Meloni ha scelto Trump.
Meloni
ha scelto Trump.
Tra
l’Ue e Trump,
Meloni
ha scelto Trump.
Infosannio.com
– (12 marzo 2025) – infosannio – FRANCESCO MALFETANO – lastampa.it – ci dice:
Meloni
diserterà il vertice di “Starmer,” il governo è contrario all’invio di truppe.
Giorgia
Meloni aveva già incontrato “Keir Starmer” al Blenheim Palace (Oxfordshire) nel
luglio 2024.
Lo strappo si consumerà sabato.
Giorgia
Meloni non parteciperà alla” video call” convocata dal primo ministro
britannico “Keir Starmer”.
La premier ha infatti chiarito ai suoi
fedelissimi di non aver intenzione di mettere la faccia su un’iniziativa che
«non convince».
E cioè
su una riunione che, a seguito del vertice di Parigi di ieri tra i vertici
della Difesa dei Paesi coinvolti nella “coalizione dei volenterosi”, avrebbe
discusso apertamente dell’invio di truppe in Ucraina.
Dopo
aver più volte mostrato le proprie perplessità sul formato e sulle modalità di
questi tentativi, Meloni ha sciolto ieri sera la riserva, decidendosi a
spaccare il fronte che il britannico ed Emmanuel Macron stavano costruendo a
fatica.
In
questo modo, l’Italia pare spostare al di là di ogni ragionevole dubbio il
proprio asse verso Donald Trump, assumendosi l’onere di porre una pietra
potenzialmente tombale sull’iniziativa che non avrebbe avuto né l’egida Onu, né
tanto meno quella della Nato.
La
diserzione italiana è arrivata dopo una lunga serie di riflessioni e di
contatti con le cancellerie, compresa quella di Washington.
Dopo
giorni di indugi, a far decidere Meloni pare sia stato il buon esito dei
colloqui tenutisi a Gedda tra Usa e Ucraina.
In Arabia Saudita ha preso corpo l’opzione di
un cessate il fuoco di 30 giorni e la ripresa dell’assistenza americana a Kiev.
In particolare mentre Washington e Kiev,
almeno sulla carta si sono riavvicinate, a colpire Palazzo Chigi sono state le
parole lasciate trapelare da Macron ieri: dobbiamo «assumerci le nostre
responsabilità» perché «è il momento in cui l’Europa deve fare il possibile,
per l’Ucraina e per sé stessa».
Fattori
che, valutano ai vertici dell’esecutivo, non solo non motivano un’iniziativa
alternativa a quella a stelle e strisce, ma impongono di tirare il freno.
La
scelta italiana potrebbe però ora deflagrare nel cuore dell’Europa, aprendo una
crepa che sarà difficilissimo risanare.
Anche perché è forte il sospetto che il vero
nodo della contesa sia stato il protagonismo di “Macron” e “Starmer”,
determinati a sedersi al tavolo a cui Trump sta facendo il bello e il cattivo
tempo.
D’altro
canto, ieri sono arrivati molteplici segnali di disallineamento rispetto
all’Europa da parte del centrodestra italiano.
A
Strasburgo, infatti, Fratelli d’Italia sta valutando di non sostenere la
risoluzione di maggioranza «sull’incrollabile sostegno Ue» da destinare
all’Ucraina.
Il gruppo dei conservatori Ue di cui il
partito di Meloni fa parte ha presentato un emendamento che sottolinea come «la
sicurezza Ucraina sarebbe più forte sotto la rinnovata cooperazione
transatlantica».
Un
testo su cui i meloniani, capeggiati da Carlo Fidanza e Nicola Procaccini,
hanno chiesto anche il sostegno del Partito popolare europeo.
Se non
dovessero riuscire in quello che valutano come «un colpaccio», i Conservatori
potrebbero appunto astenersi.
O, in alternativa, votare a sostegno
esprimendo «forti critiche».
La riserva, spiegano da via della Scrofa, sarà
sciolta solo all’ultimo minuto, lasciando intendere come abbiano tutta
l’intenzione di inviare per l’ennesima volta lo stesso messaggio a Ursula von
der Leyen: bisogna dialogare con gli Stati Uniti di Trump.
Quella
di domani, insomma, si annuncia come una giornata complessa.
Se
l’europeismo di FI e del Ppe non dovrebbe causare increspature e sia
«supportare il piano a cinque punti» di Ursula von der Leyen per il riarmo
europeo sia il rinnovo del sostegno a Kiev, per la Lega potrebbe andare
diversamente.
Il Carroccio, infatti, non voterà a favore di “ReArm
Eu”.
I dubbi riguardano anche gli stessi
Conservatori europei che ieri hanno messo nel mirino il nome del piano.
Fidanza
ha proposto di modificarlo in “Defend Europe” con un emendamento al paragrafo
66, perché «rischia di essere fuorviante e troppo restrittivo».
Allo
stesso modo, pur votando a favore del piano, dovrebbero non sostenere la
clausola «buy european» che, giudicano in FdI, avvantaggerebbe troppo
l’industria francese a discapito delle filiere italiane spesso alimentate da
catene extra-europee.
I
soliti distinguo che potrebbero riproporsi la prossima settimana sulle
comunicazioni che la premier farà in Parlamento prima del Consiglio europeo del
20 marzo.
Al
momento il testo della risoluzione non è stato definito però già ieri i
capigruppo di centrodestra hanno cominciato ad incontrarsi per arrivare ad un
punto comune. Non solo, se n’è parlato sia al vertice di via della Scrofa di
lunedì pomeriggio con Arianna Meloni e i capigruppo FdI, sia nel corso della
telefonata con cui domenica la premier ha fatto gli auguri di compleanno a
Matteo Salvini.
Non
scegliendo tra Europa e Stati Uniti,
Meloni
sceglie Trump (e Putin).
Linkiesta.it - Carmelo Palma – (29 -3-2025) –
ci dice:
Non è
«infantile», come dice la presidente del Consiglio, ma inevitabile
l’alternativa tra l’adesione al patto affaristico-mafioso di Trump e Putin e la
partecipazione a un’alleanza democratica internazionale, costruita sul nucleo
europeo. Far finta di non scegliere significa scegliere il peggio.
Per
fare l’adulta nella stanza del governo sovranista, nell’intervista al “Financial
Times” Giorgia Meloni ha liquidato come «infantile» la posizione di chi pensa
che a questo punto si debba scegliere – sull’Ucraina, sulle politiche di
difesa, sui dazi: cioè praticamente su tutto, Groenlandia compresa – tra gli
Stati Uniti e l’Europa e gli altri Paesi dell’ex blocco occidentale, sostenendo
che il compito dell’Italia è piuttosto quello di ridurre la frattura
transatlantica, a sentir lei prodotta della malevolenza politica degli europei
e non dalla programmata demolizione dell’alleanza euro-americana da parte della
Casa Bianca.
In
ogni caso, per non lasciare adito a dubbi circa la speciosità della sua
equidistanza, Meloni ha poi dichiarato di concordare con la diagnosi di J.D.
Vance sulla perdizione europea, cioè con il cuore del discorso che il
vicepresidente americano ha pronunciato un mese fa a Monaco riproponendo in
salsa Maga la stessa sbobba nazi-nichilista propinata per due decenni dai
canali della propaganda russa.
Si può
ovviamente ritenere che Meloni non abbia alternative perché i vincoli interni
ed esterni a cui è legata la sua presidenza non possono essere spezzati, né
allentati senza far saltare tutto e che chi spera, anche per lei, in un
“momento Zelensky” – cioè in una riconversione da acchiappavoti a statista
davanti alle tragedie della storia – sopravvaluti la forza della persona e
sottovaluti l’inerzia del personaggio Meloni, che è passata dallo zero al
trenta per cento dicendo esattamente le cose che oggi dovrebbe rinnegare.
Realisticamente
non c’è da avere troppe speranze, né troppe pretese, malgrado la fermezza con
cui fino all’elezione di Donald Trump ha difeso l’Ucraina, meritando
un’apertura di credito che ben pochi pensavano potesse meritare.
Rimane però il fatto che è ancora meno
realistica la sua strategia di continuare a buttare la palla avanti, nella
speranza che il corso degli eventi tagli i nodi che il suo attendismo non
riesce a sbrogliare.
Non è
realistica, nel senso che continuare a non vedere, a non sentire e a non
parlare – o a parlare dicendo a tutti quel che vogliono sentirsi dire – non
pone affatto l’Italia al riparo dai rovesci della storia e non la lascia
miracolosamente indenne dagli effetti della fine delle alleanze politiche,
economiche e militari, che fino a ieri legavano le democrazie di tutto il
mondo, a partire dall’asse euro-atlantico.
Meloni
potrà pure continuare a negare ogni evidenza e a perseverare in questo
doroteismo sovranista ipocrita e grottesco, aiutata peraltro da un’opposizione
di sinistra che su questi temi raggiunge nel complesso vette inarrivabili di
indecenza, ma per l’Italia, come per tutti i Paesi orfani dell’unità
occidentale, si porrà nei fatti, per quanto denegati e retoricamente depurati
della loro cifra tragica, il problema di scegliere tra il vassallaggio alla
potenza americana o il concorso a una alleanza internazionale alternativa, di
cui costruire in fretta condizioni di stabilità e autonomia sufficienti per
navigare tra i flutti di una storia tempestosa.
Nella
nuova Yalta affaristico-mafiosa che Trump e Putin stanno negoziando sulla pelle
degli ucraini e degli europei, ciascuno riconoscendo all’altro il diritto al
proprio spazio vitale (a me l’Ucraina, a te la Groenlandia), è quasi più
perdonabile scegliere di schierare l’Italia con la cricca del “nuovo Reich
globale” che pensare di fare l’interesse degli italiani confinandoli in una
fintamente equidistante Vichy tricolore.
Far finta di non scegliere significa scegliere
il peggio.
Meloni
a FT: «infantile» scegliere
tra
Trump e Ue. «Condivido le
critiche
di Vance, l’Europa
si è
un po’ persa».
Ilsole24ore.com
– (28 marzo 2025) - Redazione Roma – ci dice:
La
leader di Fdi ha spiegato di non vedere il presidente degli Stati Uniti come un
avversario, di voler continuare a rispettare il “primo alleato” dell’Italia e
di lavorare per evitare una frattura transatlantica.
Meloni:
Sono una patriota per cui metterò questa Nazione in sicurezza.
I
punti chiave:
Gli
Usa primo alleato dell’Italia.
Il
protezionismo Usa non nasce con Trump
Posizione
di Trump sulla difesa europea stimolo per l’Ue.
«Condivido
critiche JD Vance a Eu, Europa si è un po’ persa».
Meloni:
ora governo più longevo nella storia del Dopoguerra.
La
guerra commerciale con gli Usa.
Chiedere
alla premier italiana di scegliere tra il presidente Usa Donald Trump e
l’Unione europea equivale, agli occhi della diretta interessata, a chiederle di
fare una scelta “infantile”.
È il
messaggio che Giorgia Meloni ha lanciato in un’intervista al Financial Times.
La
leader di Fdi ha chiarito che rispetterà il “primo alleato” alla Casa Bianca e
lavorerà per evitare una frattura tra gli Usa e l’Unione europea.
L’intervista
giunge nei giorni in cui il Tycoon ha annunciato dazi del 25% sulle auto
importate negli Usa.
Giorgia
Meloni, racconta il quotidiano, ha liquidato come “infantile” e “superficiale”
l’idea che l’Italia debba scegliere tra Stati Uniti ed Europa, ribadendo che
farà tutto il necessario per difendere gli interessi del suo Paese.
Nella sua prima intervista con un giornale straniero
da quando è entrata in carica nel 2022, il primo ministro italiano spiega che è
«nell’interesse di tutti» superare le gravi tensioni nelle relazioni
transatlantiche, descrivendo le reazioni di alcuni leader europei a Donald
Trump come «un po’ troppo politiche».
«L’Italia
- ha aggiunto - può avere buone relazioni con gli Stati Uniti e se c’è una cosa
che il nostro Paese può fare è evitare uno scontro tra gli Usa e l’Europa e
costruire ponti.
Io lo farò. Ed è nell’interesse degli
europei».
La
“leader conservatrice nazionalista italiana”.
Come
la definisce FT nell’intervista di “Roula Khalaf, Amy Kazmin e Ben Hall”, ha
chiarito di non vedere il presidente degli Stati Uniti come un avversario e di
voler continuare a rispettare il “primo alleato” dell’Italia.
«Io
sono conservatrice. Trump è un leader repubblicano. Sicuramente sono più vicina
a lui che a molti altri, ma capisco un leader che difende i suoi interessi
nazionali», ha detto Meloni A ft.
«Io difendo i miei».
Il
protezionismo Usa non nasce con Trump.
In un
momento di crescente allarme in Europa per l’amministrazione Trump, Meloni ha
affermato che molte lamentele della Casa Bianca sulle pratiche commerciali e
sulla spesa per la difesa dell’Europa non fanno altro che riecheggiare le
precedenti amministrazioni statunitensi.
Parlando
poche ore prima che Trump annunciasse tariffe del 25% sulle importazioni di
automobili, Meloni ha affermato che gli Stati Uniti stanno perseguendo da tempo
un programma sempre più protezionistico, anche con l’”Inflation Reduction Act “di
Joe Biden.
«Pensate
davvero che il protezionismo negli Stati Uniti sia stato inventato da Donald
Trump?».
Posizione
di Trump sulla difesa europea stimolo per l’Ue.
Meloni
confida una speranza: che l’approccio “conflittuale” di Trump sulla difesa
europea sia un necessario «stimolo» per il continente ad assumersi la
responsabilità della propria sicurezza.
«Mi piace dire che la crisi nasconde sempre
un’opportunità», ha detto.
«Condivido
critiche JD Vance a Eu, Europa si è un po’ persa».
Meloni
confida di condividere l’attacco del vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance
all’Europa per aver presumibilmente abbandonato il suo impegno a favore della
libertà di parola e della democrazia.
«Devo
dire che sono d’accordo», afferma.
«Lo dico da anni... L’Europa si è un po’
persa».
Le
critiche di Trump all’Europa non erano rivolte al suo popolo, ma alla sua
«classe dirigente ... e all’idea che invece di leggere la realtà e trovare il
modo di dare risposte alle persone, si possa imporre la propria ideologia alle
persone».
Meloni:
ora governo più longevo nella storia del Dopoguerra.
Nell’intervista
a FT la premier mette in evidenza la stabilità politica che ha portato in
Italia dalla sua vittoria elettorale nell’ottobre 2022, sottolineando che ora è
alla guida del quinto governo più longevo nella storia del Dopoguerra del suo
Paese. Il suo dominio sul panorama politico italiano, unito a una gestione
fiscale relativamente prudente, ha contribuito a rassicurare i mercati
finanziari sull’elevato onere del debito italiano.
La
guerra commerciale con gli Usa.
Ma
l’Italia, come il resto dell’Europa, si trova ora ad affrontare un ordine
mondiale in subbuglio, con l’amministrazione Trump che ha declassato i suoi
impegni di sicurezza e ha dichiarato guerra economica ai suoi alleati
tradizionali.
«Le nostre relazioni con gli Stati Uniti sono
le più importanti che abbiamo», osserva la premier.
Dissolvere
la UE,
Costruire
l’Europa.
Conoscenzealconfine.it
– (28 Marzo 2025) - Vincenzo Costa – ci dice:
Oramai
è solo un circo. Una classe politica che non si può neanche più criticare,
perché suscita solo ilarità, pietà, imbarazzo.
Ma
questa banda con disturbi cognitivi può fare ancora molto molto male agli
europei e agli italiani.
E non
è più tempo di politiche furbette.
Gli
europei hanno una sola scelta: o si liberano di questo circo, coi suoi
pagliacci, ballerine e nani, o vanno incontro al disastro.
L’unica
proposta politica che va presa in considerazione è:
uscire
dalla UE per salvare l’Europa.
C’è
bisogno di una forza politica che abbia solo questo come obiettivo.
Non
c’è destra né sinistra, perché si tratta di un processo di liberazione,
attraverso cui i popoli si riprendono in mano il loro destino.
Poi ci
si potrà dividere, ma adesso l’urgenza storica è riappropriarsi del proprio
destino, che adesso è in mano a una banda di squilibrati, comici ma portatori
di lutti e tragedie.
Non si
tratta di abbandonare il sogno europeo, si tratta di appropriarsene.
Abbandonare
la UE dei mercati e delle banche per costruire, poi, un’Europa dei popoli,
erede della sua cultura, delle sue stratificazioni, delle sue differenze che la
fanno ricca e unica.
Non
una UE che omogeneizza, nullifica, dissolve le tradizioni.
Non la UE dei mercati ma una Europa dei
diritti del lavoro e dei lavoratori, non una UE i cui valori sono il mercato e
basta, che ha rimosso e serve a rimuovere la sua storia.
Tutte
le posizioni intermedie non servono, servono solo a raccogliere consenso per
ottenere qualche seggio, ma non per cambiare.
Gli
europei sono posti davanti alla scelta: liberarsi di questa UE e di questa
classe dirigente o andare incontro a un futuro funesto.
Naturalmente
col kit di sopravvivenza per 72 ore, senza dimenticare il coltellino svizzero!
(Vincenzo
Costa).
(lantidiplomatico.it/dettnews-vincenzo_costa_dissolvere_la_ue_costruire_leuropa/39602_59927/).
Meloni
dà ragione a Vance
sull'Ue:
'Usa primo alleato.'
Ansa.it
- Redazione ANSA – (29 marzo 2025) – ci dice:
La
presidente del Consiglio Giorgia Meloni al FT dice: "L'Europa si è un po'
persa". Opposizioni insorgono.
Si
dice "d'accordo" con il vicepresidente Usa JD Vance, perché come lei
sostiene "da anni" l'Europa "si è un po' persa".
Liquida
come "infantile" e "superficiale" l'idea che l'Italia dovrà
scegliere tra Washington e Bruxelles, ricordando comunque che gli Stati Uniti
sono il "primo alleato".
E
boccia come reazioni "troppo d'istinto" quelle di alcuni leader
europei sui dazi annunciati da Donald Trump.
Con
l'”intervista al Financial Times” Giorgia Meloni ribadisce la sua postura, che
per le opposizioni è però tutt'altro che bilanciata.
La
premier, secondo la segretaria del Pd Elly Schlein, "ha scelto di
indossare il cappellino Maga, ammainando di fatto da palazzo Chigi la bandiera
italiana e quella europea", e nella partita sulle tariffe commerciali
rappresenta "il cavallo di Troia dell'Amministrazione Usa".
Giorgia
Meloni è nella top 5 dei governi piu' longevi.
Critiche
che si fanno ancora più decise alla luce del tweet di Matteo Salvini, che
invece si schiera senza dubbi:
"Tra
Trump che lavora per la pace e l'asse “Macron-von der Leyen” che parlano di
guerra e armi, non abbiamo dubbi da che parte stare".
"In
un solo tweet Salvini annuncia l'”Italexi”t e la “Melonexit", ironizza il
segretario di +Europa Riccardo Magi, dopo il messaggio con cui il leader della
Lega rilancia anche sulla preparazione di "una missione con le imprese
italiane per rafforzare la partnership con gli Stati Uniti", come
annunciato dopo la telefonata con Vance che una settimana fa ha prodotto non
poca irritazione a Palazzo Chigi e alla Farnesina.
Dietro
le quinte si lavora anche a un viaggio a Washington di Meloni, che intanto dà
la sua interpretazione delle critiche di Trump all'Europa (definita anche
"parassita").
Sono
rivolte, spiega, non al suo popolo ma alla sua "classe dirigente... e
all'idea che invece di leggere la realtà e trovare modi per dare risposte alle
persone, si possa imporre la propria ideologia alle persone".
Nella nuova fase aperta dal tycoon alla Casa
Bianca, la premier si propone per "evitare uno scontro con l'Europa e
costruire ponti", riconoscendolo come "un leader che difende i suoi
interessi nazionali".
Lei, a
sua volta, chiarisce nell'intervista, difende quelli italiani.
Agenzia ANSA.
Schlein:
'Sui dazi il governo Meloni è il cavallo di Troia dell'amministrazione Usa
all'interno dell'Unione Europea' -
Difende
gli interessi di Trump e Musk, e non quello del paese. La deriva va fermata.
(Notizie
- Ansa.it).
E la
risposta di alcuni leader europei alle mosse di Trump è stata "un po'
troppo politica" se non "semplicemente d'istinto", sostiene la
presidente del Consiglio, che invece predica "calma".
Sul
dossier dazi, la strategia di Palazzo Chigi è lavorare sulle "grandi
differenze sui singoli beni" per "trovare una buona soluzione
comune".
Sulla
crisi ucraina, invece, Meloni boccia la proposta di Francia e Germania per una
forza europea di rassicurazione:
"Dobbiamo
stare attenti, può essere vista più come una minaccia" da Mosca. Mentre
l'estensione a Kiev dell'articolo 5 della Nato è "più facile ed
efficace", ribadisce la premier, assicurando che da "persona
seria" rispetterà gli impegni sul 2% delle spese della difesa rispetto al
Pil.
E conferma anche le preoccupazioni
sull'impatto sul debito del “ReArm Europe”, rinviando la decisione su come
procedere a quando saranno chiari i termini definitivi.
"Dopo
i bacetti da Biden a suon di invii di armi", commenta sarcastico il leader
del M5s Giuseppe Conte, ora Meloni "manda cuoricini a Trump sui giornali
internazionali sperando di farsi ricevere anche lei alla Casa Bianca.
Che
brutta fine i 'patrioti'".
“Angelo Bonelli” (Avs), la definisce
"vassalla" del presidente Usa, e “Benedetto Della Vedova” (+Europa)
la descrive "paralizzata, tra la fascinazione ideologica per il trumpismo
e il rischio della marginalità".
Secondo
Schlein, "Meloni ha scelto di difendere l'interesse nazionale, ma quello
americano. Anzi, quello di Trump e Musk".
E la invita a "spiegare" agli
italiani "perché ha scelto Trump come "primo alleato", un
"fatto grave e imbarazzante per l'Italia, Paese membro fondatore
dell'Unione".
Elly
Schlein al vetriolo su Giorgia Meloni:
«Ormai è il cavallo di Troia di
Trump
e Musk in Europa»
Open.online.it – (28 Marzo 2025) - Filippo di
Chio – ci dice:
La
segretaria Pd commenta duramente l'intervista al Financial Times in cui la
premier ha invitato alla calma sui dazi e dato ragione a J.D. Vance.
L’ennesima
strizzatina d’occhio della premier Giorgia Meloni agli Stati Uniti di Donald
Trump, proprio ora che i dazi Usa stanno per abbattersi come una mannaia
sull’economia italiana, vissuta con sconcerto dal Pd.
E a
prendersi la responsabilità dell’affondo, dopo l’intervista di questa mattina
della premier al “Financial Times”, è la segretaria Elly Schlein:
«Giorgia Meloni ha scelto di indossare il
cappellino MAGA (Make America Great Again, ndr), ammainando da Palazzo Chigi la
bandiera italiana e quella europea».
A
maggior ragione al termine di una settimana in cui Washington e Bruxelles si
sono guardate in cagnesco, dopo che nelle chat segrete tra funzionari americani
– pubblicate dal” The Atlantic” – il vicepresidente JD Vance aveva definito gli
europei «dei parassiti».
La
segretaria dem fa il verso alle parole consegnate dalla premier al quotidiano
britannico: «Giorgia Meloni vada dire a loro: “State calmi, ragazzi,
ragioniamoci”».
Meloni,
Vance e «i parassiti europei».
Al
centro delle polemiche tra Chigi e Nazareno c’è in particolare un passaggio
dell’intervista, in cui la premier Meloni si dice «d’accordo» con le posizioni
sull’Europa del vicepresidente americano Vance.
Non,
beninteso, sul presunto «parassitismo», ma sulla valutazione del grado di
libertà d’espressione in Ue scandita da Vance a metà febbraio alla Conferenza
di Monaco.
«L’Europa
si è allontanata dai suoi valori più fondamentali», aveva detto il vice di
Trump.
Meloni
ha ribadito di concordare: «Lo dico da anni, l’Europa si è un po’ persa».
Lette
dopo gli affondi di Vance in chat coi “colleghi”, quelle parole però a Schlein
fanno venire l’urticaria:
«Meloni ha scelto di difendere l’interesse
nazionale, però quello americano.
Anzi quello di Donald Trump e Elon Musk», ha
detto.
«E invece è un problema enorme per l’interesse
nazionale italiano se la presidente del Consiglio sceglie di dare ragione a
chi, come Vance, dà dei parassiti agli europei, insultando quindi anche noi
italiani, dopo giorni di imbarazzante silenzio».
La
questione dazi: «Meloni è uno strumento di oligarchi americani».
Altro
tema scottante è ovviamente la questione dazi, sempre di più all’ordine del
giorno con la promessa americana di applicare tariffe su tutte le auto non di
produzione americana.
Una
decisione protezionistica su cui, però, la premier Meloni ha invitato a
riflettere:
«A volte ho l’impressione che rispondiamo
semplicemente d’istinto. Su questi argomenti bisogna dire: “Mantenete la calma,
ragazzi. Pensiamoci”».
L’attendismo
meloniano per Elly Schlein è invece ingiustificabile:
«Meloni
dovrà spiegare perché ha scelto Trump come “primo alleato”, quando il prossimo
2 aprile entreranno in vigore i dazi Usa del 25% sulle nostre merci, sulle
nostre eccellenze, che pagheranno le imprese, i lavoratori e le famiglie
italiane».
E ha
continuato: «Vada a dire a loro “state calmi, ragazzi, ragioniamoci”.
Il
governo si sta trasformando giorno dopo giorno nel cavallo di Troia
dell’amministrazione Trump all’interno dell’Unione Europea, in uno strumento
degli oligarchi americani utilizzato nel nostro continente per fare i loro
interessi».
La
guerra delle spie tra Londra e Mosca
e l’Italia come terreno dello scontro.
Lacrunadellago.net
- Cesare Sacchetti – (29/03/2025) - ci dice:
A
guardarlo bene il tipo giunto dalla Scozia nei giorni scorsi a Roma, tale
“Grant Paterson,” non assomiglia molto ad un “turista” che visita la Città
eterna.
Il
54enne britannico è giunto a Roma all’inizio di questa settimana e la prima
cosa che ha fatto è stata quella di scrivere un singolare messaggio sulla sua
bacheca Facebook.
“E’
davvero una bella settimana, se non sarò ucciso.”
Perché
mai “Paterson” ha avuto un pensiero del genere?
In
fondo non si è recato in qualche pericolosa bidonville di Lagos, in Nigeria, o
nel Sudafrica post-apartheid nel quale la violenza contro i bianchi regna
indisturbata, seppur non riportata dai media Occidentali perché ciò
disturberebbe la narrazione della “liberazione” mendeliana.
Grant
Paterson.
Paterson
era andato a stare in un posto molto particolare, un “Bed & Breakfast”,
come ce ne sono molti, forse troppi, nella Capitale ma il “caso” vuole che proprio
in quel civico di via Vitellia, 43, abitasse fino a qualche giorno fa un
personaggio come “Roberto Saviano”, che non è esattamente il tipico residente
medio che si incontra in quella zona.
Saviano,
“scrittore” di Napoli con origini ebraiche, è uno di quei personaggi costruiti
dalla macchina della propaganda de “La Repubblica”, ai tempi nei quali questa
era ancora nelle mani dell’ingegner De Benedetti, e appartiene a pieno titolo a
quei sedicenti campioni dell’antimafia promossi dalla sinistra progressista.
Sedicenti
perché costoro oltre a denunciare qualche piccolo boss e a trarre profitti da
scadenti fiction sulla camorra o sulla mafia, mai davvero hanno sfidato il vero
potere che domina la mafia, e mai osano citare nei loro scritti che la malavita
è soltanto uno dei piani inferiori delle logge massoniche, e questo non da
oggi, ma dai tempi del Risorgimento.
Il
“giornalista” antimafia è anche noto per essere un fiero sostenitore dello
stato ebraico, da lui difeso e sostenuto pubblicamente in diverse occasioni, e
appare strano che un uomo che si dice contro le mafie, non abbia mai pensato di
scrivere tutti i traffici mafiosi che hanno sede in Israele, vero e proprio
centro del traffico di esseri umani internazionale.
“Paterson”
comunque è andato a stare proprio lì, nella strada dove poco prima c’era uno
degli uomini della “intellighenzia sionista” e “liberal-progressista italiana”,
e il suo “incidente” appare ancora più singolare se si pensa che l’uomo aveva
scritto quella inquietante frase soltanto pochi giorni prima.
Non si
conoscono, ad oggi, le cause dell’esplosione.
I media hanno provato in un primo momento a
dare la colpa ad una fuga di gas, ma bombole in quell’appartamento non ce
n’erano, né tantomeno sembra che ci fossero perdite dalle tubature.
E’
certo però che l’unico uomo colpito è stato lui, e questo inizia a deporre
decisamente a sfavore dello sfortunato incidente domestico, ma invece viene da
pensare che questo Paterson non fosse un “turista” britannico in vacanza, ma un
uomo forse associato all’intelligence britannica dell’MI6.
Soltanto
pochi giorni dopo avviene nel mar Rosso una tragedia che forse non tutti hanno
accostato all’episodio di Roma, ma con il quale sembra esserci una relazione.
In
Egitto, affonda, in circostanze ancora non chiarite, un sottomarino turistico
pieno di turisti russi, e a rimetterci la vita sono state almeno 6 persone.
Come
appare il
sottomarino affondato nelle acque del Mar Rosso.
C’erano
soltanto russi a bordo di quel sottomarino, e considerato il durissimo scontro
in corso tra ciò che resta del blocco Euro-Atlantico e la Russia, l’ipotesi del
sabotaggio mirato non va affatto scartata.Non è certo la prima che la NATO e i
gruppi terroristici da essa gestiti e finanziati colpiscono obiettivi civili
con russi a bordo, e tra i vari casi può ricordarsi quello dell’aereo russo
esploso in Egitto nel 2015.
I
media sono stati comunque parchi di dettagli sul disastro.
Non
hanno voluto dire come mai il mezzo pieno di turisti russi sia improvvisamente
affondato, eppure non dovrebbe essere difficile risalire alle cause di un
simile incidente.
Le
autorità egiziane hanno subito dichiarato che tutto era a norma a bordo.
L’equipaggio aveva già condotto tante volte quel tratto di costa della barriera
corallina, le condizioni meteo erano semplicemente perfette, e il sottomarino
risultava a posto e senza nessun problema meccanico.
La
guerra delle spie e i misteriosi affondamenti delle loro barche.
Gli
affondamenti misteriosi sono diventati parte della cronaca quotidiana da
qualche tempo a questa parte, e spesso non si tratta di sfortunati episodi,
come vogliono far credere, ma di una guerra senza esclusione di colpi che si
sta combattendo tra l’anglosfera e la Russia.
È una
guerra che non è iniziata oggi.
Il
primo episodio di questa guerra risale al giugno del 2023 ai tempi
dell’affondamento della “barca Goduria” sul Lago Maggiore, portata dal
malcapitato capitano,” Claudio Carminati”, sui quali i media italiani hanno
subito rovesciato ogni responsabilità del caso, nonostante le circostanze
dell’accaduto non suggerissero nessuna particolare colpa da parte sua.
Il
lago Maggiore non è di certo l’oceano Atlantico.
Non è
un posto di violente tempeste e tornado, e quelle acque erano conosciute molto
bene da Carminati.
A
questo blog erano giunte informazioni molto precise da parte di varie fonti di
intelligence sulle reali cause dell’accaduto.
A
causare l’affondamento del” Goduria” non è stata una fantomatica “tromba
d’aria”, ma un attacco mirato da parte dell’intelligence russa che ha speronato
la barca provocandone l’inabissamento.
Non
c’era a bordo nemmeno una innocente “festicciola” come hanno provato a far
credere i media italiani.
Su
quella barca c’erano uomini e donne dell’”AISE”, del famigerato Mossad
israeliano e del “MI6” britannico.
Quel
giorno sul lago era in corso un vero e proprio vertice di spie che avevano
ricevuto l’incarico dai rispettivi governi di orchestrare una qualche
provocazione nell’Europa Orientale, in particolare in quel tormentato Kosovo,
lo stato fantoccio creato dalla NATO tramite l’aiuto del solito “George Soros”
che voleva privare l’odiata Serbia di un territorio strategico ricco di materie
prime.
I
Balcani sono diventati la polveriera che si vede non certo perché i popoli che
abitano quelle regioni hanno deciso di farsi improvvisamente la guerra, ma
perché alla base c’era e c’è una deliberata strategia di fomentare conflitti
etnici e linguistici che spesso nemmeno hanno ragione di essere perché le
etnie, ad esempio, in diversi Paesi dell’ex Jugoslavia sono le stesse.
A
dirlo per primo fu l’ex presidente serbo “Slobodan Milosevic” che ebbe la
“colpa” di non voler consegnare il suo Paese al blocco Euro-Atlantico e per
questo fu duramente punito con le bombe atlantiche appoggiate anche dal governo
dell’infamia presieduto nel 1999 da “Massimo D’Alema” e l’attuale capo dello
Stato Italiano, Sergio Mattarella.
Il
Kosovo è da tempo un terreno instabile, ma gli Euro-Atlantisti a Bruxelles e
Londra erano decisi ad avviare nuove provocazioni per aprire un altro fronte e
impegnare così la Russia sul versante dei Balcani, perché la guerra
ucraino-russa stava andando bene, troppo bene, per i russi e disastrosamente
male invece per i nazisti di Kiev che hanno sofferto e soffrono tremende
perdite da 3 anni a questa parte.
L’esercito
ucraino, come tale, non esiste infatti nemmeno più. È stato distrutto in più
occasioni, se si pensa che le perdite, reali, ammontano nell’ordine delle
300mila unità.
Un
numero semplicemente spaventoso che dà l’idea del tritacarne nel quale il
criminale di guerra, Zelensky, ha gettato il suo popolo.
La
NATO era alla ricerca del più classico dei diversivi per spostare altrove
l’attenzione di Mosca, ma dalle parti dell’FSB sono molto attenti, a differenza
di quello che credono al Berlaymont o Downing Street, e i servizi russi vennero
immediatamente a sapere dell’operazione degli atlantisti per sventarla e
mandare un tremendo segnale a tutte le cancellerie europee e agli israeliani.
Mosca
sa, ed è pronta a colpire.
A perdere la vita in quell’operazione furono
diversi uomini dei servizi tra i quali c’era un personaggio come “Erez Shimoni”,
per il quale al suo rientro in patria si è scomodato persino il capo stesso del
Mossad, “Barnea”.
Era
però soltanto l’inizio della guerra asimmetrica tra Londra e Mosca.
“Dark trace”
e il misterioso affondamento del “Bayesian.”
La
Gran Bretagna per tutto il periodo della guerra russo-ucraina ha continuato a
fornire la sua assistenza a Kiev, fino a quando Londra non ha messo a
disposizione la sua tecnologia per lanciare la disastrosa offensiva del Kursk
in Russia avvenuta il 6 agosto dell’anno passato.
Ad
aiutare i nazisti ucraini è stata in particolar modo una società specializzata
nella cibernetica come “Dark trace”.
“Dark trace”
nasce nel 2012 e sin dai suoi primi passi si vedono ovunque le impronte
dell’intelligence britannica e israeliana.
Uno
dei suoi fondatori,” Mike Palmer”, è stato per 14 anni un membro del “MI5”, e
tra i 650 membri di questa società ci sono diversi ex appartenenti alla “CIA”,
al citato “MI5”, tra i quali un suo ex direttore come “Jonathan Evans,” al MI6,
e al “GCHQ”, un acronimo che identifica il quartier generale delle
comunicazioni del Regno Unito, un ufficio tra i più strategici nella
comunicazione di informazioni classificate al governo britannico e alle forze
armate.
Da non
trascurare nemmeno l’evidente legame di questa compagnia con il “Mossad”, dato
che uno dei suoi membri, “Alan Wade”, ha fondato la società “Chiliad” assieme a”
Ghislaine Maxwell”, figlia di “Robert”, uomo dell’intelligence israeliana, e
compagna di “Jeffrey Epstein”, il pedofilo al soldo a sua volta dei servizi
dello stato ebraico.
Nonostante
i vari membri di “Dark trace abbiano già cercato di sminuire gli evidenti
legami tra loro e l’apparato dei servizi israeliani e del cosiddetto Five Eyes,
il gruppo di intelligence che racchiude i Paesi dell’anglosfera come Regno
Unito, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda, è sempre stato noto
negli ambienti dell’establishment che questa società era un covo di barbe finte
britanniche e americane che avevano il preciso scopo di assistere loro Paesi in
varie operazioni di pirateria cibernetica.
Tra i
vari membri ce n’erano due in particolare che sono poi diventati noti
all’opinione pubblica e che hanno avuto la “sfortuna” di morire proprio dopo
che la loro compagnia aveva aiutato gli ucraini ad invadere la regione russa
del Kursk.
Il
primo era” Stephen Chamberlain”, ex dirigente della società cibernetica
inglese, morto in uno strano incidente di auto nell’Inghilterra Orientale il 17
agosto del 2024.
Chi è Stephen
Chamberlain.
Appena
appresa la notizia, Dark trace ha rilasciato un comunicato stampa nel quale ha
espresso il suo cordoglio per la perdita di “Chamberlain”, al quale viene
riconosciuto un ruolo strategico nella creazione e gestione della società.
Due
giorni dopo, avvengono i noti fatti del Baysan.
Il
favoloso yacht di 56 metri con un albero di 72 metri costruito dal “gruppo
Perini” per
resistere alle traversate oceaniche affonda inspiegabilmente nel giro di due
minuti nella” rada di Porticello”, dove le acque sono tranquille e non c’è
nessun particolare rovescio meteorologico.
Sulla
barca ci sono altri nomi illustri.
C’erano
personaggi dell’alta finanza come “Jonathan Bloomer”, presidente della celebre
banca d’affari” Morgan Stanley,” ma soprattutto c’era “Mike Lynch”, altro
fondatore di “Dark trace” e che i media inglesi avevano ribattezzato come il
“Bill Gates” britannico per via della sua influenza nel settore
dell’informatica della Gran Bretagna.
Chi è Mike
Lynch.
Lynch
come il suo “omologo” americano non era rimasto però immune da scandali e
controversie di vario tipo, come quella che lo vedeva accusato di frode assieme
al suo collega “Chamberlain” negli Stati Uniti per l’acquisto della nota
società “Hewlett Packard”.
Il suo
yacht è affondato però senza una spiegazione logica.
I
media, probabilmente già istruiti in anticipo come ai tempi dell’affondamento
del “Goduria,” diffondono la stessa storia di copertura del lago Maggiore e
provano a imputare la colpa del disastro ad una “tromba d’aria” che non c’era,
per poi invece provare a raffigurare l’esperto capitano della barca, “James
Cutfield”, come un navigatore della domenica alle prime d’armi e il suo
equipaggio come una ciurma di ubriachi che avrebbe lasciato inspiegabilmente
aperti i boccaporti dell’imbarcazione.
Si è
entrati ancora una volta nel territorio della “tragicomica stoltezza dei
servizi Occidentali” che dettano le loro assurde versioni di facciata agli
organi di stampa che si limitano a diffonderle pedissequamente nella speranza,
ormai sempre più debole, che il pubblico le creda.
A
questo blog, fonti vicine all’intelligence serba e russa avevano fatto giungere
una ricostruzione molto diversa dell’accaduto.
Ancora
una volta, non c’è stata una improbabile ed inesistente causa naturale a
provocare l’affondamento, ma un intervento esterno che è ricorso ad una
tecnologia simile a quella utilizzata con il “Goduria”, e che ha portato la
inaffondabile barca del “gruppo Perini” a depositarsi sui fondali di Porticello
in un batter d’occhio.
L’intervento
esterno sarebbe stato nuovamente eseguito dai servizi russi per mandare un
altro segnale a Londra e al suo apparato di spie impegnato in una continua
serie di provocazioni contro Mosca.
Non
appena il Baysan è affondato a Porticello infatti sono arrivati nugoli di spie
britanniche, e una di questa ha persino, illegalmente, sequestrato il cellulare
di una lettrice di questo blog che ha avuto la “colpa” di passare lì vicino con
un cellulare in mano, strappatole con la forza da un uomo con il forte accento
inglese.
Talmente
era elevato il nervosismo delle “barbe finte inglesi” che evidentemente ci
tenevano a tutti i costi a impedire che qualcuno scattasse una foto e mandasse
definitivamente a farsi benedire la storia di comodo della “tromba d’aria”.
In
questa partita geopolitica internazionale, l’Italia è diventata comunque in
tutta evidenza il terreno nel quale è in corso la guerra tra la decaduta
anglosfera, da un lato, e la Russia dei BRICS, dall’altro.
La
crisi strutturale della classe politica italiana.
Nonostante
la visita a Trump negli Stati Uniti, la Meloni continua fedelmente ad eseguire
gli ordini dell’apparato atlantico come fatto sin dall’inizio del suo mandato e
del suo governo “fantasma” che ha collezionato vari record di viaggi in giro
per il mondo.
Nemmeno
per un istante la pasionaria di” Fdi “ha mai pensato di abbandonare la nave
della NATO, semplicemente perché “Giorgia Meloni” è stata sin dagli inizi
fedele ai gruppi Euro-Atlantici che hanno costruito la sua carriera politica
fino ad aprirle le porte dell’”istituto Aspen” della “famiglia Rockefeller”,
una sorta di anticamera obbligatoria per consentirle di entrare a palazzo Chigi.
Il
centrodestra in questo gioco si limita a seguire le stesse linee guida del
centrosinistra, salvo poi cercare di dare a bere al pubblico che Meloni e
Salvini flirtino con Trump e Vance, quando in realtà non si discostano in nulla
dalle azioni pratiche del partito dell’establishment italiano, il PD.
Il
sistema politico italiano è in tutta evidenza travolto da una inedita
congiuntura politica.
I
precedenti equilibri geopolitici degli ultimi 80 anni sono difatti travolti
dalla fine dell’impero americano e dal ritorno sulla scena degli Stati
nazionali.
Perduto
quindi l’appoggio di Washington adesso si cerca di aggrapparsi all’altro debole
braccio dell’anglosfera, quello di Londra, anche se questo poi significa
esporre il Paese a possibili rappresaglie da parte di Mosca, sempre più stufa
dei giochini di Meloni e Crosetto, e delle scomposte provocazioni di Sergio
Mattarella.
Non si
può pero riportare indietro l’orologio della storia.
Londra
davvero illude sé stessa se pensa che si possa tornare ai tempi dell’impero
britannico sul quale non tramontava mai il sole, soprattutto se si pensa che la
famiglia Windsor è attraversata da una profonda crisi dopo la morte della
regina Elisabetta, membro chiave del comitato dei 300, e con le sempre più
precarie condizioni di salute di suo figlio, re Carlo, altro assiduo
frequentatore del famigerato gruppo Bilderberg.
Il
mondialismo ha poche carte in mano e appaiono tutte perdenti.
La
sconfitta appare certa perché gli avversari sono troppo forti e gli alleati non
ci sono, a meno che non si prenda in gioco il” Canada post-Trudeau” che poco
può fare per rovesciare le sorti di questa partita e che rischia di essere
travolto per primo dai dazi di Trump.
Il
fortino di Londra presieduto dal premier “Starmer”, uomo integrato con ambienti
ebraici britannici e con la solita famiglia Rothschild, è accerchiato ovunque.
Adesso
non resta che attendere la futura risposta di Mosca che sarà probabilmente
altrettanto ferma e risoluta come quelle già viste in passato.
Gli
auspici sono quelli che tale decadente e corrotta struttura crolli il prima
possibile senza fare altro male agli italiani e agli europei che già hanno
sofferto abbastanza per causa di una spregiudicata classe politica che ha
lavorato incessantemente alla dismissione degli Stati nazionali.
Trump
sposta i bombardieri "nucleari"
a breve distanza dall'Iran.
Unz.com - Mike Whitney – (29 marzo 2025)
Una
guerra con l'Iran sarebbe da 10 a 15 volte peggiore della guerra in Iraq in
termini di vittime e costi. E noi perderemo. Perderemmo senza dubbio ....
(Colonnello in pensione “Lawrence
Wilkerson”.)
Ci
sono molte discussioni sul trasferimento dei bombardieri B-2 a Diego Garcia
nella previsione di un potenziale conflitto con l'Iran.
Tuttavia,
il B-2 eccelle principalmente contro nazioni piccole, poco sofisticate e povere
dotate di sistemi di difesa aerea obsoleti. …
In
breve, il B-2 è uno strumento sofisticato per intimidire gli avversari più
deboli, ma è in gran parte inefficace contro i moderni sistemi di difesa aerea
integrata (IADS).
(Mike
Mihajlovic @MihajlovicMike).
Rapporti
recenti e immagini satellitari indicano un significativo accumulo di risorse
militari statunitensi a Diego Garcia, una base strategica nell'Oceano Indiano.
Il Pentagono ha schierato sette bombardieri
stealth B-2 Spirit (in grado di trasportare carichi nucleari), numerosi aerei
da trasporto C-17, dieci aerocisterne per il rifornimento di carburante KC-135,
un sottomarino lanciamissili balistici di classe Ohio e due gruppi di portaerei
in luoghi in cui possono essere utilizzati in un attacco preventivo contro
l'Iran.
L'accumulo senza precedenti coincide con le
recenti minacce del presidente Donald Trump riguardo al programma di
arricchimento nucleare dell'Iran.
Venerdì,
Trump ha lanciato un altro minaccioso avvertimento all'Iran durante un briefing
alla Casa Bianca.
Ha
detto:
L'Iran
è in cima alla mia lista di cose da tenere d'occhio. ... Dovremo parlarne o
accadranno cose molto brutte all'Iran.
La mia grande attrazione è che si risolva la
questione con l'Iran, ma se non si risolve, all'Iran accadranno cose brutte.
L'aumento
degli avvertimenti insieme al dispiegamento di bombardieri B-2 ha suscitato
scalpore tra gli analisti, molti dei quali ora credevano che Trump stesse
pianificando di colpire gli impianti nucleari iraniani con bombe nucleari
"a basso rendimento" progettati per penetrare e distruggere le
strutture sotterranee fortificate.
Se
tale azione dovesse avere luogo, l'Iran sarebbe costretto a lanciare massicci
attacchi di rappresaglia contro basi statunitensi e israeliane, risorse navali,
infrastrutture critiche e impianti petroliferi in tutto il Medio Oriente.
E, se questi attacchi fossero in grado di
infliggere danni significativi agli obiettivi statunitensi o israeliani, allora
parteciparono ad una rapida escalation verso una guerra nucleare, uno scenario
che sembra più probabile che mai.
Questo è un estratto da un'intervista con l'ex
ispettore degli armamenti Scott Ritter:
...
sette bombardieri B-2 sono stati schierati dalla base aerea di “Whitman” negli
Stati Uniti a Diego Garcia.
Si
tratta di uno spiegamento senza precedenti.
E sono
abbinati a 10 KC-31 Tanker; questo è ciò che è necessario per lanciare un
attacco contro un obiettivo come l'Iran.
Questo
è qualcosa che dovrebbe svegliare le persone perché c'è un reale potenziale di
conflitto...
Il
fatto è che ci sono bombardieri B-2, ci sono sottomarini di classe Ohio, ci
sono armi nucleari attaccate a ciascuno di questi sistemi d'arma;
armi
nucleari che sono state costruite al solo scopo di attaccare obiettivi come
questi che esistono in Iran. …
Sto
semplicemente affermando il fatto che l'amministrazione Trump ha una posizione
nucleare collegata a un piano di lavoro nucleare che utilizzerà armi nucleari
in un conflitto contro l'Iran, e non possiamo dito che non esista.
(Scott
Ritter).
Vale
la pena notare che l'amministrazione Trump è sul punto di lanciare una guerra
contro un paese che non rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale
degli Stati Uniti, né minaccia gli interessi degli Stati Uniti nella regione.
L'unico
crimine dell'Iran è quello di occupare un pezzo di proprietà immobiliare in una
regione in cui Israele è determinato ad essere la potenza dominante.
Ciò significa che la capacità militare
dell'Iran deve essere significativamente ridotta dal pitbull preferito di
Israele, gli Stati Uniti.
A tal
fine, i ricchi sionisti riempiti hanno le casse della campagna elettorale di
Trump durante le ultime elezioni presidenziali, sapendo che la vasta popolarità
di Trump sarebbe stata utile per far avanzare l'agenda israeliana.
L'obiettivo principale di quell'agenda è
sempre stato l'annientamento della capacità militare dell'Iran in modo che
Israele possa emergere come egemone regionale senza opposizione.
Trump sta semplicemente interpretando il ruolo
per il quale è stato scelto.
Ecco di più da Ritter:
Scott
Ritter – Quando
Trump è stato presidente l'ultima volta (2016), ha rifatto la Nuclear Posture
Review e la Nuclear Employment Guidance. E la Nuclear Employment Guidance è il
piano di guerra. Il piano di guerra è stato scritto in modo che potesse
lanciare attacchi nucleari contro l'Iran.
Quindi
siamo pronti a lanciare attacchi contro l'Iran oggi, il piano è stato
attuato... Abbiamo le armi, abbiamo identificato gli obiettivi...
Domanda:
Cosa è
stato scritto?
Scott
Ritter - Hai
bisogno di tipi di armi specifiche... Ora abbiamo una nuova bomba nucleare
"a basso rendimento" che penetrerà e distruggerà l'impianto con una
ricaduta minima (abbiamo armi nucleari simili sui sottomarini Trident nella
regione che possono essere utilizzati in un attacco di decapitazione contro
l'Iran) Siamo pronti ad andare in guerra contro l'Iran. Abbiamo già preso
questa decisione; Il pianoforte esiste.
Domanda:
Quindi
quello che mi stai dicendo è che, se l'Iran sviluppa un'arma nucleare...
Scott
Ritter - Noi
colpiremo, e loro saranno annientati... Non sapranno mai cosa sono loro, e non
si riprenderanno mai da esso... Il piano americano non ucciderà decine di
milioni di iraniani, ma ucciderà decine di migliaia di iraniani, distruggerà
l'infrastruttura nucleare e riporterà l'Iran indietro per sempre.
L'alternativa per l'Iran è quella di negoziare
il loro (programma) nucleare.
Scott Ritter.
Questo
è il motivo per cui Ritter è così preoccupato. Credo seriamente che Trump stia
pianificando di attaccare preventivamente i siti nucleari iraniani, il che
metterebbe in moto le tessere del domino, innescando una guerra nucleare.
A me
sembra una preoccupazione ragionevole, ma, sorprendentemente, l'analisi di
Ritter ha scatenato una tempesta di fuoco tra un certo numero di suoi
sostenitori online che si sono (da un giorno all'altro) trasformati in alcuni
dei suoi critici più feroci.
Ecco una breve clip da un post di” Sony
Thang@nxt888” che è stato ampiamente diffuso su “X”:
Scott...
Lasciate
che ve lo dica chiaramente: se gli Stati Uniti usano armi nucleari contro
l'Iran – anche "tattiche" – l'incantesimo si spezza.
Per sempre.
Il
mito della moderazione occidentale muore allo scoperto.
La
menzogna dell'ordine basato sulle regole evapora nella polvere radioattiva.
La
Cina non aspetterà di essere la prossima.
La
Russia rafforzerà la sua alleanza con Teheran.
Il Sud
del mondo volterà le spalle per sempre.
E ogni nazione che non è sotto lo stivale di
Washington saprà la verità:
se non
ci si arma, si sarà annientati.
Questa
non è proliferazione. Questa è l'inevitabilità.
Voi
dite: "Solo
una nazione se ne va".
No,
Scott.
Nessuno
si sottrae alla guerra nucleare. Non in modo pulito. Non economicamente. Non
moralmente. Ma intratteniamo il tuo scenario.
L'Iran
è spazzato via. Il petrolio raggiunge i 500 dollari al barile. Lo Stretto di
Hormuz è un cimitero. L'economia globale implode, non solo l'Europa e l'Asia,
ma lo stesso dollaro, perché la fiducia muore quando l'impero brucia la sua
ultima pretesa morale.
Ed
ecco la parte che le vostre fantasie del Pentagono non calcolano mai: non sono
solo le bombe a mettere in ginocchio le nazioni.
È la
legittimità. Una volta perso, mai più riconquistato.
E gli
Stati Uniti? Già barcollante a causa di guerre senza fine, non risorgerà dalle
ceneri di un altro paese carbonizzato.
Affonderà
in loro.
Affermi
di "valutare il mondo così com'è"?
Poi
guarda di nuovo. L'impero americano non sta ascendendo.
È alle
strette. Sta dimenandosi. Sta minacciando l'annientamento non per forza, ma per
paura.
Paura che il mondo che dominava stia
scivolando via. Paura che l'Iran si rifiuti di inginocchiarsi.
È paura che la storia, che un tempo sostenevi
avrebbe ritenuto l'America responsabile, non sia più dalla tua parte.
Quindi,
continuate a elencare i vostri bombardieri, i vostri sottomarini, le vostre
fantasie a basso rendimento. Perché sotto tutto quell'acciaio e quella
strategia si cela una sola verità:
Hai
già perso la guerra morale.
E
quando se ne andrà? Tutto il resto viene da sé.
Sony
Thang.
Il
senso generale di queste critiche è una tacita obiezione a qualsiasi mossa
dell'Iran per scendere a compromessi (o negoziare) con l'amministrazione Trump.
Questo è generalmente percepito come un "cedimento" all'impero del
male. (Il
che, per molti aspetti, è vero.)
Vale
la pena notare che l'Iran non sta attualmente violando il “Trattato di non
proliferazione delle armi nucleari” (TNP) né lo è stato in passato.
In realtà, l'Iran ha volontariamente
rispettato numerosi protocolli aggiuntivi e misure di rafforzamento della
fiducia (che non sono mai state imposte a nessun altro paese), tutti volti a
placare i timori che stesse segretamente sviluppando armi nucleari.
Ma
come “Tulsi Gabbard” ha confermato di recente, e l'ex direttore della CIA
William Burns prima di lei;
L'Iran
non ha armi nucleari, non sta costruendo armi nucleari e non ha infranto gli
accordi previsti dal TNP.
L'intera faccenda è una mendace confezione
inventata dai potenti sionisti e dai loro collaboratori mediatici che vogliono
distruggere l'Iran in modo che Israele diventi la potenza dominante in Medio
Oriente.
Vale
anche la pena notare il modo disonesto in cui questa crisi è stata presentata
al popolo americano.
L'opinione
pubblica è stata indotta a credere che Trump stia cercando di impedire la
proliferazione nucleare quando, in realtà, l'amministrazione sta chiedendo
all'Iran di abbandonare anche il suo programma di missili balistici.
Il 23
marzo 2025, su “Face the Nation” , il consigliere di Trump “Mike Waltz” ha
dichiarato senza mezzi termini che le richieste di Trump includono lo
smantellamento del "programma missilistico strategico" dell'Iran.
Ma i
missili balistici dell'Iran non violano alcuna legge internazionale né sono
vietati da alcun obbligo di trattato.
Trump
sta semplicemente ordinando all'Iran di rinunciare ai mezzi con cui si difende
o di affrontare un'azione militare da parte degli Stati Uniti.
È una
richiesta ragionevole?
No, è
un suicidio nazionale.
E,
ancora una volta, l'origine di questa follia è “Benjamin Netanyahu” che ha
costantemente esortato gli Stati Uniti a intraprendere azioni più forti contro
le capacità missilistiche dell'Iran.
(Gli agenti di Israele al Congresso hanno
introdotto il “MISSILES Act” nel luglio 2023 per codificare le sanzioni
statunitensi sui programmi missilistici e dei droni dell'Iran, citando la
sicurezza di Israele.
Allo
stesso tempo, la campagna di "massima pressione" di Trump ha incluso
"entità correlate ai missili"... "accreditato al contributo di
Netanyahu.")
In
breve, all'Iran viene chiesto di disarmarsi volontariamente in modo che Israele
possa fare all'Iran quello che sta facendo attualmente alla Siria e al Libano.
Perché dovrebbero farlo?
Non lo
faranno.
Apriranno
comunicazioni “back-channel” con gli inviati di Trump e continueranno a
rispettare gli obblighi del trattato, ma alla fine Trump ordinerà attacchi
aerei su obiettivi nucleari in Iran, dando il via alla guerra.
E questo metterà a confronto il deposito di
armi obsoleto degli Stati Uniti con i sistemi missilistici balistici
all'avanguardia dell'Iran che, come sostiene “Will Schryver”, esporranno la
debolezza americana, non rafforzeranno la diffusa mitologia della forza
americana intoccabile.
Come
possiamo trarre queste conclusioni insolite?
Controllando
i resoconti documentati di ciò che è realmente accaduto. Ad esempio, si
considera questo primo resoconto dell'attacco israeliano del 26 ottobre da
parte dell'ex ufficiale dei servizi segreti “Alastair Crooke”:
Domanda:
Israele ha
causato danni significativi all'Iran nel suo attacco del 26 ottobre?
Alastair
Crooke :
No, ma
è successo qualcosa di significativo, perché l'attacco avrebbe dovuto iniziare
con la distruzione dei sistemi di difesa aerea... quello che chiamano “SEAD”
(Soppressione delle difese aeree nemiche).
L'aereo avrebbe dovuto distruggere le difese
aeree in Iraq, Siria e Iran, quindi la seconda e la terza ondata sarebbero
arrivate con armi convenzionali per distruggere gli obiettivi che erano stati
selezionati per loro.
Ma la
seconda e la terza ondata avrebbero potuto entrare nello spazio aereo iraniano
solo se fosse stato sicuro per loro farlo.
(Se le
difese aeree fossero state adeguatamente soppresse). Ora, quello che è successo
(anche se non lo sappiamo con precisione) è che quella seconda e terza ondata
non sono mai accadute.
Siamo
entrati nella prima ondata e gli israeliani hanno detto "Ecco, è finita. È
finita. Abbiamo vinto ed è un grande successo".
Ciò
che sembra essere accaduto è che gli aerei israeliani con i loro missili a
lungo raggio per distruggere i sistemi di difesa aerea non si sono mai
avvicinati più di 70 km all'Iran, troppo lontano perché i loro missili
potessero agganciare le difese aeree perché avevano bisogno dei segnali per
agganciarle. ...
La
cosa fondamentale che hanno detto, è questo proviene da fonti israeliane,
"Abbiamo scoperto un sistema di difesa aerea sconosciuto sulla provincia
di Teheran".
Quindi
ciò che sembra essere accaduto è che loro (gli aerei israeliani) erano
agganciati da un altro sistema di difesa aerea, quindi erano spaventati di
andare avanti e hanno annullato l'attacco.
Quindi
hanno semplicemente rilasciato i loro missili a lungo raggio (la maggior parte
di questi missili sono guidati dal GPS e i russi sono molto abili nel
disturbare il GPS).
Mamma...
questo inspiegabile sistema di difesa aerea era forse un sistema di difesa
aerea russo in grado di attaccare caccia stealth come gli F-35. ... Se hai un
missile con una capacità radar in grado di identificare un caccia stealth,
allora l'intera idea dell'attacco all'Iran sembra essere crollata...
Tutti
i bombardieri convenzionali che trasportavano armi convenzionali non sarebbero
entrati nella zona perché era troppo pericolosa, non era un'area sicura. Lo
spazio aereo era dominato dalla difesa aerea che minacciava gli stessi caccia
stealth.
Ciò ha
enormi implicazioni geostrategiche se questo è ciò che è effettivamente
accaduto... Vedete, c'era un piano in tre fasi; e quando il piano è stato
affossato, lo hanno semplicemente annunciato come se fosse accaduto.
"Ci
siamo riusciti. Abbiamo sorvolato Teheran; abbiamo soppresso le loro difese
aeree, abbiamo bombardato obiettivi e distrutto la loro capacità
missilistica".
È solo
una montatura. Non è vero.
Giudicare la libertà, “Alastair Crooke”:
YouTube.
Tieni
presente che il racconto di Crooke è solo uno dei tanti resoconti che
trasmettono gli stessi fatti di base e traggono le stesse conclusioni di base.
E queste conclusioni, come abbiamo affermato
in precedenza, sono legate al "sistema avanzato di difesa aerea
multistrato dell'Iran che può contrastare qualsiasi potenziale attacco
israeliano alla patria".
In
breve, non ci sono prove che Israele o gli Stati Uniti hanno la capacità di
penetrare efficacemente il sistema di difesa aerea iraniano e distruggere gli
obiettivi che devono annientare per vincere la guerra.
Ciò
che è più interessante è il fatto che Israele ha apparentemente nascosto queste
informazioni a Trump e ai suoi consiglieri che stanno inciampando ciecamente in
un disastro.
Non ho
visto nulla che mi convincesse che “Hegseth”, “Waltz” o “Rubio” abbiano una
chiara comprensione di ciò che è accaduto negli scontri tra Israele e Iran.
Stanno operando sulla base della teoria che Israele stia dicendo loro la
verità.
Al
contrario, l'attacco dell'Iran a Israele è stato un successo travolgente, vale
a dire che i suoi missili balistici all'avanguardia hanno completamente eluso i
sistemi di difesa aerea di Israele, colpendo alcuni degli obiettivi più
pesantemente difesi al mondo.
Questo
è tratto da un post del “Signore della Guerra” da Poltrona:
L'attacco
iraniano agli aeroporti di “Nevatim” e “Tel Nof” ... in Israele di martedì ha
convalidato completamente la mia analisi di aprile.
Ad aprile gli iraniani hanno dimostrato di
poter sconfiggere il sistema “BMD” di Israele a piacimento e colpire obiettivi
di precisione, questa volta hanno fatto danni.
Il
video dell'impegno suggerisce che la stragrande maggioranza della salva
iraniana, probabilmente più dell'80%, ha penetrato e colpito obiettivi in
Israele. .....
Ci si
può aspettare che gli iraniani abbiano danneggiato aerei, infrastrutture,
sistemi SAM e radar AD in entrambi gli aeroporti, oltre a colpire diversi altri
obiettivi in altre parti del paese in modo meno intenso.
L'efficacia dell'attacco può essere vista
semplicemente osservando la reazione israeliana:
anziché
un contrattacco immediato, si sono ritirati per deliberazioni, con alcuni
discorsi su una rappresaglia discendente e de-escalation contro gli Houthi o
Hezbollah.
La ragione di ciò è semplice:
gli iraniani hanno ora dimostrato la capacità
di sopraffare il sistema AD israeliano a piacimento e colpire con precisione
gli obiettivi, e con il loro scudo missilistico inefficace la leadership
israeliana sta scendendo a patti con il fatto di gestire un paese piccolo e
isolato con una quantità limitata di infrastrutture critiche.
A
questo punto l'Ayatollah può premere un pulsante e spegnere le luci in Israele,
e nessuna somma di denaro americano può impedirlo.
E,
sebbene i media tradizionali abbiano cercato di indorare la pillola
sull'attacco iraniano del 1° ottobre (e di farlo sembrare un "grande
niente"), alcune delle pubblicazioni più diffuse hanno registrato
accuratamente ciò che è accaduto il 1° ottobre.
Questo
è tratto da un articolo del “Guardian” intitolato:
L'escalation
con l'Iran potrebbe essere rischiosa:
Israele è più vulnerabile di quanto sembri:
I
filmati satellitari e dei social media hanno mostrato un missile dopo l'altro
colpire la base aerea di “Nevatim” nel deserto del Negev e innescare almeno
alcune esplosioni secondarie, indicando che, nonostante l'efficacia altamente
pubblicizzata delle difese aeree israeliane “Iron Dome” e “Arrow”, gli attacchi
dell'Iran sono stati più efficaci di quanto fosse stato precedentemente ammesso.
Gli
esperti che hanno analizzato il filmato hanno notato almeno 32 colpi diretti
sulla base aerea.
Nessuno
sembrava aver causato danni gravi, ma alcuni sono atterrati vicino agli hangar
che ospitano i jet F-35 di Israele, tra i beni militari più preziosi del
paese....
"Il
fatto fondamentale rimane che l'Iran ha dimostrato di poter colpire duramente
Israele se lo desidera ", scrive “Decker Eveleth”, analista del gruppo di
ricerca e analisi CNA, che ha analizzato le immagini satellitari per un
blogpost.
Le
basi aeree sono obiettivi difficili, e il tipo di obiettivo che probabilmente
non produrrà molte vittime.
L'Iran
potrebbe scegliere un obiettivo diverso, ad esempio una base delle forze di
terra delle IDF densamente popolata, o un obiettivo all'interno di un'area
civile, e un attacco missilistico lì produrrebbe un gran numero di
[vittime]"....
Nell'attacco,
ha detto “Vaez”, l'Iran ha "utilizzato le sue armi più avanzate, e ha
scorte sufficienti per poterlo fare per mesi.
Questo
sarebbe il mondo in cui vivremo a meno che qualcuno non stacchi la spina a
questo ciclo di escalation.
L'escalation con l'Iran potrebbe essere
rischiosa: Israele è più vulnerabile di quanto sembri, “The Guardian”.
Pensateci
un attimo: i missili balistici iraniani hanno sferrato 32 colpi diretti alla
base aerea di” Nevatim”, la base aerea più difesa del pianeta.
Gli
iraniani hanno dimostrato di poter piazzare i loro missili su qualsiasi
bersaglio in qualsiasi luogo in Israele e Israele non ha modo di fermarli.
Cosa
significa tutto questo?
Ciò
significa che Israele sta trascinando gli Stati Uniti in una guerra che non
potrà vincere e che porterà il secolo americano a una fine catastrofica.
Il “Pentagono”
sta reclutando “Elon Musk”
per aiutarli a vincere una guerra nucleare.
Unz.com
- Alan Macleod – (11 febbraio 2025) – ci dice:
Donald
Trump ha annunciato la sua intenzione di costruire un gigantesco sistema
missilistico antibalistico per contrastare le armi nucleari cinesi e russe, e
sta reclutando Elon Musk per aiutarlo.
Il
Pentagono sogna da tempo di costruire un "Iron Dome" americano.
La
tecnologia è espressa nel linguaggio della difesa, ovvero rendere di nuovo
sicura l'America.
Ma
come la sua controparte israeliana, funzionerebbe come arma offensiva, dando
agli Stati Uniti la possibilità di lanciare attacchi nucleari ovunque nel mondo
senza doversi preoccupare delle conseguenze di una risposta simile.
Questo
potere potrebbe sconvolgere la fragile pace mantenuta da decenni di distruzione
reciprocamente assicurata, una dottrina che ha sostenuto la stabilità globale
sin dagli anni '40.
Una
nuova corsa agli armamenti globale.
I
pianificatori di guerra di Washington hanno a lungo sbavato al pensiero di
vincere uno scontro nucleare e hanno cercato la capacità di farlo per decenni.
Alcuni credono di aver trovato una soluzione e un salvatore nel miliardario
nato in Sudafrica e nella sua tecnologia.
Il
think tank neoconservatore “Heritage Foundation” ha pubblicato un video l'anno
scorso affermando che Musk avrebbe potuto "risolvere la minaccia nucleare
proveniente dalla Cina".
Affermava
che i satelliti “Starlink “della sua compagnia “SpaceX “potevano essere
facilmente modificati per trasportare armi in grado di abbattere i razzi in
arrivo.
Come è
spiegato:
Elon
Musk ha dimostrato che è possibile mettere in orbita microsatelliti, per 1
milione di dollari l'uno.
Utilizzando
la stessa tecnologia, possiamo mettere 1.000 microsatelliti in orbita continua
attorno alla Terra, che possono tracciare, agganciare e abbattere, utilizzando
proiettili al tungsteno, missili lanciati da Corea del Nord, Iran, Russia e
Cina."
Sebbene
la “Heritage Foundation” consigli di usare proiettili al tungsteno come
intercettori, si è optato invece per missili ipersonici.
A tal
fine, nel 2023 è stata fondata una nuova organizzazione, la “Castelion
Company”.
Castelion
è un ritaglio di SpaceX; sei dei sette membri del suo team dirigenziale e due
dei suoi quattro consulenti senior sono ex dipendenti senior di SpaceX.
Gli altri due consulenti sono ex alti
funzionari della Central Intelligence Agency, tra cui Mike Griffin, amico di
lunga data, mentore e partner di Musk.
I
consulenti e il team dirigenziale di “Castelion” sono ampiamente collegati a “SpaceX”
e alla “CIA”.
La
missione di Castelion, nelle sue stesse parole, è quella di essere
all'avanguardia di una nuova corsa agli armamenti globale.
Come spiega l'azienda:
Nonostante
il budget annuale della difesa degli Stati Uniti superi quello dei successivi
dieci maggiori spendaccioni messi insieme, ci sono prove inconfutabili che i
regimi autoritari stanno prendendo il comando in tecnologie militari chiave
come le armi ipersoniche.
In
parole povere, non si può permettere che ciò accada".
Guerra
e pace.
Lo
slogan di Castelion è "Pace attraverso la deterrenza".
Ma in
realtà, il raggiungimento di una svolta nella tecnologia dei missili ipersonici
da parte degli Stati Uniti spezzerebbe la fragile pace nucleare che esiste da
oltre 70 anni e inaugurerebbe una nuova era in cui Washington avrebbe la
capacità di utilizzare qualsiasi arma desideri, in qualsiasi parte del mondo e
in qualsiasi momento, con la certezza che sarebbe impermeabile a una risposta
nucleare da qualsiasi altra nazione.
In
breve, la paura di una rappresaglia nucleare da parte della Russia o della Cina
è stata una delle poche forze che hanno moderato l'aggressione degli Stati
Uniti in tutto il mondo.
Se
questo venisse perso, gli Stati Uniti avrebbero carta bianca per trasformare
interi paesi – o anche regioni del pianeta – in vapore.
Questo, a sua volta, gli darebbe il potere di
terrorizzare il mondo e imporre qualsiasi sistema economico e politico ovunque
desideri.
Se
questo suona fantasioso, questo "Ricatto nucleare" era una politica
più o meno ufficiale delle successive amministrazioni americane negli anni '40
e '50.
Gli
Stati Uniti rimangono l'unico paese ad aver mai sganciato una bomba atomica in
preda alla rabbia, facendolo due volte nel 1945 contro un nemico giapponese che
era già stato sconfitto e stava tentando di arrendersi.
Il
presidente Truman ordinò la distruzione di Hiroshima e Nagasaki come
dimostrazione di forza, principalmente all'Unione Sovietica.
Molti
nel governo degli Stati Uniti desideravano usare la bomba atomica sull'URSS.
Il presidente Truman ragionò immediatamente,
tuttavia, che se l'America avesse bombardato Mosca, l'Armata Rossa avrebbe
invaso l'Europa come risposta.
Pertanto,
decise di aspettare che gli USA avessero abbastanza testate per distruggere
completamente l'Unione Sovietica e il suo esercito.
I pianificatori di guerra calcolarono questa
cifra intorno alle 400 e, a tal fine, per un totale di una nazione che
rappresentava un sesto della massa terrestre mondiale, il presidente ordinò
l'immediato aumento della produzione.
Questa
decisione incontrò una forte opposizione nella comunità scientifica americana e
si ritiene ampiamente che gli scienziati del “Progetto Manhattan”, tra cui lo
stesso “Robert J. Oppenheimer”, abbiano passato segreti nucleari a Mosca nel
tentativo di accelerare il loro progetto nucleare e sviluppare un deterrente
per fermare questo scenario apocalittico.
Alla
fine, l'Unione Sovietica è riuscita a sviluppare con successo un'arma nucleare
prima che gli Stati Uniti fossero in grado di produrne centinaia.
Quindi,
l'idea di spazzare via l'URSS dalla faccia della Terra è stata accantonata. Tra
l'altro, ora si sa che gli effetti dello sgancio simultaneo di centinaia di
armi nucleari avrebbero probabilmente scatenato vaste tempeste di fuoco in
tutta la Russia, con conseguente emissione di abbastanza fumo da soffocare
l'atmosfera terrestre, bloccare i raggi solari per un decennio e porre fine
alla vita umana organizzata sul pianeta.
Con la
chiusura della finestra nucleare russa nel 1949, gli Stati Uniti concentrarono
il loro arsenale nucleare sulla nascente Repubblica Popolare Cinese.
Gli
Stati Uniti invasero la Cina nel 1945, occupandone alcune parti per quattro
anni, finché le forze comuniste sotto Mao Zedong non costrinsero sia loro che i
loro alleati nazionalisti del KMT ad abbandonare il paese.
Durante
la guerra di Corea, alcune delle voci più potenti a Washington sostennero lo
sgancio di armi nucleari sulle 12 più grandi città cinesi in risposta
all'ingresso della Cina nella mischia.
In
effetti, sia Truman che il suo successore, Dwight D. Eisenhowe, usarono
pubblicamente la minaccia della bomba atomica come tattica negoziale.
Sconfitto
sulla terraferma, il KMT sostenuto dagli USA fuggì a Taiwan, fondando uno stato
monopartitico.
Nel
1958, gli USA arrivarono anche sul punto di sganciare la bomba sulla Cina per
proteggere il nuovo regime del loro alleato sul controllo dell'isola contesa,
un episodio della storia che risuona con l'attuale conflitto su Taiwan.
Tuttavia,
nel 1964, la Cina aveva sviluppato la propria testata nucleare, ponendo fine
alle pretese degli Stati Uniti e contribuendo a inaugurare l'era della
distensione di buone relazioni tra le due potenze, un'epoca che è durata fino
al XXI secolo.
In
breve, quindi, è solo l'esistenza di un deterrente credibile che modera le
azioni di Washington in tutto il mondo.
Dalla
fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno attaccato solo paesi
relativamente indifesi.
Il
motivo per cui il governo nordcoreano rimane al suo posto, ma quelli di Libia,
Iraq, Siria e altri no, è l'esistenza delle sue forze convenzionali e nucleari
su larga scala.
Sviluppare
un “Iron Dome” americano potrebbe sconvolgere questo delicato equilibrio e
inaugurare una nuova era di predominio militare statunitense.
Bombardare
il Giappone? OK. Bombardare Marte? Ancora meglio!
Musk,
tuttavia, ha minimizzato sia la probabilità che le conseguenze di una guerra
nucleare.
Nel
podcast “The Lex Friedman”, ha descritto la probabilità di uno scontro
terminale come "piuttosto bassa".
E
mentre parlava con Trump l'anno scorso, ha affermato che l'olocausto nucleare
"non è così spaventoso come la gente pensa", notando che
"Hiroshima e Nagasaki sono state bombardate, ma ora sono di nuovo città
piene".
Il
presidente Trump è d'accordo.
Secondo
la “Campagna Internazionale per l'Abolizione delle Armi Nucleari”, ci sono
oltre 12.000 testate nel mondo, la stragrande maggioranza delle quali di
proprietà di Russia e Stati Uniti.
Mentre
molti li svolgono una piaga per l'umanità e sono favorevoli alla loro completa
eradicazione, Musk sostiene di costruirne altre migliaia, mandarle nello spazio
e lanciarle su Marte.
Il
piano donchisciottesco di Musk è di terraformare il Pianeta Rosso sparandogli
contro almeno 10.000 missili nucleari.
Il calore generato dalle bombe scioglierebbe
le sue calotte polari, rilasciando anidride carbonica nell'atmosfera.
Il
rapido effetto serra innescato, secondo la teoria, aumenterebbe le temperature
di Marte (e la pressione dell'aria) al punto da supportare la vita umana.
Pochi
scienziati hanno sostenuto questa idea.
In effetti, “Dmitry Rogozin,” allora a capo
dell'agenzia spaziale statale russa “Roscosmos”, ha etichettato la teoria come
completamente assurda e nient'altro che una copertura per riempire lo spazio
con armi nucleari americane puntate verso Russia, Cina e altre nazioni,
attirando l'ira di Washington.
"Capiamo
che dietro questa demagogia si nasconde una cosa: questa è una copertura per il
lancio di armi nucleari nello spazio", ha detto.
Vediamo
tali tentativi, li consideriamo inaccettabili e li ostacoleremo nella massima
misura possibile", ha aggiunto.
Le
azioni della prima amministrazione Trump, tra cui il ritiro da diversi trattati
internazionali contro i missili balistici, hanno reso questo processo più
difficile.
“Elon”
e il complesso militare-industriale.
Fino
al suo ingresso alla Casa Bianca di Trump, molti percepivano Musk come un
radicale outsider dell'industria tecnologica.
Eppure
non è mai stato così. Fin praticamente dall'inizio della sua carriera, il
percorso di Musk è stato plasmato dal suo rapporto eccezionalmente stretto con
lo stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, in particolare con “Mike
Griffin “della CIA.
Dal
2002 al 2005, Griffin ha guidato “In-Q-Tel,” l'ala del “venture capitalist
della CIA.
In”-Q-Tel è un'organizzazione dedicata
all'identificazione, alla promozione e alla collaborazione con aziende
tecnologiche in grado di fornire a Washington tecnologie all'avanguardia,
mantenendola un passo avanti rispetto alla concorrenza.
Griffin
è stato uno dei primi a credere in Musk.
Nel
febbraio 2002, ha accompagnato Musk in Russia, dove la coppia ha tentato di
acquistare missili balistici intercontinentali a basso prezzo per avviare “SpaceX”.
Griffin ha parlato a favore di Musk negli incontri governativi, sostenendolo
come un potenziale "Henry Ford" del complesso tecnologico e
militare-industriale.
Dopo
In-Q-Tel, Griffin è diventato l'amministratore capo della NASA.
Nel
2018, il presidente Trump lo ha nominato sottosegretario alla Difesa per la
ricerca e l'ingegneria.
Mentre
era alla NASA, Griffin ha portato Musk alle riunioni e ha assicurato la grande
occasione a SpaceX.
Nel
2006, la NASA ha assegnato all'azienda un contratto di sviluppo di razzi da 396
milioni di dollari, una "scommessa" notevole, secondo le parole di
Griffin, soprattutto perché non aveva mai lanciato un razzo.
Il
National Geographic ha scritto che SpaceX "non sarebbe mai arrivata dove è
oggi senza la NASA".
E Griffin è stato essenziale per questo
sviluppo.
Tuttavia, nel 2008, sia SpaceX che Tesla
Motors erano in gravi difficoltà, con Musk incapace di pagare gli stipendi e
dando per scontato che entrambe le aziende sarebbero fallite.
Fu a
quel punto che SpaceX fu salvata da un inaspettato contratto NASA da 1,6
miliardi di dollari per servizi di trasporto merci commerciali.
Oggi,
la coppia rimane estremamente unita, con Griffin che funge da consigliere
ufficiale di Castelion.
Un
segno di quanto sia forte questo rapporto è che, nel 2004, Musk ha chiamato suo
figlio "Griffin" in onore del suo referente della CIA.
Oggi,
SpaceX è una potenza, con entrate annuali nell'ordine delle decine di miliardi
e una valutazione di 350 miliardi di dollari.
Ma
quella ricchezza deriva in gran parte dagli ordini di Washington.
In
effetti, ci sono pochi clienti per i razzi oltre all'esercito o alle varie
agenzie di spionaggio di tre lettere.
Nel
2018, “SpaceX” si è aggiudicata un contratto per lanciare in orbita un “GPS
Lockheed Martin” da 500 milioni di dollari.
Mentre i portavoce militari sottolineavano i vantaggi
civili del lancio, la ragione principale del progetto era migliorare le
capacità di sorveglianza e di puntamento degli Stati Uniti.
SpaceX
si è aggiudicata anche contratti con l'Air Force per portare in orbita il suo
satellite di comando, con la “Space Development Agency” per inviare dispositivi
di tracciamento nello spazio e con il “National Reconnaissance Office” per
lanciare i suoi satelliti spia.
Tutte le "cinque grandi" agenzie di
sorveglianza, tra cui la CIA e la NSA, utilizzano questi satelliti.
Pertanto,
nel mondo odierno, dove così tanta raccolta di informazioni e acquisizione di
obiettivi avviene tramite tecnologia satellitare, SpaceX è diventata tanto
importante per l'impero americano quanto Boeing, Raytheon e General Dynamics.
In parole povere, senza Musk e SpaceX, gli
Stati Uniti non sarebbero in grado di portare avanti un programma così invasivo
di spionaggio o guerra con i droni in tutto il mondo.
Potere
globale.
Un
esempio di quanto Musk e il suo impero tecnologico siano cruciali per la
continuazione delle ambizioni globali degli Stati Uniti si può trovare in
Ucraina.
Oggi,
circa 47.000 Starlink opera all'interno del paese.
Queste parabole satellitari portatili,
prodotte da “SpaceX”, hanno mantenuto online sia i civili che i militari
dell'Ucraina.
Molte
di queste sono state acquistate direttamente dal governo degli Stati Uniti
tramite “USAID” o il “Pentagono” e spedite a Kiev.
Nella
sua guerra hi-tech contro la Russia, Starlink è diventata la chiave di volta
dell'esercito ucraino.
Consente
l'acquisizione di obiettivi via satellite e attacchi con droni alle forze
russe. In effetti, sul campo di battaglia odierno, molte armi richiedono una
connessione a Internet.
Un
funzionario ucraino ha detto al “The Times “di Londra che "deve"
usare Starlink per colpire le forze nemiche tramite immagini termiche.
Il
controverso magnate si è anche impegnato nella politica sudamericana.
Nel
2019, ha sostenuto il rovesciamento del presidente socialista “Evo Morales”,
sostenuto dagli Stati Uniti.
Morales
ha suggerito che Musk abbia finanziato l'insurrezione, che ha definito un
"golpe al litio".
Quando
è stato direttamente accusato del suo coinvolgimento, Musk ha notoriamente
risposto: "Faremo un golpe a chiunque vogliamo! Affrontiamolo!"
La
Bolivia ospita le più grandi riserve di litio al mondo, un metallo fondamentale
per la produzione di batterie per veicoli elettrici come quelle delle auto
Tesla di Musk.
In
Venezuela l'anno scorso, Musk è andato ancora oltre, sostenendo il candidato di
estrema destra sostenuto dagli Stati Uniti contro il presidente socialista
Nicolás Maduro.
È
arrivato persino a suggerire che stava lavorando a un piano per rapire il
presidente in carica.
"Sto arrivando a prenderti Maduro. Ti
porterò a “Gitmo” su un asino", ha detto, riferendosi al famigerato centro
di tortura degli Stati Uniti.
Più di
recente, Musk si è buttato nella politica americana, finanziando e facendo
campagna elettorale per il presidente Trump, e ora guiderà il nuovo
Dipartimento per l'efficienza del governo (DOGE) di Trump.
La missione dichiarata di DOGE è quella di
tagliare la spesa pubblica inutile e dispendiosa.
Tuttavia, con Musk al timone, sembra
improbabile che i miliardi di dollari in contratti militari e incentivi fiscali
che le sue aziende hanno ricevuto saranno sul ceppo.
All'insediamento
di Trump, Musk ha fatto notizia a livello internazionale dopo aver fatto due
saluti “Sieg Heil”, gesti che sua figlia ha ritenuto inequivocabilmente
nazisti.
“Musk”,
che proviene da una famiglia storicamente sostenitrice del nazismo, si è preso
una pausa dalle critiche alla reazione al suo saluto per comparire a un raduno
per il partito” Alternative für Deutschland”.
Lì, ha
detto che i tedeschi "si concentrano troppo sulla colpa passata" (ad
esempio, l'Olocausto) e che "dobbiamo andare oltre".
I
bambini non dovrebbero sentirsi in colpa per i peccati dei loro genitori,
persino dei loro bisnonni", ha aggiunto tra fragorosi applausi.
Le
recenti azioni del magnate della tecnologia hanno provocato indignazione tra
molti americani, che sostengono che fascisti e nazisti non hanno nulla a che
fare con i programmi spaziali e di difesa degli Stati Uniti.
In
realtà, tuttavia, questi progetti, fin dall'inizio, sono stati supervisionati
da importanti scienziati tedeschi trasferiti dopo la caduta della Germania
nazista. L'operazione “Paper clip” ha trasportato più di 1.600 scienziati
tedeschi in America, tra cui il padre del progetto lunare americano, “Wernher
von Braun”.
Von
Braun era un membro sia del partito nazista che dell'infame paramilitare
d'élite SS, i cui membri supervisionavano i campi di sterminio di Hitler.
Quindi,
il nazismo e l'impero americano sono andati di pari passo per molto tempo.
Molto
più inquietante di un uomo con simpatie fasciste che ricopre una posizione di
potere nell'esercito o nell'industria spaziale degli Stati Uniti, tuttavia, è
la capacità che gli Stati Uniti stanno cercando per sé stessi di essere immuni
agli attacchi missilistici intercontinentali dei loro concorrenti.
In
superficie, il piano “Iron Dome “di Washington potrebbe sembrare di natura
difensiva.
Ma in
realtà, gli darebbe carta bianca per attaccare qualsiasi paese o entità nel
mondo in qualsiasi modo desideri, anche con armi nucleari.
Ciò sconvolgerebbe la fragile pace nucleare
che ha regnato fin dai primi giorni della Guerra Fredda.
L'aiuto
di Elon Musk in questa impresa è molto più preoccupante e pericoloso di
qualsiasi saluto o commento che potrebbe mai fare.
Dazi,
Meloni "assolve" Trump:
li ha
iniziati Biden.
Avvenire.it - Massimo Chiari – (venerdì 28
marzo 2025) – ci dice:
La
premier al “Financial Times”: infantile scegliere tra Trump e Europa, io voglio
essere ponte. E sono d'accordo con Vance: la Ue si è un po' persa.
Giorgia
Meloni ha nella testa un progetto chiaro: mediare tra Usa e Ue.
Avvicinare Trump all'Europa. Essere ponte.
«I nostri rapporti con gli Stati Uniti sono i
più importanti che abbiamo», spiega la premier in un'intervista al Financial
Times.
E va
avanti: «L'Italia può avere buoni rapporti con gli Stati Uniti e se c'è
qualcosa che può fare per evitare uno scontro con l'Europa lo farò... Se
costruire ponti è nell'interesse degli europei lo farò».
Meloni respinge con fermezza l'idea che
l'Italia debba scegliere tra Stati Uniti ed Europa.
Una
scelta che considera tanto «infantile» quanto «superficiale».
È un
messaggio netto.
Consegnato sulla scia del summit appena
concluso a Parigi della coalizione dei Paesi europei volenterosi.
La
premier - scrive il FT puntualizzando che si tratta della prima intervista
rilasciata dalla premier italiana a una testata straniera - ha anche chiarito
di non vedere il presidente Usa Donald Trump come un avversario e di voler
continuare a rispettare il «primo alleato» dell'Italia.
«Io sono conservatrice, Trump è un leader
repubblicano.
Sicuramente
sono più vicina a lui che a molti altri».
E ancora: «Capisco un leader che difende i
suoi interessi nazionali... Io difendo i miei».
Il
passo verso i dazi è scontato.
Meloni
ha un messaggio all'Europa:
«Bisogna
mantenere la calma... Evitare di reagire d'istinto e lavorare per una buona
soluzione comune».
Meloni
ammette che i dazi su alcuni beni specifici stanno causando attriti.
Ma «ci
sono grandi differenze sui singoli beni.
È su
questo che dobbiamo lavorare per trovare una buona soluzione comune».
È un altolà alla Commissione europea che ha
promesso di reagire contro i dazi annunciati da Trump.
«Su questi argomenti bisogna dire
"mantenete la calma, ragazzi. Pensiamoci...». Meloni invita l'Europa alla
"calma" e parallelamente "assolve Trump.
Gli Stati Uniti perseguivano da tempo un
programma sempre più protezionistico e a questo proposito la premier cita
l'”Inflation Reduction Act” di Joe Biden. «Pensate davvero che il protezionismo
negli Stati Uniti sia stato inventato da
Donald
Trump?», si chiede retorica.
Domande
e risposte si accavallano.
Meloni riflette sull'idea che l'approccio
«conflittuale» di Trump alla difesa europea possa rappresentare uno «stimolo»
necessario per assumersi le proprie responsabilità sulla sicurezza:
«Mi piace pensare che la crisi nasconde sempre
una opportunità».
Anche
perché la Russia potrebbe diventare una minaccia a lungo termine, ma le
«minacce possono arrivare a 360 gradi» e «noi dobbiamo trovare un modo per
essere pronti a difenderci da ogni tipo di minaccia che possiamo avere...».
Non basta.
Meloni
si è poi detta «d'accordo» con il vicepresidente americano “JD Vance” in merito
alle sue critiche all'Europa: «Lo dico da anni. L'Europa si è un po' persa».
Ma
subito sottolinea che a essere contestata è la «classe dirigente» europea e non
il popolo:
le critiche dell'Amministrazione Trump -
precisa Meloni - sono alla «classe dirigente e all'idea che si possa imporre la
propria ideologia invece di leggere la realtà e trovare modi per dare risposte
alle persone».
Meloni
deve capire che
Trump
non è più un alleato.
Huffingpost.it - Marco D'Egidio – (28-3-2025)
– ci dice
Meloni
non vuole scegliere tra Europa e Stati Uniti, ma così facendo sceglie l'ignavia
e ci pone fuori dall'Ue.
Magari
potrà trarre un vantaggio per sé e il suo governo in ottica meramente
sondaggistica, ma sui tavoli che contano - incluso quello con Washington - non
ne ricaverà la minima riconoscenza.
Nell'intervista
di oggi al Financial Times, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha
camuffato il suo trumpismo latente provando a mantenersi equidistante tra
Europa e Stati Uniti.
Sarebbe
"infantile", secondo lei, scegliere tra i due continenti.
Ha
ragione, anzi:
avrebbe
ragione se l'Italia non facesse parte dell'Unione Europea. Ma, visto che ne fa
parte, il dilemma non dovrebbe neppure porsi.
Non scegliere equivale a porsi al di fuori
dell'Europa, scegliendo di fatto gli Stati Uniti di Trump.
L'obiettivo
politico della nuova amministrazione conservatrice a stelle e strisce consiste
proprio nel dividere gli stati europei, esercitando un potere negoziale
bilaterale con ciascuno di essi.
Come
se l'Europa non esistesse.
Meloni
sembra accettare questa strategia, nella speranza (illusione) di poter agire da
"pontiera" nell'interesse anche dell'Europa.
È un equilibrismo che non potrà durare a
lungo, soprattutto perché i dazi imposti da Trump colpiranno duramente i
principali Paesi europei esportatori tra cui il nostro.
Intere filiere, dal vino all' automotive,
subiranno pesanti contraccolpi.
O Meloni riuscirà a negoziare nel brevissimo
termine condizioni meno dannose per la nostra economia (ma anche per l'Europa
intera, la cui missione storica secondo Trump sarebbe quella di
"fottere" gli Stati Uniti), oppure l'unico comportamento infantile
che le rimarrà sarà quello di piangere amaramente per gli effetti della guerra
commerciale appena iniziata.
In
entrambi i casi, l'Italia non sarà trattata più favorevolmente di Francia e
Germania.
La
"non scelta" resterà un argomento retorico buono solo per le
interviste, non per la tassazione alla dogana.
E neppure per le ancor più preoccupanti
evoluzioni della politica estera, col pericolo Putin sempre più concreto alla
frontiera est dell'Europa, mentre Trump prepara i “pop corn”.
Un
altro passaggio molto discutibile dell'intervista di Meloni riguarda il
vicepresidente J. D. Vance.
La nostra premier dice di essere d'accordo con
lui, quando questi a Monaco ha accusato l'Europa di avere rinnegato la libertà
di espressione.
È il solito cavallo di battaglia delle nuove
destre di tutto il mondo, l'ideologia woke imposta da una cricca di burocrati e
di politici al caviale contro l'autenticissimo tradizionalista dei popoli.
Una
narrazione senza dubbio vincente in questo momento storico, che però trascura
di considerare come un'ideologia parallela (e ben più pericolosa)
l'intolleranza e l'avversione al dissenso proprie di chi si erge a paladino del
free speech.
Trump
non ha mai fatto mistero delle sue pulsioni illiberali proprio in materia di
idee, a partire dagli attacchi alla libera stampa.
E poi:
Meloni non ha nulla da dire sulla repressione in corso negli Stati Uniti verso
intellettuali, ricercatori, università cosiddette liberal, una "notte dei
lunghi coltelli" senza sangue scatenata dal più oscurantista dei riflussi
conservatori, in cui attivisti stranieri ma regolari possono venire arrestati e
deportati, con la scusa della sicurezza (signora mia), anche solo per avere
firmato un appello per Gaza?
Se
anche l'ideologia woke fosse realmente deprecabile, non dovrebbe esserlo ancor
di più l'ideologia anti-woke che la vuole censurare e punire?
Anche
qui, Meloni sceglie di stare contro l'Europa, praticando il più infantile dei
comportamenti: il vittimismo di cui è maestra.
E non
suona affatto convincente che provi a spiegare la sua posizione (e quella di
Vance) puntando l'indice contro le solite "classi dirigenti", che
sarebbero una sorta di Spectre culturale.
Se certe idee non conservatrici si sono
diffuse in Europa e in America, non è colpa di oscuri complotti contro il
popolo, ma merito (oh sì) di quella libertà di espressione e di parola che in
Occidente veniva garantita, tra inevitabili alti e bassi, fino a soli tre mesi
fa:
e che
oggi è invece minacciata a morte dalla più potente classe dirigente al mondo,
la Casa Bianca.
Meloni
non vuole scegliere tra Europa e Stati Uniti, ma così facendo sceglie l'ignavia
(e l'opportunismo).
Magari
potrà trarre un vantaggio per sé e il suo governo in ottica meramente
sondaggistica, ma sui tavoli che contano - incluso quello con Washington - non
ne ricaverà la minima riconoscenza.
Né per
lei né soprattutto per l'Italia.
Trump
non sarà un avversario, ma di sicuro non è più un alleato.
Ed è già questa una enormità senza precedenti.
Questa
è l'unica cosa che Meloni deve capire, al di là delle facili interviste.
L’Italia
e l’Impero Trump: quattro tesi
sul
problema americano di Meloni.
Legrandcontinent.eu
– (9-3-2025) – Vittorio Emanuele Parsi – ci dice:
Prospettive
di Politica.
Roma
come Washington. Trump come Cesare. Vance come Augusto. Musk come un ricco
liberto.
Se
l'Urbs si trasferisce a Washington, l'Italia di Meloni diventa prigioniera del
suo status di Stato-cliente ai margini dell'Impero.
Vittorio
Emanuele Parsi analizza questo rovesciamento e pone una domanda chiave:
in questa nuova realtà, come è possibile
trovare uno spazio?
“All
politics is local”!
Rrecita un vecchio adagio anglosassone.
Ed
effettivamente, in tempi ordinari, il rapporto gerarchico tra politica interna
e politica estera è chiaro:
i responsabili dei governi nazionali cercano
di massimizzare le conseguenze delle opportunità e minimizzare quelle dei
vincoli che l’ambiente internazionale pone al perseguimento dei propri
obiettivi politici domestici.
Riconoscere
questo assunto implica prendere atto che anche la politica estera, in una certa
misura, risente della dialettica competitiva tra maggioranza e opposizione e,
in presenza di un sistema multipartitico, anche di una qualche differenziazione
all’interno delle coalizioni.
Ovviamente,
dialettica e differenziazioni dovrebbero sempre essere contenute all’interno di
un’accorta considerazione di quelli che possono essere definiti gli “interessi
nazionali” o, se si preferisce una definizione meno enfatica e più precisa, le
componenti permanenti o invariabili dei medesimi.
Ne abbiamo avuto una riprova nei giorni dello
sconvolgimento prodotto dalle dichiarazioni di Donald Trump relative
all’apertura di una trattativa diretta con la Russia di Vladimir Putin sul
destino dell’Ucraina – sulla pelle degli ucraini e sulle teste degli europei –
e dall’arrogante, rozza e impudente relazione del vicepresidente JD Vance alla
Conferenza per la sicurezza di Monaco, quando alla reazione molto dura del
premier laburista britannico “Keir Starmer” che ribadiva che Londra avrebbe
proseguito imperterrita nel suo sostegno a Kyiv ha fatto immediatamente eco la
dichiarazione del suo predecessore, il conservatore “Rishi Sunak”, pronto ad
assicurare il pieno appoggio del suo partito a qualunque misura volta a
continuare l’opera di contenimento delle ambizioni imperialiste del Cremlino.
È
doveroso osservare che, affinché una politica bipartisan sui fondamentali della
sicurezza nazionale sia percorribile, occorre il pieno riconoscimento reciproco
della piena legittimità tra i diversi partiti. Ovvero, una politica estera e di
sicurezza condivisa, almeno sui fondamentali, è figlia della fuoriuscita dal
clima di guerra civile permanente tra le forze che compongono le, mutevoli,
maggioranze e opposizioni parlamentari.
Si
tratta di una condizione sperimentata a tratti e comunque mai completamente
fino in fondo nelle vicende della Repubblica italiana.
Per
motivi che credo non serva qui ricapitolare non lo è stato durante tutta la
Guerra fredda, quando il più grande partito comunista d’Occidente, pure molto
lontano dal comunismo reale, si ritrovava puntualmente all’opposizione di ogni
necessario programma di adeguamento dello strumento militare nazionale e
occidentale alle minacce attuate dall’Unione Sovietica (basti pensare alla
vicenda del dispiegamento degli euromissili nel corso degli anni Settanta, che
risultarono decisivi per fiaccare le ambizioni egemoniche di Mosca).
Allora
il refrain era sempre quello della “pace”, lo stesso invocato oggi dal partito
dell’appeasement nei confronti dell’imperialismo della Russia di Putin.
Dopo
la fine della Guerra fredda la piena legittimazione reciproca tra i contendenti
per il potere repubblicano è stata sempre incompleta – si pensi
all’anticomunismo “post mortem”, del comunismo, di Silvio Berlusconi da un lato
e al girotondismo isterico del centrosinistra dall’altro – anche se,
paradossalmente, era proprio il campo della politica estera quello che, in
tempi ordinari, diveniva il minor tema di contesa
. Non
così allineate erano le forze più “radicali” che nel corso degli anni sono via
via emerse nell’agone politico italiano, come la Lega, il Movimento 5 stelle o
le varie formazioni post o neo-comuniste.
Ma per
lungo tempo queste apparivano ben lontane da poter condizionare la politica
estera delle maggioranze di cui facevano parte o dal conquistare la leadership.
Le
cose, come si sa, sono cambiate con il primo governo Conte (maggioranza
giallo-verde) e poi con il governo Meloni, ovvero con l’irruzione sulla scena
politica, nel ruolo di protagoniste dei governi e non più di mere comprimarie,
di forze politiche dal populismo più conclamato rispetto al berlusconismo,
ovvero della Lega di Salvini, del Movimento 5 stelle grillino e poi contiano e
di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Se a
questo si aggiunge che anche la sinistra radicale sta godendo di una buona
rinascita di consensi, si capisce meglio perché, persino quando poi gli
esecutivi si sforzino di seguire politiche estere più o meno coerenti e non
troppo dissimili tra loro, diventi però sempre più importante ammantarle di una
presunta diversità o distintività a puro uso di lotta politica interna.
La
pericolosa illusione è che questo comportamento non produca effetti negativi
apprezzabili, mentre invece una grave conseguenza si viene a determinare:
ovvero
si impedisce lo sviluppo di una cultura di politica estera sufficientemente
matura, razionale, responsabile, in grado di tenere nel giusto apprezzamento
l’equilibrio tra realtà, interessi, principi e ideali, istituzioni, regole.
Si
finisce in tal modo per rivendicare alle proprie scelte – in termini di
narrazione, molto più che di azioni effettive – la sola patente di
rispettabilità o efficacia, accusando quelle altrui di immoralità o
velleitarismo.
E, dato che è sempre più spesso l’aspetto
della narrazione che viene offerto a opinioni pubbliche abbandonate a se stesse
o all’azione politicamente irresponsabile di attori non propriamente politici
ma più o meno influenti nel dare forma al dibattito pubblico, non può
sorprendere che quest’ultimo sia sovente ridotto ad arena per narcisismi più o
meno patologici, in cui il presunto trionfo sull’interlocutore (un trionfo
tutto immaginario per la totale autoreferenzialità di molte delle posizioni
esposte) sia l’unica ossessione di molti dei suoi protagonisti.
L’America
di Trump segna il trionfo della guerra civile permanente e della totale delegittimazione degli
avversari politici e dei loro (anche solo presunti) sostenitori.
2.
Per
lungo tempo, ciò che non ha fatto implodere questo coacervo di contraddizioni e
incoerenze (tra ciò che viene annunciato e quello che viene effettivamente
attuato e tra i posizionamenti e le linee di policy dei diversi partiti che
compongono le mutevoli coalizioni di governo) e ha fatto sì che la non
appropriatezza della narrazione della politica estera nazionale non si
manifestasse come esplosiva e foriera di immediate conseguenze negative è stata
la lunga percezione di una sostanziale immobilità del quadro nel quale la
politica estera andava a collocarsi.
Si è trattato di una immobilità assai più
apparente che reale che poteva essere dipinto come tale solo a condizione di
enfatizzare alcuni aspetti della realtà, sottovalutando, più o meno
consapevolmente, quelli il cui cambiamento potesse risultare più disturbante:
dall’imperialismo aggressivo della Russia, annunciato alla Conferenza di Monaco
del 2007 e messo rapidamente in atto l’anno successivo in Georgia (per poi
manifestarsi a più riprese in Ucraina) al riarmo di una Cina sempre più
assertiva e nazionalista, dalle crescenti difficoltà europee sulla strada della
definizione e dell’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune e
condivisa alla rottura della continuità della politica nordatlantica degli
Stati Uniti.
È
proprio quest’ultimo il tema chiave da tenere al centro della nostra
riflessione.
A
conclusione di un lungo percorso iniziato già negli anni Duemila, parzialmente
inabissatosi con l’11 settembre ma proseguito carsicamente e riesploso con la
presidenza Obama, l’America di Trump segna il trionfo della guerra civile
permanente e della totale delegittimazione degli avversari politici e dei loro
(anche solo presunti) sostenitori.
In tal
senso, l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 ha rappresentato un vero e
proprio manifesto di “performing art” applicato alla politica.
Era la
rappresentazione della guerra civile permanente che si voleva dichiarare per
“mondare” l’America delle sue “impurità” e segnava l’ostracismo degli avversari
trasformati in nemici (quasi disumanizzati attraverso il ribaltamento delle
ossessioni woke per le questioni multi- e soprattutto trans-gender).
Così
come l’inclusione di Elon Musk nel ruolo di gran consigliere del presidente –
ispiratore? Eminenza grigia? Anima nera? – non costituiva solo la punta
dell’iceberg della pressoché totale oligarchizzazione della repubblica, ma in
realtà riproduceva la dinamica dell’imperator con il suo “libertus “(Musk è di
origine sudafricana e può essere sì “romanizzato”, ma per il suo luogo di
nascita non può ambire alla massima magistratura).
Come
la storia romana ci ricorda, i liberti (gli schiavi liberati) potevano
accumulare straordinarie ricchezze e una quantità smisurata di potere proprio
per la loro vicinanza all’ex padrone, ma la loro fortuna dipendeva dalla
capacità di mantenere il favore imperiale.
O di partecipare a un complotto per una
successione cruenta, nei casi più torbidi.
E la
quantità di contratti, sussidi e favori in termini di pressioni per aprire o
deregolamentare i nuovi mercati tecnologici e accaparrarsi terre rare
forniscono la misura dell’opportunità che la vicinanza al potere politico
fornisce a Musk per consolidare le proprie aspirazioni monopolistiche.
Fuor
di metafora, quel che sostengo è che siamo di fronte a un vero e proprio “regime
change “e non a un semplice avvicendamento tra due presidenti di colore
politico diverso.
Le suggestioni imperiali di Trump (Musk e
Vance) non sono mero folclore di una pattuglia di persone che hanno
imparacchiato la storia su qualche manualetto semplificato per dummies, ma
riflettono una volontà di completare la transizione della “res pubblica”
stellata in imperium aquilifero.
La suggestione imperiale ha sicuramente una
componente di proiezione internazionale, ma credo che risponda essenzialmente
ad ambizioni e sfide domestiche: da un lato vorrei ricordare che, come già
diversi anni orsono ha documentato il gruppo di lavoro di “Thomas Piketty”, la
differenza nella distribuzione della ricchezza presente negli Stati Uniti ha
raggiunto i livelli dell’Impero Romano.
Dall’altro,
quello che a Trump interessa della figura imperiale è la dimensione del potere
assoluto, dell’essere sciolto da qualunque vincolo normativo e istituzionale.
Il tema del superamento dei limiti e dello scioglimento da qualunque vincolo è
sotteso tanto alla continua svalutazione del ruolo e del senso delle
istituzioni quanto alla riforma del mercato attraverso la piena legittimazione
delle sue derive oligopolistiche e monopolistiche.
La
valorizzazione del potere, inteso come asset che implica la minaccia e l’uso
della forza per superare persino i limiti temporali del suo esercizio e per
deformare il mercato e il contratto (e quindi la società e le regole) in una
sua caricatura mafiosa fatta di estorsione e minacce, descrive una parabola in
cui l’area dell’obbligazione politica e quella del contratto scambio si fondono
e si sovrappongono, con esiti decisamente pericolosi tanto per la libertà
politica quanto per quella economica.
La
crescente diffusione degli ambiti del potere – da quello strettamente
politico-istituzionale a quello economico-finanziario a quello tecnologico –
non coincide per nulla con una sua diluizione o con una sua maggior
contendibilità, ma semmai consente la penetrazione di chi lo detiene in tutti i
domini con l’accaparramento di tutte le risorse dai quali e con le quali
potrebbe generarsi una forma di resistenza o anche semplicemente di alterità.
Ed è
precisamente nell’assistere a come modalità rivoluzionarie si perseguono
tentazioni ricorrenti, dove evidentemente è la novità delle prime che rischia
di esporci alla mercé delle seconde, privi dei consueti – rodati ma poco utili,
forse inservibili – strumenti istituzionali che il liberalismo politico aveva
messo a punto soprattutto nel corso del Novecento, che possiamo cogliere la
pericolosità del momento storico che stiamo vivendo.
Siamo
di fronte a un vero e proprio ”regime change” e non a un semplice
avvicendamento tra due presidenti di colore politico diverso.
Il
metodo d’azione in politica estera di Trump è il semplice epifenomeno di ciò
che intende fare in politica interna, riducendo il ruolo del Congresso,
depotenziando i ministeri e le agenzie federali a favore di autorità non
indipendenti, create ad hoc e responsabili solo verso di lui, ad “nutum”
dell’imperatore.
È questo elemento che rende a mio avviso
strutturale il cambio di politica e di atteggiamento nell’arena internazionale
dell’America di Trump e di Vance e Musk, aggiungo.
Perché,
considerata l’età di Donald, Vance è da considerare il successore in pectore di
Trump, e non il semplice vice, una sorta di Cesare rispetto all’Augusto di Mar
a Lago.
È
questo il cambiamento più significativo e foriero di drammatiche conseguenze
per l’Europa e per l’Italia, di un quadro internazionale che inizia a cambiare
drasticamente con il discorso di rottura di Putin a Monaco (2007) e con
l’elezione di “Xi Jinping “a segretario del Partito comunista cinese (2012) che
sottopone il regime cinese a una torsione personalistica, nazionalista e
neo-autoritaria e si completa con le guerre di aggressione della Russia alla
Georgia (2008) e all’Ucraina (2014 e 2022).
3.
La
domanda centrale, diventa quindi, se Giorgia Meloni ha compreso la natura del
cambiamento e se ne ha tratto le conseguenze.
E la
risposta appare francamente negativa.
La
linea politica della presidente del Consiglio è apparsa orientata a mantenere
innanzitutto saldo il rapporto con gli Stati Uniti, e questa scelta si è
manifestata plasticamente nel sostegno prestato alla resistenza ucraina
all’aggressione russa, concretizzatasi in un discreto sostegno militare (in
termini di fornitura di equipaggiamenti) e finanziario e in un più robusto
appoggio politico.
Quest’ultimo le ha consentito di tracciare una
linea di continuità con la politica estera e di sicurezza del governo Draghi –
fondamentale nella prima parte della sua premiership per accreditarsi
internazionalmente e tamponare le preoccupazioni nei confronti del primo
governo di destra-destra nella storia della Repubblica con la Lega di Salvini
sempre più apertamente filo-putiniana.
Durante
la presidenza Biden, questa linea è consistita nell’allineamento con quella del
presidente democratico, sempre attenta a sostenerne le scelte più prudenti,
titubanti e procrastinanti tra quelle a disposizione dell’amministrazione
americana e in tal senso allineate con molte delle posizioni europee.
Come
la storia romana ci ricorda, i liberti (gli schiavi liberati) potevano
accumulare straordinarie ricchezze e una quantità smisurata di potere proprio
per la loro vicinanza all’ex padrone, ma la loro fortuna dipendeva dalla
capacità di mantenere il favore imperiale.
Ma le
cose sono cambiate con l’arrivo di Trump: tanto nei confronti dell’Ucraina,
quanto nei confronti degli alleati europei.
Cosicché
l’allineamento agli Stati Uniti e la ricerca di una relazione forte con
Washington rischiano di implicare una sostanziale inversione di rotta tanto nei
confronti del sostegno alla resistenza di Kyiv quanto della ricerca di una
linea comune da parte dei membri europei dell’Alleanza atlantica.
Lo si è visto con molta evidenza durante il
vertice convocato all’Eliseo dal presidente Macron il 17 febbraio, nel
tentativo di reagire all’uno-due inferto agli europei dalla coppia Trump-Vance.
Il
mantra di Meloni sul fatto che senza l’America non esiste sicurezza europea
poteva apparire una considerazione di buon senso, quasi una constatazione dello
stato dell’arte, ma in effetti mascherava il dato di realtà più macroscopico e
innovativo:
che
era l’America di Trump ad aver prospettato un’effettiva rottura nei confronti
della sicurezza europea, accettando la logica putiniana delle sfere di
influenza, dimostrandosi disposto a mettere a repentaglio la sicurezza degli
europei nell’illusione di una riedizione della Conferenza di Yalta, della quale
il continente divenisse oggetto di una nuova spartizione, preparandosi ad esercitare pressione
sull’Europa affinché revocasse i pacchetti di sanzioni adottate nei confronti
di Mosca senza che la Russia concedesse alcunché.
La
cosa si è riproposta, ingigantita e drammatizzata, nell’agguato al presidente
ucraino Zelensky durante la conferenza stampa tenuta allo Studio ovale venerdì
28 febbraio ad opera della coppia Trump-Vance.
Si è
trattata di una brutale aggressione al popolo ucraino — come se quella della
Russi non fosse già sufficiente — e della più vergognosa umiliazione della
democrazia e della presidenza degli Stati Uniti da parte di «una banda di
gangster», per citare l’editoriale del “New York Times “del giorno successivo.
Ma ha costituito anche una ennesima
dimostrazione della concezione del potere, personale e assoluto, che guida la
visione di questa amministrazione e della totale irrilevanza in cui sono tenuti
gli alleati europei, chiamati a partecipare come comprimari alla pax trumpiana, mentre gli oligarchi intorno a Trump
si spartiscono le spoglie minerarie dell’ucraina con quelli del Cremlino.
Ancora
una volta, nel nuovo vertice di Londra del 2 marzo, un’Europa allargata a Regno
Unito, Turchia e Canada ha fornito la sua replica, cercando di interloquire con
la nuova America e di conciliare la necessità di non abbandonare Kyiv al suo
destino e non concedere alla Russia una vittoria politica ben superiore ai
risultati conseguiti sul campo e, allo stesso tempo, di attrezzarsi per
implementare le proprie capacità di difesa, premessa per qualunque soggettività
politica, in qualunque veste istituzionale la si voglia pensare ed esprimere.
Non si
tratta di raggiungere una velleitaria — e inutile — parità strategica con la
Russia, ma di raggiungere quella soglia che impedisce che Mosca possa coltivare
l’illusione che “un nuovo patto Molotov-Ribbentrop” possa avere per oggetto la
spartizione non della sola Ucraina ma dell’intero continente europeo.
Apparirebbe singolare che un governo che si
proclama orgogliosamente “sovranista” e composto di “patrioti” si dimostri
disponibile a una relazione di sudditanza nei confronti della nuova
amministrazione americana.
Ricercare
l’unità dell’Occidente è un obiettivo comprensibile e auspicabile, ma ostinarsi
a farlo quando il partner transatlantico sembra chiamarsi fuori, disconoscere i
valori e le istituzioni che lo hanno costituito rischia di essere un esercizio
suicida, più che velleitario.
Di
fronte a questo possibile ribaltamento di prospettive la politica della
presidente del Consiglio sembra in difficoltà, soprattutto nel non riconoscere
fino in fondo che la ricerca della solidarietà atlantica non può andare a
scapito della solidarietà europea.
Se
andiamo a guardare alla storia recente della politica estera italiana, la linea
classica di condotta dei governi della Repubblica è sempre stata quella di
ricercare una condotta che stesse all’interno degli argini tracciati dalla
membership europea e atlantica, le due grandi scelte “definitive” dell’Italia
democratica.
Ma quando
questo non è stato possibile, come si è proceduto?
Il caso più eclatante è quello del governo
Berlusconi in occasione dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003.
In
quella contingenza la scelta dell’esecutivo italiano fu chiara:
l’allineamento con gli Stati Uniti, mentre
Francia e Germania si schieravano contro quella guerra (perlomeno in Consiglio
di sicurezza dell’Onu, pur senza portare la contrapposizione all’interno della
Nato).
Va
però ricordato che quella decisione avvenne non in maniera solitaria o insieme
a qualche piccola nazione del Centroamerica, ma in compagnia di Gran Bretagna,
Spagna e Polonia, allora tutti Stati-membri dell’Unione.
Fotografava
cioè un’Europa divisa, ma all’interno di una relazione transatlantica che si
manteneva solida.
Le reazioni americane nei confronti del
diniego di solidarietà francese andarono poco oltre il temporaneo cambiamento
del nome delle patatine fritte (da French fries a Liberty fries) nel menù della
mensa del Congresso e dei pranzi della Casa Bianca.
Tanto per dare la misura del cambiamento in
atto, il presidente Trump ha bandito dalle conferenze stampa alla Casa Bianca
l’”Associated Press”, “rea” di ostinarsi a chiamare il Golfo del Messico col
suo vero nome e non con quello farlocco di “Gulf of America “— a qualcuno
ricorda niente?
Il Mare nostrum rievocato da Mussolini nei
suoi vagheggiamenti neo-imperiali?
Parliamo
di una incapacità di prendere atto della realtà o di una vera e propria volontà
di adeguamento?
Questa
è la domanda che dovremmo farci e alla quale occorre fornire una risposta.
Certo, apparirebbe singolare che un governo che si proclama orgogliosamente
“sovranista” e composto di “patrioti” si dimostri disponibile a una relazione
di sudditanza nei confronti della nuova amministrazione americana.
Perché
il punto sta proprio qui.
Nella
condotta dell’America di Trump, non c’è spazio per alleanze, figuriamoci per
relazioni speciali e altamente istituzionalizzate come quella costruita in
oltre 75 anni di Alleanza Atlantica.
Che ne
sia o meno consapevole, nel suo rapportarsi con gli europei Donald Trump sta
replicando lo schema del rapporto patrono-cliente tipico della Roma antica, con
il quale l’Urbe instaurava relazioni ineguali con soggetti politici ritenuti
inferiori per rafforzare la sicurezza dei propri confini.
Conviene
capirsi.
Relazioni di questo tipo gli americani le
hanno sempre avute, dapprima nel continente americano e poi nel Pacifico e in
Asia, a mano a mano che il proprio potere e le proprie ambizioni crescevano.
Rispetto alle alleanze però, e in particolar
modo rispetto a un’alleanza molto peculiare come quella atlantica, i rapporti
di clientela presentano una serie di significative differenze, tutte
riscontrabili nelle parole e nei comportamenti di Trump.
La prima è che il dato di superiorità anche
formale del patrono sul cliente è parte costitutiva della relazione.
È il patrono che decide il comportamento che
il cliente deve tenere e non c’è spazio per nessuna dialettica interna.
E’ il
patrono che determina chi è il nemico contro il quale il cliente deve prestare
assistenza mentre la protezione verso i nemici esterni del cliente è sempre
nella disponibilità esclusiva del patrono.
Al
contrario, maggiore disponibilità si dimostra nei confronti dei nemici interni
del proprio cliente.
E forse così le esternazioni di Musk e Vance
nei confronti della “leader di Afd” diventano meno estemporanee e si
comprendono meglio.
Il
rapporto di clientela non prevede istituzioni collettive, il riconoscimento di
una comunità ideale o di una vera e propria comunità di sicurezza, in cui le
differenze tra i diversi membri si attenuano.
Anzi,
la relazione che lega patrono e cliente è personale, lega i due leader, e non
si estende ai popoli.
In questa logica, non sorprende che Trump
mostri un totale disprezzo e un concreto non riconoscimento per le istituzioni
collettive dei suoi “cliente” europei. Così si inquadra meglio la gravità della
rottura personale fra Trump e Zelensky nell’agguato dello Studio Ovale.
Che ne
sia o meno consapevole, nel suo rapportarsi con gli europei Donald Trump sta
replicando lo schema del rapporto patrono-cliente tipico della Roma antica, con
il quale l’Urbe instaurava relazioni ineguali con soggetti politici ritenuti
inferiori per rafforzare la sicurezza dei propri confini.
Il
progressivo cambiamento del quadro internazionale è stato in una certa misura
offuscato dal processo di allargamento di Unione Europea e Nato che affondava
negli esiti conclusivi della Guerra Fredda e, probabilmente, ha avuto una sorta
di “effetto supernova”, cioè si ha accelerato e ampliato proprio mentre la sua
energia veniva meno.
Credo sia da collocare qui il duro ammonimento
di qualche anno fa del presidente francese Emmanuel Macron — «la Nato è in una
condizione di morte cerebrale».
E
sicuramente il continuo impiego della struttura dell’Alleanza nelle guerre
mediorientali e balcaniche degli ultimi 25 anni ha contribuito sia a una
carenza di riflessione strategica e insieme prospettica sulla e nella Nato, sia
a fornire l’impressione che l’alleanza fosse riuscita ad aggiornare con
successo la sua missione.
La
natura altamente istituzionalizzata della Nato ha anch’essa contribuito a
produrre la sensazione che la relazione tra la fine del secolo e l’inizio del
successivo potesse essere più armonica e in continuità di quanto sia poi
risultato.
Quest’ultimo
aspetto ha coinvolto anche la Ue, essa pure una istituzione che sorge e si
sviluppa grazie e dentro la pax atlantica americana, che gioca un ruolo
decisivo nella stabilizzazione dell’ex impero esterno sovietico ma che invece
non incide nei confronti dello spazio post-sovietico, oltre che di quello
mediterraneo.
Fin
dove la politica di allargamento è possibile, essa risulta complessivamente di
successo, pur mostrando crepe in termini di irreversibilità della
liberalizzazione e democratizzazione di alcuni nuovi Stati-membri (Ungheria su
tutti, ma in parte il discorso vale anche per Repubblica Ceca, Slovacchia,
Polonia e Croazia).
Il
fallimento è viceversa palese nei confronti del suo estero vicino (tanto a Est
quanto a Sud), dove l’obiettivo di riuscire a costruire un «ring of friends»
oltre il proprio limes non viene mai conseguito. Anzi.
Bielorussia
e Georgia, e forse Ucraina, ne forniscono una tragica testimonianza a Est,
mentre a Sud la lista degli insuccessi comprende tutti i paesi dell’area.
È il
patrono che decide il comportamento che il cliente deve tenere e non c’è spazio
per nessuna dialettica interna.
È il
patrono che determina chi è il nemico contro il quale il cliente deve prestare
assistenza mentre la protezione verso i nemici esterni del cliente è sempre
nella disponibilità esclusiva del patrono.
4.
Al di
sotto di questi fenomeni appena descritti, sia pure sommariamente, agiscono due
poderosi fattori di disgregazione dell’ordine internazionale liberale.
Negli
Usa assistiamo alla rapida e progressiva radicalizzazione e polarizzazione del
quadro politico che gli otto anni di presidenza Obama in parte illudono di
poter comunque rintuzzare e in parte esasperano, contribuendo a suscitare
quella reazione che porterà alla prima presidenza Trump.
E il
meccanismo si ripete, in scala ridotta con i quattro anni di Biden.
Nell’Unione
europea si osservano invece avanzare sentimenti anti-europei, populisti e
sovranisti che forgiano gli attori anti-sistema che diventeranno sempre più
cruciali nei nostri giorni.
Le due
spinte riflettono il tradimento (percepito e parzialmente vero) della promessa
di inclusione e diffusione del benessere operate dai regimi liberaldemocratici
dopo la fine della Guerra fredda, divorate sull’altare della globalizzazione da
parte di nuove élite economiche fameliche e sempre più distanti dai valori
delle tradizionali élite politiche, il cui dato ideologico prevalente è la
furia iconoclasta anti- liberal (anti-progressista diremmo in italiano), che
manifesta una assoluta volontà di rottura rispetto alla cultura
liberal/progressista (in senso molto ampio e trasversale rispetto ai partiti e
agli schieramenti politici) responsabile di aver forgiato l’ordine internazionale
post-bellico e influenzato pesantemente anche le diverse élite politiche
nazionali.
Come
sempre accade, l’ascesa di queste élite economiche ha fornito materiale per
l’elaborazione ideologica da parte di quelle contro-élite politiche fino a quel
momento emarginate dal discorso pubblico, o comunque più marginali rispetto al
dibattito principale, in gran parte collocate sul lato destro dello
schieramento proprio in virtù del fatto che l’asse mediano della politica
inclinava sul centro-sinistra, soprattutto con la fine della Guerra fredda.
Questa
collocazione nello spazio politico-culturale della destra forniva una tangibile
rassicurazione che il nuovo discorso politico non avrebbe messo in discussione
la proprietà privata, la legittimità dei profitti e la santità dell’iniziativa
individuale.
È
proprio tale saldatura con una dimensione rilevante della cultura delle élite
globaliste che ha spostato verso destra il quadro complessivo del dibattito
pubblico e delle idee presentabili.
Un
simile processo non presenta un andamento lineare, né è figlio di una regia
originaria o di un disegno coerente.
Ma nel
suo dipanarsi offre opportunità di alleanze tattiche e chance di impossessarsi
della leadership, potendo magari piegare ai propri specifici interessi il
discorso politico, la narrazione, dirottandolo o modificandolo sia a livello
domestico sia a livello internazionale.
Si
tratta di capire che la continuità nella linea di politica estera
filoamericana, quando il quadro complessivo cambia e la stessa politica
americana subisce un radicale ribaltamento, non è una manifestazione di
coerenza ma di debolezza di pensiero strategico.
Musk è
per più di un aspetto il campione di quanto stiamo dicendo.
La sua
forza è intimamente legata alla dimensione globale dei mercati sui quali ha
costruito le diverse tappe e i diversi settori della sua fortuna.
Eppure,
si presenta come campione delle forze populiste e sovraniste che vorrebbero
vendicare i vinti della globalizzazione, quelli lasciati indietro dal medesimo
processo che ha segnato il trionfo dell’uomo più ricco del pianeta.
Ha uno
stile di vita decisamente non tradizionale, mentre sostiene i movimenti
reazionari in giro per il mondo.
È un
alfiere dell’imperialismo Usa e intanto appoggia l’appeasement con la Russia.
Si professa libertario ma è il nemico programmatico di un’idea di Occidente
basata sul triangolo liberale composto da democrazia rappresentativa, economia
di mercato e società aperta.
Sono
dunque soprattutto considerazioni di politica interna americana – la volontà di
Trump di affermare una supremazia senza limiti del potere esecutivo, con
accentuazioni personalistiche di stampo sudamericano nel tentativo di
realizzare un cambiamento permanente del quadro politico domestico – a far
ritenere che la sua amministrazione proseguirà nei prossimi quattro anni quanto
mostrato nei primi trenta giorni.
Se
così stanno le cose, l’Europa deve rapidamente attrezzarsi per provvedere alla
sua sicurezza anche nel caso del venire meno del sostegno Usa.
È un
percorso costoso, impegnativo e, anche, impopolare.
Ma
obbligato, se vogliamo far sì che l’Unione sopravviva.
Ed è
proprio la sopravvivenza dell’Unione, e il suo rafforzamento anche
istituzionale, la condizione necessaria per la tutela della libertà, della
democrazia, della sovranità e del benessere dei singoli Stati-membri.
Un
rafforzamento che diventa ancora più decisivo, qualora la situazione
dell’Ucraina dovesse degenerare.
Rispetto
alla formazione politico-ideologica di Meloni e dei diversi sovranisti presenti
in Europa, si tratta di compiere una vera e propria inversione di marcia
nell’atteggiamento fin qui tenuto nei confronti della prospettiva di una
statualità europea più effettiva (obiettivo più volte ribadito da Mario
Draghi).
In termini più immediati, si tratta di capire
che la continuità nella linea di politica estera filoamericana, quando il
quadro complessivo cambia e la stessa politica americana subisce un radicale
ribaltamento, non è una manifestazione di coerenza ma di debolezza di pensiero
strategico.
L’emergere
di foschi discorsi intorno al cosiddetto «corridoio di Kaliningrad», per
assicurare il collegamento della exclave russa alla Bielorussia, oltre a
ricordare sinistramente un altro corridoio — quello di Danzica, nel 1939 — ci
ammonisce sulla necessità e urgenza di mutare i nostri indirizzi per adeguarli
ai tempi.
Affidarsi
alla speranza che le parole di Trump siano dettate solo o prevalentemente da
una sorta di strategia negoziale da bullo, o sperare che tra quattro anni le
relazioni transatlantiche possano tornare al sereno, credo sia un pericoloso —
e temo suicida — esercizio.
Telefonata
Meloni-Trump:
tutti i no del presidente Usa.
Lastampa.it
- Ilario Lombardo – (06 Marzo 2025) – ci dice:
Dal
vertice con l’Ue all’ombrello Nato per Kiev, la Casa Bianca fredda sulle idee
della premier.
Riarmo
europeo, Giorgetti critico: “Frettoloso”.
I dubbi di Palazzo Chigi sul nucleare di
Parigi.
ROMA.
La telefonata di sabato scorso tra Giorgia Meloni e Donald Trump non è andata
bene.
È
quanto la stessa premier ha riferito ad alcuni collaboratori.
Una conversazione franca, secca, dedicata
all’Ucraina e ai negoziati di pace, che ha permesso alla premier di avere
conferma delle volontà e del comportamento deciso, a tratti spietato, del
presidente americano.
Ritornare
a quella telefonata aiuta a capire anche come Meloni siederà oggi al tavolo del
Consiglio europeo straordinario:
con un governo spaccato alle sue spalle,
certo, ma anche con poche certezze, qualche risultato già ottenuto (scorporo
delle spese della Difesa dal calcolo Deficit/Pil), molti dubbi, qualcuno ancora
su cui lavorare (l’impatto sul debito degli investimenti militari) e qualche
piccola speranza di riavvicinare Trump e i vertici dell’Unione europea.
La
premier dirà come la pensa: vanno bene gli accordi sul riarmo europeo, ma senza
abbandonare la Nato.
Mentre
si è già detta poco favorevole sulla copertura nucleare offerta a tutta
l’Unione da Emmanuel Macron: «Perché confermerebbe il disimpegno Usa».
In
questi quattro giorni trascorsi dal colloquio telefonico non ci sono state
ricostruzioni di quanto i due leader si sono detti, solo pochi accenni frutto
di un comunicato privo di contenuti, pubblicato da Palazzo Chigi a tarda sera
di sabato, e l’unica battuta di Meloni, l’indomani, al termine del vertice di
Londra:
«Non entro mai nei dettagli dei colloqui
telefonici.
Ma
posso assicurarvi che quello che dico in pubblico lo dico anche in privato».
La premier elude così la domanda, confermando,
però, due elementi:
che la
telefonata non ha avuto una conclusione esaltante e spendibile, e che ha
provato a convincere il suo ostico interlocutore con argomentazioni che poi
avrebbe effettivamente esposto in modo aperto.
Perché
la strategia di Trump è un pericolo per l'Europa e per l'Ucraina.
Su
diversi punti Meloni si è sentita rispondere un’infilata di no.
Ha
chiesto a Trump di prendere parte a un vertice Europa-Stati Uniti su Kiev, come
proposto dalla leader, per superare il formato ristretto che ha caratterizzato
le riunioni di Macron e Keir Starmer, organizzate in risposta alla brutale
esclusione dell’Unione e dell’Ucraina dal tavolo delle trattative Usa-Russia.
Meloni
è convinta che solo così, con l’Europa compatta e legata al patto atlantico con
Washington, si preserverebbe una forza negoziale.
Avrebbe
voluto il sostegno del presidente e invece:
la risposta di Trump è stata da negoziatore
implacabile, come Meloni stessa ha ammesso una volta chiusa la telefonata.
Le
divisioni dell’Europa – ha detto il capo della Casa Bianca – sono fatti
dell’Europa, non è interesse americano fare la prima mossa.
Accorciare le distanze con Bruxelles vorrebbe
dire preparare il terreno di un accordo che farebbe rientrare l’Ue tra i
protagonisti.
E,
secondo Meloni, è proprio questo quello che Trump teme possa scatenare un
irrigidimento di Vladimir Putin.
Soprattutto
se dovesse nascere su iniziativa americana.
Inoltre, è ormai evidente che al leader Usa,
come all’autocrate russo, non dispiace l’idea di un’Europa frantumata, e
dunque, più debole.
INTERVISTA
Ucraina,
Chesnokov: serve l’ingresso automatico nella Nato come garanzia per la pace.
Filippo
Femia.
Meloni
ha comunque concluso la telefonata con l’impressione che qualche margine per
tenere in vita il confronto, Trump lo abbia lasciato.
Ma a una condizione: che la proposta parta da
Bruxelles.
Ecco perché ieri la premier ha accolto con
soddisfazione che i vertici Ue abbiano fatto filtrare da “fonti ufficiali” di
«essere pronti a un summit Ue-Usa, e di considerare utile la proposta» di
Meloni:
«Vedremo
– aggiungono – quando ci saranno le condizioni, in particolare da parte
americana».
La
strategia per tentare di cucire su di sé un ruolo di mediatrice si fonda su due
proposte:
la prima è il vertice euroatlantico, la
seconda è l’ideazione di un ombrello protettivo per l’Ucraina senza il suo
ingresso nella Nato:
Trump
non la vuole, quindi il tema per i prossimi quattro anni di mandato – a meno di
ripensamenti – è fuori discussione.
Meloni
ha provato a sondarlo sulla sua idea, di una forma adattabile a Kiev di
articolo 5, che impone ai Paesi membri di intervenire in caso di aggressione
anche a uno solo di loro, e di nuovo ha ricevuto un no dal leader repubblicano.
Ma è
un no in cui dice di aver intravisto una crepa:
«Trump
fa sempre così – confessa – poi si siede a trattare e in una seconda fase
negoziale concede qualcosa».
Meloni
cerca una possibile convivenza con la nuova amministrazione Usa.
Se
cambiano le priorità americane cambiano gli equilibri:
qualcosa
perde Putin e qualcosa perde Volodymyr Zelensky.
È
ormai probabile che il secondo perderà di più.
Meloni
non può mollarlo, perché manifesterebbe un’incoerenza enorme dopo averlo
sostenuto convintamente per tre anni.
Per
questo, il cedimento del presidente ucraino, che ha accettato i termini
americani dell’accordo sulle terre rare, in qualche modo l’aiuta.
A
complicarle il lavoro ci pensano, invece, le divisioni della sua maggioranza.
Le perplessità sugli effetti che “Rearm
Europe”, il piano di Ursula von der Leyen, può avere sul debito italiano sono
anche quelle della premier.
Ecco
perché da Palazzo Chigi considerano «ragionevoli» le critiche del ministro
dell’Economia “Giancarlo Giorgetti”, che mette in guardia da una proposta di
investimenti «fatta in fretta e in furia», e dal rischio di ripetere gli
«errori clamorosi» avvenuti durante il Covid.
Va
detto che Giorgetti parlava in un contesto di partito, un convegno della Lega,
dunque, come spesso gli accade, cerca con grandi acrobazie di non sconfessare
la linea ultra-trumpiana del segretario Matteo Salvini, anche sui dazi.
Nonostante
un vertice a tre a Palazzo Chigi, i leader e vicepremier hanno continuato a
dire come la pensano, uno contro l’altro.
Il leghista è contro Von der Leyen:
«Il
suo piano non piace agli italiani. Possiamo investire di più in difesa senza
indebitarci».
E
l’azzurro Antonio Tajani contro Salvini:
«Il
quadro del piano va bene. Questo non è un governo anti-europeista. La linea la
decide Meloni con me».
Meloni,
visita lampo da Trump.
Nyt: "Premier ha premuto in
modo aggressivo su caso Sala."
Usarci.it
– Adnkronos – Redazione – (5-1-2025) – ci dice:
(Adnkronos)
- Visita lampo di Giorgia Meloni a Mar-a-Lago, dove la premier ha incontrato il
presidente eletto degli Usa Donald Trump.
Dopo circa 5 ore dal suo arrivo a Palm Beach,
la premier è risalita sul volo che la sta riconducendo a Roma.
Nel
corso del loro incontro a Mar-a-Lago, Meloni e Trump hanno parlato del caso di “Cecilia
Sala”, la giornalista detenuta in Iran dal 19 dicembre scorso.
Lo
rivela il “New York Times”, citando una fonte informata sull'incontro, secondo
cui la premier "ha premuto in modo aggressivo" su questo.
Sui
social le immagini dell'incontro tra la presidente del Consiglio e il tycoon.
La giornalista di Cbs, “Jennifer Jacobs,” sul
proprio profilo 'X' ha pubblicato una foto della premier con Trump e Marco
Rubio, il futuro segretario di Stato della nuova amministrazione.
A
Mar-a-Lago erano presenti, ha scritto su 'X' il giornalista del “Wall Street
Journal” Alex Leary che ha pubblicato una foto, anche “Scott Bessent”, che è
stato scelto da Trump come futuro segretario al Tesoro, “Tilman Joseph Fertitta”
che il presidente eletto ha scelto come futuro ambasciatore Usa in Italia e
l'ambasciatrice italiana negli Usa, “Mariangela Zappia”.
Sempre
“Leary” in un post su 'X' ha citato le parole di Trump rivolte a Meloni:
"Ha
davvero preso d'assalto l'Europa".
Leary ha riferito anche le parole di Rubio che
dando il benvenuto alla premier l'ha definita "un'ottima alleata, un
leader forte".
Nel
corso della cena avuta a Mar-a-Lago, Trump ha fatto vedere a Meloni il docufilm
“'The Eastman Dilemma: Lawfare or Justice'”, che denuncia "un sistema giudiziario sempre
più politicamente motivato", come si legge sulla pagina web del doc.
Lo
scrivono i media americani parlando dell'incontro tra Trump e la premier
italiana.
Alla
proiezione erano presenti alcuni membri della futura amministrazione, tra cui “Rubio”
e “Bessent”.
L'incontro
tra la premier italiana e il presidente eletto americano - a pochi giorni
dall'arrivo in Italia, venerdì prossimo, di Joe Biden - "rafforza le speranze dei
sostenitori di Meloni sulla possibilità che il primo ministro conservatore
diventi l'alleato principale di Trump in Europa", commenta il New York
Times.
Secondo
cui buona parte di quel ruolo prevede che "medi le tensioni" tra i
leader europei e il presidente eletto, che "ha minacciato di avviare una
guerra commerciale con il continente così come di ridurre il sostegno ad alcuni
Paesi della Nato e all'Ucraina nella guerra contro la Russia".
Meloni,
sottolinea ancora il quotidiano americano, "è uno dei pochi leader
stranieri ad essersi recato in visita dal presidente eletto in Florida dalla
sua elezione": tra questi l'ungherese Viktor Orban e l'argentino Javier
Milei.
(adnkronos.com/politica/meloni-visi...).
Ue-Usa:
Schlein, 'Meloni difende
interesse
Trump e Musk,
non
quello nazionale.'
Lagazzettadelmezzzogiorno.it - Agenzia Adnkronos – (28
Marzo 2025) – ci dice:
Roma,
28 mar. (Adnkronos) - “Giorgia Meloni ha scelto di difendere l’interesse
nazionale, ma quello americano. Anzi, quello di Trump e Musk. Oggi è più chiaro
che mai, ha scelto di indossare il cappellino Maga, ammainando di fatto da
palazzo Chigi la bandiera italiana e quella europea".
Così
la segretaria del Pd, Elly Schlein.
"Ed è un problema enorme invece per
l’interesse nazionale italiano se la presidente del consiglio sceglie di dare
ragione a chi, come Vance, dà dei parassiti agli europei, insultando quindi
anche noi italiani, dopo giorni di imbarazzante silenzio".
"Ed
è agli italiani che Giorgia Meloni dovrà spiegare perché ha scelto Trump come
'primo alleato', quando il prossimo 2 aprile entreranno in vigore i dazi Usa
del 25% sulle nostre merci, sulle nostre eccellenze, che pagheranno le imprese,
i lavoratori e le famiglie italiane.
Giorgia Meloni vada dire a loro 'state calmi,
ragazzi, ragioniamoci'", dice Schlein.
"Il
governo Meloni si sta trasformando giorno dopo giorno nel cavallo di Troia
dell’amministrazione Trump all’interno dell’Unione Europea, in uno strumento
degli oligarchi americani utilizzato nel nostro continente per fare i loro
interessi.
Un
fatto grave e imbarazzante per l’Italia, Paese membro fondatore dell’Unione.
Questa deriva va fermata, è il momento di
difendere i nostri interessi e il nostro orgoglio di italiani e di
europei", conclude.
Meloni:
infantile scegliere tra
Trump
e la Ue. E sulla Ue
sta
con Vance.
Italiaoggi.it
– Redazione – (28/03/2025) -
Intervista
della premier con il” Financial Times”: per l'Italia il presidente americano
non rappresenta un avversario, ma il primo alleato.
Per
l'Italia scegliere tra gli Stati Uniti e l'Europa, sarebbe una scelta
"infantile" e "superficiale".
Lo ha
dichiarato la premier Giorgia Meloni in un'intervista con il “Financial Times”,
la prima con un quotidiano straniero da quando è in carica dal 2022.
"E'
nell'interesse di tutti superare le gravi tensioni nelle relazioni
transatlantiche", ha aggiunto Meloni, definendo le reazioni di alcuni
leader europei al presidente americano Donald Trump come "un po' troppo
politiche".
Per
l'Italia "il presidente americano non rappresenta un avversario, bensì il
primo alleato.
Sono
conservatrice. Trump è un leader repubblicano.
Di
sicuro sono più vicina a lui che a molti altri, ma capisco un leader che
difende i suoi interessi nazionali.
Io difendo i miei", ha proseguito ancora
la premier assicurando che "i nostri rapporti con gli Stati Uniti sono i
più importanti che abbiamo.
L'Italia può avere buoni rapporti con gli
Stati Uniti e se c'è qualcosa che l'Italia può fare per evitare uno scontro con
l'Europa e costruire ponti, lo farò, e questo è nell'interesse degli
europei".
Dazi,
no a reazioni di istinto.
Meloni
ha poi affrontato la questione legata alla possibile reazione europea ai dazi
imposti dagli Usa.
"A
volte ho l'impressione che. rispondiamo semplicemente d'istinto.
Su
questi argomenti devi dire: state calmi, ragazzi, pensiamoci", ha detto la
premier ricordando che mentre i livelli tariffari complessivi tra Stati Uniti
ed Europa erano più o meno equivalenti, i dazi elevati su alcuni articoli
specifici stavano causando attriti.
"Ci
sono grandi differenze sui singoli beni", ha osservato, "è su questo
che dobbiamo lavorare per trovare una buona soluzione comune.
Non è
facile competere con qualcuno che in un giorno può firmare 100 ordini
esecutivi".
Europa,
Meloni dà ragione a Vance.
"Devo
dire che sono d'accordo" con le posizioni espresse dal vicepresidente
statunitense JD Vance sull'Europa alla Conferenza di Monaco.
Lo
dico da anni.
L'Europa si è un po' persa", ha infine
dichiarato Meloni precisando che "la critica di Trump all'Europa non era
rivolta al suo popolo ma, alla sua "classe dirigente e all'idea che invece
di leggere la realtà e trovare modi per dare risposte alle persone, si possa
imporre la propria ideologia alle persone".
BlackRock
e Goldman Sachs
hanno
architettato
il “bazooka” tedesco?
Comedonchisciotte.org
- Redazione CDC – (31 Marzo 2025) - Movisol.org – ci dice:
Secondo
il “Financial Time”s dell’8 marzo, cinque giorni dopo le elezioni nazionali in
Germania, il vincitore, il democristiano” Friedrich Merz”, ha pranzato con il
ministro delle Finanze in carica, il socialdemocratico” Jörg Kukies”.
“All’ora
di pranzo di venerdì scorso [28 febbraio], il futuro cancelliere tedesco ha
ricevuto dal ministro delle Finanze Jörg Kukies un briefing poco rassicurante
sullo stato dell’economia”, ha scritto il FT.
“Kukies ha spiegato che dopo due anni di
stagnazione e con ulteriori nubi che si addensano sulla più grande economia
europea, Berlino si trova ad affrontare un deficit di bilancio di 130 miliardi
di euro in quattro anni e un potenziale di crescita in diminuzione, secondo
persone a conoscenza della relazione”.
Quel
briefing, così come la resa dei conti Trump-Zelensky, che avvenne alla Casa
Bianca più tardi quel giorno, avrebbe convinto Merz dell’urgenza di fare “una
delle più brusche inversioni di rotta della storia politica recente”.
Da
qui, il “bazooka” da 900 miliardi di euro che avrebbe affrontato le emergenze
sia sul fronte economico che su quello della sicurezza.
La
cifra si riferisce ai 400 miliardi d stanziati per il riarmo e al pacchetto di
infrastrutture da 500 miliardi.
Questo
per quanto riguarda la narrazione del quotidiano della City di Londra.
Tuttavia,
c’è un’angolazione più ampia.
Merz è
un ex uomo di BlackRock e Kukies è un ex uomo di Goldman Sachs.
Hanno
la stessa mentalità; la loro bussola sono i mercati finanziari e la loro
preoccupazione potrebbe essere stata più grande del buco di bilancio:
si
pensi alla piramide dei derivati e alle attività di debito sovrano possedute
dal sistema bancario.
La
decisione di gettare la Germania nell’indebitamento eccessivo consente al
sistema finanziario di prolungare la propria agonia, in particolare dopo il
fallimento della bolla verde.
Quando
fu lanciata quest’ultima, le newsletter della City di Londra annunciavano con
entusiasmo che “il verde è il nuovo oro”, ora le stesse newsletter avvisano che
i gestori di fondi sono “bramosi di titoli di guerra”.
Il
“bazooka” tedesco si aggiunge al programma “ReArmEurope” dell’UE, ma è più
“solido”.
La
Germania è l’unico grande Paese dell’UE che ha un certo margine di manovra,
dato che il suo debito è (solo) il 60% del PIL.
Il
programma “Re Arm Europe” stenta a decollare per quanto riguarda la componente
(150 miliardi) che dovrebbe essere fornita dal debito nazionale.
La seconda componente, gli eurobond, è in
bilico perché alcuni Paesi, tra cui la Germania, sono attualmente contrari.
La
terza componente, il risparmio privato, potrebbe funzionare, ma non è ancora
chiaro in quale forma verrà adottata e quanto risparmio privato potrà essere
dirottato dal risparmio tradizionale ai “war bond”.
Inoltre,
il bazooka tedesco non ha un limite massimo e il debito pubblico reale potrebbe
facilmente crescere in un paio d’anni fino a 1.700 miliardi, facendo entrare la
Germania nel club dei membri sovra indebitati dell’UE.
Da un
lato, il rendimento del nuovo debito sicuramente salirà; dall’altro, la
condizionalità generale per gli investimenti per motivi di “sicurezza” è così
ampia che qualsiasi nuova spesa potrebbe essere giustificata.
Per
quanto riguarda la speranza dell’establishment tedesco di creare una ripresa
economica trainata dalla difesa, farebbe bene ad ascoltare “Fabio Panetta”, che
non è un pacifista radicale, ma il governatore della Banca d’Italia, con molti
anni di esperienza nel consiglio della BCE.
Parlando
al “Centro San Domenico” di Bologna, il 17 gennaio, Panetta ha dichiarato:
“Lo
sforzo bellico sostiene la domanda aggregata e può stimolare l’innovazione, ma
distorcendone gravemente le finalità.
I
benefici economici sono però transitori e non eliminano la necessità di
riconvertire l’economia una volta concluso il conflitto, anche nei Paesi
coinvolti che non abbiano subito danni diretti sul proprio territorio.
L’alta inflazione e il crollo del Pil che
spesso caratterizzano le fasi belliche sono i segni dei danni che i conflitti
provocano al tessuto economico (…) la produzione di equipaggiamenti bellici non
contribuisce ad aumentare il potenziale di crescita di un Paese.
Lo
sviluppo deriva dagli investimenti produttivi, non dalle armi.”
(ilsole24ore.com/art/panetta-produrre-armi-non-favorisce-crescita-economica-AGzX8JMC).
(Movisol.org).
(movisol.org/blackrock-e-goldman-sachs-hanno-architettato-il-bazooka-tedesco/).
Punti
chiave della storia segreta del NYT
che
descrive in dettaglio il coinvolgimento
"scioccante" degli Stati Uniti
nella
guerra in Ucraina.
Zerohedge.com
- Tyler Durden – (30-3-2025) – ci dice:
È
troppo tardi per anni e i media alternativi e indipendenti avevano già fatto
così tanto lavoro per esporre la realtà, compresi i libri di 600+ pagine che
sono stati pubblicati, ma il “New York Times” di domenica è uscito con un lungo
rapporto su “The
Partnership: The Secret History of America's Role in the Ukraine War”.
Fino a
poco tempo fa, i guardiani dei media mainstream non ammettevano nemmeno che una
guerra per procura si stesse svolgendo fin dall'inizio del conflitto in
Ucraina.
Questo
anche dopo che il cosiddetto giornale aveva riconosciuto, all'inizio del
febbraio 2024, che la CIA aveva costruito 12 "basi di spionaggio
segrete" in Ucraina per condurre una guerra ombra contro la Russia che
risaliva al 2014.
Ancora
una volta, arriva troppo tardivamente, ma ora che le forze ucraine hanno
chiaramente perso la battaglia, il “Times ammette” che la precedente
amministrazione Biden è stata molto più coinvolta nell'essere coinvolta a
livello militare e di intelligence con l'Ucraina di quanto fosse stato
precedentemente reso pubblico da fonti ufficiali.
Il
rapporto è un'analisi approfondita della "straordinaria partnership di
intelligence, strategia, pianificazione e tecnologia" che è diventata
"l'arma segreta" di Zelensky per contrastare la Russia.
Inizia
descrivendo che entro due mesi dall'invio del suo esercito da parte di Putin
oltre il confine, i generali ucraini in abiti civili venivano segretamente
portati via per sessioni di pianificazione della guerra di alto livello nelle
basi statunitensi in Germania.
"I
passeggeri erano alti generali ucraini", descrive il “NY Times” degli
uomini portati da un convoglio di auto senza contrassegni dalla capitale
ucraina all'Europa occidentale.
La loro destinazione era “Clay Kaserne”, il
quartier generale dell'esercito americano in Europa e in Africa a Wiesbaden, in
Germania.
La loro missione era quella di aiutare a
forgiare quello che sarebbe diventato uno dei segreti più gelosamente custoditi
della guerra in Ucraina".
Il
rapporto chiarisce che i comandanti statunitensi erano molto più coinvolti
nelle operazioni ucraine di quanto si sapesse, al punto da
"scioccare" alcuni alleati della NATO.
In
sostanza, molte operazioni anti-russe che si svolgono sui campi di battaglia
dell'Ucraina sono state semplicemente condotte dalla base in Germania.
"Ma
un'indagine del “New York Times” rivela che l'America è stata coinvolta nella
guerra in modo molto più intimo e ampio di quanto si pensasse in
precedenza", continua il rapporto.
"Nei
momenti critici, la partnership è stata la spina dorsale delle operazioni
militari ucraine che, secondo i calcoli degli Stati Uniti, hanno ucciso o
ferito più di 700.000 soldati russi.
(L'Ucraina
ha stimato il bilancio delle vittime a 435.000).
Fianco
a fianco nel centro di comando della missione di “Wiesbaden”, gli ufficiali
americani e ucraini hanno pianificato le controffensive di Kiev.
Un vasto sforzo di raccolta di informazioni da
parte dell'intelligence americana ha guidato la strategia di battaglia più
ampia e ha incanalato informazioni precise sul bersaglio verso i soldati
ucraini sul campo".
In
particolare, si tratta essenzialmente di funzionari statunitensi e del “NY
Times” che ammettono che il Cremlino ha sempre avuto ragione quando ha
insistito sul fatto che non si è mai trattato semplicemente di Mosca contro
Kiev, ma che i paesi della NATO hanno militarizzato l'Ucraina e l'hanno armata
contro la Russia.
Il
presidente Putin e i funzionari del Cremlino si sono lamentati ferocemente
dell'intervento degli Stati Uniti per tutto il tempo, ma questo è stato
liquidato in Occidente come mera "propaganda".
Di
seguito sono riportati alcuni estratti chiave dal lunghissimo rapporto del NY
Times, con sottotitoli ed enfasi di ZeroHedge...
Gli
americani supervisionano la "catena di uccisione."
Un
capo dell'intelligence europea ha ricordato di essere rimasto sorpreso
nell'apprendere quanto profondamente fossero rimasti invischiati i suoi
omologhi della N.A.T.O. nelle operazioni ucraine.
"Fanno parte della catena di uccisione
ora", ha detto.
L'idea
guida della partnership era che questa stretta cooperazione avrebbe potuto
consentire agli ucraini di compiere la più improbabile delle imprese:
sferrare
un colpo schiacciante agli invasori russi.
Le più
grandi imprese sul campo di battaglia sono state in realtà la CIA/Pentagono.
Una
prima prova di concetto è stata una campagna contro uno dei gruppi di battaglia
più temuti della Russia, la “58a Armata ad armi combinate”.
A metà
del 2022, utilizzando l'intelligence americana e le informazioni sugli
obiettivi, gli ucraini hanno scatenato una raffica di razzi contro il quartier
generale del 58° nella regione di Kherson, uccidendo generali e ufficiali di
stato maggiore all'interno.
Ancora
e ancora, il gruppo si è stabilito in un'altra posizione; ogni volta, gli
americani lo trovavano e gli ucraini lo distruggevano.
Più a
sud, i partner hanno messo gli occhi sul porto di Sebastopoli in Crimea, dove
la flotta russa del Mar Nero ha caricato missili destinati a obiettivi ucraini
su navi da guerra e sottomarini.
Al
culmine della controffensiva ucraina del 2022, uno sciame di droni marittimi
prima dell'alba, con il supporto della Central Intelligence Agency, ha
attaccato il porto, danneggiando diverse navi da guerra e spingendo i russi a
iniziare a ritirarle.
Sbilanciarsi.
Gli
ucraini a volte vedevano gli americani come prepotenti e controllanti – il
prototipo degli americani condiscendenti.
Gli americani a volte non riuscivano a capire
perché gli ucraini non accettassero semplicemente i buoni consigli.
Mentre
gli americani si concentravano su obiettivi misurati e raggiungibili, vedevano
gli ucraini costantemente alla ricerca della grande vittoria, del premio
luminoso e splendente.
La
controffensiva fallita del 2023 è stata ordita nel quartier generale americano.
Eppure,
probabilmente nel momento cruciale della guerra – a metà del 2023, quando gli
ucraini hanno organizzato una controffensiva per costruire uno slancio
vittorioso dopo i successi del primo anno – la strategia ideata a Wiesbaden è
caduta vittima della litigiosa politica interna dell'Ucraina:
il presidente, Volodymyr Zelensky, contro il
suo capo militare (e potenziale rivale elettorale) e il capo militare contro il
suo testardo comandante subordinato.
Quando
Zelensky si è schierato con il subordinato, gli ucraini hanno riversato vasti
complementi di uomini e risorse in una campagna finalmente inutile per
riconquistare la città devastata di “Bakhmut”.
Nel
giro di pochi mesi, l'intera controffensiva si concluse con un fallimento nato
morto.
Biden
ha vietato le operazioni clandestine in pubblico, mentre attraversa le linee
rosse in segreto.
Più e
più volte, l'amministrazione Biden ha autorizzato operazioni clandestine che
aveva precedentemente vietato.
I consiglieri militari americani sono stati
inviati a Kiev e successivamente autorizzati a viaggiare più vicino ai
combattimenti.
Ufficiali militari e della CIA a Wiesbaden
hanno contribuito a pianificare e sostenere una campagna di attacchi ucraini
nella Crimea annessa alla Russia.
Alla fine, l'esercito e poi la CIA hanno
ricevuto il via libera per consentire attacchi mirati in profondità nella
Russia stessa.
In un
certo senso, l'Ucraina è stata, su una tela più ampia, una rivincita in una
lunga storia di guerre per procura tra Stati Uniti e Russia – il Vietnam negli
anni '60, l'Afghanistan negli anni '80, la Siria tre decenni dopo.
Task
Force Drago.
Il
segretario alla Difesa, Lloyd J. Austin III, e il generale Milley avevano
incaricato la 18ª Airborne di consegnare armi e consigliare gli ucraini su come
usarle.
Quando il presidente “Joseph R. Biden Jr.” ha
firmato gli M777, il “Tony Bass Auditorium “è diventato un quartier generale a
tutti gli effetti.
Un
generale polacco divenne il vice del generale Donahue.
Un
generale britannico gestirebbe l'hub logistico sull'ex campo da basket.
Un canadese supervisionerebbe l'addestramento.
Il
seminterrato dell'auditorium divenne quello che è noto come un centro di
fusione, che produceva informazioni sulle posizioni, i movimenti e le
intenzioni russe sul campo di battaglia.
Lì,
secondo i funzionari dell'intelligence, gli ufficiali della Central
Intelligence Agency, della National Security Agency, della Defense Intelligence
Agency e della National Geospatial-Intelligence Agency sono stati raggiunti da
ufficiali dell'intelligence della coalizione.
Il “18th
Airborne” è noto come “Dragon Corps”; la nuova operazione sarebbe stata la “Task
Force Dragon”.
Tutto
ciò che serviva per mettere insieme i pezzi era il riluttante comando ucraino.
Dibattito
sulla negabilità plausibile.
Ben
presto gli ucraini, quasi 20 in tutto – ufficiali dell'intelligence,
pianificatori operativi, specialisti delle comunicazioni e del controllo del
fuoco – iniziarono ad arrivare a Wiesbaden.
Ogni
mattina, hanno ricordato gli ufficiali, gli ucraini e gli americani si
riunivano per esaminare i sistemi d'arma russi e le forze di terra e
determinare gli obiettivi più maturi e di maggior valore.
Le liste di priorità sono state poi consegnate
al centro di fusione dell'intelligence, dove gli agenti hanno analizzato i
flussi di dati per individuare le posizioni degli obiettivi.
All'interno
del Comando Europeo degli Stati Uniti, questo processo ha dato origine a un
dibattito linguistico sottile ma teso:
data
la delicatezza della missione, era indebitamente provocatorio chiamare i
bersagli "bersagli"?
Alcuni
agenti pensavano che "obiettivi" fosse appropriato.
Altri
li chiamavano "informatori di intelligence", perché i russi si
spostavano spesso e le informazioni avrebbero avuto bisogno di una verifica sul
campo.
Il
dibattito è stato risolto dal maggior generale “Timothy D. Brown”, capo
dell'intelligence del Comando europeo:
le
posizioni delle forze russe sarebbero "punti di interesse".
L'intelligence sulle minacce aeree sarebbe
"tracce di interesse".
"Se
mai ti viene posta la domanda: 'Hai passato un obiettivo agli ucraini?' puoi
legittimamente non mentire quando dici: 'No, non l'ho fatto'", ha spiegato
un funzionario statunitense.
La CIA
e gli omicidi di alti ufficiali russi.
La
Casa Bianca ha anche proibito la condivisione di informazioni di intelligence
sulle posizioni dei leader russi "strategici", come il capo delle
forze armate, il generale Valery Gerasimov.
"Immaginate come sarebbe per noi se
sapessimo che i russi hanno aiutato qualche altro paese ad assassinare il
nostro presidente", ha detto un altro alto funzionario statunitense.
"Tipo,
andremmo in guerra".
Allo
stesso modo, la” Task Force Dragon” non ha potuto condividere l'intelligence
che ha identificato le posizioni dei singoli russi.
Per
come funzionava il sistema, la “Task Force Dragon” avrebbe detto agli ucraini
dove erano posizionati i russi.
Ma per
proteggere le fonti e i metodi di intelligence dalle spie russe, non ha detto
come sapeva quello che sapeva.
La
sala operativa degli Stati Uniti ha supervisionato direttamente gli attacchi
HIMARS.
Wiesbaden
avrebbe supervisionato ogni sciopero HIMARS... Gli attacchi HIMARS che hanno
provocato 100 o più morti o feriti russi sono avvenuti quasi settimanalmente.
Le
forze russe sono rimaste stordite e confuse.
Il
loro morale crollò, e con esso la loro voglia di combattere.
E
mentre l'arsenale HIMARS è cresciuto da otto a 38 e gli attaccanti ucraini sono
diventati più abili, ha detto un funzionario americano, il bilancio è aumentato
di cinque volte.
"Siamo
diventati una piccola parte, forse non la parte migliore, ma una piccola parte,
del vostro sistema", ha spiegato il “generale Zabrodskyi”, aggiungendo:
"La maggior parte degli stati lo ha fatto per un periodo di 10 anni, 20
anni, 30 anni. Ma siamo stati costretti a farlo nel giro di poche
settimane".
Insieme
i partner stavano affilando una macchina per uccidere.
Il
caporedattore del russo RT reagisce a queste ultime rivelazioni dettagliate...
Tensioni
mentre gli ucraini spingono per superare le linee rosse di Putin.
L'anno
precedente, i russi avevano incautamente collocato posti di comando, depositi
di munizioni e centri logistici entro 50 miglia dalle linee del fronte.
Ma
nuove informazioni hanno dimostrato che i russi avevano spostato le
installazioni critiche fuori dalla portata di HIMARS.
Così i
generali Cavoli e Aguto hanno raccomandato il prossimo salto di qualità,
fornendo all'esercito ucraino sistemi missilistici tattici – missili, noti come
ATACMS, che possono viaggiare fino a 190 miglia – per rendere più difficile per
le forze russe in Crimea aiutare a difendere Melitopol.
Gli
ATACMS sono stati un argomento particolarmente dolente per l'amministrazione
Biden.
Il
capo militare russo, il generale Gerasimov, si era indirettamente riferito a
loro nel maggio precedente, quando aveva avvertito il generale Milley che
qualsiasi cosa avesse volato per 190 miglia avrebbe violato una linea rossa.
C'era
anche una questione di approvvigionamento:
il
Pentagono stava già avvertendo che non avrebbe avuto abbastanza ATACMS se
l'America avesse dovuto combattere la propria guerra.
Il
messaggio è stato schietto: smettetela di chiedere l'ATACMS.
L'amministratore
Biden continuava a cedere a Zelensky.
Fino
ad ora, gli ucraini, con l'aiuto della CIA e delle marine statunitensi e
britanniche, avevano usato droni marittimi, insieme a missili britannici a
lungo raggio “Storm Shadow” e missili francesi” SCALP”, per colpire la flotta
del Mar Nero.
Il
contributo di Wiesbaden fu l'intelligenza.
Ma per
portare avanti la più ampia campagna in Crimea, gli ucraini avrebbero bisogno
di molti più missili.
Avrebbero
bisogno di centinaia di ATACMS.
Al
Pentagono, le vecchie cautele non si erano sciolte.
Ma
dopo che il “generale Aguto” ha informato il signor Austin su tutto ciò che “Lunar
Hail” avrebbe potuto ottenere, un aiutante ha ricordato, ha detto:
"Ok, c'è un obiettivo strategico davvero
convincente qui. Non si tratta solo di colpire le cose".
Il
signor Zelensky otterrebbe il suo ATACMS a lungo desiderato. Ciononostante, un
funzionario americano ha detto: "Sapevamo che, nel profondo del suo cuore,
voleva ancora fare qualcos'altro, qualcosa di più".
Gli
alleati si scontrarono per l'incursione di “Kursk” .
Il 10
agosto, anche il capo della stazione della CIA partì per un lavoro al quartier
generale.
Nel
cambio di comando, il “generale Syrsky” fece la sua mossa, inviando truppe
oltre il confine sud-occidentale della Russia, nella regione di Kursk.
Per
gli americani, l'incursione fu una significativa violazione della fiducia.
Non era solo che gli ucraini li avevano tenuti
di nuovo all'oscuro;
avevano segretamente attraversato una linea
reciprocamente concordata, portando attrezzature fornite dalla coalizione nel
territorio russo compreso nella casella operativa, in violazione delle regole
stabilite al momento della sua creazione.
La
scatola era stata istituita per prevenire un disastro umanitario a Kharkiv, non
perché gli ucraini potessero approfittarne per impadronirsi del suolo russo.
"Non
è stato quasi un ricatto, è stato un ricatto", ha detto un alto
funzionario del Pentagono.
Gli
americani avrebbero potuto staccare la spina alla scatola delle operazioni.
Eppure sapevano che farlo, ha spiegato un funzionario dell'amministrazione,
"avrebbe potuto portare a una catastrofe":
i
soldati ucraini a Kursk sarebbero morti senza la protezione dei razzi HIMARS e
dell'intelligence statunitense.
L'intelligence
statunitense dietro gli attacchi all'enorme ponte sullo stretto di Kerch.
Dei
circa 100 obiettivi in tutta la Crimea, il più ambito era il ponte sullo
stretto di Kerch, che collegava la penisola alla terraferma russa.
Putin ha visto il ponte come una potente prova
fisica del legame della Crimea con la madrepatria.
Rovesciare
il simbolo del presidente russo era, a sua volta, diventato l'ossessione del
presidente ucraino.
Era
stata anche una linea rossa americana.
Nel
2022, l'amministrazione Biden ha proibito di aiutare gli ucraini a prenderlo di
mira;
anche
gli approcci sul lato della Crimea dovevano essere trattati come territorio
russo sovrano.
(I
servizi segreti ucraini hanno provato ad attaccarlo da soli, causando alcuni
danni).
Ma
dopo che i partner si accordarono sulla grandine lunare, la Casa Bianca
autorizzò l'esercito e la CIA a lavorare segretamente con gli ucraini e gli
inglesi su un piano di attacco per far crollare il ponte:
l'ATACMS avrebbe indebolito i punti
vulnerabili sul ponte, mentre i droni marittimi sarebbero saltati in aria
vicino ai suoi montanti.
Ma
mentre i droni venivano preparati, i russi hanno rafforzato le loro difese
attorno ai candelieri.
Lloyd
Austin visto come il 'padrino' delle operazioni segrete.
All'inizio
di gennaio, i generali Donahue e Cavoli hanno visitato Kiev per incontrare il
generale Syrsky e assicurarsi che concordasse i piani per ricostituire le brigate ucraine
e rafforzare le loro linee, ha detto il funzionario del Pentagono.
Da lì,
si sono recati alla base aerea di Ramstein, dove hanno incontrato Austin per
quello che sarebbe stato l'ultimo raduno dei capi della difesa della coalizione
prima che tutto cambiasse.
Con le
porte chiuse alla stampa e al pubblico, le controparti di Austin lo hanno
salutato come il "padrino" e "l'architetto" della
partnership che, nonostante tutta la fiducia infranta e i tradimenti, aveva
sostenuto la sfida e la speranza degli ucraini, iniziata sul serio in quel
giorno di primavera del 2022 quando i generali “Donahue” e “Zabrodskyi” si sono
incontrati per la prima volta a “Wiesbaden”.
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