La guerra come soluzione.
La guerra come soluzione.
La
prepotenza imperiale
che
viene da lontano…
lasinistraquotidiana.it
– (1° marzo 2025) - Marco Sferini – ci dice:
Per
troppi decenni siamo stati abituati a credere che le ragioni della politica
internazionale degli Stati, delle potenze globali, si fondassero su una sorta
di etica sovraordinata al mondo, ...
Per
troppi decenni siamo stati abituati a credere che le ragioni della politica
internazionale degli Stati, delle potenze globali, si fondassero su una sorta
di etica sovraordinata il mondo, su un principio di regolamentazione etica
dell’esistenza dei popoli da parte della ovvia, oggettiva, incontestabile
natura paterna dei governi.
Ci è stata venduta la favoletta del mondo
libero contro il mondo tirannico: dell’ovest democratico e liberale contro
l’est autocratico, teocratico, post o ancora facente riferimento al comunismo
come la peggiore delle dittature possibili.
L’unico
merito che possiamo attribuire ad un conservatore, autoritario e retrivo
Presidente della Repubblica degli Stati Uniti d’America è questo: aver mostrato
a tutte e tutti come realmente stanno le cose.
Niente
più infingimenti, niente più finte cortesie;
al bando il galateo istituzionale. Pane al
pane, vino al vino, occhio per occhio e dente per dente.
Abbiamo
finito i proverbi e le circonlocuzioni per dire che Trump e Vance non usano
mezzi termini, non fingono:
quel
che vedete, pur nella rappresentazione teatrale del gioco a due, è quello che
realmente sono.
E
quello che dicono è quel che realmente pensano, dopo aver concordato dei
tatticismi per dare qualcosa di più di un segnale al mondo nel momento in cui
incontrano i loro corrispettivi europei o mentre, nell’occasione di conferenze
stampa solitarie, si lanciano in dichiarazioni di assimilazione di sempre
maggiori fette di pianeta all’impero americano.
Il
modo di esprimersi, un linguaggio veramente gretto, platealmente aggressivo,
con toni di saccenza muscolare e di irriverente protervia, fa parte di un nuovo
corso involutivo dell’amministrazione delle amministrazioni.
Le
formalità sono relegate in secondo piano:
Trump
getta in pasto ai media tutta la sua naturale prepotenza che, del resto, non è
una novità.
Nelle campagne elettorali non ha mai adoperato
una comunicazione pacata o misurata:
ma, si
sa, i comizi hanno in sé quel carattere, l’esacerbazione dei toni è contestuale
ad un momento in cui devi galvanizzare le tue follie e stimolare in loro tanto
la rabbia quanto la passione e, dunque, sintetizzare il tutto in una fedeltà
che si porteranno in cabina elettorale e che si trasformerà in consenso
popolare.
Il
passaggio dal condiscendente bidenismo, portatore di una declinazione
dell’imperialismo americano in netta contrapposizione con la Russia di Putin,
collaborativo con l’Unione Europea e dialogante con la Cina di Xi Jinping, alla
pratica del neo-isolazionismo trumpiano, volutamente avversario del
multipolarismo globale, lo si comprende sempre meglio ogni giorno che passa e,
nello specifico, se ne è avuta una plastica rappresentazione nei quaranta
minuti in cui alla Casa Bianca Volodymyr Zelensky ha esposto le proposte
ucraine sull’accordo che avrebbe dovuto firmare.
Un
accordo sullo sfruttamento di quelle che vengono un po’ impropriamente definite
“terre rare” e che sono delle ancora molto inesplorate zone minerarie critiche
presenti nel sottosuolo dell’Ucraina martoriata da tre anni di guerra.
Un accordo che, solo in parte, dovrebbe
coprire le centinaia di miliardi di dollari che gli Stati Uniti hanno prestato
a Kiev per combattere un conflitto in cui si sono scontrati non democrazia e
libertà da un lato con autoritarismo e tirannia dall’altro:
bensì
due strategie neo imperiali per una riproposizione della propria egemonia, se
non sull’intero pianeta, quanto meno su vaste zone dello stesso.
Volodymyr
Zelensky non è un ingenuo.
Ma ha
giocato e sta giocando una partita davvero troppo grande per il consenso che
detiene e che si è, con l’allungarsi dei tempi di guerra, logorato.
La
furiosa lite in diretta televisiva, consumatasi nello studio ovale della Casa
Bianca, potrebbe rappresentare per lui il principio della fine di una
presidenza prolungatissima e che, proprio il carattere emergenziale, ha reso
più fragile.
Non
poteva Zelensky non sapere che, dopo l’avvicendamento tra Biden e Trump, la
direzione che avrebbero preso le relazioni internazionali sarebbe stata quella
di un abboccamento tra Washington e Mosca, relegando Europa e Ucraina ad un
ruolo gregario.
Probabilmente
il presidente ucraino non immaginava che il trumpismo fosse sinonimo di
imboscata politica, di trappola mediatica, di umiliazione plateale.
Ed invece è tutto questo.
Il
metodo è quello della bullizzazione dei propri partner se – come ha
sottolineato il magnate – non sono soprattutto in grado di avere in mano
nessuna carta passabile da giocare.
Per
quanto aggressivo e fermo sui suoi punti, Trump non ha trattato Macron nel
medesimo modo in cui si è rivolto a Zelensky.
Questo significa che, anche nella totale
grettezza e nella riproposizione di una ipocrita abiezione da parte del
neoconservatorismo di Trump e Vance, esiste una scala valoriale.
Non
tutti vengono riguardati allo stesso modo.
Zelensky è oggettivamente disprezzato
dall’attuale amministrazione americana che, altrettanto oggettivamente, guarda
a Vladimir Putin come ad un possibile interlocutore nel presente e un alleato
nel futuro:
i commentatori più esperti azzardano che
questo sia un altro segmento di una tattica che punti a scindere gli interessi
di Mosca da quelli di Pechino.
Ma,
almeno per il momento, quello che è dato vedere riguarda una trattativa per il
cessate il fuoco in Ucraina in cui l’Ucraina non avrebbe voce in capitolo.
Vance
e Trump hanno teso una trappola a Zelensky.
Nulla
di meno della trappola in cui gli USA e la NATO hanno gettato l’Ucraina,
sacrificandola sull’altare degli imperialismi che si combattono nella nuova era
multipolare.
Termina
qui la narrazione illusionistica di una guerra fatta per il bene del pianeta,
per la sopravvivenza della civiltà occidentale eticamente superiore al resto
del mondo e, quindi, ragionevolmente dedita al riarmo a tutto tondo, ad
investimenti sempre maggiori in spese militari per contrastare qualcosa che
viene dipinto come una sorta di Quarto Reich putiniano.
Ciò
che i repubblicani vogliono è garantire a sé stessi, ai loro referenti
economici e finanziari una serie di garanzie che permettano l’ingrossamento di
enormi privilegi di sfruttamento di quelle materie prime presenti oggi nel
sottosuolo ucraino, ieri in quello afghano, iracheno, siriano…
Le
guerre imperialiste di oggi non sono poi così differenti da quelle timbrate
“esportazione della democrazia” messe in atto contro la minaccia globale del
terrorismo da loro finanziato per decenni prima che il gioco, nell’ambito della
Guerra fredda, gli sfuggisse grossolanamente di mano.
Il
modo con cui Trump si rivolge agli altri capi di Stato ricorda lo svilimento
progressivo dei rapporti internazionali tra i governi che si iniziò a vedere
nel momento in cui la Germania nazista pretese sempre più e concesse sempre
meno, nella quasi totale accettazione delle sue condizioni per evitare che in
Europa scoppiasse una guerra totale.
Il
Commander in chief non finge, non dissimula, non si nasconde dietro giri di
parole.
Firma decine e decine di ordini esecutivi con
cui stabilisce un complessivo arretramento politico, sociale, culturale che
riporta gli Stati Uniti indietro di decenni in quanto a conquiste di libertà,
di partecipazione e di condivisione dei diritti.
Poi
punta su una rimodulazione della politica estera che, nel giro di pochi giorni,
spiazza l’Unione Europea, rimette in gioco il bilateralismo tra Washington e
Mosca, consegna a Netanyahu le chiavi della Cisgiordania e, per fare filotto,
pubblica sui social un video in cui Gaza è ricca di imperiali statue d’oro del
nuovo signore della globalizzazione iperliberista, della nuova internazionale
di destra che getta la sua ombra su molta parte del globo.
Indubbiamente Putin non è una garanzia di pace
e di stabilità.
Ma si
può affermare che Biden e la sua corsa al riarmo lo fossero?
Alla
luce di quello che sta accadendo proprio in queste ore, dopo la lite tra i
presidenti nello studio ovale, dopo uno scadimento così gretto del linguaggio e
della pratica politica, chi può essere al sicuro da una involuzione repentina
di eventi che conducano verso uno scontro sempre più aspro tra cancellerie e un
irrigidimento delle relazioni internazionali al punto da patirne anche (e
soprattutto) economicamente il contraccolpo?
Tronfiamente
Trump giganteggia in altre minacce verso Bruxelles:
verranno
messi dazi del 25% su molti prodotti europei.
Se
finirà la guerra in Ucraina, senza una pace degna di questo nome, si aprirà un
altro conflitto a suon di imposizioni di gabelle e tassazioni che faranno
aumentare i prezzi esponenzialmente.
Che
cosa ha ottenuto l’Europa accodandosi alla linea nordatlantica della NATO e dei
democratici prima e durante tutta la guerra in Ucraina?
Di
essere sfruttata per il suo ruolo geopolitico e di essere gettata come un
limone abbondantemente spremuto nell’angolo dell’irrilevanza più completa.
Le divisioni interne ai Ventisette non hanno
indubbiamente aiutato:
la
corda viene tirata da due opposti estremi rappresentati dal cieco atlantismo da
un lato e dal filo-putinismo magiaro dall’altro.
Trump
non fa altro se non mostrare la politica imperialista americana per quello che
è e, oggi, con tutta una serie di stupori e meraviglie, una vasta schiera di
editorialisti finge di scoprire ciò che tutti sapevamo ma che,
opportunisticamente, fingevamo di non vedere:
non
c’è mai stato nessun intento democratico nelle relazioni internazionali di
Washington, ma soltanto il perpetuare quel ruolo di gendarme del mondo che gli
Stati Uniti si sono dati e hanno avuto per lungo tempo, imponendo al contempo
il dollaro come moneta e divisa regolante l’intera (o quasi) economia
planetaria.
Il
multipolarismo degli ultimi decenni ha messo in crisi questo ruolo primario e
ha spinto tanto i democratici quanto i repubblicani (pre e intra-trumpiani) a
riproporre, una logica di esistenzialismo unilaterale, la teoria isolazionista
come moderno principio di salvezza del popolo americano e, almeno
nell’estensione bideniana, della sfera occidentale del pianeta.
Trump
rovescia in parte tutto ciò e, pur in una accezione negativa della pluralità
dei poli in espansione, soprattutto in direzione anticinese e anti-BRICS, mette
a valore un divide et impera in cui la Russia ha un ruolo non proprio
inaspettato.
Forse
pochi pensavano che, in un mese appena dall’insediamento, il magnate si sarebbe
spinto così tanto in avanti da rivoluzionare letteralmente lo scenario
geostrategico europeo, confermando la linea preferenziale col Cremlino e
trattando l’Europa e Kiev come due servi sciocchi.
L’avvertimento è abbastanza chiaro:
gli Stati Uniti di nuovo conio conservatore e
autoritario non sono disponibili ad amicizie senza se e senza ma.
Tutto
ha un prezzo e nulla è gratis.
Zelensky
è il primo a pagare questo conto salato.
Difficile
poter dire chi abbia sottovalutato o sopravvalutato chi.
Certamente,
però, il trumpismo è la politica dei colpi di scena, di un teatro dell’assurdo
che non risparmia nulla alla compromissione perché è pronto a negare anche la
luce del sole.
Quindi,
chi dovesse riporre fiducia nel rispetto degli accordi con la Casa Bianca,
d’ora in poi è avvisato:
nulla
è per sempre, nulla vale veramente se non dopo l’approvazione del
presidentissimo targato MAGA, a cui non difetta una umoralità che non gioca di
sicuro un ruolo secondario nella presa delle decisioni da cui dipende la sorte
di centinaia di milioni di esseri umani e del pianeta per intero.
Chi
volesse ancora proporre la tesi della superiorità occidentale, delle guerre
fatte per la difesa della democrazia e della libertà, si accomodi.
C’è
una poltrona dell’umiliazione sotto i riflettori nello studio ovale della Casa
Bianca pronta per lui…
(MARCO
SFERINI -1° marzo 2025).
Israele
è il paradigma
dell’ipocrisia
prepotente.
Ilprimatonazionale.it - Carlo Maria Persano – (22
Ottobre 2023) – ci dice:
Roma,
22 ott. – La
narrativa su Israele ci racconta la storia romantica di una terra promessa, del
mondo che si accorge di un’ingiustizia e assegna quella terra al movimento
sionista, del nascere di una democrazia, unico esemplare, nel bel mezzo delle
autocrazie arabe, di uno Stato severo ma giusto che porta la civiltà in mezzo a
dei beduini.
Prima
di cominciare, sgombriamo il campo da ogni terribile equivoco: “Se ammazzano il
mio bambino non posso rivalermi ammazzando il suo bambino”.
Se
hanno ammazzato dei bambini palestinesi in otto anni di bombardamenti su Gaza e
altre azioni in Cisgiordania, non posso rivalermi sui bambini dei sionisti
rapiti nei kibbutz.
Quindi
nessuna logica da occhio per occhio in questa analisi.
Detto
ciò vediamo da dove nascono prepotenza e esasperazione.
Churchill,
Stalin, Mao e gli Usa si accordano.
Lo
stato di Israele nasce nel novembre 1947 da un accordo tra le potenze
vincitrici della Seconda guerra mondiale, alle quali si accoda la Cina di Mao.
Così,
alla faccia dell’autodeterminazione dei popoli, nel 1947 il 56% della Palestina
viene assegnato ai sionisti che intanto, con un segnale coordinato, erano
massicciamente affluiti in quelle terre da ogni parte del mondo.
Nonostante il confluire massiccio, i sionisti
restavano il 37% della nuova popolazione, mentre il 63% di palestinesi, lì da
sempre residenti, ora si dovevano accontentare del 44% delle terre.
Guarda
caso, ai sionisti vengono anche assegnate le terre più fertili.
Direte, i sionisti cercheranno un modus
vivendi amichevole con la popolazione palestinese preesistente?
Certo che no, infatti ne cacciano subito
370.000, i primi profughi.
I palestinesi che abitavano la Palestina nel
1947 erano 1.380.000, quindi il 27% di quella gente viene subito cacciato dalle
proprie case.
Nascono
così i primi profughi, nonostante la risoluzione dell’Onu prevedesse
esplicitamente dei territori misti palestinesi-sionisti, e nasce lo Stato dei
prepotenti.
Perché
Stalin e Mao si accordarono con Usa e Gran Bretagna?
Intanto perché, pur con leggere schermaglie,
continuava la luna di miele tra i vincitori del fascismo e la Guerra fredda
doveva ancora cominciare, e Stalin avrebbe avuto la sua bomba atomica solo due
anni dopo, nel 1949.
Poi,
davvero vogliamo credere alla buona fede di due sterminatori di popoli tramite
le carestie programmate, quali Stalin e Mao?
La
tattica di rubare territori tramite coloni.
Ai
sionisti non basta il 56% dei territori assegnati nel 1947, questi israeliani
hanno l’evidente progetto di conquistare tutta la Palestina un pezzo alla
volta.
La tattica è da subito quella di creare nuovi
insediamenti di coloni che si appropriano di nuove terre, tanto quanto farebbe
una famiglia di rom che entra nella casa popolare che la vecchietta ha dovuto
momentaneamente lasciare per un ricovero in ospedale.
Arrivano
e nessuno li può più mandare via.
Ancora
oggi i sionisti si stanno impossessando della Cisgiordania, altrimenti detta
“West Bank”, tramite nuovi e continui insediamenti di coloni (144 nel 2023)
armati fino ai denti, protetti dai carri armati che avanzano di continuo la
loro linea d’azione.
Demografia
e democrazia, il grande imbroglio.
I
sionisti hanno subito reso chiaro che Israele è uno Stato ebraico, ovvero dove
i 120 membri del parlamento devono essere a stragrande maggioranza ebrei.
Oggi sono 114 i parlamentari di partiti
ebraici contro i 6 nominati dai palestinesi residenti.
È
esattamente come lo vogliono.
Come
si ottiene tutto ciò, pur facendo finta che ci sia la democrazia? Sono così
pochi i palestinesi?
Abbiamo
già incontrato i tre sistemi adottati dai sionisti:
Far
confluire quanti più sionisti possibili in Palestina.
Cacciare
i palestinesi fuori dai confini di Israele (creando profughi).
Estendere
le elezioni comuni palestinesi-sionisti solo dopo la cacciata dei palestinesi
(Cisgiordania).
Così
nessuno pensa che in Israele non ci sia la democrazia.
Premettiamo
che i sionisti non possono crescere come popolazione grazie al proselitismo
religioso in quanto l’ebraismo è una religione rigidamente matrilineare.
Ovvero,
se non nasci da una madre ebrea, non sei ebreo.
D’altra
parte le donne dei sionisti hanno già un indice di fecondità media pari a 3,13
figli per donna, contro 2,85 figli per donna per le palestinesi.
E
quindi fanno già uno sforzo notevole.
Ma i
numeri sono ancora estremamente pericolosi per il sionismo.
Vediamoli.
Quanto
sono democratici in Israele.
La
democrazia col sionismo funziona così:
“Ti
lascio votare solo se sono sicuro di stravincere io, altrimenti niente”.
Dai
numeri riportati sotto si capisce subito il perché i rifugiati palestinesi non
possono tornare nelle loro case, il perché è stata creata la striscia di Gaza,
dove in un territorio grande come un decimo della Valle d’Aosta sono state
stipate 2.420.000 di persone e il perché non si vota con elezioni ad etnie
miste in Cisgiordania.
9.364.000
Abitanti totali in Israele (2022).
(1.916.000)
Dei quali, palestinesi residenti in Israele.
7.448.000
Ebrei totali in Israele.
1.916.000
Palestinesi in Israele (vedi sopra).
2.420.000
Palestinesi a Gaza.
2.580.000
Palestinesi fuggiti a causa delle guerre in Libano, in Siria, in Giordania,
etc.
2.163.000
Palestinesi residenti in Cisgiordania (West Bank).
9.079.000
Palestinesi totali.
Ci
sono poi altri palestinesi sparsi nel mondo e sono altri 2.121.000 (non in
campi profughi, es. in Kuwait) su 11.200.000 palestinesi totali nel mondo, e
una parte di questi potrebbe voler tornare in Palestina aumentando il vantaggio
elettorale dei palestinesi nei confronti dei sionisti.
Come
si vede, già oggi ci sarebbero in Palestina almeno 9.079.000 palestinesi contro
7.448.000 sionisti e già così è chiaro perché i palestinesi devono restare ben
separati in differenti zone politiche della Palestina oppure rimanere cacciati
nei campi profughi fuori dal perimetro elettorale di Israele, e tutto ciò per
poter dire che c’è la democrazia in Israele.
Il
teatrino dell’Onu.
Come
s’è visto lo Stato d’Israele è stato costituito grazie a un accordo tra Stalin,
Churchill, Mao e gli Usa, ma, per dare meno l’idea della prepotenza, si è fatto
finta di far passare la decisione come se fosse stata presa a maggioranza
dall’Onu.
Così
il 29 Novembre del 1947 è stata votata la risoluzione n°181 con la quale l’Onu
stabiliva quali territori della Palestina sarebbero stati assegnati a Israele,
con Gerusalemme come zona franca internazionale.
Con 33 sì, 13 no e 10 astenuti.
Sono
passati 76 anni da allora e i sionisti si sono impossessati del 100% dei
territori e adesso stanno assaltando da anni la Cisgiordania.
Sembra
una comica, ma la prima, la 181, fu l’unica risoluzione dell’Onu rispettata dai
sionisti.
Poi ce ne sono state altre 70, tutte numerate
e tutte con una data (disponibili sul web), e, stavolta, tutte a sfavore dei
sionisti.
Ma mai
nessuna risoluzione fu più rispettata o fatta rispettare con la forza dai
caschi blu dell’Onu.
In
particolare, tra tutte, sono state sbertucciate anche due risoluzioni che
imponevano il rientro dei profughi palestinesi nelle loro case:
Assemblea
Generale, risoluzione 194 (1947): i profughi palestinesi hanno il diritto di tornare
alle loro case in Israele.
Risoluzione
237 (1967): chiede con urgenza a Israele di consentire il ritorno dei profughi
palestinesi nelle loro case.
Ma ora
diciamolo pure, se i sionisti avessero accettato di far rientrare nelle loro
case donne, vecchi e bambini scappati dalla guerra, come avrebbero fatto a
lasciare il diritto di voto a tutti in Israele?
(Carlo
Maria Persano).
“Rearm
Europe”: perché opporsi
vuol
dire rimanere schiavi
Ilprimatonazionale.it
- La Redazione – (12 Marzo 2025) – Renato Vanacore – ci dice:
Roma,
12 mar – La
storia sta subendo un’accelerazione di portata globale, forse mai vista in un
periodo di tempo così breve; equilibri consolidati da decenni, anche se per ora
solo sulla carta, iniziano ad essere messi in discussione.
La
storica prevaricazione stile gangster di Trump nei confronti del presidente
dell’Ucraina Zelensky, unita a molte altre dichiarazioni, ha definitivamente
mostrato l’assoluta vicinanza, politica e ideologica, tra gli interessi Usa e
quelli della Russia di Putin.
L’Ue, in seguito a questa naturale
rivendicazione, sembra essersi svegliata da quel torpore e immobilismo che ha
contraddistinto la sua intera esistenza fatta solamente di assurdi diktat
economici, follie woke e green, direttive e retorica vittimistica
anti-identitaria.
Ora,
per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, Nazioni europee parlano di
riarmare i propri eserciti e di attuare una vera politica di difesa unitaria.
“Rearm
Europe”: ecco la frase che in questo momento ha raggiunto gli onori di cronaca.
Ma
tornare a parlare in una prospettiva di armi, eserciti e, eventualmente, anche
di guerra cosa significa per l’intero continente?
Conservare
o accelerare?
Innanzitutto
bisogna tracciare un primo solco, un confine sacro per stabilire chi è dentro e
chi è fuori:
o più semplicemente rifarsi alla classica
distinzione schmittiana amico-nemico.
A
fronte della riorganizzazione del mondo per grandi spazi e all’affacciarsi
nuovamente di veri e propri imperi, pensare ancora solamente nei termini di
Stato Nazione è da ritenersi ormai superato.
Chi non aspira ad un’Europa sovrana, unita e
potente non potrà aspirare lo stesso destino per qualunque altra Nazione della
stessa, Italia compresa.
Ulteriore
dato di fatto è che dal 1945 questo stesso campo geografico sia terreno di
conquista per diversi imperialismi esterni che, nel tempo, hanno rafforzato
ogni tipo di garanzia per prevenire eventuali tentativi di rivolta degli
europei: vittimismo, rassegnazione, debolezza e sottomissione sono state le
parole d’ordine imposte nel discorso pubblico da un lato all’altro del
continente.
Questo lo status quo, questo l’ordine
stabilito dai garanti di Yalta.
La questione è quindi esistenziale: conservare
o distruggere le catene? Sprofondare o accelerare verso un nuovo paradigma?
Se la
volontà non è quella di affrancare l’Europa dal dominio americano e, nello
stesso tempo, contrastare l’espansionismo russo ma è invece quella di restare
perennemente in una posizione di subordinazione rispetto a questi allora è
arrivato il momento, per chiunque sia mosso da visioni simili, di essere
cacciato dalla parte opposta del nostro sacro limes.
Sfide
e ostacoli.
Il
riarmo e l’aumento di investimenti in campo militare non può che essere rivolto
alla creazione di un esercito europeo unitario, primo passo per un più ampio e
complesso progetto di sovranità e indipendenza europea.
Ma,
nel concreto, quali sono gli ostacoli e le prospettive di un progetto simile?
Fin dagli anni ’50 le principali Nazioni del
continente, in modo particolare Francia e Italia, pensarono ad una
collaborazione militare.
In
questo periodo infatti venne proposta la creazione della “Ced” (Comunità
europea di difesa), progetto mai ratificato e fallito da lì a poco a causa di
ripensamenti vari e in seguito alla definitiva imposizione della Nato da parte
americana come principale alleanza militare.
L’Ue,
non essendo uno Stato unico vero e proprio, fin dalla sua istituzione è sempre
stata caratterizzata da una frammentazione politica e da interessi divergenti
soprattutto in questioni estere e di difesa;
su
questa lentezza burocratica e decisionale, oltre alla mancanza di una
leadership chiara, pesa sicuramente il principio di unanimità il che rende
difficili scelte rapide e concise.
Inoltre,
il completo disinteresse da parte dei burocrati di Bruxelles per tutto ciò che
non concerne interessi di mercato, concorrenza e libero scambio (impedendo di
conseguenza investimenti strategici comuni), ha fatto si che l’intero
continente dipendesse fortemente dagli Stati Uniti per capacità logistiche
militari, nucleare strategico, tecnologia e intelligence.
Tutti
questi ostacoli politici, economici e tecnologici si sommano ai ben più
influenti pacifismo radicato, nazionalismo piccolo borghese di alcuni stati e
generale scarsa volontà politica di avere una reale potenza europea.
L’industria
militare e tecnologica europea, se unita e coadiuvata da investimenti
strategici, ha il potenziale per competere e addirittura superare Russia e
Stati Uniti, affermandosi così come un vero attore globale.
Aziende
avanzate come “Leonardo”, “Rheinmetall”, “Airbus”, “Fincantieri”, “Mbda” e
altre non hanno nulla da invidiare come know-how tecnologico su aerei, veicoli
corazzati, missili e cantieristica navale;
così
come non manca l’alto livello di innovazione in droni, guerra elettronica, Ai e
sistemi satellitari (Galileo).
Indipendenza
e potenza, unificando e centralizzando progetti e produzione oltre che
aumentando il budget per difesa e investimenti di ricerca e sviluppo, sono
davvero possibili.
Un
nuovo mito.
Quindi,
davvero il dibattito sul riarmo si può ridurre a simpatie partitiche o a
sterili discussioni da salotto?
Da
quando il pacifismo umanitario o richiami a costituzioni e parlamenti possono
essere eretti a contraltare di necessità e tendenze storiche?
È ora
di farla finita con il ‘900, quel ‘Secolo breve’ con il quale in realtà non
abbiamo ancora tranciato i ponti e del quale siamo ancora succubi.
Un pensiero rivoluzionario deve sapersi
trovare al posto giusto nel momento giusto, creando nuovi miti con i quali
incarnare l’avanguardia che plasmerà le forze storiche in atto, anticipandole.
Verità stabilite e scenari predeterminati non
esistono, solamente guardando l’abisso e saltandoci dentro è possibile
raggiungere nuovi lidi:
l’ordine stabilito da ottant’anni a questa
parte ha imposto la cultura della colpa e della debolezza, anche bandendo dalla
narrazione parole come armi e esercito, avallare tutto ciò significa conservare
la condizione attuale.
Che
sia forse la riproposizione da manuale dopo ottant’anni dell’accordo di Yalta,
con il quale veniva imposto il dominio dello spirito egualitario in Europa
sotto il cappello dell’antifascismo, a segnare la fine stessa di tale paradigma
storico?
La
storia, a differenza di come è intesa dagli alfieri di questa tendenza
dominante, è sferica:
che
sia quindi proprio l’”accordo antieuropeo tra Washington e Mosca” origine e
superamento di quella garanzia rivolta a prevenire “la creazione di un’Europa
forte e indipendente”?
(Renato
Vanacore).
La
guerra non è
mai
una soluzione.
Comune-info.it - Pasquale Pugliese – (17
Marzo 2024) - ci dice:
Quanto
accade in Ucraina e in altri angoli del mondo dimostra che non si vuole cercare
altra soluzione se non quella binaria della guerra, fondata sulla dicotomia
vittoria-sconfitta, con la conseguente escalation di violenza.
Che è
inutile pensare la pace come assenza di guerra.
Che
non esiste solo la violenza diretta ma anche quella strutturale e culturale.
E che
non serve alcun impegno generico pacifista, ma percorsi di nonviolenza con i
quali de-costruire tutta la filiera della violenza e costruire alternative
senza il dominio delle armi.
L’eredità
del pensiero di “Johan Galtung”.
Donne In Nero Parma.
Lo
scorso 17 febbraio, all’età di 93 anni, ci ha lasciati “Johan Galtung”,
fondatore e pioniere della ricerca scientifica per la pace.
Ho
incontrato una sola volta di persona “Galtung” partecipando ad un
seminario/laboratorio che svolgeva – lui che aveva avviato i “Peace studies
internazionali” e fondato il “PRIO-Peace Research Institute” di Oslo, insegnato
nelle maggiori università del pianeta e fatto il consulente per le Nazioni
Unite – all’interno di una sala civica di un quartiere a Bologna, agli inizi
degli anni 2000.
E per
spiegare la “trascendenza” del conflitto – spiazzando tutti con la sua ironia –
aveva posto la questione dell’arancia contesa da due bambini e delle possibili
soluzioni, dimostrando che sono molto più di due, se solo si va oltre la
superficie del conflitto e si indagano i bisogni profondi di ciascuno dei
confliggenti.
Per le note biografiche su “Galtung” rimando
al profilo pubblicato su “Azione non violenta” e ai molti articoli usciti sul
sito web del “Centro studi Sereno Regi”s, qui vorrei riepilogare in estrema
sintesi alcuni degli elementi essenziali del pluriverso culturale e
metodologico che fonda la proposta della non violenza” di questo poliedrico
studioso.
Superare
la logica binaria della guerra.
Approfondire
l’approccio di” Galtung” ai conflitti significa dotarsi di alcuni di quei
saperi che mancano maggiormente e drammaticamente nel nostro tempo, nel quale,
da ogni parte, non si cerca altra soluzione se non quella binaria della guerra,
fondata sulla dicotomia vittoria-sconfitta.
Con la
conseguente escalation di violenza, vittime ed armamenti, in un ciclo dal quale
non si vede via d’uscita – per di più all’interno di un orizzonte nucleare
esplicitamente minacciato – che contamina sempre più pericolosamente la cultura
profonda.
“Una
società strutturata attorno alla violenza diventa caricatura di se stessa –
scrive “Galtung “–, sia che la violenza venga dalla cima di una piramide di
potere, sia che provenga da piccole sacche di guerriglia:
il terrorismo dall’alto è uguale al terrorismo
dal basso.
La
cultura diventa un magazzino di ferite profonde, affondate nella memoria
collettiva e nell’anima della gente, ferite che vengono usate per travisare
ogni cosa e persona, piuttosto che per cercare nuovi approcci”.
Una
fotografia perfetta della condizione attuale, dove il più grave dei problemi –
la guerra – è spacciato per la loro soluzione.
Diagnosi,
prognosi e terapia dei conflitti
Per “Galtung”
la pace non è solo l’assenza di guerra – che è una delle forme nelle quali si
esprime la violenza – ma è l’assenza, e la progressiva riduzione, di ogni tipo
di violenza, attraverso la” trasformazione non violenta” di tutti i conflitti.
Inoltre,
“essere contro la guerra è una posizione moralmente lodevole, ma non è
sufficiente a risolvere i problemi delle alternative alla guerra e delle
condizioni per la sua abolizione”.
Questo
obiettivo necessita di un preciso e specifico lavoro per la “pace con mezzi pacifici”, che affonda le radici e trova il
suo nutrimento negli studi per la pace che sono, appunto, “lo studio delle condizioni del
lavoro per la pace”.
È la ricerca alla quale Galtung si è dedicato
per tutta la vita, con un approccio epistemologicamente trans-disciplinare.
A
partire dalla scienza medica, per quanto riguarda i presupposti della triade
Diagnosi, Prognosi, Terapia:
“La
nostra cultura è mancante della “Diagnosi delle cause dei conflitti”, della
Prognosi di cosa sta per accadere, delle proposte di Terapia”.
Affrontare i conflitti in questa chiave –
comprendendone anche le specifiche strutture relative agli elementi della
Contraddizione, agli Atteggiamenti ed ai Comportamenti all’interno di essi – è
la precondizione per poterli “trascendere” senza violenza, la quale invece “è
il pilastro per i media” che chiamano “oggettività” la cronaca della violenza.
Non a
caso, l’impegno culturale e formativo di Galtung si rivolgerà, sempre di più,
anche a promuovere il giornalismo di pace.
Violenza
diretta, strutturale e culturale.
La
violenza non si esprime solo nella sua dimensione manifestamente dispiegata ed
esplicitamente distruttiva, come accade nella guerra e nei conflitti armati, ma
ha delle componenti più profonde, implicite, nascoste, ma necessarie affinché
la punta dell’iceberg della violenza propriamente detta, e percepita da tutti,
possa esplodere.
In un
ideale “triangolo della violenza”, se il vertice in altezza è rappresentato
dalla “violenza diretta”, i vertici di base sono rappresentati, da un lato,
dalla violenza strutturale, che è sia una violenza in sé, per esempio nelle
forme dello sfruttamento economico o della repressione del dissenso, che – in
riferimento ai conflitti armati – l’approntamento delle strutture organizzative
ed economiche che preparano e consentono le guerre:
dagli
eserciti alle spese militari, dagli armamenti alle banche armate.
L’altro
vertice è rappresentato dalla violenza culturale, ossia da una forma pervasiva
di giustificazione della violenza diffusa dagli apparati formativi, dai
dispositivi mediatici, dalle curvature linguistiche che rendono l’esercizio
della guerra – e la sua preparazione strutturale – un fatto ovvio, da non
mettere in discussione.
Alimentando anzi, al bisogno, il bellicismo e
l’odio per il “nemico”, ossia la propaganda di guerra.
La
violenza culturale è, dunque, “sempre simbolica, si trova nella religione e
nell’ideologia, nel linguaggio e nell’arte, nella scienza e nel diritto, nei
media e nell’educazione.
La sua funzione è piuttosto semplice: legittimare la violenza diretta e
quella strutturale”.
Come
accade nel nostro paese negli ultimi due anni. E spesso chi produce e vende
strumenti di guerra produce e vende anche i media che la promuovono.
“I
saperi della non violenza per trasformare e trascendere i conflitti.”
Per
queste ragioni l’impegno nonviolento, a differenza di quello genericamente
pacifista, è indirizzato a de-costruire tutta la filiera della violenza – non
solo a contrastare questa o quella guerra – e a costruire alternative
nonviolente in riferimento a tutti i livelli esaminati.
A
cominciare dalla capacità di trascendimento dei conflitti, ossia dalla loro
trasformazione nonviolenta.
Ciò
significa che non è il conflitto in sé a dover essere eradicato, in quanto il
conflitto è fisiologicamente generato dai differenti bisogni contrapposti, ma
la modalità violenta – e dunque patologica – della loro conduzione.
“Il maggior numero delle parti in conflitto –
scrive Galtung – ha qualche posizione valida:
il
lavoro sul conflitto consiste nel costruire una posizione accettabile e
sostenibile a partire dal quel ‘qualcosa di valido’, per quanto minuscolo possa
essere”.
È
necessario, dunque, aiutare le parti ad uscire dalla polarizzazione e dalla
reciproca de-umanizzazione.
Le tre
caratteristiche necessarie, i tre saperi, per lavorare alla trasformazione
de-polarizzante e umanizzante dei conflitti sono l’empatia, ossia la capacità di vedere le cose
anche dal punto di vista dell’avversario, la creatività, in quanto ricerca di soluzioni non
scontate e prevedibili, e la nonviolenza, in quanto metodo che porta oltre il conflitto
violento, lo trascende, appunto.
Saperi indispensabili per stare al mondo, in
maniera non reciprocamente distruttiva, all’interno di sistemi complessi
naturalmente generatori di conflitti.
La
seconda Guerra Fredda.
All’interno
di queste essenziali coordinate di base, che si intersecano ed evolvono con
altre più complesse per le quali rimando alle direttamente pubblicazioni di
Galtung – tra le quali in italiano “Pace con mezzi pacifici” (Esperia, 1996) e “Affrontare
il conflitto”, “Trascendere e trasformare” (Plus, 2008), dalle quali sono
tratte le citazioni di questo articolo – Galtung ha svolto un’operazione di
diagnosi-prognosi-terapia di molti conflitti sulle diverse scale (micro, meso,
macro e mega).
Segnalo
in particolare lo scenario de “La seconda Guerra Fredda”, della quale scriveva già nei primi
anni 2000, dovuto all’agenda geopolitica degli Usa che prevede “l’espansione globale a est con la
Nato e a occidente con l’”Ampo”, il Trattato di sicurezza Usa-Giappone”.
Questa agenda, diagnosticava Galtung, ha
interesse a portare le alleanze “a linee di rottura radicali ed esplosive”, che
generano la “seconda Guerra Fredda” tra Usa/Ampo/Nato da un lato e
Russia/India/Cina dall’altro.
Ma
ciò, ed ecco la prognosi, non durerà a lungo perché la “seconda Guerra Fredda”
è una formazione conflittuale forte. “Un incidente minore – prevedeva – lungo il confine
tra Polonia e Ucraina, (…), e queste faglie erutteranno lava come vulcani, con
potenze nucleari dappertutto e senza alcun paese neutrale in mezzo a fare da
cuscinetto, come lo furono Finlandia, Svezia, Austria e Jugoslavia durante la
prima Guerra Fredda”.
Per trascendere questo mega conflitto –
generato dalla “megalomania di avere tutto il mondo come propria sfera d’interesse” – prima che esso distrugga
l’umanità, Galtung proponeva, tra le altre cose, una radicale rifondazione delle Nazioni
Unite, come vera Assemblea dei popoli, con un rappresentante ogni milione di
abitanti della terra e senza diritto di veto.
Verità
e riconciliazione per Palestina e Israele.
E sul
conflitto israelo-palestinese, dopo una analisi critica degli accordi di Oslo,
che non potevano funzionare a causa delle loro mancanze – per esempio
l’esclusione di Hamas, da un lato, e di Likud/Ortodossi, dall’altro – e le
insufficienze, come l’assenza di simmetria in un accordo tra uno Stato forte e
una debole “autonomia”, mentre un processo di pace si basa “sulla reciprocità, che a
sua volta si basa sull’uguaglianza, diritti uguali e uguale dignità”, la prognosi era che per Israele e
Palestina non ci può essere alcuna sicurezza lungo la strada della violenza.
In particolare, anticipava Galtung, Israele si
trova nel periodo di maggior pericolo della sua storia:
“sempre
più militarista, (…), sempre più isolato e con sempre più nemici, esposto a
violenza, nonviolenza e boicottaggio dall’interno e dall’esterno, con gli Usa
che prima o poi condizioneranno il proprio appoggio sulla base delle
concessioni israeliane”.
Dunque,
come si può trasformare non violentemente e trascendere il conflitto?
Con un
ampio e articolato programma di pace che, a partire dal riconoscimento dello
stato di Palestina, si fonda alla costituzione di una “Comunità del Medio Oriente con
Israele, Palestina, Egitto, Giordania, Libano e Siria come membri permanenti
con politiche basate sul consenso multilaterale per quanto riguarda acqua, armi
e commercio”.
All’interno di questa comunità regionale Israele e Palestina diventano due
federazioni “con due cantoni israeliani in Palestina e due cantoni palestinesi
in Israele”.
Inoltre, perché questo possa funzionare, andrà
avviato, come in Sudafrica un processo di Verità e Riconciliazione.
E se questo, al momento, può sembrare utopia è
sicuramente ancora più utopico pensare di trovare una soluzione con le stragi e
i massacri in corso da mesi.
Scriveva
Galtung:
“Non
esiste alcun conflitto – per quanto l’odio sia interiorizzato, il comportamento
violento istituzionalizzato e la contraddizione, l’incompatibilità, il tema del
conflitto insolubili – che non possa essere trasformato attraverso la
nonviolenza”.
Se
solo lo si vuole, usando mezzi pacifici per il fine della pace.
“Non
esiste la guerra giusta”, la lezione
di Gino Strada è più viva che mai.
Left.it - Umberto De Giovannangeli – (13
Agosto 2023) – ci dice:
A due
anni dalla sua scomparsa tornano in mente le parole del fondatore di Emergency,
più attuali che mai:
«La
guerra è come il cancro, occorre cercare la soluzione, l'“antidoto” per
debellarla. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide
il paziente»
«Essere
definito un “utopista” per me è una benemerenza, non certo un’accusa. Ma in
questo caso penso di essere un “realista”.
Perché
non c’è niente di più “realista” che battersi per abolire la guerra.
E
trovo davvero incredibile che l’assemblea generale delle Nazioni Unite in tutta
la sua storia non abbia mai posto questo tema all’ordine del giorno»,
diceva “Gino Strada”, il fondatore di
Emergency su Left nel 2016, dopo aver ricevuto dal Parlamento svedese il “Right
Livelihood Award” (Premio al corretto sostentamento), il Premio Nobel
alternativo.
La
motivazione del premio racchiude in sé il senso di un impegno che ha saputo
unire nel tempo, valorizzando al massimo la “cultura del fare”, idealità e
concretezza.
Gino Strada fu premiato «per la sua grande umanità e
la sua capacità di offrire cure mediche e chirurgiche di eccellenza alle
vittime della guerra e dell’ingiustizia, continuando a denunciare senza paura
le cause della guerra».
Ed è
quello che il fondatore di Emergency fece anche nell’intervista esclusiva
concessa a Left.
Idealità, passione e concretezza.
È il fecondo “impasto” che Gino Strada rivolse
alla comunità internazionale, parlando davanti ai parlamentari svedesi in
occasione della consegna del premio: «Io sono un chirurgo. Ho visto i
feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America
Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili,
frammenti di bombe o missili. Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle
cliniche di circa 1.200 pazienti per scoprire che meno del 10 per cento erano
presumibilmente militari. Il 90 per cento delle vittime erano civili, un terzo
dei quali bambini. È quindi questo il “nemico”?». «Chi paga il prezzo della
guerra?».
Abolire
la guerra.
Per
averlo affermato, anche in occasione del Nobel alternativo, è stato tacciato di
essere un “utopista”.
Per me
è un complimento, non un insulto.
“Utopia”
era abolire la schiavitù duecento anni fa, eppure è stata abolita.
L’accusa di “utopia” è un’assoluta
sciocchezza.
L’utopia è qualcosa che non si è ancora
verificata ma non è detto che non debba o possa realizzarsi.
È il
sale della vita, dà un senso all’impegno quotidiano, crea movimento, dà una
ragione forte per passare dall’“io” al “noi”.
Qualsiasi conquista che ha segnato il cammino
dell’umanità, in ogni campo, a partire da quello scientifico era un’illusione,
un’intuizione, fino al giorno prima di diventare realtà.
Oggi
non siamo ancora riusciti a debellare il cancro, ma questo non ci porta a
sostenere l’inutilità della ricerca, degli investimenti in questo campo.
E nessuno liquida la lotta contro il cancro
come una “utopia” da abbandonare.
Questo, per me, vale anche per la guerra, che è il
cancro dell’umanità.
La
guerra, come il cancro, continua ancora a esistere, e dovrebbe essere un
impegno condiviso, a tutti i livelli.
Ognuno,
per quel che può, deve cercare la soluzione, l’“antidoto” per debellarla.
La violenza non è la medicina giusta: non cura
la malattia, ma uccide il paziente.
«Siamo l’unica specie animale che fa la
guerra»: non è un’affermazione dei giorni nostri, a dirlo fu “Erasmo da
Rotterdam”, che già 500 anni fa smontò il concetto di guerra “giusta”.
In un mondo come quello di oggi, dove i
conflitti si moltiplicano in continuazione e si espandono, dove le armi
disponibili potrebbero distruggere il pianeta, è ragionevole o no porsi il
problema di come se ne esce?
Io credo che sia la cosa più ragionevole.
Abolire la guerra è una prospettiva molto più
ragionevole che continuare a far finta di niente e continuare con questa
pratica devastante.
Il
fatto che bombe e armi abbiano segnato, marchiato a sangue, il nostro passato,
non vuol dire che debbano essere parte obbligata del nostro futuro.
La
guerra non è iscritta nel destino dell’umanità!
Stabilito
che non esistono guerre “giuste” nell’orizzonte concettuale di Gino Strada,
esistono guerre “necessarie”?
Combattere Hitler, il nazifascismo, è stata
una guerra “necessaria”…
Vorrei
essere io a porre una domanda:
è
finito Hitler, è finito Mussolini, sono finiti tanti altri dittatori, ma non lo
spirito del nazismo, del fascismo.
Emergency, nel suo piccolo, è testimone sul campo di
guerre che erano spacciate come “giuste” o “necessarie”, e che hanno solo
finito per accrescere l’oppressione, moltiplicare il dolore di popolazioni
intere, depredare quei Paesi teatro di guerre delle loro ricchezze.
Perché non va mai dimenticato che è la povera
gente, il popolo, la grande vittima delle guerre.
E
allora, torno a chiedere: tutto questo, l’oppressione, la crudeltà, è sparito
con Hitler e Mussolini? No, non è sparito.
La
Prima guerra mondiale, la “Grande guerra”, avrebbe dovuto essere la guerra per far
finire tutte le guerre, come affermò il presidente degli Stati Uniti Thomas
Woodrow Wilson.
Ma le cose non sono andate così. Dopo la
Grande guerra, nella maggior parte dei Paesi europei si insediarono dittature
feroci.
Poi,
si è arrivati alla Seconda guerra mondiale, che è costata almeno 50 milioni di
morti e che ha lasciato un’Europa in macerie, semi-distrutta.
E dopo
quella guerra, che tutti continuano a ritenere non solo necessaria ma
indispensabile, cosa è successo?
Si è aperta un’epoca di pace, di stabilità?
No.
In tutto il mondo ci sono stati oltre 170
conflitti, molti dei quali sono ancora in corso; conflitti che hanno provocato
più di 25 milioni di morti.
A cambiare sono state solo le definizioni di
guerra, quelle sì.
Tra
questi neologismi c’è la guerra “umanitaria”:
la
bestemmia più grande che abbia mai sentito.
Nella
guerra non c’è nulla di “umanitario” ma tanto, tutto, “contro” l’umanità.
Quanto
ancora dobbiamo aspettare, quanti altri conflitti e morti dovremo contare, per
capire che è quella cosa lì, la guerra, il vero mostro?
Questa
domanda è stata posta, sessant’anni fa, da alcuni dei più grandi cervelli che
l’umanità abbia mai conosciuto.
Mi
riferisco a Bertrand Russell e ad Albert Einstein, e al loro Manifesto firmato dai più
grandi scienziati al mondo.
Da
Percy Bridgman, Joseph Rotblat, Frédéric Joliot- Curie, Max Born, solo per
citarne alcuni.
Quel “Manifesto”
poneva una domanda molto semplice: dobbiamo porre fine alla razza umana, oppure l’umanità
deve rinunciare alla guerra?
Quella domanda, sessant’anni dopo, attende ancora una
risposta.
E una
risposta credibile non può non partire dalla constatazione che la situazione è
diventata più critica e pericolosa ovunque.
Gli stessi cittadini europei si sentono oggi più
insicuri di quanto lo fossero anni fa.
L’unica
soluzione è discutere a livello internazionale di questo tema.
Ripeto:
devono discutere di questo alle Nazioni Unite.
Devono stabilire che la guerra è come la schiavitù, e
dobbiamo capire seriamente come liberarcene. Senza l’abolizione della pratica
delle guerre questo pianeta non ha futuro.
E i
“buoni propositi” professati dai sostenitori delle guerre “giuste”,
“necessarie” “umanitarie”?
Le
guerre, quelle degli Stati, come dei gruppi terroristi, si combattono con le
armi, tra cui le mine anti uomo, prodotte anche da imprese italiane.
L’80-90 per cento delle armi in circolazione
sono prodotte e vendute dai cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite, gli stessi (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran
Bretagna) che dovrebbero vigilare sulla pace e la sicurezza del mondo.
Gli
armaioli sono i pacificatori!
Ciò spiega molto dei buoni propositi e del per ché
l’abolizione della guerra non ha trovato mai spazio di discussione all’Onu.
Ma
questo non deve far venir meno l’impegno di quanti, e siamo in tanti, credono
che la guerra sia peggiore di tutti i mali che pretende di risolvere.
L’alternativa
è la rassegnazione, la resa, la complicità persino.
Ci
sono oggi capi di Stato o di governo, soprattutto quelli che hanno maggiori
responsabilità, i cosiddetti “Grandi della Terra”, all’altezza di questa sfida?
Non è
questione di quale sia il livello dei leader.
Mettiamoci
dalla parte dei cittadini del pianeta.
I capi
di Stato o di governo vanno e vengono, sono le popolazioni che restano.
Non
possiamo pensare che a risolvere i problemi siano le stesse persone, i governi, i
leader, che le guerre l’hanno volute.
La prima cosa è capire, studiare, dibattere,
creare movimento, su come espellere la violenza dalla storia dell’umanità.
È una
cosa difficile? Non lo so.
Molte
volte abbiamo sbagliato le previsioni, e quello che sembrava impossibile si è
invece realizzato e viceversa.
Certamente,
se non si pone il problema non se ne uscirà mai. La guerra non significa altro
che l’uccisione di civili, morte e distruzione.
La
tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.
Esserne
consapevoli ci dà la spinta, l’energia, le motivazioni, gli argomenti per
provare a realizzare questa “utopia”.
Perché
la guerra non si può “umanizzare”, si può solo abolire. Dobbiamo convincere milioni di
persone del fatto che abolirla è una necessità urgente e un obiettivo
realizzabile.
Se
saremo in tanti a pensarlo questa “utopia” può essere realizzata.
Oggi
c’è lo Stato islamico, è “giusta” e “necessaria” la guerra contro i terroristi?
La
Storia si ripete, cambiano soltanto i nomi, non la logica che sottende al
richiamo alla guerra “giusta” o “necessaria”.
E
tutti quelli che provano a eccepire sono dei pavidi, irresponsabili, se non
fiancheggiatori dei mostri.
Così è stato quindici anni fa, in Afghanistan,
quando il “mostro” da combattere erano i talebani.
Più di trenta Paesi hanno combattuto questa guerra
“giusta” e “necessaria”, che ha ridotto a «danni collaterali» le migliaia di
civili uccisi o feriti nel conflitto.
Ora,
però, che i talebani si stanno scontrando con le milizie dello Stato islamico,
cosa diciamo?
Quale
storia raccontiamo alla popolazione afgana vittima di quindici anni di guerra
“giusta” e “necessaria”?
Scusateci,
abbiamo sbagliato, i mostri di ieri sono gli alleati di oggi… La verità è che
per essere perpetrata, la guerra ha bisogno di nuovi “mostri” da abbattere.
Oggi è il turno dello Stato islamico, domani
cambieranno nome e obiettivo. L’importante è proseguire su questa strada, con ogni mezzo e
ad ogni prezzo. Tanto a pagarlo sono i più deboli e indifesi. Carne da cannone.
Perché una cosa è incontestabile, l’ho
verificata di persona, con Emergency, in tutti i teatri di guerra in cui siamo
e continueremo a essere impegnati: alla fine a pagare il prezzo della guerra sono i
civili.
Le
guerre sono sempre state dichiarate dai ricchi, dai potenti, e in molti hanno
accresciuto il loro potere, ingrossato i loro conti in banca, grazie alle
guerre.
Sono le popolazioni civili a subirne le
conseguenze.
A
combattere e a morire sono sempre i figli dei poveri.
Quanti
figli di primi ministri, di capi di Stato, di “Ad” delle grandi industrie degli
armamenti sono andati e morti in guerra?
La
guerra è anche questo: la cosa più classista che l’uomo abbia prodotto. Anche
per questo va debellata.
(Left
n.48, 12 dicembre 2015).
IL
SISTEMA È AL COLLASSO E
LA
GUERRA È LA SOLUZIONE.
Opinione.it - Gerardo Coco – (10 maggio 2024) – ci
dice:
Il
sistema è al collasso e la guerra è la soluzione.
Quei
commentatori finanziari che stanno ancora aspettando che dall’alto giunga la
notizia di un cambio direzionale dei tassi di interesse in grado di rimettere
in moto l’economia, mi ricordano quei personaggi di “Samuel Beckett”
rappresentati in un’attesa apparentemente infinita per una figura misteriosa
chiamata “Godot” che però non arriva mai.
Neppure
arriverà la finanza normale, perché stiamo vivendo la più grande crisi della
storia e la gente non capisce cosa sta succedendo perché tutto è strettamente
collegato alla guerra in Ucraina, a quella in Medio Oriente, alle tensioni
estreme con la Cina, all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e
dell’energia, alle turbolenze nel settore bancario e ai disavanzi pubblici
scandalosi.
È dal
2022, cioè da quando le banche centrali hanno deciso il primo aumento dei tassi
di interesse, che scrivo che questa sarebbe stata la tendenza di lungo periodo.
Ne
riassumo i motivi.
In
primo luogo, le guerre sono il motore dell’inflazione perché causano scarsità
di materie prime.
Armi,
munizioni e attrezzature contengono, oltre al ferro, metalli non ferrosi come
rame, zinco, ottone e stagno, nonché terre rare.
Provocando
strozzature nel settore metallurgico, abbassano la produttività complessiva
perché le armi sono investimenti a perdere.
In tale contesto, i tassi di interesse alti
non sono la cura perché aumentano i costi di produzione, peggiorando
l’inflazione.
Se il raccolto è scarso, non è che l’aumento
dell’interesse faccia piovere improvvisamente.
Non
siamo in un contesto di mercato rialzista o di boom speculativo dove l’aumento
dell’interesse è efficace nel raffreddare la domanda.
Siamo
in un contesto in cui il tasso di inflazione è superiore al tasso di crescita
economica e, nonostante la domanda sia in calo rispetto all’offerta, i prezzi
aumentano lo stesso.
Questo
fenomeno si chiama stagflazione.
Poiché
nell’economia il più grande mutuatario è il Governo, un interesse più alto
aggrava solo la sua esposizione man mano che rinnova il debito, cosicché il
tasso di interesse è spinto a salire sempre di più.
Abbiamo
già scritto che la pressione al rialzo dei tassi deriva anche dalla svendita
del debito statunitense da parte della Cina che, ovviamente, cerca di ridurre
l’esposizione debitoria rispetto a un potenziale nemico.
Già l’Amministrazione di Joe Biden, dopo aver ammonito
la Cina a non appoggiare la Russia nella guerra contro l’Ucraina, ha di recente
minacciato Pechino di sanzioni nel caso le banche del Paese facilitino il
sostegno alla Russia.
Il che
significa che il credito cinese rappresentato dalle obbligazioni statunitensi
corre il rischio di essere congelato in qualsiasi momento.
Dopo
il sequestro delle riserve alla Russia, qualsiasi entità straniera non
occidentale sta cercando di ridurre le proprie riserve in titoli statunitensi e
europei. Quindi, con la domanda in calo rispetto all’offerta, i prezzi
obbligazionari scendono e i tassi aumentano.
Tutto
ciò ha contribuito a innescare la fuga dei capitali dal settore pubblico verso
quello privato.
E la
fuga dei capitali dal lungo termine al breve termine, alimentando così la crisi
del debito sovrano.
Chi,
dunque, ha aspettative di una soluzione da parte delle banche centrali, non
coglie l’intero problema.
Le banche centrali non stanno affatto guidando
il mercato ma lo stanno subendo. Ci si dimentichi dei tagli dei tassi, perché
il vero problema è la spesa pubblica diventata una delle maggiori minacce per
l’economia globale su cui le banche centrali non hanno alcun potere.
Come potrebbero regolare la stabilità dei
prezzi, quando i loro governi stanno facendo tutto il possibile per portare le
rispettive economie al collasso?
Non
solo Stati Uniti e Europa stanno finanziando guerre e milioni di migranti
disoccupati, ma anche l’isteria del cambiamento climatico che richiede
l’implosione delle loro intere economie.
La persona media non si rende conto che questi
pacchetti di aiuti “gratuiti” all’Ucraina, a Israele, ai migranti, al
cambiamento climatico, vanno a scapito dei contribuenti occidentali, che stanno
pagando per tutte queste misure, peraltro da loro mai votate.
Il
sistema non è più sostenibile, poiché la spesa improduttiva cresce sempre più
velocemente dell’economia produttiva.
L’inflazione
che deriva dal sostegno a guerre senza fine sta quindi ulteriormente
sprofondando le nazioni nella crisi del debito sovrano, che riguarda la domanda
di nuove emissioni.
Questa
crisi emerge proprio quando il Governo ha sempre più difficoltà a emettere
nuovo debito.
Perché
si dovrebbero acquistare obbligazioni a dieci anni, quando tutto punta verso
l’escalation di una guerra che rischia di essere nucleare?
Non c’è assolutamente alcun dubbio, quindi, che ci
stiamo dirigendo verso un gravissimo default del debito sovrano.
Impossibilitati
a impedire che la bolla del debito esploda, i finti leader occidentali si sono
rivolti al consorzio del Governo unico mondiale emergente guidato dal Forum
economico mondiale e al suo capo “Klaus Schwab”, che li ha convinti alla guerra
come via d’uscita e scusa per giustificare la loro rovinosa gestione fiscale e
l’inadempienza debitoria, per poi ricominciare tutto da capo con le valute
digitali e un “folle reset fatto di zero Co2”, controllo e riduzione della
popolazione e economia degli stakeholder.
Il
tutto mescolato con l’egualitarismo.
Ecco
perché non c’è assolutamente nessuno interessato a cercare la pace mentre c’è,
come per il Covid, la censura e il bando per i pacifisti con la scusa risibile
che la Russia voglia invadere l’Europa.
Arrivano
i russi, arrivano i russi!
Sarebbe comico come nel film, se non fosse
tragico.
Ecco
anche perché i capi di Governo ormai non si preoccupano di spendere a man
bassa, sapendo che la soluzione per mantenere il potere, che sta loro
sfuggendo, è ormai la guerra.
Questi stolti a cui è stato detto di
promuoverla, sono troppo stupidi per capire che “c’è chi vuole eliminare il
cinquanta per cento della popolazione per salvare il pianeta”.
Questo è il motivo per cui “i sostenitori del
cambiamento climatico” sono dietro le quinte a tifare per la guerra nucleare.
Costruire
la pace: come
farlo
per fermare le guerre.
Centrostudidoc.org
– (Set. 30, 2024) - Redazione - Dignità del lavoro – ci dice:
La
pace non è qualcosa che viene da sé, è necessario un impegno collettivo.
Come fare per costruire la pace?
Ecco alcuni suggerimenti del “Centro Nuovo
Modello di Sviluppo.
Fermare
le guerre, costruire la pace: il dossier.
A
giugno 2024 il “Centro Nuovo Modello di Sviluppo ODV” ha pubblicato il dossier
“Fermare le guerre, costruire la pace“.
Al
progetto coordinato da Francesco Gesualdi hanno aderito anche Altreconomia,
Attac Italia, Eco Istituto del Veneto, Peacelink e Pax Christi.
L’obiettivo
del dossier è quello di dare in 32 pagine dei consigli pratici e delle linee
guida per costruire la pace.
Le
indicazioni all’interno del dossier sono rivolte sia all’Italia in quanto Stato
sia alle sue cittadine e ai suoi cittadini.
Non si tratta infatti solo di grandi
rivendicazioni dal punto di vista politico ed economico.
Al
contrario, il dossier introduce anche a piccoli spunti quotidiani, per portare
la volontà di costruire della pace nella vita di tutti i giorni.
Il
contesto globale e nazionale.
Il
punto di partenza del dossier “Fermare le guerre, costruire la pace” è molto
semplice:
per
costruire la pace non serve rifornire gli Stati di armi, ma costruire tavoli di
negoziati basati su rapporti equi e rispettosi.
Al
contrario però, dal 2000 al 2023 la spesa mondiale per gli armamenti è
triplicata da 800 a 2.443 miliardi di dollari.
Similmente,
anche la spesa militare nei paesi dell’Unione è aumentata del 50% dal 2014 al
2023.
Secondo
i dati del 2017, le prime dieci imprese di armi europee spendono oltre 5
milioni di euro all’anno.
Inoltre,
grazie a 33 lobbisti delle armi esercitano pressioni sulle istituzioni di
Bruxelles.
Nello
specifico dell’Italia, la produzione di armi è elevata nonostante il ripudio da
parte della Costituzione nazionale.
L’articolo 11 della Costituzione recita
infatti:
L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;
consente,
in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;
promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Tuttavia,
nei fatti il nostro Paese contribuisce al 4% delle esportazioni globali di
armi.
Qui si
trovano circa 300 imprese dedite alla produzione di armi.
Tra
loro, Leonardo
e Fincantieri, entrambe a controllo pubblico, che da sole coprono il 75% del
fatturato.
In
questo modo, l’industria delle armi crea il prodotto, ma ai fini della vendita
è necessario che ce ne sia domanda.
Quale
mercato migliore allora delle guerre?
E tra
il 2010 e il 2023 i conflitti armati tra Stati sono aumentati dell’86% (da 30 a
56).
Che
rapporto c’è tra capitalismo e guerra?
Di
conseguenza, il dossier affronta anche il tema del rapporto tra capitalismo e
guerra.
Tale
sistema economico ha l’obiettivo di crescere, producendo e consumando risorse.
Le risorse del pianeta sono, tuttavia, sempre
più scarse.
In
questo contesto, il capitalismo ha sempre accompagnato l’espansione economica
con quella militare.
Se le
guerre nascono dal controllo delle risorse scarse, il dossier propone come
fulcro della risoluzione le energie rinnovabili diffuse.
Sole e
vento sono a disposizione di tutte e tutti e possono essere sfruttate senza
toglierle alle altre persone.
Le
linee guida per costruire la pace.
A
livello socio-economico il dossier invita così a stili di vita più sobri, che
permettano un più morigerato sfruttamento delle risorse.
Inoltre,
per contrastare le logiche di sopraffazione del capitalismo, propone il
potenziamento dell’economia pubblica.
Nello specifico, fa riferimento all’economia
della comunità, che guarda in maniera solidaristica e gratuita ai bisogni
irrinunciabili delle persone.
A tal
proposito, suggerisce la conversione a produzione civile delle imprese delle
armi a controllo pubblico.
Un
altro aspetto fondamentale per costruire la pace sono dei rapporti
internazionali di equità e cooperazione.
In altre parole, a livello commerciale bisogna
garantire compensi dignitosi ai Paesi esportatori di materie prime e manufatti.
Attraverso
prezzi corretti, è possibile garantire salari vivibili a chi lavora in un
contesto ambientale salubre e sicuro.
Allo
stesso tempo, pagando tasse e royalties adeguati, buona parte della ricchezza
estratta rimarrà locale.
Anche
in questo modo, a livello di opinione pubblica interna sarà possibile costruire
un clima che esula dalla cultura del nemico.
La
costruzione di un nemico porta infatti alla necessità di armarsi per
combatterlo.
Un
altro buon proposito per costruire la pace è la diffusione della difesa
popolare nonviolenta.
In altre parole, il dossier promuove la non
collaborazione sostenuta da una forte motivazione politica.
Uno strumento, questo, che vede molti esempi
storici vittoriosi.
Per
funzionare, secondo il dossier, la difesa popolare non violenta ha bisogno di
un servizio nazionale obbligatorio di difesa popolare nonviolenta.
Infine,
in linea con l’articolo 11 della Costituzione, il dossier propone l’istituzione
di un nuovo Ministero.
Per
costruire la pace, propone così la nascita del “Ministero della riconciliazione
internazionale e corpi civili di pace”.
Come
raccomandato dal Parlamento Europeo nel 2001, i corpi civili di pace dovrebbero
essere entità istituzionali non armate.
Di
conseguenza, il loro compito sarebbe di intervenire nelle zone di conflitto
come forze d’interposizione disarmata per proteggere la popolazione e
dissuadere le parti dall’uso delle armi.
Costruire
la pace nel quotidiano.
Infine,
il dossier “Fermare le guerre, costruire la pace” suggerisce alcune azioni che
tutte le persone possono compiere nel loro quotidiano:
esporre
simboli di pace per non dimenticare che il mondo è in guerra;
evitare
rapporti con le banche che investono in spese militari;
esprimere
contrarietà all’aumento delle spese militari attraverso ripetute lettere alla
presidenza del Consiglio;
inviare
al Ministero della Difesa una dichiarazione di obiezione di coscienza all’uso
delle armi, per segnalare indisponibilità in caso di ripristino della leva
militare obbligatoria;
promuovere
la costituzione di comitati locali di pace per far riflettere la cittadinanza
su come costruire la pace;
intervenire
presso le amministrazioni comunali affinché sostengano i diritti sociali e la
conversione ecologica.
Per
promuovere questi obiettivi, il dossier invita le associazioni a vocazione
antimilitarista e pacifista a farsene promotrici attraverso apposite campagne e
ampie reti di collaborazione.
In questo modo, queste azioni per costruire la
pace godranno di rinvigorita forza.
La
soluzione di “ChatGpt” per ottenere
la
pace nel mondo? La guerra nucleare.
Ilfattoquotidiano.it - Mauro Del Corno – (12
Febbraio 2024) – ci dice:
Intelligenza
Artificiale
Nell’Intelligenza
Artificiale qualcosina da sistemare ancora c’è.
Ad
esempio il tortuoso “ragionamento” per cui scatenare la guerra nucleare è un
sistema per ottenere la pace nel mondo.
Vero
che i cimiteri sono luoghi pacifici per antonomasia ma l’idea che avremmo di
pace come specie umana sarebbe un’altra.
Uno studio condotto dalla “Stanford University
“statunitense ed altri centri di ricerca ha evidenziato come i modelli di IA
più diffusi, “Chat GPT “inclusi, siano facilmente propensi ad utilizzare
soluzioni violente per raggiungere i loro obiettivi. Incluso appunto il lancio
di missili atomici.
In
particolare GPT-3.5 e GPT-4 di OpenAI si sono distinti come i sistemi più
bellicosi. In una delle simulazioni Chat GPT ha giustificato l’uso delle armi
nucleari con l’obiettivo di raggiungere la pace nel mondo, in un’altra ha
spiegato di aver ritenuto conveniente sfruttare il fatto di disporre di un
arsenale atomico nella corsa per affermarsi a danno di altri paesi.
Non stupisce che i ricercatori definiscano
“Preoccupanti” queste evoluzioni.
IA, il
Garante della privacy avvia una indagine sulle misure di sicurezza adottate dai
siti contro la raccolta di dati.
Preoccupanti
anche perché l’esercito statunitense ha avviato una collaborazione con OpenAI
(società madre di Chat GPT) per valutare possibili utilizzi della nuova
tecnologia in operazioni militari e scelte strategiche.
Quatta
quatta, un mese fa, OpenAI ha cambiato le policy d’uso dei suoi servizi per
aprire alla possibilità di impiego nel settore militare.
Fino
al 10 gennaio il decalogo delle regole di Open Ai vietava esplicitamente l’uso
dei suoi prodotti per “lo sviluppo di armi” e per “attività militari e
warfare”.
Ora
questa seconda voce è scomparsa, e quella che riguarda l’uso negli armamenti è
stata riformulata in un capitolo generale in questo modo:
“Non
usare i nostri servizi per nuocere a te stesso o ad altri. Per esempio, non
usare i nostri servizi per promuovere il suicidio, sviluppare o usare armi”.
Speriamo
a questo punto che abbia ragione “Sean Booth”: “È solo una bolla funzionale a
quel f… capitale d’investimento che ci fluttua dentro: incasseranno e se ne
andranno finché la gente non si accorgerà che non funziona.
Almeno non nel modo in cui pensano.
A un
certo punto sarà utile per alcune cose ma usarla richiederà un certo grado di
rigore e responsabilità.
Ma non
penso che le persone siano rigorose”.
Non
stupisca la citazione (da un’intervista apparsa su Robinson) di un compositore,
membro del duo “Autechre”.
Più
che una band di sonorità elettroniche, è da tempo considerato uno dei progetti
più visionari e profondi in merito all’interazione uomo – tecnologie.
NATO
VS. RUSSIA.
Guerra
ucraina, la folle politica
di rimuovere ogni soluzione di pace.
La nuovabq.it - Eugenio Capozzi – (28
-1- 2023) – ci dice:
La
realtà ci dice che soltanto una guerra mondiale potrebbe ridare all'Ucraina i
confini pre-2014:
i
Paesi occidentali dicono di non volere l'escalation ma si rifiutano di fissare
un obiettivo concreto almeno per il "pareggio."
La linea pare quella del "tanto peggio
tanto meglio", a spese della popolazione ucraina.
Eppure
le possibilità di porre almeno le basi su cui costruire un negoziato ci
sarebbero...
(LE
ARMI NON PORTANO LA PACE, di Rosalina Ravasio)
L'atteggiamento
dei paesi Nato rispetto al conflitto tra Russia e Ucraina sprofonda sempre più
in una surreale schizofrenia.
Da un
lato, si continua ad alimentare una retorica trionfalistica, questa volta
intorno all'ennesimo invio di armamenti all'Ucraina – i carri armati Leopard 2
e Abrams – e si continua a lanciare proclami su una possibile vittoria di Kiev
sulla Russia grazie al supporto occidentale, dall'altro si ammette, con toni
più sommessi, che le attuali forniture di sistemi d'arma, come quelle
precedenti, non potranno certo imprimere una svolta risolutiva nella guerra, ma
al massimo frenare o rallentare l'avanzata delle truppe di Mosca.
Un'ammissione,
quest'ultima, che fotografa un dato evidente, sottolineato dai competenti di
affari militari: i succitati mezzi corazzati saranno in tutto poco più di un
centinaio, contro gli oltre 3000 carri armati russi, e prima di essere
consegnati ed essere concretamente utilizzabili dovranno passare diversi mesi.
Più in
generale, dopo quasi un anno di conflitto - con tutto il carico di sofferenze,
vittime, devastazioni, disastri economici che esso ha finora comportato nei
paesi coinvolti e in tutta Europa - si impone a tutti una realtà ben
individuata da alcuni fin da subito:
vista
l'enorme sproporzione di forze e di risorse tra russi e ucraini, una vittoria
chiara e netta di questi ultimi, cioè la riconquista della sovranità su tutto
il loro territorio e il respingimento delle truppe russe oltre i confini del
1991 (obiettivo ancora oggi quotidianamente rivendicato dal presidente ucraino
Zelensky e dal suo esecutivo) è impossibile, a meno che i paesi della Nato non
entrino direttamente in guerra con Mosca.
Cosa,
quest'ultima, che tutti i governi occidentali, da Washington in giù,
sottolineano, oggi come ieri, di non aver alcuna intenzione di fare.
Comprensibilmente e per fortuna, perché comporterebbe l'apocalittica
prospettiva di una escalation verso una guerra mondiale contro la seconda
potenza nucleare del pianeta.
Insomma,
appena si diradano le spesse nubi della “narrazione” ossessivamente imposta
praticamente a reti unificate in Occidente sull'appoggio bellico a Kiev come
frontiera della difesa di libertà, democrazia e diritti umani contro la
tirannide di Putin;
e
appena ci si distrae per un attimo dalle continue illazioni dei media
occidentali secondo cui il regime putiniano è sull'orlo del collasso;
riemerge
alla luce il punto centrale per la comprensione razionale dell'attuale
contrapposizione tra i due paesi:
per
quanto massicciamente si possa aiutarla dall'esterno, l'Ucraina può al massimo
“pareggiare” la guerra, limitare le sue perdite, ma non potrà certo tornare a
uno status quo precedente il 24 febbraio 2022;
men
che meno a quello precedente il 2014, quando già la Crimea e parti del Donbass
erano passati sotto il controllo russo.
Ma se
questo è vero, allora si rivela nitidamente non soltanto quanto in questi mesi
la demonizzazione come “putiniani” di tutti gli osservatori che semplicemente
sottolineavano tale stato di cose da parte dell'establishment politico e
mediatico euro-americano fosse ingiusta, in malafede e puramente strumentale;
ma,
soprattutto, come la posizione ufficiale dell'amministrazione Biden, della
Nato, del G7, dell'Unione Europea sia assolutamente illogica e insostenibile, e
celi il sospetto di essere essa stessa in totale malafede.
Se,
infatti, si sostiene di non voler far guerra alla Russia ma di voler soltanto
consentire all'Ucraina di difendere la propria esistenza e sovranità da una
possibile annessione di Mosca, allora sarebbe necessario anche cominciare a
dichiarare su quali basi, a partire dalla situazione corrente sul campo, si
possano porre prima o poi le condizioni di una risoluzione del conflitto;
cioè a quali condizioni l'obiettivo di salvare
l'esistenza dell'Ucraina come paese sovrano e la maggior parte possibile del
suo territorio potrebbe considerarsi raggiunto.
Dal
momento che è impossibile, nelle condizioni attuali, ricacciare i russi al di
là dei confini ufficiali, a cosa si potrebbe rinunciare, pur di ottenere un
“pareggio” onorevole?
Cosa,
al contrario, è ritenuto assolutamente irrinunciabile?
E
invece proprio su questo punto da parte degli Stati Uniti e della Nato viene un
totale, assordante silenzio.
La
“difesa” di Kiev che si promuove rimane in una nebulosa indefinitezza, senza
alcun punto fermo da raggiungere.
Una indefinitezza in cui rimangono visibili
soltanto i roboanti proclami del governo ucraino, e che sembra fatta apposta
per giustificare una protrazione del conflitto a tempo praticamente
indeterminato, alimentando il sospetto che l'unico vero scopo degli Stati Uniti
e dei loro alleati in questa guerra sia quello di logorare e indebolire Mosca
il più possibile, anche al prezzo di ulteriori, innumerevoli lutti, e del
dissanguamento economico dell'intero vecchio continente.
Si
dirà che a tale silenzio ambiguo corrisponde, dall'altra parte della barricata,
l'altrettanto ambiguo e strumentale obiettivo dell'”operazione speciale”
lanciata un anno fa da Putin – quella “denazificazione” apparentemente fatta
apposta per eccitare i sentimenti nazional-Imperial-sciovinisti più torbidi
dell'opinione pubblica interna, e continuare nell'invasione potenzialmente fino
al rovesciamento del governo di Kiev e alla sua sostituzione con uno
Stato-fantoccio.
E si dirà, parimenti, che enunciare possibili,
circostanziate rinunce territoriali ucraine “accettabili” da parte degli
alleati dell'Ucraina significherebbe incitare Mosca a rilanciare con
rivendicazioni ulteriori più ambiziose.
Sono entrambe, queste, osservazioni
ragionevoli.
Ma
proprio per smascherare l'ambiguità russa e togliere ad essa ogni alibi per
portare avanti ad oltranza una guerra di logoramento la linea più proficua, per
le nazioni occidentali, sarebbe quella di risalire, come finora mai si è fatto,
alle radici profonde del conflitto:
alla
divisione etnico-nazionalistica strutturale interna allo Stato ucraino fin
dalla fine dell'Urss, alle rivendicazioni di autonomia e indipendenza delle
regioni filorusse, alla condizione storica e culturale assolutamente
particolare della Crimea.
Se
solo si volesse si potrebbe, a partire dalle dolorose esperienze già vissute
nella ex Jugoslavia e in altri casi simili, almeno impostare un discorso di
principio su come trovare, con il consenso delle parti e della comunità
internazionale, un assetto accettabile di convivenza tra istanze diverse e
legittime in un territorio diviso e lungamente tormentato.
Se le
cancellerie europee e quella di Washington non operano in questo senso, se non
tracciano le coordinate di possibili punti di convergenza, allora vuol dire che
esse optano soltanto per il “tanto peggio tanto meglio”.
Servendosi
cinicamente dell'Ucraina come una spina per ferire l'Orso russo, da sfruttare e
poi gettare via.
Follemente
incuranti, in aggiunta, dei rischi di ingestibili conseguenze economiche,
politiche ed esistenziali anche per i propri paesi, man mano che la ferita
incancrenisce, e le infezioni da essa derivate si diffondono.
Le
armi non portano la pace,
ma la
strage.
Lanuovabq.it
-Lettera della suora Rosalina Ravasio – (28-1-2023) – ci dice:
L’ebbrezza
di una “pace armata fino ai denti” finisce sempre nel pianto, nella
prostrazione e nella morte di intere generazioni.
Per
non schiantarsi contro l'iceberg di un conflitto destinato ad espandersi,
occorre ascoltare i "segnali di pericolo" piuttosto che le sirene del
pensiero unico.
Una
delle sfide ineluttabili al giorno d'oggi consiste nel far passare un “concetto
alternativo” alle armi considerate buone e giuste!
Mi riferisco all'attuale guerra che coinvolge
Russia e Ucraina, Europa, Nato e Usa, perché in fondo di questo si tratta!
La
nostra è una sfida controcorrente, forse una debole mano tesa alla disperata
ricerca di una vera soluzione per fermare il conflitto in corso, che ha già
portato e porterà certamente alla lacerazione violenta di intere generazioni,
nel vano tentativo – presente solo nella mente di alcuni ben noti potenti – di
creare nuovi equilibri... solo a proprio favore?
Sapete
che il Titanic era ritenuto all’epoca la nave più sicura al mondo?
La
storia racconta che "sentendo l’allarme, i passeggeri inizialmente
pensavano si trattasse di uno scherzo e coloro che avevano indossato il
salvagente venivano presi in giro... mentre l'orchestra continuava a
suonare!".
Capito?
L'orchestra
continuava a suonare! Su 2223 persone a bordo, infatti, solo 705 riuscirono a
salvarsi (alcuni morirono per ipotermia subito dopo essere stati tratti in
salvo).
Si
racconta che il 14 aprile 1912 la stazione radio di bordo del Titanic ricevette
numerose segnalazioni che riferivano la presenza di iceberg vaganti lungo la
rotta, "ma il mare si presentava tranquillo… quando avvistarono un enorme
iceberg lanciarono l’allarme”: purtroppo era troppo tardi! Capito?
Purtroppo era troppo tardi!
Certamente,
ora, non abbiamo “soluzioni magiche” a portata di mano, ma smettiamola di agire
con superficialità!
Poniamo
grande attenzione alle numerose “segnalazioni” di pericolo imminente e grave,
per evitare che una tragedia così enorme, come questa guerra che potrebbe
finire per coinvolgerci tutti, possa continuare a dilaniare corpi di bambini,
giovani e anziani!
Vogliamo
forse che tutto ciò si espanda ulteriormente, senza controllo, portandoci a sbattere
contro l'improvviso, enorme iceberg di un conflitto armato?
Così,
immersi e sperduti nel formicaio umano, dobbiamo combattere contro menti e
cuori guastati e viziati da una visione della vita che continuamente degrada e
imputridisce il “vivere” umano di molti popoli
. La
nostra umanità, scossa da tante guerre, non solo in Ucraina, pare martoriata da
un male segreto e oscuro, invisibile, dove l’odio e la vendetta, naturalmente
ben mimetizzati, avanzano assestando contraccolpi disastrosi a danno di tutta
l’umanità.
L’anno
scorso abbiamo avuto come ospiti molti ucraini: gran parte di loro era contro
la guerra!
Molti
avevano parenti, fratelli, cugini, nonni in Russia, ma ripetevano
continuamente: “non è la nostra guerra… è una guerra voluta da altri”.
Molti
di loro non vogliono separarsi dalla Russia, che non considerano estranea alle
loro radici e alla loro storia!
Mi
hanno raccontato fatti che evocavano una storia già vissuta anche dall’Italia
(vedi la vicenda degli italiani di Istria, poi abbandonati e sterminati dai
partigiani di Tito: foibe docent!).
Quando
ho chiesto loro di “dire queste cose” e di riferire queste testimonianze ad un
giornale, mi hanno detto di no, quasi spaventati, per paura di gravi
conseguenze, soprattutto sui loro familiari rimasti in Ucraina e in Russia!
Vediamo
come i contenuti omologati e monotematici proposti dalla televisione, dal
cinema, dalla radio, dai media, e nelle varie kermesse nazionali e
internazionali sono divenuti mezzi di “contagio” e diffusione del pensiero
unico!
Il
Vangelo ci dice: “Dove c’è il tuo tesoro là c’è il tuo cuore” (Mt 6,21) Oggi
dove è il “nostro cuore”?
È
stato forse sommerso da contraddizioni, testardaggini, superficialità,
prepotenze, autoritarismi imperanti, eccetera, da parte delle Istituzioni
nazionali e internazionali, e imprigionato, rinchiuso in fondo allo “scrigno”
del potere europeo e internazionale con una triplice mandata?
Purtroppo,
l’umanità è sempre vittima e mai, dico mai, beneficiaria di questo falso
“bene”, di questa “falsa solidarietà”!
Il
Male ci deruba, ci inganna, ci sottrae alla vera pace!
L’ebbrezza
di una “pace armata fino ai denti” finisce sempre nel pianto e nella
prostrazione, oltre che nella morte, di intere generazioni!
Ma
certi politici si mostrano sordi agli allarmi e il "pianoforte"
continua a suonare in un'apparente, benché evanescente ed effimera arroganza e
sicurezza, che i nostri politici ostentano nella presunzione di poter
controllare tutti i futuri eventi!
Ma
questo loro atteggiamento è solo un fittizio, obbrobrioso mantello, destinato,
pietosamente, a coprire il probabile “schianto” di tante vite contro la “punta”
dell’iceberg, cioè la parte visibile di questa guerra!
E
tutto per che cosa?
Per
“il ceppo putrido di potere” che si chiami Unione Europea, Nato, Stati Uniti,
Russia, Ucraina!
Non
lasciate la “Pace” sola come una “tenda nel deserto”… ma custoditela e
proteggetela, e soprattutto diffondetela!
Come e
perché cessare le guerre.
Avantionline.it
- Paolo Cajelli - (22 Gennaio 2024) – ci
dice:
Le
guerre finiscono in tre modi soltanto: sterminando il nemico, come gli europei
hanno fatto con i nativi del nord e sud America secoli or sono;
battendo militarmente il proprio antagonista,
e valga per tutti la vittoria sul nazifascismo nella seconda guerra mondiale;
oppure trovando un accordo che porti alla pace
o, ancor meglio, scongiuri il conflitto.
Vi
sono attualmente sul pianeta molte guerre, ma quelle tra Ucraina e Russia da un
lato e palestinesi e israeliani dall’altro, si trovano al centro della nostra
attenzione in quanto cerniera tra la comunità occidentale e altri blocchi di
potere senza dubbio concorrenti.
Ora:
quanto
credibilmente è stata coltivata la strada negoziale in questi due casi?
Esistono responsabilità dei nostri alleati ucraini e israeliani, se non della
Nato, che precedono il momento in cui, per primi, russi e palestinesi hanno
tirato il grilletto?
Negare
precise colpe dell’occidente a monte di entrambi gli spargimenti di sangue in
atto significa mentire, tanto quanto far finta che Putin sia un temerario capo
di Stato anziché un tiranno senza scrupoli o Hamas una organizzazione di
liberazione nazionale e non già una ridotta di terroristi sanguinari.
Ogni giorno di più scarseggia il tempo a
nostra disposizione per tentare di governare due situazioni troppo
pericolosamente avvitate, dove la mancanza di parole inequivoche nel
riconoscere le rispettive e ben chiare responsabilità, impedisce alla via
diplomatica – è ciò che accade – di prendere davvero la scena;
il rischio incombente è l’escalation pressoché
planetaria di entrambi i conflitti, con l’occidente contrapposto ad un fronte
sconfinato:
dall’Europa
orientale sino al Medioriente, passando per la Cina.
Se non
debbono esserci tentennamenti nel condannare – senza se e senza ma – l’attacco
feroce e vile di Hamas dello scorso 7 ottobre contro civili indifesi,
ugualmente è indispensabile riconoscere – senza se e senza ma – che Israele da
sessanta anni occupa militarmente territori non suoi, infischiandosene di
almeno quattro risoluzioni del consiglio di sicurezza dell’Onu che ammoniscono
Tel Aviv alla riconsegna ai palestinesi di ciò che appartiene loro quale
pre-condizione per coltivare credibilmente la così detta soluzione dei due
Stati, tutt’oggi unica via d’uscita possibile;
comunque
la si consideri, non può avere onore l’azione di Hamas che ha causato la morte
di migliaia di innocenti, feriti e ostaggi, ma allo stesso modo è priva di
onore la reazione di Netanyahu che togliendo acqua, luce e gas all’intera
striscia di Gaza in spregio al diritto internazionale, ha commesso precisi
crimini di guerra:
i due
estremismi si sommano.
In
egual modo liquidare l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca con le
spiegazioni d’ordinanza che imperano sulla quasi totalità della stampa
occidentale e che esauriscono ogni approfondimento alla mai sopita egemonia di
potenza russa, all’indole da guerrafondaio di Putin e via di questo passo,
significa fingere di non vedere l’accerchiamento in armi che la Nato, sin dal
crollo del U.R.S.S., ha perpetrato a carico della federazione russa attraverso
la cooptazione nella sfera di influenza atlantica di molti Paesi membri, prima
del 1989, del patto di Varsavia, dalla Polonia alle repubbliche baltiche.
Se è
ben più che comprensibile l’ansia di Stati come Lettonia o Bulgaria o della
stessa Ucraina a far parte della Nato nel convincimento di sapersi
definitivamente al riparo dal Cremlino, non può apparire meno legittima la
reazione di una ex potenza imperiale nel veder schierate lungo migliaia di
chilometri dei propri confini armi e truppe dello storico nemico:
visto
da oriente cioè è l’espansionismo geopolitico della Nato ad aver innescato la
spirale cui assistiamo sin dal 2014, quando la Russia annetté la Crimea.
I due
estremismi si sommano.
Per
avere torto non è sufficiente essere un dittatore o un terrorista; e così neppure, per aver ragione, appartenere a
ordinamenti realmente democratici: la tirannia dei mezzi sui fini infatti,
ricordando Silone, conduce inesorabilmente a vanificare i fini più nobili.
E del
resto l’indisponibilità di Putin ad accettare la Nato ai propri confini, non è
diversa da quella mostrata da Kennedy nel 1962 in occasione della crisi dei
missili a Cuba quando con ogni mezzo rifiutò di tollerare armi sovietiche alle
porte di casa: è un fatto.
Ma proprio questo episodio di un passato ormai
lontano che avvicinò il mondo quanto mai prima né dopo alla catastrofe
nucleare, ci aiuta a tenere in luce l’aspetto dirimente di cui sto scrivendo:
se
autentica, la volontà di trovare un accordo è ciò che fa la differenza tra la
vita e la morte.
Serve
infatti ricordare che la determinazione dell’Urss di Krusciov ad installare i
propri missili sull’isola di Castro, seguiva, più che al fallito tentativo di
invasione di Cuba orchestrato dalla Cia, al piazzamento di pochi anni prima dei
missili Nato in Turchia e Italia puntati contro il blocco sovietico, tanto che
ciò che permise infine di scongiurare il peggio, fu proprio l’impegno degli Usa
(reso pubblico decenni più tardi) a rimuovere i missili Jupiter dai due Paesi
mediterranei alleati in cambio dello smantellamento da Cuba dei missili
sovietici.
L’epilogo
non fu nefasto solo grazie al pragmatismo negoziale di cui allora si
incaricarono le molte persone di buona volontà al centro di quella vicenda.
E
tornando ad oggi, non è forse l’impegno della Nato ad una Ucraina neutrale la
soluzione per spegnere il conflitto in cambio dell’impegno di Mosca a non mai
promuoverne l’invasione?
Può,
al contrario, portare ad un esito diverso dalla guerra la pretesa occidentale
di fagocitare anche l’Ucraina nel patto Atlantico o in Europa?
E così
pure, è possibile stabilizzare un orizzonte di pace in Medioriente senza
approdare alla costituzione dello Stato di Palestina accanto allo Stato di
Israele secondo i confini del ’67 e quindi liberando tutti i territori occupati
dai coloni israeliani?
È
davvero pensabile che il sionismo predatorio non venga contrastato – per sempre
e sino all’ultima pallottola – da ogni arabo in lotta per la causa palestinese?
Le due
strade diplomatiche appena tratteggiate, sono oggi l’equivalente dei missili
Jupiter del 1962: strumenti per far tacere le armi.
Ma
occorrono immediatamente buona volontà e parole chiare, occorre sottrarsi al
pensiero unico dominante alimentando il senso critico di tutta la comunità
internazionale, a partire dal nostro occidente assuefatto alla logica
ingannevole fondata sul salvifico invio al fronte di armi e soldi.
Chi
possiamo aspettarci assuma un simile ruolo in controcanto? La nuova Zelanda?
L’unico attore potenzialmente munito del necessario peso specifico è
naturalmente l’Europa.
Non
può essere che l’Europa infatti a pretendere – innanzitutto dagli Usa – una
de-escalation volta a una tregua immediata dalla quale far nascere una grande
conferenza internazionale chiamata a soluzioni politiche per i decenni futuri:
si
tratta di una responsabilità storica cui il nostro continente ha senz’altro
l’interesse, se non il dovere, di prodigarsi.
L’analisi che ci compete deve farsi carico
dell’eventualità tutt’altro che remota del ritorno di Trump alla Casa Bianca e
del suo già visto isolazionismo, sino al disimpegno Usa dal fronte ucraino.
Che
faremmo a quel punto?
Senza
il supporto americano, la Russia travolgerebbe l’Ucraina e nel cuore
dell’Europa la Storia prenderebbe strade temibilmente inesplorate.
E
parimenti rifiutare la sciatta posizione ideologica che non discute il diritto
di Israele a far terra bruciata di Gaza come d’ogni altro fronte di guerra che
quotidianamente si apre laggiù, significa innanzitutto ridurre i rischi di
incolumità della popolazione ebraica, non solo in Israele, allontanando il
pericolo di incendiare la regione oltre il punto di non ritorno: essere
anti-sionisti per non essere anti-israeliani.
Probabilmente
negli Stati Uniti d’America nessun presidente riuscirebbe ad essere eletto
senza il supporto delle comunità ebraiche e con altrettanta probabilità è
illusorio attendersi che gli Usa di propria iniziativa vogliano disimpegnare la
Nato dai confini russi;
ma
proprio a questo la nostra Europa è chiamata:
pretendere
la via diplomatica in aperta dialettica con l’alleato d’oltreoceano, superando
opacità e subalternanza politica troppo spesso osservate.
E che
Dio ce la mandi buona.
(Paolo
Cajelli).
La
teoria della guerra giusta
Tra diritto
internazionale e nazionale.
Altalex.com
- Marta De Leucio -dipendente pubblico – (19/05/2024) – ci dice:
È
necessario parlare di pace e di educazione alla pace contro la convinzione che
un’azione bellica condotta in difesa dei diritti umani debba considerarsi
giusta.
Riflessioni
e bilanciamento tra la c.d. “teoria della guerra giusta” e il diritto alla
pace.
Guerra
e diritto.
La
teoria della guerra giusta.
Il
diritto alla pace in opposizione alla teoria della guerra giusta.
Diritto
costituzionale.
1.
Guerra e diritto.
Una
guerra implica la violazione del diritto alla vita di persone innocenti e,
pertanto, per sua natura è contraria al diritto.
La
Carta delle Nazioni Unite – fondamento dello ius internazionale moderno –
vieta, infatti, ogni conflitto bellico ed ammette, a titolo di eccezione, che
si possa usare lo strumento militare per respingere attacchi armati con
l’obbligo di informare immediatamente il Consiglio di Sicurezza perché metta la
situazione sotto il proprio controllo.
Analogamente,
con l’articolo 11 della Carta Costituzionale, l’Italia ripudia esplicitamente
la guerra quale «… strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come
mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…>>.
A
partire dal 1988, in numerose Leggi regionali (prima fra tutte quella del
Veneto) e, dal 1991, in diversi Statuti comunali e provinciali sono comparsi
commi volti a promuovere la pace, la cooperazione e la solidarietà
internazionale.
2. La
teoria della guerra giusta.
Negli
ultimi tempi però, nonostante questo assetto normativo, sembra essersi imposta
la convinzione che un’azione bellica condotta in difesa dei diritti umani, pur
non essendo una guerra di autodifesa, debba considerarsi giusta.
Tale
visione nasce dall’esigenza di arginare i recenti conflitti che insanguinano
l’Europa e il Medio Oriente e trova fondamento in vecchie teorie sulla “guerra
giusta”.
Nei
secoli, infatti, numerose sono state le tesi che hanno legittimato conflitti
bellici con le più svariate cause di giustificazione.
Sant’Agostino
riteneva, ad esempio, che una guerra fosse giusta se la stessa avvenisse in
difesa del debole e dell'oppresso.
San
Tommaso d'Aquino, invece, teorizzava che un conflitto fosse giustificabile se
volto a punire un'ingiustizia molto grave.
Per la
Scuola del diritto naturale e delle genti, al contrario, le guerre giuste erano
quelle difensive poiché fondate sul principio dell’autodifesa;
intesa come tutela della vita e della libertà
degli individui ma anche della proprietà privata.
La
teoria moderna, invece, richiedeva la coesistenza di tre elementi fondamentali:
la “iusta causa”, la” legitima auctoritas” e lo “iusto modo”.
Applicando
i suddetti criteri all’attuale concezione di guerra giusta come conflitto in
difesa dei diritti umani, si potrebbe affermare che sarebbe tale l’azione
bellica volta a contrastare una violazione imponente e massiccia della dignità̀
umana, condotta da un'autorità internazionale, i cui modi di attuazione siano
proporzionati al male che s'intende eliminare e non produttivi di effetti
parimenti offensivi.
Un’
utopia, considerato che la storia (basta ricordare il rilascio della bomba
atomica durante il secondo conflitto mondiale) ci insegna che l’equivalenza
valoriale tra l'offesa da combattere e il modo in cui la si combatte non è
assicurabile nel corso di un conflitto bellico.
Dall’analisi
fin qui svolta si evince, pertanto, che appaiono di certo teorizzabili guerre
giuste, le quali però non sono concretamente realizzabili in quanto una guerra
giusta - condotta in modo ingiusto - necessariamente diventerà ingiusta.
Ipotizzare,
dunque, che la difesa dei diritti umani possa essere una giusta causa, non sta
di certo a significare che la guerra è un giusto mezzo considerato che, con
essa, si violerebbero necessariamente dei diritti fondamentali per proteggerne
altri.
In
conclusione, più che una teoria vetusta che giustifichi e legittimi l’ennesima
guerra, sarebbe più opportuno porgere l’attenzione sul concetto di pace e su
come la stessa si possa concretamente ottenere.
3. Il
diritto alla pace in opposizione alla teoria della guerra giusta.
A tal
proposito, si evidenzia che la” Dichiarazione Universale dei diritti umani”,
all’ art. 28, stabilisce che “ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e
internazionale nel quale i diritti e le libertà (fondamentali) … possono essere
pienamente realizzati”.
Proclama,
pertanto, una pace “positiva”, costruttiva di un sistema di istituzioni, di
relazioni e di politiche di cooperazione.
In
tale contesto giuridico - istituzionale, agli Stati è automaticamente vietato
fare guerra.
Per
loro sussiste il dovere di costruire e preservare la pace;
disarmando
ed educando – ad esempio - al rispetto dei diritti umani; formando il personale
militare per azioni volte alla tutela della pace; rifiutando il nucleare;
destinando
fondi allo sviluppo della cooperazione internazionale; supportando le attività
di cooperazione e solidarietà internazionale, ecc.
E -
dunque – se realmente si cerca e vuole la pace – ad avviso della scrivente –
occorre parlare di pace ed educare alla pace ed è necessario che le potenze del
mondo si facciano finalmente carico di questo oneroso dovere.
Fare
la guerra per salvare l’economia
capitalistica:
l’impero Usa alla
conquista
del mondo.
Storiastoriepn.it
- Gigi Bettoli – (18 Aprile 2024) – ci dice:
(Joyce
e Gabriel Kolko, I limiti della potenza americana. Gli Stati Uniti nel mondo dal
1945 al 1954, Torino, Einaudi, 1975, pp. 905- ed. or. 1972).
Ovviamente,
a leggere i classici, bisogna contestualizzare, e poi andare a vedersi tutte le
analisi successive. È anche su questo piano che si capisce lo spessore e
conferma l’attualità di un’analisi.
Va
infatti tenuto conto che si tratta di un libro le cui conclusioni sono
inevitabilmente condizionate dal periodo in cui è stato scritto, con gli Usa
infognati nella guerra del Vietnam, che fu la loro più cocente sconfitta
storica… prima di Cuba, Afganistan, Somalia, Iraq, Siria…
E’ una
ricerca sul piano della politica e dell’economia, dove manca un’analisi della
storia culturale, quella in cui il “secolo americano” ha avuto successo, dando
vita a quel “pensiero unico” che, come in Matrix, produce una avvolgente realtà
virtuale.
Manca
soprattutto un’analisi di quel patto sociale che “Eric J. Hobsbawm” ha definito
come la base dei “trenta gloriosi” anni del secondo dopoguerra: il
consenso occidentale ad una “cortina di ferro” anticomunista in cambio del
Welfare State concesso alla socialdemocrazia europea, inesorabilmente
sfaldatosi sotto gli attacchi neoliberali dopo il 1989 e la “caduta del muro”
(oltre che la trasformazione neoliberale delle socialdemocrazie: non più i
Brandt, Kreisky e Palme, ma i Blair, D’Alema, Dijsselbloem, Stoltemberg e via
elencando).
In
questo caso, il senso di questo libro documentatissimo ed implacabile rimane
quello di leggere il dopoguerra senza credere alle favole.
Si legge “libera iniziativa, economia aperta e
democrazia liberale”, ma in filigrana significa guerra “fredda”.
(Un’avvertenza:
durante questa lettura hanno continuato a presentarmisi esempi frequenti di
comparazione tra le vicende del primo decennio postbellico, ed i tempi attuali.
Alcune le ritroverete continuando a leggere la mia recensione.)
Perché
un libro di mezzo secolo fa ci dice quello che non sentiremo mai da un Gianni
Riotta o dai “giornalisti con le bretelle”.
C’è da
infuriarsi, a sentir oggi parlare a sproposito di “piano Mattei” da parte dei
(post?) fascisti neoliberali, o di
«Luigi
Einaudi, primo Capo dello Stato eletto con le regole della Costituzione del
’48, costruttore tra i più importanti della nostra democrazia, figura di
elevato prestigio internazionale che aiutò l’Italia nel dopoguerra a
riconquistare la dignità perduta con il fascismo».
Oppure,
pochi giorni dopo:
«Riferendosi
all’Europa, nel 1954, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi ricordava
che lo spettro delle decisioni per i Paesi del continente si riduceva a
“l’esistere uniti o lo scomparire”.
L’esperienza
dell’Alleanza Atlantica ci conferma il valore di una storia che, in 75 anni,
non ha mai tradito l’impegno di garanzia a beneficio dei 32 Paesi che ne fanno
parte: uniti nella difesa della libertà e della democrazia».
Bisogna
scegliere, tra un’analisi seria o la riproposizione di narrazioni lenitive: tra
la politica monetarista e deflazionistica di Einaudi (milioni di disoccupati ed
emigranti per ripristinare i capitali della piccola e grande borghesia) oppure
quella espansiva cristiano-sociale di Mattei, realizzazione concreta della
“Carta di Camaldoli” della Dc clandestina.
Oppure
ci si può alienare a leggere la marea di testi della storiografia cosiddetta
“liberale” (alias “di regime”), per cui tutta la storia dell’Italia postbellica
sarebbe riassumibile nel come evitare la presa del potere da parte del Partito
Comunista più collaborativo e moderato d’Occidente, sostanzialmente
socialdemocratico.
O
ancora, su un altro piano, si può assistere sconcertati alla moltiplicazione
dei libri basati sullo spoglio degli archivi spionistici, fatto senza il minimo
di capacità critica necessaria, forse solo per furbesco adeguamento
conformistico alla moda pervasiva del “giallo” più banale e commerciale, quel
genere magistralmente demolita da” Giampaolo Simi” in uno dei suoi ultimi
libri; tanto il popolo è bue ed allora … diamogli pure da mangiare immondizia!
Oggi
più che mai, la storiografia ai tempi dei “social”, con l’ausilio invadente
della “intelligenza artificiale” si adegua alla propaganda, approfittando della
diffusa “dezinformatsiya” – in russo, così anche le tecniche invasive di
comunicazione possono venir annoverate tra i “crimini del comunismo”, tanto chi
si ricorda che i “Persuasori occulti” di “Vance Packard”, dedicato ai “mass
media” occidentali, era stato scritto già nel lontano 1957.
A
proposito: era di nove anni prima (estate 1948) la leggenda urbana di Bartali
che, vincendo il Tour de France, avrebbe salvato l’Italietta degasperiana dal
comunismo, manco Togliatti si fosse sparato da solo alla testa per provocare
l’insurrezione-trappola sperata/usata dal creatore della Celere, il
superpoliziotto destro democristiano “Mario Scelba”.
Tiepida,
calda, bollente, ma mai “guerra fredda”: il warfare del “dopoguerra” come
prototipo del neoliberismo contemporaneo.
«Dalla
fine della seconda guerra mondiale fino alla primavera del 1947 i dirigenti
degli Stati Uniti considerarono la creazione di una “International Trade
Organization “(Ito) come la base di una integrazione generale della economia
globale che fosse compatibile con gli interessi dell’America.
Questo
obbiettivo di un mondo permanentemente aperto al loro commercio ed ai loro
investimenti, che agisse essenzialmente attraverso economie capitalistiche, era
una chimera per raggiungere la quale gli Stati Uniti furono ripetutamente
costretti ad adottare tattiche nuove.
Se i
mezzi iniziali dovevano dimostrarsi inadeguati, e richiedere continue
improvvisazioni, il fine ultimo non doveva mai più mutare dal 1945 – o
addirittura dal 1915 – in poi.» (p. 768).
Più
avanti, nelle conclusioni (a p. 884) gli autori elencano solo alcuni tra questi
strumenti:
oltre
l’Ito, il Piano Marshall, la Nato, la Ced, la bomba A, ma non vanno dimenticati
anche il Fmi, la Banca Mondiale ed altri strumenti di dominio oligarchico, dove
si vota sulla base del capitale versato, e quindi comandano sempre quelli.
Ma
iniziamo dalla prima affermazione di questo libro:
ovverossia che non abbia senso parlare, per il
mezzo secolo postbellico, di “guerra fredda”, perché questa è una distorsione
ideologica eurocentrica:
la
guerra in realtà è continuata senza soluzione di continuità dal 1945 in poi,
insanguinando parti consistenti del pianeta.
«Dopo
la fine della guerra non ci fu alcuna pausa che permettesse alle ferite della
lunga epoca di violenza di richiudersi completamente.
Due
colossali spargimenti di sangue nel giro di trent’anni avevano inflitto a tutte
le società tradizionali un danno apparentemente irreparabile, dal momento in
cui la seconda guerra mondiale ebbe termine, in molte nazioni la guerra civile,
le insurrezioni o il loro spettro subentrarono al conflitto tra l’Asse e gli
Alleati, mentre la tensione nei rapporti tra l’Unione Sovietica e gli altri
membri di quella che era stata poco più di una temporanea alleanza di
convenienza resa necessaria dalle circostanze lasciava il posto a un’ostilità
implacabile.
Dopo la conflagrazione globale, in numerose
regioni del mondo non sopraggiunse la pace, ma una violenza ininterrotta, una
violenza che doveva intensificarsi mano a mano che si allargava
quell’inevitabile processo di trasformazione sociale e di decolonizzazione che
doveva diventare il fatto dominante dell’epoca postbellica» (p. 3).
Il
valore dell’opera dei due studiosi statunitensi , basata su documenti e memorie
pubblicate disponibili ben prima di Wikileaks, è quella di svelare i piani dei
governanti Usa, elaborati già durante la seconda guerra mondiale, per non veder
di precipitare nuovamente il loro enorme apparato produttivo, giunta finalmente
la pace, nella crisi di sovrapproduzione, deficit commerciale e disoccupazione
che lo aveva gravemente afflitto a partire dalla crisi del 1929, superata solo
parzialmente e tamponata da enormi produzioni belliche negli anni ‘40.
Una
politica che nascondeva, dietro un apparente internazionalismo – come quello
inconcludente di “Woodrow Wilson” alla fine della Prima guerra mondiale, tanto
applaudito in Europa dai democratici quanto snobbato in patria – e principi
come la “porta aperta”, il “multilateralismo” e la “libertà di iniziativa
economica”, il tentativo di riformare l’economia mondiale garantendo la massima
possibilità espansiva per i capitali e le produzioni statunitensi, sia agricole
che manifatturiere, vincolando gli aiuti economici (soprattutto i prestiti)
all’acquisto di merce “Made in Usa”.
Tutto
ciò praticando viceversa politiche restrittive, a tutela dei prezzi di vendita
dei produttori americani (molto influenti sui componenti del Congresso). Come
quando, a fronte della carestia mondiale postbellica del 1945-1947, gli USA
invece di fornire le proprie eccedenze all’UNRRA – l’ente internazionale per i
soccorsi, che essi fecero chiudere alla fine del 1946… sì, ha proprio una sigla
che ricorda l’UNRWA destinato ai profughi palestinesi – praticarono una politica
di riduzione delle colture e di utilizzo dei cereali per l’alimentazione
animale e la produzione di alcool:
«Ci
sono delle persone che dovranno morire di fame… Siamo nella stessa situazione
di una famiglia che si ritrovi con una intera cucciolata: dobbiamo decidere
quali cuccioli annegare»,
disse
il segretario all’agricoltura Clinton Anderson al Congresso nel maggio 1946 (p.
233).
Una
politica impersonata da un ceto professionale costituito (allora come oggi)
prevalentemente da imprenditori e rappresentanti di interessi economici,
direttamente impegnati nei posti chiavi delle amministrazioni Truman
(democratica) ed Eisenhower (repubblicana).
Accompagnando
questa politica con iniziative politico-militari che avrebbero accompagnato
l’invasiva presenza statunitense in ogni parte del pianeta.
Ma «La quasi continua crisi della strategia
seguita dall’America dopo la seconda guerra mondiale, col suo tormentato e
inane sforzo di sostituire la potenza delle macchine al richiamo dell’ideologia
rivoluzionaria, doveva alla fine concludersi nel disastro.» (p. 591).
«Il
dibattito sul disarmo rivelò almeno una cosa, e cioè che gli Stati Uniti erano
divenuti totalmente dipendenti dalle loro armi per proteggere e perseguire i
loro enormi interessi globali.
Ironicamente
[…] i dirigenti americani si preparavano per una guerra che non si attendevano
di dover mai combattere, solo per scoprire che la loro forza era insufficiente
quando veniva messa alla prova in circostanze che virtualmente nessun
importante dirigente americano aveva previsto.
Il fatto è che nel corso di questo secolo
nessuna nazione ha mai avuto la capacità di controllare il destino di qualcosa
di più grande di una frazione minima della superficie del globo, e fu per non
avere imparato questa lezione dalle sconfitte dei loro predecessori che gli
Stati Uniti dovevano in definitiva aprire la via alla loro stessa profonda
crisi interna.» (p. 591).
Sembrano
giudizi avventati – ricordiamolo:
formulati nel 1970 – se pensiamo all’enorme
potenza statunitense. Ma
ricordiamoci della tragedia degli afgani appesi agli aerei americani a Kabul
nel 2021, tale e quale a quella dei loro collaboratori vietnamiti nella Saigon
del 1975. Perché, pronosticavano Joyce e Gabriel Kolko, «finché ci sarà
oppressione, ed esisterà lo sfruttamento, ci saranno resistenza, violenza e
conflitto.» (p. 888).
Nè
con gli Usa, né con l’Urss.
Una
premessa:
i due autori basavano la loro analisi di
classe su un’idea molto critica del sistema sovietico, e continuamente
avvertono di come gli interessi di stato dell’Urss si sovrapponessero
negativamente a quelli delle classi lavoratrici mondiali, che a partire dalla
resistenza antifascista avevano espresso una grande combattività, trasformata
già durante la lotta clandestina in organismi di governo popolare.
Questi
furono le prime vittime dei “liberatori” di ogni colore (ma in particolare
angloamericani, che li ritenevano una semplice espressione delle “manovre
sovietiche”).
Ci
furono almeno due eccezioni, dove i “comunisti nazionali” presero il destino
nelle loro mani e, non uniformandosi alla politica dei “fronti nazionali” con i
partiti borghesi sostenuta da Mosca, procedettero verso la via rivoluzionaria.
Si trattò della Jugoslavia e della Cina; i
primi grazie alla base di massa conquistata nel movimento resistenziale, i
secondi reagendo alla politica corrotta e militarista del regime del
Kuomintang, appoggiato dagli Usa, e vincendo la guerra civile nel 1945-1949 e
poi quella di Corea nel 1950-1953.
Alla
critica del comunismo sovietico si accompagna quella verso il parlamentarismo
dei Pc ufficiali, sia per il loro moderatismo (Francia e Italia) che per lo
scarso realismo in situazioni di estrema repressione, come in Grecia ed in
Giappone, che porterà alla scissione di quei partiti.
Gli autori – che scrivono negli anni in cui
era forte il comunismo maoista – ritengono inconcludenti e non rispondenti alle
esigenze dei movimenti popolari le moderate strategie dei Pc
“socialdemocratici”.
Il
loro giudizio è inappellabile quando concludono l’analisi del cosiddetto “colpo
di stato” comunista in Cecoslovacchia – in realtà secondo loro l’esito di uno
sgangherato tentativo dei partiti moderati di provocare lo scioglimento del
governo “Gottwald”, rimasto in carica grazie alla maggioranza dei ministri
comunisti (che avevano “solo” il 45% dei voti) e socialdemocratici – e
sintetizzano così la sovietizzazione dei paesi dell’Europa orientale:
«Alle
pressioni politiche sovietiche e alle divisioni interne, si aggiunsero i molto
concreti problemi sollevati direttamente dalla trasformazione di paesi agricoli
in paesi industriali, dalle crescenti restrizioni commerciali imposte dagli
Stati Uniti, e dalla scarsità di materie prime essenziali, che costringeva gli
europei orientali a basarsi sulle loro sole limitate risorse.
A tutto questo si aggiunse la crescente
ostilità degli Stati Uniti in un momento in cui i loro uomini politici
utilizzavano l’Europa orientale, come utilizzarono la Cina, per guadagnare
terreno politico all’interno.
Gli attacchi verbali si trasformarono alla
fine, nel 1952, in richieste di “liberazione” e di “spingere indietro” il
comunismo [“rollback”] che in realtà non erano niente altro che ciniche
fantasie ma che contribuirono anche a creare tensioni irrazionali in entrambe
le zone.
«Questo
diede inoltre ad elementi conservatori dell’Europa orientale la speranza di
poter ottenere, se essi avessero resistito, l’aiuto americano, nonostante nei
fatti non ci sia mai stata alcuna possibilità di un aiuto del genere.
Alla
fine, l’ipocrisia avvolse le giustificazioni di entrambi i sistemi, ognuno dei
quali cercò di giustificare i propri abusi parlando dei crimini dell’altro.»
(pp. 495-496).
Il
frutto di questa politica furono le rivolte operaie, a partire da quella di
Berlino del 1953, e la loro repressione da parte sovietica.
Alla
conquista del mondo.
«Non
sono molti in questo paese coloro i quali accettano la tesi comunista che la
politica americana abbia come obbiettivo deliberato e cosciente quello di
rovinare la Gran Bretagna […].
E se
ogni volta che viene concesso un aiuto vengono poste delle condizioni che
impediscono alla Gran Bretagna di sottrarsi alla necessità di tornare a
chiedere altri aiuti, ottenuti al prezzo di ulteriori umiliazioni e su basi
ancora più dure, allora il risultato sarà certamente quello predetto dai
comunisti…».
Il
progetto statunitense prevedeva la ristrutturazione dell’economia mondiale, con
un’impostazione rigorosamente capitalistica, ed una finalità imperialistica
precisa.
Se gli
USA non volevano ricadere in una crisi economica devastante, bisognava
finanziare l’esportazione dei loro prodotti nel mondo, creando un nuovo tipo di
commercio atlantico triangolare – come quello degli schiavi del XVI-XIX secolo,
che costruì la ricchezza europea e nordamericana – attraverso l’acquisizione a
basso costo di materie prime nel Terzo Mondo coloniale, pagate in dollari che
avrebbero poi finanziato le importazioni dei prodotti Usa nelle metropoli
coloniali europee, attraverso acquisti vincolati da finanziamenti come il Piano
Marshall.
Un
meccanismo pervasivo, che trovava però il suo limite nello scarso impegno del
capitalismo privato statunitense, e dovette essere sostenuto soprattutto dal
bilancio pubblico.
In
cambio, al fine della ristrutturazione dell’economia mondiale, tutti i paesi
coinvolti dovevano darsi politiche rigorosamente monetariste e
deflazionistiche, tagliare la spesa pubblica, diminuire la loro base
occupazionale e destinare i surplus di manodopera all’emigrazione.
In sintesi: keynesiani a casa loro, liberisti
altrove.
Si
tratta di un ragionamento controintuitivo, ma la realtà è che la politica
americana aveva inizialmente ben altri obiettivi primari che l’Unione
Sovietica, e puntava non tanto alla contrapposizione solo con il comunismo, ma
con qualsiasi forma di socialismo o nazionalismo (come quello francese, in
particolare gollista), in primo luogo i laburisti inglesi andati al governo nel
1945.
A questo proposito, il nemico non era solo il “Piano
Beveridge “con la creazione del sistema sanitario nazionale e di un esteso “Welfare
State”, ma qualsiasi forma di nazionalizzazione delle imprese e di nazionalismo
economico, obiettivi questi che erano perseguiti anche da settori
cristiano-sociali, come nel caso dell’”ENI di “Enrico Mattei” e dei suoi
ispiratori “Alberto Basevi” e “Pasquale Saraceno”.
Impegnati
a sostituire il vecchio impero britannico, esauritosi nella Seconda guerra
mondiale, gli Usa avevano bisogno di un mercato comune europeo omogeneo,
eliminando i rapporti bilaterali, in cui ogni paese poteva porre barriere
protettive a tutela delle proprie economie (barriere che invece, a casa loro,
gli statunitensi elevavano, soprattutto a difesa delle loro esportazioni
agricole).
Un
progetto, questo, che si scontrò con ostacoli che gli Usa non riuscirono a
dominare (la tendenza dei propri capitalisti ad incassare a breve, senza
investire a lungo termine), oppure che manco concepirono, come il dispiegarsi
di un movimento operaio e di una sinistra, vivaci e tutt’altro che subordinati
alle manovre sovietiche.
Così come era una forzatura interpretare come
“complotti comunisti” i movimenti di liberazione – talvolta di sinistra,
talaltra nazionalisti – dei paesi del Terzo Mondo, che furono il vero fatto
nuovo del dopoguerra.
Infine,
gli Usa commisero un errore spettacolare:
concentrando
la loro attività soprattutto sull’Europa e su un supposto pericolo di invasione
sovietica, non si accorsero che ormai il centro delle vicende internazionali si
stava spostando nell’Asia orientale, dove la loro strategia era destinata a
fallire, con le sconfitte successive in Cina, Corea e Vietnam.
Furono
questi i limiti della politica americana, cui i governi Truman e Eisenhower
replicarono con la via d’uscita del “warfare”, quella guerra permanente in
appoggio alla conservazione internazionale che è stata il vero “filo nero”
della politica statunitense di questi ottant’anni.
Il che portò gli USA ad appoggiare governi
corrotti e reazionari contro i movimenti popolari, come in Grecia ed in Corea;
oppure a neutralizzare le epurazioni e
riutilizzare gli esponenti dei regimi fascisti nella ricostruzione, in primo
luogo in Italia, Germania e Giappone;
oppure ancora a scatenare attività golpiste
contro ogni governo progressista anche moderato (come quello di Arbenz in
Guatemale nel 1954).
Una
scelta valida per mobilitare la propria opinione pubblica e superare le dure
resistenze di un Congresso USA ostile ad ogni politica “internazionalistica” e
dominato – allora come oggi – dagli interessi egoistici delle lobbies locali .
Viceversa,
l’URSS nel biennio postbellico aveva realizzato una politica pragmatica, basata
sulle due esigenze strategiche di trarre le maggiori risorse in termini di
danni di guerra da parte dei paesi ex nemici (Romania, Bulgaria, Ungheria e
Germania) e di vincoli di sicurezza, viste le due invasioni già subite dai
tedeschi nel corso del secolo.
Un
tipo di timore condiviso anche ad ovest, soprattutto in Francia.
La
costruzione della “cortina di ferro”, che spaccò l’Europa per quarant’anni,
viene quindi attribuita dai due autori non tanto alla politica sovietica, volta
ad una rapida ricostruzione ed industrializzazione dei paesi dell’Europa
orientale – mantenendo regimi di coalizione fino a che non si spaccò l’alleanza
tra le potenze antifasciste – quanto alla scelta americana di isolare l’Europa
orientale, che non si piegava alla loro politica, e costruire un sistema
centralizzato che coordinasse le economiche occidentali.
L’Europa
prevista dai piani statunitensi non era quindi l’Europa autonoma e socialista
del “Manifesto di Ventotene”, ma un interlocutore subalterno del nuovo impero
americano.
Dove
andava ostacolata ogni forma di socialismo:
la Spd tedesca terzaforzista, il Labour
britannico, l’unificazione socialcomunista della Sed nella zona di occupazione
sovietica della Germania che, grazie alla prevalenza della componente
socialdemocratica, avrebbe garantito, insieme con la maggioranza dei Länder
occidentali in mano alla Spd, un governo di sinistra al paese riunificato.
In
effetti per mezzo secolo l’URSS proporrà una riunificazione e neutralizzazione
della Germania, ostacolata dalla volontà statunitense di usarne la parte
occidentale come laboratorio delle sue politiche economiche.
Inutilmente:
le peggiori minacce per i governi Usa erano sempre le proposte di pace
sovietiche (e cinesi in Asia).
Il
fallimento del Piano Marhall
Se
l’opinione comune e la stessa storiografia l’hanno interpretato come un
generoso intervento statunitense per riattivare l’economia europea, migliorare
le condizioni di vita della popolazione stremata dal conflitto e combattere il
pericolo comunista, gli autori ricordano come, fin dalla Prima guerra mondiale,
gli aiuti Usa fossero concepiti essenzialmente come volti a remunerare i
produttori statunitensi per i prodotti forniti e rimborsare il capitale
prestato.
Il
piano statunitense, in realtà, sviluppò dal 1948 al 1952 una politica di
prestiti condizionati, che permise agli USA di entrare nelle politiche
economiche e fiscali dei singoli paesi (Germania occidentale, Italia, Belgio e
Francia innanzitutto), limitando la spesa sociale, comprimendo i salari operai
e favorendo l’incremento degli utili delle borghesie, aumentando le
diseguaglianze sociali attraverso una politica monetarista e deflazionistica.
Nel
caso italiano, con l’aggiunta del consiglio USA di procedere a far sfogare la
crescente disoccupazione tramite emigrazione, favorendo l’adozione di un
mercato libero della manodopera a livello europeo occidentale.
Queste
politiche accompagnarono la coesione delle borghesie nazionali, favorirono lo
spostamento a destra in politica e permisero il recupero dei quadri e
personalità che si erano compromessi con i regimi fascisti e nazisti, mentre
dure politiche repressive venivano esercitate contro le proteste popolari e gli
ex partigiani.
Gli
aiuti furono subordinati alle esigenze manifatturiere ed agricole americane,
tanto da modificare significativamente le richieste dei paesi europei, e
condizionarli sia attraverso modalità e sistemi di trasporto (imponendo i più
costosi noli marittimi statunitensi), che quanto a forniture di attrezzature e
perfino di prodotti alimentari.
Quello
che contava erano innanzitutto gli interessi del capitalismo statunitense, e
solo in secondo luogo i bisogni dei “beneficiati”.
Come dimostrò il caso del petrolio, in tal
modo gli USA limitarono la capacità di approvvigionamento autonomo dell’Europa,
bloccarono o controllarono la ridotta costruzione di raffinerie nel vecchio
continente e lucrarono sull’aumento artificioso dei prezzi del prodotto
americano fornito.
Tutto
ciò ricorda incredibilmente la “guerra del gas” con cui la Nato ha rapidamente
riconvertito l’approvvigionamento energetico europeo dopo (o prima del?) lo
scoppio della guerra in Ucraina.
I cui
episodi salienti potrebbero essere fissati non nel 2022, e nemmeno nel 2014, ma
nel blocco dell’avvio del gasdotto North Stream II e poi nella distruzione del
North Stream I.
Altro che “piano Mattei”:
l’imprenditore democristiano di sinistra fece
esattamente il contrario, aprendo ai paesi liberati del Terzo Mondo e trattando
con l’URSS per ribassare i prezzi e combattere i monopoli angloamericani
petroliferi (le “Sette sorelle”).
Come
scrisse nel 1951” Paul Gray Hoffman”, il capitalista posto da Truman a capo
dell’ Eca 10 :
«[…]
gli altri paesi non potevano permettersi di continuare a comprare da noi a meno
che noi non dessimo loro il denaro.
Ed è
stato esattamente questo, naturalmente, che noi abbiamo fatto con una dozzina
di piani per prestiti e stanziamenti, a partire dalla prima guerra mondiale
fino alla nostra “Eca” di oggigiorno.
Negli
ultimi 35 anni l’aiuto americano all’Europa occidentale ha raggiunto un valore
di 22 miliardi di dollari, escluse le spese dirette di guerra.
Questo
era… un modo per sovvenzionare le nostre esportazioni, perché praticamente
tutto il denaro americano che andava all’estero… ritornava sempre per
acquistare prodotti americani.» (p. 554).
La
filosofia dell’amministrazione Truman era stata cinicamente riassunta nel 1949
dal banchiere “Joseph M. Dodge”, incaricato dagli Usa di supervisionare le
(contro)riforme economiche in Germania occidentale ed in Giappone:
«[…]
un aumento della disoccupazione porterà ad un aumento dell’efficienza del
lavoro e ad una maggiore produzione […]
Una
politica deflazionistica mira a portare la domanda generale […] a un livello un
po’ inferiore all’insieme dell’offerta […]
Non c’è da avere paura della disoccupazione di
massa […] qual è il costo complessivo dei servizi sanitari, del benessere
sociale e dell’istruzione? […] Preparare il paese a lottare duramente per i
mercati d’esportazione […] I radicali […] non ce la faranno mai in una società
libera […] Le azioni necessarie per rimettere le cose in sesto sono sempre
spiacevoli […]» (p. 647).
La
politica “internazionalistica” dell’amministrazione Truman trovava però un
ostacolo sul piano interno, cioè nell’interesse egoistico dei gruppi
industriali o dei produttori agricoli di ottenere guadagni a breve termine,
grazie a provvedimenti protezionistici.
I loro
rappresentanti parlamentari furono quindi oggetto della campagna di Truman del
1950 per rifinanziare l”’ERP” (il Piano Marshall) con la scusa del riarmo.
Non
sembra stranamente lo scontro tra l’ “internazionalismo” di Joe Biden e
l’isolazionismo trumpiano?
A
questo proposito, giova notare che, secondo gli autori, la differenza tra la
“caccia alle streghe” maccarthista e l’anticomunismo di Truman era che, invece
di spendere per l’espansione internazionale, si risparmiava perseguitando il
nemico in casa; i
n
concreto, comunque, la prevalenza della tendenza democratica si dimostrò molto
più pericolosa per i suoi effetti bellici.
Ed il
coordinamento tra NATO ed OECE
proclamato nel 1950, non ricorda quello attuale tra NATO ed UE,
accompagnato da quel sistema oligarchico di governo del Pianeta
(USA-UE-Canada-Giappone, cioè il G7) che ha sostituito dalla fine del 20°
secolo il governo tendenzialmente democratico dell’ONU?
Finché
c’è guerra c’è speranza.
«L’amministrazione
Eisenhower […] non accantonò mai un giudizio ideologico e ingannevole sulla
natura della crisi mondiale, che concepiva la storia come una cospirazione di
ciniche e quasi magiche élites di agitatori che alimentavano le fiamme del
malcontento, del nazionalismo e del laicismo, ignorando completamente le radici
strutturali della crisi mondiale postbellica. […]
Essenzialmente,
si trattava di una interpretazione utilitaristica, nella quale uomini come
[John Foster] Dulles credevano davvero, ma non al punto da permettere che essa
impedisse una chiara percezione dei fatti e dell’esigenza di mantenere un senso
di pericolo anche quando essi sapevano che non ne esisteva alcuni. […]
Questa
concezione, di conseguenza, richiedeva anche che venissero cinicamente
attribuiti alla Russia piani aggressivi che superavano addirittura qualsiasi
possibilità di spiegare i fatti in base a deduzioni di carattere ideologico.
Nei
primi anni dell’amministrazione Eisenhower, Dulles esagerò grandemente il
pericolo di guerra, che in realtà, in privato, egli ammetteva fosse molto meno
probabile.
Coltivare
la paura e i timori divenne così, deliberatamente, un’arma da usare a fini
organizzativi.» (p. 875).
Ma
l’anticomunismo aveva anche un altro valore, innanzitutto rispetto ad
un’opinione pubblica statunitense stanca e disinteressata nel dopoguerra alla
politica estera, ed al Congresso eletto nel 1947, dominato dai repubblicani.
Un
quadro complessivamente isolazionista, riunificabile solo grazie ad una
passione forte, che coinvolgesse almeno una parte dei repubblicani (quelli
della costa orientale, più legati al capitale finanziario e non condizionati
dagli agricoltori del Midwest) nella politica internazionale interventista
dell’amministrazione Truman, che permetteva nuove ampie spese sul piano
economico-militare, anche se
«non
c’era alcuna minaccia di una imminente presa del potere da parte dei comunisti
in qualche nazione ritenuta essenziale agli interessi statunitensi, non c’era
alcun minaccioso sviluppo militare da parte della Russia, né una improvvisa
alterazione del rapporto di forze in una regione di importanza vitale.
Fondamentalmente,
l’obiettivo degli Stati Uniti era quello di trovare gli strumenti più
appropriati per realizzare i loro obbiettivi permanenti nel mondo» (p. 415).
Oltre
alla «preoccupazione egualmente grave di Washington per un’altra sfida alla
prosperità americana:
quella
di un capitalismo europeo occidentale autonomo» (p. 417).
Mentre
l’Urss non desiderava principalmente altro che perseguire la propria
ricostruzione, dopo le tragiche distruzioni della guerra hitleriana, ed il
quasi raggiungimento dei propositi di sterminio nazisti (i quasi 27 milioni di
morti sovietici fanno impallidire la stessa Shoah ebraica).
A
questo proposito, la scelta americana di tagliare “generosamente” i danni di
guerra dei paesi aggressori – in primis Germania, Giappone e Italia – verso
l’Unione Sovietica, unita al blocco dei prestiti ed al tentativo di espandere a
favore della propria economia i rapporti con i paesi dell’Europa orientale,
costituirono una vera e propria aggressione, che portò alla guerra “fredda”,
mascherata da motivazioni ideologiche.
Anche
qui il paragone è facile, “mutatis mutandis”:
al
posto di una dittatura comunista socializzatrice a partito unico, una
simil-dittatura di destra espressione dei “nuovi ricchi”, un capitalismo
nazionale alimentato dalla spartizione del patrimonio pubblico ex sovietico,
serve alla propaganda di guerra odierna, che ci propina ogni giorno, a reti
“informative” unificate, la farsa di una volontà di conquista del mondo, quando
la massimo si tratta della “solita”, ma ben diversamente gestibile, politica di
potenza.
Tutto
ciò, perché la Germania occidentale, dopo l’unificazione tra le zone di
occupazione americana e britannica, doveva diventare – unica area europea la
cui economia era direttamente gestita dagli occupanti statunitensi – l’area di
sperimentazione delle politiche Usa in Europa occidentale – grazie alla
creazione di quella che diventerà per vari passaggi intermedi la Cee-Ue.
Similmente,
sul Pacifico, accadeva per il Giappone.
A tal
proposito gli Stati Uniti (come stavano facendo in Corea, con la creazione
dello stato separato del Sud) preferirono spezzare in due la Germania, per
bloccare la strada ad una direzione di sinistra, a guida socialdemocratica, di
uno stato unito e tendenzialmente terzaforzista, e magari perfino alleato
dell’URSS (ricordano qualcosa i gasdotti russo-tedeschi North Stream 1 e 2 e la
funzione di amministratore di Gazprom dell’ex cancelliere socialdemocratico
Gerhard Schröder…?).
La
necessità di superare la contraddizione tra “internazionalismo” democratico e
necessità di ampliare la spesa pubblica statunitense per finanziare i propri
progetti – da un lato – e chiusura egoistica dell’ala repubblicana espressione
degli interessi locali, soprattutto degli agricoltori, ebbe come unica
possibilità la mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso l’anticomunismo
e la militarizzazione.
Lo
sbocco fu non in Europa (obiettivo per il quale si attuava la mobilitazione) ma
nell’Estremo oriente, con la guerra di Corea.
È
interessante lo spazio attribuito nel libro all’Asia.
Non solo il Medio oriente mediterraneo, dove –
in Grecia ed in Iran, innanzitutto – gli Usa prendono il posto del declinante
imperialismo britannico, che lascia loro spazio nello sfruttamento delle
risorse petrolifere;
ma in
particolare la costa pacifica (Cina, Corea e Giappone).
Ove
risulta evidente come i “liberatori” si comportassero da nuovi colonizzatori,
alleati dei loro predecessori – i giapponesi – o dei collaborazionisti o
reazionari di turno.
La
guerra di Corea risolse vari problemi su cui la diplomazia Usa ed i suoi
corrispondenti europei – come il “Piano Schuman” che portò alla creazione della
“CECA” (Commissione Europea per il Carbone e l’Acciaio), ufficialmente
“europeista” ma in realtà suggerito dall’ECA – avevano lavorato, eliminando le
giacenze sia nel settore siderurgico che in quello petrolifero, dove si erano
create anche tensioni tra le multinazionali USA e quelle anglo-olandesi,
rischiando di spaccare il fronte delle “Sette sorelle”.
«[…]
questi erano stati anche gli anni che avevano sottolineato come la pace fosse
pericolosa per il capitalismo mondiale, oltre al fatto che mezzi strettamente
economici, nel quadro di alternative capitalistiche, non erano sufficienti ad
impedire che la grande capacità produttiva degli Stati Uniti e dell’Europa
occidentale affondasse nella stagnazione, se non nella depressione.» (p. 587).
Una
serie di domande suscitate dalla comparazione storica.
La
comparazione è sempre esercizio da utilizzare con cautela.
Ma mai come in questo caso viene naturale
porci una serie di domande, a proposito di una permanenza di meccanismi che
ispirano le iniziative del pur declinante impero statunitense e delle
contraddizioni che esso continua a provocare o a non riuscire a risolvere.
È
impressionante assistere a fenomeni che sembrano quelli odierni.
Ad esempio una corrotta classe dirigente greca
che galleggia con la sua ricchezza speculativa, basata sul prelievo dei crediti
finanziari delle grandi potenze, mentre riduce all’estrema povertà la
popolazione;
oppure
il vassallaggio imposto ai paesi dell’Europa orientale in cambio del controllo
delle loro economie da parte tedesca e statunitense.
E’ il 1946 oppure stiamo osservando le vicende
di questo inizio del Ventunesimo secolo?
E che
dire dell’ambasciatore americano che dichiarava che:
«Se i
russi avessero allargato la loro influenza sull’Iran, […] ciò avrebbe posto
termine a qualsiasi possibilità di avere concessioni petrolifere americane
nell’Iran, e creato una minaccia potenziale alle nostre immensamente ricche
concessioni dell’Arabia Saudita, Bahrein e Kuwait» (pp. 294-295).
È una
dichiarazione del 1945, ma potrebbe essere stata pronunciata nel 1979, ai tempi
della rivoluzione contro lo Scià, oppure anche oggi.
E che
dire del capo di stato maggiore statunitense “George Marshall” che, prima di
diventare il segretario di stato di Truman e dare il suo nome al piano per
“aiutare” l’Europa, cercava senza esito nel 1946 di far dialogare i comunisti
cinesi con il Kuomintang, mentre forniva aiuti militari in truppe, logistica ed
armamenti a questi ultimi?
Non
sembra esattamente la politica dei democratici statunitensi di Joe Biden, che
ruggiscono sui media verso il governo israeliano, mentre lo armano e sostengono
economicamente?
Continuando
con le comparazioni, che dire, oltre che dei non credibili politici democratici
Usa (cui si contrappongono politici repubblicani non meno cinici e
guerrafondai), della similitudine tra spregiudicata crudeltà militarista e
corruzione sul piano interno di un “Chiang Kai-schek” e di un “Benjamin
Netanyahu”?
Sembra proprio di poter costruire visivamente
delle tipologie antropologiche di ricorrenti figure politiche universali, finti
esponenti di borghesie “compradore” che, lasciate a sé stesse dalle potenze
imperiali, non potrebbero resistere a lungo.
Ciò
vale anche per i “padroni del mondo”, insoddisfatti per il carattere e le mosse
indifendibili dei loro turbolenti (in)fedeli vassalli, alla continua ricerca di
un “centro” o di una “destra pulita” – non è solo un fenomeno italiano! –
neanche la realtà non rendesse evidente che mafie, corruzioni, fascismi,
truculenze, non sono “deviazioni” dal retto corso della Storia, ma ne sono
protagonismi irrinunciabili: o li batti, o prevalgono loro, con il loro lascito
di sangue.
Aggiungiamo
un accenno alle politiche di una sinistra realista e di fatto riformista, una
volta preso atto della moderazione del primo dopoguerra, cui abbiamo accennato.
Come
possiamo ad esempio giudicare la parabola di un movimento più simile alla
“nuova sinistra” come “Siryza” in Grecia che, partito su posizioni di rottura
con il sistema neoliberale, ha finito per ripercorrere le tracce note della
gestione dell’austerità, senza poter agire sul piano strutturale, per mancanza
di riferimenti ed aiuti internazionali (di chi? Del governo tedesco impegnato a
tutelare i propri investimenti? Di governanti europei e nazionali fanaticamente
liberisti e tutori del Capitale, come i Draghi e i Renzi?);
limitandosi infine a cercare di ridurre le
ineguaglianze più estreme nel contesto di una politica di sacrifici, facendo il
“lavoro sporco” per quella borghesia importatrice e speculativa, che poi si è
riappropriata anche del potere politico che aveva abbandonato nel culmine della
crisi?
Le
comparazioni odierne sono facili, basta sostituire la nota “isteria
anticomunista” che ha guidato il “secolo americano”, con l’attuale “i.
russofobica” oppure “sinofobia”, oppure “islamofobia”.
I
termini si sovrappongono facilmente – es. degli anni ‘10 e ‘20 del secolo
scorso: l’americanissima “red scare”, accompagnata da estesa xenofobia e dalla
chiusura delle frontiere all’immigrazione – e permettono, attraverso la paura
di fantasmi creati ad arte, di mantenere l’umanità sul ciglio del precipizio,
oltre il quale si profila l’olocausto atomico.
Ancora
oggi, evidentemente, sono valide sia la “dottrina Truman” ed il “containment”
di George Kennan, che quel “rollback” che gli Stati Uniti hanno sperimentato
inutilmente contro vari paesi, da ultimo Afganistan ed Iraq.
Con quali costi umani, si cerca di
nasconderlo.
E che
dire infine, quanto alle similitudini che ci suggeriscono, della guerra di
Corea del 1950-1953, con da un lato il generale “Mac Arthur”, novello” Kurz”, a
voler scatenare per le sue ambizioni presidenziali la guerra globale, anche
atomica, per la riconquista della Cina in alleanza con i corrotti dittatori
destrorsi (il sudcoreano Syngman Rhee e quello cinese Chiang Kai-schek,
rifugiatosi a Formosa/Taiwan dopo averne massacrata la popolazione aborigena)
e, dall’altro, l’amministrazione Truman che invece giocava la Corea
prevalentemente come un pretesto per il riarmo in Europa?
Che
poi, dopo un semestre di veloci offensive, si trascinarono per due lunghi anni
e mezzo in una “guerra d’attrito” sul confine armistiziale del 1945 (quello
odierno, d’altronde), a dispetto dei tentativi di dialogo diplomatico da parte
cinese, indiana e sovietica.
Trattative
che avrebbero solo neutralizzato il grande mercato del riarmo. Ricorda qualcuno
oggi, forse?
Sicuramente
i milioni di morti costati ad ogni tappa della storia, quella qui raccontata e
quella di tutti i giorni, non sembra interessino poi molto a nessuno.
Nel
paese che vuole Giorgia Meloni
non è più garantito il diritto al dissenso:
una pericolosa deriva antidemocratica.
Strisciarossa.it – (18 Aprile 2024) - Ella
Baffoni – ci dice:
Per
fortuna ci sono le immagini a documentare che i manifestanti alla Sapienza di
Roma, caricati a freddo dalla polizia, arrestati e accusati di violenze, erano
ragazzi disarmati e neanche aggressivi.
Per
fortuna ci sono le immagini, che rendono indecorosa la canea che si è sollevata
su questa vicenda.
A
cominciare dalla premier Meloni:
“Piena condanna per le violenze da parte dei
collettivi a Roma. Devastazioni, aggressioni, scontri, assalti a un Rettorato e
a un Commissariato, con un dirigente preso a pugni. Questo non è manifestare,
ma delinquere”.
Gli
studenti contestavano al Consiglio universitario l’accordo con le università
israeliane per la ricerca anche in campo militare.
Accordo che è stato approvato senza concedere
alcuna interlocuzione agli studenti.
Il
rettore Polimeni ha anche sospeso l’esecuzione del “Concerto per la pace”,
previsto la sera, il Requiem “Stringeremo nel pugno una cometa”, nonostante il
sold out e la collaborazione dell’accademia di Santa Cecilia e dell’orchestra
sinfonica dei conservatori italiani, musicisti venuti da tutt’Italia rimandati
a casa senza un perché insieme al pubblico.
Senza
nemmeno un sospetto di pericolo.
Non sarà che la polizia non è in grado di
gestire l’ordine pubblico?
Tutti
i “delinquenti” identificati da Piantedosi.
Il
governo condanna “i delinquenti” ancor prima dell’intervento della
magistratura, prima udienza il 22 maggio.
Quel che è chiaro che per chi dissente – che
abbia torto o ragione – all’università (e anche altrove, per la verità) non c’è
spazio.
I giovani non hanno diritto di sbagliare, né
di pensare. Il cambiamento climatico? Leggende.
Le norme liberticide? Visionari.
I giovani non hanno agibilità di spazio, siamo
un paese di vecchi, e stiamo diventando un paese di vecchi reazionari.
Già archiviate le parole del Presidente della
repubblica, Mattarella, che ricordava che i manganelli sui ragazzi sono sempre
un fallimento.
Chi
l’ha ascoltato?
Delinquenti.
Quando
negli anni ’70 si manifestava in sostegno al Vietnam – e dunque contro gli
Stati Uniti – si era delinquenti?
Quando gli studenti scendevano in piazza a
fianco degli operai della Fiat (e dunque contro gli Agnelli) erano delinquenti?
E le
grandi manifestazioni delle donne, tutte delinquenti anche loro?
Abbiamo
dimenticato Antigone, che disubbidiva alla legge scritta per ubbidire
all’umanità e alla giustizia vera.
Non
sempre è giusto accodarsi e dire sì:
quando
gli italiani l’hanno fatto, sotto il fascismo, non ne è venuto niente di buono.
Quando hanno detto di no, è nata la
Resistenza, e di lì la nostra Costituzione. Grazie alla lotta partigiana
abbiamo potuto sedere a pieno titolo negli incontri internazionali del
dopoguerra.
Ricordiamolo
tutti i giorni, non solo il 25 aprile.
È vero
che viviamo in uno strano periodo in cui ci si riempie la bocca di elogi al
merito ma poi si nominano nei posti di comando cognati e familiari.
Ma la scuola, l’università, sono sempre stati
luoghi in cui il pensiero critico, il dissenso, sono stati più che tollerati,
perfino stimolati.
Non è
questione di torto o ragione, ma di discutere insieme, saper cogliere le
ragioni dell’altro, cercare una composizione.
O sancire il disaccordo, senza però tacciare
l’avversario di “delinquente”.
Cos’è la democrazia, cosa la libertà, se un
pensiero divergente da quello delle classi dirigenti ti trasforma in
“delinquente”?
Qualcosa
sta cambiando, come ha mostrato anche il precedente di Pisa.
Qualcosa
sta cambiando nella scuola e nell’informazione.
Qualcosa
sta cambiando, non solo nelle università.
Anche
nel mondo della scuola: ecco il disegno di legge firmato dal ministro Valditara
che rende il voto in condotta dominante sul rendimento universitario. Solo chi
ha 9 o 10 in condotta potrà aspirare al massimo dei voti.
Non è
chiaro cosa succederà per chi abbia 7:
una
diminuzione automatica dei voti? E dove va a finire, allora, il merito?
Qualcosa
sta cambiando nell’informazione:
l’attacco al giornalismo libero, l’occupazione
sguaiata dei mezzi di informazione. Qualcosa sta cambiando nella sanità:
a
rischio è messo il diritto di tutti alle cure, liste d’attesa e rinuncia alla
programmazione e agli investimenti pubblici, libertà totale per le imprese
sanitarie private.
Qualcosa
sta cambiando nei servizi sociali:
lotta ai poveri invece che alle povertà,
niente investimenti, tagli e vessazioni burocratiche. In sostanza abbandono.
Qualcosa
sta cambiando nella gestione delle migrazioni:
delocalizzazione dei Cpr, che andrebbero
invece chiusi, accordi onerosi con i paesi del Mediterraneo sulla falsariga di
quello con la Libia, e giù a picchiare sul tamburo della retorica razzista e
intollerante, dell’invasione etnica e della mescolanza razziale.
Qualcosa
sta cambiando anche nei diritti alle donne:
da una parte si annuncia il sostegno alla
maternità, ma dietro alle parole ci sono finanziamenti ridicoli.
Dall’altra
si introducono i militanti pro life dentro i consultori, e si minaccia chi vuol
abortire della aggiuntiva sofferenza di ascoltare il battito cardiaco del feto.
Inutile crudeltà.
Non
era mai successo che il diritto allo sciopero fosse attaccato come durante i
mesi di questo governo.
Che,
in aggiunta, intende demolire quel po’ di uguaglianza che ancora resiste nel
nostro stato, con le riforme sull’autonomia differenziata (sull’ingiustizia
legalizzata, cioè) e sul premierato, la volontà di indebolire anche il baluardo
del Quirinale di fronte alle intemperanze estremistiche, queste sì, della
maggioranza.
Una
serie di piccoli slittamenti, uno dopo l’altro, uno accanto all’altro, che
stanno mutando profondamente la natura dello stato italiano.
Ed è solo l’antipasto, se almeno li lasceremo
proseguire su questa strada. (Ella Baffoni).
Analisi
criminologica della
delittuosità
finanziaria.
Filodiritto.com – (22 Marzo 2024) - Ph. Luca
Martini – ci dice:
I
postulati di “Sutherland”.
“I
lemmi white collar crime” (crimini dei colletti bianchi) sono stati coniati da
Sutherland in uno Studio del 1939.
“ Laub”
(1983) ha affermato che gli asserti di Sutherland hanno dato il via ad una vera
e propria “rivoluzione copernicana” della Criminologia, che non aveva mai preso
in considerazione l'acuta pericolosità sociale della devianza dei
professionisti.
Del
pari, “Mannheim” (1975) evidenziava la rottura con una “Scienza del crimine”
troppo concentrata sul tradizionale trinomio “omicidio
volontario-stupro-rapina”.
Prima della “scoperta” dello “white collar crime”, gli Operatori mettevano in risalto
quasi esclusivamente la delittuosità violenta agita da individui provenienti da
ceti sociali poveri e disagiati.
In
effetti, per parte sua,” Forti” (2000] sostiene che “[bisogna] strappare la
spessa coltre di rispettabilità convenzionale da cui è circondata la categoria
dei colletti bianchi […] gli illeciti di dirigenti, amministratori, funzionari,
azionisti di maggioranza, banche, giornalisti, magistrati, uomini politici e,
soprattutto, grandi imprese industriali e commerciali vanno meticolosamente
passati al setaccio, senza sottacere nomi, date e particolari”.
Come
notato da “Raciti” (2005), il merito di Sutherland consta nell'aver fondato la”
teoria delle associazioni differenziali”, per la quale “il reato va ricondotto
nell'alveo delle dinamiche di interrelazioni del gruppo sociale […].
La
condotta delinquenziale deriva dall'apprendimento di un eccesso di definizioni
favorevoli all'illegalità, a prescindere dal contesto ambientale di
riferimento;
la
trasmissione di tali definizioni avviene attraverso un rapporto interpersonale
caratterizzato da frequenza, durata, priorità ed intensità”.
In realtà, anche gli italofoni “Lombroso &
Ferrero” (1893) nonché” Laschi” (1899) avevano inaugurato una certa produzione
scientifica afferente alla “delinquenza bancaria”.
Parimenti,
negli USA, “Veblen” (1899/1999),” Josephson “(1934) e “Morris” (1935) hanno
anticipato gli scritti di “Sutherland” (1940).
Da menzionare sono pure i giornalisti “muckrackers” (indagatori del marcio), che, nei
primi decenni del Novecento, avevano pubblicato una serie di articoli di
cronaca su individui della “upper class” dediti a reati rimasti impuniti a causa della
rispettabilità formale di siffatti esponenti dell'alta borghesia
nord-americana.
In particolar modo,” Raciti” (ibidem) ha
rimarcato che la” Criminologia statunitense degli Anni Venti, Trenta e Quaranta
del XX Secolo” “ha smentito in modo categorico la precedente elaborazione
criminologica”, per la quale l'unica delittuosità collettivamente
destabilizzante sarebbe quella del sotto-proletariato formato da alcolisti e
disoccupati.
D'altronde,
Ruggiero (1999) ha evidenziato che, con Sutherland ed i suoi precursori, “per la prima volta si attribuivano
spazio e dignità, nel dibattito scientifico, a reati perpetrati mediante
condotte fraudolente e corruttive in ambito politico, economico e
professionale: in breve, alla criminalità dei potenti”.
Le
ricerche sullo “white collar crime”, dopo decenni di menzogne scientifiche,
ripristinavano la ratio novecentesca della piena eguaglianza tra consociati.
Veniva
abbandonato, quindi, lo stereotipo dell'operaio povero ed incline al crimine
etero-lesivo.
Anzi,
giustamente, “Volk” (1998) ha messo in risalto il profilo “democratico”
dell'analisi del crimine dei colletti bianchi, il quale “genera indignazione
[e] i consociati, per conseguenza, si attendono e pretendono energiche forme di
contrasto ed un severo trattamento sanzionatorio […] [ poiché] è innegabile il
senso di ingiustizia e frustrazione derivante dalla possibilità che l'esercizio
dell'azione penale sia influenzato dall'appartenenza dell'autore ad un
determinato ceto sociale, garantendo una sorta di zona franca di impunità per
le classi dominanti”.
Probabilmente, a parere di chi redige, “Sutherland”
(ibidem) non era estraneo al fascino dell'egualitarismo socialista sorto
proprio nei primi anni del Novecento.
È
innegabile, infatti, una spinta verso il desiderio collettivo di “giustizia
sociale” all'interno dell'analisi dello” white collar crime”.
D'altra parte, la pericolosità della
delinquenza dei ceti borghesi non reca affatto una pericolosità sociale
meramente “astratta”, bensì altera il delicato equilibrio macroeconomico IS/LM.
Su
tale tematica, “Volk” (ibidem) ha puntualizzato che “si possono innescare
effetti vortice, per cui coloro che operano sul mercato con mezzi illeciti sono
avvantaggiati rispetto ai concorrenti onesti, così determinando l'attrazione di
questi ultimi nel vortice del crimine, allo scopo di rimanere competitivi”.
D'altro canto, è noto che il crimine dei colletti
bianchi viene esercitato con una climax quantitativamente e qualitativamente
ascendente, in tanto in quanto, nel lungo periodo, la “catena” dei reati
professionali, anziché indebolirsi, si accresce d'intensità e porta il reo ad
una reiterazione compulsiva degli atti corruttivi.
E'
pure importante, come fatto sempre da “Volk” (ibidem), non minimizzare le
“conseguenze dannose” della delittuosità in colletto bianco;
ovverosia,
il crimine finanziario scardina la “concorrenza perfetta”, recando ad una
macroeconomia profondamente inficiata dall'illegalità e non realmente
produttiva.
A parere di chi scrive, tale “inquinamento”
del mercato è emblematicamente esemplificato dal contesto dei mercati dell'ex
Unione Sovietica poco prima dello scioglimento dell'URSS;
le
oligarchie e la corruttela generano gravi ingiustizie sociali che, nel lungo
periodo, provocano l'implosione dell'intero sistema.
Volk (ibidem), con estrema amarezza, nota
anch'egli che “la business missconduct […] riguarda materie specialistiche, di ardua
intelligibilità per l'uomo medio […].
Si
avverte poco un'unanime riprovazione sociale. [Nel settore della finanza] la
sensazione di minaccia e la riprovazione etico-sociale si dileguano nella
nebbia dell'ignoranza, del disinteresse e dell'incomprensione”.
All'opposto,
lo” street crime” provoca una notevole e subitanea reazione collettiva di
rigetto.
Il
crimine di strada tende ad unire la collettività imbevuta della demagogia e del
populismo mass-mediatico.
Anzi, l'opinione pubblica si manifesta, nei
confronti dei delitti “dei deboli” (Ruggiero, ibidem), estremamente scettica
circa la ratio della riabilitazione carceraria, come dimostrano certune
richieste a-tecniche di “pene esemplari” di lunga durata.
Volk (ibidem) sintetizza molto bene che
“[sussiste] un atteggiamento di indifferenza verso lo” white collar crime” da
parte dei consociati, che non si sentono direttamente minacciati.
Molta
gente non è spaventata tanto da questo tipo di criminalità, quanto dall'idea
che lo Stato possa sprecare […] energie per combatterla, invece di preoccuparsi
della sicurezza personale dei cittadini nella vita di tutti i giorni”. Ciò che manca, a parere di chi
commenta, è una seria prospettiva nazionalpopolare di lungo periodo;
adulterare
un contesto IS/LM non è mai privo di conseguenza, pur se si tratta di
cambiamenti lenti e difficilmente percettibili senza una visione tecnicamente
contestualizzante.
Interessante è l'analisi etica che dello “white
collar crime” fornisce “Green” (2006), che parla di “moral ambiguity” (ambiguità morale) del crimine
finanziario.
Tale Dottrinario anglofono evidenzia che,
presso l'opinione pubblica, non sempre si condanna la delittuosità dei
professionisti, la quale viene ridotta a “scorrettezze” di calibro bagatellare.
Con
attinenza a siffatta problematica, anche “Forti “(ibidem) invoca la necessità
di un “risanamento
etico dei settori corrotti della società […] [Poiché] una morale economica
debole dev'essere sorretta con un busto penalistico dalle stecche rigide”.
Di
nuovo, in Forti (ibidem) si sottolinea la diffusa mancanza di un lucido senso
civico in grado di prevenire o, perlomeno, di sradicare i reati commerciali.
In
realtà, come nota “Friedrichs” (2004), “un decisivo contributo alla frequente
deformazione dell'immagine dello “white collar crime” presso l'opinione
pubblica viene dallo specchio costituito dai mass-media, che tendono a
minimizzare l'impatto del fenomeno, preferendo concentrarsi sullo “street crime”,
più sensazionale e meno astruso […] [Il fine dei giornalisti] è anche quello di
evitare contenziosi legali aventi per oggetto stratosferiche richieste di
risarcimento danni, a seguito di possibili casi di diffamazione a mezzo
stampa”.
Analogo
è il parere di “Forti” (ibidem), a parere del quale esiste “indifferenza nei
confronti dello “white collar crime da parte di opinioni pubbliche ed
istituzioni, allarmate più dai vistosi fatti di sangue investiti dai riflettori
della cronaca che dalla sotterranea distruzione della compagine morale della
società perpetrata quotidianamente dalle sue élites politiche ed economiche”.
Quindi,
Forti (ibidem) denunzia la mancanza di una corretta etica economica nel mondo
dell'alta borghesia.
. Sono
lontani i tempi della teoria della “mano invisibile” di “Smith” e “Keyns”.
I successori di “Sutherland”
Negli
Anni Duemila, “Meier” (2001) sostiene che Sutherland sia ancora perfettamente
attuale.
Viceversa,
“Green” (ibidem) reputa che, dopo un'ottantina d'anni, la locuzione “white collar crime” è “imprecisa e vaga […] e non
fornisce all'interprete alcun filtro selettivo attraverso cui circoscriverne il
valore semantico […]
[Si
tratta di] una locuzione talmente problematica e sfaccettata da non permettere
la prevalenza di una definizione unitaria”.
D'altra
parte, con molta onestà intellettuale, lo stesso Sutherland (ibidem) si
dichiarava aperto a nuovi orizzonti ermeneutici e riconosceva, egli medesimo, “il carattere non definitivo del
concetto di white collar crime”.
Negativamente critico si manifesta pure Raciti
(ibidem), secondo cui “esistono molte difficoltà nella caratterizzazione
criminologica del c.d. colletto bianco, concepito come persona rispettabile, o
almeno rispettata, ed appartenente alla classe superiore.
Difatti, l'elemento della rispettabilità
pecca, a ben vedere, di soggettivismo e tende a sovrapporsi alle condizioni
patrimoniali [agiate] dell'individuo […].
È
meglio ricostruire questo concetto in chiave giuridica, ossia in termini di
assenza di precedenti penali a carico del colletto bianco autore del reato”.
A sua
volta, invece, Mannheim (ibidem) reputa che il reo di crimini finanziari è, di
fatto, una persona “rispettabile”, nel senso che i consociati non dubitano della
“onestà e probità del criminale in colletto bianco”.
Più
sfumato é Geis (1974), a parere del quale il responsabile di delitti economici attua
solamente “upperworld crime”, ossia “reati commessi da soggetti non
rientranti nella categoria dell'abituale tipo delinquenziale, ovvero individui
che vivono in contesti degradati e/o sofferenti di anomalie psichiche”.
Secondo
“Nelken” (1994), un grave errore di Sutherland consta nel non distinguere tra
la responsabilità penale personale dei singoli infrattori e la responsabilità
simbolica delle persone giuridiche esercenti un'attività d'impresa;
più
nel dettaglio, in buona sostanza, Nelken (ibidem) censura che “Sutherland ha
omesso di tracciare un confine netto tra i reati commessi “uti singuli” dai
criminali dal colletto bianco ed i fenomeni di illegalità in ambito societario
(i cc.dd. corporate crime), con ciò contribuendo in maniera decisiva a rendere
ambigua la categoria dello white collar crime”.
Dunque,
in Sutherland, non si distingue sufficientemente bene tra la “personalità”
della responsabilità penale e la “natura meramente patrimoniale” di
un'eventuale condanna della persona giuridica.
Del
pari,” Hirschi & Gottfredson” (1987) contestano, in Sutherland, la mancata
precisazione del carattere esclusivamente “simbolico” della responsabilità
penale delle imprese.
Secondo
taluni Dottrinari, lo “white collar crime” è tale non perché agito da
professionisti, bensì perché ha ad oggetto reati che alterano la genuinità
della libera concorrenza.
P.e.,
secondo “Reiss & Biderman” (1980), è “crimine dei colletti bianchi” un
illecito “a fini di lucro” messo in atto con “modalità fraudolente” e consumato
“in ambito politico-affaristico”. Dunque, come si nota, Reiss & Biderman (ibidem)
focalizzano l'attenzione della Criminologia sul reato, mentre le qualifiche del
reo passano in secondo piano.
Il
crimine finanziario, pertanto, possiede una valenza ontologica ed indipendente
dalla posizione sociale e dal ruolo di dirigenza rivestiti dall'infrattore.
Altri
Autori, come “Brickey” (1990) hanno predisposto un elenco catalogico di
fattispecie penalmente definite come “crimini dei colletti bianchi”.
Altri
ancora, come Green (ibidem) e Volk (ibidem evidenziano che i delinquenti
economici sono riconoscibili da caratteristiche comportamentali “fisse” che li
accomunano sotto il profilo della qualificazione criminologica.
Infine,
non sono mancati coloro che hanno suggerito di abbandonare la ratio del “crimine in colletto bianco”, ma si tratta di una tesi
minoritaria, in tanto in quanto siffatta categoria ha riscosso un successo
ormai globale, come dimostrano le innumerevoli traduzioni delle Opere di Sutherland.
Secondo
un primo filone esegetico, inaugurato da “Simon” (2002), la c.d. “devianza
delle élites deve inserire, nel concetto di white collar crime, oltre alle
condotte penalmente rilevanti, anche quelle non costituenti reato, ma pur
sempre riprovevoli”.
Viceversa,”
Edelhertz” (1970) è più restrittivo, ovverosia, a parere di tale Criminologo, “la gran parte dei crimini dei
colletti bianchi non viene commessa da appartenenti alle élites sociali.
Emblematico, al riguardo, è l'esempio del reato di insider trading, il cui “leading
case£, trattato dalla Corte Suprema federale nel 1980 (United States vs.
Chiarella) concerneva la condotta di un impiegato di tipografia, dunque una
tuta blu e non uno white collar”.
In
terzo luogo, “Clinard & Quinney” (1973) sostengono, nel reinterpretare ed
integrare Sutherland, che i crimini finanziari tali sono e rimangono sotto il
profilo sostanziale, quindi “a prescindere dal ceto di appartenenza
dell'autore”.
A
ragion veduta, la posizione di Clinard & Quinney (ibidem) è stata
radicalmente contestata da Green (ibidem), in toto in quanto sganciare i
delitti economici dal “ceto di appartenenza dell'autore” impedisce, nella
Prassi, di sussumere molti reati all'interno della categoria degli “white
collar crimes”.
Ovverosia,
è troppo concettoso pretendere di distinguere la sfera privata del colletto
bianco da quella professionale, giacché l'indole delinquenziale compulsiva è
sempre la medesima.
Il
soggetto in colletto bianco manifesta condotte antisociali nonché
antigiuridiche anche al di fuori della sfera lavorativa.
“Lyman
& Potter” (2004) notano che “al di là dei tentativi di elaborare una
diversa locuzione idonea a descrivere il fenomeno [del crimine finanziario], va
sottolineato che, negli ultimi decenni, la criminalità economica ha subito una
vera e propria mutazione genetica, conformandosi, per molti aspetti, alle caratteristiche
del crimine organizzato comune”.
Come ovvio, gli asserti di Lyman & Potter
(ibidem) si attagliano perfettamente alla situazione delle mafie
calabro-sicule, le quali, nell'ultimo periodo, si sono “professionalizzate”,
abbandonando l'uso della violenza fisica e materiale.
A tal
proposito, Fornari (1997) mette in evidenza che “[le mafie e lo white collar
crime] sono accomunate da un dato di scontata rilevanza giuridica:
il
carattere associativo che entrambe tali forme di criminalità presentano nelle
loro più frequenti manifestazioni.
Più in generale, il trait d'union tra queste
due tipologie delinquenziali consta nel comune orientamento al profitto, cui
corrisponde il sempre più visibile riprodursi, nell'area della criminalità
economica, di modalità operative tipiche dell'”organized crime”:
in
primis la corruzione di pubblici funzionari”. Similmente, “Paliero” (2004)
rimarca la contiguità tra “criminalità economica” e “criminalità organizzata”.
D'altra
parte, in Dottrina, svariati Autori hanno rilevato che, in Italia, a partire
dagli Anni Novanta del Novecento, istituti penalistici introdotti dal
Legislatore per la lotta alla mafia sono oggi utilizzato anche per contrastare
le devianze degli “white collars”.
P.e., “Alessandri”
(2005) sottolinea che la confisca è abbondantemente impiegata tanto per la
criminalità organizzata quanto per gli illeciti dei colletti bianchi,
ovverosia, secondo il summenzionato Dottrinario, “esistono condotte che, ad un certo
livello, si assomigliano in modo impressionante […] [poiché]la finanziarizzazione
della produzione della ricchezza, sia essa lecita o illecita, ha determinato
l'adozione di identiche strategie di contrasto”.
In effetti, nei “leading case”s Cirio,
Parmalat e Antonveneta/BNL, la Magistratura requirente ha spesso utilizzato il
concetto di “associazione per delinquere” ex Art. 416 CP.
Lo white collar crime e l'”organized crime”.
Negli
Anni Duemila, lo “white collar crime” si è distinto per i requisiti della
“imprenditorialità” e della “organizzazione professionale”;
siffatti
due connotati richiamano da vicino le associazioni per delinquere, specialmente
quelle di stampo mafioso.
A tal
proposito, Smith (1982) sostiene che “la criminalità economica può essere
concepita nei termini di un'impresa illegale, per molti versi accostabile ai
racket gestiti dal crimine organizzato comune […] .
I due
fenomeni [i crimini finanziari e le mafie] possono essere osservati da un
angolo visuale unitario, grazie alla valorizzazione del profilo
dell'imprenditorialità”.
In ogni
modo, già negli Anni Settanta del Novecento, “Reiss” (1978) osservava che
“bisogna porre l'accento sull'elemento organizzativo quale tratto
caratterizzante del modus operandi dei colletti bianchi autori di reati […].
[Anzi] spesso lo “white collar crime” è
addirittura sovrapponibile in pieno al concetto di “organizational crime”.
Dunque,
per molti Autori, la delittuosità degli white collar è, in sintesi,
“professionalmente ed imprenditorialmente” organizzata alla stregua di una vera
e propria impresa commerciale.
Ovverosia,
parafrasando l'Art. 2082 CC, “[è delinquente finanziario] chi esercita
professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o
dello scambio di beni o di servizi [illeciti]”.
Del resto, anche” Albanese” (1982) precisa che tanto
le mafie quanto la criminalità dei colletti bianchi sono “imprese”, pur se
l'oggetto, i fini e le modalità operative affondano le loro radici nella più
totale illegalità.
Analogamente,
“Maltz” (1976) mette in risalto che i colletti bianchi pongono in essere “reati
[imprenditorialmente] organizzati”, che vengono consumati da “un'associazione
per delinquere basata su violenza, furto, corruzione, abuso del potere
economico, inganno, collusione o cooperazione della vittima”.
Nuovamente,
pertanto, “Maltz” (ibidem) tratteggia lo” white collar crime” alla stregua di
un delitto economico organizzato, il che avvicina i colletti bianchi agli
esponenti della criminalità organizzata.
In realtà, pure “Sutherland” ammetteva la frequente
vicinanza tra criminalità economica ed organizzazioni mafiose.
P.e.,
Sutherland (ibidem) osservava che “il crimine dei colletti bianchi è un crimine
organizzato […] [poiché] gli white collars commettono illeciti attraverso
l'impiego distorto di strumenti giuridici di per sé legali o di istituzioni
rappresentative di categoria. […]. I reati dei colletti bianchi sono, dunque,
simili a quelli della criminalità organizzata”.
Anzi, Sutherland (1937) evidenzia che, nel
mondo dei professionisti devianti, sussistono un'unità ed un'omertà analoghe a
quelle riscontrabili nelle cosche della malavita organizzata.
Interessante
è pure il parallelismo tra “mafie” e “white collar crime” posto da Ruggiero
(2002), nel senso che, per tale Dottrinario, “la tesi a sostegno
dell'avvicinamento tra il crimine organizzato e quello degli white collars
poggia su una pluralità di considerazioni, incentrate sulla somiglianza dei
valori in gioco nei rispettivi ambiti, la complessità strutturale, l'impatto
sul contesto di riferimento e la tendenziale comunanza del know-how
delinquenziale […].
I
colletti bianchi […] ed il crimine organizzato commettono reati congiuntamente.
Essi formano partnership contingenti o di
medio o lungo periodo, si scambiano servizi e promuovono scambievolmente le
proprie attività imprenditoriali”.
Di
nuovo, chi redige reputa le osservazioni di Ruggiero (2002) pienamente idonee
alla descrizione delle mafie calabro-sicule, ove imprenditorialità, potere
economico e corruzione dominano incontrastati.
In
effetti, “Reed & Hughes” (1992) utilizzano il lemma anglofono
“organization” sia per la criminalità organizzata sia per lo white collar
crime.
Anche
secondo “Pugh” (1990), tanto le mafie quanto i colletti bianchi hanno in comune
un'associazione per delinquere, un fine unitario, un contesto ambientale
criminogeno, una struttura gerarchica e la scelta di una strategia criminosa.
Del pari,” Bakke” (1980) riconosce che gli “white
collar ed i gregari della mafia” condividono quasi sempre un ambiente, una
struttura ed una strategia organizzata che rende non distinguibili i reati
finanziari da quelli di cui all'Art. 416 bis CP.
In ogni caso, si tratta sempre di reati
professionalmente organizzati, come se si trattasse di una ordinaria impresa
commerciale con fini leciti. Ecco, dunque, di nuovo il ritorno della “imprenditorialità
nel crimine” ai sensi del paradigma ex Art. 2082 CC.
D'altra
parte, anche McIntosh (1975) parla di una “efficienza tecnica d'impresa” la
quale richiama da vicino quello che, nell'Ordinamento italiano, è l'Art. 2082
CC.
Similmente, Bernard (1938) impiega
l'espressione “razionalità organizzativa”, intesa come quella “pianificazione”
che consente, sia al mafioso sia al colletto bianco, di massimizzare il lucro
senza essere scoperto ed incriminato dalla PG e dall'AG.
Oppure ancora, entro tale medesima ottica
“imprenditoriale” del crimine,”Cressey” (1972) specifica che le “mafie
economiche” razionalizzano la loro struttura e ripartiscono i ruoli come se si
trattasse di una vera e propria “azienda” dedita, però, alla commissione di
reati commerciali.
A loro
volta, “Best & Luckenbill” (1994) evidenziano che, nella “organized
deviance”, esistono delle cc.dd. “squadre” che si ripartiscono il lavoro in
maniera razionalizzata ed altamente professionale; ciò, di nuovo, vale tanto
per le mafie quanto per gli white collar.
A
parere di “Schager & Shor”t (1978) “riconoscere agli illeciti dei colletti
bianchi, commessi in associazione, i caratteri dell'imprenditorialità,
divisione del lavoro e specializzazione consente di aderire in maniera più
precisa alla realtà fattuale, che, soprattutto in tempi recenti, è stata
caratterizzata dall'aumento esponenziale di fenomeni illegali dal volto
imprenditoriale, realizzati indistintamente sia da gruppi di white collar sia
da criminali comuni”.
P.e.,
i “leading cases” Parmalat ed Enron hanno rivelato la collusione tra
professionisti e criminalità organizzata, in tanto in quanto le mafie sono
solite nascondere le proprie attività illecite all'interno di imprese
apparentemente e formalmente lecite.
P.e.,
Alessandri (1991) ha affermato che esistono, tra la delinquenza economica e
quella organizzata, dei “paradigmi comuni” che fanno estendere la precettività
dell'Art. 416 bis CP alla fattispecie del crimine finanziario.
In effetti, per Coffee (1979), “l'impresa
[apparentemente legale, ndr] ha carattere criminogeno laddove la politica
aziendale costituisca l'epifania di una sub-cultura criminale”.
P.e., si ponga mente al” leading case” “Pizza
Connection”, in cui i proventi del narcotraffico erano riciclati in locali di
ristorazione al di sopra di ogni sospetto
Oppure ancora, si pensi agli investimenti
della 'Ndrangheta negli stabilimenti balneari della Spagna e del Sud della
Francia.
Addirittura, D'Amato (2006) nota che ormai è
passata l'epoca del ”reato monosoggettivo del colletto bianco”, nel senso che,
negli Anni Duemila, la criminalità economica è quasi sempre commessa
all'interno di associazioni per delinquere conformi al modello strutturale di
cui all'Art. 416 bis CP.
Di
più, a parere di “Gobert & Punc”h (2003), gli “white collars” sono sempre
più implicati in danni alle persone o alle cose, mentre, sino ad una trentina
d'anni fa, si reputava che le estorsioni ed i regolamenti di conti fossero
delitti tipicamente ed esclusivamente di stampo mafioso. Inoltre, in epoca
odierna, sia la criminalità organizzata sia quella commerciale creano un
sistema culturale di omertà e di intimidazione, ed anche ciò accomuna gli “white
collars” ai gregari delle mafie.
Conclusioni.
È
innegabile, perlomeno nel contesto normativo italiano, la somiglianza tra gli “white
collar crime”s ed il paradigma de “jure condito” contenuto nell'Art. 416 bis
CP.
D'altra parte, Fornari (1997) parla espressamente,
nella criminalità dei colletti bianchi, dell'esistenza di un “gruppo di
comando” dedito ad una commissione di reati “sistemica”, ossia
“professionalmente organizzata”, come se si trattasse di una “ordinaria”
impresa commerciale.
Sempre
Fornari (1997) accosta la delittuosità finanziaria a quella mafiosa, in tanto
in quanto, in entrambe le fattispecie, “le attività illecite vengono coordinate
mediante modalità comunicative ed interattive che riproducono modelli costanti
che stabiliscono l'esistenza dell'organizzazione.
Di
essa è elemento essenziale la presenza di uno statuto, più o meno formalizzato,
che ne determina finalità e metodi operativi, articolandola, se necessario, in
sotto-sistemi, fissandone la struttura gerarchica e rendendola così
tendenzialmente insensibile ai mutamenti delle persone fisiche che si
avvicendano al suo interno”.
La
magistrale descrizione su esposta di “Fornari “(1997) richiama da vicino la
struttura iper-organizzata delle “locali” della 'Ndrangheta.
Utile,
su tale tematica, è pure Heine (1996], che parla di un “top management”, nel
crimine professionale, il quale gestisce “una grande impresa [illecita, ndr],
che acquisisce capacità di azione coordinando, con maggiore o minore autonomia,
le diverse funzioni applicate nei vari reparti e sezioni aziendali”.
Come
si può notare, “Heine” (ibidem) torna anch'egli a proporre una visione
“imprenditoriale” sia dello “white collar crime” sia della assai simile
criminalità organizzata.
Addirittura,
“Gross” (1980) giunge a parlare degli white collars come di “managers”
impegnati nel “perseguimento degli obiettivi della loro impresa”.
Pertanto,
anche l'interpretazione di Gross (ibidem) propone una visione “imprenditoriale”
delle associazioni per delinquere capitanate dai colletti bianchi.
Tutto
ciò, come nelle migliori aziende, è, naturalmente, reso possibile, come
asseriscono “Monahan & Novaco” (1980), dalla supina “ubbidienza” dei
gregari a quella che viene espressamente definita la “filosofia dell'impresa”.
Ecco, nuovamente, il ritorno dello schema
strutturale di cui all'Art. 2082 CC; ciononostante, nel caso delle associazioni
per delinquere, la finalità non è un lucro onesto, bensì “frodi, evasioni
fiscali, contributi ai politici e corruzione” (Tonry & Reiss, 1993).
Oppure
ancora, la supina ubbidienza dei gregari alle mafie economiche è ribadita da
Lampe (1994), il quale nota che “le direttive d'azione ed i valori dell'impresa
veicolati attraverso l'apparato organizzativo e le reti di comunicazione
intra-aziendali costituiscono indicazioni vincolanti per colui che deve agire
per conto dell'ente”.
Quindi,
“Lampe” (ibidem) giustamente mette in risalto il carattere assoluto del potere
di chi gestisce l'associazione per delinquere finalizzata alla commissione di
crimini economico-patrimoniali.
Di nuovo, in Lampe (ibidem), è riaffermata la
somiglianza strutturale ed operativa tra mafie e delinquenza dei
professionisti.
Siffatto dettaglio non era adeguatamente e
sufficientemente indagato nelle “Opere di Sutherland”.
Nella Dottrina penalistica, Alessandri
(ibidem) ha sottolineato, ex comma 1 Art. 27 Cost., che “la responsabilità penale è personale […]
dunque, in materia penale, è impossibile sfuggire alle proprie responsabilità
[…].
Ogni
giustificazione di carattere astratto e generico - dallo Zeitgeist al complesso
di Edipo – crolla […] [poiché] non vengono giudicati sistemi, tendenze o
peccati originali, ma persone in carne ed ossa, come voi e come me”.
In
effetti, anche “Gobert & Punch” (ibidem) mettono in risalto che gli “white
collars” tendono ad imputare colpe al “sistema”, ma, nella Giuspenalistica,
l'individualità della responsabilità impedisce l'imputabilità delle persone
giuridiche e delle organizzazioni, la cui eventuale condanna in sede
civilistica reca natura meramente pecuniario-risarcitoria.
Parimenti,
pure “Forti” (ibidem) contesta la “visione istituzionale della criminalità
d'impresa”, poiché la sussistenza di istituzioni illecite e persone giuridiche
non può violare la ratio suprema di cui al comma 1 Art. 27 Cost. .
A tal proposito, Gobert & Punch (ibidem)
osservano anch'essi che spesso gli associati per delinquere, nello “white
collar crime” organizzato, tendono ad attribuire ogni responsabilità ad “enti
collettivi personificati”, ma ciò viola il principio di individualità della
colpa penale.
D'altra
parte, non avrebbe alcun senso parlare di una “rieducazione carceraria” di
un'impresa o altro ente simile.
Negli
ultimi decenni, svariati Autori hanno coniato l'espressione “criminalità
economica organizzata”.
Questo concetto è nato negli USA, a seguito di
gravi scandali finanziari che hanno manifestato, con piena evidenza, la contiguità strutturale e materiale
esistente tra l'organized crime e la corruzione economica.
Friedrichs
(ibidem) ha messo, però, in guardia dalle generalizzazioni.
In quanto non sempre lo” white collar crime”
è consumato all'interno di/ con l'ausilio di forme criminose associative.
Del
pari, Green (ibidem) reputa che sia eccessivo postulare una perenne congiunzione
tra il crimine dei colletti bianchi e la criminalità organizzata.
Probabilmente, Green (ibidem) non tiene
presente la situazione criminologica italiana, ove la “criminalità economica
organizzata” costituisce il cibo ordinario di associazioni delinquenziali come
Cosa Nostra, la 'Ndrangheta e la Camorra.
Molti altri Dottrinari giudicano negativamente
l'accostamento automatico dello “stampo mafioso” ad ogni forma associativa nata
per commettere la delinquenza finanziaria. Pertanto, nel Diritto Penale
italiano, non esistono, de” jure condito”, parallelismi istantanei tra gli
white collars ed i componenti di cosche mafiose organizzate.
Per
conseguenza, “Forti” (ibidem) invita anch'egli a contestualizzare, di volta in
volta, “i mezzi, gli strumenti e le tecnologie in uso per perpetrare i reati”.
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