Suicidio dell’Europa.
Suicidio
dell’Europa.
Il
suicidio dell’Europa.
Volerelaluna.it – (02-01-2025) - Marco Revelli
– ci dice:
Cosa
diavolo avessero in testa i cinque leader europei, quando hanno deciso di convocare il
loro mini vertice sulla “sicurezza” in quel villaggio ghiacciato della Lapponia
dal nome impronunciabile – Saariselkä -, è difficile immaginarlo.
Certo
è che se si voleva proporre una metafora dello stato presente dell’Europa, una
più efficace – e tremenda – di questa non si sarebbe potuta trovare:
un
lembo di terra sepolto nella neve e nel buio della notte polare – lì, tra il 6
di dicembre e il 7 di gennaio, non sorge mai il sole -, agli estremi confini
del continente (e del mondo), 230 chilometri a nord del Circolo polare artico,
temperatura media in questa stagione mai sopra i dieci sotto zero, 350 anime e
cinque hotel di superlusso…
Cattivi
presagi.
Sul
piano del simbolico, suona come una sorta di gelido e oscuro presagio, sul
destino di un continente in preda alle pulsioni suicide di una delle classi
politiche peggiori che si possano immaginare, qui rappresentata da cinque
esemplari che non si sa se usciti da un cartoon natalizio (gli abbracci di rito
al patetico Babbo Natale in divisa d’ordinanza che li accoglieva all’ingresso
dello chalet) o da un racconto di Lovecraft (quelle facce livide per il freddo,
vagamente spettrali) …
Tre
provenienti dal Grande Nord, due dal Profondo Sud, in mezzo niente visto il
crack sull’asse di crisi che va da Parigi a Berlino, fino a ieri contrapposti –
i cinque! – dalla questione dell’austerità e del rigore, oggi accomunati dalla
guerra ai migranti e a Putin.
Tutti/e
di destra o di estrema destra.
Leggetevi i curricula, per capire chi siano e
cosa ci dicano.
Europa.
L’estone
Kaja Kallas, la più alta in grado, si porta dietro il viluppo di passioni
tristi della tormentata storia del suo Paese:
da una parte la vergogna per i periodi in cui
servì la peggiore Germania (subito dopo la fine della Prima guerra mondiale
quando gli estoni combatterono con i “Frei Korps proto-nazisti” contro l’armata
rossa, poi durante la seconda guerra mondiale quando, occupata dai tedeschi,
l’Estonia si classificò come primo Paese dell’Asse a essere dichiarato “Judenfrei”
grazie anche all’attiva collaborazione della popolazione);
dall’altra
parte la voglia di vendetta per la durezza della successiva occupazione
sovietica con la deportazione di un buon numero di famiglie, tra cui quella
della Kallas stessa.
E ci
si chiede se fosse davvero il caso di affidare l’impegnativa gestione della
politica estera dell’Unione alla rappresentante di un paese così marginale e
dalla vita democratica tanto breve e tormentata.
Poi il
padrone di casa, “Petteri Orpo”, “Ministro Capo della Finlandia”, che
dall’estate del ’23 guida un governo di coalizione di cui fa parte, con peso,
anche il Perussuomalaiset, il partito dei “Veri Finlandesi”, esplicitamente di
estrema destra, nazianal-conservatore, violentemente anti-immigrazione, a lungo
euroscettico.
Un
governo – quello di “Orpo”, definito come quello “più a destra nella storia del
suo Paese” – – che infatti si è distinto particolarmente per la chiusura delle
frontiere settentrionali e per la pratica sistematica dei “pushback”, i
respingimenti di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini
dell’Unione Europea, per permettere i quali ha anche modificato la Costituzione
e sfidato l’Unione europea.
Secondo
Lord dell’”asse del Nord” è il primo ministro svedese “Ulf Kristersson”, che
guida un governo di coalizione in piedi grazie al sostegno esterno dei
cosiddetti “Democratici svedesi”, formazione di ultradestra nei confronti della
quale aveva funzionato fino al 2018 un unanime “cordone sanitario” dovuto alle
posizioni visceralmente oltranziste dei suoi leader, che però proprio
Kristersson aveva cancellato per vincere le elezioni del ’22 e insediarsi al
governo.
Severa
austerità verso le cicale del sud e chiusura delle frontiere ai migranti ne
sono i punti forti.
Al
sud, infine, la coppia formata dalla ben nota Meloni (che
lì aveva in testa l’unico obiettivo di portarsi a casa l’OK alla
politica di deportazione in Albania…) e dal greco Kyriakos Mītsotakīs, l’uomo delle grandi banche globali,
della McKinsey e della destra economica europea, che si vanta di aver
smantellato le politiche sociali avviate dal governo di Alexis Tsipras e di
aver riconquistato i voti dei neofascisti di Alba dorata (non per nulla ha inzeppato il
proprio governo di ministri provenienti dalla estrema destra autoritaria e
xenofoba, orientandolo in senso ultranazionalista e vessatorio verso i
migranti).
Un bel
quintetto di anime nere, verrebbe da dire.
Che,
maestri nell’arte della sineddoche, pur costituendo una piccola parte degli
Stati dell’Unione parlano come se fossero il tutto (“L’Europa è con noi” ha
proclamato al ritorno Giorgia Meloni a proposito della sua aberrazione
albanese). E verrebbe da denunciarli per
appropriazione indebita, se non fosse che forse siamo noi, che ce ne indigniamo,
a soffrire di un’illusione ottica, mentre loro, nella loro impudenza, già
esprimono, o quantomeno anticipano, la realtà della nuova Europa che ci è
venuta mutando sotto i piedi, prima lentamente, poi sempre più veloce.
Ciò
che Livio Pepino, su queste pagine, chiama “La fine del sogno europeo”.
Europa.
Un’Europa
ex origine asociale.
In
effetti l’ultima volta che, nella nostra area politico-culturale, abbiamo
ragionato a fondo sulla vera natura dell’Unione Europea e sui suoi limiti è
stato nel 2015, sotto l’effetto dello shock prodotto dall’esecuzione sommaria
per strangolamento delle aspirazioni del neonato governo di sinistra in Grecia,
come ricordiamo tutti:
le riserve monetarie prosciugate dalla Bce per mano di
Mario Draghi, i pensionati in fila davanti ai bancomat vuoti, gli ospedali
senza medici e medicine, il referendum con cui a grande maggioranza i greci
avevano detto no ai diktat della Troika considerato non un diritto politico ma
una colpa di lesa maestà…
Allora
capimmo perfettamente come l’Europa nata a Maastricht dal primato del Mercato
più che della Politica, non solo aveva assunto come propria costituzione
materiale i principii di quel neoliberismo che andava sorgendo un po’ovunque in
Occidente sulle ceneri del precedente grande “patto socialdemocratico”, ma che
li aveva poi sviluppati nel tempo su una matrice per molti versi più rigida e
socialmente feroce.
Quella che va sotto il nome di “Ordo-liberismo”, in cui le logiche rigorosamente
privatistiche delle relazioni sociali vengono garantite e rafforzate
dall’intervento del potere pubblico che se ne fa garante ed esecutore, con una
tipologia di “azioni” assai ampia, da parte di istituzioni e attori diversi,
dalla Banca centrale, ai singoli Commissari dotati di rilevanti poteri, alla
Commissione e al Consiglio, tutti comunque accomunati dalla scarsa anzi
pressoché nulla responsabilità di fronte ai cittadini e agli elettori.
Tutto
ciò colpiva al cuore, con tutta evidenza, quello che era stato un pilastro
fondamentale dell’idea di un’Europa Unita così come era stata formulata in
quello che a ragione è indicato come il suo documento costituente – il Manifesto di Ventotene, del 1941
-: il
principio fondate della giustizia sociale.
Del
contrasto all’ineguaglianza e all’ ingiustizia.
O,
come scrissero appunto allora Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi – l’affermazione secondo cui “le
forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per le
forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più
razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime”.
Un
tradimento delle origini di cui eravamo perfettamente consapevoli.
(Luglio
2015 – La Banca di Grecia presidiata dalla polizia – Un pensionato in lacrime
davanti al bancomat vuoto).
La fine della pax europea.
Rimaneva
tuttavia ancora in piedi – o così poteva allora sembrare – almeno un pezzo, o
una traccia, del secondo pilastro indicato dai padri fondatori, e cioè il
contrasto alla Guerra.
Un’Europa
unita in forma federale come antidoto alle sue antiche pulsioni militariste e
belliciste.
Un’Europa
fattrice e fautrice di Pace, dopo tanto sangue versato sul proprio territorio.
In effetti fino al 2014 l’Europa aveva svolto
un ruolo di mediazione e di moderazione dei tentativi americani di usare
l’espansione della Nato verso est al fine di destabilizzare e indebolire la
Russia, preferendo una politica di “raffreddamento” delle tensioni alimentate
soprattutto dai new membri baltici ed est-europei.
Ancora
al vetrice NATO di Bucarest dell’aprile 2008 – definito il più importante del
dopoguerra – Bruxelles si era opposta alla proposta USA di invitare l’Ucraina
nell’Alleanza, consapevole del carattere di “provocazione” che ciò avrebbe
rappresentato (allora il Paese era violentemente agitato dalla lunga coda della
“rivoluzione arancione”).
E poi,
nel 2014, nel corso degli eventi, tanto tragici quanto oscuri, di piazza Maidan
a Kiev, si era posta in una posizione di dissociazione, sia pur tacita,
rispetto alla forzatura americana verso quello che si sarebbe configurato come
un vero colpo di stato.
Esemplare l’espressione volgare di “Victoria
Nuland” nella telefonata con l’ambasciatore “Pyatt”, diventata virale dopo la
sua pubblicazione su YouTube: “Fuck the EU” (gli europei vadano a farsi
fottere).
La “Nuland”
non era una qualsiasi villana di passaggio, era la plenipotenziaria per le
questioni dell’Est e in particolare per l’Ucraina da parte dell’amministrazione
americana.
E
quella telefonata non testimoniava solo della tradizionale ostilità e
diffidenza degli americani nei confronti degli europei considerati non
abbastanza affidabili e determinati, e mal sopportati fin dal momento della
nascita dell’Euro vissuta come minaccia al monopolio del dollaro (su L’ America
e noi si veda sul nostro sito la serie di articoli sul Tradimento 1 e 2).
Ma metteva anche a nudo il ruolo di vera e
propria cabina di regia svolto dalla coppia “Nuland-Pyatt” nella catena di
eventi che dalle manifestazioni antigovernative in Piazza Maidan, passando per
la strage del 20 febbraio, fino alla destituzione del presidente in carica “Viktor
Janukovič” , li vide particolarmente attivi nell’orchestrare l’azione di
sostituzione della leadership a Kiev.
Un impegno condotto fin nei particolari, che
va dal coordinamento tra i gruppi di estrema destra presenti sulla piazza
(i paramilitari di “Pravi Sektor” e i neonazisti di “Svoboda” in prima linea),
alla posizione da assegnare ai loro leader (Oleh Tyahnybok in particolare,
alcuni dei cui uomini saranno in seguito sospettati di aver fatto parte del
gruppo di cecchini che compì la strage), fino alla scelta del successore”
Arseny Yatsenyuk” chiamato amichevolmente “Yats” nella conversazione (un’accurata ricostruzione nel saggio
accademico del prof. Ivan Katchanovski dell’Università di Ottawa).
Se si
considera che gli europei erano comunque orientati verso un’altra candidatura
nel caso di sostituzione del presidente in carica, e soprattutto che tendevano
ad attestarsi sull’accordo in dieci punti siglato nella notte del 21 febbraio
tra Janukovič e i leader dell’opposizione alla presenza tre ministri degli
esteri dell’Unione europea – il polacco Sikorski, il francese Fabius e il
tedesco Steinmeier -, accordo poi travolto dall’azione dal basso dei
manifestanti più intransigenti che determinò la fuga del Presidente con molti
suoi ministri e dal voto immediato del Parlamento che ne certificava la
destituzione, si ha la misura di quanto l’Europa sia stata in effetti
estromessa dalla gestione del punto più drammatico della crisi Ucraina.
Dopo
di allora, e la conseguente occupazione russa della Crimea, tutto sarebbe stato
diverso.
Europa.
L’ésprit
de commerce tedesco.
Il
merito principale di questa politica europea di “appeacement” sul fronte
nord-orientale, il più pericoloso nella prospettiva della precipitazione di un
possibile conflitto generale (diverso il discorso sulla ex-Jugoslavia dove
l’Europa ebbe invece un ruolo ben peggiore), è soprattutto della Germania.
Da
decenni la potenza che geopolitica ed economia avevano posto come baricentro
continentale, con responsabilità superiori alle altre, aveva assunto nei
confronti dell’universo che si estende sul versante orientale un atteggiamento
di cauta apertura e di progressiva cooperazione economica secondo una logica di
coesistenza pacifica.
La spingeva in questa direzione non solo il
più che giustificato senso di colpa per i misfatti compiuti dai propri eserciti
negli anni quaranta, e il desiderio di cancellare l’immagine dei tedeschi come
feroci aggressori da parte dei popoli che ne erano stati vittime, ma anche un
ordine più complesso di ragioni, culturali, strategiche ed economiche.
In termini generali una sorta di sguardo
stereoscopico ben radicato nello spirito tedesco, volto a bilanciare il fascino
oceanico dell’Occidente con l’attrazione ctonia dei territori orientali.
La diade mare-terra concettualizzata da Carl
Schmitt.
Velocità
e profondità.
Zivilization e Kultur, in un equilibrio
simmetrico necessario per mantenere una propria autonomia strategica.
E poi, all’inizio, la preoccupazione,
prevalentemente tattica, di aprire la strada alla possibile riunificazione
delle due Germanie, che aveva prodotto l’Ostpolitik inventata da Willi Brandt
fin dall’inizio degli anni ’70, proseguita poi dal cancelliere Schmidt e dallo
stesso Helmut Kohl, convinti com’erano che un clima di buon vicinato con
l’Unione Sovietica fosse necessario per favorire le proprie speranze.
Una
prospettiva che tuttavia non si esaurì col raggiungimento dell’obbiettivo della
riunificazione, ma proseguì con i successori “Gerhard Schröder,” e con la
stessa “Angela Merkel”, nella convinzione, questa volta, che fosse
nell’interesse dell’economia tedesca (e in subordine europea) una sia pur
sorvegliata integrazione con i mercati, e soprattutto con la fornitura di
materie prime e di energia di cui era ricca la Russia.
Convinzione
a sua volta, sostenuta dalla visione strategica del “Wandel durch Handel”
(“cambiamento attraverso il commercio”) e di “una specifica consequenzialità̀
fra commercio, creazione della classe media e democrazia” come veicolo di
democratizzazione di quelle terre “irredente”.
Oltre
che dall’evidenza empirica di una potenziale virtuosa sinergia tra l’abbondanza
di capitali e di alta tecnologia tedesca e la disponibilità di risorse naturali
a basso costo e di una domanda in possibile crescita dell’area russa: ciò che
infatti ha permesso alla locomotiva tedesca di correre trainando buona parte
dell’Europa.
(Agosto
1970 – Il cancelliere tedesco Brandt sottoscrive il “trattato di Mosca”).
L’ésprit
de conquête atlantico.
Tutto
questo ha subito una brusca battuta d’arresto col 2014.
Ed è
crollato definitivamente nel febbraio del 2022, con l’invasione russa
dell’Ucraina.
La
Merkel, che nel 2008, subito dopo l’avvio della guerra in Ossezia del Sud,
aveva invocato una linea moderata nei confronti di Mosca, e che nel giugno del
2010 aveva ricevuto nella residenza di Meseberg il presidente russo Medvedev
per risolvere il conflitto in Transnistria, dovette accettare invece le
sanzioni imposte alla Russia dopo l’invasione della Crimea.
Svolse
ancora un ruolo di rilievo nella stipulazione degli accordi di Minsk, ma non
poté far nulla per farli rispettare, e dovette rassegnarsi a vedersi passare
sotto il naso i massicci flussi di armamenti con cui la Nato preparava
l’Ucraina al successivo conflitto.
Mentre spetterà al suo successore “Viktor
Scholz”, subito dopo il famigerato 24 febbraio ’22, contribuire a smantellare
l’intera infrastruttura di accordi, rapporti politici e culturali, contratti di
collaborazione industriale e commerciale (alcuni estremamente vantaggiosi) che
si erano stratificati nel tempo, cancellando in un attimo cinquant’anni di
politica tedesca.
È
difficile capire che cosa avesse in testa la leadership europea quando in un
batter d’occhio ha deciso di buttare a mare tutt’intera la tradizione
tendenzialmente pacifica del proprio continente.
Intendo la leadership dei principali Paesi
europei, quelli fondatori (per baltici, scandinavi e polacchi non poteva
esserci di meglio), che si è lasciata afferrare, senza la minima resistenza,
dal maelstrom della guerra, rinunciando a svolgere un qualsiasi ruolo autonomo
(per impedirne l’esplodere, prima, per tentare ogni via diplomatica per
fermarla, poi), accettando di fatto che l’intera Unione europea fosse assorbita
pressoché senza residui da un’alleanza militare come la Nato, a indiscutibile
egemonia americana.
Piegandosi
all’esclusiva logica delle armi, del “sempre più armi” come segno di fedeltà.
Allineandosi
a una politica di sanzioni senza precedenti per estensione e durezza, incuranti
degli effetti boomerang di esse.
In
pratica cancellandosi come player non solo sullo scacchiere globale ma
nell’ambito della propria stessa area continentale:
quella che della guerra era ed è destinata a
pagare il prezzo più alto, in termini sia di sviluppo economico che di rischio
militare.
Certo,
l’assunzione di una decisione così grave e gravida di conseguenze nefaste senza
la minima consultazione popolare e la considerazione della volontà dei propri
cittadini, è stata resa possibile e facilitata dall’architettura scombinata
delle istituzioni europee, sbilanciate fortemente sull’autonomia degli
esecutivi.
Sono
infatti i governi dei singoli Paesi a comporre il Consiglio il quale a sua
volta indica il nome del Presidente della Commissione europea che dovrà poi
essere approvato dal Parlamento ma nell’esercizio del proprio mandato dovrà
rispondere minimamente delle proprie decisioni.
Ed è ancora il Consiglio a nominare l’Alto
rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è anche
vicepresidente della Commissione, mentre i nomi dei Commissari sono indicati
dai singoli governi (ancora gli esecutivi!) e le deleghe assegnate dalla
Presidente della Commissione.
Dunque
una struttura solo in minima parte controllata e controllabile “dal basso”,
sostanzialmente in mano alle élites di governo.
Tutto
vero.
Ma ciò
non fa che rendere più drammatica la domanda di cui sopra:
cosa
passava per la testa di quell’élite, che per definizione dovrebbe essere meno
propensa alle ondate emotive e più “razionalmente calcolante”?
Quali
argomenti possono averne suggerito la logica suicidaria che l’ha portata prima
ad astenersi dal minimo tentativo di evitare il precipitare della situazione e
poi, dopo la decisione criminale e altrettanto sucida della leadership russa di
varcare il Rubicone dell’invasione, a escludere ogni possibile ruolo di
mediazione per fermare le ostilità o quantomeno limitarne l’incrudelimento,
come ci si sarebbe potuto aspettare dalla tradizione europea?
E anzi ci si è gettati a corpo morto
nell’escalation che ne è seguita.
Determinanti
di “senso dell’insensato”.
La
nube tossica dei commenti della prima ora da parte delle massime autorità
europee (la Presidente della Commissione Ursula von der Layen, il Presidente
del Consiglio Jean Michel, l’Alto Rappresentante per la politica estera Josep
Borrel, la Presidente del parlamento Roberta Metsola), tutti perfettamente
allineati con i commenti del Segretario Generale della Nato Stoltemberg e del
Segretario di Stato americano Blinken, riproducono, con minime varianti, gli
stessi luoghi comuni.
Sintetizzabili
sostanzialmente in due punti, peraltro tra loro clamorosamente contraddittori:
1) L’idea (pessimistica) che l’invasione
dell’Ucraina non fosse che il primo passo di una strategia neo-imperiale russa
di espansione ad ovest capace di minacciare l’intero continente (da Kiev a
Lisbona, sparò grosso qualcuno).
2) La convinzione (ottimistica) che grazie
all’effetto congiunto di un massiccio invio di armi e di pesanti sanzioni la
Russia sarebbe implosa e il potere di Putin (individuato come unico dark lord
colpevole di tutto), sarebbe finito.
Europa
Ora, come
ognuno può vedere, il combinato disposto dei due assunti dà luogo a un
dispositivo retorico dal forte impatto emotivo ma segnato da un evidente
cortocircuito logico, in cui una proposizione contraddice l’altra e viceversa.
Se fosse vera la volontà russa di ”conquistare
l’Europa” dal Dniepr all’Atlantico avendone potenzialmente la forza, allora
sarebbe impensabile provocarne il collasso militare ed economico con la
semplice fornitura di armamenti all’Ucraina sia pur accompagnata da sanzioni
economiche ma sarebbe stato necessario contrastarla direttamente da subito in
uno scontro totale;
se
invece si fosse davvero convinti che sarebbe sufficiente armare l’esercito
ucraino e stare a guardare i risultati delle sanzioni per battere sul campo gli
invasori in pochi mesi con una vittoria finale e definitiva, allora se ne
dovrebbe concludere che la Russia di Putin non è quel pericolo mortale per
tutti che si evocava, per il semplice fatto che non avrebbe avuto, fin
dall’origine, la forza e le risorse in uomini e mezzi per dilagare oltre quel
confine interno ucraino che separa il Donbass dal resto del Paese e che i russi
non riescono se non a costi altissimi ad avvicinare.
Dunque,
per basse che siano le capacità cognitive della classe dirigente europea, esse
non possono essere così infime da farne dipendere i comportamenti e le
decisioni da argomenti tanto inconsistenti.
Le
“determinanti di senso” del loro agire – per usare una formula weberiana –
devono essere state altre.
O
quantomeno una variante di queste meno rozza.
È
possibile – questo sì -, che prestando orecchio alle Sirene che cantavano dalle
bianche scogliere di Dover, gli estenuati governanti europei abbiano
sottovalutato le capacità dei russi di resistere sul medio-lungo periodo a una
guerra di logoramento.
E che dunque si siano illusi che non in pochi
mesi, ma in qualche anno, alzando sempre più il peso degli armamenti introdotti,
e dunque i costi della guerra, si sarebbe forse potuto sperare in una sorta di
implosione di quello che rimaneva del sistema imperiale post-sovietico, aprendo
una prateria in cui arraffare gratuitamente o quasi quelle materie prime e
l’energia che prima avevano dovuto, sia pur a prezzo favorevole, acquistare.
Una
sorta di neo-colonialismo post-imperiale, avvolto in un involucro spesso di
cinismo (che ogni mese in più di “attrito” significasse la morte di migliaia di
ucraini – e simmetricamente di russi – poco importava).
E
animato da una dose impressionante di azzardo (la scommessa era che a ogni
scatto in avanti nell’escalation l’altra parte fosse tanto “ragionevole” da non
superare nella risposta la soglia dell’uso dell’arma nucleare, un po’ come nel
gioco mortale del “James Dean” di Gioventù bruciata):
un azzardo, ovviamente, gravido di stupidità,
perché nulla impedirebbe a una Russia condotta sull’orlo dell’abisso di
praticare la logica del “muoia Sansone con tutti i filistei” e di impiegare
l’arma “fine del mondo” che pur possiede in abbondanza, ma tant’è.
La
ludopatia è una patologia che non ammette capacità di ragionamento.
Un
ruolo di rilievo deve averlo avuto anche l’industria delle armi, la cui
capacità di convincimento è pari alla quantità di miliardi che è in grado di
movimentare e la cui lobby tiene al guinzaglio corto una buona parte dei
decisori pubblici di qua e di là dell’Atlantico.
Sono
gli unici che hanno tratto vantaggio dal massacro ucraino, con fatturato, utili
netti, capitalizzazione in borsa schizzati alle stelle nell’ultimo triennio:
si pensi a un colosso come la tedesca “Rheinmetall”
(carri armati e veicoli militari), le cui azioni tra il 2021 e il 2024 sono
cresciute del 646% (da 83,6 a 819,5 milioni di euro);
o alla
norvegese” Kongsberg” (componenti per aerei da guerra e missili), +177%; alla
giapponese” Mitsubishi Heavy Industries “(oltre a tecnologie per l’acqua calda
e la climatizzazione, aerospazio, carri armati, navi da guerra) +169%;
per
non dimenticare le “nostre” Leonardo(+72%), Avio (+64%), Fincantieri (+58%)…
Sono “l’armata internazionale dei guerrafondai” di cui ha parlato in questi
giorni Domenico Quirico, “con l’arsenale gonfio di miliardi e di bugie” che non
si sono solo arricchiti con la rendita della “guerra grossa, ricca, quella …
delle tonnellate di munizioni (e di uomini) consumate in poche ore” che hanno
alimentato, ma anche sulla pianificazione negli anni, forse nei decenni
prossimi, di una spesa militare crescente, per cui non basta più nemmeno il 2%
del Pil, si deve salite al 3%, poi al 4%, forse al 5%…
Economia di guerra.
Ed è
questo il terzo ordine d’idee che deve aver invaso – e offuscato – la mente dei
nostri governanti negli ultimi anni.
La
prospettiva di una riconversione sistemica dell’economia europea – e di questa
nel quadro complessivo di quelle occidentali – in economia di guerra.
Verso un modello economico, cioè, che
ridefinisce la propria scala di priorità intorno all’opzione bellica posta tra
i primi punti della propria agenda.
D’altra
parte non lo nascondono nemmeno.
Nonostante
tutto ciò configuri una svolta epocale, di quelle che stabiliscono lo
spartiacque tra livelli di civiltà, il concetto è scivolato quasi
silenziosamente al centro della governante occidentale, senza uno straccio di
dibattito serio.
“Mettere
l’economia in assetto di guerra” è stata la direttiva riassunta esplicitamente
dal presidente del “Consiglio d’Europa uscente Charles Miche”l per indicare la
linea ribadita con “Ursula von der Leyen” al momento della conferma alla
presidenza della Commissione europea dopo le elezioni di maggio 2024.
E Mario Draghi, che già nel marzo del ‘22, a
margine del Consiglio europeo a Versailles sulla guerra in Ucraina, aveva
anticipato la necessità di adattarsi a una logica di “war economy,” nel suo
recente Rapporto redatto su incarico della von der Leyen, ha ulteriormente
enfatizzato la prospettiva di una crescita degli investimenti nel settore della
difesa, da ottenere “orientando in tal senso le politiche di prestito della Banca
europea degli investimenti” e da considerare come condizione essenziale perché l’Ue
possa “tenere
il passo con i suoi concorrenti globali”.
Questa
svolta nel senso di un’inedita militarizzazione dello spazio economico europeo
figura tra i primi punti (l’altro riguarda il green deal, ma suona più come residuo
di un’idea già obsoleta che come vera e propria priorità) di un documento
programmatico come questo di Draghi, orientato a un cupo pessimismo sulla
possibilità dell’Europa di sopravvivere alla crisi della propria economia.
Per
certi versi a una vera e propria disperazione.
L’ipotesi di un volume d’investimenti da 800
miliardi di euro all’anno, il doppio del vecchio Piano Marshall in punti di
Pil, assomiglia più che a una possibile soluzione all’heideggeriano “solo un
dio ci può salvare” (infatti nessuno l’ha preso sul serio).
E
forse è proprio questa, della disperazione, la chiave per capire
l’atteggiamento di una (misera) classe politica talmente avvolta nel viluppo di
contraddizioni che non riesce più a controllare né tantomeno a risolvere (la
crisi climatica, l’enorme debito pubblico e privato accumulato, la penuria di
materie prime e di energia, la perdita di egemonia sul contesto globale…), da
essere tentata di rovesciare il tavolo su cui gioca la propria partita mortale.
Un po’ come quei giocatori che prima di subire
lo scacco matto danno il giro alla scacchiera.
E
cosa, meglio della Guerra, può generare questo scarto nelle regole del gioco?
Questo passaggio a un tempo nuovo – il “tempo della Guerra”, appunto – in cui
non valgano più le vecchie responsabilità cui non si era stati all’altezza, e
ognuno può tentare di giocarsi le proprie chances col grado di libertà che solo
il caos può consentire.
Muoia
Sansone con (quasi) tutti i filistei.
Non so
quanto questo” mood grondante thanatos” appartenga ai pensieri consci
dell’élite governante che siede a Bruxelles, o se non operi piuttosto nella
forma dell’inconscio freudiano, producendo tic, lapsus, atti mancati ma
restando al di sotto della linea della coscienza.
E
limitandosi a suggerire un opaco conformismo che rende ognuno di essi
desideroso di “essere come tutti” (i propri “colleghi”).
Ne fa
fede – di questo conformismo avvelenato – un documento a mio avviso
sconvolgente, votato a maggioranza dal neonato parlamento europeo il 28
novembre (390 favorevoli, 135 contrari, 52 astenuti), e contenente
l’equivalente di una dichiarazione di guerra rivolta non solo alla Russia ma a
una parte consistente del mondo.
Un documento verbosissimo, pleonastico, dove
in 21 premesse e 34 punti si intimava alla Russia di ritirare
“incondizionatamente tutte le forze e le attrezzature militari dall’intero
territorio”, col contemporaneo rilascio di tutti “i prigionieri di guerra
ucraini detenuti illegalmente” e il risarcimento all’Ucraina di tutti “i danni
causati alla sua popolazione, alla sua terra, alla sua natura e alle sue
infrastrutture” (col risultato di escludere a priori l’Europa da qualsiasi
funzione di mediazione in vista di una possibile trattativa di pace);
si impegnavano i massimi rappresentanti
dell’Unione Europea “a mantenere il loro fermo sostegno all’Ucraina”
aggiungendo che – testuale! – anche “il presidente eletto degli Stati Uniti
dovrebbe fare altrettanto”;
si
proclamava che “qualsiasi esito che non sia la vittoria dell’Ucraina” sarebbe
considerato “una sconfitta strategica sia per l’Europa che per gli Stati Uniti,
e avrebbe conseguenze di vasta portata per la loro sicurezza”;
si condannava “con la massima fermezza” la
Cina per la “fornitura di beni a duplice uso e di prodotti militari alla
Russia” sottolineando che un rifiuto di cessarne “comprometterebbe gravemente
le relazioni bilaterali UE-Cina” diffidando allo stesso tempo i singoli Stati
europei da un’eccessiva dipendenza dalla Cina che ne minerebbe “la credibilità
quanto alla capacità di salvaguardare la propria sicurezza nazionale e l’UE nel
suo complesso”;
si
sottolineava, di conseguenza, “la necessità di una strategia globale dell’UE
per affrontare le più ampie implicazioni delle alleanze autoritarie, in
particolare tra Russia, Corea del Nord, Bielorussia, Iran, Cina e altri Stati
che mettono a repentaglio l’ordine internazionale basato su regole (in pratica
buona pate del mondo non NATO);
si
approvava entusiasticamente “la decisione del Presidente degli Stati Uniti Joe
Biden di consentire all’Ucraina di utilizzare sistemi missilistici avanzati su
obiettivi militari situati in territorio russo”, e si invitava “l’UE e i suoi
Stati membri a fare altrettanto, cioè a “rafforzare ulteriormente il loro
sostegno militare all’Ucraina, anche attraverso la fornitura di aerei, missili
a lungo raggio, compresi i missili Taurus” deplorando – cosa inaudita! – “il
recente colloquio telefonico del cancelliere tedesco con Vladimir Putin”.
Nel leggerlo, quel documento che porta
l’ermetica sigla “P10_TA(2024)0055”, è difficile sottrarsi alla terrificante
sensazione che siamo già, a nostra insaputa, coinvolti nella Terza guerra
Mondiale.
E vien da chiedersi se davvero quegli oscuri
peones che l’hanno approvata “sanno quel che si fanno”.
Chi
invece sa benissimo cosa fare e cosa pensare, è la piccola schiera dei grandi
burattinai, gli dei asconditi che celati alla vista di noi mortali dalle
distanze siderali che separano le loro fortune da quelle dei comuni terrestri,
disegnano in solitudine le sorti a venire dell’umanità.
Da qualche tempo mi è sorto maligno il dubbio
– giusto un tarlo, per ora, forse frutto di un pensiero patologico -, che
neppure loro – anzi, forse loro per primi – non vadano immuni dall’opzione
“fine del mondo” come possibile soluzione all’impasse attuale.
In fondo, sanno benissimo che la loro
vertiginosa ascesa degli ultimi decenni ha, per molti versi, (quasi) raggiunto
il tetto.
Che il loro celeste impero poggia su
un’iperbolica bolla finanziaria – bolla di carta, dunque – a sua volta
alimentata da un gigantesco debito (degli Stati, dei cittadini, delle grandi
macchine che muovono il denaro).
Che l’espansione del loro potere, in
particolare della famelica capacità estrattiva di ricchezza che non può mai
fermarsi pena il rinculo, ha dei limiti.
Limiti
fisici:
il pianeta resiste, con i propri mutamenti
climatici.
Demografici:
la quantità di popolazione da “mettere al lavoro” non solo come produttori ma
come consumatori, non è dilatabile ad libitum.
Geopolitici:
lo
“spazio liscio” della prima globalizzazione li aveva illusi, ma ora è evidente
che ci sono spazi, anche ampi spazi, -“spazi imperiali” -, che non sono
facilmente penetrabili.
Molti
di questi ospitano quelle “terre rare”, quei materiali fino a ieri marginali ma
oggi vitali per le nuove tecnologie, per appropriarsi dei quali non basta la
vecchia politica delle cannoniere.
In questo stadio, la tentazione della “grande
fiammata”, dello strike che in un colpo solo, sia pur catastrofico, riallinea
tutte le pedine, rende di nuovo liscio lo spazio prima striato e sezionato,
rimette in moto la pompa aspirante della depredazione globale, è davvero così
impossibile da non poter neppur essere concepita?
In
fondo per gente che vive ormai da anni in un iperuranio dorato, senza rapporti
col mondo di sotto che non siano di tipo predatorio, che cosa sarebbero qualche
decina di bombe atomiche, qualche milione di morti, qualche centinaio di città
cancellate?
Tutto
sommato un prezzo accettabile, se necessario per garantirsi la propria
riproducibilità come élite dominante, in un mondo in cui non funziona più
neppure il terrore dell’olocausto nucleare, relativizzato ora dalla possibilità
di selezionarne socialmente le possibili vittime e i probabili sopravvissuti.
Il che spiegherebbe la nonchalance con cui si
è trattata in questi anni la minaccia del ricorso all’arma nucleare nei
quartier generali in cui si decidono le guerre combattute (per ora) dagli altri
ed eventualmente, tra poco, dai “nostri”.
Lo so
che è un pensiero impensabile, questo, che ci sbalza in uno spazio totalmente
altro da quello in cui abbiamo vissuto e viviamo la nostra quotidianità
politica.
Uno
spazio in cui i problemi dell’Europa di cui si è parlato sopra si
relativizzano, perché diluiti in uno scenario che pone il Vecchio Continente
nell’ambito delle variabili dipendenti.
Ma, io credo, è un pensiero con cui dobbiamo,
almeno come esercizio mentale, provare a misurarci.
Se non altro per non doverci trovare
spiazzati, nel momento in cui, almeno in parte, uno scenario simile dovesse
materializzarsi.
E non dover scoprire che mentre ci accanivamo
a pensare al “Che fare con l’Europa cadente del nostro presente – Uscirne?
Restarci?
Provare
a cambiarla? Come? –
eravamo
già in una situazione di Europa caduta.
(Marco
Revelli. È titolare delle cattedre di Scienza della politica).
La
guerra suicida dell’Europa.
Centroriformastato.it
– Michele Prospero - L’Unità” del (30.05.2024) – ci dice:
Le
forze progressiste europee sono sedotte dalla narrazione di una guerra
inevitabile, condotta in nome dei valori occidentali e della democrazia.
La
stessa democrazia erosa all'interno del continente e che solo in una Europa
come progetto di pace potrebbe ritrovare vitalità.
Il
dado è tratto?
È
certo paradossale che mentre incombe la guerra allargata, spacciata ormai
apertamente dalle élite occidentali come un destino cui è vano opporsi, le
elezioni europee si giochino solo sui volti dei leader e sugli effetti di
polarizzazione del gergo colorito di un capo di governo.
Ancor
più assurdo è che a spingere senza alcuna remora per imboccare la via del
confronto armato generalizzato siano le famiglie verdi, liberaldemocratiche e
socialiste.
Alle
correnti progressiste, alle prese con la benedizione delle nuove armi e il
dilemma dell’invio di truppe, serve una evidente carica etica per giustificare
una escalation che dopo un biennio di sangue prenota altre distruzioni.
La
genesi della lunga campagna d’Oriente, ai loro occhi, non può essere scrutata
nelle tangibili pratiche di inimicizia connesse alla dissoluzione di un impero
sconfitto.
La
reale scaturire delle ostilità deve essere rimossa e affogata in una overdose
di buoni sentimenti.
Senza
una mistificante ubriacatura teologica, che evoca continuamente i valori
dell’occidente messi a repentaglio o la sorte dell’intera Europa appesa a un
filo, la guerra di lunga durata chiamerebbe in causa anche i rischi
incautamente prodotti da una illimitata volontà di potenza della NATO.
Comprendere
la complessità, oltre la divaricazione manichea tra Bene e Male, non è
compatibile con il tempo delle bombe salutato come la prova più affidabile per
l’apprensione della Verità.
Eppure
nessuna retorica sulla steppa ucraina quale ultimo terreno metafisico per la
custodia degli stili di vita nostrani potrà cancellare l’impatto sprigionato
dal calcolo smisurato degli americani.
Trent’anni
fa intendevano non solo brindare ai rapporti di forza sorti dopo l’implosione
del nemico, ma stravincere oltre le stesse necessità di una governance
mondiale.
Portando
ovunque le insegne dell’Alleanza atlantica, hanno dilatato la funzione del
patto spingendolo ben al di là dell’originaria missione difensiva.
Tra le
matrici effettive della contesa esplosa con l’“operazione speciale” russa
dominano anche il mancato rispetto della parola data alla leadership sovietica,
la esibizione muscolare di fronte al fatto compiuto del crollo dell’Urss,
l’azzardo di una estensione inaudita dell’influenza su aree che sarebbe stato
prudente mantenere in condizione di neutralità.
Di ciò
si deve tacere, e per ottenere la rimozione delle cause dell’urto bellico viene
gettata l’esca della morale, perché altrimenti la richiesta di una
mobilitazione militare ad oltranza cadrebbe nel vuoto.
Non è
però agevole spegnere d’incanto le ragioni corpose dei contrasti geopolitici e
inoltrarsi nel regno delle favole edificanti.
L’opinione pubblica stenta a credere che
l’esercito russo nel 2022 abbia inaugurato le prove generali per la conquista
dell’Europa.
Pochi
bevono la narrazione secondo cui Kiev rappresenta solo la prima tappa di una
lunga marcia che porterà presto l’armata di Putin sino a Lisbona.
Senza
questa gracile copertura ideologica, che predica un crescendo guerresco come
risposta inevitabile dinanzi alla libertà di tutti altrimenti minacciata, le
forze progressiste non disporrebbero di argomenti utili per coprire i
fallimenti della loro subalternità strategica alle direttive del comparto
politico-militare d’oltreoceano.
Comunque
evolva lo scontro nelle trincee, l’Europa è il sicuro perdente della battaglia
ibrida finita fuori controllo.
Non ha inciso nel governo razionale degli
equilibri geopolitici del dopo Guerra fredda e ha rinunciato in maniera
preventiva a qualsiasi iniziativa politica destandosi a duello ormai scoppiato.
La
scelta di accelerare i tempi, per tramutare senza più infingimenti un conflitto
per procura in un coinvolgimento ancora più diretto nel fuoco, è nient’altro
che il certificato di un suicidio storico dell’Europa.
La
sterilità delle sue antiche culture politiche affiora nitidamente sugli elmetti
allacciati con largo anticipo dai leader della sinistra, che aspirano a essere
le prime linee nella difesa della democrazia sotto tiro.
I
costi sociali ed umani dell’economia di guerra potrebbero però consegnare il
potere proprio alle formazioni illiberali attratte per loro intima convinzione
dal verbo putiniano di tradizione, sacro e “democrazia sovrana”.
Che
dopo “Colle Oppio” anche in Francia la destra radicale abbia per motivi di pura
opportunità afferrato il vangelo atlantico, non cambia i timori di una Europa
imbrunita.
In un
Vecchio continente sempre più tinto di nero, da Roma a Stoccolma, da Budapest a
Parigi, il chiacchiericcio sulla libertà in pericolo per l’assedio di Kiev si
dileguerà.
Con il
trionfo dei partiti che guardano alle democrature, i quali troveranno altro
alimento dalle possibili brutte notizie provenienti dalle presidenziali di
novembre, lo scacco sarà definitivo.
Invece
di perdersi dietro il “chissene-frega” di una statista per caso, la sinistra
dovrebbe dichiarare che il problema principale, quello che fa la differenza
nell’agenda elettorale, è ricercare una soluzione negoziale alla crisi in atto.
Una
sinistra che non sa recuperare il mito dell’Europa nata per l’appunto come un
grande progetto di pace si barcamena tra frasi insensate che la conducono
vicino all’oblio.
Gaza e
Ucraina: va in scena
il suicidio dell’Europa.
Volerelaluna.it – (16-09-2024) - Piero
Bevilacqua – ci dice:
Da
quanto tempo i vari rappresentanti dell’amministrazione USA annunciano come
prossimo il cessate il fuoco a Gaza?
E ora, dopo 10 mesi di massacri, oltre 40 mila
morti, gran parte degli edifici abbattuti, gli ospedali e le scuole rasi al
suolo, centinaia di giornalisti e volontari soccorritori uccisi, la morte
provocata per fame e malattie, non è evidente che essi mentono?
Che i loro annunci sono propaganda di guerra?
Servono
alla campagna elettorale dei democratici, a scrollarsi di dosso un po’ del
sangue palestinese agli occhi del mondo, a cui devono apparire umani e
portatori di pace.
Intanto riforniscono l’esercito di Israele di
tonnellate di bombe.
Ma il
cessate il fuoco a che cosa servirebbe?
Dopo
l’auspicabile restituzione degli ultimi ostaggi israeliani ai parenti, che cosa
accadrebbe?
Non è evidente che per Netanyahu e compagni
non mancheranno mai terroristi di Hamas da bombardare fino a quando nella
striscia rimarrà qualche forma di vita?
Basta
infatti chiedersi:
qual è
il disegno di Israele e degli USA per dare un minimo assetto di pace a quei
territori dopo la tregua?
Questo
disegno non c’è.
Perché
il progetto dei “due popoli due Stati” non è realizzabile, dato che il
territorio palestinese è stato frantumato, deliberatamente ridotto a un puzzle
da Israele, per impedire una qualsiasi configurazione statale.
Mentre
è evidente che il disegno di Tel Aviv è di rendere inabitabile Gaza,
costringere la popolazione a emigrare nei paesi arabi contermini, come fanno
ormai da 77 anni a suon di massacri.
La
grande operazione degli ultimi giorni in Cisgiordania non fa che confermare
questa desolante lettura.
Forte
delle armi e dell’appoggio incondizionato degli USA, tranquillizzato
dall’inerzia o dal sostegno anche militare dell’UE, consapevole della
necessaria prudenza dell’Iran, sostenuto dai grandi media, Israele intende
risolvere la “questione palestinese”, in un solo modo:
annettendosi
il territorio altrui come ha sempre fatto, come continua a fare con la
colonizzazione strisciante e i pogrom in Cisgiordania, incassando senza tanto
dolersi le condanne impotenti dell’ONU.
Dunque
violando il diritto internazionale che USA e UE rivendicano solo in Ucraina.
Questa
rapida sintesi, tuttavia, che tratteggia un ben noto paesaggio d’orrore, ci
porta a parlare d’Europa.
Con
stupefacente furia suicida le classi dirigenti europee non vogliono accorgersi,
che tanto la guerra in Ucraina quanto quella in corso nel Vicino Oriente, fanno
parte di un coerente piano imperiale americano.
Gli USA progettano da anni di ripetere in
Russia quel che hanno fatto in Jugoslavia, cambiare il regime, dominarne e
sfruttarne il territorio, farne un avamposto contro il partner economico più
temuto, la Cina.
La cosiddetta “sicurezza d’Israele”, che tanto
fa palpitare i cuori dei gruppi dirigenti americani è la formula retorica con
cui coprire un interesse vitale: rafforzare la presenza USA nella regione,
impedire la penetrazione cinese e russa che ha nell’Iran il principale punto di
riferimento strategico a venire.
L’altro fine della guerra USA è indebolire
l’economia europea, rendere politicamente subalterna e marginale l’UE.
Qual
è, dunque, l’interesse europeo nel sostenere tale piano?
Nessuno
ce lo ha spiegato.
Nessuno
ci ha mostrato le magnifiche sorti e progressive che ci attendono alla fine di
questa avventura.
Sono sempre più evidenti, al contrario, le
pesantissime conseguenze che ricadono in varia misura sui vari paesi.
Non
solo i danni autoinflitti con le sanzioni alla Russia, il crollo del modello di
sviluppo economico fondato sull’energia a basso costo (che aveva fatto le
fortune della Germania), gli impegni in spese militari crescenti che fanno
deperire il welfare.
La
Germania e la Francia, i due paesi guida dell’Unione, dove Scholz e Macron sono
stati duramente ridimensionati, sono attese dal crollo di equilibri politici
decennali.
In
Germania, il Partito socialdemocratico, una delle più antiche e nobili
formazioni politiche d’Europa, sta scivolando nell’irrilevanza.
Mentre
in questi due anni ovunque è deperita la democrazia, sempre meno i governi
tollerano il dissenso (l’Italia è un laboratorio) e i grandi media hanno
assunto un’opprimente china manipolatoria.
Leggere
i resoconti di guerra di Repubblica o del Corriere (della TV pubblica taciamo)
offre lo spettacolo quotidiano di una subalternità desolante del nostro
giornalismo.
È come se esso non svolgesse un servizio
d’informazione per il lettore italiano, ma diffondesse notizie per conto di una
potenza belligerante straniera.
Ma a una domanda le classi dirigenti UE e il
Governo italiano in primissimo luogo non possono sfuggire:
qual è l’interesse europeo a inimicarsi
l’intero mondo arabo, quello medio orientale e quello nordafricano, appoggiando
senza condizioni la guerra di Israele?
Non è
evidente che privilegiare quel piccolo paese, avamposto degli USA nella
regione, equivale a consegnare il Mediterraneo, il Mare nostrum, alla potenza
d’oltre oceano e, dunque, a privarci di uno spazio strategico per ogni autonomo
progetto a venire verso l’Africa e l’Oriente?
Infine,
ma non ultima questione:
con
quali menzogne i governi credono di nascondere alle proprie opinioni pubbliche
lo sterminio del popolo palestinese?
Basterà
inviare in giro i nostri giovani con le borse Erasmus per convincerli della
nostra missione civilizzatrice?
Non è
evidente che un ceto politico delegittimato sta conservando il suo potere sul
genocidio di un popolo?
L’ennesimo massacro che segnerà la memoria del
secolo, secondo la vecchia tradizione coloniale europea, ma questa volta sotto
gli occhi del mondo intero.
È
sostenuto per conto terzi.
Diventata
un’appendice della Nato, l’UE, infatti, opprime ormai su mandato di altri.
Il
suicidio dell’Ue sull’elettrico.
Fondazioneluigieinaudi.it
- Paolo Bricco 's Author avatar Paolo Bricco (15 Febbraio 2023) ci dice:
Serve razionalità
civile, politica ed economica per analizzare un suicidio civile, politico ed
economico.
L’adesione incondizionata dell’Unione europea
al totem dell’elettrico coincide con la mutilazione di una specializzazione (il
diesel prima di tutto), con la cessione di sovranità tecnologica (l’elettrico è
core business della Cina) e con la prospettiva di una desertificazione
industriale, che comprende sia i carmakers sia la filiera.
Questo
indebolimento dell’Europa delle fabbriche fa il paio con il rafforzamento
dell’America delle fabbriche, che beneficia di un pacchetto di 400 miliardi di
dollari –l’Ira, Inflation reduction act – con sussidi diretti alle imprese e
sconti fiscali alle famiglie per l’acquisto di prodotti green, come le auto
elettriche.
Il
contesto europeo nasce dall’innestarsi di due fenomeni psico-politici prima che
tecno-produttivi:
il
diesel gate tedesco e l’ecologismo radicale, con i suoi tratti da
pseudo-religione.
Il
primo ha oscurato nella opinione pubblica europea ogni significativo
miglioramento nell’impatto ambientale dei carburanti tradizionali.
Il
secondo ha ammantato di moralismo ogni discorso pubblico sulle nuove
tecnologie.
L’elettrico
è assurto a dogma che ha cancellato ogni comparazione approfondita sugli
effetti in Africa, in Sud America e in Asia dell’estrazione e della lavorazione
delle terre rare con cui si fabbricano, per esempio, le batterie.
Questo
dogma astratto ha trascurato gli effetti reali sui cittadini-consumatori:
in
teoria i primi beneficiari, nei fatti le vittime di una selezione “classista”
di portafoglio, perché le vetture elettriche sono in media più care.
Un
dogma ma anche un perno dei nuovi equilibri internazionali, con appunto la Cina
in una posizione di leadership funzionale anche alla cessione di sovranità
tecnologica da parte dell’Europa.
Nell’elettrico servono meno addetti per
produrre una automobile.
E la
componentistica è differente da quella attuale.
In questo contesto esiste l’Unione europea.
Ma
esistono anche la Germania, la Francia e l’Italia.
Con le
proprie specificità.
Sul
piano nazionale per il nostro Paese le cose si complicano.
Nella
dimensione pubblica e nella dimensione privata.
La
Francia con il suo centralismo e la Germania con il sistema misto governo
nazionale-Laender possono finanziare le politiche industriali di transizione
con più agio rispetto all’Italia, perché hanno conti nazionali più in ordine.
L’altro
elemento sono i singoli produttori, appunto, nazionali.
In
ogni tecnologia di frontiera la concentrazione delle risorse tecnologiche e
finanziarie, scientifiche e manageriali avviene in nodi coesi e corposi, come
appunto le grandi imprese, che producono ricadute sulle filiere sottostanti.
I produttori tedeschi hanno reagito al diesel
gate con imponenti piani di investimento sull’elettrico, beneficiando del
connubio con il sistema cinese.
Renault
e Peugeot hanno nel tempo creato noccioli duri sull’elettrico che, adesso,
costituiscono buone radici generative.
Nella dinamica di Stellantis – nata dalla
fusione formale e dall’annessione sostanziale di Fca a Peugeot – il sistema
industriale nazionale italiano sconta un ritardo di trent’anni:
la
gracilità dei cicli di investimenti della Fiat negli anni ’90, la debolezza
patrimoniale sua e di Chrysler e la sfiducia nel modello di business
dell’elettrico di Marchionne hanno favorito lo svuotamento industriale del
Paese di origine, l’Italia, dei suoi marchi, dei suoi centri di ricerca e delle
sue fabbriche.
Questo vale in ogni segmento. Tanto più
nell’elettrico.
La
transizione green dell’Europa?
Una follia che rischia di affossare
l’industria
del Vecchio Continente.
Industriaitaliana.it
- Marco de' Francesco – Flavio Tonelli - (3 Gennaio 2023) – ci dicono:
La
decarbonizzazione è la strada da seguire, ma la ricetta
prescritta
dall'Ue rischia di fare più danni che altro, un vero e proprio suicidio
industriale.
I problemi?
Le
materie prime necessarie per questa trasformazione, come le terre rare, sono in
mano alla Cina, dalla quale rischiamo di dipendere per gli anni a venire.
Cosa
fare quindi?
Incentivare
re-manufacturing e de-manufacturing, investire in ricerca e sviluppo, mappare
le risorse.
Ne abbiamo parlato con Flavio Tonelli.
Sulla
Transizione Green occorre un bagno di realismo.
Di per
sé la decarbonizzazione, l’energia pulita, l’auto elettrica – sono tutti
fenomeni potenzialmente positivi, che non possono che migliorare il mondo in
cui viviamo.
Potenzialmente,
però:
è la modalità, la strada imboccata dalla
Commissione Europea a renderla deleteria, ai limiti del suicidio industriale.
Travolto
da una visione messianica e salvifica, l’ente guidato da “Ursula Von Der Leyen”
ha trascurato di accertarsi che esistessero le basi, i fondamentali per una
simile transizione:
le
materie prime – ad esempio i metalli per le batterie green ma anche le terre
rare per i dispositivi high-tech – e i capitali.
Per
poi scoprire che delle prime (soprattutto le terre rare) non c’è traccia nel
Vecchio Continente, e che quanto ai secondi nessun Paese europeo ne dispone
abbastanza – visto che solo per l’Italia si parla di trilioni di euro.
L’Europa,
così, si consegna alla Cina, che astutamente ha fatto incetta delle materie che
serviranno alla transizione mondiale e quindi “europea”, e che saranno messe
sul mercato a carissimo prezzo.
Al
contempo, la Cina venderà i suoi beni finiti a prezzi inferiori, disponendo dei
fattori produttivi primari.
Una
follia che rischia di cancellare intere filiere industriali.
Che si può fare, a questo punto?
È
difficile superare l’isterismo ambientale che ha ormai tratti millenaristici e
che ha permeato gran parte della società del Vecchio Continente.
La Commissione Europea dovrebbe prendere atto
della propria incompetenza quanto a visione strategica e fare un passo
indietro.
Rallentare
il meccanismo consentendo all’industria di mettere in moto innovazione
tecnologica sostenibile economicamente e socialmente – come per esempio i
processi di re-manufacturing e de-manufacturing – per recuperare e riutilizzare
sistematicamente almeno una parte delle materie di cui l’Europa ha bisogno
sotto forma di materie prime seconde.
Con il
professor Flavio Tonelli dell’università di Genova ripercorriamo tutti i
passaggi delle mega transizioni a cui sono costrette le imprese, soprattutto se
produttive.
Occorre,
soprattutto, tempo – perché le transizioni, laddove vi sono implicazioni
sociali, richiedono tempo.
Il non aver agito per tempo (e questo vale per
tutti i Paesi) non legittima l’agire di fretta e in maniera insostenibile di
oggi:
accelerare
sì, ma laddove siano palesi infattibilità rallentare e aspettare che un
progresso tecnologico reale si possa sviluppare.
Pensare
che dall’oggi al domani si possano sciogliere tutti i ghiacci della Groenlandia
non agevola un pensiero critico e realistico di quella che si annuncia una
transizione caratterizzata più da rischi che opportunità, almeno per l’Europa.
Così
la pensa anche Flavio Tonelli, docente al Dipartimento di ingegneria meccanica,
energetica, gestionale e dei trasporti dell’Università di Genova;
è il professore ordinario di Ingegneria per la
Sostenibilità Industriale e Impianti Meccanici che nel 2007 (cioè 15 anni fa)
presentava a studenti e aziende le prime, preoccupanti, risultanze di studi
raccolti sul tema nell’ambito di una collaborazione di ricerca con l’Università
di Cranfield prima e con quella di Cambridge qualche anno dopo – insieme al
collega Prof. Steve Evans (che a Cambridge dirige il Centro per la
Sostenibilità Industriale).
Lo
abbiamo intervistato.
D:
Qual è il lato debole della strategia europea per la transizione sostenibile
(energetica)?
Flavio
Tonelli, Università di Genova.
R: La
strategia europea sulla transizione sostenibile (di cui l’energetica è una
fondamentale componente), quella che si può sintetizzare con il ‘Green Deal’, è
anzitutto su molti aspetti critici infondata:
non si sono fatti i conti che sarebbe stato
necessario svolgere prima di definirla e metterla nero su bianco.
Ci
sono errori basilari, che ci costeranno parecchio.
Si è
iniziato a pianificarla venti anni fa, partendo da assunzioni opinabili:
le
materie prime si sarebbero potute acquistare in quanto commodity e perché
presenti in ‘infinita quantità’ sulla Terra.
Oggi
sappiamo che questo non è vero;
ma già
nel 2005 vi erano studi che dimostravano la scarsità emergente di molte materie
prime fondamentali.
Le
materie prime, le terre rare erano e sono sempre state asset strategici per
l’industria di un Paese o di un Continente – anche se da poco più di un anno
l’opinione pubblica si sorprende per questo.
Lo sa
bene la Cina ma lo sapeva anche la Commissione Europea nel 2018 quando ha
pubblicato il report “European Commission, Report on Critical Raw Materials in the
Circular Economy, 2018” .
D: Cos’ha capito la Cina, che noi non abbiamo
compreso?
R: La
Cina ha capito due decenni prima di noi (almeno) l’importanza delle materie
prime e di quelle critiche.
Possiede infatti circa il 35% delle terre rare
esistenti al mondo;
altri Paesi importanti sono il Brasile, il
Vietnam, la Russia, l’India, l’Australia e gli Stati Uniti.
Tuttavia,
la Cina è responsabile di oltre il 70% della fornitura globale di questi
elementi, grazie ad una ventennale e accorta politica di accaparramento
(soprattutto in Africa) e di estromissione della concorrenza (soprattutto
statunitense) con la saturazione del mercato.
Che attualmente la Cina Domina. E che
l’Europa subisce.
Ma il
punto è che la teoria europea sulla transizione era già discutibile di per sé.
Le”
critical raw material” non sono in Europa. La Cina domina questo scenario.
D: In
che senso la teoria europea che ha portato alla transizione sostenibile era discutibile?
R: La
transizione sostenibile, così come studiata dall’Europa, non è sostenibile
sotto un profilo industriale, economico e sociale.
Non è un gioco di parole:
per realizzarla in linea con le aspettative
europee a livello planetario e con le correnti tecnologie occorrerebbe
probabilmente cinque o sei volte la quantità di terre rare e metalli scarsi
disponibile sul pianeta.
È un concetto che la Commissione Europea
fatica a mettere insieme, perché è “long distance” e perciò esula dal pensiero
cognitivo immediato e soprattutto mal si concilia con un blocco economico che
di fatto dipende da altri per le materie prime, i metalli e le terre rare.
Per
esempio lo Zinco a prezzo sostenibile di fatto si esaurirà tra sette anni.
Materiali ferro-magnetici necessari alle pale eoliche scarseggiano.
Litio, Cobalto e Stronzio non costerebbero
così tanto se abbondassero – e non parliamo dei metodi estrattivi utilizzati
nei Paesi in cui sono presenti.
L’obiezione
a questa verità di fatto è che si potrebbe scavare di più.
Certo, ma a quali costi?
E se un giorno un Kg di Litio costasse 100mila
euro, chi lo acquisterebbe mai – soprattutto in vista di una transizione di
massa?
Un
processo trasformativo di massa dovrebbe considerare la capacità disponibile di
materia prima a prezzo economico;
non
aver pensato a ciò ha determinato quindi due importanti conseguenze.
Lista
delle raw materia critiche per l’Europa (dati commissione europea).
D:
Quali importanti conseguenze?
R:
Anzitutto che la transizione “sostenibile green” sarà fruibile per una piccola
porzione della popolazione;
per le persone con importanti risorse
economiche che sì e no potranno esser il 2% dell’umanità – e quindi sarà
implicitamente “non di massa”.
Sarà in grado di impattare sui problemi
mondiali solo in minima parte.
In secondo luogo, che questa rivoluzione non è
sostenibile neppure a livello ambientale:
se devo trattare tonnellate di materiale per
estrarre materie prime scarse, critiche o rare, ciò comporta, specie nei luoghi
di estrazione, un fabbisogno energetico
cui si sopperisce utilizzando combustibili tradizionali.
Ad esempio, per realizzare una batteria per
auto green, che pesa anche più di mezza tonnellata, bisogna lavorare 10
tonnellate di sali per il Litio, 12 di minerale per il Rame, 2 per il Nichel,
15 per il Cobalto e così via, movimentando 200 tonnellate di terreno.
E
tutto ciò attualmente si verifica dove ci sono le miniere, con vecchie
attrezzature a gasolio o alimentate da elettricità ottenuta da centrali a
carbone.
Insomma:
si sposta l’inquinamento dall’autovettura in
Europa all’attrezzatura in Asia o in Africa.
Di
fatto, considerando l’intero ciclo di vita, attualmente un veicolo “green”
inquina più o meno come un veicolo euro 6b-7 senza contare che con l’attuale
scenario energetico la ricarica viene effettuata utilizzando energia prodotta
in larga parte con combustibili fossili.
Come scrissi in un precedente articolo diversi
mesi fa è una truffa ai danni del consumatore oltre ad un danno sociale ed
economico.
L’attuale
configurazione che si sta tentando di mettere in atto non è basata su un
pensiero razionale tecnologico e temporale realistico.
Economia
circolare e critical raw material.
D:
Quindi la transizione green, nella versione EU, è insensata?
R: Al
netto della Germania, tutto il resto dell’EU produce emissioni per il
4,5-4,8%%.
Con la
Germania, facciamo meno del 10%.
L’Italia
fa lo 0,8%.
Se in
EU, con un investimento multi-trilionario diminuissimo la CO2 del 50%,
cambierebbe poco a livello globale, perché nel frattempo la Cina e l’India,
avrebbero comunque non solo compensato il nostro calo percentuale, ma
complessivamente aumentato le emissioni globali.
Basti
pensare, a titolo di esempio, che sulla scorta dell’attuale ritmo di crescita
delle emissioni indiane (attualmente a quota 13% su scala globale), New Delhi
impiegherà meno di un anno per colmare gli sforzi tricolori al 2050.
E nel
frattempo la nostra industria sarebbe in ginocchio e nelle mani dei pochi paesi
che possiedono ‘energia’ e ‘materie prime, critiche e rare’.
D:
Quindi l’Europa finirà nelle mani di Pechino?
R: Non
solo di Pechino.
Riflettiamo
sul meccanismo in atto:
da una
parte noi dobbiamo indebitarci per una transizione costosissima in tempi, modi
e tecnologie che non sono razionalmente fondati, il che mette seriamente a
repentaglio nel breve orizzonte l’intero tessuto industriale europeo.
Dall’altra
non possediamo le basi per questa trasformazione:
le materie prime (soprattutto critiche e rare)
e i capitali.
Abbiamo
appena detto che le prime sono nelle mani di pochissimi paesi al mondo, che
ovviamente penseranno anzitutto a rifornire la propria industria, cedendo
eventuali surplus al mercato a prezzo altissimo, per annientare la concorrenza.
L’attuale
instabilità geopolitica gioca ulteriormente a sfavore di questa strategia per
l’EU.
Supponiamo
che la questione di Taiwan giunga a tensione estrema:
Usa e Cina sarebbero ai ferri corti, più di
quanto non lo siano adesso;
a quel punto, in ottemperanza ai nostri
accordi l’EU si schiererebbe con gli alleati, e patirebbe la riduzione dei
flussi dei fattori produttivi primari dai quali è dipendente.
Abbiamo
la capacità tecnologica (che per altro stanno recuperando anche gli altri
paesi) ma a mancare saranno i fattori di produzione a monte.
In
questo o in altri casi simili cosa si farà?
Si
chiuderà tutto il sistema industriale?
I
prezzi delle raw material preoccupano le aziende (consultancy.uk, 2021.)
D:
Perché possiamo dire che la “transizione sostenibile” (green) è costosissima?
R:
Probabilmente è così costosa da non potercela permettere, almeno per alcuni
paesi EU.
Secondo
un recente studio Ambrosetti, occorre un miliardo di euro per ogni giga di
potenza installata con le rinnovabili;
e
secondo un’altra analisi dello stesso gruppo professionale di consulenza, per
la decarbonizzazione del Paese al 2050 servono almeno 3,3 trilioni di euro in
termini di investimenti.
Una
somma enorme, pari a circa il doppio del Pil dell’Italia.
Insomma,
per mettere a terra il green sostenibile occorrerebbe indebitarsi con un
“debito insostenibile”.
È una
follia totale.
D: E
allora qual è la soluzione?
R:
Anzitutto bisognerebbe chiedere alla Commissione Europea un bagno di realismo:
dal
momento che l’EU è un blocco economico tra i più virtuosi su questi temi,
possiamo adesso puntare ad una trasformazione del modello economico e
produttivo con i tempi richiesti dall’industria e non dal fanatismo –
salvaguardando l’altra nostra grande conquista, e cioè lo stato sociale
evoluto.
E questo sarebbe già un primo passo
importante.
L’Europa
ha quote di fornitura molto basse in termini di critical raw material.
D: E
quale sarebbe il secondo passo?
R:
Occorrerebbe fare un’analisi seria, una mappatura delle risorse che abbiamo a
disposizione, come EU e come Italia, ragionando in termini di differenziazione:
non
necessariamente al costo più basso ma al minor rischio di dipendenza
geo-strategica.
Su
questo il Mise ha recentemente stimolato una Azione.
Portare
avanti la transizione senza uno studio di questo genere è assolutamente
imprudente e pericoloso.
Ancora, bisognerebbe mettere in piedi i
processi in grado di sopperire alla nostra cronica carenza di terre rare e
materie prime, metalli almeno in quella minima parte da poterci garantire
sopravvivenza economica e industriale – e poter ricercare, in caso di problemi,
soluzioni alternative senza esser costretti a interventi radicali o a dover
fermare o dismettere il nostro patrimonio industriale, economico e sociale.
D: E
quali sono queste soluzioni per sopperire alla carenza di terre rare e materie
prime critiche e ridurre i consumi energetici per la produzione di beni?
Airbus
è una delle aziende che più applica, per la sua produzione, il remanufacturing.
R: Ad
esempio il re-manufacturing:
significa
smontare un prodotto o un componente già utilizzato, rimetterlo a nuovo e
riportarlo sul mercato per diversi cicli vita.
E
soprattutto il de-manufacturing:
in
genere si intende una pratica in base alla quale un prodotto viene smontato e i
pezzi ancora funzionanti vengono recuperati e rigenerati, in modo da poterli
riutilizzare per la produzione di uno nuovo o similare;
viene
immesso sul mercato anche a un prezzo più basso ovvero riciclato per mitigare
la scarsità di approvvigionamento cronica nella quale siamo e saremo.
Per
fare un esempio, in un frigorifero rotto c’è un vero e proprio tesoro:
quasi 30 kg di ferro, 3 kg di rame, e 3 di
alluminio e una certa quantità di fluoro-cloro carburi.
Oggi
con magneti e strumentazioni vibranti si può recuperare una quota compresa tra
il 50% e l’80% dei materiali, con un forte abbattimento dei costi di
produzione. Processi simili possono essere immaginati per recuperare materie
prime e terre rare da batterie, pannelli solari, pale eoliche.
Aggiungo
che l’Italia è all’avanguardia per la progettazione e realizzazione di
macchinari industriali ivi inclusi quelli che effettuano questo tipo di
operazioni.
Quindi
non solo avremmo la tecnologia in casa ma potremmo anche svilupparla in
anticipo rispetto ad altri paesi più indietro, per poi poterla rivendere tra un
certo numero di anni quando la transizione sostenibile diverrà una vera
emergenza e priorità per tutti.
Oltre
a questo, la parallela “industria della demani fattura” avrebbe il merito di
creare posti di lavoro “speculari” a quelli tipicamente impiegati per produrre.
Come è
evidente saremmo all’avanguardia tecnologica, industriale, economica e sociale
con diretti benefici di tipo ambientale.
Naturalmente,
si tratta di discorsi che riguardano non solo la singola fabbrica, ma un’intera
filiera, che deve organizzarsi per far funzionare le cose in un certo
modo.
Tutti
i passaggi del sistema devono essere collegati e operativi all’unisono, correre
alla stessa velocità, senza che nulla sia trascurato.
Perché
il meccanismo funzioni, bisogna mobilitare e collegare in rete le parti
interessate di tutti i settori relativi ad una certa risorsa.
Va creato un “circuito chiuso” o circolare.
Per questo occorre tempo, perché bisogna
risolvere delle questioni di grande complessità – e per queste non esistono
risposte semplici.
E
tutto questo forse non basterà.
D: E
cosa servirà, infine?
R:
Ricerca e sviluppo oltre che su nuovi processi sui materiali.
Bisogna identificare tecnologie alternative a
quelle che prevedono l’utilizzo di materiali di cui non disponiamo o di cui non
disporremo (e questo vale a livello mondiale).
Ad
esempio, al posto delle batterie agli ioni di Litio, trovare qualcos’altro.
Già si pensa ad accumulatori al grafene, o a
elettroliti solidi ossidi, solfuri e polimerici.
Sicuramente
fra qualche anno ci saranno altre novità – sia sul versante della produzione e
accumulo di energia che sull’utilizzo dei materiali. Certo che anche qui, per
tradurre le invenzioni in una pratica industriale occorreranno dai dieci ai 15
anni.
Per
questo serve rallentare con la transizione green, prendere un po’ di respiro e
renderla “sostenibile”.
Elementi
chimici embedded nelle batterie a ioni di litio.
D:
Secondo lei la Commissione Europea allenterà i tempi della transizione?
Come finirà?
R:
Non
so, perché con il Green Deal e con il Fit for 55 la Commissione sembra entrata
in una fase di demagogia ambientalista che potrebbe far fallire il sistema
industriale europeo.
Ascolto
ogni tanto dichiarazioni circa la nostra presunta capacità di far fronte a
queste sfide che contrastano con i fatti di chi di industria e manifattura si
occupa da decenni – e che da decenni studia e sviluppa soluzioni dimostrando
una scarsa consapevolezza della gravità della situazione:
non
tanto dal punto di vista del principio ma dal punto di vista delle soluzioni.
Credo
che stia al mondo industriale della manifattura e della produzione alzare la
testa e rendere palese che, a queste condizioni, la transizione “sostenibile”
presenta più rischi che opportunità.
Purtroppo
non sono certo che questo mondo si mobiliterà o temo che lo faccia troppo tardi
rispetto alle evidenze di cui disponiamo da almeno 15 anni.
Così
l'ideologia pacifista rischia
di
trasformarsi nel suicidio dell'Europa.
Ilgiornale.it
- Roberto Fabbri – (25 Aprile 2024) – ci dice:
«L'ideologia
pacifista: l'ultima grande tentazione nichilista e suicida dell'Europa».
È il
sottotitolo di “La forza della vertigine”, brillante saggio pubblicato dal
filosofo francese André Glucksmann nel 1984, esattamente quarant'anni fa.
Quarant'anni che sembrano trascorsi invano,
all'insegna del sempre veritiero slogan «La Storia non insegna mai nulla».
Perché
quello che succedeva allora, negli anni in cui l'Unione Sovietica di Yuri
Andropov tentava di soggiogare l'Europa occidentale puntando sulle nostre città
i famigerati missili SS-20 con testata atomica, somiglia maledettamente a ciò
che succede oggi mentre la Russia di Vladimir Putin minaccia l'Armageddon
nucleare se oseremo davvero difendere la libertà dell'Ucraina che ha invaso
(che poi è la nostra):
stuoli
di pacifisti a senso unico si stracciano le vesti e invocano la resa preventiva
pur di aver salva la vita.
Allora
le cose erano più nettamente divise in campi ideologici contrapposti.
Gli
slogan disfattisti alla moda come «Meglio rossi che morti» venivano dal campo
comunista, per quanto malamente dissimulato, gli intellettuali e gli artisti
che mettevano sullo stesso piano il nostro mondo libero con quello totalitario
sovietico (ricordate Sting con il suo celebre «Russians»?) si dichiaravano di
sinistra, in Italia le oceaniche manifestazioni «per la pace» che vedevano
mescolate la bandiera multicolore già usata per boicottare la nascente Nato
trent'anni prima e immagini drammatiche alla «Day after» erano gestite dal Pci.
Il cui
vero obiettivo, però, non era la pace, bensì impedire che il vecchio cowboy
della Casa Bianca Ronald Reagan rispondesse agli SS-20 sovietici con i suoi
Cruise, schierandoli (come invece alla fine avvenne) in Germania, in Italia e
in Olanda.
Fu
così, e certo non per le sceneggiate dei «pacifisti», che quarant'anni fa
salvaguardammo la pace e soprattutto la libertà.
Ristabilendo
l'unico equilibrio che le garantisce, quello della reciproca distruzione
assicurata che fa sì che nessun detentore di arsenali atomici si azzardi mai a
usarli.
Oggi
molti aspetti della situazione sono simili:
da due
anni la Russia brutalizza l'Ucraina e ciclicamente minaccia l'Europa di
aggressione nucleare se oserà difenderla fino in fondo.
Putin ha già schierato missili a corto raggio
con testata atomica nell'asservita Bielorussia e nell'exclave baltica di
Kaliningrad per intimidirci.
Il Pd
in coma, Gualtieri, i pm anti Salvini: i peggiori della settimana.
Ma
salta fuori la Polonia, che quei due territori li ha a un passo, e si dice
disponibile a ospitare armi atomiche Nato per riequilibrare la situazione, cioè
per garantire la pace.
Ed
ecco che partono i riflessi pavloviani dei «pacifisti», oggi numerosi anche a
destra:
i polacchi sono «irresponsabili», così come il
presidente francese Macron che parla troppo volentieri di difesa comune.
Come
allora, neanche una parola contro Mosca che questa guerra l'ha scatenata e che
è pronta a portarcela in casa.
Ma
come quarant'anni fa, a salvarci non saranno i cala braghe che s'illudono che
basti strizzar l'occhio al bruto di turno per poter continuare a vivere nel
mondo di “Fabuland”:
saranno
le idee chiare che aveva Glucksmann («né rossi né morti») e i missili per
proteggerci.
"Sharia
e fondamentalismo:
vi spiego i rischi della nuova Siria."
Ilgiornale.it
- Chiara Clausi – (24 Gennaio 2025) – ci dice:
"Sharia
e fondamentalismo: vi spiego i rischi della nuova Siria."
"La
Siria continuerà ad essere un Paese fallito, preda delle potenze regionali e
globali, interessate soltanto ai loro obiettivi strategici”.
“Arshin
Adib-Moghaddam”, professore di “Global Thought and Comparative Philosophies”
alla SOAS di Londra, non usa giri di parole per descrivere il futuro della
nazione appena uscita dalla guerra civile.
“Moghaddam”
è anche autore di "What is Iran?" (Cambridge University Press, 2021),
un libro sulla Repubblica islamica, player importante in questo contesto.
Qual è
l'ideologia del nuovo governo in Siria?
È
un’ideologia intrisa di un’adesione "neo-fondamentalista" all’Islam
politico e di una lettura letterale della Sharia, con spazio limitato per
l'innovazione.
Questa
è una nozione di politica, cultura e società che è vicina allo spettro
dell’islamismo di destra.
Naturalmente,
questa ideologia si scontra con le realtà della società siriana, con la sua
composizione etnica a mosaico, le minoranze religiose e decenni di laicismo
sotto l'ancien regime del partito” Ba'ath” siriano guidato dagli “Assad”.
Che
cosa potrebbe significare l'influenza della Turchia sulla Siria?
Ci
sono due fattori da considerare qui:
la
Turchia è il principale sponsor di “Hayat Tahrir al-Sham” (HTS) e la principale
preoccupazione per la sicurezza nazionale del governo di Ankara è la questione
curda, che lo stato turco non è mai riuscito a risolvere.
Quindi
qualsiasi mossa verso l'autonomia curda verrà contrastata.
In secondo luogo, “HTS” sta guidando la
transizione di un panorama politico fratturato, afflitto da un immenso vuoto di
sovranità statale, ovvero la capacità di governare è incredibilmente limitata.
Questa mancanza di sicurezza probabilmente
esacerba la situazione delle minoranze, che sono sempre state le prime a
soffrire di instabilità in ogni contesto insicuro.
I curdi, gli alawiti e altre minoranze stanno
già sopportando il peso dell'insicurezza e dell'assenza di una chiara via
d'uscita.
Potrebbe
peggiorare la condizione delle donne?
La
posizione predefinita di movimenti come “HTS” è una incredibilmente retroattiva
dell'Islam e della Sharia, e si basa in gran parte su una lettura letterale del
Corano e degli Hadith.
Ciò
suggerirebbe che i diritti delle donne saranno limitati, certamente nella sfera
pubblica.
Come
potrebbero evolvere le relazioni tra Siria e Occidente?
L'Occidente
è sempre più frammentato lungo linee sociali, culturali e politiche, una
tendenza che sarà esacerbata dall'imminente presidenza Trump.
Quindi
dobbiamo fare delle distinzioni.
L'amministrazione Trump terrà in gran parte
gli Stati Uniti fuori dalla Siria, mentre le nazioni europee aspetteranno e
vedranno cosa succede nel Paese, allo stesso tempo fin troppo ansiosi di
fermare il flusso di rifugiati siriani, un punto fermo nei manuali politici
della risorgente destra europea.
Prima
di tutto, l'Ue è sempre più ostaggio della sua stessa incapacità di leggere la
politica mondiale in generale e l'Asia occidentale in particolare.
Pertanto,
le politiche estere sono poco competenti, ovvero l'opportunismo a breve termine
sostituisce l'acume strategico intelligente.
Le
richieste di democrazia e diritti umani suonano vuote su una scala senza
precedenti, limitando seriamente la capacità dell'Ue di agire come una potenza
diplomatica per apportare un cambiamento positivo in Siria e altrove nel mondo.
Quale
sarà il ruolo degli Stati Uniti e di Israele in questo paese?
E della Russia e dell’Iran?
Lo
stato israeliano vuole una Siria debole, incapace di rappresentare una sfida
militare, internamente fratturata e quindi incapace di rivendicare le alture
del Golan occupate e/o promuovere la causa palestinese.
Gli Stati Uniti concordano con questo
approccio, il che spiega perché l'aviazione israeliana e statunitense abbiano
sostanzialmente distrutto la capacità militare dell'esercito siriano.
La Siria non ha petrolio, quindi non c'è un
vero premio imperiale da vincere qui, al di là di quei calcoli geopolitici.
Russia
e Iran, entrambi non erano disposti a sostenere il regime di Assad e sono
distratti dalle loro guerre e dai loro scontri militari.
Ho
spiegato le dinamiche nel mio "What is Iran?", che espone la rivalità
geopolitica in modo più dettagliato.
Entrambi
i paesi cercheranno di riaffermare la loro influenza in Siria, poiché il Paese
continua a essere una piattaforma importante per la loro strategia regionale.
In assenza di un consenso, guidato da una
spinta della diplomazia internazionale tramite le Nazioni Unite, prevedo che la
Siria continuerà a essere uno Stato fallito e che la popolazione civile
sopporterà il peso di questa instabilità in corso nella sua difficile esistenza
quotidiana.
I veri
perdenti di tutto questo sono stati i siriani, che sono stati costretti ad
abbandonare il loro paese, hanno sofferto al suo interno e continuano a
sopportare il peso della brutalità politica, a causa dell'incapacità e della
riluttanza delle classi politiche a sostenere la pace e la stabilità in Siria e
della più ampia regione dell'Asia occidentale.
L’origine
ideologica delle
idee
di mutamento e di sviluppo.
Oikonomia.it
- Alberto Lo Presti – (15 – ottobre –
2024) – ci dice:
Solo
pochi anni fa le due principali categorie che gli economisti, i sociologi, gli
storici, gli antropologi, adottavano in molti frangenti della propria attività
intellettuale erano quelle di sviluppo e di mutamento.
Si
studiavano i fenomeni storici e sociali agitati dall’onda delle profonde
trasformazioni sociali e civili che stavano rapidamente sconvolgendo gli
scenari planetari, preoccupati per l’emergenza di nuovi problemi globali e di
nuove minacciose questioni che potevano coinvolgere lo stesso destino del
genere umano.
Nacquero
nuove teorie del mutamento e i metodi della pianificazione sociale, la
sociologia e l’economia dello sviluppo, e altri settori importanti, che hanno
costruito un filone importantissimo (e celebrato) delle scienze sociali.
E
oggi? Sembrano temi passati di moda, che hanno perso la loro forza propulsiva.
Fusi nel grande, e confuso, calderone concettuale del globalismo, stanno
lentamente regredendo a categorie storiche utili per comprendere un certo
passato.
La
loro caratura operativa si è sbiadita, lo spessore disciplinare pure.
Questo
contributo vuole mettere in rilievo il carattere ideologico che tali categorie
hanno posseduto fin dalla loro origine, e con ciò spiegare la parabola
concettuale del mutamento e dello sviluppo ricorrendo all’esaurimento della
spinta ideologica iniziale.
Come a
dire:
le
categorie di mutamento e di sviluppo, oggi, sopravvivono a stenti, perché il
carattere ideologico che ne aveva nutrito gli orizzonti è tramontato.
Una
ideologia, la loro, che pur innestandosi su quelle sorte nel diciannovesimo
secolo, aveva prodotto significati propri, prospettive nuove, che oggi,
appunto, sono state soppiantate dalla globalizzazione incipiente e tracimante
in ogni aspetto del pensiero contemporaneo.
1.
Dalla Rivoluzione proletaria alla Rivoluzione manageriale.
Ad
avviso di “Karl Polanyi”, il diciannovesimo secolo fu uno fra i secoli più
tranquilli che la storia ricordi.
Al di là di qualche insurrezione interna e di
qualche conflitto localizzato, generalmente si potè conservare un generale
livello di pace.
È noto il ruolo che” Polanyi” assegna all’alta
finanza in questo gioco di equilibri geopolitici e ideologici, ed è altrettanto
noto come questa tesi di Polanyi non abbia trovato sempre consenso fra gli
storici.
Di
sicuro, ogni valutazione sul diciannovesimo secolo risente delle convulse
vicende storiche del secolo successivo.
Come
se il diciannovesimo secolo non si ponga in altro modo se non in un’ottica
“introduttiva” a quello che Hobsbawm definisce “secolo breve”, cioè il
ventesimo secolo, quello dei “grandi cataclismi”.
Le
trasformazioni del ventesimo secolo non furono solo di natura politica, non si
trattò solo di un’epoca segnata dal crollo dei grandi imperi secolari, da due
guerre mondiali, dalle grandi rivoluzioni e dalla conseguente costruzione di
imperi geopolitici, da altre rivoluzioni di minore portata ma ugualmente assai
significative, dalla travolgente avanzata dei regimi fascisti e dei
totalitarismi.
Fu anche il secolo dello spostamento del
baricentro politico ed economico dall’Europa al nord America e nel quale si
portò a compimento quella che spesso viene identificata come seconda
rivoluzione industriale.
Di
fronte al suo svolgersi, si deve riconoscere che il ventesimo secolo segna
un’era nella quale l’uomo si è adoperato per diminuire le incertezze del suo
futuro e, all’insegna della progettazione e della pianificazione della sua vita
quotidiana, ha fatto dell’avvenire una specifica ragione tecnico-sociale.
In modo un po’ provocatorio, si potrebbe dire
che i primi futurologi del ventesimo secolo sono stati i vari Taylor, Ford,
Beveridge, Keynes.
L’avvenire,
nel ventesimo secolo, si tecnicizza, diventa materia di progetto e di
strategia.
Abbandona
l’esclusività della sua dimensione ideologica e politica e si trasferisce nel
campo dell’azione e dell’organizzazione.
La
descrizione più suggestiva delle trasformazioni in atto, dal punto di vista
ideologico, ci è provenuta probabilmente dal filosofo “James Burnham”, il quale
espresse il cambiamento in atto in termini di passaggio dall’ideologia
rivoluzionaria alla rivoluzione manageriale.
Burnham
propose la rivoluzione manageriale quale risposta definitiva alle vecchie
contrapposizioni fra capitalismo e socialismo.
La sua
previsione fu la seguente:
in mezzo secolo, il regime capitalista, con la
sua ideologia liberale, con la divisione della società secondo la
contrapposizione fra proprietari e proletari, sarà spazzato via da una pacifica
e silenziosa rivoluzione che porterà al potere una «nuova classe sociale»,
munita di una propria coscienza di classe e di interessi specifici:
la classe dei manager, cioè di quei gestori
del processo produttivo che, di fatto, già controllano i mezzi di produzione.
In effetti, Burnham aveva già di fronte
l’esperienza sovietica, nella quale la classe dei burocrati e dei tecnocrati
stava rendendo vane le attese del più genuino socialismo, ma rilevante era la
sua pretesa di estendere questo meccanismo anche alle società capitalistiche.
Le
profezie di Burnham si completavano con la suddivisione delle aree del mondo in
funzione del predominio delle classi manageriali nei rispettivi luoghi di
influenza.
L’universo gestito dai manager avrebbe dovuto
trovare il seguente ordine:
l’area di influenza degli Stati Uniti, l’area
della Germania, quella del Giappone (si osservi come l’Unione Sovietica,
nell’intenzione di Burnham, avrebbe dovuto seguire una ulteriore divisione fra
l’area d’influenza orientale, quella giapponese, e quella invece europea e
tedesca).
Questo
passaggio da un avvenire “politico” a uno “strategico e manageriale” è meno
brusco di quanto possa apparire.
O almeno così spera di chiarire
l'articolazione dei temi affrontati in questo capitolo.
2. Lo
Sviluppo e l’occidentalizzazione del mondo.
Preliminarmente,
si può cominciare con l’osservare che il concetto di sviluppo non coincide con
quello di crescita.
Nell’idea
di sviluppo è contemplato un arrivo, un fine, una piena maturazione, che nella
generale idea di crescita può non essere presente.
La presenza di questo elemento teleologico
indica la positività connessa al processo di sviluppo.
Per
esempio, la maturazione personale - cioè lo sviluppo del comportamento - è
sempre una cosa giusta e raccomandabile.
Un
altro carattere dello sviluppo, più o meno generalmente inteso, è quello della
continuità.
Nello
sviluppo c’è una progressione, magari lenta, senza bruschi salti o gravi
interruzioni.
Il
cambiamento avviene con continuità e ogni stato nuovo dipende dal precedente
secondo una concatenazione metodica.
La
progressione può essere descritta da tappe successive.
In ultimo, il concetto di sviluppo spesso
sottintende una certa irreversibilità generale del mutamento in atto.
In
questa sintetica descrizione dei caratteri dello sviluppo, riusciamo in modo
visibile ad accertare il facile connubio che si stabilisce con il concetto di
sistema.
È proprio del sistema procedere verso uno
stadio non solo successivo, ma in un certo senso “superiore”, senza che si
verifichino brusche trasformazioni, per cui quasi sempre un nuovo stato di
equilibrio è stato raggiunto in conformità ad alcuni caratteri rinviabili allo
stato d’equilibrio precedente.
Spesso
si pensa che il concetto di sviluppo sia sorto nel ventesimo secolo, e in
particolar modo nel secondo dopoguerra, quando l'ordine internazionale, le
forme di interazione economica e l'estensione dei mercati, crearono condizioni
nuove per il cambiamento sociale.
In realtà, l'origine delle concezioni sullo
sviluppo, tenendo comunque presente la distinzione dai concetti di progresso,
crescita, modernizzazione, è ben radicata nel diciannovesimo secolo.
Storicamente,
nel diciannovesimo secolo lo sviluppo è pensato unicamente in termini
immanentistici, secondo il modello esemplare del caso indiano.
Si fa
notare che John “Stuart Mill “scrisse il suo “Logic and Principles of Political
Economy”, una pietra miliare per la formulazione del concetto di sviluppo,
mentre era un impiegato delle “British East India Company”.
Lo sviluppo del capitalismo indiano fu il
risultato dell'abbattimento di una struttura di valori sociali tradizionali e,
sulle forme etiche e sociali da riscrivere daccapo, si inserirono i semi del
nascente e progrediente capitalismo borghese.
Ovviamente,
si tratta quindi di un concetto immanente che rivela, però, una precisa
dimensione di «tutela» (trusteeship) politica ed economica, assicurata da una
realtà politica ed economica (il sistema inglese nel caso specifico indiano)
che aveva i mezzi per autodefinirsi sviluppata e per esercitare il potere del
proprio sviluppo:
«without trusteeship there is no devllopment
doctrine».
È
l'origine del significato spesso ideologico che il concetto di sviluppo ha
assunto e si è trovato, in alcune circostanze, a mantenere ancora oggi.
Probabilmente,
spetta a “Walt W. Rostow” il titolo di caposcuola dei teorici dello sviluppo.
«Tutte
le società, per le loro caratteristiche economiche, possono essere classificate
in una di queste cinque categorie:
la
società tradizionale, la fase delle condizioni preliminari per il decollo, il
decollo, il passaggio alla maturità e il periodo del grande consumo di massa».
Il “programma teorico di Rostow” è ben
illustrato da questo suo celebre schema dello sviluppo storico. In pratica,
tutti i sistemi socio-economici hanno un divenire segnato dallo sviluppo,
pensato stadio per stadio, metaforicamente assimilato alle fasi del decollo di
un aeroplano, fino alla conclusione ideale di un benessere scandito dal
consumo.
L’opera si costruisce su di una ricca e
completa documentazione di carattere storico e statistico, la quale gli
consente di condurre un’analisi comparata dello sviluppo di società industriali
differenti, fra Europa e America del Nord, l’India, la Cina, il Giappone e
anche l’America Latina.
La
visione di Rostow è quanto mai sociocentrica. Probabilmente, risente del clima di
confronto fra il sistema occidentale e quello sovietico, che “Rostow” si ostina
a chiamare russo.
Innanzitutto, le società tradizionali, quelle
precedenti a qualsiasi discorso di sviluppo, sembrano rappresentare in Rostow
il punto zero di qualsiasi condizione storica.
Esse
sono dominate dalla scarsità e da una certa immobilità che sembra farne delle
società in perenne stato di coma civile.
Queste società non hanno che l’aspirazione di
trovare quell’impulso organizzativo, scientifico o di chissà che altro tipo, in
grado di consentire un aumento della produzione.
Eppure,
gli studi antropologici hanno da tempo messo in rilievo come questa condizione
non sia affatto reale e fra le società tradizionali si riconosce non un
impedimento oggettivo alla crescita della produzione ma un rifiuto culturale
all’accumulazione.
Proseguendo nello schema dello sviluppo di
Rostow, durante il periodo nel quale si realizzano le condizioni preliminari
per il decollo
«si
diffonde […] l’idea che il progresso economico non solo sia possibile, ma che
esso sia una condizione necessaria per qualche altro scopo, ritenuto buono, si
chiami esso dignità nazionale, profitto privato, benessere generale, o una vita
migliore per i figli».
In pratica, assaporato il profumo della
modernità, ogni società politica assume un unico scopo:
completare
il percorso, prendere il volo, decollare verso lo sviluppo.
Il
decollo (take off, e tale concetto ebbe subito una grande fortuna nel
linguaggio dei teorici dello sviluppo):
«è l’intervallo in cui le vecchie remore e
resistenze a un deciso sviluppo sono definitivamente superate.
Le forze tendenti al progresso economico, che
avevano prodotto solo limitate eruzioni e isole di attività moderna, si
espandono e giungono a dominare l’intera società.
Lo
sviluppo ne diviene condizione normale.
L’interesse
composto viene per così dire incorporato nel costume e nella struttura
istituzionale».
Si
osservi come il passaggio al costume e alla struttura istituzionale riproponga
nello schema di Rostow la condizione materialistica del pensiero marxista
dell’anticipo logico (se non cronologico) fra la struttura economica e le
sovrastrutture.
Lo sviluppo, cioè, investe tutte le dimensioni
dell’agire umano-sociale e, a questo punto, niente potrà più essere come prima
e la nuova modernità soppianta, e rinnega, la tradizione.
Infine,
si ha la maturazione del processo iniziato così da lontano, cioè il periodo del
grande consumo di massa, caratterizzato dal fordismo americano, cioè dalla
re-distribuzione ai lavoratori degli aumenti di produttività al fine di
accrescere il consumo, con annesso sistema previdenziale.
Attorno
al pensiero di Rostow si accese una polemica notevole.
I
limiti della sua impostazione sono evidenti.
Egli
tratta le civiltà come fossero delle libere e indipendenti organizzazioni che
devono trovare al proprio interno la sollecitazione allo sviluppo.
Il «ritardo» di una rispetto ad un’altra, in
questo senso, sembra essere solo imputabile a motivi interni alla sua struttura
sociale.
È
esclusa, quindi, la spiegazione forse più appropriata alle differenze nel
livello di sviluppo, cioè quella che vuole l’arretratezza di alcune civiltà
imputabile all’arricchimento senza scrupoli di altre.
Fra
l’altro, se l’obiettivo di Rostow era quello di costruire una teoria
politico-economica alternativa a quella di Marx, di fatto il suo tentativo ha
forse solo ribaltato simmetricamente la prospettiva marxista conservandone
tuttavia i difetti principali. Vale a dire che nella teoria di Rostow c’è una
filosofia della storia di matrice fordista invece che materialista, è
contemplata la missione storico mondiale dell’industria invece che del
proletariato, il consumo di massa subentra alla lotta di classe, il mercato al
partito comunista internazionale, ecc.
È
ovvio che la modernizzazione pensata da Rostow non è altro che una sorta di
occidentalizzazione del mondo.
Senza alcun dubbio, il divenire delle società
tradizionali è ancora oggi parecchio sollecitato dai modelli di sviluppo delle
realtà occidentali modernizzate.
È
tuttavia più consono discutere di «ibridazione dello sviluppo», nel senso che
si constata l’emergere di un sincretismo complesso, nel quale società
modernizzate dal punto di vista economico non lo sono dal punto di vita civile
o politico, con il gran numero di varianti a questa distonia presentati dai
fenomeni storici contemporanei.
Il
ritorno a certe forme ideologiche di concezione dell’avvenire ha potuto
assumere tratti assai evidenti nelle opere di intellettuali successivi a
Rostow.
In
particolare, piano piano è divenuta chiara la posizione che i “migliori”, i
“primi”, esercitano la propria supremazia avanzando la pretesa di dominare il
futuro.
Per
esempio, questa limitante pretesa è espressa bene da” Jan Tinbergen”, quando
afferma che «una popolazione piuttosto povera, come media generale, non saprà
prevedere lontano e quindi sarà interessata a profitti immediati.
Essa
si accontenta di vivere alla giornata e ogni suo componente penserà a se
stesso».
Vale a
dire, forzando un po’ il discorso, che l’avvenire è roba per ricchi, gli altri
possono solo stare a guardare, aspettando che qualcuno gli dica cosa succederà
loro.
Il
successo riscosso dalla concezione della modernizzazione del ventesimo secolo
deve molto alle teorie dello sviluppo, soprattutto nella prima fase della loro
elaborazione.
D’altronde,
in un certo senso con quelle teorie si mettevano d’accordo tutti.
Per i paesi già sviluppati del mondo
occidentale si trattava di continuare a credere nel ritmo di crescita interno e
nella collaborazione internazionale, in particolare rivolta ad ostacolare il
diffondersi del marxismo.
Per i
paesi in via di sviluppo, invece, si concretizzava un’aspirazione
particolarmente visibile nelle nuove classi dirigenti, le quali diffondevano i
segnali di un progressivo stile occidentale nelle loro realtà tradizionali.
L’avvenire, in pratica, sembrava soddisfare
tutti, anche se presto si attuò una decisa reazione a questo ottimismo
ideologico.
In particolare, furono alcuni studiosi di
orientamento marxista nel mondo occidentale e alcuni intellettuali dei paesi in
via di sviluppo a mettere in rilievo le contraddizioni implicite nel programma
di modernizzazione basato sullo sviluppo.
“Paul
A. Baran” e “Paul M. Sweezy “pubblicarono, nel 1966, “Monopoly Capital”,
illustrando con concetti diversi il rapporto fra i paesi in via di sviluppo e
le potenze occidentali.
Recuperando
alcune teorie che già” Lenin” e” R. Luxemburg” avevano avuto modo di esporre,
gli intellettuali statunitensi misero in rilievo come il XX secolo sia di fatto
caratterizzato dalla progressiva formazione dell’egemonia nordamericana, la
quale soppianta, in termini di rapporto di potere e di dominio politico ed
economico, il colonialismo europeo.
In tale situazione, il capitalismo
concorrenziale cede il passo al capitalismo monopolistico il quale, confermando
con ciò le previsioni di “Lenin”, è basato sull’associazione del capitale
industriale con quello finanziario.
Attraverso
il gioco delle concentrazioni, queste società controllano il mercato e, di
conseguenza, controllano pure i prezzi.
Questi
ultimi, nonostante i notevoli aumenti di produttività, non diminuiscono e
permettono l’accumulazione di enormi surplus.
La
questione principale, quindi, è l’assorbimento di questo surplus, poiché il
capitalismo monopolistico è incapace di creare una domanda effettiva
sufficiente ad assicurare la piena occupazione del lavoro e del capitale.
Un
sistema siffatto, in pratica, rischierebbe di cadere in una fase di
stagnazione, producendo in modo sempre meno redditizio beni che fruttano un
profitto sempre maggiore.
La
soluzione risiede in un triplice intervento:
la propaganda pubblicitaria che deve
sollecitare il pubblico a un consumo sempre maggiore, l’intervento dello Stato
per creare sempre nuove opportunità di consumo (per esempio la costruzione di
migliori vie di comunicazione in grado di accrescere la domanda di mezzi di
trasporto) e, infine, lo sviluppo ad opera dello Stato del settore
militare-industriale.
Nelle
parole di “Ba-an” e “Sweezy”:
«Se si assume la stabilità del capitalismo
monopolistico, con la sua provata incapacità di fare uso razionale per scopi
umani e pacifici del suo enorme potenziale produttivo, è necessario decidere se
si preferisce la disoccupazione di massa e l’irreparabilità caratteristiche
della grande depressione, o la relativa sicurezza di occupazione e di benessere
materiale assicurata dagli enormi bilanci militari degli anni quaranta e
cinquanta».
Per
tale via, dalla denuncia delle contraddizioni implicite allo sviluppo del
sistema capitalistico nordamericano i nostri autori passano all’esortazione di
una rivoluzione mondiale operata non dal proletariato, ma dai paesi del sud del
mondo.
In
conclusione, è stata condotta una rivisitazione strumentale delle teorie dello
sviluppo alle origini di questo ricco filone di studi, al fine di porre in
rilievo soprattutto il carattere vetero-ideologico delle stesse.
Il riciclo della «falsa coscienza», come Marx
definiva l’ideologia (pur rimanendone vittima la sua stessa dottrina), è
visibile ancora nelle contemporanee tendenze del dibattito sull’ordine
internazionale, i rischi e le opportunità globali, gli scenari politici
continentali e mondiali.
Ancora
una volta, se pure ve ne dovesse essere ancora bisogno di ripeterlo,
l’ideologia è meglio prevenirla, che curarla.
Una
teoria da ripensare?
Machina-deriveapprodi.com - Andrea Pannone –
(3 lug. 2024) – ci dice:
Sul
rapporto tra ricchezza finanziaria e ricchezza reale nell'epoca della
speculazione.
Ricchezza
reale e ricchezza finanziaria.
Per
capire le cause e le implicazioni del processo di finanziarizzazione
dell’economia che ha luogo nel XXI secolo, “Andrea Pannone” riflette su come le
scuole di pensiero neoclassiche e di ispirazione marxista impostano la
distinzione tra ricchezza reale e ricchezza finanziaria.
Se
entrambi gli approcci riconoscono che i diritti finanziari dipendono dal
sottostante materiale, in un contesto di inflazione finanziaria le due diverse
forme di ricchezza mostrano andamenti progressivamente divergenti.
Quali
sono le motivazioni?
Sta
cambiando la direzione della relazione?
Ricchezza
reale e ricchezza finanziaria nelle teorie economiche.
La
distinzione tra ricchezza reale e diritti finanziari sulla ricchezza reale
(ricchezza finanziaria) è una premessa fondamentale dell’economia politica,
riconosciuta sia dalle scuole di pensiero neoclassiche che da quelle di
ispirazione marxista.
Nonostante
la radicale differenza con cui i due approcci teorici vedono la relazione tra
le due forme di ricchezza nell'economia, entrambi sono accomunati dal
riconoscimento del fatto che i diritti finanziari dipendono dalla ricchezza
reale sottostante, poiché rappresentano pretese legali su beni e servizi
tangibili o sui flussi di reddito generati da essi.
Questa relazione di dipendenza, però, diventa
molto meno chiara in contesti di inflazione finanziaria – ossia di crescita
continua dei prezzi degli asset finanziari (titoli, azioni, ecc.) – e
speculazione eccessiva, allorché le due forme di ricchezza mostrano andamenti
progressivamente divergenti a partire dagli anni ʼ90.
Questo
impedisce ad entrambe le scuole di pensiero di spiegare adeguatamente le cause
e le implicazioni del processo di finanziarizzazione dell’economia che ha luogo
nel XXI secolo e che ha portato quella divergenza a livelli parossistici,
accrescendo enormemente le diseguaglianze distributive (vedi Piketty 2014).
Osserviamo
infatti che i guadagni derivabili da questi asset non hanno propriamente la
natura di redditi, almeno non come il concetto di reddito è sempre stato
considerato nella letteratura economica ossia la controparte esatte del valore
dei flussi di produzione.
Per questo motivo la loro consistente e non
temporanea espansione, che implica un trasferimento puro di moneta dai redditi
dei fattori produttivi alle rendite, non sembra immediatamente riconducibile né
al concetto di legittima ricompensa della produttività dei fattori di
produzione – come vorrebbe la scuola neoclassica – ma nemmeno al concetto di
sfruttamento dei lavoratori e al conflitto capitale/lavoro – come vorrebbero le
più classiche scuole di ispirazione marxista.
Keynes
e i suoi epigoni.
Osserviamo
poi che la crescita esponenziale dei prezzi degli asset finanziari implica che
una consistente massa di risorse liquide si traduce in una loro continua
richiesta, a fronte tuttavia di una scarsa riproducibilità della loro offerta,
e genera così l’aumento del loro valore in intervalli di tempo molto brevi
(anche inferiori al giorno).
Ciò
favorisce, anche con l’aiuto della leva finanziaria, le condizioni per
scommesse speculative e per il rafforzamento dei mercati dove si attuano tali
scommesse, premessa indispensabile per la formazione di enormi patrimoni
finanziari.
Keynes, tra i primi economisti, aveva compreso
che la moneta non serve solo a finanziare le transazioni produttive e
l’inflazione delle merci prodotte ma anche, oltre a motivi precauzionali, per
acquistare asset finanziari con lo scopo di lucrare sulla differenza tra i
prezzi a cui sono acquistati e venduti, anticipando l’opinione media dei
soggetti che intendono fare lo stesso (vedi l’esempio del beauty contest,
in Keynes 1936, p. 154-155).
Ad ogni modo, l’analisi di Keynes assume la
preferenza per la liquidità come data e trascura gli effetti che l’aumento
della domanda di moneta per motivi speculativi potrebbe avere sulla produzione
a causa della contrazione simultanea dei flussi di spesa.
Questo
rende il semplice schema keynesiano scarsamente utile per comprendere perché il
valore degli asset finanziari potrebbe discostarsi progressivamente dal valore
della produzione, portando a una disconnessione tra la crescita dei mercati
finanziari e l'andamento dell'economia reale.
La
limitazione di Keynes è teoricamente risolvibile adottando una prospettiva di
analisi intertemporale e introducendo la presenza sistematica dell’intervento
statale realizzato in deficit, secondo l’insegnamento degli epigoni di Keynes
seguito da molti governi moderni fino alla fine degli anni ʼ70.
In questo modo il deficit di bilancio poteva
svolgere funzioni di stimolo della domanda neutralizzando le spinte recessive
indotte dal tesoreggiamento (Bruno 2024).
Rimane
tuttavia impossibile, all’interno di questo schema, spiegare perché la
ricchezza di natura finanziaria dovrebbe tendere a divergere crescentemente
dalla ricchezza reale.
“Saving
glut” e non sazietà della ricchezza.
Un
estremo tentativo per fornire una spiegazione di tipo keynesiano all’interno
della medesima prospettiva intertemporale di analisi è quello di interpretare
l’ipotesi di “saving glut” (ossia di un eccesso di risparmio), posta in rilievo
per la prima volta dal governatore della FED Bernanke nel 2005, come un
fenomeno che permane a prescindere dalle decisioni di fare deficit pubblici e
che non è riassorbibile dalla riduzione (anche molto forte) del tasso di
interesse, come vorrebbero invece i modelli neoclassici.
Una
strada simile è seguita da “Sergio Bruno” (2024), che espandendo l’analisi di “Tobin”,
riconduce il fenomeno dell’eccesso non temporaneo di risparmio sugli
investimenti produttivi – e quindi il motivo per cui la liquidità si riversi in
prevalenza sugli asset finanziari anziché sulla produzione e sull’attività
innovativa – al concetto di «non sazietà della ricchezza», principio di antica
derivazione filosofica che si riferisce alla continua aspirazione degli
individui e delle istituzioni ad aumentare il loro patrimonio, spesso al di là
delle necessità di consumo o sicurezza economica.
Tale
concetto, che travalica le motivazioni psicologiche alla base della preferenza
per la liquidità a cui si riferiva Keynes, si sarebbe rafforzato negli ultimi
decenni per effetto del prevalere di un’ideologia che esalta i meccanismi di
mercato come mezzo per rispondere ai bisogni, come anche dell’espansione
dell’offerta privata di impieghi quali le borse valori, le offerte finanziarie
speculative, le assicurazioni, i fondi pensione e i fondi di investimento.
Sebbene
la tesi di “Bruno” contenga elementi di indubbio interesse, essa non è in grado
di connettere adeguatamente l’aumento generale della propensione al
tesoreggiamento alle profonde trasformazioni del meccanismo di accumulazione
capitalistica nel XXI secolo.
Ciò
gli impedisce di comprendere appieno le reali dinamiche di potere che sono al
cuore dei processi di finanziarizzazione dell’economia.
In questa direzione si muove il mio tentativo
di spiegazione.
Eccedenza
di capacità produttiva e inflazione finanziaria.
La
nostra interpretazione del processo di finanziarizzazione inizia con una
osservazione empirica relativa all’economia reale.
A partire dalla fine degli anni ’90,
l’esistenza di eccessi di capacità produttiva oltre il livello considerato
«normale» – pur tenendo conto delle sue difficoltà di misurazione statistica –
è un tratto chiaramente riconoscibile nella maggior parte delle industrie che
operano globalmente (siderurgia, automobili, elettronica di base, ecc.).
Nelle
due decadi successive questa eccedenza tende a protrarsi nel tempo fino a
diventare quasi strutturale praticamente in tutte le più importanti economie
del pianeta:
non
solo negli Usa, nella maggior parte dei paesi europei e in Giappone, dove la
media si attesta intorno al 73/74%, ma anche nei paesi emergenti comprese Cina,
India, alcuni paesi dell’Europa Orientale e Brasile (vedi Crotty 2002 e 2017, Lavoie
2016, Gahn 2022, Nikiforos 2021, Guo et al 2022).
Alla
generalizzazione di questo fenomeno ha contribuito sicuramente il modello di
produzione che si è affermato nel XXI secolo per effetto del processo di
globalizzazione.
Tale modello, costituito da nodi produttivi
distribuiti in diverse parti del mondo che collaborano in modo sinergico per
produrre i beni o i servizi finali, fa sì che uno squilibrio che si determina a
valle della catena del valore si trasmetta in sequenza a tutti gli altri nodi,
diramando e amplificando lo squilibrio su tutte le economie del pianeta.
In questo modo l’eccesso di capacità
produttiva che si determina nelle economie del centro capitalistico diventa
rapidamente un eccesso di capacità in quasi tutte le economie periferiche.
Tutto
ciò, differentemente da quanto si potesse pensare, non ha implicato che le
macchine (del tutto o in parte) inoperose si deteriorassero nel tempo sino a
distruggersi, eliminando la capacità in eccesso.
Come
ha ben sottolineato “Andrea Fumagalli” (2024) nella recensione al mio libro Che cos’è la guerra? (Pannone 2023), dove sviluppo
diffusamente questo argomento, la ragione risiede nella nuova forma che il
fattore produttivo capitale ha progressivamente assunto.
Dal 1985, l’indice azionario S&P500 (che
raccoglie le 500 corporation americane a più elevata capitalizzazione di borsa)
ha rilevato che la quota di capitale intangibile (brevetti, R&S, brand,
formazione, comunicazione, ecc.) ha per la prima volta superato il capitale
tangibile, quello dei macchinari, dei mezzi di trasporto, dei fabbricati.
Tale
dinamica è stata favorita dalle caratteristiche del nuovo paradigma tecnologico
dell’”IC”, basato non più su tecnologie meccaniche, ripetitive e statiche
(produzione a stock) ma piuttosto su tecnologie linguistiche e comunicative e
dinamiche (produzione a flussi).
Ciò che diventa importante non è più solo la
proprietà dei mezzi di produzione ma sempre più la proprietà intellettuale
(controllo della generazione e della diffusione di conoscenza) insieme alla
governance dei flussi finanziari, come nuova fonte di finanziamento e di
valorizzazione.
La
flessibilità del fattore produttivo capitale induce quindi, anche in virtù di
una serie di innovazioni nel campo del credito bancario, al noleggio più che
all’acquisto, in modo da proteggere le imprese dai rischi di deterioramento
fisico e di obsolescenza tecnologica, questi ultimi sempre più accentuati dalle
trasformazioni innescate dalla rivoluzione digitale.
Ad
ogni modo, la rata di affitto dei beni capitali rappresenta un costo fisso per
l'impresa.
Questa rata deve essere pagata regolarmente
alla banca, come stabilito nel contratto di noleggio, per tutto il tempo in cui
il capitale rimane in uso, indipendentemente dal livello di produzione o dalle
vendite.
Se le
vendite dell'impresa sono inferiori alle previsioni, il costo fisso della rata
di affitto viene distribuito su un numero inferiore di unità prodotte e vendute
e l’impresa deve usare propri fondi o contrarre nuovi debiti per onorare
l’impegno.
Una
capacità produttiva prolungatamente in eccesso rispetto al livello ritenuto
normale, quindi, implica costi unitari sistematicamente al di sopra del livello
minimo e un flusso di profitti più basso di quello atteso in base agli
investimenti realizzati.
Questo
determina un peggioramento delle aspettative delle imprese che le spinge a
diversificare il loro portafoglio di investimenti verso l’acquisto di attività
finanziarie, contribuendo ad aumentarne il loro valore e a gonfiare bolle
speculative sui principali mercati borsistici mondiali, dove i capitali
finanziari possono circolare liberamente dagli anni ’90 in ossequio alla filosofia del
Washington Consensus.
In questo modo i profitti derivati dalle attività
finanziarie permettono di compensare (o più che compensare) il calo dei
profitti derivanti da un’attività produttiva sempre più stretta dall’alternarsi
di fasi di recessione, rallentamento e stagnazione.
Dopo
due forti crisi finanziarie (quella che segue al crollo delle quotazioni del
NASDAQ nel marzo 2000, e quella che segue al crollo dei mutui subprime nel
2007) il valore delle attività finanziarie riprende a crescere stabilmente e i
profitti da esse derivati si attestano negli ultimi 15 anni intorno al 25/30%
di tutti i profitti delle imprese statunitensi.
Buyback e centralizzazione della ricchezza finanziaria.
L’imponente
crescita dei valori azionari che si verifica dopo il 2008 (ad esempio, tra il 2008 e il 2022,
S&P Index + 200%, NASDAQ +500%), ha potuto beneficiare:
dell’enorme
disponibilità di credito a buon mercato resa possibile dalle politiche di
«allentamento quantitativo» delle banche centrali adottate per rilanciare
l’economia dopo la crisi finanziaria;
del
fatto che una quota considerevole di questa liquidità si sia tradotta in
operazioni di “buyback”, ossia di riacquisto delle proprie azioni finalizzate a
sostenere i corsi azionari, a rendere attrattivi nuovi acquisti dei propri
titoli e a ottenere capital gain.
Più
precisamente, i “programmi di buyback,” estremamente vantaggiosi anche dal
punto di vista della tassazione, alimentano un’enorme crescita di profitti per
gli azionisti poiché il numero di azioni in circolazione viene ridotto, facendo
aumentare il valore per azione e attraendo una moltitudine di operatori
finanziari, anche in virtù dell’ampia estensione a soggetti scarsamente
solvibili del credito e della possibilità di indebitarsi a leva (vedi nota 6).
Gli
azionisti delle imprese maggiormente coinvolte in questi programmi sono spesso
le grandi istituzioni finanziarie, i fondi di investimento e altri investitori
istituzionali.
Di
conseguenza, queste entità hanno aumentato la loro quota di proprietà
nell'azienda, rafforzando il loro controllo e influenzando le decisioni
aziendali attraverso il voto in assemblea e altre modalità (votazioni non
vincolanti, attivismo degli azionisti, comunicazioni e incontri, ecc.).
Inoltre,
i top manager e altri dirigenti aziendali hanno potuto aumentare enormemente i
loro compensi basati sulla crescita dei valori azionari, esasperando
ulteriormente il divario tra i loro redditi e quelli del resto della
popolazione.
Questo
ha portato a una concentrazione ancora maggiore del controllo nelle mani dei
principali azionisti e dei dirigenti, a scapito di una distribuzione più equa
del potere decisionale e dei benefici aziendali.
Il
processo si realizza ora a prescindere dalla dinamica competitiva tra imprese
più forti e meno forti (vedi sopra) e corre in parallelo al meccanismo di
estrazione del valore basato sulla produzione.
Quel meccanismo, infatti, viene fatto oggetto
di un vero e proprio «sabotaggio strategico», in quanto le risorse da destinare
ai buyback e altre attività speculative (futures sulle materie prime, valute,
metalli preziosi, ecc.) vengono distratte dagli investimenti produttivi, anche
nei settori/imprese con maggiore attitudine all’innovazione (vedi Turco 2018,
Lazonick 2023).
I
guadagni così ottenuti, spesso parcheggiati in paradisi fiscali e normativi “off
shore” in attesa di vantaggiosi impieghi, vengono utilizzati per acquisire i
pacchetti azionari di una miriade di imprese – a volte in competizione tra loro
sugli stessi mercati reali ‒ attraverso artifici finanziari simili alle scatole
cinesi.
In
sostanza, ci troviamo sempre più in presenza di un modello di produzione dove
la logica dell’accumulazione pecuniaria, governata da un numero estremamente
ridotto di soggetti economici, prevale su quella produttiva.
Il fine della centralizzazione non è più
tanto, dunque, l’accumulazione del capitale a fini di profitto quanto
l’accentramento del controllo a fini di accumulazione di potere.
Lo stesso potere che consente loro di
condizionare le decisioni dei governi e i provvedimenti legislativi che
stimolano (anche forzatamente) la migrazione del risparmio verso le attività
finanziarie e il sostegno alla loro performance, come visto ad esempio nel caso
delle riforme al sistema pensionistico/assicurativo o della normativa sui
buyback.
Ad ogni modo, nessun business finalizzato
all'accumulazione di capitale pecuniario potrebbe vivere senza che si continui
ad accumulare, almeno in qualche misura, capitale fisico per produrre beni.
Il
«sabotaggio», ossia il drenaggio di risorse a detrimento delle attività di
investimento produttivo/innovazione, non può quindi estendersi oltre certi
limiti in quanto senza la sfera della produzione il capitalismo stesso non
potrebbe esistere.
Questo
è particolarmente vero in relazione a comparti come le tecnologie digitali,
l’energia, la farmaceutica e la difesa;
sia
per la loro rilevanza strategica sia per la loro capacità di attrarre le
scommesse degli operatori finanziari sui loro asset, trascinando nel gran
bazar, attraverso i fondi che amministrano i loro patrimoni, anche milioni di
piccoli risparmiatori.
Per
altri settori industriali, invece, quali quelli orientati alla produzione di
beni di consumo che un tempo dominavano l’economia globale (ad esempio
produzione di automobili, elettrodomestici, industria tessile, industria
alimentare, ecc.), persistenti problemi di sovracapacità, aggravati dagli
effetti depressivi della fase pandemica, hanno influito sicuramente sulla
decisione delle imprese di ridurre gli investimenti e l'innovazione,
concentrando l’attenzione sulla gestione degli impianti produttivi sottoutilizzati
e sulla riduzione dei costi per rimanere competitive, come anche su vigorosi
tentativi di estorcere incentivi ed agevolazioni ai governi attraverso il
ricatto occupazionale.
È
probabile allora che questi settori riescano a trascinare la loro esistenza in
vita o a mantenere una qualche rilevanza (sebben ridotta) solo fino al punto in
cui la logica dell’accumulazione pecuniaria abbia ancora l’opportunità di
nutrirsi del loro valore.
Conclusioni.
In
conclusione, la sempre più strutturale incapacità delle economie moderne di
sfruttare il potenziale produttivo che esse stesse costruiscono si riversa
sull’espansione abnorme dell’economia monetaria e finanziaria,
«con una forza e una velocità in grado di
travolgere regole, programmazioni, dati reali e dunque di cancellare la
prerogativa del mercato di svolgere la propria funzione di attribuzione più o
meno coerente del valore» (Volpi 2024).
Una
ristretta cerchia di interessi economici dispone oggi di un potere in grado di
scandire i ritmi e la direzione di questo processo.
Ciò accresce inesorabilmente i fattori di
instabilità e fragilità dei sistemi economici.
Non è
un caso che nel corso degli ultimi tre decenni i fattori di crisi siano più
legati alla finanziarizzazione della produzione che alla struttura produttiva
stessa.
Se nel fordismo la crisi era originata da
sovra-produzione o da sotto-consumo per poi trasmettersi al credito e alla
finanza, ora avviene il contrario, segnando un radicale cambiamento della
relazione tra ricchezza finanziaria e ricchezza reale che ha caratterizzato
l’economia politica sin dai suoi albori.
La
Commissione europea vuole tenere
in
vita l’”ideologia del rigore”.
Valori.it
- Alessandro Volpi – (24.11.2022) – ci dice:
La
riforma ipotizzata del Patto di stabilità salverebbe le politiche rigoriste,
introducendo novità poco utili, se non dannose.
La
Commissione europea, dopo lunghe discussioni, ha pubblicato la sua ipotesi di
modifica del Patto di stabilità, che ad una prima lettura appare molto inutile,
se non assai dannosa.
Prevede infatti il mantenimento in vita dei
surreali parametri del 3% del rapporto tra deficit e Pil e del 60% tra debito e
Pil.
Obiettivi
ormai chiaramente inapplicabili, come dimostra la deroga protratta dal 2020.
L’organismo
esecutivo di Bruxelles si limita a correggerli con un indicatore tutt’altro che
banale.
Si
tratta della spesa primaria – in sintesi, la spesa pubblica al netto degli
interessi, dell’impatto degli stabilizzatori sociali e di misure una tantum –
che dovrà essere concordata bilateralmente con la Commissione ogni 4 anni.
Una
volta stabilita tale spesa però lo Stato interessato non dovrà modificarla
neppure in caso di recessione molto pesante.
E
persino in situazioni di emergenza.
In
estrema sintesi, si lasciano in vita gli architravi ideologici dell’Europa del
rigore, pensate trent’anni fa, e si mitigano con la prospettiva di trattative
fra Commissione e singoli Stati che hanno tutto il carattere delle deroghe
concesse, caso per caso, in base ad una non ben chiara “affidabilità” quasi
interamente finanziaria.
È inutile dire che un’ipotesi del genere non è
affatto favorevole all’Italia, che risulta il Paese in cui la crescita della
spesa primaria è stata, in termini percentuali, la più alta nel 2022, dopo
quella lituana.
Si
prospettano quindi tempi davvero duri.
La
legge di Bilancio italiana per il 2023 varrà poco più di 30 miliardi di euro.
Di cui 20 sono “fittizi” perché rappresentano
il portato della deroga europea concessa all’Italia di avere un deficit del
4,5% invece che del 3,3%.
Con le nuove “regole” dal 2024 una simile possibilità
non sarebbe più applicabile. O certamente risulterebbe molto più onerosa, come
del resto già emerge dalla difficile situazione attuale che ha indotto il
governo Meloni ad utilizzare come parola chiave quella della “prudenza”.
I 20
miliardi di maggior deficit vanno trovati infatti con nuovo debito da collocare
sui mercati.
Ma è
già certo che non basteranno, tanto è vero che le nuove emissioni di debito
pubblico previste dal Tesoro nel 2023 sono stimate intorno ai 90 miliardi di
euro. Che, naturalmente, debbono aggiungersi agli oltre 250 miliardi di titoli
in scadenza.
Il
problema, allora, è chi comprerà tale debito?
La Bce ha già fatto sapere che non parteciperà
all’acquisto di nuove emissioni di debito ed ha alzato i tassi rendendo il
collocamento dello stesso più caro.
Partirà così la concorrenza sui titoli del
debito pubblico e l’Italia dovrà sperare che i tassi di interesse dei titoli
tedeschi non siano troppo allettanti perché renderebbero il collocamento dei
nostri costosissimo e, difficilmente, sostenibile, con la ricomparsa dello
spread nei titoli dei giornali.
Tale
timore è alimentato da due ulteriori fattori.
In
primo luogo, le scommesse sul nostro debito, i famigerati “Cds,” stanno già
salendo di prezzo.
Proprio
perché ci si attende un indebolimento e un deprezzamento dei titoli italiani.
Il
secondo fattore è costituito dall’impennata dei tassi americani che sta
attraendo capitali da tutto il mondo e che certo non aiuta la vendita dei
titoli italici, destinati ad appellarsi al risparmio nazionale in misura
maggiore rispetto al passato.
L’Europa
sembra così avvicinarsi sempre più ad una crisi irreversibile perché continua,
pervicacemente, anche con l’ipotesi di riforma del Patto di stabilità, a fare
il contrario di quello che servirebbe.
Piuttosto che inutili regole sulla spesa e sul
debito, avrebbe bisogno di smontare il dumping fiscale interno, di avere una
“politica” monetaria in grado di reggere il debito e la spesa, di capire
rapidamente che i suoi interessi sono ben diversi da quelli degli Stati Uniti e
dunque di mettere subito alcuni limiti al grande casinò della finanza derivata,
responsabile dell’inflazione.
Il
rapporto deficit/Pil non ha alcun senso negli Stati Uniti, dove lo ignorano
allegramente.
Mentre
nel Vecchio Continente continua ad essere un totem intoccabile.
Intanto però non esiste ancora un regolamento
sulle criptovalute – dovrebbe entrare in vigore nel 2024 – per cui chiunque, di
fatto, può acquistarle.
Ma
rischiando tutto.
Perché
non esiste alcun fondo di garanzia né tantomeno è previsto l’intervento della
Banca centrale.
E,
soprattutto, non esiste alcuna separazione fra il capitale degli investitori
nelle piattaforme e quello del suo “gestore”, per cui possono avvenire casi
come quello dell’americana “Ftx”.
In
estrema sintesi, senza troppi tecnicismi, l’Europa si rende così un cerbero,
inutile e dannoso.
Nei
confronti dell’economia reale e consente la proliferazione di colossale “sale
giochi” della finanza derivata e di molte criptovalute.
Peraltro,
permettendo che questo armamentario finanziario di distruzione di massa venga
pubblicizzato e venduto ovunque.
Canada
post-Trudeau:
Paese
al bivio?
Ispionline.it
– Francesco Amodio – (24 gennaio 2025) – ci dice:
Ottawa
deve fare i conti con la nuova aria che tira a Washington, la presidenza del G7
e soprattutto le numerose sfide socio-economiche.
E
quest’anno si vota.
Negli
ultimi anni il Canada ha affrontato una serie di sfide strutturali che hanno
influenzato profondamente il tessuto economico e sociale nazionale.
Queste
dinamiche hanno contribuito, direttamente o indirettamente, al declino della
popolarità del governo di Justin Trudeau, culminando nel suo annuncio di
dimissioni a gennaio di quest’anno.
Analizziamo qui le tendenze dell’economia
canadese, gli elementi di criticità e le prospettive future, considerando anche
il contesto politico e la presidenza di turno del G7.
Le
difficoltà economiche.
L’economia
canadese si trova di fronte a una serie di sfide strutturali che ne
compromettono competitività e crescita, molte delle quali riflettono tendenze
comuni ad altre economie avanzate, come quelle di Germania e Regno Unito.
Una
delle questioni principali è la stagnazione della produttività.
In
media, tra il 1981 e il 2022, la crescita annuale della produttività del lavoro
in Canada è stata superata da tutti i Paesi dell’OCSE con l’eccezione di Italia
e Svizzera.
All’inizio
degli anni ’80 il valore prodotto per ora lavorata in Canada era circa l’88% di
quello degli Stati Uniti.
Nel
2022 era sceso al 71% e da allora ha continuato a diminuire.
Ciò si
deve a diversi fattori, tra i quali l’allocazione delle risorse produttive.
Ingenti
quantità di capitale continuano a essere investite nel settore petrolifero, un
ambito destinato a diventare meno competitivo con il progredire della
transizione energetica globale.
Questa
scelta limita la possibilità di destinare risorse a settori più dinamici e
innovativi, come la tecnologia e l’intelligenza artificiale, con un impatto
negativo sulla capacità del Paese di generare valore a lungo termine.
Il
risultato è un calo degli standard di vita in Canada rispetto ai vicini Stati
Uniti, come mostrato dalla comparazione del PIL reale pro capite nei due Paesi.
Nonostante
il PIL del Canada sia cresciuto nel periodo post-COVID, le politiche di
immigrazione promosse dal governo Trudeau hanno portato a un aumento della
popolazione a un ritmo significativamente più rapido, causando una diminuzione
del PIL reale pro capite (-2,5%) rispetto ai livelli pre-pandemia.
Un
altro aspetto critico è il ruolo del mercato immobiliare e l’impatto
dell’inflazione sul potere d’acquisto delle famiglie.
Negli
ultimi anni l’inflazione ha colpito duramente beni essenziali come alimentari
ed energia, aggravando il costo della vita e riducendo i redditi reali, in
particolare per le famiglie della classe media.
Questa
pressione è amplificata dall’aumento dei costi abitativi, che ha reso difficile
per le nuove generazioni raggiungere la stabilità economica, e dal debito delle
famiglie, che ha superato il 180% del reddito disponibile, il livello più alto
tra i Paesi del G7.
La
combinazione di inflazione e stagnazione salariale non solo peggiora la
disuguaglianza economica, ma contribuisce anche a una crescente insicurezza
finanziaria per molte famiglie canadesi.
Infine,
la crescita del rapporto deficit/PIL è una fonte di crescente preoccupazione.
Sebbene
il debito pubblico canadese sia inferiore a quello di altri membri del G7, la
combinazione di alti deficit e bassa produttività rappresenta una minaccia a
lungo termine.
Il
problema è aggravato dalla stagnazione del denominatore (il PIL), che rende più
difficile ridurre il peso del debito attraverso l’espansione economica.
Una
strategia per affrontare questa sfida richiede riforme strutturali che
stimolino la crescita, accrescano la produttività e riequilibrino il bilancio
pubblico senza sacrificare gli obiettivi sociali.
Tutto
ciò si riflette nelle difficoltà dell’economia canadese nel creare occupazioni
di qualità.
Il declino del settore manifatturiero, ormai
superato in termini di ore lavorate dal comparto edilizio, vede una forza
lavoro sempre più concentrata in settori a basso valore aggiunto.
Inoltre,
l’enorme intensità di capitale richiesta dal settore petrolifero riduce le
opportunità di impiego per la classe media.
Questi
fattori combinati spiegano perché il Canada fatichi a offrire posti di lavoro
stabili e ben retribuiti, una condizione essenziale per rafforzare il tessuto
economico e sociale nazionale.
Settori
prioritari e opportunità di rilancio.
Nonostante
queste difficoltà, il Canada ha l’opportunità di rilanciare la sua economia
puntando su settori più dinamici, come il tech in generale, l’intelligenza
artificiale e le energie rinnovabili.
Montréal, ad esempio, si è affermata come hub
per l’industria dei videogiochi e altre tecnologie creative, dimostrando che
investimenti mirati in innovazione possono generare crescita economica
sostenibile e occupazione di qualità.
Inoltre,
il Paese potrebbe beneficiare di una maggiore diversificazione economica,
allontanandosi dalla dipendenza storica dal settore petrolifero.
Gli
investimenti nelle tecnologie verdi non solo risponderebbero agli obiettivi di
sostenibilità ambientale, ma rappresenterebbero anche una leva per attrarre
capitali internazionali.
Una
strategia industriale che favorisca l’innovazione, combinata con una maggiore
formazione della forza lavoro, potrebbe accelerare la transizione verso
un’economia ad alta produttività e basso impatto ambientale.
Le
relazioni commerciali e il ruolo internazionale.
Sul
piano internazionale, il Canada deve affrontare le rinnovate tensioni
commerciali con gli Stati Uniti, il suo principale partner economico.
Il Canada è una delle economie più aperte al
mondo, con un rapporto tra commercio e PIL pari al 67,2% nel 2023.
Più
del 60% delle esportazioni canadesi è destinato agli USA.
Trump
ha dichiarato di voler introdurre a breve tariffe del 25% su tutte le
importazioni provenienti da Canada e Messico, ponendo una sfida significativa
alle esportazioni canadesi, in particolare nel comparto petrolifero.
Qualora dovesse accedere, si imporrà la
necessità per il Canada di diversificare le esportazioni.
Un’opportunità
cruciale per il Canada risiede nelle sue ricche riserve di minerali strategici,
come litio, cobalto, nichel e terre rare, elementi fondamentali per le
tecnologie rinnovabili e l’industria dell’elettronica.
Questi
minerali rappresentano una leva economica significativa per il Paese sia in
termini di esportazioni che di attrazione di investimenti esteri.
Inoltre,
possono anche costituire una risorsa strategica nel rafforzamento delle
relazioni con l’Unione europea, che punta a garantire un accesso sicuro a
queste materie prime nell’ambito della transizione energetica.
In
questo contesto il Canada deve capitalizzare su accordi commerciali esistenti,
come il “CETA” (Comprehensive Economic and Trade Agreement) con l’Unione
europea.
Questo
accordo, pur essendo in vigore in via provvisoria, non è ancora stato
pienamente ratificato da tutti gli Stati membri dell’UE, limitandone il
potenziale.
La
ratifica del CETA rappresenterebbe un passo cruciale per consolidare le
relazioni economiche con l’Europa, rafforzare l’accesso ai mercati e favorire
investimenti in settori strategici.
Allo
stesso tempo, il Canada può guardare ai Paesi del Sud globale come partner
strategici per espandere ulteriormente le sue relazioni economiche.
Rafforzare
i legami con queste economie emergenti, combinato con politiche mirate che
offrano incentivi fiscali e un ambiente normativo favorevole, potrebbe aprire
nuove opportunità di crescita, riducendo la vulnerabilità economica nazionale
alle politiche protezionistiche degli Stati Uniti.
In questo quadro puntare su settori ad alta
intensità di conoscenza, come la tecnologia e le energie rinnovabili, sarebbe
essenziale per ridefinire il ruolo del Canada nell’economia mondiale.
Il
futuro economico: verso una nuova visione.
Le
nuove elezioni, la cui data è ancora incerta, rappresentano un punto di svolta
per il Canada.
Per
affrontare le sfide economiche, il nuovo governo dovrà considerare riforme
strutturali che affrontino le disuguaglianze, migliorino la produttività e
riducano il debito pubblico senza compromettere gli obiettivi sociali.
Tra le
possibili riforme, si potrebbe considerare una maggiore integrazione tra
settore pubblico e privato in ambiti strategici, come la sanità, per
alleggerire il sistema pubblico e stimolare l’occupazione.
Modelli
ispirati a Paesi come Spagna e Portogallo, che prevedono una componente privata
complementare al sistema pubblico, potrebbero rappresentare una soluzione
innovativa.
Allo
stesso tempo, sarà cruciale investire in istruzione e formazione per preparare
la forza lavoro canadese alle sfide di un’economia sempre più orientata
all’innovazione.
Incentivare
la mobilità sociale, sostenere la creazione di posti di lavoro di qualità e
favorire l’inclusione economica saranno priorità essenziali per costruire una
società più equa e resiliente.
La
presidenza canadese del G7: un’opportunità strategica.
La
presidenza del G7 nel 2025 rappresenta per il Canada un’occasione unica per
consolidare il suo ruolo di leader globale, affrontando questioni cruciali come
la transizione energetica, il commercio internazionale e l’innovazione
tecnologica.
In un contesto di crescenti tensioni
geopolitiche il Canada può promuovere un’agenda che incentivi l’investimento in
tecnologie verdi e la cooperazione multilaterale per accelerare l’abbandono dei
combustibili fossili.
Questo rafforzerebbe la sua leadership nella
lotta al cambiamento climatico e aprirebbe nuove opportunità economiche nei
settori delle energie rinnovabili.
Un’altra
priorità fondamentale riguarda l’intelligenza artificiale e la regolamentazione
tecnologica.
Grazie
alla sua posizione come hub per l’innovazione, il Canada può guidare il dialogo
internazionale per stabilire norme etiche e responsabili sull’uso delle nuove
tecnologie.
Ciò
rafforzerebbe la sua influenza globale e attrarrebbe investimenti in settori
tech avanzati, promuovendo crescita economica e creazione di posti di lavoro di
alta qualità.
Infine,
il G7 offre al Canada una piattaforma per ampliare le sue relazioni economiche
con i Paesi del Sud globale e l’UE.
Attraverso
nuove partnership e iniziative congiunte, Ottawa può ridurre la dipendenza
dagli USA, diversificare i suoi mercati e contribuire a una crescita globale
più inclusiva e sostenibile.
Le
difficoltà economiche del Canada sono il risultato di sfide globali e locali,
ma offrono anche un’opportunità per ripensare le politiche economiche e
industriali.
Con
una leadership determinata e una strategia chiara, il Canada può emergere come
un modello di crescita sostenibile e inclusiva, rafforzando il suo ruolo di
attore chiave nell’economia mondiale.
(Francesco
Amodio - Associate Professor, Mcgill University).
Milei,
crociata contro l’ideologia woke:
«Una battaglia per la libertà con Trump, Musk
e Meloni»
Corriere.it
- Giuliana Ferraino, inviata a Davos – (23 gennaio 2025) – ci dice:
Il
presidente argentino contro chi si oppone a ingiustizie sociali o razziali nei
confronti di minoranze etniche e di genere:
«L’ideologia
woke è un’epidemia mentale: serve una lotta per la libertà in ogni angolo del
pianeta».
Il
presidente argentino Javier Milei arriva sulle nevi svizzere di Davos
direttamente da Washington, dove lunedì ha partecipato all’insediamento del
presidente americano Donald Trump (che parlerà in streaming questo pomeriggio
alle 17) e con un discorso provocatorio e politicamente scorretto infiamma il
World Economic Forum, lanciando una sfida globale contro quella definisce
«l’epidemia mentale» dell’ideologia woke (quella che si oppone alle ingiustizie
sociali o razziali nei confronti delle minoranze etniche e di genere).
Non è
più solo nella sua crociata per affrancare l’Occidente, perché, durante
quest’anno della sua presidenza, Milei ha trovato «alleati in questa lotta per
la libertà in ogni angolo del pianeta».
E li
cita: «Dal meraviglioso Elon Musk, alla tenace leader italiana Giorgia Meloni;
da Bukele in El Salvador a Netanyahu in Israele; da Visegrád in Ungheria a
Donald Trump negli Stati Uniti.
Lentamente
si sta formando un’alleanza internazionale di nazioni che vogliono essere
libere e credono nelle idee di libertà».
«Meloni?
Una grande lottatrice.
Su
Meloni, poi al Corriere aggiunge:
«È una
grande lottatrice e ci aspettiamo da lei che si faccia carico del recupero
dell’Occidente e dell’Italia».
Prima
di lanciarsi nella sua invettiva, ai leader di Davos Milei presenta i risultati
del suo primo anno di presidenza per dimostrare che la sua cura anticonformista
funziona:
«L’Argentina
è diventata un esempio globale di responsabilità fiscale, di impegno per i
propri obblighi, di come affrontare il problema dell’inflazione e anche di un
nuovo modo di fare politica, che consiste nel dire la verità alla gente in
faccia e confidare nella loro capacità di comprenderla», afferma.
«Merito
accantonato dalla dottrina della diversità»
Poi il
leader argentino si lancia in una filippica contro «l’aberrante ideologia»
woke, «un cancro da estirpare», perché distorce i valori occidentali.
«Il femminismo radicale è una distorsione del
concetto di uguaglianza», dice. Condanna l’ideologia di genere:
«Stanno
danneggiando irreversibilmente bambini sani con trattamenti ormonali e
mutilazioni».
E
sentenzia:
«Il
merito è stato accantonato dalla dottrina della diversità».
Si
scaglia contro «l’ecologismo radicale», nemico della voglia di conservare il
pianeta:
«Nessuno
vuol vivere in una discarica», ma l’ambientalismo woke ha trasformato il
diritto degli esseri umani a godere della natura in uno scenario in cui
«l’essere umano è il cancro da eliminare e lo sviluppo economico un reato».
La
battaglia contro lo Stato.
È un
attacco a 360 gradi, contro le istituzioni, dalle élite delle università agli
organismi internazionali del credito, paragonati ad «associazioni estorsive»,
con un chiaro il riferimento al Fondo monetario internazionale, di cui Buenos
Aires è debitrice.
Il
punto centrale del discorso è come sempre la battaglia contro lo Stato.
«La
funzione dello Stato deve limitarsi nuovamente alla difesa del diritto alla
vita, alla libertà e alla proprietà», spiega.
Tutto qui.
E
invita perciò a ribellarsi contro «il regime del pensiero monolitico» e a
«riscrivere le regole» un tempo considerate intoccabili.
«Viva
la libertà carajo!»
L’Argentina
ha «spezzato le catene», assicura Milei che ha «fiducia» che Trump lo seguirà.
E
invita gli altri Paesi fare altrettanto, affidandosi al liberismo, per entrare
in «una nuova era dorata», dove dominano il rispetto della vita (quindi contro
l’aborto, che è basato sugli errati calcoli malthusiani che tanti danni stanano
provocando oggi alla società, sostiene), il rispetto della libertà di parola,
di religione e del commercio.
È a
questo punto che Milei va in soccorso del suo «caro amico Elon Musk, che «è
stato ingiustamente vilipeso dall’ideologia woke per un gesto innocente che
semplicemente rifletteva il suo entusiasmo e la sua gratitudine verso le
persone».
Il
riferimento è al presunto saluto romano del fondatore di Tesla e SpaceX durante
un discorso alla Capitol One Arena di Washington in occasione dell’insediamento
di Trump.
«Facciamo
di nuovo grande l’Occidente», conclude Milei riprendendo il celebre slogan di
Trump per terminare con il consueto grido finale:
«Libertà,
libertà, libertà! Viva la libertà carajo!».
L'assessore
regionale Guido Guidesi
chiede
l'intervento dell’Europa:
"L'automotive
è un settore da salvare"
Bresciaoggi.it - Giuseppe Spatola – (19
gennaio 2025) – ci dice:
La
Lombardia non abdica al ruolo di prima regione manifatturiera d’Europa.
Così
spiega Guido Guidesi, assessore allo Sviluppo economico della Regione
Lombardia, che al centro mette le automotive e l’industria.
A
partire dal 2025 le flotte delle case automobilistiche dovranno rispettare
parametri di emissioni di CO2 sempre più stringenti.
Quale
è la sua previsione?
Se la
nuova Commissione Europea entro il primo trimestre non affronterà tutte le
questioni riguardanti il settore e l'industria dell'Automotive ciò che
succederà è già scritto:
un
intero e storico settore industriale scomparirà.
Per
noi, affrontare significa fare queste cose:
cancellare
le sanzioni ai costruttori europei al fine di non correre il rischio che esse
diventino la causa economica per razionalizzare stabilimenti e forza lavoro;
rivedere
termini e condizioni del futuro della mobilità che dovrà essere ambientalmente
sostenibile ma potrà considerare una pluralità di trazioni, in piena
‘neutralità tecnologica’;
questo
permetterà che vendano sul mercato autoveicoli non solo elettrici ma anche
ibridi, ad idrogeno, a carburante sintetici, a trazione endotermica con
biocarburanti ecc. ecc;
in buona sostanza tutto ciò che ci possa
consentire di dare un possibile futuro al settore che, se non cambiasse nulla
dal punto di vista regolatorio, sarebbe raccontato tra qualche anno come il più
grande suicidio economico della storia a vantaggio dei cinesi.
È inoltre di tutta evidenza che un mercato con
beni offerti a così alti costi non sia appetibile per il consumatore.
Come Lombardia abbiamo già chiesto alla
Commissione ed alla presidente Von der Leyen di poter essere coinvolti
nell'annunciato Tavolo di lavoro come rappresentanti dell'ARA (Automotive
Regions Alliance);
noi
crediamo infatti che spesso i territori portano un po' di sano realismo e
questo perché vivono direttamente le conseguenze di decisioni sbagliate.
Il
tempo per cambiare è poco e questa volta davvero è denaro e lavoro.
Francia
e Germania, due degli Stati più «virtuosi» dell'UE, sono alle prese con crisi
di governo e nel frattempo le loro economie fanno sempre più fatica.
Come
vede il futuro dell’UE in questo nuovo scenario, visto anche il nuovo Governo
USA?
Francamente
spero che Trump, rispetto alle annunciate decisioni in materia commerciale ed
economica, possa essere una sveglia per l'Europa che, come ben descritto dal
rapporto Draghi, deve occuparsi di competitività e conseguentemente di poter
continuare ad essere un territorio manifatturiero.
Oggi
le imposizioni regolatorie stanno portando l'Europa a non essere competitiva e
a non essere un territorio per fare impresa, ma senza produttori non si può
competere a livello globale, per questo il primo segnale va dato «cappando» il
costo dell'energia;
è importante però che si decida perché gli Usa
corrono, ad Oriente corrono e noi freniamo.
La
Lombardia è da sempre un modello per tante altre regioni in Europa. Come sta
andando l'economia lombarda e quali sono le sue nuove progettualità per il
2025?
Siamo
la prima Regione manifatturiera d'Europa per cui la nostra economia paga le
difficoltà globali dell'industria, per questo insistiamo affinché ci sia una
deregolamentazione europea e che venga affrontato il problema dei costi
energetici.
Noi
vogliamo continuare ad essere un territorio manifatturiero ma ci sono due
fondamentali elementi che non dipendono da noi:
la nuova Commissione Europea deve correggere
gli errori clamorosi della precedente per cui gli obiettivi ambientali devono
andare di pari passo con la tenuta economica e sociale;
quindi,
ciò che ci porta fuori dall’essere competitivi va rivisto;
solo
lasciando liberi di agire i territori si possono raggiungere gli obiettivi
anche ambientali;
se
invece si rendono obbligate strade omologate la situazione dell'Automotive
attuale potrebbe essere purtroppo un precedente.
Altra
questione fondamentale.
L’autonomia;
noi competiamo all'interno del mercato europeo e mondiale dal punto di vista
economico commerciale con territori che godono di maggiori competenze e risorse
rispetto alla Lombardia;
l'autonomia significa consentirci di poter
competere ad armi pari con le altre regioni europee e, allo stesso tempo, di
poter continuare a trainare tutto il paese;
per
noi quindi l'autonomia non è un obiettivo ideologico/culturale ma economico e
consentire più autonomia alla Lombardia è una convenienza per tutto il Paese
visto il grande contributo che la nostra regione dà al PIL nazionale e alle
entrate del bilancio statale.
Ottimista
o pessimista per questo anno?
Io
devo essere ottimista perché l'economia è anche influenzata dal «sentiment»;
se il
nostro ecosistema starà unito, farà squadra e lavorerà insieme noi, ancora una
volta, le difficoltà le supereremo, cambiando e innovando.
Dobbiamo
dunque fare squadra, ci sono purtroppo ancora troppi lombardi in ruoli
istituzionali che non mettono come priorità la Lombardia.
Noi abbiamo il dovere di consegnare ai più
giovani la possibilità di giocarsi le loro carte e vincere la loro sfida nel
luogo dove sono nati e cresciuti.
A
novembre è intervenuto all'assemblea congiunta di Confindustria
Bergamo-Brescia.
Negli
ultimi anni le due Province stanno sempre più collaborando in diversi settori,
crede che sia una cosa positiva?
Si, è
il distretto più manifatturiero d'Europa e loro sanno che da parte mia e di Regione Lombardia avranno tutto il
supporto in questa strategica collaborazione; sono convinto che già da
quest’anno la Regione insieme a loro presenterà una chiara idea del futuro
produttivo di quest'area.
Cambiare
e innovare.
Ma
sono solito parlare a cose fatte e non prima.
Meloni:
«I soldi per la sede di
Acca
Larentia? Contenta che
non sia diventata un fast food».
Rizzi confermato al Dis,
no a
Salvini al Viminale.
Editorialedomani.it
– (09 gennaio 2025) - Redazione – ci dice:
«Le dimissioni di Belloni non
c’entrano assolutamente nulla» con le vicende di Cecilia Sala e di Space X.
Nella
tradizionale conferenza stampa la premier ha detto di non aver saputo del
finanziamento per 30mila euro da parte della Fondazione Alleanza Nazionale
(cassaforte di FdI) necessaria per l’acquisto della sede Msi rivelata da “Domani”.
Il
nuovo direttore del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza sarà il
prefetto Vittorio Rizzi, ha annunciato Giorgia Meloni nella conferenza stampa
di fine anno, precisando che la nomina verrà formalizzata nel consiglio dei
ministri nelle prossime ore.
Meloni
ha affermato che «molte ricostruzioni» sulla direttrice del “Dis”
dimissionaria, Elisabetta Belloni, «non corrispondono a verità».
Le
vicende di Cecilia Sala e di Space X, di questi giorni, «non c’entrano
assolutamente nulla» con le sue dimissioni, che le ha consegnate prima di
Natale.
«Ho
una stima enorme per Belloni», ha detto la premier, «che ringrazio del lavoro
straordinario fatto per la presidenza del G7.
Belloni
è un funzionario capace, coraggioso e di lungo corso e mi pare sia molto ambita
anche fuori dai confini nazionali».
In
apertura della conferenza stampa di fine anno della premier Giorgia Meloni, il
presidente del Consiglio nazionale Ordine dei giornalisti “Carlo Bartoli” ha
espresso «prima di ogni altra cosa, a nome della nostra comunità professionale,
la gioia e il sollievo per il rientro in Italia della collega “Cecilia Sala” e
un grazie a tutti coloro che si sono adoperati per la sua liberazione».
Matteo
Salvini al Viminale, per la premier, «non è nell’ordine delle cose», «sarebbe
un ottimo ministro dell’Interno», ma, precisa Meloni, anche Matteo Piantedosi
lo è.
La
sede di Acca Larentia.
Alla
domanda della nostra Daniela Preziosi, sulla sede acquistata dall’associazione
legata a CasaPound, la premier ha risposto di essere «contenta che la sede
storica del Msi non sia diventato un fast food», ma di non essere stata
direttamente a conoscenza del fatto che la Fondazione Alleanza Nazionale, del
cui cda fanno parte numerose figure di FdI, abbia di fatto reso possibile
l’acquisto con una donazione di 30mila euro alla Fondazione Acca Larentia, di
fatto in mano a CasaPound.
La
sicurezza.
In
risposta a una domanda sul destino dell’agente che dopo aver ucciso una persona
che stava aggredendo gente per strada a Rimini, Meloni ha spiegato di essere al
fianco del poliziotto.
«C'è un signore che accoltella 4 persone e poi
si avventa su un carabiniere.
La prontezza del carabiniere fa sì che non
venga ucciso e anzi impedisce che l'uomo uccida altre persone.
Il carabiniere viene indagato.
Si
dice che sia un atto dovuto, vedremo, io ho chiesto all'Arma dei carabinieri di
sostenere le spese legali della difesa del maresciallo Masini e intendo
chiedere al generale Luongo di conferire al maresciallo Masini un
riconoscimento per il suo valore. Ha fatto il suo lavoro» ha detto la premier,
che annuncia anche modifiche alla legge.
«Ci
dobbiamo porre il problema delle forze dell'ordine che temono di far bene il
proprio lavoro perché rischiano di trovarsi in un calvario giudiziario.
Faremo
un approfondimento delle norme vada fatto».
Space
X.
Su
Space X Meloni afferma di voler fare chiarezza: «Non ho mai parlato
personalmente con Elon Musk di queste vicende», ha detto, aggiungendo di essere
«stupita da come alcune notizie false rimbalzino e diventino centro del
dibattito e continuino a essere discusse dopo le smentite. E non parlo di voi –
ha spiegato rivolgendosi ai giornalisti – ma parlo dell’opposizione
soprattutto».
«Non
so se altri siano abituati a usare la cosa pubblica per fare favori agli amici
ma non è mio costume.
Valuto
gli investimenti stranieri con l’unica lente dell’interesse nazionale e non
delle amicizie o delle idee politiche di chi deve investire», ha concluso.
Meloni
ha spiegato che con Space X la fase è quella delle «interlocuzioni che
rientrano nella normalità», una fase istruttoria:
«Ha
illustrato al governo la tecnologia di cui dispone, che consente comunicazioni
in sicurezza a livello nazionale e soprattutto planetario, e per noi significa
soprattutto garantire comunicazioni sicure nel rapporto con le sedi
diplomatiche e con i contingenti militari all’estero, che sono molto delicate».
Il
caso Sala.
In due
anni di governo, ha detto Meloni, «non ho provato emozione più grande di quando
ho potuto chiamare una madre per dirle che la figlia stava tornando a casa». È
stata la presidente del consiglio a dare notizia alla madre di Sala, Elisabetta
Vernoni, della liberazione della figlia, detenuta dal 19 dicembre in Iran.
«Non
c’è stato un punto di svolta sulla vicenda Sala», ha detto Meloni, perché è
sempre stata seguita con grande attenzione.
Un
caso legato a quello della giornalista italiana è quello di Mohammad Abedini
Najafabadi, cittadino iraniano arrestato a Malpensa il 16 dicembre, su cui
pende una richiesta di estradizione da parte degli Usa.
«Il
caso Abedini è al vaglio tecnico e politico del ministero della Giustizia», ha
spiegato la premier, «è una vicenda che bisogna continuare a discutere con i
nostri amici statunitensi.
Ne
avrei voluto parlare anche con Biden sabato».
Il
presidente uscente degli Stati Uniti Joe Biden ha annullato il suo viaggio in
Italia a causa degli incendi in corso in California.
Le
dichiarazioni di Trump e l’Ucraina.
Meloni
ritiene, inoltre, che le dichiarazioni del presidente eletto Usa Donald Trump
(in una prima conferenza stampa dalla sua residenza privata ha avvertito Panama
e Groenlandia che non esclude l’uso della forza militare nei loro confronti)
«rientrino nel dibattito a distanza tra grandi potenze, è un modo energico per
dire che gli Usa non rimarranno a guardare di fronte alla previsione che altri
grandi player globali muovono in zone di interesse strategico» per gli Stati
Uniti e per l’occidente.
La
premier esclude che gli Stati Uniti «nei prossimi anni si metteranno a tentare
di annettere con la forza dei territori che interessano».
Se compatibile con l’agenda, Meloni volerà
negli Usa per l’insediamento di Trump il 20 gennaio.
Per il
presidente uscente sarebbe un errore, spiega, un disimpegno in Ucraina. «Non
leggo questo dalle sue dichiarazioni.
Ha parlato in più occasioni di “pace con la
forza” e io ho sempre sostenuto che l'unico modo per costringere la Russia a
sedersi ad un tavolo di trattative era costruire una situazione di difficoltà»
sul campo.
La
situazione delle carceri.
In
tema carcere la premier Giorgia Meloni ha detto che il governo sta lavorando
per ampliare la capienza dei detenuti.
A
partire da quest’anno si lavorerà per ottenere più di settemila posti, ma
questi non sono sufficienti.
Secondo
quanto riportano i sindacati attualmente negli istituti penitenziari italiani
ci sono più di 16mila detenuti oltre i limiti massimi.
La
premier non vede altre soluzioni e nega la possibilità di amnistie o indulti.
«Amnistia? Le parole del Pontefice sono rivolte ai governi di tutto il mondo,
non specificamente all’Italia.
In ogni caso intendiamo fare la nostra parte
per garantire condizioni migliori a chi sconta una pena in Italia, solo che noi
dobbiamo adeguare la capienza delle nostre carceri alle necessità, e non il
contrario», affermato.
Nel
frattempo in mattinata è arrivata la notizia di un altro suicidio avvenuto in
carcere, questa volta a Roma nell’istituto di Regina Coeli.
I
centri in Albania.
Sui
centri per migranti in Albania, ora vuoti in attesa della decisione della Corte
di giustizia Ue in primavera, la premier sostiene che «la Cassazione dia
ragione al governo, cioè spetta al governo stabilire i paesi sicuri e il
giudice non può sistematicamente disapplicare, ma può motivare il caso
specifico».
Meloni
ha fatto sapere che «il dispositivo è pronto a partire in qualsiasi momento».
Secondo
la presidente del consiglio, la maggioranza dei leader dei paesi europei
sosterrà la posizione italiana di fronte alla Corte Ue, «anche perché quello
che stiamo sostenendo è perfettamente in linea con il nuovo patto di
immigrazione e asilo».
Libertà
di stampa.
Bartoli
ha lanciato l’allarme su una serie di provvedimenti legislativi, «che
restringono in maniera preoccupante la libera informazione in materia di
cronaca giudiziaria e cronaca nera.
Tutti
conveniamo sulla necessità di trovare un bilanciamento tra due diritti
costituzionali:
il
rispetto della persona e il diritto a essere correttamente e compiutamente
informati.
Oggi,
in Italia, il rispetto della privacy sta però oscurando il diritto dei
cittadini a conoscere quanto accade».
Difendere
il giornalismo, ricorda Bartoli, significa proteggere la democrazia, «il nostro
diritto a essere cittadini informati e consapevoli».
Il
numero record di azioni giudiziarie intimidatorie, sia penali sia civili,
contro i giornalisti – dice Bartoli – «per questo chiediamo di ripensare
totalmente la riforma della diffamazione in discussione al Senato;
speriamo inoltre che il Parlamento voglia
correggere una norma disastrosa, quella sulla cosiddetta presunzione di
innocenza».
Per
Meloni «non c’è alcuna limitazione del diritto di informazione e di essere
informati» e comunque «il governo ha deciso di non inasprire le pene» per chi
«dovesse violare» questa indicazione.
E, in
tema di diffamazione, secondo la premier «non c’è alcuna limitazione della
libertà di stampa» nei provvedimenti del governo.
Ha poi
aggiunto Meloni:
«Mi capita sempre più frequentemente di
trovare virgolettate sui giornali dichiarazioni che mi vengono attribuite di
cose che non ho mai detto e non ho mai pensato.
Mi
capita frequentemente di vedere riportati fatti non avvenuti.
Vorrei
provassimo partendo da questa conferenza stampa a ripartire con un piede
diverso.
Io
assicuro rispetto per il vostro lavoro, mi permetto chiedere rispetto per il
mio».
Dati
verso la “Cina”, “TikTok”, “Shein”, “Temu”
e
altri big cinesi denunciati
per
violazioni del “Gdpr”.
Wired.it
– Riccardo Piccolo – (17-1-2025) – ci dice:
L'organizzazione
per la “privacy Noyb “ha presentato sei denunce in cinque paesi europei contro
i colossi tech, chiedendo sanzioni fino al 4% del fatturato globale.
Privacy sotto la lente.
La
Cina è troppo vicina ai dati degli europei.
O almeno lo è per l'organizzazione austriaca “Noyb”
(None of your business), che ha presentato sei denunce contro altrettanti
colossi tecnologici – TikTok, AliExpress, Shein, Temu, WeChat e Xiaomi – per aver trasferito illegalmente
verso la Cina le informazioni personali dei cittadini europei.
Gli
esposti sono stati depositati presso le autorità di protezione dei dati di
Austria, Belgio, Grecia, Italia e Paesi Bassi, con richieste di sanzioni che
potrebbero arrivare fino al 4% del fatturato globale delle aziende per
violazione del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr).
I
trasferimenti illeciti.
Il
cuore delle denunce riguarda le politiche sulla privacy delle aziende.
Quattro
dei sei colossi tech – “AliExpress”, “Shein”, “TikTok” e “Xiaomi” – dichiarano esplicitamente di
trasferire i dati degli utenti europei in Cina.
Le
altre due società, “Temu”
e “WeChat”,
parlano
genericamente di trasferimenti verso "paesi terzi" che, data la loro
struttura aziendale, secondo l'organizzazione non possono che includere il
territorio cinese.
La
questione è particolarmente delicata proprio alla luce del quadro normativo
europeo.
Il “Gdpr”, infatti, permette sì il trasferimento
di dati personali fuori dall'Unione europea, ma solo verso paesi che
garantiscono un livello di protezione equivalente a quello comunitario.
La Cina, a differenza di nazioni come Canada,
Giappone, Israele e Corea del Sud, non ha mai ricevuto dalla Commissione
europea una "decisione di adeguatezza", lo strumento che certifica
questi standard di sicurezza.
"Data la natura autoritaria dello stato di
sorveglianza cinese, è assolutamente chiaro che la Cina non offre lo stesso
livello di protezione dei dati dell'Ue", ha dichiarato “Kleanthi Sardeli”,
avvocato di Noyb specializzato in protezione dei dati.
Il
caso italiano.
Tra le
sei denunce, quella presentata al Garante per la protezione dei dati personali
di Roma riguarda il caso di un utente italiano contro “Shein”.
L'azienda
cinese avrebbe sistematicamente ignorato le richieste dell'utente di accedere
alle proprie informazioni personali, limitandosi a fornire dati parziali
attraverso una funzione di download automatico che non specifica nulla sui
trasferimenti internazionali.
La
privacy policy dell'azienda, aggiornata al 25 settembre 2023, ammette il
trasferimento di dati verso paesi extra-UE, inclusa la Cina, basandosi su
"clausole contrattuali standard" che, secondo i denuncianti, non
possono garantire una protezione adeguata.
Tiziano
Bonini Baldini al Wired Next Fest Trentino 2024 dice:
"Non
dobbiamo fare allarmismo sull'AI. Non è in cima alla lista dei problemi della
democrazia".
La
società “Roadget Business Pte. Ltd”., che gestisce la piattaforma “Shein”
attraverso una sede a Singapore, si presenta come uno dei maggiori marketplace
globali di moda e lifestyle.
Per
operare in Europa, l'azienda utilizza una complessa struttura societaria che
include diverse entità:
oltre
alla sede di Singapore, esistono società collegate a Hong Kong (Zoetop Business
Co. Limited), in Irlanda (Infinite Styles Ecommerce Co. Limited) e in Cina
(Guangzhou Shein International Import & Export Co. Ltd).
Particolarmente
problematica è la questione della sede europea a Dublino dell'azienda cinese.
“Shein”
sostiene che per tutti i dati degli utenti europei il responsabile del
trattamento sia “Infinite Styles Ecommerce Co. Limited” in Irlanda, ma secondo
la denuncia si tratterebbe di una sede fittizia.
All'indirizzo
dichiarato -
1-2
Victoria Buildings, Haddington Road - risultano registrate oltre 628
società, tra cui diverse che offrono servizi di "rappresentanza UE"
per aziende straniere.
La denuncia sottolinea come sia improbabile
che in quell'edificio, già in parte occupato da un caffè, possano
effettivamente operare i 30 dipendenti tech che “Shein “dichiara di avere in
Europa.
Le
difese e il contesto internazionale.
Tutte
e sei le aziende sono state contattate da Euronews per un commento, ma solo “Xiaomi”
e “TikTok” hanno risposto.
La
prima ha rilasciato una nota:
"Il
rispetto della privacy degli utenti è sempre stato uno dei valori fondamentali
di “Xiaomi”, che comprendono trasparenza, responsabilità, controllo da parte
dell'utente, sicurezza e conformità legale.
La nostra informativa sulla privacy è
sviluppata per rispettare le normative applicabili, come il” Gdpr”.
Conformandoci alle leggi e ai regolamenti
locali vigenti nei mercati in cui Xiaomi opera, i dati degli utenti vengono
archiviati e trattati in conformità con le normative locali.
Qualora
un'autorità nazionale per la protezione dei dati dovesse contattare Xiaomi in
relazione a questo reclamo, collaboreremo pienamente con l'autorità per
risolvere la questione".
“TikTok”
ha assunto una posizione ancora più netta, affermando a Euronews di non aver
"mai condiviso, né è stato chiesto di condividere, i dati degli utenti
europei con il governo cinese".
L'iniziativa
segna un cambio di passo significativo nella strategia di “Noyb” che, dopo aver
preso di mira i giganti tecnologici americani come Apple e Meta, ora sposta
l'attenzione verso oriente in quello che si preannuncia come un nuovo capitolo
della battaglia per la protezione dei dati personali degli europei.
Le denunce arrivano in un momento di crescente
attenzione internazionale sul controllo esercitato dal governo cinese sulle
aziende tecnologiche nazionali (si veda il “caso del ban di TikTok” negli Usa e
in alcuni paesi in Europa), in un contesto dove la protezione dei dati
personali si intreccia sempre più con questioni di sicurezza nazionale e
sovranità digitale.
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