Suicidio dell’Europa.

 

Suicidio dell’Europa.

 

 

Il suicidio dell’Europa.

 Volerelaluna.it – (02-01-2025) - Marco Revelli – ci dice:

 

Cosa diavolo avessero in testa i cinque leader europei, quando hanno deciso di convocare il loro mini vertice sulla “sicurezza” in quel villaggio ghiacciato della Lapponia dal nome impronunciabile – Saariselkä -, è difficile immaginarlo.

Certo è che se si voleva proporre una metafora dello stato presente dell’Europa, una più efficace – e tremenda – di questa non si sarebbe potuta trovare:

un lembo di terra sepolto nella neve e nel buio della notte polare – lì, tra il 6 di dicembre e il 7 di gennaio, non sorge mai il sole -, agli estremi confini del continente (e del mondo), 230 chilometri a nord del Circolo polare artico, temperatura media in questa stagione mai sopra i dieci sotto zero, 350 anime e cinque hotel di superlusso…

Cattivi presagi.

Sul piano del simbolico, suona come una sorta di gelido e oscuro presagio, sul destino di un continente in preda alle pulsioni suicide di una delle classi politiche peggiori che si possano immaginare, qui rappresentata da cinque esemplari che non si sa se usciti da un cartoon natalizio (gli abbracci di rito al patetico Babbo Natale in divisa d’ordinanza che li accoglieva all’ingresso dello chalet) o da un racconto di Lovecraft (quelle facce livide per il freddo, vagamente spettrali) …

Tre provenienti dal Grande Nord, due dal Profondo Sud, in mezzo niente visto il crack sull’asse di crisi che va da Parigi a Berlino, fino a ieri contrapposti – i cinque! – dalla questione dell’austerità e del rigore, oggi accomunati dalla guerra ai migranti e a Putin.

Tutti/e di destra o di estrema destra.

 Leggetevi i curricula, per capire chi siano e cosa ci dicano.

Europa.

L’estone Kaja Kallas, la più alta in grado, si porta dietro il viluppo di passioni tristi della tormentata storia del suo Paese:

 da una parte la vergogna per i periodi in cui servì la peggiore Germania (subito dopo la fine della Prima guerra mondiale quando gli estoni combatterono con i “Frei Korps proto-nazisti” contro l’armata rossa, poi durante la seconda guerra mondiale quando, occupata dai tedeschi, l’Estonia si classificò come primo Paese dell’Asse a essere dichiarato “Judenfrei” grazie anche all’attiva collaborazione della popolazione);

dall’altra parte la voglia di vendetta per la durezza della successiva occupazione sovietica con la deportazione di un buon numero di famiglie, tra cui quella della Kallas stessa.

E ci si chiede se fosse davvero il caso di affidare l’impegnativa gestione della politica estera dell’Unione alla rappresentante di un paese così marginale e dalla vita democratica tanto breve e tormentata.

Poi il padrone di casa, “Petteri Orpo”, “Ministro Capo della Finlandia”, che dall’estate del ’23 guida un governo di coalizione di cui fa parte, con peso, anche il Perussuomalaiset, il partito dei “Veri Finlandesi”, esplicitamente di estrema destra, nazianal-conservatore, violentemente anti-immigrazione, a lungo euroscettico.

Un governo – quello di “Orpo”, definito come quello “più a destra nella storia del suo Paese” – – che infatti si è distinto particolarmente per la chiusura delle frontiere settentrionali e per la pratica sistematica dei “pushback”, i respingimenti di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini dell’Unione Europea, per permettere i quali ha anche modificato la Costituzione e sfidato l’Unione europea.

 

Secondo Lord dell’”asse del Nord” è il primo ministro svedese “Ulf Kristersson”, che guida un governo di coalizione in piedi grazie al sostegno esterno dei cosiddetti “Democratici svedesi”, formazione di ultradestra nei confronti della quale aveva funzionato fino al 2018 un unanime “cordone sanitario” dovuto alle posizioni visceralmente oltranziste dei suoi leader, che però proprio Kristersson aveva cancellato per vincere le elezioni del ’22 e insediarsi al governo.

Severa austerità verso le cicale del sud e chiusura delle frontiere ai migranti ne sono i punti forti.

Al sud, infine, la coppia formata dalla ben nota Meloni (che  lì aveva in testa l’unico obiettivo di portarsi a casa l’OK alla politica di deportazione in Albania…) e dal greco Kyriakos Mītsotakīs, l’uomo delle grandi banche globali, della McKinsey e della destra economica europea, che si vanta di aver smantellato le politiche sociali avviate dal governo di Alexis Tsipras e di aver riconquistato i voti dei neofascisti di Alba dorata (non per nulla ha inzeppato il proprio governo di ministri provenienti dalla estrema destra autoritaria e xenofoba, orientandolo in senso ultranazionalista e vessatorio verso i migranti).

Un bel quintetto di anime nere, verrebbe da dire.

Che, maestri nell’arte della sineddoche, pur costituendo una piccola parte degli Stati dell’Unione parlano come se fossero il tutto (“L’Europa è con noi” ha proclamato al ritorno Giorgia Meloni a proposito della sua aberrazione albanese).  E verrebbe da denunciarli per appropriazione indebita, se non fosse che forse siamo noi, che ce ne indigniamo, a soffrire di un’illusione ottica, mentre loro, nella loro impudenza, già esprimono, o quantomeno anticipano, la realtà della nuova Europa che ci è venuta mutando sotto i piedi, prima lentamente, poi sempre più veloce.

Ciò che Livio Pepino, su queste pagine, chiama “La fine del sogno europeo”.

Europa.

Un’Europa ex origine asociale.

In effetti l’ultima volta che, nella nostra area politico-culturale, abbiamo ragionato a fondo sulla vera natura dell’Unione Europea e sui suoi limiti è stato nel 2015, sotto l’effetto dello shock prodotto dall’esecuzione sommaria per strangolamento delle aspirazioni del neonato governo di sinistra in Grecia, come ricordiamo tutti:

 le riserve monetarie prosciugate dalla Bce per mano di Mario Draghi, i pensionati in fila davanti ai bancomat vuoti, gli ospedali senza medici e medicine, il referendum con cui a grande maggioranza i greci avevano detto no ai diktat della Troika considerato non un diritto politico ma una colpa di lesa maestà…

Allora capimmo perfettamente come l’Europa nata a Maastricht dal primato del Mercato più che della Politica, non solo aveva assunto come propria costituzione materiale i principii di quel neoliberismo che andava sorgendo un po’ovunque in Occidente sulle ceneri del precedente grande “patto socialdemocratico”, ma che li aveva poi sviluppati nel tempo su una matrice per molti versi più rigida e socialmente feroce.

 Quella che va sotto il nome di “Ordo-liberismo”, in cui le logiche rigorosamente privatistiche delle relazioni sociali vengono garantite e rafforzate dall’intervento del potere pubblico che se ne fa garante ed esecutore, con una tipologia di “azioni” assai ampia, da parte di istituzioni e attori diversi, dalla Banca centrale, ai singoli Commissari dotati di rilevanti poteri, alla Commissione e al Consiglio, tutti comunque accomunati dalla scarsa anzi pressoché nulla responsabilità di fronte ai cittadini e agli elettori.

Tutto ciò colpiva al cuore, con tutta evidenza, quello che era stato un pilastro fondamentale dell’idea di un’Europa Unita così come era stata formulata in quello che a ragione è indicato come il suo documento costituente – il Manifesto di Ventotene, del 1941 -: il principio fondate della giustizia sociale.

Del contrasto all’ineguaglianza e all’ ingiustizia.

O, come scrissero appunto allora Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi – l’affermazione secondo cui “le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per le forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime”.

Un tradimento delle origini di cui eravamo perfettamente consapevoli.

(Luglio 2015 – La Banca di Grecia presidiata dalla polizia – Un pensionato in lacrime davanti al bancomat vuoto).

 La fine della pax europea.

Rimaneva tuttavia ancora in piedi – o così poteva allora sembrare – almeno un pezzo, o una traccia, del secondo pilastro indicato dai padri fondatori, e cioè il contrasto alla Guerra.

Un’Europa unita in forma federale come antidoto alle sue antiche pulsioni militariste e belliciste.

Un’Europa fattrice e fautrice di Pace, dopo tanto sangue versato sul proprio territorio.

 In effetti fino al 2014 l’Europa aveva svolto un ruolo di mediazione e di moderazione dei tentativi americani di usare l’espansione della Nato verso est al fine di destabilizzare e indebolire la Russia, preferendo una politica di “raffreddamento” delle tensioni alimentate soprattutto dai new membri baltici ed est-europei.

 

Ancora al vetrice NATO di Bucarest dell’aprile 2008 – definito il più importante del dopoguerra – Bruxelles si era opposta alla proposta USA di invitare l’Ucraina nell’Alleanza, consapevole del carattere di “provocazione” che ciò avrebbe rappresentato (allora il Paese era violentemente agitato dalla lunga coda della “rivoluzione arancione”).

E poi, nel 2014, nel corso degli eventi, tanto tragici quanto oscuri, di piazza Maidan a Kiev, si era posta in una posizione di dissociazione, sia pur tacita, rispetto alla forzatura americana verso quello che si sarebbe configurato come un vero colpo di stato.

 Esemplare l’espressione volgare di “Victoria Nuland” nella telefonata con l’ambasciatore “Pyatt”, diventata virale dopo la sua pubblicazione su YouTube: “Fuck the EU” (gli europei vadano a farsi fottere).

 

La “Nuland” non era una qualsiasi villana di passaggio, era la plenipotenziaria per le questioni dell’Est e in particolare per l’Ucraina da parte dell’amministrazione americana.

E quella telefonata non testimoniava solo della tradizionale ostilità e diffidenza degli americani nei confronti degli europei considerati non abbastanza affidabili e determinati, e mal sopportati fin dal momento della nascita dell’Euro vissuta come minaccia al monopolio del dollaro (su L’ America e noi si veda sul nostro sito la serie di articoli sul Tradimento 1 e 2).

 Ma metteva anche a nudo il ruolo di vera e propria cabina di regia svolto dalla coppia “Nuland-Pyatt” nella catena di eventi che dalle manifestazioni antigovernative in Piazza Maidan, passando per la strage del 20 febbraio, fino alla destituzione del presidente in carica “Viktor Janukovič” , li vide particolarmente attivi nell’orchestrare l’azione di sostituzione della leadership a Kiev.

 Un impegno condotto fin nei particolari, che va dal coordinamento tra i gruppi di estrema destra presenti sulla piazza (i paramilitari di “Pravi Sektor” e i neonazisti di “Svoboda” in prima linea), alla posizione da assegnare ai loro leader (Oleh Tyahnybok in particolare, alcuni dei cui uomini saranno in seguito sospettati di aver fatto parte del gruppo di cecchini che compì la strage), fino alla scelta del successore” Arseny Yatsenyuk” chiamato amichevolmente “Yats” nella conversazione (un’accurata ricostruzione nel saggio accademico del prof. Ivan Katchanovski dell’Università di Ottawa).

 

Se si considera che gli europei erano comunque orientati verso un’altra candidatura nel caso di sostituzione del presidente in carica, e soprattutto che tendevano ad attestarsi sull’accordo in dieci punti siglato nella notte del 21 febbraio tra Janukovič e i leader dell’opposizione alla presenza tre ministri degli esteri dell’Unione europea – il polacco Sikorski, il francese Fabius e il tedesco Steinmeier -, accordo poi travolto dall’azione dal basso dei manifestanti più intransigenti che determinò la fuga del Presidente con molti suoi ministri e dal voto immediato del Parlamento che ne certificava la destituzione, si ha la misura di quanto l’Europa sia stata in effetti estromessa dalla gestione del punto più drammatico della crisi Ucraina.

Dopo di allora, e la conseguente occupazione russa della Crimea, tutto sarebbe stato diverso.

 

Europa.

L’ésprit de commerce tedesco.

Il merito principale di questa politica europea di “appeacement” sul fronte nord-orientale, il più pericoloso nella prospettiva della precipitazione di un possibile conflitto generale (diverso il discorso sulla ex-Jugoslavia dove l’Europa ebbe invece un ruolo ben peggiore), è soprattutto della Germania.

Da decenni la potenza che geopolitica ed economia avevano posto come baricentro continentale, con responsabilità superiori alle altre, aveva assunto nei confronti dell’universo che si estende sul versante orientale un atteggiamento di cauta apertura e di progressiva cooperazione economica secondo una logica di coesistenza pacifica.

 La spingeva in questa direzione non solo il più che giustificato senso di colpa per i misfatti compiuti dai propri eserciti negli anni quaranta, e il desiderio di cancellare l’immagine dei tedeschi come feroci aggressori da parte dei popoli che ne erano stati vittime, ma anche un ordine più complesso di ragioni, culturali, strategiche ed economiche.

 In termini generali una sorta di sguardo stereoscopico ben radicato nello spirito tedesco, volto a bilanciare il fascino oceanico dell’Occidente con l’attrazione ctonia dei territori orientali.

 La diade mare-terra concettualizzata da Carl Schmitt.

Velocità e profondità.

 Zivilization e Kultur, in un equilibrio simmetrico necessario per mantenere una propria autonomia strategica.

 E poi, all’inizio, la preoccupazione, prevalentemente tattica, di aprire la strada alla possibile riunificazione delle due Germanie, che aveva prodotto l’Ostpolitik inventata da Willi Brandt fin dall’inizio degli anni ’70, proseguita poi dal cancelliere Schmidt e dallo stesso Helmut Kohl, convinti com’erano che un clima di buon vicinato con l’Unione Sovietica fosse necessario per favorire le proprie speranze.

Una prospettiva che tuttavia non si esaurì col raggiungimento dell’obbiettivo della riunificazione, ma proseguì con i successori “Gerhard Schröder,” e con la stessa “Angela Merkel”, nella convinzione, questa volta, che fosse nell’interesse dell’economia tedesca (e in subordine europea) una sia pur sorvegliata integrazione con i mercati, e soprattutto con la fornitura di materie prime e di energia di cui era ricca la Russia.

Convinzione a sua volta, sostenuta dalla visione strategica del “Wandel durch Handel” (“cambiamento attraverso il commercio”) e di “una specifica consequenzialità̀ fra commercio, creazione della classe media e democrazia” come veicolo di democratizzazione di quelle terre “irredente”.

Oltre che dall’evidenza empirica di una potenziale virtuosa sinergia tra l’abbondanza di capitali e di alta tecnologia tedesca e la disponibilità di risorse naturali a basso costo e di una domanda in possibile crescita dell’area russa: ciò che infatti ha permesso alla locomotiva tedesca di correre trainando buona parte dell’Europa.

(Agosto 1970 – Il cancelliere tedesco Brandt sottoscrive il “trattato di Mosca”).

L’ésprit de conquête atlantico.

 

Tutto questo ha subito una brusca battuta d’arresto col 2014.

Ed è crollato definitivamente nel febbraio del 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina.

La Merkel, che nel 2008, subito dopo l’avvio della guerra in Ossezia del Sud, aveva invocato una linea moderata nei confronti di Mosca, e che nel giugno del 2010 aveva ricevuto nella residenza di Meseberg il presidente russo Medvedev per risolvere il conflitto in Transnistria, dovette accettare invece le sanzioni imposte alla Russia dopo l’invasione della Crimea.

Svolse ancora un ruolo di rilievo nella stipulazione degli accordi di Minsk, ma non poté far nulla per farli rispettare, e dovette rassegnarsi a vedersi passare sotto il naso i massicci flussi di armamenti con cui la Nato preparava l’Ucraina al successivo conflitto.

 Mentre spetterà al suo successore “Viktor Scholz”, subito dopo il famigerato 24 febbraio ’22, contribuire a smantellare l’intera infrastruttura di accordi, rapporti politici e culturali, contratti di collaborazione industriale e commerciale (alcuni estremamente vantaggiosi) che si erano stratificati nel tempo, cancellando in un attimo cinquant’anni di politica tedesca.

 

È difficile capire che cosa avesse in testa la leadership europea quando in un batter d’occhio ha deciso di buttare a mare tutt’intera la tradizione tendenzialmente pacifica del proprio continente.

 Intendo la leadership dei principali Paesi europei, quelli fondatori (per baltici, scandinavi e polacchi non poteva esserci di meglio), che si è lasciata afferrare, senza la minima resistenza, dal maelstrom della guerra, rinunciando a svolgere un qualsiasi ruolo autonomo (per impedirne l’esplodere, prima, per tentare ogni via diplomatica per fermarla, poi), accettando di fatto che l’intera Unione europea fosse assorbita pressoché senza residui da un’alleanza militare come la Nato, a indiscutibile egemonia americana.

Piegandosi all’esclusiva logica delle armi, del “sempre più armi” come segno di fedeltà.

Allineandosi a una politica di sanzioni senza precedenti per estensione e durezza, incuranti degli effetti boomerang di esse.

In pratica cancellandosi come player non solo sullo scacchiere globale ma nell’ambito della propria stessa area continentale:

 quella che della guerra era ed è destinata a pagare il prezzo più alto, in termini sia di sviluppo economico che di rischio militare.

Certo, l’assunzione di una decisione così grave e gravida di conseguenze nefaste senza la minima consultazione popolare e la considerazione della volontà dei propri cittadini, è stata resa possibile e facilitata dall’architettura scombinata delle istituzioni europee, sbilanciate fortemente sull’autonomia degli esecutivi.

Sono infatti i governi dei singoli Paesi a comporre il Consiglio il quale a sua volta indica il nome del Presidente della Commissione europea che dovrà poi essere approvato dal Parlamento ma nell’esercizio del proprio mandato dovrà rispondere minimamente delle proprie decisioni.

 Ed è ancora il Consiglio a nominare l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è anche vicepresidente della Commissione, mentre i nomi dei Commissari sono indicati dai singoli governi (ancora gli esecutivi!) e le deleghe assegnate dalla Presidente della Commissione.

Dunque una struttura solo in minima parte controllata e controllabile “dal basso”, sostanzialmente in mano alle élites di governo.

Tutto vero.

Ma ciò non fa che rendere più drammatica la domanda di cui sopra:

cosa passava per la testa di quell’élite, che per definizione dovrebbe essere meno propensa alle ondate emotive e più “razionalmente calcolante”?

Quali argomenti possono averne suggerito la logica suicidaria che l’ha portata prima ad astenersi dal minimo tentativo di evitare il precipitare della situazione e poi, dopo la decisione criminale e altrettanto sucida della leadership russa di varcare il Rubicone dell’invasione, a escludere ogni possibile ruolo di mediazione per fermare le ostilità o quantomeno limitarne l’incrudelimento, come ci si sarebbe potuto aspettare dalla tradizione europea?

 E anzi ci si è gettati a corpo morto nell’escalation che ne è seguita.

Determinanti di “senso dell’insensato”.

 

La nube tossica dei commenti della prima ora da parte delle massime autorità europee (la Presidente della Commissione Ursula von der Layen, il Presidente del Consiglio Jean Michel, l’Alto Rappresentante per la politica estera Josep Borrel, la Presidente del parlamento Roberta Metsola), tutti perfettamente allineati con i commenti del Segretario Generale della Nato Stoltemberg e del Segretario di Stato americano Blinken, riproducono, con minime varianti, gli stessi luoghi comuni.

Sintetizzabili sostanzialmente in due punti, peraltro tra loro clamorosamente contraddittori:

 1) L’idea (pessimistica) che l’invasione dell’Ucraina non fosse che il primo passo di una strategia neo-imperiale russa di espansione ad ovest capace di minacciare l’intero continente (da Kiev a Lisbona, sparò grosso qualcuno).

 2) La convinzione (ottimistica) che grazie all’effetto congiunto di un massiccio invio di armi e di pesanti sanzioni la Russia sarebbe implosa e il potere di Putin (individuato come unico dark lord colpevole di tutto), sarebbe finito.

Europa Ora, come ognuno può vedere, il combinato disposto dei due assunti dà luogo a un dispositivo retorico dal forte impatto emotivo ma segnato da un evidente cortocircuito logico, in cui una proposizione contraddice l’altra e viceversa.

 Se fosse vera la volontà russa di ”conquistare l’Europa” dal Dniepr all’Atlantico avendone potenzialmente la forza, allora sarebbe impensabile provocarne il collasso militare ed economico con la semplice fornitura di armamenti all’Ucraina sia pur accompagnata da sanzioni economiche ma sarebbe stato necessario contrastarla direttamente da subito in uno scontro totale;

se invece si fosse davvero convinti che sarebbe sufficiente armare l’esercito ucraino e stare a guardare i risultati delle sanzioni per battere sul campo gli invasori in pochi mesi con una vittoria finale e definitiva, allora se ne dovrebbe concludere che la Russia di Putin non è quel pericolo mortale per tutti che si evocava, per il semplice fatto che non avrebbe avuto, fin dall’origine, la forza e le risorse in uomini e mezzi per dilagare oltre quel confine interno ucraino che separa il Donbass dal resto del Paese e che i russi non riescono se non a costi altissimi ad avvicinare.

Dunque, per basse che siano le capacità cognitive della classe dirigente europea, esse non possono essere così infime da farne dipendere i comportamenti e le decisioni da argomenti tanto inconsistenti.

Le “determinanti di senso” del loro agire – per usare una formula weberiana – devono essere state altre.

O quantomeno una variante di queste meno rozza.

 

È possibile – questo sì -, che prestando orecchio alle Sirene che cantavano dalle bianche scogliere di Dover, gli estenuati governanti europei abbiano sottovalutato le capacità dei russi di resistere sul medio-lungo periodo a una guerra di logoramento.

 E che dunque si siano illusi che non in pochi mesi, ma in qualche anno, alzando sempre più il peso degli armamenti introdotti, e dunque i costi della guerra, si sarebbe forse potuto sperare in una sorta di implosione di quello che rimaneva del sistema imperiale post-sovietico, aprendo una prateria in cui arraffare gratuitamente o quasi quelle materie prime e l’energia che prima avevano dovuto, sia pur a prezzo favorevole, acquistare.

Una sorta di neo-colonialismo post-imperiale, avvolto in un involucro spesso di cinismo (che ogni mese in più di “attrito” significasse la morte di migliaia di ucraini – e simmetricamente di russi – poco importava).

E animato da una dose impressionante di azzardo (la scommessa era che a ogni scatto in avanti nell’escalation l’altra parte fosse tanto “ragionevole” da non superare nella risposta la soglia dell’uso dell’arma nucleare, un po’ come nel gioco mortale del “James Dean” di Gioventù bruciata):

 un azzardo, ovviamente, gravido di stupidità, perché nulla impedirebbe a una Russia condotta sull’orlo dell’abisso di praticare la logica del “muoia Sansone con tutti i filistei” e di impiegare l’arma “fine del mondo” che pur possiede in abbondanza, ma tant’è.

La ludopatia è una patologia che non ammette capacità di ragionamento.

Un ruolo di rilievo deve averlo avuto anche l’industria delle armi, la cui capacità di convincimento è pari alla quantità di miliardi che è in grado di movimentare e la cui lobby tiene al guinzaglio corto una buona parte dei decisori pubblici di qua e di là dell’Atlantico.

Sono gli unici che hanno tratto vantaggio dal massacro ucraino, con fatturato, utili netti, capitalizzazione in borsa schizzati alle stelle nell’ultimo triennio:

 si pensi a un colosso come la tedesca “Rheinmetall” (carri armati e veicoli militari), le cui azioni tra il 2021 e il 2024 sono cresciute del 646% (da 83,6 a 819,5 milioni di euro);

o alla norvegese” Kongsberg” (componenti per aerei da guerra e missili), +177%; alla giapponese” Mitsubishi Heavy Industries “(oltre a tecnologie per l’acqua calda e la climatizzazione, aerospazio, carri armati, navi da guerra) +169%;

per non dimenticare le “nostre” Leonardo(+72%), Avio (+64%), Fincantieri (+58%)… Sono “l’armata internazionale dei guerrafondai” di cui ha parlato in questi giorni Domenico Quirico, “con l’arsenale gonfio di miliardi e di bugie” che non si sono solo arricchiti con la rendita della “guerra grossa, ricca, quella … delle tonnellate di munizioni (e di uomini) consumate in poche ore” che hanno alimentato, ma anche sulla pianificazione negli anni, forse nei decenni prossimi, di una spesa militare crescente, per cui non basta più nemmeno il 2% del Pil, si deve salite al 3%, poi al 4%, forse al 5%…

 

 Economia di guerra.

 

Ed è questo il terzo ordine d’idee che deve aver invaso – e offuscato – la mente dei nostri governanti negli ultimi anni.

La prospettiva di una riconversione sistemica dell’economia europea – e di questa nel quadro complessivo di quelle occidentali – in economia di guerra.

 Verso un modello economico, cioè, che ridefinisce la propria scala di priorità intorno all’opzione bellica posta tra i primi punti della propria agenda.

D’altra parte non lo nascondono nemmeno.

Nonostante tutto ciò configuri una svolta epocale, di quelle che stabiliscono lo spartiacque tra livelli di civiltà, il concetto è scivolato quasi silenziosamente al centro della governante occidentale, senza uno straccio di dibattito serio.

“Mettere l’economia in assetto di guerra” è stata la direttiva riassunta esplicitamente dal presidente del “Consiglio d’Europa uscente Charles Miche”l per indicare la linea ribadita con “Ursula von der Leyen” al momento della conferma alla presidenza della Commissione europea dopo le elezioni di maggio 2024.

 E Mario Draghi, che già nel marzo del ‘22, a margine del Consiglio europeo a Versailles sulla guerra in Ucraina, aveva anticipato la necessità di adattarsi a una logica di “war economy,” nel suo recente Rapporto redatto su incarico della von der Leyen, ha ulteriormente enfatizzato la prospettiva di una crescita degli investimenti nel settore della difesa, da ottenere “orientando in tal senso le politiche di prestito della Banca europea degli investimenti” e da considerare come condizione essenziale perché l’Ue possa “tenere il passo con i suoi concorrenti globali”.

 

Questa svolta nel senso di un’inedita militarizzazione dello spazio economico europeo figura tra i primi punti (l’altro riguarda il green deal, ma suona più come residuo di un’idea già obsoleta che come vera e propria priorità) di un documento programmatico come questo di Draghi, orientato a un cupo pessimismo sulla possibilità dell’Europa di sopravvivere alla crisi della propria economia.

Per certi versi a una vera e propria disperazione.

 L’ipotesi di un volume d’investimenti da 800 miliardi di euro all’anno, il doppio del vecchio Piano Marshall in punti di Pil, assomiglia più che a una possibile soluzione all’heideggeriano “solo un dio ci può salvare” (infatti nessuno l’ha preso sul serio).

E forse è proprio questa, della disperazione, la chiave per capire l’atteggiamento di una (misera) classe politica talmente avvolta nel viluppo di contraddizioni che non riesce più a controllare né tantomeno a risolvere (la crisi climatica, l’enorme debito pubblico e privato accumulato, la penuria di materie prime e di energia, la perdita di egemonia sul contesto globale…), da essere tentata di rovesciare il tavolo su cui gioca la propria partita mortale.

 Un po’ come quei giocatori che prima di subire lo scacco matto danno il giro alla scacchiera.

E cosa, meglio della Guerra, può generare questo scarto nelle regole del gioco? Questo passaggio a un tempo nuovo – il “tempo della Guerra”, appunto – in cui non valgano più le vecchie responsabilità cui non si era stati all’altezza, e ognuno può tentare di giocarsi le proprie chances col grado di libertà che solo il caos può consentire.

 

Muoia Sansone con (quasi) tutti i filistei.

Non so quanto questo” mood grondante thanatos” appartenga ai pensieri consci dell’élite governante che siede a Bruxelles, o se non operi piuttosto nella forma dell’inconscio freudiano, producendo tic, lapsus, atti mancati ma restando al di sotto della linea della coscienza.

E limitandosi a suggerire un opaco conformismo che rende ognuno di essi desideroso di “essere come tutti” (i propri “colleghi”).

Ne fa fede – di questo conformismo avvelenato – un documento a mio avviso sconvolgente, votato a maggioranza dal neonato parlamento europeo il 28 novembre (390 favorevoli, 135 contrari, 52 astenuti), e contenente l’equivalente di una dichiarazione di guerra rivolta non solo alla Russia ma a una parte consistente del mondo.

 Un documento verbosissimo, pleonastico, dove in 21 premesse e 34 punti si intimava alla Russia di ritirare “incondizionatamente tutte le forze e le attrezzature militari dall’intero territorio”, col contemporaneo rilascio di tutti “i prigionieri di guerra ucraini detenuti illegalmente” e il risarcimento all’Ucraina di tutti “i danni causati alla sua popolazione, alla sua terra, alla sua natura e alle sue infrastrutture” (col risultato di escludere a priori l’Europa da qualsiasi funzione di mediazione in vista di una possibile trattativa di pace);

 si impegnavano i massimi rappresentanti dell’Unione Europea “a mantenere il loro fermo sostegno all’Ucraina” aggiungendo che – testuale! – anche “il presidente eletto degli Stati Uniti dovrebbe fare altrettanto”;

si proclamava che “qualsiasi esito che non sia la vittoria dell’Ucraina” sarebbe considerato “una sconfitta strategica sia per l’Europa che per gli Stati Uniti, e avrebbe conseguenze di vasta portata per la loro sicurezza”;

 si condannava “con la massima fermezza” la Cina per la “fornitura di beni a duplice uso e di prodotti militari alla Russia” sottolineando che un rifiuto di cessarne “comprometterebbe gravemente le relazioni bilaterali UE-Cina” diffidando allo stesso tempo i singoli Stati europei da un’eccessiva dipendenza dalla Cina che ne minerebbe “la credibilità quanto alla capacità di salvaguardare la propria sicurezza nazionale e l’UE nel suo complesso”;

si sottolineava, di conseguenza, “la necessità di una strategia globale dell’UE per affrontare le più ampie implicazioni delle alleanze autoritarie, in particolare tra Russia, Corea del Nord, Bielorussia, Iran, Cina e altri Stati che mettono a repentaglio l’ordine internazionale basato su regole (in pratica buona pate del mondo non NATO);

si approvava entusiasticamente “la decisione del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden di consentire all’Ucraina di utilizzare sistemi missilistici avanzati su obiettivi militari situati in territorio russo”, e si invitava “l’UE e i suoi Stati membri a fare altrettanto, cioè a “rafforzare ulteriormente il loro sostegno militare all’Ucraina, anche attraverso la fornitura di aerei, missili a lungo raggio, compresi i missili Taurus” deplorando – cosa inaudita! – “il recente colloquio telefonico del cancelliere tedesco con Vladimir Putin”.

 Nel leggerlo, quel documento che porta l’ermetica sigla “P10_TA(2024)0055”, è difficile sottrarsi alla terrificante sensazione che siamo già, a nostra insaputa, coinvolti nella Terza guerra Mondiale.

 E vien da chiedersi se davvero quegli oscuri peones che l’hanno approvata “sanno quel che si fanno”.

 

Chi invece sa benissimo cosa fare e cosa pensare, è la piccola schiera dei grandi burattinai, gli dei asconditi che celati alla vista di noi mortali dalle distanze siderali che separano le loro fortune da quelle dei comuni terrestri, disegnano in solitudine le sorti a venire dell’umanità.

 Da qualche tempo mi è sorto maligno il dubbio – giusto un tarlo, per ora, forse frutto di un pensiero patologico -, che neppure loro – anzi, forse loro per primi – non vadano immuni dall’opzione “fine del mondo” come possibile soluzione all’impasse attuale.

 In fondo, sanno benissimo che la loro vertiginosa ascesa degli ultimi decenni ha, per molti versi, (quasi) raggiunto il tetto.

 Che il loro celeste impero poggia su un’iperbolica bolla finanziaria – bolla di carta, dunque – a sua volta alimentata da un gigantesco debito (degli Stati, dei cittadini, delle grandi macchine che muovono il denaro).

 Che l’espansione del loro potere, in particolare della famelica capacità estrattiva di ricchezza che non può mai fermarsi pena il rinculo, ha dei limiti.

Limiti fisici:

 il pianeta resiste, con i propri mutamenti climatici.

Demografici: la quantità di popolazione da “mettere al lavoro” non solo come produttori ma come consumatori, non è dilatabile ad libitum.

Geopolitici:

lo “spazio liscio” della prima globalizzazione li aveva illusi, ma ora è evidente che ci sono spazi, anche ampi spazi, -“spazi imperiali” -, che non sono facilmente penetrabili.

Molti di questi ospitano quelle “terre rare”, quei materiali fino a ieri marginali ma oggi vitali per le nuove tecnologie, per appropriarsi dei quali non basta la vecchia politica delle cannoniere.

 In questo stadio, la tentazione della “grande fiammata”, dello strike che in un colpo solo, sia pur catastrofico, riallinea tutte le pedine, rende di nuovo liscio lo spazio prima striato e sezionato, rimette in moto la pompa aspirante della depredazione globale, è davvero così impossibile da non poter neppur essere concepita?

In fondo per gente che vive ormai da anni in un iperuranio dorato, senza rapporti col mondo di sotto che non siano di tipo predatorio, che cosa sarebbero qualche decina di bombe atomiche, qualche milione di morti, qualche centinaio di città cancellate?

Tutto sommato un prezzo accettabile, se necessario per garantirsi la propria riproducibilità come élite dominante, in un mondo in cui non funziona più neppure il terrore dell’olocausto nucleare, relativizzato ora dalla possibilità di selezionarne socialmente le possibili vittime e i probabili sopravvissuti.

 Il che spiegherebbe la nonchalance con cui si è trattata in questi anni la minaccia del ricorso all’arma nucleare nei quartier generali in cui si decidono le guerre combattute (per ora) dagli altri ed eventualmente, tra poco, dai “nostri”.

 

Lo so che è un pensiero impensabile, questo, che ci sbalza in uno spazio totalmente altro da quello in cui abbiamo vissuto e viviamo la nostra quotidianità politica.

Uno spazio in cui i problemi dell’Europa di cui si è parlato sopra si relativizzano, perché diluiti in uno scenario che pone il Vecchio Continente nell’ambito delle variabili dipendenti.

 Ma, io credo, è un pensiero con cui dobbiamo, almeno come esercizio mentale, provare a misurarci.

 Se non altro per non doverci trovare spiazzati, nel momento in cui, almeno in parte, uno scenario simile dovesse materializzarsi.

 E non dover scoprire che mentre ci accanivamo a pensare al “Che fare con l’Europa cadente del nostro presente – Uscirne? Restarci?

Provare a cambiarla? Come? –

eravamo già in una situazione di Europa caduta.

(Marco Revelli. È titolare delle cattedre di Scienza della politica).

 

 

 

 

La guerra suicida dell’Europa.

Centroriformastato.it – Michele Prospero - L’Unità” del (30.05.2024) – ci dice:

Le forze progressiste europee sono sedotte dalla narrazione di una guerra inevitabile, condotta in nome dei valori occidentali e della democrazia.

La stessa democrazia erosa all'interno del continente e che solo in una Europa come progetto di pace potrebbe ritrovare vitalità.

Il dado è tratto?

È certo paradossale che mentre incombe la guerra allargata, spacciata ormai apertamente dalle élite occidentali come un destino cui è vano opporsi, le elezioni europee si giochino solo sui volti dei leader e sugli effetti di polarizzazione del gergo colorito di un capo di governo.

Ancor più assurdo è che a spingere senza alcuna remora per imboccare la via del confronto armato generalizzato siano le famiglie verdi, liberaldemocratiche e socialiste.

Alle correnti progressiste, alle prese con la benedizione delle nuove armi e il dilemma dell’invio di truppe, serve una evidente carica etica per giustificare una escalation che dopo un biennio di sangue prenota altre distruzioni.

La genesi della lunga campagna d’Oriente, ai loro occhi, non può essere scrutata nelle tangibili pratiche di inimicizia connesse alla dissoluzione di un impero sconfitto.

La reale scaturire delle ostilità deve essere rimossa e affogata in una overdose di buoni sentimenti.

Senza una mistificante ubriacatura teologica, che evoca continuamente i valori dell’occidente messi a repentaglio o la sorte dell’intera Europa appesa a un filo, la guerra di lunga durata chiamerebbe in causa anche i rischi incautamente prodotti da una illimitata volontà di potenza della NATO.

 

Comprendere la complessità, oltre la divaricazione manichea tra Bene e Male, non è compatibile con il tempo delle bombe salutato come la prova più affidabile per l’apprensione della Verità.

Eppure nessuna retorica sulla steppa ucraina quale ultimo terreno metafisico per la custodia degli stili di vita nostrani potrà cancellare l’impatto sprigionato dal calcolo smisurato degli americani.

Trent’anni fa intendevano non solo brindare ai rapporti di forza sorti dopo l’implosione del nemico, ma stravincere oltre le stesse necessità di una governance mondiale.

Portando ovunque le insegne dell’Alleanza atlantica, hanno dilatato la funzione del patto spingendolo ben al di là dell’originaria missione difensiva.

Tra le matrici effettive della contesa esplosa con l’“operazione speciale” russa dominano anche il mancato rispetto della parola data alla leadership sovietica, la esibizione muscolare di fronte al fatto compiuto del crollo dell’Urss, l’azzardo di una estensione inaudita dell’influenza su aree che sarebbe stato prudente mantenere in condizione di neutralità.

Di ciò si deve tacere, e per ottenere la rimozione delle cause dell’urto bellico viene gettata l’esca della morale, perché altrimenti la richiesta di una mobilitazione militare ad oltranza cadrebbe nel vuoto.

Non è però agevole spegnere d’incanto le ragioni corpose dei contrasti geopolitici e inoltrarsi nel regno delle favole edificanti.

 L’opinione pubblica stenta a credere che l’esercito russo nel 2022 abbia inaugurato le prove generali per la conquista dell’Europa.

Pochi bevono la narrazione secondo cui Kiev rappresenta solo la prima tappa di una lunga marcia che porterà presto l’armata di Putin sino a Lisbona.

Senza questa gracile copertura ideologica, che predica un crescendo guerresco come risposta inevitabile dinanzi alla libertà di tutti altrimenti minacciata, le forze progressiste non disporrebbero di argomenti utili per coprire i fallimenti della loro subalternità strategica alle direttive del comparto politico-militare d’oltreoceano.

Comunque evolva lo scontro nelle trincee, l’Europa è il sicuro perdente della battaglia ibrida finita fuori controllo.

 Non ha inciso nel governo razionale degli equilibri geopolitici del dopo Guerra fredda e ha rinunciato in maniera preventiva a qualsiasi iniziativa politica destandosi a duello ormai scoppiato.

La scelta di accelerare i tempi, per tramutare senza più infingimenti un conflitto per procura in un coinvolgimento ancora più diretto nel fuoco, è nient’altro che il certificato di un suicidio storico dell’Europa.

La sterilità delle sue antiche culture politiche affiora nitidamente sugli elmetti allacciati con largo anticipo dai leader della sinistra, che aspirano a essere le prime linee nella difesa della democrazia sotto tiro.

I costi sociali ed umani dell’economia di guerra potrebbero però consegnare il potere proprio alle formazioni illiberali attratte per loro intima convinzione dal verbo putiniano di tradizione, sacro e “democrazia sovrana”.

Che dopo “Colle Oppio” anche in Francia la destra radicale abbia per motivi di pura opportunità afferrato il vangelo atlantico, non cambia i timori di una Europa imbrunita.

In un Vecchio continente sempre più tinto di nero, da Roma a Stoccolma, da Budapest a Parigi, il chiacchiericcio sulla libertà in pericolo per l’assedio di Kiev si dileguerà.

Con il trionfo dei partiti che guardano alle democrature, i quali troveranno altro alimento dalle possibili brutte notizie provenienti dalle presidenziali di novembre, lo scacco sarà definitivo.

 

Invece di perdersi dietro il “chissene-frega” di una statista per caso, la sinistra dovrebbe dichiarare che il problema principale, quello che fa la differenza nell’agenda elettorale, è ricercare una soluzione negoziale alla crisi in atto.

Una sinistra che non sa recuperare il mito dell’Europa nata per l’appunto come un grande progetto di pace si barcamena tra frasi insensate che la conducono vicino all’oblio.

 

 

 

Gaza e Ucraina: va in scena

 il suicidio dell’Europa.

   Volerelaluna.it – (16-09-2024) - Piero Bevilacqua – ci dice:

 

Da quanto tempo i vari rappresentanti dell’amministrazione USA annunciano come prossimo il cessate il fuoco a Gaza?

 E ora, dopo 10 mesi di massacri, oltre 40 mila morti, gran parte degli edifici abbattuti, gli ospedali e le scuole rasi al suolo, centinaia di giornalisti e volontari soccorritori uccisi, la morte provocata per fame e malattie, non è evidente che essi mentono?

 Che i loro annunci sono propaganda di guerra?

Servono alla campagna elettorale dei democratici, a scrollarsi di dosso un po’ del sangue palestinese agli occhi del mondo, a cui devono apparire umani e portatori di pace.

 Intanto riforniscono l’esercito di Israele di tonnellate di bombe.

Ma il cessate il fuoco a che cosa servirebbe?

Dopo l’auspicabile restituzione degli ultimi ostaggi israeliani ai parenti, che cosa accadrebbe?

 Non è evidente che per Netanyahu e compagni non mancheranno mai terroristi di Hamas da bombardare fino a quando nella striscia rimarrà qualche forma di vita?

Basta infatti chiedersi:

qual è il disegno di Israele e degli USA per dare un minimo assetto di pace a quei territori dopo la tregua?

Questo disegno non c’è.

Perché il progetto dei “due popoli due Stati” non è realizzabile, dato che il territorio palestinese è stato frantumato, deliberatamente ridotto a un puzzle da Israele, per impedire una qualsiasi configurazione statale.

Mentre è evidente che il disegno di Tel Aviv è di rendere inabitabile Gaza, costringere la popolazione a emigrare nei paesi arabi contermini, come fanno ormai da 77 anni a suon di massacri.

La grande operazione degli ultimi giorni in Cisgiordania non fa che confermare questa desolante lettura.

Forte delle armi e dell’appoggio incondizionato degli USA, tranquillizzato dall’inerzia o dal sostegno anche militare dell’UE, consapevole della necessaria prudenza dell’Iran, sostenuto dai grandi media, Israele intende risolvere la “questione palestinese”, in un solo modo:

annettendosi il territorio altrui come ha sempre fatto, come continua a fare con la colonizzazione strisciante e i pogrom in Cisgiordania, incassando senza tanto dolersi le condanne impotenti dell’ONU.

Dunque violando il diritto internazionale che USA e UE rivendicano solo in Ucraina.

 

Questa rapida sintesi, tuttavia, che tratteggia un ben noto paesaggio d’orrore, ci porta a parlare d’Europa.

Con stupefacente furia suicida le classi dirigenti europee non vogliono accorgersi, che tanto la guerra in Ucraina quanto quella in corso nel Vicino Oriente, fanno parte di un coerente piano imperiale americano.

 Gli USA progettano da anni di ripetere in Russia quel che hanno fatto in Jugoslavia, cambiare il regime, dominarne e sfruttarne il territorio, farne un avamposto contro il partner economico più temuto, la Cina.

 La cosiddetta “sicurezza d’Israele”, che tanto fa palpitare i cuori dei gruppi dirigenti americani è la formula retorica con cui coprire un interesse vitale: rafforzare la presenza USA nella regione, impedire la penetrazione cinese e russa che ha nell’Iran il principale punto di riferimento strategico a venire.

 L’altro fine della guerra USA è indebolire l’economia europea, rendere politicamente subalterna e marginale l’UE.

 

Qual è, dunque, l’interesse europeo nel sostenere tale piano?

Nessuno ce lo ha spiegato.

Nessuno ci ha mostrato le magnifiche sorti e progressive che ci attendono alla fine di questa avventura.

 Sono sempre più evidenti, al contrario, le pesantissime conseguenze che ricadono in varia misura sui vari paesi.

Non solo i danni autoinflitti con le sanzioni alla Russia, il crollo del modello di sviluppo economico fondato sull’energia a basso costo (che aveva fatto le fortune della Germania), gli impegni in spese militari crescenti che fanno deperire il welfare.

La Germania e la Francia, i due paesi guida dell’Unione, dove Scholz e Macron sono stati duramente ridimensionati, sono attese dal crollo di equilibri politici decennali.

In Germania, il Partito socialdemocratico, una delle più antiche e nobili formazioni politiche d’Europa, sta scivolando nell’irrilevanza.

Mentre in questi due anni ovunque è deperita la democrazia, sempre meno i governi tollerano il dissenso (l’Italia è un laboratorio) e i grandi media hanno assunto un’opprimente china manipolatoria.

Leggere i resoconti di guerra di Repubblica o del Corriere (della TV pubblica taciamo) offre lo spettacolo quotidiano di una subalternità desolante del nostro giornalismo.

 È come se esso non svolgesse un servizio d’informazione per il lettore italiano, ma diffondesse notizie per conto di una potenza belligerante straniera.

 Ma a una domanda le classi dirigenti UE e il Governo italiano in primissimo luogo non possono sfuggire:

 qual è l’interesse europeo a inimicarsi l’intero mondo arabo, quello medio orientale e quello nordafricano, appoggiando senza condizioni la guerra di Israele?

Non è evidente che privilegiare quel piccolo paese, avamposto degli USA nella regione, equivale a consegnare il Mediterraneo, il Mare nostrum, alla potenza d’oltre oceano e, dunque, a privarci di uno spazio strategico per ogni autonomo progetto a venire verso l’Africa e l’Oriente?

Infine, ma non ultima questione:

con quali menzogne i governi credono di nascondere alle proprie opinioni pubbliche lo sterminio del popolo palestinese?

Basterà inviare in giro i nostri giovani con le borse Erasmus per convincerli della nostra missione civilizzatrice?

Non è evidente che un ceto politico delegittimato sta conservando il suo potere sul genocidio di un popolo?

 L’ennesimo massacro che segnerà la memoria del secolo, secondo la vecchia tradizione coloniale europea, ma questa volta sotto gli occhi del mondo intero.

È sostenuto per conto terzi.

Diventata un’appendice della Nato, l’UE, infatti, opprime ormai su mandato di altri.

 

 

 

Il suicidio dell’Ue sull’elettrico.

Fondazioneluigieinaudi.it - Paolo Bricco 's Author avatar Paolo Bricco (15 Febbraio 2023) ci dice:

 

Serve razionalità civile, politica ed economica per analizzare un suicidio civile, politico ed economico.

 L’adesione incondizionata dell’Unione europea al totem dell’elettrico coincide con la mutilazione di una specializzazione (il diesel prima di tutto), con la cessione di sovranità tecnologica (l’elettrico è core business della Cina) e con la prospettiva di una desertificazione industriale, che comprende sia i carmakers sia la filiera.

Questo indebolimento dell’Europa delle fabbriche fa il paio con il rafforzamento dell’America delle fabbriche, che beneficia di un pacchetto di 400 miliardi di dollari –l’Ira, Inflation reduction act – con sussidi diretti alle imprese e sconti fiscali alle famiglie per l’acquisto di prodotti green, come le auto elettriche.

Il contesto europeo nasce dall’innestarsi di due fenomeni psico-politici prima che tecno-produttivi:

il diesel gate tedesco e l’ecologismo radicale, con i suoi tratti da pseudo-religione.

Il primo ha oscurato nella opinione pubblica europea ogni significativo miglioramento nell’impatto ambientale dei carburanti tradizionali.

Il secondo ha ammantato di moralismo ogni discorso pubblico sulle nuove tecnologie.

L’elettrico è assurto a dogma che ha cancellato ogni comparazione approfondita sugli effetti in Africa, in Sud America e in Asia dell’estrazione e della lavorazione delle terre rare con cui si fabbricano, per esempio, le batterie.

Questo dogma astratto ha trascurato gli effetti reali sui cittadini-consumatori:

in teoria i primi beneficiari, nei fatti le vittime di una selezione “classista” di portafoglio, perché le vetture elettriche sono in media più care.

Un dogma ma anche un perno dei nuovi equilibri internazionali, con appunto la Cina in una posizione di leadership funzionale anche alla cessione di sovranità tecnologica da parte dell’Europa.

 Nell’elettrico servono meno addetti per produrre una automobile.

E la componentistica è differente da quella attuale.

 In questo contesto esiste l’Unione europea.

Ma esistono anche la Germania, la Francia e l’Italia.

Con le proprie specificità.

Sul piano nazionale per il nostro Paese le cose si complicano.

Nella dimensione pubblica e nella dimensione privata.

La Francia con il suo centralismo e la Germania con il sistema misto governo nazionale-Laender possono finanziare le politiche industriali di transizione con più agio rispetto all’Italia, perché hanno conti nazionali più in ordine.

L’altro elemento sono i singoli produttori, appunto, nazionali.

In ogni tecnologia di frontiera la concentrazione delle risorse tecnologiche e finanziarie, scientifiche e manageriali avviene in nodi coesi e corposi, come appunto le grandi imprese, che producono ricadute sulle filiere sottostanti.

 I produttori tedeschi hanno reagito al diesel gate con imponenti piani di investimento sull’elettrico, beneficiando del connubio con il sistema cinese.

Renault e Peugeot hanno nel tempo creato noccioli duri sull’elettrico che, adesso, costituiscono buone radici generative.

 Nella dinamica di Stellantis – nata dalla fusione formale e dall’annessione sostanziale di Fca a Peugeot – il sistema industriale nazionale italiano sconta un ritardo di trent’anni:

la gracilità dei cicli di investimenti della Fiat negli anni ’90, la debolezza patrimoniale sua e di Chrysler e la sfiducia nel modello di business dell’elettrico di Marchionne hanno favorito lo svuotamento industriale del Paese di origine, l’Italia, dei suoi marchi, dei suoi centri di ricerca e delle sue fabbriche.

 Questo vale in ogni segmento. Tanto più nell’elettrico.

La transizione green dell’Europa?

 Una follia che rischia di affossare

l’industria del Vecchio Continente.

Industriaitaliana.it - Marco de' Francesco – Flavio Tonelli - (3 Gennaio 2023) – ci dicono:

 

 

La decarbonizzazione è la strada da seguire, ma la ricetta

prescritta dall'Ue rischia di fare più danni che altro, un vero e proprio suicidio industriale.

 I problemi?

Le materie prime necessarie per questa trasformazione, come le terre rare, sono in mano alla Cina, dalla quale rischiamo di dipendere per gli anni a venire.

Cosa fare quindi?

Incentivare re-manufacturing e de-manufacturing, investire in ricerca e sviluppo, mappare le risorse.

 Ne abbiamo parlato con Flavio Tonelli.

 

Sulla Transizione Green occorre un bagno di realismo.

Di per sé la decarbonizzazione, l’energia pulita, l’auto elettrica – sono tutti fenomeni potenzialmente positivi, che non possono che migliorare il mondo in cui viviamo.

Potenzialmente, però:

 è la modalità, la strada imboccata dalla Commissione Europea a renderla deleteria, ai limiti del suicidio industriale.

Travolto da una visione messianica e salvifica, l’ente guidato da “Ursula Von Der Leyen” ha trascurato di accertarsi che esistessero le basi, i fondamentali per una simile transizione:

le materie prime – ad esempio i metalli per le batterie green ma anche le terre rare per i dispositivi high-tech – e i capitali.

Per poi scoprire che delle prime (soprattutto le terre rare) non c’è traccia nel Vecchio Continente, e che quanto ai secondi nessun Paese europeo ne dispone abbastanza – visto che solo per l’Italia si parla di trilioni di euro.

L’Europa, così, si consegna alla Cina, che astutamente ha fatto incetta delle materie che serviranno alla transizione mondiale e quindi “europea”, e che saranno messe sul mercato a carissimo prezzo.

Al contempo, la Cina venderà i suoi beni finiti a prezzi inferiori, disponendo dei fattori produttivi primari.

Una follia che rischia di cancellare intere filiere industriali.

 Che si può fare, a questo punto?

È difficile superare l’isterismo ambientale che ha ormai tratti millenaristici e che ha permeato gran parte della società del Vecchio Continente.

 La Commissione Europea dovrebbe prendere atto della propria incompetenza quanto a visione strategica e fare un passo indietro.

Rallentare il meccanismo consentendo all’industria di mettere in moto innovazione tecnologica sostenibile economicamente e socialmente – come per esempio i processi di re-manufacturing e de-manufacturing – per recuperare e riutilizzare sistematicamente almeno una parte delle materie di cui l’Europa ha bisogno sotto forma di materie prime seconde.

Con il professor Flavio Tonelli dell’università di Genova ripercorriamo tutti i passaggi delle mega transizioni a cui sono costrette le imprese, soprattutto se produttive.

Occorre, soprattutto, tempo – perché le transizioni, laddove vi sono implicazioni sociali, richiedono tempo.

 Il non aver agito per tempo (e questo vale per tutti i Paesi) non legittima l’agire di fretta e in maniera insostenibile di oggi:

accelerare sì, ma laddove siano palesi infattibilità rallentare e aspettare che un progresso tecnologico reale si possa sviluppare.

Pensare che dall’oggi al domani si possano sciogliere tutti i ghiacci della Groenlandia non agevola un pensiero critico e realistico di quella che si annuncia una transizione caratterizzata più da rischi che opportunità, almeno per l’Europa.

Così la pensa anche Flavio Tonelli, docente al Dipartimento di ingegneria meccanica, energetica, gestionale e dei trasporti dell’Università di Genova;

 è il professore ordinario di Ingegneria per la Sostenibilità Industriale e Impianti Meccanici che nel 2007 (cioè 15 anni fa) presentava a studenti e aziende le prime, preoccupanti, risultanze di studi raccolti sul tema nell’ambito di una collaborazione di ricerca con l’Università di Cranfield prima e con quella di Cambridge qualche anno dopo – insieme al collega Prof. Steve Evans (che a Cambridge dirige il Centro per la Sostenibilità Industriale).

Lo abbiamo intervistato.           

D: Qual è il lato debole della strategia europea per la transizione sostenibile (energetica)?

Flavio Tonelli, Università di Genova.

R: La strategia europea sulla transizione sostenibile (di cui l’energetica è una fondamentale componente), quella che si può sintetizzare con il ‘Green Deal’, è anzitutto su molti aspetti critici infondata:

 non si sono fatti i conti che sarebbe stato necessario svolgere prima di definirla e metterla nero su bianco.

Ci sono errori basilari, che ci costeranno parecchio.

Si è iniziato a pianificarla venti anni fa, partendo da assunzioni opinabili:

le materie prime si sarebbero potute acquistare in quanto commodity e perché presenti in ‘infinita quantità’ sulla Terra.

Oggi sappiamo che questo non è vero;

ma già nel 2005 vi erano studi che dimostravano la scarsità emergente di molte materie prime fondamentali.

Le materie prime, le terre rare erano e sono sempre state asset strategici per l’industria di un Paese o di un Continente – anche se da poco più di un anno l’opinione pubblica si sorprende per questo.

Lo sa bene la Cina ma lo sapeva anche la Commissione Europea nel 2018 quando ha pubblicato il report European Commission, Report on Critical Raw Materials in the Circular Economy, 2018” .

 

 D: Cos’ha capito la Cina, che noi non abbiamo compreso?

 

R: La Cina ha capito due decenni prima di noi (almeno) l’importanza delle materie prime e di quelle critiche.

 Possiede infatti circa il 35% delle terre rare esistenti al mondo;

 altri Paesi importanti sono il Brasile, il Vietnam, la Russia, l’India, l’Australia e gli Stati Uniti.

Tuttavia, la Cina è responsabile di oltre il 70% della fornitura globale di questi elementi, grazie ad una ventennale e accorta politica di accaparramento (soprattutto in Africa) e di estromissione della concorrenza (soprattutto statunitense) con la saturazione del mercato.

  Che attualmente la Cina Domina. E che l’Europa subisce.

Ma il punto è che la teoria europea sulla transizione era già discutibile di per sé.

Le” critical raw material” non sono in Europa. La Cina domina questo scenario.

D: In che senso la teoria europea che ha portato alla transizione sostenibile era discutibile?

R: La transizione sostenibile, così come studiata dall’Europa, non è sostenibile sotto un profilo industriale, economico e sociale.

 Non è un gioco di parole:

 per realizzarla in linea con le aspettative europee a livello planetario e con le correnti tecnologie occorrerebbe probabilmente cinque o sei volte la quantità di terre rare e metalli scarsi disponibile sul pianeta.

 È un concetto che la Commissione Europea fatica a mettere insieme, perché è “long distance” e perciò esula dal pensiero cognitivo immediato e soprattutto mal si concilia con un blocco economico che di fatto dipende da altri per le materie prime, i metalli e le terre rare.

Per esempio lo Zinco a prezzo sostenibile di fatto si esaurirà tra sette anni. Materiali ferro-magnetici necessari alle pale eoliche scarseggiano.

 Litio, Cobalto e Stronzio non costerebbero così tanto se abbondassero – e non parliamo dei metodi estrattivi utilizzati nei Paesi in cui sono presenti.

L’obiezione a questa verità di fatto è che si potrebbe scavare di più.

 Certo, ma a quali costi?

 E se un giorno un Kg di Litio costasse 100mila euro, chi lo acquisterebbe mai – soprattutto in vista di una transizione di massa?

Un processo trasformativo di massa dovrebbe considerare la capacità disponibile di materia prima a prezzo economico;

non aver pensato a ciò ha determinato quindi due importanti conseguenze.

 

Lista delle raw materia critiche per l’Europa (dati commissione europea).

D: Quali importanti conseguenze?

R: Anzitutto che la transizione “sostenibile green” sarà fruibile per una piccola porzione della popolazione;

 per le persone con importanti risorse economiche che sì e no potranno esser il 2% dell’umanità – e quindi sarà implicitamente “non di massa”.

 Sarà in grado di impattare sui problemi mondiali solo in minima parte.

 In secondo luogo, che questa rivoluzione non è sostenibile neppure a livello ambientale:

 se devo trattare tonnellate di materiale per estrarre materie prime scarse, critiche o rare, ciò comporta, specie nei luoghi di estrazione,  un fabbisogno energetico cui si sopperisce utilizzando combustibili tradizionali.

 Ad esempio, per realizzare una batteria per auto green, che pesa anche più di mezza tonnellata, bisogna lavorare 10 tonnellate di sali per il Litio, 12 di minerale per il Rame, 2 per il Nichel, 15 per il Cobalto e così via, movimentando 200 tonnellate di terreno.

E tutto ciò attualmente si verifica dove ci sono le miniere, con vecchie attrezzature a gasolio o alimentate da elettricità ottenuta da centrali a carbone.

 Insomma:

 si sposta l’inquinamento dall’autovettura in Europa all’attrezzatura in Asia o in Africa.

Di fatto, considerando l’intero ciclo di vita, attualmente un veicolo “green” inquina più o meno come un veicolo euro 6b-7 senza contare che con l’attuale scenario energetico la ricarica viene effettuata utilizzando energia prodotta in larga parte con combustibili fossili.

 Come scrissi in un precedente articolo diversi mesi fa è una truffa ai danni del consumatore oltre ad un danno sociale ed economico.

L’attuale configurazione che si sta tentando di mettere in atto non è basata su un pensiero razionale tecnologico e temporale realistico.

Economia circolare e critical raw material.

D: Quindi la transizione green, nella versione EU, è insensata?

R: Al netto della Germania, tutto il resto dell’EU produce emissioni per il 4,5-4,8%%.

Con la Germania, facciamo meno del 10%.

L’Italia fa lo 0,8%.

Se in EU, con un investimento multi-trilionario diminuissimo la CO2 del 50%, cambierebbe poco a livello globale, perché nel frattempo la Cina e l’India, avrebbero comunque non solo compensato il nostro calo percentuale, ma complessivamente aumentato le emissioni globali.

Basti pensare, a titolo di esempio, che sulla scorta dell’attuale ritmo di crescita delle emissioni indiane (attualmente a quota 13% su scala globale), New Delhi impiegherà meno di un anno per colmare gli sforzi tricolori al 2050.

E nel frattempo la nostra industria sarebbe in ginocchio e nelle mani dei pochi paesi che possiedono ‘energia’ e ‘materie prime, critiche e rare’.

 

D: Quindi l’Europa finirà nelle mani di Pechino?

R: Non solo di Pechino.

Riflettiamo sul meccanismo in atto:

da una parte noi dobbiamo indebitarci per una transizione costosissima in tempi, modi e tecnologie che non sono razionalmente fondati, il che mette seriamente a repentaglio nel breve orizzonte l’intero tessuto industriale europeo.

Dall’altra non possediamo le basi per questa trasformazione:

 le materie prime (soprattutto critiche e rare) e i capitali.

Abbiamo appena detto che le prime sono nelle mani di pochissimi paesi al mondo, che ovviamente penseranno anzitutto a rifornire la propria industria, cedendo eventuali surplus al mercato a prezzo altissimo, per annientare la concorrenza.

L’attuale instabilità geopolitica gioca ulteriormente a sfavore di questa strategia per l’EU.

Supponiamo che la questione di Taiwan giunga a tensione estrema:

 Usa e Cina sarebbero ai ferri corti, più di quanto non lo siano adesso;

 a quel punto, in ottemperanza ai nostri accordi l’EU si schiererebbe con gli alleati, e patirebbe la riduzione dei flussi dei fattori produttivi primari dai quali è dipendente.

Abbiamo la capacità tecnologica (che per altro stanno recuperando anche gli altri paesi) ma a mancare saranno i fattori di produzione a monte.

In questo o in altri casi simili cosa si farà?

Si chiuderà tutto il sistema industriale?

I prezzi delle raw material preoccupano le aziende (consultancy.uk, 2021.)

D: Perché possiamo dire che la “transizione sostenibile” (green) è costosissima?

R: Probabilmente è così costosa da non potercela permettere, almeno per alcuni paesi EU.

Secondo un recente studio Ambrosetti, occorre un miliardo di euro per ogni giga di potenza installata con le rinnovabili;

e secondo un’altra analisi dello stesso gruppo professionale di consulenza, per la decarbonizzazione del Paese al 2050 servono almeno 3,3 trilioni di euro in termini di investimenti.

Una somma enorme, pari a circa il doppio del Pil dell’Italia.

Insomma, per mettere a terra il green sostenibile occorrerebbe indebitarsi con un “debito insostenibile”.

È una follia totale.

D: E allora qual è la soluzione?

R: Anzitutto bisognerebbe chiedere alla Commissione Europea un bagno di realismo:

dal momento che l’EU è un blocco economico tra i più virtuosi su questi temi, possiamo adesso puntare ad una trasformazione del modello economico e produttivo con i tempi richiesti dall’industria e non dal fanatismo – salvaguardando l’altra nostra grande conquista, e cioè lo stato sociale evoluto.

 E questo sarebbe già un primo passo importante.

 

L’Europa ha quote di fornitura molto basse in termini di critical raw material.

D: E quale sarebbe il secondo passo?

R: Occorrerebbe fare un’analisi seria, una mappatura delle risorse che abbiamo a disposizione, come EU e come Italia, ragionando in termini di differenziazione:

non necessariamente al costo più basso ma al minor rischio di dipendenza geo-strategica.

Su questo il Mise ha recentemente stimolato una Azione.

Portare avanti la transizione senza uno studio di questo genere è assolutamente imprudente e pericoloso.

 Ancora, bisognerebbe mettere in piedi i processi in grado di sopperire alla nostra cronica carenza di terre rare e materie prime, metalli almeno in quella minima parte da poterci garantire sopravvivenza economica e industriale – e poter ricercare, in caso di problemi, soluzioni alternative senza esser costretti a interventi radicali o a dover fermare o dismettere il nostro patrimonio industriale, economico e sociale.

 

D: E quali sono queste soluzioni per sopperire alla carenza di terre rare e materie prime critiche e ridurre i consumi energetici per la produzione di beni?

Airbus è una delle aziende che più applica, per la sua produzione, il remanufacturing.

R: Ad esempio il re-manufacturing:

significa smontare un prodotto o un componente già utilizzato, rimetterlo a nuovo e riportarlo sul mercato per diversi cicli vita.

E soprattutto il de-manufacturing:

in genere si intende una pratica in base alla quale un prodotto viene smontato e i pezzi ancora funzionanti vengono recuperati e rigenerati, in modo da poterli riutilizzare per la produzione di uno nuovo o similare;

viene immesso sul mercato anche a un prezzo più basso ovvero riciclato per mitigare la scarsità di approvvigionamento cronica nella quale siamo e saremo.

Per fare un esempio, in un frigorifero rotto c’è un vero e proprio tesoro:

 quasi 30 kg di ferro, 3 kg di rame, e 3 di alluminio e una certa quantità di fluoro-cloro carburi.

Oggi con magneti e strumentazioni vibranti si può recuperare una quota compresa tra il 50% e l’80% dei materiali, con un forte abbattimento dei costi di produzione. Processi simili possono essere immaginati per recuperare materie prime e terre rare da batterie, pannelli solari, pale eoliche.

Aggiungo che l’Italia è all’avanguardia per la progettazione e realizzazione di macchinari industriali ivi inclusi quelli che effettuano questo tipo di operazioni.

Quindi non solo avremmo la tecnologia in casa ma potremmo anche svilupparla in anticipo rispetto ad altri paesi più indietro, per poi poterla rivendere tra un certo numero di anni quando la transizione sostenibile diverrà una vera emergenza e priorità per tutti.

Oltre a questo, la parallela “industria della demani fattura” avrebbe il merito di creare posti di lavoro “speculari” a quelli tipicamente impiegati per produrre.

Come è evidente saremmo all’avanguardia tecnologica, industriale, economica e sociale con diretti benefici di tipo ambientale.

Naturalmente, si tratta di discorsi che riguardano non solo la singola fabbrica, ma un’intera filiera, che deve organizzarsi per far funzionare le cose in un certo modo. 

Tutti i passaggi del sistema devono essere collegati e operativi all’unisono, correre alla stessa velocità, senza che nulla sia trascurato.

Perché il meccanismo funzioni, bisogna mobilitare e collegare in rete le parti interessate di tutti i settori relativi ad una certa risorsa.

 Va creato un “circuito chiuso” o circolare.

 Per questo occorre tempo, perché bisogna risolvere delle questioni di grande complessità – e per queste non esistono risposte semplici.

E tutto questo forse non basterà.

 

D: E cosa servirà, infine?

R: Ricerca e sviluppo oltre che su nuovi processi sui materiali.

 Bisogna identificare tecnologie alternative a quelle che prevedono l’utilizzo di materiali di cui non disponiamo o di cui non disporremo (e questo vale a livello mondiale).

Ad esempio, al posto delle batterie agli ioni di Litio, trovare qualcos’altro.

 Già si pensa ad accumulatori al grafene, o a elettroliti solidi ossidi, solfuri e polimerici.

Sicuramente fra qualche anno ci saranno altre novità – sia sul versante della produzione e accumulo di energia che sull’utilizzo dei materiali. Certo che anche qui, per tradurre le invenzioni in una pratica industriale occorreranno dai dieci ai 15 anni.

Per questo serve rallentare con la transizione green, prendere un po’ di respiro e renderla “sostenibile”.

Elementi chimici embedded nelle batterie a ioni di litio.

D: Secondo lei la Commissione Europea allenterà i tempi della transizione?

 Come finirà?

R:

Non so, perché con il Green Deal e con il Fit for 55 la Commissione sembra entrata in una fase di demagogia ambientalista che potrebbe far fallire il sistema industriale europeo.

Ascolto ogni tanto dichiarazioni circa la nostra presunta capacità di far fronte a queste sfide che contrastano con i fatti di chi di industria e manifattura si occupa da decenni – e che da decenni studia e sviluppa soluzioni dimostrando una scarsa consapevolezza della gravità della situazione:

non tanto dal punto di vista del principio ma dal punto di vista delle soluzioni.

Credo che stia al mondo industriale della manifattura e della produzione alzare la testa e rendere palese che, a queste condizioni, la transizione “sostenibile” presenta più rischi che opportunità.

Purtroppo non sono certo che questo mondo si mobiliterà o temo che lo faccia troppo tardi rispetto alle evidenze di cui disponiamo da almeno 15 anni.

 

 

 

Così l'ideologia pacifista rischia

di trasformarsi nel suicidio dell'Europa.

Ilgiornale.it - Roberto Fabbri – (25 Aprile 2024) – ci dice:

 

«L'ideologia pacifista: l'ultima grande tentazione nichilista e suicida dell'Europa».

È il sottotitolo di “La forza della vertigine”, brillante saggio pubblicato dal filosofo francese André Glucksmann nel 1984, esattamente quarant'anni fa.

 Quarant'anni che sembrano trascorsi invano, all'insegna del sempre veritiero slogan «La Storia non insegna mai nulla».

Perché quello che succedeva allora, negli anni in cui l'Unione Sovietica di Yuri Andropov tentava di soggiogare l'Europa occidentale puntando sulle nostre città i famigerati missili SS-20 con testata atomica, somiglia maledettamente a ciò che succede oggi mentre la Russia di Vladimir Putin minaccia l'Armageddon nucleare se oseremo davvero difendere la libertà dell'Ucraina che ha invaso (che poi è la nostra):

stuoli di pacifisti a senso unico si stracciano le vesti e invocano la resa preventiva pur di aver salva la vita.

Allora le cose erano più nettamente divise in campi ideologici contrapposti.

Gli slogan disfattisti alla moda come «Meglio rossi che morti» venivano dal campo comunista, per quanto malamente dissimulato, gli intellettuali e gli artisti che mettevano sullo stesso piano il nostro mondo libero con quello totalitario sovietico (ricordate Sting con il suo celebre «Russians»?) si dichiaravano di sinistra, in Italia le oceaniche manifestazioni «per la pace» che vedevano mescolate la bandiera multicolore già usata per boicottare la nascente Nato trent'anni prima e immagini drammatiche alla «Day after» erano gestite dal Pci.

Il cui vero obiettivo, però, non era la pace, bensì impedire che il vecchio cowboy della Casa Bianca Ronald Reagan rispondesse agli SS-20 sovietici con i suoi Cruise, schierandoli (come invece alla fine avvenne) in Germania, in Italia e in Olanda.

Fu così, e certo non per le sceneggiate dei «pacifisti», che quarant'anni fa salvaguardammo la pace e soprattutto la libertà.

Ristabilendo l'unico equilibrio che le garantisce, quello della reciproca distruzione assicurata che fa sì che nessun detentore di arsenali atomici si azzardi mai a usarli.

Oggi molti aspetti della situazione sono simili:

da due anni la Russia brutalizza l'Ucraina e ciclicamente minaccia l'Europa di aggressione nucleare se oserà difenderla fino in fondo.

 Putin ha già schierato missili a corto raggio con testata atomica nell'asservita Bielorussia e nell'exclave baltica di Kaliningrad per intimidirci.

 

Il Pd in coma, Gualtieri, i pm anti Salvini: i peggiori della settimana.

Ma salta fuori la Polonia, che quei due territori li ha a un passo, e si dice disponibile a ospitare armi atomiche Nato per riequilibrare la situazione, cioè per garantire la pace.

Ed ecco che partono i riflessi pavloviani dei «pacifisti», oggi numerosi anche a destra:

 i polacchi sono «irresponsabili», così come il presidente francese Macron che parla troppo volentieri di difesa comune.

Come allora, neanche una parola contro Mosca che questa guerra l'ha scatenata e che è pronta a portarcela in casa.

 

Ma come quarant'anni fa, a salvarci non saranno i cala braghe che s'illudono che basti strizzar l'occhio al bruto di turno per poter continuare a vivere nel mondo di “Fabuland”:

saranno le idee chiare che aveva Glucksmann («né rossi né morti») e i missili per proteggerci.

 

 

 

 

"Sharia e fondamentalismo:

 vi spiego i rischi della nuova Siria."

Ilgiornale.it - Chiara Clausi – (24 Gennaio 2025) – ci dice:

"Sharia e fondamentalismo: vi spiego i rischi della nuova Siria."

"La Siria continuerà ad essere un Paese fallito, preda delle potenze regionali e globali, interessate soltanto ai loro obiettivi strategici”.

“Arshin Adib-Moghaddam”, professore di “Global Thought and Comparative Philosophies” alla SOAS di Londra, non usa giri di parole per descrivere il futuro della nazione appena uscita dalla guerra civile.

“Moghaddam” è anche autore di "What is Iran?" (Cambridge University Press, 2021), un libro sulla Repubblica islamica, player importante in questo contesto.

 

Qual è l'ideologia del nuovo governo in Siria?

È un’ideologia intrisa di un’adesione "neo-fondamentalista" all’Islam politico e di una lettura letterale della Sharia, con spazio limitato per l'innovazione.

Questa è una nozione di politica, cultura e società che è vicina allo spettro dell’islamismo di destra.

Naturalmente, questa ideologia si scontra con le realtà della società siriana, con la sua composizione etnica a mosaico, le minoranze religiose e decenni di laicismo sotto l'ancien regime del partito” Ba'ath” siriano guidato dagli “Assad”.

 

Che cosa potrebbe significare l'influenza della Turchia sulla Siria?

Ci sono due fattori da considerare qui:

la Turchia è il principale sponsor di “Hayat Tahrir al-Sham” (HTS) e la principale preoccupazione per la sicurezza nazionale del governo di Ankara è la questione curda, che lo stato turco non è mai riuscito a risolvere.

Quindi qualsiasi mossa verso l'autonomia curda verrà contrastata.

 In secondo luogo, “HTS” sta guidando la transizione di un panorama politico fratturato, afflitto da un immenso vuoto di sovranità statale, ovvero la capacità di governare è incredibilmente limitata.

 Questa mancanza di sicurezza probabilmente esacerba la situazione delle minoranze, che sono sempre state le prime a soffrire di instabilità in ogni contesto insicuro.

 I curdi, gli alawiti e altre minoranze stanno già sopportando il peso dell'insicurezza e dell'assenza di una chiara via d'uscita.

Potrebbe peggiorare la condizione delle donne?

La posizione predefinita di movimenti come “HTS” è una incredibilmente retroattiva dell'Islam e della Sharia, e si basa in gran parte su una lettura letterale del Corano e degli Hadith.

Ciò suggerirebbe che i diritti delle donne saranno limitati, certamente nella sfera pubblica.

 

Come potrebbero evolvere le relazioni tra Siria e Occidente?

L'Occidente è sempre più frammentato lungo linee sociali, culturali e politiche, una tendenza che sarà esacerbata dall'imminente presidenza Trump.

Quindi dobbiamo fare delle distinzioni.

 L'amministrazione Trump terrà in gran parte gli Stati Uniti fuori dalla Siria, mentre le nazioni europee aspetteranno e vedranno cosa succede nel Paese, allo stesso tempo fin troppo ansiosi di fermare il flusso di rifugiati siriani, un punto fermo nei manuali politici della risorgente destra europea.

Prima di tutto, l'Ue è sempre più ostaggio della sua stessa incapacità di leggere la politica mondiale in generale e l'Asia occidentale in particolare.

Pertanto, le politiche estere sono poco competenti, ovvero l'opportunismo a breve termine sostituisce l'acume strategico intelligente.

Le richieste di democrazia e diritti umani suonano vuote su una scala senza precedenti, limitando seriamente la capacità dell'Ue di agire come una potenza diplomatica per apportare un cambiamento positivo in Siria e altrove nel mondo.

 

Quale sarà il ruolo degli Stati Uniti e di Israele in questo paese?

 E della Russia e dell’Iran?

Lo stato israeliano vuole una Siria debole, incapace di rappresentare una sfida militare, internamente fratturata e quindi incapace di rivendicare le alture del Golan occupate e/o promuovere la causa palestinese.

 Gli Stati Uniti concordano con questo approccio, il che spiega perché l'aviazione israeliana e statunitense abbiano sostanzialmente distrutto la capacità militare dell'esercito siriano.

 La Siria non ha petrolio, quindi non c'è un vero premio imperiale da vincere qui, al di là di quei calcoli geopolitici.

Russia e Iran, entrambi non erano disposti a sostenere il regime di Assad e sono distratti dalle loro guerre e dai loro scontri militari.

Ho spiegato le dinamiche nel mio "What is Iran?", che espone la rivalità geopolitica in modo più dettagliato.

Entrambi i paesi cercheranno di riaffermare la loro influenza in Siria, poiché il Paese continua a essere una piattaforma importante per la loro strategia regionale.

 In assenza di un consenso, guidato da una spinta della diplomazia internazionale tramite le Nazioni Unite, prevedo che la Siria continuerà a essere uno Stato fallito e che la popolazione civile sopporterà il peso di questa instabilità in corso nella sua difficile esistenza quotidiana.

I veri perdenti di tutto questo sono stati i siriani, che sono stati costretti ad abbandonare il loro paese, hanno sofferto al suo interno e continuano a sopportare il peso della brutalità politica, a causa dell'incapacità e della riluttanza delle classi politiche a sostenere la pace e la stabilità in Siria e della più ampia regione dell'Asia occidentale.

 

 

 

 

L’origine ideologica delle

idee di mutamento e di sviluppo.

Oikonomia.it - Alberto Lo Presti – (15 – ottobre – 2024) – ci dice:

Solo pochi anni fa le due principali categorie che gli economisti, i sociologi, gli storici, gli antropologi, adottavano in molti frangenti della propria attività intellettuale erano quelle di sviluppo e di mutamento.

Si studiavano i fenomeni storici e sociali agitati dall’onda delle profonde trasformazioni sociali e civili che stavano rapidamente sconvolgendo gli scenari planetari, preoccupati per l’emergenza di nuovi problemi globali e di nuove minacciose questioni che potevano coinvolgere lo stesso destino del genere umano.

Nacquero nuove teorie del mutamento e i metodi della pianificazione sociale, la sociologia e l’economia dello sviluppo, e altri settori importanti, che hanno costruito un filone importantissimo (e celebrato) delle scienze sociali.

 

E oggi? Sembrano temi passati di moda, che hanno perso la loro forza propulsiva. Fusi nel grande, e confuso, calderone concettuale del globalismo, stanno lentamente regredendo a categorie storiche utili per comprendere un certo passato.

La loro caratura operativa si è sbiadita, lo spessore disciplinare pure.

 

Questo contributo vuole mettere in rilievo il carattere ideologico che tali categorie hanno posseduto fin dalla loro origine, e con ciò spiegare la parabola concettuale del mutamento e dello sviluppo ricorrendo all’esaurimento della spinta ideologica iniziale.

Come a dire:

le categorie di mutamento e di sviluppo, oggi, sopravvivono a stenti, perché il carattere ideologico che ne aveva nutrito gli orizzonti è tramontato.

Una ideologia, la loro, che pur innestandosi su quelle sorte nel diciannovesimo secolo, aveva prodotto significati propri, prospettive nuove, che oggi, appunto, sono state soppiantate dalla globalizzazione incipiente e tracimante in ogni aspetto del pensiero contemporaneo.

 

1. Dalla Rivoluzione proletaria alla Rivoluzione manageriale.

 

Ad avviso di “Karl Polanyi”, il diciannovesimo secolo fu uno fra i secoli più tranquilli che la storia ricordi.

 Al di là di qualche insurrezione interna e di qualche conflitto localizzato, generalmente si potè conservare un generale livello di pace.

 È noto il ruolo che” Polanyi” assegna all’alta finanza in questo gioco di equilibri geopolitici e ideologici, ed è altrettanto noto come questa tesi di Polanyi non abbia trovato sempre consenso fra gli storici.

Di sicuro, ogni valutazione sul diciannovesimo secolo risente delle convulse vicende storiche del secolo successivo.

Come se il diciannovesimo secolo non si ponga in altro modo se non in un’ottica “introduttiva” a quello che Hobsbawm definisce “secolo breve”, cioè il ventesimo secolo, quello dei “grandi cataclismi”.

Le trasformazioni del ventesimo secolo non furono solo di natura politica, non si trattò solo di un’epoca segnata dal crollo dei grandi imperi secolari, da due guerre mondiali, dalle grandi rivoluzioni e dalla conseguente costruzione di imperi geopolitici, da altre rivoluzioni di minore portata ma ugualmente assai significative, dalla travolgente avanzata dei regimi fascisti e dei totalitarismi.

 Fu anche il secolo dello spostamento del baricentro politico ed economico dall’Europa al nord America e nel quale si portò a compimento quella che spesso viene identificata come seconda rivoluzione industriale.

 

Di fronte al suo svolgersi, si deve riconoscere che il ventesimo secolo segna un’era nella quale l’uomo si è adoperato per diminuire le incertezze del suo futuro e, all’insegna della progettazione e della pianificazione della sua vita quotidiana, ha fatto dell’avvenire una specifica ragione tecnico-sociale.

 In modo un po’ provocatorio, si potrebbe dire che i primi futurologi del ventesimo secolo sono stati i vari Taylor, Ford, Beveridge, Keynes.

L’avvenire, nel ventesimo secolo, si tecnicizza, diventa materia di progetto e di strategia.

Abbandona l’esclusività della sua dimensione ideologica e politica e si trasferisce nel campo dell’azione e dell’organizzazione.

La descrizione più suggestiva delle trasformazioni in atto, dal punto di vista ideologico, ci è provenuta probabilmente dal filosofo “James Burnham”, il quale espresse il cambiamento in atto in termini di passaggio dall’ideologia rivoluzionaria alla rivoluzione manageriale.

Burnham propose la rivoluzione manageriale quale risposta definitiva alle vecchie contrapposizioni fra capitalismo e socialismo.

La sua previsione fu la seguente:

 in mezzo secolo, il regime capitalista, con la sua ideologia liberale, con la divisione della società secondo la contrapposizione fra proprietari e proletari, sarà spazzato via da una pacifica e silenziosa rivoluzione che porterà al potere una «nuova classe sociale», munita di una propria coscienza di classe e di interessi specifici:

 la classe dei manager, cioè di quei gestori del processo produttivo che, di fatto, già controllano i mezzi di produzione.

 In effetti, Burnham aveva già di fronte l’esperienza sovietica, nella quale la classe dei burocrati e dei tecnocrati stava rendendo vane le attese del più genuino socialismo, ma rilevante era la sua pretesa di estendere questo meccanismo anche alle società capitalistiche.

Le profezie di Burnham si completavano con la suddivisione delle aree del mondo in funzione del predominio delle classi manageriali nei rispettivi luoghi di influenza.

 L’universo gestito dai manager avrebbe dovuto trovare il seguente ordine:

 l’area di influenza degli Stati Uniti, l’area della Germania, quella del Giappone (si osservi come l’Unione Sovietica, nell’intenzione di Burnham, avrebbe dovuto seguire una ulteriore divisione fra l’area d’influenza orientale, quella giapponese, e quella invece europea e tedesca).

Questo passaggio da un avvenire “politico” a uno “strategico e manageriale” è meno brusco di quanto possa apparire.

 O almeno così spera di chiarire l'articolazione dei temi affrontati in questo capitolo.

 

2. Lo Sviluppo e l’occidentalizzazione del mondo.

 

Preliminarmente, si può cominciare con l’osservare che il concetto di sviluppo non coincide con quello di crescita.

Nell’idea di sviluppo è contemplato un arrivo, un fine, una piena maturazione, che nella generale idea di crescita può non essere presente.

 La presenza di questo elemento teleologico indica la positività connessa al processo di sviluppo.

Per esempio, la maturazione personale - cioè lo sviluppo del comportamento - è sempre una cosa giusta e raccomandabile.

Un altro carattere dello sviluppo, più o meno generalmente inteso, è quello della continuità.

Nello sviluppo c’è una progressione, magari lenta, senza bruschi salti o gravi interruzioni.

Il cambiamento avviene con continuità e ogni stato nuovo dipende dal precedente secondo una concatenazione metodica.

La progressione può essere descritta da tappe successive.

 In ultimo, il concetto di sviluppo spesso sottintende una certa irreversibilità generale del mutamento in atto.

In questa sintetica descrizione dei caratteri dello sviluppo, riusciamo in modo visibile ad accertare il facile connubio che si stabilisce con il concetto di sistema.

 È proprio del sistema procedere verso uno stadio non solo successivo, ma in un certo senso “superiore”, senza che si verifichino brusche trasformazioni, per cui quasi sempre un nuovo stato di equilibrio è stato raggiunto in conformità ad alcuni caratteri rinviabili allo stato d’equilibrio precedente.

Spesso si pensa che il concetto di sviluppo sia sorto nel ventesimo secolo, e in particolar modo nel secondo dopoguerra, quando l'ordine internazionale, le forme di interazione economica e l'estensione dei mercati, crearono condizioni nuove per il cambiamento sociale.

 In realtà, l'origine delle concezioni sullo sviluppo, tenendo comunque presente la distinzione dai concetti di progresso, crescita, modernizzazione, è ben radicata nel diciannovesimo secolo.

Storicamente, nel diciannovesimo secolo lo sviluppo è pensato unicamente in termini immanentistici, secondo il modello esemplare del caso indiano.

Si fa notare che John “Stuart Mill “scrisse il suo “Logic and Principles of Political Economy”, una pietra miliare per la formulazione del concetto di sviluppo, mentre era un impiegato delle “British East India Company”.

 Lo sviluppo del capitalismo indiano fu il risultato dell'abbattimento di una struttura di valori sociali tradizionali e, sulle forme etiche e sociali da riscrivere daccapo, si inserirono i semi del nascente e progrediente capitalismo borghese.

Ovviamente, si tratta quindi di un concetto immanente che rivela, però, una precisa dimensione di «tutela» (trusteeship) politica ed economica, assicurata da una realtà politica ed economica (il sistema inglese nel caso specifico indiano) che aveva i mezzi per autodefinirsi sviluppata e per esercitare il potere del proprio sviluppo:

 «without trusteeship there is no devllopment doctrine».

È l'origine del significato spesso ideologico che il concetto di sviluppo ha assunto e si è trovato, in alcune circostanze, a mantenere ancora oggi.

 

Probabilmente, spetta a “Walt W. Rostow” il titolo di caposcuola dei teorici dello sviluppo.

«Tutte le società, per le loro caratteristiche economiche, possono essere classificate in una di queste cinque categorie:

la società tradizionale, la fase delle condizioni preliminari per il decollo, il decollo, il passaggio alla maturità e il periodo del grande consumo di massa».

 Il “programma teorico di Rostow” è ben illustrato da questo suo celebre schema dello sviluppo storico. In pratica, tutti i sistemi socio-economici hanno un divenire segnato dallo sviluppo, pensato stadio per stadio, metaforicamente assimilato alle fasi del decollo di un aeroplano, fino alla conclusione ideale di un benessere scandito dal consumo.

 L’opera si costruisce su di una ricca e completa documentazione di carattere storico e statistico, la quale gli consente di condurre un’analisi comparata dello sviluppo di società industriali differenti, fra Europa e America del Nord, l’India, la Cina, il Giappone e anche l’America Latina.

 

La visione di Rostow è quanto mai sociocentrica. Probabilmente, risente del clima di confronto fra il sistema occidentale e quello sovietico, che “Rostow” si ostina a chiamare russo.

 Innanzitutto, le società tradizionali, quelle precedenti a qualsiasi discorso di sviluppo, sembrano rappresentare in Rostow il punto zero di qualsiasi condizione storica.

Esse sono dominate dalla scarsità e da una certa immobilità che sembra farne delle società in perenne stato di coma civile.

 Queste società non hanno che l’aspirazione di trovare quell’impulso organizzativo, scientifico o di chissà che altro tipo, in grado di consentire un aumento della produzione.

Eppure, gli studi antropologici hanno da tempo messo in rilievo come questa condizione non sia affatto reale e fra le società tradizionali si riconosce non un impedimento oggettivo alla crescita della produzione ma un rifiuto culturale all’accumulazione.

 Proseguendo nello schema dello sviluppo di Rostow, durante il periodo nel quale si realizzano le condizioni preliminari per il decollo

«si diffonde […] l’idea che il progresso economico non solo sia possibile, ma che esso sia una condizione necessaria per qualche altro scopo, ritenuto buono, si chiami esso dignità nazionale, profitto privato, benessere generale, o una vita migliore per i figli».

 In pratica, assaporato il profumo della modernità, ogni società politica assume un unico scopo:

completare il percorso, prendere il volo, decollare verso lo sviluppo.

Il decollo (take off, e tale concetto ebbe subito una grande fortuna nel linguaggio dei teorici dello sviluppo):

 «è l’intervallo in cui le vecchie remore e resistenze a un deciso sviluppo sono definitivamente superate.

 Le forze tendenti al progresso economico, che avevano prodotto solo limitate eruzioni e isole di attività moderna, si espandono e giungono a dominare l’intera società.

Lo sviluppo ne diviene condizione normale.

L’interesse composto viene per così dire incorporato nel costume e nella struttura istituzionale».

Si osservi come il passaggio al costume e alla struttura istituzionale riproponga nello schema di Rostow la condizione materialistica del pensiero marxista dell’anticipo logico (se non cronologico) fra la struttura economica e le sovrastrutture.

 Lo sviluppo, cioè, investe tutte le dimensioni dell’agire umano-sociale e, a questo punto, niente potrà più essere come prima e la nuova modernità soppianta, e rinnega, la tradizione.

Infine, si ha la maturazione del processo iniziato così da lontano, cioè il periodo del grande consumo di massa, caratterizzato dal fordismo americano, cioè dalla re-distribuzione ai lavoratori degli aumenti di produttività al fine di accrescere il consumo, con annesso sistema previdenziale.

 

Attorno al pensiero di Rostow si accese una polemica notevole.

I limiti della sua impostazione sono evidenti.

Egli tratta le civiltà come fossero delle libere e indipendenti organizzazioni che devono trovare al proprio interno la sollecitazione allo sviluppo.

 Il «ritardo» di una rispetto ad un’altra, in questo senso, sembra essere solo imputabile a motivi interni alla sua struttura sociale.

È esclusa, quindi, la spiegazione forse più appropriata alle differenze nel livello di sviluppo, cioè quella che vuole l’arretratezza di alcune civiltà imputabile all’arricchimento senza scrupoli di altre.

Fra l’altro, se l’obiettivo di Rostow era quello di costruire una teoria politico-economica alternativa a quella di Marx, di fatto il suo tentativo ha forse solo ribaltato simmetricamente la prospettiva marxista conservandone tuttavia i difetti principali. Vale a dire che nella teoria di Rostow c’è una filosofia della storia di matrice fordista invece che materialista, è contemplata la missione storico mondiale dell’industria invece che del proletariato, il consumo di massa subentra alla lotta di classe, il mercato al partito comunista internazionale, ecc.

 

È ovvio che la modernizzazione pensata da Rostow non è altro che una sorta di occidentalizzazione del mondo.

 Senza alcun dubbio, il divenire delle società tradizionali è ancora oggi parecchio sollecitato dai modelli di sviluppo delle realtà occidentali modernizzate.

È tuttavia più consono discutere di «ibridazione dello sviluppo», nel senso che si constata l’emergere di un sincretismo complesso, nel quale società modernizzate dal punto di vista economico non lo sono dal punto di vita civile o politico, con il gran numero di varianti a questa distonia presentati dai fenomeni storici contemporanei.

Il ritorno a certe forme ideologiche di concezione dell’avvenire ha potuto assumere tratti assai evidenti nelle opere di intellettuali successivi a Rostow.

In particolare, piano piano è divenuta chiara la posizione che i “migliori”, i “primi”, esercitano la propria supremazia avanzando la pretesa di dominare il futuro.

Per esempio, questa limitante pretesa è espressa bene da” Jan Tinbergen”, quando afferma che «una popolazione piuttosto povera, come media generale, non saprà prevedere lontano e quindi sarà interessata a profitti immediati.

Essa si accontenta di vivere alla giornata e ogni suo componente penserà a se stesso».

Vale a dire, forzando un po’ il discorso, che l’avvenire è roba per ricchi, gli altri possono solo stare a guardare, aspettando che qualcuno gli dica cosa succederà loro.

 

Il successo riscosso dalla concezione della modernizzazione del ventesimo secolo deve molto alle teorie dello sviluppo, soprattutto nella prima fase della loro elaborazione.

D’altronde, in un certo senso con quelle teorie si mettevano d’accordo tutti.

 Per i paesi già sviluppati del mondo occidentale si trattava di continuare a credere nel ritmo di crescita interno e nella collaborazione internazionale, in particolare rivolta ad ostacolare il diffondersi del marxismo.

Per i paesi in via di sviluppo, invece, si concretizzava un’aspirazione particolarmente visibile nelle nuove classi dirigenti, le quali diffondevano i segnali di un progressivo stile occidentale nelle loro realtà tradizionali.

 L’avvenire, in pratica, sembrava soddisfare tutti, anche se presto si attuò una decisa reazione a questo ottimismo ideologico.

 In particolare, furono alcuni studiosi di orientamento marxista nel mondo occidentale e alcuni intellettuali dei paesi in via di sviluppo a mettere in rilievo le contraddizioni implicite nel programma di modernizzazione basato sullo sviluppo.

“Paul A. Baran” e “Paul M. Sweezy “pubblicarono, nel 1966, “Monopoly Capital”, illustrando con concetti diversi il rapporto fra i paesi in via di sviluppo e le potenze occidentali.

Recuperando alcune teorie che già” Lenin” e” R. Luxemburg” avevano avuto modo di esporre, gli intellettuali statunitensi misero in rilievo come il XX secolo sia di fatto caratterizzato dalla progressiva formazione dell’egemonia nordamericana, la quale soppianta, in termini di rapporto di potere e di dominio politico ed economico, il colonialismo europeo.

 In tale situazione, il capitalismo concorrenziale cede il passo al capitalismo monopolistico il quale, confermando con ciò le previsioni di “Lenin”, è basato sull’associazione del capitale industriale con quello finanziario.

Attraverso il gioco delle concentrazioni, queste società controllano il mercato e, di conseguenza, controllano pure i prezzi.

Questi ultimi, nonostante i notevoli aumenti di produttività, non diminuiscono e permettono l’accumulazione di enormi surplus.

La questione principale, quindi, è l’assorbimento di questo surplus, poiché il capitalismo monopolistico è incapace di creare una domanda effettiva sufficiente ad assicurare la piena occupazione del lavoro e del capitale.

Un sistema siffatto, in pratica, rischierebbe di cadere in una fase di stagnazione, producendo in modo sempre meno redditizio beni che fruttano un profitto sempre maggiore.

La soluzione risiede in un triplice intervento:

 la propaganda pubblicitaria che deve sollecitare il pubblico a un consumo sempre maggiore, l’intervento dello Stato per creare sempre nuove opportunità di consumo (per esempio la costruzione di migliori vie di comunicazione in grado di accrescere la domanda di mezzi di trasporto) e, infine, lo sviluppo ad opera dello Stato del settore militare-industriale.

Nelle parole di “Ba-an” e “Sweezy”:

 «Se si assume la stabilità del capitalismo monopolistico, con la sua provata incapacità di fare uso razionale per scopi umani e pacifici del suo enorme potenziale produttivo, è necessario decidere se si preferisce la disoccupazione di massa e l’irreparabilità caratteristiche della grande depressione, o la relativa sicurezza di occupazione e di benessere materiale assicurata dagli enormi bilanci militari degli anni quaranta e cinquanta».

Per tale via, dalla denuncia delle contraddizioni implicite allo sviluppo del sistema capitalistico nordamericano i nostri autori passano all’esortazione di una rivoluzione mondiale operata non dal proletariato, ma dai paesi del sud del mondo.

 

In conclusione, è stata condotta una rivisitazione strumentale delle teorie dello sviluppo alle origini di questo ricco filone di studi, al fine di porre in rilievo soprattutto il carattere vetero-ideologico delle stesse.

 Il riciclo della «falsa coscienza», come Marx definiva l’ideologia (pur rimanendone vittima la sua stessa dottrina), è visibile ancora nelle contemporanee tendenze del dibattito sull’ordine internazionale, i rischi e le opportunità globali, gli scenari politici continentali e mondiali.

Ancora una volta, se pure ve ne dovesse essere ancora bisogno di ripeterlo, l’ideologia è meglio prevenirla, che curarla.

 

 

 

Una teoria da ripensare?

  Machina-deriveapprodi.com - Andrea Pannone – (3 lug. 2024) – ci dice:

 

Sul rapporto tra ricchezza finanziaria e ricchezza reale nell'epoca della speculazione.

Ricchezza reale e ricchezza finanziaria.

Per capire le cause e le implicazioni del processo di finanziarizzazione dell’economia che ha luogo nel XXI secolo, “Andrea Pannone” riflette su come le scuole di pensiero neoclassiche e di ispirazione marxista impostano la distinzione tra ricchezza reale e ricchezza finanziaria.

Se entrambi gli approcci riconoscono che i diritti finanziari dipendono dal sottostante materiale, in un contesto di inflazione finanziaria le due diverse forme di ricchezza mostrano andamenti progressivamente divergenti.

Quali sono le motivazioni?

Sta cambiando la direzione della relazione?

Ricchezza reale e ricchezza finanziaria nelle teorie economiche.

 

La distinzione tra ricchezza reale e diritti finanziari sulla ricchezza reale (ricchezza finanziaria) è una premessa fondamentale dell’economia politica, riconosciuta sia dalle scuole di pensiero neoclassiche che da quelle di ispirazione marxista.

Nonostante la radicale differenza con cui i due approcci teorici vedono la relazione tra le due forme di ricchezza nell'economia, entrambi sono accomunati dal riconoscimento del fatto che i diritti finanziari dipendono dalla ricchezza reale sottostante, poiché rappresentano pretese legali su beni e servizi tangibili o sui flussi di reddito generati da essi.

 Questa relazione di dipendenza, però, diventa molto meno chiara in contesti di inflazione finanziaria – ossia di crescita continua dei prezzi degli asset finanziari (titoli, azioni, ecc.) – e speculazione eccessiva, allorché le due forme di ricchezza mostrano andamenti progressivamente divergenti a partire dagli anni ʼ90.

Questo impedisce ad entrambe le scuole di pensiero di spiegare adeguatamente le cause e le implicazioni del processo di finanziarizzazione dell’economia che ha luogo nel XXI secolo e che ha portato quella divergenza a livelli parossistici, accrescendo enormemente le diseguaglianze distributive (vedi Piketty 2014).

Osserviamo infatti che i guadagni derivabili da questi asset non hanno propriamente la natura di redditi, almeno non come il concetto di reddito è sempre stato considerato nella letteratura economica ossia la controparte esatte del valore dei flussi di produzione.

 Per questo motivo la loro consistente e non temporanea espansione, che implica un trasferimento puro di moneta dai redditi dei fattori produttivi alle rendite, non sembra immediatamente riconducibile né al concetto di legittima ricompensa della produttività dei fattori di produzione – come vorrebbe la scuola neoclassica – ma nemmeno al concetto di sfruttamento dei lavoratori e al conflitto capitale/lavoro – come vorrebbero le più classiche scuole di ispirazione marxista.

Keynes e i suoi epigoni.

Osserviamo poi che la crescita esponenziale dei prezzi degli asset finanziari implica che una consistente massa di risorse liquide si traduce in una loro continua richiesta, a fronte tuttavia di una scarsa riproducibilità della loro offerta, e genera così l’aumento del loro valore in intervalli di tempo molto brevi (anche inferiori al giorno).

Ciò favorisce, anche con l’aiuto della leva finanziaria, le condizioni per scommesse speculative e per il rafforzamento dei mercati dove si attuano tali scommesse, premessa indispensabile per la formazione di enormi patrimoni finanziari.

 Keynes, tra i primi economisti, aveva compreso che la moneta non serve solo a finanziare le transazioni produttive e l’inflazione delle merci prodotte ma anche, oltre a motivi precauzionali, per acquistare asset finanziari con lo scopo di lucrare sulla differenza tra i prezzi a cui sono acquistati e venduti, anticipando l’opinione media dei soggetti che intendono fare lo stesso (vedi l’esempio del beauty contest, in Keynes 1936, p. 154-155).

 Ad ogni modo, l’analisi di Keynes assume la preferenza per la liquidità come data e trascura gli effetti che l’aumento della domanda di moneta per motivi speculativi potrebbe avere sulla produzione a causa della contrazione simultanea dei flussi di spesa.

Questo rende il semplice schema keynesiano scarsamente utile per comprendere perché il valore degli asset finanziari potrebbe discostarsi progressivamente dal valore della produzione, portando a una disconnessione tra la crescita dei mercati finanziari e l'andamento dell'economia reale.

La limitazione di Keynes è teoricamente risolvibile adottando una prospettiva di analisi intertemporale e introducendo la presenza sistematica dell’intervento statale realizzato in deficit, secondo l’insegnamento degli epigoni di Keynes seguito da molti governi moderni fino alla fine degli anni ʼ70.

 In questo modo il deficit di bilancio poteva svolgere funzioni di stimolo della domanda neutralizzando le spinte recessive indotte dal tesoreggiamento (Bruno 2024).

Rimane tuttavia impossibile, all’interno di questo schema, spiegare perché la ricchezza di natura finanziaria dovrebbe tendere a divergere crescentemente dalla ricchezza reale.

“Saving glut” e non sazietà della ricchezza.

Un estremo tentativo per fornire una spiegazione di tipo keynesiano all’interno della medesima prospettiva intertemporale di analisi è quello di interpretare l’ipotesi di “saving glut” (ossia di un eccesso di risparmio), posta in rilievo per la prima volta dal governatore della FED Bernanke nel 2005, come un fenomeno che permane a prescindere dalle decisioni di fare deficit pubblici e che non è riassorbibile dalla riduzione (anche molto forte) del tasso di interesse, come vorrebbero invece i modelli neoclassici.

Una strada simile è seguita da “Sergio Bruno” (2024), che espandendo l’analisi di “Tobin”, riconduce il fenomeno dell’eccesso non temporaneo di risparmio sugli investimenti produttivi – e quindi il motivo per cui la liquidità si riversi in prevalenza sugli asset finanziari anziché sulla produzione e sull’attività innovativa – al concetto di «non sazietà della ricchezza», principio di antica derivazione filosofica che si riferisce alla continua aspirazione degli individui e delle istituzioni ad aumentare il loro patrimonio, spesso al di là delle necessità di consumo o sicurezza economica.

Tale concetto, che travalica le motivazioni psicologiche alla base della preferenza per la liquidità a cui si riferiva Keynes, si sarebbe rafforzato negli ultimi decenni per effetto del prevalere di un’ideologia che esalta i meccanismi di mercato come mezzo per rispondere ai bisogni, come anche dell’espansione dell’offerta privata di impieghi quali le borse valori, le offerte finanziarie speculative, le assicurazioni, i fondi pensione e i fondi di investimento.

Sebbene la tesi di “Bruno” contenga elementi di indubbio interesse, essa non è in grado di connettere adeguatamente l’aumento generale della propensione al tesoreggiamento alle profonde trasformazioni del meccanismo di accumulazione capitalistica nel XXI secolo.

Ciò gli impedisce di comprendere appieno le reali dinamiche di potere che sono al cuore dei processi di finanziarizzazione dell’economia.

 In questa direzione si muove il mio tentativo di spiegazione.

 

Eccedenza di capacità produttiva e inflazione finanziaria.

 

La nostra interpretazione del processo di finanziarizzazione inizia con una osservazione empirica relativa all’economia reale.

 A partire dalla fine degli anni ’90, l’esistenza di eccessi di capacità produttiva oltre il livello considerato «normale» – pur tenendo conto delle sue difficoltà di misurazione statistica – è un tratto chiaramente riconoscibile nella maggior parte delle industrie che operano globalmente (siderurgia, automobili, elettronica di base, ecc.).

Nelle due decadi successive questa eccedenza tende a protrarsi nel tempo fino a diventare quasi strutturale praticamente in tutte le più importanti economie del pianeta:

non solo negli Usa, nella maggior parte dei paesi europei e in Giappone, dove la media si attesta intorno al 73/74%, ma anche nei paesi emergenti comprese Cina, India, alcuni paesi dell’Europa Orientale e Brasile (vedi Crotty 2002 e 2017, Lavoie 2016, Gahn 2022, Nikiforos 2021, Guo et al 2022).

Alla generalizzazione di questo fenomeno ha contribuito sicuramente il modello di produzione che si è affermato nel XXI secolo per effetto del processo di globalizzazione.

 Tale modello, costituito da nodi produttivi distribuiti in diverse parti del mondo che collaborano in modo sinergico per produrre i beni o i servizi finali, fa sì che uno squilibrio che si determina a valle della catena del valore si trasmetta in sequenza a tutti gli altri nodi, diramando e amplificando lo squilibrio su tutte le economie del pianeta.

 In questo modo l’eccesso di capacità produttiva che si determina nelle economie del centro capitalistico diventa rapidamente un eccesso di capacità in quasi tutte le economie periferiche.

 

Tutto ciò, differentemente da quanto si potesse pensare, non ha implicato che le macchine (del tutto o in parte) inoperose si deteriorassero nel tempo sino a distruggersi, eliminando la capacità in eccesso.

Come ha ben sottolineato “Andrea Fumagalli” (2024) nella recensione al mio libro Che cos’è la guerra? (Pannone 2023), dove sviluppo diffusamente questo argomento, la ragione risiede nella nuova forma che il fattore produttivo capitale ha progressivamente assunto.

 Dal 1985, l’indice azionario S&P500 (che raccoglie le 500 corporation americane a più elevata capitalizzazione di borsa) ha rilevato che la quota di capitale intangibile (brevetti, R&S, brand, formazione, comunicazione, ecc.) ha per la prima volta superato il capitale tangibile, quello dei macchinari, dei mezzi di trasporto, dei fabbricati.

Tale dinamica è stata favorita dalle caratteristiche del nuovo paradigma tecnologico dell’”IC”, basato non più su tecnologie meccaniche, ripetitive e statiche (produzione a stock) ma piuttosto su tecnologie linguistiche e comunicative e dinamiche (produzione a flussi).

 Ciò che diventa importante non è più solo la proprietà dei mezzi di produzione ma sempre più la proprietà intellettuale (controllo della generazione e della diffusione di conoscenza) insieme alla governance dei flussi finanziari, come nuova fonte di finanziamento e di valorizzazione.

La flessibilità del fattore produttivo capitale induce quindi, anche in virtù di una serie di innovazioni nel campo del credito bancario, al noleggio più che all’acquisto, in modo da proteggere le imprese dai rischi di deterioramento fisico e di obsolescenza tecnologica, questi ultimi sempre più accentuati dalle trasformazioni innescate dalla rivoluzione digitale.

Ad ogni modo, la rata di affitto dei beni capitali rappresenta un costo fisso per l'impresa.

 Questa rata deve essere pagata regolarmente alla banca, come stabilito nel contratto di noleggio, per tutto il tempo in cui il capitale rimane in uso, indipendentemente dal livello di produzione o dalle vendite.

Se le vendite dell'impresa sono inferiori alle previsioni, il costo fisso della rata di affitto viene distribuito su un numero inferiore di unità prodotte e vendute e l’impresa deve usare propri fondi o contrarre nuovi debiti per onorare l’impegno.

Una capacità produttiva prolungatamente in eccesso rispetto al livello ritenuto normale, quindi, implica costi unitari sistematicamente al di sopra del livello minimo e un flusso di profitti più basso di quello atteso in base agli investimenti realizzati.

Questo determina un peggioramento delle aspettative delle imprese che le spinge a diversificare il loro portafoglio di investimenti verso l’acquisto di attività finanziarie, contribuendo ad aumentarne il loro valore e a gonfiare bolle speculative sui principali mercati borsistici mondiali, dove i capitali finanziari possono circolare liberamente dagli anni ’90 in ossequio alla filosofia del Washington Consensus.

 In questo modo i profitti derivati dalle attività finanziarie permettono di compensare (o più che compensare) il calo dei profitti derivanti da un’attività produttiva sempre più stretta dall’alternarsi di fasi di recessione, rallentamento e stagnazione.

Dopo due forti crisi finanziarie (quella che segue al crollo delle quotazioni del NASDAQ nel marzo 2000, e quella che segue al crollo dei mutui subprime nel 2007) il valore delle attività finanziarie riprende a crescere stabilmente e i profitti da esse derivati si attestano negli ultimi 15 anni intorno al 25/30% di tutti i profitti delle imprese statunitensi.

 

 Buyback e centralizzazione della ricchezza finanziaria.

L’imponente crescita dei valori azionari che si verifica dopo il 2008 (ad esempio, tra il 2008 e il 2022, S&P Index + 200%, NASDAQ +500%), ha potuto beneficiare:

dell’enorme disponibilità di credito a buon mercato resa possibile dalle politiche di «allentamento quantitativo» delle banche centrali adottate per rilanciare l’economia dopo la crisi finanziaria;

del fatto che una quota considerevole di questa liquidità si sia tradotta in operazioni di “buyback”, ossia di riacquisto delle proprie azioni finalizzate a sostenere i corsi azionari, a rendere attrattivi nuovi acquisti dei propri titoli e a ottenere capital gain.

Più precisamente, i “programmi di buyback,” estremamente vantaggiosi anche dal punto di vista della tassazione, alimentano un’enorme crescita di profitti per gli azionisti poiché il numero di azioni in circolazione viene ridotto, facendo aumentare il valore per azione e attraendo una moltitudine di operatori finanziari, anche in virtù dell’ampia estensione a soggetti scarsamente solvibili del credito e della possibilità di indebitarsi a leva (vedi nota 6).

Gli azionisti delle imprese maggiormente coinvolte in questi programmi sono spesso le grandi istituzioni finanziarie, i fondi di investimento e altri investitori istituzionali.

Di conseguenza, queste entità hanno aumentato la loro quota di proprietà nell'azienda, rafforzando il loro controllo e influenzando le decisioni aziendali attraverso il voto in assemblea e altre modalità (votazioni non vincolanti, attivismo degli azionisti, comunicazioni e incontri, ecc.).

Inoltre, i top manager e altri dirigenti aziendali hanno potuto aumentare enormemente i loro compensi basati sulla crescita dei valori azionari, esasperando ulteriormente il divario tra i loro redditi e quelli del resto della popolazione.

Questo ha portato a una concentrazione ancora maggiore del controllo nelle mani dei principali azionisti e dei dirigenti, a scapito di una distribuzione più equa del potere decisionale e dei benefici aziendali.

Il processo si realizza ora a prescindere dalla dinamica competitiva tra imprese più forti e meno forti (vedi sopra) e corre in parallelo al meccanismo di estrazione del valore basato sulla produzione.

 Quel meccanismo, infatti, viene fatto oggetto di un vero e proprio «sabotaggio strategico», in quanto le risorse da destinare ai buyback e altre attività speculative (futures sulle materie prime, valute, metalli preziosi, ecc.) vengono distratte dagli investimenti produttivi, anche nei settori/imprese con maggiore attitudine all’innovazione (vedi Turco 2018, Lazonick 2023).

I guadagni così ottenuti, spesso parcheggiati in paradisi fiscali e normativi “off shore” in attesa di vantaggiosi impieghi, vengono utilizzati per acquisire i pacchetti azionari di una miriade di imprese – a volte in competizione tra loro sugli stessi mercati reali ‒ attraverso artifici finanziari simili alle scatole cinesi.

In sostanza, ci troviamo sempre più in presenza di un modello di produzione dove la logica dell’accumulazione pecuniaria, governata da un numero estremamente ridotto di soggetti economici, prevale su quella produttiva.

 Il fine della centralizzazione non è più tanto, dunque, l’accumulazione del capitale a fini di profitto quanto l’accentramento del controllo a fini di accumulazione di potere.

 Lo stesso potere che consente loro di condizionare le decisioni dei governi e i provvedimenti legislativi che stimolano (anche forzatamente) la migrazione del risparmio verso le attività finanziarie e il sostegno alla loro performance, come visto ad esempio nel caso delle riforme al sistema pensionistico/assicurativo o della normativa sui buyback.

 Ad ogni modo, nessun business finalizzato all'accumulazione di capitale pecuniario potrebbe vivere senza che si continui ad accumulare, almeno in qualche misura, capitale fisico per produrre beni.

Il «sabotaggio», ossia il drenaggio di risorse a detrimento delle attività di investimento produttivo/innovazione, non può quindi estendersi oltre certi limiti in quanto senza la sfera della produzione il capitalismo stesso non potrebbe esistere.

Questo è particolarmente vero in relazione a comparti come le tecnologie digitali, l’energia, la farmaceutica e la difesa;

sia per la loro rilevanza strategica sia per la loro capacità di attrarre le scommesse degli operatori finanziari sui loro asset, trascinando nel gran bazar, attraverso i fondi che amministrano i loro patrimoni, anche milioni di piccoli risparmiatori.

Per altri settori industriali, invece, quali quelli orientati alla produzione di beni di consumo che un tempo dominavano l’economia globale (ad esempio produzione di automobili, elettrodomestici, industria tessile, industria alimentare, ecc.), persistenti problemi di sovracapacità, aggravati dagli effetti depressivi della fase pandemica, hanno influito sicuramente sulla decisione delle imprese di ridurre gli investimenti e l'innovazione, concentrando l’attenzione sulla gestione degli impianti produttivi sottoutilizzati e sulla riduzione dei costi per rimanere competitive, come anche su vigorosi tentativi di estorcere incentivi ed agevolazioni ai governi attraverso il ricatto occupazionale.

È probabile allora che questi settori riescano a trascinare la loro esistenza in vita o a mantenere una qualche rilevanza (sebben ridotta) solo fino al punto in cui la logica dell’accumulazione pecuniaria abbia ancora l’opportunità di nutrirsi del loro valore.

Conclusioni.

 

In conclusione, la sempre più strutturale incapacità delle economie moderne di sfruttare il potenziale produttivo che esse stesse costruiscono si riversa sull’espansione abnorme dell’economia monetaria e finanziaria,

 «con una forza e una velocità in grado di travolgere regole, programmazioni, dati reali e dunque di cancellare la prerogativa del mercato di svolgere la propria funzione di attribuzione più o meno coerente del valore» (Volpi 2024).

Una ristretta cerchia di interessi economici dispone oggi di un potere in grado di scandire i ritmi e la direzione di questo processo.

 Ciò accresce inesorabilmente i fattori di instabilità e fragilità dei sistemi economici.

Non è un caso che nel corso degli ultimi tre decenni i fattori di crisi siano più legati alla finanziarizzazione della produzione che alla struttura produttiva stessa.

 Se nel fordismo la crisi era originata da sovra-produzione o da sotto-consumo per poi trasmettersi al credito e alla finanza, ora avviene il contrario, segnando un radicale cambiamento della relazione tra ricchezza finanziaria e ricchezza reale che ha caratterizzato l’economia politica sin dai suoi albori.

 

 

 

La Commissione europea vuole tenere

in vita l’”ideologia del rigore”.

Valori.it - Alessandro Volpi – (24.11.2022) – ci dice:

 

 

La riforma ipotizzata del Patto di stabilità salverebbe le politiche rigoriste, introducendo novità poco utili, se non dannose.

La Commissione europea, dopo lunghe discussioni, ha pubblicato la sua ipotesi di modifica del Patto di stabilità, che ad una prima lettura appare molto inutile, se non assai dannosa.

 Prevede infatti il mantenimento in vita dei surreali parametri del 3% del rapporto tra deficit e Pil e del 60% tra debito e Pil.

Obiettivi ormai chiaramente inapplicabili, come dimostra la deroga protratta dal 2020.

L’organismo esecutivo di Bruxelles si limita a correggerli con un indicatore tutt’altro che banale.

Si tratta della spesa primaria – in sintesi, la spesa pubblica al netto degli interessi, dell’impatto degli stabilizzatori sociali e di misure una tantum – che dovrà essere concordata bilateralmente con la Commissione ogni 4 anni.

Una volta stabilita tale spesa però lo Stato interessato non dovrà modificarla neppure in caso di recessione molto pesante.

E persino in situazioni di emergenza.

In estrema sintesi, si lasciano in vita gli architravi ideologici dell’Europa del rigore, pensate trent’anni fa, e si mitigano con la prospettiva di trattative fra Commissione e singoli Stati che hanno tutto il carattere delle deroghe concesse, caso per caso, in base ad una non ben chiara “affidabilità” quasi interamente finanziaria.

 È inutile dire che un’ipotesi del genere non è affatto favorevole all’Italia, che risulta il Paese in cui la crescita della spesa primaria è stata, in termini percentuali, la più alta nel 2022, dopo quella lituana.

Si prospettano quindi tempi davvero duri.

La legge di Bilancio italiana per il 2023 varrà poco più di 30 miliardi di euro.

 Di cui 20 sono “fittizi” perché rappresentano il portato della deroga europea concessa all’Italia di avere un deficit del 4,5% invece che del 3,3%.

 Con le nuove “regole” dal 2024 una simile possibilità non sarebbe più applicabile. O certamente risulterebbe molto più onerosa, come del resto già emerge dalla difficile situazione attuale che ha indotto il governo Meloni ad utilizzare come parola chiave quella della “prudenza”.

 

I 20 miliardi di maggior deficit vanno trovati infatti con nuovo debito da collocare sui mercati.

Ma è già certo che non basteranno, tanto è vero che le nuove emissioni di debito pubblico previste dal Tesoro nel 2023 sono stimate intorno ai 90 miliardi di euro. Che, naturalmente, debbono aggiungersi agli oltre 250 miliardi di titoli in scadenza.

Il problema, allora, è chi comprerà tale debito?

 La Bce ha già fatto sapere che non parteciperà all’acquisto di nuove emissioni di debito ed ha alzato i tassi rendendo il collocamento dello stesso più caro.

 Partirà così la concorrenza sui titoli del debito pubblico e l’Italia dovrà sperare che i tassi di interesse dei titoli tedeschi non siano troppo allettanti perché renderebbero il collocamento dei nostri costosissimo e, difficilmente, sostenibile, con la ricomparsa dello spread nei titoli dei giornali.

Tale timore è alimentato da due ulteriori fattori.

In primo luogo, le scommesse sul nostro debito, i famigerati “Cds,” stanno già salendo di prezzo.

Proprio perché ci si attende un indebolimento e un deprezzamento dei titoli italiani.

Il secondo fattore è costituito dall’impennata dei tassi americani che sta attraendo capitali da tutto il mondo e che certo non aiuta la vendita dei titoli italici, destinati ad appellarsi al risparmio nazionale in misura maggiore rispetto al passato.

L’Europa sembra così avvicinarsi sempre più ad una crisi irreversibile perché continua, pervicacemente, anche con l’ipotesi di riforma del Patto di stabilità, a fare il contrario di quello che servirebbe.

 Piuttosto che inutili regole sulla spesa e sul debito, avrebbe bisogno di smontare il dumping fiscale interno, di avere una “politica” monetaria in grado di reggere il debito e la spesa, di capire rapidamente che i suoi interessi sono ben diversi da quelli degli Stati Uniti e dunque di mettere subito alcuni limiti al grande casinò della finanza derivata, responsabile dell’inflazione.

Il rapporto deficit/Pil non ha alcun senso negli Stati Uniti, dove lo ignorano allegramente.

Mentre nel Vecchio Continente continua ad essere un totem intoccabile.

 Intanto però non esiste ancora un regolamento sulle criptovalute – dovrebbe entrare in vigore nel 2024 – per cui chiunque, di fatto, può acquistarle.

Ma rischiando tutto.

Perché non esiste alcun fondo di garanzia né tantomeno è previsto l’intervento della Banca centrale.

E, soprattutto, non esiste alcuna separazione fra il capitale degli investitori nelle piattaforme e quello del suo “gestore”, per cui possono avvenire casi come quello dell’americana “Ftx”.

In estrema sintesi, senza troppi tecnicismi, l’Europa si rende così un cerbero, inutile e dannoso.

Nei confronti dell’economia reale e consente la proliferazione di colossale “sale giochi” della finanza derivata e di molte criptovalute.

Peraltro, permettendo che questo armamentario finanziario di distruzione di massa venga pubblicizzato e venduto ovunque.

 

 

 

Canada post-Trudeau:

Paese al bivio?

Ispionline.it – Francesco Amodio – (24 gennaio 2025) – ci dice:

 

Ottawa deve fare i conti con la nuova aria che tira a Washington, la presidenza del G7 e soprattutto le numerose sfide socio-economiche.

E quest’anno si vota.

Negli ultimi anni il Canada ha affrontato una serie di sfide strutturali che hanno influenzato profondamente il tessuto economico e sociale nazionale.

Queste dinamiche hanno contribuito, direttamente o indirettamente, al declino della popolarità del governo di Justin Trudeau, culminando nel suo annuncio di dimissioni a gennaio di quest’anno.

 Analizziamo qui le tendenze dell’economia canadese, gli elementi di criticità e le prospettive future, considerando anche il contesto politico e la presidenza di turno del G7.

Le difficoltà economiche.

L’economia canadese si trova di fronte a una serie di sfide strutturali che ne compromettono competitività e crescita, molte delle quali riflettono tendenze comuni ad altre economie avanzate, come quelle di Germania e Regno Unito.

Una delle questioni principali è la stagnazione della produttività.

In media, tra il 1981 e il 2022, la crescita annuale della produttività del lavoro in Canada è stata superata da tutti i Paesi dell’OCSE con l’eccezione di Italia e Svizzera.

All’inizio degli anni ’80 il valore prodotto per ora lavorata in Canada era circa l’88% di quello degli Stati Uniti.

Nel 2022 era sceso al 71% e da allora ha continuato a diminuire.

Ciò si deve a diversi fattori, tra i quali l’allocazione delle risorse produttive.

Ingenti quantità di capitale continuano a essere investite nel settore petrolifero, un ambito destinato a diventare meno competitivo con il progredire della transizione energetica globale.

Questa scelta limita la possibilità di destinare risorse a settori più dinamici e innovativi, come la tecnologia e l’intelligenza artificiale, con un impatto negativo sulla capacità del Paese di generare valore a lungo termine.

Il risultato è un calo degli standard di vita in Canada rispetto ai vicini Stati Uniti, come mostrato dalla comparazione del PIL reale pro capite nei due Paesi.

Nonostante il PIL del Canada sia cresciuto nel periodo post-COVID, le politiche di immigrazione promosse dal governo Trudeau hanno portato a un aumento della popolazione a un ritmo significativamente più rapido, causando una diminuzione del PIL reale pro capite (-2,5%) rispetto ai livelli pre-pandemia.

Un altro aspetto critico è il ruolo del mercato immobiliare e l’impatto dell’inflazione sul potere d’acquisto delle famiglie.

Negli ultimi anni l’inflazione ha colpito duramente beni essenziali come alimentari ed energia, aggravando il costo della vita e riducendo i redditi reali, in particolare per le famiglie della classe media.

Questa pressione è amplificata dall’aumento dei costi abitativi, che ha reso difficile per le nuove generazioni raggiungere la stabilità economica, e dal debito delle famiglie, che ha superato il 180% del reddito disponibile, il livello più alto tra i Paesi del G7.

La combinazione di inflazione e stagnazione salariale non solo peggiora la disuguaglianza economica, ma contribuisce anche a una crescente insicurezza finanziaria per molte famiglie canadesi.

 

Infine, la crescita del rapporto deficit/PIL è una fonte di crescente preoccupazione.

Sebbene il debito pubblico canadese sia inferiore a quello di altri membri del G7, la combinazione di alti deficit e bassa produttività rappresenta una minaccia a lungo termine.

Il problema è aggravato dalla stagnazione del denominatore (il PIL), che rende più difficile ridurre il peso del debito attraverso l’espansione economica.

Una strategia per affrontare questa sfida richiede riforme strutturali che stimolino la crescita, accrescano la produttività e riequilibrino il bilancio pubblico senza sacrificare gli obiettivi sociali.

Tutto ciò si riflette nelle difficoltà dell’economia canadese nel creare occupazioni di qualità.

 Il declino del settore manifatturiero, ormai superato in termini di ore lavorate dal comparto edilizio, vede una forza lavoro sempre più concentrata in settori a basso valore aggiunto.

Inoltre, l’enorme intensità di capitale richiesta dal settore petrolifero riduce le opportunità di impiego per la classe media.

Questi fattori combinati spiegano perché il Canada fatichi a offrire posti di lavoro stabili e ben retribuiti, una condizione essenziale per rafforzare il tessuto economico e sociale nazionale.

Settori prioritari e opportunità di rilancio.

Nonostante queste difficoltà, il Canada ha l’opportunità di rilanciare la sua economia puntando su settori più dinamici, come il tech in generale, l’intelligenza artificiale e le energie rinnovabili.

 Montréal, ad esempio, si è affermata come hub per l’industria dei videogiochi e altre tecnologie creative, dimostrando che investimenti mirati in innovazione possono generare crescita economica sostenibile e occupazione di qualità.

 

Inoltre, il Paese potrebbe beneficiare di una maggiore diversificazione economica, allontanandosi dalla dipendenza storica dal settore petrolifero.

Gli investimenti nelle tecnologie verdi non solo risponderebbero agli obiettivi di sostenibilità ambientale, ma rappresenterebbero anche una leva per attrarre capitali internazionali.

Una strategia industriale che favorisca l’innovazione, combinata con una maggiore formazione della forza lavoro, potrebbe accelerare la transizione verso un’economia ad alta produttività e basso impatto ambientale.

Le relazioni commerciali e il ruolo internazionale.

Sul piano internazionale, il Canada deve affrontare le rinnovate tensioni commerciali con gli Stati Uniti, il suo principale partner economico.

 Il Canada è una delle economie più aperte al mondo, con un rapporto tra commercio e PIL pari al 67,2% nel 2023.

Più del 60% delle esportazioni canadesi è destinato agli USA.

Trump ha dichiarato di voler introdurre a breve tariffe del 25% su tutte le importazioni provenienti da Canada e Messico, ponendo una sfida significativa alle esportazioni canadesi, in particolare nel comparto petrolifero.

 Qualora dovesse accedere, si imporrà la necessità per il Canada di diversificare le esportazioni.

Un’opportunità cruciale per il Canada risiede nelle sue ricche riserve di minerali strategici, come litio, cobalto, nichel e terre rare, elementi fondamentali per le tecnologie rinnovabili e l’industria dell’elettronica.

Questi minerali rappresentano una leva economica significativa per il Paese sia in termini di esportazioni che di attrazione di investimenti esteri.

Inoltre, possono anche costituire una risorsa strategica nel rafforzamento delle relazioni con l’Unione europea, che punta a garantire un accesso sicuro a queste materie prime nell’ambito della transizione energetica.

In questo contesto il Canada deve capitalizzare su accordi commerciali esistenti, come il “CETA” (Comprehensive Economic and Trade Agreement) con l’Unione europea.

Questo accordo, pur essendo in vigore in via provvisoria, non è ancora stato pienamente ratificato da tutti gli Stati membri dell’UE, limitandone il potenziale.

La ratifica del CETA rappresenterebbe un passo cruciale per consolidare le relazioni economiche con l’Europa, rafforzare l’accesso ai mercati e favorire investimenti in settori strategici.

Allo stesso tempo, il Canada può guardare ai Paesi del Sud globale come partner strategici per espandere ulteriormente le sue relazioni economiche.

Rafforzare i legami con queste economie emergenti, combinato con politiche mirate che offrano incentivi fiscali e un ambiente normativo favorevole, potrebbe aprire nuove opportunità di crescita, riducendo la vulnerabilità economica nazionale alle politiche protezionistiche degli Stati Uniti.

 In questo quadro puntare su settori ad alta intensità di conoscenza, come la tecnologia e le energie rinnovabili, sarebbe essenziale per ridefinire il ruolo del Canada nell’economia mondiale.

Il futuro economico: verso una nuova visione.

Le nuove elezioni, la cui data è ancora incerta, rappresentano un punto di svolta per il Canada.

Per affrontare le sfide economiche, il nuovo governo dovrà considerare riforme strutturali che affrontino le disuguaglianze, migliorino la produttività e riducano il debito pubblico senza compromettere gli obiettivi sociali.

Tra le possibili riforme, si potrebbe considerare una maggiore integrazione tra settore pubblico e privato in ambiti strategici, come la sanità, per alleggerire il sistema pubblico e stimolare l’occupazione.

Modelli ispirati a Paesi come Spagna e Portogallo, che prevedono una componente privata complementare al sistema pubblico, potrebbero rappresentare una soluzione innovativa.

Allo stesso tempo, sarà cruciale investire in istruzione e formazione per preparare la forza lavoro canadese alle sfide di un’economia sempre più orientata all’innovazione.

Incentivare la mobilità sociale, sostenere la creazione di posti di lavoro di qualità e favorire l’inclusione economica saranno priorità essenziali per costruire una società più equa e resiliente.

La presidenza canadese del G7: un’opportunità strategica.

La presidenza del G7 nel 2025 rappresenta per il Canada un’occasione unica per consolidare il suo ruolo di leader globale, affrontando questioni cruciali come la transizione energetica, il commercio internazionale e l’innovazione tecnologica.

 In un contesto di crescenti tensioni geopolitiche il Canada può promuovere un’agenda che incentivi l’investimento in tecnologie verdi e la cooperazione multilaterale per accelerare l’abbandono dei combustibili fossili.

 Questo rafforzerebbe la sua leadership nella lotta al cambiamento climatico e aprirebbe nuove opportunità economiche nei settori delle energie rinnovabili.

Un’altra priorità fondamentale riguarda l’intelligenza artificiale e la regolamentazione tecnologica.

Grazie alla sua posizione come hub per l’innovazione, il Canada può guidare il dialogo internazionale per stabilire norme etiche e responsabili sull’uso delle nuove tecnologie.

Ciò rafforzerebbe la sua influenza globale e attrarrebbe investimenti in settori tech avanzati, promuovendo crescita economica e creazione di posti di lavoro di alta qualità.

Infine, il G7 offre al Canada una piattaforma per ampliare le sue relazioni economiche con i Paesi del Sud globale e l’UE.

Attraverso nuove partnership e iniziative congiunte, Ottawa può ridurre la dipendenza dagli USA, diversificare i suoi mercati e contribuire a una crescita globale più inclusiva e sostenibile.

Le difficoltà economiche del Canada sono il risultato di sfide globali e locali, ma offrono anche un’opportunità per ripensare le politiche economiche e industriali.

Con una leadership determinata e una strategia chiara, il Canada può emergere come un modello di crescita sostenibile e inclusiva, rafforzando il suo ruolo di attore chiave nell’economia mondiale.

(Francesco Amodio - Associate Professor, Mcgill University).

 

 

 

 

Milei, crociata contro l’ideologia woke:

 «Una battaglia per la libertà con Trump, Musk e Meloni»

Corriere.it - Giuliana Ferraino, inviata a Davos – (23 gennaio 2025) – ci dice:

Il presidente argentino contro chi si oppone a ingiustizie sociali o razziali nei confronti di minoranze etniche e di genere:

«L’ideologia woke è un’epidemia mentale: serve una lotta per la libertà in ogni angolo del pianeta».

Il presidente argentino Javier Milei arriva sulle nevi svizzere di Davos direttamente da Washington, dove lunedì ha partecipato all’insediamento del presidente americano Donald Trump (che parlerà in streaming questo pomeriggio alle 17) e con un discorso provocatorio e politicamente scorretto infiamma il World Economic Forum, lanciando una sfida globale contro quella definisce «l’epidemia mentale» dell’ideologia woke (quella che si oppone alle ingiustizie sociali o razziali nei confronti delle minoranze etniche e di genere).

Non è più solo nella sua crociata per affrancare l’Occidente, perché, durante quest’anno della sua presidenza, Milei ha trovato «alleati in questa lotta per la libertà in ogni angolo del pianeta».

E li cita: «Dal meraviglioso Elon Musk, alla tenace leader italiana Giorgia Meloni; da Bukele in El Salvador a Netanyahu in Israele; da Visegrád in Ungheria a Donald Trump negli Stati Uniti.

Lentamente si sta formando un’alleanza internazionale di nazioni che vogliono essere libere e credono nelle idee di libertà».

«Meloni? Una grande lottatrice.

Su Meloni, poi al Corriere aggiunge:

«È una grande lottatrice e ci aspettiamo da lei che si faccia carico del recupero dell’Occidente e dell’Italia».

Prima di lanciarsi nella sua invettiva, ai leader di Davos Milei presenta i risultati del suo primo anno di presidenza per dimostrare che la sua cura anticonformista funziona:

«L’Argentina è diventata un esempio globale di responsabilità fiscale, di impegno per i propri obblighi, di come affrontare il problema dell’inflazione e anche di un nuovo modo di fare politica, che consiste nel dire la verità alla gente in faccia e confidare nella loro capacità di comprenderla», afferma.

«Merito accantonato dalla dottrina della diversità»

Poi il leader argentino si lancia in una filippica contro «l’aberrante ideologia» woke, «un cancro da estirpare», perché distorce i valori occidentali.

 «Il femminismo radicale è una distorsione del concetto di uguaglianza», dice. Condanna l’ideologia di genere:

«Stanno danneggiando irreversibilmente bambini sani con trattamenti ormonali e mutilazioni».

E sentenzia:

«Il merito è stato accantonato dalla dottrina della diversità».

Si scaglia contro «l’ecologismo radicale», nemico della voglia di conservare il pianeta:

«Nessuno vuol vivere in una discarica», ma l’ambientalismo woke ha trasformato il diritto degli esseri umani a godere della natura in uno scenario in cui «l’essere umano è il cancro da eliminare e lo sviluppo economico un reato».

La battaglia contro lo Stato.

È un attacco a 360 gradi, contro le istituzioni, dalle élite delle università agli organismi internazionali del credito, paragonati ad «associazioni estorsive», con un chiaro il riferimento al Fondo monetario internazionale, di cui Buenos Aires è debitrice.

Il punto centrale del discorso è come sempre la battaglia contro lo Stato.

«La funzione dello Stato deve limitarsi nuovamente alla difesa del diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà», spiega.

 Tutto qui.

E invita perciò a ribellarsi contro «il regime del pensiero monolitico» e a «riscrivere le regole» un tempo considerate intoccabili.

«Viva la libertà carajo!»

L’Argentina ha «spezzato le catene», assicura Milei che ha «fiducia» che Trump lo seguirà.

E invita gli altri Paesi fare altrettanto, affidandosi al liberismo, per entrare in «una nuova era dorata», dove dominano il rispetto della vita (quindi contro l’aborto, che è basato sugli errati calcoli malthusiani che tanti danni stanano provocando oggi alla società, sostiene), il rispetto della libertà di parola, di religione e del commercio.

È a questo punto che Milei va in soccorso del suo «caro amico Elon Musk, che «è stato ingiustamente vilipeso dall’ideologia woke per un gesto innocente che semplicemente rifletteva il suo entusiasmo e la sua gratitudine verso le persone».

Il riferimento è al presunto saluto romano del fondatore di Tesla e SpaceX durante un discorso alla Capitol One Arena di Washington in occasione dell’insediamento di Trump.

«Facciamo di nuovo grande l’Occidente», conclude Milei riprendendo il celebre slogan di Trump per terminare con il consueto grido finale:

«Libertà, libertà, libertà! Viva la libertà carajo!».

 

 

 

 

L'assessore regionale Guido Guidesi

chiede l'intervento dell’Europa:

"L'automotive è un settore da salvare"

 Bresciaoggi.it - Giuseppe Spatola – (19 gennaio 2025) – ci dice:

  

La Lombardia non abdica al ruolo di prima regione manifatturiera d’Europa.

Così spiega Guido Guidesi, assessore allo Sviluppo economico della Regione Lombardia, che al centro mette le automotive e l’industria.

A partire dal 2025 le flotte delle case automobilistiche dovranno rispettare parametri di emissioni di CO2 sempre più stringenti.

Quale è la sua previsione?

Se la nuova Commissione Europea entro il primo trimestre non affronterà tutte le questioni riguardanti il settore e l'industria dell'Automotive ciò che succederà è già scritto:

un intero e storico settore industriale scomparirà.

Per noi, affrontare significa fare queste cose:

cancellare le sanzioni ai costruttori europei al fine di non correre il rischio che esse diventino la causa economica per razionalizzare stabilimenti e forza lavoro;

rivedere termini e condizioni del futuro della mobilità che dovrà essere ambientalmente sostenibile ma potrà considerare una pluralità di trazioni, in piena ‘neutralità tecnologica’;

questo permetterà che vendano sul mercato autoveicoli non solo elettrici ma anche ibridi, ad idrogeno, a carburante sintetici, a trazione endotermica con biocarburanti ecc. ecc;

 in buona sostanza tutto ciò che ci possa consentire di dare un possibile futuro al settore che, se non cambiasse nulla dal punto di vista regolatorio, sarebbe raccontato tra qualche anno come il più grande suicidio economico della storia a vantaggio dei cinesi.

 È inoltre di tutta evidenza che un mercato con beni offerti a così alti costi non sia appetibile per il consumatore.

 Come Lombardia abbiamo già chiesto alla Commissione ed alla presidente Von der Leyen di poter essere coinvolti nell'annunciato Tavolo di lavoro come rappresentanti dell'ARA (Automotive Regions Alliance);

noi crediamo infatti che spesso i territori portano un po' di sano realismo e questo perché vivono direttamente le conseguenze di decisioni sbagliate.

Il tempo per cambiare è poco e questa volta davvero è denaro e lavoro.

Francia e Germania, due degli Stati più «virtuosi» dell'UE, sono alle prese con crisi di governo e nel frattempo le loro economie fanno sempre più fatica.

Come vede il futuro dell’UE in questo nuovo scenario, visto anche il nuovo Governo USA?

Francamente spero che Trump, rispetto alle annunciate decisioni in materia commerciale ed economica, possa essere una sveglia per l'Europa che, come ben descritto dal rapporto Draghi, deve occuparsi di competitività e conseguentemente di poter continuare ad essere un territorio manifatturiero.

Oggi le imposizioni regolatorie stanno portando l'Europa a non essere competitiva e a non essere un territorio per fare impresa, ma senza produttori non si può competere a livello globale, per questo il primo segnale va dato «cappando» il costo dell'energia;

 è importante però che si decida perché gli Usa corrono, ad Oriente corrono e noi freniamo.

La Lombardia è da sempre un modello per tante altre regioni in Europa. Come sta andando l'economia lombarda e quali sono le sue nuove progettualità per il 2025?

Siamo la prima Regione manifatturiera d'Europa per cui la nostra economia paga le difficoltà globali dell'industria, per questo insistiamo affinché ci sia una deregolamentazione europea e che venga affrontato il problema dei costi energetici.

Noi vogliamo continuare ad essere un territorio manifatturiero ma ci sono due fondamentali elementi che non dipendono da noi:

 la nuova Commissione Europea deve correggere gli errori clamorosi della precedente per cui gli obiettivi ambientali devono andare di pari passo con la tenuta economica e sociale;

quindi, ciò che ci porta fuori dall’essere competitivi va rivisto;

solo lasciando liberi di agire i territori si possono raggiungere gli obiettivi anche ambientali;

se invece si rendono obbligate strade omologate la situazione dell'Automotive attuale potrebbe essere purtroppo un precedente.

Altra questione fondamentale.

L’autonomia; noi competiamo all'interno del mercato europeo e mondiale dal punto di vista economico commerciale con territori che godono di maggiori competenze e risorse rispetto alla Lombardia;

 l'autonomia significa consentirci di poter competere ad armi pari con le altre regioni europee e, allo stesso tempo, di poter continuare a trainare tutto il paese;

per noi quindi l'autonomia non è un obiettivo ideologico/culturale ma economico e consentire più autonomia alla Lombardia è una convenienza per tutto il Paese visto il grande contributo che la nostra regione dà al PIL nazionale e alle entrate del bilancio statale.

 

Ottimista o pessimista per questo anno?

Io devo essere ottimista perché l'economia è anche influenzata dal «sentiment»;

se il nostro ecosistema starà unito, farà squadra e lavorerà insieme noi, ancora una volta, le difficoltà le supereremo, cambiando e innovando.

Dobbiamo dunque fare squadra, ci sono purtroppo ancora troppi lombardi in ruoli istituzionali che non mettono come priorità la Lombardia.

 Noi abbiamo il dovere di consegnare ai più giovani la possibilità di giocarsi le loro carte e vincere la loro sfida nel luogo dove sono nati e cresciuti.

A novembre è intervenuto all'assemblea congiunta di Confindustria Bergamo-Brescia.

Negli ultimi anni le due Province stanno sempre più collaborando in diversi settori, crede che sia una cosa positiva?

Si, è il distretto più manifatturiero d'Europa e loro sanno che da parte mia e di Regione Lombardia avranno tutto il supporto in questa strategica collaborazione; sono convinto che già da quest’anno la Regione insieme a loro presenterà una chiara idea del futuro produttivo di quest'area.

Cambiare e innovare.

Ma sono solito parlare a cose fatte e non prima.

 

 

 

 

 

Meloni: «I soldi per la sede di

Acca Larentia? Contenta che

 non sia diventata un fast food».

 Rizzi confermato al Dis,

no a Salvini al Viminale.

Editorialedomani.it – (09 gennaio 2025) - Redazione – ci dice:

 

«Le dimissioni di Belloni non c’entrano assolutamente nulla» con le vicende di Cecilia Sala e di Space X.

Nella tradizionale conferenza stampa la premier ha detto di non aver saputo del finanziamento per 30mila euro da parte della Fondazione Alleanza Nazionale (cassaforte di FdI) necessaria per l’acquisto della sede Msi rivelata da “Domani”.

 

Il nuovo direttore del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza sarà il prefetto Vittorio Rizzi, ha annunciato Giorgia Meloni nella conferenza stampa di fine anno, precisando che la nomina verrà formalizzata nel consiglio dei ministri nelle prossime ore.

Meloni ha affermato che «molte ricostruzioni» sulla direttrice del “Dis” dimissionaria, Elisabetta Belloni, «non corrispondono a verità».

Le vicende di Cecilia Sala e di Space X, di questi giorni, «non c’entrano assolutamente nulla» con le sue dimissioni, che le ha consegnate prima di Natale.

«Ho una stima enorme per Belloni», ha detto la premier, «che ringrazio del lavoro straordinario fatto per la presidenza del G7.

Belloni è un funzionario capace, coraggioso e di lungo corso e mi pare sia molto ambita anche fuori dai confini nazionali».

In apertura della conferenza stampa di fine anno della premier Giorgia Meloni, il presidente del Consiglio nazionale Ordine dei giornalisti “Carlo Bartoli” ha espresso «prima di ogni altra cosa, a nome della nostra comunità professionale, la gioia e il sollievo per il rientro in Italia della collega “Cecilia Sala” e un grazie a tutti coloro che si sono adoperati per la sua liberazione».

Matteo Salvini al Viminale, per la premier, «non è nell’ordine delle cose», «sarebbe un ottimo ministro dell’Interno», ma, precisa Meloni, anche Matteo Piantedosi lo è.

La sede di Acca Larentia.

Alla domanda della nostra Daniela Preziosi, sulla sede acquistata dall’associazione legata a CasaPound, la premier ha risposto di essere «contenta che la sede storica del Msi non sia diventato un fast food», ma di non essere stata direttamente a conoscenza del fatto che la Fondazione Alleanza Nazionale, del cui cda fanno parte numerose figure di FdI, abbia di fatto reso possibile l’acquisto con una donazione di 30mila euro alla Fondazione Acca Larentia, di fatto in mano a CasaPound.

La sicurezza.

In risposta a una domanda sul destino dell’agente che dopo aver ucciso una persona che stava aggredendo gente per strada a Rimini, Meloni ha spiegato di essere al fianco del poliziotto.

 «C'è un signore che accoltella 4 persone e poi si avventa su un carabiniere.

 La prontezza del carabiniere fa sì che non venga ucciso e anzi impedisce che l'uomo uccida altre persone.

 Il carabiniere viene indagato.

Si dice che sia un atto dovuto, vedremo, io ho chiesto all'Arma dei carabinieri di sostenere le spese legali della difesa del maresciallo Masini e intendo chiedere al generale Luongo di conferire al maresciallo Masini un riconoscimento per il suo valore. Ha fatto il suo lavoro» ha detto la premier, che annuncia anche modifiche alla legge.

«Ci dobbiamo porre il problema delle forze dell'ordine che temono di far bene il proprio lavoro perché rischiano di trovarsi in un calvario giudiziario.

Faremo un approfondimento delle norme vada fatto».

Space X.

Su Space X Meloni afferma di voler fare chiarezza: «Non ho mai parlato personalmente con Elon Musk di queste vicende», ha detto, aggiungendo di essere «stupita da come alcune notizie false rimbalzino e diventino centro del dibattito e continuino a essere discusse dopo le smentite. E non parlo di voi – ha spiegato rivolgendosi ai giornalisti – ma parlo dell’opposizione soprattutto».

«Non so se altri siano abituati a usare la cosa pubblica per fare favori agli amici ma non è mio costume.

Valuto gli investimenti stranieri con l’unica lente dell’interesse nazionale e non delle amicizie o delle idee politiche di chi deve investire», ha concluso.

Meloni ha spiegato che con Space X la fase è quella delle «interlocuzioni che rientrano nella normalità», una fase istruttoria:

«Ha illustrato al governo la tecnologia di cui dispone, che consente comunicazioni in sicurezza a livello nazionale e soprattutto planetario, e per noi significa soprattutto garantire comunicazioni sicure nel rapporto con le sedi diplomatiche e con i contingenti militari all’estero, che sono molto delicate».

Il caso Sala.

In due anni di governo, ha detto Meloni, «non ho provato emozione più grande di quando ho potuto chiamare una madre per dirle che la figlia stava tornando a casa». È stata la presidente del consiglio a dare notizia alla madre di Sala, Elisabetta Vernoni, della liberazione della figlia, detenuta dal 19 dicembre in Iran.

 

«Non c’è stato un punto di svolta sulla vicenda Sala», ha detto Meloni, perché è sempre stata seguita con grande attenzione.

Un caso legato a quello della giornalista italiana è quello di Mohammad Abedini Najafabadi, cittadino iraniano arrestato a Malpensa il 16 dicembre, su cui pende una richiesta di estradizione da parte degli Usa.

«Il caso Abedini è al vaglio tecnico e politico del ministero della Giustizia», ha spiegato la premier, «è una vicenda che bisogna continuare a discutere con i nostri amici statunitensi.

Ne avrei voluto parlare anche con Biden sabato».

Il presidente uscente degli Stati Uniti Joe Biden ha annullato il suo viaggio in Italia a causa degli incendi in corso in California.

 

Le dichiarazioni di Trump e l’Ucraina.

Meloni ritiene, inoltre, che le dichiarazioni del presidente eletto Usa Donald Trump (in una prima conferenza stampa dalla sua residenza privata ha avvertito Panama e Groenlandia che non esclude l’uso della forza militare nei loro confronti) «rientrino nel dibattito a distanza tra grandi potenze, è un modo energico per dire che gli Usa non rimarranno a guardare di fronte alla previsione che altri grandi player globali muovono in zone di interesse strategico» per gli Stati Uniti e per l’occidente.

 

La premier esclude che gli Stati Uniti «nei prossimi anni si metteranno a tentare di annettere con la forza dei territori che interessano».

 Se compatibile con l’agenda, Meloni volerà negli Usa per l’insediamento di Trump il 20 gennaio.

Per il presidente uscente sarebbe un errore, spiega, un disimpegno in Ucraina. «Non leggo questo dalle sue dichiarazioni.

 Ha parlato in più occasioni di “pace con la forza” e io ho sempre sostenuto che l'unico modo per costringere la Russia a sedersi ad un tavolo di trattative era costruire una situazione di difficoltà» sul campo.

La situazione delle carceri.

In tema carcere la premier Giorgia Meloni ha detto che il governo sta lavorando per ampliare la capienza dei detenuti.

A partire da quest’anno si lavorerà per ottenere più di settemila posti, ma questi non sono sufficienti.

Secondo quanto riportano i sindacati attualmente negli istituti penitenziari italiani ci sono più di 16mila detenuti oltre i limiti massimi.

La premier non vede altre soluzioni e nega la possibilità di amnistie o indulti. «Amnistia? Le parole del Pontefice sono rivolte ai governi di tutto il mondo, non specificamente all’Italia.

 In ogni caso intendiamo fare la nostra parte per garantire condizioni migliori a chi sconta una pena in Italia, solo che noi dobbiamo adeguare la capienza delle nostre carceri alle necessità, e non il contrario», affermato.

Nel frattempo in mattinata è arrivata la notizia di un altro suicidio avvenuto in carcere, questa volta a Roma nell’istituto di Regina Coeli.

 

I centri in Albania.

Sui centri per migranti in Albania, ora vuoti in attesa della decisione della Corte di giustizia Ue in primavera, la premier sostiene che «la Cassazione dia ragione al governo, cioè spetta al governo stabilire i paesi sicuri e il giudice non può sistematicamente disapplicare, ma può motivare il caso specifico».

Meloni ha fatto sapere che «il dispositivo è pronto a partire in qualsiasi momento».

Secondo la presidente del consiglio, la maggioranza dei leader dei paesi europei sosterrà la posizione italiana di fronte alla Corte Ue, «anche perché quello che stiamo sostenendo è perfettamente in linea con il nuovo patto di immigrazione e asilo».

Libertà di stampa.

Bartoli ha lanciato l’allarme su una serie di provvedimenti legislativi, «che restringono in maniera preoccupante la libera informazione in materia di cronaca giudiziaria e cronaca nera.

Tutti conveniamo sulla necessità di trovare un bilanciamento tra due diritti costituzionali:

il rispetto della persona e il diritto a essere correttamente e compiutamente informati.

Oggi, in Italia, il rispetto della privacy sta però oscurando il diritto dei cittadini a conoscere quanto accade».

Difendere il giornalismo, ricorda Bartoli, significa proteggere la democrazia, «il nostro diritto a essere cittadini informati e consapevoli».

Il numero record di azioni giudiziarie intimidatorie, sia penali sia civili, contro i giornalisti – dice Bartoli – «per questo chiediamo di ripensare totalmente la riforma della diffamazione in discussione al Senato;

 speriamo inoltre che il Parlamento voglia correggere una norma disastrosa, quella sulla cosiddetta presunzione di innocenza».

 

Per Meloni «non c’è alcuna limitazione del diritto di informazione e di essere informati» e comunque «il governo ha deciso di non inasprire le pene» per chi «dovesse violare» questa indicazione.

E, in tema di diffamazione, secondo la premier «non c’è alcuna limitazione della libertà di stampa» nei provvedimenti del governo.

Ha poi aggiunto Meloni:

 «Mi capita sempre più frequentemente di trovare virgolettate sui giornali dichiarazioni che mi vengono attribuite di cose che non ho mai detto e non ho mai pensato.

Mi capita frequentemente di vedere riportati fatti non avvenuti.

Vorrei provassimo partendo da questa conferenza stampa a ripartire con un piede diverso.

Io assicuro rispetto per il vostro lavoro, mi permetto chiedere rispetto per il mio».

 

 

 

Dati verso la “Cina”, “TikTok”, “Shein”, “Temu”

e altri big cinesi denunciati

per violazioni del “Gdpr”.

Wired.it – Riccardo Piccolo – (17-1-2025) – ci dice:

L'organizzazione per la “privacy Noyb “ha presentato sei denunce in cinque paesi europei contro i colossi tech, chiedendo sanzioni fino al 4% del fatturato globale.

 Privacy sotto la lente.

La Cina è troppo vicina ai dati degli europei.

 O almeno lo è per l'organizzazione austriaca “Noyb” (None of your business), che ha presentato sei denunce contro altrettanti colossi tecnologici – TikTok, AliExpress, Shein, Temu, WeChat e Xiaomi – per aver trasferito illegalmente verso la Cina le informazioni personali dei cittadini europei.

Gli esposti sono stati depositati presso le autorità di protezione dei dati di Austria, Belgio, Grecia, Italia e Paesi Bassi, con richieste di sanzioni che potrebbero arrivare fino al 4% del fatturato globale delle aziende per violazione del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr).

 

I trasferimenti illeciti.

Il cuore delle denunce riguarda le politiche sulla privacy delle aziende.

Quattro dei sei colossi tech – “AliExpress”, “Shein”, “TikTok” e “Xiaomi” dichiarano esplicitamente di trasferire i dati degli utenti europei in Cina.

Le altre due società, “Temu” e “WeChat”, parlano genericamente di trasferimenti verso "paesi terzi" che, data la loro struttura aziendale, secondo l'organizzazione non possono che includere il territorio cinese.

La questione è particolarmente delicata proprio alla luce del quadro normativo europeo.

Il “Gdpr”, infatti, permette sì il trasferimento di dati personali fuori dall'Unione europea, ma solo verso paesi che garantiscono un livello di protezione equivalente a quello comunitario.

 La Cina, a differenza di nazioni come Canada, Giappone, Israele e Corea del Sud, non ha mai ricevuto dalla Commissione europea una "decisione di adeguatezza", lo strumento che certifica questi standard di sicurezza.

 "Data la natura autoritaria dello stato di sorveglianza cinese, è assolutamente chiaro che la Cina non offre lo stesso livello di protezione dei dati dell'Ue", ha dichiarato “Kleanthi Sardeli”, avvocato di Noyb specializzato in protezione dei dati.

Il caso italiano.

Tra le sei denunce, quella presentata al Garante per la protezione dei dati personali di Roma riguarda il caso di un utente italiano contro “Shein”.

L'azienda cinese avrebbe sistematicamente ignorato le richieste dell'utente di accedere alle proprie informazioni personali, limitandosi a fornire dati parziali attraverso una funzione di download automatico che non specifica nulla sui trasferimenti internazionali.

La privacy policy dell'azienda, aggiornata al 25 settembre 2023, ammette il trasferimento di dati verso paesi extra-UE, inclusa la Cina, basandosi su "clausole contrattuali standard" che, secondo i denuncianti, non possono garantire una protezione adeguata.

Tiziano Bonini Baldini al Wired Next Fest Trentino 2024 dice:

"Non dobbiamo fare allarmismo sull'AI. Non è in cima alla lista dei problemi della democrazia".

La società “Roadget Business Pte. Ltd”., che gestisce la piattaforma “Shein” attraverso una sede a Singapore, si presenta come uno dei maggiori marketplace globali di moda e lifestyle.

Per operare in Europa, l'azienda utilizza una complessa struttura societaria che include diverse entità:

oltre alla sede di Singapore, esistono società collegate a Hong Kong (Zoetop Business Co. Limited), in Irlanda (Infinite Styles Ecommerce Co. Limited) e in Cina (Guangzhou Shein International Import & Export Co. Ltd).

Particolarmente problematica è la questione della sede europea a Dublino dell'azienda cinese.

“Shein” sostiene che per tutti i dati degli utenti europei il responsabile del trattamento sia “Infinite Styles Ecommerce Co. Limited” in Irlanda, ma secondo la denuncia si tratterebbe di una sede fittizia.

All'indirizzo dichiarato - 1-2 Victoria Buildings, Haddington Road - risultano registrate oltre 628 società, tra cui diverse che offrono servizi di "rappresentanza UE" per aziende straniere.

 La denuncia sottolinea come sia improbabile che in quell'edificio, già in parte occupato da un caffè, possano effettivamente operare i 30 dipendenti tech che “Shein “dichiara di avere in Europa.

Le difese e il contesto internazionale.

Tutte e sei le aziende sono state contattate da Euronews per un commento, ma solo “Xiaomi” e “TikTok” hanno risposto.

La prima ha rilasciato una nota:

"Il rispetto della privacy degli utenti è sempre stato uno dei valori fondamentali di “Xiaomi”, che comprendono trasparenza, responsabilità, controllo da parte dell'utente, sicurezza e conformità legale.

 La nostra informativa sulla privacy è sviluppata per rispettare le normative applicabili, come il” Gdpr”.

 Conformandoci alle leggi e ai regolamenti locali vigenti nei mercati in cui Xiaomi opera, i dati degli utenti vengono archiviati e trattati in conformità con le normative locali.

Qualora un'autorità nazionale per la protezione dei dati dovesse contattare Xiaomi in relazione a questo reclamo, collaboreremo pienamente con l'autorità per risolvere la questione".

“TikTok” ha assunto una posizione ancora più netta, affermando a Euronews di non aver "mai condiviso, né è stato chiesto di condividere, i dati degli utenti europei con il governo cinese".

L'iniziativa segna un cambio di passo significativo nella strategia di “Noyb” che, dopo aver preso di mira i giganti tecnologici americani come Apple e Meta, ora sposta l'attenzione verso oriente in quello che si preannuncia come un nuovo capitolo della battaglia per la protezione dei dati personali degli europei.

 Le denunce arrivano in un momento di crescente attenzione internazionale sul controllo esercitato dal governo cinese sulle aziende tecnologiche nazionali (si veda il “caso del ban di TikTok” negli Usa e in alcuni paesi in Europa), in un contesto dove la protezione dei dati personali si intreccia sempre più con questioni di sicurezza nazionale e sovranità digitale.

 

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