L’umanità si affida ai padroni del mondo.

 

L’umanità si affida ai padroni del mondo.

 

 

Stati Uniti e Israele Bombardano

4 Paesi in 12 Ore… e Non Fa Notizia!

Conoscenzealconfine.it – (14 Novembre 2024) – Redazione -l’antidilomatico.it – ci dice:

 

Nelle ultime 12 ore “Israele”, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno bombardato contemporaneamente 4 paesi del Medio Oriente.

In un video che ricapitola si vede che  sotto ci sono i raid contro Libano, Gaza, la Siria e lo Yemen.

 

L’Occidente e la sua emanazione più spietata, lo stato di Israele, possono bombardare 4 paesi alla volta e questo non fa nemmeno notizia nei liberi media nostrani?

Che credibilità possono avere ancora le istituzioni su cui si regge il cosiddetto diritto internazionale alla luce del video -sopra indicato?

E soffermatevi un momento a riflettere su quello che potrebbe succedere, sempre a livello del libero circo mediatico, se a compiere questi crimini contro paesi sovrani fossero altri paesi?

 Russia, Cina, Iran ad esempio?

La perdita di ogni forma di credibilità da parte dei media e governi del famigerato occidente allargato agli occhi della maggioranza globale dipende da questa auto immune impunità.

 Il “sistema delle regole” imposte dagli Stati Uniti è collassato anche e soprattutto per questo.

(lantidiplomatico.it/dettnews-stati_uniti_e_israele_bombardano_4_paesi_in_12_ore_e_non_fa_notizia/45289_57664/)

 

 

 

Merci Macchiate del Sangue Palestinese.

Lettera Aperta a “Eurospin.”

Conoscenzealconfine.it – (15 Novembre 2024) - Patrizia Cecconi – L’antidiplomatico.it - ci dice:

 

Pubblichiamo questa lettera aperta che la giornalista e saggista “Patrizia Cecconi” ha inviato ai dirigenti di “Eurospin”, nella quale spiega perché è semplicemente immorale vendere merci macchiate di sangue e prodotte su terre rubate ai palestinesi.

 Nella fattispecie i datteri “Medjoul “provenienti da “Gush Etzion”.

Gentili Dirigenti Eurospin,

“Sono una Vostra fedele cliente da almeno trent’anni, quando i Vostri punti vendita erano ancora identificabili come tipici “discount”.

 La prima volta che entrai in uno di essi scoprii che alcuni prodotti non costavano poco per scarsa qualità, ma perché venivano da alcune piccole ottime aziende che per caso io conoscevo.

 Per questo ho seguitato a frequentare “Eurospin” che, ormai, è ricco di prodotti di qualità nonostante i prezzi popolari.

Questa premessa per dirvi che non Vi scrivo per fare una critica dei Vostri prodotti ma per farvi presente che ho trovato sui Vostri banchi i deliziosi datteri “Medjoul”, che conosco molto bene avendo passato diversi anni in Palestina.

 Però ho visto di persona cosa fanno i coloni dai quali provengono quei datteri, e questo è il motivo per cui i prodotti provenienti dalle colonie ebraiche, illegali e non israeliane, in quanto insediatesi su territori violentemente confiscati ai palestinesi, non dovrebbero trovar posto sui banchi di chi si fa una splendida pubblicità giocando col” genio Einstein”, primo firmatario di una lettera di condanna a Israele.

 

“Gush Etzion “è un insieme di 22 colonie tra le più delinquenziali, dalle quali partono spedizioni criminali che bruciano alberi, automobili e abitazioni palestinesi, che picchiano i palestinesi, compresi i bambini, per puro odio razzista in stile “Ku Klus Klan” e generalmente operano sotto “discreta” copertura dell’esercito israeliano.

Inutile cercare informazioni nei nostri notiziari, a meno che la violenza non sia spettacolare, come quando i coloni hanno bruciato vivo un ragazzino palestinese dopo averlo costretto a bere benzina, notizia data en passant e subito dimenticata.

Però è possibile conoscere le loro azioni tramite video girati e distribuiti da loro stessi per vantarsi dei propri crimini.

È anche possibile leggere i report di “Amnesty International”, che non è certo un’organizzazione di parte.

Questa lunga esposizione, che spero abbiate avuto la pazienza di leggere, è la necessaria premessa per chiedervi di togliere dai Vostri banchi merce di provenienza illegale, merce che in qualche modo è macchiata di sangue.

 La Vostra splendida pubblicità circa “la spesa intelligente” sarebbe bello che si trasformasse anche in “spesa etica”, tanto più che proprio” Einstein”, ebreo rispettoso dei diritti umani, come detto sopra, fu il primo firmatario di una lettera contro i crimini di Israele nel lontano dicembre del 1948.

Ed era solo un “aperitivo” rispetto a quello che avrebbe seguitato a fare, stritolando non solo decine e decine di migliaia di vite umane, ma anche tutte le norme del diritto internazionale, a partire dai principi del diritto umanitario universale, senza mai avere neanche una sola sanzione.

Sappiamo tutti che la violenza genera violenza e visto che le Istituzioni internazionali non hanno la volontà o la possibilità di fermarla, lo può fare solo la società civile ed è per questo che Vi chiedo di togliere dai vostri banchi i prodotti delle colonie israeliane a partire dai deliziosi datteri “Medjoul” che, se volete, potete acquistare dalle poche imprese palestinesi che ancora riescono a produrne, finché i coloni non ruberanno anche le loro palme.

“ Einstein” lo apprezzerebbe, di questo potete esser certi e potreste anche andarne fieri!

Resto in attesa di una Vostra gentile risposta e invio cordiali saluti”.

(Patrizia Cecconi)

(lantidiplomatico.it/dettnews-merci_macchiate_del_sangue_palestinese_lettera_aperta_a_eurospin/39602_57630/).

 

 

 

 

La sconfitta dell’occidente

oligarchico e nichilista.

 

 Contropiano.org - Alessandro Scassellati – (15 novembre 2024) – ci dice:

 

Lo storico, demografo, antropologo e sociologo neo-weberiano Emmanuel Todd, allievo dello storico inglese Peter Laslett a Cambridge e noto per aver predetto con diversi anni di anticipo il crollo dell’URSS, ha scritto un libro importante e molto ambizioso, “La sconfitta dell’Occidente” (Fazi Editore, Roma 2024), pieno di spunti geniali, ipotesi ardite e brillanti e scomode provocazioni. Insomma, un libro da leggere con gusto.

 

È stato scritto tra il luglio e il settembre del 2023 (durante l’estate della fallita controffensiva ucraina pianificata dal Pentagono), ma è uscito in Italia in settembre con una prefazione scritta nel giugno 2024.

Il libro cerca di fare il punto sulla disastrosa condizione presente e la tesi centrale è che l’Occidente, più che essere sotto attacco da parte della Russia, “si sta distruggendo da sé”: la crisi endogena dell’Occidente è il motore del momento storico che stiamo vivendo.

 “A mettere a rischio l’equilibrio del pianeta è una crisi occidentale, e più precisamente una crisi terminale degli Stati Uniti, le cui onde più periferiche sono andate a schiantarsi contro la banchina della resistenza russa, contro un classico Stato-nazione conservatore” (pag. 38).

 

L’Occidente è diventato totalmente autoreferenziale, convinto che avrebbe potuto facilmente imporre il suo modello al resto del mondo. “Il sistema occidentale odierno ambisce a rappresentare la totalità del mondo e non ammette più l’esistenza dell’altro. Tuttavia, … se non riconosciamo più l’esistenza dell’altro, legittimamente tale, alla fine cessiamo di essere noi stessi” (pag. 51).

Ogni civiltà è viva e capace di agire con coerenza, se ha una identità dialettica. Secondo Todd, l’America di Eisenhower negli anni ’50, grazie ai lavori di alcuni antropologi e scienziati politici (Margaret Mead, Ruth Benedict, Edward Banfield, etc.) era ancora capace di riconoscere “l’altro” (ossia la diversità socio-culturale del mondo), in particolare la specificità delle culture russa, giapponese o dell’Italia meridionale (pp. 72-73). Ora, prevale una concezione uniforme dei popoli.

In larga parte, si tratta di un’analisi geopolitica classica che prende in considerazione diversi elementi – tenore di vita, forza del dollaro, meccanismi di sfruttamento, rapporti di forza militari oggettivi – più o meno razionali in superficie, “tuttavia, abbandonerò l’ipotesi esclusiva di una ragione ‘ragionevole’ e proporrò, invece, una visione più ampia della geopolitica e della storia, integrando meglio quel che è assolutamente irrazionale nell’uomo, in particolare i suoi bisogni spirituali” (pag. 49).

Con questo Todd intende dare rilevanza ad una serie di elementi culturali ed ideologici che rientrano in un approccio olistico weberiano che cerca di tenere insieme quello che i marxisti intendono per rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura, anche se Todd tende a considerare alcuni elementi culturologici sovrastrutturali, a cominciare dalla religione protestante, come i veri motori della storia umana, nel bene e nel male.

Cosa è l’Occidente.

Così per definire cosa è l’Occidente, Todd non ricorre al 1492 (la data emblematica della “scoperta” del continente americano da parte di Colombo che ha dato avvio alla conquista europea del resto del mondo), né al capitalismo mercantile e industriale, né alla democrazia liberale3, mentre riserva un’importanza cruciale al ruolo della religione.

 

“All’origine e al centro dello sviluppo occidentale non troviamo il mercato, l’industria e la tecnologia, bensì una religione in particolare il protestantesimo. Mi sto dunque muovendo da bravo allievo di Max Weber, il quale poneva la religione di Lutero e di Calvino all’origine di quella che, all’epoca, sembrava essere la superiorità dell’Occidente. Tuttavia, a oltre un secolo dalla pubblicazione di L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, avvenuta nel 1904 e nel 1905, possiamo spingerci al di là di Weber in maniera affatto inedita. Se, come egli afferma, il protestantesimo è stato davvero la matrice del decollo dell’Occidente, allora è la sua morte, oggi, a causarne la dissoluzione, e più prosaicamente la sconfitta” (pp. 147-148).

Come l’ebraismo, il “protestantesimo alfabetizza” le popolazioni su cui domina, sottolinea Todd, dal momento che tutti i fedeli devono avere accesso diretto alle Sacre Scritture, non attraverso l’intermediazione della Chiesa come solitamente avviene tra i cattolici. E una popolazione alfabetizzata è capace di progredire a livello sia tecnologico sia economico.

La religione protestante ha dunque contribuito a forgiare una forza lavoro altamente efficiente. Inoltre, sul piano delle concezioni sociali, l’alfabetizzazione “alimenta un sentimento di uguaglianza quasi metafisica tra tutti i cittadini” (pag. 156).

Allo stesso tempo, però, il mondo protestante condivideva l’idea, ereditata dalla dottrina della predestinazione calvinista, secondo cui alcuni sono eletti e altri dannati, per cui gli uomini non sono tutti uguali. Un’idea che si contrapponeva a quella cattolica e ortodossa dell’uguaglianza fondamentale di tutti gli uomini, mondati dal peccato originale attraverso il battesimo.

“Non sorprende, dunque, che le due forme più potenti o durevoli di razzismo siano emerse nei paesi protestanti. Il nazismo si è radicato nelle regioni luterane della Germania … Quanto alla fissazione americana per i neri, ha anch’essa molto a che vedere con il protestantesimo. Infine, non vanno dimenticate l’eugenetica e le sterilizzazioni forzate, in particolare nella Germania nazista, in Svezia tra il 1935 e il 1976 e negli Stati Uniti tra il 1907 e il 1981: sono il logico risultato di un ambiente protestante che non riconosce tutti i diritti fondamentali a ogni singolo individuo” (pag. 150-151).

Todd sostiene che “una nazione è un popolo reso cosciente da un credo collettivo e una élite che lo governa in base a tali convinzioni” (pag. 181), per cui ci tiene a sottolineare che il protestantesimo “è stato anche il motore principale dello sviluppo degli Stati-nazionali. … Effettivamente, esigendo la traduzione della Bibbia in lingua volgare, Lutero e i suoi seguaci hanno contribuito in maniera determinante alla formazione di culture nazionali e di Stati potenti, bellicosi e consapevoli di sé: l’Inghilterra di Cromwell, la Svezia di Gustavo Adolfo e la Prussia di Federico II. Il protestantesimo ha dato origine a dei popoli che, a furia di leggere troppo la Bibbia, hanno finito con credersi eletti da Dio” (pag. 151) e predicare il proprio eccezionalismo.

Se il protestantesimo originario di Lutero era di stampo autoritario (predicava la sottomissione assoluta dell’individuo allo Stato), secondo Todd questo è stato dovuto ad una predisposizione antropologica: la famiglia ceppo o multipla verticale tedesca (che per Todd “ha reso possibile il nazismo” – pag. 153) prevedeva che solo uno dei figli era chiamato a vivere con il padre e ad ereditare (non vi era uguaglianza tra i fratelli).

Ma al protestantesimo autoritario tedesco si è contrapposto quello “democratico liberale” dell’Inghilterra, dove “la famiglia nucleare assoluta non era mai composta da più di una coppia e dai propri figli, i quali si separavano dai genitori una volta diventati adolescenti … Questo sistema preparava gli individui alla libertà e instillava persino in loro un inconscio liberale che i coloni inglesi esportarono in America” (pag. 152).

 

La Francia cattolica, “per contiguità” è riuscita a mantenersi nella sfera più sviluppata dell’Occidente, che è essenzialmente protestante, e nonostante che nel bacino parigino la famiglia nucleare fosse di tipo egalitario, dal momento che fratelli e sorelle ereditavano in egual misura, laddove nel mondo anglosassone non esisteva affatto una simile regola di uguaglianza tra i figli.

La Rivoluzione francese ha tratto la sua ispirazione egualitaria proprio dalla regione di Parigi (ma anche da Marsiglia e dalla regione mediterranea) dove prevaleva questa struttura familiare in cui i fratelli ereditavano in modo egualitario i beni del padre e dove la popolazione ha abbandonato la Chiesa in favore di Marianne, l’incarnazione della libertà e della ragione repubblicana.

Questo, mentre le regioni francesi con strutture familiari autoritarie e inegualitarie – come la Vandea – erano ancora sotto l’influenza della Vergine Maria, ossia di un cattolicesimo teologicamente e socialmente reazionario.

Todd sostiene che esistono due definizioni di Occidente. La prima è una definizione ampia che considera il fiorire dell’istruzione, l’affermazione dell’economia capitalistica e del sistema di potere statunitense, che arriva a comprendere paesi come Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Germania, Italia e Giappone. “Questo è l’Occidente dei politici e dei giornalisti di oggi, e di una NATO allargata al protettorato giapponese” (pag. 148). In questo Occidente allargato, il decollo dello sviluppo economico rispetto al resto del mondo è stato determinato da due rivoluzioni culturali: il Rinascimento italiano e la Riforma protestante tedesca.

La seconda è più ristretta e “assume come criterio di inclusione la partecipazione alla rivoluzione liberale e democratica“. In tal caso, si ottiene un gruppo più ristretto, in cui rimangono solamente Inghilterra, Stati Uniti e Francia.

La “Glorious Revolution” inglese del 1688 (con la deposizione del re Giovanni II e la conferma del primato del Parlamento sulla Corona sia in Inghilterra che in Scozia), la Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 e la Rivoluzione francese del 1789 (con la decapitazione di Luigi XVI e di sua moglie Maria Antonietta) sono gli eventi su cui si fonda questo Occidente liberale ristretto.

In senso lato, dunque, l’Occidente non è storicamente “liberale”, poiché “ha generato anche il fascismo italiano, il nazismo tedesco e il militarismo giapponese” (pag. 148).

 Si potrebbe aggiungere che tra i mostri che questo Occidente (sia lato sia ristretto) ha generato nel corso degli ultimi 500 anni di storia ci sono anche la conquista violenta dell’America e del sud del mondo, il genocidio dei popoli nativi, lo schiavismo degli africani e di altri popoli indigeni, il colonialismo, il capitalismo, l’imperialismo, il patriarcato, l’odio di classe, il razzismo, l’apartheid e il suprematismo bianco.

Todd è un convinto sostenitore della tesi che ritiene che le democrazie occidentali siano in una crisi terminale e che stiamo vivendo in una postdemocrazia (cita tutti i testi più rilevanti sul dibattito della crisi della “democrazia liberale” pubblicati negli ultimi due decenni, da Cristopher Lasch a Colin Crouch – pp. 153-155) e non sopporta la narrazione mainstream incentrata sulla contrapposizione tra le “democrazie liberali” occidentali e le “autocrazie”.

 

Todd considera paradossale che l’Occidente pretenda di rappresentare la “democrazia liberale” in contrapposizione alle “autocrazie”, come quella russa, proprio mentre il suo nucleo anglo-americano-francese, quello che ha inventato tale forma di democrazia, è in una crisi profonda, forse terminale. Semmai, per Todd, si tratta di “un confronto tra le oligarchie liberali occidentali e la democrazia autoritaria russa” (pag. 158).

La teoria di Todd dello sviluppo dei sistemi politici in rapporto alle strutture antropologiche e alla stratificazione educativa

Oltre ad utilizzare un approccio neo-weberiano che fa leva sul ruolo della religione (protestantesimo), Todd utilizza alcuni dati antropologici, in particolare relativi alle strutture familiari e ai sistemi di parentela, insieme ad una teoria della stratificazione educativa, per spiegare le peculiarità dello sviluppo dei sistemi politici.

Istruttivo il seguente passaggio: “A livello empirico, possiamo associare la diffusione di un carattere democratico primario, sotto varie forme – liberale o autoritario, egualitario o inegualitario – a seconda delle strutture antropologiche di ciascun paese, al superamento del 50% di individui alfabetizzati. Nel mondo angloamericano, questa transizione ha dato origine al liberalismo puro tra il XVII e il XVIII secolo, in Francia al liberalismo egualitario a partire dal XVIII secolo, in Germania alla socialdemocrazia e al nazismo nel XIX e nel XX secolo, e in Russia al comunismo.

Allo stesso modo, l’accesso all’istruzione superiore del 20-25% degli studenti per generazione ha portato allo sgretolamento di queste ideologie primarie legate alla fase di alfabetizzazione di massa. Ha preso quindi forma una nuova stratificazione delle società [con l’emersione di una classe media]; il rapporto con la parola scritta e con l’ideologia è divenuto più critico, la parola di Dio, gli incantesimi del Führer, le istruzioni del Partito, o anche dei partiti, hanno perduto la propria trascendenza. La Russia ha raggiunto questa soglia tra il 1985 e il 1990 (negli Stati Uniti ciò è avvenuto intorno al 1965)” (pp. 67-68).

All’inizio del terzo millennio, nota Todd, il sentimento di uguaglianza democratica basilare sembra essersi esaurito. Storicamente, la diffusione dell’alfabetizzazione universale è stato un motore di democratizzazione e un potente solvente di pregiudizi e disuguaglianze, soprattutto tra i sessi, ma lo sviluppo dell’istruzione superiore (lauree e dottorati) “ha finito per dare al 30 o 40% di una generazione la sensazione di essere veramente superiore: un élite di massa, un ossimoro che ben introduce la stranezza della situazione” (pag. 156).

In questa generazione si è fatta strada l’idea di possedere una superiorità intrinseca: al sogno dell’uguaglianza è subentrata una legittimazione della disuguaglianza, anche grazie alla manipolazione dell’ideologia del “merito”.

La globalizzazione ha esacerbato questa divisione, perché le persone con un’istruzione superiore si sono schierate con l’élite ricca nella mal riposta speranza di condividerne i guadagni. D’altra parte, i “bifolchi” diffidano di questa élite. “Il rappresentante del popolo, un membro dell’élite di massa e con un’istruzione superiore non ha più rispetto per chi possiede un’istruzione primaria e secondaria e, di fondo, qualunque sia la sua etichetta di partito, non può fare a meno di sentire i valori delle persone più istruite come gli unici legittimi. È uno di loro, quei valori sono lui stesso e, ai suoi occhi, tutto il resto è privo di significato, vuoto: egli non potrà mai rappresentare alcun genere di alternativa” (pag. 157).

 

L’aumento delle disuguaglianze negli ultimi decenni, un fenomeno associato alla globalizzazione economica (accelerata dal NAFTA, dagli accordi free trade e dall’entrata della Cina nel WTO nel 2001) e al neoliberismo (un fenomeno ideologico con drammatici effetti economici di cui Todd parla poco4), “ha frantumato le classi tradizionali, ma ha anche peggiorato le condizioni materiali e l’accesso all’occupazione degli operai e delle stesse classi medie” (pag. 157).

Una evoluzione che ha contribuito alla nascita di movimenti e partiti identitari, xenofobi, di estrema destra, populisti e a far spostare a destra movimenti e partiti centristi e di centro-sinistra.

Secondo Todd, “l’antropologia delle strutture familiari ci aiuta a comprendere per quale ragione e in che modo l’Inghilterra, gli Stati Uniti e la Francia [l’Occidente ristretto] abbiano contribuito alla nascita della democrazia liberale. In questi paesi, infatti, lo sfondo familiare nucleare poteva alimentare un liberalismo istintivo” (pag. 152) e una cultura individualistica.

In Germania e in Giappone, invece, i valori fondamentali della famiglia ceppo erano l’autorità (del padre sui figli) e la disuguaglianza (tra fratelli). “L’ineguaglianza dei fratelli è diventata la disuguaglianza degli uomini e dei popoli. L’autorità diviene invece il diritto di dominare i popoli più deboli” (pag. 183). Diventa possibile per i governanti arrivare a pensare che il loro paese è superiore a tutti gli altri e che questi devono obbedienza.

Infine, Todd avanza anche l’ipotesi di un nesso tra il comunismo e la famiglia contadina comunitaria (la grande famiglia patriarcale) che secondo lui è riscontrabile in Russia, Cina, Serbia, Toscana [la famiglia mezzadrile], Vietnam, Lettonia, Estonia e nelle regioni interne della Finlandia5.

“Questo tipo di famiglia patrilineare, che riunisce il padre e i suoi figli sposati in un’azienda agricola, trasmetteva valori di autorità (del padre sui figli) e di uguaglianza (dei fratelli tra loro). Nel caso della Russia, esso aveva la particolarità di essere un fenomeno recente, dal momento che qui aveva interessato i contadini solamente a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, come pure la servitù della gleba. Non aveva quindi ancora ridotto in maniera significativa la condizione delle donne, come avvenuto ad esempio in Cina. Ancora oggi, in Russia, il principio patrilineare viene simbolicamente perpetuato dal sistema dei tre nomi: nome proprio, patronimico, nome di famiglia” (pp. 69-70).

L’uguaglianza dei fratelli diventa l’uguaglianza degli uomini e dei popoli (e finanche una predilezione per un sistema “multipolare” di relazioni internazionali, “in cui ogni ‘polo’ è uguale agli altri, ma autoritario nella propria sfera di influenza” – pag. 183).

Todd arriva a stabilire anche una relazione diretta tra il comunitarismo familiare e il comunismo in Russia. “Il comunismo non è nato dalla creatività del cervello di Lenin per poi venire imposto da una minoranza attiva; è stato il risultato della disgregazione della famiglia contadina tradizionale. L’abolizione della servitù della gleba nel 1861, l’urbanizzazione e l’alfabetizzazione hanno liberato l’individuo dalla soffocante famiglia comunitaria. Tuttavia, una volta libero l’individuo si è ritrovato completamente disorientato e si è quindi rivolto al Partito, all’economia centralizzata e al KGB in quanto sostituti della potestà paterna. Si potrebbe affermare che il KGB fosse in un certo senso l’istituzione più prossima alla famiglia tradizionale, in quanto si occupava personalmente delle persone, nei minimi dettagli” (pag. 70).

La crisi irreversibile degli Stati Uniti.

La tesi di Todd è che gli Stati Uniti soffrono per “la scomparsa di una cultura nazionale condivisa dalle masse e dalle classi dirigenti” (pag. 45). La conseguenza dell’implosione della cultura WASP – White Anglo-Saxon Protestant, ovvero ‘bianca, anglosassone e protestante’6 – a partire dagli anni ’60, con un’accelerazione dopo il 1980, che ha portato al “trionfo dell’ingiustizia”7 (con il progressivo smontaggio del New Deal di Roosevelt) e “ha generato un impero privo di un centro e di un progetto, un organismo essenzialmente militare guidato da un gruppo privo di cultura (in senso antropologico), i cui unici valori fondamentali sono il potere, la violenza e un individualismo assoluto capace di attuare solo i personali interessi economici e di potere immediati” 8.

 

Questo gruppo viene genericamente definito mediante l’espressione ‘neocons’’, ‘neoconservatori’ [che Todd considera “gli eredi trionfalistici del maccartismo” (pag. 74)]. Si tratta di un gruppo alquanto ristretto, ma che “si muove all’interno di una classe alta atomizzata e anomica, e che possiede una capacità notevole di provocare danni geopolitici e storici”. L’élite WASP è stata sostituita da bande di insider di Washington, il cui unico legame è la loro dipendenza dal protagonismo militare e dai profitti derivanti dalle rendite dell’impero.

 

Secondo Todd, la crisi degli Stati Uniti è determinata dalla “completa scomparsa del substrato cristiano” che ha provocato “la polverizzazione delle classi dirigenti americane” (pag. 47). Il fatto è che il protestantesimo, il credo religioso che secondo Todd, seguendo Max Weber, aveva sostenuto la forza economica dell’Occidente e, soprattutto, degli Stati Uniti, “è ormai morto” (pag. 47). Questa è per Todd “la chiave esplicativa decisiva delle turbolenze che oggi scuotono il mondo”.

 

La disintegrazione terminale della matrice cristiana (nella versione protestante) negli Stati Uniti ha fatto emergere un “nichilismo”, condito dall’ossessione per il denaro e da una tendenza all’autodistruzione (esemplificata dalle stragi dei mass-shooting e alla “epidemia da oppioidi”), al militarismo, al ritorno di razzismo e segregazione, al più alto tasso di reclusione al mondo, e a una negatività endemica.

 

Per Todd, un sintomo centrale del nichilismo è l’ideologia transgender che porta le classi medio-alte a voler credere che un uomo possa diventare una donna e una donna un uomo.

 Per Todd, questa è un’affermazione del falso, perché la biologia del codice genetico ci dice che questo è impossibile.

 

Quello che Todd chiama “stato zero della religione”, ossia la fase della dissoluzione della morale cristiana, infatti, produce “nichilismo”, “una deificazione del vuoto” (pag. 49). Per nichilismo Todd intende un atteggiamento culturale con due dimensioni fondamentali: una pulsione alla distruzione di cose e persone; e una dimensione di natura concettuale che tende irresistibilmente a distruggere la nozione stessa di verità, a vietare qualsiasi descrizione ragionevole del mondo (un cinismo e “un’amoralità derivante dall’assenza di valori”). È “la negazione della realtà” (pag. 252).

 

Per Todd, gli Stati Uniti non possono più essere considerati né una democrazia liberale, ma sono una “democrazia oligarchica” o una “oligarchia liberale” (“giacché nell’Ovest la protezione delle minoranze è divenuta un’ossessione”, a cominciare da quella dei ricchi – pag. 158), con gli oligarchi (i grandi capitalisti/finanzieri, come Donald Trump e Elon Musk) che possono intervenire pesantemente nel sistema politico11 (pag. 77), né uno Stato-nazione, come “erano stati nella loro fase imperiale positiva, dal 1945 al 1990, di fronte all’URSS” (pag. 48), perché, seppure possiedono ancora un gigantesco apparato statale e militare e abbiano l’oligopolio GAFAM del capitalismo digitale (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) e il gas del fracking, il tenore di vita degli statunitensi dipende da un numero di importazioni che le esportazioni non riescono più a coprire, non hanno più una classe dirigente nazionale in senso classico e neanche una cultura centrale ben definita.

Dal punto di vista della composizione sociale, la classe operaia americana è crollata di fronte all’afflusso di merci cinesi ed “è emersa una società polarizzata tra una plebe economicamente inutile e una plutocrazia predatrice” (pag. 47). Non sono uno Stato imperiale, neppure uno Stato di basso impero, ma uno Stato post imperiale, emanazione di un impero in disfacimento, divenuto impermeabile al concetto di sovranità nazionale.

 

“Benché mantenga l’apparato militare di un impero, l’America non ha più al suo centro una cultura portatrice di discernimento, motivo per cui nella pratica si lancia in azioni sconsiderate e contraddittorie, come un’intensa espansione diplomatica e militare in un momento di massiccia contrazione della propria base industriale. E questo tenendo presente che una ‘guerra moderna senza industria’ è un ossimoro” (pag. 47).

 

Per Todd, una delle maggiori sorprese emerse dalla guerra in Ucraina è che l’industria americana – il mitico complesso militare-industriale, tanto foraggiato con i soldi del governo federale – è insufficiente, incapace di stare al passo con la produzione bellica russa: “la superpotenza mondiale non è più in grado di assicurare la fornitura di granate – o di qualunque altra cosa – al suo protetto ucraino” (pag. 35).

 

Gli Stati Uniti non hanno più i mezzi industriali per mantenere le promesse fatte in politica estera. Biden ha menzionato nelle sue memorie del 2017 che il presidente Barack Obama lo metteva in guardia dal “fare troppe promesse al governo ucraino”. Ora capiamo perché.

 

Secondo Todd, “l’ipotesi di una ripresa militare-industriale degli Stati Uniti è da escludere in forza della scarsità di ingegneri a loro disposizione [per cui importano milioni di STEM workers dal resto del mondo] e della loro insuperabile predilezione per la produzione di denaro anziché di macchinari12. … Più in generale, però, il collasso morale e sociale che deriva dallo stato zero del protestantesimo – la teoria di base di questo saggio – ci assicura che il declino americano è ormai irreversibile. Questo libro è stato scritto da chi legge Max Weber, non Clausewitz o Sun Tzu” (pag. 12).

 

Per Todd, è l’estinzione religiosa (la morte del protestantesimo) che ha condotto alla scomparsa della morale sociale e del sentimento collettivo. Indicatori di questo processo sono, oltre al basso numero di giovani che studiano per diventare ingegneri, “l’aumento della mortalità americana, in particolare negli Stati interni repubblicani e trumpiani, nello stesso momento in cui centinaia di miliardi di dollari fluiscono verso Kiev” (pag. 48).

 

Un’alta mortalità infantile (5,4 su 1000 nascite) e una riduzione dell’aspettativa di vita, fenomeni documentati da Anne Case e Angus Deaton nel libro-inchiesta “Deaths of despair and the future of capitalism” (“Morti di disperazione e il futuro del capitalismo”) del 2020. L’aumento della mortalità, in particolare tra i bianchi di 45-54 anni – per alcolismo, suicidio, uso di armi da fuoco, obesità e dipendenza da oppioidi (come il fentanil) – ha fatto registrare un calo complessivo dell’aspettativa di vita (unico tra i paesi avanzati): da 78,8 anni nel 2014 a 76,3 anni nel 2021. Tutto questo in presenza della spesa sanitaria più alta del mondo (pari al 18,8% del PIL).

 

Gli Stati Uniti sono stati trascinati in conflitti sanguinosi che minano il loro status di prima potenza mondiale da due alleati radicalizzati – Ucraina e Israele – che loro stessi hanno contribuito a formare (pag. 17).

 

Todd ritiene che gli USA siano stati indotti in una trappola strategica dal regime nazionalista di Kiev. Se la determinazione “suicida” dei nazionalisti ucraini di riprendersi la Crimea e di sottomettere il Donbass ha portato alla guerra (stanno cercando di “mantenere la propria sovranità sulle popolazioni di un’altra nazione, una nazione molto più potente di loro”), il loro “nichilismo” l’ha perpetuata e solo gli aiuti occidentali hanno finora consentito loro di continuare a combattere.

 

Per oltre un decennio, l’America aveva individuato nella Cina il suo nemico principale e a Washington l’ostilità nei confronti di Pechino era ed è trasversale e, probabilmente costituisce l’unico punto su cui democratici e repubblicani sono in grado di trovare un’intesa. Adesso invece, per il tramite dei nazionalisti ucraini, stiamo assistendo ad un confronto tra Stati Uniti e Russia.

 

La guerra a Gaza, iniziata prima che Todd ha scritto la postfazione e la prefazione dell’edizione italiana del suo libro, sta confermando alcune delle sue tesi centrali. Il sostegno incondizionato dell’anziana élite politica americana all’invasione di Israele suggerisce davvero che sono in preda a una crisi psichica che trova espressione in un “nichilismo” che ha “bisogno di violenza”.

 

La “semplicità infantile” con cui il presidente Biden ha paragonato Israele all’Ucraina come bastioni assediati della libertà mostra quanto rapidamente i valori occidentali possano essere screditati dai loro confusi difensori. L’impegno “irrazionale” del materiale militare americano nella distruzione delle città di Gaza (e ora anche del Libano meridionale), che ha incontrato la prolungata, seppur inquieta, acquiescenza dei suoi alleati europei e dei media mainstream, suggerisce che non tutto va bene nell’Occidente e, soprattutto, negli Stati Uniti.

 

La guerra in Ucraina.

La spiegazione dell’entrata in guerra della Russia contro il regime ucraino fornita da Todd è che, come detto da Putin a partire dal 2007 (discorso alla conferenza di Monaco sulla sicurezza del 10 febbraio), Mosca non avrebbe acconsentito passivamente all’integrazione dell’Ucraina nella NATO. “La continua espansione delle infrastrutture dell’Alleanza Atlantica e lo sviluppo militare del territorio ucraino sono per noi inaccettabili”, ha detto Putin.

 

L’Ucraina stava per diventare un membro de facto della NATO per cui la questione ucraina era diventata esistenziale per la Russia. Il 24 febbraio 2022 Putin ha considerato che era stata superata la “linea rossa” e che “non era più possibile consentire che in Ucraina si sviluppasse una ’’anti-Russia’” (pag. 31) e così ha dato avvio alla “operazione militare speciale”.

 

La feroce resistenza militare dell’Ucraina è stata una sorpresa. Era considerato uno “Stato fallito” o quantomeno sulla via del fallimento, che dalla sua indipendenza nel 1991 aveva perso 11 milioni di abitanti (passando da 52 a 41) per via dell’emigrazione verso la Russia (la popolazione russofona è emigrata in massa, soprattutto la classe media e gli operai industriali qualificati, dopo che ha perso ogni rappresentanza politica con la cosiddetta rivoluzione di Maidan del 2014) o l’Europa occidentale e del calo della fertilità (scesa a 1,2 figli per donna).

 

L’Ucraina è un pasticcio di diversi tipi di strutture familiari. A partire dalla Rivoluzione arancione del 2004, l’ovest rurale contadino ha cercato di imporre la sua lingua all’est urbanizzato e industrializzato, che naturalmente preferiva la lingua russa della scienza e dell’alta cultura. L’Ucraina è stata dominata dagli oligarchi, dalla corruzione e l’intero paese e il suo popolo sembravano essere ormai in vendita. Todd nota che, alla vigilia della guerra, “l’Ucraina era infatti divenuta la terra promessa per la maternità surrogata a basso costo” (pag. 33), detenendo il 25% del mercato mondiale.

 

La stessa Russia probabilmente si attendeva una resa o addirittura il crollo del regime ucraino. Il paese era stato equipaggiato con missili anticarro Javelin da parte della NATO e, fin dallo scoppio della guerra, disponeva di sistemi di osservazione e guida statunitensi. Ma “quello che nessuno poteva prevedere è che proprio nella guerra, l’Ucraina avrebbe trovato una ragione di vita e una giustificazione alla propria esistenza” (pag. 33).

 

La nascita vera a propria della nazione ucraina è avvenuta attraverso l’alleanza tra l’ultranazionalismo banderista dell’ovest (di Leopoli e della Galizia) e l’anarco-militarismo del centro (di Kiev e del suo intorno) contrapposti alla parte russofila del paese, ormai indebolita dalla fuga della sua élite e classe media.

 

Un’altra sorpresa è stata la solidità e la resistenza economica della Russia (che alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina, insieme alla Bielorussia, rappresentava il 3,3% appena del PIL occidentale). “Ci è stato annunciato che le sanzioni, in particolare l’esclusione delle banche russe dal sistema di scambio interbancario SWIFT, avrebbe messo in ginocchio il paese. Se però qualche mente curiosa tra i nostri politici e giornalisti si fosse presa la briga di leggere il testo di David Teurtrie, “Russie. Le retour de la puissance” (“Russia, il ritorno della potenza”), pubblicato pochi mesi prima della guerra, avremmo evitato di porre tutta questa ridicola fiducia nella nostra onnipotenza finanziaria.

 

Come infatti segnalato da Teurtrie, i russi si erano adattati alle sanzioni del 2014 ed erano ormai pronti a essere autonomi nel settore sia informatico che bancario. Dal suo libro emerge una Russia moderna, lontana dalla rigida autocrazia neostalinista che la stampa ci propone giorno dopo giorno, e capace invece di grande flessibilità tecnica, economica e sociale. In sostanza, un avversario da prendere sul serio” (pp. 33-34).

 

Todd si domanda perché mai gli occidentali hanno sottovalutato a tal punto il loro avversario, dato che non vi era nulla di segreto riguardo alle sue risorse e i suoi dati erano accessibili. Un clamoroso errore di percezione che si è protratto per tutti gli anni (dal 1999) in cui Putin è stato al potere e che ha evitato di vedere una stabilizzazione riuscita della società russa, con una economia che funziona.

 

In Russia c’è un attaccamento viscerale all’economia di mercato, nonostante il ruolo centrale svolto dallo Stato. Il “sistema Putin” è “un prodotto della storia russa e non l’opera di un solo uomo”. Questo è esemplificato sia dalla “statistica morale” – una riduzione dei tassi dei decessi legati all’alcol, ai suicidi, agli omicidi e alla mortalità infantile (4,4 per mille nel 2020, al di sotto del tasso americano del 5,4) – sia degli indicatori socio-economici come un aumento del tenore di vita, una riduzione del tasso di disoccupazione, un aumento delle produzioni agricole che ha permesso l’autosufficienza alimentare e che ha portato la Russia a diventare uno dei maggiori esportatori di prodotti agricoli al mondo (cereali, piante oleifere e carne), un aumento delle esportazioni di armi (secondo esportatore mondiale, dopo gli USA), lo status di primo esportatore mondiale di centrali nucleari, un forte dinamismo nel mondo internet con dei “campioni nazionali”.

 

Progressi tangibili che hanno avuto un’accelerazione dopo il 2014, dopo l’imposizione delle sanzioni da parte dell’Occidente dopo la prima crisi ucraina e l’annessione della Crimea, e una sostanziale svalutazione del rublo. Da allora sono state portate a termine una serie di riconversioni economiche che hanno permesso alla Russia di riacquistare la propria autonomia rispetto al mercato occidentale (l’embargo ha consentito di ristabilire una politica fortemente protezionistica).

 

Todd sottolinea che “le persone con un’istruzione superiore che scelgono di studiare Ingegneria intorno al 2020 erano il 23,4% rispetto al 7,2% negli Stati Uniti” (pag. 65), ossia 2 milioni di ingegneri contro 1,35 milioni15.

 

Putin ha messo alle strette gli oligarchi dall’ottobre 2003 (con l’arresto di Michail Chodorkovskij che aveva rapporti con la ExxonMobil e aspirazioni politiche), fa leva su una classe media e medio-alta plasmata dall’istruzione (che è anche il maggiore bacino di russi ostili al suo regime) e presta una grande attenzione alle richieste dei lavoratori e degli ambienti popolari (che d’altra parte ancora accettano una certa forma di autoritarismo e di aspirazione a un’omogeneità sociale).

 

Ha preservato la libertà di movimento, lasciando la totale libertà di abbandonare il proprio paese. C’è una totale assenza di antisemitismo. È stato impedito lo sviluppo di un individualismo assoluto.

 

Certo, la Russia è per Todd una “democrazia autoritaria”: si tengono elezioni, sebbene siano in una certa misura truccate; autoritaria poiché il regime non soddisfa il criterio essenziale per una democrazia liberale, del rispetto dei diritti delle minoranze (poi ci sono anche le restrizioni della libertà di stampa). “In Russia permangono valori comunitari – autoritari e egualitari sufficienti affinché sopravviva l’ideale di una nazione compatta e perché riemerga una particolare forma di patriottismo” (pp. 75-76).

 

Con qualche amarezza Todd nota che “l’attuale narrazione occidentale relega la Russia, e soltanto lei, a un dispotismo eterno che oscilla tra l’autocrazia zarista e il totalitarismo stalinista. Quando non viene equiparato al demonio, Putin è il nuovo Stalin oppure un novello zar. Se applicassimo all’Occidente (in senso lato) gli stessi criteri astorici che negano alla Russia il proprio diritto a evolversi, scopriremmo che esso si trova ben lontano dall’immagine che ha di sé oggi” (pag. 149).

 

Il vero fattore di debolezza della Russia è il suo basso indice di fertilità (ora intorno all’1,5 figli per donna), una caratteristica che però condivide con tutto il mondo maggiormente sviluppato. Questo è stato in parte compensato dall’annessione di territori e popolazioni che un tempo appartenevano all’Ucraina (per cui si è passati da 144 a 146 milioni).

 

Secondo Todd, l’esercito russo ha scelto di condurre una guerra lenta per risparmiare uomini, per perdere il minor numero possibile di soldati (inizialmente in Ucraina, un paese di 600 mila kmq, sono stati schierati solo 120 mila soldati russi e sono stati utilizzati reparti della Wagner e milizie cecene), dandosi come tempo massimo per una vittoria 5 anni, entro il 2027, quando la coorte di uomini idonei al servizio militare sarà troppo piccola. La priorità della Russia non è conquistare il massimo del territorio, ma perdere il minimo degli uomini.

 

Todd nota che non solo è stato Putin a scegliere il momento in cui scatenare l’attacco (allorquando la Russia aveva ormai acquisito la superiorità strategica garantitale dal possesso di missili ipersonici nel 2018-2019), ma che la dottrina militare russa prevede che in caso di minaccia alla nazione e allo Stato, la Russia autorizzerà alcuni attacchi nucleari tattici, vale a dire sul campo di battaglia.

 

Questa dottrina nasce dalla notevole superiorità demografica dell’Occidente dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica (887 milioni contro 144). I governanti occidentali conoscono questa dottrina militare russa, ma negano la possibilità della pace come se rappresentasse una minaccia ancora più grave di uno scontro termonucleare.

 

Todd considera degli “’squilibrati’ mentali tutti quei politici, giornalisti e accademici europei convinti che la Russia, con la sua popolazione di 144 milioni di individui in calo e che fatica a occupare tutti i suoi 17 milioni di chilometri quadrati di territorio, voglia realmente espandersi ad ovest” (pag. 14). Per spiegare l’atteggiamento occidentale, Todd parla della componente nichilista scaturita dallo “stato zero della religione”, “uno dei concetti fondamentali del mio libro” (pag. 13).

 

Il problema cruciale è che “la pace alle condizioni imposte dai russi significherebbe la fine dell’era americana nel mondo e il declino del dollaro (come moneta di riserva mondiale) e della capacità statunitense di vivere del lavoro complessivo del pianeta. In geopolitica la messa in ridicolo è letale” (pp. 18; 350).

 

Secondo Todd, si arriverebbe alla disintegrazione della NATO e, soprattutto, a quello che gli Stati Uniti temono di più: la riconciliazione tra Russia e Germania. In un’Europa a bassa fertilità, con la sua popolazione che invecchia, la cosa fisiologica è la complementarità tra l’industria tedesca e le risorse energetiche e minerarie russe.

 

Soprattutto, il ruolo dell’Europa potrebbe diventare quello di distogliere le grandi potenze dalla rivalità geopolitica e di adoperarsi per tenere unito il mondo, mantenere a un livello gestibile le inevitabili tensioni di un mondo multipolare ed evitare che una normale competizione si trasformi in una rivalità ostile, cercando il consenso su una serie di regole fondamentali per le relazioni fra gli Stati.

 

Todd ricorda (pp. 180-181) come l’opposizione degli Stati Uniti ad un riavvicinamento tra Russia e Germania sia stata chiarita dal polacco-statunitense Zbigniew Brzezinski in “La grande scacchiera” nel 1997. Dopo la caduta del comunismo sovietico, l’ex consigliere di Lyndon B. Johnson dal 1966 al 1968 ed ex consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter dal 1977 al 1981, sottolineava come per Washington si poneva il problema strategico che la presenza americana sul continente europeo o in Asia, non era più giustificata. L’Eurasia si sarebbe quindi potuta unificare, marginalizzando gli Stati Uniti.

 

Per uno stratega come Brzezinski, l’alleanza russo-tedesca rappresentava un incubo assoluto. Brzezinski suggeriva di strappare l’Ucraina dalla Russia per privarle per sempre il suo status imperiale e impedire il controllo sull’Eurasia di un nuovo asse russo-tedesco. “Dal punto di vista statunitense, la guerra deve quindi continuare, non per salvare la ‘democrazia’ ucraina, ma per mantenere il controllo sull’Europa occidentale e sull’Estremo Oriente” (pag. 19).

 

Si tratta di vedere fino a quando le oligarchie europee saranno capaci di mantenere i loro popoli ostili alla Russia o addirittura trascinarli in una guerra diretta in un contesto politico che vede l’ascesa del populismo (meno ostile alla Russia rispetto all’elitismo centrista) o dell’estrema destra. La difesa della vita economica e la tenuta degli interessi popolari nei diversi paesi dipende, secondo Todd, dal grado di finanziarizzazione delle borghesie nazionali e da quanto sono organicamente integrate a quelle del mondo angloamericano.

 

Le sanzioni occidentali, concepite per danneggiare l’economia russa, hanno generato difficoltà ancora maggiori per l’Europa occidentale che si è vista privata delle risorse naturali (gas e altre materie prime). Mentre l’Europa dell’ovest soffre, con la Germania che si deindustrializza, l’economia russa sta completando la propria ristrutturazione verso l’autonomia e il proprio riorientamento verso l’Asia.

 

La subordinazione dell’Europa agli Stati Uniti: un suicidio assistito.

Secondo Todd, gli Stati Uniti hanno rinunciato al controllo militare del mondo nel 2008. Da allora, il loro obiettivo, più limitato, è stato quello di mantenere l’impero creato all’indomani della seconda guerra mondiale: il controllo dell’Europa occidentale (oggi allargatosi alle ex democrazie popolari dell’Europa centro-orientale), del Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan.

 

“In questi paesi, la concentrazione delle risorse industriali occidentali è ormai eccezionale. Il disequilibrio della bilancia commerciale statunitense con la parte dominata dell’’Occidente collettivo’, 405 miliardi di dollari nel 2023, è maggiore di quella con la Cina pari a 279 miliardi di dollari. La sopravvivenza materiale degli Stati Uniti dipende dunque dal controllo dei propri vassalli”17 (pag. 18).

 

L’aumento del deficit commerciale persiste nonostante la svolta protezionistica ufficiale della politica economica avviata sotto Obama, rafforzata da Trump e da Biden. “Perdere il controllo delle loro risorse esterne provocherebbe un calo del tenore di vita, già poco brillante, della popolazione” (pag. 239).

 

Il capitolo 5 è intitolato “Il suicidio assistito dell’Europa”. Todd ritiene che Mosca e Washington sono perfettamente concordi nel percepire i leader europei “alla stregua di vassalli, come dei servitori che hanno perduto ogni capacità di azione autonoma. E in quanto tali vengono disprezzati” (pag. 19). L’Europa si trova impegnata in una guerra profondamente contraria ai suoi interessi e autodistruttiva. “L’Unione Europea ha abbandonato in poco tempo ogni velleità di difendere i propri interessi. Questa si è infatti privata del partner energetico e (più in generale) commerciale russo, punendo se stessa sempre più duramente. La Germania ha accettato senza battere ciglio il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream ”ad opera del “suo ‘protettore’ americano di concerto, per l’occasione, con la Norvegia”18 (pag. 34).

 

Ma Todd segnala anche l’evaporazione della Francia di Emmanuel Macron dalla scena internazionale, mentre la Polonia è diventata “il principale agente di Washington in seno all’Unione Europea, rimpiazzando in tal ruolo il Regno Unito”.

 

In Europa, l’asse Berlino-Parigi (che, insieme a Mosca, si era opposto alla guerra in Iraq voluta dagli USA nel 2003) è saltato a partire dalla crisi del 2007-2008, sostituito prima dall’egemonia tedesca e poi dall’asse Londra-Varsavia-Kiev guidato da Washington.

 

L’identificazione con gli Stati Uniti (invece che con l’UE) è ormai prevalente nel Regno Unito (che ha fatto “da mosca cocchiera all’interno della NATO [e] si è subito scagliato contro la Russia come uno di quei cagnetti ringhiosi” – pag. 35, ma si veda anche il capitolo 6, “In Gran Bretagna: verso la nazione zero” – pp. 198-22919), in Scandinavia (per lungo tempo una regione pacifica e più incline alla neutralità che al combattimento), in Polonia e nei paesi baltici. Tutti paesi caratterizzati da un altissimo livello di russofobia, ossia sopraffatti da una forma acuta di paranoia anti-russa, e da una sopravvalutazione delle loro capacità economiche e militari.

 

Todd dedica un’analisi di paesi come Norvegia, Danimarca, Svezia e Finlandia (questi ultimi hanno aderito alla NATO di recente), come parti essenziali del meccanismo di controllo degli Stati Uniti sull’Europa: la Norvegia per le azioni militari (come la distruzione del gasdotto Nord Stream II) e la Danimarca per la sorveglianza dei capi europei (il sistema NSA). Arriva a considerare “la Norvegia e la Danimarca come delle gigantesche portaerei americane ormeggiate al nostro continente, proprio come lo Stato di Israele è una portaerei statunitense ormeggiata al Medio Oriente” (pag. 20).

 

Per Todd, il progetto oligarchico europeo (quello del superamento/distruzione delle nazionalità) è imploso. Il Trattato di Maastricht e poi l’euro – la moneta vista come l’unico valore di coesione possibile – hanno prodotto effetti completamente diversi da quelli promessi. Oggi, abbiamo un’Unione Europea che non funziona, si sono accentuati gli squilibri tra i paesi, allargate le disuguaglianze sociali e distrutti i sistemi industriali. 

 

Per questo “l’attacco russo all’Ucraina è stato quasi una manna dal cielo” per le élite e le classi medie europee, fornendo un nemico esterno per ricompattarsi e dare, quindi, un nuovo significato alla costruzione dell’Europa (pp. 173- 174), ad esempio attraverso la costruzione di una economia di guerra.

 

Inoltre, il sistema della NATO, molto più che una protezione contro la Russia, rappresenta un meccanismo di controllo da parte di Washington sulle élite e sugli eserciti suoi vassalli (pag. 197). Poi, ci sono dei meccanismi finanziari e informatici fondamentali attraverso cui si esercita il dominio statunitense sulle oligarchie europee.

 

Rispetto a questo, la tesi di Todd è che la soggezione delle oligarchie europee ai voleri degli Stati Uniti sia spiegabile con il controllo che questi ultimi esercitano attraverso il dollaro e gli strumenti finanziari ed informatici sugli enormi movimenti di capitali di queste élite verso il dollaro come valuta rifugio e verso i paradisi fiscali che hanno sostituito la Svizzera e che sono controllati dalle banche e dalle agenzie statunitensi (come FED e National Security Agency – NSA) in collaborazione con quelle del Regno Unito (pp. 187-195).

 

Sulla base di quanto emerso nel libro di Glenn Greenwald, “No place to hide” (2012), in cui il giornalista aveva reso pubbliche le informazioni fornite da Edward Snowden, l’informatico prima della CIA e poi della NSA che ha ottenuto asilo politico in Russia nel luglio 2013, Todd sostiene che “gli obiettivi prioritari della NSA non sono i nemici degli Stati Uniti, bensì i loro alleati europei, giapponesi, coreani e latinoamericani. Le rivelazioni sulle intercettazioni telefoniche compiute sul cellulare di Angela Merkel hanno iniziato a mettere in allarme l’opinione pubblica. Leggendo il libro di Greenwald ci si rende conto che l’impero americano non è un’astrazione e che non è semplicemente un’espressione della volontà di democratici consenzienti: si basa invece su meccanismi molto concreti di controllo degli individui” (pag. 193).

 

Un’attività spionistica condotta con la collaborazione degli altri paesi della rete Five Eyes (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada), alla quale si sono aggiunti la Danimarca (pag. 232) e altri paesi.

 

La solitudine ideologica dell’Occidente.

Una delle sorprese emerse a seguito della guerra in Ucraina è, secondo Todd, “la solitudine ideologica dell’Occidente e l’inconsapevolezza del proprio isolamento. Essendosi abituati a dettare i valori a cui il mondo deve aderire, gli occidentali credevano sinceramente, e stupidamente, che il pianeta intero fosse pronto a condividere la loro indignazione nei confronti della Russia. La loro aspettativa è rimasta delusa” (pag. 36).

 

L’incapacità occidentale di distinguere i fatti dai desideri stupisce Todd. Così, la speranza americana all’inizio della guerra che la Cina potesse cooperare in un regime di sanzioni contro la Russia, aiutando così gli Stati Uniti a perfezionare un’arma che un giorno sarebbe stata puntata contro la Cina stessa, per Todd, è un “delirio”.

 

L’Occidente e i suoi alleati nelle sanzioni contro la Russia non rappresentano che il 12% della popolazione mondiale. Ma, soprattutto, le sanzioni hanno avuto l’effetto di estendere il campo delle operazioni e hanno dato alla guerra una dimensione mondiale, nonostante che la maggior parte dei paesi del Sud del mondo non ha applicato queste misure coercitive. Hanno sostenuto la Russia nei suoi sforzi per smantellare la NATO, continuando a comprare petrolio, gas e cereali dalla Russia, fornendole attrezzature e pezzi di ricambio necessari per portare avanti la guerra e per funzionare come società civile senza troppi patimenti.

 

Russia, Cina e il gruppo dei BRICS+ sono ormai impegnati a costruire un’alternativa produttiva, finanziaria, commerciale e in prospettiva monetaria all’area del dollaro. E, tra l’altro, come nota Todd, “il sequestro illegale dei beni russi all’estero ha scatenato un’ondata di terrore tra le classi alte del Resto del mondo. Tracciando il denaro e gli yacht degli oligarchi russi, gli Stati Uniti (e i suoi vassalli) hanno di fatto minacciato le proprietà di tutti gli oligarchi del mondo, dei paesi grandi così come di quelli piccoli. Sfuggire allo Stato predatore americano è diventata ovunque un’ossessione e sottrarsi all’impero del dollaro è diventato un obiettivo ragionevole per tutti, anche se ciò richiede di procedere in maniera cauta e graduale” (pag. 311).

 

Todd nota che la Cina e il “Resto del mondo” (che patisce a causa delle sanzioni, dell’estrattivismo e degli interessi sul debito finanziario), le cui popolazioni sono ormai state in gran parte trasformate in un proletariato generalizzato a basso costo al servizio delle global corporations e dei consumatori occidentali (in una relazione strutturale neocoloniale che rientra nel paradigma dell’imperialismo descritto da Hobson, Lenin, Luxemburg e Amin), preferiscono sempre più chiaramente la Russia (tra questi paesi ci sono India e Turchia, oltre quelli del BRICS+ in via di rapido allargamento).

 

Mettono in discussione il predominio dell’Occidente dimostrando di non essere disposti a cedere alle pressioni. L’influenza e impazienza del Resto del mondo è crescente: rappresenta la maggioranza della popolazione mondiale e una quota sempre maggiore dell’economia globale.

 

Il PIL combinato delle nazioni del G7 – Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada – è sceso dal 67% nel 1994 al 44% nel 2022, mentre quello della Cina è quadruplicato oltre al 20% nello stesso periodo.

 

Il nuovo ordine mondiale, imposto dagli Stati Uniti e dai loro alleati a partire dagli anni ’90, avrebbe dovuto produrre prosperità per tutti, ma non è riuscito a ottenerlo. Secondo la Banca Mondiale, i progressi nella lotta contro la povertà globale si sono bloccati a causa di guerre, aumento del debito, pandemia e cambiamento climatico.

 

I paesi occidentali sono incapaci o non vogliono rispondere a questa policrisi. Il G7 e l’Occidente in generale si comportano come se fossero ancora potenti come lo erano nel 1944, quando la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale furono creati dalla conferenza di Bretton Woods. Ma questa è ora un’economia globale diversa e il dominio dell’Occidente è messo in discussione come non è mai stato negli ultimi 500 anni.

 

Anche “l’immoralità dell’Occidente di fronte alla questione palestinese non ha fatto che rafforzare l’ostilità del Resto del mondo” (pag. 12). In particolare, ha spinto l’intero mondo musulmano (sunnita e sciita) dalla parte dei russi (con l’Arabia Saudita, Mosca gestisce il petrolio, mentre con l’Iran ha un’alleanza stabile, anche di tipo militare).

 

Negli ultimi due anni, così, “la Russia è tornata a ricoprire un ruolo centrale nel mondo”, sostenuta dal Resto del mondo nella sua sfida all’egemonia unipolare dominata dall’America e all’“ordine internazionale liberale”.

 

Todd sottolinea anche che ci sia un antagonismo antropologico tra l’Occidente e la maggior parte dei paesi del Resto del mondo: strutture familiari e sistemi di parentela opposti a quelli dell’Occidente (pag. 300).

 

Gran parte dell’Occidente ha un sistema parentale bilaterale, per cui gli ascendenti e i discendenti del padre, da una parte, e quelli della madre, dall’altro, hanno lo stesso peso nel determinare lo status sociale del figlio/a; la famiglia, incentrata sulla coppia, è nucleare. Il Resto del mondo è in gran parte differente (dall’Africa occidentale alla Cina settentrionale, attraversando il mondo arabo-persiano e includendo l’intera Russia): è patrilineare.

 

Lo status sociale fondamentale del figlio/a è definito unicamente dalla parentela del padre. Il principio patrilineare coabita spesso con un sistema familiare comunitario, poco o per nulla individualista. Un mondo tendenzialmente conservatore, patriarcale e maschilista, che si oppone a emancipazione delle donne (femminismo), omosessualità, diritti transgender e matrimoni tra persone dello stesso sesso (pp. 312-322).

 

Secondo Todd, tutto questo aiuta a comprendere il nuovo soft power conservatore russo. “Gli occidentali considerano arretrati tutti i paesi ostili all’ideologia LGBT. Sicuri di incarnare la modernità universale, non hanno capito che si stavano rendendo sospetti al mondo patrilineare, omofobo e di fatto contrapposto alla rivoluzione occidentale dei costumi. In un simile contesto, accusare con veemenza la Russia di essere scandalosamente anti-LGBT, significa fare il gioco di Putin” (pag. 317).

 

Todd insiste sul fatto che le culture tradizionali hanno molto da temere dalle varie tendenze progressiste dell’Occidente e resistono ad allearsi in politica estera con gli occidentali che le sposano. In modo simile, durante la Guerra Fredda, l’ateismo ufficiale dell’Unione Sovietica era un fattore decisivo per molti regimi e popolazioni che altrimenti avrebbero potuto essere ben disposte verso il comunismo. Il soft power rivoluzionario del comunismo è stato sostituito dal soft power conservatore dell’era Putin.

 

 

 

 

Un uomo chiamò i suoi servi e consegnò

loro i suoi beni, la parabola dei talenti.

Ci si avvia verso il giudizio universale.

Ildolomiti.it - Alessandro Anderle – (14 novembre 2020) – ci dice:

 

La liturgia cattolica si avvia alla conclusione della lettura del Vangelo secondo Matteo. La parabola letta questa domenica, nota come la parabola dei talenti, segue direttamente quella della scorsa domenica (la parabola delle dieci vergini) e avvia verso la conclusione: il giudizio universale

Mt 25,14-30 In quel tempo Gesù disse alle folle: avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.

Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque.

Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due.

 Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.

Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.

Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque».

«Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone».

Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due».

 «Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone».

Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse:

«Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo».

 Il padrone gli rispose:

«Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse.

Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti.

Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha.

E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti»

 

 

La liturgia cattolica si avvia alla conclusione della lettura del Vangelo secondo Matteo.

La parabola letta questa domenica, nota come la parabola dei talenti, segue direttamente quella della scorsa domenica (la parabola delle dieci vergini) e si avvia verso la conclusione: il giudizio universale.

La tematica dominante, quindi, rimane il modo in cui ogni cristiano dovrebbe vivere in vista, ed in preparazione, all'incontro con il Padre, al ritorno di Gesù.

 

 Il finale lascia un poco perplessi:

perché il Signore è così duro con il servo che, apparentemente, non ha fatto nulla di male?

Forse che il non fare sia esso stesso un male?

Ma se non faccio, non posso nemmeno nuocere a nessuno.

E la logica di Gesù non sembra forse il contrario della conclusione di questa parabola - «perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha»?

Analizziamo il racconto dall'inizio.

La parabola si apre con un atto da parte del signore, il quale, ovviamente, rappresenta il Padre e la sua logica.

 Questo atto è particolarmente rivelante in due dimensioni distinte: prima di tutto esso è completamente gratuito, in secondo luogo è – si potrebbe dire – più che sovrabbondante.

 È completamente gratuito perché il Signore dona a dei servi – degli schiavi a cui nulla era dovuto – del denaro prima della sua partenza.

 Questo denaro, si badi bene, non rappresenta un carico, un impegno, sproporzionato

. Esso viene elargito in modo oculato, calibrato:

 «A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno».

E, nonostante questa assoluta gratuità ponderata, esso rimane comunque sproporzionato per uno schiavo, infatti «cinque talenti costituivano una somma ingente: un talento valeva [al tempo di Gesù] 6000 denari, pari ad altrettante giornate lavorative» (A. Poppi).

Questo regalo, completamente gratuito e sovrabbondante, rappresenta il Vangelo, la “buona notizia” portata da Gesù sulla terra, il Figlio di Dio – completamente umano quanto completamente divino – che ha svelato il vero volto del Padre nella sua esistenza che continua.

 Il Messia che ha vissuto come un servo, che è morto in modo infamante non solo per mostrare al mondo la misericordia del Padre, ma anche per mostrare all'uomo come dovrebbe essere, autenticamente, la sua esistenza.

Una vita vissuta nella passività di chi riesce a far fruttare a pieno i doni che ha ricevuto da Dio.

 Una passività che non è inattività – come quella del servo che nasconde il dono per non disperderlo -, questa passività si traduce nel vivere per gli altri e per il tutt'Altro che chiamiamo Dio.

In questa dimensione che annienta l'egoismo, il cristiano, l'essere umano, trova veramente sé stesso.

Alla luce di questo, la conclusione non solo non appare più in contrasto con il messaggio di Gesù, ma essa è pienamente comprensibile.

 Quanta retorica si legge spesso sul tema della morte, dimensione che viene sempre più rimossa dall'uomo contemporaneo.

 

 

 

 

Riflessioni sulla guerra.

Mastroviaggiatore.it – Mastro Matriosca- (17 –3 -2024) – ci dice_

Il cuore è gonfio di strazio, rabbia, amarezza e sconforto. La mente è confusa, stanca. Questa riflessione è rimasta per giorni a macerare.

È stata digerita un pezzetto per volta nella speranza che nel frattempo succedesse qualcosa che la rendesse inutile.

Eppure è arrivato il momento di finirla e pubblicarla.

Quello che stiamo vivendo in questi giorni è un incubo, un’oscurità di cui è difficile percepire il fondo.

 Una tragedia che colpisce il popolo ucraino e la sua terra, che lascia sgomenti tutti noi.

Come può essere? Come può essere possibile che stia accadendo?

Eppure accade e ha già distrutto e mandato in frantumi tante vite.

Quelle degli ucraini, quelle dei tanti russi che si oppongono a questa guerra.

Quelle di tutti coloro che fanno parte del “russkij mir”, il mondo russo, che nemmeno riescono a concepire una vita senza questo mondo e che stanno vivendo con estrema angoscia questi avvenimenti, provando la disperazione di non poter fare nulla.

E allora è importante e necessario fare un punto su alcuni aspetti di questa difficile situazione.

Non siamo esperti di geopolitica, il nostro compito e quello di farvi viaggiare e di farvi conoscere la Russia, quindi non ci interessa entrare nel merito di quali siano le cause di questo conflitto.

La prima cosa che dobbiamo dire, gridare con fermezza è che la guerra è una follia.

La condanna non può che essere forte e totale.

La guerra non può essere giustificata, né tollerata.

La guerra è come un tritacarne.

Tritura i destini, brucia e demolisce anime, luoghi, amicizie, speranze, sogni.

 La guerra è solo distruzione e macerie.

Il cuore si spezza davanti alle lacrime di chi sta morendo sotto le bombe, scappando, vivendo nel terrore nelle viscere di un bunker o della metropolitana, vedendo distrutte le proprie case e la propria vita.

È anche importante che chi come me fa parte di quella vasta e composita comunità di russofoni, russofili, insomma di chi vive di Russia, con la Russia, in Russia possa dare una mano a comprendere.

Assolvere una funzione di ponte e di baluardo contro una discriminazione pericolosa di tutto ciò che è russo.

Perché la pace si costruisce partendo dalla conoscenza dell’altro, che poi è anche quello che facciamo attraverso i nostri viaggi.

Attraverso discussioni anche animate ma sempre empatiche e con” uvazhenie,” rispetto.

 

Una cosa la voglio sottolineare: la Russia non è Putin.

È vero, c’è una parte della popolazione che lo appoggia, ma i russi contro questa guerra sono tanti.

Più di quanti immaginiamo.

 E rischiano tanto e non è giusto abbandonarli.

Le percosse degli OMON, i fermi, la galera.

In Russia parlare di guerra in Ucraina è considerata una “fake news” e si rischiano anche 15 anni di carcere.

Molte testate giornalistiche indipendenti e portali di informazione, come “Echo Moskvy” e “Dozhd”, sono state chiuse.

Altre si sono traferite fuori dal Paese, altre ancora hanno eliminato gli articoli sulla guerra.

Resta solo la propaganda.

E purtroppo questo fa sì che una grande percentuale dei russi creda a questa propaganda.

La guerra non è una guerra ma “un’operazione speciale per demilitarizzare e denazificare l’Ucraina”.

 Dice che la Russia è accerchiata da nemici che la vogliono distruggere.

Le parole non sono usate a caso, ma abilmente per fare leva sui sentimenti della popolazione e ottenerne il consenso.

In più viene sbandierata una presunta autosufficienza economica per cui l’uomo comune non si rende conto di cosa sta accadendo al Paese.

Queste non possono essere giustificazioni!

 Ma l’appoggio dato dalla popolazione non è dovuto a puro gusto per la violenza e prevaricazione e a guerra finita sarà importantissimo aiutare questa parte della popolazione ad arrivare ad una presa di coscienza.

 

Nel frattempo però non possiamo dimenticarci di chi si oppone e sta vivendo questa aggressione come una vergogna.

 Che dovrà sopportare il peso di umiliazioni, della sensazione che tutto il mondo li stia odiando e delle ripercussioni economiche.

È giusto sostenere questa parte della popolazione e far sì che su di essa si costruisca il futuro del Paese.

Chi siamo noi per dire: “avevano solo da ribellarsi”, chi siamo noi per dire: “se lo sono meritato”.

Vedo diffondersi messaggi di odio, di soddisfazione nel vedere la Russia boicottata ed isolata.

Ma mi chiedo, quanti di noi si battono attivamente per cambiare ciò che non ci piace del nostro Paese, pur avendo molta più libertà di farlo?

 Non sono giudizi, solo inviti alla riflessione perché credo che in questo momento molto difficile non dovrebbero essere alimentati odi, razzismi e tifoserie da stadio. Ci metteremmo solo a livello di chi ha scatenato questa guerra, in contrapposizione a quei valori che diciamo di voler difendere.

Vedo dissolversi il mondo e la Russia che amo e questo no, non lo posso permettere.

Un Paese in cui la storia è sempre stata caratterizzata da grandi atti di eroismo alternati a punte di oscurità profonda, un Paese dalla letteratura e cultura immense e fondamentali per il mondo moderno, un Paese che ha dato molto anche alla scienza.

Come faccio qui sul blog e con le persone che decidono di viaggiare con noi voglio condividere materiali e canali utili a capire di più quello che sta accadendo.

 

 

 

Ucraina, riflessioni sulla guerra.

Avantionline.it - Marco Rispoli – (7 Maggio 2024) – ci dice:

La guerra in Ucraina si protrae oramai da oltre due anni, con alti e bassi su entrambi i fronti.

Ma le sorti del conflitto sembrano cambiare.

L’Occidente è in difficoltà non riesce a garantire le promesse e gli accordi presi con l’Ucraina.

Mosca ha inaugurato nel Parco della Vittoria sulla “Poklonnaja Gora” una mostra di armi ed equipaggiamenti catturati al nemico per dimostrare la forza delle Forze Armate della Federazione Russa dal 2022 ad oggi.

Trattasi di armi catturate a ben 12 paesi:

Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Turchia, Svezia, e altre una dimostrazione che la Russia nonostante sia sola vince contro l’intera coalizione Occidentale che sostiene l’Ucraina.

Il ministero della Difesa russo ha dichiarato “La storia si sta ripetendo” riferendosi alle vittorie contro la Germania nel 1943.

“La forza è nella verità. È sempre stato così. Nel 1943 e oggi. Questi trofei di guerra riflettono la nostra forza. Più ce ne sono, più siamo forti”-

“Nessun equipaggiamento militare occidentale cambierà la situazione sul campo di battaglia”.

In tale situazione di crisi le forze Ucraine non riescono a tenere testa alla possente e devastante avanzata delle armate Russe su più fronti.

 L’Occidente si divide sulle modalità di come continuare a sostenere l’Ucraina, se soltanto con l’invio di armi e attrezzature o come vorrebbe il Presidente Macron anche con l’invio di uomini.

 Lo stesso recentemente avrebbe dichiarato irresponsabilmente che l’Occidente per ribaltare la situazione dovrebbe inviare anche uomini ma solo se il presidente Ucraino lo richiederà in versione ufficiale.

Una proposta imprudente quanto irresponsabile perché non calcola le sue conseguenze.

L’idea di un intervento diretto da parte delle forze occidentali solleva molteplici questioni.

 Da un lato, un coinvolgimento militare più ampio potrebbe segnare un significativo incremento delle tensioni, facendo crescere i rischi di un confronto diretto tra le grandi potenze e quindi uno scenario da guerra mondiale.

Dall’altro, potrebbe essere vista come un tentativo dell’Occidente di intervenire nelle questioni interne della Russia e dei suoi alleati, alimentando l’idea di un’Occidente aggressivo e colonizzatore.

Nel frattempo, la situazione in Ucraina continua a deteriorarsi.

 L’economia è in crisi e le infrastrutture civili sono state duramente colpite.

La popolazione civile soffre di carenze di risorse di base come cibo, acqua ed energia, mentre gli scontri intensificano la pressione su coloro che restano nelle città e nei villaggi colpiti dai combattimenti.

 L’Ucraina chiede maggiore sostegno umanitario oltre a quello militare, ma l’Occidente è sempre più cauto nell’impegnarsi maggiormente.

 Le opinioni pubbliche in Europa e negli Stati Uniti sono divise sulla questione.

 In alcuni paesi, vi è una crescente pressione per trovare una soluzione diplomatica al conflitto, mentre altri ritengono che un approccio più deciso, anche militare, sia necessario per fermare l’avanzata russa.

I governi occidentali stanno affrontando crescenti pressioni interne per mantenere la stabilità economica e sociale mentre tentano di navigare nel difficile equilibrio tra sostenere l’Ucraina ed evitare l’escalation del conflitto.

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, cerca di mantenere alto il morale del suo popolo e delle sue truppe, anche se le condizioni sul campo sono sempre più difficili.

Nel contesto globale, la Cina e altri paesi emergenti mantengono una posizione ambigua, cercando di equilibrare le relazioni con la Russia e l’Occidente.

Ciò rende ancora più complesso il quadro geopolitico, poiché qualsiasi decisione in uno scenario così volatile potrebbe avere ripercussioni su scala globale.

Mentre il conflitto prosegue e le parti continuano a subire pesanti perdite, la comunità internazionale resta alla ricerca di soluzioni diplomatiche che possano porre fine alle ostilità.

Tuttavia, con le parti così profondamente radicate nelle loro posizioni, il percorso verso la pace appare ancora lontano.

Le popolazioni europee inermi guardano con terrore l’evoluzione di questa inutile carneficina sperando nel buon senso e nella saggezza delle scelte dei loro leader, che per adesso appaiono confusi e incerti per cui spesso vengono tacciati di essere assassini, criminali e nemici del futuro dell’umanità.

Perseguire le vie della pace con ogni determinazione e mantenere la multilateralità delle relazioni economico energetiche erano e sono le basi per il mantenimento degli equilibri, il benessere delle popolazioni e il diradamento del clima di paura e di morte che aleggia sull’Europa.

(Marco Rispoli).

 

 

 

Riflessioni sulla guerra.

Scrignodipandora.it - FANTINO MINCONE – (31 Maggio 2024) – ci dice:

La dignità umana si misura nella possibilità di conservare la pace, che è l’elemento basilare per armonizzare il mondo nella vera civiltà.

La guerra è assurda e, il solo pensiero di un conflitto vicino, mi toglie il sonno, mi sembra di stare in un letto di chiodi con cuscini di vetro.

In guerra non vince mai nessuno: crea solo morti, lutti, pianti, miserie, macerie e desolazione!

Ci sono pure i mercenari che vanno a combattere per la gloria o per delle medaglie, ma nessuna medaglia può compensare una sola vita umana, sacrificata in guerra.

Io vorrei armarmi solo di coriandoli e, volando a bassa quota, spargere nel vento semi di speranza…

Emozioni malefiche e dolori atroci nell’odio che cresce con lo spirito di vendetta: il male così fa raddoppiare la carne da macello!

L’odio crea buio, delusioni, indifferenza, abissi ed eclissi della luce negli occhi e nei cuori, mentre una stella ispira la speranza sulla strada della tolleranza.

Preferisco cuori disarmati e anime immerse nella gioia, perché solo la pace regala serenità.

Preferisco il silenzio dei cannoni e il profumo dell’erba fresca… non quella secca tagliata da ingiusta falce! Vorrei abbracciare con la mente e con lo spirito tutta l’umanità sofferente, specie i bambini…

I miei occhi, che ora vedono la realtà, vorrebbero danzare nel mondo della bontà, sognando un mondo di pace, nell’armonia con tutto il creato.

I cattivi si muovono sempre nell’ombra e gli intrighi creano tempestose controversie e discordie.

Preferisco distendermi su un prato a guardare il cielo libero da scie velenose e dai fumi dei cannoni o dei missili, che creano voragini con polverone soffocante… e poi lasciano città rase al suolo per conquistare pochi metri di suolo.

La primavera invita alla rinascita e alla gioia tra germogli e fiori dai mille colori. Che tristezza questa primavera di quotidiani bollettini di guerre, di morti, di barbarie, di sfollati e di civili affamati.

Io credo nella pace, ma non posso fermare le guerre…

 

Purtroppo continuano eccidi e minacce (non troppo velate) anche di ordigni nucleari.

Come il vento che corre nel deserto, la mia anima si carica di emozione quando sento parlare di colloqui di pace e accordi tra Nazioni per fermare i conflitti.

Il vento soffia anche su uomini di buona volontà e i tanti pacifisti che aspettano un’alba nuova che abolisca almeno le bombe atomiche!

Basta fiumi di sangue per tornare a ridere e sognare, per vivere la natura rigogliosa, anche se selvaggia.

La morte non può sempre vincere, ma la carità riporta l’uguaglianza nella nostra società ancora xenofoba e anche razziale.

Nell’immensità dell’universo noi, miserabili e piccoli, non capiamo che l’orgoglio è una brutta bestia… che rende l’uomo un animale più bestia di quelle vere!

Non so quale sarà il mio destino, ma so che solo la carità crea il senso dell’immortalità.

La smania di ricchezza genera sempre sentimenti di tristezza e, nell’ipocrisia di tanti, si fa la guerra dicendo che è per la libertà o per la democrazia… ma poi muoiono tanti innocenti e, per la sete di eguaglianza o di libertà, ancora una volta il cielo si sgretola.

Allora il male può vincere sul bene?

Mi piace viaggiare nell’immensità del bene nascosto sotto la cenere, pronto ad infiammare i cuori dei potenti della Terra.

 Aspetto un vento d’amore a rincuorare il coraggio di trattare dopo il cessato il fuoco.

E non mi si venga a dire che dovrebbe intervenire il Padre Eterno.

Lui ci ha dato la preziosissima libertà di scegliere tra il bene e il male!

Lui tace e forse è meglio così, se no forse sarebbero fulmini e saette sull’uomo, che ha dimenticato il comandamento dell’amore fraterno.

A questo punto preferisco anch’io il silenzio, silenzio di riflessione costruttiva, sperando in interventi di pace in questa amara Terra d’ingiustizie e confusione.

 

Nell’umiltà scopriremo la verità e nell’amore fraterno, che scioglie il buio delle tante sofferenze, per trovare il bene negli altri e creare veramente un ipotetico mondo d’amore.

Utopia sognare un mare di bontà e un oceano di pace?

 

 

 

 

La guerra è cambiata.

Iltascabile.com - Flavio Pintarelli – (11 – 1 – 2024) – ci dice:

(Flavio Pintarelli è uno scrittore e un consulente strategico di marketing e comunicazione. )

 

Sull’uso crescente delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale nei conflitti armati in Ucraina, Striscia di Gaza e Nagorno Karabakh.

Sono le tredici e sei minuti del 26 febbraio 2022 quando il giovanissimo imprenditore ucraino e ministro della trasformazione digitale del governo Zelensky, “Mykhailo Fedorov,” pubblica un tweet menzionando l’account di “Elon Musk”, il magnate che di lì a due mesi diventerà proprietario della piattaforma acquisendola per la cifra record di 44 miliardi di dollari.

 Sono trascorsi solo quattro giorni da quando le truppe della Federazione Russa hanno lanciato una massiccia operazione militare contro l’Ucraina, con l’obiettivo di rovesciare il governo regolarmente eletto per sostituirlo con un gabinetto più favorevole alla politica imperialista del presidente Vladimir Putin.

Rivolgendosi direttamente a Musk, Fedorov gli ricorda che “mentre lui sta cercando di colonizzare Marte, la Russia prova a occupare l’Ucraina”, e fa notare che se i suoi razzi atterrano con successo dallo spazio, “quelli russi colpiscono la popolazione civile del paese”. Il tweet si conclude con la richiesta esplicita di fornire all’Ucraina alcuni terminali Starlink.

 

Sviluppato dall’azienda “SpaceX “di cui Musk è proprietario, “Starlink” è il sistema di internet a banda larga più avanzato al mondo.

Grazie a una vasta costellazione di satelliti che utilizzano una bassa orbita terrestre, Starlink fornisce connettività per una vasta gamma di utilizzi, offrendo internet ad alta velocità e bassa latenza in tutto il pianeta.

La risposta del magnate arriva non più di dieci ore dopo il tweet di Fedorov: nel tweet di commento, “Musk”dichiara apertamente che il servizio Starlink è stato attivato in tutto il territorio ucraino e che altri terminali sono in viaggio verso il paese.

Se la storia di questo scambio finisse qui, sarebbe uno straordinario apologo su come i social network possono influenzare le relazioni diplomatiche tra un paese sovrano e una multinazionale tecnologica.

 Ma la storia, purtroppo, ha un seguito tutt’altro che trascurabile.

La guerra continua a basarsi su concetti e tecnologie tradizionali ma, al tempo stesso, presenta elementi di profonda innovazione.

Avanti veloce:

 l’8 febbraio 2023, Gwynne Shotwell, presidente e COO di SpaceX, dichiara di aver preso provvedimenti atti a prevenire che l’Ucraina faccia un uso militare di Starlink.

Non c’è mai stata, dice Shotwell, l’intenzione, da parte dell’azienda, di fornire kit satellitari per gli usi bellici che ne sono stati fatti dalle forze armate ucraine.

 Tali utilizzi non erano intenzionali né facevano parte di alcun accordo tra l’azienda e il governo ucraino.

Altro salto in avanti:

il 7 settembre del 2023 il “Washington Post” pubblica un estratto dell’autobiografia di Musk in cui il miliardario racconta allo scrittore “Walter Isaacson” di aver dato l’ordine di tagliare la copertura Starlink al largo della Crimea, per impedire un attacco di droni ucraini contro la base navale russa di “Sebastopoli”.

In entrambe le circostanze, vibranti proteste e richieste di spiegazioni sono state avanzate da ministri e alti funzionari del governo ucraino.

 

Si potrebbe essere tentati, leggendo il racconto del travagliato rapporto tra il governo ucraino e Musk, di dedicare le proprie energie a capire quali siano state le motivazioni che hanno spinto il miliardario ad agire in modo così schizofrenico.

Ma la questione centrale non è tentare di comprendere le scelte di “Elon Musk”, quanto riconoscere il fatto che la connettività sia diventata, oggi, un requisito fondamentale per poter svolgere una delle più antiche attività umane di cui si abbia conoscenza: la guerra.

Come ebbe a dire uno dei suoi teorici più importanti, “Carl von Clausewitz,” la guerra è un’attività conservatrice e in constante cambiamento allo stesso tempo: ogni guerra è perciò il precipitato della conoscenza generata da ogni altra guerra che l’ha preceduta, aggiornato alle più recenti acquisizioni tecnologiche, intellettuali e contestuali.

Che l’intuizione di “Clausewitz” sia ancora valida lo racconta non solo l’invasione dell’Ucraina, ma anche la guerra nel “Nagorno Karabakh” e i più recenti conflitti armati sulla Striscia di Gaza.

Dall’importanza dell’artiglieria a quella delle trincee e dell’effetto sorpresa, questi tre conflitti hanno dimostrato come la guerra continui a basarsi su concetti e tecnologie tradizionali ma, al tempo stesso, presenti elementi di profonda innovazione.

Elementi evidenti al punto da aver spinto “Mick Ryan,” generale in pensione dell’esercito australiano, analista e divulgatore militare, a definire questi tre conflitti ‌a “transformative trinity”, “una trinità trasformativa”.

 

A un sistema d’arma autonomo verrebbe a mancare la distinzione tra quello che è legale e quello che è giusto.

A giustificare questa definizione sono soprattutto tre elementi:

la complessa e intrecciata rete di sensori civili e militari presente sul campo di battaglia;

la digitalizzazione delle infrastrutture e dei processi di comando e controllo; l’utilizzo sempre più esteso di sistemi autonomi e di contromisure volte a limitarne o inibirne le capacità.

 Il primo di questi tre elementi è conseguenza diretta della nascita e dello sviluppo delle comunicazioni satellitari e della rete internet, che hanno permesso di integrare la connettività in un numero sempre crescente di oggetti i quali, grazie ai sensori di cui sono dotati, possono raccogliere e generare dati da condividere in rete.

 

Una logica che è stata abbracciata dalle istituzioni militari di tutto il mondo fin dagli anni ’90 del Novecento, grazie all’elaborazione del concetto di “network centric warfare” (“guerra centrata sulle reti”), una dottrina militare che ha come obiettivo quello di trasformare in un vantaggio competitivo l’informazione garantita da una robusta rete di computer dispersi geograficamente.

Dunque attraverso la condivisione di informazioni raccolte sul campo di battaglia e il collegamento in rete delle diverse forze alleate, l’approccio alla guerra centrato sulle reti aumenta la consapevolezza condivisa della situazione sul campo, la velocità di comando, il ritmo operativo, la letalità, il tasso di sopravvivenza e il grado di sincronizzazione di una forza militare.

Ai network di carattere militare si aggiungono oggi quelli di natura civile, dando vita a una rete di intelligence sempre più intrecciata e in grado di generare dati che gli operatori militari possono integrare nella loro attività, moltiplicando così la quantità dell’informazione a loro disposizione.

La creazione di questo genere di reti e l’aumento dei dati che determinano hanno esteso e velocizzato la capacità di raccogliere informazioni in tempo reale utili a sviluppare una più chiara e profonda consapevolezza delle situazioni che le forze militari si trovano ad affrontare in un determinato momento.

 Questa capacità di sviluppare consapevolezza si traduce nella progressiva e crescente digitalizzazione delle infrastrutture e dei processi di comando e controllo, che è stato uno dei più importanti fattori di innovazione nelle operazioni condotte dalle forze armate ucraine contro l’invasione da parte della Federazione Russa.

La ‘guerra centrata sulle reti’ ha mostrato il potenziale di un conflitto armato condotto attraverso l’uso di software e logiche algoritmiche.

Per quanto a guadagnarsi le prime pagine dei giornali siano stati i sistemi d’arma come lo “Stinger”, gli “HIMARS” o i carri armati Leopard, ad averne moltiplicato in modo esponenziale l’efficacia sono stati i network in grado di connetterli gli uni agli altri, dimostrando tutto il potenziale di una guerra condotta attraverso l’uso di software e logiche algoritmiche.

 Esemplare in questo senso è il software di consapevolezza situazionale denominato” Delta”:

sviluppato dall’industria bellica ucraina a partire dal 2017, Delta è diventato rapidamente uno dei software di comando e controllo più sofisticati al mondo, permettendo l’integrazione di una grande mole di dati e la loro condivisione in tempo reale lungo l’intera catena operativa.

Delta ha anche facilitato l’introduzione di una tecnica di comando più decentralizzata e flessibile, che ha permesso un’evoluzione della cultura tattica ucraina verso logiche di gestione simili a quelle che caratterizzano le organizzazioni nate dalla cultura digitale.

Il terzo e ultimo elemento di innovazione emerso dalla “trinità trasformativa” individuata da “Ryan” è il complesso di sistemi autonomi e le contromisure necessarie per limitarne o inibirne le capacità.

 Di questo complesso fanno parte i diversi tipi di droni – aerei, navali e terrestri, militari e civili – che sono stati utilizzati in modo crescente nel corso di tutti e tre i conflitti analizzati e per una molteplicità di scopi che vanno dalla ricognizione al controllo del tiro, dal bombardamento aereo al trasporto di equipaggiamento, fino all’evacuazione di personale ferito e a molti altri utilizzi ancora.

 L’introduzione e l’uso sempre più esteso di questi tre elementi – reti di sensori, digitalizzazione delle infrastrutture di comando e sistemi autonomi – sui campi di battaglia odierni determinerà una serie di importanti implicazioni nel prossimo futuro.

In risposta e in relazione alla loro introduzione emergeranno infatti nuovi concetti a livello strategico, operativo e tattico;

 l’elevato tasso di consumo dei sistemi che ne rendono possibile l’utilizzo renderà necessario accelerare e rendere più resilienti al rischio le operazioni di approvvigionamento;

il design delle forze armate verrà modificato dall’introduzione di nuove unità come, per esempio, quelle dedicate alle operazioni di guerra elettronica e di gestione delle segnature elettromagnetiche dei diversi sistemi utilizzati sul campo. Infine, ed è forse la principale tra le implicazioni determinate dalla comparsa delle reti di sensori, dalla digitalizzazione delle infrastrutture e dei processi di comando e controllo e dai complessi di sistemi autonomi, assisteremo a un cambio nel ritmo delle operazioni tattiche.

 

Il “software Delta” ha facilitato logiche di comando più decentralizzate e flessibili, simili a quelle che caratterizzano le organizzazioni nate dalla cultura digitale.

La maggior accuratezza nel “dipingere” il campo di battaglia che deriva dalla combinazione di questi tre fattori determina infatti un’accelerazione del processo decisionale che modificherà il modo in cui i leader militari saranno addestrati e aumenterà il numero dei sistemi autonomi presenti sul campo di battaglia.

 Tale accelerazione non sarà priva di conseguenze, perché porrà ai leader militari una sfida rispetto alla loro capacità di gestire enormi quantità di informazione al ritmo sempre più rapido necessario per garantirsi un vantaggio competitivo sul nemico.

 L’introduzione dell’intelligenza artificiale nei processi di comando e controllo è perciò destinata a diventare una necessità sempre più impellente per far fronte all’aumentata capacità di generazione e raccolta dei dati resa possibile dalla diffusione di reti di sensori sempre più vaste ed estese.

Uno sguardo sulle possibili conseguenze che potrebbe avere questo passaggio nel modo in cui verranno condotte le guerre del futuro ce lo fornisce una lunga inchiesta realizzata dai magazine israeliani +972 e Local Call, intitolata ‘A mass assassination factory’: Inside Israel’s calculated bombing of Gaza.

 Attraverso testimonianze raccolte nella community dell’intelligence israeliana, l’inchiesta ricostruisce il modo in cui sono stati condotti attacchi aerei contro obiettivi civili nel corso della recente invasione della Striscia di Gaza e il ruolo avuto hanno spinto sulla digitalizzazione dei diversi domini del campo di battaglia e sulla loro integrazione in un sistema di generazione, raccolta, elaborazione e condivisione dei dati, la cui gestione è demandata all’intelligenza artificiale.

È da questo sforzo che è nato il sistema al centro dell’inchiesta pubblicata da +972 e Local Call.

Denominato “Habsora”, questo sistema di intelligenza artificiale lavora su diversi tipi di dati di intelligence (visivi, umani, geografici, di sorveglianza, derivanti da segnali elettromagnetici) ed è in grado di usare strumenti automatici per accelerare il ritmo della produzione di obiettivi da colpire.

 Alcune delle testimonianze raccolte tra il personale delle forze di difesa israeliane assicurano che il sistema permette di analizzare ed elaborare quantità di dati che nemmeno decine di migliaia di operativi umani potrebbero processare e, in questo modo, riesce a fornire in tempo reale enormi quantità di obiettivi da colpire.

Le nuove tecnologie adottate nel campo di battaglia stanno accelerando il ritmo delle operazioni tattiche.

Introdotto per la prima volta nel 2021 nel corso dell’operazione “Guardians of the wall”, salutata come il primo conflitto armato condotto con l’uso dell’intelligenza artificiale, Habsora è stato in grado di aumentare il numero di obiettivi creati dai circa 50 all’anno delle operazioni precedenti fino a 100 obiettivi al giorno, sopperendo così alla mancanza di obiettivi che in passato aveva limitato l’azione delle forze di difesa israeliane.

 Numeri che giustificano la dimensione industriale che molte delle testimonianze raccolte nell’inchiesta attribuiscono al modo in cui il sistema fa evolvere la pianificazione e l’esecuzione dei bombardamenti.

Questa dimensione è uno degli aspetti più inquietanti che la prospettiva di una guerra condotta con l’ausilio di sistemi di intelligenza artificiale proietta sul nostro futuro.

Tali sistemi, infatti, operano in modo più rapido del pensiero umano, accelerando ulteriormente il processo necessario a trasformare i dati in conoscenza che informa l’azione.

Qualora gli utilizzi bellici dell’intelligenza artificiale venissero spinti al loro limite estremo, a essere reso autonomo dal controllo umano sarebbe dunque l’atto di uccidere che, delegato all’AI, porrebbe problemi etici di notevole portata.

Lo scopo di un sistema autonomo, infatti, è capire e soddisfare un bisogno: più che eseguire un compito, questi sistemi devono raggiungere un obiettivo, valutando il modo più efficiente per farlo e agendo senza alcun istinto di conservazione.

 

A un sistema d’arma autonomo verrebbe perciò a mancare la distinzione tra quello che è legale e quello che è giusto, cancellando ciò che rende ogni soldato l’ingranaggio imperfetto di ogni macchina militare:

 la sua coscienza, senza la quale alla guerra verrebbe a mancare quell’elemento così profondamente umano che è la capacità di riconoscere sé stessi nello sguardo dell’altro.

Priva di questo elemento, la guerra non sarebbe altro che la cieca e spietata esecuzione di ordini e istruzioni dirette al raggiungimento di un obiettivo, un’attività del tutto priva di quell’istinto di conservazione che, finora, ha garantito all’umanità la sopravvivenza in un’epoca di armi di distruzione di massa.

 

 

 

 

Come l’Ucraina ha cambiato

la mia vita (e potrebbe

cambiare anche la vostra).

 

 Linkiesta.it – (2 aprile 2024) - Gianluigi Ricuperati – ci dice:

Dopo il 24 febbraio 2022, il Paese è diventato un enorme trasformatore di anime europee, nell’unico continente dove l’aspirazione a una vita decente è una reale possibilità.

Sono passati più di 24 mesi dal 24 febbraio che ha cambiato la Storia d’Europa e, se nei primi tempi contavamo i giorni dall’inizio dell’invasione, adesso siamo nel ’24 – i giorni sono diventati anni, e l’Ucraina esiste ancora, anzi esiste più che mai.

Anzi, esiste a un livello dello spirito che la gran parte delle nostre esistenze non conosce, e rischia di non incrociare mai, se non abbraccia in modo completo e con responsabilità illimitata questa causa.

 Che è la nostra causa.

Molti conoscenti ucraini invece non esistono più, se non nella luce perfetta del ricordo di una vita giusta.

 Io sono qui, sono stato in Ucraina otto volte, ho visto la mia vita familiare cambiare e tremare e infuriarsi e gioire:

ho immaginato con frequenza allarmante questa scena:

i miei figli italiani e ucraini, sette e quattro anni, non sono piccoli ma hanno diciotto anni e mi dicono:

 «Andiamo a difendere la nostra terra».

I figli rimangono sempre piccoli nell’occhio tenero dei genitori, anche quando sono adulti, figuriamoci quando stanno in una trincea con 20 gradi sotto zero rispondendo agli assalti di un’armata infinita inviata dal regime più abietto del mondo per ammazzarli.

Certo, per me questi due anni sono stati una guerra in casa.

Ma vorrei allargare lo spettro delle parole e dei pensieri.

 L’Ucraina è infatti un luogo della Storia – e della Geografia – che può cambiare la vita di ogni occidentale.

 L’Ucraina post 24 febbraio 2022 è un gigantesco trasformatore di anime europee, e noi sappiamo ormai che l’Europa è il solo continente dove l’aspirazione a una vita decente è una reale possibilità, per centinaia di milioni di persone, grazie al mix irripetibile di democrazia liberale, istanze sociali, diritti civili e “capitalismo temperato”.

Un valore immenso, fragilissimo.

 Ma l’Europa, prima del 24 febbraio, non sembrava averne piena contezza.

 Come sempre accade quando si rischia di perdere qualcosa di assai prezioso, le coscienze si risvegliano e la contemplazione burocratica del cosmo contemporaneo (leggi: Bruxelles) si è fatta finalmente azione, il vestito vibrante che una bandiera fatta di stelle meriterebbe.

Gli ucraini – con il loro sacrificio umano, pagato da una generazione di figli magnifici, madri distrutte, cuori straziati – ci hanno detto con chiarezza che sognano l’Europa, e questo sogno lo pagano con la vita.

Questo sogno è più importante della fondamentale vita dei singoli, ma può trasformare le vite di tutti noi, singoli europei privilegiati dal nostro portfolio di diritti e vantaggi acquisiti senza fatica.

Molti europei – per fortuna molti europei che contano, Ursula von der Leyen e Mario Draghi in testa – lo hanno capito fin da subito.

Tanti altri, fra i quali molti italiani storditi e distratti da “TikTok”, non lo hanno capito neppure adesso, decine di migliaia di morti dopo.

 

Lo ripeto: l’Ucraina – la sua resistenza, la sua bellezza sfregiata, la sua popolazione, la sua causa adamantina, i suoi confini, il suo esempio continuo – rappresenta la più rilevante chance di cambiamento del modello psichico europeo dal 1989.

Invito tutti, non solo chi è invischiato con carne e sangue, ma proprio tutte e tutti ad avvicinarsi a questo trasformatore di anime e a lasciarsi trasformare.

Non parliamo di geopolitica.

Non parliamo di strategie militari.

Non parliamo di Donald Trump, non parliamo di Volodymyr Zelensky o di Valeriy Zaluzhnyy, non parliamo degli aerei da caccia che pure salverebbero tante vite. Non parliamo delle armi, che, se usate bene, liberano.

Parliamo di come possiamo cambiare, farci cambiare, migliorare, a dispetto della volgarità di cui siamo spesso complici, a dispetto dei nostri difetti congeniti, a dispetto della nostra fortuna o sfortuna.

Parliamo di vite che si possono scolpire per il meglio.

Questa è la storia di come la vita di un uomo sia stata trasformata dalla frequentazione coordinata e continuativa di questa missione;

e di come l’urgenza della guerra abbia migliorato un quarantenne pieno di cose che non vanno, a volte trafitto da meravigliosi colpi di fortuna, spesso incastrato dai propri abiti impietriti – di come un orizzonte vero si sia prodotto nell’aria viziata di una stanza tutta per sé.

L’uomo, lo scrittore – e molte altre cose, non sempre buone:

infatti ero così assorbito dalla necessità di “Me” che cercavo disperatamente di moltiplicare la varietà – sono io, e chiedo a chi legge di andare su” iTunes “o su “Spotify” e aprire al minuto 2.11 la canzone di “David Bowie Time”, una delle più intense ballate al pianoforte mai scritte.

Sentirete la voce del cantante che respira. Per due secondi.

 Poi mettete ’Tis a Pity She Was a Whore, scritta quasi cinquant’anni dopo.

Sentirete il respiro di un uomo anziano, minato nel corpo, ma pieno di immaginazione pronta a spiccare il volo (l’immaginazione è qualcosa che prima viene scavata e poi prende subito il volo: tipo i video al rallentatore di cavallette e altri insetti alati, una forma di invenzione che è sempre in anticipo sull’inventario).

Il respiro è un elemento fondamentale del pensiero buddista.

 Nessuno che non riesca a respirare potrà avvicinarsi a “jivanmukta”, lo stato di liberazione in vita.

Perdere sé stessi. Perdere tutto. Donare sé stessi.

Donare più di quanto si possiede, pur sapendo di non possedere nulla. Come scrive “René Daumal” in uno dei suoi appunti:

«Sono morto perché non ho desiderio. Non ho desiderio perché penso di avere qualcosa. Cercando di dare si vede che non si ha niente. Vedendo che non si ha nulla si cerca di darsi, Cercando di darsi si vede che non si è nulla, Vedendo che non si è nulla si cerca di diventare, Cercando di diventare si vive».

 

Vorrei raccontarvi come queste parole e gli ultimi 24 mesi di guerra hanno cambiato la mia vita.

All’inizio, l’Ucraina è diventata il secondo Paese di tanti che hanno lavorato, amplificato, svuotato le tasche e faticato per aprire quante più porte possibili a chi fuggiva dalla furia organizzata e immorale di questa guerra di invasione.

Fino a questo evento traumatico, non avevo mai coltivato un ideale.

 Forse delle idee, ma non un principio.

 Uso la parola “coltivare” non a caso.

 Gli ideali sono come rami, radici e tronchi, foglie, pistilli e petali. Certo.

 Avevo dei valori, come tutti.

Ma non andavano molto oltre ciò che è giusto aspettarsi da un essere umano: proteggere la propria famiglia, amare i propri figli, astenersi dal pianificare azioni che incutono paura e dolore a coscienze innocenti.

Non parlo di mentire e di essere coerenti, perché tutti mentiamo e proliferiamo in un tribunale di contraddizioni permanenti.

Su alcune cose, inoltre, la mia posizione morale è stata ben al di sotto delle aspettative anche mediocri.

Il grande scrittore “Hermann Broch” ha scritto che il cuore ha bisogno di occhi bagnati di lacrime per potersi avvicinare all’indicibile e all’invisibile.

Per trasformarci, dobbiamo entrare in comunione con gli altri.

 Perché il cuore che percepisce il dramma degli altri può, trasformando gli altri, cambiare noi stessi.

Non era questa la lezione che “Viktor Emil von Gebsattel” chiamava la comunità di destino?

Il desiderio di sintonizzare il nostro cuore sulle frequenze d’onda degli altri per costruire un ponte.

L’ideale di cui parlo è la resistenza del popolo ucraino, l’accoglienza dei rifugiati, il sostegno radicale e incondizionato alle politiche di difesa della sovranità territoriale dell’Ucraina, al suo ingresso in Europa e alla sua adesione alla Nato, che è di fatto il solo modo pragmatico di non farsi spazzare via dal mostro;

ma anche alla promozione e alla diffusione della specifica caratura culturale dell’Ucraina, la sua musica poesia arte contemporanea letteratura.

Si tratta di un ideale quadrato, schietto, forse semplice, ma inscritto in un cerchio più ampio, quello dell’ormai furiosa certezza che non esiste al mondo – sul pianeta – un modo di vivere più rispettoso della fragilità individuale di quel sistema imperfetto di principi e relazioni che chiamiamo “democrazia liberale occidentale”.

Comunque la si prenda, non si può trovare niente di meglio.

Per questo modo di vivere si può sacrificare tutto, perché tutti gli altri modi sono carnivori: mangiano le anime, i corpi, invertono la freccia del tempo e generano il caos, e il caos – e qui arrivo al punto – è il brodo in cui muoiono prima i deboli, gli spaventati, i feriti, le poetesse e le artiste.

 E le persone giuste.

 

Negli ultimi settecento trenta giorni, viaggiando per otto volte a Lviv, Kyjiv, Kharkiv, Kramatorsk, Osgorod, Poltava, Odesa, Vinnytsya, Ternopil, Ivano-Frankivsk, ho avuto a che fare con persone giuste, ma anche deboli, spaventate, impaurite, ferite.

Ma pure con persone innamorate della vita per come si presenta nella sua forma più cristallina, cioè immediata e piena coscienza di essere-nel-mondo.

E questo principio si è incarnato come un albero nella mia carne, diventando un groviglio vivente:

ogni forma di questo groviglio, ogni foglia di questo arboreto dice: i deboli, gli impauriti, gli spaventati, i feriti, ma anche gli allegri-nei-rifugi, i desideranti-sotto-le-bombe, le donne incinte e i bambini in fila verso i rifugi, gli speakeasy aperti con parole d’ordine, le portatrici fiere di critiche e incazzature contro il proprio governo («È per questo che muoiono i nostri ragazzi, per la libertà di liberarci anche di Zelensky se il popolo lo vorrà»), e ancora i difensori delle arti e dei musei-nonostante-tutto, e i coriacei ricostruttori di Bucha e Irpin.

Ecco, ognuna di queste creature incontrate, chiamate, supportate e sopportate talvolta, sono diventate ai miei occhi il vero tesoro della scena umana, perché sono come noi, e però migliori di noi.

 Gli ucraini non sono un’astrazione.

Sono te che leggi, e che però aspiri a una vita migliore, mettendo a rischio tutto ciò che hai, fino al sacrificio completo.

A me – che come te sono intrappolato da problemi di soldi, ambizioni e desideri, permalosità e cattiverie quotidiane, felicità e psicofarmaci, vacanze e stupide mancanze – pare un esempio.

 Diventare esempi. Vogliamo seguirli?

 

 

 

 

 

La pandemia, le guerre, il clima.

Il pianeta ha sempre più fame.

  Avvenire.it - Maurizio Martina – (6 novembre 2024) – ci dice:

 

Dopo il Covid la crisi alimentare è tornata ad acuirsi a un ritmo che non ha precedenti: pesano le tensioni geopolitiche.

Nel Sud del mondo si lotta per l’approvvigionamento. Cibo è vita.

 

In un mondo dove si getta un terzo del cibo prodotto, 2,8 miliardi di persone non hanno accesso a una dieta sana:

 dalle regole inadeguate agli eccessi speculativi, nel piatto uno specchio delle diseguaglianze economiche globali.

 Con lo spazio mensile “Cibo è vita”, che inizia oggi a cura di Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, approfondiamo i grandi temi che incidono sulla sicurezza alimentare globale.

L’obiettivo “Fame Zero” indicato nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dalle Nazioni Unite è ancora molto lontano.

I paradossi dell’abbondanza sono evidenti: milioni di persone soffrono di malnutrizione mentre molti altri di obesità e ogni giorno sprechiamo sulle nostre tavole almeno un terzo del cibo che produciamo nei campi.

Il cambiamento climatico impatta su tutte le agricolture del mondo, e scienza e innovazione sostenibile possono offrire nuove soluzioni.

Comprendere la centralità di questi argomenti e la loro connessione profonda con i temi della pace e della giustizia sociale sarà sempre più importante per capire quanto la comunità internazionale saprà affrontarli garantendo davvero il bene comune.

C’è un passaggio forte del libro “Fame” di Martin Caparròs che mi è rimasto in mente.

L’autore chiede a una ragazza nigerina che cosa avrebbe scelto se un mago le avesse offerto la possibilità di ricevere qualsiasi cosa.

La risposta della giovane madre fu disarmante: una vacca.

E incalzata a chiedere di più al mago, la sua replica fu altrettanto secca: «Allora due vacche.

Così una sfamerà i miei figli e con l’altra potrò vendere qualcosa e non avere più fame».

Ecco, sta tutto qui.

A dispetto di certe previsioni del passato, la fame rimane un gigantesco problema del nostro tempo.

 C’è stato un momento, in particolare nella fase della globalizzazione a cavallo dei due secoli, in cui queste urgenze sembravano scemare.

 L’agenda del mondo parlava di petrolio, di gas e poi ancora di Internet e della nuova finanza legata alla rete.

Ma si rifletteva poco su cibo e fame.

Se ne parlava di fronte a grandi drammi umanitari.

Poi, passata l’onda emotiva, il silenzio.

 

Il fatto è che in qualche modo si pensava che il mondo fosse riuscito a prendere la via del superamento della fame.

Dati e analisi ci hanno dimostrato che certamente sono stati compiuti significativi passi, soprattutto in alcune realtà cruciali.

 Pensate alla Cina o al Brasile, ad esempio.

Da quando la “Fao” ha cominciato a misurare la “fame nel mondo” abbiamo attraversato un periodo di lento progresso, che ha portato la stima dai circa 920 milioni di persone per il 1970 ai 785 milioni nel 2000.

Da allora, una stasi – se non addirittura un peggioramento, nel periodo fino al 2005, quando si sono superati di nuovo gli 800 milioni.

 Tra il 2005 e il 2015 si è avuto il progresso più rapido che ha portato a ridurre la cifra al di sotto dei 600 milioni, a cui ha fatto seguito però di nuovo un arresto nel progresso, fino al 2020, quando la pandemia ha imposto un peggioramento che ancora non siamo riusciti a invertire.

 Il tasso di aumento della fame negli ultimi quattro anni non ha precedenti nella storia recente.

Nel 2023 una persona su undici in tutto il mondo e una persona su cinque nella sola Africa è stata vittima della fame.

 Il fatto è che il mondo è arretrato di venticinque anni precipitando ai livelli si sottoalimentazione paragonabili a quelli di inizio millennio.

Ma cosa è successo?

 In questi anni, la combinazione di almeno tre crisi ha cambiato lo scenario anche in fatto di insicurezza alimentare:

 il covid con i suoi effetti di medio-lungo termine, l’esplosione di nuovi drammatici conflitti e guerre, la crisi climatica.

Covid, conflitti e clima:

sono le tre c della crisi alimentare globale.

La pandemia ha colpito duramente i più fragili, anche in materia di approvvigionamento alimentare e i suoi effetti concatenati ad altre variabili si fanno ancora sentire.

 Si calcola che siano oltre cento milioni le persone entrate nell’area dell’insicurezza alimentare a causa della pandemia.

 Pensate al connubio Covid-crisi energetica, aggravata in particolare dalla guerra in Ucraina.

Le conseguenze sulla crescita dell’inflazione alimentare in tanti paesi sono state immediate e ancora troppe realtà stanno scontando aumenti di prezzi insostenibili.

 Le guerre rimangono la causa principale della fame.

E ciò è tanto più vero oggi, con quello che sta accadendo in Medio Oriente.

È cambiato il secolo, sono arrivati droni e satelliti, ma i conflitti portano ancora trincee, sfollati, fame e sete usate come strumento di guerra.

Non finirà mai la fame se non finiranno le guerre; è un’amara verità anche nell’anno 2024.

E poi, la crisi climatica.

 Con il suo portato ormai strutturale ovunque e il grave rischio di perdere parti essenziali del patrimonio di biodiversità globale.

 Con l’estremizzazione sempre più frequente degli eventi atmosferici, tra inondazioni e siccità, e l’aumento delle temperature che modifica i cicli di vita delle piante e della natura, muta le agricolture, i paesaggi rurali e le vite di milioni di persone.

 

Tutto ciò provoca effetti dirompenti.

Basta pensare all’oro blu, ossia all’acqua, che in alcune zone varrà più del petrolio. O alle migrazioni interne ai paesi più colpiti, in aree fragili come l’Africa, all’iper-urbanizzazione di queste realtà che diventerà un mega trend nel ventunesimo secolo.

Ma occorre pensare anche alle nuove zoonosi e ai virus, al bisogno di comprendere sempre di più che la salute dell’uomo è intrinsecamente legata a quella degli animali e della natura.

Mai dimenticare che la mappa globale della fame si sovrappone a quella della crisi climatica.

Così come a quella del debito dei paesi più fragili. Perché il nesso è stringente.

Si capisce anche da questa sommaria ricognizione delle grandi faglie che compongono l’insicurezza alimentare che il tema è centrale per le nostre sorti.

 Ma oltre le tre “c” di clima, conflitti e Covid, i sistemi agricoli e alimentari sono attraversati da profonde ineguaglianze.

 

Papa Francesco ha parlato giustamente dei paradossi dell’abbondanza:

In un “sprechiamo un terzo del cibo” che produciamo mentre 2,8 miliardi di persone non hanno accesso a una dieta sana;

abbiamo milioni di affamati e allo stesso tempo milioni di persone con problemi di obesità.

In mezzo, la piaga del lavoro minorile e del caporalato che dobbiamo estirpare. Senza dimenticare mai il ruolo chiave delle donne.

 Le contraddizioni sono profonde.

Le catene del valore sono sbilanciate verso gli anelli più forti, a scapito di agricoltori, allevatori e pescatori.

Il loro potere contrattuale troppo spesso è fragile e disorganizzato.

I prezzi risentono strutturalmente di questo squilibrio e sempre più frequentemente non consentono ai produttori di trovare la giusta remunerazione.

 I mercati hanno bisogno di regole più forti e giuste.

Certamente, non hanno bisogno di nuovi istinti protezionistici, che hanno sempre fatto pagare il prezzo più caro proprio agli anelli fragili delle catene produttive.

Il discorso è complesso ma non si può eludere e riguarda anche le politiche protezionistiche dei paesi più forti e il ruolo assunto dai paesi a basso reddito, diventati sempre più importatori.

Le speculazioni finanziarie sui beni agricoli non sono solo una intuizione cinematografica, come in “Una poltrona per due”.

 Nel mondo reale esistono e hanno bisogno di essere affrontate con regole capaci di impedire le peggiori azioni lucrative ai danni dell’economia reale.

Dove i “derivati” valgono decine di volte più dei raccolti reali.

 Eppure c’è un enorme bisogno di buona finanza per sostenere la trasformazione dei sistemi agroalimentari:

 oggi meno del 4% della finanza globale per il clima viene investita nel settore primario. Troppo poco.

E sempre di più dovremo occuparci dei diritti di accesso alla terra e della finanziarizzazione del prezzo della terra con i grandi rischi che ne stanno derivando.

La curva demografica ci dice che la popolazione mondiale crescerà ancora.

La sfida di «produrre meglio consumando meno» è una questione che punta al cuore del nuovo equilibrio necessario per l’umanità e il pianeta.

La scienza e l’innovazione possono essere decisive, com’è accaduto in passato lungo tutta la storia agricola dell’uomo.

La nuova genetica sostenibile, ad esempio, può essere decisiva per raccolti resilienti al clima.

Il benessere animale sarà altrettanto cruciale.

L’utilizzo dei dati per prevenire, non sprecare, altrettanto.

Il punto, anche qui, sarà con quale grado di pari opportunità potremo dotare chi ha un maggior bisogno di queste innovazioni.

Perché senza un equilibrio nelle proprietà e nell’utilizzo di queste novità rischiamo che il solco tra forti e deboli si allarghi.

E qui emerge la funzione indispensabile delle istituzioni, specie quelle nazionali e sovrannazionali, per regolare e indirizzare questo avanzamento decisivo.

Il multilateralismo è in crisi ma la risposta non è abbatterlo, ma rinnovarlo e rilanciarlo come strumento di pace e cooperazione.

A me pare una sfida esiziale oggi più che mai.

Perché nessuna nazione e nel popolo, per quanto grande, può bastare a sé stesso. E la speranza più importante è che un giorno la giovane madre nigerina intervistata da Caparròs possa chiedere al mago qualcosa di più, e di diverso, di una vacca per sopravvivere.

(Maurizio Martina. Cibo è vita - Vicedirettore generale Fao, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura).

 

 

 

 

 

«Che senso ha studiare?». La guerra

 che arriva dal cielo ha cambiato Beirut.

Ilmanifesto.it – (9 novembre 2024) – Pasquale Porcello – ci dice:

 

Libano. La capitale libanese divisa tra solidarietà e antiche rivalità. Il rumore dei droni è continuo.

E a sud e a est del Libano i bombardamenti sono quotidiani.

E’ rimasto un uomo solo con la bandiera di Hezbollah tra le rovine del quartiere della” Dahieh”. 

BEIRUT.

«Che senso ha studiare se prima o poi ci uccidono?».

Lo chiede Aline, mercoledì pomeriggio, al suo professore di inglese Sami Feghali all’Università Antonina.

«Mi ha gelato. Non ho saputo cosa risponderle. Lo ha detto con sarcasmo, con un sorriso affettato, per esorcizzare la paura, mordendosi le labbra.

Ma io e lei, la classe tutta, sapevamo bene di cosa parlava e nessuno di noi ha saputo ridere.

Un’ora dopo, quasi come dopo una premonizione, hanno bombardato Beirut per sette volte in un’ora e mezza, mentre facevamo lezione.

Le finestre hanno tremato, noi siamo saltati dalle sedie.

Da qui è vicinissimo».

 

L’università è a un paio di chilometri in linea d’aria dai bombardamenti, nella parte superiore di “Hadath”, una delle municipalità coinvolte.

 La parte leggermente più a valle è sciita e inglobata nella “Dahieh”, la periferia a sud di Beirut, la zona più colpita.

«Siamo andati nel cortile» che guarda tutta Beirut «e abbiamo assistito allo spettacolo macabro delle colonne di fumo.

Poi è calata la sera e abbiamo sentito solo le esplosioni».

Beirut è sospesa in un vortice di sentimenti ancora non razionalizzati e la guerra ha già profondamente cambiato il volto della città.

 

“HAMRA” è una lunga coda di auto rumorose a qualsiasi ora del giorno, fino a sera però.

Sono molti gli alberghi, le scuole adibite a rifugi, i palazzi privati messi a disposizione dei profughi interni arrivati nell’ultimo mese e mezzo.

 «Stiamo preparando cibo per tre scuole nel quartiere», racconta” Khodor”, gestore di “Barzakh”, caffé-libreria sulla strada principale del quartiere un tempo cuore culturale di Beirut.

«Ci occupavamo di eventi, concerti, dibattiti politici…”Hamra” è morta da questo punto di vista».

 

Il “caffé “che oggi, come tante altre realtà, si dedica all’emergenza, è vuoto già nel primo pomeriggio e il contrasto è forte con il via vai in strada che si vede dai finestroni.

 «Verso le otto si svuota tutto. Non c’è più diversità in questa parte della città. La gente ha paura, non esce la sera».

È un altro mondo appena superata la Linea verde, quella tracciata durante la guerra civile libanese (1975-90) che separa Beirut ovest, dove si trova Hamra e la maggior parte delle aree ospiti, da Beirut est.

 Nei quartieri gestiti dai partiti cristiani della destra conservatrice, la normalità con cui la vita procede è sorprendente.

 Impossibile vedere sciiti.

Si mischiano antichi rancori, la divisione comunitaria che nei momenti di crisi viene fuori con tutta la sua forza, l’empatia per i civili coinvolti nella crisi umanitaria, i discorsi sulle responsabilità di Hezbollah, quelle di Israele, e molto altro.

«NESSUNO affitta agli sciiti.

 Abbiamo paura che possano colpire anche le nostre zone», dice “Tony Khouri”, proprietario di un condominio a “Geitawe”.

Nell’androne ha scritto un cartello che invita «i condomini a non subaffittare e a non ospitare persone in casa senza preavviso».

Quello che amaramente unisce la città è il rumore continuo degli “mk”, i droni israeliani di riconoscimento che giorno e notte sorvolano i cieli di Beirut e sono un trapano nella parete della mente, dell’attenzione, della concentrazione, un perpetuo monito che la guerra, la minaccia, la morte sono sopra le teste di tutti.

Le notizie dal sud e dall’est sono simili da giorni: l’aviazione israeliana bombarda incessantemente e uccide.

 Nelle ultime settimane “Baalbek”, a est, nella valle della Bekaa, e “Tiro,” a sud sul Mediterraneo, sono intensamente sotto attacco.

Si teme anche per le preziosissime rovine romane – i missili israeliani si sono avvicinati di pochissimi metri al complesso di “Baalbek” – che hanno contribuito a rendere le due città patrimonio dell’Unesco.

 Ieri sera due palazzi sono stati abbattuti nella centralissima” Rue Hiram “a Tiro. Il numero dei morti, ancora non estratti dalle macerie, è molto elevato, prevedono i soccorritori.

Finora sono 3.117 i decessi accertati dal ministero della salute libanese sono e i feriti 13.888.

CONTINUANO anche gli sconfinamenti nella Linea Blu, la zona (in teoria) cuscinetto che separa Libano e Israele:

«La distruzione deliberata e diretta da parte dell’esercito israeliano di proprietà chiaramente identificabile di “Unifil “è una violazione fragrante della legge internazionale e della risoluzione 1701», si legge nel comunicato pubblicato ieri, dopo che due bulldozer e un carro armato israeliano hanno sfondato la rete di protezione e buttato giù delle strutture in cemento a “Ras Naqora”, sud di Tiro, sul mare.

Giovedì cinque caschi blu appena arrivati in Libano, parte di un convoglio che da Beirut si dirigeva verso la Linea Blu, sono stati leggermente feriti all’altezza di Saida quando un missile israeliano è stato lanciato a pochi metri dai blindati in movimento.

L’impressione che questa guerra non sia più così veloce si è ormai trasformata in una certezza.

E nessuno in Libano è in grado di dire quali siano gli obiettivi di Israele e quando tutto questo finirà.

 

La guerra è connaturata all’uomo:

prima lo accetta, prima ne avrà

un approccio pragmatico.

Ilfattoquotiano.it – Luciano Casolari – (18-4-2024) – ci dice:

 

La guerra è connaturata all’uomo: prima lo accetta, prima ne avrà un approccio pragmatico.

Una fregola guerriera pare attraversare il mondo.

 Hamas ha compiuto atti terroristi e auspica la distruzione di Israele.

 Gli Israeliani bombardano e minacciano, gli Iraniani replicano decuplicando le promesse di ritorsioni.

 Zelensky usa parole di fuoco che fanno il paio con quelle di Medvedev.

Tutti promettono distruzione del nemico.

Biden apostrofa in malo modo, come dittatore sanguinario, il suo avversario e viene ricambiato con commenti che lo fanno apparire rimbambito.

 Anche l’Europa per bocca del rappresentante Affari esteri Borrell esprime propositi belligeranti in quanto “occorre sconfiggere l’avversario”.

Molti commentatori ritengono che l’uomo sia sostanzialmente tranquillo e che la guerra sia un evento patologico.

Una sorta di anomalia catastrofica della storia rispetto alla pacifica consuetudine della vita umana.

E se fosse vero il contrario?

Se l’aggressività che sfocia nella guerra fosse un elemento fisiologico, normale, della natura umana?

Esprimere schifo, orrore e riprovazione verso la guerra non mi pare che abbia portato a grandi risultati ma ha anzi accresciuto istinti feroci nelle pieghe delle società.

 Le esecrazioni rituali verso gli orrori della prima e seconda guerra mondiale non paiono in grado di cambiare il corso degli eventi che, spediti, si dirigono verso il prossimo conflitto.

La voglia di picchiare, che ricorda l’immagine proposta dai futuristi della “Guerra igiene del mondo”, sempre più diviene parte dell’immaginario di molti uomini apparentemente pacifici.

In realtà sono pacifici fino a che non si toccano i loro interessi particolari.

Appena capita che qualcuno turbi e metta in discussione certi privilegi o semplici abitudini compare prepotente la voglia di “mettere tutti in galera” e “tenere lontani gli stranieri a costo di ammazzarli”.

Gaza, negoziati in salita.

 Hamas: “Le parole di Netanyahu inficiano i negoziati”.

Israele compra 40mila tende per evacuare Rafah.

Ogni giorno scopriamo che il vicino di casa che tutti ricordano come “così buono” uccide in modo efferato ed è disposto a delegare l’uccisione di altri uomini a milizie prezzolate purché non turbino la sua vita serena. T

anti inneggiano a un mondo che vada al contrario di come sta andando, perché a loro avviso va al contrario di come dovrebbe andare.

 Insomma tutti vogliono decidere quale sia la direzione giusta del mondo e non accettano che il mondo se ne freghi di loro.

Noi esseri umani dobbiamo rassegnarci all’idea che siamo predisposti alla guerra e che, anzi, la guerra per imporre le nostre idee e il nostro punto di vista sugli altri fa parte della nostra natura.

 Solo in questo modo, forse, potremo tenere la guerra sotto un certo livello di controllo.

Gli uomini accettando di essere naturalmente portati alla guerra possono cercare un modo per farla “in modo controllato”.

 Bisogna diffidare dei governati che ritengono di essere nel giusto a prescindere, che si ritengono superiori moralmente e affermano “Dio è con noi!”.

Costoro demonizzano il nemico, rendendolo disumano nelle menti, un orco come avviene nelle favole.

 Questo pensiero risulta un modo per non poter mai fare la pace e pensare che ci siano solo due possibilità: la sconfitta e la vittoria.

Quindi guerra fino alle estreme conseguenze.

Molto meglio dei governanti meno ideologici che in modo pratico valutano che vantaggio o svantaggio potrà scaturire da un conflitto.

 Se c’è un interesse pratico a una guerra regionale potrà essere attuata, senza però ammantarla di lotta fra “il bene e il male”.

Occorre che ognuno di noi, nel suo piccolo, accetti l’idea di essere aggressivo e portato alla guerra per imporre i suoi punti di vista.

Da questa autoconsapevolezza derivano elementi positivi:

 il primo e più importante è l’accettazione del non essere buoni per definizione e pensare che sono sempre gli altri che hanno iniziato a picchiare (spesso sono una serie di eventi con dispetti e scaramucce reciproche ad aver innescato il conflitto).

Il secondo è un approccio pragmatico alla guerra in cui si valutano i pro e i contro senza l’autodefinizione di “giusti” che costi quel che costi porteranno avanti il conflitto fino allo stremo.

Il terzo aspetto, pragmaticamente positivo, è la consapevolezza che la pace la si farà necessariamente col nemico.

Riconoscere alcuni dei suoi punti di vista è quindi necessario, senza rifugiarsi nell’idea consolatoria che noi siamo quelli buoni e bravi e loro sono orchi cattivi.

 

 

 

 

Ecocidi, biodiversità e conflitti.

Infodata.ilsole2ore.com - David Ruffini – (13 Novembre 2024) – ci dice:

 

Era il 26 febbraio 1970, quando il “New York Times” pubblicò un articolo, contenente

un termine nuovo per la stampa dell’epoca, riguardo la proposta di” Arthur Galston”, un professore di biologia di Yale: un accordo internazionale volto a vietare gli “ecocidi”.

Per ecocidio si intende la distruzione volontaria di un ecosistema e, di conseguenza, delle risorse naturali che lo compongono, da parte dell’uomo.

Il brano in questione, dal titolo “… and a plea to ban ‘ecocide’”, riguardava l’operato degli Stati Uniti durante la guerra in Vietnam e nello specifico l’utilizzo da parte dell’esercito americano dell’Agente Orange: un erbicida che venne sparso per una decina d’anni – dal 1961 al 1971 – nel Vietnam del Sud, al fine di ridurre la vegetazione presente che faceva da protezione ai soldati del gruppo armato di resistenza vietnamita.

Il professor “Galston “sosteneva che l’eliminazione del manto vegetale avrebbe creato danni irreversibili al ciclo di vita di determinati molluschi e pesci, andando a creare seri danni all’alimentazione e alla salute dei vietnamiti, che basavano il loro introito proteico su alimenti di questo tipo.

L’impatto dell’”Agente Orange” – e di altre sostanze simili utilizzate – si rivelò pericoloso anche per gli aspetti direttamente legati alla salute delle persone che vennero contaminate.

Infatti, tali erbicidi vennero considerati i responsabili di neoplasie, in coloro che erano già vivi durante quel periodo, e di malattie congenite, nei figli che vennero alla luce negli anni a seguire.

La proposta del biologo di Yale ha in parte trovato riscontro nello Statuto di Roma e, più recentemente, in una direttiva dell’Unione Europea che ha lo scopo di definire in maniera più formale i reati ambientali e di introdurre sanzioni proporzionate al danno commesso.

Il testo spiega che viene considerato reato ambientale l’azione intenzionalmente volta ad arrecare un danno, ma anche quella figlia di una grave negligenza.

Secondo “ACLED”, i conflitti attualmente in corso a livello globale interessano cinquanta paesi.

Questo significa che, una volta assegnato un punteggio a ogni paese del mondo, in almeno cinquanta di questi gli scontri rientrano in una delle seguenti categorie di intensità degli scontri: turbolenta, alta o estrema.

Gli attacchi sulla Palestina hanno reso la regione del Vicino Oriente quella più pericolosa per i civili e più mortale.

La quantità di detriti generata dai bombardamenti di Tel Aviv sulla Striscia di Gaza ha superato i quarantadue milioni di tonnellate di detriti, provocando circa un milione di casi di infezioni respiratorie.

Le bombe hanno fatto collassare il sistema di gestione dei rifiuti e dell’acqua, costringendo i civili a vivere tra le macerie e in scarse situazioni igieniche.

Gli osservatori si stanno chiedendo se ciò che Israele sta compiendo ai danni dei territori palestinesi possa essere etichettato come “ecocidio” e quindi possa far rispondere lo Stato Ebraico alla Corte Penale Internazionale.

Un’analisi condotta da” Forensic Architecture” illustra come il suolo vegetativo presente sulla Striscia sia cambiato dal riaccendersi del conflitto il 7 ottobre 2023.

A marzo 2024, circa il 40% del terreno che produce cibo è stato distrutto.

A Gaza Nord, il 90% delle serre è stato devastato in seguito all’invasione via terra delle Forze dello Stato ebraico, mentre a “Khan Youni”s la percentuale di infrastrutture di questo tipo distrutte si ferma al 40%.

In generale, l’invasione di terra delle Forze di difesa israeliane ha danneggiato circa la metà della copertura arborea che l’enclave palestinese aveva prima di ottobre 2023, mentre i bombardamenti hanno distrutto circa il 60% degli edifici presenti.

Anche in Sudan il rischio di ecocidio è presente.

 La “Notre Dame GAIN “e la sua matrice, indicano il Sudan come uno degli otto paesi più vulnerabili dal punto di vista climatico.

In un paese già vulnerabile socialmente, il conflitto in corso non fa che inasprire le condizioni di vita dei sudanesi, con i combattenti che molto spesso prendono di mira le scorte di acqua o di carburante.

 Inoltre, gli scontri odierni, spesso giustificati dai belligeranti come necessari al fine di ottenere suolo coltivabile e risorse idriche, hanno impattato su circa tre milioni di agricoltori e allevatori.

La matrice che si vede di seguito rappresenta la resilienza dei paesi mettendo in relazione la loro vulnerabilità alla loro capacità di adottare misure migliorative.

Il primo quadrante – quello in alto a sinistra – contiene i paesi che sono più vulnerabili dal punto di vista ambientale e, allo stesso tempo, con meno risorse o meno capacità per poter risollevare il complesso stato del territorio.

Il suolo sudanese è per circa il 75% coperto da aree desertiche o semidesertiche, terreni aridi che impediscono una facile lavorazione del terreno e costringono quasi la totalità dei sudanesi ad avere un’agricoltura molto sensibile al clima, con il rischio di doversi muovere per cercare le condizioni atmosferiche migliori.

Attualmente, sembrerebbe che il nord del Sudan sia destinato a diventare una terra difficilmente coltivabile e si prevedono grandi movimenti degli abitanti verso il sud.

Il territorio ucraino non è esente da casi di presunti ecocidi, questa volta a opera dei russi.

 Il fiume “Seym” è a cavallo tra Russia e Ucraina, passando per la regione di Sumy.

Qui, si sono scoperte sostanze tossiche rilasciate nella parte russa del” Seym” che hanno viaggiato oltre confine, provocando la distruzione dell’intero ecosistema del fiume, il quale collegandosi al fiume Desna lo ha condotto alla stessa fine, ottenendo come risultato 44 tonnellate di pesce morto.

Agli ucraini è stato quindi vietato di bere acqua dal rubinetto, di nuotare nel fiume e di mangiare il pesce pescato da quelle acque, fino a che la situazione non ritorni ai livelli precedenti.

 

La biodiversità è un elemento essenziale per la vita dell’uomo e degli altri organismi presenti sulla terra.

La crisi climatica fa sì che gli eventi una volta considerati estremi, ora si presentino con una frequenza maggiore e con una potenzialità dannosa ancora più grande.

I conflitti violenti non fanno altro che aggravare lo stato attuale, danneggiando l’ecosistema nel quale la popolazione vive con ripercussioni che rischiano di perdurare anche a scontro concluso, anche per generazioni.

 

 

 

Siamo di fronte alla Terza

guerra mondiale?

di Alan Woods.

 Rivoluzione.red – (17 Settembre 2024) - Alan Woods – ci dice:

 

Mentre scrivo queste parole, i titoli dei giornali vengono egemonizzati dall’annuncio shock secondo cui la Russia entrerebbe “in guerra” contro gli Stati Uniti e i suoi alleati, se questi ultimi dovessero togliere le restrizioni all’Ucraina sull’utilizzo di missili occidentali a lungo raggio al fine di colpire in profondità nel territorio russo.

Da un giorno all’altro, senza alcun preavviso, l’opinione pubblica viene informata di un fatto strabiliante:

che l’ulteriore continuazione e intensificazione del conflitto ucraino ci pone di fronte alla minaccia dello sterminio nucleare.

Per la stragrande maggioranza

 delle persone in Occidente, questa notizia è giunta come un fulmine a ciel sereno. Davvero le cose possono mettersi così male?

Perché non siamo stati informati prima?

Eppure, per chiunque abbia seguito seriamente lo sviluppo degli eventi, questo non deve sorprendere.

La maggior parte della gente ha la memoria corta e i politici sembrano non avere memoria alcuna dei fatti, quando i fatti non coincidono con i loro interessi. Abbiamo dimenticato il fatto che la Russia non solo è uno Stato molto potente con un forte esercito, ma è anche la più grande potenza nucleare, equipaggiata con missili a lunga gittata in grado di colpire qualsiasi obiettivo sul pianeta?

 

O i leader del mondo occidentale hanno dimenticato questi fatti – nel qual caso essi sono incompetenti e inadatti a ruoli di comando – oppure ne sono ben consapevoli – e in questo caso sono colpevoli di una sconsideratezza criminale che mette in pericolo le vite di milioni di persone e dovrebbero essere condotti in prigione o consegnati al più vicino ospedale psichiatrico.

Ma qual è la spiegazione di questo ultimo sviluppo allarmante?

Putin vuole la guerra con l’Occidente?

La prima spiegazione che viene frequentemente spiegata nei media è molto semplice.

Vladimir Putin è un folle dittatore che vuole conquistare il mondo.

Se non viene sconfitto in Ucraina, attaccherà l’Europa e ci ridurrà tutti in schiavitù.

Dal momento che è mentalmente disturbato e incapace di prendere decisioni razionali, è inutile persino pensare di negoziare con lui.

Sentiamo argomenti simili con estenuante regolarità da parte dei cosiddetti “esperti della Russia”.

Ma questa è una spiegazione che non spiega nulla.

Certo, la psicologia dei singoli leader può giocare (e gioca) un ruolo importante nello sviluppo degli eventi, anche delle guerre.

Lo vediamo molto chiaramente nel caso dell’Ucraina e di Israele.

Tuttavia, tali fattori non possono mai del tutto spiegare le azioni più importanti intraprese dalle singole nazioni, men che meno in ambito bellico.

Per comprendere ciò, è necessario smascherare le motivazioni segrete che spingono le nazioni in guerra, cioè i loro interessi materiali.

Ma se anche cercassimo di trovare una spiegazione della situazione attuale nel regno fumoso della psicoanalisi degli individui (che è sempre un intento rischioso), ci renderemmo immediatamente conto che questa presunta psicologia dell’uomo del Cremlino non corrisponde assolutamente ai fatti noti.

Innanzitutto, lasciateci dire chiaramente che non abbiamo assolutamente alcuna illusione in Vladimir Putin.

Non lo appoggiamo in alcun modo e mai l’abbiamo fatto.

Egli è, infatti, un controrivoluzionario nemico della classe operaia, sia in Russia che in tutto il mondo.

Putin difende gli interessi dell’oligarchia russa, quella banda corrotta di imprenditori che si sono arricchiti saccheggiando la proprietà collettiva dell’Unione Sovietica.

Pertanto, non vi è un atomo di contenuto progressista nelle sue politiche, né in pace né in guerra, né dentro né fuori dalle frontiere della Russia.

Ne segue che, quale che sia la politica che egli sta perseguendo in Ucraina, essa non potrà mai essere utile agli interessi dei lavoratori dell’Ucraina o della Russia. Tuttavia, è altrettanto vero che la cricca reazionaria di Kiev non difende gli interessi del popolo ucraino, che viene crudelmente sacrificato come una pedina dalla cinica politica perseguita dagli Stati Uniti e dalla Nato.

 

Putin è irrazionale?

Il fatto che Putin è un reazionario non comporta necessariamente che egli sia pazzo o irrazionale.

Al contrario, tutto quello che sappiamo a suo proposito va nella direzione di un uomo molto astuto che sa esattamente cosa sta facendo e che si basa sempre su conclusioni che potrebbero risultare ciniche, ma che sono sempre il risultato di un freddo calcolo.

Al contrario, gli uomini e le donne ignoranti e incredibilmente stupidi che passano per politici e diplomatici negli Stati Uniti e in Europa presentano un quadro di completa inettitudine e incompetenza.

Questi signori e queste signore sono altrettanto cinici e manipolatori come l’uomo del Cremlino, ma, a differenza di quest’ultimo, sono non solo irrazionali, bensì del tutto incapaci di guardare in faccia la realtà. Gli errori che commettono ininterrottamente in politica estera dimostrano che sono incapaci di elaborare alcunché somigliante a un coerente piano di azione o ad una strategia.

Al contrario, essi si limitano a reagire empiricamente agli eventi, evidentemente incapaci persino di mettere un piede davanti all’altro senza inciampare e cadere in un fosso.

 Di conseguenza, la loro politica in Ucraina si è rivelata un completo disastro e la loro incapacità di porre fine alle sconsiderate provocazioni di Netanyahu minaccia di trascinarli in un disastro ancora maggiore in Medio Oriente.

Non si può che osservare con profondo stupore come la politica di Washington venga determinata dalle bizzarrie di due uomini disperati: uno a Kiev e l’altro a Gerusalemme.

Questi uomini, che in realtà dipendono totalmente dal denaro e dalle armi fornite da Washington, a quanto pare si sentono liberi di portare avanti politiche che sono in contraddizione diretta con gli interessi strategici dell’imperialismo americano.

A questo punto, infatti, sebbene ciò sfidi i poteri dell’immaginazione, sembra che i burattini abbiano spezzato i fili che li muovono e saltellino liberamente a proprio piacimento.

Incredibilmente, è il cane che porta a spasso il padrone!

A prima vista, potrebbe sembrare che questo fatto contraddica la nostra precedente affermazione per cui è impossibile comprendere le guerre come risultato della psicologia individuale.

Tuttavia, ci sono momenti in cui la psicologia individuale non è nient’altro che l’espressione di interessi materiali molto specifici di alcuni individui.

Questi due aspetti diventano completamente inseparabili.

Fatemi esaminare questo strano fenomeno più da vicino. Torneremo dopo al nostro punto di partenza, cioè all’ultimatum di Putin all’Occidente, che sarà diventato allora, speriamo, almeno un po’ più comprensibile.

 

I tre uomini più pericolosi sulla Terra.

Al centro del vortice terrificante degli eventi mondiali, ci sono due uomini. Vivono a migliaia di chilometri di distanza. Parlano lingue diverse. Si somigliano poco l’uno all’altro, sia fisicamente che intellettualmente. Si direbbe che sono totalmente diversi…

Eppure, sotto un aspetto, sono identici. Condividono un’ossessione comune, che ha implicazioni molto drammatiche per il mondo.

La gran parte degli uomini e delle donne, se si chiede loro quale sia il loro più grande desiderio per il mondo, risponderanno senza dubbio con una parola: “pace”.

Ma la pace è qualcosa di molto distante dalle menti di questi due personaggi.

 Al contrario, la guerra è diventata lo scopo vitale della loro esistenza.

Essi la desiderano con fervore. Poiché con essa, essi sono tutto e, senza di essa, non sono niente.

I nomi di questi due signori sono Volodymyr Oleksandrovych Zelensky e Binyamin (‘Bibi’) Netanyahu.

Per ragioni del tutto differenti, che abbiamo affrontato in altri articoli, le guerre nelle quali si sono ingarbugliati non stanno andando bene.

Nonostante la sua colossale superiorità militare, in ormai quasi un anno di guerra, Israele non è riuscito ad ottenere il rilascio degli ostaggi o ad eliminare Hamas come forza combattente.

L’attuale ondata di rabbia popolare all’interno di Israele sta minacciando il futuro di Netanyahu e del suo governo.

Ma Netanyahu non ha alcuna intenzione di arrendersi, perché sa che ciò significherebbe il crollo del suo governo.

 Egli si trova ad affrontare, inoltre, accuse di corruzione.

 Pertanto vuole lottare fino alla fine, quali che siano le conseguenze.

Tali conseguenze saranno estremamente gravi per il mondo intero.

La guerra con l’Iran, che egli desidera così fortemente ed è determinato a scatenare, non sarà come il bagno di sangue unilaterale contro un nemico ben più debole a Gaza.

L’Iran è uno Stato potente dal punto di vista militare, con un esercito temprato e molto motivato e grandi riserve di missili e di altre armi sofisticate.

E se non possiede già armi nucleari, è molto vicino ad ottenerle.

L’Iran ha molti alleati nella regione.

Tra di essi, ci sono Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen, oltre a molti altri gruppi minori, ma forse ancora più aggressivi, in altri paesi, che sono tutti ben contenti di attaccare Israele con ogni mezzo a propria disposizione.

La portata della potenza missilistica iraniana è stata dimostrata solo pochi mesi fa, quando hanno lanciato una pioggia di missili contro obiettivi israeliani come rappresaglia all’ennesima provocazione.

A causa delle pressioni degli Stati Uniti e di altri paesi, in quell’occasione gli iraniani avvertirono preventivamente dell’attacco e limitarono i propri obiettivi per non provocare una guerra aperta con Israele.

Ma la prossima volta – e ci sarà inevitabilmente una prossima volta – non daranno prova della stessa moderazione.

Ma c’è un altro aspetto.

L’Iran ha recentemente stretto rapporti molto stretti con la Russia e la Cina.

Così, nel caso di un allargamento del conflitto, che coinvolgerà inevitabilmente (come minimo) il Libano e lo Yemen, l’altrettanto inevitabile intervento americano verrà sicuramente contrastato dai russi e, forse, dai cinesi, che forniranno aiuto all’Iran.

Le implicazioni di un tale scenario dovrebbero essere evidenti a chiunque. Immaginate cosa succederebbe, per esempio, se una portaerei americana venisse affondata da un missile fabbricato in Russia.

 Il pericolo di uno scontro aperto tra le due grandi potenze sarebbe implicito in questa situazione.

Tuttavia, il secondo della nostra galleria di celebri furfanti guerrafondai pone un pericolo molto più immediato.

Il presidente Volodymyr Zelensky entra in scena.

Il guerrafondaio-capo numero due.

Recentemente, la televisione britannica ha mandato in onda una serie di tre episodi sulla vita di Volodymyr Zelensky Ovviamente, il tempismo di questo capolavoro di piaggeria televisiva non è casuale.

 Al contrario, è parte di un’offensiva propagandistica accuratamente pianificata, volta a mascherare la vera offensiva che viene segretamente pianificata dai politici a Londra e a Washington.

La prima parte della serie televisiva rappresenta il giovane Volodymyr come un uomo di pace che esordisce come comico di successo, impersonando il ruolo di un presidente fittizio in televisione.

 Pare che come comico abbia goduto di un grande successo. Considerando le sue evoluzioni successive, ci si potrebbe augurare che avesse mantenuto quel ruolo.

Il comico, precedentemente pacifico e spensierato, ha da tempo smesso di essere divertente.

 Assieme ai propri capi a Washington e a Londra, egli sta prolungando un conflitto sanguinoso e insensato nel quale l’Ucraina sta perdendo, secondo alcune stime, 2mila uomini al giorno, morti o feriti.

E rappresenta oggi, probabilmente, il più grande pericolo per la pace nel mondo intero.

Il caso di Zelensky non è diverso da quello di Netanyahu, anzi è identico.

Dopo circa tre anni di guerra, egli sta guardando la disfatta negli occhi.

La precedente propaganda delirante, che propinava una vittoria ucraina sulla Russia come qualcosa di praticamente inevitabile, è finita, come abbiamo detto, in un cumulo di cenere.

Dopo il fallimento della sua stupida scommessa a Kursk, adesso Zelensky è un uomo disperato.

E gli uomini disperati fanno cose disperate.

Grida e impreca contro i propri generali, accusandoli di raccontargli menzogne.

 In effetti, egli rivela tutti i sintomi di un uomo che ha perso ogni contatto con la realtà.

È sempre difficile interpretare le azioni di una mente squilibrata, ma una cosa è chiara:

 rimane solo un’opzione a Zelensky per vincere la guerra.

E questa opzione è quella di provocare una guerra più ampia nella quale verrebbero trascinati gli Stati Uniti.

Gli americani si incaricherebbero a quel punto di tutti i combattimenti al posto dell’Ucraina.

Per un lungo periodo, Zelensky ha sostenuto una campagna politica rumorosa, chiedendo agli americani di fornirgli il permesso di utilizzare i missili americani a lungo raggio per colpire in profondità all’interno della Russia.

 Naturalmente, i guerrafondai imbecilli a Londra erano tutti favorevoli a questa proposta folle.

Ma finora, questa è stata respinta dagli americani, che sono comprensibilmente terrorizzati da una reazione russa.

È esattamente la stessa opzione che è rimasta a Netanyahu: egli sta deliberatamente provocando l’Iran nella speranza di far scoppiare una guerra generalizzata in Medio Oriente, che costringerebbe gli americani ad intervenire per “salvare Israele”.

C’è un altro modo di dirlo: stanno cercando di dare inizio alla Terza guerra mondiale.

Il guerrafondaio-capo numero tre.

Il terzo della nostra banda di pericolosi guerrafondai è un caso tutto diverso.

Egli riveste ora il ruolo dell’eminenza grigia.

Ma ciò non significa che il suo ruolo negli eventi mondiali sia del tutto svanito.

Un vecchio amareggiato che è stato costretto a quello che considera un pensionamento prematuro e ingiustificato dalle persone che un tempo considerava i propri amici e che sono finiti per dargli la stessa gentile spinta che nei vecchi tempi aiutò Giulio Cesare a farsi da parte.

Tuttavia, Joe Biden non se n’è andato con la stessa flemma del suo antesignano romano.

Egli ha lottato con le unghie e i denti per non essere cacciato e si è arreso a denti stretti solo quando i suoi sostenitori dal punto di vista finanziario hanno minacciato di ritirare il proprio appoggio.

Questa si è rivelata essere un’arma ben più temibile di qualsiasi pugnale, e molto più accettabile per la sensibilità dell’opinione pubblica.

Anche allora, mentre acconsentiva a ritirarsi dalla sua candidatura nelle liste democratiche alle elezioni di novembre, si è cocciutamente rifiutato di dimettersi dal ruolo di presidente degli Stati uniti.

Ciò significa che, per un periodo di svariati mesi fino a gennaio 2025, l’incarico di maggiore potere al mondo rimarrà nelle mani di un politico fallito, pieno di rancore e di un bruciante desiderio di vendetta, e ossessionato dalla questione dell’Ucraina.

Il pensiero che il dito di un vecchio arrabbiato e pieno di amarezza sia sul bottone che può mandare il pianeta intero all’altro mondo non è proprio consolante.

Non è un segreto che Biden sia completamente ossessionato dal proprio odio per la Russia.

 È chiaro che egli ha giocato un ruolo di primo piano nello spingere l’Ucraina in una guerra che non poteva essere vinta contro un potente vicino, insistendo sulla sua adesione alla Nato.

E non c’è assolutamente alcun elemento che possa far pensare che abbia cambiato opinione riguardo a ciò – o a qualsiasi altra cosa.

Da quando è stato messo da parte dai suoi ex-colleghi, sembra che passi la maggior parte del suo tempo a giocare a golf o a prendere il sole sulla spiaggia. Eppure, la sua mente starà fremendo di rabbia tutto il tempo.

 Come dare una lezione che non dimenticheranno a tutti i suoi nemici?

 Dopotutto, egli è ancora il presidente, investito di tutti i poteri del presidente degli Stati Uniti.

Consapevoli di questo, alcuni stanno ancora tentando di ottenere l’approvazione di Joe Biden per azioni che gli altri politici sono restii ad appoggiare.

 Uno di loro è Volodymdir Zelensky, che ha fatto affidamento per lungo tempo all’appoggio incondizionato dell’uomo della Casa Bianca.

Egli cerca sempre di parlare con il suo vecchio amico Joe Biden. E di cosa immaginate parlino?

Permettere o non permettere: questo è il dilemma!

Il primo ministro britannico “Keir Starmer “non ha perso tempo ed è balzato su un aereo per attraversare l’Atlantico e parlare con l’uomo che ancora si fa chiamare presidente degli Stati Uniti.

Il contenuto di questi colloqui non è ancora chiaro, ma non c’è alcun dubbio sul fatto che avranno discusso della difficile questione di permettere che l’Ucraina utilizzi i missili occidentali a lungo raggio per colpire in profondità all’interno della Russia.

In realtà, l’Ucraina attacca obiettivi all’interno della Russia già da tempo.

Sta utilizzando le proprie armi per colpire obiettivi addentrandosi di molto nel territorio russo, come quando martedì scorso ha lanciato uno dei suoi più grandi attacchi con i droni sul suolo russo dall’inizio della guerra colpendo varie regioni, inclusa quella di Mosca.

A dire il vero, questi attacchi hanno principalmente una finalità propagandistica.

 Il loro impatto effettivo sulla produzione bellica della Russia è insignificante e l’effetto sulla guerra in sé equivale a zero.

Questi attacchi equivalgono a nulla più che alla puntura di uno spillo, soprattutto se paragonati agli attacchi devastanti inflitti dai russi all’Ucraina.

Ma non c’è alcun modo per cui gli ucraini possano mai sperare di scagliare attacchi della stessa portata.

Non è un segreto che il Pentagono sia contrario al permettere agli ucraini di lanciare missili americani in profondità nel territorio russo.

I servizi segreti americani hanno adottato esattamente la stessa posizione.

Questo indica chiaramente l’esistenza di una grave spaccatura nell’amministrazione e nello Stato.

Ma tutto questo non sembra sortire alcun effetto sulla testa di legno del presidente.

Ed egli può ancora imporsi ai propri generali e a capi dell’intelligence.

 Gode dell’appoggio di un piccolo gruppo di elementi estremamente bellicosi all’interno dell’amministrazione, per i quali qualsiasi discorso su accordi di pace e negoziati con la Russia sono una terribile iattura.

A dire il vero, l’Ucraina utilizza missili occidentali per colpire obiettivi all’interno della Russia già da tempo.

Città come Belgorod sono state regolarmente bombardate e colpite da droni.

 Ma il via libera all’utilizzo di missili a lunga gittata come gli “Storm Shadow” britannici o gli “ATACM “americani, per colpire in profondità nel territorio russo, sono tutt’altra questione.

Quello che generalmente non viene compreso è che si tratta di armi estremamente sofisticate che non possono essere utilizzate senza il coinvolgimento attivo di personale occidentale – per la raccolta di informazione, la loro operatività e manutenzione.

In altre parole, ciò implica il diretto coinvolgimento del personale militare occidentale in una guerra contro la Russia.

Questo fatto è stato deliberatamente ignorato dai mass media in Occidente, sebbene sia stato evidenziato molto chiaramente da Putin mesi fa.

Egli ha ribadito lo stesso punto soltanto ieri [12 settembre, Ndt]:

 

“Non stiamo parlando di permettere o meno al regime ucraino di colpire la Russia con queste armi”, ha detto. “Stiamo parlando di decidere se i paesi Nato siano direttamente coinvolti nel conflitto militare oppure no”.

Ciò costituirebbe, senza ombra di dubbio, un atto di guerra degli Stati membri della Nato – un fatto che porterebbe necessariamente a una dichiarazione di guerra da parte della Russia.

Questo sconsiderato atto di escalation parte dell’Occidente non ha alcun senso da un punto di vista militare.

Gli obiettivi menzionati dagli ucraini sono stati da tempo trasferiti nelle zone più interne, spostandole ben al di là della gittata degli “Storm Shadow” e degli “ATACM”.

Gli unici obiettivi disponibili sarebbero pertanto obiettivi civili. Questo causerebbe seri problemi politici all’Occidente, senza apportare alcun vantaggio militare.

Non è neanche del tutto chiaro se i missili promessi arriveranno mai in Ucraina.

Le riserve di “Storm Shadow e di “ATACM “Wsono al momento molto scarse, un riflesso del fatto che gli arsenali dell’Occidente sono stati pesantemente svuotati dalle richieste incessanti del governo di Kiev.

Ciò significa che le forniture di missili saranno così scarse che sarà impossibile per gli ucraini lanciare un serio attacco missilistico contro obiettivi in Russia.

Inoltre, per raggiungere obiettivi in profondità all’interno del territorio russo, i succitati missili e i loro sistemi di lancio dovrebbero essere piazzati così vicini alla frontiera che verrebbero facilmente distrutti dai russi con attacchi con missili e droni o persino con l’artiglieria.

Gli Stati Uniti e i loro alleati stanno tentando di dare la colpa alla Russia per l’“escalation” del conflitto dopo aver acquistato missili balistici dall’Iran.

 La notizia di presunte consegne da parte dell’Iran ha cominciato a trapelare nel fine settimana.

Lammy [ministro degli Esteri britannico, Ndt] le ha definite parte di “uno schema inquietante cui assistiamo. È decisamente un’escalation significativa”.

Gli iraniani hanno negato, e questo non ha molto senso, considerato il fatto che la Russia già possiede ampie scorte di missili e di altre armi e che sta di gran lunga superando l’Occidente nella produzione di armi e di munizioni in generale.

La vera escalation, come sempre, viene dalla Nato e dagli americani.

Un quadro apocalittico.

Il problema che deve affrontare la Nato è presto detto. La guerra ha raggiunto un punto nel quale ormai l’avanzata russa è inarrestabile.

Questo fatto viene sempre più riconosciuto persino dai media occidentali.

Un recente articolo della CNN affermava: “sopraffatti nei numeri e nei mezzi, l’esercito Ucraino si dibatte tra il crollo del morale e le diserzioni”.

Le difese ucraine stanno chiaramente andando in frantumi e potrebbero persino essere sul punto di collassare.

Si può solo speculare sul tempo necessario perché ciò avvenga.

Ma l’esito finale non è in discussione e non c’è assolutamente nulla che l’Occidente possa fare per impedirlo.

Queste signore e signori sono felici di combattere fino all’ultima goccia di sangue ucraino. Sono determinati a continuare la guerra, a dispetto del prezzo terribile che viene pagato dal popolo ucraino, i cui interessi dichiarano in maniera ipocrita di rappresentare.

Mentre questa prospettiva incombe sempre più minacciosa all’orizzonte, un clima di panico, al limite con l’isteria, si sta impadronendo dei governi occidentali.

D’un tratto, un’ondata di dichiarazioni allarmiste erompe dai circoli politici e militari europei, che insistono tutte sull’imminente avvento dell’Apocalisse.

In nessun luogo i guerrafondai possiedono una visione più originale e pittoresca dell’Apocalisse imminente come in Gran Bretagna.

 La stupida arroganza e la vanagloria, che ha da tempo rimpiazzato l’arte della diplomazia, si fa qui sempre più rumorosa tanto più la reale influenza e la potenza della Gran Bretagna nel mondo si avvicina a zero.

Non molto tempo fa, il quotidiano britannico “Daily Mail”W, ha regalato ai propri lettori la previsione più fantasiosa e avveniristica di un soverchiante attacco russo contro l’Occidente.

 

La simulazione includeva riferimenti a carri armati russi “controllati dall’intelligenza artificiale” che davano inizio all’invasione.

La mappa annessa conteneva dettagli raccapriccianti di attacchi russi contro qualsiasi paese europeo immaginabile (e molti contro paesi inimmaginabili).

Questa opera terrificante di fantascienza era chiaramente pensata per far andare di traverso la colazione ai lettori conservatori, piccolo-borghesi e di mezza età del Daily Mail, intenti alla lettura dell’edizione mattutina.

Resoconti sensazionalistici di questo tipo ignorano totalmente il fatto che non c’è assolutamente alcuna prova di piani russi per attaccare un qualsiasi paese Nato e che essi non hanno neppure alcun interesse a farlo.

Gli unici paesi in Europa cui la Russia è interessata sono la Bielorussia e l’Ucraina, alla quale non verrà mai permesso di unirsi alla Nato.

Tali racconti non sono nient’altro che il prodotto di un’immaginazione morbosa, alimentata dal panico e da un sentimento di impotenza di fronte a una Russia che, lungi dall’essere sconfitta (come il Daily Mail e tutti gli altri giornali occidentali avevano fiduciosamente predetto) è venuta fuori dal conflitto in Ucraina enormemente rafforzata, sia militarmente che economicamente.

Lo scopo di simili articoli è di far sì che chi li legge, preso dal terrore di fronte alla prospettiva di un’imminente invasione russa, sia pronto a pagare il conto di fondi molto considerevoli da consegnare ai generali, che potranno così avere nuovi giocattoli letali con cui giocare.

 

È l’inizio della Terza guerra mondiale?

Per svariati decenni a seguito della Seconda guerra mondiale, venne mantenuto uno stato di precario equilibrio tra le due potenze mondiali: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Questo era una conseguenza dell’equivalenza di massima della potenza nucleare dei due principali antagonisti.

Per quanto stupidi e miopi potessero essere i leader di questi paesi, essi non erano così ciechi da non capire che una guerra nucleare avrebbe comportato la distruzione totale da entrambe le parti e, forse, dell’intera razza umana.

Questa dottrina divenne nota con l’acronimo “MAD” (Mutually Assured Destruction, cioè Distruzione Reciproca Assicurata, Ndt).

Tuttavia, con il crollo dell’Unione Sovietica, d’un tratto il mondo entrò in un periodo nuovo e altamente instabile. I rapporti tra le potenze divennero sempre più imprevedibili.

In un primo momento, sembrava tutto perfetto.

Sembrava che la fine della Guerra Fredda avrebbe inaugurato un nuovo periodo di pace e prosperità nel mondo.

Una volta terminata la corsa agli armamenti, ci assicurarono che ci sarebbe stato il cosiddetto “dividendo della pace”, grazie al quale lo spreco di risorse dovuto alle spese militari sarebbe stato sostituito da utili investimenti produttivi.

Uno scontro diretto tra grandi potenze era ritenuto improbabile.

 Questo liberò vaste risorse:

 gli eserciti in tutto il mondo (non solo in Europa) vennero rimpiccioliti nelle dimensioni e rivolsero la propria attenzione ad attività come la controguerriglia, che non richiedeva importanti spese statali.

 

Ma l’euforia non durò a lungo. La Nato si imbarcò in un’incessante avanzata ad Est, violando le promesse che erano state fatte ripetutamente ai russi sul fatto che non si sarebbe estesa al di là del territorio dell’ex Germania dell’Est

 È stata la minaccia di fare entrare l’Ucraina nella Nato ad essere la goccia che ha provocato l’attuale sanguinoso conflitto in questo sventurato paese.

Adesso, siamo punto a capo.

Ancora una volta, la minaccia di una guerra nucleare è all’ordine del giorno.

Ma ciò non significa necessariamente che la guerra sia inevitabile, o persino probabile.

Sembra che, nonostante tutto, una decisione finale non sia ancora stata raggiunta. A Washington, dove, come abbiamo visto, ci sono seri dubbi sull’intera questione, stanno avendo luogo negoziati frenetici.

 I guerrafondai hanno fretta perché temono che se Trump dovesse vincere le elezioni a novembre, potrebbe decidere di abbandonare del tutto l’Ucraina e, forse, persino di uscire dalla Nato.

Sembra più che probabile che gli americani tenteranno qualsiasi tipo di manovra diplomatica per tirarsi fuori da questo dilemma.

Mi risulta che ora abbiano presentato agli ucraini una lunga lista di domande, chiedendo di chiarire quali siano precisamente le loro intenzioni riguardo all’utilizzo di questi missili, nel caso in cui ne venisse concesso l’utilizzo.

Rispondendo a una domanda riguardo a se gli Stati Uniti permetteranno che le armi che hanno fornito vengano usate per colpire obiettivi in profondità all’interno della Russia, “Blinken” ha detto che ogni utilizzo di armi deve essere unito a una strategia.

 

Ha spiegato che uno degli obiettivi della sua visita di questa settimana [articolo originale pubblicato il 13 settembre, Ndt]: “è quello di sapere direttamente dalla dirigenza ucraina, incluso… il presidente Zelensky come gli ucraini vedano le proprie esigenze in questo momento, verso quali obiettivi e cosa possiamo fare per fornire assistenza a queste esigenze”.

La difficoltà è che Zelensky e i suoi scagnozzi non hanno assolutamente alcuna risposta a queste domande.

Sono sempre più impazienti e frustrati per quelle che considerano essere le esitazioni di Washington.

Questo è il motivo per cui Zelensky era così entusiasta di incontrarsi con Joe Biden, nella speranza di mettere di nuovo le cose in movimento.

Se avrà successo o meno, si può solo tirare a indovinare. La matassa di intrighi e contro-intrighi che viene fatta passare per diplomazia a Washington non è mai facile da capire.

Ma sulla base di ciò che è successo in passato, gli americani tendono inizialmente a dire no alle richieste ucraine, solo per poi cambiare idea e infine capitolare.

 

Il cane continua a portare a spasso il padrone!

Qualsiasi cosa decidano, ciò non comporterà assolutamente alcuna differenza né per il corso della guerra in Ucraina, né per il suo esito finale.

Tuttavia, come possiamo vedere, i guerrafondai non sono mai soddisfatti. Essi continueranno il loro gioco pericoloso e sconsiderato fino alla fine e la gente comune ne pagherà il conto salato.

È un dovere fondamentale dei comunisti e di tutti i lavoratori e i giovani più avanzati di lottare contro la guerra e l’imperialismo.

È in ballo il destino del mondo intero e dell’umanità stessa.

L’Internazionale Comunista Rivoluzionaria ha fatto appello ad un’ampia campagna internazionale per lottare contro il militarismo e l’imperialismo.

 A chiunque voglia davvero porre fine alla guerra, al militarismo e all’imperialismo, sia a livello individuale o come organizzazione, diciamo: lavoriamo insieme – il momento è adesso!

Il capitalismo deve morire, perché l’umanità possa vivere!

Abbasso i guerrafondai!

Fermare l’appoggio a Israele e all’Ucraina! Cessare immediatamente ogni aiuto e invio di armi ai guerrafondai reazionari di Netanyahu e Zelensky!

Abbasso la Nato e l’imperialismo americano, la causa principale oggi delle guerre e dell’instabilità nel mondo!

No allo spreco delle risorse pubbliche nella spesa militare! Per un programma di lavori pubblici utili!

Più case, scuole e ospedali! No a bombe, missili e altri mezzi di distruzione!

Lottiamo per l’esproprio dei banchieri e dei capitalisti la cui avidità sfrenata di profitti è causa costante di guerre e crisi.

Per un piano armonico di produzione socialista, basato sulla soddisfazione dei bisogni umani, non dei profitti di pochi e delle loro guerre reazionarie.

Lottiamo per un mondo socialista che sia libero dalla piaga della povertà, dello sfruttamento, delle guerre e dell’oppressione!

L’unica guerra giusta è la guerra di classe!

 

 

 

 

La politica militare italiana

dopo la guerra: cosa è cambiato?

 Geopolitica.info - Matteo Mazziotti Di Celso – (27/02/2024) – ci dice:

 

 La guerra tra Russia e Ucraina ha reso evidente ai governi europei la necessità di investire nuove risorse per adeguare le proprie forze armate al mutato contesto internazionale.

Almeno a parole, l’Italia sembra aver riconosciuto questa esigenza.

Di fatto, però, a due anni dall’inizio dell’offensiva russa, la politica militare italiana non sembra essere cambiata così radicalmente.

 

Sono passati due anni dal giorno in cui le forze armate russe hanno avviato la loro offensiva in Ucraina.

L’attacco di Mosca ha colto di sorpresa gli europei.

 Ben pochi credevano che il governo russo fosse realmente intenzionato a condurre un’operazione militare come quella a cui abbiamo assistito.

Anche in Italia, la maggior parte degli analisti e degli opinionisti ritenevano che le minacciose manovre preparatorie della Russia sul confine ucraino non fossero altro che un bluff.

Questo nonostante diverse analisi militari, alcune di esse pubblicate anche su questo sito, dimostrassero che in realtà le intenzioni di Mosca erano alquanto serie.

 Ennesima prova dell’insufficiente importanza riservata dai decisori politici, dagli analisti e dall’accademia alle questioni di carattere militare. 

In Italia, comunque, l’offensiva russa ha avuto l’effetto di una sveglia. Essa ha reso evidente – come se ce ne fosse ancora bisogno – che la guerra non solo non ha affatto abbandonato il nostro pianeta, ma che anzi è molto vicina, dato che si combatte sul nostro continente.

Questo, almeno, è ciò che l’élite politica e intellettuale italiana ha cominciato a ripetere a partire dall’inizio dell’offensiva russa.

Anche la Difesa italiana ha riconosciuto che la guerra in Ucraina ha cambiato le carte in tavola.

 Nell’introduzione al Documento programmatico pluriennale per la Difesa per il triennio 2023-2025 (DPP), il “Ministro Crosetto” scriveva che l’attuale contesto internazionale impone oggi all’Italia di tornare a “orientare e preparare il suo strumento militare ad assicurare la difesa dello Stato”.

L’Italia, secondo il ministro, “non può più permettersi di impiegare il proprio strumento militare nelle modalità che ha conosciuto negli ultimi trent’anni”, ovvero “prioritariamente nella conduzione di operazioni e missioni per il mantenimento della pace e della stabilità internazionale nonché in operazioni di concorso”.

Difesa e deterrenza devono quindi essere i compiti principali dello strumento militare italiano.

Paradossalmente, quindi, la guerra ha avuto anche un effetto positivo, fornendo all’Italia un’opportunità per colmare finalmente i deficit del proprio strumento militare e ricominciare a costruire delle forze armate in grado di agire con efficacia nei moderni teatri operativi.

Ma l’Italia ha colto questa opportunità?

Abbiamo introdotto le risorse e gli strumenti necessari per iniziare a colmare i deficit del nostro strumento militare?

O in realtà la guerra non ha generato alcuna reale conseguenza per la politica militare italiana?

A due anni dall’inizio del conflitto russo-ucraino, tentiamo di fornire una prima risposta a queste domande.

 

La reazione dell’Italia e quella dell’Europa.

Cominciamo l’analisi della reazione della politica militare italiana osservando quanto è stato scritto nei documenti strategici.

Chiariamo subito che l’Italia non produce alcun documento che fornisca una valutazione complessiva di quella che gli studiosi di sicurezza definiscono” grand strategy”.

A differenza di moltissimi altri Paesi, non pubblichiamo una Strategia di Sicurezza Nazionale.

Già di per sé la mancata pubblicazione di questo documento costituisce un mancato sfruttamento dell’opportunità fornita dalla guerra.

Al contrario dell’Italia, infatti, entro due anni dall’inizio del conflitto tutte le principali potenze europee hanno elaborato o aggiornata la loro strategia di sicurezza nazionale.

La Francia ha pubblicato una nuova Strategia nel novembre del 2022.

Il Regno Unito ha pubblicato un aggiornamento della sua “Integrated Review of Security, Defence, Development and Foreign Policy” nel marzo del 2023.

 Perfino la Germania, che per anni non aveva mai pubblicato un documento del genere, è riuscita a produrre nel giugno del 2023 la prima “Strategia di Sicurezza Nazionale tedesca”.

 In Italia, il “Ministro Guerini” aveva riconosciuto la necessità di produrre un documento di tale tipo, ma nonostante la guerra il tema non sembra essere più sul tavolo.

L’Italia rimane l’unico Paese del G7 a non possedere un documento che indica quali sono le minacce agli interessi dell’Italia e quali le strategie per farvi fronte.

L’Italia, comunque, pubblica diversi documenti che, anche se non costituiscono una strategia di sicurezza nazionale, chiariscono quali sono le priorità delle Forze armate.

Il più importante di questi è il DPP.

Come già spiegato, il DPP 2023-2025 stabilisce che il “focus delle Forze armate italiane deve essere la difesa dello Stato”.

Una reazione, quindi, almeno a parole, c’è stata.

Cerchiamo però di capire in cosa consiste nei fatti.

Cominciamo con il budget.

Per valutare la reazione dell’Italia, è utile osservare l’evoluzione del budget in termini relativi.

Utilizziamo quindi i dati dell’”International Institute for Strategic Studies” (IISS) e osserviamo cosa hanno fatto le principali potenze europee.

 Secondo il “Military Balance 2024”, il budget della Francia è passato da 49,7 miliardi di euro del 2021 a 58,8 nel 2024 (+18%), quello della Germania è passato dai 46,9 miliardi del 2021 ai 71 miliardi del 2024 (+51%).

 Per il Regno Unito non sono disponibili i dati 2024.

Osserviamo quindi l’evoluzione del budget nel triennio 2021-2024.

In questi anni, il budget è passato da 51,5 miliardi di sterline (circa 60,2 mld di euro) a 58,5 (circa 68,4 mld di euro), un aumento del 13,6%. Veniamo all’Italia.

Secondo il “Military Balance”, il nostro budget della difesa è passato da 28,3 miliardi del 2021 a 30.3 miliardi del 2024 (+7%).

Secondo l’IISS, quindi, l’Italia ha sì aumentato il budget della difesa, ma lo ha fatto in maniera decisamente meno consistente delle altre potenze europee.

 E questo nonostante il nostro bilancio della difesa sia decisamente meno elevato rispetto a quello di Francia, Germania e Regno Unito.

 

Possiamo quindi fornire una prima valutazione.

In termini di spesa militare, la politica militare italiana non è cambiata radicalmente.

 Rispetto alle altre potenze europee, l’Italia non ha incrementato notevolmente il budget.

 Non siamo riusciti a cogliere l’opportunità della guerra per aumentare le risorse che dedichiamo alle nostre Forze armate e iniziare a ridurre la gravissima distanza che separa il nostro bilancio da quello dei nostri maggiori alleati europei.

 

Gli investimenti.

 

Veniamo adesso ad analizzare più specificamente la politica militare italiana.

Cominciamo osservando il modo in cui la Difesa spende le sue risorse. Per analizzare il budget, la fonte più autorevole in Italia è “Rivista Italiana Difesa” (RID).

Il quotidiano diretto da “Pietro Batacchi” è forse meno noto di altri istituti che si occupano di difesa nel nostro Paese, ma le analisi di “RID” sono senza dubbio quelle più precise e più elaborate.

Bisogna notare che i numeri indicati da RID sono diversi da quelli dell’IISS, perché la rivista di Batacchi considera solamente le spese specificatamente dedicate alla difesa, mentre la cifra indicata dall’Italia all’IISS è gonfiata da altri elementi.

RID, in particolare, utilizza il dato che l’Italia comunica alla NATO, il cosiddetto ‘bilancio integrato in chiave NATO’.

Nel 2024, questo bilancio è pari a 27,5 miliardi di euro, pari a 1,4% del PIL e ben inferiore al dato fornito dall’IISS (30,3 miliardi).

Analizziamo questo bilancio, partendo dalle buone notizie.

Il dato positivo è che, a partire dal 2021, la spesa per gli investimenti ha registrato un trend di crescita costante.

 Nel 2021, questa spesa era pari a 7,4 miliardi di euro (i dati sono consultabili sul fascicolo 02/2022 di RID), mentre la cifra stanziata per il 2024 è pari a circa 9,96 miliardi, una “cifra record” secondo il direttore Batacchi, secondo il quale “se l’Italia vuole avere Forze armate all’avanguardia, capaci di operare al meglio in scenari sempre più convenzionali…la tendenza è quella corretta”.

 Bisogna però dire che questa crescita è iniziata prima della guerra, perciò non è corretto definirla una reazione al conflitto.

In ogni caso, la guerra ha probabilmente agito da ulteriore stimolo a questa tendenza.

 La reazione, in questo senso, è stata positiva:

 l’Italia riconosce di dover modernizzare il proprio strumento militare non solo a parole, ma nei fatti, aumentando le risorse per l’acquisto di nuovi mezzi e sistemi d’arma.

Vediamo come vengono spesi questi soldi.

Nei programmi della difesa approvati nel DPP 2023-2025, l’accento verso il primo dei compiti delle forze armate di cui parla il Ministro Crosetto nell’introduzione si riflette chiaramente nelle decisioni prese dal Dicastero riguardo i nuovi programmi da finanziare a partire dal 2023.

Dei 4.623 milioni di euro messi a disposizione del dicastero per l’avvio di tredici nuovi programmi, più del 90% dei fondi sono dedicati a programmi di modernizzazione della componente corazzata dell’Esercito:

si tratta dell’acquisto dei carri MBT Leopard 2 (volume finanziario pari a 2.264 milioni) e del progetto Armored Infrantry Combat System (AICS) per l’acquisizione di un sistema di sistemi per la fanteria pesante dell’Esercito (1.646 milioni).

L’Italia sceglie quindi di investire pesantemente nelle forze corazzate. Anche in questo caso, la reazione non è stata solo a parole ma anche nei fatti.

Va detto, tuttavia, che quella di investire nell’acquisto di nuovi mezzi corazzati non era affatto una scelta scontata.

 Nel Regno Unito, per esempio, c’è stato nel 2021 un ampio dibattito in merito al futuro della componente corazzata.

Anche oggi, Londra riconosce che le risorse sono scarse e sta cercando di capire se vale la pena specializzarsi in determinati settori oppure cercare di riuscire a esprimere un maggior numero di capacità militari.

 In questo senso, ciò che stupisce in Italia non è tanto la scelta di acquistare nuovi corazzati.

Questa può essere o meno una scelta ragionevole a seconda del tipo di impiego che l’Italia immagina per l’Esercito nei prossimi quarant’anni. Ciò che stupisce in Italia è stata proprio l’assenza di un dibattito strutturato in merito a ciò che le nostre Forze armate debbano fare nel futuro.

Non abbiamo discusso a sufficienza di ciò che realisticamente vogliamo dalle nostre forze armate per i prossimi quarant’anni, né sappiamo con chiarezza dove intendiamo usarle e come.

Il fatto che le nostre risorse siano limitate dovrebbe invitarci a ragionare in maniera molto approfondita prima di impegnare il nostro Paese in un investimento di questo tipo.

 Un investimento che non solo costerà moltissimo, ma che influenzerà la politica militare italiana per decenni.

 Già non disponiamo di un documento che indichi con chiarezza quali sono le sfide alla nostra sicurezza nazionale e i modi in cui vogliamo affrontarle;

 se poi prendiamo scelte così importanti senza nemmeno avviare prima un dibattito che coinvolga, oltre alle Forze armate e l’industria militare, anche l’accademia e i centri di ricerca, il rischio è che le scelte che effettuiamo in materia di politica militare si rivelino inefficaci nel lungo termine.

Bisognerebbe stimolare l’università e i centri di ricerca ad occuparsi con più interesse alla politica militare:

non si può continuare a prendere scelte così importanti in Italia senza un importante apparato intellettuale che ne dibatta, in questo modo esercitando una importante forma di controllo dell’esecutivo e del complesso militare-industriale.

 È un vulnus grave per la nostra democrazia e un rischio per la sicurezza nazionale.

Tutto sommato, quindi, benché sia una buona notizia che l’Italia abbia preso una decisione così importante come quella di investire nuovamente nella componente corazzata, la cattiva notizia è che questa decisione è stata presa senza che venisse prima avviato un dibattito volto a definire con chiarezza l’impiego che realisticamente vogliamo fare delle nostre forze armate nei prossimi quarant’anni.

 

La spesa per il personale e per l’esercizio.

Veniamo alle note dolenti del budget.

Queste riguardano, come al solito, gli altri due settori di spesa: personale ed esercizio.

Nel 2024, secondo RID, le spese per il personale della Difesa sono pari a 11-11,3 miliardi, contro i circa 10,5 miliardi del 2021.

Questi sono i soldi messi a disposizione dalla difesa.

Per verifica la cifra totale messa a disposizione per il personale occorre però considerare anche l’ausiliaria, le pensioni e le indennità del personale in operazione all’estero.

Difficile fare un calcolo esatto di queste cifre.

Il dato del budget comunicato alla NATO indica che, in termini percentuali, l’Italia, nel 2023, ha speso il 60,7% del budget per spese relative al personale.

Troppo, se paragonato con gli altri Paesi europei: Germania 36,6%, Francia 40,1%, Regno Unito 30,6%.

Qual è l’andamento delle spese per il personale?

 La risposta in questo caso non è semplice.

Secondo il direttore di RID, queste sono “sostanzialmente in linea con lo scorso anno (il 2023)”, ma a giudicare dai dati presentati dall’Italia alla NATO, sembra che queste spese stiano in realtà diminuendo, dato che nel 2021 Italia spendeva per il personale il 63% del budget.

 Insomma, non è chiaro qual è il vero trend.

 Resta il fatto, tuttavia, che la spesa per il personale in Italia rimane eccessivamente alta, e che, tutto sommato, dal 2021 a oggi, l’Italia ha fatto poco per ridurre questo squilibrio.

 

Veniamo alla seconda nota dolente, l’esercizio.

Secondo RID, nel 2024 l’Italia mette a disposizione 1,5-1,8 miliardi per addestrare le proprie unità e per garantire l’operatività del proprio strumento militare.

Il dato, purtroppo, è in calo.

 Come fanno notare alcuni analisti, nel 2021 le spese per l’esercizio erano pari a 2,2 miliardi di euro.

C’è quindi una drastica diminuzione, registrata anche da RID, secondo il quale rispetto al 2023 c’è un calo di circa 1 miliardo di euro.

Per il direttore Pietro Batacchi siamo in una vera e propria “emergenza”, soprattutto “se lo si legge (il dato) nell’ottica delle lezioni che giungono dal teatro di guerra ucraino e che dimostrano come scorte, addestramento ed efficienza dei mezzi siano priorità per delle Forze armate che vogliono operare al meglio in scenari altamente contestati di tipo “near peer” o “peer”.

 

Dopo la guerra, quindi, le nostre Forze armate sono ancora afflitte da un grave sbilancio della spesa a favore del personale e a scapito dell’addestramento.

È vero, questo sbilanciamento si risolve nel lungo termine, non ci si può aspettare che la difesa lo risolva in due anni.

Ma è anche vero che di iniziative concrete messe in campo per sistemare questo sbilanciamento se ne sono viste poche.

Anzi, le spese per il personale, come fa notare RID, verosimilmente aumenteranno, con l’arruolamento di 10.000 nuove unità previsto nella prossima revisione dello strumento militare.

 Quelle per l’addestramento, come si è visto, diminuiscono, invece di aumentare.

 Insomma, l’analisi della spesa per il personale e per l’esercizio rivela che l’Italia, di fatto, non è riuscita a cogliere l’opportunità fornita dalla guerra per riequilibrare lo sbilanciamento della spesa militare, specialmente nel settore esercizio.

 

Il reclutamento e l’impiego delle forze.

Analizziamo due altri importanti elementi della politica militare: reclutamento e impiego delle forze.

Partiamo dal primo. Qual’ è stata la reazione degli italiani?

Le forze armate hanno perso o guadagnato attrattività dopo la guerra? Premetto che non è alquanto facile rispondere a questo quesito perché il numero di domande presentate ai vari concorsi dipende da numerosi fattori, perciò stabilire se la crescita o la riduzione delle domande sia determinata dal conflitto in Ucraina non è affatto facile.

È utile però presentare i dati per farsi un’idea generale.

 

In generale, la difesa registra un calo delle domande.

A livello complessivo, considerando cioè i numeri della Marina, dell’Esercito e dell’Aeronautica, i dati sono disponibili solo per il biennio 2021-2022.

In questi due anni, il numero delle domande per accedere alla categoria dei VFP1 (grado più basso) è calato, passando da 68.678 del 2021 a 56.941 del 2022 (-17.08%).

I dati complessivi per il 2023 ancora non sono disponibili.

 Lo sono però quelli dell’Esercito, che dal 2021 al 2023 registra anch’esso un calo della domanda sia dei “VFP1” (da 46.166 a 39.300, pari al – 14,8%) che degli allievi marescialli (da 13.179 a 1.624, pari a -87,7%, dato assolutamente sorprendente e difficile da spiegare) e degli allievi ufficiali (da 8.720 a 4.626, pari a -47%).

Ancora una volta, difficile stabilire la ragione.

Notiamo però che c’è un calo.

Anche se non è possibile concludere che, dopo la guerra, l’attrattività delle forze armate sia calata, certamente non è aumentata. 

Terminiamo con un ultimo aspetto, quello relativo all’impiego delle forze.

A giudicare da come impiega le proprie forze armate, l’Italia sembra veramente decisa a modernizzare le proprie forze per renderle capaci di agire in contesti simili a quelli che osserviamo in Ucraina?

Ritengo che in questo caso sia possibile avanzare una valutazione molto più severa rispetto a quelle proposte fino ad ora.

Prima però di procedere con la valutazione, è importante spiegare che da quasi dieci anni il principale impiego della forza terrestre italiana, l’Esercito, è incredibilmente divenuto quello di supportare le forze di polizia all’interno del territorio nazionale.

 Lo conferma anche l’Esercito stesso, che nella pagina internet dedicata all’operazione scrive che ‘Strade Sicure’ – questo il nome dell’operazione condotta dall’Esercito – “è, a tutt’oggi, l’impegno più oneroso della Forza Armata in termini di uomini, mezzi e materiali”.

Ebbene, questa operazione, come evidenziato da decenni di ricerca scientifica sul tema e come riconosciuto perfino da numerosi rappresentanti delle Forze armate e importanti capi della polizia, in realtà presenta notevoli problemi per lo strumento militare.

Sebbene venga presentato come un grande successo, l’impiego dei militari in “Strade Sicure” non solamente sottrae quotidianamente all’addestramento migliaia di professionisti, costretti a trascorrere ore in piedi davanti al Colosseo o alla stazione Termini invece che mettere in pratica le proprie competenze professionali, ma contribuisce a svilire la professionalità dei nostri militari e ad abbatterne il morale e la motivazione.

Sorprendentemente, mentre tutta l’Europa riconosce che occorre ricostituire apparati militari in grado di condurre operazioni di combattimento ad alta intensità, l’Italia non solo continua a impiegare migliaia di uomini nell’operazione Strade Sicure (nel 2024 saranno circa 7.000), peraltro in compiti sempre più bizzarri, ma anzi aumenta il numero di soldati che vi partecipano.

Se fossimo veramente intenzionati a costruire forze pronte al combattimento, chiuderemmo immediatamente l’operazione.

Tutto sommato, quindi, i cambiamenti della politica militare italiana dopo la guerra sembrano modesti.

Rispetto alle altre potenze europee, l’Italia non è riuscita ad aumentare il budget della difesa in maniera sostanziale.

Abbiamo preso scelte importanti in materia di “procurement”, ma lo abbiamo fatto alla cieca, senza avviare un dibattito in merito al futuro del nostro strumento militare;

questo anche perché l’Italia non è in grado di definire i propri interessi nazionali e le minacce che li insidiano.

Nonostante la guerra, infatti, l’Italia non è riuscita a produrre una “Strategia di Sicurezza Nazionale italiana”.

Un dato positivo è che abbiamo aumentato la spesa per gli investimenti, ma allo stesso tempo abbiamo tagliato la spesa per l’addestramento e la manutenzione, due elementi fondamentali per garantire la prontezza delle unità.

 I dati sul reclutamento sono difficili da leggere, ma apparentemente sembrano mostrare che le forze armate perdono di attrattività.

 L’Italia, poi, continua a impiegare migliaia di militari in funzioni di polizia, un’attività che impedisce ai nostri soldati di addestrarsi per il combattimento.

La guerra alle porte dell’Europa è un fenomeno tragico, ma è anche un’opportunità, perché ci invita a ragionare sulle nostre debolezze e a correre ai ripari.

 L’Italia fino ad ora non ha saputo cogliere questa opportunità in maniera abbastanza decisa.

Per colmare i deficit del nostro strumento militare, occorrono più determinazione e maggiori risorse.

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