, è fatta anche di conoscenza dell’interlocutore, quando ogni
dodici, diciotto, ventiquattro mesi al massimo, cambia tutto di nuovo?
Anche qui, per costruire rapporti
internazionali solidi serve costanza, serve conoscenza reciproca, serve
attenzione, serve tempo.
E i requisiti sono particolarmente più
necessari oggi per quello che dicevamo prima:
noi
oggi non siamo più in un contesto internazionale, in un contesto globale, che
ci consente leggerezza.
Anche
questo dobbiamo tenere a mente.
Abbiamo
attraversato una stagione molto più facile di questa, una stagione di pace, un
mondo che con tutti i problemi che avevamo ci dava alcune certezze.
Oggi quelle certezze vengono meno e di fronte
a quelle incertezze costanti, di fronte ai rischi che noi corriamo, la
leggerezza che delle volte abbiamo visto può essere davvero esiziale, può
essere davvero drammatica.
Dopodiché
aggiungo:
chi è
disposto a investire in una Nazione nella quale non c’è mai certezza su nulla?
È un altro pezzo dei nostri problemi.
Vi
faccio un esempio che forse può rendere bene l’idea.
In una delle ultime emissioni di titoli di
stato italiani sui mercati esteri, c'erano dieci miliardi a disposizione, sono
arrivate richieste per 155 miliardi.
Perché
l’Italia è diventata così appetibile?
Chiaramente
mi piacerebbe dire “grazie ai provvedimenti di questo governo”, ma sono una
persona troppo seria.
Ci
riguarda però, perché oggi l'Italia è percepita come una tra le Nazioni più
stabili del panorama. Oggi le persone hanno sicurezza nell'investire da noi
perché noi siamo stabili.
Certo
c'entra la postura, i provvedimenti che il governo porta avanti, ma l'elemento
della stabilità è quello che fa la differenza.
E
quindi quanto abbiamo pagato la nostra instabilità da questo punto di vista?
E del resto si sa. Anche qui, basta guardare
alla crescita del prodotto interno lordo.
Alla crescita.
Nei primi vent'anni di questo millennio,
diciamo fino alla pandemia, Francia e Germania sono cresciute più del 20%,
l'Italia è cresciuta meno del 4%.
Ora ci
sono solo due risposte a questa domanda: o tutti i politici italiani sono più
scarsi di tutti i politici francesi e tedeschi- e io non lo penso - o c’è
qualcosa che non funziona nel sistema.
E
quello che non funziona nel sistema è esattamente tutto il prezzo che noi
abbiamo pagato per questo problema di instabilità che avevamo a monte, problema
legato all'instabilità e la debolezza della politica.
L'altro
problema collegato all'instabilità è la debolezza della politica.
Perché
una democrazia possa funzionare sono necessari ma non sono sufficienti la
partecipazione, la garanzia del pluralismo e i diritti, cioè la capacità della
società di far valere le sue istanze nei confronti delle istituzioni.
Alla
“democrazia in entrata” occorre affiancare una “democrazia in uscita”, cioè la
capacità delle istituzioni di decidere e dare risposte ai bisogni dei cittadini
– quella che il Presidente Violante chiamerebbe “democrazia decidente”.
Chiaramente
una democrazia instabile è anche una democrazia che non ha capacità
decisionale, e finisce per essere una democrazia nella quale chi avrebbe il
compito di rappresentare i cittadini e le loro istanze si trova ad essere più
debole di poteri che non hanno quello stesso scopo, che siano le grandi
concentrazioni economiche, che siano le burocrazie o che siano addirittura le
lobby.
E io
capisco che chi ha esercitato il potere in luogo della politica oggi possa
temere una riforma come questa.
Lo
capisco, ma non lo condivido.
C'è
una differenza fondamentale tra la politica e tutti gli altri mondi che possono
credere di sopperire alla politica, che rispetto alla politica il popolo ha
degli strumenti di giudizio.
Io
penso che la democrazia si debba esercitare per il tramite della politica.
Penso
che il governo si debba esercitare per il tramite della politica.
Penso
che quando la politica è debole e altri poteri pensano di fare il bello e
cattivo tempo, non necessariamente lo fanno nell'interesse dei cittadini, non
fosse altro perché a differenza della politica non vengono giudicati dai
cittadini.
E
quindi non mi colpisce, ma non lo condivido.
Penso
che sia un fatto che da troppo tempo la nostra democrazia ha difficoltà a
portare avanti sulle politiche pubbliche che sono fondamentali per rendere
effettive la libertà, i diritti, la solidarietà, la crescita economica e
l'equità sociale, cioè i principi garantiti dalla nostra Costituzione.
Allora
una riforma che assicuri governi eletti dal popolo, governi stabili, governi
con un orizzonte di legislatura, secondo me è anche la misura più adeguata sul
fronte dell’economia, sul fronte della giustizia sociale, chiaramente nella
doverosa interlocuzione con tutti gli attori, nella doverosa interlocuzione con
le parti sociali: il confronto, la capacità di concordare nel confronto
progetti ambiziosi.
Creare
un quadro favorevole alla crescita chiaramente concorre a recuperare le risorse
perché si possano declinare concretamente i diritti, sociali ed economici, che
sono consacrati dalla Costituzione.
Allora
‘come arrivare a questa democrazia’ è la domanda che noi ci siamo fatti quando
abbiamo scritto questa riforma.
A mio
avviso, una buona riforma deve sostanzialmente rispettare due esigenze.
La
prima è salvaguardare il ruolo degli organi di garanzia che il nostro sistema
costituzionale delinea, a partire dalla funzione di arbitro super partes del
Capo dello Stato.
E penso che sia esattamente quello che fa la
nostra riforma, perché è stata una scelta, non è stato un incidente, è stata una scelta di lasciare
inalterati nei tratti fondamentali i poteri del Presidente della Repubblica.
C’è
chi sostiene che il Presidente della Repubblica perderà la prerogativa di
scegliere il Presidente del Consiglio e di decidere se sciogliere o meno le
Camere.
Ora mi
permetto di segnalare che, già oggi, quando il sistema di governo funziona,
cioè quando dalle urne escono maggioranze stabili, il Presidente della
Repubblica recepisce le indicazioni che arrivano dai cittadini.
Perché quasi quasi oramai si parla della
figura del Presidente della Repubblica come se, indipendentemente dal voto, il
Presidente della Repubblica scegliesse il Governo, ma non è esattamente quello
che dice la Costituzione.
Non è quello che fa il Presidente della
Repubblica, mi pare.
Quand'è
che il Presidente della Repubblica è chiamato a esercitare in maniera un po'
più estensiva il ruolo, appunto, di definire chi debba guidare il governo?
Quando
il sistema non funziona e quando il Presidente della Repubblica deve esercitare
un ruolo di supplente di una politica incapace di decidere.
E la necessità, che c'è stata in un sistema in
cui la politica spesso non era capace di decidere, per il Presidente della
Repubblica di esercitare quel ruolo di supplenza non rafforza la figura del
Presidente della Repubblica, cioè non lo mette al riparo da critiche, che
invece dovrebbero essere proprie del confronto e dello scontro della politica.
Quindi
noi non abbiamo aiutato l'autorevolezza della figura di garanzia del Presidente
della Repubblica nel fare esercitare un ruolo che non spettava normalmente al
Presidente della Repubblica, ma spettava a una politica incapace di
esercitarlo.
E
quindi qui noi parliamo di una riforma che può meglio definire una cornice in
maniera tale da non costringere il Presidente della Repubblica ad esercitare un
ruolo che non gli è proprio e che ne può indebolire - chiaramente facendo
tirato in mezzo nel dibattito politico - l'autorevolezza.
Quindi
perché?
Perché
la riforma chiaramente si pone l'obiettivo di evitare le fasi di stallo e di
assicurare che il sistema sostanzialmente funzioni sempre, eliminando a monte
le cause che richiedono di attivare questa funzione supplenza da parte del
Presidente della Repubblica.
Si
detto e è scritto, anche, che il Capo dello Stato sarebbe troppo debole per
“contrapporsi” ad un Presidente del Consiglio che, in quanto fortemente
legittimato dal popolo, potrebbe sentirsi spinto ad abusare della propria
forza.
Io penso anche qui che sia l’esatto contrario.
Penso che proprio quando il Presidente del
Consiglio dovesse ritenere di dover utilizzare la propria forza è lì che si
manifesta il ruolo preminente super partes di garante della Costituzione che
rimane in capo al Presidente della Repubblica e scattano gli altri meccanismi
di limitazione del potere che operano nel sistema.
Io
penso che questa proposta assicuri diciamo la corretta ripartizione dei ruoli
che viene sancita dalla Costituzione, in virtù della quale il Governo e le
Camere determinano l'indirizzo politico e il Capo dello Stato esercita la
funzione di garanzia, mettendo fine a sovrapposizioni che nelle nostre debolezze,
nelle nostre difficoltà a volte hanno creato più problemi che soluzioni.
Dopodiché,
gli emendamenti approvati in Commissione al Senato rafforzano le funzioni del
Presidente della Repubblica:
la
modifica del procedimento di elezione, l’introduzione di atti sottratti alla
controfirma ministeriale e l’attribuzione di nuovi poteri, come il tema della
revoca dei ministri.
Dunque
io credo che - chiaramente non parlo degli autorevoli esponenti e delle loro
autorevoli valutazioni del dibattito di oggi, ma nel dibattito politico -
questo nascondere, questo schermarsi dietro il Presidente della Repubblica
nella campagna contro la riforma costituzionale è come se si fosse studiata una
strategia che poi non si è fatto in tempo a correggere.
Se devo dire quello che vedo.
Ma nel merito della riforma non mi sembra
oggettivamente che la riforma preveda questo.
L’altra
esigenza, simmetrica alla prima, che ogni buona riforma deve rispettare è la
salvaguardia del ruolo del Parlamento.
Anche su questo punto, c’è chi sostiene che la
nostra proposta di riforma indebolisca le Camere.
Io non credo che la riforma indebolisca le
Camere, credo che la riforma indebolisca il trasformismo, e penso che il
trasformismo abbia le Camere e la credibilità delle Istituzioni.
E che
quindi indebolendo il trasformismo non si indebolisca affatto il Parlamento, lo
si rafforza agli occhi dei cittadini e lo si rafforza nella sua funzione, che è
la funzione legislativa.
Poi
anche qui noi siamo stati attenti a non toccare alcune prerogative importanti.
Il presidente Violante poneva un tema interessante che è quello della fiducia
del Parlamento.
È corretto.
La
fiducia in Parlamento, che non è stata una richiesta del secondo partito,
altrimenti su questo farei la vaga, come si dice a Roma, ma in questo caso non
è stata una richiesta del secondo partito.
Noi
abbiamo pensato che fosse comunque corretto, anche, in Repubblica parlamentare
presentarsi al cospetto delle Camere per dare la fiducia al governo. Questo sì.
Per
cui non è vero che la riforma promette una cosa che non fa, la riforma promette
una cosa che fa.
L'elezione
del Capo del governo.
Chiede
al Parlamento, per il ruolo anche che il Parlamento ha, di dare la fiducia al
governo, non al Presidente del Consiglio in quanto singolo che ha già la
legittimazione popolare, ma al governo nel suo complesso.
Dopodiché,
dicevo, la forza del Parlamento è nella sua funzione legislativa e
oggettivamente – è stato detto in più interventi, lo diceva correttamente anche
Angelino Alfano - da anni il Parlamento ha difficoltà ad esercitare la sua
funzione legislativa per colpa della debolezza complessiva del sistema.
E
quindi il tema dell’uso eccessivo della decretazione d’urgenza, problema che ha
riguardato trasversalmente tutti i governi, nonostante i moniti di tutti i
Presidenti della Repubblica che chiedevano un ricorso minore alla decretazione
d'urgenza, ma di fatto, se si vuole dare delle risposte, alla fine il tema del
ricorso alla decretazione d’urgenza torna e, nel ricorso eccessivo alla
decretazione d'urgenza, lo spazio di iniziativa legislativa del Parlamento
quello sì, viene meno.
Questo
è un tema che mi interessa
Questo è un tema che mi interessa nel senso
che io penso, da questo punto di vista, che sarebbe molto interessante se i
partiti nel dibattito parlamentare volessero porre questa questione, ragionare
invece di come rafforzare l'iniziativa legislativa, il ruolo legislativo del
Parlamento.
Questo
è un tema che mi interessa molto.
Parliamone,
perché è corretto costruire dei contrappesi.
Io non sono affatto contraria a entrare nel
merito se c'è un merito di proposte che vengono fatte anche su questo campo.
E
anche perché, mi perdonerete, ma faccio da un anno e mezzo il Presidente del
Consiglio e credo aver fatto per dieci anni il parlamentare d'opposizione,
quindi la mia dimensione è ancora più propriamente quella di chi stava dalla
parte di chi subiva la decretazione d'urgenza, figuriamoci se non capisco
questo tempo.
Però
non diciamoci che fino ad oggi il Parlamento è stato forte e adesso la riforma
lo vuole indebolire, perché stiamo dicendo una cosa che non è corretta.
Il Parlamento è purtroppo stato privato di
buona parte delle sue prerogative in termini di iniziativa legislativa per un
malfunzionamento del sistema.
È una
questione che tutti conosciamo, che tutti abbiamo denunciato e che sì, secondo
me, questa riforma in parte risolve.
Dopodiché
c'è un tema che riguarda i regolamenti parlamentari, ma non posso entrarci io
come capite bene. Io penso che una riforma finalmente seria e approfondita dei
regolamenti parlamentari - questo lo dico dalla mia ex veste di Vice Presidente
della Camera - sarebbe molto preziosa.
Ma
davvero lo dico come auspicio, consiglio, perché non sia mai che mi che si dica
che mi voglio occupare di materie che minimamente competono al Presidente del
Consiglio.
Così
come una riflessione necessaria ovviamente deve riguardare il tema delle leggi
elettorali.
Ora su
questo punto io non intendo dire molto, sono convinta che faremo un buon
servizio alla Nazione, se accompagnassimo questa riforma con una legge
elettorale che ricostruisca il rapporto eletto-elettore e che consolidi la
democrazia dell’alternanza.
Presidente
Violante, credo di essere stata in diversi anni la Presidente dell'unico
partito che ha avuto coraggio per presentare emendamenti che reintroducevano la
preferenza per l’elezione dei parlamentari.
Non sono mai stata contraria, anzi.
Anche
qui, una parte della debolezza del Parlamento, alla fine, è stata figlia di
questo, perché cambia inevitabilmente se dipendi dal cittadino che ti elegge o
dal segretario di partito che ti indica.
Cambia
il funzionamento.
Poi
possiamo discutere: cambia meglio, cambia peggio.
Possiamo
discutere sulle degenerazioni che sono legate spesso alla ricerca del voto di
preferenza che purtroppo tutti sperimentiamo in ogni elezione.
Possiamo
discutere dei contrappesi delle necessità delle correzioni. Sul piano filosofico cambia
l'approccio. E quindi io sono anche su questo totalmente aperta e disponibile.
E
quindi concludo perché davvero mi sono dilungata molto.
Io penso che nel proporre al Parlamento un'ipotesi di
riforma che rispetta una sensibilità diffusa, abbiamo fatto il nostro lavoro.
E penso che abbiamo fatto anche quello che i cittadini
ci hanno chiesto di fare, perché questo tema c'era nel nostro programma
elettorale.
Io
penso che quando si arriva al governo, si abbia come principale compito - nei
limiti di quello che è possibile - realizzare il proprio programma elettorale.
Anche ai fini del dialogo con le forze
politiche, vorrei concentrarmi su un elemento che nessuno considera mai:
noi
abbiamo proposto una riforma che di fatto, come ho detto, risolve alcuni dei
grandi problemi strutturali di questa Nazione - io per questo la definisco la madre
di tutte le riforme, cioè è la riforma dalla quale dipende la possibilità di
fare seriamente tutte le altre - e lo abbiamo fatto toccando sette articoli della
Costituzione.
Eravamo
partiti da quattro, poi nel dibattito parlamentare sono diventati sette.
Lo
abbiamo fatto in punta di piedi.
Non
abbiamo fatto una riforma che entrava a gamba tesa, riscriveva la Costituzione,
stravolgeva la Costituzione.
No, no.
Ci siamo posti il problema di come garantire
un funzionamento del sistema lasciando sostanzialmente intatta la Costituzione.
Ed è
stata una scelta politica, di dialogo, perché io ero partita da un sistema
presidenziale alla francese.
Poi
non entro nel merito del tema del ballottaggio, in Francia il sistema è più
forte, più debole, perché per il Presidente Violante siamo qui fino alle dieci
di sera:
è un
dibattito molto affascinante che mi è capitato di fare al tempo con Enrico
Letta, quando era segretario del Partito Democratico.
Però al di là di questo, io ero partita da un
altro schema.
Abbiamo
incontrato le forze politiche, abbiamo cercato di capire quale fosse l'umore e
tutte le forze politiche ad esempio dicevano “il Presidente della Repubblica
non si tocca”.
Chiaramente se non posso toccare il Presidente
della Repubblica, il semipresidenzialismo alla francese se lo presento diventa
una proposta divisiva.
E
quindi noi abbiamo scritto una riforma che, punto primo, già prendeva in
considerazione il dibattito che c'era stato - ricorderete che abbiamo fatto
proprio le consultazioni con le forze politiche – e, punto secondo, cercava di
entrare in punta di piedi nella Costituzione, pur facendo una grande
rivoluzione per il nostro sistema.
Consideravo
già questo un elemento di grandissima disponibilità al dialogo.
Non è
stato colto.
Mi
corre l'obbligo che siamo lì a fermare i corpi con i corpi e quindi diciamo che
non è stato colto.
Ma
questo era il segnale.
Quindi la scelta ora è nelle mani del
Parlamento.
Nel merito, anche su molte cose che ho
ascoltato oggi e che mi sono appuntata, sono sempre disponibile a dialogare,
purché l'intento non sia dilatorio, purché l'intento non sia quello che tante
volte abbiamo visto in questi Parlamenti, le Commissioni bicamerali, si parla,
si discute tre anni e non se ne fa niente. Arrivederci è finita la legislatura
perché intanto puntualmente cadeva il governo. Le cose che abbiamo visto.
No.
Io
spero che questa riforma possa, anche nell’interlocuzione, anche dialogando nel
merito, arrivare a una maggiore condivisione, addirittura a una maggioranza dei
due terzi.
La
parola oggi è nelle mani del Parlamento, se questo non accadrà la parola andrà
agli italiani, come prevede la nostra Costituzione. E
anche lì, saranno gli italiani - e chiudo davvero - a
dirci se ritengono che il sistema che abbiamo provato a disegnare sia migliore
o se sia migliore tenerci la realtà che abbiamo conosciuto in questi anni.
E
guardate, a chi immagina uno scenario simile a quello che abbiamo visto in
altri anni su referendum confermativi delle riforme costituzionali, è un errore
la personalizzazione, perché questa riforma non riguarda il presente, riguarda
il futuro.
Non
riguarda la sottoscritta.
Dico di più: non riguarda neanche il
Presidente Mattarella che viene continuamente tirato in ballo sulla vicenda
perché, se andiamo a fare i calcoli dell'entrata in vigore della legge,
riguarda un altro mondo, un futuro ipotetico che riguarda tutti.
Per
questo vale la pena di provare a discuterne nel merito, invece di
personalizzare sempre tutto e personalizzare anche questioni di sistema come se
fossero banale attualità.
Io non
ho avuto problemi a votare il taglio del numero dei parlamentari.
Era
all'opposizione del governo, l'ho votato in aula.
Qualcuno
mi chiamò e mi disse “ma, cosa possiamo fare?”.
Non
voglio niente condivido.
Ci
sono questioni sulle quali l’opposizione fine a sé stessa non serve a niente.
Poi si
può discutere “abbiamo fatto bene, abbiamo fatto male”.
Io
sono ancora convinta, si poteva fare meglio, ma ero convinta del principio di
tagliare il numero dei parlamentari.
L’ho
condiviso e l'ho votato, non ho chiesto niente in cambio.
È
possibile che in Italia non si riesca mai a discutere delle grandi questioni
così, con questo approccio?
Perché
alla fine tutta questo gioco tattico non lo pagano le forze politiche, lo
pagano, i cittadini e lo paga la credibilità delle Istituzioni, quindi diciamo
sì anche la politica, ma da un altro verso.
E
chiaramente quando arriverà il referendum, se dovesse arrivare un referendum,
allora l'ultima parola ce l'avranno gli italiani, perché alla fine la
Costituzione non è mia, non è dell'opposizione, non è di questo governo, non è
dei governi precedenti. Come ci siamo detti finora e come penso che tutti
condividiamo dentro fuori a questa splendida sala, la Costituzione è di tutti.
Quindi prima di tutti, è del popolo italiano.
Vi
ringrazio.
(Governo Italiano.)
La mia
intervista di oggi
al
quotidiano “La Stampa”:
Facebook.com
- Presidente De Luca – (3 ottobre 2024) -Redazione - ci dice:
Presidente
De Luca, il campo largo è finito prima ancora di nascere?
«Lei
sa che “campo largo” è una espressione bizzarra, che segnala la nostra lontananza
anche linguistica dalle persone normali, che parlano di coalizione, di alleanza
politica, o se si vuole di centrosinistra.
Evitiamo ora di perderci nella piccola cronaca
politica, e rimaniamo alla questione fondamentale:
per
superare questo governo occorre proporre all’Italia una coalizione credibile e
un programma che parli alla maggioranza degli italiani.
A questo problema sono chiamati tutti a dare
una risposta, assumendosi la responsabilità di fronte al Paese».
Come
si gestisce l’incompatibilità tra Conte e Renzi?
«Non
credo che servano i veti. Ma serve certamente la coerenza politica, che è
quello che si deve pretendere da tutti guardando al futuro e ai problemi di
sostanza.
Siamo in una fase politica di grande
fibrillazione.
Vi
sono le ricadute del voto europeo; ci sono elezioni regionali a cui fare
fronte; c’è una fase costituente nella quale è impegnato il Movimento
Cinquestelle, con le inevitabili discussioni interne e l’accentuazione del
profilo identitario.
Credo
che si dovrà concludere questa fase.
Poi ci
sarà la serenità e il senso di responsabilità necessario per ritrovare il filo
del dialogo e per la ricerca di intese.
L’alternativa sarebbe quella – francamente
umiliante – di dichiarare di fronte al popolo italiano di non essere in grado
di proporre una credibile svolta politica. C’è qualcuno che se la sente di fare
questa scelta?»
Pensa
che queste fibrillazioni possano mettere a repentaglio i risultati in Liguria,
Umbria ed Emilia-Romagna?
«Non
credo sia in discussione il risultato emiliano al di là delle alleanze. Nelle
altre regioni si possono aprire problemi».
Conte
sembra molto irritato dal fatto che Schlein derubrichi la questione a
“polemiche” in cui non vuole entrare: dovrebbe la segretaria esprimersi più
chiaramente sulla vicenda?
«Credo
abbia assunto la sola posizione ragionevole che era possibile.
Oggi
anche chi valuta criticamente l’azione del governo, ci pone alla fine la solita
domanda: ma l’alternativa che proponete qual è?
Dunque,
è giusto insistere in maniera ossessiva sulla necessità di costruire una
coalizione, e su quei punti di programma su cui si registrano convergenze.
Poi, dopo questi mesi e dopo la legge di
bilancio, occorrerà avviare con pazienza, e anche con il coinvolgimento di
forze intellettuali e di competenze esterne ai partiti, il lavoro di messa a
punto di un programma di governo credibile, con un chiaro segno riformatore».
Presidente,
lei ha fatto spesso commenti sferzanti sui Cinquestelle. Il Movimento a guida
Conte è un alleato di cui fidarsi?
I
Cinquestelle hanno conosciuto una fase iniziale di rottura, di messa in
discussione della politica di casta, con eccessi di toni, con irriverenza (a
cui qualche volta ho risposto con ironia), con parole d’ordine a volte
improbabili.
Ma hanno raccolto un’esigenza di innovazione
radicale rispetto al trasformismo politico.
Vi è
stata poi l’esperienza di governo, e il confronto con i problemi duri e
complessi del cambiamento sociale.
Oggi
guardo con rispetto e senza inammissibili ingerenze al dibattito interno ai
Cinquestelle.
Conte
è di fronte al problema di costruire un’organizzazione solida, e di promuovere
un radicamento nei territori, anche con la messa in discussione dei due
mandati.
È un
lavoro difficile, che merita rispetto.
Credo
che, fatti i chiarimenti programmatici necessari, i Cinquestelle siano del
tutto affidabili.
Quello
che credo sia inaccettabile per Conte è la definizione già chiusa di ruoli
futuri.
Da
questo punto di vista è necessario avere, anche da parte del Pd, equilibrio e
generosità.
Sarà
difficile offrendo agli altri ruoli di pura subalternità.
Intanto,
è bene non interrompere il lavoro comune su autonomia differenziata, sul tema
del lavoro, sui diritti».
La
segretaria sta riuscendo a imprimere quel cambiamento di cui parlava?
«Ho
registrato positivamente le iniziative della Schlein sulla sanità pubblica,
sull’autonomia differenziata, sul lavoro.
Non
tutto è chiarito, ma ci si impegna anche sui temi sociali.
Rimangono
aperti i problemi della vita interna del Pd, del peso condizionante delle
logiche correntizie, che diventano, alla fine, l’unico canale di formazione dei
gruppi dirigenti (!), al di là di merito, competenze, e riproducendo una
distanza intollerabile fra funzioni dirigenti ricoperte, e militanza,
sacrificio nei territori e nelle amministrazioni.
In
secondo luogo, c’è ancora tutto un lavoro da fare su punti chiave di programma.
Cito i titoli:
la giustizia, la sicurezza, la palude
burocratica, il Sud, il rapporto con il ceto medio, con il mondo vasto del
lavoro autonomo, del commercio, dell’artigianato.
Occorre un programma che sia convincente per
la maggioranza del popolo italiano, oltre i temi nostri tradizionali legati al
mondo del lavoro e della povera gente.
E poi,
c’è il tema decisivo della pace, su cui registro fra di noi elementi di
opportunismo e di cinismo insopportabili».
L’anno
prossimo si vota in Campania.
Spera ancora di ottenere la possibilità di un
terzo mandato?
«Le
chiacchiere di anni sul terzo mandato sono insopportabili, non solo perché c’è
il Presidente del Veneto che lo sta concludendo serenamente senza che nessuno
abbia eccepito nulla, neanche il Pd;
ma
perché la norma nazionale non è auto applicativa e le regioni possono decidere
in piena autonomia.
Vedo che in Liguria il Pd candida (e
giustamente) un dirigente che è al sesto mandato, compresi tre incarichi
ministeriali.
Dunque,
sarebbe ora di farla finita con le stupidaggini della politica politicante, e
di preoccuparsi dei problemi di governo delle nostre comunità.
Quanto
alla Campania, per quello che c’è da fare, non devo chiedere il permesso a
nessuno.
Vedo
che c’è anche qualcuno che si entusiasma di fronte alla prospettiva di
regalarla al centrodestra.
Noi
invece pensiamo di dover completare un programma di rinnovamento straordinario,
che non ha paragone con nessun’altra regione d’Italia, nel campo della sanità,
del trasporto pubblico, dell’ambiente, delle politiche sociali e scolastiche,
della ricerca, della sburocratizzazione, del rigore finanziario e della
trasparenza.
Davvero
non ho tempo da perdere con le anime morte, o con chi non sa neanche come si
arriva a Napoli».
Presidente,
l’abbiamo vista tutti in quel video con Meloni (sono la str…).
Avete
fatto pace?
«È
stato un anno difficile. Abbiamo avuto con il Governo momenti di discussione e
anche di tensione.
Ci
siamo battuti – spesso da soli – contro l’autonomia differenziata e per lo
sblocco dei fondi di coesione già destinati alla Campania.
Questa
fase si è conclusa alla fine in un clima di rispetto reciproco e di
collaborazione.
Rivendico
con orgoglio non solo questo risultato, ma soprattutto il fatto che ci siamo
arrivati senza opportunismi, battendoci a testa alta, e difendendo fino in fondo
la nostra dignità personale e istituzionale».
Memorie
di pietra del
colonialismo italiano.
I
monumenti e la storia d’Italia.
Degruyter.com - Valeria Deplano – Redazione – De
Gruyter – (22 - 11- 2024) – ci dice
(Dalla
rivista Fonti e ricerche da archivi e biblioteche italiane.)
(doi.org/10.1515/qufiab-2024-0003)
Questo
saggio si propone di storicizzare la presenza di monumenti coloniali nello
spazio pubblico italiano dal periodo liberale a quello repubblicano, indagando
i significati che essi erano destinati a trasmettere.
Utilizzando sia studi pubblicati sia fonti
primarie, il saggio traccia la storia di alcuni monumenti ottocenteschi e
fascisti, dimostrando il loro contributo ai progetti nazionali attuati dai
governi successivi.
L'articolo
si concentra poi sulla storia del Monumento al Lavoratore in Africa, voluto dal
fascismo e inizialmente eretto dalla Repubblica a Siracusa.
In
particolare, indaga il rapporto tra la città e il monumento, e i suoi usi dagli
anni '60 a oggi, al fine di offrire una riflessione più generale sul rapporto
tra spazio pubblico, memoria coloniale e società italiana.
1 Il
colonialismo nello spazio pubblico italiano tra difese e contestazioni
La
questione della presenza di monumenti, lapidi, riferimenti toponomastici
connessi alla storia coloniale italiana da diversi decenni si ripropone
ciclicamente, con modi e referenti diversi, all’attenzione del dibattito
pubblico.
Era
stato per primo lo storico del colonialismo “Angelo Del Boca” a proporre di
rinominare le strade dedicate a celebri colonialisti;
e a
notare come alcuni protagonisti dell’espansione coloniale, di cui era stata
acclarata la responsabilità criminale, continuassero ad essere celebrati nello
spazio pubblico.
Con gli anni Duemila arrivò a conclusione, non
senza polemiche, la vicenda dell’obelisco di Axum, collocato dal 1937 a Roma
dopo essere stato portato via dall’Etiopia, e smantellato solo nel 2002.
Nel 2012 a suscitare un aspro dibattito è
stata la costruzione, nella cittadina laziale di Affile, di un mausoleo
dedicato al generale “Rodolfo Graziani”, responsabile di crimini e massacri in
Libia e in Etiopia e poi ministro della Difesa della Repubblica Sociale
Italiana.
Il tema trovò nuova attenzione due anni dopo,
quando fu pubblicato „Roma negata“, libro con cui la scrittrice italosomala “Igiaba
Scego” attraversava Roma mostrando i segni lasciati dal colonialismo nello
spazio urbano.
Fuori
dai confini italiani, nel 2015 in Sud Africa iniziava la campagna “Rhodes must
fall“, inizialmente finalizzata alla rimozione della statua di Cecil Rhodes
dalla università di Cape Town e più in generale alla decolonizzazione
dell’università;
la
mobilitazione approdò anche in Gran Bretagna, a Oxford, e in generale
l’attenzione nei confronti dei segni del colonialismo aumentò in tutta Europa.
Anche
in Italia nacquero i primi movimenti e progetti finalizzati a far uscire
dall’oblio e problematizzare le tracce del colonialismo:
il primo fu il collettivo „Resistenze in Cirenaica“ di Bologna, che nel 2015 organizzò
una prima azione di ‚guerriglia odonomastica‘ a partire dalla ri-nominazione di
via Libia;
la guerriglia odonomastica fu anche una delle
azioni promosse dal collettivo Wu Ming all’interno del festival „Manifesta“,
svoltosi nel 2018 a Palermo.
Nello stesso anno, a marzo, fece clamore la
colata di vernice rosa versata dal collettivo femminista „Non una di meno“
sulla statua eretta a Milano in ricordo di Indro Montanelli, contestato perché
a più riprese aveva rivendicato i rapporti sessuali con una bambina eritrea
durante il periodo coloniale.
A dicembre, infine, il tema specifico dei
lasciti materiali del colonialismo nello spazio pubblico italiano approdò anche
nell’accademia, e più specificamente nell’ambito dell’”European University
Institute”:
a
partire da Firenze, Markus Wurzer e Daphné Budasz lanciarono il progetto
„Postcolonialitaly“, che ha portato a documentare una presenza consistente
delle tracce materiali visibili nello spazio pubblico di diverse città.
Nel
2020 fu nuovamente una spinta esterna a sollecitare nuove mobilitazioni, ma
anche un rinnovato interesse accademico: l’eco europea del movimento „Black Lives Matter“, in seguito all’uccisione di “George
Floyd” da parte della polizia statunitense, ha portato ad una ulteriore
stagione di contestazioni ai simboli del passato coloniale e schiavista nello
spazio pubblico del continente.
In
quell’occasione al centro dell’attenzione mediatica italiana è stata posta
nuovamente la statua di Montanelli, ma più in generale quel clima favorì la
proliferazione, in diversi contesti locali, di gruppi decisi a riportare
l’attenzione su strade, monumenti, lapidi che negli spazi urbani ed extraurbani
del territorio nazionale continuano a fare riferimento al colonialismo
italiano.
Contemporaneamente,
studiose e studiose hanno iniziato ad indagare il passato di alcuni segni e
monumenti specifici, analizzandoli e storicizzandoli:
nel solo 2022 sono stati pubblicati il volume
in cui “Carmen Belmonte “ha ricostruito la genesi della erezione del monumento
ai caduti di Dogali a Roma;
la
collettanea curata da Andrea Bui e Latino Taddei del Centro studi movimenti di
Parma sulla figura, il mito e la commemorazione e la monumentalizzazione di
Vittorio Bottego;
e infine il libro in cui “Roberta Biasillo”
offre una prima ricostruzione della vicenda del monumento ai caduti d’Africa
costruito a Siracusa.
Tenendo
in considerazione proprio questi recenti lavori, e affiancandoli con nuove
ricerche su fonti giornalistiche e archivistiche, questo saggio intende
ragionare sul rapporto tra segni coloniali nello spazio pubblico e storia
d’Italia dall’età liberale sino al XXI secolo.
L’obiettivo
che si pone è duplice:
in
primo luogo, intende individuare le dinamiche comuni ai singoli casi e le
motivazioni per cui lo spazio italiano è stato segnato nel tempo da riferimenti
coloniali, analizzando i significati di cui questi ultimi sono stati incaricati
di essere portatori. In quest’ottica, si ripercorrono assieme le narrazioni che
accompagnano nell’Ottocento la monumentalizzazione della figura di Pietro
Toselli e la realizzazione dell’obelisco per i caduti di Dogali a Roma, quelle
che accompagnano la costruzione del monumento del primo Novecento innalzato a
Parma in onore di Bottego, e le vicende dell’obelisco di Axum, portato sempre a
Roma nel 1937 e restituito all’Etiopia all’inizio del XXI secolo:
individuandoli come casi studio utili per
ragionare sul ruolo dei monumenti connessi col colonialismo nel processo di
formazione della nazione, dall’età liberale alla Repubblica.
Come
ha scritto “Keith Lowe”, infatti, i monumenti „riflettono i valori che ogni
società, ingannandosi, considera eterni, e quindi li incide nella pietra e li
issa su un piedistallo “.
In
secondo luogo, il saggio analizza in maniera più puntuale il rapporto tra
società contemporanea e colonialismo, attraverso le vicende più recenti del
Monumento per i lavoratori italiani d’Africa di Siracusa.
Il monumento, ideato negli anni Trenta ma
costruito negli anni Sessanta in Sicilia, e solo di recente inserito in qualche
modo nel tessuto sociale della città, rappresenta uno dei casi più evidenti di
„difficult
heritage“
del colonialismo italiano nel contesto repubblicano.
Se il caso di Axum è cruciale per parlare di
continuità culturali nell’Italia repubblicana, quello del monumento siciliano
consente di complicare il quadro e di ragionare sulle dinamiche attraverso cui
l’eredità coloniale e fascista finiscono per essere accettate in un contesto
che le percepisce a lungo come problematiche.
2
Segni coloniali per fare l’Italia: l’età liberale.
Secondo
“Angelo Del Boc”a, una delle prime prove dell’impatto del colonialismo sulla
società italiana ampiamente intesa è la diffusione del nome Tosello tra i nuovi
nati di fine Ottocento.
Il riferimento era a Pietro Toselli, un
militare di carriera che partecipò attivamente all’avvio del processo di
espansione italiana nel Corno d’Africa.
A
Toselli sono stati infatti attribuiti alcuni scritti a sostegno della politica
coloniale italiana:
un
pamphlet „Africa“ pubblicato nel 1889, e due anni dopo l’opuscolo „Pro Africa
Italica“.
Da militare partecipò all’occupazione di
quella che nel 1890 sarebbe diventata la prima colonia italiana, l’Eritrea.
Inviato in Africa per la prima volta nel 1888,
nel 1894 fu chiamato a reprimere una ribellione all’interno del nuovo
possedimento.
Nel
frattempo erano cresciute anche le tensioni con il vicino impero etiopico,
verso il quale lo Stato italiano nutriva aspirazioni espansioniste.
Nel
1895 Toselli fu mandato a fronteggiare l’esercito dell’imperatore etiopico
Menelik;
sull’Amba
Alagi si trovò contrapposto, con 1800 uomini eritrei, alle truppe dieci volte
più numerose del ras etiopico Maconnen;
forse
anche per ordini non chiari decise di resistere, e fu ucciso.
Dopo
la morte Pietro Toselli fu trasformato in un eroe e martire che si era
sacrificato per la patria, e offerto come esempio a una nazione che, dopo
quelli risorgimentali, aveva disperatamente bisogno di riferimenti.
Toselli,
nato cinque anni prima dell’Unità, era infatti uno dei primi uomini che non
avevano ‚fatto l’Italia‘, ma erano morti per ‚renderla grande‘.
In
questa veste fu inserito nell’immaginario della nazione:
la sua
salma fu esumata nel 1897 per essere rimpatriata e sepolta nel suo paese
d’origine, Peveragno in provincia di Cuneo;
e il
viaggio fu raccontato dalla stampa come il ritorno del figlio eroico.
Negli anni successivi alla morte gli furono
dedicate diverse opere agiografiche, poemi, canzoni, le prime strade.
Nel 1899 a Peveragno fu eretto un monumento in
suo onore realizzato dallo scultore “Ettore Ximenes;
sulla
base dell’opera, una scritta ne sottolinea il patriottismo.
Toselli,
si legge, rimase sull’Amba Alagi „con lo sguardo fisso al nemico, il cuore
all’Italia“.
L’inaugurazione
ebbe grande risonanza sulla stampa, e diverse testate contribuirono a
presentare Toselli come eroe della nazione.
Il quotidiano torinese „La Stampa“ fece
dell’inaugurazione la notizia di apertura dell’edizione del 17 luglio 1899:
riportò
la descrizione del monumento, l’accoglienza ufficiale tributatagli dalle
autorità militari e civili, nonché la prolusione dello scrittore peveragnese
Vittorio Bersezio, che insisteva proprio sul valore nazionale delle gesta di
Toselli:
„Da
ultimo una calda parola, una voce commossa io mando a te, o popolo italiano. …
Ti conceda fortuna lunghi anni di lavoro e di pace, in cui tu possa esplicare
l’attività del tuo genio; ma se mai spuntasse sul tuo orizzonte (che Dio non
voglia!) l’ora del pericolo, da questo ultimo lombo d’Italia dove questo
monumento starà permanente ricordo del valore dei tuoi figli, l’animo dei
conterranei di Pietro Toselli si unirà con ardore all’animo tuo, o popolo
italiano, nel grido dei popoli forti: Viva la Patria, viva il Re.“
La
narrazione proposta dal „Corriere della Sera“ invece tracciava una linea di
continuità tra l’antica Roma, i fasti della Repubblica Veneziana, e il Regno
d’Italia: Toselli veniva prima paragonato a Lucio Emilio Paolo, per Plutarco
morto eroicamente a Canne, ai dogi Enrico Dandolo, Francesco Morosini, e
all’eroe risorgimentale Luciano Manara.
Due
anni dopo a Toselli fu dedicato anche un busto a Roma, collocato davanti alla
caserma Principe di Napoli di fronte a quello che ritraeva Giuseppe Galliano,
il generale che guidava l’esercito italiano durante la disfatta di Adua del
1896. Nell’iscrizione posta alla base del busto, Toselli è nuovamente messo in
relazione con un eroe classico, stavolta il re di Sparta Leonida;
mentre
nel discorso di inaugurazione il ministro Tancredi Galimberti lo paragonò al
„legionario romano trovato negli scavi di Pompei, fermo al suo posto e fedele
sino all’ultimo alla ricevuta consegna“.
Il
‚caso Toselli‘ mette in evidenza come il colonialismo fin dall’età liberale
abbia offerto materiali discorsivi considerati utili per impastare lo spirito
nazionale: l’amore nei confronti dell’Italia, il sacrificio, il valore
militare.
In linea con la cultura europea del tempo,
anche quella del liberalismo, il fatto che queste qualità si esplichino
all’interno di un progetto espansionistico fondato sulla sopraffazione,
sull’occupazione dei territori con tutte le conseguenze economiche e sociali
sulle popolazioni locali non viene quasi messo a tema.
Invece l’espansionismo in sé, oltre che
legittimo, è presentato come elemento di manifestazione della forza della
nazione e della sua grandezza.
I
monumenti, dunque, sono uno degli strumenti utilizzati da soggetti diversi –
amministrazioni locali, Forze armate, il governo – per rendere un protagonista
dell’espansionismo coloniale un punto di riferimento e un esempio per la
comunità nazionale.
Con
intenti simili furono realizzati altri monumenti costruiti in età liberale.
Il più
celebre, antecedente alla eroicizzazione di Toselli, è quello dedicato ai
caduti della battaglia di Dogali, del gennaio 1887.
Si trattava della prima pesante sconfitta
subita dall’esercito regio nel Corno d’Africa, e contò 435 vittime italiane.
La
decisione di ricordarne pubblicamente i caduti fu immediata:
come
ha ricostruito Carmen Belmonte, l’idea di erigere un monumento fu lanciata
dall’Associazione Stampa nel febbraio dello stesso anno, ed era giugno quando
il consiglio comunale di Roma decise di raccogliere la proposta e programmare
l’erezione di un monumento di fronte alla recentemente inaugurata stazione
Termini.
Alla
battaglia sarebbe stata intitolata anche la piazza prospicente la stazione, che
proprio in riferimento ai caduti di Dogali divenne piazza dei Cinquecento.
È evidente il valore esemplare che si volle
attribuire alla vicenda, per quanto tragica;
nel
1887 la politica coloniale italiana è ancora al suo inizio, l’Eritrea non è
ancora stata dichiarata ufficialmente una colonia italiana, eppure quella
politica incerta viene considerata degna di essere ricordata e additata a tutti
gli italiani che arrivano nella capitale come simbolo di nuovo del valore e
dell’amore nazionale.
Della
storia del monumento tracciata da Belmonte son da ricordare almeno due
elementi:
innanzitutto
il fatto che, anche in questo caso, l’esaltazione dell’Italia ottocentesca sia
ricercata attraverso la costruzione di un legame delle vicende coloniali col
passato.
In quest’ottica, per la realizzazione del
monumento fu utilizzata una vestigia egiziana.
La
linea di continuità fu inoltre sottolineata discorsivamente:
durante
l’inaugurazione, il sindaco Leopoldo Torlonia affermò che „La città immortale,
che temprò la spada nelle guerre puniche, consegna alla storia, alla pietà ed
all’esempio dei presenti, e dei futuri, questo monumento. “
L’iscrizione posta sul monumento paragonava
infine i caduti di Dogali ai Fabii, morti combattendo contro gli etruschi per
la grandezza di Roma.
In
secondo luogo, Belmonte mostra come il monumento non raccolga il favore che
forse Torlonia avrebbe voluto:
pur
carico di simbolismo, l’obelisco fu subito al centro di polemiche e attacchi
giornalistici.
In particolare, il giornale del Vaticano, in
quella fase storica in aperta contrapposizione con lo Stato italiano, derise il
monumento per le sue dimensioni modeste, inadatte a celebrare quella che il
sindaco voleva esaltare come una grande impresa del Regno.
Forse anche per questo nel 1925, in
concomitanza di lavori di risistemazione della piazza e della stazione, esso fu
spostato da una posizione centrale a una più defilata, nei giardini davanti
alle terme di Diocleziano.
Fortune
alterne, e dibattiti, avrebbero accompagnato anche il monumento a Vittorio
Bottego, inaugurato a Parma nel 1907.
Bottego, vissuto nello stesso periodo di
Toselli (1860–1897), fu un ufficiale dell’esercito e membro della Società
Geografica Italiana di Parma.
Si
recò più volte nel Corno d’Africa nei primi anni dell’occupazione italiana,
diventando tra l’altro il primo europeo a percorrere la rotta da Massaua ad
Assab e a raggiungere le sorgenti del fiume Giuba.
Restò ucciso nel 1897, durante la sua ultima
spedizione finalizzata a conoscere il corso del fiume Omo.
Bottego
aveva documentato i suoi viaggi attraverso relazioni ufficiali e libri:
i suoi
scritti testimoniano razzie e azioni sanguinose e violente sistematicamente
messe in atto contro le popolazioni locali.
Questo
comportamento fu denunciato già al tempo da uno dei membri della sua
spedizione, Matteo Grixoni, le cui parole però non riuscirono a scalfire
l’immagine pubblica di Bottego.
Questi,
invece, si avviò a diventare un’altra figura da celebrare nello spazio
pubblico.
Come
per Toselli, anche nel suo caso fu la comunità del luogo di provenienza, Parma,
a pensare di dedicargli un monumento, completato dopo alcune traversie dallo
stesso Ettore Ximenes che aveva realizzato l’opera di Peveragno.
E come
per quello ai caduti di Dogali, anche la decisone di erigere il monumento a
Bottego fu oggetto di qualche malumore e polemica, come hanno ricostruito
Becchetti, Taddei e Vitale.
Il
giornale della locale Camera del Lavoro non mancò di ricordare la ben poca
onorabilità delle azioni compiute in Africa da parte del personaggio celebrato;
e di
raccontare anche le contestazioni degli operai nel giorno dell’inaugurazione.]
Perché
il colonialismo iniziasse a entrare in maniera più consistente e visibile nella
vita quotidiana degli italiani si sarebbe dovuta aspettare la guerra di Libia
del 1911–1912, quando la stampa illustrata, i fumetti, ma anche la Chiesa
diedero un importante contributo alla divulgazione della causa coloniale, che
iniziò ad essere più ricorrente anche nell’onomastica e nell’odonomastica;
ciononostante, lo spazio pubblico aveva
iniziato a portare i segni della politica espansionista dalla fine del XIX
secolo.
Le tre
vicende analizzate mostrano come i monumenti coloniali inizino ben presto ad
essere utilizzati per sostenere l’idea di nazione ottocentesca, basata sulla
celebrazione del valore e del sacrificio individuale.
Contemporaneamente, provano come le opere
celebrative siano tutt’altro che neutrali o portatrici di un interesse
generale, ma siano spesso accompagnate, fin dalla loro erezione, da dibattiti e
contestazioni.
3
Impero e colonie nello spazio pubblico dell’Italia fascista.
Con
l’avvento del fascismo, il colonialismo assunse un significato ulteriore:
era lo
strumento e allo stesso tempo il terreno su cui il governo di Mussolini poteva
dimostrare innanzitutto il proprio essere erede dell’antica Roma, la potenza
bellica, la supremazia sugli altri popoli ma anche sul modello d’Italia e di
italianità proposta dall’Italia liberale.
Nel Ventennio, dunque, il colonialismo
continuò a segnare lo spazio pubblico italiano per celebrare questi valori, e
non più un generico ideale patriottico.
Da un
punto di vista discorsivo, il regime mussoliniano recuperò alcuni personaggi
del periodo liberale, considerati pionieri e precursori della grandezza
dell’Italia e dell’impero fascista.
Il
caso più emblematico è quello di Bottego, la cui figura fu riutilizzata e
celebrata; al punto che nel 1940, nel luogo della sua morte in Etiopia, fu
eretta una stele commemorativa.
Sul
suolo italiano, invece, la colonizzazione dello spazio pubblico da parte del
regime non si caratterizzò tanto per l’erezione di nuovi monumenti dedicati a
vecchi e nuovi protagonisti dell’espansione, quanto per un grosso investimento
nella toponomastica celebrativa:
dei
cosiddetti pionieri del colonialismo, dei luoghi occupati dall’espansione
coloniale che erano inclusi nell’immaginario geografico degli italiani, ma
anche dei momenti simbolici della ‚costruzione dell’impero‘.
Via dell’impero, via 9 maggio (data di
proclamazione della nascita dell’impero) compaiono nelle città e nei paesi
italiani, dall’inizio degli anni Trenta e ancora di più dopo la guerra
d’Etiopia del 1935–1936.
Dopo la guerra d’Etiopia in diverse località
furono anche installate mappe murarie che riproducevano l’impero italiano:
la più
celebre è quella che fu collocata in via dei Fori imperiali accanto alle mappe
che rappresentavano tre fasi dell’espansione dell’Impero Romano;
ma mappe analoghe furono installate e in
alcuni casi segnano ancora lo spazio pubblico di altre città, come accade a
Padova.
Infine,
il fascismo scelse di segnare lo spazio pubblico con vestigia portate in Italia
dai territori occupati, per celebrare la capacità di sottomettere e umiliare i
nemici.
Dopo
l’occupazione dell’Etiopia arrivano a Roma due di questi monumenti:
uno è
la statua del Leone di Giuda, simbolo della monarchia etiopica, portata nel
1937 da Addis Abeba e collocata sotto l’obelisco eretto per ricordare i 500
italiani morti a Dogali.
Sotto
un obelisco che celebra una battaglia di occupazione fallimentare, il Leone di
Giuda celebrava invece una campagna di occupazione formalmente vittoriosa.
Anche la vicenda del Leone mostra però quante storie diverse possono insistere
su uno stesso monumento.
Nel 1938, infatti, il giovane eritreo ”Zerai
Deres”, giunto in Italia l’anno prima per fare da interprete agli etiopici
deportati dal regime, si inginocchiò di fronte alla statua per renderle omaggio.
Di fronte al tentativo di alcuni astanti farlo
smettere l’uomo reagì ferendoli:
a
seguito di tale gesto, “Zerai Deres “fu internato nell’area psichiatrica di un
carcere siciliano, dove rimase sino alla morte, nel 1945.
Sempre
nel 1937 a Roma arrivò un altro monumento etiopico:
l’obelisco prelevato dalla zona sacra di Axum
e installato a piazza di Porta Capena, vicino al Circo Massimo, in occasione
del quindicesimo anniversario della marcia su Roma.
L’obelisco fu collocato di fronte al luogo in
cui sarebbe dovuta sorgere la nuova sede del Ministero dell’Africa Italiana; ma
la guerra non rese possibile la fine dei lavori, e nel dopoguerra il palazzo fu
adibito a sede della FAO.
Il
fascismo provò anche a compiere l’azione contraria, cioè ad affermare il
proprio dominio sui colonizzati segnando con monumenti celebrativi lo spazio
delle colonie.
Oltre
alla già citata stele di Bottego innalzata in Etiopia nel 1940, è emblematico –
anche per i suoi risvolti repubblicani – il caso dei due monumenti che nel 1938
Mussolini diede mandato di costruire ad Addis Abeba:
uno a
celebrazione del legionario e l’altro al lavoratore in Africa.
Il primo si sarebbe dovuto realizzare subito,
per affidamento diretto allo scultore Romano Romanelli;
mentre
la progettazione del secondo fu rimandata.
Romanelli,
accademico dei Lincei, consegnò i materiali marmorei utili alla costruzione del
monumento nel maggio del 1940, poco prima dell’ingresso dell’Italia in guerra:
questi
furono dunque custoditi in diversi magazzini in Italia, e di fatto non
sarebbero mai arrivati in Africa.
4- Il
colonialismo nello spazio pubblico repubblicano: ricostruzioni e riusi del
Monumento ai lavoratori italiani in Africa.
Alla
fine del conflitto il fascismo era crollato, le colonie africane erano occupate
dagli Alleati e in Etiopia era tornato Haile Selassie.
Con la
ratifica del trattato di pace del 1947 l’Italia rinunciava formalmente alle
colonie, anche se subito dopo avrebbe tentato di riacquistare un ruolo nei
territori occupati in età liberale, ottenendo dall’Onu l’amministrazione
fiduciaria della Somalia dal 1950 al 1960.
Le rivendicazioni nei confronti di Eritrea,
Libia e Somalia si fondavano discorsivamente sulla esaltazione del lavoro
italiano e dell’impatto civilizzatore e modernizzatore dei coloni italiani;
mentre
non menzionavano i crimini e le violenze compiuti in Africa.
Inaugurando una narrazione che avrebbe
condizionato il modo con cui si sarebbe parlato del tema nei decenni
successivi, lo Stato italiano operava così una separazione tra fascismo e
colonialismo, condannando a parole il primo senza prendere le distanze
dall’esperienza coloniale in sé.
Se
analizzare i monumenti coloniali realizzati in età liberale e fascista permette
di comprendere meglio i progetti nazionali delle istituzioni che li avevano
prodotti, studiare i monumenti coloniali nello spazio pubblico del secondo
Novecento e del XXI secolo ci aiuta a vedere quali idee (di nazione,
innanzitutto) abbiano inteso veicolare le classi dirigenti repubblicane.
Il
destino della stele di Axum e del Leone di Giuda dimostra come i governi
repubblicani non fossero disposti ad ammettere ufficialmente il carattere
predatorio dell’espansionismo italiano:
il Leone di Giuda fu rimosso dalla base
dell’obelisco di Dogali nel 1944, ma restituito all’Etiopia solo nel 1969, in
occasione della prima visita italiana di Haile Selassie.
Ancora
più dissestata fu la vicenda della stele di Axum, ben ricostruita da
Massimiliano Santi:
benché
inserita da subito in un elenco di oggetti reclamati dal governo di Addis Abeba
e inclusa anche negli accordi firmati dai due paesi nel 1956, la stele fu
reclamata invano dagli etiopici per oltre un cinquantennio.
L’opposizione
attiva dei governi italiani alla restituzione – motivata anche col malcontento
che tale azione avrebbe suscitato nella società italiana – era in linea con un
generale atteggiamento adottato dall’Italia repubblicana, che evitava di
riconoscere le responsabilità italiane per i crimini e le violenze compiute nel
Corno d’Africa.
La
svolta arrivò nel 1997: a seguito della prima ammissione ufficiale dello Stato
italiano, per bocca del presidente Oscar Luigi Scalfaro, del portato criminoso
dell’occupazione coloniale, si decise di restituire finalmente il monumento,
che fu smantellato nel 2005 ed eretto nuovamente ad Axum nel 2008.
La restituzione non fu però scevra da
polemiche;
l’allora
sottosegretario degli Esteri, ad esempio, scelse di non pronunciare la parola
„restituzione “, affermando invece che l’Italia „contribuiva all’identità
etiopica “:
il
messaggio era che l’Italia non aveva rubato nulla in passato, mentre nel
presente era una nazione benevola che continuava ad aiutare l’Africa.]
La
vicenda della stele di Axum mostra in maniera efficace come non sia possibile
leggere l’atteggiamento dello Stato italiano nei confronti del passato
coloniale in termini di disinteresse, rimozione o inerzia, per cui
semplicemente si evitò di prendere decisioni in merito;
ma ci
fu invece una precisa scelta di non aprirsi a un dibattito critico sul tema.
La
difesa attiva, nel corso dei decenni, della permanenza della stele in piazza di
Porta Capena emerge come la conseguenza di una ribadita indisponibilità ad
ammettere, di fronte agli etiopici ma soprattutto gli italiani, l’inconsistenza
del mito della ‚brava gente‘, e a prendere in carico le responsabilità
coloniali.
Se il
reiterato rifiuto della restituzione della stele racconta di un’azione ‚in
negativo‘ dei governi repubblicani, le vicende dell’opera scultorea affidata da
Mussolini a Romanelli consentono invece, innanzitutto, di riflettere
sull’intervento attivo dello Stato italiano per costruire e sostenere,
attraverso una nuova opera di monumentalizzazione, la narrazione repubblicana
sul colonialismo.
Avevamo
lasciato i vari elementi marmorei e bronzei che avrebbero dovuto costituire il
monumento al Legionario chiusi dal 1940 nei magazzini in diverse parti
d’Italia.
Come
ha ricostruito Biasillo, nel 1947 la ditta che si occupava del deposito
presentò il conto allo Stato:
il
governo, non disposto a spendere ancora per la custodia del monumento fascista,
e vista sfumare la possibilità di costruirlo in Etiopia, nel febbraio 1948
pensò dapprima di vendere le parti marmoree, di pregio artistico;
cambiò
però idea nella primavera di quell’anno, anche a causa della ventilata
possibilità di un ritorno dell’Italia in Africa.
Si
decise allora di ricostruirlo altrove, previe alcune modifiche degli elementi
figurativi.
Insieme
allo stemma dell’Italia fascista, tra le statue bronzee realizzate dallo
scultore quella del soldato della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale
fu considerata incompatibile con i valori della neonata Repubblica.
Le altre (raffiguranti un ascaro, un marinaio,
un aviatore, un fante, e un ‚conducente di cavallo‘) e le iscrizioni riprodotte
sul monumento non furono considerate, invece, compromettenti.
Nel
frattempo le carte avevano smesso di definire l’opera come monumento al
Legionario, per indicare invece – con varie formule – che il monumento era
dedicato ai lavoratori d’Africa.
Si trattava di una modifica in linea con la
narrazione usata dal governo per sostenere il ritorno dell’Italia nelle colonie
liberali;
il
sottosegretario dell’Africa Italiana Giuseppe Brusasca affermò che ragioni di
natura morale rendevano „utile che rimanga in Italia un ricordo dell’opera
svolta dagli italiani in Africa “.
Dopo
alcuni tentativi andati a vuoto con altri interlocutori, il governo trovò la
disponibilità ad accogliere l’opera da parte della Regione Sicilia, che sempre
Brusasca aveva indicato come il luogo più adatto per la collocazione del
monumento, perché geograficamente vicino all’Africa e per la notevole presenza
nell’isola di profughi coloniali, il cui lavoro aveva portato alla
„valorizzazione del territorio africano.“
La legge del 26 novembre del 1952, n. 1993
stabilì ufficialmente la donazione dell’opera alla regione siciliana, che la
destinò alla città di Siracusa:
come
avrebbe scritto il giornale locale „La Sicilia“, che seguì con entusiasmo la
vicenda del monumento, la scelta aveva, „un valore simbolico per noi
siracusani che dal nostro porto vedemmo salpare le navi coi soldati e coi
lavoratori italiani che si sacrificarono in terra africana per lasciarvi
l’impronta indelebile della nostra civiltà“.
Le
casse contenenti gli elementi bronzei e marmorei arrivarono a Siracusa nella
primavera del 1953, ma la costruzione del monumento dovette aspettare ancora
degli anni, per motivi di natura diversa.
Il primo riguardava i danni subiti da una
parte del materiale, da sostituire;
il
secondo l’area in cui costruirlo, attorno a cui il dibattito durò ancora a
lungo.
Nel 1957 si trovò un accordo per erigerlo sul
lungomare dei Cappuccini;
mentre l’ufficio tecnico siracusano si occupò
delle modalità di costruzione del monumento, avvalendosi anche dei consigli
dello stesso Romanelli, l’amministrazione si occupò di espropriare i terreni
nell’area individuata.
Il
ricorso di uno degli espropriandi, nel 1961, sollevò nuovamente la questione
del portato simbolico del monumento;
e mise in luce come il progetto del governo,
in un momento in cui le aspirazioni africane della Repubblica si erano
esaurite, iniziasse ad essere percepito come problematico.
Sosteneva
il ricorsista che l’opera
„non solo esaltava programmi di
conquista coloniale ormai superati, ma portava chiaramente gli emblemi
dell’epoca fascista in cui fu concepita (legionari in camicia nera, moschetti,
fasci littori etc.).
Il
monumento sarebbe probabilmente finito in un magazzino o, la massimo, in un
museo, se la Regione non avesse tratto dall’imbarazzo lo Stato italiano,
facendo richiesta di cessione gratuita del monumento stesso “.
Di
nuovo, in un monumento che includeva un elenco delle battaglie coloniali incise
sulle lastre marmoree, bassorilievi delle suddette battaglie, oltre che le
statue bronzee delle forze armate, le istituzioni individuarono come
problematica la sola statua del soldato della milizia volontaria.
Questa,
si rassicurava, sarebbe stata sostituita con una statua di un lavoratore, già
commissionata dalla presidenza della Regione per 4 400 000 lire a Giovanni
Rosone.
In questo modo si riteneva completato il
processo di defascistizzazione dell’opera, e se ne consacrava figurativamente
la nuova intitolazione.
Se i
monumenti raccontano quali valori voglia esprimere il soggetto che li erige,
quello siracusano conferma come, dall’immediato dopoguerra agli anni Sessanta,
Stato italiano e istituzioni locali non individuino nessuna problematicità
specifica nella vicenda coloniale, che invece poté essere celebrata nel
contesto repubblicano purché teoricamente epurata dei riferimenti espliciti
allo Stato fascista.
Anche l’aspetto bellico dell’occupazione è in
qualche modo accettato (tramite il mantenimento delle statue), benché l’enfasi
narrativa sia posta, in linea col discorso pubblico elaborato nel dopoguerra,
sul lavoro italiano.
Le
vicende successive del monumento raccontano la fortuna ondivaga e la non piena
accettazione di tale discorso da parte della società siracusana nella seconda
metà del Novecento e nei primi decenni del XXI secolo.
I
lavori per la costruzione del monumento furono appaltati nell’autunno del 1963,
e un anno dopo risultavano a buon punto, anche se il Comune chiese ancora una
volta a Romanelli una consulenza per le modalità di assemblaggio.
Così come le carte comunali anche la stampa
locale, che pure aveva seguito con attenzione le vicende del monumento per
quindici anni, non riporta notizia di alcuna inaugurazione ufficiale:
nel
novembre 1968, però, il monumento risulta allestito sul lungomare dei
Cappuccini e il Consiglio comunale approva dei lavori di consolidamento
dell’area.
Già
l’anno successivo l’opera risulta abbandonata e sprovvista dell’arredo urbano
che avrebbe dovuto fargli da contorno, mentre ancora sei anni dopo viene
definita „incompiuta“, priva anche di strade d’accesso.
Erano i primi segni di come quel monumento,
dopo qualche entusiasmo iniziale, avesse finito per essere accolto con
freddezza dalla città:
nei
decenni successivi l’opera scultorea fu sistematicamente fatta oggetto di atti
vandalici, mentre dal punto di vista ufficiale non risulta utilizzata per
nessun tipo di commemorazione o evento pubblico.
Negli
anni Ottanta il sindaco di allora decise per la sistemazione dell’area, ma
l’intervento non migliorò il rapporto con la città.
Un
articolo del 1987, ripercorrendo le vicende del monumento che si diceva
improntato alle scelte architettoniche del periodo fascista, e commentando le
„pennellate sfregiative“ che di nuovo lo imbrattavano, restituisce quello che
probabilmente era un sentimento presente nel contesto cittadino:
„Quel
monumento è lì, alla nostra vista svogliata e negligente, pressoché relegato
nell’anonimato, quasi a testimonianza storica delle cocenti delusioni. …
Auguriamoci
comunque che questi interventi [di riqualificazione] possano essere presto
eseguiti perché quel monumento conservi i suoi propri significati che per un
popolo civile non possono essere apologetici ma costituiscono un severo monito
alle generazioni future, per un deciso rifiuto dell’idolatria. “
Un
certo imbarazzo nel rapporto tra la città e l’opera è testimoniato dalla stampa
locale anche in altre occasioni:
un
articolo del 1997 segnala come non fossero mancate nel corso del tempo
„polemiche sull’estetica e sul senso geografico del monumento stesso“, mentre
un altro del 1999 afferma che il consigliere regionale poi nel 1961 presidente
della Regione Salvatore Corallo „non immaginava si trattasse di un’opera dove
soldati, avieri e bersaglieri inneggianti all’azione militare fossero i veri
protagonisti“.
Il disagio, è interessante notare, sembra
sempre rivolto ai rimandi fascisti dell’opera, mentre la problematicità del
colonialismo non è messa a tema.
Il
rapporto con la città iniziò a cambiare alla fine del secolo:
nel
1997 i consiglieri comunali di Alleanza nazionale chiesero un intervento del
comune per preservare il decoro del monumento, ritenuto opera di „valore
storico e nazionale “, senza ulteriori specificazioni.
Due
anni dopo il comune appaltò un nuovo restauro, e affidò alla sezione locale
dell’Associazione nazionale paracadutisti italiani la gestione e la
salvaguardia dell’opera.
È in seguito a questo affidamento che il
monumento iniziò ad essere utilizzato per celebrazioni e a diventare un luogo
della memoria, seppure di una memoria composita:
come già annotato da Biasillo, prima nel 1999
l’Associazione paracadutisti collocò nell’area del monumento una lapide
commemorativa di Giovanni Alberto Bechi Luserna, militare di carriera e
paracadutista.
Benché la lapide non ne faccia cenno, Bechi
Luserna partecipò sia alla repressione della resistenza libica, sia alla guerra
d’Etiopia.
Era
solo il primo di una serie di utilizzi sistematici, e del tutto nuovi, del sito
monumentale:
nel
2003 l’associazione scelse l’area per celebrare, alla presenza delle autorità
civili e militari, un aviatore marconista morto „mentre sorvolava i cieli
africani“ nel 1942.
Dal 2005 l’associazione ricerca storica sulla
Seconda guerra mondiale, Lamba Doria, utilizzò la stessa area per commemorare i
soldati, diretti sul fronte africano ma morti durante l’affondamento del
piroscafo „Conte Rosso“ nel 1941;
ad essi dedicò nel 2007 una targa
commemorativa.
La
prima decade del nuovo secolo è dunque caratterizzata da un nuovo utilizzo
dell’opera scultorea come luogo di commemorazione di caduti, in particolare
militari.
La nuova ri-significazione del monumento ha
trovato una ufficializzazione tra il 2009 e il 2010, quando il colonnello dei
carabinieri “Massimo Menniti” propose di cambiare la dedica dell’opera „ai
caduti d’oltremare “:
un’etichetta
più adatta all’uso pratico del XXI secolo rispetto a quella scelta nel
dopoguerra, quando era dominante il discorso sul lavoro.
La giunta comunale decise invece per una
aggiunta, e non per una sostituzione:
„Premesso
che nella nostra città non esiste un monumento dedicato ai caduti delle FF AA,
che in città invece è presente un monumento dedicato ‚al Soldato e al
lavoratore italiano in Africaʻ … che la legione Carabinieri Sicilia – Comando
provinciale di Siracusa ha chiesto di esaminare la possibilità di intitolare il
monumento ai caduti d’oltremare;
che
tale richiesta risponde ai sentimenti della popolazione siracusana che già oggi
si riferisce al monumento indicandolo come ‚monumento ai caduti d’oltremareʻ ;
che questo monumento è spesso sede di manifestazioni a carattere prettamente
militare … propone di cambiare l’intitolazione del monumento oggi individuato
come ‚al Soldato e al lavoratore italiano in Africaʻ con ‚monumento al soldato,
al lavoratore italiano in Africa e ai caduti d’ oltre mareʻ.“
Si
decise anche che l’area attorno al monumento potesse essere utilizzata – come
di fatto già avveniva – per l’installazione di effigi e lapidi a ricordo dei
caduti italiani anche di epoche recenti, mentre il monumento diventava il luogo
deputato per celebrazioni ufficiali:
a
quella per i caduti del Conte Rosso, ormai periodica, si aggiunse quella per le
vittime delle foibe, a cui nel 2020 è stata dedicata una nuova lapide.
La decisione della giunta lasciò parzialmente
scontento Menniti, che affermò di non ritenere „legittimo il riferimento ai
lavoratori civili caduti in Africa, frutto, probabilmente, dell’epoca in cui fu
allestito a Siracusa. Ne fuorvia l’originaria destinazione che chiaramente si
evince dalle incisioni e statue raffiguranti soldati, e non civili, delle varie
armi e specialità “.
I
fregi e i riferimenti militari, evidenti a chiunque osservi il monumento ma del
tutto rimasti in ombra nel dibattito che ne accompagnò la ‚ri- significazioneʻ
post-bellica, acquistavano in quella prima parte degli anni Duemila una nuova
centralità, e diventavano utili per sostenere un nuovo utilizzo del monumento.
L’enfatizzazione del messaggio militarista fu garantita anche dalla creazione
di un comitato incaricato di prendersi „cura dello studio per le integrazioni
da apportare al monumento affinché lo si completi di tutti i riferimenti
necessari agli eventi bellici degli anni successivi al 1936.
Comprenderanno
i fatti d’arme che hanno impegnato i carabinieri sui fronti di guerra e nelle
missioni internazionali di pace con caduti italiani “.
Quale
spazio aveva il colonialismo in questa nuova narrazione il cui baricentro
tematico è spostato sui soldati caduti ampiamente intesi, e che
cronologicamente guarda sino al XXI secolo?
Gli elementi da notare sono almeno tre.
Innanzitutto,
il fatto che la ‚ri-scopertaʻ e il riutilizzo del monumento a inizio del
Duemila siano stati accompagnati da discorsi esplicitamente celebratori del
passato coloniale.
Ad
esempio, superate anche le cautele con cui anche la stessa AN aveva preso
parola alla fine degli anni Novanta, nel 2006 Alberto Moscuzza, presidente
dell’associazione Lamba Doria, affermava di fronte agli ennesimi attacchi
all’opera che „che è stato oltraggiato un monumento che ricorda le gesta dei
nostri soldati nelle guerre coloniali in Africa“ e attaccava i „teppisti locali che
non meritano neanche la cittadinanza italiana, sconoscendo anche per
l’ignoranza trasmessa dalle nostre scuole, il valore della storia e dei soldati
morti in terre lontane e in un periodo ancora oggi tanto discusso“.
Da un
altro punto di vista, dopo che la precedente narrazione incentrata sul lavoro
l’aveva edulcorato, il colonialismo sembra definitivamente scomparire dietro
una acritica celebrazione dei soldati caduti.
Non è,
questo, l’unico caso in cui ciò avviene:
come
emerso in altri contesti, l’elaborazione nel secondo dopoguerra di un discorso
che depoliticizza le diverse guerre ha costituito il contesto in cui poter
continuare a celebrare acriticamente e al riparo da contestazioni gli eventi
coloniali, i loro protagonisti, e in definitiva il colonialismo stesso.
Infine, come ha scritto sempre Biasillo
citando Wu Ming, si pone il problema delle „narrazioni tossiche “.
Seppure fosse utilizzato come luogo di altre
memorie (e come visto, non è esattamente questo il caso), è difficile affermare
che un monumento che riproduce militari e ascari, che con gli stilemi degli
anni Trenta riproduce una barca rivolta verso l’Africa, che include
bassorilievi di truppe coloniali, che riporta incisi i nomi delle battaglie
africane e i profili di carri armati e camion, possa smettere di parlare di
colonialismo, e di proporlo come un’epopea.
È
proprio attorno al portato narrativo che dalla metà degli anni 2010 si è
assistito ad una inedita attenzione pubblica nei confronti del monumento
siracusano.
Da una parte il monumento è stato denunciato
come esempio delle continuità tra periodo coloniale, fascista e repubblicano, e
come simbolo della necessità di una decolonizzazione della società italiana.
Dall’altra, è divenuto oggetto di attenzioni
di segno opposto.
Il
gruppo siracusano del movimento politico di estrema destra “Casa Pound” ha
scelto il monumento come una delle sedi privilegiate per le proprie battaglie
commemorative:
organizzando
ad esempio un presidio nella „Giornata del ricordo “ del 2016, illuminandolo di
luce tricolore per ricordare la battaglia di Caporetto nel 2018, o ancora per
celebrare il 4 novembre nel 2021.
Sempre
del 2021 è l’iniziativa più indicativa della lotta discorsiva attorno al
monumento: in uno dei momenti in cui in Italia e in Europa era più acceso il
dibattito sull’opportunità di abbattere o risignificare i segni del
colonialismo nello spazio pubblico, Casa Pound pubblicizzava l’iniziativa di
recupero dei marmi del monumento dalle acque circostanti, e rivendicava l’area
come un proprio punto di riferimento identitario
„Per
noi questo è un luogo sacro a cui va dimostrato il massimo rispetto. Noi siamo
i figli e i nipoti degli eroi a cui è stato dedicato questo bellissimo
monumento.“
5-
Conclusioni: guardare ai monumenti per guardare all’Italia.
Reinserire
nella storia monumenti, lapidi, nomi delle strade connessi col colonialismo
consente innanzitutto di comprendere la funzione per cui essi sono stati
collocati nello spazio pubblico.
Come
questo breve e parziale excursus ha mostrato, i monumenti hanno avuto il
compito di sostenere, divulgare e consolidare narrazioni e valori funzionali di
volta in volta agli obiettivi delle istituzioni che li hanno voluti erigere.
I casi esaminati ci confermano quel che gli
studi hanno già dimostrato su altri terreni:
e cioè
che il colonialismo ha supportato i progetti di” nation-building” dello stato
liberale fin dai suoi esordi;
e ha
fornito materiali utilizzati dal regime fascista per convincere gli italiani a
sentirsi parte di un progetto egemonico e vincente.
Il
caso del monumento di Romanelli conferma anche la Repubblica italiana non fu
fondata sull’anticolonialismo;
ma che
da quella storia cercò di elidere le parti più compromesse col fascismo, per
poi rivendicarla.
La grossolanità con cui quel monumento fu ‚ri-significatoʻ
mostra come tra le classi dirigenti non ci fosse una grande attenzione verso la
scivolosità del discorso proposto:
al
fine di celebrare quel lavoro italiano su cui lo Stato italiano aveva
incentrato la sua narrazione, si mantennero simboli e segni che evocavano
direttamente il militarismo e la sopraffazione.
I ritardi nella costruzione dell’opera di
Romanelli, l’incompiutezza, la mancanza di utilizzo per tutto il secondo
Novecento e gli atti vandalici raccontano però che la presunta dimenticanza di
certi simboli, spesso segno di inconsapevolezza e rimozione, può anche essere
spia di un disagio nei confronti dei discorsi veicolati dai monumenti.
Proprio
perché i monumenti sono l’esito della volontà di consolidare specifici valori e
visioni, essi sono spesso oggetto di contestazioni e reazioni discordanti e,
nel corso del tempo, di utilizzi diversi, modifiche, nuove destinazioni d’uso e
anche rimozioni.
Reinserire anche questi aspetti nella storia è
utile per capire le società su cui quei segni insistono, la loro complessità, e
la loro mutevolezza nel corso del tempo.
Le
citate critiche al monumento a Bottego da parte del giornale della Camera del
lavoro e al monumento ai caduti di Dogali da parte dell’„Osservatore Romano“
mostrano una società in cui la politica espansionistica è tutt’altro che
condivisa; mentre la vicenda di “Zerai Deres” dà visibilità a un dissenso che,
per quanto silenziato, continuava ad esistere sotto il fascismo.
Le
vicende più recenti del monumento siracusano mostrano dapprima una società in
cui, all’inizio degli anni Duemila, il patriottismo viene riscoperto come il
terreno su cui le scivolosità di richiami fascisti e colonialisti possono
venire assorbite:
l’analisi
limitata al singolo caso non consente di approfondire ulteriormente il tema, ma
un allargamento dell’indagine consentirebbe di verificare se e in che modo
questa riscoperta si inserisca nel rilancio delle forze armate come simbolo
dell’unità nazionale, promosso in quegli anni dal presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi.
I
discorsi che hanno riguardato il monumento dalla metà degli anni 2010 in
avanti, conseguenza di un nuovo interesse per l’opera di Romanelli anche oltre
la dimensione locale, appaiono invece il sintomo di una società italiana
polarizzata: da una parte c’è chi difende il monumento come simbolo e baluardo
di valori da rivendicare; dall’altra c’è chi lo vede come emblema di uno Stato che
non ha fatto i conti con il colonialismo, il fascismo, e i valori ad essi
sottesi: razzismo, militarismo, sopraffazione.
Come
quelli dell’età liberale e del Ventennio fascista, e come altri più
contemporanei, si tratta di un dibattito che ha poco a che fare con la
materialità dell’opera, e quasi niente con la storia dell’espansione italiana.
Al contrario, dato che la costruzione dei
monumenti è simbolo e strumento di specifici progetti di costruzione valoriale,
le dispute attorno alla loro presenza e alle modalità di permanenza nello
spazio pubblico sono simbolo e strumento di specifiche rivendicazioni
finalizzate a un mantenimento, o a un profondo cambiamento, dei valori su cui
si basa la società attuale.
La
posta in gioco non è dunque il passato, bensì il presente e il futuro.
Ecco
perché parliamo
di
“genocidio”.
Jacobinitalia.it - Francesca Albanese - Owen
Dowling – (18 Novembre 2024) – ci dice:
Dopo
le parole di papa Bergoglio, la relatrice speciale Onu per i territori
palestinesi occupati “Francesca Albanese” spiega in che modo l’esercito
israeliano sta agendo per cancellare la vita a Gaza.
Dall’inizio
della devastante guerra di Israele contro la popolazione di Gaza, tredici mesi
fa, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni unite per i territori
palestinesi occupati, ha acquisito fama internazionale come cronista pubblica,
anatomista legale e oppositrice politica del genocidio.
Nominata
nel maggio 2022, il mese in cui le forze israeliane hanno assassinato la
giornalista palestinese americana “Shireen Abu Akleh “a Jenin, l’avvocatessa
internazionale per i diritti umani ha prodotto una serie di rapporti ufficiali
che descrivono in dettaglio il regime di apartheid di Tel Aviv, la sua
strutturazione della Cisgiordania come «panopticon a cielo aperto
costantemente sorvegliato» attraversato da insediamenti coloniali e, dallo scorso
ottobre, i suoi crimini di genocidio contro i palestinesi.
Rivendicando
nei forum internazionali la richiesta urgente di un cessate il fuoco immediato
e incondizionato e di una mobilitazione globale di tutte le forme di pressione
sullo Stato israeliano, Albanese è stata sottoposta alle stesse campagne
diffamatorie che tutti i sostenitori della liberazione palestinese conoscono.
Ora,
di fronte alle recenti richieste delle organizzazioni di difesa israeliane di
impedirle di entrare nei campus universitari occidentali, la relatrice speciale
ha intrapreso un tour di conferenze nelle università di Londra, nel quale parla
dell’attuale genocidio di Israele e del ruolo (e dei limiti) del diritto
internazionale e dei diritti umani nel resistergli.
Mentre
il cosiddetto piano dei generali delle Forze di difesa israeliane per la
pulizia etnica della parte settentrionale di Gaza procede e mentre sempre più
bambini palestinesi e libanesi si uniscono alle migliaia e migliaia di persone
massacrate, tutti quelli che hanno ascoltato il discorso di Albanese alla “Soas
University of London” hanno riconosciuto che il momento non potrebbe essere
peggiore.
Avvicinandomi
al campus fuori “Russell Square”, inizialmente ho scoperto che il mio percorso
attraverso gli accessi alla “Soas” era bloccato da uno stallo che componeva un
microcosmo:
dimostranti pro-sionisti brandivano bandiere
israeliane e manifesti con la scritta «Ban Fran» e cantavano «I-I-Idf»,
fiancheggiati dalla polizia e, tra loro e l’università, una schiera
pro-palestinese considerevolmente più numerosa, più rumorosa, più giovane e più
diversificata, composta per lo più da studenti e studentesse.
Applausi
e tamburi si alzavano mentre salutava la folla radunata, ma l’accoglienza da
celebrità di Albanese ha reso più drammatica la risonanza avvertita dai
sostenitori della campagna pro-Palestina tra la sua posizione internazionale
per il popolo di Gaza di fronte all’attacco personale e il loro attivismo di
fronte alla repressione disciplinare alla “Soas”.
La
dottoressa Michelle
Staggs Kelsall, codirettrice del “Centre for Human Rights Law “dell’istituto, ha aperto
i lavori una volta che l’evento, strapieno, è finalmente iniziato con la
dichiarazione in base alla quale «siamo solidali con Francesca Albanese contro i
tentativi di mettere a tacere la sua voce potente e coraggiosa».
Laureata in disciplina dei diritti umani alla Soas,
Albanese ha messo a confronto le sue competenze giuridiche con il suo ex
docente, il professor “Lynn Welchman”, e con un altro ex studente di quella
scuola, “David Lammy”, dopo la recente affermazione del ministro degli esteri
in Parlamento secondo cui l’uso dell’accezione di «genocidio» per descrivere ciò che
gli israeliani perseguono a Gaza «lede la serietà di quel termine».
La sua
instancabile attività a sostegno della Palestina e contro il genocidio all’Onu
è stata elogiata in quanto «coraggiosa», e Albanese è entrata accolta da una
standing ovation per tenere la sua lezione su «Imperialismo, colonialismo e diritti
umani: la cartina di tornasole della Palestina».
Invece
che fare un riassunto della lezione, vale la pena citare per intero la
descrizione iniziale di Albanese della topografia del genocidio di Gaza fino a
novembre 2024:
Permettetemi
di farci focalizzare la situazione del popolo palestinese, così com’è ora,
direttamente nella nostra mente.
A Gaza, per 401 giorni, abbiamo visto
continuare i bombardamenti, i colpi e il fuoco di artiglieria costanti di
Israele senza risparmiare niente e nessuno.
La guerra ha mostrato il suo volto più
spietato.
Bombardamenti indiscriminati su larga scala;
uso di sistemi di intelligenza artificiale con bersagli selezionati;
sorveglianza persistente dall’alto di droni senza pilota; cecchini automatici
che sparano alle persone mentre fanno la spesa nei mercati, raccolgono l’acqua,
cercano assistenza medica o persino mentre dormono nelle tende; soldati
trincerati nei carri armati che attaccano civili disarmati.
Bruciati
vivi, lasciati morire di una morte atrocemente lenta sotto le macerie, famiglie
di intere generazioni ammassate in case che vengono bombardate e rase al suolo
in un solo istante;
ospedali
e campi profughi ora trasformati in cimiteri, pieni di giornalisti, studenti,
dottori, infermieri, persone con disabilità che un tempo abitavano queste terre
ora decimate.
Dopo
un primo incontro a un ricevimento affollato nella” Paul Webley Wing della
Soas,” dopo la conferenza, ho fissato un appuntamento con Albanese per il
giorno successivo in un ristorante afghano a Mile End.
Circondati
da strade con lampioni con bandiere palestinesi, abbiamo discusso del genocidio
di Gaza, del colonialismo israeliano, dei diritti e dei doveri dei popoli e
degli Stati secondo il diritto internazionale e delle sfide incontrate nel
corso del suo mandato di relatrice speciale delle Nazioni unite per i territori
palestinesi occupati.
Grazie
mille della disponibilità a parlare con me.
Ho
letto i tuoi rapporti Onu” Anatomia di un genocidio” (marzo 2024) e, più di
recente, “Genocidio come cancellazione coloniale” (ottobre 2024).
E
naturalmente ho assistito alla tua lezione alla Soas.
Hai
spiegato che insisti sulla definizione di genocidio perché «la distruzione che
vediamo in Palestina è esattamente e precisamente ciò che fa il colonialismo
d’insediamento. Questo è un genocidio coloniale d’insediamento».
Potresti spiegare in dettaglio
l’argomentazione da te avanzata, in termini di diritto internazionale, riguardo
agli aspetti per cui il genocidio in corso in Palestina può essere concepito
come un’impresa coloniale d’insediamento?
Innanzitutto,
ciò che costituisce un genocidio non è stabilito da opinioni individuali o
storie personali o dal confronto con ciò che è accaduto in passato, sebbene il
passato abbia molto da dirci sul modo in cui si presenta un genocidio.
Ciò
che costituisce un genocidio da un punto di vista legale è stabilito
dall’articolo II della Convenzione sul genocidio.
Consiste
in una serie di atti che sono criminali in sé e per sé, come atti di uccisione,
atti che infliggono grave dolore fisico o mentale, la creazione di condizioni
di vita che portano alla distruzione di un gruppo, il trasferimento forzato di
bambini, la prevenzione delle nascite.
Questi
sono atti di genocidio riconosciuti dalla Convenzione sul genocidio.
Per
avere un genocidio, l’elemento critico è l’intento di distruggere un gruppo, in
tutto o in parte, anche attraverso uno solo di questi atti.
Si potrebbe avere, come è successo in
Australia o in Canada, un genocidio attuato principalmente, anche se non solo,
attraverso il trasferimento di bambini, quindi senza uccidere.
Ecco quindi il primo problema:
un certo numero di persone contesta che l’etichetta
«genocidio» possa essere apposta su ciò che Israele sta facendo perché Israele
ha ucciso solo 45.000 persone, come se fosse normale, mentre ha distrutto
l’intera Gaza.
Alcuni
vedono questa brutalità e la difendono ancora in quanto «autodifesa».
Il
punto è che questa distruzione estrema, questa violazione delle regole
fondamentali per proteggere i civili, i locali civili e la vita civile nel
diritto internazionale, è stata completamente livellata dalla logica israeliana
secondo cui poteva essere ucciso chiunque, sia in quanto terrorista che come
scudo umano o danno collaterale, tutto poteva essere distrutto.
Ed è per questo che, 402 giorni dopo, Gaza non
è più vivibile.
Gaza è distrutta. Se questo non è un genocidio
ostentato, cos’altro lo è?
Dobbiamo
anche comprendere il contesto in cui questo genocidio si sta verificando.
Ecco perché ho scritto quest’ultimo rapporto [Genocidio come cancellazione
coloniale]:
per fare luce sulle azioni omicide, quelle che
rendono la vita impossibile, che sfollano con la forza i palestinesi mentre li
bombardano da nord a sud, da ovest a est, costringendoli a vivere nei luoghi
più inospitali di Gaza dopo aver distrutto tutto ciò che avrebbe potuto
consentire loro di accedere ai mezzi di sostentamento, dopo averli privati di
acqua, cibo, medicine, carburante per oltre un anno – un anno! – e anche il
fatto di arrestare arbitrariamente, privare della libertà, torturare e stuprare
migliaia di palestinesi.
Vediamo
la realtà?
E il
fatto è che tutto questo non è iniziato solo un anno fa.
I
palestinesi sono stati oppressi, repressi, maltrattati e resi oggetto di abusi,
umiliazioni e gravi violazioni del diritto internazionale per decenni.
Israele
lo fa nel perseguimento della realizzazione di una «Grande Israele», in cui la
sovranità ebraica si estende tra il fiume e il mare.
Ecco
perché dico che questo è un genocidio che non viene condotto solo a causa
dell’odio ideologico trasformato in dottrina politica, come è accaduto
attraverso la disumanizzazione dell’«altro» in altri genocidi;
questo
genocidio viene commesso a causa della terra, per la terra.
Israele
vuole la terra senza i palestinesi.
E per
i palestinesi, rimanere sulla terra fa parte di ciò che sono come popolo.
Ecco
perché lo chiamo genocidio di cancellazione coloniale.
Nel
tuo rapporto, fai notare che le sentenze della “Corte Internazionale di
Giustizia” hanno stabilito che, secondo il diritto internazionale,
l’occupazione israeliana è di per sé un atto di aggressione.
Hai
scritto che ciò vizia qualsiasi pretesa che Israele possa avanzare nei
confronti del diritto di autodifesa di uno Stato sovrano.
Potresti
spiegare di nuovo, in termini di diritto internazionale, cosa significa per il
rivendicato «diritto di Israele a difendersi» e in linea di principio anche per
il rivendicato dai palestinesi diritto di resistenza armata di un popolo, il
fatto che l’occupazione sia di per sé considerata un atto di aggressione?
La
Corte Internazionale di Giustizia ha confermato ciò che esperti legali
autorevoli, studiosi e altri sostengono da decenni.
Israele
mantiene un’occupazione illegale nei territori palestinesi occupati, ossia
Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Impedisce
ai palestinesi di realizzare il loro diritto all’autodeterminazione, ovvero il
loro diritto di esistere come popolo.
Questa
situazione equivale alla segregazione razziale e all’apartheid, poiché si
traduce in un’annessione continua delle terre palestinesi a beneficio esclusivo
dei cittadini israeliani ebrei.
Ecco perché [secondo la sentenza della Corte
internazionale di giustizia] l’occupazione deve essere smantellata totalmente,
inequivocabilmente e incondizionatamente prima di settembre 2025.
Quindi
ciò significa che le truppe devono andarsene, che gli insediamenti devono
essere smantellati, che quei cittadini israeliani devono tornare in Israele, a
meno che non vogliano rimanere cittadini palestinesi.
Ma la terra deve essere restituita ai palestinesi.
Le risorse non possono continuare a essere
sfruttate da Israele.
Questo
è molto chiaro, ed è l’unico modo per garantire una via d’uscita.
Il che rappresenta anche, a mio avviso,
l’inizio della fine:
l’inizio reale e concreto della fine
dell’apartheid nei territori palestinesi occupati e oltre.
Poiché
Israele mantiene un’occupazione che si traduce nell’oppressione del popolo
palestinese, Israele affronta minacce alla sua sicurezza provenienti dai
territori palestinesi occupati.
Ma
queste sono conseguenti all’oppressione che Israele impone a quei territori.
E l’unico modo per estinguere quella minaccia
alla sicurezza è porre fine all’occupazione.
Israele
ha il diritto di difendersi all’interno del suo territorio dagli attacchi sul
suo territorio da parte di altri Stati.
Questo è ciò che darebbe a Israele il diritto
di usare la forza militare e di dichiarare guerra a un altro paese.
Ma il
punto è che Israele sta attaccando le persone che ha mantenuto sotto
occupazione.
E le
violazioni del diritto all’autodeterminazione [dei palestinesi] portano alla
resistenza.
Il
diritto di resistere è per un popolo ciò che il diritto all’autodifesa è per
uno Stato, quindi c’è un conflitto intimo e una fusione tra due interessi
contrastanti.
Tuttavia,
il diritto internazionale è chiaramente dalla parte dell’autodeterminazione
palestinese.
Il diritto di resistere, ovviamente, ha dei
limiti.
Non si possono colpire civili, uccidere e
prendere ostaggi.
Ma ciò
che ne consegue è che tali atti dovrebbero essere oggetto di giustizia,
indagini e procedimenti giudiziari, non di una guerra di annientamento.
Passando
al contesto del Regno Unito, proprio all’inizio del genocidio a Gaza, “Keir
Starmer”, allora leader dell’opposizione, ha notoriamente manifestato il suo
sostegno, secondo le sue parole, al «diritto» di Israele di tagliare l’acqua e
l’energia nella Striscia di Gaza.
E ora,
che è primo ministro, lui e il suo ministro degli esteri, “David Lammy”, che in
precedenza si erano schierati entrambi a favore di piattaforme pro-palestinesi,
hanno negato le accuse di genocidio.
“Lammy”
sostiene che usare questo concetto mina la gravità storica del termine. Allo
stesso tempo, hanno detto che il loro governo mantiene un «profondo rispetto
per il diritto internazionale».
In che modo la posizione della Gran Bretagna, secondo
cui ciò che sta accadendo in Israele non è un genocidio, e la continua
fornitura di armi e altro materiale di supporto allo Stato israeliano, hanno a
che fare con il rispetto del diritto internazionale di cui parli?
Prima
di tutto, lascia che ti dica che non penso che uno possa definirsi un difensore
dei diritti umani se non li difende evitando considerazioni politiche o
ideologiche. Dire che la fame è accettabile significa semplicemente tradire ciò
che rappresenta il diritto internazionale, che in ultima analisi afferma la
protezione dei civili in situazioni di conflitto armato, ostilità, crisi, ecc.
Qui
c’è un ministro degli esteri che nega che sia in corso un genocidio, anche
quando la Corte internazionale di giustizia lo ha riconosciuto.
Deve
spiegare perché squalifica la Corte.
Ma in ogni caso, sentiremo, penso, delle
scuse.
La storia giudicherà queste persone che non
hanno fatto nulla in loro potere per prevenire le atrocità.
Nel
frattempo, così facendo, il Regno Unito sta violando i suoi obblighi ai sensi
del diritto internazionale, che impedisce di aiutare e assistere uno Stato che
sta commettendo illeciti internazionali.
Ecco a
che punto siamo.
Ci
sono delle responsabilità; potrebbe esserci complicità.
Ecco
perché incoraggio la contesa strategica di chiedere conto alle persone, ma
anche per garantire – e questo è nel potere del popolo – che i leader eletti
non trascinino questo paese e i suoi contribuenti nel finanziamento di una guerra di annientamento.
Ti sei
formata anche alla Soas come avvocata internazionale per i diritti umani. Nella
sessione di domande e risposte che è seguita alla tua lezione sono state
discusse diverse prospettive sull’utilità o la fattibilità o la credibilità del
diritto internazionale e delle istituzioni dell’ordine internazionale come
mezzi per limitare gli atti di aggressione e i crimini contro l’umanità, mentre
allo stesso tempo, percepiamo e cogliamo le eredità imperialiste radicate e le
realtà strutturali del potere al loro interno.
In che
modo gli attivisti che affrontano questioni di politica globale da una
prospettiva socialista e internazionalista possono relazionarsi con il discorso
e il quadro del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali
esistenti per cercare di aiutare a garantire l’autodeterminazione palestinese
mantenendo al contempo quella prospettiva anticoloniale critica su quelle
istituzioni?
Dobbiamo
inserire la questione all’interno dei nostri sistemi, che possono sembrare alla
periferia delle relazioni internazionali ma sono ancora i centri dell’impero:
un sistema che può controllare la terra di altre persone, la volontà di altre
persone e le risorse di altre persone, e rendere le loro vite miserabili.
Questo non sta più accadendo solo al Sud del
mondo; sta accadendo anche a molti di noi nel Nord del mondo.
È
tempo di riconoscerlo nella fragilità e precarietà di molte categorie di
persone, dai lavoratori agli anziani, alle persone con disabilità, alle persone
Lgbt e ai migranti.
Diritti
umani come la libertà di espressione e la libertà di parola, così come il
diritto a essere adeguatamente retribuiti o il diritto ad avere un alloggio e
un’assistenza sanitaria:
sono diritti che vengono violati sempre più
spesso, anche nel Nord del mondo, e queste violazioni non possono essere
scollegate dalle violazioni che le persone nel Sud del mondo subiscono per mano
di un sistema che è in gran parte guidato dall’Occidente.
La
Palestina incarna questo sistema, la lotta dei popoli indigeni, la lotta delle
vittime della duratura eredità del colonialismo, inclusa la discriminazione
contro i rifugiati e i migranti dal Sud del mondo, la lotta per la giustizia
ambientale.
Ecco perché la lotta della Palestina sta
diventando un simbolo di resistenza in tutto il mondo per molti che vogliono
solo vivere in un ordine più equo, giusto e non discriminatorio.
Di
recente hai chiesto la riforma del vecchio Comitato speciale delle Nazioni
unite contro l’apartheid.
Pensi che il ruolo dell’Onu e delle
istituzioni a esso collegate durante il movimento internazionale anti-apartheid
in Sudafrica abbiano un significato pratico per il movimento di solidarietà
internazionale con la Palestina oggi?
Penso
che le Nazioni unite abbiano svolto un ruolo graduale, nel senso che c’è stato
un dibattito portato avanti principalmente dagli Stati del Sud del mondo per
abolire l’apartheid, ma è stato in gran parte un riflesso del tumulto che stava
avvolgendo il mondo. Il movimento internazionale anti-apartheid era un
movimento di base, che ha avuto origine in questa parte del mondo, in Gran
Bretagna e Irlanda, ma che si è presto radicato anche in altre parti
dell’Occidente per resistere alla perdita di potere economica del regime
dell’apartheid e aiutare i sudafricani a liberarsi da quella forma repressiva
di Stato.
Ciò
dimostra che oggi, come in passato, ciò di cui c’è bisogno è un’azione globale
nel nuovo movimento di base rivitalizzato che esiste.
C’è il Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e
Sanzioni), e ci sono state proteste e azioni studentesche per ristabilire il
nucleo del diritto internazionale, i principi fondamentali del diritto
internazionale.
La
mobilitazione prosegue, ma c’è ancora molto da fare.
Rendere
le aziende responsabili, spingere i sindacati all’azione, rendere responsabili
i leader politici e i concittadini che hanno combattuto come parte del regime
di apartheid di Israele, sia come parte dell’impresa commerciale che come
militari.
È
tempo di chiedere conto delle responsabilità a livello nazionale e non solo a
livello internazionale.
Un’ultima
domanda, che forse è un po’ più personale:
come
relatore speciale delle Nazioni unite, e soprattutto dal 7 ottobre, il tuo
profilo internazionale si è ampliato notevolmente, e sei stata bersagliata con
ostilità rilevante, calunnie personali, tentativi di diffamazione, ecc. (anche
da parte di rappresentanti dell’amministrazione di Joe Biden), con gruppi di
difesa pro-Israele che hanno cercato di violare, ad esempio, la tua libertà di
parlare nei campus universitari.
Abbiamo visto alcuni manifestanti fuori dalla
Soas.
Che
esperienza hai di questa opposizione, e come ha influito sul tuo mandato di
relatore speciale delle Nazioni unite?
Cosa
vuoi dire a tutte quelle persone che vorrebbero zittirti?
Innanzitutto,
vorrei specificare sulle proteste perché chi non era presente potrebbe farsi
un’idea sbagliata.
C’erano
circa dieci individui che urlavano, con più bandiere che piedi per terra.
Non
era una vera protesta.
Erano delle seccature, delle piccole, piccole
seccature.
Ma, insomma, è giusto. Lasciateli venire.
Lasciateli
gridare «Ban Fran» mentre le persone vengono massacrate, con 17.000 bambini
uccisi.
Lasciateli
fare quello che vogliono. Francamente, non penso che sia importante. Non penso
che sia rilevante.
È irrilevante anche il fatto che i governi
complici del genocidio mi attacchino invece di occuparsi dei loro obblighi
legali non rispettati.
Non
voglio intrattenere discussioni su quanto siano folli questi attacchi.
Sono
solo un’altra manifestazione di quanto sia feroce la repressione della
Palestina, dell’identità palestinese e della resistenza palestinese,
specialmente nelle società occidentali.
(Francesca
Albanese è ricercatrice associata presso l’Institute for the Study of
International Migration della Georgetown University e relatrice speciale delle
Nazioni unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi
occupati dal 1967.
Owen Dowling è uno storico e ricercatore d’archivio per Tribune, dal quale è tratto questo testo. La traduzione è a cura della redazione.)
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