La guerra come soluzione.

 La guerra come soluzione.

 

 

 

La prepotenza imperiale

che viene da lontano…

lasinistraquotidiana.it – (1° marzo 2025) - Marco Sferini – ci dice:

Per troppi decenni siamo stati abituati a credere che le ragioni della politica internazionale degli Stati, delle potenze globali, si fondassero su una sorta di etica sovraordinata al mondo, ...

 

Per troppi decenni siamo stati abituati a credere che le ragioni della politica internazionale degli Stati, delle potenze globali, si fondassero su una sorta di etica sovraordinata il mondo, su un principio di regolamentazione etica dell’esistenza dei popoli da parte della ovvia, oggettiva, incontestabile natura paterna dei governi.

 Ci è stata venduta la favoletta del mondo libero contro il mondo tirannico: dell’ovest democratico e liberale contro l’est autocratico, teocratico, post o ancora facente riferimento al comunismo come la peggiore delle dittature possibili.

 

L’unico merito che possiamo attribuire ad un conservatore, autoritario e retrivo Presidente della Repubblica degli Stati Uniti d’America è questo: aver mostrato a tutte e tutti come realmente stanno le cose.

Niente più infingimenti, niente più finte cortesie;

 al bando il galateo istituzionale. Pane al pane, vino al vino, occhio per occhio e dente per dente.

Abbiamo finito i proverbi e le circonlocuzioni per dire che Trump e Vance non usano mezzi termini, non fingono:

quel che vedete, pur nella rappresentazione teatrale del gioco a due, è quello che realmente sono.

E quello che dicono è quel che realmente pensano, dopo aver concordato dei tatticismi per dare qualcosa di più di un segnale al mondo nel momento in cui incontrano i loro corrispettivi europei o mentre, nell’occasione di conferenze stampa solitarie, si lanciano in dichiarazioni di assimilazione di sempre maggiori fette di pianeta all’impero americano.

Il modo di esprimersi, un linguaggio veramente gretto, platealmente aggressivo, con toni di saccenza muscolare e di irriverente protervia, fa parte di un nuovo corso involutivo dell’amministrazione delle amministrazioni.

Le formalità sono relegate in secondo piano:

Trump getta in pasto ai media tutta la sua naturale prepotenza che, del resto, non è una novità.

 Nelle campagne elettorali non ha mai adoperato una comunicazione pacata o misurata:

ma, si sa, i comizi hanno in sé quel carattere, l’esacerbazione dei toni è contestuale ad un momento in cui devi galvanizzare le tue follie e stimolare in loro tanto la rabbia quanto la passione e, dunque, sintetizzare il tutto in una fedeltà che si porteranno in cabina elettorale e che si trasformerà in consenso popolare.

Il passaggio dal condiscendente bidenismo, portatore di una declinazione dell’imperialismo americano in netta contrapposizione con la Russia di Putin, collaborativo con l’Unione Europea e dialogante con la Cina di Xi Jinping, alla pratica del neo-isolazionismo trumpiano, volutamente avversario del multipolarismo globale, lo si comprende sempre meglio ogni giorno che passa e, nello specifico, se ne è avuta una plastica rappresentazione nei quaranta minuti in cui alla Casa Bianca Volodymyr Zelensky ha esposto le proposte ucraine sull’accordo che avrebbe dovuto firmare.

Un accordo sullo sfruttamento di quelle che vengono un po’ impropriamente definite “terre rare” e che sono delle ancora molto inesplorate zone minerarie critiche presenti nel sottosuolo dell’Ucraina martoriata da tre anni di guerra.

 Un accordo che, solo in parte, dovrebbe coprire le centinaia di miliardi di dollari che gli Stati Uniti hanno prestato a Kiev per combattere un conflitto in cui si sono scontrati non democrazia e libertà da un lato con autoritarismo e tirannia dall’altro:

bensì due strategie neo imperiali per una riproposizione della propria egemonia, se non sull’intero pianeta, quanto meno su vaste zone dello stesso.

 

Volodymyr Zelensky non è un ingenuo.

Ma ha giocato e sta giocando una partita davvero troppo grande per il consenso che detiene e che si è, con l’allungarsi dei tempi di guerra, logorato.

La furiosa lite in diretta televisiva, consumatasi nello studio ovale della Casa Bianca, potrebbe rappresentare per lui il principio della fine di una presidenza prolungatissima e che, proprio il carattere emergenziale, ha reso più fragile.

Non poteva Zelensky non sapere che, dopo l’avvicendamento tra Biden e Trump, la direzione che avrebbero preso le relazioni internazionali sarebbe stata quella di un abboccamento tra Washington e Mosca, relegando Europa e Ucraina ad un ruolo gregario.

Probabilmente il presidente ucraino non immaginava che il trumpismo fosse sinonimo di imboscata politica, di trappola mediatica, di umiliazione plateale.

 Ed invece è tutto questo.

Il metodo è quello della bullizzazione dei propri partner se – come ha sottolineato il magnate – non sono soprattutto in grado di avere in mano nessuna carta passabile da giocare.

Per quanto aggressivo e fermo sui suoi punti, Trump non ha trattato Macron nel medesimo modo in cui si è rivolto a Zelensky.

 Questo significa che, anche nella totale grettezza e nella riproposizione di una ipocrita abiezione da parte del neoconservatorismo di Trump e Vance, esiste una scala valoriale.

Non tutti vengono riguardati allo stesso modo.

 Zelensky è oggettivamente disprezzato dall’attuale amministrazione americana che, altrettanto oggettivamente, guarda a Vladimir Putin come ad un possibile interlocutore nel presente e un alleato nel futuro:

 i commentatori più esperti azzardano che questo sia un altro segmento di una tattica che punti a scindere gli interessi di Mosca da quelli di Pechino.

Ma, almeno per il momento, quello che è dato vedere riguarda una trattativa per il cessate il fuoco in Ucraina in cui l’Ucraina non avrebbe voce in capitolo.

Vance e Trump hanno teso una trappola a Zelensky.

Nulla di meno della trappola in cui gli USA e la NATO hanno gettato l’Ucraina, sacrificandola sull’altare degli imperialismi che si combattono nella nuova era multipolare.

Termina qui la narrazione illusionistica di una guerra fatta per il bene del pianeta, per la sopravvivenza della civiltà occidentale eticamente superiore al resto del mondo e, quindi, ragionevolmente dedita al riarmo a tutto tondo, ad investimenti sempre maggiori in spese militari per contrastare qualcosa che viene dipinto come una sorta di Quarto Reich putiniano.

Ciò che i repubblicani vogliono è garantire a sé stessi, ai loro referenti economici e finanziari una serie di garanzie che permettano l’ingrossamento di enormi privilegi di sfruttamento di quelle materie prime presenti oggi nel sottosuolo ucraino, ieri in quello afghano, iracheno, siriano…

Le guerre imperialiste di oggi non sono poi così differenti da quelle timbrate “esportazione della democrazia” messe in atto contro la minaccia globale del terrorismo da loro finanziato per decenni prima che il gioco, nell’ambito della Guerra fredda, gli sfuggisse grossolanamente di mano.

Il modo con cui Trump si rivolge agli altri capi di Stato ricorda lo svilimento progressivo dei rapporti internazionali tra i governi che si iniziò a vedere nel momento in cui la Germania nazista pretese sempre più e concesse sempre meno, nella quasi totale accettazione delle sue condizioni per evitare che in Europa scoppiasse una guerra totale.

Il Commander in chief non finge, non dissimula, non si nasconde dietro giri di parole.

 Firma decine e decine di ordini esecutivi con cui stabilisce un complessivo arretramento politico, sociale, culturale che riporta gli Stati Uniti indietro di decenni in quanto a conquiste di libertà, di partecipazione e di condivisione dei diritti.

Poi punta su una rimodulazione della politica estera che, nel giro di pochi giorni, spiazza l’Unione Europea, rimette in gioco il bilateralismo tra Washington e Mosca, consegna a Netanyahu le chiavi della Cisgiordania e, per fare filotto, pubblica sui social un video in cui Gaza è ricca di imperiali statue d’oro del nuovo signore della globalizzazione iperliberista, della nuova internazionale di destra che getta la sua ombra su molta parte del globo.

 Indubbiamente Putin non è una garanzia di pace e di stabilità.

Ma si può affermare che Biden e la sua corsa al riarmo lo fossero?

Alla luce di quello che sta accadendo proprio in queste ore, dopo la lite tra i presidenti nello studio ovale, dopo uno scadimento così gretto del linguaggio e della pratica politica, chi può essere al sicuro da una involuzione repentina di eventi che conducano verso uno scontro sempre più aspro tra cancellerie e un irrigidimento delle relazioni internazionali al punto da patirne anche (e soprattutto) economicamente il contraccolpo?

Tronfiamente Trump giganteggia in altre minacce verso Bruxelles:

verranno messi dazi del 25% su molti prodotti europei.

Se finirà la guerra in Ucraina, senza una pace degna di questo nome, si aprirà un altro conflitto a suon di imposizioni di gabelle e tassazioni che faranno aumentare i prezzi esponenzialmente.

Che cosa ha ottenuto l’Europa accodandosi alla linea nordatlantica della NATO e dei democratici prima e durante tutta la guerra in Ucraina?

Di essere sfruttata per il suo ruolo geopolitico e di essere gettata come un limone abbondantemente spremuto nell’angolo dell’irrilevanza più completa.

 Le divisioni interne ai Ventisette non hanno indubbiamente aiutato:

la corda viene tirata da due opposti estremi rappresentati dal cieco atlantismo da un lato e dal filo-putinismo magiaro dall’altro.

 

Trump non fa altro se non mostrare la politica imperialista americana per quello che è e, oggi, con tutta una serie di stupori e meraviglie, una vasta schiera di editorialisti finge di scoprire ciò che tutti sapevamo ma che, opportunisticamente, fingevamo di non vedere:

non c’è mai stato nessun intento democratico nelle relazioni internazionali di Washington, ma soltanto il perpetuare quel ruolo di gendarme del mondo che gli Stati Uniti si sono dati e hanno avuto per lungo tempo, imponendo al contempo il dollaro come moneta e divisa regolante l’intera (o quasi) economia planetaria.

Il multipolarismo degli ultimi decenni ha messo in crisi questo ruolo primario e ha spinto tanto i democratici quanto i repubblicani (pre e intra-trumpiani) a riproporre, una logica di esistenzialismo unilaterale, la teoria isolazionista come moderno principio di salvezza del popolo americano e, almeno nell’estensione bideniana, della sfera occidentale del pianeta.

Trump rovescia in parte tutto ciò e, pur in una accezione negativa della pluralità dei poli in espansione, soprattutto in direzione anticinese e anti-BRICS, mette a valore un divide et impera in cui la Russia ha un ruolo non proprio inaspettato.

Forse pochi pensavano che, in un mese appena dall’insediamento, il magnate si sarebbe spinto così tanto in avanti da rivoluzionare letteralmente lo scenario geostrategico europeo, confermando la linea preferenziale col Cremlino e trattando l’Europa e Kiev come due servi sciocchi.

 L’avvertimento è abbastanza chiaro:

 gli Stati Uniti di nuovo conio conservatore e autoritario non sono disponibili ad amicizie senza se e senza ma.

Tutto ha un prezzo e nulla è gratis.

Zelensky è il primo a pagare questo conto salato.

Difficile poter dire chi abbia sottovalutato o sopravvalutato chi.

 

Certamente, però, il trumpismo è la politica dei colpi di scena, di un teatro dell’assurdo che non risparmia nulla alla compromissione perché è pronto a negare anche la luce del sole.

Quindi, chi dovesse riporre fiducia nel rispetto degli accordi con la Casa Bianca, d’ora in poi è avvisato:

nulla è per sempre, nulla vale veramente se non dopo l’approvazione del presidentissimo targato MAGA, a cui non difetta una umoralità che non gioca di sicuro un ruolo secondario nella presa delle decisioni da cui dipende la sorte di centinaia di milioni di esseri umani e del pianeta per intero.

 

Chi volesse ancora proporre la tesi della superiorità occidentale, delle guerre fatte per la difesa della democrazia e della libertà, si accomodi.

C’è una poltrona dell’umiliazione sotto i riflettori nello studio ovale della Casa Bianca pronta per lui…

(MARCO SFERINI -1° marzo 2025).

 

 

 

 

Israele è il paradigma

dell’ipocrisia prepotente.

 Ilprimatonazionale.it - Carlo Maria Persano – (22 Ottobre 2023) – ci dice:

 

Roma, 22 ott. – La narrativa su Israele ci racconta la storia romantica di una terra promessa, del mondo che si accorge di un’ingiustizia e assegna quella terra al movimento sionista, del nascere di una democrazia, unico esemplare, nel bel mezzo delle autocrazie arabe, di uno Stato severo ma giusto che porta la civiltà in mezzo a dei beduini.

 

Prima di cominciare, sgombriamo il campo da ogni terribile equivoco: “Se ammazzano il mio bambino non posso rivalermi ammazzando il suo bambino”.

Se hanno ammazzato dei bambini palestinesi in otto anni di bombardamenti su Gaza e altre azioni in Cisgiordania, non posso rivalermi sui bambini dei sionisti rapiti nei kibbutz.

Quindi nessuna logica da occhio per occhio in questa analisi.

Detto ciò vediamo da dove nascono prepotenza e esasperazione.

Churchill, Stalin, Mao e gli Usa si accordano.

Lo stato di Israele nasce nel novembre 1947 da un accordo tra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, alle quali si accoda la Cina di Mao.

Così, alla faccia dell’autodeterminazione dei popoli, nel 1947 il 56% della Palestina viene assegnato ai sionisti che intanto, con un segnale coordinato, erano massicciamente affluiti in quelle terre da ogni parte del mondo.

 Nonostante il confluire massiccio, i sionisti restavano il 37% della nuova popolazione, mentre il 63% di palestinesi, lì da sempre residenti, ora si dovevano accontentare del 44% delle terre.

Guarda caso, ai sionisti vengono anche assegnate le terre più fertili.

 Direte, i sionisti cercheranno un modus vivendi amichevole con la popolazione palestinese preesistente?

 Certo che no, infatti ne cacciano subito 370.000, i primi profughi.

 I palestinesi che abitavano la Palestina nel 1947 erano 1.380.000, quindi il 27% di quella gente viene subito cacciato dalle proprie case.

Nascono così i primi profughi, nonostante la risoluzione dell’Onu prevedesse esplicitamente dei territori misti palestinesi-sionisti, e nasce lo Stato dei prepotenti.

 

Perché Stalin e Mao si accordarono con Usa e Gran Bretagna?

 Intanto perché, pur con leggere schermaglie, continuava la luna di miele tra i vincitori del fascismo e la Guerra fredda doveva ancora cominciare, e Stalin avrebbe avuto la sua bomba atomica solo due anni dopo, nel 1949.

Poi, davvero vogliamo credere alla buona fede di due sterminatori di popoli tramite le carestie programmate, quali Stalin e Mao?

 

La tattica di rubare territori tramite coloni.

Ai sionisti non basta il 56% dei territori assegnati nel 1947, questi israeliani hanno l’evidente progetto di conquistare tutta la Palestina un pezzo alla volta.

 La tattica è da subito quella di creare nuovi insediamenti di coloni che si appropriano di nuove terre, tanto quanto farebbe una famiglia di rom che entra nella casa popolare che la vecchietta ha dovuto momentaneamente lasciare per un ricovero in ospedale.

Arrivano e nessuno li può più mandare via.

Ancora oggi i sionisti si stanno impossessando della Cisgiordania, altrimenti detta “West Bank”, tramite nuovi e continui insediamenti di coloni (144 nel 2023) armati fino ai denti, protetti dai carri armati che avanzano di continuo la loro linea d’azione.

 

Demografia e democrazia, il grande imbroglio.

I sionisti hanno subito reso chiaro che Israele è uno Stato ebraico, ovvero dove i 120 membri del parlamento devono essere a stragrande maggioranza ebrei.

 Oggi sono 114 i parlamentari di partiti ebraici contro i 6 nominati dai palestinesi residenti.

È esattamente come lo vogliono.

Come si ottiene tutto ciò, pur facendo finta che ci sia la democrazia? Sono così pochi i palestinesi?

Abbiamo già incontrato i tre sistemi adottati dai sionisti:

Far confluire quanti più sionisti possibili in Palestina.

Cacciare i palestinesi fuori dai confini di Israele (creando profughi).

Estendere le elezioni comuni palestinesi-sionisti solo dopo la cacciata dei palestinesi (Cisgiordania).

Così nessuno pensa che in Israele non ci sia la democrazia.

Premettiamo che i sionisti non possono crescere come popolazione grazie al proselitismo religioso in quanto l’ebraismo è una religione rigidamente matrilineare.

Ovvero, se non nasci da una madre ebrea, non sei ebreo.

D’altra parte le donne dei sionisti hanno già un indice di fecondità media pari a 3,13 figli per donna, contro 2,85 figli per donna per le palestinesi.

E quindi fanno già uno sforzo notevole.

Ma i numeri sono ancora estremamente pericolosi per il sionismo.

Vediamoli.

Quanto sono democratici in Israele.

La democrazia col sionismo funziona così:

“Ti lascio votare solo se sono sicuro di stravincere io, altrimenti niente”.

Dai numeri riportati sotto si capisce subito il perché i rifugiati palestinesi non possono tornare nelle loro case, il perché è stata creata la striscia di Gaza, dove in un territorio grande come un decimo della Valle d’Aosta sono state stipate 2.420.000 di persone e il perché non si vota con elezioni ad etnie miste in Cisgiordania.

9.364.000 Abitanti totali in Israele (2022).

(1.916.000) Dei quali, palestinesi residenti in Israele.

7.448.000 Ebrei totali in Israele.

1.916.000 Palestinesi in Israele (vedi sopra).

2.420.000 Palestinesi a Gaza.

2.580.000 Palestinesi fuggiti a causa delle guerre in Libano, in Siria, in Giordania, etc.

2.163.000 Palestinesi residenti in Cisgiordania (West Bank).

9.079.000 Palestinesi totali.

Ci sono poi altri palestinesi sparsi nel mondo e sono altri 2.121.000 (non in campi profughi, es. in Kuwait) su 11.200.000 palestinesi totali nel mondo, e una parte di questi potrebbe voler tornare in Palestina aumentando il vantaggio elettorale dei palestinesi nei confronti dei sionisti.

Come si vede, già oggi ci sarebbero in Palestina almeno 9.079.000 palestinesi contro 7.448.000 sionisti e già così è chiaro perché i palestinesi devono restare ben separati in differenti zone politiche della Palestina oppure rimanere cacciati nei campi profughi fuori dal perimetro elettorale di Israele, e tutto ciò per poter dire che c’è la democrazia in Israele.

Il teatrino dell’Onu.

Come s’è visto lo Stato d’Israele è stato costituito grazie a un accordo tra Stalin, Churchill, Mao e gli Usa, ma, per dare meno l’idea della prepotenza, si è fatto finta di far passare la decisione come se fosse stata presa a maggioranza dall’Onu.

Così il 29 Novembre del 1947 è stata votata la risoluzione n°181 con la quale l’Onu stabiliva quali territori della Palestina sarebbero stati assegnati a Israele, con Gerusalemme come zona franca internazionale.

 Con 33 sì, 13 no e 10 astenuti.

Sono passati 76 anni da allora e i sionisti si sono impossessati del 100% dei territori e adesso stanno assaltando da anni la Cisgiordania.

Sembra una comica, ma la prima, la 181, fu l’unica risoluzione dell’Onu rispettata dai sionisti.

 Poi ce ne sono state altre 70, tutte numerate e tutte con una data (disponibili sul web), e, stavolta, tutte a sfavore dei sionisti.

Ma mai nessuna risoluzione fu più rispettata o fatta rispettare con la forza dai caschi blu dell’Onu.

In particolare, tra tutte, sono state sbertucciate anche due risoluzioni che imponevano il rientro dei profughi palestinesi nelle loro case:

Assemblea Generale, risoluzione 194 (1947): i profughi palestinesi hanno il diritto di tornare alle loro case in Israele.

Risoluzione 237 (1967): chiede con urgenza a Israele di consentire il ritorno dei profughi palestinesi nelle loro case.

Ma ora diciamolo pure, se i sionisti avessero accettato di far rientrare nelle loro case donne, vecchi e bambini scappati dalla guerra, come avrebbero fatto a lasciare il diritto di voto a tutti in Israele?

(Carlo Maria Persano).

 

 

 

 

“Rearm Europe”: perché opporsi

vuol dire rimanere schiavi

Ilprimatonazionale.it - La Redazione – (12 Marzo 2025) – Renato Vanacore – ci dice:

Roma, 12 mar – La storia sta subendo un’accelerazione di portata globale, forse mai vista in un periodo di tempo così breve; equilibri consolidati da decenni, anche se per ora solo sulla carta, iniziano ad essere messi in discussione.

La storica prevaricazione stile gangster di Trump nei confronti del presidente dell’Ucraina Zelensky, unita a molte altre dichiarazioni, ha definitivamente mostrato l’assoluta vicinanza, politica e ideologica, tra gli interessi Usa e quelli della Russia di Putin.

 L’Ue, in seguito a questa naturale rivendicazione, sembra essersi svegliata da quel torpore e immobilismo che ha contraddistinto la sua intera esistenza fatta solamente di assurdi diktat economici, follie woke e green, direttive e retorica vittimistica anti-identitaria.

Ora, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, Nazioni europee parlano di riarmare i propri eserciti e di attuare una vera politica di difesa unitaria.

“Rearm Europe”: ecco la frase che in questo momento ha raggiunto gli onori di cronaca.

Ma tornare a parlare in una prospettiva di armi, eserciti e, eventualmente, anche di guerra cosa significa per l’intero continente?

Conservare o accelerare?

Innanzitutto bisogna tracciare un primo solco, un confine sacro per stabilire chi è dentro e chi è fuori:

 o più semplicemente rifarsi alla classica distinzione schmittiana amico-nemico.

A fronte della riorganizzazione del mondo per grandi spazi e all’affacciarsi nuovamente di veri e propri imperi, pensare ancora solamente nei termini di Stato Nazione è da ritenersi ormai superato.

 Chi non aspira ad un’Europa sovrana, unita e potente non potrà aspirare lo stesso destino per qualunque altra Nazione della stessa, Italia compresa.

Ulteriore dato di fatto è che dal 1945 questo stesso campo geografico sia terreno di conquista per diversi imperialismi esterni che, nel tempo, hanno rafforzato ogni tipo di garanzia per prevenire eventuali tentativi di rivolta degli europei: vittimismo, rassegnazione, debolezza e sottomissione sono state le parole d’ordine imposte nel discorso pubblico da un lato all’altro del continente.

 Questo lo status quo, questo l’ordine stabilito dai garanti di Yalta.

 La questione è quindi esistenziale: conservare o distruggere le catene? Sprofondare o accelerare verso un nuovo paradigma?

Se la volontà non è quella di affrancare l’Europa dal dominio americano e, nello stesso tempo, contrastare l’espansionismo russo ma è invece quella di restare perennemente in una posizione di subordinazione rispetto a questi allora è arrivato il momento, per chiunque sia mosso da visioni simili, di essere cacciato dalla parte opposta del nostro sacro limes.

Sfide e ostacoli.

Il riarmo e l’aumento di investimenti in campo militare non può che essere rivolto alla creazione di un esercito europeo unitario, primo passo per un più ampio e complesso progetto di sovranità e indipendenza europea.

Ma, nel concreto, quali sono gli ostacoli e le prospettive di un progetto simile?

 Fin dagli anni ’50 le principali Nazioni del continente, in modo particolare Francia e Italia, pensarono ad una collaborazione militare.

In questo periodo infatti venne proposta la creazione della “Ced” (Comunità europea di difesa), progetto mai ratificato e fallito da lì a poco a causa di ripensamenti vari e in seguito alla definitiva imposizione della Nato da parte americana come principale alleanza militare.

L’Ue, non essendo uno Stato unico vero e proprio, fin dalla sua istituzione è sempre stata caratterizzata da una frammentazione politica e da interessi divergenti soprattutto in questioni estere e di difesa;

su questa lentezza burocratica e decisionale, oltre alla mancanza di una leadership chiara, pesa sicuramente il principio di unanimità il che rende difficili scelte rapide e concise.

Inoltre, il completo disinteresse da parte dei burocrati di Bruxelles per tutto ciò che non concerne interessi di mercato, concorrenza e libero scambio (impedendo di conseguenza investimenti strategici comuni), ha fatto si che l’intero continente dipendesse fortemente dagli Stati Uniti per capacità logistiche militari, nucleare strategico, tecnologia e intelligence.

Tutti questi ostacoli politici, economici e tecnologici si sommano ai ben più influenti pacifismo radicato, nazionalismo piccolo borghese di alcuni stati e generale scarsa volontà politica di avere una reale potenza europea.

L’industria militare e tecnologica europea, se unita e coadiuvata da investimenti strategici, ha il potenziale per competere e addirittura superare Russia e Stati Uniti, affermandosi così come un vero attore globale.

Aziende avanzate come “Leonardo”, “Rheinmetall”, “Airbus”, “Fincantieri”, “Mbda” e altre non hanno nulla da invidiare come know-how tecnologico su aerei, veicoli corazzati, missili e cantieristica navale;

così come non manca l’alto livello di innovazione in droni, guerra elettronica, Ai e sistemi satellitari (Galileo).

Indipendenza e potenza, unificando e centralizzando progetti e produzione oltre che aumentando il budget per difesa e investimenti di ricerca e sviluppo, sono davvero possibili.

 

Un nuovo mito.

Quindi, davvero il dibattito sul riarmo si può ridurre a simpatie partitiche o a sterili discussioni da salotto?

Da quando il pacifismo umanitario o richiami a costituzioni e parlamenti possono essere eretti a contraltare di necessità e tendenze storiche?

È ora di farla finita con il ‘900, quel ‘Secolo breve’ con il quale in realtà non abbiamo ancora tranciato i ponti e del quale siamo ancora succubi.

 Un pensiero rivoluzionario deve sapersi trovare al posto giusto nel momento giusto, creando nuovi miti con i quali incarnare l’avanguardia che plasmerà le forze storiche in atto, anticipandole.

 Verità stabilite e scenari predeterminati non esistono, solamente guardando l’abisso e saltandoci dentro è possibile raggiungere nuovi lidi:

 l’ordine stabilito da ottant’anni a questa parte ha imposto la cultura della colpa e della debolezza, anche bandendo dalla narrazione parole come armi e esercito, avallare tutto ciò significa conservare la condizione attuale.

Che sia forse la riproposizione da manuale dopo ottant’anni dell’accordo di Yalta, con il quale veniva imposto il dominio dello spirito egualitario in Europa sotto il cappello dell’antifascismo, a segnare la fine stessa di tale paradigma storico?

La storia, a differenza di come è intesa dagli alfieri di questa tendenza dominante, è sferica:

che sia quindi proprio l’”accordo antieuropeo tra Washington e Mosca” origine e superamento di quella garanzia rivolta a prevenire “la creazione di un’Europa forte e indipendente”?

(Renato Vanacore).

 

La guerra non è

mai una soluzione.

  Comune-info.it - Pasquale Pugliese – (17 Marzo 2024) - ci dice:

Quanto accade in Ucraina e in altri angoli del mondo dimostra che non si vuole cercare altra soluzione se non quella binaria della guerra, fondata sulla dicotomia vittoria-sconfitta, con la conseguente escalation di violenza.

Che è inutile pensare la pace come assenza di guerra.

Che non esiste solo la violenza diretta ma anche quella strutturale e culturale.

E che non serve alcun impegno generico pacifista, ma percorsi di nonviolenza con i quali de-costruire tutta la filiera della violenza e costruire alternative senza il dominio delle armi.

L’eredità del pensiero di “Johan Galtung”.

 

 Donne In Nero Parma.

Lo scorso 17 febbraio, all’età di 93 anni, ci ha lasciati “Johan Galtung”, fondatore e pioniere della ricerca scientifica per la pace.

Ho incontrato una sola volta di persona “Galtung” partecipando ad un seminario/laboratorio che svolgeva – lui che aveva avviato i “Peace studies internazionali” e fondato il “PRIO-Peace Research Institute” di Oslo, insegnato nelle maggiori università del pianeta e fatto il consulente per le Nazioni Unite – all’interno di una sala civica di un quartiere a Bologna, agli inizi degli anni 2000.

E per spiegare la “trascendenza” del conflitto – spiazzando tutti con la sua ironia – aveva posto la questione dell’arancia contesa da due bambini e delle possibili soluzioni, dimostrando che sono molto più di due, se solo si va oltre la superficie del conflitto e si indagano i bisogni profondi di ciascuno dei confliggenti.

 Per le note biografiche su “Galtung” rimando al profilo pubblicato su “Azione non violenta” e ai molti articoli usciti sul sito web del “Centro studi Sereno Regi”s, qui vorrei riepilogare in estrema sintesi alcuni degli elementi essenziali del pluriverso culturale e metodologico che fonda la proposta della non violenza” di questo poliedrico studioso.

 

Superare la logica binaria della guerra.

 

Approfondire l’approccio di” Galtung” ai conflitti significa dotarsi di alcuni di quei saperi che mancano maggiormente e drammaticamente nel nostro tempo, nel quale, da ogni parte, non si cerca altra soluzione se non quella binaria della guerra, fondata sulla dicotomia vittoria-sconfitta.

Con la conseguente escalation di violenza, vittime ed armamenti, in un ciclo dal quale non si vede via d’uscita – per di più all’interno di un orizzonte nucleare esplicitamente minacciato – che contamina sempre più pericolosamente la cultura profonda.

“Una società strutturata attorno alla violenza diventa caricatura di se stessa – scrive “Galtung “–, sia che la violenza venga dalla cima di una piramide di potere, sia che provenga da piccole sacche di guerriglia:

 il terrorismo dall’alto è uguale al terrorismo dal basso.

La cultura diventa un magazzino di ferite profonde, affondate nella memoria collettiva e nell’anima della gente, ferite che vengono usate per travisare ogni cosa e persona, piuttosto che per cercare nuovi approcci”.

Una fotografia perfetta della condizione attuale, dove il più grave dei problemi – la guerra – è spacciato per la loro soluzione.

Diagnosi, prognosi e terapia dei conflitti

Per “Galtung” la pace non è solo l’assenza di guerra – che è una delle forme nelle quali si esprime la violenza – ma è l’assenza, e la progressiva riduzione, di ogni tipo di violenza, attraverso la” trasformazione non violenta” di tutti i conflitti.

Inoltre, “essere contro la guerra è una posizione moralmente lodevole, ma non è sufficiente a risolvere i problemi delle alternative alla guerra e delle condizioni per la sua abolizione”.

Questo obiettivo necessita di un preciso e specifico lavoro per la “pace con mezzi pacifici”, che affonda le radici e trova il suo nutrimento negli studi per la pace che sono, appunto, “lo studio delle condizioni del lavoro per la pace”.

 È la ricerca alla quale Galtung si è dedicato per tutta la vita, con un approccio epistemologicamente trans-disciplinare.

A partire dalla scienza medica, per quanto riguarda i presupposti della triade Diagnosi, Prognosi, Terapia:

“La nostra cultura è mancante della “Diagnosi delle cause dei conflitti”, della Prognosi di cosa sta per accadere, delle proposte di Terapia”.

 Affrontare i conflitti in questa chiave – comprendendone anche le specifiche strutture relative agli elementi della Contraddizione, agli Atteggiamenti ed ai Comportamenti all’interno di essi – è la precondizione per poterli “trascendere” senza violenza, la quale invece “è il pilastro per i media” che chiamano “oggettività” la cronaca della violenza.

Non a caso, l’impegno culturale e formativo di Galtung si rivolgerà, sempre di più, anche a promuovere il giornalismo di pace.

 

Violenza diretta, strutturale e culturale.

 

La violenza non si esprime solo nella sua dimensione manifestamente dispiegata ed esplicitamente distruttiva, come accade nella guerra e nei conflitti armati, ma ha delle componenti più profonde, implicite, nascoste, ma necessarie affinché la punta dell’iceberg della violenza propriamente detta, e percepita da tutti, possa esplodere.

In un ideale “triangolo della violenza”, se il vertice in altezza è rappresentato dalla “violenza diretta”, i vertici di base sono rappresentati, da un lato, dalla violenza strutturale, che è sia una violenza in sé, per esempio nelle forme dello sfruttamento economico o della repressione del dissenso, che – in riferimento ai conflitti armati – l’approntamento delle strutture organizzative ed economiche che preparano e consentono le guerre:

dagli eserciti alle spese militari, dagli armamenti alle banche armate.

L’altro vertice è rappresentato dalla violenza culturale, ossia da una forma pervasiva di giustificazione della violenza diffusa dagli apparati formativi, dai dispositivi mediatici, dalle curvature linguistiche che rendono l’esercizio della guerra – e la sua preparazione strutturale – un fatto ovvio, da non mettere in discussione.

 Alimentando anzi, al bisogno, il bellicismo e l’odio per il “nemico”, ossia la propaganda di guerra.

La violenza culturale è, dunque, “sempre simbolica, si trova nella religione e nell’ideologia, nel linguaggio e nell’arte, nella scienza e nel diritto, nei media e nell’educazione.

 La sua funzione è piuttosto semplice: legittimare la violenza diretta e quella strutturale”.

Come accade nel nostro paese negli ultimi due anni. E spesso chi produce e vende strumenti di guerra produce e vende anche i media che la promuovono.

“I saperi della non violenza per trasformare e trascendere i conflitti.”

 

Per queste ragioni l’impegno nonviolento, a differenza di quello genericamente pacifista, è indirizzato a de-costruire tutta la filiera della violenza – non solo a contrastare questa o quella guerra – e a costruire alternative nonviolente in riferimento a tutti i livelli esaminati.

A cominciare dalla capacità di trascendimento dei conflitti, ossia dalla loro trasformazione nonviolenta.

Ciò significa che non è il conflitto in sé a dover essere eradicato, in quanto il conflitto è fisiologicamente generato dai differenti bisogni contrapposti, ma la modalità violenta – e dunque patologica – della loro conduzione.

 “Il maggior numero delle parti in conflitto – scrive Galtung – ha qualche posizione valida:

il lavoro sul conflitto consiste nel costruire una posizione accettabile e sostenibile a partire dal quel ‘qualcosa di valido’, per quanto minuscolo possa essere”.

È necessario, dunque, aiutare le parti ad uscire dalla polarizzazione e dalla reciproca de-umanizzazione.

Le tre caratteristiche necessarie, i tre saperi, per lavorare alla trasformazione de-polarizzante e umanizzante dei conflitti sono l’empatia, ossia la capacità di vedere le cose anche dal punto di vista dell’avversario, la creatività, in quanto ricerca di soluzioni non scontate e prevedibili, e la nonviolenza, in quanto metodo che porta oltre il conflitto violento, lo trascende, appunto.

 Saperi indispensabili per stare al mondo, in maniera non reciprocamente distruttiva, all’interno di sistemi complessi naturalmente generatori di conflitti.

La seconda Guerra Fredda.

All’interno di queste essenziali coordinate di base, che si intersecano ed evolvono con altre più complesse per le quali rimando alle direttamente pubblicazioni di Galtung – tra le quali in italiano “Pace con mezzi pacifici” (Esperia, 1996) e “Affrontare il conflitto”, “Trascendere e trasformare” (Plus, 2008), dalle quali sono tratte le citazioni di questo articolo – Galtung ha svolto un’operazione di diagnosi-prognosi-terapia di molti conflitti sulle diverse scale (micro, meso, macro e mega).

Segnalo in particolare lo scenario de “La seconda Guerra Fredda”, della quale scriveva già nei primi anni 2000, dovuto all’agenda geopolitica degli Usa che prevede “l’espansione globale a est con la Nato e a occidente con l’”Ampo”, il Trattato di sicurezza Usa-Giappone”.

 Questa agenda, diagnosticava Galtung, ha interesse a portare le alleanze “a linee di rottura radicali ed esplosive”, che generano la “seconda Guerra Fredda” tra Usa/Ampo/Nato da un lato e Russia/India/Cina dall’altro.

Ma ciò, ed ecco la prognosi, non durerà a lungo perché la “seconda Guerra Fredda” è una formazione conflittuale forte. “Un incidente minore – prevedeva – lungo il confine tra Polonia e Ucraina, (…), e queste faglie erutteranno lava come vulcani, con potenze nucleari dappertutto e senza alcun paese neutrale in mezzo a fare da cuscinetto, come lo furono Finlandia, Svezia, Austria e Jugoslavia durante la prima Guerra Fredda”.

 Per trascendere questo mega conflitto – generato dalla “megalomania di avere tutto il mondo come propria sfera d’interesse” – prima che esso distrugga l’umanità, Galtung proponeva, tra le altre cose, una radicale rifondazione delle Nazioni Unite, come vera Assemblea dei popoli, con un rappresentante ogni milione di abitanti della terra e senza diritto di veto.

Verità e riconciliazione per Palestina e Israele.

E sul conflitto israelo-palestinese, dopo una analisi critica degli accordi di Oslo, che non potevano funzionare a causa delle loro mancanze – per esempio l’esclusione di Hamas, da un lato, e di Likud/Ortodossi, dall’altro – e le insufficienze, come l’assenza di simmetria in un accordo tra uno Stato forte e una debole “autonomia”, mentre un processo di pace si basa “sulla reciprocità, che a sua volta si basa sull’uguaglianza, diritti uguali e uguale dignità”, la prognosi era che per Israele e Palestina non ci può essere alcuna sicurezza lungo la strada della violenza.

 In particolare, anticipava Galtung, Israele si trova nel periodo di maggior pericolo della sua storia:

“sempre più militarista, (…), sempre più isolato e con sempre più nemici, esposto a violenza, nonviolenza e boicottaggio dall’interno e dall’esterno, con gli Usa che prima o poi condizioneranno il proprio appoggio sulla base delle concessioni israeliane”.

 

Dunque, come si può trasformare non violentemente e trascendere il conflitto?

Con un ampio e articolato programma di pace che, a partire dal riconoscimento dello stato di Palestina, si fonda alla costituzione di una “Comunità del Medio Oriente con Israele, Palestina, Egitto, Giordania, Libano e Siria come membri permanenti con politiche basate sul consenso multilaterale per quanto riguarda acqua, armi e commercio”. All’interno di questa comunità regionale Israele e Palestina diventano due federazioni “con due cantoni israeliani in Palestina e due cantoni palestinesi in Israele”.

 Inoltre, perché questo possa funzionare, andrà avviato, come in Sudafrica un processo di Verità e Riconciliazione.

 E se questo, al momento, può sembrare utopia è sicuramente ancora più utopico pensare di trovare una soluzione con le stragi e i massacri in corso da mesi.

 

Scriveva Galtung:

“Non esiste alcun conflitto – per quanto l’odio sia interiorizzato, il comportamento violento istituzionalizzato e la contraddizione, l’incompatibilità, il tema del conflitto insolubili – che non possa essere trasformato attraverso la nonviolenza”.

Se solo lo si vuole, usando mezzi pacifici per il fine della pace.

 

 

 

 

 

“Non esiste la guerra giusta”, la lezione

 di Gino Strada è più viva che mai.

 Left.it - Umberto De Giovannangeli – (13 Agosto 2023) – ci dice:

A due anni dalla sua scomparsa tornano in mente le parole del fondatore di Emergency, più attuali che mai:

«La guerra è come il cancro, occorre cercare la soluzione, l'“antidoto” per debellarla. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente»

«Essere definito un “utopista” per me è una benemerenza, non certo un’accusa. Ma in questo caso penso di essere un “realista”.

Perché non c’è niente di più “realista” che battersi per abolire la guerra.

E trovo davvero incredibile che l’assemblea generale delle Nazioni Unite in tutta la sua storia non abbia mai posto questo tema all’ordine del giorno»,

 diceva “Gino Strada”, il fondatore di Emergency su Left nel 2016, dopo aver ricevuto dal Parlamento svedese il “Right Livelihood Award” (Premio al corretto sostentamento), il Premio Nobel alternativo.

La motivazione del premio racchiude in sé il senso di un impegno che ha saputo unire nel tempo, valorizzando al massimo la “cultura del fare”, idealità e concretezza.

 Gino Strada fu premiato «per la sua grande umanità e la sua capacità di offrire cure mediche e chirurgiche di eccellenza alle vittime della guerra e dell’ingiustizia, continuando a denunciare senza paura le cause della guerra».

Ed è quello che il fondatore di Emergency fece anche nell’intervista esclusiva concessa a Left.

 Idealità, passione e concretezza.

 È il fecondo “impasto” che Gino Strada rivolse alla comunità internazionale, parlando davanti ai parlamentari svedesi in occasione della consegna del premio: «Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1.200 pazienti per scoprire che meno del 10 per cento erano presumibilmente militari. Il 90 per cento delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo il “nemico”?». «Chi paga il prezzo della guerra?».

Abolire la guerra.

Per averlo affermato, anche in occasione del Nobel alternativo, è stato tacciato di essere un “utopista”.

Per me è un complimento, non un insulto.

“Utopia” era abolire la schiavitù duecento anni fa, eppure è stata abolita.

 L’accusa di “utopia” è un’assoluta sciocchezza.

 L’utopia è qualcosa che non si è ancora verificata ma non è detto che non debba o possa realizzarsi.

È il sale della vita, dà un senso all’impegno quotidiano, crea movimento, dà una ragione forte per passare dall’“io” al “noi”.

 Qualsiasi conquista che ha segnato il cammino dell’umanità, in ogni campo, a partire da quello scientifico era un’illusione, un’intuizione, fino al giorno prima di diventare realtà.

Oggi non siamo ancora riusciti a debellare il cancro, ma questo non ci porta a sostenere l’inutilità della ricerca, degli investimenti in questo campo.

 E nessuno liquida la lotta contro il cancro come una “utopia” da abbandonare.

 Questo, per me, vale anche per la guerra, che è il cancro dell’umanità.

La guerra, come il cancro, continua ancora a esistere, e dovrebbe essere un impegno condiviso, a tutti i livelli.

Ognuno, per quel che può, deve cercare la soluzione, l’“antidoto” per debellarla.

 La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, ma uccide il paziente.

 «Siamo l’unica specie animale che fa la guerra»: non è un’affermazione dei giorni nostri, a dirlo fu “Erasmo da Rotterdam”, che già 500 anni fa smontò il concetto di guerra “giusta”.

 In un mondo come quello di oggi, dove i conflitti si moltiplicano in continuazione e si espandono, dove le armi disponibili potrebbero distruggere il pianeta, è ragionevole o no porsi il problema di come se ne esce?

 Io credo che sia la cosa più ragionevole.

 Abolire la guerra è una prospettiva molto più ragionevole che continuare a far finta di niente e continuare con questa pratica devastante.

Il fatto che bombe e armi abbiano segnato, marchiato a sangue, il nostro passato, non vuol dire che debbano essere parte obbligata del nostro futuro.

La guerra non è iscritta nel destino dell’umanità!

Stabilito che non esistono guerre “giuste” nell’orizzonte concettuale di Gino Strada, esistono guerre “necessarie”?

 Combattere Hitler, il nazifascismo, è stata una guerra “necessaria”…

Vorrei essere io a porre una domanda:

è finito Hitler, è finito Mussolini, sono finiti tanti altri dittatori, ma non lo spirito del nazismo, del fascismo.

 Emergency, nel suo piccolo, è testimone sul campo di guerre che erano spacciate come “giuste” o “necessarie”, e che hanno solo finito per accrescere l’oppressione, moltiplicare il dolore di popolazioni intere, depredare quei Paesi teatro di guerre delle loro ricchezze.

 Perché non va mai dimenticato che è la povera gente, il popolo, la grande vittima delle guerre.

E allora, torno a chiedere: tutto questo, l’oppressione, la crudeltà, è sparito con Hitler e Mussolini? No, non è sparito.

La Prima guerra mondiale, la “Grande guerra”, avrebbe dovuto essere la guerra per far finire tutte le guerre, come affermò il presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson.

 Ma le cose non sono andate così. Dopo la Grande guerra, nella maggior parte dei Paesi europei si insediarono dittature feroci.

Poi, si è arrivati alla Seconda guerra mondiale, che è costata almeno 50 milioni di morti e che ha lasciato un’Europa in macerie, semi-distrutta.

E dopo quella guerra, che tutti continuano a ritenere non solo necessaria ma indispensabile, cosa è successo?

 Si è aperta un’epoca di pace, di stabilità? No.

 In tutto il mondo ci sono stati oltre 170 conflitti, molti dei quali sono ancora in corso; conflitti che hanno provocato più di 25 milioni di morti.

 A cambiare sono state solo le definizioni di guerra, quelle sì.

Tra questi neologismi c’è la guerra “umanitaria”:

la bestemmia più grande che abbia mai sentito.

Nella guerra non c’è nulla di “umanitario” ma tanto, tutto, “contro” l’umanità.

Quanto ancora dobbiamo aspettare, quanti altri conflitti e morti dovremo contare, per capire che è quella cosa lì, la guerra, il vero mostro?

Questa domanda è stata posta, sessant’anni fa, da alcuni dei più grandi cervelli che l’umanità abbia mai conosciuto.

Mi riferisco a Bertrand Russell e ad Albert Einstein, e al loro Manifesto firmato dai più grandi scienziati al mondo.

Da Percy Bridgman, Joseph Rotblat, Frédéric Joliot- Curie, Max Born, solo per citarne alcuni.

Quel “Manifesto” poneva una domanda molto semplice: dobbiamo porre fine alla razza umana, oppure l’umanità deve rinunciare alla guerra?

 Quella domanda, sessant’anni dopo, attende ancora una risposta.

E una risposta credibile non può non partire dalla constatazione che la situazione è diventata più critica e pericolosa ovunque.

 Gli stessi cittadini europei si sentono oggi più insicuri di quanto lo fossero anni fa.

L’unica soluzione è discutere a livello internazionale di questo tema.

Ripeto: devono discutere di questo alle Nazioni Unite.

 Devono stabilire che la guerra è come la schiavitù, e dobbiamo capire seriamente come liberarcene. Senza l’abolizione della pratica delle guerre questo pianeta non ha futuro.

E i “buoni propositi” professati dai sostenitori delle guerre “giuste”, “necessarie” “umanitarie”?

Le guerre, quelle degli Stati, come dei gruppi terroristi, si combattono con le armi, tra cui le mine anti uomo, prodotte anche da imprese italiane.

 L’80-90 per cento delle armi in circolazione sono prodotte e vendute dai cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli stessi (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) che dovrebbero vigilare sulla pace e la sicurezza del mondo.

Gli armaioli sono i pacificatori!

 Ciò spiega molto dei buoni propositi e del per ché l’abolizione della guerra non ha trovato mai spazio di discussione all’Onu.

Ma questo non deve far venir meno l’impegno di quanti, e siamo in tanti, credono che la guerra sia peggiore di tutti i mali che pretende di risolvere.

L’alternativa è la rassegnazione, la resa, la complicità persino.

Ci sono oggi capi di Stato o di governo, soprattutto quelli che hanno maggiori responsabilità, i cosiddetti “Grandi della Terra”, all’altezza di questa sfida?

Non è questione di quale sia il livello dei leader.

Mettiamoci dalla parte dei cittadini del pianeta.

I capi di Stato o di governo vanno e vengono, sono le popolazioni che restano.

Non possiamo pensare che a risolvere i problemi siano le stesse persone, i governi, i leader, che le guerre l’hanno volute.

 La prima cosa è capire, studiare, dibattere, creare movimento, su come espellere la violenza dalla storia dell’umanità.

È una cosa difficile? Non lo so.

Molte volte abbiamo sbagliato le previsioni, e quello che sembrava impossibile si è invece realizzato e viceversa.

Certamente, se non si pone il problema non se ne uscirà mai. La guerra non significa altro che l’uccisione di civili, morte e distruzione.

La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.

Esserne consapevoli ci dà la spinta, l’energia, le motivazioni, gli argomenti per provare a realizzare questa “utopia”.

Perché la guerra non si può “umanizzare”, si può solo abolire. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolirla è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile.

Se saremo in tanti a pensarlo questa “utopia” può essere realizzata.

Oggi c’è lo Stato islamico, è “giusta” e “necessaria” la guerra contro i terroristi?

La Storia si ripete, cambiano soltanto i nomi, non la logica che sottende al richiamo alla guerra “giusta” o “necessaria”.

E tutti quelli che provano a eccepire sono dei pavidi, irresponsabili, se non fiancheggiatori dei mostri.

 Così è stato quindici anni fa, in Afghanistan, quando il “mostro” da combattere erano i talebani.

 Più di trenta Paesi hanno combattuto questa guerra “giusta” e “necessaria”, che ha ridotto a «danni collaterali» le migliaia di civili uccisi o feriti nel conflitto.

Ora, però, che i talebani si stanno scontrando con le milizie dello Stato islamico, cosa diciamo?

Quale storia raccontiamo alla popolazione afgana vittima di quindici anni di guerra “giusta” e “necessaria”?

Scusateci, abbiamo sbagliato, i mostri di ieri sono gli alleati di oggi… La verità è che per essere perpetrata, la guerra ha bisogno di nuovi “mostri” da abbattere.

 Oggi è il turno dello Stato islamico, domani cambieranno nome e obiettivo. L’importante è proseguire su questa strada, con ogni mezzo e ad ogni prezzo. Tanto a pagarlo sono i più deboli e indifesi. Carne da cannone.

 Perché una cosa è incontestabile, l’ho verificata di persona, con Emergency, in tutti i teatri di guerra in cui siamo e continueremo a essere impegnati: alla fine a pagare il prezzo della guerra sono i civili.

Le guerre sono sempre state dichiarate dai ricchi, dai potenti, e in molti hanno accresciuto il loro potere, ingrossato i loro conti in banca, grazie alle guerre.

 Sono le popolazioni civili a subirne le conseguenze.

A combattere e a morire sono sempre i figli dei poveri.

Quanti figli di primi ministri, di capi di Stato, di “Ad” delle grandi industrie degli armamenti sono andati e morti in guerra?

La guerra è anche questo: la cosa più classista che l’uomo abbia prodotto. Anche per questo va debellata.

(Left n.48, 12 dicembre 2015).

 

 

 

 

IL SISTEMA È AL COLLASSO E

LA GUERRA È LA SOLUZIONE.

 Opinione.it - Gerardo Coco – (10 maggio 2024) – ci dice:

Il sistema è al collasso e la guerra è la soluzione.

Quei commentatori finanziari che stanno ancora aspettando che dall’alto giunga la notizia di un cambio direzionale dei tassi di interesse in grado di rimettere in moto l’economia, mi ricordano quei personaggi di “Samuel Beckett” rappresentati in un’attesa apparentemente infinita per una figura misteriosa chiamata “Godot” che però non arriva mai.

Neppure arriverà la finanza normale, perché stiamo vivendo la più grande crisi della storia e la gente non capisce cosa sta succedendo perché tutto è strettamente collegato alla guerra in Ucraina, a quella in Medio Oriente, alle tensioni estreme con la Cina, all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia, alle turbolenze nel settore bancario e ai disavanzi pubblici scandalosi.

È dal 2022, cioè da quando le banche centrali hanno deciso il primo aumento dei tassi di interesse, che scrivo che questa sarebbe stata la tendenza di lungo periodo.

Ne riassumo i motivi.

In primo luogo, le guerre sono il motore dell’inflazione perché causano scarsità di materie prime.

Armi, munizioni e attrezzature contengono, oltre al ferro, metalli non ferrosi come rame, zinco, ottone e stagno, nonché terre rare.

Provocando strozzature nel settore metallurgico, abbassano la produttività complessiva perché le armi sono investimenti a perdere.

 In tale contesto, i tassi di interesse alti non sono la cura perché aumentano i costi di produzione, peggiorando l’inflazione.

 Se il raccolto è scarso, non è che l’aumento dell’interesse faccia piovere improvvisamente.

Non siamo in un contesto di mercato rialzista o di boom speculativo dove l’aumento dell’interesse è efficace nel raffreddare la domanda.

Siamo in un contesto in cui il tasso di inflazione è superiore al tasso di crescita economica e, nonostante la domanda sia in calo rispetto all’offerta, i prezzi aumentano lo stesso.

Questo fenomeno si chiama stagflazione.

Poiché nell’economia il più grande mutuatario è il Governo, un interesse più alto aggrava solo la sua esposizione man mano che rinnova il debito, cosicché il tasso di interesse è spinto a salire sempre di più.

Abbiamo già scritto che la pressione al rialzo dei tassi deriva anche dalla svendita del debito statunitense da parte della Cina che, ovviamente, cerca di ridurre l’esposizione debitoria rispetto a un potenziale nemico.

 Già l’Amministrazione di Joe Biden, dopo aver ammonito la Cina a non appoggiare la Russia nella guerra contro l’Ucraina, ha di recente minacciato Pechino di sanzioni nel caso le banche del Paese facilitino il sostegno alla Russia.

Il che significa che il credito cinese rappresentato dalle obbligazioni statunitensi corre il rischio di essere congelato in qualsiasi momento.

Dopo il sequestro delle riserve alla Russia, qualsiasi entità straniera non occidentale sta cercando di ridurre le proprie riserve in titoli statunitensi e europei. Quindi, con la domanda in calo rispetto all’offerta, i prezzi obbligazionari scendono e i tassi aumentano.

Tutto ciò ha contribuito a innescare la fuga dei capitali dal settore pubblico verso quello privato.

E la fuga dei capitali dal lungo termine al breve termine, alimentando così la crisi del debito sovrano.

 

Chi, dunque, ha aspettative di una soluzione da parte delle banche centrali, non coglie l’intero problema.

 Le banche centrali non stanno affatto guidando il mercato ma lo stanno subendo. Ci si dimentichi dei tagli dei tassi, perché il vero problema è la spesa pubblica diventata una delle maggiori minacce per l’economia globale su cui le banche centrali non hanno alcun potere.

 Come potrebbero regolare la stabilità dei prezzi, quando i loro governi stanno facendo tutto il possibile per portare le rispettive economie al collasso?

Non solo Stati Uniti e Europa stanno finanziando guerre e milioni di migranti disoccupati, ma anche l’isteria del cambiamento climatico che richiede l’implosione delle loro intere economie.

 La persona media non si rende conto che questi pacchetti di aiuti “gratuiti” all’Ucraina, a Israele, ai migranti, al cambiamento climatico, vanno a scapito dei contribuenti occidentali, che stanno pagando per tutte queste misure, peraltro da loro mai votate.

Il sistema non è più sostenibile, poiché la spesa improduttiva cresce sempre più velocemente dell’economia produttiva.

L’inflazione che deriva dal sostegno a guerre senza fine sta quindi ulteriormente sprofondando le nazioni nella crisi del debito sovrano, che riguarda la domanda di nuove emissioni.

Questa crisi emerge proprio quando il Governo ha sempre più difficoltà a emettere nuovo debito.

Perché si dovrebbero acquistare obbligazioni a dieci anni, quando tutto punta verso l’escalation di una guerra che rischia di essere nucleare?

 Non c’è assolutamente alcun dubbio, quindi, che ci stiamo dirigendo verso un gravissimo default del debito sovrano.

Impossibilitati a impedire che la bolla del debito esploda, i finti leader occidentali si sono rivolti al consorzio del Governo unico mondiale emergente guidato dal Forum economico mondiale e al suo capo “Klaus Schwab”, che li ha convinti alla guerra come via d’uscita e scusa per giustificare la loro rovinosa gestione fiscale e l’inadempienza debitoria, per poi ricominciare tutto da capo con le valute digitali e un “folle reset fatto di zero Co2”, controllo e riduzione della popolazione e economia degli stakeholder.

Il tutto mescolato con l’egualitarismo.

Ecco perché non c’è assolutamente nessuno interessato a cercare la pace mentre c’è, come per il Covid, la censura e il bando per i pacifisti con la scusa risibile che la Russia voglia invadere l’Europa.

Arrivano i russi, arrivano i russi!

 Sarebbe comico come nel film, se non fosse tragico.

Ecco anche perché i capi di Governo ormai non si preoccupano di spendere a man bassa, sapendo che la soluzione per mantenere il potere, che sta loro sfuggendo, è ormai la guerra.

 Questi stolti a cui è stato detto di promuoverla, sono troppo stupidi per capire che “c’è chi vuole eliminare il cinquanta per cento della popolazione per salvare il pianeta”.

 Questo è il motivo per cui “i sostenitori del cambiamento climatico” sono dietro le quinte a tifare per la guerra nucleare.

 

 

 

 

Costruire la pace: come

farlo per fermare le guerre.

Centrostudidoc.org – (Set. 30, 2024) - Redazione - Dignità del lavoro – ci dice:

 

La pace non è qualcosa che viene da sé, è necessario un impegno collettivo.

 Come fare per costruire la pace?

 Ecco alcuni suggerimenti del “Centro Nuovo Modello di Sviluppo.

 

Fermare le guerre, costruire la pace: il dossier.

A giugno 2024 il “Centro Nuovo Modello di Sviluppo ODV” ha pubblicato il dossier “Fermare le guerre, costruire la pace“.

Al progetto coordinato da Francesco Gesualdi hanno aderito anche Altreconomia, Attac Italia, Eco Istituto del Veneto, Peacelink e Pax Christi.

L’obiettivo del dossier è quello di dare in 32 pagine dei consigli pratici e delle linee guida per costruire la pace.

Le indicazioni all’interno del dossier sono rivolte sia all’Italia in quanto Stato sia alle sue cittadine e ai suoi cittadini.

 Non si tratta infatti solo di grandi rivendicazioni dal punto di vista politico ed economico.

Al contrario, il dossier introduce anche a piccoli spunti quotidiani, per portare la volontà di costruire della pace nella vita di tutti i giorni.

 

Il contesto globale e nazionale.

Il punto di partenza del dossier “Fermare le guerre, costruire la pace” è molto semplice:

per costruire la pace non serve rifornire gli Stati di armi, ma costruire tavoli di negoziati basati su rapporti equi e rispettosi.

Al contrario però, dal 2000 al 2023 la spesa mondiale per gli armamenti è triplicata da 800 a 2.443 miliardi di dollari.

Similmente, anche la spesa militare nei paesi dell’Unione è aumentata del 50% dal 2014 al 2023.

Secondo i dati del 2017, le prime dieci imprese di armi europee spendono oltre 5 milioni di euro all’anno.

Inoltre, grazie a 33 lobbisti delle armi esercitano pressioni sulle istituzioni di Bruxelles.

Nello specifico dell’Italia, la produzione di armi è elevata nonostante il ripudio da parte della Costituzione nazionale.

 L’articolo 11 della Costituzione recita infatti:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;

consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Tuttavia, nei fatti il nostro Paese contribuisce al 4% delle esportazioni globali di armi.

Qui si trovano circa 300 imprese dedite alla produzione di armi.

Tra loro, Leonardo e Fincantieri, entrambe a controllo pubblico, che da sole coprono il 75% del fatturato.

In questo modo, l’industria delle armi crea il prodotto, ma ai fini della vendita è necessario che ce ne sia domanda.

Quale mercato migliore allora delle guerre?

E tra il 2010 e il 2023 i conflitti armati tra Stati sono aumentati dell’86% (da 30 a 56).

 

Che rapporto c’è tra capitalismo e guerra?

Di conseguenza, il dossier affronta anche il tema del rapporto tra capitalismo e guerra.

Tale sistema economico ha l’obiettivo di crescere, producendo e consumando risorse.

 Le risorse del pianeta sono, tuttavia, sempre più scarse.

In questo contesto, il capitalismo ha sempre accompagnato l’espansione economica con quella militare.

Se le guerre nascono dal controllo delle risorse scarse, il dossier propone come fulcro della risoluzione le energie rinnovabili diffuse.

Sole e vento sono a disposizione di tutte e tutti e possono essere sfruttate senza toglierle alle altre persone.

Le linee guida per costruire la pace.

A livello socio-economico il dossier invita così a stili di vita più sobri, che permettano un più morigerato sfruttamento delle risorse.

Inoltre, per contrastare le logiche di sopraffazione del capitalismo, propone il potenziamento dell’economia pubblica.

 Nello specifico, fa riferimento all’economia della comunità, che guarda in maniera solidaristica e gratuita ai bisogni irrinunciabili delle persone.

A tal proposito, suggerisce la conversione a produzione civile delle imprese delle armi a controllo pubblico.

Un altro aspetto fondamentale per costruire la pace sono dei rapporti internazionali di equità e cooperazione.

 In altre parole, a livello commerciale bisogna garantire compensi dignitosi ai Paesi esportatori di materie prime e manufatti.

Attraverso prezzi corretti, è possibile garantire salari vivibili a chi lavora in un contesto ambientale salubre e sicuro.

Allo stesso tempo, pagando tasse e royalties adeguati, buona parte della ricchezza estratta rimarrà locale.

Anche in questo modo, a livello di opinione pubblica interna sarà possibile costruire un clima che esula dalla cultura del nemico.

La costruzione di un nemico porta infatti alla necessità di armarsi per combatterlo.

Un altro buon proposito per costruire la pace è la diffusione della difesa popolare nonviolenta.

 In altre parole, il dossier promuove la non collaborazione sostenuta da una forte motivazione politica.

 Uno strumento, questo, che vede molti esempi storici vittoriosi.

Per funzionare, secondo il dossier, la difesa popolare non violenta ha bisogno di un servizio nazionale obbligatorio di difesa popolare nonviolenta.

 

Infine, in linea con l’articolo 11 della Costituzione, il dossier propone l’istituzione di un nuovo Ministero.

Per costruire la pace, propone così la nascita del “Ministero della riconciliazione internazionale e corpi civili di pace”.

Come raccomandato dal Parlamento Europeo nel 2001, i corpi civili di pace dovrebbero essere entità istituzionali non armate.

Di conseguenza, il loro compito sarebbe di intervenire nelle zone di conflitto come forze d’interposizione disarmata per proteggere la popolazione e dissuadere le parti dall’uso delle armi.

Costruire la pace nel quotidiano.

Infine, il dossier “Fermare le guerre, costruire la pace” suggerisce alcune azioni che tutte le persone possono compiere nel loro quotidiano:

esporre simboli di pace per non dimenticare che il mondo è in guerra;

evitare rapporti con le banche che investono in spese militari;

esprimere contrarietà all’aumento delle spese militari attraverso ripetute lettere alla presidenza del Consiglio;

inviare al Ministero della Difesa una dichiarazione di obiezione di coscienza all’uso delle armi, per segnalare indisponibilità in caso di ripristino della leva militare obbligatoria;

promuovere la costituzione di comitati locali di pace per far riflettere la cittadinanza su come costruire la pace;

intervenire presso le amministrazioni comunali affinché sostengano i diritti sociali e la conversione ecologica.

Per promuovere questi obiettivi, il dossier invita le associazioni a vocazione antimilitarista e pacifista a farsene promotrici attraverso apposite campagne e ampie reti di collaborazione.

 In questo modo, queste azioni per costruire la pace godranno di rinvigorita forza.

 

 

 

 

La soluzione di “ChatGpt” per ottenere

la pace nel mondo? La guerra nucleare.

 Ilfattoquotidiano.it - Mauro Del Corno – (12 Febbraio 2024) – ci dice:

 

Intelligenza Artificiale

Nell’Intelligenza Artificiale qualcosina da sistemare ancora c’è.

Ad esempio il tortuoso “ragionamento” per cui scatenare la guerra nucleare è un sistema per ottenere la pace nel mondo.

Vero che i cimiteri sono luoghi pacifici per antonomasia ma l’idea che avremmo di pace come specie umana sarebbe un’altra.

 Uno studio condotto dalla “Stanford University “statunitense ed altri centri di ricerca ha evidenziato come i modelli di IA più diffusi, “Chat GPT “inclusi, siano facilmente propensi ad utilizzare soluzioni violente per raggiungere i loro obiettivi. Incluso appunto il lancio di missili atomici.

In particolare GPT-3.5 e GPT-4 di OpenAI si sono distinti come i sistemi più bellicosi. In una delle simulazioni Chat GPT ha giustificato l’uso delle armi nucleari con l’obiettivo di raggiungere la pace nel mondo, in un’altra ha spiegato di aver ritenuto conveniente sfruttare il fatto di disporre di un arsenale atomico nella corsa per affermarsi a danno di altri paesi.

 Non stupisce che i ricercatori definiscano “Preoccupanti” queste evoluzioni.

IA, il Garante della privacy avvia una indagine sulle misure di sicurezza adottate dai siti contro la raccolta di dati.

Preoccupanti anche perché l’esercito statunitense ha avviato una collaborazione con OpenAI (società madre di Chat GPT) per valutare possibili utilizzi della nuova tecnologia in operazioni militari e scelte strategiche.

Quatta quatta, un mese fa, OpenAI ha cambiato le policy d’uso dei suoi servizi per aprire alla possibilità di impiego nel settore militare.

Fino al 10 gennaio il decalogo delle regole di Open Ai vietava esplicitamente l’uso dei suoi prodotti per “lo sviluppo di armi” e per “attività militari e warfare”.

Ora questa seconda voce è scomparsa, e quella che riguarda l’uso negli armamenti è stata riformulata in un capitolo generale in questo modo:

“Non usare i nostri servizi per nuocere a te stesso o ad altri. Per esempio, non usare i nostri servizi per promuovere il suicidio, sviluppare o usare armi”.

Speriamo a questo punto che abbia ragione “Sean Booth”: “È solo una bolla funzionale a quel f… capitale d’investimento che ci fluttua dentro: incasseranno e se ne andranno finché la gente non si accorgerà che non funziona.

 Almeno non nel modo in cui pensano.

A un certo punto sarà utile per alcune cose ma usarla richiederà un certo grado di rigore e responsabilità.

Ma non penso che le persone siano rigorose”.

Non stupisca la citazione (da un’intervista apparsa su Robinson) di un compositore, membro del duo “Autechre”.

Più che una band di sonorità elettroniche, è da tempo considerato uno dei progetti più visionari e profondi in merito all’interazione uomo – tecnologie.

 

NATO VS. RUSSIA.

Guerra ucraina, la folle politica

 di rimuovere ogni soluzione di pace.

La nuovabq.it - Eugenio Capozzi – (28 -1- 2023) – ci dice:

La realtà ci dice che soltanto una guerra mondiale potrebbe ridare all'Ucraina i confini pre-2014:

i Paesi occidentali dicono di non volere l'escalation ma si rifiutano di fissare un obiettivo concreto almeno per il "pareggio."

 La linea pare quella del "tanto peggio tanto meglio", a spese della popolazione ucraina.

Eppure le possibilità di porre almeno le basi su cui costruire un negoziato ci sarebbero...

(LE ARMI NON PORTANO LA PACE, di Rosalina Ravasio)

L'atteggiamento dei paesi Nato rispetto al conflitto tra Russia e Ucraina sprofonda sempre più in una surreale schizofrenia.

Da un lato, si continua ad alimentare una retorica trionfalistica, questa volta intorno all'ennesimo invio di armamenti all'Ucraina – i carri armati Leopard 2 e Abrams – e si continua a lanciare proclami su una possibile vittoria di Kiev sulla Russia grazie al supporto occidentale, dall'altro si ammette, con toni più sommessi, che le attuali forniture di sistemi d'arma, come quelle precedenti, non potranno certo imprimere una svolta risolutiva nella guerra, ma al massimo frenare o rallentare l'avanzata delle truppe di Mosca.

 

Un'ammissione, quest'ultima, che fotografa un dato evidente, sottolineato dai competenti di affari militari: i succitati mezzi corazzati saranno in tutto poco più di un centinaio, contro gli oltre 3000 carri armati russi, e prima di essere consegnati ed essere concretamente utilizzabili dovranno passare diversi mesi.

Più in generale, dopo quasi un anno di conflitto - con tutto il carico di sofferenze, vittime, devastazioni, disastri economici che esso ha finora comportato nei paesi coinvolti e in tutta Europa - si impone a tutti una realtà ben individuata da alcuni fin da subito:

vista l'enorme sproporzione di forze e di risorse tra russi e ucraini, una vittoria chiara e netta di questi ultimi, cioè la riconquista della sovranità su tutto il loro territorio e il respingimento delle truppe russe oltre i confini del 1991 (obiettivo ancora oggi quotidianamente rivendicato dal presidente ucraino Zelensky e dal suo esecutivo) è impossibile, a meno che i paesi della Nato non entrino direttamente in guerra con Mosca.

Cosa, quest'ultima, che tutti i governi occidentali, da Washington in giù, sottolineano, oggi come ieri, di non aver alcuna intenzione di fare. Comprensibilmente e per fortuna, perché comporterebbe l'apocalittica prospettiva di una escalation verso una guerra mondiale contro la seconda potenza nucleare del pianeta.

Insomma, appena si diradano le spesse nubi della “narrazione” ossessivamente imposta praticamente a reti unificate in Occidente sull'appoggio bellico a Kiev come frontiera della difesa di libertà, democrazia e diritti umani contro la tirannide di Putin;

e appena ci si distrae per un attimo dalle continue illazioni dei media occidentali secondo cui il regime putiniano è sull'orlo del collasso;

riemerge alla luce il punto centrale per la comprensione razionale dell'attuale contrapposizione tra i due paesi:

per quanto massicciamente si possa aiutarla dall'esterno, l'Ucraina può al massimo “pareggiare” la guerra, limitare le sue perdite, ma non potrà certo tornare a uno status quo precedente il 24 febbraio 2022;

men che meno a quello precedente il 2014, quando già la Crimea e parti del Donbass erano passati sotto il controllo russo.

Ma se questo è vero, allora si rivela nitidamente non soltanto quanto in questi mesi la demonizzazione come “putiniani” di tutti gli osservatori che semplicemente sottolineavano tale stato di cose da parte dell'establishment politico e mediatico euro-americano fosse ingiusta, in malafede e puramente strumentale;

ma, soprattutto, come la posizione ufficiale dell'amministrazione Biden, della Nato, del G7, dell'Unione Europea sia assolutamente illogica e insostenibile, e celi il sospetto di essere essa stessa in totale malafede.

Se, infatti, si sostiene di non voler far guerra alla Russia ma di voler soltanto consentire all'Ucraina di difendere la propria esistenza e sovranità da una possibile annessione di Mosca, allora sarebbe necessario anche cominciare a dichiarare su quali basi, a partire dalla situazione corrente sul campo, si possano porre prima o poi le condizioni di una risoluzione del conflitto;

 cioè a quali condizioni l'obiettivo di salvare l'esistenza dell'Ucraina come paese sovrano e la maggior parte possibile del suo territorio potrebbe considerarsi raggiunto.

 

Dal momento che è impossibile, nelle condizioni attuali, ricacciare i russi al di là dei confini ufficiali, a cosa si potrebbe rinunciare, pur di ottenere un “pareggio” onorevole?

Cosa, al contrario, è ritenuto assolutamente irrinunciabile?

E invece proprio su questo punto da parte degli Stati Uniti e della Nato viene un totale, assordante silenzio.

La “difesa” di Kiev che si promuove rimane in una nebulosa indefinitezza, senza alcun punto fermo da raggiungere.

 Una indefinitezza in cui rimangono visibili soltanto i roboanti proclami del governo ucraino, e che sembra fatta apposta per giustificare una protrazione del conflitto a tempo praticamente indeterminato, alimentando il sospetto che l'unico vero scopo degli Stati Uniti e dei loro alleati in questa guerra sia quello di logorare e indebolire Mosca il più possibile, anche al prezzo di ulteriori, innumerevoli lutti, e del dissanguamento economico dell'intero vecchio continente.

 

Si dirà che a tale silenzio ambiguo corrisponde, dall'altra parte della barricata, l'altrettanto ambiguo e strumentale obiettivo dell'”operazione speciale” lanciata un anno fa da Putin – quella “denazificazione” apparentemente fatta apposta per eccitare i sentimenti nazional-Imperial-sciovinisti più torbidi dell'opinione pubblica interna, e continuare nell'invasione potenzialmente fino al rovesciamento del governo di Kiev e alla sua sostituzione con uno Stato-fantoccio.

 E si dirà, parimenti, che enunciare possibili, circostanziate rinunce territoriali ucraine “accettabili” da parte degli alleati dell'Ucraina significherebbe incitare Mosca a rilanciare con rivendicazioni ulteriori più ambiziose.

 Sono entrambe, queste, osservazioni ragionevoli.

Ma proprio per smascherare l'ambiguità russa e togliere ad essa ogni alibi per portare avanti ad oltranza una guerra di logoramento la linea più proficua, per le nazioni occidentali, sarebbe quella di risalire, come finora mai si è fatto, alle radici profonde del conflitto:

alla divisione etnico-nazionalistica strutturale interna allo Stato ucraino fin dalla fine dell'Urss, alle rivendicazioni di autonomia e indipendenza delle regioni filorusse, alla condizione storica e culturale assolutamente particolare della Crimea.

Se solo si volesse si potrebbe, a partire dalle dolorose esperienze già vissute nella ex Jugoslavia e in altri casi simili, almeno impostare un discorso di principio su come trovare, con il consenso delle parti e della comunità internazionale, un assetto accettabile di convivenza tra istanze diverse e legittime in un territorio diviso e lungamente tormentato.

Se le cancellerie europee e quella di Washington non operano in questo senso, se non tracciano le coordinate di possibili punti di convergenza, allora vuol dire che esse optano soltanto per il “tanto peggio tanto meglio”.

Servendosi cinicamente dell'Ucraina come una spina per ferire l'Orso russo, da sfruttare e poi gettare via.

Follemente incuranti, in aggiunta, dei rischi di ingestibili conseguenze economiche, politiche ed esistenziali anche per i propri paesi, man mano che la ferita incancrenisce, e le infezioni da essa derivate si diffondono.

 

 

 

Le armi non portano la pace,

ma la strage.

Lanuovabq.it -Lettera della suora Rosalina Ravasio – (28-1-2023) – ci dice:

L’ebbrezza di una “pace armata fino ai denti” finisce sempre nel pianto, nella prostrazione e nella morte di intere generazioni.

Per non schiantarsi contro l'iceberg di un conflitto destinato ad espandersi, occorre ascoltare i "segnali di pericolo" piuttosto che le sirene del pensiero unico.

Una delle sfide ineluttabili al giorno d'oggi consiste nel far passare un “concetto alternativo” alle armi considerate buone e giuste!

 Mi riferisco all'attuale guerra che coinvolge Russia e Ucraina, Europa, Nato e Usa, perché in fondo di questo si tratta!

 

La nostra è una sfida controcorrente, forse una debole mano tesa alla disperata ricerca di una vera soluzione per fermare il conflitto in corso, che ha già portato e porterà certamente alla lacerazione violenta di intere generazioni, nel vano tentativo – presente solo nella mente di alcuni ben noti potenti – di creare nuovi equilibri... solo a proprio favore?

 

Sapete che il Titanic era ritenuto all’epoca la nave più sicura al mondo?

La storia racconta che "sentendo l’allarme, i passeggeri inizialmente pensavano si trattasse di uno scherzo e coloro che avevano indossato il salvagente venivano presi in giro... mentre l'orchestra continuava a suonare!".

 Capito?

L'orchestra continuava a suonare! Su 2223 persone a bordo, infatti, solo 705 riuscirono a salvarsi (alcuni morirono per ipotermia subito dopo essere stati tratti in salvo).

 

Si racconta che il 14 aprile 1912 la stazione radio di bordo del Titanic ricevette numerose segnalazioni che riferivano la presenza di iceberg vaganti lungo la rotta, "ma il mare si presentava tranquillo… quando avvistarono un enorme iceberg lanciarono l’allarme”: purtroppo era troppo tardi! Capito?

 Purtroppo era troppo tardi!

Certamente, ora, non abbiamo “soluzioni magiche” a portata di mano, ma smettiamola di agire con superficialità!

Poniamo grande attenzione alle numerose “segnalazioni” di pericolo imminente e grave, per evitare che una tragedia così enorme, come questa guerra che potrebbe finire per coinvolgerci tutti, possa continuare a dilaniare corpi di bambini, giovani e anziani!

Vogliamo forse che tutto ciò si espanda ulteriormente, senza controllo, portandoci a sbattere contro l'improvviso, enorme iceberg di un conflitto armato?

Così, immersi e sperduti nel formicaio umano, dobbiamo combattere contro menti e cuori guastati e viziati da una visione della vita che continuamente degrada e imputridisce il “vivere” umano di molti popoli

. La nostra umanità, scossa da tante guerre, non solo in Ucraina, pare martoriata da un male segreto e oscuro, invisibile, dove l’odio e la vendetta, naturalmente ben mimetizzati, avanzano assestando contraccolpi disastrosi a danno di tutta l’umanità.

L’anno scorso abbiamo avuto come ospiti molti ucraini: gran parte di loro era contro la guerra!

Molti avevano parenti, fratelli, cugini, nonni in Russia, ma ripetevano continuamente: “non è la nostra guerra… è una guerra voluta da altri”.

Molti di loro non vogliono separarsi dalla Russia, che non considerano estranea alle loro radici e alla loro storia!

Mi hanno raccontato fatti che evocavano una storia già vissuta anche dall’Italia (vedi la vicenda degli italiani di Istria, poi abbandonati e sterminati dai partigiani di Tito: foibe docent!). 

Quando ho chiesto loro di “dire queste cose” e di riferire queste testimonianze ad un giornale, mi hanno detto di no, quasi spaventati, per paura di gravi conseguenze, soprattutto sui loro familiari rimasti in Ucraina e in Russia!

 

Vediamo come i contenuti omologati e monotematici proposti dalla televisione, dal cinema, dalla radio, dai media, e nelle varie kermesse nazionali e internazionali sono divenuti mezzi di “contagio” e diffusione del pensiero unico!

Il Vangelo ci dice: “Dove c’è il tuo tesoro là c’è il tuo cuore” (Mt 6,21) Oggi dove è il “nostro cuore”?

È stato forse sommerso da contraddizioni, testardaggini, superficialità, prepotenze, autoritarismi imperanti, eccetera, da parte delle Istituzioni nazionali e internazionali, e imprigionato, rinchiuso in fondo allo “scrigno” del potere europeo e internazionale con una triplice mandata?

Purtroppo, l’umanità è sempre vittima e mai, dico mai, beneficiaria di questo falso “bene”, di questa “falsa solidarietà”!

Il Male ci deruba, ci inganna, ci sottrae alla vera pace!

L’ebbrezza di una “pace armata fino ai denti” finisce sempre nel pianto e nella prostrazione, oltre che nella morte, di intere generazioni!

Ma certi politici si mostrano sordi agli allarmi e il "pianoforte" continua a suonare in un'apparente, benché evanescente ed effimera arroganza e sicurezza, che i nostri politici ostentano nella presunzione di poter controllare tutti i futuri eventi!

Ma questo loro atteggiamento è solo un fittizio, obbrobrioso mantello, destinato, pietosamente, a coprire il probabile “schianto” di tante vite contro la “punta” dell’iceberg, cioè la parte visibile di questa guerra!

E tutto per che cosa?

Per “il ceppo putrido di potere” che si chiami Unione Europea, Nato, Stati Uniti, Russia, Ucraina!

Non lasciate la “Pace” sola come una “tenda nel deserto”… ma custoditela e proteggetela, e soprattutto diffondetela!

 

 

 

Come e perché cessare le guerre.

 

Avantionline.it - Paolo Cajelli -  (22 Gennaio 2024) – ci dice:

 

Le guerre finiscono in tre modi soltanto: sterminando il nemico, come gli europei hanno fatto con i nativi del nord e sud America secoli or sono;

 battendo militarmente il proprio antagonista, e valga per tutti la vittoria sul nazifascismo nella seconda guerra mondiale;

 oppure trovando un accordo che porti alla pace o, ancor meglio, scongiuri il conflitto.

Vi sono attualmente sul pianeta molte guerre, ma quelle tra Ucraina e Russia da un lato e palestinesi e israeliani dall’altro, si trovano al centro della nostra attenzione in quanto cerniera tra la comunità occidentale e altri blocchi di potere senza dubbio concorrenti.

Ora:

quanto credibilmente è stata coltivata la strada negoziale in questi due casi? Esistono responsabilità dei nostri alleati ucraini e israeliani, se non della Nato, che precedono il momento in cui, per primi, russi e palestinesi hanno tirato il grilletto?

Negare precise colpe dell’occidente a monte di entrambi gli spargimenti di sangue in atto significa mentire, tanto quanto far finta che Putin sia un temerario capo di Stato anziché un tiranno senza scrupoli o Hamas una organizzazione di liberazione nazionale e non già una ridotta di terroristi sanguinari.

 Ogni giorno di più scarseggia il tempo a nostra disposizione per tentare di governare due situazioni troppo pericolosamente avvitate, dove la mancanza di parole inequivoche nel riconoscere le rispettive e ben chiare responsabilità, impedisce alla via diplomatica – è ciò che accade – di prendere davvero la scena;

 il rischio incombente è l’escalation pressoché planetaria di entrambi i conflitti, con l’occidente contrapposto ad un fronte sconfinato:

dall’Europa orientale sino al Medioriente, passando per la Cina.

Se non debbono esserci tentennamenti nel condannare – senza se e senza ma – l’attacco feroce e vile di Hamas dello scorso 7 ottobre contro civili indifesi, ugualmente è indispensabile riconoscere – senza se e senza ma – che Israele da sessanta anni occupa militarmente territori non suoi, infischiandosene di almeno quattro risoluzioni del consiglio di sicurezza dell’Onu che ammoniscono Tel Aviv alla riconsegna ai palestinesi di ciò che appartiene loro quale pre-condizione per coltivare credibilmente la così detta soluzione dei due Stati, tutt’oggi unica via d’uscita possibile;

comunque la si consideri, non può avere onore l’azione di Hamas che ha causato la morte di migliaia di innocenti, feriti e ostaggi, ma allo stesso modo è priva di onore la reazione di Netanyahu che togliendo acqua, luce e gas all’intera striscia di Gaza in spregio al diritto internazionale, ha commesso precisi crimini di guerra:

i due estremismi si sommano.

In egual modo liquidare l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca con le spiegazioni d’ordinanza che imperano sulla quasi totalità della stampa occidentale e che esauriscono ogni approfondimento alla mai sopita egemonia di potenza russa, all’indole da guerrafondaio di Putin e via di questo passo, significa fingere di non vedere l’accerchiamento in armi che la Nato, sin dal crollo del U.R.S.S., ha perpetrato a carico della federazione russa attraverso la cooptazione nella sfera di influenza atlantica di molti Paesi membri, prima del 1989, del patto di Varsavia, dalla Polonia alle repubbliche baltiche.

Se è ben più che comprensibile l’ansia di Stati come Lettonia o Bulgaria o della stessa Ucraina a far parte della Nato nel convincimento di sapersi definitivamente al riparo dal Cremlino, non può apparire meno legittima la reazione di una ex potenza imperiale nel veder schierate lungo migliaia di chilometri dei propri confini armi e truppe dello storico nemico:

visto da oriente cioè è l’espansionismo geopolitico della Nato ad aver innescato la spirale cui assistiamo sin dal 2014, quando la Russia annetté la Crimea.

I due estremismi si sommano.

Per avere torto non è sufficiente essere un dittatore o un terrorista; e così neppure, per aver ragione, appartenere a ordinamenti realmente democratici: la tirannia dei mezzi sui fini infatti, ricordando Silone, conduce inesorabilmente a vanificare i fini più nobili.

E del resto l’indisponibilità di Putin ad accettare la Nato ai propri confini, non è diversa da quella mostrata da Kennedy nel 1962 in occasione della crisi dei missili a Cuba quando con ogni mezzo rifiutò di tollerare armi sovietiche alle porte di casa: è un fatto.

 Ma proprio questo episodio di un passato ormai lontano che avvicinò il mondo quanto mai prima né dopo alla catastrofe nucleare, ci aiuta a tenere in luce l’aspetto dirimente di cui sto scrivendo:

se autentica, la volontà di trovare un accordo è ciò che fa la differenza tra la vita e la morte.

Serve infatti ricordare che la determinazione dell’Urss di Krusciov ad installare i propri missili sull’isola di Castro, seguiva, più che al fallito tentativo di invasione di Cuba orchestrato dalla Cia, al piazzamento di pochi anni prima dei missili Nato in Turchia e Italia puntati contro il blocco sovietico, tanto che ciò che permise infine di scongiurare il peggio, fu proprio l’impegno degli Usa (reso pubblico decenni più tardi) a rimuovere i missili Jupiter dai due Paesi mediterranei alleati in cambio dello smantellamento da Cuba dei missili sovietici.

L’epilogo non fu nefasto solo grazie al pragmatismo negoziale di cui allora si incaricarono le molte persone di buona volontà al centro di quella vicenda.

E tornando ad oggi, non è forse l’impegno della Nato ad una Ucraina neutrale la soluzione per spegnere il conflitto in cambio dell’impegno di Mosca a non mai promuoverne l’invasione?

Può, al contrario, portare ad un esito diverso dalla guerra la pretesa occidentale di fagocitare anche l’Ucraina nel patto Atlantico o in Europa?

E così pure, è possibile stabilizzare un orizzonte di pace in Medioriente senza approdare alla costituzione dello Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele secondo i confini del ’67 e quindi liberando tutti i territori occupati dai coloni israeliani?

È davvero pensabile che il sionismo predatorio non venga contrastato – per sempre e sino all’ultima pallottola – da ogni arabo in lotta per la causa palestinese?

Le due strade diplomatiche appena tratteggiate, sono oggi l’equivalente dei missili Jupiter del 1962: strumenti per far tacere le armi.

Ma occorrono immediatamente buona volontà e parole chiare, occorre sottrarsi al pensiero unico dominante alimentando il senso critico di tutta la comunità internazionale, a partire dal nostro occidente assuefatto alla logica ingannevole fondata sul salvifico invio al fronte di armi e soldi.

Chi possiamo aspettarci assuma un simile ruolo in controcanto? La nuova Zelanda? L’unico attore potenzialmente munito del necessario peso specifico è naturalmente l’Europa.

Non può essere che l’Europa infatti a pretendere – innanzitutto dagli Usa – una de-escalation volta a una tregua immediata dalla quale far nascere una grande conferenza internazionale chiamata a soluzioni politiche per i decenni futuri:

si tratta di una responsabilità storica cui il nostro continente ha senz’altro l’interesse, se non il dovere, di prodigarsi.

 L’analisi che ci compete deve farsi carico dell’eventualità tutt’altro che remota del ritorno di Trump alla Casa Bianca e del suo già visto isolazionismo, sino al disimpegno Usa dal fronte ucraino.

Che faremmo a quel punto?

Senza il supporto americano, la Russia travolgerebbe l’Ucraina e nel cuore dell’Europa la Storia prenderebbe strade temibilmente inesplorate.

E parimenti rifiutare la sciatta posizione ideologica che non discute il diritto di Israele a far terra bruciata di Gaza come d’ogni altro fronte di guerra che quotidianamente si apre laggiù, significa innanzitutto ridurre i rischi di incolumità della popolazione ebraica, non solo in Israele, allontanando il pericolo di incendiare la regione oltre il punto di non ritorno: essere anti-sionisti per non essere anti-israeliani.

Probabilmente negli Stati Uniti d’America nessun presidente riuscirebbe ad essere eletto senza il supporto delle comunità ebraiche e con altrettanta probabilità è illusorio attendersi che gli Usa di propria iniziativa vogliano disimpegnare la Nato dai confini russi;

ma proprio a questo la nostra Europa è chiamata:

pretendere la via diplomatica in aperta dialettica con l’alleato d’oltreoceano, superando opacità e subalternanza politica troppo spesso osservate.

E che Dio ce la mandi buona.

(Paolo Cajelli).

 

 

 

 

La teoria della guerra giusta

Tra diritto internazionale e nazionale.

Altalex.com - Marta De Leucio -dipendente pubblico – (19/05/2024) – ci dice:

 

È necessario parlare di pace e di educazione alla pace contro la convinzione che un’azione bellica condotta in difesa dei diritti umani debba considerarsi giusta.

Riflessioni e bilanciamento tra la c.d. “teoria della guerra giusta” e il diritto alla pace.

Guerra e diritto.

La teoria della guerra giusta.

Il diritto alla pace in opposizione alla teoria della guerra giusta.

Diritto costituzionale.

1. Guerra e diritto.

Una guerra implica la violazione del diritto alla vita di persone innocenti e, pertanto, per sua natura è contraria al diritto.

La Carta delle Nazioni Unite – fondamento dello ius internazionale moderno – vieta, infatti, ogni conflitto bellico ed ammette, a titolo di eccezione, che si possa usare lo strumento militare per respingere attacchi armati con l’obbligo di informare immediatamente il Consiglio di Sicurezza perché metta la situazione sotto il proprio controllo.

Analogamente, con l’articolo 11 della Carta Costituzionale, l’Italia ripudia esplicitamente la guerra quale «… strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…>>.

A partire dal 1988, in numerose Leggi regionali (prima fra tutte quella del Veneto) e, dal 1991, in diversi Statuti comunali e provinciali sono comparsi commi volti a promuovere la pace, la cooperazione e la solidarietà internazionale.

 

2. La teoria della guerra giusta.

Negli ultimi tempi però, nonostante questo assetto normativo, sembra essersi imposta la convinzione che un’azione bellica condotta in difesa dei diritti umani, pur non essendo una guerra di autodifesa, debba considerarsi giusta.

Tale visione nasce dall’esigenza di arginare i recenti conflitti che insanguinano l’Europa e il Medio Oriente e trova fondamento in vecchie teorie sulla “guerra giusta”.

Nei secoli, infatti, numerose sono state le tesi che hanno legittimato conflitti bellici con le più svariate cause di giustificazione.

Sant’Agostino riteneva, ad esempio, che una guerra fosse giusta se la stessa avvenisse in difesa del debole e dell'oppresso.

San Tommaso d'Aquino, invece, teorizzava che un conflitto fosse giustificabile se volto a punire un'ingiustizia molto grave.

Per la Scuola del diritto naturale e delle genti, al contrario, le guerre giuste erano quelle difensive poiché fondate sul principio dell’autodifesa;

 intesa come tutela della vita e della libertà degli individui ma anche della proprietà privata.

 

La teoria moderna, invece, richiedeva la coesistenza di tre elementi fondamentali: la “iusta causa”, la” legitima auctoritas” e lo “iusto modo”.

 

Applicando i suddetti criteri all’attuale concezione di guerra giusta come conflitto in difesa dei diritti umani, si potrebbe affermare che sarebbe tale l’azione bellica volta a contrastare una violazione imponente e massiccia della dignità̀ umana, condotta da un'autorità internazionale, i cui modi di attuazione siano proporzionati al male che s'intende eliminare e non produttivi di effetti parimenti offensivi.

Un’ utopia, considerato che la storia (basta ricordare il rilascio della bomba atomica durante il secondo conflitto mondiale) ci insegna che l’equivalenza valoriale tra l'offesa da combattere e il modo in cui la si combatte non è assicurabile nel corso di un conflitto bellico.

Dall’analisi fin qui svolta si evince, pertanto, che appaiono di certo teorizzabili guerre giuste, le quali però non sono concretamente realizzabili in quanto una guerra giusta - condotta in modo ingiusto - necessariamente diventerà ingiusta.

Ipotizzare, dunque, che la difesa dei diritti umani possa essere una giusta causa, non sta di certo a significare che la guerra è un giusto mezzo considerato che, con essa, si violerebbero necessariamente dei diritti fondamentali per proteggerne altri.

In conclusione, più che una teoria vetusta che giustifichi e legittimi l’ennesima guerra, sarebbe più opportuno porgere l’attenzione sul concetto di pace e su come la stessa si possa concretamente ottenere.

 

3. Il diritto alla pace in opposizione alla teoria della guerra giusta.

A tal proposito, si evidenzia che la” Dichiarazione Universale dei diritti umani”, all’ art. 28, stabilisce che “ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà (fondamentali) … possono essere pienamente realizzati”.

 

Proclama, pertanto, una pace “positiva”, costruttiva di un sistema di istituzioni, di relazioni e di politiche di cooperazione.

 

In tale contesto giuridico - istituzionale, agli Stati è automaticamente vietato fare guerra.

Per loro sussiste il dovere di costruire e preservare la pace;

disarmando ed educando – ad esempio - al rispetto dei diritti umani; formando il personale militare per azioni volte alla tutela della pace; rifiutando il nucleare;

destinando fondi allo sviluppo della cooperazione internazionale; supportando le attività di cooperazione e solidarietà internazionale, ecc.

 

E - dunque – se realmente si cerca e vuole la pace – ad avviso della scrivente – occorre parlare di pace ed educare alla pace ed è necessario che le potenze del mondo si facciano finalmente carico di questo oneroso dovere.

 

 

 

Fare la guerra per salvare l’economia

capitalistica: l’impero Usa alla

conquista del mondo.

Storiastoriepn.it - Gigi Bettoli – (18 Aprile 2024) – ci dice:

 

(Joyce e Gabriel Kolko, I limiti della potenza americana. Gli Stati Uniti nel mondo dal 1945 al 1954, Torino, Einaudi, 1975, pp. 905- ed. or. 1972).

Ovviamente, a leggere i classici, bisogna contestualizzare, e poi andare a vedersi tutte le analisi successive. È anche su questo piano che si capisce lo spessore e conferma l’attualità di un’analisi.

Va infatti tenuto conto che si tratta di un libro le cui conclusioni sono inevitabilmente condizionate dal periodo in cui è stato scritto, con gli Usa infognati nella guerra del Vietnam, che fu la loro più cocente sconfitta storica… prima di Cuba, Afganistan, Somalia, Iraq, Siria…

 

E’ una ricerca sul piano della politica e dell’economia, dove manca un’analisi della storia culturale, quella in cui il “secolo americano” ha avuto successo, dando vita a quel “pensiero unico” che, come in Matrix, produce una avvolgente realtà virtuale.

Manca soprattutto un’analisi di quel patto sociale che “Eric J. Hobsbawm” ha definito come la base dei “trenta gloriosi” anni del secondo dopoguerra:                                       il consenso occidentale ad una “cortina di ferro” anticomunista in cambio del Welfare State concesso alla socialdemocrazia europea, inesorabilmente sfaldatosi sotto gli attacchi neoliberali dopo il 1989 e la “caduta del muro” (oltre che la trasformazione neoliberale delle socialdemocrazie: non più i Brandt, Kreisky e Palme, ma i Blair, D’Alema, Dijsselbloem, Stoltemberg e via elencando).

 

In questo caso, il senso di questo libro documentatissimo ed implacabile rimane quello di leggere il dopoguerra senza credere alle favole.

 Si legge “libera iniziativa, economia aperta e democrazia liberale”, ma in filigrana significa guerra “fredda”.

(Un’avvertenza: durante questa lettura hanno continuato a presentarmisi esempi frequenti di comparazione tra le vicende del primo decennio postbellico, ed i tempi attuali. Alcune le ritroverete continuando a leggere la mia recensione.)

 

​Perché un libro di mezzo secolo fa ci dice quello che non sentiremo mai da un Gianni Riotta o dai “giornalisti con le bretelle”.

C’è da infuriarsi, a sentir oggi parlare a sproposito di “piano Mattei” da parte dei (post?) fascisti neoliberali, o di

«Luigi Einaudi, primo Capo dello Stato eletto con le regole della Costituzione del ’48, costruttore tra i più importanti della nostra democrazia, figura di elevato prestigio internazionale che aiutò l’Italia nel dopoguerra a riconquistare la dignità perduta con il fascismo».

 

Oppure, pochi giorni dopo:

«Riferendosi all’Europa, nel 1954, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi ricordava che lo spettro delle decisioni per i Paesi del continente si riduceva a “l’esistere uniti o lo scomparire”.

L’esperienza dell’Alleanza Atlantica ci conferma il valore di una storia che, in 75 anni, non ha mai tradito l’impegno di garanzia a beneficio dei 32 Paesi che ne fanno parte: uniti nella difesa della libertà e della democrazia».

Bisogna scegliere, tra un’analisi seria o la riproposizione di narrazioni lenitive: tra la politica monetarista e deflazionistica di Einaudi (milioni di disoccupati ed emigranti per ripristinare i capitali della piccola e grande borghesia) oppure quella espansiva cristiano-sociale di Mattei, realizzazione concreta della “Carta di Camaldoli” della Dc clandestina.

 

Oppure ci si può alienare a leggere la marea di testi della storiografia cosiddetta “liberale” (alias “di regime”), per cui tutta la storia dell’Italia postbellica sarebbe riassumibile nel come evitare la presa del potere da parte del Partito Comunista più collaborativo e moderato d’Occidente, sostanzialmente socialdemocratico.

 

O ancora, su un altro piano, si può assistere sconcertati alla moltiplicazione dei libri basati sullo spoglio degli archivi spionistici, fatto senza il minimo di capacità critica necessaria, forse solo per furbesco adeguamento conformistico alla moda pervasiva del “giallo” più banale e commerciale, quel genere magistralmente demolita da” Giampaolo Simi” in uno dei suoi ultimi libri; tanto il popolo è bue ed allora … diamogli pure da mangiare immondizia!

 

Oggi più che mai, la storiografia ai tempi dei “social”, con l’ausilio invadente della “intelligenza artificiale” si adegua alla propaganda, approfittando della diffusa “dezinformatsiya” – in russo, così anche le tecniche invasive di comunicazione possono venir annoverate tra i “crimini del comunismo”, tanto chi si ricorda che i “Persuasori occulti” di “Vance Packard”, dedicato ai “mass media” occidentali, era stato scritto già nel lontano 1957.

A proposito: era di nove anni prima (estate 1948) la leggenda urbana di Bartali che, vincendo il Tour de France, avrebbe salvato l’Italietta degasperiana dal comunismo, manco Togliatti si fosse sparato da solo alla testa per provocare l’insurrezione-trappola sperata/usata dal creatore della Celere, il superpoliziotto destro democristiano “Mario Scelba”.

​Tiepida, calda, bollente, ma mai “guerra fredda”: il warfare del “dopoguerra” come prototipo del neoliberismo contemporaneo.

«Dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla primavera del 1947 i dirigenti degli Stati Uniti considerarono la creazione di una “International Trade Organization “(Ito) come la base di una integrazione generale della economia globale che fosse compatibile con gli interessi dell’America.

Questo obbiettivo di un mondo permanentemente aperto al loro commercio ed ai loro investimenti, che agisse essenzialmente attraverso economie capitalistiche, era una chimera per raggiungere la quale gli Stati Uniti furono ripetutamente costretti ad adottare tattiche nuove.

Se i mezzi iniziali dovevano dimostrarsi inadeguati, e richiedere continue improvvisazioni, il fine ultimo non doveva mai più mutare dal 1945 – o addirittura dal 1915 – in poi.» (p. 768).

 

Più avanti, nelle conclusioni (a p. 884) gli autori elencano solo alcuni tra questi strumenti:

oltre l’Ito, il Piano Marshall, la Nato, la Ced, la bomba A, ma non vanno dimenticati anche il Fmi, la Banca Mondiale ed altri strumenti di dominio oligarchico, dove si vota sulla base del capitale versato, e quindi comandano sempre quelli.

Ma iniziamo dalla prima affermazione di questo libro:

 ovverossia che non abbia senso parlare, per il mezzo secolo postbellico, di “guerra fredda”, perché questa è una distorsione ideologica eurocentrica:

la guerra in realtà è continuata senza soluzione di continuità dal 1945 in poi, insanguinando parti consistenti del pianeta.

«Dopo la fine della guerra non ci fu alcuna pausa che permettesse alle ferite della lunga epoca di violenza di richiudersi completamente.

Due colossali spargimenti di sangue nel giro di trent’anni avevano inflitto a tutte le società tradizionali un danno apparentemente irreparabile, dal momento in cui la seconda guerra mondiale ebbe termine, in molte nazioni la guerra civile, le insurrezioni o il loro spettro subentrarono al conflitto tra l’Asse e gli Alleati, mentre la tensione nei rapporti tra l’Unione Sovietica e gli altri membri di quella che era stata poco più di una temporanea alleanza di convenienza resa necessaria dalle circostanze lasciava il posto a un’ostilità implacabile.

 Dopo la conflagrazione globale, in numerose regioni del mondo non sopraggiunse la pace, ma una violenza ininterrotta, una violenza che doveva intensificarsi mano a mano che si allargava quell’inevitabile processo di trasformazione sociale e di decolonizzazione che doveva diventare il fatto dominante dell’epoca postbellica» (p. 3).

 

Il valore dell’opera dei due studiosi statunitensi , basata su documenti e memorie pubblicate disponibili ben prima di Wikileaks, è quella di svelare i piani dei governanti Usa, elaborati già durante la seconda guerra mondiale, per non veder di precipitare nuovamente il loro enorme apparato produttivo, giunta finalmente la pace, nella crisi di sovrapproduzione, deficit commerciale e disoccupazione che lo aveva gravemente afflitto a partire dalla crisi del 1929, superata solo parzialmente e tamponata da enormi produzioni belliche negli anni ‘40.

 

Una politica che nascondeva, dietro un apparente internazionalismo – come quello inconcludente di “Woodrow Wilson” alla fine della Prima guerra mondiale, tanto applaudito in Europa dai democratici quanto snobbato in patria – e principi come la “porta aperta”, il “multilateralismo” e la “libertà di iniziativa economica”, il tentativo di riformare l’economia mondiale garantendo la massima possibilità espansiva per i capitali e le produzioni statunitensi, sia agricole che manifatturiere, vincolando gli aiuti economici (soprattutto i prestiti) all’acquisto di merce “Made in Usa”.

 

Tutto ciò praticando viceversa politiche restrittive, a tutela dei prezzi di vendita dei produttori americani (molto influenti sui componenti del Congresso).                                      Come quando, a fronte della carestia mondiale postbellica del 1945-1947, gli USA invece di fornire le proprie eccedenze all’UNRRA – l’ente internazionale per i soccorsi, che essi fecero chiudere alla fine del 1946… sì, ha proprio una sigla che ricorda l’UNRWA destinato ai profughi palestinesi – praticarono una politica di riduzione delle colture e di utilizzo dei cereali per l’alimentazione animale e la produzione di alcool:

«Ci sono delle persone che dovranno morire di fame… Siamo nella stessa situazione di una famiglia che si ritrovi con una intera cucciolata: dobbiamo decidere quali cuccioli annegare»,

disse il segretario all’agricoltura Clinton Anderson al Congresso nel maggio 1946 (p. 233).

 

Una politica impersonata da un ceto professionale costituito (allora come oggi) prevalentemente da imprenditori e rappresentanti di interessi economici, direttamente impegnati nei posti chiavi delle amministrazioni Truman (democratica) ed Eisenhower (repubblicana).

Accompagnando questa politica con iniziative politico-militari che avrebbero accompagnato l’invasiva presenza statunitense in ogni parte del pianeta.

 Ma «La quasi continua crisi della strategia seguita dall’America dopo la seconda guerra mondiale, col suo tormentato e inane sforzo di sostituire la potenza delle macchine al richiamo dell’ideologia rivoluzionaria, doveva alla fine concludersi nel disastro.» (p. 591).

 

«Il dibattito sul disarmo rivelò almeno una cosa, e cioè che gli Stati Uniti erano divenuti totalmente dipendenti dalle loro armi per proteggere e perseguire i loro enormi interessi globali.

Ironicamente […] i dirigenti americani si preparavano per una guerra che non si attendevano di dover mai combattere, solo per scoprire che la loro forza era insufficiente quando veniva messa alla prova in circostanze che virtualmente nessun importante dirigente americano aveva previsto.

 Il fatto è che nel corso di questo secolo nessuna nazione ha mai avuto la capacità di controllare il destino di qualcosa di più grande di una frazione minima della superficie del globo, e fu per non avere imparato questa lezione dalle sconfitte dei loro predecessori che gli Stati Uniti dovevano in definitiva aprire la via alla loro stessa profonda crisi interna.» (p. 591).

 

Sembrano giudizi avventati – ricordiamolo:

 formulati nel 1970 – se pensiamo all’enorme potenza statunitense.                                        Ma ricordiamoci della tragedia degli afgani appesi agli aerei americani a Kabul nel 2021, tale e quale a quella dei loro collaboratori vietnamiti nella Saigon del 1975. Perché, pronosticavano Joyce e Gabriel Kolko, «finché ci sarà oppressione, ed esisterà lo sfruttamento, ci saranno resistenza, violenza e conflitto.» (p. 888).

​Nè con gli Usa, né con l’Urss.

Una premessa:

 i due autori basavano la loro analisi di classe su un’idea molto critica del sistema sovietico, e continuamente avvertono di come gli interessi di stato dell’Urss si sovrapponessero negativamente a quelli delle classi lavoratrici mondiali, che a partire dalla resistenza antifascista avevano espresso una grande combattività, trasformata già durante la lotta clandestina in organismi di governo popolare.

Questi furono le prime vittime dei “liberatori” di ogni colore (ma in particolare angloamericani, che li ritenevano una semplice espressione delle “manovre sovietiche”).

 

Ci furono almeno due eccezioni, dove i “comunisti nazionali” presero il destino nelle loro mani e, non uniformandosi alla politica dei “fronti nazionali” con i partiti borghesi sostenuta da Mosca, procedettero verso la via rivoluzionaria.

 Si trattò della Jugoslavia e della Cina; i primi grazie alla base di massa conquistata nel movimento resistenziale, i secondi reagendo alla politica corrotta e militarista del regime del Kuomintang, appoggiato dagli Usa, e vincendo la guerra civile nel 1945-1949 e poi quella di Corea nel 1950-1953.

 

Alla critica del comunismo sovietico si accompagna quella verso il parlamentarismo dei Pc ufficiali, sia per il loro moderatismo (Francia e Italia) che per lo scarso realismo in situazioni di estrema repressione, come in Grecia ed in Giappone, che porterà alla scissione di quei partiti.

 Gli autori – che scrivono negli anni in cui era forte il comunismo maoista – ritengono inconcludenti e non rispondenti alle esigenze dei movimenti popolari le moderate strategie dei Pc “socialdemocratici”.

 

Il loro giudizio è inappellabile quando concludono l’analisi del cosiddetto “colpo di stato” comunista in Cecoslovacchia – in realtà secondo loro l’esito di uno sgangherato tentativo dei partiti moderati di provocare lo scioglimento del governo “Gottwald”, rimasto in carica grazie alla maggioranza dei ministri comunisti (che avevano “solo” il 45% dei voti) e socialdemocratici – e sintetizzano così la sovietizzazione dei paesi dell’Europa orientale:

«Alle pressioni politiche sovietiche e alle divisioni interne, si aggiunsero i molto concreti problemi sollevati direttamente dalla trasformazione di paesi agricoli in paesi industriali, dalle crescenti restrizioni commerciali imposte dagli Stati Uniti, e dalla scarsità di materie prime essenziali, che costringeva gli europei orientali a basarsi sulle loro sole limitate risorse.

 A tutto questo si aggiunse la crescente ostilità degli Stati Uniti in un momento in cui i loro uomini politici utilizzavano l’Europa orientale, come utilizzarono la Cina, per guadagnare terreno politico all’interno.

 Gli attacchi verbali si trasformarono alla fine, nel 1952, in richieste di “liberazione” e di “spingere indietro” il comunismo [“rollback”] che in realtà non erano niente altro che ciniche fantasie ma che contribuirono anche a creare tensioni irrazionali in entrambe le zone.

 

«Questo diede inoltre ad elementi conservatori dell’Europa orientale la speranza di poter ottenere, se essi avessero resistito, l’aiuto americano, nonostante nei fatti non ci sia mai stata alcuna possibilità di un aiuto del genere.

Alla fine, l’ipocrisia avvolse le giustificazioni di entrambi i sistemi, ognuno dei quali cercò di giustificare i propri abusi parlando dei crimini dell’altro.» (pp. 495-496).

Il frutto di questa politica furono le rivolte operaie, a partire da quella di Berlino del 1953, e la loro repressione da parte sovietica.

​Alla conquista del mondo.

«Non sono molti in questo paese coloro i quali accettano la tesi comunista che la politica americana abbia come obbiettivo deliberato e cosciente quello di rovinare la Gran Bretagna […].

E se ogni volta che viene concesso un aiuto vengono poste delle condizioni che impediscono alla Gran Bretagna di sottrarsi alla necessità di tornare a chiedere altri aiuti, ottenuti al prezzo di ulteriori umiliazioni e su basi ancora più dure, allora il risultato sarà certamente quello predetto dai comunisti…».

Il progetto statunitense prevedeva la ristrutturazione dell’economia mondiale, con un’impostazione rigorosamente capitalistica, ed una finalità imperialistica precisa.

Se gli USA non volevano ricadere in una crisi economica devastante, bisognava finanziare l’esportazione dei loro prodotti nel mondo, creando un nuovo tipo di commercio atlantico triangolare – come quello degli schiavi del XVI-XIX secolo, che costruì la ricchezza europea e nordamericana – attraverso l’acquisizione a basso costo di materie prime nel Terzo Mondo coloniale, pagate in dollari che avrebbero poi finanziato le importazioni dei prodotti Usa nelle metropoli coloniali europee, attraverso acquisti vincolati da finanziamenti come il Piano Marshall.

Un meccanismo pervasivo, che trovava però il suo limite nello scarso impegno del capitalismo privato statunitense, e dovette essere sostenuto soprattutto dal bilancio pubblico.

In cambio, al fine della ristrutturazione dell’economia mondiale, tutti i paesi coinvolti dovevano darsi politiche rigorosamente monetariste e deflazionistiche, tagliare la spesa pubblica, diminuire la loro base occupazionale e destinare i surplus di manodopera all’emigrazione.

 In sintesi: keynesiani a casa loro, liberisti altrove.

 

Si tratta di un ragionamento controintuitivo, ma la realtà è che la politica americana aveva inizialmente ben altri obiettivi primari che l’Unione Sovietica, e puntava non tanto alla contrapposizione solo con il comunismo, ma con qualsiasi forma di socialismo o nazionalismo (come quello francese, in particolare gollista), in primo luogo i laburisti inglesi andati al governo nel 1945.

 A questo proposito, il nemico non era solo il “Piano Beveridge “con la creazione del sistema sanitario nazionale e di un esteso “Welfare State”, ma qualsiasi forma di nazionalizzazione delle imprese e di nazionalismo economico, obiettivi questi che erano perseguiti anche da settori cristiano-sociali, come nel caso dell’”ENI di “Enrico Mattei” e dei suoi ispiratori “Alberto Basevi” e “Pasquale Saraceno”.

 

Impegnati a sostituire il vecchio impero britannico, esauritosi nella Seconda guerra mondiale, gli Usa avevano bisogno di un mercato comune europeo omogeneo, eliminando i rapporti bilaterali, in cui ogni paese poteva porre barriere protettive a tutela delle proprie economie (barriere che invece, a casa loro, gli statunitensi elevavano, soprattutto a difesa delle loro esportazioni agricole).

Un progetto, questo, che si scontrò con ostacoli che gli Usa non riuscirono a dominare (la tendenza dei propri capitalisti ad incassare a breve, senza investire a lungo termine), oppure che manco concepirono, come il dispiegarsi di un movimento operaio e di una sinistra, vivaci e tutt’altro che subordinati alle manovre sovietiche.

 Così come era una forzatura interpretare come “complotti comunisti” i movimenti di liberazione – talvolta di sinistra, talaltra nazionalisti – dei paesi del Terzo Mondo, che furono il vero fatto nuovo del dopoguerra.

Infine, gli Usa commisero un errore spettacolare:

concentrando la loro attività soprattutto sull’Europa e su un supposto pericolo di invasione sovietica, non si accorsero che ormai il centro delle vicende internazionali si stava spostando nell’Asia orientale, dove la loro strategia era destinata a fallire, con le sconfitte successive in Cina, Corea e Vietnam.

 

Furono questi i limiti della politica americana, cui i governi Truman e Eisenhower replicarono con la via d’uscita del “warfare”, quella guerra permanente in appoggio alla conservazione internazionale che è stata il vero “filo nero” della politica statunitense di questi ottant’anni.

 Il che portò gli USA ad appoggiare governi corrotti e reazionari contro i movimenti popolari, come in Grecia ed in Corea;

 oppure a neutralizzare le epurazioni e riutilizzare gli esponenti dei regimi fascisti nella ricostruzione, in primo luogo in Italia, Germania e Giappone;

 oppure ancora a scatenare attività golpiste contro ogni governo progressista anche moderato (come quello di Arbenz in Guatemale nel 1954).

Una scelta valida per mobilitare la propria opinione pubblica e superare le dure resistenze di un Congresso USA ostile ad ogni politica “internazionalistica” e dominato – allora come oggi – dagli interessi egoistici delle lobbies locali .

 

Viceversa, l’URSS nel biennio postbellico aveva realizzato una politica pragmatica, basata sulle due esigenze strategiche di trarre le maggiori risorse in termini di danni di guerra da parte dei paesi ex nemici (Romania, Bulgaria, Ungheria e Germania) e di vincoli di sicurezza, viste le due invasioni già subite dai tedeschi nel corso del secolo.

Un tipo di timore condiviso anche ad ovest, soprattutto in Francia.

 

La costruzione della “cortina di ferro”, che spaccò l’Europa per quarant’anni, viene quindi attribuita dai due autori non tanto alla politica sovietica, volta ad una rapida ricostruzione ed industrializzazione dei paesi dell’Europa orientale – mantenendo regimi di coalizione fino a che non si spaccò l’alleanza tra le potenze antifasciste – quanto alla scelta americana di isolare l’Europa orientale, che non si piegava alla loro politica, e costruire un sistema centralizzato che coordinasse le economiche occidentali.

 

L’Europa prevista dai piani statunitensi non era quindi l’Europa autonoma e socialista del “Manifesto di Ventotene”, ma un interlocutore subalterno del nuovo impero americano.

Dove andava ostacolata ogni forma di socialismo:

 la Spd tedesca terzaforzista, il Labour britannico, l’unificazione socialcomunista della Sed nella zona di occupazione sovietica della Germania che, grazie alla prevalenza della componente socialdemocratica, avrebbe garantito, insieme con la maggioranza dei Länder occidentali in mano alla Spd, un governo di sinistra al paese riunificato.

In effetti per mezzo secolo l’URSS proporrà una riunificazione e neutralizzazione della Germania, ostacolata dalla volontà statunitense di usarne la parte occidentale come laboratorio delle sue politiche economiche.

Inutilmente: le peggiori minacce per i governi Usa erano sempre le proposte di pace sovietiche (e cinesi in Asia).

 

​Il fallimento del Piano Marhall

Se l’opinione comune e la stessa storiografia l’hanno interpretato come un generoso intervento statunitense per riattivare l’economia europea, migliorare le condizioni di vita della popolazione stremata dal conflitto e combattere il pericolo comunista, gli autori ricordano come, fin dalla Prima guerra mondiale, gli aiuti Usa fossero concepiti essenzialmente come volti a remunerare i produttori statunitensi per i prodotti forniti e rimborsare il capitale prestato.

 

Il piano statunitense, in realtà, sviluppò dal 1948 al 1952 una politica di prestiti condizionati, che permise agli USA di entrare nelle politiche economiche e fiscali dei singoli paesi (Germania occidentale, Italia, Belgio e Francia innanzitutto), limitando la spesa sociale, comprimendo i salari operai e favorendo l’incremento degli utili delle borghesie, aumentando le diseguaglianze sociali attraverso una politica monetarista e deflazionistica.

Nel caso italiano, con l’aggiunta del consiglio USA di procedere a far sfogare la crescente disoccupazione tramite emigrazione, favorendo l’adozione di un mercato libero della manodopera a livello europeo occidentale.

Queste politiche accompagnarono la coesione delle borghesie nazionali, favorirono lo spostamento a destra in politica e permisero il recupero dei quadri e personalità che si erano compromessi con i regimi fascisti e nazisti, mentre dure politiche repressive venivano esercitate contro le proteste popolari e gli ex partigiani.

Gli aiuti furono subordinati alle esigenze manifatturiere ed agricole americane, tanto da modificare significativamente le richieste dei paesi europei, e condizionarli sia attraverso modalità e sistemi di trasporto (imponendo i più costosi noli marittimi statunitensi), che quanto a forniture di attrezzature e perfino di prodotti alimentari.

Quello che contava erano innanzitutto gli interessi del capitalismo statunitense, e solo in secondo luogo i bisogni dei “beneficiati”.

 Come dimostrò il caso del petrolio, in tal modo gli USA limitarono la capacità di approvvigionamento autonomo dell’Europa, bloccarono o controllarono la ridotta costruzione di raffinerie nel vecchio continente e lucrarono sull’aumento artificioso dei prezzi del prodotto americano fornito.

Tutto ciò ricorda incredibilmente la “guerra del gas” con cui la Nato ha rapidamente riconvertito l’approvvigionamento energetico europeo dopo (o prima del?) lo scoppio della guerra in Ucraina.

I cui episodi salienti potrebbero essere fissati non nel 2022, e nemmeno nel 2014, ma nel blocco dell’avvio del gasdotto North Stream II e poi nella distruzione del North Stream I.

 Altro che “piano Mattei”:

 l’imprenditore democristiano di sinistra fece esattamente il contrario, aprendo ai paesi liberati del Terzo Mondo e trattando con l’URSS per ribassare i prezzi e combattere i monopoli angloamericani petroliferi (le “Sette sorelle”).

 

Come scrisse nel 1951” Paul Gray Hoffman”, il capitalista posto da Truman a capo dell’ Eca 10 :

«[…] gli altri paesi non potevano permettersi di continuare a comprare da noi a meno che noi non dessimo loro il denaro.

Ed è stato esattamente questo, naturalmente, che noi abbiamo fatto con una dozzina di piani per prestiti e stanziamenti, a partire dalla prima guerra mondiale fino alla nostra “Eca” di oggigiorno.

Negli ultimi 35 anni l’aiuto americano all’Europa occidentale ha raggiunto un valore di 22 miliardi di dollari, escluse le spese dirette di guerra.

Questo era… un modo per sovvenzionare le nostre esportazioni, perché praticamente tutto il denaro americano che andava all’estero… ritornava sempre per acquistare prodotti americani.» (p. 554).

 

La filosofia dell’amministrazione Truman era stata cinicamente riassunta nel 1949 dal banchiere “Joseph M. Dodge”, incaricato dagli Usa di supervisionare le (contro)riforme economiche in Germania occidentale ed in Giappone:

«[…] un aumento della disoccupazione porterà ad un aumento dell’efficienza del lavoro e ad una maggiore produzione […]

Una politica deflazionistica mira a portare la domanda generale […] a un livello un po’ inferiore all’insieme dell’offerta […]

 Non c’è da avere paura della disoccupazione di massa […] qual è il costo complessivo dei servizi sanitari, del benessere sociale e dell’istruzione? […] Preparare il paese a lottare duramente per i mercati d’esportazione […] I radicali […] non ce la faranno mai in una società libera […] Le azioni necessarie per rimettere le cose in sesto sono sempre spiacevoli […]» (p. 647).

 

La politica “internazionalistica” dell’amministrazione Truman trovava però un ostacolo sul piano interno, cioè nell’interesse egoistico dei gruppi industriali o dei produttori agricoli di ottenere guadagni a breve termine, grazie a provvedimenti protezionistici.

I loro rappresentanti parlamentari furono quindi oggetto della campagna di Truman del 1950 per rifinanziare l”’ERP” (il Piano Marshall) con la scusa del riarmo.

Non sembra stranamente lo scontro tra l’ “internazionalismo” di Joe Biden e l’isolazionismo trumpiano?

A questo proposito, giova notare che, secondo gli autori, la differenza tra la “caccia alle streghe” maccarthista e l’anticomunismo di Truman era che, invece di spendere per l’espansione internazionale, si risparmiava perseguitando il nemico in casa; i

n concreto, comunque, la prevalenza della tendenza democratica si dimostrò molto più pericolosa per i suoi effetti bellici.

 

Ed il coordinamento tra NATO ed OECE  proclamato nel 1950, non ricorda quello attuale tra NATO ed UE, accompagnato da quel sistema oligarchico di governo del Pianeta (USA-UE-Canada-Giappone, cioè il G7) che ha sostituito dalla fine del 20° secolo il governo tendenzialmente democratico dell’ONU?

 

​Finché c’è guerra c’è speranza.

«L’amministrazione Eisenhower […] non accantonò mai un giudizio ideologico e ingannevole sulla natura della crisi mondiale, che concepiva la storia come una cospirazione di ciniche e quasi magiche élites di agitatori che alimentavano le fiamme del malcontento, del nazionalismo e del laicismo, ignorando completamente le radici strutturali della crisi mondiale postbellica. […]

Essenzialmente, si trattava di una interpretazione utilitaristica, nella quale uomini come [John Foster] Dulles credevano davvero, ma non al punto da permettere che essa impedisse una chiara percezione dei fatti e dell’esigenza di mantenere un senso di pericolo anche quando essi sapevano che non ne esisteva alcuni. […]

Questa concezione, di conseguenza, richiedeva anche che venissero cinicamente attribuiti alla Russia piani aggressivi che superavano addirittura qualsiasi possibilità di spiegare i fatti in base a deduzioni di carattere ideologico.

Nei primi anni dell’amministrazione Eisenhower, Dulles esagerò grandemente il pericolo di guerra, che in realtà, in privato, egli ammetteva fosse molto meno probabile.

Coltivare la paura e i timori divenne così, deliberatamente, un’arma da usare a fini organizzativi.» (p. 875).

 

Ma l’anticomunismo aveva anche un altro valore, innanzitutto rispetto ad un’opinione pubblica statunitense stanca e disinteressata nel dopoguerra alla politica estera, ed al Congresso eletto nel 1947, dominato dai repubblicani.

Un quadro complessivamente isolazionista, riunificabile solo grazie ad una passione forte, che coinvolgesse almeno una parte dei repubblicani (quelli della costa orientale, più legati al capitale finanziario e non condizionati dagli agricoltori del Midwest) nella politica internazionale interventista dell’amministrazione Truman, che permetteva nuove ampie spese sul piano economico-militare, anche se

«non c’era alcuna minaccia di una imminente presa del potere da parte dei comunisti in qualche nazione ritenuta essenziale agli interessi statunitensi, non c’era alcun minaccioso sviluppo militare da parte della Russia, né una improvvisa alterazione del rapporto di forze in una regione di importanza vitale.

Fondamentalmente, l’obiettivo degli Stati Uniti era quello di trovare gli strumenti più appropriati per realizzare i loro obbiettivi permanenti nel mondo» (p. 415).

Oltre alla «preoccupazione egualmente grave di Washington per un’altra sfida alla prosperità americana:

quella di un capitalismo europeo occidentale autonomo» (p. 417).

 

Mentre l’Urss non desiderava principalmente altro che perseguire la propria ricostruzione, dopo le tragiche distruzioni della guerra hitleriana, ed il quasi raggiungimento dei propositi di sterminio nazisti (i quasi 27 milioni di morti sovietici fanno impallidire la stessa Shoah ebraica).

A questo proposito, la scelta americana di tagliare “generosamente” i danni di guerra dei paesi aggressori – in primis Germania, Giappone e Italia – verso l’Unione Sovietica, unita al blocco dei prestiti ed al tentativo di espandere a favore della propria economia i rapporti con i paesi dell’Europa orientale, costituirono una vera e propria aggressione, che portò alla guerra “fredda”, mascherata da motivazioni ideologiche.

Anche qui il paragone è facile, “mutatis mutandis”:

al posto di una dittatura comunista socializzatrice a partito unico, una simil-dittatura di destra espressione dei “nuovi ricchi”, un capitalismo nazionale alimentato dalla spartizione del patrimonio pubblico ex sovietico, serve alla propaganda di guerra odierna, che ci propina ogni giorno, a reti “informative” unificate, la farsa di una volontà di conquista del mondo, quando la massimo si tratta della “solita”, ma ben diversamente gestibile, politica di potenza.

 

Tutto ciò, perché la Germania occidentale, dopo l’unificazione tra le zone di occupazione americana e britannica, doveva diventare – unica area europea la cui economia era direttamente gestita dagli occupanti statunitensi – l’area di sperimentazione delle politiche Usa in Europa occidentale – grazie alla creazione di quella che diventerà per vari passaggi intermedi la Cee-Ue.

Similmente, sul Pacifico, accadeva per il Giappone.

 

A tal proposito gli Stati Uniti (come stavano facendo in Corea, con la creazione dello stato separato del Sud) preferirono spezzare in due la Germania, per bloccare la strada ad una direzione di sinistra, a guida socialdemocratica, di uno stato unito e tendenzialmente terzaforzista, e magari perfino alleato dell’URSS (ricordano qualcosa i gasdotti russo-tedeschi North Stream 1 e 2 e la funzione di amministratore di Gazprom dell’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder…?).

 

La necessità di superare la contraddizione tra “internazionalismo” democratico e necessità di ampliare la spesa pubblica statunitense per finanziare i propri progetti – da un lato – e chiusura egoistica dell’ala repubblicana espressione degli interessi locali, soprattutto degli agricoltori, ebbe come unica possibilità la mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso l’anticomunismo e la militarizzazione.

Lo sbocco fu non in Europa (obiettivo per il quale si attuava la mobilitazione) ma nell’Estremo oriente, con la guerra di Corea.

 

È interessante lo spazio attribuito nel libro all’Asia.

 Non solo il Medio oriente mediterraneo, dove – in Grecia ed in Iran, innanzitutto – gli Usa prendono il posto del declinante imperialismo britannico, che lascia loro spazio nello sfruttamento delle risorse petrolifere;

ma in particolare la costa pacifica (Cina, Corea e Giappone).

Ove risulta evidente come i “liberatori” si comportassero da nuovi colonizzatori, alleati dei loro predecessori – i giapponesi – o dei collaborazionisti o reazionari di turno.

 

La guerra di Corea risolse vari problemi su cui la diplomazia Usa ed i suoi corrispondenti europei – come il “Piano Schuman” che portò alla creazione della “CECA” (Commissione Europea per il Carbone e l’Acciaio), ufficialmente “europeista” ma in realtà suggerito dall’ECA – avevano lavorato, eliminando le giacenze sia nel settore siderurgico che in quello petrolifero, dove si erano create anche tensioni tra le multinazionali USA e quelle anglo-olandesi, rischiando di spaccare il fronte delle “Sette sorelle”.

 

«[…] questi erano stati anche gli anni che avevano sottolineato come la pace fosse pericolosa per il capitalismo mondiale, oltre al fatto che mezzi strettamente economici, nel quadro di alternative capitalistiche, non erano sufficienti ad impedire che la grande capacità produttiva degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale affondasse nella stagnazione, se non nella depressione.» (p. 587).

​Una serie di domande suscitate dalla comparazione storica.

La comparazione è sempre esercizio da utilizzare con cautela.

 Ma mai come in questo caso viene naturale porci una serie di domande, a proposito di una permanenza di meccanismi che ispirano le iniziative del pur declinante impero statunitense e delle contraddizioni che esso continua a provocare o a non riuscire a risolvere.

È impressionante assistere a fenomeni che sembrano quelli odierni.

 Ad esempio una corrotta classe dirigente greca che galleggia con la sua ricchezza speculativa, basata sul prelievo dei crediti finanziari delle grandi potenze, mentre riduce all’estrema povertà la popolazione;

oppure il vassallaggio imposto ai paesi dell’Europa orientale in cambio del controllo delle loro economie da parte tedesca e statunitense.

 E’ il 1946 oppure stiamo osservando le vicende di questo inizio del Ventunesimo secolo?

 

E che dire dell’ambasciatore americano che dichiarava che:

«Se i russi avessero allargato la loro influenza sull’Iran, […] ciò avrebbe posto termine a qualsiasi possibilità di avere concessioni petrolifere americane nell’Iran, e creato una minaccia potenziale alle nostre immensamente ricche concessioni dell’Arabia Saudita, Bahrein e Kuwait» (pp. 294-295).

 

È una dichiarazione del 1945, ma potrebbe essere stata pronunciata nel 1979, ai tempi della rivoluzione contro lo Scià, oppure anche oggi.

E che dire del capo di stato maggiore statunitense “George Marshall” che, prima di diventare il segretario di stato di Truman e dare il suo nome al piano per “aiutare” l’Europa, cercava senza esito nel 1946 di far dialogare i comunisti cinesi con il Kuomintang, mentre forniva aiuti militari in truppe, logistica ed armamenti a questi ultimi?

Non sembra esattamente la politica dei democratici statunitensi di Joe Biden, che ruggiscono sui media verso il governo israeliano, mentre lo armano e sostengono economicamente?

 

Continuando con le comparazioni, che dire, oltre che dei non credibili politici democratici Usa (cui si contrappongono politici repubblicani non meno cinici e guerrafondai), della similitudine tra spregiudicata crudeltà militarista e corruzione sul piano interno di un “Chiang Kai-schek” e di un “Benjamin Netanyahu”?

 Sembra proprio di poter costruire visivamente delle tipologie antropologiche di ricorrenti figure politiche universali, finti esponenti di borghesie “compradore” che, lasciate a sé stesse dalle potenze imperiali, non potrebbero resistere a lungo.

Ciò vale anche per i “padroni del mondo”, insoddisfatti per il carattere e le mosse indifendibili dei loro turbolenti (in)fedeli vassalli, alla continua ricerca di un “centro” o di una “destra pulita” – non è solo un fenomeno italiano! – neanche la realtà non rendesse evidente che mafie, corruzioni, fascismi, truculenze, non sono “deviazioni” dal retto corso della Storia, ma ne sono protagonismi irrinunciabili: o li batti, o prevalgono loro, con il loro lascito di sangue.

Aggiungiamo un accenno alle politiche di una sinistra realista e di fatto riformista, una volta preso atto della moderazione del primo dopoguerra, cui abbiamo accennato.

Come possiamo ad esempio giudicare la parabola di un movimento più simile alla “nuova sinistra” come “Siryza” in Grecia che, partito su posizioni di rottura con il sistema neoliberale, ha finito per ripercorrere le tracce note della gestione dell’austerità, senza poter agire sul piano strutturale, per mancanza di riferimenti ed aiuti internazionali (di chi? Del governo tedesco impegnato a tutelare i propri investimenti? Di governanti europei e nazionali fanaticamente liberisti e tutori del Capitale, come i Draghi e i Renzi?);

 limitandosi infine a cercare di ridurre le ineguaglianze più estreme nel contesto di una politica di sacrifici, facendo il “lavoro sporco” per quella borghesia importatrice e speculativa, che poi si è riappropriata anche del potere politico che aveva abbandonato nel culmine della crisi?

Le comparazioni odierne sono facili, basta sostituire la nota “isteria anticomunista” che ha guidato il “secolo americano”, con l’attuale “i. russofobica” oppure “sinofobia”, oppure “islamofobia”.

I termini si sovrappongono facilmente – es. degli anni ‘10 e ‘20 del secolo scorso: l’americanissima “red scare”, accompagnata da estesa xenofobia e dalla chiusura delle frontiere all’immigrazione – e permettono, attraverso la paura di fantasmi creati ad arte, di mantenere l’umanità sul ciglio del precipizio, oltre il quale si profila l’olocausto atomico.

Ancora oggi, evidentemente, sono valide sia la “dottrina Truman” ed il “containment” di George Kennan, che quel “rollback” che gli Stati Uniti hanno sperimentato inutilmente contro vari paesi, da ultimo Afganistan ed Iraq.

 Con quali costi umani, si cerca di nasconderlo.

E che dire infine, quanto alle similitudini che ci suggeriscono, della guerra di Corea del 1950-1953, con da un lato il generale “Mac Arthur”, novello” Kurz”, a voler scatenare per le sue ambizioni presidenziali la guerra globale, anche atomica, per la riconquista della Cina in alleanza con i corrotti dittatori destrorsi (il sudcoreano Syngman Rhee e quello cinese Chiang Kai-schek, rifugiatosi a Formosa/Taiwan dopo averne massacrata la popolazione aborigena) e, dall’altro, l’amministrazione Truman che invece giocava la Corea prevalentemente come un pretesto per il riarmo in Europa?

Che poi, dopo un semestre di veloci offensive, si trascinarono per due lunghi anni e mezzo in una “guerra d’attrito” sul confine armistiziale del 1945 (quello odierno, d’altronde), a dispetto dei tentativi di dialogo diplomatico da parte cinese, indiana e sovietica.

Trattative che avrebbero solo neutralizzato il grande mercato del riarmo. Ricorda qualcuno oggi, forse?

Sicuramente i milioni di morti costati ad ogni tappa della storia, quella qui raccontata e quella di tutti i giorni, non sembra interessino poi molto a nessuno.

 

 

 

Nel paese che vuole Giorgia Meloni

 non è più garantito il diritto al dissenso:

 una pericolosa deriva antidemocratica.

    Strisciarossa.it – (18 Aprile 2024) - Ella Baffoni – ci dice:

 

Per fortuna ci sono le immagini a documentare che i manifestanti alla Sapienza di Roma, caricati a freddo dalla polizia, arrestati e accusati di violenze, erano ragazzi disarmati e neanche aggressivi.

Per fortuna ci sono le immagini, che rendono indecorosa la canea che si è sollevata su questa vicenda.

A cominciare dalla premier Meloni:

 “Piena condanna per le violenze da parte dei collettivi a Roma. Devastazioni, aggressioni, scontri, assalti a un Rettorato e a un Commissariato, con un dirigente preso a pugni. Questo non è manifestare, ma delinquere”.

Gli studenti contestavano al Consiglio universitario l’accordo con le università israeliane per la ricerca anche in campo militare.

 Accordo che è stato approvato senza concedere alcuna interlocuzione agli studenti.

Il rettore Polimeni ha anche sospeso l’esecuzione del “Concerto per la pace”, previsto la sera, il Requiem “Stringeremo nel pugno una cometa”, nonostante il sold out e la collaborazione dell’accademia di Santa Cecilia e dell’orchestra sinfonica dei conservatori italiani, musicisti venuti da tutt’Italia rimandati a casa senza un perché insieme al pubblico.

Senza nemmeno un sospetto di pericolo.

 Non sarà che la polizia non è in grado di gestire l’ordine pubblico?

 

Tutti i “delinquenti” identificati da Piantedosi.

Il governo condanna “i delinquenti” ancor prima dell’intervento della magistratura, prima udienza il 22 maggio.

 Quel che è chiaro che per chi dissente – che abbia torto o ragione – all’università (e anche altrove, per la verità) non c’è spazio.

 I giovani non hanno diritto di sbagliare, né di pensare. Il cambiamento climatico? Leggende.

 Le norme liberticide? Visionari.

 I giovani non hanno agibilità di spazio, siamo un paese di vecchi, e stiamo diventando un paese di vecchi reazionari.

 Già archiviate le parole del Presidente della repubblica, Mattarella, che ricordava che i manganelli sui ragazzi sono sempre un fallimento.

Chi l’ha ascoltato?

Delinquenti.

Quando negli anni ’70 si manifestava in sostegno al Vietnam – e dunque contro gli Stati Uniti – si era delinquenti?

 Quando gli studenti scendevano in piazza a fianco degli operai della Fiat (e dunque contro gli Agnelli) erano delinquenti?

E le grandi manifestazioni delle donne, tutte delinquenti anche loro?

Abbiamo dimenticato Antigone, che disubbidiva alla legge scritta per ubbidire all’umanità e alla giustizia vera.

Non sempre è giusto accodarsi e dire sì:

quando gli italiani l’hanno fatto, sotto il fascismo, non ne è venuto niente di buono.

 Quando hanno detto di no, è nata la Resistenza, e di lì la nostra Costituzione. Grazie alla lotta partigiana abbiamo potuto sedere a pieno titolo negli incontri internazionali del dopoguerra.

Ricordiamolo tutti i giorni, non solo il 25 aprile.

 

È vero che viviamo in uno strano periodo in cui ci si riempie la bocca di elogi al merito ma poi si nominano nei posti di comando cognati e familiari.

 Ma la scuola, l’università, sono sempre stati luoghi in cui il pensiero critico, il dissenso, sono stati più che tollerati, perfino stimolati.

Non è questione di torto o ragione, ma di discutere insieme, saper cogliere le ragioni dell’altro, cercare una composizione.

 O sancire il disaccordo, senza però tacciare l’avversario di “delinquente”.

 Cos’è la democrazia, cosa la libertà, se un pensiero divergente da quello delle classi dirigenti ti trasforma in “delinquente”?

Qualcosa sta cambiando, come ha mostrato anche il precedente di Pisa.

Qualcosa sta cambiando nella scuola e nell’informazione.

Qualcosa sta cambiando, non solo nelle università.

Anche nel mondo della scuola: ecco il disegno di legge firmato dal ministro Valditara che rende il voto in condotta dominante sul rendimento universitario. Solo chi ha 9 o 10 in condotta potrà aspirare al massimo dei voti.

Non è chiaro cosa succederà per chi abbia 7:

una diminuzione automatica dei voti? E dove va a finire, allora, il merito?

Qualcosa sta cambiando nell’informazione:

 l’attacco al giornalismo libero, l’occupazione sguaiata dei mezzi di informazione. Qualcosa sta cambiando nella sanità:

a rischio è messo il diritto di tutti alle cure, liste d’attesa e rinuncia alla programmazione e agli investimenti pubblici, libertà totale per le imprese sanitarie private.

Qualcosa sta cambiando nei servizi sociali:

 lotta ai poveri invece che alle povertà, niente investimenti, tagli e vessazioni burocratiche. In sostanza abbandono.

Qualcosa sta cambiando nella gestione delle migrazioni:

 delocalizzazione dei Cpr, che andrebbero invece chiusi, accordi onerosi con i paesi del Mediterraneo sulla falsariga di quello con la Libia, e giù a picchiare sul tamburo della retorica razzista e intollerante, dell’invasione etnica e della mescolanza razziale.

Qualcosa sta cambiando anche nei diritti alle donne:

 da una parte si annuncia il sostegno alla maternità, ma dietro alle parole ci sono finanziamenti ridicoli.

Dall’altra si introducono i militanti pro life dentro i consultori, e si minaccia chi vuol abortire della aggiuntiva sofferenza di ascoltare il battito cardiaco del feto.

 Inutile crudeltà.

Non era mai successo che il diritto allo sciopero fosse attaccato come durante i mesi di questo governo.

Che, in aggiunta, intende demolire quel po’ di uguaglianza che ancora resiste nel nostro stato, con le riforme sull’autonomia differenziata (sull’ingiustizia legalizzata, cioè) e sul premierato, la volontà di indebolire anche il baluardo del Quirinale di fronte alle intemperanze estremistiche, queste sì, della maggioranza.

Una serie di piccoli slittamenti, uno dopo l’altro, uno accanto all’altro, che stanno mutando profondamente la natura dello stato italiano.

 Ed è solo l’antipasto, se almeno li lasceremo proseguire su questa strada. (Ella Baffoni).

Analisi criminologica della

delittuosità finanziaria.

 Filodiritto.com – (22 Marzo 2024) - Ph. Luca Martini – ci dice:

 

I postulati di “Sutherland”.

“I lemmi white collar crime” (crimini dei colletti bianchi) sono stati coniati da Sutherland in uno Studio del 1939.

“ Laub” (1983) ha affermato che gli asserti di Sutherland hanno dato il via ad una vera e propria “rivoluzione copernicana” della Criminologia, che non aveva mai preso in considerazione l'acuta pericolosità sociale della devianza dei professionisti.

Del pari, “Mannheim” (1975) evidenziava la rottura con una “Scienza del crimine” troppo concentrata sul tradizionale trinomio “omicidio volontario-stupro-rapina”.

 Prima della “scoperta” dello “white collar crime”, gli Operatori mettevano in risalto quasi esclusivamente la delittuosità violenta agita da individui provenienti da ceti sociali poveri e disagiati.

In effetti, per parte sua,” Forti” (2000] sostiene che “[bisogna] strappare la spessa coltre di rispettabilità convenzionale da cui è circondata la categoria dei colletti bianchi […] gli illeciti di dirigenti, amministratori, funzionari, azionisti di maggioranza, banche, giornalisti, magistrati, uomini politici e, soprattutto, grandi imprese industriali e commerciali vanno meticolosamente passati al setaccio, senza sottacere nomi, date e particolari”.

 

Come notato da “Raciti” (2005), il merito di Sutherland consta nell'aver fondato la” teoria delle associazioni differenziali”, per la quale “il reato va ricondotto nell'alveo delle dinamiche di interrelazioni del gruppo sociale […].

La condotta delinquenziale deriva dall'apprendimento di un eccesso di definizioni favorevoli all'illegalità, a prescindere dal contesto ambientale di riferimento;

la trasmissione di tali definizioni avviene attraverso un rapporto interpersonale caratterizzato da frequenza, durata, priorità ed intensità”.

 In realtà, anche gli italofoni “Lombroso & Ferrero” (1893) nonché” Laschi” (1899) avevano inaugurato una certa produzione scientifica afferente alla “delinquenza bancaria”.

Parimenti, negli USA, “Veblen” (1899/1999),” Josephson “(1934) e “Morris” (1935) hanno anticipato gli scritti di “Sutherland” (1940).

 Da menzionare sono pure i giornalisti “muckrackers” (indagatori del marcio), che, nei primi decenni del Novecento, avevano pubblicato una serie di articoli di cronaca su individui della “upper class” dediti a reati rimasti impuniti a causa della rispettabilità formale di siffatti esponenti dell'alta borghesia nord-americana.

 In particolar modo,” Raciti” (ibidem) ha rimarcato che la” Criminologia statunitense degli Anni Venti, Trenta e Quaranta del XX Secolo” “ha smentito in modo categorico la precedente elaborazione criminologica”, per la quale l'unica delittuosità collettivamente destabilizzante sarebbe quella del sotto-proletariato formato da alcolisti e disoccupati.

D'altronde, Ruggiero (1999) ha evidenziato che, con Sutherland ed i suoi precursori, “per la prima volta si attribuivano spazio e dignità, nel dibattito scientifico, a reati perpetrati mediante condotte fraudolente e corruttive in ambito politico, economico e professionale: in breve, alla criminalità dei potenti”.

 

Le ricerche sullo “white collar crime”, dopo decenni di menzogne scientifiche, ripristinavano la ratio novecentesca della piena eguaglianza tra consociati.

Veniva abbandonato, quindi, lo stereotipo dell'operaio povero ed incline al crimine etero-lesivo.

Anzi, giustamente, “Volk” (1998) ha messo in risalto il profilo “democratico” dell'analisi del crimine dei colletti bianchi, il quale “genera indignazione [e] i consociati, per conseguenza, si attendono e pretendono energiche forme di contrasto ed un severo trattamento sanzionatorio […] [ poiché] è innegabile il senso di ingiustizia e frustrazione derivante dalla possibilità che l'esercizio dell'azione penale sia influenzato dall'appartenenza dell'autore ad un determinato ceto sociale, garantendo una sorta di zona franca di impunità per le classi dominanti”.

 Probabilmente, a parere di chi redige, “Sutherland” (ibidem) non era estraneo al fascino dell'egualitarismo socialista sorto proprio nei primi anni del Novecento.

È innegabile, infatti, una spinta verso il desiderio collettivo di “giustizia sociale” all'interno dell'analisi dello” white collar crime”.

 D'altra parte, la pericolosità della delinquenza dei ceti borghesi non reca affatto una pericolosità sociale meramente “astratta”, bensì altera il delicato equilibrio macroeconomico IS/LM.

 

Su tale tematica, “Volk” (ibidem) ha puntualizzato che “si possono innescare effetti vortice, per cui coloro che operano sul mercato con mezzi illeciti sono avvantaggiati rispetto ai concorrenti onesti, così determinando l'attrazione di questi ultimi nel vortice del crimine, allo scopo di rimanere competitivi”.

 D'altro canto, è noto che il crimine dei colletti bianchi viene esercitato con una climax quantitativamente e qualitativamente ascendente, in tanto in quanto, nel lungo periodo, la “catena” dei reati professionali, anziché indebolirsi, si accresce d'intensità e porta il reo ad una reiterazione compulsiva degli atti corruttivi.

E' pure importante, come fatto sempre da “Volk” (ibidem), non minimizzare le “conseguenze dannose” della delittuosità in colletto bianco;

ovverosia, il crimine finanziario scardina la “concorrenza perfetta”, recando ad una macroeconomia profondamente inficiata dall'illegalità e non realmente produttiva.

 A parere di chi scrive, tale “inquinamento” del mercato è emblematicamente esemplificato dal contesto dei mercati dell'ex Unione Sovietica poco prima dello scioglimento dell'URSS;

le oligarchie e la corruttela generano gravi ingiustizie sociali che, nel lungo periodo, provocano l'implosione dell'intero sistema.

 Volk (ibidem), con estrema amarezza, nota anch'egli che “la business missconduct […] riguarda materie specialistiche, di ardua intelligibilità per l'uomo medio […].

Si avverte poco un'unanime riprovazione sociale. [Nel settore della finanza] la sensazione di minaccia e la riprovazione etico-sociale si dileguano nella nebbia dell'ignoranza, del disinteresse e dell'incomprensione”.

All'opposto, lo” street crime” provoca una notevole e subitanea reazione collettiva di rigetto.

Il crimine di strada tende ad unire la collettività imbevuta della demagogia e del populismo mass-mediatico.

 Anzi, l'opinione pubblica si manifesta, nei confronti dei delitti “dei deboli” (Ruggiero, ibidem), estremamente scettica circa la ratio della riabilitazione carceraria, come dimostrano certune richieste a-tecniche di “pene esemplari” di lunga durata.

 Volk (ibidem) sintetizza molto bene che “[sussiste] un atteggiamento di indifferenza verso lo” white collar crime” da parte dei consociati, che non si sentono direttamente minacciati.

Molta gente non è spaventata tanto da questo tipo di criminalità, quanto dall'idea che lo Stato possa sprecare […] energie per combatterla, invece di preoccuparsi della sicurezza personale dei cittadini nella vita di tutti i giorni”. Ciò che manca, a parere di chi commenta, è una seria prospettiva nazionalpopolare di lungo periodo;

adulterare un contesto IS/LM non è mai privo di conseguenza, pur se si tratta di cambiamenti lenti e difficilmente percettibili senza una visione tecnicamente contestualizzante.

 Interessante è l'analisi etica che dello “white collar crime” fornisce “Green” (2006), che parla di “moral ambiguity” (ambiguità morale) del crimine finanziario.

 Tale Dottrinario anglofono evidenzia che, presso l'opinione pubblica, non sempre si condanna la delittuosità dei professionisti, la quale viene ridotta a “scorrettezze” di calibro bagatellare.

 

Con attinenza a siffatta problematica, anche “Forti “(ibidem) invoca la necessità di un “risanamento etico dei settori corrotti della società […] [Poiché] una morale economica debole dev'essere sorretta con un busto penalistico dalle stecche rigide”.

Di nuovo, in Forti (ibidem) si sottolinea la diffusa mancanza di un lucido senso civico in grado di prevenire o, perlomeno, di sradicare i reati commerciali.

In realtà, come nota “Friedrichs” (2004), “un decisivo contributo alla frequente deformazione dell'immagine dello “white collar crime” presso l'opinione pubblica viene dallo specchio costituito dai mass-media, che tendono a minimizzare l'impatto del fenomeno, preferendo concentrarsi sullo “street crime”, più sensazionale e meno astruso […] [Il fine dei giornalisti] è anche quello di evitare contenziosi legali aventi per oggetto stratosferiche richieste di risarcimento danni, a seguito di possibili casi di diffamazione a mezzo stampa”.

Analogo è il parere di “Forti” (ibidem), a parere del quale esiste “indifferenza nei confronti dello “white collar crime da parte di opinioni pubbliche ed istituzioni, allarmate più dai vistosi fatti di sangue investiti dai riflettori della cronaca che dalla sotterranea distruzione della compagine morale della società perpetrata quotidianamente dalle sue élites politiche ed economiche”.

Quindi, Forti (ibidem) denunzia la mancanza di una corretta etica economica nel mondo dell'alta borghesia.

. Sono lontani i tempi della teoria della “mano invisibile” di “Smith” e “Keyns”.

 

 I successori di “Sutherland”

Negli Anni Duemila, “Meier” (2001) sostiene che Sutherland sia ancora perfettamente attuale.

Viceversa, “Green” (ibidem) reputa che, dopo un'ottantina d'anni, la locuzione “white collar crime” è “imprecisa e vaga […] e non fornisce all'interprete alcun filtro selettivo attraverso cui circoscriverne il valore semantico […]

[Si tratta di] una locuzione talmente problematica e sfaccettata da non permettere la prevalenza di una definizione unitaria”.

D'altra parte, con molta onestà intellettuale, lo stesso Sutherland (ibidem) si dichiarava aperto a nuovi orizzonti ermeneutici e riconosceva, egli medesimo, “il carattere non definitivo del concetto di white collar crime”.

 Negativamente critico si manifesta pure Raciti (ibidem), secondo cui “esistono molte difficoltà nella caratterizzazione criminologica del c.d. colletto bianco, concepito come persona rispettabile, o almeno rispettata, ed appartenente alla classe superiore.

 Difatti, l'elemento della rispettabilità pecca, a ben vedere, di soggettivismo e tende a sovrapporsi alle condizioni patrimoniali [agiate] dell'individuo […].

È meglio ricostruire questo concetto in chiave giuridica, ossia in termini di assenza di precedenti penali a carico del colletto bianco autore del reato”.

A sua volta, invece, Mannheim (ibidem) reputa che il reo di crimini finanziari è, di fatto, una persona “rispettabile”, nel senso che i consociati non dubitano della “onestà e probità del criminale in colletto bianco”.

Più sfumato é Geis (1974), a parere del quale il responsabile di delitti economici attua solamente “upperworld crime”, ossia “reati commessi da soggetti non rientranti nella categoria dell'abituale tipo delinquenziale, ovvero individui che vivono in contesti degradati e/o sofferenti di anomalie psichiche”.

Secondo “Nelken” (1994), un grave errore di Sutherland consta nel non distinguere tra la responsabilità penale personale dei singoli infrattori e la responsabilità simbolica delle persone giuridiche esercenti un'attività d'impresa;

più nel dettaglio, in buona sostanza, Nelken (ibidem) censura che “Sutherland ha omesso di tracciare un confine netto tra i reati commessi “uti singuli” dai criminali dal colletto bianco ed i fenomeni di illegalità in ambito societario (i cc.dd. corporate crime), con ciò contribuendo in maniera decisiva a rendere ambigua la categoria dello white collar crime”.

Dunque, in Sutherland, non si distingue sufficientemente bene tra la “personalità” della responsabilità penale e la “natura meramente patrimoniale” di un'eventuale condanna della persona giuridica.

Del pari,” Hirschi & Gottfredson” (1987) contestano, in Sutherland, la mancata precisazione del carattere esclusivamente “simbolico” della responsabilità penale delle imprese.

 

Secondo taluni Dottrinari, lo “white collar crime” è tale non perché agito da professionisti, bensì perché ha ad oggetto reati che alterano la genuinità della libera concorrenza.

P.e., secondo “Reiss & Biderman” (1980), è “crimine dei colletti bianchi” un illecito “a fini di lucro” messo in atto con “modalità fraudolente” e consumato “in ambito politico-affaristico”. Dunque, come si nota, Reiss & Biderman (ibidem) focalizzano l'attenzione della Criminologia sul reato, mentre le qualifiche del reo passano in secondo piano.

Il crimine finanziario, pertanto, possiede una valenza ontologica ed indipendente dalla posizione sociale e dal ruolo di dirigenza rivestiti dall'infrattore.

Altri Autori, come “Brickey” (1990) hanno predisposto un elenco catalogico di fattispecie penalmente definite come “crimini dei colletti bianchi”.

Altri ancora, come Green (ibidem) e Volk (ibidem evidenziano che i delinquenti economici sono riconoscibili da caratteristiche comportamentali “fisse” che li accomunano sotto il profilo della qualificazione criminologica.

Infine, non sono mancati coloro che hanno suggerito di abbandonare la ratio del “crimine in colletto bianco”, ma si tratta di una tesi minoritaria, in tanto in quanto siffatta categoria ha riscosso un successo ormai globale, come dimostrano le innumerevoli traduzioni delle Opere di Sutherland.

Secondo un primo filone esegetico, inaugurato da “Simon” (2002), la c.d. “devianza delle élites deve inserire, nel concetto di white collar crime, oltre alle condotte penalmente rilevanti, anche quelle non costituenti reato, ma pur sempre riprovevoli”.

Viceversa,” Edelhertz” (1970) è più restrittivo, ovverosia, a parere di tale Criminologo, “la gran parte dei crimini dei colletti bianchi non viene commessa da appartenenti alle élites sociali. Emblematico, al riguardo, è l'esempio del reato di insider trading, il cui “leading case£, trattato dalla Corte Suprema federale nel 1980 (United States vs. Chiarella) concerneva la condotta di un impiegato di tipografia, dunque una tuta blu e non uno white collar”.

In terzo luogo, “Clinard & Quinney” (1973) sostengono, nel reinterpretare ed integrare Sutherland, che i crimini finanziari tali sono e rimangono sotto il profilo sostanziale, quindi “a prescindere dal ceto di appartenenza dell'autore”.

A ragion veduta, la posizione di Clinard & Quinney (ibidem) è stata radicalmente contestata da Green (ibidem), in toto in quanto sganciare i delitti economici dal “ceto di appartenenza dell'autore” impedisce, nella Prassi, di sussumere molti reati all'interno della categoria degli “white collar crimes”.

Ovverosia, è troppo concettoso pretendere di distinguere la sfera privata del colletto bianco da quella professionale, giacché l'indole delinquenziale compulsiva è sempre la medesima.

Il soggetto in colletto bianco manifesta condotte antisociali nonché antigiuridiche anche al di fuori della sfera lavorativa.

 

“Lyman & Potter” (2004) notano che “al di là dei tentativi di elaborare una diversa locuzione idonea a descrivere il fenomeno [del crimine finanziario], va sottolineato che, negli ultimi decenni, la criminalità economica ha subito una vera e propria mutazione genetica, conformandosi, per molti aspetti, alle caratteristiche del crimine organizzato comune”.

 Come ovvio, gli asserti di Lyman & Potter (ibidem) si attagliano perfettamente alla situazione delle mafie calabro-sicule, le quali, nell'ultimo periodo, si sono “professionalizzate”, abbandonando l'uso della violenza fisica e materiale.

A tal proposito, Fornari (1997) mette in evidenza che “[le mafie e lo white collar crime] sono accomunate da un dato di scontata rilevanza giuridica:

il carattere associativo che entrambe tali forme di criminalità presentano nelle loro più frequenti manifestazioni.

 Più in generale, il trait d'union tra queste due tipologie delinquenziali consta nel comune orientamento al profitto, cui corrisponde il sempre più visibile riprodursi, nell'area della criminalità economica, di modalità operative tipiche dell'”organized crime”:

in primis la corruzione di pubblici funzionari”. Similmente, “Paliero” (2004) rimarca la contiguità tra “criminalità economica” e “criminalità organizzata”.

 

D'altra parte, in Dottrina, svariati Autori hanno rilevato che, in Italia, a partire dagli Anni Novanta del Novecento, istituti penalistici introdotti dal Legislatore per la lotta alla mafia sono oggi utilizzato anche per contrastare le devianze degli “white collars”.

P.e., “Alessandri” (2005) sottolinea che la confisca è abbondantemente impiegata tanto per la criminalità organizzata quanto per gli illeciti dei colletti bianchi, ovverosia, secondo il summenzionato Dottrinario, “esistono condotte che, ad un certo livello, si assomigliano in modo impressionante […] [poiché]la finanziarizzazione della produzione della ricchezza, sia essa lecita o illecita, ha determinato l'adozione di identiche strategie di contrasto”.

 In effetti, nei “leading case”s Cirio, Parmalat e Antonveneta/BNL, la Magistratura requirente ha spesso utilizzato il concetto di “associazione per delinquere” ex Art. 416 CP.

 

 Lo white collar crime e l'”organized crime”.

Negli Anni Duemila, lo “white collar crime” si è distinto per i requisiti della “imprenditorialità” e della “organizzazione professionale”;

siffatti due connotati richiamano da vicino le associazioni per delinquere, specialmente quelle di stampo mafioso.

A tal proposito, Smith (1982) sostiene che “la criminalità economica può essere concepita nei termini di un'impresa illegale, per molti versi accostabile ai racket gestiti dal crimine organizzato comune […] .

I due fenomeni [i crimini finanziari e le mafie] possono essere osservati da un angolo visuale unitario, grazie alla valorizzazione del profilo dell'imprenditorialità”.

In ogni modo, già negli Anni Settanta del Novecento, “Reiss” (1978) osservava che “bisogna porre l'accento sull'elemento organizzativo quale tratto caratterizzante del modus operandi dei colletti bianchi autori di reati […].

 [Anzi] spesso lo “white collar crime” è addirittura sovrapponibile in pieno al concetto di “organizational crime”.

Dunque, per molti Autori, la delittuosità degli white collar è, in sintesi, “professionalmente ed imprenditorialmente” organizzata alla stregua di una vera e propria impresa commerciale.

Ovverosia, parafrasando l'Art. 2082 CC, “[è delinquente finanziario] chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi [illeciti]”.

 Del resto, anche” Albanese” (1982) precisa che tanto le mafie quanto la criminalità dei colletti bianchi sono “imprese”, pur se l'oggetto, i fini e le modalità operative affondano le loro radici nella più totale illegalità.

Analogamente, “Maltz” (1976) mette in risalto che i colletti bianchi pongono in essere “reati [imprenditorialmente] organizzati”, che vengono consumati da “un'associazione per delinquere basata su violenza, furto, corruzione, abuso del potere economico, inganno, collusione o cooperazione della vittima”.

Nuovamente, pertanto, “Maltz” (ibidem) tratteggia lo” white collar crime” alla stregua di un delitto economico organizzato, il che avvicina i colletti bianchi agli esponenti della criminalità organizzata.

 In realtà, pure “Sutherland” ammetteva la frequente vicinanza tra criminalità economica ed organizzazioni mafiose.

 

P.e., Sutherland (ibidem) osservava che “il crimine dei colletti bianchi è un crimine organizzato […] [poiché] gli white collars commettono illeciti attraverso l'impiego distorto di strumenti giuridici di per sé legali o di istituzioni rappresentative di categoria. […]. I reati dei colletti bianchi sono, dunque, simili a quelli della criminalità organizzata”.

 Anzi, Sutherland (1937) evidenzia che, nel mondo dei professionisti devianti, sussistono un'unità ed un'omertà analoghe a quelle riscontrabili nelle cosche della malavita organizzata.

Interessante è pure il parallelismo tra “mafie” e “white collar crime” posto da Ruggiero (2002), nel senso che, per tale Dottrinario, “la tesi a sostegno dell'avvicinamento tra il crimine organizzato e quello degli white collars poggia su una pluralità di considerazioni, incentrate sulla somiglianza dei valori in gioco nei rispettivi ambiti, la complessità strutturale, l'impatto sul contesto di riferimento e la tendenziale comunanza del know-how delinquenziale […].

I colletti bianchi […] ed il crimine organizzato commettono reati congiuntamente.

 Essi formano partnership contingenti o di medio o lungo periodo, si scambiano servizi e promuovono scambievolmente le proprie attività imprenditoriali”.

Di nuovo, chi redige reputa le osservazioni di Ruggiero (2002) pienamente idonee alla descrizione delle mafie calabro-sicule, ove imprenditorialità, potere economico e corruzione dominano incontrastati.

In effetti, “Reed & Hughes” (1992) utilizzano il lemma anglofono “organization” sia per la criminalità organizzata sia per lo white collar crime.

Anche secondo “Pugh” (1990), tanto le mafie quanto i colletti bianchi hanno in comune un'associazione per delinquere, un fine unitario, un contesto ambientale criminogeno, una struttura gerarchica e la scelta di una strategia criminosa.

 Del pari,” Bakke” (1980) riconosce che gli “white collar ed i gregari della mafia” condividono quasi sempre un ambiente, una struttura ed una strategia organizzata che rende non distinguibili i reati finanziari da quelli di cui all'Art. 416 bis CP.

 In ogni caso, si tratta sempre di reati professionalmente organizzati, come se si trattasse di una ordinaria impresa commerciale con fini leciti. Ecco, dunque, di nuovo il ritorno della “imprenditorialità nel crimine” ai sensi del paradigma ex Art. 2082 CC.

D'altra parte, anche McIntosh (1975) parla di una “efficienza tecnica d'impresa” la quale richiama da vicino quello che, nell'Ordinamento italiano, è l'Art. 2082 CC.

 Similmente, Bernard (1938) impiega l'espressione “razionalità organizzativa”, intesa come quella “pianificazione” che consente, sia al mafioso sia al colletto bianco, di massimizzare il lucro senza essere scoperto ed incriminato dalla PG e dall'AG.

 Oppure ancora, entro tale medesima ottica “imprenditoriale” del crimine,”Cressey” (1972) specifica che le “mafie economiche” razionalizzano la loro struttura e ripartiscono i ruoli come se si trattasse di una vera e propria “azienda” dedita, però, alla commissione di reati commerciali.

A loro volta, “Best & Luckenbill” (1994) evidenziano che, nella “organized deviance”, esistono delle cc.dd. “squadre” che si ripartiscono il lavoro in maniera razionalizzata ed altamente professionale; ciò, di nuovo, vale tanto per le mafie quanto per gli white collar.

 

A parere di “Schager & Shor”t (1978) “riconoscere agli illeciti dei colletti bianchi, commessi in associazione, i caratteri dell'imprenditorialità, divisione del lavoro e specializzazione consente di aderire in maniera più precisa alla realtà fattuale, che, soprattutto in tempi recenti, è stata caratterizzata dall'aumento esponenziale di fenomeni illegali dal volto imprenditoriale, realizzati indistintamente sia da gruppi di white collar sia da criminali comuni”.

P.e., i “leading cases” Parmalat ed Enron hanno rivelato la collusione tra professionisti e criminalità organizzata, in tanto in quanto le mafie sono solite nascondere le proprie attività illecite all'interno di imprese apparentemente e formalmente lecite.

P.e., Alessandri (1991) ha affermato che esistono, tra la delinquenza economica e quella organizzata, dei “paradigmi comuni” che fanno estendere la precettività dell'Art. 416 bis CP alla fattispecie del crimine finanziario.

 In effetti, per Coffee (1979), “l'impresa [apparentemente legale, ndr] ha carattere criminogeno laddove la politica aziendale costituisca l'epifania di una sub-cultura criminale”.

 P.e., si ponga mente al” leading case” “Pizza Connection”, in cui i proventi del narcotraffico erano riciclati in locali di ristorazione al di sopra di ogni sospetto

 Oppure ancora, si pensi agli investimenti della 'Ndrangheta negli stabilimenti balneari della Spagna e del Sud della Francia.

 Addirittura, D'Amato (2006) nota che ormai è passata l'epoca del ”reato monosoggettivo del colletto bianco”, nel senso che, negli Anni Duemila, la criminalità economica è quasi sempre commessa all'interno di associazioni per delinquere conformi al modello strutturale di cui all'Art. 416 bis CP.

Di più, a parere di “Gobert & Punc”h (2003), gli “white collars” sono sempre più implicati in danni alle persone o alle cose, mentre, sino ad una trentina d'anni fa, si reputava che le estorsioni ed i regolamenti di conti fossero delitti tipicamente ed esclusivamente di stampo mafioso. Inoltre, in epoca odierna, sia la criminalità organizzata sia quella commerciale creano un sistema culturale di omertà e di intimidazione, ed anche ciò accomuna gli “white collars” ai gregari delle mafie.

Conclusioni.

È innegabile, perlomeno nel contesto normativo italiano, la somiglianza tra gli “white collar crime”s ed il paradigma de “jure condito” contenuto nell'Art. 416 bis CP.

 D'altra parte, Fornari (1997) parla espressamente, nella criminalità dei colletti bianchi, dell'esistenza di un “gruppo di comando” dedito ad una commissione di reati “sistemica”, ossia “professionalmente organizzata”, come se si trattasse di una “ordinaria” impresa commerciale.

Sempre Fornari (1997) accosta la delittuosità finanziaria a quella mafiosa, in tanto in quanto, in entrambe le fattispecie, “le attività illecite vengono coordinate mediante modalità comunicative ed interattive che riproducono modelli costanti che stabiliscono l'esistenza dell'organizzazione.

Di essa è elemento essenziale la presenza di uno statuto, più o meno formalizzato, che ne determina finalità e metodi operativi, articolandola, se necessario, in sotto-sistemi, fissandone la struttura gerarchica e rendendola così tendenzialmente insensibile ai mutamenti delle persone fisiche che si avvicendano al suo interno”.

La magistrale descrizione su esposta di “Fornari “(1997) richiama da vicino la struttura iper-organizzata delle “locali” della 'Ndrangheta.

Utile, su tale tematica, è pure Heine (1996], che parla di un “top management”, nel crimine professionale, il quale gestisce “una grande impresa [illecita, ndr], che acquisisce capacità di azione coordinando, con maggiore o minore autonomia, le diverse funzioni applicate nei vari reparti e sezioni aziendali”.

Come si può notare, “Heine” (ibidem) torna anch'egli a proporre una visione “imprenditoriale” sia dello “white collar crime” sia della assai simile criminalità organizzata.

Addirittura, “Gross” (1980) giunge a parlare degli white collars come di “managers” impegnati nel “perseguimento degli obiettivi della loro impresa”.

Pertanto, anche l'interpretazione di Gross (ibidem) propone una visione “imprenditoriale” delle associazioni per delinquere capitanate dai colletti bianchi.

Tutto ciò, come nelle migliori aziende, è, naturalmente, reso possibile, come asseriscono “Monahan & Novaco” (1980), dalla supina “ubbidienza” dei gregari a quella che viene espressamente definita la “filosofia dell'impresa”.

 Ecco, nuovamente, il ritorno dello schema strutturale di cui all'Art. 2082 CC; ciononostante, nel caso delle associazioni per delinquere, la finalità non è un lucro onesto, bensì “frodi, evasioni fiscali, contributi ai politici e corruzione” (Tonry & Reiss, 1993).

Oppure ancora, la supina ubbidienza dei gregari alle mafie economiche è ribadita da Lampe (1994), il quale nota che “le direttive d'azione ed i valori dell'impresa veicolati attraverso l'apparato organizzativo e le reti di comunicazione intra-aziendali costituiscono indicazioni vincolanti per colui che deve agire per conto dell'ente”.

Quindi, “Lampe” (ibidem) giustamente mette in risalto il carattere assoluto del potere di chi gestisce l'associazione per delinquere finalizzata alla commissione di crimini economico-patrimoniali.

 Di nuovo, in Lampe (ibidem), è riaffermata la somiglianza strutturale ed operativa tra mafie e delinquenza dei professionisti.

 Siffatto dettaglio non era adeguatamente e sufficientemente indagato nelle “Opere di Sutherland”.

 Nella Dottrina penalistica, Alessandri (ibidem) ha sottolineato, ex comma 1 Art. 27 Cost.,  che “la responsabilità penale è personale […] dunque, in materia penale, è impossibile sfuggire alle proprie responsabilità […].

Ogni giustificazione di carattere astratto e generico - dallo Zeitgeist al complesso di Edipo – crolla […] [poiché] non vengono giudicati sistemi, tendenze o peccati originali, ma persone in carne ed ossa, come voi e come me”.

In effetti, anche “Gobert & Punch” (ibidem) mettono in risalto che gli “white collars” tendono ad imputare colpe al “sistema”, ma, nella Giuspenalistica, l'individualità della responsabilità impedisce l'imputabilità delle persone giuridiche e delle organizzazioni, la cui eventuale condanna in sede civilistica reca natura meramente pecuniario-risarcitoria.

Parimenti, pure “Forti” (ibidem) contesta la “visione istituzionale della criminalità d'impresa”, poiché la sussistenza di istituzioni illecite e persone giuridiche non può violare la ratio suprema di cui al comma 1 Art. 27 Cost. .

 A tal proposito, Gobert & Punch (ibidem) osservano anch'essi che spesso gli associati per delinquere, nello “white collar crime” organizzato, tendono ad attribuire ogni responsabilità ad “enti collettivi personificati”, ma ciò viola il principio di individualità della colpa penale.

D'altra parte, non avrebbe alcun senso parlare di una “rieducazione carceraria” di un'impresa o altro ente simile.

Negli ultimi decenni, svariati Autori hanno coniato l'espressione “criminalità economica organizzata”.

 Questo concetto è nato negli USA, a seguito di gravi scandali finanziari che hanno manifestato, con piena evidenza, la contiguità strutturale e materiale esistente tra l'organized crime e la corruzione economica.

Friedrichs (ibidem) ha messo, però, in guardia dalle generalizzazioni.

  In quanto non sempre lo” white collar crime” è consumato all'interno di/ con l'ausilio di forme criminose associative.

Del pari, Green (ibidem) reputa che sia eccessivo postulare una perenne congiunzione tra il crimine dei colletti bianchi e la criminalità organizzata.

 Probabilmente, Green (ibidem) non tiene presente la situazione criminologica italiana, ove la “criminalità economica organizzata” costituisce il cibo ordinario di associazioni delinquenziali come Cosa Nostra, la 'Ndrangheta e la Camorra.

 Molti altri Dottrinari giudicano negativamente l'accostamento automatico dello “stampo mafioso” ad ogni forma associativa nata per commettere la delinquenza finanziaria. Pertanto, nel Diritto Penale italiano, non esistono, de” jure condito”, parallelismi istantanei tra gli white collars ed i componenti di cosche mafiose organizzate.

Per conseguenza, “Forti” (ibidem) invita anch'egli a contestualizzare, di volta in volta, “i mezzi, gli strumenti e le tecnologie in uso per perpetrare i reati”.

A parere di chi commenta, nel contesto italiano, perlomeno sotto il profilo sociologico e criminologico, lo “white collar crime”, in epoca attuale, è anche, nella quasi totalità dei casi, “organized crime

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