Meloni ha scelto Trump.

 

Meloni ha scelto Trump.

 

 

Tra l’Ue e Trump,

Meloni ha scelto Trump.

Infosannio.com – (12 marzo 2025) – infosannio – FRANCESCO MALFETANO – lastampa.it – ci dice:

 

Meloni diserterà il vertice di “Starmer,” il governo è contrario all’invio di truppe.

Giorgia Meloni aveva già incontrato “Keir Starmer” al Blenheim Palace (Oxfordshire) nel luglio 2024.

 Lo strappo si consumerà sabato.

Giorgia Meloni non parteciperà alla” video call” convocata dal primo ministro britannico “Keir Starmer”.

 La premier ha infatti chiarito ai suoi fedelissimi di non aver intenzione di mettere la faccia su un’iniziativa che «non convince».

E cioè su una riunione che, a seguito del vertice di Parigi di ieri tra i vertici della Difesa dei Paesi coinvolti nella “coalizione dei volenterosi”, avrebbe discusso apertamente dell’invio di truppe in Ucraina.

Dopo aver più volte mostrato le proprie perplessità sul formato e sulle modalità di questi tentativi, Meloni ha sciolto ieri sera la riserva, decidendosi a spaccare il fronte che il britannico ed Emmanuel Macron stavano costruendo a fatica.

In questo modo, l’Italia pare spostare al di là di ogni ragionevole dubbio il proprio asse verso Donald Trump, assumendosi l’onere di porre una pietra potenzialmente tombale sull’iniziativa che non avrebbe avuto né l’egida Onu, né tanto meno quella della Nato.

La diserzione italiana è arrivata dopo una lunga serie di riflessioni e di contatti con le cancellerie, compresa quella di Washington.

 

Dopo giorni di indugi, a far decidere Meloni pare sia stato il buon esito dei colloqui tenutisi a Gedda tra Usa e Ucraina.

 In Arabia Saudita ha preso corpo l’opzione di un cessate il fuoco di 30 giorni e la ripresa dell’assistenza americana a Kiev.

 In particolare mentre Washington e Kiev, almeno sulla carta si sono riavvicinate, a colpire Palazzo Chigi sono state le parole lasciate trapelare da Macron ieri: dobbiamo «assumerci le nostre responsabilità» perché «è il momento in cui l’Europa deve fare il possibile, per l’Ucraina e per sé stessa».

Fattori che, valutano ai vertici dell’esecutivo, non solo non motivano un’iniziativa alternativa a quella a stelle e strisce, ma impongono di tirare il freno.

 

La scelta italiana potrebbe però ora deflagrare nel cuore dell’Europa, aprendo una crepa che sarà difficilissimo risanare.

 Anche perché è forte il sospetto che il vero nodo della contesa sia stato il protagonismo di “Macron” e “Starmer”, determinati a sedersi al tavolo a cui Trump sta facendo il bello e il cattivo tempo.

 

D’altro canto, ieri sono arrivati molteplici segnali di disallineamento rispetto all’Europa da parte del centrodestra italiano.

A Strasburgo, infatti, Fratelli d’Italia sta valutando di non sostenere la risoluzione di maggioranza «sull’incrollabile sostegno Ue» da destinare all’Ucraina.

 Il gruppo dei conservatori Ue di cui il partito di Meloni fa parte ha presentato un emendamento che sottolinea come «la sicurezza Ucraina sarebbe più forte sotto la rinnovata cooperazione transatlantica».

Un testo su cui i meloniani, capeggiati da Carlo Fidanza e Nicola Procaccini, hanno chiesto anche il sostegno del Partito popolare europeo.

Se non dovessero riuscire in quello che valutano come «un colpaccio», i Conservatori potrebbero appunto astenersi.

 O, in alternativa, votare a sostegno esprimendo «forti critiche».

 La riserva, spiegano da via della Scrofa, sarà sciolta solo all’ultimo minuto, lasciando intendere come abbiano tutta l’intenzione di inviare per l’ennesima volta lo stesso messaggio a Ursula von der Leyen: bisogna dialogare con gli Stati Uniti di Trump.

 

Quella di domani, insomma, si annuncia come una giornata complessa.

Se l’europeismo di FI e del Ppe non dovrebbe causare increspature e sia «supportare il piano a cinque punti» di Ursula von der Leyen per il riarmo europeo sia il rinnovo del sostegno a Kiev, per la Lega potrebbe andare diversamente.

 Il Carroccio, infatti, non voterà a favore di “ReArm Eu”.

 I dubbi riguardano anche gli stessi Conservatori europei che ieri hanno messo nel mirino il nome del piano.

Fidanza ha proposto di modificarlo in “Defend Europe” con un emendamento al paragrafo 66, perché «rischia di essere fuorviante e troppo restrittivo».

Allo stesso modo, pur votando a favore del piano, dovrebbero non sostenere la clausola «buy european» che, giudicano in FdI, avvantaggerebbe troppo l’industria francese a discapito delle filiere italiane spesso alimentate da catene extra-europee.

 

I soliti distinguo che potrebbero riproporsi la prossima settimana sulle comunicazioni che la premier farà in Parlamento prima del Consiglio europeo del 20 marzo.

Al momento il testo della risoluzione non è stato definito però già ieri i capigruppo di centrodestra hanno cominciato ad incontrarsi per arrivare ad un punto comune. Non solo, se n’è parlato sia al vertice di via della Scrofa di lunedì pomeriggio con Arianna Meloni e i capigruppo FdI, sia nel corso della telefonata con cui domenica la premier ha fatto gli auguri di compleanno a Matteo Salvini.

 

 

 

 

Non scegliendo tra Europa e Stati Uniti,

Meloni sceglie Trump (e Putin).

 Linkiesta.it - Carmelo Palma – (29 -3-2025) – ci dice:

Non è «infantile», come dice la presidente del Consiglio, ma inevitabile l’alternativa tra l’adesione al patto affaristico-mafioso di Trump e Putin e la partecipazione a un’alleanza democratica internazionale, costruita sul nucleo europeo. Far finta di non scegliere significa scegliere il peggio.

 

Per fare l’adulta nella stanza del governo sovranista, nell’intervista al “Financial Times” Giorgia Meloni ha liquidato come «infantile» la posizione di chi pensa che a questo punto si debba scegliere – sull’Ucraina, sulle politiche di difesa, sui dazi: cioè praticamente su tutto, Groenlandia compresa – tra gli Stati Uniti e l’Europa e gli altri Paesi dell’ex blocco occidentale, sostenendo che il compito dell’Italia è piuttosto quello di ridurre la frattura transatlantica, a sentir lei prodotta della malevolenza politica degli europei e non dalla programmata demolizione dell’alleanza euro-americana da parte della Casa Bianca.

In ogni caso, per non lasciare adito a dubbi circa la speciosità della sua equidistanza, Meloni ha poi dichiarato di concordare con la diagnosi di J.D. Vance sulla perdizione europea, cioè con il cuore del discorso che il vicepresidente americano ha pronunciato un mese fa a Monaco riproponendo in salsa Maga la stessa sbobba nazi-nichilista propinata per due decenni dai canali della propaganda russa.

Si può ovviamente ritenere che Meloni non abbia alternative perché i vincoli interni ed esterni a cui è legata la sua presidenza non possono essere spezzati, né allentati senza far saltare tutto e che chi spera, anche per lei, in un “momento Zelensky” – cioè in una riconversione da acchiappavoti a statista davanti alle tragedie della storia – sopravvaluti la forza della persona e sottovaluti l’inerzia del personaggio Meloni, che è passata dallo zero al trenta per cento dicendo esattamente le cose che oggi dovrebbe rinnegare.

 

Realisticamente non c’è da avere troppe speranze, né troppe pretese, malgrado la fermezza con cui fino all’elezione di Donald Trump ha difeso l’Ucraina, meritando un’apertura di credito che ben pochi pensavano potesse meritare.

 Rimane però il fatto che è ancora meno realistica la sua strategia di continuare a buttare la palla avanti, nella speranza che il corso degli eventi tagli i nodi che il suo attendismo non riesce a sbrogliare.

 

Non è realistica, nel senso che continuare a non vedere, a non sentire e a non parlare – o a parlare dicendo a tutti quel che vogliono sentirsi dire – non pone affatto l’Italia al riparo dai rovesci della storia e non la lascia miracolosamente indenne dagli effetti della fine delle alleanze politiche, economiche e militari, che fino a ieri legavano le democrazie di tutto il mondo, a partire dall’asse euro-atlantico.

 

Meloni potrà pure continuare a negare ogni evidenza e a perseverare in questo doroteismo sovranista ipocrita e grottesco, aiutata peraltro da un’opposizione di sinistra che su questi temi raggiunge nel complesso vette inarrivabili di indecenza, ma per l’Italia, come per tutti i Paesi orfani dell’unità occidentale, si porrà nei fatti, per quanto denegati e retoricamente depurati della loro cifra tragica, il problema di scegliere tra il vassallaggio alla potenza americana o il concorso a una alleanza internazionale alternativa, di cui costruire in fretta condizioni di stabilità e autonomia sufficienti per navigare tra i flutti di una storia tempestosa.

Nella nuova Yalta affaristico-mafiosa che Trump e Putin stanno negoziando sulla pelle degli ucraini e degli europei, ciascuno riconoscendo all’altro il diritto al proprio spazio vitale (a me l’Ucraina, a te la Groenlandia), è quasi più perdonabile scegliere di schierare l’Italia con la cricca del “nuovo Reich globale” che pensare di fare l’interesse degli italiani confinandoli in una fintamente equidistante Vichy tricolore.

 Far finta di non scegliere significa scegliere il peggio.

Meloni a FT: «infantile» scegliere

tra Trump e Ue. «Condivido le

critiche di Vance, l’Europa

si è un po’ persa».

Ilsole24ore.com – (28 marzo 2025) - Redazione Roma – ci dice:

 

La leader di Fdi ha spiegato di non vedere il presidente degli Stati Uniti come un avversario, di voler continuare a rispettare il “primo alleato” dell’Italia e di lavorare per evitare una frattura transatlantica.

Meloni: Sono una patriota per cui metterò questa Nazione in sicurezza.

I punti chiave:

Gli Usa primo alleato dell’Italia.

Il protezionismo Usa non nasce con Trump

Posizione di Trump sulla difesa europea stimolo per l’Ue.

«Condivido critiche JD Vance a Eu, Europa si è un po’ persa».

Meloni: ora governo più longevo nella storia del Dopoguerra.

La guerra commerciale con gli Usa.

 

Chiedere alla premier italiana di scegliere tra il presidente Usa Donald Trump e l’Unione europea equivale, agli occhi della diretta interessata, a chiederle di fare una scelta “infantile”.

È il messaggio che Giorgia Meloni ha lanciato in un’intervista al Financial Times.

La leader di Fdi ha chiarito che rispetterà il “primo alleato” alla Casa Bianca e lavorerà per evitare una frattura tra gli Usa e l’Unione europea.

L’intervista giunge nei giorni in cui il Tycoon ha annunciato dazi del 25% sulle auto importate negli Usa.

Giorgia Meloni, racconta il quotidiano, ha liquidato come “infantile” e “superficiale” l’idea che l’Italia debba scegliere tra Stati Uniti ed Europa, ribadendo che farà tutto il necessario per difendere gli interessi del suo Paese.

 Nella sua prima intervista con un giornale straniero da quando è entrata in carica nel 2022, il primo ministro italiano spiega che è «nell’interesse di tutti» superare le gravi tensioni nelle relazioni transatlantiche, descrivendo le reazioni di alcuni leader europei a Donald Trump come «un po’ troppo politiche».

«L’Italia - ha aggiunto - può avere buone relazioni con gli Stati Uniti e se c’è una cosa che il nostro Paese può fare è evitare uno scontro tra gli Usa e l’Europa e costruire ponti.

 Io lo farò. Ed è nell’interesse degli europei».

 

La “leader conservatrice nazionalista italiana”.

Come la definisce FT nell’intervista di “Roula Khalaf, Amy Kazmin e Ben Hall”, ha chiarito di non vedere il presidente degli Stati Uniti come un avversario e di voler continuare a rispettare il “primo alleato” dell’Italia.

«Io sono conservatrice. Trump è un leader repubblicano. Sicuramente sono più vicina a lui che a molti altri, ma capisco un leader che difende i suoi interessi nazionali», ha detto Meloni A ft.

 «Io difendo i miei».

Il protezionismo Usa non nasce con Trump.

In un momento di crescente allarme in Europa per l’amministrazione Trump, Meloni ha affermato che molte lamentele della Casa Bianca sulle pratiche commerciali e sulla spesa per la difesa dell’Europa non fanno altro che riecheggiare le precedenti amministrazioni statunitensi.

Parlando poche ore prima che Trump annunciasse tariffe del 25% sulle importazioni di automobili, Meloni ha affermato che gli Stati Uniti stanno perseguendo da tempo un programma sempre più protezionistico, anche con l’”Inflation Reduction Act “di Joe Biden.

«Pensate davvero che il protezionismo negli Stati Uniti sia stato inventato da Donald Trump?».

 

Posizione di Trump sulla difesa europea stimolo per l’Ue.

Meloni confida una speranza: che l’approccio “conflittuale” di Trump sulla difesa europea sia un necessario «stimolo» per il continente ad assumersi la responsabilità della propria sicurezza.

 «Mi piace dire che la crisi nasconde sempre un’opportunità», ha detto.

«Condivido critiche JD Vance a Eu, Europa si è un po’ persa».

Meloni confida di condividere l’attacco del vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance all’Europa per aver presumibilmente abbandonato il suo impegno a favore della libertà di parola e della democrazia.

«Devo dire che sono d’accordo», afferma.

 «Lo dico da anni... L’Europa si è un po’ persa».

Le critiche di Trump all’Europa non erano rivolte al suo popolo, ma alla sua «classe dirigente ... e all’idea che invece di leggere la realtà e trovare il modo di dare risposte alle persone, si possa imporre la propria ideologia alle persone».

Meloni: ora governo più longevo nella storia del Dopoguerra.

Nell’intervista a FT la premier mette in evidenza la stabilità politica che ha portato in Italia dalla sua vittoria elettorale nell’ottobre 2022, sottolineando che ora è alla guida del quinto governo più longevo nella storia del Dopoguerra del suo Paese. Il suo dominio sul panorama politico italiano, unito a una gestione fiscale relativamente prudente, ha contribuito a rassicurare i mercati finanziari sull’elevato onere del debito italiano.

La guerra commerciale con gli Usa.

Ma l’Italia, come il resto dell’Europa, si trova ora ad affrontare un ordine mondiale in subbuglio, con l’amministrazione Trump che ha declassato i suoi impegni di sicurezza e ha dichiarato guerra economica ai suoi alleati tradizionali.

 «Le nostre relazioni con gli Stati Uniti sono le più importanti che abbiamo», osserva la premier.

 

 

 

 

Dissolvere la UE,

Costruire l’Europa.

Conoscenzealconfine.it – (28 Marzo 2025) - Vincenzo Costa – ci dice:

 

Oramai è solo un circo. Una classe politica che non si può neanche più criticare, perché suscita solo ilarità, pietà, imbarazzo.

Ma questa banda con disturbi cognitivi può fare ancora molto molto male agli europei e agli italiani.

E non è più tempo di politiche furbette.

Gli europei hanno una sola scelta: o si liberano di questo circo, coi suoi pagliacci, ballerine e nani, o vanno incontro al disastro.

L’unica proposta politica che va presa in considerazione è:

uscire dalla UE per salvare l’Europa.

C’è bisogno di una forza politica che abbia solo questo come obiettivo.

Non c’è destra né sinistra, perché si tratta di un processo di liberazione, attraverso cui i popoli si riprendono in mano il loro destino.

Poi ci si potrà dividere, ma adesso l’urgenza storica è riappropriarsi del proprio destino, che adesso è in mano a una banda di squilibrati, comici ma portatori di lutti e tragedie.

 

Non si tratta di abbandonare il sogno europeo, si tratta di appropriarsene.

Abbandonare la UE dei mercati e delle banche per costruire, poi, un’Europa dei popoli, erede della sua cultura, delle sue stratificazioni, delle sue differenze che la fanno ricca e unica.

Non una UE che omogeneizza, nullifica, dissolve le tradizioni.

 Non la UE dei mercati ma una Europa dei diritti del lavoro e dei lavoratori, non una UE i cui valori sono il mercato e basta, che ha rimosso e serve a rimuovere la sua storia.

Tutte le posizioni intermedie non servono, servono solo a raccogliere consenso per ottenere qualche seggio, ma non per cambiare.

 

Gli europei sono posti davanti alla scelta: liberarsi di questa UE e di questa classe dirigente o andare incontro a un futuro funesto.

Naturalmente col kit di sopravvivenza per 72 ore, senza dimenticare il coltellino svizzero!

(Vincenzo Costa).

(lantidiplomatico.it/dettnews-vincenzo_costa_dissolvere_la_ue_costruire_leuropa/39602_59927/).

 

 

 

 

 

Meloni dà ragione a Vance

sull'Ue: 'Usa primo alleato.'

Ansa.it - Redazione ANSA – (29 marzo 2025) – ci dice:

 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni al FT dice: "L'Europa si è un po' persa". Opposizioni insorgono.

Si dice "d'accordo" con il vicepresidente Usa JD Vance, perché come lei sostiene "da anni" l'Europa "si è un po' persa".

Liquida come "infantile" e "superficiale" l'idea che l'Italia dovrà scegliere tra Washington e Bruxelles, ricordando comunque che gli Stati Uniti sono il "primo alleato".

E boccia come reazioni "troppo d'istinto" quelle di alcuni leader europei sui dazi annunciati da Donald Trump.

Con l'”intervista al Financial Times” Giorgia Meloni ribadisce la sua postura, che per le opposizioni è però tutt'altro che bilanciata.

La premier, secondo la segretaria del Pd Elly Schlein, "ha scelto di indossare il cappellino Maga, ammainando di fatto da palazzo Chigi la bandiera italiana e quella europea", e nella partita sulle tariffe commerciali rappresenta "il cavallo di Troia dell'Amministrazione Usa".

 

Giorgia Meloni è nella top 5 dei governi piu' longevi.

Critiche che si fanno ancora più decise alla luce del tweet di Matteo Salvini, che invece si schiera senza dubbi:

"Tra Trump che lavora per la pace e l'asse “Macron-von der Leyen” che parlano di guerra e armi, non abbiamo dubbi da che parte stare".

"In un solo tweet Salvini annuncia l'”Italexi”t e la “Melonexit", ironizza il segretario di +Europa Riccardo Magi, dopo il messaggio con cui il leader della Lega rilancia anche sulla preparazione di "una missione con le imprese italiane per rafforzare la partnership con gli Stati Uniti", come annunciato dopo la telefonata con Vance che una settimana fa ha prodotto non poca irritazione a Palazzo Chigi e alla Farnesina.

Dietro le quinte si lavora anche a un viaggio a Washington di Meloni, che intanto dà la sua interpretazione delle critiche di Trump all'Europa (definita anche "parassita").

Sono rivolte, spiega, non al suo popolo ma alla sua "classe dirigente... e all'idea che invece di leggere la realtà e trovare modi per dare risposte alle persone, si possa imporre la propria ideologia alle persone".

 Nella nuova fase aperta dal tycoon alla Casa Bianca, la premier si propone per "evitare uno scontro con l'Europa e costruire ponti", riconoscendolo come "un leader che difende i suoi interessi nazionali".

Lei, a sua volta, chiarisce nell'intervista, difende quelli italiani.

 

 Agenzia ANSA.

Schlein: 'Sui dazi il governo Meloni è il cavallo di Troia dell'amministrazione Usa all'interno dell'Unione Europea' -

Difende gli interessi di Trump e Musk, e non quello del paese. La deriva va fermata.

(Notizie - Ansa.it).

E la risposta di alcuni leader europei alle mosse di Trump è stata "un po' troppo politica" se non "semplicemente d'istinto", sostiene la presidente del Consiglio, che invece predica "calma".

Sul dossier dazi, la strategia di Palazzo Chigi è lavorare sulle "grandi differenze sui singoli beni" per "trovare una buona soluzione comune".

Sulla crisi ucraina, invece, Meloni boccia la proposta di Francia e Germania per una forza europea di rassicurazione:

"Dobbiamo stare attenti, può essere vista più come una minaccia" da Mosca. Mentre l'estensione a Kiev dell'articolo 5 della Nato è "più facile ed efficace", ribadisce la premier, assicurando che da "persona seria" rispetterà gli impegni sul 2% delle spese della difesa rispetto al Pil.

 E conferma anche le preoccupazioni sull'impatto sul debito del “ReArm Europe”, rinviando la decisione su come procedere a quando saranno chiari i termini definitivi.

"Dopo i bacetti da Biden a suon di invii di armi", commenta sarcastico il leader del M5s Giuseppe Conte, ora Meloni "manda cuoricini a Trump sui giornali internazionali sperando di farsi ricevere anche lei alla Casa Bianca.

Che brutta fine i 'patrioti'".

 “Angelo Bonelli” (Avs), la definisce "vassalla" del presidente Usa, e “Benedetto Della Vedova” (+Europa) la descrive "paralizzata, tra la fascinazione ideologica per il trumpismo e il rischio della marginalità".

Secondo Schlein, "Meloni ha scelto di difendere l'interesse nazionale, ma quello americano. Anzi, quello di Trump e Musk".

 E la invita a "spiegare" agli italiani "perché ha scelto Trump come "primo alleato", un "fatto grave e imbarazzante per l'Italia, Paese membro fondatore dell'Unione".

 

 

 

Elly Schlein al vetriolo su Giorgia Meloni:

 «Ormai è il cavallo di Troia di

Trump e Musk in Europa»

 Open.online.it – (28 Marzo 2025) - Filippo di Chio – ci dice:

La segretaria Pd commenta duramente l'intervista al Financial Times in cui la premier ha invitato alla calma sui dazi e dato ragione a J.D. Vance.

L’ennesima strizzatina d’occhio della premier Giorgia Meloni agli Stati Uniti di Donald Trump, proprio ora che i dazi Usa stanno per abbattersi come una mannaia sull’economia italiana, vissuta con sconcerto dal Pd.

E a prendersi la responsabilità dell’affondo, dopo l’intervista di questa mattina della premier al “Financial Times”, è la segretaria Elly Schlein:

 «Giorgia Meloni ha scelto di indossare il cappellino MAGA (Make America Great Again, ndr), ammainando da Palazzo Chigi la bandiera italiana e quella europea».

A maggior ragione al termine di una settimana in cui Washington e Bruxelles si sono guardate in cagnesco, dopo che nelle chat segrete tra funzionari americani – pubblicate dal” The Atlantic” – il vicepresidente JD Vance aveva definito gli europei «dei parassiti».

La segretaria dem fa il verso alle parole consegnate dalla premier al quotidiano britannico: «Giorgia Meloni vada dire a loro: “State calmi, ragazzi, ragioniamoci”».

Meloni, Vance e «i parassiti europei».

Al centro delle polemiche tra Chigi e Nazareno c’è in particolare un passaggio dell’intervista, in cui la premier Meloni si dice «d’accordo» con le posizioni sull’Europa del vicepresidente americano Vance.

Non, beninteso, sul presunto «parassitismo», ma sulla valutazione del grado di libertà d’espressione in Ue scandita da Vance a metà febbraio alla Conferenza di Monaco.

«L’Europa si è allontanata dai suoi valori più fondamentali», aveva detto il vice di Trump.

Meloni ha ribadito di concordare: «Lo dico da anni, l’Europa si è un po’ persa».

Lette dopo gli affondi di Vance in chat coi “colleghi”, quelle parole però a Schlein fanno venire l’urticaria:

 «Meloni ha scelto di difendere l’interesse nazionale, però quello americano.

 Anzi quello di Donald Trump e Elon Musk», ha detto.

 «E invece è un problema enorme per l’interesse nazionale italiano se la presidente del Consiglio sceglie di dare ragione a chi, come Vance, dà dei parassiti agli europei, insultando quindi anche noi italiani, dopo giorni di imbarazzante silenzio».

La questione dazi: «Meloni è uno strumento di oligarchi americani».

Altro tema scottante è ovviamente la questione dazi, sempre di più all’ordine del giorno con la promessa americana di applicare tariffe su tutte le auto non di produzione americana.

Una decisione protezionistica su cui, però, la premier Meloni ha invitato a riflettere:

 «A volte ho l’impressione che rispondiamo semplicemente d’istinto. Su questi argomenti bisogna dire: “Mantenete la calma, ragazzi. Pensiamoci”».

L’attendismo meloniano per Elly Schlein è invece ingiustificabile:

«Meloni dovrà spiegare perché ha scelto Trump come “primo alleato”, quando il prossimo 2 aprile entreranno in vigore i dazi Usa del 25% sulle nostre merci, sulle nostre eccellenze, che pagheranno le imprese, i lavoratori e le famiglie italiane».

E ha continuato: «Vada a dire a loro “state calmi, ragazzi, ragioniamoci”.

Il governo si sta trasformando giorno dopo giorno nel cavallo di Troia dell’amministrazione Trump all’interno dell’Unione Europea, in uno strumento degli oligarchi americani utilizzato nel nostro continente per fare i loro interessi».

 

 

 

La guerra delle spie tra Londra e Mosca

 e l’Italia come terreno dello scontro.

Lacrunadellago.net - Cesare Sacchetti – (29/03/2025) - ci dice:

 

A guardarlo bene il tipo giunto dalla Scozia nei giorni scorsi a Roma, tale “Grant Paterson,” non assomiglia molto ad un “turista” che visita la Città eterna.

Il 54enne britannico è giunto a Roma all’inizio di questa settimana e la prima cosa che ha fatto è stata quella di scrivere un singolare messaggio sulla sua bacheca Facebook.

E’ davvero una bella settimana, se non sarò ucciso.”

Perché mai “Paterson” ha avuto un pensiero del genere?

In fondo non si è recato in qualche pericolosa bidonville di Lagos, in Nigeria, o nel Sudafrica post-apartheid nel quale la violenza contro i bianchi regna indisturbata, seppur non riportata dai media Occidentali perché ciò disturberebbe la narrazione della “liberazione” mendeliana.

Grant Paterson.

Paterson era andato a stare in un posto molto particolare, un “Bed & Breakfast”, come ce ne sono molti, forse troppi, nella Capitale ma il “caso” vuole che proprio in quel civico di via Vitellia, 43, abitasse fino a qualche giorno fa un personaggio come “Roberto Saviano”, che non è esattamente il tipico residente medio che si incontra in quella zona.

Saviano, “scrittore” di Napoli con origini ebraiche, è uno di quei personaggi costruiti dalla macchina della propaganda de “La Repubblica”, ai tempi nei quali questa era ancora nelle mani dell’ingegner De Benedetti, e appartiene a pieno titolo a quei sedicenti campioni dell’antimafia promossi dalla sinistra progressista.

Sedicenti perché costoro oltre a denunciare qualche piccolo boss e a trarre profitti da scadenti fiction sulla camorra o sulla mafia, mai davvero hanno sfidato il vero potere che domina la mafia, e mai osano citare nei loro scritti che la malavita è soltanto uno dei piani inferiori delle logge massoniche, e questo non da oggi, ma dai tempi del Risorgimento.

Il “giornalista” antimafia è anche noto per essere un fiero sostenitore dello stato ebraico, da lui difeso e sostenuto pubblicamente in diverse occasioni, e appare strano che un uomo che si dice contro le mafie, non abbia mai pensato di scrivere tutti i traffici mafiosi che hanno sede in Israele, vero e proprio centro del traffico di esseri umani internazionale.

“Paterson” comunque è andato a stare proprio lì, nella strada dove poco prima c’era uno degli uomini della “intellighenzia sionista” e “liberal-progressista italiana”, e il suo “incidente” appare ancora più singolare se si pensa che l’uomo aveva scritto quella inquietante frase soltanto pochi giorni prima.

Non si conoscono, ad oggi, le cause dell’esplosione.

 I media hanno provato in un primo momento a dare la colpa ad una fuga di gas, ma bombole in quell’appartamento non ce n’erano, né tantomeno sembra che ci fossero perdite dalle tubature.

E’ certo però che l’unico uomo colpito è stato lui, e questo inizia a deporre decisamente a sfavore dello sfortunato incidente domestico, ma invece viene da pensare che questo Paterson non fosse un “turista” britannico in vacanza, ma un uomo forse associato all’intelligence britannica dell’MI6.

Soltanto pochi giorni dopo avviene nel mar Rosso una tragedia che forse non tutti hanno accostato all’episodio di Roma, ma con il quale sembra esserci una relazione.

In Egitto, affonda, in circostanze ancora non chiarite, un sottomarino turistico pieno di turisti russi, e a rimetterci la vita sono state almeno 6 persone.

Come appare il sottomarino affondato nelle acque del Mar Rosso.

C’erano soltanto russi a bordo di quel sottomarino, e considerato il durissimo scontro in corso tra ciò che resta del blocco Euro-Atlantico e la Russia, l’ipotesi del sabotaggio mirato non va affatto scartata.Non è certo la prima che la NATO e i gruppi terroristici da essa gestiti e finanziati colpiscono obiettivi civili con russi a bordo, e tra i vari casi può ricordarsi quello dell’aereo russo esploso in Egitto nel 2015.

I media sono stati comunque parchi di dettagli sul disastro.

Non hanno voluto dire come mai il mezzo pieno di turisti russi sia improvvisamente affondato, eppure non dovrebbe essere difficile risalire alle cause di un simile incidente.

Le autorità egiziane hanno subito dichiarato che tutto era a norma a bordo. L’equipaggio aveva già condotto tante volte quel tratto di costa della barriera corallina, le condizioni meteo erano semplicemente perfette, e il sottomarino risultava a posto e senza nessun problema meccanico.

 

La guerra delle spie e i misteriosi affondamenti delle loro barche.

Gli affondamenti misteriosi sono diventati parte della cronaca quotidiana da qualche tempo a questa parte, e spesso non si tratta di sfortunati episodi, come vogliono far credere, ma di una guerra senza esclusione di colpi che si sta combattendo tra l’anglosfera e la Russia.

 

È una guerra che non è iniziata oggi.

Il primo episodio di questa guerra risale al giugno del 2023 ai tempi dell’affondamento della “barca Goduria” sul Lago Maggiore, portata dal malcapitato capitano,” Claudio Carminati”, sui quali i media italiani hanno subito rovesciato ogni responsabilità del caso, nonostante le circostanze dell’accaduto non suggerissero nessuna particolare colpa da parte sua.

Il lago Maggiore non è di certo l’oceano Atlantico.

Non è un posto di violente tempeste e tornado, e quelle acque erano conosciute molto bene da Carminati.

A questo blog erano giunte informazioni molto precise da parte di varie fonti di intelligence sulle reali cause dell’accaduto.

A causare l’affondamento del” Goduria” non è stata una fantomatica “tromba d’aria”, ma un attacco mirato da parte dell’intelligence russa che ha speronato la barca provocandone l’inabissamento.

Non c’era a bordo nemmeno una innocente “festicciola” come hanno provato a far credere i media italiani.

Su quella barca c’erano uomini e donne dell’”AISE”, del famigerato Mossad israeliano e del “MI6” britannico.

Quel giorno sul lago era in corso un vero e proprio vertice di spie che avevano ricevuto l’incarico dai rispettivi governi di orchestrare una qualche provocazione nell’Europa Orientale, in particolare in quel tormentato Kosovo, lo stato fantoccio creato dalla NATO tramite l’aiuto del solito “George Soros” che voleva privare l’odiata Serbia di un territorio strategico ricco di materie prime.

I Balcani sono diventati la polveriera che si vede non certo perché i popoli che abitano quelle regioni hanno deciso di farsi improvvisamente la guerra, ma perché alla base c’era e c’è una deliberata strategia di fomentare conflitti etnici e linguistici che spesso nemmeno hanno ragione di essere perché le etnie, ad esempio, in diversi Paesi dell’ex Jugoslavia sono le stesse.

A dirlo per primo fu l’ex presidente serbo “Slobodan Milosevic” che ebbe la “colpa” di non voler consegnare il suo Paese al blocco Euro-Atlantico e per questo fu duramente punito con le bombe atlantiche appoggiate anche dal governo dell’infamia presieduto nel 1999 da “Massimo D’Alema” e l’attuale capo dello Stato Italiano, Sergio Mattarella.

Il Kosovo è da tempo un terreno instabile, ma gli Euro-Atlantisti a Bruxelles e Londra erano decisi ad avviare nuove provocazioni per aprire un altro fronte e impegnare così la Russia sul versante dei Balcani, perché la guerra ucraino-russa stava andando bene, troppo bene, per i russi e disastrosamente male invece per i nazisti di Kiev che hanno sofferto e soffrono tremende perdite da 3 anni a questa parte.

 

L’esercito ucraino, come tale, non esiste infatti nemmeno più. È stato distrutto in più occasioni, se si pensa che le perdite, reali, ammontano nell’ordine delle 300mila unità.

Un numero semplicemente spaventoso che dà l’idea del tritacarne nel quale il criminale di guerra, Zelensky, ha gettato il suo popolo.

La NATO era alla ricerca del più classico dei diversivi per spostare altrove l’attenzione di Mosca, ma dalle parti dell’FSB sono molto attenti, a differenza di quello che credono al Berlaymont o Downing Street, e i servizi russi vennero immediatamente a sapere dell’operazione degli atlantisti per sventarla e mandare un tremendo segnale a tutte le cancellerie europee e agli israeliani.

Mosca sa, ed è pronta a colpire.

 A perdere la vita in quell’operazione furono diversi uomini dei servizi tra i quali c’era un personaggio come “Erez Shimoni”, per il quale al suo rientro in patria si è scomodato persino il capo stesso del Mossad, “Barnea”.

Era però soltanto l’inizio della guerra asimmetrica tra Londra e Mosca.

 

“Dark trace” e il misterioso affondamento del “Bayesian.”

La Gran Bretagna per tutto il periodo della guerra russo-ucraina ha continuato a fornire la sua assistenza a Kiev, fino a quando Londra non ha messo a disposizione la sua tecnologia per lanciare la disastrosa offensiva del Kursk in Russia avvenuta il 6 agosto dell’anno passato.

Ad aiutare i nazisti ucraini è stata in particolar modo una società specializzata nella cibernetica come “Dark trace”.

“Dark trace” nasce nel 2012 e sin dai suoi primi passi si vedono ovunque le impronte dell’intelligence britannica e israeliana.

Uno dei suoi fondatori,” Mike Palmer”, è stato per 14 anni un membro del “MI5”, e tra i 650 membri di questa società ci sono diversi ex appartenenti alla “CIA”, al citato “MI5”, tra i quali un suo ex direttore come “Jonathan Evans,” al MI6, e al “GCHQ”, un acronimo che identifica il quartier generale delle comunicazioni del Regno Unito, un ufficio tra i più strategici nella comunicazione di informazioni classificate al governo britannico e alle forze armate.

Da non trascurare nemmeno l’evidente legame di questa compagnia con il “Mossad”, dato che uno dei suoi membri, “Alan Wade”, ha fondato la società “Chiliad” assieme a” Ghislaine Maxwell”, figlia di “Robert”, uomo dell’intelligence israeliana, e compagna di “Jeffrey Epstein”, il pedofilo al soldo a sua volta dei servizi dello stato ebraico.

Nonostante i vari membri di “Dark trace abbiano già cercato di sminuire gli evidenti legami tra loro e l’apparato dei servizi israeliani e del cosiddetto Five Eyes, il gruppo di intelligence che racchiude i Paesi dell’anglosfera come Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda, è sempre stato noto negli ambienti dell’establishment che questa società era un covo di barbe finte britanniche e americane che avevano il preciso scopo di assistere loro Paesi in varie operazioni di pirateria cibernetica.

 

Tra i vari membri ce n’erano due in particolare che sono poi diventati noti all’opinione pubblica e che hanno avuto la “sfortuna” di morire proprio dopo che la loro compagnia aveva aiutato gli ucraini ad invadere la regione russa del Kursk.

Il primo era” Stephen Chamberlain”, ex dirigente della società cibernetica inglese, morto in uno strano incidente di auto nell’Inghilterra Orientale il 17 agosto del 2024.

Chi è Stephen Chamberlain.

Appena appresa la notizia, Dark trace ha rilasciato un comunicato stampa nel quale ha espresso il suo cordoglio per la perdita di “Chamberlain”, al quale viene riconosciuto un ruolo strategico nella creazione e gestione della società.

Due giorni dopo, avvengono i noti fatti del Baysan.

Il favoloso yacht di 56 metri con un albero di 72 metri costruito dal “gruppo Perini” per resistere alle traversate oceaniche affonda inspiegabilmente nel giro di due minuti nella” rada di Porticello”, dove le acque sono tranquille e non c’è nessun particolare rovescio meteorologico.

Sulla barca ci sono altri nomi illustri.

C’erano personaggi dell’alta finanza come “Jonathan Bloomer”, presidente della celebre banca d’affari” Morgan Stanley,” ma soprattutto c’era “Mike Lynch”, altro fondatore di “Dark trace” e che i media inglesi avevano ribattezzato come il “Bill Gates” britannico per via della sua influenza nel settore dell’informatica della Gran Bretagna.

 

Chi è Mike Lynch.

Lynch come il suo “omologo” americano non era rimasto però immune da scandali e controversie di vario tipo, come quella che lo vedeva accusato di frode assieme al suo collega “Chamberlain” negli Stati Uniti per l’acquisto della nota società “Hewlett Packard”.

 

Il suo yacht è affondato però senza una spiegazione logica.

I media, probabilmente già istruiti in anticipo come ai tempi dell’affondamento del “Goduria,” diffondono la stessa storia di copertura del lago Maggiore e provano a imputare la colpa del disastro ad una “tromba d’aria” che non c’era, per poi invece provare a raffigurare l’esperto capitano della barca, “James Cutfield”, come un navigatore della domenica alle prime d’armi e il suo equipaggio come una ciurma di ubriachi che avrebbe lasciato inspiegabilmente aperti i boccaporti dell’imbarcazione.

Si è entrati ancora una volta nel territorio della “tragicomica stoltezza dei servizi Occidentali” che dettano le loro assurde versioni di facciata agli organi di stampa che si limitano a diffonderle pedissequamente nella speranza, ormai sempre più debole, che il pubblico le creda.

A questo blog, fonti vicine all’intelligence serba e russa avevano fatto giungere una ricostruzione molto diversa dell’accaduto.

Ancora una volta, non c’è stata una improbabile ed inesistente causa naturale a provocare l’affondamento, ma un intervento esterno che è ricorso ad una tecnologia simile a quella utilizzata con il “Goduria”, e che ha portato la inaffondabile barca del “gruppo Perini” a depositarsi sui fondali di Porticello in un batter d’occhio.

 

L’intervento esterno sarebbe stato nuovamente eseguito dai servizi russi per mandare un altro segnale a Londra e al suo apparato di spie impegnato in una continua serie di provocazioni contro Mosca.

Non appena il Baysan è affondato a Porticello infatti sono arrivati nugoli di spie britanniche, e una di questa ha persino, illegalmente, sequestrato il cellulare di una lettrice di questo blog che ha avuto la “colpa” di passare lì vicino con un cellulare in mano, strappatole con la forza da un uomo con il forte accento inglese.

Talmente era elevato il nervosismo delle “barbe finte inglesi” che evidentemente ci tenevano a tutti i costi a impedire che qualcuno scattasse una foto e mandasse definitivamente a farsi benedire la storia di comodo della “tromba d’aria”.

In questa partita geopolitica internazionale, l’Italia è diventata comunque in tutta evidenza il terreno nel quale è in corso la guerra tra la decaduta anglosfera, da un lato, e la Russia dei BRICS, dall’altro.

La crisi strutturale della classe politica italiana.

 

Nonostante la visita a Trump negli Stati Uniti, la Meloni continua fedelmente ad eseguire gli ordini dell’apparato atlantico come fatto sin dall’inizio del suo mandato e del suo governo “fantasma” che ha collezionato vari record di viaggi in giro per il mondo.

Nemmeno per un istante la pasionaria di” Fdi “ha mai pensato di abbandonare la nave della NATO, semplicemente perché “Giorgia Meloni” è stata sin dagli inizi fedele ai gruppi Euro-Atlantici che hanno costruito la sua carriera politica fino ad aprirle le porte dell’”istituto Aspen” della “famiglia Rockefeller”, una sorta di anticamera obbligatoria per consentirle di entrare a palazzo Chigi.

 

Il centrodestra in questo gioco si limita a seguire le stesse linee guida del centrosinistra, salvo poi cercare di dare a bere al pubblico che Meloni e Salvini flirtino con Trump e Vance, quando in realtà non si discostano in nulla dalle azioni pratiche del partito dell’establishment italiano, il PD.

Il sistema politico italiano è in tutta evidenza travolto da una inedita congiuntura politica.

I precedenti equilibri geopolitici degli ultimi 80 anni sono difatti travolti dalla fine dell’impero americano e dal ritorno sulla scena degli Stati nazionali.

Perduto quindi l’appoggio di Washington adesso si cerca di aggrapparsi all’altro debole braccio dell’anglosfera, quello di Londra, anche se questo poi significa esporre il Paese a possibili rappresaglie da parte di Mosca, sempre più stufa dei giochini di Meloni e Crosetto, e delle scomposte provocazioni di Sergio Mattarella.

Non si può pero riportare indietro l’orologio della storia.

Londra davvero illude sé stessa se pensa che si possa tornare ai tempi dell’impero britannico sul quale non tramontava mai il sole, soprattutto se si pensa che la famiglia Windsor è attraversata da una profonda crisi dopo la morte della regina Elisabetta, membro chiave del comitato dei 300, e con le sempre più precarie condizioni di salute di suo figlio, re Carlo, altro assiduo frequentatore del famigerato gruppo Bilderberg.

Il mondialismo ha poche carte in mano e appaiono tutte perdenti.

La sconfitta appare certa perché gli avversari sono troppo forti e gli alleati non ci sono, a meno che non si prenda in gioco il” Canada post-Trudeau” che poco può fare per rovesciare le sorti di questa partita e che rischia di essere travolto per primo dai dazi di Trump.

Il fortino di Londra presieduto dal premier “Starmer”, uomo integrato con ambienti ebraici britannici e con la solita famiglia Rothschild, è accerchiato ovunque.

Adesso non resta che attendere la futura risposta di Mosca che sarà probabilmente altrettanto ferma e risoluta come quelle già viste in passato.

Gli auspici sono quelli che tale decadente e corrotta struttura crolli il prima possibile senza fare altro male agli italiani e agli europei che già hanno sofferto abbastanza per causa di una spregiudicata classe politica che ha lavorato incessantemente alla dismissione degli Stati nazionali.

 

 

 

 

Trump sposta i bombardieri "nucleari"

 a breve distanza dall'Iran.

 Unz.com - Mike Whitney – (29 marzo 2025)

 

Una guerra con l'Iran sarebbe da 10 a 15 volte peggiore della guerra in Iraq in termini di vittime e costi. E noi perderemo. Perderemmo senza dubbio ....

(Colonnello in pensione “Lawrence Wilkerson”.)

Ci sono molte discussioni sul trasferimento dei bombardieri B-2 a Diego Garcia nella previsione di un potenziale conflitto con l'Iran.

Tuttavia, il B-2 eccelle principalmente contro nazioni piccole, poco sofisticate e povere dotate di sistemi di difesa aerea obsoleti. …

In breve, il B-2 è uno strumento sofisticato per intimidire gli avversari più deboli, ma è in gran parte inefficace contro i moderni sistemi di difesa aerea integrata (IADS).

(Mike Mihajlovic @MihajlovicMike).

 

Rapporti recenti e immagini satellitari indicano un significativo accumulo di risorse militari statunitensi a Diego Garcia, una base strategica nell'Oceano Indiano.

 Il Pentagono ha schierato sette bombardieri stealth B-2 Spirit (in grado di trasportare carichi nucleari), numerosi aerei da trasporto C-17, dieci aerocisterne per il rifornimento di carburante KC-135, un sottomarino lanciamissili balistici di classe Ohio e due gruppi di portaerei in luoghi in cui possono essere utilizzati in un attacco preventivo contro l'Iran.

 L'accumulo senza precedenti coincide con le recenti minacce del presidente Donald Trump riguardo al programma di arricchimento nucleare dell'Iran.

Venerdì, Trump ha lanciato un altro minaccioso avvertimento all'Iran durante un briefing alla Casa Bianca.

Ha detto:

L'Iran è in cima alla mia lista di cose da tenere d'occhio. ... Dovremo parlarne o accadranno cose molto brutte all'Iran.

 La mia grande attrazione è che si risolva la questione con l'Iran, ma se non si risolve, all'Iran accadranno cose brutte.

 

L'aumento degli avvertimenti insieme al dispiegamento di bombardieri B-2 ha suscitato scalpore tra gli analisti, molti dei quali ora credevano che Trump stesse pianificando di colpire gli impianti nucleari iraniani con bombe nucleari "a basso rendimento" progettati per penetrare e distruggere le strutture sotterranee fortificate.

Se tale azione dovesse avere luogo, l'Iran sarebbe costretto a lanciare massicci attacchi di rappresaglia contro basi statunitensi e israeliane, risorse navali, infrastrutture critiche e impianti petroliferi in tutto il Medio Oriente.

 E, se questi attacchi fossero in grado di infliggere danni significativi agli obiettivi statunitensi o israeliani, allora parteciparono ad una rapida escalation verso una guerra nucleare, uno scenario che sembra più probabile che mai.

 Questo è un estratto da un'intervista con l'ex ispettore degli armamenti Scott Ritter:

... sette bombardieri B-2 sono stati schierati dalla base aerea di “Whitman” negli Stati Uniti a Diego Garcia.

Si tratta di uno spiegamento senza precedenti.

E sono abbinati a 10 KC-31 Tanker; questo è ciò che è necessario per lanciare un attacco contro un obiettivo come l'Iran.

Questo è qualcosa che dovrebbe svegliare le persone perché c'è un reale potenziale di conflitto...

Il fatto è che ci sono bombardieri B-2, ci sono sottomarini di classe Ohio, ci sono armi nucleari attaccate a ciascuno di questi sistemi d'arma;

armi nucleari che sono state costruite al solo scopo di attaccare obiettivi come questi che esistono in Iran. …

Sto semplicemente affermando il fatto che l'amministrazione Trump ha una posizione nucleare collegata a un piano di lavoro nucleare che utilizzerà armi nucleari in un conflitto contro l'Iran, e non possiamo dito che non esista.

(Scott Ritter).

Vale la pena notare che l'amministrazione Trump è sul punto di lanciare una guerra contro un paese che non rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, né minaccia gli interessi degli Stati Uniti nella regione.

L'unico crimine dell'Iran è quello di occupare un pezzo di proprietà immobiliare in una regione in cui Israele è determinato ad essere la potenza dominante.

 Ciò significa che la capacità militare dell'Iran deve essere significativamente ridotta dal pitbull preferito di Israele, gli Stati Uniti.

A tal fine, i ricchi sionisti riempiti hanno le casse della campagna elettorale di Trump durante le ultime elezioni presidenziali, sapendo che la vasta popolarità di Trump sarebbe stata utile per far avanzare l'agenda israeliana.

 L'obiettivo principale di quell'agenda è sempre stato l'annientamento della capacità militare dell'Iran in modo che Israele possa emergere come egemone regionale senza opposizione.

 Trump sta semplicemente interpretando il ruolo per il quale è stato scelto.

 Ecco di più da Ritter:

 

Scott Ritter – Quando Trump è stato presidente l'ultima volta (2016), ha rifatto la Nuclear Posture Review e la Nuclear Employment Guidance. E la Nuclear Employment Guidance è il piano di guerra. Il piano di guerra è stato scritto in modo che potesse lanciare attacchi nucleari contro l'Iran.

Quindi siamo pronti a lanciare attacchi contro l'Iran oggi, il piano è stato attuato... Abbiamo le armi, abbiamo identificato gli obiettivi...

 

Domanda: Cosa è stato scritto?

 

Scott Ritter - Hai bisogno di tipi di armi specifiche... Ora abbiamo una nuova bomba nucleare "a basso rendimento" che penetrerà e distruggerà l'impianto con una ricaduta minima (abbiamo armi nucleari simili sui sottomarini Trident nella regione che possono essere utilizzati in un attacco di decapitazione contro l'Iran) Siamo pronti ad andare in guerra contro l'Iran. Abbiamo già preso questa decisione; Il pianoforte esiste.

 

Domanda: Quindi quello che mi stai dicendo è che, se l'Iran sviluppa un'arma nucleare...

Scott Ritter - Noi colpiremo, e loro saranno annientati... Non sapranno mai cosa sono loro, e non si riprenderanno mai da esso... Il piano americano non ucciderà decine di milioni di iraniani, ma ucciderà decine di migliaia di iraniani, distruggerà l'infrastruttura nucleare e riporterà l'Iran indietro per sempre.

 L'alternativa per l'Iran è quella di negoziare il loro (programma) nucleare.

 Scott Ritter.

Questo è il motivo per cui Ritter è così preoccupato. Credo seriamente che Trump stia pianificando di attaccare preventivamente i siti nucleari iraniani, il che metterebbe in moto le tessere del domino, innescando una guerra nucleare.

A me sembra una preoccupazione ragionevole, ma, sorprendentemente, l'analisi di Ritter ha scatenato una tempesta di fuoco tra un certo numero di suoi sostenitori online che si sono (da un giorno all'altro) trasformati in alcuni dei suoi critici più feroci.

 Ecco una breve clip da un post di” Sony Thang@nxt888” che è stato ampiamente diffuso su “X”:

 

Scott... Lasciate che ve lo dica chiaramente: se gli Stati Uniti usano armi nucleari contro l'Iran – anche "tattiche" – l'incantesimo si spezza.

 Per sempre.

Il mito della moderazione occidentale muore allo scoperto.

La menzogna dell'ordine basato sulle regole evapora nella polvere radioattiva.

 

La Cina non aspetterà di essere la prossima.

La Russia rafforzerà la sua alleanza con Teheran.

Il Sud del mondo volterà le spalle per sempre.

 E ogni nazione che non è sotto lo stivale di Washington saprà la verità:

se non ci si arma, si sarà annientati.

Questa non è proliferazione. Questa è l'inevitabilità.

 

Voi dite: "Solo una nazione se ne va".

 

No, Scott.

Nessuno si sottrae alla guerra nucleare. Non in modo pulito. Non economicamente. Non moralmente. Ma intratteniamo il tuo scenario.

L'Iran è spazzato via. Il petrolio raggiunge i 500 dollari al barile. Lo Stretto di Hormuz è un cimitero. L'economia globale implode, non solo l'Europa e l'Asia, ma lo stesso dollaro, perché la fiducia muore quando l'impero brucia la sua ultima pretesa morale.

Ed ecco la parte che le vostre fantasie del Pentagono non calcolano mai: non sono solo le bombe a mettere in ginocchio le nazioni.

È la legittimità. Una volta perso, mai più riconquistato.

 

E gli Stati Uniti? Già barcollante a causa di guerre senza fine, non risorgerà dalle ceneri di un altro paese carbonizzato.

Affonderà in loro.

Affermi di "valutare il mondo così com'è"?

Poi guarda di nuovo. L'impero americano non sta ascendendo.

 

È alle strette. Sta dimenandosi. Sta minacciando l'annientamento non per forza, ma per paura.

 Paura che il mondo che dominava stia scivolando via. Paura che l'Iran si rifiuti di inginocchiarsi.

 È paura che la storia, che un tempo sostenevi avrebbe ritenuto l'America responsabile, non sia più dalla tua parte.

Quindi, continuate a elencare i vostri bombardieri, i vostri sottomarini, le vostre fantasie a basso rendimento. Perché sotto tutto quell'acciaio e quella strategia si cela una sola verità:

Hai già perso la guerra morale.

E quando se ne andrà? Tutto il resto viene da sé.

Sony Thang.

 

Il senso generale di queste critiche è una tacita obiezione a qualsiasi mossa dell'Iran per scendere a compromessi (o negoziare) con l'amministrazione Trump. Questo è generalmente percepito come un "cedimento" all'impero del male. (Il che, per molti aspetti, è vero.)

Vale la pena notare che l'Iran non sta attualmente violando il “Trattato di non proliferazione delle armi nucleari” (TNP) né lo è stato in passato.

 In realtà, l'Iran ha volontariamente rispettato numerosi protocolli aggiuntivi e misure di rafforzamento della fiducia (che non sono mai state imposte a nessun altro paese), tutti volti a placare i timori che stesse segretamente sviluppando armi nucleari.

Ma come “Tulsi Gabbard” ha confermato di recente, e l'ex direttore della CIA William Burns prima di lei;

L'Iran non ha armi nucleari, non sta costruendo armi nucleari e non ha infranto gli accordi previsti dal TNP.

 L'intera faccenda è una mendace confezione inventata dai potenti sionisti e dai loro collaboratori mediatici che vogliono distruggere l'Iran in modo che Israele diventi la potenza dominante in Medio Oriente.

 

Vale anche la pena notare il modo disonesto in cui questa crisi è stata presentata al popolo americano.

L'opinione pubblica è stata indotta a credere che Trump stia cercando di impedire la proliferazione nucleare quando, in realtà, l'amministrazione sta chiedendo all'Iran di abbandonare anche il suo programma di missili balistici.

 

Il 23 marzo 2025, su “Face the Nation” , il consigliere di Trump “Mike Waltz” ha dichiarato senza mezzi termini che le richieste di Trump includono lo smantellamento del "programma missilistico strategico" dell'Iran.

Ma i missili balistici dell'Iran non violano alcuna legge internazionale né sono vietati da alcun obbligo di trattato.

Trump sta semplicemente ordinando all'Iran di rinunciare ai mezzi con cui si difende o di affrontare un'azione militare da parte degli Stati Uniti.

È una richiesta ragionevole?

 

No, è un suicidio nazionale.

E, ancora una volta, l'origine di questa follia è “Benjamin Netanyahu” che ha costantemente esortato gli Stati Uniti a intraprendere azioni più forti contro le capacità missilistiche dell'Iran.

 (Gli agenti di Israele al Congresso hanno introdotto il “MISSILES Act” nel luglio 2023 per codificare le sanzioni statunitensi sui programmi missilistici e dei droni dell'Iran, citando la sicurezza di Israele.

Allo stesso tempo, la campagna di "massima pressione" di Trump ha incluso "entità correlate ai missili"... "accreditato al contributo di Netanyahu.")

 

In breve, all'Iran viene chiesto di disarmarsi volontariamente in modo che Israele possa fare all'Iran quello che sta facendo attualmente alla Siria e al Libano. Perché dovrebbero farlo?

Non lo faranno.

Apriranno comunicazioni “back-channel” con gli inviati di Trump e continueranno a rispettare gli obblighi del trattato, ma alla fine Trump ordinerà attacchi aerei su obiettivi nucleari in Iran, dando il via alla guerra.

 E questo metterà a confronto il deposito di armi obsoleto degli Stati Uniti con i sistemi missilistici balistici all'avanguardia dell'Iran che, come sostiene “Will Schryver”, esporranno la debolezza americana, non rafforzeranno la diffusa mitologia della forza americana intoccabile.

Come possiamo trarre queste conclusioni insolite?

Controllando i resoconti documentati di ciò che è realmente accaduto. Ad esempio, si considera questo primo resoconto dell'attacco israeliano del 26 ottobre da parte dell'ex ufficiale dei servizi segreti “Alastair Crooke”:

 

Domanda: Israele ha causato danni significativi all'Iran nel suo attacco del 26 ottobre?

 

Alastair Crooke :

No, ma è successo qualcosa di significativo, perché l'attacco avrebbe dovuto iniziare con la distruzione dei sistemi di difesa aerea... quello che chiamano “SEAD” (Soppressione delle difese aeree nemiche).

 L'aereo avrebbe dovuto distruggere le difese aeree in Iraq, Siria e Iran, quindi la seconda e la terza ondata sarebbero arrivate con armi convenzionali per distruggere gli obiettivi che erano stati selezionati per loro.

Ma la seconda e la terza ondata avrebbero potuto entrare nello spazio aereo iraniano solo se fosse stato sicuro per loro farlo.

(Se le difese aeree fossero state adeguatamente soppresse). Ora, quello che è successo (anche se non lo sappiamo con precisione) è che quella seconda e terza ondata non sono mai accadute.

Siamo entrati nella prima ondata e gli israeliani hanno detto "Ecco, è finita. È finita. Abbiamo vinto ed è un grande successo".

 

Ciò che sembra essere accaduto è che gli aerei israeliani con i loro missili a lungo raggio per distruggere i sistemi di difesa aerea non si sono mai avvicinati più di 70 km all'Iran, troppo lontano perché i loro missili potessero agganciare le difese aeree perché avevano bisogno dei segnali per agganciarle. ...

La cosa fondamentale che hanno detto, è questo proviene da fonti israeliane, "Abbiamo scoperto un sistema di difesa aerea sconosciuto sulla provincia di Teheran".

Quindi ciò che sembra essere accaduto è che loro (gli aerei israeliani) erano agganciati da un altro sistema di difesa aerea, quindi erano spaventati di andare avanti e hanno annullato l'attacco.

Quindi hanno semplicemente rilasciato i loro missili a lungo raggio (la maggior parte di questi missili sono guidati dal GPS e i russi sono molto abili nel disturbare il GPS).

Mamma... questo inspiegabile sistema di difesa aerea era forse un sistema di difesa aerea russo in grado di attaccare caccia stealth come gli F-35. ... Se hai un missile con una capacità radar in grado di identificare un caccia stealth, allora l'intera idea dell'attacco all'Iran sembra essere crollata...

 

Tutti i bombardieri convenzionali che trasportavano armi convenzionali non sarebbero entrati nella zona perché era troppo pericolosa, non era un'area sicura. Lo spazio aereo era dominato dalla difesa aerea che minacciava gli stessi caccia stealth.

 

Ciò ha enormi implicazioni geostrategiche se questo è ciò che è effettivamente accaduto... Vedete, c'era un piano in tre fasi; e quando il piano è stato affossato, lo hanno semplicemente annunciato come se fosse accaduto.

"Ci siamo riusciti. Abbiamo sorvolato Teheran; abbiamo soppresso le loro difese aeree, abbiamo bombardato obiettivi e distrutto la loro capacità missilistica".

È solo una montatura. Non è vero.

 Giudicare la libertà, “Alastair Crooke”: YouTube.

 

Tieni presente che il racconto di Crooke è solo uno dei tanti resoconti che trasmettono gli stessi fatti di base e traggono le stesse conclusioni di base.

 E queste conclusioni, come abbiamo affermato in precedenza, sono legate al "sistema avanzato di difesa aerea multistrato dell'Iran che può contrastare qualsiasi potenziale attacco israeliano alla patria".

In breve, non ci sono prove che Israele o gli Stati Uniti hanno la capacità di penetrare efficacemente il sistema di difesa aerea iraniano e distruggere gli obiettivi che devono annientare per vincere la guerra.

Ciò che è più interessante è il fatto che Israele ha apparentemente nascosto queste informazioni a Trump e ai suoi consiglieri che stanno inciampando ciecamente in un disastro.

Non ho visto nulla che mi convincesse che “Hegseth”, “Waltz” o “Rubio” abbiano una chiara comprensione di ciò che è accaduto negli scontri tra Israele e Iran. Stanno operando sulla base della teoria che Israele stia dicendo loro la verità.

Al contrario, l'attacco dell'Iran a Israele è stato un successo travolgente, vale a dire che i suoi missili balistici all'avanguardia hanno completamente eluso i sistemi di difesa aerea di Israele, colpendo alcuni degli obiettivi più pesantemente difesi al mondo.

Questo è tratto da un post del “Signore della Guerra” da Poltrona:

 

L'attacco iraniano agli aeroporti di “Nevatim” e “Tel Nof” ... in Israele di martedì ha convalidato completamente la mia analisi di aprile.

 Ad aprile gli iraniani hanno dimostrato di poter sconfiggere il sistema “BMD” di Israele a piacimento e colpire obiettivi di precisione, questa volta hanno fatto danni.

Il video dell'impegno suggerisce che la stragrande maggioranza della salva iraniana, probabilmente più dell'80%, ha penetrato e colpito obiettivi in Israele. .....

 

Ci si può aspettare che gli iraniani abbiano danneggiato aerei, infrastrutture, sistemi SAM e radar AD in entrambi gli aeroporti, oltre a colpire diversi altri obiettivi in altre parti del paese in modo meno intenso.

 L'efficacia dell'attacco può essere vista semplicemente osservando la reazione israeliana:

anziché un contrattacco immediato, si sono ritirati per deliberazioni, con alcuni discorsi su una rappresaglia discendente e de-escalation contro gli Houthi o Hezbollah.

 La ragione di ciò è semplice:

 gli iraniani hanno ora dimostrato la capacità di sopraffare il sistema AD israeliano a piacimento e colpire con precisione gli obiettivi, e con il loro scudo missilistico inefficace la leadership israeliana sta scendendo a patti con il fatto di gestire un paese piccolo e isolato con una quantità limitata di infrastrutture critiche.

A questo punto l'Ayatollah può premere un pulsante e spegnere le luci in Israele, e nessuna somma di denaro americano può impedirlo.

E, sebbene i media tradizionali abbiano cercato di indorare la pillola sull'attacco iraniano del 1° ottobre (e di farlo sembrare un "grande niente"), alcune delle pubblicazioni più diffuse hanno registrato accuratamente ciò che è accaduto il 1° ottobre.

Questo è tratto da un articolo del “Guardian” intitolato:

L'escalation con l'Iran potrebbe essere rischiosa:

 Israele è più vulnerabile di quanto sembri:

 

I filmati satellitari e dei social media hanno mostrato un missile dopo l'altro colpire la base aerea di “Nevatim” nel deserto del Negev e innescare almeno alcune esplosioni secondarie, indicando che, nonostante l'efficacia altamente pubblicizzata delle difese aeree israeliane “Iron Dome” e “Arrow”, gli attacchi dell'Iran sono stati più efficaci di quanto fosse stato precedentemente ammesso.

 

Gli esperti che hanno analizzato il filmato hanno notato almeno 32 colpi diretti sulla base aerea.

Nessuno sembrava aver causato danni gravi, ma alcuni sono atterrati vicino agli hangar che ospitano i jet F-35 di Israele, tra i beni militari più preziosi del paese....

 

"Il fatto fondamentale rimane che l'Iran ha dimostrato di poter colpire duramente Israele se lo desidera ", scrive “Decker Eveleth”, analista del gruppo di ricerca e analisi CNA, che ha analizzato le immagini satellitari per un blogpost.

Le basi aeree sono obiettivi difficili, e il tipo di obiettivo che probabilmente non produrrà molte vittime.

L'Iran potrebbe scegliere un obiettivo diverso, ad esempio una base delle forze di terra delle IDF densamente popolata, o un obiettivo all'interno di un'area civile, e un attacco missilistico lì produrrebbe un gran numero di [vittime]"....

Nell'attacco, ha detto “Vaez”, l'Iran ha "utilizzato le sue armi più avanzate, e ha scorte sufficienti per poterlo fare per mesi.

Questo sarebbe il mondo in cui vivremo a meno che qualcuno non stacchi la spina a questo ciclo di escalation.

 L'escalation con l'Iran potrebbe essere rischiosa: Israele è più vulnerabile di quanto sembri, “The Guardian”.

Pensateci un attimo: i missili balistici iraniani hanno sferrato 32 colpi diretti alla base aerea di” Nevatim”, la base aerea più difesa del pianeta.

Gli iraniani hanno dimostrato di poter piazzare i loro missili su qualsiasi bersaglio in qualsiasi luogo in Israele e Israele non ha modo di fermarli.

Cosa significa tutto questo?

Ciò significa che Israele sta trascinando gli Stati Uniti in una guerra che non potrà vincere e che porterà il secolo americano a una fine catastrofica.

 

 

 

 

Il “Pentagono” sta reclutando “Elon Musk”

 per aiutarli a vincere una guerra nucleare.

Unz.com - Alan Macleod – (11 febbraio 2025) – ci dice:

 

Donald Trump ha annunciato la sua intenzione di costruire un gigantesco sistema missilistico antibalistico per contrastare le armi nucleari cinesi e russe, e sta reclutando Elon Musk per aiutarlo.

Il Pentagono sogna da tempo di costruire un "Iron Dome" americano.

La tecnologia è espressa nel linguaggio della difesa, ovvero rendere di nuovo sicura l'America.

Ma come la sua controparte israeliana, funzionerebbe come arma offensiva, dando agli Stati Uniti la possibilità di lanciare attacchi nucleari ovunque nel mondo senza doversi preoccupare delle conseguenze di una risposta simile.

Questo potere potrebbe sconvolgere la fragile pace mantenuta da decenni di distruzione reciprocamente assicurata, una dottrina che ha sostenuto la stabilità globale sin dagli anni '40.

 

Una nuova corsa agli armamenti globale.

 

I pianificatori di guerra di Washington hanno a lungo sbavato al pensiero di vincere uno scontro nucleare e hanno cercato la capacità di farlo per decenni. Alcuni credono di aver trovato una soluzione e un salvatore nel miliardario nato in Sudafrica e nella sua tecnologia.

Il think tank neoconservatore “Heritage Foundation” ha pubblicato un video l'anno scorso affermando che Musk avrebbe potuto "risolvere la minaccia nucleare proveniente dalla Cina".

Affermava che i satelliti “Starlink “della sua compagnia “SpaceX “potevano essere facilmente modificati per trasportare armi in grado di abbattere i razzi in arrivo.

Come è spiegato:

Elon Musk ha dimostrato che è possibile mettere in orbita microsatelliti, per 1 milione di dollari l'uno.

Utilizzando la stessa tecnologia, possiamo mettere 1.000 microsatelliti in orbita continua attorno alla Terra, che possono tracciare, agganciare e abbattere, utilizzando proiettili al tungsteno, missili lanciati da Corea del Nord, Iran, Russia e Cina."

Sebbene la “Heritage Foundation” consigli di usare proiettili al tungsteno come intercettori, si è optato invece per missili ipersonici.

A tal fine, nel 2023 è stata fondata una nuova organizzazione, la “Castelion Company”.

Castelion è un ritaglio di SpaceX; sei dei sette membri del suo team dirigenziale e due dei suoi quattro consulenti senior sono ex dipendenti senior di SpaceX.

 Gli altri due consulenti sono ex alti funzionari della Central Intelligence Agency, tra cui Mike Griffin, amico di lunga data, mentore e partner di Musk.

I consulenti e il team dirigenziale di “Castelion” sono ampiamente collegati a “SpaceX” e alla “CIA”.

 

La missione di Castelion, nelle sue stesse parole, è quella di essere all'avanguardia di una nuova corsa agli armamenti globale.

 Come spiega l'azienda:

Nonostante il budget annuale della difesa degli Stati Uniti superi quello dei successivi dieci maggiori spendaccioni messi insieme, ci sono prove inconfutabili che i regimi autoritari stanno prendendo il comando in tecnologie militari chiave come le armi ipersoniche.

In parole povere, non si può permettere che ciò accada".

Guerra e pace.

Lo slogan di Castelion è "Pace attraverso la deterrenza".

Ma in realtà, il raggiungimento di una svolta nella tecnologia dei missili ipersonici da parte degli Stati Uniti spezzerebbe la fragile pace nucleare che esiste da oltre 70 anni e inaugurerebbe una nuova era in cui Washington avrebbe la capacità di utilizzare qualsiasi arma desideri, in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi momento, con la certezza che sarebbe impermeabile a una risposta nucleare da qualsiasi altra nazione.

 

In breve, la paura di una rappresaglia nucleare da parte della Russia o della Cina è stata una delle poche forze che hanno moderato l'aggressione degli Stati Uniti in tutto il mondo.

Se questo venisse perso, gli Stati Uniti avrebbero carta bianca per trasformare interi paesi – o anche regioni del pianeta – in vapore.

 Questo, a sua volta, gli darebbe il potere di terrorizzare il mondo e imporre qualsiasi sistema economico e politico ovunque desideri.

Se questo suona fantasioso, questo "Ricatto nucleare" era una politica più o meno ufficiale delle successive amministrazioni americane negli anni '40 e '50.

Gli Stati Uniti rimangono l'unico paese ad aver mai sganciato una bomba atomica in preda alla rabbia, facendolo due volte nel 1945 contro un nemico giapponese che era già stato sconfitto e stava tentando di arrendersi.

Il presidente Truman ordinò la distruzione di Hiroshima e Nagasaki come dimostrazione di forza, principalmente all'Unione Sovietica.

Molti nel governo degli Stati Uniti desideravano usare la bomba atomica sull'URSS.

 Il presidente Truman ragionò immediatamente, tuttavia, che se l'America avesse bombardato Mosca, l'Armata Rossa avrebbe invaso l'Europa come risposta.

 

Pertanto, decise di aspettare che gli USA avessero abbastanza testate per distruggere completamente l'Unione Sovietica e il suo esercito.

 I pianificatori di guerra calcolarono questa cifra intorno alle 400 e, a tal fine, per un totale di una nazione che rappresentava un sesto della massa terrestre mondiale, il presidente ordinò l'immediato aumento della produzione.

Questa decisione incontrò una forte opposizione nella comunità scientifica americana e si ritiene ampiamente che gli scienziati del “Progetto Manhattan”, tra cui lo stesso “Robert J. Oppenheimer”, abbiano passato segreti nucleari a Mosca nel tentativo di accelerare il loro progetto nucleare e sviluppare un deterrente per fermare questo scenario apocalittico.

 

Alla fine, l'Unione Sovietica è riuscita a sviluppare con successo un'arma nucleare prima che gli Stati Uniti fossero in grado di produrne centinaia.

Quindi, l'idea di spazzare via l'URSS dalla faccia della Terra è stata accantonata. Tra l'altro, ora si sa che gli effetti dello sgancio simultaneo di centinaia di armi nucleari avrebbero probabilmente scatenato vaste tempeste di fuoco in tutta la Russia, con conseguente emissione di abbastanza fumo da soffocare l'atmosfera terrestre, bloccare i raggi solari per un decennio e porre fine alla vita umana organizzata sul pianeta.

 

Con la chiusura della finestra nucleare russa nel 1949, gli Stati Uniti concentrarono il loro arsenale nucleare sulla nascente Repubblica Popolare Cinese.

Gli Stati Uniti invasero la Cina nel 1945, occupandone alcune parti per quattro anni, finché le forze comuniste sotto Mao Zedong non costrinsero sia loro che i loro alleati nazionalisti del KMT ad abbandonare il paese.

Durante la guerra di Corea, alcune delle voci più potenti a Washington sostennero lo sgancio di armi nucleari sulle 12 più grandi città cinesi in risposta all'ingresso della Cina nella mischia.

In effetti, sia Truman che il suo successore, Dwight D. Eisenhowe, usarono pubblicamente la minaccia della bomba atomica come tattica negoziale.

 

Sconfitto sulla terraferma, il KMT sostenuto dagli USA fuggì a Taiwan, fondando uno stato monopartitico.

Nel 1958, gli USA arrivarono anche sul punto di sganciare la bomba sulla Cina per proteggere il nuovo regime del loro alleato sul controllo dell'isola contesa, un episodio della storia che risuona con l'attuale conflitto su Taiwan.

Tuttavia, nel 1964, la Cina aveva sviluppato la propria testata nucleare, ponendo fine alle pretese degli Stati Uniti e contribuendo a inaugurare l'era della distensione di buone relazioni tra le due potenze, un'epoca che è durata fino al XXI secolo.

 

In breve, quindi, è solo l'esistenza di un deterrente credibile che modera le azioni di Washington in tutto il mondo.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno attaccato solo paesi relativamente indifesi.

Il motivo per cui il governo nordcoreano rimane al suo posto, ma quelli di Libia, Iraq, Siria e altri no, è l'esistenza delle sue forze convenzionali e nucleari su larga scala.

Sviluppare un “Iron Dome” americano potrebbe sconvolgere questo delicato equilibrio e inaugurare una nuova era di predominio militare statunitense.

Bombardare il Giappone? OK. Bombardare Marte? Ancora meglio!

Musk, tuttavia, ha minimizzato sia la probabilità che le conseguenze di una guerra nucleare.

Nel podcast “The Lex Friedman”, ha descritto la probabilità di uno scontro terminale come "piuttosto bassa".

E mentre parlava con Trump l'anno scorso, ha affermato che l'olocausto nucleare "non è così spaventoso come la gente pensa", notando che "Hiroshima e Nagasaki sono state bombardate, ma ora sono di nuovo città piene".

Il presidente Trump è d'accordo.

 

Secondo la “Campagna Internazionale per l'Abolizione delle Armi Nucleari”, ci sono oltre 12.000 testate nel mondo, la stragrande maggioranza delle quali di proprietà di Russia e Stati Uniti.

Mentre molti li svolgono una piaga per l'umanità e sono favorevoli alla loro completa eradicazione, Musk sostiene di costruirne altre migliaia, mandarle nello spazio e lanciarle su Marte.

Il piano donchisciottesco di Musk è di terraformare il Pianeta Rosso sparandogli contro almeno 10.000 missili nucleari.

 Il calore generato dalle bombe scioglierebbe le sue calotte polari, rilasciando anidride carbonica nell'atmosfera.

Il rapido effetto serra innescato, secondo la teoria, aumenterebbe le temperature di Marte (e la pressione dell'aria) al punto da supportare la vita umana.

 

Pochi scienziati hanno sostenuto questa idea.

 In effetti, “Dmitry Rogozin,” allora a capo dell'agenzia spaziale statale russa “Roscosmos”, ha etichettato la teoria come completamente assurda e nient'altro che una copertura per riempire lo spazio con armi nucleari americane puntate verso Russia, Cina e altre nazioni, attirando l'ira di Washington.

 

"Capiamo che dietro questa demagogia si nasconde una cosa: questa è una copertura per il lancio di armi nucleari nello spazio", ha detto.

Vediamo tali tentativi, li consideriamo inaccettabili e li ostacoleremo nella massima misura possibile", ha aggiunto.

Le azioni della prima amministrazione Trump, tra cui il ritiro da diversi trattati internazionali contro i missili balistici, hanno reso questo processo più difficile.

 

“Elon” e il complesso militare-industriale.

Fino al suo ingresso alla Casa Bianca di Trump, molti percepivano Musk come un radicale outsider dell'industria tecnologica.

Eppure non è mai stato così. Fin praticamente dall'inizio della sua carriera, il percorso di Musk è stato plasmato dal suo rapporto eccezionalmente stretto con lo stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, in particolare con “Mike Griffin “della CIA.

 

Dal 2002 al 2005, Griffin ha guidato “In-Q-Tel,” l'ala del “venture capitalist della CIA.

 In”-Q-Tel è un'organizzazione dedicata all'identificazione, alla promozione e alla collaborazione con aziende tecnologiche in grado di fornire a Washington tecnologie all'avanguardia, mantenendola un passo avanti rispetto alla concorrenza.

Griffin è stato uno dei primi a credere in Musk.

Nel febbraio 2002, ha accompagnato Musk in Russia, dove la coppia ha tentato di acquistare missili balistici intercontinentali a basso prezzo per avviare “SpaceX”. Griffin ha parlato a favore di Musk negli incontri governativi, sostenendolo come un potenziale "Henry Ford" del complesso tecnologico e militare-industriale.

Dopo In-Q-Tel, Griffin è diventato l'amministratore capo della NASA.

Nel 2018, il presidente Trump lo ha nominato sottosegretario alla Difesa per la ricerca e l'ingegneria.

Mentre era alla NASA, Griffin ha portato Musk alle riunioni e ha assicurato la grande occasione a SpaceX.

Nel 2006, la NASA ha assegnato all'azienda un contratto di sviluppo di razzi da 396 milioni di dollari, una "scommessa" notevole, secondo le parole di Griffin, soprattutto perché non aveva mai lanciato un razzo.

Il National Geographic ha scritto che SpaceX "non sarebbe mai arrivata dove è oggi senza la NASA".

 E Griffin è stato essenziale per questo sviluppo.

 Tuttavia, nel 2008, sia SpaceX che Tesla Motors erano in gravi difficoltà, con Musk incapace di pagare gli stipendi e dando per scontato che entrambe le aziende sarebbero fallite.

Fu a quel punto che SpaceX fu salvata da un inaspettato contratto NASA da 1,6 miliardi di dollari per servizi di trasporto merci commerciali.

 

Oggi, la coppia rimane estremamente unita, con Griffin che funge da consigliere ufficiale di Castelion.

Un segno di quanto sia forte questo rapporto è che, nel 2004, Musk ha chiamato suo figlio "Griffin" in onore del suo referente della CIA.

Oggi, SpaceX è una potenza, con entrate annuali nell'ordine delle decine di miliardi e una valutazione di 350 miliardi di dollari.

Ma quella ricchezza deriva in gran parte dagli ordini di Washington.

In effetti, ci sono pochi clienti per i razzi oltre all'esercito o alle varie agenzie di spionaggio di tre lettere.

Nel 2018, “SpaceX” si è aggiudicata un contratto per lanciare in orbita un “GPS Lockheed Martin” da 500 milioni di dollari.

 Mentre i portavoce militari sottolineavano i vantaggi civili del lancio, la ragione principale del progetto era migliorare le capacità di sorveglianza e di puntamento degli Stati Uniti.

SpaceX si è aggiudicata anche contratti con l'Air Force per portare in orbita il suo satellite di comando, con la “Space Development Agency” per inviare dispositivi di tracciamento nello spazio e con il “National Reconnaissance Office” per lanciare i suoi satelliti spia.

 Tutte le "cinque grandi" agenzie di sorveglianza, tra cui la CIA e la NSA, utilizzano questi satelliti.

 

Pertanto, nel mondo odierno, dove così tanta raccolta di informazioni e acquisizione di obiettivi avviene tramite tecnologia satellitare, SpaceX è diventata tanto importante per l'impero americano quanto Boeing, Raytheon e General Dynamics.

 In parole povere, senza Musk e SpaceX, gli Stati Uniti non sarebbero in grado di portare avanti un programma così invasivo di spionaggio o guerra con i droni in tutto il mondo.

 

Potere globale.

Un esempio di quanto Musk e il suo impero tecnologico siano cruciali per la continuazione delle ambizioni globali degli Stati Uniti si può trovare in Ucraina.

Oggi, circa 47.000 Starlink opera all'interno del paese.

 Queste parabole satellitari portatili, prodotte da “SpaceX”, hanno mantenuto online sia i civili che i militari dell'Ucraina.

Molte di queste sono state acquistate direttamente dal governo degli Stati Uniti tramite “USAID” o il “Pentagono” e spedite a Kiev.

 

Nella sua guerra hi-tech contro la Russia, Starlink è diventata la chiave di volta dell'esercito ucraino.

Consente l'acquisizione di obiettivi via satellite e attacchi con droni alle forze russe. In effetti, sul campo di battaglia odierno, molte armi richiedono una connessione a Internet.

Un funzionario ucraino ha detto al “The Times “di Londra che "deve" usare Starlink per colpire le forze nemiche tramite immagini termiche.

Il controverso magnate si è anche impegnato nella politica sudamericana.

Nel 2019, ha sostenuto il rovesciamento del presidente socialista “Evo Morales”, sostenuto dagli Stati Uniti.

Morales ha suggerito che Musk abbia finanziato l'insurrezione, che ha definito un "golpe al litio".

Quando è stato direttamente accusato del suo coinvolgimento, Musk ha notoriamente risposto: "Faremo un golpe a chiunque vogliamo! Affrontiamolo!"

La Bolivia ospita le più grandi riserve di litio al mondo, un metallo fondamentale per la produzione di batterie per veicoli elettrici come quelle delle auto Tesla di Musk.

In Venezuela l'anno scorso, Musk è andato ancora oltre, sostenendo il candidato di estrema destra sostenuto dagli Stati Uniti contro il presidente socialista Nicolás Maduro.

È arrivato persino a suggerire che stava lavorando a un piano per rapire il presidente in carica.

 "Sto arrivando a prenderti Maduro. Ti porterò a “Gitmo” su un asino", ha detto, riferendosi al famigerato centro di tortura degli Stati Uniti.

 

Più di recente, Musk si è buttato nella politica americana, finanziando e facendo campagna elettorale per il presidente Trump, e ora guiderà il nuovo Dipartimento per l'efficienza del governo (DOGE) di Trump.

 La missione dichiarata di DOGE è quella di tagliare la spesa pubblica inutile e dispendiosa.

 Tuttavia, con Musk al timone, sembra improbabile che i miliardi di dollari in contratti militari e incentivi fiscali che le sue aziende hanno ricevuto saranno sul ceppo.

 

All'insediamento di Trump, Musk ha fatto notizia a livello internazionale dopo aver fatto due saluti “Sieg Heil”, gesti che sua figlia ha ritenuto inequivocabilmente nazisti.

“Musk”, che proviene da una famiglia storicamente sostenitrice del nazismo, si è preso una pausa dalle critiche alla reazione al suo saluto per comparire a un raduno per il partito” Alternative für Deutschland”.

Lì, ha detto che i tedeschi "si concentrano troppo sulla colpa passata" (ad esempio, l'Olocausto) e che "dobbiamo andare oltre".

I bambini non dovrebbero sentirsi in colpa per i peccati dei loro genitori, persino dei loro bisnonni", ha aggiunto tra fragorosi applausi.

Le recenti azioni del magnate della tecnologia hanno provocato indignazione tra molti americani, che sostengono che fascisti e nazisti non hanno nulla a che fare con i programmi spaziali e di difesa degli Stati Uniti.

In realtà, tuttavia, questi progetti, fin dall'inizio, sono stati supervisionati da importanti scienziati tedeschi trasferiti dopo la caduta della Germania nazista. L'operazione “Paper clip” ha trasportato più di 1.600 scienziati tedeschi in America, tra cui il padre del progetto lunare americano, “Wernher von Braun”.

Von Braun era un membro sia del partito nazista che dell'infame paramilitare d'élite SS, i cui membri supervisionavano i campi di sterminio di Hitler.

 

Quindi, il nazismo e l'impero americano sono andati di pari passo per molto tempo.

Molto più inquietante di un uomo con simpatie fasciste che ricopre una posizione di potere nell'esercito o nell'industria spaziale degli Stati Uniti, tuttavia, è la capacità che gli Stati Uniti stanno cercando per sé stessi di essere immuni agli attacchi missilistici intercontinentali dei loro concorrenti.

In superficie, il piano “Iron Dome “di Washington potrebbe sembrare di natura difensiva.

Ma in realtà, gli darebbe carta bianca per attaccare qualsiasi paese o entità nel mondo in qualsiasi modo desideri, anche con armi nucleari.

 Ciò sconvolgerebbe la fragile pace nucleare che ha regnato fin dai primi giorni della Guerra Fredda.

L'aiuto di Elon Musk in questa impresa è molto più preoccupante e pericoloso di qualsiasi saluto o commento che potrebbe mai fare.

 

 

 

Dazi, Meloni "assolve" Trump:

li ha iniziati Biden.

 

 Avvenire.it - Massimo Chiari – (venerdì 28 marzo 2025) – ci dice:

La premier al “Financial Times”: infantile scegliere tra Trump e Europa, io voglio essere ponte. E sono d'accordo con Vance: la Ue si è un po' persa.

Giorgia Meloni ha nella testa un progetto chiaro: mediare tra Usa e Ue.

 Avvicinare Trump all'Europa. Essere ponte.

 «I nostri rapporti con gli Stati Uniti sono i più importanti che abbiamo», spiega la premier in un'intervista al Financial Times.

E va avanti: «L'Italia può avere buoni rapporti con gli Stati Uniti e se c'è qualcosa che può fare per evitare uno scontro con l'Europa lo farò... Se costruire ponti è nell'interesse degli europei lo farò».

 Meloni respinge con fermezza l'idea che l'Italia debba scegliere tra Stati Uniti ed Europa.

Una scelta che considera tanto «infantile» quanto «superficiale».

È un messaggio netto.

 Consegnato sulla scia del summit appena concluso a Parigi della coalizione dei Paesi europei volenterosi.

La premier - scrive il FT puntualizzando che si tratta della prima intervista rilasciata dalla premier italiana a una testata straniera - ha anche chiarito di non vedere il presidente Usa Donald Trump come un avversario e di voler continuare a rispettare il «primo alleato» dell'Italia.

 «Io sono conservatrice, Trump è un leader repubblicano.

Sicuramente sono più vicina a lui che a molti altri».

 E ancora: «Capisco un leader che difende i suoi interessi nazionali... Io difendo i miei».

Il passo verso i dazi è scontato.

Meloni ha un messaggio all'Europa:

«Bisogna mantenere la calma... Evitare di reagire d'istinto e lavorare per una buona soluzione comune».

Meloni ammette che i dazi su alcuni beni specifici stanno causando attriti.

Ma «ci sono grandi differenze sui singoli beni.

È su questo che dobbiamo lavorare per trovare una buona soluzione comune».

 È un altolà alla Commissione europea che ha promesso di reagire contro i dazi annunciati da Trump.

 «Su questi argomenti bisogna dire "mantenete la calma, ragazzi. Pensiamoci...». Meloni invita l'Europa alla "calma" e parallelamente "assolve Trump.

 Gli Stati Uniti perseguivano da tempo un programma sempre più protezionistico e a questo proposito la premier cita l'”Inflation Reduction Act” di Joe Biden. «Pensate davvero che il protezionismo negli Stati Uniti sia stato inventato da

Donald Trump?», si chiede retorica.

Domande e risposte si accavallano.

 Meloni riflette sull'idea che l'approccio «conflittuale» di Trump alla difesa europea possa rappresentare uno «stimolo» necessario per assumersi le proprie responsabilità sulla sicurezza:

 «Mi piace pensare che la crisi nasconde sempre una opportunità».

Anche perché la Russia potrebbe diventare una minaccia a lungo termine, ma le «minacce possono arrivare a 360 gradi» e «noi dobbiamo trovare un modo per essere pronti a difenderci da ogni tipo di minaccia che possiamo avere...».

 Non basta.

Meloni si è poi detta «d'accordo» con il vicepresidente americano “JD Vance” in merito alle sue critiche all'Europa: «Lo dico da anni. L'Europa si è un po' persa».

Ma subito sottolinea che a essere contestata è la «classe dirigente» europea e non il popolo:

 le critiche dell'Amministrazione Trump - precisa Meloni - sono alla «classe dirigente e all'idea che si possa imporre la propria ideologia invece di leggere la realtà e trovare modi per dare risposte alle persone».

 

 

 

 

Meloni deve capire che

Trump non è più un alleato.

 Huffingpost.it - Marco D'Egidio – (28-3-2025) – ci dice

 

Meloni non vuole scegliere tra Europa e Stati Uniti, ma così facendo sceglie l'ignavia e ci pone fuori dall'Ue.

Magari potrà trarre un vantaggio per sé e il suo governo in ottica meramente sondaggistica, ma sui tavoli che contano - incluso quello con Washington - non ne ricaverà la minima riconoscenza.

Nell'intervista di oggi al Financial Times, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha camuffato il suo trumpismo latente provando a mantenersi equidistante tra Europa e Stati Uniti.

Sarebbe "infantile", secondo lei, scegliere tra i due continenti.

Ha ragione, anzi:

avrebbe ragione se l'Italia non facesse parte dell'Unione Europea. Ma, visto che ne fa parte, il dilemma non dovrebbe neppure porsi.

 Non scegliere equivale a porsi al di fuori dell'Europa, scegliendo di fatto gli Stati Uniti di Trump.

L'obiettivo politico della nuova amministrazione conservatrice a stelle e strisce consiste proprio nel dividere gli stati europei, esercitando un potere negoziale bilaterale con ciascuno di essi.

Come se l'Europa non esistesse.

Meloni sembra accettare questa strategia, nella speranza (illusione) di poter agire da "pontiera" nell'interesse anche dell'Europa.

 È un equilibrismo che non potrà durare a lungo, soprattutto perché i dazi imposti da Trump colpiranno duramente i principali Paesi europei esportatori tra cui il nostro.

 Intere filiere, dal vino all' automotive, subiranno pesanti contraccolpi.

 O Meloni riuscirà a negoziare nel brevissimo termine condizioni meno dannose per la nostra economia (ma anche per l'Europa intera, la cui missione storica secondo Trump sarebbe quella di "fottere" gli Stati Uniti), oppure l'unico comportamento infantile che le rimarrà sarà quello di piangere amaramente per gli effetti della guerra commerciale appena iniziata.

In entrambi i casi, l'Italia non sarà trattata più favorevolmente di Francia e Germania.

La "non scelta" resterà un argomento retorico buono solo per le interviste, non per la tassazione alla dogana.

 E neppure per le ancor più preoccupanti evoluzioni della politica estera, col pericolo Putin sempre più concreto alla frontiera est dell'Europa, mentre Trump prepara i “pop corn”.

 

Un altro passaggio molto discutibile dell'intervista di Meloni riguarda il vicepresidente J. D. Vance.

 La nostra premier dice di essere d'accordo con lui, quando questi a Monaco ha accusato l'Europa di avere rinnegato la libertà di espressione.

 È il solito cavallo di battaglia delle nuove destre di tutto il mondo, l'ideologia woke imposta da una cricca di burocrati e di politici al caviale contro l'autenticissimo tradizionalista dei popoli.

Una narrazione senza dubbio vincente in questo momento storico, che però trascura di considerare come un'ideologia parallela (e ben più pericolosa) l'intolleranza e l'avversione al dissenso proprie di chi si erge a paladino del free speech.

Trump non ha mai fatto mistero delle sue pulsioni illiberali proprio in materia di idee, a partire dagli attacchi alla libera stampa.

E poi: Meloni non ha nulla da dire sulla repressione in corso negli Stati Uniti verso intellettuali, ricercatori, università cosiddette liberal, una "notte dei lunghi coltelli" senza sangue scatenata dal più oscurantista dei riflussi conservatori, in cui attivisti stranieri ma regolari possono venire arrestati e deportati, con la scusa della sicurezza (signora mia), anche solo per avere firmato un appello per Gaza?

Se anche l'ideologia woke fosse realmente deprecabile, non dovrebbe esserlo ancor di più l'ideologia anti-woke che la vuole censurare e punire?

 

Anche qui, Meloni sceglie di stare contro l'Europa, praticando il più infantile dei comportamenti: il vittimismo di cui è maestra.

E non suona affatto convincente che provi a spiegare la sua posizione (e quella di Vance) puntando l'indice contro le solite "classi dirigenti", che sarebbero una sorta di Spectre culturale.

 Se certe idee non conservatrici si sono diffuse in Europa e in America, non è colpa di oscuri complotti contro il popolo, ma merito (oh sì) di quella libertà di espressione e di parola che in Occidente veniva garantita, tra inevitabili alti e bassi, fino a soli tre mesi fa:

e che oggi è invece minacciata a morte dalla più potente classe dirigente al mondo, la Casa Bianca.

 

Meloni non vuole scegliere tra Europa e Stati Uniti, ma così facendo sceglie l'ignavia (e l'opportunismo).

Magari potrà trarre un vantaggio per sé e il suo governo in ottica meramente sondaggistica, ma sui tavoli che contano - incluso quello con Washington - non ne ricaverà la minima riconoscenza.

Né per lei né soprattutto per l'Italia.

Trump non sarà un avversario, ma di sicuro non è più un alleato.

 Ed è già questa una enormità senza precedenti.

Questa è l'unica cosa che Meloni deve capire, al di là delle facili interviste.

 

 

 

L’Italia e l’Impero Trump: quattro tesi

sul problema americano di Meloni.

Legrandcontinent.eu – (9-3-2025) – Vittorio Emanuele Parsi – ci dice:

Prospettive di Politica.

Roma come Washington. Trump come Cesare. Vance come Augusto. Musk come un ricco liberto.

Se l'Urbs si trasferisce a Washington, l'Italia di Meloni diventa prigioniera del suo status di Stato-cliente ai margini dell'Impero.

Vittorio Emanuele Parsi analizza questo rovesciamento e pone una domanda chiave:

 in questa nuova realtà, come è possibile trovare uno spazio?

 

“All politics is local”!

 Rrecita un vecchio adagio anglosassone.

Ed effettivamente, in tempi ordinari, il rapporto gerarchico tra politica interna e politica estera è chiaro:

 i responsabili dei governi nazionali cercano di massimizzare le conseguenze delle opportunità e minimizzare quelle dei vincoli che l’ambiente internazionale pone al perseguimento dei propri obiettivi politici domestici.

Riconoscere questo assunto implica prendere atto che anche la politica estera, in una certa misura, risente della dialettica competitiva tra maggioranza e opposizione e, in presenza di un sistema multipartitico, anche di una qualche differenziazione all’interno delle coalizioni.

Ovviamente, dialettica e differenziazioni dovrebbero sempre essere contenute all’interno di un’accorta considerazione di quelli che possono essere definiti gli “interessi nazionali” o, se si preferisce una definizione meno enfatica e più precisa, le componenti permanenti o invariabili dei medesimi.

 Ne abbiamo avuto una riprova nei giorni dello sconvolgimento prodotto dalle dichiarazioni di Donald Trump relative all’apertura di una trattativa diretta con la Russia di Vladimir Putin sul destino dell’Ucraina – sulla pelle degli ucraini e sulle teste degli europei – e dall’arrogante, rozza e impudente relazione del vicepresidente JD Vance alla Conferenza per la sicurezza di Monaco, quando alla reazione molto dura del premier laburista britannico “Keir Starmer” che ribadiva che Londra avrebbe proseguito imperterrita nel suo sostegno a Kyiv ha fatto immediatamente eco la dichiarazione del suo predecessore, il conservatore “Rishi Sunak”, pronto ad assicurare il pieno appoggio del suo partito a qualunque misura volta a continuare l’opera di contenimento delle ambizioni imperialiste del Cremlino.

 

È doveroso osservare che, affinché una politica bipartisan sui fondamentali della sicurezza nazionale sia percorribile, occorre il pieno riconoscimento reciproco della piena legittimità tra i diversi partiti. Ovvero, una politica estera e di sicurezza condivisa, almeno sui fondamentali, è figlia della fuoriuscita dal clima di guerra civile permanente tra le forze che compongono le, mutevoli, maggioranze e opposizioni parlamentari.

Si tratta di una condizione sperimentata a tratti e comunque mai completamente fino in fondo nelle vicende della Repubblica italiana.

 

Per motivi che credo non serva qui ricapitolare non lo è stato durante tutta la Guerra fredda, quando il più grande partito comunista d’Occidente, pure molto lontano dal comunismo reale, si ritrovava puntualmente all’opposizione di ogni necessario programma di adeguamento dello strumento militare nazionale e occidentale alle minacce attuate dall’Unione Sovietica (basti pensare alla vicenda del dispiegamento degli euromissili nel corso degli anni Settanta, che risultarono decisivi per fiaccare le ambizioni egemoniche di Mosca).

Allora il refrain era sempre quello della “pace”, lo stesso invocato oggi dal partito dell’appeasement nei confronti dell’imperialismo della Russia di Putin.

Dopo la fine della Guerra fredda la piena legittimazione reciproca tra i contendenti per il potere repubblicano è stata sempre incompleta – si pensi all’anticomunismo “post mortem”, del comunismo, di Silvio Berlusconi da un lato e al girotondismo isterico del centrosinistra dall’altro – anche se, paradossalmente, era proprio il campo della politica estera quello che, in tempi ordinari, diveniva il minor tema di contesa

. Non così allineate erano le forze più “radicali” che nel corso degli anni sono via via emerse nell’agone politico italiano, come la Lega, il Movimento 5 stelle o le varie formazioni post o neo-comuniste.

Ma per lungo tempo queste apparivano ben lontane da poter condizionare la politica estera delle maggioranze di cui facevano parte o dal conquistare la leadership.

 

Le cose, come si sa, sono cambiate con il primo governo Conte (maggioranza giallo-verde) e poi con il governo Meloni, ovvero con l’irruzione sulla scena politica, nel ruolo di protagoniste dei governi e non più di mere comprimarie, di forze politiche dal populismo più conclamato rispetto al berlusconismo, ovvero della Lega di Salvini, del Movimento 5 stelle grillino e poi contiano e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

Se a questo si aggiunge che anche la sinistra radicale sta godendo di una buona rinascita di consensi, si capisce meglio perché, persino quando poi gli esecutivi si sforzino di seguire politiche estere più o meno coerenti e non troppo dissimili tra loro, diventi però sempre più importante ammantarle di una presunta diversità o distintività a puro uso di lotta politica interna.

 

La pericolosa illusione è che questo comportamento non produca effetti negativi apprezzabili, mentre invece una grave conseguenza si viene a determinare:

ovvero si impedisce lo sviluppo di una cultura di politica estera sufficientemente matura, razionale, responsabile, in grado di tenere nel giusto apprezzamento l’equilibrio tra realtà, interessi, principi e ideali, istituzioni, regole.

Si finisce in tal modo per rivendicare alle proprie scelte – in termini di narrazione, molto più che di azioni effettive – la sola patente di rispettabilità o efficacia, accusando quelle altrui di immoralità o velleitarismo.

 E, dato che è sempre più spesso l’aspetto della narrazione che viene offerto a opinioni pubbliche abbandonate a se stesse o all’azione politicamente irresponsabile di attori non propriamente politici ma più o meno influenti nel dare forma al dibattito pubblico, non può sorprendere che quest’ultimo sia sovente ridotto ad arena per narcisismi più o meno patologici, in cui il presunto trionfo sull’interlocutore (un trionfo tutto immaginario per la totale autoreferenzialità di molte delle posizioni esposte) sia l’unica ossessione di molti dei suoi protagonisti.

 

L’America di Trump segna il trionfo della guerra civile permanente e della totale delegittimazione degli avversari politici e dei loro (anche solo presunti) sostenitori.

 

2.

Per lungo tempo, ciò che non ha fatto implodere questo coacervo di contraddizioni e incoerenze (tra ciò che viene annunciato e quello che viene effettivamente attuato e tra i posizionamenti e le linee di policy dei diversi partiti che compongono le mutevoli coalizioni di governo) e ha fatto sì che la non appropriatezza della narrazione della politica estera nazionale non si manifestasse come esplosiva e foriera di immediate conseguenze negative è stata la lunga percezione di una sostanziale immobilità del quadro nel quale la politica estera andava a collocarsi.

 Si è trattato di una immobilità assai più apparente che reale che poteva essere dipinto come tale solo a condizione di enfatizzare alcuni aspetti della realtà, sottovalutando, più o meno consapevolmente, quelli il cui cambiamento potesse risultare più disturbante: dall’imperialismo aggressivo della Russia, annunciato alla Conferenza di Monaco del 2007 e messo rapidamente in atto l’anno successivo in Georgia (per poi manifestarsi a più riprese in Ucraina) al riarmo di una Cina sempre più assertiva e nazionalista, dalle crescenti difficoltà europee sulla strada della definizione e dell’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune e condivisa alla rottura della continuità della politica nordatlantica degli Stati Uniti.

 

È proprio quest’ultimo il tema chiave da tenere al centro della nostra riflessione.

 

A conclusione di un lungo percorso iniziato già negli anni Duemila, parzialmente inabissatosi con l’11 settembre ma proseguito carsicamente e riesploso con la presidenza Obama, l’America di Trump segna il trionfo della guerra civile permanente e della totale delegittimazione degli avversari politici e dei loro (anche solo presunti) sostenitori.

In tal senso, l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 ha rappresentato un vero e proprio manifesto di “performing art” applicato alla politica.

Era la rappresentazione della guerra civile permanente che si voleva dichiarare per “mondare” l’America delle sue “impurità” e segnava l’ostracismo degli avversari trasformati in nemici (quasi disumanizzati attraverso il ribaltamento delle ossessioni woke per le questioni multi- e soprattutto trans-gender).

Così come l’inclusione di Elon Musk nel ruolo di gran consigliere del presidente – ispiratore? Eminenza grigia? Anima nera? – non costituiva solo la punta dell’iceberg della pressoché totale oligarchizzazione della repubblica, ma in realtà riproduceva la dinamica dell’imperator con il suo “libertus “(Musk è di origine sudafricana e può essere sì “romanizzato”, ma per il suo luogo di nascita non può ambire alla massima magistratura).

Come la storia romana ci ricorda, i liberti (gli schiavi liberati) potevano accumulare straordinarie ricchezze e una quantità smisurata di potere proprio per la loro vicinanza all’ex padrone, ma la loro fortuna dipendeva dalla capacità di mantenere il favore imperiale.

 O di partecipare a un complotto per una successione cruenta, nei casi più torbidi.

E la quantità di contratti, sussidi e favori in termini di pressioni per aprire o deregolamentare i nuovi mercati tecnologici e accaparrarsi terre rare forniscono la misura dell’opportunità che la vicinanza al potere politico fornisce a Musk per consolidare le proprie aspirazioni monopolistiche.

 

Fuor di metafora, quel che sostengo è che siamo di fronte a un vero e proprio “regime change “e non a un semplice avvicendamento tra due presidenti di colore politico diverso.

 Le suggestioni imperiali di Trump (Musk e Vance) non sono mero folclore di una pattuglia di persone che hanno imparacchiato la storia su qualche manualetto semplificato per dummies, ma riflettono una volontà di completare la transizione della “res pubblica” stellata in imperium aquilifero.

 La suggestione imperiale ha sicuramente una componente di proiezione internazionale, ma credo che risponda essenzialmente ad ambizioni e sfide domestiche: da un lato vorrei ricordare che, come già diversi anni orsono ha documentato il gruppo di lavoro di “Thomas Piketty”, la differenza nella distribuzione della ricchezza presente negli Stati Uniti ha raggiunto i livelli dell’Impero Romano.

Dall’altro, quello che a Trump interessa della figura imperiale è la dimensione del potere assoluto, dell’essere sciolto da qualunque vincolo normativo e istituzionale. Il tema del superamento dei limiti e dello scioglimento da qualunque vincolo è sotteso tanto alla continua svalutazione del ruolo e del senso delle istituzioni quanto alla riforma del mercato attraverso la piena legittimazione delle sue derive oligopolistiche e monopolistiche.

La valorizzazione del potere, inteso come asset che implica la minaccia e l’uso della forza per superare persino i limiti temporali del suo esercizio e per deformare il mercato e il contratto (e quindi la società e le regole) in una sua caricatura mafiosa fatta di estorsione e minacce, descrive una parabola in cui l’area dell’obbligazione politica e quella del contratto scambio si fondono e si sovrappongono, con esiti decisamente pericolosi tanto per la libertà politica quanto per quella economica.

La crescente diffusione degli ambiti del potere – da quello strettamente politico-istituzionale a quello economico-finanziario a quello tecnologico – non coincide per nulla con una sua diluizione o con una sua maggior contendibilità, ma semmai consente la penetrazione di chi lo detiene in tutti i domini con l’accaparramento di tutte le risorse dai quali e con le quali potrebbe generarsi una forma di resistenza o anche semplicemente di alterità.

Ed è precisamente nell’assistere a come modalità rivoluzionarie si perseguono tentazioni ricorrenti, dove evidentemente è la novità delle prime che rischia di esporci alla mercé delle seconde, privi dei consueti – rodati ma poco utili, forse inservibili – strumenti istituzionali che il liberalismo politico aveva messo a punto soprattutto nel corso del Novecento, che possiamo cogliere la pericolosità del momento storico che stiamo vivendo.

 

Siamo di fronte a un vero e proprio ”regime change” e non a un semplice avvicendamento tra due presidenti di colore politico diverso.

 

Il metodo d’azione in politica estera di Trump è il semplice epifenomeno di ciò che intende fare in politica interna, riducendo il ruolo del Congresso, depotenziando i ministeri e le agenzie federali a favore di autorità non indipendenti, create ad hoc e responsabili solo verso di lui, ad “nutum” dell’imperatore.

 È questo elemento che rende a mio avviso strutturale il cambio di politica e di atteggiamento nell’arena internazionale dell’America di Trump e di Vance e Musk, aggiungo.

Perché, considerata l’età di Donald, Vance è da considerare il successore in pectore di Trump, e non il semplice vice, una sorta di Cesare rispetto all’Augusto di Mar a Lago.

 

È questo il cambiamento più significativo e foriero di drammatiche conseguenze per l’Europa e per l’Italia, di un quadro internazionale che inizia a cambiare drasticamente con il discorso di rottura di Putin a Monaco (2007) e con l’elezione di “Xi Jinping “a segretario del Partito comunista cinese (2012) che sottopone il regime cinese a una torsione personalistica, nazionalista e neo-autoritaria e si completa con le guerre di aggressione della Russia alla Georgia (2008) e all’Ucraina (2014 e 2022).

 

3.

La domanda centrale, diventa quindi, se Giorgia Meloni ha compreso la natura del cambiamento e se ne ha tratto le conseguenze.

E la risposta appare francamente negativa.

La linea politica della presidente del Consiglio è apparsa orientata a mantenere innanzitutto saldo il rapporto con gli Stati Uniti, e questa scelta si è manifestata plasticamente nel sostegno prestato alla resistenza ucraina all’aggressione russa, concretizzatasi in un discreto sostegno militare (in termini di fornitura di equipaggiamenti) e finanziario e in un più robusto appoggio politico.

 Quest’ultimo le ha consentito di tracciare una linea di continuità con la politica estera e di sicurezza del governo Draghi – fondamentale nella prima parte della sua premiership per accreditarsi internazionalmente e tamponare le preoccupazioni nei confronti del primo governo di destra-destra nella storia della Repubblica con la Lega di Salvini sempre più apertamente filo-putiniana.

Durante la presidenza Biden, questa linea è consistita nell’allineamento con quella del presidente democratico, sempre attenta a sostenerne le scelte più prudenti, titubanti e procrastinanti tra quelle a disposizione dell’amministrazione americana e in tal senso allineate con molte delle posizioni europee.

Come la storia romana ci ricorda, i liberti (gli schiavi liberati) potevano accumulare straordinarie ricchezze e una quantità smisurata di potere proprio per la loro vicinanza all’ex padrone, ma la loro fortuna dipendeva dalla capacità di mantenere il favore imperiale.

 

Ma le cose sono cambiate con l’arrivo di Trump: tanto nei confronti dell’Ucraina, quanto nei confronti degli alleati europei.

 

Cosicché l’allineamento agli Stati Uniti e la ricerca di una relazione forte con Washington rischiano di implicare una sostanziale inversione di rotta tanto nei confronti del sostegno alla resistenza di Kyiv quanto della ricerca di una linea comune da parte dei membri europei dell’Alleanza atlantica.

 Lo si è visto con molta evidenza durante il vertice convocato all’Eliseo dal presidente Macron il 17 febbraio, nel tentativo di reagire all’uno-due inferto agli europei dalla coppia Trump-Vance.

Il mantra di Meloni sul fatto che senza l’America non esiste sicurezza europea poteva apparire una considerazione di buon senso, quasi una constatazione dello stato dell’arte, ma in effetti mascherava il dato di realtà più macroscopico e innovativo:

che era l’America di Trump ad aver prospettato un’effettiva rottura nei confronti della sicurezza europea, accettando la logica putiniana delle sfere di influenza, dimostrandosi disposto a mettere a repentaglio la sicurezza degli europei nell’illusione di una riedizione della Conferenza di Yalta, della quale il continente divenisse oggetto di una nuova spartizione, preparandosi ad esercitare pressione sull’Europa affinché revocasse i pacchetti di sanzioni adottate nei confronti di Mosca senza che la Russia concedesse alcunché.

 

La cosa si è riproposta, ingigantita e drammatizzata, nell’agguato al presidente ucraino Zelensky durante la conferenza stampa tenuta allo Studio ovale venerdì 28 febbraio ad opera della coppia Trump-Vance.

Si è trattata di una brutale aggressione al popolo ucraino — come se quella della Russi non fosse già sufficiente — e della più vergognosa umiliazione della democrazia e della presidenza degli Stati Uniti da parte di «una banda di gangster», per citare l’editoriale del “New York Times “del giorno successivo.

 Ma ha costituito anche una ennesima dimostrazione della concezione del potere, personale e assoluto, che guida la visione di questa amministrazione e della totale irrilevanza in cui sono tenuti gli alleati europei, chiamati a partecipare come comprimari alla pax trumpiana, mentre gli oligarchi intorno a Trump si spartiscono le spoglie minerarie dell’ucraina con quelli del Cremlino.

 

Ancora una volta, nel nuovo vertice di Londra del 2 marzo, un’Europa allargata a Regno Unito, Turchia e Canada ha fornito la sua replica, cercando di interloquire con la nuova America e di conciliare la necessità di non abbandonare Kyiv al suo destino e non concedere alla Russia una vittoria politica ben superiore ai risultati conseguiti sul campo e, allo stesso tempo, di attrezzarsi per implementare le proprie capacità di difesa, premessa per qualunque soggettività politica, in qualunque veste istituzionale la si voglia pensare ed esprimere.

Non si tratta di raggiungere una velleitaria — e inutile — parità strategica con la Russia, ma di raggiungere quella soglia che impedisce che Mosca possa coltivare l’illusione che “un nuovo patto Molotov-Ribbentrop” possa avere per oggetto la spartizione non della sola Ucraina ma dell’intero continente europeo.

 

 Apparirebbe singolare che un governo che si proclama orgogliosamente “sovranista” e composto di “patrioti” si dimostri disponibile a una relazione di sudditanza nei confronti della nuova amministrazione americana.

Ricercare l’unità dell’Occidente è un obiettivo comprensibile e auspicabile, ma ostinarsi a farlo quando il partner transatlantico sembra chiamarsi fuori, disconoscere i valori e le istituzioni che lo hanno costituito rischia di essere un esercizio suicida, più che velleitario.

Di fronte a questo possibile ribaltamento di prospettive la politica della presidente del Consiglio sembra in difficoltà, soprattutto nel non riconoscere fino in fondo che la ricerca della solidarietà atlantica non può andare a scapito della solidarietà europea.

 

Se andiamo a guardare alla storia recente della politica estera italiana, la linea classica di condotta dei governi della Repubblica è sempre stata quella di ricercare una condotta che stesse all’interno degli argini tracciati dalla membership europea e atlantica, le due grandi scelte “definitive” dell’Italia democratica.

Ma quando questo non è stato possibile, come si è proceduto?

 Il caso più eclatante è quello del governo Berlusconi in occasione dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003.

In quella contingenza la scelta dell’esecutivo italiano fu chiara:

 l’allineamento con gli Stati Uniti, mentre Francia e Germania si schieravano contro quella guerra (perlomeno in Consiglio di sicurezza dell’Onu, pur senza portare la contrapposizione all’interno della Nato).

Va però ricordato che quella decisione avvenne non in maniera solitaria o insieme a qualche piccola nazione del Centroamerica, ma in compagnia di Gran Bretagna, Spagna e Polonia, allora tutti Stati-membri dell’Unione.

Fotografava cioè un’Europa divisa, ma all’interno di una relazione transatlantica che si manteneva solida.

 Le reazioni americane nei confronti del diniego di solidarietà francese andarono poco oltre il temporaneo cambiamento del nome delle patatine fritte (da French fries a Liberty fries) nel menù della mensa del Congresso e dei pranzi della Casa Bianca.

 Tanto per dare la misura del cambiamento in atto, il presidente Trump ha bandito dalle conferenze stampa alla Casa Bianca l’”Associated Press”, “rea” di ostinarsi a chiamare il Golfo del Messico col suo vero nome e non con quello farlocco di “Gulf of America “— a qualcuno ricorda niente?

 Il Mare nostrum rievocato da Mussolini nei suoi vagheggiamenti neo-imperiali?

 

Parliamo di una incapacità di prendere atto della realtà o di una vera e propria volontà di adeguamento?

Questa è la domanda che dovremmo farci e alla quale occorre fornire una risposta. Certo, apparirebbe singolare che un governo che si proclama orgogliosamente “sovranista” e composto di “patrioti” si dimostri disponibile a una relazione di sudditanza nei confronti della nuova amministrazione americana.

Perché il punto sta proprio qui.

Nella condotta dell’America di Trump, non c’è spazio per alleanze, figuriamoci per relazioni speciali e altamente istituzionalizzate come quella costruita in oltre 75 anni di Alleanza Atlantica.

Che ne sia o meno consapevole, nel suo rapportarsi con gli europei Donald Trump sta replicando lo schema del rapporto patrono-cliente tipico della Roma antica, con il quale l’Urbe instaurava relazioni ineguali con soggetti politici ritenuti inferiori per rafforzare la sicurezza dei propri confini.

Conviene capirsi.

 Relazioni di questo tipo gli americani le hanno sempre avute, dapprima nel continente americano e poi nel Pacifico e in Asia, a mano a mano che il proprio potere e le proprie ambizioni crescevano.

 Rispetto alle alleanze però, e in particolar modo rispetto a un’alleanza molto peculiare come quella atlantica, i rapporti di clientela presentano una serie di significative differenze, tutte riscontrabili nelle parole e nei comportamenti di Trump.

 La prima è che il dato di superiorità anche formale del patrono sul cliente è parte costitutiva della relazione.

 È il patrono che decide il comportamento che il cliente deve tenere e non c’è spazio per nessuna dialettica interna.

E’ il patrono che determina chi è il nemico contro il quale il cliente deve prestare assistenza mentre la protezione verso i nemici esterni del cliente è sempre nella disponibilità esclusiva del patrono.

Al contrario, maggiore disponibilità si dimostra nei confronti dei nemici interni del proprio cliente.

 E forse così le esternazioni di Musk e Vance nei confronti della “leader di Afd” diventano meno estemporanee e si comprendono meglio.

Il rapporto di clientela non prevede istituzioni collettive, il riconoscimento di una comunità ideale o di una vera e propria comunità di sicurezza, in cui le differenze tra i diversi membri si attenuano.

Anzi, la relazione che lega patrono e cliente è personale, lega i due leader, e non si estende ai popoli.

 In questa logica, non sorprende che Trump mostri un totale disprezzo e un concreto non riconoscimento per le istituzioni collettive dei suoi “cliente” europei. Così si inquadra meglio la gravità della rottura personale fra Trump e Zelensky nell’agguato dello Studio Ovale.

 

Che ne sia o meno consapevole, nel suo rapportarsi con gli europei Donald Trump sta replicando lo schema del rapporto patrono-cliente tipico della Roma antica, con il quale l’Urbe instaurava relazioni ineguali con soggetti politici ritenuti inferiori per rafforzare la sicurezza dei propri confini.

Il progressivo cambiamento del quadro internazionale è stato in una certa misura offuscato dal processo di allargamento di Unione Europea e Nato che affondava negli esiti conclusivi della Guerra Fredda e, probabilmente, ha avuto una sorta di “effetto supernova”, cioè si ha accelerato e ampliato proprio mentre la sua energia veniva meno.

 Credo sia da collocare qui il duro ammonimento di qualche anno fa del presidente francese Emmanuel Macron — «la Nato è in una condizione di morte cerebrale».

E sicuramente il continuo impiego della struttura dell’Alleanza nelle guerre mediorientali e balcaniche degli ultimi 25 anni ha contribuito sia a una carenza di riflessione strategica e insieme prospettica sulla e nella Nato, sia a fornire l’impressione che l’alleanza fosse riuscita ad aggiornare con successo la sua missione.

La natura altamente istituzionalizzata della Nato ha anch’essa contribuito a produrre la sensazione che la relazione tra la fine del secolo e l’inizio del successivo potesse essere più armonica e in continuità di quanto sia poi risultato.

Quest’ultimo aspetto ha coinvolto anche la Ue, essa pure una istituzione che sorge e si sviluppa grazie e dentro la pax atlantica americana, che gioca un ruolo decisivo nella stabilizzazione dell’ex impero esterno sovietico ma che invece non incide nei confronti dello spazio post-sovietico, oltre che di quello mediterraneo.

Fin dove la politica di allargamento è possibile, essa risulta complessivamente di successo, pur mostrando crepe in termini di irreversibilità della liberalizzazione e democratizzazione di alcuni nuovi Stati-membri (Ungheria su tutti, ma in parte il discorso vale anche per Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Croazia).

Il fallimento è viceversa palese nei confronti del suo estero vicino (tanto a Est quanto a Sud), dove l’obiettivo di riuscire a costruire un «ring of friends» oltre il proprio limes non viene mai conseguito. Anzi.

Bielorussia e Georgia, e forse Ucraina, ne forniscono una tragica testimonianza a Est, mentre a Sud la lista degli insuccessi comprende tutti i paesi dell’area.

 

È il patrono che decide il comportamento che il cliente deve tenere e non c’è spazio per nessuna dialettica interna.

È il patrono che determina chi è il nemico contro il quale il cliente deve prestare assistenza mentre la protezione verso i nemici esterni del cliente è sempre nella disponibilità esclusiva del patrono.

4.

Al di sotto di questi fenomeni appena descritti, sia pure sommariamente, agiscono due poderosi fattori di disgregazione dell’ordine internazionale liberale.

Negli Usa assistiamo alla rapida e progressiva radicalizzazione e polarizzazione del quadro politico che gli otto anni di presidenza Obama in parte illudono di poter comunque rintuzzare e in parte esasperano, contribuendo a suscitare quella reazione che porterà alla prima presidenza Trump.

E il meccanismo si ripete, in scala ridotta con i quattro anni di Biden.

Nell’Unione europea si osservano invece avanzare sentimenti anti-europei, populisti e sovranisti che forgiano gli attori anti-sistema che diventeranno sempre più cruciali nei nostri giorni.

 

Le due spinte riflettono il tradimento (percepito e parzialmente vero) della promessa di inclusione e diffusione del benessere operate dai regimi liberaldemocratici dopo la fine della Guerra fredda, divorate sull’altare della globalizzazione da parte di nuove élite economiche fameliche e sempre più distanti dai valori delle tradizionali élite politiche, il cui dato ideologico prevalente è la furia iconoclasta anti- liberal (anti-progressista diremmo in italiano), che manifesta una assoluta volontà di rottura rispetto alla cultura liberal/progressista (in senso molto ampio e trasversale rispetto ai partiti e agli schieramenti politici) responsabile di aver forgiato l’ordine internazionale post-bellico e influenzato pesantemente anche le diverse élite politiche nazionali.

 

Come sempre accade, l’ascesa di queste élite economiche ha fornito materiale per l’elaborazione ideologica da parte di quelle contro-élite politiche fino a quel momento emarginate dal discorso pubblico, o comunque più marginali rispetto al dibattito principale, in gran parte collocate sul lato destro dello schieramento proprio in virtù del fatto che l’asse mediano della politica inclinava sul centro-sinistra, soprattutto con la fine della Guerra fredda.

Questa collocazione nello spazio politico-culturale della destra forniva una tangibile rassicurazione che il nuovo discorso politico non avrebbe messo in discussione la proprietà privata, la legittimità dei profitti e la santità dell’iniziativa individuale.

È proprio tale saldatura con una dimensione rilevante della cultura delle élite globaliste che ha spostato verso destra il quadro complessivo del dibattito pubblico e delle idee presentabili.

 

Un simile processo non presenta un andamento lineare, né è figlio di una regia originaria o di un disegno coerente.

Ma nel suo dipanarsi offre opportunità di alleanze tattiche e chance di impossessarsi della leadership, potendo magari piegare ai propri specifici interessi il discorso politico, la narrazione, dirottandolo o modificandolo sia a livello domestico sia a livello internazionale.

 

Si tratta di capire che la continuità nella linea di politica estera filoamericana, quando il quadro complessivo cambia e la stessa politica americana subisce un radicale ribaltamento, non è una manifestazione di coerenza ma di debolezza di pensiero strategico.

Musk è per più di un aspetto il campione di quanto stiamo dicendo.

La sua forza è intimamente legata alla dimensione globale dei mercati sui quali ha costruito le diverse tappe e i diversi settori della sua fortuna.

Eppure, si presenta come campione delle forze populiste e sovraniste che vorrebbero vendicare i vinti della globalizzazione, quelli lasciati indietro dal medesimo processo che ha segnato il trionfo dell’uomo più ricco del pianeta.

Ha uno stile di vita decisamente non tradizionale, mentre sostiene i movimenti reazionari in giro per il mondo.

È un alfiere dell’imperialismo Usa e intanto appoggia l’appeasement con la Russia. Si professa libertario ma è il nemico programmatico di un’idea di Occidente basata sul triangolo liberale composto da democrazia rappresentativa, economia di mercato e società aperta.

 

Sono dunque soprattutto considerazioni di politica interna americana – la volontà di Trump di affermare una supremazia senza limiti del potere esecutivo, con accentuazioni personalistiche di stampo sudamericano nel tentativo di realizzare un cambiamento permanente del quadro politico domestico – a far ritenere che la sua amministrazione proseguirà nei prossimi quattro anni quanto mostrato nei primi trenta giorni.

 

Se così stanno le cose, l’Europa deve rapidamente attrezzarsi per provvedere alla sua sicurezza anche nel caso del venire meno del sostegno Usa.

È un percorso costoso, impegnativo e, anche, impopolare.

Ma obbligato, se vogliamo far sì che l’Unione sopravviva.

Ed è proprio la sopravvivenza dell’Unione, e il suo rafforzamento anche istituzionale, la condizione necessaria per la tutela della libertà, della democrazia, della sovranità e del benessere dei singoli Stati-membri.

Un rafforzamento che diventa ancora più decisivo, qualora la situazione dell’Ucraina dovesse degenerare.

Rispetto alla formazione politico-ideologica di Meloni e dei diversi sovranisti presenti in Europa, si tratta di compiere una vera e propria inversione di marcia nell’atteggiamento fin qui tenuto nei confronti della prospettiva di una statualità europea più effettiva (obiettivo più volte ribadito da Mario Draghi).

 In termini più immediati, si tratta di capire che la continuità nella linea di politica estera filoamericana, quando il quadro complessivo cambia e la stessa politica americana subisce un radicale ribaltamento, non è una manifestazione di coerenza ma di debolezza di pensiero strategico.

L’emergere di foschi discorsi intorno al cosiddetto «corridoio di Kaliningrad», per assicurare il collegamento della exclave russa alla Bielorussia, oltre a ricordare sinistramente un altro corridoio — quello di Danzica, nel 1939 — ci ammonisce sulla necessità e urgenza di mutare i nostri indirizzi per adeguarli ai tempi.

Affidarsi alla speranza che le parole di Trump siano dettate solo o prevalentemente da una sorta di strategia negoziale da bullo, o sperare che tra quattro anni le relazioni transatlantiche possano tornare al sereno, credo sia un pericoloso — e temo suicida — esercizio.

 

 

 

Telefonata Meloni-Trump:

 tutti i no del presidente Usa.

Lastampa.it - Ilario Lombardo – (06 Marzo 2025) – ci dice:

 

Dal vertice con l’Ue all’ombrello Nato per Kiev, la Casa Bianca fredda sulle idee della premier.

Riarmo europeo, Giorgetti critico: “Frettoloso”.

 I dubbi di Palazzo Chigi sul nucleare di Parigi.

ROMA. La telefonata di sabato scorso tra Giorgia Meloni e Donald Trump non è andata bene.

È quanto la stessa premier ha riferito ad alcuni collaboratori.

 Una conversazione franca, secca, dedicata all’Ucraina e ai negoziati di pace, che ha permesso alla premier di avere conferma delle volontà e del comportamento deciso, a tratti spietato, del presidente americano.

Ritornare a quella telefonata aiuta a capire anche come Meloni siederà oggi al tavolo del Consiglio europeo straordinario:

 con un governo spaccato alle sue spalle, certo, ma anche con poche certezze, qualche risultato già ottenuto (scorporo delle spese della Difesa dal calcolo Deficit/Pil), molti dubbi, qualcuno ancora su cui lavorare (l’impatto sul debito degli investimenti militari) e qualche piccola speranza di riavvicinare Trump e i vertici dell’Unione europea.

La premier dirà come la pensa: vanno bene gli accordi sul riarmo europeo, ma senza abbandonare la Nato.

Mentre si è già detta poco favorevole sulla copertura nucleare offerta a tutta l’Unione da Emmanuel Macron: «Perché confermerebbe il disimpegno Usa».

In questi quattro giorni trascorsi dal colloquio telefonico non ci sono state ricostruzioni di quanto i due leader si sono detti, solo pochi accenni frutto di un comunicato privo di contenuti, pubblicato da Palazzo Chigi a tarda sera di sabato, e l’unica battuta di Meloni, l’indomani, al termine del vertice di Londra:

 «Non entro mai nei dettagli dei colloqui telefonici.

Ma posso assicurarvi che quello che dico in pubblico lo dico anche in privato».

 La premier elude così la domanda, confermando, però, due elementi:

che la telefonata non ha avuto una conclusione esaltante e spendibile, e che ha provato a convincere il suo ostico interlocutore con argomentazioni che poi avrebbe effettivamente esposto in modo aperto.

Perché la strategia di Trump è un pericolo per l'Europa e per l'Ucraina.

 

Su diversi punti Meloni si è sentita rispondere un’infilata di no.

Ha chiesto a Trump di prendere parte a un vertice Europa-Stati Uniti su Kiev, come proposto dalla leader, per superare il formato ristretto che ha caratterizzato le riunioni di Macron e Keir Starmer, organizzate in risposta alla brutale esclusione dell’Unione e dell’Ucraina dal tavolo delle trattative Usa-Russia.

Meloni è convinta che solo così, con l’Europa compatta e legata al patto atlantico con Washington, si preserverebbe una forza negoziale.

Avrebbe voluto il sostegno del presidente e invece:

 la risposta di Trump è stata da negoziatore implacabile, come Meloni stessa ha ammesso una volta chiusa la telefonata.

Le divisioni dell’Europa – ha detto il capo della Casa Bianca – sono fatti dell’Europa, non è interesse americano fare la prima mossa.

 Accorciare le distanze con Bruxelles vorrebbe dire preparare il terreno di un accordo che farebbe rientrare l’Ue tra i protagonisti.

E, secondo Meloni, è proprio questo quello che Trump teme possa scatenare un irrigidimento di Vladimir Putin.

Soprattutto se dovesse nascere su iniziativa americana.

 Inoltre, è ormai evidente che al leader Usa, come all’autocrate russo, non dispiace l’idea di un’Europa frantumata, e dunque, più debole.

 

INTERVISTA

Ucraina, Chesnokov: serve l’ingresso automatico nella Nato come garanzia per la pace.

Filippo Femia.

Meloni ha comunque concluso la telefonata con l’impressione che qualche margine per tenere in vita il confronto, Trump lo abbia lasciato.

 Ma a una condizione: che la proposta parta da Bruxelles.

 Ecco perché ieri la premier ha accolto con soddisfazione che i vertici Ue abbiano fatto filtrare da “fonti ufficiali” di «essere pronti a un summit Ue-Usa, e di considerare utile la proposta» di Meloni:

«Vedremo – aggiungono – quando ci saranno le condizioni, in particolare da parte americana».

La strategia per tentare di cucire su di sé un ruolo di mediatrice si fonda su due proposte:

 la prima è il vertice euroatlantico, la seconda è l’ideazione di un ombrello protettivo per l’Ucraina senza il suo ingresso nella Nato:

Trump non la vuole, quindi il tema per i prossimi quattro anni di mandato – a meno di ripensamenti – è fuori discussione.

Meloni ha provato a sondarlo sulla sua idea, di una forma adattabile a Kiev di articolo 5, che impone ai Paesi membri di intervenire in caso di aggressione anche a uno solo di loro, e di nuovo ha ricevuto un no dal leader repubblicano.

Ma è un no in cui dice di aver intravisto una crepa:

«Trump fa sempre così – confessa – poi si siede a trattare e in una seconda fase negoziale concede qualcosa».

Meloni cerca una possibile convivenza con la nuova amministrazione Usa.

Se cambiano le priorità americane cambiano gli equilibri:

qualcosa perde Putin e qualcosa perde Volodymyr Zelensky.

È ormai probabile che il secondo perderà di più.

Meloni non può mollarlo, perché manifesterebbe un’incoerenza enorme dopo averlo sostenuto convintamente per tre anni.

Per questo, il cedimento del presidente ucraino, che ha accettato i termini americani dell’accordo sulle terre rare, in qualche modo l’aiuta.

 

A complicarle il lavoro ci pensano, invece, le divisioni della sua maggioranza.

 Le perplessità sugli effetti che “Rearm Europe”, il piano di Ursula von der Leyen, può avere sul debito italiano sono anche quelle della premier.

Ecco perché da Palazzo Chigi considerano «ragionevoli» le critiche del ministro dell’Economia “Giancarlo Giorgetti”, che mette in guardia da una proposta di investimenti «fatta in fretta e in furia», e dal rischio di ripetere gli «errori clamorosi» avvenuti durante il Covid.

Va detto che Giorgetti parlava in un contesto di partito, un convegno della Lega, dunque, come spesso gli accade, cerca con grandi acrobazie di non sconfessare la linea ultra-trumpiana del segretario Matteo Salvini, anche sui dazi.

Nonostante un vertice a tre a Palazzo Chigi, i leader e vicepremier hanno continuato a dire come la pensano, uno contro l’altro.

 Il leghista è contro Von der Leyen:

«Il suo piano non piace agli italiani. Possiamo investire di più in difesa senza indebitarci».

E l’azzurro Antonio Tajani contro Salvini:

«Il quadro del piano va bene. Questo non è un governo anti-europeista. La linea la decide Meloni con me».

Meloni, visita lampo da Trump.

 Nyt: "Premier ha premuto in

 modo aggressivo su caso Sala."

Usarci.it – Adnkronos – Redazione – (5-1-2025) – ci dice:

 

(Adnkronos) - Visita lampo di Giorgia Meloni a Mar-a-Lago, dove la premier ha incontrato il presidente eletto degli Usa Donald Trump.

 Dopo circa 5 ore dal suo arrivo a Palm Beach, la premier è risalita sul volo che la sta riconducendo a Roma.

 

Nel corso del loro incontro a Mar-a-Lago, Meloni e Trump hanno parlato del caso di “Cecilia Sala”, la giornalista detenuta in Iran dal 19 dicembre scorso.

Lo rivela il “New York Times”, citando una fonte informata sull'incontro, secondo cui la premier "ha premuto in modo aggressivo" su questo. 

Sui social le immagini dell'incontro tra la presidente del Consiglio e il tycoon.

 La giornalista di Cbs, “Jennifer Jacobs,” sul proprio profilo 'X' ha pubblicato una foto della premier con Trump e Marco Rubio, il futuro segretario di Stato della nuova amministrazione.

 

A Mar-a-Lago erano presenti, ha scritto su 'X' il giornalista del “Wall Street Journal” Alex Leary che ha pubblicato una foto, anche “Scott Bessent”, che è stato scelto da Trump come futuro segretario al Tesoro, “Tilman Joseph Fertitta” che il presidente eletto ha scelto come futuro ambasciatore Usa in Italia e l'ambasciatrice italiana negli Usa, “Mariangela Zappia”.

 

Sempre “Leary” in un post su 'X' ha citato le parole di Trump rivolte a Meloni:

"Ha davvero preso d'assalto l'Europa".

 Leary ha riferito anche le parole di Rubio che dando il benvenuto alla premier l'ha definita "un'ottima alleata, un leader forte".

 

Nel corso della cena avuta a Mar-a-Lago, Trump ha fatto vedere a Meloni il docufilm “'The Eastman Dilemma: Lawfare or Justice'”, che denuncia "un sistema giudiziario sempre più politicamente motivato", come si legge sulla pagina web del doc.

Lo scrivono i media americani parlando dell'incontro tra Trump e la premier italiana.

Alla proiezione erano presenti alcuni membri della futura amministrazione, tra cui “Rubio” e “Bessent”.

 

L'incontro tra la premier italiana e il presidente eletto americano - a pochi giorni dall'arrivo in Italia, venerdì prossimo, di Joe Biden - "rafforza le speranze dei sostenitori di Meloni sulla possibilità che il primo ministro conservatore diventi l'alleato principale di Trump in Europa", commenta il New York Times.

Secondo cui buona parte di quel ruolo prevede che "medi le tensioni" tra i leader europei e il presidente eletto, che "ha minacciato di avviare una guerra commerciale con il continente così come di ridurre il sostegno ad alcuni Paesi della Nato e all'Ucraina nella guerra contro la Russia". 

Meloni, sottolinea ancora il quotidiano americano, "è uno dei pochi leader stranieri ad essersi recato in visita dal presidente eletto in Florida dalla sua elezione": tra questi l'ungherese Viktor Orban e l'argentino Javier Milei.

(adnkronos.com/politica/meloni-visi...).

 

 

 

 

Ue-Usa: Schlein, 'Meloni difende

interesse Trump e Musk,

non quello nazionale.'

 Lagazzettadelmezzzogiorno.it - Agenzia Adnkronos – (28 Marzo 2025) – ci dice:

 

Roma, 28 mar. (Adnkronos) - “Giorgia Meloni ha scelto di difendere l’interesse nazionale, ma quello americano. Anzi, quello di Trump e Musk. Oggi è più chiaro che mai, ha scelto di indossare il cappellino Maga, ammainando di fatto da palazzo Chigi la bandiera italiana e quella europea".

Così la segretaria del Pd, Elly Schlein.

 "Ed è un problema enorme invece per l’interesse nazionale italiano se la presidente del consiglio sceglie di dare ragione a chi, come Vance, dà dei parassiti agli europei, insultando quindi anche noi italiani, dopo giorni di imbarazzante silenzio".

"Ed è agli italiani che Giorgia Meloni dovrà spiegare perché ha scelto Trump come 'primo alleato', quando il prossimo 2 aprile entreranno in vigore i dazi Usa del 25% sulle nostre merci, sulle nostre eccellenze, che pagheranno le imprese, i lavoratori e le famiglie italiane.

 Giorgia Meloni vada dire a loro 'state calmi, ragazzi, ragioniamoci'", dice Schlein.

 

"Il governo Meloni si sta trasformando giorno dopo giorno nel cavallo di Troia dell’amministrazione Trump all’interno dell’Unione Europea, in uno strumento degli oligarchi americani utilizzato nel nostro continente per fare i loro interessi.

Un fatto grave e imbarazzante per l’Italia, Paese membro fondatore dell’Unione.

 Questa deriva va fermata, è il momento di difendere i nostri interessi e il nostro orgoglio di italiani e di europei", conclude.

 

 

 

Meloni: infantile scegliere tra

Trump e la Ue. E sulla Ue

sta con Vance.

Italiaoggi.it – Redazione – (28/03/2025) -

 

 

Intervista della premier con il” Financial Times”: per l'Italia il presidente americano non rappresenta un avversario, ma il primo alleato.

Per l'Italia scegliere tra gli Stati Uniti e l'Europa, sarebbe una scelta "infantile" e "superficiale".

Lo ha dichiarato la premier Giorgia Meloni in un'intervista con il “Financial Times”, la prima con un quotidiano straniero da quando è in carica dal 2022.

 

"E' nell'interesse di tutti superare le gravi tensioni nelle relazioni transatlantiche", ha aggiunto Meloni, definendo le reazioni di alcuni leader europei al presidente americano Donald Trump come "un po' troppo politiche".

Per l'Italia "il presidente americano non rappresenta un avversario, bensì il primo alleato.

Sono conservatrice. Trump è un leader repubblicano.

Di sicuro sono più vicina a lui che a molti altri, ma capisco un leader che difende i suoi interessi nazionali.

 Io difendo i miei", ha proseguito ancora la premier assicurando che "i nostri rapporti con gli Stati Uniti sono i più importanti che abbiamo.

 L'Italia può avere buoni rapporti con gli Stati Uniti e se c'è qualcosa che l'Italia può fare per evitare uno scontro con l'Europa e costruire ponti, lo farò, e questo è nell'interesse degli europei".

 

Dazi, no a reazioni di istinto.

Meloni ha poi affrontato la questione legata alla possibile reazione europea ai dazi imposti dagli Usa.

"A volte ho l'impressione che. rispondiamo semplicemente d'istinto.

Su questi argomenti devi dire: state calmi, ragazzi, pensiamoci", ha detto la premier ricordando che mentre i livelli tariffari complessivi tra Stati Uniti ed Europa erano più o meno equivalenti, i dazi elevati su alcuni articoli specifici stavano causando attriti.

"Ci sono grandi differenze sui singoli beni", ha osservato, "è su questo che dobbiamo lavorare per trovare una buona soluzione comune.

Non è facile competere con qualcuno che in un giorno può firmare 100 ordini esecutivi".

Europa, Meloni dà ragione a Vance.

"Devo dire che sono d'accordo" con le posizioni espresse dal vicepresidente statunitense JD Vance sull'Europa alla Conferenza di Monaco.

Lo dico da anni.

 L'Europa si è un po' persa", ha infine dichiarato Meloni precisando che "la critica di Trump all'Europa non era rivolta al suo popolo ma, alla sua "classe dirigente e all'idea che invece di leggere la realtà e trovare modi per dare risposte alle persone, si possa imporre la propria ideologia alle persone".

 

 

 

BlackRock e Goldman Sachs

hanno architettato

 il “bazooka” tedesco?

 

Comedonchisciotte.org - Redazione CDC – (31 Marzo 2025) - Movisol.org – ci dice:

 

Secondo il “Financial Time”s dell’8 marzo, cinque giorni dopo le elezioni nazionali in Germania, il vincitore, il democristiano” Friedrich Merz”, ha pranzato con il ministro delle Finanze in carica, il socialdemocratico” Jörg Kukies”.

“All’ora di pranzo di venerdì scorso [28 febbraio], il futuro cancelliere tedesco ha ricevuto dal ministro delle Finanze Jörg Kukies un briefing poco rassicurante sullo stato dell’economia”, ha scritto il FT.

 “Kukies ha spiegato che dopo due anni di stagnazione e con ulteriori nubi che si addensano sulla più grande economia europea, Berlino si trova ad affrontare un deficit di bilancio di 130 miliardi di euro in quattro anni e un potenziale di crescita in diminuzione, secondo persone a conoscenza della relazione”.

 

Quel briefing, così come la resa dei conti Trump-Zelensky, che avvenne alla Casa Bianca più tardi quel giorno, avrebbe convinto Merz dell’urgenza di fare “una delle più brusche inversioni di rotta della storia politica recente”.

Da qui, il “bazooka” da 900 miliardi di euro che avrebbe affrontato le emergenze sia sul fronte economico che su quello della sicurezza.

La cifra si riferisce ai 400 miliardi d stanziati per il riarmo e al pacchetto di infrastrutture da 500 miliardi.

Questo per quanto riguarda la narrazione del quotidiano della City di Londra.

Tuttavia, c’è un’angolazione più ampia.

Merz è un ex uomo di BlackRock e Kukies è un ex uomo di Goldman Sachs.

Hanno la stessa mentalità; la loro bussola sono i mercati finanziari e la loro preoccupazione potrebbe essere stata più grande del buco di bilancio:

si pensi alla piramide dei derivati e alle attività di debito sovrano possedute dal sistema bancario.

La decisione di gettare la Germania nell’indebitamento eccessivo consente al sistema finanziario di prolungare la propria agonia, in particolare dopo il fallimento della bolla verde.

Quando fu lanciata quest’ultima, le newsletter della City di Londra annunciavano con entusiasmo che “il verde è il nuovo oro”, ora le stesse newsletter avvisano che i gestori di fondi sono “bramosi di titoli di guerra”.

 

Il “bazooka” tedesco si aggiunge al programma “ReArmEurope” dell’UE, ma è più “solido”.

La Germania è l’unico grande Paese dell’UE che ha un certo margine di manovra, dato che il suo debito è (solo) il 60% del PIL.

Il programma “Re Arm Europe” stenta a decollare per quanto riguarda la componente (150 miliardi) che dovrebbe essere fornita dal debito nazionale.

 La seconda componente, gli eurobond, è in bilico perché alcuni Paesi, tra cui la Germania, sono attualmente contrari.

La terza componente, il risparmio privato, potrebbe funzionare, ma non è ancora chiaro in quale forma verrà adottata e quanto risparmio privato potrà essere dirottato dal risparmio tradizionale ai “war bond”.

 

Inoltre, il bazooka tedesco non ha un limite massimo e il debito pubblico reale potrebbe facilmente crescere in un paio d’anni fino a 1.700 miliardi, facendo entrare la Germania nel club dei membri sovra indebitati dell’UE.

Da un lato, il rendimento del nuovo debito sicuramente salirà; dall’altro, la condizionalità generale per gli investimenti per motivi di “sicurezza” è così ampia che qualsiasi nuova spesa potrebbe essere giustificata.

Per quanto riguarda la speranza dell’establishment tedesco di creare una ripresa economica trainata dalla difesa, farebbe bene ad ascoltare “Fabio Panetta”, che non è un pacifista radicale, ma il governatore della Banca d’Italia, con molti anni di esperienza nel consiglio della BCE.

 

Parlando al “Centro San Domenico” di Bologna, il 17 gennaio, Panetta ha dichiarato:

“Lo sforzo bellico sostiene la domanda aggregata e può stimolare l’innovazione, ma distorcendone gravemente le finalità.

I benefici economici sono però transitori e non eliminano la necessità di riconvertire l’economia una volta concluso il conflitto, anche nei Paesi coinvolti che non abbiano subito danni diretti sul proprio territorio.

 L’alta inflazione e il crollo del Pil che spesso caratterizzano le fasi belliche sono i segni dei danni che i conflitti provocano al tessuto economico (…) la produzione di equipaggiamenti bellici non contribuisce ad aumentare il potenziale di crescita di un Paese.

Lo sviluppo deriva dagli investimenti produttivi, non dalle armi.”

(ilsole24ore.com/art/panetta-produrre-armi-non-favorisce-crescita-economica-AGzX8JMC).

(Movisol.org).

 (movisol.org/blackrock-e-goldman-sachs-hanno-architettato-il-bazooka-tedesco/).

 

 

 

 

 

Punti chiave della storia segreta del NYT

che descrive in dettaglio il coinvolgimento

 "scioccante" degli Stati Uniti

nella guerra in Ucraina.

Zerohedge.com - Tyler Durden – (30-3-2025) – ci dice:

 

È troppo tardi per anni e i media alternativi e indipendenti avevano già fatto così tanto lavoro per esporre la realtà, compresi i libri di 600+ pagine che sono stati pubblicati, ma il “New York Times” di domenica è uscito con un lungo rapporto su The Partnership: The Secret History of America's Role in the Ukraine War”.

 

Fino a poco tempo fa, i guardiani dei media mainstream non ammettevano nemmeno che una guerra per procura si stesse svolgendo fin dall'inizio del conflitto in Ucraina.

Questo anche dopo che il cosiddetto giornale aveva riconosciuto, all'inizio del febbraio 2024, che la CIA aveva costruito 12 "basi di spionaggio segrete" in Ucraina per condurre una guerra ombra contro la Russia che risaliva al 2014.

 

Ancora una volta, arriva troppo tardivamente, ma ora che le forze ucraine hanno chiaramente perso la battaglia, il “Times ammette” che la precedente amministrazione Biden è stata molto più coinvolta nell'essere coinvolta a livello militare e di intelligence con l'Ucraina di quanto fosse stato precedentemente reso pubblico da fonti ufficiali.

Il rapporto è un'analisi approfondita della "straordinaria partnership di intelligence, strategia, pianificazione e tecnologia" che è diventata "l'arma segreta" di Zelensky per contrastare la Russia.

Inizia descrivendo che entro due mesi dall'invio del suo esercito da parte di Putin oltre il confine, i generali ucraini in abiti civili venivano segretamente portati via per sessioni di pianificazione della guerra di alto livello nelle basi statunitensi in Germania.

"I passeggeri erano alti generali ucraini", descrive il “NY Times” degli uomini portati da un convoglio di auto senza contrassegni dalla capitale ucraina all'Europa occidentale.

 La loro destinazione era “Clay Kaserne”, il quartier generale dell'esercito americano in Europa e in Africa a Wiesbaden, in Germania.

 La loro missione era quella di aiutare a forgiare quello che sarebbe diventato uno dei segreti più gelosamente custoditi della guerra in Ucraina".

 

Il rapporto chiarisce che i comandanti statunitensi erano molto più coinvolti nelle operazioni ucraine di quanto si sapesse, al punto da "scioccare" alcuni alleati della NATO.

In sostanza, molte operazioni anti-russe che si svolgono sui campi di battaglia dell'Ucraina sono state semplicemente condotte dalla base in Germania.

"Ma un'indagine del “New York Times” rivela che l'America è stata coinvolta nella guerra in modo molto più intimo e ampio di quanto si pensasse in precedenza", continua il rapporto.

"Nei momenti critici, la partnership è stata la spina dorsale delle operazioni militari ucraine che, secondo i calcoli degli Stati Uniti, hanno ucciso o ferito più di 700.000 soldati russi.

(L'Ucraina ha stimato il bilancio delle vittime a 435.000).

Fianco a fianco nel centro di comando della missione di “Wiesbaden”, gli ufficiali americani e ucraini hanno pianificato le controffensive di Kiev.

 Un vasto sforzo di raccolta di informazioni da parte dell'intelligence americana ha guidato la strategia di battaglia più ampia e ha incanalato informazioni precise sul bersaglio verso i soldati ucraini sul campo".

In particolare, si tratta essenzialmente di funzionari statunitensi e del “NY Times” che ammettono che il Cremlino ha sempre avuto ragione quando ha insistito sul fatto che non si è mai trattato semplicemente di Mosca contro Kiev, ma che i paesi della NATO hanno militarizzato l'Ucraina e l'hanno armata contro la Russia.

Il presidente Putin e i funzionari del Cremlino si sono lamentati ferocemente dell'intervento degli Stati Uniti per tutto il tempo, ma questo è stato liquidato in Occidente come mera "propaganda".

 

Di seguito sono riportati alcuni estratti chiave dal lunghissimo rapporto del NY Times, con sottotitoli ed enfasi di ZeroHedge...

Gli americani supervisionano la "catena di uccisione."

Un capo dell'intelligence europea ha ricordato di essere rimasto sorpreso nell'apprendere quanto profondamente fossero rimasti invischiati i suoi omologhi della N.A.T.O. nelle operazioni ucraine.

 "Fanno parte della catena di uccisione ora", ha detto.

L'idea guida della partnership era che questa stretta cooperazione avrebbe potuto consentire agli ucraini di compiere la più improbabile delle imprese:

sferrare un colpo schiacciante agli invasori russi.

Le più grandi imprese sul campo di battaglia sono state in realtà la CIA/Pentagono.

 

Una prima prova di concetto è stata una campagna contro uno dei gruppi di battaglia più temuti della Russia, la “58a Armata ad armi combinate”.

A metà del 2022, utilizzando l'intelligence americana e le informazioni sugli obiettivi, gli ucraini hanno scatenato una raffica di razzi contro il quartier generale del 58° nella regione di Kherson, uccidendo generali e ufficiali di stato maggiore all'interno.

Ancora e ancora, il gruppo si è stabilito in un'altra posizione; ogni volta, gli americani lo trovavano e gli ucraini lo distruggevano.

 

Più a sud, i partner hanno messo gli occhi sul porto di Sebastopoli in Crimea, dove la flotta russa del Mar Nero ha caricato missili destinati a obiettivi ucraini su navi da guerra e sottomarini.

Al culmine della controffensiva ucraina del 2022, uno sciame di droni marittimi prima dell'alba, con il supporto della Central Intelligence Agency, ha attaccato il porto, danneggiando diverse navi da guerra e spingendo i russi a iniziare a ritirarle.

 

Sbilanciarsi.

Gli ucraini a volte vedevano gli americani come prepotenti e controllanti – il prototipo degli americani condiscendenti.

 Gli americani a volte non riuscivano a capire perché gli ucraini non accettassero semplicemente i buoni consigli.

Mentre gli americani si concentravano su obiettivi misurati e raggiungibili, vedevano gli ucraini costantemente alla ricerca della grande vittoria, del premio luminoso e splendente.

La controffensiva fallita del 2023 è stata ordita nel quartier generale americano.

 

Eppure, probabilmente nel momento cruciale della guerra – a metà del 2023, quando gli ucraini hanno organizzato una controffensiva per costruire uno slancio vittorioso dopo i successi del primo anno – la strategia ideata a Wiesbaden è caduta vittima della litigiosa politica interna dell'Ucraina:

 il presidente, Volodymyr Zelensky, contro il suo capo militare (e potenziale rivale elettorale) e il capo militare contro il suo testardo comandante subordinato.

Quando Zelensky si è schierato con il subordinato, gli ucraini hanno riversato vasti complementi di uomini e risorse in una campagna finalmente inutile per riconquistare la città devastata di “Bakhmut”.

Nel giro di pochi mesi, l'intera controffensiva si concluse con un fallimento nato morto.

Biden ha vietato le operazioni clandestine in pubblico, mentre attraversa le linee rosse in segreto.

 

Più e più volte, l'amministrazione Biden ha autorizzato operazioni clandestine che aveva precedentemente vietato.

 I consiglieri militari americani sono stati inviati a Kiev e successivamente autorizzati a viaggiare più vicino ai combattimenti.

 Ufficiali militari e della CIA a Wiesbaden hanno contribuito a pianificare e sostenere una campagna di attacchi ucraini nella Crimea annessa alla Russia.

 Alla fine, l'esercito e poi la CIA hanno ricevuto il via libera per consentire attacchi mirati in profondità nella Russia stessa.

 

In un certo senso, l'Ucraina è stata, su una tela più ampia, una rivincita in una lunga storia di guerre per procura tra Stati Uniti e Russia – il Vietnam negli anni '60, l'Afghanistan negli anni '80, la Siria tre decenni dopo.

 

Task Force Drago.

Il segretario alla Difesa, Lloyd J. Austin III, e il generale Milley avevano incaricato la 18ª Airborne di consegnare armi e consigliare gli ucraini su come usarle.

 Quando il presidente “Joseph R. Biden Jr.” ha firmato gli M777, il “Tony Bass Auditorium “è diventato un quartier generale a tutti gli effetti.

Un generale polacco divenne il vice del generale Donahue.

Un generale britannico gestirebbe l'hub logistico sull'ex campo da basket.

 Un canadese supervisionerebbe l'addestramento.

Il seminterrato dell'auditorium divenne quello che è noto come un centro di fusione, che produceva informazioni sulle posizioni, i movimenti e le intenzioni russe sul campo di battaglia.

Lì, secondo i funzionari dell'intelligence, gli ufficiali della Central Intelligence Agency, della National Security Agency, della Defense Intelligence Agency e della National Geospatial-Intelligence Agency sono stati raggiunti da ufficiali dell'intelligence della coalizione.

Il “18th Airborne” è noto come “Dragon Corps”; la nuova operazione sarebbe stata la “Task Force Dragon”.

Tutto ciò che serviva per mettere insieme i pezzi era il riluttante comando ucraino.

 

Dibattito sulla negabilità plausibile.

Ben presto gli ucraini, quasi 20 in tutto – ufficiali dell'intelligence, pianificatori operativi, specialisti delle comunicazioni e del controllo del fuoco – iniziarono ad arrivare a Wiesbaden.

Ogni mattina, hanno ricordato gli ufficiali, gli ucraini e gli americani si riunivano per esaminare i sistemi d'arma russi e le forze di terra e determinare gli obiettivi più maturi e di maggior valore.

 Le liste di priorità sono state poi consegnate al centro di fusione dell'intelligence, dove gli agenti hanno analizzato i flussi di dati per individuare le posizioni degli obiettivi.

 

All'interno del Comando Europeo degli Stati Uniti, questo processo ha dato origine a un dibattito linguistico sottile ma teso:

data la delicatezza della missione, era indebitamente provocatorio chiamare i bersagli "bersagli"?

Alcuni agenti pensavano che "obiettivi" fosse appropriato.

Altri li chiamavano "informatori di intelligence", perché i russi si spostavano spesso e le informazioni avrebbero avuto bisogno di una verifica sul campo.

 

Il dibattito è stato risolto dal maggior generale “Timothy D. Brown”, capo dell'intelligence del Comando europeo:

le posizioni delle forze russe sarebbero "punti di interesse".

 L'intelligence sulle minacce aeree sarebbe "tracce di interesse".

"Se mai ti viene posta la domanda: 'Hai passato un obiettivo agli ucraini?' puoi legittimamente non mentire quando dici: 'No, non l'ho fatto'", ha spiegato un funzionario statunitense.

 

La CIA e gli omicidi di alti ufficiali russi.

La Casa Bianca ha anche proibito la condivisione di informazioni di intelligence sulle posizioni dei leader russi "strategici", come il capo delle forze armate, il generale Valery Gerasimov.

 "Immaginate come sarebbe per noi se sapessimo che i russi hanno aiutato qualche altro paese ad assassinare il nostro presidente", ha detto un altro alto funzionario statunitense.

"Tipo, andremmo in guerra".

Allo stesso modo, la” Task Force Dragon” non ha potuto condividere l'intelligence che ha identificato le posizioni dei singoli russi.

Per come funzionava il sistema, la “Task Force Dragon” avrebbe detto agli ucraini dove erano posizionati i russi.

Ma per proteggere le fonti e i metodi di intelligence dalle spie russe, non ha detto come sapeva quello che sapeva.

 

La sala operativa degli Stati Uniti ha supervisionato direttamente gli attacchi HIMARS.

Wiesbaden avrebbe supervisionato ogni sciopero HIMARS... Gli attacchi HIMARS che hanno provocato 100 o più morti o feriti russi sono avvenuti quasi settimanalmente.

Le forze russe sono rimaste stordite e confuse.

Il loro morale crollò, e con esso la loro voglia di combattere.

E mentre l'arsenale HIMARS è cresciuto da otto a 38 e gli attaccanti ucraini sono diventati più abili, ha detto un funzionario americano, il bilancio è aumentato di cinque volte.

"Siamo diventati una piccola parte, forse non la parte migliore, ma una piccola parte, del vostro sistema", ha spiegato il “generale Zabrodskyi”, aggiungendo: "La maggior parte degli stati lo ha fatto per un periodo di 10 anni, 20 anni, 30 anni. Ma siamo stati costretti a farlo nel giro di poche settimane".

 

Insieme i partner stavano affilando una macchina per uccidere.

Il caporedattore del russo RT reagisce a queste ultime rivelazioni dettagliate...

 

Tensioni mentre gli ucraini spingono per superare le linee rosse di Putin.

L'anno precedente, i russi avevano incautamente collocato posti di comando, depositi di munizioni e centri logistici entro 50 miglia dalle linee del fronte.

Ma nuove informazioni hanno dimostrato che i russi avevano spostato le installazioni critiche fuori dalla portata di HIMARS.

Così i generali Cavoli e Aguto hanno raccomandato il prossimo salto di qualità, fornendo all'esercito ucraino sistemi missilistici tattici – missili, noti come ATACMS, che possono viaggiare fino a 190 miglia – per rendere più difficile per le forze russe in Crimea aiutare a difendere Melitopol.

 

Gli ATACMS sono stati un argomento particolarmente dolente per l'amministrazione Biden.

Il capo militare russo, il generale Gerasimov, si era indirettamente riferito a loro nel maggio precedente, quando aveva avvertito il generale Milley che qualsiasi cosa avesse volato per 190 miglia avrebbe violato una linea rossa.

C'era anche una questione di approvvigionamento:

il Pentagono stava già avvertendo che non avrebbe avuto abbastanza ATACMS se l'America avesse dovuto combattere la propria guerra.

Il messaggio è stato schietto: smettetela di chiedere l'ATACMS.

L'amministratore Biden continuava a cedere a Zelensky.

Fino ad ora, gli ucraini, con l'aiuto della CIA e delle marine statunitensi e britanniche, avevano usato droni marittimi, insieme a missili britannici a lungo raggio “Storm Shadow” e missili francesi” SCALP”, per colpire la flotta del Mar Nero.

Il contributo di Wiesbaden fu l'intelligenza.

Ma per portare avanti la più ampia campagna in Crimea, gli ucraini avrebbero bisogno di molti più missili.

Avrebbero bisogno di centinaia di ATACMS.

 

Al Pentagono, le vecchie cautele non si erano sciolte.

Ma dopo che il “generale Aguto” ha informato il signor Austin su tutto ciò che “Lunar Hail” avrebbe potuto ottenere, un aiutante ha ricordato, ha detto:

 "Ok, c'è un obiettivo strategico davvero convincente qui. Non si tratta solo di colpire le cose".

Il signor Zelensky otterrebbe il suo ATACMS a lungo desiderato. Ciononostante, un funzionario americano ha detto: "Sapevamo che, nel profondo del suo cuore, voleva ancora fare qualcos'altro, qualcosa di più".

 

Gli alleati si scontrarono per l'incursione di “Kursk” .

Il 10 agosto, anche il capo della stazione della CIA partì per un lavoro al quartier generale.

Nel cambio di comando, il “generale Syrsky” fece la sua mossa, inviando truppe oltre il confine sud-occidentale della Russia, nella regione di Kursk.

Per gli americani, l'incursione fu una significativa violazione della fiducia.

 Non era solo che gli ucraini li avevano tenuti di nuovo all'oscuro;

 avevano segretamente attraversato una linea reciprocamente concordata, portando attrezzature fornite dalla coalizione nel territorio russo compreso nella casella operativa, in violazione delle regole stabilite al momento della sua creazione.

La scatola era stata istituita per prevenire un disastro umanitario a Kharkiv, non perché gli ucraini potessero approfittarne per impadronirsi del suolo russo.

"Non è stato quasi un ricatto, è stato un ricatto", ha detto un alto funzionario del Pentagono.

Gli americani avrebbero potuto staccare la spina alla scatola delle operazioni. Eppure sapevano che farlo, ha spiegato un funzionario dell'amministrazione, "avrebbe potuto portare a una catastrofe":

i soldati ucraini a Kursk sarebbero morti senza la protezione dei razzi HIMARS e dell'intelligence statunitense.

L'intelligence statunitense dietro gli attacchi all'enorme ponte sullo stretto di Kerch.

Dei circa 100 obiettivi in tutta la Crimea, il più ambito era il ponte sullo stretto di Kerch, che collegava la penisola alla terraferma russa.

 Putin ha visto il ponte come una potente prova fisica del legame della Crimea con la madrepatria.

Rovesciare il simbolo del presidente russo era, a sua volta, diventato l'ossessione del presidente ucraino.

Era stata anche una linea rossa americana.

Nel 2022, l'amministrazione Biden ha proibito di aiutare gli ucraini a prenderlo di mira;

anche gli approcci sul lato della Crimea dovevano essere trattati come territorio russo sovrano.

(I servizi segreti ucraini hanno provato ad attaccarlo da soli, causando alcuni danni).

Ma dopo che i partner si accordarono sulla grandine lunare, la Casa Bianca autorizzò l'esercito e la CIA a lavorare segretamente con gli ucraini e gli inglesi su un piano di attacco per far crollare il ponte:

 l'ATACMS avrebbe indebolito i punti vulnerabili sul ponte, mentre i droni marittimi sarebbero saltati in aria vicino ai suoi montanti.

Ma mentre i droni venivano preparati, i russi hanno rafforzato le loro difese attorno ai candelieri.

Lloyd Austin visto come il 'padrino' delle operazioni segrete.

All'inizio di gennaio, i generali Donahue e Cavoli hanno visitato Kiev per incontrare il generale Syrsky e assicurarsi che concordasse i piani per ricostituire le brigate ucraine e rafforzare le loro linee, ha detto il funzionario del Pentagono.

Da lì, si sono recati alla base aerea di Ramstein, dove hanno incontrato Austin per quello che sarebbe stato l'ultimo raduno dei capi della difesa della coalizione prima che tutto cambiasse.

Con le porte chiuse alla stampa e al pubblico, le controparti di Austin lo hanno salutato come il "padrino" e "l'architetto" della partnership che, nonostante tutta la fiducia infranta e i tradimenti, aveva sostenuto la sfida e la speranza degli ucraini, iniziata sul serio in quel giorno di primavera del 2022 quando i generali “Donahue” e “Zabrodskyi” si sono incontrati per la prima volta a “Wiesbaden”.

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