Silenzio sulla verità.

 

Silenzio sulla verità.

 

 

 

Israele Chiede la Censura sui Social:

Meta e TikTok Obbediscono

Sotto il Silenzio Generale.

Conoscenzealconfine.it – (2 Dicembre 2024) - Giuseppe Salamone – ci dice:

 

Lo evidenzia un rapporto dell’ONU: la “Grande Democrazia” silenzia la verità, usa censura, violenza e leggi draconiane per soffocare le voci pro-Palestina trasformandosi in uno Stato paria.

 

Il rapporto delle Nazioni Unite (A/79/363) evidenzia con forza come la censura sistematica e la repressione di contenuti pro-Palestina da parte di Israele rappresentino una grave violazione della libertà di espressione, dei diritti umani e del diritto all’informazione.

Questi atti non sono incidenti isolati, ma parte di una strategia deliberata volta a silenziare le narrazioni critiche e impedire la denuncia delle violazioni umanitarie e dei diritti nei Territori Occupati e a Gaza.

Attacchi Contro i Media e la Libertà di Stampa.

Dal 7 ottobre 2023, Israele ha condotto una campagna senza precedenti contro giornalisti e media indipendenti.

 Il rapporto denuncia l’uccisione, l’arresto e l’intimidazione di numerosi operatori dell’informazione.

 Gaza è diventata una delle aree più pericolose al mondo per i giornalisti, con attacchi diretti contro reporter chiaramente identificabili e sedi di organizzazioni mediatiche.

Secondo le Nazioni Unite, queste azioni non sono semplici conseguenze del conflitto, ma una deliberata strategia volta a oscurare il resoconto della realtà sul campo.

Un esempio particolarmente significativo è la chiusura degli uffici di “Al Jazeera” in Israele, avvenuta il 5 maggio 2024, in seguito a una decisione del governo di Benjamin Netanyahu.

La misura è stata giustificata con accuse generiche di “danno alla sicurezza nazionale”, ma rappresenta chiaramente un tentativo di sopprimere uno dei principali canali di informazione sulla crisi palestinese.

 

Manipolazione dei Social Media: la Guerra delle Narrazioni.

Israele ha esercitato un controllo aggressivo sulle piattaforme digitali per soffocare le voci palestinesi e promuovere una narrazione unilaterale.

 Tra ottobre 2023 e luglio 2024, il governo israeliano ha presentato oltre 21.000 richieste di rimozione di contenuti ai principali social media come Meta e TikTok, ottenendo un tasso di approvazione del 92%.

Questi contenuti riguardavano principalmente post pro-palestinesi o critici verso Israele, mentre quelli contenenti incitamenti all’odio contro i palestinesi, spesso pubblicati da funzionari israeliani, rimanevano in gran parte non censurati.

Il rapporto evidenzia come le piattaforme digitali abbiano risposto in modo complice a queste richieste, attuando una censura sistematica.

 Meta, in particolare, ha rimosso migliaia di post, inclusi appelli per la pace o critiche legittime alle operazioni militari israeliane, etichettandoli come “incitamento al terrorismo”.

Questo approccio ha favorito una narrazione distorta e discriminatoria, silenziando le voci palestinesi e rafforzando la disinformazione.

Repressione Interna: Arresti e Leggi Draconiane.

Gli emendamenti alla legge antiterrorismo del 2016 hanno fornito a Israele un potente strumento per perseguire attivisti, giornalisti e cittadini palestinesi.

 Tra ottobre 2023 e marzo 2024, il 90% dei casi di arresto per presunti reati di “incitamento” online riguardava palestinesi, molti dei quali incriminati per aver pubblicato contenuti pro-Palestina sui social media.

 Il rapporto cita casi emblematici, come quello di un fotoreporter arrestato per aver documentato un raid israeliano e una giornalista detenuta per post su Facebook che esprimevano empatia verso le vittime palestinesi.

Questi arresti dimostrano l’uso arbitrario della legge per criminalizzare ogni forma di dissenso e consolidare un regime di censura e intimidazione.

 

Israele e la Narrazione del Conflitto: un Monopolio della Verità

La censura non si limita ai media e ai social, ma si estende a un controllo totale della narrazione pubblica.

 Le autorità israeliane hanno approvato misure che equiparano la critica alle azioni governative a sostegno del terrorismo o all’antisemitismo, soffocando ogni dibattito legittimo.

Questa manipolazione della narrativa non solo deumanizza i palestinesi, ma distorce anche la percezione globale del conflitto, contribuendo alla normalizzazione delle violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati.

 

Implicazioni per i Diritti Umani e la Democrazia Globale.

Le azioni di Israele sollevano gravi interrogativi sul rispetto delle norme internazionali sui diritti umani e sulla libertà di espressione.

Come sottolineato nel rapporto, la censura sistematica di contenuti pro-palestinesi costituisce una violazione flagrante del diritto all’informazione, sancito dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Inoltre, le azioni israeliane minano i principi fondamentali della democrazia e del pluralismo, favorendo un clima di paura e silenzio.

Questo controllo unilaterale della narrazione contribuisce a perpetuare l’impunità per le violazioni dei diritti umani, ostacolando ogni tentativo di responsabilizzazione o giustizia per le vittime.

Conclusioni.

Il rapporto delle Nazioni Unite conclude con un appello alla comunità internazionale affinché denunci e combatta la censura esercitata da Israele.

 È fondamentale proteggere la libertà di stampa e il diritto all’informazione come strumenti indispensabili per documentare le atrocità e promuovere la responsabilità.

 

La censura di Israele non riguarda solo i palestinesi, ma costituisce un pericolo per la democrazia e i diritti umani a livello globale.

La comunità internazionale deve agire con urgenza per garantire che le voci pro-palestinesi vengano ascoltate e che la verità, per quanto scomoda, non venga soffocata.

(Giuseppe Salamone)

(giuseppesalamone.substack.com/p/israele-chiede-la-censura-sui-social).

 

 

 

 

Il silenzio degli storici

davanti allo storicidio.

  Marelloveneziani.com - Marcello Veneziani - (27 Ottobre 2024) – ci dice:

 

Ma davanti allo scempio della storia, cancellata, distorta e maledetta, cosa dicono gli storici di professione?

Tacciono, al più sussurrano sotto voce, si immergono nei loro libri e nelle letture. Eccolo, il tradimento degli storici, con la loro ignavia.

Ma è possibile che nessuno storico italiano, nessun cattedratico abbia il coraggio di dire, con parole chiare e forti, che l’onda lunga di criminalizzazioni degli avvenimenti storici del passato è un’infamia che uccide la verità storica e pure la ricerca?

Possibile che nel paese di grandi storici, fino ai più recenti “Renzo De Felice” e “Rosario Romeo”, non si levi una voce, non sorga un gruppo o un’iniziativa per deprecare l’uso politico e giudiziario della storia, la condanna retroattiva del passato e le cerimonie istituzionali fondate su verità di comodo, mezze, false o unilaterali?

La memoria storica rinnegata o demonizzata e i film storici settari e manichei, monotoni e allineati al mainstream.

 Solo qualche apprezzabile parentesi come Rai storia, poi il nulla.

 La storia si cancella e gli storici non hanno nulla da dire?

In Italia e in Occidente assistono inermi al linciaggio permanente dei fatti e al massacro retroattivo degli avvenimenti e dei protagonisti del passato.

Una società che uccide e rinnega la sua storia ha smesso di essere una civiltà; si è dimessa dalle sue radici, dalla sua identità, dalla sua dignità, dalla sua tradizione, dalle sue memorie, divise e condivise, unitarie e controverse.

In Francia sorse anni fa un’associazione di storici, “Liberté pour l’histoire”, per denunciare questo bavaglio ideologico-penale alla storia che in Francia è cominciato prima che da noi.

Traccia di quella denuncia resta in due testi, uno di “Pierre Nora” e l’altro di “Francoise Chandernagor”, che furono pubblicati in Italia da Medusa (con un’introduzione di Franco Cardini) col titolo “Libertà per la storia”.

 Vi si denunciava la vigliaccheria politica e la riduzione del passato a una collezione di orrori; “la retroattività senza limiti e la vittimizzazione generalizzata del passato”.

 Un impianto accusatorio e moralistico che di fatto distrugge la ricerca storica, ne impedisce gli scavi e le revisioni, impone pregiudizi e scomuniche… La storia risulta davvero, come notava Nora, “un lungo susseguirsi di crimini contro l’umanità”.

Ma il problema si aggrava se si considerano le varie, ulteriori complicazioni e aberrazioni che ne discendono.

La prima è che la pretesa di giudicare il passato con gli occhi, i pregiudizi, le ideologie del presente, ci porta a condannare ogni evento o personaggio che si discosti dal nostro modo di vivere e di giudicare le cose.

Poi l’interdizione ricade sui viventi, serve per colpire da una parte i movimenti e la gente comune che ha opinioni differenti sulla storia e dall’altra colpisce e inibisce gli stessi storici, la loro ricerca, i loro giudizi e le loro interpretazioni.

 E ancora:

le storie negate o travisate riguardano alcune e ne risparmiano altre:

ci sono processi postumi contro la Chiesa e la fede cristiana, contro la storia nazionale, i suoi eroi e condottieri, sono criminalizzati i nazionalismi, i veri e presunti razzisti, e naturalmente i fascismi;

 ma non c’è la stessa condanna per ciò che accadde ad esempio nella Rivoluzione francese, la ghigliottina e il genocidio della Vandea, nelle Rivoluzioni comuniste, nei gulag e nei regimi comunisti, negli eccidi partigiani, nei bombardamenti e nei massacri compiuti nel nome della libertà e della democrazia, dalle potenze occidentali (condannate invece per quel che concerne il colonialismo).

 E infine, l’ultimo effetto di quest’abuso giudiziario e politico della storia è legittimare quell’ondata di demenza militante che è la” cancel culture”, la furia distruttrice che soprattutto in America, ma non solo, colpisce Cristoforo Colombo e l’Impero romano, i grandi del passato e i monumenti storici.

 In un susseguirsi di assalti, che investono dai classici ai cartoons

A supporto di quest’ondata storicida, è sorta una legislazione abnorme in Europa e in Italia ma non si sente la voce di dissenso degli storici, a partire da quelli di grande autorevolezza o visibilità.

Conosciamo bene le difficoltà che incontrerebbero:

metterebbero a rischio l’accesso a ruoli di prestigio o perfino le loro cattedre, la loro visibilità in tv e nei giornaloni, le loro collaborazioni e i loro incarichi se sollevassero il velo di ipocrisia e gli anatemi dell’ “historically correct”.

Subirebbero ostracismi e linciaggi.

 E dunque per quieto vivere, per salvaguardare il proprio “particulare”, sono disposti a veder massacrata la storia, la verità e la ricerca.

Ma la storia così perde interesse e valore, diventa solo un tunnel oscuro di infamie e di orrori, da rimuovere e condannare.

Accettando quell’impianto giudiziario e moralistico si firma la capitolazione della storia al presente, la sottomissione della ricerca storica alle leggi speciali e ai loro vigilanti inquisitori, la perdita della memoria storica nel nome di una “pulizia etica” subordinata alle verità dominanti, somministrate dall’egemonia ideologica vigente.

Si può dunque parlare di tradimento degli storici per viltà e omertà.

Ogni tradimento della verità, dei fatti e dei giudizi saggi si avvale della complicità o quantomeno del silenzio-assenso di quanti dovrebbero obiettare, denunciare, dissociarsi e non lo fanno.

Troppi storici appartengono a questa vil razza dannata, anzi d’annata, per restare nella materia.

(Marcello Veneziani - Panorama, n.45).

Pordenone Legge #3. Lontano.

Il silenzio su Ustica e la forma della verità.

 Artapartofculture.net - Chiara Palumbo – (26 Settembre 2024) – ci dice:

 

C’è un’altra storia, una storia italiana, contenuta nella storia di Ustica, del DC9 Itavia che ancora qualcuno si ostina a pretendere caduto per altri motivi da quelli accertati dalla legge.

Come per anni si è mentito parlando di cedimento strutturale, oggi c’è chi lo fa parlando di una bomba.

Per poter cancellare la storia delle stragi nere che porta fino alla strage di Bologna, cancellare la matrice fascista e preferirne una più comoda che ne prenda due al prezzo di uno, magari chissà, verso il terrorismo palestinese.

Eppure, anche se sarebbe di comodo, non è questa la verità.

Che si trova invece nelle vite delle vittime di Ustica, ed è insieme la storia di un paese, della sua civiltà giuridica e poetica.

Lo sintetizza con accorata sincerità “Massimo Cirri”:

“Su quel volo c’era un pezzo di società civile, c’eravamo noi, è un carotaggio che dice cos’è quel pezzo di mondo in un dato momento”.

È una storia che risponde alle parole del giudice “Rosario Priore”, che mentre accertava la verità si chiedeva perché quelle 81 persone viaggiavano.

Tolti i 4 membri di equipaggio, uno su sette viaggiava per curarsi.

Si chiamano migrazioni sanitarie, e “sono una parte di identità lacerata, dell’unità mai fatta”.

Su quel volo c’era tutta Italia.

Un paese a cui, poi – ed è inevitabile che il dialogo non prenda questo verso, sono stati consegnati quattro decenni di depistaggi.

Che sono iniziati quando al giudice non è stato detto che l’orario dichiarato del disastro era quello del meridiano di Greenwich, due ore di differenza dal nostro.

E continua con le storie gravissime di 1000 dipendenti dell’Itavia mandati a casa per una concessione revocata per via di un aereo caduto per “cedimento strutturale”.

Sono delle famiglie delle vittime ma anche di un intero paese, o avrebbero dovuto esserlo, i tarli lasciati nei pensieri di tutta da “Andrea Purgatori”, allora ventisettenne, che da subito, sul Corriere, scrisse che era stato un missile, senza mai più tacere.

Ma se il giornalista romano parla subito, il relitto nell’86 comincia a farlo, quando, – chiosa amara” Daria Bonfietti”, presidente dell’”associazione Familiari”, – bontà loro – qualcosa inizia a incrinare il sapere militare che anche i magistrati faticano a decifrare.

È merito di questa ostinazione, delle famiglie, se la verità oggi la sappiamo, e possiamo parlare di un aereo “abbattuto in uno stato di guerra di fatto e non dichiarata contro il nostro paese, di cui si violano confini e diritti, in un cielo in cui volavano americani, inglesi, francesi, belgi e forse libici, con il transponder spento”.

Eppure, il silenzio, come sulle migrazioni sanitarie, lascia ancora molti vuoti da riempire.

Si sono recuperati solo 39 corpi, “moltissimi di noi non hanno avuto un posto dove andare”.

Per questo, è nato il museo della memoria di Ustica, il suo strazio prezioso e straordinario, perché di fronte al muro del silenzio, commenta “Daria Bonfietti ““abbiamo voluto parlare con il linguaggio dell’arte”.

E forse poteva farlo solo “Christian Boltanski”, che da subito risponde all’appello.

 E oggi, a Bologna, quel che resta del DC9, Gli specchi neri e le lampadine, le casse degli effetti personali e le voci di chi ha perso la vita lasciandosi dietro il diritto negato alla verità, sono lì a dar forma a un quello che “Laura Curino”, intervenuta accanto a “Cirri” e “Daria Bonfietti “a “Pordenonelegge”, giustamente chiama “un luogo di raccoglimento, meraviglia, riflessione.

Un luogo di bellezza, quando ne comprendi il significato. In cui si fa omaggio a un artista ma soprattutto a persone, tra cui domani potresti essere tu”.

Le voci di chi non c’è più e quelle di chi resta, che risuonano urgenti anche in mezzo alla festa, sono lì a fare memoria non soltanto di quanto è avvenuto, ma anche dell’urgenza di “far sapere cosa è potuto avvenire per non dire la verità. Per non avere una dignità nazionale da difendere”.

In questo senso, l’arte, non è però soltanto un bell’escamotage, buono per ricordare a vario titolo e per ogni sensibilità.

 Si regge sul sapere.

Quella che continua, ogni estate, a Bologna, è “arte elaborata sulle emozioni nate perché alcune persone sono state lì dentro”.

La battaglia è lunga, ma si può ancora fare insieme, in molti modi. Anche attraverso chi, tra gli artisti, i giornalisti e gli operatori, ha scelto e sceglie di prendere parola.

E allora in questa storia, come in quelle narrate in Lontano il nucleo epico è l’opacità del potere.

Che prende una figura concreta quando un robottino di una società francese controllata dai servizi segreti scende negli abissi per scovare il relitto dell’aereo e ci trova una galera romana, un caccia tedesco, e le tracce di un altro robot.

 

E allora vale la pena dirla, finalmente, la verità che parla di una riunione all’ambasciata usa che decide il silenzio, perché “quello che doveva avvenire era indicibile”.

Fino a che Cossiga, allora presidente del consiglio, “si sveglia” nel 2008 e riferisce che il capo del SISMI gli disse che forse erano stati i francesi, che c’è stata una telefonata a Gheddafi, e il pilota dell’aereo transalpino, tornato sulla portaerei, si suiciderà.

Se l’obiettivo era Gheddafi, come rivendicarlo, al tempo dei blocchi di influenza?

Forse per questo un aviere di leva, tornato a casa, confiderà a sua moglie: “Abbiamo schivato la Terza guerra mondiale”.

Questo, però, al tempo dell’omertà, rientra nel regno di quel che si sa e non si dice. Come si sa e non si dice, ma lo scrive la sentenza, di “una parte delle nostre istituzioni che giocavano dall’altra parte”.

A cosa servono, allora, le voci delle famiglie, e di chi cammina loro accanto? “Facciamo memoria ma anche storia, siamo riuniti per aiutare le istituzioni a far emergere la verità.

Ma la storia, se non ci riesce la magistratura o la politica, aiuterà a dare risposte. Se non c’è l’intervento politico, resta solo la voce di chi, con l’arte o col coraggio di continuare a dare parole, può sperare nei pezzi che continuiamo a cercare, come l’ultimo frammento di velivolo che ancora manca.

Tenere insieme questa storia alle altre, allora, diventa un’occasione Per tenere desto il discorso di Ustica e tenere vive altre storie, che ne sono eco.

E quella di un paese in cui la migrazione ed emigrazione per guarire viene raccontata come “mobilità”.

La fatica di chi non ha più armadi dove tenere gli abiti. Un posto dove fermarsi a dormire.

Mentre si chiede come fa, a dormire, chi sa e ancora tace.

(Chiara Palumbo).

 

 

 

 

I crimini di Netanyahu, il diritto,

la comunità internazionale.

Volerelaluna.it – (25-11-2024) - Francesco Pallante – ci dice:

 

È considerazione ricorrente, di fronte alla mattanza di civili per mano israeliana in corso a Gaza (e in Cisgiordania e in Libano e in Siria), evidenziare l’inadeguatezza del diritto internazionale.

Le atrocità avvengono in diretta, sotto gli sguardi del mondo intero.

 Tutti sanno, eppure i massacri continuano:

chi potrebbe impedirli, non vuole (facendosene complice);

chi vorrebbe, non può.

Come nel caso della Russia con l’Ucraina – e, prima ancora, degli Stati Uniti e del

Regno Unito con l’Iraq –, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è paralizzato nei propri poteri decisionali dal veto delle parti in causa (in effetti, i Paesi con diritto di veto sono sei: ai cinque di diritto, occorre aggiungere, di fatto, Israele).

 Così, nel vuoto degli atti che dovrebbero imporre la pace, spadroneggiano i fatti che impongono la guerra.

Siamo, dunque, al cospetto del fallimento – l’ennesimo – del diritto internazionale?

Numerose e terribili ragioni inducono a pensarlo.

Quello che è in corso a Gaza sempre più assume l’aspetto di un tiro al bersaglio d’inaudita ferocia, il cui obiettivo finale è palesato, in forme più o meno ufficiali, dalle stesse autorità israeliane:

la pulizia etnica e la ricolonizzazione della striscia, sul modello di quanto da anni accade in Cisgiordania (nonostante le trattative di Oslo, infine ridotte a farsa).

Che Israele possa acconsentire alla nascita di uno Stato palestinese è esplicitamente escluso dai suoi governanti:

la «soluzione dei due Stati» è, oramai, una formula retorica utile solo a riempire le pagine dei discorsi ufficiali delle cancellerie internazionali.

Così come è esplicitamente escluso che i palestinesi possano aspirare alla piena cittadinanza di uno Stato che nel 2018 è risultato etnicamente riconfigurato dalla Knesset come «casa nazionale del popolo ebraico».

Cionondimeno, proprio dal diritto internazionale stanno oggi venendo gli ostacoli più insidiosi per chi, dentro e fuori Israele, confidava di poter risolvere con la violenza la questione palestinese.

Con una serie di coraggiosi interventi, le due principali Corti internazionali – la Corte internazionale di giustizia (Cig) e la Corte penale internazionale (Cpi) – hanno finalmente, e definitivamente, chiarito l’inquadramento giuridico della vicenda.

 L’occupazione israeliana dei territori conquistatati con la guerra di aggressione del 1967 è illegale, così come illegale è la costruzione delle colonie in cui sono stati trasferiti milioni di israeliani (parere della Cig del 19 luglio 2024), nonché del muro di separazione che tali territori in parte attraversa (parere della Cig del 9 luglio 2004).

Israele deve, dunque, ritirarsi al più presto da tali territori, Gerusalemme Est inclusa, evacuare i coloni e consentire la nascita dello Stato palestinese;

 nel frattempo, deve cessare ogni atto di violenza e di discriminazione ai danni della popolazione araba che vive nei territori occupati illegalmente;

deve, inoltre, risarcire tutte le vittime dell’occupazione.

Quanto alle violenze israeliane in corso, non si può escludere si tratti di atti integranti la fattispecie di genocidio (pronuncia della Cpi del 26 gennaio 2024) e i loro responsabili politici ultimi – Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant – devono essere arrestati e processati, dovendo rispondere all’accusa di aver compiuto crimini di guerra e crimini contro l’umanità (decisione della Cpi del 21 novembre 2024).

Certo, per chi ogni giorno sotto le bombe israeliane rischia la vita, assieme a quella dei suoi cari, può sembrare una consolazione di poco conto.

 Non bisogna però dimenticare che il diritto è fatto di parole, che indicano il modo in cui le cose devono essere, non il modo in cui sono.

 Alle parole del diritto è affidato il compito di cambiare la realtà:

 compito mai facile, in questo caso più che mai difficile, ma che risulterebbe impossibile se non si procedesse, anzitutto, a definire i contorni del dover essere, chiamando le cose con il loro nome.

Sia pure tardivamente, il diritto internazionale ha infine fatto la sua parte, rendendo la soluzione del conflitto un dovere che grava sul capo di Israele.

Sta ora ai membri della comunità internazionale decidere se schierarsi dalla parte della legalità o dell’illegalità.

 

 

Antisemitismo e islamofobia:

così diversi, così uguali.

 Volerelaluna.it – (27-11-2024) - Riccardo Barbero – ci dice:

Recentemente è stato pubblicato in Italia il libro di” Emmanuel Todd” La sconfitta dell’occidente, che in Francia ha avuto un notevole successo di pubblico.

Nella sua analisi geopolitica, che non è, tuttavia, l’oggetto di questa breve nota, Todd dichiara di adottare un approccio weberiano e scrive:

«Abbandonerò l’ipotesi esclusiva di una ragione ragionevole e proporrò una visione più ampia della geopolitica e della storia».

Coerentemente con questa dichiarazione di intenti, nel suo testo vengono sottolineati gli elementi ideologici e culturali:

in particolare Todd si sofferma sul ruolo delle confessioni religiose, soprattutto delle chiese protestanti, e dell’influenza dei sistemi parentali e familiari.

La complessità della situazione politica, economica e sociale della fase attuale spinge molti autorevoli analisti a proporre, dunque, indagini che cercano di collegare i fattori strutturali, sostanzialmente economici, ma anche geopolitici con quelli più strettamente ideologici e culturali, all’interno di una visione non deterministica.

Può, quindi, essere interessante ragionare su una questione rilevante che si è affacciata con prepotenza nell’ultimo anno, a proposito del conflitto tra lo Stato di Israele e la popolazione palestinese:

il libro di Todd è uscito nel settembre del 2023 e quindi non tiene conto degli ultimi tragici sviluppi di quel conflitto.

Come sappiamo, qualunque osservazione critica verso la conduzione della guerra da parte del governo di estrema destra israeliano è stata tacciata di antisemitismo non solo dai leader israeliani, ma anche dai governi e dai media occidentali:

nessuno è sfuggito a questa accusa infamante, dal segretario generale dell’ONU fino ai giovani studenti che, in tutto il mondo, hanno espresso la loro solidarietà alle decine di migliaia di vittime civili palestinesi.

In Europa le affermazioni più radicali di totale sostegno alla gestione militare israeliana sono state fatte dalle forze politiche di estrema destra che, in molti casi, hanno radici ideologiche e culturali che affondano nel fascismo europeo e nel suo storico antisemitismo criminale. Come spiegare, allora, questa apparente contraddizione?

Secondo “Manuel Disegni”, l’antisemitismo politico moderno nasce nella prima parte dell’Ottocento, nella fase in cui si forma, dopo le rivoluzioni liberali, la nuova società borghese, che propone l’uguaglianza tra i cittadini, ma li divide e li contrappone in classi attraverso il nuovo sistema produttivo capitalistico.

Nel suo libro complesso e impegnativo, “Disegni” descrive questa aporia della nuova società liberale attraverso lo studio del percorso intellettuale e di ricerca di Karl Marx.

 (Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, 2024).

 La cultura europea, in particolare quella germanica, risolve la contraddizione tra le parole egualitarie e solidaristiche della Rivoluzione francese e la realtà di sfruttamento e di povertà determinata dalla produzione capitalista, individuando negli ebrei gli esponenti occulti dei poteri economici:

 essi impedirebbero, dunque, la piena realizzazione delle rivoluzioni borghesi e del loro messaggio di libertà e di uguaglianza.

L’emancipazione degli ebrei, promossa da Napoleone nei primi anni del XIX secolo dal Baden, alla Sassonia, alla Prussia, fino alla Baviera, riconosce i pieni diritti di cittadinanza;

ma la maggioranza della popolazione tedesca legge questa riforma democratica come l’imposizione di una potenza militare straniera.

Questo risentimento legherà per più di un secolo l’anima e il destino antisemita a quello del nazionalismo tedesco.

Sono molti gli intellettuali tedeschi che nell’800 esprimono sentimenti e teorie antisemite; tra essi: Bruno Bauer, Ludwig Feuerbach, Wilhelm Marr.

Le posizioni antisemite, come sappiamo, hanno una forma di consenso popolare molto ampia in Europa per tutto il secolo XIX e per la prima metà del secolo scorso fino alla tragedia della Shoah.

Anche lo stesso socialismo utopistico di Proudhon in Francia o di Sombart in Germania individua negli ebrei una sorta di nemico potente e occulto del nascente movimento socialista.

Contro tutte queste posizioni Marx, nel corso delle diverse fasi della sua vita e della sua maturazione intellettuale e politica, ha condotto una critica aspra e approfondita.

Ma che interesse può avere oggi rivangare nelle pieghe culturali e politiche di queste lontane fasi storiche?

Se si accetta la tesi sostenuta da “Manuel Disegni”, secondo la quale, appunto, l’antisemitismo moderno nasce come risposta ideologica alle contraddizioni della nascente società borghese e della sua economia capitalistica, allora si può tentare di analizzare il contesto attuale, affatto diverso, in modo analogo.

La globalizzazione iniziata negli anni ’90 del secolo scorso con la caduta dell’alternativa “socialista” rappresentata dall’URSS, si era annunciata come un’era di pace e di benessere per il mondo intero.

 Oggi possiamo dire che in realtà essa esprimeva solo un livello più avanzato di imperialismo da parte del cosiddetto blocco occidentale, egemonizzato dagli Stati Uniti, grazie al loro potere militare e finanziario, fondato sul dollaro come moneta globale e sulla crescita del debito.

 Anche in Europa si era costruita un’idea ottimistica del processo di unificazione sempre più ampio, basato sull’egemonia economica tedesca e sulla stabilizzazione della situazione monetaria nel passaggio dal marco, come moneta di riferimento, all’euro.

Ma dall’inizio del nuovo secolo, la crisi del modello globale determinata sul piano geopolitico dai conflitti tra gli USA e il mondo islamico (prima guerra in Iraq, attentato alle torri gemelle, guerre in Afghanistan, ancora in Iraq, in Libia e in Siria) e su quello finanziario dal collasso del 2008, ha portato a radicalizzare le differenze di reddito e sociali tra i diversi paesi e all’interno di ognuno di essi, negando il presupposto della globalizzazione come fine gloriosa della storia e piena realizzazione del benessere universale.

 Da questa crisi ha ripreso di nuovo forza l’idea degli stati nazione in contrapposizione al globalismo universalistico:

le grandi organizzazioni internazionali come l’ONU e come l’Unione europea hanno perso rilevanza e potere, si sono riaperti conflitti militari in varie parti del mondo e la guerra si è riaffacciata anche in Europa e nel vicino Medio Oriente.

Oggi vediamo svilupparsi una crisi economica e geopolitica sempre più grave e minacciosa:

 nasce dunque da qui, forse, la contraddizione che porta larghi settori della società ad individuare i popoli che migrano verso “i paesi dell’ovest” come i responsabili di questa situazione, perché impoveriscono la società, perché sottraggono il posto di lavoro ai nativi, perché non si integrano nelle tradizioni e nelle culture occidentali.

In Europa, in particolare, questa contraddizione investe gli immigrati islamici; mentre negli Stati Uniti la destra xenofoba se la prende soprattutto con l’immigrazione proveniente dal sud dell’America.

Il fascismo europeo, come espressione più radicale del nazionalismo reazionario, ha ripreso e cavalcato l’antisemitismo moderno dell’Ottocento, dopo la Prima guerra mondiale e la crisi politica ed economica successiva, portandolo alle estreme conseguenze della Shoah.

Oggi ritorna in Europa un movimento nazionalistico che ha al suo interno il fascismo come espressione più radicale:

questa volta, però, nella sua propaganda il nemico principale è l’immigrato, in particolare se islamico.

 Per questo i fascisti europei, che hanno sterminato milioni di ebrei nel secolo scorso, oggi, di fronte al conflitto israelo-palestinese sono fortemente filoisraeliani, mentre ancora cinquanta anni fa erano tradizionalmente filoarabi.

All’interno dello stesso Israele, sta prevalendo un nazionalismo xenofobo e razzista, con punte di fascismo capaci di perseguire un vero genocidio della popolazione palestinese.

Paradossalmente, dunque, ma solo fino a un certo punto, il conflitto attuale tra palestinesi e israeliani, che si è sviluppato dall’ottobre dello scorso anno, segna il definitivo passaggio dall’antisemitismo politico moderno all’islamofobia attuale.

 

 

 

IN PRIMO PIANO.

La Corte Penale Internazionale,

le regole, l’ipocrisia dell’Occidente

 Volerelaluna.it – (02-12-2024) - Domenico Gallo – ci dice:

Il 21 novembre, quando la “Pre-Trial Chamber “della “Corte penale internazionale” ha emesso un mandato d’arresto contro Benjamin Netanyahu e il suo ex Ministro della Difesa Yoav Gallant, la notizia, anche se attesa da tempo, è esplosa come una bomba nelle Cancellerie dei paesi occidentali, compreso il nostro, suscitando scandalo, rabbia, indignazione, smarrimento.

 Ciò perché questa notizia rappresenta una contraddizione insanabile con la narrazione di un gruppo di nazioni democratiche, strette intorno al Paese guida dell’Occidente, impegnate, anche su piano militare, nella lotta per un “mondo fondato sulle regole”.

Il mantra del “mondo fondato sulle regole” è stato il vessillo alzato dalla NATO e dall’Unione Europea, per giustificare la guerra per procura condotta contro la Russia, accusata di aver brutalmente calpestato le regole della Comunità internazionale, declinate a misura degli interessi occidentali.

In realtà, i contenuti di queste regole, che l’Occidente vuole imporre con la forza delle armi, utilizzando – per ora – il sangue degli ucraini, non sono stati mai chiariti.

 Le regole variano a seconda dei nostri interessi e dei soggetti a cui sono rivolte.

 È evidente che le regole che valgono per la Russia (paese nemico) non valgono per Israele, (paese amico), inserito di diritto nel novero delle “democrazie”, anche se è uno “Stato teocratico”.

 Il diritto internazionale è stato utilizzato come un negozio di abbigliamento giuridico per rivestire di giustificazioni ideali la scelta di alimentare il conflitto fra l’Ucraina e la Russia, invece di ricercare una soluzione pacifica fondata sull’equilibrio degli interessi.

Così contro la Russia si sono levati moti di sdegno armati per la violazione delle regole.

La Russia è stata accusata di violazione di tutto lo spettro del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto bellico, di una messe di crimini che sono stati anche contati.

 Una risoluzione del Parlamento Europeo del 23 novembre 2022, descrive le atrocità commesse dalle forze armate russe, come «esecuzioni sommarie, torture, stupri, detenzioni di massa dei civili, adozioni forzate di minori ucraini e deportazioni forzate – e precisa che – i crimini di guerra documentati in Ucraina sono quasi 40.000».

Alla luce di questo J’accuse, la Risoluzione stabilisce che:

 «la Russia è uno Stato sostenitore del terrorismo, è uno Stato che fa uso di mezzi terroristici».

Quindi da più parti, anche dai leader di quegli Stati che, non avendo mai aderito al “Trattato di Roma”, istitutivo dello “Statuto della Corte penale internazionale”, avevano cercato in tutti i modi di boicottarne l’attività, sono stati lanciati moniti ed invocazioni per l’intervento della giustizia internazionale a tutela dei principi di civiltà del diritto internazionale così brutalmente calpestati dalle azioni belliche delle forze armate della Russia.

 Quando il 17 marzo del 2023 la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto per” Putin” per il crimine di trasferimento di bambini, si è levato un coro di apprezzamenti, compreso il Parlamento europeo, che nella Risoluzione del 29 febbraio 2024, ha rafforzato le accuse alla Russia di crimini di guerra, denunciando l’uccisione di oltre 520 minori dallo scoppio del conflitto.

Di fronte ai massacri compiuti da Israele a Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Siria, non abbiamo assistito allo stesso zelo di denuncia e alla stessa indignazione.

Anzi i rapporti della Relatrice speciale delle Nazioni Unite,” Francesca Albanese”, e delle altre Agenzie dell’ONU che documentano una realtà drammatica nella quale aleggia il più orrendo dei crimini internazionali, il genocidio, non hanno suscitato né reazioni, né emozioni nei palazzi della politica e nelle Cancellerie degli Stati occidentali.

Il procedimento promosso dal Sudafrica contro Israele per genocidio dinanzi alla Corte Internazionale di giustizia è stato valutato con fastidio e ostilità.

 La Corte Internazionale di Giustizia ha ritenuto plausibile il genocidio ed ha emesso delle misure provvisorie a carico di Israele (il 26 gennaio, il 28 marzo, il 5 aprile e il 24 giugno) volte a prevenire e a impedire il genocidio.

Le ordinanze della CIG sono immediatamente esecutive e vincolano tutti gli Stati a adoperarsi per la loro implementazione.

Israele non solo non ha rispettato le misure imposte dalla Corte, ma ha incrementato le condotte più odiose, attraverso bombardamenti indiscriminati sulle scuole dell’UNRWA dove trovano rifugio i profughi, la restrizione della consegna dei beni essenziali per la sopravvivenza di una popolazione assediata, gli assalti agli ospedali e al personale medico.

Di fronte a questa aperta ribellione alle ordinanze della CIG, tutti i cantori dell’inviolabilità del diritto internazionale e dei diritti umani, sono rimasti muti.

 

L’Unione Europea ha varato 14 pacchetti di sanzioni contro la Russia, ha istigato gli Stati membri a fornire all’Ucraina gli armamenti più performanti, ma non ha battuto ciglio di fronte al massacro di 16.500 minori a Gaza;

 per lunghi mesi non ha avuto neanche il coraggio di chiedere il cessate il fuoco, né di applicare la minima sanzione al governo Netanyahu, neppure l’embargo della fornitura di armi; anzi si è ben guardata dal sospendere l’Accordo di Associazione UE-Israele.

Contestualmente i più volenterosi si sono sbracciati per ostacolare l’indipendente esercizio della giurisdizione della CPI con pressioni di ogni tipo, di cui ha dato atto un inusitato comunicato del Procuratore Generale Karim Khan che, il 20 maggio, annunciando la richiesta di mandati di cattura per Netanyahu e Gallant, assieme a tre dirigenti di Hamas, ha dichiarato:

«Tutti i tentativi di ostacolare, intimidire o influenzare impropriamente i funzionari di questa Corte devono cessare immediatamente. Il mio Ufficio non esiterà ad agire ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma se tale condotta dovesse continuare».

Messo alle strette il Procuratore Khan si è reso conto che il doppio standard avrebbe finito inevitabilmente per travolgere il diritto internazionale e la funzione degli organi di giustizia e lo ha denunciato esplicitamente:

 «Vogliamo essere chiari oggi su una questione fondamentale: se non dimostriamo la nostra volontà di applicare il diritto (internazionale) in modo equo, se viene visto come applicato selettivamente, creeremo le condizioni per il suo collasso. […]

Ora, più che mai, dobbiamo dimostrare collettivamente che il diritto internazionale umanitario, la base fondamentale per la condotta umana durante i conflitti, si applica a tutti gli individui e si applica in modo equo in tutte le situazioni affrontate dal mio Ufficio e dalla Corte.

È così che dimostreremo, concretamente, che le vite di tutti gli esseri umani hanno lo stesso valore».

In realtà i princìpi e le regole del diritto internazionale dei diritti umani hanno senso solo se universali, altrimenti è razzismo.

Praticare un doppio standard dei diritti equivale alla loro negazione.

 A quel punto il richiamo alle “regole” è un mero travestimento della forza brutale. Attraverso l’intervento delle sue Corti di Giustizia, il diritto internazionale dei diritti umani ha emesso un lampo che ha squarciato le tenebre di un sistema internazionale che non riconosce altra legge che non sia quella della forza, altro diritto che non sia basato su una politica di potenza.

 «Quante divisioni ha il Papa?», si chiedeva ironicamente Stalin.

 Le Corti internazionali non hanno divisioni, né dispongono di una polizia giudiziaria, però hanno l’autorità di “ius-dicere”, cioè di certificare l’esistenza del diritto internazionale e delle sue violazioni.

Con il mandato d’arresto per Netanyahu, la Corte penale internazionale ha fornito un’arma all’opinione pubblica per contrastare l’uso selvaggio del potere ed il ricorso all’esercizio sregolato della forza.

Per quanto ci riguarda, è compito delle forze vive della società civile e della politica, utilizzare questa chiave per chiedere conto al governo italiano della sua inerzia e del suo silenzio complice di fronte ai crimini di Israele.

 

 

 

 

I crimini del silenzio di fronte

all’ingiustizia degli oppressi.

Korazym.org – (19 Marzo 2024” - Bussole per la fede - Mons. Yoannis Lahzi Gaid ci dice

 

Dice il proverbio arabo:

 Chi tace dinanzi all’ingiustizia è un diavolo muto. Il diavolo taciturno è il peggior tipo di demone, perché il silenzio di fronte all’ingiustizia, all’abuso e all’oppressione è una partecipazione passiva che contribuisce alla continuazione della situazione, perfino alla sua giustificazione, e spesso la esacerba e peggiora.

 Il silenzio di fronte a situazioni ingiuste spinge gli oppressori a persistere, li incoraggia a mantenere le loro posizioni sbagliate e in molti casi li spinge a giustificare a sé stessi quelle posizioni vergognose, fino a considerare le loro ingiustizie motivo di orgoglio e di vanto.

Mentre, dire la verità, costi quel che costi e qualunque siano i risultati, è una delle caratteristiche delle persone nobili, giuste e dotate di principi, morali e valoriali, ed è l’unica via di chi sceglie la strada della fede, dell’umanità, dell’integrità e della rettitudine morale.

Infatti, esistono diversi tipi di persone: il primo tipo è quello di coloro che dicono la verità per vantarsi e per sentirsi migliori degli altri e, così facendo, esprimono solo la loro arroganza e la nauseante sensazione di essere migliori degli altri e di avere il diritto di condannarli e giudicarli.

Qui Gesù Cristo gli dice:

 ‘Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi’ (Mc 4, 24). Cristo mette in guardia contro questo tipo di persone che condannano gli altri che si vantano e si arrampicano sulle spalle degli altri con il pretesto di ‘dire la verità’, non ‘per amore della verità’.

 

Il secondo tipo è quello di coloro che tacciono di fronte all’ingiustizia degli altri e li giustificano dicendo che non vogliono condannare nessuno, dimostrando così la loro paura e codardia.

Nascondono la testa nella sabbia come se nulla fosse successo.

Questo tipo di persone spesso tacciono quando si tratta di dire la verità davanti ai potenti e alle persone influenti per paura della loro vendetta e per ottenere il loro compiacimento e approvazione e per evitare la loro malvagità.

Queste persone spesso si comportano come Ponzio Pilato, che si lava le mani di fronte all’ingiustizia dell’Innocente, credendo così di essersi esonerato dalla responsabilità nonostante abbia detto:

‘Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?’ (Gv 19,10).

Questo tipo di ipocrisia è il tipo più spregevole di evasione dalle responsabilità, è di facciata, di giustificazione e persino di vanto che arriva sino a sfruttare i versetti della Bibbia per giustificare un silenzio vergognoso ed evitare di prendere posizione o dire la verità.

 

Il terzo tipo è di quelli che restano in silenzio fino a quando la tempesta non è passata e appena raggiungono la certezza dei risultati gridano come se fossero i più valorosi dei cavalieri.

È un tipo di essere umano caratterizzato da opportunismo, meschinità spirituale e umana.

Scelgono di tacere finché non sono certi dei risultati e appena appare la ‘visione’ il troviamo tra i primi a congratularsi con il vincitore e consolare il perdente.

Commerciano anche nel dolore, versano lacrime di finzione e simulano di essere compassionevoli e generosi, ma in realtà pensano solo a sé stessi e ai loro guadagni, esprimendo così la bassezza e la fragilità dei loro principi e della loro vita morale.

 

Il quarto tipo è di quelli che credono di adottare la moderazione come approccio e si vantano di parlare diplomaticamente per non ferire nessuno, ma in realtà sono come camaleonti che cambiano colore a seconda delle circostanze cosicché nessuno possa scoprire il loro vero colore.

Agiscano con tatto ed educazione per sostenere il loro cambio di posizione secondo le circostanze, dimenticando che Gesù Cristo ci insegna:

‘Siano le vostre parole sì, sì, no, no. E tutto il resto viene dal male’ (Mt 5:37).

 Il tatto è necessario quando si tratta di cortesia umana, non quando si tratta di dire la verità contro l’ingiustizia e a favore degli oppressori e di rendere giustizia agli oppressi.

Il quinto tipo è di coloro che dicono la verità basandosi sulla convinzione della necessità di essere coraggiosi e di non tradire i propri principi e valori, costi quel che costi.

 Questo tipo di esseri umani sono come le perle preziose: non mutano colore, non cambiano le loro parole secondo la grandezza di chi hanno davanti, ma secondo l’autenticità della loro fede, della loro storia, della loro alta morale.

 

Esprimono le loro opinioni sia davanti ai governanti sia davanti agli oppressi. Sono come il profeta Natan che si presentò davanti al re Davide, affrontandolo, dicendogli:

 ‘Tu sei quell’uomo! Così dice il Signore, Dio d’Israele:

 Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone … e, se questo fosse troppo poco, io vi avrei aggiunto anche altro’ (2 Sam 12, 7-9).

Questo tipo di persone sanno che dire la verità è un dovere religioso, morale e umano.

Ci insegnano che dire la verità deve essere fatto con educazione, rispetto e tatto, ma resta un dovere morale e di fede, in primis, soprattutto di fronte a comportamenti sbagliati, indipendentemente dalla posizione o dal rango civile o ecclesiastico delle persone ingiuste.

Oggi abbiamo tanto bisogno di uomini di questo tipo che non temono altro che il volto di Dio e il suo giusto giudizio.

Uomini che dicono: basta con il silenzio, la sottomissione e la codardia.

Uomini che urlano contro le rovine delle nostre coscienze mummificate per risvegliarle dalla morte e dal marciume.

 

Uomini con un cuore coraggioso, una lingua parlante, una coscienza pura, una storia onorevole e cuore puro.

 Uomini che non calcolano le cose secondo gli standard di questo mondo e l’equilibrio tra vincitori e vinti, ma piuttosto agisce con valore e audacia.

Uomini che scuotono coscienze vergognose, lingue mute, occhi ciechi e orecchie chiuse, cuori pietrificati e menti logore.

 Uomini che tracciano un percorso nell’oscurità, capaci di accendere la speranza.

 Gesù disse: ‘Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi’ (Gv 8, 32).

 

 

 

 

“Giurato numero 2”: tra

 le ombre del giudizio.

Volerelaluna.it – (03-12-2024) - Luca Tedoldi – ci dice:

 

Un uomo che ha commesso un delitto senza accorgersene, perché credeva di aver urtato un cervo, finisce per fare il giurato nel processo sulla morte della donna uccisa dalla sua automobile.

Nelle scene precedenti a questa rivelazione, viene presentato come un brav’uomo: ama tantissimo sua moglie, che è incinta, è molto premuroso, bello, benestante e felice.

Dopo pochi secondi dall’inizio del film, vediamo la giovane donna bendata, proprio come la Giustizia apparsa poco prima, e l’inquadratura soggettiva pare annunciare che anche noi, come lei, dovremo sopportare le notizie che giungeranno.

Justin, nome prossimo alla Justice, deve subito affrontare ciò che sa, l’amaro vero. La colpa emerge piano piano, ma quando arriva alla piena consapevolezza, spicca in un modo che peserà sullo spettatore per tutta la durata del film.

Durante le prime fasi del processo, mentre viene descritta la serata in cui Kendall, la fidanzata dell’imputato, James, perde la vita, lui, col suo bel faccino candido, capisce che si trova stretto nell’angolo di un’ardua scelta.

La verità contro la giustizia: ecco partire la riflessione, la tensione del dilemma morale.

Decide di non confessare, e abbassa la testa quando il testimone oculare rivolge lo sguardo verso di lui.

Preferisce tutelare il suo privato: la moglie incinta, il suo futuro di benessere familiare.

La famiglia contro la verità, la famiglia contro la giustizia.

Poi però cerca su Internet la definizione di “omicidio stradale” e va dall’amico, sponsor del gruppo degli alcolisti e avvocato, a vuotare il sacco.

 La risposta che riceve è terribile: non dire la verità.

Nessuno ti crederà.

Qui apprendiamo che Justin è stato un alcolizzato e che ha dovuto fare un percorso per mostrarsi come lo abbiamo conosciuto nelle prime scene del film, integro, onesto, uno che si convince sinceramente di aver colpito un animale, perché scende dall’auto e si trova davanti ad un cartello che mostra il pericolo del passaggio dei cervi.

Ma la via della confessione è sbarrata, perché tutti crederanno che la colpa è dentro di lui, gli dice l’amico, e trent’anni di galera sono assicurati.

 Dunque è il caso di lasciar perdere; la vittoria della verità, con l’uomo probo che si batte il petto, non si realizza.

 Nessun “fiat iustitia, pereat mundus”, gli effetti potrebbero essere rovinosi, meglio ripensarci:

come l’uomo della campagna del racconto di Kafka, vorrebbe accedere alla Legge, ma non ha la facoltà di varcare quella soglia.

Il colpevole Justin camminerà sul filo e la sua anima, ossia, cinematograficamente, il suo volto tormentato, sarà in bilico tra lo scorrere implacabile della condanna di un innocente e il tentativo di convincere gli altri giurati che forse sarà stato un altro, magari un introvabile pirata della strada.

La giuria popolare è piena di persone che vorrebbero essere altrove e quelli che prendono sul serio il compito tutto sono fuorché neutrali.

Sulla curiosità di sapere come finirà il processo, così come su alcune inverosimiglianze narrative, segnalate da chi tende a tralasciare il nodo filosofico, prevale il tema del travaglio della coscienza:

il cittadino Justin sta aspettando una bambina, dopo aver perso due gemelli proprio nel giorno della morte di Kendall, ma deve anche far giudicare il suo desiderio di felicità dal suo stesso tribunale interiore.

 Da una parte, come direbbe Kant, la sua natura sensibile, dall’altra, la sua natura razionale e cioè la voce del dovere.

 Vincerà la verità a discapito del benessere familiare, oppure una modesta giustizia processuale che da qualche indizio ha fretta di saltare al giudizio di condanna?

L’avvocato d’ufficio del litigioso imputato James, pur sapendo che non si tratta di un santo, crede nella sua innocenza;

dall’altra parte, l’accusatrice Faith, donna pragmatica e vecchia amica del difensore, sembra fare leva sul passato sporco dell’accusato per farlo condannare e potersene avvantaggiare per la sua candidatura a procuratore distrettuale.

I due avvocati amici sembrano interpretare figure interne alla mente di Justin, il quale infatti si accusa e si difende, vuole salvare l’imputato, ma anche se stesso.

Alla fine l’innocente James viene condannato all’ergastolo.

 All’uscita del tribunale, Faith, che solo dopo la sentenza riesce a capire tutto, affronta il vero colpevole su una panchina:

questi le dice che il silenzio conviene ad entrambi.

E così, macchiati entrambi, si salutano.

L’omicida accidentale ha compiuto fino in fondo il suo percorso, assumendo machiavellicamente la colpa su di sé.

La verità ha perso, strangolata da due mani, quelle di Justin e Faith, ossia rispettivamente famiglia e carriera.

Lui, che risolve la discordia interna con i fiori sulla tomba della ragazza, potrebbe assomigliare a quelli tra noi che, familisti amorali protettori del nido e dell’interesse egocentrico, lasciano che il falso trionfi e dilaghi, nelle più o meno decrepite democrazie, o, per così dire, pseudo crazie.

Ma gli occhi di lei, il nuovo procuratore distrettuale, Toni Colett, quegli occhi severi degli ultimi secondi del film, di chi sono?

Non sono gli occhi di una giustizia affidabile, ma quelli di una donna che ha costruito il suo successo sulla sventura altrui, la sua vittoria processuale ed il suo successo professionale su una sentenza sbagliata.

Non possiamo fidarci della verità, non possiamo fidarci della giustizia, non possiamo fidarci delle banalità e delle prevenzioni dei giurati chiamati a decidere, quindi non possiamo fidarci della democrazia (non c’è più l’ottimismo di “La parola ai giurati” di Lumet):

questa è la notte tempestosa in cui siamo soli e abbandonati, sul ciglio della strada.

Però restano gli occhi della scena conclusiva.

Che cosa stanno dicendo?

 

Quel finale sospeso ci permette di tornare a riesaminare ciò che prima era nell’ombra, anche noi responsabili dello sguardo, come i personaggi di questo film, che intravedono, scorgono e sentenziano, credono di vedere e poi in realtà non hanno davvero visto.

Come il presunto testimone oculare, che in realtà ha confuso una persona con un’altra, o la moglie, all’inizio bendata, che spegne la luce lasciando solo il marito, come se e la dovesse cavare da solo ed in quell’oscurità scegliere dove andare, simile al bambino cieco in “Anatomia di una caduta”, anche lui sottoposto a un bivio dilemmatico.

 Le bende agli occhi sembrano averle anche i giurati, burattini del proprio stesso colpevolismo, accecati dal pregiudizio.

 Ed anche l’amico avvocato del protagonista è certo del pregiudizio dell’insuperabilità dei pregiudizi, come quello dell’alcolista=pirata della strada assassino.

E lui, Justin, non ha visto il corpo della donna che stava camminando sotto la pioggia di notte.

Ma Eastwood, con la sua classicità da vecchia scuola, con la sua capacità di illustrare quel ragionevole dubbio che demolisce certezze e tribalismi, non chiude col pessimismo dell’accusa unilaterale, perché non conta se tu sia stato cieco o miope, ma come affronti questa miopia.

L’avvocato Faith, infatti, ha il coraggio di combattere contro la sua stessa fede e rinsavisce, come il colonnello Picquart del caso Dreyfus, che tornò a leggere le carte del processo mettendo in questione i propri stessi “bias” di antisemita e contribuendo a riaprire il caso.

 Insomma, qui la notte continua, ma possiamo tenere gli occhi aperti.

 

 

Non siamo vittime del maltempo

ma del malgoverno del territorio.

Volerelaluna.it – (05-11-2024) - Paolo Pileri – ci dice:

 

L’Italia è tormentata dal mal tempo o da inadeguata agenda politica?

O da entrambe?

Intanto sgombriamo il campo dal mal tempo perché quel che stiamo vedendo oggi e che sta allagando città e territori non è mal tempo ma il tempo che ci siamo cuciti addosso con il nostro impegno a fare due cose precise:

guastare il clima in mille modi e rendere il territorio sempre più fragile in caso di piogge, alluvioni, frane, colate fangose, siccità, etc.

Ricordiamo che attraverso una superficie impermeabilizzata l’acqua non passa. Un’evidenza che, ahinoi, ancora sfugge a chi governa il territorio.

E allora ricordiamoglielo:

asfaltare qualsiasi suolo libero equivale ad aumentare di sei volte l’acqua che rimane in superficie e moltiplica i costi per gestirla e soprattutto i danni in caso di alluvione.

 

La prova che tutto ciò non è chiaro ci arriva dai dati sul consumo di suolo.

 In soli sedici anni, in Italia, sono stati sigillati/cementificati/asfaltati ulteriori 121.650 ettari.

Un numero pazzesco: è come aver aggiunto circa 11,5 città della grandezza di Milano a un’Italia già piegata dalla super cementificazione.

Più urbanizzazione abbiamo e più isole di calore generiamo, più traffico, più energia consumata, più gas climalteranti lanciati in atmosfera, più acqua in superficie e più clima che cambia per sempre.

Queste 11,5 nuove Milano sparse per la penisola (il 44% nelle sole otto regioni del nord) sono il frutto di una pianificazione urbanistica sregolata e incurante degli equilibri ecologici, che non funziona più o addirittura non esiste più.

Ammalorata da leggi urbanistiche incapaci di contenere e fermare il consumo di suolo.

Ancora convinta che davanti a problemi complessi e sovra-territoriali debbano essere i singoli comuni, frammentati e in comunicanti tra loro, a decidere in piena autonomia se urbanizzare o non urbanizzare.

Un’urbanistica che a parole e da anni annuncia la sostenibilità, ma nella concretezza della quotidianità produce l’esatto contrario, ignorando le asimmetrie tra pressioni private a urbanizzare e strumenti pubblici spuntati per fronteggiarle;

ignorando la golosità della rendita per i privati e degli oneri di urbanizzazione per il pubblico, ma soprattutto ignorando cosa è l’ecologia dei suoli e come soccombe sotto i colpi delle trasformazioni del territorio.

 I vari protagonisti della pianificazione urbanistica, politici in primis, non hanno ancora capito quanto impattano le loro decisioni urbanistiche su clima e tenuta del territorio.

 Non lo capiscono perché, innanzitutto, gli sfugge il ruolo del suolo.

Per loro è una superficie da occupare, un vuoto da riempire.

Non vogliono accettare che per fronteggiare il disfacimento del territorio a cui stiamo assistendo occorre fermare subito, e non solo rallentare, l’urbanizzazione.

Solo fermandola, ci si può mettere a scrivere un’agenda pubblica per una seria transizione ecologica.

 Stop al consumo di suolo e difesa del suolo devono andare a braccetto perché continuare a cementificare finisce per non generare gli effetti desiderati delle azioni di difesa del suolo.

La qual cosa non vale solo per l’urbanizzazione, ma anche per l’agricoltura che in questi ultimi decenni è divenuta un’attività di industria pesante:

compatta i terreni aggravando la impermeabilità generale;

elimina le coperture vegetali permanenti; inquina i suoli con pesticidi, plastiche, funghicidi;

abbandona la montagna etc.

La prova della trascuratezza della difesa del suolo ci arriva osservando i dati sulla finanza locale dei comuni italiani (ISTAT,.istat.it/it/archivio/289008):

 nel 2021 hanno speso circa 68,6 milioni di euro (somma dei pagamenti in conto competenza e in conto residui ovvero i più noti pagamenti di cassa, quelli effettivamente spesi).

 68,6 milioni di euro sono tanti o sono pochi?

Sono una risposta adeguata per difendere il territorio dai rischi del dissesto idrogeologico e dalle mutate condizioni meteo?

Difficile dare una risposta nel merito, ma possiamo aiutarci con alcune proporzioni. Mediamente, per ogni euro speso per la difesa del suolo in Italia se ne sono spesi 4,6 per rimediare ai dissesti (2,95 per la protezione civile; 1,65 per interventi a seguito di calamità naturali).

 Per chiarire: la spesa per prevenire i problemi è circa cinque volte inferiore a quella per rimediare.

 Se andiamo a confrontare la spesa per difesa del suolo con le altre, le cose vanno pure peggio.

 Per ogni euro speso per la difesa del suolo ne sono stati spesi 13 per ‘elezioni e consultazioni popolari & anagrafe e stato civile’; 6 per ‘sviluppo e valorizzazione del turismo’ e 43 per ‘viabilità e infrastrutture stradali’.

Sebbene non tutte le competenze in materia di difesa del suolo spettino ai comuni (ma la medesima cosa si potrebbe dire per la viabilità o per il turismo o per le elezioni), il quadro che ne esce è quello di una spesa pubblica locale assolutamente inadeguata per la difesa del suolo.

Ecco una nuova chiave che ci aiuta a interpretare perché il nostro Paese si è trovato in ginocchio con le alluvioni e le frane degli ultimi due anni.

Non è responsabilità del clima (che abbiamo) cambiato, ma di una pianificazione che non solo è stata a guardare, ma ha proseguito nel proprio cammino cementifero.

 

Se andiamo a vedere meglio questi rapporti in funzione della dimensione dei comuni, le cose finiscono pure per peggiorare.

I comuni con meno di 5.000 abitanti hanno speso 8,3 volte di più per rimediare alle calamità che per prevenirle, quindi quasi il doppio della media dei comuni.

Attenzione perché i piccoli comuni sono il 70% dei comuni italiani e occupano spesso aree idrogeologicamente delicate.

Inoltre, sono quelli tecnicamente più sguarniti avendo uffici comunali a mezzo tempo, sempre sottodotati e dove faticano ad arrivare le briciole di aggiornamento professionale offerte ai tecnici pubblici.

Dico briciole per essere generoso, visto che sappiamo bene che in questo Paese non è stato investito praticamente nulla per la formazione di una nuova mentalità, ecologica e consapevole del cambiamento climatico, dei tecnici locali e zero risorse per la formazione degli amministratori locali (che peraltro non chiedono di imparare qualcosa).

 Più o meno la stessa proporzione di spesa la ritroviamo nei comuni tra i 5.000 e i 10.000 abitanti, mentre scende a 6 per quelli tra i 10.000 e i 20.000, poi a 3,8 per quelli tra 20.000 e 60.000 e a 2,2 per tutti gli altri.

Rimane il fatto che la spesa per la prevenzione è sempre inferiore a quella per i rimedi e questi, spesso, sono improvvisati o provvisori.

 Sicuramente piacciono a chi riesce ad aggiudicarseli usando le scorciatoie dell’urgenza che aggirano le procedure di bando.

In conclusione, la lettura di questi dati ci mostra un’altra chiave interpretativa per capire meglio le responsabilità dietro le alluvioni di Emilia Romagna, Marche, Liguria, Toscana, Lombardia, Veneto, Campania e Sicilia e quelle che verranno, se verranno.

 Siamo stretti in una morsa terribile:

 insostenibile e galoppante consumo di suolo da un lato e persistente inadeguatezza della spesa pubblica locale per la difesa del suolo, dall’altro.

In buona sostanza potremmo dire che il governo del territorio è completamente saltato e davanti al clima cambiato è come un re nudo che tiene in mano un’agenda vecchia, convinto di essere ancora nel ‘900.

Con tutte queste sproporzioni e questa ostinata cementificazione non si va da nessuna parte.

 E non si dica che il PNRR sta cambiando musica perché sappiamo che non è così. Non siamo vittime del maltempo, ma ancora una volta di malgoverno del territorio.

 

 

 

Trump. C’è della logica

in questa follia.

  Volerelaluna.it – (19-11-2024) – Prof. Marco Revelli – ci dice:

 

Dunque, l’impensabile è accaduto.

 Donald Trump ha ri-vinto. Nonostante Capitol Hill.

Nonostante le imputazioni per stupro.

Nonostante i numerosi processi ancora aperti (almeno tre, due sicuramente federali che ora verranno cancellati dalla vittoria).

Aggiungiamo anche che ha rivinto alla grande.

Con quattro milioni in più della sua concorrente democratica, nel voto popolare. Con dodici milioni in più rispetto alla precedente vittoria del 2016.

 Riprendendosi tutti gli “swing states” che Biden gli aveva strappato nel 2020. Questa America puritana e patria della democrazia delle regole, che si affida a un eversore dichiarato e puttaniere seriale, è il simbolo di un mondo impazzito. Eppure, come direbbe Polonio nell’Amleto, “c’è della logica in questa follia”.

Anzi, letteralmente, “there is method in this madness”.

Trump In realtà, se non ci si fosse lasciati accecare dalla barriera di fumo dei sondaggi e dei media mainstream, che elevarono un peana smodato sulla rimonta di “Kamala” quando finalmente “Sleeping Joe” mollò, e che ci illusero sul perfetto pareggio fino al 4 di novembre;

se come le vecchie guide indiane avessimo posato l’orecchio a terra per sentire le vibrazioni provenienti dal profondo, invece di seguire le voci fatue di un’informazione autoreferenziale, avremmo capito che quella di Trump era una vittoria annunciata.

 In qualche misura ineluttabile, come gli eventi estremi nell’epoca del” global warming”, quando il meteo osservando punti abissali di bassa pressione prevede una tempesta perfetta.

 E questo non solo per ragioni contingenti, per questioni “di tattica”.

Gli errori degli altri.

“Kamala”.

Certo, il ritiro a tempo scaduto dell’impresentabile Biden con le sue gaffes senili, ha tolto un bel po’ di ossigeno alla campagna elettorale di Kamala, e ce la dice lunga sul cinismo del suo entourage di notabili dem, che hanno tenuto in piedi quell’avatar come scudo dietro al quale continuare a tirare le fila della politica imperiale (si legga il bell’articolo di G.G. Migone).

 Certo, l’incapacità della “Harris” di segnare una discontinuità con la politica bideniana, continuando a presentare quel vecchio ormai inviso ai più come il “miglior presidente” di sempre e a ignorare il disagio economico di gran parte della popolazione per effetto delle sue politiche e l’ostilità per una guerra incomprensibile ai più nelle sue ragioni e nei suoi costi, ha pesato non poco sulla bassa consistenza del suo modo di stare in partita.

Tutto vero.

 Ma non basta ancora per spiegare l’estensione e la profondità di quella sconfitta. O, se si preferisce, della vittoria dell’altro.

 Il suo carattere di vera e propria “catastrofe” – come l’ha definita” Massimo Cacciari “-, intesa nel suo significato letterale, di “capovolgimento”, rottura sistemica della continuità, rivelatrice di un mutamento strutturale dell’ordine precedente.

 

Perché di questo si tratta.

Se nel 2016 si poteva ancora pensare a un incidente di percorso, una sorta di “Buffé “delirante (come lo definirebbe uno psichiatra) da parte di un elettorato in stato confusionale, oggi no.

 Oggi – dobbiamo ammetterlo – ci troviamo davanti a un voto “consapevole” – si fa per dire -,  o quantomeno “informato”, da parte di elettori che ormai sapevano tutto di quel candidato, i suoi tanti vizi e le sue poche virtù, le bizzarrie, le provocazioni, i paradossi e gli estremismi, e che tuttavia l’hanno scelto in massa, anche nei settori prima a lui negati dei neri, dei latini, delle donne, disertando altrettanto in massa il campo dem, con dieci milioni di elettori in meno per la “Harris” rispetto a quelli di quattro anni prima per Biden (un vero e proprio esodo biblico in fuga dal politicamente corretto e dalle ostentate virtù).

Un bradisismo dall’epicentro profondo (documentato dall’autorevole Magazine “Politico” in un lungo articolo sulla “Stunning Geography of Trump’s Victory”.

D’altra parte se nel suo primo mandato The Donald non aveva potuto far danni più di tanto, perché il “deep state “costituiva uno zoccolo resistente agli eccessivi mutamenti e il quadro internazionale appariva ancora relativamente stabile e solido, ora no.

Non è più così.

Ora il funzionariato che costituisce l’esoscheletro dell’Amministrazione appare fortemente contendibile da parte di uno che ha avuto quasi un decennio per prepararsi alla sua conquista, e l’ordine mondiale è ridotto allo stato magmatico da due guerre atroci che ne mandano in fusione i fondamenti.

Dunque un mutamento di scenario insieme radicale e generale.

Di quelli che assumono carattere periodizzante sul piano cosmico-storico, e che in quanto tale pretende ragioni (o almeno abbozzi di spiegazione) altrettanto “sistemici”.

 

Il peso del declino.

La prima ragione si chiama “declino”.

Gli Stati Uniti sono una grande potenza imperiale in declino.

 E la storia ci ha insegnato quanto gli imperi declinanti siano pericolosi:

quali forme del negativo sappiano evocare dai loro corpi in affanno.

 Donald Trump è appunto un prodotto di quella condizione inedita per un Paese che aveva vissuto sempre del mito del proprio costante auto superamento.

 Il suo autoproclamato “Make America Great Again” suona come una velleitaria formula consolatoria per esorcizzare l’inquietante sensazione di aver esaurito il proprio ciclo ascendente.

La cosa è particolarmente evidente sul grande schermo dello scacchiere mondiale: se ancora un quarto di secolo fa ci si era potuti illudere che la globalizzazione coincidesse con l’americanizzazione del mondo (o, il che è lo stesso, con la sua Trump occidentalizzazione), ora ci si accorge con sempre maggior chiarezza – e la guerra in Ucraina ne ha accentuato l’evidenza – che quell’immagine si attaglia tutt’al più alle due sponde dell’Atlantico, può valere per la vecchia Europa (e neanche per tutta), ma appena ci si spinge un po’ più a sud, o a est, si può constatare come il “famoso Washington consensus” resti un vecchio, sbiadito ricordo.

Che sempre più popoli e governi se ne infischiano delle direttive che arrivano dalla Casa Bianca o dal Pentagono, in qualche caso se ne fanno beffa (si pensi a quante volte Netanyahu ha ridicolizzato l’amico Baden e i suoi emissari guidati dal patetico Blinker che lo invitavano a maggiore prudenza nell’uso del massacro), in altri casi si girano dall’altra parte, sperimentano nuove forme coalizionali come i “Brics”, minacciano la creazione di nuove monete di scambio, o semplicemente si fanno i fatti loro.

Intendiamoci, sul piano militare gli Stati Uniti mantengono una superiorità distruttiva incomparabile con quella di qualunque altro Stato o sistema di Stati, ma si tratta appunto di una capacità “distruttiva”, in molti casi eccessiva rispetto allo scopo di imporre una volontà, comunque inadeguata a sostenere un modello di egemonia quale quello presupposto dall’antico “Manifest Destiny”,  ovvero la convinzione sostanzialmente fondamentalistica di essere chiamati per missione a diffondere sulla Terra il Bene identificato col proprio stile di vita e di valori.

Quel sogno americano è definitivamente svanito.

 

Trump. Così per le relazioni internazionali.

Ma anche sul piano interno l’America “non è più quella di una volta”.

Per chi come a me è capitato di ritornarvi dopo qualche anno di assenza, un qualche senso di regressione è stato fin da subito percepibile da un buon numero di segnali, in primo luogo una certa impalpabile disorganizzazione dei grandi sistemi organizzati colpiti da una sorta di sindrome entropica, da eccesso di complessità per la crescita esponenziale concentrata in breve lasso di tempo.

Ad esempio gli aeroporti (a Chicago ci hanno smarrito il bagaglio nel cambio di coincidenza, e ci hanno detto che la cosa accade assai spesso;

in Nevada, il nostro volo rinviato per otto volte, appariva sul tabellone “Departed” quando in realtà non si era mai staccato da terra, e interpellata per telefono la Compagnia aerea delirava…

 O le grandi infrastrutture autostradali, con la segnaletica orizzontale quasi invisibile per logoramento.

La stessa popolazione, al primo sguardo, appariva mutata, anch’essa in qualche modo logorata.

 Tante, tantissime le figure sformate, obese (lo sono il 41% della popolazione, un altro 30% è sovrappeso), impedite nella mobilità (un gran numero di persone in sedia a rotelle o sulle minicar elettriche per disabili, sono circa 57 milioni), depresse, o sovreccitate (un 25% degli americani consuma regolarmente psicofarmaci, vent’anni fa erano appena 1 su 100).

Tanti gli anziani, e i vecchi.

 Le statistiche demografiche lo confermano:

Nell’ultimo decennio gli over 65 residenti nel Paese sono aumentati di oltre un terzo, ovvero alla velocità maggiore degli ultimi 130 anni, mentre la percentuale di bambini sotto i cinque anni è scesa.

 Oggi l’età media della popolazione americana sfiora i 39 anni (38,8), cinque anni di più rispetto all’inizio del nuovo secolo, quando era sui 34.

Dieci in più rispetto al 1970, quando era di 26 anni (e fa una bella differenza!). Soprattutto tanti, davvero tanti, i poveri, e gli impoveriti.

Il calo della classe media americana

La crisi della middle class.

E questa è la seconda ragione.

 L’America che ha votato per Trump è un’America regredita nel reddito, nel potere d’acquisto e nel tenore di vita.

 Non è solo, e non è tanto, una questione di dimensione della povertà:

 i poveri sono una quarantina di milioni, che non è poco, ma restano relativamente stabili.

E’ la questione dell’impoverimento di ampi strati sociali, in precedenza centrali e relativamente garantiti.

Dell’impoverimento cioè di buona parte dei lavoratori dipendenti, quella che un tempio si chiamava “working class”.

 L’ha detto, come meglio non si poteva,” Bernie Sanders”, quando nel corso di un Meet to press il 10 di novembre (si veda dal minuto 21,29), a commento del disastroso risultato dei democratici, ha affermato che “I lavoratori di questo paese sono estremamente arrabbiati. Hanno il diritto di essere arrabbiati.

Nel paese più ricco della storia del mondo, oggi chi sta in cima se la passa fenomenalmente bene, mentre il 60% degli americani non arriva alla quarta settimana, milioni di famiglie temono che i loro figli avranno un tenore di vita inferiore al loro”.

Ma soprattutto è la questione del declassamento e della crisi della classe media (a cui gran parte del mondo del lavoro aveva avuto accesso negli anni in cui funzionava l’ascensore sociale):

quella middle class, tradizionale pilastro dell’ordine sociale americano, maggioritaria e tutto sommato soddisfatta fino agli anni ’70, quando costituiva oltre il 60% della popolazione.

E da allora in progressivo restringimento e declassamento:

 sotto il 59% sul totale della popolazione negli anni ’80.

Intorno al 54% all’inizio del secolo.

Sotto la soglia del 50% oggi, a fronte di una crescita simmetrica dei “lower” e degli “upper income “(saliti rispettivamente sopra la soglia del 30% i primi e del 19% i secondi).

 

Di quale grado di follia sia capace quella classe media quando sente minacciate le basi materiali del proprio status sociale e il proprio reddito – di quali eccessi, allucinazioni, feroci ricerche di capri espiatori, affannose domande di capi carismatici in cui identificarsi -, ce lo dovrebbe aver insegnato la storia europea degli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

E se l’avessimo dimenticato, è sempre utile rileggersi un vecchio classico della sociologia politica:

 quel Political men. The social basis of politics di “Seymour Martin Lipset” (1960), in cui il fascismo (ma soprattutto il nazismo) era qualificato appunto come una forma tipica di “estremismo di centro”.

Cioè di radicalizzazione di quelle stesse classi medie che nel ciclo precedente erano state la base sociale del parlamentarismo liberale e che ora, destabilizzate dalla catastrofica sconfitta militare nella Prima Guerra Mondiale e spolpate dall’inflazione, si erano radicalizzate travolgendo le fragili istituzioni della democrazia weimariana.

Ora, fatte le debite proporzioni e rilevate le enormi differenze di contesto e di dimensione, sia pure in forma de-virulentizzata e omeopatica, per così dire, quello che è avvenuto in questi ultimi anni negli stati Uniti (ma potremmo dire in Occidente), presenta degli aspetti analoghi:

l’affievolirsi della potenza imperiale americana, la precarizzazione dell’esistenza da parte di strati sociali prima stabilissimi, l’erosione del potere d’acquisto, la tendenziale perdita di controllo sulla propria esistenza e l’incertezza del futuro…

 

Wall Street 2008 – La crisi dei subprime.

Un primo colpo, non lieve, all’equilibrio mentale del ceto medio americano l’aveva dato la crisi dei subprime e quello che ne era seguito:

allora si era interrotto il circuito dell’acquisto di case con mutui facili e agevolati, rapida vendita di esse con ampia plusvalenza dovuta alla crescita impetuosa del valore degli immobili, saldo del mutuo contratto e stipula successiva di uno nuovo con cui acquistare una nuova casa da rivendere, e così via (un modo semplice di produzione di denaro per mezzo di denaro, con cui le famiglie benestanti accrescevano il proprio reddito, finito quando gli interessi sui mutui sono schizzati dal 2% al 6% e il prezzo delle case è crollato).

 E contemporaneamente il fallimento di alcune grandi banche e di colossi del “real estate” aveva falcidiato le rendite finanziarie di milioni di risparmiatori, che si erano ritrovati i propri pacchetti di titoli pieni di pieni di trash cartolarizzato non esigibile.

 Allora 10 milioni di persone persero la propria casa, pignorata dalla banca dopo un certo numero di rate non pagate.

E alcune stime suggeriscono che una famiglia su quattro abbia perso col crollo di Wall Street il 75% o più del loro patrimonio netto.

Milioni di americani mediamente abbienti videro allora, del tutto inaspettatamente, lo spettro della povertà in faccia.

USA 2009 Case pignorate dalle banche.

Poi, appena un decennio più tardi, il doppio tzunami della Pandemia e di una lunga fiammata inflazionistica alimentata da una guerra tanto feroce quanto assurda e dal suo seguito dissennato di sanzioni a grappolo.

 Gli americani chiamati alle urne il 4 di novembre, avevano ben presenti alcuni numeri, se non altro perché ci avevano dovuto combattere quotidianamente ormai da tempo.

Sapevano che il carburante, tra il primo mandato di Donald Trump e la nuova elezione, era raddoppiato: costava 1,7$ al gallone nel 2016, ora era salito a 3,4 (e in media un americano fa 14.000 miglia all’anno).

Che una dozzina di uova, nello stesso periodo, era passato da 1 dollaro e 60 a 4 dollari e 89 (e un americano ne mangia in annualmente 280).

Che il prezzo medio di un caffè era cresciuto del 45% (costava 2,70$ nel 2015, quasi 4$ ora, come si vede dai prezzi dello Starbucks in cui facevo colazione nei giorni della campagna elettorale).

 Quello dell’elettricità del 40%…

Ascoltava Kamala Harris spiegargli che Biden era stato il “miglior presidente degli Stati Uniti” (“acuto come uno spillo”).

E che quel genio di Powell aveva fermato l’inflazione (in realtà l’ha riportata vicino al 2,5%), ma non si diceva che gli aumenti accumulati fino ad allora restavano, e pesavano sui bilanci familiari.

 Così che la rabbia cresceva – si preparavano quelle vere e proprie “tempeste di rabbia” che si sarebbero, almeno in parte, riversate nelle urne -.

E insieme cresceva la diffidenza, verso qualunque cosa provenisse dall’establishment.

La rivolta degli ingannati.

Trump. E’ questa la terza, e per molti versi più importante, ragione del successo di Trump.

Il fatto che un gran numero di americani, e quindi anche di elettori, si sente ingannato. Ingannato da tutti.

Da “quelli di Washington”, naturalmente, i politici di professione che per definizione parlano “con lingua biforcuta”.

Dai media mainstream: “New York Times”, “Washington Post”, CNN, quelli le cui previsioni e i cui commenti noi prendiamo come oro colato, e che loro mettono tutti in un’unica inaffidabile fabbrica di parole.

Dalle Banche, che sanno tutto di te mentre tu non sai niente di loro, e chissà quanto lucrano sui tuoi risparmi.

Ma poi ingannati anche dalle grandi piattaforme in cui si struttura il macrosistema digitale, della comunicazione, della distribuzione, della finanza, dell’intrattenimento, delle utilities senza cui non vivi, Zuchenberg, Gates, Bezos, Soros, considerati tutti burattinai che tengono in mano i fili con cui ti manipolano e tengono in ostaggio (Musk meno, forse perché considerato pazzo e quindi meno pericoloso…).

Ingannati dalle grandi Compagnie delle Assicurazioni, con i loro invisibili cavilli. Dal Medicare che ti costa e quando serve non c’è.

Dall’ Airb&b, che ti riempie il quartiere di sconosciuti…

Non c’è praticamente nessuno tra quelli con cui ho avuto modo di conversare nel periodo in cui sono stato là, che non avesse almeno un paio di impalpabili entità da cui si sentiva preso in giro e insieme usato, tracciato, vivisezionato fin nell’anima ma allo stesso tempo tenuto prigioniero perché senza connessione ad esse non si vive.

 Entità impalpabili perché così grandi e lontane da impedirgli di esercitare un qualche controllo, piovre che ti usano come facevano gli alieni della fantascienza anni sessanta, convivendo invisibili tra noi.

Ecco perché quell’esercito enorme di ingannati, appena gli è stato possibile, si è vendicato votando per “Lui”.

Proprio così.

 Per levarsi di dosso la vergogna dell’ingannato, hanno scelto come proprio campione l’Ingannatore Sommo.

 Il bugiardo seriale. Il Re delle Fake.

 L’uomo che infarciva i propri comizi di balle spaziali.

 Che non provava nessun pudore nel mettere in scena l’assurdo.

 Può sembrare un paradosso. E in effetti “è” un paradosso. Ma come il mondo impazzito in cui viviamo, anche questa è una follia che “ha la propria logica”. Che – io credo – trova proprio nella dimensione dell’ECCESSO la sua spiegazione.

Eccesso e successo.

Donald Trump, ponendosi sistematicamente “sopra le righe”, sparandole a ogni nuova comparsa pubblica sempre più grosse, esibendo oltre misura i propri vizi, sempre più “brutto, sporco e cattivo”, infrangendo tutte le regole della correttezza, della buona educazione e del vivere civile, è riuscito nella mission impossibile di apparire diverso e persino migliore dei falsi virtuosi alla Harris, anch’essi ingannatori, ma ipocriti esattamente come il “sistema” che incarnano.

Più “vero” nella propria bruttezza, più “autentico” nella sua impresentabilità.

Non solo.

Ma mostrandosi apertamente come una “figura del limite” – anzi, dell’al di là del limite -, figura dell’eccesso e dell’impunità, è riuscito a porsi come simbolo di tutto ciò che è “anti-sistema”: che si contrappone cioè a quel “sistema” che una parte crescente di americani considera proprio nemico.

 Mentre ai suoi avversari Democratici è toccato il ruolo incapacitante di identificarsi con “quel” sistema.

Di incarnarne lo spirito e la lettera.

Di assumerne lo stesso aspetto immateriale e astratto (a differenza del corpaccione di Trump, fin troppo sanguigno e presente al livello del suolo).

Di metterne in scena le stesse apparenti “buone maniere” che grondano finzione.

 E di essere, di conseguenza, irrimediabilmente sconfitti.

 Il che fa di questa elezione americana – mi rendo conto dell’enormità che dico – una sorta di Sessantotto, sia pur alla rovescia.

Ossia una contestazione globale al “sistema”, radicale nelle forme e nel linguaggio, e altrettanto ostile programmaticamente alla mediazione, anche se, a differenza del moto giovanile di cinquantaquattro anni fa, totalmente priva di spirito critico.

 È opera di quelle classi di età centrali, trenta-cinquantenni per intenderci, che a differenza dei contestatori di allora non possono dirsi innocenti rispetto allo stato di cose presente, e tendono dunque a iniettare nei propri comportamenti dosi massicce di rancore e di risentimento.

Incomincia un’altra storia.

Che ne sarà dunque di noi?

 Come nella Bisanzio antica cantata da Guccini, è pressoché impossibile “divinar responso”.

Ma un dato appare comunque ineludibile:

 quella in corso non è una semplice increspatura sulla superficie piatta di un mare in bonaccia.

Al contrario.

 Minaccia di essere uno strappo profondo, di quelli che fanno dire che “da oggi incomincia un’altra storia”.

Per l’America, certo.

Per l’Europa, a cui si può immaginare che saranno fatti vedere i sorci verdi.

Per il mondo, i cui equilibri geopolitici già liquefatti dai conflitti degli ultimi anni minacciano di essere ulteriormente scardinati.

 Sia che la nuova Amministrazione segua la parabola classica già annunciata e tipica del modello repubblicano, verso l’isolazionismo.

Sia che al contrario l’imprevedibile Tycoon decida di seguire il proprio istinto della produzione di ordine mediante la nuda forza.

Forse c’è qualche possibilità che ponga fine all’atroce guerra in Ucraina, perché questa è la promessa fatta in campagna elettorale che ha fruttato a Trump un bel po’ di consensi, perché erano tanti gli elettori che non ne potevano più di Zelensky e dei suoi velleitari proclami di vittoria, non per pacifismo, intendiamoci, ma perché non capivano tanto spreco di soldi armi ed energie.

Questa è però l’unica buona notizia.

 Per il resto probabilmente le prime vittime saranno i palestinesi – ça va sans dire -, e subito dopo di loro – come già detto – l’Europa, a cui sono promessi dazi crescenti sulle importazioni e politiche selettive tali da disgregare anche gli ultimi residui di coesione continentale.

La nemesi dell’Europa.

Nemesi impietosa, anche se annunciata anch’essa, che ci fa capire, se ancora ce ne fosse bisogno, quanta inettitudine, inadeguatezza, diciamolo pure, stupidità, ci sia stata nei vertici dell’Unione nell’allinearsi supinamente, e a tratti tentare addirittura di primeggiare, al bellicismo marchiato NATO, alla dissennata politica delle sanzioni che ha dissanguato le nostre economie, a cominciare dalla locomotiva tedesca che è quasi collassata, più che non danneggiare l’autocratico Putin, alla sistematica demolizione di tutti i ponti, culturali e commerciali, persino sportivi, che collegavano l’Europa occidentale alla sua costola orientale.

Un esempio di suicidio politico con pochi precedenti nella storia, firmato da quelle stesse figure fantasmatiche che oggi tentano disperatamente di aggrapparsi ai rottami della Commissione europea come migranti a un gommone sgonfio.

Potremmo anche dire che questi indegni amministratori di un patrimonio che fu un tempo di pregio hanno quello che si meritano, che chi semina vento raccoglie tempesta e che l’insipienza in politica si paga cara.

Dobbiamo però essere ben consapevoli che non solo loro, ma anche, e soprattutto, noi ci aggiriamo in un panorama di rovine, mentre da oltre oceano la Grande X – non solo del social di Elon Mask ma l’incognita del potere di Donald Trump – si prepara a governare quel che resta dell’Occidente.

 Con la Francia consegnata da Macron a un governo di destra minoritario che tanto piace alla grande sconfitta delle Legislative Marine Le Pen, la Germania lanciata verso elezioni dall’esito misterioso ma comunque inquietante, l’Olanda, l’Austria, la Polonia, l’Ungheria nelle mani di governi di estrema destra, l’Italia conciata come purtroppo ben sappiamo…

Anche per noi incomincia una “nuova storia”.

Difficile. Impervia. A cui dobbiamo fin da ora prepararci.

 

Post scriptum:

l’ultimo atto di Joe Biden, l’autorizzazione a colpire in profondità sul suolo russo, ha una gravità per molti versi paragonabile a quella di Trump per Capitol Hill.

 Il vecchio presidente sconfitto intende vendicarsi rischiando una Terza guerra mondiale pur di disturbare il proprio successore.

 Inaudito!

(Marco Revelli.)

(È titolare della cattedra di Scienza della politica, presso il Dipartimento di studi giuridici, politici, economici e sociali dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro”.)

 

 

 

Ucraina-Russia, ecco le condizioni di

Putin a Trump per chiudere guerra.

 Msn.com - Corriere Toscano – REDAZIONE – ci dice:

 

È Vladimir Putin a dettare le condizioni per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina.

È il messaggio che Mosca invia a Kiev e agli Stati Uniti.

I destinatari sono il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e, soprattutto, Donald Trump.

 Il neo presidente eletto degli Usa si insedierà alla Casa Bianca tra meno di 2 mesi.

Se vuole contribuire ad archiviare il conflitto che dura da quasi 1000 giorni, deve necessariamente tener conto dei paletti fissati dal Cremlino.

Putin si affida alle parole che il tycoon russo con posizioni conservatrici e ortodosse “Konstantin Malofeyev” pronuncia in una intervista al “Financial Times”.

 Cosa vuole Mosca?

Un piano di pace per l'Ucraina che non includa garanzie di sicurezza per la Russia, quindi anche il futuro dell'Europa e del mondo, è destinato a fallire.

Trump riuscirà a porre fine al conflitto se tornerà a imporre caveat a Kiev sull'uso dei missili “Atacms” e se costringerà Zelensky a lasciare l'incarico di presidente.

 Poi se accetterà di incontrare Putin e "discutere con lui tutte le questioni dell'ordine globale al massimo livello", ha precisato “Malofeyev”. 

"Perché i negoziati siano costruttivi, non dobbiamo parlare solo del futuro dell'Ucraina ma del futuro dell'Europa e del mondo", quindi anche di Medio Oriente e di Cina, ha affermato.

 Altrimenti, Putin respingerà la proposta del nuovo inviato della Casa Bianca per l'Ucraina, “Keith Kellogg”.

"Arriverà a Mosca con il suo piano.

Lo leggiamo e poi lo mandiamo al diavolo perché non c'è nulla che ci vada bene.

E il negoziato si esaurirebbe così", lo scenario. 

“Malofeyev” parla del "mondo sull'orlo di una guerra nucleare".

Se gli Usa non accetteranno di ritirare il loro sostegno all'Ucraina, la Russia potrà usare un'arma nucleare tattica, "con una zona radioattiva in cui nessuno potrà accedere per una vita. E la guerra sarà finita".

 "Noi vogliamo una pace a lungo termine.

Un accordo generale sull'ordine globale.

Trump vuole entrare a far parte dei libri di storia.

 Presto avrà ottant'anni, è un nonno.

Anche Putin non ha più 50 anni.

 Sarà il loro lascito", afferma.

“ Malofeyev” è sanzionato per il suo ruolo nell'annessione della Crimea del 2014.

E' lui l'editore di “Tsargrad Tv”, l'emittente ultranazionalista per cui lavora “Alexandr Dugin”.

Gli Stati Uniti hanno trasferito milioni di dollari dai conti congelati del tycoon per contribuire alla ricostruzione dell'Ucraina.

 È incriminato negli Stati Uniti con l'accusa di aver evaso le sanzioni.

 "La vecchia macchina sovietica è tornata a lavorare e la gente vive molto meglio che non prima della guerra.

 Chi lavora nell'industria della difesa, in agricoltura, nel mercato dei consumatori, nei mercati locali, vale a dire il 90 per cento della popolazione, non è interessata dalle sanzioni e adorano questo periodo.

 La minaccia esterna è essenziale per renderci più forti.

 Più a lungo il confronto e i conflitti vanno avanti, più forte diventa il regime", conclude. 

Il quadro cambierà formalmente a gennaio, quando Trump si insedierà alla Casa Bianca.

Il neo presidente eletto ha detto e ripetuto, durante la campagna per le elezioni poi vinte a novembre, che avrebbe favorito una rapida soluzione diplomatica della guerra.

 Secondo l'analisi del Centro per gli studi orientali di Varsavia, il copione di Trump si va delineando.

 La nuova Casa Bianca è pronta a ristabilire relazioni diplomatica con Mosca per porre fine all'isolamento della Russia e alla demonizzazione di Putin.

L'apertura sarà accompagnata dal pressing per un cessate il fuoco, punto di partenza per l'avvio di colloqui tra Mosca e Kiev.

L'Ucraina, nei programmi di Trump, dovrà rinunciare all'ingresso della Nato per 10 anni e dovrà sostanzialmente rinunciare a riconquistare i territori che Putin ha annesso nei primi 1000 giorni di guerra.

Kiev, che continuerà a ricevere sostegno militare dagli Usa, non sarà chiamata a riconoscere il controllo russo, ma potrà puntare ad un cambiamento dello status quo attraverso negoziati e non con la forza.

Se Kiev dice no ai colloqui, rischia di perdere il sostegno militare americano. 

 

 

 

La lunga guerra per riaffermare

il primato occidentale e israeliano

subisce un cambiamento di forma.

 Unz.com - Alastair Crooke – (2 dicembre 2024) – ci dice:

 

Il Medio Oriente non è più "conservatore".

Piuttosto, un "Risveglio" molto diverso è in gestazione.

 

La lunga guerra per riaffermare il primato occidentale e israeliano sta subendo un cambiamento di forma.

Su un fronte, il calcolo rispetto alla Russia e alla guerra in Ucraina è cambiato.

E in Medio Oriente, il luogo e la forma della guerra stanno cambiando in modo distinto.

La famosa dottrina sovietica di “Georges Kennan” ha una lunga costituita la base della politica degli Stati Uniti, in primo luogo diretta verso l'Unione Sovietica e, in secondo luogo, verso la Russia.

 La tesi di Kennan del 1946 era che gli Stati Uniti avevano bisogno di lavorare con pazienza e risolutezza per contrastare la minaccia sovietica, e per aumentare e aggravare le crepe interne al sistema sovietico, fino a quando le sue contraddizioni innescarono il collasso dall'interno.

Più recentemente, il “Consiglio Atlantico” ha attinto alla “dottrina Kennan” per suggerire che il suo ampio profilo dovrebbe servire come base della politica degli Stati Uniti nei confronti dell'Iran.

 " La minaccia che l'Iran pone agli Stati Uniti assomiglia a quella affrontata dall'Unione Sovietica dopo la seconda guerra mondiale.

 A questo proposito, la politica delineata da “George Kennan” per trattare con l'Unione Sovietica ha alcune applicazioni per l'Iran ", afferma il rapporto dell'Atlantico.

Nel corso degli anni, questa dottrina si è ossificata in un'intera rete di intese sulla sicurezza, basata sulla convinzione archetipica che l'America è forte e che la Russia è debole.

 La Russia deve "saperlo", e quindi, si è sostenuto, non ci può essere alcuna logica per gli strateghi russi di immaginare di avere altra scelta se non quella di sottomettersi alla superiorità rappresentata dalla forza militare combinata della NATO contro una Russia "debole".

E se gli strateghi russi dovessero incautamente perseverare nello sfidare l'Occidente, si diceva, la contrarietà intrinseca avrebbe semplicemente causato la frattura della Russia.

I neoconservatori americani e l'intelligence occidentale non hanno ascoltato nessun altro punto di vista, perché erano (e in gran parte lo sono ancora) convinti dalla “formulazione di Kennan”.

La classe di politica estera americana semplicemente non poteva accettare la possibilità che una tale tesi centrale fosse sbagliata.

L'intero approccio rifletteva più una cultura profondamente radicata, piuttosto che un'analisi razionale, anche quando i fatti visibili sul campo indicavano una realtà diversa.

Quindi, l'America ha aumentato la pressione sulla Russia la consegna incrementale attraverso ulteriori sistemi d'arma all'Ucraina;

attraverso lo stazionamento di missili nucleari un raggio intermedio sempre più vicini ai confini della Russia; e, più recentemente, sparando all'ATACMS nella "vecchia Russia".

L'obiettivo è stato quello di fare pressione sulla Russia in una situazione in cui si sentirebbe obbligata a fare concessioni all'Ucraina, come ad esempio accettare un congelamento del conflitto, e ad essere obbligata a negoziare contro le "carte" di contrattazione ucraine ideate per produrre una soluzione accettabile per gli Stati Uniti.

O, in alternativa, che la Russia sia messa all'angolo nel "nucleare".

La strategia americana si basa in ultima analisi sulla convinzione che gli Stati Uniti potrebbero impegnarsi in una guerra nucleare contro la Russia – e prevalere;

 che la Russia capisca che se passasse al nucleare, "perderebbe il mondo".

Oppure, sotto la pressione della NATO, la rabbia tra i russi probabilmente spazzerebbe via Putin dall'incarico se facesse concessioni significative all'Ucraina. È stato un risultato "win-win", dal punto di vista degli Stati Uniti.

Inaspettatamente, però, è apparsa sulla scena una nuova arma che libera proprio il presidente Putin dalla scelta del "tutto o niente" di dover concedere una "mano" negoziale all'Ucraina, o ricorso alla deterrenza nucleare.

Invece, la guerra può essere risolta dai fatti sul terreno.

In effetti, la "trappola" di “George Kennan” è implosa.

Il missile Oreshnik (che è stato utilizzato per attaccare il complesso Yuzhmash a Dnietropetrovsk) fornisce alla Russia un'arma mai vista prima:

un sistema missilistico a raggio intermedio che dà scacco matto alla minaccia nucleare occidentale.

La Russia può ora gestire l'escalation occidentale con una minaccia credibile di ritorsione che è allo stesso tempo estremamente distruttiva, ma convenzionale. Invertire il paradigma.

Ora è l'escalation dell'Occidente che deve passare al nucleare, o limitarsi a fornire all'Ucraina armi come ATACMS o Storm Shadow che non altereranno il corso della guerra.

Se la NATO dovesse intensificarsi ulteriormente, rischierebbe un attacco Oreshnik per rappresaglia, in Ucraina o su qualche obiettivo in Europa, lasciando l'Occidente con il dilemma di cosa fare dopo.

Putin ha avvertito:

"Se colpisci di nuovo in Russia, rispondendo con un colpo di Oreshnik su una struttura militare in un'altra nazione.

Forniremo un avvertimento, in modo che i civili possano evacuare.

Non c'è nulla che tu possa fare per impedirlo;

non si dispone di un sistema antimissile in grado di fermare un attacco in arrivo a Mach 10'.

La situazione è ribaltata.

Naturalmente, ci sono altre ragioni oltre al desiderio dei quadri di sicurezza permanenti di ingannare Trump per continuare la guerra in Ucraina, al fine di contaminarlo con una guerra che ha promesso di porre fine immediatamente.

In particolare gli inglesi, e altri in Europa, vogliono che la guerra continui, perché sono finanziariamente in difficoltà a causa delle loro partecipazioni di circa 20 miliardi di dollari di obbligazioni ucraine che sono in uno "stato di default", o delle loro garanzie al FMI per i prestiti all'Ucraina.

 L'Europa semplicemente non può permettersi i costi di un default totale.

Né l'Europa può permettersi di assumersi l'onere, se l'amministrazione Trump rinunciasse a sostenere finanziariamente l'Ucraina.

Così colludono con la struttura inter agenzia degli Stati Uniti per rendere la continuazione della guerra a prova di inversione di politica di Trump:

l'Europa per motivi finanziari e lo Stato Profondo perché vuole distruggere Trump e la sua agenda interna.

L'altra ala della "guerra globale" riflette un paradosso speculare:

 cioè, "Israele è forte e l'Iran è debole".

 Il punto centrale non è solo il suo sostegno culturale, ma anche il fatto che l'intero apparato israeliano e statunitense è parte della narrazione secondo cui l'Iran è un paese debole e tecnicamente arretrato.

L'aspetto più significativo è il fallimento pluriennale per quanto riguarda fattori come la capacità di comprendere le strategie e riconoscere i cambiamenti nelle capacità, nelle opinioni e nelle comprensioni delle altre parti.

La Russia sembra aver risolto alcuni dei problemi fisici generali degli oggetti che volano a velocità ipersonica.

L'uso di nuovi materiali compositi ha permesso di consentire al blocco di crociera planante di effettuare un volo guidato a lunga distanza praticamente in condizioni di formazione di plasma.

Vola verso il suo bersaglio come un meteorite; come una palla di fuoco.

La temperatura sulla sua superficie raggiunge i 1.600-2.000 gradi Celsius, ma il blocco di crociera è guidato in modo affidabile.

 

E l'Iran sembra aver risolto i problemi associati a un avversario che gode del dominio aereo.

 L'Iran ha creato una deterrenza modellata dall'evoluzione di sciami di droni a basso costo abbinati a missili balistici che trasportano testate ipersoniche di precisione.

 Mette droni da 1.000 dollari e missili di precisione economici contro cellule pilotate enormemente costose – un'inversione della guerra che ha richiesto vent'anni di lavoro.

La guerra israeliana, tuttavia, si sta trasformando in altri modi.

La guerra a Gaza e in Libano ha messo a dura prova la manodopera israeliana; l'IDF ha subito pesanti perdite;

le sue truppe sono esauste; e i riservisti stanno perdendo l'impegno nelle guerre di Israele, e non si presentano al dovere.

Israele ha raggiunto i limiti della sua capacità di schierare gli uomini sul territorio (a parte arruolare gli studenti ortodossi della Yeshiva Haredi, un atto che potrebbe far cadere la Coalizione).

 

In breve, i livelli delle truppe dell'esercito israeliano sono scesi al di sotto degli attuali impegni militari ordinati dal comando. L'economia sta implodendo e le divisioni interne sono profonde e dolorose.

Ciò è dovuto in modo particolare all'iniquità degli israeliani laici che muoiono, mentre altri rimangono esentati dal servizio militare, un destino riservato ad alcuni ma non ad altri.

Questa tensione ha giocato un ruolo importante nella decisione di Netanyahu di accettare un cessate il fuoco in Libano.

 La crescente ostilità sull'esenzione dagli “Haredi ortodossi” rischiava di far cadere la Coalizione.

Ci sono – metaforicamente parlando – ora due Israele:

il Regno di Giudea contro lo Stato di Israele.

 Alla luce di tali profondi antagonismi, molti israeliani vedono ora la guerra con l'Iran come la catarsi che si riunirà di nuovo un popolo diviso e, in caso di vittoria, porrà fine a tutte le guerre di Israele.

Fuori, la guerra si allarga e cambia forma:

il Libano, per ora, è sotto pressione, ma la Turchia ha innescato un'importante operazione militare (secondo quanto riferito circa 15.000 uomini) in un attacco ad Aleppo, utilizzando jihadisti addestrati da Stati Uniti e Turchia e milizie di Idlib.

L'intelligence turca ha senza dubbio i suoi obiettivi distinti, ma gli Stati Uniti e Israele hanno un particolare interesse a interrompere le rotte di rifornimento di armi verso Hezbollah in Libano.

 

 

 

“Odio non criminale"

La Gran Bretagna diventa

completamente "anarco-tirannica"

Unz.com - Jared Taylor – (29 novembre 2024) – ci dice:

(Un video è disponibile su Rumble, BitChute e Odysee).

Scommetto che non hai mai sentito parlare di un "incidente d'odio non criminale". Per quanto ne so, questa è una perversione esclusivamente britannica.

Qualcuno può denunciarti solo per aver pensato di aver detto qualcosa di maleducato sui nostri soliti animali domestici, qualcosa di completamente legale, tra l'altro, e la polizia arriverà e ti darà un severo avvertimento.

Puoi essere denunciato e archiviato come colpevole di un "incidente d'odio non criminale", e non hai alcun ricorso né appello.

Questo dovrebbe tenere sotto controllo il vero discorso d'odio, ma tutto ciò che fa è punire i britannici che escono dai ranghi.

 Anche i bambini possono essere denunciati per "odio non criminale".

Il governo di Sua Maestà ha una pagina web di 11.000 parole che spiega gli "Incidenti d'odio non criminali", aggiornata lo scorso giugno, e che spiega come funziona.

Questa frase dà il tono: "La libertà di espressione è un diritto qualificato, il che significa che può essere limitato per determinati scopi nella misura necessaria in una società democratica".

Puoi farti denunciare se fai qualcosa che "viene percepito da una persona diversa dal soggetto [ovvero tu] come motivato, in tutto o in parte, da ostilità o pregiudizio verso persone con una caratteristica particolare".

L'ostilità non può essere altro che "antipatia" o "maldicenza", e le "caratteristiche" sono le solite: razza, religione, orientamento sessuale, disabilità.

Un agente può essere creativo: può scrivere qualsiasi tipo di "antipatia" o "maldicenza" se "ritiene necessario registrare un incidente che coinvolge una caratteristica diversa che non è coperta dalla legislazione sui crimini d'odio."

 E gli agenti lo hanno fatto.

La presunta vittima, o chiunque altro, può fare la spia.

Può trattarsi di qualcosa che hai detto o fatto, o semplicemente di un tweet.

Se, e solo se, l'ufficiale inquirente determina che non c'è stata "antipatia" o "maleducazione", allora non ha bisogno di scrivere l'incidente.

Se pensa che sei un tipo cattivo che potrebbe farlo di nuovo, a sua discrezione, può inserirti in un database.

 Se ti candidi per determinati lavori, come l'insegnamento, l'assistenza all'infanzia, la medicina, l'assistenza sociale, un potenziale datore di lavoro potrebbe scoprirti e decidere di non assumerti.

 Per qualcosa che non è un reato!

Non esiste alcuna disposizione di legge per punire o anche solo rimproverare le persone che segnalano incidenti falsi o ridicoli.

E molti sono ridicoli. "Pantaloni sporchi stesi su uno stendino registrati dalla polizia come un incidente d'odio non criminale".

 

Qualcuno nel Galles del Nord si è lamentato del fatto che i suoi vicini hanno appeso "un paio di mutande sporche molto grandi e sporche allo stendibiancheria" e l'hanno lasciato lì per due mesi.

Ha detto che era perché aveva un nome italiano.

Lo stesso articolo cita una denuncia contro un uomo che si è rifiutato di stringere la mano a qualcuno che pensava fosse transessuale.

Un uomo di lingua russa ha affermato che un barbiere gli ha dato un taglio di capelli "aggressivo" dopo aver parlato della guerra in Ucraina.

Una bambina di nove anni è stata denunciata per aver definito un compagno di classe un "ritardato" e due ragazze della scuola secondaria sono state trattate per aver detto che un altro alunno puzzava "di pesce".

Come ho detto, la polizia può essere creativa.

Questo articolo dice che un vicario ha ricevuto la visita della polizia perché un omosessuale era "allarmato e angosciato" quando il vicario ha detto che l'omosessualità è un peccato.

Le persone bussano alla porta per aver "sbagliato il genere" di qualcuno.

 Il gestore di un pub ha ricevuto un articolo perché ha cacciato i clienti che facevano sesso in bagno.

La denuncia sosteneva che era solo perché uno dei giocatori era transgender. Immagino che a nessuno importi se le persone normali si accoppiano nei pub.

Si suppone che il Ministero dell'Interno abbia emanato regole di "buon senso" per ridurre le sciocchezze in modo che le segnalazioni siano riservate a "incidenti 'chiaramente motivati da ostilità intenzionale' in cui esiste un rischio reale di escalation 'che causa danni significativi o un reato penale'".

Tutto questo è assolutamente soggettivo.

Molte persone pensano che l'intera faccenda dovrebbe essere eliminata.

Il “Times of London”, non esattamente un giornale impulsivo, sta conducendo un sondaggio che chiede:

"La polizia dovrebbe smettere di indagare su incidenti d'odio non criminali?" Quando ho guardato, il 92 percento delle persone ha detto "sì" e solo l'8 percento ha detto "no".

L'attuale governo laburista si schiera con l'8 per cento.

 Il Ministero dell'Interno afferma che di queste cose si "aiuta la polizia a costruire un quadro di registrazione intelligence intorno alle tensioni comunitarie al fine di mappare le tendenze e prevenire l'escalation".

Non si sa mai quando il misgendering potrebbe degenerare in omicidio.

Il ministro dell'Interno “Yvette Cooper” afferma che il monitoraggio di questi incidenti "può essere uno strumento cruciale per consentire alla polizia e ad altre autorità di monitorare e avvisare dell'aumento degli abusi contro le comunità ebraiche e musulmane".

Bene. Immagino che questo risolva la questione.

Sia i gruppi ebraici che quelli musulmani affermano che "i crimini d'odio registrati dalla polizia in relazione all'antisemitismo e all'islamofobia erano solo una frazione della vera portata degli abusi".

Sapete cosa? Scommetto che ogni "categoria protetta" dice esattamente la stessa cosa.

L'idea stessa che la polizia indaghi su non-crimini è assurda.

L'unica conseguenza è che la gente capisca la parola: tappatevi il labbro.

Non fate arrabbiare le persone speciali della Gran Bretagna.

L'anno scorso la polizia ha registrato più di 13.000 casi di "odio non criminale". Ognuno di essi ha richiesto circa cinque ore di tempo alla polizia, e questo equivale a circa 60.000 ore di polizia.

La Gran Bretagna deve essere meravigliosamente libera dal crimine per poter inviare la polizia a vestire le persone che non vogliono stringere la mano.

Vediamo. Ecco un grafico dei crimini violenti in Gran Bretagna negli ultimi 20 anni.

C'è stato un leggero calo negli ultimi due anni, ma c'è ancora ben più del doppio dei crimini violenti rispetto a 10 anni fa.

Inoltre, "Tre furti con scasso su quattro irrisolti in Inghilterra e Galles l'anno scorso".

 Si tratta di 200.000 effrazioni irrisolte e un sospetto è stato accusato solo nel 6% dei casi.

Finora ho parlato solo di odio non criminale.

 Forse farò un altro video sull'odio criminale, come è ovvio .

 A quanto pare, ce n'è anche tanto.

"Comunicazione malevola" (e può essere anche solo un tweet) può farti pagare due anni di carcere e una multa per qualsiasi cosa il giudice pensi di poterti spremere.

Puoi passare sette anni di carcere per "incitamento all'odio razziale" e non devi fare niente, solo dire delle cose.

Sono tempi tristi per un paese che credeva nella libertà personale.

La Gran Bretagna è un perfetto esempio di ciò che il “grande Sam Francis” chiamava "anarco-tirannia".

Francis è morto nel 2005 e, per coloro che non lo conoscevano, Wikipedia spiega utilmente che era "uno scrittore suprematista bianco americano" – proprio quello che Wikipedia dice di me.

 

Otteniamo l'anarco-tirannia quando la polizia non può – o non vuole – controllare il crimine. Questa è l'anarchia.

Invece, la polizia persegue le persone rispettose della legge come te e me per "incidenti di odio non criminale", "comunicazione malevola", pregare a scuola, fumare nel posto sbagliato, camminare sulla strada, possedere il caricatore di pistola sbagliata, non indossare un casco da bicicletta, ecc. ecc.

 Questa è la tirannia.

Questi sono tempi tristi anche per il nostro paese. E Francesco l'aveva previsto 30 anni fa.

 

 

Il cristianesimo non può salvare gli ebrei.

La critica storica può curarli?

  Unz.com - Laurent Guyénot – (23 novembre 2024) - ci dice:

 

In "Dio, gli ebrei e noi: un contratto di civiltà ingannevole", ho raccontato di nuovo come i Romani, non essendo riusciti a incorporare Israele nella civiltà ellenistica, decisero di cancellarlo dalla storia.

Nel 70 d.C., dopo quattro anni di guerra, Vespasiano e suo figlio Tito conquistarono Gerusalemme, saccheggiarono e bruciarono il suo tempio e costrinsero tutti gli ebrei dell'Impero a pagare due dracme all'anno al tempio di Giove sul Campidoglio, invece che al tempio di Yahweh come erano soliti fare.

Mezzo secolo dopo, l'imperatore Adriano cercò di cancellare l'identità ebraica proibendo la circoncisione sotto pena di morte.

 Ciò innescò la rivolta di “Bar Kokhba” negli anni 132-135 d.C. ("Gli ebrei iniziarono la guerra, perché era loro proibito mutilare i genitali", secondo la” Historia Augusta”).

Adriano represse la rivolta, rase al suolo ciò che restava di Gerusalemme e costruì una città greca al suo posto, con un tempio dedicato a Giove dove un tempo sorgeva il tempio ebraico.

 La nuova città fu chiamata “Aelia Capitolina” e la nuova provincia” Siria Palæstina.

“ Martin Goodman” in “Roma e Gerusalemme: lo scontro di antiche civiltà“:

"Agli occhi di Roma e per volere di Adriano, gli ebrei avevano cessato di esistere come nazione nella loro terra".

Questo, tuttavia, non risolse il problema ebraico dei Romani.

Probabilmente, lo aggravò.

Israele non era morto, ma ora era "disperso" in ogni città dell'Impero.

 Non era più uno stato, ma ancora una nazione, con un legame etnico più forte che mai.

 Infatti, il potere ebraico si faceva sentire a Roma fin dal primo secolo a.C.:

"Sai che grande folla sono, come stanno uniti, quanto sono influenti nelle assemblee informali", si lamentò Cicerone nella sua difesa del governatore dell'Asia Minore che aveva impedito agli ebrei di inviare denaro a Gerusalemme (Pro Flacco xxviii).

Ma la presenza ebraica a Roma aumentò drasticamente quando Vespasiano e Tito portarono circa 97.000 prigionieri da Gerusalemme, tra cui membri della nobiltà sacerdotale e reale ricompensati per il loro sostegno (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica vi, 9).

Alcuni di loro si assimilarono felicemente nella società romana, mentre altri solo finsero di farlo.

 Oltre al loro amore incrollabile per Israele, molti ebrei ora provavano un odio inestinguibile per Roma.

 Nella cosiddetta letteratura inter testamentaria, che include il Libro dell'Apocalisse, per lo più ebraico, Roma era equiparata a Babilonia, mentre nella letteratura rabbinica divenne Edom (Esaù), il nemico archetipico di Giacobbe.

Riprendo questa storia come un racconto ammonitore contro la convinzione che la distruzione dell'Israele moderno, che senza dubbio avverrà entro pochi decenni, risolverà la questione ebraica.

 Lo "Stato ebraico" è un paese malato, non ci sono dubbi.

È nato malato e sicuramente morirà per (o a causa di) questa malattia.

Ma cosa succederà dopo?

Israele esisteva prima del 1947 e continuerà a esistere anche se lo Stato di Israele dovesse scomparire.

 Israele è a Washington, New York e Los Angeles, così come in ogni capitale europea, e prospererebbe ancora senza Tel Aviv.

Alcune persone pensano che Netanyahu e il suo attuale governo siano il problema; dicono che Netanyahu sia uno psicopatico, quando in realtà è solo il leader della nazione psicopatica.

 Ma anche coloro che pensano che il moderno stato di Israele sia l'unico problema stanno valutando la situazione.

 Israele è il problema, ma Israele non è una nazione fondata nel 1947, è molto, molto antica, una delle nazioni più antiche ancora esistenti, insieme alla Cina.

 Ed è qui per durare.

“Theodor Herzl “aveva pensato che la creazione di uno Stato ebraico fosse la "soluzione finale" alla questione ebraica.

 Si sbagliava, ma lo stesso vale per noi se pensiamo che la distruzione dello Stato ebraico libererà il mondo dalle cospirazioni ebraiche.

 

Il cristianesimo può salvare gli ebrei?

Per risolvere il nuovo problema ebraico che avevano creato distruggendo il regno di Israele, gli imperatori romani adottarono la “religione sincretica” chiamata cristianesimo.

Il suo scopo esplicito era quello di convertire gli ebrei al culto di un Messia innocuo e non politico e di dissolvere la nazionalità ebraica in una versione monoteistica dell'universalismo romano. I cristiani hanno cercato incessantemente di convertire gli ebrei, con la consapevolezza che un ebreo convertito non è più un ebreo.

 La conversione degli ebrei è un principio fondamentale dell'escatologia cristiana.

Sfortunatamente, non accadrà. Nemmeno per sogno.

Nemmeno se Gesù tornasse sulle nuvole.

 I cristiani chiedono agli ebrei di passare da "Dio ha scelto gli ebrei" a "Dio ha scelto gli ebrei ma poi li ha di-scelti perché hanno rifiutato Gesù, sebbene fosse necessario che gli ebrei crocifiggessero Gesù affinché potesse risorgere per salvare l'umanità".

Perché un ebreo intelligente farebbe una mossa del genere?

Sono sospettoso degli ebrei che lo fanno.

 Lungi dall'essere non ebrei, in genere si considerano super-ebrei.

 E alcuni di loro sono palesi cripto che "assecondano gli ebrei gettando sotto l'autobus i loro compagni cattolici in difesa di favole ebraiche come la narrazione dell'Olocausto", scrive “Wyatt Peterson “, citando “Trent Horn” come un tipico "converso dei giorni nostri".

 

Persino “Martin Lutero” dovette fare i conti con l'inconvertibilità ebraica.

 Nel 1523 rimproverò ai cattolici di non essere in grado di convertire gli ebrei, che sono del sangue di Gesù (che Gesù Cristo è nato ebreo), ma vent'anni dopo ritenne gli ebrei così corrotti dai peccati capitali da essere irredimibili:

"Non sono altro che ladri e briganti che ogni giorno non mangiano un boccone e non indossano alcun filo di vestito che non ci hanno rubato e rubato per mezzo della loro maledetta usura" (Sugli ebrei e le loro menzogne).

 

Invece di disinnescare l'identità ebraica, il cristianesimo l'ha rafforzata.

 In primo luogo, ha reso l'ebraismo l'unica religione legale non cristiana. Dai tempi di Teodosio il Grande (379-375 dC), che mise fuori legge i culti pagani, "tra tutte le religioni non ufficiali, la religione ebraica era la meglio trattata e, in breve, la meglio tollerata".

Gli ebrei dovevano essere preservati per essere convertiti, e non dovevano essere forzati.

Gli ebrei erano immuni dall'Inquisizione (in effetti, rischiavano di essere perseguitati dall'Inquisizione solo se si convertivano).

 In secondo luogo, il cristianesimo rafforzò l'identità ebraica perché, invece di sfidare la fiducia degli ebrei nella loro scelta divina, il cristianesimo li incoraggiò nel loro delirio narcisistico.

 I cristiani dicono agli ebrei "Dio vi ha scelti"; aggiungendo "e poi vi ha disprezzati", si rendono semplicemente stupidi.

 Non puoi dare agli ebrei il diritto di nascita e poi chiederglielo indietro.

 In terzo luogo, il cristianesimo fornì l'antagonismo ideale all'ebraismo.

Secondo “Jacob Neusner” "l'ebraismo come lo conosciamo è nato nell'incontro con il cristianesimo trionfante".

Sarebbe più esatto dire che l'identità ebraica era alimentata dall'odio ebraico per i cristiani, che agli occhi degli ebrei erano Edom, Haman e Amalek.

Nel 408, “Teodosio II “dovette ordinare ai governatori di tutte le province dell'Impero di "proibire agli ebrei di appiccare il fuoco ad “Haman” in memoria della sua punizione passata, in una certa cerimonia della loro festa, e di bruciare con intento sacrilego una forma fatta per assomigliare alla croce santa in disprezzo della fede cristiana".

Quindi, invece di convertire gli ebrei, il cristianesimo li rese più ebrei.

Anche in termini pratici, la cristianità fu un ambiente favorevole per la crescita del potere ebraico.

Ad esempio, si dice che gli ebrei si dedicarono all'usura perché erano banditi da altre occupazioni redditizie, ma da un'altra prospettiva, gli ebrei si assicurarono un quasi monopolio sull'usura perché ai cristiani era vietato.

Anche se i cristiani potessero convertire gli ebrei, che senso avrebbe, comunque?

Gli ebrei sono come sono, non perché hanno rifiutato Gesù, ma perché hanno seguito “Yahweh”.

Gli ebrei non hanno bisogno di essere convertiti a una narrazione che attesti la loro scelta.

Gli ebrei hanno bisogno di essere convertiti alla verità.

La verità non è che "Dio ha scelto gli ebrei", né che "Dio ha scelto gli ebrei e poi li ha di-scelti".

 La verità è che gli ebrei hanno scritto un libro che dice che Dio ha scelto gli ebrei e, purtroppo, i cristiani credono che Dio abbia scritto quel libro.

La malattia di Israele è di proporzioni bibliche.

Gli ebrei non hanno bisogno che i cristiani dicano loro come leggere la loro Torah.

Hanno bisogno di sentirsi dire che la loro Torah, con il suo dio geloso e il patto xenofobo, è il virus cognitivo che li ha fatti impazzire per cento generazioni.

Hanno bisogno di sentirsi dire che soffrono di psicopatia biblica. Ho cercato libri che facessero questa diagnosi, ma non ci sono riuscito, a parte il mio, “From Yahweh to Zion” e “Our God is Your God Too”.

Avevo grandi aspettative quando ho iniziato di recente a leggere il libro di “Thomas Suárez”: State of Terror: How Terrorism Created Modern Israel, un'apertura degli occhi su una realtà nauseante che persino io avevo sottovalutato prima di leggerlo.

Scrive nell'introduzione:

Da Weizmann e Ben-Gurion alla fanatica banda terroristica “Lehi”, le dichiarazioni ideologiche del progetto dei coloni erano espresse nel linguaggio del messianismo.

 Il sionismo stava costruendo il Terzo Tempio, il regno finale, una resurrezione che sorgeva dalle ceneri del Secondo Tempio e dell'apocrifo Tempio di Salomone.

Le sue battaglie, i suoi nemici, le sue conquiste erano bibliche;

lo stato creato dalla risoluzione 181 delle Nazioni Unite era la rinascita di quello creato da Dio.

 Ben-Gurion si collocava quasi tra i Profeti, sostenendo che la sua conquista del 1948 segnava il terzo evento monumentale in tutta la storia ebraica, dopo l'Esodo dall'Egitto e la ricezione dei Dieci Comandamenti da parte di Mosè sul Monte Sinai.

Poiché “Suárez” menziona che i sionisti consideravano la loro lotta come biblica, avrebbe potuto rendere più chiara l'ispirazione biblica per il terrorismo israeliano.

Avrebbe potuto citare almeno una volta “Deuteronomio 2:25”, in cui "Yahweh, il dio di Israele" si presenta come il dio della "paura e del terrore":

 "Oggi e da ora in poi, riempirò i popoli sotto tutti i cieli di paura e terrore di te; chiunque ode notizie del tuo avvicinamento tremerà e si contorcerà nell'angoscia a causa tua".

 

Quando “Suárez menziona” che, "Per incoraggiare quelli che chiamava 'giusti ebrei' nell'omicidio di arabi, l'Irgun sfruttò passaggi biblici, come il racconto dell'Antico Testamento su Mosè", il verbo "sfruttare" avrebbe bisogno di chiarimenti:

 l'Irgun ha distorto la narrazione biblica o Mosè ha effettivamente ordinato lo sterminio degli Amaleciti e dei Madianiti (popoli arabi)?

 Quando “Suárez scrive” che "La Stern Gang, come veniva comunemente chiamata, o più formalmente “Lehi”, era la più fanatica delle tre principali organizzazioni, sostenendo di essere (come disse il Capo Segretario a Gerusalemme), 'gli eredi delle più pure tradizioni dell'antico Israele'", sarebbe stato appropriato discutere se tale affermazione fosse fondata o meno.

La conclusione sarebbe inequivocabile: il terrorismo israeliano è biblico in tutto e per tutto.

L'Irgun è biblico, il Lehi è biblico, la Nakba è biblica, Deir Yassin è biblico, Baruch Goldstein è biblico e Itamar Ben-Gvir è biblico.

Come ho scritto in "The Biblical Lens":

Netanyahu è pazzo, ma è pazzo di una follia biblica, come molti altri membri del suo governo.

 Itamar Ben-Gvir, il suo ministro della Sicurezza nazionale, aveva appesa alla parete una foto di Baruch Goldstein, autore nel 1994 del massacro di 29 palestinesi in una moschea di Hebron.

 La sua tomba, su cui è scritto "Ha dato la sua vita per il popolo di Israele, la loro Torah e la loro terra", è un luogo di pellegrinaggio.

 Yigal Amir ha detto di aver preso la decisione di assassinare Yitzhak Rabin durante il funerale di Goldstein.

 

E, naturalmente, il massacro di civili, uomini, donne e bambini a Gaza è biblico, come Netanyahu ha assicurato alle sue truppe:

"Dovete ricordarvi di Amalek".

Israele è biblico fino al midollo, e pretende di esserlo.

Per essere onesti, presumo che “Suárez “capisca il fondamento biblico del terrorismo israeliano, ma abbia scelto di non insistere sul punto.

Forse è stata la scelta più saggia:

limitando la sua indagine ai fatti nudi e crudi, ha reso inattaccabile la sua causa per la natura criminale di Israele – e la complicità dell'Occidente.

Ma il caso della tossicità della Bibbia ebraica deve essere sostenuto, ed era ora.

La cosa più assurda è che gli ebrei e gli stessi israeliani ci dicono in faccia che sono posseduti dal demone biblico, e noi non vogliamo sentirlo.

Diciamo loro che il loro libro è sacro, ma che lo interpretano male.

Stiamo facendo loro un grande disservizio.

 

Come i “Leviti” fecero il lavaggio del cervello agli “Israeliti”.

La Torah non è santa, è la Matrix, la prigione per la loro mente. La pillola rossa di questa Matrix è la critica storica, l'esegesi razionale e scientifica delle Scritture.

 Per caso, gli studiosi ebrei sono piuttosto bravi in questo.

Uno degli studiosi biblici più talentuosi e rispettati di oggi è “Richard Elliott Friedman”.

Nel suo libro più recente, “The Exodus: How it Happened and Why it Matters (HarperOne, 2017), risolve la seguente contraddizione:

 da un lato, non abbiamo prove archeologiche di una migrazione di massa dall'Egitto a Canaan, e abbiamo invece prove archeologiche che gli Israeliti erano indigeni della terra di Canaan;

dall'altro lato, abbiamo prove scritturali di un'origine egiziana per gran parte delle tradizioni sacerdotali nella Torah.

La soluzione, sostiene Friedman, è semplice: le tribù di Israele avevano "origini in gran parte indigene" nella terra di Canaan, fatta eccezione per l'unica tribù senza territorio, i “Leviti”.

I Leviti migrarono dall'Egitto in numero relativamente piccolo e sovrapposero il “loro culto yahvista esclusivista “al culto degli Israeliti per il dio supremo “El”.

 Israele probabilmente esisteva come regno nell'odierna Palestina prima che una banda conquistatrice di “Leviti” si trasferisse lì e imponesse progressivamente il proprio governo religioso e militare.

Ecco gli argomenti chiave:

In primo luogo, “molti leviti” hanno nomi egiziani (Ofni, Hur, due uomini di nome Fineas, Merari, Mushi, Passur e, naturalmente, Mosè), mentre "nessuna persona di nessun altro del resto d'Israele ha un nome egiziano".

Secondo, "in tutte le nostre fonti più antiche, solo i leviti hanno qualche relazione con l'esodo".

In terzo luogo, le fonti sacerdotali (E, P e D) mostrano familiarità con la cultura, la tradizione e la letteratura egizia.

Un argomento forte è tratto da due delle fonti più arcaiche della Bibbia:

 il Cantico di Miriam (o Canto del Mare, Esodo 15) e il Cantico di Debora (Giudici 5).

"Il Cantico di Debora, ambientato in Israele, non menziona i Leviti; e il Cantico di Miriam, ambientato in Egitto, non menziona Israele".

 Nel Cantico di Miriam, le persone salvate dagli Egiziani che li inseguivano sono semplicemente "il popolo di Yahweh".

La canzone di Deborah "celebra la battaglia... che per primo stabilì l'egemonia israelita come paese", e nomina tutte le tribù tranne i Leviti.

Inoltre, nella Benedizione di Mosè (Deuteronomio 33), un'altra fonte arcaica che combina oracoli su molte delle tribù di Israele, l'oracolo di Levi è l'unico che menziona le peregrinazioni nel deserto.

I “leviti” non erano una tribù, ma un gruppo sacerdotale, senza alcuna assegnazione di territorio.

Erano dispersi tra le tribù, presero il controllo diretto di dieci città e vivevano di un decimo (una decima) dei prodotti delle tribù israelite (Giosuè 13-19).

Fu solo con una tarda finzione che i Leviti vennero annoverati come una delle tribù di Israele e gli fu dato un antenato tra i figli di Giacobbe (Genesi 49).

Ciò significa che i Leviti adoratori di Yahweh colonizzarono le tribù israeliane e unirono il loro culto della morte yahvista con la religione indigena, convincendo gli Israeliti che il loro grande dio universale El era in realtà il dio tribale Yahweh, come il dio stesso aveva detto al “Levita Mosè” mentre pascolava le capre del suocero dopo essere fuggito dall'Egitto dove era ricercato per omicidio (Esodo 3:6).

Fu lo stesso trucco che Esdra avrebbe poi giocato ai Persiani.

Sebbene fossero migrati dall'Egitto, i Leviti probabilmente non erano di origine egiziana e potrebbero essere stati " Habiru " (predoni nomadi, in seguito Ebrei) giudei insoddisfatti del trattamento riservato loro dagli Egiziani, o forse discendenti degli “Hyksos” cacciati dall'Egitto.

Ciò spiegherebbe perché "ciò che sappiamo della religione dell'antico Israele non sembra provenire da una fonte egizia" (contrariamente a quanto ipotizzato da Freud, “Yahweh” non ha nulla in comune con il dio Sole di Akhenaton).

 

“I Leviti “potevano convertire, sottomettere e tassare gli Israeliti indigeni perché non erano solo una casta sacerdotale, ma una banda di conquistatori particolarmente violenta e crudele.

 Massacrarono circa tremila Israeliti nell'episodio del vitello d'oro (Esodo 32:26-28):

Mosè si fermò alla porta dell'accampamento e disse: «Chi è per il Signore, per me!».

 E tutti i figliuoli di Levi si radunarono presso di lui.

Ed egli disse loro: «Il Signore, Dio d'Israele, ha detto: Ciascuno si ponga la spada sulla coscia; attraversare e tornare da un cancello all'altro nell'accampamento; e uccidete ciascuno, suo fratello e, ciascuno, il suo prossimo e, ciascuno, il suo parente'".

I figliuoli di Levi fecero secondo l'ordine di Mosè e in quel giorno caddero circa tremila uomini di mezzo al popolo.

In questo passaggio, i Leviti appaiono come una sorta di guardia militare di Mosè, che terrorizza il popolo fino a sottometterlo alla loro religione esclusivista ed etnocentrica, il “culto del Dio geloso”.

 

Lo studioso polacco Łukasz Niesiołowski-Spanò sottolinea questa funzione militare dei Leviti.

Nel Deuteronomio e nell'Esodo, "i leviti sono indicati come quei combattenti militari che eseguivano gli ordini di Mosè".

Sono "soldati per eccellenza", e la loro funzione primaria è quella di essere "le guardie dell'Arca".

 Numeri 1:53: "Ma i Leviti si accamperanno intorno al tabernacolo del patto, affinché non vi sia ira sulla congregazione degli Israeliti; e i Leviti adempiranno il servizio di guardia del tabernacolo dell'alleanza".

 La loro natura militare è sottolineata anche nella "Benedizione di Giacobbe", che nel loro caso è più una maledizione che una benedizione:

Simeone e Levi sono fratelli; Le armi della violenza sono le loro spade. Possa io non entrare mai nel loro consiglio;

fa' che io non mi unisca alla loro compagnia - perché nella loro rabbia hanno ucciso uomini ... Maledetta la loro ira, perché è feroce, e la loro ira, perché è crudele! (Genesi 49:5-7).

Il fatto, spesso ripetuto nella Torah, che i Leviti non possedevano un territorio speciale ma erano di stanza nelle città, è generalmente spiegato dalla loro attività culturale.

Ma "si può spiegare in modo molto più diretto se si accetta il ruolo militare dei leviti, che forse erano di stanza nelle città all'inizio della loro storia".

 

Inoltre, diversi passaggi, tra cui Deutoronomeo 33:8-11 ("Insegneranno a Giacobbe i tuoi precetti e Israele la tua legge"), "potrebbero suggerire un'origine straniera per i leviti", osserva anche “Niesiołowski-Spanò”.

In definitiva, molte cose indicano la teoria secondo cui i leviti arrivano a dominare religiosamente gli israeliti con la forza militare.

Il che, naturalmente, è coerente con la violenza del loro “dio Yahweh Sabaoth” ("degli eserciti"), il cui conteggio delle uccise ammonta a 2.821.324 secondo Steve Wells, autore di “Drunk with Blood: God's Killins in the Bible “(il titolo del libro è preso in prestito da Deuteronomio 32:42, in cui Yahweh dice: "Inebrierò le mie frecce di sangue, e la mia spada divora la carne").

 

I leviti si divisero in due case sacerdotali rivali, gli Aaronidi (discendenti di Aaronne) e i Mushiti (discendenti di Mosè), che si impegnarono in lotte per la leadership.

 Il “Libro dei Numeri “ricorda come gli” Aaronidi” si assicurarono il sacerdozio quando “Fineas”, nipote di Aaronne, ricevette da Yahweh "a lui e alla sua discendenza dopo di lui... il sacerdozio per sempre", cioè "il diritto di compiere il rito di espiazione per gli Israeliti".

 Per quale santa azione fu così ricompensata “Fineas”?

Per l'assassinio di un Israelita e di sua moglie Madianita, che avevano trasgredito la Legge della rigida endogamia!

 Fineas "afferrò una lancia, seguì l'israelita nell'alcova, e lì li trafisse entrambi, l'israelita e la donna, attraverso lo stomaco".

Con questo atto, dice il Signore, “Fineas” dimostrò di avere "lo stesso zelo che ho io" (Numeri 25:11-13).

Chiamare Yahweh un "dio geloso" è un eufemismo: è in realtà uno xenofobo odioso e omicida.

Riflettiamo sul fatto che, secondo la Bibbia, il sacerdozio ereditario del Dio geloso fu assicurato come ricompensa per il duplice omicidio di un ebreo e della sua moglie non ebrea.

Qui si trova l'essenza stessa della fede ebraica.

 

Liberate gli ebrei timorati di Dio.

"Paura e terrore" è l'essenza del controllo degli ebrei sui “goyim”, ma è anche l'essenza del controllo degli ebrei sugli ebrei stessi.

 Il “Tanakh” fu scritto da generazioni di “Leviti” come mezzo per controllare gli Israeliti con la paura di un dio spauracchio.

Ecco perché, in termini biblici, un buon ebreo è un ebreo timorato di Dio.

 

Il Patto si basa sulla minaccia della distruzione permanente.

Gli ebrei che sfidano le élite loro nominate da Dio e che socializzano con i loro vicini non ebrei, che mangiano con loro, che si sposano con loro e che, mentre fanno tutto questo, mostrano rispetto per i loro dei, sono la feccia del popolo ebraico, traditori di Yahweh e della loro razza.

Meritano di essere eliminati senza pietà, soprattutto perché mettono in pericolo l'intera comunità attirando l'ira di Yahweh.

Il fatto che l'autorità dei Leviti sia fondata sulla violenza e sul terrore è abbastanza chiaro nel “Levitico”:

E se, nonostante ciò, non mi ascolterete, ma andrete contro di me, io andrò contro di voi con furore e vi punirò sette volte per i vostri peccati.

Mangerete la carne dei vostri figli, mangerete la carne delle vostre figlie. Distruggerò i vostri alti luoghi e distruggerò i vostri altari d'incenso; Io ammucchierò i vostri cadaveri sui cadaveri dei vostri immondi idoli e vi rigetterò. Ridurrò le vostre città in rovine, ecc. (26:27-31).

Tali minacce si ripetono più e più volte. Giosuè, successore di Mosè tra i Leviti, disse agli Israeliti che avevano appena preso possesso di “Canaan”:

Se fai amicizia con il resto di queste nazioni che ancora vivono accanto a te, se ti sposi con loro, se ti mescoli con loro e loro con te, ... se andrai a servire altri dèi e ti prostrerai davanti a loro, l'ira del Signore si accenderà contro di te e presto scomparirai dalla bella patria che egli ti ha dato. (Giosuè 23:6-16)

Quando, nel II secolo aC, alcuni israeliti pensarono:

"Alleiamoci con i Gentili che ci circondano, perché da quando ci siamo separati da loro molte disgrazie ci hanno colpito", i Maccabei scatenarono una guerra civile contro di loro, "colpendo i peccatori nella loro ira e i rinnegati nel loro furore" (1Maccabei 1-2).[8]

In Numeri 16-17, un gruppo di duecentocinquanta leviti guidati da Cora viene a sua volta sterminato per essersi ribellato a Mosè e ad Aronne.

«Io li distruggerò qui e ora», disse il Signore, e «il fuoco uscì dal Signore e consumò i duecentocinquanta uomini che offrivano incenso» (16,20-35). "Il giorno seguente, tutta la comunità degli Israeliti mormorava contro Mosè e Aronne e diceva: 'Tu sei responsabile dell'uccisione del popolo del Signore!'" Allora il Signore disse: "Io li distruggerò qui e ora", e una piaga decimò quattordicimila settecento di loro (17,6-14).

 

Le élite ebraiche di oggi potrebbero non essere Leviti in senso stretto, ma l'ebraismo è ancora un sistema di controllo mentale tramite il terrore.

L'ebraismo è una forma di sindrome di Stoccolma.

Come dice “Smiles Burger” nel romanzo “Operazione Shylock” di “Filippo Roth” : "Fare appello a un padre pazzo e violento , e per tremila anni, questo è ciò che significa essere un ebreo pazzo!"

Gli ebrei si sentono odiati da tutta l'umanità (gli ebrei sono "il popolo scelto per l'odio universale", scriveva il proto-sionista” Leon Pinsker), ma questo può essere, in parte, un caso di proiezione freudiana:

nel profondo, sanno che il dio che li ha scelto è il dio dell'odio, non dell'amore.

Questo falso dio evocato dai Leviti li ama solo finché obbediscono alle sue folli leggi senza discutere, ma li odia non appena cercano di essere pensare e agire come esseri umani liberi.

A cominciare dal Signore Dio d'Israele stesso, furono i successivi capi d'Israele che, uno dopo l'altro, riunirono e guidarono la tragica carriera degli ebrei, tragica per gli ebrei e non meno tragica per le nazioni vicine che li hanno subiti .

Nonostante i nostri difetti, non avremmo mai fatto così tanti danni al mondo se non fosse stato per il nostro genio per la leadership malvagia.

La buona notizia: gli ebrei possono essere salvati e saranno salvati quando romperanno l'incantesimo di Yahweh.

Dobbiamo aiutarli affermando inequivocabilmente che il loro dio biblico non è Dio, ma un grottesco burattino modellato dalla loro leadership sacerdotale per terrorizzarli, fare il lavaggio del cervello e depravarli.

 A meno che non siano disposti a convertirsi al marcionismo, i cristiani dovrebbero tenersi lontani da questo dialogo;

Gli ebrei non hanno bisogno di convertirsi al cristianesimo, hanno bisogno di convertirsi alla critica storica.

La critica storica ha dimostrato che il monoteismo ebraico è stato stabilito non quando Dio ha scelto gli ebrei, ma quando gli ebrei hanno dichiarato che il loro dio nazionale preistorico, amante dell'olocausto, era l'unico dio, quindi Dio.

Dobbiamo riconoscere e dire agli ebrei che il loro dio non è Dio, ma il dio del genocidio, poiché Atena è sia la dea degli Ateniesi che la dea della saggezza.

Il dio ebraico (con Yahweh, Hashem o qualsiasi altro nome) è un diavolo cattivo, avido e vendicativo che ha schiavizzato spiritualmente gli ebrei.

 L'ebraismo è un caso di possessione demoniaca collettiva.

 

 

 

L'UE e l'illusione

 della democrazia.

 Unz.com - Hans Vogel – (21 novembre 2024) – ci dice:

 

Hans Vogel smantella la pretesa di democrazia dell'Unione Europea, condannando la sua incompetenza burocratica, il decadimento economico e la morsa autoritaria della sua élite delirante, che accelera il collasso dell'UE mentre mette a tacere il dissenso.

L'Unione Europea ha ventisette Stati membri, una popolazione di 450 milioni di abitanti e un prodotto nazionale lordo di oltre diciotto trilioni di dollari.

 In qualche modo, l'élite al potere dell'UE si crogiola nella convinzione che ciò che amano chiamare "Europa" sia una democrazia.

 Questo di per sé dà loro motivi sufficienti per sentirsi superiori.

Sulla carta, queste statistiche dell'UE sembrano piuttosto impressionanti.

Solo gli Stati Uniti hanno un PIL più grande, mentre quello della Cina (con una popolazione tre volte più grande di quella dell'UE) è grande circa quanto quello dell'UE.

Di conseguenza, l'UE sembra sia economicamente impressionante che ricca.

In realtà, questo potrebbe essere il motivo per cui così tanti "eurocrati" sembrano così soddisfatti di tutto ciò che è europeo, che nella loro mente è lo stesso dell'UE.

È sempre utile tenere a mente che l'Europa è molto più grande dell'UE.

 Comprende la Federazione Russa a ovest degli Urali, l'Ucraina, la Bielorussia, la Serbia, l'Inghilterra, la Scozia e il Galles, la Norvegia e, ad essere onesti, anche la Turchia.

Così, quasi 300 milioni di europei rimangono al di fuori dell'UE.

 

Mentre fino a trent'anni fa, gli Stati membri dell'UE come la Germania, l'Italia e la Francia erano considerate potenze economiche, basate su un'agricoltura solida e su un'industria manifatturiera superba, ora sono al collasso totale.

 Spagna e Polonia sono entrate a far parte della schiera delle principali nazioni industrializzate, ma da nessuna parte, tranne che in Germania (31%), l'industria manifatturiera rappresenta più di circa un quarto del PIL.

Ciò significa che, in realtà, i PIL dell'UE sono un po' più piccoli, perché gran parte è costituita dalla manipolazione statistica.

La maggior parte dei singoli PIL dell'UE sembra impressionante a causa delle "entrate" e delle spese governative parassitarie (tasse e altre forme di estorsione).

Tutte le decisioni in questo campo sono prese dalle persone che governano l'UE e i suoi Stati membri, che sembrano intenzionate a provocare un totale suicidio economico, sociale e culturale.

È "il pianeta" che queste persone vogliono salvare, piuttosto che le popolazioni su cui stanno governando.

Chiamare quel regime una "democrazia" è in realtà un affronto. La democrazia presuppone, tra le altre cose, lo Stato di diritto, il mantenimento imparziale della legge e dell'ordine, elezioni eque e oneste, la libertà di parola, la libertà di azione economica e la libertà di movimento.

 Una democrazia non è il tipo di "società aperta" in cui solo i truffatori come “George Soros” possono fare ciò che vogliono senza mai essere costretti a rispondere delle loro azioni.

L'odiosa frequenza e l'insistenza nauseante con cui i politici europei si sono trasferiti alla "nostra democrazia" è di per sé un'indicazione che tale "democrazia" non è altro che un'illusione.

 

Per quanto riguarda la questione di come definire politicamente l'UE, la risposta è migliore per mezzo di un'analogia.

L'analogia più vicina sembrerebbe essere l'URSS prebellica, quando il suo governo era composto da commissari del popolo.

 A dispetto di ciò che l'aggettivo vuole suggerire, questi commissari sono stati nominati, non eletti.

 I membri del governo dell'UE (la Commissione UE) sono chiamati commissari. L'unica vera differenza politica tra l'URSS e l'EURSS è che quest'ultima non ha un leader di partito onnipotente come Stalin nell'Unione Sovietica.

Ciò che colpisce quando si esaminano le qualifiche professionali dei commissari dell'UE è la loro totale ignoranza.

 La maggior parte ha una laurea universitaria, ma ciò che hanno studiato non ispira fiducia, né è in alcun modo utile per affrontare le questioni politiche odierne, che spesso richiedono una solida conoscenza delle materie STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica).

 Al contrario, la maggior parte dei commissari si è laureata in giurisprudenza, pubblica amministrazione, giornalismo o scienze politiche.

Queste materie non richiedono una particolare intelligenza, intuito o altre qualità intellettuali di base.

Non c'è quasi nessuno che abbia studiato una qualsiasi delle materie STEM.

Certo, c'è qualche medico occasionale, ma il “Great Covid Show” ha dimostrato che la maggior parte dei medici non capisce la salute umana e ha poca conoscenza della medicina.

Ciò che vale per la Commissione UE vale per tutti i governi degli stati membri:

i posti di gabinetto sono per lo più occupati da avvocati, giornalisti, politologi e laureati in pubblica amministrazione.

È sorprendente che tutti quei commissari e ministri ignoranti prendano decisioni dannose?

"Difficilmente", dovrebbe essere la risposta ovvia.

Dopotutto, non hanno la conoscenza, l'istruzione, l'intelligenza e il buon senso per mettere in discussione il contenuto di tutti quei documenti e carte che firmano così diligentemente sulle loro scrivanie.

Né sono intellettualmente equipaggiati per mettere in discussione la validità di programmi come” Agenda 2030” o i cosiddetti “SDG” (Sustainable Development Goals).

 I commissari e i ministri non sono quindi altro che dei burattini ottusi o persone la cui insaziabile sete di riconoscimento e denaro li spinge a fare qualsiasi cosa.

Inoltre, i commissari e i ministri dipendono da schiere di segretari, consiglieri e funzionari pubblici.

Con un costo annuale di circa otto miliardi di euro, circa 40.000 di questi sono impiegati dall'Unione Europea e di stanza a Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo. Come si può vedere nell'impareggiabile sitcom inglese” Yes Minister” e nel suo sequel “Yes Prime Minister” (1980-1988), i ministri del governo dipendono completamente dai loro assistenti.

Eppure, mentre un tempo questi assistenti avevano almeno una solida conoscenza di argomenti chiave, certamente pertinenti alle aree di cui i loro ministri dovevano occuparsi, oggi quegli stessi assistenti sono della stessa levatura intellettuale dei loro padroni ministeriali.

 In linea con le statistiche europee generali, la stragrande maggioranza non ha la più pallida nozione di materie STEM. Non è probabile che questa situazione cambi drasticamente in tempi brevi.

 

Nella maggior parte delle nazioni dell'UE, gli studenti STEM sono una piccola minoranza, fatta eccezione per Germania, Francia, Italia e Grecia.

A livello globale, solo Germania e Francia si avvicinano alle percentuali di leader in questo campo come Cina, Russia e India.

D'altro canto, le percentuali medie di persone con un'istruzione accademica veramente completata (MA e PhD) nella fascia di età compresa tra 25 e 64 anni variano all'incirca tra il 15% e poco più del 20%.

La stragrande maggioranza di coloro che non sono in materie STEM, fatta eccezione per Germania e Francia.

Statisticamente, la maggior parte di queste persone istruite all'università si considera "progressista" e rientra tra i sostenitori più entusiasti dell'autoritarismo di sinistra incarnato negli SDG e nell'Agenda 2030.

Potremmo avere qui una spiegazione plausibile per la pura idiozia dei decreti e delle decisioni governative in tutta l'UE.

La maggior parte dei politici, giornalisti, esperti e personaggi pubblici non ne hanno la minima idea e ingoiano avidamente “tutte le assurdità sul cambiamento climatico antropogenico”, così come la” follia dei woke e dei transgender”, amo, lenza e piombo.

Forse questa popolarità tra una parte delle élite urbane "progressiste" in rapido invecchiamento è stata un incentivo per gli eurocrati ad aumentare i propri stipendi del 15% in soli due anni (2022-2024).

La presidente della Commissione “Ursula von der Leyen” incassa annualmente circa mezzo milione di euro.

Gli altri commissari ricevono una media di circa 1.500 euro al giorno di "lavoro".

Sta diventando sempre più evidente che un numero crescente di cittadini dell'UE si sente tradito e messo all'angolo dal regime.

 Nonostante la massiccia manipolazione del voto, il partito tedesco “AfD “raccoglie regolarmente almeno un terzo dei voti nelle elezioni regionali, l'”FPÖ “austriaco è recentemente diventato il partito più grande e in Francia (Rassemblement National) e nei Paesi Bassi (Forum voor Democratie) si possono osservare fenomeni simili.

 In Italia, i nazionalisti di destra sotto Giorgia Meloni sono al governo, mentre in Spagna (VOX), Portogallo (Chega), Grecia e altrove, la resistenza contro gli autoritari politicamente corretti dell'UE è da tempo sostanziale.

È soprattutto tra le classi medie e basse urbane svantaggiate e tra i contadini (gli odierni kulaki) che questi movimenti trovano molti sostenitori.

Così come tra un numero crescente di giovani altamente istruiti che vedono il loro futuro distrutto dall'EUSSR.

 

Nel tentativo di arginare la crescita di tutti quei movimenti di destra moderati, la censura sta diventando sempre più severa.

Allo stesso tempo, il law fare ad ampio spettro viene condotto contro i politici popolari di destra in Germania, Austria, Paesi Bassi, Francia e Italia.

Quanto più si stringono le viti della repressione, tanto più gli eurocrati dell'EUSSR e i media tradizionali corrotti, con il supporto delle "élite" liberali e socialdemocratiche, affermano di difendere la "democrazia" e i "valori democratici".

Temo che la maggior parte di quegli eurocrati creda sinceramente di essere al timone di un sistema democratico e che le loro decisioni siano politicamente e moralmente impeccabili.

Ciò che non riescono a capire è che l'UE è come un gigante moribondo.

 Come Gulliver legato a terra dai lillipuziani, l'UE, essendo il residuo di quello che un tempo era un continente formidabile senza il quale la civiltà moderna sarebbe impensabile, è stata immobilizzata dalle decisioni fatali dei suoi governanti.

Innumerevoli lillipuziani dei giorni nostri, la maggior parte dei quali provenienti dall'Africa e dal Medio Oriente, stanno banchettando su ciò che non è ancora un cadavere.

Allo stesso tempo, stanno erigendo mulini a vento e parchi solari sul ventre e sulle gambe del gigante.

 Hanno anche saccheggiato i suoi scaffali, ma semplicemente non riescono a decifrare cosa c'è nei libri.

Questo gigante mezzo morto è chiamato "democrazia" da tutti gli eurocrati e dai loro compari e tirapiedi.

Queste persone sono così lontane dalla realtà che ora vogliono iniziare una guerra contro la Russia.

Bene, questo non farà che accelerare la fine definitiva dell'UE, che sembra inevitabile in ogni caso.

 

 

 

 

 

 

La tirannia del libero mercato.

 Globalresearch.ca – (04 dicembre 2024) - Bhabani Shankar Nayak – ci dice:

 

Il mercato, in quanto istituzione sociale ed economica, è fondamentalmente un processo volto a facilitare la vita umana riunendo consumatori e produttori.

Garantisce che le attività economiche servano allo scopo sociale di soddisfare i diversi bisogni degli esseri umani.

 Questa relazione non si basava solo su relazioni di scambio, ma si basava anche sulla fiducia: fiducia nel prodotto, nel prezzo e nel produttore.

Storicamente, le relazioni di mercato erano libere dalla tirannia e fondate sulla libera scelta dei produttori di vendere e dei consumatori di comprare, guidati dalle loro necessità e capacità.

In un mercato del genere, non esisteva un potere invisibile che dettasse i termini e le condizioni del rapporto tra produttori e consumatori.

Invece, sia i produttori che i consumatori dipendevano l'uno dall'altro, creando un legame simbiotico e reciprocamente vantaggioso.

Questo rapporto organico e indissolubile, tuttavia, è stato smantellato con l'avvento del cosiddetto "libero mercato".

 

Il "libero mercato" non è libero né per i produttori né per i consumatori.

La nozione di "libera scelta" è stata ridotta al potere d'acquisto dei consumatori, alla loro capacità di accedere a beni e servizi forniti da un mercato che è, in realtà, libero dall'influenza e dal controllo sia dei produttori che dei consumatori e dalle loro esigenze quotidiane.

Oggi, coloro che controllano il mercato spesso non sono né produttori né consumatori della maggior parte dei beni venduti nei cosiddetti supermercati, che hanno sostituito i mercati tradizionali.

Nei mercati tradizionali esisteva un rapporto diretto e significativo tra produttori e consumatori, un legame essenziale che ora è andato perduto.

La pseudo-scienza dell'economia tradizionale o neoclassica, propagata dai suoi sacerdoti aderenti noti come economisti, ha costruito un concetto asociale, amorale e astorico noto come "libero mercato".

Questo cosiddetto costrutto guidato da modelli scientifici mina i produttori, distorce le condizioni di produzione e di prezzo e manipola i bisogni dei consumatori attraverso la pubblicità, il tutto ignorando i fondamenti sociali e le realtà materiali del mercato sia come istituzione che come processo.

 Il cosiddetto mercato libero è progettato per massimizzare il profitto a spese sia dei produttori che dei consumatori.

Si tratta di un sistema distorto che soggioga le persone con il pretesto di offrire "libera scelta".

 

I consumatori e i produttori sono ridotti a mera variabili nei modelli degli economisti neoclassici, che difendono il libero mercato sotto le spoglie della libera scelta e dell'efficienza.

Le condizioni quotidiane della loro vita, le loro necessità sociali e le loro realtà materiali sono ignorate, cadendo al di fuori dell'ambito di interesse di questi economisti.

 L'evidenza empirica dei danni causati dal libero mercato viene regolarmente ignorata, respinta o minata come una critica ideologicamente guidata che minaccia l'efficienza, la scelta e la libertà dei consumatori e dei produttori.

Un racconto dogma degli economisti neoclassici, intriso di fervore quasi religioso, distoglie l'attenzione dall'emarginazione delle realtà materiali affrontate dai consumatori e dai produttori, inquadrando tali questioni come fallimenti politici non correlati al funzionamento del "libero mercato".

(Esiste una Base navale australiana in Papua Nuova Guinea: gioco di potere nel Pacifico meridionale contro la Cina.)

Il cosiddetto libero mercato perpetua una cultura ingannevole priva di moralità, contesto storico o genuina preoccupazione umana.

 Promuove una cultura di menzogne patologiche e soluzioni "olio di serpente", presentandole come le uniche alternative praticabili per sostenere gli interessi di pochi privilegiati, a scapito dei bisogni fondamentali della stragrande maggioranza.

Questo sistema insensibile continua a dominare e plasmare la vita, il lavoro, il tempo libero ei piaceri delle masse lavoratrici, radicando lo sfruttamento sotto le spoglie della libertà economica sotto il libero mercato.

Il cosiddetto "libero mercato" e il suo sistema economico non creano né occupazione significativa né promuovono la prosperità dei consumatori e dei produttori.

In realtà, le aziende più grandi generano solo pochi posti di lavoro, dando priorità all'efficienza e al profitto rispetto al benessere economico diffuso.

Queste società non promuovono una vera prosperità umana, in quanto tale prosperità minerebbe la funzione principale del libero mercato:

un sistema efficiente progettato per sfruttare sia i consumatori che i produttori.

Quindi, soggioga gli individui promuovendo desideri fittizi per beni e servizi, presentandoli come percorsi verso l'autorealizzazione senza una vera autorealizzazione.

 Questa enfasi sul mero consumo di merci, distaccata da una comprensione delle condizioni di produzione, coltiva una mentalità di "coscienza mercantile".

Riduce tutte le forme di relazione a merci, dove il successo è equiparato al piacere fugace derivato dal consumo.

Questa sottile ma profonda trasformazione della società e della cultura, incentrata sul piacere guidato dalle merci, ha eroso la solidarietà che un tempo esisteva tra produttori e consumatori.

La religione del libero mercato cerca la salvezza attraverso il consumo incessante di lavoro vivo, soffocando la sua creatività e incanalando una quota significativa dei magri salari nel suo impero guidato dal profitto.

 I piccoli risparmi vengono dirottati in vari prodotti di mercato, come mutui, schemi assicurativi e altri mezzi di vita quotidiana, rafforzando ulteriormente gli individui nel sistema.

Lavorare per un mero stipendio riducendo la giusta quota del lavoro nel valore che crea, mentre i consumatori sopportano un costo esorbitante semplicemente per sopravvivere.

 Questo ciclo ripetitivo di sopravvivenza basato sul lavoro-salario riduce la vita umana a un'esistenza puramente economica, focalizzata esclusivamente sulla lotta per la sussistenza quotidiana.

La relazione ineguale tra lavoro e lavoratori in un'economia di libero mercato non solo mina il lavoro, ma promuove anche condizioni di lavoro che erodono le fondamenta stesse dell'efficienza e della produttività che professa di migliorare.

L'opportunità dei consumatori prevale sulle condizioni dei lavoratori e del lavoro in un sistema di questo tipo.

 Non ci sono prove che il libero mercato funzioni, ma i media reazionari celebrano questo sistema contraddittorio come l'unica opzione praticabile, perpetuando la narrativa secondo cui cercare modelli alternativi è inutile.

Non si tratta di una vista accidentale, ma di una strategia deliberata per posizionare il "libero mercato" come il sistema economico superiore, affermando che non esistono alternative praticabili.

In questo modo, le contraddizioni, la dissolutezza, i doppi standard e i fallimenti intrinseci del libero mercato arrivano a definire il suo sistema economico chiamato capitalismo.

Le semplici riforme di mercato non potranno mai portare pace o prosperità alle masse lavoratrici.

Lo stato, il governo, le altre istituzioni e la cultura del capitalismo costringono le persone ad accettare il libero mercato.

 In nome della razionalizzazione, il libero mercato disciplina le persone e le loro abitudini quotidiane che sono concomitanti con le esigenze del capitalismo come sistema dominante.

È tempo di un esame morale, sociale, economico e storico dell'economia di libero mercato e dei suoi sostenitori.

 La libertà basata sul mercato non è affatto libertà:

è una forma di tirannia che permea ogni aspetto della vita sociale, politica, economica e culturale, sostenendo un sistema economico dominante che prospera sullo sfruttamento della vita umana, del lavoro e delle risorse naturali.

La libertà dal cosiddetto mercato libero del capitalismo è l'unico modo per garantire una vera libertà ai consumatori e ai produttori, consentendo la creazione di un mercato veramente libero.

 Tale mercato si baserebbe su un flusso trasparente di informazioni sui produttori, sulle condizioni di produzione, sui prezzi e sulle libere scelte dei consumatori.

 Solo attraverso l'azione collettiva e la coscienza collettiva, le persone possono superare il cosiddetto libero mercato, che è controllato da pochi eletti.

È tempo di stabilire un mercato libero che lavora per il benessere delle masse come produttori e consumatori.

(Bhabani Shankar Nayak)

 

 

 

 

Elettori americani: ignoranti,

spensierati o entrambi?

Globalresearch.ca - Kim Petersen – (4 dicembre 2024) – ci dice:

 

In occasione delle elezioni presidenziali statunitensi del 5 novembre 2024, gli elettori americani hanno fatto un regalo stupendo ai cittadini degli Stati Uniti e di altri paesi:

la cacciata dell'amministrazione Joe Biden-Kamala Harris.

Allo stesso tempo, gli elettori hanno lasciato in eredità ai concittadini americani e ai popoli del mondo l'incubo di altri quattro anni di Donald Trump.

Prima delle elezioni, ho chiesto se gli americani avrebbero votato per il genocidio.

Chiaramente, se un elettore stava prestando attenzione, il che è, probabilmente, una conditio sine qua non per una persona in procinto di esprimere responsabilmente un voto, allora un elettore sarebbe stato consapevole che un genocidio era (ed è ancora) perpetrato dallo Stato ebraico contro i palestinesi, e che questo genocidio era (ed è ancora) favorito dal governo degli Stati Uniti.

 L'amministrazione democratica guidata dall'orgoglioso sionista Joe Biden (alias Genocide Joe) e dalla sua complice nel genocidio, Kamala Harris, è stata parte integrante dell'esecuzione del genocidio.

 L'avversario principale, o l'unico avversario come lo dipingono i media monopolistici statunitensi, è stato un altro arci sionista, Donald Trump del Partito Repubblicano, che si è impegnato a sostenere gli obiettivi di guerra israeliani.

Era dannato se lo facevi e dannato se non lo facevi?

No, viene sottolineato in precedenza, un elettore avrebbe potuto scegliere un candidato contrario agli orribili crimini di guerra israeliani contro i palestinesi;

per esempio, Cornel West, il libertario Chase Oliver e la candidata Jill Stein.

 

Quindi, gli americani non hanno dovuto votare per un candidato che sostiene il genocidio.

Data la schiacciante quantità di voti per Harris e Trump, complici del genocidio, una possibile conclusione è che gli americani ignorassero le conseguenze sostenute di ciò che il loro voto avrebbe avuto.

Più sinistro è che gli americani sapevano che il loro voto avrebbe favorito il genocidio ebraico-israeliano dei palestinesi.

Se così fosse, ciò significherebbe che gli elettori americani hanno una mancanza di compassione per gli altri esseri umani, una noncuranza per l'Altro o un odio per l'Altro.

Si potrebbe obiettare che gli americani hanno semplicemente votato per il candidato che consideravano il migliore per l'economia e una vita migliore a casa negli Stati Uniti.

Tuttavia, se così fosse, sarebbe comunque dannoso, in quanto indicherebbe che le loro fortune economiche personali hanno la precedenza sul loro paese, distruggendo la vita e l'economia di altri esseri umani.

Le elezioni americane hanno un risultato schiacciante.

E con Trump che riempie il suo gabinetto entrante di sionisti, questo è di cattivo auspicio per un mondo pacifico e amorevole.

Data la composizione di molti governi occidentali che sono indifferenti alla situazione dei palestinesi, si può supporre che la classe votante di tali paesi mostri allo stesso modo una deplorevole ignoranza o noncuranza.

Un imperativo morale per le elezioni americane del 2024.

"È accettabile cancellare la Palestina dalla carta geografica".

Come possono gli americani segnalare la loro avversione per il genocidio?

(Kim Petersen è una scrittrice indipendente.)

 

 

 

 

Maduro Denuncia il Genocidio in Palestina

 e Propone una Rete Globale per la Verità.

Conoscenzealconfine.it – (3 Dicembre 2024) - Redazione de l’Anti Diplomatico – ci dice:

 

Il presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro, ha preso una posizione forte e decisa durante la “Conferenza Internazionale in Solidarietà con la Palestina”, tenutasi nella capitale Caracas.

Il leader venezuelano ha descritto la causa palestinese come “la più giusta che l’umanità abbia oggi”, sottolineando l’urgenza di unire le forze per difendere il diritto del popolo palestinese a uno Stato indipendente, equo e giusto.

Una Rete Globale per Contrastare la Disinformazione.

Maduro ha proposto la creazione di una “potente rete comunicativa globale” che, attraverso tutti i mezzi di comunicazione e le piattaforme social esistenti e future, diffonda la verità delle lotte dei popoli oppressi.

 Questa iniziativa, secondo il presidente, è necessaria per combattere la disinformazione e per sensibilizzare il mondo sul genocidio in atto in Palestina, descritto come una “massacro brutale trasmesso in diretta”.

Secondo Maduro, le reti sociali dominanti sono strumenti di manipolazione controllati dalle élite degli Stati Uniti e di Israele, utilizzati per distruggere i valori dei popoli attraverso la diffusione di anti-valori come pornografia, droga e individualismo.

Ha inoltre denunciato che tali piattaforme normalizzano ideologie fasciste e revisioniste, equiparando i leader di oggi, come Netanyahu e Milei, ai dittatori del passato.

 

Accuse agli Stati Uniti e all’Estrema Destra.

Il presidente venezuelano ha criticato duramente gli Stati Uniti, accusandoli di utilizzare la “diplomazia dell’inganno” per mascherare intenti bellicosi.

Ha ricordato episodi di attacchi mirati, come l’assassinio di leader del Medio Oriente durante trattative di pace, per illustrare la loro strategia manipolativa e violenta.

Maduro ha anche condannato il presidente argentino “Javier Milei” per il suo sostegno all’aggressione sionista nella Striscia di Gaza, descrivendolo come complice del genocidio della popolazione civile palestinese, inclusi donne e bambini.

“Le future generazioni ricorderanno “Milei” come colui che ha sostenuto i bombardamenti e l’uccisione di innocenti”, ha affermato.

Solidarietà con il Medio Oriente e un Appello all’Umanità.

Rivolgendo un messaggio ai popoli del Medio Oriente, Maduro ha espresso solidarietà e ha avvertito contro i pericoli della diplomazia ingannevole.

Ha dichiarato che l’umanità sta osservando i crimini commessi dal governo sionista israeliano, sottolineando che questi atti di genocidio non rimarranno impuniti nella memoria storica.

Il leader venezuelano ha ribadito che la lotta per la Palestina è una battaglia morale e politica che unisce i popoli di tutto il mondo.

È il momento di fare di più, di costruire nuovi consensi e di agire per la libertà e il diritto alla vita del popolo palestinese”, ha concluso il leader bolivariano.

(Redazione de l’Anti Diplomatico).

(lantidiplomatico.it/dettnews- maduro_denuncia_il_genocidio_in_palestina_e_propone_una_rete_globale_per_la_verit/45289_58028/).

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