Difesa comune.

 

Difesa comune.

 

 

Politica di sicurezza e di difesa comune.

Europarl.europa.eu – Oliver Krentz – (10-04 -2024) - Redazione – ci dice:

La politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) è parte integrante della politica estera e di sicurezza comune dell'UE (PESC).

 La PSDC costituisce il principale quadro politico mediante il quale gli Stati membri possono sviluppare una cultura strategica europea della sicurezza e della difesa, affrontare insieme i conflitti e le crisi, proteggere l'Unione e i suoi cittadini e rafforzare la pace e la sicurezza internazionali.

 A causa del contesto geopolitico carico di tensioni, la PSDC è stata una delle politiche in più rapida evoluzione negli ultimi dieci anni.

Dal 24 febbraio 2022 la guerra di aggressione della Russia nei confronti dell'Ucraina ha rappresentato un nuovo inizio geopolitico per l'Europa e ha dato ulteriore impulso a quella che dovrebbe diventare un'Unione della difesa dell'UE.

Base giuridica.

La PSDC è descritta nel trattato di Lisbona, noto anche come trattato sull'Unione europea (TUE) ed entrato in vigore nel 2009.

 

Più specificamente, il funzionamento della PSDC è illustrato nel titolo V (Disposizioni generali sull'azione esterna dell'Unione e disposizioni specifiche sulla politica estera e di sicurezza comune), capo 2 (Disposizioni specifiche sulla politica estera e di sicurezza comune), sezione 2 (Disposizioni sulla politica di sicurezza e di difesa comune) del trattato di Lisbona. La sezione 2 comprende cinque articoli, da 42 a 46.

Il ruolo del Parlamento europeo nell'ambito della PESC e della PSDC è definito al titolo V, capo 2, sezione 1 (Disposizioni comuni) e all'articolo 36, mentre le modalità di finanziamento di entrambe le politiche sono definite all'articolo 41.

La PSDC è ulteriormente descritta negli allegati del trattato di Lisbona, principalmente nei protocolli n. 1 (sul ruolo dei parlamenti nazionali nell'Unione europea), n. 10 (sulla cooperazione strutturata permanente istituita dall'articolo 42 TUE) e n. 11 (sull'articolo 42 TUE), nonché nelle dichiarazioni 13 e 14 (Dichiarazioni sulla politica estera e di sicurezza comune).

 

Organizzazione.

L'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che esercita anche la funzione di vicepresidente della Commissione europea (AR/VP), riveste il ruolo istituzionale principale.

Dal dicembre 2019 l'AR/VP è Josep Borrell.

Presiede il Consiglio "Affari esteri" nella configurazione "Ministri della Difesa", che rappresenta l'organo decisionale della PSDC ed è incaricato di presentare proposte relative alla PSDC agli Stati membri.

L'AR/VP è inoltre il capo del Servizio europeo per l'azione esterna nonché il direttore dell'Agenzia europea per la difesa (AED).

 

Il Consiglio europeo e il Consiglio dell'Unione europea adottano le decisioni relative alla PSDC all'unanimità (articolo 42 TUE).

Fanno eccezione le decisioni relative all'AED (articolo 45 TUE) e alla cooperazione strutturata permanente (PESCO, articolo 46 TUE), per le quali è prevista l'adozione a maggioranza qualificata.

Il trattato di Lisbona ha introdotto una politica europea delle capacità e degli armamenti (articolo 42, paragrafo 3, TUE) e ha stabilito che l'AED e la Commissione lavorino di concerto quando necessario (articolo 45, paragrafo 2, TUE), in particolare per quanto riguarda le politiche dell'UE in materia di ricerca, industria e spazio.

Inoltre, l'articolo 21 TUE ricorda che il multilateralismo è il fulcro dell'azione esterna dell'UE.

Di conseguenza, i partner dell'UE possono partecipare alle missioni e alle operazioni PSDC.

L'UE è impegnata a rafforzare il coordinamento e la cooperazione nell'ambito di vari quadri multilaterali, in particolare con le Nazioni Unite e l'Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (NATO), ma anche con altri organismi regionali come l'Unione africana.

Evoluzione.

Dall'entrata in vigore del trattato di Lisbona, la PSDC si è notevolmente evoluta, sia a livello politico che istituzionale.

Nel giugno 2016 l'AR/VP “Federica Mogherini” ha presentato al Consiglio europeo la "Strategia globale per la politica estera e di sicurezza dell'Unione europea", un documento che definisce la strategia per la PSDC.

La strategia ha individuato cinque priorità:

la sicurezza dell'Unione; la resilienza degli Stati e della società a est e a sud dell'UE; lo sviluppo di un approccio integrato ai conflitti; ordini regionali di cooperazione; e la governance globale per il XXI secolo.

 

Nel novembre 2016 l'AR/VP ha inoltre presentato al Consiglio il "Piano di attuazione in materia di sicurezza e difesa", al fine di rendere operativa la visione definita nella strategia globale per la politica estera e di sicurezza dell'Unione europea.

Il piano presentava 13 proposte, tra cui una revisione coordinata annuale sulla difesa (CARD) e un nuovo accordo di cooperazione strutturata permanente (PESCO) per gli Stati membri disposti a impegnarsi ulteriormente in materia di sicurezza e difesa.

Parallelamente, l'AR/VP “Mogherini” ha presentato agli Stati membri un piano d'azione europeo in materia di difesa, unitamente a proposte chiave relative alla creazione di un “Fondo europeo per la difesa” (FED) incentrato sulla ricerca nel settore della difesa e sullo sviluppo di capacità.

Tali proposte sono state attuate nel corso degli ultimi anni.

Nel giugno 2021 l'UE ha avviato una riflessione sul futuro della sicurezza e della difesa europee.

Tale processo ha portato alla creazione della bussola strategica per la sicurezza e la difesa, un documento che definisce la strategia dell'UE in materia di sicurezza e difesa per i prossimi cinque-dieci anni.

La bussola strategica fornisce un quadro d'azione per lo sviluppo di una visione condivisa nel settore della sicurezza e della difesa. Il documento è stato elaborato in tre fasi:

 un'analisi delle minacce, un dialogo strategico strutturato e un ulteriore sviluppo e revisione prima dell'adozione.

L'obiettivo principale è di fornire orientamenti politici per attuare l'"autonomia strategica" dell'UE in quattro settori chiave: gestione delle crisi, resilienza, capacità e partenariati.

Il processo è concepito per rispondere alla crescente necessità di un'Unione che sia in grado di agire come garante della sicurezza.

Nel novembre 2021 l'AR/VP “Borrell” ha presentato la versione iniziale del documento a una sessione congiunta dei ministri degli Affari esteri e della difesa dell'UE.

 

Nel contesto della guerra di aggressione della Russia contro l'Ucraina (iniziata il 24 febbraio 2022), è stato necessario apportare notevoli modifiche al documento onde tenere conto della destabilizzazione dell'ordine di sicurezza europeo e del conseguente cambiamento della posizione, delle ambizioni e degli strumenti dell'UE nel settore della difesa.

Il 24 e 25 marzo 2022, durante la presidenza francese del Consiglio, il Consiglio europeo ha approvato la versione definitiva della bussola strategica.

A seguito della guerra, la Danimarca ha rinunciato alla sua opzione di non partecipazione alla politica di difesa dell'UE, che aveva ottenuto nel 1992.

I cittadini danesi hanno acconsentito ad aderire alla PSDC mediante un referendum tenutosi il 1º giugno 2022 (con il 66,9 % dei voti favorevoli). Pertanto, tutti i 27 Stati membri partecipano ora alla PSDC.

 

Le missioni e operazioni di gestione delle crisi sono l'espressione più visibile e concreta della PSDC.

La bussola strategica affronta le lacune rilevate nella strategia globale per la politica estera e di sicurezza dell'Unione europea in relazione agli strumenti e alle istituzioni di gestione delle crisi, ad esempio creando una nuova capacità di dispiegamento rapido dell'UE.

 Nella relazione del 2021 sull'attuazione della PSDC, il Parlamento ha espresso il proprio sostegno alla proposta di una "forza di intervento rapido".

La bussola strategica mira inoltre a fornire finalità e obiettivi coerenti per altre iniziative e processi pertinenti (quali PESCO, FED e CARD).

 

Sebbene il Parlamento non svolga un ruolo diretto nella definizione della bussola strategica, deve essere regolarmente informato sul livello di attuazione e avere la possibilità di esprimere il suo parere in merito al processo, in particolare durante le sessioni informative alla sottocommissione per la sicurezza e la difesa (SEDE). Attraverso le sue relazioni annuali sulla PSDC, la sottocommissione SEDE assume di fatto un ruolo consultivo per quanto concerne la PSDC.

 

Gli strumenti della PSDC.

Dal 2016 la PSDC ha conseguito una serie di successi, tra cui l'avvio della PESCO; una struttura di comando e controllo permanente per la pianificazione e la condotta di missioni militari non esecutive; il FED; il patto sulla dimensione civile della PSDC; un riesame strategico della dimensione civile della PSDC; e uno strumento europeo per la pace (EPF) fuori bilancio.

Inoltre, il 5 marzo 2024 la Commissione e il l'AR/VP hanno presentato la strategia per l'industria europea della difesa (EDIS), volta a rafforzare la competitività e la preparazione della base industriale e tecnologica di difesa europea (EDTIB).

 

La prima relazione della CARD, elaborata dall'AED, è stata presentata ai ministri della Difesa dell'UE nel novembre 2020.

Tale relazione ha individuato 55 opportunità di collaborazione nell'intero spettro delle capacità.

Nel dicembre 2020 il Consiglio ha raggiunto un accordo politico provvisorio con i rappresentanti del Parlamento su un regolamento che istituisce il FED, nel contesto del quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027.

La dotazione di bilancio per questi sette anni è pari a 8 miliardi di EUR.

Il FED rafforzerà la cooperazione tra le industrie europee della difesa.

Il programma di lavoro del FED per il 2024 comprende 32 temi sui quali è possibile proporre progetti.

 

Mediante l'EPF, uno strumento fuori bilancio, l'UE finanzia le spese comuni delle missioni e operazioni militari PSDC, aumentando in tal modo la ripartizione degli oneri tra gli Stati membri.

Tale strumento può inoltre essere utilizzato per finanziare attività di formazione e la fornitura di materiale militare (anche letale) ai settori della sicurezza e della difesa dei paesi partner dell'UE.

Rafforzando le capacità delle operazioni di sostegno alla pace e le capacità dei paesi terzi nonché delle organizzazioni partner nel settore militare e della difesa, l'UE aumenterà l'efficacia della sua azione esterna.

 Tra il 2022 e il 2024 l'UE ha mobilitato 11,1 miliardi di EUR a titolo dell'EPF per sostenere le forze armate ucraine.

 

Il 19 luglio 2022 la Commissione, dopo aver ricevuto un mandato in tal senso al vertice di Versailles del marzo 2022, ha presentato una proposta di regolamento sull'istituzione di uno strumento per il rafforzamento dell'industria europea della difesa mediante appalti comuni (EDIRPA).

 Si tratta di uno strumento a breve termine per le acquisizioni congiunte nel settore della difesa con una dotazione di 500 milioni di EUR.

Esso mira a risolvere le carenze più urgenti e critiche in termini di capacità di difesa e a incentivare gli Stati membri ad acquisire congiuntamente i prodotti della difesa.

In seguito ai negoziati interistituzionali, il Parlamento ha approvato il regolamento in Aula il 12 settembre 2023.

Analogamente, il 3 maggio 2023 la Commissione ha presentato una proposta di regolamento sul sostegno alla produzione di munizioni, che mira a fornire munizioni all'Ucraina, intensificare la cooperazione attraverso appalti comuni e incrementare le capacità di produzione.

A seguito di brevi negoziati interistituzionali, il Parlamento ha approvato il regolamento il 13 luglio 2023.

 

Il 5 marzo 2024, dando seguito alle misure di emergenza a più breve termine (il regolamento sul sostegno alla produzione di munizioni – ASAP e l'EDIRPA) i cui effetti cesseranno nel 2025, la Commissione ha presentato una proposta di regolamento che istituisce il programma per l'industria europea della difesa (EDIP) destinato a fornire un sostegno finanziario pari a 1,5 miliardi di EUR a titolo del bilancio dell'UE nel periodo 2025-2027.

L'EDIP aspira a essere un regime più strutturale e più a lungo termine basato sulla collaborazione in materia di investimenti e produzione nell'UE, garantendo la disponibilità e l'approvvigionamento costanti di prodotti per la difesa.

Onde aumentare la competitività e la prontezza dell'EDTIB e incentivare la cooperazione degli Stati membri in materia di appalti congiunti, l'obiettivo è quello di acquisire almeno il 40 % dei materiali di difesa in maniera collaborativa e il 50 % all'interno dell'UE entro il 2030, per passare al 60 % entro il 2035.

 

A tal fine, la proposta di regolamento della Commissione prevede la creazione di un fondo per accelerare la trasformazione delle catene di approvvigionamento della difesa (FAST) a sostegno delle piccole e medie imprese, l'istituzione di un regime modulare e graduale di sicurezza dell'approvvigionamento dell'UE, la costituzione della struttura per un programma europeo di armamento (SEAP) onde rafforzare la cooperazione mediante un'esenzione dall'IVA, nonché l'istituzione di un meccanismo europeo di vendite militari incentrato sulla disponibilità di attrezzature dell'UE.

 

Missioni e operazioni PSDC.

Dal 2003 e dal primo intervento nei Balcani occidentali, l'UE ha avviato e gestito 40 operazioni e missioni in tre continenti.

Nell'ottobre 2023 erano in corso 24 missioni e operazioni PSDC.

Circa 4 000 membri del personale militare e civile dell'UE sono attualmente impiegati all'estero.

 Le decisioni dell'UE di dispiegare missioni od operazioni sono di norma adottate su richiesta del paese partner e/o sulla base di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

L'ultima missione, l'operazione ASPIDES della forza navale diretta dall'Unione europea (EUNAVFOR), è stata avviata per tutelare la libertà di navigazione e salvaguardare la sicurezza marittima nel Mar Rosso, nell'Oceano Indiano nordoccidentale e nel Golfo.

 Dotata di un mandato difensivo, l'operazione ASPIDES fornisce una maggiore conoscenza della situazione marittima e scorta le navi per proteggerle dagli attacchi marittimi o aerei.

 

Ruolo del Parlamento europeo.

Il Parlamento europeo sostiene l'integrazione e la cooperazione dell'UE in materia di difesa, esercita il controllo sulla PSDC e può rivolgersi, di propria iniziativa, all'AR/VP e al Consiglio (articolo 36 TUE)

. Il Parlamento esercita inoltre il controllo sul bilancio relativo a tale politica (articolo 41 TUE).

Due volte all'anno tiene dibattiti sull'attuazione della PESC e della PSDC e adotta due relazioni: una sui progressi compiuti nella PESC, elaborata dalla commissione per gli affari esteri, e una sui progressi compiuti nella PSDC, elaborata dalla sottocommissione SEDE.

 

La relazione annuale 2023 sull'attuazione della PSDC è stata approvata in Aula il 28 febbraio 2024.

La relazione si incentra sull'incremento del sostegno dell'UE all'Ucraina; sul rafforzamento della cooperazione con partner e alleati che condividono gli stessi valori al fine di garantire l'efficace attuazione della PSDC; sul potenziamento delle capacità dell'UE in materia di sicurezza e difesa, in particolare mediante l'EPF, sull'importanza di integrare la politica di sicurezza e di difesa dell'UE con altri strumenti civili; nonché sul miglioramento della complementarità con la NATO, garantendo nel contempo l'autonomia strategica europea.

La relazione manifesta altresì l'ambizione di rendere l'UE un garante strategico della sicurezza internazionale rafforzando l'integrazione della difesa europea.

 

In particolare, chiede "l'acquisto congiunto di prodotti per la difesa" e di "potenziare la capacità di produzione dell'industria europea della difesa, ricostituire le scorte esaurite e ridurre la frammentazione del settore degli appalti pubblici nel settore della difesa".

 Sottolineando la cooperazione tra l'UE e la NATO nel coordinamento delle forniture di armi all'Ucraina, la relazione evidenzia inoltre che "l'obiettivo di spesa del 2 % dovrebbe rappresentare un minimo per i paesi UE della NATO e non un massimale per la spesa per la difesa".

Dal 2012, in base al protocollo n. 1 del trattato di Lisbona, il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali degli Stati membri organizzano inoltre due conferenze interparlamentari all'anno per discutere delle questioni relative alla PESC.

In generale, il trattato consente al Parlamento di svolgere appieno il suo ruolo nello sviluppo della PSDC, rendendolo in tal modo un partner nella definizione delle relazioni esterne dell'UE e nell'affrontare le sfide in materia di sicurezza.

Al fine di svolgere tale ruolo, il Parlamento organizza periodicamente dibattiti, audizioni e seminari su temi quali le missioni civili e militari della PSDC, le crisi internazionali con implicazioni in materia di sicurezza e di difesa, quadri multilaterali per la sicurezza, questioni relative al controllo degli armamenti e alla non proliferazione, la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata, le buone pratiche per migliorare l'efficacia della sicurezza e della difesa, nonché gli sviluppi istituzionali e giuridici dell'UE in tali settori.

In seguito alla dichiarazione del 2010 dell'AR/VP sulla responsabilità politica, il Parlamento partecipa alle riunioni di consultazione comuni organizzate regolarmente per scambiare informazioni con il Consiglio, il Servizio europeo per l'azione esterna e la Commissione.

Inoltre, il Parlamento formula oralmente domande e suggerimenti al Servizio europeo per l'azione esterna in merito alla PSDC, in particolare durante le riunioni della sottocommissione SEDE.

(Oliver Krentz).

 

“Deva e Asura”.

 Conoscenzealconfine.it – (24 Marzo 2025) – Corrado Malanga – Redazione - ci dice:

Tutti dovrebbero essere felici che le due più grosse super potenze nucleari al mondo si parlino e, perché no, ci sia anche un buon rapporto tra i due presidenti, di stima reciproca e magari anche di amicizia.

 Perché i politici europei non sono felici di questo?

Ce lo spiega “Corrado Malanga”…

 

L’inviato speciale di Trump, “Witkoff”, racconta che Putin ha pregato per Trump e gli ha regalato un ritratto fatto da un artista russo.

“Putin ha commissionato un bellissimo ritratto del presidente Trump a un importante artista russo e me l’ha dato, chiedendomi di portarlo al presidente Trump.

Gliel’ho portato e gliel’ho consegnato.

È stato un momento molto bello e Putin mi ha raccontato di quando il presidente Trump è stato colpito, è andato alla chiesa locale, ha incontrato il prete e ha pregato per il presidente, non perché potesse diventare presidente degli Stati Uniti, ma perché aveva un rapporto di amicizia con lui e stava pregando per il suo amico.

 

Sono tornato a casa, ho trasmesso questo messaggio al nostro presidente e ho portato il dipinto. E lui ne è stato chiaramente toccato.

Questo è il tipo di connessione che siamo riusciti a ristabilire, tra l’altro, attraverso la semplice parola ‘comunicazione’.

Molti direbbero: Sai, non avresti dovuto farlo perché Putin è un cattivo ragazzo’.

Non penso che Putin sia una cattiva persona. È una situazione difficile questa guerra e tutti i fattori che l’hanno provocata. Non è mai colpa di una sola persona, quindi penso che troveremo una soluzione.”

Tutti dovrebbero essere felici che le due più grosse super potenze nucleari al mondo si parlino e, perché no, ci sia anche un buon rapporto tra i due presidenti, di stima reciproca e magari anche di amicizia.

Perché i politici europei non sono felici di questo?

Perché sanno solo parlare di guerra, morte, distruzione e caos?

 Perché fanno di tutto per fermare la pace? Perché?

Ce lo spiega un grandioso “Corrado Malanga”. (t.me/LombardiaRussiaGeN/30301).

 Egli spiega perché l’Europa sarà distrutta dall’alleanza Russia – Stati Uniti e perché questo è una benedizione per l’Italia.

 Evidentemente, per quanto strano e difficile possa essere da capire e accettare da qualcuno, Malanga ha ragione a dire le cose che ha detto…

“La Russia ha Putin, che è DEVA e gli Stati Uniti hanno Trump che è anche lui DEVA, sono la stessa cosa e combattono contro “la massoneria “ASURA” che controlla l’Europa”.

 

“L’Europa sarà distrutta ed è una fortuna enorme per noi, perché l’Italia non ha la forza politica per uscire dalla UE, perché in Italia comanda la massoneria ASURA!

 E allora, siccome il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, la UE sarà distrutta dall’alleanza DEVA, Russia – Stati Uniti, e noi finalmente, con una nuova classe politica, torneremo ad essere la quarta potenza mondiale”.

Il Video è per pochi perché tocca argomenti molto alti e sconfiniamo in cose che solo le anime più evolute possono capire…

Ma ci pare giusto mettere ogni tanto anche cose belle e non solo brutte notizie…

Malanga usa i termini “DEVA e “ASURA, ma avrebbe anche potuto usare i termini “angeli e demoni”, “bene e male”, “luce e buio”…

Per chi non lo sapesse infatti, i DEVA sono associati a virtù e ordine cosmico, e rappresentati come protettori dell’umanità e custodi della moralità.

Mentre gli ASURA incarnano il lato opposto della dualità morale e cosmica, spesso associati al caos, alla distruzione e alla ribellione contro l’ordine stabilito.

 

Quello che comunemente chiamiamo bene e male appunto.

Bene i DEVA, male gli ASURA, ma sono comunque due facce della stessa medaglia perché non può esistere il bene senza il male, la luce senza il buio, ecc…

A volte però il male si allarga un po’ troppo, e va rimesso al suo posto…

Sarà proprio così come descritto da Malanga?

Vedremo come andranno realmente le cose… (nota di conoscenze al confine).

(t.me/LombardiaRussiaGeN).

(Conoscenzealconfine.it).

 

 

 

 

Re Arm Europe: verso una politica

di difesa comune o “solo sesterzi”?

 Analisidifesa.it – (23 Marzo 2025) - Redazione - Manuel di Casoli – ci dice:

 

 C’è una bellissima scena del film “Scipione detto anche l’Africano”, nella quale Marcello Mastroianni, al rientro da Cartagine, illustra le epiche gesta compiute, e si sente chiedere: “Si, vabbè, ma li sesterzi?”.

Nihil novum sub soli, per passare dal romanesco al latino, niente di nuovo sotto il sole.

Parliamo sempre e solo di sesterzi.

Su First OnLine del 10 marzo in una interessante intervista di “Luigi Marcadella”, l’ambasciatore “Riccardo Sessa” con la sua profondissima esperienza e competenza in materia di politica internazionale ed acuta visione ha evidenziato aspetti di estremo interesse, relativamente al progetto “ReArm EU” (poi ribattezzato “Readiness 2030”).

 

Tuttavia, vi sono considerazioni ulteriori che ritengo debbano essere sviluppate e articolate, alla luce di valutazioni sia di natura geostrategica, che politica e finanziaria, che di difesa.

La prima ci porta direttamente alla sostanza delle cose, al piano sul quale sta avvenendo la discussione.

 Si da, infatti, per scontato che l’ultimo Consiglio Europeo straordinario abbia affrontato il tema della “Politica di difesa comune” ma così non è.

Magari lo fosse stato, si sarebbero compiuti davvero sia il primo passo verso una difesa comune a livello UE che un deciso salto di qualità dell’azione dell’Unione.

Di fatto, invece, l’UE ha ancora una volta evidenziato la sua lacuna costitutiva, ossia quella di essere -in definitiva- una mera organizzazione economica.

“Stanziare” 800 miliardi di Euro, infatti, significa esattamente il contrario che avere una “politica”, pensare che il tema si possa affrontare e risolvere con il denaro.

Lasciamo perdere, per un attimo, il tema strettamente tecnico, che” non consente direttamente alla Presidente della Commissione di assumere decisioni del genere”, né alla UE di occuparsi di difesa in luogo degli Stati membri, e veniamo alla sostanza.

 

Una “politica di difesa” richiede, molto prima che un finanziamento, di assumere delle decisioni, appunto, politiche.

Che modello di difesa comune esce da questa iniziativa? Nessuno.

Uno strumento militare, in quanto strumento, va definito sulla base di una politica, non è un affare di acquisti di armi.

Per esempio, dalla fine della Guerra Fredda l’Italia si è dotata nel tempo di uno strumento militare coerente con gli obiettivi e le missioni che la politica ha ridefinito:

 partecipazione alle missioni di pace (anche se in realtà si trattava di teatri di guerra), concorso alla difesa di obiettivi sensibili sul territorio nazionale, vigilanza e difesa delle frontiere marittime, sospensione della leva obbligatoria.

Ciò ha comportato che lo strumento venisse completamente ridisegnato, rispetto alla sua configurazione precedente.

 Prendiamo il caso dell’Esercito:

addestramento di militari di professione (e quindi numeriche ridotte), reparti operativi incentrati sulla fanteria leggera, ampliamento dei reparti speciali, abbandono delle linee di carri da combattimento, riduzione drastica del parco di artiglieria, logistica focalizzata su mezzi leggeri, capacità di proiezione remota, riduzione delle scorte tattiche e strategiche, dismissione di immobili.

Tutto questo è stato fatto perché lo strumento militare rispondesse alle missioni che la politica ha inteso assegnare, come è nella natura delle cose.

E la UE che missioni intende affidare alle forze militari delle quali [non] dispone?

 In quali teatri? Secondo quali obiettivi e priorità? Con che macro-regole di ingaggio? In che tempi e secondo quali priorità? Come ripartire tra gli Eserciti specializzazioni e compiti, in base alle attitudini ed alle esperienze? Come configurare le forze secondo i terreni sui quali muoversi? In che modo ripartire le aree di competenza e le zone di intervento, pensiamo per esempio alla difesa contraerea?

Veniamo ora al panorama degli ambiti internazionali di riferimento.

La UE si compone di 27 Stati, la NATO di 32: è evidente che le Organizzazioni non siano sovrapponibili.

 Norvegia e UK non fanno parte della UE ma della NATO si, l’Austria esattamente il contrario.

Quali forze dei Paesi che sono parte sia della UE che della NATO sarebbero disponibili per un “esercito UE”?

Le armi nucleari di Francia e UK in quale configurazione ricadono?

E se un Paese NATO venisse attaccato in quanto parte della UE, l’art. 5 del Trattato Atlantico – che obbliga gli altri Paesi NATO (USA e Canada inclusi) ad intervenire – potrebbe essere invocato ed applicato?

Che interoperabilità e coordinamento sono ipotizzabili tra UE e NATO?

C’è poi un altro punto cruciale, che discende dalle scelte politiche:

 come si articolerà la catena di comando?

 In che modo sarà composta e a chi spettano le decisioni ai vari livelli?

Il solo creare una organizzazione del genere e renderla operativa è un lavoro che richiede anni, posto che le regole siano chiare.

 In guerra non ci sono seconde possibilità: come si direbbe su un set, “buona la prima”.

 E non c’è tempo per le discussioni, tutto dev’essere chiaro da prima.

Solo dopo aver definito tutto questo è possibile disegnare e realizzare un complesso di forze, e quindi spendere quel che resterebbe degli 800 miliardi (perché fare tutto ciò che si è detto ha dei costi non indifferenti), ripartendoli in infrastrutture, arruolamento e addestramento, armamenti e mezzi, tecnologie, scorte, logistica e quant’altro necessario.

 

E solo a quel punto inizierà il lavoro vero.

 Armonizzare procedimenti e creare standard, definire piani e disegnare scenari e, finalmente, addestrare le truppe, testarne l’efficienza, apprendere a lavorare insieme in una lingua comune, (ricordando, en passant, che solo una nazione europea parla inglese e non è parte della UE).

Tutto questo, peraltro, dando per scontato che le varie Nazioni, i Popoli, siano disposti a farlo, perché poi sulla nuda terra ci deve andare un soldato e i soldati muoiono.

Fatti questi accenni sintetici, ci siamo resi conto che una “politica di difesa comune UE” non è stata nemmeno abbozzata.

 Se vogliamo attribuire all’iniziativa una qualche forma di intelligenza, non ci resta che osservare i fatti, primo fra tutti che il supporto all’Ucraina ha di fatto assorbito la quasi totalità delle riserve strategiche dei Paesi europei.

La sensazione che si tratti di una manovra politica ad effetto per far digerire ai riluttanti cittadini UE le spese necessarie a ripianare gli stock è molto forte.

E che si tratti di una faccenda complessa e rispetto alla quale ci siano problemi consistenti è di tutta evidenza.

Due piccioni con una fava, quindi:

 trovare le risorse per spese sgradite che coprano azioni insipienti, e ricompattare una UE in crisi di popolarità e di consensi.

È prassi consolidata, per le leadership deboli ed in crisi di consensi, invocare la guerra, anche se storicamente ciò ha sempre e solo riguardato le dittature.

Già nel 2017, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito francese, il Generale Pierre de Villiers, si dimise in aperta polemica con il presidente Emmanuel Macron per i tagli al bilancio della Difesa: lo stesso Macron che ora invoca il riarmo.

Ad agosto del 2022, le dichiarazioni dell’Ispettore Generale (Capo di Stato Maggiore) tedesco, “Eberhard Zorn”, circa la capacità russa di proseguire le operazioni militari in Ucraina per tempi molto lunghi e di estenderle ulteriormente, gli erano costate il posto.

Contraddicevano la vulgata secondo la quale i russi sarebbero stati alle corde e fu accusato di sopravvalutare nettamente le loro capacità.

 Ricorderemo tutti la panzana dei chip tolti alle lavatrici per poter dotarne i missili, e chi lo ha “dimesso” afferma oggi ciò che egli disse a suo tempo. Perché?

 

A gennaio del 2023, il Ministro della Difesa tedesco, “Christine Lambrecht”, fu costretta anch’essa alle dimissioni per la sua riluttanza a cedere all’Ucraina mezzi corazzati tedeschi.

 I commenti a questo evento evidenziavano la necessità di una pesante ristrutturazione della “Bundeswehr,” una riforma per la quale la Commissaria per le Forze Armate del Bundestag tedesco, “Eva Högl”, stimava necessari circa 300 miliardi di Euro, a fronte dei 100 stanziati.

 E giova ricordare che “Ursula von del Leyen” sia stata Ministro della Difesa tedesco dal 2013 al 2019, e che sui suoi acquisti in tale ruolo siano state sollevate diverse obiezioni.

Facendo due conti, la differenza di 200 miliardi necessaria alla Germania sarebbe il 25% degli 800 ipotizzati, e il PIL tedesco è il 24,2% di quello UE.

Curiose coincidenze, verrebbe da pensare.

Il caso vuole che i conti tornino…

Nessun dubbio nel plaudire alle ironiche parole dell’Ambasciatore “Riccardo Sessa” sul fatto che Putin meriterebbe un monumento in “Rue de la Loi”.

Personalmente ritengo che non lo meriti solo per aver spinto l’Europa verso una più profonda integrazione, ma anche per un’altra ragione, più profonda:

 averci riportato sul terreno della realtà, alla quale l’UE sembra ancora non dare molto peso, abituata com’è ad occuparsi di voli pindarici idealistici e spesso ideologici.

È l’involontario artefice del nostro ritorno al sano, per quanto spesso scomodo e doloroso, principio di realtà.

De Gasperi, Adenauer e Schuman erano cattolici, e quindi decisamente ancorati alla realtà e alla concretezza, coi piedi per terra e la mente verso il Cielo.

L’evoluzione successiva dell’unione tra i Paesi europei non si può dire che ne abbia seguito le orme, sia in termini di statura morale che di saggezza a servizio del bene comune.

Ma il cambiamento più significativo e decisivo, a mio parere, determinato dal binomio Putin-Trump è la rinnovata primazia della politica sulla finanza e sul denaro.

Dagli anni ’90 in poi, ci eravamo abituati al fatto che fossero la finanza e l’economia a determinare gli equilibri e le dinamiche di un mondo globalizzato.

Duole constatare come, anche in questo stravolgimento del panorama mondiale, la UE vada contromano rispetto al mondo che cambia.

 Invece di concepire e attuare una politica coerente con i suoi interessi geostrategici, continua imperterrita a rispondere a logiche meramente economico-finanziarie, limitandosi a parlarsi addosso e lasciando di fatto agli altri attori planetari l’iniziativa.

 

Ricorda un po’ l’orchestra del Titanic, che almeno dalla sua aveva la nobiltà di affrontare con eleganza una morte scontata.

D’altro canto, appare sempre più evidente come la UE manchi di una leadership di livello adeguato.

Quella che ne regge le sorti nella tempesta si dimostra priva degli strumenti culturali e della capacità, individuale e politica, necessari ad affrontare le sfide del presente e del futuro.

“Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare”, ammoniva Seneca.

 

 

 

 

I “Dem Usa” tardano ad analizzare

le ragioni di una débâcle.

Ildomaniditalia.eu – (20 Febbraio 2025) - Enrico Farinone – ci dice:

 

Con questo secondo articolo, dopo quello uscito ieri sempre su queste pagine, l’autore affronta l’insieme dei problemi da cui è derivata la sconfitta di Kamala Harris.

 I Democratici hanno peccato di astrattezza e radicalismo.

 

Come sempre accade i motivi di una sconfitta elettorale sono molteplici. Soprattutto quando essa non è scontata, ovvero la competizione è aperta.

 È questo il caso degli Stati Uniti, dove alternativamente il Presidente eletto appartiene a uno dei due partiti politici principali.

Generalmente, anche se non sempre, il Presidente uscente viene confermato per un secondo mandato.

Poi capita spesso che quello successivo rappresenti l’altro partito.

 Una sana alternanza.

 

Era però accaduto solo una volta, molte decadi fa, che un Presidente partecipasse a tre elezioni, perdendo la seconda e vincendo le altre due.

Non si era mai verificato, invece, quello che è accaduto a Donald Trump durante il periodo di mezzo fra le due elezioni:

dall’assalto a “Capitol hill “da parte dei suoi sostenitori, alle persistenti accuse di brogli rivolte ai vincitori delle elezioni da lui perdute, al non riconoscimento del nuovo Presidente, ai processi subìti per accuse molto gravi, agli scandali sessuali e quant’altro.

 

Nonostante tutto questo, Trump ha vinto nettamente le elezioni dello scorso novembre.

 Il Partito Democratico, oltre a cercare di riorganizzarsi come già abbiamo visto nel precedente articolo, dovrebbe però analizzare in profondità le motivazioni di una sconfitta che aveva il dovere di evitare, ben sapendo che non si sarebbe trattato di un semplice avvicendamento, come era sempre stato nel passato, perfino con Ronald Reagan, che pure aveva recato con sé un cambiamento alquanto netto nelle politiche degli USA.

Ben sapendo che questa volta sarebbe stata una “rivoluzione reazionaria!

Questa analisi finora non è stata fatta. O quantomeno non è ancora emersa.

È auspicabile però che un qualche centro studi dei Democratici la stia producendo. Perché senza conoscere e comprendere i motivi di fondo della debacle risulterebbe arduo trovare la via per la riscossa.

 

Gli errori, per così dire, superficiali non sono stati, per quanto gravi, determinanti ai fini della sconfitta.

 Certo, Joe Biden ha sbagliato nel volersi ricandidare.

Ha sottostimato i segnali di invecchiamento che pure, e non solo a livello fisico, erano apparsi chiaramente nel corso del quadriennio.

Così facendo non ha aiutato il suo partito nella selezione di un candidato adatto a battersi contro Trump, che probabilmente Biden ha compreso troppo tardi sarebbe stato davvero nuovamente il competitor da sconfiggere.

Non ha neppure aiutato la sua vice, Kamala Harris, a crescere, sostanzialmente relegata ai margini per tutto il periodo (come per la verità accade sempre, o quasi, ai vicepresidenti).

 

Certo, la Harris è scesa nell’arena troppo tardi, non per colpa sua. Ha però sbagliato totalmente il “running mate”, il vice:

 non adeguato, non all’altezza e troppo radicale, un’aggettivazione che già marchiava la candidata e che dunque non era proprio il caso di rafforzare.

Certo, Biden quattro anni prima era riuscito a creare un certo pathos intorno alla sua volontà unitaria, per riscoprire “the soul of the nation”, l’anima della nazione, dopo la turbolenta presidenza Trump;

mentre Harris nella seconda parte della breve campagna elettorale, diciamo dopo la “Convention di Chicago” (quando ha cominciato a scendere nei sondaggi), ha puntato su un divisivo “rischio fascismo” che palesemente agli elettori alle prese con i problemi causati dall’inflazione alta poco o nulla importava. Ma questi, e altri, sono stati errori secondari.

Superficiali, appunto.

 

Quelli profondi e decisivi sono stati altri.

Ne hanno ovviamente parlato e scritto in questi mesi molti commentatori internazionali.

Qui da noi segnalo le acute osservazioni di un buon conoscitore degli States come “Francesco Costa”, fresco direttore del “Post”, e di un giornalista assai noto come “Federico Rampini”, che ha avuto il coraggio di denunciare la deriva radicale dei Democratici ed è stato naturalmente bersagliato di contumelie dai radicali nostrani, provenendo egli dal medesimo campo.

 

Il primo tema è di natura economica, come sempre accade ovunque.

E qui l’errore è consistito nella sottovalutazione di quanto il crescere dell’inflazione avesse inciso nella capacità di spesa delle famiglie americane.

Frutto dell’enorme liquidità piovuta sull’economia statunitense per riprendersi dal biennio depressivo provocato dalla pandemia del 2020/2021 che ha consentito una ripresa economica notevole, con la conseguente crescita di posti di lavoro, salari, pensioni, spesa sanitaria.

Tutto però eroso dall’aumento dei prezzi. E negli Usa quando aumenta il costo del gallone di benzina per il governo in carica sono dolori.

 

Il secondo tema è, invece, di natura culturale, è sorto in questo nuovo secolo ed è incentrato sul tema dei diritti individuali, enfatizzati e radicalizzati da una componente che da minoritaria è divenuta egemone nel Partito Democratico sino a emarginare totalmente chi osava non adeguarsi alla nuova filosofia (schematicamente e semplicisticamente definita “woke” dalla pubblicistica, innanzitutto quella ostile ai Dem: ma non staremo qui a ricordarne la derivazione dall’incitazione “wake up” rivolta agli emarginati sociali).

Ne avevamo già scritto qui, esplicitando il rischio principale che correva Harris, espressione di San Francisco e della “californizzazione” del suo partito.

Un imprinting associato all’estremizzazione del “politically correct” condotta da movimenti quali Lives Black Matter, da larga parte della comunità Lgbtq+, da politici molto fashion come la famosa Ocasio-Cortez, dall’anima ambientalista assolutista, e via radicalizzando.

 

Un insieme di posizioni trasformate da giuste rivendicazioni in strumenti di offesa totale nei confronti dei portatori anche solo di opinioni parzialmente diverse all’insegna di un intransigentismo ideologico che ha allontanato dal voto al Partito Democratico molte persone, gente comune non solo – come è d’uso dire – dell’America rurale più profonda ma anche delle comunità (donne, giovani, latinos, finanche uomini di colore) tradizionalmente vicine alle battaglie sociali dei Democratici: quelle che avevano fatto vincere Biden, e prima di lui Obama.

 E che invece questa volta si sono ribellate al dominio incontrastato di un ceto benestante e acculturato sensibile ai temi dell’inclusione ma non a quelli derivanti – per il ceto popolare e per il ceto medio – da una esasperazione applicativa dei medesimi.

È sulla reazione che ne è derivata che ha fatto leva la campagna di Trump. Radicalizzando a sua volta in senso contrario a quello dei Democratici ogni tema investito dall’evoluzione woke dell’imprinting culturale degli avversari, di cui Harris era una perfetta rappresentante.

Così sull’ambiente (“Drill, baby, drill”), sull’immigrazione (“deportation of illegal immigrants”), sui diritti civili (“only male and female”), oltre alla lotta al “fentanyl” furbescamente associata alla chiusura nei confronti di qualsiasi depenalizzazione per l’utilizzo di sostanze tossiche, e a quella contro le quote fisse da riservare nelle scuole e nelle università per le minoranze che però penalizzano gli asiatici (i quali infatti hanno in larga misura votato per il tycoon).

 

Una gestione più accorta, più moderata e soprattutto più attenta al sentire comune dell’americano medio avrebbe impedito, assai probabilmente, ai Democratici Usa di subire una sconfitta i cui esiti ora avvertiamo nell’intero mondo occidentale.

E sono esiti pesanti.

(ildomaniditalia.eu/il-partito-democratico-usa-dovrebbe-riflettere-sui-motivi-della-sconfitta/).

 

 

 

Oltre la guerra: le incertezze che

gravano sull’accordo russo-americano.

Ildomaniditalia.eu – Asia News – (25-3 – 2025) – Redazione – ci dice:

Putin mira alla proclamazione solenne della Vittoria nella parata del 9 maggio. Una conferma della sua intenzione di proseguire a oltranza la guerra è stata data dall’assemblea dell’Unione russa degli imprenditori e investitori.

 

Le trattative tra Donald Trump e Vladimir Putin si trascinano piuttosto stancamente, senza di fatto lasciar intravedere una fine del conflitto in Ucraina, con le promesse di non toccare le infrastrutture energetiche ucraine, mentre lo stesso giorno una pioggia di droni-kamikaze e avio-bombe si sparge sull’intero Paese invaso, occupato e devastato da più di tre anni.

 Il Cremlino accompagna queste false promesse con assicurazioni a dir poco tragicomiche, raccontando che non appena Putin ha dato l’ordine di non colpire le centrali ucraine, gli aerei russi sono stati costretti ad abbattere i loro stessi droni che stavano andando proprio verso quegli obiettivi, che poi Trump ha proposto di affidare agli americani.

 In compenso, pare che i due imperatori siano riusciti ad accordarsi sulle partite di hockey tra le rispettive nazionali, una notizia che ha suscitato grande entusiasmo nell’opinione pubblica russa, che considera gli americani come i propri sparring partner per ottenere vittorie veramente soddisfacenti.

 

È del resto evidente che Putin mira alla proclamazione solenne della Vittoria nella parata del 9 maggio, e prima di allora qualunque trattativa sarà soltanto una messinscena, nella narrazione trumpiana degli “spettacoli televisivi ben riusciti” e delle conversazioni “cordiali e molto promettenti”.

La prossima puntata del serial russo-americano sarà a Gedda il 23 marzo, per cominciare a mettere per iscritto il piano di pace (verranno anche gli ucraini, ma senza incontrare i russi), o forse soltanto la trama dei sequel successivi, per mantenere alto l’interesse del pubblico.

Da parte russa si applica invece la tattica classica della “trappola sovietica”, come ha osservato l’ex-ufficiale della Cia “Matthew Schumacher”, quando ai tempi della guerra fredda l’Urss rallentava qualunque processo di dialogo e trattativa per cercare intanto di riorganizzarsi, e trovare nuove leve di influenza sugli avversari.

Oggi Putin ha bisogno di tempo non solo per rispettare la scaletta delle puntate fino a maggio, ma anche per mettersi al sicuro dal punto di vista politico e militare, e soprattutto da quello economico.

 

La sintonia tra i due grandi hockeisti di Oriente e Occidente, come confermano tutti gli osservatori, consegna al Cremlino la prima e fondamentale vittoria agognata da più di trent’anni, vale a dire il ritorno della Russia al tavolo delle superpotenze, come attore di primo piano nell’arena politica mondiale.

 La questione dell’Ucraina non è neanche l’argomento fondamentale del dialogo, perché oltre allo sport delle palettate sul ghiaccio interessano i grandi affari energetici e minerari, e l’aggiramento delle sanzioni da affidare non soltanto ai sudditi caucasici e centrasiatici o al grande fratello cinese, ma direttamente ai partner americani.

 L’ultima cosa che può interessare lo zar sono le soluzioni per la pace, visto che ormai è assodato che la guerra rimarrà il contesto fondamentale della vita dei popoli, soprattutto in Europa e dintorni.

 

Una conferma ulteriore dell’intenzione putiniana di proseguire a oltranza la guerra è stata data dall’assemblea dell’Unione russa degli imprenditori e investitori (Rspp) nei giorni scorsi, in cui il presidente ha garantito che “la Russia è pronta ad attaccare Odessa”, se l’Ucraina non riconoscerà le regioni annesse della Crimea, di Lugansk, Donetsk, Zaporižja e Kherson, che i russi chiamano “il Donbass e la Novorossija”, le zone simboliche dei cosacchi e degli ebrei deportati nei secoli passati.

All’inizio la pretesa si limitava al territorio storicamente più significativo della penisola di Crimea, occupata e inglobata nel 2014, ma siccome “nessuno ci ascoltava”, si è giunti a imporre la presenza russa anche al di là dei territori effettivamente conquistati, visto che parti di queste regioni sono ancora sotto il controllo dell’Ucraina.

Putin ha comunque dichiarato che Mosca può andare anche oltre queste richieste, mirando a “tutti i territori attualmente sotto il controllo di Kiev”.

 Non a caso la telefonata con Trump ha avuto luogo subito dopo l’assemblea degli imprenditori, da cui lo zar ha preso particolare ispirazione.

 

 

 

Il caso Prodi e il silenzio di

chi dovrebbe parlare.

Ildomaniditalia.eu – Giorgio Merlo – (25 Marzo 2025) – ci dice:

 

Anche nel rapporto tra la politica e il giornalismo - o meglio tra i singoli politici e i singoli giornalisti - c’è la doppia morale. Ovvero, quello che vale per l’uno non vale per l’altro.

Ha fatto rumore – anche se non dappertutto – la reazione di Romano Prodi alle domande, semplici ed educate, di una giornalista di Mediaset sull’ormai famoso ‘Manifesto’ di Ventotene.

Non entro nel merito della risposta e del comportamento dell’ex capo del governo se non per evidenziare che si resta francamente basiti ed esterrefatti dell’atteggiamento concreto manifestato da Prodi.

Certo, fa una certa impressione assistere ad un comportamento che confligge radicalmente con tutto ciò che viene quotidianamente predicato dalla sinistra giornalistica, editoriale, culturale, politica, accademica e giudiziaria sulla qualità della nostra democrazia e la credibilità della stessa classe politica.

 

Ma, al di là di questa considerazione, sono due gli elementi che emergono da questa triste vicenda e che meritano di essere citati.

Innanzitutto il silenzio tombale di tutta la stampa politicamente schierata a sinistra sul fatto accaduto tra Prodi e la giornalista di Mediaset.

Se non per ricordare che Prodi non deve affatto “scusarsi” di ciò che è concretamente capitato e che, anzi, proprio questo alterco – sempre secondo l’interpretazione degli organi di informazione giornalistici e televisivi riconducibili alla sinistra – confermerebbe la natura provocatoria, ignorante e scorretta delle testate giornalistiche o televisive non schierate con il cosiddetto “campo largo”.

 

In secondo luogo ed è, questo, il dato più inquietante, il silenzio – seppur imbarazzato ma pur sempre silenzio – degli organismi di categoria che dovrebbero sempre tutelare e garantire il lavoro dei giornalisti quando viene declinato rispettando sino in fondo le regole deontologiche e professionali.

 E, nello specifico, mi riferisco all’Ordine dei Giornalisti e alla Federazione della Stampa che sono sempre molto attenti e giustamente premurosi ogniqualvolta c’è un attacco al “mestiere” e alla “professione” dei giornalisti.

Questa volta, misteriosamente, è calato il silenzio.

Almeno sino ad oggi. 

Ora, e al riguardo, un organo di garanzia e di rappresentanza dei giornalisti è credibile, nonché serio, se è semplicemente trasparente ed oggettivo.

Cioè, se non piega le valutazioni sulle vicende concrete dei singoli giornalisti che svolgono correttamente il loro lavoro a ragioni politiche e di appartenenza partitica.

 Perché, se così fosse, dovremmo prendere amaramente atto che anche gli organi di garanzia sono semplice espressione di una volontà politica e di partito.

Sul silenzio, invece, della sinistra politica nelle sue multiformi espressioni, delle tradizionali femministe e dei rispettivi movimenti, della sempreverde società civile e dello “spirito delle piazze” non c’è da stupirsi di alcunché.

 

Resta, comunque sia, l’amaro in bocca per un solo dato prendendo spunto proprio da questa vicenda.

 E cioè, anche nel rapporto tra la politica e il giornalismo – o meglio tra i singoli politici e i singoli giornalisti – c’è la doppia morale.

 Ovvero, quello che vale per l’uno non vale per l’altro.

Con il rischio, sempre più con concreto e tangibile, di squalificare sia la politica che il giornalismo.

 

 

 

“Ma che cazzo sta succedendo

 in America?”(Quarta parte).

Doppiozero.com - Alessandro Carrera – (15 Marzo 2025) – ci dice:

Ma insomma, Trump e Musk hanno un piano sì o no?

 Hanno veramente progettato di far cadere a vite l’economia americana per uno scopo preciso che non ci vogliono dire?

Sanno quello che stanno facendo o non ne hanno idea?

Vogliono risollevare il mondo dallo sfascio in cui lo stanno gettando o sparano alla cieca?

Il governo che hanno messo insieme è una cosa seria o una puntata di Drive In? Cosa dobbiamo fare noi terrestri, prenotare il primo volo per Marte?

 

Me lo chiedono dall’Italia, e io che posso dire?

 Una risposta distaccata, da economista, da geopolitico, da grande stratega dei talk show, sarebbe:

“Il capitalismo è fondato sull’alternanza di prosperità e di crisi, ogni tanto uno scossone al sistema è inevitabile, bisogna prepararsi al peggio quando le cose vanno bene e prepararsi al meglio quando le cose vanno male”.

Oppure:

“Trump e Musk parlano in modo brutale ma chiaro, ci mettono di fronte ai problemi che per troppo tempo non abbiamo voluto affrontare”.

Oppure ancora:

 “Dobbiamo guardare ai fatti, non alle dichiarazioni, e nei fatti Trump e Musk stanno resettando un ordine mondiale ormai stagnante, qualunque idea che possa scuotere la situazione a Gaza e in Ucraina sarà sempre meglio di come stanno le cose ecc. ecc.”.

Io però non sono uno stratega da talk show, e mi accontento di una saggezza molto più terrena e poco marziana, per esempio quella espressa da “Dwight K. Schrute”, personaggio della serie televisiva “The Office”:

 “Ogni volta che sto per fare qualcosa mi chiedo: un idiota lo farebbe?

Se la risposta è sì, allora non lo faccio” (“Whenever I’m about to do something, I think, would an idiot do that? And if they would, I would not do that thing”).

In altre parole, ogni volta che sto per mettere i bastoni tra le ruote ai miei alleati, ogni volta che faccio crollare la borsa, ogni volta che rischio di mandare il mio paese in recessione, ogni volta che abbandono al suo destino una nazione amica che cerca di resistere a un’invasione, mi chiedo: un idiota lo farebbe?

E, se la risposta è sì, di certo non lo faccio, e mi aumenta anche il sospetto che chi lo sta facendo sia un idiota.

 

Avere un idiota come capo, in ogni situazione, dal più modesto ufficio alla più alta carica dello stato, scatena in tutta la squadra quell’idiozia latente che in tempi normali verrebbe repressa dalle buone maniere e dalla sensazione che tutto sommato non sarebbe bene accetta.

 Nella loro storia, gli Stati Uniti sono sempre stati percorsi da qualche ventata di idiozia (mia traduzione da Idiot Wind di Bob Dylan).

Quella attuale presenta però alcuni tratti di regressione estrema, di darwinismo al contrario, la cui spia è la crudeltà ferina della quale si fa vanto.

 La Guerra di Secessione è stata un errore e comunque gli schiavi erano trattati meglio prima che non dopo (parole del tecno-ideologo “Curtis Yarvin” – il che in certi casi è tanto vero quanto irrilevante; c’è mai stato un ex-schiavo che abbia rimpianto i bei tempi della schiavitù?).

Qualunque riferimento all’uguaglianza tra esseri umani o all’equità di trattamento tra razze e gender deve essere abolito con la stessa brutalità con la quale il partito baathista di Saddam Hussein è stato distrutto in Iraq (parole del vicepresidente J.D. Vance).

La condizione naturale del mondo è quella in cui il maschio di razza bianca è al potere; tutto il resto è wokeism da estirpare senza pietà.

Anche il diritto di voto alle donne può essere rimesso in discussione.

L’ha fatto “Joel Webbon”, pastor del movimento cristiano-nazionalista “Theo Bros” (“Fratelli in Teologia”) di cui fa parte anche la chiesa di “Pete Hegseth”, il nuovo Ministro della Difesa.

Le donne hanno l’intelligenza di un bambino di cinque anni, ha detto “Webbon”, e i bambini di cinque anni non votano (Joel Webbon Says Women Shouldn't Be Allowed To Vote).

 Dio ha creato l’uomo protettore della donna, e il diciannovesimo emendamento della Costituzione, che dà alle donne il diritto di voto, va abolito e sostituito dal diritto del capo di casa di votare a nome dell’intera famiglia.

 

“Hegseth” ha espresso posizioni simili, anche se non ufficialmente (ma l’hanno rivelato alcuni suoi parenti), e le conseguenze politiche sono state rapide. I repubblicani hanno già proposto una legge che richiede alle donne di presentarsi ai seggi elettorali con un documento che riporti il loro cognome da nubile. Significa che se una donna ha assunto il cognome del marito, come è comune in America, e non mostrerà al seggio elettorale un passaporto o un altro documento con il cognome originario (il certificato di nascita è poco richiesto e moltissimi non ce l’hanno), non potrà votare.

Circa 69 milioni di donne perderebbero l’accesso al voto a meno di non procurarsi il pezzo di carta necessario, ma molte non lo farebbero, lascerebbero perdere e non andrebbero a votare.

È molto improbabile che la legge passi al Senato, ma è già passata alla Camera, il che fa capire con quale intensità, da uragano a forza cinque, stia soffiando il vento dell’idiozia.

Quanto durerà questo elettroshock globale?

 Durerà finché le implicazioni economiche della rivoluzione in atto si faranno sentire in tutta la loro portata e, per reggerle, l’elettore trumpiano avrà bisogno di una dose di stoicismo, o di fede cieca, che per il momento lo sostiene ma in futuro potrebbe rivelarsi perfino superiore alle sue forze.

Il licenziamento di 100.000 impiegati federali, che è stata la prima mossa di Musk, potrebbe essere, nei calcoli più pessimisti, il primo grumo di neve che dà inizio a una valanga.

I fornitori abituali degli uffici eliminati potrebbero ridurre la produzione, fermare le assunzioni o procedere a licenziamenti in proprio che a loro volta produrrebbero altre contrazioni nella filiera e soprattutto la decisione degli investitori di bloccare ogni iniziativa e stare a vedere cosa succede.

Nel mese di febbraio, alcune grandi aziende nel settore dell’energia hanno già fermato 4 miliardi e 200 milioni di dollari di spese in infrastrutture.

Se a questo si aggiunge l’incertezza sui dazi, ieri istituiti, oggi ritirati, domani minacciati di nuovo, il contraccolpo potrebbe farsi sentire già tra aprile e maggio.

La proposta di abolire il “National Oceanic and Atmospheric Administration” (NOAA) perché “contaminato dalla falsa credenza nel riscaldamento globale”, avanzata dal Ministro del Commercio “Howard Lutnick”, privatizzerebbe di fatto le previsioni del tempo, con danno soprattutto delle comunità rurali e delle piccole città esposte ai tornadi e alle inondazioni.

 Intanto, nel nord del Texas, in una comunità di cristiani mennoniti restii alle vaccinazioni, è scoppiata un’economia di morbillo che conta già due morti (i primi negli Stati Uniti in dieci anni).

 

Robert F. Kennedy Jr, Ministro della Sanità e “anti vax extraordinaire”, dapprima ha ammesso a denti stretti che forse vaccinare i bambini non è una cattiva idea, anche se deve rimanere una “decisione personale”.

Ma il contraccolpo che ha ricevuto dalla base trumpiana (“Vergognati!” “Venduto all’industria farmaceutica!”) è stato tale che ha subito fatto marcia indietro, consigliando in alternativa olio di fegato di merluzzo, steroidi e antibiotici.

 Ha affermato con forza che i risultati di tali rimedi sono “straordinari”, che bisogna soprattutto occuparsi dei bambini ammalatisi per via del vaccino e che la causa dell’infezione è la malnutrizione.

Ma i mennoniti del Texas seguono una dieta rigida e cucinano tutto in casa; in effetti mangiano meglio della maggior parte degli americani, e che gli antibiotici non servano contro un virus lo sanno anche gli idioti (o no?).

Ho già avuto modo di scrivere in passato che in America, se un fanatico delle armi deve scegliere tra i suoi fucili e il cadavere di suo figlio, sceglie i fucili.

E se un fanatico antivaccini deve scegliere tra la sua convinzione e il cadavere di suo figlio, troverà il modo di dire che se suo figlio si fosse vaccinato sarebbe morto ancora di più.

Non sto inventando niente, i dottori della “Gaines County” dove l’epidemia è scoppiata, sono tempestati da richieste di genitori che per i loro figli non vogliono il vaccino, vogliono olio di fegato di merluzzo.

 

Ma, morbillo a parte, è soprattutto il rallentamento del mercato immobiliare, già sceso del 5%, a far temere la recessione.

Ovviamente queste sono le previsioni degli economisti “di sinistra”; di A”mbrose Evans-Pritchard”, ad esempio, che aveva lavorato con Obama, e come tali accolte con disprezzo dai repubblicani.

E c’è da sperare nelle loro risate di scherno, perché altrimenti un altro 2008 sarebbe vicino, e potrebbe essere anche peggiore.

“Gran disordine sotto il cielo, la situazione è eccellente.”

 Qualcuno si ricorda di questa frase di Mao Zedong, che fece da mantra alla Rivoluzione Culturale?

In America, la Rivoluzione Culturale la volevano fare i professori di gender studies; invece l’ha fatta Elon Musk con le sue Guardie Rosse che hanno invaso gli uffici federali.

 Ma se c’è qualcuno che quella frase se la ricorda, è Xi Jinping, che dalle Guardie Rosse venne mandato in miniera a purificarsi delle sue inclinazioni borghesi.

 Che cosa starà pensando, Xi Jinping?

Si è seduto sulla riva del fiume ad aspettare che passi il cadavere dell’America, oppure teme che gli Stati Uniti non pagheranno più gli interessi sui 770 miliardi di debito americano (circa il 9% del debito complessivo) che la Cina ha comprato?

E la stessa domanda se la stanno ponendo gli altri paesi che detengono parte del debito: Giappone, Canada, Gran Bretagna, Lussemburgo.

Gli Stati Uniti stanno diventando uno stato canaglia, o lo sono già diventati?

 

Ma se parlo della Cina è perché ne sono toccato, o meglio lo è il dipartimento di lingue straniere di cui sono direttore.

 È stata una mia collega cinese a offrirmi il paragone con la Rivoluzione Culturale, anche se lei è troppo giovane per averla vissuta.

Qualche giorno fa l’ho informata dell’”Ordine Esecutivo GA 48, emesso il 19 novembre 2024 “dal Governatore del Texas “Greg Abbott”, più trumpiano di Trump.

Poiché il direttore dell’FBI ed altre agenzie governative hanno dichiarato che la Repubblica Popolare Cinese e il Partito Comunista Cinese sono la più grave minaccia che grava sugli Stati Uniti, il governatore del Texas ha pensato bene di sottoporre a ulteriori controlli tutti i rapporti che le aziende e le università texane hanno con la Cina.

Contratti e donazioni devono essere vagliati non solo del “Ministero dell’Istruzione” (che Trump sta già riducendo del 50% per poi abolirlo, e dunque non vaglierà più nulla) ma anche dal “Board of Education “dello Stato del Texas.

 

Il paragrafo che mi riguarda è l’ultimo:

le università devono informare il personale della proibizione assoluta di prendere parte al reclutamento di studenti cinesi che intendono venire a studiare in America grazie al programma bilaterale noto come “Mille Talenti”.

La mia collega ha letto l’”Ordine Esecutivo” e ha deciso che questa estate non andrà a trovare la sua famiglia.

Non è ancora cittadina americana, ha solo il permesso lavorativo (la famosa “carta verde”) e non vuole rischiare.

Avrà un bambino, ma i nonni lo vedranno via zoom.

 

Il programma di cinese della mia università ha già cominciato a perdere studenti. Con le nuove restrizioni ne perderà ancora di più, così come li stanno perdendo le altre lingue.

 Perché studiare una lingua straniera, con il rischio di essere considerato troppo poco americano, o, nel caso di uno studente cinese che vuole studiare in America, una spia?

 

Certo che ci sono spie cinesi in America.

 Ci sono sempre state, suppongo, come ci sono spie americane in Cina, e forse dovrebbero fare un lavoro migliore, direi.

Un paio di spie cinesi, non molto tempo fa, prima di essere scoperte erano arrivate abbastanza in alto nei loro rapporti con lo Stato della California e di New York.

Ma un conto è lo spionaggio ad alto livello, un altro è il dilagare della cultura del sospetto anche tra i colleghi più woke.

Durante gli anni del Covid avevo una studentessa che non aveva fatto in tempo a ricevere il visto di studio e si collegava dalla Cina.

 Parlava e scriveva benissimo in inglese e nel mio corso sulle idee della modernità era certamente la migliore.

Non appena è riuscita a venire a Houston ha finito la laurea specialistica in cinese e si è iscritta al dottorato in magistero.

 Ma un mese fa una sua insegnante è venuta a chiedermi se la conoscevo e quanto la conoscevo, perché quella ragazza, insomma, fa troppe domande.

Come sarebbe a dire, ho chiesto.

 Sì, fa domande a tutti, agli altri studenti, ai professori, domande sull’America, sulla vita in America, su quello che la gente dice e pensa. È

 per caso una spia?

 

Mi sembrava di ricordare che quella ragazza fosse stata nell’esercito, il che forse spiegava la sua dimestichezza con l’inglese.

 Può darsi che debba mandare rapporti regolari ai suoi ex superiori, che forse sono ancora i suoi superiori.

Ci si può davvero congedare dall’esercito cinese senza dover rendere più conto a nessuno?

Può darsi, ma io che ne so?

Oggi come oggi il visto di studio le verrebbe rifiutato.

Ma forse quel suo continuo domandare viene, se non dalla sua curiosità personale su questi strani americani, dal banalissimo fatto che non trova niente di importante da riferire.

 Non è che in un programma di magistero si possano scoprire chissà quali segreti.

 

Cosa vuol dire tutto questo?

Che non so più se sono io che ho capito l’America o se è l’America che ha capito me, mi ha manipolato, mi ha fregato ben bene e mi costringe a parlarne in continuazione mentre dovrei fare tutt’altro.

Se poi un giorno si scoprirà che Trump e Musk avevano ragione, e che lo scossone che hanno dato al mondo era salutare, e che pure Greg Abbott aveva ragione, mi consolerò, rendendomi conto che l’idiota ero io.

In questo momento, la mia più grande paura è quella di non essermi sbagliato.

 

Ma c’è un punto sul quale Trump il piano ce l’ha davvero:

 la Russia deve vincere la guerra con l’Ucraina, e se proprio non può vincere allora deve uscirne con tutti gli onori, come vincitrice morale.

Ma è un piano alla sua maniera, che consiste nel fatto che nessuno sa che cosa farà Trump fra mezz’ora.

Un giorno gli Stati Uniti non condividono più la loro intelligence con l’Ucraina, e la Russia ne approfitta per bombardare a tappeto.

 Il giorno dopo la condividono ancora, e l’Ucraina ne approfitta per mandare sulla Russia tutti i droni che può, prima che alla Casa Bianca cambino ancora idea.

Un giorno, Trump fa capire che i russi sono i buoni e gli ucraini sono i cattivi, un altro giorno dice che quello che accade in Ucraina è terribile.

 Il senatore Mark Kelly, democratico, di ritorno dall’Ucraina twitta che qualunque accordo si raggiunga non può risolversi in una semplice concessione a Putin.

Elon Musk twitta in risposta: “Sei un traditore”.

 E ciò che Musk scrive, Trump lo controfirma.

Poi però negli incontri di Gedda si parla di un cessate il fuoco e della ripresa degli aiuti all’Ucraina.

Ma lì Trump non c’era.

C’era Marco Rubio, il Segretario di Stato, di cui nessuno ha mai detto che sia un genio, ma è stato l’unico che durante l’imboscata a Zelensky alla Casa Bianca cercava di sprofondare nel divano.

 

Qual è dunque il senso di questi continui ictus geopolitici?

 Se io fossi uno stratega da talk show, direi che è tutto molto chiaro:

Trump vuole avvicinare la Russia agli Stati Uniti per rompere l’asse con la Cina, il vero nemico numero uno dell’America, come dice anche il mio governatore.

 È un grande progetto, e se comporta che l’Ucraina diventi un vassallo della Russia o che Zelensky debba andare quantomeno in esilio, poco male, il nuovo ordine mondiale sarebbe garantito.

 

Ma io non sono uno stratega da talk show e continuo a pensare che se una cosa che ho in mente di fare la farebbe un idiota, forse farei meglio a non farla.

 Anche un idiota capirebbe che Putin, pur di prendersi l’Ucraina o anche solo per uscire dalla guerra a testa alta, sarebbe prontissimo a fingere di allentare i rapporti con la Cina senza mai allentarli davvero, né Xi Jinping gli permetterebbe mai di chiudere con Pechino e volgersi verso Washington.

No, mi correggo. Non lo capirebbe.

Se lo capisse non sarebbe un idiota.

 

Ma qualcosa mi è accaduto stamattina, leggendo sul “New York Times” il ritratto di una vegana di nome “Allison McCulloch”, di professione baby-sitter, grande appassionata di cinema e di cucina vegetariana.

Per ogni film che vede, Ms. McCulloch annota sul suo blog i necessari “vegan alerts”, così che gli altri vegani non rimangano traumatizzati guardando un film in cui qualcuno urla a un cane, dà una pacca a un gatto o mangia una bistecca.

Finora ne ha schedati 24.082.

Non si ha idea di quali traumi si possano nascondere nei film in apparenza più inoffensivi.

Ci sono film in cui qualcuno mangia pesce crudo o lo squarta dopo averlo pescato, altri in cui si usano cavalli come animali da tiro (anche questo accade), altri in cui ci sono scene girate in una macelleria con carne vera in evidenza, altri ancora in cui qualcuno beve del latte – un atto che sembra innocuo e invece è pieno di violenza.

“Allison McCulloch” sa benissimo che, contrariamente a quanto avveniva in passato, nei film hollywoodiani di oggi non c’è più violenza contro gli animali, il lavoro lo fanno le protesi e gli effetti speciali, ma l’importante è non dare il cattivo esempio.

Nell’ultimo episodio di “Star Wars”, “Luke Skywalker” munge una creatura aliena che assomiglia a un tricheco.

 Perché mai mostrare una cosa simile, si chiede Ms. McCulloch.

Perché Luke Skywalker deve proprio bere del latte?

 

Finito di leggere l’articolo, ho pensato: sono salvo, siamo tutti salvi, finalmente una vera mistica è venuta a redimerci.

Non c’è Trump o Musk che tenga.

Facciano quello che vogliono, non potranno mai sconfiggere Allison McCulloch. Putin e Jinping, fatevi da parte.

 Non potete nulla contro Ms. McCulloch.

 Nemmeno Sant’Orsola e le sue undicimila vergini sarebbero in grado di competere con un’anima così pura.

Ma rimane un problema. Le uova, sempre le uova.

Ms. McCulloch è contraria alla scena di Il gusto delle cose, film del 2023 in cui Juliette Binoche, cuoca sopraffina, sbatte delle uova.

Ora, se nessun americano mangiasse più uova, non ci sarebbe ragione di prendersela con Trump perché non è riuscito ad abbassarne il prezzo.

 Sarebbe un trionfo della sua amministrazione, bisogna che Ms. McCulloch glielo dica.

 Sarà sicuramente una dem, ma certe soluzioni sono bipartisan.

Sì, ma poi cosa ne facciamo?

Per fermare l’influenza aviaria, durante l’amministrazione Biden sono stati uccisi 150 milioni di polli, maschi, femmine e trans.

Un olocausto di pollame che non accadrà più quando Trump chiuderà l’agenzia che controlla il diffondersi delle epidemie tra gli animali.

Eppure di galline ce ne sono ancora tante. E di uova ne fanno.

Più care, ma ne fanno.

 Se farle sbattute è violenza, mangiarle è un assassinio, e distruggerle è un genocidio.

Nel mondo di Ms. McCulloch no egg must be left behind, non si lascia indietro nessun uovo.

Ogni uovo si schiude, e ogni uovo è un pulcino.

L’America si popola di pulcini, che diventano a loro volta polli, e galli e galline, che fanno altre uova e altri pulcini, pulcini dovunque, in marcia per le strade, a banchettare nei giardini pubblici, ad agitare le alucce mentre bevono in massa alle fontane, che tentano di volare e sbattono contro i passanti, che ti entrano in casa e scagazzano sul divano, che fanno mucchio davanti alla televisione, che ti riempiono la vasca da bagno, che pigolano alle cinque del mattino che sembra il coro dell’Aida, che coprono le automobili come negli Uccelli di Hitchcock, che fanno pollaio nelle Tesla abbandonate, che invadono il prato della Casa Bianca e la residenza di Mar-a-Lago, e non è che prima venga l’uovo o la gallina, chi ci capisce più niente, apri la credenza e c’è una chioccia che cova e che ti guarda male, metti una mano nel cappotto e ti becca un galletto nervoso, alzi il cuscino e trovi sei pulcini bagnati, entri in macchina e senza accorgertene ti siedi su dodici uova, dici che cammini sulle uova e se le schiacci e ti senti un criminale, rimane solo una cosa da fare, bisogna riscrivere la Bibbia, Mosè va dal Faraone e gli dice se non lasci andare il mio popolo ti manderò la piaga delle uova.

 

 

 

Usa. Le scelte di Trump e l'opposizione

 senza voce: cosa succede ai democratici?

Avvenire.it - Elena Molinari, New York – (martedì 25 marzo 2025) – ci dice:

 

È lo stesso misto di stupore, incredulità e paura che spiega anche l’assenza di proteste di massa, di boicottaggi dei consumi e della nascita di movimenti politici online negli Stati Uniti.

Di fronte al rifiuto di Donald Trump di ottemperare agli ordini dei giudici, alla sua guerra delle tariffe che sta trascinando gli Stati Uniti in una recessione, alla deportazione di residenti permanenti, alla detenzione di coniugi di cittadini americani senza alcun precedente penale, alla chiusura del ministero all’Istruzione, al licenziamento di decine di migliaia di dipendenti federali, una domanda sorge spontanea: dov’è l’opposizione?

Che cosa stanno facendo i democratici per fermare la presa di potere del presidente americano e della sua Amministrazione?

Sono gli stessi democratici a fornire le risposte.

 Se interrogati, enunciano che stanno «definendo un messaggio» ed elaborando una nuova strategia per diffonderlo.

Poi informano che i vertici del partito si sono riuniti a metà marzo per tre giorni a “Leesburg”, in Virginia, a un’ora da Washington, per preparare nuove iniziative legislative e modi di «ritrovare una connessione» con gli elettori.

Infine, invitano alla pazienza, perché occorre osservare l’avversario per poterlo combattere, e, in ogni caso, la vera “resistenza” si è spostata nei tribunali, che sono il posto migliore per fermare «questo attacco frontale alla Costituzione».

I parlamentari di sinistra più coraggiosi illustrano questi passi nel corso di incontri con la cittadinanza (nei centri comunitari delle città americane) che puntualmente degenerano in urla di esasperazione quando, alle parole “ritirata strategica” o “nuovi approcci alla comunicazione”, gli elettori rispondono chiedendo “spina dorsale” e “azione”.

Si direbbe che il partito democratico sia paralizzato dal senso di impotenza di aver perso in un colpo solo la Casa Bianca ed entrambe le Camere e dalla vergogna di aver fallito miseramente nelle elezioni di novembre, quando la sua base gli ha voltato le spalle.

Forse sono anche sbalorditi, come la maggior parte degli osservatori della politica americana, dalla rapidità con la quale Trump ha rivoluzionato il governo federale e guadagnato autorità.

 È lo stesso misto di stupore, incredulità e paura che spiega anche l’assenza di proteste di massa, di boicottaggi dei consumi e della nascita di movimenti politici online negli Stati Uniti.

Nei circoli liberal di Washington si respira persino un certo cinismo, un “ve l’avevamo detto”, di chi scrolla le spalle e punta il dito contro i milioni di americani che hanno eletto Trump nonostante i democratici li avessero avvertiti dei rischi che rappresentava.

 Intanto la spirale degli Stati Uniti verso l’autocrazia e l’oligarchia accelera ed è sempre più ipnotizzante, come prevede il manuale dell’aspirante dittatore: capovolgi il normale, rendi tutto estremo, agisci come se nulla potesse fermare la tua avanzata.

L’unico che continua a girare di Stato in Stato per contrastare l’Amministrazione Trump è il senatore democratico (che preferisce definirsi socialista) “Bernie Sanders” — e i suoi comizi radunano folle sempre più imponenti.

 

Ma il silenzio dell’opposizione non fa che diminuire la credibilità che i democratici hanno perso quando hanno sostenuto la decisione di Joe Biden di ricandidarsi – pur sapendo che era assolutamente inadeguato – mentre, allo stesso tempo, proclamavano ai quattro venti che la posta in gioco con il voto del 2024 era epocale.

 È vero quello che molti a sinistra ammettono con la testa bassa:

il partito ha perso il contatto con l’elettorato.

Ed è altrettanto vero quanto molti analisti politici aggiungono: non c’è tempo per un esame di coscienza prolungato.

Non si può nemmeno ipotizzare, come alcuni membri dell’opposizione hanno sostenuto durante la riunione in Virginia di una settimana fa, che il “movimento Maga” imploda sotto il peso di una recessione.

La storia suggerisce infatti che una crisi finanziaria o altri eventi traumatici forniscono ottime giustificazioni per aumentare la repressione del dissenso.

I democratici - o qualsiasi altro gruppo che volesse rivestire il manto dell’opposizione - avrebbero invece la necessità di ripartire dal basso.

 Non dal Congresso, non da Washington, ma dalle assemblee pubbliche di quartiere o di paese, dall’ascoltare quale mossa dell’Amministrazione Trump sta avendo il maggiore impatto negativo sulla popolazione e cavalcarla.

 Il successo di tale strategia politica non sarebbe certo garantito, ma forse quanto meno scalfirebbe la sensazione diffusa di una Casa Bianca che, al momento, nessuno pare in grado politicamente e istituzionalmente di controbilanciare.

 

 

 

La crisi dei democratici.

Quelli americani.

Ytali.com - MARCO MICHIELI – (21 Marzo 2025) – ci dice:

 

Il Partito Democratico appare diviso, privo di una strategia chiara e incapace di rispondere efficacemente alla nuova realtà politica imposta dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.

Negli ultimi mesi, gli scontri interni sono esplosi con forza, mettendo in discussione la leadership del Senato, la direzione ideologica e persino la capacità dei Democratici di proporsi come alternativa credibile ai Repubblicani.

 

Venerdì scorso, dieci senatori democratici — per lo più senatori di “Swing States” prossimi al ritiro dalla politica — hanno votato a favore della proposta di finanziamento repubblicana, fornendo un supporto decisivo per la sua approvazione.

Tra loro c’era anche “Chuck Schumer”, capogruppo della minoranza democratica al Senato, il cui voto ha scatenato una crescente rivolta interna al partito.

 

L’adesione di “Schumer” ha infatti sorpreso molti.

 Inizialmente, diversi senatori democratici avevano messo in guardia sul rischio di creare un pericoloso precedente, soprattutto mentre Donald Trump e Elon Musk continuavano a smantellare il governo federale.

Tuttavia, altri sostenevano che respingere la proposta repubblicana e permettere lo “shut down” avrebbe finito per danneggiare i lavoratori federali, offrendo al contempo a Trump e Musk mano libera nel chiudere agenzie governative senza ostacoli.

 

Il rischio non era solo politico, ma anche pratico. Uno “shut down” si verifica quando il governo federale non riesce a rinnovare o approvare il budget per le proprie agenzie, costringendole a interrompere le attività.

Il blocco colpisce milioni di lavoratori federali, che si trovano a dover prendere congedo o a lavorare senza stipendio, con effetti a catena su numerosi servizi e programmi governativi.

“Schumer”, almeno inizialmente, sembrava deciso a opporsi.

 Aveva dichiarato che i senatori democratici avrebbero respinto la proposta repubblicana, consapevole che il loro voto era cruciale per evitare il “filibustering”. Per superare l’ostruzionismo servono infatti almeno sessanta voti, soglia necessaria per far avanzare certi provvedimenti legislativi senza il rischio di blocchi da parte dell’opposizione.

 

Eppure, nel giro di pochi giorni, il capogruppo democratico ha cambiato posizione. Non solo ha votato con i repubblicani, ma lo ha fatto senza tentare alcuna negoziazione — senza chiedere concessioni, senza ottenere modifiche, senza strappare impegni formali su alcuna misura.

Altri nove senatori democratici lo hanno seguito, consentendo ai repubblicani di evitare lo “shut down”.

 

Per Schumer, alla guida dei Democratici al Senato dal 2016, la scelta si è ridotta a una scommessa strategica: evitare un blocco governativo che, a suo avviso, avrebbe solo rafforzato Trump, lasciando ai democratici l’onere della colpa per i disservizi.

Il rischio, nella sua visione, era che chiudere il governo per chiedere restrizioni su Musk avrebbe finito per ritorcersi contro il partito, aggravando la situazione dei lavoratori federali e bloccando servizi pubblici essenziali — proprio le stesse cose per cui i Democratici accusano Trump.

La decisione di Schumer ha scatenato tuttavia un’ondata di polemiche all’interno del Partito Democratico.

 I deputati dem, che alla Camera avevano votato contro il disegno di legge (con una sola eccezione), si sono uniti in una furia bipartisan contro il leader della minoranza al Senato.

 L’indignazione ha attraversato ogni corrente del partito, coinvolgendo persino alleati storici di Schumer e figure di primo piano come “Nancy Pelosi”.

L’ex Speaker della Camera non ha usato mezzi termini.

“Chiaramente, nessuna delle due opzioni è buona per il popolo americano,” ha dichiarato.

Ma ha anche aggiunto: “Questa falsa scelta che alcuni stanno accettando invece di combattere è inaccettabile.”

Pelosi ha poi esortato i senatori democratici ad ascoltare le figure che guidano per il partito le commissioni per gli stanziamenti di bilancio:

la deputata “Rosa De Lauro “del Connecticut e la senatrice “Patty Murray “dello stato di Washington.

Entrambe avevano proposto un piano provvisorio di trenta giorni come alternativa alla proposta repubblicana, che invece estende il finanziamento fino a settembre.

 

A rendere il clima ancora più teso ci ha pensato” Alexandria Ocasio-Cortez”, che ha annunciato l’intenzione di mobilitare la sua vasta base di seguaci per contrastare quella che ha definito una resa incondizionata di Schumer alla Camera repubblicana.

 “C’è un profondo senso di indignazione e tradimento,” ha dichiarato la deputata di New York, che alcuni hanno invitato a sfidare Schumer per il seggio senatoriale di New York, sottolineando come molti elettori democratici si sentano traditi dai senatori del proprio partito.

Secondo “Ocasio-Cortez”, i democratici al Senato hanno “completamente rinunciato alla battaglia” e si sono arresi senza condizioni, abbandonando il loro dovere di proteggere la Costituzione.

Nemmeno “Hakeem Jeffries”, leader della minoranza democratica alla Camera, ha nascosto il suo disagio.

Il successore di Pelosi e controparte diretta di Schumer ha evitato di esprimere pubblicamente un giudizio netto, ma la sua posizione è stata eloquente:

 ha ripetutamente rifiutato di rispondere a domande dirette su Schumer e sulla sua fiducia nella leadership del Senato.

Le tensioni non si limitano alla Camera:

anche al Senato il consenso attorno a “Chuck Schumer”, un tempo solido, sembra ora vacillare.

Secondo la stampa statunitense, molti senatori democratici avrebbero deliberatamente evitato di difendere la sua scelta, un segnale che il sostegno nei suoi confronti potrebbe sgretolarsi.

 

Il senatore della Georgia “Raphael Warnock” ha addirittura suggerito che il partito debba iniziare a guardare a una nuova leadership.

 Anche “Chris Coons”, senatore del Delaware e stretto alleato di Joe Biden, ha fatto eco a questa posizione, pur senza attaccare apertamente Schumer.

 “Una serie di corti federali ha chiarito che, secondo loro, il presidente Trump sta agendo illegalmente e non rispetta il ruolo del Congresso nell’assegnazione dei fondi,” ha dichiarato” Coons”, aggiungendo che i democratici si trovano oggi “in una situazione diversa rispetto a quella in cui si sono trovati nei miei quindici anni al Senato.”

Il problema, per molti, è che la leadership democratica sta operando con un vecchio manuale, incapace di adattarsi a una politica americana profondamente cambiata.

Un tema su cui si è soffermato anche il” New York Times” in una recente intervista proprio a Schumer, nella quale il leader democratico è stato descritto come un “istituzionalista”:

un uomo che ha guidato il partito in un’epoca in cui le regole erano chiare e i politici di entrambe le parti seguivano norme condivise.

 Un’epoca che, sottolinea la giornalista del quotidiano newyorchese, non esiste più.

Se il partito vuole sopravvivere, serve una trasformazione radicale.

È questo il messaggio di “Bernie Sanders”, un altro veterano del Senato, che ha chiesto ai democratici di abbandonare l’impronta da “partito dei consulenti” per trasformarsi in una forza autenticamente multigenerazionale.

Per Sanders, l’attuale leadership è troppo distante dalla base e incapace di rispondere alle nuove sfide poste da Trump e dal cambiamento del panorama politico americano.

Le accuse di essere distaccati dalla realtà non sono nuove per la leadership democratica.

Risalgono all’ultima fase dell’amministrazione Biden, quando una serie di errori strategici ha contribuito alla sconfitta alle elezioni presidenziali.

 Tra questi, uno dei più gravi è stata la sottovalutazione dello stato di salute dell’ex presidente Biden, un tema che ha alimentato divisioni interne ancora lontane dall’essere risolte.

Schumer ha cercato di minimizzare la questione nell’intervista al “New York Times”, respingendo le critiche sulla lucidità di Biden.

Al di là delle dichiarazioni di Schumer, il problema di fondo resta:

 i democratici non hanno una strategia chiara, né una visione condivisa, su come affrontare Donald Trump.

 Le tensioni interne al partito si riflettono anche nelle inchieste elettorali.

I sondaggi mostrano un crollo della popolarità dei Democratici, superati dai Repubblicani persino tra segmenti di elettorato tradizionalmente progressisti.

Un recente “sondaggio Quinnipiac” mostra un elettorato diviso sull’immagine del Partito Repubblicano (43% favorevole, 45% sfavorevole), ma sorprendentemente negativo nei confronti dei Democratici.

Solo il 31% degli intervistati ha un’opinione favorevole del partito, mentre il 57% ne ha un’opinione negativa.

Un dato confermato anche da un sondaggio “CNN,” che registra un indice di gradimento per i Democratici al 33%—il più basso dal 1992.

 

Ma il malcontento non si limita all’elettorato generale: serpeggia anche tra gli stessi elettori democratici.

Secondo lo stesso sondaggio, il 58% dei Democratici e degli indipendenti vicini al partito ritiene che siano necessarie “modifiche profonde” alla leadership e alla strategia politica.

 A rendere ancora più cupo il quadro, un’indagine” New York Times-Ipsos” ha rivelato che molti elettori vedono i Democratici come eccessivamente focalizzati su battaglie culturali considerate secondarie, mentre ignorano le questioni economiche che più preoccupano il Paese.

La corsa alla presidenza del partito, il D.N.C., lo scorso febbraio, ha messo in luce la mancanza di una strategia politica ampia e coerente da parte del Partito Democratico, un messaggio che vada oltre l’opposizione a Trump e sappia offrire una visione per il futuro.

I due principali candidati, “Ken Martin,” presidente del “Minnesota Democratic-Farmer-Labor Party”, e” Ben Wikler”, presidente del “Partito Democratico del Wisconsin”, hanno delineato due approcci diversi al ruolo.

Martin ha insistito sulla necessità di un attacco diretto a Trump, presentandosi come un candidato più vicino alla “working class “rispetto a Wikler.

Quest’ultimo, invece, ha puntato sulla necessità di rendere visibile l’opposizione democratica solo nel momento in cui l’amministrazione repubblicana adottasse politiche impopolari su temi come sanità, istruzione e previdenza sociale.

Alla fine, “Martin” ha prevalso, sostenendo che il vero problema del partito non fosse però tanto il contenuto del messaggio, quanto il modo in cui veniva comunicato.

Il rivale” Wikler”, va aggiunto, godeva dell’appoggio di figure di primo piano come Chuck Schumer, Hakeem Jeffries, Nancy Pelosi e di finanziatori influenti come Reid Hoffman e Alexander Soros.

 

L’elezione di Martin tuttavia non ha risolto nulla.

La dirigenza democratica resta divisa su come affrontare l’era Trump, e il voto sullo “shut down” ne è stata la dimostrazione più lampante.

Dopo una campagna elettorale interamente incentrata sulla retorica della difesa della democrazia, i Democratici si sono ritrovati a confermare in blocco i membri del gabinetto trumpiano—una scelta di cui alcuni si sono poi amaramente pentiti.

Uno degli episodi più clamorosi è stata la conferma di “Marco Rubio” come Segretario di Stato, approvata con 99 voti su 100 (con Rubio stesso impossibilitato a votare).

 Solo poche settimane dopo, quando l’ex senatore della Florida è rimasto in silenzio nello Studio Ovale mentre Trump e il suo vice umiliavano pubblicamente il presidente ucraino “Volodymyr Zelensky”, diversi senatori democratici hanno espresso rammarico per averne avallato la nomina.

 Dichiarazioni che, anziché placare la rabbia della base democratica, hanno contribuito ad alimentarla ulteriormente.

 

Questa situazione ha rafforzato la percezione di un partito allo sbando, privo di una direzione chiara.

Non a caso, il “New York Times” che ha seguito e segue la crisi del Partito democratico ha descritto riunioni private ed eventi pubblici nei quali “i democratici eletti appaiono senza leader, senza direzione e divisi”:

Non sono d’accordo su quanto spesso e quanto strenuamente opporsi a Trump. Non hanno una comprensione condivisa del perché hanno perso le elezioni, per non parlare di come possono vincere in futuro. […]

 Più di 50 interviste con i leader democratici hanno rivelato un partito che sta lottando per definire ciò che rappresenta, quali questioni privilegiare e come affrontare un’amministrazione Trump che sta portando avanti un programma di destra con una velocità da capogiro.

All’interno del Partito Democratico, le varie fazioni hanno idee molto diverse su come affrontare la situazione attuale.

Da un lato, vi sono coloro che ritengono che la situazione non sia così “anormale” come prospettato anche durante la campagna elettorale.

Questa corrente sostiene un approccio istituzionalista, che guarda ai repubblicani come al partito di un tempo, con cui è ancora possibile trovare accordi.

Dall’altro lato, alcuni adottano un approccio pragmatico, rivolgendosi agli elettori indipendenti e moderati.

Pur non negando la pericolosità di Trump per la democrazia americana, credono che l’unico modo per contrastarlo sia concentrarsi sull’economia, riconquistando quegli elettori che hanno sostenuto Trump nella speranza di vedere una riduzione dei prezzi e un miglioramento delle proprie condizioni di vita.

Esiste poi una terza fazione che invoca azioni più incisive, come proteste e interruzioni.

Un esempio è stato l’intervento del rappresentante “Al Green”, che ha interrotto il discorso congiunto di Trump al Congresso.

Tra queste diverse posizioni, emerge una visione intermedia rappresentata da “James Carville”, storico stratega democratico che ha condotto “Bill Clinton” alla vittoria nel 1992.

 Il suo editoriale sul “New York Times” ha scatenato forti polemiche all’interno del partito.

 Carville ha suggerito infatti una strategia provocatoria: “Fate finta di essere morti”.

Secondo lui, è il momento che i Democratici adottino la manovra politica più audace della loro storia: arrendersi e restare in disparte.

“Lasciamo che i Repubblicani crollino sotto il loro stesso peso e facciamo in modo che il popolo americano senta la nostra mancanza”, ha dichiarato.

 

“Carville” ritiene che Trump e i suoi alleati abbiano sottovalutato la tolleranza del pubblico americano per il caos, l’incompetenza e le esibizioni di forza con altri leader mondiali, che potrebbero finire con il crollo dell’economia.

 La strategia migliore, dunque, sarebbe attendere che Trump goda ancora per un po’ dell’onda della vittoria elettorale, fino a quando il suo indice di approvazione non crollerà.

A quel punto, sostiene “Carville”, i Democratici dovrebbero “comportarsi come un branco di iene e attaccare la giugulare”.

 Il suo timore è che gli allarmi continui, lanciati già durante la prima amministrazione Trump, abbiano finito per desensibilizzare il pubblico, rendendo inefficace uno scontro frontale e radicale.

Tuttavia, questa posizione ha sollevato molte critiche. “David Graham”, giornalista di “The Atlantic,” sostiene che non sia un grande consiglio.

 Secondo lui, i Democratici hanno passato l’ultimo anno e mezzo a parlare del “Progetto 2025”, della dissoluzione della democrazia e dell’autoritarismo imminente.

“Quando si dice alla gente che l’inferno sta arrivando, alcuni ci credono davvero e si aspettano che i loro leader facciano tutto ciò che è in loro potere per fermarlo”, ha scritto” Graham”.

 

Anche “Reed Galen,” uno dei fondatori del “Lincoln Project”, una delle organizzazioni create da repubblicani per contrastare Trump durante il suo primo mandato, ha criticato i consigli di “Carville”.

Secondo Galen questa strategia ha infatti molti problemi.

Innanzitutto, dice, i Democratici hanno perso le elezioni presidenziali del 2024 – la loro seconda sconfitta contro Trump – non solo a causa dell’età di Joe Biden o delle politiche di Kamala Harris, ma soprattutto “per lo spostamento pluridecennale del partito dal mondo del lavoro all’élite costiera benestante”:

Questo cambiamento ha eroso il consenso democratico non solo tra la classe operaia bianca, ma anche tra i lavoratori latini.

Inoltre, milioni di elettori in Stati cruciali hanno scelto di non votare, contribuendo alla sconfitta.

Se i Democratici decidessero di seguire il consiglio di Carville e di restare a guardare mentre il Paese brucia, nella speranza che gli elettori li ricompensino per i danni provocati da un secondo mandato di Trump, significherebbe che non hanno imparato nulla, avverte “Galen”:

Il principale errore politico del partito nella campagna presidenziale dell’anno scorso è stato quello di passare troppo tempo a parlare del perché Trump è cattivo, e non abbastanza a spiegare i loro piani per il popolo americano.

 Se il vecchio adagio “non si può sconfiggere qualcosa con niente” è vero, allora suggerire al Partito Democratico di fare il “gioco dell’opossum” è solo un’altra delle solite cattive politiche.

 

Ma allora, quale strategia adottare?

Potrebbe essere più efficace un approccio pragmatico? Non tutti sono d’accordo. “Jay Caspian Kang”, scrittore e giornalista del “New Yorker,” mette in guardia Carville dal sottovalutare la rabbia che “molti elettori liberal” provano nei confronti del loro stesso partito, non solo per la sua inattività nell’ultimo mese, ma anche per aver permesso la vittoria di Trump:

Molti colleghi dei media hanno sostenuto che c’è un’ondata di rabbia nell’”elettorato liberal” e che potrebbe essere in arrivo un “momento Tea Party”.

Secondo questa linea di pensiero, presto emergeranno una serie di nuovi candidati che sfideranno gli attuali membri del Congresso in tutto il Paese.

 In uno scenario di “Tea Party”, questi numeri così bassi, uniti all’insoddisfazione generale degli indipendenti, a un partito di opposizione senza leader e a un presidente uscente impopolare, potrebbero portare a un cambiamento radicale.

Molti di questi nuovi candidati saranno cittadini comuni, stufi della politica inconcludente e nulla dell’establishment democratico.

 

Si saranno fatti conoscere nelle piccole ma crescenti proteste e nei momenti di disobbedienza civile che sono iniziati in tutto il Paese.

Ancora dalle pagine del New Yorker, “Susan B. Glasser”, editorialista di punta del magazine, ha criticato i suggerimenti di Carville, che ritiene una sorta di “disarmo unilaterale”:

Che senso ha avere due partiti politici nella nostra democrazia se uno di essi non è più fedele alla Costituzione e l’altro è così debole e consumato dalle lotte intestine che la sua risposta è dire:

 “Non importa, non riusciamo a metterci d’accordo. Ci dispiace che Trump stia rovinando il Paese, ma torneremo l’anno prossimo in tempo per le elezioni di metà mandato?”

Secondo “Glasser”, molti, incluso Carville, giustificano la loro scelta di non fare nulla con l’argomentazione che la “resistenza” a Trump sia stata inefficace durante il suo primo mandato.

Ma questo, a suo avviso, è un errore di prospettiva:

Hanno forse dimenticato che i Democratici hanno ripreso il controllo della Camera dei Rappresentanti nelle elezioni di metà mandato del 2018?

O che molti degli incaricati di Trump al primo mandato si sono opposti con successo dall’interno, impedendogli di portare avanti le sue idee più dirompenti di ridurre il governo americano, attaccare lo Stato di diritto e riorientare la nostra politica estera, molte delle quali sono ora in atto?

 Hanno forse dimenticato che Trump è stato sconfitto nel 2020 in un’elezione che si è conclusa con il controllo da parte dei Democratici non solo della Casa Bianca ma di entrambe le camere del Congresso?

Ma se l’inazione non è la soluzione, quale dovrebbe essere la direzione del partito? Ed è qui che emergono divisioni profonde tra chi vorrebbe spostarlo più a sinistra e chi crede che la salvezza stia in un ritorno al centro.

Una parte significativa del mondo democratico ritiene che la deludente performance del 2024 non sia stata determinata principalmente dai soliti dibattiti su questioni sociali, diritti civili o politiche ambientali, ma da un fallimento più profondo:

una crisi di identità e di messaggio.

La questione, dunque, non sarebbe tanto dove posizionare il partito nell’asse politico, ma come renderlo nuovamente coerente nella difesa della “working class”.

Lo sostiene per esempio “Alexander Nazaryan” di “MSNBC”.

Gli elettori nel 2024 sono rimasti confusi e delusi.

“Non avevano idea di dove si trovassero su nessuna delle cose che interessano davvero alla gente normale”.

Il messaggio del Partito Democratico era confuso, privo di un’identità chiara. Diviso tra “donors miliardari” da una parte e “elettori della classe media” dall’altra, i Democratici non sono riusciti a comunicare in modo efficace una visione che risuonasse con un ampio spettro dell’elettorato.

Questo fallimento di identità ha portato a un crollo della fiducia e del supporto, in particolare tra gli elettori della classe lavoratrice, che tradizionalmente erano il pilastro del partito.

 

Austin Sarat”, The Hill, ha mosso quasi la stessa critica, sottolineando l’ossessione continua del Partito Democratico nel corteggiare i “repubblicani suburbani che piacciono a” Liz Cheney” e che sono favorevoli alla deregolamentazione”, piuttosto che concentrarsi sugli elettori della classe lavoratrice che si sono sentiti sempre più abbandonati da entrambi i partiti principali.

 Per” Sarat”, i Democratici hanno cercato di conquistare una piccola fetta di repubblicani moderati, quelli disillusi da Trump ma non necessariamente allineati con i valori fondamentali del partito.

Questa strategia può aver portato qualche voto nelle zone suburbane benestanti, ma ha alienato la base lavoratrice del partito, specialmente nelle regioni rurali, dove il sostegno ai Democratici è drasticamente diminuito.

A supporto di questa tesi, “John Nichols” di “The Nation” ha aggiunto che la perdita dell’America rurale è stata uno degli indicatori più evidenti del disordine interno al partito.

La vicepresidente Kamala Harris, che avrebbe dovuto galvanizzare diversi segmenti della classe lavoratrice, ha visto il suo gradimento precipitare al 34% nelle zone rurali—un tracollo rispetto al già modesto 42% di Biden nel 2020.

Per Nichols, questo calo non è un semplice problema di popolarità della candidata, ma il sintomo di un fallimento più profondo del partito nel rispondere alle reali preoccupazioni economiche e sociali delle piccole città americane.

A conferma della sua analisi, “Nichols” riporta le parole dell’ex Commissario all’Agricoltura del Texas,” Jim Hightower”, che mette in guardia i Democratici dal cercare di essere tutto per tutti, a scapito di un’identità politica chiara.

Il partito, sostiene, dovrebbe concentrarsi su “sollevare la maggioranza che lavora ogni giorno” e affrontare in modo concreto i problemi economici che riguardano la vita quotidiana degli americani comuni.

Questo significa non solo opporsi all’estrema destra, ma proporre soluzioni reali: investire nell’istruzione pubblica, garantire il funzionamento degli uffici postali nelle piccole città e creare opportunità di lavoro per le comunità della classe lavoratrice.

Questa critica al “neoliberismo” democratico, nota “Nichols”, non proviene solo dalla sinistra radicale, ma anche da esponenti più convenzionali del partito.

Tra questi, il senatore “Chris Murphy”, che ha recentemente ammesso che i democratici non hanno ancora affrontato pienamente le conseguenze di cinquant’anni di “politiche economiche neoliberiste”.

Secondo “Murphy”, il partito ha esitato troppo a lungo nell’offrire proposte economiche audaci e trasformative.

Senza un cambio di passo in questa direzione, il rischio è quello di apparire irrilevanti agli occhi di una fetta sempre più ampia dell’elettorato.

Ma mentre una parte del dibattito interno al partito invoca un ritorno alle radici economiche per riconquistare la “working class”, un’altra preoccupazione emerge tra gli analisti:

l’immagine sempre più spostata a sinistra che il Partito Democratico proietta all’esterno.

“Daniel A. Cox “sottolinea come questa percezione non sia solo una costruzione dei media conservatori, ma una realtà radicata nei cambiamenti tangibili della retorica e dell’agenda democratica negli ultimi anni.

Dal 2016 al 2024, l’evoluzione del linguaggio e dei temi proposti ha contribuito ad allontanare il partito dal centrismo tradizionale, spingendo molti elettori indipendenti a considerarlo troppo “liberal”.

 

I dati che Cox cita sono eloquenti: tra gli elettori indipendenti, il 53% ha una visione favorevole del Partito Democratico se lo percepisce come “moderato”, ma questa percentuale scende al 44% tra coloro che lo considerano semplicemente “liberal” e crolla al 6% tra quelli che lo vedono come “molto liberal”.

 Anche secondo un recente sondaggio Gallup, rispetto al 2021, il sostegno a un Partito Democratico più moderato è aumentato di 11 punti percentuali, raggiungendo il 45%, mentre la percentuale di coloro che preferirebbero un partito più progressista è scesa al 29%.

Anche il numero di Democratici che vorrebbero mantenere lo status quo è in calo, segno di una generale insoddisfazione per l’attuale direzione del partito.

Tra i Democratici più progressisti, quasi la metà (45%) vorrebbe un partito ancora più spostato a sinistra, mentre solo il 30% preferirebbe una svolta moderata.

Al contrario, tra i moderati del partito, il 62% auspica un riposizionamento al centro, un dato che riflette le ansie di un elettorato che teme che un’eccessiva radicalizzazione possa allontanare gli elettori chiave nelle prossime tornate elettorali.

 

Il problema, secondo Cox, non è però necessariamente nelle singole proposte politiche, ma nella loro presentazione:

il partito si è frammentato in un elenco di cause e battaglie – “cambiamento climatico, diritti LGBTQ+, giustizia sociale, sanità pubblica” – senza riuscire a trasmettere una narrativa coesa capace di parlare a un pubblico più ampio.

 

A complicare ulteriormente il quadro, “”Tanner Stenning della “North western University “osserva come il Partito Democratico stia tentando di bilanciare la spinta progressista con posizioni più centriste nel tentativo di attrarre un elettorato più ampio.

Tuttavia, questo sforzo rischia di non essere sufficiente per colmare il crescente divario tra le diverse anime del partito.

Alcuni democratici potrebbero adottare posizioni più conservatrici su temi come l’immigrazione o politiche economiche più populiste per espandere il proprio appeal, ma questa strategia, se non accompagnata da una visione chiara e coerente, rischia di risultare inefficace.

 

Questa tensione interna lascia il Partito Democratico di fronte a un bivio: raddoppiare la scommessa su una politica progressista e identitaria, oppure ricostruire una piattaforma più centrata sulle questioni economiche che interessano direttamente la working class.

 Quel che è certo è che, senza una direzione chiara e una leadership capace di unificare queste diverse correnti, il rischio è quello di rimanere impantanati in una crisi di identità che potrebbe favorire ancora una volta un Partito Repubblicano sempre più radicalizzato.

Lo scontro tra la prospettiva progressista e quella centrista all’interno del Partito Democratico trova un chiaro esempio nel dibattito tra “Eric Levitz” di Vox e “Osita Nwanevu”, collaboratrice di “The New Republic” e autrice del libro in uscita “The Right of the People”.

“Levitz” sostiene che i progressisti commettano un errore a interpretare la sconfitta di Kamala Harris come la prova che la moderazione e il centrismo non abbiano alcun valore elettorale.

Per “Nwanevu”, invece, l’idea che i Democratici possano superare le loro attuali difficoltà semplicemente moderando le loro politiche è fuorviante.

Tuttavia, aggiunge, nemmeno il populismo di sinistra rappresenta una soluzione chiara per il rinnovamento del partito.

A suo avviso, se la sinistra avesse davvero un approccio politicamente efficace, “Bernie Sander”s sarebbe già stato presidente.

“Nwanevu” riconosce il ruolo delle dinamiche interne al Partito Democratico nel limitare il successo della sinistra, ma sostiene che la mancanza di una vera maggioranza progressista sia dovuta anche a fattori strutturali nell’elettorato.

 La moderazione, argomenta, si sta rivelando sempre meno efficace, ma ciò non significa che una virata netta verso il populismo di sinistra garantirebbe risultati migliori.

 Citando il trend elettorale degli ultimi vent’anni, sottolinea come il partito abbia spesso candidato moderati in distretti difficili senza ottenere grandi successi, segno che la questione è più complessa di una semplice scelta tra centro e sinistra.

Questa tensione tra le diverse anime del partito è al centro anche dell’analisi di “William Galston” ed “Elaine Kamarck “del think tank centrista “Third Way”.

Secondo i due ricercatori, il problema più grande del Partito Democratico è la frammentazione della sua coalizione elettorale.

 Sebbene il declino del sostegno della classe lavoratrice ai Democratici sia iniziato decenni fa, l’era Trump ha accelerato ed esteso questo fenomeno, coinvolgendo non solo gli elettori bianchi, ma “anche lavoratori ispanici e afroamericani, in particolare uomini.

 

Per Galston” e” Kamarck”, la principale linea di frattura politica oggi è rappresentata dal livello di istruzione.

 I Democratici sono diventati sempre più il partito degli elettori con un titolo universitario, ma il problema è che la maggioranza degli americani non ha una laurea.

Finché il partito non riuscirà a ricostruire un solido sostegno tra gli elettori senza istruzione universitaria, il suo futuro rimarrà incerto.

Questo scollamento si è riflesso nelle elezioni del 2024: secondo le analisi post-voto, Trump ha vinto tra gli elettori con redditi inferiori ai 50.000 dollari e tra quelli nella fascia tra i 50.000 e i 99.999 dollari, mentre Harris ha ottenuto il maggior sostegno tra le famiglie con redditi superiori ai 100.000 dollari.

Questo ha segnato una svolta storica: per la prima volta dal 1992, un candidato repubblicano ha vinto tra gli elettori a basso reddito, mentre per la prima volta dal 1996 un Democratico ha prevalso tra quelli più abbienti.

“Galston e Kamarck” identificano anche altre due aree critiche per i Democratici: l’immigrazione e le politiche economiche.

 Ritengono che Biden avrebbe dovuto agire più rapidamente e con maggiore decisione per controllare il flusso di immigrati irregolari dopo che le sue prime mosse in materia avevano portato a un aumento degli attraversamenti al confine meridionale.

A sostegno di questa tesi, citano il lavoro di “Michael Tesle”r, politologo dell’Università della California a Irvine, che ha evidenziato un aumento significativo, tra il 2020 e il 2024, del numero di elettori neri e ispanici che percepiscono gli immigrati come un peso per le risorse nazionali.

 Questo cambiamento di opinione avrebbe contribuito all’incremento del sostegno a Trump tra queste fasce demografiche.

Se molti Democratici sostengono che il partito debba migliorare le sue politiche economiche e il suo messaggio per riconquistare la classe lavoratrice,” Galston e Kamarck” sottolineano che il problema va oltre.

Le questioni culturali sono altrettanto decisive: molti elettori della classe lavoratrice percepiscono il Partito Democratico come distante dai valori della società americana più tradizionale, e persino alcune delle sue politiche economiche sembrano favorire le élite urbane e istruite piuttosto che le loro comunità.

La tentazione di inseguire la moderazione per riconquistare la classe lavoratrice potrebbe scontrarsi tuttavia con la realtà di un elettorato sempre più polarizzato, dove i giovani e le minoranze, colonne portanti della coalizione democratica, chiedono risposte più radicali su temi economici e sociali.

Ma forse sono sempre dati per acquisiti.

 Perché in ogni caso una parte dei dem sembra già avere scelto una strada precisa.

 

Che una parte della classe dirigente democratica abbia già tracciato la linea da seguire di fronte alle domande degli elettori delusi è però evidente.

La prova sta nel sostegno che numerosi esponenti del partito hanno espresso verso le politiche della nuova amministrazione Trump, in particolare su commercio, immigrazione e diritti civili.

Un segnale che, più che un ripensamento strategico, sembra suggerire un tentativo di adattamento a un vento politico che soffia sempre più forte da destra.

 

Sebbene i dazi doganali imposti dalla nuova amministrazione repubblicana abbiano incontrato una diffusa opposizione tra i democratici, non tutti nel partito sembrano allineati su una condanna netta.

 Alcuni esponenti di spicco, infatti, adottano un approccio più sfumato, convinti che il Partito Democratico debba sviluppare una propria agenda commerciale. L’obiettivo?

 Riconquistare il consenso della working class, evitando che il tema dei dazi resti un’esclusiva della destra populista.

 

I democratici della” Rust Belt” e di diversi distretti del Congresso, insieme ai leader dei sindacati storicamente democratici, hanno espresso il loro sostegno a molti dei dazi di Trump, anche se ritengono che li stia attuando in modo disordinato.

 Come riportato da “Axio2, il deputato democratico” Jared Golden” del Maine ha presentato una legge per imporre un dazio del 10% su tutte le merci che entrano negli Stati Uniti:

“Il mondo sta cambiando e alcuni democratici non si sono ancora resi conto di questo fatto”.

“Golden”, il cui distretto, in gran parte rurale, ha votato per Trump nel 2020 e nel 2024, ha aggiunto:

Penso che Trump abbia identificato il problema. […]

Alcuni hanno detto che il nostro commercio con il Canada è davvero sano, e io non sono d’accordo.

Non sto sostenendo che dovremmo adottare i dazi come parte di una strategia di campagna elettorale.

Sto sostenendo che dovremmo farlo sulla base dei meriti della politica e di ciò che è buono per gli americani della classe operaia.

Anche il sindacato “United Auto Workers”, che l’anno scorso ha appoggiato l’allora presidente Biden, ha dichiarato questo mese:

Siamo lieti di vedere un presidente americano intraprendere un’azione aggressiva per porre fine al disastro del libero scambio che è caduto come una bomba sulla classe operaia.

E non sono solo alcuni sindacati o deputati di aree trumpiane.

Anche la sinistra non sembra dispiaciuta di alcune misure.

 Per esempio, “Faiz Shakir”, uno dei più stretti collaboratori di “Sanders” per il quale ha gestito la sua campagna presidenziale per il 2020, ha dichiarato sempre ad “Axios”:

Non sono d’accordo con i Democratici che vivono nell’idea che abbiamo solo bisogno di merci a basso costo dalla Cina e dal Messico, e il loro messaggio è: ‘Lavatrici e avocado diventeranno più costosi”. […] C’è un desiderio di dazi per un motivo.

 Gli elettori sentono che Trump sta facendo pagare a queste aziende un prezzo per aver spedito posti di lavoro all’estero.

Il deputato “Chris Deluzio” della Pennsylvania ha criticato l’attuazione “caotica” delle tariffe da parte di Trump, ma ha sostenuto che “la risposta non è condannare le tariffe su tutta la linea”:

I democratici devono liberarsi dall’orda di zombie abbagliati da decenni di economisti neoliberisti che pensano che le tariffe siano sempre negative,

ha scritto in un articolo sul” New York Times”.

Un altro esponente importante della “sinistra dem”, “Ro Khanna “della California, sostiene che siano necessari dei dazi strategici contro la Cina come parte di una politica industriale più intelligente.

 

Ma è sul tema dell’immigrazione che qualcosa sta cambiando profondamente.

Qualche settimana fa dodici senatori democratici si sono uniti ai repubblicani per approvare una legge sull’immigrazione, un tema che da anni paralizza il Congresso e che rimane al centro della retorica trumpiana.

 

Il provvedimento, noto come “Laken Riley Act,” prende il nome da una giovane donna assassinata lo scorso anno mentre faceva jogging all’Università della Georgia.

La legge prevede misure più severe per gli immigrati irregolari che commettono crimini negli Stati Uniti, ampliando il potere delle forze dell’ordine nell’arresto e nella detenzione.

Ma il punto di rottura rispetto alla normativa vigente è netto:

il testo introduce la possibilità di detenzione e deportazione per gli immigrati privi di documenti anche solo accusati – e non condannati – per reati minori come il taccheggio.

Un cambiamento radicale rispetto all’attuale requisito di almeno due condanne per reati di “turpitudine morale” prima che scatti l’espulsione.

 

“John Fetterman,” senatore democratico e co-sponsor della legge, ha difeso il provvedimento affermando che “assicurerà la detenzione e l’espulsione degli alieni criminali prima che possano commettere crimini orribili come quello che è accaduto a “Laken Riley”.

Questi dodici senatori democratici – in gran parte provenienti da stati in bilico o alle prese con difficili rielezioni – hanno fatto una scelta politica chiara, abbracciando una stretta securitaria sull’immigrazione che fino a pochi anni fa sarebbe stata impensabile tra le fila del loro stesso partito.

 

Si tratta sicuramente di un tentativo di adattarsi ai desiderata degli elettori. Come ha scritto “Greisa Martínez Rosas” del New York Times, l’erosione del consenso dei Latinos nei confronti dei Democratici non dipende da un improvviso spostamento ideologico verso destra di questo gruppo elettorale:

 

Il problema è più semplice e, allo stesso tempo, più profondo:

 il partito sta facendo l’offerta sbagliata.

Molti latinos non si vedono come vittime di un sistema razzista, bensì come lavoratori instancabili in cerca di opportunità, proprio come gli irlandesi, gli italiani e gli ebrei che li hanno preceduti nel grande sogno americano.

È questa auto-narrazione a renderli più ricettivi ai messaggi conservatori sulla sicurezza e sull’immigrazione, soprattutto quando i Democratici insistono a incorniciare il dibattito politico come una battaglia morale contro il razzismo invece che come una lotta populista per la sicurezza economica delle famiglie lavoratrici.

 

L’America sembra aver peraltro già deciso:

l’immigrazione irregolare non è più un tema di nicchia, ma una priorità politica trasversale.

Un’inchiesta “Axios/Ipsos” di gennaio ha rivelato che il 66% degli americani sostiene l’idea delle espulsioni, anche se il consenso cala di fronte a misure più drastiche—solo il 38% approverebbe l’uso della forza militare e appena un terzo accetterebbe la separazione delle famiglie.

Anche un sondaggio dell’”Associated Press-NORC Center” mostra che metà degli adulti americani ritiene che rafforzare la sicurezza alla frontiera debba essere una priorità assoluta per il governo federale.

 Altri tre su dieci la considerano comunque una questione di media importanza. Persino tra i democratici, l’opposizione alle espulsioni di massa coesiste con un dato rivelatore:

 l’80% degli elettori del partito sostiene l’espulsione degli immigrati irregolari condannati per crimini violenti.

 

Non sorprende, dunque, che senatori democratici come” Ruben Gallego”, vincitore in Arizona, stato vinto da Trump, abbiano sostenuto misure come il “Laken Riley Act”.

Gallego si difende dicendo di rispecchiare semplicemente la volontà dei suoi elettori, inclusi molti latinos.

E forse è proprio qui che sta il punto: l’idea che la comunità ispanica sia monoliticamente pro-immigrazione è una narrazione politica che la realtà sta rapidamente smantellando.

Anche la recente corsa alle primarie per trovare il candidato governatore del New Jersey, stato democratico, sta dando indicazioni di come i democratici stiano in parte modificando le loro posizioni sull’immigrazione.

Se anche nel” liberal New Jersey” i democratici in corsa per la carica di governatore prendono le distanze dalla tradizionale linea progressista sull’immigrazione, il sentimento che il vento stia cambiando c’è.

Alcuni candidati si sono avvicinati alla retorica dura di Donald Trump, accettando in parte la sua impostazione securitaria.

Altri, forse consapevoli del rischio politico, hanno preferito spostare l’attenzione su economia e costo della vita, evitando il tema dell’immigrazione quasi fosse un campo minato.

Ma il vero test sarà l’esito delle elezioni del New Jersey.

Se in uno stato storicamente democratico come il New Jersey prevarrà la linea dura, il messaggio per il partito sarà chiaro:

 l’approccio tradizionale non basta più.

I democratici che correranno in altri stati, soprattutto in quelli in bilico, dovranno rivedere le proprie strategie per non rischiare di perdere il contatto con il loro stesso elettorato.

 

Stessa piega stanno prendendo le cose in California dove la parola “sanctuary” è sparita dal vocabolario del governatore democratico “Gavin Newsom”.

Durante il primo mandato di Trump, il governatore della California l’aveva evocata spesso, facendone quasi un baluardo politico contro le politiche migratorie dell’amministrazione repubblicana.

Oggi, con Trump di nuovo alla Casa Bianca e più determinato che mai a portare avanti la più grande operazione di espulsione nella storia americana, il tono è cambiato.

“Newsom “ha già posto il veto su leggi che avrebbero ampliato le protezioni per gli immigrati irregolari in custodia statale e ha promesso di farlo ancora.

Non è il solo:

molti Democratici californiani stanno adottando una strategia più prudente, cercando di difendere le tutele esistenti senza allargarle ulteriormente, soprattutto a chi si trova in carcere.

 Il motivo è chiaro:

 lo scontro con l’amministrazione Trump potrebbe diventare più costoso che in passato.

Trump ha minacciato di tagliare i fondi federali alle città e agli stati che rifiutano di collaborare con le autorità dell’immigrazione e ha persino ventilato l’idea di perseguire penalmente i funzionari locali che si oppongono alle deportazioni.

E la California, reduce dai devastanti incendi di gennaio, dipende più che mai dagli aiuti federali per la ricostruzione.

 

Segnale di una svolta o solo di realismo politico?

In ogni caso in California si stanno sperimentando tentativi di riavvicinamento alla piattaforma repubblicana non solo sull’immigrazione ma anche sulla pelle della comuntià LGBTQ+.

Da quando è tornato alla Casa Bianca, Trump ha infatti firmato una serie di ordini esecutivi che prendono di mira esplicitamente le persone transgender.

Tra questi, uno che nega del tutto l’esistenza delle identità trans.

Altri provvedimenti, già in fase di attuazione da parte delle agenzie federali, mirano a impedire alle persone transgender di servire apertamente nelle forze armate, escludere le atlete trans dalle competizioni femminili, limitare l’accesso a documenti d’identità corretti e ridurre drasticamente i finanziamenti federali per l’assistenza sanitaria di affermazione di genere destinata ai giovani.

Il dibattito sulla partecipazione delle atlete transgender nelle competizioni femminili ha visto emergere anche divisioni all’interno del Partito Democratico.

 I deputati democratici “Tom Suozzi” di New York e “Seth Moulton” del Massachusetts si sono smarcati dalla linea tradizionale favorevole del partito, dichiarando al New York Times che le atlete transgender non dovrebbero gareggiare in squadre femminili.

 A gennaio, i rappresentanti texani” Vicente Gonzalez” e “Henry Cuellar” sono stati gli unici democratici ad affiancare i repubblicani nel votare a favore di una legge per escludere le atlete transgender dallo sport femminile a livello scolastico e universitario.

Come per l’immigrazione e le politiche commerciali, queste prese di posizione politiche sembrano riflettere un sentimento diffuso tra l’opinione pubblica americana.

 Secondo un sondaggio New York Times/Ipsos condotto a febbraio, il 79% degli americani ritiene che le persone transgender non dovrebbero partecipare alle competizioni sportive femminili.

 Un’altra indagine del” Pew Research Center” ha evidenziato come l’opinione pubblica statunitense sia diventata progressivamente più favorevole a politiche restrittive sui diritti trans.

E il tema continua a catalizzare il dibattito pubblico: nel primo episodio del suo podcast, proprio “Gavin Newsom”—considerato un probabile candidato alla nomination democratica per le presidenziali del 2028—ha sorpreso molti dichiarando di essere d’accordo con il commentatore ultraconservatore Charlie Kirk nel ritenere “profondamente ingiusta” la presenza di atlete trans nelle competizioni femminili.

Dietro le quinte, alcuni democratici condividono le perplessità di “Newsom”, mentre altri insistono sulla necessità di difendere le persone transgender e le altre comunità prese di mira dalle nuove politiche dell’amministrazione Trump.

Ma il governatore californiano non si è fermato allo sport.

Nel corso del podcast, ha criticato anche l’abitudine di alcuni esponenti democratici di presentarsi specificando i propri pronomi.

“Una volta ero a una riunione e la gente ha iniziato a presentarsi con i propri pronomi”, ha raccontato.

“Mi sono chiesto: ‘Ma davvero?

 Perché mai questa dovrebbe essere la questione più importante?’”.

 

Le tensioni su questi temi non riguardano solo “Newsom”.

“Rahm Emanuel”, ex sindaco di Chicago e ambasciatore statunitense in Giappone—che alcuni vedono come un altro possibile candidato alla Casa Bianca nel 2028—ha espresso un’opinione simile, dicendo ad “Axios”:

“Ci sono ragazzi in classe che discutono su quali pronomi usare, mentre il resto della classe non sa nemmeno cosa sia un pronome.

Questa è una crisi”. 

Persino Pete Buttigieg, ex segretario ai Trasporti e possibile candidato alle presidenziali del 2028, sembra aver preso le distanze da certe battaglie culturali.

 Di recente, ha rimosso i suoi pronomi dal profilo su X, come riportato da “Axios”.

L’onda lunga di questo dibattito sta spaccando il Partito Democratico su più fronti, incluse le politiche di Diversità, Equità e Inclusione (DEI) e il modo in cui si affrontano i temi legati alla razza.  

Il deputato “Adam Smith”, membro di spicco della Commissione Forze Armate della Camera, ha dichiarato a “The New Yorker” che alcuni “programmi DEI” “sbandano pericolosamente quando suggeriscono che razzismo, bigottismo e colonialismo siano prerogative uniche dei bianchi…

Non è necessario implicare che tutti i bianchi siano razzisti o oppressori”.

Anche “Newsom” ha messo in chiaro la sua posizione su certi linguaggi inclusivi, dichiarando a Kirk: “Nel mio ufficio, nessuno ha mai usato la parola ‘Latinx’”.

 

Come ricordato,” Newsom” per anni è stato uno dei più accesi oppositori democratici di Donald Trump, costruendo la propria immagine di combattente progressista di nuova generazione, capace di guidare il partito nell’era post-Biden. Negli ultimi mesi, però, il suo atteggiamento nei confronti di Trump si è fatto appunto più sfumato, mentre le sue critiche si sono rivolte sempre più spesso ai Democratici e alla loro strategia.

 

Sono in gioco infatti le ambizioni presidenziali per il 2028.

 Tra i potenziali candidati, alcuni come “Newsom” hanno optato per un approccio più moderato, nel suo caso compiendo un notevole cambio di rotta nel tentativo di guadagnare credibilità presso elettori indipendenti e conservatori.

Altri esponenti del partito, al contrario, rimangono fermi nella convinzione che solo un’opposizione intransigente possa efficacemente contrastare l’avanzata dell’influenza trumpiana.

“Gretchen Whitmer”, governatrice del Michigan, è tra coloro che vogliono dimostrare pragmatismo.

Ha mandato truppe della Guardia Nazionale al confine per contrastare l’immigrazione irregolare e ha aperto alla possibilità di nuove tariffe per proteggere l’industria americana.

 Anche sulle politiche identitarie ha scelto una linea più sfumata: si è rifiutata di unirsi a una causa legale contro il tentativo di Trump di abolire la cittadinanza per nascita, nonostante il coinvolgimento del suo procuratore generale.

Nel suo discorso al “Detroit Auto Show,” ha ribadito una visione centrata sul lavoro e sulla produzione americana.

Anche “Jared Polis”, governatore del Colorado, sta cercando di posizionarsi come un leader moderato.

Ha parlato della necessità di un percorso verso la cittadinanza per alcuni immigrati, ma allo stesso tempo ha sottolineato l’urgenza di un controllo più severo del confine.

Ha persino elogiato la nomina di “Robert F. Kennedy Jr.” a Segretario alla Salute, una mossa che non è passata inosservata.

 

Dall’altro lato, c’è chi non ha alcuna intenzione di cercare compromessi con Trump. “JB Pritzker”, governatore dell’Illinois, ha addirittura evocato la Germania degli anni Trenta per descrivere il momento politico attuale:

 “Il seme che ha portato alla dittatura in Europa non è germogliato in una notte. È iniziato con persone comuni, arrabbiate per l’inflazione e alla ricerca di qualcuno da incolpare.”

Poi c’è chi sta scegliendo un approccio più attendista. “Josh Shapiro”, governatore della Pennsylvania, “Wes Moore”, governatore del Maryland, e “Andy Beshear”, governatore del Kentucky stanno osservando la situazione con cautela, scegliendo le loro battaglie con attenzione.

Criticano Trump su alcuni punti, ma non si lanciano in una guerra aperta.

Qualunque sia l’esito del dibattito interno tra i Democratici, l’impatto di Trump e del trumpismo sembra non solo sconvolgere il Partito Repubblicano, ma minacciare anche il Partito Democratico, rischiando di trasformarlo profondamente rispetto a come lo abbiamo conosciuto in questa fase storica.

 

 

 

 

Sulla manifestazione del 15 marzo.

Il manifesto di Ventotene, contro

il pluralismo e la democrazia.

 

Fondazionehume.it – (21 Marzo 2025) - Luca Ricolfi – ci dice:

Di una cosa sono certo: la maggior parte di coloro che parlano del Manifesto di Ventotene non l’hanno letto.

Lo dico a loro discolpa, perché se – anziché lodarlo acriticamente – l’avessero letto con la dovuta attenzione sarebbero da tempo impegnati in un difficile lavoro di reinterpretazione o, come si dice oggi, di “contestualizzazione”.

In breve: si sforzerebbero di dimostrare che, nonostante le cose inquietanti che il manifesto indubbiamente dice, possiamo condividerne lo spirito, le finalità, le buone intenzioni (lo Stato federale europeo), e scordarci sia i fini concreti proclamati in quel manifesto sia i metodi invocati per imporre quei fini.

E, venendo alla manifestazione di sabato scorso, anziché far circolare il sacro libretto preceduto da un’introduzione del tutto acritica, avrebbero avvertito i convenuti che – per non essere presi in castagna, come Giorgia Meloni ha provveduto a fare ieri – sarebbe stato bene non prendere troppo sul serio quel manifesto, in quanto molto datato e scritto in condizioni di isolamento.

Io invece lascio volentieri l’opera di contestualizzazione, depurazione, rilettura del Manifesto e vado dritto ai fini e ai mezzi esplicitamente dichiarati, perché prima di rileggere occorre leggere.

Ebbene, sui fini, il Manifesto dice chiaramente che l’assetto sociale da promuovere è di tipo socialista (anche se non comunista), con ampi espropri e severe limitazioni alla proprietà privata.

 Nessuna considerazione riceve l’eventualità che l’assetto possa essere liberale, o non socialista.

 

Quanto ai mezzi, il Manifesto immagina che il nuovo assetto possa essere instaurato attraverso la “dittatura del partito rivoluzionario”, che imporrà la sua volontà alle masse, ancora incapaci di riconoscere i propri interessi, semplice “materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti”.

In una situazione di “ancora inesistente volontà popolare” il partito rivoluzionario, guidato da una élite illuminata, “attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto” non già dal consenso popolare ma “dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna”.

E non è tutto.

 Chi avesse dei dubbi sulla visione politica del Manifesto dovrebbe riflettere sulle parole, sprezzanti e beffarde, rivolte ai “democratici”, ovvero a quanti pensano che il potere del governo debba poggiare su libere elezioni.

I democratici sono gente che sogna “un’assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione debba darsi”.

 Illusi, che non comprendono che nella crisi rivoluzionaria “la metodologia politica democratica sarà un peso morto”.

Pavidi, che sono disposti a usare la violenza “solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità”.

 

Insomma, spiace dirlo ma il “Manifesto di Ventotene” è il più esplicito e conturbante ripudio del pluralismo, la più clamorosa deviazione dal percorso democratico e costituzionale (libere elezioni + Assemblea Costituente) che, molto saggiamente, l’Italia seguirà dopo la fine della seconda guerra mondale.

Possiamo almeno dire che una cosa buona – l’idea degli Stati Uniti d’Europa – il Manifesto di Ventotene l’ha partorita?

 

Per certi versi sì, perché effettivamente è nel Manifesto del 1941 che per la prima volta viene compiutamente formulata quell’idea.

Ma per certi versi invece no, perché il modo di formularla fu elitario, giacobino e anti-democratico.

Da questo punto di vista, forse, anziché ripetere meccanicamente che il meraviglioso ideale di Ventotene è stato tradito dalle classi dirigenti che ci hanno condotti all’Europa attuale, forse dovremmo domandarci se il progetto europeo non è fallito proprio perché a quell’ideale si è conformato fin troppo. L’Europa di oggi, governata da una élite burocratica e autoreferenziale, soffre del medesimo male – la costruzione dall’alto, senza coinvolgimento popolare – che affligge il Manifesto di Ventotene.

Si può essere euro-scettici o europeisti convinti, ma chi davvero sogna gli Stati Uniti d’Europa, se crede nel metodo democratico non può prendere a modello il Manifesto di Ventotene.

Idolatrare quel modello è stata un’ingenuità, dettata dall’ideologia e dalla scarsa conoscenza.

 Possiamo fare molto di meglio, e dobbiamo provarci senza rinunciare al pluralismo e alla democrazia.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 marzo 2025].

 

 

 

 

L’Europa della falsa democrazia:

quando il potere è senza Popolo.

 

Domenicoderosa.eu – (14-2-2025) - Intervista a Domenico De Rosa, CEO del Gruppo Smet- ci dice:

 

Dottor De Rosa, lei ha spesso espresso forti critiche verso l’Unione Europea e la sua struttura di potere. Può spiegare il suo punto di vista?

L’Unione Europea di oggi è l’emblema di una degenerazione tecnocratica che ha completamente svuotato di significato il concetto stesso di democrazia.

Ursula von der Leyen rappresenta perfettamente questo sistema:

una figura imposta dall’alto, senza alcuna legittimazione popolare, scelta attraverso giochi di potere burocratici e spartizioni tra élite politiche che ignorano la volontà dei cittadini europei.

Se si tenesse oggi una votazione di gradimento sulla sua leadership, credo che difficilmente supererebbe il 5%, forse persino meno.

 Eppure, grazie a regole opache e antidemocratiche, questa persona guida la Commissione Europea e definisce la politica di 450 milioni di cittadini senza che nessuno l’abbia mai realmente scelta.

 

In che modo questo sistema danneggia l’Europa e i suoi cittadini?

Il problema è che il potere è concentrato nelle mani di una classe dirigente scollegata dalla realtà, che non deve rispondere ai cittadini, ma solo ai giochi di equilibri interni di Bruxelles.

 Von der Leyen non ha mai dovuto affrontare un vero dibattito pubblico, non ha mai dovuto conquistare il consenso con idee innovative o con un’autentica leadership.

 È semplicemente emersa come figura di compromesso tra il Partito Popolare Europeo e Angela Merkel, che l’ha imposta nonostante i fallimenti della sua gestione come ministro della Difesa in Germania.

Il risultato è una tecnocrazia autoreferenziale che impone regolamenti soffocanti, decisioni economiche devastanti e strategie geopolitiche suicide, senza mai doversi confrontare con il dissenso popolare.

Oggi l’Europa è sempre meno competitiva, paralizzata da una burocrazia asfissiante e da un’ideologia che soffoca l’iniziativa privata, il dinamismo industriale e la capacità di adattarsi a un mondo in continua evoluzione.

Ma la Commissione Europea non è comunque espressione del Parlamento Europeo, che è eletto dai cittadini?

Questa è la grande illusione che viene venduta ai cittadini.

La realtà è che il Parlamento Europeo non ha un vero potere di iniziativa legislativa e che le decisioni più importanti vengono prese da organismi non eletti direttamente dal popolo.

Se un capo di governo nazionale avesse un consenso inferiore al 5%, sarebbe costretto a dimettersi o sarebbe spazzato via alle elezioni successive.

 Ma nell’UE, dove il voto popolare è stato sterilizzato, un leader impopolare può restare al comando senza dover rendere conto a nessuno.

 

Quali sono, secondo lei, gli effetti più dannosi di questa struttura di potere?

Prendiamo ad esempio il” Green Deal”, una strategia che sta letteralmente autodistruggendo il nostro sistema produttivo senza che nessuno abbia avuto voce in capitolo.

Il problema non è solo che queste politiche sono sbagliate – e lo sono – ma che i cittadini europei non hanno alcun potere reale di fermarle.

 Ci troviamo di fronte a un sistema che si auto-perpetua, privo di veri meccanismi di responsabilizzazione.

 

Quindi, secondo lei, l’Europa è destinata al declino?

Se non si interverrà per scardinare questo sistema, il declino è inevitabile.

L’Europa ha bisogno di una vera democrazia, in cui il potere sia nelle mani del popolo e non di una tecnocrazia che decide senza alcun mandato popolare.

 Solo restituendo ai cittadini il potere di scegliere il proprio destino si potrà invertire questa tendenza autodistruttiva.

Finché questo non accadrà, continueremo a essere governati da una macchina burocratica che ignora la volontà delle persone e soffoca il futuro dell’Europa.

 

 

 

 

Neo-plebe, classe creativa,

élite: la nuova Italia.

 Perunaltracitta.org - Redazione – (9 Gennaio 2023) – ci dice:

Pubblichiamo, con il gentile permesso della casa editrice, questo brano dove i due autori teorizzano una partizione sociale che possa sostituire alcune categorie che non sono più attuali.

 Questa una breve sinossi:

 

Tramontate le società nazionali, si sono create delle nuove faglie. Al posto delle classi, dei ceti, dei gruppi, si è costituita una nuova triade sociale.

L’élite (sempre più in declino), una classe creativa in crescita e una estesa neo-plebe molto eterogenea, formata dagli strati sociali più deboli che stanno scivolando in basso e sono a permanente rischio di secessione.

L’attuale configurazione globale delle società ha portato a trasformazioni sociali inattese.

Ormai tramontate le società nazionali, si sono create nuove linee di frattura: inclusi/esclusi, cosmopoliti/locali, concentrati/estesi.

Si è formata così una nuova triade sociale da analizzare dal punto di vista qualitativo e quantitativo.

In questo libro viene misurata con dati sia nazionali che disaggregati localmente, tra Nord, Centro e Sud, tra regioni, province e città.

 Il quadro proposto raffigura l’Italia tra il 2008 e il 2020, ma ha una proiezione europea e mondiale.

Ciò che scopriamo è che in Italia l’élite è diminuita in quantità e qualità, la neo-plebe è cresciuta fino a rappresentare la maggioranza della popolazione, mentre la classe creativa è in costante aumento e potrebbe rappresentare la nuova classe dirigente, per ora senza potere.

 Dati che ci interrogano su questioni attualissime:

quale mondo ci troveremo a gestire così polarizzato tra poche grandi concentrazioni metropolitane e immense aree di sfruttamento estensivo?

 Quali conseguenze sociali e politiche avranno le dinamiche tra una élite in storico declino, una massa priva di sapere e dei saperi senza potere?

(Paolo Perulli – Luciano Vettoretto, Neo-plebe, classe creativa, élite, Laterza, Bari – Roma 2022, pp. 208).

 

E questo il brano (pp.3-27.).

 1. La triade sociale.

1. Un quadro inedito.

 

La società italiana, come del resto quella europea e occidentale, è cambiata profondamente negli ultimi decenni senza che l’immagine che abbiamo di essa sia stata aggiornata in modo significativo.

 Eppure, la distanza tra la situazione di oggi e quella degli anni ’80 è impressionante.

I lavori di Paolo Sylos Labini (1976, 1985) ne sono il migliore documento.

 Il grande economista, che nel 2003 previde la crisi finanziaria del 2007-2008 e per primo mostrò la gravità della crescita del debito, compì negli anni ’70 e ’80 la migliore analisi delle classi sociali in Italia.

La borghesia imprenditoriale appariva in lieve crescita, passando dal 2% del 1951 al 3% del 1983.

Esplosiva risultava essere la crescita delle classi medie urbane che, nel trentennio postbellico, passavano dal 29% al 48%.

La classe operaia era stabile, passando nello stesso periodo dal 41% al 43%, mentre i coltivatori diretti crollavano dal 28% al 6%.

Secondo Sylos Labini questa forma della società industriale rifletteva cinque robuste tendenze:

– la riduzione del divario tra stipendi e salari (egualitarismo);

– l’erosione dei profitti delle grandi imprese (perdita di competitività);

- la flessione dell’orario di lavoro (aumento della produttività);

– la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese;

– la crescita dell’intervento pubblico nell’economia.

 

La sua previsione era che la società evolvesse verso una grande classe media articolata in tre strati di piccola borghesia, composita ma robusta, con gruppi emergenti:

intellettuali e scienziati, tecnici e specialisti e quegli “intellettuali di tipo nuovo” di cui parla Antonio Gramsci (1966) con cui la classe operaia avrebbe dovuto tendere ad allearsi.

Se misuriamo queste tendenze con l’oggi, scopriamo che si sono completamente invertite.

Le grandi imprese hanno aumentato i profitti oligopolistici, a partire da quelle del web.

La divaricazione tra quota dei profitti e quota del lavoro a favore dei primi è diventata esplosiva.

I dati su reddito e ricchezza mostrano l’accrescersi della dicotomia tra strato ricco (1%) e strati poveri.

 L’orario di lavoro è aumentato in ragione della crescita di forme di lavoro autonomo e flessibile che prolungano il tempo di lavoro sul tempo di vita.

Le forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa si sono interrotte.

L’intervento pubblico nell’economia è regredito lasciando il campo a estese privatizzazioni, almeno a partire dagli anni ’90.

La dicotomia garantiti/non garantiti è diventata insufficiente a censire le posizioni deboli presenti in tutti gli strati sociali intermedi e inferiori.

Il quadro generale riflette uno scivolamento verso il basso – riduzione media di reddito e ricchezza delle famiglie, nuovi poveri specie di età giovane, aumento record di giovani che non lavorano né studiano, i Neet , mentre la ricchezza si concentra verso l’alto della scala sociale.

 

Nonostante questo quadro mutato, usiamo tuttora categorie come imprenditori e dirigenti per qualificare l’élite economica, parliamo di classe politica per lo strato di governo, e poi di ceti medi, di classe operaia, pur verificando che tali classi e ceti si sono sfaldati in modo irreversibile.

La loro rappresentazione sfocata va di pari passo con la loro mancanza di rappresentanza.

Dunque, se vogliamo mettere a fuoco il volto della società attuale è necessario aggiornare il lessico.

Ci ha provato di recente Luca Ricolfi (2019) introducendo la categoria “società signorile di massa”.

 Una categoria che coglie alcuni tratti di un fenomeno interessante.

Individua correttamente una crescita della rendita parassitaria e del consumo vistoso.

Tuttavia, non convince appieno poiché attribuisce il signoraggio a una categoria sociale spuria: una generazione che vive consumando la ricchezza di quella precedente.

 Di certo, però, contribuisce a spiegare sia l’ascesa sia la caduta della classe media. Ascesa, quando essa insegue la propria promozione sociale mediante il lavoro e l’impresa, cui si aggiungono le rendite rese possibili dal risparmio e dagli investimenti in titoli pubblici, che fino all’introduzione dell’euro sono stati la via dell’alimentazione della classe media.

Caduta, quando essa resta vittima della finanziarizzazione e subisce in prima persona gli effetti della crisi del debito.

Sappiamo quanto le crisi bancarie hanno impoverito ceti medi e perfino operai e sono di palmare evidenza gli effetti della crisi del debito che ha prodotto la riduzione dei servizi pubblici – istruzione dei figli, sanità e assistenza degli anziani – cui si cerca di far fronte con un keynesismo privato, economicamente rovinoso.

In realtà non è corretto considerare la classe media il baricentro della società, cosa che abbiamo continuato a fare tanto durante la sua lunga ascesa quanto nel suo attuale declassamento.

Il quadro sociale è assai più complesso e composito, come vedremo nel dettaglio nelle pagine che seguiranno.

Quello che possiamo affermare fin da subito è che difettiamo di un’analisi a tutto tondo dei nuovi strati che consideri insieme gli aspetti acquisitivi e remunerativi di successo o di declino e il sistema di credenze e valori che sempre accompagnano il loro emergere o precipitare.

 Vale, intanto, per la crisi dell’élite.

Abbisogna di una comprensione l’avvenuta caduta dello spirito del capitalismo, della weberiana razionalizzazione e sistemazione delle condotte di vita dei suoi protagonisti imprenditoriali, delle loro qualità carismatiche.

Basta tornare al decennio appena trascorso e valutare la crisi dell’élite economica e politica espressa dalle crisi finanziarie e bancarie dopo il 2008.

In questo contesto, l’élite – imprenditoriale e rentier – si è separata dalla classe media, impoverita e impaurita, tornando a una condizione ottocentesca con due zone sociali contrapposte:

la città dei nobili e del potere da una parte e quella del commercio e del guadagno a rischio dall’altra.

L’élite ha, infatti, mantenuto il suo stile di vita, il suo privilegio immune alle crisi ricorrenti, né ha ricostruito quel tessuto dell’etica professionale, delle ‘buone opere’ che contribuiscono al benessere sociale e della fiducia razionalmente controllata.

Ma questo discorso non vale solo per l’élite, vale anche per gli altri strati.

 La crisi della classe media che produce e risparmia è, come vedremo, il frutto anche della caduta dello spirito di comunità della borghesia cittadina proprio di una fase di urbanizzazione anomica, estensiva e caotica.

Allo stesso modo, l’espansione recente dello strato che denomineremo ‘neo-plebe’ è il frutto anche della delusione degli strati declassati nei confronti di una escatologia e di una fede collettiva in un riscatto sociale cui aspirare.

Sono nuove forme della distinzione sociale, quell’habitus che riveste gli appartenenti ai diversi strati e li differenzia l’uno dall’altro e che, per essere comprese, richiedono di un lavoro di scavo à la “Pierre Bourdieu “(ma prima ancora à la Balzac!).

 

Ancora non disponiamo di buone analisi sul rapporto conflittuale tra i valori e le visioni del mondo dei diversi strati o sul riflesso di quanto accade nel mondo sulla coscienza degli attori sociali.

 Eppure, l’analisi conflittuale era alla base della sociologia weberiana e simmeliana, per non dire di quella marxiana, tutte in ‘divergente accordo’.

Il linguaggio degli interessi di ciascun gruppo o strato era ancorato alla rispettiva Weltanschauung, al proprio punto di vista sul mondo.

L’egemonia neoliberale ha rimosso le tracce di tutto questo perché crede che tutti assumano il medesimo punto di vista concorrenziale e agonista:

il linguaggio della solidarietà e della coesione, il conflitto produttivo tra agire economico e agire politico, la natura istituente delle diverse azioni sociali sono tutte questioni stralciate e negate dal pensiero unico dominante.

Inutile dire che andrebbe invece ricostruito un pluralismo conflittuale in seno alla società.

Un pluralismo conflittuale che tenga conto degli interessi di preda di certi gruppi, della rivendicazione di riforme sociali, dell’interesse comune, così come è sempre stato fatto dai classici per le società a noi precedenti.

 

2. Élite, classe creativa e neo-plebe.

Quale composizione sociale mostra, dunque, la società italiana attuale secondo la nostra analisi?

Anzitutto diciamo quale fonte abbiamo utilizzato per arrivare a tale nuova configurazione sociale.

La nostra analisi si basa sulla rilevazione dell’archivio “micro.STAT” operata sulle forze lavoro e prende in considerazione il periodo 2008-2020 (dati trasversali trimestrali-microdati ad uso pubblico storici secondo la definizione dell’Istat).

 

Si tratta di un’indagine campionaria con un grado elevato di numerosità.

Al primo trimestre 2020, infatti, raccoglie più di 93.000 interviste, di cui più di 23.000 ad occupati.

Partendo dal primo trimestre del 2008, la nostra analisi fa riferimento a una situazione pre-crisi finanziaria e arrivando fino al primo trimestre 2020 comprende la situazione pre-crisi pandemica.

 

La variabile principale utilizzata è la professione, disaggregata a livello di tre digit, ovvero il massimo livello di disaggregazione possibile e affidabile.

Il criterio è il livello di competenza, definito a partire dalla natura del lavoro (manuale, intellettuale ecc.) e dal grado di conoscenza necessario per il suo svolgimento, acquisita per via formale o tramite esperienza.

I livelli di competenza sono quattro, gerarchicamente ordinati.

Il primo è quello dei lavori di routine di natura manuale, svolti con mezzi di produzione elementari, spesso legati alla fatica fisica.

L’ultimo è quello delle professioni che sono chiamate alla soluzione di problemi o a processi decisionali complessi tali da richiedere un esteso corpus di conoscenze teoriche e pratiche.

Le conoscenze e le competenze richieste sono di solito ottenute con un percorso di istruzione pari o superiore alla laurea di secondo livello.

 

Tali criteri permettono di distinguere la diversa intensità di conoscenza incorporata in ciascuna professione, nonché i livelli di comando e controllo che, in via generale, ciascuna professione esercita sulle altre.

 Per questa via è possibile leggere le professioni come una forma della relazione non solo economica, ma anche sociale.

Queste relazioni sono specchio degli intrecci tra professioni e istituzioni, funzionale in particolare per quelle legate alla formazione o all’ingresso formale in domini specifici (ordini professionali, impiego pubblico).

 Le professioni sono ordinate secondo livelli crescenti di disaggregazione.

Il livello che usiamo nella nostra analisi utilizza 129 classi professionali che aggreghiamo in tre strati principali: élite, classe creativa, neo-plebe.

 

Il primo strato è quello delle élites del potere politico, economico-finanziario e burocratico.

Rientrano in questo strato le classi occupazionali legate ai più elevati livelli decisionali (guida, comando, controllo) nelle sfere del governo, dell’amministrazione pubblica e dei servizi di welfare, della magistratura, delle organizzazioni di interessi (partiti, sindacati ecc.), degli imprenditori e amministratori di grandi aziende, dei direttori e dirigenti generali e dipartimentali di aziende.

Lo strato delle élites è completato da un sub-strato di occupazioni di controllo e comando locale dei processi di management e direzione, che definiamo ‘strato di servizio’ alle élites.

Si tratta dell’insieme delle classi occupazionali che esercitano la razionalità tecnica, con un livello significativo di competenze e supervisione/controllo del lavoro esecutivo nelle diverse sfere economiche e scientifiche:

sono, appunto, i tecnici (della gestione dei processi produttivi di beni e servizi, delle attività finanziarie e assicurative, dei rapporti coi mercati, della distribuzione commerciale ecc.).

Un segmento spurio, ma di prevalente razionalità tecnica, non creativa, funzionale al controllo e comando delle élites.

Questa nostra idea di uno strato del potere e di un sub-strato funzionale ad esso riprende e modifica l’impostazione classica di “Gaetano Mosca” (1994), che definisce la classe politica dirigente della società e sotto di essa uno strato di servizio funzionale.

 

Il secondo strato, la classe creativa (usiamo qui il termine classe in senso più ampio introducendo principi diversi dalla posizione economica, e soprattutto quello di ‘capitale culturale’), comprende le classi occupazionali tipiche dell’economia della conoscenza, la knowledge economy orientata alla progettazione, invenzione o ampliamento delle conoscenze negli ambiti della produzione scientifica, tecnica e culturale che richiedono elevati livelli di competenze.

Questo strato include specialisti delle scienze ‘dure’, economisti e specialisti di management e finanza, scienziati sociali e delle discipline storico-umanistiche, medici, architetti e ingegneri, le occupazioni a maggior qualificazione nella sfera artistica, culturale e del leisure, e il nuovo segmento dei professionisti indipendenti, gli “independent professionals” e i” freelancers” ad alto contenuto di conoscenza.

A questo strato si è scelto di aggiungere gli imprenditori di aziende di piccola dimensione nei settori economici knowledge intensive e ad alto valore aggiunto (chimica, farmaceutica, fabbricazione di computer, biomedicale e altri prodotti elettronici, autoveicoli, meccanica di precisione, attività editoriali e di informazione, telecomunicazioni, ricerca e sviluppo, marketing).

Questo segmento sta pienamente dentro la “knowledge economy”, e per questa via esercita impatti rilevanti sul sistema socio-economico nel suo insieme e risulta in genere associato a stili di management e produzione (forse anche a stili di vita) molto vicini a quelli delle attività creative.

Anche la classe creativa ha un suo segmento di servizio:

come per le élites, si tratta di figure di supporto, di razionalità tecnica applicata alle sfere più propriamente scientifiche e culturali, che richiedono capitale culturale istituzionalizzato ed esperienza.

La principale di esse è la figura degli insegnanti, che alimentano l’istruzione e la formazione: in qualche modo forniscono la materia prima della classe creativa.

 

Il terzo strato, la neo-plebe, è una galassia che comprende:

 i vecchi ceti medi, la “new and old petty bourgeoisie,” la nuova classe operaia legata ai processi di digitalizzazione e automazione, l’ormai ridotto segmento degli imprenditori della piccola impresa tradizionale, i mestieri tradizionali, il ceto impiegatizio a modesta qualificazione e le ‘burocrazie di strada’, il proletariato dei servizi (e, in misura minore, i salariati agricoli e le mansioni non qualificate nel manifatturiero).

 Insieme lavoro dipendente e indipendente, manuale e non manuale, protetto e non protetto (soprattutto in relazione alle sfere del pubblico e del privato), occupazioni tradizionalmente maschili o femminili investite, nel corso del tempo, da incertezza, insicurezza, impatti della digitalizzazione, effetti delle migrazioni, declino del prestigio sociale e dell’identità di classe o ceto.

 

All’interno di questa galassia molto eterogenea si rintracciano gradi diversi di esposizione.

Massimamente esposti sono gli occupati nei mestieri e produzioni tradizionali, laddove le loro credenziali educative, esperienze, capitale relazionale e propensione al rischio non li mettono nelle condizioni di connettersi alle nuove domande di consumo (come invece avviene per i ‘nuovi contadini’ o i produttori di beni singolari e/o di lusso).

 Molto esposte sono le mansioni specifiche del ceto impiegatizio ormai rese obsolete dalla digitalizzazione.

 Così come in crescita è un proletariato dei servizi sul crinale tra lavoro regolare e irregolare, stabilità e precarietà, sussistenza e povertà, classe e underclass.

 In definitiva, sono i “servants” degli strati del potere economico, burocratico o dei creativi, e persino degli strati a medio-basso reddito, in forma di supporto domestico e di cura degli anziani.

Di questa galassia è parte, infine, il lavoro operaio.

Sono i conduttori e operatori di impianti e macchine, da quelli più tradizionali e in crisi (costruzioni, agricoltura) a quelli investiti dall’innovazione tecnologica: digitalizzazione, automazione, robotizzazione.

Un segmento che appare problematico, con modeste capacità di adattamento ai processi socio-economici contemporanei e tuttavia – in particolare nel segmento operaio dell’innovazione tecnologica – non privo della possibilità di stabilire una relazione politico-sociale non subalterna in una coalizione di interessi o in alleanza con la classe creativa nel contesto delle trasformazioni della knowledge economy.

 

Questa la fisionomia generale dei tre strati.

La domanda da porci ora è come si trasmette e, prima ancora, come si forma, come muta nel tempo la visione del mondo di un’élite, di una classe creativa intermedia, di una classe non privilegiata, se non ai margini?

È il tema classico della sociologia, eppure disatteso e abbandonato perché sommerso da un infinito, inutile e dannoso predominio dei media che costruiscono stereotipi più che pensiero critico.

Proviamo ad approfondire la questione, analizzando, più in dettaglio, la natura, la storia e la composizione di ciascuno strato.

2.1. Élite.

Contare, contarsi, annettersi sono per “Bourdieu” (1988) le caratteristiche dell’élite, la sua ricerca di distinzione e il suo habitus, che si interiorizza e insieme si indossa come una divisa.

 Sapere di essere al proprio posto, con le proprie iniziali sulla biancheria esteriore e su quella interiore della coscienza, è nelle parole ironiche di “Robert Musil” (1974) l’attributo della classe superiore.

Inoltre, essa possiede un senso del piazzamento, cioè sa porsi, se necessario, al centro della scena pubblica con ogni mezzo.

Ma sa, in virtù di quel tratto di riserbo e a volte di segretezza che caratterizza da sempre i detentori del potere, anche ritrarsi e velare la propria influenza e le proprie relazioni.

Le reti di cui fa parte sono professionali, lobbistiche, finanziarie, sportive.

Sono la connessione e le conoscenze dirette, capillari, di ambienti economici e politici privilegiati a fare la differenza: non tanto la competenza, ma l’appartenenza, l’essere connessi a un sistema inter organizzativo di potere e ‘sentire’ di farne parte (Pizzorno 1970).

Le società di consulenza, come ad esempio McKinsey & Company, sono l’officina delle élites.

Da lì provengono i dirigenti delle banche, delle compagnie di assicurazione, delle imprese e dei ministeri, coloro che hanno sostenuto senza particolari scrupoli la globalizzazione, certi di trarne vantaggio.

L’élite è sostenuta da ricche famiglie iperprotettive, da una competizione basata sull’accesso a strumenti di potere.

L’élite crede e si riproduce in miti, fedi, network, autorappresentazioni.

La sua nuova etica è meritocratica.

 Il merito è uno dei miti, il più diffuso, dell’élite, pur essendo il meno verificabile.

Lo spiega bene “Michael Sandel” nel suo libro “The Tyranny of Merit” (2020): entrare alla Bocconi o a Sciences Po, o acquisire un Mba a Londra o a Boston è fatto legato al denaro più che al merito.

 Ciò nonostante è la via maestra per far avanzare un’élite tanto nelle democrazie liberali quanto nelle autocrazie illiberali.

 

L’autorappresentazione delle élites è affidata a modelli culturali e forme di consumo, insieme ‘vistoso’ e fonte di arricchimento esclusivo (Boltanski, Esquerre 2019).

 Come risultava già dalle analisi di “Thorstein Veblen”, un marchio dell’élite è, infatti, il consumo a cui ne è strettamente connesso un altro:

il solido senso di sicurezza derivante dall’abitudine a dirigere una grande azienda e a disporre di ingenti risorse finanziarie.

A volgere lo sguardo indietro alla storia, si potrebbe sostenere che l’autocoscienza e il progresso hanno fatto parte del bagaglio occidentale e ideologico dell’élite.

 In questa direzione ha giocato un ruolo essenziale il rapporto tra élites e chierici, i detentori del sapere e – spesso – sapienti interessati.

Nella città occidentale del Medioevo il mestiere dell’intellettuale produceva corporazioni al pari di altre attività economiche, sciogliendo il legame con le scuole cattedrali e con le sfere religiose.

Nell’Ottocento le classi della conoscenza prodotta per via accademica divennero anche un segmento di funzionari pubblici.

Il nesso tra credenziali educative e formazione delle élites viene rafforzato in Francia e in Germania dove, a inizio secolo, si afferma l’università humboldtiana, come formazione delle classi dirigenti tratte da tutti gli strati sociali (Cassese 1990).

Questa autonomia delle istituzioni formative nello sviluppo politico europeo si declina in modo ancora diverso nel Regno Unito, con la riforma di Oxford e Cambridge a metà Ottocento, e negli Stati Uniti dove, negli stessi anni, si afferma il modello del “land-grant college “da cui nascono le università politecniche come il “Mit”, con finanziamento federale.

Così trova spazio il modello dell’università privata:

 per prima Harvard, nata per coltivare i ‘nuovi mandarini’, quei” Boston Brahmins” che hanno dato presidenti, industriali e governatori alla nazione.

Non diversamente in Europa: il peso dell’impresa economica, finanziaria e globale, nella gestione dei programmi formativi è sempre maggiore.

 

Ma ormai l’élite è largamente inconsapevole di un tale retaggio illuminista e borghese. In Italia, soprattutto.

Qui, almeno dagli anni ’90 in poi, l’élite economica e quella politica si sono identificate con una variante locale del populismo, che crede nel denaro e nel privilegio come modello ostentato per mettere il popolo, la neo-plebe, in condizione di servitù volontaria (Viroli 2010).

Nell’acquiescenza di gran parte dell’élite politica, questo modello ha generato un ‘sistema di corte’ i cui premi più diffusi sono il denaro e la cooptazione dei ‘cortigiani’ in incarichi ufficiali e istituzionali.

 Per un ventennio abbiamo assistito alla progressiva trasformazione dell’Italia in una grande corte (con una correzione parziale a partire dal 2011 dovuta però più a fattori esogeni, quali gli effetti della grave crisi finanziaria, che a virtù endogene).

 

Così, nonostante la globalizzazione richieda alla politica e all’economia un orizzonte per lo meno europeo e una relazione dinamica con altre élites, tra tutte quelle orientali, noi viviamo la paradossale ripresa di un rapporto padrone-servo che è premoderno e pre- borghese, portato di un modello di populismo sovranista.

Del resto, l’élite economica italiana appartiene a una storia minore, di ‘piccolo capitalismo’.

Non compare tra i super ricchi del Pianeta, il famoso 1%.

Su 100 super ricchi mondiali, 12 sono degli Stati Uniti, 9 della Svizzera e 9 di Singapore, 7 di Lussemburgo e altrettanti del Canada, 6 sono del Giappone, 5 del Regno Unito, 3 della Francia e altrettanti della Norvegia, 2 di Taiwan, Corea, Olanda, Irlanda, Germania, Cipro, 1 di Russia, Brasile, Sud Africa.

I restanti Paesi non raggiungono il valore di 1.

A spiegare la natura più introversa e a bassa crescita dell’élite economica italiana è il capitalismo familiare, assai più forte in Italia che altrove.

 Quello della famiglia è un valore appariscente, a lungo indagato soprattutto dal Censis.

Famiglia e borgo, radici locali e piccola scala sono stati esaltati o criticati, a seconda dei punti di vista, come fattore chiave della crescita o della mancata crescita italiana.

Giuseppe Berta (2016) ha messo in evidenza che – tramontata la grande impresa dinastica – il capitalismo italiano non può che essere di piccola dimensione, quella studiata da Giorgio Fuà (1980) una generazione fa.

 Si aggiunge a questo il fatto che non c’è un ricambio della classe dirigente, la stessa da quarant’anni («Dialoghi Internazionali» 6/2007), la quale blocca l’accesso ai media e alla visibilità in generale dei talenti che lavorano a progetti innovativi di grande valore, fungendo da grande cappa generazionale.

La nostra élite è locale, radicata, tradizionalista, non aperta e cosmopolita come accade in altri paesi.

 Di certo c’è una buona mobilità sovraregionale, soprattutto delle élites imprenditoriali.

 Tuttavia, le élites imprenditoriali sono molto più che altrove connesse a una località, anche nel caso di grandi imprese multinazionali: Ferrero resta ad Alba in provincia di Cuneo, anche se la sua sede finanziaria e logistica è da tempo in Lussemburgo; Del Vecchio resta nel Bellunese, nonostante il suo impero sia mondializzato nella produzione, distribuzione e finanziarizzazione.

Più travagliato è il cammino della Fiat, poi Fca, poi Stellantis, verso un orizzonte globalizzato.

Se però prendiamo in considerazione le 3.500 medie imprese del Nord Italia, scopriamo che sono chiari esempi di un ‘capitalismo di territorio’, anche laddove hanno avviato la delocalizzazione delle produzioni in Asia o altrove.

Un esempio tra tanti, la “Curti Industries”.

Azienda ravennate di meccanica che opera dalla componentistica all’aerospazio, fondata da un semplice dipendente, ora leader nel settore, che resta radicata a Castel Bolognese per scelta e per cultura.

 O Bonfiglioli, un gruppo familiare con proiezioni globali, essendo il quinto player mondiale nel suo settore, attivo nella meccatronica dei riduttori e ben radicato nella sua sede bolognese di Lippo di Calderara di Reno, riprogettata secondo i dettami di industria 4.0.

Una scelta di fedeltà che in parte si spiega con il fatto che il territorio in cui queste imprese sono inserite è ricco di poli tecnologici, ricerca pubblica, cultura tecnica, istituti professionali. In realtà, secondo Luciano Gallino (1982), abbiamo a che fare con un’identificazione radicata in sottosistemi più interni della personalità (etnica, regionale, religiosa) che massimizza il successo riproduttivo bio-culturale dell’individuo, una identità più stabile di quella – elusiva – che passa attraverso l’appartenenza a diverse associazioni.

 

C’è da dire che l’élite economica italiana che è stata sin qui capace di coniugare progettazione e produzione, disegno e manifattura, ha avuto un’impronta – per così dire – più culturale rispetto ad altre élites nazionali.

Su tutti vale l’esempio di Milano:

qui si è formata una élite che ha fatto da ponte tra industria e classe creativa, e non tanto grazie al Politecnico e alle altre Università che certamente hanno dato un innegabile contributo, ma che sono istituzioni che esistono in ogni grande città del mondo.

Il quid in più cui abbiamo assistito nel dopoguerra (1950-1970) è stato l’incontro tra imprenditore e artista.

Ci riferiamo, ad esempio, all’incontro tra un imprenditore del design e della luce come Ernesto Gismondi, fondatore di Artemide, e designer come Gio Ponti, Vico Magistretti, Richard Sapper, persino il regista Luca Ronconi.

Non a caso l’Encyclopedie definiva artisti “gli operai che eccellono in quelle arti meccaniche che richiedono intelligenza” (Supiot 2020).

Un ponte che si è interrotto, ma che andrebbe ricostruito, tanto più nell’epoca dell’economia cognitiva guidata dal digitale.

 

La domanda è:

può l’attuale élite alzare lo sguardo oltre sé stessa?

Nutriamo qualche dubbio al riguardo.

Le recenti crisi finanziarie e quelle bancarie hanno evidenziato aspetti oscuri dell’intreccio tra le élites economiche e le élites politiche.

Coloro che siedono nei consigli di amministrazione delle banche e delle imprese sono gli stessi che offrono al mondo politico servizi e ricevono consenso e potere di influenza.

Persino la filantropia dell’élite, da Bill Gates in giù, serve a influire sulla sfera del potere e a ribadire la superiorità di una rete di interessi.

Mentre un secolo fa il cosmopolitismo delle élites era circoscritto a un club esclusivo di pochi, oggi una densa rete di società di consulenza, imprese multinazionali, finanza e tecnologia avvolge il Pianeta e fa delle società nazionali un ambito troppo ristretto per le élites stesse.

Esse perdono il senso dello Stato in nome di credenze globaliste:

la tecnologia, l’interconnessione, l’appartenenza a uno spazio cosmopolitico, la città globale ecc.

Questo serve a dirci che l’aristocrazia finanziaria ha preso possesso del mondo, attraverso le banche internazionali, le multinazionali e le società di consulenza – come sostenne per tempo Sylos Labini già negli anni ’70?

 Sylos Labini ne elencava i settori e le aree:

speculazioni edilizie, esportazioni di capitali, petrolio sono le aree del profitto speculativo.

Per Karl Marx, che ne scriveva nel 1848-1850, l’aristocrazia finanziaria non era altro che la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese:

 i suoi guadagni e i suoi piaceri erano malsani e sregolati, come quelli della plebe. Una chiave interessante, questa, per capire la paradossale alleanza tra élite e neo-plebe contemporanea.

Guardiamo alla caduta del linguaggio della classe dominante:

 è una cartina di tornasole anche per capire il declino dell’élite economica e politica.

Quell’habitus linguistico che si apprende nel mercato specializzato della famiglia e della scuola e si sviluppa con la frequentazione precoce e costante dei mercati specializzati dell’economia e della politica non si manifesta più con la sicurezza e il distacco cui abbiamo assistito nel passato.

 Il linguaggio dell’élite basato su un’elevata censura, sulla messa in forma e sull’eufemizzazione (Bourdieu 1988), cioè su aspetti distintivi di ‘norma realizzata’, oggi si scompone in un linguaggio dei media di comunicazione che rende tutto indistinto e omogeneo, l’opposto della ‘distinzione’.

 

In questo linguaggio comune si trova l’estrema conseguenza prevista da “Alexis de Tocqueville” nella sua opera “Democrazia in America”, per cui quando gli uomini non più costretti al proprio posto nella società si vedono e comunicano costantemente l’uno con l’altro, tutte le parole del linguaggio si mescolano.

Ma Tocqueville riferiva questo fenomeno a una società, quella democratica, che ha abolito le caste e in cui le classi si riempiono di nuove reclute e diventano indistinguibili.

 L’opposto, quindi, della distinzione di “Bourdieu”.

Questa ‘discussione impossibile’ tra il liberale ottocentesco Tocqueville e il radicale novecentesco “Bourdieu” mostra come la democrazia si sia nel frattempo imbastardita e immobilizzata.

In Italia più che altrove, prima la televisione commerciale e poi i media digitali hanno espresso un livello di volgarità che unifica verso il basso élite, piccola borghesia e neo-plebe in un unico metalinguaggio pratico.

L’insulto pronunciato in televisione e nei social media, che “Bourdieu “definisce “idios logos”, sostituisce l’atto ufficiale di nomina con cui si concede un titolo, che egli definisce “homo logein”.

 Entrambi, l’insulto e la nomina, sono atti di istituzione o di destituzione fondati socialmente.

D’altra parte, concetti astratti, non visibili, come nazione, Stato, sovranità, democrazia, rappresentanza, burocrazia, che secondo Giovanni Sartori (2000) caratterizzano la cittadinanza libera, sfuggono del tutto a “homo videns”.

 

2.2. Classe creativa.

 

Prima dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, l’individuo creativo è il Faust di Goethe, colui che ha un pensiero e una volontà volti a uno scopo. Il suo alter ego è Prometeo, il titano che porta la tecnica utile agli uomini. E da quando è Prometeo a primeggiare è la creazione come impresa tecnica a occupare pienamente la scena.

In sociologia il termine “creativo” è stato introdotto da “William Thomas e Florian Znaniecki” con il loro lavoro “The Polish Peasant in Europe and America” (1918-1920).

Nella grande trasformazione sociale prodotta dall’immigrazione e dall’urbanizzazione di inizio Novecento emergono tre tipologie di individuo:

il filisteo, il bohémien e il creativo.

Rispetto ai primi due, rigidamente tradizionalisti o incoerenti, l’individuo creativo trova in sé le risorse per un avanzamento sociale, per la ricerca di scopi definiti, esprime una maggiore capacità di adattamento che lo aiuta ad avere successo nella vita.

La personalità più sistematica del creativo lo avvicina all’individualismo strumentale, a colui che domina la società industriale attraverso istituzioni e norme sociali ben precise.

Così, il tipo creativo appartiene alla moderna divisione sociale del lavoro e ha la forma di un tipo auto-diretto, rivolto a uno scopo, inserito in istituzioni e agenzie di socializzazione che agiscono in tal senso.

 

Se le società industriali avanzate hanno prodotto numerosi individui creativi è perché esse favoriscono una personalità acquisitiva e strumentale.

Le istituzioni stimolano e premiano l’indipendenza, la competenza, la responsabilità individuale.

 Questa visione alla “Talcott Parsons” (1983) spiega bene a nostro avviso perché il tipo creativo americano abbia trovato ampi spazi di prevalenza rispetto a società più chiuse e castali come quelle europee o asiatiche.

 

Creativo è sin qui un individuo, un tipo:

l’inventore contrapposto all’uomo che tira a campare, l’innovatore (che risale al pensiero economico di “Joseph Schumpeter”), il professionista della conoscenza applicata (un’idea più recente che dobbiamo a “Peter Drucker”).

 Ma da qui a diventare una classe il salto è grande.

Presuppone una auto-sostituzione, cioè la trasformazione di un ordine sociale dato o di suoi sistemi parziali ad opera di processi interni (“Luhmann” 1983).

Occorrerebbe che il primato funzionale della creatività di origine tecnico-scientifica e professionale fosse in grado di autonomizzarsi e perfino di sostituire il primato funzionale della società economica avvenuto nella modernità.

 Il primato funzionale dell’economia è correlato con l’individualismo dell’uomo economico, mentre il primato della società creativa dovrebbe reggersi su un individuo sociale con specifiche caratteristiche.

E allora: quali fattori possono promuovere un tale processo di auto-sostituzione?

In primo luogo fattori di tipo esogeno, come eventi dirompenti esterni a ciascuno di noi che impongono di rivedere le priorità e le scelte di ciascuno.

La crisi climatica ambientale globale consente di capire ciò che intendiamo.

 ‘Noi sapevamo’ (grazie alla scienza e alla tecnica), ma non abbiamo potuto evitare il processo di degradazione naturale in corso.

Avremmo potuto farlo solo autonomizzando la scienza e la tecnica, dando ad esse, cioè, il potere di affermare la propria riflessività pratica, scongiurando gli esiti catastrofici cui il primato funzionale dell’economia ha spinto il Pianeta.

Poi ci sono fattori di tipo endogeno.

Tecnologia, tolleranza e talento sono stati presentati come i drivers funzionali della classe creativa.

 I creativi sono aperti, liberal, progressisti.

Ma non hanno ancora acquisito una responsabilità che li ponga al centro della vita politica.

Non si impegnano in azioni collettive.

Questo è quanto sostiene “Richard Florida” nel suo libro” The Rise of The Creative Class” (2019), coniando anche la definizione di classe creativa.

Ciò anche se rappresenta circa 1/3 delle forze di lavoro della società americana, cui si contrappongono 2/3 di classi di servizio postindustriali, a bassi salari e precarie.

Una quantità non troppo dissimile da quanto da noi calcolato per l’Italia.

 

La ragione è forse spiegata da Tocqueville e illustrata da Jon Elster (2009) con la domanda: “Ci sono classi in America?”.

Sembrerebbe di no. Il continuo turnover individuale, la mobilità sociale e geografica non favoriscono la formazione di una ‘classe per sé’ che si impegni nell’azione collettiva.

 La classe creativa ha un altro padre nobile rivendicato da “Florida”, quel “Peter Drucker “che, forte della sua formazione mitteleuropea e poi approdato in America, per primo (nel lontano 1959) definisce il lavoratore della conoscenza come il futuro manipolatore di informazione.

 Una categoria però sfuggente e – ancora una volta – non una ‘classe per sé’.

 

Più circoscritta e tecnocratica è la categoria di ‘esperti’, quelli che posseggono cioè uno specifico e certificato expertise.

Molte teorie li hanno considerati detentori di un potere tecnocratico, scambiando, in realtà, per potere quella che è solo competenza (cum petere, chiedere insieme).

 I ricercatori e gli esperti hanno rispetto alla classe creativa un profilo più nettamente tecnico, meno socialmente visibile.

 Anche se da loro dipendono le prossime generazioni di innovazioni, i vaccini che ci salveranno dai virus, le macchine intelligenti che ci faranno muovere in auto a guida autonoma, i prossimi devices che guideranno il lavoro e il consumo di interi continenti.

 

È dunque vistosa la sproporzione tra il grande ruolo professionale e il più modesto ruolo sociale dei creativi.

Se essi rimarranno ‘artisti’ usati dal capitalismo della conoscenza, ‘inventori’ a disposizione del capitalismo delle piattaforme digitali, è difficile immaginarne un ruolo da classe generale.

Se invece prenderanno coscienza che la loro capacità di innovare ha un’utilità sociale estesa, di ciò potrà beneficiare anche la neo-plebe, la parte più grande e svantaggiata della società.

Per assumere tale ruolo il primo passo da compiere è la messa in discussione dell’attuale distribuzione dei diritti di proprietà nelle filiere produttive.

Sebbene i creativi, i free -lancers, i lavoratori della conoscenza, i fornitori di input siano figure che concorrono alla creazione del valore, allo stato attuale non è loro riconosciuto alcun accesso a diritti di proprietà condivisi.

Essi restano in capo alle élites proprietarie e agli azionisti finanziari. Questo il primo, principale interesse da intaccare da parte della classe creativa per ritagliarsi un nuovo ruolo sociale.

 

2.3. Neo plebe.

 

Non c’è nulla di spregiativo nel termine che qui usiamo.

Piuttosto, c’è insoddisfazione per gli altri modi di nominare lo strato basso della società.

 Sottoproletariato, Lumpenproletariat (proletariato degli stracci) è, sì, termine spregiativo che indica una classe pericolosa.

 In sociologia il più usato è sottoclasse (underclass).

Tutti questi termini presuppongono un sotto rispetto a un sopra: per esempio, la classe operaia che sta sotto e la classe media che sta sopra, o più sopra.

 Questa è una prospettiva non più attuale, una visione che altera la realtà del processo di scivolamento in corso dell’intera ‘società di mezzo’ verso il basso.

Non si possono più confinare i fenomeni della povertà alla sola underclass.

 

Non più protetta dai sistemi assicurativi e di welfare, certo mescolata a fenomeni diversi come l’evasione fiscale e il lavoro nero o grigio, la povertà affiora dall’intera società.

In questo senso la ‘società dei due terzi’, quella garantita, contrapposta a un terzo non garantito, va aggiornata e, per certi versi, rovesciata.

Sembra più esplicativa l’idea di “proletaroide” usata da “Max Weber” (1981) e da “Theodor Geiger” (1932) nella Germania di inizio Novecento:

 uno strato che cresce ai margini, ma include la classe media impoverita, il lavoro intellettuale precario e malpagato, accanto al proletariato dei servizi.

Il progresso tecnologico legato all’intelligenza artificiale affiderà alle macchine il lavoro qualificato e ciò andrà a nutrire su larga scala la neo plebe, fasce di popolazione prive di formazione adeguata, di skills e conoscenze oggi necessarie.

La tecnologia è selettiva e ingegnerizzata, funziona per le società avanzate, ma rischia di escludere una parte significativa del mondo.

Per fare solo un esempio: un tempo c’erano più linee telefoniche fisse a Manhattan che in tutta l’Africa sub-sahariana.

Oggi la diffusione di Internet segue la stessa dinamica selettiva. Ecco perché nei paesi avanzati la neo plebe è destinata a crescere.

Ma come si vede e si rappresenta la neo plebe?

 Finora è stata rappresentata da altri:

il pensiero classico e poi quello borghese l’hanno stigmatizzata come pezzenti (Platone) o poveri, Pöbel (Hegel);

il pensiero marxista e quello leninista l’hanno elevata a proletariato.

Tocqueville parla della ‘razza’ dei poveri come uno strato permanente e fisso, con poche vie di scampo, contrapposto ai ricchi, uno strato fluido i cui componenti sono sempre a rischio di diventare poveri.

“Il lavoro forma”, sostiene Hegel: è il lavoro che permette al servo di uscire fuori da sé e di assumere una permanenza.

Ma cosa accade se non c’è lavoro, o esso è esercitato in forme tali da non garantire permanenza ma solo precarietà?

 Gran parte del lavoro contemporaneo è di questa natura.

 

2.Le linee di frattura.

 

1. Inclusi/esclusi.Prima di iniziare l’analisi quantitativa della triade sociale che abbiamo delineato fin qui, è necessario guardare alla trasformazione radicale da cui siamo investiti dal punto di vista delle nuove fratture sociali.

Con lo sfaldamento delle società nazionali del passato, che avevano un carattere stabile e duraturo, e con l’avanzata di nuove società globali planetarie si stanno formando delle nuove falde, degli strati sociali che non corrispondono più a tradizionali classi, ceti o gruppi.

Sembra prendere corpo la visione di Friedrich Nietzsche (2000) secondo cui non siamo affatto materiale per una società:

lo si capisce guardando da vicino le nuove linee di frattura della società contemporanea.

 

La prima linea di frattura è certamente quella tra inclusi e esclusi.

Non è unanime il giudizio sull’ampiezza di questa frattura.

Secondo i sostenitori della tesi della convergenza di lungo periodo, il XXI secolo è più equo e meno diseguale, basta valutare l’uscita dalla povertà di ampie aree del mondo in via di sviluppo.

 Secondo altri la distanza tra inclusi ed esclusi è, invece, aumentata:

 le diseguaglianze, le distanze, si sono accresciute rispetto al XX secolo, che aveva visto diminuire le differenze grazie al welfare state, alle politiche sociali e al ruolo dei sindacati.

Come ha dimostrato “Thomas Piketty “(2019), i meccanismi di mercato inevitabilmente producono e dilatano le distanze sociali se non si interviene correggendoli.

 Lasciati liberi di operare sul lungo periodo non possono che far crescere le disuguaglianze poiché incuranti della platea degli esclusi dal mercato del lavoro, dalla distribuzione dei redditi, dalla ricchezza finanziaria e immobiliare.

Se la politica non opera delle correzioni spostando reddito da una classe all’altra, sostenendo i più poveri, redistribuendo la ricchezza, allargando l’accesso alla conoscenza e alla sanità, l’esclusione sociale è destinata a crescere.

Guardiamo per un momento a cosa è accaduto al nostro paese dal dopoguerra per intervento politico:

negli anni ’60 si ottiene l’istruzione pubblica per tutti ed è dei ’70 la realizzazione di un servizio sanitario nazionale.

A partire dagli anni ’80, questo processo virtuoso si è interrotto:

neoliberismo e terza via e, negli anni ’90, l’inizio delle privatizzazioni, sono stati fatali alle classi medie e basse della società.

Il risultato su grande scala del processo che abbiamo sinteticamente descritto è stato proprio l’assottigliamento della classe media, quella in cui si riconosceva la maggioranza della popolazione (il 60% secondo molte stime) e a cui aspirava di appartenere la restante parte.

Si è assottigliata notevolmente, ed è scivolata verso il basso andando a alimentare appunto un’estesa neo plebe. Contestualmente l’élite, l’1% dei ricchi mondiali, ha aumentato le sue posizioni di vantaggio grazie agli Stati fiscalmente generosi, al predominio della ricchezza finanziaria e delle rendite, al peso della successione ereditaria.

 

Ma non è tutto.

Quella classe creativa di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo è anch’essa coinvolta in un processo di inclusione/esclusione.

 La disconnessione tra sapere e potere è, infatti, il fenomeno emergente del nostro tempo:

chi è incluso nella conoscenza non è affatto incluso nel potere, che segue una logica propria, autoreferenziale.

Il potere si impossessa del sapere e lo utilizza ai propri fini: l’algoritmo ne è la principale espressione.

Quindi, nonostante la sua crescita progressiva, la classe creativa, sapiente ma priva di potere, erede della società civile hegeliana, è messa in una posizione che rende difficile la sua trasformazione in ‘classe generale’.

Facciamo un esempio utilizzando la triangolazione che si viene a creare tra proprietari delle piattaforme, providers di contenuti e utenti.

Risulta immediatamente evidente che il potere è distribuito in modo asimmetrico: l’utente usa la piattaforma, ma è da essa usato per i dati che fornisce e che sono alla base della profilazione;

 il provider, dal canto suo, fornisce i contenuti ma è pagato solo sulla base di contratti iniqui (lavoro intellettuale sottopagato e privo di garanzie) (Stark, Pais 2020).

 

Da questo punto di vista, l’utente delle piattaforme è un caso estremo di ‘servitù volontaria’ nei confronti del dominio tecnico e il provider un caso altrettanto estremo di ‘autosfruttamento’ delle proprie capacità lavorative e cognitive.

I diritti di proprietà intellettuale non tutelano affatto i sapienti, ma i potenti, almeno fintanto che una modifica degli intellettual property rights potrà consegnare a chi esercita la conoscenza, cioè la classe creativa, la effettiva titolarità di quanto essa ha saputo produrre.

Ma di questo abbiamo già detto.

 

Che fare?

 Occorre lavorare per una prosperità inclusiva, come sostengono alcuni economisti. “Dani Rodrik” e “Stefanie Stancheva” (2021) ci offrono uno schema semplice e chiaro (tab. 2.1) per correggere il divario tra inclusi ed esclusi, rappresentando la società come suddivisa in tre strati secondo dei criteri più tradizionali dei nostri, ovvero bassi redditi, classe media, redditi elevati.

Osserviamolo insieme.

 

Tab. 2.1. Uno schema per la prosperità inclusiva.

A quale stadio dell’economia interviene la politica

Pre-produzione—Produzione--    Post-produzione.

Di quale segmento di reddito deve prendersi cura --Bassi redditi---Istruzione primaria, formazione professionale---Salario minimo, apprendistato --Trasferimenti sociali, reddito minimo garantito, politiche di pieno impiego.

Classe media ---Scuola pubblica secondaria e terziaria, formazione continua Politiche industriali, licenze professionali, training, contrattazione collettiva Assicurazioni contro la disoccupazione, pensioni --

Redditi elevati --Eredità, tassazione di donazioni e di immobili ---Crediti fiscali su ricerca e sviluppo, politiche antitrust --

Politiche fiscali su redditi elevati, ricchezza, impresa.

Fonte:”Rodrik, Stancheva 2021”.

 

La colonna più importante della tabella 2.1 è la prima, poiché riguarda lo stadio che precede la fase della produzione.

È qui che si possono ottenere i più importanti progressi verso una prosperità inclusiva.

Una politica pubblica efficace può ridurre l’esclusione sociale e limitare la creazione di “bad jobs”, di cattivi lavori a bassa o nulla qualificazione elevando l’istruzione e la formazione della neo plebe.

Questo strato, infatti, è andato ingrossandosi non tanto a causa del prevalere di mansioni elementari di cura, assistenza, pulizia o produzione, quanto per la mancanza di politiche che elevano la qualità del lavoro, a partire dalla sua qualificazione.

Va da sé che un simile processo di educazione, se declinato a livello di istruzione superiore e terziaria (universitaria e post-universitaria), può aiutare la classe media a divenire classe creativa, estendendo e approfondendo la sua capacità di elaborare innovazioni e soluzioni responsabili.

Uno studio americano ha stimato che in 50 anni la quota del reddito nazionale che va ai laureati è passata negli Stati Uniti dal 5% al 18%, mentre quella che va al lavoro dequalificato è scesa dal 57% al 40%.

È importante tenere presente che, tanto quando parliamo di innalzamento dell’istruzione primaria quanto di quella superiore e terziaria, stiamo parlando non solo di educazione, ma di inclusione nella cittadinanza sociale.

C’è poi da considerare l’effetto che avrebbe una reale politica di intervento sulla ricchezza dell’élite, lo strato sociale superiore.

 Si tratta di ricchezza ereditata, frutto di rendite, parassitaria, non di ricchezza creata dal lavoro.

Negli ultimi quattro decenni, lo squilibrio a favore di questo strato privilegiato della società è pesante.

In questa tabella non viene considerato un aspetto tra i più essenziali ai fini di una prosperità inclusiva:

quello dei diritti di proprietà.

 Includere i creatori di valore – i creativi, i lavoratori intellettuali, gli scienziati applicati – nella proprietà oggi esclusiva degli imprenditori e degli azionisti, rovesciando la prassi dello “share­holder value”, rappresenterebbe una riforma dell’impresa e del diritto societario di enorme importanza.

E includere i lavoratori nella gestione dell’impresa attraverso propri rappresentanti nei consigli (come accade in Germania) o mediante altre forme di partecipazione agli utili (come è avvenuto in Giappone e altri paesi avanzati specie tra gli anni ’50 e’80 del Novecento) sarebbe un potente incentivo per accrescere la produttività sociale dell’impresa – ormai stagnante in molti paesi – e per stabilizzare la domanda di lavoro da parte delle imprese, oggi sottoposta a un eccesso di fluttuazioni e a una frammentazione contrattuale insostenibile.

 

Ma passiamo ad esaminare la seconda colonna della tabella:

 quella relativa allo stadio della produzione, quello che ha subìto i maggiori cambiamenti nel passaggio da XX a XXI secolo.

Qui si sono affermati quei processi mondiali di dislocazione che hanno portato interi comparti dell’industria a trasferirsi dai paesi avanzati ai paesi arretrati mediante colossali investimenti di capitale.

 Una neo -accumulazione primitiva ha interessato dapprima la Corea e le tigri asiatiche, poi la Cina, grazie all’enorme afflusso di capitali Occidentali.

 Un processo che ha modificato per sempre la geografia della forza-lavoro mondiale.

In termini concreti:

in Occidente si sono persi milioni di posti di lavoro stabili e ben retribuiti nell’industria ed è emersa una neo plebe dequalificata nei servizi;

 in Oriente è aumentata a dismisura una forza-lavoro a basso costo che lavora in condizioni semi-schiavistiche nelle fabbriche cinesi, vietnamite, malesi, indiane, pakistane, bangladesi nella piena violazione dei diritti umani e sociali.

 

Precarietà, degradazione del lavoro, nuovi regimi di sfruttamento: questi gli ingredienti qualificanti della ‘grande trasformazione’.

Se si vuole seriamente invertire la marcia introducendo forme di stabilità, di qualificazione e di tutela minima universali, il salario minimo è uno degli strumenti per stabilizzare i mercati del lavoro, ma la via maestra per sottrarre il lavoro alla precarietà e all’arbitrio rimane la contrattazione collettiva.

Il tanto temuto aumento dei costi del lavoro per le imprese sarà più che compensato da un forte aumento di produttività.

Un ruolo inclusivo rilevante potrebbero giocarlo le politiche industriali di orientamento delle scelte imprenditoriali e di investimento verso produzioni più qualificate e ambientalmente sostenibili.

 Il carbon footprint, l’impronta del carbonio di un’impresa o di una città, andrebbe esteso all’intera catena globale del valore includendo i fornitori e i paesi in via di sviluppo (come raccomanda il Parlamento Europeo).

In questo modo interi settori sarebbero riqualificati e lo spettro delle nostre produzioni sarebbe spostato verso l’alto di gamma.

I risultati sarebbero una ridislocazione mondiale della produzione (il cosiddetto “reshoring” delle produzioni in passato delocalizzate ne sarebbe solo un esempio, perché molti settori nuovi sono ancora da creare) e un aumento della qualità e della affidabilità dei prodotti e dei mercati.

 A questo si riferiscono, nella seconda colonna della tabella 2.1, i crediti alla ricerca e sviluppo che devono spingere verso queste nuove direzioni tutte le imprese – grandi e piccole – e le filiere – composte di imprese, fornitori, clienti.

 Inoltre, le grandi piattaforme digitali (ad esempio, Amazon o Google) vanno ricondotte alla logica della concorrenza, grazie a una nuova politica antitrust che, impedendone la concentrazione e il monopolio, persegua non l’ideologia del benessere del consumatore, ma l’analisi strutturale dei settori.

Infine, esaminiamo la terza colonna della tabella 2.1, quella più tradizionale della redistribuzione, che abbraccia le classiche politiche di welfare e le politiche fiscali che dovrebbero riequilibrare, a favore degli esclusi, la distribuzione del reddito e della ricchezza.

 È il reddito minimo universale l’orizzonte nuovo e necessario del XXI secolo:

 un orizzonte che davvero può aiutare gli esclusi, quell’ampia neo plebe che si è formata nell’epoca del lavoro automatizzato e digitale.

Altrimenti si realizzeranno le peggiori profezie e distopie che da “Aldous Huxley” (1991) in poi hanno prefigurato una società futura di ‘uomini alfa’ e sotto di loro un iceberg sommerso di individui ‘beta’, ‘gamma’, ‘delta’, ‘epsilon’:

 la fabbricazione scientifica pianificata di uomini standardizzati (Schmitt 2001) in una gigantesca struttura castale di esclusi che finirebbe per significare la perdita di ogni umanità.

 

2. Cosmopoliti/locali.

Dopo la caduta del muro di Berlino, all’inizio degli anni ’90, si iniziò a parlare di una ‘cultura mondiale’.

I più avvertiti osservarono che, a guardar bene, non era in atto alcun processo di uniformazione: semplicemente la diversità si presentava organizzata.

Per la prima volta il mondo appariva come un unico network di relazioni sociali e tra le varie regioni – ma sarebbe meglio dire continenti – si era creato non solo un flusso di persone o di beni, ma anche una condivisione di significati (o almeno di conoscenze).

Per la verità, erano le città a integrarsi attraverso fitti scambi economici e a costituire una rete di città globali, come hanno mostrato “Zbigniew Brzezinski” (1970), “Saskia Sassen” (1991) e poi molti altri.

Prima di allora, cosmopolita si definiva colui che scavalcava i confini locali per spaziare in un ambito nazionale.

Uno studioso della metropoli come “Simmel”, a inizio Novecento, si esprimeva in questo senso e più avanti la ricerca di “Robert Merton” (1957) sui ‘modelli di influenza’ in una media città americana confermava questa visione:

cosmopolita era colui che adottava un orizzonte più ampio, quello nazionale, rispetto a chi viveva nel ristretto ambito locale.

Tanto che è stato proprio “Merton” a introdurre nel vocabolario sociologico la coppia di termini cosmopoliti/locali.

 

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