Potere e Politica non tollerano vuoti.
Potere
e Politica non tollerano vuoti.
Claudio
Borghi: “il Vero
Scopo
dell’Esercito Europeo.”
Conoscenzealconfine.it
– (3 Marzo 2025) - Claudio Borghi – ci dice:
La UE
in un momento in cui si sta rivelando ancora più inutile e dannosa tenta
l’ennesimo rilancio per sottrarre ancora più sovranità agli Stati. Questa volta
puntando ad un bersaglio più pericoloso della moneta unica.
Vuole
l’ESERCITO EUROPEO.
Ecco
dieci motivi per cui questa idea deve essere rifiutata con tutte le nostre
forze.
1. Il
vero scopo dell’esercito europeo è quello di sottomettere gli stati membri che
volessero disobbedire.
Abbiamo già visto con quale violenza la UE può
aggredire un singolo stato. L’hanno fatto con la Grecia chiudendo le banche e
con l’Italia con lo spread.
Non esiterebbero ad usare la forza se
disponessero di un esercito.
La cosa è pianificata ed è scritta a chiare
lettere nel “Manifesto di Ventotene” di Spinelli.
Il
fucile dell’esercito europeo sarà puntato alla nostra tempia.
2.
L’Italia perderebbe la sua sovranità militare, un altro pezzo di autonomia
regalato a Bruxelles e continuo scivolamento verso l’irrilevanza.
Senza
moneta e senza esercito non potremo più dirci Nazione.
3. Un
esercito europeo servirebbe gli interessi di Germania e Francia, non i nostri.
Chi decide quando e dove combattere?
Non
certo Roma, ma burocrati non eletti.
Non solo: immaginate un esercito europeo in
una UE senza il diritto di veto.
I
nostri ragazzi potrebbero partire per qualche fronte lontano anche se il nostro
Parlamento fosse contrario.
4. I
costi sarebbero enormi:
L’Italia è sempre contributore netto, quindi
si userebbero soldi italiani per difendere confini altrui.
Immaginate poi cosa potrebbe succedere con
l’ingresso dell’Ucraina nella UE:
con l’ingresso di uno stato enorme e
poverissimo l’Italia dovrebbe pagare il triplo.
5. La
nostra difesa nazionale, già fragile, verrebbe ulteriormente indebolita.
I soldi, gli uomini e i mezzi allocati
all’esercito europeo verrebbero sottratti alla difesa territoriale nazionale e
alle forze dell’ordine, ci sarà ancora meno controllo del territorio.
6. Un
esercito comune dopo la moneta unica è il secondo passo verso un mostruoso
superstato europeo: addio indipendenza.
Benvenuta schiavitù.
7. Le
tradizioni militari italiane, un patrimonio storico, sarebbero sacrificate.
Basta
Alpini, basta Folgore, basta Bersaglieri.
Solo
l’orribile divisa UE con un regolamento di venti pagine sulle misure degli
elmetti e degli scarponi.
8. In
caso di conflitto, l’Italia diventerebbe un bersaglio senza voce in capitolo.
Non potremmo mai invocare la neutralità e
finiremmo trascinati in guerre assurde da pazzi guerrafondai tipo Macron.
L’esercito
europeo è contro la nostra Costituzione.
9.
L’UE non ha una visione politica unita: come può avere un esercito coerente?
Se una moneta senza stato è un abominio, un
esercito senza stato è un’oscenità giuridica, politica e sociale.
10.
Dare un esercito e magari armi atomiche a una UE che è e sarà a guida tedesca?
E per
beffa finale pagato da noi?
MA VOI
SIETE PAZZI. PAZZI!
(Claudio
Borghi).
(x.com/borghi_claudio).
(imolaoggi.it/2025/02/27/claudio-borghi-vero-scopo-esercito-europeo/).
“Tutti
a Casa.“
Conoscenzealconfine.it
– (2 Marzo 2025) - Giorgio Cremaschi – ci dice:
Sulla
stupidità dell’Europa nostalgica…
“Aho i
tedeschi se so alleati agli americani”, la magistrale battuta di Albero Sordi
che interpreta lo spiazzamento totale dei militari italiani l’8 settembre del
1943, nel film di Luigi Comencini.
“Tutti
a casa”, potrebbe oggi rappresentare lo sconcerto e lo stato confusionale dei
liberaldemocratici e socialdemocratici europei di fronte alla prospettiva di
pace in Ucraina.
Il
loro mondo non c’è più.
Dopo
aver costruito tutta la loro politica nella collocazione euroatlantica, con il
dogma della fedeltà assoluta agli Stati Uniti, come condizione per la crescita
del potere dell’Unione Europea.
Dopo aver condiviso con gli USA la marcia
verso Est della NATO, la contrapposizione alla Russia e alla Cina, il colpo di
stato in Ucraina del 2014, all’origine della guerra in quel paese, come
sostengono dal loro punto di vista gli stessi ucraini.
Dopo
aver innalzato la bandiera della guerra, della sconfitta della Russia e del
rovesciamento di Putin, sempre assieme agli Stati Uniti.
Dopo aver speso la UE a fianco di Israele,
nonostante qualche dissociazione e con una montagna di ipocrisia.
Dopo
aver portato in recessione i propri paesi per i costi delle sanzioni e
dell’economia di guerra.
Dopo
tutto questo impegno politico, ideologico, economico e militare, i leader ed i
loro giornalisti europei, fautori di quella che è stata chiamata la
“maggioranza Ursula”, vedono crollare tutte le loro certezze nei comuni
immarcescibili valori occidentali.
All’Onu
Israele vota contro l’Ucraina e gli USA stanno assieme alla Russia.
E
tutti sanno che questo è solo l’inizio di un percorso che rovescia trent’anni
di ciò che è stato l’europeismo occidentale.
I
liberaldemocratici e i socialdemocratici europei sono stati i primi fautori di
un modello economico e politico liberista e guerrafondaio, che potremmo
sintetizzare nel modello Tony Blair.
Prima
o poi l’ex primo ministro laburista britannico dovrà rivedere al ribasso i
lucrosi cachet delle sue conferenze: il suo insegnamento non serve più a
niente.
Ciononostante
tutti questi cosiddetti “europeisti”, che in realtà riducono l’Europa alla
élite della Unione Europea, non sembrano minimamente prendere atto della
realtà.
Ora il
loro nuovo leader è il conservatore tedesco” Friedrich Merz”, ex uomo in Europa
del potentissimo fondo finanziario USA “BlackRock”, che è arrivato primo alle
elezioni in Germania copiando metà del programma dei neofascisti di AFD,
aggiungendo di suo il riarmo nucleare e la continuazione della guerra alla
Russia.
Ora
diventa simbolo della libertà europea questo reazionario, che fu discepolo di
quel “Schaeuble” che, da ministro delle finanze della Germania, con “Draghi”
impose i devastanti memorandum alla Grecia.
Senza
un briciolo di autocritica verso le politiche economiche di austerità e guerra,
che hanno fatto risorgere ovunque i “fascisti”, le classi dirigenti liberali
europee pensano di poter continuare, anzi esaltare una politica fallimentare.
Trump non ci sostiene?
Faremo
da soli contro il mondo.
Sì
perché non è che il cambiamento di politica degli USA, sempre in una logica di
potenza imperiale, ma diversa dal passato, porti le leadership europee a
cercare altri interlocutori nel mondo.
Nuovi rapporti coi BRICS?
Ricostruire le relazioni con la Cina?
Smetterla
di appoggiare i fascisti in America Latina?
Sostenere la Palestina? Ma quando mai?
Le
leadership europee credono di poter continuare la passata politica di ossequio
agli Stati Uniti, senza gli Stati Uniti.
Noi
siamo più americani di voi sembrano gridare a Trump, amplificati in questi loro
deliri da un sistema di mass media che sprofonda sempre più nella stupidità e
nel ridicolo.
Intanto
la sola decisione chiara che stanno prendendo i governi UE è quella di
aumentare le spese militari, esattamente come chiede loro Trump.
E per
mantenere il rigore finanziario, come già rivendicava Giorgia Meloni, Ursula
von der Leyen annuncia che le spese per il riarmo non entreranno nei vincoli di
bilancio di Maastricht.
Per aerei e carri armati si potrà fare
deficit, mentre per scuole ed ospedali no.
La UE
accompagna questo schifo con la richiesta servile di essere ammessa al tavolo
di trattative tra USA e Russia.
Quando,
solo pochi mesi fa, l’allora capo di governo della Germania, “Scholz”, fu
costretto a scuse fantozziane per aver telefonato a Putin.
Avrebbe
potuto la UE condurre una propria iniziativa di pace? Sì.
Ci ha mai provato? No.
Ottusi
e illusi i leader europei e la UE credevano di poter andare avanti all’infinito
con la politica di sempre, assieme agli e per conto degli USA.
Credevano
di poter sviluppare una economia di guerra e magari pure di vincere la guerra
contro la Russia.
Invece il loro mondo è crollato, ma per tutti
essi è ancora come se non fosse successo nulla.
Così i
leader europei si spostano tutti più a destra, mentre denunciano le minacce
“fasciste”, parlano di libertà e diventano più autoritari, proclamano di voler
difendere i diritti europei mentre li affossano con le spese militari e
continuando le politiche di austerità.
Ma
soprattutto con il nuovo frontman Merz, non si vogliono rendere conto di essere
diventati una piccola parte di un sistema mondiale, per fortuna cambiato.
Con
una sorta di ritorno allo spirito coloniale di quando l’Europa dominava i
continenti, con il rancore della nobiltà decaduta, i leader UE lanciano i loro
proclami pensando che contino qualcosa, mentre sono ignorati e derisi dalla
gran parte dell’umanità.
Questi
proclami servono solo ad imbrogliare i popoli europei, a far loro credere che
ci sia una passata grandezza da riaffermare, invece che un futuro completamente
diverso da costruire.
C’è
solo da darsi da fare perché la presa di coscienza della realtà si diffonda
contro la stupidità dell’Europa nostalgica.
(Giorgio
Cremaschi)
(ilfattoquotidiano.it/2025/02/25/ucraina-ue-elite-mondo-crollato/7892042/).
(lantidiplomatico.it/dettnews-tutti_a_casa/6121_59400/).
Non
c’è un vuoto di rappresentanza.
C’è un
vuoto di potere.
Lafionda.org
– (5 Ott., 2021) - Gabriele Guzzi e L'Indispensabile – ci dice:
Delle
analisi che si stanno effettuando sul primo turno delle elezioni amministrative
del 3-4 ottobre 2021, credo che se ne possano sintetizzare tre.
La prima sostiene che sia una sconfitta dei
cosiddetti partiti populisti, la seconda che il centrosinistra si sia
risintonizzato con il Paese.
Queste
prime due posizioni convengono su un punto:
la stranezza italiana del decennio 2011-2021 è
rientrata, il sistema si va riconsolidando attorno ad un bipolarismo nuovo, in
cui sono proprio i partiti più forti della destra, restii alla normalizzazione,
a doversi ancora adeguare.
Che
queste due interpretazioni siano colossalmente errate è evidente, e basterebbe
osservare un attimo i flussi elettorali e le percentuali di astensione. Il
centro-sinistra vince dove ha sempre vinto, nei grandi centri urbani, riesce ad
andare al ballottaggio in due importanti feudi di recente conquista
pentastellata (Roma e Torino) ma non riesce ad andare molto al di là del
proprio elettorato. Infatti, è proprio la scarsa propensione a rimanere fedeli
alle proprie istanze che ha portato il M5s a questo risultato, e non certo una
sua insistenza su tematiche anti-sistema.
Il
clima del paese non è pacificato, l’atmosfera è cupa non tranquilla, tetra non
riconciliata.
Le istanze si sono radicalizzate, ed è proprio
l’allontanamento da queste posizioni o il volerci rimanere federe con
un’ambiguità insostenibile – il M5s nella prima ipotesa, la Lega salviniana
nella seconda – ad aver consolidato l’unico vero partito di sistema, quello che
fa dell’immobilismo e della presunta serietà istituzionale la ragione del suo
successo, fuori ma soprattutto dentro ai circoli di potere.
Al di
là, quindi, di queste ricostruzioni in chiara malafede c’è una terza
interpretazione che, a mio avviso, è la più rilevante, quella che merita – per
chi desidera proporre una piattaforma aggregativa contro questo riflusso
oligarchico – molta attenzione.
Effettivamente, si sostiene, è stato raggiunto
un calo storico della partecipazione al voto.
Il
dato dell’affluenza alle comunali si attesta complessivamente al 54,69%, ma è
nei grandi centri – proprio quelli dove il centro-sinistra si sarebbe
riconciliato con il suo popolo (e qual è questo popolo?) – che tocchiamo le
profondità più abissali di disinteresse e, forse, schifo verso ciò a cui si è
ridotta l’intera procedura elettorale. A Milano vota il 47,6%, a Napoli il
47,19%, a Torino il 48,06%, a Roma il 48,83%.
Nel collegio suppletivo di Siena, solo il 35%.
Dinanzi
a questo scenario impietoso, alcuni commentatori sostengono che ci sia in
Italia un vuoto di rappresentanza.
Se, infatti, più di un italiano su due non si
reca a votare significa che le sue istanze non sono rappresentate, ma che
esisterebbe in teoria uno spazio da riempire, un vuoto da colmare, con un
partito o un movimento che faccia proprie parole d’ordine inascoltate e
raccolga consenso attorno ad esse.
Non credo che questa terza interpretazione sia
errata, al contrario delle prime due, ma che sia purtroppo radicalmente carente
e insufficiente.
In
Italia, non c’è innanzitutto un vuoto di rappresentanza, ma un vuoto di potere,
e di potere democratico.
Non
possiamo nasconderci attorno a ricostruzioni ottimistiche, con il solito
spirito positivo che anima i movimenti anti-sistema dopo le sconfitte.
Il
vuoto di potere democratico si esprime così:
quelle
istanze inascoltate, quelle voci furenti, quella rabbia indicibile, quella
voglia di punire (politicamente) i traditori che hanno portato lo Stato a tali
livelli di inefficienza, corruzione, mediocrità, sono state rappresentate,
hanno avuto la forza, il coraggio, di raccogliere consenso, hanno sconfitto
l’inerzia e la sfiducia che anima strutturalmente il popolo italiano da decenni
e forse da secoli.
Lo hanno fatto, e hanno vinto.
Parliamo
proprio del M5s e della Lega alle elezioni del 2018.
Certo,
si dirà, loro avevano questi difetti, erano compromessi in tali luoghi, con
tali personaggi etc.
Non
credo che questo sia vero, o che comunque rappresenti una critica sufficiente
per liquidare l’intero movimento anti-sistema che ha contraddistinto l’Italia
negli ultimi anni.
Quei
movimenti avevano portato personaggi mai visti nell’agone politico, alcuni di
essi avevano animato in prima persona il dibattito culturale contro le regole
europee e le asimmetrie strutturali dell’Area Euro.
Tutti
i parlamentari del M5s aderirono a rigide regole di comportamento e disciplina
morale. Insomma, non erano dei meri trasformisti adattati ad un improvvisato
radicalismo.
Prova
di questo è che milioni di cittadini italiani – che tra i tanti difetti hanno
il grande pregio di intuire la falsità – votarono questi movimenti in massa.
Poi
cosa è successo?
Duole
ricordarlo sempre, ma ritengo che la dinamica interna a questa legislatura sia
fondamentale per avere un quadro realistico su cosa sia diventata la nostra
democrazia.
Dal
2018 si sono susseguiti tre governi, tutti presieduti da personaggi esterni al
Parlamento e agli stessi partiti.
Tutti
e tre sono stati appoggiati da alleanze diverse.
Ad
eccezione di pochissimi parlamentari, abbiamo osservato congiunzioni
trasversali con tutto e il contrario di tutto.
Dopo
due anni dalle elezioni del 4 marzo 2018, che sancirono la sconfitta dei
partiti moderati e la denuncia radicale contro l’Unione Europea, ci ritroviamo
al governo tutti quei partiti che pensavamo di aver gettato per sempre nel
pattume (politico) della storia alleati proprio a quei movimenti che avevano
raccolto quelle istanze di cambiamento radicale.
E,
come premier, Mario Draghi.
Ora,
noi non ci rendiamo ancora conto delle conseguenze psichiche che questo
vergognoso tradimento ha suscitato in una parte consistente del popolo
italiano. Conseguenze psichiche che poi hanno immediate implicazioni politiche.
Se io faccio vincere dei movimenti così
radicali, così apparentemente estranei – soprattutto per il M5s – al sistema di
potere italiano, e nonostante tutto in meno di diciotto mesi me li ritrovo al
governo con il partito che di più ha rappresentato la gestione emergenziale
della crisi post-2008, e dopo due anni
al governo con il personaggio che ha gestito operativamente la crisi greca,
quella dei debiti sovrani, firmando egli stesso la lettera che esautorava un
governo democraticamente eletto dalla scrivania di un’istituzione
internazionale, che cosa posso pensare delle elezioni?
Penserò
una cosa molto semplice: non servono a nulla.
E avrò
ragione. Ed è questo il punto dirimente che non può essere più aggirato.
C’è un
vuoto di potere non un vuoto di rappresentanza.
Il vuoto di potere significa che un altro
potere persegue una propria agenda politica, a prescindere e spesso in antitesi
ai risultati elettorali.
È complottismo questo?
No, è
la descrizione di ciò che è avvenuto nella storia italiana negli ultimi anni,
con origini che forse si radicano nei decenni o chissà forse anche nei secoli
passati.
È
l’agenda di una politica internazionale bloccata, di un’adesione indiscutibile
all’Europa a trazione franco-tedesca, di un sistema di potere mediatico
immobilizzato e immobilizzante, di vasti gruppi di interesse che influenzano da
dentro la pubblica amministrazione, di infiltrazioni – spesso anche criminali –
nei centri politici decisionali.
È un
sistema plurale, variegato, che certamente non si può ridurre ad una unicità.
Ma, allo stesso tempo, ha i suoi interessi convergenti.
E quando emerge un rischio concreto di
minaccia si compatta saldamente per difenderli.
Chi
per interesse di gruppo, chi, più volgarmente, per accreditarsi in determinati
ambienti internazionali.
Non
basta vincere le elezioni.
Questo
è il dramma che ci dà questa legislatura, ed è il codice iscritto
nell’inconscio collettivo del nostro popolo:
che
serve votare se non basta vincere le elezioni?
È già
impossibile vincerle (data la compattezza mediatica), ma se anche quando le si
vince comunque il sistema riesce a piegare il risultato elettorale ai propri
vantaggi, che senso ha partecipare a questa ridicola pantomima?
Che
senso ha faticare, buttare sangue dietro a queste illusioni? Che senso ha
soffrire?
Ecco,
il risultato di queste elezioni ci comunicano questo disprezzo realista del
popolo italiano.
La
politica ha tradito e non merita alcuna legittimità.
Ci
sono, certamente, eccezioni, e le generalizzazioni servono in questi casi dove
la sintesi è necessaria.
Tuttavia,
vorrei capire dove si annidano queste eccezioni e cosa hanno detto quando un
chiaro progetto anti-democratico e neo-oligarchico veniva portato avanti.
Ecco,
spesso sono rimasti in silenzio.
E se
sei un politico, il silenzio è d’oro solo se vuoi mantenere il tuo fondoschiena
ben saldo alla poltrona.
Non
c’è solo un vuoto di rappresentanza, c’è un vuoto di potere, ossia uno
scollamento tra il potere e la sua legittimità democratica.
Il vuoto del potere democratico è il reciproco
di un potere denso e diffuso, saldo, molto presente e molto scaltro, estraneo
ad alcuna legittimazione popolare. Dobbiamo, quindi, evitare facili ottimismi o
spiriti volontaristici.
Se non
riusciremo ad intervenire su queste strutture, si potrà fare poco, e forse
l’intero corso democratico-moderno si ridurrà ad una mera formalità, fino a
quando – e forse sarà addirittura meglio almeno ai fini di una maggiore onestà
– si deciderà di rinunciare anche a questi sacralismi elettorali.
(Gabriele
Guzzi e L'Indispensabile).
Liberalismo
e potere.
Pandorarivista.it - Guido Parietti – (13
aprile 2023) – ci dice:
Per
noi, oggi ma più in generale nella modernità, il potere si presenta come un
problema.
Certo, dobbiamo riconoscere come l’ambito
della possibilità, che il concetto “potere” definisce per noi in quanto tale,
implichi il conflitto;
se non attuale quantomeno sempre potenziale.
Resta
tuttavia un abisso tra il corretto riconoscimento di questa problematicità
polemica, intrinseca al potere, e la riduzione di quest’ultimo ad un concetto
pressoché esclusivamente negativo.
Considerando
come l’opposto del potere sia ovviamente l’impotenza – e come d’altronde non si
possa dare libertà, in senso pratico-politico, senza che i soggetti di questa
libertà siano al contempo dotati, almeno in qualche misura, di potere – appare
strano che il nostro concetto sia perlopiù considerato negativamente.
Eppure,
nulla è più comune della concezione del potere come dominazione, oscura
presenza oppressiva variamente opposta alla libertà, anziché come una
condizione alla quale legittimamente aspirare.
Perché,
dunque, ci è così facile ridurre il potere alla dominazione come opposto della
libertà?
L’identificazione tra potere e dominazione è,
per noi, radicata nella concezione liberale di tali questioni.
Con l’aggettivo “liberale” non si pretende di
definire alcuna unità essenziale, ma soltanto indicare in senso lato
quell’insieme di dottrine che, variamente centrate sul valore della libertà,
sono state nel tempo comprese entro tale etichetta.
Il
liberalismo, così largamente inteso, rappresenta una peculiare famiglia di
dottrine politiche.
La sua ragion d’essere è difendere gli individui da
ogni eccessiva interferenza esterna, cosicché essi – non lo Stato né alcuna
altra autorità – possano decidere cosa fare delle proprie vite.
Secondo l’influente teoria di “John Rawls”,
nessuna “dottrina comprensiva” – sia essa morale, religiosa, o politica –
dovrebbe essere imposta;
ciascuno dovrebbe essere libero di scegliere
la propria concezione del bene, purché essa sia “ragionevole” nel senso di
riconoscere reciprocamente la stessa libertà ad ogni altro individuo.
Ci si
potrebbe aspettare che da tale rinuncia all’imposizione di una determinata
visione del bene segua una posizione relativista.
Tuttavia,
pur con notevoli eccezioni, i liberali sono quasi tutti moralisti.
Sinteticamente,
possiamo dire che i vari liberalismi hanno perlopiù seguito l’esempio di “Locke”
nel concettualizzare la libertà individuale come un diritto al contempo morale
e naturale.
Certo,
la maggior parte dei liberali non difenderebbero più la legge naturale come
oggetto metafisico;
tuttavia i diritti sono ancora oggi
prevalentemente concepiti come esterni al potere politico – a sua volta
perlopiù centralizzato nello Stato – e azionabili contro di esso.
Partendo
dalla libertà come valore morale, «il liberalismo ha un solo imprescindibile
obiettivo: assicurare le condizioni politiche necessarie all’esercizio della
libertà personale».
Questa prospettiva, necessariamente,
interpreta il potere come una qualità negativa.
Ciò è
evidentemente vero nel caso del potere come dominazione sfrenata;
ma
ogni potere rischia sempre di oltrepassare argini e confini, o semplicemente di
essere esercitato malevolmente.
Relativamente
all’insieme dei diritti dati – morali e/o naturali, ma comunque pre-politici –
il potere può essere esercitato in due soli modi: per imporne il rispetto
oppure per lederli.
Nel
primo caso, il potere che difende i diritti è normativamente encomiabile;
e però dal punto di vista liberale corrisponde
alla doverosa attualizzazione di verità stabilite “all’esterno” del potere e
della politica.
Entro lo schema che assegna la libertà agli
individui in quanto tali, considerandola come proprietà da proteggere da
interventi esterni, al potere – che qui vale anche a dire: alla libertà
esercitata in pubblico, alla politica – non resterebbe altro spazio legittimo
che quello di eseguire l’ordine moral-legale di far rispettare i diritti.
Comprenderemo
facilmente come un “potere” che può solo obbedire a uno specifico comando non
sia propriamente tale.
D’altro
canto, un potere arbitrario, “libero” d’infrangere i diritti, potrebbe dirsi
propriamente tale, ma con ciò sarebbe anche normativamente condannabile per
definizione.
In
astratto, si potrebbe pensare esista una terza possibilità, quella di un potere
che non si esercita né nel ledere né nel proteggere i diritti individuali – un
potere, per così dire, indifferente.
Stanti le premesse liberali, tuttavia, non c’è
spazio per questa possibilità.
Da un
canto, le stesse relazioni che sono condizione per la presenza del potere fanno
anche sì che ogni suo esercizio abbia ripercussioni tendenzialmente infinite. In linea di principio, la famosa
formula “la libertà di ognuno finisce dove inizia quella degli altri”, in un
pianeta affollato come il nostro, non lascerebbe spazio per alcun esercizio
della libertà che produca qualche effetto (libertà effettuale che, di nuovo,
non è altro che il potere).
Tendiamo, certo, a non pensare così
letteralmente, e implicitamente adottiamo varie soglie di rilevanza per
giudicare cosa leda la libertà altrui e cosa no.
D’altro canto, è facile osservare come
l’elenco dei diritti considerati rilevanti tenda sempre ad allungarsi,
restringendo perciò anche nella prassi, oltre che in linea di principio, lo
spazio legittimamente disponibile per il potere.
Per
queste ragioni, il sospetto verso il potere – che è per noi assieme ovvio,
eppure così paradossale se solo riflettiamo sulle implicazioni – è
profondamente intrinseco al liberalismo.
Il potere, nella forma di uno Stato che si
faccia garante dei diritti, può essere tutt’al più un male necessario, oppure
semplicemente un male da eliminare appena possibile.
Due
note sono qui necessarie.
Da un lato, ragionamenti analoghi valgono non
solo per il liberalismo, ma per qualsiasi teoria che pensi la politica come
fondata su valori esterni al potere e alla politica stessa.
Potremmo
risalire all’indietro almeno fino a Platone, ma lo stesso schema si ripete
attraverso visioni teologiche della politica e della storia fino anche
all’utilitarismo contemporaneo.
Quando la politica è pensata come serva di
valori altrove stabiliti, il potere è da ridursi, alternativamente, a necessità
impotente o potenza demoniaca.
Tuttavia,
il liberalismo resta l’esempio più rilevante non solo perché rappresenta
l’ideologia egemone nella tarda modernità, ma anche perché il fatto che il suo
valore specifico sia la libertà eleva il sospetto verso il potere ad un vero e
proprio paradosso, come non accadrebbe per altre prospettive filosofiche o
religiose.
D’altro
canto, dobbiamo anche notare come il tratto distintivo del liberalismo non stia
nella libertà in quanto tale, ma nella sua opposizione al potere, derivante
appunto dall’essere essa concepita come valore pre-politico.
Se,
infatti, la tradizione filosofica non è mai stata molto favorevole alla libertà
pratica (non parliamo qui di libero arbitrio o altre difficili astrazioni), al
contrario l’esaltazione della libertà caratterizza il pensiero propriamente
politico dall’antichità fino ad oggi.
Ma,
benché sia sempre stato chiaro come l’essere in potere d’altri fosse
incompatibile con la libertà propria, il pensiero che i concetti stessi di
potere e libertà possano essere opposti è fondamentalmente moderno.
Il
liberalismo, sempre inteso in senso lato, corrisponde, sia pur ad un alto
livello d’astrazione, alla paradossale politicizzazione della medesima tendenza
antipolitica che ha percorso tanto la filosofia occidentale quanto la teologia
cristiana.
Dalla,
comune, pretesa di fondare la politica su valori “esterni” discende il giudizio
negativo sul potere;
ma il
liberalismo si fa erede della tradizionale esaltazione politica della libertà.
Da ciò l’impossibile domanda normativa di libertà senza potere.
Impossibile
non solo perché, come ogni buon realista farebbe notare, il potere non può
essere rimosso dalla politica, ivi comprese le pratiche necessarie a
determinare e difendere i diritti liberali.
Ciò
non fa una piega dal punto di vista pratico, ma il problema più profondo è
concettuale.
Se
anche potere e libertà possono non coincidere integralmente, è chiaro che non
si può essere liberi senza essere anche potenti nell’ambito volta a volta
rilevante.
Quest’ultimo
varia attraverso diversi registri.
Così,
essere legalmente liberi significa avere un insieme di poteri legalmente
riconosciuti, mentre si potrebbe argomentare come per essere “davvero” liberi
ci voglia molto di più, come ad esempio il potere di condursi secondo ragione,
o l’accesso alle risorse necessarie a fare effettivamente uso dei suddetti
poteri legalmente riconosciuti.
Così, essere libero nel ruolo di un
imprenditore non è la stessa cosa, e non implica gli stessi poteri, dell’essere
libero in quanto cittadino, artista, lavoratore e così via.
Nondimeno,
entro il medesimo contesto semantico l’essere libero implica avere potere,
perché sarebbe insensato dire che sono libero di fare qualcosa che non posso
fare – a meno che, di nuovo, libertà e potere non si riferiscano a differenti
contesti.
Si
potrebbe rispondere che la questione sia meramente terminologica.
Magari
i liberali si esprimono talvolta confusamente, ma ciò che avversano è il potere
esercitato come controllo sugli altri, il “potere-su” o la dominazione, non il
più generale “potere-di”, che è il concetto direttamente implicato dalla
libertà.
Da un punto di vista logico, il primo è un
sottoinsieme del secondo; perciò, l’assenza di potere-su è almeno
concettualmente possibile, per quanto difficile da realizzare nella prassi.
Dunque,
l’appiattimento del potere in generale sul “potere-su” potrebbe essere
considerato un errore veniale, perché una condizione di libertà/potere priva di
potere-su/dominazione potrebbe pur sempre funzionare come ideale normativo, se
non proprio come immediato progetto politico.
Qui, però, dobbiamo fare attenzione a
mantenere la distinzione concettuale senza omettere di considerare la relazione
tra i due concetti.
Infatti,
benché “potere-su” e “potere-di “restino distinti, e il primo denoti un
sottoinsieme del secondo, nelle nostre condizioni pratiche, ogni rilevante
esercizio del potere implicherebbe un “potere-su-altri”, violando perciò il
valore morale della libertà come concepito dai liberali.
Banalmente,
è difficile immaginare un effettivo esercizio del potere politico che non
comporti un qualche effetto su una o più persone diverse da coloro che tale
potere hanno esercitato.
Questa
nota di buon senso non ci porta tuttavia al cuore della questione; come già
osservato, se il problema fosse puramente pragmatico l’assenza di potere-su
potrebbe comunque funzionare come ideale normativo, per quanto impossibile da
realizzare compiutamente (ma in ciò non diverso da molti altri, e perfettamente
validi, ideali).
Piuttosto,
è il significato stesso del concetto di potere a implicare una relazione
necessaria – benché non l’identità – tra” potere-di” e” potere-su”.
Qualsivoglia potere implica la presenza di
possibilità, disponibili e rappresentate come tali da persone nel mondo.
In solitudine, senza un linguaggio condiviso e
senza l’interazione con altri, non avremmo rappresentazioni, non avremmo un
mondo, non avremmo dunque potere.
È poi ovvio come ogni potere influenzi il
mondo.
Non soltanto l’esercizio del potere, ma anche
la sua mera esistenza contribuisce a definire il mondo in cui viviamo, e dunque
ciò che ci appare possibile.
Ne
consegue come il mero essere di alcuni in condizione di potere interferisca con
le possibilità disponibili agli altri, possibilità che definiscono la loro
libertà, che è poi a dire il loro potere.
In
termini un poco più concreti, è evidente come il mero fatto dell’esistenza di
persone e gruppi dotati di potere, anche quando questi non lo esercitino o lo
esercitino in modi che non ci toccano direttamente, contribuisca a disegnare le
prospettive che ciascuno di noi ha sul mondo.
Non è
perciò possibile separare praticamente, come lo è concettualmente, il
“potere-di” dal “potere-su”, e questo non soltanto per ragioni empiriche ma
anche perché sono le condizioni stesse del potere a costituire queste
co-implicazioni.
Nelle
parole di “Hannah Arendt”:
il
potere è limitato da «… l’esistenza di altre persone, ma questa limitazione non
è accidentale, perché il potere umano corrisponde in primo luogo alla
condizione della pluralità».
In questione non è dunque l’impossibilità di
realizzare compiutamente una visione utopica, che in quanto tale potrebbe pur
sempre essere legittima.
Piuttosto, il dato è che soltanto il completo
annullamento del potere consentirebbe di eliminare ogni traccia di “potere-su”,
da cui appunto la paradossale, spesso inconsapevole, esaltazione dell’impotenza
che possiamo osservare in tanti liberalismi.
Ora,
criticare le tendenze anti-politiche del liberalismo non è di per sé cosa
nuova. Dai
reazionari dell’ancien regime al marxismo, passando per “Carl Schmitt” e tanti
radicali di destra e di sinistra, molti hanno avvertito come problematico
l’atteggiamento del liberalismo verso la politica.
Tuttavia,
queste critiche tendenzialmente dipendono da una visione del mondo sostanziale,
complessivamente diversa da quella liberale, esponendosi così alternativamente
all’essere ignorate per principio o all’impelagarsi in infinite questioni sia
di fatti sia di norme.
Viceversa,
qui abbiamo cercato di mostrare come il fondamentale problema di un approccio
liberale alla politica non dipenda né dal diverso apprezzamento di fatti
empirici, né da diversi presupposti normativi.
Piuttosto, è l’analisi concettuale che da un canto ci
rende comprensibile la tendenza liberale ad appiattire il potere in generale
sui suoi aspetti di controllo e dominazione, e quindi ad avversarlo, mentre
dall’altro evidenzia l’assurdità paradossale di tale tentativo.
È
l’idea stessa della libertà come condizione moral-naturale, anziché come
creazione politica, a rendere il liberalismo – perlomeno nelle sue versioni
egemoniche – intrinsecamente avverso al potere e, perciò, alla politica.
Certo,
i liberali non sono sempre perfettamente tali, le loro teorie non sono
identiche alle loro prassi, e il mondo che abitano è lungi dall’essere
integralmente determinato dal liberalismo.
Perciò, i tanti attori politici, singoli e
collettivi, che nel senso più lato si possono identificare con il liberalismo,
certamente creano ed esercitano potere, benché incapaci di comprenderlo nel
proprio schema teorico.
Non sempre la mancanza di chiarezza concettuale ha
dirette implicazioni pratiche; ma è nei momenti di crisi, quando le teorie
politiche devono essere ripensate e le pratiche ch’esse informano adeguatamente
riorganizzate, che i nodi vengono al pettine.
A
parere di chi scrive, le questioni più concrete con le quali ci affliggiamo,
specie in questi ultimi anni – si potrebbero fare molti esempi, ma pensiamo
soltanto alla diffusa tendenza verso un elitismo tecnocratico, cui poi si
contrappongono irrazionali e violente reazioni populiste – non si possono
affrontare, o davvero neanche porre in modo intelligibile, senza chiarire i
concetti fondamentali che, a partire proprio dal potere, usiamo in maniera
distratta e confusa, tanto nell’accademia quanto nel discorso pubblico.
Per essere in grado anche solo di pensare
coerentemente la politica, dobbiamo smantellare l’opposizione tra potere e
libertà.
Questo,
però, senza perdere contatto con la realtà delle condizioni del potere, che non
ci consentono d’immaginare libertà prive di effetti sugli altri e sul mondo che
condividiamo.
Il
compito certo eccede la dimensione di queste poche parole, che hanno solo
tentato di inquadrare il problema.
L'INTERVISTA/
BEATA KEMPA.
Fermare
la deriva europea,
Ue
sempre più super-Stato.
Lanuovabq.it
– Wlodzimierz Redzioch – (24 – 02 –
2024) – ci dice:
Debito
comune, per le emergenze. Poi una politica fiscale comune, infine un bilancio
comune?
Ue sempre
più super-Stato.
Parla “Beata Kempa”, deputata polacca.
Beata
Kempa è un politico polacco di lungo corso:
per 15
anni nel Parlamento polacco, ex capo della Cancelleria dei primi ministri della
Polonia Szydlo i Morawiecki e dal 2019 deputato del Parlamento Europeo, del
partito Polonia Sovrana (Suwerenna Polska).
Negli
ultimi anni passati tra Bruxelles e Strasburgo ha potuto conoscere bene la
situazione nei centri di potere dell’Ue e i meccanismi della politica
comunitaria.
Ne
abbiamo parlato con l’on. Kempa.
Per
lottare contro le conseguenze della pandemia di Covid-19 a Bruxelles si è
deciso di fare il debito comune dei Paesi dell’Unione Europea.
Doveva
essere un caso eccezionale, una mossa “forzata” causata dalla pandemia. Ma si
scopre che lo stesso meccanismo è stato applicato al programma d’aiuto
all'Ucraina.
Onorevole,
davanti ai nostri occhi si sta formando un'unione fiscale?
Bisogna
chiarire una cosa:
le regole dell'Unione Europea non prevedevano
la possibilità di creare un debito comune o di sostituire bilanci dei Paesi
membri con un bilancio centrale.
Invece
questo si sta facendo e ciò ogni mese crea nuovi problemi.
Da qui
l’improvvisa svolta verso il fiscalismo.
Perché
l’Ue ha bisogno sempre di più soldi?
Perché
chi governa oggi l’Ue ha tendenze megalomani e ha creato il grande buco nel
bilancio comunitario.
Prendiamo per esempio la “svolta” verde.
Si
sapeva dall’inizio che non ci sono soldi per realizzare il “pacchetto Fit for
55”: la Commissione europea ne era consapevole fin
dall'inizio ma, furbescamente, ha voluto scaricare i costi del pacchetto sui
Paesi membri.
L’unione
fiscale è un altro passo verso la centralizzazione dell’Ue?
Senz’altro.
Vediamo cosa sta succedendo.
Sempre più ambiti della nostra vita sono
subordinati alle decisioni di Bruxelles. Qualsiasi motivo è buono per
centralizzare le decisioni nell’UE.
Ora si
sono aggrappati al fatto della guerra tra Russia e Ucraina e le decisioni
devono essere prese più velocemente.
Magari
da 15 persone che tengono il potere.
Ogni pretesto è buono per procedere sulla strada di
costruzione del superstato oligarchico europeo.
E
l'unione fiscale sarà uno dei primi passi?
Penso
che la Commissione Europea ci farà indebitare tutti, ma questi enormi prestiti
dovranno essere ripagati.
E alla fine diranno:
le
cose sono andate molto lontano, abbiamo un debito comune, comune bilancio,
piani comuni per il futuro, quindi dobbiamo accettare la formazione di un
superstato.
Inoltre, per realizzare questo scopo Bruxelles
vuole costringere tutti i Paesi a introdurre la valuta Euro.
E
abolire il diritto di veto?
L’oligarchia
di Bruxelles combatte molto duramente il potere di veto dei Paesi membri.
La sua
abolizione viene percepita come una priorità.
Oggi
le decisioni riguardanti bilancio e le questioni fiscali devono essere sempre
unanimi.
Se
riesce ad attuare il piano di abolire il potere di veto, non c'è niente e
nessuno che fermerà Bruxelles ad introdurre nuove tasse.
Col tempo – e non è fantascienza – verranno aboliti i
bilanci nazionali.
Ma
tutto questo vuol dire cambiare radicalmente l’Unione Europea, stravolgere i
Trattati…
È
ovvio che a Bruxelles vogliono cambiare i Trattati dell’Ue nel senso di
federalizzazione o addirittura di centralizzazione.
Ma si
fa tutto questo quasi alla chetichella.
In Polonia e Ungheria vogliamo sensibilizzare
i nostri connazionali sul problema della federalizzazione dell’Ue perché la
gente ha diritto di sapere in quale direzione sta andando l’Europa.
Purtroppo, noto che in altri Paesi dell’Ue non
c'è stata una discussione sull'argomento, quali azioni vengono intraprese
riguardo alle modifiche del Trattato.
Sembra
una congiura non soltanto dei politici ma anche dei media…
Ogni
volta che veniva sollevata la questione del cambiamento dei trattati, facevamo
un’analisi approfondita dei media europei.
E –
attenzione! – soltanto i media polacchi e ungheresi erano veramente interessati
a questo problema.
Temo che la gente si sveglierà a cose fatte,
quando si renderanno conto che i loro Paesi hanno perso la loro sovranità e
loro vivranno in un superstato europeo.
Ma la
gente sembra svegliarsi: basta vedere gli scioperi degli agricoltori in tutta
l’Europa che hanno capito che i primi nemici della agricoltura europea siedono
nelle istituzioni dell’Ue…
E
hanno ragione.
Le
folle politiche verdi di Bruxelles colpiscono prima di tutto loro.
Ma volevo sottolineare un altro fatto:
l’Ue è un moloch assetato sempre di soldi.
Ogni
fonte di denaro è buona ma si provvede anche a tagliare i fondi come quello per
la politica agricola comune.
Questo
si può vedere chiaramente:
il Parlamento Europeo e la Commissione
chiedono agli agricoltori di ridurre la loro attività e allo stesso tempo si
progettano accordi con gli altri Paesi extra Ue e organizzazioni internazionali
che porterebbero alla distruzione dell’agricoltura.
L'implementazione del pacchetto Fit for 55 è
accompagnata da una campagna di propaganda che presenta gli agricoltori come
inquinatori del pianeta (l'allevamento e colture che emettono gas serra).
Per
ora Bruxelles chiede agli agricoltori di ridurre parte della loro attività,
dopo taglierà i programmi di aiuto all’agricoltura.
Allora
hanno regione gli agricoltori indicando le politiche dell’Ue come causa dei
loro guai.
Come
si può fermare questa deriva dell’Ue?
Soltanto
con le prossime elezioni per il Parlamento europeo che, secondo me, saranno le
più importanti nella storia dell’Ue allargata.
L’Europa
non è (ancora) riuscita
a
costruire un destino comune.
Linkiesta.it - Goran Rosenberg – (03-01 -2024)
– ci dice:
La
federazione è una nozione denigrata che evoca la minaccia di un Superstato
onnipotente.
Ma si
tratta di un fraintendimento di ciò che è (e può essere) una federazione: e
cioè una soluzione politica molto adatta a un continente così disomogeneo e
conflittuale
(Questo
è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World
Review del New York Times).
Un
progetto di “Vox Europa” in collaborazione con “Eurozone “indaga attraverso sei
saggi il futuro dell’Europa, rileggendo alla luce del conflitto scatenato
dall’invasione russa dell’Ucraina uno storico intervento del 2003 di Jürgen
Habermas e Jacques Derrida.
Qui si
può leggere il primo intervento, qui il secondo, qui il terzo, qui il quarto.
L’Unione
europea è il prodotto di guerre:
di due
guerre mondiali che hanno quasi messo fine all’Europa come la conosciamo, della
Guerra fredda che sembra aver calato una cortina di ferro che divide ancora il
continente e di un’esperienza quasi mortale per l’Europa in quanto idea.
Perché,
più di ogni altra cosa, l’Europa è un’idea:
l’idea
nella quale molte persone, con lingue e culture diverse, affollate su una
penisola irregolare all’estremità occidentale del continente asiatico,
condividono una casa e un destino comune.
Questa
molteplicità culturale non è una caratteristica recente dell’Europa, quanto
piuttosto la sua situazione geopolitica e, allo stesso tempo, la sua sfida.
Questo significa che l’Europa ha un problema
con sé stessa, poiché i suoi abitanti non sono ancora riusciti a condividere né
una casa comune né un destino comune. Molte persone hanno creato la loro casa
in Europa, a volte sulle rovine di quelle degli altri, ma l’Europa in sé non è
riuscita a diventare casa per nessuno.
L’Unione
europea è rimasta un progetto in cui solo i Paesi costituenti sono stati in
grado di ottenere il senso di appartenenza e fedeltà associato alla nozione di
“casa”.
Questo si è visto quando il Regno Unito è
uscito dall’Unione, sbattendo la porta e suscitando richieste di ulteriori
uscite dall’Ue, Swexit, Italexit, Öxit, eccetera.
O, come ha recentemente dichiarato l’ex
ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer:
«L’Europa
si trova in una regione sempre più pericolosa, eppure rimane una confederazione
di Stati nazionali sovrani che non hanno mai messo insieme la volontà di
raggiungere una vera integrazione, anche dopo due Guerre mondiali e la Guerra
fredda.
In un mondo dominato da grandi Stati con
bilanci militari in crescita, l’Europa non è ancora una vera potenza».
Quindi
era forse ora che alle tante nazioni che formano l’Europa venissero ricordate
le condizioni geopolitiche per la loro indipendenza e sicurezza.
Ciò è
avvenuto la mattina del 24 febbraio 2022, quando la Russia di Vladimir Putin ha
lanciato la sua immotivata guerra di aggressione, non solo contro l’Ucraina, ma
anche contro l’ordine di sicurezza che le nazioni europee, sia quelle che
appartengono alla Nato sia quelle che non ne fanno parte, davano per scontato.
Stati
Nazione disparati (e disperati).
Da
quel momento, nulla può essere dato per scontato.
I tempi sono cambiati, come ha dichiarato il
cancelliere tedesco, “Olaf Scholz”, tre giorni dopo il pesante attacco a Kyjiv.
Ancora una volta, alle nazioni europee è stato
brutalmente ricordato che se non possono mantenere, e se necessario difendere,
ciò che hanno in comune, potrebbero ritrovarsi senza più niente da condividere.
E, di nuovo, l’Europa diventerebbe un insieme
di Stati nazionali disparati, ciascuno troppo piccolo e debole per affermarsi
in un mondo in cui la forza vince:
questo è il mondo che si aprirebbe in caso di
vittoria di Putin.
Certamente,
l’Unione europea ha le sue debolezze e i suoi difetti, e soffre di un deficit
di democrazia, ma è di gran lunga il tentativo più democratico di costruire una
comune struttura politica da parte di molte delle nazioni della penisola
europea.
Senza
una struttura politica comune europea, come sostenevano gli ideatori e
architetti originali del progetto, si sarebbe aperta nuovamente una strada
verso il conflitto, la guerra e l’autodistruzione.
La
loro strategia era quella di preparare il terreno, partendo da una comunità
economica per poi arrivare, citando le parole del “Trattato di Roma del 1957”,
a «porre le basi di un’unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa».
All’inizio
questa strategia è stata così efficace che tante nazioni hanno progressivamente
voluto far parte di questa unione ed è stato quindi molto facile dimenticare
quanto essa fosse anche fragile e vulnerabile:
vulnerabile
al dissenso nazionalista presente al suo interno e vulnerabile alle pressioni
divisive provenienti dall’esterno.
E
vulnerabile anche, come si sarebbe scoperto più tardi, a causa della sua
dipendenza in tema di sicurezza dagli Stati Uniti, che potrebbero ancora una
volta eleggere un presidente pronto a rompere l’Alleanza transatlantica e a
lasciare gli europei a difendersi da soli.
Da
questo punto di vista, la reazione istantanea e viscerale dell’Europa
all’attacco russo ha fatto ben pensare.
L’impegno
per la causa dell’Ucraina è stato profondo e ampio, così come la disponibilità
a sopportare le potenzialmente dure conseguenze della chiusura dei rubinetti
del petrolio e del gas russi.
La
decisione immediata di Svezia e Finlandia di richiedere l’adesione alla Nato è
stata invece una drammatica inversione di posizioni mantenute a lungo.
Habermas,
Derrida e la debolezza intrinseca dell’ Europa.
È vero
che il monito di Vladimir Putin non ha portato immediatamente a riaprire il
dibattito su come rafforzare l’Unione europea, ma è anche vero che i partiti e
i movimenti apertamente anti-Ue (in Svezia e in Italia, ad esempio) hanno
iniziato a rivedere le loro posizioni, poiché la percezione di una minaccia
comune e di un nemico comune ha (ri)suscitato il senso di una causa europea
comune.
Quando,
in seguito all’invasione americana dell’Iraq nel 2003,” Jürgen Habermas” e “Jacques
Derrida” lamentarono la mancanza di una comune politica europea estera e di
sicurezza, erano pienamente consapevoli delle debolezze intrinseche nella
struttura dell’Unione europea.
Una struttura politica basata sul consenso
intergovernativo, con ciascuno degli Stati membri dotato del potere di veto,
avrebbe inevitabilmente visto la portata delle sue decisioni definita dai suoi
membri più restii.
«Se non vogliono che l’Europa si disintegri»,
scrivevano all’epoca Habermas e Derrida, «gli Stati membri che desiderano
dotarsi di una politica estera, di difesa e di sicurezza comune dovrebbero fare
i primi passi da soli, creando così una dinamica alla quale gli altri Stati
membri non potranno resistere a lungo».
Habermas
e Derrida non potevano certo immaginare un’aggressione militare russa su vasta
scala contro una nazione europea indipendente, ma, avendo visto la superpotenza
americana agire da sola in Iraq, calpestando i suoi alleati europei con una
“coalizione dei volenterosi” che aveva messo gli europei gli uni contro gli
altri, i due filosofi pensavano fosse urgente trovare una soluzione alle
debolezze politiche intrinseche dell’Europa.
Nella
loro ricerca di un’Europa più forte, hanno intrapreso un cammino ben battuto.
Il tentativo di ampliare e approfondire i
legami politici tra le nazioni europee e di ridurre il deficit democratico era
stato un compagno ricorrente del continuo ampliamento e approfondimento dei
legami economici e giuridici.
Come
molti altri prima di loro, Habermas e Derrida riponevano le loro speranze nella
promozione di un’identità europea comune e scrivevano:
«I cittadini di una nazione devono considerare
un cittadino di un’altra nazione pensando: è “uno di noi”».
Lo
spettro di un superstato europeo.
Anche
se all’epoca era già evidente che fosse più facile a dirsi che a farsi, la
speranza che il mercato comune europeo e la moneta comune avrebbero favorito
una cittadinanza europea basata su un’identità europea emergente si è rivelata
vana.
Molto
spesso i sostenitori di un’Unione europea più coesa e di una struttura politica
europea più forte si sono scontrati con la difficoltà politica di trasferire la
legittimità democratica, la fiducia e il potere formale dalle istituzioni
nazionali a quelle transnazionali.
Lo
spettro di un Superstato europeo che calpesta il governo nazionale e
indebolisce il controllo democratico è rimasto un efficace spauracchio nei
dibattiti sul futuro costituzionale dell’Europa.
Di
conseguenza, questi dibattiti non sono riusciti a generare la volontà politica
di creare una federazione di Stati nazionali europei, rappresentati da un
organismo democratico, legittimo e sufficientemente potente per essere
incaricato del futuro comune dei suoi membri, in un mondo in cui tale destino
potrebbe ancora una volta essere determinato da altri, o cadere preda della
loro propensione al conflitto interno e all’autodistruzione.
Habermas
e Derrida erano entrambi profondamente consapevoli dei «tradimenti
dell’identità europea», cioè dell’intrinseca molteplicità nazionale e culturale
(«la selvaggia cacofonia di una sfera pubblica multi vocale») da cui dovrebbe
emergere un senso di identità e destino comune europeo. E riconoscevano che ciò
non era ancora avvenuto.
A
vent’anni di distanza, in un momento in cui l’impulso storico si è in gran
parte esaurito e molte energie politiche sono state spese per attaccare e
indebolire i principi dell’Unione, la causa di un’Europa più forte, con
un’autentica politica estera e di sicurezza comune, ha ricevuto il suo
argomento più eclatante.
O,
come ha detto “Radek Sikorski,” ex ministro della Difesa e degli Esteri della
Polonia:
«Per
sopravvivere e prosperare in un mondo di giganti che combattono, l’Europa deve
trasformarsi, da confederazione militarmente debole in una vera superpotenza».
La
parola con la “F”.
Dobbiamo
capire se il ravvivato senso di pericolo e un’agenda comune possano tradursi in
una nuova spinta per la costruzione e la ricostruzione europea.
Se così fosse, credo che dovremmo chiederci
ancora una volta quale tipo di ordine costituzionale potrebbe consentire alla
pluralità intrinseca dell’Europa – che è fatta di popoli, lingue, culture e
interessi diversi – di identificarsi e obbedire a una politica estera e di
sicurezza comune.
Conosco
un solo ordinamento costituzionale in grado di riunire le numerose comunità
europee nel quadro di un ordine sociale comune e ragionevolmente legittimo: la
federazione.
Sfortunatamente, la federazione è una nozione
denigrata che evoca la minaccia di un Superstato europeo onnipotente, che
supera e sostituisce lo Stato nazionale.
Si tratta di un chiaro e spesso deliberato
fraintendimento di ciò che è – e può essere – una federazione.
“Federazione”,
nella sua accezione originale latina, significa semplicemente un’unione o un
trattato con nazioni fidate (“foedus”, da “fido”, “mi fido”), ed è la forma di
governo preferita da alcune democrazie occidentali, in particolare la Germania
e gli Stati Uniti.
“E
pluribus unum”, “dai molti uno”, è il motto della federazione americana fin dai
suoi albori e sarebbe forse ancor più applicabile alla situazione europea, dove
la diversità storica è maggiore, i precedenti di disunione e discordia più
disastrosi e la necessità di un ordine comune più impellente.
È vero
che la federazione è una forma sofisticata ed esigente di regime politico,
poiché si basa sul presupposto della diversità piuttosto che sull’omogeneità.
La Confederazione americana è stata
esplicitamente progettata per gestire i conflitti insiti nella società, creando
così una conseguente divisione dei poteri, in modo che, come scrisse “James
Madison in The Federalist”, «l’ambizione vanifichi l’ambizione».
I
padri fondatori dell’America hanno visto il loro Paese come il laboratorio per
la creazione di una società in cui degli uomini liberi potessero governarsi da
soli, senza re o principi, in una società basata sulla diversità e sul
disaccordo.
Credo
che l’Europa sia un laboratorio simile, che sta portando avanti un esperimento
più avanzato sotto molti aspetti, a causa della sua maggiore diversità e delle
sue esperienze passate e presenti più conflittuali.
Una
Costituzione federale per l’Europa potrebbe quindi tentare di creare ciò che
all’epoca i padri fondatori dell’attuale progetto europeo, a causa del
persistere di odi e risentimenti nazionali, potevano solo sognare:
creare
un livello transnazionale per deliberare e decidere in modo legittimo e
autorevole su questioni di interesse comune.
La guerra in Ucraina è un continuo promemoria
di quali siano questi interessi.
E potrebbe essere la nostra ultima occasione
per rafforzare l’idea di Europa.
(Traduzione
di Giulia Federica Gadoni | Voxeurop).
Le
prospettive dell’Europa
al
centro del confronto politico.
Asvis.it
– (21/5/2024)
– Redazione - FUTURAnetwork.eu – ci dice:
Materiali
per una scelta informata a meno di un mese dal voto: le divergenze tra
euroscettici e federalisti, il confronto tra i candidati di punta, documenti e
proposte ASviS e la necessità di confermare un percorso sostenibile.
Le
prospettive dell’Europa al centro del confronto politico.
Il
2024 rappresenta un importante banco di prova per le democrazie.
Nell’anno con più elezioni di sempre (oltre 60
Paesi e un quarto della popolazione mondiale chiamati alle urne), tra il 6 e il
9 giugno verrà scelto anche il nuovo Parlamento europeo.
Queste elezioni si svolgono in un momento in
cui la democrazia è messa in discussione in molte parti del mondo.
Nell’Unione europea, le sfide ai sistemi
democratici provengono sia dall’esterno che dall’interno, dagli stessi Stati
membri, e queste sfide sono spesso interconnesse.
“Più
forte di prima”.
Intanto
il 9 maggio, come ogni anno, si è celebrata la Festa dell'Europa, in ricordo
della celebre dichiarazione che Robert Schuman, allora ministro francese degli
Affari esteri, pronunciò nel 1950 nella Sala dell'Orologio del Quai d'Orsay.
Quel giorno resta nella storia dell'Ue come
l'atto di nascita del processo di integrazione europea.
Ma
qual è oggi lo stato di salute dell’Europa?
Intervenendo
a un evento nell’aula Giulio Cesare del Campidoglio, a Roma, il commissario
europeo all’Economia Paolo Gentiloni ha tracciato un bilancio: “Abbiamo cinque
anni alle spalle con due crisi enormi: la crisi del Covid e quella
dell'invasione russa, con tutte le sue conseguenze. Gli anni precedenti erano
stati ancora più difficili, culminati con l'uscita del Regno Unito".
Eppure, ha spiegato Gentiloni, "tutto sommato l'Europa è più forte di
prima”.
Il commissario ha fatto notare che, rispetto
alle elezioni precedenti, sono meno presenti i movimenti che spingono
all'uscita degli Stati dall'Unione:
“Se
guardiamo questa campagna elettorale in realtà ci sono meno ‘Exit’.
La
discussione è ormai su che tipo di Europa vogliamo, non più se la vogliamo o
meno”.
Poi ha
aggiunto che i valori europei sono temuti dalle autocrazie, e “non è un caso”
che oggi le piazze di Moldavia e Georgia “sono piene di bandiere europee”,
perché i cittadini di quei Paesi sono consapevoli di cosa significhi l’adesione
all’Ue.
Il
futuro delle istituzioni europee è stato ovviamente al centro di alcuni eventi
del “Festival dello Sviluppo Sostenibile” in corso in questi giorni, e qualche
settimana fa l’ASviS ha anche pubblicato il nuovo Quaderno “Obiettivi di
sviluppo sostenibile e politiche europee”, consegnato in anteprima al
presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il documento presenta l’ampio insieme di
strategie, normative e altri atti regolatori adottati nel corso dell’attuale
legislatura europea alla luce dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile
dell’Agenda 2030.
Come hanno sottolineato i presidenti
dell’ASviS Marcella Mallen e Pierluigi Stefanini, da questo insieme emerge
“l’ampiezza e la profondità dell’azione, fortemente innovativa, delle
istituzioni europee sulle diverse dimensioni della sostenibilità”.
La
prossima legislatura sarà decisiva per confermare quanto fatto finora, e non
solo in tema di sviluppo sostenibile.
Il
confronto.
A fine
aprile a Maastricht, luogo di nascita del Trattato del 1992 che ha istituito
l’Unione europea, c’è stato il primo confronto televisivo in diretta tra i
“candidati di punta” (Spitzenkandidat) per la carica di presidente della
Commissione.
Gli
otto esponenti, tra cui l’attuale presidente” Ursula von der Leyen”, hanno
risposto alle domande dei moderatori sui temi scelti dai giovani europei, in
particolare su tre questioni:
cambiamento
climatico, politica estera e di sicurezza e democrazia europea.
Anche l’attualità è entrata nel dibattito, con
le proteste degli agricoltori europei e la guerra a Gaza.
Per
un’analisi dettagliata vi rimandiamo a questo articolo di “Maurizio Ferrera”
sul Corriere della sera.
In
sintesi, vale la pena di ricordare alcune differenze rilevanti emerse dal
dibattito: ad esempio, la netta divisione tra coloro che chiedono nuovi
Eurobond per finanziare la politica climatica (soprattutto Bas Eickhout dei
Verdi e Nicolas Schmit di Pse) e coloro che preferirebbero integrare il
bilancio Ue designato con investimenti privati (von der Leyen).
Sul tema della democrazia, sono state
scambiate accuse di corruzione tra i candidati e i partiti da loro
rappresentati.
Diversi candidati hanno criticato von der
Leyen per la sua linea sul conflitto tra Hamas e Israele, chiedendo di definire
delle “linee rosse” all’azione di Netanyahu.
Von
der Leyen ha evitato di farlo, sottolineando la necessità di discutere questo
tipo di questioni con gli Stati membri.
Durante
il dibattito, Anders Vistisen, del partito di estrema destra Identità e
Democrazia (Id), si è scontrato più volte con gli altri leader su una serie di
questioni, comprese le accuse di influenze russe e cinesi.
I
programmi dei partiti.
Nel
“Rapporto di Primavera” presentato in apertura del Festival, l’ASviS compie
un’analisi dei programmi dei partiti politici europei che si presentano alla
prossima tornata elettorale.
Riassumendo
i punti principali, il “Ppe”, nel suo manifesto, mette l’accento sulla
sicurezza (difesa, industria degli armamenti, lotta all’immigrazione e al
terrorismo) e sulla competitività.
Il “Pse”
chiede politiche sociali, economiche e ambientali interconnesse e auspica una
trasformazione del sistema economico che metta maggiormente l’accento sulla
giustizia sociale.
Anche
il manifesto dei Verdi è molto sociale.
Il
testo di Alde, osserva il Rapporto, è invece un classico testo di ispirazione
liberale: molto progressista sui diritti civili e lo Stato di diritto,
pro-mercato in materia socioeconomica, e molto esplicito su difesa e industria
degli armamenti.
Per la
Sinistra le priorità sono l’antifascismo e la lotta al capitalismo
ordoliberale, la difesa dei servizi pubblici, l’ecologia integrale e la
pace.
Infine,
“Ecr” insiste sulla necessità di preservare l’identità nazionale.
L’Ue va riformata affinché faccia meno e
meglio.
Viene
quindi detto “no al superstato europeo” di Bruxelles, rileva il Rapporto, ma
anche alla riforma dei Trattati e, in particolare, all’estensione del voto a
maggioranza.
Rapporto
ASviS: “Accelerare e investire subito sulla transizione ecologica conviene”.
Sviluppato
con” Oxford economics”, lo studio con scenari al 2030 e al 2050 ribadisce che i
costi dell’inazione sono di gran lunga superiori a quelli dell’azione. La
trasformazione del sistema Italia porterebbe a +2,2% di Pil.
Il
dibattito sulla futura governance dell’Unione europea, che vede ai due estremi
dello schieramento i federalisti e gli euroscettici, non è nuovo, ma in queste
elezioni ha assunto una indubbia centralità.
L’Ue
deve sempre più saldarsi per affrontare le crisi multiple oppure lasciare che
gli Stati si salvino da soli?
“Enrico
Giovannini”, direttore scientifico dell’ASviS, ha provato a fare chiarezza
nella puntata del 3 maggio di “Scegliere il futuro” in onda su Radio Radicale:
“Più Europa o meno Europa non è soltanto una
questione filosofica, da questo dipende il nostro futuro.
Tra i
temi in discussione c’è la creazione di una difesa comune, un’unione
dell’energia, il rafforzamento dei poteri europei per la lotta alle
disuguaglianze.
C’è
una tendenza a ridurre lo spazio che l’Europa ha conquistato grazie alle
riforme costituzionali e anche alle crisi di questi anni.
È un tentativo molto evidente in tutte le
formazioni di centrodestra.
Quelle di centrosinistra hanno posizioni più
europeiste”.
Intanto,
alcuni sondaggi relativi alle elezioni di giugno prevedono un importante
spostamento a destra in molti Paesi, con i partiti populisti della destra
radicale che guadagneranno voti.
Questa “svolta” a destra potrebbe
probabilmente portare conseguenze significative per le politiche a livello
europeo, anche se il modo in cui questo rimodellerà l’assemblea dei 27 Paesi
dell’Ue dipenderà anche da altri fattori, a partire dalle alleanze che verranno
forgiate dopo il voto.
Calo
di fiducia.
Queste
elezioni arrivano in un momento in cui la fiducia nelle istituzioni europee,
sondaggi alla mano, continua a diminuire.
Pochi
giorni fa il “Democracy perception index” (Dpi) 2024, uno studio globale su
63mila persone provenienti da 53 Paesi, ha rilevato che l’insoddisfazione nei
confronti della democrazia si sta aggravando in alcune parti d’Europa, dove i
governi non sono all’altezza delle aspettative dei loro cittadini.
Mentre
la maggioranza delle persone nell’Ue (57%) considera democratico il proprio
Paese d’origine, in tre Stati membri – Francia, Grecia e Ungheria – la
maggioranza ora pensa di non vivere più in democrazie libere.
Questi
temi sono stati affrontati nel vertice sulla democrazia di Copenaghen del 14 e
15 maggio, durante il quale “Ursula von der Leyen” ha anche promesso un nuovo
“scudo europeo per la democrazia”, ovvero un piano per proteggere l’Ue dalle
interferenze straniere, se sarà riconfermata per un nuovo mandato.
“Vogliamo
un’Europa forte che lotta per i nostri valori e la nostra democrazia?
Oppure, d’altro canto, lasciamo che le nostre
democrazie vengano dirottate dai delegati e dai burattini degli autoritari?” si
è chiesta “von der Leyen”.
Secondo
molti osservatori, queste dichiarazioni giungono nel contesto di un crescente
timore che la Russia stia intensificando le sue operazioni per condizionare le
elezioni europee e manipolare l’opinione pubblica.
(Frederic
Köberl/unsplash).
Con
Donald Tusk arriva
l’Europa
della “sicurezza.”
Ilmanifesto.it
- Massimo Congiu – (26-1-2025) – ci dice:
(Visegrad
e oltre La rubrica settimanale sui sovranismi dell'est Europa).
Da
“Make Europe Great Again” del semestre ungherese a “Security Europe”, slogan
della presidenza polacca dell’Ue appena iniziata.
Si è
passati da un modo all’altro di intendere il benessere europeo:
dalla
visione cosiddetta “sovranista” di Viktor Orbán, incentrata sull’impegno volto
ad affermare le sovranità nazionali su quella del costituendo superstato
facente capo a Bruxelles, per dirla alla maniera del premier ungherese,
all’approccio filo-Ue del primo ministro polacco Donald Tusk.
Al
semestre scorso gestito da un sistema di potere che conferma un posizionamento
diverso da quello di quasi tutti i leader europei in tema di conflitto
russo-ucraino, fa seguito quello che vede Varsavia in bell’evidenza a esprimere
e mettere in pratica la solidarietà comunitaria a Kiev e creare un argine
armato in funzione antirussa.
Difatti
secondo Tusk l’Europa “deve armarsi” se vuole sopravvivere;
il
premier polacco ha invitato gli stati membri ad aumentare la spesa relativa
alla difesa al 5% del Pil;
cosa in cui il suo paese è già impegnato
avendo fissato per sé l’obiettivo del 4,7%, tanto per cominciare;
una
quota finora mai raggiunta all’interno della Nato.
Per
Tusk, quindi, armarsi è vitale.
A suo
giudizio viviamo in un momento storico nel quale l’Europa non può permettersi
di tagliare sulla sicurezza;
così
ha esortato gli stati membri dell’Ue a prendere sul serio l’invito dell’altro
Donald, quello statunitense, che preme per un’Europa armata.
“Non
sono un militarista”, ha precisato Tusk di recente, intervenendo alla Plenaria
del Parlamento europeo per presentare le priorità del semestre polacco.
Poi ancora: “in Europa abbiamo sofferto molto a
causa della guerra”.
Questo
riferimento ai conflitti che hanno insanguinato il Vecchio Continente ha voluto
essere un monito per impedire che la storia si ripeta.
Giusto,
certo, bisogna solo capire quale sia il percorso da seguire per scongiurare
nuovi devastanti conflitti.
C’è anche da chiedersi se in passato si sia
realmente investito in stabilità e sicurezza, se non siano state colpevolmente
sottovalutate (o volutamente ignorate) situazioni che già da tempo minacciavano
di essere foriere di guai grossi per l’Europa.
La provocatoria avanzata della Nato alle porte della
Russia è stata un segno di distensione?
Chiederselo
dovrebbe essere lecito anche perché stiamo parlando di un soggetto armato.
Le
tensioni fra Mosca e Kiev datano da lungo tempo, i problemi irrisolti in
termini di rapporti fra le due parti e in termini geopolitici risalgono
all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Si è
mai pensato realmente a gestire le dinamiche post-sovietiche in modo
costruttivo, all’insegna della stabilità in Europa? Sembra proprio di no.
Oggi ci troviamo in un contesto caratterizzato
da una sorta di ripristino della demarcazione territoriale e geopolitica che
separa la Russia da ciò che c’è più a occidente.
Una
sorta di frattura fra il paese guidato da Vladimir Putin e quello che chiamiamo
mondo occidentale.
L’Ucraina
è l’”oggetto” della contesa, su essa convergono le mire di poteri contrapposti;
la sua popolazione fa le spese di questa riedizione del conflitto est-ovest.
Bisognava pensarci prima, non si può dire che i rischi non fossero noti, per lo
meno prevedibili.
“Alzate
la testa, europei”, ha detto Donald Tusk, e ancora: “non chiedete cosa possano
fare gli Stati Uniti per la nostra sicurezza, chiedete cosa possiamo fare noi
per la nostra sicurezza”, ha aggiunto nell’intento di attualizzare una famosa
frase dell’ex presidente John F. Kennedy.
Per
Tusk l’Europa sarà sempre grande; questo cosa significa realmente?
Sono
grandi le sue contraddizioni, è grande il malessere che la pervade, è grande
l’evidenza di un’Unione europea che ha messo da parte gli aspetti solidali, che
è sempre più un’Unione economico-finanziaria e sempre meno sociale.
Tusk
ci invita a non chiederci cosa possano fare gli Usa per noi ma intanto
l’influenza di Washington su Bruxelles è sempre grande.
Sì, da
europei dovremmo alzare la testa, ma magari in un altro modo.
Giorgia
Meloni ammette tutto in diretta tv:
“Per
me la priorità è sempre difendere
l’interesse nazionale italiano.”
Msn.com - Storia di Christian L. Di Benedetto
– News Mondo – (04-03 -2025) - ci dice:
La
premier italiana Giorgia Meloni sottolinea l'importanza di un accordo di pace
stabile in Ucraina, evidenziando l'impegno di Donald Trump.
Il
conflitto tra Ucraina e Russia continua a dominare la scena internazionale, con
implicazioni profonde per l'Occidente e l'Europa, che coinvolgono anche Giorgia
Meloni.
La
ricerca di una pace stabile e duratura è al centro delle discussioni tra i
leader mondiali, mentre le tensioni geopolitiche richiedono decisioni ponderate
e strategiche.
Recentemente,
si è verificato un acceso confronto tra il presidente degli Stati Uniti, Donald
Trump, e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky.
Le
divergenze tra i due leader hanno sollevato preoccupazioni sulla coesione
dell'alleanza occidentale e sulla capacità di presentare un fronte unito nel
sostenere l'Ucraina.
In
questo contesto, l'Unione Europea ha intensificato gli sforzi per rafforzare la
propria posizione e garantire il supporto necessario a Kiev.
Il
ruolo dell'Unione Europea nel conflitto.
L'Unione
Europea si trova di fronte alla sfida di mantenere l'unità tra i suoi membri e
di rafforzare le proprie capacità difensive.
La presidente della Commissione Europea,
“Ursula von der Leyen”, ha proposto l'esclusione delle spese per la difesa
dalle regole di bilancio dell'UE, come primo passo verso un maggiore contributo
dell'Europa alla propria sicurezza.
Tuttavia,
la premier italiana Giorgia Meloni ha sottolineato la necessità di ulteriori
misure per aumentare la spesa difensiva dell'UE, evidenziando le sfide per
paesi con debiti significativi, come l'Italia, nel raggiungere gli obiettivi di
spesa della NATO.
Durante
un'intervista a XXI secolo su Rai1, Meloni ha affrontato il tema del conflitto,
evidenziando la difficoltà del momento:
«Il
momento non è facile, non è facile per nessuno, non è certamente facile per me,
quando bene o male ti trovi a prendere delle decisioni che inevitabilmente
incideranno sul futuro della tua nazione, dell'Europa, del quadro geopolitico
nel suo complesso».
Ha poi
aggiunto che, di fronte a scelte di questa portata, «bisogna ponderarle,
mantenere la calma e cercare di ragionare nel modo più lucido possibile
guardando sempre all'obiettivo e alla priorità».
La
posizione dell'Italia di Giorgia Meloni e l'appello all'unità occidentale.
Meloni
ha ribadito che la priorità resta la difesa dell'interesse nazionale italiano,
che passa anche dall'unità dell'Occidente:
«Per
me la priorità è sempre difendere l'interesse nazionale italiano e credo che
sia nell’interesse nazionale italiano evitare qualsiasi possibile frattura
all’interno dell’Occidente perché una divisione, una frattura, divisioni in
generale ci renderebbero solamente tutti quanti più deboli».
Ha poi
spiegato la sua visione per raggiungere una pace duratura:
«L’obiettivo
è un obiettivo condiviso, alla fine tutti condividono lo stesso obiettivo, lo
stesso obiettivo che è quello di portare pace in Ucraina, portare in Ucraina
una pace giusta, portare una pace stabile, duratura, io direi definitiva».
E ha
evidenziato l'importanza di garantire che qualsiasi accordo non sia vulnerabile
a future violazioni:
«La
questione centrale è come si fa a costruire una pace che preveda tali garanzie
di sicurezza per l’Ucraina» affinché il conflitto non si riaccenda, aggiungendo
che «serve all’Ucraina, serve ai paesi europei, particolarmente a quelli che si
sentono minacciati giustamente dalla Russia e serve a Donald Trump che è un
leader forte e che chiaramente non può permettersi di siglare un accordo che
qualcuno domani potrebbe violare».
Infine,
ha respinto le accuse di non aver difeso Zelensky, criticando chi alimenta
polemiche sterili:
«Non
ho difeso Zelensky? Un po’ dispiace che si preferisca sempre la polemica un po’
fine a sé stessa».
E ha
concluso ribadendo la necessità di agire con razionalità e unità:
«Questo
è il tempo in cui le persone serie lavorano per ricomporre, non lavorano per
dividere ulteriormente. A chi giova la tifoseria?»
In un
momento così delicato, le dichiarazioni di Meloni riflettono il tentativo di
mantenere l'Italia al centro delle trattative internazionali, con un approccio
pragmatico e volto alla stabilità.
Dopo
queste Europee per
il
Green Deal tira una pessima aria.
Lespresso.it
– (5 giugno, 2024) - Eugenio Occorsio – ci dice:
Sono
in molti a voler rivedere le tappe della transizione verde. Non solo tra le
destre che avanzano, ma anche tra i partiti che l’avevano approvata.
Giorgia
Meloni l’aveva scritto a chiare lettere nel programma di Fratelli d’Italia per
le Europee che poi ha vinto a mani basse e l’ha ripetuto come un mantra:
«Il
Green Deal è una follia ideologica e primo compito della nuova Commissione sarà
rivederlo completamente».
Per
chiarire ancora il suo pensiero ha fatto inserire nel programma del suo
raggruppamento europeo, l’”Ecr “(European Conservative and Reformist) un’ampia
parte dedicata alle politiche ambientali in cui, pur riconoscendo la necessità
di fronteggiare il cambiamento climatico, si guarda bene dal fissare date e
scadenze.
Chi
afferma senza mezzi termini che il Green Deal è da buttare e rifiuta qualsiasi
azione per il clima è lo spitzenkandidat dei tedeschi dell’Afd “Maximilian Krah”, lo stesso che ha dichiarato che
fra le SS c’erano delle brave persone (espressione che gli è valsa l’espulsione
dal gruppo europeo Identity and Democracy).
Già da tempo il partito ha cominciato a
mettere i bastoni fra le ruote alle misure ecologiche nelle municipalità in cui
conta qualcosa:
il
problema è che ora con il 15,9% dei voti rispetto all’11% delle Europee del
2019 ha scavalcato addirittura l’Spd (13,9%), il partito del premier Olaf
Scholz, e avendo ottenuto 15 seggi a Strasburgo è a un passo (ne servono 23)
dal fondare un nuovo raggruppamento di ultra-destra (i partner potenziali non
mancano) con cui influenzare le risoluzioni ecologiche.
Quanto
alla Francia, Marine Le Pen, trionfatrice del 9 giugno (31,5%, più del doppio
rispetto a Renaissance di Emmanuel Macron), annuncia battaglia su fronti che
vanno dall’immigrazione fino appunto al Green Deal:
l’avversione
a quest’ultimo l’ha già esplicitamente manifestata appoggiando tutte le
manifestazioni, a partire dagli agricoltori, di protesta contro le misure
verdi, «espressione di un’Europa ostile alle reali necessità della povera
gente».
Tira
una pessima aria per il Green Deal, l’ambizioso piano di salvaguardia
ambientale lanciato nel 2019 da “Ursula von der Leyen” come programma-bandiera
per l’intera legislatura, quale effettivamente è stato.
Alla
sostenibilità ecologica è dedicato il 38,5% dei fondi del “NextGenEu “(qualcosa
come 320 miliardi), la maggior voce in assoluto, varato dalla Commissione alle
fine dell’ “Annus horribilis” 2020, quello del Covid, per finanziare la
ripresa.
Erano
anni di grandi motivazioni ambientali sulla spinta delle manifestazioni guidate
da Greta Thunberg.
Il
cammino è stato però più accidentato del previsto, contrassegnato dalle guerre
in Ucraina e a Gaza nonché dalla crisi economica causata dell’inflazione a sua
volta prodotta proprio della prepotente ripresa post-pandemia, oltre che della
questione energetica.
Così l’attenzione è scemata e le polemiche
sono lievitate.
La transizione ambientale rischia di essere da
un lato il jolly in mano ai partiti di destra che hanno aumentato il loro peso
all’interno del Parlamento europeo – e che pullulano come si è visto di “negazionisti
del climate change” – e dall’altro una Danzica per moderati e socialdemocratici
(che comunque hanno tenuto le loro posizioni).
Che il
2050 sarà l’anno della decarbonizzazione non lo nega nessuno («una scadenza così lontana che tutto
è possibile», sorride l’economista Angelo Baglioni), ma che le scadenze intermedie siano
state un po’ velleitariamente tagliate con l’accetta l’ha riconosciuto in via
confidenziale perfino Paolo Gentiloni, commissario uscente all’Economia.
Le
colpe?
A
sentire i toni assertivi del leader del partito super-conservatore “ Pvv”, “Geert
Wilders”, che però dopo aver vinto le elezioni politiche in novembre non ha
avuto un risultato esaltante in queste Europee, sono dell’allora vicepresidente
socialista della Commissione, il suo connazionale “Frans Timmermans”, che aveva
perfino istituito a sua misura la carica di commissario all’Ecologia nel
dicembre 2019, salvo poi dimettersi nell’agosto 2023.
Sta di
fatto che diverse date ora torneranno in discussione.
Una per tutte:
nel
2035 dovrebbe cessare la produzione di motori a propulsione interna, le
“normali” macchine a benzina insomma, e ogni energia produttiva andrebbe
dedicata all’elettrico.
Una
scadenza prefigurata già nel “Green Deal”, quindi confermata da diverse
deliberazioni a Bruxelles, ma che sarà rimessa in gioco per non dissipare un
patrimonio tecnologico e industriale tutto europeo.
Anche la riduzione delle emissioni complessive
(auto, industrie, fabbriche) del 55% entro il 2030 (sul 1990), tappa intermedia
verso quella finale di vent’anni dopo, è a rischio.
C’è
poi una lunga serie di questioni più tecniche.
«Ha fatto scalpore il rinvio del divieto di
pesticidi in agricoltura quest’inverno sulla scia della protesta dei trattori»,
argomenta Paolo De Castro, docente di Economia agraria all’Università di
Bologna, europarlamentare uscente del Pd e già ministro dell’Agricoltura nei
governi Prodi.
«Però bisogna riconoscere che questa specifica
materia è stata regolamentata in modo approssimativo e maldestro dall’attuale
commissario all’Agricoltura, il polacco “Janusz Wojciechowski”, senza tener
conto delle diverse alternative naturali possibili, peraltro in parte già
adottate dagli operatori del settore.
Il tutto necessita di un programma organico e
ben coordinato di sostituzione sostenuto dall’Europa per non mandare in
bancarotta i coltivatori».
È parte del “Green Deal” anche la connessa
questione della «carne coltivata», «una fondamentale soluzione all’inquinamento
ambientale provocato dagli allevamenti intensivi, responsabili di una grossa
quota di emissioni di gas serra», spiega “Marco Panara “che ha appena
pubblicato il saggio “La rivoluzione dell’hamburger” (Poste Editori).
«Intorno a questa partita ruota un importante
filone di ricerca scientifica (ancora nulla è in commercio in nessuna parte del
mondo, ndr) dalla quale l’Italia si è inspiegabilmente autoesclusa».
Ancora
una scadenza collegata con l’arcipelago delle misure “green”:
entro
il 2030, ha disposto il Parlamento europeo uscente, i nuovi edifici dovranno
avere emissioni zero, saranno implementati piani nazionali di ristrutturazione
per le vecchie case e aboliti i sussidi per le caldaie a combustibili fossili.
L’obiettivo è un taglio del 16% da portare al
20-22% nel 2035.
Entro
il 2050 tutto il settore residenziale dovrà essere a zero emissioni.
È previsto che ogni Stato invii un piano
nazionale di ristrutturazione con l’indicazione della tabella di marcia e degli
obiettivi da seguire.
Il
piano andrà approvato entro il 2026 e andrà aggiornato ogni 5 anni.
Le
tessere del puzzle “green” hanno in comune un elemento, ricorda Enrico
Giovannini, l’economista italiano che più segue queste problematiche, direttore
scientifico dell’Asvis (Alleanza per lo Sviluppo sostenibile):
«Saranno necessari sostegni pubblici oltre che ingenti
capitali privati. La soluzione migliore sarebbe la disponibilità di nuovi
eurobond, quindi prima ancora di un bilancio comunitario che sia in grado di
garantirli ben maggiore di quello minimale di oggi (l’1% del Pil complessivo,
ndr).
Ma
nessun manifesto pre-elettorale dei vari schieramenti ne parlava, a riprova
della delicatezza politica».
Il
campo è aperto:
dalla “Carbon
Border Tax” (il dazio speciale per Paesi ad alte emissioni di CO2) fino a una
revisione dell’Iva.
Tutte
misure complesse da implementare, aggravate oltretutto «dalla regola-capestro
dell’unanimità», come la chiama Massimo Bordignon, membro dell’”European Fiscal
Board”.
Gli
incidenti si susseguono:
“ Mart
Vorklaev”, ministro delle Finanze dell’Estonia appartenente al “Riigikogu”
(Riformatori Liberali) affiliato a “Renew”, ha votato nell’ultimo Ecofin del 14
maggio contro il pacchetto “ViDA-Vat in Digital Age”, che estende le regole
dell’Iva sulle piattaforme digitali ai servizi online per i trasporti e gli
alloggi brevi, oltre a introdurre la rendicontazione in tempo reale e la
fattura elettronica.
Il
pacchetto è atteso all’Ecofin del 21 giugno.
Gli
equilibri intanto sono cambiati, “Renew “ha perso quota e il suo leader è in
crisi politica: basterà a far cambiare opinione al Paese baltico?
il
conflitto.
Pace
giusta? Significa
ristabilire
l'ordine naturale.
Lanuovabq.it
- Stefano Fontana – (05_08_2024) – ci dice:
Il
concetto di pace giusta assume vari livelli di significato, ma solo nell'ordine
da ristabilire trova la sua applicazione. Anche se non ristabilisce la
situazione ex ante, ma persegue le finalità.
Come
ad esempio nell'autodeterminazione dei popoli.
Le
acute tensioni internazionali sfociate nel nostro tempo in devastanti conflitti
armati condotti con ogni mezzo suscitano un grande desiderio di pace, di una
pace “giusta”.
Ma
cosa significa pace “giusta”?
Questa espressione è stata ed è sulla bocca
dei molti.
Il
presidente Mattarella, ricevendo il presidente del Brasile il 15 luglio scorso,
ha detto:
«Abbiamo concordato sull’importanza di
adoperarsi sul primo piano perché si giunga a una pace, che non può che essere
una pace giusta perché sia duratura e quindi basata sul diritto internazionale,
sul rispetto degli altri Stati, e sul rispetto delle regole dell’Onu».
Papa
Francesco, correggendo e spiegando il suo contestato invito all’Ucraina di
issare bandiera bianca e mettersi a trattare, aveva detto:
«Mentre rinnovo il mio vivissimo affetto al
martoriato popolo ucraino e prego per tutti, in particolare per le
numerosissime vittime innocenti, supplico che si ritrovi quel po’ di umanità
che permetta di creare le condizioni di una soluzione diplomatica alla ricerca
di una pace giusta e duratura».
La
parola pace ha molti significati di diverso livello.
Quando
si parla di “pace giusta” in espressioni di questo tipo, si fa riferimento
prima di tutto alla pace intesa come conclusione di una guerra e come sua
soluzione giuridicamente regolata dei rapporti tra gli Stati in lotta, che si
accordano per cessare le ostilità e regolare di conseguenza i loro rapporti
futuri in modo duraturo.
La pace così intesa assume un significato
tecnico-giuridico che però l’aggettivo “giusta” ricollega con la giustizia, che
non è un’idea tecnica.
La
giustizia, e quindi la pace giusta, richiede il ristabilimento di un ordine che
la guerra ha distrutto.
La pace diventa così “opus justitiae”, sia
come prevenzione della guerra nella costruzione quotidiana della vita sociale e
politica dei popoli su un ordine naturale indisponibile ai poteri costituiti,
sia come soluzione dei conflitti armati e riparazione del disordine da essi
creato.
La guerra nasce sempre dal disordine e crea
disordine, la pace è il ripristino dell’ordine.
Certamente
la pace giusta ha anche elementi tecnico-giuridici, ma non si riduce mai ad
essi, perché incapaci di giustificare in modo adeguato l’aggettivo “giusta”.
Questo
è anche il motivo per cui sempre la pace dipende da uomini pacifici e da uomini
giusti.
Non solo non bastano la tecnica e il diritto,
non solo serve anche la morale, oltre ciò serve anche specificatamente la virtù
della giustizia e lo spirito della vera pace.
Né il
pacifico né il pacifista possono essere attori di pace, solo il pacificatore lo
può essere e non si riesce ad essere pacificatori in senso solo tecnico o
giuridico.
Ora,
la necessità di ripristinare l’ordine distrutto dalla guerra presenta molte
difficoltà e non può essere inteso solo come un ritorno allo status quo ante.
La
pace giusta riguarda la giustizia che è dare a ciascuno il suo, sicché una
simile pace dovrebbe ridare ad ognuno quello che ha ingiustamente perso.
È però
impossibile ridare la vita a chi è stato ucciso e il lavoro o la casa a chi li
ha perduti.
Essa
ha anche umiliato dei popoli e costretto altri al disonore, ma anche questa
macchia è difficile da cancellare perché iscritta nella carne.
La
guerra lascia immensi strascichi di odio, non solo tra i contendenti ma anche
all’interno dei due campi in lotta:
la
guerra esterna ha sempre anche effetti interni di guerra civile.
Anche
su questo punto è impossibile ristabilire l’ordine precedente il quale, del
resto, non per questo può automaticamente considerarsi completamente giusto,
altrimenti non avrebbe condotto alla guerra.
La
guerra ha poi sempre una dimensione internazionale e cambia in profondità i
rapporti geopolitici e il sistema delle alleanze per cui tornare indietro non
si può. Dopo una guerra, qualsiasi guerra niente è come prima.
Spesso
questa idea di ripristinare l’ordine infranto si presta a visioni riduttive che
non arrivano al fondo del problema.
Per
esempio, è diffusa in Occidente l’idea che questo ritorno sarebbe favorito
dalla diffusione di sistemi democratici di tipo liberale.
È la
vecchia illusione di” Kant “di una “pace perpetua”.
Di recente, però, alcune guerre sono nate
proprio dal presupposto di esportare la democrazia.
Non è
nemmeno consigliabile affidarsi ciecamente all’ONU, data la fragilità
complessiva di questa istituzione internazionale e il fatto che alcune delle
principali recenti guerre sono state avallate proprio dall’ONU.
La
stessa cosa vale per l’”Unione Europea” e bene ha fatto il premier ungherese
Orban a procedere per proprio conto in una prospettiva di pace per l’Ucraina.
Anche
il riferimento al diritto internazionale può essere un appiglio scivoloso se
non bene impostato.
Questo,
infatti, non è ormai più inteso come il “diritto delle genti” avente alla base
il diritto naturale, ma come un diritto positivo internazionalmente
riconosciuto, il che ne cambia la natura rendendola modificabile nel tempo.
Ci
sono però due punti che possono illuminare a proposito della pace giusta.
Il
primo riguarda proprio il concetto di ordine da ripristinare.
Per
tale espressione, come si è visto, non si può intendere la situazione ex ante
di fatto esistente.
La si deve invece intendere come un ordine
naturale finalistico, i cui fini sono e rimangono attuali anche dopo il
conflitto e possono indicare alcune linee di condotta.
Per esempio, prendiamo il principio
dell’autodeterminazione dei popoli.
Esso vale, fatte le debite distinzioni, per il
popolo ucraino davanti all’invasione russa, ma vale anche per il popolo ucraino
manovrato dalle potenze occidentali, ma vale anche per le popolazioni russofone
del Donbass a lungo discriminate dal popolo ucraino.
Non si
tratta allora di tornare a come era prima, ma di far valere le linee forza di
un finalismo di ordine naturale, ossia evidente a tutti, se si ha la volontà di
vederlo così come risulta essere.
Il
secondo spunto deriva dalla constatazione che tra guerra e pace, se le due
parole non vengono assunte in chiave assoluta, non c’è contraddizione completa,
ma esiste una posizione intermedia come una tregua o un armistizio.
La tregua non è guerra e non è nemmeno pace,
la stessa cosa vale per un armistizio.
Non si può parlare in questo senso di una pace
“giusta”, perché i suoi termini diplomatici e giuridici non sono ancora stati
definiti secondo i principi di giustizia di cui sopra.
Però si tratta di una pace possibilmente
giusta.
Lo
scontro. Trump sferza Zelensky:
«Non vuole la pace, stop alle armi»
Avvenire.it - Luca Miele – (3 marzo 2025) – ci dice:
La
Casa Bianca minaccia di ritirare il sostegno a Kiev. Il presidente ucraino
prima alza i toni («La guerra durerà») poi usa parole più concilianti.
Il
presidente Usa è Donald Trump.
«O fai l’accordo oppure ci tiriamo fuori»,
aveva detto nell’infuocato faccia a faccia con il presidente ucraino Volodymyr
Zelensky nello Studio Ovale, Donald Trump dopo il “match” di venerdì scorso,
durato 45 minuti.
L’accordo era quello, poi restato fantasma,
sulle terre rare e il ritiro ventilato di qualcosa che potrebbe essere esiziale
per Kiev: la fine del sostegno Usa.
I toni non si sono affatto abbassati,
tutt’altro.
E la
minaccia è a un passo dal diventare realtà.
Il disimpegno americano dallo scenario ucraino
vuol dire, in concreto, una cosa sola:
chiudere
il rubinetto, interrompere il fiume di armi e aiuti militari con i quali, in
tre anni di conflitto, gli Stati Uniti hanno sostenuto Kiev sul campo.
Lo ha
anticipato il “New York Times” ieri:
il
presidente ha riunito la sua squadra.
Le
opzioni sul tavolo? In realtà molto ristrette:
la
sospensione o l'annullamento degli aiuti militari americani all'Ucraina,
comprese le spedizioni finali di munizioni ed equipaggiamento autorizzate e
pagate durante l'amministrazione Biden.
Poi,
però, a sera una doppia precisazione che sembra un voler rilanciare la
trattativa:
«Non credo che l’accordo sui minerali sia
morto, ne parlerò» oggi, nel discorso sullo Stato dell’Unione.
E poi:
non ho «ancora parlato» di interrompere gli aiuti all’Ucraina, ha aggiunto il
presidente.
Una
partita molto importante.
Stando
ai dati del Pentagono, restano ancora circa 3,85 miliardi di dollari di armi
della somma che il Congresso ha autorizzato a prelevare dalle scorte del
dipartimento della Difesa.
Una
cifra che, nei piani di Joe Biden, avrebbe coperto Kiev per altri sei mesi. Secondo l’Ap, gli Usa hanno garantito
a Kiev aiuti militari per 180 miliardi di dollari dall’inizio della guerra.
L’insofferenza
nelle stanze che contano dell’Amministrazione Trump, comunque, è sempre più
palese.
Un
crescendo, dopo lo scontro alla Casa Bianca a la mancata firma all’accordo
sulle terre rare, sorta di “risarcimento” preteso da Trump e cardine
dell’intera “partita” negoziale che gli Usa intendono portare avanti con la
Russia.
«L’ostilità
di Zelensky è incomprensibile», ha detto anche ieri il consigliere per la
sicurezza nazionale americana “Mike Waltz”.
Ma a
che punto è l’accordo sulle terre rare?
Le
interpretazioni divergono.
Zelensky,
secondo quanto riferito dalla Bbc, si è detto «pronto a firmare».
Il Segretario al Tesoro statunitense, “Scott
Bessent ha però tagliato corto:
al momento – ha fatto sapere – la questione
non è sul tavolo. Affermazione poi però smentita dallo stesso Trump.
Resta
il punto più controverso.
Quanto
è “sacrificabile”, agli occhi di Trump, l’attuale leadership ucraina?
Il
presidente – che oggi terrà il suo primo discorso al Congresso –, come al
solito, non ha usato giri di parole né velato le sue reali intenzioni su
Zelensky:
«L’America non sopporterà ancora a lungo», ha
ripetuto ieri, riferendosi ai “tentennamenti” della leadership di Kiev sul
cessate il fuoco con Mosca.
«Questo tizio non vuole che ci sia la pace
finché avrà il sostegno dell’America e l’Europa», ha rincarato la dose il
presidente statunitense.
In un
post su “Truth Social “che ha condiviso un articolo dell’”Ap” che citava
Zelensky dicendo che la fine della guerra è «molto, molto lontana», Trump è
stato lapidario:
«Questa è la peggiore affermazione che il
presidente ucraino avrebbe potuto fare».
Lo
scontro alla Casa Bianca tra Trump e Zelensky.
Lo
stesso Waltz non ha mancato di alludere alla (possibile) defenestrazione del
presidente ucraino, peraltro investito da Trump con attestazioni di disistima
(«un dittatore senza elezioni» e «comico modesto»).
Gli Stati Uniti hanno «bisogno di un leader
che possa trattare con noi, trattare con i russi quando sarà il momento e porre
fine a questa guerra.
Se
diventa evidente che il presidente ucraino Zelensky, che sia per motivazioni
personali e politici, diverge dalla volontà di porre fine ai combattimenti nel
suo Paese, avremo un problema serio».
Il
leader ucraino si difende come può.
Si aggrappa agli europei, smaniosi di
ritagliarsi un ruolo. E rilancia.
A tutto campo. «Solo gli ucraini possono
decidere.
Gli
americani scelgono il loro presidente, gli europei scelgono i loro presidenti,
gli ucraini scelgono il loro».
E
ancora: «Ho già detto che sono disponibile a dimettermi per l'adesione
dell'Ucraina nella Nato, allora significa che ho adempiuto alla mia missione.
Nato significa che ho adempiuto alla mia missione».
«Per
cambiarmi, non sarà facile perché non basta semplicemente tenere le elezioni.
Dovreste
impedirmi di partecipare. E sarà un po' più difficile».
Poi
usa toni più concilianti: «Stiamo lavorando insieme all'America e ai nostri partner
europei e speriamo molto nel sostegno degli Stati Uniti nel cammino verso la
pace. La pace è necessaria il prima possibile».
E la
Russia?
Il
Cremlino non risparmia gli strali all’indirizzo del presidente ucraino.
«Qualcuno
deve costringere Zelensky a cambiare idea. Lui non vuole la pace. Qualcuno deve
costringerlo a volere la pace», ha dichiarato il portavoce” Dmitrij Peskov”.
«Se lo
fanno gli europei, onore e gloria a loro», ha aggiunto, riferendosi al vertice
degli alleati europei di Kiev tenutosi domenica a Londra.
«Quello che è successo venerdì alla Casa
Bianca ha dimostrato quanto sia difficile trovare una soluzione in Ucraina», ha
aggiunto Peskov, secondo cui «Zelensky ha dimostrato una totale mancanza di
diplomazia».
«In questa situazione, solo gli sforzi degli
Stati Uniti e la buona volontà di Mosca non saranno sufficienti per porre fine
al conflitto in Ucraina», ha concluso.
Trump
blocca gli aiuti militari all'Ucraina.
E
attacca Zelensky: «Non vuole la pace»
Corriere.it
- Giuseppe Sarcina – (04 – 03 – 2025) – ci dice:
Donald
Trump sospende gli aiuti militari a Kiev per esaminare che «stiano contribuendo
a una soluzione»: bloccati gli invii di munizioni e mezzi militari, finché
Zelensky non accetterà di trattare con Putin.
Musk:«Zelensky
vuole una guerra eterna, un tritacarne.È il male»
Donald
Trump blocca gli aiuti militari all’Ucraina e alza ancora i toni dello scontro
con Volodymyr Zelensky.
Nello stesso tempo il presidente americano
annuncia che da oggi scattano i dazi del 25% a Canada e Messico e dal 2 aprile
quelli «sulle merci estere», senza specificare di quali Paesi.
Unica
traccia, per ora, in un «post» sulla sua piattaforma social «Truth»:
Trump
cita i «prodotti agricoli» e quindi è chiaro che, come largamente previsto, le
tariffe doganali toccheranno anche l’Europa, Italia compresa.
Dazi e
Ucraina, quindi, sono le due direttrici dell’offensiva politica ed economica
contro il Vecchio continente.
È
notte in Italia, quando arriva l’indiscrezione pubblicata da Bloomberg, che poi
trova conferme ufficiali:
il
leader americano ha deciso di sospendere le forniture di armi all’Ucraina per
esaminare che «stiano contribuendo a una soluzione» - ovvero, fino a quando
Zelensky non sarà disposto a trattare con Vladimir Putin.
La
decisione sarebbe arrivata al termine di una lunga riunione alla Casa Bianca,
cui hanno partecipato il vice presidente JD Vance, il consigliere per la
sicurezza nazionale, Mike Waltz, il segretario di Stato, Marco Rubio e il capo
del Pentagono Pete Hegseth.
È
probabile che Trump ne parlerà oggi, nel discorso che terrà al Congresso.
Il
presidente avrebbe bloccato la consegna di munizioni e mezzi militari, già
autorizzata dal Congresso e pianificata dall’amministrazione Biden.
Resteranno
fermi anche i lotti già caricati sulle navi o sugli aerei.
Non è
ancora possibile una stima, ma sono in gioco attrezzature e ordigni dal valore
di diversi miliardi di dollari.
È un
altro trauma, un’altra svolta clamorosa.
Gli
aiuti degli Stati Uniti sono stati fondamentali in questi tre anni di guerra.
Tutti, a cominciare dai generali ucraini,
riconoscono che senza l’intervento di Washington i russi avrebbe spianato la
resistenza dell’esercito di Zelensky.
La
scelta di Trump ha chiuso una giornata di tiro al bersaglio contro il
presidente ucraino.
A fare
da innesco un’intervista rilasciata da Zelenski, domenica 2 marzo, a margine
del vertice europeo di Londra.
Questo il passaggio più importante:
«La guerra con la Russia è destinata a durare ancora
molto, molto a lungo», poiché, è l’analisi di Zelensky, Vladimir Putin non vuole
alcun negoziato.
Poi
ecco un messaggio distensivo per Washington: «Penso che il nostro legame con gli
Stati Uniti continuerà: è qualcosa di più di un rapporto occasionale».
Ma
Trump viaggia su un’altra dimensione.
Ha
iniziato ad attaccare Zelensky su «Truth»:
«Questa
è la peggiore dichiarazione che avrebbe potuto fare Zelensky. E l’America non
lo tollererà a lungo!
Questo
tizio non vuole la pace, fintanto che può contare sull’appoggio dell’America».
Poi
c’è un colpo anche per i promotori del summit nella capitale britannica:
«L’Europa, nell’incontro che ha avuto con Zelensky, ha affermato chiaramente
che non può fare il lavoro (aiutare militarmente l’Ucraina ndr ) senza gli Usa.
Probabilmente non è una grande dichiarazione da fare in termini di una
dimostrazione di forza nei confronti della Russia. Ma come ragionano?».
Più
tardi, rispondendo ai reporter, Trump è tornato sul ruolo di Zelensky:
«dovrebbe essere più riconoscente, visto che questo Paese è rimasto al suo
fianco nella buona e nella cattiva sorte». Il presidente Usa non si scompone
quando gli viene fatto notare che i russi sottolineino come ci sia un
allineamento delle posizioni di Washington con quelle del Cremlino: «Io tratto
con tutti, con la Russia, l’Ucraina, l’Europa per chiudere questa guerra,
perché ogni settimana muoiono migliaia di soldati da una parte e dall’altra».
Puntuale è arrivato il carico di ostilità, pubblicato su «X» dal suo
proprietario, Elon Musk: «Zelensky vuole una guerra eterna, un tritacarne
automatico. Questo è il male».I
Il
Consigliere per la sicurezza nazionale, Waltz, ha trasformato l’insofferenza di
Trump in quella dell’intera nazione: «La pazienza del popolo americano non
è illimitata, il portafoglio degli americani non è illimitato e le nostre
scorte di munizioni non sono illimitate».
Ma che
cosa dovrebbe fare Zelensky, oltre a essere più «riconoscente»?
Le
parole di Waltz somigliano a un ultimo avvertimento:
«Il tempo non gioca a suo favore. Vogliamo sentirgli
dire è che è dispiaciuto per quello che è accaduto (l’alterco con Trump e Vance
di venerdì 28 febbraio ndr. ), che è pronto a firmare l’accordo sui minerali e
a impegnarsi nei negoziati per la pace».
Nel
campo repubblicano, gli attacchi a Zelensky si mescolano con le richieste di
dimissioni.
È
questo ciò che vuole Trump, la fine politica del numero uno ucraino? «Sì»,
secondo le indiscrezioni riportate dai media americani.
Nel
primo pomeriggio, però, il segretario al Commercio, Howard Lutnick, ha detto
alla «Cnn» che Trump non vuole che Zelensky se ne vada.
COSA
NASCONDE DAVVERO
IL DDL SICUREZZA.
Comedonchisciotte.org
- Redazione CDC - Daniele Ioannilli – (5 Marzo 2025) – ci dice:
Nonostante
manchi l’ok del Senato, i 38 articoli che compongono questo DDL saranno tutto
fumo o tutto arrosto?
Il testo sin ora approvato sembrerebbe per la
gran parte tutto fumo e poco, ma mirato, arrosto.
Grosso
modo i macro temi oggetto del DDL riguardano la pubblica sicurezza, la tutela
ai pubblici ufficiali durante l’espletamento delle loro funzioni, la
Detenzione, l’Antimafia.
La
maggior parte delle modifiche apportate al DDL attualmente in vigore sono di
carattere tecnico che avranno poco o nullo impatto pratico.
In generale c’è un aumento delle pene, sia
detentive che pecuniarie, e una maggiore “specializzazione” dei reati, cioè una
stessa azione può dar luogo a un diverso tipo di reato oppure ad aggravante in
base alla situazione, alla persona o alla cosa verso cui è rivolta.
Facciamo
un esempio: decido di compiere un’aggressione, a persone o cose.
Se lo
faccio in un momento qualsiasi ho una pena, se lo faccio durante una
manifestazione sportiva o politica avrò un’altra pena, se lo faccio nei pressi
di una stazione ne avrò un’altra ancora.
Resta la punibilità solo dietro denuncia della
parte offesa.
Quando
per un vero cambiamento andrebbe reintrodotta la punibilità d’ufficio.
In tal
senso questa maggiore specializzazione e definizione dei reati servirà a poco
se non supportata dalla volontà di combattere condotte criminali, volontà che
poteva essere resa efficace anche prima di questo DDL.
Andrebbe
riscritta la riforma Cartabia, la vera causa del “lassez-faire” che viviamo
oggi, ma di questo non viene fatto nessun accenno.
Riguardo
le occupazioni di immobili, tema tanto sentito nelle trasmissioni tv, viene sì
snellito l’iter per “la cacciata” dell’occupante ma si introducono
contestualmente dei cavilli di cui francamente non se ne vede il motivo:
l’azione può venir sempre “congelata” dietro
giusta causa ma può anche essere reso nulla se il pubblico ministero, ricevuto
il verbale della polizia giudiziaria che ha accertato la denuncia mediante
sopralluogo, non lo inoltra entro 48 ore al giudice chiedendone la convalida e
l’emissione di un decreto di reintegrazione nel possesso, che a sua volta il
giudice deve emettere entro 10 giorni.
Questi tempi di “prescrizione” saranno
rispettati in Italia?
Senza
elencare parte per parte il DDL andiamo a vedere solo gli articoli
potenzialmente liberticidi.
Scrivo
potenzialmente perché, come sempre, non saranno mai scritti in modo esplicito
ma il loro potenziale liberticida dipenderà dalle intenzioni di chi li
applicherà.
Come
nel caso dell’articolo 14 riguardante i blocchi stradali, equiparati ora a
quelli ferroviari e navali:
da
amministrativo diventa penale, ed aggravato se in concorso con più persone.
In sé
non è sbagliato, pensiamo a quegli ambientalisti di regime che bloccavano
strade a grande scorrimento per ore impedendo alla gente di andare a lavorare…
chi non li vorrebbe in galera?
Ma ora pensiamo ad esempio a quando ti
obbligano a tagliare ulivi secolari per un rischio sanitario quasi inesistente,
o a quando ti obbligano a cedere il tuo terreno agricolo per far fare soldi a
una grande impresa del fotovoltaico, o a quando ti vietano la circolazione
della tua auto perfettamente in ordine solo perché ha qualche anno sulle
spalle.
Se
prima c’era solo una multa amministrativa ora c’è il carcere.
Il
blocco stradale è comunque una forma di protesta pacifica e alla portata pure
del cittadino meno coraggioso. Farlo diventare penale è come dire di ingoiare
l’ingiustizia che si sente ai propri danni.
Articolo
2:
riguarda il noleggio (breve o lungo termine) di un autoveicolo.
Il noleggiatore ora dovrà dare tempestiva
comunicazione sia dei dati anagrafici del cliente sia del veicolo noleggiato.
I dati
comunicati convoglieranno in un database che li “incrocerà” al fine di
prevenire attività terroristiche.
Se
questa comunicazione non verrà fornita viene introdotta una ammenda pecuniaria
e addirittura una pena detentiva.
Anche
qui, se davvero servisse per prevenire il terrorismo ben venga, ma ora c’è una
schedatura automatica di chiunque noleggi un mezzo di trasporto.
La
motivazione dell’antiterrorismo è risibile, a meno che non si sia dei
rubagalline. Ammesso che non usi un’auto rubata, chi è quel terrorista che
noleggia un’ auto a proprio nome, dove oltre che i documenti è necessaria una
carta di credito valida con abbastanza denaro dentro?
La comunicazione dei dati anagrafici serve ad
altro, evidentemente. Da ricordare che attualmente il volume di noleggio tra
breve e lungo termine rappresenta circa il 30% del parco auto circolante.
Articolo
19: riguarda
la violenza o minaccia e resistenza a pubblico ufficiale.
Introduce un aggravante, quella se il fatto è
commesso al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di una
infrastruttura strategica.
Viene
subito la domanda:
chi è
che decide cosa è strategico e come deve essere realizzato, questo obbiettivo
strategico?
Implementare l’energia da fonti rinnovabili è
un obbiettivo strategico?
Se lo
si considera tale è permesso anche distruggere, come stiamo vedendo, i terreni
agricoli con tutto quello che ne segue.
Protestare contro, ora, è divenuta una
aggravante.
L’articolo
30 è interessante.
Riguarda
la tutela del personale delle forze armate che partecipa a missioni
internazionali.
Viene
dato in sintesi un salvacondotto per tutte quelle operazioni sporche atte a
carpire informazioni sensibili come la violazione del domicilio, l’istallazione
di apparecchiature atte a intercettare, la violazione della corrispondenza
privata etc. etc… tutte quelle operazioni da 007 che vediamo nei film definite
già nell’articolo come abusive.
Sostanzialmente
vengono fatte prevalere le regole di ingaggio alle quali solo il personale di
dette missioni si deve attenere rispetto alle leggi del paese nel quale detta
missione viene espletata.
È un
articolo interessante perchè evidentemente non riguarda missioni internazionali
fatte in paesi terzi ma entro i nostri confini.
“Missione
internazionale” può essere veramente di tutto, e questo articolo permetterà
potenzialmente alle forze armate di fare quel che vogliono della popolazione
civile.
Anche
l’articolo seguente, il 31, è interessante.
Rende
permanenti delle disposizioni introdotte già nel 2015 in materia di
potenziamento dell’attività di informazione per la sicurezza.
I
punti importanti sono:
Si attribuisce la qualifica di agente di
pubblica sicurezza al personale militare e degli organismi di informazione per
la sicurezza (servizi segreti).
Si
prevede che le pubbliche amministrazioni e soggetti equiparati (le università
per esempio), Società partecipare e a controllo Pubblico, siano tenute, per
obbligo, a fornire collaborazione e assistenza alle attività di sicurezza.
Collaborazione
anche di tipo tecnico e logistico.
Se
prima di questa norma i servizi segreti dovevano chiedere la collaborazione e
l’assistenza necessarie per svolgere la loro attività, e questa richiesta
poteva essere rifiutata con questa norma sarà un obbligo motivato da ragioni di
sicurezza nazionale.
Cos’è
tutela della sicurezza nazionale?
qualsiasi
cosa, non solo terrorismo, banda armata o sovversione. Può essere un’opinione,
lo stimolare un pensiero diverso da quello proposto dal mainstream. Ricordiamoci che tutte le dittature
giustificano la propria repressione con “la tutela della sicurezza nazionale”.
Gli
articoli 30 e 31 se visti insieme pongono una grossa pietra sul pensiero
critico e sul dissenso.
Con il
30 il Potere può attuare qualsiasi stratagemma per carpire abusivamente
informazioni da usare per reprimere il suo obbiettivo, con il 31 i luoghi
deputati al pensiero (Università in primis) vengono conformati e resi sterili,
un può quello che già avviene nelle Università private con campo economico dove
vengono sfornati robot acritici che professionalmente avvalorano le teorie
economiche che hanno causato i vari disastri che vediamo intorno a noi oggi
(Argentina, Grecia, Italia per esempio.)
Ed
infine l’articolo 35 riguardante l’attività lavorativa dei detenuti.
In
breve, si estendono i benefici fiscali (aliquote ridotte per l’assicurazione
obbligatoria previdenziale e assistenziale) delle cooperative sociali che
impiegano persone detenute o internate negli istituti penitenziari anche alle
aziende pubbliche o private che impieghino detti detenuti all’interno o
all’esterno degli istituti penitenziari.
Tradotto:
manovalanza a basso costo per tutti.
In
fondo nulla di sbagliato se serve al reinserimento in società dei detenuti, il
pericolo è però una concorrenza sleale alle aziende che devono sopportare,
invece, costi pieni.
Un
piccolo commento a margine, personale:
non
bisogna vedere nero sempre e comunque, talune misure anche se repressive
possono essere di buon senso.
Ciò
che stona, e che fa sorgere dunque legittimi dubbi, è che non seguono poi
azioni coerenti e concrete sempre.
E non
per mancanza di capacità.
Come dimostrato ad esempio in occasione di
manifestazioni pro Palestina o contro la globalizzazione, oppure nei confronti
di alcune persone attive politicamente e civilmente al di fuori del circuito
dei partiti e movimenti di sistema, quando c’è volontà di reprimere… si reprime
e con molta efficacia; cosa che non avviene in altre circostanze.
Quindi
una volontà oggettiva e ragionata dietro l’applicazione o disapplicazione delle
norme… c’è.
(Daniele
Ioannilli).
Ucraina-Russia,
"Putin non vuole
la
pace": intelligence avverte Trump.
ADNKronos.com-
Redazione Adnkronos – (21 – 2 – 25) – ci dice:
Il
presidente russo mira a controllare l'Ucraina, Mosca può sostenere la guerra a
lungo e non ha bisogno di fare concessioni.
Vladimir
Putin non vuole davvero la pace in Ucraina.
È
l'avvertimento che 3 fonti legate all'intelligence, degli Stati Uniti e più
genericamente occidentali, lanciano mentre il presidente americano Donald Trump
punta sul dialogo con il presidente russo per porre fine alla guerra che dura
da quasi 3 anni.
Usa e
Russia hanno aperto un canale a “Riad”, nel vertice andato in scena all'inizio
della settimana.
Nel
quadro che le fonti di intelligence delineano alla “Cnn”, però, l'obiettivo di
Putin rimane quello fissato all'inizio del conflitto:
un'Ucraina
in posizione subordinata rispetto alla Russia o, in ogni caso, un paese
profondamente indebolito e dipendente da Mosca.
In
questo contesto, una tregua consentirebbe a Putin di serrare i ranghi prima di
una nuova accelerazione verso il traguardo.
"Se
si arrivasse ad un cessate il fuoco, servirebbe solo a dare a Putin il tempo
per riposare, riarmarsi e ottenere quello che ancora gli manca", il
messaggio di una delle 3 fonti.
"Non ci sono indicazioni di nessun tipo
che facciano pensare ad un cambiamento nelle sue ambizioni", prosegue.
Rischia di illudersi chi, come Trump, ritiene
che il leader del Cremlino voglia porre fine alle ostilità accantonando
definitivamente l'idea di stabilire un controllo più o meno ampio sull'Ucraina.
Putin
e il dialogo con Trump.
Mosca,
inoltre, vede nel dialogo con gli Stati Uniti un mezzo per uscire
dall'isolamento e tornare sul palcoscenico internazionale con le
caratteristiche di un paese 'normale'.
Tutto
questo, mentre sul campo si continua a combattere e le forze russe cercano di
guadagnare terreno nel Donbass, il fronte più caldo, e di riconquistare
territorio nel Kursk, la regione invasa dall'Ucraina sin da agosto.
Le
informazioni in possesso dell'intelligence occidentale, d'altra parte, lasciano
pensare che l'economia russa sia in grado di sostenere lo sforzo bellico fino
al prossimo anno: Putin, in sostanza, al momento non ha bisogno di fare nessuna
concessione significativa al tavolo degli eventuali negoziati con Kiev.
"Nella
sua testa, Putin sta ancora vincendo -l'analisi della fonte interpellata dalla
Cnn-. Sta vincendo più lentamente di quanto vorrebbe fare, ma sta pur sempre
vincendo".
Trump
e Zelensky.
Dopo i
'siluri' lanciati contro il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nelle ultime
48 ore, Trump nella giornata del 20 febbraio non si è espresso sul leader di
Kiev, che ha ricevuto l'inviato americano “Keith Kellogg” cercando di
riallacciare rapporti produttivi con Washington.
Il presidente ucraino ha espresso disponibilità ad un
accordo con Trump, che comprenda con ogni probabilità anche le 'terre rare', le
straordinarie risorse minerarie di cui l'Ucraina dispone.
Zelensky,
però, agli occhi dell'amministrazione Trump deve ancora recuperare terreno.
"Andare in giro a parlare male del
presidente degli Stati Uniti è stupido", dice il vicepresidente JD Vance.
"L'obiettivo
di Trump è porre fine alla guerra", le parole di Mike Waltz, consigliere
del presidente per la sicurezza nazionale.
"La
frustrazione" di Trump "in relazione a Zelensky ha diverse cause.
Per
esempio, bisogna apprezzare in maniera profonda quello che il popolo americano,
i contribuenti e il presidente hanno fatto nel primo mandato di Trump. Una
parte della retorica di Kiev e gli insulti al presidente Trump sono stati
inaccettabili", ha aggiunto.
Putin,
il discorso e la minaccia: "Ora guerra è mondiale".
Trump
rischia una catastrofica sconfitta
in Ucraina, ma può ancora evitarla.
Inkiesta.it
- Robert Kagan – (11-01-2025) – ci dice:
Putin
non ha nessun interesse a trattare un accordo di pace, perché sa che il
presidente americano non vuole più aiutare Kyjiv.
L’illusione
trumpiana causerebbe agli Stati Uniti una débâcle senza precedenti. Ecco che
cosa dovrebbe fare la nuova Casa Bianca se volesse davvero “fare di nuovo
grande l’America”.
Il
vicepresidente eletto J.D. Vance una volta ha dichiarato di non preoccuparsi di
ciò che accade all’Ucraina.
Presto scopriremo se il popolo americano
condivide la sua indifferenza, perché senza un’immediata e consistente nuova
iniezione di aiuti da parte degli Stati Uniti, l’Ucraina rischia di perdere la
guerra nei prossimi dodici, diciotto mesi.
L’Ucraina
non perderà dopo una negoziazione piacevole, con la cessione di territori
importanti ma rimanendo un Paese indipendente, sovrano e protetto dalle
garanzie di sicurezza occidentali.
Affronterà invece una sconfitta totale, la
perdita della sovranità e il completo controllo russo.
Questo
pone un problema immediato per Donald Trump.
Ha
promesso di risolvere rapidamente la guerra una volta insediatosi, ma ora deve
affrontare la dura realtà:
Vladimir Putin non ha alcun interesse a
negoziare un accordo che lasci l’Ucraina intatta come nazione sovrana.
Putin vede inoltre l’opportunità di infliggere
un colpo devastante al potere globale americano.
Trump
deve ora scegliere tra accettare una sconfitta strategica umiliante sulla scena
globale e rafforzare immediatamente il sostegno americano all’Ucraina finché
c’è ancora tempo.
La
scelta che farà nelle prossime settimane determinerà non solo il destino
dell’Ucraina, ma anche il successo della sua presidenza.
La
fine di un’Ucraina indipendente è, ed è sempre stato, l’obiettivo di Putin.
Mentre gli analisti di politica estera elaborano teorie su quale tipo di
accordo Putin potrebbe accettare, quanto territorio potrebbe richiedere e quali
garanzie di sicurezza, zone smilitarizzate o aiuti esteri potrebbe permettere,
lo stesso Putin non ha mai mostrato interesse per nulla di meno che la completa
capitolazione dell’Ucraina.
Prima
dell’invasione russa, molti non potevano credere che Putin volesse davvero
tutta l’Ucraina.
Il suo obiettivo iniziale era decapitare il
governo di Kyjiv, sostituirlo con un governo subordinato a Mosca e, attraverso
di esso, controllare l’intero Paese.
Subito
dopo l’inizio dell’invasione, quando le forze russe stavano ancora avanzando in
Ucraina, Putin avrebbe potuto accettare un’offerta ucraina di cedere territori
alla Russia, ma anche allora ha rifiutato qualsiasi garanzia per la sicurezza
dell’Ucraina.
Oggi, dopo quasi tre anni di combattimenti,
gli obiettivi di Putin non sono cambiati: vuole tutto.
I
termini dichiarati da Putin per un accordo sono stati coerenti per tutta la
durata della guerra: un cambio di governo a Kyjiv a favore di un regime
filorusso; la «de-nazificazione», il suo eufemismo preferito per annientare il
nazionalismo ucraino; la smilitarizzazione, ovvero lasciare l’Ucraina senza una
capacità di combattimento sufficiente a difendersi da un altro attacco russo; e
la neutralità, che significa niente legami con organizzazioni occidentali come
la Nato o l’Ue, né programmi di aiuti occidentali mirati a rafforzare
l’indipendenza ucraina.
Gli esperti occidentali che riempiono le pagine degli
editoriali dei giornali e delle riviste con idee su come garantire un’Ucraina
post-accordo stanno, di fatto, negoziando con loro stessi.
Putin
non ha mai accettato l’idea di una zona smilitarizzata, di truppe straniere sul
suolo ucraino, di un rapporto militare continuo tra l’Ucraina e l’Occidente di
qualsiasi tipo, né la sopravvivenza del governo di Volodymyr Zelensky o di un
qualunque governo filoccidentale a Kyjiv.
Alcuni
ottimisti sostengono che Putin sarà più flessibile una volta avviati i
colloqui. Ma
questa idea si basa sull’errata supposizione che Putin creda di aver bisogno di
una pausa dai combattimenti. Non è così. Sì, l’economia russa sta soffrendo.
Sì, le perdite russe al fronte restano incredibilmente alte. Sì, Putin manca
della forza lavoro necessaria sia per combattere sia per produrre armamenti
vitali, ed è riluttante a rischiare un tumulto politico interno istituendo una
leva militare su larga scala.
Se la
guerra dovesse protrarsi per altri due anni o più, questi problemi potrebbero
eventualmente costringere Putin a cercare una tregua, forse persino quel tipo
di accordo che gli americani immaginano.
Ma
Putin pensa di poter vincere prima di allora e crede che i russi possano
sopportare le difficoltà attuali abbastanza a lungo da ottenere la vittoria.
Siamo
davvero sicuri che si sbagli?
Le
previsioni americane sull’incapacità della Russia di resistere a sanzioni
devastanti si sono dimostrate corrette finora?
Le
sanzioni occidentali hanno costretto i russi ad adattarsi e a trovare soluzioni
alternative per il commercio, il petrolio e i finanziamenti, e sebbene questi
aggiustamenti siano stati dolorosi, si sono rivelati in gran parte efficaci.
Il prodotto interno lordo della Russia è
cresciuto di oltre il tre per cento nel 2023 e si prevede una crescita simile
per il 2024, trainata da una spesa militare massiccia.
Le
proiezioni del Fondo monetario internazionale per il 2025 sono più basse, ma
prevedono comunque una crescita positiva.
Putin sta sovietizzando nuovamente l’economia:
imponendo controlli sui mercati e sui prezzi,
espropriando beni privati e concentrandosi sulla produzione militare a scapito
delle esigenze dei consumatori.
Questa
potrebbe non essere una strategia economica sostenibile nel lungo termine, ma,
come si suol dire, nel lungo termine saremo tutti morti.
Putin
crede che la Russia possa resistere abbastanza a lungo da vincere questa
guerra.
Non è
affatto chiaro che Putin desideri davvero un ritorno alla normalità che la pace
in Ucraina comporterebbe.
A
dicembre, ha aumentato la spesa per la difesa a un livello record di
centoventisei miliardi di dollari, pari al 32,5 per cento di tutta la spesa
pubblica, per soddisfare le esigenze della guerra in Ucraina.
L’anno
prossimo, si prevede che la spesa per la difesa raggiunga il quaranta per cento
del bilancio russo. (Per confronto, la maggiore potenza militare mondiale, gli
Stati Uniti, dedica il sedici per cento del proprio bilancio totale alla
difesa.)
Putin
ha riformato il sistema educativo russo per inculcare valori militari dalla
scuola primaria all’università.
Ha
nominato veterani militari a posizioni di alto profilo nel governo, come parte
di uno sforzo per creare una nuova élite russa composta, come dice Putin,
esclusivamente da «coloro che servono la Russia, lavoratori instancabili e
militari». Ha resuscitato Stalin come eroe.
Oggi,
la Russia appare esteriormente come la Russia della Grande Guerra Patriottica,
con un nazionalismo esuberante stimolato e il più piccolo dissenso brutalmente
represso.
Tutto
questo è solo una risposta temporanea alla guerra, o rappresenta anche la
direzione in cui Putin vuole guidare la società russa?
Putin
parla di preparare la Russia alle future lotte globali.
Il conflitto continuo giustifica sacrifici e
repressioni continuative.
Modificare radicalmente una società,
accendendo e spegnendo queste trasformazioni come un interruttore – come
sarebbe necessario se Putin accettasse una tregua per poi riprendere l’attacco
un paio di anni dopo – non è così semplice.
Potrebbe
richiedere lo stesso livello di sacrificio durante un lungo periodo di pace?
Per Putin, far avanzare i russi attraverso il dolore per cercare la vittoria
sul campo di battaglia potrebbe essere il percorso più semplice.
Il popolo russo ha storicamente dimostrato una
notevole capacità di sacrificio sotto la doppia spinta del patriottismo e del
terrore.
Pensare
che la Russia non possa sostenere questa economia di guerra abbastanza a lungo
da resistere più dell’Ucraina sarebbe ingenuo.
Potrebbe bastare un altro anno.
La Russia affronta problemi, anche seri, ma Putin
crede che senza nuovi aiuti sostanziali i problemi dell’Ucraina la porteranno
al collasso prima della Russia.
Questo
è il punto cruciale: Putin vede le tempistiche giocare a suo favore.
Le
forze russe potrebbero iniziare a esaurire l’equipaggiamento militare
nell’autunno del 2025, ma per allora l’Ucraina potrebbe già essere vicina al
collasso.
L’Ucraina non può sostenere la guerra per un
altro anno senza un nuovo pacchetto di aiuti dagli Stati Uniti.
Le
forze ucraine soffrono già di carenza di soldati, esaurimento nazionale, e
morale in caduta libera.
Il tasso di perdite della Russia è più alto di
quello dell’Ucraina, ma ci sono più russi che ucraini, e Putin ha trovato il
modo di continuare a riempire i ranghi, anche con combattenti stranieri.
Come
ha recentemente osservato uno dei principali generali ucraini, «il numero di
truppe russe è in costante aumento».
Stima
che quest’anno siano arrivati 100.000 soldati russi aggiuntivi sul suolo
ucraino.
Nel frattempo, la mancanza di equipaggiamenti
impedisce all’Ucraina di allestire unità di riserva.
Il
morale ucraino è già vacillante sotto gli attacchi di missili e droni russi e
l’incertezza prolungata sul fatto che il supporto vitale e insostituibile degli
Stati Uniti continuerà.
Cosa
succede se quell’incertezza diventa certezza, se nei prossimi mesi diventa
chiaro che gli Stati Uniti non forniranno un nuovo pacchetto di aiuti?
Questo
da solo potrebbe essere sufficiente a causare un crollo completo del morale
ucraino, sia tra i militari che tra i civili.
Ma
l’Ucraina ha anche un altro problema.
Le sue linee difensive sono ora così deboli
che, se le truppe russe riuscissero a sfondarle, potrebbero avanzare
rapidamente verso ovest, fino a Kyjiv.
Putin
crede di stare vincendo.
«La
situazione sta cambiando in modo drammatico», ha osservato in una recente
conferenza stampa.
«Ci
stiamo muovendo lungo l’intera linea del fronte ogni giorno».
Il
capo dell’intelligence estera, Sergei Naryshkin”, ha recentemente dichiarato:
«Siamo vicini a raggiungere i nostri obiettivi, mentre le forze armate ucraine
sono sul punto di collassare».
Potrebbe
essere un’esagerazione per ora, ma ciò che conta è che Putin ci crede. Come
confermano le parole di “Naryshkin”, oggi Putin vede la vittoria a portata di
mano, più che in qualsiasi altro momento dall’inizio dell’invasione.
Le
cose potrebbero essere difficili per Putin in questo momento, ma la Russia ha
fatto molta strada rispetto al primo anno di guerra.
Il
fallimento disastroso della sua invasione iniziale aveva lasciato le sue truppe
intrappolate e immobilizzate, con le linee di rifornimento esposte e
vulnerabili, mentre l’Occidente agiva all’unisono per opporsi a lui e per
fornire aiuti a una controffensiva ucraina sorprendentemente efficace.
Quel
primo anno di guerra ha segnato un momento di massimo splendore per la
leadership americana e la solidarietà dell’alleanza, e il punto più basso per
Putin.
Per
molti mesi, Putin ha combattuto di fatto contro il mondo intero con poco aiuto
da parte di chiunque altro.
Ci
saranno stati momenti in cui ha pensato che avrebbe perso, anche se nemmeno
allora ha rinunciato agli obiettivi massimalisti.
Ma è
riuscito a risalire la china, e le circostanze oggi sono molto più favorevoli
per la Russia, sia in Ucraina che a livello internazionale.
Le sue
forze sul campo stanno facendo progressi costanti – a costo di orribili
perdite, ma Putin è disposto a pagarle finché i russi le tollerano e lui crede
che la vittoria sia vicina.
Nel
frattempo, la linea vitale dell’Ucraina verso gli Stati Uniti e l’Occidente non
è mai stata più a rischio.
Dopo tre anni con un’amministrazione americana
che ha cercato di aiutare l’Ucraina a difendersi, Putin avrà presto un
presidente americano e una squadra di politica estera che si sono costantemente
opposti a ulteriori aiuti all’Ucraina.
L’alleanza
transatlantica, un tempo così unita, è in disordine, con gli alleati europei
dell’America in preda al panico per il timore che Trump possa ritirarsi dalla
Nato o indebolire le loro economie con dazi, o entrambe le cose.
L’Europa
stessa si trova in un momento critico; il tumulto politico in Germania e
Francia ha lasciato un vuoto di leadership che non sarà colmato per mesi, nel
migliore dei casi.
Se Trump taglierà o ridurrà gli aiuti
all’Ucraina, come ha recentemente suggerito, non solo l’Ucraina collasserà, ma
le divisioni tra gli Stati Uniti e i suoi alleati, e tra gli stessi europei, si
approfondiranno e si moltiplicheranno. Putin è più vicino al suo obiettivo di
frammentare l’Occidente di quanto non sia mai stato nei venticinque anni da
quando è salito al potere.
È
questo il momento in cui aspettarsi che Putin negozi un accordo di pace?
Una tregua darebbe agli ucraini il tempo di
riprendere fiato e di ricostruire le loro infrastrutture danneggiate, così come
le loro psicologie ferite.
Permetterebbe
loro di riarmarsi senza consumare le armi che già possiedono. Ridurrebbe le
divisioni tra l’amministrazione Trump e i suoi alleati europei. Risparmierebbe a Trump la necessità
di decidere se cercare un pacchetto di aiuti per l’Ucraina, consentendogli di
concentrarsi su parti del mondo in cui la Russia è più vulnerabile, come il
Medio Oriente post-Assad.
Oggi
Putin ha il vento in poppa in quello che considera, a ragione, il teatro
principale decisivo.
Se vince in Ucraina, la sua sconfitta in Siria
sembrerà insignificante al confronto. Se non ha battuto ciglio dopo quasi tre
anni di miseria, difficoltà e quasi sconfitta, perché dovrebbe farlo ora,
quando crede, a ragione, di essere sull’orlo di una vittoria così grande?
Una
vittoria russa significa la fine dell’Ucraina.
L’obiettivo
di Putin non è un’Ucraina indipendente, seppur più piccola, né un’Ucraina
neutrale o autonoma all’interno di una sfera di influenza russa.
Il suo
scopo è che l’Ucraina non esista.
«L’Ucraina
moderna è interamente un prodotto dell’era sovietica», ha dichiarato. Putin non
vuole semplicemente spezzare le relazioni dell’Ucraina con l’Occidente, mira a
cancellare l’idea stessa di Ucraina, a eliminarla come entità politica e
culturale.
Questo
non è un obiettivo nuovo per la Russia.
Come i suoi predecessori pre-sovietici, Putin
considera il nazionalismo ucraino una minaccia storica che precede le
Rivoluzioni colorate dei primi anni 2000 e l’espansione della Nato negli anni
Novanta — e persino la Rivoluzione Americana.
Nella
mente di Putin, la minaccia rappresentata dal nazionalismo ucraino risale allo
sfruttamento degli ucraini da parte del Commonwealth polacco-lituano nel XV e
XVI secolo, alle macchinazioni dell’Impero austriaco nel XVIII e XIX secolo e
all’uso da parte dei tedeschi dell’odio nazionalista ucraino contro la Russia
durante la Seconda Guerra Mondiale.
Pertanto, l’appello di Putin alla
de-nazificazione non riguarda solo la rimozione del governo Zelensky, ma è un
tentativo di eliminare ogni traccia di un’identità politica e culturale ucraina
indipendente.
La
vigorosa russificazione che le forze di Putin stanno imponendo in Crimea, nel
Donbas e in altri territori ucraini conquistati è la prova della serietà letale
delle sue intenzioni.
Organizzazioni
internazionali per i diritti umani e giornalisti hanno documentato sul “New
York Times” la creazione, nell’Ucraina occupata, di «un sistema di repressione
altamente istituzionalizzato, burocratico e spesso brutale gestito da Mosca»
che comprende «un gulag di oltre cento prigioni, strutture di detenzione, campi
informali e scantinati», distribuiti su un’area approssimativamente delle
dimensioni dell’Ohio.
Secondo
un rapporto del giugno 2023 dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni
Unite per i Diritti Umani, quasi tutti gli ucraini rilasciati da questo gulag
hanno riferito di essere stati sottoposti a torture e abusi sistematici da
parte delle autorità russe.
Le
torture includevano «pugni e tagli inflitti ai detenuti, l’uso di oggetti
appuntiti sotto le unghie, colpi con manganelli e calci di fucile,
strangolamenti, waterboarding, elettrocuzioni, posizioni di stress prolungate,
esposizione a temperature rigide o a box surriscaldati, privazione di cibo e
acqua, esecuzioni simulate o minacce di morte».
Gran
parte degli abusi è stata di natura sessuale, con donne e uomini stuprati o
minacciati di stupro.
Sono state documentate centinaia di esecuzioni
sommarie, e probabilmente ve ne sono molte altre:
numerosi
civili detenuti dalla Russia non sono ancora stati ritrovati. I fuggitivi
dall’Ucraina occupata parlano di una «società carceraria» in cui chiunque
esprima opinioni filo ucraine rischia di essere mandato «nello scantinato»,
dove lo attendono torture e possibile morte.
Questa
oppressione va ben oltre il razionale militare di identificare potenziali
minacce alle forze di occupazione russe.
«La
maggior parte delle vittime», secondo il Dipartimento di Stato americano, sono
state «funzionari pubblici locali attivi o ex, difensori dei diritti umani,
attivisti della società civile, giornalisti e operatori dei media».
Secondo
l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, «le forze
militari russe e i loro delegati spesso detenevano civili sulla base di
sospetti riguardo alle loro opinioni politiche, in particolare legate a
sentimenti filo ucraini».
E così
arriviamo al presidente eletto Donald Trump, che ora si trova intrappolato in
una situazione solo in parte creata da lui stesso.
Quando Trump ha dichiarato durante la sua
campagna elettorale che avrebbe potuto porre fine alla guerra in ventiquattro
ore, presumibilmente credeva a ciò che la maggior parte degli osservatori
pensava: che Putin avesse bisogno di una pausa, che fosse disposto a offrire la
pace in cambio di territori, e che un accordo avrebbe incluso una sorta di
garanzia di sicurezza per ciò che restava dell’Ucraina.
Poiché
la proposta di pace di Trump all’epoca era considerata un accordo molto
sfavorevole per Kyjiv, la maggior parte degli osservatori presumeva che Putin
l’avrebbe accolta favorevolmente.
Non
sapevano che per gli ucraini l’accordo non era neanche lontanamente pessimo
abbastanza da essere accettabile per Putin.
Ora
Trump si trova nella posizione di aver promesso un accordo di pace che non può
assolutamente ottenere senza costringere Putin a rivedere i suoi calcoli.
A
complicare l’errore di valutazione di base di Trump è il mito di Trump come
uomo forte.
Una
parte non trascurabile dell’aura e del successo politico di Trump risiede
nell’aspettativa, condivisa da molti, che gli altri leader mondiali faranno
quello che vuole lui.
Quando
di recente ha convocato il primo ministro canadese Justin Trudeau, già in
difficoltà, a Mar-a-Lago e lo ha umiliato definendolo il «governatore del
cinquantunesimo stato» americano, i sostenitori di Trump nei media hanno
esultato per la sua capacità di «proiettare forza come leader degli Stati Uniti
facendo apparire Trudeau debole».
Molti,
e non solo i sostenitori di Trump, hanno allo stesso modo ipotizzato che la
sola elezione di Trump sarebbe bastata a costringere Putin ad accettare un
accordo di pace.
L’immagine di Trump come duro e le sue
presunte abilità di negoziatore gli avrebbero dato, secondo un ex funzionario
della Difesa, «il potere e la credibilità con Putin per dirgli che deve
accettare una pace giusta e duratura».
È
sempre pericoloso credere troppo alla propria narrazione.
Lo
stesso Trump sembrava convinto che la sua elezione sarebbe stata sufficiente a
convincere Putin che era arrivato il momento di negoziare un accordo.
Nel
dibattito con “Kamala Harris”, Trump ha dichiarato che avrebbe risolto la
guerra prima ancora di diventare presidente, affermando che, da presidente
eletto, avrebbe riunito Putin e Zelensky per raggiungere un accordo.
Secondo
lui, poteva farlo perché «mi rispettano; non rispettano Biden».
Le
prime mosse di Trump dopo il 5 novembre trasudavano fiducia nel fatto che Putin
si sarebbe adattato al nuovo sceriffo in città.
Due
giorni dopo le elezioni, in una telefonata con Putin che il suo staff ha fatto
trapelare alla stampa, Trump avrebbe «consigliato al presidente russo di non
intensificare la guerra in Ucraina e gli ha ricordato la considerevole presenza
militare americana in Europa».
Oltre
a queste velate minacce, Trump sembra credere che qualcosa come amicizia, stima
o lealtà possa facilitare la negoziazione di un accordo.
Che
Trump, l’uomo più pragmatico e transazionale di tutti, potesse davvero credere
che Putin sarebbe stato mosso da tali sentimenti è difficile da credere.
Pochi
giorni dopo la telefonata in cui Trump gli consigliava di non intensificare,
Putin ha lanciato un missile balistico intermedio ipersonico, con capacità
nucleare, contro l’Ucraina, continuando ad intensificare il conflitto da
allora.
Ha inoltre fatto smentire dai suoi portavoce che
quella telefonata fosse mai avvenuta. Ancora oggi, Putin insiste che lui e
Trump non hanno parlato dopo le elezioni.
Putin
ha inoltre chiarito di non essere interessato alla pace. Nei giorni precedenti al lancio del
missile, ha osservato: «Nel corso di secoli di storia, l’umanità si è abituata a
risolvere le dispute con la forza. Sì, succede anche questo. Il diritto del più
forte prevale, e questo principio funziona».
In un
messaggio chiaramente rivolto alle pretese di potere di Trump, Putin ha
suggerito all’Occidente di fare una «valutazione razionale degli eventi e delle
proprie capacità».
I suoi portavoce hanno ripetutamente affermato
che Putin non ha alcun interesse a «congelare il conflitto» e che chiunque
creda che Mosca sia pronta a fare concessioni «ha poca memoria o scarsa
conoscenza dell’argomento».
Hanno
anche avvertito che le relazioni tra Stati Uniti e Russia sono «sull’orlo della
rottura», con la chiara implicazione che spetta a Trump riparare i danni.
Putin è particolarmente furioso con il
presidente Joe Biden per aver finalmente revocato alcune restrizioni sull’uso
ucraino dei missili americani a lungo raggio “Atacms” contro obiettivi russi,
minacciando di rispondere con il lancio di missili balistici a medio raggio
contro obiettivi americani e dei loro alleati.
Trump
ha un problema di credibilità, in parte a causa dei fallimenti
dell’amministrazione Biden, ma anche per colpa sua.
Putin
sa quello che sappiamo tutti: che Trump vuole uscire dall’Ucraina.
Non
vuole prendersi la responsabilità della guerra, non vuole passare i primi mesi
del suo mandato in uno scontro con la Russia, non vuole la stretta cooperazione
con la Nato e altri alleati che il continuo sostegno all’Ucraina richiederebbe
e, soprattutto, non vuole trascorrere i primi mesi del suo nuovo mandato
cercando di far approvare al Congresso un pacchetto di aiuti per l’Ucraina,
dopo aver fatto campagna elettorale contro quegli stessi aiuti.
Putin
sa anche che, anche se Trump dovesse alla fine cambiare idea, forse per
frustrazione di fronte ai suoi rinvii, sarebbe troppo tardi.
Passerebbero
mesi prima che un disegno di legge sugli aiuti venisse approvato da entrambe le
camere e che le armi iniziassero ad arrivare sul campo di battaglia. Putin ha
già osservato questo processo lo scorso anno, e ha saputo sfruttare bene quel
tempo.
Può
permettersi di aspettare.
Dopotutto,
se tra otto mesi Putin sentisse che la guerra sta per volgere a suo sfavore,
potrebbe fare lo stesso accordo che Trump vorrebbe fargli fare ora.
Nel
frattempo, può continuare a colpire i demoralizzati ucraini, distruggere ciò
che rimane della loro rete energetica e ridurre ulteriormente il territorio
sotto il controllo di Kyjiv.
No,
per cambiare i calcoli di Putin, Trump dovrebbe fare esattamente ciò che finora
non ha voluto fare:
dovrebbe rinnovare immediatamente gli aiuti
agli ucraini, in quantità e qualità sufficienti a cambiare la traiettoria sul
campo di battaglia.
Dovrebbe anche indicare in modo convincente di
essere disposto a continuare a fornire aiuti fino a quando Putin non accettasse
un accordo ragionevole o affrontasse il collasso del suo esercito.
Azioni
di questo tipo da parte di Trump cambierebbero le tempistiche abbastanza da
dare a Putin motivo di preoccuparsi.
In
assenza di ciò, il presidente russo non ha alcuna ragione per discutere i
termini della pace. Deve solo aspettare il collasso dell’Ucraina.
A
Putin non interessa chi sia il presidente degli Stati Uniti. Il suo obiettivo,
da oltre due decenni, è indebolire gli Stati Uniti, distruggerne l’egemonia
globale e la leadership dell’ordine liberale occidentale per consentire alla
Russia di riprendere quello che considera il suo giusto ruolo come grande
potenza europea e impero con influenza globale.
Putin ha molte ragioni immediate per voler
sottomettere l’Ucraina, ma crede anche che una vittoria inizierebbe a
disgregare otto decenni di supremazia globale americana e l’opprimente ordine
mondiale liberale guidato dagli Stati Uniti.
Pensate
a cosa potrebbe ottenere dimostrando, con la conquista dell’Ucraina, che
persino il duro numero uno d’America, l’uomo che dovrebbe «rendere di nuovo
grande l’America», colui che ha ottenuto il sostegno della maggioranza degli
elettori maschi americani, è impotente nel fermarlo e nell’impedire un colpo
significativo al potere e all’influenza americana.
In
altre parole, pensate a cosa significherebbe per l’America di Donald Trump
perdere.
Lungi dal voler aiutare Trump, Putin trae vantaggio
dall’umiliarlo.
Non sarebbe una questione personale, ma
puramente di affari, in questo mondo duro e cinico.
Trump
si trova davanti a un paradosso.
Lui, insieme con molti dei suoi consiglieri e
sostenitori più eloquenti, condivide l’ostilità di Putin verso l’ordine
americano, di cui la Nato è un pilastro centrale. Alcuni condividono persino la
sua idea che il ruolo americano nel sostenere quell’ordine sia una forma di
imperialismo, oltre che una scommessa svantaggiosa per l’americano medio.
Il
vecchio movimento “America First “degli inizi degli anni Quaranta cercava di
impedire agli Stati Uniti di diventare una potenza globale con responsabilità
globali.
L’obiettivo del nuovo “America First” è far
uscire gli Stati Uniti dal business delle responsabilità globali.
È qui che la destra trumpiana e alcune parti
della sinistra americana si incontrano, ed è per questo che alcuni a sinistra
preferiscono Trump ai suoi avversari neoliberali e neoconservatori.
Trump
stesso non è un ideologo, ma le sue simpatie chiaramente si allineano con
coloro che nel mondo condividono un odio verso quello che percepiscono come
l’oppressivo e prepotente ordine mondiale liberale, figure come Viktor Orbán,
Nigel Farage, Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin.
Il
problema di Trump, tuttavia, è che, a differenza dei suoi compagni di viaggio
nell’antiliberalismo, sarà presto il presidente degli Stati Uniti.
L’ordine mondiale liberale è inseparabile dal
potere americano, e non solo perché dipende da esso.
Gli
Stati Uniti stessi non sarebbero così potenti senza le alleanze e il sistema
economico e politico internazionale aperto che hanno costruito dopo la Seconda
Guerra Mondiale per proteggere i loro interessi a lungo termine.
Trump
non può smettere di difendere l’ordine mondiale liberale senza cedere
un’influenza significativamente maggiore a Russia e Cina.
Come
Putin, anche “Xi Jinping”, “Kim Jong Un” e Ali Khamenei considerano
l’indebolimento dell’America essenziale per le loro ambizioni.
Trump
può condividere la loro ostilità verso l’ordine liberale, ma condivide anche il
loro desiderio di indebolire l’America e, di conseguenza, sé stesso?
Sfortunatamente
per Trump, l’Ucraina è il teatro in cui si sta combattendo questa titanica
battaglia.
Oggi,
non solo Putin, ma anche Xi, Kim, Khamenei e altri che il popolo americano
generalmente considera avversari, credono che una vittoria russa in Ucraina
infliggerà un grave danno alla forza americana ovunque.
È per
questo che stanno riversando denaro, armamenti e, nel caso della Corea del
Nord, persino i loro stessi soldati nella battaglia.
Quali
che siano i benefici a breve termine che potrebbero ottenere assistendo la
Russia, il grande guadagno che cercano è un colpo mortale al potere e
all’influenza americani, che li hanno limitati per decenni.
Inoltre,
anche gli alleati dell’America in tutto il mondo concordano con questa visione.
Anche
loro credono che una vittoria russa in Ucraina, oltre a minacciare direttamente
la sicurezza degli stati europei, smantellerà il sistema di sicurezza guidato
dagli Stati Uniti su cui fanno affidamento.
È per
questo che persino alleati asiatici, lontani dal teatro di guerra, stanno dando
il loro contributo alla lotta.
Se
Trump non sostiene l’Ucraina, si troverà di fronte alla prospettiva poco
allettante di presiedere a una grande sconfitta strategica.
Storicamente,
questo non è mai stato positivo per la posizione politica di un leader.
Jimmy Carter apparve debole quando l’Unione
Sovietica invase l’Afghanistan, che aveva un’importanza strategica molto
inferiore rispetto all’Ucraina.
Henry
Kissinger, nonostante il Premio Nobel, fu emarginato dal Partito Repubblicano a
metà degli anni Settanta, in gran parte per il fallimento americano in Vietnam
e la percezione che l’Unione Sovietica stesse guadagnando terreno durante il
suo mandato.
Joe
Biden ha posto fine a una guerra impopolare in Afghanistan, solo per pagarne il
prezzo politico.
Barack
Obama, che aveva aumentato la presenza americana in Afghanistan, non ha mai
pagato un prezzo politico per aver prolungato la guerra.
Biden ha pagato quel prezzo in parte perché
l’uscita dall’Afghanistan è stata, per usare un eufemismo, disordinata.
La caduta dell’Ucraina sarà molto più
disordinata — e meglio documentata in televisione.
Trump ha costruito e valorizzato un’aura di
potere e durezza, ma questa può svanire rapidamente.
Quando
arriverà la caduta dell’Ucraina, sarà difficile presentarla come qualcosa di
diverso da una sconfitta per gli Stati Uniti e per il suo presidente.
Questo
non era ciò che Trump aveva in mente quando disse che avrebbe potuto ottenere
un accordo di pace in Ucraina.
Senza
dubbio immaginava di essere celebrato come lo statista che aveva convinto Putin
a fare un accordo, salvando il mondo dagli orrori di un’altra guerra infinita.
Il suo potere e il suo prestigio sarebbero
stati accresciuti.
Sarebbe
stato un vincitore.
Nei
suoi piani non c’era l’essere respinto, schiacciato e, secondo il giudizio
della maggior parte del mondo, sconfitto.
Riuscire
a capire dove lo porterà il percorso che sta attualmente seguendo è una prova
del suo istinto.
Non si
trova sulla strada della gloria.
E se
non cambia rapidamente, la sua scelta determinerà molto più del futuro
dell’Ucraina.
(Robert
Kagan è l’autore di “Insurrezione”; questo articolo è stato pubblicato in
inglese su The Atlantic.)
Povera
Europa di confusione ostello,
Zelensky and Co. contro il Triumvirato.
Comedonchisciotte.org
– Redazione CDC - Glauco Benigni – (4 Marzo 2025) – ci dice:
(Triumvirato
Benigni).
Care
Sorelle e Fratelli, è vero!
Il
mondo è cambiato a grandissima velocità negli ultimi mesi. Non sappiamo se in
peggio o in meglio.
È
troppo presto ancora per esprimere giudizi.
C’era
un Occidente “Biden” e oggi c’è un “Occidente Trump2” che configura un “Trump
new world”.
Ovvero
un Mondo in cui è radicalmente cambiata la Scena Geopolitica e conseguentemente
militare, commerciale, tecnologica, direi anche “spirituale”, etc…
Le
guerre e i tentativi di pace in corso definiscono “teatrini” e “teatroni” da
III Millennio, molto diversi dai “teatri” dell’Era Biden.
A quel
tempo c’erano molti attori, anche se talvolta con ruoli indefiniti, invisibili.
Erano i protagonisti e gli eredi di sintesi estreme dei grandi fatti avvenuti
nel secolo scorso:
Yalta,
l’ONU, la Fine della 1a Guerra Fredda, la Caduta del Muro, il 9/11, i tentativi
di Globalizzazione di mano privata, la Pandemia, la fine dell’accordo OPEC-USA
sui petrodollari e altri fatti rilevanti.
Fino a
Trump2 la Storia era stata narrata dal mainstream come multipolare e
multilaterale.
Oggi i
Social, per lo meno in USA, si stanno disallineando dalla narrazione; i Russi e
i Cinesi si sono disallineati da un pezzo e “multipolare” significa che la
Grande Storia si aggroviglia e si dipana attorno a soli “tre poli” che di fatto
stanno dando vita al Nuovo Ordine Mondiale.
Anche
prima di Trump2 valeva la “Legge Imperiale” : “Chi prende il piatto ha
ragione“: con la forza, l’astuzia o l’inganno, chi vinceva poteva sostenere di
aver ragione.
Ma la
Legge era imbarazzante, non era “politically correct” e quindi restava
ipocritamente “in ombra” non ostante fosse “in vigore”.
Oggi
invece, a causa dello stile Trump, la brutalità e l’iper realismo dell’”ubi
maior minor cessat” sta apparendo in piena luce ed è sotto i riflettori dei
media di tutto il pianeta.
Si
dice : è una nuova Yalta.
Ah! Ve
ne siete accorti allora. Ma è anche la Fine della 2a Guerra Fredda tra le
grandi potenze nucleari.
Il
fatto che un pezzo di Europa sgomiti per interporsi è semplicemente
sconcertante.
È
sicuramente vero che le grandi nazioni europee dovrebbero avere una voce nella
nuova Yalta ma NON invocando la Putin fobia.
Questa
pratica si è rivelata infatti un gioco da Condominio che non tiene conto del
Piano Regolatore Internazionale.
Un
gioco per nani e ballerine che non riescono a dimostrare nettamente il confine
tra giusto e sbagliato perché una storia secolare, aggrovigliata e oscura, come
quella in cui è coinvolta l’Ucraina, semplicemente non è giudicabile.
C’è
solo da lavorare affinché finisca al più presto la guerra.
Chi la
vede come una Crociata in cui Kiev è Gerusalemme e i Russi sono gli Infedeli e
tra questi molti parlamentari, attori e artisti, insomma:
gente
che ha tempo libero, vada a Kiev a fare da scudo umano a Zelensky and Co.
invece di abbaiare nel vento e si renderà conto di persona del tranello in cui
la povera Ucraina è stata coinvolta dagli “amici di Zelensky” per i loro luridi
interessi.
Il “Trump
new world” è progettato per interfacciare i due altri Grandi Attori del nuovo
Teatro: Putin e Xi Jin Ping. E sarà così.
Non può essere altrimenti, qualsiasi sia il
ruolo, anche se militare, che riuscirà ad assumere il pezzo di Europa del Club
Russofobo.
Chi
può immaginare un’Alleanza Militare Europea come una Crociata guidata da UK/
City of London, che è fuori dalla UE ?
Si vede con chiarezza che l’idea è finalizzata
soprattutto a drenare denaro pubblico per costruire armi.
Si
vede che è un Deal Finanziario in cui dovrebbero “girare” 700 miliardi di Euro
sottratti al welfare.
Un’Alleanza
fondata sul “place your bet” , fate gioco signori fate gioco. T
anto
noi stiamo a casa e vediamo la war game in tv.
Quindi
: ben venga una nuova Yalta. E ben fa Trump a trattare Zelensky and Co. nel
modo in cui li tratta, cioè come maggiordomi di poteri occulti.
I Tre
Imperatori si muovono da un paio di mesi in una scena assolutamente inedita,
una scena da “Star War”, più grande e diversa da quella in cui si mossero
Churchill , Stalin e Roosvelt .
I tre
Imperatori siedono al Consiglio di Sicurezza dell’ONU da sempre e se sarà il
caso metteranno velocemente in minoranza i partners europei, come del resto
hanno già fatto.
Scriveva
Vatican News il 25.2 : “Nel giorno del terzo anniversario del conflitto in
Ucraina, al Consiglio di Sicurezza Onu viene approvata una breve risoluzione
presentata dagli Stati Uniti sulla “rapida fine della guerra”
Hanno votato a favore 10 membri su 15,
compresi, congiuntamente, Usa, Russia e Cina, mentre Francia e Regno Unito si
sono astenuti come pure Slovenia, Grecia e Danimarca.”
Che si vuole di più?
Solo
una Forza di Peacekeeping ONU potrebbe essere tollerata in Ucraina. Al
contrario di Uk-Francia-Germania, i Tre parlano tra loro di riduzione di spese
militari e hanno deciso di: terminare gli scontri in Ucraina, speriamo anche
quelli a Gaza, evitare lo scontro militare su Taiwan e SPARTIRSI IL MONDO, Dazi
o non Dazi.
E lo
possono fare.
Checchè
ne pensino a Londra, a Parigi o a Berlino che sono le tre uniche Capitali del
mondo in cui si crede di aver diritto a partecipare al banchetto della
ricostruzione e a negoziare le spartizioni di materie prime facendo valere la
Putin fobia e il ruolo svolto quali ottusi istigatori al massacro.
Anche
Nuova Delhi è d’accordo sulla visione del triumvirato… anche Brasilia e tutti i
BRICS .
Questi
ultimi hanno addirittura soprasseduto all’ipotesi di lanciare una moneta
antagonista del Dollaro USA.
E
stanno valutando se accettare che il debito pubblico statunitense possa essere
garantito da crypto valute.
Putin e Xi Jin Ping vanno d’accordo ormai da
anni e la loro partnership sta sortendo effetti ottimi per entrambi.
Trump
– grazie al Cielo – vuol fare solo affari.
Detesta
le guerre e promette (se non altro promette) di fare il castigamatti contro
pedofili e corrotti.
Cerchiamo
di capirci: una concentrazione di potere quale quella descritta non rassicura
nessuno.
Il triumvirato è più forte di qualsiasi altro
triumvirato sia mai apparso nella Storia del Mondo. Ognuno dei tre controlla
agevolmente anche la propria opposizione interna.
Ciò
che passa dalle loro mani, unitamente a ciò che sognano, più quello che
ascoltano dai loro Consulenti privilegiati e forse dalle donne con cui dormono,
costituisce un mix ben noto ai Re del passato;
un mix di ego egemonico e visioni e mediazioni
attuate solo con il proprio clan più intimo.
Ebbene, oggi è quel mix che detta le norme del
loro comportamento e condiziona le aspettative del Futuro sulla Terra.
Quel
mix rischia di essere più forte delle Costituzioni e dei Trattati
Internazionali. Checchè se ne dica andrà così per qualche anno.
Le
massonerie, le cupole, le mafie e anche i Parlamenti e le Magistrature degli
“amici di Zelesnky” se ne faranno una ragione.
Anche
la Finanza dei Poteri Forti, che al dunque sembra essere il motore del club
“Amici di Zelensky”, dovrà darsi Pace.
I tre non sono ricattabili, i loro Servizi di
Sicurezza sono i migliori della Storia. Forse tra i tre il più fragile è Trump
perché un pezzo dei Servizi di Intelligence USA è ancora controllato dal “deep
state”, ma il
fatto di aver tentato inutilmente di assassinarlo da poco lo mette all’altezza
degli altri due.
Loro
tre gestiscono la Corsa allo Spazio, il 95% degli arsenali nucleari, dei droni
e robot da guerra, delle armi batteriologiche e dell’Intelligenza Artificiale.
Le
loro sfere di influenza commerciali si estendono dovunque in ogni angolo remoto
del pianeta.
Dopo
l’Africa si spartiranno la Groenlandia. (Io non credo che Putin accetti di
farlo solo con gli USA escludendo la Cina).
Se gli
“amici di Zelensky” si ostinano si potrebbe arrivare a “teatrini estremi” : la
fine della Nato, la fine della UE e ciò ovviamente renderebbe felice Chi da
anni invoca queste “soluzioni”.
Escludiamo
per buon gusto l’ipotesi di guerra tra Russia e pezzi d’Europa.
Al
triumvirato che ci sia o meno l’Euro e la UE non interessa più di tanto,
bisognerà accorgersene prima o poi.
L’importante
è che sopravviva un mercato geografico chiamato Europa, con la UE o con tanti
Stati diversi, nei quali ancora – non per tanti anni – si aggirano dei ricchi
consumatori.
Le
democrazie liberiste non hanno retto anche perché non sono state realmente
sostenute da chi doveva rappresentare la base degli elettori.
Sebbene
il futuro sembra essere orientato da un Capitalismo di Stato che sorveglia ogni
mossa dei suoi cittadini, per avere un po’ di respiro nell’attuale Apocalisse
dobbiamo sperare che i tre vadano d’accordo.
A Pace
fatta si vedrà cosa fare per limitare i poteri di un inaspettato Nuovo Ordine
Mondiale che attualmente nessuno è in grado di limitare.
(Glauco
Benigni).
La
realtà si confronta con gli strati
dominanti
dell'euro:
“Attraverso lo strappo della bolla
della
fantasia, vedono la propria fine.”
Unz.com - Alastair Crooke – (4 marzo 2025) –
ci dice:
Apparentemente,
non è nell'interesse dell'Europa organizzare una resistenza concertata contro
il presidente degli Stati Uniti per una guerra fallita.
Loro
(le euro-élite) non impone hanno alcuna possibilità:
"Se
Trump questa tariffa [25%], gli Stati Uniti saranno in un serio conflitto
commerciale con l'UE", minaccia il primo ministro norvegese. E se
Bruxelles si vendicasse?
"Ci
possono provare, ma non ci riescono", ha risposto Trump.
Von der Leyen, tuttavia, ha già promesso che
si venderà . Ciononostante, è ancora improbabile che la suite combinata delle
forze amministrative anglosassoni costringa Trump a schierare truppe militari
statunitensi sul terreno in Ucraina per proteggere gli interessi (e gli
investimenti) europei!
La
realtà è che ogni membro europeo della NATO – con vari gradi di imbarazzo –
ammette che nessuno di loro vuole partecipare alla messa in sicurezza
dell'Ucraina senza che le truppe militari statunitensi forniscano
"sostegno" a quelle forze europee.
Questo
è un piano palesemente ovvio per convincere Trump a continuare la guerra in
Ucraina, così come lo è il fatto che Macron e Starmer hanno fatto penzolare
l'accordo minerario per cercare di ingannare Trump a impegnarsi nuovamente
nella guerra in Ucraina. Trump vede chiaramente attraverso questi stratagemmi.
Il
neo, tuttavia, è che Zelenskyj sembra temere un cessate il fuoco, più di quanto
tema di perdere ulteriore terreno sul campo di battaglia.
Anche
lui sembra aver bisogno che la guerra continua (per preservare la permanenza al
potere, possibilmente).
Trump
ha apparentemente causato l'ingresso delle élite europee in una qualche forma
di dissonanza cognitiva.
Naturalmente,
è chiaro da tempo che l'Ucraina non avrebbe riconquistato i suoi confini del
1991, né avrebbe costretto la Russia a una posizione negoziale abbastanza
debole da consentire all'Occidente di dettare i propri termini di cessazione.
Come
scrive” Adam Collingwood”:
"Trump
ha strappato un enorme strappo nello strato dell'interfaccia della bolla di
fantasia ... l'élite al governo [sulla scia del perno di Trump] può vedere non
solo una battuta d'arresto elettorale, ma piuttosto una catastrofe letterale.
Una
sconfitta in guerra, con [l'Europa] lasciata in gran parte indifesa;
un'economia in via di deindustrializzazione; servizi pubblici e infrastrutture
fatiscenti; ampi disavanzi fiscali; tenore di vita stagnante; disarmonia
sociale ed etnica – è una potente insurrezione populista guidata da nemici
altrettanto gravi come Trump e Putin nella lotta manichea contro le vestigia
dei tempi liberali – è strategicamente inserita tra due leader che li
disprezzano e li disprezzano...".
"In
altre parole, attraverso lo strappo nella bolla della fantasia, le élite
europee vedono la propria fine...".
"Chiunque
potesse vedere la realtà sapeva che le cose sarebbero solo peggiorate sul
fronte di guerra dall'autunno del 2023, ma dalla loro bolla di fantasia, le
nostre élite non potevano vederlo.
Vladimir
Putin, come i "Deplorabili" e i "Gammon" in patria, era un
demone atavico che sarebbe stato inevitabilmente ucciso nell'inesorabile marcia
verso l'utopia progressista liberale".
Molti
negli strati dominanti dell'euro sono chiaramente furiosi.
Ma
cosa possono fare effettivamente la Gran Bretagna o la Germania?
È
diventato subito chiaro che gli Stati europei non hanno la capacità militare di
intervenire in Ucraina in modo concertato.
Ma più
di ogni altra cosa, vieni sottolinea “Conor Gallagher”, è l'economia europea,
in gran parte a causa della guerra contro la Russia, che sta trascinando la
realtà in primo piano.
Il
nuovo cancelliere tedesco, “Friedrich Merz”, ha dimostrato di essere il leader
europeo più implacabile a favore sia dell'espansione militare che della
coscrizione giovanile, in quello che equivale a un modello di resistenza
europea montato per affrontare il perno di Trump verso la Russia.
Eppure
la CDU/CSU vincente di Merz ha ottenuto solo il 28% dei voti, perdendo una
quota significativa degli elettori.
Non
c'è certo un mandato eccezionale per affrontare insieme la Russia – e
l'America!
"Sto
comunicando a stretto contatto con molti primi ministri e capi di stato dell'UE
e per me è una priorità assoluta rafforzare l'Europa il più rapidamente
possibile, in modo da raggiungere l'indipendenza dagli Stati Uniti, passo dopo
passo", ha affermato “Friedrich Merz”.
Il
secondo posto nelle elezioni tedesche è stato conquistato da “Alternative für
Deutschland” (AfD) con il 20% dei voti nazionali. Il partito è stato il più votato nella fascia
demografica 25-45 anni. Sostiene buoni rapporti con la Russia, la fine della guerra
in Ucraina e vuole collaborare anche con il Team Trump.
Eppure
l'AfD è assurdamente emarginata dalle "regole del firewall".
In
quanto partito "populista" con un forte voto giovanile, viene
automaticamente relegata dalla "parte sbagliata" del firewall
dell'UE.
Merz
si è già rifiutato di condividere il potere con loro, lasciando la CDU come un
maiale nel mezzo, schiacciata tra la fallimentare SPD, che ha perso la maggior
parte degli elettori, e l'AfD e Der Linke , un altro emarginato del firewall,
che, come l'AfD, ha guadagnato quote di elettori, specialmente tra gli under
45.
Il
problema qui, ed è un grosso problema, è che l'AfD e il partito di sinistra,
Der Linke (8,8%), che è stato il partito con il maggior numero di voti nella
fascia demografica 18-24, sono entrambi contrari alla guerra. Insieme, questi
due hanno più di un terzo dei voti in parlamento, una minoranza di blocco per
molti voti importanti, in particolare per le modifiche costituzionali.
Questo
sarà un grande grattacapo per Merz, come spiega Wolfgang Münchau :
"Per
prima cosa, il nuovo cancelliere voleva recarsi al vertice della NATO questo
giugno, con un forte impegno per una maggiore spesa per la difesa.
E anche se il Partito della Sinistra e l'AfD
si odiano sotto ogni altro aspetto, concordano sul fatto che non daranno a Merz
i soldi per rafforzare la Bundeswehr.
Ancora più importante, però, è il fatto che
non sosterranno una riforma delle regole fiscali costituzionali (il freno al
debito) che Merz e la SPD desiderano disperatamente".
Le
regole sono complicate, ma in sostanza impongono che se la Germania vuole
spendere più soldi per la difesa e gli aiuti all'Ucraina, devono essere
risparmiati da altre parti del bilancio (molto probabilmente dalla spesa
sociale).
Ma
politicamente, il risparmio sulla spesa sociale per pagare l'Ucraina non ha
giocato bene con l'elettorato tedesco.
L'ultima coalizione ha fallito proprio su
questo tema.
Anche
con i Verdi, Merz sarà ancora a corto della maggioranza dei due terzi
necessaria per apportare modifiche costituzionali, e il "Centro" non
ha lo spazio fiscale per sfidare la Russia senza i finanziamenti degli Stati
Uniti.
Von
der Leyen cercherà di 'magicare' il denaro per la difesa da qualche
parte,"ma i giovani tedeschi stanno votando contro i partiti
dell'establishment che sono odiati.
Possono
costruire alcuni Leopard se vogliono. Non avranno reclute".
Mentre
l'UE e la Gran Bretagna propongono di raccogliere miliardi per armarsi contro
un'immaginaria invasione russa, ciò avverrà sullo sfondo di Trump che afferma
esplicitamente - sulla minaccia di un'invasione russa della NATO –
"Non
ci credo; non ci credo, neanche un po'".
Un
altro slogan dell'euro strappato da Trump.
Quindi,
come reagirà il pubblico europeo, che si è ampiamente inasprito per la guerra
in Ucraina, ai maggiori costi energetici e ai maggiori tagli alle tasse e ai
servizi sociali, per perseguire una guerra impossibile da vincere in Ucraina?
Starmer è già stato avvisato che i "
vigilanti obbligazionari " (del debito pubblico) reagiranno male a un
ulteriore debito pubblico del Regno Unito, mentre la situazione fiscale vacilla
precariamente.
Non ci
sono soluzioni ovvie all'attuale situazione dell'Europa: è, da un lato, un
enigma esistenziale per Merz.
E
dall'altro, è lo stesso che perseguita l'UE nel suo complesso: per fare
qualsiasi cosa, una maggioranza parlamentare è una necessità fondamentale.
Il
"firewall", sebbene inizialmente destinato a proteggere i
"centristi" di Bruxelles dai "populisti" di destra, è stato
successivamente messo il turbo a Bruxelles dall'emissione da parte di Biden di
una decisione di politica estera a tutti gli "attori" della politica
estera degli Stati Uniti, secondo cui il populismo era una "minaccia per
la democrazia" e doveva essere contestato.
Il
risultato pratico, tuttavia, è stato che in tutta l'UE si sono formate
coalizioni di blocco composte da strani compagni di letto (di minoranza) che
hanno accettato di mantenere i centristi al potere, ma che piuttosto hanno
portato a una stasi senza fine ea un distacco sempre maggiore da "noi, il
popolo".
Angela
Merkel ha governato in questo modo, dando un calcio al barattolo delle riforme
per anni, fino a quando la situazione alla fine è diventata (ed è tuttora)
insolubile.
"Può
un'altra coalizione di miopi centristi arrestare il declino dell'economia,
rimediare al fallimento della leadership e liberare la nazione dalla sua
perniciosa trappola politica?
Penso che conosciamo la risposta", scrive
Wolfgang Münchau.
C'è un
problema più grande, tuttavia:
come
Vance ha avvertito molto esplicitamente al recente Forum sulla sicurezza di
Monaco, il nemico dell'Europa non è con la Russia;
Sta
dentro.
Deriva,
sottintendeva Vance, dal fatto di avere una burocrazia permanente, che si
assume la prerogativa esclusiva del potere di governo autonomo, ma che diventa
sempre più lontana dalla propria base.
Abbattere
i firewall, sosteneva Vance, per tornare ai principi (abbandonati) di quella
precedente democrazia originariamente condivisa tra gli Stati Uniti e l'Europa.
Implicitamente, Vance sta prendendo di mira lo
“Stato Amministrativo” (Profondo) di Bruxelles.
Gli
eurocrati vedono in questo nuovo fronte un attacco alternativo sostenuto dagli
Stati Uniti al loro Stato amministrativo – e percepiscono in ciò la propria
fine.
Negli
Stati Uniti, c'è il riconoscimento che c'è una " resistenza istituzionale
a Trump " nel DOD, DOJ e FBI.
Ciò
dimostra, sostiene “Margot Cleveland,” che coloro che decantano la necessità di
una "resistenza istituzionale" e la presunta indipendenza dal ramo
esecutivo, sono gli oppositori della democrazia - e di Trump.
Dato
lo stretto legame tra gli Stati Uniti, i Deep States britannici ed europei, sorge spontaneo chiedersi perché
anche tra i leader europei ci sia una resistenza parallela così forte a Trump.
Apparentemente,
non è nell'interesse dell'Europa organizzare una resistenza concertata contro
il Presidente degli Stati Uniti per una guerra fallita.
La
frenesia europea è quindi alimentata da un desiderio più ampio del “Deep State”
(degli Stati Uniti) di neutralizzare la "Rivoluzione Trump"
dimostrando, oltre all'opposizione interna degli Stati Uniti in patria, che
Trump sta causando scompiglio tra gli alleati europei degli Stati Uniti?
L'Europa viene spinta più avanti su questa strada di quanto avrebbe altrimenti
scelto di avventurarsi?
Perché
la Germania cambia rotta – anche se impensabile per Merz – basterebbe solo una
minima dose di immaginazione per immaginare la Germania di nuovo legata
all'Eurasia.
L'AfD
ha ottenuto il 20% dei voti proprio su una piattaforma del genere. Davvero,
probabilmente c'è poca altra opzione.
MANIFESTARE
PER IL DISASTRO»
Di
Redazione Inchiostronero Postato da 2 ore fa 8 minuti letti 0 0 22
Proteste
in diverse città contro l’attacco a Zelensky
MANIFESTARE
PER IL DISASTRO.
Inchiostronero.it
– Redazione inchiostro nero – (5- 3 -2025) – ci dice:
(Il
Simplicissimus)
Oltre
10 mila in piazza per difendere Zelensky dalla sua “demolizione” politica.
Secondo
le cronache, ieri sarebbero scese in piazza circa 10 mila persone, sparse in
diverse città per protestare contro la demolizione di Zelensky avvenuta in
mondovisione nella Sala Ovale e dunque per protestare contro la fine della
guerra.
Alla
manifestazione, organizzata da Azione, il partito di Carlo Calenda, montiano di
ferro, ex manager vicino a Montezemolo, fanatico di Draghi e alleato di Renzi
(tanto per capire di chi si tratta), ha partecipato anche il Pd, cosa che rende
anche più magro il bottino di presenze, mentre restituisce la certezza che i
numeri siano stati gonfiati.
Insomma, quattro gatti insensati che prendono
spunto dal totale disastro della Ue per chiedere bizzarramente ancora più
Europa, il che partecipa della natura della follia o della stupidità che
consiste nel cercare soluzioni riproponendo ciò che ha causato il problema.
Hanno
però avuto spazio in Tv e giornali che al tempo stesso tacciono sulle
manifestazioni in Romania, ben più massicce, diciamo almeno 30 a uno, per
tenersi bassi, contro il tentativo attuato dalla stessa Unione di evitare
l’elezione di Georgescu, mettendolo ai domiciliari.
La
fine possibile della democrazia.
Queste
minikermesse italiane, pagate a piè di lista e che nel caso in questione
oscillavano tra la scampagnata e il gay pride, dimostrano che a volte le
manifestazioni sostituiscono le argomentazioni:
nel
caso specifico sono la palese incarnazione di un globalismo che non vuole
arrendersi alla sua sconfitta e che vede nella continuazione della guerra e dei
massacri la sua ultima speranza di schiacciare chi si oppone alla sua delirante
visione del mondo.
Ma in
generale l’élite europea, ben lontana da esprimere nuove idee, sta raccontando
alla gente l’esatto contrario della realtà, ovvero che fare la pace con la
Russia significherebbe indurre la stessa ad occupare i Paesi baltici e chissà
cos’altro, mentre incoraggerebbe la Cina ad invadere Taiwan, cosa che in ogni
caso avverrà nel prossimo decennio, perché fondamentalmente l’isola è parte
della Cina, come persino la dottrina occidentale riconosce.
Si tratta di fantasie, costruite
arrampicandosi sugli specchi, mere suggestioni da dare in pasto alla gente come
se fosse uno spot pubblicitario:
“compra
la guerra, stringi la cinghia e vivrai felice” con tanto di mulino bianco
diroccato sullo sfondo.
In realtà proprio la prosecuzione del
conflitto non farà che rafforzare l’alleanza tra Mosca e Pechino, troppo forti
insieme per l’Occidente oltre che far prosperare i Brics.
Ma la continuazione della guerra serve anche a
nascondere i veri problemi, ovvero la subordinazione totale agli Usa che dura
dalla fine del secondo conflitto mondiale e che si è fatta ancor più
asfissiante dopo la caduta del muro di Berlino, oltre all’obbedienza totale
della Ue alla cabala globalista nordamericana e ai suoi affari che in qualche
modo si saldano in una doppia servitù che adesso è diventata inaspettatamente
strabica.
La
pace con la Russia direttamente contrattata da Washington che non può più
proseguirla a causa del suo enorme debito, significa semplicemente e
brutalmente scaricare le colonie e svelare il gioco di un’Europa che non è
stata altro che l’altra faccia della Nato, uno strumento di guerra che si è
nascosto tra la retorica della pace. Speranze e sogni buttati nel cestino.
Poiché
una trattativa non può andare a buon fine con Zelensky, presidente scaduto e
dunque inabile a firmare qualsiasi trattato credibile, è evidente che
inneggiare al duce di Kiev, significa inneggiare alla guerra.
Del
resto è evidente che non può sedersi al tavolo della pace chi invece tutti i
giorni inneggia alla prosecuzione del conflitto e dunque l’Europa non è stata
messa da parte solo da Trump, ma anche da sé stessa o meglio dalle sue élite
che dopo aver sbagliato qualsiasi mossa, ora temono di dover abbandonare il
trono del potere, il che è un problema per i burattinai che tirano i fili.
Perciò
proporrei che tutti quelli che vogliono la guerra e che in nome di essa
vogliono spostare enormi quantità di soldi dal welfare all’industria bellica,
invece di andare a manifestare, si arruolino come volontari nel famoso esercito
europeo e si tolgano dalle scatole.
(Redazione).
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