Libertà di parola e verità.

Libertà di parola e verità.

 

 

La Cina si sta preparando

per dichiarare guerra all’Occidente?

Ottolinatv.it – (6 -2 – 2024) – Redazione – ci dice:

 

Quante probabilità ci sono che la Cina inizi una guerra?

A lanciare l’allarme su “Foreign Policy “sono “Michael Beckley “della prestigiosa “Università di Tufts”, nei sobborghi di Boston, e “Hal Brands”, professore di relazioni internazionali alla “John Hopkins University”, un esempio da manuale del rovesciamento totale della realtà che alberga nelle menti distorte dei suprematisti liberaloidi;

 i due ricercatori denunciano come in alcuni ambienti accademici USA prevalga spesso una certa ingenuità:

“Alcuni studiosi” sottolineano “sostengono che il pericolo sarebbe gestibile se solo Washington evitasse di provocare Pechino.

Altri” continuano “ricordano come la Cina non abbia più avviato una guerra di invasione da quella con il Vietnam del ‘79, che durò appena tre settimane”.

“Ma tutta questa fiducia” ci mettono in guardia “riteniamo che sia pericolosamente mal riposta”.

I due ricercatori ci ricordano come storici e scienziati politici abbiano individuato, in particolare, 4 fattori che determinano la propensione alle avventure belliche di un paese e “se si considerano questi quattro fattori” allertano “diventa chiaro che molte delle condizioni che un tempo hanno favorito un’ascesa pacifica, oggi potrebbero invece incoraggiare una discesa violenta”.

Ah beh, certo, la famosa discesa cinese, un tracollo proprio.

Si parte benissimo, diciamo, e si procede meglio: gli autori, infatti, sottolineano come “il fatto che Pechino si sia astenuta da grandi guerre – mentre gli Stati Uniti ne hanno combattute diverse – ha permesso ai funzionari cinesi di affermare che il loro Paese sta seguendo un percorso unico e pacifico verso il potere globale”.

Cioè, pensa te quanto so’ manipolatori questi cinesi:

al solo scopo di farci credere che sono pacifici e che non vogliono la guerra, per farci abbassare la guardia e coglierci di sorpresa effettivamente non fanno guerre. Geniale!

Tipo la storia di “Kubrik “che aveva il compito di simulare per la NASA l’allunaggio, ma era così meticoloso che, per simularlo, è andato a girarlo direttamente sulla Luna;

ma tranquilli, perché il bello deve ancora arrivare e, da qui in poi, il fuffo-metro è tutto in crescendo.

 

Il primo dei famosi 4 fattori presi in considerazione, infatti, sono le contese territoriali coi vicini:

in tutte le controversie, affermano i due ricercatori, “la Cina sta diventando sempre meno incline al compromesso e alla risoluzione pacifica di quanto non lo sia stata in passato, rendendo la politica estera un gioco a somma zero”.

Eh già: i cinesi sono talmente aggressive che se dopo 50 anni che sostieni formalmente la politica di “Una Sola Cina”, per la prima volta nella storia approvi un pacchetto di aiuti militari diretti (come ha fatto in agosto Biden) contraddicendoti in maniera plateale, se la prendono pure, come se la prendono anche quando ti fai consegnare un’intera fetta di territorio filippino per metterci un’altra sfilata di missili puntati direttamente contro di loro.

Eh, ma quanto so’ suscettibili però, eh?

Si vede proprio che non fanno altro che cercare un pretesto per incazzarsi, un po’ come Putin che si lamenta dell’espansione della NATO contro le promesse che – come dicono i nostri amici analfo-liberali – ‘ndo sta scritta sta promessa, eh?

Metti il link!

Il secondo fattore preso in considerazione, comunque, è ancora meglio:

“Le dittature personaliste” sostengono infatti gli autori “hanno più del doppio delle probabilità di scatenare guerre rispetto alle democrazie, e anche alle autocrazie, dove comunque il potere è detenuto in molte mani.

 I dittatori” infatti, continuano “iniziano più guerre, perché sono meno esposti ai costi del conflitto:

negli ultimi 100 anni, i dittatori che hanno perso le guerre sono caduti dal potere solo il 30% delle volte”;

precedenti particolarmente allarmanti, ovviamente, perché – manco a dirlo – “Xi ha trasformato la Cina in una dittatura personalista particolarmente incline a disastrosi errori di calcolo e guerre costose”.

Insomma: la Cina, nonostante 1,5 miliardi di abitanti, la più grande potenza produttiva del pianeta e un partito con 100 milioni di iscritti sarebbe, in realtà, dominata da un uomo solo al comando che, senza nessun contro – potere e senza nessun bisogno di mediare con chicchessia, potrebbe tranquillamente svegliarsi la mattina e decidere di bombardare un paese a caso giusto per ammazzare un po’ la noia, e senza rischiare nulla manco in casa di sconfitta;

d’altronde, mica so’ occidentali bianchi quelli.

Je poi fa’ quello che te pare, mica se n’accorgono:

ed è esattamente quello che fa Xi il sadico, dai “brutali lockdown anti – covid ai campi di concentramento in Xinjiang”.

Dal vademecum delle puttanate sino-fobe degli analfo-liberali manca giusto la carne di cane.

Tutte “forme di aggressione interna” sostengono gli autori, che “dovrebbero renderci molto nervosi per l’aggressione esterna che potrebbe verificarsi”.

Ovviamente, e fortunatamente, questa storia dell’uomo solo al comando è una barzelletta in ogni stato moderno con una certa complessità;

 figurarsi in un vero e proprio continente come la Cina dove i centri di potere – sia pubblici che privati – sono infiniti, dove ci sono aziende di Stato che sono Stati dentro lo Stato con fatturati che si avvicinano al PIL di interi paesi e dove vige un federalismo molto spinto, con le singole regioni che gestiscono direttamente una fetta enorme delle loro entrate fiscali che autonomia differenziata scansate proprio.

Ma questi sono tutti distinguo da professoroni che non possono intralciare i deliri del pragmatismo guerrafondaio di un vero cowboy che si rispetti.

Purtroppo, comunque, la lista dei fattori che fanno suonare l’allarme rosso nei confronti della Cina non è ancora finita.

E il terzo fattore, tutto sommato, ha anche un che di ragionevole:

“L’equilibrio militare in Asia” ricordano infatti gli autori “si sta modificando in modi che potrebbero rendere Pechino pericolosamente ottimista sull’esito della guerra”.

Oh, lo vedi?

Anche due propagandisti suprematisti, dai e dai qualcosa di sensato riescono a dirlo:

avranno realizzato che mentre prendi gli schiaffi in Ucraina e mentre sei diventato incredibilmente vulnerabile anche in Medio Oriente – che fino a ieri trattavi come terra di scorribande senza rischiare nessuna ritorsione – che tu possa reggere un terzo fronte nel Pacifico non è molto credibile.

Macché; con un virtuosismo da manuale, dopo poche righe ecco che ribaltano di nuovo completamente la frittata:

“Un punto di vista” affermano così a caso, senza senso, a un certo punto – infatti “è che la guerra della Russia in Ucraina renda meno probabili altre guerre di aggressione”.

Il fatto sarebbe, sostengono gli autori, che questa guerra dimostrerebbe “quanto le guerre di aggressione possono ritorcersi contro” e così “dall’indecente furto di terre da parte di Putin” continuano “la Cina sta imparando lezioni importanti”. Tipo? Secondo gli autori, Pechino starebbe imparando:

UNO: “quanto possa essere difficile la conquista contro un difensore impegnato”;

DUE: “quanto le forze armate autocratiche possano sottoperformare in combattimento”;

TRE: “quanto sia abile l’intelligence statunitense nell’individuare piani di predazione” e

QUATTRO: “quanto duramente il mondo democratico possa penalizzare i paesi che sfidano le norme dell’ordine liberale”.

 

Cioè, dopo due anni pieni di schiaffi a due mani dati con nonchalance dalla Russia a tutta la NATO messa insieme nella guerra per procura in Ucraina, questi vogliono trarre insegnamenti su come affrontare la Cina partendo dal presupposto che l’Ucraina ha vinto la guerra:

bene, ma non benissimo, diciamo.

Ma soprattutto, qui oltre a un’overdose di pensiero magico, non si capisce proprio manco la logica:

cioè, da un lato dici che la Cina potrebbe essere spinta a gettare il cuore oltre l’ostacolo dal fatto che i rapporti di forza sembrano avvantaggiarla un po’ e poi, nel periodo dopo, dici che dalla guerra in Ucraina dovrebbero aver imparato che quando un uomo con gli occhi a mandorla si trova di fronte a un marine, l’uomo con gli occhi a mandorla è un uomo morto.

Prodigi dell’analfo-liberalismo suprematista.

Ma la vera chicca arriva alla fine:

“Le grandi potenze” scrivono infatti i nostri due autori “diventano bellicose quando temono il futuro declino”.

Dai, dai che dicono una roba sensata!

Quando “la concorrenza geopolitica si fa feroce e spietata” continuano “le nazioni difendono nervosamente la loro ricchezza relativa e il loro potere”;

“pesantemente armata, ma sempre più ansiosa” insistono “una grande potenza sull’orlo del declino sarà ansiosa, persino disperata, e tenderà a respingere le tendenze sfavorevoli con ogni mezzo necessario”.

 Oh, ecco: finalmente parlano della sindrome da declino degli USA.

 Bravi! Ah, no?

Cioè, quando dicono potenza in declino pesantemente armata in preda al panico non si riferiscono a Washington?

Eh, voi pensavate ci fosse una soglia minima di dignità anche per gli accademici suprematisti, eh?

Macché; qui siamo di fronte a un vero e proprio capolavoro:

secondo gli autori, gli esempi di queste forze in declino in preda alla disperazione sarebbero, infatti, nientepopodimeno che “la Germania nazista, l’impero giapponese e la Russia di Putin”.

Ora, si può buttare a ridere – che ridere non fa mai male, ma (Imprecazioni, ndr), questi insegnano in università con rette da 100 mila euro l’anno e non pubblicano sul Foglio o fanno le dirette sul canale di Ivan Grieco, ma pubblicano articoli sulla più autorevole rivista di politica internazionale del pianeta e affermano serenamente che quando la Germania nazista è entrata in guerra era una potenza in declino, e pure il Giappone:

cioè, due paesi all’apice della loro potenza politica, economica e militare dichiarano guerra al resto del mondo per conquistarlo e assoggettarlo, e secondo loro sono potenze in declino.

Cioè, ci si può anche ridere, ma quando l’intera élite intellettuale di un paese che, da solo, spende in armi più di tutti gli altri messi insieme non capisce un cazzo a questi livelli, non so quanto ci sia da ridere ecco, soprattutto quando dalla storia passano all’attualità:

“Man mano che le prospettive militari a breve termine della Cina migliorano” scrivono infatti i ricercatori “le sue prospettive economiche a lungo termine si stanno oscurando” e questa, sottolineano “è una combinazione che in passato, spesso, ha reso le potenze revisioniste più violente”.

Un’analisi completamente scollegata dalla realtà ed estremamente pericolosa perché da questo punto di vista – dal momento che, senza nessuna motivazione plausibile, pensi che la Cina sia in declino – non solo crei allarmismo ingiustificato perché, appunto, sostieni che le rimane solo da lanciare una guerra disperata, ma ti fai anche un viaggio totalmente strampalato su cosa dovresti fare per ridurre i rischi, un trip delirante che, infatti, arriva subito:

“I requisiti per frustrare l’ottimismo della Cina sull’esito di un’eventuale guerra” sostengono i due autori “sono abbastanza semplici”;

si comincia con “una Taiwan irta di missili antinave, mine marine, difese aeree mobili e altre capacità economiche ma letali”, si prosegue poi con un bel “esercito americano in grado di utilizzare droni, sottomarini, aerei furtivi e quantità prodigiose di capacità di attacco a lungo raggio per portare una potenza di fuoco decisiva nel Pacifico occidentale”,

si passa poi a “accordi con alleati e partner che danno alle forze statunitensi l’accesso a più basi nella regione e minacciano di coinvolgere altri paesi nella lotta contro Pechino” e si finisce con “una coalizione globale di paesi che può colpire l’economia cinese con sanzioni e soffocare il suo commercio transoceanico”.

“Washington e i suoi amici” ammettono gli autori “stanno già portando avanti ognuna di queste iniziative.

 Ma” lamentano “non si stanno muovendo con la velocità, le risorse o l’urgenza necessarie per superare la minaccia militare cinese in rapida maturazione”.

Insomma: partendo da un’analisi storica completamente strampalata e da un’analisi economica che non sta né in cielo né in terra, i nostri autori arrivano alle considerazioni di un “Edward Luttwack “qualsiasi:

sono selvaggi, bombardiamoli; almeno “Luttwack”, però, per dire ‘ste cose mica studia.

Passa da un buffet all’altro: se devi dire solo puttanate, almeno goditela, diciamo; imparate da Zio Silvio così almeno, quando – a questo giro – i vostri deliri si paleseranno per le gigantesche cazzate che sono, potrete dire che almeno ve la siete spassata.

Sfortunatamente per i nostri due autori, l’idea strampalata del declino economico cinese non poteva arrivare in un momento meno adatto;

due giorni fa, infatti, il “Fondo Monetario Internazionale” – che non è esattamente un braccio della propaganda di Pechino – ha ribadito, numeri alla mano, l’ovvio che ormai sfugge solo a Rampini e a Scacciavillani:

“Anche quest’anno” ha affermato “Steven Barnett” al China Daily “la Cina offrirà il contributo di gran lunga maggiore alla crescita globale con oltre un quarto della crescita stessa” e fino a qui, diciamo – a parte chi legge Rampini – lo sapevamo.

La cosa importante, invece, è che sempre il Fondo Monetario sottolinei quanto questo risultato sia straordinario e dimostri tutta la resilienza dell’economia cinese, dal momento che avviene non solo mentre la crescita globale va a rilento – e quindi la situazione economica generale non è delle migliori – ma, in particolare, mentre due degli elementi fondamentali dell’economia cinese sono in profonda crisi:

il mercato immobiliare e l’export.

Non è un risultato da poco:

la Cina, in 30 anni, si è trasformata da un paese agricolo fatto di contadini che vivono in campagna, in una potenza industriale fatta di operai che vivono nelle città:

 questo, che è in assoluto e di gran lunga il più grande processo di urbanizzazione della storia dell’umanità – e che ho descritto in dettaglio nel mio CEMENTO ROSSO, il secolo cinese, mattone dopo mattone (che, per inciso, è il primo e unico mio libro, visto il clamoroso fallimento editoriale) – ha rappresentato, ovviamente, una componente gigantesca del miracolo economico cinese;

ora quella spinta propulsiva è arrivata al capolinea, e alla crescita cinese manca un tassello enorme.

Molte altre economie sono andate gambe all’aria per molto, ma molto meno:

la Cina, invece, è continuata a crescere anche quest’anno del 5,2% e, secondo l’IMF, anche il prossimo anno – di poco meno, e senza introdurre chissà che incentivi, eh?

Al contrario del 2008 – e al contrario degli USA, infatti – la Cina, a questo giro, ha deciso di non schiacciare troppo sull’acceleratore degli interventi anticiclici finanziati a debito, ma quello che ha ancora più del miracoloso è che tutto questo avveniva mentre anche la seconda componente storica del miracolo cinese subiva una contrazione piuttosto significativa:

parliamo delle esportazioni, che hanno subito una battuta d’arresto non solo e non tanto per la guerra commerciale combattuta a suon di retorica su “decoupling” e “reshoring” – che è più fuffa propagandistica che altro – ma soprattutto perché, appunto, i mercati più ricchi dove i cinesi vendevano un sacco di roba (a partire dall’eurozona) sono tutti più o meno in recessione a parte gli USA, dove però la crescita è tutta a debito ed è dovuta agli investimenti privati sostenuti dai soldi pubblici.

Insomma: per essere in declino non male, diciamo;

per 30 anni fondi il tuo miracolo su due gambe, fai un incidente, te le tronchi tutte e due eppure cominci ad andare in meta.

Non so quante volte sia successo in passato, sinceramente;

come sia possibile, l’ha spiegato in modo piuttosto convincente in un recente articolo “Richard Baldwin”, professore di Economia Internazionale alla “Business School di Losanna” – come l’IMF, non esattamente una bimba di Xi, diciamo – ma a differenza di Rampini e dei due prof di Foreign Policy, evidentemente, manco uno che vive in un mondo parallelo tutto suo.

“Non sono un esperto di Cina” esordisce Baldwin “ma durante il lavoro in corso sulle interruzioni della catena di approvvigionamento globale, non ho potuto fare a meno di riflettere su un fatto evidente che però non credo sia così ampiamente noto come dovrebbe essere:

la Cina oggi è l’unica superpotenza manifatturiera mondiale”.

Baldwin sottolinea, infatti, come la Cina rappresenti oggi una quota di produzione manifatturiera superiore alla somma dei successivi 10 paesi, dagli Stati Uniti al Giappone, per arrivare al Regno Unito, una cosa mai vista e che, sottolinea Baldwin, è avvenuta con una rapidità senza precedenti:

“L’ultima volta che il re della collina manifatturiera è stato spodestato dal trono” scrive Baldwin “è stato quando gli Stati Uniti hanno superato il Regno Unito poco prima della Prima Guerra Mondiale.

Un passaggio di consegne che è durato poco meno di un secolo.

Il passaggio tra Cina e Stati Uniti invece ha richiesto meno di 20 anni. L’industrializzazione della Cina, in breve” conclude Baldwin “non può essere paragonata a nessun altro evento del passato”.

 

Contro questa ascesa impetuosa e inarrestabile, agli USA non rimane che buttarla tutta in un altro settore dove invece la superpotenza, almeno sulla carta, continuano a essere indiscutibilmente loro;

esattamente come la Cina nella produzione di cose che rendono la nostra vita migliore, gli USA – infatti – primeggiano in cose che la nostra vita la annientano del tutto:

 la spesa militare di Washington è superiore alla somma delle spese militari dei 10 paesi successivi.

 La strada, quindi, sembra segnata:

 la Cina produce e ha bisogno di pace e di sicurezza nelle rotte commerciali per vendere, gli USA son buoni solo a spendere quattrini in armi di ogni genere e per arrestare il loro inarrestabile declino non hanno opzione migliore che scatenare la guerra.

In realtà, però, Baldwin sottolinea due aspetti che complicano ulteriormente il quadro:

il primo si chiama GGR, “Gross Globalisation Ratio”, che sta per “rapporto lordo di globalizzazione” ed è un indice che rappresenta la quota di produzione manifatturiera venduta all’estero;

a differenza del PIL manifatturiero, che indica soltanto le vendite di beni finiti, include tutte le vendite di tutti i produttori presenti in Cina.

“Durante la sua ascesa allo status di superpotenza manifatturiera” scrive Baldwin “il GGR della Cina è aumentato vertiginosamente, quasi raddoppiando”:

tradotto, la Cina è diventata enormemente più dipendente dalle esportazioni ma, a differenza di quanto generalmente si pensi, questa impennata in realtà è sostanzialmente tutta concentrata tra il 1999 e il 2004;

“quel periodo” sottolinea Baldwin, effettivamente “ha rappresentato lo straordinario effetto della globalizzazione, ed è probabilmente il motivo per cui così tanti pensano alla Cina come a un’economia incredibilmente dipendente dalle esportazioni”.

“Ma la storia” continua Baldwin “non è finita nel 2004.

 Da allora infatti il GGR cinese è in costante calo.

 E nel 2020 è ritornato ai livelli del 1995”.

Cosa significa?

Molto semplicemente che “la produzione cinese non è più dipendente dalle esportazioni come molti potrebbero credere” e questo, continua Baldwin “sfata il mito secondo cui il successo della Cina può essere interamente attribuito alle esportazioni.

A partire dal 2004 circa, piuttosto, la Cina è diventata sempre più il miglior cliente di sé stessa”;

tradotto: continuare a sperare che la Cina continui ad accettare ogni sorta di ritorsione commerciale da parte di chi non è in grado di competere sul piano produttivo perché è troppo dipendente dai nostri mercati e senza la domanda delle nostre economie decotte crollerebbe da un momento all’altro, potrebbe rivelarsi – e in parte si è già rivelato – puro “wishful thinking”.

E non è tutto perché nel frattempo, invece, la dipendenza degli USA dai prodotti cinesi – compresi i semilavorati e tutta la componentistica – non ha fatto che aumentare a dismisura, mentre quella cinese nei confronti dei prodotti USA è leggermente, ma costantemente, diminuita.

 Insomma: “Nel suo documento di ricerca” scrive il sempre ottimo Ben Norton “Baldwin dimostra che gli USA sono molto più dipendenti dall’acquisto di manufatti cinesi di quanto la Cina dipenda dal mercato statunitense per vendere i propri prodotti”;

“I politici che indulgono in chiacchiere sul disaccoppiamento dalla Cina” conclude Baldwin “avrebbero probabilmente bisogno di valutare con un po’ più di lucidità questi fatti oggettivi:

il disaccoppiamento sarebbe difficile, lento, costoso e distruttivo, soprattutto per i produttori del G7”.

Insomma:

per mesi si è parlato di quanto la Cina fosse ormai in una profonda crisi economica e di come, sostanzialmente, la tenevamo per le palle perché più era in crisi e più aveva bisogno dei nostri ricchi mercati per le sue merci;

oggi scopriamo che non c’è nessuna crisi e che abbiamo più bisogno noi della Cina che lei di noi e che, anche a questo giro, andando dietro alla retorica bellicista USA non facciamo altro che darci l’ennesima martellata sui coglioni.

 Forse, e dico forse, avremmo bisogno di un media che non ci racconta fregnacce per convincerci a darci altre martellate sui coglioni;

 forse, e dico forse, avremmo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%.

L’Occidente Vuole un’Escalation

del Conflitto Russia-Ucraina?

Conoscenzealconfine.it – (21 Novembre 2024) – Redazione – ci dice:

 

Sergey Lavrov:

Gli attacchi alla regione di Bryansk con i missili ATACMS sono ovviamente un segnale che l’Occidente vuole un’escalation.

Gli attacchi ATACMS sarebbero stati impossibili senza la partecipazione degli americani.

Risposta della rappresentante ufficiale del Ministero degli Esteri russo M.V. Zakharova, alla domanda dei media sul presunto permesso concesso a Kiev di lanciare attacchi missilistici in profondità in Russia.

Domanda:

 I media occidentali stanno diffondendo notizie secondo cui J. Biden avrebbe dato a Kiev il permesso di colpire in profondità il territorio russo con i missili americani ATACMS, e da parte di Francia e Gran Bretagna rispettivamente con i loro missili SCALP e STORM SHADOW.

Come potrebbe commentare queste informazioni?

 

M.V. Zakharova:

 “Non è ancora noto se queste accuse siano basate su fonti ufficiali. Una cosa è chiara: sullo sfondo delle sconfitte del regime di Kiev, i suoi sostenitori occidentali scommettono sulla massima escalation della guerra ibrida scatenata contro la Russia, cercando di raggiungere l’obiettivo illusorio di ‘infliggere una sconfitta strategica a Mosca’.

 Tuttavia, nessuna ‘arma miracolosa’ per la quale Zelenskyj e i suoi seguaci pregano, è in grado di influenzare il corso della guerra.

 

Ricordiamo che il presidente russo V. Putin ha dichiarato chiaramente il 25 ottobre cosa significa effettivamente la dicitura ‘dare il permesso’ per l’uso delle armi a lungo raggio ad alta precisione della NATO.

Lui ha sottolineato che l’Ucraina stessa non ha la capacità di effettuare tali attacchi senza l’uso di satelliti spaziali e senza l’introduzione di missioni di volo da parte del personale militare dei paesi della NATO.

L’uso di missili a lungo raggio da parte di Kiev per attaccare il nostro territorio significherà la partecipazione diretta degli Stati Uniti e dei suoi satelliti alle ostilità contro la Russia, nonché un cambiamento radicale nell’essenza e nella natura del conflitto.

 In questo caso la risposta della Russia sarà adeguata e tangibile “.

 

Cosa Ha Detto Putin il 12/09/2024.

“Non stiamo parlando di permettere o vietare al regime di Kiev di colpire il territorio russo.

Lo infligge già con l’aiuto di veicoli aerei senza pilota e altri mezzi.

Ma quando si tratta di utilizzare armi di precisione a lungo raggio di fabbricazione occidentale, la storia è completamente diversa.

Il fatto è che – ne ho già parlato, e tutti gli esperti lo confermeranno sia qui, sia in Occidente – l’esercito ucraino non è in grado di colpire con i moderni sistemi a lungo raggio ad alta precisione di produzione occidentale.

Non può farlo.

Ciò è possibile solo utilizzando i dati di intelligence provenienti dai satelliti, che l’Ucraina non possiede, si tratta solo di dati provenienti dai satelliti dell’Unione Europea o degli Stati Uniti – in generale, dai satelliti della NATO.

 Questo è il primo.

Il secondo e molto importante, forse la chiave, è che le missioni di volo di questi sistemi missilistici possono, infatti, essere effettuate solo da personale militare dei paesi NATO.

 Il personale militare ucraino non può farlo.

 Pertanto non si tratta di permettere o meno al regime ucraino di colpire la Russia con queste armi.

Si tratta di decidere se i Paesi della NATO sono direttamente coinvolti in un conflitto militare oppure no.

Se questa decisione verrà presa, non significherà altro che la partecipazione diretta dei Paesi della NATO, degli Stati Uniti e dei Paesi europei alla guerra in Ucraina.

Questa è la loro partecipazione diretta e questo, ovviamente, cambia in modo significativo l’essenza stessa, la natura stessa del conflitto.

Ciò significherà che i Paesi della NATO, gli Stati Uniti e i Paesi europei saranno in guerra contro la Russia.

E se è così, allora, tenendo presente il cambiamento nell’essenza stessa di questo conflitto, prenderemo le decisioni appropriate in base alle minacce che verranno create per noi “.

 

Cosa Ha Detto Sergey Lavrov.

“Gli attacchi alla regione di Bryansk con i missili ATACMS sono ovviamente un segnale che l’Occidente vuole un’escalation.

Gli attacchi ATACMS sarebbero stati impossibili senza la partecipazione degli americani.

La Federazione Russa percepirà i lanci di missili a lungo raggio controllati da esperti militari americani come una fase qualitativamente nuova della guerra da parte dell’occidente.

 Vladimir Putin aveva avvertito che la posizione della Russia sarebbe cambiata in caso di attacco al suo territorio con armi a lungo raggio provenienti dall’Occidente.

Non è possibile sapere se quanto pubblicato dal “New York Times” corrisponda al vero o se sia un tentativo di sondare il terreno.

In realtà, questa non è un’autorizzazione all’impiego di missili a lungo raggio, ma un annuncio:

Ora colpiremo fino a 300 km’.

Oggi sono stati pubblicati ufficialmente i ‘Fondamenti della politica statale della Federazione Russa nel campo della deterrenza nucleare’.

Spero leggano questa dottrina.

Ma non nel modo in cui leggono la Carta delle Nazioni Unite, vedendo solo quello di cui hanno bisogno, ma che leggano i Fondamenti in tutta la loro completezza e interconnessione.

Mosca reagirà di conseguenza alla decisione degli Stati Uniti di colpire in profondità la Federazione Russa.

La Russia è rigorosamente impegnata a prevenire la guerra nucleare.

I Fondamenti della politica statale della Federazione Russa nel campo della deterrenza nucleare sono stati approvati con decreto presidenziale”.

Trump: “Dobbiamo Porre Fine a Questa Ridicola Guerra in Ucraina”

Donald Trump:

 “La situazione in Ucraina è molto pericolosa, esplosiva e in aumento di giorno in giorno.

 La debolezza e l’incompetenza di Joe Biden ci hanno portato sull’orlo di una guerra nucleare, e ora Biden sta facendo ciò che disse 10 mesi fa e che avrebbe portato alla Terza guerra mondiale.

Sta inviando i carri armati americani.

È il tempo in cui le parti coinvolte perseguano una fine pacifica della guerra in Ucraina prima che questa catastrofe, già orribile, vada fuori controllo e finisca per portare davvero alla Terza guerra mondiale.

E questa sarebbe una guerra come nessun’altra guerra perché questa sarebbe una guerra nucleare.

Come ho già detto molte volte, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non sarebbe mai accaduta se fossi stato alla Casa Bianca, nemmeno a pensarci, nemmeno una possibilità.

 Dobbiamo porre fine a questa ridicola guerra in Ucraina e chiedere la pace ora prima che peggiori.

Che ci crediate o no, sarebbe molto facile da fare”.

A breve sapremo come…

(t.me/Rossella Fidanza).

 

 

 

 

Fico Contro Biden sui Missili

Contro la Russia. Scholz

Frena sui “Taurus.”

Conoscenzealconfine.it – (20 Novembre 2024) – Redazione – ci dice:

Rimuovere le restrizioni all’uso da parte dell’Ucraina di missili a lungo raggio forniti dagli Stati Uniti contro obiettivi in ​​territorio russo è insensato e controproducente, ha affermato il primo ministro slovacco “Robert Fico”.

Biden avrebbe rimosso le restrizioni all’uso dei missili ATACMS da parte dell’Ucraina, secondo un rapporto del New York Times di domenica.

 La Casa Bianca non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali.

“Si tratta di un’escalation di tensioni senza precedenti”, ha affermato lunedì Fico, definendola un tentativo di influenzare negativamente le politiche del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump e di “frustrare e ritardare” qualsiasi colloquio di pace.

Fico ha aggiunto di essere sorpreso dalla rapidità con cui alcuni Stati membri dell’UE hanno accolto con favore la mossa segnalata.

 “Questa è semplicemente la conferma che l’Unione Europea non è in grado di formulare da sola posizioni fondamentali di politica estera e che l’Occidente vuole che la guerra in Ucraina continui a tutti i costi “, ha affermato il premier slovacco.

Il ministro della Difesa slovacco “Robert Kalinak” e il ministro degli Esteri “Juraj Blanar” hanno ricevuto l’ordine di “opporsi a questa decisione americana in qualsiasi forum mondiale”, ha osservato Fico.

Bratislava “è fortemente in disaccordo” con la decisione degli Stati Uniti, considerandola una mossa “insensata” che minaccia gli interessi nazionali della Slovacchia, secondo Fico.

 Come vicina dell’Ucraina, la Slovacchia vuole vedere il conflitto finire il prima possibile.

La Slovacchia è membro sia dell’UE che della NATO, ma Fico si è discostato dalla politica di entrambi i blocchi riguardo al loro sostegno incondizionato a Kiev, unendosi invece alle richieste della vicina Ungheria di cessate il fuoco e di pace.

Anche la Germania sta prendendo le distanze dalla svolta sui missili per attaccare in profondità la Russia.

 Secondo il ministro della Difesa “Boris Pistorius”, il governo tedesco non ha intenzione di approvare la fornitura di missili da crociera a lungo raggio all’Ucraina per attacchi in profondità nella Russia, nonostante un presunto cambiamento di opinione sulla questione negli Stati Uniti.

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha concesso all’Ucraina un permesso limitato per attacchi a lungo raggio contro obiettivi in ​​profondità all’interno della Russia con missili ATACMS donati dagli americani, hanno riferito domenica diverse fonti di informazione.

Mosca ha affermato che qualsiasi attacco del genere supererebbe una linea rossa e costituirebbe un atto di guerra diretto con un paese della NATO.

 In precedenza, Stati Uniti, Regno Unito e Francia avevano fornito armi a lungo raggio all’Ucraina, ma la Germania si è rifiutata di farlo.

La decisione di Washington “non cambia la nostra valutazione al momento”, ha detto Pistorius ai giornalisti lunedì, quando gli è stato chiesto se il cancelliere Olaf Scholz avrebbe revocato il divieto di inviare missili lanciati dall’aria Taurus a Kiev.

Attualmente non c’è “nessuna ragione per prendere una decisione diversa”, ha aggiunto Pistorius, parlando durante una visita a uno stabilimento di elicotteri in Baviera.

Invece, l’esercito tedesco intende fornire 4.000 droni che utilizzano il pilotaggio assistito dall’Intelligenza Artificiale, ha detto.

Washington ha informato Berlino in anticipo del cambiamento di politica, ha detto un portavoce del governo tedesco.

 Il Ministero degli Esteri ha sottolineato che nessuna delle armi tedesche donate all’Ucraina è considerata a lungo raggio.

Scholz ha giustificato il suo rifiuto di dare missili Taurus all’esercito ucraino dicendo che la mossa renderebbe la Germania una parte diretta del conflitto.

 Il cancelliere è stato criticato per la sua posizione da alcuni dei suoi partner nella coalizione di governo ormai fallita, così come da alcune figure di spicco dell’opposizione.

 

Come riportato da “Renovatio 21”, i democristiani tedeschi della CDU ad inizio anno hanno spinto per la fornitura dei Taurus a Kiev.

Il ministro degli Esteri tedesco “Annalena Baerbock “ha invece accolto con favore le notizie sulla decisione di Biden.

Il suo partito, i Verdi, “vede questa questione allo stesso modo dei nostri partner dell’Europa orientale, britannici, francesi e americani”, ha affermato il funzionario in un’intervista con RBB Info-radio lunedì.

 

Marie-Agnes Strack-Zimmermann, parlamentare del Partito Democratico Libero (FDP) e presidente del Bundestag Defense Committee, ha definito la mossa americana attesa da tempo.

 Parlando alla radio Deutschland funk, ha esortato Scholz a cambiare idea sulle donazioni di Taurus.

I Verdi e l’FDP erano partner minori nella coalizione guidata dai Socialdemocratici di Scholz, che è crollata all’inizio di questo mese.

Anche i cristianodemocratici, il principale partito di opposizione tedesco, sostengono l’invio di missili “Taurus in Ucraina.

 Mentre altri politici che sono stati critici dell’intero approccio occidentale al conflitto, hanno goduto di un’impennata di popolarità quest’anno.

Come riportato da” Renovatio 21”, lo scorso settembre il ministro degli Esteri tedesco “Annalena Baerbock” in visita a Kiev è stata di fatto insultata dall’omologo ucraino “Dmytro Kuleba” che in conferenza stampa congiunta ha accusato la Germania di perdere tempo con le decisioni sulle forniture militari, quando il risultato, disse con boria piuttosto rara in diplomazia, è noto a tutti:

la Germania alla fine darà i missili all’Ucraina, ha assicurato Kuleba guardando la Baerbock, pure nota per il suo filo ucrainismo totale (ha dichiarato che sosterrà Kiev anche contro il volere degli elettori, e che l’Europa è in guerra con la Russia).

Esistono tuttavia sacche di resistenza anche dentro al Bundestag, come la deputata “Sevim Dagdelen”, già nota ai lettori di “Renovatio 21” per i suoi avvertimenti sull’incipiente Terza Guerra Mondiale, la quale lo scorso settembre aveva espresso preoccupazione per i missili da crociera a lungo raggio Taurus, temendo che questi missili potessero essere potenzialmente dotati di testate nucleari.

La deputata di “Die Linke” – partito di opposizione sempre più apertamente critico del governo Scholz e della sua guerra NATO – ha respinto come “ingenua” la convinzione della coalizione di governo tedesca secondo cui “l’Ucraina sarà in grado di controllarsi ed evitare di colpire obiettivi in ​​Russia con queste armi”.

Si prevede che in Germania si terranno elezioni federali anticipate all’inizio del 2025.

Come riportato da “Renovatio 21”, un audio trapelato sui media russi ad inizio 2024 testimoniava discussioni tra alti funzionari dell’esercito tedesco riguardo all’attacco sul ponte di Crimea.

La portavoce degli Esteri Maria Zakharova ha dichiarato che la Germania deve ancora essere “denazificata”.

A marzo il vicepresidente della commissione di sorveglianza del Parlamento tedesco “Roderich Kiesewetter” aveva dichiarato che l’edificio del Ministero della Difesa russo o la sede dei servizi segreti nazionali nel centro di Mosca sono obiettivi legittimi da attaccare.

(renovatio21.com/fico-contro-biden-sui-missili-contro-la-russia-scholz-ancora-frena-sui-taurus/).

 

 

 

 

 

Astensionismo e democrazia:

idee (bizzarre) per ridare valore al voto.

 Avvenire.it - Andrea Lavazza – (22 novembre 2024) – ci dice:

Caro Avvenire, da anni aumenta il numero di coloro che non votano.

Restano inascoltati gli accorati messaggi delle autorità che invitano a recarsi alle urne e che ci ricordano che votare è un diritto/dovere e un bene per la democrazia. Tutto vano.

Lo evidenziano anche i dati dell’affluenza in Emilia-Romagna e in Umbria. Suggerirei un’idea bizzarra, ma non troppo:

 realizzare una “tessera per la raccolta punti” che dopo un certo numero di votazioni dia diritto a partecipare a un sorteggio con premio adeguato.

 Raffaele Pisani:

 Caro Pisani, il tema dell’astensione dal voto è a mio avviso drammatico, ma ci sta anche scherzarci sopra, e per questo pubblico la sua proposta paradossale.

Sono molti i lettori che avvertono l’urgenza della situazione, a cominciare dai signori” Carnacina” e “Veronesi”, che nei loro messaggi evidenziano varie ragioni della disaffezione che colpisce il nostro Paese, come tante altre democrazie mature.

 Reintrodurre l’obbligo di recarsi alle urne potrebbe contrastare la tendenza se si associasse una sanzione al mancato adempimento, eppure non la vedo come soluzione facilmente praticabile.

Analisi del sentiment degli elettori sembrano indicare che le persone pensano che il risultato delle urne sia ininfluente per la loro vita e, razionalmente, si evitano una fatica e una perdita di tempo, seppure in genere minima.

Dovremmo sapere comunicare che la società ha bisogno della loro voce, che non può farne a meno.

 Ecco che allora, bizzarria per bizzarria, caro Pisani, potremmo ipotizzare di subordinare la validità delle preferenze espresse alla numerosità dei partecipanti, un po’ come accade per il referendum, mettendo però un quorum più alto del 50%, diciamo il 65% per ora.

Se però il referendum decade senza il raggiungimento della soglia stabilita, le elezioni – politiche, regionali o amministrative – dovrebbero essere semplicemente ripetute la settimana successiva.

 Alla prima chiamata partecipa il 52% degli aventi diritto?

Si bruciano le schede senza aprirle e si riaprono i seggi la domenica successiva (senza appendici del lunedì).

Non si arriva al 65% nemmeno nella seconda tornata?

Se ne predispone una terza consecutiva.

 Qualora nemmeno in quella si ottenesse la partecipazione prefissata, si prenderebbe comunque per buono l’esito ottenuto.

 Lo so: le procedure costano, ci sarebbero disagi nelle scuole, si creerebbe incertezza nel Paese.

Eppure, se crediamo che la democrazia sia importante, dobbiamo dedicarle impegno e risorse, sacrificando qualcosa per la sua conservazione in salute.

Diciamo ai cittadini che la loro presenza attiva ci interessa al punto da ripetere il voto.

 In questo modo, anche i politici avrebbero uno stimolo in più a invitare alla mobilitazione, al di là di qualche attuale frase di circostanza, visto che alla fine si governa con qualunque affluenza, anche inferiore alla metà degli aventi diritto, come accaduto in Emilia-Romagna.

 In definitiva, servono idee e passioni per fare comprendere soprattutto ai giovani quanto è prezioso quel gesto di entrare in una spoglia cabina di legno e mettere una croce su un nome o una lista.

 L’apatia e l’indifferenza non portano mai nulla di buono nella storia.

Viene in mente una vecchia canzone di “Samuele Bersani”:

“Lo scrutatore non votante / Prepara un viaggio, ma non parte / Pulisce casa, ma non ospita / Conosce i nomi delle piante / Che taglia con la sega elettrica...”

 

 

 

 

Come aggirare la

Costituzione democratica.

  Labottegadelbarbieri.org – (7 Novembre 2023) – Redazione - Pietro Garbarino e di Lorenzo Zamponi – ci dicono:

 

Libertà e dittatura nella maggioranza.

(Pietro Garbarino)

 

Nel linguaggio politico comune si distingue abitualmente fra dittatura e democrazia, nel senso che una esclude l’altra.

Ma tali termini possono invece coesistere?

Nella materia giuridico-istituzionale esistono dei principi che fungono da discrimine rispetto alla qualificazione dello Stato – inteso come comunità organizzata di cittadini – e la cui differenziazione porta a ritenere tale Stato come democratico o totalitario.

Nell’accezione più comune di tale definizione lo Stato totalitario corrisponde ad una comunità dominata da una non discutibile detenzione permanente del potere politico, in grado di imporre ai cittadini le regole di organizzazione e convivenza.

 

Lo Stato democratico invece è quello che si fonda su periodici orientamenti della maggioranza dei cittadini, ritenuti soggetti liberi, pensanti ed eguali, ma contempla anche che tale maggioranza possa divenire minoranza ed essere sostituita da altri soggetti e/o schieramenti.

È proprio tale presupposto di interscambiabilità o comunque di possibile e agevole modificazione delle maggioranze a costituire il punto nodale del sistema democratico, che si differenzia dal totalitarismo per la sua dinamicità, dipendente dal divenire degli orientamenti politici dei cittadini.

Non per questo una società politica democratica si deve caratterizzare per la continua modificazione dei suoi indirizzi di governo, cioè con la prevalenza di taluni orientamenti politici, ma ciò dipende in buona parte dalla capacità di chi è al potere, in quanto attuale maggioranza, di rapportarsi alle esigenze e agli interessi dei cittadini, interpretandoli correttamente e traducendoli in atti politici e amministrativi condivisi.

Dunque può ritenersi democratico anche uno Stato in cui, per decenni e decenni, lo stesso partito politico risulta liberamente preferito dalla maggioranza degli elettori, mentre non si ritiene democratico uno stato in cui un solo partito politico governa per lungo e indefinito tempo, ma senza controllo democratico e possibilità di ricambio.

Stabilito ciò, si deve però considerare che quei saggi principi, che costituiscono l’ABC della distinzione politologica fra le due diverse tipologie di Stato sopra menzionate, qualora vengano interpretati in modo rigido e forzato, possano trasformarsi da rassicuranti regole che garantiscono una vita istituzionale equilibrata e ordinata, nel pieno rispetto dei diritti del cittadino, in tragiche farse che della democrazia non hanno più nulla.

Un chiaro esempio, che funge da paradigma di quanto appena affermato, è la cosiddetta “dittatura della maggioranza”;

 cioè l’affermazione che la maggioranza politica che esce vincitrice dalle elezioni abbia l’assoluto potere di disporre a tutto campo delle leggi dello stato, dei vari e complessi settori dell’amministrazione, della dirigenza e controllo dei minori enti pubblici che fanno capo allo Stato e al suo Governo, sino addirittura a voler condizionare le scelte e il funzionamento di quello tra i poteri dello Stato che deve essere più autonomo e protetto; e cioè la magistratura.

Uno Stato democratico, nel senso integrale di tale termine, oltre a riconoscere e tutelare i diritti dei propri cittadini, nella indispensabile condizione dell’eguaglianza degli stessi – eguaglianza che ben si intende come sostanziale, ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione – deve tenere presente che i propri cittadini, i quali devono potere esprimere un voto del tutto libero in coerenza con le proprie opinioni politiche, non sono solo coloro che hanno votato il partito o la coalizione di governo, ma tutti quanti gli elettori e perfino quanti non hanno esercitato tale diritto-dovere.

Dunque, è dovere del governo eletto non solo garantire a tutti, senza distinzione alcuna, l’esercizio dei diritti fondamentali, ma anche di svolgere i propri compiti tenendo conto dell’orientamento e degli interessi dell’intero elettorato e di tutta la cittadinanza.

Quando l’articolo 1 della Costituzione dichiara “la sovranità appartiene al popolo…” non intende affatto conferire tale somma facoltà solo a chi ha votato per il governo in carica, bensì a tutto il popolo, inteso come comunità.

Sembra invece che chi ci governa (e non solo attualmente, ma già dai primi anni 2000) si ritenga autorizzato, in nome di un’investitura elettorale che non è affatto un’investitura della sovranità popolare ma molto meno, a disporre dello Stato, delle sue leggi (Costituzione compresa) e della sua organizzazione e relative articolazioni, in modo pieno e assoluto.

Un popolo (quello che ha la sovranità) è una collettività di persone che hanno idee, propensioni, interessi molti diversi e la funzione del governare, che comprende proprio il dotare lo Stato di leggi, amministrandole oculatamente, presuppone che si governi in nome dell’intero popolo e non in nome delle peraltro momentanee propensioni dei propri elettori e sostenitori.

E così i programmi elettorali, con i quali si conquista il consenso degli elettori, non sono e non devono essere la clava con la quale percuotere e abbattere coloro che hanno opinioni e programmi diversi ma, una volta che chi li propone divenga forza di governo, debbono a loro volta divenire la sintesi degli interessi prevalenti in tutta la cittadinanza, e non solo a beneficio e per la soddisfazione di chi ha votato i partiti al governo.

E ciò a maggior ragione in una fase storica in cui l’esercizio attivo del diritto di voto è in regresso e spesso le stesse maggioranze elettorali (quasi sempre relative) rappresentano poco più della metà degli aventi diritto al voto e non danno rappresentanza a larghe fasce di cittadini, delusi e confusi.

Per di più con un Parlamento ridotto nei numeri da un malinteso referendum popolare indetto in modo populistico e qualunquista.

Infatti, con una simile concezione dell’investitura politica, diviene possibile fare leggi “ad personam” o emanare provvedimenti di natura amministrativa ed economica che favoriscono grandi elettori del partito (o dei partiti) di governo; legittimare provvedimenti che rendono stabili, consolidano, o addirittura perpetuano posizioni di potere dalle quali trarre vantaggio politico futuro.

 

Ma ciò che più preoccupa di una simile concezione della propria investitura elettorale sono i riflessi sul piano istituzionale e costituzionale.

Ho già scritto in precedenza come alcuni meccanismi e procedimenti amministrativi – alcuni dei quali di grande importanza – vengono sempre più spesso saltati a piè pari mediante le nomine di Commissari o con l’istituzione di non meglio identificate “cabine di regia”.

Cioè, là dove è previsto un confronto dialettico democratico fra enti e istituzioni a ciò deputati dalla legge per affrontare alcuni problemi (grandi opere pubbliche, per esempio) si procede con diffuso fervore a nomina di “commissari”, dotati di poteri straordinari e dunque fuori da ogni controllo politico, che dovrebbero procedere per fare avanzare la realizzazione dell’obbiettivo.

In altri termini, si procede con logiche e provvedimenti emergenziali anche quando non vi è alcuna emergenza, al solo scopo di eludere le norme ordinarie e il confronto istituzionale democratico.

 Senonché i Commissari risultano quasi sempre essere persone obbedienti al potere politico e ai poteri amministrativi centrali, con buona pace dei princìpi del decentramento amministrativo che presuppone che ciascuna parte del paese venga amministrata, nei limiti costituzionali, dalle istituzioni democratiche locali.

Invece le nomine di “commissari e registi” determinano proprio la fine dell’autonomia politica locale e dei relativi processi di elaborazione, la cui lentezza non sempre è un fatto negativo, ma corrisponde alla ricerca della soluzione più idonea e condivisa a raggiungere lo scopo.

Ma, ancor più il tema si fa delicato e cruciale allorché si parla di riforme istituzionali.

Non basta che la rappresentatività dei cittadini sia stata taglieggiata dalla riduzione dei membri delle Camere, con conseguente inevitabile vantaggio del potere esecutivo;

 adesso si vuole addirittura modificare il fulcro centrale del nostro apparato istituzionale, rendendo il potere esecutivo (cioè il governo politico), non solo indipendente dall’organo rappresentativo dai cittadini tramite l’elezione diretta, ma di farlo divenire il potere centrale e prevalente tra quelli attribuiti allo Stato.

In altri termini la repubblica parlamentare, che prevede che il governo politico dello Stato sia espressione della maggioranza, anche politicamente composita, degli elettori, dovrà cedere il passo ad un “Capo di Governo “che, investito dal voto popolare del momento, avrà sostanziali poteri di controllo nel Parlamento, addirittura con il potere di scioglierlo, come prevede il cosiddetto “premierato”, che è già concretamente nell’agenda politica nazionale e che è allo studio del ministro competente.

Ma qui viene in evidenza la concezione predatoria e autoritaria di chi ritiene che, avendo la maggioranza elettorale, si abbia anche la sovranità popolare.

Si opina così che chiunque abbia ricevuto un momentaneo successo elettorale, e che forse alle successive elezioni non lo avrà più, possa modificare a suo piacere e servizio la “Carta fondamentale”, che costituisce il patto fondante dello Stato democratico.

Ora, bisogna capire che una comunità nazionale (e non nazionalistica, come qualcuno vorrebbe) è costituita da un articolato complesso di situazioni politiche e sociali, di condizioni economiche, e che è opportuno che tutte quelle circostanze trovino idonea rappresentanza, secondo i principi di democrazia e uguaglianza.

Solo in tale modo si potrà avere un dibattito, nelle massime istituzioni statali, che preveda leggi e provvedimenti equilibrati che contemperino i vari diversi, e talvolta contrapposti, interessi.

E ciò comporta discussioni di necessaria ampiezza, con i relativi tempi.

Da qualche decina d’anni sembra invece che l’attenzione della politica sia rivolta all’aspetto della rapidità delle decisioni.

Ma spesso la tempestività a “tambur battente” non si accorda con la completezza, chiarezza ed equilibrio del provvedimento approvato, con la conseguenza che, o si emanano provvedimenti imperfetti, o si deve successivamente provvedere a colmarne le lacune.

Per assicurarsi tale lacunosa rapidità buona parte delle forze politiche oggi puntano su una maggiore efficienza e operatività del governo, ma ciò va ovviamente a discapito del controllo democratico del Parlamento, che è l’organo rappresentativo proprio di quel popolo che ha la sovranità e che si vorrebbe restringere a coloro che hanno votato i partiti di governo.

E allora bisogna rispolverare con ben altre letture quel concetto di sovranità popolare, che non significa affatto sovranità di chi vince le elezioni, ma anche di chi, anche a causa di meccanismi e regole elettorali assai discutibili, ha minore rappresentanza politica nelle istituzioni rappresentative.

E ciò ha una ricaduta anche sulle norme che regolano la vita della collettività, la quale deve essere considerata non come entità diversificata politicamente, ma come un unico grande interlocutore della politica.

In altri termini, chi gestisce il potere statale non può agire con leggi e provvedimenti solo nei termini graditi al proprio elettorato, ma deve agire nell’interesse di tutti i cittadini.

Per chi governa, infatti, i cittadini sono tutti quanti i consociati, e non solo quelli che hanno votato per quella parte politica.

Dunque ogni riforma si deve fare nell’interesse di tutti i cittadini, perché la comunità è fatta di maggioranze politiche ma anche di minoranze e postula il pluralismo delle idee.

Nel corso della tanto aborrita “prima repubblica” questo concetto era assai chiaro; infatti vigeva la regola che nelle istituzioni ci fosse sempre posto anche per l’opposizione.

L’esempio più evidente era costituito dalla presidenza delle due camere parlamentari;

una presidenza spettava alla maggioranza uscita dalle precedenti elezioni, e una presidenza spettava alla minoranza all’opposizione.

Ma ciò che più conta è che non possono, per ogni legislatura che si avvicenda, essere modificate le leggi fondamentali che regolano la vita dei cittadini, perché l’impianto legislativo di uno Stato non è qualcosa che si plasma sulla base della volontà della maggioranza politica del momento.

Codici civili e penali, codici di procedura, leggi in materia pensionistica, norme sugli appalti di opere pubbliche e molte altre ancora, non sono disposizioni buone per un’unica stagione, ma debbono garantire diritti e prerogative dei cittadini per periodi ben più lunghi di una o due legislature.

Anche la stessa legge elettorale, modificata per ben quattro volte negli ultimi 20 anni, non può essere uno strumento a disposizione degli interessi politici di parte del momento.

Ed ancor più la Costituzione, che è il patto fondamentale che dà le regole fondamentali per lo svolgimento della vita della comunità nel tempo, prova ne sia che la stessa Costituzione degli Stati Uniti d’America, sopravvive, nei suoi contenuti originari, dai tempi della rivoluzione americana, e cioè dalla fine del 1700.

In conclusione, e per tornare ai concetti espressi in apertura, le leggi dello stato non sono uno strumento per perpetrare il proprio potere compiacendo il proprio odierno elettorato.

Sono lo strumento per governare la vita di una complessa comunità che è fatta di cittadini benestanti ma anche di meno agiati;

di persone di diverse opinioni religiose e politiche; di culture e origini diverse, ma che hanno tutti pari dignità e diritti.

Intervenire sulla legge significa dare a tutti le stesse opportunità, facoltà, diritti e anche doveri.

Non si tratta dunque di mantenere il consenso elettorale, comunque sempre più ristretto per il progressivo preoccupante calo del numero dei votanti, ma di governare nel modo maggiormente condiviso da parte della collettività, come invece auspica la Costituzione, la cui preoccupazione principale non risiede nella tutela di chi ha, bensì di chi non ha, indipendentemente dalla quantità di rappresentanza politica, perché la pari dignità dei cittadini è un fatto giuridico che non deve dipendere da fattori economici, ma deve riguardare proprio chi non ha i mezzi per conseguirla.

L’articolo 3 il cui 2° comma inizia con l’allocuzione “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…” è un vero a proprio manifesto della principale motivazione costitutiva e fondante della Repubblica Italiana.

Stravolgere quello spirito e quei princìpi in nome di interessi particolari, contingenti e transitori, significa abbandonare il dettato di quella Carta, che non solo ha introdotto i princìpi della democrazia nel nostro Paese ma ha fatto sì che, seguendo quella strada, l’Italia sia diventata uno degli Stati più importanti del mondo.

Ma se tale fosse l’intento di chi ambisce a governare questo Paese, bisognerebbe ritenere che è in corso una vera e propria tendenza a rifondare uno Stato totalitario.

Abbiamo però fiducia che il popolo sovrano questa volta possa respingere quella odiosa tentazione.

 

IL PREMIERATO HARD.

(Lorenzo Zamponi).

 La destra entra a gamba tesa nell’architettura costituzionale come mai nessuno aveva fatto.

Nel contrastarla, non bisogna rifuggire la sfida di costruire un rapporto funzionante tra rappresentanti e rappresentati.

La destra ci riprova, a riscrivere la Costituzione, e stavolta punta in alto.

 In nessuna democrazia costituzionale al mondo una sola persona, il capo del governo, concentra su di sé un controllo del potere esecutivo e di quello legislativo, senza rendere conto sostanzialmente a nessuno se non agli elettori del proprio operato, quale quello delineato nella proposta di riforma costituzionale varata dal consiglio dei ministri, a firma della presidente del consiglio Giorgia Meloni e della ministra delle riforme costituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati.

Solo in un’Italia assuefatta da trent’anni di retorica antiparlamentare e antipartitica una proposta del genere può essere definita, come ha fatto nei giorni scorsi un’agenzia di stampa, «premierato soft».

 Il governo Meloni entra a gamba tesa nell’architettura costituzionale come mai nessuno aveva fatto (neanche le riforme bocciate dai referendum, quella di Berlusconi del 2005 e quella di Renzi del 2015, arrivavano a tanto), proponendo la creazione di un super premier eletto direttamente dai cittadini in forma plebiscitaria, con un parlamento automaticamente allineato grazie a un premio di maggioranza inserito direttamente in Costituzione, e la capacità, di fatto, di mandare a casa quel parlamento nel caso, remoto, in cui dissentisse su qualcosa.

Altro che «premierato soft»:

si trasformerebbe l’Italia in uno strano ibrido tra parlamentarismo e presidenzialismo, senza le garanzie e gli equilibri di nessuno dei due sistemi.

Difficile capire se si tratti di una strategia del governo che «spara alto» per poi negoziare in parlamento un compromesso che somigli a qualcosa di già visto nel mondo civile, oppure se Giorgia Meloni e i suoi alleati intendano veramente andare fino in fondo, fino al terzo referendum costituzionale in meno di vent’anni.

 

Di certo, serve un’opposizione netta, in parlamento, nel dibattito pubblico e nelle piazze, a un disegno che porterebbe a compimento la transizione italiana nel modo più autoritario possibile.

Una mobilitazione che però non può limitarsi a denunciare una proposta che si potrebbe facilmente definire eversiva dell’ordine costituzionale, se quest’ordine non fosse già stato gradualmente indebolito e distorto da decenni.

Questa proposta di riforma è figlia delle retoriche e delle scorciatoie che tutti i governi della Seconda Repubblica hanno utilizzato per nascondere sotto il tappeto la crisi strutturale di rappresentanza che caratterizza l’Italia da trent’anni e che è stata ulteriormente aggravata dal quindicennio post-2008.

Da una parte, Giorgia Meloni cavalca l’onda di un trentennio in cui l’elezione diretta del presidente del consiglio è spesso esistita di fatto se non nella norma, e in cui slogan come «ci vuole il sindaco d’Italia» e «la sera delle elezioni si deve sapere chi governa» sono stati sulla bocca di ogni leader di centrosinistra:

con che credibilità, ora, si dà battaglia contro la realizzazione di quelle promesse?

Dall’altra, instabilità governativa, trasformismi, cambi di maggioranza e ricorso frequente a «governi tecnici» privi di una legittimazione popolare hanno effettivamente creato uno scontento che questa riforma può provare a catalizzare, ovviamente in forma verticistica e autoritaria.

Insomma:

 si è giocato col fuoco per decenni, e ora qualcuno ha deciso di incendiare tutto. Denunciare «l’attacco alla Costituzione» non basta: serve prendere sul serio la crisi della rappresentanza.

Pieni poteri.

La proposta di riforma inserirebbe nel testo costituzionale quattro principali novità:

l’elezione diretta del presidente del consiglio;

la contestualità tra l’elezione del presidente del consiglio e quella del parlamento, che avverrebbero addirittura su una sola scheda, con l’obbligo che la legge elettorale assicuri alle liste collegate al presidente del consiglio una maggioranza del 55% in ognuna delle due camere tramite un apposito premio;

l’impossibilità, in caso di dimissioni del presidente del consiglio o di sfiducia nei suoi confronti da parte del parlamento, di nominarne un altro, se non nell’ambito della stessa maggioranza e per la realizzazione dello stesso programma.

L’elezione diretta del presidente del consiglio è già di per sé un’anomalia.

La figura del primo ministro, infatti, è tipica dei sistemi parlamentari, in cui è appunto il parlamento, sede del potere legislativo, il depositario della volontà popolare, mentre gli altri poteri, compreso quello esecutivo, dipendono dalla legittimazione parlamentare.

 Normalmente, quindi, nei sistemi parlamentari, il capo del governo è nominato dal capo dello stato (il Presidente della Repubblica nel caso italiano o tedesco, il re o la regina nel caso spagnolo o britannico), per poi essere votato dal parlamento, oppure direttamente eletto dal parlamento stesso (come nel caso giapponese).

L’elezione diretta del capo del governo, invece, è tipica dei sistemi presidenziali, in cui sia il potere legislativo (il parlamento) sia l’esecutivo (il presidente, che a quel punto è sia capo dello stato sia capo del governo) sono eletti direttamente dal popolo, come ad esempio negli Stati uniti o in Francia.

Meloni propone di far eleggere dai cittadini il presidente del consiglio, ma di mantenerlo separato dal capo dello stato e di farlo passare comunque per la fiducia parlamentare (ridotta a un passaggio formale senza significato).

Una bizzarria che non esiste sostanzialmente da nessun’altra parte.

Ci provò Israele negli anni Novanta, con risultati tutt’altro che soddisfacenti, tanto che la norma fu revocata meno di dieci anni dopo il suo varo.

Non si capisce, se si ritiene che il capo del governo debba essere scelto direttamente dai cittadini, senza la mediazione parlamentare, perché non passare direttamente al presidenzialismo.

L’impressione è che i motivi per questa scelta bizzarra da parte del governo Meloni siano due:

da una parte, evitare l’immagine plebiscitaria, personalistica e tendenzialmente autoritaria che il presidenzialismo si porta dietro in Europa, proponendo la stessa ricetta sotto le vesti più «soft» del «premierato»;

dall’altra, evitare le garanzie e i contrappesi che, normalmente, il presidenzialismo si porta dietro, e che contraddirebbero gli obiettivi pienamente autoritari di questa riforma.

Il fulcro autoritario della proposta Meloni è, infatti, il secondo punto:

l’elezione contestuale di capo del governo e parlamento, lo stesso giorno, sulla stessa scheda elettorale e con un sistema che assicuri al presidente del consiglio, a prescindere dal risultato elettorale, una maggioranza assoluta in entrambe le camere.

Questo è un meccanismo che non esiste in alcuna democrazia al mondo.

Nessuno elegge parlamento e capo del governo con lo stesso voto:

o si vota solo il parlamento (sistemi parlamentari) o si votano entrambi ma in modo diverso (sistemi presidenziali).

Nei sistemi presidenziali, infatti, la possibilità di avere un parlamento di colore politico diverso da quello del presidente è una garanzia democratica.

In molti casi, avvengono in giornate diverse (come in Francia e in parte negli Stati uniti) e, anche quando avvengono lo stesso giorno (come in Cile e nella Turchia di Erdogan, in questo più liberale dell’Italia che Meloni propone), si vota con due schede diverse, con meccanismi elettorali diversi e con risultati reciprocamente indipendenti.

Già la legge elettorale è unica al mondo:

nessun altro sistema, infatti, assicura che sempre, con qualsiasi risultato, ci sia una maggioranza assoluta uscita dalle urne.

Perfino nel sistema più maggioritario d’Europa, quello britannico, è successo (l’ultima volta nel 2010) che nessun partito avesse la maggioranza e si dovesse formare una coalizione in parlamento.

Solo in Italia ciò è considerato talmente scandaloso da doverlo proibire per Costituzione.

 Ipotizzando il caso di quattro candidati alla presidenza del consiglio più o meno di simile peso elettorale, se uno dei loro prendesse il 27% dei voti e gli altri, magari, rispettivamente il 26%, il 25% e il 24%, il primo sarebbe eletto presidente del consiglio e ai partiti che lo sostengono andrebbe il 55% delle due camere.

Una distorsione enorme della volontà popolare, tanto che la Corte Costituzionale già due volte (prima contro il «Porcellum» di Roberto Calderoli e poi contro «l’Italicum» di Matteo Renzi) ha bocciato la possibilità di un premio di maggioranza che non preveda almeno una soglia minima di accesso.

Per questo Casellati e Meloni vogliono inserire questo meccanismo direttamente in Costituzione:

per evitare che risulti incostituzionale.

In questo modo, il capo del governo eletto direttamente dai cittadini si troverebbe di fronte un parlamento perfettamente allineato dal punto di vista politico, anche se votato da una più o meno ristretta minoranza di elettori.

Un meccanismo che fonderebbe presidenzialismo e parlamentarismo evitando le garanzie di ciascun sistema, e rendendo impossibile la coabitazione tra un capo del governo di una parte politica e un parlamento non allineato, cosa invece normalissima nei sistemi presidenziali:

 Joe Biden ha di fronte un Congresso a maggioranza repubblicana, così come Emmanuel Macron deve confrontarsi con un’Assemblea Nazionale in cui il suo partito ha la maggioranza relativa ma non quella assoluta.

Per non parlare di Gabriel Boric, presidente del Cile: non solo la sua coalizione di sinistra radicale, alle elezioni per il parlamento, ha preso solo il 21% dei voti, ma anche l’alleanza costruita poi con il centrosinistra non arriva alla maggioranza assoluta.

O di Lula, che nel Congresso brasiliano può contare su poco più di un terzo dei deputati.

Insomma, normalmente in democrazia si deve scegliere:

o c’è omogeneità politica tra governo e parlamento, ma si vota solo per il secondo (parlamentarismo), o si vota direttamente sia il parlamento sia il capo del governo, ma in maniera indipendente e accettando il rischio di coabitazione (presidenzialismo).

Meloni, invece, vuole la legittimazione popolare diretta e anche un parlamento che approvi qualsiasi cosa gli venga proposto: in Veneto si direbbe «voer a musa e anca i trenta schei» (volere l’asina e anche i trenta soldi).

 

L’asservimento totale del parlamento al capo del governo raggiunge livelli insperati al terzo punto della riforma.

 Se con l’elezione diretta del capo del governo ha perso di senso il voto di fiducia (cioè il potere più rilevante di un parlamento), e con la maggioranza assoluta automatica il presidente del consiglio è liberato dal fastidio di dover in caso negoziare con un parlamento avverso, la cosiddetta «norma anti-ribaltoni» toglie al parlamento l’ultima forma possibile di controllo sul governo: la sfiducia nei confronti del presidente del consiglio.

O meglio:

come il voto di fiducia è rimasto formalmente, ma è stato svuotato di fatto dall’elezione diretta del presidente del consiglio, il voto di sfiducia resta un’eventualità considerata dalla Costituzione, ma è reso difficilissimo da esercitare in termini concreti.

Nel caso, infatti, che un presidente del consiglio venisse sfiduciato dal parlamento oppure decidesse spontaneamente di dimettersi, il Presidente della Repubblica lo potrebbe sostituire solo con un parlamentare eletto nelle stesse liste, e solo per realizzare il programma del capo del governo eletto dai cittadini.

Altrimenti, si torna a votare.

Insomma: o la sostituzione del presidente del consiglio è una mera staffetta interna alla coalizione di maggioranza senza alcuna variazione programmatica (cosa avvenuta molto raramente nella storia della Repubblica), oppure le camere vanno sciolte.

Nella pratica, il presidente del consiglio, che già ha a disposizione un parlamento fatto al 55% di suoi sostenitori, può, nel caso remoto in cui qualcuno tra essi decida di dire la propria, minacciare molto chiaramente:

«se non fate come vi dico, mi dimetto, e, a meno che non siate in grado di sostituirmi con qualcuno che vada bene a tutta la maggioranza uscente, mio partito compreso, si va a casa tutti».

Un’arma di ricatto potentissima:

di fatto, sarebbe il presidente del consiglio a poter sfiduciare il parlamento, più che viceversa.

E anche il potere di sciogliere le camere e convocare nuove elezioni, sulla carta ancora del Presidente della Repubblica, passerebbe di fatto al presidente del consiglio.

Il Presidente della Repubblica sarebbe così ridotto a una figura sostanzialmente ornamentale e il capo del partito di maggioranza relativa avrebbe pieni poteri, con il controllo di esecutivo e legislativo (per fortuna non siamo ancora all’attacco al potere giudiziario e alla libertà d’espressione, come nell’Ungheria dell’amico Orbán), per cinque anni.

«La madre di tutte le riforme»

Nella conferenza stampa di presentazione della proposta, Meloni l’ha definita «la madre di tutte le riforme», attribuendole lo status di «priorità» dell’azione del governo e giustificandola con due obiettivi:

«mettere fine alla stagione dei ribaltoni, dei giochi di palazzo, del trasformismo, delle maggioranze arcobaleno, dei governi tecnici» e «garantire la stabilità del governo per cinque anni, una condizione sostanziale per costruire una strategia e per avere una credibilità a livello nazionale e internazionale».

Il secondo punto è stranoto: abbiamo avuto sessantotto governi in settantasette anni di Repubblica, il più lungo dei quali, il Berlusconi II, non arrivò neanche a quattro anni.

La ricerca ossessiva della governabilità, della possibilità che un presidente del consiglio possa lavorare in pace per cinque anni senza dover fastidiosamente rendere conto a un sistema di partiti e a un parlamento, è stato uno degli assi portanti della Seconda Repubblica.

Dove le mille riforme elettorali hanno fallito, provando a forzare la volontà popolare in camicie costruite ad hoc per costruire maggioranze durature, Meloni interviene puntando direttamente la Costituzione.

Non è la prima volta.

Già la bicamerale presieduta prima dal democristiano Ciriaco De Mita e poi dalla post-comunista Nilde Iotti, tra il ’93 e il ’94, propose una forma di premierato (costruita sul modello tedesco, e molto più sensata di quella in discussione ora), poi riproposta dal centrosinistra nella bicamerale di Massimo D’Alema del ’97-’98 (successivamente accantonata in nome del semi-presidenzialismo alla francese per venire incontro alla destra) e riemersa (in forma più radicale, ma ancora estremamente soft rispetto alla proposta attuale) nella riforma Berlusconi-Calderoli bocciata dagli elettori nel 2005.

Di riequilibrare la forma di governo a favore dell’esecutivo, insomma, si parla da trent’anni.

Dietro a questa tendenza da una parte c’è il tentativo di ricostruire nell’identificazione diretta tra popolo e capo del governo i legami di rappresentanza che la crisi dei partiti ha fatto saltare tra popolo e parlamento; dall’altra l’idea che le democrazie parlamentari, nella loro lentezza e macchinosità, costituiscano un ostacolo all’implementazione rapida delle riforme di aggiustamento strutturale che il neoliberismo prevede.

Come illustrava il celebre documento The Euro area adjustment: about halfway there (L’aggiustamento dell’area euro: quasi a metà strada) pubblicato nel maggio 2013 dal centro di ricerca sulla politica economica della banca d’affari JP Morgan, gli esecutivi deboli dell’area mediterranea sono un’eredità scomoda delle transizioni dal fascismo alla democrazia, da cancellare per rendere più agile e priva di qualsiasi attrito, anche quello morbido di parlamenti tutt’altro che all’altezza del proprio ruolo, l’implementazione delle decisioni prese dalle élite finanziarie transnazionali.

Ma a essere fondamentale nella costruzione di un potenziale consenso intorno alla proposta Meloni-Casellati è il primo dei punti esposti dalla presidente del consiglio:

 basta con «ribaltoni» e governi tecnici.

Qui si toccano nodi scoperti della politica italiana degli ultimi decenni.

Se l’idea del cambio di maggioranza parlamentare come «ribaltone» è un’invenzione berlusconiana, parte della retorica antiparlamentare di cui sopra, è innegabile che i livelli di trasformismo della Seconda Repubblica abbiano spesso raggiunto il parossismo.

I governi pre-1993 duravano tendenzialmente pochi mesi, ma le maggioranze erano fin troppo stabili, con la Dc e i suoi alleati, magari non sempre nella stessa formazione, saldamente al governo del paese per quarant’anni.

L’Italia del bipolarismo, invece, ha visto un fiorire di passaggi, collettivi e individuali, da una coalizione all’altra, contribuendo all’idea diffusa della politica come un gioco di potere interno alla «casta».

L’apice di tutto ciò fu raggiunto proprio dal governo in cui Giorgia Meloni era ministra, il Berlusconi IV, rimasto in sella a dicembre 2010 grazie al soccorso interessato di parlamentari eletti col centrosinistra.

Una vergogna che ha lasciato il segno nell’opinione pubblica.

Così come è innegabile l’anomalia democratica rappresentata dal governo Monti (2011-2013) e dal governo Draghi (2021-2022), esecutivi «tecnici» nati dall’iniziativa autonoma dei Presidenti della Repubblica Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella forzando la mano a parlamenti deboli.

È così strano che si diffonda la sfiducia nel parlamentarismo, quando questo si concretizza non nella centralità della volontà popolare attraverso la rappresentanza, bensì della negazione della volontà popolare attraverso la formazione di governi «tecnici” che non rispondono a nessuno del proprio operato?

Meloni cavalca il giusto disgusto per queste degenerazioni della politica contemporanea.

Lo fa cogliendo l’occasione per indirizzarlo in senso autoritario, quando soluzioni più semplici sarebbero state a portata di mano:

 basti pensare alla cosiddetta «sfiducia costruttiva», in vigore in Germania e Spagna, che permette di sfiduciare un presidente del consiglio solo presentando e votando un suo sostituto.

Un meccanismo che eviterebbe «crisi al buio» e governi nati fuori dal parlamento e dai partiti.

Ma che, evidentemente, non rassicura abbastanza la destra al governo.

E quindi il “premierato” di cui si parla non prevede ciò che la stessa etichetta aveva indicato in passato (potere di nomina e revoca dei ministri da parte del presidente del consiglio, sfiducia costruttiva) e ciò che molti capi di governo hanno in altri paesi, bensì un mostro costituzionale basato sulla logica muscolare dei “pieni poteri” e della delega totale al leader.

 

Difendere la Costituzione non basta.

Questa riforma può passare?

Per la maggioranza dei due terzi richiesta dalla Costituzione mancano 27 voti alla Camera e 17 al Senato:

un gap che il «soccorso bianco» del centro di Matteo Renzi, già annunciato, non basterà a colmare.

Quindi o il negoziato parlamentare porterà a un accordo di compromesso (cosa che il carattere «estremo» di questa prima proposta suggerirebbe, ma che appare difficilmente compatibile con il clima fortemente polarizzato del campo politico attuale) o si andrà a un nuovo referendum.

Conviene a Giorgia Meloni farlo, sapendo che non c’è quorum e che la mobilitazione dell’opposizione potrebbe risultare decisiva, come già accaduto alla riforma Berlusconi-Calderoli nel 2005 e a quelli Renzi-Boschi nel 2015?

Difficile dirlo.

Dietro all’iniziativa, ci potrebbe essere la volontà di rimarcare un punto identitario della destra, controbilanciando l’egemonia leghista sull’autonomia differenziata, e lasciando un segno indelebile del passaggio della fiamma tricolore al governo, nella Costituzione.

Oppure potrebbe essere un ballon d’essai, lanciato per poter dire, intanto, di aver fatto una proposta, e poi vedere come evolvono le cose.

Di certo la mobilitazione non può aspettare, ma chi ha chiacchierato di «sindaco d’Italia» per trent’anni ha poca credibilità.

Una battaglia in difesa di prerogative parlamentari già erose e di un ordine costituito in cui nessuno crede, ha poco senso.

Bisogna discutere sul serio di come ricostruire un sistema di rappresentanza degno di questo nome.

Da una parte parlando, anche a sinistra, di riforme costituzionali (mono/bicameralismo, iniziativa popolare e referendum, legge elettorale non da rivedere a ogni legislatura, rapporti stato-regioni, legge sui partiti che ne garantisca la democrazia interna, ecc.).

Dall’altra, proponendo un discorso radicalmente alternativo a un dibattito sul potenziamento dell’esecutivo a danno di un parlamento ormai ridotto a passacarte, di partiti in agonia e di un elettorato a cui richiedere solo periodici plebisciti al capo (e meno gente vota meglio è).

Il punto è ragionare di come ricostruire un rapporto funzionante tra rappresentanti e rappresentati, invece di puntare solo a ridurre l’attrito per imporre più rapidamente ed efficacemente le decisioni della governance.

Uscire dall’ossessione per le riforme istituzionali e porre la questione democratica nel suo insieme:

servono organizzazioni collettive generali che rispondano alla crisi dei partiti di massa e all’insufficienza delle attivazioni locali e settoriali, organizzazioni unitarie, radicate in termini di classe e capaci di riflettere e ricomporre le mille appartenenze e le mille identità del mondo di oggi;

va ricostruita un’efficacia materiale della democrazia, sgretolata dai vincoli europei, dalla globalizzazione, dalle privatizzazioni;

e servono anche riforme istituzionali che restituiscano un orizzonte democratico progressivo, da nuovi strumenti di democrazia diretta alla democrazia interna ai partiti e alle comunità.

Un dibattito su chi comanda e chi deve comandare nella nostra società, e non solo su chi governa, per quanto tempo, e con quali poteri.

 

 

 

 

Introduzione.

Il popolo senza politica.

Questionegiustizia.it - Enrico Scoditti – (6-5-2024) – ci dice:

Non poteva mancare, in un momento in cui “populismo” è il centro della discussione politologica e costituzionale in Europa e non solo, una riflessione collettiva di Questione Giustizia sul tema, naturalmente secondo l’angolo prospettico della Rivista.

«Populismo e diritto» dunque, riprendendo il titolo di un contributo di carattere introduttivo pubblicato nel settembre scorso e che qui viene ripubblicato, all’inizio del fascicolo, perché ha rappresentato la sollecitazione di alcuni degli interventi.

Un capitolo del tema «populismo e diritto» è anche quello del fenomeno migratorio e del diritto di asilo cui Questione Giustizia ha già dedicato un fascicolo (il n. 2 del 2018 su «L’ospite straniero. La protezione internazionale nel sistema multilivello di tutela dei diritti fondamentali») ed a cui presta costante attenzione con la rubrica «Diritti senza confini».

L’odierno fascicolo si divide in due parti, una prima in cui viene affrontato il problema generale, la seconda nella quale i contributi assumono un punto di vista particolare, con una particolare attenzione al diritto penale, quale punto sensibile dell’impatto del populismo sul diritto.

 Si tratta di un complesso di interventi che mira ad aprire una discussione sul profilo giuridico del fenomeno populistico, nella consapevolezza che l’oggetto della riflessione è in incessante trasformazione.

 

Il rapporto fra cittadino e potere, nel Novecento affidato alla mediazione dei grandi soggetti collettivi, è in una fase di cambiamento.

 Il mutamento in corso sembra toccare livelli profondi della stessa struttura antropologica dell’uomo europeo.

 Da quando i partiti di massa hanno cominciato ad evidenziare i primi segni del declino abbiamo, sempre più con il progredire degli anni, affidato al livello di incidenza delle Carte di diritti, e delle Corti (nazionali e sovranazionali) preposte alla loro applicazione, il metro esclusivo di misurazione del grado di civiltà di una società, quasi che enunciare diritti ed istituire i relativi giudici fosse sufficiente a segnare il complessivo avanzamento sociale.

Inseguivamo le “magnifiche sorti e progressive” di Corti e Carte dei diritti e non vedevamo il lato oscuro della luna, in quali forme stesse evolvendo l’essere sociale al di là dell’astratta enunciazione del dover essere giuridico.

La crisi dell’irreggimentazione politica della società, cui erano preposti i soggettivi collettivi novecenteschi, apriva nuovi percorsi sociali, che potevano restare non visibili se lo sguardo restava limitato a quello del giurista.

 

Il vero è che la democrazia è costitutivamente fragile perché fondata su quello che “Gino Germani” definiva l’agire elettivo.

Ciò che connota il percorso della modernizzazione per il grande sociologo è il passaggio dall’agire prescrittivo, basato su nuclei normativi che non lasciano spazio alle decisioni individuali, all’agire elettivo, basato sul principio della scelta individuale.

 Le moderne procedure legali, ha scritto “Lawrence M. Friedman” nel suo “The Republic of Choice”, sono luoghi di esplicazione di scelte individuali.

Proprio perché l’agire elettivo è basato su decisioni individuali è necessaria una struttura di supporto che consenta all’individuo di sentirsi parte di una comunità, che lo renda capace di bilanciare le proprie con le altrui ragioni.

La scelta individuale è un bilanciamento fra sé e l’altro.

 Il partito politico novecentesco ha contribuito in modo determinante alla formazione dell’ossatura necessaria dell’agire elettivo.

Senza quell’ossatura l’elezione individuale è esposta alle più diverse derive depoliticizzanti, fino alle opzioni estreme per una democrazia autoritaria.

 La democrazia non è solo una questione di forme, ma anche di contenuti.

Il costituzionalismo, quale tecnica di divisione del potere per prevenirne la concentrazione in poche mani, costituisce un argine importante alla tirannia delle maggioranze, secondo un classico pensiero, ma quell’argine potrebbe essere insufficiente se la democrazia perde del tutto la sua sostanza politica.

Gli stessi diritti, nel passaggio dalla dimensione oppositiva al potere a quella pretensiva di prestazioni sociali e di partecipazione decisionale, rischiano di convergere con dinamiche individualistiche e depoliticizzanti se la società nel suo complesso non è retta da un’anima politica.

 

Questo fascicolo è denominato «Populismo e diritto» perché sono le ricadute sul diritto che ci interessano, ma dovrebbe, in modo più pertinente, chiamarsi «Populismo e politica», perché il cuore del fenomeno risiede in quest’ultima.

Del resto questo ha a che fare con i tratti epocali dello Stato moderno, il quale nasce con la fine dell’ordine sociale medievale, irrigidito sull’ordine giuridico, e con l’introduzione del nuovo concetto di trasformazione sociale, della quale diventa responsabile la politica.

 Il diritto cambia posizione, da intima struttura della società a mero limite della politica quale potenza di mutamento sociale. Ecco perché essenziale barometro di civiltà nel mondo moderno è la politica.

Ad un certo punto anche la forma costituzionale partecipa di questo disegno trasformatore, perché le Costituzioni novecentesche, come è noto, non sono più solo limite del potere politico, ma anche programma di società, indirizzo fondamentale dello stesso agire politico ed istituzionale.

 Il Novecento è stato il secolo del titanismo politico, della possibilità di pensare nuovi ordini sociali e dunque della plasmabilità quasi senza limiti della struttura sociale.

Non era concepibile un popolo sovrano in questo contesto di disponibilità dell’ordine sociale senza una trama di soggettivi epocali che provvedesse a “formare” il popolo, a politicizzarne l’agire collocandolo su grandi disegni di cambiamento di una comunità nel suo insieme.

Il popolo era ancora comunità grazie alla politica.

 

C’è qui una prima caratteristica del populismo contemporaneo, o “populismo 2.0” come è stato definito:

una natura profondamente anti-comunitaria e individualistica, che si lega del resto al rapporto immediato, senza alcuna intermediazione, fra individuo e potere.

L’espressione “populismo” ha origini nobili, se si pensa ai movimenti politico-culturali della Russia pre-rivoluzionaria o a talune personalità della Francia della prima metà dell’Ottocento e del Risorgimento italiano.

“Alberto Asor Rosa” poteva così aprire il suo fortunato volume della metà degli anni Sessanta del secolo scorso, “Scrittori e popolo”.

Saggio sulla letteratura populista in Italia, dando di “populismo” la definizione di «rappresentazione positiva del popolo in chiave progressista».

Quel popolo era però comunità, attraversato com’era da forme di appartenenza collettiva, mentre oggi populismo rinvia alla polverizzazione individuale della società.

Populismo è in realtà la forma di un’atomizzazione individualistica nella quale il cittadino è solo con il potere, nell’ambito di una relazione priva di intermediari che non siano la comunicazione digitale ed il circuito mediatico in genere.

Della politica del Novecento il populismo recepisce la carica trasformatrice radicale la quale però, privata della struttura politica di governo e del fondamento comunitario dell’agire politico, sembra non conoscere limiti di sorta.

 È questo il punto debole anche delle letture del populismo, declinate in senso non individualistico, che vengono dall’America Latina ed in particolare dall’Argentina (si pensi a “La ragione populista “di Ernesto Laclau ed a “Per un populismo di sinistra” di Chantal Mouffe).

La politica populistica è una politica che non conosce limiti, non solo nel senso dei vincoli che il diritto frappone all’agire politico, come dimostra la deriva del diritto penale, piegato da limite a strumento del potere punitivo, ma anche nel senso degli ostacoli tecnici che la realtà oppone alla realizzazione di determinati disegni.

Ristabilire i limiti tecnici della politica non vuol dire assumere atteggiamenti di rassegnazione, ma significa restituire peso alla comunità, reintrodurre un fattore di ponderazione fra le ragioni del sé e quelle dell’altro.

Del resto la stessa forma costituzionale del diritto non è più nei termini dell’alternativa secca fra un programma fondamentale da realizzare ed i diritti da preservare, ma è nel senso del bilanciamento fra i diversi principi concorrenti, come dimostra la teoria e la prassi della giustizia costituzionale.

La naturale ostilità del populismo per il pluralismo, come categoria sia istituzionale che politica, trova la propria base nella radicale pretermissione delle ragioni dell’altro che deriva da un agire privo del senso del limite.

Con il famoso esempio del direttore d’orchestra contenuto nel terzo libro de Il capitale Marx coglieva nell’attività di comando in fabbrica per un verso l’espressione del conflitto di classe per l’altro l’esigenza di coordinamento e direzione propria ad ogni processo produttivo.

 Fino a che punto l’assetto sociale è espressione di una gerarchia di interessi che può essere modificata e fino a che punto è invece un dato neutrale non modificabile?

Una politica di segno anti-populista dovrebbe oggi guardare alla giustizia sociale, ma allo stesso tempo dovrebbe restare consapevole delle rigidità tecniche che la realtà pone, e su questo doppio movimento formare un popolo e ricostituire il legame sociale.

Dovrebbe tornare in definitiva alle ragioni del “pubblico”, che è responsabilità per l’insieme, e su questo costruire una sfera pubblica di partecipanti alla politica, consapevoli del loro essere situati in una rete di rapporti.

Il popolo politicamente inteso, come ci ricorda “Mario Tronti”, non è il tutto indifferenziato cui rinvia il populismo, è una parte che si contrappone ad un’altra parte, ma, proprio perché si tratta di popolo in senso politico, è una parte che guarda all’insieme.

Rispetto alla grande questione delle nuove povertà indotte dalla globalizzazione c’è la risposta autoreferenziale del populismo e c’è quella che guarda, o cerca di guardare, all’insieme.

La considerazione della pluralità dei punti di vista, quale peculiarità del “pubblico”, rinvia, per concludere, alla forma della giustizia.

Per “Emmanuel Lévinas” il proprium del giudicare risiede nell’apparizione del terzo fra il giudice ed il caso.

Ciò che salvaguarda il giudice, che voglia andare oltre l’astratta legalità, dalla perdita di una giusta distanza nei confronti del caso è la presenza del terzo rispetto a colui che domanda giustizia.

 Quest’ultimo è l’altro del giudice e il terzo è l’altro di chi domanda giustizia, è cioè l’altro dell’altro rispetto al giudice.

 C’è sempre l’altro dell’altro.

La giustizia è lo sguardo a trecentosessanta gradi. Pensare il mondo come l’altro dell’altro è la strada, non facile, della politica dopo il populismo.

 

 

Intervento del Presidente Meloni

 all'incontro “La Costituzione di tutti.

Dialogo sul premierato.”

Governo.it – Presidente Meloni – (Mercoledì, 8 Maggio 2024) – ci dice:

 

Buonasera a tutti,

davvero grazie, ringrazio la “Fondazione De Gasperi” e la “Fondazione Craxi”, i Presidenti Alfano e Boniver, per aver voluto organizzare questa iniziativa così autorevole, grazie per l’invito a prenderne parte.

 Saluto il Presidente Fontana, e lo ringrazio anche per ospitarci, saluto il Ministro Alberti Casellati, tutte le autorità, tutte le persone presenti.

 Voglio soprattutto ringraziare i nostri autorevoli relatori, il Professor Orsina, il Professor Clementi, la Professoressa Poggi, il Presidente Violante, grazie a Maria Latella, davvero è stato un dibattito molto molto importante, molto interessante, e soprattutto è stato un dibattito all’altezza di quello che ci si aspetta da un dibattito intorno al tema della Costituzione, molto prezioso anche per chi poi deve politicamente prendere delle decisioni.

 Voglio ringraziare gli organizzatori di questo evento, salutando le autorità ma soprattutto gli imprenditori, i professionisti, gli accademici, gli scienziati, gli artisti e gli sportivi che sono oggi in questa sala:

la composizione di questa sala è uno spaccato molto bello e la scelta che il presidente Alfano e la Presidente Boniver hanno fatto organizzando una iniziativa il cui titolo è “La Costituzione di tutti. Dialogo sul premierato”, cioè un confronto sulle riforme istituzionali, che normalmente si considera essere circoscritto agli addetti ai lavori, e invece far partecipare a quel dibattito una platea fatta di personalità che rappresentano l’impresa, la cultura, lo sport, l’Italia che produce, la considero una scelta intelligente perché, come dice il titolo di quest’evento, la Costituzione, ciò che sancisce il modo in cui articola il funzionamento delle Istituzioni repubblicane, non riguarda affatto solo gli addetti ai lavori.

Noi dobbiamo soprattutto partire da qui, cioè la Costituzione delinea i principi, i valori, le forme entro le quali la nostra Nazione - in tutte le sue articolazioni - cresce e si sviluppa, anche e soprattutto dal punto di vista economico, sociale, culturale.

Ecco perché la Costituzione è di tutti, partiamo da qui, perché tocca tutti, nessuno escluso, e a tutti fornisce gli strumenti per orientare ciò che ognuno decide di realizzare nella propria vita:

 fornisce gli strumenti a chi, come me, ha scelto l’impegno politico, ai chi invece si è dedicato all’impresa, alla produzione, alla ricerca, allo sport.

 La Costituzione è di tutti perché delinea quel patrimonio comune di valori, di principi, di diritti e di doveri nei quali tutti ci riconosciamo e all’interno del quale le differenti posizioni devono trovare sempre un terreno comune di confronto.

Nata dalle rovine della guerra, la Costituzione nasce con l’obiettivo di far convergere forze e culture politiche diverse e antagoniste, i padri costituenti si posero il problema di pacificare il conflitto e di garantire pluralismo e libertà.

È così riuscita a incanalare le profonde trasformazioni della società italiana, e a mantenerla unita nonostante tutto.

 Ha garantito la libertà e la democrazia nei passaggi più difficili, penso al contrasto al terrorismo, alla lotta alla mafia, e oggi sotto la sua guida affrontiamo il ritorno della guerra in Europa, in un’altra incredibile stagione della nostra storia, una stagione che forse qualche anno fa non avremmo considerato possibile.

 La forza della nostra Costituzione è fondamentalmente impedire la lotta di tutti contro tutti, di essere il luogo, nel quale il nostro popolo si riconosce e riconosce al di là delle legittime differenze, la sua unità politica e sociale e qui veniva citato “Valerio Onida” negli interventi che mi hanno preceduto.

 

Valerio Onida scrive in modo molto autorevole che la Costituzione esprime ciò che è tendenzialmente stabile nella vita della società e ammette una pluralità di orientamenti e di scelte politiche diverse nel tempo, ma tutti compatibili con i suoi principi.

Ora questo vuol dire anche che la costituzione offre una cornice, fissa dei paletti, ma allo stesso tempo garantisce l’autonomia alla politica.

 E lo fa dando spazio alle scelte dei partiti, del Parlamento, del Governo, poiché si fonda sulla sovranità popolare, che è la principale fonte di legittimazione del sistema.

Quindi nel quadro costituzionale si sviluppa la democrazia e la democrazia si poggia sul principio di maggioranza.

Questa è la cornice entro cui noi lavoriamo.

 

E quando diciamo che la Costituzione esprime ciò che è stabile nella vita della società, però, non intendiamo dire che la Costituzione è un Moloch intangibile.

Negli oltre 75 anni in cui la Costituzione è stata in vigore non è mai stata pietrificata, ma è vissuta dell’interpretazione che ne hanno dato e ne danno i diversi attori della nostra democrazia.

Lo dico per dire che anche nell’attuale dibattito al quale assistiamo, chi ritiene di essere il depositario esclusivo della Costituzione ne mette, per paradosso, in crisi la funzione unificante che è propria della Costituzione:

se la Costituzione deve essere di tutti, ed è di tutti, la sua interpretazione non può privilegiare una sola cultura politica o un solo punto di vista.

 

La Costituzione va letta e applicata in modo che tutti in essa si riconoscano.

 Oggi, in questa sala, abbiamo ascoltato un saggio di quella pluralità di culture politiche che hanno dato e danno vita alla Costituzione, che nella Costituzione si riconoscono, ma che della Costituzione prospettano declinazioni non sovrapponibili, pur nella condivisione degli stessi comuni principi.

C’è chi ha posto l’accento su alcuni aspetti, chi su altri.

 Chi ha richiamato l’attenzione su talune forme istituzionali, chi su altre. Ripeto voglio ringraziare con sincerità i relatori, perché è questo tipo di dialogo - nel merito e nei contenuti – dal quale emergono anche oggettive e interessanti questioni utili, soprattutto per la politica, è il dibattito che io mi auguro possa accompagnare l’iter di questa riforma, della quale oggi inizia l’esame nell’aula del Senato.

Penso che sarebbe un errore approcciare a questi temi con un’impostazione ideologica, o legata a esigenze o a interessi contingenti, che è però purtroppo l’orientamento prevalente che vedo finora in questo dibattito.

Dall'altra parte, però penso anche che sarebbe un errore da parte della politica, di fronte a questo atteggiamento, indietreggiare e gettare la spugna.

Per cui io credo che più noi riusciamo a stare nel merito e meno fondiamo questo dibattito su posizioni di partito preso e più possiamo arrivare a un testo, non so quanto condiviso - poi ci arrivo - ma magari migliore.

Purché si parli del merito della questione.

 

Allora io parto dagli obiettivi che noi ci siamo posti con questa riforma.

Come sapete la riforma ha il suo cuore nell’elezione diretta del Presidente del Consiglio e sostanzialmente si pone due grandi obiettivi.

Il primo di questi obiettivi è garantire il diritto dei cittadini di scegliere da chi farsi governare mettendo fine alla stagione dei ribaltoni, alla stagione dei governi tecnici, alla stagione della maggioranza arcobaleno, che nessuna corrispondenza hanno con il voto popolare.

Ora qui voglio fare un breve inciso.

Diceva prima la professoressa” Poggi” che nessun potere è assoluto, cioè neanche la sovranità popolare è un potere assoluto.

 Eppure nel dire che neanche la sovranità popolare è un potere assoluto, noi riconosciamo che la sovranità popolare è il potere preminente - articolo uno della Costituzione.

Ora, uscendo ad un livello un po’ più di attualità, cioè di questo dibattito, prendiamo ad esempio la scorsa legislatura.

Il potere preminente è la sovranità popolare.

Nella scorsa legislatura abbiamo avuto tre governi guidati da due Presidenti del Consiglio.

Nessuno di quei due Presidenti del Consiglio aveva avuto alcuna forma di legittimazione popolare diretta, non si erano neanche presentati alle elezioni, hanno guidato due governi composti da maggioranze che erano formate da partiti che in campagna elettorale avevano dichiarato la loro alternatività, che era una parte del consenso acquisito da quei partiti.

Hanno realizzato programmi che nella loro interezza non sono mai stati sottoposti al vaglio dei cittadini e la fiducia a quei governi è stata votata da parlamentari che sono eletti con delle liste bloccate.

Ora, dall'essere un potere assoluto all'essere arrivati a una democrazia nella quale i cittadini non scelgono il Presidente del Consiglio, il programma, la maggioranza e neanche i parlamentari ci passa una bella differenza.

Chiaramente, a scanso di equivoci, è tutto costituzionalmente legittimo, non voglio che poi si facciano le polemiche.

È tutto costituzionalmente legittimo.

Qual è il punto, secondo me?

 È che i padri Costituenti non potevano immaginarlo, perché era un altro mondo, perché le cose sono cambiate, perché ci troviamo in un'altra epoca.

Ci sono delle cose che vanno inevitabilmente, noi lo possiamo prevedere, lo abbiamo visto accadere, ma allora lo possiamo anche correggere. Che è il punto che io mi pongo.

Allora il primo obiettivo, dicevamo, è quello di garantire che i cittadini abbiano voce in capitolo - e arrivo anche al tema dei parlamentari, perché penso che il Presidente Violante conosca la mia posizione su questo.

 

Il secondo obiettivo che noi ci siamo dati con questa riforma è assicurare che chi viene scelto dal popolo per governare possa farlo con un orizzonte di legislatura, e avere il tempo necessario per portare avanti il programma con cui si è presentato ai cittadini, perché il tempo, la stabilità di governo, è una condizione determinante  per costruire qualsiasi strategia e dunque per restituire credibilità alle nostre Istituzioni agli occhi dei cittadini e restituire credibilità a questa Nazione con i suoi interlocutori  internazionali.

Sono obiettivi di sistema, per noi irrinunciabili, e non sono, come è stato detto in molti interventi che mi hanno preceduto, nuovi nella storia repubblicana, a partire dai lavori dell’Assemblea costituente, e ricorrenti nel dibattito politico, parlamentare, costituzionale e accademico degli ultimi cinquant’anni.

Ringrazio il Presidente Alfano per aver fatto una sintetica ricostruzione di questo ampio dibattito.

 Da cosa nasce questa esigenza di riforma?

Da un problema che tutti, trasversalmente, riconoscono e che riguarda l’efficacia e il funzionamento della nostra forma di governo.

 Negli anni, autorevoli costituzionalisti e numerose Commissioni di riforma si sono interrogati su come assicurare stabilità e capacità decisionale al Governo, nel quadro di un robusto sistema di garanzie e contrappesi.

Non si è mai riusciti a fare passi avanti, a trovare una soluzione, forse proprio per la tendenza ad approcciare queste materie, soprattutto da parte della politica, guardando al dito e non alla luna, all’attualità piuttosto che alla storia, all’interesse di parte in luogo dell’interesse del sistema.

Presidente Violante, io mi sono interrogata molte volte su come i miei avversari politici utilizzerebbero questa riforma se fossero al Governo, non mi spaventa e non mi preoccupa perché sono convinta della bontà di questa riforma.

Ora mi prenderò qualche insulto per dirlo ma dal mio punto di vista la sto facendo per chiunque arrivi domani.

Io non ho questi problemi oggi, questo è un Governo solido, stabile, io non avrei bisogno di fare questa riforma, è un rischio per me.

Ma se chi ha l’occasione per la prima volta dopo davvero molti anni di lasciare un cambiamento che possa domani essere utilizzato da tutti in positivo cioè la possibilità di avere chiaramente un mandato chiaro dai cittadini e avere la possibilità di avere cinque anni per realizzarlo, se io non lo facessi, non cogliessi questa occasione, non per me ma per chi ci sarà tra molti anni o nella prossima legislatura perché la politica è così, non sarei in pace con la mia coscienza.

Quindi sì, mi sono esattamente posta il problema di come può essere utilizzata da chiunque e penso che possa essere utilizzata da chiunque in positivo una riforma di questo tipo.

Nell’ambito di questo lungo dibattito, a me piace citare “Costantino Mortati”, uno dei padri del costituzionalismo italiano, che nei primi anni settanta diceva:

 “Non sembra dubbio che la preferenza debba andare alla elezione popolare del Primo Ministro, ciò soprattutto allo scopo di porre accanto a questo organo responsabile davanti al popolo dell’indirizzo politico di cui è espressione, un Capo dello Stato, che non desuma la sua investitura direttamente dal popolo”.

 

Lo stesso ragionamento è stato fatto con accenti diversi da Bettino Craxi, che si era fatto promotore di una riforma in senso presidenziale.

Penso alla proposta elaborata da Cesare Salvi, durante la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, che aveva l’assenso dei popolari, della sinistra democratica e dei verdi, che prevedeva l’elezione diretta del Presidente del Consiglio.

 Non dimentico, ovviamente, il contributo, politico e culturale, che a questa causa ha portato, lungo tutta la storia repubblicana, la destra:

dal Msi, passando per Alleanza nazionale, fino a Fratelli d’Italia.

 

Perché lo dico? Lo dico perché la proposta di un'elezione diretta del Capo del governo, a ben guardare, non è una proposta di destra e non è una proposta di sinistra.

È una proposta che, pure con accenti diversi e soluzioni diverse, è stata sostenuta in modo assolutamente trasversale, anche da quelle culture politiche che ora ne parlano come se fosse la spia di un disegno intimamente autoritario.

Oggi leggo di leader politici che parlano di fermare la riforma con i loro corpi, e non so se lo devo leggere come una minaccia o come una sostanziale mancanza di argomentazione nel merito.

 Però è difficile.

Faccio riferimento insomma al Prof. Clementi quando diceva dialogo.

 Certo, anche io preferirei, preferisco e farò quello che posso fare per lavorare a una riforma che abbia un consenso più ampio, ma quando la risposta è ‘la fermeremo con i nostri corpi’, professore la vedo dura.

 Nel senso che, se si ponesse una questione di merito, io posso nel merito rispondere, se si dice ‘frapponiamo i nostri corpi’, il merito è un po' più difficile.

E quando arriva questo genere di dibattito le scelte sono solo due: gettare la spugna o proseguire.

 Gettare la spugna è fare quello che è accaduto in tutti questi anni e quindi lasciare che il sistema rimanga quello che è, con gli italiani che lo pagano - e poi ci arrivo – oppure, secondo quello che i padri costituenti hanno previsto, lasciare un'altra possibilità, perché è vero che i padri costituenti preferivano una riforma approvata a due terzi della maggioranza parlamentare, ma non hanno escluso che questo non accadesse.

Cioè capivano anche lo stallo che poteva venire dalla tattica politica sulla riforma costituzionale.

E io penso che di fronte alla tattica politica, il tentativo di chiedere agli italiani che cosa pensino di questa proposta che viene fatta per loro, se non si riesce ad approvare la riforma con i due terzi del Parlamento, debba essere esplorata.

Del resto, certo che è sempre meglio non arrivare a un referendum divisivo sulla Costituzione, ma mi corre l'obbligo di ricordare che è la Repubblica è nata sul referendum divisivo, molto divisivo.

È nata ed è stato un bene. Quindi è la democrazia.

E i padri costituenti hanno previsto che questo potesse essere un modo per fare ciò che i cittadini a maggioranza condividevano anche quando le forze politiche non erano d'accordo a stragrande maggioranza.

Quindi, dicevamo che la proposta è stata fatta trasversalmente in questi anni, così come trasversalmente è stato riconosciuto da tutti come vi fosse un problema nel nostro sistema, cioè la debolezza della funzione di Governo, la sua tragica precarietà, che porta con sé come un domino diversi problemi che noi abbiamo conosciuto.

Questo è un fatto testimoniato dalla storia e dai numeri:

in 75 anni di Repubblica, in Italia si sono succeduti 68 governi, con 31 Presidenti del Consiglio; la durata media dei Governi è stata poco più di un anno.

Vi basti sapere che con i suoi 564 giorni di governo oggi, attualmente il governo che io presiedo è il sedicesimo in longevità su 68 della storia d’Italia.

Se questo governo arriverà alle elezioni europee sarà tredicesimo, se dovesse mangiare il panettone diventerebbe il sesto.

Tanto è facile risalire questa illuminante classifica sulla durata dei governi nella storia d’Italia.

E qual è il problema?

 Ogni volta che il governo è cambiato, per un’altra tendenza che è un po’ tutta italiana, si è anche ricominciato da capo su tutto, un po’ per necessità e un po’ per scelta.

Questo non accade in altri sistemi dove su alcune grandi questioni fondamentali, indipendentemente dal mutare dei governi, le cose vanno avanti seguendo sempre una stessa linea.

Da noi non è così, quindi noi dobbiamo anche valutare l’impatto che il nostro funzionamento ha sul popolo, sulla realtà politica che siamo.

Si è ricominciato su tutto e chiaramente - come dicevo - questa instabilità a cascata porta con sé molti problemi importanti e significativi.

 Il primo è chiaramente l'impossibilità di perseguire qualsiasi strategia anche solo di medio periodo, fare qualsiasi riforma strutturale, cioè affrontare i problemi profondi di questa Nazione.

 Quando tu navighi a vista, non puoi permetterti di interrogarti su quale sarà il destino dei tuoi figli e dei tuoi nipoti, perché sei troppo concentrato a interrogarti su quale sarà il destino tuo.

Quando il tuo orizzonte è troppo breve, non puoi permetterti di fare investimenti, sapete perché?

Perché gli investimenti, che hanno un moltiplicatore, in termini di crescita, infinitamente superiore a quello che ha la spesa corrente, per dispiegare i loro risultati hanno bisogno di tempo.

 E questo è il motivo per cui in Italia gli investimenti non sono stati fatti e invece la spesa corrente ci ha portato ad avere il debito pubblico che noi abbiamo, perché quando l'orizzonte è breve, quello che io sono portato a introdurre è quello che mi dà un consenso nell'immediato.

Lo abbiamo visto con una spesa sugli investimenti ferma e con un debito pubblico che generava consenso immediato alle stelle.

E quando io un orizzonte breve non mi interessa chi pagherà quel debito pubblico. Qualcuno lo pagherà.

Perché se dovessi ripagarlo io, probabilmente ci farai maggiore attenzione.

E potrei fare decine di esempi come questo.

È la storia italiana.

 

Il secondo tragico effetto dell'instabilità è la credibilità internazionale.

Chi è esattamente che costruisce delle partnership strategiche quando l’interlocutore con il quale si siede cambia a ogni incontro?

 Perché anche questo purtroppo è accaduto.

Come si fa a costruire una centralità, che – consentitemi – è fatta anche di rapporti personali, è fatta anche di conoscenza dell’interlocutore, quando ogni dodici, diciotto, ventiquattro mesi al massimo, cambia tutto di nuovo?

 Anche qui, per costruire rapporti internazionali solidi serve costanza, serve conoscenza reciproca, serve attenzione, serve tempo.

 E i requisiti sono particolarmente più necessari oggi per quello che dicevamo prima:

noi oggi non siamo più in un contesto internazionale, in un contesto globale, che ci consente leggerezza.

Anche questo dobbiamo tenere a mente.

Abbiamo attraversato una stagione molto più facile di questa, una stagione di pace, un mondo che con tutti i problemi che avevamo ci dava alcune certezze.

 Oggi quelle certezze vengono meno e di fronte a quelle incertezze costanti, di fronte ai rischi che noi corriamo, la leggerezza che delle volte abbiamo visto può essere davvero esiziale, può essere davvero drammatica.

 

Dopodiché aggiungo:

chi è disposto a investire in una Nazione nella quale non c’è mai certezza su nulla? È un altro pezzo dei nostri problemi.

Vi faccio un esempio che forse può rendere bene l’idea.

 In una delle ultime emissioni di titoli di stato italiani sui mercati esteri, c'erano dieci miliardi a disposizione, sono arrivate richieste per 155 miliardi.

Perché l’Italia è diventata così appetibile?

Chiaramente mi piacerebbe dire “grazie ai provvedimenti di questo governo”, ma sono una persona troppo seria.

Ci riguarda però, perché oggi l'Italia è percepita come una tra le Nazioni più stabili del panorama. Oggi le persone hanno sicurezza nell'investire da noi perché noi siamo stabili.

Certo c'entra la postura, i provvedimenti che il governo porta avanti, ma l'elemento della stabilità è quello che fa la differenza.

E quindi quanto abbiamo pagato la nostra instabilità da questo punto di vista?

 E del resto si sa. Anche qui, basta guardare alla crescita del prodotto interno lordo.

 Alla crescita.

 Nei primi vent'anni di questo millennio, diciamo fino alla pandemia, Francia e Germania sono cresciute più del 20%, l'Italia è cresciuta meno del 4%.

Ora ci sono solo due risposte a questa domanda: o tutti i politici italiani sono più scarsi di tutti i politici francesi e tedeschi- e io non lo penso - o c’è qualcosa che non funziona nel sistema.

E quello che non funziona nel sistema è esattamente tutto il prezzo che noi abbiamo pagato per questo problema di instabilità che avevamo a monte, problema legato all'instabilità e la debolezza della politica.

 

L'altro problema collegato all'instabilità è la debolezza della politica.

Perché una democrazia possa funzionare sono necessari ma non sono sufficienti la partecipazione, la garanzia del pluralismo e i diritti, cioè la capacità della società di far valere le sue istanze nei confronti delle istituzioni.

Alla “democrazia in entrata” occorre affiancare una “democrazia in uscita”, cioè la capacità delle istituzioni di decidere e dare risposte ai bisogni dei cittadini – quella che il Presidente Violante chiamerebbe “democrazia decidente”.

Chiaramente una democrazia instabile è anche una democrazia che non ha capacità decisionale, e finisce per essere una democrazia nella quale chi avrebbe il compito di rappresentare i cittadini e le loro istanze si trova ad essere più debole di poteri che non hanno quello stesso scopo, che siano le grandi concentrazioni economiche, che siano le burocrazie o che siano addirittura le lobby.

E io capisco che chi ha esercitato il potere in luogo della politica oggi possa temere una riforma come questa.

Lo capisco, ma non lo condivido.

C'è una differenza fondamentale tra la politica e tutti gli altri mondi che possono credere di sopperire alla politica, che rispetto alla politica il popolo ha degli strumenti di giudizio.

Io penso che la democrazia si debba esercitare per il tramite della politica.

Penso che il governo si debba esercitare per il tramite della politica.

Penso che quando la politica è debole e altri poteri pensano di fare il bello e cattivo tempo, non necessariamente lo fanno nell'interesse dei cittadini, non fosse altro perché a differenza della politica non vengono giudicati dai cittadini.

E quindi non mi colpisce, ma non lo condivido.

Penso che sia un fatto che da troppo tempo la nostra democrazia ha difficoltà a portare avanti sulle politiche pubbliche che sono fondamentali per rendere effettive la libertà, i diritti, la solidarietà, la crescita economica e l'equità sociale, cioè i principi garantiti dalla nostra Costituzione.

 

Allora una riforma che assicuri governi eletti dal popolo, governi stabili, governi con un orizzonte di legislatura, secondo me è anche la misura più adeguata sul fronte dell’economia, sul fronte della giustizia sociale, chiaramente nella doverosa interlocuzione con tutti gli attori, nella doverosa interlocuzione con le parti sociali: il confronto, la capacità di concordare nel confronto progetti ambiziosi.

Creare un quadro favorevole alla crescita chiaramente concorre a recuperare le risorse perché si possano declinare concretamente i diritti, sociali ed economici, che sono consacrati dalla Costituzione.

Allora ‘come arrivare a questa democrazia’ è la domanda che noi ci siamo fatti quando abbiamo scritto questa riforma.

A mio avviso, una buona riforma deve sostanzialmente rispettare due esigenze.

La prima è salvaguardare il ruolo degli organi di garanzia che il nostro sistema costituzionale delinea, a partire dalla funzione di arbitro super partes del Capo dello Stato.

 E penso che sia esattamente quello che fa la nostra riforma, perché è stata una scelta, non è stato un incidente, è stata una scelta di lasciare inalterati nei tratti fondamentali i poteri del Presidente della Repubblica.

C’è chi sostiene che il Presidente della Repubblica perderà la prerogativa di scegliere il Presidente del Consiglio e di decidere se sciogliere o meno le Camere.

Ora mi permetto di segnalare che, già oggi, quando il sistema di governo funziona, cioè quando dalle urne escono maggioranze stabili, il Presidente della Repubblica recepisce le indicazioni che arrivano dai cittadini.

 Perché quasi quasi oramai si parla della figura del Presidente della Repubblica come se, indipendentemente dal voto, il Presidente della Repubblica scegliesse il Governo, ma non è esattamente quello che dice la Costituzione.

 Non è quello che fa il Presidente della Repubblica, mi pare.

Quand'è che il Presidente della Repubblica è chiamato a esercitare in maniera un po' più estensiva il ruolo, appunto, di definire chi debba guidare il governo?

Quando il sistema non funziona e quando il Presidente della Repubblica deve esercitare un ruolo di supplente di una politica incapace di decidere.

 E la necessità, che c'è stata in un sistema in cui la politica spesso non era capace di decidere, per il Presidente della Repubblica di esercitare quel ruolo di supplenza non rafforza la figura del Presidente della Repubblica, cioè non lo mette al riparo da critiche, che invece dovrebbero essere proprie del confronto e dello scontro della politica.

Quindi noi non abbiamo aiutato l'autorevolezza della figura di garanzia del Presidente della Repubblica nel fare esercitare un ruolo che non spettava normalmente al Presidente della Repubblica, ma spettava a una politica incapace di esercitarlo.

E quindi qui noi parliamo di una riforma che può meglio definire una cornice in maniera tale da non costringere il Presidente della Repubblica ad esercitare un ruolo che non gli è proprio e che ne può indebolire - chiaramente facendo tirato in mezzo nel dibattito politico - l'autorevolezza.

Quindi perché?

Perché la riforma chiaramente si pone l'obiettivo di evitare le fasi di stallo e di assicurare che il sistema sostanzialmente funzioni sempre, eliminando a monte le cause che richiedono di attivare questa funzione supplenza da parte del Presidente della Repubblica.

Si detto e è scritto, anche, che il Capo dello Stato sarebbe troppo debole per “contrapporsi” ad un Presidente del Consiglio che, in quanto fortemente legittimato dal popolo, potrebbe sentirsi spinto ad abusare della propria forza.

 Io penso anche qui che sia l’esatto contrario.

 Penso che proprio quando il Presidente del Consiglio dovesse ritenere di dover utilizzare la propria forza è lì che si manifesta il ruolo preminente super partes di garante della Costituzione che rimane in capo al Presidente della Repubblica e scattano gli altri meccanismi di limitazione del potere che operano nel sistema.

Io penso che questa proposta assicuri diciamo la corretta ripartizione dei ruoli che viene sancita dalla Costituzione, in virtù della quale il Governo e le Camere determinano l'indirizzo politico e il Capo dello Stato esercita la funzione di garanzia, mettendo fine a sovrapposizioni che nelle nostre debolezze, nelle nostre difficoltà a volte hanno creato più problemi che soluzioni.

Dopodiché, gli emendamenti approvati in Commissione al Senato rafforzano le funzioni del Presidente della Repubblica:

la modifica del procedimento di elezione, l’introduzione di atti sottratti alla controfirma ministeriale e l’attribuzione di nuovi poteri, come il tema della revoca dei ministri.

Dunque io credo che - chiaramente non parlo degli autorevoli esponenti e delle loro autorevoli valutazioni del dibattito di oggi, ma nel dibattito politico - questo nascondere, questo schermarsi dietro il Presidente della Repubblica nella campagna contro la riforma costituzionale è come se si fosse studiata una strategia che poi non si è fatto in tempo a correggere.

 Se devo dire quello che vedo.

 Ma nel merito della riforma non mi sembra oggettivamente che la riforma preveda questo.

L’altra esigenza, simmetrica alla prima, che ogni buona riforma deve rispettare è la salvaguardia del ruolo del Parlamento.

 Anche su questo punto, c’è chi sostiene che la nostra proposta di riforma indebolisca le Camere.

 Io non credo che la riforma indebolisca le Camere, credo che la riforma indebolisca il trasformismo, e penso che il trasformismo abbia le Camere e la credibilità delle Istituzioni.

E che quindi indebolendo il trasformismo non si indebolisca affatto il Parlamento, lo si rafforza agli occhi dei cittadini e lo si rafforza nella sua funzione, che è la funzione legislativa.

Poi anche qui noi siamo stati attenti a non toccare alcune prerogative importanti. Il presidente Violante poneva un tema interessante che è quello della fiducia del Parlamento.

 È corretto.

La fiducia in Parlamento, che non è stata una richiesta del secondo partito, altrimenti su questo farei la vaga, come si dice a Roma, ma in questo caso non è stata una richiesta del secondo partito.

Noi abbiamo pensato che fosse comunque corretto, anche, in Repubblica parlamentare presentarsi al cospetto delle Camere per dare la fiducia al governo. Questo sì.

Per cui non è vero che la riforma promette una cosa che non fa, la riforma promette una cosa che fa.

L'elezione del Capo del governo.

Chiede al Parlamento, per il ruolo anche che il Parlamento ha, di dare la fiducia al governo, non al Presidente del Consiglio in quanto singolo che ha già la legittimazione popolare, ma al governo nel suo complesso.

Dopodiché, dicevo, la forza del Parlamento è nella sua funzione legislativa e oggettivamente – è stato detto in più interventi, lo diceva correttamente anche Angelino Alfano - da anni il Parlamento ha difficoltà ad esercitare la sua funzione legislativa per colpa della debolezza complessiva del sistema.

E quindi il tema dell’uso eccessivo della decretazione d’urgenza, problema che ha riguardato trasversalmente tutti i governi, nonostante i moniti di tutti i Presidenti della Repubblica che chiedevano un ricorso minore alla decretazione d'urgenza, ma di fatto, se si vuole dare delle risposte, alla fine il tema del ricorso alla decretazione d’urgenza torna e, nel ricorso eccessivo alla decretazione d'urgenza, lo spazio di iniziativa legislativa del Parlamento quello sì, viene meno.

Questo è un tema che mi interessa

 Questo è un tema che mi interessa nel senso che io penso, da questo punto di vista, che sarebbe molto interessante se i partiti nel dibattito parlamentare volessero porre questa questione, ragionare invece di come rafforzare l'iniziativa legislativa, il ruolo legislativo del Parlamento.

Questo è un tema che mi interessa molto.

Parliamone, perché è corretto costruire dei contrappesi.

 Io non sono affatto contraria a entrare nel merito se c'è un merito di proposte che vengono fatte anche su questo campo.

E anche perché, mi perdonerete, ma faccio da un anno e mezzo il Presidente del Consiglio e credo aver fatto per dieci anni il parlamentare d'opposizione, quindi la mia dimensione è ancora più propriamente quella di chi stava dalla parte di chi subiva la decretazione d'urgenza, figuriamoci se non capisco questo tempo.

Però non diciamoci che fino ad oggi il Parlamento è stato forte e adesso la riforma lo vuole indebolire, perché stiamo dicendo una cosa che non è corretta.

 Il Parlamento è purtroppo stato privato di buona parte delle sue prerogative in termini di iniziativa legislativa per un malfunzionamento del sistema.

È una questione che tutti conosciamo, che tutti abbiamo denunciato e che sì, secondo me, questa riforma in parte risolve.

Dopodiché c'è un tema che riguarda i regolamenti parlamentari, ma non posso entrarci io come capite bene. Io penso che una riforma finalmente seria e approfondita dei regolamenti parlamentari - questo lo dico dalla mia ex veste di Vice Presidente della Camera - sarebbe molto preziosa.

Ma davvero lo dico come auspicio, consiglio, perché non sia mai che mi che si dica che mi voglio occupare di materie che minimamente competono al Presidente del Consiglio.

Così come una riflessione necessaria ovviamente deve riguardare il tema delle leggi elettorali.

Ora su questo punto io non intendo dire molto, sono convinta che faremo un buon servizio alla Nazione, se accompagnassimo questa riforma con una legge elettorale che ricostruisca il rapporto eletto-elettore e che consolidi la democrazia dell’alternanza.

 

Presidente Violante, credo di essere stata in diversi anni la Presidente dell'unico partito che ha avuto coraggio per presentare emendamenti che reintroducevano la preferenza per l’elezione dei parlamentari.

 Non sono mai stata contraria, anzi.

Anche qui, una parte della debolezza del Parlamento, alla fine, è stata figlia di questo, perché cambia inevitabilmente se dipendi dal cittadino che ti elegge o dal segretario di partito che ti indica.

Cambia il funzionamento.

Poi possiamo discutere: cambia meglio, cambia peggio.

Possiamo discutere sulle degenerazioni che sono legate spesso alla ricerca del voto di preferenza che purtroppo tutti sperimentiamo in ogni elezione.

Possiamo discutere dei contrappesi delle necessità delle correzioni. Sul piano filosofico cambia l'approccio. E quindi io sono anche su questo totalmente aperta e disponibile.

 

E quindi concludo perché davvero mi sono dilungata molto.

 Io penso che nel proporre al Parlamento un'ipotesi di riforma che rispetta una sensibilità diffusa, abbiamo fatto il nostro lavoro.

 E penso che abbiamo fatto anche quello che i cittadini ci hanno chiesto di fare, perché questo tema c'era nel nostro programma elettorale.

Io penso che quando si arriva al governo, si abbia come principale compito - nei limiti di quello che è possibile - realizzare il proprio programma elettorale.

 Anche ai fini del dialogo con le forze politiche, vorrei concentrarmi su un elemento che nessuno considera mai:

noi abbiamo proposto una riforma che di fatto, come ho detto, risolve alcuni dei grandi problemi strutturali di questa Nazione - io per questo la definisco la madre di tutte le riforme, cioè è la riforma dalla quale dipende la possibilità di fare seriamente tutte le altre - e lo abbiamo fatto toccando sette articoli della Costituzione.

Eravamo partiti da quattro, poi nel dibattito parlamentare sono diventati sette.

Lo abbiamo fatto in punta di piedi.

Non abbiamo fatto una riforma che entrava a gamba tesa, riscriveva la Costituzione, stravolgeva la Costituzione.

 No, no.

 Ci siamo posti il problema di come garantire un funzionamento del sistema lasciando sostanzialmente intatta la Costituzione.

Ed è stata una scelta politica, di dialogo, perché io ero partita da un sistema presidenziale alla francese.

Poi non entro nel merito del tema del ballottaggio, in Francia il sistema è più forte, più debole, perché per il Presidente Violante siamo qui fino alle dieci di sera:

è un dibattito molto affascinante che mi è capitato di fare al tempo con Enrico Letta, quando era segretario del Partito Democratico.

 Però al di là di questo, io ero partita da un altro schema.

Abbiamo incontrato le forze politiche, abbiamo cercato di capire quale fosse l'umore e tutte le forze politiche ad esempio dicevano “il Presidente della Repubblica non si tocca”.

 Chiaramente se non posso toccare il Presidente della Repubblica, il semipresidenzialismo alla francese se lo presento diventa una proposta divisiva.

E quindi noi abbiamo scritto una riforma che, punto primo, già prendeva in considerazione il dibattito che c'era stato - ricorderete che abbiamo fatto proprio le consultazioni con le forze politiche – e, punto secondo, cercava di entrare in punta di piedi nella Costituzione, pur facendo una grande rivoluzione per il nostro sistema.

Consideravo già questo un elemento di grandissima disponibilità al dialogo.

Non è stato colto.

Mi corre l'obbligo che siamo lì a fermare i corpi con i corpi e quindi diciamo che non è stato colto.

Ma questo era il segnale.

 Quindi la scelta ora è nelle mani del Parlamento.

 Nel merito, anche su molte cose che ho ascoltato oggi e che mi sono appuntata, sono sempre disponibile a dialogare, purché l'intento non sia dilatorio, purché l'intento non sia quello che tante volte abbiamo visto in questi Parlamenti, le Commissioni bicamerali, si parla, si discute tre anni e non se ne fa niente. Arrivederci è finita la legislatura perché intanto puntualmente cadeva il governo. Le cose che abbiamo visto.

No.

Io spero che questa riforma possa, anche nell’interlocuzione, anche dialogando nel merito, arrivare a una maggiore condivisione, addirittura a una maggioranza dei due terzi.

La parola oggi è nelle mani del Parlamento, se questo non accadrà la parola andrà agli italiani, come prevede la nostra Costituzione. E

 anche lì, saranno gli italiani - e chiudo davvero - a dirci se ritengono che il sistema che abbiamo provato a disegnare sia migliore o se sia migliore tenerci la realtà che abbiamo conosciuto in questi anni.

 

E guardate, a chi immagina uno scenario simile a quello che abbiamo visto in altri anni su referendum confermativi delle riforme costituzionali, è un errore la personalizzazione, perché questa riforma non riguarda il presente, riguarda il futuro.

Non riguarda la sottoscritta.

 Dico di più: non riguarda neanche il Presidente Mattarella che viene continuamente tirato in ballo sulla vicenda perché, se andiamo a fare i calcoli dell'entrata in vigore della legge, riguarda un altro mondo, un futuro ipotetico che riguarda tutti.

Per questo vale la pena di provare a discuterne nel merito, invece di personalizzare sempre tutto e personalizzare anche questioni di sistema come se fossero banale attualità.

Io non ho avuto problemi a votare il taglio del numero dei parlamentari.

Era all'opposizione del governo, l'ho votato in aula.

Qualcuno mi chiamò e mi disse “ma, cosa possiamo fare?”.

Non voglio niente condivido.

Ci sono questioni sulle quali l’opposizione fine a sé stessa non serve a niente.

Poi si può discutere “abbiamo fatto bene, abbiamo fatto male”.

Io sono ancora convinta, si poteva fare meglio, ma ero convinta del principio di tagliare il numero dei parlamentari.

L’ho condiviso e l'ho votato, non ho chiesto niente in cambio.

 

È possibile che in Italia non si riesca mai a discutere delle grandi questioni così, con questo approccio?

Perché alla fine tutta questo gioco tattico non lo pagano le forze politiche, lo pagano, i cittadini e lo paga la credibilità delle Istituzioni, quindi diciamo sì anche la politica, ma da un altro verso.

E chiaramente quando arriverà il referendum, se dovesse arrivare un referendum, allora l'ultima parola ce l'avranno gli italiani, perché alla fine la Costituzione non è mia, non è dell'opposizione, non è di questo governo, non è dei governi precedenti. Come ci siamo detti finora e come penso che tutti condividiamo dentro fuori a questa splendida sala, la Costituzione è di tutti. Quindi prima di tutti, è del popolo italiano.

Vi ringrazio.

 (Governo Italiano.)

 

 

 

 

 

La mia intervista di oggi

al quotidiano “La Stampa”:

Facebook.com - Presidente De Luca – (3 ottobre 2024) -Redazione - ci dice:

Presidente De Luca, il campo largo è finito prima ancora di nascere?

«Lei sa che “campo largo” è una espressione bizzarra, che segnala la nostra lontananza anche linguistica dalle persone normali, che parlano di coalizione, di alleanza politica, o se si vuole di centrosinistra.

 Evitiamo ora di perderci nella piccola cronaca politica, e rimaniamo alla questione fondamentale:

per superare questo governo occorre proporre all’Italia una coalizione credibile e un programma che parli alla maggioranza degli italiani.

 A questo problema sono chiamati tutti a dare una risposta, assumendosi la responsabilità di fronte al Paese».

Come si gestisce l’incompatibilità tra Conte e Renzi?

«Non credo che servano i veti. Ma serve certamente la coerenza politica, che è quello che si deve pretendere da tutti guardando al futuro e ai problemi di sostanza.

 Siamo in una fase politica di grande fibrillazione.

Vi sono le ricadute del voto europeo; ci sono elezioni regionali a cui fare fronte; c’è una fase costituente nella quale è impegnato il Movimento Cinquestelle, con le inevitabili discussioni interne e l’accentuazione del profilo identitario.

Credo che si dovrà concludere questa fase.

Poi ci sarà la serenità e il senso di responsabilità necessario per ritrovare il filo del dialogo e per la ricerca di intese.

 L’alternativa sarebbe quella – francamente umiliante – di dichiarare di fronte al popolo italiano di non essere in grado di proporre una credibile svolta politica. C’è qualcuno che se la sente di fare questa scelta?»

Pensa che queste fibrillazioni possano mettere a repentaglio i risultati in Liguria, Umbria ed Emilia-Romagna?

«Non credo sia in discussione il risultato emiliano al di là delle alleanze. Nelle altre regioni si possono aprire problemi».

Conte sembra molto irritato dal fatto che Schlein derubrichi la questione a “polemiche” in cui non vuole entrare: dovrebbe la segretaria esprimersi più chiaramente sulla vicenda?

«Credo abbia assunto la sola posizione ragionevole che era possibile.

Oggi anche chi valuta criticamente l’azione del governo, ci pone alla fine la solita domanda: ma l’alternativa che proponete qual è?

Dunque, è giusto insistere in maniera ossessiva sulla necessità di costruire una coalizione, e su quei punti di programma su cui si registrano convergenze.

 Poi, dopo questi mesi e dopo la legge di bilancio, occorrerà avviare con pazienza, e anche con il coinvolgimento di forze intellettuali e di competenze esterne ai partiti, il lavoro di messa a punto di un programma di governo credibile, con un chiaro segno riformatore».

Presidente, lei ha fatto spesso commenti sferzanti sui Cinquestelle. Il Movimento a guida Conte è un alleato di cui fidarsi?

I Cinquestelle hanno conosciuto una fase iniziale di rottura, di messa in discussione della politica di casta, con eccessi di toni, con irriverenza (a cui qualche volta ho risposto con ironia), con parole d’ordine a volte improbabili.

 Ma hanno raccolto un’esigenza di innovazione radicale rispetto al trasformismo politico.

Vi è stata poi l’esperienza di governo, e il confronto con i problemi duri e complessi del cambiamento sociale.

Oggi guardo con rispetto e senza inammissibili ingerenze al dibattito interno ai Cinquestelle.

Conte è di fronte al problema di costruire un’organizzazione solida, e di promuovere un radicamento nei territori, anche con la messa in discussione dei due mandati.

È un lavoro difficile, che merita rispetto.

Credo che, fatti i chiarimenti programmatici necessari, i Cinquestelle siano del tutto affidabili.

Quello che credo sia inaccettabile per Conte è la definizione già chiusa di ruoli futuri.

Da questo punto di vista è necessario avere, anche da parte del Pd, equilibrio e generosità.

Sarà difficile offrendo agli altri ruoli di pura subalternità.

Intanto, è bene non interrompere il lavoro comune su autonomia differenziata, sul tema del lavoro, sui diritti».

La segretaria sta riuscendo a imprimere quel cambiamento di cui parlava?

«Ho registrato positivamente le iniziative della Schlein sulla sanità pubblica, sull’autonomia differenziata, sul lavoro.

Non tutto è chiarito, ma ci si impegna anche sui temi sociali.

Rimangono aperti i problemi della vita interna del Pd, del peso condizionante delle logiche correntizie, che diventano, alla fine, l’unico canale di formazione dei gruppi dirigenti (!), al di là di merito, competenze, e riproducendo una distanza intollerabile fra funzioni dirigenti ricoperte, e militanza, sacrificio nei territori e nelle amministrazioni.

In secondo luogo, c’è ancora tutto un lavoro da fare su punti chiave di programma. Cito i titoli:

 la giustizia, la sicurezza, la palude burocratica, il Sud, il rapporto con il ceto medio, con il mondo vasto del lavoro autonomo, del commercio, dell’artigianato.

 Occorre un programma che sia convincente per la maggioranza del popolo italiano, oltre i temi nostri tradizionali legati al mondo del lavoro e della povera gente.

E poi, c’è il tema decisivo della pace, su cui registro fra di noi elementi di opportunismo e di cinismo insopportabili».

L’anno prossimo si vota in Campania.

 Spera ancora di ottenere la possibilità di un terzo mandato?

«Le chiacchiere di anni sul terzo mandato sono insopportabili, non solo perché c’è il Presidente del Veneto che lo sta concludendo serenamente senza che nessuno abbia eccepito nulla, neanche il Pd;

ma perché la norma nazionale non è auto applicativa e le regioni possono decidere in piena autonomia.

 Vedo che in Liguria il Pd candida (e giustamente) un dirigente che è al sesto mandato, compresi tre incarichi ministeriali.

Dunque, sarebbe ora di farla finita con le stupidaggini della politica politicante, e di preoccuparsi dei problemi di governo delle nostre comunità.

Quanto alla Campania, per quello che c’è da fare, non devo chiedere il permesso a nessuno.

Vedo che c’è anche qualcuno che si entusiasma di fronte alla prospettiva di regalarla al centrodestra.

Noi invece pensiamo di dover completare un programma di rinnovamento straordinario, che non ha paragone con nessun’altra regione d’Italia, nel campo della sanità, del trasporto pubblico, dell’ambiente, delle politiche sociali e scolastiche, della ricerca, della sburocratizzazione, del rigore finanziario e della trasparenza.

Davvero non ho tempo da perdere con le anime morte, o con chi non sa neanche come si arriva a Napoli».

Presidente, l’abbiamo vista tutti in quel video con Meloni (sono la str…).

Avete fatto pace?

«È stato un anno difficile. Abbiamo avuto con il Governo momenti di discussione e anche di tensione.

Ci siamo battuti – spesso da soli – contro l’autonomia differenziata e per lo sblocco dei fondi di coesione già destinati alla Campania.

Questa fase si è conclusa alla fine in un clima di rispetto reciproco e di collaborazione.

Rivendico con orgoglio non solo questo risultato, ma soprattutto il fatto che ci siamo arrivati senza opportunismi, battendoci a testa alta, e difendendo fino in fondo la nostra dignità personale e istituzionale».

 

 

 

 

Memorie di pietra del

 colonialismo italiano.

I monumenti e la storia d’Italia.

 Degruyter.com - Valeria Deplano – Redazione – De Gruyter – (22 - 11- 2024) – ci dice

(Dalla rivista Fonti e ricerche da archivi e biblioteche italiane.)

(doi.org/10.1515/qufiab-2024-0003)

 

Questo saggio si propone di storicizzare la presenza di monumenti coloniali nello spazio pubblico italiano dal periodo liberale a quello repubblicano, indagando i significati che essi erano destinati a trasmettere.

 Utilizzando sia studi pubblicati sia fonti primarie, il saggio traccia la storia di alcuni monumenti ottocenteschi e fascisti, dimostrando il loro contributo ai progetti nazionali attuati dai governi successivi.

L'articolo si concentra poi sulla storia del Monumento al Lavoratore in Africa, voluto dal fascismo e inizialmente eretto dalla Repubblica a Siracusa.

In particolare, indaga il rapporto tra la città e il monumento, e i suoi usi dagli anni '60 a oggi, al fine di offrire una riflessione più generale sul rapporto tra spazio pubblico, memoria coloniale e società italiana.

 

1 Il colonialismo nello spazio pubblico italiano tra difese e contestazioni

La questione della presenza di monumenti, lapidi, riferimenti toponomastici connessi alla storia coloniale italiana da diversi decenni si ripropone ciclicamente, con modi e referenti diversi, all’attenzione del dibattito pubblico.

Era stato per primo lo storico del colonialismo “Angelo Del Boca” a proporre di rinominare le strade dedicate a celebri colonialisti;

e a notare come alcuni protagonisti dell’espansione coloniale, di cui era stata acclarata la responsabilità criminale, continuassero ad essere celebrati nello spazio pubblico.

 Con gli anni Duemila arrivò a conclusione, non senza polemiche, la vicenda dell’obelisco di Axum, collocato dal 1937 a Roma dopo essere stato portato via dall’Etiopia, e smantellato solo nel 2002.

 Nel 2012 a suscitare un aspro dibattito è stata la costruzione, nella cittadina laziale di Affile, di un mausoleo dedicato al generale “Rodolfo Graziani”, responsabile di crimini e massacri in Libia e in Etiopia e poi ministro della Difesa della Repubblica Sociale Italiana.

 Il tema trovò nuova attenzione due anni dopo, quando fu pubblicato „Roma negata“, libro con cui la scrittrice italosomala “Igiaba Scego” attraversava Roma mostrando i segni lasciati dal colonialismo nello spazio urbano.

 

Fuori dai confini italiani, nel 2015 in Sud Africa iniziava la campagna “Rhodes must fall“, inizialmente finalizzata alla rimozione della statua di Cecil Rhodes dalla università di Cape Town e più in generale alla decolonizzazione dell’università;

la mobilitazione approdò anche in Gran Bretagna, a Oxford, e in generale l’attenzione nei confronti dei segni del colonialismo aumentò in tutta Europa.

Anche in Italia nacquero i primi movimenti e progetti finalizzati a far uscire dall’oblio e problematizzare le tracce del colonialismo:

 il primo fu il collettivo „Resistenze in Cirenaica“ di Bologna, che nel 2015 organizzò una prima azione di ‚guerriglia odonomastica‘ a partire dalla ri-nominazione di via Libia;

 la guerriglia odonomastica fu anche una delle azioni promosse dal collettivo Wu Ming all’interno del festival „Manifesta“, svoltosi nel 2018 a Palermo.

 Nello stesso anno, a marzo, fece clamore la colata di vernice rosa versata dal collettivo femminista „Non una di meno“ sulla statua eretta a Milano in ricordo di Indro Montanelli, contestato perché a più riprese aveva rivendicato i rapporti sessuali con una bambina eritrea durante il periodo coloniale.

 

 A dicembre, infine, il tema specifico dei lasciti materiali del colonialismo nello spazio pubblico italiano approdò anche nell’accademia, e più specificamente nell’ambito dell’”European University Institute”:

a partire da Firenze, Markus Wurzer e Daphné Budasz lanciarono il progetto „Postcolonialitaly“, che ha portato a documentare una presenza consistente delle tracce materiali visibili nello spazio pubblico di diverse città.

 

Nel 2020 fu nuovamente una spinta esterna a sollecitare nuove mobilitazioni, ma anche un rinnovato interesse accademico: l’eco europea del movimento „Black Lives Matter“, in seguito all’uccisione di “George Floyd” da parte della polizia statunitense, ha portato ad una ulteriore stagione di contestazioni ai simboli del passato coloniale e schiavista nello spazio pubblico del continente.

In quell’occasione al centro dell’attenzione mediatica italiana è stata posta nuovamente la statua di Montanelli, ma più in generale quel clima favorì la proliferazione, in diversi contesti locali, di gruppi decisi a riportare l’attenzione su strade, monumenti, lapidi che negli spazi urbani ed extraurbani del territorio nazionale continuano a fare riferimento al colonialismo italiano.

 

Contemporaneamente, studiose e studiose hanno iniziato ad indagare il passato di alcuni segni e monumenti specifici, analizzandoli e storicizzandoli:

 nel solo 2022 sono stati pubblicati il volume in cui “Carmen Belmonte “ha ricostruito la genesi della erezione del monumento ai caduti di Dogali a Roma;

la collettanea curata da Andrea Bui e Latino Taddei del Centro studi movimenti di Parma sulla figura, il mito e la commemorazione e la monumentalizzazione di Vittorio Bottego;

 e infine il libro in cui “Roberta Biasillo” offre una prima ricostruzione della vicenda del monumento ai caduti d’Africa costruito a Siracusa.

 

Tenendo in considerazione proprio questi recenti lavori, e affiancandoli con nuove ricerche su fonti giornalistiche e archivistiche, questo saggio intende ragionare sul rapporto tra segni coloniali nello spazio pubblico e storia d’Italia dall’età liberale sino al XXI secolo.

L’obiettivo che si pone è duplice:

in primo luogo, intende individuare le dinamiche comuni ai singoli casi e le motivazioni per cui lo spazio italiano è stato segnato nel tempo da riferimenti coloniali, analizzando i significati di cui questi ultimi sono stati incaricati di essere portatori. In quest’ottica, si ripercorrono assieme le narrazioni che accompagnano nell’Ottocento la monumentalizzazione della figura di Pietro Toselli e la realizzazione dell’obelisco per i caduti di Dogali a Roma, quelle che accompagnano la costruzione del monumento del primo Novecento innalzato a Parma in onore di Bottego, e le vicende dell’obelisco di Axum, portato sempre a Roma nel 1937 e restituito all’Etiopia all’inizio del XXI secolo:

 individuandoli come casi studio utili per ragionare sul ruolo dei monumenti connessi col colonialismo nel processo di formazione della nazione, dall’età liberale alla Repubblica.

Come ha scritto “Keith Lowe”, infatti, i monumenti „riflettono i valori che ogni società, ingannandosi, considera eterni, e quindi li incide nella pietra e li issa su un piedistallo “.

 

In secondo luogo, il saggio analizza in maniera più puntuale il rapporto tra società contemporanea e colonialismo, attraverso le vicende più recenti del Monumento per i lavoratori italiani d’Africa di Siracusa.

 Il monumento, ideato negli anni Trenta ma costruito negli anni Sessanta in Sicilia, e solo di recente inserito in qualche modo nel tessuto sociale della città, rappresenta uno dei casi più evidenti di „difficult heritage“ del colonialismo italiano nel contesto repubblicano.

 Se il caso di Axum è cruciale per parlare di continuità culturali nell’Italia repubblicana, quello del monumento siciliano consente di complicare il quadro e di ragionare sulle dinamiche attraverso cui l’eredità coloniale e fascista finiscono per essere accettate in un contesto che le percepisce a lungo come problematiche.

 

2 Segni coloniali per fare l’Italia: l’età liberale.

Secondo “Angelo Del Boc”a, una delle prime prove dell’impatto del colonialismo sulla società italiana ampiamente intesa è la diffusione del nome Tosello tra i nuovi nati di fine Ottocento.

 Il riferimento era a Pietro Toselli, un militare di carriera che partecipò attivamente all’avvio del processo di espansione italiana nel Corno d’Africa.

A Toselli sono stati infatti attribuiti alcuni scritti a sostegno della politica coloniale italiana:

un pamphlet „Africa“ pubblicato nel 1889, e due anni dopo l’opuscolo „Pro Africa Italica“.

 Da militare partecipò all’occupazione di quella che nel 1890 sarebbe diventata la prima colonia italiana, l’Eritrea.

 Inviato in Africa per la prima volta nel 1888, nel 1894 fu chiamato a reprimere una ribellione all’interno del nuovo possedimento.

Nel frattempo erano cresciute anche le tensioni con il vicino impero etiopico, verso il quale lo Stato italiano nutriva aspirazioni espansioniste.

Nel 1895 Toselli fu mandato a fronteggiare l’esercito dell’imperatore etiopico Menelik;

sull’Amba Alagi si trovò contrapposto, con 1800 uomini eritrei, alle truppe dieci volte più numerose del ras etiopico Maconnen;

forse anche per ordini non chiari decise di resistere, e fu ucciso.

Dopo la morte Pietro Toselli fu trasformato in un eroe e martire che si era sacrificato per la patria, e offerto come esempio a una nazione che, dopo quelli risorgimentali, aveva disperatamente bisogno di riferimenti.

Toselli, nato cinque anni prima dell’Unità, era infatti uno dei primi uomini che non avevano ‚fatto l’Italia‘, ma erano morti per ‚renderla grande‘.

In questa veste fu inserito nell’immaginario della nazione:

la sua salma fu esumata nel 1897 per essere rimpatriata e sepolta nel suo paese d’origine, Peveragno in provincia di Cuneo;

e il viaggio fu raccontato dalla stampa come il ritorno del figlio eroico.

 Negli anni successivi alla morte gli furono dedicate diverse opere agiografiche, poemi, canzoni, le prime strade.

 Nel 1899 a Peveragno fu eretto un monumento in suo onore realizzato dallo scultore “Ettore Ximenes;

sulla base dell’opera, una scritta ne sottolinea il patriottismo.

Toselli, si legge, rimase sull’Amba Alagi „con lo sguardo fisso al nemico, il cuore all’Italia“.

L’inaugurazione ebbe grande risonanza sulla stampa, e diverse testate contribuirono a presentare Toselli come eroe della nazione.

 Il quotidiano torinese „La Stampa“ fece dell’inaugurazione la notizia di apertura dell’edizione del 17 luglio 1899:

riportò la descrizione del monumento, l’accoglienza ufficiale tributatagli dalle autorità militari e civili, nonché la prolusione dello scrittore peveragnese Vittorio Bersezio, che insisteva proprio sul valore nazionale delle gesta di Toselli:

„Da ultimo una calda parola, una voce commossa io mando a te, o popolo italiano. … Ti conceda fortuna lunghi anni di lavoro e di pace, in cui tu possa esplicare l’attività del tuo genio; ma se mai spuntasse sul tuo orizzonte (che Dio non voglia!) l’ora del pericolo, da questo ultimo lombo d’Italia dove questo monumento starà permanente ricordo del valore dei tuoi figli, l’animo dei conterranei di Pietro Toselli si unirà con ardore all’animo tuo, o popolo italiano, nel grido dei popoli forti: Viva la Patria, viva il Re.“

 

La narrazione proposta dal „Corriere della Sera“ invece tracciava una linea di continuità tra l’antica Roma, i fasti della Repubblica Veneziana, e il Regno d’Italia: Toselli veniva prima paragonato a Lucio Emilio Paolo, per Plutarco morto eroicamente a Canne, ai dogi Enrico Dandolo, Francesco Morosini, e all’eroe risorgimentale Luciano Manara.

 

Due anni dopo a Toselli fu dedicato anche un busto a Roma, collocato davanti alla caserma Principe di Napoli di fronte a quello che ritraeva Giuseppe Galliano, il generale che guidava l’esercito italiano durante la disfatta di Adua del 1896. Nell’iscrizione posta alla base del busto, Toselli è nuovamente messo in relazione con un eroe classico, stavolta il re di Sparta Leonida;

mentre nel discorso di inaugurazione il ministro Tancredi Galimberti lo paragonò al „legionario romano trovato negli scavi di Pompei, fermo al suo posto e fedele sino all’ultimo alla ricevuta consegna“.

 

Il ‚caso Toselli‘ mette in evidenza come il colonialismo fin dall’età liberale abbia offerto materiali discorsivi considerati utili per impastare lo spirito nazionale: l’amore nei confronti dell’Italia, il sacrificio, il valore militare.

 In linea con la cultura europea del tempo, anche quella del liberalismo, il fatto che queste qualità si esplichino all’interno di un progetto espansionistico fondato sulla sopraffazione, sull’occupazione dei territori con tutte le conseguenze economiche e sociali sulle popolazioni locali non viene quasi messo a tema.

 Invece l’espansionismo in sé, oltre che legittimo, è presentato come elemento di manifestazione della forza della nazione e della sua grandezza.

I monumenti, dunque, sono uno degli strumenti utilizzati da soggetti diversi – amministrazioni locali, Forze armate, il governo – per rendere un protagonista dell’espansionismo coloniale un punto di riferimento e un esempio per la comunità nazionale.

Con intenti simili furono realizzati altri monumenti costruiti in età liberale.

Il più celebre, antecedente alla eroicizzazione di Toselli, è quello dedicato ai caduti della battaglia di Dogali, del gennaio 1887.

 Si trattava della prima pesante sconfitta subita dall’esercito regio nel Corno d’Africa, e contò 435 vittime italiane.

La decisione di ricordarne pubblicamente i caduti fu immediata:

come ha ricostruito Carmen Belmonte, l’idea di erigere un monumento fu lanciata dall’Associazione Stampa nel febbraio dello stesso anno, ed era giugno quando il consiglio comunale di Roma decise di raccogliere la proposta e programmare l’erezione di un monumento di fronte alla recentemente inaugurata stazione Termini.

Alla battaglia sarebbe stata intitolata anche la piazza prospicente la stazione, che proprio in riferimento ai caduti di Dogali divenne piazza dei Cinquecento.

 È evidente il valore esemplare che si volle attribuire alla vicenda, per quanto tragica;

nel 1887 la politica coloniale italiana è ancora al suo inizio, l’Eritrea non è ancora stata dichiarata ufficialmente una colonia italiana, eppure quella politica incerta viene considerata degna di essere ricordata e additata a tutti gli italiani che arrivano nella capitale come simbolo di nuovo del valore e dell’amore nazionale.

Della storia del monumento tracciata da Belmonte son da ricordare almeno due elementi:

innanzitutto il fatto che, anche in questo caso, l’esaltazione dell’Italia ottocentesca sia ricercata attraverso la costruzione di un legame delle vicende coloniali col passato.

 In quest’ottica, per la realizzazione del monumento fu utilizzata una vestigia egiziana.

La linea di continuità fu inoltre sottolineata discorsivamente:

durante l’inaugurazione, il sindaco Leopoldo Torlonia affermò che „La città immortale, che temprò la spada nelle guerre puniche, consegna alla storia, alla pietà ed all’esempio dei presenti, e dei futuri, questo monumento. “

 L’iscrizione posta sul monumento paragonava infine i caduti di Dogali ai Fabii, morti combattendo contro gli etruschi per la grandezza di Roma.

 

In secondo luogo, Belmonte mostra come il monumento non raccolga il favore che forse Torlonia avrebbe voluto:

pur carico di simbolismo, l’obelisco fu subito al centro di polemiche e attacchi giornalistici.

 In particolare, il giornale del Vaticano, in quella fase storica in aperta contrapposizione con lo Stato italiano, derise il monumento per le sue dimensioni modeste, inadatte a celebrare quella che il sindaco voleva esaltare come una grande impresa del Regno.

 Forse anche per questo nel 1925, in concomitanza di lavori di risistemazione della piazza e della stazione, esso fu spostato da una posizione centrale a una più defilata, nei giardini davanti alle terme di Diocleziano.

Fortune alterne, e dibattiti, avrebbero accompagnato anche il monumento a Vittorio Bottego, inaugurato a Parma nel 1907.

 Bottego, vissuto nello stesso periodo di Toselli (1860–1897), fu un ufficiale dell’esercito e membro della Società Geografica Italiana di Parma.

Si recò più volte nel Corno d’Africa nei primi anni dell’occupazione italiana, diventando tra l’altro il primo europeo a percorrere la rotta da Massaua ad Assab e a raggiungere le sorgenti del fiume Giuba.

 Restò ucciso nel 1897, durante la sua ultima spedizione finalizzata a conoscere il corso del fiume Omo.

Bottego aveva documentato i suoi viaggi attraverso relazioni ufficiali e libri:

i suoi scritti testimoniano razzie e azioni sanguinose e violente sistematicamente messe in atto contro le popolazioni locali.

Questo comportamento fu denunciato già al tempo da uno dei membri della sua spedizione, Matteo Grixoni, le cui parole però non riuscirono a scalfire l’immagine pubblica di Bottego.

Questi, invece, si avviò a diventare un’altra figura da celebrare nello spazio pubblico.

 

Come per Toselli, anche nel suo caso fu la comunità del luogo di provenienza, Parma, a pensare di dedicargli un monumento, completato dopo alcune traversie dallo stesso Ettore Ximenes che aveva realizzato l’opera di Peveragno.

E come per quello ai caduti di Dogali, anche la decisone di erigere il monumento a Bottego fu oggetto di qualche malumore e polemica, come hanno ricostruito Becchetti, Taddei e Vitale.

Il giornale della locale Camera del Lavoro non mancò di ricordare la ben poca onorabilità delle azioni compiute in Africa da parte del personaggio celebrato;

e di raccontare anche le contestazioni degli operai nel giorno dell’inaugurazione.]

Perché il colonialismo iniziasse a entrare in maniera più consistente e visibile nella vita quotidiana degli italiani si sarebbe dovuta aspettare la guerra di Libia del 1911–1912, quando la stampa illustrata, i fumetti, ma anche la Chiesa diedero un importante contributo alla divulgazione della causa coloniale, che iniziò ad essere più ricorrente anche nell’onomastica e nell’odonomastica;

 ciononostante, lo spazio pubblico aveva iniziato a portare i segni della politica espansionista dalla fine del XIX secolo.

Le tre vicende analizzate mostrano come i monumenti coloniali inizino ben presto ad essere utilizzati per sostenere l’idea di nazione ottocentesca, basata sulla celebrazione del valore e del sacrificio individuale.

 Contemporaneamente, provano come le opere celebrative siano tutt’altro che neutrali o portatrici di un interesse generale, ma siano spesso accompagnate, fin dalla loro erezione, da dibattiti e contestazioni.

3 Impero e colonie nello spazio pubblico dell’Italia fascista.

Con l’avvento del fascismo, il colonialismo assunse un significato ulteriore:

era lo strumento e allo stesso tempo il terreno su cui il governo di Mussolini poteva dimostrare innanzitutto il proprio essere erede dell’antica Roma, la potenza bellica, la supremazia sugli altri popoli ma anche sul modello d’Italia e di italianità proposta dall’Italia liberale.

 Nel Ventennio, dunque, il colonialismo continuò a segnare lo spazio pubblico italiano per celebrare questi valori, e non più un generico ideale patriottico.

Da un punto di vista discorsivo, il regime mussoliniano recuperò alcuni personaggi del periodo liberale, considerati pionieri e precursori della grandezza dell’Italia e dell’impero fascista.

Il caso più emblematico è quello di Bottego, la cui figura fu riutilizzata e celebrata; al punto che nel 1940, nel luogo della sua morte in Etiopia, fu eretta una stele commemorativa.

Sul suolo italiano, invece, la colonizzazione dello spazio pubblico da parte del regime non si caratterizzò tanto per l’erezione di nuovi monumenti dedicati a vecchi e nuovi protagonisti dell’espansione, quanto per un grosso investimento nella toponomastica celebrativa:

dei cosiddetti pionieri del colonialismo, dei luoghi occupati dall’espansione coloniale che erano inclusi nell’immaginario geografico degli italiani, ma anche dei momenti simbolici della ‚costruzione dell’impero‘.

 Via dell’impero, via 9 maggio (data di proclamazione della nascita dell’impero) compaiono nelle città e nei paesi italiani, dall’inizio degli anni Trenta e ancora di più dopo la guerra d’Etiopia del 1935–1936.

 Dopo la guerra d’Etiopia in diverse località furono anche installate mappe murarie che riproducevano l’impero italiano:

la più celebre è quella che fu collocata in via dei Fori imperiali accanto alle mappe che rappresentavano tre fasi dell’espansione dell’Impero Romano;

 ma mappe analoghe furono installate e in alcuni casi segnano ancora lo spazio pubblico di altre città, come accade a Padova.

Infine, il fascismo scelse di segnare lo spazio pubblico con vestigia portate in Italia dai territori occupati, per celebrare la capacità di sottomettere e umiliare i nemici.

Dopo l’occupazione dell’Etiopia arrivano a Roma due di questi monumenti:

uno è la statua del Leone di Giuda, simbolo della monarchia etiopica, portata nel 1937 da Addis Abeba e collocata sotto l’obelisco eretto per ricordare i 500 italiani morti a Dogali.

Sotto un obelisco che celebra una battaglia di occupazione fallimentare, il Leone di Giuda celebrava invece una campagna di occupazione formalmente vittoriosa. Anche la vicenda del Leone mostra però quante storie diverse possono insistere su uno stesso monumento.

 Nel 1938, infatti, il giovane eritreo ”Zerai Deres”, giunto in Italia l’anno prima per fare da interprete agli etiopici deportati dal regime, si inginocchiò di fronte alla statua per renderle omaggio.

 Di fronte al tentativo di alcuni astanti farlo smettere l’uomo reagì ferendoli:

a seguito di tale gesto, “Zerai Deres “fu internato nell’area psichiatrica di un carcere siciliano, dove rimase sino alla morte, nel 1945.

 

Sempre nel 1937 a Roma arrivò un altro monumento etiopico:

 l’obelisco prelevato dalla zona sacra di Axum e installato a piazza di Porta Capena, vicino al Circo Massimo, in occasione del quindicesimo anniversario della marcia su Roma.

 L’obelisco fu collocato di fronte al luogo in cui sarebbe dovuta sorgere la nuova sede del Ministero dell’Africa Italiana; ma la guerra non rese possibile la fine dei lavori, e nel dopoguerra il palazzo fu adibito a sede della FAO.

 

Il fascismo provò anche a compiere l’azione contraria, cioè ad affermare il proprio dominio sui colonizzati segnando con monumenti celebrativi lo spazio delle colonie.

Oltre alla già citata stele di Bottego innalzata in Etiopia nel 1940, è emblematico – anche per i suoi risvolti repubblicani – il caso dei due monumenti che nel 1938 Mussolini diede mandato di costruire ad Addis Abeba:

uno a celebrazione del legionario e l’altro al lavoratore in Africa.

 Il primo si sarebbe dovuto realizzare subito, per affidamento diretto allo scultore Romano Romanelli;

mentre la progettazione del secondo fu rimandata.

Romanelli, accademico dei Lincei, consegnò i materiali marmorei utili alla costruzione del monumento nel maggio del 1940, poco prima dell’ingresso dell’Italia in guerra:

questi furono dunque custoditi in diversi magazzini in Italia, e di fatto non sarebbero mai arrivati in Africa.

 

4- Il colonialismo nello spazio pubblico repubblicano: ricostruzioni e riusi del Monumento ai lavoratori italiani in Africa.

Alla fine del conflitto il fascismo era crollato, le colonie africane erano occupate dagli Alleati e in Etiopia era tornato Haile Selassie.

Con la ratifica del trattato di pace del 1947 l’Italia rinunciava formalmente alle colonie, anche se subito dopo avrebbe tentato di riacquistare un ruolo nei territori occupati in età liberale, ottenendo dall’Onu l’amministrazione fiduciaria della Somalia dal 1950 al 1960.

 Le rivendicazioni nei confronti di Eritrea, Libia e Somalia si fondavano discorsivamente sulla esaltazione del lavoro italiano e dell’impatto civilizzatore e modernizzatore dei coloni italiani;

mentre non menzionavano i crimini e le violenze compiuti in Africa.

 Inaugurando una narrazione che avrebbe condizionato il modo con cui si sarebbe parlato del tema nei decenni successivi, lo Stato italiano operava così una separazione tra fascismo e colonialismo, condannando a parole il primo senza prendere le distanze dall’esperienza coloniale in sé.

 

Se analizzare i monumenti coloniali realizzati in età liberale e fascista permette di comprendere meglio i progetti nazionali delle istituzioni che li avevano prodotti, studiare i monumenti coloniali nello spazio pubblico del secondo Novecento e del XXI secolo ci aiuta a vedere quali idee (di nazione, innanzitutto) abbiano inteso veicolare le classi dirigenti repubblicane.

Il destino della stele di Axum e del Leone di Giuda dimostra come i governi repubblicani non fossero disposti ad ammettere ufficialmente il carattere predatorio dell’espansionismo italiano:

 il Leone di Giuda fu rimosso dalla base dell’obelisco di Dogali nel 1944, ma restituito all’Etiopia solo nel 1969, in occasione della prima visita italiana di Haile Selassie.

Ancora più dissestata fu la vicenda della stele di Axum, ben ricostruita da Massimiliano Santi:

benché inserita da subito in un elenco di oggetti reclamati dal governo di Addis Abeba e inclusa anche negli accordi firmati dai due paesi nel 1956, la stele fu reclamata invano dagli etiopici per oltre un cinquantennio.

L’opposizione attiva dei governi italiani alla restituzione – motivata anche col malcontento che tale azione avrebbe suscitato nella società italiana – era in linea con un generale atteggiamento adottato dall’Italia repubblicana, che evitava di riconoscere le responsabilità italiane per i crimini e le violenze compiute nel Corno d’Africa.

La svolta arrivò nel 1997: a seguito della prima ammissione ufficiale dello Stato italiano, per bocca del presidente Oscar Luigi Scalfaro, del portato criminoso dell’occupazione coloniale, si decise di restituire finalmente il monumento, che fu smantellato nel 2005 ed eretto nuovamente ad Axum nel 2008.

 La restituzione non fu però scevra da polemiche;

l’allora sottosegretario degli Esteri, ad esempio, scelse di non pronunciare la parola „restituzione “, affermando invece che l’Italia „contribuiva all’identità etiopica “:

il messaggio era che l’Italia non aveva rubato nulla in passato, mentre nel presente era una nazione benevola che continuava ad aiutare l’Africa.]

La vicenda della stele di Axum mostra in maniera efficace come non sia possibile leggere l’atteggiamento dello Stato italiano nei confronti del passato coloniale in termini di disinteresse, rimozione o inerzia, per cui semplicemente si evitò di prendere decisioni in merito;

ma ci fu invece una precisa scelta di non aprirsi a un dibattito critico sul tema.

La difesa attiva, nel corso dei decenni, della permanenza della stele in piazza di Porta Capena emerge come la conseguenza di una ribadita indisponibilità ad ammettere, di fronte agli etiopici ma soprattutto gli italiani, l’inconsistenza del mito della ‚brava gente‘, e a prendere in carico le responsabilità coloniali.

Se il reiterato rifiuto della restituzione della stele racconta di un’azione ‚in negativo‘ dei governi repubblicani, le vicende dell’opera scultorea affidata da Mussolini a Romanelli consentono invece, innanzitutto, di riflettere sull’intervento attivo dello Stato italiano per costruire e sostenere, attraverso una nuova opera di monumentalizzazione, la narrazione repubblicana sul colonialismo.

Avevamo lasciato i vari elementi marmorei e bronzei che avrebbero dovuto costituire il monumento al Legionario chiusi dal 1940 nei magazzini in diverse parti d’Italia.

Come ha ricostruito Biasillo, nel 1947 la ditta che si occupava del deposito presentò il conto allo Stato:

il governo, non disposto a spendere ancora per la custodia del monumento fascista, e vista sfumare la possibilità di costruirlo in Etiopia, nel febbraio 1948 pensò dapprima di vendere le parti marmoree, di pregio artistico;

cambiò però idea nella primavera di quell’anno, anche a causa della ventilata possibilità di un ritorno dell’Italia in Africa.

Si decise allora di ricostruirlo altrove, previe alcune modifiche degli elementi figurativi.

Insieme allo stemma dell’Italia fascista, tra le statue bronzee realizzate dallo scultore quella del soldato della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale fu considerata incompatibile con i valori della neonata Repubblica.

 Le altre (raffiguranti un ascaro, un marinaio, un aviatore, un fante, e un ‚conducente di cavallo‘) e le iscrizioni riprodotte sul monumento non furono considerate, invece, compromettenti.

Nel frattempo le carte avevano smesso di definire l’opera come monumento al Legionario, per indicare invece – con varie formule – che il monumento era dedicato ai lavoratori d’Africa.

 Si trattava di una modifica in linea con la narrazione usata dal governo per sostenere il ritorno dell’Italia nelle colonie liberali;

il sottosegretario dell’Africa Italiana Giuseppe Brusasca affermò che ragioni di natura morale rendevano „utile che rimanga in Italia un ricordo dell’opera svolta dagli italiani in Africa “.

Dopo alcuni tentativi andati a vuoto con altri interlocutori, il governo trovò la disponibilità ad accogliere l’opera da parte della Regione Sicilia, che sempre Brusasca aveva indicato come il luogo più adatto per la collocazione del monumento, perché geograficamente vicino all’Africa e per la notevole presenza nell’isola di profughi coloniali, il cui lavoro aveva portato alla „valorizzazione del territorio africano.“

 La legge del 26 novembre del 1952, n. 1993 stabilì ufficialmente la donazione dell’opera alla regione siciliana, che la destinò alla città di Siracusa:

come avrebbe scritto il giornale locale „La Sicilia“, che seguì con entusiasmo la vicenda del monumento, la scelta aveva, „un valore simbolico per noi siracusani che dal nostro porto vedemmo salpare le navi coi soldati e coi lavoratori italiani che si sacrificarono in terra africana per lasciarvi l’impronta indelebile della nostra civiltà“.

 

Le casse contenenti gli elementi bronzei e marmorei arrivarono a Siracusa nella primavera del 1953, ma la costruzione del monumento dovette aspettare ancora degli anni, per motivi di natura diversa.

 Il primo riguardava i danni subiti da una parte del materiale, da sostituire;

il secondo l’area in cui costruirlo, attorno a cui il dibattito durò ancora a lungo.

 Nel 1957 si trovò un accordo per erigerlo sul lungomare dei Cappuccini;

 mentre l’ufficio tecnico siracusano si occupò delle modalità di costruzione del monumento, avvalendosi anche dei consigli dello stesso Romanelli, l’amministrazione si occupò di espropriare i terreni nell’area individuata.

Il ricorso di uno degli espropriandi, nel 1961, sollevò nuovamente la questione del portato simbolico del monumento;

 e mise in luce come il progetto del governo, in un momento in cui le aspirazioni africane della Repubblica si erano esaurite, iniziasse ad essere percepito come problematico.

Sosteneva il ricorsista che l’opera

non solo esaltava programmi di conquista coloniale ormai superati, ma portava chiaramente gli emblemi dell’epoca fascista in cui fu concepita (legionari in camicia nera, moschetti, fasci littori etc.).

Il monumento sarebbe probabilmente finito in un magazzino o, la massimo, in un museo, se la Regione non avesse tratto dall’imbarazzo lo Stato italiano, facendo richiesta di cessione gratuita del monumento stesso “.

 

Di nuovo, in un monumento che includeva un elenco delle battaglie coloniali incise sulle lastre marmoree, bassorilievi delle suddette battaglie, oltre che le statue bronzee delle forze armate, le istituzioni individuarono come problematica la sola statua del soldato della milizia volontaria.

Questa, si rassicurava, sarebbe stata sostituita con una statua di un lavoratore, già commissionata dalla presidenza della Regione per 4 400 000 lire a Giovanni Rosone.

 In questo modo si riteneva completato il processo di defascistizzazione dell’opera, e se ne consacrava figurativamente la nuova intitolazione.

Se i monumenti raccontano quali valori voglia esprimere il soggetto che li erige, quello siracusano conferma come, dall’immediato dopoguerra agli anni Sessanta, Stato italiano e istituzioni locali non individuino nessuna problematicità specifica nella vicenda coloniale, che invece poté essere celebrata nel contesto repubblicano purché teoricamente epurata dei riferimenti espliciti allo Stato fascista.

 Anche l’aspetto bellico dell’occupazione è in qualche modo accettato (tramite il mantenimento delle statue), benché l’enfasi narrativa sia posta, in linea col discorso pubblico elaborato nel dopoguerra, sul lavoro italiano.

Le vicende successive del monumento raccontano la fortuna ondivaga e la non piena accettazione di tale discorso da parte della società siracusana nella seconda metà del Novecento e nei primi decenni del XXI secolo.

I lavori per la costruzione del monumento furono appaltati nell’autunno del 1963, e un anno dopo risultavano a buon punto, anche se il Comune chiese ancora una volta a Romanelli una consulenza per le modalità di assemblaggio.

 Così come le carte comunali anche la stampa locale, che pure aveva seguito con attenzione le vicende del monumento per quindici anni, non riporta notizia di alcuna inaugurazione ufficiale:

nel novembre 1968, però, il monumento risulta allestito sul lungomare dei Cappuccini e il Consiglio comunale approva dei lavori di consolidamento dell’area.

Già l’anno successivo l’opera risulta abbandonata e sprovvista dell’arredo urbano che avrebbe dovuto fargli da contorno, mentre ancora sei anni dopo viene definita „incompiuta“, priva anche di strade d’accesso.

 Erano i primi segni di come quel monumento, dopo qualche entusiasmo iniziale, avesse finito per essere accolto con freddezza dalla città:

nei decenni successivi l’opera scultorea fu sistematicamente fatta oggetto di atti vandalici, mentre dal punto di vista ufficiale non risulta utilizzata per nessun tipo di commemorazione o evento pubblico.

Negli anni Ottanta il sindaco di allora decise per la sistemazione dell’area, ma l’intervento non migliorò il rapporto con la città.

Un articolo del 1987, ripercorrendo le vicende del monumento che si diceva improntato alle scelte architettoniche del periodo fascista, e commentando le „pennellate sfregiative“ che di nuovo lo imbrattavano, restituisce quello che probabilmente era un sentimento presente nel contesto cittadino:

„Quel monumento è lì, alla nostra vista svogliata e negligente, pressoché relegato nell’anonimato, quasi a testimonianza storica delle cocenti delusioni. …

Auguriamoci comunque che questi interventi [di riqualificazione] possano essere presto eseguiti perché quel monumento conservi i suoi propri significati che per un popolo civile non possono essere apologetici ma costituiscono un severo monito alle generazioni future, per un deciso rifiuto dell’idolatria. “

Un certo imbarazzo nel rapporto tra la città e l’opera è testimoniato dalla stampa locale anche in altre occasioni:

un articolo del 1997 segnala come non fossero mancate nel corso del tempo „polemiche sull’estetica e sul senso geografico del monumento stesso“, mentre un altro del 1999 afferma che il consigliere regionale poi nel 1961 presidente della Regione Salvatore Corallo „non immaginava si trattasse di un’opera dove soldati, avieri e bersaglieri inneggianti all’azione militare fossero i veri protagonisti“.

 Il disagio, è interessante notare, sembra sempre rivolto ai rimandi fascisti dell’opera, mentre la problematicità del colonialismo non è messa a tema.

Il rapporto con la città iniziò a cambiare alla fine del secolo:

nel 1997 i consiglieri comunali di Alleanza nazionale chiesero un intervento del comune per preservare il decoro del monumento, ritenuto opera di „valore storico e nazionale “, senza ulteriori specificazioni.

Due anni dopo il comune appaltò un nuovo restauro, e affidò alla sezione locale dell’Associazione nazionale paracadutisti italiani la gestione e la salvaguardia dell’opera.

 È in seguito a questo affidamento che il monumento iniziò ad essere utilizzato per celebrazioni e a diventare un luogo della memoria, seppure di una memoria composita:

 come già annotato da Biasillo, prima nel 1999 l’Associazione paracadutisti collocò nell’area del monumento una lapide commemorativa di Giovanni Alberto Bechi Luserna, militare di carriera e paracadutista.

 Benché la lapide non ne faccia cenno, Bechi Luserna partecipò sia alla repressione della resistenza libica, sia alla guerra d’Etiopia.

Era solo il primo di una serie di utilizzi sistematici, e del tutto nuovi, del sito monumentale:

nel 2003 l’associazione scelse l’area per celebrare, alla presenza delle autorità civili e militari, un aviatore marconista morto „mentre sorvolava i cieli africani“ nel 1942.

 Dal 2005 l’associazione ricerca storica sulla Seconda guerra mondiale, Lamba Doria, utilizzò la stessa area per commemorare i soldati, diretti sul fronte africano ma morti durante l’affondamento del piroscafo „Conte Rosso“ nel 1941;

 ad essi dedicò nel 2007 una targa commemorativa.

La prima decade del nuovo secolo è dunque caratterizzata da un nuovo utilizzo dell’opera scultorea come luogo di commemorazione di caduti, in particolare militari.

 La nuova ri-significazione del monumento ha trovato una ufficializzazione tra il 2009 e il 2010, quando il colonnello dei carabinieri “Massimo Menniti” propose di cambiare la dedica dell’opera „ai caduti d’oltremare “:

un’etichetta più adatta all’uso pratico del XXI secolo rispetto a quella scelta nel dopoguerra, quando era dominante il discorso sul lavoro.

 La giunta comunale decise invece per una aggiunta, e non per una sostituzione:

„Premesso che nella nostra città non esiste un monumento dedicato ai caduti delle FF AA, che in città invece è presente un monumento dedicato ‚al Soldato e al lavoratore italiano in Africaʻ … che la legione Carabinieri Sicilia – Comando provinciale di Siracusa ha chiesto di esaminare la possibilità di intitolare il monumento ai caduti d’oltremare;

che tale richiesta risponde ai sentimenti della popolazione siracusana che già oggi si riferisce al monumento indicandolo come ‚monumento ai caduti d’oltremareʻ ; che questo monumento è spesso sede di manifestazioni a carattere prettamente militare … propone di cambiare l’intitolazione del monumento oggi individuato come ‚al Soldato e al lavoratore italiano in Africaʻ con ‚monumento al soldato, al lavoratore italiano in Africa e ai caduti d’ oltre mareʻ.“

Si decise anche che l’area attorno al monumento potesse essere utilizzata – come di fatto già avveniva – per l’installazione di effigi e lapidi a ricordo dei caduti italiani anche di epoche recenti, mentre il monumento diventava il luogo deputato per celebrazioni ufficiali:

a quella per i caduti del Conte Rosso, ormai periodica, si aggiunse quella per le vittime delle foibe, a cui nel 2020 è stata dedicata una nuova lapide.

 La decisione della giunta lasciò parzialmente scontento Menniti, che affermò di non ritenere „legittimo il riferimento ai lavoratori civili caduti in Africa, frutto, probabilmente, dell’epoca in cui fu allestito a Siracusa. Ne fuorvia l’originaria destinazione che chiaramente si evince dalle incisioni e statue raffiguranti soldati, e non civili, delle varie armi e specialità “.

 

I fregi e i riferimenti militari, evidenti a chiunque osservi il monumento ma del tutto rimasti in ombra nel dibattito che ne accompagnò la ‚ri- significazioneʻ post-bellica, acquistavano in quella prima parte degli anni Duemila una nuova centralità, e diventavano utili per sostenere un nuovo utilizzo del monumento. L’enfatizzazione del messaggio militarista fu garantita anche dalla creazione di un comitato incaricato di prendersi „cura dello studio per le integrazioni da apportare al monumento affinché lo si completi di tutti i riferimenti necessari agli eventi bellici degli anni successivi al 1936.

Comprenderanno i fatti d’arme che hanno impegnato i carabinieri sui fronti di guerra e nelle missioni internazionali di pace con caduti italiani “.

Quale spazio aveva il colonialismo in questa nuova narrazione il cui baricentro tematico è spostato sui soldati caduti ampiamente intesi, e che cronologicamente guarda sino al XXI secolo?

 Gli elementi da notare sono almeno tre.

Innanzitutto, il fatto che la ‚ri-scopertaʻ e il riutilizzo del monumento a inizio del Duemila siano stati accompagnati da discorsi esplicitamente celebratori del passato coloniale.

Ad esempio, superate anche le cautele con cui anche la stessa AN aveva preso parola alla fine degli anni Novanta, nel 2006 Alberto Moscuzza, presidente dell’associazione Lamba Doria, affermava di fronte agli ennesimi attacchi all’opera che „che è stato oltraggiato un monumento che ricorda le gesta dei nostri soldati nelle guerre coloniali in Africa“ e attaccava i „teppisti locali che non meritano neanche la cittadinanza italiana, sconoscendo anche per l’ignoranza trasmessa dalle nostre scuole, il valore della storia e dei soldati morti in terre lontane e in un periodo ancora oggi tanto discusso“.

Da un altro punto di vista, dopo che la precedente narrazione incentrata sul lavoro l’aveva edulcorato, il colonialismo sembra definitivamente scomparire dietro una acritica celebrazione dei soldati caduti.

Non è, questo, l’unico caso in cui ciò avviene:

come emerso in altri contesti, l’elaborazione nel secondo dopoguerra di un discorso che depoliticizza le diverse guerre ha costituito il contesto in cui poter continuare a celebrare acriticamente e al riparo da contestazioni gli eventi coloniali, i loro protagonisti, e in definitiva il colonialismo stesso.

 Infine, come ha scritto sempre Biasillo citando Wu Ming, si pone il problema delle „narrazioni tossiche “.

 Seppure fosse utilizzato come luogo di altre memorie (e come visto, non è esattamente questo il caso), è difficile affermare che un monumento che riproduce militari e ascari, che con gli stilemi degli anni Trenta riproduce una barca rivolta verso l’Africa, che include bassorilievi di truppe coloniali, che riporta incisi i nomi delle battaglie africane e i profili di carri armati e camion, possa smettere di parlare di colonialismo, e di proporlo come un’epopea.

È proprio attorno al portato narrativo che dalla metà degli anni 2010 si è assistito ad una inedita attenzione pubblica nei confronti del monumento siracusano.

 Da una parte il monumento è stato denunciato come esempio delle continuità tra periodo coloniale, fascista e repubblicano, e come simbolo della necessità di una decolonizzazione della società italiana.

 Dall’altra, è divenuto oggetto di attenzioni di segno opposto.

Il gruppo siracusano del movimento politico di estrema destra “Casa Pound” ha scelto il monumento come una delle sedi privilegiate per le proprie battaglie commemorative:

organizzando ad esempio un presidio nella „Giornata del ricordo “ del 2016, illuminandolo di luce tricolore per ricordare la battaglia di Caporetto nel 2018, o ancora per celebrare il 4 novembre nel 2021.

Sempre del 2021 è l’iniziativa più indicativa della lotta discorsiva attorno al monumento: in uno dei momenti in cui in Italia e in Europa era più acceso il dibattito sull’opportunità di abbattere o risignificare i segni del colonialismo nello spazio pubblico, Casa Pound pubblicizzava l’iniziativa di recupero dei marmi del monumento dalle acque circostanti, e rivendicava l’area come un proprio punto di riferimento identitario

„Per noi questo è un luogo sacro a cui va dimostrato il massimo rispetto. Noi siamo i figli e i nipoti degli eroi a cui è stato dedicato questo bellissimo monumento.“

 

5- Conclusioni: guardare ai monumenti per guardare all’Italia.

Reinserire nella storia monumenti, lapidi, nomi delle strade connessi col colonialismo consente innanzitutto di comprendere la funzione per cui essi sono stati collocati nello spazio pubblico.

Come questo breve e parziale excursus ha mostrato, i monumenti hanno avuto il compito di sostenere, divulgare e consolidare narrazioni e valori funzionali di volta in volta agli obiettivi delle istituzioni che li hanno voluti erigere.

 I casi esaminati ci confermano quel che gli studi hanno già dimostrato su altri terreni:

e cioè che il colonialismo ha supportato i progetti di” nation-building” dello stato liberale fin dai suoi esordi;

e ha fornito materiali utilizzati dal regime fascista per convincere gli italiani a sentirsi parte di un progetto egemonico e vincente.

Il caso del monumento di Romanelli conferma anche la Repubblica italiana non fu fondata sull’anticolonialismo;

ma che da quella storia cercò di elidere le parti più compromesse col fascismo, per poi rivendicarla.

 La grossolanità con cui quel monumento fu ‚ri-significatoʻ mostra come tra le classi dirigenti non ci fosse una grande attenzione verso la scivolosità del discorso proposto:

al fine di celebrare quel lavoro italiano su cui lo Stato italiano aveva incentrato la sua narrazione, si mantennero simboli e segni che evocavano direttamente il militarismo e la sopraffazione.

 I ritardi nella costruzione dell’opera di Romanelli, l’incompiutezza, la mancanza di utilizzo per tutto il secondo Novecento e gli atti vandalici raccontano però che la presunta dimenticanza di certi simboli, spesso segno di inconsapevolezza e rimozione, può anche essere spia di un disagio nei confronti dei discorsi veicolati dai monumenti.

 

Proprio perché i monumenti sono l’esito della volontà di consolidare specifici valori e visioni, essi sono spesso oggetto di contestazioni e reazioni discordanti e, nel corso del tempo, di utilizzi diversi, modifiche, nuove destinazioni d’uso e anche rimozioni.

 Reinserire anche questi aspetti nella storia è utile per capire le società su cui quei segni insistono, la loro complessità, e la loro mutevolezza nel corso del tempo.

Le citate critiche al monumento a Bottego da parte del giornale della Camera del lavoro e al monumento ai caduti di Dogali da parte dell’„Osservatore Romano“ mostrano una società in cui la politica espansionistica è tutt’altro che condivisa; mentre la vicenda di “Zerai Deres” dà visibilità a un dissenso che, per quanto silenziato, continuava ad esistere sotto il fascismo.

Le vicende più recenti del monumento siracusano mostrano dapprima una società in cui, all’inizio degli anni Duemila, il patriottismo viene riscoperto come il terreno su cui le scivolosità di richiami fascisti e colonialisti possono venire assorbite:

l’analisi limitata al singolo caso non consente di approfondire ulteriormente il tema, ma un allargamento dell’indagine consentirebbe di verificare se e in che modo questa riscoperta si inserisca nel rilancio delle forze armate come simbolo dell’unità nazionale, promosso in quegli anni dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

 

I discorsi che hanno riguardato il monumento dalla metà degli anni 2010 in avanti, conseguenza di un nuovo interesse per l’opera di Romanelli anche oltre la dimensione locale, appaiono invece il sintomo di una società italiana polarizzata: da una parte c’è chi difende il monumento come simbolo e baluardo di valori da rivendicare; dall’altra c’è chi lo vede come emblema di uno Stato che non ha fatto i conti con il colonialismo, il fascismo, e i valori ad essi sottesi: razzismo, militarismo, sopraffazione.

Come quelli dell’età liberale e del Ventennio fascista, e come altri più contemporanei, si tratta di un dibattito che ha poco a che fare con la materialità dell’opera, e quasi niente con la storia dell’espansione italiana.

 Al contrario, dato che la costruzione dei monumenti è simbolo e strumento di specifici progetti di costruzione valoriale, le dispute attorno alla loro presenza e alle modalità di permanenza nello spazio pubblico sono simbolo e strumento di specifiche rivendicazioni finalizzate a un mantenimento, o a un profondo cambiamento, dei valori su cui si basa la società attuale.

La posta in gioco non è dunque il passato, bensì il presente e il futuro.

 

 

 

 

Ecco perché parliamo

di “genocidio”.

 Jacobinitalia.it - Francesca Albanese - Owen Dowling – (18 Novembre 2024) – ci dice:

Dopo le parole di papa Bergoglio, la relatrice speciale Onu per i territori palestinesi occupati “Francesca Albanese” spiega in che modo l’esercito israeliano sta agendo per cancellare la vita a Gaza.

Dall’inizio della devastante guerra di Israele contro la popolazione di Gaza, tredici mesi fa, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni unite per i territori palestinesi occupati, ha acquisito fama internazionale come cronista pubblica, anatomista legale e oppositrice politica del genocidio.

Nominata nel maggio 2022, il mese in cui le forze israeliane hanno assassinato la giornalista palestinese americana “Shireen Abu Akleh “a Jenin, l’avvocatessa internazionale per i diritti umani ha prodotto una serie di rapporti ufficiali che descrivono in dettaglio il regime di apartheid di Tel Aviv, la sua strutturazione della Cisgiordania come «panopticon a cielo aperto costantemente sorvegliato» attraversato da insediamenti coloniali e, dallo scorso ottobre, i suoi crimini di genocidio contro i palestinesi.

Rivendicando nei forum internazionali la richiesta urgente di un cessate il fuoco immediato e incondizionato e di una mobilitazione globale di tutte le forme di pressione sullo Stato israeliano, Albanese è stata sottoposta alle stesse campagne diffamatorie che tutti i sostenitori della liberazione palestinese conoscono.

Ora, di fronte alle recenti richieste delle organizzazioni di difesa israeliane di impedirle di entrare nei campus universitari occidentali, la relatrice speciale ha intrapreso un tour di conferenze nelle università di Londra, nel quale parla dell’attuale genocidio di Israele e del ruolo (e dei limiti) del diritto internazionale e dei diritti umani nel resistergli.

Mentre il cosiddetto piano dei generali delle Forze di difesa israeliane per la pulizia etnica della parte settentrionale di Gaza procede e mentre sempre più bambini palestinesi e libanesi si uniscono alle migliaia e migliaia di persone massacrate, tutti quelli che hanno ascoltato il discorso di Albanese alla “Soas University of London” hanno riconosciuto che il momento non potrebbe essere peggiore.

Avvicinandomi al campus fuori “Russell Square”, inizialmente ho scoperto che il mio percorso attraverso gli accessi alla “Soas” era bloccato da uno stallo che componeva un microcosmo:

 dimostranti pro-sionisti brandivano bandiere israeliane e manifesti con la scritta «Ban Fran» e cantavano «I-I-Idf», fiancheggiati dalla polizia e, tra loro e l’università, una schiera pro-palestinese considerevolmente più numerosa, più rumorosa, più giovane e più diversificata, composta per lo più da studenti e studentesse.

Applausi e tamburi si alzavano mentre salutava la folla radunata, ma l’accoglienza da celebrità di Albanese ha reso più drammatica la risonanza avvertita dai sostenitori della campagna pro-Palestina tra la sua posizione internazionale per il popolo di Gaza di fronte all’attacco personale e il loro attivismo di fronte alla repressione disciplinare alla “Soas”.

 

La dottoressa Michelle Staggs Kelsall, codirettrice del “Centre for Human Rights Law “dell’istituto, ha aperto i lavori una volta che l’evento, strapieno, è finalmente iniziato con la dichiarazione in base alla quale «siamo solidali con Francesca Albanese contro i tentativi di mettere a tacere la sua voce potente e coraggiosa».

 Laureata in disciplina dei diritti umani alla Soas, Albanese ha messo a confronto le sue competenze giuridiche con il suo ex docente, il professor “Lynn Welchman”, e con un altro ex studente di quella scuola, “David Lammy”, dopo la recente affermazione del ministro degli esteri in Parlamento secondo cui l’uso dell’accezione di «genocidio» per descrivere ciò che gli israeliani perseguono a Gaza «lede la serietà di quel termine».

La sua instancabile attività a sostegno della Palestina e contro il genocidio all’Onu è stata elogiata in quanto «coraggiosa», e Albanese è entrata accolta da una standing ovation per tenere la sua lezione su «Imperialismo, colonialismo e diritti umani: la cartina di tornasole della Palestina».

Invece che fare un riassunto della lezione, vale la pena citare per intero la descrizione iniziale di Albanese della topografia del genocidio di Gaza fino a novembre 2024:

Permettetemi di farci focalizzare la situazione del popolo palestinese, così com’è ora, direttamente nella nostra mente.

 A Gaza, per 401 giorni, abbiamo visto continuare i bombardamenti, i colpi e il fuoco di artiglieria costanti di Israele senza risparmiare niente e nessuno.

 La guerra ha mostrato il suo volto più spietato.

 Bombardamenti indiscriminati su larga scala; uso di sistemi di intelligenza artificiale con bersagli selezionati; sorveglianza persistente dall’alto di droni senza pilota; cecchini automatici che sparano alle persone mentre fanno la spesa nei mercati, raccolgono l’acqua, cercano assistenza medica o persino mentre dormono nelle tende; soldati trincerati nei carri armati che attaccano civili disarmati.

Bruciati vivi, lasciati morire di una morte atrocemente lenta sotto le macerie, famiglie di intere generazioni ammassate in case che vengono bombardate e rase al suolo in un solo istante;

ospedali e campi profughi ora trasformati in cimiteri, pieni di giornalisti, studenti, dottori, infermieri, persone con disabilità che un tempo abitavano queste terre ora decimate.

Dopo un primo incontro a un ricevimento affollato nella” Paul Webley Wing della Soas,” dopo la conferenza, ho fissato un appuntamento con Albanese per il giorno successivo in un ristorante afghano a Mile End.

Circondati da strade con lampioni con bandiere palestinesi, abbiamo discusso del genocidio di Gaza, del colonialismo israeliano, dei diritti e dei doveri dei popoli e degli Stati secondo il diritto internazionale e delle sfide incontrate nel corso del suo mandato di relatrice speciale delle Nazioni unite per i territori palestinesi occupati.

 

Grazie mille della disponibilità a parlare con me.

Ho letto i tuoi rapporti Onu” Anatomia di un genocidio” (marzo 2024) e, più di recente, “Genocidio come cancellazione coloniale” (ottobre 2024).

E naturalmente ho assistito alla tua lezione alla Soas.

Hai spiegato che insisti sulla definizione di genocidio perché «la distruzione che vediamo in Palestina è esattamente e precisamente ciò che fa il colonialismo d’insediamento. Questo è un genocidio coloniale d’insediamento».

 Potresti spiegare in dettaglio l’argomentazione da te avanzata, in termini di diritto internazionale, riguardo agli aspetti per cui il genocidio in corso in Palestina può essere concepito come un’impresa coloniale d’insediamento?

Innanzitutto, ciò che costituisce un genocidio non è stabilito da opinioni individuali o storie personali o dal confronto con ciò che è accaduto in passato, sebbene il passato abbia molto da dirci sul modo in cui si presenta un genocidio.

Ciò che costituisce un genocidio da un punto di vista legale è stabilito dall’articolo II della Convenzione sul genocidio.

Consiste in una serie di atti che sono criminali in sé e per sé, come atti di uccisione, atti che infliggono grave dolore fisico o mentale, la creazione di condizioni di vita che portano alla distruzione di un gruppo, il trasferimento forzato di bambini, la prevenzione delle nascite.

Questi sono atti di genocidio riconosciuti dalla Convenzione sul genocidio.

Per avere un genocidio, l’elemento critico è l’intento di distruggere un gruppo, in tutto o in parte, anche attraverso uno solo di questi atti.

 Si potrebbe avere, come è successo in Australia o in Canada, un genocidio attuato principalmente, anche se non solo, attraverso il trasferimento di bambini, quindi senza uccidere.

 Ecco quindi il primo problema:

 un certo numero di persone contesta che l’etichetta «genocidio» possa essere apposta su ciò che Israele sta facendo perché Israele ha ucciso solo 45.000 persone, come se fosse normale, mentre ha distrutto l’intera Gaza.

Alcuni vedono questa brutalità e la difendono ancora in quanto «autodifesa».

Il punto è che questa distruzione estrema, questa violazione delle regole fondamentali per proteggere i civili, i locali civili e la vita civile nel diritto internazionale, è stata completamente livellata dalla logica israeliana secondo cui poteva essere ucciso chiunque, sia in quanto terrorista che come scudo umano o danno collaterale, tutto poteva essere distrutto.

 Ed è per questo che, 402 giorni dopo, Gaza non è più vivibile.

 Gaza è distrutta. Se questo non è un genocidio ostentato, cos’altro lo è?

Dobbiamo anche comprendere il contesto in cui questo genocidio si sta verificando.

 Ecco perché ho scritto quest’ultimo rapporto [Genocidio come cancellazione coloniale]:

 per fare luce sulle azioni omicide, quelle che rendono la vita impossibile, che sfollano con la forza i palestinesi mentre li bombardano da nord a sud, da ovest a est, costringendoli a vivere nei luoghi più inospitali di Gaza dopo aver distrutto tutto ciò che avrebbe potuto consentire loro di accedere ai mezzi di sostentamento, dopo averli privati di acqua, cibo, medicine, carburante per oltre un anno – un anno! – e anche il fatto di arrestare arbitrariamente, privare della libertà, torturare e stuprare migliaia di palestinesi.

Vediamo la realtà?

E il fatto è che tutto questo non è iniziato solo un anno fa.

I palestinesi sono stati oppressi, repressi, maltrattati e resi oggetto di abusi, umiliazioni e gravi violazioni del diritto internazionale per decenni.

Israele lo fa nel perseguimento della realizzazione di una «Grande Israele», in cui la sovranità ebraica si estende tra il fiume e il mare.

Ecco perché dico che questo è un genocidio che non viene condotto solo a causa dell’odio ideologico trasformato in dottrina politica, come è accaduto attraverso la disumanizzazione dell’«altro» in altri genocidi;

questo genocidio viene commesso a causa della terra, per la terra.

Israele vuole la terra senza i palestinesi.

E per i palestinesi, rimanere sulla terra fa parte di ciò che sono come popolo.

Ecco perché lo chiamo genocidio di cancellazione coloniale.

Nel tuo rapporto, fai notare che le sentenze della “Corte Internazionale di Giustizia” hanno stabilito che, secondo il diritto internazionale, l’occupazione israeliana è di per sé un atto di aggressione.

Hai scritto che ciò vizia qualsiasi pretesa che Israele possa avanzare nei confronti del diritto di autodifesa di uno Stato sovrano.

Potresti spiegare di nuovo, in termini di diritto internazionale, cosa significa per il rivendicato «diritto di Israele a difendersi» e in linea di principio anche per il rivendicato dai palestinesi diritto di resistenza armata di un popolo, il fatto che l’occupazione sia di per sé considerata un atto di aggressione?

La Corte Internazionale di Giustizia ha confermato ciò che esperti legali autorevoli, studiosi e altri sostengono da decenni.

Israele mantiene un’occupazione illegale nei territori palestinesi occupati, ossia Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

Impedisce ai palestinesi di realizzare il loro diritto all’autodeterminazione, ovvero il loro diritto di esistere come popolo.

Questa situazione equivale alla segregazione razziale e all’apartheid, poiché si traduce in un’annessione continua delle terre palestinesi a beneficio esclusivo dei cittadini israeliani ebrei.

 Ecco perché [secondo la sentenza della Corte internazionale di giustizia] l’occupazione deve essere smantellata totalmente, inequivocabilmente e incondizionatamente prima di settembre 2025.

Quindi ciò significa che le truppe devono andarsene, che gli insediamenti devono essere smantellati, che quei cittadini israeliani devono tornare in Israele, a meno che non vogliano rimanere cittadini palestinesi.

 Ma la terra deve essere restituita ai palestinesi.

 Le risorse non possono continuare a essere sfruttate da Israele.

Questo è molto chiaro, ed è l’unico modo per garantire una via d’uscita.

 Il che rappresenta anche, a mio avviso, l’inizio della fine:

 l’inizio reale e concreto della fine dell’apartheid nei territori palestinesi occupati e oltre.

Poiché Israele mantiene un’occupazione che si traduce nell’oppressione del popolo palestinese, Israele affronta minacce alla sua sicurezza provenienti dai territori palestinesi occupati.

Ma queste sono conseguenti all’oppressione che Israele impone a quei territori.

 E l’unico modo per estinguere quella minaccia alla sicurezza è porre fine all’occupazione.

Israele ha il diritto di difendersi all’interno del suo territorio dagli attacchi sul suo territorio da parte di altri Stati.

 Questo è ciò che darebbe a Israele il diritto di usare la forza militare e di dichiarare guerra a un altro paese.

Ma il punto è che Israele sta attaccando le persone che ha mantenuto sotto occupazione.

E le violazioni del diritto all’autodeterminazione [dei palestinesi] portano alla resistenza.

Il diritto di resistere è per un popolo ciò che il diritto all’autodifesa è per uno Stato, quindi c’è un conflitto intimo e una fusione tra due interessi contrastanti.

Tuttavia, il diritto internazionale è chiaramente dalla parte dell’autodeterminazione palestinese.

 Il diritto di resistere, ovviamente, ha dei limiti.

 Non si possono colpire civili, uccidere e prendere ostaggi.

Ma ciò che ne consegue è che tali atti dovrebbero essere oggetto di giustizia, indagini e procedimenti giudiziari, non di una guerra di annientamento.

Passando al contesto del Regno Unito, proprio all’inizio del genocidio a Gaza, “Keir Starmer”, allora leader dell’opposizione, ha notoriamente manifestato il suo sostegno, secondo le sue parole, al «diritto» di Israele di tagliare l’acqua e l’energia nella Striscia di Gaza.

E ora, che è primo ministro, lui e il suo ministro degli esteri, “David Lammy”, che in precedenza si erano schierati entrambi a favore di piattaforme pro-palestinesi, hanno negato le accuse di genocidio.

“Lammy” sostiene che usare questo concetto mina la gravità storica del termine. Allo stesso tempo, hanno detto che il loro governo mantiene un «profondo rispetto per il diritto internazionale».

 In che modo la posizione della Gran Bretagna, secondo cui ciò che sta accadendo in Israele non è un genocidio, e la continua fornitura di armi e altro materiale di supporto allo Stato israeliano, hanno a che fare con il rispetto del diritto internazionale di cui parli?

 

Prima di tutto, lascia che ti dica che non penso che uno possa definirsi un difensore dei diritti umani se non li difende evitando considerazioni politiche o ideologiche. Dire che la fame è accettabile significa semplicemente tradire ciò che rappresenta il diritto internazionale, che in ultima analisi afferma la protezione dei civili in situazioni di conflitto armato, ostilità, crisi, ecc.

Qui c’è un ministro degli esteri che nega che sia in corso un genocidio, anche quando la Corte internazionale di giustizia lo ha riconosciuto.

Deve spiegare perché squalifica la Corte.

 Ma in ogni caso, sentiremo, penso, delle scuse.

 La storia giudicherà queste persone che non hanno fatto nulla in loro potere per prevenire le atrocità.

Nel frattempo, così facendo, il Regno Unito sta violando i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale, che impedisce di aiutare e assistere uno Stato che sta commettendo illeciti internazionali.

Ecco a che punto siamo.

Ci sono delle responsabilità; potrebbe esserci complicità.

Ecco perché incoraggio la contesa strategica di chiedere conto alle persone, ma anche per garantire – e questo è nel potere del popolo – che i leader eletti non trascinino questo paese e i suoi contribuenti nel finanziamento di una guerra di annientamento.

Ti sei formata anche alla Soas come avvocata internazionale per i diritti umani. Nella sessione di domande e risposte che è seguita alla tua lezione sono state discusse diverse prospettive sull’utilità o la fattibilità o la credibilità del diritto internazionale e delle istituzioni dell’ordine internazionale come mezzi per limitare gli atti di aggressione e i crimini contro l’umanità, mentre allo stesso tempo, percepiamo e cogliamo le eredità imperialiste radicate e le realtà strutturali del potere al loro interno.

In che modo gli attivisti che affrontano questioni di politica globale da una prospettiva socialista e internazionalista possono relazionarsi con il discorso e il quadro del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali esistenti per cercare di aiutare a garantire l’autodeterminazione palestinese mantenendo al contempo quella prospettiva anticoloniale critica su quelle istituzioni?

Dobbiamo inserire la questione all’interno dei nostri sistemi, che possono sembrare alla periferia delle relazioni internazionali ma sono ancora i centri dell’impero: un sistema che può controllare la terra di altre persone, la volontà di altre persone e le risorse di altre persone, e rendere le loro vite miserabili.

 Questo non sta più accadendo solo al Sud del mondo; sta accadendo anche a molti di noi nel Nord del mondo.

È tempo di riconoscerlo nella fragilità e precarietà di molte categorie di persone, dai lavoratori agli anziani, alle persone con disabilità, alle persone Lgbt e ai migranti.

Diritti umani come la libertà di espressione e la libertà di parola, così come il diritto a essere adeguatamente retribuiti o il diritto ad avere un alloggio e un’assistenza sanitaria:

 sono diritti che vengono violati sempre più spesso, anche nel Nord del mondo, e queste violazioni non possono essere scollegate dalle violazioni che le persone nel Sud del mondo subiscono per mano di un sistema che è in gran parte guidato dall’Occidente.

La Palestina incarna questo sistema, la lotta dei popoli indigeni, la lotta delle vittime della duratura eredità del colonialismo, inclusa la discriminazione contro i rifugiati e i migranti dal Sud del mondo, la lotta per la giustizia ambientale.

 Ecco perché la lotta della Palestina sta diventando un simbolo di resistenza in tutto il mondo per molti che vogliono solo vivere in un ordine più equo, giusto e non discriminatorio.

Di recente hai chiesto la riforma del vecchio Comitato speciale delle Nazioni unite contro l’apartheid.

 Pensi che il ruolo dell’Onu e delle istituzioni a esso collegate durante il movimento internazionale anti-apartheid in Sudafrica abbiano un significato pratico per il movimento di solidarietà internazionale con la Palestina oggi?

 

Penso che le Nazioni unite abbiano svolto un ruolo graduale, nel senso che c’è stato un dibattito portato avanti principalmente dagli Stati del Sud del mondo per abolire l’apartheid, ma è stato in gran parte un riflesso del tumulto che stava avvolgendo il mondo. Il movimento internazionale anti-apartheid era un movimento di base, che ha avuto origine in questa parte del mondo, in Gran Bretagna e Irlanda, ma che si è presto radicato anche in altre parti dell’Occidente per resistere alla perdita di potere economica del regime dell’apartheid e aiutare i sudafricani a liberarsi da quella forma repressiva di Stato.

Ciò dimostra che oggi, come in passato, ciò di cui c’è bisogno è un’azione globale nel nuovo movimento di base rivitalizzato che esiste.

 C’è il Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), e ci sono state proteste e azioni studentesche per ristabilire il nucleo del diritto internazionale, i principi fondamentali del diritto internazionale.

La mobilitazione prosegue, ma c’è ancora molto da fare.

Rendere le aziende responsabili, spingere i sindacati all’azione, rendere responsabili i leader politici e i concittadini che hanno combattuto come parte del regime di apartheid di Israele, sia come parte dell’impresa commerciale che come militari.

È tempo di chiedere conto delle responsabilità a livello nazionale e non solo a livello internazionale.

 

Un’ultima domanda, che forse è un po’ più personale:

come relatore speciale delle Nazioni unite, e soprattutto dal 7 ottobre, il tuo profilo internazionale si è ampliato notevolmente, e sei stata bersagliata con ostilità rilevante, calunnie personali, tentativi di diffamazione, ecc. (anche da parte di rappresentanti dell’amministrazione di Joe Biden), con gruppi di difesa pro-Israele che hanno cercato di violare, ad esempio, la tua libertà di parlare nei campus universitari.

 Abbiamo visto alcuni manifestanti fuori dalla Soas.

Che esperienza hai di questa opposizione, e come ha influito sul tuo mandato di relatore speciale delle Nazioni unite?

Cosa vuoi dire a tutte quelle persone che vorrebbero zittirti?

Innanzitutto, vorrei specificare sulle proteste perché chi non era presente potrebbe farsi un’idea sbagliata.

C’erano circa dieci individui che urlavano, con più bandiere che piedi per terra.

Non era una vera protesta.

 Erano delle seccature, delle piccole, piccole seccature.

 Ma, insomma, è giusto. Lasciateli venire.

Lasciateli gridare «Ban Fran» mentre le persone vengono massacrate, con 17.000 bambini uccisi.

Lasciateli fare quello che vogliono. Francamente, non penso che sia importante. Non penso che sia rilevante.

 È irrilevante anche il fatto che i governi complici del genocidio mi attacchino invece di occuparsi dei loro obblighi legali non rispettati.

Non voglio intrattenere discussioni su quanto siano folli questi attacchi.

Sono solo un’altra manifestazione di quanto sia feroce la repressione della Palestina, dell’identità palestinese e della resistenza palestinese, specialmente nelle società occidentali.

 

(Francesca Albanese è ricercatrice associata presso l’Institute for the Study of International Migration della Georgetown University e relatrice speciale delle Nazioni unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967.

Owen Dowling è uno storico e ricercatore d’archivio per Tribune, dal quale è tratto questo testo. La traduzione è a cura della redazione.) 

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