Difesa comune.
Difesa
comune.
Politica
di sicurezza e di difesa comune.
Europarl.europa.eu
– Oliver Krentz – (10-04 -2024) - Redazione – ci dice:
La
politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) è parte integrante della
politica estera e di sicurezza comune dell'UE (PESC).
La PSDC costituisce il principale quadro
politico mediante il quale gli Stati membri possono sviluppare una cultura
strategica europea della sicurezza e della difesa, affrontare insieme i
conflitti e le crisi, proteggere l'Unione e i suoi cittadini e rafforzare la
pace e la sicurezza internazionali.
A causa del contesto geopolitico carico di
tensioni, la PSDC è stata una delle politiche in più rapida evoluzione negli
ultimi dieci anni.
Dal 24
febbraio 2022 la guerra di aggressione della Russia nei confronti dell'Ucraina
ha rappresentato un nuovo inizio geopolitico per l'Europa e ha dato ulteriore
impulso a quella che dovrebbe diventare un'Unione della difesa dell'UE.
Base
giuridica.
La
PSDC è descritta nel trattato di Lisbona, noto anche come trattato sull'Unione
europea (TUE) ed entrato in vigore nel 2009.
Più
specificamente, il funzionamento della PSDC è illustrato nel titolo V
(Disposizioni generali sull'azione esterna dell'Unione e disposizioni
specifiche sulla politica estera e di sicurezza comune), capo 2 (Disposizioni
specifiche sulla politica estera e di sicurezza comune), sezione 2
(Disposizioni sulla politica di sicurezza e di difesa comune) del trattato di
Lisbona. La sezione 2 comprende cinque articoli, da 42 a 46.
Il
ruolo del Parlamento europeo nell'ambito della PESC e della PSDC è definito al
titolo V, capo 2, sezione 1 (Disposizioni comuni) e all'articolo 36, mentre le
modalità di finanziamento di entrambe le politiche sono definite all'articolo
41.
La
PSDC è ulteriormente descritta negli allegati del trattato di Lisbona,
principalmente nei protocolli n. 1 (sul ruolo dei parlamenti nazionali
nell'Unione europea), n. 10 (sulla cooperazione strutturata permanente
istituita dall'articolo 42 TUE) e n. 11 (sull'articolo 42 TUE), nonché nelle
dichiarazioni 13 e 14 (Dichiarazioni sulla politica estera e di sicurezza
comune).
Organizzazione.
L'alto
rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza,
che esercita anche la funzione di vicepresidente della Commissione europea
(AR/VP), riveste il ruolo istituzionale principale.
Dal
dicembre 2019 l'AR/VP è Josep Borrell.
Presiede
il Consiglio "Affari esteri" nella configurazione "Ministri
della Difesa", che rappresenta l'organo decisionale della PSDC ed è
incaricato di presentare proposte relative alla PSDC agli Stati membri.
L'AR/VP
è inoltre il capo del Servizio europeo per l'azione esterna nonché il direttore
dell'Agenzia europea per la difesa (AED).
Il
Consiglio europeo e il Consiglio dell'Unione europea adottano le decisioni
relative alla PSDC all'unanimità (articolo 42 TUE).
Fanno
eccezione le decisioni relative all'AED (articolo 45 TUE) e alla cooperazione
strutturata permanente (PESCO, articolo 46 TUE), per le quali è prevista
l'adozione a maggioranza qualificata.
Il
trattato di Lisbona ha introdotto una politica europea delle capacità e degli
armamenti (articolo 42, paragrafo 3, TUE) e ha stabilito che l'AED e la
Commissione lavorino di concerto quando necessario (articolo 45, paragrafo 2,
TUE), in particolare per quanto riguarda le politiche dell'UE in materia di
ricerca, industria e spazio.
Inoltre,
l'articolo 21 TUE ricorda che il multilateralismo è il fulcro dell'azione
esterna dell'UE.
Di
conseguenza, i partner dell'UE possono partecipare alle missioni e alle
operazioni PSDC.
L'UE è
impegnata a rafforzare il coordinamento e la cooperazione nell'ambito di vari
quadri multilaterali, in particolare con le Nazioni Unite e l'Organizzazione
del trattato del Nord Atlantico (NATO), ma anche con altri organismi regionali
come l'Unione africana.
Evoluzione.
Dall'entrata
in vigore del trattato di Lisbona, la PSDC si è notevolmente evoluta, sia a
livello politico che istituzionale.
Nel
giugno 2016 l'AR/VP “Federica Mogherini” ha presentato al Consiglio europeo la
"Strategia globale per la politica estera e di sicurezza dell'Unione
europea", un documento che definisce la strategia per la PSDC.
La
strategia ha individuato cinque priorità:
la
sicurezza dell'Unione; la resilienza degli Stati e della società a est e a sud
dell'UE; lo sviluppo di un approccio integrato ai conflitti; ordini regionali
di cooperazione; e la governance globale per il XXI secolo.
Nel
novembre 2016 l'AR/VP ha inoltre presentato al Consiglio il "Piano di
attuazione in materia di sicurezza e difesa", al fine di rendere operativa
la visione definita nella strategia globale per la politica estera e di
sicurezza dell'Unione europea.
Il
piano presentava 13 proposte, tra cui una revisione coordinata annuale sulla
difesa (CARD) e un nuovo accordo di cooperazione strutturata permanente (PESCO)
per gli Stati membri disposti a impegnarsi ulteriormente in materia di
sicurezza e difesa.
Parallelamente,
l'AR/VP “Mogherini” ha presentato agli Stati membri un piano d'azione europeo
in materia di difesa, unitamente a proposte chiave relative alla creazione di
un “Fondo europeo per la difesa” (FED) incentrato sulla ricerca nel settore
della difesa e sullo sviluppo di capacità.
Tali
proposte sono state attuate nel corso degli ultimi anni.
Nel
giugno 2021 l'UE ha avviato una riflessione sul futuro della sicurezza e della
difesa europee.
Tale
processo ha portato alla creazione della bussola strategica per la sicurezza e
la difesa, un documento che definisce la strategia dell'UE in materia di
sicurezza e difesa per i prossimi cinque-dieci anni.
La
bussola strategica fornisce un quadro d'azione per lo sviluppo di una visione
condivisa nel settore della sicurezza e della difesa. Il documento è stato
elaborato in tre fasi:
un'analisi delle minacce, un dialogo
strategico strutturato e un ulteriore sviluppo e revisione prima dell'adozione.
L'obiettivo
principale è di fornire orientamenti politici per attuare l'"autonomia
strategica" dell'UE in quattro settori chiave: gestione delle crisi,
resilienza, capacità e partenariati.
Il
processo è concepito per rispondere alla crescente necessità di un'Unione che
sia in grado di agire come garante della sicurezza.
Nel
novembre 2021 l'AR/VP “Borrell” ha presentato la versione iniziale del
documento a una sessione congiunta dei ministri degli Affari esteri e della
difesa dell'UE.
Nel
contesto della guerra di aggressione della Russia contro l'Ucraina (iniziata il
24 febbraio 2022), è stato necessario apportare notevoli modifiche al documento
onde tenere conto della destabilizzazione dell'ordine di sicurezza europeo e
del conseguente cambiamento della posizione, delle ambizioni e degli strumenti
dell'UE nel settore della difesa.
Il 24
e 25 marzo 2022, durante la presidenza francese del Consiglio, il Consiglio
europeo ha approvato la versione definitiva della bussola strategica.
A
seguito della guerra, la Danimarca ha rinunciato alla sua opzione di non
partecipazione alla politica di difesa dell'UE, che aveva ottenuto nel 1992.
I
cittadini danesi hanno acconsentito ad aderire alla PSDC mediante un referendum
tenutosi il 1º giugno 2022 (con il 66,9 % dei voti favorevoli). Pertanto, tutti
i 27 Stati membri partecipano ora alla PSDC.
Le
missioni e operazioni di gestione delle crisi sono l'espressione più visibile e
concreta della PSDC.
La
bussola strategica affronta le lacune rilevate nella strategia globale per la
politica estera e di sicurezza dell'Unione europea in relazione agli strumenti
e alle istituzioni di gestione delle crisi, ad esempio creando una nuova
capacità di dispiegamento rapido dell'UE.
Nella relazione del 2021 sull'attuazione della
PSDC, il Parlamento ha espresso il proprio sostegno alla proposta di una
"forza di intervento rapido".
La
bussola strategica mira inoltre a fornire finalità e obiettivi coerenti per
altre iniziative e processi pertinenti (quali PESCO, FED e CARD).
Sebbene
il Parlamento non svolga un ruolo diretto nella definizione della bussola
strategica, deve essere regolarmente informato sul livello di attuazione e
avere la possibilità di esprimere il suo parere in merito al processo, in
particolare durante le sessioni informative alla sottocommissione per la
sicurezza e la difesa (SEDE). Attraverso le sue relazioni annuali sulla PSDC,
la sottocommissione SEDE assume di fatto un ruolo consultivo per quanto
concerne la PSDC.
Gli
strumenti della PSDC.
Dal
2016 la PSDC ha conseguito una serie di successi, tra cui l'avvio della PESCO;
una struttura di comando e controllo permanente per la pianificazione e la
condotta di missioni militari non esecutive; il FED; il patto sulla dimensione
civile della PSDC; un riesame strategico della dimensione civile della PSDC; e
uno strumento europeo per la pace (EPF) fuori bilancio.
Inoltre,
il 5 marzo 2024 la Commissione e il l'AR/VP hanno presentato la strategia per
l'industria europea della difesa (EDIS), volta a rafforzare la competitività e
la preparazione della base industriale e tecnologica di difesa europea (EDTIB).
La
prima relazione della CARD, elaborata dall'AED, è stata presentata ai ministri
della Difesa dell'UE nel novembre 2020.
Tale
relazione ha individuato 55 opportunità di collaborazione nell'intero spettro
delle capacità.
Nel
dicembre 2020 il Consiglio ha raggiunto un accordo politico provvisorio con i
rappresentanti del Parlamento su un regolamento che istituisce il FED, nel
contesto del quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027.
La
dotazione di bilancio per questi sette anni è pari a 8 miliardi di EUR.
Il FED
rafforzerà la cooperazione tra le industrie europee della difesa.
Il
programma di lavoro del FED per il 2024 comprende 32 temi sui quali è possibile
proporre progetti.
Mediante
l'EPF, uno strumento fuori bilancio, l'UE finanzia le spese comuni delle
missioni e operazioni militari PSDC, aumentando in tal modo la ripartizione
degli oneri tra gli Stati membri.
Tale
strumento può inoltre essere utilizzato per finanziare attività di formazione e
la fornitura di materiale militare (anche letale) ai settori della sicurezza e
della difesa dei paesi partner dell'UE.
Rafforzando
le capacità delle operazioni di sostegno alla pace e le capacità dei paesi
terzi nonché delle organizzazioni partner nel settore militare e della difesa,
l'UE aumenterà l'efficacia della sua azione esterna.
Tra il 2022 e il 2024 l'UE ha mobilitato 11,1
miliardi di EUR a titolo dell'EPF per sostenere le forze armate ucraine.
Il 19
luglio 2022 la Commissione, dopo aver ricevuto un mandato in tal senso al
vertice di Versailles del marzo 2022, ha presentato una proposta di regolamento
sull'istituzione di uno strumento per il rafforzamento dell'industria europea
della difesa mediante appalti comuni (EDIRPA).
Si tratta di uno strumento a breve termine per
le acquisizioni congiunte nel settore della difesa con una dotazione di 500
milioni di EUR.
Esso
mira a risolvere le carenze più urgenti e critiche in termini di capacità di
difesa e a incentivare gli Stati membri ad acquisire congiuntamente i prodotti
della difesa.
In
seguito ai negoziati interistituzionali, il Parlamento ha approvato il
regolamento in Aula il 12 settembre 2023.
Analogamente,
il 3 maggio 2023 la Commissione ha presentato una proposta di regolamento sul
sostegno alla produzione di munizioni, che mira a fornire munizioni
all'Ucraina, intensificare la cooperazione attraverso appalti comuni e
incrementare le capacità di produzione.
A
seguito di brevi negoziati interistituzionali, il Parlamento ha approvato il
regolamento il 13 luglio 2023.
Il 5
marzo 2024, dando seguito alle misure di emergenza a più breve termine (il
regolamento sul sostegno alla produzione di munizioni – ASAP e l'EDIRPA) i cui
effetti cesseranno nel 2025, la Commissione ha presentato una proposta di
regolamento che istituisce il programma per l'industria europea della difesa
(EDIP) destinato a fornire un sostegno finanziario pari a 1,5 miliardi di EUR a
titolo del bilancio dell'UE nel periodo 2025-2027.
L'EDIP
aspira a essere un regime più strutturale e più a lungo termine basato sulla
collaborazione in materia di investimenti e produzione nell'UE, garantendo la
disponibilità e l'approvvigionamento costanti di prodotti per la difesa.
Onde
aumentare la competitività e la prontezza dell'EDTIB e incentivare la
cooperazione degli Stati membri in materia di appalti congiunti, l'obiettivo è
quello di acquisire almeno il 40 % dei materiali di difesa in maniera
collaborativa e il 50 % all'interno dell'UE entro il 2030, per passare al 60 %
entro il 2035.
A tal
fine, la proposta di regolamento della Commissione prevede la creazione di un
fondo per accelerare la trasformazione delle catene di approvvigionamento della
difesa (FAST) a sostegno delle piccole e medie imprese, l'istituzione di un
regime modulare e graduale di sicurezza dell'approvvigionamento dell'UE, la
costituzione della struttura per un programma europeo di armamento (SEAP) onde
rafforzare la cooperazione mediante un'esenzione dall'IVA, nonché l'istituzione
di un meccanismo europeo di vendite militari incentrato sulla disponibilità di
attrezzature dell'UE.
Missioni
e operazioni PSDC.
Dal
2003 e dal primo intervento nei Balcani occidentali, l'UE ha avviato e gestito
40 operazioni e missioni in tre continenti.
Nell'ottobre
2023 erano in corso 24 missioni e operazioni PSDC.
Circa
4 000 membri del personale militare e civile dell'UE sono attualmente impiegati
all'estero.
Le decisioni dell'UE di dispiegare missioni od
operazioni sono di norma adottate su richiesta del paese partner e/o sulla base
di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
L'ultima
missione, l'operazione ASPIDES della forza navale diretta dall'Unione europea
(EUNAVFOR), è stata avviata per tutelare la libertà di navigazione e
salvaguardare la sicurezza marittima nel Mar Rosso, nell'Oceano Indiano
nordoccidentale e nel Golfo.
Dotata di un mandato difensivo, l'operazione
ASPIDES fornisce una maggiore conoscenza della situazione marittima e scorta le
navi per proteggerle dagli attacchi marittimi o aerei.
Ruolo
del Parlamento europeo.
Il
Parlamento europeo sostiene l'integrazione e la cooperazione dell'UE in materia
di difesa, esercita il controllo sulla PSDC e può rivolgersi, di propria
iniziativa, all'AR/VP e al Consiglio (articolo 36 TUE)
. Il
Parlamento esercita inoltre il controllo sul bilancio relativo a tale politica
(articolo 41 TUE).
Due
volte all'anno tiene dibattiti sull'attuazione della PESC e della PSDC e adotta
due relazioni: una sui progressi compiuti nella PESC, elaborata dalla
commissione per gli affari esteri, e una sui progressi compiuti nella PSDC,
elaborata dalla sottocommissione SEDE.
La
relazione annuale 2023 sull'attuazione della PSDC è stata approvata in Aula il
28 febbraio 2024.
La
relazione si incentra sull'incremento del sostegno dell'UE all'Ucraina; sul
rafforzamento della cooperazione con partner e alleati che condividono gli
stessi valori al fine di garantire l'efficace attuazione della PSDC; sul
potenziamento delle capacità dell'UE in materia di sicurezza e difesa, in
particolare mediante l'EPF, sull'importanza di integrare la politica di
sicurezza e di difesa dell'UE con altri strumenti civili; nonché sul
miglioramento della complementarità con la NATO, garantendo nel contempo
l'autonomia strategica europea.
La
relazione manifesta altresì l'ambizione di rendere l'UE un garante strategico
della sicurezza internazionale rafforzando l'integrazione della difesa europea.
In
particolare, chiede "l'acquisto congiunto di prodotti per la difesa"
e di "potenziare la capacità di produzione dell'industria europea della
difesa, ricostituire le scorte esaurite e ridurre la frammentazione del settore
degli appalti pubblici nel settore della difesa".
Sottolineando la cooperazione tra l'UE e la
NATO nel coordinamento delle forniture di armi all'Ucraina, la relazione
evidenzia inoltre che "l'obiettivo di spesa del 2 % dovrebbe rappresentare
un minimo per i paesi UE della NATO e non un massimale per la spesa per la
difesa".
Dal
2012, in base al protocollo n. 1 del trattato di Lisbona, il Parlamento europeo
e i parlamenti nazionali degli Stati membri organizzano inoltre due conferenze
interparlamentari all'anno per discutere delle questioni relative alla PESC.
In
generale, il trattato consente al Parlamento di svolgere appieno il suo ruolo
nello sviluppo della PSDC, rendendolo in tal modo un partner nella definizione
delle relazioni esterne dell'UE e nell'affrontare le sfide in materia di
sicurezza.
Al
fine di svolgere tale ruolo, il Parlamento organizza periodicamente dibattiti,
audizioni e seminari su temi quali le missioni civili e militari della PSDC, le
crisi internazionali con implicazioni in materia di sicurezza e di difesa,
quadri multilaterali per la sicurezza, questioni relative al controllo degli
armamenti e alla non proliferazione, la lotta al terrorismo e alla criminalità
organizzata, le buone pratiche per migliorare l'efficacia della sicurezza e
della difesa, nonché gli sviluppi istituzionali e giuridici dell'UE in tali
settori.
In
seguito alla dichiarazione del 2010 dell'AR/VP sulla responsabilità politica,
il Parlamento partecipa alle riunioni di consultazione comuni organizzate
regolarmente per scambiare informazioni con il Consiglio, il Servizio europeo
per l'azione esterna e la Commissione.
Inoltre,
il Parlamento formula oralmente domande e suggerimenti al Servizio europeo per
l'azione esterna in merito alla PSDC, in particolare durante le riunioni della
sottocommissione SEDE.
(Oliver
Krentz).
“Deva
e Asura”.
Conoscenzealconfine.it – (24 Marzo 2025) – Corrado
Malanga – Redazione - ci dice:
Tutti
dovrebbero essere felici che le due più grosse super potenze nucleari al mondo
si parlino e, perché no, ci sia anche un buon rapporto tra i due presidenti, di
stima reciproca e magari anche di amicizia.
Perché i politici europei non sono felici di
questo?
Ce lo
spiega “Corrado Malanga”…
L’inviato
speciale di Trump, “Witkoff”, racconta che Putin ha pregato per Trump e gli ha
regalato un ritratto fatto da un artista russo.
“Putin
ha commissionato un bellissimo ritratto del presidente Trump a un importante
artista russo e me l’ha dato, chiedendomi di portarlo al presidente Trump.
Gliel’ho
portato e gliel’ho consegnato.
È
stato un momento molto bello e Putin mi ha raccontato di quando il presidente
Trump è stato colpito, è andato alla chiesa locale, ha incontrato il prete e ha
pregato per il presidente, non perché potesse diventare presidente degli Stati
Uniti, ma perché aveva un rapporto di amicizia con lui e stava pregando per il
suo amico.
Sono
tornato a casa, ho trasmesso questo messaggio al nostro presidente e ho portato
il dipinto. E lui ne è stato chiaramente toccato.
Questo
è il tipo di connessione che siamo riusciti a ristabilire, tra l’altro,
attraverso la semplice parola ‘comunicazione’.
Molti
direbbero: ‘Sai, non avresti dovuto farlo perché
Putin è un cattivo ragazzo’.
Non
penso che Putin sia una cattiva persona. È una situazione difficile questa
guerra e tutti i fattori che l’hanno provocata. Non è mai colpa di una sola
persona, quindi penso che troveremo una soluzione.”
Tutti
dovrebbero essere felici che le due più grosse super potenze nucleari al mondo
si parlino e, perché no, ci sia anche un buon rapporto tra i due presidenti, di
stima reciproca e magari anche di amicizia.
Perché
i politici europei non sono felici di questo?
Perché
sanno solo parlare di guerra, morte, distruzione e caos?
Perché fanno di tutto per fermare la pace?
Perché?
Ce lo
spiega un grandioso “Corrado Malanga”. (t.me/LombardiaRussiaGeN/30301).
Egli spiega perché l’Europa sarà distrutta
dall’alleanza Russia – Stati Uniti e perché questo è una benedizione per
l’Italia.
Evidentemente, per quanto strano e difficile
possa essere da capire e accettare da qualcuno, Malanga ha ragione a dire le
cose che ha detto…
“La
Russia ha Putin, che è DEVA e gli Stati Uniti hanno Trump che è anche lui DEVA,
sono la stessa cosa e combattono contro “la massoneria “ASURA” che controlla
l’Europa”.
“L’Europa
sarà distrutta ed è una fortuna enorme per noi, perché l’Italia non ha la forza
politica per uscire dalla UE, perché in Italia comanda la massoneria ASURA!
E allora, siccome il diavolo fa le pentole ma
non i coperchi, la UE sarà distrutta dall’alleanza DEVA, Russia – Stati Uniti,
e noi finalmente, con una nuova classe politica, torneremo ad essere la quarta
potenza mondiale”.
Il Video
è per pochi perché tocca argomenti molto alti e sconfiniamo in cose che solo le
anime più evolute possono capire…
Ma ci
pare giusto mettere ogni tanto anche cose belle e non solo brutte notizie…
Malanga
usa i termini “DEVA e “ASURA, ma avrebbe anche potuto usare i termini “angeli e
demoni”, “bene e male”, “luce e buio”…
Per
chi non lo sapesse infatti, i DEVA sono associati a virtù e ordine cosmico, e
rappresentati come protettori dell’umanità e custodi della moralità.
Mentre
gli ASURA incarnano il lato opposto della dualità morale e cosmica, spesso
associati al caos, alla distruzione e alla ribellione contro l’ordine
stabilito.
Quello
che comunemente chiamiamo bene e male appunto.
Bene i
DEVA, male gli ASURA, ma sono comunque due facce della stessa medaglia perché
non può esistere il bene senza il male, la luce senza il buio, ecc…
A
volte però il male si allarga un po’ troppo, e va rimesso al suo posto…
Sarà
proprio così come descritto da Malanga?
Vedremo
come andranno realmente le cose… (nota di conoscenze al confine).
(t.me/LombardiaRussiaGeN).
(Conoscenzealconfine.it).
Re Arm
Europe: verso una politica
di
difesa comune o “solo sesterzi”?
Analisidifesa.it – (23 Marzo 2025) - Redazione
- Manuel di Casoli – ci dice:
C’è una bellissima scena del film “Scipione
detto anche l’Africano”, nella quale Marcello Mastroianni, al rientro da
Cartagine, illustra le epiche gesta compiute, e si sente chiedere: “Si, vabbè,
ma li sesterzi?”.
Nihil
novum sub soli, per passare dal romanesco al latino, niente di nuovo sotto il
sole.
Parliamo
sempre e solo di sesterzi.
Su
First OnLine del 10 marzo in una interessante intervista di “Luigi Marcadella”,
l’ambasciatore “Riccardo Sessa” con la sua profondissima esperienza e
competenza in materia di politica internazionale ed acuta visione ha
evidenziato aspetti di estremo interesse, relativamente al progetto “ReArm EU”
(poi ribattezzato “Readiness 2030”).
Tuttavia,
vi sono considerazioni ulteriori che ritengo debbano essere sviluppate e
articolate, alla luce di valutazioni sia di natura geostrategica, che politica
e finanziaria, che di difesa.
La
prima ci porta direttamente alla sostanza delle cose, al piano sul quale sta
avvenendo la discussione.
Si da, infatti, per scontato che l’ultimo
Consiglio Europeo straordinario abbia affrontato il tema della “Politica di
difesa comune” ma così non è.
Magari
lo fosse stato, si sarebbero compiuti davvero sia il primo passo verso una
difesa comune a livello UE che un deciso salto di qualità dell’azione
dell’Unione.
Di
fatto, invece, l’UE ha ancora una volta evidenziato la sua lacuna costitutiva,
ossia quella di essere -in definitiva- una mera organizzazione economica.
“Stanziare”
800 miliardi di Euro, infatti, significa esattamente il contrario che avere una
“politica”, pensare che il tema si possa affrontare e risolvere con il denaro.
Lasciamo
perdere, per un attimo, il tema strettamente tecnico, che” non consente
direttamente alla Presidente della Commissione di assumere decisioni del genere”,
né alla UE di occuparsi di difesa in luogo degli Stati membri, e veniamo alla
sostanza.
Una
“politica di difesa” richiede, molto prima che un finanziamento, di assumere
delle decisioni, appunto, politiche.
Che
modello di difesa comune esce da questa iniziativa? Nessuno.
Uno
strumento militare, in quanto strumento, va definito sulla base di una
politica, non è un affare di acquisti di armi.
Per
esempio, dalla fine della Guerra Fredda l’Italia si è dotata nel tempo di uno
strumento militare coerente con gli obiettivi e le missioni che la politica ha
ridefinito:
partecipazione alle missioni di pace (anche se
in realtà si trattava di teatri di guerra), concorso alla difesa di obiettivi
sensibili sul territorio nazionale, vigilanza e difesa delle frontiere
marittime, sospensione della leva obbligatoria.
Ciò ha
comportato che lo strumento venisse completamente ridisegnato, rispetto alla
sua configurazione precedente.
Prendiamo il caso dell’Esercito:
addestramento
di militari di professione (e quindi numeriche ridotte), reparti operativi
incentrati sulla fanteria leggera, ampliamento dei reparti speciali, abbandono
delle linee di carri da combattimento, riduzione drastica del parco di
artiglieria, logistica focalizzata su mezzi leggeri, capacità di proiezione
remota, riduzione delle scorte tattiche e strategiche, dismissione di immobili.
Tutto
questo è stato fatto perché lo strumento militare rispondesse alle missioni che
la politica ha inteso assegnare, come è nella natura delle cose.
E la
UE che missioni intende affidare alle forze militari delle quali [non] dispone?
In quali teatri? Secondo quali obiettivi e
priorità? Con che macro-regole di ingaggio? In che tempi e secondo quali
priorità? Come ripartire tra gli Eserciti specializzazioni e compiti, in base
alle attitudini ed alle esperienze? Come configurare le forze secondo i terreni
sui quali muoversi? In che modo ripartire le aree di competenza e le zone di
intervento, pensiamo per esempio alla difesa contraerea?
Veniamo
ora al panorama degli ambiti internazionali di riferimento.
La UE
si compone di 27 Stati, la NATO di 32: è evidente che le Organizzazioni non
siano sovrapponibili.
Norvegia e UK non fanno parte della UE ma
della NATO si, l’Austria esattamente il contrario.
Quali
forze dei Paesi che sono parte sia della UE che della NATO sarebbero
disponibili per un “esercito UE”?
Le
armi nucleari di Francia e UK in quale configurazione ricadono?
E se
un Paese NATO venisse attaccato in quanto parte della UE, l’art. 5 del Trattato
Atlantico – che obbliga gli altri Paesi NATO (USA e Canada inclusi) ad
intervenire – potrebbe essere invocato ed applicato?
Che
interoperabilità e coordinamento sono ipotizzabili tra UE e NATO?
C’è
poi un altro punto cruciale, che discende dalle scelte politiche:
come si articolerà la catena di comando?
In che modo sarà composta e a chi spettano le
decisioni ai vari livelli?
Il
solo creare una organizzazione del genere e renderla operativa è un lavoro che
richiede anni, posto che le regole siano chiare.
In guerra non ci sono seconde possibilità:
come si direbbe su un set, “buona la prima”.
E non c’è tempo per le discussioni, tutto
dev’essere chiaro da prima.
Solo
dopo aver definito tutto questo è possibile disegnare e realizzare un complesso
di forze, e quindi spendere quel che resterebbe degli 800 miliardi (perché fare
tutto ciò che si è detto ha dei costi non indifferenti), ripartendoli in
infrastrutture, arruolamento e addestramento, armamenti e mezzi, tecnologie,
scorte, logistica e quant’altro necessario.
E solo
a quel punto inizierà il lavoro vero.
Armonizzare procedimenti e creare standard,
definire piani e disegnare scenari e, finalmente, addestrare le truppe,
testarne l’efficienza, apprendere a lavorare insieme in una lingua comune, (ricordando, en passant, che solo
una nazione europea parla inglese e non è parte della UE).
Tutto
questo, peraltro, dando per scontato che le varie Nazioni, i Popoli, siano
disposti a farlo, perché poi sulla nuda terra ci deve andare un soldato e i
soldati muoiono.
Fatti
questi accenni sintetici, ci siamo resi conto che una “politica di difesa
comune UE” non è stata nemmeno abbozzata.
Se vogliamo attribuire all’iniziativa una
qualche forma di intelligenza, non ci resta che osservare i fatti, primo fra
tutti che il supporto all’Ucraina ha di fatto assorbito la quasi totalità delle
riserve strategiche dei Paesi europei.
La
sensazione che si tratti di una manovra politica ad effetto per far digerire ai
riluttanti cittadini UE le spese necessarie a ripianare gli stock è molto
forte.
E che
si tratti di una faccenda complessa e rispetto alla quale ci siano problemi
consistenti è di tutta evidenza.
Due
piccioni con una fava, quindi:
trovare le risorse per spese sgradite che
coprano azioni insipienti, e ricompattare una UE in crisi di popolarità e di
consensi.
È
prassi consolidata, per le leadership deboli ed in crisi di consensi, invocare
la guerra, anche se storicamente ciò ha sempre e solo riguardato le dittature.
Già
nel 2017, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito francese, il Generale Pierre
de Villiers, si dimise in aperta polemica con il presidente Emmanuel Macron per
i tagli al bilancio della Difesa: lo stesso Macron che ora invoca il riarmo.
Ad
agosto del 2022, le dichiarazioni dell’Ispettore Generale (Capo di Stato
Maggiore) tedesco, “Eberhard Zorn”, circa la capacità russa di proseguire le
operazioni militari in Ucraina per tempi molto lunghi e di estenderle
ulteriormente, gli erano costate il posto.
Contraddicevano
la vulgata secondo la quale i russi sarebbero stati alle corde e fu accusato di
sopravvalutare nettamente le loro capacità.
Ricorderemo tutti la panzana dei chip tolti
alle lavatrici per poter dotarne i missili, e chi lo ha “dimesso” afferma oggi
ciò che egli disse a suo tempo. Perché?
A
gennaio del 2023, il Ministro della Difesa tedesco, “Christine Lambrecht”, fu
costretta anch’essa alle dimissioni per la sua riluttanza a cedere all’Ucraina
mezzi corazzati tedeschi.
I commenti a questo evento evidenziavano la
necessità di una pesante ristrutturazione della “Bundeswehr,” una riforma per
la quale la Commissaria per le Forze Armate del Bundestag tedesco, “Eva Högl”,
stimava necessari circa 300 miliardi di Euro, a fronte dei 100 stanziati.
E giova ricordare che “Ursula von del Leyen” sia stata
Ministro della Difesa tedesco dal 2013 al 2019, e che sui suoi acquisti in tale
ruolo siano state sollevate diverse obiezioni.
Facendo
due conti, la differenza di 200 miliardi necessaria alla Germania sarebbe il
25% degli 800 ipotizzati, e il PIL tedesco è il 24,2% di quello UE.
Curiose
coincidenze, verrebbe da pensare.
Il
caso vuole che i conti tornino…
Nessun
dubbio nel plaudire alle ironiche parole dell’Ambasciatore “Riccardo Sessa” sul
fatto che Putin meriterebbe un monumento in “Rue de la Loi”.
Personalmente
ritengo che non lo meriti solo per aver spinto l’Europa verso una più profonda
integrazione, ma anche per un’altra ragione, più profonda:
averci riportato sul terreno della realtà,
alla quale l’UE sembra ancora non dare molto peso, abituata com’è ad occuparsi
di voli pindarici idealistici e spesso ideologici.
È
l’involontario artefice del nostro ritorno al sano, per quanto spesso scomodo e
doloroso, principio di realtà.
De
Gasperi, Adenauer e Schuman erano cattolici, e quindi decisamente ancorati alla
realtà e alla concretezza, coi piedi per terra e la mente verso il Cielo.
L’evoluzione
successiva dell’unione tra i Paesi europei non si può dire che ne abbia seguito
le orme, sia in termini di statura morale che di saggezza a servizio del bene
comune.
Ma il
cambiamento più significativo e decisivo, a mio parere, determinato dal binomio
Putin-Trump è la rinnovata primazia della politica sulla finanza e sul denaro.
Dagli
anni ’90 in poi, ci eravamo abituati al fatto che fossero la finanza e
l’economia a determinare gli equilibri e le dinamiche di un mondo globalizzato.
Duole
constatare come, anche in questo stravolgimento del panorama mondiale, la UE
vada contromano rispetto al mondo che cambia.
Invece di concepire e attuare una politica
coerente con i suoi interessi geostrategici, continua imperterrita a rispondere
a logiche meramente economico-finanziarie, limitandosi a parlarsi addosso e
lasciando di fatto agli altri attori planetari l’iniziativa.
Ricorda
un po’ l’orchestra del Titanic, che almeno dalla sua aveva la nobiltà di
affrontare con eleganza una morte scontata.
D’altro
canto, appare sempre più evidente come la UE manchi di una leadership di
livello adeguato.
Quella
che ne regge le sorti nella tempesta si dimostra priva degli strumenti
culturali e della capacità, individuale e politica, necessari ad affrontare le
sfide del presente e del futuro.
“Nessun
vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare”,
ammoniva Seneca.
I “Dem
Usa” tardano ad analizzare
le
ragioni di una débâcle.
Ildomaniditalia.eu
– (20 Febbraio 2025) - Enrico Farinone – ci dice:
Con
questo secondo articolo, dopo quello uscito ieri sempre su queste pagine,
l’autore affronta l’insieme dei problemi da cui è derivata la sconfitta di
Kamala Harris.
I Democratici hanno peccato di astrattezza e
radicalismo.
Come
sempre accade i motivi di una sconfitta elettorale sono molteplici. Soprattutto
quando essa non è scontata, ovvero la competizione è aperta.
È questo il caso degli Stati Uniti, dove
alternativamente il Presidente eletto appartiene a uno dei due partiti politici
principali.
Generalmente,
anche se non sempre, il Presidente uscente viene confermato per un secondo
mandato.
Poi
capita spesso che quello successivo rappresenti l’altro partito.
Una sana alternanza.
Era
però accaduto solo una volta, molte decadi fa, che un Presidente partecipasse a
tre elezioni, perdendo la seconda e vincendo le altre due.
Non si
era mai verificato, invece, quello che è accaduto a Donald Trump durante il
periodo di mezzo fra le due elezioni:
dall’assalto
a “Capitol hill “da parte dei suoi sostenitori, alle persistenti accuse di
brogli rivolte ai vincitori delle elezioni da lui perdute, al non
riconoscimento del nuovo Presidente, ai processi subìti per accuse molto gravi,
agli scandali sessuali e quant’altro.
Nonostante
tutto questo, Trump ha vinto nettamente le elezioni dello scorso novembre.
Il Partito Democratico, oltre a cercare di
riorganizzarsi come già abbiamo visto nel precedente articolo, dovrebbe però
analizzare in profondità le motivazioni di una sconfitta che aveva il dovere di
evitare, ben sapendo che non si sarebbe trattato di un semplice avvicendamento,
come era sempre stato nel passato, perfino con Ronald Reagan, che pure aveva
recato con sé un cambiamento alquanto netto nelle politiche degli USA.
Ben
sapendo che questa volta sarebbe stata una “rivoluzione reazionaria!
Questa
analisi finora non è stata fatta. O quantomeno non è ancora emersa.
È
auspicabile però che un qualche centro studi dei Democratici la stia
producendo. Perché senza conoscere e comprendere i motivi di fondo della
debacle risulterebbe arduo trovare la via per la riscossa.
Gli
errori, per così dire, superficiali non sono stati, per quanto gravi,
determinanti ai fini della sconfitta.
Certo, Joe Biden ha sbagliato nel volersi
ricandidare.
Ha
sottostimato i segnali di invecchiamento che pure, e non solo a livello fisico,
erano apparsi chiaramente nel corso del quadriennio.
Così
facendo non ha aiutato il suo partito nella selezione di un candidato adatto a
battersi contro Trump, che probabilmente Biden ha compreso troppo tardi sarebbe
stato davvero nuovamente il competitor da sconfiggere.
Non ha
neppure aiutato la sua vice, Kamala Harris, a crescere, sostanzialmente
relegata ai margini per tutto il periodo (come per la verità accade sempre, o
quasi, ai vicepresidenti).
Certo,
la Harris è scesa nell’arena troppo tardi, non per colpa sua. Ha però sbagliato
totalmente il “running mate”, il vice:
non adeguato, non all’altezza e troppo
radicale, un’aggettivazione che già marchiava la candidata e che dunque non era
proprio il caso di rafforzare.
Certo,
Biden quattro anni prima era riuscito a creare un certo pathos intorno alla sua
volontà unitaria, per riscoprire “the soul of the nation”, l’anima della nazione, dopo la
turbolenta presidenza Trump;
mentre
Harris nella seconda parte della breve campagna elettorale, diciamo dopo la
“Convention di Chicago” (quando ha cominciato a scendere nei sondaggi), ha
puntato su un divisivo “rischio fascismo” che palesemente agli elettori alle
prese con i problemi causati dall’inflazione alta poco o nulla importava. Ma
questi, e altri, sono stati errori secondari.
Superficiali,
appunto.
Quelli
profondi e decisivi sono stati altri.
Ne
hanno ovviamente parlato e scritto in questi mesi molti commentatori
internazionali.
Qui da
noi segnalo le acute osservazioni di un buon conoscitore degli States come
“Francesco Costa”, fresco direttore del “Post”, e di un giornalista assai noto
come “Federico Rampini”, che ha avuto il coraggio di denunciare la deriva
radicale dei Democratici ed è stato naturalmente bersagliato di contumelie dai
radicali nostrani, provenendo egli dal medesimo campo.
Il
primo tema è di natura economica, come sempre accade ovunque.
E qui
l’errore è consistito nella sottovalutazione di quanto il crescere
dell’inflazione avesse inciso nella capacità di spesa delle famiglie americane.
Frutto
dell’enorme liquidità piovuta sull’economia statunitense per riprendersi dal
biennio depressivo provocato dalla pandemia del 2020/2021 che ha consentito una
ripresa economica notevole, con la conseguente crescita di posti di lavoro,
salari, pensioni, spesa sanitaria.
Tutto
però eroso dall’aumento dei prezzi. E negli Usa quando aumenta il costo del
gallone di benzina per il governo in carica sono dolori.
Il
secondo tema è, invece, di natura culturale, è sorto in questo nuovo secolo ed
è incentrato sul tema dei diritti individuali, enfatizzati e radicalizzati da
una componente che da minoritaria è divenuta egemone nel Partito Democratico
sino a emarginare totalmente chi osava non adeguarsi alla nuova filosofia
(schematicamente e semplicisticamente definita “woke” dalla pubblicistica,
innanzitutto quella ostile ai Dem: ma non staremo qui a ricordarne la
derivazione dall’incitazione “wake up” rivolta agli emarginati sociali).
Ne
avevamo già scritto qui, esplicitando il rischio principale che correva Harris,
espressione di San Francisco e della “californizzazione” del suo partito.
Un
imprinting associato all’estremizzazione del “politically correct” condotta da
movimenti quali Lives Black Matter, da larga parte della comunità Lgbtq+, da
politici molto fashion come la famosa Ocasio-Cortez, dall’anima ambientalista
assolutista, e via radicalizzando.
Un
insieme di posizioni trasformate da giuste rivendicazioni in strumenti di
offesa totale nei confronti dei portatori anche solo di opinioni parzialmente
diverse all’insegna di un intransigentismo ideologico che ha allontanato dal
voto al Partito Democratico molte persone, gente comune non solo – come è d’uso
dire – dell’America rurale più profonda ma anche delle comunità (donne,
giovani, latinos, finanche uomini di colore) tradizionalmente vicine alle
battaglie sociali dei Democratici: quelle che avevano fatto vincere Biden, e
prima di lui Obama.
E che invece questa volta si sono ribellate al
dominio incontrastato di un ceto benestante e acculturato sensibile ai temi
dell’inclusione ma non a quelli derivanti – per il ceto popolare e per il ceto
medio – da una esasperazione applicativa dei medesimi.
È
sulla reazione che ne è derivata che ha fatto leva la campagna di Trump.
Radicalizzando a sua volta in senso contrario a quello dei Democratici ogni
tema investito dall’evoluzione woke dell’imprinting culturale degli avversari,
di cui Harris era una perfetta rappresentante.
Così
sull’ambiente (“Drill, baby, drill”), sull’immigrazione (“deportation of
illegal immigrants”), sui diritti civili (“only male and female”), oltre alla
lotta al “fentanyl” furbescamente associata alla chiusura nei confronti di
qualsiasi depenalizzazione per l’utilizzo di sostanze tossiche, e a quella
contro le quote fisse da riservare nelle scuole e nelle università per le
minoranze che però penalizzano gli asiatici (i quali infatti hanno in larga
misura votato per il tycoon).
Una
gestione più accorta, più moderata e soprattutto più attenta al sentire comune
dell’americano medio avrebbe impedito, assai probabilmente, ai Democratici Usa
di subire una sconfitta i cui esiti ora avvertiamo nell’intero mondo
occidentale.
E sono
esiti pesanti.
(ildomaniditalia.eu/il-partito-democratico-usa-dovrebbe-riflettere-sui-motivi-della-sconfitta/).
Oltre
la guerra: le incertezze che
gravano
sull’accordo russo-americano.
Ildomaniditalia.eu
– Asia News – (25-3 – 2025) – Redazione – ci dice:
Putin
mira alla proclamazione solenne della Vittoria nella parata del 9 maggio. Una
conferma della sua intenzione di proseguire a oltranza la guerra è stata data
dall’assemblea dell’Unione russa degli imprenditori e investitori.
Le
trattative tra Donald Trump e Vladimir Putin si trascinano piuttosto
stancamente, senza di fatto lasciar intravedere una fine del conflitto in
Ucraina, con le promesse di non toccare le infrastrutture energetiche ucraine,
mentre lo stesso giorno una pioggia di droni-kamikaze e avio-bombe si sparge
sull’intero Paese invaso, occupato e devastato da più di tre anni.
Il Cremlino accompagna queste false promesse
con assicurazioni a dir poco tragicomiche, raccontando che non appena Putin ha
dato l’ordine di non colpire le centrali ucraine, gli aerei russi sono stati
costretti ad abbattere i loro stessi droni che stavano andando proprio verso
quegli obiettivi, che poi Trump ha proposto di affidare agli americani.
In compenso, pare che i due imperatori siano
riusciti ad accordarsi sulle partite di hockey tra le rispettive nazionali, una
notizia che ha suscitato grande entusiasmo nell’opinione pubblica russa, che
considera gli americani come i propri sparring partner per ottenere vittorie
veramente soddisfacenti.
È del
resto evidente che Putin mira alla proclamazione solenne della Vittoria nella
parata del 9 maggio, e prima di allora qualunque trattativa sarà soltanto una
messinscena, nella narrazione trumpiana degli “spettacoli televisivi ben
riusciti” e delle conversazioni “cordiali e molto promettenti”.
La
prossima puntata del serial russo-americano sarà a Gedda il 23 marzo, per cominciare
a mettere per iscritto il piano di pace (verranno anche gli ucraini, ma senza
incontrare i russi), o forse soltanto la trama dei sequel successivi, per
mantenere alto l’interesse del pubblico.
Da
parte russa si applica invece la tattica classica della “trappola sovietica”,
come ha osservato l’ex-ufficiale della Cia “Matthew Schumacher”, quando ai
tempi della guerra fredda l’Urss rallentava qualunque processo di dialogo e
trattativa per cercare intanto di riorganizzarsi, e trovare nuove leve di
influenza sugli avversari.
Oggi
Putin ha bisogno di tempo non solo per rispettare la scaletta delle puntate
fino a maggio, ma anche per mettersi al sicuro dal punto di vista politico e
militare, e soprattutto da quello economico.
La
sintonia tra i due grandi hockeisti di Oriente e Occidente, come confermano
tutti gli osservatori, consegna al Cremlino la prima e fondamentale vittoria
agognata da più di trent’anni, vale a dire il ritorno della Russia al tavolo
delle superpotenze, come attore di primo piano nell’arena politica mondiale.
La questione dell’Ucraina non è neanche
l’argomento fondamentale del dialogo, perché oltre allo sport delle palettate
sul ghiaccio interessano i grandi affari energetici e minerari, e l’aggiramento
delle sanzioni da affidare non soltanto ai sudditi caucasici e centrasiatici o
al grande fratello cinese, ma direttamente ai partner americani.
L’ultima cosa che può interessare lo zar sono
le soluzioni per la pace, visto che ormai è assodato che la guerra rimarrà il
contesto fondamentale della vita dei popoli, soprattutto in Europa e dintorni.
Una
conferma ulteriore dell’intenzione putiniana di proseguire a oltranza la guerra
è stata data dall’assemblea dell’Unione russa degli imprenditori e investitori
(Rspp) nei giorni scorsi, in cui il presidente ha garantito che “la Russia è
pronta ad attaccare Odessa”, se l’Ucraina non riconoscerà le regioni annesse
della Crimea, di Lugansk, Donetsk, Zaporižja e Kherson, che i russi chiamano
“il Donbass e la Novorossija”, le zone simboliche dei cosacchi e degli ebrei
deportati nei secoli passati.
All’inizio
la pretesa si limitava al territorio storicamente più significativo della
penisola di Crimea, occupata e inglobata nel 2014, ma siccome “nessuno ci
ascoltava”, si è giunti a imporre la presenza russa anche al di là dei
territori effettivamente conquistati, visto che parti di queste regioni sono
ancora sotto il controllo dell’Ucraina.
Putin
ha comunque dichiarato che Mosca può andare anche oltre queste richieste,
mirando a “tutti i territori attualmente sotto il controllo di Kiev”.
Non a caso la telefonata con Trump ha avuto
luogo subito dopo l’assemblea degli imprenditori, da cui lo zar ha preso
particolare ispirazione.
Il
caso Prodi e il silenzio di
chi
dovrebbe parlare.
Ildomaniditalia.eu
– Giorgio Merlo – (25 Marzo 2025) – ci dice:
Anche
nel rapporto tra la politica e il giornalismo - o meglio tra i singoli politici
e i singoli giornalisti - c’è la doppia morale. Ovvero, quello che vale per
l’uno non vale per l’altro.
Ha
fatto rumore – anche se non dappertutto – la reazione di Romano Prodi alle
domande, semplici ed educate, di una giornalista di Mediaset sull’ormai famoso
‘Manifesto’ di Ventotene.
Non
entro nel merito della risposta e del comportamento dell’ex capo del governo se
non per evidenziare che si resta francamente basiti ed esterrefatti
dell’atteggiamento concreto manifestato da Prodi.
Certo,
fa una certa impressione assistere ad un comportamento che confligge
radicalmente con tutto ciò che viene quotidianamente predicato dalla sinistra
giornalistica, editoriale, culturale, politica, accademica e giudiziaria sulla
qualità della nostra democrazia e la credibilità della stessa classe politica.
Ma, al
di là di questa considerazione, sono due gli elementi che emergono da questa
triste vicenda e che meritano di essere citati.
Innanzitutto
il silenzio tombale di tutta la stampa politicamente schierata a sinistra sul
fatto accaduto tra Prodi e la giornalista di Mediaset.
Se non
per ricordare che Prodi non deve affatto “scusarsi” di ciò che è concretamente
capitato e che, anzi, proprio questo alterco – sempre secondo l’interpretazione
degli organi di informazione giornalistici e televisivi riconducibili alla
sinistra – confermerebbe la natura provocatoria, ignorante e scorretta delle
testate giornalistiche o televisive non schierate con il cosiddetto “campo
largo”.
In
secondo luogo ed è, questo, il dato più inquietante, il silenzio – seppur
imbarazzato ma pur sempre silenzio – degli organismi di categoria che dovrebbero
sempre tutelare e garantire il lavoro dei giornalisti quando viene declinato
rispettando sino in fondo le regole deontologiche e professionali.
E, nello specifico, mi riferisco all’Ordine
dei Giornalisti e alla Federazione della Stampa che sono sempre molto attenti e
giustamente premurosi ogniqualvolta c’è un attacco al “mestiere” e alla
“professione” dei giornalisti.
Questa
volta, misteriosamente, è calato il silenzio.
Almeno
sino ad oggi.
Ora, e
al riguardo, un organo di garanzia e di rappresentanza dei giornalisti è
credibile, nonché serio, se è semplicemente trasparente ed oggettivo.
Cioè,
se non piega le valutazioni sulle vicende concrete dei singoli giornalisti che
svolgono correttamente il loro lavoro a ragioni politiche e di appartenenza
partitica.
Perché, se così fosse, dovremmo prendere
amaramente atto che anche gli organi di garanzia sono semplice espressione di
una volontà politica e di partito.
Sul
silenzio, invece, della sinistra politica nelle sue multiformi espressioni,
delle tradizionali femministe e dei rispettivi movimenti, della sempreverde
società civile e dello “spirito delle piazze” non c’è da stupirsi di alcunché.
Resta,
comunque sia, l’amaro in bocca per un solo dato prendendo spunto proprio da
questa vicenda.
E cioè, anche nel rapporto tra la politica e
il giornalismo – o meglio tra i singoli politici e i singoli giornalisti – c’è
la doppia morale.
Ovvero, quello che vale per l’uno non vale per
l’altro.
Con il
rischio, sempre più con concreto e tangibile, di squalificare sia la politica
che il giornalismo.
“Ma
che cazzo sta succedendo
in America?”(Quarta parte).
Doppiozero.com
- Alessandro Carrera – (15 Marzo 2025) – ci dice:
Ma
insomma, Trump e Musk hanno un piano sì o no?
Hanno veramente progettato di far cadere a
vite l’economia americana per uno scopo preciso che non ci vogliono dire?
Sanno
quello che stanno facendo o non ne hanno idea?
Vogliono
risollevare il mondo dallo sfascio in cui lo stanno gettando o sparano alla
cieca?
Il
governo che hanno messo insieme è una cosa seria o una puntata di Drive In?
Cosa dobbiamo fare noi terrestri, prenotare il primo volo per Marte?
Me lo
chiedono dall’Italia, e io che posso dire?
Una risposta distaccata, da economista, da
geopolitico, da grande stratega dei talk show, sarebbe:
“Il
capitalismo è fondato sull’alternanza di prosperità e di crisi, ogni tanto uno
scossone al sistema è inevitabile, bisogna prepararsi al peggio quando le cose
vanno bene e prepararsi al meglio quando le cose vanno male”.
Oppure:
“Trump
e Musk parlano in modo brutale ma chiaro, ci mettono di fronte ai problemi che
per troppo tempo non abbiamo voluto affrontare”.
Oppure
ancora:
“Dobbiamo guardare ai fatti, non alle
dichiarazioni, e nei fatti Trump e Musk stanno resettando un ordine mondiale
ormai stagnante, qualunque idea che possa scuotere la situazione a Gaza e in
Ucraina sarà sempre meglio di come stanno le cose ecc. ecc.”.
Io
però non sono uno stratega da talk show, e mi accontento di una saggezza molto
più terrena e poco marziana, per esempio quella espressa da “Dwight K.
Schrute”, personaggio della serie televisiva “The Office”:
“Ogni volta che sto per fare qualcosa mi
chiedo: un idiota lo farebbe?
Se la
risposta è sì, allora non lo faccio” (“Whenever I’m about to do something, I
think, would an idiot do that? And if they would, I would not do that thing”).
In
altre parole, ogni volta che sto per mettere i bastoni tra le ruote ai miei
alleati, ogni volta che faccio crollare la borsa, ogni volta che rischio di
mandare il mio paese in recessione, ogni volta che abbandono al suo destino una
nazione amica che cerca di resistere a un’invasione, mi chiedo: un idiota lo
farebbe?
E, se
la risposta è sì, di certo non lo faccio, e mi aumenta anche il sospetto che
chi lo sta facendo sia un idiota.
Avere
un idiota come capo, in ogni situazione, dal più modesto ufficio alla più alta
carica dello stato, scatena in tutta la squadra quell’idiozia latente che in
tempi normali verrebbe repressa dalle buone maniere e dalla sensazione che
tutto sommato non sarebbe bene accetta.
Nella loro storia, gli Stati Uniti sono sempre
stati percorsi da qualche ventata di idiozia (mia traduzione da Idiot Wind di
Bob Dylan).
Quella
attuale presenta però alcuni tratti di regressione estrema, di darwinismo al
contrario, la cui spia è la crudeltà ferina della quale si fa vanto.
La Guerra di Secessione è stata un errore e
comunque gli schiavi erano trattati meglio prima che non dopo (parole del
tecno-ideologo “Curtis Yarvin” – il che in certi casi è tanto vero quanto
irrilevante; c’è mai stato un ex-schiavo che abbia rimpianto i bei tempi della
schiavitù?).
Qualunque
riferimento all’uguaglianza tra esseri umani o all’equità di trattamento tra
razze e gender deve essere abolito con la stessa brutalità con la quale il
partito baathista di Saddam Hussein è stato distrutto in Iraq (parole del
vicepresidente J.D. Vance).
La
condizione naturale del mondo è quella in cui il maschio di razza bianca è al
potere; tutto il resto è wokeism da estirpare senza pietà.
Anche
il diritto di voto alle donne può essere rimesso in discussione.
L’ha
fatto “Joel Webbon”, pastor del movimento cristiano-nazionalista “Theo Bros” (“Fratelli in Teologia”) di cui
fa parte anche la chiesa di “Pete Hegseth”, il nuovo Ministro della Difesa.
Le
donne hanno l’intelligenza di un bambino di cinque anni, ha detto “Webbon”, e i
bambini di cinque anni non votano (Joel Webbon Says Women Shouldn't Be Allowed
To Vote).
Dio ha creato l’uomo protettore della donna, e
il diciannovesimo emendamento della Costituzione, che dà alle donne il diritto
di voto, va abolito e sostituito dal diritto del capo di casa di votare a nome
dell’intera famiglia.
“Hegseth”
ha espresso posizioni simili, anche se non ufficialmente (ma l’hanno rivelato
alcuni suoi parenti), e le conseguenze politiche sono state rapide. I
repubblicani hanno già proposto una legge che richiede alle donne di
presentarsi ai seggi elettorali con un documento che riporti il loro cognome da
nubile. Significa che se una donna ha assunto il cognome del marito, come è
comune in America, e non mostrerà al seggio elettorale un passaporto o un altro
documento con il cognome originario (il certificato di nascita è poco richiesto
e moltissimi non ce l’hanno), non potrà votare.
Circa
69 milioni di donne perderebbero l’accesso al voto a meno di non procurarsi il
pezzo di carta necessario, ma molte non lo farebbero, lascerebbero perdere e
non andrebbero a votare.
È
molto improbabile che la legge passi al Senato, ma è già passata alla Camera,
il che fa capire con quale intensità, da uragano a forza cinque, stia soffiando
il vento dell’idiozia.
Quanto
durerà questo elettroshock globale?
Durerà finché le implicazioni economiche della
rivoluzione in atto si faranno sentire in tutta la loro portata e, per
reggerle, l’elettore trumpiano avrà bisogno di una dose di stoicismo, o di fede
cieca, che per il momento lo sostiene ma in futuro potrebbe rivelarsi perfino
superiore alle sue forze.
Il
licenziamento di 100.000 impiegati federali, che è stata la prima mossa di
Musk, potrebbe essere, nei calcoli più pessimisti, il primo grumo di neve che
dà inizio a una valanga.
I
fornitori abituali degli uffici eliminati potrebbero ridurre la produzione,
fermare le assunzioni o procedere a licenziamenti in proprio che a loro volta
produrrebbero altre contrazioni nella filiera e soprattutto la decisione degli
investitori di bloccare ogni iniziativa e stare a vedere cosa succede.
Nel
mese di febbraio, alcune grandi aziende nel settore dell’energia hanno già
fermato 4 miliardi e 200 milioni di dollari di spese in infrastrutture.
Se a
questo si aggiunge l’incertezza sui dazi, ieri istituiti, oggi ritirati, domani
minacciati di nuovo, il contraccolpo potrebbe farsi sentire già tra aprile e
maggio.
La
proposta di abolire il “National Oceanic and Atmospheric Administration” (NOAA)
perché “contaminato dalla falsa credenza nel riscaldamento globale”, avanzata
dal Ministro del Commercio “Howard Lutnick”, privatizzerebbe di fatto le
previsioni del tempo, con danno soprattutto delle comunità rurali e delle
piccole città esposte ai tornadi e alle inondazioni.
Intanto, nel nord del Texas, in una comunità
di cristiani mennoniti restii alle vaccinazioni, è scoppiata un’economia di
morbillo che conta già due morti (i primi negli Stati Uniti in dieci anni).
Robert
F. Kennedy Jr, Ministro della Sanità e “anti vax extraordinaire”, dapprima ha
ammesso a denti stretti che forse vaccinare i bambini non è una cattiva idea,
anche se deve rimanere una “decisione personale”.
Ma il
contraccolpo che ha ricevuto dalla base trumpiana (“Vergognati!” “Venduto
all’industria farmaceutica!”) è stato tale che ha subito fatto marcia indietro,
consigliando in alternativa olio di fegato di merluzzo, steroidi e antibiotici.
Ha affermato con forza che i risultati di tali
rimedi sono “straordinari”, che bisogna soprattutto occuparsi dei bambini
ammalatisi per via del vaccino e che la causa dell’infezione è la
malnutrizione.
Ma i
mennoniti del Texas seguono una dieta rigida e cucinano tutto in casa; in
effetti mangiano meglio della maggior parte degli americani, e che gli
antibiotici non servano contro un virus lo sanno anche gli idioti (o no?).
Ho già
avuto modo di scrivere in passato che in America, se un fanatico delle armi
deve scegliere tra i suoi fucili e il cadavere di suo figlio, sceglie i fucili.
E se
un fanatico antivaccini deve scegliere tra la sua convinzione e il cadavere di
suo figlio, troverà il modo di dire che se suo figlio si fosse vaccinato
sarebbe morto ancora di più.
Non
sto inventando niente, i dottori della “Gaines County” dove l’epidemia è
scoppiata, sono tempestati da richieste di genitori che per i loro figli non
vogliono il vaccino, vogliono olio di fegato di merluzzo.
Ma,
morbillo a parte, è soprattutto il rallentamento del mercato immobiliare, già
sceso del 5%, a far temere la recessione.
Ovviamente
queste sono le previsioni degli economisti “di sinistra”; di A”mbrose
Evans-Pritchard”, ad esempio, che aveva lavorato con Obama, e come tali accolte
con disprezzo dai repubblicani.
E c’è
da sperare nelle loro risate di scherno, perché altrimenti un altro 2008
sarebbe vicino, e potrebbe essere anche peggiore.
“Gran
disordine sotto il cielo, la situazione è eccellente.”
Qualcuno si ricorda di questa frase di Mao
Zedong, che fece da mantra alla Rivoluzione Culturale?
In
America, la Rivoluzione Culturale la volevano fare i professori di gender
studies; invece l’ha fatta Elon Musk con le sue Guardie Rosse che hanno invaso
gli uffici federali.
Ma se c’è qualcuno che quella frase se la
ricorda, è Xi Jinping, che dalle Guardie Rosse venne mandato in miniera a
purificarsi delle sue inclinazioni borghesi.
Che cosa starà pensando, Xi Jinping?
Si è
seduto sulla riva del fiume ad aspettare che passi il cadavere dell’America,
oppure teme che gli Stati Uniti non pagheranno più gli interessi sui 770
miliardi di debito americano (circa il 9% del debito complessivo) che la Cina
ha comprato?
E la
stessa domanda se la stanno ponendo gli altri paesi che detengono parte del
debito: Giappone, Canada, Gran Bretagna, Lussemburgo.
Gli
Stati Uniti stanno diventando uno stato canaglia, o lo sono già diventati?
Ma se
parlo della Cina è perché ne sono toccato, o meglio lo è il dipartimento di
lingue straniere di cui sono direttore.
È stata una mia collega cinese a offrirmi il
paragone con la Rivoluzione Culturale, anche se lei è troppo giovane per averla
vissuta.
Qualche
giorno fa l’ho informata dell’”Ordine Esecutivo GA 48, emesso il 19 novembre
2024 “dal Governatore del Texas “Greg Abbott”, più trumpiano di Trump.
Poiché
il direttore dell’FBI ed altre agenzie governative hanno dichiarato che la
Repubblica Popolare Cinese e il Partito Comunista Cinese sono la più grave
minaccia che grava sugli Stati Uniti, il governatore del Texas ha pensato bene
di sottoporre a ulteriori controlli tutti i rapporti che le aziende e le
università texane hanno con la Cina.
Contratti
e donazioni devono essere vagliati non solo del “Ministero dell’Istruzione”
(che Trump sta già riducendo del 50% per poi abolirlo, e dunque non vaglierà
più nulla) ma anche dal “Board of Education “dello Stato del Texas.
Il
paragrafo che mi riguarda è l’ultimo:
le
università devono informare il personale della proibizione assoluta di prendere
parte al reclutamento di studenti cinesi che intendono venire a studiare in
America grazie al programma bilaterale noto come “Mille Talenti”.
La mia
collega ha letto l’”Ordine Esecutivo” e ha deciso che questa estate non andrà a
trovare la sua famiglia.
Non è
ancora cittadina americana, ha solo il permesso lavorativo (la famosa “carta
verde”) e non vuole rischiare.
Avrà
un bambino, ma i nonni lo vedranno via zoom.
Il
programma di cinese della mia università ha già cominciato a perdere studenti.
Con le nuove restrizioni ne perderà ancora di più, così come li stanno perdendo
le altre lingue.
Perché studiare una lingua straniera, con il
rischio di essere considerato troppo poco americano, o, nel caso di uno
studente cinese che vuole studiare in America, una spia?
Certo
che ci sono spie cinesi in America.
Ci sono sempre state, suppongo, come ci sono
spie americane in Cina, e forse dovrebbero fare un lavoro migliore, direi.
Un
paio di spie cinesi, non molto tempo fa, prima di essere scoperte erano
arrivate abbastanza in alto nei loro rapporti con lo Stato della California e
di New York.
Ma un
conto è lo spionaggio ad alto livello, un altro è il dilagare della cultura del
sospetto anche tra i colleghi più woke.
Durante
gli anni del Covid avevo una studentessa che non aveva fatto in tempo a
ricevere il visto di studio e si collegava dalla Cina.
Parlava e scriveva benissimo in inglese e nel
mio corso sulle idee della modernità era certamente la migliore.
Non
appena è riuscita a venire a Houston ha finito la laurea specialistica in
cinese e si è iscritta al dottorato in magistero.
Ma un mese fa una sua insegnante è venuta a
chiedermi se la conoscevo e quanto la conoscevo, perché quella ragazza,
insomma, fa troppe domande.
Come
sarebbe a dire, ho chiesto.
Sì, fa domande a tutti, agli altri studenti,
ai professori, domande sull’America, sulla vita in America, su quello che la
gente dice e pensa. È
per caso una spia?
Mi
sembrava di ricordare che quella ragazza fosse stata nell’esercito, il che
forse spiegava la sua dimestichezza con l’inglese.
Può darsi che debba mandare rapporti regolari
ai suoi ex superiori, che forse sono ancora i suoi superiori.
Ci si
può davvero congedare dall’esercito cinese senza dover rendere più conto a
nessuno?
Può
darsi, ma io che ne so?
Oggi
come oggi il visto di studio le verrebbe rifiutato.
Ma
forse quel suo continuo domandare viene, se non dalla sua curiosità personale
su questi strani americani, dal banalissimo fatto che non trova niente di
importante da riferire.
Non è che in un programma di magistero si
possano scoprire chissà quali segreti.
Cosa
vuol dire tutto questo?
Che
non so più se sono io che ho capito l’America o se è l’America che ha capito
me, mi ha manipolato, mi ha fregato ben bene e mi costringe a parlarne in
continuazione mentre dovrei fare tutt’altro.
Se poi
un giorno si scoprirà che Trump e Musk avevano ragione, e che lo scossone che
hanno dato al mondo era salutare, e che pure Greg Abbott aveva ragione, mi
consolerò, rendendomi conto che l’idiota ero io.
In
questo momento, la mia più grande paura è quella di non essermi sbagliato.
Ma c’è
un punto sul quale Trump il piano ce l’ha davvero:
la Russia deve vincere la guerra con
l’Ucraina, e se proprio non può vincere allora deve uscirne con tutti gli
onori, come vincitrice morale.
Ma è
un piano alla sua maniera, che consiste nel fatto che nessuno sa che cosa farà
Trump fra mezz’ora.
Un
giorno gli Stati Uniti non condividono più la loro intelligence con l’Ucraina,
e la Russia ne approfitta per bombardare a tappeto.
Il giorno dopo la condividono ancora, e
l’Ucraina ne approfitta per mandare sulla Russia tutti i droni che può, prima
che alla Casa Bianca cambino ancora idea.
Un
giorno, Trump fa capire che i russi sono i buoni e gli ucraini sono i cattivi,
un altro giorno dice che quello che accade in Ucraina è terribile.
Il senatore Mark Kelly, democratico, di
ritorno dall’Ucraina twitta che qualunque accordo si raggiunga non può
risolversi in una semplice concessione a Putin.
Elon
Musk twitta in risposta: “Sei un traditore”.
E ciò che Musk scrive, Trump lo controfirma.
Poi
però negli incontri di Gedda si parla di un cessate il fuoco e della ripresa
degli aiuti all’Ucraina.
Ma lì
Trump non c’era.
C’era
Marco Rubio, il Segretario di Stato, di cui nessuno ha mai detto che sia un
genio, ma è stato l’unico che durante l’imboscata a Zelensky alla Casa Bianca
cercava di sprofondare nel divano.
Qual è
dunque il senso di questi continui ictus geopolitici?
Se io fossi uno stratega da talk show, direi
che è tutto molto chiaro:
Trump
vuole avvicinare la Russia agli Stati Uniti per rompere l’asse con la Cina, il
vero nemico numero uno dell’America, come dice anche il mio governatore.
È un grande progetto, e se comporta che
l’Ucraina diventi un vassallo della Russia o che Zelensky debba andare
quantomeno in esilio, poco male, il nuovo ordine mondiale sarebbe garantito.
Ma io
non sono uno stratega da talk show e continuo a pensare che se una cosa che ho
in mente di fare la farebbe un idiota, forse farei meglio a non farla.
Anche un idiota capirebbe che Putin, pur di
prendersi l’Ucraina o anche solo per uscire dalla guerra a testa alta, sarebbe
prontissimo a fingere di allentare i rapporti con la Cina senza mai allentarli
davvero, né Xi Jinping gli permetterebbe mai di chiudere con Pechino e volgersi
verso Washington.
No, mi
correggo. Non lo capirebbe.
Se lo
capisse non sarebbe un idiota.
Ma
qualcosa mi è accaduto stamattina, leggendo sul “New York Times” il ritratto di
una vegana di nome “Allison McCulloch”, di professione baby-sitter, grande
appassionata di cinema e di cucina vegetariana.
Per
ogni film che vede, Ms. McCulloch annota sul suo blog i necessari “vegan alerts”,
così che gli altri vegani non rimangano traumatizzati guardando un film in cui
qualcuno urla a un cane, dà una pacca a un gatto o mangia una bistecca.
Finora
ne ha schedati 24.082.
Non si
ha idea di quali traumi si possano nascondere nei film in apparenza più
inoffensivi.
Ci
sono film in cui qualcuno mangia pesce crudo o lo squarta dopo averlo pescato,
altri in cui si usano cavalli come animali da tiro (anche questo accade), altri
in cui ci sono scene girate in una macelleria con carne vera in evidenza, altri
ancora in cui qualcuno beve del latte – un atto che sembra innocuo e invece è
pieno di violenza.
“Allison
McCulloch” sa benissimo che, contrariamente a quanto avveniva in passato, nei
film hollywoodiani di oggi non c’è più violenza contro gli animali, il lavoro
lo fanno le protesi e gli effetti speciali, ma l’importante è non dare il
cattivo esempio.
Nell’ultimo
episodio di “Star Wars”, “Luke Skywalker” munge una creatura aliena che
assomiglia a un tricheco.
Perché mai mostrare una cosa simile, si chiede
Ms. McCulloch.
Perché
Luke Skywalker deve proprio bere del latte?
Finito
di leggere l’articolo, ho pensato: sono salvo, siamo tutti salvi, finalmente
una vera mistica è venuta a redimerci.
Non
c’è Trump o Musk che tenga.
Facciano
quello che vogliono, non potranno mai sconfiggere Allison McCulloch. Putin e
Jinping, fatevi da parte.
Non potete nulla contro Ms. McCulloch.
Nemmeno Sant’Orsola e le sue undicimila
vergini sarebbero in grado di competere con un’anima così pura.
Ma
rimane un problema. Le uova, sempre le uova.
Ms.
McCulloch è contraria alla scena di Il gusto delle cose, film del 2023 in cui
Juliette Binoche, cuoca sopraffina, sbatte delle uova.
Ora,
se nessun americano mangiasse più uova, non ci sarebbe ragione di prendersela
con Trump perché non è riuscito ad abbassarne il prezzo.
Sarebbe un trionfo della sua amministrazione,
bisogna che Ms. McCulloch glielo dica.
Sarà sicuramente una dem, ma certe soluzioni
sono bipartisan.
Sì, ma
poi cosa ne facciamo?
Per
fermare l’influenza aviaria, durante l’amministrazione Biden sono stati uccisi
150 milioni di polli, maschi, femmine e trans.
Un
olocausto di pollame che non accadrà più quando Trump chiuderà l’agenzia che
controlla il diffondersi delle epidemie tra gli animali.
Eppure
di galline ce ne sono ancora tante. E di uova ne fanno.
Più
care, ma ne fanno.
Se farle sbattute è violenza, mangiarle è un
assassinio, e distruggerle è un genocidio.
Nel
mondo di Ms. McCulloch no egg must be left behind, non si lascia indietro
nessun uovo.
Ogni
uovo si schiude, e ogni uovo è un pulcino.
L’America
si popola di pulcini, che diventano a loro volta polli, e galli e galline, che
fanno altre uova e altri pulcini, pulcini dovunque, in marcia per le strade, a
banchettare nei giardini pubblici, ad agitare le alucce mentre bevono in massa
alle fontane, che tentano di volare e sbattono contro i passanti, che ti
entrano in casa e scagazzano sul divano, che fanno mucchio davanti alla
televisione, che ti riempiono la vasca da bagno, che pigolano alle cinque del
mattino che sembra il coro dell’Aida, che coprono le automobili come negli
Uccelli di Hitchcock, che fanno pollaio nelle Tesla abbandonate, che invadono
il prato della Casa Bianca e la residenza di Mar-a-Lago, e non è che prima
venga l’uovo o la gallina, chi ci capisce più niente, apri la credenza e c’è
una chioccia che cova e che ti guarda male, metti una mano nel cappotto e ti
becca un galletto nervoso, alzi il cuscino e trovi sei pulcini bagnati, entri
in macchina e senza accorgertene ti siedi su dodici uova, dici che cammini
sulle uova e se le schiacci e ti senti un criminale, rimane solo una cosa da
fare, bisogna riscrivere la Bibbia, Mosè va dal Faraone e gli dice se non lasci
andare il mio popolo ti manderò la piaga delle uova.
Usa.
Le scelte di Trump e l'opposizione
senza voce: cosa succede ai democratici?
Avvenire.it
- Elena Molinari, New York – (martedì 25 marzo 2025) – ci dice:
È lo
stesso misto di stupore, incredulità e paura che spiega anche l’assenza di
proteste di massa, di boicottaggi dei consumi e della nascita di movimenti
politici online negli Stati Uniti.
Di
fronte al rifiuto di Donald Trump di ottemperare agli ordini dei giudici, alla
sua guerra delle tariffe che sta trascinando gli Stati Uniti in una recessione,
alla deportazione di residenti permanenti, alla detenzione di coniugi di
cittadini americani senza alcun precedente penale, alla chiusura del ministero
all’Istruzione, al licenziamento di decine di migliaia di dipendenti federali,
una domanda sorge spontanea: dov’è l’opposizione?
Che
cosa stanno facendo i democratici per fermare la presa di potere del presidente
americano e della sua Amministrazione?
Sono
gli stessi democratici a fornire le risposte.
Se interrogati, enunciano che stanno
«definendo un messaggio» ed elaborando una nuova strategia per diffonderlo.
Poi
informano che i vertici del partito si sono riuniti a metà marzo per tre giorni
a “Leesburg”, in Virginia, a un’ora da Washington, per preparare nuove
iniziative legislative e modi di «ritrovare una connessione» con gli elettori.
Infine,
invitano alla pazienza, perché occorre osservare l’avversario per poterlo
combattere, e, in ogni caso, la vera “resistenza” si è spostata nei tribunali,
che sono il posto migliore per fermare «questo attacco frontale alla
Costituzione».
I
parlamentari di sinistra più coraggiosi illustrano questi passi nel corso di
incontri con la cittadinanza (nei centri comunitari delle città americane) che
puntualmente degenerano in urla di esasperazione quando, alle parole “ritirata
strategica” o “nuovi approcci alla comunicazione”, gli elettori rispondono
chiedendo “spina dorsale” e “azione”.
Si
direbbe che il partito democratico sia paralizzato dal senso di impotenza di
aver perso in un colpo solo la Casa Bianca ed entrambe le Camere e dalla
vergogna di aver fallito miseramente nelle elezioni di novembre, quando la sua
base gli ha voltato le spalle.
Forse
sono anche sbalorditi, come la maggior parte degli osservatori della politica
americana, dalla rapidità con la quale Trump ha rivoluzionato il governo
federale e guadagnato autorità.
È lo stesso misto di stupore, incredulità e
paura che spiega anche l’assenza di proteste di massa, di boicottaggi dei
consumi e della nascita di movimenti politici online negli Stati Uniti.
Nei
circoli liberal di Washington si respira persino un certo cinismo, un “ve
l’avevamo detto”, di chi scrolla le spalle e punta il dito contro i milioni di
americani che hanno eletto Trump nonostante i democratici li avessero avvertiti
dei rischi che rappresentava.
Intanto la spirale degli Stati Uniti verso
l’autocrazia e l’oligarchia accelera ed è sempre più ipnotizzante, come prevede
il manuale dell’aspirante dittatore: capovolgi il normale, rendi tutto estremo,
agisci come se nulla potesse fermare la tua avanzata.
L’unico
che continua a girare di Stato in Stato per contrastare l’Amministrazione Trump
è il senatore democratico (che preferisce definirsi socialista) “Bernie
Sanders” — e i suoi comizi radunano folle sempre più imponenti.
Ma il
silenzio dell’opposizione non fa che diminuire la credibilità che i democratici
hanno perso quando hanno sostenuto la decisione di Joe Biden di ricandidarsi –
pur sapendo che era assolutamente inadeguato – mentre, allo stesso tempo,
proclamavano ai quattro venti che la posta in gioco con il voto del 2024 era
epocale.
È vero quello che molti a sinistra ammettono
con la testa bassa:
il
partito ha perso il contatto con l’elettorato.
Ed è
altrettanto vero quanto molti analisti politici aggiungono: non c’è tempo per
un esame di coscienza prolungato.
Non si
può nemmeno ipotizzare, come alcuni membri dell’opposizione hanno sostenuto
durante la riunione in Virginia di una settimana fa, che il “movimento Maga”
imploda sotto il peso di una recessione.
La
storia suggerisce infatti che una crisi finanziaria o altri eventi traumatici
forniscono ottime giustificazioni per aumentare la repressione del dissenso.
I
democratici - o qualsiasi altro gruppo che volesse rivestire il manto
dell’opposizione - avrebbero invece la necessità di ripartire dal basso.
Non dal Congresso, non da Washington, ma dalle
assemblee pubbliche di quartiere o di paese, dall’ascoltare quale mossa
dell’Amministrazione Trump sta avendo il maggiore impatto negativo sulla
popolazione e cavalcarla.
Il successo di tale strategia politica non
sarebbe certo garantito, ma forse quanto meno scalfirebbe la sensazione diffusa
di una Casa Bianca che, al momento, nessuno pare in grado politicamente e
istituzionalmente di controbilanciare.
La
crisi dei democratici.
Quelli
americani.
Ytali.com
- MARCO MICHIELI – (21 Marzo 2025) – ci dice:
Il
Partito Democratico appare diviso, privo di una strategia chiara e incapace di
rispondere efficacemente alla nuova realtà politica imposta dal ritorno di
Donald Trump alla Casa Bianca.
Negli
ultimi mesi, gli scontri interni sono esplosi con forza, mettendo in
discussione la leadership del Senato, la direzione ideologica e persino la
capacità dei Democratici di proporsi come alternativa credibile ai Repubblicani.
Venerdì
scorso, dieci senatori democratici — per lo più senatori di “Swing States”
prossimi al ritiro dalla politica — hanno votato a favore della proposta di
finanziamento repubblicana, fornendo un supporto decisivo per la sua
approvazione.
Tra
loro c’era anche “Chuck Schumer”, capogruppo della minoranza democratica al
Senato, il cui voto ha scatenato una crescente rivolta interna al partito.
L’adesione
di “Schumer” ha infatti sorpreso molti.
Inizialmente, diversi senatori democratici
avevano messo in guardia sul rischio di creare un pericoloso precedente,
soprattutto mentre Donald Trump e Elon Musk continuavano a smantellare il
governo federale.
Tuttavia,
altri sostenevano che respingere la proposta repubblicana e permettere lo “shut
down” avrebbe finito per danneggiare i lavoratori federali, offrendo al
contempo a Trump e Musk mano libera nel chiudere agenzie governative senza
ostacoli.
Il
rischio non era solo politico, ma anche pratico. Uno “shut down” si verifica
quando il governo federale non riesce a rinnovare o approvare il budget per le
proprie agenzie, costringendole a interrompere le attività.
Il
blocco colpisce milioni di lavoratori federali, che si trovano a dover prendere
congedo o a lavorare senza stipendio, con effetti a catena su numerosi servizi
e programmi governativi.
“Schumer”,
almeno inizialmente, sembrava deciso a opporsi.
Aveva dichiarato che i senatori democratici
avrebbero respinto la proposta repubblicana, consapevole che il loro voto era
cruciale per evitare il “filibustering”. Per superare l’ostruzionismo servono
infatti almeno sessanta voti, soglia necessaria per far avanzare certi
provvedimenti legislativi senza il rischio di blocchi da parte
dell’opposizione.
Eppure,
nel giro di pochi giorni, il capogruppo democratico ha cambiato posizione. Non
solo ha votato con i repubblicani, ma lo ha fatto senza tentare alcuna
negoziazione — senza chiedere concessioni, senza ottenere modifiche, senza
strappare impegni formali su alcuna misura.
Altri
nove senatori democratici lo hanno seguito, consentendo ai repubblicani di
evitare lo “shut down”.
Per
Schumer, alla guida dei Democratici al Senato dal 2016, la scelta si è ridotta
a una scommessa strategica: evitare un blocco governativo che, a suo avviso,
avrebbe solo rafforzato Trump, lasciando ai democratici l’onere della colpa per
i disservizi.
Il
rischio, nella sua visione, era che chiudere il governo per chiedere
restrizioni su Musk avrebbe finito per ritorcersi contro il partito, aggravando
la situazione dei lavoratori federali e bloccando servizi pubblici essenziali —
proprio le stesse cose per cui i Democratici accusano Trump.
La
decisione di Schumer ha scatenato tuttavia un’ondata di polemiche all’interno
del Partito Democratico.
I deputati dem, che alla Camera avevano votato
contro il disegno di legge (con una sola eccezione), si sono uniti in una furia
bipartisan contro il leader della minoranza al Senato.
L’indignazione ha attraversato ogni corrente
del partito, coinvolgendo persino alleati storici di Schumer e figure di primo
piano come “Nancy Pelosi”.
L’ex
Speaker della Camera non ha usato mezzi termini.
“Chiaramente,
nessuna delle due opzioni è buona per il popolo americano,” ha dichiarato.
Ma ha
anche aggiunto: “Questa falsa scelta che alcuni stanno accettando invece di
combattere è inaccettabile.”
Pelosi
ha poi esortato i senatori democratici ad ascoltare le figure che guidano per
il partito le commissioni per gli stanziamenti di bilancio:
la
deputata “Rosa De Lauro “del Connecticut e la senatrice “Patty Murray “dello
stato di Washington.
Entrambe
avevano proposto un piano provvisorio di trenta giorni come alternativa alla
proposta repubblicana, che invece estende il finanziamento fino a settembre.
A
rendere il clima ancora più teso ci ha pensato” Alexandria Ocasio-Cortez”, che
ha annunciato l’intenzione di mobilitare la sua vasta base di seguaci per
contrastare quella che ha definito una resa incondizionata di Schumer alla
Camera repubblicana.
“C’è un profondo senso di indignazione e
tradimento,” ha dichiarato la deputata di New York, che alcuni hanno invitato a
sfidare Schumer per il seggio senatoriale di New York, sottolineando come molti
elettori democratici si sentano traditi dai senatori del proprio partito.
Secondo
“Ocasio-Cortez”, i democratici al Senato hanno “completamente rinunciato alla
battaglia” e si sono arresi senza condizioni, abbandonando il loro dovere di
proteggere la Costituzione.
Nemmeno
“Hakeem Jeffries”, leader della minoranza democratica alla Camera, ha nascosto
il suo disagio.
Il
successore di Pelosi e controparte diretta di Schumer ha evitato di esprimere
pubblicamente un giudizio netto, ma la sua posizione è stata eloquente:
ha ripetutamente rifiutato di rispondere a
domande dirette su Schumer e sulla sua fiducia nella leadership del Senato.
Le
tensioni non si limitano alla Camera:
anche
al Senato il consenso attorno a “Chuck Schumer”, un tempo solido, sembra ora
vacillare.
Secondo
la stampa statunitense, molti senatori democratici avrebbero deliberatamente
evitato di difendere la sua scelta, un segnale che il sostegno nei suoi
confronti potrebbe sgretolarsi.
Il
senatore della Georgia “Raphael Warnock” ha addirittura suggerito che il
partito debba iniziare a guardare a una nuova leadership.
Anche “Chris Coons”, senatore del Delaware e
stretto alleato di Joe Biden, ha fatto eco a questa posizione, pur senza
attaccare apertamente Schumer.
“Una serie di corti federali ha chiarito che,
secondo loro, il presidente Trump sta agendo illegalmente e non rispetta il
ruolo del Congresso nell’assegnazione dei fondi,” ha dichiarato” Coons”,
aggiungendo che i democratici si trovano oggi “in una situazione diversa
rispetto a quella in cui si sono trovati nei miei quindici anni al Senato.”
Il
problema, per molti, è che la leadership democratica sta operando con un
vecchio manuale, incapace di adattarsi a una politica americana profondamente
cambiata.
Un
tema su cui si è soffermato anche il” New York Times” in una recente intervista
proprio a Schumer, nella quale il leader democratico è stato descritto come un
“istituzionalista”:
un
uomo che ha guidato il partito in un’epoca in cui le regole erano chiare e i
politici di entrambe le parti seguivano norme condivise.
Un’epoca che, sottolinea la giornalista del
quotidiano newyorchese, non esiste più.
Se il
partito vuole sopravvivere, serve una trasformazione radicale.
È
questo il messaggio di “Bernie Sanders”, un altro veterano del Senato, che ha
chiesto ai democratici di abbandonare l’impronta da “partito dei consulenti”
per trasformarsi in una forza autenticamente multigenerazionale.
Per
Sanders, l’attuale leadership è troppo distante dalla base e incapace di
rispondere alle nuove sfide poste da Trump e dal cambiamento del panorama
politico americano.
Le
accuse di essere distaccati dalla realtà non sono nuove per la leadership
democratica.
Risalgono
all’ultima fase dell’amministrazione Biden, quando una serie di errori
strategici ha contribuito alla sconfitta alle elezioni presidenziali.
Tra questi, uno dei più gravi è stata la
sottovalutazione dello stato di salute dell’ex presidente Biden, un tema che ha
alimentato divisioni interne ancora lontane dall’essere risolte.
Schumer
ha cercato di minimizzare la questione nell’intervista al “New York Times”,
respingendo le critiche sulla lucidità di Biden.
Al di
là delle dichiarazioni di Schumer, il problema di fondo resta:
i democratici non hanno una strategia chiara,
né una visione condivisa, su come affrontare Donald Trump.
Le tensioni interne al partito si riflettono
anche nelle inchieste elettorali.
I
sondaggi mostrano un crollo della popolarità dei Democratici, superati dai
Repubblicani persino tra segmenti di elettorato tradizionalmente progressisti.
Un
recente “sondaggio Quinnipiac” mostra un elettorato diviso sull’immagine del
Partito Repubblicano (43% favorevole, 45% sfavorevole), ma sorprendentemente
negativo nei confronti dei Democratici.
Solo
il 31% degli intervistati ha un’opinione favorevole del partito, mentre il 57%
ne ha un’opinione negativa.
Un
dato confermato anche da un sondaggio “CNN,” che registra un indice di
gradimento per i Democratici al 33%—il più basso dal 1992.
Ma il
malcontento non si limita all’elettorato generale: serpeggia anche tra gli
stessi elettori democratici.
Secondo
lo stesso sondaggio, il 58% dei Democratici e degli indipendenti vicini al
partito ritiene che siano necessarie “modifiche profonde” alla leadership e
alla strategia politica.
A rendere ancora più cupo il quadro,
un’indagine” New York Times-Ipsos” ha rivelato che molti elettori vedono i
Democratici come eccessivamente focalizzati su battaglie culturali considerate
secondarie, mentre ignorano le questioni economiche che più preoccupano il
Paese.
La
corsa alla presidenza del partito, il D.N.C., lo scorso febbraio, ha messo in
luce la mancanza di una strategia politica ampia e coerente da parte del
Partito Democratico, un messaggio che vada oltre l’opposizione a Trump e sappia
offrire una visione per il futuro.
I due
principali candidati, “Ken Martin,” presidente del “Minnesota
Democratic-Farmer-Labor Party”, e” Ben Wikler”, presidente del “Partito
Democratico del Wisconsin”, hanno delineato due approcci diversi al ruolo.
Martin
ha insistito sulla necessità di un attacco diretto a Trump, presentandosi come
un candidato più vicino alla “working class “rispetto a Wikler.
Quest’ultimo,
invece, ha puntato sulla necessità di rendere visibile l’opposizione
democratica solo nel momento in cui l’amministrazione repubblicana adottasse
politiche impopolari su temi come sanità, istruzione e previdenza sociale.
Alla
fine, “Martin” ha prevalso, sostenendo che il vero problema del partito non
fosse però tanto il contenuto del messaggio, quanto il modo in cui veniva
comunicato.
Il
rivale” Wikler”, va aggiunto, godeva dell’appoggio di figure di primo piano
come Chuck Schumer, Hakeem Jeffries, Nancy Pelosi e di finanziatori influenti
come Reid Hoffman e Alexander Soros.
L’elezione
di Martin tuttavia non ha risolto nulla.
La
dirigenza democratica resta divisa su come affrontare l’era Trump, e il voto
sullo “shut down” ne è stata la dimostrazione più lampante.
Dopo
una campagna elettorale interamente incentrata sulla retorica della difesa
della democrazia, i Democratici si sono ritrovati a confermare in blocco i
membri del gabinetto trumpiano—una scelta di cui alcuni si sono poi amaramente
pentiti.
Uno
degli episodi più clamorosi è stata la conferma di “Marco Rubio” come
Segretario di Stato, approvata con 99 voti su 100 (con Rubio stesso
impossibilitato a votare).
Solo poche settimane dopo, quando l’ex
senatore della Florida è rimasto in silenzio nello Studio Ovale mentre Trump e
il suo vice umiliavano pubblicamente il presidente ucraino “Volodymyr Zelensky”,
diversi senatori democratici hanno espresso rammarico per averne avallato la
nomina.
Dichiarazioni che, anziché placare la rabbia
della base democratica, hanno contribuito ad alimentarla ulteriormente.
Questa
situazione ha rafforzato la percezione di un partito allo sbando, privo di una
direzione chiara.
Non a
caso, il “New York Times” che ha seguito e segue la crisi del Partito
democratico ha descritto riunioni private ed eventi pubblici nei quali “i
democratici eletti appaiono senza leader, senza direzione e divisi”:
Non
sono d’accordo su quanto spesso e quanto strenuamente opporsi a Trump. Non
hanno una comprensione condivisa del perché hanno perso le elezioni, per non
parlare di come possono vincere in futuro. […]
Più di 50 interviste con i leader democratici
hanno rivelato un partito che sta lottando per definire ciò che rappresenta,
quali questioni privilegiare e come affrontare un’amministrazione Trump che sta
portando avanti un programma di destra con una velocità da capogiro.
All’interno
del Partito Democratico, le varie fazioni hanno idee molto diverse su come
affrontare la situazione attuale.
Da un
lato, vi sono coloro che ritengono che la situazione non sia così “anormale”
come prospettato anche durante la campagna elettorale.
Questa
corrente sostiene un approccio istituzionalista, che guarda ai repubblicani
come al partito di un tempo, con cui è ancora possibile trovare accordi.
Dall’altro
lato, alcuni adottano un approccio pragmatico, rivolgendosi agli elettori
indipendenti e moderati.
Pur
non negando la pericolosità di Trump per la democrazia americana, credono che
l’unico modo per contrastarlo sia concentrarsi sull’economia, riconquistando
quegli elettori che hanno sostenuto Trump nella speranza di vedere una
riduzione dei prezzi e un miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Esiste
poi una terza fazione che invoca azioni più incisive, come proteste e
interruzioni.
Un
esempio è stato l’intervento del rappresentante “Al Green”, che ha interrotto
il discorso congiunto di Trump al Congresso.
Tra
queste diverse posizioni, emerge una visione intermedia rappresentata da “James
Carville”, storico stratega democratico che ha condotto “Bill Clinton” alla
vittoria nel 1992.
Il suo editoriale sul “New York Times” ha
scatenato forti polemiche all’interno del partito.
Carville ha suggerito infatti una strategia
provocatoria: “Fate finta di essere morti”.
Secondo
lui, è il momento che i Democratici adottino la manovra politica più audace
della loro storia: arrendersi e restare in disparte.
“Lasciamo
che i Repubblicani crollino sotto il loro stesso peso e facciamo in modo che il
popolo americano senta la nostra mancanza”, ha dichiarato.
“Carville”
ritiene che Trump e i suoi alleati abbiano sottovalutato la tolleranza del
pubblico americano per il caos, l’incompetenza e le esibizioni di forza con
altri leader mondiali, che potrebbero finire con il crollo dell’economia.
La strategia migliore, dunque, sarebbe
attendere che Trump goda ancora per un po’ dell’onda della vittoria elettorale,
fino a quando il suo indice di approvazione non crollerà.
A quel
punto, sostiene “Carville”, i Democratici dovrebbero “comportarsi come un
branco di iene e attaccare la giugulare”.
Il suo timore è che gli allarmi continui,
lanciati già durante la prima amministrazione Trump, abbiano finito per
desensibilizzare il pubblico, rendendo inefficace uno scontro frontale e
radicale.
Tuttavia,
questa posizione ha sollevato molte critiche. “David Graham”, giornalista di “The
Atlantic,” sostiene che non sia un grande consiglio.
Secondo lui, i Democratici hanno passato
l’ultimo anno e mezzo a parlare del “Progetto 2025”, della dissoluzione della
democrazia e dell’autoritarismo imminente.
“Quando
si dice alla gente che l’inferno sta arrivando, alcuni ci credono davvero e si
aspettano che i loro leader facciano tutto ciò che è in loro potere per
fermarlo”, ha scritto” Graham”.
Anche “Reed
Galen,” uno dei fondatori del “Lincoln Project”, una delle organizzazioni
create da repubblicani per contrastare Trump durante il suo primo mandato, ha
criticato i consigli di “Carville”.
Secondo
Galen questa strategia ha infatti molti problemi.
Innanzitutto,
dice, i Democratici hanno perso le elezioni presidenziali del 2024 – la loro
seconda sconfitta contro Trump – non solo a causa dell’età di Joe Biden o delle
politiche di Kamala Harris, ma soprattutto “per lo spostamento pluridecennale
del partito dal mondo del lavoro all’élite costiera benestante”:
Questo
cambiamento ha eroso il consenso democratico non solo tra la classe operaia
bianca, ma anche tra i lavoratori latini.
Inoltre,
milioni di elettori in Stati cruciali hanno scelto di non votare, contribuendo
alla sconfitta.
Se i
Democratici decidessero di seguire il consiglio di Carville e di restare a
guardare mentre il Paese brucia, nella speranza che gli elettori li
ricompensino per i danni provocati da un secondo mandato di Trump,
significherebbe che non hanno imparato nulla, avverte “Galen”:
Il
principale errore politico del partito nella campagna presidenziale dell’anno
scorso è stato quello di passare troppo tempo a parlare del perché Trump è
cattivo, e non abbastanza a spiegare i loro piani per il popolo americano.
Se il vecchio adagio “non si può sconfiggere
qualcosa con niente” è vero, allora suggerire al Partito Democratico di fare il
“gioco dell’opossum” è solo un’altra delle solite cattive politiche.
Ma
allora, quale strategia adottare?
Potrebbe
essere più efficace un approccio pragmatico? Non tutti sono d’accordo. “Jay
Caspian Kang”, scrittore e giornalista del “New Yorker,” mette in guardia
Carville dal sottovalutare la rabbia che “molti elettori liberal” provano nei
confronti del loro stesso partito, non solo per la sua inattività nell’ultimo
mese, ma anche per aver permesso la vittoria di Trump:
Molti
colleghi dei media hanno sostenuto che c’è un’ondata di rabbia nell’”elettorato
liberal” e che potrebbe essere in arrivo un “momento Tea Party”.
Secondo
questa linea di pensiero, presto emergeranno una serie di nuovi candidati che
sfideranno gli attuali membri del Congresso in tutto il Paese.
In uno scenario di “Tea Party”, questi numeri
così bassi, uniti all’insoddisfazione generale degli indipendenti, a un partito
di opposizione senza leader e a un presidente uscente impopolare, potrebbero
portare a un cambiamento radicale.
Molti
di questi nuovi candidati saranno cittadini comuni, stufi della politica
inconcludente e nulla dell’establishment democratico.
Si
saranno fatti conoscere nelle piccole ma crescenti proteste e nei momenti di
disobbedienza civile che sono iniziati in tutto il Paese.
Ancora
dalle pagine del New Yorker, “Susan B. Glasser”, editorialista di punta del
magazine, ha criticato i suggerimenti di Carville, che ritiene una sorta di
“disarmo unilaterale”:
Che
senso ha avere due partiti politici nella nostra democrazia se uno di essi non
è più fedele alla Costituzione e l’altro è così debole e consumato dalle lotte
intestine che la sua risposta è dire:
“Non importa, non riusciamo a metterci
d’accordo. Ci dispiace che Trump stia rovinando il Paese, ma torneremo l’anno
prossimo in tempo per le elezioni di metà mandato?”
Secondo
“Glasser”, molti, incluso Carville, giustificano la loro scelta di non fare
nulla con l’argomentazione che la “resistenza” a Trump sia stata inefficace
durante il suo primo mandato.
Ma
questo, a suo avviso, è un errore di prospettiva:
Hanno
forse dimenticato che i Democratici hanno ripreso il controllo della Camera dei
Rappresentanti nelle elezioni di metà mandato del 2018?
O che
molti degli incaricati di Trump al primo mandato si sono opposti con successo
dall’interno, impedendogli di portare avanti le sue idee più dirompenti di
ridurre il governo americano, attaccare lo Stato di diritto e riorientare la
nostra politica estera, molte delle quali sono ora in atto?
Hanno forse dimenticato che Trump è stato
sconfitto nel 2020 in un’elezione che si è conclusa con il controllo da parte
dei Democratici non solo della Casa Bianca ma di entrambe le camere del
Congresso?
Ma se
l’inazione non è la soluzione, quale dovrebbe essere la direzione del partito?
Ed è qui che emergono divisioni profonde tra chi vorrebbe spostarlo più a
sinistra e chi crede che la salvezza stia in un ritorno al centro.
Una
parte significativa del mondo democratico ritiene che la deludente performance
del 2024 non sia stata determinata principalmente dai soliti dibattiti su
questioni sociali, diritti civili o politiche ambientali, ma da un fallimento
più profondo:
una
crisi di identità e di messaggio.
La
questione, dunque, non sarebbe tanto dove posizionare il partito nell’asse
politico, ma come renderlo nuovamente coerente nella difesa della “working
class”.
Lo
sostiene per esempio “Alexander Nazaryan” di “MSNBC”.
Gli
elettori nel 2024 sono rimasti confusi e delusi.
“Non
avevano idea di dove si trovassero su nessuna delle cose che interessano
davvero alla gente normale”.
Il
messaggio del Partito Democratico era confuso, privo di un’identità chiara.
Diviso tra “donors miliardari” da una parte e “elettori della classe media”
dall’altra, i Democratici non sono riusciti a comunicare in modo efficace una
visione che risuonasse con un ampio spettro dell’elettorato.
Questo
fallimento di identità ha portato a un crollo della fiducia e del supporto, in
particolare tra gli elettori della classe lavoratrice, che tradizionalmente
erano il pilastro del partito.
“Austin Sarat”, The Hill, ha mosso
quasi la stessa critica, sottolineando l’ossessione continua del Partito
Democratico nel corteggiare i “repubblicani suburbani che piacciono a” Liz
Cheney” e che sono favorevoli alla deregolamentazione”, piuttosto che
concentrarsi sugli elettori della classe lavoratrice che si sono sentiti sempre
più abbandonati da entrambi i partiti principali.
Per” Sarat”, i Democratici hanno cercato di
conquistare una piccola fetta di repubblicani moderati, quelli disillusi da
Trump ma non necessariamente allineati con i valori fondamentali del partito.
Questa
strategia può aver portato qualche voto nelle zone suburbane benestanti, ma ha
alienato la base lavoratrice del partito, specialmente nelle regioni rurali,
dove il sostegno ai Democratici è drasticamente diminuito.
A
supporto di questa tesi, “John Nichols” di “The Nation” ha aggiunto che la
perdita dell’America rurale è stata uno degli indicatori più evidenti del
disordine interno al partito.
La
vicepresidente Kamala Harris, che avrebbe dovuto galvanizzare diversi segmenti
della classe lavoratrice, ha visto il suo gradimento precipitare al 34% nelle
zone rurali—un tracollo rispetto al già modesto 42% di Biden nel 2020.
Per
Nichols, questo calo non è un semplice problema di popolarità della candidata,
ma il sintomo di un fallimento più profondo del partito nel rispondere alle
reali preoccupazioni economiche e sociali delle piccole città americane.
A
conferma della sua analisi, “Nichols” riporta le parole dell’ex Commissario
all’Agricoltura del Texas,” Jim Hightower”, che mette in guardia i Democratici
dal cercare di essere tutto per tutti, a scapito di un’identità politica
chiara.
Il
partito, sostiene, dovrebbe concentrarsi su “sollevare la maggioranza che
lavora ogni giorno” e affrontare in modo concreto i problemi economici che
riguardano la vita quotidiana degli americani comuni.
Questo
significa non solo opporsi all’estrema destra, ma proporre soluzioni reali:
investire nell’istruzione pubblica, garantire il funzionamento degli uffici
postali nelle piccole città e creare opportunità di lavoro per le comunità
della classe lavoratrice.
Questa
critica al “neoliberismo” democratico, nota “Nichols”, non proviene solo dalla
sinistra radicale, ma anche da esponenti più convenzionali del partito.
Tra
questi, il senatore “Chris Murphy”, che ha recentemente ammesso che i
democratici non hanno ancora affrontato pienamente le conseguenze di
cinquant’anni di “politiche economiche neoliberiste”.
Secondo
“Murphy”, il partito ha esitato troppo a lungo nell’offrire proposte economiche
audaci e trasformative.
Senza
un cambio di passo in questa direzione, il rischio è quello di apparire
irrilevanti agli occhi di una fetta sempre più ampia dell’elettorato.
Ma
mentre una parte del dibattito interno al partito invoca un ritorno alle radici
economiche per riconquistare la “working class”, un’altra preoccupazione emerge
tra gli analisti:
l’immagine
sempre più spostata a sinistra che il Partito Democratico proietta all’esterno.
“Daniel
A. Cox “sottolinea come questa percezione non sia solo una costruzione dei
media conservatori, ma una realtà radicata nei cambiamenti tangibili della
retorica e dell’agenda democratica negli ultimi anni.
Dal
2016 al 2024, l’evoluzione del linguaggio e dei temi proposti ha contribuito ad
allontanare il partito dal centrismo tradizionale, spingendo molti elettori
indipendenti a considerarlo troppo “liberal”.
I dati
che Cox cita sono eloquenti: tra gli elettori indipendenti, il 53% ha una
visione favorevole del Partito Democratico se lo percepisce come “moderato”, ma
questa percentuale scende al 44% tra coloro che lo considerano semplicemente
“liberal” e crolla al 6% tra quelli che lo vedono come “molto liberal”.
Anche secondo un recente sondaggio Gallup,
rispetto al 2021, il sostegno a un Partito Democratico più moderato è aumentato
di 11 punti percentuali, raggiungendo il 45%, mentre la percentuale di coloro
che preferirebbero un partito più progressista è scesa al 29%.
Anche
il numero di Democratici che vorrebbero mantenere lo status quo è in calo,
segno di una generale insoddisfazione per l’attuale direzione del partito.
Tra i
Democratici più progressisti, quasi la metà (45%) vorrebbe un partito ancora
più spostato a sinistra, mentre solo il 30% preferirebbe una svolta moderata.
Al
contrario, tra i moderati del partito, il 62% auspica un riposizionamento al
centro, un dato che riflette le ansie di un elettorato che teme che
un’eccessiva radicalizzazione possa allontanare gli elettori chiave nelle
prossime tornate elettorali.
Il
problema, secondo Cox, non è però necessariamente nelle singole proposte politiche, ma
nella loro presentazione:
il
partito si è frammentato in un elenco di cause e battaglie – “cambiamento
climatico, diritti LGBTQ+, giustizia sociale, sanità pubblica” – senza riuscire
a trasmettere una narrativa coesa capace di parlare a un pubblico più ampio.
A
complicare ulteriormente il quadro, “”Tanner Stenning della “North western
University “osserva come il Partito Democratico stia tentando di bilanciare la
spinta progressista con posizioni più centriste nel tentativo di attrarre un
elettorato più ampio.
Tuttavia,
questo sforzo rischia di non essere sufficiente per colmare il crescente
divario tra le diverse anime del partito.
Alcuni
democratici potrebbero adottare posizioni più conservatrici su temi come
l’immigrazione o politiche economiche più populiste per espandere il proprio
appeal, ma questa strategia, se non accompagnata da una visione chiara e
coerente, rischia di risultare inefficace.
Questa
tensione interna lascia il Partito Democratico di fronte a un bivio:
raddoppiare la scommessa su una politica progressista e identitaria, oppure
ricostruire una piattaforma più centrata sulle questioni economiche che
interessano direttamente la working class.
Quel che è certo è che, senza una direzione
chiara e una leadership capace di unificare queste diverse correnti, il rischio
è quello di rimanere impantanati in una crisi di identità che potrebbe favorire
ancora una volta un Partito Repubblicano sempre più radicalizzato.
Lo
scontro tra la prospettiva progressista e quella centrista all’interno del
Partito Democratico trova un chiaro esempio nel dibattito tra “Eric Levitz” di
Vox e “Osita Nwanevu”, collaboratrice di “The New Republic” e autrice del libro
in uscita “The Right of the People”.
“Levitz”
sostiene che i progressisti commettano un errore a interpretare la sconfitta di
Kamala Harris come la prova che la moderazione e il centrismo non abbiano alcun
valore elettorale.
Per “Nwanevu”,
invece, l’idea che i Democratici possano superare le loro attuali difficoltà
semplicemente moderando le loro politiche è fuorviante.
Tuttavia,
aggiunge, nemmeno il populismo di sinistra rappresenta una soluzione chiara per
il rinnovamento del partito.
A suo
avviso, se la sinistra avesse davvero un approccio politicamente efficace, “Bernie
Sander”s sarebbe già stato presidente.
“Nwanevu”
riconosce il ruolo delle dinamiche interne al Partito Democratico nel limitare
il successo della sinistra, ma sostiene che la mancanza di una vera maggioranza
progressista sia dovuta anche a fattori strutturali nell’elettorato.
La moderazione, argomenta, si sta rivelando
sempre meno efficace, ma ciò non significa che una virata netta verso il
populismo di sinistra garantirebbe risultati migliori.
Citando il trend elettorale degli ultimi
vent’anni, sottolinea come il partito abbia spesso candidato moderati in
distretti difficili senza ottenere grandi successi, segno che la questione è
più complessa di una semplice scelta tra centro e sinistra.
Questa
tensione tra le diverse anime del partito è al centro anche dell’analisi di “William
Galston” ed “Elaine Kamarck “del think tank centrista “Third Way”.
Secondo
i due ricercatori, il problema più grande del Partito Democratico è la
frammentazione della sua coalizione elettorale.
Sebbene il declino del sostegno della classe
lavoratrice ai Democratici sia iniziato decenni fa, l’era Trump ha accelerato
ed esteso questo fenomeno, coinvolgendo non solo gli elettori bianchi, ma “anche
lavoratori ispanici e afroamericani, in particolare uomini.
Per
Galston” e” Kamarck”, la principale linea di frattura politica oggi è
rappresentata dal livello di istruzione.
I Democratici sono diventati sempre più il
partito degli elettori con un titolo universitario, ma il problema è che la
maggioranza degli americani non ha una laurea.
Finché
il partito non riuscirà a ricostruire un solido sostegno tra gli elettori senza
istruzione universitaria, il suo futuro rimarrà incerto.
Questo
scollamento si è riflesso nelle elezioni del 2024: secondo le analisi
post-voto, Trump ha vinto tra gli elettori con redditi inferiori ai 50.000
dollari e tra quelli nella fascia tra i 50.000 e i 99.999 dollari, mentre
Harris ha ottenuto il maggior sostegno tra le famiglie con redditi superiori ai
100.000 dollari.
Questo
ha segnato una svolta storica: per la prima volta dal 1992, un candidato
repubblicano ha vinto tra gli elettori a basso reddito, mentre per la prima
volta dal 1996 un Democratico ha prevalso tra quelli più abbienti.
“Galston
e Kamarck” identificano anche altre due aree critiche per i Democratici:
l’immigrazione e le politiche economiche.
Ritengono che Biden avrebbe dovuto agire più
rapidamente e con maggiore decisione per controllare il flusso di immigrati
irregolari dopo che le sue prime mosse in materia avevano portato a un aumento
degli attraversamenti al confine meridionale.
A
sostegno di questa tesi, citano il lavoro di “Michael Tesle”r, politologo
dell’Università della California a Irvine, che ha evidenziato un aumento
significativo, tra il 2020 e il 2024, del numero di elettori neri e ispanici
che percepiscono gli immigrati come un peso per le risorse nazionali.
Questo cambiamento di opinione avrebbe
contribuito all’incremento del sostegno a Trump tra queste fasce demografiche.
Se
molti Democratici sostengono che il partito debba migliorare le sue politiche
economiche e il suo messaggio per riconquistare la classe lavoratrice,” Galston
e Kamarck” sottolineano che il problema va oltre.
Le
questioni culturali sono altrettanto decisive: molti elettori della classe
lavoratrice percepiscono il Partito Democratico come distante dai valori della
società americana più tradizionale, e persino alcune delle sue politiche
economiche sembrano favorire le élite urbane e istruite piuttosto che le loro
comunità.
La
tentazione di inseguire la moderazione per riconquistare la classe lavoratrice
potrebbe scontrarsi tuttavia con la realtà di un elettorato sempre più
polarizzato, dove i giovani e le minoranze, colonne portanti della coalizione
democratica, chiedono risposte più radicali su temi economici e sociali.
Ma
forse sono sempre dati per acquisiti.
Perché in ogni caso una parte dei dem sembra
già avere scelto una strada precisa.
Che
una parte della classe dirigente democratica abbia già tracciato la linea da
seguire di fronte alle domande degli elettori delusi è però evidente.
La
prova sta nel sostegno che numerosi esponenti del partito hanno espresso verso
le politiche della nuova amministrazione Trump, in particolare su commercio,
immigrazione e diritti civili.
Un
segnale che, più che un ripensamento strategico, sembra suggerire un tentativo
di adattamento a un vento politico che soffia sempre più forte da destra.
Sebbene
i dazi doganali imposti dalla nuova amministrazione repubblicana abbiano
incontrato una diffusa opposizione tra i democratici, non tutti nel partito
sembrano allineati su una condanna netta.
Alcuni esponenti di spicco, infatti, adottano
un approccio più sfumato, convinti che il Partito Democratico debba sviluppare
una propria agenda commerciale. L’obiettivo?
Riconquistare il consenso della working class,
evitando che il tema dei dazi resti un’esclusiva della destra populista.
I
democratici della” Rust Belt” e di diversi distretti del Congresso, insieme ai
leader dei sindacati storicamente democratici, hanno espresso il loro sostegno
a molti dei dazi di Trump, anche se ritengono che li stia attuando in modo
disordinato.
Come riportato da “Axio2, il deputato
democratico” Jared Golden” del Maine ha presentato una legge per imporre un
dazio del 10% su tutte le merci che entrano negli Stati Uniti:
“Il
mondo sta cambiando e alcuni democratici non si sono ancora resi conto di
questo fatto”.
“Golden”,
il cui distretto, in gran parte rurale, ha votato per Trump nel 2020 e nel
2024, ha aggiunto:
Penso
che Trump abbia identificato il problema. […]
Alcuni
hanno detto che il nostro commercio con il Canada è davvero sano, e io non sono
d’accordo.
Non
sto sostenendo che dovremmo adottare i dazi come parte di una strategia di
campagna elettorale.
Sto
sostenendo che dovremmo farlo sulla base dei meriti della politica e di ciò che
è buono per gli americani della classe operaia.
Anche
il sindacato “United Auto Workers”, che l’anno scorso ha appoggiato l’allora
presidente Biden, ha dichiarato questo mese:
Siamo
lieti di vedere un presidente americano intraprendere un’azione aggressiva per
porre fine al disastro del libero scambio che è caduto come una bomba sulla
classe operaia.
E non
sono solo alcuni sindacati o deputati di aree trumpiane.
Anche
la sinistra non sembra dispiaciuta di alcune misure.
Per esempio, “Faiz Shakir”, uno dei più
stretti collaboratori di “Sanders” per il quale ha gestito la sua campagna
presidenziale per il 2020, ha dichiarato sempre ad “Axios”:
Non
sono d’accordo con i Democratici che vivono nell’idea che abbiamo solo bisogno
di merci a basso costo dalla Cina e dal Messico, e il loro messaggio è:
‘Lavatrici e avocado diventeranno più costosi”. […] C’è un desiderio di dazi
per un motivo.
Gli elettori sentono che Trump sta facendo
pagare a queste aziende un prezzo per aver spedito posti di lavoro all’estero.
Il
deputato “Chris Deluzio” della Pennsylvania ha criticato l’attuazione “caotica”
delle tariffe da parte di Trump, ma ha sostenuto che “la risposta non è
condannare le tariffe su tutta la linea”:
I democratici devono liberarsi
dall’orda di zombie abbagliati da decenni di economisti neoliberisti che
pensano che le tariffe siano sempre negative,
ha
scritto in un articolo sul” New York Times”.
Un
altro esponente importante della “sinistra dem”, “Ro Khanna “della California,
sostiene che siano necessari dei dazi strategici contro la Cina come parte di
una politica industriale più intelligente.
Ma è
sul tema dell’immigrazione che qualcosa sta cambiando profondamente.
Qualche
settimana fa dodici senatori democratici si sono uniti ai repubblicani per
approvare una legge sull’immigrazione, un tema che da anni paralizza il
Congresso e che rimane al centro della retorica trumpiana.
Il
provvedimento, noto come “Laken Riley Act,” prende il nome da una giovane donna
assassinata lo scorso anno mentre faceva jogging all’Università della Georgia.
La
legge prevede misure più severe per gli immigrati irregolari che commettono
crimini negli Stati Uniti, ampliando il potere delle forze dell’ordine
nell’arresto e nella detenzione.
Ma il
punto di rottura rispetto alla normativa vigente è netto:
il
testo introduce la possibilità di detenzione e deportazione per gli immigrati
privi di documenti anche solo accusati – e non condannati – per reati minori
come il taccheggio.
Un
cambiamento radicale rispetto all’attuale requisito di almeno due condanne per
reati di “turpitudine morale” prima che scatti l’espulsione.
“John
Fetterman,” senatore democratico e co-sponsor della legge, ha difeso il
provvedimento affermando che “assicurerà la detenzione e l’espulsione degli
alieni criminali prima che possano commettere crimini orribili come quello che
è accaduto a “Laken Riley”.
Questi
dodici senatori democratici – in gran parte provenienti da stati in bilico o
alle prese con difficili rielezioni – hanno fatto una scelta politica chiara,
abbracciando una stretta securitaria sull’immigrazione che fino a pochi anni fa
sarebbe stata impensabile tra le fila del loro stesso partito.
Si
tratta sicuramente di un tentativo di adattarsi ai desiderata degli elettori.
Come ha scritto “Greisa Martínez Rosas” del New York Times, l’erosione del
consenso dei Latinos nei confronti dei Democratici non dipende da un improvviso
spostamento ideologico verso destra di questo gruppo elettorale:
Il
problema è più semplice e, allo stesso tempo, più profondo:
il partito sta facendo l’offerta sbagliata.
Molti
latinos non si vedono come vittime di un sistema razzista, bensì come
lavoratori instancabili in cerca di opportunità, proprio come gli irlandesi,
gli italiani e gli ebrei che li hanno preceduti nel grande sogno americano.
È
questa auto-narrazione a renderli più ricettivi ai messaggi conservatori sulla
sicurezza e sull’immigrazione, soprattutto quando i Democratici insistono a
incorniciare il dibattito politico come una battaglia morale contro il razzismo
invece che come una lotta populista per la sicurezza economica delle famiglie
lavoratrici.
L’America
sembra aver peraltro già deciso:
l’immigrazione
irregolare non è più un tema di nicchia, ma una priorità politica trasversale.
Un’inchiesta
“Axios/Ipsos” di gennaio ha rivelato che il 66% degli americani sostiene l’idea
delle espulsioni, anche se il consenso cala di fronte a misure più
drastiche—solo il 38% approverebbe l’uso della forza militare e appena un terzo
accetterebbe la separazione delle famiglie.
Anche
un sondaggio dell’”Associated Press-NORC Center” mostra che metà degli adulti
americani ritiene che rafforzare la sicurezza alla frontiera debba essere una
priorità assoluta per il governo federale.
Altri tre su dieci la considerano comunque una
questione di media importanza. Persino tra i democratici, l’opposizione alle
espulsioni di massa coesiste con un dato rivelatore:
l’80% degli elettori del partito sostiene
l’espulsione degli immigrati irregolari condannati per crimini violenti.
Non
sorprende, dunque, che senatori democratici come” Ruben Gallego”, vincitore in
Arizona, stato vinto da Trump, abbiano sostenuto misure come il “Laken Riley
Act”.
Gallego
si difende dicendo di rispecchiare semplicemente la volontà dei suoi elettori,
inclusi molti latinos.
E
forse è proprio qui che sta il punto: l’idea che la comunità ispanica sia
monoliticamente pro-immigrazione è una narrazione politica che la realtà sta
rapidamente smantellando.
Anche
la recente corsa alle primarie per trovare il candidato governatore del New
Jersey, stato democratico, sta dando indicazioni di come i democratici stiano
in parte modificando le loro posizioni sull’immigrazione.
Se
anche nel” liberal New Jersey” i democratici in corsa per la carica di
governatore prendono le distanze dalla tradizionale linea progressista
sull’immigrazione, il sentimento che il vento stia cambiando c’è.
Alcuni
candidati si sono avvicinati alla retorica dura di Donald Trump, accettando in
parte la sua impostazione securitaria.
Altri,
forse consapevoli del rischio politico, hanno preferito spostare l’attenzione
su economia e costo della vita, evitando il tema dell’immigrazione quasi fosse
un campo minato.
Ma il
vero test sarà l’esito delle elezioni del New Jersey.
Se in
uno stato storicamente democratico come il New Jersey prevarrà la linea dura,
il messaggio per il partito sarà chiaro:
l’approccio tradizionale non basta più.
I
democratici che correranno in altri stati, soprattutto in quelli in bilico,
dovranno rivedere le proprie strategie per non rischiare di perdere il contatto
con il loro stesso elettorato.
Stessa
piega stanno prendendo le cose in California dove la parola “sanctuary” è
sparita dal vocabolario del governatore democratico “Gavin Newsom”.
Durante
il primo mandato di Trump, il governatore della California l’aveva evocata
spesso, facendone quasi un baluardo politico contro le politiche migratorie
dell’amministrazione repubblicana.
Oggi,
con Trump di nuovo alla Casa Bianca e più determinato che mai a portare avanti
la più grande operazione di espulsione nella storia americana, il tono è
cambiato.
“Newsom
“ha già posto il veto su leggi che avrebbero ampliato le protezioni per gli
immigrati irregolari in custodia statale e ha promesso di farlo ancora.
Non è
il solo:
molti
Democratici californiani stanno adottando una strategia più prudente, cercando
di difendere le tutele esistenti senza allargarle ulteriormente, soprattutto a
chi si trova in carcere.
Il motivo è chiaro:
lo scontro con l’amministrazione Trump
potrebbe diventare più costoso che in passato.
Trump
ha minacciato di tagliare i fondi federali alle città e agli stati che
rifiutano di collaborare con le autorità dell’immigrazione e ha persino
ventilato l’idea di perseguire penalmente i funzionari locali che si oppongono
alle deportazioni.
E la
California, reduce dai devastanti incendi di gennaio, dipende più che mai dagli
aiuti federali per la ricostruzione.
Segnale
di una svolta o solo di realismo politico?
In
ogni caso in California si stanno sperimentando tentativi di riavvicinamento
alla piattaforma repubblicana non solo sull’immigrazione ma anche sulla pelle
della comuntià LGBTQ+.
Da
quando è tornato alla Casa Bianca, Trump ha infatti firmato una serie di ordini
esecutivi che prendono di mira esplicitamente le persone transgender.
Tra
questi, uno che nega del tutto l’esistenza delle identità trans.
Altri
provvedimenti, già in fase di attuazione da parte delle agenzie federali,
mirano a impedire alle persone transgender di servire apertamente nelle forze
armate, escludere le atlete trans dalle competizioni femminili, limitare
l’accesso a documenti d’identità corretti e ridurre drasticamente i
finanziamenti federali per l’assistenza sanitaria di affermazione di genere
destinata ai giovani.
Il
dibattito sulla partecipazione delle atlete transgender nelle competizioni
femminili ha visto emergere anche divisioni all’interno del Partito
Democratico.
I deputati democratici “Tom Suozzi” di New
York e “Seth Moulton” del Massachusetts si sono smarcati dalla linea
tradizionale favorevole del partito, dichiarando al New York Times che le
atlete transgender non dovrebbero gareggiare in squadre femminili.
A gennaio, i rappresentanti texani” Vicente
Gonzalez” e “Henry Cuellar” sono stati gli unici democratici ad affiancare i
repubblicani nel votare a favore di una legge per escludere le atlete
transgender dallo sport femminile a livello scolastico e universitario.
Come
per l’immigrazione e le politiche commerciali, queste prese di posizione
politiche sembrano riflettere un sentimento diffuso tra l’opinione pubblica
americana.
Secondo un sondaggio New York Times/Ipsos
condotto a febbraio, il 79% degli americani ritiene che le persone transgender
non dovrebbero partecipare alle competizioni sportive femminili.
Un’altra indagine del” Pew Research Center” ha
evidenziato come l’opinione pubblica statunitense sia diventata
progressivamente più favorevole a politiche restrittive sui diritti trans.
E il
tema continua a catalizzare il dibattito pubblico: nel primo episodio del suo
podcast, proprio “Gavin Newsom”—considerato un probabile candidato alla
nomination democratica per le presidenziali del 2028—ha sorpreso molti
dichiarando di essere d’accordo con il commentatore ultraconservatore Charlie
Kirk nel ritenere “profondamente ingiusta” la presenza di atlete trans nelle
competizioni femminili.
Dietro
le quinte, alcuni democratici condividono le perplessità di “Newsom”, mentre
altri insistono sulla necessità di difendere le persone transgender e le altre
comunità prese di mira dalle nuove politiche dell’amministrazione Trump.
Ma il
governatore californiano non si è fermato allo sport.
Nel
corso del podcast, ha criticato anche l’abitudine di alcuni esponenti
democratici di presentarsi specificando i propri pronomi.
“Una
volta ero a una riunione e la gente ha iniziato a presentarsi con i propri
pronomi”, ha raccontato.
“Mi
sono chiesto: ‘Ma davvero?
Perché mai questa dovrebbe essere la questione
più importante?’”.
Le
tensioni su questi temi non riguardano solo “Newsom”.
“Rahm
Emanuel”, ex sindaco di Chicago e ambasciatore statunitense in Giappone—che
alcuni vedono come un altro possibile candidato alla Casa Bianca nel 2028—ha
espresso un’opinione simile, dicendo ad “Axios”:
“Ci
sono ragazzi in classe che discutono su quali pronomi usare, mentre il resto
della classe non sa nemmeno cosa sia un pronome.
Questa
è una crisi”.
Persino
Pete Buttigieg, ex segretario ai Trasporti e possibile candidato alle
presidenziali del 2028, sembra aver preso le distanze da certe battaglie
culturali.
Di recente, ha rimosso i suoi pronomi dal
profilo su X, come riportato da “Axios”.
L’onda
lunga di questo dibattito sta spaccando il Partito Democratico su più fronti,
incluse le politiche di Diversità, Equità e Inclusione (DEI) e il modo in cui
si affrontano i temi legati alla razza.
Il deputato
“Adam Smith”, membro di spicco della Commissione Forze Armate della Camera, ha
dichiarato a “The New Yorker” che alcuni “programmi DEI” “sbandano
pericolosamente quando suggeriscono che razzismo, bigottismo e colonialismo
siano prerogative uniche dei bianchi…
Non è
necessario implicare che tutti i bianchi siano razzisti o oppressori”.
Anche “Newsom”
ha messo in chiaro la sua posizione su certi linguaggi inclusivi, dichiarando a
Kirk: “Nel mio ufficio, nessuno ha mai usato la parola ‘Latinx’”.
Come
ricordato,” Newsom” per anni è stato uno dei più accesi oppositori democratici
di Donald Trump, costruendo la propria immagine di combattente progressista di
nuova generazione, capace di guidare il partito nell’era post-Biden. Negli
ultimi mesi, però, il suo atteggiamento nei confronti di Trump si è fatto
appunto più sfumato, mentre le sue critiche si sono rivolte sempre più spesso
ai Democratici e alla loro strategia.
Sono
in gioco infatti le ambizioni presidenziali per il 2028.
Tra i potenziali candidati, alcuni come “Newsom”
hanno optato per un approccio più moderato, nel suo caso compiendo un notevole
cambio di rotta nel tentativo di guadagnare credibilità presso elettori
indipendenti e conservatori.
Altri
esponenti del partito, al contrario, rimangono fermi nella convinzione che solo
un’opposizione intransigente possa efficacemente contrastare l’avanzata
dell’influenza trumpiana.
“Gretchen
Whitmer”, governatrice del Michigan, è tra coloro che vogliono dimostrare
pragmatismo.
Ha
mandato truppe della Guardia Nazionale al confine per contrastare
l’immigrazione irregolare e ha aperto alla possibilità di nuove tariffe per
proteggere l’industria americana.
Anche sulle politiche identitarie ha scelto
una linea più sfumata: si è rifiutata di unirsi a una causa legale contro il
tentativo di Trump di abolire la cittadinanza per nascita, nonostante il
coinvolgimento del suo procuratore generale.
Nel
suo discorso al “Detroit Auto Show,” ha ribadito una visione centrata sul
lavoro e sulla produzione americana.
Anche “Jared
Polis”, governatore del Colorado, sta cercando di posizionarsi come un leader
moderato.
Ha
parlato della necessità di un percorso verso la cittadinanza per alcuni
immigrati, ma allo stesso tempo ha sottolineato l’urgenza di un controllo più
severo del confine.
Ha
persino elogiato la nomina di “Robert F. Kennedy Jr.” a Segretario alla Salute,
una mossa che non è passata inosservata.
Dall’altro
lato, c’è chi non ha alcuna intenzione di cercare compromessi con Trump. “JB
Pritzker”, governatore dell’Illinois, ha addirittura evocato la Germania degli
anni Trenta per descrivere il momento politico attuale:
“Il seme che ha portato alla dittatura in
Europa non è germogliato in una notte. È iniziato con persone comuni,
arrabbiate per l’inflazione e alla ricerca di qualcuno da incolpare.”
Poi
c’è chi sta scegliendo un approccio più attendista. “Josh Shapiro”, governatore
della Pennsylvania, “Wes Moore”, governatore del Maryland, e “Andy Beshear”,
governatore del Kentucky stanno osservando la situazione con cautela,
scegliendo le loro battaglie con attenzione.
Criticano
Trump su alcuni punti, ma non si lanciano in una guerra aperta.
Qualunque
sia l’esito del dibattito interno tra i Democratici, l’impatto di Trump e del
trumpismo sembra non solo sconvolgere il Partito Repubblicano, ma minacciare
anche il Partito Democratico, rischiando di trasformarlo profondamente rispetto
a come lo abbiamo conosciuto in questa fase storica.
Sulla
manifestazione del 15 marzo.
Il
manifesto di Ventotene, contro
il pluralismo
e la democrazia.
Fondazionehume.it
– (21 Marzo 2025) - Luca Ricolfi – ci dice:
Di una
cosa sono certo: la maggior parte di coloro che parlano del Manifesto di
Ventotene non l’hanno letto.
Lo
dico a loro discolpa, perché se – anziché lodarlo acriticamente – l’avessero
letto con la dovuta attenzione sarebbero da tempo impegnati in un difficile
lavoro di reinterpretazione o, come si dice oggi, di “contestualizzazione”.
In
breve: si sforzerebbero di dimostrare che, nonostante le cose inquietanti che
il manifesto indubbiamente dice, possiamo condividerne lo spirito, le finalità,
le buone intenzioni (lo Stato federale europeo), e scordarci sia i fini
concreti proclamati in quel manifesto sia i metodi invocati per imporre quei
fini.
E,
venendo alla manifestazione di sabato scorso, anziché far circolare il sacro
libretto preceduto da un’introduzione del tutto acritica, avrebbero avvertito i
convenuti che – per non essere presi in castagna, come Giorgia Meloni ha
provveduto a fare ieri – sarebbe stato bene non prendere troppo sul serio quel
manifesto, in quanto molto datato e scritto in condizioni di isolamento.
Io
invece lascio volentieri l’opera di contestualizzazione, depurazione, rilettura
del Manifesto e vado dritto ai fini e ai mezzi esplicitamente dichiarati,
perché prima di rileggere occorre leggere.
Ebbene,
sui fini, il Manifesto dice chiaramente che l’assetto sociale da promuovere è
di tipo socialista (anche se non comunista), con ampi espropri e severe
limitazioni alla proprietà privata.
Nessuna considerazione riceve l’eventualità
che l’assetto possa essere liberale, o non socialista.
Quanto
ai mezzi, il Manifesto immagina che il nuovo assetto possa essere instaurato
attraverso la “dittatura del partito rivoluzionario”, che imporrà la sua
volontà alle masse, ancora incapaci di riconoscere i propri interessi, semplice
“materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di
accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti”.
In una
situazione di “ancora inesistente volontà popolare” il partito rivoluzionario,
guidato da una élite illuminata, “attinge la visione e la sicurezza di quel che
va fatto” non già dal consenso popolare ma “dalla coscienza di rappresentare le
esigenze profonde della società moderna”.
E non
è tutto.
Chi avesse dei dubbi sulla visione politica
del Manifesto dovrebbe riflettere sulle parole, sprezzanti e beffarde, rivolte
ai “democratici”, ovvero a quanti pensano che il potere del governo debba
poggiare su libere elezioni.
I
democratici sono gente che sogna “un’assemblea costituente, eletta col più
esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la
quale decida che costituzione debba darsi”.
Illusi, che non comprendono che nella crisi
rivoluzionaria “la metodologia politica democratica sarà un peso morto”.
Pavidi,
che sono disposti a usare la violenza “solo quando la maggioranza sia convinta
della sua indispensabilità”.
Insomma,
spiace dirlo ma il “Manifesto di Ventotene” è il più esplicito e conturbante
ripudio del pluralismo, la più clamorosa deviazione dal percorso democratico e
costituzionale (libere elezioni + Assemblea Costituente) che, molto
saggiamente, l’Italia seguirà dopo la fine della seconda guerra mondale.
Possiamo
almeno dire che una cosa buona – l’idea degli Stati Uniti d’Europa – il
Manifesto di Ventotene l’ha partorita?
Per
certi versi sì, perché effettivamente è nel Manifesto del 1941 che per la prima
volta viene compiutamente formulata quell’idea.
Ma per
certi versi invece no, perché il modo di formularla fu elitario, giacobino e
anti-democratico.
Da
questo punto di vista, forse, anziché ripetere meccanicamente che il
meraviglioso ideale di Ventotene è stato tradito dalle classi dirigenti che ci
hanno condotti all’Europa attuale, forse dovremmo domandarci se il progetto
europeo non è fallito proprio perché a quell’ideale si è conformato fin troppo.
L’Europa di oggi, governata da una élite burocratica e autoreferenziale, soffre
del medesimo male – la costruzione dall’alto, senza coinvolgimento popolare –
che affligge il Manifesto di Ventotene.
Si può
essere euro-scettici o europeisti convinti, ma chi davvero sogna gli Stati
Uniti d’Europa, se crede nel metodo democratico non può prendere a modello il
Manifesto di Ventotene.
Idolatrare
quel modello è stata un’ingenuità, dettata dall’ideologia e dalla scarsa
conoscenza.
Possiamo fare molto di meglio, e dobbiamo
provarci senza rinunciare al pluralismo e alla democrazia.
[articolo
uscito sul Messaggero il 20 marzo 2025].
L’Europa
della falsa
democrazia:
quando
il potere
è senza Popolo.
Domenicoderosa.eu
– (14-2-2025) - Intervista a Domenico De Rosa, CEO del Gruppo Smet- ci dice:
Dottor
De Rosa, lei ha spesso espresso forti critiche verso l’Unione Europea e la sua
struttura di potere. Può spiegare il suo punto di vista?
L’Unione
Europea di oggi è l’emblema di una degenerazione tecnocratica che ha
completamente svuotato di significato il concetto stesso di democrazia.
Ursula
von der Leyen rappresenta perfettamente questo sistema:
una
figura imposta dall’alto, senza alcuna legittimazione popolare, scelta
attraverso giochi di potere burocratici e spartizioni tra élite politiche che
ignorano la volontà dei cittadini europei.
Se si
tenesse oggi una votazione di gradimento sulla sua leadership, credo che
difficilmente supererebbe il 5%, forse persino meno.
Eppure, grazie a regole opache e antidemocratiche,
questa persona guida la Commissione Europea e definisce la politica di 450
milioni di cittadini senza che nessuno l’abbia mai realmente scelta.
In che
modo questo sistema danneggia l’Europa e i suoi cittadini?
Il
problema è che il potere è concentrato nelle mani di una classe dirigente
scollegata dalla realtà, che non deve rispondere ai cittadini, ma solo ai
giochi di equilibri interni di Bruxelles.
Von der Leyen non ha mai dovuto affrontare un
vero dibattito pubblico, non ha mai dovuto conquistare il consenso con idee
innovative o con un’autentica leadership.
È semplicemente emersa come figura di
compromesso tra il Partito Popolare Europeo e Angela Merkel, che l’ha imposta
nonostante i fallimenti della sua gestione come ministro della Difesa in
Germania.
Il
risultato è una tecnocrazia autoreferenziale che impone regolamenti soffocanti,
decisioni economiche devastanti e strategie geopolitiche suicide, senza mai
doversi confrontare con il dissenso popolare.
Oggi
l’Europa è sempre meno competitiva, paralizzata da una burocrazia asfissiante e
da un’ideologia che soffoca l’iniziativa privata, il dinamismo industriale e la
capacità di adattarsi a un mondo in continua evoluzione.
Ma la
Commissione Europea non è comunque espressione del Parlamento Europeo, che è
eletto dai cittadini?
Questa
è la grande illusione che viene venduta ai cittadini.
La
realtà è che il Parlamento Europeo non ha un vero potere di iniziativa
legislativa e che le decisioni più importanti vengono prese da organismi non
eletti direttamente dal popolo.
Se un
capo di governo nazionale avesse un consenso inferiore al 5%, sarebbe costretto
a dimettersi o sarebbe spazzato via alle elezioni successive.
Ma nell’UE, dove il voto popolare è stato
sterilizzato, un leader impopolare può restare al comando senza dover rendere
conto a nessuno.
Quali
sono, secondo lei, gli effetti più dannosi di questa struttura di potere?
Prendiamo
ad esempio il” Green Deal”, una strategia che sta letteralmente
autodistruggendo il nostro sistema produttivo senza che nessuno abbia avuto
voce in capitolo.
Il
problema non è solo che queste politiche sono sbagliate – e lo sono – ma che i
cittadini europei non hanno alcun potere reale di fermarle.
Ci troviamo di fronte a un sistema che si
auto-perpetua, privo di veri meccanismi di responsabilizzazione.
Quindi,
secondo lei, l’Europa è destinata al declino?
Se non
si interverrà per scardinare questo sistema, il declino è inevitabile.
L’Europa
ha bisogno di una vera democrazia, in cui il potere sia nelle mani del popolo e
non di una tecnocrazia che decide senza alcun mandato popolare.
Solo restituendo ai cittadini il potere di
scegliere il proprio destino si potrà invertire questa tendenza
autodistruttiva.
Finché
questo non accadrà, continueremo a essere governati da una macchina burocratica
che ignora la volontà delle persone e soffoca il futuro dell’Europa.
Neo-plebe,
classe creativa,
élite:
la nuova Italia.
Perunaltracitta.org - Redazione – (9 Gennaio
2023) – ci dice:
Pubblichiamo,
con il gentile permesso della casa editrice, questo brano dove i due autori
teorizzano una partizione sociale che possa sostituire alcune categorie che non
sono più attuali.
Questa una breve sinossi:
Tramontate
le società nazionali, si sono create delle nuove faglie. Al posto delle classi,
dei ceti, dei gruppi, si è costituita una nuova triade sociale.
L’élite
(sempre più in declino), una classe creativa in crescita e una estesa neo-plebe
molto eterogenea, formata dagli strati sociali più deboli che stanno scivolando
in basso e sono a permanente rischio di secessione.
L’attuale
configurazione globale delle società ha portato a trasformazioni sociali
inattese.
Ormai
tramontate le società nazionali, si sono create nuove linee di frattura:
inclusi/esclusi, cosmopoliti/locali, concentrati/estesi.
Si è
formata così una nuova triade sociale da analizzare dal punto di vista
qualitativo e quantitativo.
In
questo libro viene misurata con dati sia nazionali che disaggregati localmente,
tra Nord, Centro e Sud, tra regioni, province e città.
Il quadro proposto raffigura l’Italia tra il
2008 e il 2020, ma ha una proiezione europea e mondiale.
Ciò
che scopriamo è che in Italia l’élite è diminuita in quantità e qualità, la
neo-plebe è cresciuta fino a rappresentare la maggioranza della popolazione,
mentre la classe creativa è in costante aumento e potrebbe rappresentare la
nuova classe dirigente, per ora senza potere.
Dati che ci interrogano su questioni
attualissime:
quale
mondo ci troveremo a gestire così polarizzato tra poche grandi concentrazioni
metropolitane e immense aree di sfruttamento estensivo?
Quali conseguenze sociali e politiche avranno le
dinamiche tra una élite in storico declino, una massa priva di sapere e dei
saperi senza potere?
(Paolo
Perulli – Luciano Vettoretto, Neo-plebe, classe creativa, élite, Laterza, Bari
– Roma 2022, pp. 208).
E
questo il brano (pp.3-27.).
1. La triade sociale.
1. Un
quadro inedito.
La
società italiana, come del resto quella europea e occidentale, è cambiata
profondamente negli ultimi decenni senza che l’immagine che abbiamo di essa sia
stata aggiornata in modo significativo.
Eppure, la distanza tra la situazione di oggi
e quella degli anni ’80 è impressionante.
I
lavori di Paolo Sylos Labini (1976, 1985) ne sono il migliore documento.
Il grande economista, che nel 2003 previde la
crisi finanziaria del 2007-2008 e per primo mostrò la gravità della crescita
del debito, compì negli anni ’70 e ’80 la migliore analisi delle classi sociali
in Italia.
La
borghesia imprenditoriale appariva in lieve crescita, passando dal 2% del 1951
al 3% del 1983.
Esplosiva
risultava essere la crescita delle classi medie urbane che, nel trentennio
postbellico, passavano dal 29% al 48%.
La
classe operaia era stabile, passando nello stesso periodo dal 41% al 43%, mentre i coltivatori diretti
crollavano dal 28% al 6%.
Secondo
Sylos Labini questa forma della società industriale rifletteva cinque robuste
tendenze:
– la
riduzione del divario tra stipendi e salari (egualitarismo);
–
l’erosione dei profitti delle grandi imprese (perdita di competitività);
- la
flessione dell’orario di lavoro (aumento della produttività);
– la
partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese;
– la
crescita dell’intervento pubblico nell’economia.
La sua
previsione era che la società evolvesse verso una grande classe media
articolata in tre strati di piccola borghesia, composita ma robusta, con gruppi
emergenti:
intellettuali
e scienziati, tecnici e specialisti e quegli “intellettuali di tipo nuovo” di
cui parla Antonio Gramsci (1966) con cui la classe operaia avrebbe dovuto
tendere ad allearsi.
Se
misuriamo queste tendenze con l’oggi, scopriamo che si sono completamente
invertite.
Le
grandi imprese hanno aumentato i profitti oligopolistici, a partire da quelle
del web.
La
divaricazione tra quota dei profitti e quota del lavoro a favore dei primi è
diventata esplosiva.
I dati
su reddito e ricchezza mostrano l’accrescersi della dicotomia tra strato ricco
(1%) e strati poveri.
L’orario di lavoro è aumentato in ragione
della crescita di forme di lavoro autonomo e flessibile che prolungano il tempo
di lavoro sul tempo di vita.
Le
forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa si sono
interrotte.
L’intervento
pubblico nell’economia è regredito lasciando il campo a estese privatizzazioni,
almeno a partire dagli anni ’90.
La
dicotomia garantiti/non garantiti è diventata insufficiente a censire le
posizioni deboli presenti in tutti gli strati sociali intermedi e inferiori.
Il
quadro generale riflette uno scivolamento verso il basso – riduzione media di
reddito e ricchezza delle famiglie, nuovi poveri specie di età giovane, aumento
record di giovani che non lavorano né studiano, i Neet , mentre la ricchezza si concentra
verso l’alto della scala sociale.
Nonostante
questo quadro mutato, usiamo tuttora categorie come imprenditori e dirigenti
per qualificare l’élite economica, parliamo di classe politica per lo strato di
governo, e poi di ceti medi, di classe operaia, pur verificando che tali classi
e ceti si sono sfaldati in modo irreversibile.
La
loro rappresentazione sfocata va di pari passo con la loro mancanza di
rappresentanza.
Dunque,
se vogliamo mettere a fuoco il volto della società attuale è necessario
aggiornare il lessico.
Ci ha
provato di recente Luca Ricolfi (2019) introducendo la categoria “società
signorile di massa”.
Una categoria che coglie alcuni tratti di un
fenomeno interessante.
Individua
correttamente una crescita della rendita parassitaria e del consumo vistoso.
Tuttavia,
non convince appieno poiché attribuisce il signoraggio a una categoria sociale
spuria: una
generazione che vive consumando la ricchezza di quella precedente.
Di certo, però, contribuisce a spiegare sia
l’ascesa sia la caduta della classe media. Ascesa, quando essa insegue la
propria promozione sociale mediante il lavoro e l’impresa, cui si aggiungono le
rendite rese possibili dal risparmio e dagli investimenti in titoli pubblici,
che fino all’introduzione dell’euro sono stati la via dell’alimentazione della
classe media.
Caduta,
quando essa resta vittima della finanziarizzazione e subisce in prima persona
gli effetti della crisi del debito.
Sappiamo
quanto le crisi bancarie hanno impoverito ceti medi e perfino operai e sono di
palmare evidenza gli effetti della crisi del debito che ha prodotto la
riduzione dei servizi pubblici – istruzione dei figli, sanità e assistenza
degli anziani – cui si cerca di far fronte con un keynesismo privato,
economicamente rovinoso.
In
realtà non è corretto considerare la classe media il baricentro della società,
cosa che abbiamo continuato a fare tanto durante la sua lunga ascesa quanto nel
suo attuale declassamento.
Il
quadro sociale è assai più complesso e composito, come vedremo nel dettaglio
nelle pagine che seguiranno.
Quello
che possiamo affermare fin da subito è che difettiamo di un’analisi a tutto
tondo dei nuovi strati che consideri insieme gli aspetti acquisitivi e
remunerativi di successo o di declino e il sistema di credenze e valori che
sempre accompagnano il loro emergere o precipitare.
Vale, intanto, per la crisi dell’élite.
Abbisogna
di una comprensione l’avvenuta caduta dello spirito del capitalismo, della
weberiana razionalizzazione e sistemazione delle condotte di vita dei suoi
protagonisti imprenditoriali, delle loro qualità carismatiche.
Basta
tornare al decennio appena trascorso e valutare la crisi dell’élite economica e
politica espressa dalle crisi finanziarie e bancarie dopo il 2008.
In
questo contesto, l’élite – imprenditoriale e rentier – si è separata dalla
classe media, impoverita e impaurita, tornando a una condizione ottocentesca
con due zone sociali contrapposte:
la
città dei nobili e del potere da una parte e quella del commercio e del
guadagno a rischio dall’altra.
L’élite
ha, infatti, mantenuto il suo stile di vita, il suo privilegio immune alle
crisi ricorrenti, né ha ricostruito quel tessuto dell’etica professionale,
delle ‘buone opere’ che contribuiscono al benessere sociale e della fiducia
razionalmente controllata.
Ma
questo discorso non vale solo per l’élite, vale anche per gli altri strati.
La crisi della classe media che produce e risparmia è,
come vedremo, il frutto anche della caduta dello spirito di comunità della
borghesia cittadina proprio di una fase di urbanizzazione anomica, estensiva e
caotica.
Allo
stesso modo, l’espansione recente dello strato che denomineremo ‘neo-plebe’ è
il frutto anche della delusione degli strati declassati nei confronti di una
escatologia e di una fede collettiva in un riscatto sociale cui aspirare.
Sono
nuove forme della distinzione sociale, quell’habitus che riveste gli
appartenenti ai diversi strati e li differenzia l’uno dall’altro e che, per
essere comprese, richiedono di un lavoro di scavo à la “Pierre Bourdieu “(ma
prima ancora à la Balzac!).
Ancora
non disponiamo di buone analisi sul rapporto conflittuale tra i valori e le
visioni del mondo dei diversi strati o sul riflesso di quanto accade nel mondo
sulla coscienza degli attori sociali.
Eppure, l’analisi conflittuale era alla base della
sociologia weberiana e simmeliana, per non dire di quella marxiana, tutte in
‘divergente accordo’.
Il
linguaggio degli interessi di ciascun gruppo o strato era ancorato alla
rispettiva Weltanschauung, al proprio punto di vista sul mondo.
L’egemonia
neoliberale ha rimosso le tracce di tutto questo perché crede che tutti
assumano il medesimo punto di vista concorrenziale e agonista:
il
linguaggio della solidarietà e della coesione, il conflitto produttivo tra
agire economico e agire politico, la natura istituente delle diverse azioni
sociali sono tutte questioni stralciate e negate dal pensiero unico dominante.
Inutile
dire che andrebbe invece ricostruito un pluralismo conflittuale in seno alla
società.
Un
pluralismo conflittuale che tenga conto degli interessi di preda di certi
gruppi, della rivendicazione di riforme sociali, dell’interesse comune, così
come è sempre stato fatto dai classici per le società a noi precedenti.
2.
Élite, classe creativa e neo-plebe.
Quale
composizione sociale mostra, dunque, la società italiana attuale secondo la
nostra analisi?
Anzitutto
diciamo quale fonte abbiamo utilizzato per arrivare a tale nuova configurazione
sociale.
La
nostra analisi si basa sulla rilevazione dell’archivio “micro.STAT” operata
sulle forze lavoro e prende in considerazione il periodo 2008-2020 (dati trasversali
trimestrali-microdati ad uso pubblico storici secondo la definizione
dell’Istat).
Si
tratta di un’indagine campionaria con un grado elevato di numerosità.
Al
primo trimestre 2020, infatti, raccoglie più di 93.000 interviste, di cui più
di 23.000 ad occupati.
Partendo
dal primo trimestre del 2008, la nostra analisi fa riferimento a una situazione
pre-crisi finanziaria e arrivando fino al primo trimestre 2020 comprende la
situazione pre-crisi pandemica.
La
variabile principale utilizzata è la professione, disaggregata a livello di tre
digit, ovvero il massimo livello di disaggregazione possibile e affidabile.
Il
criterio è il livello di competenza, definito a partire dalla natura del lavoro
(manuale, intellettuale ecc.) e dal grado di conoscenza necessario per il suo
svolgimento, acquisita per via formale o tramite esperienza.
I
livelli di competenza sono quattro, gerarchicamente ordinati.
Il
primo è quello dei lavori di routine di natura manuale, svolti con mezzi di
produzione elementari, spesso legati alla fatica fisica.
L’ultimo
è quello delle professioni che sono chiamate alla soluzione di problemi o a
processi decisionali complessi tali da richiedere un esteso corpus di
conoscenze teoriche e pratiche.
Le conoscenze e le competenze
richieste sono di solito ottenute con un percorso di istruzione pari o
superiore alla laurea di secondo livello.
Tali
criteri permettono di distinguere la diversa intensità di conoscenza
incorporata in ciascuna professione, nonché i livelli di comando e controllo
che, in via generale, ciascuna professione esercita sulle altre.
Per questa via è possibile leggere le
professioni come una forma della relazione non solo economica, ma anche sociale.
Queste
relazioni sono specchio degli intrecci tra professioni e istituzioni,
funzionale in particolare per quelle legate alla formazione o all’ingresso
formale in domini specifici (ordini professionali, impiego pubblico).
Le professioni sono ordinate secondo livelli crescenti
di disaggregazione.
Il
livello che usiamo nella nostra analisi utilizza 129 classi professionali che
aggreghiamo in tre strati principali: élite, classe creativa, neo-plebe.
Il
primo strato è quello delle élites del potere politico, economico-finanziario e
burocratico.
Rientrano
in questo strato le classi occupazionali legate ai più elevati livelli
decisionali (guida, comando, controllo) nelle sfere del governo,
dell’amministrazione pubblica e dei servizi di welfare, della magistratura,
delle organizzazioni di interessi (partiti, sindacati ecc.), degli imprenditori
e amministratori di grandi aziende, dei direttori e dirigenti generali e
dipartimentali di aziende.
Lo
strato delle élites è completato da un sub-strato di occupazioni di controllo e
comando locale dei processi di management e direzione, che definiamo ‘strato di
servizio’ alle élites.
Si
tratta dell’insieme delle classi occupazionali che esercitano la razionalità
tecnica, con un livello significativo di competenze e supervisione/controllo
del lavoro esecutivo nelle diverse sfere economiche e scientifiche:
sono,
appunto, i tecnici (della gestione dei processi produttivi di beni e servizi,
delle attività finanziarie e assicurative, dei rapporti coi mercati, della
distribuzione commerciale ecc.).
Un
segmento spurio, ma di prevalente razionalità tecnica, non creativa, funzionale
al controllo e comando delle élites.
Questa
nostra idea di uno strato del potere e di un sub-strato funzionale ad esso
riprende e modifica l’impostazione classica di “Gaetano Mosca” (1994), che definisce la classe politica
dirigente della società e sotto di essa uno strato di servizio funzionale.
Il
secondo strato, la classe creativa (usiamo qui il termine classe in senso più ampio
introducendo principi diversi dalla posizione economica, e soprattutto quello
di ‘capitale culturale’), comprende le classi occupazionali tipiche dell’economia della
conoscenza, la knowledge economy orientata alla progettazione, invenzione o
ampliamento delle conoscenze negli ambiti della produzione scientifica, tecnica
e culturale che richiedono elevati livelli di competenze.
Questo
strato include specialisti delle scienze ‘dure’, economisti e specialisti di
management e finanza, scienziati sociali e delle discipline
storico-umanistiche, medici, architetti e ingegneri, le occupazioni a maggior
qualificazione nella sfera artistica, culturale e del leisure, e il nuovo
segmento dei professionisti indipendenti, gli “independent professionals” e i”
freelancers” ad alto contenuto di conoscenza.
A
questo strato si è scelto di aggiungere gli imprenditori di aziende di piccola
dimensione nei settori economici knowledge intensive e ad alto valore aggiunto
(chimica, farmaceutica, fabbricazione di computer, biomedicale e altri prodotti
elettronici, autoveicoli, meccanica di precisione, attività editoriali e di
informazione, telecomunicazioni, ricerca e sviluppo, marketing).
Questo
segmento sta pienamente dentro la “knowledge economy”, e per questa via
esercita impatti rilevanti sul sistema socio-economico nel suo insieme e
risulta in genere associato a stili di management e produzione (forse anche a
stili di vita) molto vicini a quelli delle attività creative.
Anche
la classe creativa ha un suo segmento di servizio:
come
per le élites, si tratta di figure di supporto, di razionalità tecnica
applicata alle sfere più propriamente scientifiche e culturali, che richiedono
capitale culturale istituzionalizzato ed esperienza.
La
principale di esse è la figura degli insegnanti, che alimentano l’istruzione e
la formazione: in qualche modo forniscono la materia prima della classe
creativa.
Il
terzo strato, la neo-plebe, è una galassia che comprende:
i vecchi ceti medi, la “new and old petty
bourgeoisie,” la nuova classe operaia legata ai processi di digitalizzazione e
automazione, l’ormai ridotto segmento degli imprenditori della piccola impresa
tradizionale, i mestieri tradizionali, il ceto impiegatizio a modesta
qualificazione e le ‘burocrazie di strada’, il proletariato dei servizi (e, in
misura minore, i salariati agricoli e le mansioni non qualificate nel
manifatturiero).
Insieme lavoro dipendente e indipendente, manuale e
non manuale, protetto e non protetto (soprattutto in relazione alle sfere del
pubblico e del privato), occupazioni tradizionalmente maschili o femminili
investite, nel corso del tempo, da incertezza, insicurezza, impatti della
digitalizzazione, effetti delle migrazioni, declino del prestigio sociale e
dell’identità di classe o ceto.
All’interno
di questa galassia molto eterogenea si rintracciano gradi diversi di
esposizione.
Massimamente
esposti sono gli occupati nei mestieri e produzioni tradizionali, laddove le
loro credenziali educative, esperienze, capitale relazionale e propensione al
rischio non li mettono nelle condizioni di connettersi alle nuove domande di
consumo (come invece avviene per i ‘nuovi contadini’ o i produttori di beni
singolari e/o di lusso).
Molto esposte sono le mansioni specifiche del
ceto impiegatizio ormai rese obsolete dalla digitalizzazione.
Così come in crescita è un proletariato dei
servizi sul crinale tra lavoro regolare e irregolare, stabilità e precarietà,
sussistenza e povertà, classe e underclass.
In definitiva, sono i “servants” degli strati del
potere economico, burocratico o dei creativi, e persino degli strati a
medio-basso reddito, in forma di supporto domestico e di cura degli anziani.
Di
questa galassia è parte, infine, il lavoro operaio.
Sono i
conduttori e operatori di impianti e macchine, da quelli più tradizionali e in
crisi (costruzioni, agricoltura) a quelli investiti dall’innovazione
tecnologica: digitalizzazione, automazione, robotizzazione.
Un
segmento che appare problematico, con modeste capacità di adattamento ai
processi socio-economici contemporanei e tuttavia – in particolare nel segmento
operaio dell’innovazione tecnologica – non privo della possibilità di stabilire
una relazione politico-sociale non subalterna in una coalizione di interessi o
in alleanza con la classe creativa nel contesto delle trasformazioni della
knowledge economy.
Questa
la fisionomia generale dei tre strati.
La
domanda da porci ora è come si trasmette e, prima ancora, come si forma, come
muta nel tempo la visione del mondo di un’élite, di una classe creativa
intermedia, di una classe non privilegiata, se non ai margini?
È il
tema classico della sociologia, eppure disatteso e abbandonato perché sommerso
da un infinito, inutile e dannoso predominio dei media che costruiscono
stereotipi più che pensiero critico.
Proviamo
ad approfondire la questione, analizzando, più in dettaglio, la natura, la
storia e la composizione di ciascuno strato.
2.1.
Élite.
Contare,
contarsi, annettersi sono per “Bourdieu” (1988) le caratteristiche dell’élite,
la sua ricerca di distinzione e il suo habitus, che si interiorizza e insieme
si indossa come una divisa.
Sapere di essere al proprio posto, con le
proprie iniziali sulla biancheria esteriore e su quella interiore della
coscienza, è nelle parole ironiche di “Robert Musil” (1974) l’attributo della
classe superiore.
Inoltre,
essa possiede un senso del piazzamento, cioè sa porsi, se necessario, al centro
della scena pubblica con ogni mezzo.
Ma sa,
in virtù di quel tratto di riserbo e a volte di segretezza che caratterizza da
sempre i detentori del potere, anche ritrarsi e velare la propria influenza e
le proprie relazioni.
Le
reti di cui fa parte sono professionali, lobbistiche, finanziarie, sportive.
Sono
la connessione e le conoscenze dirette, capillari, di ambienti economici e
politici privilegiati a fare la differenza: non tanto la competenza, ma
l’appartenenza, l’essere connessi a un sistema inter organizzativo di potere e
‘sentire’ di farne parte (Pizzorno 1970).
Le
società di consulenza, come ad esempio McKinsey & Company, sono l’officina
delle élites.
Da lì
provengono i dirigenti delle banche, delle compagnie di assicurazione, delle
imprese e dei ministeri, coloro che hanno sostenuto senza particolari scrupoli
la globalizzazione, certi di trarne vantaggio.
L’élite
è sostenuta da ricche famiglie iperprotettive, da una competizione basata
sull’accesso a strumenti di potere.
L’élite
crede e si riproduce in miti, fedi, network, autorappresentazioni.
La sua
nuova etica è meritocratica.
Il merito è uno dei miti, il più diffuso,
dell’élite, pur essendo il meno verificabile.
Lo
spiega bene “Michael Sandel” nel suo libro “The Tyranny of Merit” (2020):
entrare alla Bocconi o a Sciences Po, o acquisire un Mba a Londra o a Boston è
fatto legato al denaro più che al merito.
Ciò nonostante è la via maestra per far
avanzare un’élite tanto nelle democrazie liberali quanto nelle autocrazie
illiberali.
L’autorappresentazione
delle élites è affidata a modelli culturali e forme di consumo, insieme
‘vistoso’ e fonte di arricchimento esclusivo (Boltanski, Esquerre 2019).
Come risultava già dalle analisi di “Thorstein
Veblen”, un marchio dell’élite è, infatti, il consumo a cui ne è strettamente
connesso un altro:
il
solido senso di sicurezza derivante dall’abitudine a dirigere una grande
azienda e a disporre di ingenti risorse finanziarie.
A
volgere lo sguardo indietro alla storia, si potrebbe sostenere che
l’autocoscienza e il progresso hanno fatto parte del bagaglio occidentale e
ideologico dell’élite.
In questa direzione ha giocato un ruolo
essenziale il rapporto tra élites e chierici, i detentori del sapere e – spesso
– sapienti interessati.
Nella
città occidentale del Medioevo il mestiere dell’intellettuale produceva
corporazioni al pari di altre attività economiche, sciogliendo il legame con le
scuole cattedrali e con le sfere religiose.
Nell’Ottocento
le classi della conoscenza prodotta per via accademica divennero anche un
segmento di funzionari pubblici.
Il
nesso tra credenziali educative e formazione delle élites viene rafforzato in
Francia e in Germania dove, a inizio secolo, si afferma l’università
humboldtiana, come formazione delle classi dirigenti tratte da tutti gli strati
sociali (Cassese 1990).
Questa
autonomia delle istituzioni formative nello sviluppo politico europeo si
declina in modo ancora diverso nel Regno Unito, con la riforma di Oxford e
Cambridge a metà Ottocento, e negli Stati Uniti dove, negli stessi anni, si
afferma il modello del “land-grant college “da cui nascono le università
politecniche come il “Mit”, con finanziamento federale.
Così
trova spazio il modello dell’università privata:
per prima Harvard, nata per coltivare i ‘nuovi
mandarini’, quei” Boston Brahmins” che hanno dato presidenti, industriali e
governatori alla nazione.
Non
diversamente in Europa: il peso dell’impresa economica, finanziaria e globale,
nella gestione dei programmi formativi è sempre maggiore.
Ma
ormai l’élite è largamente inconsapevole di un tale retaggio illuminista e
borghese. In Italia, soprattutto.
Qui,
almeno dagli anni ’90 in poi, l’élite economica e quella politica si sono
identificate con una variante locale del populismo, che crede nel denaro e nel
privilegio come modello ostentato per mettere il popolo, la neo-plebe, in
condizione di servitù volontaria (Viroli 2010).
Nell’acquiescenza
di gran parte dell’élite politica, questo modello ha generato un ‘sistema di
corte’ i cui premi più diffusi sono il denaro e la cooptazione dei ‘cortigiani’
in incarichi ufficiali e istituzionali.
Per un ventennio abbiamo assistito alla
progressiva trasformazione dell’Italia in una grande corte (con una correzione
parziale a partire dal 2011 dovuta però più a fattori esogeni, quali gli
effetti della grave crisi finanziaria, che a virtù endogene).
Così,
nonostante la globalizzazione richieda alla politica e all’economia un
orizzonte per lo meno europeo e una relazione dinamica con altre élites, tra
tutte quelle orientali, noi viviamo la paradossale ripresa di un rapporto
padrone-servo che è premoderno e pre- borghese, portato di un modello di
populismo sovranista.
Del
resto, l’élite economica italiana appartiene a una storia minore, di ‘piccolo
capitalismo’.
Non
compare tra i super ricchi del Pianeta, il famoso 1%.
Su 100
super ricchi mondiali, 12 sono degli Stati Uniti, 9 della Svizzera e 9 di
Singapore, 7 di Lussemburgo e altrettanti del Canada, 6 sono del Giappone, 5
del Regno Unito, 3 della Francia e altrettanti della Norvegia, 2 di Taiwan,
Corea, Olanda, Irlanda, Germania, Cipro, 1 di Russia, Brasile, Sud Africa.
I
restanti Paesi non raggiungono il valore di 1.
A
spiegare la natura più introversa e a bassa crescita dell’élite economica
italiana è il capitalismo familiare, assai più forte in Italia che altrove.
Quello della famiglia è un valore
appariscente, a lungo indagato soprattutto dal Censis.
Famiglia
e borgo, radici locali e piccola scala sono stati esaltati o criticati, a
seconda dei punti di vista, come fattore chiave della crescita o della mancata
crescita italiana.
Giuseppe
Berta (2016) ha messo in evidenza che – tramontata la grande impresa dinastica
– il capitalismo italiano non può che essere di piccola dimensione, quella
studiata da Giorgio Fuà (1980) una generazione fa.
Si aggiunge a questo il fatto che non c’è un
ricambio della classe dirigente, la stessa da quarant’anni («Dialoghi
Internazionali» 6/2007), la quale blocca l’accesso ai media e alla visibilità
in generale dei talenti che lavorano a progetti innovativi di grande valore,
fungendo da grande cappa generazionale.
La
nostra élite è locale, radicata, tradizionalista, non aperta e cosmopolita come
accade in altri paesi.
Di certo c’è una buona mobilità
sovraregionale, soprattutto delle élites imprenditoriali.
Tuttavia, le élites imprenditoriali sono molto
più che altrove connesse a una località, anche nel caso di grandi imprese
multinazionali: Ferrero resta ad Alba in provincia di Cuneo, anche se la sua
sede finanziaria e logistica è da tempo in Lussemburgo; Del Vecchio resta nel
Bellunese, nonostante il suo impero sia mondializzato nella produzione,
distribuzione e finanziarizzazione.
Più
travagliato è il cammino della Fiat, poi Fca, poi Stellantis, verso un
orizzonte globalizzato.
Se
però prendiamo in considerazione le 3.500 medie imprese del Nord Italia,
scopriamo che sono chiari esempi di un ‘capitalismo di territorio’, anche
laddove hanno avviato la delocalizzazione delle produzioni in Asia o altrove.
Un
esempio tra tanti, la “Curti Industries”.
Azienda
ravennate di meccanica che opera dalla componentistica all’aerospazio, fondata
da un semplice dipendente, ora leader nel settore, che resta radicata a Castel
Bolognese per scelta e per cultura.
O Bonfiglioli, un gruppo familiare con
proiezioni globali, essendo il quinto player mondiale nel suo settore, attivo
nella meccatronica dei riduttori e ben radicato nella sua sede bolognese di
Lippo di Calderara di Reno, riprogettata secondo i dettami di industria 4.0.
Una
scelta di fedeltà che in parte si spiega con il fatto che il territorio in cui
queste imprese sono inserite è ricco di poli tecnologici, ricerca pubblica,
cultura tecnica, istituti professionali. In realtà, secondo Luciano Gallino
(1982), abbiamo a che fare con un’identificazione radicata in sottosistemi più
interni della personalità (etnica, regionale, religiosa) che massimizza il
successo riproduttivo bio-culturale dell’individuo, una identità più stabile di
quella – elusiva – che passa attraverso l’appartenenza a diverse associazioni.
C’è da
dire che l’élite economica italiana che è stata sin qui capace di coniugare
progettazione e produzione, disegno e manifattura, ha avuto un’impronta – per
così dire – più culturale rispetto ad altre élites nazionali.
Su
tutti vale l’esempio di Milano:
qui si
è formata una élite che ha fatto da ponte tra industria e classe creativa, e
non tanto grazie al Politecnico e alle altre Università che certamente hanno
dato un innegabile contributo, ma che sono istituzioni che esistono in ogni
grande città del mondo.
Il
quid in più cui abbiamo assistito nel dopoguerra (1950-1970) è stato l’incontro
tra imprenditore e artista.
Ci
riferiamo, ad esempio, all’incontro tra un imprenditore del design e della luce
come Ernesto Gismondi, fondatore di Artemide, e designer come Gio Ponti, Vico
Magistretti, Richard Sapper, persino il regista Luca Ronconi.
Non a
caso l’Encyclopedie definiva artisti “gli operai che eccellono in quelle arti
meccaniche che richiedono intelligenza” (Supiot 2020).
Un
ponte che si è interrotto, ma che andrebbe ricostruito, tanto più nell’epoca
dell’economia cognitiva guidata dal digitale.
La
domanda è:
può
l’attuale élite alzare lo sguardo oltre sé stessa?
Nutriamo
qualche dubbio al riguardo.
Le
recenti crisi finanziarie e quelle bancarie hanno evidenziato aspetti oscuri
dell’intreccio tra le élites economiche e le élites politiche.
Coloro
che siedono nei consigli di amministrazione delle banche e delle imprese sono
gli stessi che offrono al mondo politico servizi e ricevono consenso e potere
di influenza.
Persino
la filantropia dell’élite, da Bill Gates in giù, serve a influire sulla sfera
del potere e a ribadire la superiorità di una rete di interessi.
Mentre
un secolo fa il cosmopolitismo delle élites era circoscritto a un club
esclusivo di pochi, oggi una densa rete di società di consulenza, imprese
multinazionali, finanza e tecnologia avvolge il Pianeta e fa delle società
nazionali un ambito troppo ristretto per le élites stesse.
Esse
perdono il senso dello Stato in nome di credenze globaliste:
la
tecnologia, l’interconnessione, l’appartenenza a uno spazio cosmopolitico, la
città globale ecc.
Questo
serve a dirci che l’aristocrazia finanziaria ha preso possesso del mondo,
attraverso le banche internazionali, le multinazionali e le società di
consulenza – come sostenne per tempo Sylos Labini già negli anni ’70?
Sylos Labini ne elencava i settori e le aree:
speculazioni
edilizie, esportazioni di capitali, petrolio sono le aree del profitto
speculativo.
Per
Karl Marx, che ne scriveva nel 1848-1850, l’aristocrazia finanziaria non era
altro che la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società
borghese:
i suoi guadagni e i suoi piaceri erano malsani
e sregolati, come quelli della plebe. Una chiave interessante, questa, per
capire la paradossale alleanza tra élite e neo-plebe contemporanea.
Guardiamo
alla caduta del linguaggio della classe dominante:
è una cartina di tornasole anche per capire il declino
dell’élite economica e politica.
Quell’habitus
linguistico che si apprende nel mercato specializzato della famiglia e della
scuola e si sviluppa con la frequentazione precoce e costante dei mercati
specializzati dell’economia e della politica non si manifesta più con la
sicurezza e il distacco cui abbiamo assistito nel passato.
Il linguaggio dell’élite basato su un’elevata
censura, sulla messa in forma e sull’eufemizzazione (Bourdieu 1988), cioè su
aspetti distintivi di ‘norma realizzata’, oggi si scompone in un linguaggio dei
media di comunicazione che rende tutto indistinto e omogeneo, l’opposto della
‘distinzione’.
In
questo linguaggio comune si trova l’estrema conseguenza prevista da “Alexis de
Tocqueville” nella sua opera “Democrazia in America”, per cui quando gli uomini
non più costretti al proprio posto nella società si vedono e comunicano
costantemente l’uno con l’altro, tutte le parole del linguaggio si mescolano.
Ma
Tocqueville riferiva questo fenomeno a una società, quella democratica, che ha
abolito le caste e in cui le classi si riempiono di nuove reclute e diventano
indistinguibili.
L’opposto, quindi, della distinzione di “Bourdieu”.
Questa
‘discussione impossibile’ tra il liberale ottocentesco Tocqueville e il
radicale novecentesco “Bourdieu” mostra come la democrazia si sia nel frattempo
imbastardita e immobilizzata.
In
Italia più che altrove, prima la televisione commerciale e poi i media digitali
hanno espresso un livello di volgarità che unifica verso il basso élite,
piccola borghesia e neo-plebe in un unico metalinguaggio pratico.
L’insulto
pronunciato in televisione e nei social media, che “Bourdieu “definisce “idios
logos”, sostituisce l’atto ufficiale di nomina con cui si concede un titolo,
che egli definisce “homo logein”.
Entrambi, l’insulto e la nomina, sono atti di
istituzione o di destituzione fondati socialmente.
D’altra
parte, concetti astratti, non visibili, come nazione, Stato, sovranità,
democrazia, rappresentanza, burocrazia, che secondo Giovanni Sartori (2000)
caratterizzano la cittadinanza libera, sfuggono del tutto a “homo videns”.
2.2.
Classe creativa.
Prima
dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, l’individuo creativo è il Faust
di Goethe, colui che ha un pensiero e una volontà volti a uno scopo. Il suo
alter ego è Prometeo, il titano che porta la tecnica utile agli uomini. E da quando è Prometeo a primeggiare
è la creazione come impresa tecnica a occupare pienamente la scena.
In
sociologia il termine “creativo” è stato introdotto da “William Thomas e
Florian Znaniecki” con il loro lavoro “The Polish Peasant in Europe and America”
(1918-1920).
Nella
grande trasformazione sociale prodotta dall’immigrazione e dall’urbanizzazione
di inizio Novecento emergono tre tipologie di individuo:
il
filisteo, il bohémien e il creativo.
Rispetto
ai primi due, rigidamente tradizionalisti o incoerenti, l’individuo creativo
trova in sé le risorse per un avanzamento sociale, per la ricerca di scopi
definiti, esprime una maggiore capacità di adattamento che lo aiuta ad avere
successo nella vita.
La
personalità più sistematica del creativo lo avvicina all’individualismo
strumentale, a colui che domina la società industriale attraverso istituzioni e
norme sociali ben precise.
Così,
il tipo creativo appartiene alla moderna divisione sociale del lavoro e ha la
forma di un tipo auto-diretto, rivolto a uno scopo, inserito in istituzioni e
agenzie di socializzazione che agiscono in tal senso.
Se le
società industriali avanzate hanno prodotto numerosi individui creativi è
perché esse favoriscono una personalità acquisitiva e strumentale.
Le
istituzioni stimolano e premiano l’indipendenza, la competenza, la
responsabilità individuale.
Questa visione alla “Talcott Parsons” (1983)
spiega bene a nostro avviso perché il tipo creativo americano abbia trovato
ampi spazi di prevalenza rispetto a società più chiuse e castali come quelle
europee o asiatiche.
Creativo è sin qui un individuo, un
tipo:
l’inventore
contrapposto all’uomo che tira a campare, l’innovatore (che risale al pensiero
economico di “Joseph Schumpeter”), il professionista della conoscenza applicata (un’idea
più recente che dobbiamo a “Peter Drucker”).
Ma da qui a diventare una classe il salto è
grande.
Presuppone
una auto-sostituzione, cioè la trasformazione di un ordine sociale dato o di
suoi sistemi parziali ad opera di processi interni (“Luhmann” 1983).
Occorrerebbe
che il primato funzionale della creatività di origine tecnico-scientifica e
professionale fosse in grado di autonomizzarsi e perfino di sostituire il
primato funzionale della società economica avvenuto nella modernità.
Il primato funzionale dell’economia è
correlato con l’individualismo dell’uomo economico, mentre il primato della
società creativa dovrebbe reggersi su un individuo sociale con specifiche
caratteristiche.
E
allora: quali fattori possono promuovere un tale processo di auto-sostituzione?
In
primo luogo fattori di tipo esogeno, come eventi dirompenti esterni a ciascuno
di noi che impongono di rivedere le priorità e le scelte di ciascuno.
La
crisi climatica ambientale globale consente di capire ciò che intendiamo.
‘Noi sapevamo’ (grazie alla scienza e alla
tecnica), ma non abbiamo potuto evitare il processo di degradazione naturale in
corso.
Avremmo
potuto farlo solo autonomizzando la scienza e la tecnica, dando ad esse, cioè,
il potere di affermare la propria riflessività pratica, scongiurando gli esiti
catastrofici cui il primato funzionale dell’economia ha spinto il Pianeta.
Poi ci
sono fattori di tipo endogeno.
Tecnologia,
tolleranza e talento sono stati presentati come i drivers funzionali della
classe creativa.
I creativi sono aperti, liberal, progressisti.
Ma non
hanno ancora acquisito una responsabilità che li ponga al centro della vita
politica.
Non si
impegnano in azioni collettive.
Questo
è quanto sostiene “Richard Florida” nel suo libro” The Rise of The Creative
Class” (2019), coniando anche la definizione di classe creativa.
Ciò
anche se rappresenta circa 1/3 delle forze di lavoro della società americana,
cui si contrappongono 2/3 di classi di servizio postindustriali, a bassi salari
e precarie.
Una
quantità non troppo dissimile da quanto da noi calcolato per l’Italia.
La
ragione è forse spiegata da Tocqueville e illustrata da Jon Elster (2009) con
la domanda:
“Ci sono classi in America?”.
Sembrerebbe
di no. Il continuo turnover individuale, la mobilità sociale e geografica non
favoriscono la formazione di una ‘classe per sé’ che si impegni nell’azione
collettiva.
La classe creativa ha un altro padre nobile
rivendicato da “Florida”, quel “Peter Drucker “che, forte della sua formazione
mitteleuropea e poi approdato in America, per primo (nel lontano 1959) definisce il lavoratore della
conoscenza come il futuro manipolatore di informazione.
Una categoria però sfuggente e – ancora una
volta – non
una ‘classe per sé’.
Più
circoscritta e tecnocratica è la categoria di ‘esperti’, quelli che posseggono
cioè uno specifico e certificato expertise.
Molte
teorie li hanno considerati detentori di un potere tecnocratico, scambiando, in
realtà, per potere quella che è solo competenza (cum petere, chiedere insieme).
I ricercatori e gli esperti hanno rispetto
alla classe creativa un profilo più nettamente tecnico, meno socialmente
visibile.
Anche se da loro dipendono le prossime generazioni di
innovazioni, i vaccini che ci salveranno dai virus, le macchine intelligenti
che ci faranno muovere in auto a guida autonoma, i prossimi devices che
guideranno il lavoro e il consumo di interi continenti.
È
dunque vistosa la sproporzione tra il grande ruolo professionale e il più
modesto ruolo sociale dei creativi.
Se
essi rimarranno ‘artisti’ usati dal capitalismo della conoscenza, ‘inventori’ a
disposizione del capitalismo delle piattaforme digitali, è difficile
immaginarne un ruolo da classe generale.
Se
invece prenderanno coscienza che la loro capacità di innovare ha un’utilità
sociale estesa, di ciò potrà beneficiare anche la neo-plebe, la parte più
grande e svantaggiata della società.
Per
assumere tale ruolo il primo passo da compiere è la messa in discussione
dell’attuale distribuzione dei diritti di proprietà nelle filiere produttive.
Sebbene
i creativi, i free -lancers, i lavoratori della conoscenza, i fornitori di
input siano figure che concorrono alla creazione del valore, allo stato attuale
non è loro riconosciuto alcun accesso a diritti di proprietà condivisi.
Essi
restano in capo alle élites proprietarie e agli azionisti finanziari. Questo il primo, principale
interesse da intaccare da parte della classe creativa per ritagliarsi un nuovo
ruolo sociale.
2.3.
Neo plebe.
Non
c’è nulla di spregiativo nel termine che qui usiamo.
Piuttosto,
c’è insoddisfazione per gli altri modi di nominare lo strato basso della
società.
Sottoproletariato, Lumpenproletariat
(proletariato degli stracci) è, sì, termine spregiativo che indica una classe
pericolosa.
In sociologia il più usato è sottoclasse (underclass).
Tutti
questi termini presuppongono un sotto rispetto a un sopra: per esempio, la classe operaia che
sta sotto e la classe media che sta sopra, o più sopra.
Questa è una prospettiva non più attuale, una
visione che altera la realtà del processo di scivolamento in corso dell’intera
‘società di mezzo’ verso il basso.
Non si
possono più confinare i fenomeni della povertà alla sola underclass.
Non
più protetta dai sistemi assicurativi e di welfare, certo mescolata a fenomeni
diversi come l’evasione fiscale e il lavoro nero o grigio, la povertà affiora
dall’intera società.
In
questo senso la ‘società dei due terzi’, quella garantita, contrapposta a un
terzo non garantito, va aggiornata e, per certi versi, rovesciata.
Sembra
più esplicativa l’idea di “proletaroide” usata da “Max Weber” (1981) e da “Theodor
Geiger” (1932) nella Germania di inizio Novecento:
uno strato che cresce ai margini, ma include la classe
media impoverita, il lavoro intellettuale precario e malpagato, accanto al
proletariato dei servizi.
Il
progresso tecnologico legato all’intelligenza artificiale affiderà alle
macchine il lavoro qualificato e ciò andrà a nutrire su larga scala la neo plebe,
fasce di popolazione prive di formazione adeguata, di skills e conoscenze oggi
necessarie.
La
tecnologia è selettiva e ingegnerizzata, funziona per le società avanzate, ma
rischia di escludere una parte significativa del mondo.
Per
fare solo un esempio: un tempo c’erano più linee telefoniche fisse a Manhattan
che in tutta l’Africa sub-sahariana.
Oggi
la diffusione di Internet segue la stessa dinamica selettiva. Ecco perché nei
paesi avanzati la neo plebe è destinata a crescere.
Ma
come si vede e si rappresenta la neo plebe?
Finora è stata rappresentata da altri:
il
pensiero classico e poi quello borghese l’hanno stigmatizzata come pezzenti
(Platone) o poveri, Pöbel (Hegel);
il
pensiero marxista e quello leninista l’hanno elevata a proletariato.
Tocqueville
parla della ‘razza’ dei poveri come uno strato permanente e fisso, con poche
vie di scampo, contrapposto ai ricchi, uno strato fluido i cui componenti sono
sempre a rischio di diventare poveri.
“Il
lavoro forma”, sostiene Hegel: è il lavoro che permette al servo di uscire
fuori da sé e di assumere una permanenza.
Ma
cosa accade se non c’è lavoro, o esso è esercitato in forme tali da non
garantire permanenza ma solo precarietà?
Gran parte del lavoro contemporaneo è di
questa natura.
2.Le
linee di frattura.
1.
Inclusi/esclusi.Prima di iniziare l’analisi quantitativa della triade sociale che abbiamo
delineato fin qui, è necessario guardare alla trasformazione radicale da cui
siamo investiti dal punto di vista delle nuove fratture sociali.
Con lo
sfaldamento delle società nazionali del passato, che avevano un carattere
stabile e duraturo, e con l’avanzata di nuove società globali planetarie si
stanno formando delle nuove falde, degli strati sociali che non corrispondono
più a tradizionali classi, ceti o gruppi.
Sembra
prendere corpo la visione di Friedrich Nietzsche (2000) secondo cui non siamo
affatto materiale per una società:
lo si
capisce guardando da vicino le nuove linee di frattura della società
contemporanea.
La
prima linea di frattura è certamente quella tra inclusi e esclusi.
Non è
unanime il giudizio sull’ampiezza di questa frattura.
Secondo
i sostenitori della tesi della convergenza di lungo periodo, il XXI secolo è
più equo e meno diseguale, basta valutare l’uscita dalla povertà di ampie aree
del mondo in via di sviluppo.
Secondo altri la distanza tra inclusi ed
esclusi è, invece, aumentata:
le diseguaglianze, le distanze, si sono accresciute
rispetto al XX secolo, che aveva visto diminuire le differenze grazie al
welfare state, alle politiche sociali e al ruolo dei sindacati.
Come
ha dimostrato “Thomas Piketty “(2019), i meccanismi di mercato inevitabilmente
producono e dilatano le distanze sociali se non si interviene correggendoli.
Lasciati liberi di operare sul lungo periodo non possono
che far crescere le disuguaglianze poiché incuranti della platea degli esclusi
dal mercato del lavoro, dalla distribuzione dei redditi, dalla ricchezza
finanziaria e immobiliare.
Se la
politica non opera delle correzioni spostando reddito da una classe all’altra,
sostenendo i più poveri, redistribuendo la ricchezza, allargando l’accesso alla
conoscenza e alla sanità, l’esclusione sociale è destinata a crescere.
Guardiamo
per un momento a cosa è accaduto al nostro paese dal dopoguerra per intervento
politico:
negli
anni ’60 si ottiene l’istruzione pubblica per tutti ed è dei ’70 la
realizzazione di un servizio sanitario nazionale.
A
partire dagli anni ’80, questo processo virtuoso si è interrotto:
neoliberismo
e terza via e, negli anni ’90, l’inizio delle privatizzazioni, sono stati
fatali alle classi medie e basse della società.
Il
risultato su grande scala del processo che abbiamo sinteticamente descritto è
stato proprio l’assottigliamento della classe media, quella in cui si
riconosceva la maggioranza della popolazione (il 60% secondo molte stime) e a
cui aspirava di appartenere la restante parte.
Si è
assottigliata notevolmente, ed è scivolata verso il basso andando a alimentare
appunto un’estesa neo plebe. Contestualmente l’élite, l’1% dei ricchi mondiali, ha
aumentato le sue posizioni di vantaggio grazie agli Stati fiscalmente generosi,
al predominio della ricchezza finanziaria e delle rendite, al peso della
successione ereditaria.
Ma non
è tutto.
Quella
classe creativa di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo è anch’essa
coinvolta in un processo di inclusione/esclusione.
La disconnessione tra sapere e potere è,
infatti, il fenomeno emergente del nostro tempo:
chi è
incluso nella conoscenza non è affatto incluso nel potere, che segue una logica
propria, autoreferenziale.
Il
potere si impossessa del sapere e lo utilizza ai propri fini: l’algoritmo ne è
la principale espressione.
Quindi,
nonostante la sua crescita progressiva, la classe creativa, sapiente ma priva
di potere, erede della società civile hegeliana, è messa in una posizione che
rende difficile la sua trasformazione in ‘classe generale’.
Facciamo
un esempio utilizzando la triangolazione che si viene a creare tra proprietari
delle piattaforme, providers di contenuti e utenti.
Risulta
immediatamente evidente che il potere è distribuito in modo asimmetrico:
l’utente usa la piattaforma, ma è da essa usato per i dati che fornisce e che
sono alla base della profilazione;
il provider, dal canto suo, fornisce i
contenuti ma è pagato solo sulla base di contratti iniqui (lavoro intellettuale sottopagato e
privo di garanzie) (Stark, Pais 2020).
Da
questo punto di vista, l’utente delle piattaforme è un caso estremo di ‘servitù
volontaria’ nei confronti del dominio tecnico e il provider un caso altrettanto
estremo di ‘autosfruttamento’ delle proprie capacità lavorative e cognitive.
I
diritti di proprietà intellettuale non tutelano affatto i sapienti, ma i
potenti, almeno fintanto che una modifica
degli intellettual property rights potrà consegnare a chi esercita la
conoscenza, cioè la classe creativa, la effettiva titolarità di quanto essa ha
saputo produrre.
Ma di
questo abbiamo già detto.
Che
fare?
Occorre lavorare per una prosperità inclusiva,
come sostengono alcuni economisti. “Dani Rodrik” e “Stefanie Stancheva” (2021)
ci offrono uno schema semplice e chiaro (tab. 2.1) per correggere il divario
tra inclusi ed esclusi, rappresentando la società come suddivisa in tre strati
secondo dei criteri più tradizionali dei nostri, ovvero bassi redditi, classe
media, redditi elevati.
Osserviamolo
insieme.
Tab.
2.1. Uno schema per la prosperità inclusiva.
A
quale stadio dell’economia interviene la politica
Pre-produzione—Produzione-- Post-produzione.
Di
quale segmento di reddito deve prendersi cura --Bassi redditi---Istruzione
primaria, formazione professionale---Salario minimo, apprendistato --Trasferimenti
sociali, reddito minimo garantito, politiche di pieno impiego.
Classe
media ---Scuola
pubblica secondaria e terziaria, formazione continua Politiche industriali,
licenze professionali, training, contrattazione collettiva Assicurazioni contro
la disoccupazione, pensioni --
Redditi
elevati --Eredità,
tassazione di donazioni e di immobili ---Crediti fiscali su ricerca e sviluppo,
politiche antitrust --
Politiche
fiscali su redditi elevati, ricchezza, impresa.
Fonte:”Rodrik, Stancheva 2021”.
La
colonna più importante della tabella 2.1 è la prima, poiché riguarda lo stadio
che precede la fase della produzione.
È qui
che si possono ottenere i più importanti progressi verso una prosperità
inclusiva.
Una
politica pubblica efficace può ridurre l’esclusione sociale e limitare la
creazione di “bad jobs”, di cattivi lavori a bassa o nulla qualificazione
elevando l’istruzione e la formazione della neo plebe.
Questo
strato, infatti, è andato ingrossandosi non tanto a causa del prevalere di
mansioni elementari di cura, assistenza, pulizia o produzione, quanto per la
mancanza di politiche che elevano la qualità del lavoro, a partire dalla sua
qualificazione.
Va da
sé che un simile processo di educazione, se declinato a livello di istruzione
superiore e terziaria (universitaria e post-universitaria), può aiutare la
classe media a divenire classe creativa, estendendo e approfondendo la sua
capacità di elaborare innovazioni e soluzioni responsabili.
Uno
studio americano ha stimato che in 50 anni la quota del reddito nazionale che
va ai laureati è passata negli Stati Uniti dal 5% al 18%, mentre quella che va
al lavoro dequalificato è scesa dal 57% al 40%.
È
importante tenere presente che, tanto quando parliamo di innalzamento
dell’istruzione primaria quanto di quella superiore e terziaria, stiamo
parlando non solo di educazione, ma di inclusione nella cittadinanza sociale.
C’è
poi da considerare l’effetto che avrebbe una reale politica di intervento sulla
ricchezza dell’élite, lo strato sociale superiore.
Si tratta di ricchezza ereditata, frutto di
rendite, parassitaria, non di ricchezza creata dal lavoro.
Negli
ultimi quattro decenni, lo squilibrio a favore di questo strato privilegiato
della società è pesante.
In
questa tabella non viene considerato un aspetto tra i più essenziali ai fini di
una prosperità inclusiva:
quello
dei diritti di proprietà.
Includere i creatori di valore – i creativi, i
lavoratori intellettuali, gli scienziati applicati – nella proprietà oggi
esclusiva degli imprenditori e degli azionisti, rovesciando la prassi dello “shareholder
value”, rappresenterebbe una riforma dell’impresa e del diritto societario di
enorme importanza.
E
includere i lavoratori nella gestione dell’impresa attraverso propri
rappresentanti nei consigli (come accade in Germania) o mediante altre forme di
partecipazione agli utili (come è avvenuto in Giappone e altri paesi avanzati
specie tra gli anni ’50 e’80 del Novecento) sarebbe un potente incentivo per
accrescere la produttività sociale dell’impresa – ormai stagnante in molti
paesi – e per stabilizzare la domanda di lavoro da parte delle imprese, oggi
sottoposta a un eccesso di fluttuazioni e a una frammentazione contrattuale
insostenibile.
Ma
passiamo ad esaminare la seconda colonna della tabella:
quella relativa allo stadio della produzione,
quello che ha subìto i maggiori cambiamenti nel passaggio da XX a XXI secolo.
Qui si
sono affermati quei processi mondiali di dislocazione che hanno portato interi
comparti dell’industria a trasferirsi dai paesi avanzati ai paesi arretrati
mediante colossali investimenti di capitale.
Una neo -accumulazione primitiva ha
interessato dapprima la Corea e le tigri asiatiche, poi la Cina, grazie
all’enorme afflusso di capitali Occidentali.
Un processo che ha modificato per sempre la
geografia della forza-lavoro mondiale.
In
termini concreti:
in
Occidente si sono persi milioni di posti di lavoro stabili e ben retribuiti
nell’industria ed è emersa una neo plebe dequalificata nei servizi;
in Oriente è aumentata a dismisura una
forza-lavoro a basso costo che lavora in condizioni semi-schiavistiche nelle
fabbriche cinesi, vietnamite, malesi, indiane, pakistane, bangladesi nella
piena violazione dei diritti umani e sociali.
Precarietà,
degradazione del lavoro, nuovi regimi di sfruttamento: questi gli ingredienti
qualificanti della ‘grande trasformazione’.
Se si
vuole seriamente invertire la marcia introducendo forme di stabilità, di
qualificazione e di tutela minima universali, il salario minimo è uno degli
strumenti per stabilizzare i mercati del lavoro, ma la via maestra per
sottrarre il lavoro alla precarietà e all’arbitrio rimane la contrattazione
collettiva.
Il
tanto temuto aumento dei costi del lavoro per le imprese sarà più che
compensato da un forte aumento di produttività.
Un
ruolo inclusivo rilevante potrebbero giocarlo le politiche industriali di
orientamento delle scelte imprenditoriali e di investimento verso produzioni
più qualificate e ambientalmente sostenibili.
Il carbon footprint, l’impronta del carbonio di
un’impresa o di una città, andrebbe esteso all’intera catena globale del
valore includendo i fornitori e i paesi in via di sviluppo (come raccomanda il
Parlamento Europeo).
In
questo modo interi settori sarebbero riqualificati e lo spettro delle nostre
produzioni sarebbe spostato verso l’alto di gamma.
I
risultati sarebbero una ridislocazione mondiale della produzione (il cosiddetto
“reshoring” delle produzioni in passato delocalizzate ne sarebbe solo un
esempio, perché molti settori nuovi sono ancora da creare) e un aumento della
qualità e della affidabilità dei prodotti e dei mercati.
A questo si riferiscono, nella seconda colonna
della tabella 2.1, i crediti alla ricerca e sviluppo che devono spingere verso
queste nuove direzioni tutte le imprese – grandi e piccole – e le filiere –
composte di imprese, fornitori, clienti.
Inoltre, le grandi piattaforme digitali (ad
esempio, Amazon o Google) vanno ricondotte alla logica della concorrenza,
grazie a una nuova politica antitrust che, impedendone la concentrazione e il
monopolio, persegua non l’ideologia del benessere del consumatore, ma l’analisi
strutturale dei settori.
Infine,
esaminiamo la terza colonna della tabella 2.1, quella più tradizionale della
redistribuzione, che abbraccia le classiche politiche di welfare e le politiche
fiscali che dovrebbero riequilibrare, a favore degli esclusi, la distribuzione
del reddito e della ricchezza.
È il reddito minimo universale l’orizzonte
nuovo e necessario del XXI secolo:
un orizzonte che davvero può aiutare gli esclusi,
quell’ampia neo plebe che si è formata nell’epoca del lavoro automatizzato e
digitale.
Altrimenti
si realizzeranno le peggiori profezie e distopie che da “Aldous Huxley” (1991)
in poi hanno prefigurato una società futura di ‘uomini alfa’ e sotto di loro un
iceberg sommerso di individui ‘beta’, ‘gamma’, ‘delta’, ‘epsilon’:
la fabbricazione scientifica pianificata di
uomini standardizzati (Schmitt 2001) in una gigantesca struttura castale di
esclusi che finirebbe per significare la perdita di ogni umanità.
2.
Cosmopoliti/locali.
Dopo
la caduta del muro di Berlino, all’inizio degli anni ’90, si iniziò a parlare
di una ‘cultura mondiale’.
I più
avvertiti osservarono che, a guardar bene, non era in atto alcun processo di
uniformazione: semplicemente la diversità si presentava organizzata.
Per la
prima volta il mondo appariva come un unico network di relazioni sociali e tra
le varie regioni – ma sarebbe meglio dire continenti – si era creato non solo
un flusso di persone o di beni, ma anche una condivisione di significati (o
almeno di conoscenze).
Per la
verità, erano le città a integrarsi attraverso fitti scambi economici e a
costituire una rete di città globali, come hanno mostrato “Zbigniew Brzezinski”
(1970), “Saskia Sassen” (1991) e poi molti altri.
Prima
di allora, cosmopolita si definiva colui che scavalcava i confini locali per
spaziare in un ambito nazionale.
Uno
studioso della metropoli come “Simmel”, a inizio Novecento, si esprimeva in
questo senso e più avanti la ricerca di “Robert Merton” (1957) sui ‘modelli di
influenza’ in una media città americana confermava questa visione:
cosmopolita
era colui che adottava un orizzonte più ampio, quello nazionale, rispetto a chi
viveva nel ristretto ambito locale.
Tanto
che è stato proprio “Merton” a introdurre nel vocabolario sociologico la coppia
di termini cosmopoliti/locali.
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