La burocrazia contro il governo dello Stato.
La
burocrazia contro il governo dello Stato.
Come
Trump intende
smantellare
il “deep state.”
Geopolitica.info
- Lorenzo Rossi – (09/01/2025) – ci dice:
La
lotta contro il deep state è stato uno dei cavalli di battaglia della campagna
elettorale di Donald Trump.
Già
durante il suo primo mandato si scagliò contro un esercito di burocrati che, a
detta sua, stavano lavorando per sabotare le sue scelte politiche.
Dopo la vittoria alle elezioni presidenziali
del 2024, il Tycoon ha promesso di ritornare a combattere contro il deep state
a partire dal giorno uno, implementando una serie di riforme radicali per
ristrutturare l’apparato amministrativo del governo federale.
Cos’è
il deep state?
Deep
state, amministrative state, apparati, governo ombra: sono alcune delle parole
all’ordine del giorno nel dibattito pubblico statunitense.
Nonostante questi termini vengano spesso associati a
teorie del complotto, si riferiscono al complesso sistema burocratico degli
Stati Uniti e al suo peso nel processo di “decisioni making”.
Il
governo federale degli Stati Uniti poggia su un apparato burocratico immenso:
più di 9 milioni di impiegati, divisi nei vari dipartimenti e agenzie.
Dalla
fine del XIX secolo l’apparato burocratico statunitense è cresciuto
velocemente, con l’espandersi delle competenze del governo federale.
Sono
state istituite diverse importanti agenzie, come l’FBI, la CIA e l’EPA, con
competenze e poteri esecutivi rilevanti.
Decisamente
troppo influenti nel processo di “decisioni making” secondo Trump e il partito
repubblicano, i quali negli ultimi anni hanno imbastito una vera e propria
lotta contro gli apparati burocratici.
Secondo
il GOP gli apparati costituirebbero una sorta di “governo parallelo” a quello
eletto dai cittadini (Presidente e Congresso), spesso in grado di influenzare
in maniera notevole le scelte e l’indirizzo politico del governo federale.
I burocrati sarebbero espressione di un “establishment
liberal” che agirebbe all’oscuro dei cittadini e contro la volontà popolare,
svincolati di ogni controllo politico.
Durante
il suo primo mandato Trump ha attaccato costantemente gli apparati burocratici,
accusati di bloccare le sue scelte politiche: un esempio è il tentato
riavvicinamento con la Russia, verosimilmente fallito a causa dell’opposizione
del Pentagono.
Tuttavia,
occorre precisare che conflitti simili sono sorti anche durante amministrazioni
democratiche: alla scelta di Obama di iniziare il ritiro delle truppe in
Afghanistan ha seguito il “no” dei militari, che invece hanno evidenziato la
necessità di aumentare il numero di truppe per le operazioni di “surge”.
“Drain the swamp”: the Project 2025.
Durante
la campagna elettorale Trump è tornato a tuonare contro il deep state,
promettendo di “drenare la palude” e di sbarazzarsi una volta per tutte
dell’esercito di burocrati che proverà a ostacolare il suo programma.
La
lotta contro il deep state è uno dei capisaldi della sua agenda per il “second
term”, e su questo sta concentrando la scelta dei componenti del futuro
governo.
Uno
dei punti di riferimento dell’agenda Trumpiana sarà con molta probabilità “il
Project 2025”, un documento elaborato dal “think tank Heritage Foundation”.
Nonostante Trump abbia più volte preso le distanze dal progetto, tra gli autori
spiccano personalità molto vicine sia a lui che al vice-presidente eletto J.D.
Vance.
Tra
gli obiettivi espressamente enunciati nel documento rientrano in particolare lo
smantellamento dell’”Administrative state” e il ritorno della “self governance
al popolo americano”.
Un
aspetto da tenere in considerazione è la modalità di reclutamento dei
funzionari.
Il “Project”
prende di mira “Pendleton civil service act del 1883”, uno dei retaggi più
importanti dell’era progressista.
All’epoca
si cercò di limitare il potere dei partiti politici nella macchina
amministrativa, limitando sensibilmente il ricorso allo “spoils system”.
La legge prevedeva che l’impiego federale
fosse basato sul merito piuttosto che sull’affiliazione politica, accordando
protezioni e garanzie di autonomia dal potere politico.
I
funzionari sarebbero stati assunti tramite concorso e svincolati dalle logiche
partitiche.
Tuttavia, secondo gli autori del documento,
questo avrebbe esonerato i burocrati da ogni tipo di accountability, spostando
il baricentro del policy-making verso le Agenzie governative e privando il
congresso delle sue prerogative.
“Il
Project 2025” propone di superare questo sistema per “restituire sovranità al
popolo” e di ridimensionare il potere di alcuni Dipartimenti, tra cui quello di
“Giustizia” e dell’”educazione”: un’agenda squisitamente conservatrice.
Il
ritorno dello “Schedule F”
Cosa
potrebbe significare in concreto?
Questo
porterebbe innanzitutto al “ripristino del controverso Ordine Esecutivo” noto
come “Schedule F”, abolito da Biden subito dopo il suo insediamento.
L’atto
prevedeva che vari incarichi federali (di carattere confidenziale, di policy
making, di “policy determining” e di “policy advocating”) fossero inquadrati
nella nuova categoria di “excepted service”, privandoli della protezione di cui
godono grazie al “competitive service”, l’attuale regime di assunzione del
personale federale.
In sostanza, diversi funzionari non sarebbero stati
più assunti in base a concorsi e non avrebbero più potuto esercitare le loro
funzioni in autonomia, ma sarebbero diventati politicamente responsabili.
Fatto ciò,
il Presidente potrebbe iniziare a licenziare parte del personale inquadrato
nella nuova categoria, sostituendo determinati burocrati con figure a lui
fedeli. Si stima che più di 50.000 funzionari del” civil service” possano
essere coinvolti.
Nel
2020 l’ordine esecutivo non ha avuto gli effetti previsti, in quanto emanato
durante gli ultimi mesi della sua presidenza, ma verosimilmente Trump avrà
molto più spazio di manovra durante il suo “second term”.
Il
programma ha attirato feroci critiche, in quanto minerebbe l’indipendenza di
molti funzionari, politicizzando le loro cariche, e reintrodurrebbe de facto lo
spoils system, in contrasto con il Pendleton civil service act del 1883.
Rischi
per il Pentagono.
Il
Dipartimento della Difesa è probabilmente l’epicentro della lotta al deep
state.
Come
già detto, il Pentagono ha svolto in passato un’importante attività di
moderazione sull’operato dei Presidenti, in particolar modo su Trump.
Se
durante la sua prima amministrazione ebbe spesso conflitti con i militari, il
secondo mandato sarà molto diverso.
Al
Pentagono, il Tycoon ha piazzato “Pete Hegseth”, ex-militare ed ex-presentatore
di” Fox News” che in passato ha difeso incondizionatamente le forze armate.
Un
profilo decisamente peculiare, considerando che nella stragrande maggioranza
dei casi i Presidenti hanno sempre affidato l’incarico a figure riconducibili
alle più alte cariche militari.
“Hegseth”
sarà una figura cruciale per la buona riuscita dell’agenda trumpiana, che mira
a ridurre l’influenza dei Generali sull’operato del Presidente.
Degna
di attenzione è anche la recente” sentenza della Corte suprema” sull’immunità
presidenziale e le sue ripercussioni sulle relazioni tra civili e militari.
Nella
sentenza, la Corte ha decretato che il Presidente è protetto da immunità
nell’esercizio delle sue funzioni.
Secondo
varie figure, inclusa la giudice della “Corte Sotomayor”, la sentenza potrebbe
avere importanti ripercussioni sul rapporto tra presidenza e apparati militari,
e potrebbe dare la possibilità a Trump di utilizzare le forze armate per fini
illegali.
Innanzitutto,
il Presidente potrebbe sentirsi meno vincolato ad obblighi legali. Inoltre, in
qualità di” Commander in Chief”, il Presidente ha il potere di emanare ordini
che l’esercito ha l’obbligo di eseguire, poiché essi si presumono conformi alla
legge (regular order system).
L’esercito non può comunque operare per fini
illegali, l’irregolarità di una direttiva deve essere verificata dal ramo
legislativo o giudiziario.
Tuttavia, l’amministrazione potrebbe fare
pressione sui militari per eseguire l’ordine prima che la legalità di questo
venga provata.
Trump
ha anche espresso la volontà di utilizzare l’esercito per reprimere rivolte di
piazza e portare avanti le operazioni di “mass deportation” di migranti
illegali. Sebbene il ricorso alle forze armate sia vietato per operazioni di”
law enforcement”, Trump potrebbe appellarsi all’”Insurrection act del 1807”, il
quale prevede che l’esercito possa essere dispiegato previa dichiarazione dello
stato di emergenza.
In passato diversi presidenti hanno fatto
ricorso a questa legge.
Conclusioni.
La
ristrutturazione del governo e degli apparati burocratici è senz’altro uno
degli aspetti degni di attenzione per la prossima presidenza Trump.
Per il
suo secondo mandato, il Presidente eletto cercherà di avere quanto più spazio
di manovra per il suo programma, e su questo sta basando la scelta dei
componenti del futuro governo, concentrandosi prima di tutto sulla fedeltà.
Verosimilmente avrà molte più possibilità di successo rispetto al suo primo
mandato, quando nel governo sedevano ancora personalità riconducibili all’ala
più moderata e tipicamente neo-conservatrice del Partito Repubblicano, l’ultimo
“bastione anti-Trump”.
Si
prospetta un vero e proprio ricambio generazionale ai vertici del governo USA,
personalità relativamente giovani, cresciute nel post-guerra fredda e con “atteggiamenti
Hawkins” verso la Cina: Marco Rubio al Dipartimento di Stato è un perfetto esempio.
Inoltre,
la creazione del “Department of government efficiency” (DOGE), con a capo “Elon Musk”,
rappresenta in pieno la volontà di Trump di sbarazzarsi di una parte del vasto
apparato burocratico federale.
A
prescindere dal successo del suo programma, la nuova agenda Trumpiana avrà
effetti rilevanti e duraturi sul tessuto amministrativo statunitense.
Il Circo Va alla Guerra!
Conoscenzealconfine.it
– (9 Marzo 2025) - Andrea Marcigliano – ci dice:
Dunque…
mentre Trump tratta con Putin, l’Europa, o meglio quella strana finzione che
chiamano Unione Europea, va alla guerra.
O
meglio, al riarmo. Per fare la guerra alla Russia.
Farebbe
già ridere così, come una battuta senza senso.
E, invece, forse, ci toccherà, davvero,
preoccuparci. E piangere.
Perché,
i cosiddetti venti di guerra, sembrano soffiare veementi nelle vele di
Bruxelles.
E
trovare altrettanti entusiasmi dalle parti dell’Eliseo.
Ursula
Von Der Leyen vuole riarmare l’Europa. Per affrontare Mosca.
Chiede
ottocento miliardi di euro da investire in armamenti.
Avete
capito bene… Ottocento, 800 miliardi di euro.
Che
naturalmente dovrebbero venire tirati fuori dai paesi membri.
Quindi
dai cittadini.
A
scapito della spesa sociale, pensioni, stipendi…
Europei,
o meglio tedeschi, francesi, italiani, spagnoli ed altri sempre più
depauperati. Impoveriti.
Ridotti
a una vita sempre più compressa e faticosa.
Per
finanziare la guerra. Contro la Russia.
Perché
Lady Ursula e i suoi accoliti vogliono la guerra. A parole.
Ma a
farla, e a pagarne le conseguenze in tutti i sensi, dovranno essere altri.
Voi,
per inteso… o i vostri figli e nipoti.
Per
altro Ursula non deve rispondere, praticamente, a nessuno.
Non è
stata eletta dai popoli europei. È stata messa lì da delle gabole di palazzo.
Se si presentasse ad un voto reale, prenderebbe, forse, quelli dei parenti.
E la
sua Commissione non è un governo.
No ha,
o meglio, non dovrebbe avere potere alcuno.
Soprattutto
in materia militare. E in fatto di guerre. Ma l’inettitudine dei governi
nazionali le permette di assumere, anzi arrogarsi questo ruolo.
E lei
lo interpreta bene, al servizio di quei poteri finanziari che nulla dovrebbero
avere a che spartire con l’Europa.
E con i popoli che dovrebbero comporla. E che
stanno pagando già le conseguenze di queste politiche.
Poi
c’è Macron.
Di Merz, del nuovo Cancelliere tedesco,
inutile parlarne.
È un
uomo della BlackRock. E ciò dovrebbe bastarci per capire.
E,
poi, la sua non è una maggioranza.
La
Germania si prepara ad un, presumibilmente lungo, periodo di incertezza. Anche,
forse soprattutto, nelle fila della CDU-CSU.
Ma
Macron appare lanciatissimo. Alfiere della guerra. Del riarmo.
Lui
che ha segnato, con la sua insipienza, la definitiva fine del predominio
francese in Africa.
Che
(s)governa senza una maggioranza. Che rischia una rivolta diffusa.
Però vuole, a parole, la guerra. Con la
Russia.
Gli
altri europei si esercitano nell’attività del pesce in barile. Fingono di
essere pronti.
Ma
contano come il, classico, due di coppe quando la briscola sta a bastoni.
L’Olanda
fa i suoi affari. Sotto traccia. Gli altri più o meno tacciono.
Ungheria,
Slovacchia, Croazia, presto anche Bulgaria e Romania si stanno sganciando.
Resta
la Polonia.
Ma,
ricordo, il bellicismo cronico dei polacchi non ha mai portato fortuna.
Soprattutto a loro. E a chi li ha seguiti.
Un
Circo, dunque, con figuranti e pagliacci. Che urla: Guerra! Guerra!
Ma non
ha forze per sostenerla. Un Circo che serve, probabilmente, a mascherare ben
altro. Un gioco di interessi economici. O, se vogliamo semplificare,
l’ennesimo, colossale, furto ai nostri danni.
La
Lega ha preso posizione nettamente contraria. La Meloni appare ancora incerta.
Speriamo… non ci resta altro da fare.
(Andrea
Marcigliano).
(electomagazine.it/il-circo-va-alla-guerra/).
La
svolta all’indietro di Trump.
Rivistailmulino.it
– (04 marzo 2025) - Tiziano Bonazzi – ci dice:
Leggere
l’ascesa di Donald Trump come lo strumento per una rivoluzione tradizionalista
intesa a riportare la società americana verso i tempi d'oro di metà Novecento:
la riflessione di un americanista.
Le
tante, drammatiche prese di posizione prima contro il discorso del
vicepresidente J.D. Vance al summit di Marsiglia sulla sicurezza, poi contro i
brutali attacchi di Trump a Zelensky non mi toccano più di tanto perché mi
paiono rivolte a leccarsi le ferite piuttosto che a comprendere o a contrastare
il trumpismo.
Sono
confuso anch'io, ma un paio di cose mi permetto di dirle muovendomi all'interno
della storia statunitense.
La
Costituzione del 1787 non era e non voleva essere una Costituzione democratica,
quanto piuttosto una “Costituzione liberale” che divideva il potere a livello
federale e fra il governo federale e gli Stati per impedire il nascere di
figure politiche troppo potenti e autoritarie.
La
democrazia nacque circa mezzo secolo dopo la Costituzione, negli anni Trenta
dell'Ottocento e non attraverso un movimento nazionale, ma da moti in alcuni
Stati i cui cittadini chiesero e ottennero il suffragio universale ‒ bianco e
maschile, naturalmente ‒ mettendosi al seguito di un leader amatissimo, “Andrew
Jackson”, un eroe militare delle guerre indiane.
Si
trattava di una democrazia dai tratti populisti in cui il leader si poneva in
rapporto diretto col popolo e accentrava in sé il potere.
Liberalismo, democrazia e nazionalismo espansionista,
nato dalla corsa a quella colonia interna che era l'Ovest, si sono equilibrati
variamente per un secolo fino al “New Deal” che diede finalmente vita a un
sistema liberaldemocratico in cui i tre elementi si compenetravano e potevano
virare in senso progressista o conservatore senza che il sistema ne risentisse.
Un
sistema che ha dato agli Stati Uniti i suoi anni di gloria e di potere fino
all'ultimo decennio del Novecento e che è crollato nel nuovo Millennio, in cui
due insiemi di cause ne hanno provocato la crisi.
“Il primo” ha natura economica e ruota attorno
alla globalizzazione che provocò la crisi del sistema industriale, innanzi
tutto del Midwest con la perdita di un lavoro sicuro da parte di milioni di
operai, e al tempo stesso diede vita a una nuova iper classe di miliardari, di
scienziati e di tecnici della finanza, delle tecnologie avanzate, dello spazio
– e, oggi, dell'Intelligenza artificiale – slegati da ogni radice nazionale in
quanto abituati a interagire con i loro pari a livello mondiale.
Una
classe economicamente dominante poco interessata alla vita del common man
americano e quindi al sistema liberaldemocratico che intendeva dare spazio nel
sistema a tutti i cittadini, seppure con posizioni economiche assai diseguali.
“Il
secondo” insieme di cause è culturale e riguarda la rapida trasformazione della
società che, a partire dagli anni Sessanta, è divenuta sempre più duttile e
aperta alle istanze dei movimenti, da quello degli afroamericani ai movimenti
femministi e gay.
Un
moto che nei decenni si è impiantato nella cultura urbana e si è venuto
radicalizzando, dando vita, ad esempio, alle teorie del gender e alle molteplici richieste di
riconoscimento delle istanze concrete di quest'ultimo.
Trump
ha dato voce ai timori e alle frustrazioni di milioni di americani bianchi per
il fermarsi dell'ascensore sociale e i rapidi mutamenti che andavano
trasformando la loro società: l’immigrazione e il “crescente radicalismo dei
progressisti”.
Donald
Trump non è soltanto un narcisista interessato ai propri affari e alla assoluta
fedeltà di chi gli è accanto;
è il
punto di arrivo di una pluriennale, per lo più sottostimata, meditazione
politica intenta a preparare una rivoluzione portata avanti da vari think tank iper conservatori,
pur diversi fra loro, come ad esempio la “Heritage Foundation”, il “Claremont
Institute”, il “Council of Conservative Citizens”.
Questo
pensiero, di cui Trump è stato il brillante interprete, ha inteso dar voce ai
timori e alle frustrazioni di milioni di americani bianchi per il fermarsi
dell'ascensore sociale e i rapidi mutamenti che andavano trasformando la loro
società:
l'immigrazione,
in primis, il cui primo risultato è che in pochi decenni l'America bianca
scenderà sotto il 50% della popolazione, col timore di veder stravolti i valori
e la vita degli americani, e il crescente radicalismo dei progressisti pronti a
demolire la tradizione culturale che ha fatto grande l'America – la triade “Dio,
patria”, famiglia – nel nome di istanze radicali cosiddette “woke”.
Accanto
a ciò, il rapido allontanarsi dal Partito democratico dei leader miliardari
delle tecnologie più avanzate per il bisogno di energia elettrica delle loro
aziende, in particolare nel settore dell'Intelligenza artificiale, che di
elettricità hanno una fame inesauribile, cosa che le ha rese nemiche delle
politiche green e dei sia pur modesti laccioli che i democratici
imponevano loro nel nome del bene comune.
Elon
Musk è
diventato il principale interprete di questa posizione, che ha radicalizzato in
una visione assolutistica dell'efficienza che a livello politico lo ha portato
a immaginare un ribaltamento della lenta, imprigionante tradizione
liberaldemocratica.
Trump
è l'uomo,
il leader populista e il leader autocratico, che ha radunato in sé tutte le
spinte qui indicate per sommi capi, e sta portando avanti l'accentramento
efficientistico del potere nelle mani dell'esecutivo già delineato dal “Project
2025” della “Heritage Foundation”.
Il
risultato sperato, non si sa se raggiungibile, dalla coppia Trump-Musk non è
semplicemente reazionario ma consiste nella distruzione della tradizione
illuminista che, fra tanti ostacoli, ha costituito la spina dorsale del mondo
atlantico dalle rivoluzioni di fine Settecento.
E con essa quella del suo ramo americano,
la liberaldemocrazia. A sostituirla sembra essere chiamata una duplice spinta
potenzialmente contraddittoria, ma ritenuta possibile dai rivoluzionari
americani di oggi, secondo la quale la rabbiosa reazione di larghi strati della
popolazione contro il fermarsi dell'ascensore sociale e la crescita della
cultura radicale diventano nelle mani di Trump lo strumento per una rivoluzione
tradizionalista, intesa a riportare la società americana verso i tempi d'oro di
metà Novecento, in cui i ruoli sessuali e famigliari erano chiari e ben
definiti, la fede religiosa nelle sue mille espressioni il fluido vitale che
manteneva unita la società, con un crescente benessere che animava un'America
dinamica e plurale, senza che le inevitabili contraddizioni la mettessero in
pericolo.
La
triade Dio, patria, famiglia guidava i cittadini.
Per Musk, invece, occorre distruggere ogni impedimento che il
deep state, lo Stato amministrativo delle tante agency semiautonome presenti in
settori importanti dello Stato federale, pone all'agire efficiente e veloce del
governo americano.
L'obiettivo
è l'accentramento del governo nelle mani di un esecutivo libero da costrizioni
nelle funzioni pubbliche, soprattutto quelle importanti per mantenere il
primato americano nello spazio e nell'Intelligenza artificiale, a costo di
disinteressarsi di tanta parte dei cittadini, cui la tradizione
liberaldemocratica tentava di dare un ruolo attivo.
L'obiettivo
è l'accentramento del governo nelle mani di un esecutivo libero da costrizioni
nelle funzioni pubbliche, soprattutto quelle importanti per mantenere il
primato americano nello spazio e nell'IA, a costo di disinteressarsi di tanta
parte dei cittadini.
Mi
pare dunque che la volontà di distruggere l'illuminismo e il suo universalismo
consista in una rivoluzione tradizionalista intesa a riportare gli Stati Uniti
all'America di metà Novecento.
Accanto a questa, una rivoluzione guidata da
un razionalismo efficientista estremo che indica agli americani una nuova
frontiera ideale a cui affidarsi, lo spazio e le meraviglie dell'IA.
In entrambi i casi il primato del popolo, cioè
dei cittadini e dei loro diritti universali fissati dai primi dieci emendamenti
alla Costituzione, quelli del 1791, nonché gli altri usciti dalla Guerra
civile, diventano secondari a favore di un'efficienza radicale del governo e
della pace culturale e sociale garantita dallo stop all'autonoma evoluzione
della cultura americana.
È il
capovolgimento del primato del razionalismo illuminista che nell'”America
rivoluzionaria”, sempre indicata come pietra di paragone dai think tank
conservatori, vuol dire gli illuministi scozzesi del “common sense”, David Hume,
Montesquieu, Diderot.
Ascesa
e declino dell’ordine neoliberale.
Verso
un nuovo ordine post-neoliberale?
Transform-italia.it - (15/01/2025) -
Alessandro Scassellati – ci dice:
Lo
storico “Gary Gerstl” offre il resoconto più completo di come il “neoliberismo”
sia arrivato a dominare la politica americana per quasi mezzo secolo prima di
scontrarsi con le forze del “Trumpismo” a “destra” e con un nuovo “progressismo
di ispirazione socialista” (Bernie Sanders) a” sinistra”.
Il
passaggio epocale verso il “neoliberismo”, una rete di politiche correlate che,
in termini generali, hanno ridotto l’impatto dello Stato e del governo sulla
società e riassegnato il potere economico alle forze del mercato privato,
iniziato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna alla fine degli anni ’70, ha
cambiato radicalmente il mondo.
Oggi, la parola “neoliberale” è spesso usata
per condannare un’ampia gamma di politiche, dal privilegiare i princìpi del
libero mercato rispetto alle persone all’avanzamento di programmi di
privatizzazione in tutti i paesi del mondo.
Di
sicuro, il neoliberalismo ha contribuito a una serie di tendenze allarmanti,
non ultima delle quali è stata una crescita massiccia della disuguaglianza dei
redditi.
Tuttavia,
come sostiene “Gerstl”, queste accuse non riescono a tenere conto dei contorni
completi di ciò che era il “neoliberalismo” e del perché la sua visione del
mondo abbia avuto una presa così persuasiva sia sulla destra che sulla sinistra
per tre decenni.
Come
dimostra, l’ordine neoliberale emerso in America negli anni ’70 fondeva idee di
deregulation con libertà personali, frontiere aperte con cosmopolitismo e
globalizzazione con la promessa di una maggiore prosperità per tutti.
Oltre a tracciare come questa visione del
mondo sia emersa in America e sia cresciuta fino a dominare il mondo, “Gerstl”
esplora la misura in cui il suo trionfo è stato facilitato dal crollo
dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati comunisti, prima non riconosciuta.
È
anche il primo a tracciare la storia della caduta dell’ordine neoliberista,
originata dalla fallita ricostruzione dell’Iraq e dalla Grande recessione degli
anni di Bush e culminata nell’ascesa di Trump e di una rivitalizzata sinistra
americana guidata da “Bernie Sanders” negli anni 2010.
Nel
1989, “Gary Gerstl” e il suo co-editore “Steve Fraser” pubblicarono “The Rise
and Fall of the New Deal Order, 1930-1980” (Princeton University Press,
Princeton , NJ 1989), una raccolta che rimane di inestimabile valore per gli
studiosi del New Deal e della politica statunitense di metà del ventesimo
secolo.
Con le
macerie dell’ordine del “New Deal” intorno a loro, “Gerstl e Fraser”, e i loro
collaboratori, ne hanno tracciato l’ascesa e la caduta dagli anni di Roosevelt
a quelli di Reagan.
Un
ordine gradualmente dissoltosi tra le contestazioni dei movimenti per i diritti
civili e giovanili degli anni ’60, la disastrosa gestione della guerra in
Vietnam, la “stagflazione” degli anni ’702 e la perdita di competitività del
sistema produttivo industriale statunitense (proprio come la Grande Depressione
aveva contribuito a realizzarlo).
Ora,
in piedi sulle rovine di un altro ordine politico, successore del primo –
quello neoliberale -, “Gerstl” che è professore di storia americana
all’Università di Cambridge e editorialista del “Guardian”, si è messo a
spiegare la sua ascesa, il suo trionfo e il suo crollo con un libro capolavoro:
“Ascesa e declino dell’ordine
neoliberale. L’America e il mondo nell’era del libero mercato”, Neri Pozza Editore, Vicenza 2024
(2022).
In 320
pagine (con 66 di note), scritte con sicurezza e fluidità, combinando sviluppi
politici, economici, sociali e culturali, “Grestle” ha scritto una storia
narrativa vivace e perspicace.
Si
tratta di un libro che è inestimabile per studiosi e lettori in generale che
cercano di dare un senso a ciò che è accaduto agli Stati Uniti e al mondo negli
ultimi 100 anni ed in particolare dopo gli anni ’70.
Con
“ordine politico”, “Gerstl” intende un progetto che richiede avanzamenti su un
ampio fronte: “una complessione di ideologie, policy ed elettorati che plasmano la
politica americana secondo modalità che trascendono oltre i cicli elettorali di
due, quattro e sei anni” (pag. 7).
Secondo
“Gerstl”, nel secolo scorso negli Stati Uniti sono esistiti due ordini politici
di questo tipo:
l’ordine del New Deal che iniziò con “Franklin Delano
Roosevelt”, alla cui ascesa e declino Gerstl dedica due capitoli iniziali (pp.
25-80), e l’ordine
neoliberale che iniziò con “Ronald Reagan”.
Ancora
una volta, Gerstl scrive in un momento in cui sembra probabile, ma non certo,
che l’ordine politico che sta studiando si stia definitivamente decomponendo.
Gerstl
sottolinea come questi due ordini politici sono correlati, in un modo quasi
idealmente sincronizzato, con l’ascesa e la caduta del comunismo.
Questo non è certo un caso. Il contesto
esterno (internazionale) ha svolto un ruolo importante nella progettazione di
entrambi gli ordini politici degli Stati Uniti.
“Neoliberalismo”
resta un termine contestato.
Per
Gerstl, è un’ideologia “fondata sulla convinzione che le forze di mercato
dovessero essere liberate dai controlli normativi dello Stato che ostacolavano
la crescita, l’innovazione e la libertà” (pag. 8).
Gerstl
sottolinea, a differenza di altri studiosi, i suoi legami con il liberalismo
classico del Settecento-Ottocento, sostenendo che il prefisso “neo” intendeva
distinguerlo dal liberalismo moderno, interventista, filogovernativo (e financo
di ispirazione socialdemocratica) di Franklin D. Roosevelt e Lyndon B. Johnson.
Franklin
D. Roosevelt aveva fatto del “liberalismo” “il contrassegno della sua politica
del New Deal e una proprietà esclusiva del Partito Democratico” (pag. 93), che
era, dice Gerstl, una “tra le grandi rapine terminologiche della storia” (pag.
117).
I
neoliberisti cercarono di riconnettersi con un’eredità del liberalismo classico
che consideravano di loro diritto.
Gerstl
nota che nella variante americana del neoliberalismo c’erano “tre strategie di
riforma – o aggregati di iniziative politiche – ben distinte” (pag. 99).
La
prima cercava
di “introdurre il libero mercato nella normativa sulla proprietà, sullo scambio
e sulla circolazione del denaro e del credito”.
Forti interventi pubblici nella vita
economica, a livello sia nazionale che internazionale, erano considerati
necessari.
La seconda cercava di applicare i “princìpi di
mercato” a tutte le sfere dell’attività umana, riformulando ogni attività “in
termini economicisti di input e output, investimenti e rendimenti”.
La terza era un approccio “utopico”, interessato principalmente
al “brivido” di liberare i mercati dalla mano mortale della regolamentazione e
alla “avventura di liberarsi dei vincoli alla propria personalità e al proprio
lavoro”
(pag. 99).
Le
prime due strategie enfatizzavano “ordine, controllo, l’estensione dei princìpi
del mercato ad altri ambiti, tecnocrazia e manipolazione”, mentre la terza prometteva di ringiovanire la
“promessa di libertà personale” del liberalismo classico (pag. 104).
Diversi
attori nella narrazione di Gerstl (politici, teorici, attivisti) competono per
realizzare la loro versione preferita dell’ordine neoliberale.
Fu la
terza strategia, con la sua enfasi sui mercati e sugli individui liberati, ad avere il
maggior fascino per i politici repubblicani, Barry Goldwater (candidato del GOP
nel 1964) e Ronald Reagan (presidente dal 1980 al 1988) che portarono il
neoliberismo nel mainstream.
Ma
furono proprio le contraddizioni del neoliberalismo, suggerisce Gerstl, il suo
“carattere proteiforme”, a dargli una tale “influenza straordinaria, capace di
muoversi a tutto campo e di riunire sotto lo stesso tetto una pluralità di
attori [politici
e culturali] assai diversi” (pag. 117).
C’era
anche, dice Gerstl, un ordine morale nel neoliberismo che consentiva ai suoi
sostenitori di conciliarlo con il loro disagio per il libero mercato sfrenato.
Per i
repubblicani, era un “codice morale neo-vittoriano” (pag. 146) che enfatizzava
il tradizionalismo socio-culturale conservatore, il patriarcato e le gerarchie
razziali (ossia contro l’estensione dei diritti civili delle minoranze, delle
donne e dei gruppi LGBTQ+), alimentando le “guerre culturali”.
Celebrava “l’autosufficienza, la solidità
della famiglia [eterosessuale patriarcale] e una condotta disciplinata in fatto
di lavoro, sessualità e consumo” (pag. 19).
I suoi sostenitori (soprattutto l’ex Speaker
della Camera Newt Gingrich) sostenevano che tale codice era necessario per
proteggere l’America “mainstream” (cioè bianca, di retaggio europeo) dalle
conseguenze deleterie dei mercati liberati, “droga, alcol, debiti e
disgregazione familiare” (pag. 146).
Al
contrario, gli americani di colore (afrodiscendenti e latinos) che soffrivano
di quei mali sociali venivano liquidati come una “sottoclasse” alla deriva e
irrecuperabile e dovevano essere rimossi dalla società attraverso
l’incarcerazione di massa (ottenuta attraverso un inasprimento delle pene e
della recidiva, la “guerra alla droga” e l’applicazione della “teoria delle
finestre rotte”) per proteggere il corretto funzionamento del mercato.
Per i
democratici (soprattutto per Bill Clinton), l’ordine morale era
“cosmopolitismo, un modo di vivere che celebrava solidi scambi non solo di beni
ma di culture attraverso varie divisioni razziali, etniche, religiose e
nazionali” (pag. 200).
“Vedeva
nella libertà di mercato un’opportunità per modellare un sé o un’identità che
fossero liberi dalla tradizione, dai retaggi e ruoli sociali predeterminati. …
era profondamente egualitario e pluralistico.
Rifiutava l’idea che la famiglia patriarcale
eterosessuale fosse celebrata come la norma.
Sposava
la globalizzazione, la libera circolazione delle persone e i legami
transnazionali resi possibili dall’ordine neoliberale.
Apprezzava
i benefici che sarebbero scaturiti dall’incontro tra popoli diversi, dalla
condivisione delle loro culture e dallo sviluppo di modi di vivere nuovi e
spesso ibridati.
Celebrava
gli scambi culturali e il dinamismo che sempre più caratterizzavano le città
globali – tra cui Londra, Parigi, New York, Hong Kong, San Francisco, Toronto,
Miami – sviluppatesi sotto l’egida dell’ordine neoliberale” (pag. 20).
Il
fatto che il neoliberalismo potesse conciliarsi con visioni morali così
contrastanti, secondo Gerstl, nonostante le continue “guerre culturali” tra
neo-vittoriani e cosmopoliti (che comunque erano ampiamente d’accordo sui
princìpi dell’economia politica), ha contribuito a trasformarlo in una forza
ideologica egemonica (questa dimensione ambigua e multiforme del neoliberalismo
statunitense era stata già identificata da Michel Foucault nelle conferenze
tenute alla Sorbona nel 1978/79).
Gerstl
si sforza di evitare di usare nella sua narrazione le etichette tradizionali,
come “liberale” o “conservatore”, comuni in altre storie politiche.
Per
Gerstl, il neoliberalismo trascende quelle categorie.
Ronald
Reagan, Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama sono tutti emersi come
costruttori e promotori dell’ordine neoliberale, sebbene con vari gradi di
impegno ideologico ed entusiasmo.
Ma
Gerstl mostra come il neoliberalismo sia stato creato anche dal basso, e sia a
sinistra che a destra.
Gli
attivisti per i diritti dei consumatori guidati dal progressista “Ralph Nader”
negli anni ’70 furono efficaci quanto qualsiasi altro gruppo conservatore
antistatalista nel minare la fiducia del pubblico in un governo che, a loro
dire, era fin troppo indulgente con gli interessi delle grandi aziende.
Facendo
eco al suo collaboratore di lunga data “Steve Fraser”, Gerstl nota che, come
l’ordine del New Deal, le parti costitutive dell’ordine neoliberale “- i
finanziatori capitalisti, gli intellettuali, think tank, i politici, i media e
le reti personali che li collegavano tra loro – erano tutte visibili già negli
anni Settanta”, molto prima di arrivare al potere” (pag. 128).
Gerstl
cita la familiare storia delle origini del neoliberalismo, la scuola
Vienna-Chicago, i Colloqui di Parigi di Walter Lippmann (1938) e la Mont
Pèlerin Society (1947), con ruoli importanti per economisti come “Friedrich
Hayek”, “Ludwig von Mises” e “Milton Friedman”.
Tuttavia,
attribuisce anche al neoliberalismo radici specificamente americane,
collegandolo alla solitaria opposizione post-presidenziale di Herbert Hoover al
New Deal, alle aspirazioni democratiche radicali degli attivisti della New
Left9, ai romanzi libertari di Ayn Rand e agli imprenditori tecnologici che si
riversarono nella Silicon Valley della California negli anni ’70 e ’80.
Così
come a personaggi come William Simon, George Gilder, Thomas Sowell, Charles
Murray, Rush Limbaugh e Patrick Buchanan.
Think
tank come Heritage Institution fondata nel 1973, Cato Institute (1974),
Manhattan Institute (1977).
La Moral Majority creata dal predicatore
evangelista “Jerry Falwell “nel 1979 per promuovere gli autentici valori
cristiani nella politica americana e per aiutare Reagan nella corsa alla Casa
Bianca.
Per
Gerstl, Ronald Reagan era l'”architetto ideologico” (pag. 7) dell’ordine
neoliberale.
Un
ammiratore (e elettore per quattro volte) di Franklin D. Roosevelt, Reagan
cercò di “creare un ordine politico che potesse rivaleggiare con il New Deal in
termini di potere, fascino e durata” (pp. 128-129).
Dal suo indebolimento del regime fiscale ad
elevata progressività al suo assalto al movimento operaio ai suoi (in gran
parte infruttuosi) sforzi per ridurre la portata del governo federale, Reagan
si imbarcò in un attacco completo all’eredità del New Deal.
Eppure,
egli riconciliò anche, brevemente, le contraddizioni all’interno del movimento
conservatore.
“Il maggiore successo politico di Reagan”,
scrive Gerstl, “fu conciliare una politica incentrata sul ripristino della
supremazia bianca e della devozione religiosa con un orientamento neoliberale
pro-mercato che enfatizzava la libertà personale e l’antagonismo nei confronti
dello Stato del New Deal” (pag. 132).
Nonostante
le sue fratture interne, Reagan canalizzò le energie del “movimento conservatore”
da lui guidato in un’antipatia verso il” governo dominato dai liberali”.
La
narrazione di Gerstl considera la fine della Guerra Fredda come il momento
critico che ha trasformato il neoliberalismo da movimento politico a ordine politico.
La
disintegrazione improvvisa dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta
ha rimosso “l’ultima alternativa universale al capitalismo e alla democrazia
liberale” (pag. 162) e ha aperto il mondo intero alla penetrazione capitalista.
Ha anche liberato le aziende americane
dall’incentivo a scendere a compromessi con i lavoratori.
Il
capitalismo ora non aveva più sfidanti ideologici significativi.
C’erano
sempre nuovi mercati e nuovi lavoratori all’estero.
Il
test definitivo di un ordine, per Gerstl, è “la capacità del partito
ideologicamente dominante di piegare alla propria volontà il partito di
opposizione”
(pag. 8).
Dal
1952 al 1960, fu la riluttanza del presidente repubblicano “Dwight Eisenhower”
(al contrario, ad esempio, di William Taft) a far arretrare lo Stato federale
che ora guidava a confermare il trionfo dell’ordine del New Deal (difese i
diritti del lavoro, la sicurezza sociale e un’imposta sul reddito progressiva
che superava il 90%).
Per
Gerstl, Bill Clinton, il leader degli “Atari Democrats”, è stato “il
facilitatore chiave’ (pag. 7), che dal 1994 in poi divenne “l’Eisenhower
democratico, il presidente degli Stati Uniti neoliberale per eccellenza” (pag.
172), colui che stabilì l’acquiescenza del suo partito all’ordine neoliberale.
Fu
negli anni di Clinton che l’ordine neoliberista sarebbe stato al suo apice
egemonico, quando ormai la sua ideologia era diventata senso comune
ineludibile. Secondo Gerstl, Clinton ha fatto più dello stesso Reagan per
facilitare i princìpi dell’ordine neoliberale:
l’impegno per la deregolamentazione, la
celebrazione della globalizzazione e l’idea che dovrebbero esserci mercati
liberi ovunque (“ampliare le opportunità, non lo Stato”).
La
promessa (non realizzata) era che “tutte le barche sarebbero salite”.
I democratici progressisti che cercavano un
percorso alternativo, come il segretario del lavoro “Robert Reich” (amico e
sodale di Clinton dagli anni dell’università) e “Joseph Stiglitz”, furono
emarginati.
I repubblicani risentiti e frustrati, che si
aspettavano di godere delle ricompense politiche di parte dello smembramento
dell’URSS, dovettero guardare mentre Clinton si prendeva il merito di una serie
di riforme neoliberiste negli anni ’90.
Da un
regime di disciplina fiscale e di pareggio di bilancio e dall’emanazione di un
austero pacchetto di riforme del welfare, alla firma di un” North American Free
Trade Agreement” (NAFTA) che cercava di creare un mercato che abbracciasse un
continente, scrive Gerstl, “la misura in cui l’amministrazione Clinton avrebbe
adottato i princìpi neoliberali dal 1994 in poi è piuttosto sbalorditiva” (pag.
172).
Ma
molte delle riforme neoliberali promulgate dall’amministrazione Clinton
avrebbero poi contribuito ad accelerarne l’implosione.
La
deregolamentazione del settore finanziario degli anni Novanta e la diluizione
della riforma bancaria totemica dell’era del New Deal, il Glass-Steagall Act
(abolito nel 1999), avrebbero portato a una crisi finanziaria nel 2007-2008 che
avrebbe contribuito a distruggere la credibilità di quei principi neoliberali.
Il “Telecommunication”
Act del 1996 ha sostanzialmente autorizzato la rivoluzione di Internet e del
cyberspazio a essere libera da qualsiasi seria regolamentazione pubblica (e
quindi completamente in mano ad un oligopolio di mega corporations).
Ha
promulgato una deregolamentazione radicale di compagnie telefoniche, compagnie
via cavo, compagnie satellitari, reti televisive, studi cinematografici e
fornitori di dati che alla fine avrebbe portato all’account Twitter (ora X) di
Donald Trump e al suo diretto e multi-frontale assalto al neoliberalismo.
In una parziale reprimenda al neoliberismo
reaganiano, Clinton ha anche dimostrato “quanto un ordine neoliberale fosse
compatibile con una repubblica multiculturale dai tanti colori, religioni e
credenze”
(pag. 200).
Il
trionfo del neoliberismo, tuttavia, durò poco.
La
crisi arrivò con il ritorno di un repubblicano alla Casa Bianca nei primi anni
del 2000.
Nonostante l’impegno sfacciato di George W.
Bush nei confronti dei princìpi neoliberali, furono le politiche da lui
perseguite, a livello nazionale e internazionale, ad accelerarne la fine.
L’invasione e la ricostruzione dell’Iraq dopo
il 2003 furono intraprese seguendo impeccabilmente linee neoliberali e con
risultati catastrofici.
In
patria, Bush perseguì politiche per creare un “paese di proprietari di case”
(vale a dire una società di proprietari di case con conti pensionistici e
sanitari privati ancorati all’andamento di Wall Street) che portò alla crisi
dei mutui subprime del 2007-2008 con lo sgonfiamento della bolla immobiliare
alimentata da anni di politiche di denaro facile.
La
crisi del neoliberalismo portò Barack Obama alla Casa Bianca, ma lui si
dimostrò “prima di tutto, prigioniero della crisi finanziaria e dei suoi
effetti”
(pag. 243).
Nonostante le speranze riposte in Obama, egli
non è stato in grado di liberarsi dalle costrizioni del neoliberalismo,
tornando alle “modalità di gestione economica del Partito Democratico tipiche
degli anni Novanta” (pag. 245).
Il
risultato sono state reazioni negative a sinistra e a destra.
A destra c’era il “Tea Party,” uno spasmo di
rabbia bianca contro il primo presidente nero e il regime neoliberale che non
era riuscito a distruggere.
Ciò avrebbe alimentato l’ascesa di” Donald
Trump”, la cui politica etno-nazionalista protezionista “sfidava l’impegno del
neoliberalismo per la libera circolazione delle merci e delle persone
attraverso i confini nazionali, la sua esaltazione della diversità dei popoli e
la sua fiducia nella saggezza delle élite globalizzate altamente istruite e
colte” (pag. 270).
A
sinistra, campagne dal basso come “Occupy Wall Street” e “Black Lives Matter”
hanno reagito alle speranze deluse dell’amministrazione Obama sulla riforma
finanziaria e sulla giustizia razziale.
Questi impulsi alla fine si sarebbero fusi
nelle campagne presidenziali del socialista democratico Bernie Sanders nel 2016
e nel 2020.
La
deindustrializzazione e marginalizzazione economica delle aree
industriali/occupazionali della “industrial belt” del Nord e Midwest degli
Stati Uniti (trasformatasi in “rust belt”), una delle “core constituency” della
coalizione politica del New Deal, ha generato una immensa sofferenza delle
classi lavoratrici (in gran parte trasformate in “precariato”) che ha portato
alla formazione di una “sottoclasse bianca” e ad una ribellione e rabbia contro
le élite al potere.
Scrive Gerstl, che “gli anni Dieci stavano
diventando sempre più simili agli anni Trenta e Settanta del Novecento, i
periodi precedenti in cui il declino di un ordine politico preponderante aveva
consentito a idee a lungo relegate alla periferia della politica americana di
entrare nel dibattito pubblico” (pag. 304).
Tra loro, e nonostante le loro numerose
differenze, suggerisce Gerstl, “Trump” e “Sanders” sono state le punte di un
movimento a tenaglia che potrebbe aver finalmente distrutto l’ordine
neoliberista.
L’ultimo
capitolo che include sia la presidenza di Trump che quella di Biden è forse il
più debole.
Gerstl
riconosce che Joe Biden ha colto subito la portata del cambiamento in atto (con
la pandemia del 2020 che aveva inflitto il colpo di grazia all’ordine
neoliberale), il che lo ha portato a rompere con l’ortodossia neoliberale in
modi in cui i suoi due predecessori democratici non hanno mai fatto.
Ha
cercato di ripensare quale potesse essere un’adeguata relazione tra lo Stato e
i mercati, con lo Stato che deve tornare ad indicare la direzione da
percorrere.
Nella
primavera del 2020, Biden ha accettato di istituire sei task force congiunte
con il campo di Sanders per portare il centro e la sinistra del Partito
Democratico in un dialogo fruttuoso.
I
piani risultanti per l’economia, la crisi climatica, la giustizia razziale e
simili hanno informato le proposte legislative che Biden ha iniziato a svelare
subito dopo l’insediamento nel gennaio 2021.
C’è stata molta costernazione a sinistra per
come queste varie proposte siano state tagliate a pezzi dal Congresso.
Tuttavia,
le politiche emergenti erano comunque significative:
un piano di salvataggio da 2 trilioni di
dollari, una legge infrastrutturale da 1 trilione di dollari, una legge per
riportare la produzione di chip per computer e una legge sull’energia verde da
400 miliardi di dollari.
Quest’ultima legge, l’”Inflation Reduction Act”,
è il più grande investimento in un futuro senza emissioni di carbonio che il
governo degli Stati Uniti abbia mai fatto.
La sua importanza è stata stranamente sottovalutata
all’interno del paese, ma in Europa la notizia della legislazione è esplosa con
la forza di una bomba.
È stata percepita come un punto di svolta e
l’Unione Europea si sta affannando per adattare le proprie politiche climatiche
alla luce di questa misura.
Su
Trump, Gerstl ripropone molto di quello che già sappiamo.
Forse
il libro è stato scritto troppo presto.
Trump
e, cosa più importante, la silenziosa preparazione ideologica per qualcosa di
nuovo (J.D. Vance, Steve Bannon e tante altre figure del movimento MAGA ormai
diventate un “contro-establishment” pronto a combattere contro il “Deep State”
e lo Stato amministrativo delle agenzie federali cresciuto con il New Deal), e
i difetti e le contraddizioni evidenti dell’ordine neoliberale hanno preparato
la sua fine nelle mani di un presidente transazionista, che pensa che il
mercato non è un ordine naturale e che possa essere usato/manipolato (ad
esempio, imponendo dei dazi) per aumentare la ricchezza degli Stati Uniti.
Cosa sarà il nuovo ordine, però, non è ancora
chiaro, né lo stesso Gerstl azzarda previsioni.
Emergerà
dal secondo mandato di Trump come 47mo presidente degli Stati Uniti?
La seconda presidenza Trump si presenta come una
miscela di populismo MAGA e pragmatismo aziendale.
Sebbene
le promesse di rilanciare l’economia americana possano attrarre molti
lavoratori, le prime mosse suggeriscono un panorama in cui i diritti sindacali
e le politiche di inclusione rischiano di essere messi in secondo piano a
favore degli interessi delle grandi imprese, soprattutto quelle dei settori
tecnologici e finanziari.
Da una parte, si parla di un presidente che
promette di riformare il sistema economico per rafforzare la classe
lavoratrice;
dall’altra,
le prime mosse della sua amministrazione e le figure chiave coinvolte (molti i
miliardari) fanno presagire un approccio favorevole alle aziende, spesso a
scapito dei diritti dei lavoratori.
Trump si presenta come un populista vicino
alle esigenze della classe lavoratrice.
Il suo
programma politico include misure come il sostegno alla manifattura americana,
la riduzione delle tasse sui salari dei lavoratori del settore ospitalità e
l’eliminazione di regolamentazioni considerate eccessive.
Tuttavia, dietro questa retorica si cela un
possibile favoreggiamento degli interessi aziendali, alimentato da figure
influenti come “Elon Musk”, uno dei maggiori sostenitori del presidente.
Siamo
in piena transizione:
anche
se il neoliberalismo potrebbe non essere finito, di certo non è più l’ideologia
indiscussa del nostro tempo.
Secondo
Gerstl, ciò non significa che le idee neoliberali spariranno.
Dopotutto,
la previdenza sociale è ancora in circolazione, ma l’ordine del New Deal no.
Ci
saranno elementi di pensiero neoliberale che continueranno a caratterizzare la
vita statunitense per un lungo periodo.
Ma l’ordine neoliberale non ha più la capacità di
costringere all’acquiescenza, di costringere il sostegno, di definire i
parametri della politica.
Anche il tecno-utopismo di Musk non è più in
grado di nascondere la verità:
gravi
squilibri strutturali nell’economia globale minacciano non solo di far crollare
i sistemi economici, ma di lacerare il tessuto sociale degli Stati Uniti come
di tanti altri paesi (soprattutto europei).
Da un
lato, si apre la prospettiva di un “fascismo della libertà” o di “una
“democrazia illiberale” o di una “democrazia autoritaria”o di una “democrazia
oligarchica” (di cui parla Emanuel Todd) o di un “fasci oliberismo” (di cui
parla Luigi Ferajoli) che promette di coniugare individualismo (“ciascuno è
imprenditore di sé stesso”) e potere sovrano nella cornice di una società
nazionale semplificata, conformista e culturalmente omogenea, riempito di
contenuti radicalmente antidemocratici (rispetto al modello di democrazia
liberale) veicolati attraverso una retorica propagandistica della libertà dalle
influenze straniere, dalle censure della correttezza politica, dagli obblighi
di solidarietà, dal diritto internazionale, dalle regole e dagli impedimenti
che graverebbero su individui e imprese.
Dall’altro lato, non dobbiamo presumere che il
capitale trionferà, ma dobbiamo anche renderci conto che questo è un momento in
cui chi ha idee diverse – eco- socialiste, ad esempio – per riorganizzare
l’economia, per riorganizzare la politica, per ricostruire un più equilibrato
rapporto tra uomo/società e natura, deve farsi avanti e lottare per ciò in cui
crede.
Mentre i partiti populisti etno-nazionalisti
guadagnano terreno in Occidente, i progressisti devono anteporre le priorità
sociali e climatiche agli interessi del mercato.
La
narrazione di Gerstl si ferma di tanto in tanto mentre l’autore considera i
percorsi non intrapresi.
L’ordine
neoliberale sarebbe stato così sicuro se un “Gorbachev alternativo” avesse
perseguito politiche più repressive e preservato l’Unione Sovietica?
L’ordine
neoliberale sarebbe imploso in modo così spettacolare se un’amministrazione
Gore (invece che Bush Jr.) fosse stata in carica nei primi anni del ventunesimo
secolo, perseguendo la moderazione fiscale e rinunciando all’avventurismo
militare?
Tali
momenti servono a sottolineare le contingenze dell’ascesa del neoliberalismo.
Niente di tutto ciò era inevitabile.
(Alessandro
Scassellati).
Il”
fascio liberismo” di Trump e dei suoi
oligarchi: è guerra di
classe
contro i poveri.
Left.it – un pensiero nuovo a sinistra - Alessandro
Scassellati Sforzolini -29 Gennaio 2025 –
ci dice:
Il
secondo mandato del tycoon è molto più organizzato del primo.
Anche l'Europa è minacciata dall'alleanza
transatlantica tra Trump, l'estrema destra europea e i magnati miliardari dei
social media.
La sfida per le forze progressiste di sinistra
è enorme: anteporre le politiche sociali e climatiche agli interessi del
mercato.
Dopo
essere riuscito per quattro anni ad evitare per un pelo la prigione, “Donald
Trump” è tornato alla Casa Bianca.
Per
molti osservatori al di fuori degli Stati Uniti, la rielezione di un criminale
condannato che ha cercato di ribaltare illegalmente un’elezione è sconcertante.
Ma la seconda vittoria di Trump non è stata un caso fortuito.
Sebbene
Trump abbia abbandonato la politica formale nel 2021, le forze che lo hanno
portato al potere non lo hanno fatto.
Questa
volta, è entrato in carica molto meglio organizzato, molto più forte e con una
base politica più diversificata.
In
meno di una settimana, Trump ha già rivelato il suo obiettivo e messo a nudo la
debolezza di coloro che potrebbero sfidarlo.
C’è
un’ombra di qualcosa di colossale e minaccioso che sta iniziando a calare sulla
terra proprio ora.
Chiamatela
l’ombra di un’oligarchia, se volete; è la cosa più vicina che oso immaginare.
Quale
possa essere la sua natura mi rifiuto di immaginarla.
Ma quello che volevo dire era questo: vi
trovate in una posizione pericolosa.
(Jack London, Il tallone di ferro -1907:67-68).
Vent’anni
fa, chi avesse definito gli Stati Uniti un’oligarchia sarebbe stato etichettato
come un comunista o, nella migliore delle ipotesi, un pazzo.
Lo
scorso 15 gennaio Biden ne ha fatto un punto centrale del suo discorso di addio
al popolo americano, e ha anche messo in guardia da un complesso
tecnologico-industriale.
Biden
ha avvertito gli americani che pochi privilegiati potrebbero presto essere
pronti a esercitare un potere enorme negli Stati Uniti.
Ha
descritto una “pericolosa concentrazione di potere nelle mani di pochissime
persone ultra-ricche e le pericolose conseguenze se il loro abuso di potere non
viene controllato”.
“Oggi,
in America sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e
influenza che minaccia letteralmente l’intera democrazia, i nostri diritti
fondamentali e la nostra libertà, e una giusta possibilità per tutti di andare
avanti”, ha affermato Biden.
Un’oligarchia
è una società governata da pochi e una plutocrazia è una società governata dai
ricchi:
oggi negli Stati Uniti abbiamo i segni di
entrambe, grazie ad un “über capitalismo” apertamente denunciato da Bernie
Sanders nel suo recente libro “Sfidare il capitalismo” (Fazi Editore, Roma
2024).
Quello
di Biden è stato un riconoscimento salutare (ma tardivo e ipocrita, visto che
almeno 83 miliardari hanno sostenuto la campagna di Kamala Harris) che,
soprattutto da quando la Corte Suprema degli Stati Uniti – con la decisione “Citizens
United del 2010 “– ha aperto le porte a enormi flussi di denaro non trasparente
in politica, gli individui ricchi incontrano pochi ostacoli nell’acquistare
potere politico.
Sul piano costituzionale, gli Stati Uniti
rimangono una democrazia liberale rappresentativa e la maggior parte delle sue
istituzioni funziona, ma ora oligarchi plutocratici come “Elon Musk e Peter
Thiel” si sono messi al centro delle campagne politiche e aspirano a governare,
senza più fingere di avere impulsi/valori progressisti pro-sociali e
pro-democrazia.
Questa
nuova visibilità, dimostrata in modo sfacciato dai leader dei grandi monopoli
tecnologici del “capitalismo della sorveglianza” – tra gli altri, Jeff Bezos di
Amazon, Sundar Pichai di Google, Mark Zuckerberg di Facebook/Meta, Sam Altman
di OpenAI, Tim Cook di Apple, ed Elon Musk di Tesla/SpaceX/X – seduti di fronte
ai ministri designati da Trump all’inaugurazione, potrebbe anche rendere gli
oligarchi più vulnerabili politicamente.
Raramente
nella storia recente la guerra di classe è stata condotta in modo così
sfacciato.
In
genere, i miliardari impiegano delle controfigure per attaccare i poveri per
loro conto.
Ma
ora, liberati dalla vergogna e dall’imbarazzo, non nascondono più il loro
coinvolgimento.
Negli Stati Uniti, l’uomo più ricco del mondo,
Elon Musk, guiderà l’assalto federale alle classi medie e lavoratrici:
cercando
di tagliare la spesa pubblica e le protezioni pubbliche che difendono le
persone dal capitale predatorio.
“Oligarca”
non è solo una parolaccia per gli ultra-ricchi o un sinonimo di “élite”, né
significa solo il governo di pochi.
Se
quest’ultimo fosse vero, tutte le democrazie rappresentative dovrebbero essere
considerate oligarchie, poiché i membri dei Parlamenti hanno senza dubbio più
potere politico dei cittadini ordinari.
Piuttosto,
Aristotele – al quale dobbiamo le designazioni dei diversi regimi – intendeva l’oligarchia come governo
dei ricchi (al contrario, la democrazia
significava governo dei poveri o del popolo).
In
un’oligarchia, pertanto, il potere è detenuto da un gruppo di persone in base alla
loro ricchezza, allo status nobiliare o religioso, al grado militare e così
via.
Il termine è anche utilizzato per descrivere
Paesi in cui un piccolo gruppo di persone ha molto potere anche se non governa
formalmente.
Trump
è un narcisista, un bullo e un cercatore di accordi che non desidera avere
obblighi verso gli altri.
Sta
creando una monarchia elettorale non soggetta al controllo parlamentare, un
sistema in cui tutto il potere è personalizzato e tenuto nelle sue mani, una
ricetta certa per flussi distorti di informazioni, corruzione, instabilità e
impotenza amministrativa.
Per i
sostenitori di Trump, c’è un senso di energia machista scatenata, quasi
messianica, che sta avviando gli Stati Uniti verso un destino nazionale che
potrebbe comprendere l’annessione di Groenlandia, Canada, canale di Panama e
infine Marte.
Trump
ha annunciato che l’età dell’oro dell’America inizia adesso.
E
nella sua prima settimana, ha lanciato una rivoluzione politica di destra
semplicemente firmando circa 100 ordini esecutivi che avranno un pesante
impatto sulla vita di milioni di americani e non cittadini, avviando la
deportazione di milioni di migranti clandestini, che lui dice stanno
“avvelenando il sangue” degli Stati Uniti;
schierando
truppe al confine tra Stati Uniti e Messico per “un’emergenza nazionale” per
fermare i migranti “coinvolti nell’invasione attraverso il confine
meridionale”;
attentando
al diritto costituzionale (previsto dal 14° emendamento) alla cittadinanza (per
i bambini nati negli Stati Uniti se né la madre né il padre sono cittadini
statunitensi o residenti permanenti legali);
invertendo
le politiche di genere e diversità (Dei) per arrivare a revocare anche un
ordine esecutivo contro la discriminazione firmato da Johnson nel 1965 che
istituiva l’Ufficio federale dei programmi di conformità contrattuale (Ofccp);
ripristinando
l’ordine esecutivo del primo mandato, denominato “Schedule F”, che priverebbe
potenzialmente decine di migliaia di dipendenti pubblici delle tutele
occupazionali e li renderebbe più facili da licenziare;
abbandonando
praticamente la lotta contro la crisi climatica;
dichiarando un’emergenza energetica nazionale
per espandere la produzione di petrolio e gas naturale (il nuovo piano per la
politica industriale è “drill, baby, drill”), eliminare le normative e porre
fine alle regole volte ad accelerare la transizione ai veicoli elettrici (ha
definito le misure climatiche dell’Ira (Inflation reduction act) come “la più
grande truffa nella storia di qualsiasi paese”);
e
liberando i circa 1.500 criminali violenti che lo avevano sostenuto nel
tentativo di colpo di Stato del 6 gennaio 2021.
I repubblicani hanno sostenuto di essere il partito
della “legge e dell’ordine” sin dai tempi di Richard Nixon, ma Trump, il primo
criminale condannato eletto presidente, ha ribaltato la più grande indagine del
Dipartimento di Giustizia della storia.
Una
manciata di senatori repubblicani ha condannato la sua decisione, ma la maggior
parte lo ha sostenuto o è rimasta in silenzio, un tacito riconoscimento del suo
immenso capitale politico.
Nella
sua intervista alla “Fox News”, Trump ha liquidato la violenza contro la
polizia come “incidenti molto minori”.
La
trasformazione radicale di Trump è sostenuta da assistenti e avvocati che hanno
trascorso quattro anni a preparare il suo ritorno.
C’è anche il “Progetto 2025” per espandere il
potere esecutivo e rimodellare la vita americana, elaborato nel corso di due
anni dal think tank conservatore “Heritage Foundation” insieme ad un consorzio
di organizzazioni conservatrici (da cui Trump ha cercato di prendere le
distanze ma molti dei suoi ex ed attuali collaboratori sono stati direttamente
coinvolti e vi hanno contribuito).
L’azione di Trump sta in gran parte seguendo
le indicazioni del “Progetto 2025” e si basa anche sulla premessa di una
legittimità percepita.
“La
mia recente elezione è un mandato per invertire completamente e totalmente un
orribile tradimento”, ha detto Trump nel suo discorso inaugurale.
Il
sito web della Casa Bianca afferma che ha ottenuto una “vittoria elettorale
schiacciante” nel 2024.
Tuttavia,
la vittoria di Trump non è stata una valanga.
Ha
ottenuto meno della metà del voto popolare nazionale e ha battuto Kamala Harris
solo di 1,5 punti percentuali.
I repubblicani hanno perso alcune gare chiave
al Senato e hanno mantenuto la Camera dei rappresentanti solo per un margine
sottile.
I sondaggi di opinione mostrano che tre
americani su quattro si sono opposti alla grazia per gli insorti del 6 gennaio.
Trump
si trova ad affrontare divisioni all’interno del partito repubblicano al
Congresso e del movimento MAGA e un elettorato che chiede risultati rapidi.
Le mosse di Trump per sovvertire la burocrazia
federale (che lui ritiene che gli sia stata ostile durante la sua presidenza
2017-2021), in particolare il cosiddetto “deep State”, hanno scatenato paura e
confusione:
le agenzie sono prese dall’incertezza su come
implementare una valanga di nuove politiche del presidente mentre i lavoratori
valutano l’impatto sulle loro vite. Trump ha sabotato il suo primo mandato con
la sua notoriamente breve capacità di attenzione, la riluttanza a leggere i
documenti politici e la promozione del caos e della disfunzione.
Ha uno
stile di governo in cui guida con sfacciataggine e poi ricorre alle minacce.
C’è il grande discorso e gli annunci appariscenti, ma poi c’è il tipo di duro
lavoro di governo e Trump sembra addormentarsi quando arriva al duro lavoro.
Il suo è un programma di destra radicale, ma
vedremo fin dove arriverà.
Gli
oppositori di Trump affermano che sta distorcendo la Costituzione degli Stati
Uniti e che sta espandendo i limiti del potere esecutivo oltre il limite
previsto. Affermano inoltre che le mosse iniziali di Trump dimostrano che è
meno interessato a unire il Paese che a trasformarlo radicalmente, e in molti
casi a esigere vendetta per punire i nemici politici e intimidire i media.
Le
prime settimane della sua amministrazione potrebbero rappresentare l’apice del
potere di Trump, come riconoscono alcuni sostenitori.
Molti
degli ordini esecutivi di Trump mettono alla prova i limiti del diritto
costituzionale.
Un
ordine per porre fine alla cittadinanza per nascita, una dottrina
costituzionale che sostiene che quasi tutti coloro che nascono negli Stati
Uniti sono automaticamente cittadini, è già stato bloccato da una corte
federale.
Diversi
altri impegni e ordini hanno subito affrontato cause legali da parte di Stati e
organizzazioni di difesa, e lo shock e lo stupore della sua prima settimana
potrebbero impantanarsi in un contenzioso che durerà per gran parte del suo
mandato.
Trump potrebbe dover affrontare una sfida nel
mantenere la stretta maggioranza dei repubblicani al Congresso nella Camera dei
rappresentanti tra due anni.
Il partito del presidente in carica perde
spesso seggi alle elezioni di medio termine. Se ciò accadesse, si tradurrebbe
nella chiusura totale del già stretto percorso legislativo per Trump.
Insomma,
ci saranno opportunità legali, politiche e sociali per gli oppositori.
Anche
i piccoli successi, soprattutto se ottenuti in collaborazione con altri,
possono ricordare alle persone cosa è possibile fare di fronte a quelle che
possono sembrare forze insormontabili.
Il 45°
e 47° presidente, di ritorno alla Casa Bianca ha elettrizzato la sua base di
sostenitori con una serie di condoni e azioni progettate per rimodellare il
paese, anche se, come ha notato “Bernie Sanders”, ha ignorato quasi ogni
problema significativo che le famiglie lavoratrici statunitensi devono
affrontare (dal costo di cure sanitarie e medicine ai bassi salari, alla crisi
alloggiativa, all’accesso all’istruzione superiore).
Da un
discorso inaugurale in cui sosteneva di essere stato scelto da Dio per la
missione di rifare l’America alla firma teatrale di ordini esecutivi davanti a
una folla chiassosa, il suo aggressivo consolidamento del potere ha suscitato
paragoni con la monarchia (un popolo che è nato dalla rivolta e guerra contro
monarchi crudeli ora ha il proprio).
La
miscela di politica, ideologia ed escatologia megalomane è particolarmente
importante perché Trump ha legato il destino degli Usa alle sue fortune
personali come nessun altro presidente prima di lui.
Come
lui sostiene, la realizzazione del programma” America First” (arrestare il
declino statunitense vis-à-vis l’ascesa della Cina, esaltare il nativismo
bianco di ascendenza europea, sostenere il nazionalismo cristiano xenofobico e
razzista, predicare il libertarismo anarco-capitalistico, imporre protezionismo
e unilateralismo in politica estera) è inestricabilmente legata al suo potere
personale.
Ma
l’assalto veloce e furioso, definito “shock and awful” (piuttosto che “shock
and awe”) dai critici, ha incontrato rapide sfide legali e reazioni politiche.
La
torsione monarchica di Trump non è solo merito suo.
Nel secolo scorso, presidenti come” Franklin
Delano Roosevelt “hanno esteso la portata della presidenza negli affari
economici e internazionali.
Dopo
la guerra del Vietnam, lo storico “Arthur Schlesinger” ha definito questa
l’ascesa della “presidenza imperiale”. Ma non si è fermata.
Nella
sua intervista a David Frost, Richard Nixon ha sostenuto che se un presidente
approva qualcosa, non è illegale.
La
Corte Suprema ha dato a questa visione, un tempo impensabile, la sua
benedizione della maggioranza l’anno scorso, stabilendo che un presidente
possiede l’immunità assoluta per qualsiasi atto ufficiale.
Una giudice liberale, “Sonia Sotomayor, ha
affermato che questo ha reso il presidente “un re al di sopra della legge”.
Attualmente,
i poteri imperiali che Trump potrebbe utilizzare comprendono: uccidere
cittadini americani senza un giusto processo, detenere sospettati (compresi
cittadini americani) a tempo indeterminato, privare gli americani dei loro
diritti di cittadinanza, effettuare una sorveglianza di massa sugli americani
senza una causa giustificabile, dichiarare guerre senza l’autorizzazione del
Congresso, sospendere le leggi in tempo di guerra, ignorare leggi con cui
potrebbe non essere d’accordo, condurre guerre segrete e convocare tribunali
segreti, sanzionare la tortura, eludere le legislature e i tribunali con ordini
esecutivi e dichiarazioni firmate, ordinare all’esercito di operare al di là
della portata della legge, mobilitare un esercito permanente sul suolo
statunitense, gestire un governo ombra, dichiarare emergenze nazionali per
qualsiasi motivo e agire come un dittatore e un tiranno, al di sopra della
legge e al di là di ogni reale responsabilità.
Come
afferma l’editorialista “Ezra Klein”, la domanda che pone Donald Trump è: “Quanto può essere re?”
E con un re, inevitabilmente arriva anche una corte
che può diventare un mercato, dove membri della famiglia reale, oligarchi,
ministri, consiglieri, favoriti, adulatori, agenti, faccendieri e imbonitori
competono per l’attenzione e il favore del sovrano.
Questo
è esattamente il motivo per cui lo stesso “George Washington” potrebbe
riconoscere il sistema politico di corte che ora prospera attorno a Trump come
qualcosa di simile alla forma di governo regale contro cui fu spinto a
ribellarsi quasi 250 anni fa.
Gli
aristocratici sono “gli animali più difficili da gestire, di qualsiasi cosa in
tutta la teoria e la pratica del governo.
Non si
lasceranno governare”, avvertì uno dei “padri fondatori”, “John Adams”,
scrivendo dopo la sua presidenza (1797-1801).
Vietare
i titoli non era sufficiente;
alcuni
si sarebbero comunque distinti per nascita o, soprattutto, per ricchezza.
Il
problema non era solo la loro capacità di acquistare favori politici, ma la
presa che il loro denaro aveva sulla mente delle persone.
Ecco perché i “padri fondatori (tutti maschi
bianchi proprietari di schiavi neri) si sono impegnati per proteggersi da
questo tipo di potere assoluto e concentrato, istituendo un sistema di
controlli e bilanciamenti che separa e condivide il potere tra tre rami pari
(esecutivo, legislativo e giudiziario) per garantire che nessuna autorità
singola sia investita di tutti i poteri del governo.
Il
potere economico e quello politico si intrecciano ovunque.
La
paura dell’influenza sproporzionata dei ricchi è esistita per tutta la storia
degli Stati Uniti.
Tuttavia,
a volte la relazione diventa particolarmente dura e minacciosa.
Nel suo monito contro gli oligarchi, “Biden”
ha evocato la “Gilded Age del XIX secolo” e i “baroni ladri” (Andrew Carnegie,
Cornelius Vanderbilt, John Pierpont Morgan e John D. Rockefeller) e i loro
monopoli, che schiacciavano i concorrenti, sfruttavano i lavoratori, compravano
giudici e politici e ostentavano la ricchezza.
La
ricchezza del team di Trump è creata e immagazzinata nei mercati finanziari;
il loro patrimonio netto è la somma della fiducia che
i grandi fondi finanziari (BlackRock, Vanguard, State Street, etc.) e altre
persone abbienti ripongono nel loro potere di accumulazione. Viaggia facilmente
e può comprare cittadinanza, sicurezza e influenza quasi ovunque.
Ecco
perché Trump rimarrà fedele ai suoi miliardari, o almeno alle politiche che li
hanno arricchiti:
lui è uno di loro, con uno stile da “barone
ladro” transazionale che sostiene che le tasse sono per i perdenti.
Durante la sua prima amministrazione,
nonostante le promesse populiste fatte durante la campagna elettorale, Trump
alla fine si è schierato con i ricchi.
“Steve
Bannon”, il capo stratega di Trump all’inizio del suo primo mandato, ha spinto
per aumenti delle tasse per i ricchi.
Dopo sette mesi di presidenza, Trump lo ha
licenziato e poi ha proceduto ad approvare tagli fiscali per ricchi e grandi
corporation, per cui le 400 famiglie miliardarie più ricche degli Stati Uniti
hanno pagato un’aliquota fiscale media inferiore rispetto alla metà più povera
delle famiglie, quella della classe lavoratrice americana.
Nella
sua nuova amministrazione, la destra nazionalista farà sicuramente dei
progressi:
è
entusiasta delle mosse di Trump sulla cittadinanza per diritto di nascita e
della sua promessa di andare avanti con le deportazioni di massa.
Per
questa destra si tratta di riportare l’America all’epoca precedente alla
diffusione dei diritti – sociali ed economici del New Deal di FDR degli anni
Trenta; civili e politici della ”Great Society” di Johnson degli anni Sessanta
-, diritti che ritiene abbiano oscurato l’identità bianca, anglosassone e
protestante del Paese.
Ma se
mai dovesse entrare in conflitto con ciò che vogliono i ricchi consiglieri di
Trump nel mondo della tecnologia (portare l’America nell’epoca futura, dove le
piattaforme social sono le nuove arene per esercitare una libertà di parola
senza regole) è probabile che il suo ruolo verrebbe ridimensionato.
Trump
sta tentando di dare vita ad un nuovo ordine politico basato sul connubio tra
conservatorismo tradizionalista (MAGA) e post-conservatorismo tecnologico
(tech-right) dominato da un gruppo ristretto di persone.
La
politica degli oligarchi può assumere forme molto diverse, non sono tutti
necessariamente conservatori, ma hanno sempre un interesse in comune:
proteggere la propria ricchezza.
Storicamente, ciò potrebbe significare impiegare un
esercito privato;
può
anche tradursi in sottomissione a un despota, che premia la lealtà con almeno
un po’ di sicurezza e lucrativi contratti governativi.
Nelle
democrazie rappresentative liberali, ha significato esternalizzare la
protezione della proprietà allo Stato, assicurandosi al contempo che la
maggioranza non si faccia venire strane idee su aliquote fiscali elevate e
restrizioni alla libertà privata di commercio, industria e finanza.
Per
questo il capitalismo ha sempre avuto un problema con le libertà democratiche
che esistono solo grazie alle grandi lotte popolari condotte sotto le bandiere
del socialismo dalla fine del XIX secolo.
Come
ha notato “Franco Ferrari,” mentre la democrazia liberale si fonda sul
principio dell’uguaglianza degli individui, il capitalismo si basa sulla
disuguaglianza affermata come principio regolatore ineludibile (mascherata
dalla retorica del “merito”).
È
stata in larga parte l’azione del movimento operaio socialista e comunista che,
perseguendo il principio dell’uguaglianza sociale, ha posto le condizioni per
una democratizzazione, relativa, del capitalismo.
L’evoluzione
politica e sociale degli ultimi decenni, dominata dal paradigma ideologico
neoliberista (nelle versioni sia progressiste di centro-sinistra sia conservatrici di
centro-destra), ha cambiato il contesto complessivo e ha consentito al capitalismo di
tornare a sviluppare, senza vincoli, la propria naturale tendenza a produrre
sempre maggiore disuguaglianza.
Questa
è fondata sulla concentrazione della ricchezza che si trasforma inevitabilmente
in una concentrazione del potere.
In un
saggio per il think tank conservatore “Cato Institute”, “Peter Thiel” è
arrivato a scrivere:
“Non
credo più nella compatibilità di democrazie e libertà [perché] se abilitato, il
demos finirà inevitabilmente per votare restrizioni al potere dei capitalisti e
quindi restrizioni alle loro libertà”.
L’1%
più ricco degli americani possiede il 30% della ricchezza nazionale, mentre il
97,5% del patrimonio netto totale è detenuto dal 50% più ricco, ma la vera
divisione non è tra l’1% e il resto;
piuttosto,
la linea di confine cruciale corre tra ciò che i gestori patrimoniali liquidano
come i semplici “ricchi di massa” (tra loro c’è anche il gruppo “Patriotic Millionaires”
che a Davos ha fatto campagna pro-tasse) e gli oligarchi che possono pagare
per i servizi dell’industria della difesa della ricchezza accumulata.
Persino i professionisti con redditi elevati
non possono permettersi gli avvocati e i contabili necessari per creare società
paravento e trasferire denaro nei paradisi fiscali; coloro che possono
permetterselo, ovvero il decimo più alto dell’1%, finiscono per dover pagare
meno tasse delle loro segretarie (per riprendere il famoso esempio di Warren
Buffett).
Apparentemente
Musk ha pagato il 3,4% di imposta federale sul reddito tra il 2014 e il 2018.
L’industria
della difesa della ricchezza accumulata è discreta; parte di ciò che il mondo
offshore offre agli oligarchi è la segretezza.
Come ha osservato la sociologa Brooke
Harrington”, alcuni dei ricchi pagano persino i professionisti per aiutarli a
mimetizzarsi, nascondersi dall’occhio pubblico e non comparire nella lista di
Forbes.
Allo stesso tempo, gli oligarchi hanno un
chiaro interesse nel plasmare l’opinione pubblica
In un’epoca in cui i “media tradizionali” sono
in difficoltà finanziarie, è diventato molto più economico acquistare giornali
o canali TV, come hanno fatto il defunto “Silvio Berlusconi” e l’imprenditore”
Vincent Bolloré”, un importante sostenitore dell’estrema destra in Francia.
Le
piattaforme dei social media sono un po’ più costose, ma la loro portata
globale offre anche possibilità uniche per influenzare la politica in molti
Paesi diversi, come dimostra l’”ossessivo poster Musk” quasi ogni ora del
giorno e della notte.
Resta
insolito, tuttavia, che gli oligarchi si appropriano personalmente delle leve
dello Stato, a meno che, come nel caso di Berlusconi, entrare in politica non
sembri l’unico mezzo per evitare il crack finanziario e la prigione.
Dei nominati politici di Trump – l’uomo che si
scaglia contro le élite e si rivolge a coloro che sono rimasti indietro, i
perdenti dell’era della globalizzazione – 26 hanno fortune che superano i 100
milioni di dollari;
13
sono miliardari, un variopinto gruppo di persone ultra-ricche che ha una cosa
in comune: si autodefiniscono tutti dei “distruttori” che mirano a distruggere
(non a riformare) gli attuali sistemi di governo.
Il suo
è il governo più ricco nella storia del Paese.
Inoltre, c’è la persona più ricca del mondo –
Elon Musk, che durante la cerimonia inaugurale ha rivolto ai suoi sostenitori
il saluto nazi-fascista – in un ruolo ampiamente indefinito e completamente
irresponsabile come promotore di “efficienza governativa” (DOGE).
Musk,
la prima persona il cui patrimonio netto ha superato i 400 miliardi di dollari,
afferma che i cittadini affronteranno “difficoltà temporanee” mentre il suo
Dipartimento taglia la spesa pubblica.
Ha affermato che potrebbero essere tagliati
“almeno” 2.000 miliardi di dollari dalla spesa federale, una cifra superiore
all’intero budget discrezionale (una contrazione le cui conseguenze sarebbero
devastanti per la maggior parte degli americani).
Trump
e Musk vogliono tagliare il bilancio federale in modo da poter tagliare le
tasse per gli ultra-ricchi.
Questa
classe ha bisogno di tutto l’aiuto possibile:
dal
2020, la ricchezza dei 12 uomini più ricchi degli Stati Uniti è aumentata
“solo” del 193% e collettivamente ora possiedono “solo” 2 trilioni di dollari.
Questo
mentre gli “oilgarchi” stanno già raccogliendo i frutti per aver sostenuto
Trump, amico dei combustibili fossili (le grandi compagnie petrolifere hanno
speso 445 milioni di dollari nell’ultimo ciclo elettorale per influenzare Trump
e il Congresso).
L’elezione
di Trump è stata una risposta ai crudeli fallimenti del neoliberismo, ma sarà
anche la loro massima espressione.
È stata una risposta alla corruzione del
sistema politico da parte del denaro privato.
E sarà
la massima corruzione del sistema.
Se il
programma di Musk avrà successo, difficilmente dovremo immaginare i suoi
impatti sulla vita umana e sul mondo vivente, perché nell’ultimo anno un piano
simile è stato attuato in Argentina.
Lì, “Javier
Milei” ha condotto la sua guerra di classe per conto del capitale
internazionale.
I
risultati includono un’orribile ondata di povertà; un crollo del numero di
persone con assicurazione sanitaria, unito a un sottofinanziamento critico del
sistema sanitario pubblico;
la
proliferazione di crimini d’odio; un assalto coordinato alla scienza e alla
protezione ambientale; e un libero accesso per le corporation straniere che
sperano di impossessarsi dei minerali, della terra e della manodopera del
Paese.
Un
massiccio programma di tagli e deregulation che Musk e gli altri oligarchi
trumpiani cercano di estendere grazie alla politica sadomasochistica ora in
ascesa su entrambe le sponde dell’Atlantico.
I demagoghi hanno scoperto che non importa
quanto soffrano i loro seguaci, finché i loro nemici designati soffrono di più.
Se riescono a continuare ad aumentare il
dolore per i capri espiatori (principalmente gli immigrati e i poveri), gli
elettori li ringrazieranno per questo, indipendentemente dal loro dolore.
Questa è la grande scoperta degli oligarchi
guidati dallo stesso Musk: ciò che conta in politica non è quanto bene stanno
andando le persone, ma quanto bene stanno andando in relazione ai gruppi
esterni designati come capri espiatori.
Comunque,
la strana miscela di visibilità e invisibilità crea vulnerabilità. In fondo,
Trump guida una banda di arrivisti, nemici dell’”establishment corrotto” delle
coste orientali e occidentali, assetati di denaro e nazionalisti irriducibili.
Ci sono i conflitti di interessi e gli
scandali che deriveranno dal saccheggio dello Stato (anche se, per ora, sia i
democratici che il pubblico in generale sembrano semplicemente rassegnati a una
cleptocrazia su una scala senza precedenti);
le
grandi promesse di “efficienza” di Musk potrebbero rimanere insoddisfatte;
le teorie del complotto e la pura petulanza di
oligarchi neo-trumpisti come “Mark Andreessen” (Netscape) – che si lamentano
del fatto che l’amministrazione Biden aveva scatenato il “terrorismo” contro
l’industria tecnologica – intaccano l’immagine dei geni della Silicon Valley
sempre pronti con una soluzione ai problemi dell’umanità.
Gli
oligarchi possono essere umiliati o quanto meno messi sotto controllo di
regole?
Gli analisti sono pessimisti sul fatto che
qualsiasi cosa che non siano guerre o catastrofi economiche come la “Grande
Depressione” determini un cambiamento fondamentale.
In
linea di principio, le leggi possono impedire la concentrazione del potere: i
parlamentari e magistrati italiani hanno cercato di limitare il numero di
canali TV che Berlusconi poteva controllare;
gli
antichi ateniesi usavano l’ostracismo per espellere chiunque avesse troppo
potere dalla politica (anche se non c’era nulla di sbagliato nel loro carattere
individuale).
Ai
nostri giorni, il teorico politico “John P. McCormick”, riprendendo gli
insegnamenti di “Machiavelli”, suggerisce che solo la minaccia di processi
popolari, con una possibile pena di morte, può far sì che i ricchi si astengano
dal combinare misfatti.
Alla
fine, la scommessa migliore rimane il potere di contrasto:
una
cittadinanza attiva, il cui impegno è ampiamente definito dalla protesta,
organizzazioni forti, siano esse sindacati o associazioni della società civile,
media indipendenti e, non dimentichiamolo, la politica democratica:
Franklin
Delano Roosevelt, che non ha evitato di usare la parola oligarchia (economica)
nei suoi discorsi nella campagna elettorale del 1932, non aveva automaticamente
il mandato di perseguire il potere concentrato a causa della Grande
Depressione;
lo ha rivendicato e costruito. A tal fine, è
utile rendere visibili gli oligarchi, che saltano su e giù accanto al
presidente Trump.
Sebbene
vi siano molteplici grandi ego plutocratici intorno a Trump e quindi c’è la
possibilità che si scatenino sanguinose faide interne tra diverse fazioni – da
un lato, i nazionalisti di estrema destra e i reazionari (fautori di un “codice
morale neo-vittoriano” che enfatizza il tradizionalismo socio-culturale
conservatore, il patriarcato e le gerarchie razziali) del movimento MAGA (come
Stephen Miller e Steve Bannon) che hanno sostenuto Trump da quando è sceso
dalla sua scala mobile dorata nel 2015;
dall’altro, la destra tecnologica (la
“tech-right”) neoliberista e globalista di Elon Musk e delle altre élite della
Silicon Valley, tra cui Peter Thiel e Marc Andreessen, diventati ferventi
sostenitori di Trump più di recente;
gruppi
che si stanno già scontrando su aspetti chiave della repressione
dell’immigrazione
.
L’imprenditore tecnologico miliardario Vivek Ramaswamy ha abbandonato la
direzione del programma DOGE dopo uno scontro con Elon Musk (ma si candiderà
alla carica di governatore dell’Ohio per il GOP).
Ma è
probabile che il matrimonio tra Trump e gli oligarchi della tech-right – che
prevede l’assenza di qualunque diaframma fra potere politico e affari, al punto
che nessuna ingerenza e nessun conflitto d’interessi ormai sembrano troppo
spudorati – prosperi senza sfide esterne.
Mentre
la rabbia cresceva all’inizio del secolo scorso, il presidente Theodore
Roosevelt indebolì i “malfattori della ricchezza” distruggendo i trust, creando
agenzie di regolamentazione e rendendo i terreni inaccessibili allo
sfruttamento commerciale.
Molti americani desiderano ardentemente un
altro “accordo equo”.
Ma la
ricchezza consente ai suoi proprietari di plasmare la realtà.
Le ferrovie che arricchirono i magnati del XIX
secolo hanno letteralmente definito il tempo in cui il Paese correva (passando
da 3.000 miglia nel 1840 a circa 259.000 miglia nel 1900).
Ora il
“complesso tecnologico-industriale” evidenziato da Biden e gestito dai nuovi
amici di Trump funziona a un livello ancora più intimo, determinando cosa
vedono gli elettori.
In gioco potrebbe esserci in ultima analisi la
questione di chi governerà: il popolo o i nuovi aristocratici americani.
La
convergenza tra politiche pro-business e innovazione radicale promette
un’accelerazione tecnologica, ma rischia di ampliare ulteriormente
disuguaglianze e rafforzare i monopoli.
Monopolisti visionari come Elon Musk e Jeff
Bezos incarnano un’epoca di innovazione senza precedenti, resa possibile dal Telecommunication
Act del neoliberista progressista “Bill Clinton” del 1996 che ha autorizzato la
rivoluzione di Internet e del cyberspazio a essere libera da qualsiasi seria
regolamentazione pubblica.
Tuttavia,
fuori dagli Stati Uniti il settore si trova ora al centro di un dibattito
cruciale tra regolamentazione e innovazione, con una crescente pressione da
parte di governi e organizzazioni internazionali preoccupati per le
implicazioni sociali, economiche e geopolitiche.
Nel
complesso è chiaro che la rielezione di Trump rappresenta una svolta critica
per l’Occidente.
Mentre la sua prima vittoria ha rappresentato
una scommessa ad alto rischio verso l’ignoto, questa volta gli americani
sapevano perfettamente per cosa stavano votando.
Lungi
dall’attenuare le tendenze autocratiche per cui è stato ampiamente criticato,
ha raddoppiato la posta in gioco.
Ora,
l’Occidente è perseguitato dallo spettro del “capitalismo autoritario” che viene alimentato da tre
profondi cambiamenti economici e politici che stanno rimodellando le economie
occidentali:
un
allontanamento dall’ortodossia del libero mercato (neoliberismo),
una
stretta sulle libertà democratiche e
un
aumento della sorveglianza statale
.
Insieme, questi cambiamenti rappresentano un’economia politica distinta che, se
non contenuta, potrebbe inaugurare una nuova era di governance più autoritaria.
Nel
suo libro del 1978 “Lo Stato, il potere, il socialismo”, “Nicos Poulantzas” descrisse
l’emergere dello “statalismo autoritario”, una forma di governo che egli
distinse dalle dittature di polizia, militari o fasciste, e che tendeva a
ridurre i diritti democratici.
Criticò
il monopolio quasi assoluto dell’esecutivo sulla legislazione e la sua concreta
attuazione attraverso “decreti, interpretazioni giudiziarie e adeguamenti del
servizio pubblico” che conferiscono potere all’amministrazione, poiché i
memorandum hanno la precedenza sulle disposizioni legali.
In tali condizioni, la politica statale viene
formulata in circoli ristretti, sotto il sigillo della segretezza, in un modo
che consente l’interferenza di reti nazionali ed internazionali private.
In questo modello, il presidente è il “punto focale di
vari centri e reti di potere amministrativo”, che diventano il “partito
politico efficace dell’intera borghesia, che agisce sotto l’egemonia del
capitale monopolistico”.
L’alternanza
dei partiti al potere è ridotta a un esercizio di prestigio, aprendo la porta a
un vero e proprio “partito-stato dominante”.
Questo statalismo autoritario, ha spiegato “Poulantzs”,
non è “né la nuova forma di un autentico stato eccezionale né, di per sé, una
forma di transizione sulla strada verso tale stato:
rappresenta
piuttosto la nuova forma “democratica” della repubblica borghese nell’attuale
fase del capitalismo”.
Questa
forma di governo differisce dal fascismo:
quest’ultimo
deriva da una “crisi dello Stato”, ha osservato “Poulantzas”, e “non viene mai
stabilito a sangue freddo”.
La sua
esistenza “presuppone una sconfitta storica della classe operaia e del
movimento popolare”.
Tuttavia,
egli insiste sul fatto che lo statalismo autoritario contiene “elementi sparsi
di totalitarismo” e “cristallizza la loro disposizione organica in una
struttura permanente parallela allo Stato ufficiale”.
Non si può quindi escludere che, dopo una
profonda sconfitta dei movimenti sociali, possa svilupparsi “qualsiasi processo
di tipo fascista”, non dall’esterno (come il fascismo storico), ma da “una
rottura interna allo Stato, secondo linee già tracciate nella sua
configurazione attuale”.
Grazie
all’alleanza transatlantica emergente tra Trump, l’estrema destra europea e i
magnati miliardari dei social media, lo “statalismo autoritario” o il
“capitalismo autoritario” è la realtà che ora anche noi europei affrontiamo.
È impossibile prevedere esattamente cosa farà Trump e
se i suoi alleati di estrema destra in Europa seguiranno le sue orme, riuscendo
a cementare e consolidare un ampio blocco sociale reazionario.
Ma non
dovremmo farci illusioni sulla minaccia che questa alleanza rappresenta. Questo
non è lo stesso trumpismo che ha vinto le elezioni nel 2016:
è un progetto completamente diverso e più
pericoloso.
Si
apre la prospettiva di un “fascismo della libertà” o di “una “democrazia
illiberale” o di una “democrazia autoritaria” o di una nichilista “democrazia
oligarchica” (di cui parla Emanuel Todd) o di un “fascio liberismo” (di cui
parla Luigi Ferrajoli) che promette di coniugare individualismo (“ciascuno è
imprenditore di sé stesso”) e potere sovrano nella cornice di una società
nazionale semplificata, conformista, socialmente conservatrice e culturalmente
omogenea, riempito di contenuti radicalmente antidemocratici (rispetto ad una
democrazia liberale) veicolati attraverso una retorica propagandistica della
libertà dalle influenze straniere, dalle censure della correttezza politica,
dagli obblighi di solidarietà, dal diritto internazionale, dalle regole e dagli
impedimenti che graverebbero su individui e imprese.
In che
modo le forze politiche progressiste dovrebbero cercare di contrastare l’ascesa
di un nuovo autoritarismo?
Una
cosa è chiara: alimentare il sentimento anti-Cina non curerà i mali del
capitalismo occidentale.
Le radici di questi problemi, e quindi le loro
soluzioni, possono essere trovate molto più vicine a casa.
Anche
il semplice tentativo di vietare o censurare le voci della destra autoritaria
non funzionerà.
Quando le voci in questione includono il
presidente degli Stati Uniti e il secondo partito più popolare nel cuore
pulsante dell’Europa (l’AFD), metterli a tacere non è un’opzione (anche se ciò
non ha impedito a centinaia di politici tedeschi di provarci).
Invece,
le radici di questi problemi devono essere affrontate alla fonte.
In realtà, non sono la Cina o gli immigrati a
fregare la gente comune che lavora, ma un sistema economico estrattivo e
iniquo.
Le
disuguaglianze socio-economiche si sono enormemente ampliate, mentre nel
frattempo il lavoratore medio nelle economie avanzate ha visto solitamente la
propria retribuzione reale diminuire o restare stagnante.
Le
fortune contrastanti degli oligarchi mega-ricchi e di tutti gli altri non sono
scollegate.
Nonostante
quanto affermano i nostri leader, il capitalismo nel “mondo sviluppato” è
diventato principalmente un motore per ridistribuire la ricchezza verso l’alto,
sia dai suoi cittadini che dal resto del mondo.
La disuguaglianza alle stelle è anche
inestricabilmente legata alla crisi climatica e ambientale.
Oltre ad aspirare gran parte della ricchezza
mondiale, l’1% più ricco emette tanto inquinamento da carbonio quanto i due
terzi più poveri dell’umanità.
Pertanto,
affrontare la crisi climatica e ridurre la disuguaglianza devono andare di pari
passo.
Ma
indirizzando le legittime lamentele economiche verso spauracchi e migranti
esterni, è la destra autoritaria, non la sinistra progressista, che ha
capitalizzato con maggior successo questo sistema corrotto.
Se
vogliamo affrontare le sfide economiche e ambientali centrali che ci troviamo
ad affrontare, questo deve cambiare urgentemente.
Le
forze progressiste di sinistra hanno trasformato l’economia politica
occidentale in passato e il compito che le attende è di farlo di nuovo.
L’obiettivo
deve essere quello di affrontare le disuguaglianze, aumentare gli standard di
vita e affrontare la crisi ambientale, stando al contempo al fianco dei
migranti e di altri gruppi minoritari contro persecuzioni e oppressioni.
Ciò
comporterà inevitabilmente un ruolo più proattivo per lo Stato.
La domanda chiave è: nell’interesse di chi
agirà?
La
lezione della “Bidenomics” è che concentrarsi principalmente su settori
industriali come l’energia rinnovabile e la produzione manifatturiera non
funzionerà se non sarà accompagnato da politiche per frenare il potere delle
aziende e ridistribuire la ricchezza.
Ciò
significa sfidare di petto il potere degli interessi acquisiti, non
sottomettersi a loro.
Questo
progetto deve anche mirare a rafforzare la democrazia e proteggere le libertà
civili in un momento in cui entrambe sono sempre più minacciate.
Negli ultimi anni i governi di Stati Uniti, Europa e
Regno Unito hanno represso il diritto di protesta con una legislazione
draconiana (in Italia c’è in ballo l’approvazione del DDL 1660 “sicurezza”).
Considerato il terrificante curriculum di
Trump, tra cui la richiesta all’esercito di reprimere le proteste pacifiche dei
“lunatici della sinistra radicale”, dovremmo aspettarci che l’assalto al
diritto di protesta si intensifichi, insieme a una limitazione delle libertà
civili in senso più ampio.
La
protesta pacifica sarà assolutamente fondamentale per resistere alla destra
autoritaria in tutto il mondo, ed è esattamente per questo che è probabile che
venga soppressa.
Lo
spettro del capitalismo oligarchico autoritario sta infestando l’Occidente, è
già qui, ed è in realtà piuttosto popolare.
Ora
bisogna contrastarlo dalle fondamenta.
La
domanda chiave è: possiamo costruire un “blocco sociale alternativo” in grado
di avere ed esprimere il potere necessario per sfidarlo?
Al
momento, la situazione non sembra promettente:
la
protesta più forte all’”incoronazione” di Trump è giunta dalla voce calma e
sommessa di una vescova episcopale.
Possiamo solo sperare che l’arrivo di Trump
2.0 fornisca la sveglia di cui il mondo ha così disperatamente bisogno.
Non
dobbiamo presumere che il capitale trionferà, ma dobbiamo anche renderci conto
che questo è un momento in cui chi ha idee diverse – eco socialiste, ad esempio
– per riorganizzare l’economia, per resuscitare la politica come
partecipazione, per ricostruire un più equilibrato rapporto tra uomo/società e
natura, deve farsi avanti e lottare per ciò in cui crede.
Mentre
i partiti populisti etno-nazionalisti e reazionari guadagnano terreno in
Occidente, i progressisti di sinistra devono anteporre le priorità sociali e
climatiche agli interessi del mercato.
(Alessandro
Scassellati Sforzolini è ricercatore
sociale e attivista, collabora con Transform! Italia. Fra i suoi libri
Suprematismo bianco -Derive e Approdi).
Trump,
il controllo della Federal
Reserve
Bank e la de dollarizzazione.
Lacruadellago.net
– Cesare Sacchetti – (7 – 3 – 2025) – ci dice:
Alcuni
la considerano giustamente come una sorta di spauracchio della finanza globale.
È la
Federal Reserve Bank, la cosiddetta banca centrale degli Stati Uniti che in
realtà non è mai stata una vera e propria banca centrare sin dall’inizio della
sua fondazione, nel lontano 1913.
A
volere la creazione di questa istituzione che non risponde direttamente e
pienamente al governo degli Stati Uniti, furono principalmente le famiglie
dell’alta finanza askenazita di New York che spinsero per fondare una
istituzione governata in realtà da un manipolo di pochi signori della finanza.
A
spiegare bene come la FED sia sempre stata nelle mani di famiglie quali gli
ubiqui Rothschild, Rockefeller, Warburg, Kuhn,Loeb & Co e Morgan, che ormai
si potrebbero definire come i soliti sospetti, è stato, tra gli altri, Eustace
Mullins nel suo celebre saggio “I segreti della Federal Reserve”.
Le
famiglie di banchieri che controllano la FED.
La FED
è strutturata in maniera tale infatti per far sì che siano questi i veri
proprietari di questa banca centrale e il funzionamento di questa istituzione
venne anche mostrato alla commissione bancaria del Congresso degli Stati Uniti,
nell’agosto del 1976.
Sono
12 le banche che controllano la Federal Reserve Bank e gli azionisti di
maggioranza di queste banche regionali sono proprio loro.
Sono
gruppi bancari quali i defunti Lehman Brothers, la Chase National Bank, la
Hanover National Bank, la First National Bank of New York, nelle quali appunto
si trovano le partecipazione azionarie dei citati Rockefeller, Warburg, J.P.
Morgan, fino a risalire alla casa madre di Londra, la famiglia Rothschild che
si serve di diversi “partner” e agenti negli Stati Uniti in giro per il mondo
per nascondere la reale entità della sua ricchezza, in omaggio alla “regola”
del capostipite, Mayer Amschel.
Nel
1914 queste famiglie concepirono espressamente questa impalcatura che
consentiva loro di avere quella che presto sarebbe divenuta la banca centrale
più potente del mondo, in quanto detentrice della facoltà di emettere in
maniera virtualmente illimitata la valuta di riserva del mondo, ovvero il
dollaro americano.
Giscard
D’Estaing chiamava questa condizione come un “esorbitante privilegio” ma in
fondo l’ex presidente francese non era nella posizione di parlare molto della
trave nell’occhio altrui perché anche nel suo ce n’era una altrettanto grande,
come quella del dominio coloniale che la Francia ha continuato ad esercitare
per decenni sull’Africa dopo la cosiddetta decolonizzazione degli anni’60, che
non decolonizzò un bel nulla, ma soltanto cambiò la natura della precedente
occupazione, rendendola persino più insidiosa e profonda attraverso lo
sfruttamento economico dell’Africa.
Le
élite della finanza ebraica hanno costruito una banca centrale che non fosse
nelle mani dello Stato perché il capitalismo neoliberale si fonda tutto sulla
facoltà di trasferire i poteri dello Stato dalle mani di questa entità a quelle
di un ristretto gruppo di finanzieri che diventano in tal modo il nuovo Stato.
Il
neoliberismo, in altre parole, è una privatizzazione strutturale dello Stato
che non può avere luogo se non si prende prima il controllo della banca
centrale.
Questo
spiega perché sugli sciagurati libri di testo contemporanei scritti non da veri
economisti, ma da agenti della Banca mondiale e del FMI, si professi il falso
dogma della cosiddetta indipendenza delle banche centrali dallo Stato, che in
realtà altro non vuol dire che indipendenza dallo Stato e dipendenza appunto
dai mercati.
Gli
Stati Uniti sono stati il caposaldo indiscusso del capitalismo finanziario e
mai prima d’ora qualcuno aveva osato mettere in discussione tale totem.
John
Kennedy: il presidente che voleva controllare la FED.
Il
solo presidente del secondo dopoguerra che osò addentrarsi nel potere della
Federal Reserve Bank che si ergeva al di sopra di quello del governo è stato
John Fitzgerald Kennedy.
Suo
padre, Joe, con un passato a stretto contatto con la malavita negli anni’20 per
via del traffico di liquori ai tempi del proibizionismo, aveva deciso di
utilizzare quella ricchezza per aiutare la carriera politico di suo figlio e
aiutare gli Stati Uniti ad emanciparsi da tale potere.
Nel
libro di “Michael Collins Piper”, “Il legame mancante” viene riferito di un
incontro tra Joe Kennedy, padre di JKF, e un imprenditore dell’epoca, “De West
Hooker”, che voleva aiutare la carriera politica della famiglia nella speranza
di liberare gli Stati Uniti dalla morsa della lobby sionista.
Joe in
quel colloquio riconosce candidamente che tutta la sua vita è stata dedicata a
combattere quel potere e che adesso tutta la sua sapienza era stata passata
nelle mani dei suoi figli.
John
Fitzgerald non era un presidente che andava di certo d’accordo con la finanza
ebraica o con la lobby sionista.
Gli
scontri tra lui e gli israeliani sono stati la causa che ha portato al suo
assassinio a Dealey Plaza il 22 novembre del 1963, dopo il suo fermo rifiuto di
non fermare il programma nucleare israeliano che, ad oggi, ha consentito allo
stato ebraico di possedere illegalmente armi nucleari in Medio Oriente, anche
se i suoi vicini non sembrano essere rimasti a guardare e pare si siano
segretamente dotati negli ultimi tempi anch’essi di testate nucleari, come
l’Iran, per avere a loro volta la facoltà di disincentivare gli israeliani
dall’usare queste devastanti armi.
Il
dollaro emesso da Kennedy recava in testa la scritta “Banconota degli Stati
Uniti” e non “banconota” della FED.
Kennedy
però non voleva soltanto fermare il potere politico del sionismo, ma anche
quello finanziario ed aveva in programma di tornare ad una emissione del
dollaro da parte direttamente del Tesoro degli Stati Uniti senza dover passare
dalla FED, nelle mani dei privati.
JFK
non aveva altro in mente che il ritorno al celebre “greenback” di “Abraham
Lincoln”, il presidente che esattamente un secolo prima di Kennedy aveva
stabilito che avrebbe dovuto essere il governo a stampare il dollaro, in
quantità virtualmente illimitata, fino a quando i bisogni dell’economia
americana lo avessero ritenuto necessario.
I due
uomini sono andati incontro allo stesso destino, uccisi da comitati d’affari
massonici e finanziari estremamente potenti, perché avevano provato a fare
quello che pochi altri presidenti avevano fatto, ovvero rendere finalmente gli
Stati Uniti una nazione sovrana.
Donald
Trump è certamente il presidente che ha raccolto la loro eredità e che è
riuscito a compiere quello che i suoi due predecessori avevano fatto in una
maniera meno aperta e dichiarata di Lincoln e Kennedy, ma i risultati però
sembrano andare nella stessa direzione.
A far
notare come Trump stesse segretamente in possesso della FED è stato un attento
osservatore come” Joe Lange”, che in un articolo del 2023 aveva ricostruito le
varie tappe del rapporto tra la banca centrale americana e Trump.
Tra i
primi atti di Trump, c’è stato quello di nominare le due posizione lasciate
vacanti del consiglio di amministrazione della FED dal suo predecessore, Obama,
che probabilmente mai avrebbe immaginato di vedere sconfitta Hillary Clinton
per mano del candidato repubblicano.
Non lo
immaginava nessuno in realtà perché sia a Washington che a Wall Street erano
molto sicuri che si sarebbe insediata l’ex segretario di Stato americano e che
si sarebbe viaggiati a rapidi passi verso la governance globale, ma com’è noto
non è andata così.
Trump
si insedia, e non appena inizia il suo mandato si dimettono altri 3 membri del
consiglio direttivo della FED, e questo gli consente di nominare ben 5 uomini
in quell’organismo, e questo certamente costituisce un problema per l’alta
finanza perché il presidente che c’è alla Casa Bianca è uno che vuole
utilizzare i suoi poteri e vuole controllare e influenzare l’operato della FED.
Il
presidente Trump nomina” Powell governatore” e questo gli consente di nominare
un altro membro del consiglio direttivo perché Powell sedeva anche lui in
questo organismo e così si è aperta un’altra posizione vacante.
La FED
viene così a poco a poco “occupata” dal nuovo presidente ma la svolta più
interessante si ha nel 2020, quando inizia la famigerata farsa pandemica.
I vari
governatori degli Stati iniziano a chiudere le varie attività economiche e
questo provoca una forte recessione nel Paese, a causa della stagnazione
fermata delle imprese.
Trump
ne approfitta per fare una mossa che non risulta avere precedenti e che già
all’epoca suscitò lo sconcerto della nota testata finanziaria “Bloomberg”, uno
dei vari portavoce della finanza anglo sionista.
Il
presidente ricorse nel marzo del 2020 ad uno strumento chiamato come “Special
Purpose Vehicle,” che letteralmente si tradurrebbe come veicolo per uno scopo
speciale, ma è la stessa “Bloomberg” che, allarmata, spiegò, quanto accaduto.
“La
Fed finanzierà uno “Special Purpose Vehicl”e (SPV) per ogni acronimo per
condurre queste operazioni.
Il
Tesoro, attraverso l’”Exchange Stabilization Fund “(ESF), effettuerà un
investimento azionario in ogni SPV e si troverà in una posizione di perdita
primaria”.
Cosa significa?
In sostanza, il Tesoro, non la Fed, sta
acquistando tutti questi titoli e si sta facendo carico dei prestiti;
la Fed
sta agendo come banchiere di ultima istanza e fornendo i finanziamenti
necessari.
La Fed
ha assunto BlackRock Inc. per acquistare questi titoli e gestire
l’amministrazione degli SPV per conto del proprietario, il Tesoro.
In altre parole, il governo federale sta
nazionalizzando ampie fasce dei mercati finanziari.
La Fed sta fornendo i soldi per farlo.
BlackRock
si occuperà delle negoziazioni.
Questo
schema essenzialmente fonde la Fed e il Tesoro in un’unica organizzazione.
Quindi, ecco il nuovo presidente della Fed, Donald J. Trump.”
“Lange”
rileva correttamente come in origine l’”ESF “fosse uno strumento nato nel 1934
per consentire al governo di investire nei mercati valutari, e in seguito è
stato riconvertito per elargire aiuti e prestiti alle banche centrali
stranieri.
Trump
lo ha riconvertito nuovamente.
Si è servito dell’ESF per trasferire parti
dell’economia americana in forte difficoltà direttamente nelle mani del Tesoro
americano e la FED, forse per la prima volta dal dopoguerra, ha assunto le vere
funzioni di una banca centrale che finanzia il deficit dello Stato a favore
dell’economia americana.
Gli
argini da allora sembrano essere stati rotti perché la Federal Reserve non
sembra essere più tornata ad essere quella che un tempo lasciava affondare i
risparmiatori americani e correva in soccorso invece dei vari predatori di Wall
Street, come accaduto, ad esempio nel 2008, quando il fallimento di Lehman
Brothers provocava un terremoto nell’economia mondiale, ma i computer della FED
creavano moneta invece per salvare i colossi della finanza, e non la classe
media americana devastata da quel crollo finanziario.
Un
economista “al di sopra di ogni sospetto” come “Milton Friedman”, famigerato
falco neoliberista, in uno dei suoi rari momenti di sincerità affermò che
l’altra grande crisi del 1929 era stata espressamente provocata dalla decisione
della FED di restringere la liquidità immediatamente prima del crollo.
Le
banche centrali sono come un rubinetto.
Se ad avere questo rubinetto sono gli uomini dell’alta
finanza, allora questo si chiuderà quando ci sarà bisogno di liquidità per i
piccoli risparmiatori, mentre si aprirà a profusione quando si tratterà di
correre in soccorso degli squali del mondo bancario newyorchese e londinese.
L’era
Trump sembra aver messo chiaramente fine allo status storico della FED,
soprattutto se si pensa che la banca centrale americana non è in corsa in
soccorso delle varie banche investite dalla crisi.
La
decisione del 2023 di alzare i tassi da parte della Federal Reserve non aiutò
certo banche come la celebre istituzione bancaria della “Silicon Valley Bank”,
i cui clienti si videro costretti a ritirare i propri soldi per far fronte agli
aumentati costi dei prestiti.
La “Silicon
Valley Bank” era proprio una di quelle banche nelle mani degli onnipresenti
fondi di investimento dei Rothschild, quali Vanguard e BlackRock, e quindi ci
si sarebbe dovuto aspettare sulla carta un intervento della banca centrale
americana.
La FED
invece non mosse un dito per salvare questi colossi. Li lasciò affondare.
Anche
alla “First Republic Bank “toccò la stessa sorte, e dovette intervenire JP
Morgan per acquistarla perché il paracadute della banca centrale anche in quel
caso rimase strettamente chiuso.
La
storia recente ha chiaramente portato la Federal Reserve a non essere più la
riserva illimitata di liquidità che era fino a 10 anni fa per il conglomerato
di Wall Street.
Se
Trump non è arrivato ad una vera e propria nazionalizzazione diretta
dell’istituto, si può dire che ha utilizzato altri strumenti indiretti per
avere un controllo più stringente sulla FED e iniziare a fare in modo che
questa banca centrale da tesoriere dell’alta finanza diventasse invece
tesoriere del governo americano che ha bisogno di creare spesa pubblica per
sostenere l’economica.
Questo
dimostra, tra le altre cose, come Donald Trump non sia affatto un neoliberista
come alcuni suoi detrattori amavano definirlo.
Un
neoliberista non avrebbe mai di fatto utilizzato strumenti legislativi per
fondere la FED e il Tesoro e costringere la prima a salvare le piccole e medie
imprese in difficoltà a suon di vere e proprie nazionalizzazioni.
Un
neoliberista avrebbe lasciato agire la fantomatica “mano invisibile” del
mercato che non avrebbe fatto altro che spazzare via le varie imprese,
fagocitate dalle varie corporation che avrebbero assunto dimensioni ancora più
grosse di quelle prima della crisi.
Trump
sembra essere riuscito a compiere questo ultimo passaggio e se ancora non si
può parlare di nazionalizzazione vera e propria, è certamente un processo che
va nella direzione giusta e anche dalle parti di Harvard, l’ateneo simbolo
dell’establishment americano, sono molto preoccupati che la cosiddetta
indipendenza della FED in questo mandato di Trump possa definitivamente
terminare.
La
liberazione degli Stati Uniti era fatta di diversi passaggi e tra questi c’era
indubbiamente quello di togliere alle famiglie della finanza ebraica di New
York e Londra il potere di controllare la FED americana, che consentiva a
questi gruppi di avere la possibilità di creare moneta in maniera illimitata.
Si
spiega così anche qualcosa che fino a qualche tempo fa era impensabile.
La
famiglia Rothschild che sedeva su immense fortune è stata costretta negli
ultimi anni a mettere all’asta i pezzi pregiati della propria collezione
d’arte, qualcosa che i banchieri originari di Francoforte non avrebbero di
certo fatto se non avessero avuto davvero bisogno di liquidità.
La
piovra sembra davvero annaspare a questo giro e continua a perdere pezzi.
La de dollarizzazione:
l’ultimo chiodo sulla bara della finanza globale.
A
chiudere il cerchio manca soltanto un ultimo tassello.
Manca
appunto la de dollarizzazione definitiva e nonostante le dichiarazioni recenti
di Trump sul dollaro, l’ultima delle cose che il presidente ha intenzione di
fare è fermare appunto la fine dello status del dollaro come valuta di riserva
globale.
La de dollarizzazione
nel corso degli ultimi anni.
Il
presidente vuole infatti abbattere l’enorme deficit commerciale americano e se
i dazi sono certamente un ottimo modo per riequilibrare la bilancia dei
pagamenti, ancora di più lo è togliersi dalle proprie tasche quella valuta che
un tempo tutti volevano per pagarsi le importazioni.
I
BRICS, quindi, stanno facendo proprio quello di cui Trump ha bisogno ma il
presidente è uomo astuto e per ingannare i mezzi di comunicazione, nelle mani
proprie della finanza di New York e Londra, ogni tanto rilascia qualche
dichiarazione contro il mondo multipolare per confondere le acque e sfuggire
all’accusa da parte dei media di essere troppo “filorusso”, ma poi puntualmente
è con i Paesi di questo blocco che interloquisce, mentre punisce quelli ancora
nelle mani di tale apparato, quali Canada, Messico ed Unione europea.
Il
futuro sarà in conclusione molto più equilibrato del passato. Non solo non ci
sarà più lo strapotere militare dell’impero americano, ma non ci sarà più
nemmeno il suo potere finanziario che nel corso dei decenni è stato utilizzato
come una mannaia per punire i vari nemici di Israele e della lobby sionista
americana.
Trump
assieme a Putin hanno portato il mondo nell’era del ritorno degli Stati
nazionali e nell’era dove non ci sarà più il dominio di una valuta su tutte le
altre.
Il
secolo della finanza askenazita sta davvero finendo.
Perché
il governo prende in
prestito
quando può stampare?
Unz.com
- Ellen Brown – (18 giugno 2024) – ci dice:
Nei
primi sette mesi dell'anno fiscale (FY) 2024, gli interessi netti (pagamenti
meno reddito) sul debito federale raggiunto hanno i 514 miliardi di dollari,
superando la spesa sia per la difesa nazionale (498 miliardi di dollari) che
per Medicare (465 miliardi di dollari).
La scheda degli interessi ha anche superato
tutti i soldi spesi per i veterani, l'istruzione e i trasporti messi insieme.
La
spesa per interessi è ora la seconda voce più importante del bilancio federale
dopo la previdenza sociale e la parte in più rapida crescita del bilancio,
sulla buona strada per raggiungere gli 870 miliardi di dollari entro la fine
del 2024.
Secondo
il “Congressional Budget Office”, il deficit del bilancio federale è stato di
857 miliardi di dollari nei primi sette mesi dell'anno fiscale 2024.
In
effetti, il governo sta prendendo in prestito a interesse per pagare gli
interessi sul suo debito, aggravando il debito.
Per il
prestatore, è chiamato "il miracolo dell'interesse composto":
l'interesse sull'interesse si compone in modo esponenziale.
Ma per
il debitore è una maledizione, che si accumula come un cancro al punto da
divorare beni mentre continua a far crescere il debito.
Come
scrive “Daniel Amerman,” analista finanziario, in un articolo intitolato "Potrebbe un incendio di
interesse composto minacciare la solvibilità degli Stati Uniti?":
La più
grande minaccia alla solvibilità del governo degli Stati Uniti e al valore del
dollaro legata al debito potrebbe essere il fatto che gli Stati Uniti non
stanno effettivamente effettuando alcun pagamento netto del capitale o degli
interessi sul loro debito.
Ciò
significa che il governo degli Stati Uniti sta prendendo in prestito denaro per
pagare gli interessi, mentre lo fa per rinnovare i pagamenti del capitale,
mentre prende in prestito ancora di più per finanziare la spesa generale che
eccede le tasse riscosse.
Ciò
crea il rischio di una potenziale capitalizzazione ed accelerazione dei
pagamenti degli interessi sul conto debito. …
In
altre parole, il governo degli Stati Uniti è effettivamente insolvente, in
assenza di alcuni cambiamenti importanti. Questo è esattamente il motivo per
cui dobbiamo anticipare che ci saranno grandi cambiamenti.
Allo
stesso modo, il “Comitato per un Bilancio Responsabile” conclude:
"Senza
riforme per ridurre il debito e gli interessi, i costi degli interessi
continueranno a salire, escludendo la spesa per altre priorità e gravando sulle
generazioni future".
In effetti, noi siamo quella generazione
futura.
I polli sono tornati a casa.
Secondo”
USDebtClock.org”, il debito è ora di 34,8 trilioni di dollari.
Le
stime sono che avremmo bisogno di tassare tutti con un'aliquota del 40%, senza
detrazioni, per bilanciare i bilanci dei nostri governi federali e locali, un
ovvio fallimento.
Le riforme sono necessarie, ma di che tipo?
Perché
il governo prende in prestito la propria valuta?
Questa
domanda è stata posta all'economista” Martin Armstrong”, che ha risposto:
La
teoria era che se si prendeva in prestito denaro piuttosto che stamparlo, NON
si stava aumentando l'offerta di moneta esistente, e quindi, in teoria, non
sarebbe stato inflazionistico.
Questo
sarebbe vero se il debito fosse rimborsato, ma oggi il governo non ripaga il
debito ma continua a rinnovarlo, pagando le vecchie obbligazioni alla scadenza
con nuove obbligazioni – attualmente a tassi di interesse più elevati.
Armstrong
conclude:
Prendiamo
in prestito, il che è peggio della stampa, perché dobbiamo pagare gli interessi
sul costante rinnovo del debito.
Quest'anno spendiamo circa 1 trilione di dollari in
interessi, il debito nazionale totale quando Reagan entrò in carica nel 1981.
Se
avessimo stampato denaro invece di indebitarci, ci sarebbe stata meno inflazione e il capitale avrebbe
creato più posti di lavoro invece di investire nel debito pubblico, che ha solo
finanziato i sogni più sfrenati dei neoconservatori [che ha spiegato come
"l'istituzione di basi militari ovunque".
Nel rapporto
pubblicato dalla” Commissione Grace” durante l'amministrazione Reagan si concluse
che in quel tempo la maggior parte delle entrate fiscali federali sul reddito
andavano solo a pagare gli interessi sul debito crescente del governo.
Una
lettera di accompagnamento indirizzata al presidente Reagan affermava che un
terzo di tutte le imposte sul reddito erano consumate dagli sprechi e
dall'inefficienza del governo federale.
Un altro terzo delle tasse effettivamente
pagate è andato a compensare le tasse non pagate dagli evasori fiscali e dalla
crescente economia sommersa, fenomeno che era fiorito in modo direttamente
proporzionale agli aumenti delle tasse.
Il rapporto si concludeva:
Con
due terzi delle imposte sul reddito delle persone fisiche sprecate o non
raccolte, il 100% di ciò che viene riscosso viene assorbito esclusivamente
dagli interessi sul debito federale e dai contributi del governo federale per i
pagamenti dei trasferimenti.
In altre parole, tutte le entrate fiscali
individuali sul reddito scompaiono prima che un centesimo venga speso per i
servizi che i contribuenti si aspettano dal loro governo.
Thomas
Edisonnel 1921:
Se la
nostra nazione può emettere un'obbligazione in dollari, può emettere una
banconota da un dollaro.
L'elemento
che rende buono il vincolo, rende buono anche il conto.
La
differenza tra l'obbligazione e la cambiale è che l'obbligazione consente ai
broker di denaro di riscuotere il doppio dell'importo dell'obbligazione e un
ulteriore 20%, mentre la valuta non paga nessuno se non coloro che
contribuiscono direttamente in qualche modo utile.
È
assurdo dire che il nostro paese può emettere 30 milioni di dollari in
obbligazioni e non 30 milioni di dollari in valuta.
Entrambe
sono promesse di pagamento, ma una promessa ingrassa gli usurai e l'altra aiuta
il popolo.
È più
economico stampare denaro direttamente che prendere in prestito denaro con
interessi che non vengono mai ripagati.
I Greenbacker
che marciarono su Washington nel 1897 avevano ragione.
Dovremmo
stampare denaro, non per iniziative speculative ("reddito non
guadagnato"), ma per iniziative produttive.
I
Greenbacker cercarono di tornare al sistema in cui il governo di Lincoln
emetteva direttamente banconote o Greenback statunitensi, per evitare un debito
paralizzante con i banchieri britannici.
Stavano marciando per i produttori economici,
i contadini e gli operai delle fabbriche, rappresentati dallo Spaventapasseri e
dall'Uomo di latta nel Mago di Oz , che trasse la sua trama da quella prima
marcia su Washington.
Non si
creerà iperinflazione semplicemente stampando denaro? Non necessariamente.
L'inflazione dei prezzi deriva da troppo denaro che
insegue troppo pochi beni.
Quando
il denaro viene utilizzato per creare nuovi beni e servizi, i prezzi rimangono
stabili.
Ciò è
stato dimostrato dai cinesi quando hanno aumentato l'offerta di moneta di un
fattore del 1800% (18 volte) nei 23 anni tra il 1996 e il 2020.
Il nuovo denaro è stato destinato alle
infrastrutture e ad altre forme di produttività, aumentando il PIL allo stesso
ritmo;
e
l'inflazione dei prezzi è rimasta costantemente bassa durante quel periodo.
Ma il
senno di poi è sempre perfetto. Cosa si può fare ora per quanto riguarda il
debito federale in aumento e la legge sugli interessi?
Possibili
soluzioni per il Tesoro.
Ipoteticamente,
il Tesoro potrebbe riacquistare il suo debito.
Ma con
il nostro sistema attuale, ciò dovrebbe essere fatto con più debito, a tassi di
interesse ancora più alti.
In
effetti, il Tesoro lo sta facendo ora, ma in proporzioni modeste e per uno
scopo diverso.
Il suo
obiettivo è creare un mercato liquido nei titoli del Tesoro a lungo termine, il
tipo di obbligazioni che la “Silicon Valley Bank” è stata costretta a vendere
con un forte sconto, generando fondi insufficienti per scongiurare la massiccia
corsa ai suoi depositi nel marzo 2023.
Si è scoperto che quasi 200 banche si
trovavano in difficoltà simili e ugualmente vulnerabili alle corse.
Tuttavia,
sarebbe controproducente per il Tesoro riacquistare gran parte del suo debito
con più debito a interessi più alti, il che non farebbe altro che aggravare il
debito e l'onere degli interessi.
In
alternativa, potrebbe emettere monete da 35 trilioni di dollari.
L'idea
di coniare monete di grosso taglio per risolvere i problemi economici è stata
evidentemente suggerita per la prima volta da un presidente della
sottocommissione per la monetazione della Camera dei Rappresentanti degli Stati
Uniti nei primi anni '80.
Ha
sottolineato che il governo potrebbe ripagare l'intero debito con alcune monete
da miliardi di dollari, semplicemente "stampando" o
"coniando" il denaro.
La Costituzione conferisce al Congresso il potere di
coniare moneta e regolarne il valore, e non viene posto alcun limite al valore
delle monete che creano. Naturalmente, oggi queste dovrebbero essere monete da
trilioni di dollari.
Nella
legislazione avviata nel 1982, tuttavia, il Congresso scelse di imporre limiti
agli importi e alle denominazioni della maggior parte delle monete.
L'unica eccezione fu la moneta di platino, che
una disposizione speciale consentiva di coniare in qualsiasi quantità per scopi
commemorativi.
Nel
2013, un avvocato di nome Carlos Mucha, che scriveva un blog con lo pseudonimo “Beowulf”,
propose di emettere una moneta di platino per sfruttare questa scappatoia;
e con l'infinita paralisi al Congresso sul
tetto del debito, venne ripresa da seri economisti come un modo per dare scacco
matto ai falchi del deficit.
Philip Diehl , ex capo della Zecca degli Stati
Uniti e coautore della legge sulla moneta di platino, confermò che la moneta
sarebbe stata a corso legale:
Nel
coniare la moneta di platino da 1 trilione di dollari, il Segretario al Tesoro
eserciterebbe l'autorità che il Congresso ha concesso regolarmente per più di
220 anni. in base al potere espressamente conferito al Congresso dalla
Costituzione (articolo 1, sezione 8).
Coniare
monete da trilioni di dollari evoca immagini di banconote da milioni di marchi
che riempiono carriole.
Ma
come osserva l'economista “Michael Hudson”:
Ogni
iperinflazione nella storia è stata causata dal servizio del debito estero che
ha fatto crollare il tasso di cambio.
Il problema è quasi sempre derivato dalle
tensioni valutarie estere in tempo di guerra, non dalla spesa interna.Il Prof.”
Randall Wray” ha spiegato che la moneta non circolerà ma sarà depositata sul
conto del governo presso la Fed, quindi non potrebbe gonfiare l'offerta di
moneta circolante.
Il bilancio avrebbe ancora bisogno
dell'approvazione del Congresso.
Per
tenere sotto controllo la spesa, il Congresso dovrebbe solo rispettare alcune
regole di base dell'economia.
Potrebbe spendere in beni e servizi fino alla piena
occupazione senza creare aumento dei prezzi (poiché la domanda e l'offerta
aumenterebbero insieme).
Dopodiché,
avrebbe bisogno di tassare, non per finanziare il bilancio, ma per ridurre
l'offerta di moneta circolante ed evitare di far salire i prezzi con un eccesso
di domanda.
Se
l'emissione di 35 monete del valore di un trilione di dollari ciascuna sembra
troppo radicale, il Tesoro potrebbe emettere solo un trilione di dollari
all'anno, destinato specificamente a coprire gli interessi.
Un
approccio ibrido simile ha funzionato per i coloni della Pennsylvania quando
hanno formato la loro prima banca di proprietà del governo all'inizio del XVIII
secolo.
Altre
colonie emettevano "scrip coloniale", ma era più facile emettere lo
scrip che tassarlo, e in genere emettevano troppo, gonfiando l'offerta di
moneta e svalutando la moneta.
I coloni della Pennsylvania formarono una
"banca della terra" ed emisero denaro come prestiti agli agricoltori
al 5% di interesse.
Per coprire gli interessi non creati nei
prestiti originali, il governo è stato in grado di emettere direttamente titoli
cartacei per finanziare il proprio bilancio.
Di conseguenza, la Pennsylvania divenne
l'economia più produttiva delle colonie.
Che ne
dici di attingere alla Federal Reserve?
La Fed
è in grado di emettere denaro senza interessi, non come i depositi creati dalle
banche che circolano come la nostra offerta di moneta M2, ma come le riserve
necessarie alle banche per soddisfare i trasferimenti e i prelievi interbancari.
Quando la Fed acquista titoli federali, ha
l'obbligo di restituire gli interessi al Tesoro dopo averne dedotto i costi.
Nel
2011, il candidato presidenziale repubblicano” Ron Paul” ha proposto di
affrontare il tetto del debito semplicemente annullando i 1,7 trilioni di
dollari di titoli federali allora protetti dalla Fed.
“Stephen Gandel” ha spiegato la soluzione di “Paul”
su “Time Magazine”, il Tesoro paga gli interessi sui titoli alla Fed, che
restituisce il 90% di questi pagamenti al Tesoro.
Nonostante
questo gioco di carte dei pagamenti, i 1,7 trilioni di dollari in obbligazioni
statunitensi di proprietà della Fed sono ancora conteggiati per il tetto del
debito.
Il
piano di Paolo:
Il
piano di Paul:
"Fate in modo che la Fed e il Tesoro
strappino quel debito. Si tratta comunque di un debito falso. E la Fed è
legalmente autorizzata a restituire il debito al Tesoro per essere distrutto.
Anche
il deputato democratico “Alan Grayson” ha appoggiato questa proposta.
Ma da
giugno 2022, la Fed non ha acquistato titoli, ma ha venduto quelli che già
possiede, riducendo il suo bilancio nel tentativo di combattere l'acquisto dei
prezzi riducendo l'offerta di moneta attraverso un "inasprimento
quantitativo".
La
banca centrale è considerata "indipendente" dal Congresso, ma
probabilmente il Congresso potrebbe rivedere il “Federal Reserve Act” per
richiedere alla Fed di acquistare titoli federali.
Un'imposta
sulle transazioni finanziarie.
Escludendo
queste alternative, un'altra possibilità è una tassa sulle transazioni
finanziarie molto bassa.
In un
libro del 2023 intitolato “A Tale of Two Economies”:
A New
Financial Operating System for the American Economy, il veterano di Wall Street
Scott Smith sostiene che stiamo tassando le cose sbagliate: il reddito e le vendite fisiche.
In
effetti, abbiamo due economie:
l'economia materiale in cui beni e servizi
vengono acquistati e venduti, e l'economia monetaria che implica il trading di
attività finanziarie (azioni, obbligazioni, valute, ecc.) – fondamentalmente
"fare soldi" senza produrre nuovi beni o servizi.
Attingendo
ai dati della “Banca dei Regolamenti Internazionali” e della “Federal Reserve”,
Smith mostra che l'economia monetaria è centinaia di volte più grande
dell'economia fisica.
Il buco di bilancio potrebbe essere colmato
imponendo una tassa di appena lo 0,1 per cento sulle transazioni finanziarie,
eliminando non solo le imposte sul reddito, ma ogni altra impostazione che
paghiamo oggi.
Con una tassa sulle transazioni finanziarie
(TTF) dello 0,25%, potresti finanziare benefici che oggi non possiamo
permetterci e che stimolerebbero la crescita dell'economia reale, tra cui non
solo le infrastrutture e lo sviluppo, ma anche l'università gratuita, un
reddito di base universale e l'assistenza sanitaria gratuita per tutti.
Smith
sostiene che potresti anche ripagare il debito nazionale in 10 anni o meno con
un TTF dello 0,25%.
Queste
proposte sono troppo radicali? Forse, ma le crisi esistenziali richiedono
soluzioni radicali.
Gaza:
le Roboanti Minacce di
Trump
e le Trattative con Hamas.
Conoscenzealconfine.it
– (10 Marzo 2025) - Davide Malacaria – ci dice:
Nuova
esternazione di Trump su Gaza, nuovo allarme.
Sostanzialmente ha minacciato l’intera
popolazione di Gaza, che periranno se non saranno rilasciati gli ostaggi,
aggiungendo che l’America sta fornendo a Israele il necessario per “finire il
lavoro”, cioè portare a compimento il genocidio.
Notizie
che stridono palesemente con la notizia che vede gli americani avviare delle
trattative dirette con Hamas…
Di
Esternazioni e Impensabili Contatti.
Esternazioni
che sembrano fare del presidente Usa un convinto sostenitore del genocidio
palestinese, supportato dalla precedente amministrazione Usa e da tutti i Paesi
europei che oggi si scagliano contro i malvagi russi.
Minacce che si sono intrecciate con le
dichiarazioni del portavoce dal Consiglio di Sicurezza nazionale Usa, secondo
il quale Trump non avrebbe accolto il piano egiziano per la Striscia, rimanendo
fedele alla sua “Riviera di Gaza.“
Fin
qui le cattive notizie, soprattutto per i derelitti palestinesi, ma che
stridono palesemente con la notizia che vede gli americani avviare delle
trattative dirette con Hamas, iniziativa che, come spiega Middle East eye
(MEE), era stata evitata finora dagli Stati Uniti perché significa trattare con
una milizia identificata come terrorista.
Contraddizioni
che appartengono al modus operandi di Trump, ma che toccano il parossismo
quando si tratta di Medio oriente, dal momento che egli deve fare i conti con
le pressioni dei “falchi pro-Israele” che lo sostengono, che si sommano a
quelle della leadership israeliana.
Pressioni
che agiscono in combinato disposto e che non può sfidare impunemente.
Così,
per evitare che la notizia di una trattativa diretta con Hamas innescasse una
levata di scudi – gli Usa che trattano con i terroristi del 7 ottobre… – Trump
si è lanciato in un’intemerata che superava a destra anche Netanyahu.
Piccolo
particolare aggiuntivo, che fa comprendere la portata dello strappo
dell’amministrazione Trump:
l’America
ha tenuto nascosto a Tel Aviv la sua intenzione di trattare con Hamas, tanto
che questa ne è venuta a conoscenza da altre fonti (Haaretz).
Anche
questa è una novità:
in
precedenza gli Stati Uniti avevano sempre comunicato preventivamente a Israele
le loro mosse sullo scacchiere mediorientale.
Si può
immaginare l’irritazione di Netanyahu e dei suoi falchi, come si intuisce da un
accenno del citato articolo di “MEE”.
Così
veniamo al futuro di Gaza.
Ad
oggi tutto è bloccato:
dopo
il rifiuto di Hamas di estendere la fase uno della tregua proposta da Israele
per evitare di iniziare la fase due, cioè di trattare sulla pace duratura, Tel
Aviv ha bloccato tutti gli aiuti alla Striscia, condannando due milioni di
persone alla fame e agli stenti.
E affila le lame per una nuova ondata
distruttiva.
Per
questo ha rifiutato di adempiere agli accordi presi con Hamas, che prevedevano
il passaggio alla fase due.
E per questo ha rigettato subito, senza
neanche visionarlo, il piano proposto dall’Egitto, sostenuto dalla Lega araba,
di alcuni giorni fa.
Così “Haaretz”:
“Per
Netanyahu, qualsiasi piano che offra una fine alla guerra a Gaza è
inaccettabile perché accelererebbe il crollo della sua coalizione di governo. I
fanatici partner della sua coalizione sognano di riprendere la guerra,
espellere i palestinesi e costruire insediamenti ebraici a Gaza”.
Sul “Nie”t
Israeliano e Quello Apparente degli Usa.
Tale
rigetto, come accennato, è stato subito avallato, apparentemente, dagli Stati
Uniti attraverso il portavoce dal Consiglio per la sicurezza nazionale.
Ma la
smentita Usa appare relativa.
Infatti, come annota “MEE”, “secondo gli
analisti, i governanti dei Paesi arabi ignorano le dichiarazioni dei portavoce
e dei diplomatici, dando peso piuttosto alle dichiarazioni dirette di una
piccola e affiatata cerchia di consiglieri di Trump, come l’inviato per il
Medio Oriente 2Steve Witkoff2, e del presidente stesso”.
Concetto
ribadito da un alto diplomatico arabo interpellato da “Amir Tibon” per “Haaretz”,
il quale ha spiegato che il “niet” di Washington è stato frustrante, ma “non
deve essere visto come il punto di arrivo degli sforzi dei paesi arabi.
‘Ci
sarà una lunga negoziazione sulla questione’.
Siamo
solo all’inizio del processo “.
Peraltro
va annotato, come accennava “MEE”, che i Paesi arabi hanno accolto con un
sospiro di sollievo il discorso al Congresso di Trump, perché in esso non ha
fatto cenno alla Striscia, ma soprattutto ha evitato di ribadire il suo piano
sulla “Riviera di Gaza”.
E si dicono fiduciosi del fatto che alla fine
egli accoglierà le loro proposte, che non prevedono lo sfollamento dei
palestinesi.
Sempre
“MEE” rivela però una criticità del piano egiziano, che avrebbe motivato il
primo rifiuto.
Sebbene
sia alquanto dettagliato sulla ricostruzione di Gaza e sul governo tecnico di
transizione che dovrebbe gestire la Striscia, nulla dice di “Hamas”.
Così
il media arabo: “per essere onesti, nella proposta della Lega Araba non c’è
nulla di specifico su Hamas”.
E il futuro di Hamas è nodo cruciale.
Il
punto è che nessun Paese arabo può proporre in maniera assertiva ad “Hamas” di
non partecipare al governo futuro della Striscia o di disarmare, né altro di
simile. Ormai per le masse arabe “Hamas” è un simbolo irrinunciabile della
Palestina.
La sua resilienza è raccontata con enfasi dai
media arabi in parallelo alle immani sofferenze dei palestinesi.
Così
hanno lasciato agli Stati Uniti il compito di trattare con “Hamas” la
questione, che sembra appunto quel che sta accadendo.
Il “Jerusalem
Post,” infatti, rilancia una notizia “Reuters” in cui si spiega che “mercoledì
scorso si sono svolti colloqui tra l’inviato del presidente degli Stati Uniti
Donald Trump per il Medio Oriente, “Steve Witkoff”, i leader di Hamas e i
mediatori di Egitto e Qatar […]”.
Sulle
Trattative Usa-Hamas.
“Secondo
alcune fonti, durante i colloqui tra Stati Uniti ed Egitto si è discusso della
gestione di Gaza dopo la fine della guerra, compresi i nomi di coloro che
avrebbero gestito la Striscia.
Le
fonti affermano che i colloqui si sono conclusi positivamente e indicano una
transizione imminente verso una seconda fase dell’accordo sul cessate il fuoco.“
Un
cenno sulle richieste americane si può rinvenire anche nel minaccioso messaggio
di Trump, nel quale si legge:
“Per la leadership [di Hamas] è arrivato il
momento di lasciare Gaza”.
Con un simile esilio si chiuse la lunga guerra
libanese.
E questa sarà una linea rossa per gli Usa,
mentre il messaggio nulla dice sul disarmo di Hamas e sul suo ruolo futuro:
le
trattative sono in corso.
Un’opzione
da tempo in discussione, rifiutata ovviamente da Netanyahu (ma tant’è), è che
la Striscia sia guidata dall’Autorità palestinese.
“MEE”, peraltro, nota che “nello stesso giorno
in cui la Lega Araba ha approvato il piano post-bellico per Gaza, il presidente
palestinese Mahmoud Abbas ha annunciato un’amnistia generale per i membri del
partito politico palestinese Fatah espulsi“.
Ciò si deve, spiega MEE, alle pressioni dei
Paesi arabi.
Allo
stesso tempo,” Abbas” ha annunciato che creerà la carica di vicepresidente,
finora assente: un modo per ricomprendere nel governo ambiti palestinesi finora
esclusi.
Va
ricordato che nel suo discorso al Congresso, Trump si è limitato ad accennare
che il Medio oriente è “un’area molto difficile” e che nella regione “si stanno
muovendo molte cose”.
Cenno
significativo anche per Gaza (a proposito, il messaggio minaccioso di Trump
inizia con “Shalom Hamas…”, aggiungendo che significa “ciao” o “arrivederci”,
ma la traduzione precipua è “pace”).
Partita
difficilissima, nella quale si gioca il destino di milioni di persone.
Si spera che le manovre sottotraccia per
arrivare a una soluzione dell’attuale crisi non vengano bombardate.
(Davide
Malacaria - autore del blog “Piccole Note”).
(lantidiplomatico.it/autori-_piccole_note/38479/
– https://t.me/PiccoleNoteTelegram).
(lantidiplomatico.it/dettnews-gaza_le_roboanti_minacce_di_trump_e_le_trattative_con_hamas/45289_59554/).
Management
e burocrazia:
geopolitica
del Minotauro.
Legrandcontinent.eu
- Lorenzo Castellani – (31 agosto 2023) - ci dice:
Dai
comuni isolati alle placche continentali, un mostro ibrido ha preso le redini
della politica. Nel mondo del Minotauro, manageriale e burocratico, come
risvegliare «lo spirito delle istituzioni»?
Spunti
di dottrina Politica.
Poche
settimane fa la grande società di consulenza McKinsey ha pubblicato un
interessante report intitolato “Geopolitical resilience”:
The
new board imperative in cui si tratteggiano una serie di soluzioni manageriali
per fronteggiare i rischi geopolitici, saliti in cima alle priorità strategiche
delle aziende.
Come si deve affrontare una pianificazione
degli investimenti pluridecennale in un contesto geopolitico in rapida
evoluzione?
Come
fanno le aziende a destreggiarsi nel crescente groviglio normativo dei
controlli sulle esportazioni, delle sanzioni e dei requisiti di localizzazione
dei dati, che spesso si intersecano tra loro e limitano sempre più un’impronta
globale senza soluzione di continuità?
si
chiedono i consulenti di McKinsey aprendo un filone di riflessione che segna un
cambio di paradigma rispetto all’epoca della globalizzazione, del «mondo
piatto» e del mercato libero e che mostra la crescente interazione tra
management e governo dovuta ai cambiamenti politici ed economici di questi
anni.
La
relazione tra management privato e apparati governativi non è una novità così
come che i consulenti cerchino di porsi da cuscinetto tra le due categorie, ma
lo sviluppo storico di questo rapporto, e i suoi riflessi politici, devono
ancora essere indagati in maniera approfondita.
La
relazione tra management privato e apparati governativi non è una novità.
Lorenzo
Castellani.
Nell’ultimo
secolo la «gemellanza siamese» tra management e burocrazie ha creato un vero e
proprio sistema di governo, più o meno implicito a seconda delle fasi storiche,
che può essere rappresentato attraverso la figura mitologica del Minotauro, un
mostro metà burocrate e metà manager.
Questo
sistema di governo ibrido ha pesato sulla storia contemporanea e sulla
formazione delle élite almeno quanto lo sviluppo della democrazia
rappresentativa.
Le
premesse del Minotauro novecentesco erano però già insiti nelle epoche
precedenti che mostravano un progressivo processo di razionalizzazione
politico-burocratico ed economico.
L’evoluzione
storica del profondo rapporto tra stato e mercato, e in particolare del loro
sistema operativo e attuativo, è dunque interessante per tratteggiare una
storia del potere di lunga durata e che vada oltre i confini della politica in
senso stretto.
Per questa ragione nel mio ultimo libro “Il
minotauro”.
Governo
e management nella storia del potere (LUP 2023) ho cercato di mettere a fuoco
la relazione tra il management, cioè l’organizzazione del settore industriale,
e il governo, cioè l’organizzazione del settore pubblico.
Entrambi
condividono l’idea dell’amministrazione.
E
senza le risorse, le direttive, le procedure, i calcoli, l’organizzazione
dell’amministrazione il concetto moderno di potere sarebbe molto difficile da
codificare così come risulterebbe astratta, ideologica e poco realistica la
visione di una separazione totale tra sfera pubblica e privata, di una distanza
aprioristica, conflittuale a prescindere, tra burocrazia e management.
Al
contrario la storia mostra una convivenza fatta più di cooperazione,
contaminazione e ibridazione che di lotta e avversione.
Senza
le risorse, le direttive, le procedure, i calcoli, l’organizzazione
dell’amministrazione il concetto moderno di potere sarebbe molto difficile da
codificare.
Lorenzo
Castellani.
Oggi
il rapporto tra pubblico e privato si sta rimodulando radicalmente.
Fino a pochi anni fa il management delle
aziende e i dirigenti della pubblica amministrazione dovevano preoccuparsi
soltanto dell’efficienza dei processi e dell’efficacia dell’esecuzione.
Essi potevano vivere in due mondi separati che
di rado si intersecavano e quando accadeva era più per sfruttare opportunità
positive (commesse pubbliche, investimenti in ricerca ecc.) che per
fronteggiare rischi.
Oggi
le tensioni internazionali, la guerra in Ucraina, il protezionismo, le nuove
domande politiche di sicurezza hanno in pochi anni cambiato radicalmente il
paradigma politico ed economico con impatti rilevanti sulla relazione tra
management e governo.
Di
recente, infatti, l’interventismo pubblico è tornato sotto molteplici forme, le
“supply chain” si sono ridefinite, le fonti energetiche diversificate, nuovi
settori tecnologici sono diventati fondamentali per lo sviluppo economico e la
difesa, le materie prime sono tornate ad avere un peso specifico notevole.
Il mondo di oggi si ridefinisce intorno a
nuove domande di sicurezza e protezione allora le organizzazioni, pubbliche e
private, dovranno adeguarsi al cambiamento seguendo nuove coordinate, stimoli e
analisi.
Come
intuisce il rapporto di “McKinsey”, una nuova era nel rapporto tra management e
governi si sta aprendo con nuovi rischi e opportunità.
La conoscenza storica può essere utile per
capire le tendenze di lungo periodo, analizzare i meccanismi politici,
culturali ed economici alla base della transizione in corso, elaborare le
possibili strategie per fronteggiare i nuovi problemi e i nuovi rischi.
Una
nuova era nel rapporto tra management e governi si sta aprendo con nuovi rischi
e opportunità
Lorenzo
Castellani.
L’obiettivo
del libro è in apparenza semplice:
scrivere
la storia del rapporto tra governo e management dalle origini ai nostri giorni.
Tuttavia, questi due elementi provengono da
storie e vicende molto differenti e instaurano tra loro una relazione profonda
ma non sempre di facile individuazione. Il governo è una entità multiforme –
fatta di vertici politici, burocrazia, eserciti, regole e simboli – emanazione
dello Stato moderno che a sua volta è stato declinato in forme differenti a
seconda delle fasi storiche e delle aree geografiche. Tendenze simili sul piano
politico si innestano in contesti diversi che rendono difficile la schematizzazione
dell’esperienza statuale.
Secoli
di storia, armi, sangue, diritti, rivoluzioni, tribunali, parlamenti hanno
segnato la vicenda evolutiva del governo come istituzione che però, già dal
diciassettesimo secolo, portava in sé i geni dell’organizzazione, della
statistica, della calcolabilità, della ricerca di una scienza del governo e di
una razionalità strumentale agli scopi politici. Lo Stato moderno è una
progressiva fusione di sovranità, costituzione e amministrazione.
Il
management, al contrario, si affaccia alla storia soltanto alla fine
dell’Ottocento come espressione di un capitalismo più maturo che diviene, di
conseguenza, pronto a sostituire il genio dell’imprenditore singolo con la
competenza di una classe di dirigenti industriali, i manager.
La
corporation, la società per azioni, è l’istituto giuridico che rende possibile
questa evoluzione.
Se
queste sono le premesse non va però dimenticato che il management assunse
subito un profilo più sociale, legato all’idea di sviluppo e modernizzazione,
poiché veniva presentato nella sua traduzione politica come un insieme di
tecniche organizzative che avrebbero generato un gioco a somma positiva per
tutti:
per gli investitori e i proprietari che
avrebbero massimizzato produttività e utili, per i manager che avrebbero visto
crescere il proprio ruolo e il proprio prestigio nell’azienda e per gli operai
che avrebbero guadagnato di più e lavorato in un ambiente più sano e sicuro.
Il
management avrebbe azzerato il conflitto sociale tornando utile anche al
governo.
In
questo contesto dinamico il rapporto tra management e governo si creò quasi
immediatamente dopo la teorizzazione del primo.
Il
rapporto tra management e governo si creò quasi immediatamente dopo la
teorizzazione del primo.
Lorenzo
Castellani.
Basti
pensare che la prima applicazione pratica della teoria del management non è
avvenuta in un’azienda, ma in organizzazioni non profit e agenzie governative.
“Frederick
Winslow Taylor”, il pioniere del management scientifico, nel suo biglietto da
visita si identificava come «Consulente per il Management» e spiegava di aver
scelto intenzionalmente questi termini nuovi e strani per scioccare i
potenziali clienti e far loro capire che offriva qualcosa di totalmente nuovo.
Ma
Taylor non citò un’azienda, bensì la “Mayo Clinic”, un’organizzazione senza
scopo di lucro, come «esempio perfetto» di «Scientific Management» nella sua
testimonianza del 1912 davanti al Congresso, che per la prima volta rese i
politici gli Stati Uniti consapevoli del management e delle sue potenzialità
trasversali.
E
l’applicazione più pubblicizzata dello «Scientific Management» di Taylor non fu
in un’azienda, ma nell’”Arsenale di Watertown”, di proprietà del governo e
gestito dallo stesso, dell’esercito degli Stati Uniti.
Il primo lavoro a cui è stato applicato il
termine «manager» nel suo significato attuale non era in un’azienda.
Si trattava del “City Manager”, un’invenzione
americana dei primi anni del secolo che mirava a rendere più professionalizzata
ed efficiente la pubblica amministrazione.
Anche
la prima applicazione consapevole e sistematica dei «principi di management»
non avvenne in un’azienda.
È
stata la riorganizzazione dell’esercito degli Stati Uniti nel 1901 da parte di “Elihu
Root”, Segretario alla Guerra di Theodore Roosevelt.
Il
primo Congresso sul Management – tenutosi a Praga nel 1922 – non fu organizzato
da uomini d’affari, ma da “Herbert Hoover”, allora Segretario al Commercio
degli Stati Uniti, e “Tomáš Masaryk”, storico di fama mondiale e presidente
fondatore della nuova Repubblica cecoslovacca.
“Mary
Parker Follett,” il cui lavoro accademico sul management iniziò poco dopo
questo congresso, non fece mai distinzione tra gestione aziendale e non
aziendale. Parlava di gestione delle organizzazioni, a cui si applicavano gli
stessi principi, senza distinzione tra pubblico e privato, profit e no profit.
Il
management, inoltre, trovò terreno fertile nel settore pubblico grazie alla
concezione tardo ottocentesca, sviluppata in primo luogo da “Woodrow Wilson”,
in cui l’amministrazione pubblica inizia a esser considerata come una
organizzazione che poteva essere organizzata seguendo principi scientifici
oltre che politico-legali.
Come il management poteva aumentare la
produttività del lavoro nelle fabbriche, con benefici e pace sociale per tutti,
così la divisione dei ruoli e delle funzioni poteva essere adatta al governo
per accrescere l’efficienza della propria azione.
Ma
forse c’è di più di questo poiché lo Stato a cavallo tra il diciannovesimo e il
ventesimo secolo è scosso da ancor più profonde trasformazioni.
Dopo essersi fatto costituzionale
nell’ottocento, lo Stato diviene pluriclasse e democratico, pur scontando
debolezze e instabilità, nei primi decenni del novecento.
Il governo, di conseguenza, si intreccia con
il nuovo avvento delle masse in politica e con i nuovi bisogni del capitalismo
e della società industriale:
l’esecutivo si espande nella sua funzione
previdenziale, sociale, economica.
Ciò
determina la confluenza nel governo di nuovi saperi, tecniche, professionalità,
soprattutto a cavallo tra le due guerre mondiali, e di conseguenza la nascita
di nuovi uffici economici, istituzioni tecnocratiche, enti e aziende pubbliche
che allargano la base del governo e al tempo stesso lo parcellizzano.
Lo
Stato evolve da ente sovrano, titolare della personalità politica e giuridica,
a impresa di sviluppo economico e sociale.
È in questa trasformazione che il management
penetra negli uffici governativi: manager per organizzare la produzione
bellica, per gestire nuovi enti e politiche sociali, per amministrare società e
aziende pubbliche, per organizzare gli approvvigionamenti e poi diffusione del
«taylorismo alla scrivania» per importare le tecniche e procedure del privato
nel pubblico.
Oppure,
nei regimi autoritari e totalitari, il management diviene seducente strumento
di accrescimento della potenza industriale e tecnica della nazione, complemento
pratico dell’ideologia dominante.
Un
volano da utilizzare per il partito unico al comando per perseguire la
modernizzazione, lo sviluppo della potenza, sia nel modello capitalistico che
in quello collettivista.
Nei
regimi autoritari e totalitari, il management diviene seducente strumento di
accrescimento della potenza industriale e tecnica della nazione.
Lorenzo
Castellani.
Nel
secondo dopoguerra la figura del manager è oramai integrata, insieme a
scienziati e altri tecnici, non soltanto nelle articolazioni del governo ma
come attore che partecipa alla costruzione di una nuova società e di nuove
politiche scientifiche, economiche e sociali.
La vicenda manageriale si interseca con le
grandi questioni governative della guerra fredda:
la sicurezza nazionale, il complesso
militare-industriale, la competizione tecnologica e la big science,
l’ammodernamento amministrativo e infrastrutturale, l’ampliamento del welfare
state, la transizione verso l’economia della conoscenza. È questa l’epoca in
cui le organizzazioni pubbliche e private, di fatto e in dottrina, erompono
come attori politici in un mondo in cui i partiti, i sindacati e i parlamenti
iniziano a non riuscire più a coprire tutto «il politico».
La
politica si sublima nell’organizzazione e quindi chiama ancora una volta in
causa il management, che è scienza dell’organizzazione e fattore centrale nella
formazione e nella produzione delle nuove élite, come anche testimonia
l’esplosione dei corsi universitari e delle business school negli anni
cinquanta e sessanta.
Di
fatti, il management presuppone una divisione di ruoli e compiti che soltanto
un sistema meritocratico fondato sulla competenza può supportare e alimentare.
Mentre
i teorici delle élite del primo novecento si riferivano alla «classe politica»
o alla «classe dirigente» per indicare i vertici della società, guardando
principalmente alla politica, nel secondo novecento il meccanismo di produzione
e riproduzione delle élite trascende questi concetti, esonda oltre la politica
e la sommità amministrativa dello Stato, include i vertici di tutte le
organizzazioni, pubbliche e private, che intervengono nel processo decisionale
pubblico e che si fanno interpreti dello sviluppo.
Il concetto di élite si pluralizza, si lega
inscindibilmente alla conoscenza specialistica e la stessa classe dirigente
diviene più flessibile anche grazie al sostrato comune del management i cui
principi possono essere dispiegati in ogni organizzazione profit e no-profit.
Pure
quando il sistema economico misto del dopoguerra inizierà ad entrare in crisi,
nel corso degli anni Settanta, il management sarà capace di reinventarsi ancora
nel suo rapporto col governo.
Ecco
allora che le corporations e le società di consulenza manageriale partecipano
all’elaborazione del nuovo liberalismo degli anni ottanta, propongono e
realizzano privatizzazioni, liberalizzazioni ed esternalizzazioni dei servizi
pubblici, disegnano e popolano nuove istituzioni per la regolazione del
mercato.
Il
governo e i suoi uffici sono chiamati, anche sotto la pressione delle
istituzioni internazionali, ad introiettare lo spirito imprenditoriale,
l’economia della conoscenza, il saper fare dei manager, gli strumenti per
misurare performance e responsabilizzare i dirigenti.
I teorici dell’organizzazione raggiungono
l’apice della propria influenza politica con manuali di management trasformati
in nuove bibbie per riformare l’amministrazione pubblica su scala
internazionale.
Gli
stessi politici imbracciano il management e i manager come modello per la loro
azione, simboli di efficienza e capacità di risolvere i problemi essi divengono
ispiratori dell’azione politica di molti politici occidentali degli anni
ottanta e novanta.
Nasce
un neo-cameralismo che contrappone la scienza del governo e delle finanze,
sempre più centrale, alla rappresentanza politica e alle ideologie, sempre meno
rilevanti nella pratica decisionale e nella teoria dello Stato.
Cambia di conseguenza anche lo sfondo
ideologico:
nella nuova vulgata dominante il mercato e il
privato, di conseguenza il management aziendale, diventano propulsori di
sviluppo se lasciati liberi di esprimersi su scala globale e senza interferenze
da parte del governo.
Anzi
quest’ultimo è chiamato a comportarsi come il privato, nella pubblica
amministrazione si cerca di infondere lo spirito imprenditoriale e di importare
le tecniche manageriali delle multinazionali.
Soltanto
un governo che «costi meno e lavori meglio» può favorire lo sviluppo economico
e sociale e vincere il clientelismo, le rendite, le inefficienze prodotte dallo
Stato.
Pure
quando il sistema economico misto del dopoguerra inizierà ad entrare in crisi,
nel corso degli anni Settanta, il management sarà capace di reinventarsi ancora
nel suo rapporto col governo.
Lorenzo
Castellani.
Anche
quando questo sistema politico, economico e culturale inizierà a incrinarsi,
con la crisi finanziaria del 2007-2008, i governi non smetteranno di guardare
al management che diventerà gestione della crisi prima, anche nelle
amministrazioni pubbliche attraverso gestioni commissariali e governi
tecnocratici, e poi tentativo di amministrare la complessità e
l’interdipendenza di sistemi che trascendono i confini delle nazioni e sono
oramai disposti su una governance multilivello.
Quando
nell’ultimo decennio la creazione di network istituzionali e la new public
governance si riveleranno insufficienti a contenere le trasformazioni della
politica e dell’economia, nuovi indirizzi e strumenti segneranno un ritorno al
potenziarsi dello Stato-nazione attraverso una molteplicità di strategie
costituite da dazi, controllo degli investimenti, limitazioni delle
esportazioni, nuove e vecchie società di Stato e una varietà di fondi a
capitale pubblico, nuovi uffici per l’applicazione e il controllo del nuovo
corso protezionista e interventista.
Ma
ancora il management risulterà fondamentale nella centrifuga del cambio di
paradigma fuori e dentro il perimetro del governo: management strategico e
della complessità, della contingenza, dei sistemi, del comportamento e del
cambiamento, volto a combinare efficienza organizzativa, controllo dei
processi, stimoli psicologici e ambientali, leadership e competenza tecnica con
i nuovi obiettivi politico-amministrativi segnati dalle nuove esigenze di
sicurezza nazionale e di politica industriale.
Contro
il caos generato dal de-risking e dal frazionamento della globalizzazione,
adempiendo alla propria funzione storica, il management privato e quello
pubblico dovranno cercare di ritagliarsi un ruolo di stabilizzatori e
generatori di produttività in uno scenario segnato dall’incertezza, da nuovi
rischi e nuovi costi.
Questo ruolo del manager è richiesto da una
politica che pretende di essere affiancata da istituzioni, competenze e
leadership che non sono direttamente riconducibili al governo popolare ma la
cui legittimità è giustifica nell’ottica della ragion di Stato, dell’emergenza
economica e dei rischi sistemici.
Così
il management può nuovamente prosperare nell’interregno perché soltanto la
costruzione e la legittimazione di nuove organizzazioni pubbliche e private
viene riconosciuta come fattore capace di riportare ordine, stabilità e
prosperità ponendo fine alle intemperie della transizione.
Così
il management può nuovamente prosperare nell’interregno perché soltanto la
costruzione e la legittimazione di nuove organizzazioni pubbliche e private
viene riconosciuta come fattore capace di riportare ordine, stabilità e
prosperità ponendo fine alle intemperie della transizione
Lorenzo
Castellani
Ma è
evidente che in un mondo in cui rischi ed emergenze si moltiplicano e si
intersecano con sempre maggior forza le strutture e l’organizzazione, per
quanto efficienti e coordinate si possano costruire, non sono abbastanza per
governare politica, società ed economia senza disordini e crisi.
Allora
lo sviluppo e la modernizzazione continueranno ad avvalersi del governo e del
management, ma per essere tale dovrà poggiare sulla capacità della società di
generare valore umano, ricchezza civile e autorità che godano di legittimazione
diffusa. I legami sociali, le «legature» tra gruppi sociali e i valori e le
identità infusi in essi, sono ancora essenziali per spronare lo sviluppo:
la creatività, l’innovazione, l’intrapresa, la
solidarietà, la diversità scaturiscono da individui e gruppi che possono
fiorire grazie alla capacità amministrativa e organizzativa, ma affinché ciò
accada con successo e progresso è necessaria una civilizzazione che vada oltre
lo stato e il mercato, una cultura che vada oltre la tecnica, una società
capace di costruire senso e autorità e non soltanto regole e potere.
È evidente anche che la specializzazione dei
saperi e la ricerca della produttività non possano essere l’unico fine poiché
ogni dirigente pubblico e privato sarà chiamato ad una più profonda analisi di
scenario che non concernerà soltanto costi, benefici e profitti.
Servirà
una diversa educazione dei capi, più trasversale e onnicomprensiva, ma anche
nuove istituzioni analitiche e di studio tanto all’interno delle pubbliche
amministrazioni quanto delle aziende.
In un
mondo regolato dal nuovo minotauro serve uno «spirito delle istituzioni» alla
base della società che permetta di temperare e sciogliere i conflitti senza
deflagrazioni, di superare interessi costituiti e forme di patrimonialismo, di
riconoscere e gestire rischi e contemperare azzardi morali, di valorizzare il
concetto di responsabilità pubblica e privata, di dare vita a comunità e reti
sociali fondate sulla conoscenza e sulla solidarietà, di rafforzare il
radicamento senza perdere l’esplorazione dell’orizzonte.
Non basta la ricerca dell’efficienza
nell’organizzazione poiché senza una infusione di valori nelle organizzazioni,
fornita con responsabilità e senso della storia dalla classe dirigente e dalla
leadership, le istituzioni e l’autorità regrediscono a mera razionalità
strumentale, a omologazione ingessata e a scontri di potere tra gruppi. Uno
sviluppo positivo sarà possibile se si saprà edificare sugli appigli che
società, comunità e territori già offrono, riempirli di valori e senso etico,
potenziarli con le strutture del management e del governo, rendere le
istituzioni capaci di raccordare reti e processi molto estesi nello spazio in
una logica di comunione e responsabilità, educare le élite all’eclettismo, alla
tolleranza, alla sobrietà e alla responsabilità.
Se il
minotauro non può essere decostruito o abbattuto senza sfociare nell’utopia
allora ciò che si può fare è ricavare delle intercapedini in cui la libertà, la
solidarietà, l’intraprendenza, la creatività, la pluralità possano prosperare
rinforzando e migliorando a loro volta la legittimità e il funzionamento del
mitico mostro mezzo-burocrate e mezzo-manager.
BUROCRAZIA
(Seconda parte).
Informazionequotidiana.it
- Lorenzo Maria Malara – (1° Marzo 2025) – ci dice:
Riprendendo
la nostra analisi, il dato da cui ripartire è quello della burocrazia come
forma organizzata dell’espressione del potere di governo dello Stato sui
cittadini attraverso gli uffici pubblici.
L’esercizio
di questo potere risulta direttamente collegato all’organizzazione
dell’apparato statale ed ai meccanismi normativi e sanzionatori che, obbligando
al rispetto delle regole, costituiscono le modalità operative del potere
stesso.
Vediamo
quali sono gli effetti dei meccanismi burocratici intesi come estrinsecazione
del potere di governo.
INDICE
DEI CONTENUTI:
LA
BUROCRAZIA COME MEZZO DI CONTROLLO SOCIALE.
ILLEGITTIMITÀ
DELL’ESERCIZIO DEL POTERE: IL CASO DELLA TORTURA.
LA
BUROCRAZIA COME ABUSO DI POTERE.
CONCLUSIONI.
LA
BUROCRAZIA COME MEZZO DI CONTROLLO SOCIALE.
La
burocrazia come esternazione del potere, principalmente amministrativo, e come
espressione del governo di uno Stato, incide direttamente sull’organizzazione
del sistema produttivo e sull’organizzazione sociale dello Stato stesso.
(Max
Weber nel 1918.)
Anche
in questo caso, a partire dalle prime teorizzazioni formulate da Max Weber nel
suo trattato Economia e società, la burocrazia viene inquadrata come
espressione del potere posta a base degli stati democratici (fondati sulla
scelta elettorale) in grado di consentire l’esistenza del sistema del
capitalismo moderno.
(…l’impresa
capitalistica moderna si fonda soprattutto sul calcolo.
Essa richiede per la propria esistenza una
giustizia e un’amministrazione il cui funzionamento possa, almeno in linea di
principio, venire calcolato razionalmente in base a norme generali, nello
stesso modo in cui si calcola la prestazione rivedibile di una macchina.
“Economia e Società”).
Questa
attività di pianificazione e di calcolo, effettuata dal potere governativo e
messa in opera con la predisposizione della macchina burocratica con i suoi
meccanismi, comporta necessariamente l’esercizio di un controllo sociale
cosiddetto organizzato, ovvero conseguente all’adozione di modelli e
stereotipi.
Il
concetto di controllo sociale è stato coniato da “Edward Alsworth Ross” nel
1896 definendo tale il controllo intenzionale della collettività sull’individuo
“dominio sociale che si propone di adempiere, e adempie, una funzione nella
vita della società”.
(Edward
Alsworth Ross- Alfred Coser).
Nello
sviluppo del concetto operato dalla sociologia, ricordiamo la definizione di
Lewis Alfred Coser e Bernard Rosenberg secondo i quali “Il controllo sociale si
riferisce a quei meccanismi tramite i quali la società esercita la sua autorità
sugli individui che la compongono, e fa rispettare la conformità delle sue
norme”.
Il
controllo sociale organizzato è definito il complesso di mezzi e modalità
adoperati da ogni società o gruppo o istituzione al fine di assicurare il
rispetto, da parte dei propri membri, delle norme e dei modelli comportamentali
stabiliti, per evitare i fenomeni di disgregazione.
Nello
specifico, ogni tipo di condizionamento costituisce una forma di controllo
sociale.
L’esercizio
del potere governativo attraverso gli uffici burocratici costituisce, quindi e
nel senso sopra indicato, una forma di controllo sociale previsto e pianificato
dallo Stato, nonché la realizzazione concreta delle scelte operate
dall’elettorato in sede politica.
Il
controllo sociale operato dai meccanismi burocratici si concretizza in un
costante ed univoco orientamento dei comportamenti dei cittadini nei rapporti
con le istituzioni, teso a definire dei percorsi operativi generalizzati ed
imparziali.
La
devianza dai comportamenti, stabiliti attraverso i meccanismi burocratici, è
sanzionata secondo le norme previste dall’ordinamento, che forniscono,
unitamente ai meccanismi sanzionatori, una gradazione della gravità delle
violazioni e della valutazione di antigiuridicità dei comportamenti deviati.
Ma
questo allineamento tra potere governativo, apparato burocratico e controllo
sociale, nel rispetto dei principi normativi vigenti, sembra essere una
costruzione teorica che sconta, all’atto pratico, una serie di criticità che
appaiono con il passare del tempo sempre più insuperabili.
Tra le
criticità rilevate, spicca quella della devianza del potere governativo
azionato dall’apparato burocratico rispetto alle finalità e agli obiettivi
istituzionalmente previsti, ancor più accentuata da fenomeni di corruzione,
inefficienza e mancanza di coordinazione e collegamento degli uffici pubblici.
Nello
specifico vengono in considerazione non tanto le devianze operate dai
destinatari ultimi dei meccanismi burocratici, ovvero dei cittadini, quanto
invece le devianze degli stessi operatori istituzionali preposti
all’organizzazione ed al funzionamento degli uffici burocratici e responsabili
dell’esercizio del potere governativo e dell’erogazione dei servizi.
ILLEGITTIMITÀ
DELL’ESERCIZIO DEL POTERE: IL CASO DELLA TORTURA.
La
realizzazione dei programmi governativi degli Stati moderni ha attraversato, in
alcuni casi, delle fasi di manifestazione del potere governativo sfociate in
autoritarismi repressivi e nella negazione dei diritti fondamentali
dell’individuo.
È il
caso della tortura che, come forma di esercizio del potere e come tecnica di
governo, è stata messa al bando dal diritto internazionale per effetto
progressivo del riconoscimento dei diritti dell’uomo nella dichiarazione
universale del 10 dicembre 1948, elemento costitutivo dell’ONU all’indomani del
secondo conflitto mondiale.
Proprio
l’ONU aveva manifestato la necessità di intervenire a livello internazionale
per definire i diritti fondamentali dell’individuo e fornire una linea di
confine ai Paesi firmatari (ma anche a quelli non firmatari), relativamente
alla possibilità dei singoli Stati di comprimere le libertà ed i diritti delle
persone.
La
tortura manifesta una situazione di superiorità o di potere con l’utilizzo di
una coercizione fisica o psicologica finalizzata ad ottenere contro la volontà,
del soggetto sottoposto a tortura, un determinato bene o un determinato
comportamento.
Il
potere è definito come la capacità di incidere sulla realtà modificandola; in
senso umano è la capacità di modificare situazioni o comportamenti umani.
Esso
pertanto ha la necessità di esprimersi sulla realtà esterna manifestandosi in
modo tale da costituire una differenza percepibile tra chi lo esercita e chi lo
subisce.
Se
l’esercizio di un potere costituisce il lato attivo del rapporto, dal lato
passivo vi è una condizione di patimento e di soggiacenza al potere esercitato.
Uno degli aspetti deteriori della
manifestazione del potere può essere considerata la tortura, che è generalmente
definita come l’inflizione di una sofferenza fisica o psicologica finalizzata
ad ottenere un determinato risultato.
Ma
quando è che l’inflizione di una sofferenza fisica o psicologica può essere
definita tortura?
Nella
questione possiamo essere aiutati dal testo della “Convenzione contro la
tortura” ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata
dall’ONU con Risoluzione 39/46 del 10 dicembre 1984, in vigore sul piano
internazionale dal 26 giugno 1987 e ratificata dal 174 Stati.
In Italia in vigore dall’11 febbraio 1989.
Costituisce
tortura, secondo l’art. 1 della Convenzione del 1984 “ogni atto mediante il quale siano
inflitti intenzionalmente a una persona dolore o sofferenza gravi, sia fisici
che mentali, allo scopo di ottenere da essa o da un’altra persona informazioni
o una confessione, di punirla per un atto che essa o un’altra persona ha
commesso, per intimidirla o sottoporla a coercizione o intimidire o sottoporre
a coercizione un’altra persona o per qualunque ragione che sia basata su una
discriminazione di qualsiasi tipo, a condizione che il dolore o la sofferenza
siano inflitti da o su istigazione o con il consenso o l’acquiescenza di un
pubblico ufficiale o altra persona che svolga una funzione ufficiale.
Non
comprende il dolore o la sofferenza che risultino esclusivamente da, o siano
inerenti o incidentali rispetto a sanzioni lecite”.
L’articolo
2 della predetta convenzione nel comma 3 prevede che “l’ordine di un superiore
o di un’autorità pubblica non può essere invocato a giustificazione della
tortura”.
Nel
caso che ci interessa, ovvero l’esercizio del potere dello Stato, a questi è
conferito altresì il potere di infliggere sanzioni in caso di inosservanza
delle norme. Il modello di riferimento comunemente utilizzato è quello dello
stato democratico, nel quale è il popolo a scegliere le regole e la forma di
governo.
Per
riprendere una definizione weberiana, lo Stato è il monopolio della forza;
a costituire la base della nostra convivenza è
un soggetto giuridico al quale è stato conferito il monopolio della forza.
Quello
che dovrebbe costituire una distinzione tra l’esercizio del potere dello Stato
tramite l’applicazione di costrizioni fisiche o psicologiche e l’esercizio del
potere che viene considerato tortura, è la legittimazione del soggetto che
esercita il potere, oltre che i mezzi di coercizione utilizzati.
Per
questi due ultimi aspetti, se per un verso possono essere individuati mezzi di
coercizione contrari ai principi fondamentali espressi nella dichiarazione dei
diritti dell’uomo, per altro verso l’esercizio del potere statale con l’utilizzo
di mezzi di coercizione appare invece legittimo e giustificato.
Nel
caso dello Stato, per configurare il crimine di tortura occorre che la
coercizione e la sofferenza inflitta sia al di fuori delle forme di coercizione
e di sanzione lecitamente previste dal diritto interno;
la nozione di tortura si riferisce ad atti che
si definiscono ad “effetti privati” intendendo atti comunque non riferibili ad
attività positivamente codificate nello Stato.
Ed in
tal senso anche le sanzioni lecite, ovvero quelle previste dal diritto penale
di uno Stato, sono sottratte dalla qualificazione di tortura.
Se ne
dovrebbe dedurre che la burocrazia, come esercizio di un potere legittimo dello
Stato, nel perseguimento dei propri fini istituzionali non possa costituire
fattispecie di tortura seppure comporta l’inflizione di sofferenze e
coercizioni.
Tuttavia
il concetto di tortura rimane ancora astratto e soggetto ad interpretazioni più
o meno restrittive (vedi la questione delle restrizioni adottate dagli Stati
Uniti per gli interrogatori dei sospettati di terrorismo dopo gli attentati
dell’11 settembre 2001) che ne rendono piuttosto sfumati, se non indeterminati,
i confini. La
nozione di trattamento crudele, inumano o degradante viene accettata nella
misura in cui sia corrispondente ai contenuti della carta costituzionale.
Ma
qual è allora il limite tra un esercizio legittimo del potere ed un esercizio
illegittimo dello stesso potere?
Fino a che punto lo Stato può agire
coercitivamente sui propri cittadini?
LA
BUROCRAZIA COME ABUSO DI POTERE.
Abbiamo
in precedenza evidenziato che le problematiche relative all’esercizio del
potere, oggetto di particolare attenzione e considerazione, non sono quelle
poste a valle dell’esercizio del potere stesso (i cittadini destinatari delle
regole burocratiche), in quanto eventuali devianze, o disallineamenti dei
comportamenti rispetto a quelli richiesti dal potere governativo e dalle
istituzioni preposte, comportano sanzioni e conseguenze codificate, prevedono
interventi e correttivi finalizzati a mantenere l’integrità del sistema.
Le
problematiche maggiormente degne di attenzione e riflessione sono quelle
relative alle devianze attuate nell’organizzazione e nell’esercizio del potere
burocratico.
Quali
sono le conseguenze relative ad un esercizio del potere difforme o contrario
agli obiettivi organizzativi o attuativi previsti dal potere stesso?
Cosa
succede quando un funzionario pubblico esercita il potere del quale è investito
in difformità ed in violazione del mandato ricevuto?
Il
problema non è di poco conto proprio in relazione alle riflessioni svolte in
ordine al concetto di tortura.
Abbiamo
infatti visto che il concetto di tortura non è applicabile ad attività
positivamente codificate nello Stato.
Tuttavia
l’esercizio del potere attuato con difformità rispetto alle attività codificate
dallo Stato comporta l’attuazione di un abuso che costituisce da un lato una
devianza personale del pubblico ufficiale o del funzionario preposto a
quell’ufficio o a quel compito, da un altro lato la mancata realizzazione degli
obiettivi posti dal potere governativo e degli obiettivi istituzionali connessi
anche alla imparzialità dell’operare della pubblica amministrazione.
Nella
generalità dei casi l’abuso operato nell’esercizio della propria funzione o
qualità si traduce in quello che noi nel nostro ordinamento avremmo definito
“abuso d’ufficio”, ma che in ordinamenti diversi dal nostro viene declinato in
fattispecie diverse, riconducibili sostanzialmente ad un “abuso di funzione”.
Questo
abuso di funzione, attuato in ogni caso sotto la veste di esercizio del potere burocratico,
trova alcune contromisure all’interno del nostro ordinamento per effetto
dell’introduzione di alcune fattispecie specifiche di reato nel sistema penale
e per effetto dell’introduzione di modifiche alle ipotesi criminose esistenti,
avendo l’Italia ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la
corruzione (cosiddetta Convenzione di Merida del 31 ottobre 2003) con la legge
n. 116 del 3 agosto 2009, con l’effetto dell’introduzione dell’art. 323 bis del
codice penale.
Per
alcuni passi fatti in avanti, si registra comunque un notevole arretramento
conseguente all’”abrogazione del reato di abuso d’ufficio” ex art. 323 del
codice penale dal nostro ordinamento, questione relativamente alla quale
richiamiamo le considerazioni contenute nell’articolo del 28 settembre 2024.
Il
risultato concreto è quello di avere delle carenze di tutela normativa interna
sugli abusi perpetrati dai funzionari pubblici (nello specifico dai pubblici
ufficiali) nell’esercizio del potere amministrato dagli uffici burocratici.
In
definitiva il potere burocratico nella sua manifestazione, che incontrava il
proprio limite esterno nella violazione delle regole preposte all’esercizio del
potere pubblico sotto forma dell’eccesso di potere e dello sviamento di potere
da parte del pubblico ufficiale, ora trova il proprio limite esclusivamente al
proprio interno nel perseguimento dei fini istituzionali e nelle scelte
politiche di governo.
Dal
punto di vista della cittadinanza il peso della burocrazia assume un’incidenza
progressivamente maggiore, dettata dalla complessità in evoluzione della
struttura istituzionale e sociale dello Stato.
Tale
evoluzione strutturale contraddice, però, la vocazione stessa degli Stati
democratici, che aspirano alla realizzazione delle istanze libertarie degli
individui ed al pieno riconoscimento dei diritti fondamentali declinati nelle
convenzioni internazionali e nelle Carte Costituzionali.
Ne
discende che le organizzazioni burocratiche dei singoli Stati, per la
realizzazione dei progetti e dei piani governativi, tendono sempre più a
restringere e comprimere le libertà dei cittadini con un livellamento
orizzontale che incide direttamente sotto il profilo economico e produttivo
sulla struttura sociale degli Stati.
È
altresì da registrare un processo di coordinamento internazionale delle
organizzazioni burocratiche, teso a favorire i sistemi di scambio economico e
finanziario; attraverso la burocrazia si cerca il modo di eliminare le barriere
che dividono le economie degli Stati.
CONCLUSIONI.
Ciò
che ha reso l’apparato burocratico vincente nel corso della storia è stato il
senso di impersonalità e di imparzialità delle regole che esso applica.
Caratteristiche
rassicuranti per i governati che sentono la presenza e la vicinanza dello Stato
e dei suoi servizi resi nell’interesse della collettività.
Ed anzi, per paradosso, proprio gli Stati più
orientati ad un forte capitalismo economico hanno dovuto ricorrere alla
burocrazia, alla creazione di un sistema di regole in grado di garantire il
funzionamento dei mercati e la competizione secondo principi economici e
normativi.
Tuttavia,
i meccanismi nati per garantire i principi del liberalismo e della democrazia,
si sono poi rivelati la gabbia dentro la quale chiudere le libertà individuali
e comprimere quelle costituzionali con imparziale uniformità, orientando la
costruzione degli stati secondo una visione socialista e collettivista.
(John
Stuart Mill nel 1870.)
John
Stuart Mill affermava nel XIX secolo che esistono soltanto due tipi di governo
competenti: le burocrazie e le democrazie.
Le
altre forme di governo conosciute come monarchie o aristocrazie, se dimostrano
forza intellettuale e capacità nell’eseguire i propri compiti, sono in realtà
burocrazie nelle mani di amministratori di professione, cosa che costituisce
l’essenza ed il significato di burocrazia.
I
sistemi politici degli Stati moderni hanno saputo convogliare negli apparati
burocratici quei meccanismi di orientamento e coordinamento sociale in grado di
imbrigliare le naturali istanze dell’individualismo libertario.
L’individuo,
al centro della declinazione dei diritti fondamentali e del riconoscimento
delle libertà costituzionali, nel progredire dei contesti politici ed
istituzionali cede il passo all’interesse collettivo ed alle esigenze dello
Stato.
L’impersonalità
asettica dell’esercizio del potere burocratico garantisce anche una diffusa
irresponsabilità del potere stesso.
Il
fatto che si richieda un’autorizzazione e la si ottenga dopo anni, che una
richiesta di riconoscimento di invalidità o di pensione ottenga risposta dopo
il decesso dell’interessato, la prenotazione di una visita sanitaria urgente
che viene fissata a distanza di decine di mesi, viene sempre attribuita ad
un’endemica inefficienza del sistema che si perde nell’astrattezza e
nell’indeterminazione.
La
debolezza delle normative interne finalizzate alla imposizione nei confronti
degli organismi statali di determinati comportamenti, l’assenza di
significative ed incisive sanzioni e imposizioni di obblighi nei confronti del
personale amministrativo, hanno reso l’apparato burocratico sempre vincente e
soverchiante nei confronti del rispetto dei diritti del singolo e
dell’individuo.
I
contorni dei diritti riconosciuti al singolo sfumano in declaratorie del tutto
astratte ed indeterminate, di fatto inattuabili nel contesto sociale esistente.
In
questo scenario, il contesto internazionale e gli interessi economici dei
gruppi transnazionali opereranno sempre più per la limitazione e la
subordinazione dei diritti individuali dei singoli cittadini, e questi ultimi
tenderanno sempre più a uniformare la loro identità sociale alle regole
imposte.
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