L’umanità si affida ai padroni del mondo.
L’umanità
si affida ai padroni del mondo.
Stati
Uniti e Israele Bombardano
4
Paesi in 12 Ore… e Non Fa Notizia!
Conoscenzealconfine.it
– (14 Novembre 2024) – Redazione -l’antidilomatico.it – ci dice:
Nelle
ultime 12 ore “Israele”, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno bombardato
contemporaneamente 4 paesi del Medio Oriente.
In un
video che ricapitola si vede che sotto
ci sono i raid contro Libano, Gaza, la Siria e lo Yemen.
L’Occidente
e la sua emanazione più spietata, lo stato di Israele, possono bombardare 4
paesi alla volta e questo non fa nemmeno notizia nei liberi media nostrani?
Che
credibilità possono avere ancora le istituzioni su cui si regge il cosiddetto
diritto internazionale alla luce del video -sopra indicato?
E
soffermatevi un momento a riflettere su quello che potrebbe succedere, sempre a
livello del libero circo mediatico, se a compiere questi crimini contro paesi
sovrani fossero altri paesi?
Russia, Cina, Iran ad esempio?
La
perdita di ogni forma di credibilità da parte dei media e governi del
famigerato occidente allargato agli occhi della maggioranza globale dipende da
questa auto immune impunità.
Il “sistema delle regole” imposte dagli Stati
Uniti è collassato anche e soprattutto per questo.
(lantidiplomatico.it/dettnews-stati_uniti_e_israele_bombardano_4_paesi_in_12_ore_e_non_fa_notizia/45289_57664/)
Merci
Macchiate del Sangue Palestinese.
Lettera
Aperta a “Eurospin.”
Conoscenzealconfine.it
– (15 Novembre 2024) - Patrizia Cecconi – L’antidiplomatico.it - ci dice:
Pubblichiamo
questa lettera aperta che la giornalista e saggista “Patrizia Cecconi” ha
inviato ai dirigenti di “Eurospin”, nella quale spiega perché è semplicemente
immorale vendere merci macchiate di sangue e prodotte su terre rubate ai
palestinesi.
Nella fattispecie i datteri “Medjoul “provenienti
da “Gush Etzion”.
Gentili
Dirigenti Eurospin,
“Sono
una Vostra fedele cliente da almeno trent’anni, quando i Vostri punti vendita
erano ancora identificabili come tipici “discount”.
La prima volta che entrai in uno di essi
scoprii che alcuni prodotti non costavano poco per scarsa qualità, ma perché
venivano da alcune piccole ottime aziende che per caso io conoscevo.
Per questo ho seguitato a frequentare “Eurospin”
che, ormai, è ricco di prodotti di qualità nonostante i prezzi popolari.
Questa
premessa per dirvi che non Vi scrivo per fare una critica dei Vostri prodotti
ma per farvi presente che ho trovato sui Vostri banchi i deliziosi datteri “Medjoul”,
che conosco molto bene avendo passato diversi anni in Palestina.
Però ho visto di persona cosa fanno i coloni
dai quali provengono quei datteri, e questo è il motivo per cui i prodotti
provenienti dalle colonie ebraiche, illegali e non israeliane, in quanto
insediatesi su territori violentemente confiscati ai palestinesi, non
dovrebbero trovar posto sui banchi di chi si fa una splendida pubblicità
giocando col” genio Einstein”, primo firmatario di una lettera di condanna a
Israele.
“Gush
Etzion “è un insieme di 22 colonie tra le più delinquenziali, dalle quali
partono spedizioni criminali che bruciano alberi, automobili e abitazioni
palestinesi, che picchiano i palestinesi, compresi i bambini, per puro odio
razzista in stile “Ku Klus Klan” e generalmente operano sotto “discreta”
copertura dell’esercito israeliano.
Inutile
cercare informazioni nei nostri notiziari, a meno che la violenza non sia
spettacolare, come quando i coloni hanno bruciato vivo un ragazzino palestinese
dopo averlo costretto a bere benzina, notizia data en passant e subito
dimenticata.
Però è
possibile conoscere le loro azioni tramite video girati e distribuiti da loro
stessi per vantarsi dei propri crimini.
È
anche possibile leggere i report di “Amnesty International”, che non è certo
un’organizzazione di parte.
Questa
lunga esposizione, che spero abbiate avuto la pazienza di leggere, è la
necessaria premessa per chiedervi di togliere dai Vostri banchi merce di
provenienza illegale, merce che in qualche modo è macchiata di sangue.
La Vostra splendida pubblicità circa “la spesa
intelligente” sarebbe bello che si trasformasse anche in “spesa etica”, tanto
più che proprio” Einstein”, ebreo rispettoso dei diritti umani, come detto
sopra, fu il primo firmatario di una lettera contro i crimini di Israele nel
lontano dicembre del 1948.
Ed era
solo un “aperitivo” rispetto a quello che avrebbe seguitato a fare, stritolando
non solo decine e decine di migliaia di vite umane, ma anche tutte le norme del
diritto internazionale, a partire dai principi del diritto umanitario
universale, senza mai avere neanche una sola sanzione.
Sappiamo
tutti che la violenza genera violenza e visto che le Istituzioni internazionali
non hanno la volontà o la possibilità di fermarla, lo può fare solo la società
civile ed è per questo che Vi chiedo di togliere dai vostri banchi i prodotti
delle colonie israeliane a partire dai deliziosi datteri “Medjoul” che, se
volete, potete acquistare dalle poche imprese palestinesi che ancora riescono a
produrne, finché i coloni non ruberanno anche le loro palme.
“
Einstein” lo apprezzerebbe, di questo potete esser certi e potreste anche
andarne fieri!
Resto
in attesa di una Vostra gentile risposta e invio cordiali saluti”.
(Patrizia
Cecconi)
(lantidiplomatico.it/dettnews-merci_macchiate_del_sangue_palestinese_lettera_aperta_a_eurospin/39602_57630/).
La
sconfitta dell’occidente
oligarchico
e nichilista.
Contropiano.org - Alessandro Scassellati – (15
novembre 2024) – ci dice:
Lo
storico, demografo, antropologo e sociologo neo-weberiano Emmanuel Todd,
allievo dello storico inglese Peter Laslett a Cambridge e noto per aver
predetto con diversi anni di anticipo il crollo dell’URSS, ha scritto un libro
importante e molto ambizioso, “La sconfitta dell’Occidente” (Fazi Editore, Roma
2024), pieno di spunti geniali, ipotesi ardite e brillanti e scomode
provocazioni. Insomma, un libro da leggere con gusto.
È
stato scritto tra il luglio e il settembre del 2023 (durante l’estate della
fallita controffensiva ucraina pianificata dal Pentagono), ma è uscito in
Italia in settembre con una prefazione scritta nel giugno 2024.
Il
libro cerca di fare il punto sulla disastrosa condizione presente e la tesi
centrale è che l’Occidente, più che essere sotto attacco da parte della Russia,
“si sta distruggendo da sé”: la crisi endogena dell’Occidente è il motore del
momento storico che stiamo vivendo.
“A mettere a rischio l’equilibrio del pianeta
è una crisi occidentale, e più precisamente una crisi terminale degli Stati
Uniti, le cui onde più periferiche sono andate a schiantarsi contro la banchina
della resistenza russa, contro un classico Stato-nazione conservatore” (pag.
38).
L’Occidente
è diventato totalmente autoreferenziale, convinto che avrebbe potuto facilmente
imporre il suo modello al resto del mondo. “Il sistema occidentale odierno
ambisce a rappresentare la totalità del mondo e non ammette più l’esistenza
dell’altro. Tuttavia, … se non riconosciamo più l’esistenza dell’altro,
legittimamente tale, alla fine cessiamo di essere noi stessi” (pag. 51).
Ogni
civiltà è viva e capace di agire con coerenza, se ha una identità dialettica.
Secondo Todd, l’America di Eisenhower negli anni ’50, grazie ai lavori di
alcuni antropologi e scienziati politici (Margaret Mead, Ruth Benedict, Edward
Banfield, etc.) era ancora capace di riconoscere “l’altro” (ossia la diversità
socio-culturale del mondo), in particolare la specificità delle culture russa,
giapponese o dell’Italia meridionale (pp. 72-73). Ora, prevale una concezione
uniforme dei popoli.
In
larga parte, si tratta di un’analisi geopolitica classica che prende in
considerazione diversi elementi – tenore di vita, forza del dollaro, meccanismi
di sfruttamento, rapporti di forza militari oggettivi – più o meno razionali in
superficie, “tuttavia, abbandonerò l’ipotesi esclusiva di una ragione
‘ragionevole’ e proporrò, invece, una visione più ampia della geopolitica e
della storia, integrando meglio quel che è assolutamente irrazionale nell’uomo,
in particolare i suoi bisogni spirituali” (pag. 49).
Con
questo Todd intende dare rilevanza ad una serie di elementi culturali ed
ideologici che rientrano in un approccio olistico weberiano che cerca di tenere
insieme quello che i marxisti intendono per rapporto dialettico tra struttura e
sovrastruttura, anche se Todd tende a considerare alcuni elementi culturologici
sovrastrutturali, a cominciare dalla religione protestante, come i veri motori
della storia umana, nel bene e nel male.
Cosa è
l’Occidente.
Così
per definire cosa è l’Occidente, Todd non ricorre al 1492 (la data emblematica
della “scoperta” del continente americano da parte di Colombo che ha dato avvio
alla conquista europea del resto del mondo), né al capitalismo mercantile e
industriale, né alla democrazia liberale3, mentre riserva un’importanza
cruciale al ruolo della religione.
“All’origine
e al centro dello sviluppo occidentale non troviamo il mercato, l’industria e
la tecnologia, bensì una religione in particolare il protestantesimo. Mi sto
dunque muovendo da bravo allievo di Max Weber, il quale poneva la religione di
Lutero e di Calvino all’origine di quella che, all’epoca, sembrava essere la
superiorità dell’Occidente. Tuttavia, a oltre un secolo dalla pubblicazione di
L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, avvenuta nel 1904 e nel 1905,
possiamo spingerci al di là di Weber in maniera affatto inedita. Se, come egli
afferma, il protestantesimo è stato davvero la matrice del decollo
dell’Occidente, allora è la sua morte, oggi, a causarne la dissoluzione, e più
prosaicamente la sconfitta” (pp. 147-148).
Come
l’ebraismo, il “protestantesimo alfabetizza” le popolazioni su cui domina,
sottolinea Todd, dal momento che tutti i fedeli devono avere accesso diretto
alle Sacre Scritture, non attraverso l’intermediazione della Chiesa come
solitamente avviene tra i cattolici. E una popolazione alfabetizzata è capace
di progredire a livello sia tecnologico sia economico.
La
religione protestante ha dunque contribuito a forgiare una forza lavoro
altamente efficiente. Inoltre, sul piano delle concezioni sociali,
l’alfabetizzazione “alimenta un sentimento di uguaglianza quasi metafisica tra
tutti i cittadini” (pag. 156).
Allo
stesso tempo, però, il mondo protestante condivideva l’idea, ereditata dalla
dottrina della predestinazione calvinista, secondo cui alcuni sono eletti e
altri dannati, per cui gli uomini non sono tutti uguali. Un’idea che si
contrapponeva a quella cattolica e ortodossa dell’uguaglianza fondamentale di
tutti gli uomini, mondati dal peccato originale attraverso il battesimo.
“Non
sorprende, dunque, che le due forme più potenti o durevoli di razzismo siano
emerse nei paesi protestanti. Il nazismo si è radicato nelle regioni luterane
della Germania … Quanto alla fissazione americana per i neri, ha anch’essa
molto a che vedere con il protestantesimo. Infine, non vanno dimenticate
l’eugenetica e le sterilizzazioni forzate, in particolare nella Germania
nazista, in Svezia tra il 1935 e il 1976 e negli Stati Uniti tra il 1907 e il
1981: sono il logico risultato di un ambiente protestante che non riconosce
tutti i diritti fondamentali a ogni singolo individuo” (pag. 150-151).
Todd
sostiene che “una nazione è un popolo reso cosciente da un credo collettivo e
una élite che lo governa in base a tali convinzioni” (pag. 181), per cui ci
tiene a sottolineare che il protestantesimo “è stato anche il motore principale
dello sviluppo degli Stati-nazionali. … Effettivamente, esigendo la traduzione
della Bibbia in lingua volgare, Lutero e i suoi seguaci hanno contribuito in
maniera determinante alla formazione di culture nazionali e di Stati potenti,
bellicosi e consapevoli di sé: l’Inghilterra di Cromwell, la Svezia di Gustavo
Adolfo e la Prussia di Federico II. Il protestantesimo ha dato origine a dei
popoli che, a furia di leggere troppo la Bibbia, hanno finito con credersi
eletti da Dio” (pag. 151) e predicare il proprio eccezionalismo.
Se il
protestantesimo originario di Lutero era di stampo autoritario (predicava la
sottomissione assoluta dell’individuo allo Stato), secondo Todd questo è stato
dovuto ad una predisposizione antropologica: la famiglia ceppo o multipla
verticale tedesca (che per Todd “ha reso possibile il nazismo” – pag. 153)
prevedeva che solo uno dei figli era chiamato a vivere con il padre e ad
ereditare (non vi era uguaglianza tra i fratelli).
Ma al
protestantesimo autoritario tedesco si è contrapposto quello “democratico
liberale” dell’Inghilterra, dove “la famiglia nucleare assoluta non era mai
composta da più di una coppia e dai propri figli, i quali si separavano dai
genitori una volta diventati adolescenti … Questo sistema preparava gli
individui alla libertà e instillava persino in loro un inconscio liberale che i
coloni inglesi esportarono in America” (pag. 152).
La
Francia cattolica, “per contiguità” è riuscita a mantenersi nella sfera più
sviluppata dell’Occidente, che è essenzialmente protestante, e nonostante che
nel bacino parigino la famiglia nucleare fosse di tipo egalitario, dal momento
che fratelli e sorelle ereditavano in egual misura, laddove nel mondo
anglosassone non esisteva affatto una simile regola di uguaglianza tra i figli.
La
Rivoluzione francese ha tratto la sua ispirazione egualitaria proprio dalla
regione di Parigi (ma anche da Marsiglia e dalla regione mediterranea) dove
prevaleva questa struttura familiare in cui i fratelli ereditavano in modo
egualitario i beni del padre e dove la popolazione ha abbandonato la Chiesa in
favore di Marianne, l’incarnazione della libertà e della ragione repubblicana.
Questo,
mentre le regioni francesi con strutture familiari autoritarie e inegualitarie
– come la Vandea – erano ancora sotto l’influenza della Vergine Maria, ossia di
un cattolicesimo teologicamente e socialmente reazionario.
Todd
sostiene che esistono due definizioni di Occidente. La prima è una definizione
ampia che considera il fiorire dell’istruzione, l’affermazione dell’economia
capitalistica e del sistema di potere statunitense, che arriva a comprendere
paesi come Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Germania, Italia e Giappone.
“Questo è l’Occidente dei politici e dei giornalisti di oggi, e di una NATO
allargata al protettorato giapponese” (pag. 148). In questo Occidente
allargato, il decollo dello sviluppo economico rispetto al resto del mondo è
stato determinato da due rivoluzioni culturali: il Rinascimento italiano e la
Riforma protestante tedesca.
La
seconda è più ristretta e “assume come criterio di inclusione la partecipazione
alla rivoluzione liberale e democratica“. In tal caso, si ottiene un gruppo più
ristretto, in cui rimangono solamente Inghilterra, Stati Uniti e Francia.
La “Glorious
Revolution” inglese del 1688 (con la deposizione del re Giovanni II e la
conferma del primato del Parlamento sulla Corona sia in Inghilterra che in
Scozia), la Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 e la Rivoluzione
francese del 1789 (con la decapitazione di Luigi XVI e di sua moglie Maria
Antonietta) sono gli eventi su cui si fonda questo Occidente liberale
ristretto.
In
senso lato, dunque, l’Occidente non è storicamente “liberale”, poiché “ha
generato anche il fascismo italiano, il nazismo tedesco e il militarismo
giapponese” (pag. 148).
Si potrebbe aggiungere che tra i mostri che
questo Occidente (sia lato sia ristretto) ha generato nel corso degli ultimi
500 anni di storia ci sono anche la conquista violenta dell’America e del sud
del mondo, il genocidio dei popoli nativi, lo schiavismo degli africani e di
altri popoli indigeni, il colonialismo, il capitalismo, l’imperialismo, il
patriarcato, l’odio di classe, il razzismo, l’apartheid e il suprematismo
bianco.
Todd è
un convinto sostenitore della tesi che ritiene che le democrazie occidentali
siano in una crisi terminale e che stiamo vivendo in una postdemocrazia (cita
tutti i testi più rilevanti sul dibattito della crisi della “democrazia
liberale” pubblicati negli ultimi due decenni, da Cristopher Lasch a Colin
Crouch – pp. 153-155) e non sopporta la narrazione mainstream incentrata sulla
contrapposizione tra le “democrazie liberali” occidentali e le “autocrazie”.
Todd
considera paradossale che l’Occidente pretenda di rappresentare la “democrazia
liberale” in contrapposizione alle “autocrazie”, come quella russa, proprio
mentre il suo nucleo anglo-americano-francese, quello che ha inventato tale
forma di democrazia, è in una crisi profonda, forse terminale. Semmai, per
Todd, si tratta di “un confronto tra le oligarchie liberali occidentali e la
democrazia autoritaria russa” (pag. 158).
La
teoria di Todd dello sviluppo dei sistemi politici in rapporto alle strutture
antropologiche e alla stratificazione educativa
Oltre
ad utilizzare un approccio neo-weberiano che fa leva sul ruolo della religione
(protestantesimo), Todd utilizza alcuni dati antropologici, in particolare
relativi alle strutture familiari e ai sistemi di parentela, insieme ad una
teoria della stratificazione educativa, per spiegare le peculiarità dello
sviluppo dei sistemi politici.
Istruttivo
il seguente passaggio: “A livello empirico, possiamo associare la diffusione di
un carattere democratico primario, sotto varie forme – liberale o autoritario,
egualitario o inegualitario – a seconda delle strutture antropologiche di
ciascun paese, al superamento del 50% di individui alfabetizzati. Nel mondo
angloamericano, questa transizione ha dato origine al liberalismo puro tra il
XVII e il XVIII secolo, in Francia al liberalismo egualitario a partire dal
XVIII secolo, in Germania alla socialdemocrazia e al nazismo nel XIX e nel XX
secolo, e in Russia al comunismo.
Allo
stesso modo, l’accesso all’istruzione superiore del 20-25% degli studenti per
generazione ha portato allo sgretolamento di queste ideologie primarie legate
alla fase di alfabetizzazione di massa. Ha preso quindi forma una nuova
stratificazione delle società [con l’emersione di una classe media]; il
rapporto con la parola scritta e con l’ideologia è divenuto più critico, la
parola di Dio, gli incantesimi del Führer, le istruzioni del Partito, o anche
dei partiti, hanno perduto la propria trascendenza. La Russia ha raggiunto
questa soglia tra il 1985 e il 1990 (negli Stati Uniti ciò è avvenuto intorno
al 1965)” (pp. 67-68).
All’inizio
del terzo millennio, nota Todd, il sentimento di uguaglianza democratica
basilare sembra essersi esaurito. Storicamente, la diffusione
dell’alfabetizzazione universale è stato un motore di democratizzazione e un
potente solvente di pregiudizi e disuguaglianze, soprattutto tra i sessi, ma lo
sviluppo dell’istruzione superiore (lauree e dottorati) “ha finito per dare al
30 o 40% di una generazione la sensazione di essere veramente superiore: un
élite di massa, un ossimoro che ben introduce la stranezza della situazione”
(pag. 156).
In
questa generazione si è fatta strada l’idea di possedere una superiorità
intrinseca: al sogno dell’uguaglianza è subentrata una legittimazione della
disuguaglianza, anche grazie alla manipolazione dell’ideologia del “merito”.
La
globalizzazione ha esacerbato questa divisione, perché le persone con
un’istruzione superiore si sono schierate con l’élite ricca nella mal riposta
speranza di condividerne i guadagni. D’altra parte, i “bifolchi” diffidano di
questa élite. “Il rappresentante del popolo, un membro dell’élite di massa e
con un’istruzione superiore non ha più rispetto per chi possiede un’istruzione
primaria e secondaria e, di fondo, qualunque sia la sua etichetta di partito,
non può fare a meno di sentire i valori delle persone più istruite come gli
unici legittimi. È uno di loro, quei valori sono lui stesso e, ai suoi occhi,
tutto il resto è privo di significato, vuoto: egli non potrà mai rappresentare
alcun genere di alternativa” (pag. 157).
L’aumento
delle disuguaglianze negli ultimi decenni, un fenomeno associato alla
globalizzazione economica (accelerata dal NAFTA, dagli accordi free trade e
dall’entrata della Cina nel WTO nel 2001) e al neoliberismo (un fenomeno
ideologico con drammatici effetti economici di cui Todd parla poco4), “ha
frantumato le classi tradizionali, ma ha anche peggiorato le condizioni
materiali e l’accesso all’occupazione degli operai e delle stesse classi medie”
(pag. 157).
Una
evoluzione che ha contribuito alla nascita di movimenti e partiti identitari,
xenofobi, di estrema destra, populisti e a far spostare a destra movimenti e
partiti centristi e di centro-sinistra.
Secondo
Todd, “l’antropologia delle strutture familiari ci aiuta a comprendere per
quale ragione e in che modo l’Inghilterra, gli Stati Uniti e la Francia
[l’Occidente ristretto] abbiano contribuito alla nascita della democrazia
liberale. In questi paesi, infatti, lo sfondo familiare nucleare poteva
alimentare un liberalismo istintivo” (pag. 152) e una cultura individualistica.
In
Germania e in Giappone, invece, i valori fondamentali della famiglia ceppo
erano l’autorità (del padre sui figli) e la disuguaglianza (tra fratelli).
“L’ineguaglianza dei fratelli è diventata la disuguaglianza degli uomini e dei
popoli. L’autorità diviene invece il diritto di dominare i popoli più deboli”
(pag. 183). Diventa possibile per i governanti arrivare a pensare che il loro
paese è superiore a tutti gli altri e che questi devono obbedienza.
Infine,
Todd avanza anche l’ipotesi di un nesso tra il comunismo e la famiglia
contadina comunitaria (la grande famiglia patriarcale) che secondo lui è
riscontrabile in Russia, Cina, Serbia, Toscana [la famiglia mezzadrile],
Vietnam, Lettonia, Estonia e nelle regioni interne della Finlandia5.
“Questo
tipo di famiglia patrilineare, che riunisce il padre e i suoi figli sposati in
un’azienda agricola, trasmetteva valori di autorità (del padre sui figli) e di
uguaglianza (dei fratelli tra loro). Nel caso della Russia, esso aveva la
particolarità di essere un fenomeno recente, dal momento che qui aveva
interessato i contadini solamente a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, come
pure la servitù della gleba. Non aveva quindi ancora ridotto in maniera
significativa la condizione delle donne, come avvenuto ad esempio in Cina.
Ancora oggi, in Russia, il principio patrilineare viene simbolicamente
perpetuato dal sistema dei tre nomi: nome proprio, patronimico, nome di
famiglia” (pp. 69-70).
L’uguaglianza
dei fratelli diventa l’uguaglianza degli uomini e dei popoli (e finanche una
predilezione per un sistema “multipolare” di relazioni internazionali, “in cui
ogni ‘polo’ è uguale agli altri, ma autoritario nella propria sfera di
influenza” – pag. 183).
Todd
arriva a stabilire anche una relazione diretta tra il comunitarismo familiare e
il comunismo in Russia. “Il comunismo non è nato dalla creatività del cervello
di Lenin per poi venire imposto da una minoranza attiva; è stato il risultato
della disgregazione della famiglia contadina tradizionale. L’abolizione della
servitù della gleba nel 1861, l’urbanizzazione e l’alfabetizzazione hanno
liberato l’individuo dalla soffocante famiglia comunitaria. Tuttavia, una volta
libero l’individuo si è ritrovato completamente disorientato e si è quindi
rivolto al Partito, all’economia centralizzata e al KGB in quanto sostituti
della potestà paterna. Si potrebbe affermare che il KGB fosse in un certo senso
l’istituzione più prossima alla famiglia tradizionale, in quanto si occupava
personalmente delle persone, nei minimi dettagli” (pag. 70).
La
crisi irreversibile degli Stati Uniti.
La
tesi di Todd è che gli Stati Uniti soffrono per “la scomparsa di una cultura
nazionale condivisa dalle masse e dalle classi dirigenti” (pag. 45). La
conseguenza dell’implosione della cultura WASP – White Anglo-Saxon Protestant,
ovvero ‘bianca, anglosassone e protestante’6 – a partire dagli anni ’60, con
un’accelerazione dopo il 1980, che ha portato al “trionfo dell’ingiustizia”7
(con il progressivo smontaggio del New Deal di Roosevelt) e “ha generato un
impero privo di un centro e di un progetto, un organismo essenzialmente
militare guidato da un gruppo privo di cultura (in senso antropologico), i cui
unici valori fondamentali sono il potere, la violenza e un individualismo
assoluto capace di attuare solo i personali interessi economici e di potere
immediati” 8.
Questo
gruppo viene genericamente definito mediante l’espressione ‘neocons’’,
‘neoconservatori’ [che Todd considera “gli eredi trionfalistici del
maccartismo” (pag. 74)]. Si tratta di un gruppo alquanto ristretto, ma che “si
muove all’interno di una classe alta atomizzata e anomica, e che possiede una
capacità notevole di provocare danni geopolitici e storici”. L’élite WASP è
stata sostituita da bande di insider di Washington, il cui unico legame è la
loro dipendenza dal protagonismo militare e dai profitti derivanti dalle
rendite dell’impero.
Secondo
Todd, la crisi degli Stati Uniti è determinata dalla “completa scomparsa del
substrato cristiano” che ha provocato “la polverizzazione delle classi
dirigenti americane” (pag. 47). Il fatto è che il protestantesimo, il credo
religioso che secondo Todd, seguendo Max Weber, aveva sostenuto la forza
economica dell’Occidente e, soprattutto, degli Stati Uniti, “è ormai morto”
(pag. 47). Questa è per Todd “la chiave esplicativa decisiva delle turbolenze
che oggi scuotono il mondo”.
La
disintegrazione terminale della matrice cristiana (nella versione protestante)
negli Stati Uniti ha fatto emergere un “nichilismo”, condito dall’ossessione
per il denaro e da una tendenza all’autodistruzione (esemplificata dalle stragi
dei mass-shooting e alla “epidemia da oppioidi”), al militarismo, al ritorno di
razzismo e segregazione, al più alto tasso di reclusione al mondo, e a una
negatività endemica.
Per
Todd, un sintomo centrale del nichilismo è l’ideologia transgender che porta le
classi medio-alte a voler credere che un uomo possa diventare una donna e una
donna un uomo.
Per Todd, questa è un’affermazione del falso,
perché la biologia del codice genetico ci dice che questo è impossibile.
Quello
che Todd chiama “stato zero della religione”, ossia la fase della dissoluzione
della morale cristiana, infatti, produce “nichilismo”, “una deificazione del
vuoto” (pag. 49). Per nichilismo Todd intende un atteggiamento culturale con
due dimensioni fondamentali: una pulsione alla distruzione di cose e persone; e
una dimensione di natura concettuale che tende irresistibilmente a distruggere
la nozione stessa di verità, a vietare qualsiasi descrizione ragionevole del
mondo (un cinismo e “un’amoralità derivante dall’assenza di valori”). È “la
negazione della realtà” (pag. 252).
Per
Todd, gli Stati Uniti non possono più essere considerati né una democrazia
liberale, ma sono una “democrazia oligarchica” o una “oligarchia liberale”
(“giacché nell’Ovest la protezione delle minoranze è divenuta un’ossessione”, a
cominciare da quella dei ricchi – pag. 158), con gli oligarchi (i grandi
capitalisti/finanzieri, come Donald Trump e Elon Musk) che possono intervenire
pesantemente nel sistema politico11 (pag. 77), né uno Stato-nazione, come
“erano stati nella loro fase imperiale positiva, dal 1945 al 1990, di fronte
all’URSS” (pag. 48), perché, seppure possiedono ancora un gigantesco apparato
statale e militare e abbiano l’oligopolio GAFAM del capitalismo digitale
(Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) e il gas del fracking, il tenore di
vita degli statunitensi dipende da un numero di importazioni che le
esportazioni non riescono più a coprire, non hanno più una classe dirigente
nazionale in senso classico e neanche una cultura centrale ben definita.
Dal
punto di vista della composizione sociale, la classe operaia americana è
crollata di fronte all’afflusso di merci cinesi ed “è emersa una società
polarizzata tra una plebe economicamente inutile e una plutocrazia predatrice”
(pag. 47). Non sono uno Stato imperiale, neppure uno Stato di basso impero, ma
uno Stato post imperiale, emanazione di un impero in disfacimento, divenuto
impermeabile al concetto di sovranità nazionale.
“Benché
mantenga l’apparato militare di un impero, l’America non ha più al suo centro
una cultura portatrice di discernimento, motivo per cui nella pratica si lancia
in azioni sconsiderate e contraddittorie, come un’intensa espansione
diplomatica e militare in un momento di massiccia contrazione della propria
base industriale. E questo tenendo presente che una ‘guerra moderna senza
industria’ è un ossimoro” (pag. 47).
Per
Todd, una delle maggiori sorprese emerse dalla guerra in Ucraina è che
l’industria americana – il mitico complesso militare-industriale, tanto
foraggiato con i soldi del governo federale – è insufficiente, incapace di
stare al passo con la produzione bellica russa: “la superpotenza mondiale non è
più in grado di assicurare la fornitura di granate – o di qualunque altra cosa
– al suo protetto ucraino” (pag. 35).
Gli
Stati Uniti non hanno più i mezzi industriali per mantenere le promesse fatte
in politica estera. Biden ha menzionato nelle sue memorie del 2017 che il
presidente Barack Obama lo metteva in guardia dal “fare troppe promesse al
governo ucraino”. Ora capiamo perché.
Secondo
Todd, “l’ipotesi di una ripresa militare-industriale degli Stati Uniti è da
escludere in forza della scarsità di ingegneri a loro disposizione [per cui
importano milioni di STEM workers dal resto del mondo] e della loro
insuperabile predilezione per la produzione di denaro anziché di macchinari12.
… Più in generale, però, il collasso morale e sociale che deriva dallo stato
zero del protestantesimo – la teoria di base di questo saggio – ci assicura che
il declino americano è ormai irreversibile. Questo libro è stato scritto da chi
legge Max Weber, non Clausewitz o Sun Tzu” (pag. 12).
Per
Todd, è l’estinzione religiosa (la morte del protestantesimo) che ha condotto
alla scomparsa della morale sociale e del sentimento collettivo. Indicatori di
questo processo sono, oltre al basso numero di giovani che studiano per
diventare ingegneri, “l’aumento della mortalità americana, in particolare negli
Stati interni repubblicani e trumpiani, nello stesso momento in cui centinaia
di miliardi di dollari fluiscono verso Kiev” (pag. 48).
Un’alta
mortalità infantile (5,4 su 1000 nascite) e una riduzione dell’aspettativa di
vita, fenomeni documentati da Anne Case e Angus Deaton nel libro-inchiesta
“Deaths of despair and the future of capitalism” (“Morti di disperazione e il
futuro del capitalismo”) del 2020. L’aumento della mortalità, in particolare
tra i bianchi di 45-54 anni – per alcolismo, suicidio, uso di armi da fuoco,
obesità e dipendenza da oppioidi (come il fentanil) – ha fatto registrare un
calo complessivo dell’aspettativa di vita (unico tra i paesi avanzati): da 78,8
anni nel 2014 a 76,3 anni nel 2021. Tutto questo in presenza della spesa
sanitaria più alta del mondo (pari al 18,8% del PIL).
Gli
Stati Uniti sono stati trascinati in conflitti sanguinosi che minano il loro
status di prima potenza mondiale da due alleati radicalizzati – Ucraina e
Israele – che loro stessi hanno contribuito a formare (pag. 17).
Todd
ritiene che gli USA siano stati indotti in una trappola strategica dal regime
nazionalista di Kiev. Se la determinazione “suicida” dei nazionalisti ucraini
di riprendersi la Crimea e di sottomettere il Donbass ha portato alla guerra
(stanno cercando di “mantenere la propria sovranità sulle popolazioni di
un’altra nazione, una nazione molto più potente di loro”), il loro “nichilismo”
l’ha perpetuata e solo gli aiuti occidentali hanno finora consentito loro di
continuare a combattere.
Per
oltre un decennio, l’America aveva individuato nella Cina il suo nemico
principale e a Washington l’ostilità nei confronti di Pechino era ed è
trasversale e, probabilmente costituisce l’unico punto su cui democratici e
repubblicani sono in grado di trovare un’intesa. Adesso invece, per il tramite
dei nazionalisti ucraini, stiamo assistendo ad un confronto tra Stati Uniti e
Russia.
La
guerra a Gaza, iniziata prima che Todd ha scritto la postfazione e la
prefazione dell’edizione italiana del suo libro, sta confermando alcune delle
sue tesi centrali. Il sostegno incondizionato dell’anziana élite politica
americana all’invasione di Israele suggerisce davvero che sono in preda a una
crisi psichica che trova espressione in un “nichilismo” che ha “bisogno di
violenza”.
La
“semplicità infantile” con cui il presidente Biden ha paragonato Israele
all’Ucraina come bastioni assediati della libertà mostra quanto rapidamente i
valori occidentali possano essere screditati dai loro confusi difensori.
L’impegno “irrazionale” del materiale militare americano nella distruzione
delle città di Gaza (e ora anche del Libano meridionale), che ha incontrato la
prolungata, seppur inquieta, acquiescenza dei suoi alleati europei e dei media
mainstream, suggerisce che non tutto va bene nell’Occidente e, soprattutto,
negli Stati Uniti.
La
guerra in Ucraina.
La
spiegazione dell’entrata in guerra della Russia contro il regime ucraino
fornita da Todd è che, come detto da Putin a partire dal 2007 (discorso alla
conferenza di Monaco sulla sicurezza del 10 febbraio), Mosca non avrebbe
acconsentito passivamente all’integrazione dell’Ucraina nella NATO. “La
continua espansione delle infrastrutture dell’Alleanza Atlantica e lo sviluppo
militare del territorio ucraino sono per noi inaccettabili”, ha detto Putin.
L’Ucraina
stava per diventare un membro de facto della NATO per cui la questione ucraina
era diventata esistenziale per la Russia. Il 24 febbraio 2022 Putin ha
considerato che era stata superata la “linea rossa” e che “non era più
possibile consentire che in Ucraina si sviluppasse una ’’anti-Russia’” (pag.
31) e così ha dato avvio alla “operazione militare speciale”.
La
feroce resistenza militare dell’Ucraina è stata una sorpresa. Era considerato
uno “Stato fallito” o quantomeno sulla via del fallimento, che dalla sua
indipendenza nel 1991 aveva perso 11 milioni di abitanti (passando da 52 a 41)
per via dell’emigrazione verso la Russia (la popolazione russofona è emigrata
in massa, soprattutto la classe media e gli operai industriali qualificati,
dopo che ha perso ogni rappresentanza politica con la cosiddetta rivoluzione di
Maidan del 2014) o l’Europa occidentale e del calo della fertilità (scesa a 1,2
figli per donna).
L’Ucraina
è un pasticcio di diversi tipi di strutture familiari. A partire dalla
Rivoluzione arancione del 2004, l’ovest rurale contadino ha cercato di imporre
la sua lingua all’est urbanizzato e industrializzato, che naturalmente
preferiva la lingua russa della scienza e dell’alta cultura. L’Ucraina è stata
dominata dagli oligarchi, dalla corruzione e l’intero paese e il suo popolo
sembravano essere ormai in vendita. Todd nota che, alla vigilia della guerra,
“l’Ucraina era infatti divenuta la terra promessa per la maternità surrogata a
basso costo” (pag. 33), detenendo il 25% del mercato mondiale.
La
stessa Russia probabilmente si attendeva una resa o addirittura il crollo del
regime ucraino. Il paese era stato equipaggiato con missili anticarro Javelin
da parte della NATO e, fin dallo scoppio della guerra, disponeva di sistemi di
osservazione e guida statunitensi. Ma “quello che nessuno poteva prevedere è
che proprio nella guerra, l’Ucraina avrebbe trovato una ragione di vita e una
giustificazione alla propria esistenza” (pag. 33).
La
nascita vera a propria della nazione ucraina è avvenuta attraverso l’alleanza
tra l’ultranazionalismo banderista dell’ovest (di Leopoli e della Galizia) e
l’anarco-militarismo del centro (di Kiev e del suo intorno) contrapposti alla
parte russofila del paese, ormai indebolita dalla fuga della sua élite e classe
media.
Un’altra
sorpresa è stata la solidità e la resistenza economica della Russia (che alla
vigilia dell’invasione dell’Ucraina, insieme alla Bielorussia, rappresentava il
3,3% appena del PIL occidentale). “Ci è stato annunciato che le sanzioni, in
particolare l’esclusione delle banche russe dal sistema di scambio
interbancario SWIFT, avrebbe messo in ginocchio il paese. Se però qualche mente
curiosa tra i nostri politici e giornalisti si fosse presa la briga di leggere
il testo di David Teurtrie, “Russie. Le retour de la puissance” (“Russia, il
ritorno della potenza”), pubblicato pochi mesi prima della guerra, avremmo
evitato di porre tutta questa ridicola fiducia nella nostra onnipotenza
finanziaria.
Come
infatti segnalato da Teurtrie, i russi si erano adattati alle sanzioni del 2014
ed erano ormai pronti a essere autonomi nel settore sia informatico che
bancario. Dal suo libro emerge una Russia moderna, lontana dalla rigida
autocrazia neostalinista che la stampa ci propone giorno dopo giorno, e capace
invece di grande flessibilità tecnica, economica e sociale. In sostanza, un
avversario da prendere sul serio” (pp. 33-34).
Todd
si domanda perché mai gli occidentali hanno sottovalutato a tal punto il loro
avversario, dato che non vi era nulla di segreto riguardo alle sue risorse e i
suoi dati erano accessibili. Un clamoroso errore di percezione che si è
protratto per tutti gli anni (dal 1999) in cui Putin è stato al potere e che ha
evitato di vedere una stabilizzazione riuscita della società russa, con una
economia che funziona.
In
Russia c’è un attaccamento viscerale all’economia di mercato, nonostante il
ruolo centrale svolto dallo Stato. Il “sistema Putin” è “un prodotto della
storia russa e non l’opera di un solo uomo”. Questo è esemplificato sia dalla
“statistica morale” – una riduzione dei tassi dei decessi legati all’alcol, ai
suicidi, agli omicidi e alla mortalità infantile (4,4 per mille nel 2020, al di
sotto del tasso americano del 5,4) – sia degli indicatori socio-economici come
un aumento del tenore di vita, una riduzione del tasso di disoccupazione, un
aumento delle produzioni agricole che ha permesso l’autosufficienza alimentare
e che ha portato la Russia a diventare uno dei maggiori esportatori di prodotti
agricoli al mondo (cereali, piante oleifere e carne), un aumento delle
esportazioni di armi (secondo esportatore mondiale, dopo gli USA), lo status di
primo esportatore mondiale di centrali nucleari, un forte dinamismo nel mondo
internet con dei “campioni nazionali”.
Progressi
tangibili che hanno avuto un’accelerazione dopo il 2014, dopo l’imposizione
delle sanzioni da parte dell’Occidente dopo la prima crisi ucraina e
l’annessione della Crimea, e una sostanziale svalutazione del rublo. Da allora
sono state portate a termine una serie di riconversioni economiche che hanno
permesso alla Russia di riacquistare la propria autonomia rispetto al mercato
occidentale (l’embargo ha consentito di ristabilire una politica fortemente
protezionistica).
Todd
sottolinea che “le persone con un’istruzione superiore che scelgono di studiare
Ingegneria intorno al 2020 erano il 23,4% rispetto al 7,2% negli Stati Uniti”
(pag. 65), ossia 2 milioni di ingegneri contro 1,35 milioni15.
Putin
ha messo alle strette gli oligarchi dall’ottobre 2003 (con l’arresto di Michail
Chodorkovskij che aveva rapporti con la ExxonMobil e aspirazioni politiche), fa
leva su una classe media e medio-alta plasmata dall’istruzione (che è anche il
maggiore bacino di russi ostili al suo regime) e presta una grande attenzione
alle richieste dei lavoratori e degli ambienti popolari (che d’altra parte
ancora accettano una certa forma di autoritarismo e di aspirazione a
un’omogeneità sociale).
Ha
preservato la libertà di movimento, lasciando la totale libertà di abbandonare
il proprio paese. C’è una totale assenza di antisemitismo. È stato impedito lo
sviluppo di un individualismo assoluto.
Certo,
la Russia è per Todd una “democrazia autoritaria”: si tengono elezioni, sebbene
siano in una certa misura truccate; autoritaria poiché il regime non soddisfa
il criterio essenziale per una democrazia liberale, del rispetto dei diritti
delle minoranze (poi ci sono anche le restrizioni della libertà di stampa). “In
Russia permangono valori comunitari – autoritari e egualitari sufficienti
affinché sopravviva l’ideale di una nazione compatta e perché riemerga una
particolare forma di patriottismo” (pp. 75-76).
Con
qualche amarezza Todd nota che “l’attuale narrazione occidentale relega la
Russia, e soltanto lei, a un dispotismo eterno che oscilla tra l’autocrazia
zarista e il totalitarismo stalinista. Quando non viene equiparato al demonio,
Putin è il nuovo Stalin oppure un novello zar. Se applicassimo all’Occidente
(in senso lato) gli stessi criteri astorici che negano alla Russia il proprio
diritto a evolversi, scopriremmo che esso si trova ben lontano dall’immagine
che ha di sé oggi” (pag. 149).
Il
vero fattore di debolezza della Russia è il suo basso indice di fertilità (ora
intorno all’1,5 figli per donna), una caratteristica che però condivide con
tutto il mondo maggiormente sviluppato. Questo è stato in parte compensato
dall’annessione di territori e popolazioni che un tempo appartenevano
all’Ucraina (per cui si è passati da 144 a 146 milioni).
Secondo
Todd, l’esercito russo ha scelto di condurre una guerra lenta per risparmiare
uomini, per perdere il minor numero possibile di soldati (inizialmente in
Ucraina, un paese di 600 mila kmq, sono stati schierati solo 120 mila soldati
russi e sono stati utilizzati reparti della Wagner e milizie cecene), dandosi
come tempo massimo per una vittoria 5 anni, entro il 2027, quando la coorte di
uomini idonei al servizio militare sarà troppo piccola. La priorità della
Russia non è conquistare il massimo del territorio, ma perdere il minimo degli
uomini.
Todd
nota che non solo è stato Putin a scegliere il momento in cui scatenare
l’attacco (allorquando la Russia aveva ormai acquisito la superiorità
strategica garantitale dal possesso di missili ipersonici nel 2018-2019), ma
che la dottrina militare russa prevede che in caso di minaccia alla nazione e
allo Stato, la Russia autorizzerà alcuni attacchi nucleari tattici, vale a dire
sul campo di battaglia.
Questa
dottrina nasce dalla notevole superiorità demografica dell’Occidente dopo la
dissoluzione dell’Unione Sovietica (887 milioni contro 144). I governanti
occidentali conoscono questa dottrina militare russa, ma negano la possibilità
della pace come se rappresentasse una minaccia ancora più grave di uno scontro
termonucleare.
Todd
considera degli “’squilibrati’ mentali tutti quei politici, giornalisti e
accademici europei convinti che la Russia, con la sua popolazione di 144
milioni di individui in calo e che fatica a occupare tutti i suoi 17 milioni di
chilometri quadrati di territorio, voglia realmente espandersi ad ovest” (pag.
14). Per spiegare l’atteggiamento occidentale, Todd parla della componente
nichilista scaturita dallo “stato zero della religione”, “uno dei concetti
fondamentali del mio libro” (pag. 13).
Il
problema cruciale è che “la pace alle condizioni imposte dai russi
significherebbe la fine dell’era americana nel mondo e il declino del dollaro
(come moneta di riserva mondiale) e della capacità statunitense di vivere del
lavoro complessivo del pianeta. In geopolitica la messa in ridicolo è letale”
(pp. 18; 350).
Secondo
Todd, si arriverebbe alla disintegrazione della NATO e, soprattutto, a quello
che gli Stati Uniti temono di più: la riconciliazione tra Russia e Germania. In
un’Europa a bassa fertilità, con la sua popolazione che invecchia, la cosa
fisiologica è la complementarità tra l’industria tedesca e le risorse
energetiche e minerarie russe.
Soprattutto,
il ruolo dell’Europa potrebbe diventare quello di distogliere le grandi potenze
dalla rivalità geopolitica e di adoperarsi per tenere unito il mondo, mantenere
a un livello gestibile le inevitabili tensioni di un mondo multipolare ed
evitare che una normale competizione si trasformi in una rivalità ostile,
cercando il consenso su una serie di regole fondamentali per le relazioni fra
gli Stati.
Todd
ricorda (pp. 180-181) come l’opposizione degli Stati Uniti ad un
riavvicinamento tra Russia e Germania sia stata chiarita dal
polacco-statunitense Zbigniew Brzezinski in “La grande scacchiera” nel 1997.
Dopo la caduta del comunismo sovietico, l’ex consigliere di Lyndon B. Johnson
dal 1966 al 1968 ed ex consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter
dal 1977 al 1981, sottolineava come per Washington si poneva il problema
strategico che la presenza americana sul continente europeo o in Asia, non era
più giustificata. L’Eurasia si sarebbe quindi potuta unificare, marginalizzando
gli Stati Uniti.
Per
uno stratega come Brzezinski, l’alleanza russo-tedesca rappresentava un incubo
assoluto. Brzezinski suggeriva di strappare l’Ucraina dalla Russia per privarle
per sempre il suo status imperiale e impedire il controllo sull’Eurasia di un
nuovo asse russo-tedesco. “Dal punto di vista statunitense, la guerra deve
quindi continuare, non per salvare la ‘democrazia’ ucraina, ma per mantenere il
controllo sull’Europa occidentale e sull’Estremo Oriente” (pag. 19).
Si
tratta di vedere fino a quando le oligarchie europee saranno capaci di
mantenere i loro popoli ostili alla Russia o addirittura trascinarli in una
guerra diretta in un contesto politico che vede l’ascesa del populismo (meno
ostile alla Russia rispetto all’elitismo centrista) o dell’estrema destra. La
difesa della vita economica e la tenuta degli interessi popolari nei diversi
paesi dipende, secondo Todd, dal grado di finanziarizzazione delle borghesie
nazionali e da quanto sono organicamente integrate a quelle del mondo
angloamericano.
Le
sanzioni occidentali, concepite per danneggiare l’economia russa, hanno
generato difficoltà ancora maggiori per l’Europa occidentale che si è vista
privata delle risorse naturali (gas e altre materie prime). Mentre l’Europa
dell’ovest soffre, con la Germania che si deindustrializza, l’economia russa
sta completando la propria ristrutturazione verso l’autonomia e il proprio
riorientamento verso l’Asia.
La
subordinazione dell’Europa agli Stati Uniti: un suicidio assistito.
Secondo
Todd, gli Stati Uniti hanno rinunciato al controllo militare del mondo nel
2008. Da allora, il loro obiettivo, più limitato, è stato quello di mantenere
l’impero creato all’indomani della seconda guerra mondiale: il controllo
dell’Europa occidentale (oggi allargatosi alle ex democrazie popolari
dell’Europa centro-orientale), del Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan.
“In
questi paesi, la concentrazione delle risorse industriali occidentali è ormai
eccezionale. Il disequilibrio della bilancia commerciale statunitense con la
parte dominata dell’’Occidente collettivo’, 405 miliardi di dollari nel 2023, è
maggiore di quella con la Cina pari a 279 miliardi di dollari. La sopravvivenza
materiale degli Stati Uniti dipende dunque dal controllo dei propri vassalli”17
(pag. 18).
L’aumento
del deficit commerciale persiste nonostante la svolta protezionistica ufficiale
della politica economica avviata sotto Obama, rafforzata da Trump e da Biden.
“Perdere il controllo delle loro risorse esterne provocherebbe un calo del
tenore di vita, già poco brillante, della popolazione” (pag. 239).
Il
capitolo 5 è intitolato “Il suicidio assistito dell’Europa”. Todd ritiene che
Mosca e Washington sono perfettamente concordi nel percepire i leader europei
“alla stregua di vassalli, come dei servitori che hanno perduto ogni capacità
di azione autonoma. E in quanto tali vengono disprezzati” (pag. 19). L’Europa
si trova impegnata in una guerra profondamente contraria ai suoi interessi e
autodistruttiva. “L’Unione Europea ha abbandonato in poco tempo ogni velleità
di difendere i propri interessi. Questa si è infatti privata del partner
energetico e (più in generale) commerciale russo, punendo se stessa sempre più
duramente. La Germania ha accettato senza battere ciglio il sabotaggio dei
gasdotti Nord Stream ”ad opera del “suo ‘protettore’ americano di concerto, per
l’occasione, con la Norvegia”18 (pag. 34).
Ma
Todd segnala anche l’evaporazione della Francia di Emmanuel Macron dalla scena
internazionale, mentre la Polonia è diventata “il principale agente di
Washington in seno all’Unione Europea, rimpiazzando in tal ruolo il Regno
Unito”.
In
Europa, l’asse Berlino-Parigi (che, insieme a Mosca, si era opposto alla guerra
in Iraq voluta dagli USA nel 2003) è saltato a partire dalla crisi del
2007-2008, sostituito prima dall’egemonia tedesca e poi dall’asse
Londra-Varsavia-Kiev guidato da Washington.
L’identificazione
con gli Stati Uniti (invece che con l’UE) è ormai prevalente nel Regno Unito
(che ha fatto “da mosca cocchiera all’interno della NATO [e] si è subito
scagliato contro la Russia come uno di quei cagnetti ringhiosi” – pag. 35, ma
si veda anche il capitolo 6, “In Gran Bretagna: verso la nazione zero” – pp.
198-22919), in Scandinavia (per lungo tempo una regione pacifica e più incline
alla neutralità che al combattimento), in Polonia e nei paesi baltici. Tutti
paesi caratterizzati da un altissimo livello di russofobia, ossia sopraffatti
da una forma acuta di paranoia anti-russa, e da una sopravvalutazione delle
loro capacità economiche e militari.
Todd
dedica un’analisi di paesi come Norvegia, Danimarca, Svezia e Finlandia (questi
ultimi hanno aderito alla NATO di recente), come parti essenziali del
meccanismo di controllo degli Stati Uniti sull’Europa: la Norvegia per le
azioni militari (come la distruzione del gasdotto Nord Stream II) e la
Danimarca per la sorveglianza dei capi europei (il sistema NSA). Arriva a
considerare “la Norvegia e la Danimarca come delle gigantesche portaerei
americane ormeggiate al nostro continente, proprio come lo Stato di Israele è
una portaerei statunitense ormeggiata al Medio Oriente” (pag. 20).
Per
Todd, il progetto oligarchico europeo (quello del superamento/distruzione delle
nazionalità) è imploso. Il Trattato di Maastricht e poi l’euro – la moneta
vista come l’unico valore di coesione possibile – hanno prodotto effetti
completamente diversi da quelli promessi. Oggi, abbiamo un’Unione Europea che
non funziona, si sono accentuati gli squilibri tra i paesi, allargate le
disuguaglianze sociali e distrutti i sistemi industriali.
Per
questo “l’attacco russo all’Ucraina è stato quasi una manna dal cielo” per le
élite e le classi medie europee, fornendo un nemico esterno per ricompattarsi e
dare, quindi, un nuovo significato alla costruzione dell’Europa (pp. 173- 174),
ad esempio attraverso la costruzione di una economia di guerra.
Inoltre,
il sistema della NATO, molto più che una protezione contro la Russia,
rappresenta un meccanismo di controllo da parte di Washington sulle élite e
sugli eserciti suoi vassalli (pag. 197). Poi, ci sono dei meccanismi finanziari
e informatici fondamentali attraverso cui si esercita il dominio statunitense
sulle oligarchie europee.
Rispetto
a questo, la tesi di Todd è che la soggezione delle oligarchie europee ai
voleri degli Stati Uniti sia spiegabile con il controllo che questi ultimi
esercitano attraverso il dollaro e gli strumenti finanziari ed informatici
sugli enormi movimenti di capitali di queste élite verso il dollaro come valuta
rifugio e verso i paradisi fiscali che hanno sostituito la Svizzera e che sono
controllati dalle banche e dalle agenzie statunitensi (come FED e National
Security Agency – NSA) in collaborazione con quelle del Regno Unito (pp.
187-195).
Sulla
base di quanto emerso nel libro di Glenn Greenwald, “No place to hide” (2012),
in cui il giornalista aveva reso pubbliche le informazioni fornite da Edward
Snowden, l’informatico prima della CIA e poi della NSA che ha ottenuto asilo
politico in Russia nel luglio 2013, Todd sostiene che “gli obiettivi prioritari
della NSA non sono i nemici degli Stati Uniti, bensì i loro alleati europei,
giapponesi, coreani e latinoamericani. Le rivelazioni sulle intercettazioni
telefoniche compiute sul cellulare di Angela Merkel hanno iniziato a mettere in
allarme l’opinione pubblica. Leggendo il libro di Greenwald ci si rende conto
che l’impero americano non è un’astrazione e che non è semplicemente
un’espressione della volontà di democratici consenzienti: si basa invece su
meccanismi molto concreti di controllo degli individui” (pag. 193).
Un’attività
spionistica condotta con la collaborazione degli altri paesi della rete Five
Eyes (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada), alla quale
si sono aggiunti la Danimarca (pag. 232) e altri paesi.
La
solitudine ideologica dell’Occidente.
Una
delle sorprese emerse a seguito della guerra in Ucraina è, secondo Todd, “la solitudine
ideologica dell’Occidente e l’inconsapevolezza del proprio isolamento.
Essendosi abituati a dettare i valori a cui il mondo deve aderire, gli
occidentali credevano sinceramente, e stupidamente, che il pianeta intero fosse
pronto a condividere la loro indignazione nei confronti della Russia. La loro
aspettativa è rimasta delusa” (pag. 36).
L’incapacità
occidentale di distinguere i fatti dai desideri stupisce Todd. Così, la
speranza americana all’inizio della guerra che la Cina potesse cooperare in un
regime di sanzioni contro la Russia, aiutando così gli Stati Uniti a
perfezionare un’arma che un giorno sarebbe stata puntata contro la Cina stessa,
per Todd, è un “delirio”.
L’Occidente
e i suoi alleati nelle sanzioni contro la Russia non rappresentano che il 12%
della popolazione mondiale. Ma, soprattutto, le sanzioni hanno avuto l’effetto
di estendere il campo delle operazioni e hanno dato alla guerra una dimensione
mondiale, nonostante che la maggior parte dei paesi del Sud del mondo non ha
applicato queste misure coercitive. Hanno sostenuto la Russia nei suoi sforzi
per smantellare la NATO, continuando a comprare petrolio, gas e cereali dalla
Russia, fornendole attrezzature e pezzi di ricambio necessari per portare
avanti la guerra e per funzionare come società civile senza troppi patimenti.
Russia,
Cina e il gruppo dei BRICS+ sono ormai impegnati a costruire un’alternativa
produttiva, finanziaria, commerciale e in prospettiva monetaria all’area del
dollaro. E, tra l’altro, come nota Todd, “il sequestro illegale dei beni russi
all’estero ha scatenato un’ondata di terrore tra le classi alte del Resto del
mondo. Tracciando il denaro e gli yacht degli oligarchi russi, gli Stati Uniti
(e i suoi vassalli) hanno di fatto minacciato le proprietà di tutti gli
oligarchi del mondo, dei paesi grandi così come di quelli piccoli. Sfuggire
allo Stato predatore americano è diventata ovunque un’ossessione e sottrarsi
all’impero del dollaro è diventato un obiettivo ragionevole per tutti, anche se
ciò richiede di procedere in maniera cauta e graduale” (pag. 311).
Todd
nota che la Cina e il “Resto del mondo” (che patisce a causa delle sanzioni,
dell’estrattivismo e degli interessi sul debito finanziario), le cui
popolazioni sono ormai state in gran parte trasformate in un proletariato
generalizzato a basso costo al servizio delle global corporations e dei
consumatori occidentali (in una relazione strutturale neocoloniale che rientra
nel paradigma dell’imperialismo descritto da Hobson, Lenin, Luxemburg e Amin),
preferiscono sempre più chiaramente la Russia (tra questi paesi ci sono India e
Turchia, oltre quelli del BRICS+ in via di rapido allargamento).
Mettono
in discussione il predominio dell’Occidente dimostrando di non essere disposti
a cedere alle pressioni. L’influenza e impazienza del Resto del mondo è
crescente: rappresenta la maggioranza della popolazione mondiale e una quota
sempre maggiore dell’economia globale.
Il PIL
combinato delle nazioni del G7 – Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito,
Francia, Italia e Canada – è sceso dal 67% nel 1994 al 44% nel 2022, mentre
quello della Cina è quadruplicato oltre al 20% nello stesso periodo.
Il
nuovo ordine mondiale, imposto dagli Stati Uniti e dai loro alleati a partire
dagli anni ’90, avrebbe dovuto produrre prosperità per tutti, ma non è riuscito
a ottenerlo. Secondo la Banca Mondiale, i progressi nella lotta contro la
povertà globale si sono bloccati a causa di guerre, aumento del debito,
pandemia e cambiamento climatico.
I
paesi occidentali sono incapaci o non vogliono rispondere a questa policrisi.
Il G7 e l’Occidente in generale si comportano come se fossero ancora potenti
come lo erano nel 1944, quando la Banca Mondiale e il Fondo Monetario
Internazionale furono creati dalla conferenza di Bretton Woods. Ma questa è ora
un’economia globale diversa e il dominio dell’Occidente è messo in discussione
come non è mai stato negli ultimi 500 anni.
Anche
“l’immoralità dell’Occidente di fronte alla questione palestinese non ha fatto
che rafforzare l’ostilità del Resto del mondo” (pag. 12). In particolare, ha
spinto l’intero mondo musulmano (sunnita e sciita) dalla parte dei russi (con
l’Arabia Saudita, Mosca gestisce il petrolio, mentre con l’Iran ha un’alleanza
stabile, anche di tipo militare).
Negli
ultimi due anni, così, “la Russia è tornata a ricoprire un ruolo centrale nel
mondo”, sostenuta dal Resto del mondo nella sua sfida all’egemonia unipolare
dominata dall’America e all’“ordine internazionale liberale”.
Todd
sottolinea anche che ci sia un antagonismo antropologico tra l’Occidente e la
maggior parte dei paesi del Resto del mondo: strutture familiari e sistemi di
parentela opposti a quelli dell’Occidente (pag. 300).
Gran
parte dell’Occidente ha un sistema parentale bilaterale, per cui gli ascendenti
e i discendenti del padre, da una parte, e quelli della madre, dall’altro,
hanno lo stesso peso nel determinare lo status sociale del figlio/a; la
famiglia, incentrata sulla coppia, è nucleare. Il Resto del mondo è in gran
parte differente (dall’Africa occidentale alla Cina settentrionale,
attraversando il mondo arabo-persiano e includendo l’intera Russia): è
patrilineare.
Lo
status sociale fondamentale del figlio/a è definito unicamente dalla parentela
del padre. Il principio patrilineare coabita spesso con un sistema familiare
comunitario, poco o per nulla individualista. Un mondo tendenzialmente
conservatore, patriarcale e maschilista, che si oppone a emancipazione delle
donne (femminismo), omosessualità, diritti transgender e matrimoni tra persone
dello stesso sesso (pp. 312-322).
Secondo
Todd, tutto questo aiuta a comprendere il nuovo soft power conservatore russo.
“Gli occidentali considerano arretrati tutti i paesi ostili all’ideologia LGBT.
Sicuri di incarnare la modernità universale, non hanno capito che si stavano
rendendo sospetti al mondo patrilineare, omofobo e di fatto contrapposto alla
rivoluzione occidentale dei costumi. In un simile contesto, accusare con
veemenza la Russia di essere scandalosamente anti-LGBT, significa fare il gioco
di Putin” (pag. 317).
Todd
insiste sul fatto che le culture tradizionali hanno molto da temere dalle varie
tendenze progressiste dell’Occidente e resistono ad allearsi in politica estera
con gli occidentali che le sposano. In modo simile, durante la Guerra Fredda,
l’ateismo ufficiale dell’Unione Sovietica era un fattore decisivo per molti
regimi e popolazioni che altrimenti avrebbero potuto essere ben disposte verso
il comunismo. Il soft power rivoluzionario del comunismo è stato sostituito dal
soft power conservatore dell’era Putin.
Un
uomo chiamò i suoi servi e consegnò
loro i
suoi beni, la parabola dei talenti.
Ci si
avvia verso il giudizio universale.
Ildolomiti.it
- Alessandro Anderle – (14 novembre 2020) – ci dice:
La
liturgia cattolica si avvia alla conclusione della lettura del Vangelo secondo
Matteo. La parabola letta questa domenica, nota come la parabola dei talenti,
segue direttamente quella della scorsa domenica (la parabola delle dieci
vergini) e avvia verso la conclusione: il giudizio universale
Mt
25,14-30 In quel tempo Gesù disse alle folle: avverrà come a un uomo che,
partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno
diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di
ciascuno; poi partì.
Subito
colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri
cinque.
Così
anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due.
Colui invece che aveva ricevuto un solo
talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo
padrone.
Dopo
molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si
presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque,
dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati
altri cinque».
«Bene,
servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco,
ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone».
Si
presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai
consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due».
«Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo
padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte
alla gioia del tuo padrone».
Si
presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse:
«Signore,
so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non
hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto
terra: ecco ciò che è tuo».
Il padrone gli rispose:
«Servo
malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non
ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così,
ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse.
Toglietegli
dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti.
Perché
a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto
anche quello che ha.
E il
servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di
denti»
La
liturgia cattolica si avvia alla conclusione della lettura del Vangelo secondo
Matteo.
La
parabola letta questa domenica, nota come la parabola dei talenti, segue
direttamente quella della scorsa domenica (la parabola delle dieci vergini) e
si avvia verso la conclusione: il giudizio universale.
La
tematica dominante, quindi, rimane il modo in cui ogni cristiano dovrebbe
vivere in vista, ed in preparazione, all'incontro con il Padre, al ritorno di
Gesù.
Il finale lascia un poco perplessi:
perché
il Signore è così duro con il servo che, apparentemente, non ha fatto nulla di
male?
Forse
che il non fare sia esso stesso un male?
Ma se
non faccio, non posso nemmeno nuocere a nessuno.
E la
logica di Gesù non sembra forse il contrario della conclusione di questa
parabola - «perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi
non ha, verrà tolto anche quello che ha»?
Analizziamo
il racconto dall'inizio.
La
parabola si apre con un atto da parte del signore, il quale, ovviamente,
rappresenta il Padre e la sua logica.
Questo atto è particolarmente rivelante in due
dimensioni distinte: prima di tutto esso è completamente gratuito, in secondo
luogo è – si potrebbe dire – più che sovrabbondante.
È completamente gratuito perché il Signore
dona a dei servi – degli schiavi a cui nulla era dovuto – del denaro prima
della sua partenza.
Questo denaro, si badi bene, non rappresenta
un carico, un impegno, sproporzionato
. Esso
viene elargito in modo oculato, calibrato:
«A uno diede cinque talenti, a un altro due, a
un altro uno, secondo le capacità di ciascuno».
E,
nonostante questa assoluta gratuità ponderata, esso rimane comunque
sproporzionato per uno schiavo, infatti «cinque talenti costituivano una somma
ingente: un talento valeva [al tempo di Gesù] 6000 denari, pari ad altrettante
giornate lavorative» (A. Poppi).
Questo
regalo, completamente gratuito e sovrabbondante, rappresenta il Vangelo, la
“buona notizia” portata da Gesù sulla terra, il Figlio di Dio – completamente
umano quanto completamente divino – che ha svelato il vero volto del Padre
nella sua esistenza che continua.
Il Messia che ha vissuto come un servo, che è
morto in modo infamante non solo per mostrare al mondo la misericordia del
Padre, ma anche per mostrare all'uomo come dovrebbe essere, autenticamente, la
sua esistenza.
Una
vita vissuta nella passività di chi riesce a far fruttare a pieno i doni che ha
ricevuto da Dio.
Una passività che non è inattività – come
quella del servo che nasconde il dono per non disperderlo -, questa passività
si traduce nel vivere per gli altri e per il tutt'Altro che chiamiamo Dio.
In
questa dimensione che annienta l'egoismo, il cristiano, l'essere umano, trova
veramente sé stesso.
Alla
luce di questo, la conclusione non solo non appare più in contrasto con il
messaggio di Gesù, ma essa è pienamente comprensibile.
Quanta retorica si legge spesso sul tema della
morte, dimensione che viene sempre più rimossa dall'uomo contemporaneo.
Riflessioni
sulla guerra.
Mastroviaggiatore.it
– Mastro Matriosca- (17 –3 -2024) – ci dice_
Il
cuore è gonfio di strazio, rabbia, amarezza e sconforto. La mente è confusa,
stanca. Questa riflessione è rimasta per giorni a macerare.
È
stata digerita un pezzetto per volta nella speranza che nel frattempo
succedesse qualcosa che la rendesse inutile.
Eppure
è arrivato il momento di finirla e pubblicarla.
Quello
che stiamo vivendo in questi giorni è un incubo, un’oscurità di cui è difficile
percepire il fondo.
Una tragedia che colpisce il popolo ucraino e
la sua terra, che lascia sgomenti tutti noi.
Come
può essere? Come può essere possibile che stia accadendo?
Eppure
accade e ha già distrutto e mandato in frantumi tante vite.
Quelle
degli ucraini, quelle dei tanti russi che si oppongono a questa guerra.
Quelle
di tutti coloro che fanno parte del “russkij mir”, il mondo russo, che nemmeno
riescono a concepire una vita senza questo mondo e che stanno vivendo con
estrema angoscia questi avvenimenti, provando la disperazione di non poter fare
nulla.
E
allora è importante e necessario fare un punto su alcuni aspetti di questa
difficile situazione.
Non
siamo esperti di geopolitica, il nostro compito e quello di farvi viaggiare e
di farvi conoscere la Russia, quindi non ci interessa entrare nel merito di
quali siano le cause di questo conflitto.
La
prima cosa che dobbiamo dire, gridare con fermezza è che la guerra è una
follia.
La
condanna non può che essere forte e totale.
La
guerra non può essere giustificata, né tollerata.
La
guerra è come un tritacarne.
Tritura
i destini, brucia e demolisce anime, luoghi, amicizie, speranze, sogni.
La guerra è solo distruzione e macerie.
Il
cuore si spezza davanti alle lacrime di chi sta morendo sotto le bombe,
scappando, vivendo nel terrore nelle viscere di un bunker o della
metropolitana, vedendo distrutte le proprie case e la propria vita.
È
anche importante che chi come me fa parte di quella vasta e composita comunità
di russofoni, russofili, insomma di chi vive di Russia, con la Russia, in
Russia possa dare una mano a comprendere.
Assolvere
una funzione di ponte e di baluardo contro una discriminazione pericolosa di
tutto ciò che è russo.
Perché
la pace si costruisce partendo dalla conoscenza dell’altro, che poi è anche
quello che facciamo attraverso i nostri viaggi.
Attraverso
discussioni anche animate ma sempre empatiche e con” uvazhenie,” rispetto.
Una
cosa la voglio sottolineare: la Russia non è Putin.
È
vero, c’è una parte della popolazione che lo appoggia, ma i russi contro questa
guerra sono tanti.
Più di
quanti immaginiamo.
E rischiano tanto e non è giusto abbandonarli.
Le
percosse degli OMON, i fermi, la galera.
In
Russia parlare di guerra in Ucraina è considerata una “fake news” e si
rischiano anche 15 anni di carcere.
Molte
testate giornalistiche indipendenti e portali di informazione, come “Echo
Moskvy” e “Dozhd”, sono state chiuse.
Altre
si sono traferite fuori dal Paese, altre ancora hanno eliminato gli articoli
sulla guerra.
Resta
solo la propaganda.
E
purtroppo questo fa sì che una grande percentuale dei russi creda a questa
propaganda.
La
guerra non è una guerra ma “un’operazione speciale per demilitarizzare e
denazificare l’Ucraina”.
Dice che la Russia è accerchiata da nemici che la
vogliono distruggere.
Le
parole non sono usate a caso, ma abilmente per fare leva sui sentimenti della
popolazione e ottenerne il consenso.
In più
viene sbandierata una presunta autosufficienza economica per cui l’uomo comune
non si rende conto di cosa sta accadendo al Paese.
Queste
non possono essere giustificazioni!
Ma l’appoggio dato dalla popolazione non è
dovuto a puro gusto per la violenza e prevaricazione e a guerra finita sarà
importantissimo aiutare questa parte della popolazione ad arrivare ad una presa
di coscienza.
Nel
frattempo però non possiamo dimenticarci di chi si oppone e sta vivendo questa
aggressione come una vergogna.
Che dovrà sopportare il peso di umiliazioni,
della sensazione che tutto il mondo li stia odiando e delle ripercussioni
economiche.
È
giusto sostenere questa parte della popolazione e far sì che su di essa si
costruisca il futuro del Paese.
Chi
siamo noi per dire: “avevano solo da ribellarsi”, chi siamo noi per dire: “se
lo sono meritato”.
Vedo
diffondersi messaggi di odio, di soddisfazione nel vedere la Russia boicottata
ed isolata.
Ma mi
chiedo, quanti di noi si battono attivamente per cambiare ciò che non ci piace
del nostro Paese, pur avendo molta più libertà di farlo?
Non sono giudizi, solo inviti alla riflessione
perché credo che in questo momento molto difficile non dovrebbero essere
alimentati odi, razzismi e tifoserie da stadio. Ci metteremmo solo a livello di
chi ha scatenato questa guerra, in contrapposizione a quei valori che diciamo
di voler difendere.
Vedo
dissolversi il mondo e la Russia che amo e questo no, non lo posso permettere.
Un
Paese in cui la storia è sempre stata caratterizzata da grandi atti di eroismo
alternati a punte di oscurità profonda, un Paese dalla letteratura e cultura
immense e fondamentali per il mondo moderno, un Paese che ha dato molto anche
alla scienza.
Come
faccio qui sul blog e con le persone che decidono di viaggiare con noi voglio
condividere materiali e canali utili a capire di più quello che sta accadendo.
Ucraina,
riflessioni sulla guerra.
Avantionline.it
- Marco Rispoli – (7 Maggio 2024) – ci dice:
La
guerra in Ucraina si protrae oramai da oltre due anni, con alti e bassi su
entrambi i fronti.
Ma le
sorti del conflitto sembrano cambiare.
L’Occidente
è in difficoltà non riesce a garantire le promesse e gli accordi presi con
l’Ucraina.
Mosca
ha inaugurato nel Parco della Vittoria sulla “Poklonnaja Gora” una mostra di
armi ed equipaggiamenti catturati al nemico per dimostrare la forza delle Forze
Armate della Federazione Russa dal 2022 ad oggi.
Trattasi
di armi catturate a ben 12 paesi:
Stati
Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Turchia, Svezia, e altre una
dimostrazione che la Russia nonostante sia sola vince contro l’intera
coalizione Occidentale che sostiene l’Ucraina.
Il
ministero della Difesa russo ha dichiarato “La storia si sta ripetendo”
riferendosi alle vittorie contro la Germania nel 1943.
“La
forza è nella verità. È sempre stato così. Nel 1943 e oggi. Questi trofei di
guerra riflettono la nostra forza. Più ce ne sono, più siamo forti”-
“Nessun
equipaggiamento militare occidentale cambierà la situazione sul campo di
battaglia”.
In
tale situazione di crisi le forze Ucraine non riescono a tenere testa alla
possente e devastante avanzata delle armate Russe su più fronti.
L’Occidente si divide sulle modalità di come
continuare a sostenere l’Ucraina, se soltanto con l’invio di armi e
attrezzature o come vorrebbe il Presidente Macron anche con l’invio di uomini.
Lo stesso recentemente avrebbe dichiarato
irresponsabilmente che l’Occidente per ribaltare la situazione dovrebbe inviare
anche uomini ma solo se il presidente Ucraino lo richiederà in versione
ufficiale.
Una
proposta imprudente quanto irresponsabile perché non calcola le sue
conseguenze.
L’idea
di un intervento diretto da parte delle forze occidentali solleva molteplici
questioni.
Da un lato, un coinvolgimento militare più
ampio potrebbe segnare un significativo incremento delle tensioni, facendo
crescere i rischi di un confronto diretto tra le grandi potenze e quindi uno
scenario da guerra mondiale.
Dall’altro,
potrebbe essere vista come un tentativo dell’Occidente di intervenire nelle
questioni interne della Russia e dei suoi alleati, alimentando l’idea di
un’Occidente aggressivo e colonizzatore.
Nel
frattempo, la situazione in Ucraina continua a deteriorarsi.
L’economia è in crisi e le infrastrutture
civili sono state duramente colpite.
La
popolazione civile soffre di carenze di risorse di base come cibo, acqua ed
energia, mentre gli scontri intensificano la pressione su coloro che restano
nelle città e nei villaggi colpiti dai combattimenti.
L’Ucraina chiede maggiore sostegno umanitario
oltre a quello militare, ma l’Occidente è sempre più cauto nell’impegnarsi
maggiormente.
Le opinioni pubbliche in Europa e negli Stati
Uniti sono divise sulla questione.
In alcuni paesi, vi è una crescente pressione
per trovare una soluzione diplomatica al conflitto, mentre altri ritengono che
un approccio più deciso, anche militare, sia necessario per fermare l’avanzata
russa.
I
governi occidentali stanno affrontando crescenti pressioni interne per
mantenere la stabilità economica e sociale mentre tentano di navigare nel
difficile equilibrio tra sostenere l’Ucraina ed evitare l’escalation del
conflitto.
Il
presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, cerca di mantenere alto il morale del
suo popolo e delle sue truppe, anche se le condizioni sul campo sono sempre più
difficili.
Nel
contesto globale, la Cina e altri paesi emergenti mantengono una posizione
ambigua, cercando di equilibrare le relazioni con la Russia e l’Occidente.
Ciò
rende ancora più complesso il quadro geopolitico, poiché qualsiasi decisione in
uno scenario così volatile potrebbe avere ripercussioni su scala globale.
Mentre
il conflitto prosegue e le parti continuano a subire pesanti perdite, la
comunità internazionale resta alla ricerca di soluzioni diplomatiche che
possano porre fine alle ostilità.
Tuttavia,
con le parti così profondamente radicate nelle loro posizioni, il percorso
verso la pace appare ancora lontano.
Le
popolazioni europee inermi guardano con terrore l’evoluzione di questa inutile
carneficina sperando nel buon senso e nella saggezza delle scelte dei loro
leader, che per adesso appaiono confusi e incerti per cui spesso vengono
tacciati di essere assassini, criminali e nemici del futuro dell’umanità.
Perseguire
le vie della pace con ogni determinazione e mantenere la multilateralità delle
relazioni economico energetiche erano e sono le basi per il mantenimento degli
equilibri, il benessere delle popolazioni e il diradamento del clima di paura e
di morte che aleggia sull’Europa.
(Marco
Rispoli).
Riflessioni
sulla guerra.
Scrignodipandora.it
- FANTINO MINCONE – (31 Maggio 2024) – ci dice:
La
dignità umana si misura nella possibilità di conservare la pace, che è
l’elemento basilare per armonizzare il mondo nella vera civiltà.
La
guerra è assurda e, il solo pensiero di un conflitto vicino, mi toglie il
sonno, mi sembra di stare in un letto di chiodi con cuscini di vetro.
In
guerra non vince mai nessuno: crea solo morti, lutti, pianti, miserie, macerie
e desolazione!
Ci
sono pure i mercenari che vanno a combattere per la gloria o per delle
medaglie, ma nessuna medaglia può compensare una sola vita umana, sacrificata
in guerra.
Io
vorrei armarmi solo di coriandoli e, volando a bassa quota, spargere nel vento
semi di speranza…
Emozioni
malefiche e dolori atroci nell’odio che cresce con lo spirito di vendetta: il
male così fa raddoppiare la carne da macello!
L’odio
crea buio, delusioni, indifferenza, abissi ed eclissi della luce negli occhi e
nei cuori, mentre una stella ispira la speranza sulla strada della tolleranza.
Preferisco
cuori disarmati e anime immerse nella gioia, perché solo la pace regala
serenità.
Preferisco
il silenzio dei cannoni e il profumo dell’erba fresca… non quella secca
tagliata da ingiusta falce! Vorrei abbracciare con la mente e con lo spirito
tutta l’umanità sofferente, specie i bambini…
I miei
occhi, che ora vedono la realtà, vorrebbero danzare nel mondo della bontà,
sognando un mondo di pace, nell’armonia con tutto il creato.
I
cattivi si muovono sempre nell’ombra e gli intrighi creano tempestose
controversie e discordie.
Preferisco
distendermi su un prato a guardare il cielo libero da scie velenose e dai fumi
dei cannoni o dei missili, che creano voragini con polverone soffocante… e poi
lasciano città rase al suolo per conquistare pochi metri di suolo.
La
primavera invita alla rinascita e alla gioia tra germogli e fiori dai mille
colori. Che tristezza questa primavera di quotidiani bollettini di guerre, di
morti, di barbarie, di sfollati e di civili affamati.
Io
credo nella pace, ma non posso fermare le guerre…
Purtroppo
continuano eccidi e minacce (non troppo velate) anche di ordigni nucleari.
Come
il vento che corre nel deserto, la mia anima si carica di emozione quando sento
parlare di colloqui di pace e accordi tra Nazioni per fermare i conflitti.
Il
vento soffia anche su uomini di buona volontà e i tanti pacifisti che aspettano
un’alba nuova che abolisca almeno le bombe atomiche!
Basta
fiumi di sangue per tornare a ridere e sognare, per vivere la natura
rigogliosa, anche se selvaggia.
La
morte non può sempre vincere, ma la carità riporta l’uguaglianza nella nostra
società ancora xenofoba e anche razziale.
Nell’immensità
dell’universo noi, miserabili e piccoli, non capiamo che l’orgoglio è una
brutta bestia… che rende l’uomo un animale più bestia di quelle vere!
Non so
quale sarà il mio destino, ma so che solo la carità crea il senso
dell’immortalità.
La
smania di ricchezza genera sempre sentimenti di tristezza e, nell’ipocrisia di
tanti, si fa la guerra dicendo che è per la libertà o per la democrazia… ma poi
muoiono tanti innocenti e, per la sete di eguaglianza o di libertà, ancora una
volta il cielo si sgretola.
Allora
il male può vincere sul bene?
Mi
piace viaggiare nell’immensità del bene nascosto sotto la cenere, pronto ad
infiammare i cuori dei potenti della Terra.
Aspetto un vento d’amore a rincuorare il
coraggio di trattare dopo il cessato il fuoco.
E non
mi si venga a dire che dovrebbe intervenire il Padre Eterno.
Lui ci
ha dato la preziosissima libertà di scegliere tra il bene e il male!
Lui
tace e forse è meglio così, se no forse sarebbero fulmini e saette sull’uomo,
che ha dimenticato il comandamento dell’amore fraterno.
A
questo punto preferisco anch’io il silenzio, silenzio di riflessione
costruttiva, sperando in interventi di pace in questa amara Terra d’ingiustizie
e confusione.
Nell’umiltà
scopriremo la verità e nell’amore fraterno, che scioglie il buio delle tante
sofferenze, per trovare il bene negli altri e creare veramente un ipotetico
mondo d’amore.
Utopia
sognare un mare di bontà e un oceano di pace?
La
guerra è cambiata.
Iltascabile.com
- Flavio Pintarelli – (11 – 1 – 2024) – ci dice:
(Flavio
Pintarelli è uno scrittore e un consulente strategico di marketing e
comunicazione. )
Sull’uso
crescente delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale nei
conflitti armati in Ucraina, Striscia di Gaza e Nagorno Karabakh.
Sono
le tredici e sei minuti del 26 febbraio 2022 quando il giovanissimo
imprenditore ucraino e ministro della trasformazione digitale del governo
Zelensky, “Mykhailo Fedorov,” pubblica un tweet menzionando l’account di “Elon Musk”, il magnate che di lì a
due mesi diventerà proprietario della piattaforma acquisendola per la cifra
record di 44 miliardi di dollari.
Sono trascorsi solo quattro giorni da quando
le truppe della Federazione Russa hanno lanciato una massiccia operazione
militare contro l’Ucraina, con l’obiettivo di rovesciare il governo
regolarmente eletto per sostituirlo con un gabinetto più favorevole alla
politica imperialista del presidente Vladimir Putin.
Rivolgendosi
direttamente a Musk, Fedorov gli ricorda che “mentre lui sta cercando di
colonizzare Marte, la Russia prova a occupare l’Ucraina”, e fa notare che se i
suoi razzi atterrano con successo dallo spazio, “quelli russi colpiscono la
popolazione civile del paese”. Il tweet si conclude con la richiesta esplicita
di fornire all’Ucraina alcuni terminali Starlink.
Sviluppato
dall’azienda “SpaceX “di cui Musk è proprietario, “Starlink” è il sistema di
internet a banda larga più avanzato al mondo.
Grazie
a una vasta costellazione di satelliti che utilizzano una bassa orbita
terrestre, Starlink fornisce connettività per una vasta gamma di utilizzi,
offrendo internet ad alta velocità e bassa latenza in tutto il pianeta.
La
risposta del magnate arriva non più di dieci ore dopo il tweet di Fedorov: nel
tweet di commento, “Musk”dichiara apertamente che il servizio Starlink è stato
attivato in tutto il territorio ucraino e che altri terminali sono in viaggio
verso il paese.
Se la
storia di questo scambio finisse qui, sarebbe uno straordinario apologo su come
i social network possono influenzare le relazioni diplomatiche tra un paese
sovrano e una multinazionale tecnologica.
Ma la storia, purtroppo, ha un seguito
tutt’altro che trascurabile.
La
guerra continua a basarsi su concetti e tecnologie tradizionali ma, al tempo
stesso, presenta elementi di profonda innovazione.
Avanti
veloce:
l’8 febbraio 2023, Gwynne Shotwell, presidente
e COO di SpaceX, dichiara di aver preso provvedimenti atti a prevenire che
l’Ucraina faccia un uso militare di Starlink.
Non
c’è mai stata, dice Shotwell, l’intenzione, da parte dell’azienda, di fornire
kit satellitari per gli usi bellici che ne sono stati fatti dalle forze armate
ucraine.
Tali utilizzi non erano intenzionali né
facevano parte di alcun accordo tra l’azienda e il governo ucraino.
Altro
salto in avanti:
il 7
settembre del 2023 il “Washington Post” pubblica un estratto dell’autobiografia
di Musk in cui il miliardario racconta allo scrittore “Walter Isaacson” di aver
dato l’ordine di tagliare la copertura Starlink al largo della Crimea, per
impedire un attacco di droni ucraini contro la base navale russa di “Sebastopoli”.
In
entrambe le circostanze, vibranti proteste e richieste di spiegazioni sono
state avanzate da ministri e alti funzionari del governo ucraino.
Si
potrebbe essere tentati, leggendo il racconto del travagliato rapporto tra il
governo ucraino e Musk, di dedicare le proprie energie a capire quali siano
state le motivazioni che hanno spinto il miliardario ad agire in modo così
schizofrenico.
Ma la
questione centrale non è tentare di comprendere le scelte di “Elon Musk”,
quanto riconoscere il fatto che la connettività sia diventata, oggi, un
requisito fondamentale per poter svolgere una delle più antiche attività umane
di cui si abbia conoscenza: la guerra.
Come
ebbe a dire uno dei suoi teorici più importanti, “Carl von Clausewitz,” la
guerra è un’attività conservatrice e in constante cambiamento allo stesso
tempo: ogni
guerra è perciò il precipitato della conoscenza generata da ogni altra guerra
che l’ha preceduta, aggiornato alle più recenti acquisizioni tecnologiche,
intellettuali e contestuali.
Che
l’intuizione di “Clausewitz” sia ancora valida lo racconta non solo l’invasione
dell’Ucraina, ma anche la guerra nel “Nagorno Karabakh” e i più recenti
conflitti armati sulla Striscia di Gaza.
Dall’importanza
dell’artiglieria a quella delle trincee e dell’effetto sorpresa, questi tre
conflitti hanno dimostrato come la guerra continui a basarsi su concetti e
tecnologie tradizionali ma, al tempo stesso, presenti elementi di profonda
innovazione.
Elementi
evidenti al punto da aver spinto “Mick Ryan,” generale in pensione
dell’esercito australiano, analista e divulgatore militare, a definire questi
tre conflitti a “transformative trinity”, “una trinità trasformativa”.
A un
sistema d’arma autonomo verrebbe a mancare la distinzione tra quello che è
legale e quello che è giusto.
A
giustificare questa definizione sono soprattutto tre elementi:
la
complessa e intrecciata rete di sensori civili e militari presente sul campo di
battaglia;
la
digitalizzazione delle infrastrutture e dei processi di comando e controllo; l’utilizzo sempre più esteso di
sistemi autonomi e di contromisure volte a limitarne o inibirne le capacità.
Il primo di questi tre elementi è conseguenza
diretta della nascita e dello sviluppo delle comunicazioni satellitari e della
rete internet, che hanno permesso di integrare la connettività in un numero
sempre crescente di oggetti i quali, grazie ai sensori di cui sono dotati,
possono raccogliere e generare dati da condividere in rete.
Una
logica che è stata abbracciata dalle istituzioni militari di tutto il mondo fin
dagli anni ’90 del Novecento, grazie all’elaborazione del concetto di “network
centric warfare” (“guerra centrata sulle reti”), una dottrina militare che ha
come obiettivo quello di trasformare in un vantaggio competitivo l’informazione
garantita da una robusta rete di computer dispersi geograficamente.
Dunque
attraverso la condivisione di informazioni raccolte sul campo di battaglia e il
collegamento in rete delle diverse forze alleate, l’approccio alla guerra
centrato sulle reti aumenta la consapevolezza condivisa della situazione sul
campo, la velocità di comando, il ritmo operativo, la letalità, il tasso di
sopravvivenza e il grado di sincronizzazione di una forza militare.
Ai
network di carattere militare si aggiungono oggi quelli di natura civile, dando
vita a una rete di intelligence sempre più intrecciata e in grado di generare
dati che gli operatori militari possono integrare nella loro attività,
moltiplicando così la quantità dell’informazione a loro disposizione.
La
creazione di questo genere di reti e l’aumento dei dati che determinano hanno
esteso e velocizzato la capacità di raccogliere informazioni in tempo reale
utili a sviluppare una più chiara e profonda consapevolezza delle situazioni
che le forze militari si trovano ad affrontare in un determinato momento.
Questa capacità di sviluppare consapevolezza
si traduce nella progressiva e crescente digitalizzazione delle infrastrutture
e dei processi di comando e controllo, che è stato uno dei più importanti
fattori di innovazione nelle operazioni condotte dalle forze armate ucraine
contro l’invasione da parte della Federazione Russa.
La
‘guerra centrata sulle reti’ ha mostrato il potenziale di un conflitto armato
condotto attraverso l’uso di software e logiche algoritmiche.
Per
quanto a guadagnarsi le prime pagine dei giornali siano stati i sistemi d’arma
come lo “Stinger”, gli “HIMARS” o i carri armati Leopard, ad averne
moltiplicato in modo esponenziale l’efficacia sono stati i network in grado di
connetterli gli uni agli altri, dimostrando tutto il potenziale di una guerra
condotta attraverso l’uso di software e logiche algoritmiche.
Esemplare in questo senso è il software di
consapevolezza situazionale denominato” Delta”:
sviluppato
dall’industria bellica ucraina a partire dal 2017, Delta è diventato
rapidamente uno dei software di comando e controllo più sofisticati al mondo,
permettendo l’integrazione di una grande mole di dati e la loro condivisione in
tempo reale lungo l’intera catena operativa.
Delta
ha anche facilitato l’introduzione di una tecnica di comando più
decentralizzata e flessibile, che ha permesso un’evoluzione della cultura
tattica ucraina verso logiche di gestione simili a quelle che caratterizzano le
organizzazioni nate dalla cultura digitale.
Il
terzo e ultimo elemento di innovazione emerso dalla “trinità trasformativa”
individuata da “Ryan” è il complesso di sistemi autonomi e le contromisure
necessarie per limitarne o inibirne le capacità.
Di questo complesso fanno parte i diversi tipi
di droni – aerei, navali e terrestri, militari e civili – che sono stati
utilizzati in modo crescente nel corso di tutti e tre i conflitti analizzati e
per una molteplicità di scopi che vanno dalla ricognizione al controllo del
tiro, dal bombardamento aereo al trasporto di equipaggiamento, fino
all’evacuazione di personale ferito e a molti altri utilizzi ancora.
L’introduzione e l’uso sempre più esteso di
questi tre elementi – reti di sensori, digitalizzazione delle infrastrutture di
comando e sistemi autonomi – sui campi di battaglia odierni determinerà una
serie di importanti implicazioni nel prossimo futuro.
In
risposta e in relazione alla loro introduzione emergeranno infatti nuovi
concetti a livello strategico, operativo e tattico;
l’elevato tasso di consumo dei sistemi che ne
rendono possibile l’utilizzo renderà necessario accelerare e rendere più
resilienti al rischio le operazioni di approvvigionamento;
il
design delle forze armate verrà modificato dall’introduzione di nuove unità
come, per esempio, quelle dedicate alle operazioni di guerra elettronica e di
gestione delle segnature elettromagnetiche dei diversi sistemi utilizzati sul
campo. Infine, ed è forse la principale tra le implicazioni determinate dalla
comparsa delle reti di sensori, dalla digitalizzazione delle infrastrutture e
dei processi di comando e controllo e dai complessi di sistemi autonomi,
assisteremo a un cambio nel ritmo delle operazioni tattiche.
Il “software
Delta” ha facilitato logiche di comando più decentralizzate e flessibili,
simili a quelle che caratterizzano le organizzazioni nate dalla cultura
digitale.
La
maggior accuratezza nel “dipingere” il campo di battaglia che deriva dalla
combinazione di questi tre fattori determina infatti un’accelerazione del
processo decisionale che modificherà il modo in cui i leader militari saranno
addestrati e aumenterà il numero dei sistemi autonomi presenti sul campo di
battaglia.
Tale accelerazione non sarà priva di
conseguenze, perché porrà ai leader militari una sfida rispetto alla loro
capacità di gestire enormi quantità di informazione al ritmo sempre più rapido
necessario per garantirsi un vantaggio competitivo sul nemico.
L’introduzione dell’intelligenza artificiale nei
processi di comando e controllo è perciò destinata a diventare una necessità
sempre più impellente per far fronte all’aumentata capacità di generazione e
raccolta dei dati resa possibile dalla diffusione di reti di sensori sempre più
vaste ed estese.
Uno
sguardo sulle possibili conseguenze che potrebbe avere questo passaggio nel
modo in cui verranno condotte le guerre del futuro ce lo fornisce una lunga
inchiesta realizzata dai magazine israeliani +972 e Local Call, intitolata ‘A mass assassination factory’:
Inside Israel’s calculated bombing of Gaza.
Attraverso testimonianze raccolte nella community
dell’intelligence israeliana, l’inchiesta ricostruisce il modo in cui sono
stati condotti attacchi aerei contro obiettivi civili nel corso della recente
invasione della Striscia di Gaza e il ruolo avuto hanno spinto sulla
digitalizzazione dei diversi domini del campo di battaglia e sulla loro
integrazione in un sistema di generazione, raccolta, elaborazione e
condivisione dei dati, la cui gestione è demandata all’intelligenza artificiale.
È da
questo sforzo che è nato il sistema al centro dell’inchiesta pubblicata da +972
e Local Call.
Denominato
“Habsora”, questo sistema di intelligenza artificiale lavora su diversi tipi di
dati di intelligence (visivi, umani, geografici, di sorveglianza, derivanti da
segnali elettromagnetici) ed è in grado di usare strumenti automatici per
accelerare il ritmo della produzione di obiettivi da colpire.
Alcune delle testimonianze raccolte tra il
personale delle forze di difesa israeliane assicurano che il sistema permette
di analizzare ed elaborare quantità di dati che nemmeno decine di migliaia di
operativi umani potrebbero processare e, in questo modo, riesce a fornire in
tempo reale enormi quantità di obiettivi da colpire.
Le
nuove tecnologie adottate nel campo di battaglia stanno accelerando il ritmo
delle operazioni tattiche.
Introdotto
per la prima volta nel 2021 nel corso dell’operazione “Guardians of the wall”, salutata come il primo conflitto
armato condotto con l’uso dell’intelligenza artificiale, Habsora è stato in grado di aumentare il
numero di obiettivi creati dai circa 50 all’anno delle operazioni precedenti
fino a 100 obiettivi al giorno, sopperendo così alla mancanza di obiettivi che
in passato aveva limitato l’azione delle forze di difesa israeliane.
Numeri che giustificano la dimensione
industriale che molte delle testimonianze raccolte nell’inchiesta attribuiscono
al modo in cui il sistema fa evolvere la pianificazione e l’esecuzione dei
bombardamenti.
Questa
dimensione è uno degli aspetti più inquietanti che la prospettiva di una guerra
condotta con l’ausilio di sistemi di intelligenza artificiale proietta sul
nostro futuro.
Tali
sistemi, infatti, operano in modo più rapido del pensiero umano, accelerando
ulteriormente il processo necessario a trasformare i dati in conoscenza che
informa l’azione.
Qualora
gli utilizzi bellici dell’intelligenza artificiale venissero spinti al loro
limite estremo, a essere reso autonomo dal controllo umano sarebbe dunque
l’atto di uccidere che, delegato all’AI, porrebbe problemi etici di notevole
portata.
Lo
scopo di un sistema autonomo, infatti, è capire e soddisfare un bisogno: più
che eseguire un compito, questi sistemi devono raggiungere un obiettivo,
valutando il modo più efficiente per farlo e agendo senza alcun istinto di
conservazione.
A un
sistema d’arma autonomo verrebbe perciò a mancare la distinzione tra quello che
è legale e quello che è giusto, cancellando ciò che rende ogni soldato
l’ingranaggio imperfetto di ogni macchina militare:
la sua coscienza, senza la quale alla guerra
verrebbe a mancare quell’elemento così profondamente umano che è la capacità di
riconoscere sé stessi nello sguardo dell’altro.
Priva
di questo elemento, la guerra non sarebbe altro che la cieca e spietata
esecuzione di ordini e istruzioni dirette al raggiungimento di un obiettivo,
un’attività del tutto priva di quell’istinto di conservazione che, finora, ha
garantito all’umanità la sopravvivenza in un’epoca di armi di distruzione di
massa.
Come
l’Ucraina ha cambiato
la mia
vita (e potrebbe
cambiare
anche la vostra).
Linkiesta.it – (2 aprile 2024) - Gianluigi
Ricuperati – ci dice:
Dopo
il 24 febbraio 2022, il Paese è diventato un enorme trasformatore di anime
europee, nell’unico continente dove l’aspirazione a una vita decente è una
reale possibilità.
Sono
passati più di 24 mesi dal 24 febbraio che ha cambiato la Storia d’Europa e, se
nei primi tempi contavamo i giorni dall’inizio dell’invasione, adesso siamo nel
’24 – i giorni sono diventati anni, e l’Ucraina esiste ancora, anzi esiste più
che mai.
Anzi,
esiste a un livello dello spirito che la gran parte delle nostre esistenze non
conosce, e rischia di non incrociare mai, se non abbraccia in modo completo e
con responsabilità illimitata questa causa.
Che è la nostra causa.
Molti
conoscenti ucraini invece non esistono più, se non nella luce perfetta del
ricordo di una vita giusta.
Io sono qui, sono stato in Ucraina otto volte,
ho visto la mia vita familiare cambiare e tremare e infuriarsi e gioire:
ho
immaginato con frequenza allarmante questa scena:
i miei
figli italiani e ucraini, sette e quattro anni, non sono piccoli ma hanno
diciotto anni e mi dicono:
«Andiamo a difendere la nostra terra».
I
figli rimangono sempre piccoli nell’occhio tenero dei genitori, anche quando
sono adulti, figuriamoci quando stanno in una trincea con 20 gradi sotto zero rispondendo
agli assalti di un’armata infinita inviata dal regime più abietto del mondo per
ammazzarli.
Certo,
per me questi due anni sono stati una guerra in casa.
Ma
vorrei allargare lo spettro delle parole e dei pensieri.
L’Ucraina è infatti un luogo della Storia – e
della Geografia – che può cambiare la vita di ogni occidentale.
L’Ucraina post 24 febbraio 2022 è un
gigantesco trasformatore di anime europee, e noi sappiamo ormai che l’Europa è
il solo continente dove l’aspirazione a una vita decente è una reale
possibilità, per centinaia di milioni di persone, grazie al mix irripetibile di
democrazia liberale, istanze sociali, diritti civili e “capitalismo temperato”.
Un
valore immenso, fragilissimo.
Ma l’Europa, prima del 24 febbraio, non
sembrava averne piena contezza.
Come sempre accade quando si rischia di
perdere qualcosa di assai prezioso, le coscienze si risvegliano e la
contemplazione burocratica del cosmo contemporaneo (leggi: Bruxelles) si è
fatta finalmente azione, il vestito vibrante che una bandiera fatta di stelle
meriterebbe.
Gli
ucraini – con il loro sacrificio umano, pagato da una generazione di figli
magnifici, madri distrutte, cuori straziati – ci hanno detto con chiarezza che
sognano l’Europa, e questo sogno lo pagano con la vita.
Questo
sogno è più importante della fondamentale vita dei singoli, ma può trasformare
le vite di tutti noi, singoli europei privilegiati dal nostro portfolio di
diritti e vantaggi acquisiti senza fatica.
Molti
europei – per fortuna molti europei che contano, Ursula von der Leyen e Mario
Draghi in testa – lo hanno capito fin da subito.
Tanti
altri, fra i quali molti italiani storditi e distratti da “TikTok”, non lo
hanno capito neppure adesso, decine di migliaia di morti dopo.
Lo
ripeto: l’Ucraina – la sua resistenza, la sua bellezza sfregiata, la sua
popolazione, la sua causa adamantina, i suoi confini, il suo esempio continuo –
rappresenta la più rilevante chance di cambiamento del modello psichico europeo
dal 1989.
Invito
tutti, non solo chi è invischiato con carne e sangue, ma proprio tutte e tutti
ad avvicinarsi a questo trasformatore di anime e a lasciarsi trasformare.
Non
parliamo di geopolitica.
Non
parliamo di strategie militari.
Non
parliamo di Donald Trump, non parliamo di Volodymyr Zelensky o di Valeriy
Zaluzhnyy, non parliamo degli aerei da caccia che pure salverebbero tante vite.
Non parliamo delle armi, che, se usate bene, liberano.
Parliamo
di come possiamo cambiare, farci cambiare, migliorare, a dispetto della
volgarità di cui siamo spesso complici, a dispetto dei nostri difetti
congeniti, a dispetto della nostra fortuna o sfortuna.
Parliamo
di vite che si possono scolpire per il meglio.
Questa
è la storia di come la vita di un uomo sia stata trasformata dalla
frequentazione coordinata e continuativa di questa missione;
e di
come l’urgenza della guerra abbia migliorato un quarantenne pieno di cose che
non vanno, a volte trafitto da meravigliosi colpi di fortuna, spesso incastrato
dai propri abiti impietriti – di come un orizzonte vero si sia prodotto
nell’aria viziata di una stanza tutta per sé.
L’uomo,
lo scrittore – e molte altre cose, non sempre buone:
infatti
ero così assorbito dalla necessità di “Me” che cercavo disperatamente di
moltiplicare la varietà – sono io, e chiedo a chi legge di andare su” iTunes “o
su “Spotify” e aprire al minuto 2.11 la canzone di “David Bowie Time”, una
delle più intense ballate al pianoforte mai scritte.
Sentirete
la voce del cantante che respira. Per due secondi.
Poi mettete ’Tis a Pity She Was a Whore, scritta quasi cinquant’anni dopo.
Sentirete
il respiro di un uomo anziano, minato nel corpo, ma pieno di immaginazione
pronta a spiccare il volo (l’immaginazione è qualcosa che prima viene scavata e
poi prende subito il volo: tipo i video al rallentatore di cavallette e altri
insetti alati, una forma di invenzione che è sempre in anticipo
sull’inventario).
Il
respiro è un elemento fondamentale del pensiero buddista.
Nessuno che non riesca a respirare potrà
avvicinarsi a “jivanmukta”, lo stato di liberazione in vita.
Perdere
sé stessi. Perdere tutto. Donare sé stessi.
Donare
più di quanto si possiede, pur sapendo di non possedere nulla. Come scrive “René
Daumal” in uno dei suoi appunti:
«Sono
morto perché non ho desiderio. Non ho desiderio perché penso di avere qualcosa.
Cercando di dare si vede che non si ha niente. Vedendo che non si ha nulla si
cerca di darsi, Cercando di darsi si vede che non si è nulla, Vedendo che non
si è nulla si cerca di diventare, Cercando di diventare si vive».
Vorrei
raccontarvi come queste parole e gli ultimi 24 mesi di guerra hanno cambiato la
mia vita.
All’inizio,
l’Ucraina è diventata il secondo Paese di tanti che hanno lavorato,
amplificato, svuotato le tasche e faticato per aprire quante più porte
possibili a chi fuggiva dalla furia organizzata e immorale di questa guerra di
invasione.
Fino a
questo evento traumatico, non avevo mai coltivato un ideale.
Forse delle idee, ma non un principio.
Uso la parola “coltivare” non a caso.
Gli ideali sono come rami, radici e tronchi,
foglie, pistilli e petali. Certo.
Avevo dei valori, come tutti.
Ma non
andavano molto oltre ciò che è giusto aspettarsi da un essere umano: proteggere
la propria famiglia, amare i propri figli, astenersi dal pianificare azioni che
incutono paura e dolore a coscienze innocenti.
Non
parlo di mentire e di essere coerenti, perché tutti mentiamo e proliferiamo in
un tribunale di contraddizioni permanenti.
Su
alcune cose, inoltre, la mia posizione morale è stata ben al di sotto delle
aspettative anche mediocri.
Il
grande scrittore “Hermann Broch” ha scritto che il cuore ha bisogno di occhi
bagnati di lacrime per potersi avvicinare all’indicibile e all’invisibile.
Per
trasformarci, dobbiamo entrare in comunione con gli altri.
Perché il cuore che percepisce il dramma degli
altri può, trasformando gli altri, cambiare noi stessi.
Non
era questa la lezione che “Viktor Emil von Gebsattel” chiamava la comunità di
destino?
Il
desiderio di sintonizzare il nostro cuore sulle frequenze d’onda degli altri
per costruire un ponte.
L’ideale
di cui parlo è la resistenza del popolo ucraino, l’accoglienza dei rifugiati,
il sostegno radicale e incondizionato alle politiche di difesa della sovranità
territoriale dell’Ucraina, al suo ingresso in Europa e alla sua adesione alla
Nato, che è di fatto il solo modo pragmatico di non farsi spazzare via dal
mostro;
ma
anche alla promozione e alla diffusione della specifica caratura culturale
dell’Ucraina, la sua musica poesia arte contemporanea letteratura.
Si
tratta di un ideale quadrato, schietto, forse semplice, ma inscritto in un
cerchio più ampio, quello dell’ormai furiosa certezza che non esiste al mondo –
sul pianeta – un modo di vivere più rispettoso della fragilità individuale di
quel sistema imperfetto di principi e relazioni che chiamiamo “democrazia
liberale occidentale”.
Comunque
la si prenda, non si può trovare niente di meglio.
Per
questo modo di vivere si può sacrificare tutto, perché tutti gli altri modi
sono carnivori: mangiano le anime, i corpi, invertono la freccia del tempo e
generano il caos, e il caos – e qui arrivo al punto – è il brodo in cui muoiono
prima i deboli, gli spaventati, i feriti, le poetesse e le artiste.
E le persone giuste.
Negli
ultimi settecento trenta giorni, viaggiando per otto volte a Lviv, Kyjiv,
Kharkiv, Kramatorsk, Osgorod, Poltava, Odesa, Vinnytsya, Ternopil,
Ivano-Frankivsk, ho avuto a che fare con persone giuste, ma anche deboli,
spaventate, impaurite, ferite.
Ma
pure con persone innamorate della vita per come si presenta nella sua forma più
cristallina, cioè immediata e piena coscienza di essere-nel-mondo.
E
questo principio si è incarnato come un albero nella mia carne, diventando un
groviglio vivente:
ogni
forma di questo groviglio, ogni foglia di questo arboreto dice: i deboli, gli
impauriti, gli spaventati, i feriti, ma anche gli allegri-nei-rifugi, i
desideranti-sotto-le-bombe, le donne incinte e i bambini in fila verso i
rifugi, gli speakeasy aperti con parole d’ordine, le portatrici fiere di
critiche e incazzature contro il proprio governo («È per questo che muoiono i
nostri ragazzi, per la libertà di liberarci anche di Zelensky se il popolo lo
vorrà»), e ancora i difensori delle arti e dei musei-nonostante-tutto, e i
coriacei ricostruttori di Bucha e Irpin.
Ecco,
ognuna di queste creature incontrate, chiamate, supportate e sopportate
talvolta, sono diventate ai miei occhi il vero tesoro della scena umana, perché
sono come noi, e però migliori di noi.
Gli ucraini non sono un’astrazione.
Sono
te che leggi, e che però aspiri a una vita migliore, mettendo a rischio tutto
ciò che hai, fino al sacrificio completo.
A me –
che come te sono intrappolato da problemi di soldi, ambizioni e desideri, permalosità
e cattiverie quotidiane, felicità e psicofarmaci, vacanze e stupide mancanze –
pare un esempio.
Diventare esempi. Vogliamo seguirli?
La
pandemia, le guerre, il clima.
Il
pianeta ha sempre più fame.
Avvenire.it - Maurizio Martina – (6 novembre
2024) – ci dice:
Dopo
il Covid la crisi alimentare è tornata ad acuirsi a un ritmo che non ha
precedenti: pesano le tensioni geopolitiche.
Nel
Sud del mondo si lotta per l’approvvigionamento. Cibo è vita.
In un
mondo dove si getta un terzo del cibo prodotto, 2,8 miliardi di persone non
hanno accesso a una dieta sana:
dalle regole inadeguate agli eccessi
speculativi, nel piatto uno specchio delle diseguaglianze economiche globali.
Con lo spazio mensile “Cibo è vita”, che
inizia oggi a cura di Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao,
approfondiamo i grandi temi che incidono sulla sicurezza alimentare globale.
L’obiettivo
“Fame Zero” indicato nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dalle Nazioni
Unite è ancora molto lontano.
I
paradossi dell’abbondanza sono evidenti: milioni di persone soffrono di
malnutrizione mentre molti altri di obesità e ogni giorno sprechiamo sulle
nostre tavole almeno un terzo del cibo che produciamo nei campi.
Il
cambiamento climatico impatta su tutte le agricolture del mondo, e scienza e
innovazione sostenibile possono offrire nuove soluzioni.
Comprendere
la centralità di questi argomenti e la loro connessione profonda con i temi
della pace e della giustizia sociale sarà sempre più importante per capire
quanto la comunità internazionale saprà affrontarli garantendo davvero il bene
comune.
C’è un
passaggio forte del libro “Fame” di Martin Caparròs che mi è rimasto in mente.
L’autore
chiede a una ragazza nigerina che cosa avrebbe scelto se un mago le avesse
offerto la possibilità di ricevere qualsiasi cosa.
La
risposta della giovane madre fu disarmante: una vacca.
E
incalzata a chiedere di più al mago, la sua replica fu altrettanto secca:
«Allora due vacche.
Così
una sfamerà i miei figli e con l’altra potrò vendere qualcosa e non avere più
fame».
Ecco,
sta tutto qui.
A
dispetto di certe previsioni del passato, la fame rimane un gigantesco problema
del nostro tempo.
C’è stato un momento, in particolare nella
fase della globalizzazione a cavallo dei due secoli, in cui queste urgenze
sembravano scemare.
L’agenda del mondo parlava di petrolio, di gas
e poi ancora di Internet e della nuova finanza legata alla rete.
Ma si
rifletteva poco su cibo e fame.
Se ne
parlava di fronte a grandi drammi umanitari.
Poi,
passata l’onda emotiva, il silenzio.
Il
fatto è che in qualche modo si pensava che il mondo fosse riuscito a prendere
la via del superamento della fame.
Dati e
analisi ci hanno dimostrato che certamente sono stati compiuti significativi
passi, soprattutto in alcune realtà cruciali.
Pensate alla Cina o al Brasile, ad esempio.
Da
quando la “Fao” ha cominciato a misurare la “fame nel mondo” abbiamo
attraversato un periodo di lento progresso, che ha portato la stima dai circa
920 milioni di persone per il 1970 ai 785 milioni nel 2000.
Da
allora, una stasi – se non addirittura un peggioramento, nel periodo fino al
2005, quando si sono superati di nuovo gli 800 milioni.
Tra il 2005 e il 2015 si è avuto il progresso
più rapido che ha portato a ridurre la cifra al di sotto dei 600 milioni, a cui
ha fatto seguito però di nuovo un arresto nel progresso, fino al 2020, quando
la pandemia ha imposto un peggioramento che ancora non siamo riusciti a
invertire.
Il tasso di aumento della fame negli ultimi
quattro anni non ha precedenti nella storia recente.
Nel
2023 una persona su undici in tutto il mondo e una persona su cinque nella sola
Africa è stata vittima della fame.
Il fatto è che il mondo è arretrato di
venticinque anni precipitando ai livelli si sottoalimentazione paragonabili a
quelli di inizio millennio.
Ma
cosa è successo?
In questi anni, la combinazione di almeno tre
crisi ha cambiato lo scenario anche in fatto di insicurezza alimentare:
il covid con i suoi effetti di medio-lungo
termine, l’esplosione di nuovi drammatici conflitti e guerre, la crisi
climatica.
Covid,
conflitti e clima:
sono
le tre c della crisi alimentare globale.
La
pandemia ha colpito duramente i più fragili, anche in materia di
approvvigionamento alimentare e i suoi effetti concatenati ad altre variabili
si fanno ancora sentire.
Si calcola che siano oltre cento milioni le
persone entrate nell’area dell’insicurezza alimentare a causa della pandemia.
Pensate al connubio Covid-crisi energetica,
aggravata in particolare dalla guerra in Ucraina.
Le
conseguenze sulla crescita dell’inflazione alimentare in tanti paesi sono state
immediate e ancora troppe realtà stanno scontando aumenti di prezzi
insostenibili.
Le guerre rimangono la causa principale della
fame.
E ciò
è tanto più vero oggi, con quello che sta accadendo in Medio Oriente.
È
cambiato il secolo, sono arrivati droni e satelliti, ma i conflitti portano
ancora trincee, sfollati, fame e sete usate come strumento di guerra.
Non
finirà mai la fame se non finiranno le guerre; è un’amara verità anche
nell’anno 2024.
E poi,
la crisi climatica.
Con il suo portato ormai strutturale ovunque e
il grave rischio di perdere parti essenziali del patrimonio di biodiversità
globale.
Con l’estremizzazione sempre più frequente
degli eventi atmosferici, tra inondazioni e siccità, e l’aumento delle
temperature che modifica i cicli di vita delle piante e della natura, muta le
agricolture, i paesaggi rurali e le vite di milioni di persone.
Tutto
ciò provoca effetti dirompenti.
Basta
pensare all’oro blu, ossia all’acqua, che in alcune zone varrà più del
petrolio. O alle migrazioni interne ai paesi più colpiti, in aree fragili come
l’Africa, all’iper-urbanizzazione di queste realtà che diventerà un mega trend
nel ventunesimo secolo.
Ma
occorre pensare anche alle nuove zoonosi e ai virus, al bisogno di comprendere
sempre di più che la salute dell’uomo è intrinsecamente legata a quella degli
animali e della natura.
Mai
dimenticare che la mappa globale della fame si sovrappone a quella della crisi
climatica.
Così
come a quella del debito dei paesi più fragili. Perché il nesso è stringente.
Si
capisce anche da questa sommaria ricognizione delle grandi faglie che
compongono l’insicurezza alimentare che il tema è centrale per le nostre sorti.
Ma oltre le tre “c” di clima, conflitti e Covid, i
sistemi agricoli e alimentari sono attraversati da profonde ineguaglianze.
Papa
Francesco ha parlato giustamente dei paradossi dell’abbondanza:
In un “sprechiamo
un terzo del cibo” che produciamo mentre 2,8 miliardi di persone non hanno
accesso a una dieta sana;
abbiamo
milioni di affamati e allo stesso tempo milioni di persone con problemi di
obesità.
In
mezzo, la piaga del lavoro minorile e del caporalato che dobbiamo estirpare.
Senza dimenticare mai il ruolo chiave delle donne.
Le contraddizioni sono profonde.
Le
catene del valore sono sbilanciate verso gli anelli più forti, a scapito di
agricoltori, allevatori e pescatori.
Il
loro potere contrattuale troppo spesso è fragile e disorganizzato.
I
prezzi risentono strutturalmente di questo squilibrio e sempre più
frequentemente non consentono ai produttori di trovare la giusta remunerazione.
I mercati hanno bisogno di regole più forti e
giuste.
Certamente,
non hanno bisogno di nuovi istinti protezionistici, che hanno sempre fatto
pagare il prezzo più caro proprio agli anelli fragili delle catene produttive.
Il
discorso è complesso ma non si può eludere e riguarda anche le politiche
protezionistiche dei paesi più forti e il ruolo assunto dai paesi a basso
reddito, diventati sempre più importatori.
Le
speculazioni finanziarie sui beni agricoli non sono solo una intuizione
cinematografica, come in “Una poltrona per due”.
Nel mondo reale esistono e hanno bisogno di
essere affrontate con regole capaci di impedire le peggiori azioni lucrative ai
danni dell’economia reale.
Dove i
“derivati” valgono decine di volte più dei raccolti reali.
Eppure c’è un enorme bisogno di buona finanza per
sostenere la trasformazione dei sistemi agroalimentari:
oggi meno del 4% della finanza globale per il
clima viene investita nel settore primario. Troppo poco.
E
sempre di più dovremo occuparci dei diritti di accesso alla terra e della
finanziarizzazione del prezzo della terra con i grandi rischi che ne stanno
derivando.
La
curva demografica ci dice che la popolazione mondiale crescerà ancora.
La
sfida di «produrre meglio consumando meno» è una questione che punta al cuore
del nuovo equilibrio necessario per l’umanità e il pianeta.
La
scienza e l’innovazione possono essere decisive, com’è accaduto in passato
lungo tutta la storia agricola dell’uomo.
La
nuova genetica sostenibile, ad esempio, può essere decisiva per raccolti
resilienti al clima.
Il
benessere animale sarà altrettanto cruciale.
L’utilizzo
dei dati per prevenire, non sprecare, altrettanto.
Il
punto, anche qui, sarà con quale grado di pari opportunità potremo dotare chi
ha un maggior bisogno di queste innovazioni.
Perché
senza un equilibrio nelle proprietà e nell’utilizzo di queste novità rischiamo
che il solco tra forti e deboli si allarghi.
E qui
emerge la funzione indispensabile delle istituzioni, specie quelle nazionali e
sovrannazionali, per regolare e indirizzare questo avanzamento decisivo.
Il
multilateralismo è in crisi ma la risposta non è abbatterlo, ma rinnovarlo e
rilanciarlo come strumento di pace e cooperazione.
A me
pare una sfida esiziale oggi più che mai.
Perché
nessuna nazione e nel popolo, per quanto grande, può bastare a sé stesso. E la
speranza più importante è che un giorno la giovane madre nigerina intervistata
da Caparròs possa chiedere al mago qualcosa di più, e di diverso, di una vacca
per sopravvivere.
(Maurizio
Martina. Cibo è vita - Vicedirettore generale Fao, Organizzazione delle Nazioni
Unite per l’alimentazione e l’agricoltura).
«Che
senso ha studiare?». La guerra
che arriva dal cielo ha cambiato Beirut.
Ilmanifesto.it
– (9 novembre 2024) – Pasquale Porcello – ci dice:
Libano.
La capitale libanese divisa tra solidarietà e antiche rivalità. Il rumore dei
droni è continuo.
E a
sud e a est del Libano i bombardamenti sono quotidiani.
E’
rimasto un uomo solo con la bandiera di Hezbollah tra le rovine del quartiere
della” Dahieh”.
BEIRUT.
«Che
senso ha studiare se prima o poi ci uccidono?».
Lo
chiede Aline, mercoledì pomeriggio, al suo professore di inglese Sami Feghali
all’Università Antonina.
«Mi ha
gelato. Non ho saputo cosa risponderle. Lo ha detto con sarcasmo, con un
sorriso affettato, per esorcizzare la paura, mordendosi le labbra.
Ma io
e lei, la classe tutta, sapevamo bene di cosa parlava e nessuno di noi ha
saputo ridere.
Un’ora
dopo, quasi come dopo una premonizione, hanno bombardato Beirut per sette volte
in un’ora e mezza, mentre facevamo lezione.
Le
finestre hanno tremato, noi siamo saltati dalle sedie.
Da qui
è vicinissimo».
L’università
è a un paio di chilometri in linea d’aria dai bombardamenti, nella parte
superiore di “Hadath”, una delle municipalità coinvolte.
La parte leggermente più a valle è sciita e
inglobata nella “Dahieh”, la periferia a sud di Beirut, la zona più colpita.
«Siamo
andati nel cortile» che guarda tutta Beirut «e abbiamo assistito allo
spettacolo macabro delle colonne di fumo.
Poi è
calata la sera e abbiamo sentito solo le esplosioni».
Beirut
è sospesa in un vortice di sentimenti ancora non razionalizzati e la guerra ha
già profondamente cambiato il volto della città.
“HAMRA”
è una lunga coda di auto rumorose a qualsiasi ora del giorno, fino a sera però.
Sono
molti gli alberghi, le scuole adibite a rifugi, i palazzi privati messi a
disposizione dei profughi interni arrivati nell’ultimo mese e mezzo.
«Stiamo preparando cibo per tre scuole nel
quartiere», racconta” Khodor”, gestore di “Barzakh”, caffé-libreria sulla
strada principale del quartiere un tempo cuore culturale di Beirut.
«Ci
occupavamo di eventi, concerti, dibattiti politici…”Hamra” è morta da questo
punto di vista».
Il
“caffé “che oggi, come tante altre realtà, si dedica all’emergenza, è vuoto già
nel primo pomeriggio e il contrasto è forte con il via vai in strada che si
vede dai finestroni.
«Verso le otto si svuota tutto. Non c’è più
diversità in questa parte della città. La gente ha paura, non esce la sera».
È un
altro mondo appena superata la Linea verde, quella tracciata durante la guerra
civile libanese (1975-90) che separa Beirut ovest, dove si trova Hamra e la
maggior parte delle aree ospiti, da Beirut est.
Nei quartieri gestiti dai partiti cristiani
della destra conservatrice, la normalità con cui la vita procede è
sorprendente.
Impossibile vedere sciiti.
Si
mischiano antichi rancori, la divisione comunitaria che nei momenti di crisi
viene fuori con tutta la sua forza, l’empatia per i civili coinvolti nella
crisi umanitaria, i discorsi sulle responsabilità di Hezbollah, quelle di
Israele, e molto altro.
«NESSUNO affitta agli sciiti.
Abbiamo paura che possano colpire anche le
nostre zone», dice “Tony Khouri”, proprietario di un condominio a “Geitawe”.
Nell’androne
ha scritto un cartello che invita «i condomini a non subaffittare e a non
ospitare persone in casa senza preavviso».
Quello
che amaramente unisce la città è il rumore continuo degli “mk”, i droni
israeliani di riconoscimento che giorno e notte sorvolano i cieli di Beirut e
sono un trapano nella parete della mente, dell’attenzione, della
concentrazione, un perpetuo monito che la guerra, la minaccia, la morte sono
sopra le teste di tutti.
Le
notizie dal sud e dall’est sono simili da giorni: l’aviazione israeliana
bombarda incessantemente e uccide.
Nelle ultime settimane “Baalbek”, a est, nella
valle della Bekaa, e “Tiro,” a sud sul Mediterraneo, sono intensamente sotto
attacco.
Si
teme anche per le preziosissime rovine romane – i missili israeliani si sono
avvicinati di pochissimi metri al complesso di “Baalbek” – che hanno
contribuito a rendere le due città patrimonio dell’Unesco.
Ieri sera due palazzi sono stati abbattuti
nella centralissima” Rue Hiram “a Tiro. Il numero dei morti, ancora non
estratti dalle macerie, è molto elevato, prevedono i soccorritori.
Finora
sono 3.117 i decessi accertati dal ministero della salute libanese sono e i
feriti 13.888.
CONTINUANO
anche gli sconfinamenti nella Linea Blu, la zona (in teoria) cuscinetto che
separa Libano e Israele:
«La
distruzione deliberata e diretta da parte dell’esercito israeliano di proprietà
chiaramente identificabile di “Unifil “è una violazione fragrante della legge
internazionale e della risoluzione 1701», si legge nel comunicato pubblicato
ieri, dopo che due bulldozer e un carro armato israeliano hanno sfondato la
rete di protezione e buttato giù delle strutture in cemento a “Ras Naqora”, sud
di Tiro, sul mare.
Giovedì
cinque caschi blu appena arrivati in Libano, parte di un convoglio che da
Beirut si dirigeva verso la Linea Blu, sono stati leggermente feriti
all’altezza di Saida quando un missile israeliano è stato lanciato a pochi
metri dai blindati in movimento.
L’impressione
che questa guerra non sia più così veloce si è ormai trasformata in una
certezza.
E
nessuno in Libano è in grado di dire quali siano gli obiettivi di Israele e
quando tutto questo finirà.
La
guerra è connaturata all’uomo:
prima
lo accetta, prima ne avrà
un
approccio pragmatico.
Ilfattoquotiano.it
– Luciano Casolari – (18-4-2024) – ci dice:
La
guerra è connaturata all’uomo: prima lo accetta, prima ne avrà un approccio
pragmatico.
Una
fregola guerriera pare attraversare il mondo.
Hamas ha compiuto atti terroristi e auspica la
distruzione di Israele.
Gli Israeliani bombardano e minacciano, gli
Iraniani replicano decuplicando le promesse di ritorsioni.
Zelensky usa parole di fuoco che fanno il paio
con quelle di Medvedev.
Tutti
promettono distruzione del nemico.
Biden
apostrofa in malo modo, come dittatore sanguinario, il suo avversario e viene
ricambiato con commenti che lo fanno apparire rimbambito.
Anche l’Europa per bocca del rappresentante
Affari esteri Borrell esprime propositi belligeranti in quanto “occorre
sconfiggere l’avversario”.
Molti
commentatori ritengono che l’uomo sia sostanzialmente tranquillo e che la
guerra sia un evento patologico.
Una
sorta di anomalia catastrofica della storia rispetto alla pacifica consuetudine
della vita umana.
E se
fosse vero il contrario?
Se
l’aggressività che sfocia nella guerra fosse un elemento fisiologico, normale,
della natura umana?
Esprimere
schifo, orrore e riprovazione verso la guerra non mi pare che abbia portato a grandi
risultati ma ha anzi accresciuto istinti feroci nelle pieghe delle società.
Le esecrazioni rituali verso gli orrori della
prima e seconda guerra mondiale non paiono in grado di cambiare il corso degli
eventi che, spediti, si dirigono verso il prossimo conflitto.
La
voglia di picchiare, che ricorda l’immagine proposta dai futuristi della
“Guerra igiene del mondo”, sempre più diviene parte dell’immaginario di molti
uomini apparentemente pacifici.
In
realtà sono pacifici fino a che non si toccano i loro interessi particolari.
Appena
capita che qualcuno turbi e metta in discussione certi privilegi o semplici
abitudini compare prepotente la voglia di “mettere tutti in galera” e “tenere
lontani gli stranieri a costo di ammazzarli”.
Gaza,
negoziati in salita.
Hamas: “Le parole di Netanyahu inficiano i
negoziati”.
Israele
compra 40mila tende per evacuare Rafah.
Ogni
giorno scopriamo che il vicino di casa che tutti ricordano come “così buono”
uccide in modo efferato ed è disposto a delegare l’uccisione di altri uomini a
milizie prezzolate purché non turbino la sua vita serena. T
anti
inneggiano a un mondo che vada al contrario di come sta andando, perché a loro
avviso va al contrario di come dovrebbe andare.
Insomma tutti vogliono decidere quale sia la direzione
giusta del mondo e non accettano che il mondo se ne freghi di loro.
Noi
esseri umani dobbiamo rassegnarci all’idea che siamo predisposti alla guerra e
che, anzi, la guerra per imporre le nostre idee e il nostro punto di vista
sugli altri fa parte della nostra natura.
Solo in questo modo, forse, potremo tenere la
guerra sotto un certo livello di controllo.
Gli
uomini accettando di essere naturalmente portati alla guerra possono cercare un
modo per farla “in modo controllato”.
Bisogna diffidare dei governati che ritengono
di essere nel giusto a prescindere, che si ritengono superiori moralmente e
affermano “Dio è con noi!”.
Costoro
demonizzano il nemico, rendendolo disumano nelle menti, un orco come avviene
nelle favole.
Questo pensiero risulta un modo per non poter mai fare
la pace e pensare che ci siano solo due possibilità: la sconfitta e la
vittoria.
Quindi
guerra fino alle estreme conseguenze.
Molto
meglio dei governanti meno ideologici che in modo pratico valutano che
vantaggio o svantaggio potrà scaturire da un conflitto.
Se c’è un interesse pratico a una guerra
regionale potrà essere attuata, senza però ammantarla di lotta fra “il bene e
il male”.
Occorre
che ognuno di noi, nel suo piccolo, accetti l’idea di essere aggressivo e
portato alla guerra per imporre i suoi punti di vista.
Da
questa autoconsapevolezza derivano elementi positivi:
il primo e più importante è l’accettazione del
non essere buoni per definizione e pensare che sono sempre gli altri che hanno
iniziato a picchiare (spesso sono una serie di eventi con dispetti e scaramucce
reciproche ad aver innescato il conflitto).
Il
secondo è un approccio pragmatico alla guerra in cui si valutano i pro e i
contro senza l’autodefinizione di “giusti” che costi quel che costi porteranno
avanti il conflitto fino allo stremo.
Il
terzo aspetto, pragmaticamente positivo, è la consapevolezza che la pace la si
farà necessariamente col nemico.
Riconoscere
alcuni dei suoi punti di vista è quindi necessario, senza rifugiarsi nell’idea
consolatoria che noi siamo quelli buoni e bravi e loro sono orchi cattivi.
Ecocidi,
biodiversità e conflitti.
Infodata.ilsole2ore.com
- David Ruffini – (13 Novembre 2024) – ci dice:
Era il
26 febbraio 1970, quando il “New York Times” pubblicò un articolo, contenente
un
termine nuovo per la stampa dell’epoca, riguardo la proposta di” Arthur Galston”,
un professore di biologia di Yale: un accordo internazionale volto a vietare gli
“ecocidi”.
Per
ecocidio si intende la distruzione volontaria di un ecosistema e, di
conseguenza, delle risorse naturali che lo compongono, da parte dell’uomo.
Il
brano in questione, dal titolo “… and a plea to ban ‘ecocide’”, riguardava
l’operato degli Stati Uniti durante la guerra in Vietnam e nello specifico
l’utilizzo da parte dell’esercito americano dell’Agente Orange: un erbicida che
venne sparso per una decina d’anni – dal 1961 al 1971 – nel Vietnam del Sud, al
fine di ridurre la vegetazione presente che faceva da protezione ai soldati del
gruppo armato di resistenza vietnamita.
Il
professor “Galston “sosteneva che l’eliminazione del manto vegetale avrebbe
creato danni irreversibili al ciclo di vita di determinati molluschi e pesci,
andando a creare seri danni all’alimentazione e alla salute dei vietnamiti, che
basavano il loro introito proteico su alimenti di questo tipo.
L’impatto
dell’”Agente Orange” – e di altre sostanze simili utilizzate – si rivelò
pericoloso anche per gli aspetti direttamente legati alla salute delle persone
che vennero contaminate.
Infatti,
tali erbicidi vennero considerati i responsabili di neoplasie, in coloro che
erano già vivi durante quel periodo, e di malattie congenite, nei figli che
vennero alla luce negli anni a seguire.
La
proposta del biologo di Yale ha in parte trovato riscontro nello Statuto di
Roma e, più recentemente, in una direttiva dell’Unione Europea che ha lo scopo
di definire in maniera più formale i reati ambientali e di introdurre sanzioni
proporzionate al danno commesso.
Il
testo spiega che viene considerato reato ambientale l’azione intenzionalmente
volta ad arrecare un danno, ma anche quella figlia di una grave negligenza.
Secondo
“ACLED”, i conflitti attualmente in corso a livello globale interessano
cinquanta paesi.
Questo
significa che, una volta assegnato un punteggio a ogni paese del mondo, in
almeno cinquanta di questi gli scontri rientrano in una delle seguenti
categorie di intensità degli scontri: turbolenta, alta o estrema.
Gli
attacchi sulla Palestina hanno reso la regione del Vicino Oriente quella più
pericolosa per i civili e più mortale.
La
quantità di detriti generata dai bombardamenti di Tel Aviv sulla Striscia di
Gaza ha superato i quarantadue milioni di tonnellate di detriti, provocando
circa un milione di casi di infezioni respiratorie.
Le
bombe hanno fatto collassare il sistema di gestione dei rifiuti e dell’acqua,
costringendo i civili a vivere tra le macerie e in scarse situazioni igieniche.
Gli
osservatori si stanno chiedendo se ciò che Israele sta compiendo ai danni dei
territori palestinesi possa essere etichettato come “ecocidio” e quindi possa
far rispondere lo Stato Ebraico alla Corte Penale Internazionale.
Un’analisi
condotta da” Forensic Architecture” illustra come il suolo vegetativo presente
sulla Striscia sia cambiato dal riaccendersi del conflitto il 7 ottobre 2023.
A
marzo 2024, circa il 40% del terreno che produce cibo è stato distrutto.
A Gaza
Nord, il 90% delle serre è stato devastato in seguito all’invasione via terra
delle Forze dello Stato ebraico, mentre a “Khan Youni”s la percentuale di
infrastrutture di questo tipo distrutte si ferma al 40%.
In
generale, l’invasione di terra delle Forze di difesa israeliane ha danneggiato
circa la metà della copertura arborea che l’enclave palestinese aveva prima di
ottobre 2023, mentre i bombardamenti hanno distrutto circa il 60% degli edifici
presenti.
Anche
in Sudan il rischio di ecocidio è presente.
La “Notre Dame GAIN “e la sua matrice,
indicano il Sudan come uno degli otto paesi più vulnerabili dal punto di vista
climatico.
In un
paese già vulnerabile socialmente, il conflitto in corso non fa che inasprire
le condizioni di vita dei sudanesi, con i combattenti che molto spesso prendono
di mira le scorte di acqua o di carburante.
Inoltre, gli scontri odierni, spesso
giustificati dai belligeranti come necessari al fine di ottenere suolo
coltivabile e risorse idriche, hanno impattato su circa tre milioni di
agricoltori e allevatori.
La
matrice che si vede di seguito rappresenta la resilienza dei paesi mettendo in
relazione la loro vulnerabilità alla loro capacità di adottare misure
migliorative.
Il
primo quadrante – quello in alto a sinistra – contiene i paesi che sono più
vulnerabili dal punto di vista ambientale e, allo stesso tempo, con meno
risorse o meno capacità per poter risollevare il complesso stato del
territorio.
Il
suolo sudanese è per circa il 75% coperto da aree desertiche o semidesertiche,
terreni aridi che impediscono una facile lavorazione del terreno e costringono
quasi la totalità dei sudanesi ad avere un’agricoltura molto sensibile al
clima, con il rischio di doversi muovere per cercare le condizioni atmosferiche
migliori.
Attualmente,
sembrerebbe che il nord del Sudan sia destinato a diventare una terra
difficilmente coltivabile e si prevedono grandi movimenti degli abitanti verso
il sud.
Il
territorio ucraino non è esente da casi di presunti ecocidi, questa volta a
opera dei russi.
Il fiume “Seym” è a cavallo tra Russia e
Ucraina, passando per la regione di Sumy.
Qui,
si sono scoperte sostanze tossiche rilasciate nella parte russa del” Seym” che
hanno viaggiato oltre confine, provocando la distruzione dell’intero ecosistema
del fiume, il quale collegandosi al fiume Desna lo ha condotto alla stessa
fine, ottenendo come risultato 44 tonnellate di pesce morto.
Agli
ucraini è stato quindi vietato di bere acqua dal rubinetto, di nuotare nel
fiume e di mangiare il pesce pescato da quelle acque, fino a che la situazione
non ritorni ai livelli precedenti.
La
biodiversità è un elemento essenziale per la vita dell’uomo e degli altri
organismi presenti sulla terra.
La
crisi climatica fa sì che gli eventi una volta considerati estremi, ora si
presentino con una frequenza maggiore e con una potenzialità dannosa ancora più
grande.
I
conflitti violenti non fanno altro che aggravare lo stato attuale, danneggiando
l’ecosistema nel quale la popolazione vive con ripercussioni che rischiano di
perdurare anche a scontro concluso, anche per generazioni.
Siamo
di fronte alla Terza
guerra
mondiale?
di
Alan Woods.
Rivoluzione.red – (17 Settembre 2024) - Alan
Woods – ci dice:
Mentre
scrivo queste parole, i titoli dei giornali vengono egemonizzati dall’annuncio
shock secondo cui la Russia entrerebbe “in guerra” contro gli Stati Uniti e i
suoi alleati, se questi ultimi dovessero togliere le restrizioni all’Ucraina
sull’utilizzo di missili occidentali a lungo raggio al fine di colpire in
profondità nel territorio russo.
Da un
giorno all’altro, senza alcun preavviso, l’opinione pubblica viene informata di
un fatto strabiliante:
che
l’ulteriore continuazione e intensificazione del conflitto ucraino ci pone di
fronte alla minaccia dello sterminio nucleare.
Per la
stragrande maggioranza
delle persone in Occidente, questa notizia è
giunta come un fulmine a ciel sereno. Davvero le cose possono mettersi così
male?
Perché
non siamo stati informati prima?
Eppure,
per chiunque abbia seguito seriamente lo sviluppo degli eventi, questo non deve
sorprendere.
La
maggior parte della gente ha la memoria corta e i politici sembrano non avere
memoria alcuna dei fatti, quando i fatti non coincidono con i loro interessi. Abbiamo dimenticato il fatto che la
Russia non solo è uno Stato molto potente con un forte esercito, ma è anche la
più grande potenza nucleare, equipaggiata con missili a lunga gittata in grado
di colpire qualsiasi obiettivo sul pianeta?
O i
leader del mondo occidentale hanno dimenticato questi fatti – nel qual caso essi
sono incompetenti e inadatti a ruoli di comando – oppure ne sono ben
consapevoli – e in questo caso sono colpevoli di una sconsideratezza criminale
che mette in pericolo le vite di milioni di persone e dovrebbero essere
condotti in prigione o consegnati al più vicino ospedale psichiatrico.
Ma
qual è la spiegazione di questo ultimo sviluppo allarmante?
Putin
vuole la guerra con l’Occidente?
La
prima spiegazione che viene frequentemente spiegata nei media è molto semplice.
Vladimir
Putin è un folle dittatore che vuole conquistare il mondo.
Se non
viene sconfitto in Ucraina, attaccherà l’Europa e ci ridurrà tutti in
schiavitù.
Dal
momento che è mentalmente disturbato e incapace di prendere decisioni
razionali, è inutile persino pensare di negoziare con lui.
Sentiamo
argomenti simili con estenuante regolarità da parte dei cosiddetti “esperti della Russia”.
Ma
questa è una spiegazione che non spiega nulla.
Certo,
la psicologia dei singoli leader può giocare (e gioca) un ruolo importante
nello sviluppo degli eventi, anche delle guerre.
Lo
vediamo molto chiaramente nel caso dell’Ucraina e di Israele.
Tuttavia,
tali fattori non possono mai del tutto spiegare le azioni più importanti
intraprese dalle singole nazioni, men che meno in ambito bellico.
Per
comprendere ciò, è necessario smascherare le motivazioni segrete che spingono
le nazioni in guerra, cioè i loro interessi materiali.
Ma se
anche cercassimo di trovare una spiegazione della situazione attuale nel regno
fumoso della psicoanalisi degli individui (che è sempre un intento rischioso), ci renderemmo immediatamente conto
che questa presunta psicologia dell’uomo del Cremlino non corrisponde
assolutamente ai fatti noti.
Innanzitutto,
lasciateci dire chiaramente che non abbiamo assolutamente alcuna illusione in
Vladimir Putin.
Non lo
appoggiamo in alcun modo e mai l’abbiamo fatto.
Egli
è, infatti, un controrivoluzionario nemico della classe operaia, sia in Russia
che in tutto il mondo.
Putin
difende gli interessi dell’oligarchia russa, quella banda corrotta di
imprenditori che si sono arricchiti saccheggiando la proprietà collettiva
dell’Unione Sovietica.
Pertanto,
non vi è un atomo di contenuto progressista nelle sue politiche, né in pace né
in guerra, né dentro né fuori dalle frontiere della Russia.
Ne
segue che, quale che sia la politica che egli sta perseguendo in Ucraina, essa
non potrà mai essere utile agli interessi dei lavoratori dell’Ucraina o della
Russia. Tuttavia,
è altrettanto vero che la cricca reazionaria di Kiev non difende gli interessi
del popolo ucraino, che viene crudelmente sacrificato come una pedina dalla
cinica politica perseguita dagli Stati Uniti e dalla Nato.
Putin
è irrazionale?
Il
fatto che Putin è un reazionario non comporta necessariamente che egli sia
pazzo o irrazionale.
Al
contrario, tutto quello che sappiamo a suo proposito va nella direzione di un
uomo molto astuto che sa esattamente cosa sta facendo e che si basa sempre su
conclusioni che potrebbero risultare ciniche, ma che sono sempre il risultato
di un freddo calcolo.
Al
contrario, gli uomini e le donne ignoranti e incredibilmente stupidi che
passano per politici e diplomatici negli Stati Uniti e in Europa presentano un
quadro di completa inettitudine e incompetenza.
Questi
signori e queste signore sono altrettanto cinici e manipolatori come l’uomo del
Cremlino, ma, a differenza di quest’ultimo, sono non solo irrazionali, bensì
del tutto incapaci di guardare in faccia la realtà. Gli errori che commettono
ininterrottamente in politica estera dimostrano che sono incapaci di elaborare
alcunché somigliante a un coerente piano di azione o ad una strategia.
Al
contrario, essi si limitano a reagire empiricamente agli eventi, evidentemente
incapaci persino di mettere un piede davanti all’altro senza inciampare e
cadere in un fosso.
Di conseguenza, la loro politica in Ucraina si è
rivelata un completo disastro e la loro incapacità di porre fine alle
sconsiderate provocazioni di Netanyahu minaccia di trascinarli in un disastro
ancora maggiore in Medio Oriente.
Non si
può che osservare con profondo stupore come la politica di Washington venga
determinata dalle bizzarrie di due uomini disperati: uno a Kiev e l’altro a
Gerusalemme.
Questi
uomini, che in realtà dipendono totalmente dal denaro e dalle armi fornite da
Washington, a quanto pare si sentono liberi di portare avanti politiche che
sono in contraddizione diretta con gli interessi strategici dell’imperialismo
americano.
A
questo punto, infatti, sebbene ciò sfidi i poteri dell’immaginazione, sembra
che i burattini abbiano spezzato i fili che li muovono e saltellino liberamente
a proprio piacimento.
Incredibilmente,
è il cane che porta a spasso il padrone!
A
prima vista, potrebbe sembrare che questo fatto contraddica la nostra
precedente affermazione per cui è impossibile comprendere le guerre come
risultato della psicologia individuale.
Tuttavia,
ci sono momenti in cui la psicologia individuale non è nient’altro che
l’espressione di interessi materiali molto specifici di alcuni individui.
Questi
due aspetti diventano completamente inseparabili.
Fatemi
esaminare questo strano fenomeno più da vicino. Torneremo dopo al nostro punto
di partenza, cioè all’ultimatum di Putin all’Occidente, che sarà diventato
allora, speriamo, almeno un po’ più comprensibile.
I tre
uomini più pericolosi sulla Terra.
Al
centro del vortice terrificante degli eventi mondiali, ci sono due uomini.
Vivono a migliaia di chilometri di distanza. Parlano lingue diverse. Si
somigliano poco l’uno all’altro, sia fisicamente che intellettualmente. Si
direbbe che sono totalmente diversi…
Eppure,
sotto un aspetto, sono identici. Condividono un’ossessione comune, che ha
implicazioni molto drammatiche per il mondo.
La
gran parte degli uomini e delle donne, se si chiede loro quale sia il loro più
grande desiderio per il mondo, risponderanno senza dubbio con una parola:
“pace”.
Ma la
pace è qualcosa di molto distante dalle menti di questi due personaggi.
Al contrario, la guerra è diventata lo scopo
vitale della loro esistenza.
Essi
la desiderano con fervore. Poiché con essa, essi sono tutto e, senza di essa,
non sono niente.
I nomi
di questi due signori sono Volodymyr Oleksandrovych Zelensky e Binyamin
(‘Bibi’) Netanyahu.
Per
ragioni del tutto differenti, che abbiamo affrontato in altri articoli, le guerre nelle quali si sono
ingarbugliati non stanno andando bene.
Nonostante
la sua colossale superiorità militare, in ormai quasi un anno di guerra,
Israele non è riuscito ad ottenere il rilascio degli ostaggi o ad eliminare
Hamas come forza combattente.
L’attuale
ondata di rabbia popolare all’interno di Israele sta minacciando il futuro di
Netanyahu e del suo governo.
Ma
Netanyahu non ha alcuna intenzione di arrendersi, perché sa che ciò
significherebbe il crollo del suo governo.
Egli si trova ad affrontare, inoltre, accuse
di corruzione.
Pertanto vuole lottare fino alla fine, quali
che siano le conseguenze.
Tali
conseguenze saranno estremamente gravi per il mondo intero.
La
guerra con l’Iran, che egli desidera così fortemente ed è determinato a
scatenare, non sarà come il bagno di sangue unilaterale contro un nemico ben
più debole a Gaza.
L’Iran
è uno Stato potente dal punto di vista militare, con un esercito temprato e
molto motivato e grandi riserve di missili e di altre armi sofisticate.
E se
non possiede già armi nucleari, è molto vicino ad ottenerle.
L’Iran
ha molti alleati nella regione.
Tra di
essi, ci sono Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen, oltre a molti altri
gruppi minori, ma forse ancora più aggressivi, in altri paesi, che sono tutti
ben contenti di attaccare Israele con ogni mezzo a propria disposizione.
La
portata della potenza missilistica iraniana è stata dimostrata solo pochi mesi
fa, quando hanno lanciato una pioggia di missili contro obiettivi israeliani
come rappresaglia all’ennesima provocazione.
A
causa delle pressioni degli Stati Uniti e di altri paesi, in quell’occasione
gli iraniani avvertirono preventivamente dell’attacco e limitarono i propri
obiettivi per non provocare una guerra aperta con Israele.
Ma la
prossima volta – e ci sarà inevitabilmente una prossima volta – non daranno
prova della stessa moderazione.
Ma c’è
un altro aspetto.
L’Iran
ha recentemente stretto rapporti molto stretti con la Russia e la Cina.
Così,
nel caso di un allargamento del conflitto, che coinvolgerà inevitabilmente
(come minimo) il Libano e lo Yemen, l’altrettanto inevitabile intervento
americano verrà sicuramente contrastato dai russi e, forse, dai cinesi, che
forniranno aiuto all’Iran.
Le
implicazioni di un tale scenario dovrebbero essere evidenti a chiunque.
Immaginate cosa succederebbe, per esempio, se una portaerei americana venisse
affondata da un missile fabbricato in Russia.
Il pericolo di uno scontro aperto tra le due
grandi potenze sarebbe implicito in questa situazione.
Tuttavia,
il secondo della nostra galleria di celebri furfanti guerrafondai pone un
pericolo molto più immediato.
Il
presidente Volodymyr Zelensky entra in scena.
Il
guerrafondaio-capo numero due.
Recentemente,
la televisione britannica ha mandato in onda una serie di tre episodi sulla
vita di Volodymyr Zelensky Ovviamente, il tempismo di questo capolavoro di
piaggeria televisiva non è casuale.
Al contrario, è parte di un’offensiva
propagandistica accuratamente pianificata, volta a mascherare la vera offensiva
che viene segretamente pianificata dai politici a Londra e a Washington.
La
prima parte della serie televisiva rappresenta il giovane Volodymyr come un
uomo di pace che esordisce come comico di successo, impersonando il ruolo di un
presidente fittizio in televisione.
Pare che come comico abbia goduto di un grande
successo. Considerando le sue evoluzioni successive, ci si potrebbe augurare
che avesse mantenuto quel ruolo.
Il
comico, precedentemente pacifico e spensierato, ha da tempo smesso di essere
divertente.
Assieme ai propri capi a Washington e a Londra, egli
sta prolungando un conflitto sanguinoso e insensato nel quale l’Ucraina sta
perdendo, secondo alcune stime, 2mila uomini al giorno, morti o feriti.
E
rappresenta oggi, probabilmente, il più grande pericolo per la pace nel mondo
intero.
Il
caso di Zelensky non è diverso da quello di Netanyahu, anzi è identico.
Dopo
circa tre anni di guerra, egli sta guardando la disfatta negli occhi.
La
precedente propaganda delirante, che propinava una vittoria ucraina sulla
Russia come qualcosa di praticamente inevitabile, è finita, come abbiamo detto,
in un cumulo di cenere.
Dopo
il fallimento della sua stupida scommessa a Kursk, adesso Zelensky è un uomo
disperato.
E gli
uomini disperati fanno cose disperate.
Grida
e impreca contro i propri generali, accusandoli di raccontargli menzogne.
In effetti, egli rivela tutti i sintomi di un uomo che
ha perso ogni contatto con la realtà.
È
sempre difficile interpretare le azioni di una mente squilibrata, ma una cosa è
chiara:
rimane solo un’opzione a Zelensky per vincere
la guerra.
E
questa opzione è quella di provocare una guerra più ampia nella quale
verrebbero trascinati gli Stati Uniti.
Gli
americani si incaricherebbero a quel punto di tutti i combattimenti al posto
dell’Ucraina.
Per un
lungo periodo, Zelensky ha sostenuto una campagna politica rumorosa, chiedendo
agli americani di fornirgli il permesso di utilizzare i missili americani a
lungo raggio per colpire in profondità all’interno della Russia.
Naturalmente, i guerrafondai imbecilli a Londra erano
tutti favorevoli a questa proposta folle.
Ma
finora, questa è stata respinta dagli americani, che sono comprensibilmente
terrorizzati da una reazione russa.
È
esattamente la stessa opzione che è rimasta a Netanyahu: egli sta deliberatamente provocando
l’Iran nella speranza di far scoppiare una guerra generalizzata in Medio
Oriente, che costringerebbe gli americani ad intervenire per “salvare Israele”.
C’è un
altro modo di dirlo: stanno cercando di dare inizio alla Terza guerra mondiale.
Il
guerrafondaio-capo numero tre.
Il
terzo della nostra banda di pericolosi guerrafondai è un caso tutto diverso.
Egli
riveste ora il ruolo dell’eminenza grigia.
Ma ciò
non significa che il suo ruolo negli eventi mondiali sia del tutto svanito.
Un
vecchio amareggiato che è stato costretto a quello che considera un
pensionamento prematuro e ingiustificato dalle persone che un tempo considerava
i propri amici e che sono finiti per dargli la stessa gentile spinta che nei
vecchi tempi aiutò Giulio Cesare a farsi da parte.
Tuttavia,
Joe Biden non se n’è andato con la stessa flemma del suo antesignano romano.
Egli
ha lottato con le unghie e i denti per non essere cacciato e si è arreso a
denti stretti solo quando i suoi sostenitori dal punto di vista finanziario
hanno minacciato di ritirare il proprio appoggio.
Questa
si è rivelata essere un’arma ben più temibile di qualsiasi pugnale, e molto più
accettabile per la sensibilità dell’opinione pubblica.
Anche
allora, mentre acconsentiva a ritirarsi dalla sua candidatura nelle liste
democratiche alle elezioni di novembre, si è cocciutamente rifiutato di
dimettersi dal ruolo di presidente degli Stati uniti.
Ciò
significa che, per un periodo di svariati mesi fino a gennaio 2025, l’incarico
di maggiore potere al mondo rimarrà nelle mani di un politico fallito, pieno di
rancore e di un bruciante desiderio di vendetta, e ossessionato dalla questione
dell’Ucraina.
Il
pensiero che il dito di un vecchio arrabbiato e pieno di amarezza sia sul
bottone che può mandare il pianeta intero all’altro mondo non è proprio
consolante.
Non è
un segreto che Biden sia completamente ossessionato dal proprio odio per la
Russia.
È chiaro che egli ha giocato un ruolo di primo
piano nello spingere l’Ucraina in una guerra che non poteva essere vinta contro
un potente vicino, insistendo sulla sua adesione alla Nato.
E non
c’è assolutamente alcun elemento che possa far pensare che abbia cambiato
opinione riguardo a ciò – o a qualsiasi altra cosa.
Da
quando è stato messo da parte dai suoi ex-colleghi, sembra che passi la maggior
parte del suo tempo a giocare a golf o a prendere il sole sulla spiaggia.
Eppure, la sua mente starà fremendo di rabbia tutto il tempo.
Come dare una lezione che non dimenticheranno a tutti
i suoi nemici?
Dopotutto, egli è ancora il presidente,
investito di tutti i poteri del presidente degli Stati Uniti.
Consapevoli
di questo, alcuni stanno ancora tentando di ottenere l’approvazione di Joe
Biden per azioni che gli altri politici sono restii ad appoggiare.
Uno di loro è Volodymdir Zelensky, che ha
fatto affidamento per lungo tempo all’appoggio incondizionato dell’uomo della
Casa Bianca.
Egli
cerca sempre di parlare con il suo vecchio amico Joe Biden. E di cosa
immaginate parlino?
Permettere
o non permettere: questo è il dilemma!
Il
primo ministro britannico “Keir Starmer “non ha perso tempo ed è balzato su un
aereo per attraversare l’Atlantico e parlare con l’uomo che ancora si fa
chiamare presidente degli Stati Uniti.
Il
contenuto di questi colloqui non è ancora chiaro, ma non c’è alcun dubbio sul
fatto che avranno discusso della difficile questione di permettere che
l’Ucraina utilizzi i missili occidentali a lungo raggio per colpire in
profondità all’interno della Russia.
In
realtà, l’Ucraina attacca obiettivi all’interno della Russia già da tempo.
Sta
utilizzando le proprie armi per colpire obiettivi addentrandosi di molto nel
territorio russo, come quando martedì scorso ha lanciato uno dei suoi più
grandi attacchi con i droni sul suolo russo dall’inizio della guerra colpendo
varie regioni, inclusa quella di Mosca.
A dire
il vero, questi attacchi hanno principalmente una finalità propagandistica.
Il loro impatto effettivo sulla produzione
bellica della Russia è insignificante e l’effetto sulla guerra in sé equivale a
zero.
Questi
attacchi equivalgono a nulla più che alla puntura di uno spillo, soprattutto se
paragonati agli attacchi devastanti inflitti dai russi all’Ucraina.
Ma non
c’è alcun modo per cui gli ucraini possano mai sperare di scagliare attacchi
della stessa portata.
Non è
un segreto che il Pentagono sia contrario al permettere agli ucraini di
lanciare missili americani in profondità nel territorio russo.
I
servizi segreti americani hanno adottato esattamente la stessa posizione.
Questo
indica chiaramente l’esistenza di una grave spaccatura nell’amministrazione e
nello Stato.
Ma
tutto questo non sembra sortire alcun effetto sulla testa di legno del
presidente.
Ed
egli può ancora imporsi ai propri generali e a capi dell’intelligence.
Gode dell’appoggio di un piccolo gruppo di elementi
estremamente bellicosi all’interno dell’amministrazione, per i quali qualsiasi
discorso su accordi di pace e negoziati con la Russia sono una terribile
iattura.
A dire
il vero, l’Ucraina utilizza missili occidentali per colpire obiettivi
all’interno della Russia già da tempo.
Città
come Belgorod sono state regolarmente bombardate e colpite da droni.
Ma il via libera all’utilizzo di missili a lunga
gittata come gli “Storm Shadow” britannici o gli “ATACM “americani, per colpire
in profondità nel territorio russo, sono tutt’altra questione.
Quello
che generalmente non viene compreso è che si tratta di armi estremamente
sofisticate che non possono essere utilizzate senza il coinvolgimento attivo di
personale occidentale – per la raccolta di informazione, la loro operatività e
manutenzione.
In
altre parole, ciò implica il diretto coinvolgimento del personale militare
occidentale in una guerra contro la Russia.
Questo
fatto è stato deliberatamente ignorato dai mass media in Occidente, sebbene sia
stato evidenziato molto chiaramente da Putin mesi fa.
Egli
ha ribadito lo stesso punto soltanto ieri [12 settembre, Ndt]:
“Non
stiamo parlando di permettere o meno al regime ucraino di colpire la Russia con
queste armi”, ha detto. “Stiamo parlando di decidere se i paesi Nato siano
direttamente coinvolti nel conflitto militare oppure no”.
Ciò
costituirebbe, senza ombra di dubbio, un atto di guerra degli Stati membri
della Nato – un fatto che porterebbe necessariamente a una dichiarazione di
guerra da parte della Russia.
Questo
sconsiderato atto di escalation parte dell’Occidente non ha alcun senso da un
punto di vista militare.
Gli
obiettivi menzionati dagli ucraini sono stati da tempo trasferiti nelle zone
più interne, spostandole ben al di là della gittata degli “Storm Shadow” e
degli “ATACM”.
Gli
unici obiettivi disponibili sarebbero pertanto obiettivi civili. Questo
causerebbe seri problemi politici all’Occidente, senza apportare alcun
vantaggio militare.
Non è
neanche del tutto chiaro se i missili promessi arriveranno mai in Ucraina.
Le
riserve di “Storm Shadow e di “ATACM “Wsono al momento molto scarse, un
riflesso del fatto che gli arsenali dell’Occidente sono stati pesantemente
svuotati dalle richieste incessanti del governo di Kiev.
Ciò
significa che le forniture di missili saranno così scarse che sarà impossibile
per gli ucraini lanciare un serio attacco missilistico contro obiettivi in
Russia.
Inoltre,
per raggiungere obiettivi in profondità all’interno del territorio russo, i
succitati missili e i loro sistemi di lancio dovrebbero essere piazzati così
vicini alla frontiera che verrebbero facilmente distrutti dai russi con
attacchi con missili e droni o persino con l’artiglieria.
Gli
Stati Uniti e i loro alleati stanno tentando di dare la colpa alla Russia per
l’“escalation” del conflitto dopo aver acquistato missili balistici dall’Iran.
La notizia di presunte consegne da parte
dell’Iran ha cominciato a trapelare nel fine settimana.
Lammy
[ministro degli Esteri britannico, Ndt] le ha definite parte di “uno schema
inquietante cui assistiamo. È decisamente un’escalation significativa”.
Gli
iraniani hanno negato, e questo non ha molto senso, considerato il fatto che la
Russia già possiede ampie scorte di missili e di altre armi e che sta di gran
lunga superando l’Occidente nella produzione di armi e di munizioni in
generale.
La
vera escalation, come sempre, viene dalla Nato e dagli americani.
Un
quadro apocalittico.
Il
problema che deve affrontare la Nato è presto detto. La guerra ha raggiunto un
punto nel quale ormai l’avanzata russa è inarrestabile.
Questo
fatto viene sempre più riconosciuto persino dai media occidentali.
Un
recente articolo della CNN affermava: “sopraffatti nei numeri e nei mezzi,
l’esercito Ucraino si dibatte tra il crollo del morale e le diserzioni”.
Le
difese ucraine stanno chiaramente andando in frantumi e potrebbero persino
essere sul punto di collassare.
Si può
solo speculare sul tempo necessario perché ciò avvenga.
Ma
l’esito finale non è in discussione e non c’è assolutamente nulla che
l’Occidente possa fare per impedirlo.
Queste
signore e signori sono felici di combattere fino all’ultima goccia di sangue
ucraino. Sono determinati a continuare la guerra, a dispetto del prezzo
terribile che viene pagato dal popolo ucraino, i cui interessi dichiarano in
maniera ipocrita di rappresentare.
Mentre
questa prospettiva incombe sempre più minacciosa all’orizzonte, un clima di
panico, al limite con l’isteria, si sta impadronendo dei governi occidentali.
D’un
tratto, un’ondata di dichiarazioni allarmiste erompe dai circoli politici e
militari europei, che insistono tutte sull’imminente avvento dell’Apocalisse.
In
nessun luogo i guerrafondai possiedono una visione più originale e pittoresca
dell’Apocalisse imminente come in Gran Bretagna.
La stupida arroganza e la vanagloria, che ha
da tempo rimpiazzato l’arte della diplomazia, si fa qui sempre più rumorosa
tanto più la reale influenza e la potenza della Gran Bretagna nel mondo si
avvicina a zero.
Non
molto tempo fa, il quotidiano britannico “Daily Mail”W, ha regalato ai propri
lettori la previsione più fantasiosa e avveniristica di un soverchiante attacco
russo contro l’Occidente.
La
simulazione includeva riferimenti a carri armati russi “controllati
dall’intelligenza artificiale” che davano inizio all’invasione.
La
mappa annessa conteneva dettagli raccapriccianti di attacchi russi contro
qualsiasi paese europeo immaginabile (e molti contro paesi inimmaginabili).
Questa
opera terrificante di fantascienza era chiaramente pensata per far andare di
traverso la colazione ai lettori conservatori, piccolo-borghesi e di mezza età
del Daily Mail, intenti alla lettura dell’edizione mattutina.
Resoconti
sensazionalistici di questo tipo ignorano totalmente il fatto che non c’è
assolutamente alcuna prova di piani russi per attaccare un qualsiasi paese Nato
e che essi non hanno neppure alcun interesse a farlo.
Gli
unici paesi in Europa cui la Russia è interessata sono la Bielorussia e
l’Ucraina, alla quale non verrà mai permesso di unirsi alla Nato.
Tali
racconti non sono nient’altro che il prodotto di un’immaginazione morbosa,
alimentata dal panico e da un sentimento di impotenza di fronte a una Russia
che, lungi dall’essere sconfitta (come il Daily Mail e tutti gli altri giornali
occidentali avevano fiduciosamente predetto) è venuta fuori dal conflitto in
Ucraina enormemente rafforzata, sia militarmente che economicamente.
Lo
scopo di simili articoli è di far sì che chi li legge, preso dal terrore di
fronte alla prospettiva di un’imminente invasione russa, sia pronto a pagare il
conto di fondi molto considerevoli da consegnare ai generali, che potranno così
avere nuovi giocattoli letali con cui giocare.
È
l’inizio della Terza guerra mondiale?
Per
svariati decenni a seguito della Seconda guerra mondiale, venne mantenuto uno
stato di precario equilibrio tra le due potenze mondiali: gli Stati Uniti e
l’Unione Sovietica. Questo era una conseguenza dell’equivalenza di massima
della potenza nucleare dei due principali antagonisti.
Per
quanto stupidi e miopi potessero essere i leader di questi paesi, essi non
erano così ciechi da non capire che una guerra nucleare avrebbe comportato la
distruzione totale da entrambe le parti e, forse, dell’intera razza umana.
Questa
dottrina divenne nota con l’acronimo “MAD” (Mutually Assured Destruction, cioè
Distruzione Reciproca Assicurata, Ndt).
Tuttavia,
con il crollo dell’Unione Sovietica, d’un tratto il mondo entrò in un periodo
nuovo e altamente instabile. I rapporti tra le potenze divennero sempre più
imprevedibili.
In un
primo momento, sembrava tutto perfetto.
Sembrava
che la fine della Guerra Fredda avrebbe inaugurato un nuovo periodo di pace e
prosperità nel mondo.
Una
volta terminata la corsa agli armamenti, ci assicurarono che ci sarebbe stato
il cosiddetto “dividendo della pace”, grazie al quale lo spreco di risorse
dovuto alle spese militari sarebbe stato sostituito da utili investimenti
produttivi.
Uno
scontro diretto tra grandi potenze era ritenuto improbabile.
Questo liberò vaste risorse:
gli eserciti in tutto il mondo (non solo in Europa)
vennero rimpiccioliti nelle dimensioni e rivolsero la propria attenzione ad
attività come la controguerriglia, che non richiedeva importanti spese statali.
Ma
l’euforia non durò a lungo. La Nato si imbarcò in un’incessante avanzata ad
Est, violando le promesse che erano state fatte ripetutamente ai russi sul
fatto che non si sarebbe estesa al di là del territorio dell’ex Germania dell’Est
È stata la minaccia di fare entrare l’Ucraina
nella Nato ad essere la goccia che ha provocato l’attuale sanguinoso conflitto
in questo sventurato paese.
Adesso,
siamo punto a capo.
Ancora
una volta, la minaccia di una guerra nucleare è all’ordine del giorno.
Ma ciò
non significa necessariamente che la guerra sia inevitabile, o persino
probabile.
Sembra
che, nonostante tutto, una decisione finale non sia ancora stata raggiunta. A
Washington, dove, come abbiamo visto, ci sono seri dubbi sull’intera questione,
stanno avendo luogo negoziati frenetici.
I guerrafondai hanno fretta perché temono che
se Trump dovesse vincere le elezioni a novembre, potrebbe decidere di
abbandonare del tutto l’Ucraina e, forse, persino di uscire dalla Nato.
Sembra
più che probabile che gli americani tenteranno qualsiasi tipo di manovra
diplomatica per tirarsi fuori da questo dilemma.
Mi
risulta che ora abbiano presentato agli ucraini una lunga lista di domande,
chiedendo di chiarire quali siano precisamente le loro intenzioni riguardo
all’utilizzo di questi missili, nel caso in cui ne venisse concesso l’utilizzo.
Rispondendo
a una domanda riguardo a se gli Stati Uniti permetteranno che le armi che hanno
fornito vengano usate per colpire obiettivi in profondità all’interno della
Russia, “Blinken” ha detto che ogni utilizzo di armi deve essere unito a una
strategia.
Ha
spiegato che uno degli obiettivi della sua visita di questa settimana [articolo
originale pubblicato il 13 settembre, Ndt]: “è quello di sapere direttamente
dalla dirigenza ucraina, incluso… il presidente Zelensky come gli ucraini
vedano le proprie esigenze in questo momento, verso quali obiettivi e cosa
possiamo fare per fornire assistenza a queste esigenze”.
La
difficoltà è che Zelensky e i suoi scagnozzi non hanno assolutamente alcuna
risposta a queste domande.
Sono
sempre più impazienti e frustrati per quelle che considerano essere le
esitazioni di Washington.
Questo
è il motivo per cui Zelensky era così entusiasta di incontrarsi con Joe Biden,
nella speranza di mettere di nuovo le cose in movimento.
Se
avrà successo o meno, si può solo tirare a indovinare. La matassa di intrighi e
contro-intrighi che viene fatta passare per diplomazia a Washington non è mai
facile da capire.
Ma
sulla base di ciò che è successo in passato, gli americani tendono inizialmente
a dire no alle richieste ucraine, solo per poi cambiare idea e infine
capitolare.
Il
cane continua a portare a spasso il padrone!
Qualsiasi
cosa decidano, ciò non comporterà assolutamente alcuna differenza né per il
corso della guerra in Ucraina, né per il suo esito finale.
Tuttavia,
come possiamo vedere, i guerrafondai non sono mai soddisfatti. Essi
continueranno il loro gioco pericoloso e sconsiderato fino alla fine e la gente
comune ne pagherà il conto salato.
È un
dovere fondamentale dei comunisti e di tutti i lavoratori e i giovani più
avanzati di lottare contro la guerra e l’imperialismo.
È in
ballo il destino del mondo intero e dell’umanità stessa.
L’Internazionale
Comunista Rivoluzionaria ha fatto appello ad un’ampia campagna internazionale
per lottare contro il militarismo e l’imperialismo.
A chiunque voglia davvero porre fine alla
guerra, al militarismo e all’imperialismo, sia a livello individuale o come
organizzazione, diciamo: lavoriamo insieme – il momento è adesso!
Il
capitalismo deve morire, perché l’umanità possa vivere!
Abbasso
i guerrafondai!
Fermare
l’appoggio a Israele e all’Ucraina! Cessare immediatamente ogni aiuto e invio
di armi ai guerrafondai reazionari di Netanyahu e Zelensky!
Abbasso
la Nato e l’imperialismo americano, la causa principale oggi delle guerre e
dell’instabilità nel mondo!
No
allo spreco delle risorse pubbliche nella spesa militare! Per un programma di
lavori pubblici utili!
Più
case, scuole e ospedali! No a bombe, missili e altri mezzi di distruzione!
Lottiamo
per l’esproprio dei banchieri e dei capitalisti la cui avidità sfrenata di
profitti è causa costante di guerre e crisi.
Per un
piano armonico di produzione socialista, basato sulla soddisfazione dei bisogni
umani, non dei profitti di pochi e delle loro guerre reazionarie.
Lottiamo
per un mondo socialista che sia libero dalla piaga della povertà, dello
sfruttamento, delle guerre e dell’oppressione!
L’unica
guerra giusta è la guerra di classe!
La
politica militare italiana
dopo
la guerra: cosa è cambiato?
Geopolitica.info - Matteo Mazziotti Di Celso –
(27/02/2024) – ci dice:
La guerra tra Russia e Ucraina ha reso
evidente ai governi europei la necessità di investire nuove risorse per
adeguare le proprie forze armate al mutato contesto internazionale.
Almeno
a parole, l’Italia sembra aver riconosciuto questa esigenza.
Di
fatto, però, a due anni dall’inizio dell’offensiva russa, la politica militare
italiana non sembra essere cambiata così radicalmente.
Sono
passati due anni dal giorno in cui le forze armate russe hanno avviato la loro
offensiva in Ucraina.
L’attacco
di Mosca ha colto di sorpresa gli europei.
Ben pochi credevano che il governo russo fosse
realmente intenzionato a condurre un’operazione militare come quella a cui
abbiamo assistito.
Anche
in Italia, la maggior parte degli analisti e degli opinionisti ritenevano che
le minacciose manovre preparatorie della Russia sul confine ucraino non fossero
altro che un bluff.
Questo
nonostante diverse analisi militari, alcune di esse pubblicate anche su questo
sito, dimostrassero che in realtà le intenzioni di Mosca erano alquanto serie.
Ennesima prova dell’insufficiente importanza
riservata dai decisori politici, dagli analisti e dall’accademia alle questioni
di carattere militare.
In
Italia, comunque, l’offensiva russa ha avuto l’effetto di una sveglia. Essa ha
reso evidente – come se ce ne fosse ancora bisogno – che la guerra non solo non
ha affatto abbandonato il nostro pianeta, ma che anzi è molto vicina, dato che
si combatte sul nostro continente.
Questo,
almeno, è ciò che l’élite politica e intellettuale italiana ha cominciato a
ripetere a partire dall’inizio dell’offensiva russa.
Anche
la Difesa italiana ha riconosciuto che la guerra in Ucraina ha cambiato le
carte in tavola.
Nell’introduzione al Documento programmatico
pluriennale per la Difesa per il triennio 2023-2025 (DPP), il “Ministro Crosetto”
scriveva che l’attuale contesto internazionale impone oggi all’Italia di
tornare a “orientare e preparare il suo strumento militare ad assicurare la
difesa dello Stato”.
L’Italia,
secondo il ministro, “non può più permettersi di impiegare il proprio strumento
militare nelle modalità che ha conosciuto negli ultimi trent’anni”, ovvero
“prioritariamente nella conduzione di operazioni e missioni per il mantenimento
della pace e della stabilità internazionale nonché in operazioni di concorso”.
Difesa
e deterrenza devono quindi essere i compiti principali dello strumento militare
italiano.
Paradossalmente,
quindi, la guerra ha avuto anche un effetto positivo, fornendo all’Italia
un’opportunità per colmare finalmente i deficit del proprio strumento militare
e ricominciare
a costruire delle forze armate in grado di agire con efficacia nei moderni
teatri operativi.
Ma
l’Italia ha colto questa opportunità?
Abbiamo
introdotto le risorse e gli strumenti necessari per iniziare a colmare i
deficit del nostro strumento militare?
O in
realtà la guerra non ha generato alcuna reale conseguenza per la politica
militare italiana?
A due
anni dall’inizio del conflitto russo-ucraino, tentiamo di fornire una prima
risposta a queste domande.
La
reazione dell’Italia e quella dell’Europa.
Cominciamo
l’analisi della reazione della politica militare italiana osservando quanto è
stato scritto nei documenti strategici.
Chiariamo
subito che l’Italia non produce alcun documento che fornisca una valutazione
complessiva di quella che gli studiosi di sicurezza definiscono” grand strategy”.
A
differenza di moltissimi altri Paesi, non pubblichiamo una Strategia di
Sicurezza Nazionale.
Già di
per sé la mancata pubblicazione di questo documento costituisce un mancato
sfruttamento dell’opportunità fornita dalla guerra.
Al
contrario dell’Italia, infatti, entro due anni dall’inizio del conflitto tutte
le principali potenze europee hanno elaborato o aggiornata la loro strategia di
sicurezza nazionale.
La
Francia ha pubblicato una nuova Strategia nel novembre del 2022.
Il
Regno Unito ha pubblicato un aggiornamento della sua “Integrated Review of
Security, Defence, Development and Foreign Policy” nel marzo del 2023.
Perfino la Germania, che per anni non aveva
mai pubblicato un documento del genere, è riuscita a produrre nel giugno del
2023 la prima “Strategia di Sicurezza Nazionale tedesca”.
In Italia, il “Ministro Guerini” aveva
riconosciuto la necessità di produrre un documento di tale tipo, ma nonostante
la guerra il tema non sembra essere più sul tavolo.
L’Italia
rimane l’unico Paese del G7 a non possedere un documento che indica quali sono
le minacce agli interessi dell’Italia e quali le strategie per farvi fronte.
L’Italia,
comunque, pubblica diversi documenti che, anche se non costituiscono una
strategia di sicurezza nazionale, chiariscono quali sono le priorità delle
Forze armate.
Il più
importante di questi è il DPP.
Come
già spiegato, il DPP 2023-2025 stabilisce che il “focus delle Forze armate
italiane deve essere la difesa dello Stato”.
Una
reazione, quindi, almeno a parole, c’è stata.
Cerchiamo
però di capire in cosa consiste nei fatti.
Cominciamo
con il budget.
Per
valutare la reazione dell’Italia, è utile osservare l’evoluzione del budget in
termini relativi.
Utilizziamo
quindi i dati dell’”International Institute for Strategic Studies” (IISS) e
osserviamo cosa hanno fatto le principali potenze europee.
Secondo il “Military Balance 2024”, il budget
della Francia è passato da 49,7 miliardi di euro del 2021 a 58,8 nel 2024
(+18%), quello della Germania è passato dai 46,9 miliardi del 2021 ai 71
miliardi del 2024 (+51%).
Per il Regno Unito non sono disponibili i dati
2024.
Osserviamo
quindi l’evoluzione del budget nel triennio 2021-2024.
In
questi anni, il budget è passato da 51,5 miliardi di sterline (circa 60,2 mld
di euro) a 58,5 (circa 68,4 mld di euro), un aumento del 13,6%. Veniamo
all’Italia.
Secondo
il “Military Balance”, il nostro budget della difesa è passato da 28,3 miliardi
del 2021 a 30.3 miliardi del 2024 (+7%).
Secondo
l’IISS, quindi, l’Italia ha sì aumentato il budget della difesa, ma lo ha fatto
in maniera decisamente meno consistente delle altre potenze europee.
E questo nonostante il nostro bilancio della
difesa sia decisamente meno elevato rispetto a quello di Francia, Germania e
Regno Unito.
Possiamo
quindi fornire una prima valutazione.
In
termini di spesa militare, la politica militare italiana non è cambiata
radicalmente.
Rispetto alle altre potenze europee, l’Italia
non ha incrementato notevolmente il budget.
Non siamo riusciti a cogliere l’opportunità della
guerra per aumentare le risorse che dedichiamo alle nostre Forze armate e
iniziare a ridurre la gravissima distanza che separa il nostro bilancio da
quello dei nostri maggiori alleati europei.
Gli
investimenti.
Veniamo
adesso ad analizzare più specificamente la politica militare italiana.
Cominciamo
osservando il modo in cui la Difesa spende le sue risorse. Per analizzare il
budget, la fonte più autorevole in Italia è “Rivista Italiana Difesa” (RID).
Il
quotidiano diretto da “Pietro Batacchi” è forse meno noto di altri istituti che
si occupano di difesa nel nostro Paese, ma le analisi di “RID” sono senza
dubbio quelle più precise e più elaborate.
Bisogna
notare che i numeri indicati da RID sono diversi da quelli dell’IISS, perché la
rivista di Batacchi considera solamente le spese specificatamente dedicate alla
difesa, mentre la cifra indicata dall’Italia all’IISS è gonfiata da altri
elementi.
RID,
in particolare, utilizza il dato che l’Italia comunica alla NATO, il cosiddetto
‘bilancio integrato in chiave NATO’.
Nel
2024, questo bilancio è pari a 27,5 miliardi di euro, pari a 1,4% del PIL e ben
inferiore al dato fornito dall’IISS (30,3 miliardi).
Analizziamo
questo bilancio, partendo dalle buone notizie.
Il
dato positivo è che, a partire dal 2021, la spesa per gli investimenti ha
registrato un trend di crescita costante.
Nel 2021, questa spesa era pari a 7,4 miliardi
di euro (i dati sono consultabili sul fascicolo 02/2022 di RID), mentre la
cifra stanziata per il 2024 è pari a circa 9,96 miliardi, una “cifra record”
secondo il direttore Batacchi, secondo il quale “se l’Italia vuole avere Forze
armate all’avanguardia, capaci di operare al meglio in scenari sempre più
convenzionali…la tendenza è quella corretta”.
Bisogna però dire che questa crescita è
iniziata prima della guerra, perciò non è corretto definirla una reazione al
conflitto.
In
ogni caso, la guerra ha probabilmente agito da ulteriore stimolo a questa
tendenza.
La reazione, in questo senso, è stata
positiva:
l’Italia riconosce di dover modernizzare il
proprio strumento militare non solo a parole, ma nei fatti, aumentando le
risorse per l’acquisto di nuovi mezzi e sistemi d’arma.
Vediamo
come vengono spesi questi soldi.
Nei
programmi della difesa approvati nel DPP 2023-2025, l’accento verso il primo
dei compiti delle forze armate di cui parla il Ministro Crosetto
nell’introduzione si riflette chiaramente nelle decisioni prese dal Dicastero
riguardo i nuovi programmi da finanziare a partire dal 2023.
Dei
4.623 milioni di euro messi a disposizione del dicastero per l’avvio di tredici
nuovi programmi, più del 90% dei fondi sono dedicati a programmi di
modernizzazione della componente corazzata dell’Esercito:
si
tratta dell’acquisto dei carri MBT Leopard 2 (volume finanziario pari a 2.264
milioni) e del progetto Armored Infrantry Combat System (AICS) per l’acquisizione di un sistema di
sistemi per la fanteria pesante dell’Esercito (1.646 milioni).
L’Italia
sceglie quindi di investire pesantemente nelle forze corazzate. Anche in questo
caso, la reazione non è stata solo a parole ma anche nei fatti.
Va
detto, tuttavia, che quella di investire nell’acquisto di nuovi mezzi corazzati
non era affatto una scelta scontata.
Nel Regno Unito, per esempio, c’è stato nel
2021 un ampio dibattito in merito al futuro della componente corazzata.
Anche
oggi, Londra riconosce che le risorse sono scarse e sta cercando di capire se
vale la pena specializzarsi in determinati settori oppure cercare di riuscire a
esprimere un maggior numero di capacità militari.
In questo senso, ciò che stupisce in Italia
non è tanto la scelta di acquistare nuovi corazzati.
Questa
può essere o meno una scelta ragionevole a seconda del tipo di impiego che
l’Italia immagina per l’Esercito nei prossimi quarant’anni. Ciò che stupisce in
Italia è stata proprio l’assenza di un dibattito strutturato in merito a ciò
che le nostre Forze armate debbano fare nel futuro.
Non
abbiamo discusso a sufficienza di ciò che realisticamente vogliamo dalle nostre
forze armate per i prossimi quarant’anni, né sappiamo con chiarezza dove
intendiamo usarle e come.
Il
fatto che le nostre risorse siano limitate dovrebbe invitarci a ragionare in
maniera molto approfondita prima di impegnare il nostro Paese in un
investimento di questo tipo.
Un investimento che non solo costerà
moltissimo, ma che influenzerà la politica militare italiana per decenni.
Già non disponiamo di un documento che indichi
con chiarezza quali sono le sfide alla nostra sicurezza nazionale e i modi in
cui vogliamo affrontarle;
se poi prendiamo scelte così importanti senza
nemmeno avviare prima un dibattito che coinvolga, oltre alle Forze armate e
l’industria militare, anche l’accademia e i centri di ricerca, il rischio è che
le scelte che effettuiamo in materia di politica militare si rivelino
inefficaci nel lungo termine.
Bisognerebbe
stimolare l’università e i centri di ricerca ad occuparsi con più interesse
alla politica militare:
non si
può continuare a prendere scelte così importanti in Italia senza un importante
apparato intellettuale che ne dibatta, in questo modo esercitando una
importante forma di controllo dell’esecutivo e del complesso
militare-industriale.
È un vulnus grave per la nostra democrazia e un
rischio per la sicurezza nazionale.
Tutto
sommato, quindi, benché sia una buona notizia che l’Italia abbia preso una
decisione così importante come quella di investire nuovamente nella componente
corazzata, la cattiva notizia è che questa decisione è stata presa senza che
venisse prima avviato un dibattito volto a definire con chiarezza l’impiego che
realisticamente vogliamo fare delle nostre forze armate nei prossimi
quarant’anni.
La
spesa per il personale e per l’esercizio.
Veniamo
alle note dolenti del budget.
Queste
riguardano, come al solito, gli altri due settori di spesa: personale ed
esercizio.
Nel
2024, secondo RID, le spese per il personale della Difesa sono pari a 11-11,3
miliardi, contro i circa 10,5 miliardi del 2021.
Questi
sono i soldi messi a disposizione dalla difesa.
Per
verifica la cifra totale messa a disposizione per il personale occorre però
considerare anche l’ausiliaria, le pensioni e le indennità del personale in
operazione all’estero.
Difficile
fare un calcolo esatto di queste cifre.
Il
dato del budget comunicato alla NATO indica che, in termini percentuali,
l’Italia, nel 2023, ha speso il 60,7% del budget per spese relative al
personale.
Troppo,
se paragonato con gli altri Paesi europei: Germania 36,6%, Francia 40,1%, Regno
Unito 30,6%.
Qual è
l’andamento delle spese per il personale?
La risposta in questo caso non è semplice.
Secondo
il direttore di RID, queste sono “sostanzialmente in linea con lo scorso anno
(il 2023)”, ma a giudicare dai dati presentati dall’Italia alla NATO, sembra
che queste spese stiano in realtà diminuendo, dato che nel 2021 Italia spendeva
per il personale il 63% del budget.
Insomma, non è chiaro qual è il vero trend.
Resta il fatto, tuttavia, che la spesa per il
personale in Italia rimane eccessivamente alta, e che, tutto sommato, dal 2021
a oggi, l’Italia ha fatto poco per ridurre questo squilibrio.
Veniamo
alla seconda nota dolente, l’esercizio.
Secondo
RID, nel 2024 l’Italia mette a disposizione 1,5-1,8 miliardi per addestrare le
proprie unità e per garantire l’operatività del proprio strumento militare.
Il
dato, purtroppo, è in calo.
Come fanno notare alcuni analisti, nel 2021 le
spese per l’esercizio erano pari a 2,2 miliardi di euro.
C’è
quindi una drastica diminuzione, registrata anche da RID, secondo il quale
rispetto al 2023 c’è un calo di circa 1 miliardo di euro.
Per il
direttore Pietro Batacchi siamo in una vera e propria “emergenza”, soprattutto
“se lo si legge (il dato) nell’ottica delle lezioni che giungono dal teatro di
guerra ucraino e che dimostrano come scorte, addestramento ed efficienza dei
mezzi siano priorità per delle Forze armate che vogliono operare al meglio in
scenari altamente contestati di tipo “near peer” o “peer”.
Dopo
la guerra, quindi, le nostre Forze armate sono ancora afflitte da un grave
sbilancio della spesa a favore del personale e a scapito dell’addestramento.
È
vero, questo sbilanciamento si risolve nel lungo termine, non ci si può
aspettare che la difesa lo risolva in due anni.
Ma è
anche vero che di iniziative concrete messe in campo per sistemare questo
sbilanciamento se ne sono viste poche.
Anzi,
le spese per il personale, come fa notare RID, verosimilmente aumenteranno, con
l’arruolamento di 10.000 nuove unità previsto nella prossima revisione dello
strumento militare.
Quelle per l’addestramento, come si è visto,
diminuiscono, invece di aumentare.
Insomma, l’analisi della spesa per il
personale e per l’esercizio rivela che l’Italia, di fatto, non è riuscita a
cogliere l’opportunità fornita dalla guerra per riequilibrare lo sbilanciamento
della spesa militare, specialmente nel settore esercizio.
Il
reclutamento e l’impiego delle forze.
Analizziamo
due altri importanti elementi della politica militare: reclutamento e impiego
delle forze.
Partiamo
dal primo. Qual’ è stata la reazione degli italiani?
Le
forze armate hanno perso o guadagnato attrattività dopo la guerra? Premetto che
non è alquanto facile rispondere a questo quesito perché il numero di domande
presentate ai vari concorsi dipende da numerosi fattori, perciò stabilire se la
crescita o la riduzione delle domande sia determinata dal conflitto in Ucraina
non è affatto facile.
È
utile però presentare i dati per farsi un’idea generale.
In
generale, la difesa registra un calo delle domande.
A
livello complessivo, considerando cioè i numeri della Marina, dell’Esercito e
dell’Aeronautica, i dati sono disponibili solo per il biennio 2021-2022.
In
questi due anni, il numero delle domande per accedere alla categoria dei VFP1
(grado più basso) è calato, passando da 68.678 del 2021 a 56.941 del 2022
(-17.08%).
I dati
complessivi per il 2023 ancora non sono disponibili.
Lo sono però quelli dell’Esercito, che dal
2021 al 2023 registra anch’esso un calo della domanda sia dei “VFP1” (da 46.166
a 39.300, pari al – 14,8%) che degli allievi marescialli (da 13.179 a 1.624,
pari a -87,7%, dato assolutamente sorprendente e difficile da spiegare) e degli
allievi ufficiali (da 8.720 a 4.626, pari a -47%).
Ancora
una volta, difficile stabilire la ragione.
Notiamo
però che c’è un calo.
Anche
se non è possibile concludere che, dopo la guerra, l’attrattività delle forze
armate sia calata, certamente non è aumentata.
Terminiamo
con un ultimo aspetto, quello relativo all’impiego delle forze.
A
giudicare da come impiega le proprie forze armate, l’Italia sembra veramente
decisa a modernizzare le proprie forze per renderle capaci di agire in contesti
simili a quelli che osserviamo in Ucraina?
Ritengo
che in questo caso sia possibile avanzare una valutazione molto più severa
rispetto a quelle proposte fino ad ora.
Prima
però di procedere con la valutazione, è importante spiegare che da quasi dieci
anni il principale impiego della forza terrestre italiana, l’Esercito, è
incredibilmente divenuto quello di supportare le forze di polizia all’interno
del territorio nazionale.
Lo conferma anche l’Esercito stesso, che nella
pagina internet dedicata all’operazione scrive che ‘Strade Sicure’ – questo il
nome dell’operazione condotta dall’Esercito – “è, a tutt’oggi, l’impegno più
oneroso della Forza Armata in termini di uomini, mezzi e materiali”.
Ebbene,
questa operazione, come evidenziato da decenni di ricerca scientifica sul tema
e come riconosciuto perfino da numerosi rappresentanti delle Forze armate e
importanti capi della polizia, in realtà presenta notevoli problemi per lo
strumento militare.
Sebbene
venga presentato come un grande successo, l’impiego dei militari in “Strade
Sicure” non solamente sottrae quotidianamente all’addestramento migliaia di
professionisti, costretti a trascorrere ore in piedi davanti al Colosseo o alla
stazione Termini invece che mettere in pratica le proprie competenze
professionali, ma contribuisce a svilire la professionalità dei nostri militari
e ad abbatterne il morale e la motivazione.
Sorprendentemente,
mentre tutta l’Europa riconosce che occorre ricostituire apparati militari in
grado di condurre operazioni di combattimento ad alta intensità, l’Italia non
solo continua a impiegare migliaia di uomini nell’operazione Strade Sicure (nel
2024 saranno circa 7.000), peraltro in compiti sempre più bizzarri, ma anzi
aumenta il numero di soldati che vi partecipano.
Se
fossimo veramente intenzionati a costruire forze pronte al combattimento,
chiuderemmo immediatamente l’operazione.
Tutto
sommato, quindi, i cambiamenti della politica militare italiana dopo la guerra
sembrano modesti.
Rispetto
alle altre potenze europee, l’Italia non è riuscita ad aumentare il budget
della difesa in maniera sostanziale.
Abbiamo
preso scelte importanti in materia di “procurement”, ma lo abbiamo fatto alla
cieca, senza avviare un dibattito in merito al futuro del nostro strumento
militare;
questo
anche perché l’Italia non è in grado di definire i propri interessi nazionali e
le minacce che li insidiano.
Nonostante
la guerra, infatti, l’Italia non è riuscita a produrre una “Strategia di
Sicurezza Nazionale italiana”.
Un
dato positivo è che abbiamo aumentato la spesa per gli investimenti, ma allo
stesso tempo abbiamo tagliato la spesa per l’addestramento e la manutenzione,
due elementi fondamentali per garantire la prontezza delle unità.
I dati sul reclutamento sono difficili da
leggere, ma apparentemente sembrano mostrare che le forze armate perdono di
attrattività.
L’Italia, poi, continua a impiegare migliaia
di militari in funzioni di polizia, un’attività che impedisce ai nostri soldati
di addestrarsi per il combattimento.
La
guerra alle porte dell’Europa è un fenomeno tragico, ma è anche un’opportunità,
perché ci invita a ragionare sulle nostre debolezze e a correre ai ripari.
L’Italia fino ad ora non ha saputo cogliere
questa opportunità in maniera abbastanza decisa.
Per
colmare i deficit del nostro strumento militare, occorrono più determinazione e
maggiori risorse.
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