Silenzio sulla verità.
Silenzio
sulla verità.
Israele
Chiede la Censura sui Social:
Meta e
TikTok Obbediscono
Sotto
il Silenzio Generale.
Conoscenzealconfine.it
– (2 Dicembre 2024) - Giuseppe Salamone – ci dice:
Lo
evidenzia un rapporto dell’ONU: la “Grande Democrazia” silenzia la verità, usa
censura, violenza e leggi draconiane per soffocare le voci pro-Palestina
trasformandosi in uno Stato paria.
Il
rapporto delle Nazioni Unite (A/79/363) evidenzia con forza come la censura
sistematica e la repressione di contenuti pro-Palestina da parte di Israele
rappresentino una grave violazione della libertà di espressione, dei diritti
umani e del diritto all’informazione.
Questi
atti non sono incidenti isolati, ma parte di una strategia deliberata volta a
silenziare le narrazioni critiche e impedire la denuncia delle violazioni
umanitarie e dei diritti nei Territori Occupati e a Gaza.
Attacchi
Contro i Media e la Libertà di Stampa.
Dal 7 ottobre
2023, Israele ha condotto una campagna senza precedenti contro giornalisti e
media indipendenti.
Il rapporto denuncia l’uccisione, l’arresto e
l’intimidazione di numerosi operatori dell’informazione.
Gaza è diventata una delle aree più pericolose
al mondo per i giornalisti, con attacchi diretti contro reporter chiaramente
identificabili e sedi di organizzazioni mediatiche.
Secondo
le Nazioni Unite, queste azioni non sono semplici conseguenze del conflitto, ma
una deliberata strategia volta a oscurare il resoconto della realtà sul campo.
Un
esempio particolarmente significativo è la chiusura degli uffici di “Al
Jazeera” in Israele, avvenuta il 5 maggio 2024, in seguito a una decisione del
governo di Benjamin Netanyahu.
La
misura è stata giustificata con accuse generiche di “danno alla sicurezza
nazionale”, ma rappresenta chiaramente un tentativo di sopprimere uno dei principali
canali di informazione sulla crisi palestinese.
Manipolazione
dei Social Media: la Guerra delle Narrazioni.
Israele
ha esercitato un controllo aggressivo sulle piattaforme digitali per soffocare
le voci palestinesi e promuovere una narrazione unilaterale.
Tra ottobre 2023 e luglio 2024, il governo israeliano
ha presentato oltre 21.000 richieste di rimozione di contenuti ai principali
social media come Meta e TikTok, ottenendo un tasso di approvazione del 92%.
Questi
contenuti riguardavano principalmente post pro-palestinesi o critici verso
Israele, mentre quelli contenenti incitamenti all’odio contro i palestinesi,
spesso pubblicati da funzionari israeliani, rimanevano in gran parte non
censurati.
Il
rapporto evidenzia come le piattaforme digitali abbiano risposto in modo
complice a queste richieste, attuando una censura sistematica.
Meta, in particolare, ha rimosso migliaia di
post, inclusi appelli per la pace o critiche legittime alle operazioni militari
israeliane, etichettandoli come “incitamento al terrorismo”.
Questo
approccio ha favorito una narrazione distorta e discriminatoria, silenziando le
voci palestinesi e rafforzando la disinformazione.
Repressione
Interna: Arresti e Leggi Draconiane.
Gli
emendamenti alla legge antiterrorismo del 2016 hanno fornito a Israele un
potente strumento per perseguire attivisti, giornalisti e cittadini palestinesi.
Tra ottobre 2023 e marzo 2024, il 90% dei casi
di arresto per presunti reati di “incitamento” online riguardava palestinesi,
molti dei quali incriminati per aver pubblicato contenuti pro-Palestina sui
social media.
Il rapporto cita casi emblematici, come quello
di un fotoreporter arrestato per aver documentato un raid israeliano e una
giornalista detenuta per post su Facebook che esprimevano empatia verso le
vittime palestinesi.
Questi
arresti dimostrano l’uso arbitrario della legge per criminalizzare ogni forma
di dissenso e consolidare un regime di censura e intimidazione.
Israele
e la Narrazione del Conflitto: un Monopolio della Verità
La
censura non si limita ai media e ai social, ma si estende a un controllo totale
della narrazione pubblica.
Le autorità israeliane hanno approvato misure
che equiparano la critica alle azioni governative a sostegno del terrorismo o
all’antisemitismo, soffocando ogni dibattito legittimo.
Questa
manipolazione della narrativa non solo deumanizza i palestinesi, ma distorce
anche la percezione globale del conflitto, contribuendo alla normalizzazione
delle violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati.
Implicazioni
per i Diritti Umani e la Democrazia Globale.
Le
azioni di Israele sollevano gravi interrogativi sul rispetto delle norme
internazionali sui diritti umani e sulla libertà di espressione.
Come
sottolineato nel rapporto, la censura sistematica di contenuti pro-palestinesi
costituisce una violazione flagrante del diritto all’informazione, sancito
dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Inoltre,
le azioni israeliane minano i principi fondamentali della democrazia e del
pluralismo, favorendo un clima di paura e silenzio.
Questo
controllo unilaterale della narrazione contribuisce a perpetuare l’impunità per
le violazioni dei diritti umani, ostacolando ogni tentativo di
responsabilizzazione o giustizia per le vittime.
Conclusioni.
Il
rapporto delle Nazioni Unite conclude con un appello alla comunità
internazionale affinché denunci e combatta la censura esercitata da Israele.
È fondamentale proteggere la libertà di stampa
e il diritto all’informazione come strumenti indispensabili per documentare le
atrocità e promuovere la responsabilità.
La
censura di Israele non riguarda solo i palestinesi, ma costituisce un pericolo
per la democrazia e i diritti umani a livello globale.
La
comunità internazionale deve agire con urgenza per garantire che le voci
pro-palestinesi vengano ascoltate e che la verità, per quanto scomoda, non
venga soffocata.
(Giuseppe
Salamone)
(giuseppesalamone.substack.com/p/israele-chiede-la-censura-sui-social).
Il
silenzio degli storici
davanti
allo storicidio.
Marelloveneziani.com - Marcello Veneziani - (27
Ottobre 2024) – ci dice:
Ma
davanti allo scempio della storia, cancellata, distorta e maledetta, cosa
dicono gli storici di professione?
Tacciono,
al più sussurrano sotto voce, si immergono nei loro libri e nelle letture.
Eccolo, il tradimento degli storici, con la loro ignavia.
Ma è
possibile che nessuno storico italiano, nessun cattedratico abbia il coraggio
di dire, con parole chiare e forti, che l’onda lunga di criminalizzazioni degli
avvenimenti storici del passato è un’infamia che uccide la verità storica e
pure la ricerca?
Possibile
che nel paese di grandi storici, fino ai più recenti “Renzo De Felice” e
“Rosario Romeo”, non si levi una voce, non sorga un gruppo o un’iniziativa per
deprecare l’uso politico e giudiziario della storia, la condanna retroattiva
del passato e le cerimonie istituzionali fondate su verità di comodo, mezze,
false o unilaterali?
La
memoria storica rinnegata o demonizzata e i film storici settari e manichei,
monotoni e allineati al mainstream.
Solo qualche apprezzabile parentesi come Rai
storia, poi il nulla.
La storia si cancella e gli storici non hanno
nulla da dire?
In
Italia e in Occidente assistono inermi al linciaggio permanente dei fatti e al
massacro retroattivo degli avvenimenti e dei protagonisti del passato.
Una
società che uccide e rinnega la sua storia ha smesso di essere una civiltà; si
è dimessa dalle sue radici, dalla sua identità, dalla sua dignità, dalla sua
tradizione, dalle sue memorie, divise e condivise, unitarie e controverse.
In
Francia sorse anni fa un’associazione di storici, “Liberté pour l’histoire”,
per denunciare questo bavaglio ideologico-penale alla storia che in Francia è
cominciato prima che da noi.
Traccia
di quella denuncia resta in due testi, uno di “Pierre Nora” e l’altro di
“Francoise Chandernagor”, che furono pubblicati in Italia da Medusa (con
un’introduzione di Franco Cardini) col titolo “Libertà per la storia”.
Vi si denunciava la vigliaccheria politica e
la riduzione del passato a una collezione di orrori; “la retroattività senza
limiti e la vittimizzazione generalizzata del passato”.
Un impianto accusatorio e moralistico che di
fatto distrugge la ricerca storica, ne impedisce gli scavi e le revisioni,
impone pregiudizi e scomuniche… La storia risulta davvero, come notava Nora,
“un lungo susseguirsi di crimini contro l’umanità”.
Ma il
problema si aggrava se si considerano le varie, ulteriori complicazioni e
aberrazioni che ne discendono.
La
prima è che la pretesa di giudicare il passato con gli occhi, i pregiudizi, le
ideologie del presente, ci porta a condannare ogni evento o personaggio che si
discosti dal nostro modo di vivere e di giudicare le cose.
Poi
l’interdizione ricade sui viventi, serve per colpire da una parte i movimenti e
la gente comune che ha opinioni differenti sulla storia e dall’altra colpisce e
inibisce gli stessi storici, la loro ricerca, i loro giudizi e le loro
interpretazioni.
E ancora:
le
storie negate o travisate riguardano alcune e ne risparmiano altre:
ci
sono processi postumi contro la Chiesa e la fede cristiana, contro la storia
nazionale, i suoi eroi e condottieri, sono criminalizzati i nazionalismi, i
veri e presunti razzisti, e naturalmente i fascismi;
ma non c’è la stessa condanna per ciò che
accadde ad esempio nella Rivoluzione francese, la ghigliottina e il genocidio
della Vandea, nelle Rivoluzioni comuniste, nei gulag e nei regimi comunisti,
negli eccidi partigiani, nei bombardamenti e nei massacri compiuti nel nome
della libertà e della democrazia, dalle potenze occidentali (condannate invece
per quel che concerne il colonialismo).
E infine, l’ultimo effetto di quest’abuso giudiziario
e politico della storia è legittimare quell’ondata di demenza militante che è
la” cancel culture”, la furia distruttrice che soprattutto in America, ma non
solo, colpisce Cristoforo Colombo e l’Impero romano, i grandi del passato e i
monumenti storici.
In un susseguirsi di assalti, che investono
dai classici ai cartoons…
A
supporto di quest’ondata storicida, è sorta una legislazione abnorme in Europa
e in Italia ma non si sente la voce di dissenso degli storici, a partire da
quelli di grande autorevolezza o visibilità.
Conosciamo
bene le difficoltà che incontrerebbero:
metterebbero
a rischio l’accesso a ruoli di prestigio o perfino le loro cattedre, la loro
visibilità in tv e nei giornaloni, le loro collaborazioni e i loro incarichi se
sollevassero il velo di ipocrisia e gli anatemi dell’ “historically correct”.
Subirebbero
ostracismi e linciaggi.
E dunque per quieto vivere, per salvaguardare
il proprio “particulare”, sono disposti a veder massacrata la storia, la verità
e la ricerca.
Ma la
storia così perde interesse e valore, diventa solo un tunnel oscuro di infamie
e di orrori, da rimuovere e condannare.
Accettando
quell’impianto giudiziario e moralistico si firma la capitolazione della storia
al presente, la sottomissione della ricerca storica alle leggi speciali e ai
loro vigilanti inquisitori, la perdita della memoria storica nel nome di una “pulizia
etica” subordinata alle verità dominanti, somministrate dall’egemonia
ideologica vigente.
Si può
dunque parlare di tradimento degli storici per viltà e omertà.
Ogni
tradimento della verità, dei fatti e dei giudizi saggi si avvale della
complicità o quantomeno del silenzio-assenso di quanti dovrebbero obiettare,
denunciare, dissociarsi e non lo fanno.
Troppi
storici appartengono a questa vil razza dannata, anzi d’annata, per restare
nella materia.
(Marcello
Veneziani - Panorama, n.45).
Pordenone
Legge #3. Lontano.
Il
silenzio su Ustica e la forma della verità.
Artapartofculture.net - Chiara Palumbo – (26
Settembre 2024) – ci dice:
C’è
un’altra storia, una storia italiana, contenuta nella storia di Ustica, del DC9
Itavia che ancora qualcuno si ostina a pretendere caduto per altri motivi da
quelli accertati dalla legge.
Come
per anni si è mentito parlando di cedimento strutturale, oggi c’è chi lo fa
parlando di una bomba.
Per
poter cancellare la storia delle stragi nere che porta fino alla strage di
Bologna, cancellare la matrice fascista e preferirne una più comoda che ne
prenda due al prezzo di uno, magari chissà, verso il terrorismo palestinese.
Eppure,
anche se sarebbe di comodo, non è questa la verità.
Che si
trova invece nelle vite delle vittime di Ustica, ed è insieme la storia di un
paese, della sua civiltà giuridica e poetica.
Lo
sintetizza con accorata sincerità “Massimo Cirri”:
“Su
quel volo c’era un pezzo di società civile, c’eravamo noi, è un carotaggio che
dice cos’è quel pezzo di mondo in un dato momento”.
È una
storia che risponde alle parole del giudice “Rosario Priore”, che mentre
accertava la verità si chiedeva perché quelle 81 persone viaggiavano.
Tolti
i 4 membri di equipaggio, uno su sette viaggiava per curarsi.
Si
chiamano migrazioni sanitarie, e “sono una parte di identità lacerata,
dell’unità mai fatta”.
Su
quel volo c’era tutta Italia.
Un
paese a cui, poi – ed è inevitabile che il dialogo non prenda questo verso,
sono stati consegnati quattro decenni di depistaggi.
Che
sono iniziati quando al giudice non è stato detto che l’orario dichiarato del
disastro era quello del meridiano di Greenwich, due ore di differenza dal
nostro.
E
continua con le storie gravissime di 1000 dipendenti dell’Itavia mandati a casa
per una concessione revocata per via di un aereo caduto per “cedimento
strutturale”.
Sono
delle famiglie delle vittime ma anche di un intero paese, o avrebbero dovuto
esserlo, i tarli lasciati nei pensieri di tutta da “Andrea Purgatori”, allora
ventisettenne, che da subito, sul Corriere, scrisse che era stato un missile,
senza mai più tacere.
Ma se
il giornalista romano parla subito, il relitto nell’86 comincia a farlo,
quando, – chiosa amara” Daria Bonfietti”, presidente dell’”associazione
Familiari”, – bontà loro – qualcosa inizia a incrinare il sapere militare che
anche i magistrati faticano a decifrare.
È
merito di questa ostinazione, delle famiglie, se la verità oggi la sappiamo, e
possiamo parlare di un aereo “abbattuto in uno stato di guerra di fatto e non dichiarata
contro il nostro paese, di cui si violano confini e diritti, in un cielo in cui
volavano americani, inglesi, francesi, belgi e forse libici, con il transponder
spento”.
Eppure,
il silenzio, come sulle migrazioni sanitarie, lascia ancora molti vuoti da
riempire.
Si
sono recuperati solo 39 corpi, “moltissimi di noi non hanno avuto un posto dove andare”.
Per
questo, è nato il museo della memoria di Ustica, il suo strazio prezioso e
straordinario, perché di fronte al muro del silenzio, commenta “Daria Bonfietti
““abbiamo voluto parlare con il linguaggio dell’arte”.
E
forse poteva farlo solo “Christian Boltanski”, che da subito risponde
all’appello.
E oggi, a Bologna, quel che resta del DC9, Gli
specchi neri e le lampadine, le casse degli effetti personali e le voci di chi
ha perso la vita lasciandosi dietro il diritto negato alla verità, sono lì a
dar forma a un quello che “Laura Curino”, intervenuta accanto a “Cirri” e
“Daria Bonfietti “a “Pordenonelegge”, giustamente chiama “un luogo di
raccoglimento, meraviglia, riflessione.
Un
luogo di bellezza, quando ne comprendi il significato. In cui si fa omaggio a
un artista ma soprattutto a persone, tra cui domani potresti essere tu”.
Le
voci di chi non c’è più e quelle di chi resta, che risuonano urgenti anche in
mezzo alla festa, sono lì a fare memoria non soltanto di quanto è avvenuto, ma
anche dell’urgenza di “far sapere cosa è potuto avvenire per non dire la verità. Per
non avere una dignità nazionale da difendere”.
In
questo senso, l’arte, non è però soltanto un bell’escamotage, buono per
ricordare a vario titolo e per ogni sensibilità.
Si regge sul sapere.
Quella
che continua, ogni estate, a Bologna, è “arte elaborata sulle emozioni
nate perché alcune persone sono state lì dentro”.
La
battaglia è lunga, ma si può ancora fare insieme, in molti modi. Anche
attraverso chi, tra gli artisti, i giornalisti e gli operatori, ha scelto e
sceglie di prendere parola.
E
allora in questa storia, come in quelle narrate in Lontano il nucleo epico è
l’opacità del potere.
Che
prende una figura concreta quando un robottino di una società francese
controllata dai servizi segreti scende negli abissi per scovare il relitto
dell’aereo e ci trova una galera romana, un caccia tedesco, e le tracce di un
altro robot.
E
allora vale la pena dirla, finalmente, la verità che parla di una riunione
all’ambasciata usa che decide il silenzio, perché “quello che doveva avvenire
era indicibile”.
Fino a
che Cossiga, allora presidente del consiglio, “si sveglia” nel 2008 e riferisce
che il capo del SISMI gli disse che forse erano stati i francesi, che c’è stata
una telefonata a Gheddafi, e il pilota dell’aereo transalpino, tornato sulla
portaerei, si suiciderà.
Se
l’obiettivo era Gheddafi, come rivendicarlo, al tempo dei blocchi di influenza?
Forse
per questo un aviere di leva, tornato a casa, confiderà a sua moglie: “Abbiamo
schivato la Terza guerra mondiale”.
Questo,
però, al tempo dell’omertà, rientra nel regno di quel che si sa e non si dice.
Come si sa e non si dice, ma lo scrive la sentenza, di “una parte delle nostre
istituzioni che giocavano dall’altra parte”.
A cosa
servono, allora, le voci delle famiglie, e di chi cammina loro accanto?
“Facciamo memoria ma anche storia, siamo riuniti per aiutare le istituzioni a
far emergere la verità.
Ma la
storia, se non ci riesce la magistratura o la politica, aiuterà a dare
risposte. Se non c’è l’intervento politico, resta solo la voce di chi, con
l’arte o col coraggio di continuare a dare parole, può sperare nei pezzi che continuiamo
a cercare, come l’ultimo frammento di velivolo che ancora manca.
Tenere
insieme questa storia alle altre, allora, diventa un’occasione Per tenere desto
il discorso di Ustica e tenere vive altre storie, che ne sono eco.
E
quella di un paese in cui la migrazione ed emigrazione per guarire viene
raccontata come “mobilità”.
La
fatica di chi non ha più armadi dove tenere gli abiti. Un posto dove fermarsi a
dormire.
Mentre
si chiede come fa, a dormire, chi sa e ancora tace.
(Chiara
Palumbo).
I
crimini di Netanyahu, il diritto,
la
comunità internazionale.
Volerelaluna.it
– (25-11-2024) - Francesco Pallante – ci dice:
È
considerazione ricorrente, di fronte alla mattanza di civili per mano
israeliana in corso a Gaza (e in Cisgiordania e in Libano e in Siria),
evidenziare l’inadeguatezza del diritto internazionale.
Le
atrocità avvengono in diretta, sotto gli sguardi del mondo intero.
Tutti sanno, eppure i massacri continuano:
chi potrebbe
impedirli, non vuole (facendosene complice);
chi vorrebbe, non
può.
Come
nel caso della Russia con l’Ucraina – e, prima ancora, degli Stati Uniti e del
Regno
Unito con l’Iraq –, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è paralizzato
nei propri poteri decisionali dal veto delle parti in causa (in effetti, i
Paesi con diritto di veto sono sei: ai cinque di diritto, occorre aggiungere,
di fatto, Israele).
Così, nel vuoto degli atti che dovrebbero
imporre la pace, spadroneggiano i fatti che impongono la guerra.
Siamo,
dunque, al cospetto del fallimento – l’ennesimo – del diritto internazionale?
Numerose
e terribili ragioni inducono a pensarlo.
Quello
che è in corso a Gaza sempre più assume l’aspetto di un tiro al bersaglio
d’inaudita ferocia, il cui obiettivo finale è palesato, in forme più o meno
ufficiali, dalle stesse autorità israeliane:
la
pulizia etnica e la ricolonizzazione della striscia, sul modello di quanto da
anni accade in Cisgiordania (nonostante le trattative di Oslo, infine ridotte a
farsa).
Che
Israele possa acconsentire alla nascita di uno Stato palestinese è
esplicitamente escluso dai suoi governanti:
la
«soluzione dei due Stati» è, oramai, una formula retorica utile solo a riempire
le pagine dei discorsi ufficiali delle cancellerie internazionali.
Così
come è esplicitamente escluso che i palestinesi possano aspirare alla piena
cittadinanza di uno Stato che nel 2018 è risultato etnicamente riconfigurato
dalla Knesset come «casa nazionale del popolo ebraico».
Cionondimeno,
proprio dal diritto internazionale stanno oggi venendo gli ostacoli più
insidiosi per chi, dentro e fuori Israele, confidava di poter risolvere con la
violenza la questione palestinese.
Con
una serie di coraggiosi interventi, le due principali Corti internazionali – la
Corte internazionale di giustizia (Cig) e la Corte penale internazionale (Cpi)
– hanno finalmente, e definitivamente, chiarito l’inquadramento giuridico della
vicenda.
L’occupazione israeliana dei territori conquistatati
con la guerra di aggressione del 1967 è illegale, così come illegale è la
costruzione delle colonie in cui sono stati trasferiti milioni di israeliani
(parere della Cig del 19 luglio 2024), nonché del muro di separazione che tali
territori in parte attraversa (parere della Cig del 9 luglio 2004).
Israele
deve, dunque, ritirarsi al più presto da tali territori, Gerusalemme Est
inclusa, evacuare i coloni e consentire la nascita dello Stato palestinese;
nel frattempo, deve cessare ogni atto di
violenza e di discriminazione ai danni della popolazione araba che vive nei
territori occupati illegalmente;
deve,
inoltre, risarcire tutte le vittime dell’occupazione.
Quanto
alle violenze israeliane in corso, non si può escludere si tratti di atti
integranti la fattispecie di genocidio (pronuncia della Cpi del 26 gennaio
2024) e i loro responsabili politici ultimi – Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant
– devono essere arrestati e processati, dovendo rispondere all’accusa di aver
compiuto crimini di guerra e crimini contro l’umanità (decisione della Cpi del
21 novembre 2024).
Certo,
per chi ogni giorno sotto le bombe israeliane rischia la vita, assieme a quella
dei suoi cari, può sembrare una consolazione di poco conto.
Non bisogna però dimenticare che il diritto è
fatto di parole, che indicano il modo in cui le cose devono essere, non il modo
in cui sono.
Alle parole del diritto è affidato il compito
di cambiare la realtà:
compito mai facile, in questo caso più che mai
difficile, ma che risulterebbe impossibile se non si procedesse, anzitutto, a
definire i contorni del dover essere, chiamando le cose con il loro nome.
Sia
pure tardivamente, il diritto internazionale ha infine fatto la sua parte,
rendendo la soluzione del conflitto un dovere che grava sul capo di Israele.
Sta
ora ai membri della comunità internazionale decidere se schierarsi dalla parte
della legalità o dell’illegalità.
Antisemitismo
e islamofobia:
così
diversi, così uguali.
Volerelaluna.it – (27-11-2024) - Riccardo
Barbero – ci dice:
Recentemente
è stato pubblicato in Italia il libro di” Emmanuel Todd” La sconfitta
dell’occidente, che in Francia ha avuto un notevole successo di pubblico.
Nella
sua analisi geopolitica, che non è, tuttavia, l’oggetto di questa breve nota,
Todd dichiara di adottare un approccio weberiano e scrive:
«Abbandonerò
l’ipotesi esclusiva di una ragione ragionevole e proporrò una visione più ampia
della geopolitica e della storia».
Coerentemente
con questa dichiarazione di intenti, nel suo testo vengono sottolineati gli
elementi ideologici e culturali:
in
particolare Todd si sofferma sul ruolo delle confessioni religiose, soprattutto
delle chiese protestanti, e dell’influenza dei sistemi parentali e familiari.
La
complessità della situazione politica, economica e sociale della fase attuale
spinge molti autorevoli analisti a proporre, dunque, indagini che cercano di
collegare i fattori strutturali, sostanzialmente economici, ma anche
geopolitici con quelli più strettamente ideologici e culturali, all’interno di
una visione non deterministica.
Può,
quindi, essere interessante ragionare su una questione rilevante che si è
affacciata con prepotenza nell’ultimo anno, a proposito del conflitto tra lo
Stato di Israele e la popolazione palestinese:
il
libro di Todd è uscito nel settembre del 2023 e quindi non tiene conto degli
ultimi tragici sviluppi di quel conflitto.
Come
sappiamo, qualunque osservazione critica verso la conduzione della guerra da
parte del governo di estrema destra israeliano è stata tacciata di
antisemitismo non solo dai leader israeliani, ma anche dai governi e dai media
occidentali:
nessuno
è sfuggito a questa accusa infamante, dal segretario generale dell’ONU fino ai
giovani studenti che, in tutto il mondo, hanno espresso la loro solidarietà
alle decine di migliaia di vittime civili palestinesi.
In
Europa le affermazioni più radicali di totale sostegno alla gestione militare
israeliana sono state fatte dalle forze politiche di estrema destra che, in
molti casi, hanno radici ideologiche e culturali che affondano nel fascismo
europeo e nel suo storico antisemitismo criminale. Come spiegare, allora,
questa apparente contraddizione?
Secondo
“Manuel Disegni”, l’antisemitismo politico moderno nasce nella prima parte
dell’Ottocento, nella fase in cui si forma, dopo le rivoluzioni liberali, la
nuova società borghese, che propone l’uguaglianza tra i cittadini, ma li divide
e li contrappone in classi attraverso il nuovo sistema produttivo capitalistico.
Nel
suo libro complesso e impegnativo, “Disegni” descrive questa aporia della nuova
società liberale attraverso lo studio del percorso intellettuale e di ricerca
di Karl Marx.
(Critica della questione ebraica. Karl Marx e
l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, 2024).
La cultura europea, in particolare quella
germanica, risolve la contraddizione tra le parole egualitarie e solidaristiche
della Rivoluzione francese e la realtà di sfruttamento e di povertà determinata
dalla produzione capitalista, individuando negli ebrei gli esponenti occulti
dei poteri economici:
essi impedirebbero, dunque, la piena
realizzazione delle rivoluzioni borghesi e del loro messaggio di libertà e di
uguaglianza.
L’emancipazione
degli ebrei, promossa da Napoleone nei primi anni del XIX secolo dal Baden,
alla Sassonia, alla Prussia, fino alla Baviera, riconosce i pieni diritti di
cittadinanza;
ma la
maggioranza della popolazione tedesca legge questa riforma democratica come
l’imposizione di una potenza militare straniera.
Questo
risentimento legherà per più di un secolo l’anima e il destino antisemita a
quello del nazionalismo tedesco.
Sono
molti gli intellettuali tedeschi che nell’800 esprimono sentimenti e teorie
antisemite; tra essi: Bruno Bauer, Ludwig Feuerbach, Wilhelm Marr.
Le
posizioni antisemite, come sappiamo, hanno una forma di consenso popolare molto
ampia in Europa per tutto il secolo XIX e per la prima metà del secolo scorso
fino alla tragedia della Shoah.
Anche
lo stesso socialismo utopistico di Proudhon in Francia o di Sombart in Germania
individua negli ebrei una sorta di nemico potente e occulto del nascente
movimento socialista.
Contro
tutte queste posizioni Marx, nel corso delle diverse fasi della sua vita e
della sua maturazione intellettuale e politica, ha condotto una critica aspra e
approfondita.
Ma che
interesse può avere oggi rivangare nelle pieghe culturali e politiche di queste
lontane fasi storiche?
Se si
accetta la tesi sostenuta da “Manuel Disegni”, secondo la quale, appunto,
l’antisemitismo moderno nasce come risposta ideologica alle contraddizioni
della nascente società borghese e della sua economia capitalistica, allora si
può tentare di analizzare il contesto attuale, affatto diverso, in modo
analogo.
La
globalizzazione iniziata negli anni ’90 del secolo scorso con la caduta
dell’alternativa “socialista” rappresentata dall’URSS, si era annunciata come
un’era di pace e di benessere per il mondo intero.
Oggi possiamo dire che in realtà essa
esprimeva solo un livello più avanzato di imperialismo da parte del cosiddetto
blocco occidentale, egemonizzato dagli Stati Uniti, grazie al loro potere
militare e finanziario, fondato sul dollaro come moneta globale e sulla
crescita del debito.
Anche in Europa si era costruita un’idea
ottimistica del processo di unificazione sempre più ampio, basato sull’egemonia
economica tedesca e sulla stabilizzazione della situazione monetaria nel
passaggio dal marco, come moneta di riferimento, all’euro.
Ma
dall’inizio del nuovo secolo, la crisi del modello globale determinata sul
piano geopolitico dai conflitti tra gli USA e il mondo islamico (prima guerra
in Iraq, attentato alle torri gemelle, guerre in Afghanistan, ancora in Iraq,
in Libia e in Siria) e su quello finanziario dal collasso del 2008, ha portato
a radicalizzare le differenze di reddito e sociali tra i diversi paesi e
all’interno di ognuno di essi, negando il presupposto della globalizzazione
come fine gloriosa della storia e piena realizzazione del benessere universale.
Da questa crisi ha ripreso di nuovo forza
l’idea degli stati nazione in contrapposizione al globalismo universalistico:
le
grandi organizzazioni internazionali come l’ONU e come l’Unione europea hanno
perso rilevanza e potere, si sono riaperti conflitti militari in varie parti
del mondo e la guerra si è riaffacciata anche in Europa e nel vicino Medio
Oriente.
Oggi
vediamo svilupparsi una crisi economica e geopolitica sempre più grave e
minacciosa:
nasce dunque da qui, forse, la contraddizione
che porta larghi settori della società ad individuare i popoli che migrano
verso “i paesi dell’ovest” come i responsabili di questa situazione, perché
impoveriscono la società, perché sottraggono il posto di lavoro ai nativi,
perché non si integrano nelle tradizioni e nelle culture occidentali.
In
Europa, in particolare, questa contraddizione investe gli immigrati islamici;
mentre negli Stati Uniti la destra xenofoba se la prende soprattutto con
l’immigrazione proveniente dal sud dell’America.
Il
fascismo europeo, come espressione più radicale del nazionalismo reazionario,
ha ripreso e cavalcato l’antisemitismo moderno dell’Ottocento, dopo la Prima
guerra mondiale e la crisi politica ed economica successiva, portandolo alle
estreme conseguenze della Shoah.
Oggi
ritorna in Europa un movimento nazionalistico che ha al suo interno il fascismo
come espressione più radicale:
questa
volta, però, nella sua propaganda il nemico principale è l’immigrato, in
particolare se islamico.
Per questo i fascisti europei, che hanno
sterminato milioni di ebrei nel secolo scorso, oggi, di fronte al conflitto
israelo-palestinese sono fortemente filoisraeliani, mentre ancora cinquanta
anni fa erano tradizionalmente filoarabi.
All’interno
dello stesso Israele, sta prevalendo un nazionalismo xenofobo e razzista, con
punte di fascismo capaci di perseguire un vero genocidio della popolazione
palestinese.
Paradossalmente,
dunque, ma solo fino a un certo punto, il conflitto attuale tra palestinesi e
israeliani, che si è sviluppato dall’ottobre dello scorso anno, segna il
definitivo passaggio dall’antisemitismo politico moderno all’islamofobia
attuale.
IN
PRIMO PIANO.
La
Corte Penale Internazionale,
le
regole, l’ipocrisia dell’Occidente
Volerelaluna.it – (02-12-2024) - Domenico
Gallo – ci dice:
Il 21
novembre, quando la “Pre-Trial Chamber “della “Corte penale internazionale” ha
emesso un mandato d’arresto contro Benjamin Netanyahu e il suo ex Ministro
della Difesa Yoav Gallant, la notizia, anche se attesa da tempo, è esplosa come
una bomba nelle Cancellerie dei paesi occidentali, compreso il nostro,
suscitando scandalo, rabbia, indignazione, smarrimento.
Ciò perché questa notizia rappresenta una
contraddizione insanabile con la narrazione di un gruppo di nazioni
democratiche, strette intorno al Paese guida dell’Occidente, impegnate, anche
su piano militare, nella lotta per un “mondo fondato sulle regole”.
Il
mantra del “mondo fondato sulle regole” è stato il vessillo alzato dalla NATO e
dall’Unione Europea, per giustificare la guerra per procura condotta contro la
Russia, accusata di aver brutalmente calpestato le regole della Comunità
internazionale, declinate a misura degli interessi occidentali.
In
realtà, i contenuti di queste regole, che l’Occidente vuole imporre con la
forza delle armi, utilizzando – per ora – il sangue degli ucraini, non sono
stati mai chiariti.
Le regole variano a seconda dei nostri
interessi e dei soggetti a cui sono rivolte.
È evidente che le regole che valgono per la
Russia (paese nemico) non valgono per Israele, (paese amico), inserito di
diritto nel novero delle “democrazie”, anche se è uno “Stato teocratico”.
Il diritto internazionale è stato utilizzato
come un negozio di abbigliamento giuridico per rivestire di giustificazioni
ideali la scelta di alimentare il conflitto fra l’Ucraina e la Russia, invece
di ricercare una soluzione pacifica fondata sull’equilibrio degli interessi.
Così
contro la Russia si sono levati moti di sdegno armati per la violazione delle
regole.
La
Russia è stata accusata di violazione di tutto lo spettro del diritto
internazionale dei diritti umani e del diritto bellico, di una messe di crimini
che sono stati anche contati.
Una risoluzione del Parlamento Europeo del 23
novembre 2022, descrive le atrocità commesse dalle forze armate russe, come
«esecuzioni sommarie, torture, stupri, detenzioni di massa dei civili, adozioni
forzate di minori ucraini e deportazioni forzate – e precisa che – i crimini di
guerra documentati in Ucraina sono quasi 40.000».
Alla
luce di questo J’accuse, la Risoluzione stabilisce che:
«la Russia è uno Stato sostenitore del
terrorismo, è uno Stato che fa uso di mezzi terroristici».
Quindi
da più parti, anche dai leader di quegli Stati che, non avendo mai aderito al “Trattato
di Roma”, istitutivo dello “Statuto della Corte penale internazionale”, avevano
cercato in tutti i modi di boicottarne l’attività, sono stati lanciati moniti
ed invocazioni per l’intervento della giustizia internazionale a tutela dei
principi di civiltà del diritto internazionale così brutalmente calpestati
dalle azioni belliche delle forze armate della Russia.
Quando il 17 marzo del 2023 la Corte penale
internazionale ha emesso un mandato d’arresto per” Putin” per il crimine di
trasferimento di bambini, si è levato un coro di apprezzamenti, compreso il
Parlamento europeo, che nella Risoluzione del 29 febbraio 2024, ha rafforzato
le accuse alla Russia di crimini di guerra, denunciando l’uccisione di oltre
520 minori dallo scoppio del conflitto.
Di
fronte ai massacri compiuti da Israele a Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in
Siria, non abbiamo assistito allo stesso zelo di denuncia e alla stessa
indignazione.
Anzi i
rapporti della Relatrice speciale delle Nazioni Unite,” Francesca Albanese”, e
delle altre Agenzie dell’ONU che documentano una realtà drammatica nella quale
aleggia il più orrendo dei crimini internazionali, il genocidio, non hanno
suscitato né reazioni, né emozioni nei palazzi della politica e nelle
Cancellerie degli Stati occidentali.
Il
procedimento promosso dal Sudafrica contro Israele per genocidio dinanzi alla
Corte Internazionale di giustizia è stato valutato con fastidio e ostilità.
La Corte Internazionale di Giustizia ha
ritenuto plausibile il genocidio ed ha emesso delle misure provvisorie a carico
di Israele (il 26 gennaio, il 28 marzo, il 5 aprile e il 24 giugno) volte a
prevenire e a impedire il genocidio.
Le
ordinanze della CIG sono immediatamente esecutive e vincolano tutti gli Stati a
adoperarsi per la loro implementazione.
Israele
non solo non ha rispettato le misure imposte dalla Corte, ma ha incrementato le
condotte più odiose, attraverso bombardamenti indiscriminati sulle scuole
dell’UNRWA dove trovano rifugio i profughi, la restrizione della consegna dei
beni essenziali per la sopravvivenza di una popolazione assediata, gli assalti
agli ospedali e al personale medico.
Di
fronte a questa aperta ribellione alle ordinanze della CIG, tutti i cantori
dell’inviolabilità del diritto internazionale e dei diritti umani, sono rimasti
muti.
L’Unione
Europea ha varato 14 pacchetti di sanzioni contro la Russia, ha istigato gli
Stati membri a fornire all’Ucraina gli armamenti più performanti, ma non ha
battuto ciglio di fronte al massacro di 16.500 minori a Gaza;
per lunghi mesi non ha avuto neanche il
coraggio di chiedere il cessate il fuoco, né di applicare la minima sanzione al
governo Netanyahu, neppure l’embargo della fornitura di armi; anzi si è ben
guardata dal sospendere l’Accordo di Associazione UE-Israele.
Contestualmente
i più volenterosi si sono sbracciati per ostacolare l’indipendente esercizio
della giurisdizione della CPI con pressioni di ogni tipo, di cui ha dato atto
un inusitato comunicato del Procuratore Generale Karim Khan che, il 20 maggio,
annunciando la richiesta di mandati di cattura per Netanyahu e Gallant, assieme
a tre dirigenti di Hamas, ha dichiarato:
«Tutti
i tentativi di ostacolare, intimidire o influenzare impropriamente i funzionari
di questa Corte devono cessare immediatamente. Il mio Ufficio non esiterà ad
agire ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma se tale condotta dovesse
continuare».
Messo
alle strette il Procuratore Khan si è reso conto che il doppio standard avrebbe
finito inevitabilmente per travolgere il diritto internazionale e la funzione
degli organi di giustizia e lo ha denunciato esplicitamente:
«Vogliamo essere chiari oggi su una questione
fondamentale: se non dimostriamo la nostra volontà di applicare il diritto
(internazionale) in modo equo, se viene visto come applicato selettivamente,
creeremo le condizioni per il suo collasso. […]
Ora,
più che mai, dobbiamo dimostrare collettivamente che il diritto internazionale
umanitario, la base fondamentale per la condotta umana durante i conflitti, si
applica a tutti gli individui e si applica in modo equo in tutte le situazioni
affrontate dal mio Ufficio e dalla Corte.
È così
che dimostreremo, concretamente, che le vite di tutti gli esseri umani hanno lo
stesso valore».
In
realtà i princìpi e le regole del diritto internazionale dei diritti umani
hanno senso solo se universali, altrimenti è razzismo.
Praticare
un doppio standard dei diritti equivale alla loro negazione.
A quel punto il richiamo alle “regole” è un
mero travestimento della forza brutale. Attraverso l’intervento delle sue Corti
di Giustizia, il diritto internazionale dei diritti umani ha emesso un lampo
che ha squarciato le tenebre di un sistema internazionale che non riconosce
altra legge che non sia quella della forza, altro diritto che non sia basato su
una politica di potenza.
«Quante divisioni ha il Papa?», si chiedeva
ironicamente Stalin.
Le Corti internazionali non hanno divisioni,
né dispongono di una polizia giudiziaria, però hanno l’autorità di “ius-dicere”,
cioè di certificare l’esistenza del diritto internazionale e delle sue
violazioni.
Con il
mandato d’arresto per Netanyahu, la Corte penale internazionale ha fornito
un’arma all’opinione pubblica per contrastare l’uso selvaggio del potere ed il
ricorso all’esercizio sregolato della forza.
Per
quanto ci riguarda, è compito delle forze vive della società civile e della
politica, utilizzare questa chiave per chiedere conto al governo italiano della
sua inerzia e del suo silenzio complice di fronte ai crimini di Israele.
I
crimini del silenzio di fronte
all’ingiustizia
degli oppressi.
Korazym.org
– (19 Marzo 2024” - Bussole per la fede - Mons. Yoannis Lahzi Gaid – ci dice
Dice
il proverbio arabo:
Chi tace dinanzi all’ingiustizia è un diavolo
muto. Il diavolo taciturno è il peggior tipo di demone, perché il silenzio di
fronte all’ingiustizia, all’abuso e all’oppressione è una partecipazione
passiva che contribuisce alla continuazione della situazione, perfino alla sua
giustificazione, e spesso la esacerba e peggiora.
Il silenzio di fronte a situazioni ingiuste
spinge gli oppressori a persistere, li incoraggia a mantenere le loro posizioni
sbagliate e in molti casi li spinge a giustificare a sé stessi quelle posizioni
vergognose, fino a considerare le loro ingiustizie motivo di orgoglio e di
vanto.
Mentre,
dire la verità, costi quel che costi e qualunque siano i risultati, è una delle
caratteristiche delle persone nobili, giuste e dotate di principi, morali e
valoriali, ed è l’unica via di chi sceglie la strada della fede, dell’umanità,
dell’integrità e della rettitudine morale.
Infatti,
esistono diversi tipi di persone: il primo tipo è quello di coloro che dicono
la verità per vantarsi e per sentirsi migliori degli altri e, così facendo,
esprimono solo la loro arroganza e la nauseante sensazione di essere migliori
degli altri e di avere il diritto di condannarli e giudicarli.
Qui
Gesù Cristo gli dice:
‘Con la stessa misura con la quale misurate,
sarete misurati anche voi’ (Mc 4, 24). Cristo mette in guardia contro questo
tipo di persone che condannano gli altri che si vantano e si arrampicano sulle
spalle degli altri con il pretesto di ‘dire la verità’, non ‘per amore della
verità’.
Il
secondo tipo è quello di coloro che tacciono di fronte all’ingiustizia degli
altri e li giustificano dicendo che non vogliono condannare nessuno,
dimostrando così la loro paura e codardia.
Nascondono
la testa nella sabbia come se nulla fosse successo.
Questo
tipo di persone spesso tacciono quando si tratta di dire la verità davanti ai
potenti e alle persone influenti per paura della loro vendetta e per ottenere
il loro compiacimento e approvazione e per evitare la loro malvagità.
Queste
persone spesso si comportano come Ponzio Pilato, che si lava le mani di fronte
all’ingiustizia dell’Innocente, credendo così di essersi esonerato dalla
responsabilità nonostante abbia detto:
‘Non
sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?’
(Gv 19,10).
Questo
tipo di ipocrisia è il tipo più spregevole di evasione dalle responsabilità, è
di facciata, di giustificazione e persino di vanto che arriva sino a sfruttare
i versetti della Bibbia per giustificare un silenzio vergognoso ed evitare di
prendere posizione o dire la verità.
Il
terzo tipo è di quelli che restano in silenzio fino a quando la tempesta non è
passata e appena raggiungono la certezza dei risultati gridano come se fossero
i più valorosi dei cavalieri.
È un
tipo di essere umano caratterizzato da opportunismo, meschinità spirituale e
umana.
Scelgono
di tacere finché non sono certi dei risultati e appena appare la ‘visione’ il
troviamo tra i primi a congratularsi con il vincitore e consolare il perdente.
Commerciano
anche nel dolore, versano lacrime di finzione e simulano di essere
compassionevoli e generosi, ma in realtà pensano solo a sé stessi e ai loro
guadagni, esprimendo così la bassezza e la fragilità dei loro principi e della
loro vita morale.
Il
quarto tipo è di quelli che credono di adottare la moderazione come approccio e
si vantano di parlare diplomaticamente per non ferire nessuno, ma in realtà
sono come camaleonti che cambiano colore a seconda delle circostanze cosicché
nessuno possa scoprire il loro vero colore.
Agiscano
con tatto ed educazione per sostenere il loro cambio di posizione secondo le
circostanze, dimenticando che Gesù Cristo ci insegna:
‘Siano
le vostre parole sì, sì, no, no. E tutto il resto viene dal male’ (Mt 5:37).
Il tatto è necessario quando si tratta di
cortesia umana, non quando si tratta di dire la verità contro l’ingiustizia e a
favore degli oppressori e di rendere giustizia agli oppressi.
Il
quinto tipo è di coloro che dicono la verità basandosi sulla convinzione della
necessità di essere coraggiosi e di non tradire i propri principi e valori,
costi quel che costi.
Questo tipo di esseri umani sono come le perle
preziose: non mutano colore, non cambiano le loro parole secondo la grandezza
di chi hanno davanti, ma secondo l’autenticità della loro fede, della loro
storia, della loro alta morale.
Esprimono
le loro opinioni sia davanti ai governanti sia davanti agli oppressi. Sono come
il profeta Natan che si presentò davanti al re Davide, affrontandolo,
dicendogli:
‘Tu sei quell’uomo! Così dice il Signore, Dio
d’Israele:
Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato
dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone … e, se questo fosse
troppo poco, io vi avrei aggiunto anche altro’ (2 Sam 12, 7-9).
Questo
tipo di persone sanno che dire la verità è un dovere religioso, morale e umano.
Ci
insegnano che dire la verità deve essere fatto con educazione, rispetto e
tatto, ma resta un dovere morale e di fede, in primis, soprattutto di fronte a
comportamenti sbagliati, indipendentemente dalla posizione o dal rango civile o
ecclesiastico delle persone ingiuste.
Oggi
abbiamo tanto bisogno di uomini di questo tipo che non temono altro che il
volto di Dio e il suo giusto giudizio.
Uomini
che dicono: basta con il silenzio, la sottomissione e la codardia.
Uomini
che urlano contro le rovine delle nostre coscienze mummificate per risvegliarle
dalla morte e dal marciume.
Uomini
con un cuore coraggioso, una lingua parlante, una coscienza pura, una storia
onorevole e cuore puro.
Uomini che non calcolano le cose secondo gli
standard di questo mondo e l’equilibrio tra vincitori e vinti, ma piuttosto agisce
con valore e audacia.
Uomini
che scuotono coscienze vergognose, lingue mute, occhi ciechi e orecchie chiuse,
cuori pietrificati e menti logore.
Uomini che tracciano un percorso
nell’oscurità, capaci di accendere la speranza.
Gesù disse: ‘Conoscerete la verità, e la verità
vi farà liberi’ (Gv 8, 32).
“Giurato
numero 2”: tra
le ombre del giudizio.
Volerelaluna.it
– (03-12-2024) - Luca Tedoldi – ci dice:
Un
uomo che ha commesso un delitto senza accorgersene, perché credeva di aver
urtato un cervo, finisce per fare il giurato nel processo sulla morte della
donna uccisa dalla sua automobile.
Nelle
scene precedenti a questa rivelazione, viene presentato come un brav’uomo: ama
tantissimo sua moglie, che è incinta, è molto premuroso, bello, benestante e
felice.
Dopo
pochi secondi dall’inizio del film, vediamo la giovane donna bendata, proprio
come la Giustizia apparsa poco prima, e l’inquadratura soggettiva pare
annunciare che anche noi, come lei, dovremo sopportare le notizie che
giungeranno.
Justin,
nome prossimo alla Justice, deve subito affrontare ciò che sa, l’amaro vero. La
colpa emerge piano piano, ma quando arriva alla piena consapevolezza, spicca in
un modo che peserà sullo spettatore per tutta la durata del film.
Durante
le prime fasi del processo, mentre viene descritta la serata in cui Kendall, la
fidanzata dell’imputato, James, perde la vita, lui, col suo bel faccino
candido, capisce che si trova stretto nell’angolo di un’ardua scelta.
La
verità contro la giustizia: ecco partire la riflessione, la tensione del
dilemma morale.
Decide
di non confessare, e abbassa la testa quando il testimone oculare rivolge lo
sguardo verso di lui.
Preferisce
tutelare il suo privato: la moglie incinta, il suo futuro di benessere
familiare.
La
famiglia contro la verità, la famiglia contro la giustizia.
Poi
però cerca su Internet la definizione di “omicidio stradale” e va dall’amico,
sponsor del gruppo degli alcolisti e avvocato, a vuotare il sacco.
La risposta che riceve è terribile: non dire
la verità.
Nessuno
ti crederà.
Qui
apprendiamo che Justin è stato un alcolizzato e che ha dovuto fare un percorso
per mostrarsi come lo abbiamo conosciuto nelle prime scene del film, integro,
onesto, uno che si convince sinceramente di aver colpito un animale, perché
scende dall’auto e si trova davanti ad un cartello che mostra il pericolo del
passaggio dei cervi.
Ma la
via della confessione è sbarrata, perché tutti crederanno che la colpa è dentro
di lui, gli dice l’amico, e trent’anni di galera sono assicurati.
Dunque è il caso di lasciar perdere; la
vittoria della verità, con l’uomo probo che si batte il petto, non si realizza.
Nessun “fiat iustitia, pereat mundus”, gli
effetti potrebbero essere rovinosi, meglio ripensarci:
come
l’uomo della campagna del racconto di Kafka, vorrebbe accedere alla Legge, ma
non ha la facoltà di varcare quella soglia.
Il
colpevole Justin camminerà sul filo e la sua anima, ossia,
cinematograficamente, il suo volto tormentato, sarà in bilico tra lo scorrere
implacabile della condanna di un innocente e il tentativo di convincere gli
altri giurati che forse sarà stato un altro, magari un introvabile pirata della
strada.
La
giuria popolare è piena di persone che vorrebbero essere altrove e quelli che
prendono sul serio il compito tutto sono fuorché neutrali.
Sulla
curiosità di sapere come finirà il processo, così come su alcune
inverosimiglianze narrative, segnalate da chi tende a tralasciare il nodo
filosofico, prevale il tema del travaglio della coscienza:
il
cittadino Justin sta aspettando una bambina, dopo aver perso due gemelli
proprio nel giorno della morte di Kendall, ma deve anche far giudicare il suo
desiderio di felicità dal suo stesso tribunale interiore.
Da una parte, come direbbe Kant, la sua natura
sensibile, dall’altra, la sua natura razionale e cioè la voce del dovere.
Vincerà la verità a discapito del benessere
familiare, oppure una modesta giustizia processuale che da qualche indizio ha
fretta di saltare al giudizio di condanna?
L’avvocato
d’ufficio del litigioso imputato James, pur sapendo che non si tratta di un
santo, crede nella sua innocenza;
dall’altra
parte, l’accusatrice Faith, donna pragmatica e vecchia amica del difensore,
sembra fare leva sul passato sporco dell’accusato per farlo condannare e
potersene avvantaggiare per la sua candidatura a procuratore distrettuale.
I due
avvocati amici sembrano interpretare figure interne alla mente di Justin, il
quale infatti si accusa e si difende, vuole salvare l’imputato, ma anche se
stesso.
Alla
fine l’innocente James viene condannato all’ergastolo.
All’uscita del tribunale, Faith, che solo dopo
la sentenza riesce a capire tutto, affronta il vero colpevole su una panchina:
questi
le dice che il silenzio conviene ad entrambi.
E
così, macchiati entrambi, si salutano.
L’omicida
accidentale ha compiuto fino in fondo il suo percorso, assumendo
machiavellicamente la colpa su di sé.
La
verità ha perso, strangolata da due mani, quelle di Justin e Faith, ossia
rispettivamente famiglia e carriera.
Lui,
che risolve la discordia interna con i fiori sulla tomba della ragazza,
potrebbe assomigliare a quelli tra noi che, familisti amorali protettori del
nido e dell’interesse egocentrico, lasciano che il falso trionfi e dilaghi,
nelle più o meno decrepite democrazie, o, per così dire, pseudo crazie.
Ma gli
occhi di lei, il nuovo procuratore distrettuale, Toni Colett, quegli occhi
severi degli ultimi secondi del film, di chi sono?
Non
sono gli occhi di una giustizia affidabile, ma quelli di una donna che ha
costruito il suo successo sulla sventura altrui, la sua vittoria processuale ed
il suo successo professionale su una sentenza sbagliata.
Non
possiamo fidarci della verità, non possiamo fidarci della giustizia, non
possiamo fidarci delle banalità e delle prevenzioni dei giurati chiamati a
decidere, quindi non possiamo fidarci della democrazia (non c’è più l’ottimismo
di “La parola ai giurati” di Lumet):
questa
è la notte tempestosa in cui siamo soli e abbandonati, sul ciglio della strada.
Però
restano gli occhi della scena conclusiva.
Che
cosa stanno dicendo?
Quel
finale sospeso ci permette di tornare a riesaminare ciò che prima era
nell’ombra, anche noi responsabili dello sguardo, come i personaggi di questo
film, che intravedono, scorgono e sentenziano, credono di vedere e poi in
realtà non hanno davvero visto.
Come
il presunto testimone oculare, che in realtà ha confuso una persona con
un’altra, o la moglie, all’inizio bendata, che spegne la luce lasciando solo il
marito, come se e la dovesse cavare da solo ed in quell’oscurità scegliere dove
andare, simile al bambino cieco in “Anatomia di una caduta”, anche lui
sottoposto a un bivio dilemmatico.
Le bende agli occhi sembrano averle anche i
giurati, burattini del proprio stesso colpevolismo, accecati dal pregiudizio.
Ed anche l’amico avvocato del protagonista è
certo del pregiudizio dell’insuperabilità dei pregiudizi, come quello
dell’alcolista=pirata della strada assassino.
E lui,
Justin, non ha visto il corpo della donna che stava camminando sotto la pioggia
di notte.
Ma
Eastwood, con la sua classicità da vecchia scuola, con la sua capacità di
illustrare quel ragionevole dubbio che demolisce certezze e tribalismi, non
chiude col pessimismo dell’accusa unilaterale, perché non conta se tu sia stato
cieco o miope, ma come affronti questa miopia.
L’avvocato
Faith, infatti, ha il coraggio di combattere contro la sua stessa fede e
rinsavisce, come il colonnello Picquart del caso Dreyfus, che tornò a leggere
le carte del processo mettendo in questione i propri stessi “bias” di
antisemita e contribuendo a riaprire il caso.
Insomma, qui la notte continua, ma possiamo
tenere gli occhi aperti.
Non
siamo vittime del maltempo
ma del
malgoverno del territorio.
Volerelaluna.it
– (05-11-2024) - Paolo Pileri – ci dice:
L’Italia
è tormentata dal mal tempo o da inadeguata agenda politica?
O da
entrambe?
Intanto
sgombriamo il campo dal mal tempo perché quel che stiamo vedendo oggi e che sta
allagando città e territori non è mal tempo ma il tempo che ci siamo cuciti
addosso con il nostro impegno a fare due cose precise:
guastare
il clima in mille modi e rendere il territorio sempre più fragile in caso di
piogge, alluvioni, frane, colate fangose, siccità, etc.
Ricordiamo
che attraverso una superficie impermeabilizzata l’acqua non passa. Un’evidenza
che, ahinoi, ancora sfugge a chi governa il territorio.
E
allora ricordiamoglielo:
asfaltare
qualsiasi suolo libero equivale ad aumentare di sei volte l’acqua che rimane in
superficie e moltiplica i costi per gestirla e soprattutto i danni in caso di
alluvione.
La
prova che tutto ciò non è chiaro ci arriva dai dati sul consumo di suolo.
In soli sedici anni, in Italia, sono stati
sigillati/cementificati/asfaltati ulteriori 121.650 ettari.
Un
numero pazzesco: è come aver aggiunto circa 11,5 città della grandezza di
Milano a un’Italia già piegata dalla super cementificazione.
Più
urbanizzazione abbiamo e più isole di calore generiamo, più traffico, più
energia consumata, più gas climalteranti lanciati in atmosfera, più acqua in
superficie e più clima che cambia per sempre.
Queste
11,5 nuove Milano sparse per la penisola (il 44% nelle sole otto regioni del
nord) sono il frutto di una pianificazione urbanistica sregolata e incurante
degli equilibri ecologici, che non funziona più o addirittura non esiste più.
Ammalorata
da leggi urbanistiche incapaci di contenere e fermare il consumo di suolo.
Ancora
convinta che davanti a problemi complessi e sovra-territoriali debbano essere i
singoli comuni, frammentati e in comunicanti tra loro, a decidere in piena
autonomia se urbanizzare o non urbanizzare.
Un’urbanistica
che a parole e da anni annuncia la sostenibilità, ma nella concretezza della
quotidianità produce l’esatto contrario, ignorando le asimmetrie tra pressioni
private a urbanizzare e strumenti pubblici spuntati per fronteggiarle;
ignorando
la golosità della rendita per i privati e degli oneri di urbanizzazione per il
pubblico, ma soprattutto ignorando cosa è l’ecologia dei suoli e come soccombe
sotto i colpi delle trasformazioni del territorio.
I vari protagonisti della pianificazione
urbanistica, politici in primis, non hanno ancora capito quanto impattano le
loro decisioni urbanistiche su clima e tenuta del territorio.
Non lo capiscono perché, innanzitutto, gli
sfugge il ruolo del suolo.
Per
loro è una superficie da occupare, un vuoto da riempire.
Non
vogliono accettare che per fronteggiare il disfacimento del territorio a cui
stiamo assistendo occorre fermare subito, e non solo rallentare,
l’urbanizzazione.
Solo
fermandola, ci si può mettere a scrivere un’agenda pubblica per una seria
transizione ecologica.
Stop al consumo di suolo e difesa del suolo
devono andare a braccetto perché continuare a cementificare finisce per non
generare gli effetti desiderati delle azioni di difesa del suolo.
La
qual cosa non vale solo per l’urbanizzazione, ma anche per l’agricoltura che in
questi ultimi decenni è divenuta un’attività di industria pesante:
compatta
i terreni aggravando la impermeabilità generale;
elimina
le coperture vegetali permanenti; inquina i suoli con pesticidi, plastiche,
funghicidi;
abbandona
la montagna etc.
La
prova della trascuratezza della difesa del suolo ci arriva osservando i dati
sulla finanza locale dei comuni italiani (ISTAT,.istat.it/it/archivio/289008):
nel 2021 hanno speso circa 68,6 milioni di
euro (somma dei pagamenti in conto competenza e in conto residui ovvero i più
noti pagamenti di cassa, quelli effettivamente spesi).
68,6 milioni di euro sono tanti o sono pochi?
Sono
una risposta adeguata per difendere il territorio dai rischi del dissesto
idrogeologico e dalle mutate condizioni meteo?
Difficile
dare una risposta nel merito, ma possiamo aiutarci con alcune proporzioni.
Mediamente, per ogni euro speso per la difesa del suolo in Italia se ne sono
spesi 4,6 per rimediare ai dissesti (2,95 per la protezione civile; 1,65 per
interventi a seguito di calamità naturali).
Per chiarire: la spesa per prevenire i
problemi è circa cinque volte inferiore a quella per rimediare.
Se andiamo a confrontare la spesa per difesa
del suolo con le altre, le cose vanno pure peggio.
Per ogni euro speso per la difesa del suolo ne
sono stati spesi 13 per ‘elezioni e consultazioni popolari & anagrafe e
stato civile’; 6 per ‘sviluppo e valorizzazione del turismo’ e 43 per
‘viabilità e infrastrutture stradali’.
Sebbene
non tutte le competenze in materia di difesa del suolo spettino ai comuni (ma
la medesima cosa si potrebbe dire per la viabilità o per il turismo o per le
elezioni), il quadro che ne esce è quello di una spesa pubblica locale
assolutamente inadeguata per la difesa del suolo.
Ecco
una nuova chiave che ci aiuta a interpretare perché il nostro Paese si è
trovato in ginocchio con le alluvioni e le frane degli ultimi due anni.
Non è
responsabilità del clima (che abbiamo) cambiato, ma di una pianificazione che
non solo è stata a guardare, ma ha proseguito nel proprio cammino cementifero.
Se
andiamo a vedere meglio questi rapporti in funzione della dimensione dei
comuni, le cose finiscono pure per peggiorare.
I
comuni con meno di 5.000 abitanti hanno speso 8,3 volte di più per rimediare
alle calamità che per prevenirle, quindi quasi il doppio della media dei
comuni.
Attenzione
perché i piccoli comuni sono il 70% dei comuni italiani e occupano spesso aree
idrogeologicamente delicate.
Inoltre,
sono quelli tecnicamente più sguarniti avendo uffici comunali a mezzo tempo,
sempre sottodotati e dove faticano ad arrivare le briciole di aggiornamento
professionale offerte ai tecnici pubblici.
Dico
briciole per essere generoso, visto che sappiamo bene che in questo Paese non è
stato investito praticamente nulla per la formazione di una nuova mentalità,
ecologica e consapevole del cambiamento climatico, dei tecnici locali e zero
risorse per la formazione degli amministratori locali (che peraltro non
chiedono di imparare qualcosa).
Più o meno la stessa proporzione di spesa la
ritroviamo nei comuni tra i 5.000 e i 10.000 abitanti, mentre scende a 6 per
quelli tra i 10.000 e i 20.000, poi a 3,8 per quelli tra 20.000 e 60.000 e a
2,2 per tutti gli altri.
Rimane
il fatto che la spesa per la prevenzione è sempre inferiore a quella per i
rimedi e questi, spesso, sono improvvisati o provvisori.
Sicuramente piacciono a chi riesce ad
aggiudicarseli usando le scorciatoie dell’urgenza che aggirano le procedure di
bando.
In
conclusione, la lettura di questi dati ci mostra un’altra chiave interpretativa
per capire meglio le responsabilità dietro le alluvioni di Emilia Romagna,
Marche, Liguria, Toscana, Lombardia, Veneto, Campania e Sicilia e quelle che
verranno, se verranno.
Siamo stretti in una morsa terribile:
insostenibile e galoppante consumo di suolo da
un lato e persistente inadeguatezza della spesa pubblica locale per la difesa
del suolo, dall’altro.
In
buona sostanza potremmo dire che il governo del territorio è completamente
saltato e davanti al clima cambiato è come un re nudo che tiene in mano
un’agenda vecchia, convinto di essere ancora nel ‘900.
Con
tutte queste sproporzioni e questa ostinata cementificazione non si va da
nessuna parte.
E non si dica che il PNRR sta cambiando musica perché
sappiamo che non è così. Non siamo vittime del maltempo, ma ancora una volta di
malgoverno del territorio.
Trump.
C’è della logica
in
questa follia.
Volerelaluna.it – (19-11-2024) – Prof. Marco
Revelli – ci dice:
Dunque,
l’impensabile è accaduto.
Donald Trump ha ri-vinto. Nonostante Capitol
Hill.
Nonostante
le imputazioni per stupro.
Nonostante
i numerosi processi ancora aperti (almeno tre, due sicuramente federali che ora
verranno cancellati dalla vittoria).
Aggiungiamo
anche che ha rivinto alla grande.
Con
quattro milioni in più della sua concorrente democratica, nel voto popolare.
Con dodici milioni in più rispetto alla precedente vittoria del 2016.
Riprendendosi tutti gli “swing states” che
Biden gli aveva strappato nel 2020. Questa America puritana e patria della
democrazia delle regole, che si affida a un eversore dichiarato e puttaniere
seriale, è il simbolo di un mondo impazzito. Eppure, come direbbe Polonio
nell’Amleto, “c’è della logica in questa follia”.
Anzi,
letteralmente, “there is method in this madness”.
Trump In
realtà, se non ci si fosse lasciati accecare dalla barriera di fumo dei
sondaggi e dei media mainstream, che elevarono un peana smodato sulla rimonta
di “Kamala” quando finalmente “Sleeping Joe” mollò, e che ci illusero sul
perfetto pareggio fino al 4 di novembre;
se
come le vecchie guide indiane avessimo posato l’orecchio a terra per sentire le
vibrazioni provenienti dal profondo, invece di seguire le voci fatue di
un’informazione autoreferenziale, avremmo capito che quella di Trump era una
vittoria annunciata.
In qualche misura ineluttabile, come gli
eventi estremi nell’epoca del” global warming”, quando il meteo osservando
punti abissali di bassa pressione prevede una tempesta perfetta.
E questo non solo per ragioni contingenti, per
questioni “di tattica”.
Gli
errori degli altri.
“Kamala”.
Certo,
il ritiro a tempo scaduto dell’impresentabile Biden con le sue gaffes senili,
ha tolto un bel po’ di ossigeno alla campagna elettorale di Kamala, e ce la
dice lunga sul cinismo del suo entourage di notabili dem, che hanno tenuto in
piedi quell’avatar come scudo dietro al quale continuare a tirare le fila della
politica imperiale (si legga il bell’articolo di G.G. Migone).
Certo, l’incapacità della “Harris” di segnare
una discontinuità con la politica bideniana, continuando a presentare quel
vecchio ormai inviso ai più come il “miglior presidente” di sempre e a ignorare
il disagio economico di gran parte della popolazione per effetto delle sue
politiche e l’ostilità per una guerra incomprensibile ai più nelle sue ragioni
e nei suoi costi, ha pesato non poco sulla bassa consistenza del suo modo di
stare in partita.
Tutto
vero.
Ma non basta ancora per spiegare l’estensione
e la profondità di quella sconfitta. O, se si preferisce, della vittoria
dell’altro.
Il suo carattere di vera e propria
“catastrofe” – come l’ha definita” Massimo Cacciari “-, intesa nel suo
significato letterale, di “capovolgimento”, rottura sistemica della continuità,
rivelatrice di un mutamento strutturale dell’ordine precedente.
Perché
di questo si tratta.
Se nel
2016 si poteva ancora pensare a un incidente di percorso, una sorta di “Buffé “delirante
(come lo definirebbe uno psichiatra) da parte di un elettorato in stato
confusionale, oggi no.
Oggi – dobbiamo ammetterlo – ci troviamo
davanti a un voto “consapevole” – si fa per dire -, o quantomeno “informato”, da parte di
elettori che ormai sapevano tutto di quel candidato, i suoi tanti vizi e le sue
poche virtù, le bizzarrie, le provocazioni, i paradossi e gli estremismi, e che
tuttavia l’hanno scelto in massa, anche nei settori prima a lui negati dei
neri, dei latini, delle donne, disertando altrettanto in massa il campo dem,
con dieci milioni di elettori in meno per la “Harris” rispetto a quelli di
quattro anni prima per Biden (un vero e proprio esodo biblico in fuga dal
politicamente corretto e dalle ostentate virtù).
Un
bradisismo dall’epicentro profondo (documentato dall’autorevole Magazine
“Politico” in un lungo articolo sulla “Stunning Geography of Trump’s Victory”.
D’altra
parte se nel suo primo mandato The Donald non aveva potuto far danni più di
tanto, perché il “deep state “costituiva uno zoccolo resistente agli eccessivi
mutamenti e il quadro internazionale appariva ancora relativamente stabile e
solido, ora no.
Non è
più così.
Ora il
funzionariato che costituisce l’esoscheletro dell’Amministrazione appare
fortemente contendibile da parte di uno che ha avuto quasi un decennio per
prepararsi alla sua conquista, e l’ordine mondiale è ridotto allo stato
magmatico da due guerre atroci che ne mandano in fusione i fondamenti.
Dunque
un mutamento di scenario insieme radicale e generale.
Di
quelli che assumono carattere periodizzante sul piano cosmico-storico, e che in
quanto tale pretende ragioni (o almeno abbozzi di spiegazione) altrettanto
“sistemici”.
Il
peso del declino.
La
prima ragione si chiama “declino”.
Gli
Stati Uniti sono una grande potenza imperiale in declino.
E la storia ci ha insegnato quanto gli imperi
declinanti siano pericolosi:
quali
forme del negativo sappiano evocare dai loro corpi in affanno.
Donald Trump è appunto un prodotto di quella
condizione inedita per un Paese che aveva vissuto sempre del mito del proprio
costante auto superamento.
Il suo autoproclamato “Make America Great Again” suona
come una velleitaria formula consolatoria per esorcizzare l’inquietante
sensazione di aver esaurito il proprio ciclo ascendente.
La
cosa è particolarmente evidente sul grande schermo dello scacchiere mondiale:
se ancora un quarto di secolo fa ci si era potuti illudere che la
globalizzazione coincidesse con l’americanizzazione del mondo (o, il che è lo
stesso, con la sua Trump occidentalizzazione), ora ci si accorge con sempre
maggior chiarezza – e la guerra in Ucraina ne ha accentuato l’evidenza – che
quell’immagine si attaglia tutt’al più alle due sponde dell’Atlantico, può
valere per la vecchia Europa (e neanche per tutta), ma appena ci si spinge un
po’ più a sud, o a est, si può constatare come il “famoso Washington consensus”
resti un vecchio, sbiadito ricordo.
Che
sempre più popoli e governi se ne infischiano delle direttive che arrivano
dalla Casa Bianca o dal Pentagono, in qualche caso se ne fanno beffa (si pensi
a quante volte Netanyahu ha ridicolizzato l’amico Baden e i suoi emissari
guidati dal patetico Blinker che lo invitavano a maggiore prudenza nell’uso del
massacro), in altri casi si girano dall’altra parte, sperimentano nuove forme
coalizionali come i “Brics”, minacciano la creazione di nuove monete di
scambio, o semplicemente si fanno i fatti loro.
Intendiamoci,
sul piano militare gli Stati Uniti mantengono una superiorità distruttiva
incomparabile con quella di qualunque altro Stato o sistema di Stati, ma si
tratta appunto di una capacità “distruttiva”, in molti casi eccessiva rispetto
allo scopo di imporre una volontà, comunque inadeguata a sostenere un modello
di egemonia quale quello presupposto dall’antico “Manifest Destiny”, ovvero la convinzione sostanzialmente
fondamentalistica di essere chiamati per missione a diffondere sulla Terra il
Bene identificato col proprio stile di vita e di valori.
Quel
sogno americano è definitivamente svanito.
Trump.
Così per le relazioni internazionali.
Ma
anche sul piano interno l’America “non è più quella di una volta”.
Per
chi come a me è capitato di ritornarvi dopo qualche anno di assenza, un qualche
senso di regressione è stato fin da subito percepibile da un buon numero di
segnali, in primo luogo una certa impalpabile disorganizzazione dei grandi
sistemi organizzati colpiti da una sorta di sindrome entropica, da eccesso di
complessità per la crescita esponenziale concentrata in breve lasso di tempo.
Ad
esempio gli aeroporti (a Chicago ci hanno smarrito il bagaglio nel cambio di
coincidenza, e ci hanno detto che la cosa accade assai spesso;
in
Nevada, il nostro volo rinviato per otto volte, appariva sul tabellone
“Departed” quando in realtà non si era mai staccato da terra, e interpellata
per telefono la Compagnia aerea delirava…
O le grandi infrastrutture autostradali, con
la segnaletica orizzontale quasi invisibile per logoramento.
La
stessa popolazione, al primo sguardo, appariva mutata, anch’essa in qualche
modo logorata.
Tante, tantissime le figure sformate, obese
(lo sono il 41% della popolazione, un altro 30% è sovrappeso), impedite nella
mobilità (un gran numero di persone in sedia a rotelle o sulle minicar
elettriche per disabili, sono circa 57 milioni), depresse, o sovreccitate (un
25% degli americani consuma regolarmente psicofarmaci, vent’anni fa erano
appena 1 su 100).
Tanti
gli anziani, e i vecchi.
Le statistiche demografiche lo confermano:
Nell’ultimo
decennio gli over 65 residenti nel Paese sono aumentati di oltre un terzo,
ovvero alla velocità maggiore degli ultimi 130 anni, mentre la percentuale di
bambini sotto i cinque anni è scesa.
Oggi l’età media della popolazione americana
sfiora i 39 anni (38,8), cinque anni di più rispetto all’inizio del nuovo
secolo, quando era sui 34.
Dieci
in più rispetto al 1970, quando era di 26 anni (e fa una bella differenza!). Soprattutto tanti, davvero tanti, i
poveri, e gli impoveriti.
Il
calo della classe media americana
La
crisi della middle class.
E
questa è la seconda ragione.
L’America che ha votato per Trump è un’America
regredita nel reddito, nel potere d’acquisto e nel tenore di vita.
Non è solo, e non è tanto, una questione di
dimensione della povertà:
i poveri sono una quarantina di milioni, che
non è poco, ma restano relativamente stabili.
E’ la
questione dell’impoverimento di ampi strati sociali, in precedenza centrali e
relativamente garantiti.
Dell’impoverimento
cioè di buona parte dei lavoratori dipendenti, quella che un tempio si chiamava
“working class”.
L’ha detto, come meglio non si poteva,” Bernie
Sanders”, quando nel corso di un Meet to press il 10 di novembre (si veda dal
minuto 21,29), a commento del disastroso risultato dei democratici, ha affermato che “I lavoratori di
questo paese sono estremamente arrabbiati. Hanno il diritto di essere
arrabbiati.
Nel
paese più ricco della storia del mondo, oggi chi sta in cima se la passa
fenomenalmente bene, mentre il 60% degli americani non arriva alla quarta
settimana, milioni di famiglie temono che i loro figli avranno un tenore di
vita inferiore al loro”.
Ma
soprattutto è la questione del declassamento e della crisi della classe media
(a cui gran parte del mondo del lavoro aveva avuto accesso negli anni in cui
funzionava l’ascensore sociale):
quella
middle class, tradizionale pilastro dell’ordine sociale americano,
maggioritaria e tutto sommato soddisfatta fino agli anni ’70, quando costituiva
oltre il 60% della popolazione.
E da
allora in progressivo restringimento e declassamento:
sotto il 59% sul totale della popolazione
negli anni ’80.
Intorno
al 54% all’inizio del secolo.
Sotto
la soglia del 50% oggi, a fronte di una crescita simmetrica dei “lower” e degli
“upper income “(saliti rispettivamente sopra la soglia del 30% i primi e del
19% i secondi).
Di
quale grado di follia sia capace quella classe media quando sente minacciate le
basi materiali del proprio status sociale e il proprio reddito – di quali
eccessi, allucinazioni, feroci ricerche di capri espiatori, affannose domande
di capi carismatici in cui identificarsi -, ce lo dovrebbe aver insegnato la
storia europea degli anni Venti e Trenta del secolo scorso.
E se
l’avessimo dimenticato, è sempre utile rileggersi un vecchio classico della
sociologia politica:
quel Political men. The social basis of politics di “Seymour Martin Lipset” (1960), in
cui il
fascismo (ma soprattutto il nazismo) era qualificato appunto come una forma
tipica di “estremismo di centro”.
Cioè
di radicalizzazione di quelle stesse classi medie che nel ciclo precedente
erano state la base sociale del parlamentarismo liberale e che ora,
destabilizzate dalla catastrofica sconfitta militare nella Prima Guerra
Mondiale e spolpate dall’inflazione, si erano radicalizzate travolgendo le
fragili istituzioni della democrazia weimariana.
Ora,
fatte le debite proporzioni e rilevate le enormi differenze di contesto e di
dimensione, sia pure in forma de-virulentizzata e omeopatica, per così dire,
quello che è avvenuto in questi ultimi anni negli stati Uniti (ma potremmo dire
in Occidente), presenta degli aspetti analoghi:
l’affievolirsi
della potenza imperiale americana, la precarizzazione dell’esistenza da parte
di strati sociali prima stabilissimi, l’erosione del potere d’acquisto, la
tendenziale perdita di controllo sulla propria esistenza e l’incertezza del futuro…
Wall
Street 2008 – La crisi dei subprime.
Un
primo colpo, non lieve, all’equilibrio mentale del ceto medio americano l’aveva
dato la crisi dei subprime e quello che ne era seguito:
allora
si era interrotto il circuito dell’acquisto di case con mutui facili e
agevolati, rapida vendita di esse con ampia plusvalenza dovuta alla crescita
impetuosa del valore degli immobili, saldo del mutuo contratto e stipula
successiva di uno nuovo con cui acquistare una nuova casa da rivendere, e così
via (un modo semplice di produzione di denaro per mezzo di denaro, con cui le
famiglie benestanti accrescevano il proprio reddito, finito quando gli
interessi sui mutui sono schizzati dal 2% al 6% e il prezzo delle case è
crollato).
E contemporaneamente il fallimento di alcune
grandi banche e di colossi del “real estate” aveva falcidiato le rendite
finanziarie di milioni di risparmiatori, che si erano ritrovati i propri
pacchetti di titoli pieni di pieni di trash cartolarizzato non esigibile.
Allora 10 milioni di persone persero la
propria casa, pignorata dalla banca dopo un certo numero di rate non pagate.
E
alcune stime suggeriscono che una famiglia su quattro abbia perso col crollo di
Wall Street il 75% o più del loro patrimonio netto.
Milioni
di americani mediamente abbienti videro allora, del tutto inaspettatamente, lo
spettro della povertà in faccia.
USA
2009 Case pignorate dalle banche.
Poi,
appena un decennio più tardi, il doppio tzunami della Pandemia e di una lunga fiammata
inflazionistica alimentata da una guerra tanto feroce quanto assurda e dal suo
seguito dissennato di sanzioni a grappolo.
Gli americani chiamati alle urne il 4 di novembre,
avevano ben presenti alcuni numeri, se non altro perché ci avevano dovuto
combattere quotidianamente ormai da tempo.
Sapevano
che il carburante, tra il primo mandato di Donald Trump e la nuova elezione,
era raddoppiato: costava 1,7$ al gallone nel 2016, ora era salito a 3,4 (e in
media un americano fa 14.000 miglia all’anno).
Che
una dozzina di uova, nello stesso periodo, era passato da 1 dollaro e 60 a 4
dollari e 89 (e un americano ne mangia in annualmente 280).
Che il
prezzo medio di un caffè era cresciuto del 45% (costava 2,70$ nel 2015, quasi
4$ ora, come si vede dai prezzi dello Starbucks in cui facevo colazione nei
giorni della campagna elettorale).
Quello dell’elettricità del 40%…
Ascoltava
Kamala Harris spiegargli che Biden era stato il “miglior presidente degli Stati
Uniti” (“acuto come uno spillo”).
E che
quel genio di Powell aveva fermato l’inflazione (in realtà l’ha riportata
vicino al 2,5%), ma non si diceva che gli aumenti accumulati fino ad allora
restavano, e pesavano sui bilanci familiari.
Così che la rabbia cresceva – si preparavano
quelle vere e proprie “tempeste di rabbia” che si sarebbero, almeno in parte,
riversate nelle urne -.
E
insieme cresceva la diffidenza, verso qualunque cosa provenisse
dall’establishment.
La
rivolta degli ingannati.
Trump.
E’ questa la terza, e per molti versi più importante, ragione del successo di
Trump.
Il
fatto che un gran numero di americani, e quindi anche di elettori, si sente
ingannato. Ingannato da tutti.
Da
“quelli di Washington”, naturalmente, i politici di professione che per
definizione parlano “con lingua biforcuta”.
Dai
media mainstream: “New York Times”, “Washington Post”, CNN, quelli le cui
previsioni e i cui commenti noi prendiamo come oro colato, e che loro mettono
tutti in un’unica inaffidabile fabbrica di parole.
Dalle
Banche, che sanno tutto di te mentre tu non sai niente di loro, e chissà quanto
lucrano sui tuoi risparmi.
Ma poi
ingannati anche dalle grandi piattaforme in cui si struttura il macrosistema
digitale, della comunicazione, della distribuzione, della finanza,
dell’intrattenimento, delle utilities senza cui non vivi, Zuchenberg, Gates,
Bezos, Soros, considerati tutti burattinai che tengono in mano i fili con cui
ti manipolano e tengono in ostaggio (Musk meno, forse perché considerato pazzo
e quindi meno pericoloso…).
Ingannati
dalle grandi Compagnie delle Assicurazioni, con i loro invisibili cavilli. Dal
Medicare che ti costa e quando serve non c’è.
Dall’
Airb&b, che ti riempie il quartiere di sconosciuti…
Non
c’è praticamente nessuno tra quelli con cui ho avuto modo di conversare nel
periodo in cui sono stato là, che non avesse almeno un paio di impalpabili
entità da cui si sentiva preso in giro e insieme usato, tracciato,
vivisezionato fin nell’anima ma allo stesso tempo tenuto prigioniero perché
senza connessione ad esse non si vive.
Entità impalpabili perché così grandi e
lontane da impedirgli di esercitare un qualche controllo, piovre che ti usano
come facevano gli alieni della fantascienza anni sessanta, convivendo
invisibili tra noi.
Ecco
perché quell’esercito enorme di ingannati, appena gli è stato possibile, si è
vendicato votando per “Lui”.
Proprio
così.
Per levarsi di dosso la vergogna dell’ingannato, hanno
scelto come proprio campione l’Ingannatore Sommo.
Il bugiardo seriale. Il Re delle Fake.
L’uomo che infarciva i propri comizi di balle
spaziali.
Che non provava nessun pudore nel mettere in
scena l’assurdo.
Può sembrare un paradosso. E in effetti “è” un
paradosso. Ma come il mondo impazzito in cui viviamo, anche questa è una follia
che “ha la propria logica”. Che – io credo – trova proprio nella dimensione
dell’ECCESSO la sua spiegazione.
Eccesso
e successo.
Donald
Trump, ponendosi sistematicamente “sopra le righe”, sparandole a ogni nuova
comparsa pubblica sempre più grosse, esibendo oltre misura i propri vizi,
sempre più “brutto, sporco e cattivo”, infrangendo tutte le regole della
correttezza, della buona educazione e del vivere civile, è riuscito nella
mission impossibile di apparire diverso e persino migliore dei falsi virtuosi
alla Harris, anch’essi ingannatori, ma ipocriti esattamente come il “sistema”
che incarnano.
Più
“vero” nella propria bruttezza, più “autentico” nella sua impresentabilità.
Non
solo.
Ma
mostrandosi apertamente come una “figura del limite” – anzi, dell’al di là del
limite -, figura dell’eccesso e dell’impunità, è riuscito a porsi come simbolo
di tutto ciò che è “anti-sistema”: che si contrappone cioè a quel “sistema” che
una parte crescente di americani considera proprio nemico.
Mentre ai suoi avversari Democratici è toccato
il ruolo incapacitante di identificarsi con “quel” sistema.
Di
incarnarne lo spirito e la lettera.
Di
assumerne lo stesso aspetto immateriale e astratto (a differenza del
corpaccione di Trump, fin troppo sanguigno e presente al livello del suolo).
Di
metterne in scena le stesse apparenti “buone maniere” che grondano finzione.
E di essere, di conseguenza, irrimediabilmente
sconfitti.
Il che fa di questa elezione americana – mi
rendo conto dell’enormità che dico – una sorta di Sessantotto, sia pur alla
rovescia.
Ossia
una contestazione globale al “sistema”, radicale nelle forme e nel linguaggio,
e altrettanto ostile programmaticamente alla mediazione, anche se, a differenza
del moto giovanile di cinquantaquattro anni fa, totalmente priva di spirito
critico.
È opera di quelle classi di età centrali,
trenta-cinquantenni per intenderci, che a differenza dei contestatori di allora
non possono dirsi innocenti rispetto allo stato di cose presente, e tendono
dunque a iniettare nei propri comportamenti dosi massicce di rancore e di
risentimento.
Incomincia
un’altra storia.
Che ne
sarà dunque di noi?
Come nella Bisanzio antica cantata da Guccini,
è pressoché impossibile “divinar responso”.
Ma un
dato appare comunque ineludibile:
quella in corso non è una semplice
increspatura sulla superficie piatta di un mare in bonaccia.
Al
contrario.
Minaccia di essere uno strappo profondo, di
quelli che fanno dire che “da oggi incomincia un’altra storia”.
Per
l’America, certo.
Per
l’Europa, a cui si può immaginare che saranno fatti vedere i sorci verdi.
Per il
mondo, i cui equilibri geopolitici già liquefatti dai conflitti degli ultimi
anni minacciano di essere ulteriormente scardinati.
Sia che la nuova Amministrazione segua la
parabola classica già annunciata e tipica del modello repubblicano, verso
l’isolazionismo.
Sia
che al contrario l’imprevedibile Tycoon decida di seguire il proprio istinto
della produzione di ordine mediante la nuda forza.
Forse
c’è qualche possibilità che ponga fine all’atroce guerra in Ucraina, perché
questa è la promessa fatta in campagna elettorale che ha fruttato a Trump un
bel po’ di consensi, perché erano tanti gli elettori che non ne potevano più di
Zelensky e dei suoi velleitari proclami di vittoria, non per pacifismo,
intendiamoci, ma perché non capivano tanto spreco di soldi armi ed energie.
Questa
è però l’unica buona notizia.
Per il resto probabilmente le prime vittime
saranno i palestinesi – ça va sans dire -, e subito dopo di loro – come già
detto – l’Europa, a cui sono promessi dazi crescenti sulle importazioni e
politiche selettive tali da disgregare anche gli ultimi residui di coesione
continentale.
La
nemesi dell’Europa.
Nemesi
impietosa, anche se annunciata anch’essa, che ci fa capire, se ancora ce ne
fosse bisogno, quanta inettitudine, inadeguatezza, diciamolo pure, stupidità,
ci sia stata nei vertici dell’Unione nell’allinearsi supinamente, e a tratti
tentare addirittura di primeggiare, al bellicismo marchiato NATO, alla
dissennata politica delle sanzioni che ha dissanguato le nostre economie, a
cominciare dalla locomotiva tedesca che è quasi collassata, più che non
danneggiare l’autocratico Putin, alla sistematica demolizione di tutti i ponti,
culturali e commerciali, persino sportivi, che collegavano l’Europa occidentale
alla sua costola orientale.
Un
esempio di suicidio politico con pochi precedenti nella storia, firmato da
quelle stesse figure fantasmatiche che oggi tentano disperatamente di
aggrapparsi ai rottami della Commissione europea come migranti a un gommone
sgonfio.
Potremmo
anche dire che questi indegni amministratori di un patrimonio che fu un tempo
di pregio hanno quello che si meritano, che chi semina vento raccoglie tempesta
e che l’insipienza in politica si paga cara.
Dobbiamo
però essere ben consapevoli che non solo loro, ma anche, e soprattutto, noi ci
aggiriamo in un panorama di rovine, mentre da oltre oceano la Grande X – non
solo del social di Elon Mask ma l’incognita del potere di Donald Trump – si
prepara a governare quel che resta dell’Occidente.
Con la Francia consegnata da Macron a un governo di
destra minoritario che tanto piace alla grande sconfitta delle Legislative
Marine Le Pen, la Germania lanciata verso elezioni dall’esito misterioso ma
comunque inquietante, l’Olanda, l’Austria, la Polonia, l’Ungheria nelle mani di
governi di estrema destra, l’Italia conciata come purtroppo ben sappiamo…
Anche
per noi incomincia una “nuova storia”.
Difficile.
Impervia. A cui dobbiamo fin da ora prepararci.
Post
scriptum:
l’ultimo
atto di Joe Biden, l’autorizzazione a colpire in profondità sul suolo russo, ha
una gravità per molti versi paragonabile a quella di Trump per Capitol Hill.
Il vecchio presidente sconfitto intende
vendicarsi rischiando una Terza guerra mondiale pur di disturbare il proprio
successore.
Inaudito!
(Marco
Revelli.)
(È
titolare della cattedra di Scienza della politica, presso il Dipartimento di
studi giuridici, politici, economici e sociali dell'Università degli Studi del
Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro”.)
Ucraina-Russia,
ecco le condizioni di
Putin
a Trump per chiudere guerra.
Msn.com - Corriere Toscano – REDAZIONE – ci
dice:
È
Vladimir Putin a dettare le condizioni per porre fine alla guerra tra Russia e
Ucraina.
È il
messaggio che Mosca invia a Kiev e agli Stati Uniti.
I
destinatari sono il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e, soprattutto,
Donald Trump.
Il neo presidente eletto degli Usa si
insedierà alla Casa Bianca tra meno di 2 mesi.
Se
vuole contribuire ad archiviare il conflitto che dura da quasi 1000 giorni,
deve necessariamente tener conto dei paletti fissati dal Cremlino.
Putin
si affida alle parole che il tycoon russo con posizioni conservatrici e
ortodosse “Konstantin Malofeyev” pronuncia in una intervista al “Financial
Times”.
Cosa vuole Mosca?
Un
piano di pace per l'Ucraina che non includa garanzie di sicurezza per la
Russia, quindi anche il futuro dell'Europa e del mondo, è destinato a fallire.
Trump
riuscirà a porre fine al conflitto se tornerà a imporre caveat a Kiev sull'uso
dei missili “Atacms” e se costringerà Zelensky a lasciare l'incarico di
presidente.
Poi se accetterà di incontrare Putin e
"discutere con lui tutte le questioni dell'ordine globale al massimo
livello", ha precisato “Malofeyev”.
"Perché
i negoziati siano costruttivi, non dobbiamo parlare solo del futuro
dell'Ucraina ma del futuro dell'Europa e del mondo", quindi anche di Medio
Oriente e di Cina, ha affermato.
Altrimenti, Putin respingerà la proposta del
nuovo inviato della Casa Bianca per l'Ucraina, “Keith Kellogg”.
"Arriverà
a Mosca con il suo piano.
Lo
leggiamo e poi lo mandiamo al diavolo perché non c'è nulla che ci vada bene.
E il
negoziato si esaurirebbe così", lo scenario.
“Malofeyev”
parla del "mondo sull'orlo di una guerra nucleare".
Se gli
Usa non accetteranno di ritirare il loro sostegno all'Ucraina, la Russia potrà
usare un'arma nucleare tattica, "con una zona radioattiva in cui nessuno
potrà accedere per una vita. E la guerra sarà finita".
"Noi vogliamo una pace a lungo termine.
Un
accordo generale sull'ordine globale.
Trump
vuole entrare a far parte dei libri di storia.
Presto avrà ottant'anni, è un nonno.
Anche
Putin non ha più 50 anni.
Sarà il loro lascito", afferma.
“
Malofeyev” è sanzionato per il suo ruolo nell'annessione della Crimea del 2014.
E' lui
l'editore di “Tsargrad Tv”, l'emittente ultranazionalista per cui lavora
“Alexandr Dugin”.
Gli
Stati Uniti hanno trasferito milioni di dollari dai conti congelati del tycoon
per contribuire alla ricostruzione dell'Ucraina.
È incriminato negli Stati Uniti con l'accusa
di aver evaso le sanzioni.
"La vecchia macchina sovietica è tornata
a lavorare e la gente vive molto meglio che non prima della guerra.
Chi lavora nell'industria della difesa, in
agricoltura, nel mercato dei consumatori, nei mercati locali, vale a dire il 90
per cento della popolazione, non è interessata dalle sanzioni e adorano questo
periodo.
La minaccia esterna è essenziale per renderci
più forti.
Più a lungo il confronto e i conflitti vanno
avanti, più forte diventa il regime", conclude.
Il
quadro cambierà formalmente a gennaio, quando Trump si insedierà alla Casa
Bianca.
Il neo
presidente eletto ha detto e ripetuto, durante la campagna per le elezioni poi
vinte a novembre, che avrebbe favorito una rapida soluzione diplomatica della
guerra.
Secondo l'analisi del Centro per gli studi orientali
di Varsavia, il copione di Trump si va delineando.
La nuova Casa Bianca è pronta a ristabilire
relazioni diplomatica con Mosca per porre fine all'isolamento della Russia e
alla demonizzazione di Putin.
L'apertura
sarà accompagnata dal pressing per un cessate il fuoco, punto di partenza per
l'avvio di colloqui tra Mosca e Kiev.
L'Ucraina,
nei programmi di Trump, dovrà rinunciare all'ingresso della Nato per 10 anni e
dovrà sostanzialmente rinunciare a riconquistare i territori che Putin ha
annesso nei primi 1000 giorni di guerra.
Kiev,
che continuerà a ricevere sostegno militare dagli Usa, non sarà chiamata a
riconoscere il controllo russo, ma potrà puntare ad un cambiamento dello status
quo attraverso negoziati e non con la forza.
Se
Kiev dice no ai colloqui, rischia di perdere il sostegno militare
americano.
La
lunga guerra per riaffermare
il
primato occidentale e israeliano
subisce
un cambiamento di forma.
Unz.com - Alastair Crooke – (2 dicembre 2024)
– ci dice:
Il
Medio Oriente non è più "conservatore".
Piuttosto,
un "Risveglio" molto diverso è in gestazione.
La
lunga guerra per riaffermare il primato occidentale e israeliano sta subendo un
cambiamento di forma.
Su un
fronte, il calcolo rispetto alla Russia e alla guerra in Ucraina è cambiato.
E in
Medio Oriente, il luogo e la forma della guerra stanno cambiando in modo
distinto.
La
famosa dottrina sovietica di “Georges Kennan” ha una lunga costituita la base
della politica degli Stati Uniti, in primo luogo diretta verso l'Unione
Sovietica e, in secondo luogo, verso la Russia.
La tesi di Kennan del 1946 era che gli Stati
Uniti avevano bisogno di lavorare con pazienza e risolutezza per contrastare la
minaccia sovietica, e per aumentare e aggravare le crepe interne al sistema
sovietico, fino a quando le sue contraddizioni innescarono il collasso
dall'interno.
Più
recentemente, il “Consiglio Atlantico” ha attinto alla “dottrina Kennan” per
suggerire che il suo ampio profilo dovrebbe servire come base della politica
degli Stati Uniti nei confronti dell'Iran.
" La minaccia che l'Iran pone agli Stati
Uniti assomiglia a quella affrontata dall'Unione Sovietica dopo la seconda
guerra mondiale.
A questo proposito, la politica delineata da “George
Kennan” per trattare con l'Unione Sovietica ha alcune applicazioni per l'Iran
", afferma il rapporto dell'Atlantico.
Nel
corso degli anni, questa dottrina si è ossificata in un'intera rete di intese
sulla sicurezza, basata sulla convinzione archetipica che l'America è forte e
che la Russia è debole.
La Russia deve "saperlo", e quindi,
si è sostenuto, non ci può essere alcuna logica per gli strateghi russi di
immaginare di avere altra scelta se non quella di sottomettersi alla
superiorità rappresentata dalla forza militare combinata della NATO contro una
Russia "debole".
E se
gli strateghi russi dovessero incautamente perseverare nello sfidare
l'Occidente, si diceva, la contrarietà intrinseca avrebbe semplicemente causato
la frattura della Russia.
I
neoconservatori americani e l'intelligence occidentale non hanno ascoltato
nessun altro punto di vista, perché erano (e in gran parte lo sono ancora)
convinti dalla “formulazione di Kennan”.
La
classe di politica estera americana semplicemente non poteva accettare la
possibilità che una tale tesi centrale fosse sbagliata.
L'intero
approccio rifletteva più una cultura profondamente radicata, piuttosto che
un'analisi razionale, anche quando i fatti visibili sul campo indicavano una
realtà diversa.
Quindi,
l'America ha aumentato la pressione sulla Russia la consegna incrementale
attraverso ulteriori sistemi d'arma all'Ucraina;
attraverso
lo stazionamento di missili nucleari un raggio intermedio sempre più vicini ai
confini della Russia; e, più recentemente, sparando all'ATACMS nella
"vecchia Russia".
L'obiettivo
è stato quello di fare pressione sulla Russia in una situazione in cui si
sentirebbe obbligata a fare concessioni all'Ucraina, come ad esempio accettare
un congelamento del conflitto, e ad essere obbligata a negoziare contro le
"carte" di contrattazione ucraine ideate per produrre una soluzione
accettabile per gli Stati Uniti.
O, in
alternativa, che la Russia sia messa all'angolo nel "nucleare".
La
strategia americana si basa in ultima analisi sulla convinzione che gli Stati
Uniti potrebbero impegnarsi in una guerra nucleare contro la Russia – e
prevalere;
che la Russia capisca che se passasse al
nucleare, "perderebbe il mondo".
Oppure,
sotto la pressione della NATO, la rabbia tra i russi probabilmente spazzerebbe
via Putin dall'incarico se facesse concessioni significative all'Ucraina. È
stato un risultato "win-win", dal punto di vista degli Stati Uniti.
Inaspettatamente,
però, è apparsa sulla scena una nuova arma che libera proprio il presidente
Putin dalla scelta del "tutto o niente" di dover concedere una
"mano" negoziale all'Ucraina, o ricorso alla deterrenza nucleare.
Invece,
la guerra può essere risolta dai fatti sul terreno.
In
effetti, la "trappola" di “George Kennan” è implosa.
Il
missile Oreshnik (che è stato utilizzato per attaccare il complesso Yuzhmash a
Dnietropetrovsk) fornisce alla Russia un'arma mai vista prima:
un
sistema missilistico a raggio intermedio che dà scacco matto alla minaccia
nucleare occidentale.
La
Russia può ora gestire l'escalation occidentale con una minaccia credibile di
ritorsione che è allo stesso tempo estremamente distruttiva, ma convenzionale.
Invertire il paradigma.
Ora è
l'escalation dell'Occidente che deve passare al nucleare, o limitarsi a fornire
all'Ucraina armi come ATACMS o Storm Shadow che non altereranno il corso della
guerra.
Se la
NATO dovesse intensificarsi ulteriormente, rischierebbe un attacco Oreshnik per
rappresaglia, in Ucraina o su qualche obiettivo in Europa, lasciando
l'Occidente con il dilemma di cosa fare dopo.
Putin
ha avvertito:
"Se
colpisci di nuovo in Russia, rispondendo con un colpo di Oreshnik su una
struttura militare in un'altra nazione.
Forniremo
un avvertimento, in modo che i civili possano evacuare.
Non
c'è nulla che tu possa fare per impedirlo;
non si
dispone di un sistema antimissile in grado di fermare un attacco in arrivo a
Mach 10'.
La
situazione è ribaltata.
Naturalmente,
ci sono altre ragioni oltre al desiderio dei quadri di sicurezza permanenti di
ingannare Trump per continuare la guerra in Ucraina, al fine di contaminarlo
con una guerra che ha promesso di porre fine immediatamente.
In
particolare gli inglesi, e altri in Europa, vogliono che la guerra continui,
perché sono finanziariamente in difficoltà a causa delle loro partecipazioni di
circa 20 miliardi di dollari di obbligazioni ucraine che sono in uno
"stato di default", o delle loro garanzie al FMI per i prestiti
all'Ucraina.
L'Europa semplicemente non può permettersi i
costi di un default totale.
Né
l'Europa può permettersi di assumersi l'onere, se l'amministrazione Trump
rinunciasse a sostenere finanziariamente l'Ucraina.
Così
colludono con la struttura inter agenzia degli Stati Uniti per rendere la
continuazione della guerra a prova di inversione di politica di Trump:
l'Europa
per motivi finanziari e lo Stato Profondo perché vuole distruggere Trump e la
sua agenda interna.
L'altra
ala della "guerra globale" riflette un paradosso speculare:
cioè, "Israele è forte e l'Iran è
debole".
Il punto centrale non è solo il suo sostegno
culturale, ma anche il fatto che l'intero apparato israeliano e statunitense è
parte della narrazione secondo cui l'Iran è un paese debole e tecnicamente
arretrato.
L'aspetto
più significativo è il fallimento pluriennale per quanto riguarda fattori come
la capacità di comprendere le strategie e riconoscere i cambiamenti nelle
capacità, nelle opinioni e nelle comprensioni delle altre parti.
La
Russia sembra aver risolto alcuni dei problemi fisici generali degli oggetti
che volano a velocità ipersonica.
L'uso
di nuovi materiali compositi ha permesso di consentire al blocco di crociera
planante di effettuare un volo guidato a lunga distanza praticamente in
condizioni di formazione di plasma.
Vola
verso il suo bersaglio come un meteorite; come una palla di fuoco.
La
temperatura sulla sua superficie raggiunge i 1.600-2.000 gradi Celsius, ma il
blocco di crociera è guidato in modo affidabile.
E
l'Iran sembra aver risolto i problemi associati a un avversario che gode del
dominio aereo.
L'Iran ha creato una deterrenza modellata
dall'evoluzione di sciami di droni a basso costo abbinati a missili balistici
che trasportano testate ipersoniche di precisione.
Mette droni da 1.000 dollari e missili di
precisione economici contro cellule pilotate enormemente costose –
un'inversione della guerra che ha richiesto vent'anni di lavoro.
La
guerra israeliana, tuttavia, si sta trasformando in altri modi.
La
guerra a Gaza e in Libano ha messo a dura prova la manodopera israeliana; l'IDF
ha subito pesanti perdite;
le sue
truppe sono esauste; e i riservisti stanno perdendo l'impegno nelle guerre di
Israele, e non si presentano al dovere.
Israele
ha raggiunto i limiti della sua capacità di schierare gli uomini sul territorio
(a parte
arruolare gli studenti ortodossi della Yeshiva Haredi, un atto che potrebbe far
cadere la Coalizione).
In
breve, i livelli delle truppe dell'esercito israeliano sono scesi al di sotto
degli attuali impegni militari ordinati dal comando. L'economia sta implodendo e le
divisioni interne sono profonde e dolorose.
Ciò è
dovuto in modo particolare all'iniquità degli israeliani laici che muoiono,
mentre altri rimangono esentati dal servizio militare, un destino riservato ad
alcuni ma non ad altri.
Questa
tensione ha giocato un ruolo importante nella decisione di Netanyahu di
accettare un cessate il fuoco in Libano.
La crescente ostilità sull'esenzione dagli “Haredi
ortodossi” rischiava di far cadere la Coalizione.
Ci
sono – metaforicamente parlando – ora due Israele:
il
Regno di Giudea contro lo Stato di Israele.
Alla luce di tali profondi antagonismi, molti
israeliani vedono ora la guerra con l'Iran come la catarsi che si riunirà di
nuovo un popolo diviso e, in caso di vittoria, porrà fine a tutte le guerre di
Israele.
Fuori,
la guerra si allarga e cambia forma:
il
Libano, per ora, è sotto pressione, ma la Turchia ha innescato un'importante
operazione militare (secondo quanto riferito circa 15.000 uomini) in un attacco
ad Aleppo, utilizzando jihadisti addestrati da Stati Uniti e Turchia e milizie
di Idlib.
L'intelligence
turca ha senza dubbio i suoi obiettivi distinti, ma gli Stati Uniti e Israele
hanno un particolare interesse a interrompere le rotte di rifornimento di armi
verso Hezbollah in Libano.
“Odio
non criminale"
La
Gran Bretagna diventa
completamente
"anarco-tirannica"
Unz.com
- Jared Taylor – (29 novembre 2024) – ci dice:
(Un
video è disponibile su Rumble, BitChute e Odysee).
Scommetto
che non hai mai sentito parlare di un "incidente d'odio non
criminale". Per quanto ne so, questa è una perversione esclusivamente
britannica.
Qualcuno
può denunciarti solo per aver pensato di aver detto qualcosa di maleducato sui
nostri soliti animali domestici, qualcosa di completamente legale, tra l'altro,
e la polizia arriverà e ti darà un severo avvertimento.
Puoi
essere denunciato e archiviato come colpevole di un "incidente d'odio non
criminale", e non hai alcun ricorso né appello.
Questo
dovrebbe tenere sotto controllo il vero discorso d'odio, ma tutto ciò che fa è
punire i britannici che escono dai ranghi.
Anche i bambini possono essere denunciati per
"odio non criminale".
Il
governo di Sua Maestà ha una pagina web di 11.000 parole che spiega gli
"Incidenti d'odio non criminali", aggiornata lo scorso giugno, e che
spiega come funziona.
Questa
frase dà il tono: "La libertà di espressione è un diritto qualificato, il
che significa che può essere limitato per determinati scopi nella misura
necessaria in una società democratica".
Puoi
farti denunciare se fai qualcosa che "viene percepito da una persona
diversa dal soggetto [ovvero tu] come motivato, in tutto o in parte, da
ostilità o pregiudizio verso persone con una caratteristica particolare".
L'ostilità
non può essere altro che "antipatia" o "maldicenza", e le
"caratteristiche" sono le solite: razza, religione, orientamento
sessuale, disabilità.
Un
agente può essere creativo: può scrivere qualsiasi tipo di
"antipatia" o "maldicenza" se "ritiene necessario
registrare un incidente che coinvolge una caratteristica diversa che non è
coperta dalla legislazione sui crimini d'odio."
E gli agenti lo hanno fatto.
La
presunta vittima, o chiunque altro, può fare la spia.
Può
trattarsi di qualcosa che hai detto o fatto, o semplicemente di un tweet.
Se, e
solo se, l'ufficiale inquirente determina che non c'è stata
"antipatia" o "maleducazione", allora non ha bisogno di
scrivere l'incidente.
Se
pensa che sei un tipo cattivo che potrebbe farlo di nuovo, a sua discrezione,
può inserirti in un database.
Se ti candidi per determinati lavori, come
l'insegnamento, l'assistenza all'infanzia, la medicina, l'assistenza sociale,
un potenziale datore di lavoro potrebbe scoprirti e decidere di non assumerti.
Per qualcosa che non è un reato!
Non
esiste alcuna disposizione di legge per punire o anche solo rimproverare le
persone che segnalano incidenti falsi o ridicoli.
E
molti sono ridicoli. "Pantaloni sporchi stesi su uno stendino registrati
dalla polizia come un incidente d'odio non criminale".
Qualcuno
nel Galles del Nord si è lamentato del fatto che i suoi vicini hanno appeso
"un paio di mutande sporche molto grandi e sporche allo
stendibiancheria" e l'hanno lasciato lì per due mesi.
Ha
detto che era perché aveva un nome italiano.
Lo
stesso articolo cita una denuncia contro un uomo che si è rifiutato di
stringere la mano a qualcuno che pensava fosse transessuale.
Un
uomo di lingua russa ha affermato che un barbiere gli ha dato un taglio di
capelli "aggressivo" dopo aver parlato della guerra in Ucraina.
Una
bambina di nove anni è stata denunciata per aver definito un compagno di classe
un "ritardato" e due ragazze della scuola secondaria sono state
trattate per aver detto che un altro alunno puzzava "di pesce".
Come
ho detto, la polizia può essere creativa.
Questo
articolo dice che un vicario ha ricevuto la visita della polizia perché un
omosessuale era "allarmato e angosciato" quando il vicario ha detto
che l'omosessualità è un peccato.
Le
persone bussano alla porta per aver "sbagliato il genere" di
qualcuno.
Il gestore di un pub ha ricevuto un articolo
perché ha cacciato i clienti che facevano sesso in bagno.
La
denuncia sosteneva che era solo perché uno dei giocatori era transgender.
Immagino che a nessuno importi se le persone normali si accoppiano nei pub.
Si
suppone che il Ministero dell'Interno abbia emanato regole di "buon
senso" per ridurre le sciocchezze in modo che le segnalazioni siano
riservate a "incidenti 'chiaramente motivati da ostilità intenzionale' in
cui esiste un rischio reale di escalation 'che causa danni significativi o un
reato penale'".
Tutto
questo è assolutamente soggettivo.
Molte
persone pensano che l'intera faccenda dovrebbe essere eliminata.
Il “Times
of London”, non esattamente un giornale impulsivo, sta conducendo un sondaggio
che chiede:
"La
polizia dovrebbe smettere di indagare su incidenti d'odio non criminali?"
Quando ho guardato, il 92 percento delle persone ha detto "sì" e solo
l'8 percento ha detto "no".
L'attuale
governo laburista si schiera con l'8 per cento.
Il Ministero dell'Interno afferma che di
queste cose si "aiuta la polizia a costruire un quadro di registrazione
intelligence intorno alle tensioni comunitarie al fine di mappare le tendenze e
prevenire l'escalation".
Non si
sa mai quando il misgendering potrebbe degenerare in omicidio.
Il
ministro dell'Interno “Yvette Cooper” afferma che il monitoraggio di questi
incidenti "può essere uno strumento cruciale per consentire alla polizia e
ad altre autorità di monitorare e avvisare dell'aumento degli abusi contro le
comunità ebraiche e musulmane".
Bene.
Immagino che questo risolva la questione.
Sia i
gruppi ebraici che quelli musulmani affermano che "i crimini d'odio
registrati dalla polizia in relazione all'antisemitismo e all'islamofobia erano solo una frazione della vera
portata degli abusi".
Sapete
cosa? Scommetto che ogni "categoria protetta" dice esattamente la
stessa cosa.
L'idea
stessa che la polizia indaghi su non-crimini è assurda.
L'unica
conseguenza è che la gente capisca la parola: tappatevi il labbro.
Non
fate arrabbiare le persone speciali della Gran Bretagna.
L'anno
scorso la polizia ha registrato più di 13.000 casi di "odio non
criminale". Ognuno di essi ha richiesto circa cinque ore di tempo alla
polizia, e questo equivale a circa 60.000 ore di polizia.
La
Gran Bretagna deve essere meravigliosamente libera dal crimine per poter
inviare la polizia a vestire le persone che non vogliono stringere la mano.
Vediamo.
Ecco un grafico dei crimini violenti in Gran Bretagna negli ultimi 20 anni.
C'è
stato un leggero calo negli ultimi due anni, ma c'è ancora ben più del doppio
dei crimini violenti rispetto a 10 anni fa.
Inoltre,
"Tre furti con scasso su quattro irrisolti in Inghilterra e Galles l'anno
scorso".
Si tratta di 200.000 effrazioni irrisolte e un
sospetto è stato accusato solo nel 6% dei casi.
Finora
ho parlato solo di odio non criminale.
Forse farò un altro video sull'odio criminale,
come è ovvio .
A quanto pare, ce n'è anche tanto.
"Comunicazione
malevola" (e può essere anche solo un tweet) può farti pagare due anni di
carcere e una multa per qualsiasi cosa il giudice pensi di poterti spremere.
Puoi
passare sette anni di carcere per "incitamento all'odio razziale" e
non devi fare niente, solo dire delle cose.
Sono
tempi tristi per un paese che credeva nella libertà personale.
La
Gran Bretagna è un perfetto esempio di ciò che il “grande Sam Francis” chiamava
"anarco-tirannia".
Francis
è morto nel 2005 e, per coloro che non lo conoscevano, Wikipedia spiega
utilmente che era "uno scrittore suprematista bianco americano" – proprio quello che
Wikipedia dice di me.
Otteniamo
l'anarco-tirannia quando la polizia non può – o non vuole – controllare il
crimine. Questa è l'anarchia.
Invece,
la polizia persegue le persone rispettose della legge come te e me per
"incidenti di odio non criminale", "comunicazione
malevola", pregare a scuola, fumare nel posto sbagliato, camminare sulla
strada, possedere il caricatore di pistola sbagliata, non indossare un casco da
bicicletta, ecc. ecc.
Questa è la tirannia.
Questi
sono tempi tristi anche per il nostro paese. E Francesco l'aveva previsto 30
anni fa.
Il
cristianesimo non può salvare gli ebrei.
La
critica storica può curarli?
Unz.com - Laurent Guyénot – (23 novembre 2024)
- ci dice:
In
"Dio, gli ebrei e noi: un contratto di civiltà ingannevole", ho
raccontato di nuovo come i Romani, non essendo riusciti a incorporare Israele
nella civiltà ellenistica, decisero di cancellarlo dalla storia.
Nel 70
d.C., dopo quattro anni di guerra, Vespasiano e suo figlio Tito conquistarono
Gerusalemme, saccheggiarono e bruciarono il suo tempio e costrinsero tutti gli
ebrei dell'Impero a pagare due dracme all'anno al tempio di Giove sul
Campidoglio, invece che al tempio di Yahweh come erano soliti fare.
Mezzo
secolo dopo, l'imperatore Adriano cercò di cancellare l'identità ebraica
proibendo la circoncisione sotto pena di morte.
Ciò innescò la rivolta di “Bar Kokhba” negli
anni 132-135 d.C. ("Gli ebrei iniziarono la guerra, perché era loro
proibito mutilare i genitali", secondo la” Historia Augusta”).
Adriano
represse la rivolta, rase al suolo ciò che restava di Gerusalemme e costruì una
città greca al suo posto, con un tempio dedicato a Giove dove un tempo sorgeva
il tempio ebraico.
La nuova città fu chiamata “Aelia Capitolina”
e la nuova provincia” Siria Palæstina.
“
Martin Goodman” in “Roma e Gerusalemme: lo scontro di antiche civiltà“:
"Agli
occhi di Roma e per volere di Adriano, gli ebrei avevano cessato di esistere
come nazione nella loro terra".
Questo,
tuttavia, non risolse il problema ebraico dei Romani.
Probabilmente,
lo aggravò.
Israele
non era morto, ma ora era "disperso" in ogni città dell'Impero.
Non era più uno stato, ma ancora una nazione,
con un legame etnico più forte che mai.
Infatti, il potere ebraico si faceva sentire a
Roma fin dal primo secolo a.C.:
"Sai
che grande folla sono, come stanno uniti, quanto sono influenti nelle assemblee
informali",
si lamentò Cicerone nella sua difesa del governatore dell'Asia Minore che aveva
impedito agli ebrei di inviare denaro a Gerusalemme (Pro Flacco xxviii).
Ma la
presenza ebraica a Roma aumentò drasticamente quando Vespasiano e Tito
portarono circa 97.000 prigionieri da Gerusalemme, tra cui membri della nobiltà
sacerdotale e reale ricompensati per il loro sostegno (Flavio Giuseppe, Guerra
giudaica vi, 9).
Alcuni
di loro si assimilarono felicemente nella società romana, mentre altri solo
finsero di farlo.
Oltre al loro amore incrollabile per Israele,
molti ebrei ora provavano un odio inestinguibile per Roma.
Nella cosiddetta letteratura inter testamentaria,
che include il Libro dell'Apocalisse, per lo più ebraico, Roma era equiparata a
Babilonia, mentre nella letteratura rabbinica divenne Edom (Esaù), il nemico
archetipico di Giacobbe.
Riprendo
questa storia come un racconto ammonitore contro la convinzione che la
distruzione dell'Israele moderno, che senza dubbio avverrà entro pochi decenni,
risolverà la questione ebraica.
Lo "Stato ebraico" è un paese malato, non ci
sono dubbi.
È nato
malato e sicuramente morirà per (o a causa di) questa malattia.
Ma
cosa succederà dopo?
Israele
esisteva prima del 1947 e continuerà a esistere anche se lo Stato di Israele
dovesse scomparire.
Israele è a Washington, New York e Los
Angeles, così come in ogni capitale europea, e prospererebbe ancora senza Tel
Aviv.
Alcune
persone pensano che Netanyahu e il suo attuale governo siano il problema;
dicono che Netanyahu sia uno psicopatico, quando in realtà è solo il leader
della nazione psicopatica.
Ma anche coloro che pensano che il moderno
stato di Israele sia l'unico problema stanno valutando la situazione.
Israele è il problema, ma Israele non è una
nazione fondata nel 1947, è molto, molto antica, una delle nazioni più antiche
ancora esistenti, insieme alla Cina.
Ed è qui per durare.
“Theodor
Herzl “aveva pensato che la creazione di uno Stato ebraico fosse la
"soluzione finale" alla questione ebraica.
Si sbagliava, ma lo stesso vale per noi se
pensiamo che la distruzione dello Stato ebraico libererà il mondo dalle
cospirazioni ebraiche.
Il
cristianesimo può salvare gli ebrei?
Per
risolvere il nuovo problema ebraico che avevano creato distruggendo il regno di
Israele, gli imperatori romani adottarono la “religione sincretica” chiamata
cristianesimo.
Il suo
scopo esplicito era quello di convertire gli ebrei al culto di un Messia
innocuo e non politico e di dissolvere la nazionalità ebraica in una versione
monoteistica dell'universalismo romano. I cristiani hanno cercato
incessantemente di convertire gli ebrei, con la consapevolezza che un ebreo
convertito non è più un ebreo.
La conversione degli ebrei è un principio
fondamentale dell'escatologia cristiana.
Sfortunatamente,
non accadrà. Nemmeno per sogno.
Nemmeno
se Gesù tornasse sulle nuvole.
I cristiani chiedono agli ebrei di passare da
"Dio ha scelto gli ebrei" a "Dio ha scelto gli ebrei ma poi li ha
di-scelti perché hanno rifiutato Gesù, sebbene fosse necessario che gli ebrei
crocifiggessero Gesù affinché potesse risorgere per salvare l'umanità".
Perché
un ebreo intelligente farebbe una mossa del genere?
Sono
sospettoso degli ebrei che lo fanno.
Lungi dall'essere non ebrei, in genere si
considerano super-ebrei.
E alcuni di loro sono palesi cripto che "assecondano gli ebrei gettando
sotto l'autobus i loro compagni cattolici in difesa di favole ebraiche come la
narrazione dell'Olocausto", scrive “Wyatt Peterson “, citando “Trent Horn” come
un tipico "converso dei giorni nostri".
Persino
“Martin Lutero” dovette fare i conti con l'inconvertibilità ebraica.
Nel 1523 rimproverò ai cattolici di non essere in
grado di convertire gli ebrei, che sono del sangue di Gesù (che Gesù Cristo è
nato ebreo), ma vent'anni dopo ritenne gli ebrei così corrotti dai peccati capitali da
essere irredimibili:
"Non
sono altro che ladri e briganti che ogni giorno non mangiano un boccone e non
indossano alcun filo di vestito che non ci hanno rubato e rubato per mezzo
della loro maledetta usura" (Sugli ebrei e le loro menzogne).
Invece
di disinnescare l'identità ebraica, il cristianesimo l'ha rafforzata.
In primo luogo, ha reso l'ebraismo l'unica
religione legale non cristiana. Dai tempi di Teodosio il Grande (379-375 dC), che mise fuori
legge i culti pagani, "tra tutte le religioni non ufficiali, la religione
ebraica era la meglio trattata e, in breve, la meglio tollerata".
Gli
ebrei dovevano essere preservati per essere convertiti, e non dovevano essere
forzati.
Gli
ebrei erano immuni dall'Inquisizione (in effetti, rischiavano di essere
perseguitati dall'Inquisizione solo se si convertivano).
In secondo luogo, il cristianesimo rafforzò l'identità
ebraica perché, invece di sfidare la fiducia degli ebrei nella loro scelta
divina, il cristianesimo li incoraggiò nel loro delirio narcisistico.
I cristiani dicono agli ebrei "Dio vi ha
scelti"; aggiungendo "e poi vi ha disprezzati", si rendono
semplicemente stupidi.
Non puoi dare agli ebrei il diritto di nascita
e poi chiederglielo indietro.
In terzo luogo, il cristianesimo fornì
l'antagonismo ideale all'ebraismo.
Secondo
“Jacob Neusner” "l'ebraismo come lo conosciamo è nato nell'incontro con il
cristianesimo trionfante".
Sarebbe
più esatto dire che l'identità ebraica era alimentata dall'odio ebraico per i
cristiani, che agli occhi degli ebrei erano Edom, Haman e Amalek.
Nel
408, “Teodosio II “dovette ordinare ai governatori di tutte le province
dell'Impero di "proibire agli ebrei di appiccare il fuoco ad “Haman” in
memoria della sua punizione passata, in una certa cerimonia della loro festa, e
di bruciare
con intento sacrilego una forma fatta per assomigliare alla croce santa in
disprezzo della fede cristiana".
Quindi,
invece di convertire gli ebrei, il cristianesimo li rese più ebrei.
Anche
in termini pratici, la cristianità fu un ambiente favorevole per la crescita
del potere ebraico.
Ad
esempio, si dice che gli ebrei si dedicarono all'usura perché erano banditi da
altre occupazioni redditizie, ma da un'altra prospettiva, gli ebrei si
assicurarono un quasi monopolio sull'usura perché ai cristiani era vietato.
Anche
se i cristiani potessero convertire gli ebrei, che senso avrebbe, comunque?
Gli
ebrei sono come sono, non perché hanno rifiutato Gesù, ma perché hanno seguito “Yahweh”.
Gli
ebrei non hanno bisogno di essere convertiti a una narrazione che attesti la
loro scelta.
Gli
ebrei hanno bisogno di essere convertiti alla verità.
La
verità non è che "Dio ha scelto gli ebrei", né che "Dio ha
scelto gli ebrei e poi li ha di-scelti".
La verità è che gli ebrei hanno scritto un
libro che dice che Dio ha scelto gli ebrei e, purtroppo, i cristiani credono che Dio abbia
scritto quel libro.
La
malattia di Israele è di proporzioni bibliche.
Gli
ebrei non hanno bisogno che i cristiani dicano loro come leggere la loro Torah.
Hanno
bisogno di sentirsi dire che la loro Torah, con il suo dio geloso e il patto
xenofobo, è il virus cognitivo che li ha fatti impazzire per cento generazioni.
Hanno
bisogno di sentirsi dire che soffrono di psicopatia biblica. Ho cercato libri che facessero
questa diagnosi, ma non ci sono riuscito, a parte il mio, “From Yahweh to Zion” e “Our God is
Your God Too”.
Avevo
grandi aspettative quando ho iniziato di recente a leggere il libro di “Thomas
Suárez”: State
of Terror: How Terrorism Created Modern Israel, un'apertura degli occhi su una
realtà nauseante che persino io avevo sottovalutato prima di leggerlo.
Scrive
nell'introduzione:
Da
Weizmann e Ben-Gurion alla fanatica banda terroristica “Lehi”, le dichiarazioni
ideologiche del progetto dei coloni erano espresse nel linguaggio del
messianismo.
Il sionismo stava costruendo il Terzo Tempio,
il regno finale, una resurrezione che sorgeva dalle ceneri del Secondo Tempio e
dell'apocrifo Tempio di Salomone.
Le sue
battaglie, i suoi nemici, le sue conquiste erano bibliche;
lo
stato creato dalla risoluzione 181 delle Nazioni Unite era la rinascita di
quello creato da Dio.
Ben-Gurion si collocava quasi tra i Profeti, sostenendo che la sua conquista del
1948 segnava il terzo evento monumentale in tutta la storia ebraica, dopo l'Esodo dall'Egitto e la
ricezione dei Dieci Comandamenti da parte di Mosè sul Monte Sinai.
Poiché
“Suárez” menziona che i sionisti consideravano la loro lotta come biblica,
avrebbe potuto rendere più chiara l'ispirazione biblica per il terrorismo
israeliano.
Avrebbe
potuto citare almeno una volta “Deuteronomio 2:25”, in cui "Yahweh, il dio di Israele"
si presenta come il dio della "paura e del terrore":
"Oggi e da ora in poi, riempirò i popoli
sotto tutti i cieli di paura e terrore di te; chiunque ode notizie del tuo
avvicinamento tremerà e si contorcerà nell'angoscia a causa tua".
Quando
“Suárez menziona” che, "Per incoraggiare quelli che chiamava 'giusti
ebrei' nell'omicidio di arabi, l'Irgun sfruttò passaggi biblici, come il
racconto dell'Antico Testamento su Mosè", il verbo "sfruttare"
avrebbe bisogno di chiarimenti:
l'Irgun ha distorto la narrazione biblica o
Mosè ha effettivamente ordinato lo sterminio degli Amaleciti e dei Madianiti
(popoli arabi)?
Quando “Suárez scrive” che "La Stern Gang, come veniva comunemente chiamata, o
più formalmente “Lehi”,
era la più fanatica delle tre principali organizzazioni, sostenendo di essere
(come disse il Capo Segretario a Gerusalemme), 'gli eredi delle più pure tradizioni
dell'antico Israele'", sarebbe stato appropriato discutere se tale
affermazione fosse fondata o meno.
La
conclusione sarebbe inequivocabile: il terrorismo israeliano è biblico in
tutto e per tutto.
L'Irgun
è biblico, il Lehi è biblico, la Nakba è biblica, Deir Yassin è biblico, Baruch
Goldstein è biblico e Itamar Ben-Gvir è biblico.
Come
ho scritto in "The Biblical Lens":
Netanyahu
è pazzo, ma è pazzo di una follia biblica, come molti altri membri del suo
governo.
Itamar Ben-Gvir, il suo ministro della
Sicurezza nazionale, aveva appesa alla parete una foto di Baruch Goldstein,
autore nel 1994 del massacro di 29 palestinesi in una moschea di Hebron.
La sua tomba, su cui è scritto "Ha dato
la sua vita per il popolo di Israele, la loro Torah e la loro terra", è un
luogo di pellegrinaggio.
Yigal Amir ha detto di aver preso la decisione
di assassinare Yitzhak Rabin durante il funerale di Goldstein.
E,
naturalmente, il massacro di civili, uomini, donne e bambini a Gaza è biblico,
come Netanyahu ha assicurato alle sue truppe:
"Dovete
ricordarvi di Amalek".
Israele
è biblico fino al midollo, e pretende di esserlo.
Per
essere onesti, presumo che “Suárez “capisca il fondamento biblico del
terrorismo israeliano, ma abbia scelto di non insistere sul punto.
Forse
è stata la scelta più saggia:
limitando
la sua indagine ai fatti nudi e crudi, ha reso inattaccabile la sua causa per
la natura criminale di Israele – e la complicità dell'Occidente.
Ma il
caso della tossicità della Bibbia ebraica deve essere sostenuto, ed era ora.
La
cosa più assurda è che gli ebrei e gli stessi israeliani ci dicono in faccia
che sono posseduti dal demone biblico, e noi non vogliamo sentirlo.
Diciamo
loro che il loro libro è sacro, ma che lo interpretano male.
Stiamo
facendo loro un grande disservizio.
Come i
“Leviti” fecero il lavaggio del cervello agli “Israeliti”.
La
Torah non è santa, è la Matrix, la prigione per la loro mente. La pillola rossa di questa Matrix è
la critica storica, l'esegesi razionale e scientifica delle Scritture.
Per caso, gli studiosi ebrei sono piuttosto bravi in
questo.
Uno
degli studiosi biblici più talentuosi e rispettati di oggi è “Richard Elliott Friedman”.
Nel
suo libro più recente, “The Exodus: How it Happened and Why it Matters (HarperOne, 2017), risolve la
seguente contraddizione:
da un lato, non abbiamo prove archeologiche di
una migrazione di massa dall'Egitto a Canaan, e abbiamo invece prove
archeologiche che gli Israeliti erano indigeni della terra di Canaan;
dall'altro
lato, abbiamo prove scritturali di un'origine egiziana per gran parte delle
tradizioni sacerdotali nella Torah.
La
soluzione, sostiene Friedman, è semplice: le tribù di Israele avevano
"origini in gran parte indigene" nella terra di Canaan, fatta
eccezione per l'unica tribù senza territorio, i “Leviti”.
I
Leviti migrarono dall'Egitto in numero relativamente piccolo e sovrapposero il “loro
culto yahvista esclusivista “al culto degli Israeliti per il dio supremo “El”.
Israele probabilmente esisteva come regno
nell'odierna Palestina prima che una banda conquistatrice di “Leviti” si trasferisse lì
e imponesse progressivamente il proprio governo religioso e militare.
Ecco
gli argomenti chiave:
In
primo luogo, “molti leviti” hanno nomi egiziani (Ofni, Hur, due uomini di nome
Fineas, Merari, Mushi, Passur e, naturalmente, Mosè), mentre "nessuna persona di nessun altro del
resto d'Israele ha un nome egiziano".
Secondo,
"in tutte le nostre fonti più antiche, solo i leviti hanno qualche
relazione con l'esodo".
In
terzo luogo, le fonti sacerdotali (E, P e D) mostrano familiarità con la
cultura, la tradizione e la letteratura egizia.
Un
argomento forte è tratto da due delle fonti più arcaiche della Bibbia:
il Cantico di Miriam (o Canto del Mare, Esodo
15) e il Cantico di Debora (Giudici 5).
"Il
Cantico di Debora, ambientato in Israele, non menziona i Leviti; e il Cantico
di Miriam, ambientato in Egitto, non menziona Israele".
Nel Cantico di Miriam, le persone salvate
dagli Egiziani che li inseguivano sono semplicemente "il popolo di Yahweh".
La
canzone di Deborah "celebra la battaglia... che per primo stabilì
l'egemonia israelita come paese", e nomina tutte le tribù tranne i Leviti.
Inoltre,
nella Benedizione di Mosè (Deuteronomio 33), un'altra fonte arcaica che combina
oracoli su molte delle tribù di Israele, l'oracolo di Levi è l'unico che
menziona le peregrinazioni nel deserto.
I “leviti”
non erano una tribù, ma un gruppo sacerdotale, senza alcuna assegnazione di
territorio.
Erano
dispersi tra le tribù, presero il controllo diretto di dieci città e vivevano
di un decimo (una decima) dei prodotti delle tribù israelite (Giosuè 13-19).
Fu
solo con una tarda finzione che i Leviti vennero annoverati come una delle
tribù di Israele e gli fu dato un antenato tra i figli di Giacobbe (Genesi 49).
Ciò
significa che i Leviti adoratori di Yahweh colonizzarono le tribù israeliane e unirono il loro
culto della morte yahvista con la religione indigena, convincendo gli Israeliti
che il loro grande dio universale El era in realtà il dio tribale Yahweh, come
il dio stesso aveva detto al “Levita Mosè” mentre pascolava le capre del
suocero dopo essere fuggito dall'Egitto dove era ricercato per omicidio (Esodo
3:6).
Fu lo
stesso trucco che Esdra avrebbe poi giocato ai Persiani.
Sebbene
fossero migrati dall'Egitto, i Leviti probabilmente non erano di origine egiziana e
potrebbero essere stati " Habiru " (predoni nomadi, in seguito
Ebrei) giudei
insoddisfatti del trattamento riservato loro dagli Egiziani, o forse
discendenti degli “Hyksos” cacciati dall'Egitto.
Ciò
spiegherebbe perché "ciò che sappiamo della religione dell'antico Israele non
sembra provenire da una fonte egizia" (contrariamente a quanto
ipotizzato da Freud, “Yahweh” non ha nulla in comune con il dio Sole di Akhenaton).
“I
Leviti “potevano convertire, sottomettere e tassare gli Israeliti indigeni
perché non erano solo una casta sacerdotale, ma una banda di conquistatori
particolarmente violenta e crudele.
Massacrarono circa tremila Israeliti
nell'episodio del vitello d'oro (Esodo 32:26-28):
Mosè
si fermò alla porta dell'accampamento e disse: «Chi è per il Signore, per me!».
E tutti i figliuoli di Levi si radunarono
presso di lui.
Ed
egli disse loro: «Il Signore, Dio d'Israele, ha detto: Ciascuno si ponga la
spada sulla coscia; attraversare e tornare da un cancello all'altro
nell'accampamento; e uccidete ciascuno, suo fratello e, ciascuno, il suo
prossimo e, ciascuno, il suo parente'".
I
figliuoli di Levi fecero secondo l'ordine di Mosè e in quel giorno caddero
circa tremila uomini di mezzo al popolo.
In
questo passaggio, i Leviti appaiono come una sorta di guardia militare di Mosè,
che terrorizza il popolo fino a sottometterlo alla loro religione esclusivista
ed etnocentrica, il “culto del Dio geloso”.
Lo
studioso polacco Łukasz Niesiołowski-Spanò sottolinea questa funzione militare
dei Leviti.
Nel
Deuteronomio e nell'Esodo, "i leviti sono indicati come quei combattenti militari
che eseguivano gli ordini di Mosè".
Sono
"soldati per eccellenza", e la loro funzione primaria è quella di
essere "le guardie dell'Arca".
Numeri 1:53: "Ma i Leviti si accamperanno
intorno al tabernacolo del patto, affinché non vi sia ira sulla congregazione
degli Israeliti; e i Leviti adempiranno il servizio di guardia del tabernacolo
dell'alleanza".
La loro natura militare è sottolineata anche
nella "Benedizione di Giacobbe", che nel loro caso è più una
maledizione che una benedizione:
Simeone
e Levi sono fratelli; Le armi della violenza sono le loro spade. Possa io non entrare mai nel loro
consiglio;
fa'
che io non mi unisca alla loro compagnia - perché nella loro rabbia hanno
ucciso uomini ... Maledetta la loro ira, perché è feroce, e la loro ira, perché
è crudele! (Genesi
49:5-7).
Il
fatto, spesso ripetuto nella Torah, che i Leviti non possedevano un territorio
speciale ma erano di stanza nelle città, è generalmente spiegato dalla loro
attività culturale.
Ma
"si può spiegare in modo molto più diretto se si accetta il ruolo militare
dei leviti, che forse erano di stanza nelle città all'inizio della loro
storia".
Inoltre,
diversi passaggi, tra cui Deutoronomeo 33:8-11 ("Insegneranno a Giacobbe i tuoi
precetti e Israele la tua legge"), "potrebbero suggerire un'origine
straniera per i leviti", osserva anche “Niesiołowski-Spanò”.
In
definitiva, molte cose indicano la teoria secondo cui i leviti arrivano a
dominare religiosamente gli israeliti con la forza militare.
Il
che, naturalmente, è coerente con la violenza del loro “dio Yahweh Sabaoth”
("degli eserciti"), il cui conteggio delle uccise ammonta a 2.821.324
secondo Steve Wells, autore di “Drunk with Blood: God's Killins in the Bible “(il
titolo del libro è preso in prestito da Deuteronomio 32:42, in cui Yahweh dice: "Inebrierò
le mie frecce di sangue, e la mia spada divora la carne").
I
leviti si divisero in due case sacerdotali rivali, gli Aaronidi (discendenti di
Aaronne) e i Mushiti (discendenti di Mosè), che si impegnarono in lotte per la
leadership.
Il “Libro dei Numeri “ricorda come gli”
Aaronidi” si assicurarono il sacerdozio quando “Fineas”, nipote di Aaronne,
ricevette da Yahweh "a lui e alla sua discendenza dopo di lui... il
sacerdozio per sempre", cioè "il diritto di compiere il rito di
espiazione per gli Israeliti".
Per quale santa azione fu così ricompensata “Fineas”?
Per
l'assassinio di un Israelita e di sua moglie Madianita, che avevano trasgredito
la Legge della rigida endogamia!
Fineas "afferrò una lancia, seguì
l'israelita nell'alcova, e lì li trafisse entrambi, l'israelita e la donna,
attraverso lo stomaco".
Con
questo atto, dice il Signore, “Fineas” dimostrò di avere "lo stesso zelo
che ho io" (Numeri 25:11-13).
Chiamare
Yahweh un "dio geloso" è un eufemismo: è in realtà uno xenofobo
odioso e omicida.
Riflettiamo
sul fatto che, secondo la Bibbia, il sacerdozio ereditario del Dio geloso fu
assicurato come ricompensa per il duplice omicidio di un ebreo e della sua
moglie non ebrea.
Qui si
trova l'essenza stessa della fede ebraica.
Liberate
gli ebrei timorati di Dio.
"Paura
e terrore" è l'essenza del controllo degli ebrei sui “goyim”, ma è anche
l'essenza del controllo degli ebrei sugli ebrei stessi.
Il “Tanakh” fu scritto da generazioni di “Leviti” come
mezzo per controllare gli Israeliti con la paura di un dio spauracchio.
Ecco
perché, in termini biblici, un buon ebreo è un ebreo timorato di Dio.
Il
Patto si basa sulla minaccia della distruzione permanente.
Gli
ebrei che sfidano le élite loro nominate da Dio e che socializzano con i loro
vicini non ebrei, che mangiano con loro, che si sposano con loro e che, mentre
fanno tutto questo, mostrano rispetto per i loro dei, sono la feccia del popolo
ebraico, traditori di Yahweh e della loro razza.
Meritano
di essere eliminati senza pietà, soprattutto perché mettono in pericolo
l'intera comunità attirando l'ira di Yahweh.
Il
fatto che l'autorità dei Leviti sia fondata sulla violenza e sul terrore è
abbastanza chiaro nel “Levitico”:
E se,
nonostante ciò, non mi ascolterete, ma andrete contro di me, io andrò contro di
voi con furore e vi punirò sette volte per i vostri peccati.
Mangerete
la carne dei vostri figli, mangerete la carne delle vostre figlie. Distruggerò
i vostri alti luoghi e distruggerò i vostri altari d'incenso; Io ammucchierò i
vostri cadaveri sui cadaveri dei vostri immondi idoli e vi rigetterò. Ridurrò
le vostre città in rovine, ecc. (26:27-31).
Tali
minacce si ripetono più e più volte. Giosuè, successore di Mosè tra i Leviti,
disse agli Israeliti che avevano appena preso possesso di “Canaan”:
Se fai
amicizia con il resto di queste nazioni che ancora vivono accanto a te, se ti
sposi con loro, se ti mescoli con loro e loro con te, ... se andrai a servire
altri dèi e ti prostrerai davanti a loro, l'ira del Signore si accenderà contro
di te e presto scomparirai dalla bella patria che egli ti ha dato. (Giosuè 23:6-16)
Quando,
nel II secolo aC, alcuni israeliti pensarono:
"Alleiamoci
con i Gentili che ci circondano, perché da quando ci siamo separati da loro
molte disgrazie ci hanno colpito", i Maccabei scatenarono una guerra
civile contro di loro, "colpendo i peccatori nella loro ira e i rinnegati
nel loro furore" (1Maccabei 1-2).[8]
In
Numeri 16-17, un gruppo di duecentocinquanta leviti guidati da Cora viene a sua
volta sterminato per essersi ribellato a Mosè e ad Aronne.
«Io li
distruggerò qui e ora», disse il Signore, e «il fuoco uscì dal Signore e
consumò i duecentocinquanta uomini che offrivano incenso» (16,20-35). "Il giorno seguente, tutta la
comunità degli Israeliti mormorava contro Mosè e Aronne e diceva: 'Tu sei
responsabile dell'uccisione del popolo del Signore!'" Allora il Signore
disse: "Io li distruggerò qui e ora", e una piaga decimò quattordicimila
settecento di loro (17,6-14).
Le
élite ebraiche di oggi potrebbero non essere Leviti in senso stretto, ma
l'ebraismo è ancora un sistema di controllo mentale tramite il terrore.
L'ebraismo
è una forma di sindrome di Stoccolma.
Come
dice “Smiles Burger” nel romanzo “Operazione Shylock” di “Filippo Roth” :
"Fare appello a un padre pazzo e violento , e per tremila anni, questo è
ciò che significa essere un ebreo pazzo!"
Gli
ebrei si sentono odiati da tutta l'umanità (gli ebrei sono "il popolo
scelto per l'odio universale", scriveva il proto-sionista” Leon Pinsker),
ma questo può essere, in parte, un caso di proiezione freudiana:
nel
profondo, sanno che il dio che li ha scelto è il dio dell'odio, non dell'amore.
Questo
falso dio evocato dai Leviti li ama solo finché obbediscono alle sue folli
leggi senza discutere, ma li odia non appena cercano di essere pensare e agire
come esseri umani liberi.
A
cominciare dal Signore Dio d'Israele stesso, furono i successivi capi d'Israele
che, uno dopo l'altro, riunirono e guidarono la tragica carriera degli ebrei,
tragica per gli ebrei e non meno tragica per le nazioni vicine che li hanno
subiti . …
Nonostante
i nostri difetti, non avremmo mai fatto così tanti danni al mondo se non fosse
stato per il nostro genio per la leadership malvagia.
La
buona notizia: gli ebrei possono essere salvati e saranno salvati quando
romperanno l'incantesimo di Yahweh.
Dobbiamo
aiutarli affermando inequivocabilmente che il loro dio biblico non è Dio, ma un
grottesco burattino modellato dalla loro leadership sacerdotale per
terrorizzarli, fare il lavaggio del cervello e depravarli.
A meno che non siano disposti a convertirsi al
marcionismo, i cristiani dovrebbero tenersi lontani da questo dialogo;
Gli
ebrei non hanno bisogno di convertirsi al cristianesimo, hanno bisogno di
convertirsi alla critica storica.
La
critica storica ha dimostrato che il monoteismo ebraico è stato stabilito non
quando Dio ha scelto gli ebrei, ma quando gli ebrei hanno dichiarato che il
loro dio nazionale preistorico, amante dell'olocausto, era l'unico dio, quindi
Dio.
Dobbiamo
riconoscere e dire agli ebrei che il loro dio non è Dio, ma il dio del genocidio, poiché Atena è sia la dea degli
Ateniesi che la dea della saggezza.
Il dio
ebraico (con
Yahweh, Hashem o qualsiasi altro nome) è un diavolo cattivo, avido e
vendicativo che ha schiavizzato spiritualmente gli ebrei.
L'ebraismo è un caso di possessione demoniaca
collettiva.
L'UE e
l'illusione
della democrazia.
Unz.com - Hans Vogel – (21 novembre 2024) – ci
dice:
Hans
Vogel smantella la pretesa di democrazia dell'Unione Europea, condannando la
sua incompetenza burocratica, il decadimento economico e la morsa autoritaria
della sua élite delirante, che accelera il collasso dell'UE mentre mette a
tacere il dissenso.
L'Unione
Europea ha ventisette Stati membri, una popolazione di 450 milioni di abitanti
e un prodotto nazionale lordo di oltre diciotto trilioni di dollari.
In qualche modo, l'élite al potere dell'UE si
crogiola nella convinzione che ciò che amano chiamare "Europa" sia
una democrazia.
Questo di per sé dà loro motivi sufficienti
per sentirsi superiori.
Sulla
carta, queste statistiche dell'UE sembrano piuttosto impressionanti.
Solo
gli Stati Uniti hanno un PIL più grande, mentre quello della Cina (con una
popolazione tre volte più grande di quella dell'UE) è grande circa quanto
quello dell'UE.
Di
conseguenza, l'UE sembra sia economicamente impressionante che ricca.
In
realtà, questo potrebbe essere il motivo per cui così tanti
"eurocrati" sembrano così soddisfatti di tutto ciò che è europeo, che
nella loro mente è lo stesso dell'UE.
È
sempre utile tenere a mente che l'Europa è molto più grande dell'UE.
Comprende la Federazione Russa a ovest degli
Urali, l'Ucraina, la Bielorussia, la Serbia, l'Inghilterra, la Scozia e il
Galles, la Norvegia e, ad essere onesti, anche la Turchia.
Così,
quasi 300 milioni di europei rimangono al di fuori dell'UE.
Mentre
fino a trent'anni fa, gli Stati membri dell'UE come la Germania, l'Italia e la
Francia erano considerate potenze economiche, basate su un'agricoltura solida e
su un'industria manifatturiera superba, ora sono al collasso totale.
Spagna e Polonia sono entrate a far parte
della schiera delle principali nazioni industrializzate, ma da nessuna parte,
tranne che in Germania (31%), l'industria manifatturiera rappresenta più di
circa un quarto del PIL.
Ciò
significa che, in realtà, i PIL dell'UE sono un po' più piccoli, perché gran
parte è costituita dalla manipolazione statistica.
La
maggior parte dei singoli PIL dell'UE sembra impressionante a causa delle
"entrate" e delle spese governative parassitarie (tasse e altre forme
di estorsione).
Tutte
le decisioni in questo campo sono prese dalle persone che governano l'UE e i
suoi Stati membri, che sembrano intenzionate a provocare un totale suicidio
economico, sociale e culturale.
È
"il pianeta" che queste persone vogliono salvare, piuttosto che le
popolazioni su cui stanno governando.
Chiamare
quel regime una "democrazia" è in realtà un affronto. La democrazia presuppone, tra le
altre cose, lo Stato di diritto, il mantenimento imparziale della legge e
dell'ordine, elezioni eque e oneste, la libertà di parola, la libertà di azione
economica e la libertà di movimento.
Una democrazia non è il tipo di "società
aperta" in cui solo i truffatori come “George Soros” possono fare ciò che
vogliono senza mai essere costretti a rispondere delle loro azioni.
L'odiosa
frequenza e l'insistenza nauseante con cui i politici europei si sono
trasferiti alla "nostra democrazia" è di per sé un'indicazione che
tale "democrazia" non è altro che un'illusione.
Per
quanto riguarda la questione di come definire politicamente l'UE, la risposta è
migliore per mezzo di un'analogia.
L'analogia
più vicina sembrerebbe essere l'URSS prebellica, quando il suo governo era
composto da commissari del popolo.
A dispetto di ciò che l'aggettivo vuole
suggerire, questi commissari sono stati nominati, non eletti.
I membri del governo dell'UE (la Commissione
UE) sono chiamati commissari. L'unica vera differenza politica tra l'URSS e
l'EURSS è che quest'ultima non ha un leader di partito onnipotente come Stalin
nell'Unione Sovietica.
Ciò
che colpisce quando si esaminano le qualifiche professionali dei commissari
dell'UE è la loro totale ignoranza.
La maggior parte ha una laurea universitaria,
ma ciò che hanno studiato non ispira fiducia, né è in alcun modo utile per
affrontare le questioni politiche odierne, che spesso richiedono una solida
conoscenza delle materie STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica).
Al contrario, la maggior parte dei commissari
si è laureata in giurisprudenza, pubblica amministrazione, giornalismo o
scienze politiche.
Queste
materie non richiedono una particolare intelligenza, intuito o altre qualità
intellettuali di base.
Non
c'è quasi nessuno che abbia studiato una qualsiasi delle materie STEM.
Certo,
c'è qualche medico occasionale, ma il “Great Covid Show” ha dimostrato che la
maggior parte dei medici non capisce la salute umana e ha poca conoscenza della
medicina.
Ciò
che vale per la Commissione UE vale per tutti i governi degli stati membri:
i
posti di gabinetto sono per lo più occupati da avvocati, giornalisti,
politologi e laureati in pubblica amministrazione.
È
sorprendente che tutti quei commissari e ministri ignoranti prendano decisioni
dannose?
"Difficilmente",
dovrebbe essere la risposta ovvia.
Dopotutto,
non hanno la conoscenza, l'istruzione, l'intelligenza e il buon senso per
mettere in discussione il contenuto di tutti quei documenti e carte che firmano
così diligentemente sulle loro scrivanie.
Né
sono intellettualmente equipaggiati per mettere in discussione la validità di
programmi come” Agenda 2030” o i cosiddetti “SDG” (Sustainable Development
Goals).
I commissari e i ministri non sono quindi
altro che dei burattini ottusi o persone la cui insaziabile sete di
riconoscimento e denaro li spinge a fare qualsiasi cosa.
Inoltre,
i commissari e i ministri dipendono da schiere di segretari, consiglieri e
funzionari pubblici.
Con un
costo annuale di circa otto miliardi di euro, circa 40.000 di questi sono
impiegati dall'Unione Europea e di stanza a Bruxelles, Lussemburgo e
Strasburgo. Come si può vedere nell'impareggiabile sitcom inglese” Yes Minister”
e nel suo sequel “Yes Prime Minister” (1980-1988), i ministri del governo
dipendono completamente dai loro assistenti.
Eppure,
mentre un tempo questi assistenti avevano almeno una solida conoscenza di
argomenti chiave, certamente pertinenti alle aree di cui i loro ministri
dovevano occuparsi, oggi quegli stessi assistenti sono della stessa levatura
intellettuale dei loro padroni ministeriali.
In linea con le statistiche europee generali,
la stragrande maggioranza non ha la più pallida nozione di materie STEM. Non è
probabile che questa situazione cambi drasticamente in tempi brevi.
Nella
maggior parte delle nazioni dell'UE, gli studenti STEM sono una piccola
minoranza, fatta eccezione per Germania, Francia, Italia e Grecia.
A
livello globale, solo Germania e Francia si avvicinano alle percentuali di
leader in questo campo come Cina, Russia e India.
D'altro
canto, le percentuali medie di persone con un'istruzione accademica veramente
completata (MA e PhD) nella fascia di età compresa tra 25 e 64 anni variano
all'incirca tra il 15% e poco più del 20%.
La
stragrande maggioranza di coloro che non sono in materie STEM, fatta eccezione
per Germania e Francia.
Statisticamente,
la maggior parte di queste persone istruite all'università si considera
"progressista" e rientra tra i sostenitori più entusiasti dell'autoritarismo
di sinistra incarnato negli SDG e nell'Agenda 2030.
Potremmo
avere qui una spiegazione plausibile per la pura idiozia dei decreti e delle
decisioni governative in tutta l'UE.
La
maggior parte dei politici, giornalisti, esperti e personaggi pubblici non ne
hanno la minima idea e ingoiano avidamente “tutte le assurdità sul cambiamento
climatico antropogenico”, così come la” follia dei woke e dei transgender”,
amo, lenza e piombo.
Forse
questa popolarità tra una parte delle élite urbane "progressiste" in
rapido invecchiamento è stata un incentivo per gli eurocrati ad aumentare i
propri stipendi del 15% in soli due anni (2022-2024).
La
presidente della Commissione “Ursula von der Leyen” incassa annualmente circa
mezzo milione di euro.
Gli
altri commissari ricevono una media di circa 1.500 euro al giorno di
"lavoro".
Sta
diventando sempre più evidente che un numero crescente di cittadini dell'UE si
sente tradito e messo all'angolo dal regime.
Nonostante la massiccia manipolazione del
voto, il partito tedesco “AfD “raccoglie regolarmente almeno un terzo dei voti
nelle elezioni regionali, l'”FPÖ “austriaco è recentemente diventato il partito
più grande e in Francia (Rassemblement National) e nei Paesi Bassi (Forum voor
Democratie) si possono osservare fenomeni simili.
In Italia, i nazionalisti di destra sotto
Giorgia Meloni sono al governo, mentre in Spagna (VOX), Portogallo (Chega),
Grecia e altrove, la resistenza contro gli autoritari politicamente corretti
dell'UE è da tempo sostanziale.
È
soprattutto tra le classi medie e basse urbane svantaggiate e tra i contadini
(gli odierni kulaki) che questi movimenti trovano molti sostenitori.
Così
come tra un numero crescente di giovani altamente istruiti che vedono il loro
futuro distrutto dall'EUSSR.
Nel
tentativo di arginare la crescita di tutti quei movimenti di destra moderati,
la censura sta diventando sempre più severa.
Allo
stesso tempo, il law fare ad ampio spettro viene condotto contro i politici
popolari di destra in Germania, Austria, Paesi Bassi, Francia e Italia.
Quanto
più si stringono le viti della repressione, tanto più gli eurocrati dell'EUSSR
e i media tradizionali corrotti, con il supporto delle "élite"
liberali e socialdemocratiche, affermano di difendere la "democrazia"
e i "valori democratici".
Temo
che la maggior parte di quegli eurocrati creda sinceramente di essere al timone
di un sistema democratico e che le loro decisioni siano politicamente e
moralmente impeccabili.
Ciò
che non riescono a capire è che l'UE è come un gigante moribondo.
Come Gulliver legato a terra dai lillipuziani,
l'UE, essendo il residuo di quello che un tempo era un continente formidabile
senza il quale la civiltà moderna sarebbe impensabile, è stata immobilizzata
dalle decisioni fatali dei suoi governanti.
Innumerevoli
lillipuziani dei giorni nostri, la maggior parte dei quali provenienti
dall'Africa e dal Medio Oriente, stanno banchettando su ciò che non è ancora un
cadavere.
Allo
stesso tempo, stanno erigendo mulini a vento e parchi solari sul ventre e sulle
gambe del gigante.
Hanno anche saccheggiato i suoi scaffali, ma
semplicemente non riescono a decifrare cosa c'è nei libri.
Questo
gigante mezzo morto è chiamato "democrazia" da tutti gli eurocrati e
dai loro compari e tirapiedi.
Queste
persone sono così lontane dalla realtà che ora vogliono iniziare una guerra
contro la Russia.
Bene,
questo non farà che accelerare la fine definitiva dell'UE, che sembra
inevitabile in ogni caso.
La
tirannia del libero mercato.
Globalresearch.ca – (04 dicembre 2024) -
Bhabani Shankar Nayak – ci dice:
Il
mercato, in quanto istituzione sociale ed economica, è fondamentalmente un
processo volto a facilitare la vita umana riunendo consumatori e produttori.
Garantisce
che le attività economiche servano allo scopo sociale di soddisfare i diversi
bisogni degli esseri umani.
Questa relazione non si basava solo su
relazioni di scambio, ma si basava anche sulla fiducia: fiducia nel prodotto,
nel prezzo e nel produttore.
Storicamente,
le relazioni di mercato erano libere dalla tirannia e fondate sulla libera
scelta dei produttori di vendere e dei consumatori di comprare, guidati dalle
loro necessità e capacità.
In un
mercato del genere, non esisteva un potere invisibile che dettasse i termini e
le condizioni del rapporto tra produttori e consumatori.
Invece,
sia i produttori che i consumatori dipendevano l'uno dall'altro, creando un
legame simbiotico e reciprocamente vantaggioso.
Questo
rapporto organico e indissolubile, tuttavia, è stato smantellato con l'avvento
del cosiddetto "libero mercato".
Il
"libero mercato" non è libero né per i produttori né per i
consumatori.
La
nozione di "libera scelta" è stata ridotta al potere d'acquisto dei
consumatori, alla loro capacità di accedere a beni e servizi forniti da un
mercato che è, in realtà, libero dall'influenza e dal controllo sia dei
produttori che dei consumatori e dalle loro esigenze quotidiane.
Oggi,
coloro che controllano il mercato spesso non sono né produttori né consumatori
della maggior parte dei beni venduti nei cosiddetti supermercati, che hanno
sostituito i mercati tradizionali.
Nei
mercati tradizionali esisteva un rapporto diretto e significativo tra
produttori e consumatori, un legame essenziale che ora è andato perduto.
La
pseudo-scienza dell'economia tradizionale o neoclassica, propagata dai suoi
sacerdoti aderenti noti come economisti, ha costruito un concetto asociale,
amorale e astorico noto come "libero mercato".
Questo
cosiddetto costrutto guidato da modelli scientifici mina i produttori, distorce
le condizioni di produzione e di prezzo e manipola i bisogni dei consumatori
attraverso la pubblicità, il tutto ignorando i fondamenti sociali e le realtà
materiali del mercato sia come istituzione che come processo.
Il cosiddetto mercato libero è progettato per
massimizzare il profitto a spese sia dei produttori che dei consumatori.
Si
tratta di un sistema distorto che soggioga le persone con il pretesto di
offrire "libera scelta".
I
consumatori e i produttori sono ridotti a mera variabili nei modelli degli
economisti neoclassici, che difendono il libero mercato sotto le spoglie della
libera scelta e dell'efficienza.
Le
condizioni quotidiane della loro vita, le loro necessità sociali e le loro
realtà materiali sono ignorate, cadendo al di fuori dell'ambito di interesse di
questi economisti.
L'evidenza empirica dei danni causati dal
libero mercato viene regolarmente ignorata, respinta o minata come una critica
ideologicamente guidata che minaccia l'efficienza, la scelta e la libertà dei
consumatori e dei produttori.
Un
racconto dogma degli economisti neoclassici, intriso di fervore quasi
religioso, distoglie l'attenzione dall'emarginazione delle realtà materiali
affrontate dai consumatori e dai produttori, inquadrando tali questioni come
fallimenti politici non correlati al funzionamento del "libero
mercato".
(Esiste
una Base navale australiana in Papua Nuova Guinea: gioco di potere nel Pacifico
meridionale contro la Cina.)
Il
cosiddetto libero mercato perpetua una cultura ingannevole priva di moralità,
contesto storico o genuina preoccupazione umana.
Promuove una cultura di menzogne patologiche e
soluzioni "olio di serpente", presentandole come le uniche
alternative praticabili per sostenere gli interessi di pochi privilegiati, a
scapito dei bisogni fondamentali della stragrande maggioranza.
Questo
sistema insensibile continua a dominare e plasmare la vita, il lavoro, il tempo
libero ei piaceri delle masse lavoratrici, radicando lo sfruttamento sotto le
spoglie della libertà economica sotto il libero mercato.
Il
cosiddetto "libero mercato" e il suo sistema economico non creano né
occupazione significativa né promuovono la prosperità dei consumatori e dei
produttori.
In
realtà, le aziende più grandi generano solo pochi posti di lavoro, dando
priorità all'efficienza e al profitto rispetto al benessere economico diffuso.
Queste
società non promuovono una vera prosperità umana, in quanto tale prosperità
minerebbe la funzione principale del libero mercato:
un
sistema efficiente progettato per sfruttare sia i consumatori che i produttori.
Quindi,
soggioga gli individui promuovendo desideri fittizi per beni e servizi,
presentandoli come percorsi verso l'autorealizzazione senza una vera
autorealizzazione.
Questa enfasi sul mero consumo di merci,
distaccata da una comprensione delle condizioni di produzione, coltiva una
mentalità di "coscienza mercantile".
Riduce
tutte le forme di relazione a merci, dove il successo è equiparato al piacere
fugace derivato dal consumo.
Questa
sottile ma profonda trasformazione della società e della cultura, incentrata
sul piacere guidato dalle merci, ha eroso la solidarietà che un tempo esisteva
tra produttori e consumatori.
La
religione del libero mercato cerca la salvezza attraverso il consumo incessante
di lavoro vivo, soffocando la sua creatività e incanalando una quota
significativa dei magri salari nel suo impero guidato dal profitto.
I piccoli risparmi vengono dirottati in vari
prodotti di mercato, come mutui, schemi assicurativi e altri mezzi di vita
quotidiana, rafforzando ulteriormente gli individui nel sistema.
Lavorare
per un mero stipendio riducendo la giusta quota del lavoro nel valore che crea,
mentre i consumatori sopportano un costo esorbitante semplicemente per
sopravvivere.
Questo ciclo ripetitivo di sopravvivenza
basato sul lavoro-salario riduce la vita umana a un'esistenza puramente
economica, focalizzata esclusivamente sulla lotta per la sussistenza quotidiana.
La
relazione ineguale tra lavoro e lavoratori in un'economia di libero mercato non
solo mina il lavoro, ma promuove anche condizioni di lavoro che erodono le
fondamenta stesse dell'efficienza e della produttività che professa di
migliorare.
L'opportunità
dei consumatori prevale sulle condizioni dei lavoratori e del lavoro in un
sistema di questo tipo.
Non ci sono prove che il libero mercato
funzioni, ma i media reazionari celebrano questo sistema contraddittorio come
l'unica opzione praticabile, perpetuando la narrativa secondo cui cercare
modelli alternativi è inutile.
Non si
tratta di una vista accidentale, ma di una strategia deliberata per posizionare
il "libero mercato" come il sistema economico superiore, affermando
che non esistono alternative praticabili.
In
questo modo, le contraddizioni, la dissolutezza, i doppi standard e i
fallimenti intrinseci del libero mercato arrivano a definire il suo sistema
economico chiamato capitalismo.
Le
semplici riforme di mercato non potranno mai portare pace o prosperità alle
masse lavoratrici.
Lo
stato, il governo, le altre istituzioni e la cultura del capitalismo
costringono le persone ad accettare il libero mercato.
In nome della razionalizzazione, il libero
mercato disciplina le persone e le loro abitudini quotidiane che sono
concomitanti con le esigenze del capitalismo come sistema dominante.
È
tempo di un esame morale, sociale, economico e storico dell'economia di libero
mercato e dei suoi sostenitori.
La libertà basata sul mercato non è affatto
libertà:
è una
forma di tirannia che permea ogni aspetto della vita sociale, politica,
economica e culturale, sostenendo un sistema economico dominante che prospera
sullo sfruttamento della vita umana, del lavoro e delle risorse naturali.
La
libertà dal cosiddetto mercato libero del capitalismo è l'unico modo per
garantire una vera libertà ai consumatori e ai produttori, consentendo la
creazione di un mercato veramente libero.
Tale mercato si baserebbe su un flusso
trasparente di informazioni sui produttori, sulle condizioni di produzione, sui
prezzi e sulle libere scelte dei consumatori.
Solo attraverso l'azione collettiva e la
coscienza collettiva, le persone possono superare il cosiddetto libero mercato,
che è controllato da pochi eletti.
È
tempo di stabilire un mercato libero che lavora per il benessere delle masse
come produttori e consumatori.
(Bhabani
Shankar Nayak)
Elettori
americani: ignoranti,
spensierati
o entrambi?
Globalresearch.ca
- Kim Petersen – (4 dicembre 2024) – ci dice:
In
occasione delle elezioni presidenziali statunitensi del 5 novembre 2024, gli
elettori americani hanno fatto un regalo stupendo ai cittadini degli Stati
Uniti e di altri paesi:
la
cacciata dell'amministrazione Joe Biden-Kamala Harris.
Allo
stesso tempo, gli elettori hanno lasciato in eredità ai concittadini americani
e ai popoli del mondo l'incubo di altri quattro anni di Donald Trump.
Prima
delle elezioni, ho chiesto se gli americani avrebbero votato per il genocidio.
Chiaramente,
se un elettore stava prestando attenzione, il che è, probabilmente, una
conditio sine qua non per una persona in procinto di esprimere responsabilmente
un voto, allora un elettore sarebbe stato consapevole che un genocidio era (ed
è ancora) perpetrato dallo Stato ebraico contro i palestinesi, e che questo
genocidio era (ed è ancora) favorito dal governo degli Stati Uniti.
L'amministrazione democratica guidata
dall'orgoglioso sionista Joe Biden (alias Genocide Joe) e dalla sua complice
nel genocidio, Kamala Harris, è stata parte integrante dell'esecuzione del
genocidio.
L'avversario principale, o l'unico avversario
come lo dipingono i media monopolistici statunitensi, è stato un altro arci
sionista, Donald Trump del Partito Repubblicano, che si è impegnato a sostenere
gli obiettivi di guerra israeliani.
Era
dannato se lo facevi e dannato se non lo facevi?
No,
viene sottolineato in precedenza, un elettore avrebbe potuto scegliere un
candidato contrario agli orribili crimini di guerra israeliani contro i
palestinesi;
per
esempio, Cornel West, il libertario Chase Oliver e la candidata Jill Stein.
Quindi,
gli americani non hanno dovuto votare per un candidato che sostiene il
genocidio.
Data
la schiacciante quantità di voti per Harris e Trump, complici del genocidio,
una possibile conclusione è che gli americani ignorassero le conseguenze
sostenute di ciò che il loro voto avrebbe avuto.
Più
sinistro è che gli americani sapevano che il loro voto avrebbe favorito il
genocidio ebraico-israeliano dei palestinesi.
Se
così fosse, ciò significherebbe che gli elettori americani hanno una mancanza
di compassione per gli altri esseri umani, una noncuranza per l'Altro o un odio
per l'Altro.
Si
potrebbe obiettare che gli americani hanno semplicemente votato per il
candidato che consideravano il migliore per l'economia e una vita migliore a
casa negli Stati Uniti.
Tuttavia,
se così fosse, sarebbe comunque dannoso, in quanto indicherebbe che le loro
fortune economiche personali hanno la precedenza sul loro paese, distruggendo
la vita e l'economia di altri esseri umani.
Le
elezioni americane hanno un risultato schiacciante.
E con
Trump che riempie il suo gabinetto entrante di sionisti, questo è di cattivo
auspicio per un mondo pacifico e amorevole.
Data
la composizione di molti governi occidentali che sono indifferenti alla
situazione dei palestinesi, si può supporre che la classe votante di tali paesi
mostri allo stesso modo una deplorevole ignoranza o noncuranza.
Un
imperativo morale per le elezioni americane del 2024.
"È
accettabile cancellare la Palestina dalla carta geografica".
Come
possono gli americani segnalare la loro avversione per il genocidio?
(Kim
Petersen è una scrittrice indipendente.)
Maduro
Denuncia il Genocidio in Palestina
e Propone una Rete Globale per la Verità.
Conoscenzealconfine.it
– (3 Dicembre 2024) - Redazione de l’Anti Diplomatico – ci dice:
Il
presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro, ha preso
una posizione forte e decisa durante la “Conferenza Internazionale in
Solidarietà con la Palestina”, tenutasi nella capitale Caracas.
Il
leader venezuelano ha descritto la causa palestinese come “la più giusta che
l’umanità abbia oggi”, sottolineando l’urgenza di unire le forze per difendere
il diritto del popolo palestinese a uno Stato indipendente, equo e giusto.
Una
Rete Globale per Contrastare la Disinformazione.
Maduro
ha proposto la creazione di una “potente rete comunicativa globale” che,
attraverso tutti i mezzi di comunicazione e le piattaforme social esistenti e
future, diffonda la verità delle lotte dei popoli oppressi.
Questa iniziativa, secondo il presidente, è
necessaria per combattere la disinformazione e per sensibilizzare il mondo sul
genocidio in atto in Palestina, descritto come una “massacro brutale trasmesso
in diretta”.
Secondo
Maduro, le reti sociali dominanti sono strumenti di manipolazione controllati
dalle élite degli Stati Uniti e di Israele, utilizzati per distruggere i valori
dei popoli attraverso la diffusione di anti-valori come pornografia, droga e
individualismo.
Ha
inoltre denunciato che tali piattaforme normalizzano ideologie fasciste e
revisioniste, equiparando i leader di oggi, come Netanyahu e Milei, ai
dittatori del passato.
Accuse
agli Stati Uniti e all’Estrema Destra.
Il
presidente venezuelano ha criticato duramente gli Stati Uniti, accusandoli di
utilizzare la “diplomazia dell’inganno” per mascherare intenti bellicosi.
Ha
ricordato episodi di attacchi mirati, come l’assassinio di leader del Medio
Oriente durante trattative di pace, per illustrare la loro strategia
manipolativa e violenta.
Maduro
ha anche condannato il presidente argentino “Javier Milei” per il suo sostegno
all’aggressione sionista nella Striscia di Gaza, descrivendolo come complice
del genocidio della popolazione civile palestinese, inclusi donne e bambini.
“Le
future generazioni ricorderanno “Milei” come colui che ha sostenuto i
bombardamenti e l’uccisione di innocenti”, ha affermato.
Solidarietà
con il Medio Oriente e un Appello all’Umanità.
Rivolgendo
un messaggio ai popoli del Medio Oriente, Maduro ha espresso solidarietà e ha
avvertito contro i pericoli della diplomazia ingannevole.
Ha
dichiarato che l’umanità sta osservando i crimini commessi dal governo sionista
israeliano, sottolineando che questi atti di genocidio non rimarranno impuniti
nella memoria storica.
Il
leader venezuelano ha ribadito che la lotta per la Palestina è una battaglia
morale e politica che unisce i popoli di tutto il mondo.
“È il momento di fare di più, di
costruire nuovi consensi e di agire per la libertà e il diritto alla vita del
popolo palestinese”, ha concluso il leader bolivariano.
(Redazione
de l’Anti Diplomatico).
(lantidiplomatico.it/dettnews-
maduro_denuncia_il_genocidio_in_palestina_e_propone_una_rete_globale_per_la_verit/45289_58028/).
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