La burocrazia contro il governo dello Stato.

 

La burocrazia contro il governo dello Stato.

 

 

 

Come Trump intende

smantellare il “deep state.”

Geopolitica.info - Lorenzo Rossi – (09/01/2025) – ci dice:

 

 

La lotta contro il deep state è stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di Donald Trump.

Già durante il suo primo mandato si scagliò contro un esercito di burocrati che, a detta sua, stavano lavorando per sabotare le sue scelte politiche.

 Dopo la vittoria alle elezioni presidenziali del 2024, il Tycoon ha promesso di ritornare a combattere contro il deep state a partire dal giorno uno, implementando una serie di riforme radicali per ristrutturare l’apparato amministrativo del governo federale.

 

Cos’è il deep state?

Deep state, amministrative state, apparati, governo ombra: sono alcune delle parole all’ordine del giorno nel dibattito pubblico statunitense.

 Nonostante questi termini vengano spesso associati a teorie del complotto, si riferiscono al complesso sistema burocratico degli Stati Uniti e al suo peso nel processo di “decisioni making”.

 

Il governo federale degli Stati Uniti poggia su un apparato burocratico immenso: più di 9 milioni di impiegati, divisi nei vari dipartimenti e agenzie.

Dalla fine del XIX secolo l’apparato burocratico statunitense è cresciuto velocemente, con l’espandersi delle competenze del governo federale.

Sono state istituite diverse importanti agenzie, come l’FBI, la CIA e l’EPA, con competenze e poteri esecutivi rilevanti.

Decisamente troppo influenti nel processo di “decisioni making” secondo Trump e il partito repubblicano, i quali negli ultimi anni hanno imbastito una vera e propria lotta contro gli apparati burocratici.

 

Secondo il GOP gli apparati costituirebbero una sorta di “governo parallelo” a quello eletto dai cittadini (Presidente e Congresso), spesso in grado di influenzare in maniera notevole le scelte e l’indirizzo politico del governo federale.

 I burocrati sarebbero espressione di un “establishment liberal” che agirebbe all’oscuro dei cittadini e contro la volontà popolare, svincolati di ogni controllo politico.

 

Durante il suo primo mandato Trump ha attaccato costantemente gli apparati burocratici, accusati di bloccare le sue scelte politiche: un esempio è il tentato riavvicinamento con la Russia, verosimilmente fallito a causa dell’opposizione del Pentagono.

Tuttavia, occorre precisare che conflitti simili sono sorti anche durante amministrazioni democratiche: alla scelta di Obama di iniziare il ritiro delle truppe in Afghanistan ha seguito il “no” dei militari, che invece hanno evidenziato la necessità di aumentare il numero di truppe per le operazioni di “surge”.

 

Drain the swamp”: the Project 2025.

Durante la campagna elettorale Trump è tornato a tuonare contro il deep state, promettendo di “drenare la palude” e di sbarazzarsi una volta per tutte dell’esercito di burocrati che proverà a ostacolare il suo programma.

La lotta contro il deep state è uno dei capisaldi della sua agenda per il “second term”, e su questo sta concentrando la scelta dei componenti del futuro governo.

 

Uno dei punti di riferimento dell’agenda Trumpiana sarà con molta probabilità “il Project 2025”, un documento elaborato dal “think tank Heritage Foundation”. Nonostante Trump abbia più volte preso le distanze dal progetto, tra gli autori spiccano personalità molto vicine sia a lui che al vice-presidente eletto J.D. Vance.

 

Tra gli obiettivi espressamente enunciati nel documento rientrano in particolare lo smantellamento dell’”Administrative state” e il ritorno della “self governance al popolo americano”.

 

Un aspetto da tenere in considerazione è la modalità di reclutamento dei funzionari.

Il “Project” prende di mira “Pendleton civil service act del 1883”, uno dei retaggi più importanti dell’era progressista.

All’epoca si cercò di limitare il potere dei partiti politici nella macchina amministrativa, limitando sensibilmente il ricorso allo “spoils system”.

 La legge prevedeva che l’impiego federale fosse basato sul merito piuttosto che sull’affiliazione politica, accordando protezioni e garanzie di autonomia dal potere politico.

I funzionari sarebbero stati assunti tramite concorso e svincolati dalle logiche partitiche.

 Tuttavia, secondo gli autori del documento, questo avrebbe esonerato i burocrati da ogni tipo di accountability, spostando il baricentro del policy-making verso le Agenzie governative e privando il congresso delle sue prerogative.

 

“Il Project 2025” propone di superare questo sistema per “restituire sovranità al popolo” e di ridimensionare il potere di alcuni Dipartimenti, tra cui quello di “Giustizia” e dell’”educazione”: un’agenda squisitamente conservatrice.

 

Il ritorno dello “Schedule F”

Cosa potrebbe significare in concreto?

Questo porterebbe innanzitutto al “ripristino del controverso Ordine Esecutivo” noto come “Schedule F”, abolito da Biden subito dopo il suo insediamento.

 

L’atto prevedeva che vari incarichi federali (di carattere confidenziale, di policy making, di “policy determining” e di “policy advocating”) fossero inquadrati nella nuova categoria di “excepted service”, privandoli della protezione di cui godono grazie al “competitive service”, l’attuale regime di assunzione del personale federale.

 In sostanza, diversi funzionari non sarebbero stati più assunti in base a concorsi e non avrebbero più potuto esercitare le loro funzioni in autonomia, ma sarebbero diventati politicamente responsabili.

 

Fatto ciò, il Presidente potrebbe iniziare a licenziare parte del personale inquadrato nella nuova categoria, sostituendo determinati burocrati con figure a lui fedeli. Si stima che più di 50.000 funzionari del” civil service” possano essere coinvolti.

Nel 2020 l’ordine esecutivo non ha avuto gli effetti previsti, in quanto emanato durante gli ultimi mesi della sua presidenza, ma verosimilmente Trump avrà molto più spazio di manovra durante il suo “second term”.

Il programma ha attirato feroci critiche, in quanto minerebbe l’indipendenza di molti funzionari, politicizzando le loro cariche, e reintrodurrebbe de facto lo spoils system, in contrasto con il Pendleton civil service act del 1883.

 

Rischi per il Pentagono.

Il Dipartimento della Difesa è probabilmente l’epicentro della lotta al deep state.

Come già detto, il Pentagono ha svolto in passato un’importante attività di moderazione sull’operato dei Presidenti, in particolar modo su Trump.

Se durante la sua prima amministrazione ebbe spesso conflitti con i militari, il secondo mandato sarà molto diverso.

 

Al Pentagono, il Tycoon ha piazzato “Pete Hegseth”, ex-militare ed ex-presentatore di” Fox News” che in passato ha difeso incondizionatamente le forze armate.

Un profilo decisamente peculiare, considerando che nella stragrande maggioranza dei casi i Presidenti hanno sempre affidato l’incarico a figure riconducibili alle più alte cariche militari.

“Hegseth” sarà una figura cruciale per la buona riuscita dell’agenda trumpiana, che mira a ridurre l’influenza dei Generali sull’operato del Presidente.

Degna di attenzione è anche la recente” sentenza della Corte suprema” sull’immunità presidenziale e le sue ripercussioni sulle relazioni tra civili e militari.

Nella sentenza, la Corte ha decretato che il Presidente è protetto da immunità nell’esercizio delle sue funzioni.

Secondo varie figure, inclusa la giudice della “Corte Sotomayor”, la sentenza potrebbe avere importanti ripercussioni sul rapporto tra presidenza e apparati militari, e potrebbe dare la possibilità a Trump di utilizzare le forze armate per fini illegali.

 

Innanzitutto, il Presidente potrebbe sentirsi meno vincolato ad obblighi legali. Inoltre, in qualità di” Commander in Chief”, il Presidente ha il potere di emanare ordini che l’esercito ha l’obbligo di eseguire, poiché essi si presumono conformi alla legge (regular order system).

 L’esercito non può comunque operare per fini illegali, l’irregolarità di una direttiva deve essere verificata dal ramo legislativo o giudiziario.

 Tuttavia, l’amministrazione potrebbe fare pressione sui militari per eseguire l’ordine prima che la legalità di questo venga provata.

Trump ha anche espresso la volontà di utilizzare l’esercito per reprimere rivolte di piazza e portare avanti le operazioni di “mass deportation” di migranti illegali. Sebbene il ricorso alle forze armate sia vietato per operazioni di” law enforcement”, Trump potrebbe appellarsi all’”Insurrection act del 1807”, il quale prevede che l’esercito possa essere dispiegato previa dichiarazione dello stato di emergenza.

 In passato diversi presidenti hanno fatto ricorso a questa legge.

Conclusioni.

La ristrutturazione del governo e degli apparati burocratici è senz’altro uno degli aspetti degni di attenzione per la prossima presidenza Trump.

 

Per il suo secondo mandato, il Presidente eletto cercherà di avere quanto più spazio di manovra per il suo programma, e su questo sta basando la scelta dei componenti del futuro governo, concentrandosi prima di tutto sulla fedeltà. Verosimilmente avrà molte più possibilità di successo rispetto al suo primo mandato, quando nel governo sedevano ancora personalità riconducibili all’ala più moderata e tipicamente neo-conservatrice del Partito Repubblicano, l’ultimo “bastione anti-Trump”.

 

Si prospetta un vero e proprio ricambio generazionale ai vertici del governo USA, personalità relativamente giovani, cresciute nel post-guerra fredda e con “atteggiamenti Hawkins” verso la Cina: Marco Rubio al Dipartimento di Stato è un perfetto esempio.

 

Inoltre, la creazione del “Department of government efficiency” (DOGE), con a capo “Elon Musk”, rappresenta in pieno la volontà di Trump di sbarazzarsi di una parte del vasto apparato burocratico federale.

A prescindere dal successo del suo programma, la nuova agenda Trumpiana avrà effetti rilevanti e duraturi sul tessuto amministrativo statunitense.

 

 Il Circo Va alla Guerra!

Conoscenzealconfine.it – (9 Marzo 2025) - Andrea Marcigliano – ci dice:

 

Dunque… mentre Trump tratta con Putin, l’Europa, o meglio quella strana finzione che chiamano Unione Europea, va alla guerra.

O meglio, al riarmo. Per fare la guerra alla Russia.

Farebbe già ridere così, come una battuta senza senso.

 E, invece, forse, ci toccherà, davvero, preoccuparci. E piangere.

Perché, i cosiddetti venti di guerra, sembrano soffiare veementi nelle vele di Bruxelles.

E trovare altrettanti entusiasmi dalle parti dell’Eliseo.

Ursula Von Der Leyen vuole riarmare l’Europa. Per affrontare Mosca.

Chiede ottocento miliardi di euro da investire in armamenti.

Avete capito bene… Ottocento, 800 miliardi di euro.

Che naturalmente dovrebbero venire tirati fuori dai paesi membri.

Quindi dai cittadini.

A scapito della spesa sociale, pensioni, stipendi…

 

Europei, o meglio tedeschi, francesi, italiani, spagnoli ed altri sempre più depauperati. Impoveriti.

Ridotti a una vita sempre più compressa e faticosa.

Per finanziare la guerra. Contro la Russia.

Perché Lady Ursula e i suoi accoliti vogliono la guerra. A parole.

Ma a farla, e a pagarne le conseguenze in tutti i sensi, dovranno essere altri.

Voi, per inteso… o i vostri figli e nipoti.

Per altro Ursula non deve rispondere, praticamente, a nessuno.

Non è stata eletta dai popoli europei. È stata messa lì da delle gabole di palazzo. Se si presentasse ad un voto reale, prenderebbe, forse, quelli dei parenti.

E la sua Commissione non è un governo.

No ha, o meglio, non dovrebbe avere potere alcuno.

Soprattutto in materia militare. E in fatto di guerre. Ma l’inettitudine dei governi nazionali le permette di assumere, anzi arrogarsi questo ruolo.

 

E lei lo interpreta bene, al servizio di quei poteri finanziari che nulla dovrebbero avere a che spartire con l’Europa.

 E con i popoli che dovrebbero comporla. E che stanno pagando già le conseguenze di queste politiche.

Poi c’è Macron.

 Di Merz, del nuovo Cancelliere tedesco, inutile parlarne.

È un uomo della BlackRock. E ciò dovrebbe bastarci per capire.

E, poi, la sua non è una maggioranza.

La Germania si prepara ad un, presumibilmente lungo, periodo di incertezza. Anche, forse soprattutto, nelle fila della CDU-CSU.

Ma Macron appare lanciatissimo. Alfiere della guerra. Del riarmo.

Lui che ha segnato, con la sua insipienza, la definitiva fine del predominio francese in Africa.

Che (s)governa senza una maggioranza. Che rischia una rivolta diffusa.

 Però vuole, a parole, la guerra. Con la Russia.

Gli altri europei si esercitano nell’attività del pesce in barile. Fingono di essere pronti.

Ma contano come il, classico, due di coppe quando la briscola sta a bastoni.

L’Olanda fa i suoi affari. Sotto traccia. Gli altri più o meno tacciono.

Ungheria, Slovacchia, Croazia, presto anche Bulgaria e Romania si stanno sganciando.

Resta la Polonia.

Ma, ricordo, il bellicismo cronico dei polacchi non ha mai portato fortuna. Soprattutto a loro. E a chi li ha seguiti.

Un Circo, dunque, con figuranti e pagliacci. Che urla: Guerra! Guerra!

Ma non ha forze per sostenerla. Un Circo che serve, probabilmente, a mascherare ben altro. Un gioco di interessi economici. O, se vogliamo semplificare, l’ennesimo, colossale, furto ai nostri danni.

La Lega ha preso posizione nettamente contraria. La Meloni appare ancora incerta. Speriamo… non ci resta altro da fare.

(Andrea Marcigliano).

(electomagazine.it/il-circo-va-alla-guerra/).

 

 

 

La svolta all’indietro di Trump.

Rivistailmulino.it – (04 marzo 2025) - Tiziano Bonazzi – ci dice:

 

Leggere l’ascesa di Donald Trump come lo strumento per una rivoluzione tradizionalista intesa a riportare la società americana verso i tempi d'oro di metà Novecento:

 la riflessione di un americanista.

 

Le tante, drammatiche prese di posizione prima contro il discorso del vicepresidente J.D. Vance al summit di Marsiglia sulla sicurezza, poi contro i brutali attacchi di Trump a Zelensky non mi toccano più di tanto perché mi paiono rivolte a leccarsi le ferite piuttosto che a comprendere o a contrastare il trumpismo.

Sono confuso anch'io, ma un paio di cose mi permetto di dirle muovendomi all'interno della storia statunitense.

 

La Costituzione del 1787 non era e non voleva essere una Costituzione democratica, quanto piuttosto una “Costituzione liberale” che divideva il potere a livello federale e fra il governo federale e gli Stati per impedire il nascere di figure politiche troppo potenti e autoritarie.

La democrazia nacque circa mezzo secolo dopo la Costituzione, negli anni Trenta dell'Ottocento e non attraverso un movimento nazionale, ma da moti in alcuni Stati i cui cittadini chiesero e ottennero il suffragio universale ‒ bianco e maschile, naturalmente ‒ mettendosi al seguito di un leader amatissimo, “Andrew Jackson”, un eroe militare delle guerre indiane.

Si trattava di una democrazia dai tratti populisti in cui il leader si poneva in rapporto diretto col popolo e accentrava in sé il potere.

 Liberalismo, democrazia e nazionalismo espansionista, nato dalla corsa a quella colonia interna che era l'Ovest, si sono equilibrati variamente per un secolo fino al “New Deal” che diede finalmente vita a un sistema liberaldemocratico in cui i tre elementi si compenetravano e potevano virare in senso progressista o conservatore senza che il sistema ne risentisse.

Un sistema che ha dato agli Stati Uniti i suoi anni di gloria e di potere fino all'ultimo decennio del Novecento e che è crollato nel nuovo Millennio, in cui due insiemi di cause ne hanno provocato la crisi.

 “Il primo” ha natura economica e ruota attorno alla globalizzazione che provocò la crisi del sistema industriale, innanzi tutto del Midwest con la perdita di un lavoro sicuro da parte di milioni di operai, e al tempo stesso diede vita a una nuova iper classe di miliardari, di scienziati e di tecnici della finanza, delle tecnologie avanzate, dello spazio – e, oggi, dell'Intelligenza artificiale – slegati da ogni radice nazionale in quanto abituati a interagire con i loro pari a livello mondiale.

Una classe economicamente dominante poco interessata alla vita del common man americano e quindi al sistema liberaldemocratico che intendeva dare spazio nel sistema a tutti i cittadini, seppure con posizioni economiche assai diseguali.

 

“Il secondo” insieme di cause è culturale e riguarda la rapida trasformazione della società che, a partire dagli anni Sessanta, è divenuta sempre più duttile e aperta alle istanze dei movimenti, da quello degli afroamericani ai movimenti femministi e gay.

Un moto che nei decenni si è impiantato nella cultura urbana e si è venuto radicalizzando, dando vita, ad esempio, alle teorie del gender e alle molteplici richieste di riconoscimento delle istanze concrete di quest'ultimo. 

Trump ha dato voce ai timori e alle frustrazioni di milioni di americani bianchi per il fermarsi dell'ascensore sociale e i rapidi mutamenti che andavano trasformando la loro società: l’immigrazione e il “crescente radicalismo dei progressisti”.

Donald Trump non è soltanto un narcisista interessato ai propri affari e alla assoluta fedeltà di chi gli è accanto;

è il punto di arrivo di una pluriennale, per lo più sottostimata, meditazione politica intenta a preparare una rivoluzione portata avanti da vari think tank iper conservatori, pur diversi fra loro, come ad esempio la “Heritage Foundation”, il “Claremont Institute”, il “Council of Conservative Citizens”.

 

Questo pensiero, di cui Trump è stato il brillante interprete, ha inteso dar voce ai timori e alle frustrazioni di milioni di americani bianchi per il fermarsi dell'ascensore sociale e i rapidi mutamenti che andavano trasformando la loro società:

l'immigrazione, in primis, il cui primo risultato è che in pochi decenni l'America bianca scenderà sotto il 50% della popolazione, col timore di veder stravolti i valori e la vita degli americani, e il crescente radicalismo dei progressisti pronti a demolire la tradizione culturale che ha fatto grande l'America – la triade “Dio, patria”, famiglia – nel nome di istanze radicali cosiddette “woke”.

 

Accanto a ciò, il rapido allontanarsi dal Partito democratico dei leader miliardari delle tecnologie più avanzate per il bisogno di energia elettrica delle loro aziende, in particolare nel settore dell'Intelligenza artificiale, che di elettricità hanno una fame inesauribile, cosa che le ha rese nemiche delle politiche green e dei sia pur modesti laccioli che i democratici imponevano loro nel nome del bene comune.

 

Elon Musk è diventato il principale interprete di questa posizione, che ha radicalizzato in una visione assolutistica dell'efficienza che a livello politico lo ha portato a immaginare un ribaltamento della lenta, imprigionante tradizione liberaldemocratica.

Trump è l'uomo, il leader populista e il leader autocratico, che ha radunato in sé tutte le spinte qui indicate per sommi capi, e sta portando avanti l'accentramento efficientistico del potere nelle mani dell'esecutivo già delineato dal “Project 2025” della “Heritage Foundation”. 

 

Il risultato sperato, non si sa se raggiungibile, dalla coppia Trump-Musk non è semplicemente reazionario ma consiste nella distruzione della tradizione illuminista che, fra tanti ostacoli, ha costituito la spina dorsale del mondo atlantico dalle rivoluzioni di fine Settecento.

 E con essa quella del suo ramo americano, la liberaldemocrazia. A sostituirla sembra essere chiamata una duplice  spinta potenzialmente contraddittoria, ma ritenuta possibile dai rivoluzionari americani di oggi, secondo la quale la rabbiosa reazione di larghi strati della popolazione contro il fermarsi dell'ascensore sociale e la crescita della cultura radicale diventano nelle mani di Trump lo strumento per una rivoluzione tradizionalista, intesa a riportare la società americana verso i tempi d'oro di metà Novecento, in cui i ruoli sessuali e famigliari erano chiari e ben definiti, la fede religiosa nelle sue mille espressioni il fluido vitale che manteneva unita la società, con un crescente benessere che animava un'America dinamica e plurale, senza che le inevitabili contraddizioni la mettessero in pericolo.

La triade Dio, patria, famiglia guidava i cittadini.

 Per Musk, invece, occorre distruggere ogni impedimento che il deep state, lo Stato amministrativo delle tante agency semiautonome presenti in settori importanti dello Stato federale, pone all'agire efficiente e veloce del governo americano.

L'obiettivo è l'accentramento del governo nelle mani di un esecutivo libero da costrizioni nelle funzioni pubbliche, soprattutto quelle importanti per mantenere il primato americano nello spazio e nell'Intelligenza artificiale, a costo di disinteressarsi di tanta parte dei cittadini, cui la tradizione liberaldemocratica tentava di dare un ruolo attivo. 

L'obiettivo è l'accentramento del governo nelle mani di un esecutivo libero da costrizioni nelle funzioni pubbliche, soprattutto quelle importanti per mantenere il primato americano nello spazio e nell'IA, a costo di disinteressarsi di tanta parte dei cittadini.

 

Mi pare dunque che la volontà di distruggere l'illuminismo e il suo universalismo consista in una rivoluzione tradizionalista intesa a riportare gli Stati Uniti all'America di metà Novecento.

 Accanto a questa, una rivoluzione guidata da un razionalismo efficientista estremo che indica agli americani una nuova frontiera ideale a cui affidarsi, lo spazio e le meraviglie dell'IA.

 In entrambi i casi il primato del popolo, cioè dei cittadini e dei loro diritti universali fissati dai primi dieci emendamenti alla Costituzione, quelli del 1791, nonché gli altri usciti dalla Guerra civile, diventano secondari a favore di un'efficienza radicale del governo e della pace culturale e sociale garantita dallo stop all'autonoma evoluzione della cultura americana.

È il capovolgimento del primato del razionalismo illuminista che nell'”America rivoluzionaria”, sempre indicata come pietra di paragone dai think tank conservatori, vuol dire gli illuministi scozzesi del “common sense”, David Hume, Montesquieu, Diderot. 

 

 

 

Ascesa e declino dell’ordine neoliberale.

Verso un nuovo ordine post-neoliberale?

 Transform-italia.it - (15/01/2025) - Alessandro Scassellati – ci dice:

 

Lo storico “Gary Gerstl” offre il resoconto più completo di come il “neoliberismo” sia arrivato a dominare la politica americana per quasi mezzo secolo prima di scontrarsi con le forze del “Trumpismo” a “destra” e con un nuovo “progressismo di ispirazione socialista” (Bernie Sanders) a” sinistra”.

Il passaggio epocale verso il “neoliberismo”, una rete di politiche correlate che, in termini generali, hanno ridotto l’impatto dello Stato e del governo sulla società e riassegnato il potere economico alle forze del mercato privato, iniziato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna alla fine degli anni ’70, ha cambiato radicalmente il mondo.

 Oggi, la parola “neoliberale” è spesso usata per condannare un’ampia gamma di politiche, dal privilegiare i princìpi del libero mercato rispetto alle persone all’avanzamento di programmi di privatizzazione in tutti i paesi del mondo.

Di sicuro, il neoliberalismo ha contribuito a una serie di tendenze allarmanti, non ultima delle quali è stata una crescita massiccia della disuguaglianza dei redditi.

Tuttavia, come sostiene “Gerstl”, queste accuse non riescono a tenere conto dei contorni completi di ciò che era il “neoliberalismo” e del perché la sua visione del mondo abbia avuto una presa così persuasiva sia sulla destra che sulla sinistra per tre decenni.

Come dimostra, l’ordine neoliberale emerso in America negli anni ’70 fondeva idee di deregulation con libertà personali, frontiere aperte con cosmopolitismo e globalizzazione con la promessa di una maggiore prosperità per tutti.

 Oltre a tracciare come questa visione del mondo sia emersa in America e sia cresciuta fino a dominare il mondo, “Gerstl” esplora la misura in cui il suo trionfo è stato facilitato dal crollo dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati comunisti, prima non riconosciuta.

È anche il primo a tracciare la storia della caduta dell’ordine neoliberista, originata dalla fallita ricostruzione dell’Iraq e dalla Grande recessione degli anni di Bush e culminata nell’ascesa di Trump e di una rivitalizzata sinistra americana guidata da “Bernie Sanders” negli anni 2010.

Nel 1989, “Gary Gerstl” e il suo co-editore “Steve Fraser” pubblicarono “The Rise and Fall of the New Deal Order, 1930-1980” (Princeton University Press, Princeton , NJ 1989), una raccolta che rimane di inestimabile valore per gli studiosi del New Deal e della politica statunitense di metà del ventesimo secolo.

Con le macerie dell’ordine del “New Deal” intorno a loro, “Gerstl e Fraser”, e i loro collaboratori, ne hanno tracciato l’ascesa e la caduta dagli anni di Roosevelt a quelli di Reagan.

Un ordine gradualmente dissoltosi tra le contestazioni dei movimenti per i diritti civili e giovanili degli anni ’60, la disastrosa gestione della guerra in Vietnam, la “stagflazione” degli anni ’702 e la perdita di competitività del sistema produttivo industriale statunitense (proprio come la Grande Depressione aveva contribuito a realizzarlo).

Ora, in piedi sulle rovine di un altro ordine politico, successore del primo – quello neoliberale -, “Gerstl” che è professore di storia americana all’Università di Cambridge e editorialista del “Guardian”, si è messo a spiegare la sua ascesa, il suo trionfo e il suo crollo con un libro capolavoro: Ascesa e declino dell’ordine neoliberale. L’America e il mondo nell’era del libero mercato”, Neri Pozza Editore, Vicenza 2024 (2022).

In 320 pagine (con 66 di note), scritte con sicurezza e fluidità, combinando sviluppi politici, economici, sociali e culturali, “Grestle” ha scritto una storia narrativa vivace e perspicace.

Si tratta di un libro che è inestimabile per studiosi e lettori in generale che cercano di dare un senso a ciò che è accaduto agli Stati Uniti e al mondo negli ultimi 100 anni ed in particolare dopo gli anni ’70.

Con “ordine politico”, “Gerstl” intende un progetto che richiede avanzamenti su un ampio fronte: “una complessione di ideologie, policy ed elettorati che plasmano la politica americana secondo modalità che trascendono oltre i cicli elettorali di due, quattro e sei anni” (pag. 7).

Secondo “Gerstl”, nel secolo scorso negli Stati Uniti sono esistiti due ordini politici di questo tipo:

 l’ordine del New Deal che iniziò con “Franklin Delano Roosevelt”, alla cui ascesa e declino Gerstl dedica due capitoli iniziali (pp. 25-80), e l’ordine neoliberale che iniziò con “Ronald Reagan”.

Ancora una volta, Gerstl scrive in un momento in cui sembra probabile, ma non certo, che l’ordine politico che sta studiando si stia definitivamente decomponendo.

 

Gerstl sottolinea come questi due ordini politici sono correlati, in un modo quasi idealmente sincronizzato, con l’ascesa e la caduta del comunismo.

 Questo non è certo un caso. Il contesto esterno (internazionale) ha svolto un ruolo importante nella progettazione di entrambi gli ordini politici degli Stati Uniti.

 

“Neoliberalismo” resta un termine contestato.

Per Gerstl, è un’ideologia “fondata sulla convinzione che le forze di mercato dovessero essere liberate dai controlli normativi dello Stato che ostacolavano la crescita, l’innovazione e la libertà” (pag. 8).

Gerstl sottolinea, a differenza di altri studiosi, i suoi legami con il liberalismo classico del Settecento-Ottocento, sostenendo che il prefisso “neo” intendeva distinguerlo dal liberalismo moderno, interventista, filogovernativo (e financo di ispirazione socialdemocratica) di Franklin D. Roosevelt e Lyndon B. Johnson.

Franklin D. Roosevelt aveva fatto del “liberalismo” “il contrassegno della sua politica del New Deal e una proprietà esclusiva del Partito Democratico” (pag. 93), che era, dice Gerstl, una “tra le grandi rapine terminologiche della storia” (pag. 117).

I neoliberisti cercarono di riconnettersi con un’eredità del liberalismo classico che consideravano di loro diritto.

 

Gerstl nota che nella variante americana del neoliberalismo c’erano “tre strategie di riforma – o aggregati di iniziative politiche – ben distinte” (pag. 99).

La prima cercava di “introdurre il libero mercato nella normativa sulla proprietà, sullo scambio e sulla circolazione del denaro e del credito”.

 Forti interventi pubblici nella vita economica, a livello sia nazionale che internazionale, erano considerati necessari.

 La seconda cercava di applicare i “princìpi di mercato” a tutte le sfere dell’attività umana, riformulando ogni attività “in termini economicisti di input e output, investimenti e rendimenti”.

 La terza era un approccio “utopico”, interessato principalmente al “brivido” di liberare i mercati dalla mano mortale della regolamentazione e alla “avventura di liberarsi dei vincoli alla propria personalità e al proprio lavoro” (pag. 99).

Le prime due strategie enfatizzavano “ordine, controllo, l’estensione dei princìpi del mercato ad altri ambiti, tecnocrazia e manipolazione”, mentre la terza prometteva di ringiovanire la “promessa di libertà personale” del liberalismo classico (pag. 104).

 

Diversi attori nella narrazione di Gerstl (politici, teorici, attivisti) competono per realizzare la loro versione preferita dell’ordine neoliberale.

Fu la terza strategia, con la sua enfasi sui mercati e sugli individui liberati, ad avere il maggior fascino per i politici repubblicani, Barry Goldwater (candidato del GOP nel 1964) e Ronald Reagan (presidente dal 1980 al 1988) che portarono il neoliberismo nel mainstream.

Ma furono proprio le contraddizioni del neoliberalismo, suggerisce Gerstl, il suo “carattere proteiforme”, a dargli una tale “influenza straordinaria, capace di muoversi a tutto campo e di riunire sotto lo stesso tetto una pluralità di attori [politici e culturali] assai diversi” (pag. 117).

 

C’era anche, dice Gerstl, un ordine morale nel neoliberismo che consentiva ai suoi sostenitori di conciliarlo con il loro disagio per il libero mercato sfrenato.

Per i repubblicani, era un “codice morale neo-vittoriano” (pag. 146) che enfatizzava il tradizionalismo socio-culturale conservatore, il patriarcato e le gerarchie razziali (ossia contro l’estensione dei diritti civili delle minoranze, delle donne e dei gruppi LGBTQ+), alimentando le “guerre culturali”.

 Celebrava “l’autosufficienza, la solidità della famiglia [eterosessuale patriarcale] e una condotta disciplinata in fatto di lavoro, sessualità e consumo” (pag. 19).

 I suoi sostenitori (soprattutto l’ex Speaker della Camera Newt Gingrich) sostenevano che tale codice era necessario per proteggere l’America “mainstream” (cioè bianca, di retaggio europeo) dalle conseguenze deleterie dei mercati liberati, “droga, alcol, debiti e disgregazione familiare” (pag. 146).

Al contrario, gli americani di colore (afrodiscendenti e latinos) che soffrivano di quei mali sociali venivano liquidati come una “sottoclasse” alla deriva e irrecuperabile e dovevano essere rimossi dalla società attraverso l’incarcerazione di massa (ottenuta attraverso un inasprimento delle pene e della recidiva, la “guerra alla droga” e l’applicazione della “teoria delle finestre rotte”) per proteggere il corretto funzionamento del mercato.

Per i democratici (soprattutto per Bill Clinton), l’ordine morale era “cosmopolitismo, un modo di vivere che celebrava solidi scambi non solo di beni ma di culture attraverso varie divisioni razziali, etniche, religiose e nazionali” (pag. 200).

“Vedeva nella libertà di mercato un’opportunità per modellare un sé o un’identità che fossero liberi dalla tradizione, dai retaggi e ruoli sociali predeterminati. … era profondamente egualitario e pluralistico.

 Rifiutava l’idea che la famiglia patriarcale eterosessuale fosse celebrata come la norma.

Sposava la globalizzazione, la libera circolazione delle persone e i legami transnazionali resi possibili dall’ordine neoliberale.

Apprezzava i benefici che sarebbero scaturiti dall’incontro tra popoli diversi, dalla condivisione delle loro culture e dallo sviluppo di modi di vivere nuovi e spesso ibridati.

Celebrava gli scambi culturali e il dinamismo che sempre più caratterizzavano le città globali – tra cui Londra, Parigi, New York, Hong Kong, San Francisco, Toronto, Miami – sviluppatesi sotto l’egida dell’ordine neoliberale” (pag. 20).

Il fatto che il neoliberalismo potesse conciliarsi con visioni morali così contrastanti, secondo Gerstl, nonostante le continue “guerre culturali” tra neo-vittoriani e cosmopoliti (che comunque erano ampiamente d’accordo sui princìpi dell’economia politica), ha contribuito a trasformarlo in una forza ideologica egemonica (questa dimensione ambigua e multiforme del neoliberalismo statunitense era stata già identificata da Michel Foucault nelle conferenze tenute alla Sorbona nel 1978/79).

 

Gerstl si sforza di evitare di usare nella sua narrazione le etichette tradizionali, come “liberale” o “conservatore”, comuni in altre storie politiche.

Per Gerstl, il neoliberalismo trascende quelle categorie.

Ronald Reagan, Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama sono tutti emersi come costruttori e promotori dell’ordine neoliberale, sebbene con vari gradi di impegno ideologico ed entusiasmo.

Ma Gerstl mostra come il neoliberalismo sia stato creato anche dal basso, e sia a sinistra che a destra.

Gli attivisti per i diritti dei consumatori guidati dal progressista “Ralph Nader” negli anni ’70 furono efficaci quanto qualsiasi altro gruppo conservatore antistatalista nel minare la fiducia del pubblico in un governo che, a loro dire, era fin troppo indulgente con gli interessi delle grandi aziende.

 

Facendo eco al suo collaboratore di lunga data “Steve Fraser”, Gerstl nota che, come l’ordine del New Deal, le parti costitutive dell’ordine neoliberale “- i finanziatori capitalisti, gli intellettuali, think tank, i politici, i media e le reti personali che li collegavano tra loro – erano tutte visibili già negli anni Settanta”, molto prima di arrivare al potere” (pag. 128).

Gerstl cita la familiare storia delle origini del neoliberalismo, la scuola Vienna-Chicago, i Colloqui di Parigi di Walter Lippmann (1938) e la Mont Pèlerin Society (1947), con ruoli importanti per economisti come “Friedrich Hayek”, “Ludwig von Mises” e “Milton Friedman”.

Tuttavia, attribuisce anche al neoliberalismo radici specificamente americane, collegandolo alla solitaria opposizione post-presidenziale di Herbert Hoover al New Deal, alle aspirazioni democratiche radicali degli attivisti della New Left9, ai romanzi libertari di Ayn Rand e agli imprenditori tecnologici che si riversarono nella Silicon Valley della California negli anni ’70 e ’80.

Così come a personaggi come William Simon, George Gilder, Thomas Sowell, Charles Murray, Rush Limbaugh e Patrick Buchanan.

Think tank come Heritage Institution fondata nel 1973, Cato Institute (1974), Manhattan Institute (1977).

 La Moral Majority creata dal predicatore evangelista “Jerry Falwell “nel 1979 per promuovere gli autentici valori cristiani nella politica americana e per aiutare Reagan nella corsa alla Casa Bianca.

 

Per Gerstl, Ronald Reagan era l'”architetto ideologico” (pag. 7) dell’ordine neoliberale.

Un ammiratore (e elettore per quattro volte) di Franklin D. Roosevelt, Reagan cercò di “creare un ordine politico che potesse rivaleggiare con il New Deal in termini di potere, fascino e durata” (pp. 128-129).

 Dal suo indebolimento del regime fiscale ad elevata progressività al suo assalto al movimento operaio ai suoi (in gran parte infruttuosi) sforzi per ridurre la portata del governo federale, Reagan si imbarcò in un attacco completo all’eredità del New Deal.

Eppure, egli riconciliò anche, brevemente, le contraddizioni all’interno del movimento conservatore.

 “Il maggiore successo politico di Reagan”, scrive Gerstl, “fu conciliare una politica incentrata sul ripristino della supremazia bianca e della devozione religiosa con un orientamento neoliberale pro-mercato che enfatizzava la libertà personale e l’antagonismo nei confronti dello Stato del New Deal” (pag. 132).

Nonostante le sue fratture interne, Reagan canalizzò le energie del “movimento conservatore” da lui guidato in un’antipatia verso il” governo dominato dai liberali”.

 

La narrazione di Gerstl considera la fine della Guerra Fredda come il momento critico che ha trasformato il neoliberalismo da movimento politico a ordine politico.

La disintegrazione improvvisa dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta ha rimosso “l’ultima alternativa universale al capitalismo e alla democrazia liberale” (pag. 162) e ha aperto il mondo intero alla penetrazione capitalista.

 Ha anche liberato le aziende americane dall’incentivo a scendere a compromessi con i lavoratori.

Il capitalismo ora non aveva più sfidanti ideologici significativi.

C’erano sempre nuovi mercati e nuovi lavoratori all’estero.

 

Il test definitivo di un ordine, per Gerstl, è “la capacità del partito ideologicamente dominante di piegare alla propria volontà il partito di opposizione” (pag. 8).

Dal 1952 al 1960, fu la riluttanza del presidente repubblicano “Dwight Eisenhower” (al contrario, ad esempio, di William Taft) a far arretrare lo Stato federale che ora guidava a confermare il trionfo dell’ordine del New Deal (difese i diritti del lavoro, la sicurezza sociale e un’imposta sul reddito progressiva che superava il 90%).

Per Gerstl, Bill Clinton, il leader degli “Atari Democrats”, è stato “il facilitatore chiave’ (pag. 7), che dal 1994 in poi divenne “l’Eisenhower democratico, il presidente degli Stati Uniti neoliberale per eccellenza” (pag. 172), colui che stabilì l’acquiescenza del suo partito all’ordine neoliberale.

Fu negli anni di Clinton che l’ordine neoliberista sarebbe stato al suo apice egemonico, quando ormai la sua ideologia era diventata senso comune ineludibile. Secondo Gerstl, Clinton ha fatto più dello stesso Reagan per facilitare i princìpi dell’ordine neoliberale:

 l’impegno per la deregolamentazione, la celebrazione della globalizzazione e l’idea che dovrebbero esserci mercati liberi ovunque (“ampliare le opportunità, non lo Stato”).

La promessa (non realizzata) era che “tutte le barche sarebbero salite”.

 I democratici progressisti che cercavano un percorso alternativo, come il segretario del lavoro “Robert Reich” (amico e sodale di Clinton dagli anni dell’università) e “Joseph Stiglitz”, furono emarginati.

 I repubblicani risentiti e frustrati, che si aspettavano di godere delle ricompense politiche di parte dello smembramento dell’URSS, dovettero guardare mentre Clinton si prendeva il merito di una serie di riforme neoliberiste negli anni ’90.

Da un regime di disciplina fiscale e di pareggio di bilancio e dall’emanazione di un austero pacchetto di riforme del welfare, alla firma di un” North American Free Trade Agreement” (NAFTA) che cercava di creare un mercato che abbracciasse un continente, scrive Gerstl, “la misura in cui l’amministrazione Clinton avrebbe adottato i princìpi neoliberali dal 1994 in poi è piuttosto sbalorditiva” (pag. 172).

Ma molte delle riforme neoliberali promulgate dall’amministrazione Clinton avrebbero poi contribuito ad accelerarne l’implosione.

La deregolamentazione del settore finanziario degli anni Novanta e la diluizione della riforma bancaria totemica dell’era del New Deal, il Glass-Steagall Act (abolito nel 1999), avrebbero portato a una crisi finanziaria nel 2007-2008 che avrebbe contribuito a distruggere la credibilità di quei principi neoliberali.

Il “Telecommunication” Act del 1996 ha sostanzialmente autorizzato la rivoluzione di Internet e del cyberspazio a essere libera da qualsiasi seria regolamentazione pubblica (e quindi completamente in mano ad un oligopolio di mega corporations).

Ha promulgato una deregolamentazione radicale di compagnie telefoniche, compagnie via cavo, compagnie satellitari, reti televisive, studi cinematografici e fornitori di dati che alla fine avrebbe portato all’account Twitter (ora X) di Donald Trump e al suo diretto e multi-frontale assalto al neoliberalismo.

 In una parziale reprimenda al neoliberismo reaganiano, Clinton ha anche dimostrato “quanto un ordine neoliberale fosse compatibile con una repubblica multiculturale dai tanti colori, religioni e credenze” (pag. 200).

 

Il trionfo del neoliberismo, tuttavia, durò poco.

La crisi arrivò con il ritorno di un repubblicano alla Casa Bianca nei primi anni del 2000.

 Nonostante l’impegno sfacciato di George W. Bush nei confronti dei princìpi neoliberali, furono le politiche da lui perseguite, a livello nazionale e internazionale, ad accelerarne la fine.

 L’invasione e la ricostruzione dell’Iraq dopo il 2003 furono intraprese seguendo impeccabilmente linee neoliberali e con risultati catastrofici.

In patria, Bush perseguì politiche per creare un “paese di proprietari di case” (vale a dire una società di proprietari di case con conti pensionistici e sanitari privati ancorati all’andamento di Wall Street) che portò alla crisi dei mutui subprime del 2007-2008 con lo sgonfiamento della bolla immobiliare alimentata da anni di politiche di denaro facile.

 

La crisi del neoliberalismo portò Barack Obama alla Casa Bianca, ma lui si dimostrò “prima di tutto, prigioniero della crisi finanziaria e dei suoi effetti” (pag. 243).

 Nonostante le speranze riposte in Obama, egli non è stato in grado di liberarsi dalle costrizioni del neoliberalismo, tornando alle “modalità di gestione economica del Partito Democratico tipiche degli anni Novanta” (pag. 245).

Il risultato sono state reazioni negative a sinistra e a destra.

 A destra c’era il “Tea Party,” uno spasmo di rabbia bianca contro il primo presidente nero e il regime neoliberale che non era riuscito a distruggere.

 Ciò avrebbe alimentato l’ascesa di” Donald Trump”, la cui politica etno-nazionalista protezionista “sfidava l’impegno del neoliberalismo per la libera circolazione delle merci e delle persone attraverso i confini nazionali, la sua esaltazione della diversità dei popoli e la sua fiducia nella saggezza delle élite globalizzate altamente istruite e colte” (pag. 270).

A sinistra, campagne dal basso come “Occupy Wall Street” e “Black Lives Matter” hanno reagito alle speranze deluse dell’amministrazione Obama sulla riforma finanziaria e sulla giustizia razziale.

 Questi impulsi alla fine si sarebbero fusi nelle campagne presidenziali del socialista democratico Bernie Sanders nel 2016 e nel 2020.

 

La deindustrializzazione e marginalizzazione economica delle aree industriali/occupazionali della “industrial belt” del Nord e Midwest degli Stati Uniti (trasformatasi in “rust belt”), una delle “core constituency” della coalizione politica del New Deal, ha generato una immensa sofferenza delle classi lavoratrici (in gran parte trasformate in “precariato”) che ha portato alla formazione di una “sottoclasse bianca” e ad una ribellione e rabbia contro le élite al potere.

 Scrive Gerstl, che “gli anni Dieci stavano diventando sempre più simili agli anni Trenta e Settanta del Novecento, i periodi precedenti in cui il declino di un ordine politico preponderante aveva consentito a idee a lungo relegate alla periferia della politica americana di entrare nel dibattito pubblico” (pag. 304).

 Tra loro, e nonostante le loro numerose differenze, suggerisce Gerstl, “Trump” e “Sanders” sono state le punte di un movimento a tenaglia che potrebbe aver finalmente distrutto l’ordine neoliberista.

 

L’ultimo capitolo che include sia la presidenza di Trump che quella di Biden è forse il più debole.

Gerstl riconosce che Joe Biden ha colto subito la portata del cambiamento in atto (con la pandemia del 2020 che aveva inflitto il colpo di grazia all’ordine neoliberale), il che lo ha portato a rompere con l’ortodossia neoliberale in modi in cui i suoi due predecessori democratici non hanno mai fatto.

Ha cercato di ripensare quale potesse essere un’adeguata relazione tra lo Stato e i mercati, con lo Stato che deve tornare ad indicare la direzione da percorrere.

Nella primavera del 2020, Biden ha accettato di istituire sei task force congiunte con il campo di Sanders per portare il centro e la sinistra del Partito Democratico in un dialogo fruttuoso.

I piani risultanti per l’economia, la crisi climatica, la giustizia razziale e simili hanno informato le proposte legislative che Biden ha iniziato a svelare subito dopo l’insediamento nel gennaio 2021.

 C’è stata molta costernazione a sinistra per come queste varie proposte siano state tagliate a pezzi dal Congresso.

Tuttavia, le politiche emergenti erano comunque significative:

 un piano di salvataggio da 2 trilioni di dollari, una legge infrastrutturale da 1 trilione di dollari, una legge per riportare la produzione di chip per computer e una legge sull’energia verde da 400 miliardi di dollari.

 Quest’ultima legge, l’”Inflation Reduction Act”, è il più grande investimento in un futuro senza emissioni di carbonio che il governo degli Stati Uniti abbia mai fatto.

 La sua importanza è stata stranamente sottovalutata all’interno del paese, ma in Europa la notizia della legislazione è esplosa con la forza di una bomba.

 È stata percepita come un punto di svolta e l’Unione Europea si sta affannando per adattare le proprie politiche climatiche alla luce di questa misura.

 

Su Trump, Gerstl ripropone molto di quello che già sappiamo.

Forse il libro è stato scritto troppo presto.

Trump e, cosa più importante, la silenziosa preparazione ideologica per qualcosa di nuovo (J.D. Vance, Steve Bannon e tante altre figure del movimento MAGA ormai diventate un “contro-establishment” pronto a combattere contro il “Deep State” e lo Stato amministrativo delle agenzie federali cresciuto con il New Deal), e i difetti e le contraddizioni evidenti dell’ordine neoliberale hanno preparato la sua fine nelle mani di un presidente transazionista, che pensa che il mercato non è un ordine naturale e che possa essere usato/manipolato (ad esempio, imponendo dei dazi) per aumentare la ricchezza degli Stati Uniti.

 Cosa sarà il nuovo ordine, però, non è ancora chiaro, né lo stesso Gerstl azzarda previsioni.

Emergerà dal secondo mandato di Trump come 47mo presidente degli Stati Uniti?

 La seconda presidenza Trump si presenta come una miscela di populismo MAGA e pragmatismo aziendale.

Sebbene le promesse di rilanciare l’economia americana possano attrarre molti lavoratori, le prime mosse suggeriscono un panorama in cui i diritti sindacali e le politiche di inclusione rischiano di essere messi in secondo piano a favore degli interessi delle grandi imprese, soprattutto quelle dei settori tecnologici e finanziari.

 Da una parte, si parla di un presidente che promette di riformare il sistema economico per rafforzare la classe lavoratrice;

dall’altra, le prime mosse della sua amministrazione e le figure chiave coinvolte (molti i miliardari) fanno presagire un approccio favorevole alle aziende, spesso a scapito dei diritti dei lavoratori.

 Trump si presenta come un populista vicino alle esigenze della classe lavoratrice.

Il suo programma politico include misure come il sostegno alla manifattura americana, la riduzione delle tasse sui salari dei lavoratori del settore ospitalità e l’eliminazione di regolamentazioni considerate eccessive.

 Tuttavia, dietro questa retorica si cela un possibile favoreggiamento degli interessi aziendali, alimentato da figure influenti come “Elon Musk”, uno dei maggiori sostenitori del presidente.

Siamo in piena transizione:

anche se il neoliberalismo potrebbe non essere finito, di certo non è più l’ideologia indiscussa del nostro tempo.

Secondo Gerstl, ciò non significa che le idee neoliberali spariranno.

Dopotutto, la previdenza sociale è ancora in circolazione, ma l’ordine del New Deal no.

Ci saranno elementi di pensiero neoliberale che continueranno a caratterizzare la vita statunitense per un lungo periodo.

 Ma l’ordine neoliberale non ha più la capacità di costringere all’acquiescenza, di costringere il sostegno, di definire i parametri della politica.

 Anche il tecno-utopismo di Musk non è più in grado di nascondere la verità:

gravi squilibri strutturali nell’economia globale minacciano non solo di far crollare i sistemi economici, ma di lacerare il tessuto sociale degli Stati Uniti come di tanti altri paesi (soprattutto europei).

 

Da un lato, si apre la prospettiva di un “fascismo della libertà” o di “una “democrazia illiberale” o di una “democrazia autoritaria”o di una “democrazia oligarchica” (di cui parla Emanuel Todd) o di un “fasci oliberismo” (di cui parla Luigi Ferajoli) che promette di coniugare individualismo (“ciascuno è imprenditore di sé stesso”) e potere sovrano nella cornice di una società nazionale semplificata, conformista e culturalmente omogenea, riempito di contenuti radicalmente antidemocratici (rispetto al modello di democrazia liberale) veicolati attraverso una retorica propagandistica della libertà dalle influenze straniere, dalle censure della correttezza politica, dagli obblighi di solidarietà, dal diritto internazionale, dalle regole e dagli impedimenti che graverebbero su individui e imprese.

 Dall’altro lato, non dobbiamo presumere che il capitale trionferà, ma dobbiamo anche renderci conto che questo è un momento in cui chi ha idee diverse – eco- socialiste, ad esempio – per riorganizzare l’economia, per riorganizzare la politica, per ricostruire un più equilibrato rapporto tra uomo/società e natura, deve farsi avanti e lottare per ciò in cui crede.

 Mentre i partiti populisti etno-nazionalisti guadagnano terreno in Occidente, i progressisti devono anteporre le priorità sociali e climatiche agli interessi del mercato.

 

La narrazione di Gerstl si ferma di tanto in tanto mentre l’autore considera i percorsi non intrapresi.

L’ordine neoliberale sarebbe stato così sicuro se un “Gorbachev alternativo” avesse perseguito politiche più repressive e preservato l’Unione Sovietica?

L’ordine neoliberale sarebbe imploso in modo così spettacolare se un’amministrazione Gore (invece che Bush Jr.) fosse stata in carica nei primi anni del ventunesimo secolo, perseguendo la moderazione fiscale e rinunciando all’avventurismo militare?

Tali momenti servono a sottolineare le contingenze dell’ascesa del neoliberalismo. Niente di tutto ciò era inevitabile.

(Alessandro Scassellati).

 

 

 

 

Il” fascio liberismo” di Trump e dei  suoi oligarchi: è guerra di

classe contro i poveri.

  Left.it – un pensiero nuovo a sinistra - Alessandro Scassellati Sforzolini -29 Gennaio 2025 –

 ci dice:

Il secondo mandato del tycoon è molto più organizzato del primo.

 Anche l'Europa è minacciata dall'alleanza transatlantica tra Trump, l'estrema destra europea e i magnati miliardari dei social media.

 La sfida per le forze progressiste di sinistra è enorme: anteporre le politiche sociali e climatiche agli interessi del mercato.

Dopo essere riuscito per quattro anni ad evitare per un pelo la prigione, “Donald Trump” è tornato alla Casa Bianca.

Per molti osservatori al di fuori degli Stati Uniti, la rielezione di un criminale condannato che ha cercato di ribaltare illegalmente un’elezione è sconcertante. Ma la seconda vittoria di Trump non è stata un caso fortuito.

Sebbene Trump abbia abbandonato la politica formale nel 2021, le forze che lo hanno portato al potere non lo hanno fatto.

Questa volta, è entrato in carica molto meglio organizzato, molto più forte e con una base politica più diversificata.

In meno di una settimana, Trump ha già rivelato il suo obiettivo e messo a nudo la debolezza di coloro che potrebbero sfidarlo.

 

C’è un’ombra di qualcosa di colossale e minaccioso che sta iniziando a calare sulla terra proprio ora.

Chiamatela l’ombra di un’oligarchia, se volete; è la cosa più vicina che oso immaginare.

Quale possa essere la sua natura mi rifiuto di immaginarla.

 Ma quello che volevo dire era questo: vi trovate in una posizione pericolosa.

 (Jack London, Il tallone di ferro -1907:67-68).

 

Vent’anni fa, chi avesse definito gli Stati Uniti un’oligarchia sarebbe stato etichettato come un comunista o, nella migliore delle ipotesi, un pazzo.

Lo scorso 15 gennaio Biden ne ha fatto un punto centrale del suo discorso di addio al popolo americano, e ha anche messo in guardia da un complesso tecnologico-industriale.

Biden ha avvertito gli americani che pochi privilegiati potrebbero presto essere pronti a esercitare un potere enorme negli Stati Uniti.

Ha descritto una “pericolosa concentrazione di potere nelle mani di pochissime persone ultra-ricche e le pericolose conseguenze se il loro abuso di potere non viene controllato”.

“Oggi, in America sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza che minaccia letteralmente l’intera democrazia, i nostri diritti fondamentali e la nostra libertà, e una giusta possibilità per tutti di andare avanti”, ha affermato Biden.

Un’oligarchia è una società governata da pochi e una plutocrazia è una società governata dai ricchi:

 oggi negli Stati Uniti abbiamo i segni di entrambe, grazie ad un “über capitalismo” apertamente denunciato da Bernie Sanders nel suo recente libro “Sfidare il capitalismo” (Fazi Editore, Roma 2024).

Quello di Biden è stato un riconoscimento salutare (ma tardivo e ipocrita, visto che almeno 83 miliardari hanno sostenuto la campagna di Kamala Harris) che, soprattutto da quando la Corte Suprema degli Stati Uniti – con la decisione “Citizens United del 2010 “– ha aperto le porte a enormi flussi di denaro non trasparente in politica, gli individui ricchi incontrano pochi ostacoli nell’acquistare potere politico.

 Sul piano costituzionale, gli Stati Uniti rimangono una democrazia liberale rappresentativa e la maggior parte delle sue istituzioni funziona, ma ora oligarchi plutocratici come “Elon Musk e Peter Thiel” si sono messi al centro delle campagne politiche e aspirano a governare, senza più fingere di avere impulsi/valori progressisti pro-sociali e pro-democrazia.

Questa nuova visibilità, dimostrata in modo sfacciato dai leader dei grandi monopoli tecnologici del “capitalismo della sorveglianza” – tra gli altri, Jeff Bezos di Amazon, Sundar Pichai di Google, Mark Zuckerberg di Facebook/Meta, Sam Altman di OpenAI, Tim Cook di Apple, ed Elon Musk di Tesla/SpaceX/X – seduti di fronte ai ministri designati da Trump all’inaugurazione, potrebbe anche rendere gli oligarchi più vulnerabili politicamente.

Raramente nella storia recente la guerra di classe è stata condotta in modo così sfacciato.

In genere, i miliardari impiegano delle controfigure per attaccare i poveri per loro conto.

Ma ora, liberati dalla vergogna e dall’imbarazzo, non nascondono più il loro coinvolgimento.

 Negli Stati Uniti, l’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, guiderà l’assalto federale alle classi medie e lavoratrici:

cercando di tagliare la spesa pubblica e le protezioni pubbliche che difendono le persone dal capitale predatorio.

 

“Oligarca” non è solo una parolaccia per gli ultra-ricchi o un sinonimo di “élite”, né significa solo il governo di pochi.

Se quest’ultimo fosse vero, tutte le democrazie rappresentative dovrebbero essere considerate oligarchie, poiché i membri dei Parlamenti hanno senza dubbio più potere politico dei cittadini ordinari.

Piuttosto, Aristotele – al quale dobbiamo le designazioni dei diversi regimi – intendeva l’oligarchia come governo dei ricchi (al contrario, la democrazia significava governo dei poveri o del popolo).

In un’oligarchia, pertanto, il potere è detenuto da un gruppo di persone in base alla loro ricchezza, allo status nobiliare o religioso, al grado militare e così via.

 Il termine è anche utilizzato per descrivere Paesi in cui un piccolo gruppo di persone ha molto potere anche se non governa formalmente.

Trump è un narcisista, un bullo e un cercatore di accordi che non desidera avere obblighi verso gli altri.

Sta creando una monarchia elettorale non soggetta al controllo parlamentare, un sistema in cui tutto il potere è personalizzato e tenuto nelle sue mani, una ricetta certa per flussi distorti di informazioni, corruzione, instabilità e impotenza amministrativa.

Per i sostenitori di Trump, c’è un senso di energia machista scatenata, quasi messianica, che sta avviando gli Stati Uniti verso un destino nazionale che potrebbe comprendere l’annessione di Groenlandia, Canada, canale di Panama e infine Marte.

Trump ha annunciato che l’età dell’oro dell’America inizia adesso.

E nella sua prima settimana, ha lanciato una rivoluzione politica di destra semplicemente firmando circa 100 ordini esecutivi che avranno un pesante impatto sulla vita di milioni di americani e non cittadini, avviando la deportazione di milioni di migranti clandestini, che lui dice stanno “avvelenando il sangue” degli Stati Uniti;

schierando truppe al confine tra Stati Uniti e Messico per “un’emergenza nazionale” per fermare i migranti “coinvolti nell’invasione attraverso il confine meridionale”;

attentando al diritto costituzionale (previsto dal 14° emendamento) alla cittadinanza (per i bambini nati negli Stati Uniti se né la madre né il padre sono cittadini statunitensi o residenti permanenti legali);

invertendo le politiche di genere e diversità (Dei) per arrivare a revocare anche un ordine esecutivo contro la discriminazione firmato da Johnson nel 1965 che istituiva l’Ufficio federale dei programmi di conformità contrattuale (Ofccp);

ripristinando l’ordine esecutivo del primo mandato, denominato “Schedule F”, che priverebbe potenzialmente decine di migliaia di dipendenti pubblici delle tutele occupazionali e li renderebbe più facili da licenziare;

abbandonando praticamente la lotta contro la crisi climatica;

 dichiarando un’emergenza energetica nazionale per espandere la produzione di petrolio e gas naturale (il nuovo piano per la politica industriale è “drill, baby, drill”), eliminare le normative e porre fine alle regole volte ad accelerare la transizione ai veicoli elettrici (ha definito le misure climatiche dell’Ira (Inflation reduction act) come “la più grande truffa nella storia di qualsiasi paese”);

e liberando i circa 1.500 criminali violenti che lo avevano sostenuto nel tentativo di colpo di Stato del 6 gennaio 2021.

 I repubblicani hanno sostenuto di essere il partito della “legge e dell’ordine” sin dai tempi di Richard Nixon, ma Trump, il primo criminale condannato eletto presidente, ha ribaltato la più grande indagine del Dipartimento di Giustizia della storia.

Una manciata di senatori repubblicani ha condannato la sua decisione, ma la maggior parte lo ha sostenuto o è rimasta in silenzio, un tacito riconoscimento del suo immenso capitale politico.

Nella sua intervista alla “Fox News”, Trump ha liquidato la violenza contro la polizia come “incidenti molto minori”.

 

La trasformazione radicale di Trump è sostenuta da assistenti e avvocati che hanno trascorso quattro anni a preparare il suo ritorno.

 C’è anche il “Progetto 2025” per espandere il potere esecutivo e rimodellare la vita americana, elaborato nel corso di due anni dal think tank conservatore “Heritage Foundation” insieme ad un consorzio di organizzazioni conservatrici (da cui Trump ha cercato di prendere le distanze ma molti dei suoi ex ed attuali collaboratori sono stati direttamente coinvolti e vi hanno contribuito).

 L’azione di Trump sta in gran parte seguendo le indicazioni del “Progetto 2025” e si basa anche sulla premessa di una legittimità percepita.

“La mia recente elezione è un mandato per invertire completamente e totalmente un orribile tradimento”, ha detto Trump nel suo discorso inaugurale.

Il sito web della Casa Bianca afferma che ha ottenuto una “vittoria elettorale schiacciante” nel 2024.

Tuttavia, la vittoria di Trump non è stata una valanga.

Ha ottenuto meno della metà del voto popolare nazionale e ha battuto Kamala Harris solo di 1,5 punti percentuali.

 I repubblicani hanno perso alcune gare chiave al Senato e hanno mantenuto la Camera dei rappresentanti solo per un margine sottile.

 I sondaggi di opinione mostrano che tre americani su quattro si sono opposti alla grazia per gli insorti del 6 gennaio.

Trump si trova ad affrontare divisioni all’interno del partito repubblicano al Congresso e del movimento MAGA e un elettorato che chiede risultati rapidi.

 Le mosse di Trump per sovvertire la burocrazia federale (che lui ritiene che gli sia stata ostile durante la sua presidenza 2017-2021), in particolare il cosiddetto “deep State”, hanno scatenato paura e confusione:

 le agenzie sono prese dall’incertezza su come implementare una valanga di nuove politiche del presidente mentre i lavoratori valutano l’impatto sulle loro vite. Trump ha sabotato il suo primo mandato con la sua notoriamente breve capacità di attenzione, la riluttanza a leggere i documenti politici e la promozione del caos e della disfunzione.

Ha uno stile di governo in cui guida con sfacciataggine e poi ricorre alle minacce. C’è il grande discorso e gli annunci appariscenti, ma poi c’è il tipo di duro lavoro di governo e Trump sembra addormentarsi quando arriva al duro lavoro.

 Il suo è un programma di destra radicale, ma vedremo fin dove arriverà.

Gli oppositori di Trump affermano che sta distorcendo la Costituzione degli Stati Uniti e che sta espandendo i limiti del potere esecutivo oltre il limite previsto. Affermano inoltre che le mosse iniziali di Trump dimostrano che è meno interessato a unire il Paese che a trasformarlo radicalmente, e in molti casi a esigere vendetta per punire i nemici politici e intimidire i media.

 

Le prime settimane della sua amministrazione potrebbero rappresentare l’apice del potere di Trump, come riconoscono alcuni sostenitori.

Molti degli ordini esecutivi di Trump mettono alla prova i limiti del diritto costituzionale.

Un ordine per porre fine alla cittadinanza per nascita, una dottrina costituzionale che sostiene che quasi tutti coloro che nascono negli Stati Uniti sono automaticamente cittadini, è già stato bloccato da una corte federale.

Diversi altri impegni e ordini hanno subito affrontato cause legali da parte di Stati e organizzazioni di difesa, e lo shock e lo stupore della sua prima settimana potrebbero impantanarsi in un contenzioso che durerà per gran parte del suo mandato.

 Trump potrebbe dover affrontare una sfida nel mantenere la stretta maggioranza dei repubblicani al Congresso nella Camera dei rappresentanti tra due anni.

 Il partito del presidente in carica perde spesso seggi alle elezioni di medio termine. Se ciò accadesse, si tradurrebbe nella chiusura totale del già stretto percorso legislativo per Trump.

Insomma, ci saranno opportunità legali, politiche e sociali per gli oppositori.

Anche i piccoli successi, soprattutto se ottenuti in collaborazione con altri, possono ricordare alle persone cosa è possibile fare di fronte a quelle che possono sembrare forze insormontabili.

 

Il 45° e 47° presidente, di ritorno alla Casa Bianca ha elettrizzato la sua base di sostenitori con una serie di condoni e azioni progettate per rimodellare il paese, anche se, come ha notato “Bernie Sanders”, ha ignorato quasi ogni problema significativo che le famiglie lavoratrici statunitensi devono affrontare (dal costo di cure sanitarie e medicine ai bassi salari, alla crisi alloggiativa, all’accesso all’istruzione superiore).

Da un discorso inaugurale in cui sosteneva di essere stato scelto da Dio per la missione di rifare l’America alla firma teatrale di ordini esecutivi davanti a una folla chiassosa, il suo aggressivo consolidamento del potere ha suscitato paragoni con la monarchia (un popolo che è nato dalla rivolta e guerra contro monarchi crudeli ora ha il proprio).

La miscela di politica, ideologia ed escatologia megalomane è particolarmente importante perché Trump ha legato il destino degli Usa alle sue fortune personali come nessun altro presidente prima di lui.

Come lui sostiene, la realizzazione del programma” America First” (arrestare il declino statunitense vis-à-vis l’ascesa della Cina, esaltare il nativismo bianco di ascendenza europea, sostenere il nazionalismo cristiano xenofobico e razzista, predicare il libertarismo anarco-capitalistico, imporre protezionismo e unilateralismo in politica estera) è inestricabilmente legata al suo potere personale.

Ma l’assalto veloce e furioso, definito “shock and awful” (piuttosto che “shock and awe”) dai critici, ha incontrato rapide sfide legali e reazioni politiche.

 

La torsione monarchica di Trump non è solo merito suo.

 Nel secolo scorso, presidenti come” Franklin Delano Roosevelt “hanno esteso la portata della presidenza negli affari economici e internazionali.

Dopo la guerra del Vietnam, lo storico “Arthur Schlesinger” ha definito questa l’ascesa della “presidenza imperiale”. Ma non si è fermata.

Nella sua intervista a David Frost, Richard Nixon ha sostenuto che se un presidente approva qualcosa, non è illegale.

La Corte Suprema ha dato a questa visione, un tempo impensabile, la sua benedizione della maggioranza l’anno scorso, stabilendo che un presidente possiede l’immunità assoluta per qualsiasi atto ufficiale.

 Una giudice liberale, “Sonia Sotomayor, ha affermato che questo ha reso il presidente “un re al di sopra della legge”.

Attualmente, i poteri imperiali che Trump potrebbe utilizzare comprendono: uccidere cittadini americani senza un giusto processo, detenere sospettati (compresi cittadini americani) a tempo indeterminato, privare gli americani dei loro diritti di cittadinanza, effettuare una sorveglianza di massa sugli americani senza una causa giustificabile, dichiarare guerre senza l’autorizzazione del Congresso, sospendere le leggi in tempo di guerra, ignorare leggi con cui potrebbe non essere d’accordo, condurre guerre segrete e convocare tribunali segreti, sanzionare la tortura, eludere le legislature e i tribunali con ordini esecutivi e dichiarazioni firmate, ordinare all’esercito di operare al di là della portata della legge, mobilitare un esercito permanente sul suolo statunitense, gestire un governo ombra, dichiarare emergenze nazionali per qualsiasi motivo e agire come un dittatore e un tiranno, al di sopra della legge e al di là di ogni reale responsabilità.

 

Come afferma l’editorialista “Ezra Klein”, la domanda che pone Donald Trump è: “Quanto può essere re?”

 E con un re, inevitabilmente arriva anche una corte che può diventare un mercato, dove membri della famiglia reale, oligarchi, ministri, consiglieri, favoriti, adulatori, agenti, faccendieri e imbonitori competono per l’attenzione e il favore del sovrano.

Questo è esattamente il motivo per cui lo stesso “George Washington” potrebbe riconoscere il sistema politico di corte che ora prospera attorno a Trump come qualcosa di simile alla forma di governo regale contro cui fu spinto a ribellarsi quasi 250 anni fa.

Gli aristocratici sono “gli animali più difficili da gestire, di qualsiasi cosa in tutta la teoria e la pratica del governo.

Non si lasceranno governare”, avvertì uno dei “padri fondatori”, “John Adams”, scrivendo dopo la sua presidenza (1797-1801).

Vietare i titoli non era sufficiente;

alcuni si sarebbero comunque distinti per nascita o, soprattutto, per ricchezza.

Il problema non era solo la loro capacità di acquistare favori politici, ma la presa che il loro denaro aveva sulla mente delle persone.

 Ecco perché i “padri fondatori (tutti maschi bianchi proprietari di schiavi neri) si sono impegnati per proteggersi da questo tipo di potere assoluto e concentrato, istituendo un sistema di controlli e bilanciamenti che separa e condivide il potere tra tre rami pari (esecutivo, legislativo e giudiziario) per garantire che nessuna autorità singola sia investita di tutti i poteri del governo.

 

Il potere economico e quello politico si intrecciano ovunque.

La paura dell’influenza sproporzionata dei ricchi è esistita per tutta la storia degli Stati Uniti.

Tuttavia, a volte la relazione diventa particolarmente dura e minacciosa.

 Nel suo monito contro gli oligarchi, “Biden” ha evocato la “Gilded Age del XIX secolo” e i “baroni ladri” (Andrew Carnegie, Cornelius Vanderbilt, John Pierpont Morgan e John D. Rockefeller) e i loro monopoli, che schiacciavano i concorrenti, sfruttavano i lavoratori, compravano giudici e politici e ostentavano la ricchezza.

La ricchezza del team di Trump è creata e immagazzinata nei mercati finanziari;

 

 il loro patrimonio netto è la somma della fiducia che i grandi fondi finanziari (BlackRock, Vanguard, State Street, etc.) e altre persone abbienti ripongono nel loro potere di accumulazione. Viaggia facilmente e può comprare cittadinanza, sicurezza e influenza quasi ovunque.

 

Ecco perché Trump rimarrà fedele ai suoi miliardari, o almeno alle politiche che li hanno arricchiti:

 lui è uno di loro, con uno stile da “barone ladro” transazionale che sostiene che le tasse sono per i perdenti.

 Durante la sua prima amministrazione, nonostante le promesse populiste fatte durante la campagna elettorale, Trump alla fine si è schierato con i ricchi.

“Steve Bannon”, il capo stratega di Trump all’inizio del suo primo mandato, ha spinto per aumenti delle tasse per i ricchi.

 Dopo sette mesi di presidenza, Trump lo ha licenziato e poi ha proceduto ad approvare tagli fiscali per ricchi e grandi corporation, per cui le 400 famiglie miliardarie più ricche degli Stati Uniti hanno pagato un’aliquota fiscale media inferiore rispetto alla metà più povera delle famiglie, quella della classe lavoratrice americana.

 

Nella sua nuova amministrazione, la destra nazionalista farà sicuramente dei progressi:

è entusiasta delle mosse di Trump sulla cittadinanza per diritto di nascita e della sua promessa di andare avanti con le deportazioni di massa.

Per questa destra si tratta di riportare l’America all’epoca precedente alla diffusione dei diritti – sociali ed economici del New Deal di FDR degli anni Trenta; civili e politici della ”Great Society” di Johnson degli anni Sessanta -, diritti che ritiene abbiano oscurato l’identità bianca, anglosassone e protestante del Paese.

Ma se mai dovesse entrare in conflitto con ciò che vogliono i ricchi consiglieri di Trump nel mondo della tecnologia (portare l’America nell’epoca futura, dove le piattaforme social sono le nuove arene per esercitare una libertà di parola senza regole) è probabile che il suo ruolo verrebbe ridimensionato.

Trump sta tentando di dare vita ad un nuovo ordine politico basato sul connubio tra conservatorismo tradizionalista (MAGA) e post-conservatorismo tecnologico (tech-right) dominato da un gruppo ristretto di persone.

 

La politica degli oligarchi può assumere forme molto diverse, non sono tutti necessariamente conservatori, ma hanno sempre un interesse in comune: proteggere la propria ricchezza.

 Storicamente, ciò potrebbe significare impiegare un esercito privato;

può anche tradursi in sottomissione a un despota, che premia la lealtà con almeno un po’ di sicurezza e lucrativi contratti governativi.

Nelle democrazie rappresentative liberali, ha significato esternalizzare la protezione della proprietà allo Stato, assicurandosi al contempo che la maggioranza non si faccia venire strane idee su aliquote fiscali elevate e restrizioni alla libertà privata di commercio, industria e finanza.

Per questo il capitalismo ha sempre avuto un problema con le libertà democratiche che esistono solo grazie alle grandi lotte popolari condotte sotto le bandiere del socialismo dalla fine del XIX secolo.

 

Come ha notato “Franco Ferrari,” mentre la democrazia liberale si fonda sul principio dell’uguaglianza degli individui, il capitalismo si basa sulla disuguaglianza affermata come principio regolatore ineludibile (mascherata dalla retorica del “merito”).

È stata in larga parte l’azione del movimento operaio socialista e comunista che, perseguendo il principio dell’uguaglianza sociale, ha posto le condizioni per una democratizzazione, relativa, del capitalismo.

L’evoluzione politica e sociale degli ultimi decenni, dominata dal paradigma ideologico neoliberista (nelle versioni sia progressiste di centro-sinistra sia conservatrici di centro-destra), ha cambiato il contesto complessivo e ha consentito al capitalismo di tornare a sviluppare, senza vincoli, la propria naturale tendenza a produrre sempre maggiore disuguaglianza.

Questa è fondata sulla concentrazione della ricchezza che si trasforma inevitabilmente in una concentrazione del potere.

In un saggio per il think tank conservatore “Cato Institute”, “Peter Thiel” è arrivato a scrivere:

“Non credo più nella compatibilità di democrazie e libertà [perché] se abilitato, il demos finirà inevitabilmente per votare restrizioni al potere dei capitalisti e quindi restrizioni alle loro libertà”.

 

L’1% più ricco degli americani possiede il 30% della ricchezza nazionale, mentre il 97,5% del patrimonio netto totale è detenuto dal 50% più ricco, ma la vera divisione non è tra l’1% e il resto;

piuttosto, la linea di confine cruciale corre tra ciò che i gestori patrimoniali liquidano come i semplici “ricchi di massa” (tra loro c’è anche il gruppo “Patriotic Millionaires” che a Davos ha fatto campagna pro-tasse) e gli oligarchi che possono pagare per i servizi dell’industria della difesa della ricchezza accumulata.

 Persino i professionisti con redditi elevati non possono permettersi gli avvocati e i contabili necessari per creare società paravento e trasferire denaro nei paradisi fiscali; coloro che possono permetterselo, ovvero il decimo più alto dell’1%, finiscono per dover pagare meno tasse delle loro segretarie (per riprendere il famoso esempio di Warren Buffett).

Apparentemente Musk ha pagato il 3,4% di imposta federale sul reddito tra il 2014 e il 2018.

 

L’industria della difesa della ricchezza accumulata è discreta; parte di ciò che il mondo offshore offre agli oligarchi è la segretezza.

 Come ha osservato la sociologa Brooke Harrington”, alcuni dei ricchi pagano persino i professionisti per aiutarli a mimetizzarsi, nascondersi dall’occhio pubblico e non comparire nella lista di Forbes.

 Allo stesso tempo, gli oligarchi hanno un chiaro interesse nel plasmare l’opinione pubblica

 In un’epoca in cui i “media tradizionali” sono in difficoltà finanziarie, è diventato molto più economico acquistare giornali o canali TV, come hanno fatto il defunto “Silvio Berlusconi” e l’imprenditore” Vincent Bolloré”, un importante sostenitore dell’estrema destra in Francia.

Le piattaforme dei social media sono un po’ più costose, ma la loro portata globale offre anche possibilità uniche per influenzare la politica in molti Paesi diversi, come dimostra l’”ossessivo poster Musk” quasi ogni ora del giorno e della notte.

 

Resta insolito, tuttavia, che gli oligarchi si appropriano personalmente delle leve dello Stato, a meno che, come nel caso di Berlusconi, entrare in politica non sembri l’unico mezzo per evitare il crack finanziario e la prigione.

 Dei nominati politici di Trump – l’uomo che si scaglia contro le élite e si rivolge a coloro che sono rimasti indietro, i perdenti dell’era della globalizzazione – 26 hanno fortune che superano i 100 milioni di dollari;

13 sono miliardari, un variopinto gruppo di persone ultra-ricche che ha una cosa in comune: si autodefiniscono tutti dei “distruttori” che mirano a distruggere (non a riformare) gli attuali sistemi di governo.

Il suo è il governo più ricco nella storia del Paese.

 Inoltre, c’è la persona più ricca del mondo – Elon Musk, che durante la cerimonia inaugurale ha rivolto ai suoi sostenitori il saluto nazi-fascista – in un ruolo ampiamente indefinito e completamente irresponsabile come promotore di “efficienza governativa” (DOGE).

Musk, la prima persona il cui patrimonio netto ha superato i 400 miliardi di dollari, afferma che i cittadini affronteranno “difficoltà temporanee” mentre il suo Dipartimento taglia la spesa pubblica.

 Ha affermato che potrebbero essere tagliati “almeno” 2.000 miliardi di dollari dalla spesa federale, una cifra superiore all’intero budget discrezionale (una contrazione le cui conseguenze sarebbero devastanti per la maggior parte degli americani).

Trump e Musk vogliono tagliare il bilancio federale in modo da poter tagliare le tasse per gli ultra-ricchi.

 

Questa classe ha bisogno di tutto l’aiuto possibile:

dal 2020, la ricchezza dei 12 uomini più ricchi degli Stati Uniti è aumentata “solo” del 193% e collettivamente ora possiedono “solo” 2 trilioni di dollari.

Questo mentre gli “oilgarchi” stanno già raccogliendo i frutti per aver sostenuto Trump, amico dei combustibili fossili (le grandi compagnie petrolifere hanno speso 445 milioni di dollari nell’ultimo ciclo elettorale per influenzare Trump e il Congresso).

L’elezione di Trump è stata una risposta ai crudeli fallimenti del neoliberismo, ma sarà anche la loro massima espressione.

 È stata una risposta alla corruzione del sistema politico da parte del denaro privato.

E sarà la massima corruzione del sistema.

Se il programma di Musk avrà successo, difficilmente dovremo immaginare i suoi impatti sulla vita umana e sul mondo vivente, perché nell’ultimo anno un piano simile è stato attuato in Argentina.

Lì, “Javier Milei” ha condotto la sua guerra di classe per conto del capitale internazionale.

I risultati includono un’orribile ondata di povertà; un crollo del numero di persone con assicurazione sanitaria, unito a un sottofinanziamento critico del sistema sanitario pubblico;

la proliferazione di crimini d’odio; un assalto coordinato alla scienza e alla protezione ambientale; e un libero accesso per le corporation straniere che sperano di impossessarsi dei minerali, della terra e della manodopera del Paese.

 

Un massiccio programma di tagli e deregulation che Musk e gli altri oligarchi trumpiani cercano di estendere grazie alla politica sadomasochistica ora in ascesa su entrambe le sponde dell’Atlantico.

 I demagoghi hanno scoperto che non importa quanto soffrano i loro seguaci, finché i loro nemici designati soffrono di più.

 Se riescono a continuare ad aumentare il dolore per i capri espiatori (principalmente gli immigrati e i poveri), gli elettori li ringrazieranno per questo, indipendentemente dal loro dolore.

 Questa è la grande scoperta degli oligarchi guidati dallo stesso Musk: ciò che conta in politica non è quanto bene stanno andando le persone, ma quanto bene stanno andando in relazione ai gruppi esterni designati come capri espiatori.

Comunque, la strana miscela di visibilità e invisibilità crea vulnerabilità. In fondo, Trump guida una banda di arrivisti, nemici dell’”establishment corrotto” delle coste orientali e occidentali, assetati di denaro e nazionalisti irriducibili.

 Ci sono i conflitti di interessi e gli scandali che deriveranno dal saccheggio dello Stato (anche se, per ora, sia i democratici che il pubblico in generale sembrano semplicemente rassegnati a una cleptocrazia su una scala senza precedenti);

le grandi promesse di “efficienza” di Musk potrebbero rimanere insoddisfatte;

 le teorie del complotto e la pura petulanza di oligarchi neo-trumpisti come “Mark Andreessen” (Netscape) – che si lamentano del fatto che l’amministrazione Biden aveva scatenato il “terrorismo” contro l’industria tecnologica – intaccano l’immagine dei geni della Silicon Valley sempre pronti con una soluzione ai problemi dell’umanità.

 

Gli oligarchi possono essere umiliati o quanto meno messi sotto controllo di regole?

 Gli analisti sono pessimisti sul fatto che qualsiasi cosa che non siano guerre o catastrofi economiche come la “Grande Depressione” determini un cambiamento fondamentale.

In linea di principio, le leggi possono impedire la concentrazione del potere: i parlamentari e magistrati italiani hanno cercato di limitare il numero di canali TV che Berlusconi poteva controllare;

gli antichi ateniesi usavano l’ostracismo per espellere chiunque avesse troppo potere dalla politica (anche se non c’era nulla di sbagliato nel loro carattere individuale).

Ai nostri giorni, il teorico politico “John P. McCormick”, riprendendo gli insegnamenti di “Machiavelli”, suggerisce che solo la minaccia di processi popolari, con una possibile pena di morte, può far sì che i ricchi si astengano dal combinare misfatti.

 

Alla fine, la scommessa migliore rimane il potere di contrasto:

una cittadinanza attiva, il cui impegno è ampiamente definito dalla protesta, organizzazioni forti, siano esse sindacati o associazioni della società civile, media indipendenti e, non dimentichiamolo, la politica democratica:

Franklin Delano Roosevelt, che non ha evitato di usare la parola oligarchia (economica) nei suoi discorsi nella campagna elettorale del 1932, non aveva automaticamente il mandato di perseguire il potere concentrato a causa della Grande Depressione;

 lo ha rivendicato e costruito. A tal fine, è utile rendere visibili gli oligarchi, che saltano su e giù accanto al presidente Trump.

 

Sebbene vi siano molteplici grandi ego plutocratici intorno a Trump e quindi c’è la possibilità che si scatenino sanguinose faide interne tra diverse fazioni – da un lato, i nazionalisti di estrema destra e i reazionari (fautori di un “codice morale neo-vittoriano” che enfatizza il tradizionalismo socio-culturale conservatore, il patriarcato e le gerarchie razziali) del movimento MAGA (come Stephen Miller e Steve Bannon) che hanno sostenuto Trump da quando è sceso dalla sua scala mobile dorata nel 2015;

 dall’altro, la destra tecnologica (la “tech-right”) neoliberista e globalista di Elon Musk e delle altre élite della Silicon Valley, tra cui Peter Thiel e Marc Andreessen, diventati ferventi sostenitori di Trump più di recente;

gruppi che si stanno già scontrando su aspetti chiave della repressione dell’immigrazione

. L’imprenditore tecnologico miliardario Vivek Ramaswamy ha abbandonato la direzione del programma DOGE dopo uno scontro con Elon Musk (ma si candiderà alla carica di governatore dell’Ohio per il GOP).

 

Ma è probabile che il matrimonio tra Trump e gli oligarchi della tech-right – che prevede l’assenza di qualunque diaframma fra potere politico e affari, al punto che nessuna ingerenza e nessun conflitto d’interessi ormai sembrano troppo spudorati – prosperi senza sfide esterne.

Mentre la rabbia cresceva all’inizio del secolo scorso, il presidente Theodore Roosevelt indebolì i “malfattori della ricchezza” distruggendo i trust, creando agenzie di regolamentazione e rendendo i terreni inaccessibili allo sfruttamento commerciale.

 Molti americani desiderano ardentemente un altro “accordo equo”.

Ma la ricchezza consente ai suoi proprietari di plasmare la realtà.

 Le ferrovie che arricchirono i magnati del XIX secolo hanno letteralmente definito il tempo in cui il Paese correva (passando da 3.000 miglia nel 1840 a circa 259.000 miglia nel 1900).

Ora il “complesso tecnologico-industriale” evidenziato da Biden e gestito dai nuovi amici di Trump funziona a un livello ancora più intimo, determinando cosa vedono gli elettori.

 In gioco potrebbe esserci in ultima analisi la questione di chi governerà: il popolo o i nuovi aristocratici americani.

 

La convergenza tra politiche pro-business e innovazione radicale promette un’accelerazione tecnologica, ma rischia di ampliare ulteriormente disuguaglianze e rafforzare i monopoli.

 Monopolisti visionari come Elon Musk e Jeff Bezos incarnano un’epoca di innovazione senza precedenti, resa possibile dal Telecommunication Act del neoliberista progressista “Bill Clinton” del 1996 che ha autorizzato la rivoluzione di Internet e del cyberspazio a essere libera da qualsiasi seria regolamentazione pubblica.

Tuttavia, fuori dagli Stati Uniti il settore si trova ora al centro di un dibattito cruciale tra regolamentazione e innovazione, con una crescente pressione da parte di governi e organizzazioni internazionali preoccupati per le implicazioni sociali, economiche e geopolitiche.

 

Nel complesso è chiaro che la rielezione di Trump rappresenta una svolta critica per l’Occidente.

 Mentre la sua prima vittoria ha rappresentato una scommessa ad alto rischio verso l’ignoto, questa volta gli americani sapevano perfettamente per cosa stavano votando.

Lungi dall’attenuare le tendenze autocratiche per cui è stato ampiamente criticato, ha raddoppiato la posta in gioco.

Ora, l’Occidente è perseguitato dallo spettro del “capitalismo autoritario” che viene alimentato da tre profondi cambiamenti economici e politici che stanno rimodellando le economie occidentali:

un allontanamento dall’ortodossia del libero mercato (neoliberismo),

una stretta sulle libertà democratiche e

un aumento della sorveglianza statale

. Insieme, questi cambiamenti rappresentano un’economia politica distinta che, se non contenuta, potrebbe inaugurare una nuova era di governance più autoritaria.

Nel suo libro del 1978 “Lo Stato, il potere, il socialismo”, “Nicos Poulantzas” descrisse l’emergere dello “statalismo autoritario”, una forma di governo che egli distinse dalle dittature di polizia, militari o fasciste, e che tendeva a ridurre i diritti democratici.

Criticò il monopolio quasi assoluto dell’esecutivo sulla legislazione e la sua concreta attuazione attraverso “decreti, interpretazioni giudiziarie e adeguamenti del servizio pubblico” che conferiscono potere all’amministrazione, poiché i memorandum hanno la precedenza sulle disposizioni legali.

 In tali condizioni, la politica statale viene formulata in circoli ristretti, sotto il sigillo della segretezza, in un modo che consente l’interferenza di reti nazionali ed internazionali private.

 In questo modello, il presidente è il “punto focale di vari centri e reti di potere amministrativo”, che diventano il “partito politico efficace dell’intera borghesia, che agisce sotto l’egemonia del capitale monopolistico”.

L’alternanza dei partiti al potere è ridotta a un esercizio di prestigio, aprendo la porta a un vero e proprio “partito-stato dominante”.

 Questo statalismo autoritario, ha spiegato “Poulantzs”, non è “né la nuova forma di un autentico stato eccezionale né, di per sé, una forma di transizione sulla strada verso tale stato:

rappresenta piuttosto la nuova forma “democratica” della repubblica borghese nell’attuale fase del capitalismo”.

Questa forma di governo differisce dal fascismo:

quest’ultimo deriva da una “crisi dello Stato”, ha osservato “Poulantzas”, e “non viene mai stabilito a sangue freddo”.

La sua esistenza “presuppone una sconfitta storica della classe operaia e del movimento popolare”.

Tuttavia, egli insiste sul fatto che lo statalismo autoritario contiene “elementi sparsi di totalitarismo” e “cristallizza la loro disposizione organica in una struttura permanente parallela allo Stato ufficiale”.

 Non si può quindi escludere che, dopo una profonda sconfitta dei movimenti sociali, possa svilupparsi “qualsiasi processo di tipo fascista”, non dall’esterno (come il fascismo storico), ma da “una rottura interna allo Stato, secondo linee già tracciate nella sua configurazione attuale”.

 

Grazie all’alleanza transatlantica emergente tra Trump, l’estrema destra europea e i magnati miliardari dei social media, lo “statalismo autoritario” o il “capitalismo autoritario” è la realtà che ora anche noi europei affrontiamo.

 È impossibile prevedere esattamente cosa farà Trump e se i suoi alleati di estrema destra in Europa seguiranno le sue orme, riuscendo a cementare e consolidare un ampio blocco sociale reazionario.

Ma non dovremmo farci illusioni sulla minaccia che questa alleanza rappresenta. Questo non è lo stesso trumpismo che ha vinto le elezioni nel 2016:

 è un progetto completamente diverso e più pericoloso.

Si apre la prospettiva di un “fascismo della libertà” o di “una “democrazia illiberale” o di una “democrazia autoritaria” o di una nichilista “democrazia oligarchica” (di cui parla Emanuel Todd) o di un “fascio liberismo” (di cui parla Luigi Ferrajoli) che promette di coniugare individualismo (“ciascuno è imprenditore di sé stesso”) e potere sovrano nella cornice di una società nazionale semplificata, conformista, socialmente conservatrice e culturalmente omogenea, riempito di contenuti radicalmente antidemocratici (rispetto ad una democrazia liberale) veicolati attraverso una retorica propagandistica della libertà dalle influenze straniere, dalle censure della correttezza politica, dagli obblighi di solidarietà, dal diritto internazionale, dalle regole e dagli impedimenti che graverebbero su individui e imprese.

 

In che modo le forze politiche progressiste dovrebbero cercare di contrastare l’ascesa di un nuovo autoritarismo?

Una cosa è chiara: alimentare il sentimento anti-Cina non curerà i mali del capitalismo occidentale.

 Le radici di questi problemi, e quindi le loro soluzioni, possono essere trovate molto più vicine a casa.

Anche il semplice tentativo di vietare o censurare le voci della destra autoritaria non funzionerà.

 Quando le voci in questione includono il presidente degli Stati Uniti e il secondo partito più popolare nel cuore pulsante dell’Europa (l’AFD), metterli a tacere non è un’opzione (anche se ciò non ha impedito a centinaia di politici tedeschi di provarci).

Invece, le radici di questi problemi devono essere affrontate alla fonte.

 In realtà, non sono la Cina o gli immigrati a fregare la gente comune che lavora, ma un sistema economico estrattivo e iniquo.

Le disuguaglianze socio-economiche si sono enormemente ampliate, mentre nel frattempo il lavoratore medio nelle economie avanzate ha visto solitamente la propria retribuzione reale diminuire o restare stagnante.

 

Le fortune contrastanti degli oligarchi mega-ricchi e di tutti gli altri non sono scollegate.

Nonostante quanto affermano i nostri leader, il capitalismo nel “mondo sviluppato” è diventato principalmente un motore per ridistribuire la ricchezza verso l’alto, sia dai suoi cittadini che dal resto del mondo.

 La disuguaglianza alle stelle è anche inestricabilmente legata alla crisi climatica e ambientale.

 Oltre ad aspirare gran parte della ricchezza mondiale, l’1% più ricco emette tanto inquinamento da carbonio quanto i due terzi più poveri dell’umanità.

Pertanto, affrontare la crisi climatica e ridurre la disuguaglianza devono andare di pari passo.

 

Ma indirizzando le legittime lamentele economiche verso spauracchi e migranti esterni, è la destra autoritaria, non la sinistra progressista, che ha capitalizzato con maggior successo questo sistema corrotto.

Se vogliamo affrontare le sfide economiche e ambientali centrali che ci troviamo ad affrontare, questo deve cambiare urgentemente.

Le forze progressiste di sinistra hanno trasformato l’economia politica occidentale in passato e il compito che le attende è di farlo di nuovo.

L’obiettivo deve essere quello di affrontare le disuguaglianze, aumentare gli standard di vita e affrontare la crisi ambientale, stando al contempo al fianco dei migranti e di altri gruppi minoritari contro persecuzioni e oppressioni.

Ciò comporterà inevitabilmente un ruolo più proattivo per lo Stato.

 La domanda chiave è: nell’interesse di chi agirà?

La lezione della “Bidenomics” è che concentrarsi principalmente su settori industriali come l’energia rinnovabile e la produzione manifatturiera non funzionerà se non sarà accompagnato da politiche per frenare il potere delle aziende e ridistribuire la ricchezza.

Ciò significa sfidare di petto il potere degli interessi acquisiti, non sottomettersi a loro.

 

Questo progetto deve anche mirare a rafforzare la democrazia e proteggere le libertà civili in un momento in cui entrambe sono sempre più minacciate.

 Negli ultimi anni i governi di Stati Uniti, Europa e Regno Unito hanno represso il diritto di protesta con una legislazione draconiana (in Italia c’è in ballo l’approvazione del DDL 1660 “sicurezza”).

 Considerato il terrificante curriculum di Trump, tra cui la richiesta all’esercito di reprimere le proteste pacifiche dei “lunatici della sinistra radicale”, dovremmo aspettarci che l’assalto al diritto di protesta si intensifichi, insieme a una limitazione delle libertà civili in senso più ampio.

La protesta pacifica sarà assolutamente fondamentale per resistere alla destra autoritaria in tutto il mondo, ed è esattamente per questo che è probabile che venga soppressa.

 

Lo spettro del capitalismo oligarchico autoritario sta infestando l’Occidente, è già qui, ed è in realtà piuttosto popolare.

Ora bisogna contrastarlo dalle fondamenta.

La domanda chiave è: possiamo costruire un “blocco sociale alternativo” in grado di avere ed esprimere il potere necessario per sfidarlo?

Al momento, la situazione non sembra promettente:

la protesta più forte all’”incoronazione” di Trump è giunta dalla voce calma e sommessa di una vescova episcopale.

 Possiamo solo sperare che l’arrivo di Trump 2.0 fornisca la sveglia di cui il mondo ha così disperatamente bisogno.

Non dobbiamo presumere che il capitale trionferà, ma dobbiamo anche renderci conto che questo è un momento in cui chi ha idee diverse – eco socialiste, ad esempio – per riorganizzare l’economia, per resuscitare la politica come partecipazione, per ricostruire un più equilibrato rapporto tra uomo/società e natura, deve farsi avanti e lottare per ciò in cui crede.

Mentre i partiti populisti etno-nazionalisti e reazionari guadagnano terreno in Occidente, i progressisti di sinistra devono anteporre le priorità sociali e climatiche agli interessi del mercato.

(Alessandro Scassellati  Sforzolini è ricercatore sociale e attivista, collabora con Transform! Italia. Fra i suoi libri Suprematismo bianco -Derive e Approdi).

 

 

 

Trump, il controllo della Federal

Reserve Bank e la de dollarizzazione.

Lacruadellago.net – Cesare Sacchetti – (7 – 3 – 2025) – ci dice:

 

Alcuni la considerano giustamente come una sorta di spauracchio della finanza globale.

È la Federal Reserve Bank, la cosiddetta banca centrale degli Stati Uniti che in realtà non è mai stata una vera e propria banca centrare sin dall’inizio della sua fondazione, nel lontano 1913.

A volere la creazione di questa istituzione che non risponde direttamente e pienamente al governo degli Stati Uniti, furono principalmente le famiglie dell’alta finanza askenazita di New York che spinsero per fondare una istituzione governata in realtà da un manipolo di pochi signori della finanza.

A spiegare bene come la FED sia sempre stata nelle mani di famiglie quali gli ubiqui Rothschild, Rockefeller, Warburg, Kuhn,Loeb & Co e Morgan, che ormai si potrebbero definire come i soliti sospetti, è stato, tra gli altri, Eustace Mullins nel suo celebre saggio “I segreti della Federal Reserve”.

 

Le famiglie di banchieri che controllano la FED.

La FED è strutturata in maniera tale infatti per far sì che siano questi i veri proprietari di questa banca centrale e il funzionamento di questa istituzione venne anche mostrato alla commissione bancaria del Congresso degli Stati Uniti, nell’agosto del 1976.

Sono 12 le banche che controllano la Federal Reserve Bank e gli azionisti di maggioranza di queste banche regionali sono proprio loro.

Sono gruppi bancari quali i defunti Lehman Brothers, la Chase National Bank, la Hanover National Bank, la First National Bank of New York, nelle quali appunto si trovano le partecipazione azionarie dei citati Rockefeller, Warburg, J.P. Morgan, fino a risalire alla casa madre di Londra, la famiglia Rothschild che si serve di diversi “partner” e agenti negli Stati Uniti in giro per il mondo per nascondere la reale entità della sua ricchezza, in omaggio alla “regola” del capostipite, Mayer Amschel.

 

Nel 1914 queste famiglie concepirono espressamente questa impalcatura che consentiva loro di avere quella che presto sarebbe divenuta la banca centrale più potente del mondo, in quanto detentrice della facoltà di emettere in maniera virtualmente illimitata la valuta di riserva del mondo, ovvero il dollaro americano.

 

Giscard D’Estaing chiamava questa condizione come un “esorbitante privilegio” ma in fondo l’ex presidente francese non era nella posizione di parlare molto della trave nell’occhio altrui perché anche nel suo ce n’era una altrettanto grande, come quella del dominio coloniale che la Francia ha continuato ad esercitare per decenni sull’Africa dopo la cosiddetta decolonizzazione degli anni’60, che non decolonizzò un bel nulla, ma soltanto cambiò la natura della precedente occupazione, rendendola persino più insidiosa e profonda attraverso lo sfruttamento economico dell’Africa.

Le élite della finanza ebraica hanno costruito una banca centrale che non fosse nelle mani dello Stato perché il capitalismo neoliberale si fonda tutto sulla facoltà di trasferire i poteri dello Stato dalle mani di questa entità a quelle di un ristretto gruppo di finanzieri che diventano in tal modo il nuovo Stato.

Il neoliberismo, in altre parole, è una privatizzazione strutturale dello Stato che non può avere luogo se non si prende prima il controllo della banca centrale.

Questo spiega perché sugli sciagurati libri di testo contemporanei scritti non da veri economisti, ma da agenti della Banca mondiale e del FMI, si professi il falso dogma della cosiddetta indipendenza delle banche centrali dallo Stato, che in realtà altro non vuol dire che indipendenza dallo Stato e dipendenza appunto dai mercati.

Gli Stati Uniti sono stati il caposaldo indiscusso del capitalismo finanziario e mai prima d’ora qualcuno aveva osato mettere in discussione tale totem.

 

John Kennedy: il presidente che voleva controllare la FED.

Il solo presidente del secondo dopoguerra che osò addentrarsi nel potere della Federal Reserve Bank che si ergeva al di sopra di quello del governo è stato John Fitzgerald Kennedy.

Suo padre, Joe, con un passato a stretto contatto con la malavita negli anni’20 per via del traffico di liquori ai tempi del proibizionismo, aveva deciso di utilizzare quella ricchezza per aiutare la carriera politico di suo figlio e aiutare gli Stati Uniti ad emanciparsi da tale potere.

Nel libro di “Michael Collins Piper”, “Il legame mancante” viene riferito di un incontro tra Joe Kennedy, padre di JKF, e un imprenditore dell’epoca, “De West Hooker”, che voleva aiutare la carriera politica della famiglia nella speranza di liberare gli Stati Uniti dalla morsa della lobby sionista.

Joe in quel colloquio riconosce candidamente che tutta la sua vita è stata dedicata a combattere quel potere e che adesso tutta la sua sapienza era stata passata nelle mani dei suoi figli.

 

John Fitzgerald non era un presidente che andava di certo d’accordo con la finanza ebraica o con la lobby sionista.

Gli scontri tra lui e gli israeliani sono stati la causa che ha portato al suo assassinio a Dealey Plaza il 22 novembre del 1963, dopo il suo fermo rifiuto di non fermare il programma nucleare israeliano che, ad oggi, ha consentito allo stato ebraico di possedere illegalmente armi nucleari in Medio Oriente, anche se i suoi vicini non sembrano essere rimasti a guardare e pare si siano segretamente dotati negli ultimi tempi anch’essi di testate nucleari, come l’Iran, per avere a loro volta la facoltà di disincentivare gli israeliani dall’usare queste devastanti armi.

Il dollaro emesso da Kennedy recava in testa la scritta “Banconota degli Stati Uniti” e non “banconota” della FED.

Kennedy però non voleva soltanto fermare il potere politico del sionismo, ma anche quello finanziario ed aveva in programma di tornare ad una emissione del dollaro da parte direttamente del Tesoro degli Stati Uniti senza dover passare dalla FED, nelle mani dei privati.

JFK non aveva altro in mente che il ritorno al celebre “greenback” di “Abraham Lincoln”, il presidente che esattamente un secolo prima di Kennedy aveva stabilito che avrebbe dovuto essere il governo a stampare il dollaro, in quantità virtualmente illimitata, fino a quando i bisogni dell’economia americana lo avessero ritenuto necessario.

I due uomini sono andati incontro allo stesso destino, uccisi da comitati d’affari massonici e finanziari estremamente potenti, perché avevano provato a fare quello che pochi altri presidenti avevano fatto, ovvero rendere finalmente gli Stati Uniti una nazione sovrana.

 

Donald Trump è certamente il presidente che ha raccolto la loro eredità e che è riuscito a compiere quello che i suoi due predecessori avevano fatto in una maniera meno aperta e dichiarata di Lincoln e Kennedy, ma i risultati però sembrano andare nella stessa direzione.

A far notare come Trump stesse segretamente in possesso della FED è stato un attento osservatore come” Joe Lange”, che in un articolo del 2023 aveva ricostruito le varie tappe del rapporto tra la banca centrale americana e Trump.

 

Tra i primi atti di Trump, c’è stato quello di nominare le due posizione lasciate vacanti del consiglio di amministrazione della FED dal suo predecessore, Obama, che probabilmente mai avrebbe immaginato di vedere sconfitta Hillary Clinton per mano del candidato repubblicano.

Non lo immaginava nessuno in realtà perché sia a Washington che a Wall Street erano molto sicuri che si sarebbe insediata l’ex segretario di Stato americano e che si sarebbe viaggiati a rapidi passi verso la governance globale, ma com’è noto non è andata così.

Trump si insedia, e non appena inizia il suo mandato si dimettono altri 3 membri del consiglio direttivo della FED, e questo gli consente di nominare ben 5 uomini in quell’organismo, e questo certamente costituisce un problema per l’alta finanza perché il presidente che c’è alla Casa Bianca è uno che vuole utilizzare i suoi poteri e vuole controllare e influenzare l’operato della FED.

Il presidente Trump nomina” Powell governatore” e questo gli consente di nominare un altro membro del consiglio direttivo perché Powell sedeva anche lui in questo organismo e così si è aperta un’altra posizione vacante.

La FED viene così a poco a poco “occupata” dal nuovo presidente ma la svolta più interessante si ha nel 2020, quando inizia la famigerata farsa pandemica.

 

I vari governatori degli Stati iniziano a chiudere le varie attività economiche e questo provoca una forte recessione nel Paese, a causa della stagnazione fermata delle imprese.

Trump ne approfitta per fare una mossa che non risulta avere precedenti e che già all’epoca suscitò lo sconcerto della nota testata finanziaria “Bloomberg”, uno dei vari portavoce della finanza anglo sionista.

Il presidente ricorse nel marzo del 2020 ad uno strumento chiamato come “Special Purpose Vehicle,” che letteralmente si tradurrebbe come veicolo per uno scopo speciale, ma è la stessa “Bloomberg” che, allarmata, spiegò, quanto accaduto.

La Fed finanzierà uno “Special Purpose Vehicl”e (SPV) per ogni acronimo per condurre queste operazioni.

Il Tesoro, attraverso l’”Exchange Stabilization Fund “(ESF), effettuerà un investimento azionario in ogni SPV e si troverà in una posizione di perdita primaria”.

 Cosa significa?

 In sostanza, il Tesoro, non la Fed, sta acquistando tutti questi titoli e si sta facendo carico dei prestiti;

la Fed sta agendo come banchiere di ultima istanza e fornendo i finanziamenti necessari.

La Fed ha assunto BlackRock Inc. per acquistare questi titoli e gestire l’amministrazione degli SPV per conto del proprietario, il Tesoro.

 In altre parole, il governo federale sta nazionalizzando ampie fasce dei mercati finanziari.

 La Fed sta fornendo i soldi per farlo.

BlackRock si occuperà delle negoziazioni.

Questo schema essenzialmente fonde la Fed e il Tesoro in un’unica organizzazione. Quindi, ecco il nuovo presidente della Fed, Donald J. Trump.”

“Lange” rileva correttamente come in origine l’”ESF “fosse uno strumento nato nel 1934 per consentire al governo di investire nei mercati valutari, e in seguito è stato riconvertito per elargire aiuti e prestiti alle banche centrali stranieri.

Trump lo ha riconvertito nuovamente.

 Si è servito dell’ESF per trasferire parti dell’economia americana in forte difficoltà direttamente nelle mani del Tesoro americano e la FED, forse per la prima volta dal dopoguerra, ha assunto le vere funzioni di una banca centrale che finanzia il deficit dello Stato a favore dell’economia americana.

 

Gli argini da allora sembrano essere stati rotti perché la Federal Reserve non sembra essere più tornata ad essere quella che un tempo lasciava affondare i risparmiatori americani e correva in soccorso invece dei vari predatori di Wall Street, come accaduto, ad esempio nel 2008, quando il fallimento di Lehman Brothers provocava un terremoto nell’economia mondiale, ma i computer della FED creavano moneta invece per salvare i colossi della finanza, e non la classe media americana devastata da quel crollo finanziario.

Un economista “al di sopra di ogni sospetto” come “Milton Friedman”, famigerato falco neoliberista, in uno dei suoi rari momenti di sincerità affermò che l’altra grande crisi del 1929 era stata espressamente provocata dalla decisione della FED di restringere la liquidità immediatamente prima del crollo.

Le banche centrali sono come un rubinetto.

 Se ad avere questo rubinetto sono gli uomini dell’alta finanza, allora questo si chiuderà quando ci sarà bisogno di liquidità per i piccoli risparmiatori, mentre si aprirà a profusione quando si tratterà di correre in soccorso degli squali del mondo bancario newyorchese e londinese.

L’era Trump sembra aver messo chiaramente fine allo status storico della FED, soprattutto se si pensa che la banca centrale americana non è in corsa in soccorso delle varie banche investite dalla crisi.

La decisione del 2023 di alzare i tassi da parte della Federal Reserve non aiutò certo banche come la celebre istituzione bancaria della “Silicon Valley Bank”, i cui clienti si videro costretti a ritirare i propri soldi per far fronte agli aumentati costi dei prestiti.

La “Silicon Valley Bank” era proprio una di quelle banche nelle mani degli onnipresenti fondi di investimento dei Rothschild, quali Vanguard e BlackRock, e quindi ci si sarebbe dovuto aspettare sulla carta un intervento della banca centrale americana.

La FED invece non mosse un dito per salvare questi colossi. Li lasciò affondare.

Anche alla “First Republic Bank “toccò la stessa sorte, e dovette intervenire JP Morgan per acquistarla perché il paracadute della banca centrale anche in quel caso rimase strettamente chiuso.

La storia recente ha chiaramente portato la Federal Reserve a non essere più la riserva illimitata di liquidità che era fino a 10 anni fa per il conglomerato di Wall Street.

Se Trump non è arrivato ad una vera e propria nazionalizzazione diretta dell’istituto, si può dire che ha utilizzato altri strumenti indiretti per avere un controllo più stringente sulla FED e iniziare a fare in modo che questa banca centrale da tesoriere dell’alta finanza diventasse invece tesoriere del governo americano che ha bisogno di creare spesa pubblica per sostenere l’economica.

Questo dimostra, tra le altre cose, come Donald Trump non sia affatto un neoliberista come alcuni suoi detrattori amavano definirlo.

Un neoliberista non avrebbe mai di fatto utilizzato strumenti legislativi per fondere la FED e il Tesoro e costringere la prima a salvare le piccole e medie imprese in difficoltà a suon di vere e proprie nazionalizzazioni.

Un neoliberista avrebbe lasciato agire la fantomatica “mano invisibile” del mercato che non avrebbe fatto altro che spazzare via le varie imprese, fagocitate dalle varie corporation che avrebbero assunto dimensioni ancora più grosse di quelle prima della crisi.

Trump sembra essere riuscito a compiere questo ultimo passaggio e se ancora non si può parlare di nazionalizzazione vera e propria, è certamente un processo che va nella direzione giusta e anche dalle parti di Harvard, l’ateneo simbolo dell’establishment americano, sono molto preoccupati che la cosiddetta indipendenza della FED in questo mandato di Trump possa definitivamente terminare.

 

La liberazione degli Stati Uniti era fatta di diversi passaggi e tra questi c’era indubbiamente quello di togliere alle famiglie della finanza ebraica di New York e Londra il potere di controllare la FED americana, che consentiva a questi gruppi di avere la possibilità di creare moneta in maniera illimitata.

Si spiega così anche qualcosa che fino a qualche tempo fa era impensabile.

La famiglia Rothschild che sedeva su immense fortune è stata costretta negli ultimi anni a mettere all’asta i pezzi pregiati della propria collezione d’arte, qualcosa che i banchieri originari di Francoforte non avrebbero di certo fatto se non avessero avuto davvero bisogno di liquidità.

La piovra sembra davvero annaspare a questo giro e continua a perdere pezzi.

 

La de dollarizzazione: l’ultimo chiodo sulla bara della finanza globale.

A chiudere il cerchio manca soltanto un ultimo tassello.

Manca appunto la de dollarizzazione definitiva e nonostante le dichiarazioni recenti di Trump sul dollaro, l’ultima delle cose che il presidente ha intenzione di fare è fermare appunto la fine dello status del dollaro come valuta di riserva globale.

 

La de dollarizzazione nel corso degli ultimi anni.

Il presidente vuole infatti abbattere l’enorme deficit commerciale americano e se i dazi sono certamente un ottimo modo per riequilibrare la bilancia dei pagamenti, ancora di più lo è togliersi dalle proprie tasche quella valuta che un tempo tutti volevano per pagarsi le importazioni.

I BRICS, quindi, stanno facendo proprio quello di cui Trump ha bisogno ma il presidente è uomo astuto e per ingannare i mezzi di comunicazione, nelle mani proprie della finanza di New York e Londra, ogni tanto rilascia qualche dichiarazione contro il mondo multipolare per confondere le acque e sfuggire all’accusa da parte dei media di essere troppo “filorusso”, ma poi puntualmente è con i Paesi di questo blocco che interloquisce, mentre punisce quelli ancora nelle mani di tale apparato, quali Canada, Messico ed Unione europea.

 

Il futuro sarà in conclusione molto più equilibrato del passato. Non solo non ci sarà più lo strapotere militare dell’impero americano, ma non ci sarà più nemmeno il suo potere finanziario che nel corso dei decenni è stato utilizzato come una mannaia per punire i vari nemici di Israele e della lobby sionista americana.

Trump assieme a Putin hanno portato il mondo nell’era del ritorno degli Stati nazionali e nell’era dove non ci sarà più il dominio di una valuta su tutte le altre.

Il secolo della finanza askenazita sta davvero finendo.

 

 

 

Perché il governo prende in

prestito quando può stampare?

Unz.com - Ellen Brown – (18 giugno 2024) – ci dice:

Nei primi sette mesi dell'anno fiscale (FY) 2024, gli interessi netti (pagamenti meno reddito) sul debito federale raggiunto hanno i 514 miliardi di dollari, superando la spesa sia per la difesa nazionale (498 miliardi di dollari) che per Medicare (465 miliardi di dollari).

 La scheda degli interessi ha anche superato tutti i soldi spesi per i veterani, l'istruzione e i trasporti messi insieme.

La spesa per interessi è ora la seconda voce più importante del bilancio federale dopo la previdenza sociale e la parte in più rapida crescita del bilancio, sulla buona strada per raggiungere gli 870 miliardi di dollari entro la fine del 2024.

Secondo il “Congressional Budget Office”, il deficit del bilancio federale è stato di 857 miliardi di dollari nei primi sette mesi dell'anno fiscale 2024.

In effetti, il governo sta prendendo in prestito a interesse per pagare gli interessi sul suo debito, aggravando il debito.

Per il prestatore, è chiamato "il miracolo dell'interesse composto": l'interesse sull'interesse si compone in modo esponenziale.

Ma per il debitore è una maledizione, che si accumula come un cancro al punto da divorare beni mentre continua a far crescere il debito.

Come scrive “Daniel Amerman,” analista finanziario, in un articolo intitolato "Potrebbe un incendio di interesse composto minacciare la solvibilità degli Stati Uniti?":

La più grande minaccia alla solvibilità del governo degli Stati Uniti e al valore del dollaro legata al debito potrebbe essere il fatto che gli Stati Uniti non stanno effettivamente effettuando alcun pagamento netto del capitale o degli interessi sul loro debito.

Ciò significa che il governo degli Stati Uniti sta prendendo in prestito denaro per pagare gli interessi, mentre lo fa per rinnovare i pagamenti del capitale, mentre prende in prestito ancora di più per finanziare la spesa generale che eccede le tasse riscosse.

Ciò crea il rischio di una potenziale capitalizzazione ed accelerazione dei pagamenti degli interessi sul conto debito. …

In altre parole, il governo degli Stati Uniti è effettivamente insolvente, in assenza di alcuni cambiamenti importanti. Questo è esattamente il motivo per cui dobbiamo anticipare che ci saranno grandi cambiamenti.

Allo stesso modo, il “Comitato per un Bilancio Responsabile” conclude:

"Senza riforme per ridurre il debito e gli interessi, i costi degli interessi continueranno a salire, escludendo la spesa per altre priorità e gravando sulle generazioni future".

 In effetti, noi siamo quella generazione futura.

 I polli sono tornati a casa.

Secondo” USDebtClock.org”, il debito è ora di 34,8 trilioni di dollari.

Le stime sono che avremmo bisogno di tassare tutti con un'aliquota del 40%, senza detrazioni, per bilanciare i bilanci dei nostri governi federali e locali, un ovvio fallimento.

 Le riforme sono necessarie, ma di che tipo?

Perché il governo prende in prestito la propria valuta?

Questa domanda è stata posta all'economista” Martin Armstrong”, che ha risposto:

La teoria era che se si prendeva in prestito denaro piuttosto che stamparlo, NON si stava aumentando l'offerta di moneta esistente, e quindi, in teoria, non sarebbe stato inflazionistico.

Questo sarebbe vero se il debito fosse rimborsato, ma oggi il governo non ripaga il debito ma continua a rinnovarlo, pagando le vecchie obbligazioni alla scadenza con nuove obbligazioni – attualmente a tassi di interesse più elevati.

Armstrong conclude:

Prendiamo in prestito, il che è peggio della stampa, perché dobbiamo pagare gli interessi sul costante rinnovo del debito.

 Quest'anno spendiamo circa 1 trilione di dollari in interessi, il debito nazionale totale quando Reagan entrò in carica nel 1981.

Se avessimo stampato denaro invece di indebitarci, ci sarebbe stata meno inflazione e il capitale avrebbe creato più posti di lavoro invece di investire nel debito pubblico, che ha solo finanziato i sogni più sfrenati dei neoconservatori [che ha spiegato come "l'istituzione di basi militari ovunque".

Nel rapporto pubblicato dalla” Commissione Grace” durante l'amministrazione Reagan si concluse che in quel tempo la maggior parte delle entrate fiscali federali sul reddito andavano solo a pagare gli interessi sul debito crescente del governo.

Una lettera di accompagnamento indirizzata al presidente Reagan affermava che un terzo di tutte le imposte sul reddito erano consumate dagli sprechi e dall'inefficienza del governo federale.

 Un altro terzo delle tasse effettivamente pagate è andato a compensare le tasse non pagate dagli evasori fiscali e dalla crescente economia sommersa, fenomeno che era fiorito in modo direttamente proporzionale agli aumenti delle tasse.

 Il rapporto si concludeva:

Con due terzi delle imposte sul reddito delle persone fisiche sprecate o non raccolte, il 100% di ciò che viene riscosso viene assorbito esclusivamente dagli interessi sul debito federale e dai contributi del governo federale per i pagamenti dei trasferimenti.

 In altre parole, tutte le entrate fiscali individuali sul reddito scompaiono prima che un centesimo venga speso per i servizi che i contribuenti si aspettano dal loro governo.

 

Thomas Edisonnel 1921:

Se la nostra nazione può emettere un'obbligazione in dollari, può emettere una banconota da un dollaro.

L'elemento che rende buono il vincolo, rende buono anche il conto.

La differenza tra l'obbligazione e la cambiale è che l'obbligazione consente ai broker di denaro di riscuotere il doppio dell'importo dell'obbligazione e un ulteriore 20%, mentre la valuta non paga nessuno se non coloro che contribuiscono direttamente in qualche modo utile.

È assurdo dire che il nostro paese può emettere 30 milioni di dollari in obbligazioni e non 30 milioni di dollari in valuta.

Entrambe sono promesse di pagamento, ma una promessa ingrassa gli usurai e l'altra aiuta il popolo.

È più economico stampare denaro direttamente che prendere in prestito denaro con interessi che non vengono mai ripagati.

I Greenbacker che marciarono su Washington nel 1897 avevano ragione.

Dovremmo stampare denaro, non per iniziative speculative ("reddito non guadagnato"), ma per iniziative produttive.

I Greenbacker cercarono di tornare al sistema in cui il governo di Lincoln emetteva direttamente banconote o Greenback statunitensi, per evitare un debito paralizzante con i banchieri britannici.

 Stavano marciando per i produttori economici, i contadini e gli operai delle fabbriche, rappresentati dallo Spaventapasseri e dall'Uomo di latta nel Mago di Oz , che trasse la sua trama da quella prima marcia su Washington.

 

Non si creerà iperinflazione semplicemente stampando denaro? Non necessariamente.

 L'inflazione dei prezzi deriva da troppo denaro che insegue troppo pochi beni.

Quando il denaro viene utilizzato per creare nuovi beni e servizi, i prezzi rimangono stabili.

Ciò è stato dimostrato dai cinesi quando hanno aumentato l'offerta di moneta di un fattore del 1800% (18 volte) nei 23 anni tra il 1996 e il 2020.

 Il nuovo denaro è stato destinato alle infrastrutture e ad altre forme di produttività, aumentando il PIL allo stesso ritmo;

e l'inflazione dei prezzi è rimasta costantemente bassa durante quel periodo.

Ma il senno di poi è sempre perfetto. Cosa si può fare ora per quanto riguarda il debito federale in aumento e la legge sugli interessi?

Possibili soluzioni per il Tesoro.

Ipoteticamente, il Tesoro potrebbe riacquistare il suo debito.

Ma con il nostro sistema attuale, ciò dovrebbe essere fatto con più debito, a tassi di interesse ancora più alti.

In effetti, il Tesoro lo sta facendo ora, ma in proporzioni modeste e per uno scopo diverso.

Il suo obiettivo è creare un mercato liquido nei titoli del Tesoro a lungo termine, il tipo di obbligazioni che la “Silicon Valley Bank” è stata costretta a vendere con un forte sconto, generando fondi insufficienti per scongiurare la massiccia corsa ai suoi depositi nel marzo 2023.

 Si è scoperto che quasi 200 banche si trovavano in difficoltà simili e ugualmente vulnerabili alle corse.

Tuttavia, sarebbe controproducente per il Tesoro riacquistare gran parte del suo debito con più debito a interessi più alti, il che non farebbe altro che aggravare il debito e l'onere degli interessi.

In alternativa, potrebbe emettere monete da 35 trilioni di dollari.

L'idea di coniare monete di grosso taglio per risolvere i problemi economici è stata evidentemente suggerita per la prima volta da un presidente della sottocommissione per la monetazione della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti nei primi anni '80.

Ha sottolineato che il governo potrebbe ripagare l'intero debito con alcune monete da miliardi di dollari, semplicemente "stampando" o "coniando" il denaro.

 La Costituzione conferisce al Congresso il potere di coniare moneta e regolarne il valore, e non viene posto alcun limite al valore delle monete che creano. Naturalmente, oggi queste dovrebbero essere monete da trilioni di dollari.

Nella legislazione avviata nel 1982, tuttavia, il Congresso scelse di imporre limiti agli importi e alle denominazioni della maggior parte delle monete.

 L'unica eccezione fu la moneta di platino, che una disposizione speciale consentiva di coniare in qualsiasi quantità per scopi commemorativi.

Nel 2013, un avvocato di nome Carlos Mucha, che scriveva un blog con lo pseudonimo “Beowulf”, propose di emettere una moneta di platino per sfruttare questa scappatoia;

 e con l'infinita paralisi al Congresso sul tetto del debito, venne ripresa da seri economisti come un modo per dare scacco matto ai falchi del deficit.

 Philip Diehl , ex capo della Zecca degli Stati Uniti e coautore della legge sulla moneta di platino, confermò che la moneta sarebbe stata a corso legale:

Nel coniare la moneta di platino da 1 trilione di dollari, il Segretario al Tesoro eserciterebbe l'autorità che il Congresso ha concesso regolarmente per più di 220 anni. in base al potere espressamente conferito al Congresso dalla Costituzione (articolo 1, sezione 8).

Coniare monete da trilioni di dollari evoca immagini di banconote da milioni di marchi che riempiono carriole.

Ma come osserva l'economista “Michael Hudson”:

Ogni iperinflazione nella storia è stata causata dal servizio del debito estero che ha fatto crollare il tasso di cambio.

 Il problema è quasi sempre derivato dalle tensioni valutarie estere in tempo di guerra, non dalla spesa interna.Il Prof.” Randall Wray” ha spiegato che la moneta non circolerà ma sarà depositata sul conto del governo presso la Fed, quindi non potrebbe gonfiare l'offerta di moneta circolante.

 Il bilancio avrebbe ancora bisogno dell'approvazione del Congresso.

Per tenere sotto controllo la spesa, il Congresso dovrebbe solo rispettare alcune regole di base dell'economia.

 Potrebbe spendere in beni e servizi fino alla piena occupazione senza creare aumento dei prezzi (poiché la domanda e l'offerta aumenterebbero insieme).

Dopodiché, avrebbe bisogno di tassare, non per finanziare il bilancio, ma per ridurre l'offerta di moneta circolante ed evitare di far salire i prezzi con un eccesso di domanda.

Se l'emissione di 35 monete del valore di un trilione di dollari ciascuna sembra troppo radicale, il Tesoro potrebbe emettere solo un trilione di dollari all'anno, destinato specificamente a coprire gli interessi.

Un approccio ibrido simile ha funzionato per i coloni della Pennsylvania quando hanno formato la loro prima banca di proprietà del governo all'inizio del XVIII secolo.

Altre colonie emettevano "scrip coloniale", ma era più facile emettere lo scrip che tassarlo, e in genere emettevano troppo, gonfiando l'offerta di moneta e svalutando la moneta.

 I coloni della Pennsylvania formarono una "banca della terra" ed emisero denaro come prestiti agli agricoltori al 5% di interesse.

 Per coprire gli interessi non creati nei prestiti originali, il governo è stato in grado di emettere direttamente titoli cartacei per finanziare il proprio bilancio.

 Di conseguenza, la Pennsylvania divenne l'economia più produttiva delle colonie.

Che ne dici di attingere alla Federal Reserve?

La Fed è in grado di emettere denaro senza interessi, non come i depositi creati dalle banche che circolano come la nostra offerta di moneta M2, ma come le riserve necessarie alle banche per soddisfare i trasferimenti e i prelievi interbancari.

 Quando la Fed acquista titoli federali, ha l'obbligo di restituire gli interessi al Tesoro dopo averne dedotto i costi.

Nel 2011, il candidato presidenziale repubblicano” Ron Paul” ha proposto di affrontare il tetto del debito semplicemente annullando i 1,7 trilioni di dollari di titoli federali allora protetti dalla Fed.

 “Stephen Gandel” ha spiegato la soluzione di “Paul” su “Time Magazine”, il Tesoro paga gli interessi sui titoli alla Fed, che restituisce il 90% di questi pagamenti al Tesoro.

Nonostante questo gioco di carte dei pagamenti, i 1,7 trilioni di dollari in obbligazioni statunitensi di proprietà della Fed sono ancora conteggiati per il tetto del debito.

Il piano di Paolo:

Il piano di Paul:

 "Fate in modo che la Fed e il Tesoro strappino quel debito. Si tratta comunque di un debito falso. E la Fed è legalmente autorizzata a restituire il debito al Tesoro per essere distrutto.

Anche il deputato democratico “Alan Grayson” ha appoggiato questa proposta.

Ma da giugno 2022, la Fed non ha acquistato titoli, ma ha venduto quelli che già possiede, riducendo il suo bilancio nel tentativo di combattere l'acquisto dei prezzi riducendo l'offerta di moneta attraverso un "inasprimento quantitativo".

La banca centrale è considerata "indipendente" dal Congresso, ma probabilmente il Congresso potrebbe rivedere il “Federal Reserve Act” per richiedere alla Fed di acquistare titoli federali.

Un'imposta sulle transazioni finanziarie.

Escludendo queste alternative, un'altra possibilità è una tassa sulle transazioni finanziarie molto bassa.

In un libro del 2023 intitolato “A Tale of Two Economies”:

A New Financial Operating System for the American Economy, il veterano di Wall Street Scott Smith sostiene che stiamo tassando le cose sbagliate: il reddito e le vendite fisiche.

In effetti, abbiamo due economie:

 l'economia materiale in cui beni e servizi vengono acquistati e venduti, e l'economia monetaria che implica il trading di attività finanziarie (azioni, obbligazioni, valute, ecc.) – fondamentalmente "fare soldi" senza produrre nuovi beni o servizi.

 

Attingendo ai dati della “Banca dei Regolamenti Internazionali” e della “Federal Reserve”, Smith mostra che l'economia monetaria è centinaia di volte più grande dell'economia fisica.

 Il buco di bilancio potrebbe essere colmato imponendo una tassa di appena lo 0,1 per cento sulle transazioni finanziarie, eliminando non solo le imposte sul reddito, ma ogni altra impostazione che paghiamo oggi.

 Con una tassa sulle transazioni finanziarie (TTF) dello 0,25%, potresti finanziare benefici che oggi non possiamo permetterci e che stimolerebbero la crescita dell'economia reale, tra cui non solo le infrastrutture e lo sviluppo, ma anche l'università gratuita, un reddito di base universale e l'assistenza sanitaria gratuita per tutti.

Smith sostiene che potresti anche ripagare il debito nazionale in 10 anni o meno con un TTF dello 0,25%.

Queste proposte sono troppo radicali? Forse, ma le crisi esistenziali richiedono soluzioni radicali.

 

 

 

Gaza: le Roboanti Minacce di

Trump e le Trattative con Hamas.

Conoscenzealconfine.it – (10 Marzo 2025) - Davide Malacaria – ci dice:

 

Nuova esternazione di Trump su Gaza, nuovo allarme.

 Sostanzialmente ha minacciato l’intera popolazione di Gaza, che periranno se non saranno rilasciati gli ostaggi, aggiungendo che l’America sta fornendo a Israele il necessario per “finire il lavoro”, cioè portare a compimento il genocidio.

Notizie che stridono palesemente con la notizia che vede gli americani avviare delle trattative dirette con Hamas…

Di Esternazioni e Impensabili Contatti.

Esternazioni che sembrano fare del presidente Usa un convinto sostenitore del genocidio palestinese, supportato dalla precedente amministrazione Usa e da tutti i Paesi europei che oggi si scagliano contro i malvagi russi.

 Minacce che si sono intrecciate con le dichiarazioni del portavoce dal Consiglio di Sicurezza nazionale Usa, secondo il quale Trump non avrebbe accolto il piano egiziano per la Striscia, rimanendo fedele alla sua “Riviera di Gaza.“

Fin qui le cattive notizie, soprattutto per i derelitti palestinesi, ma che stridono palesemente con la notizia che vede gli americani avviare delle trattative dirette con Hamas, iniziativa che, come spiega Middle East eye (MEE), era stata evitata finora dagli Stati Uniti perché significa trattare con una milizia identificata come terrorista.

Contraddizioni che appartengono al modus operandi di Trump, ma che toccano il parossismo quando si tratta di Medio oriente, dal momento che egli deve fare i conti con le pressioni dei “falchi pro-Israele” che lo sostengono, che si sommano a quelle della leadership israeliana.

Pressioni che agiscono in combinato disposto e che non può sfidare impunemente.

Così, per evitare che la notizia di una trattativa diretta con Hamas innescasse una levata di scudi – gli Usa che trattano con i terroristi del 7 ottobre… – Trump si è lanciato in un’intemerata che superava a destra anche Netanyahu.

Piccolo particolare aggiuntivo, che fa comprendere la portata dello strappo dell’amministrazione Trump:

l’America ha tenuto nascosto a Tel Aviv la sua intenzione di trattare con Hamas, tanto che questa ne è venuta a conoscenza da altre fonti (Haaretz).

 

Anche questa è una novità:

in precedenza gli Stati Uniti avevano sempre comunicato preventivamente a Israele le loro mosse sullo scacchiere mediorientale.

Si può immaginare l’irritazione di Netanyahu e dei suoi falchi, come si intuisce da un accenno del citato articolo di “MEE”.

Così veniamo al futuro di Gaza.

Ad oggi tutto è bloccato:

dopo il rifiuto di Hamas di estendere la fase uno della tregua proposta da Israele per evitare di iniziare la fase due, cioè di trattare sulla pace duratura, Tel Aviv ha bloccato tutti gli aiuti alla Striscia, condannando due milioni di persone alla fame e agli stenti.

 E affila le lame per una nuova ondata distruttiva.

Per questo ha rifiutato di adempiere agli accordi presi con Hamas, che prevedevano il passaggio alla fase due.

 E per questo ha rigettato subito, senza neanche visionarlo, il piano proposto dall’Egitto, sostenuto dalla Lega araba, di alcuni giorni fa.

Così “Haaretz”:

“Per Netanyahu, qualsiasi piano che offra una fine alla guerra a Gaza è inaccettabile perché accelererebbe il crollo della sua coalizione di governo. I fanatici partner della sua coalizione sognano di riprendere la guerra, espellere i palestinesi e costruire insediamenti ebraici a Gaza”.

Sul “Nie”t Israeliano e Quello Apparente degli Usa.

Tale rigetto, come accennato, è stato subito avallato, apparentemente, dagli Stati Uniti attraverso il portavoce dal Consiglio per la sicurezza nazionale.

Ma la smentita Usa appare relativa.

 Infatti, come annota “MEE”, “secondo gli analisti, i governanti dei Paesi arabi ignorano le dichiarazioni dei portavoce e dei diplomatici, dando peso piuttosto alle dichiarazioni dirette di una piccola e affiatata cerchia di consiglieri di Trump, come l’inviato per il Medio Oriente 2Steve Witkoff2, e del presidente stesso”.

Concetto ribadito da un alto diplomatico arabo interpellato da “Amir Tibon” per “Haaretz”, il quale ha spiegato che il “niet” di Washington è stato frustrante, ma “non deve essere visto come il punto di arrivo degli sforzi dei paesi arabi.

‘Ci sarà una lunga negoziazione sulla questione’.

Siamo solo all’inizio del processo “.

Peraltro va annotato, come accennava “MEE”, che i Paesi arabi hanno accolto con un sospiro di sollievo il discorso al Congresso di Trump, perché in esso non ha fatto cenno alla Striscia, ma soprattutto ha evitato di ribadire il suo piano sulla “Riviera di Gaza”.

 E si dicono fiduciosi del fatto che alla fine egli accoglierà le loro proposte, che non prevedono lo sfollamento dei palestinesi.

Sempre “MEE” rivela però una criticità del piano egiziano, che avrebbe motivato il primo rifiuto.

Sebbene sia alquanto dettagliato sulla ricostruzione di Gaza e sul governo tecnico di transizione che dovrebbe gestire la Striscia, nulla dice di “Hamas”.

Così il media arabo: “per essere onesti, nella proposta della Lega Araba non c’è nulla di specifico su Hamas”.

 E il futuro di Hamas è nodo cruciale.

Il punto è che nessun Paese arabo può proporre in maniera assertiva ad “Hamas” di non partecipare al governo futuro della Striscia o di disarmare, né altro di simile. Ormai per le masse arabe “Hamas” è un simbolo irrinunciabile della Palestina.

 La sua resilienza è raccontata con enfasi dai media arabi in parallelo alle immani sofferenze dei palestinesi.

Così hanno lasciato agli Stati Uniti il compito di trattare con “Hamas” la questione, che sembra appunto quel che sta accadendo.

Il “Jerusalem Post,” infatti, rilancia una notizia “Reuters” in cui si spiega che “mercoledì scorso si sono svolti colloqui tra l’inviato del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per il Medio Oriente, “Steve Witkoff”, i leader di Hamas e i mediatori di Egitto e Qatar […]”.

Sulle Trattative Usa-Hamas.

“Secondo alcune fonti, durante i colloqui tra Stati Uniti ed Egitto si è discusso della gestione di Gaza dopo la fine della guerra, compresi i nomi di coloro che avrebbero gestito la Striscia.

Le fonti affermano che i colloqui si sono conclusi positivamente e indicano una transizione imminente verso una seconda fase dell’accordo sul cessate il fuoco.“

Un cenno sulle richieste americane si può rinvenire anche nel minaccioso messaggio di Trump, nel quale si legge:

 “Per la leadership [di Hamas] è arrivato il momento di lasciare Gaza”.

 Con un simile esilio si chiuse la lunga guerra libanese.

 E questa sarà una linea rossa per gli Usa, mentre il messaggio nulla dice sul disarmo di Hamas e sul suo ruolo futuro:

le trattative sono in corso.

 

Un’opzione da tempo in discussione, rifiutata ovviamente da Netanyahu (ma tant’è), è che la Striscia sia guidata dall’Autorità palestinese.

 “MEE”, peraltro, nota che “nello stesso giorno in cui la Lega Araba ha approvato il piano post-bellico per Gaza, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha annunciato un’amnistia generale per i membri del partito politico palestinese Fatah espulsi“.

 Ciò si deve, spiega MEE, alle pressioni dei Paesi arabi.

Allo stesso tempo,” Abbas” ha annunciato che creerà la carica di vicepresidente, finora assente: un modo per ricomprendere nel governo ambiti palestinesi finora esclusi.

Va ricordato che nel suo discorso al Congresso, Trump si è limitato ad accennare che il Medio oriente è “un’area molto difficile” e che nella regione “si stanno muovendo molte cose”.

Cenno significativo anche per Gaza (a proposito, il messaggio minaccioso di Trump inizia con “Shalom Hamas…”, aggiungendo che significa “ciao” o “arrivederci”, ma la traduzione precipua è “pace”).

 

Partita difficilissima, nella quale si gioca il destino di milioni di persone.

 Si spera che le manovre sottotraccia per arrivare a una soluzione dell’attuale crisi non vengano bombardate.

(Davide Malacaria - autore del blog “Piccole Note”).

(lantidiplomatico.it/autori-_piccole_note/38479/ – https://t.me/PiccoleNoteTelegram).

(lantidiplomatico.it/dettnews-gaza_le_roboanti_minacce_di_trump_e_le_trattative_con_hamas/45289_59554/).

 

 

 

 

Management e burocrazia:

geopolitica del Minotauro.

Legrandcontinent.eu - Lorenzo Castellani – (31 agosto 2023) - ci dice:

 

 

Dai comuni isolati alle placche continentali, un mostro ibrido ha preso le redini della politica. Nel mondo del Minotauro, manageriale e burocratico, come risvegliare «lo spirito delle istituzioni»?

Spunti di dottrina Politica.

 

Poche settimane fa la grande società di consulenza McKinsey ha pubblicato un interessante report intitolato “Geopolitical resilience”:

The new board imperative in cui si tratteggiano una serie di soluzioni manageriali per fronteggiare i rischi geopolitici, saliti in cima alle priorità strategiche delle aziende.

 Come si deve affrontare una pianificazione degli investimenti pluridecennale in un contesto geopolitico in rapida evoluzione?

Come fanno le aziende a destreggiarsi nel crescente groviglio normativo dei controlli sulle esportazioni, delle sanzioni e dei requisiti di localizzazione dei dati, che spesso si intersecano tra loro e limitano sempre più un’impronta globale senza soluzione di continuità?

si chiedono i consulenti di McKinsey aprendo un filone di riflessione che segna un cambio di paradigma rispetto all’epoca della globalizzazione, del «mondo piatto» e del mercato libero e che mostra la crescente interazione tra management e governo dovuta ai cambiamenti politici ed economici di questi anni.

 

La relazione tra management privato e apparati governativi non è una novità così come che i consulenti cerchino di porsi da cuscinetto tra le due categorie, ma lo sviluppo storico di questo rapporto, e i suoi riflessi politici, devono ancora essere indagati in maniera approfondita.

 

La relazione tra management privato e apparati governativi non è una novità.

 

Lorenzo Castellani.

Nell’ultimo secolo la «gemellanza siamese» tra management e burocrazie ha creato un vero e proprio sistema di governo, più o meno implicito a seconda delle fasi storiche, che può essere rappresentato attraverso la figura mitologica del Minotauro, un mostro metà burocrate e metà manager.

Questo sistema di governo ibrido ha pesato sulla storia contemporanea e sulla formazione delle élite almeno quanto lo sviluppo della democrazia rappresentativa.

Le premesse del Minotauro novecentesco erano però già insiti nelle epoche precedenti che mostravano un progressivo processo di razionalizzazione politico-burocratico ed economico.

L’evoluzione storica del profondo rapporto tra stato e mercato, e in particolare del loro sistema operativo e attuativo, è dunque interessante per tratteggiare una storia del potere di lunga durata e che vada oltre i confini della politica in senso stretto.

 Per questa ragione nel mio ultimo libro “Il minotauro”.

Governo e management nella storia del potere (LUP 2023) ho cercato di mettere a fuoco la relazione tra il management, cioè l’organizzazione del settore industriale, e il governo, cioè l’organizzazione del settore pubblico.

Entrambi condividono l’idea dell’amministrazione.

E senza le risorse, le direttive, le procedure, i calcoli, l’organizzazione dell’amministrazione il concetto moderno di potere sarebbe molto difficile da codificare così come risulterebbe astratta, ideologica e poco realistica la visione di una separazione totale tra sfera pubblica e privata, di una distanza aprioristica, conflittuale a prescindere, tra burocrazia e management.

Al contrario la storia mostra una convivenza fatta più di cooperazione, contaminazione e ibridazione che di lotta e avversione.

Senza le risorse, le direttive, le procedure, i calcoli, l’organizzazione dell’amministrazione il concetto moderno di potere sarebbe molto difficile da codificare.

 

Lorenzo Castellani.

Oggi il rapporto tra pubblico e privato si sta rimodulando radicalmente.

 Fino a pochi anni fa il management delle aziende e i dirigenti della pubblica amministrazione dovevano preoccuparsi soltanto dell’efficienza dei processi e dell’efficacia dell’esecuzione.

 Essi potevano vivere in due mondi separati che di rado si intersecavano e quando accadeva era più per sfruttare opportunità positive (commesse pubbliche, investimenti in ricerca ecc.) che per fronteggiare rischi.

Oggi le tensioni internazionali, la guerra in Ucraina, il protezionismo, le nuove domande politiche di sicurezza hanno in pochi anni cambiato radicalmente il paradigma politico ed economico con impatti rilevanti sulla relazione tra management e governo.

Di recente, infatti, l’interventismo pubblico è tornato sotto molteplici forme, le “supply chain” si sono ridefinite, le fonti energetiche diversificate, nuovi settori tecnologici sono diventati fondamentali per lo sviluppo economico e la difesa, le materie prime sono tornate ad avere un peso specifico notevole.

 Il mondo di oggi si ridefinisce intorno a nuove domande di sicurezza e protezione allora le organizzazioni, pubbliche e private, dovranno adeguarsi al cambiamento seguendo nuove coordinate, stimoli e analisi.

Come intuisce il rapporto di “McKinsey”, una nuova era nel rapporto tra management e governi si sta aprendo con nuovi rischi e opportunità.

 La conoscenza storica può essere utile per capire le tendenze di lungo periodo, analizzare i meccanismi politici, culturali ed economici alla base della transizione in corso, elaborare le possibili strategie per fronteggiare i nuovi problemi e i nuovi rischi.

Una nuova era nel rapporto tra management e governi si sta aprendo con nuovi rischi e opportunità

 

Lorenzo Castellani.

L’obiettivo del libro è in apparenza semplice:

scrivere la storia del rapporto tra governo e management dalle origini ai nostri giorni.

 Tuttavia, questi due elementi provengono da storie e vicende molto differenti e instaurano tra loro una relazione profonda ma non sempre di facile individuazione. Il governo è una entità multiforme – fatta di vertici politici, burocrazia, eserciti, regole e simboli – emanazione dello Stato moderno che a sua volta è stato declinato in forme differenti a seconda delle fasi storiche e delle aree geografiche. Tendenze simili sul piano politico si innestano in contesti diversi che rendono difficile la schematizzazione dell’esperienza statuale.

Secoli di storia, armi, sangue, diritti, rivoluzioni, tribunali, parlamenti hanno segnato la vicenda evolutiva del governo come istituzione che però, già dal diciassettesimo secolo, portava in sé i geni dell’organizzazione, della statistica, della calcolabilità, della ricerca di una scienza del governo e di una razionalità strumentale agli scopi politici. Lo Stato moderno è una progressiva fusione di sovranità, costituzione e amministrazione.

Il management, al contrario, si affaccia alla storia soltanto alla fine dell’Ottocento come espressione di un capitalismo più maturo che diviene, di conseguenza, pronto a sostituire il genio dell’imprenditore singolo con la competenza di una classe di dirigenti industriali, i manager.

La corporation, la società per azioni, è l’istituto giuridico che rende possibile questa evoluzione.

 

Se queste sono le premesse non va però dimenticato che il management assunse subito un profilo più sociale, legato all’idea di sviluppo e modernizzazione, poiché veniva presentato nella sua traduzione politica come un insieme di tecniche organizzative che avrebbero generato un gioco a somma positiva per tutti:

 per gli investitori e i proprietari che avrebbero massimizzato produttività e utili, per i manager che avrebbero visto crescere il proprio ruolo e il proprio prestigio nell’azienda e per gli operai che avrebbero guadagnato di più e lavorato in un ambiente più sano e sicuro.

Il management avrebbe azzerato il conflitto sociale tornando utile anche al governo.

In questo contesto dinamico il rapporto tra management e governo si creò quasi immediatamente dopo la teorizzazione del primo.

Il rapporto tra management e governo si creò quasi immediatamente dopo la teorizzazione del primo.

 

Lorenzo Castellani.

Basti pensare che la prima applicazione pratica della teoria del management non è avvenuta in un’azienda, ma in organizzazioni non profit e agenzie governative.

“Frederick Winslow Taylor”, il pioniere del management scientifico, nel suo biglietto da visita si identificava come «Consulente per il Management» e spiegava di aver scelto intenzionalmente questi termini nuovi e strani per scioccare i potenziali clienti e far loro capire che offriva qualcosa di totalmente nuovo.

Ma Taylor non citò un’azienda, bensì la “Mayo Clinic”, un’organizzazione senza scopo di lucro, come «esempio perfetto» di «Scientific Management» nella sua testimonianza del 1912 davanti al Congresso, che per la prima volta rese i politici gli Stati Uniti consapevoli del management e delle sue potenzialità trasversali.

E l’applicazione più pubblicizzata dello «Scientific Management» di Taylor non fu in un’azienda, ma nell’”Arsenale di Watertown”, di proprietà del governo e gestito dallo stesso, dell’esercito degli Stati Uniti.

 Il primo lavoro a cui è stato applicato il termine «manager» nel suo significato attuale non era in un’azienda.

 Si trattava del “City Manager”, un’invenzione americana dei primi anni del secolo che mirava a rendere più professionalizzata ed efficiente la pubblica amministrazione.

Anche la prima applicazione consapevole e sistematica dei «principi di management» non avvenne in un’azienda.

È stata la riorganizzazione dell’esercito degli Stati Uniti nel 1901 da parte di “Elihu Root”, Segretario alla Guerra di Theodore Roosevelt.

Il primo Congresso sul Management – tenutosi a Praga nel 1922 – non fu organizzato da uomini d’affari, ma da “Herbert Hoover”, allora Segretario al Commercio degli Stati Uniti, e “Tomáš Masaryk”, storico di fama mondiale e presidente fondatore della nuova Repubblica cecoslovacca.

“Mary Parker Follett,” il cui lavoro accademico sul management iniziò poco dopo questo congresso, non fece mai distinzione tra gestione aziendale e non aziendale. Parlava di gestione delle organizzazioni, a cui si applicavano gli stessi principi, senza distinzione tra pubblico e privato, profit e no profit.

Il management, inoltre, trovò terreno fertile nel settore pubblico grazie alla concezione tardo ottocentesca, sviluppata in primo luogo da “Woodrow Wilson”, in cui l’amministrazione pubblica inizia a esser considerata come una organizzazione che poteva essere organizzata seguendo principi scientifici oltre che politico-legali.

 Come il management poteva aumentare la produttività del lavoro nelle fabbriche, con benefici e pace sociale per tutti, così la divisione dei ruoli e delle funzioni poteva essere adatta al governo per accrescere l’efficienza della propria azione.

Ma forse c’è di più di questo poiché lo Stato a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo è scosso da ancor più profonde trasformazioni.

 Dopo essersi fatto costituzionale nell’ottocento, lo Stato diviene pluriclasse e democratico, pur scontando debolezze e instabilità, nei primi decenni del novecento.

 Il governo, di conseguenza, si intreccia con il nuovo avvento delle masse in politica e con i nuovi bisogni del capitalismo e della società industriale:

 l’esecutivo si espande nella sua funzione previdenziale, sociale, economica.

Ciò determina la confluenza nel governo di nuovi saperi, tecniche, professionalità, soprattutto a cavallo tra le due guerre mondiali, e di conseguenza la nascita di nuovi uffici economici, istituzioni tecnocratiche, enti e aziende pubbliche che allargano la base del governo e al tempo stesso lo parcellizzano.

Lo Stato evolve da ente sovrano, titolare della personalità politica e giuridica, a impresa di sviluppo economico e sociale.

 È in questa trasformazione che il management penetra negli uffici governativi: manager per organizzare la produzione bellica, per gestire nuovi enti e politiche sociali, per amministrare società e aziende pubbliche, per organizzare gli approvvigionamenti e poi diffusione del «taylorismo alla scrivania» per importare le tecniche e procedure del privato nel pubblico.

Oppure, nei regimi autoritari e totalitari, il management diviene seducente strumento di accrescimento della potenza industriale e tecnica della nazione, complemento pratico dell’ideologia dominante.

Un volano da utilizzare per il partito unico al comando per perseguire la modernizzazione, lo sviluppo della potenza, sia nel modello capitalistico che in quello collettivista.

Nei regimi autoritari e totalitari, il management diviene seducente strumento di accrescimento della potenza industriale e tecnica della nazione.

 

Lorenzo Castellani.

Nel secondo dopoguerra la figura del manager è oramai integrata, insieme a scienziati e altri tecnici, non soltanto nelle articolazioni del governo ma come attore che partecipa alla costruzione di una nuova società e di nuove politiche scientifiche, economiche e sociali.

 La vicenda manageriale si interseca con le grandi questioni governative della guerra fredda:

 la sicurezza nazionale, il complesso militare-industriale, la competizione tecnologica e la big science, l’ammodernamento amministrativo e infrastrutturale, l’ampliamento del welfare state, la transizione verso l’economia della conoscenza. È questa l’epoca in cui le organizzazioni pubbliche e private, di fatto e in dottrina, erompono come attori politici in un mondo in cui i partiti, i sindacati e i parlamenti iniziano a non riuscire più a coprire tutto «il politico».

La politica si sublima nell’organizzazione e quindi chiama ancora una volta in causa il management, che è scienza dell’organizzazione e fattore centrale nella formazione e nella produzione delle nuove élite, come anche testimonia l’esplosione dei corsi universitari e delle business school negli anni cinquanta e sessanta.

Di fatti, il management presuppone una divisione di ruoli e compiti che soltanto un sistema meritocratico fondato sulla competenza può supportare e alimentare.

Mentre i teorici delle élite del primo novecento si riferivano alla «classe politica» o alla «classe dirigente» per indicare i vertici della società, guardando principalmente alla politica, nel secondo novecento il meccanismo di produzione e riproduzione delle élite trascende questi concetti, esonda oltre la politica e la sommità amministrativa dello Stato, include i vertici di tutte le organizzazioni, pubbliche e private, che intervengono nel processo decisionale pubblico e che si fanno interpreti dello sviluppo.

 Il concetto di élite si pluralizza, si lega inscindibilmente alla conoscenza specialistica e la stessa classe dirigente diviene più flessibile anche grazie al sostrato comune del management i cui principi possono essere dispiegati in ogni organizzazione profit e no-profit.

 

Pure quando il sistema economico misto del dopoguerra inizierà ad entrare in crisi, nel corso degli anni Settanta, il management sarà capace di reinventarsi ancora nel suo rapporto col governo.

Ecco allora che le corporations e le società di consulenza manageriale partecipano all’elaborazione del nuovo liberalismo degli anni ottanta, propongono e realizzano privatizzazioni, liberalizzazioni ed esternalizzazioni dei servizi pubblici, disegnano e popolano nuove istituzioni per la regolazione del mercato.

Il governo e i suoi uffici sono chiamati, anche sotto la pressione delle istituzioni internazionali, ad introiettare lo spirito imprenditoriale, l’economia della conoscenza, il saper fare dei manager, gli strumenti per misurare performance e responsabilizzare i dirigenti.

 I teorici dell’organizzazione raggiungono l’apice della propria influenza politica con manuali di management trasformati in nuove bibbie per riformare l’amministrazione pubblica su scala internazionale.

Gli stessi politici imbracciano il management e i manager come modello per la loro azione, simboli di efficienza e capacità di risolvere i problemi essi divengono ispiratori dell’azione politica di molti politici occidentali degli anni ottanta e novanta.

Nasce un neo-cameralismo che contrappone la scienza del governo e delle finanze, sempre più centrale, alla rappresentanza politica e alle ideologie, sempre meno rilevanti nella pratica decisionale e nella teoria dello Stato.

 Cambia di conseguenza anche lo sfondo ideologico:

 nella nuova vulgata dominante il mercato e il privato, di conseguenza il management aziendale, diventano propulsori di sviluppo se lasciati liberi di esprimersi su scala globale e senza interferenze da parte del governo.

Anzi quest’ultimo è chiamato a comportarsi come il privato, nella pubblica amministrazione si cerca di infondere lo spirito imprenditoriale e di importare le tecniche manageriali delle multinazionali.

Soltanto un governo che «costi meno e lavori meglio» può favorire lo sviluppo economico e sociale e vincere il clientelismo, le rendite, le inefficienze prodotte dallo Stato.

Pure quando il sistema economico misto del dopoguerra inizierà ad entrare in crisi, nel corso degli anni Settanta, il management sarà capace di reinventarsi ancora nel suo rapporto col governo.

 

Lorenzo Castellani.

Anche quando questo sistema politico, economico e culturale inizierà a incrinarsi, con la crisi finanziaria del 2007-2008, i governi non smetteranno di guardare al management che diventerà gestione della crisi prima, anche nelle amministrazioni pubbliche attraverso gestioni commissariali e governi tecnocratici, e poi tentativo di amministrare la complessità e l’interdipendenza di sistemi che trascendono i confini delle nazioni e sono oramai disposti su una governance multilivello.

Quando nell’ultimo decennio la creazione di network istituzionali e la new public governance si riveleranno insufficienti a contenere le trasformazioni della politica e dell’economia, nuovi indirizzi e strumenti segneranno un ritorno al potenziarsi dello Stato-nazione attraverso una molteplicità di strategie costituite da dazi, controllo degli investimenti, limitazioni delle esportazioni, nuove e vecchie società di Stato e una varietà di fondi a capitale pubblico, nuovi uffici per l’applicazione e il controllo del nuovo corso protezionista e interventista.

Ma ancora il management risulterà fondamentale nella centrifuga del cambio di paradigma fuori e dentro il perimetro del governo: management strategico e della complessità, della contingenza, dei sistemi, del comportamento e del cambiamento, volto a combinare efficienza organizzativa, controllo dei processi, stimoli psicologici e ambientali, leadership e competenza tecnica con i nuovi obiettivi politico-amministrativi segnati dalle nuove esigenze di sicurezza nazionale e di politica industriale.

Contro il caos generato dal de-risking e dal frazionamento della globalizzazione, adempiendo alla propria funzione storica, il management privato e quello pubblico dovranno cercare di ritagliarsi un ruolo di stabilizzatori e generatori di produttività in uno scenario segnato dall’incertezza, da nuovi rischi e nuovi costi.

 Questo ruolo del manager è richiesto da una politica che pretende di essere affiancata da istituzioni, competenze e leadership che non sono direttamente riconducibili al governo popolare ma la cui legittimità è giustifica nell’ottica della ragion di Stato, dell’emergenza economica e dei rischi sistemici.

Così il management può nuovamente prosperare nell’interregno perché soltanto la costruzione e la legittimazione di nuove organizzazioni pubbliche e private viene riconosciuta come fattore capace di riportare ordine, stabilità e prosperità ponendo fine alle intemperie della transizione.

Così il management può nuovamente prosperare nell’interregno perché soltanto la costruzione e la legittimazione di nuove organizzazioni pubbliche e private viene riconosciuta come fattore capace di riportare ordine, stabilità e prosperità ponendo fine alle intemperie della transizione

 

Lorenzo Castellani

Ma è evidente che in un mondo in cui rischi ed emergenze si moltiplicano e si intersecano con sempre maggior forza le strutture e l’organizzazione, per quanto efficienti e coordinate si possano costruire, non sono abbastanza per governare politica, società ed economia senza disordini e crisi.

Allora lo sviluppo e la modernizzazione continueranno ad avvalersi del governo e del management, ma per essere tale dovrà poggiare sulla capacità della società di generare valore umano, ricchezza civile e autorità che godano di legittimazione diffusa. I legami sociali, le «legature» tra gruppi sociali e i valori e le identità infusi in essi, sono ancora essenziali per spronare lo sviluppo:

 la creatività, l’innovazione, l’intrapresa, la solidarietà, la diversità scaturiscono da individui e gruppi che possono fiorire grazie alla capacità amministrativa e organizzativa, ma affinché ciò accada con successo e progresso è necessaria una civilizzazione che vada oltre lo stato e il mercato, una cultura che vada oltre la tecnica, una società capace di costruire senso e autorità e non soltanto regole e potere.

 È evidente anche che la specializzazione dei saperi e la ricerca della produttività non possano essere l’unico fine poiché ogni dirigente pubblico e privato sarà chiamato ad una più profonda analisi di scenario che non concernerà soltanto costi, benefici e profitti.

Servirà una diversa educazione dei capi, più trasversale e onnicomprensiva, ma anche nuove istituzioni analitiche e di studio tanto all’interno delle pubbliche amministrazioni quanto delle aziende.

In un mondo regolato dal nuovo minotauro serve uno «spirito delle istituzioni» alla base della società che permetta di temperare e sciogliere i conflitti senza deflagrazioni, di superare interessi costituiti e forme di patrimonialismo, di riconoscere e gestire rischi e contemperare azzardi morali, di valorizzare il concetto di responsabilità pubblica e privata, di dare vita a comunità e reti sociali fondate sulla conoscenza e sulla solidarietà, di rafforzare il radicamento senza perdere l’esplorazione dell’orizzonte.

 Non basta la ricerca dell’efficienza nell’organizzazione poiché senza una infusione di valori nelle organizzazioni, fornita con responsabilità e senso della storia dalla classe dirigente e dalla leadership, le istituzioni e l’autorità regrediscono a mera razionalità strumentale, a omologazione ingessata e a scontri di potere tra gruppi. Uno sviluppo positivo sarà possibile se si saprà edificare sugli appigli che società, comunità e territori già offrono, riempirli di valori e senso etico, potenziarli con le strutture del management e del governo, rendere le istituzioni capaci di raccordare reti e processi molto estesi nello spazio in una logica di comunione e responsabilità, educare le élite all’eclettismo, alla tolleranza, alla sobrietà e alla responsabilità.

Se il minotauro non può essere decostruito o abbattuto senza sfociare nell’utopia allora ciò che si può fare è ricavare delle intercapedini in cui la libertà, la solidarietà, l’intraprendenza, la creatività, la pluralità possano prosperare rinforzando e migliorando a loro volta la legittimità e il funzionamento del mitico mostro mezzo-burocrate e mezzo-manager.

 

 

 

BUROCRAZIA (Seconda parte).

Informazionequotidiana.it - Lorenzo Maria Malara – (1° Marzo 2025) – ci dice:

 

Riprendendo la nostra analisi, il dato da cui ripartire è quello della burocrazia come forma organizzata dell’espressione del potere di governo dello Stato sui cittadini attraverso gli uffici pubblici.

L’esercizio di questo potere risulta direttamente collegato all’organizzazione dell’apparato statale ed ai meccanismi normativi e sanzionatori che, obbligando al rispetto delle regole, costituiscono le modalità operative del potere stesso.

Vediamo quali sono gli effetti dei meccanismi burocratici intesi come estrinsecazione del potere di governo.

INDICE DEI CONTENUTI:

LA BUROCRAZIA COME MEZZO DI CONTROLLO SOCIALE.

ILLEGITTIMITÀ DELL’ESERCIZIO DEL POTERE: IL CASO DELLA TORTURA.

LA BUROCRAZIA COME ABUSO DI POTERE.

CONCLUSIONI.

 

LA BUROCRAZIA COME MEZZO DI CONTROLLO SOCIALE.

La burocrazia come esternazione del potere, principalmente amministrativo, e come espressione del governo di uno Stato, incide direttamente sull’organizzazione del sistema produttivo e sull’organizzazione sociale dello Stato stesso.

(Max Weber nel 1918.)

Anche in questo caso, a partire dalle prime teorizzazioni formulate da Max Weber nel suo trattato Economia e società, la burocrazia viene inquadrata come espressione del potere posta a base degli stati democratici (fondati sulla scelta elettorale) in grado di consentire l’esistenza del sistema del capitalismo moderno.

(…l’impresa capitalistica moderna si fonda soprattutto sul calcolo.

 Essa richiede per la propria esistenza una giustizia e un’amministrazione il cui funzionamento possa, almeno in linea di principio, venire calcolato razionalmente in base a norme generali, nello stesso modo in cui si calcola la prestazione rivedibile di una macchina. “Economia e Società”).

Questa attività di pianificazione e di calcolo, effettuata dal potere governativo e messa in opera con la predisposizione della macchina burocratica con i suoi meccanismi, comporta necessariamente l’esercizio di un controllo sociale cosiddetto organizzato, ovvero conseguente all’adozione di modelli e stereotipi.

Il concetto di controllo sociale è stato coniato da “Edward Alsworth Ross” nel 1896 definendo tale il controllo intenzionale della collettività sull’individuo “dominio sociale che si propone di adempiere, e adempie, una funzione nella vita della società”.

(Edward Alsworth Ross- Alfred Coser).

Nello sviluppo del concetto operato dalla sociologia, ricordiamo la definizione di Lewis Alfred Coser e Bernard Rosenberg secondo i quali “Il controllo sociale si riferisce a quei meccanismi tramite i quali la società esercita la sua autorità sugli individui che la compongono, e fa rispettare la conformità delle sue norme”.

Il controllo sociale organizzato è definito il complesso di mezzi e modalità adoperati da ogni società o gruppo o istituzione al fine di assicurare il rispetto, da parte dei propri membri, delle norme e dei modelli comportamentali stabiliti, per evitare i fenomeni di disgregazione.

Nello specifico, ogni tipo di condizionamento costituisce una forma di controllo sociale.

L’esercizio del potere governativo attraverso gli uffici burocratici costituisce, quindi e nel senso sopra indicato, una forma di controllo sociale previsto e pianificato dallo Stato, nonché la realizzazione concreta delle scelte operate dall’elettorato in sede politica.

Il controllo sociale operato dai meccanismi burocratici si concretizza in un costante ed univoco orientamento dei comportamenti dei cittadini nei rapporti con le istituzioni, teso a definire dei percorsi operativi generalizzati ed imparziali.

La devianza dai comportamenti, stabiliti attraverso i meccanismi burocratici, è sanzionata secondo le norme previste dall’ordinamento, che forniscono, unitamente ai meccanismi sanzionatori, una gradazione della gravità delle violazioni e della valutazione di antigiuridicità dei comportamenti deviati.

Ma questo allineamento tra potere governativo, apparato burocratico e controllo sociale, nel rispetto dei principi normativi vigenti, sembra essere una costruzione teorica che sconta, all’atto pratico, una serie di criticità che appaiono con il passare del tempo sempre più insuperabili.

Tra le criticità rilevate, spicca quella della devianza del potere governativo azionato dall’apparato burocratico rispetto alle finalità e agli obiettivi istituzionalmente previsti, ancor più accentuata da fenomeni di corruzione, inefficienza e mancanza di coordinazione e collegamento degli uffici pubblici.

Nello specifico vengono in considerazione non tanto le devianze operate dai destinatari ultimi dei meccanismi burocratici, ovvero dei cittadini, quanto invece le devianze degli stessi operatori istituzionali preposti all’organizzazione ed al funzionamento degli uffici burocratici e responsabili dell’esercizio del potere governativo e dell’erogazione dei servizi.

 

ILLEGITTIMITÀ DELL’ESERCIZIO DEL POTERE: IL CASO DELLA TORTURA.

La realizzazione dei programmi governativi degli Stati moderni ha attraversato, in alcuni casi, delle fasi di manifestazione del potere governativo sfociate in autoritarismi repressivi e nella negazione dei diritti fondamentali dell’individuo.

È il caso della tortura che, come forma di esercizio del potere e come tecnica di governo, è stata messa al bando dal diritto internazionale per effetto progressivo del riconoscimento dei diritti dell’uomo nella dichiarazione universale del 10 dicembre 1948, elemento costitutivo dell’ONU all’indomani del secondo conflitto mondiale.

Proprio l’ONU aveva manifestato la necessità di intervenire a livello internazionale per definire i diritti fondamentali dell’individuo e fornire una linea di confine ai Paesi firmatari (ma anche a quelli non firmatari), relativamente alla possibilità dei singoli Stati di comprimere le libertà ed i diritti delle persone.

La tortura manifesta una situazione di superiorità o di potere con l’utilizzo di una coercizione fisica o psicologica finalizzata ad ottenere contro la volontà, del soggetto sottoposto a tortura, un determinato bene o un determinato comportamento.

Il potere è definito come la capacità di incidere sulla realtà modificandola; in senso umano è la capacità di modificare situazioni o comportamenti umani.

Esso pertanto ha la necessità di esprimersi sulla realtà esterna manifestandosi in modo tale da costituire una differenza percepibile tra chi lo esercita e chi lo subisce.

Se l’esercizio di un potere costituisce il lato attivo del rapporto, dal lato passivo vi è una condizione di patimento e di soggiacenza al potere esercitato.

 Uno degli aspetti deteriori della manifestazione del potere può essere considerata la tortura, che è generalmente definita come l’inflizione di una sofferenza fisica o psicologica finalizzata ad ottenere un determinato risultato.

Ma quando è che l’inflizione di una sofferenza fisica o psicologica può essere definita tortura?

Nella questione possiamo essere aiutati dal testo della “Convenzione contro la tortura” ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata dall’ONU con Risoluzione 39/46 del 10 dicembre 1984, in vigore sul piano internazionale dal 26 giugno 1987 e ratificata dal 174 Stati.

 In Italia in vigore dall’11 febbraio 1989.

Costituisce tortura, secondo l’art. 1 della Convenzione del 1984 “ogni atto mediante il quale siano inflitti intenzionalmente a una persona dolore o sofferenza gravi, sia fisici che mentali, allo scopo di ottenere da essa o da un’altra persona informazioni o una confessione, di punirla per un atto che essa o un’altra persona ha commesso, per intimidirla o sottoporla a coercizione o intimidire o sottoporre a coercizione un’altra persona o per qualunque ragione che sia basata su una discriminazione di qualsiasi tipo, a condizione che il dolore o la sofferenza siano inflitti da o su istigazione o con il consenso o l’acquiescenza di un pubblico ufficiale o altra persona che svolga una funzione ufficiale.

Non comprende il dolore o la sofferenza che risultino esclusivamente da, o siano inerenti o incidentali rispetto a sanzioni lecite”.

L’articolo 2 della predetta convenzione nel comma 3 prevede che “l’ordine di un superiore o di un’autorità pubblica non può essere invocato a giustificazione della tortura”.

Nel caso che ci interessa, ovvero l’esercizio del potere dello Stato, a questi è conferito altresì il potere di infliggere sanzioni in caso di inosservanza delle norme. Il modello di riferimento comunemente utilizzato è quello dello stato democratico, nel quale è il popolo a scegliere le regole e la forma di governo.

Per riprendere una definizione weberiana, lo Stato è il monopolio della forza;

 a costituire la base della nostra convivenza è un soggetto giuridico al quale è stato conferito il monopolio della forza.

Quello che dovrebbe costituire una distinzione tra l’esercizio del potere dello Stato tramite l’applicazione di costrizioni fisiche o psicologiche e l’esercizio del potere che viene considerato tortura, è la legittimazione del soggetto che esercita il potere, oltre che i mezzi di coercizione utilizzati.

Per questi due ultimi aspetti, se per un verso possono essere individuati mezzi di coercizione contrari ai principi fondamentali espressi nella dichiarazione dei diritti dell’uomo, per altro verso l’esercizio del potere statale con l’utilizzo di mezzi di coercizione appare invece legittimo e giustificato.

Nel caso dello Stato, per configurare il crimine di tortura occorre che la coercizione e la sofferenza inflitta sia al di fuori delle forme di coercizione e di sanzione lecitamente previste dal diritto interno;

 la nozione di tortura si riferisce ad atti che si definiscono ad “effetti privati” intendendo atti comunque non riferibili ad attività positivamente codificate nello Stato.

Ed in tal senso anche le sanzioni lecite, ovvero quelle previste dal diritto penale di uno Stato, sono sottratte dalla qualificazione di tortura.

Se ne dovrebbe dedurre che la burocrazia, come esercizio di un potere legittimo dello Stato, nel perseguimento dei propri fini istituzionali non possa costituire fattispecie di tortura seppure comporta l’inflizione di sofferenze e coercizioni.

 

Tuttavia il concetto di tortura rimane ancora astratto e soggetto ad interpretazioni più o meno restrittive (vedi la questione delle restrizioni adottate dagli Stati Uniti per gli interrogatori dei sospettati di terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre 2001) che ne rendono piuttosto sfumati, se non indeterminati, i confini. La nozione di trattamento crudele, inumano o degradante viene accettata nella misura in cui sia corrispondente ai contenuti della carta costituzionale.

Ma qual è allora il limite tra un esercizio legittimo del potere ed un esercizio illegittimo dello stesso potere?

 Fino a che punto lo Stato può agire coercitivamente sui propri cittadini?

 

LA BUROCRAZIA COME ABUSO DI POTERE.

Abbiamo in precedenza evidenziato che le problematiche relative all’esercizio del potere, oggetto di particolare attenzione e considerazione, non sono quelle poste a valle dell’esercizio del potere stesso (i cittadini destinatari delle regole burocratiche), in quanto eventuali devianze, o disallineamenti dei comportamenti rispetto a quelli richiesti dal potere governativo e dalle istituzioni preposte, comportano sanzioni e conseguenze codificate, prevedono interventi e correttivi finalizzati a mantenere l’integrità del sistema.

Le problematiche maggiormente degne di attenzione e riflessione sono quelle relative alle devianze attuate nell’organizzazione e nell’esercizio del potere burocratico.

Quali sono le conseguenze relative ad un esercizio del potere difforme o contrario agli obiettivi organizzativi o attuativi previsti dal potere stesso?

Cosa succede quando un funzionario pubblico esercita il potere del quale è investito in difformità ed in violazione del mandato ricevuto?

Il problema non è di poco conto proprio in relazione alle riflessioni svolte in ordine al concetto di tortura.

Abbiamo infatti visto che il concetto di tortura non è applicabile ad attività positivamente codificate nello Stato.

Tuttavia l’esercizio del potere attuato con difformità rispetto alle attività codificate dallo Stato comporta l’attuazione di un abuso che costituisce da un lato una devianza personale del pubblico ufficiale o del funzionario preposto a quell’ufficio o a quel compito, da un altro lato la mancata realizzazione degli obiettivi posti dal potere governativo e degli obiettivi istituzionali connessi anche alla imparzialità dell’operare della pubblica amministrazione.

Nella generalità dei casi l’abuso operato nell’esercizio della propria funzione o qualità si traduce in quello che noi nel nostro ordinamento avremmo definito “abuso d’ufficio”, ma che in ordinamenti diversi dal nostro viene declinato in fattispecie diverse, riconducibili sostanzialmente ad un “abuso di funzione”.

Questo abuso di funzione, attuato in ogni caso sotto la veste di esercizio del potere burocratico, trova alcune contromisure all’interno del nostro ordinamento per effetto dell’introduzione di alcune fattispecie specifiche di reato nel sistema penale e per effetto dell’introduzione di modifiche alle ipotesi criminose esistenti, avendo l’Italia ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (cosiddetta Convenzione di Merida del 31 ottobre 2003) con la legge n. 116 del 3 agosto 2009, con l’effetto dell’introduzione dell’art. 323 bis del codice penale.

 

Per alcuni passi fatti in avanti, si registra comunque un notevole arretramento conseguente all’”abrogazione del reato di abuso d’ufficio” ex art. 323 del codice penale dal nostro ordinamento, questione relativamente alla quale richiamiamo le considerazioni contenute nell’articolo del 28 settembre 2024.

Il risultato concreto è quello di avere delle carenze di tutela normativa interna sugli abusi perpetrati dai funzionari pubblici (nello specifico dai pubblici ufficiali) nell’esercizio del potere amministrato dagli uffici burocratici.

In definitiva il potere burocratico nella sua manifestazione, che incontrava il proprio limite esterno nella violazione delle regole preposte all’esercizio del potere pubblico sotto forma dell’eccesso di potere e dello sviamento di potere da parte del pubblico ufficiale, ora trova il proprio limite esclusivamente al proprio interno nel perseguimento dei fini istituzionali e nelle scelte politiche di governo.

 

Dal punto di vista della cittadinanza il peso della burocrazia assume un’incidenza progressivamente maggiore, dettata dalla complessità in evoluzione della struttura istituzionale e sociale dello Stato.

Tale evoluzione strutturale contraddice, però, la vocazione stessa degli Stati democratici, che aspirano alla realizzazione delle istanze libertarie degli individui ed al pieno riconoscimento dei diritti fondamentali declinati nelle convenzioni internazionali e nelle Carte Costituzionali.

Ne discende che le organizzazioni burocratiche dei singoli Stati, per la realizzazione dei progetti e dei piani governativi, tendono sempre più a restringere e comprimere le libertà dei cittadini con un livellamento orizzontale che incide direttamente sotto il profilo economico e produttivo sulla struttura sociale degli Stati.

È altresì da registrare un processo di coordinamento internazionale delle organizzazioni burocratiche, teso a favorire i sistemi di scambio economico e finanziario; attraverso la burocrazia si cerca il modo di eliminare le barriere che dividono le economie degli Stati.

CONCLUSIONI.

Ciò che ha reso l’apparato burocratico vincente nel corso della storia è stato il senso di impersonalità e di imparzialità delle regole che esso applica.

Caratteristiche rassicuranti per i governati che sentono la presenza e la vicinanza dello Stato e dei suoi servizi resi nell’interesse della collettività.

 Ed anzi, per paradosso, proprio gli Stati più orientati ad un forte capitalismo economico hanno dovuto ricorrere alla burocrazia, alla creazione di un sistema di regole in grado di garantire il funzionamento dei mercati e la competizione secondo principi economici e normativi.

Tuttavia, i meccanismi nati per garantire i principi del liberalismo e della democrazia, si sono poi rivelati la gabbia dentro la quale chiudere le libertà individuali e comprimere quelle costituzionali con imparziale uniformità, orientando la costruzione degli stati secondo una visione socialista e collettivista.

 

(John Stuart Mill nel 1870.)

John Stuart Mill affermava nel XIX secolo che esistono soltanto due tipi di governo competenti: le burocrazie e le democrazie.

Le altre forme di governo conosciute come monarchie o aristocrazie, se dimostrano forza intellettuale e capacità nell’eseguire i propri compiti, sono in realtà burocrazie nelle mani di amministratori di professione, cosa che costituisce l’essenza ed il significato di burocrazia.

I sistemi politici degli Stati moderni hanno saputo convogliare negli apparati burocratici quei meccanismi di orientamento e coordinamento sociale in grado di imbrigliare le naturali istanze dell’individualismo libertario.

L’individuo, al centro della declinazione dei diritti fondamentali e del riconoscimento delle libertà costituzionali, nel progredire dei contesti politici ed istituzionali cede il passo all’interesse collettivo ed alle esigenze dello Stato.

L’impersonalità asettica dell’esercizio del potere burocratico garantisce anche una diffusa irresponsabilità del potere stesso.

Il fatto che si richieda un’autorizzazione e la si ottenga dopo anni, che una richiesta di riconoscimento di invalidità o di pensione ottenga risposta dopo il decesso dell’interessato, la prenotazione di una visita sanitaria urgente che viene fissata a distanza di decine di mesi, viene sempre attribuita ad un’endemica inefficienza del sistema che si perde nell’astrattezza e nell’indeterminazione.

La debolezza delle normative interne finalizzate alla imposizione nei confronti degli organismi statali di determinati comportamenti, l’assenza di significative ed incisive sanzioni e imposizioni di obblighi nei confronti del personale amministrativo, hanno reso l’apparato burocratico sempre vincente e soverchiante nei confronti del rispetto dei diritti del singolo e dell’individuo.

I contorni dei diritti riconosciuti al singolo sfumano in declaratorie del tutto astratte ed indeterminate, di fatto inattuabili nel contesto sociale esistente.

In questo scenario, il contesto internazionale e gli interessi economici dei gruppi transnazionali opereranno sempre più per la limitazione e la subordinazione dei diritti individuali dei singoli cittadini, e questi ultimi tenderanno sempre più a uniformare la loro identità sociale alle regole imposte.

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