Obbligo sull’elettrico?

 

Obbligo sull’elettrico?

 

 

Sulla crisi dell’auto la maggioranza europea

si sposta a destra:

salta l’obbligo sull’elettrico?

Investireoggi.it - Giuseppe Timpone – (04-12-2024) -

 

La crisi dell'auto fa nascere una nuova maggioranza Ursula, il cui indirizzo è opposto al precedente. I popolari si muovono già.

Crisi dell'auto, nuova maggioranza Ursula.

 

Il caso Stellantis dopo Volkswagen accende ulteriormente i fari sulla grave crisi dell’auto in Europa.

Le quattro ruote non si vendono, ci sono stati ingenti investimenti sulla linea elettrica e il rientro nei costi non si vede neanche col cannocchiale.

 I prezzi sono esplosi e le famiglie non possono permettersi un nuovo acquisto, per cui ripiegano sul mercato dell’usato, dove i valori sono naturalmente anch’essi impazziti.

È la conseguenza del Green Deal dell’Unione Europea, che sta avendo l’effetto paradossale di allungare la vita media delle auto in circolazione, rallentando l’abbattimento delle emissioni inquinanti.

Nuova Commissione, nuove alleanze.

Ma a Bruxelles l’aria è cambiata.

 La neonata Commissione bis di Ursula von der Leyen non è per niente la fotocopia della prima.

La presenza dei socialisti è stata ridimensionata e nella compagine sono entrati persino i conservatori.

All’italiano Raffaele Fitto è stata affidata la vicepresidenza esecutiva con delega ai fondi UE.

Sovrintenderà all’erogazione di centinaia di miliardi di euro di prestiti agli stati comunitari.

Alla sinistra non è andata giù e parte di essa ha votato contro la Commissione, tra cui i socialdemocratici del cancelliere Olaf Scholz.

La crisi dell’auto è il banco di prova dei nuovi equilibri in seno all’Europarlamento. Il Partito Popolare ha adottato l’approccio delle “maggioranze variabili”.

 In Italia, chi ricorda i tempi della Dc al governo sa che mezzo secolo fa la definivamo la “politica dei due forni”.

Il gruppo guidato da Manfred Weber vuole sganciarsi dall’alleanza con i socialisti e i Verdi, giudicati iper-ideologizzati, specie sui capitoli legati alla transizione energetica.

Non solo tecnologia elettrica.

Per questo, Weber guarda a destra e il suo legame con il governo Meloni è strettissimo.

Ad esso si deve il successo insperato sulla nomina di Fitto.

A Roma ridevano di questa operazione, mentre ha mandato in crisi la sinistra.

E i popolari vogliono adesso riscrivere l’agenda sul green, a partire proprio dalla crisi dell’auto.

La prossima settimana, presenteranno un nuovo programma da adottare entro cento giorni.

Esso prevede la fine dell’approccio mono-tecnologico.

 In altre parole, niente più obbligo di puntare sulle sole auto elettriche dal 2035.

Le case costruttrici potranno adottare anche altre tecnologie pulite, come i motori che sfruttano gli e-fuels e i biocarburanti.

Quanto alle sanzioni, l’idea sarebbe di sospendere per l’anno prossimo.

 In ogni caso, il gettito andrebbe a finanziare il potenziamento delle infrastrutture per agevolare la transizione del comparto (colonnine di ricarica, ecc.).

Un cambio di approccio sul quale concorda perfettamente la premier Giorgia Meloni.

Da tempo chiede di non impuntarsi sul solo elettrico, bensì di valutare ogni altra alternativa ai combustili fossili.

Questa linea raccoglie i consensi di popolari e l’ampio fronte di destra.

Essa mira ad evitare che l’industria europea dipenda eccessivamente dalla Cina, che è di gran lunga la produttrice di batterie per auto elettriche, segmento di mercato che ormai domina quasi incontrastata.

Crisi auto, si cambia dal 2025.

Chi invocava la maggioranza Ursula per tagliare fuori proprio la destra al governo, è rimasta spiazzata.

È a sinistra che cresce il disagio, tanto da fare dire nei giorni scorsi alla segretaria del PD, Elly Schlein, di non sentirsi del tutto rappresentata dalla nuova Commissione.

Le parti si sono rovesciate.

La crisi dell’auto richiede soluzioni non ideologiche e la sinistra ha forzato la mano puntando sull’ideologia, un po’ perché ci crede e un po’ perché pensava che questo approccio avrebbe dovuto demarcare il confine tra forze politiche legittimate a governare ed altre tacciate di qualcosa simile alla stregoneria.

Dopo Natale all’Europarlamento sarà la prova del nove.

Con i governi di Germania e Francia allo sfascio, la sinistra sarà verosimilmente messa in minoranza.

(giuseppe.timpone@investireoggi.it)

 

 

 

Meloni, segnale forte al mondo dell’auto:

“Le norme Ue rischiano di mettere in ginocchio automotive.”

Informazione.it – (03/12/2024) – Redazione - La Sentinella del Canavese – ci dice:

 

ROMA. Il governo italiano lancia un segnale forte sull’automotiva, e a farlo è la presidente del Consiglio.

«L'Italia è capofila in Europa di un non paper sull'automotiva che chiede di rivedere quelle norme che rischiano di mettere in ginocchio l'industria europea dell'auto, e di riaffermare il principio della neutralità tecnologica.

 Noi siamo convinti che vadano usate e sostenute tutte le tecnologie che contribuiscono ad abbattere le emissioni, senza chiusure ideologiche e dannose per molte filiere», ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio all'Assemblea generale di Alis, l'associazione di oltre 2. 300 imprese del mondo della logistica intermodale e sostenibile.

(La Sentinella del Canavese)

 

Ne parlano anche altre fonti.

"Estremamente positivo che tutto il sistema Italia, il parlamento in maniera unanime, i sindacati, le regioni, le associazioni di impresa chiedano unitariamente a Stellantis di scommettere sull'Italia".

 (ilmessaggero.it)

BRUXELLES (BELGIO) (ITALPRESS) - "Sul nostro documento sull'automotiva, presentato insieme a Repubblica Ceca e altri Paesi, abbiamo riscontrato posizioni riflessive e disponibili al confronto, sia da Parigi che da Berlino.

 (Il Sole 24 ORE)

Si parla tanto del 2035, la data che dovrebbe segnare la fine delle vendite di vetture con motore endotermico nell’Unione Europea (ma non la loro circolazione, va ricordato).

 (Vaielettrico.it)

Urso, sull'auto l'UE deve agire subito. Ampia convergenza sulla proposta italiana.

Tra gli impegni assunti dalla Commissione von der Leyen-2, vi è la nomina di funzionari chiamati a trasformare le raccomandazioni del "report Draghi" in proposte e potenzialmente atti legislativi.

 

 

Perché non si può

rinunciare all’auto elettrica.

Lavoce.info - Pierpaolo Cazzola e Massimo Tavoni – (01/10/2024) -  Energia e ambiente – ci dicono:

Le vendite di veicoli elettrici crescono in tutto il mondo, anche in Europa non si registrano crolli drammatici.

Rimandare l’entrata in vigore delle norme europee finirebbe per ridurre ancora di più la competitività dell’automotiva europeo.

 

Lo stato di salute dell’elettrico.

Come sta il comparto dell’auto elettrica?

 L’articolo di Antonio Sileo mette in guardia sui rischi dell’industria automotive europea, dovuti al calo delle vendite di auto elettriche.

Sileo si concentra sui dati di immatricolazione di agosto 2024, evidenziando un notevole calo rispetto allo stesso periodo del 2023.

Il dato e il ragionamento che ne segue lo portano alla conclusione che “Senza dunque rinunciare all’obiettivo della neutralità climatica al 2050, ma anzi proprio per conseguirlo, è urgente affiancare altro alla strategia di sostituzione e (totale) elettrificazione”.

Per quanto i numeri riportati siano esatti, le conclusioni dell’articolo sono a nostro avviso errate e parziali.

Partiamo dal contesto globale:

 fino a oggi, nel 2024 sono state vendute più di 10 milioni di auto elettriche a batteria.

 Significa che una macchina su sette è “full electric”.

In agosto, il mese su cui si concentra l’analisi di Sileo, se si considera anche l’export, la Cina da sola ha venduto più di un milione di auto elettriche, compresi modelli a batteria e ibridi plug-in.

Le vendite di auto elettriche sono cresciute anche negli Stati Uniti, con quote di mercato al 7 per cento per auto a batteria e del 2 per cento per ibridi plug-in, nella prima metà del 2024.

Cosa succede dunque in Europa?

In agosto si sono vendute poche auto in generale.

Le “full electric “hanno subito il calo maggiore, mentre le ibride sono le uniche le cui vendite sono cresciute rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Nei mesi precedenti, le vendite di auto a batteria sono rimaste sulle percentuali dello scorso anno.

 L’andamento europeo è coerente con il quadro regolatorio, che non richiede cambiamenti nel livello di emissioni di CO2 al chilometro per le auto vendute nel 2024 (rispetto al periodo 2021-2023), mentre richiede una riduzione del 15 per cento (già prevista dal 2019) tra il 2025 e il 2030.

Il dato di agosto è poi stato influenzato da un altro aspetto:

 nell’agosto del 2023 in Germania la scadenza degli incentivi per l’acquisto di auto aziendali aveva generato un notevole aumento delle immatricolazioni, portandolo ad essere il mese con più auto “full electric “vendute (63mila).

 Il risultato anomalo in Germania è quello di agosto 2023 e non del 2024.

 Ed è un elemento che spiega quasi interamente l’anomalia delle immatricolazioni di veicoli elettrici in Europa nell’agosto 2024 rispetto all’anno precedente.

 

(Con gli Usa negazionisti, l'azione climatica dipende dall'Europa).

Non si tratta dunque di crollo, ma di una stagnazione dell’elettrico in Europa, legata al quadro regolatorio e sommata a una circostanza particolare e in un contesto di continua crescita delle auto elettriche in Cina, Stati Uniti e in diverse economie emergenti, che cercano soluzioni strutturali per riconfigurare il proprio settore automotive, se hanno capacità manifatturiere, come nel caso di Brasile, Messico, India e paesi dell’Asean, oltre alla Corea e – per quanto in termini diversi, e più orientato verso gli ibridi – al Giappone.

Rafforzare la competitività del settore.

In questo contesto, rimandare al 2027 le scadenze previste dal regolamento europeo sulle emissioni di CO2 del 2019 non ridurrebbe solo la credibilità delle politiche, a danno di chi ha investito per essere in grado di rispettarle, ma sarebbe anche deleterio per un settore che già affronta rischi importanti e va aiutato a diventare strutturalmente competitivo, soprattutto nei confronti della Cina.

Riuscire a superare questo ostacolo richiede crescita di volumi e sviluppo di catene produttive, come sottolineato anche dal rapporto Draghi.

Non richiede certamente ritardi negli investimenti verso una tecnologia – l’elettrico – che ha chiare prospettive di crescita, confermate dai dati, su scala globale, non solo europea.

In questo contesto, l’introduzione di dazi o altre barriere commerciali sulle importazioni (dalla Cina per esempio) rischia di essere un danno se non è temporanea, dal momento che potrebbe ritardare ulteriormente gli investimenti necessari al nostro sistema industriale per rispondere alla concorrenza globale.

 Altri fattori strutturali, come l’intensità emissiva della produzione di batterie o la trasparenza e l’uso di pratiche responsabili nelle catene di approvvigionamento, non si accompagnano solo a forme virtuose della transizione, ma vanno sfruttati per offrire all’Europa e all’Italia le opportunità per recuperare terreno.

Perché i biocarburanti non sono la soluzione.

La soluzione proposta da Sileo di agire anche sulla decarbonizzazione dei carburanti rischia di portare a nuove delusioni, senza essere risolutiva né per il clima né per l’economia europea.

 

(Governo societario: le buone regole nascono dall'autodisciplina)

Non mancano le tecnologie efficienti, comprese doppie colture per aumentare la quantità totale di biomassa vegetale disponibile, ma finora i biocombustibili non hanno portato a riduzioni significative e su larga scala delle emissioni di gas serra, sul ciclo di vita, e hanno aumentato i prezzi dei prodotti alimentari.

D’altra parte, i biocombustibili non potranno rendere autonoma l’Europa da un punto di vista energetico, perché è difficile prevedere incrementi di produzione, specie da risorse non necessarie anche per la produzione di alimenti (mentre le risorse che servono anche alla produzione di alimenti sono state giustamente limitate sin dal 2020 dalla direttiva europea sull’uso delle energie rinnovabili).

Nonostante gli sforzi per evitare che gli oli vegetali provengano da zone soggette a rischi di deforestazione, l’Europa oggi si trova a far fronte a difficoltà legate all’import di biocombustibili ‘fraudolenti’, specie dalla Cina.

Gli e-fuels hanno bisogno di grandi quantità di energia a basse emissioni e a basso costo per poter superare costi ancora elevatissimi e la cui disponibilità è comunque soggetta a grandi incertezze (in analogia agli stessi biocombustibili, la priorità di utilizzo dovrebbe andare al trasporto aereo e marittimo di lunga distanza, dove l’elettrificazione diretta non è competitiva).

 

Evidenziare i cali stagionali è come confondere meteo e cambiamento climatico.

 In particolare, se l’analisi dei dati è influenzata da fattori legati a specifiche condizioni politiche, di natura chiaramente temporanea, come nel caso delle vendite di auto elettriche nell’agosto 2023 in Germania.

Per guardare a un futuro dell’Europa che ci mantenga competitivi e assicuri gli obiettivi climatici, la discussione sul presunto fallimento dell’elettrico non serve. Meglio lavorare su come fare in modo che una transizione ormai inevitabile risulti un’opportunità, anziché un danno.

 

 

 

Case green e auto elettrica,

i programmi dei partiti:

Pd e M5s favorevoli, i no del centrodestra.

Ilsole2r4ore.com - Andrea Gagliardi – (18 maggio 2024) – ci dice:

Fdi, Lega e Fi, con sfumature diverse chiedono di «decarbonizzare» in modo pragmatico, «senza radicalismi».

Dall’altro Pd e M5s spingono invece sul “green deal.”

I punti chiave.

Fdi: difendere la natura senza «eco-follie».

Pd: lottiamo per un fondo europeo sulle case verdi.

M5S: mobilità elettrica irreversibile, ma sostenere le Pmi nella riconversione.

Lega: cancellare la direttiva “case green”.

Forza Italia: non c’è solo auto elettrica, serve pragmatismo.

 

Da un lato il centrodestra, che con sfumature diverse chiede di «decarbonizzare» in modo pragmatico, «senza radicalismi».

 Dall’altro Pd e M5s che spingono invece sul “green deal” a difesa delle posizioni maggioritarie al parlamento europeo in materia di “case green” e auto elettrica.

Analizzando i programmi elettorali in vista delle elezioni europee, sono queste le posizione dei principali partiti su alcuni dei fronti caldi della transizione energetica.

 

Fdi: difendere la natura senza «eco-follie».

Nel suo programma Fratelli d’Italia parte dalla premessa che «l’ecologia è uno dei pilastri del pensiero conservatore».

Ma il raggiungimento degli obiettivi climatici deve essere «economicamente e socialmente sostenibile, senza approcci ideologici, obiettivi irraggiungibili e oneri sproporzionati per cittadini e imprese».

 Per il partito guidato da Giorgia Meloni «le eco-follie del Green Deal scritto dalla sinistra europea ci condannano ad una “decrescita infelice”».

 Di qui la necessità di «applicare i principi di sussidiarietà e di proporzionalità previsti dai Trattati fondativi dell’UE alle politiche ambientali, affinché le strategie per il raggiungimento degli obiettivi climatici siano decise dai singoli Stati membri, compatibilmente con i modelli industriali e le specificità dei diversi contesti».

Nonché la necessità di «modificare radicalmente la direttiva sulle “case green” per tutelare i proprietari di immobili ed efficientare il patrimonio edilizio in modo graduale e sostenibile, prevedendo adeguati incentivi a livello».

 E di «cancellare il blocco alla produzione di auto a motore endotermico dal 2035». Per Fdi bisogna «rilanciare il settore automotive secondo il principio di neutralità tecnologica, investendo su tutti i carburanti alternativi e non soltanto sull’elettrico»

 

 Pd: lottiamo per un fondo europeo sulle case verdi.

I temi delle case green e dell’auto elettrica non trovano menzione esplicita nel programma elettorale del Pd, che si limita a ricordare come «nel solco del Green Deal e degli accordi internazionali della COP28 occorre costruire strumenti per la decarbonizzazione del sistema energetico attraverso i driver dell’efficienza, del potenziamento delle reti, dell’investimento massiccio nella produzione dalle fonti rinnovabili».

 Ma la capogruppo Pd alla Camera dei Deputati, Chiara Braga, ha definito la direttiva “case green” come un provvedimento adottato «per salvare il futuro».

Ecco perché «non va combattuta come ha fatto la destra in Europa e come annuncia di fare in Italia: servono semmai sostegni e incentivi».

 E la segretaria Elly Schlein ha dichiarato di lottare «per un fondo europeo sulle case verdi»

25 settembre 2024.

M5S: mobilità elettrica irreversibile, ma sostenere le Pmi nella riconversione.

Simile la posizione del Movimento 5 stelle.

Il vicepresidente della Camera, Sergio Costa (M5s), ha definito la direttiva case green «un testo importante non solo per la lotta ai cambiamenti climatici», perché «riqualificare il parco immobiliare offre una grande opportunità di rilancio della filiera edilizia».

Quanto al capitolo automotive, il M5s nel suo programma definisce come «irreversibile» la mobilità elettrica «in virtù del regolamento approvato nella scorsa legislatura sul divieto di immatricolazione delle auto inquinanti (diesel o benzina) a partire dal 2035».

Ma non trascura i costi della transizione.

E sottolinea la necessità di «allargare il raggio di azione del già esistente Fondo di transizione giusta» per «difendere l’industria europea dalla concorrenza sleale cinese e per sostenere le piccole e medie imprese dell’indotto della componentistica nella riconversione tecnologica», nonché «per garantire la competitività e tutelare i posti di lavoro nel settore».

Senza dimenticare che bisogna assicurare «una rete di ricarica capillare e uniforme per le auto elettriche, con un sistema unico trasparente e di facile gestione per l’utilizzatore e che sia accessibile in tutti gli Stati membri».

 

Lega: cancellare la direttiva “case green.”

Di diverso avviso la Lega.

 «Dire no alle auto a diesel e benzina è una fesseria. Auto significa tanti posti di lavoro e la Lega sta combattendo per evitare quel che l’Europa ha deciso, ovvero che dal 2035 si possano comprare solo auto elettriche. È una follia che aiuta solo la Cina».

 È questo il refrain ribadito diverse volte dal leader del Carroccio Matteo Salvini. Non a caso nel programma della Lega si evidenzia la necessità di «salvaguardare il futuro del motore endotermico, eliminandone la messa al bando nel 2035 e inserendo una piena legittimazione dell’uso dei biocarburanti nell’ambito della revisione del regolamento sulle emissioni, prevista per il 2026».

Stesso discorso per la direttiva “case green” che per la Lega va «cancellata» tout court, perché «inconciliabile con le caratteristiche del patrimonio immobiliare italiano» e perché «obiettivi e tempistiche eccessivamente stringenti - si legge ancora nel programma della Lega - generano un’inflazione da eccesso di domanda sulle materie prime e sulle tecnologie necessarie alla ristrutturazione, ponendo un problema immediato di sostenibilità per le famiglie, le imprese e le finanze pubbliche».

Forza Italia: non c’è solo auto elettrica, serve pragmatismo.

Un po’ più soft la posizione di Forza Italia, che nel programma parla di «revisione» (non di cancellazione come dice la Lega, ndr) della direttiva “case green”.

 Gli azzurri lanciano un «piano europeo per la tutela della Casa che tenga conto delle specificità degli immobili in ciascun Paese, volto ad incentivare chi investe in efficientamento energetico».

E sul fronte automotive ricordano che oltre all’elettrico esistono altre tecnologie ad emissioni neutrali, come le «tecnologie all’idrogeno, e-fuel e biocarburanti».

 Di qui la necessità di un approccio pragmatico, che ricomprenda anche le auto a motore endotermico, «per far sì che la transizione non sia ideologica».

Tra le proposte, quella di «garantire incentivi per motori endotermici di ultima generazione verso una consistente riduzione delle emissioni di carbonio».

 

 

 

 

 

Stop auto a combustione dal 2035.

Ecco perché non è il caso di riscaldarsi troppo.

 

Qualeenergia.it - Lorenzo Vallecchi – (24 Febbraio 2023) - ci dice:

 

Mobilità sostenibile.

Una verifica fattuale-emotiva dei timori e delle critiche suscitati dalla decisione europea di immettere sul mercato del nuovo solo auto elettriche fra 12 anni.

Nessuno ha mai detto che la transizione energetica sarebbe stata facile.

Non saranno rose e fiori.

Sarà un’ultra-maratona, con alti e bassi, momenti di euforia e momenti di lacrime e sangue.

I timori e le critiche di chi condanna la decisione dell’Unione europea di vietare la vendita di nuove auto endotermiche e consentire l’immissione sul mercato solamente di auto elettriche dal 2035 sono umanamente comprensibili.

L’empatia sarà uno degli strumenti più importanti della transizione energetica. Così come la condivisione e l’alleggerimento dei sacrifici economici che imprese e famiglie più vulnerabili dovranno affrontare.

 È risaputo però che il medico pietoso rende la piaga ancora più purulenta di quanto non sia già.

Si sente dire che il passaggio alle auto elettriche non dovrebbe essere un obbligo da imporre fra soli 12 anni, ma una libera scelta da attuare nell’arco di decenni, un po’ come successe nella transizione fra le carrozze a cavalli e l’automobile.

L’Unione Europea ha posto un limite temporale e un divieto sulla vendita di nuove auto endotermiche, neanche così ravvicinato, perché la crisi del clima non ci concede massima libertà di scelta.

 E comunque, se uno ha già un’auto a benzina o diesel, potrà continuare a usarla anche dopo il 2035.

Abbiamo però già perso decenni a cincischiare, storditi dalla disinformazione di molti produttori di idrocarburi.

Transigere, ora, non si può.

 Non abbiamo scelta, sui tempi, perché siamo già in ritardo di almeno dieci anni, né sui modi, perché il processo principale di decarbonizzazione che abbiamo consiste nell’elettrificazione di quanti più usi finali possibili.

Detto questo con spirito empatico, tiriamo tutti un sospiro di sollievo, perché molti timori adombrati da qualcuno sono per lo più infondati, e là dove hanno un fondamento saranno presumibilmente gestibili o, nella peggiore delle ipotesi, non presenteranno controindicazioni peggiori di quelle certe che già soffriamo.

Cerchiamo di fare un rapido elenco dei timori e delle critiche, evidenziati in grassetto e corsivo, e di lenirli per quanto possibile.

Generazione e rete elettrica.

“Elettrificare il parco auto comporterà un’impennata dei consumi elettrici. Avremo problemi a produrre così tanta energia e se anche ci riuscissimo la rete elettrica non sarebbe capace di gestirla e trasportarla.”

Quanto alla generazione, ci sarebbe sulla rampa di lancio una quantità più che sufficiente di nuova capacità rinnovabile per soddisfare qualunque domanda.

 Il problema da superare è burocratico e consiste nel velocizzare le autorizzazioni, sempre nel rispetto delle norme paesaggistiche, che i produttori sono ormai i primi a voler onorare, perché hanno imparato la lezione degli ultimi 15-20 anni.

Quanto alla capacità della rete, bastino le parole dette due settimane fa da Francesco Starace, amministratore delegato di Enel:

“l’Italia ha la prima e migliore rete digitale del mondo.

 È possibile gestire e far convivere milioni di auto elettriche con milioni di pompe di calore elettriche se si ha una rete digitalizzata, a patto di prevedere stoccaggi non solo centralizzati ma anche diffusi.

 Nei prossimi 5 anni, vedremo ovunque stoccaggi e batterie come qualcosa di normale, nelle case, negli uffici e nelle fabbriche, e sta già succedendo.

 Spesso ci lamentiamo dei ritardi che affrontiamo, ma non sempre siamo consci di quanto l’Italia sia avanti in alcune cose”.

Un altro fattore troppo spesso ignorato è che la combustione interna e i combustibili fossili saranno pure molto efficaci per il lavoro che svolgono, ma sono anche molto poco efficienti, energeticamente parlando.

I veicoli endotermici sono estremamente spreconi, perché convertono appena il 20-30% dell’energia chimica immagazzinata nel carburante in energia cinetica alle ruote.

Il resto dell’energia è dissipato sotto forma di calore.

 I veicoli a batterie, invece, trasformano oltre il 77% dell’energia elettrica in energia alle ruote.

Ciò vuol dire che basterà rimpiazzare anche solo la metà del consumo di energia primaria attualmente sotto forma di benzina o diesel per ottenere con l’elettricità pulita il 100% di quello che danno i combustibili fossili, cioè per ottenere la stessa quantità attuale di “lavoro” dalle nostre macchine.

 

Costi delle auto elettriche.

“Le auto elettriche hanno prezzi di vendita più alti delle auto a benzina o diesel. Questo comporterà difficoltà per le famiglie con redditi più bassi.”

“I veicoli elettrici potrebbero eguagliare i prezzi delle auto a benzina già quest’anno”, titolava il “New York Times” pochi giorni fa, nel giorno di San Valentino.

“L’aumento della concorrenza, gli incentivi governativi e il calo dei prezzi del litio e di altri materiali per le batterie stanno rendendo i veicoli elettrici molto più accessibili.

 Il punto di svolta, quando i veicoli elettrici diventeranno economici come o più delle auto con motore a combustione interna, potrebbe arrivare quest’anno per alcuni modelli del mercato di massa e lo è già per alcuni veicoli di lusso”, spiegava l’articolo.

La realtà sul campo potrà variare in base alle diverse condizioni normative e di mercato nazionali, ma le case automobilistiche sono le stesse.

La tendenza è chiara, i prezzi delle auto elettriche stanno calando sensibilmente e il punto di pareggio con quelli delle auto tradizionali è molto più vicino di quanto si pensi.

 

Colonnine, tempi di ricarica, autonomia

“La ricarica delle auto elettriche richiede un’infrastruttura di colonnine per l’alimentazione che ancora non c’è.

 E i tempi per la ricarica possono essere anche molto più lunghi di quelli di un pieno.

 Inoltre, le auto elettriche hanno un’autonomia reale più limitata delle auto tradizionali.”

Sgombriamo subito il campo da possibili fraintendimenti.

Quella delle infrastrutture è una questione fondamentale, che si è cominciato ad affrontare ma che al momento è ancora da risolvere, anche perché fino a ieri non c’è stato bisogno di affrontarla, vista l’esiguità, soprattutto in Italia, delle auto elettriche.

Alla fine dell’anno scorso, secondo “Motus E”, c’erano in Italia meno di 37mila colonnine di tutti i tipi, da quelle più lente nella ricarica a quelle più veloci. Poche rispetto alle oltre 115mila del numero uno europea, l’Olanda, alle quasi 89mila della Germania, alle oltre 74mila della Francia e alle 55mila del Regno Unito.

La prospettiva migliora però se si contano le colonnine in rapporto ai veicoli elettrici circolanti in ciascun Paese.

 In questa classifica, l’Italia sale al terzo posto, con 21,5 colonnine ogni 100 veicoli elettrici – grazie anche ai pochi veicoli elettrici in circolazione qui da noi.

Non c’è dubbio che la diffusione delle infrastrutture di ricarica debba accelerare nel prossimo decennio per consentire agli automobilisti di ricaricare senza problemi il crescente numero di auto elettriche.

Notate le ombre che l’alba della mobilità elettrica ancora proietta sulla realtà attuale, vediamo anche qualche luce che già si staglia all’orizzonte.

Secondo” Transport & Environment”, l’andamento attuale delle installazioni di colonnine di ricarica nella Ue è coerente con le linee guida della Commissione europea, che prevedono una stazione di ricarica ogni 10 veicoli.

 In Italia, a fine 2022, c’erano quasi 5 colonnine ogni 10 auto, quindi molte di più di quelle ritenute necessarie in base al numero di veicoli elettrici.

 I volumi attuali di colonnine sono quindi adeguati per dare il via al mercato.

 

L’ottobre scorso, il Parlamento europeo ha approvato e proposto agli Stati membri l’obiettivo di offrire agli automobilisti la possibilità di ricaricare pubblicamente in ogni angolo dell’Unione entro il 2025.

Il piano prevede l’obbligo di installare centri di ricarica ogni 60 km lungo le strade principali e nelle città.

 La ricarica veloce rappresenta una quota crescente della ricarica pubblica e consente agli automobilisti di ricaricare l’equivalente di 400 km di guida in 15 minuti.

Entro il 2026, inoltre, saranno operative in Italia oltre 21mila nuove stazioni di ricarica per veicoli elettrici sulle strade urbane e interurbane, secondo i nuovi decreti pubblicati a gennaio 2023 dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) e finanziati con le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr).

 

In particolare, il Pnrr stanzia oltre 700 milioni di euro per l’installazione di almeno 7.500 stazioni di ricarica superveloce, con una potenza di circa 175 kW ciascuna sulle strade interurbane diverse dalle autostrade, e di 13.755 stazioni di ricarica veloce, con una potenza di 90 kW nelle città              (Auto elettrica, il mercato frena mentre corrono le installazioni di punti di ricarica).

La sempre maggiore frequenza delle stazioni di ricarica servirà a gestire con più tranquillità la questione della minore autonomia reale, che può per esempio variare con il freddo, delle auto elettriche rispetto a quelle a combustione ( Quanti chilometri fanno davvero le auto elettriche? e Auto elettriche, l’evoluzione tecnica rende le batterie meno suscettibili al freddo e al caldo)

Finché l’intero sistema della mobilità elettrica non si sarà pienamente evoluto, dovremo adattare almeno un po’ le nostre abitudini, attendendo un po’ di più per fare il pieno di elettricità o facendo rifornimento un po’ più spesso. Sono sacrifici davvero così insopportabili?

Perdita di produzione e servizi nella filiera tradizionale.

“La scomparsa dei motori a scoppio, dei loro componenti e dei servizi legati alla filiera auto tradizionale comporteranno la chiusura o la contrazione di molte aziende e la perdita di molti posti di lavoro.”

Ribadito quanto detto all’inizio sulla necessità di empatia e condivisione dei sacrifici in una lunga fase di transizione, facendo un parallelo col passato, sarebbe scellerato da parte dei decisori politici, delle aziende e dei cittadini fare la guerra ai computer perché noi qui in Italia dobbiamo difendere il settore delle macchine da scrivere, che coinvolge tante aziende e dà lavoro a tante persone.

Già scontiamo i ritardi e la miopia della maggiore azienda automobilistica del Paese, che notoriamente negli anni passati non “credeva” nell’auto elettrica e puntava convintamente sul diesel, mentre altri suoi concorrenti si attrezzavano con più anticipo per affrontare la svolta in corso.

Sarebbe il caso di non perseverare negli stessi errori.

Questo percorso non va fermato, ma assecondato, se non si vuole rischiare veramente uno shock della produzione e dell’occupazione.

 E in realtà, la stessa “Stellantis” lo ha capito e ha in programma di produrre e vendere solo modelli elettrici in Europa dal 2030.

La Fiat, quindi, è ormai già più avanti rispetto agli stessi obblighi di legge che alcuni politici e cittadini italiani ancora avversano.

Anche gli altri principali costruttori europei si sono espressi a favore della transizione all’elettrico.

 E già prima della decisione della Ue hanno stilato obiettivi e piani industriali per l’elettrificazione completa dei veicoli nuovi molto in anticipo rispetto al 2035.

Stante quindi il limite del 2035, ciò di cui bisognerebbe discutere è come l’Europa debba intervenire entro i prossimi 12 mesi per sostenere l’industria automobilistica continentale e i cittadini più colpiti dalla transizione nei prossimi 12 anni.

Da una parte è bene distorcere il meno possibile gli equilibri commerciali dell’Europa con il resto del mondo.

 Dall’altra, però, l’Ue non può stare semplicemente a guardare mentre Cina e Stati Uniti sostengono i loro settori verdi, creano campioni nazionali della mobilità elettrica e ricostruiscono o rafforzano la propria capacità industriale.

Parliamo cioè del “come” accompagnare la transizione nei tempi prestabiliti, che sono già in ritardo e comunque ancora piuttosto lunghi, e non del “se” o “quando” attuare la transizione.

 È una sfida che si vince solo in Europa come Europa, non facendo barricate, ma neanche lottando con una mano sola.

 Il “Cbam”, il meccanismo di aggiustamento del carbonio alla frontiera sulla rampa di lancio da parte dell’Ue, va in questa direzione (Auto elettrica, perché sbaglia chi dice che è un regalo alla Cina).

Dovrebbe essere chiaro che un cambiamento di paradigma epocale come questo ponga sfide organizzative e necessiti di lungimiranza strategica per formare la forza lavoro, nonché politiche di transizione giuste per le persone e le aziende colpiti negativamente.

Ma quella della mobilità elettrica rappresenta un’opportunità enorme.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, la transizione energetica creerà 14 milioni di nuovi posti di lavoro e richiederà il trasferimento di circa 5 milioni di lavoratori dai settori dei combustibili fossili.

 Oltre a questi nuovi ruoli, 16 milioni di lavoratori dovranno passare a lavorare nei segmenti dell’energia pulita, richiedendo competenze e formazione aggiuntive.

Se non accettiamo di impostare questa sfida nei tempi comunque non cortissimi che ci siamo dati e resistiamo al cambiamento, abbiamo perso in partenza e invece di essere noi a gestire il nostro cambiamento sarà il cambiamento degli altri a gestire noi.

Danni climatici.

“La maggiore sostenibilità climatica della mobilità elettrica è dubbia.”

Così come prima abbiamo sgombrato il campo da possibili fraintendimenti sulla questione delle infrastrutture, riconoscendo che è ancora da risolvere, adesso dobbiamo sgombrarlo in senso inverso da qualunque possibile dubbio:

 la mobilità elettrica ha sicuramente e comprovatamente un impatto climatico non nullo, perché questo è impossibile, ma di gran lunga inferiore a quello delle attività basate sui combustibili fossili.

Se si è ancora in dubbio è in parte per difficoltà di accesso e comprensione di dati e studi scientifici, effettivamente complicati, e in gran parte per disinformazione giornalistica, pigrizia mentale, malafede o cose del genere.

 Esistono infatti ormai da molti anni decine di studi comparativi sull’impatto climatico dei veicoli elettrici rispetto a quelli a combustione durante l’intero ciclo di vita di entrambi i tipi di veicoli.

Pur con tutti i distinguo metodologici legati alla molteplicità di variabili, assunti e tipi di misurazione che si possono adottare i risultati sono univoci:

 nell’intera vita di un’ auto, la versione endotermica ha impatti climatici da un terzo a una volta circa maggiori, quindi anche doppi, rispetto alle versioni elettriche. Almeno su questo, mettiamoci l’anima in pace.

Danni ambientali.

“Le auto elettriche fanno più male all’ambiente di quelle tradizionali perché richiedono l’estrazione di molti più minerali, anche rari.”

Tutte le soluzioni, di qualunque tipo e in qualsiasi campo, anche le più virtuose, presentano costi e benefici e tutte hanno dei limiti.

 Anche la transizione energetica non è un pasto gratis, come impatto ambientale, e ci presenterà sicuramente il suo conto.

 Detto questo, rispetto ai combustibili fossili, il consumo di materiali e risorse dei veicoli elettrici e della generazione rinnovabile è nel suo complesso molto inferiore a quello della filiera fossile.

Spesso si confrontano le quantità di materiali utilizzate per costruire una batteria, un’auto, un modulo fotovoltaico o una turbina eolica con quelle, ritenute inferiori, necessarie ad un’auto a benzina o una centrale a gas o a carbone.

 Ma spesso ci si dimentica che la prima categoria di prodotti smette praticamente di consumare risorse una volta costruita, mentre la seconda categoria continua a consumarne in quantità molto ingenti anche dopo essere stata costruita, per tutta la sua vita.

Una centrale a carbone brucia un camion di carbone ogni cinque minuti circa.

Sono 100mila camion all’anno, per una sola centrale.

 Nel 2019, pre-pandemia, le attività minerarie e di estrazione legate alle fonti fossili hanno prelevato dalla Terra 15 miliardi di tonnellate fra carbone, greggio e gas, rispetto ai 7 milioni di tonnellate per l’energia e la mobilità a basso contenuto di carbonio e i 28 milioni di tonnellate stimati per il 2040, secondo la “Iea”, “BP “e il dipartimento dell’Energia statunitense.

 Si tratta di estrazioni, rispettivamente, di oltre 2mila e oltre 500 volte inferiori che sono necessarie per il settore verde.

Poiché il danno ambientale è abbastanza direttamente proporzionale alle quantità di materiali estratti dalla Terra o dal mare, non ci vuole molto a farsi due calcoli su quali attività siano più ambientalmente dannose.

 

È vero che, rispetto ai metalli “tradizionali” come il carbone o il ferro, i metalli critici per la decarbonizzazione tendono ad essere più diluiti nella crosta terrestre.

Per esempio, bisogna estrarre mediamente 250 tonnellate di roccia per ricavare una tonnellata di nickel puro, 510 tonnellate per avere una tonnellata di rame puro, 850 tonnellate di terreno per avere una tonnellata di cobalto puro e 1.600 tonnellate di materiale per ricavare una tonnellata di litio.

 Per estrarre una tonnellata di minerale di ferro puro, basta estrarre mediamente 9 tonnellate di roccia.

L’attività mineraria, per sua natura, avrà sempre un impatto sull’ambiente, così come l’anno avuto e continuano ad averlo l’estrazione e lavorazione dei combustibili fossili.

Si ritorna comunque sempre al calcolo costi-benefici complessivo e al fatto che, schematizzando, una singola estrazione di minerali per una singola batteria al litio o turbina eolica durerà per tutta la vita utile di tali prodotti, cioè 10 o 20 anni, mentre le risorse fossili estratte per un’ auto endotermica o una centrale a gas dovranno continuare ad essere estratti ogni singola giorno, settimana o mese della vita di tali apparati.

Nel calcolo a favore della filiera pulita, inoltre, va considerato il vantaggio che, sempre più col passare degli anni, i materiali saranno riciclati.

 E il discorso che si faceva prima sulla necessità che l’Europa si doti di una politica industriale propria, più unitaria, più incisiva, più autonoma dall’estero dovrà valere per quanti più comparti possibile:

 dal polisilicio alle celle solari, dalla capacità di processare il litio a quella per le terre rare, dalle giga-factory di batterie a quelle di moduli fotovoltaici.

È prioritario che l’estrazione di qualunque risorsa sia condotta minimizzando i danni ed evitando di perpetuare l’ingiustizia ambientale attraverso regolamentazioni più efficaci e pratiche aziendali più responsabili.

Deve essere però chiaro che, passando alle energie rinnovabili e alle auto elettriche, si consumeranno in assoluto molte meno risorse, anche per la questione menzionata prima della molto maggiore efficienza energetica dell’elettrico rispetto alla combustione interna.

Una tonnellata di litio “va più lontano” in termini di capacità energetica di una tonnellata di petrolio, per cui ne basterà di meno a parità di lavoro svolto rispetto al petrolio.

Conclusioni.

Le fonti fossili sono antiche – letteralmente – e perciò anche molto preziose.

 Il loro uso va limitato a piccole nicchie che ancora hanno difficoltà a trovare alternative verdi.

Il settore della mobilità stradale non è uno di questi.

Con le capacità che abbiamo oggi, bruciare petrolio per far muovere le nostre auto è come bruciare mazzette da 100 euro per riscaldare casa.

È completamente insensato.

Se lo facciamo è solo per la forza d’inerzia del passato, perché cambiare un intero sistema energetico è complicato – e anche perché il sistema fossile sembra più efficace di quanto non sia solo grazie a migliaia di miliardi di dollari di sussidi che ha ricevuto nei decenni e che continua a ricevere anche oggi – in misura maggiore delle rinnovabili.

Rimane, quindi, il fatto che bruciare oggi benzina o diesel per muovere le ruote delle nostre auto sia energeticamente, economicamente, ambientalmente e climaticamente insensato.

Così come sarebbe stato insensato combattere i computer per difendere le macchine da scrivere.

 

 

 

Auto elettriche, requisiti emissioni

da rivedere per il 2025.

  Investireoggi.it - Daniele Magliuolo – (10-9-2024) – ci dice:

 

Requisiti nuovi sulle emissioni da inviare secondo Acea, non ci sono condizioni. Per le auto elettriche l'UE ci sta pensando.

Il 2025 si avvicina rapidamente, e con esso le sfide legate alla mobilità sostenibile diventano sempre più pressanti, su tutte quelle legate alle auto elettriche.

 Con l’anno nuovo alle porte, per i player del settore automobilistico europeo il periodo è cruciale per fare bilanci e pianificare nuove strategie.

In particolare, a destare preoccupazione sono i nuovi requisiti sulle emissioni di CO2 imposti dall’Unione Europea, che potrebbero avere conseguenze significative sul futuro della mobilità, soprattutto in un contesto in cui le auto elettriche (BEV) continuano a rappresentare una piccola frazione del mercato complessivo.

La sfida delle nuove normative sulle emissioni.

Il cuore della questione risiede nelle rigide regolamentazioni imposte dall’UE sulle emissioni di CO2.

A partire dal 2025, i produttori di auto dovranno conformarsi a una nuova soglia massima di emissioni di CO2 per le flotte di veicoli, riducendo il livello attuale di 116 g/km a circa 94 g/km.

Si tratta di una riduzione significativa, che richiederà investimenti notevoli da parte dei costruttori per sviluppare tecnologie a emissioni zero, come i veicoli elettrici.

Luca de Meo, amministratore delegato di Renault, ha espresso apertamente la sua preoccupazione.

Secondo de Meo, le aziende rischiano sanzioni miliardarie se non riusciranno a rispettare i nuovi limiti.

Per l’industria automobilistica, adattarsi a queste normative rappresenta un costo notevole, e il rischio di cadere in fallo appare concreto.

 Se non si riuscirà a vendere un numero sufficiente di auto elettriche, la produzione di veicoli a combustione interna potrebbe essere drasticamente ridotta.

L’Associazione Europea dei Costruttori di Automobili (Acea) ha recentemente fatto eco alle preoccupazioni di de Meo.

In una nota ufficiale, Acea ha sottolineato i crescenti timori dell’industria rispetto alla capacità di adeguarsi alle nuove regole entro il 2025, chiedendo di posticipare di due anni l’entrata in vigore dei limiti di emissione.

 

Il problema centrale, come evidenziato dall’Acea, è la lenta adozione delle auto elettriche.

 

Nonostante la crescente attenzione verso le BEV, esse rappresentano ancora solo il 15% del mercato europeo, ben lontano dal 20-22% necessario per rispettare le normative future.

 Le cause di questo rallentamento sono molteplici:

dalla mancanza di infrastrutture di ricarica all’alto costo delle vetture elettriche, passando per la limitata disponibilità di materie prime critiche come batterie e idrogeno.

Auto elettriche, Cina primo competitor e rischio sanzioni

Un altro punto critico è la crescente concorrenza della Cina nel settore delle auto elettriche.

Il mercato cinese, infatti, gode di un accesso più facile a materie prime e infrastrutture di produzione, mettendo sotto pressione i produttori europei.

Acea avverte che, se la situazione attuale non verrà affrontata con misure adeguate, l’industria automobilistica europea sarà costretta a ridurre la produzione, con il rischio di gravi ripercussioni economiche e occupazionali.

Le stime parlano chiaro: senza un’adeguata transizione, l’industria europea potrebbe subire sanzioni fino a 15 miliardi di euro, con una possibile riduzione della produzione di oltre 2,5 milioni di veicoli all’anno.

Inoltre, questa situazione potrebbe mettere a repentaglio milioni di posti di lavoro, danneggiando i consumatori e la competitività dell’intera Unione Europea.

 

Le parole di Mario Draghi e l’appello all’Ue.

Anche Mario Draghi, ex presidente della BCE, nel suo recente report sulla competitività, ha sottolineato come la transizione verso la mobilità elettrica non possa essere portata avanti solo dall’industria.

Draghi ha evidenziato l’importanza di un approccio olistico, che includa misure politiche coerenti per sostenere la competitività del settore e facilitare l’adozione su larga scala delle auto elettriche.

Questo significa non solo incentivare la produzione di veicoli a emissioni zero, ma anche creare le condizioni affinché questi possano essere adottati in maniera massiccia.

In altre parole, senza un’espansione delle infrastrutture di ricarica e un accesso sicuro e conveniente all’energia verde, la transizione verso una mobilità elettrica diffusa sarà difficile da realizzare.

Auto elettriche sì, ma con cautela.

“Hans Dieter Pötsch”, presidente del gruppo Volkswagen, ha espresso una visione simile, affermando che l’elettrico rappresenta il futuro della mobilità individuale, ma che l’attuale mancanza di infrastrutture rende il raggiungimento degli obiettivi europei estremamente difficile.

 Pötsch ha invitato l’Unione Europea a creare le condizioni necessarie per garantire il successo dell’elettromobilità, sottolineando che, sebbene la tendenza verso l’elettrico sia inarrestabile, richiederà più tempo del previsto.

Carlos Tavares, CEO di Stellantis, ha invece adottato una posizione più critica.

Tavares ha dichiarato che l’industria conosceva le regole da tempo e ha avuto l’opportunità di prepararsi, ma ha comunque espresso scetticismo nei confronti dei continui inasprimenti delle normative sulle emissioni.

Secondo lui, il divario tra le aspettative dei legislatori e le esigenze dei consumatori è troppo ampio, e questo potrebbe portare a gravi conseguenze per l’intero settore.

Tavares ha inoltre evidenziato come il settore sia riuscito a raggiungere traguardi importanti, come l’incremento della produzione di auto elettriche, ma ha avvertito che ulteriori restrizioni potrebbero rappresentare un ostacolo insormontabile se non accompagnate da misure di sostegno appropriate.

Riassumendo…

la transizione verso l’elettrico sembra inevitabile, ma senza il supporto politico e infrastrutturale necessario, il rischio è che l’industria europea possa perdere terreno;

si temono conseguenze gravissime per economia e lavoro;

è fondamentale una collaborazione tra governi e industrie per favorire questa transizione senza che si ripercuota sulle economie.

 

 

 

La Germania apre sul debito e

Panetta lo vuole comune,

non finirà bene.

Investireoggi.it - Giuseppe Timpone – (05 Dicembre 2024) – ci dice:

 

La Germania apre alla revisione della regola costituzionale sul freno al debito, mentre Bankitalia insiste sulle emissioni comuni.

Germania apre a nuova regola sul debito.

In Germania cade un tabù e niente di meno che sul debito.

 Il governatore della Bundesbank,” Joachim Nagel”, ha dichiarato che sarebbe un “approccio molto intelligente” quello di allentare la regola costituzionale sul “freno al debito”.

In questo modo, ha spiegato, si potrebbero finanziare gli investimenti nella difesa e nelle infrastrutture.

 Un cambio di paradigma a dir poco sbalorditivo, anche se l’ultima parola spetterà ai partiti, che già sono in campagna elettorale per il voto anticipato del prossimo 23 febbraio.

Anche a Berlino va di moda il debito.

La regola sul debito in Germania venne introdotta nel 2009.

 Essa prevede che lo stato possa indebitarsi per la misura massima dello 0,35% del Pil.

 Fu sospesa con la pandemia, ma è stata riattivata da quest’anno.

I critici osservano che essa avrebbe causato alcuni dei mali di cui soffre l’economia tedesca, vale a dire bassa crescita e scarsa innovazione.

 Per il secondo anno consecutivo, il Pil tedesco sarà in calo.

 E’ atteso a -0,2% dopo il -0,3% del 2023, unico caso tra le grandi economie mondiali.

La coalizione “semaforo”, al governo federale fino a poche settimane fa, è andata in frantumi proprio sul debito.

 I socialdemocratici insieme ai Verdi chiedevano di prorogarne la sospensione o persino di modificare la previsione costituzionale per aumentare gli investimenti pubblici a sostegno dell’economia.

 I liberali dell’ex ministro delle Finanze, “Christian Lindner”, erano e restano contrari.

 Dall’opposizione sono arrivate aperture.

I conservatori, in testa nei sondaggi, ritengono che si possa emettere più debito per investire di più, non certo per aumentare la spesa corrente.

E Panetta invoca emissioni comuni.

La Germania ha grossi margini di intervento sui conti pubblici.

Quest’anno, il rapporto tra debito e Pil dovrebbe chiudere al 63,50% contro una media nell’Eurozona attorno all’88%.

 C’è da dire, però, che l’austerità tedesca ha permesso il mantenimento del rating tripla A, un fatto che avvantaggia l’intera economia domestica e, di riflesso, quella europea.

Se in casi emergenziali come la pandemia siamo stati in grado di ricorrere ad emissioni comuni a basso costo, lo dobbiamo a stati come la Germania che godono di fortissima credibilità sui mercati per la gestione fiscale ordinata.

Ed è proprio al debito comune che ha fatto appello in settimana il governatore di Banca d’Italia, Fabio Panetta.

Egli ha lanciato l’idea di emissioni comunitarie per 200 miliardi di euro all’anno per sei anni.

Ciò porterebbe il loro peso complessivo al 6% del Pil UE al 2030.

E ha voluto precisare che questo programma non implicherebbe alcuna unione fiscale, cioè nessuna figura di un ministro delle Finanze comune e neanche trasferimenti sistematici tra stati.

Un modo per rassicurare proprio i tedeschi, che di Eurobond non vogliono sentire parlare.

 Le emissioni fino al 2026 e legate al “Next Generation EU” dovranno restare per loro un’eccezione.

Eurobond finta soluzione.

Comune o meno, il debito europeo sembra destinato a salire anche nei prossimi anni.

Sta cadendo l’ultimo baluardo contro lo spandi e spendi imperante nel continente. A Berlino la paura per l’instabilità politica e la crisi strutturale dell’economia sta prendendo il sopravvento.

È molto probabile che le prossime elezioni non decreteranno alcun vincitore netto e che i conservatori saranno costretti ad allearsi con uno o due partiti avversari per governare.

Questa situazione rischia di compromettere la capacità dei tedeschi di risolvere i loro problemi, accentuando rabbia sociale e malcontento.

Più debito non farà il bene a economie come l’Italia.

I nostri BTp subirebbero una concorrenza più agguerrita dai Bund e i rendimenti nell’area rischiano così di salire.

Nel caso degli Eurobond, poi, guai a considerarli una panacea per ogni nostro male.

Finché le emissioni restano d’importo limitato, nessuno si chiederà più di tanto chi paga.

Ma salendo la loro incidenza sul Pil comunitario, prima o poi gli investitori s’interrogheranno su quali siano le coperture.

Esse derivano dagli stessi bilanci nazionali che in diversi casi temono.

 Ad un certo punto, l’operazione assumerà le sembianze di un bluff, un gioco delle tre carte per trasferire i rischi in capo a una scatola ufficialmente vuota. Svelerà il vero nodo della politica occidentale di questi anni: l’incapacità di scegliere tra diverse priorità di spese, allungandone di continuo la lista per non scontentare alcuna fascia di elettori.

Aumentare il debito tedesco non sarà facile

Se i partiti in Germania pensano già a porre fine forse all’unico vero retaggio dell’era merkeliana, è perché con ogni probabilità vorranno evitare lo scenario per loro ancora più sgradito degli Eurobond.

 L’aumento del debito tedesco, in ogni caso, sarà limitato e temporaneo.

 Questo sembra emergere dall’attuale dibattito in corso, se vogliamo ancora tenuto più a mezza bocca che non in maniera esplicita.

 I difensori delle regole attuali – i liberali – rischiano di restare fuori dal Bundestag al prossimo giro, ma gli euroscettici di “AfD” hanno posizioni ancora più dure sul tema e nei consensi galoppano, ponendosi secondi dietro ai soli conservatori.

Nessuno immagini che a Berlino sarà facile saltare il fosso.

Sarà benzina sul fuoco per la futura opposizione di destra.

 

 

 

Appello Clintel.

L’Esecutivo del Governo Meloni

respinga le bugie green.

Laverita.info – Appello Clintel – (6 dicembre 2024) – ci dice:

 

Appello di Clintel, think tank internazionale (pag.7 della Verità) a cui aderiscono 2.000 scienziati tra cui i Nobel per la fisica Ivar Giaever e John Clauser, per chiedere al governo Italiano di “respingere velleità fondate su ideologie precostituite e di farsi promotore di un dibattito aperto, pubblico e trasparente, su una questione –

la pericolosità della Co2 antropica – sulla quale ogni voce dissenziente con la narrazione ambientalista è stata finora sistematicamente messa a tacere.

 Solo promuovendo il dibattito che qui auspichiamo emergerebbe la menzogna detta, perché anch’essa, come tutte le menzogne, ha le gambe corte.

Ricordando il crollo del settore auto legato al bando del 2035 dei motori termici deciso dalla dall’ UE, Clintel ha sottolineato:

“il recente avverarsi dei prevedibili effetti economico-sociali di tale improvvida decisione sono oggi evidenti ed è pertanto essenziale che i responsabili politici si rendano conto non solo della innocuità delle emissioni di CO2 per la nostra salute e per l’ambiente, ma anche della cruciale importanza che hanno i combustibili fossili”.  

 

 

 

 

 

«ECONOMIE DI GUERRA»

Inchiostronero.it - Andrea Marcigliano – (5—12 – 2024) – ci dice:

 

Un atteggiamento estremamente bellicoso.

“Il Messaggero” lancia, in prima pagina, la notizia che l’economia russa vivrebbe un periodo di difficoltà.

Essenzialmente dovuto alla situazione di, perdurante, conflitto in Ucraina.

E la soddisfazione, con cui questa notizia viene data, è palese.

Affatto mascherata.

Insomma, i russi stanno pagando molto caro il loro imperialismo.

E questo lascia intravedere un prossimo crollo di Mosca, e, ovviamente, soprattutto di Putin.

Ormai divenuto, in certa stampa e media occidentali, il mostro che questa guerra ha voluto.

E che continua a volere.

Dopoché si potrà tornare alla pace e agli affari.

Possibilmente con un nuovo governo a Mosca disposto a cedere territori, a farsi ridurre, di fatto, al vecchio principato della Moscova.

A non contare più nulla sul piano internazionale.

Fantasie. Sogni, e sogni drogati.

Che non tengono assolutamente conto della realtà.

E della sua, spietata, evidenza.

 

La Russia ha, è vero, direzionato verso lo sforzo bellico una parte estremamente consistente, circa un terzo, della sua economia.

E vi è stata, di fatto, costretta, se non voleva venire ridotta, in rapida progressione, ad un insignificante principato eurasiatico.

La scelta è stata, al contempo, obbligata e realistica.

 L’élite russa, non il solo Putin, ha dovuto prendere atto delle intenzioni dell’Occidente, ovvero di certi poteri che controllano ancora oggi Washington e subalterni alleati.

 E reagire prima che fosse troppo tardi.

Reazione che, per altro, non le è risultata particolarmente difficile.

Visto che la Russia continua ad essere, in primo luogo, un esportatore di materie prime – gas e non solo – ed in secondo luogo una grande potenza militare.

Che ha sempre destinato alla sua difesa e controllo del territorio una quota importante delle proprie finanze.

Gli anni, folli e dissipati, di Eltsin fan

no, naturalmente eccezione.

Ma, appunto, come tale vanno letti. Una eccezione.

Una parentesi.

Illudersi che quella di Eltsin, ridotta in miseria e impotente, fosse la vera Russia è una, madornale, sciocchezza.

Che non tiene alcun conto della storia.

E si nutre di malsane illusioni.

La vera Russia, quella che si richiama all’Impero dei Soviet e, prima e più ancora, a quello degli Zar, è tutt’altra cosa.

È quella che sta, ormai prepotentemente, emergendo sotto la guida di Putin, ma che non può essere, semplicisticamente, ridotta ad un solo uomo.

Piuttosto, è guidata da una élite più variegata e composita di quanto si possa, comunemente, credere.

 E tuttavia nessun componente di questa élite ci può fare dormire sonni tranquilli.

Perché i più moderati al suo interno sono coloro che considerano inevitabile lo scontro frontale con l’Occidente.

 Ma pensano che questo possa venire procrastinato ancora abbastanza a lungo, alternando azione politica e interventi militari.

Gli altri, invece, ritengono più semplicemente che la guerra sia inevitabile.

Qui ed ora.

Tuttavia, invece che gioire per questa, supposta, svolta bellicista che dovrebbe mettere Mosca in difficoltà, i nostri grandi Media dovrebbero rovesciare la prospettiva.

 E chiedersi se noi occidentali siamo pronti alla guerra.

Una guerra che continuiamo a far di tutto per provocare, favorendo i deliri di un guitto come Zelensky, ed inasprendo ciò che ancora resta – in verità molto poco – delle relazioni economiche con Mosca.

Un atteggiamento estremamente bellicoso.

Cui, però, non corrisponde un’adeguata forza militare.

Anzi, senza l’ombrello americano, la forza della UE e della stessa NATO, appare risibile.

E i russi lo sanno bene. Molto, troppo bene.

Soprattutto ora, che sta per arrivare Trump.

(Redazione Electo - Andrea Marcigliano).

 

La lunga guerra per riaffermare

il primato occidentale e

israeliano cambia forma.

Comedonchisciotte.org – Markus – Redazione - Alastair Crooke –  (5 dicembre 2024) - ci dice:

(strategic-culture.su)

 

 

Il Medio Oriente non è più “conservatore”.

 Piuttosto, si sta delineando un “Risveglio” molto diverso.

La lunga guerra per riaffermare la supremazia occidentale e israeliana sta subendo un cambiamento di forma.

Su uno dei fronti, il calcolo rispetto alla Russia e alla guerra in Ucraina è cambiato. E in Medio Oriente, il luogo e la forma della guerra si stanno spostando in modo netto.

La famosa dottrina sovietica di “Georges Kennan” aveva costituito a lungo la base della politica statunitense, prima verso l’Unione Sovietica e poi verso la Russia.

 La tesi sostenuta da” Kennan” nel 1946 era che gli Stati Uniti avrebbero dovuto lavorare con pazienza e determinazione per sventare la minaccia sovietica e per rafforzare e aggravare le fratture interne del sistema sovietico, fino a quando le sue contraddizioni ne avrebbero provocato il crollo dall’interno.

Più di recente, il “Consiglio Atlantico” ha attinto alla dottrina Kennan per suggerire che le sue linee generali dovrebbero servire come base della politica statunitense nei confronti dell’Iran.

 “La minaccia che l’Iran pone agli Stati Uniti assomiglia a quella rappresentata dall’Unione Sovietica dopo la Seconda Guerra Mondiale.

 A questo proposito, la politica delineata da George Kennan per trattare con l’Unione Sovietica ha alcune applicazioni per l’Iran “, si legge nel rapporto dell’Atlantic.

Nel corso degli anni, questa dottrina si è ossificata in un’intera rete di intese sulla sicurezza, basata sulla convinzione archetipica che l’America sia forte e che la Russia sia debole

. La Russia avrebbe dovuto “saperlo” e quindi, si sosteneva, non poteva esserci alcuna logica per gli strateghi russi se non immaginare di non avere alte opzioni se non quella di sottomettersi alla schiacciante superiorità della forza militare combinata della NATO contro una Russia “debole”.

E, se gli strateghi russi avessero incautamente continuato a sfidare l’Occidente, si diceva, l’intrinseca contrarietà avrebbe semplicemente causato la frattura della Russia.

I neoconservatori americani e l’intelligence occidentale non hanno ascoltato nessun altro punto di vista, perché erano (e in gran parte sono ancora) convinti dalla formulazione di Kennan.

 La classe politica americana che si occupa di politica estera semplicemente non poteva accettare la possibilità che una tesi così fondamentale fosse sbagliata.

L’intero approccio rifletteva più una cultura radicata che un’analisi razionale, anche quando i fatti visibili sul campo indicavano una realtà diversa.

Così, l’America ha aumentato la pressione sulla Russia attraverso la consegna incrementale di ulteriori sistemi d’arma all’Ucraina;

 attraverso lo stazionamento di missili a gittata intermedia con capacità nucleare sempre più vicini ai confini della Russia e, più recentemente, lanciando “ATACMS” all’interno della “vecchia Russia”.

 

L’obiettivo è quello di spingere la Russia a sentirsi obbligata a fare concessioni all’Ucraina, ad esempio ad accettare il congelamento del conflitto e ad essere costretta a negoziare con le “carte” ucraine appositamente scelte per ottenere una soluzione accettabile per gli Stati Uniti.

O, in alternativa, che la Russia venga messa con le spalle al muro nell’“angolo nucleare”.

In definiva, la strategia americana si basa sulla convinzione che gli Stati Uniti potrebbero ingaggiare una guerra nucleare con la Russia – e avere la meglio;

che la Russia è consapevole del fatto che, se dovesse ricorrere al nucleare, “perderebbe il mondo”.

O che, sotto la pressione della NATO, la rabbia dei russi probabilmente costringerebbe Putin a dimettersi dal suo incarico se facesse concessioni significative all’Ucraina.

 Sarebbe un risultato in ogni caso vantaggioso – dal punto di vista degli Stati Uniti…

Inaspettatamente, però, è apparsa sulla scena una nuova arma che libera il Presidente Putin dalla scelta “tutto o niente”, quella di dover concedere una “mano” negoziale all’Ucraina o ricorrere alla deterrenza nucleare.

Invece, la guerra può essere risolta dai fatti sul campo. In effetti, la “trappola” di George Kennan è implosa.

 

Il missile Oreshnik (utilizzato per attaccare il complesso Yuzhmash a Dnietropetrovsk) fornisce alla Russia un’arma mai vista prima: un sistema missilistico a raggio intermedio che, di fatto, dà scacco alla minaccia nucleare occidentale.

La Russia può ora gestire l’escalation occidentale con una minaccia di ritorsione credibile, estremamente distruttiva e, allo stesso tempo, convenzionale.

Ha invertito il paradigma.

Ora è l’escalation dell’Occidente che deve diventare nucleare, oppure limitarsi a fornire all’Ucraina armi come l’ATACMS o gli Storm Shadow, che non modificheranno il corso della guerra.

Se la NATO dovesse intensificare ulteriormente l’escalation, rischierebbe come rappresaglia un attacco Oreshnik, in Ucraina o su qualche obiettivo in Europa, lasciando l’Occidente con il dilemma di cosa fare dopo.

Putin ha avvertito:

 “Se colpirete ancora in Russia, risponderemo con un” attacco Oreshnik” su una struttura militare in un’altra nazione.

 Daremo un preavviso, in modo che i civili possano evacuare.

Non c’è nulla che possiate fare per impedirlo; non avete un sistema antimissile che possa fermare un attacco che arriva a Mach 10′.

Le carte in tavola sono cambiate.

Naturalmente, ci sono altre ragioni che vanno oltre il desiderio dei vertici permanenti della sicurezza di “gulliverizzare” Trump e convincerlo a continuare il conflitto in Ucraina e macchiarlo di una guerra che aveva promesso di terminare immediatamente.

In particolare, i britannici, e altri in Europa, vogliono che la guerra continui, perché sono alle corde dal punto di vista finanziario, dopo aver acquistato circa 20 miliardi di dollari di obbligazioni ucraine attualmente in “stato di default”, o

per loro garanzie al FMI per i prestiti all’Ucraina.

 L’Europa, semplicemente, non può permettersi i costi di un default completo.

Né l’Europa può permettersi di assumersi l’onere, se l’amministrazione Trump dovesse rinunciare a sostenere finanziariamente l’Ucraina.

Per questo motivo, essi colludono con la struttura inter agenzie degli Stati Uniti per rendere la continuazione della guerra a prova di un’inversione di politica da parte di Trump:

 l’Europa per motivi finanziari e il Deep State perché vuole sconvolgere Trump e la sua agenda interna.

L’altra ala della “guerra globale” riflette un paradosso speculare:

“Israele è forte e l’Iran è debole”.

 Il punto centrale non è solo il suo fondamento culturale, ma il fatto che l’intero apparato israeliano e statunitense è parte della narrazione secondo cui l’Iran sarebbe un Paese debole e tecnicamente arretrato.

L’aspetto più significativo è il fallimento pluriennale della capacità di comprendere le strategie e di riconoscere i cambiamenti nelle capacità, nei punti di vista e nelle comprensioni delle altre parti.

La Russia sembra aver risolto alcuni dei problemi fisici generali degli oggetti che volano a velocità ipersonica.

 L’uso di nuovi materiali compositi ha permesso alle testate plananti di volare su lunghe distanze praticamente in condizioni di formazione di plasma.

 Arrivano sul bersaglio come meteoriti, come una palla di fuoco.

La temperatura sulla loro superficie raggiunge i 1.600-2.000 gradi Celsius, ma le testate vengono guidate in modo affidabile.

E l’Iran sembra aver risolto i problemi associati a un avversario che gode del dominio aereo.

 L’Iran ha creato una deterrenza basata sull’evoluzione degli sciami di droni a basso costo abbinati a missili balistici con testate ipersoniche di precisione.

Questo mette droni da 1.000 dollari e missili di precisione a basso costo contro costosissime cellule pilotate – un’inversione della guerra che è stata realizzata in vent’anni.

La guerra israeliana, tuttavia, si sta metamorfosando in altri modi.

 La guerra a Gaza e in Libano ha messo a dura prova le truppe israeliane;

 l’IDF ha subito pesanti perdite; i suoi uomini sono esausti; i riservisti stanno perdendo l’impegno nelle guerre di Israele e non si presentano in servizio.

Israele ha raggiunto i limiti della sua capacità di mettere scarponi sul terreno (a meno di arruolare gli studenti ortodossi della “Yeshiva Haredi” – un atto che potrebbe far crollare la Coalizione.

 

In breve, la consistenza delle truppe dell’esercito israeliano è scesa al di sotto degli attuali impegni militari ordinati dal comando.

L’economia sta implodendo e le divisioni interne sono crude e laceranti.

 Questo è particolarmente visibile nell’iniquità di israeliani laici che muoiono, mentre altri rimangono esentati dal servizio militare – un destino riservato ad alcuni ma non ad altri.

Questa tensione ha avuto un ruolo importante nella decisione di Netanyahu di accettare il cessate il fuoco in Libano.

 Il crescente astio nei confronti dell’esenzione degli “Haredi ortodossi” ha rischiato di far cadere la coalizione.

Ci sono – metaforicamente parlando – due Israele:

 Il Regno di Giudea contro lo Stato di Israele.

Alla luce di questi profondi antagonismi, molti israeliani vedono nella guerra con l’Iran la catarsi che unirà di nuovo un popolo fratturato e, in caso di vittoria, porrà fine a tutte le guerre di Israele.

All’esterno, la guerra si allarga e cambia forma:

il Libano, per ora, cuoce a fuoco lento, ma la Turchia ha scatenato una grande operazione militare (secondo quanto riferito, circa 15.000 uomini) in un attacco ad Aleppo, utilizzando Jihadisti addestrati dagli Stati Uniti e dalla Turchia e miliziani di Idlib.

L’intelligence turca ha senza dubbio i suoi obiettivi, ma gli Stati Uniti e Israele hanno un interesse particolare a interrompere le vie di rifornimento di armi a Hezbollah in Libano.

Lo sfrenato massacro di Israele nei confronti di non combattenti, donne e bambini – e la sua esplicita pulizia etnica della popolazione palestinese – ha lasciato la regione (e il Sud globale) in fermento e radicalizzata.

 Israele, con le sue azioni, sta distruggendo il vecchio ethos.

 La regione non è più “conservatrice”.

Piuttosto, è in gestazione un “risveglio” molto diverso.

(Alastair Crooke).

(strategic-culture.su).

(strategic-culture.su/news/2024/12/02/long-war-reaffirm-western-and-israeli-primacy-undergoes-shape-shift/).

            

 

 

Crisi dell’auto, Ribera gela i nemici

del Green Deal: «Confermato stop

nel 2035 a benzina e diesel».

Open.online – (03 Dicembre 2024) - Gianluca Brambilla – ci dice:

Le parole della nuova commissaria europea: «Stiamo discutendo di come accompagnare l'industria, ma le tempistiche non saranno toccate»

La Commissione europea non farà alcun passo indietro sullo stop ai motori benzina e diesel a partire dal 2035.

 Lo ha assicurato Teresa Ribera, l’ex ministra spagnola scelta da Ursula von der Leyen come nuova commissaria europea alla Transizione ecologica.

 «È una cosa che nessuno sta prendendo in considerazione, né noi, né nessun altro», ha assicurato la nuova vicepresidente esecutiva della Commissione europea a margine della visita alla “ArcelorMittal “di Gand, in Belgio.

La vera questione sul tavolo, ha precisato poi Ribera, è come «accompagnare l’industria automobilistica europea in un processo di trasformazione in corso e in una corsa industriale globale attivata da anni», mantenendo però «stabilità» e certezza sulle tempistiche.

Licenziamenti e fabbriche chiuse.

La crisi dell’auto motive è senz’altro uno dei dossier più scottanti sul tavolo del nuovo esecutivo comunitario.

 Il regolamento sulle emissioni di CO2, approvato nel 2022 nell’ambito del Green Deal, ha introdotto lo stop alla produzione di nuove vetture a benzina e diesel a partire dal 2035.

La transizione dai motori a combustione ai veicoli a batterie si sta rivelando però più complicata del previsto, con le vendite di auto elettriche che stentano a decollare.

In Germania, Volkswagen ha annunciato la chiusura di tre fabbriche e decine di migliaia di licenziamenti.

 Un piano fortemente contestato dal sindacato dei metalmeccanici,” IG Metall,” che ha risposto proclamando uno sciopero a oltranza.

Audi, che fa sempre parte del gruppo Volkswagen, ha annunciato la chiusura di uno stabilimento a Bruxelles, mentre la produzione di veicoli in Italia continua a colare a picco, con l’amministratore delegato di Stellantis “Carlos Tavares “che ha rassegnato le dimissioni con più di un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale.

Il pressing dell’Italia per riaprire il regolamento Ue.

Al Consiglio Competitività del 28 novembre, il governo italiano ha presentato un documento che chiede la revisione del regolamento sulle emissioni di CO2 delle automobili.

Il non-paper, presentato insieme alla Repubblica Ceca, è stato accolto con favore da altri cinque Paesi Ue: Austria, Bulgaria, Romania, Slovacchia e Polonia.

 I sette governi chiedono di anticipare dal 2026 al 2025 la revisione delle regole europee e di aprire il regolamento a un mix più ampio di tecnologie:

non solo l’elettrico ma anche i biocarburanti.

Secondo alcune indiscrezioni, queste proposte avrebbero ricevuto l’appoggio anche dei Popolari europei, la famiglia politica a cui appartiene la stessa Ursula von der Leyen.

Nel discorso con cui ha chiesto la fiducia al Parlamento europeo, quest’ultima ha annunciato che avvierà un Dialogo strategico sul futuro dell’auto motive insieme a tutte le parti coinvolte.

 A criticare esplicitamente le politiche europee sull’auto motive – e in particolare il target del 2035 – sono invece i Conservatori, di cui fa parte anche Fratelli d’Italia, e i Patrioti, di cui fa parte la Lega.

 

 

 

 

Auto elettriche e stop alla produzione e vendita

di auto diesel e benzina dal 2035, alla

luce del novellato Regolamento UE 2019/631.

 Filodiritto.com – Manuel Mattia – (30 Ottobre 2024) - ci dice:

 

Introduzione.

Negli ultimi tempi si è molto discusso – e scritto – in merito alle recenti politiche comunitarie volte a regolamentare in tutta Europa le emissioni di anidride carbonica di autovetture e furgoni;

nel mare magnum dell’informazione in circolazione, il messaggio non di rado pervenuto è quello di una normativa che avrebbe lo scopo di “bandire” dal mercato dell’auto motive europeo le auto con motore endotermico alimentato a diesel e benzina a partire dal 2035, in favore della produzione e commercializzazione esclusivamente di auto con motore elettrico.

 

Alla luce di quelli che in astratto potrebbero essere gli impatti e le ripercussioni – non soltanto a livello di mercato dei trasporti, ma tecnico, legislativo e socio-economico - ci si è inevitabilmente posti diversi quesiti per comprendere la reale e concreta portata della recente legislazione comunitaria:

 vi è un obbligo normativo alla produzione e vendita di auto elettriche?

 Le nuove auto saranno economicamente più onerose?

La normativa in oggetto interessa l’intero parco auto europeo (ossia autovetture nuove e usate)?

Dal 2035 sarà vietato circolare con auto alimentate a diesel e benzina?

 

Con questo articolo si cercherà di rispondere in maniera compiuta ai già menzionati quesiti, analizzando più da vicino ciò che prescrive la normativa comunitaria.

Panorama normativo di riferimento.

La principale norma comunitaria di riferimento è il Regolamento UE 2019/631 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019, avente ad oggetto la definizione dei livelli di prestazione in materia di emissioni di CO2 delle autovetture nuove e dei veicoli commerciali leggeri nuovi, modificato successivamente dal recente Regolamento UE 2023/851 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 aprile 2023.

 

Va detto che il già menzionato Regolamento europeo di modifica si colloca all’interno di un più ampio pacchetto di riforme legislative varato nel 2021, denominato “Fitfor55”, avente ad oggetto la revisione ed aggiornamento degli obiettivi climatici precedentemente fissati a livello comunitario.

Attraverso tale pacchetto di riforme il legislatore europeo, al fine di garantire che le politiche dell'UE siano in linea con i recenti obiettivi climatici concordati dal Consiglio e dal Parlamento europeo e nell’ottica di rendere l’intera Unione Europea climaticamente neutra entro il 2050, mira a ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030, attraverso una serie di misure che coinvolgono più settori:

da quello edilizio, a quello dei trasporti, agricolo, silvicoltura e produttivo.

La modifica introdotta nel 2023 con il Regolamento UE 2023/851, pertanto, ha come scopo fondamentale quello di allineare il precedente obiettivo contenuto nel Regolamento UE 2019/631 a quello alla base del successivo pacchetto di riforme “Fitfor55”, per ciò che concerne le emissioni di CO2 di autovetture e furgoni nuovi.

Punti essenziali del novellato Regolamento UE 2019/631.

Vediamo, nello specifico, cosa prevede in alcuni dei suoi punti essenziali il Regolamento europeo del 2019, a seguito delle successive modifiche introdotte dal Regolamento europeo del 2023.

a) Per ciò che concerne la riduzione delle emissioni medie di CO2 del parco auto nuovo dell’Unione Europea, in base al novellato art. 1 del Regolamento vengono fissati i seguenti obiettivi:

i) a decorrere dal 1° gennaio 2025, una riduzione del 15% rispetto l’obiettivo nel 2021;

ii) a decorrere dal 1° gennaio 2030, una riduzione del 55% rispetto gli obiettivi fissati nel 2021;

iii) a decorrere dal 1° gennaio 2035, una riduzione del 100% rispetto l’obiettivo fissato nel 2021.

 

b) Per ciò che concerne l’ambito di applicazione degli obiettivi prefissati con il novellato Regolamento UE 2019/631:

il nuovo art. 2 del Regolamento prescrive che esso si applica alle autovetture nuove, ossia quei veicoli a motore appartenenti alla “categoria M1 come definiti nell'allegato II della direttiva 2007/46/CE («autovetture») che siano immatricolati per la prima volta nell'Unione e che non siano stati precedentemente immatricolati al di fuori del territorio dell'Unione”.

Il Regolamento europeo, dunque, fa riferimento alle sole auto nuove, di qualsiasi categoria e segmento (citycar, utilitarie, berline e SUV compatti, grandi berline e SUV, fuoristrada), immatricolate per la prima volta all’interno dell’Unione Europea.

 Restano escluse, invece, le  attuali auto a combustione diesel e benzina in circolazione, e, in generale, tutte quelle autovetture che verranno acquistate dai consumatori finali fino al 31 dicembre 2034 in particolare nel mercato dell’usato, che alla data del 1° gennaio 2035 potranno ancora liberamente circolare all’interno del territorio dell’Unione Europea, fermo restando le ulteriori restrizioni alla circolazione da parte di altre legge vigenti, a titolo di esempio per quel che concerne il rispetto della normativa in materia di emissioni di inquinanti atmosferici per i veicoli a combustione (con le classi ambientali da “Euro 0” all’attuale “Euro 6”).

 

Solo per completezza espositiva, va qui accennato che l’applicazione del Regolamento europeo si estende anche ai veicoli commerciali leggeri nuovi come definiti al citato art. 2 (furgoni per il trasporto di merci con massa non superiore a 3.5 tonnellate) per i quali sono previsti dalla norma obiettivi di riduzione di CO2 identici o simili a quelli sopra enucleati con riferimento al parco autovetture nuove.

Resterebbero invece esclusi dall’ambito di applicazione del Regolamento i veicoli commerciali pesanti (ossia veicoli con massa minima non inferiore a 3.5 per il trasporto di merci, quali autocarri, autotreni e autoarticolati), così come i motocicli, i tricicli e i quadricicli a motore (motociclette, scooter, quad, etc.).

 

c) Destinatari diretti per l’attuazione degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2.

Circa l’ambito soggettivo di applicazione del novellato Regolamento europeo, i diretti destinatari sono le case costruttrici di auto, definite singolarmente all’art. 3 del Regolamento UE 2018/818 come quella “persona fisica o giuridica che è responsabile di tutti gli aspetti dell'omologazione di un veicolo, un sistema, un componente o un'entità tecnica indipendente o dell'omologazione individuale o della procedura di autorizzazione di parti e accessori, della garanzia di conformità della produzione e delle questioni di vigilanza del mercato concernenti i veicoli, i sistemi, i componenti, le entità tecniche indipendenti, le parti e gli accessori prodotti, indipendentemente dal fatto che tale persona sia o non sia direttamente coinvolta in tutte le fasi di progettazione e costruzione del veicolo, del sistema, del componente o dell'entità tecnica indipendente in questione”.

Sono i costruttori che, ai sensi dell’art. 4 del Regolamento devono provvedere affinché le emissioni specifiche medie di CO2 non superino gli obiettivi specificati dalla normativa europea.

 

E’ il caso qui di accennare, tuttavia, che, ai sensi dell’art. 10, è prevista una deroga al raggiungimento degli obiettivi prefissati dal novellato Regolamento europeo fino alla fine del 2035 compreso, per tutte quelle case costruttrici che per ogni anno civile producono non più di 10.000 autovetture nuove (e non più di 22.000 veicoli commerciali leggeri nuovi) nel rispetto di determinate condizioni previste dallo stesso art. 10 del Regolamento, nonché, ai sensi dell’art. 2 paragrafo 4, un esenzione totale per quelle case costruttrici che producono meno di 1.000 autovetture per ogni anno civile.

 L’esenzione totale ivi prevista avrebbe lo scopo di salvaguardare le piccole case costruttrici europee dall’applicazione del Regolamento europeo, che rischierebbero altrimenti di subire un “impatto sproporzionato (...) che risulterebbe dal rispetto degli obiettivi specifici per le emissioni definiti in base all'utilità dell'autoveicolo, dai notevoli oneri amministrativi connessi alla procedura di deroga e dai vantaggi marginali derivanti in termini di riduzione delle emissioni di CO2 dei veicoli venduti da tali costruttori (...)”

Considerazioni finali.

Sulla scorta della breve disamina normativa sin qui svolta, si possono effettuare le seguenti considerazioni che permetteranno di fornire delle risposte ai quesiti di cui in premessa.

 

4.1 In primo luogo, non è previsto alcun obbligo espresso circa la produzione, commercializzazione e circolazione di sole auto elettriche in luogo delle autovetture con motore endotermico.

 Come è stato visto in precedenza, il novellato Regolamento europeo prescrive alle case automobilistiche il raggiungimento sì di determinati obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2, per gradi ed entro scadenze prestabilite;

 tuttavia, ai fini del raggiungimento dei già menzionati obiettivi, il Regolamento Europeo non impone l’obbligo di utilizzare veicoli elettrici, ma fa sempre riferimento all’utilizzo di tutte quelle “tecnologie innovative ed efficienti sviluppate dalle case costruttrici.

Questo significa che nessuna tecnologia è aprioristicamente favorita né tantomeno bandita dal legislatore europeo, che lascia anzi spazio allo sviluppo di qualsiasi soluzione tecnologica che consenta di raggiungere gli obiettivi prefissati.

 

4.2 Ad ulteriore conferma della “neutralità tecnologica” del novellato Regolamento UE, va precisato che all’art. 15 del citato Regolamento è prevista una specifica clausola di revisione, che consentirebbe già nel 2026 di modificarne l’impatto e l’efficacia, in particolare rivedendone gli obiettivi di riduzione di CO2 fissati per il 2035, tenendo conto in particolare dei nuovi sviluppi tecnologici – anche per quanto riguarda le tecnologie ibride e plug-in - e della sostenibilità a livello socio-economico della transizione energetica.

 

4.3 In buona sostanza, nella attuale fase di transizione energetica, quello che il Regolamento mira ad ottenere è la graduale limitazione dell’uso dei carburanti fossili (diesel e benzina) nel parco auto europeo di prossimo sviluppo, attraverso l’uso di qualsiasi tecnologia innovativa che da un lato riduca sensibilmente l’emissione di CO2 e che dall’altro lato sia economicamente sostenibile, senza per questo mettere automaticamente al bando le auto con motore endotermico e privilegiare normativamente una tecnologia piuttosto che un’altra, tenendo conto, peraltro, degli ulteriori sviluppi in campo tecnologico che potranno succedersi fino al 2035.

 Basti pensare che ad oggi, oltre al motore elettrico, come ulteriori tecnologie sostenibili vi sarebbero anche i motori ad idrogeno e soprattutto i combustibili alternativi sintetici (quali gli e-fuels o biocarburanti), che ben si potrebbero collocare come valida opzione tecnologica innovativa, qualora vengano sviluppate, in maniera adeguata e a costi accessibili per tutti, sia le predette tecnologie innovative, sia le infrastrutture che consentano la loro erogazione. 

Vero è che, allo stato dell’arte, le auto elettriche sarebbero economicamente più convenienti rispetto alle autovetture alimentate con carburanti sintetici e ad idrogeno.

Come affermato tramite comunicati stampa dallo stesso legislatore europeo “la tendenza spinge principalmente verso i veicoli elettrici a batterie poiché il costo di proprietà totale è inferiore rispetto alle attuali alternative presenti sul mercato.

Ad esempio, la produzione di idrogeno e combustibili verdi (a partire da elettricità e idrogeno e convertiti in benzina sintetica) è più costosa, poiché richiede molta elettricità.

Tuttavia, le batterie sono pesanti e questo significa che alcuni mezzi di trasporto non possono essere facilmente alimentati dalle batterie, quindi l'idrogeno o i combustibili verdi possono essere una buona soluzione alternativa per navi, aerei o veicoli pesanti.”

 Vero anche che le auto elettriche, ad oggi, presenterebbero ancora questioni da risolvere, in particolare sia in termini di costi mediamente maggiori rispetto le auto diesel e benzina, sia in termini di capillarità della rete di rifornimento, sia infine in termini di peso, autonomia ed oneri di sostituzione e smaltimento delle batterie elettriche montate sulle auto.

4.4 Infine, merita qui fare un cenno sulla commercializzazione e circolazione post 2035 delle auto con motore alimentato a benzina o diesel.

Come è stato visto in precedenza, in questo caso l’obiettivo finale posto dal legislatore europeo alle case costruttrici è il raggiungimento della riduzione delle emissioni di CO2 pari al 100%, rispetto gli obiettivi fissati nel 2021, nella produzione e commercializzazione in Europa di auto nuove (e veicoli commerciali leggeri nuovi).

Come anche precisato dal Parlamento europeo, le nuove regole sono rivolte soltanto al mercato del nuovo:

esse, pertanto, non impongono nessun divieto a carico dei rivenditori (ed anche dei consumatori finali stessi) di commercializzare le auto “usate” (o “d’occasione”) in Europa dopo il 2035, né tantomeno sussiste un divieto a carico dei consumatori finali di circolare ancora con auto alimentate a diesel o benzina dopo il 2035.

 

 

 

Benzina green, la risposta dei petrolieri

all’obbligo di auto elettrica dal 2035.

 Milanofinanza.it - Angela Zoppo – (10-04 -2024) – ci dice:

 

Il presidente di “Unem”, Murano: vanno introdotti incentivi fiscali per promuovere l’utilizzo dei carburanti sostenibili tra gli automobilisti.

Si guarda alle elezioni europee di giugno per un nuovo Parlamento che modifichi o allunghi i tempi della direttiva.

Gli eco-carburanti possono essere per l’auto motive quello che il gas rappresenta per il settore energetico:

un vettore per una transizione sostenibile, senza strappi e accelerazioni che imprese e cittadini non possono affrontare.

 In cima all’agenda dell’”Unem” (l’ex Unione Petrolifera, ora Unione Energie per la Mobilità), che rappresenta una filiera da 80 miliardi di euro di fatturato, c’è la tagliola Ue che fissa al 2035 l’addio ai motori a combustione a favore della mobilità elettrica.

 Il tema è stato anche al centro dell’audizione di ieri al Senato per chiedere «un approccio programmatico e neutrale sulle diverse tecnologie che concorreranno alla decarbonizzazione del trasporto stradale».

Si guarda alle elezioni europee.

Come spiega il presidente Gianni Murano a MF-Milano Finanza, «la direttiva Ue dovrà essere sottoposta a revisione nel 2027, e ci auguriamo un cambio di passo già col nuovo Parlamento che uscirà dalle elezioni europee di giugno.

Gli strumenti per abbattere le emissioni di CO2 ci sono, bisognerebbe promuovere l’utilizzo dei “carbon neutral fuels” nella mobilità pubblica ma anche in quella privata, per esempio attraverso incentivi fiscali, invece che obbligare di colpo milioni di automobilisti a spendere decine di migliaia di euro per acquistare veicoli elettrici.

 

Le auto elettriche cinesi si accumulano nei porti: ecco perché se ne vendono meno del previsto.

Il rallentamento della produzione di auto elettriche registrato da molti big dovrebbe far riflettere, mentre assistiamo a una domanda crescente di autovetture ibride, con un grande ricorso al mercato dell’usato.

In Europa 300 milioni di auto tradizionali.

Il traffico su quattro ruote, in generale, sta aumentando.

«È una tendenza che si è manifestata dopo la crisi Covid e non si arresta:

oggi il traffico leggero in autostrada è cresciuto di circa il 6% e uno dei motivi è che manca un’offerta ferroviaria adeguata sui collegamenti regionali.

Gli effetti della maggior propensione a muoversi in autonomia non si mitigano imponendo la mobilità elettrica:

 non ci sono le condizioni economiche perché questo possa accadere.

In Europa circolano 300 milioni di auto elettriche, come si può ragionevolmente pensare di sostituirle tutte?

 

Tesla resta leader nell'e-mobility ma delude le attese per il calo delle consegne.

L’arrocco dell’”Unem” è anche in difesa dell’industria manifatturiera, per la salvaguardia della competitività e della sicurezza degli investimenti.

«Altrimenti come ci si può difendere dalla concorrenza asimmetrica di Paesi extra Ue?

Invece utilizzando i carburanti sostenibili si mantiene il parco circolante e allo stesso tempo si tutela la filiera della componentistica».

 

Italia resiliente agli shock petroliferi.

Quanto al tema più generale della domanda di petrolio, l’”Unem” guarda alle decisioni dell’”Opec Plus” e alla” crisi di Suez”.

«L’aumento di 15 dollari del prezzo del greggio, concentrato soprattutto nell’ultimo mese, non dipende solo dalle tensioni in Medio Oriente ma da altri fattori, come i tagli decisi dall’Opec Plus e la domanda crescente di Cina e altri Paesi.

Andiamo anche verso la driving season negli Usa, quel periodo dell’anno in cui la domanda di benzina raggiunge il picco» osserva Murano.

«Ma il sistema italiano è resiliente, stiamo assistendo a un grande aumento delle importazioni dall’Africa e da Paesi ex Urss come Azarbaijan e Kazakhstan».

Nuova operazione per Lmdv Capital, il family office del quartogenito di Leonardo Del Vecchio.

 Firmato un accordo per l'acquisizione del Brand Twiga e di 4 location del gruppo gruppo Majestas, che fa capo a Flavio Briatore

 Eredità Del Vecchio, il superyacht Moneikos cambia nome in Ipanemas.

Ecco perché.

Si espande il gruppo della ristorazione Triple Sea Food controllato da Lmdv Capital, il family office di Leonardo Maria Del Vecchio. La società del quartogenito del fondatore di Luxottica ha firmato un accordo per l'acquisizione del Brand Twiga e di 4 ristoranti del gruppo gruppo Majestas, che fa capo all’imprenditore Flavio Briatore.

 

Eredità Del Vecchio, il superyacht Moneikos venduto a un armatore greco per poco meno di 28 milioni.

Il closing dell'operazione è prevista per il primo trimestre 2025 e prevede l'acquisizione del 100% del brand e delle quattro location Twiga Forte dei Marmi, Twiga Montecarlo, Twiga Baia Beniamin e lo storico immobile del Billionaire a Porto Cervo che dal prossimo anno diventerà Twiga.

Il fatturato delle due società combined è stimato in circa 50 milioni nel 2024 e punta a 60 milioni nel 2025.

Triple Sea Food - che ha all’attivo già tre marchi di ristorazione (Vesta Milano, Vesta Forte dei Marmi e Vesta Paraggi; Casa Fiori Chiari Milano; Trattoria del Ciumbia Milano con 250 dipendenti) - darà lavoro complessivamente a oltre 600 persone.

Twiga è nato nel 2000 in Versilia per poi crescere e affermarsi a livello internazionale come icona dell'hospitality di lusso.

 Da Enel a Leonardo, ecco chi sarà della partita.

La road map di governo e industria sarà ufficiale dal 2025 con l’obiettivo di riportare l’energia dell’atomo per uso civile tramite i piccoli impianti di tipo Smr e gli Amr di ultima generazione.

 Il 51% degli italiani è d’accordo. 

“Newcleo”, parla l'ad Buono: ci siamo spostati a Parigi ma vogliamo quotarci in Italia.

Il piano c’è già e dall’ autunno 2025, dopo le osservazioni e l’approvazione degli stakeholder, entrerà direttamente nelle linee strategiche del ministero delle Imprese e del Made in Italy:

 in campo investimenti per circa 46 miliardi di euro dal 2030 al 2050.

 Pronta anche la nuova società a guida Enel (51%), con Ansaldo Nucleare (39%) e Leonardo (10%), che dovrà studiarne la fattibilità.

Il ministro Adolfo Urso ne ha confermato la partenza entro fine anno, ma la società potrebbe essere costituita già prima di Natale. In questi giorni sono in corso gli ultimi ritocchi allo statuto.

I “reattori Smr” non fanno paura:

Per il ritorno del nucleare in Italia, insomma, sembra davvero tutto pronto.

A fare da sponda è arrivato anche un sondaggio appena realizzato da “Swg”, dal quale risulta che oggi il 51% dei cittadini si esprimerebbe a favore, ribaltando gli esiti del referendum del 2011, tranquillizzato dal fatto che la tecnologia scelta è quella degli “Smr,” reattori modulari di piccole dimensioni, accettati perché percepiti come più sicuri e adatti alle necessità dell’Italia.

 

 In Parlamento il piano italiano che apre al ritorno del nucleare.

 Si prepara la legge delega.

La conferma che si potrebbe davvero essere vicini a una svolta arriva dall’”Ain”, l’Associazione Italiana Nucleare presieduta da Stefano Monti, ingegnere nucleare e tra i massimi esperti internazionali del settore.

 Per più di 11 anni, fino al 2022, è stato responsabile del programma “Reattori Avanzati della “Iaea”, l’International Atomic Energy Agency, sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Da gennaio 2024 è anche presidente dell’”European Nuclear Society”.

 Accettando il rischio di andare controcorrente ed essere bollata come impopolare, l’”Ain” è sempre stata in prima linea nella battaglia per riportare il nucleare per usi civili nel Paese.

E adesso inizia a intravedere le prime chance concrete di successo.

 «Ci sono molti fattori che si stanno finalmente allineando, un segnale importante è arrivato col lancio della piattaforma nazionale per il nucleare sostenibile da parte del “ministro dell’Ambiente”, “Gilberto Pichetto Fratin», premette Monti con MF-Milano Finanza.

Licenza nucleare per Eni in Usa, più vicino il primo impianto a fusione.

«Vi hanno partecipato oltre 100 tra società e organizzazioni italiane.

Segno che il know-how, e anche l’interesse a riaprire l’opzione nucleare, non sono andati persi».

 I lavori hanno avuto come obiettivo lo sviluppo una roadmap che guardi al 2030 e da lì al 2050, per realizzare gli “Smr” e poi i reattori di IV generazione, fino alla fusione.

 «I risultati», osserva Monti, «saranno senz’altro utili come base di partenza per la “newco Enel-Ansaldo Nucleare-Leonardo”, incaricata di verificare la fattibilità di un programma nucleare nazionale dal punto di vista industriale, operativo e finanziario».

Un partner internazionale per le infrastrutture.

Riguardo al partner internazionale che sarà della partita, Monti fa presente che, assieme alle agenzie internazionali preposte, dovrà aiutare il Paese anche a ricostituire le infrastrutture di base necessarie per la tecnologia selezionata.

Nucleare, in Italia il primo simulatore di un reattore di quarta generazione arriverà entro il 2026.

«Ma quello che più ci preme è mettere al centro le esigenze dei cittadini e delle industrie italiane.

Ci sono 3mila imprese energivore a rischio per gli alti costi in bolletta.

 Paghiamo l’energia almeno il doppio della Francia, e non a caso cito un Paese che ha un’altissima produzione di nucleare che permette di stabilizzare e contenere i prezzi», sottolinea Monti.

Siderurgia, chimica, ceramica, vetro e produzione di cemento hanno grandi consumi e allo stesso tempo devono abbattere le emissioni per mettersi in regola con gli obiettivi di decarbonizzazione.

Perché le rinnovabili non bastano.

«Le rinnovabili non bastano.

Sono fonti a intermittenza, vanno compensate o con batterie, al momento a costi assolutamente proibitivi e fuori mercato, o con sorgenti energetiche fossili:

in Italia, e negli altri paesi Ue privi di nucleare, come back-up alle rinnovabili si usa normalmente il gas naturale, altamente climalterante.

Il nucleare, invece», osserva Monti, «è in grado di fornire in maniera decarbonizzata e senza stop tutti e tre i principali vettori energetici: elettricità, calore e idrogeno.

 Senza ideologie, e come raccomanda il rapporto Draghi, serve un approccio all’insegna della neutralità tecnologica».

Le richieste al governo.

L’”Associazione Italiana Nucleare” perciò si è fatta anche portavoce delle industrie energivore con un elenco di proposte al governo.

«Abbiamo presentato una serie di richieste concrete per rilanciare il settore nucleare e garantire al Paese una transizione energetica stabile e sostenibile.

Una prima risposta è già la “newco” a guida “Enel”, perché», spiega Monti, «serve un soggetto industriale che selezioni e sviluppi in Italia le tecnologie avanzate più promettenti per il Paese, come appunto gli “Smr”».

 

Le altre richieste comprendono una cabina di regia per il potenziamento delle infrastrutture di base e un’Autorità di Sicurezza Nucleare «indipendente e con risorse adeguate, essenziale per fornire un quadro normativo moderno e garantire procedure di regolamentazione e autorizzazione rapide e certe per i nuovi impianti nucleari». Un altro punto cruciale per il presidente di Ain è la formazione.

«L’Italia già forma il 10% degli ingegneri nucleari europei, bisogna investire sui giovani», conclude Monti, «e inviare loro un segnale preciso e non ambiguo che anche in Italia il nucleare ha un futuro».

Estesa anche alle cripto-attività e un ritocco alla norma rimpatriati che contempli incentivi rispetto al rientro dei capitali e all’investimento degli stessi

Duecento miliardi di dollari, quasi 190 miliardi di euro.

 A tanto ammonta, secondo il” Billionaire Ambitions Report 2024” di “Ubs” il tesoro dei 62 paperoni italiani certificati nel 2024.

Una fetta da circa 80 miliardi di euro, dice il “magazine ginevrino Bilan” , è conservata in Svizzera, paradiso fiscale in terra extra-Ue.

 

 Miliardari sempre più ricchi: in dieci anni il loro patrimonio è più che raddoppiato. In Italia sono 62.

Il report 2024 di Ubs.

Come fare per riportare queste somme da capogiro al di qua delle Alpi?

A fine 2023 il governo ha già varato un decreto legislativo nel quadro della delega fiscale che prevede per sei anni una riduzione del 50% delle imposte sui redditi e sull’Irap per le società che decideranno di rimpatriare da Paesi extra-Ue:

per i cinque periodi d'imposta (dieci per le grandi imprese) successivi alla scadenza del regime di agevolazione il beneficiario non potrà trasferire (anche solo parzialmente) le attività fuori dal territorio nazionale.

I Paperoni veri e propri (quelli italiani sono attualmente 74, il 10,4% in più del 2022) sono esclusi dalle modifiche alla norma sul rientro dei cervelli:

 la percentuale di non imponibilità al 50% si applica ai redditi da lavoro dipendente e autonomo fino a 600 mila euro.

 D’altro canto, invece, i super-ricchi che, avendo vissuto all’estero per nove degli ultimi dieci anni, decidono di rientrare possono beneficiare di una “flat tax” che il decreto Omnibus ha raddoppiato a 200 mila euro.

Perché l’Italia diventerà la meta preferita dai paperoni europei.

Una voluntary disclosure estesa al cripto.

«Negli ultimi anni sono entrate in vigore diverse norme per trattenere e attrarre capitale finanziario e umano – dice a MF-Milano Finanza il capogruppo della Lega in commissione Finanze della Camera, Giulio Centemero – dall’Investment Management Exemption (Ime) al sandbox per fintech e insurtech, dalla norma sul brain drain al Fondo di fondi e la riforma del mercato dei capitali al fine di creare un ambiente favorevole per l’investimento in Italia, i passi avanti ci sono stati».

Per accelerare il processo, prosegue, «servirebbe ora una norma come la “voluntary disclosure” del ministro Giulio Tremonti estesa anche alle cripto-attività e un ritocco alla norma rimpatriati che contempli incentivi rispetto al rientro dei capitali e all’investimento degli stessi».

 

 

 

 

Ci imporranno quale auto comprare?

 i veicoli elettrici al centro

della battaglia politica e climatica.

Ingenio- web.it - Andrea Dari – (24-03 -2024) – ci dice:

In un mondo in rapida evoluzione verso l'elettrificazione, recenti sviluppi sollevano dubbi sulla velocità e sulla direzione di questa transizione.

Tra le sfide industriali, la polarizzazione politica negli USA e le incertezze del mercato europeo, esploriamo come le decisioni radicali sull'auto elettrica stiano incontrando ostacoli inaspettati, segnando una fase cruciale di riflessione globale.

Auto Elettrica: tra progresso tecnologico e ripensamenti politici.

L'evoluzione verso l'adozione dei veicoli elettrici rappresenta una delle svolte tecnologiche e ambientali più significative del nostro tempo.

Un percorso che sembrava ormai tracciato e inarrestabile, con l'Europa in prima linea nell'imporre date limite per la cessazione della vendita di auto a combustione interna.

Tuttavia, la transizione verso l'elettrico sta incontrando resistenze non solo nei paesi europei più legati alle tradizioni, ma sta diventando anche terreno di scontro politico, industriale e culturale negli Stati Uniti, evidenziando come il dibattito su questi temi sia tutt'altro che risolto.

La scelta di accelerare la transizione verso i veicoli elettrici non è più vista solo come una mossa ecologica o una semplice evoluzione tecnologica, ma si intreccia profondamente con implicazioni industriali, occupazionali, culturali e, soprattutto, politiche.

Alcuni paesi europei, tradizionalmente più conservatori, hanno già espresso perplessità sulle tempistiche aggressive per l'abbandono dei veicoli a combustione.

L'Italia è fra questi e i timori che la scelta elettrica possa essere da un lato pericolosa per l'industria della automotiva nostrana, dall'altra per la reale possibilità di riuscire ad integrare una rete distributiva nei complessi centri storici, sono argomenti che sono diventati oggi di dibattito pubblico.

Ma questo non accade solo nel nostro continente.

Anche in America, questa transizione si è infiammata ulteriormente nel contesto delle elezioni presidenziali, dove il tema dei veicoli elettrici è diventato un simbolo di divisione, rivelando profonde fratture nel tessuto sociale e politico del paese.

La polarizzazione politica attuale vede da un lato gli sforzi dell'amministrazione Biden, che punta decisamente sulle auto elettriche come pilastro della sua strategia contro il cambiamento climatico.

Dall'altro, vi è una forte opposizione da parte di settori repubblicani e di alcune fasce dell'elettorato, che percepiscono in queste politiche una minaccia per l'industria automobilistica tradizionale, per l'occupazione e, più in generale, per lo stile di vita americano.

Il peso dell'elezioni americane sul futuro dell'auto elettrica.

L'articolo del “New York Times”, "Inside the Republican Attacks on Electric Vehicles", evidenzia in modo molto chiaro come l'auto elettrica, un'innovazione significativa nel settore automobilistico, si sia ritrovata al centro delle elezioni presidenziali di quest'anno, scatenando battaglie partigiane che riflettono profondi contrasti culturali negli Stati Uniti.

La decisione del Presidente Biden di porre i veicoli elettrici al cuore della sua lotta contro il cambiamento climatico, con l'annuncio di "the most ambitious climate regulation in the nation’s history", ha accentuato le tensioni.

Questa mossa mira a sostituire le auto a benzina, grandi responsabili del riscaldamento globale, con quelle elettriche, provocando scontri sul futuro tecnologico e industriale del paese, sulle questioni di competitività internazionale, e sull'amore per l'iconica "muscolosità" automobilistica americana.

Il dibattito si acuisce nelle aree rurali, dove l'assenza di stazioni di ricarica pubblica rende il futuro elettrico un concetto astratto, ampliando il divario tra le esperienze urbane e rurali e, di conseguenza, la polarizzazione nazionale.

L'opposizione di Trump, che ha denunciato la regolamentazione come un "divieto" sulle auto a benzina e un attacco all'industria automobilistica americana, è stata particolarmente veemente.

 Le sue dichiarazioni hanno trovato vasta eco tra i Repubblicani, con affermazioni come quelle del” Senatore Shelley Moore Capito”:

 “The Biden administration is deciding for Americans which kind of cars they are allowed to buy, rent and drive”, che sottolineano la percezione di un'imposizione governativa sulle scelte dei consumatori.

La vendita di Auto Elettriche negli USA.

Nel 2023, le vendite di veicoli elettrici negli Stati Uniti hanno superato per la prima volta il milione, raggiungendo 1,189,051 unità vendute.

Questo ha stabilito un nuovo record, con una quota di mercato del 8.1% nel quarto trimestre dell'anno, rispetto al 6.5% dell'anno precedente nello stesso periodo​​.

Contrariamente a quanto sostenuto dai critici, l'E.P.A. chiarisce che la nuova regolamentazione non bandisce le auto convenzionali ma impone ai costruttori di rispettare limiti di emissione più severi, permettendo una varietà di soluzioni veicolari.

Questo approccio è progettato non solo per combattere il cambiamento climatico ma anche per migliorare la salute pubblica e ridurre i costi per gli automobilisti.

 

Il settore automobilistico ha in gran parte accettato queste nuove regole, con dichiarazioni come quella di “John Bozzella” (Presidente e CEO di Alliance for Automotive Innovation): "The future is electric".

Ciò è supportato dall'aumento delle vendite di veicoli elettrici, che rappresentano il segmento di mercato in più rapida crescita.

Tuttavia, la divisione politica rimane evidente, con un netto contrasto nelle percezioni e nelle intenzioni di acquisto tra Democratici e Repubblicani.

Questo scenario sottolinea come la questione dei veicoli elettrici sia diventata emblematica delle divisioni culturali e politiche del paese.

La vendita di “BEV” in Europa.

In Europa, le vendite di veicoli elettrici (BEV) e ibridi plug-in (PHEV) hanno continuato a crescere nel 2023.

Ad esempio, in Germania sono stati registrati oltre 520.000 BEV e 173.000 PHEV, portando il totale a 1,4 milioni di BEV e 1 milione di PHEV sulle strade tedesche.

In Francia, le vendite di BEV sono aumentate del 46% e quelle di PHEV del 28% nel 2023, con il mercato dei veicoli elettrici che è cresciuto del 39%.

I dati di registrazione per il 2023 indicano quasi 700.000 nuovi BEV e 170.000 nuovi PHEV​​.

 

Verso un ripensamento della transizione all'Elettrico?

Riflessioni e sfide future.

Mentre navighiamo in queste acque turbolente, è essenziale comprendere che il successo della transizione verso i veicoli elettrici non si basa soltanto sull'innovazione tecnologica, ma anche sulla capacità di affrontare e risolvere questioni di natura sociale, economica e culturale.

La transizione richiede un cambio di mentalità non solo da parte dei produttori di auto, ma anche dei consumatori, dei policymaker e dell'industria energetica.

Una delle lezioni fondamentali che emerge dalla situazione attuale è l'importanza della flessibilità e dell'adattabilità delle politiche pubbliche.

Gli incentivi governativi hanno giocato un ruolo cruciale nel promuovere l'adozione dei veicoli elettrici, ma la loro gestione e il timing di implementazione devono essere attentamente bilanciati per evitare di superare le capacità produttive e la disponibilità di infrastrutture, nonché per allinearsi con la reale domanda del mercato.

Parallelamente, la costruzione di un'infrastruttura di ricarica estesa e accessibile è fondamentale per superare uno dei maggiori ostacoli alla diffusione dei veicoli elettrici:

l'ansia da autonomia.

Investire in tecnologie di ricarica rapida e in una rete capillare di stazioni di ricarica può contribuire a rendere l'auto elettrica una scelta più attraente per il consumatore medio.

 

La vendita di auto elettrica in Cina.

Le vendite di veicoli elettrici in Cina sono previste superare gli 8 milioni di unità nel 2023.

Questo rappresenta quasi il doppio rispetto al 2022, segnando una crescita del 87% su base annua, secondo le ultime ricerche di “Counterpoint's Global Passenger Electric Vehicle Model”.

Altrettanto importante è l'impegno nella ricerca e sviluppo per migliorare le prestazioni delle batterie, ridurne i costi e minimizzare l'impatto ambientale dell'estrazione e della produzione dei materiali necessari.

 Questo non solo renderà i veicoli elettrici più accessibili, ma contribuirà anche a mitigare le preoccupazioni legate all'impronta ecologica della loro produzione.

Nel contesto attuale, è anche vitale riconoscere il valore del dialogo aperto tra i vari attori coinvolti: governi, industrie, comunità scientifica e civile.

 Un approccio collaborativo può facilitare la condivisione delle migliori pratiche, l'armonizzazione degli standard e la promozione di iniziative congiunte che accelerino il passaggio verso un'economia a basse emissioni di carbonio.

Le sfide dell'Idrogeno nel mercato automobilistico: un futuro incerto.

Il taglio di prezzo del 60% per la “Toyota Mirai” segna una nuova era per l'idrogeno: un articolo per esaminare le sfide e le prospettive dell'auto a idrogeno nel contesto globale della corsa verso i trasporti sostenibili.

Infine, non dobbiamo dimenticare il potere dei consumatori nel modellare il futuro del settore automobilistico.

La domanda di veicoli più sostenibili è in crescita, spinta da una maggiore consapevolezza ambientale e dalla volontà di contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico.

 

La transizione verso i veicoli elettrici è, senza dubbio, una delle sfide più complesse del nostro tempo, ma rappresenta anche un'opportunità unica per reinventare il nostro modo di vivere, di muoverci e di interagire con il nostro pianeta. Affrontando le sfide attuali con un approccio olistico, pragmatico e collaborativo, possiamo superare gli ostacoli e avanzare verso un futuro più sostenibile e resiliente.

(Andrea Dari - Ingegnere, Presidente della Casa Editrice IMREADY e direttore Responsabile di INGENIO).

(ingenio-web.it/articoli/ci-imporranno-quale-auto-comprare-i-veicoli-elettrici-al-centro-della-battaglia-politica-e-climatica).

 

 

 

 

 

Transizione energetica.

Orsini: sul Green Deal non ho visto

i sindacati al mio fianco.

Ilsole24ore.com -Redazione – (6 dicembre 2024) – Ansa – Luca Zennaro - ci dice:

La crisi dell’auto, analizza il presidente di Confindustria, è questione complessa, riguarda anche le mancate politiche industriali.

Dice Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, durante l'assemblea pubblica di Confindustria Genova, presso lo stabilimento Ansaldo Energia, Genova.

Sul Green Deal, imprese e sindacati devono essere uniti.

Quanto a Stellantis, «abbiamo bisogno che dimostri di voler bene al Paese».

Con queste parole il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ospite dell’assemblea di Confindustria Genova interviene su uno dei dossier industriali più urgenti del momento.

 La crisi dell’auto, analizza Orsini, è questione complessa, riguarda le scelte dei produttori ma anche le mancate politiche industriali e la direzione imposta dall’Ue con il Green Deal.

«La cosa che mi chiedo è come mai, quando parliamo di queste questioni, visti i problemi che avremo nel 2025 su alcune filiere legate al Green Deal, non ho mai vicino i sindacati a combattere le battaglie che servono per mantenere i posti di lavoro.

 

Mi farebbe piacere averli a fianco a me, purtroppo non li vedo» ha sottolineato il presidente degli industriali ribadendo che «bisogna cambiare passo perché non c’è più tempo».

 La priorità è la salvaguarda dei posti di lavoro nella filiera italiana, asset industriale di fondamentale importanza.

«L’Italia - dice - ha fatto ciò che doveva fare nel passato, gli impegni verso Stellantis li ha mantenuti.

A questo punto serve che Stellantis mantenga gli impegni verso il Paese».

Un Paese che «ha dato tantissimo a Stellantis, e prima ancora a Fiat e Fca - insiste il presidente di Confindustria - io credo che, nell’indotto complessivo, Stellantis debba restituire quello che gli è stato dato».

Orsini non entra nel merito delle dimissioni a sorpresa presentate dall’ex amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, «non è compito nostro, è compito degli azionisti di Stellantis» ha ribadito che però ha sottolineato come, nel settore auto in generale, «i numeri mostrano la debacle delle scelte fatte».

 Volkswagen ha fatto -64% di profitti, ricorda Orsini, Audi -91%, Bmw -84%, Mercedes -54%.

 «Io credo che sia una rappresentazione plastica di tutto quello che abbiamo fatto di sbagliato in questi ultimi anni perché questo vuol dire distruggere l’industria» aggiunge.

Sul fronte delle politiche industriali, Orsini chiede maggiori risorse per il settore.

Il riferimento è all’apertura fatta dal ministro Adolfo Urso sulla possibilità di riportare la dotazione per il settore a quota 750 milioni per il 2025, dopo i tagli imposti in manovra all’intero Fondo Automotive.

 «Serve premiare le aziende che investono e mantengono gli utili nella propria impresa» spiega Orsini che comunque chiede al Governo «di essere vicino all’industria».

 La prossima settimana l’Automotive resterà al centro dell’agenda politica.

Il 12 dicembre i sindacati incontreranno i vertici del Gruppo a Torino per definire possibili soluzioni ad una situazione di emergenza che trova conferma nei numeri: da gennaio a settembre la produzione di veicoli in Italia si è ridotta di oltre il 30% rispetto al 2023, del 40% se si considerano le sole autovetture, con la prospettiva a fine dicembre di chiudere sotto la soglia del mezzo milione di mezzi, 350mila se si circoscrive l’analisi alle sole autovetture, livelli che riportano le lancette agli anni Cinquanta.

 I volumi produttivi in tutti gli stabilimenti italiani del Gruppo sono in calo rispetto all’anno scorso, con Mirafiori, Melfi e Cassino che chiuderanno con una produzione più che dimezzata.

 

Il 17 dicembre si tenterà di riaprire la partita al ministero delle Imprese e del Made in Italy dove un anno fa è stato avviato il lavoro con sindacati, azienda e filiera, con l’ambizione di creare le condizioni per raggiungere entro il 2028-2030 quota un milione di veicoli prodotti in Italia.

Oggi l’orizzonte industriale sembra radicalmente cambiato e il rischio è che si debba giocare in difesa, provando a introdurre nuovi strumenti per difendere imprese e lavoratori in una fase di crisi dell’automotiva senza precedenti.

I segnali di allarme sono quotidiani e arrivano da tutta Italia.

I lavoratori delle società di logistica Logitech e Tecno Service ed alla De Vizia (pulizie industriali) hanno bloccato ieri i cancelli dello stabilimento di Cassino, 150 di loro rischiano di perdere il posto di lavoro per la scadenza dei contratti di servizio.

Oggi, è l’allarme lanciato dalla Fiom di Napoli, gli operai della “Trans nova” riceveranno le lettere di licenziamento dopo che l’azienda ha perso la commessa con Stellantis che, dal canto suo, si è detta disponibile a riaprire la discussione con la società per supportarla in questa fase.

Il coordinamento sindacale interregionale sull’automotiva di Abruzzo e Molise ha quantificato in circa 30mila i lavoratori coinvolti nella crisi del settore.

 «Abbiamo bisogno di un contratto di sviluppo per le imprese e misure che tutelino i lavoratori nel breve termine, senza perdere di vista lo sviluppo futuro» dice “Tecla Boccardo”, segretaria regionale della Uil Molise.

 

 

Auto, ecco il piano di Urso per

 frenare il Green deal. Ma

in Europa la strada è in salita.

 Editorialedomani.it - Enrico Dalcastagné – (28 settembre 2024) – ci dice:

Il documento presentato a imprese e sindacati prevede di rinviare la scadenza del 2035 per il bando ai motori inquinanti.

Urso: «Inizia una nuova stagione, no alla religione dell’auto elettrica».

Il governo incassa il sì di parte dell’industria, colpita dalle vendite stagnanti, e trova la sponda della Germania.

Il possibile ruolo della commissaria” Ribera”.

Anticipare di un anno, all’inizio del 2025, il riesame del regolamento Ue che fissa per il 2035 l’addio al motore a scoppio.

 È questa la principale proposta del piano del ministro delle “Imprese e del made in Italy”, “Adolfo Urso”, per allentare i vincoli sulle auto a benzina e diesel.

 Il dossier, presentato oggi al tavolo con Confindustria e sindacati, sarà poi illustrato a Bruxelles:

nel meeting sull’automotiva promosso dalla presidenza ungherese del Consiglio Ue e al Consiglio competitività del 26 settembre.

La proposta italiana rappresenta un passo concreto per limitare il Green deal, simbolo della prima” Commissione von der Leyen”.

 O per realizzare una «transizione ecologica industrialmente equa», come ha detto pochi giorni fa la premier “Giorgia Meloni”.

 «Si apre una nuova stagione in Europa. Non si può seguire la follia ideologica e quasi religiosa del “tutto elettrico”.

Dobbiamo abbracciare la “neutralità tecnologica”, usando anche il biocombustibile se utile alla decarbonizzazione», ha aggiunto oggi Urso.

Il regolamento, adottato nel marzo 2023, stabilisce per le nuove auto il taglio del 100 per cento delle emissioni di CO2 entro il 2035, con lo stop alla vendita dei modelli dotati di motori endotermici (fatta eccezione per quelli alimentati con gli e-fuel).

Nel 2026 è però previsto che la Commissione riesamini «l’efficacia e l’impatto delle nuove regole»;

è questa revisione che Urso vorrebbe anticipare già al primo trimestre del prossimo anno.

Chi è a favore.

Il mondo industriale si è mostrato favorevole a un cambiamento nella tabella di marcia prima al “Forum di Cernobbio”, dove” Meloni” ha annunciato il piano, e poi all’assemblea di Confindustria.

 In quell’occasione la premier ha parlato di un «approccio autodistruttivo» nello stop del 2035, incassando il sostegno del presidente Emanuele Orsini.

Il momento pare propizio alla proposta del governo, anche viste le prospettive negative per i big dell’auto tedesca, con i vertici di Volkswagen che hanno minacciato di chiudere due fabbriche in Germania e di tagliare gli organici.

Nelle ultime settimane si sono moltiplicati gli appelli del comparto automobilistico. Giovedì “Acea”, l’associazione dei costruttori europei, ha chiesto un rinvio delle regole su cui però non concordano Bmw e Stellantis, contrarie a una dilazione dei tempi.

 Ma al di là dei distinguo tra produttori, la destra sovranista europea – così come i liberali e la Cdu tedesca – si trova alleata con la lobby dell’auto, in difficoltà per la concorrenza cinese e per la stagnazione delle vendite nell’elettrico.

I dati delle immatricolazioni in Europa, cavalcati anche in modo strumentale dai partiti contrari alla transizione, in effetti sono negativi.

 Ad agosto le vendite hanno registrato un forte calo (-18,3 per cento) e in caduta libera sono i veicoli elettrici, soprattutto in Germania e Francia:

ad agosto le immatricolazioni di nuove auto sono scese del 43,9 per cento rispetto a un anno fa.

È il quarto mese consecutivo con il segno meno, in netto contrasto con gli aumenti del 2023.

Una strada in salita.

Nonostante la congiuntura “positiva”, per il piano di Urso si profila un percorso in salita a Bruxelles, dopo la trattativa che solo un anno fa portò al via libera al regolamento.

 I tempi sono stretti, considerato che la nuova Commissione non si è ancora insediata e che gli stati membri hanno posizioni diverse.

 Se il ministro dell’Economia tedesco, “Robert Habeck”, ha aperto all’ipotesi, l’orientamento della Francia è meno scontato.

 

Per questo Urso sta cercando l’appoggio di altri governi europei. Nei giorni scorsi ha incontrato il ministro del Lavoro austriaco “Kocher “e quello dell’Economia spagnolo “Cuerpo”, oltre al responsabile dell’Industria della Repubblica Ceca.

 E altri faccia a faccia alla ricerca di alleati, ha annunciato alle parti sociali, seguiranno «nelle prossime ore».

Venerdì è invece arrivata la voce del ministro dei Trasporti di Budapest, con l’appello a non mettere in pericolo l’industria con «le politiche climatiche Ue».

Per il momento la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, sembra però mantenere la linea.

 Pur con gli aggiustamenti del secondo mandato, il Green deal resta parte del suo programma (almeno per ora) e il dossier sarà affidato a “Teresa Ribera”, futura commissaria alla Transizione ecologica:

l’ex ministra del governo Sánchez è molto decisa sull’agenda verde e poco propensa a invertire la rotta.

C’è un piano B.

«Urso sa bene che la norma è stata approvata un anno fa e ha un orizzonte lungo. Il suo è più che altro un grido di battaglia di tutta la destra europea», ha scritto su Domani “Andrea Malan”, evidenziando la portata simbolica della proposta italiana.

Per questo, di fronte alle sicure difficoltà a ottenere un rinvio a dopo il 2035, il documento contiene anche un’opzione alternativa, con l’adozione di un fondo comune per compensare i costi per produttori e consumatori.

Nelle intenzioni di Urso dovrebbe essere una sorta di piano Marshall, sia a sostegno dell’offerta che della domanda:

 con risorse comuni per sostenere ricerca e investimenti dei costruttori, la realizzazione di” giga factory” e incentivi per chi sceglie auto elettriche.

Su questo, trovare un’intesa a Bruxelles sarebbe più facile, anche sfruttando l’assist del rapporto di Mario Draghi, che stima in 150 miliardi l’anno le risorse necessarie per i trasporti.

Automotive in crisi? Il Governo Meloni risponde

tagliando l’80% del fondo in legge di Bilancio.

Greenreport.it - Redazione Greenreport – (29 Ottobre 2024) – ci dice:

 

La filiera dell’elettrico condivide lo sconcerto: «Incertezza sulla visione industriale del Paese».

Si tratta di 4,6 miliardi di euro in meno, i sindacati chiedono un incontro a Palazzo Chigi dopo aver portato in piazza 20mila persone

La nuova legge di Bilancio che il Governo Meloni sta approntando continua a stringere i lacci della borsa, riducendo gli investimenti, con buona pace alle feroci critiche sull’austerity gridate ai tempi dell’opposizione.

Ieri è arrivata come un fulmine a ciel sereno la notizia di un taglio per l’80% al Fondo automotive, inaugurato nel 2022 dal Governo Draghi per sostenere il presente della filiera e per contribuire a spianare la strada alla transizione ecologica del settore.

Il Governo ha infatti deciso di sottrarvi risorse per 4,6 miliardi l’anno, tra lo sconcerto della filiera industriale della mobilità elettrica e soprattutto dei sindacati, che il 18 ottobre scorso hanno portato 20mila persone in piazza con uno sciopero generale.

«Questa mobilitazione, anziché trovare ascolto e una risposta positiva – sottolineano adesso le segreterie nazionali di Fim, Fiom e Uilm – è stata seguita da un provvedimento che va nella direzione opposta a quella auspicata, mettendo a rischio il futuro di migliaia di famiglie e la sopravvivenza di una filiera strategica per il Paese.

Come segreterie nazionali di Fim, Fiom e Uilm, chiediamo che i 5,8 miliardi di euro del fondo dell’auto vengano non solo ripristinati, ma anche incrementati, in linea con le necessità attuali e con quanto si dovrà ottenere anche a livello europeo, per sostenere una giusta transizione ecologica e occupazionale.

Per questo, ribadiamo l’urgenza di una convocazione ufficiale da parte della Presidenza del Consiglio».

Grande stupore per la decisione del Governo si registra anche in seno a “Motus-e”, l’associazione di rappresentanza per la filiera della mobilità elettrica italiana, secondo la quale «la decurtazione, che alimenterebbe ulteriormente un clima di incertezza sulla visione industriale del Paese.

 La filiera dell’auto rappresenta un elemento fondamentale dell’economia italiana e stupisce che dopo la meritoria attenzione prestata al settore dall’esecutivo possa arrivare ora una decisione di questo tipo, le cui conseguenze sarebbero gravissime per l’occupazione e per le prospettive dell’industria nazionale, che necessita del pieno supporto delle Istituzioni per poter innovare e affrontare con fiducia le sfide del futuro.

Comprendiamo e condividiamo lo sconcerto manifestato in modo trasversale nella filiera e auspichiamo che si attivino immediatamente tutte le interlocuzioni del caso per fermare questa distrazione di fondi indispensabili per proteggere lavoratori, industria e consumatori, e che anzi si apra un dialogo costruttivo e aperto per mettere a terra quanto più velocemente possibile le risorse per il settore».

Ma l’esecutivo sembra volere tutto tranne un “dialogo costruttivo”.

 L’automotiva è in crisi adesso, ma il Governo Meloni addossa la colpa alla transizione ecologica che imporrà – dal 2035 – lo stop europeo all’immatricolazione di nuove auto e furgoni alimentate a combustibili fossili, chiedendo di rimandare la scadenza;

una richiesta, che è utile sottolineare, non viene condivisa dai sindacati né da buona parte degli industriali europei dell’auto.

Per affrontare il problema servirebbero risorse e soprattutto politiche industriali, ma il Governo sta invece tirando i remi in barca, tagliando anche i fondi rimasti all’ automotive.

 

 

 

 

Perché la crisi del settore automotive

tedesco mette a rischio

la produzione italiana.

Eunews.it - Noemi Morucci – (31 Ottobre 2024) – ci dice:

 

I due storici partner commerciali rischiano di essere inghiottiti nello stesso vortice negativo.

La trasformazione green spaventa il settore, come i rischi della delocalizzazione della produzione.

Bruxelles – Italia e Germania vanno storicamente a braccetto come partner commerciali.

Nel 2023 è stato registrato il secondo valore di interscambio maggiore di sempre, confermando per la Germania la prima posizione negli scambi con l’Italia.

La crisi del settore automotive tedesco intanto però non rallenta, con Volkswagen e il taglio dei rami secchi sia in Germania che in Belgio, la diminuzione della produzione e dell’esportazione, i dazi Ue alla Cina per evitare di restare schiacciati dalle vendite di auto elettriche da Pechino.

 E l’Italia rischia di subire una forte onda d’urto se il settore automotive in Germania entrasse in una spirale discendente.

Nel 2023, secondo i dati della Camera di Commercio Italo-Germanica (AHK Italien), è stata registrata una crescita degli scambi nel settore delle auto, con aumenti per le importazioni e nelle esportazioni.

“I dati dimostrano la strutturalità dei rapporti italo-tedeschi pur nel contesto del rallentamento tedesco”, commenta la Presidente di “AHK Italien”, “Monica Poggio”.

 

La filiera delle auto ha mosso quote per 25,76 miliardi di euro, di cui la quota di esportazioni di componentistica dell’Italia verso la Germania è del 20.5 per cento, secondo i dati di “Anfia” (Associazione nazionale filiera industria automobilistica), con unavalore economico di 5,2 miliardi di euro.

Come importazioni, la Germania è sempre al primo posto come partner italiano (23,6 per cento del totale).

 

“La crisi della domanda di autoveicoli in Europa e in Italia, l’aumento dei costi di produzione e il rallentamento degli investimenti in nuove tecnologie della mobilità stanno creando le premesse per un possibile peggioramento di scenario “, avverte “Marco Stella,” Presidente del Gruppo Componenti Anfia.

 Stella, parlando dei posti di lavoro, ricorda che:

“Nel primo semestre 2024, sono stati annunciati tagli per ulteriori 32.000 posti di lavoro, superando i 29.000 del secondo semestre 2020.

La componentistica è sotto pressione anche in Italia”, ricordando anche le grandi perplessità della filiera riguardo ai tagli del Fondo automotive prospettati dal governo italiano.

Il 2024 si prospetta un anno di arretramento per i vari indicatori economici, a partire dal fatturato, secondo le stime dell’Osservatorio sulla componentistica automotive italiana e sui servizi per la mobilità 2024.

 Chiaramente in Ue, come in Italia, si deve guardare anche agli obiettivi politici, come quello della neutralità climatica.

L’Italia ha reso il ripensamento dello stop ai motori a combustione entro il 2035 una priorità da portare al Consiglio dell’Ue, con reazioni non particolarmente accoglienti, per altro.

Il mercato sta evolvendo e con questo le regole della produzione, per cui anche in Italia ci si sta spostando verso la produzione di componenti dedicati a veicoli elettrici, come anche per i veicoli a guida automatizzata.

Il problema, come anche in Germania, è che il mercato stesso non è pronto a recepire i nuovi prodotti.

Le scelte del gruppo Volkswagen possono segnare un punto impegnativo da cui ripartire, soprattutto considerando l’ottica di delocalizzare la produzione verso paesi extra-Ue.

Perdere una fetta di mercato per l’esportazione di veicoli e componentistica sarebbe un danno consistente per l’Italia.

Anche lo studio di “Ice” (Rapporto Ice – L’Italia nell’economia internazionale 2023-2024) conferma la prospettiva dura per il settore:

“Prospettive deboli si delineano anche per i settori legati ai trasporti, a partire dall’ automotive, caratterizzato da un fisiologico assestamento sui livelli elevati raggiunti dopo la forte crescita del biennio 2022-23”.

Grande attenzione al cambio epocale per il settore con la decarbonizzazione e alle difficoltà del dibattito in Ue, che, per”Ice”, renderà “più incerti i tempi e le modalità con cui la trasformazione green si concretizzerà nel mondo dei trasporti“.

Per Prometeia, siamo “siamo ancora ben lontani dall’obiettivo del 2035”.

E’ chiaro che mancano politiche di incentivo, per cui la Germania stessa non investe sul settore auto elettriche e si registra “un’inversione di tendenza, con una riduzione della quota di auto elettriche vendute sul totale “.

L’Italia è molto lontana dalla media europea per l’elettrico e senza il traino tedesco rischia di avere prospettive ancora meno rosee per i futuri anni.

 

 

 

Visentin: «Automotive, non c’è un piano

 di rilancio generale. E serve

 più attenzione per i fornitori».

Ilnordest.it - Giorgio Barbieri – (03 dicembre 2024) ci dice:

 

L’analisi del presidente di Federmeccanica e amministratore delegato della vicentina “Mevis”:

«Le scelte industriali non possono essere basate solo sul taglio della produzione in Italia»

Federico Visentin, è presidente di Federmeccanica e amministratore delegato di Mevis.

«Le dimissioni di Carlos Tavarez da Stellantis, gli scioperi in Germania in relazione agli annunci da parte di Volkswagen, le difficoltà di una parte importante della metalmeccanica italiana hanno lo stesso denominatore comune:

 il settore dell’auto è in crisi e non c’è la volontà di trovare soluzioni per rilanciarlo».

 È la posizione di” Federico Visentin”, presidente di Federmeccanica e amministratore delegato della vicentina Mevis, la società di Rosà punto di riferimento delle forniture per la automotive globale, un settore sempre più in difficoltà tanto da mettere a rischio anche tutte quelle imprese della componentistica che caratterizzano il tessuto produttivo del Nord Est dove, tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, ha sede il 22% dei componentisti italiani.

Partiamo dalla notizia di domenica, ossia le dimissioni di Carlos Tavarez, amministratore delegato di Stellantis.

«Nel settore era cosa nota che ci sarebbe stato un avvicendamento, ma certamente non con questi tempi e queste modalità.

 L’auspicio è che il sostituto venga individuato rapidamente e che in futuro riveda anche le politiche adottate nei confronti dei fornitori.

 È evidente che il settore dell’auto è in difficoltà ma non si può far fronte a questo problema solo premendo sull’abbassamento dei costi con scelte industriali che mirano a un taglio della produzione in Italia a favore di altri Paesi».

Anche dalla Germania arrivano segnali negativi con i sindacati che annunciano scioperi ad oltranza contro gli annunci da parte di Volkswagen.

 

«La situazione tedesca credo sia figlia di un altro problema, di cui si parla meno ma che dovrebbe essere in cima all’agenda della Commissione europea, ossia le nuove sanzioni previste dal prossimo primo gennaio quando entreranno in vigore i target aggiornati più stringenti sulle emissioni di Co2.

Per le case automobilistiche sarà certamente più conveniente produrre meno auto con tutte le conseguenze che ne deriveranno sull’occupazione».

A proposito di Commissione europea, ritiene che debba rivedere le sue politiche per quanto riguarda il Green Deal?

«La decisione di puntare sull’auto elettrica è stata presa con poca lungimiranza dalla Unione europea, senza tener conto delle conseguenze.

 Il Green deal va rivisto alla luce della sua fattibilità.

 Si stima un maggiore utilizzo di energia elettrica, che dovrebbe essere green, ma l’Europa è in grado di far fronte a questo fabbisogno?

Mi ha però colpito il no di Germania, Francia e Spagna alla proposta italiana di ritardare lo stop al motore termico.

Questo significa che è ancora un argomento molto divisivo dal punto di vista politico».

Il rapporto sulla competitività europea presentato da Mario Draghi indica che buona parte degli investimenti aggiuntivi (800 miliardi circa l’anno per cinque anni) dovranno essere utilizzati per la riallocazione di capitale e lavoro per la transizione verde.

È d’accordo?

«Il merito di quel rapporto è che mette nero su bianco la necessità di un investimento molto importante sui cui non posso che essere d’accordo. Tuttavia porta alla luce anche un rammarico».

Quale?

«Proprio Mario Draghi, quando era presidente del Consiglio, aveva istituito un fondo per l’Automotive che stanziava 8,7 miliardi di euro fino al 2030.

 Il governo ha però recentemente deciso un taglio drastico di 4,6 miliardi di euro.

Capisco che la coperta sia molto corta e che sia stato positivo rendere strutturale il cuneo fiscale, ma decisioni come queste impediscono alle aziende di tutto il settore di avere una progettualità a lungo termine».

 

 

 

 

Urso al lavoro per frenare regole

green deal su automotive.

Scenarieconomici.it - Vincenzo Caccioppoli – (29 Novembre 2024) – ci dice:

 

Quella di convincere la Ue a ritardare il divieto sulla vendita di motori endotermici in Europa, entro il 2035, sta diventando una sorta di battaglia campale per il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso.

 Il ministro mira chiaramente a difendere un settore in grande crisi, come quello dell’automotivo europeo, che non può assolutamente far fronte agli enormi investimenti richiesti per arrivare ad una produzione totalmente elettrica in tempi così rapidi.

 L’obiettivo, in linea con le priorità politiche della nuova Commissione von der Leyen approvata ieri dall’Euro camera a Strasburgo, è quello di rilanciare la competitività dell’Ue coniugando la sostenibilità ambientale con quella industriale, nel solco del nuovo “Patto verde industriale” annunciato dalla presidente dell’esecutivo comunitario.

Al Consiglio Competitività (Compet) di ieri, il titolare del “Mimit” ha presentato ai Ventisette un documento informale redatto insieme all’ omologo ceco, in cui si chiede tra le altre cose di anticipare l’attivazione della clausola di revisione del regolamento europeo sulle emissioni di CO2 dei veicoli leggeri, attualmente prevista per il 2026, al primo semestre del 2025.

Questo dovrebbe permettere alle imprese di adeguarsi più efficacemente alle nuove norme europee per evitare sanzioni salate (nell’ordine dei 15-17 miliardi di euro già nel 2025, secondo le stime di Urso) e per ridare slancio alla produzione industriale nel Vecchio continente, condizione essenziale per riguadagnare la competitività perduta sul mercato globale.

Il non-paper era stato anticipato ampiamente negli ultimi mesi e finora è stato sottoscritto anche da Austria, Bulgaria, Malta, Polonia, Romania e Slovacchia.

“Siamo particolarmente soddisfatti dell’ampia convergenza di posizioni espressa. Una proposta che, di fatto, si colloca oggi al centro dell’agenda della Commissione Europea.

 Come sottolineato oggi dalla vicepresidente “Margrethe Vestager”, la presidente Ursula von der Leyen ha confermato il suo impegno diretto su questo dossier. Questo rafforza l’importanza strategica del tema, cruciale per l’industria e l’occupazione in Europa, e ci rassicura sul fatto che sarà una delle priorità chiave nei primi 100 giorni della nuova Commissione.

Ha detto ai giornalisti il ministro.

 Il documento avrebbe già ricevuto la informale adesione di altri sette paesi: Estonia, Cipro, Croazia. Slovenia, Belgio, Lituania e Grecia.

Contrari invece rimangono Svezia, Danimarca, Spagna e Irlanda. Mentre propensi a rivedere la scadenza e a trovare soluzioni alternativi, sembrerebbero essere anche Germania e Francia.

Anzitutto, i Paesi firmatari mirano a riesaminare le modalità tramite cui andrà tradotto in realtà lo stop ai motori a combustione interna che scatterà nel 2035:

obiettivi e scadenze non sono messi in discussione, fanno sapere dal “Mimit”, ma per rispettarli è necessaria una revisione tempestiva del regolamento che, secondo Urso, non può aspettare il 2026 come inizialmente previsto per i veicoli leggeri e il 2027 per quelli pesanti.

Si tratta, secondo Urso, di “coniugare la sostenibilità industriale e sociale con la sostenibilità ambientale” e di introdurre “risorse significative a sostegno delle imprese” e delle famiglie europee attraverso un “Piano Automotive” promosso da Bruxelles.

 Quella della competitività è “la sfida delle sfide per l’Europa” secondo il responsabile del Mimit:

“Il ritardo con gli altri continenti si accumula ogni giorno di più e dobbiamo decidere con realismo”, ha detto, e soprattutto bisogna decidere in fretta.

L’obiettivo finale è quello dell’autonomia strategica dell’Ue nel campo delle tecnologie green, a partire dall’approvvigionamento delle materie prime critiche per la produzione delle batterie elettriche e dal consolidamento della filiera industriale del Vecchio continente.

 E per arrivare a ciò, secondo Urso e il governo italiano sarebbe necessario rivedere il percorso che arriverà allo stop alle endotermiche, rinviando l’introduzione nel 2025 di nuove e più stringenti regole sulle emissioni per le case automobilistiche e potenzialmente anche modificare la data del 2035. I

l tutto nel segno della neutralità tecnologia, provando a spingere sul ruolo dei biocarburanti.

Per il ministro, l’Europa sta correndo il rischio di passare dalla “subordinazione drammatica” ai combustibili fossili russi ad “una peggiore subordinazione tecnologica ad altri attori statuali” come la Cina (che detiene il monopolio globale della lavorazione delle materie prime critiche indispensabili alla transizione energetica).

L’idea, sposata da Urso, è quella di portare allo stesso tavolo produttori e legislatori “per trovare insieme delle soluzioni” in un momento in cui “l’industria attraversa una transizione profonda e dirompente”.

La situazione negli Stati membri è preoccupante, ha sostenuto, “con l’annuncio ogni giorno di progetti che vengono sospesi o annullati sul percorso dell’elettrico”, con l’annullamento dei piani di costruzione delle “gigafactory” e con gli annunci di chiusure degli stabilimenti e di licenziamenti degli operai che si stanno moltiplicando negli ultimi mesi.

 

 

 

Le richieste di arresto di Bill Gates

si moltiplicano dopo che l'eugenetico

 miliardario ha definito l'India un

"terreno di prova" per i suoi "esperimenti" chimici.

 Naturalnews.com- (05 – 12 – 2024) - Ethan Huff – ci dice:                                                  ,

Il mondo si sta svegliando con la brutta verità sul miliardario eugenista Bill Gates, famoso per Microsoft.

In una recente intervista Gates ha ammesso casualmente che sta facendo esperimenti sui poveri nell'India in via di sviluppo, un paese che ha descritto come "una specie di laboratorio per provare le cose".

"Poi, quando li provi in India, puoi portarli in altri posti", ha detto Gates a proposito di come i suoi esperimenti chimici in India gli permettano di esportare quelle sostanze chimiche per venderle in altri paesi.

 

"E così, il nostro più grande mercato non statunitense ossia l'ufficio della Fondazione Gates si trova in India e la maggior parte delle attività pilota che stiamo facendo in tutto il mondo sono con partner in India".

(Circolano voci secondo cui i giorni in cui Bill Gates avrebbe avuto potere su qualsiasi cosa "sono contati").

Il mondo chiede che Bill Gates sia perseguito.

Gates ha sempre avuto problemi a leggere la stampa, ma queste ultime dichiarazioni insensibili in riferimento agli esseri umani che sta usando come cavie umane stanno suscitando un'indignazione così diffusa che rabbrividire in questo caso, è davvero fuori scala.

 

"Arrestate Bill Gates per crimini contro l'umanità", ha twittato Liz Churchill (@liz_churchill10).

Anche il gigante farmaceutico e dei vaccini Pfizer è molto attivo in India, dove le regole e i regolamenti sono molto più facili da piegare.

 La Pfizer testa farmaci sperimentali mortali sul popolo indiano prima di procedere alla vendita commerciale di quegli stessi farmaci a persone in tutto l'Occidente.

"Se i vostri governi non fossero stati sotto l'influenza dei giovani leader globali del “World Economic Forum”, non si sarebbero mai opposti alle agenzie governative che conducevano i propri studi clinici per i nuovi farmaci che entravano nel paese", ha twittato "OurVoicesMatter" (@OV_Matter).

"Basta guardare cosa è successo con Pfizer quando l'India ha proposto di condurre i propri processi".

Un'altra persona su X/Twitter non ha potuto fare a meno di notare con quanta disinvoltura e apertura Gates parli della sua agenda eugenetica.

"Trattare un intero paese come un banco di prova dimostra una completa mancanza di rispetto per il suo popolo", ha detto questa persona nel modo più gentile possibile su chi sia veramente Gates.

 

"Seriamente, perché lasciano che questo pazzo faccia queste cose?" ha chiesto un altro a proposito di Gates.

 "Non è un medico! È uno psicopatico egomaniaco che per qualche motivo alcuni clown ascoltano".

Non è solo l'avidità a guidare Gates, ma anche la morte di massa, ha suggerito un altro sulla natura psicopatica di Gates, che è evidente ogni volta che apre la sua bocca farinosa per iniziare a dispensare i suoi pensieri reprobi.

 

"Sta dicendo che ci sono così tanti indiani che non importa, o che le loro vite valgono meno?", ha scritto un altro. "Se lo è, questo è vero razzismo, in contrasto con il fanatismo che è normalmente etichettato come razzismo dai media, ecc."

Un altro è intervenuto dicendo che questo è normale in India, che viene devastata e violentata dalle multinazionali e dal governo occidentale a scopo di lucro.

"Anche se negli ultimi anni sono stati fatti grandi passi avanti sul fronte delle infrastrutture e dell'economia, e soprattutto sul fronte spaziale e tecnologico, e nonostante le pubbliche relazioni convenzionali, l'India è diventata un libero per tutti per i teppisti e libero per tutti “gunda Ra”j a causa della perdita di qualsiasi senso di visione a lungo termine basata sui fondamentali, perdita di identità, perdita di sovranità, con troppi nemici nostrani (ritratti come guerrieri della giustizia sociale che combattono per la democrazia) amplificati da influenze esterne che stanno lavorando duramente per balcanizzare e distruggere la civiltà a pezzi", ha twittato "Shashi Kusuma" (@ShashiKusuma).

"Questo è l'ennesimo esempio di tale dissolutezza".

Bill Gates è un assassino di massa, anche se continua a vagare libero come "filantropo".

(Scopri di più su Evil.news.)

 

 

 

 

GLOBAL FREEZING e la truffa del secolo

"carbon footprint", con il famoso attore

Billy Bob Thornton che denuncia tutto.

Naturalnews.com - (05/12 /2024) - S.D. Wells – ci dice:

 

Le spiagge di tutto il mondo non si stanno restringendo, come Al Gore ha giurato di fare più di 20 anni fa.

La terra non sta diventando più calda di anno in anno, come i grafici falsificati della NASA mostrati per illuminare l'allarmismo climatico, poiché quei grafici hanno evidenziato solo alcune tendenze calde qua e là nel secolo scorso, ignorando che siamo in realtà in una fase di raffreddamento globale molto lenta.

Sì, gli orsi polari se la passano bene, non preoccupatevi nemmeno di quelli.

Certo, è importante essere consapevoli di quanto tu stesso stai inquinando l'ambiente, ma abbiamo bisogno di benzina e gasolio per mantenere in funzione la razza umana.

 Ecco perché è così bello sentire finalmente un attore famoso denunciare la bufala del cambiamento climatico e dell'"energia verde".

 

Il famoso attore Billy Bob Thornton decima assolutamente l'intera truffa del Green New Deal per far sì che tutti gli allarmisti climatici possano assorbirli in un breve video clip dal suo nuovo spettacolo.

Questa scena sta diventando virale gente.

Il racket dell'energia verde è finito, soprattutto con la nuova amministrazione Trump in procinto di assumere il governo degli Stati Uniti e inaugurare uno sviluppo energetico realistico e di buon senso.

 Il nuovo spettacolo di Billy Bob Thornton "Landman" ha appena iniziato ad andare in onda gli episodi, e decine di milioni di spettatori si stanno sintonizzando per vedere più verità su un'economia sostenibile basata sullo stesso carburante che abbiamo usato e che ha reso grande l'America in primo luogo.

Thornton si scaglia contro le turbine eoliche, chiedendo al suo pubblico quanto gasolio pensa debba bruciare per mescolare così tanto cemento?

La produzione di ogni turbina eolica si basa fortemente sull'industria petrolchimica, quindi l'intero concetto è un racket.

Aggiunge alla questione chiedendo quale carburante viene utilizzato per produrre l'acciaio e trasportarlo in tutto il paese, e quali potenze aveva bisogno la gru di 450 piedi per sollevare tutte le parti.

Che ne dici della quantità di olio necessaria per lubrificare quella mostruosità o per svernare?

Thornton sottolinea che ha solo una durata di vita di circa vent'anni, che non è nemmeno abbastanza lunga per compensare l'impronta di carbonio della sua produzione.

Ogni millennial allarmista del clima ha bisogno di guardare il suo spettacolo e imparare.

Thornton si scaglia anche contro i pannelli solari e il litio nelle batterie Tesla.

Poi si scaglia contro il fatto che tutte le grandi città non potrebbero funzionare secondo la truffa dell'energia verde perché non avremmo tutte le linee di trasmissione per portare l'elettricità alle città metropolitane, dove vivono tutti i democratici e i liberali che gridano ogni giorno al blues sul cambiamento climatico.

Questo è lo smantellamento più rapido della bufala climatica di sempre, e il fatto che provenga da un ricco attore di Hollywood lo rende super ironico.

Si limita a inveire su quanto metallo e plastica, fatti con combustibili "fossili", ci siano nei prodotti tipici che usiamo ogni giorno, dicendo:

"E, diavolo, è in tutto... quella strada da cui siamo arrivati.

Le ruote di ogni auto mai realizzata, compresa la tua.

 Si trova nelle racchette da tennis, nei rossetti, nei frigoriferi e negli antistaminici. Praticamente qualsiasi cosa di plastica.

La custodia del cellulare, le valvole cardiache artificiali.

 Qualsiasi tipo di abbigliamento che non sia realizzato con fibre animali o vegetali. Sapone, lozione per le mani, sacchi della spazzatura, barche da pesca.

 Lo chiami. Ogni cosa".

Tutti i membri del folle culto del clima sono furiosi perché Billy Bob Thornton sta denunciando la loro bufala.

Stanno tutti urlando "disinformazione!"

 Nel caso qualcuno non lo sapesse, le temperature superficiali in tutta la Groenlandia si stanno raffreddando e lo sono state per due decenni, secondo la scienza e la matematica dedotte dalle registrazioni satellitari in tutta la regione.

I media mainstream e la comunità "la scienza è stabilita" non vogliono sentirlo dire, leggerlo o pubblicarlo da nessuna parte.

Questo non li renderà un centesimo nel loro schema Ponzi in corso.

(Climate.news  pubblicherà  aggiornamenti sulla falsa crisi climatica e sulla fine del culto del riscaldamento globale quando Trump entrerà in carica) .

 

 

 

 

Esattamente come avevamo avvertito,

 la Cina ha appena vietato le esportazioni

di minerali critici in risposta alla minaccia

di Trump di tariffe punitive contro le nazioni BRICS.

 Naturalnews.com – (04/12/2024) - Mike Adams – ci dice:

 

Esattamente come avevo avvertito che sarebbe accaduto nei recenti podcast, la Cina ha annunciato un divieto immediato sulle esportazioni verso gli Stati Uniti di minerali critici tra cui gallio, germanio e antimonio.

La decisione arriva in diretta rappresaglia alla minaccia del presidente Trump di imporre una tariffa del 100% su qualsiasi nazione che aderisca al sistema di regolamento finanziario BRICS.

 

Questa mossa di Pechino è vista come l'ultimo capitolo di una guerra commerciale in corso che non mostra segni di cedimento.

Il Ministero del Commercio cinese ha citato preoccupazioni per la sicurezza nazionale, tagliando di fatto le forniture di questi materiali essenziali alle industrie statunitensi, compresi i settori aerospaziale e della difesa.

Ciò avrà impatti paralizzanti che influenzeranno la prontezza militare e la difesa nazionale degli Stati Uniti.

Questo articolo è arricchito con i nostri nuovi strumenti di intelligenza artificiale interni noti come "Enoch", che sono il risultato di oltre un anno di addestramento di modelli di intelligenza artificiale per comprendere il mondo da una prospettiva veritiera, onesta e pro-libertà.

Una versione open source di “Enoch “sarà resa disponibile al pubblico gratuitamente nel primo trimestre del 2025, tramite “Brighteon.AI”.

Il gallio e il germanio sono fondamentali per la produzione di semiconduttori, cavi in fibra ottica, celle solari e tecnologia a infrarossi. L'antimonio ha un ampio uso nelle munizioni, nelle armi nucleari, negli occhiali per la visione notturna e nelle batterie.

Con la Cina che rappresentava il 59,2% della produzione di germanio raffinato e uno sbalorditivo 98,8% della produzione di gallio raffinato lo scorso anno, l'impatto sulle catene di approvvigionamento globali si sta già facendo sentire.

"La Cina sta segnalando da tempo che è disposta a prendere queste misure, quindi quando gli Stati Uniti impareranno la lezione?" avverte Todd Malan di Talon Metals, sottolineando come tali restrizioni potrebbero rendere vulnerabili le industrie americane.

Gli effetti a catena sono già evidenti nei mercati globali.

 I prezzi del triossido di antimonio sono aumentati del 228% dall'inizio di quest'anno, raggiungendo l'incredibile cifra di 39.000 dollari per tonnellata.

Gli esperti prevedono che tali drastici aumenti dei prezzi porteranno inevitabilmente a tassi di inflazione ancora più elevati negli Stati Uniti, un paese già alle prese con l'incertezza economica.

L'escalation della retorica e le politiche aggressive del presidente Trump non stanno danneggiando solo le imprese americane, ma anche i consumatori che rischiano di soffrire per l'aumento dei prezzi in vari settori.

 "Dobbiamo prendere sul serio le fonti minerarie americane", ha detto Jon Cherry, amministratore delegato di “Perpetua Resources”, che sta sviluppando una miniera di antimonio nazionale in Idaho.

"È tempo di porre fine alla nostra dipendenza dalla Cina e garantire il nostro futuro".

L'industria aerospaziale potrebbe essere particolarmente colpita.

I semiconduttori all'arseniuro di gallio sono componenti vitali nei sistemi radar utilizzati dagli aerei militari.

Con la Cina che taglia le forniture, non si tratta solo di prezzi più alti;

C'è un rischio reale di carenze che potrebbero avere un impatto sulle capacità di difesa nazionale.

"La mossa è una notevole escalation delle tensioni nelle catene di approvvigionamento, dove l'accesso alle unità di materie prime è già limitato in Occidente", sostiene (Jack Bedder” della società di consulenza “Project Blue”.

Il governo degli Stati Uniti ha promesso di rispondere, ma il percorso da seguire rimane poco chiaro.

 La dichiarazione del portavoce della Casa Bianca secondo cui avrebbero preso "le misure necessarie" è stata vaga nella migliore delle ipotesi.

 I leader del settore avvertono che tali risposte potrebbero aumentare ulteriormente le tensioni.

I prossimi mesi saranno cruciali per entrambe le economie, con il potenziale di un'instabilità ancora maggiore se non prevarrà il sangue freddo.

Mentre i consumatori americani si preparano a prezzi più alti e a possibili carenze di beni, c'è una crescente consapevolezza che le guerre commerciali non hanno davvero vincitori.

È tempo che i leader di entrambe le parti facciano un passo indietro dall'orlo del baratro e cerchino soluzioni più collaborative.

La stabilità futura delle catene di approvvigionamento globali e, per estensione, la prosperità economica sono in bilico.

Forse Trump dovrebbe concentrarsi sulla ricerca di modi per aiutare l'America a competere nel commercio globale piuttosto che cercare di costringere tutti gli altri a usare il dollaro USA, una valuta che viene inesorabilmente contraffatta (stampata) e manipolata dall'impero statunitense.

 

 

 

L’attacco shock di Erdogan

a Idlib ricorda quello di Kursk.

Comedonchisciotte.org – Markus – (7 Dicembre 2024) - Alastair Crooke - strategic-culture.su – ci dice:

 

Cercare un accordo sull'Ucraina significa trattare

il sintomo e ignorare la cura.

I russi di solito usano il termine “catastrofista” per caratterizzare quei commentatori che vedono solo il “lato oscuro degli eventi” (un vizio piuttosto diffuso durante l’era sovietica).

“Marat Khairullin”, uno stimato analista militare russo, afferma:

“Oggi, una rete di blogger di guerra mercenari ha iniziato un altro giro di lamentazioni – questa volta sulla Siria, dove, apparentemente, tutto è perduto per la Russia “.

“Molti vedono gli eventi in Siria (e alcuni ci aggiungono anche la Georgia) come tentativi di aprire altri fronti contro il nostro Paese.

 Forse è vero.

Ma in questo caso è più appropriato fare un parallelo diretto con lo sconsiderato attacco a Kursk, che ha lasciato le forze armate ucraine in una posizione quasi senza speranza “.

 

“Khairullin” considera l’insurrezione jihadista in Siria come un atto altrettanto “disperato”.

 Il contesto è che la coalizione” Siria-Russia-Iran” – attraverso i negoziati di Astana – “aveva rinchiuso ciò che restava dei terroristi siriani in un’enclave di 6.000 kmq.

Senza entrare nei dettagli, si era trattato di un processo che ricorda gli accordi [ucraini] di Minsk:

entrambe le parti erano completamente esauste e avevano quindi accettato un cessate il fuoco.

È importante notare che tutte le parti avevano capito che si trattava solo di una tregua temporanea;

le contraddizioni erano così profonde che nessuno si aspettava la fine del conflitto “.

Aleppo è caduta rapidamente nei giorni scorsi, poiché “una divisione dell’Esercito nazionale siriano ha disertato completamente a favore degli islamisti (leggi: americani) “.

La defezione era una messinscena.

Il nord di Aleppo è stato occupato dall’Esercito nazionale siriano, interamente controllato, armato e finanziato dalla Turchia, che domina la zona a nord di Aleppo.

 

La chiave, dice Khairullin, è questo punto cruciale:

 il territorio è piatto ed è attraversato da poche strade:

“… chi controlla lo spazio aereo controlla il Paese. L’anno scorso, la Russia aveva formato una nuova unità aerea chiamata ” Corpo Aereo Speciale”, secondo quanto riferito, creata su misura per le operazioni all’estero.

 Si compone di quattro reggimenti di aviazione, tra cui un reggimento di Su-35. Attualmente, ci sono solo due Su-35 a pattugliare l’intero territorio siriano. Immaginate l’impatto che avrebbe un dispiegamento di 24 velivoli di questo tipo.

 E la Russia è pienamente in grado di farlo “.

Il secondo punto cruciale è che “l’Iran e la Russia si sono avvicinati.

All’inizio della guerra siriana, le relazioni tra i due erano decisamente ‘neutrali-ostili’.

Alla fine del 2024, tuttavia, vediamo un’alleanza molto forte.

Israele e gli Stati Uniti, violando gli accordi di pace attraverso l’insurrezione turca, hanno provocato una nuova presenza iraniana in Siria:

l’Iran ha iniziato ad espandersi oltre le sue basi, dislocando ulteriori forze nel Paese.

Questo dà ad Assad e ai suoi alleati un pretesto diretto per espellere i proxy americani e turchi da Aleppo e Idlib.

 Non si tratta di speculazione, ma di semplice aritmetica “.

La Siria, tuttavia, è una componente chiave del piano israelo-americano di rifacimento del Medio Oriente.

La Siria è sia la via di rifornimento di Hezbollah, sia un centro di resistenza al “Progetto Grande Israele” di Israele.

Ora che lo Stato di sicurezza permanente “anglo” appoggia senza riserve l’ambizione di Israele di affermare l’egemonia regionale l’Occidente ha approvato l’insurrezione jihadista di Erdogan contro il presidente Assad.

L’obiettivo è separare l’Iran dai suoi alleati, indebolire Assad e preparare il presunto rovesciamento dell’Iran.

Secondo quanto riferito, l’iniziativa turca è stata anticipata in fretta e furia per adattarla al piano di cessate il fuoco di Israele.

Il punto di “Khairullin” è che questo “stratagemma” siriano è simile allo “sconsiderato attacco a Kursk” dell’Ucraina, che ha distolto le forze d’élite ucraine da una linea di contatto già sotto assedio per poi abbandonarle in una posizione quasi senza speranza a Kursk.

 Invece di indebolire Mosca (come previsto), “Kursk” ha rovesciato l’obiettivo originario della NATO, diventando l’occasione che ha permesso di eliminare una parte importante delle forze d’élite ucraine.

A” Idlib”, gli Islamisti (HTS), scrive Khairullin, “hanno preso il controllo, imponendo un rigido regime wahhabita e infiltrandosi nell’Esercito nazionale siriano sostenuto dalla Turchia.

Entrambi i gruppi sono organizzazioni frammentate, con varie fazioni in lotta per il denaro, i passaggi di frontiera, la droga e il contrabbando.

 In sostanza, si tratta di un calderone, non molto efficace in termini di combattimento, ma assai avido “.

“Le nostre forze aerospaziali hanno distrutto tutti i centri di comando (bunker) di Tahrir al-Sham… ed è molto probabile che l’intera leadership del gruppo sia stata decapitata“, osserva “Khairullin”.

 

Le forze principali dell’esercito siriano stanno avanzando verso Aleppo;

nel frattempo, l’aviazione russa sta bombardando senza sosta;

la sua Marina ha tenuto una imponente esercitazione al largo della costa siriana il 3 dicembre con lanci di prova di missili da crociera ipersonici e Kalibr, inoltre, elementi del Gruppo Wagner e le truppe irachene di Hash’ad (le forze della mobilitazione popolare irachena che ora fanno parte dell’esercito iracheno) si stanno raggruppando sul terreno a sostegno dell’esercito siriano.

I capi dei servizi segreti israeliani hanno iniziato a percepire problemi con questa “iniziativa intelligente” che si incastra esattamente con la pausa di Israele nei combattimenti in Libano; avendo tagliato le vie di rifornimento dalla Siria, Israele sarebbe, in teoria, in grado di iniziare la “seconda parte” del suo tentativo di attacco a Hezbollah.

Ma aspettate… Il Canale 12 israeliano riporta la possibilità che gli eventi in Siria stiano creando minacce contro Israele “che obbligherebbero Israele ad agire”.

L’ombra di “Kursk” – invece di indebolire Hezbollah, Israele aumenta i suoi impegni militari?

 Anche Erdogan potrebbe essersi sbagliato con questa scommessa.

Ha fatto infuriare Mosca e Teheran e, in patria, è stato criticato per essersi schierato con gli Stati Uniti e l’America contro i palestinesi.

 Inoltre, non ha ottenuto alcun sostegno arabo (a parte una studiata ambivalenza del Qatar).

Certo, Erdogan ha delle carte da giocare nel rapporto con Putin (il controllo dell’accesso navale al Mar Nero, il turismo e l’energia), ma la Russia è una grande potenza in ascesa e può permettersi di giocare duro nei negoziati con un Erdogan indebolito.

Anche l’Iran ha delle carte da giocare:

“Tu, Erdogan, hai equipaggiato gli Jihadisti con i droni ucraini; noi possiamo fare la stessa cosa con il Partito dei Lavoratori Curdi “.

 

Sullo sfondo c’è il linguaggio bellicoso che emerge dal “Team Trump, dove alcuni dei componenti hanno assunto posizioni decisamente aggressive e dure.

Questi personaggi della squadra di Trump, guerrafondai filo-israeliani, fanno probabilmente gli spacconi più per proiettare un’immagine di forza trumpiana all’opinione pubblica americana che per realizzare un progetto concreto.

Trump, si sa, prima agita un grosso bastone e, dopo che ha suonato quella melodia per un po’, entra dalla porta posteriore per cercare un accordo.

Così abbiamo sentito (da Trump): “Se gli ostaggi non saranno rilasciati prima del 20 gennaio 2025, data in cui assumerò con orgoglio la carica di Presidente degli Stati Uniti, in Medio Oriente LA PAGHERANNO CARA“.

In ‘Medio Oriente’? A chi è rivolto esattamente questo messaggio? E cosa suggerisce? (Nessun accenno alle migliaia di prigionieri palestinesi detenuti da Israele)?

 Sembra piuttosto che Trump si sia bevuto la propaganda israeliana:

“Tutti i problemi derivano dall’Iran”;

 Israele è l’innocente alla deriva in un mare di malignità regionale.

I discepoli di Trump credono che Trump imporrà la sua volontà di raggiungere la “tranquillità” in Medio Oriente – e costringerà Putin a porre fine alla guerra in Ucraina.

 Sono convinti che Trump potrà “fare un accordo” sotto forma di un’offerta che Putin non potrà rifiutare.

(Infatti, “gli attuali ‘padroni del mondo’ non permetteranno mai a Cina/Russia di guidare la danza, dar vita ai BRICS e assumere la posizione di egemone mondiale”).

È un ritorno alla vecchia formula di Zbig Brzezenski:

promettere a Putin la normalizzazione con gli Stati Uniti (e l’Europa), il completo alleggerimento delle sanzioni e riportare la Russia nella sfera occidentale – separata da una Cina e un Iran assediati (con i BRICS dispersi al vento sotto la minaccia delle sanzioni).

Tuttavia, una cosa del genere non tiene conto di quanto il mondo sia cambiato negli anni successivi al “Trump One”.

Gli sforzi non hanno più l’effetto di una volta: L’America non è più quella di una volta, né viene obbedita come una volta.

Trump comprende questa accelerazione della metamorfosi globale (come dice Will Schryver), cioè che “l’unico accordo da fare con la Russia è quello di accettare i termini dettati dalla Russia“:

Questo è ciò che accade nel mondo reale quando si vince una grande guerra.

E, non fraintendetemi, in questa guerra gli ucraini sono stati massacrati, gli Stati Uniti/NATO sono stati umiliati e i russi ne stanno uscendo sulla scena mondiale indiscutibilmente trionfanti e più potenti di quanto non lo fossero al culmine del periodo sovietico, decenni fa “.

In altre parole, “bastone grosso, accordo rapido” potrebbe non essere la risposta al nuovo mondo di oggi.

Putin, rispondendo alla domanda di un giornalista ad Astana, il 29 novembre, ha ripetuto un avvertimento già dato in precedenza:

“Permettetemi di sottolineare il punto chiave: l’essenza della nostra proposta [sull’Ucraina, presentata al Ministero degli Esteri russo] non è una tregua temporanea o un cessate il fuoco, come preferirebbe l’Occidente – per permettere al regime di Kiev di riprendersi, riarmarsi e prepararsi per una nuova offensiva. Ripeto: non stiamo discutendo di congelare il conflitto, ma della sua risoluzione definitiva “.

Quello che Putin sta dicendo – molto educatamente – all’Occidente è che:

Voi continuate a “non capire”.

 Cercare un accordo sull’Ucraina significa trattare il sintomo e ignorare la cura.

 In altre parole, l’Occidente ha visto la sua politica completamente ribaltata.

 Putin è chiaro:

una soluzione definitiva sarebbe quella di delineare la frontiera tra gli “interessi” di sicurezza atlantisti e gli interessi di sicurezza dell'”isola del mondo” (secondo la terminologia di Mackinder), definire cioè l’architettura di sicurezza tra l'”Heartland e il Rim-land”.

Una volta fatto questo, l’Ucraina si colloca naturalmente al suo posto.

 È alla fine dell’agenda, non al primo posto.

Uno stimato saggio di politica estera, il professor “Sergei Karaganov”, lo spiega (l’originale è solo in russo):

“Il nostro obiettivo [russo] è quello di facilitare, nel modo più pacifico possibile, l’incipiente ritiro degli Stati Uniti dalla posizione di egemone globale (che non può più permettersi) a quella di una normale grande potenza.

Ed espellere l’Europa dalla posizione di attore internazionale.

 Lasciarla cuocere nel proprio brodo… La conclusione è ovvia.

Dobbiamo porre fine all’attuale fase di conflitto militare diretto con l’Occidente, ma non al confronto più ampio con esso.

 Trump si offrirà di allentare la pressione sulla Russia (cosa che non può garantire) in cambio dell’astensione della Russia da una stretta alleanza con la Cina. L’amministrazione Trump proporrà un accordo, alternando minacce a promesse… ma gli Stati Uniti sanno già che non possono vincere.

 Nel prossimo futuro l’America rimarrà un partner inaffidabile.

Non ci si deve aspettare una normalizzazione fondamentale delle nostre relazioni con gli Stati Uniti nel prossimo decennio.

Trump ha le mani legate dalla russofobia alimentata per anni dai liberali.

L’inerzia della Guerra Fredda è ancora piuttosto forte, così come i sentimenti anti-russi tra la maggior parte dei seguaci di Trump “.

 

L’obiettivo principale dell’attuale guerra in Ucraina dovrebbe essere la sconfitta definitiva del crescente revanscismo europeo.

 Questa è una guerra per scongiurare la Terza Guerra Mondiale e per impedire il ripristino del giogo occidentale.

La posizione negoziale iniziale è ovvia, è stata dichiarata e non dovrebbe essere cambiata:

 il ritorno della NATO ai confini del 1997.

Oltre a ciò, sono possibili varie opzioni.

Naturalmente, Trump cercherà di alzare la posta. Quindi, dovremmo agire preventivamente “, consiglia il professor “Karaganov”.

Ricordiamo anche che Trump è, in fondo, un discepolo giurato del culto del primato americano, della grandezza americana.

“I russi detteranno i termini della resa in questa guerra [in Ucraina] perché la loro forza consente loro questo privilegio, e non c’è nulla che gli Stati Uniti e i loro impotenti vassalli europei possono fare per alterare questa realtà.

Detto questo, una sconfitta strategica decisiva sarà un boccone molto amaro da ingoiare per questa seconda amministrazione Trump.

Speriamo che non scelgano di dare fuoco al mondo in un impeto di umiliata follia.

(Alastair Crooke).

(strategic-culture.su).

(strategic-culture.su/news/2024/12/06/erdogan-idlib-shock-shadows-kursk/).

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