Ordine mondiale e ordine sociale.

 

Ordine mondiale e ordine sociale.

 

 

La Globalizzazione è Finita,

Non Andate in Pace.

Conoscenzealconfine.it – (9 Aprile 2025) - Marcello Veneziani – ci dice:

 

Siamo sull’orlo di un grande precipizio, e non sappiamo se sia possibile arretrare dal baratro, o se sia destino vivere costeggiando l’abisso, o se si possa davvero precipitare dentro.

 Le incognite sono tante, le variabili pure…

 

Tre guerre mondiali spaccano e sconvolgono questo mondo di pace.

 In primis la guerra delle armi, delle distruzioni e dei popoli che si è concentrata in Ucraina e in Palestina ma in realtà pullula di innumerevoli focolai sparsi nel mondo;

 col grottesco colpo di coda europeo, che corre al riarmo per riaccendere le ostilità con la Russia.

 Poi la guerra dei dazi, del commercio e della finanza che sta squassando il pianeta dopo le sanzioni di Trump al mondo, in una specie di girone di ritorno dell’americanizzazione del pianeta.

Infine la guerra dello spazio, dei satelliti e dell’intelligenza artificiale in cui Stati, potenze, intelligence, deep state e colossi privati si contendono il primato e l’egemonia dei mezzi di controllo, comunicazione e sviluppo tecnologico del futuro.

Tre guerre che hanno in fondo una sola chiave:

 è finita la marcia progressiva e unidirezionale della globalizzazione, stiamo entrando in uno scenario indefinibile, instabile, fluttuante che è comunque policentrico, ha molte teste o forse nessuna, ma tanti tentacoli e altrettanti testicoli.

La sensazione che ci resta è che tutto il mondo stia ballando, come in un terremoto di proporzioni gigantesche, che non ci siano punti fermi né ancore di salvataggio a cui aggrapparsi:

tutto gira, vorticosamente, e siamo totalmente disorientati.

È presto per dire come invece sbrigano quasi tutti gli osservatori, che la colpa è di Trump, o del duo Trump-Putin o su altri versanti del duo Trump-Musk.

Troppi attori, antefatti e situazioni s’intrecciano per ridurle a un solo fattore.

 

Stiamo tornando alla realtà, alle inevitabili diversità, all’economia reale, alla competizione, dopo aver coltivato l’illusione che una bolla irreale entro cui si espandeva la globalizzazione ci avrebbe preservato da tutto.

 Trump, indipendentemente dal giudizio su di lui e sulla sua guerra dei dazi, è stato l’occasione e non la causa, il fattore scatenante che ha fatto precipitare le cose; potremmo dire, sulla scia di Hegel e di Marx, che la storia si stia servendo di lui come agente del cambiamento, per imboccare una nuova strada.

Del resto, le guerre delle armi non le ha innescate lui, l’invenzione che la Russia voglia attaccare l’Europa non l’ha lanciata lui e le guerre tecnologiche serpeggiavano già da tempo;

 lui ha solo accelerato ed esplicitato, in modo stridente, la crisi della globalizzazione sul piano commerciale.

 Ci preoccupano, anzi ci spaventano, i suoi effetti collaterali, ma con la globalizzazione sta crollando una sorta di paradigma che molti davano per irreversibile: che la storia segua una linea e che non vi possano essere deroghe, deviazioni, imprevisti rispetto a quella linea.

 

Ma la storia non è scritta in anticipo, e se non credete in Dio o in un Demiurgo Malvagio ma solo nel Caos, non potete poi pensare che il corso della storia sia prestabilito dentro un Disegno Unico entro cui dovrà svilupparsi.

 E invece la storia si riprende le sue libertà, le sue incognite, le sue variazioni;

e sopra di lei l’eterogenesi dei fini riprende a dimostrare che le conseguenze, gli effetti storici non sono quasi mai il frutto delle premesse e delle intenzioni dei suoi agenti.

C’è un’astuzia beffarda della storia, forse una mano invisibile della Provvidenza o di un dio capriccioso e creativo che ci costringe a fare i conti con le discontinuità, le sorprese e i raggiri della storia.

Gli uomini fanno la storia, ma la somma degli eventi tradisce i singoli addendi e agenti.

Siamo sull’orlo di un grande precipizio, e non sappiamo se sia possibile arretrare dal baratro o se sia destino vivere costeggiando l’abisso o se si possa davvero precipitare dentro.

Le incognite sono tante, le variabili pure, e il passaggio repentino da salvatori a distruttori, o viceversa, rende impossibile mantenere una linea e preservare un giudizio, senza badare ai fatti e alle smentite.

Lo stesso Trump che sembrava voler ritirare gli Stati Uniti dentro i suoi confini sta in realtà sconvolgendo il mondo e condizionando il pianeta in una forma di colonizzazione rovesciata, d’interdipendenza a contrario, fino a rendere la ritirata americana una forma inedita di americanizzazione del mondo.

Prima ancora di prender partito si tratta in questo momento di prendere coscienza e conoscenza, ossia capire quel che sta succedendo, o quantomeno tentare di farlo. Dobbiamo uscire dalla logica che domina la storia da almeno due secoli secondo cui prima di interpretare il mondo dobbiamo trasformarlo;

 no, dobbiamo capire cosa sta succedendo prima di prendere posizione e comportarci di conseguenza.

 

Fino a ieri si diceva che il punto debole dei populismi e dei sovranismi era la semplificazione, ridurre il mondo complesso a formulette e risoluzioni facili, di grande suggestione popolare ma totalmente insufficienti nella loro puerile rozzezza a comprendere il mondo.

 La stessa cosa sta avvenendo adesso, se leggiamo e ascoltiamo il mondo liberal, radical, progressista:

semplificano tutto agitando il Demonio Trump alle origini di ogni male.

 Senza rendersi conto che l’anno scorso stavamo sul filo di una guerra mondiale grazie a Biden, ai suoi alleati e fantocci e a quel che succedeva in Palestina.

 E che la concentrazione degli odii su Putin mentre l’enorme gattone cinese si espandeva tranquillamente per conto suo, stava deformando la realtà in modo a dir poco pericoloso.

Ora è come se i nodi stiano venendo al pettine, e quando questo succede è doloroso districarli; e forte è il rischio che si spezzino.

Il problema è che non c’è un’Autorità super partes, un grande Arbitro che possa dirimere le controversie e presiedere le trattative nel nome degli interessi generali: l’Onu non è in grado di farlo, altre autorità sovraordinate non esistono, la Monarchia universale sognata da Dante rimane un sogno, come il Sacro Romano Impero o lo Stato universale;

sicché siamo in balia della storia e dei suoi pluriversi;

siamo in balia degli uomini, dei rapporti di forza, dell’intelligenza e della stupidità degli attori.

 

Tornando a casa nostra, mai come in questo caso, non ci aspettiamo nulla dalla Meloni;

 può fare la sua parte con più o meno efficacia e dignità, prendere le misure, barcamenarsi, esortare ai negoziati, ma i suoi margini d’azione sono assai stretti e le sue prospettive d’incidenza internazionale sono davvero minime.

 Trovo grottesco chi vorrebbe da questa situazione ricavare un processo al governo in carica accusato di subordinazione a Trump.

Se è vero, nulla di nuovo:

in ginocchio rispetto al Padrone Americano ci stanno, ci state, da anni, è la condizione per governare nel nostro Paese da ottant’anni.

 Puoi guidare l’Italia se a tua volta ti fai guidare.

Avete consumato tutte le pantofole dei predecessori di Trump coi vostri baci e le vostre umide carezze, ora non siete credibili se insorgete invocando la dignità sovrana rispetto alla pantofola col ciuffo dell’ultimo arrivato alla Casa Bianca.

(Marcello Veneziani - La Verità – 6 aprile 2025).

(marcelloveneziani.com/articoli/la-globalizzazione-e-finita-non-andate-in-pace/).

 

 

 

 

Eurodeputata Anderson: “il Vero Potere è

in Mano a Forze Oscure, i Governi

Eletti Sono Semplici Burattini.”

Conoscenzealconfine.it – Redazione - (8 Aprile 2025) – Cristina Anderson – ci dice:

 

L’eurodeputata tedesca Christine Anderson ha recentemente condiviso la sua opinione sulle forze nascoste che plasmano la governance globale.

“Non so chi c’è veramente dietro tutto questo”, ha ammesso.

 “Non è Ursula von der Leyen, non è lei a prendere decisioni.

Non è Bill Gates, o anche Klaus Schwab.

Non sono loro a prendere le decisioni.

 Sono solo i volti pubblici, quelli che mettono la testa davanti alle telecamere e spingono questa assurdità totalitaria.”

 

Secondo la Anderson, il vero potere risiede in un gruppo sfuggente che lei definisce, in mancanza di un termine migliore, “misantropi globalisti”.

 “Non ho idea di chi siano, ma sono loro a muovere i fili. I nostri governi eletti? Semplici burattini che eseguono qualsiasi cosa queste figure oscure dettino.”

 

Secondo lei, il loro obiettivo finale è chiaro:

“Vogliono un governo mondiale unico, che trasformi le nostre società liberali, aperte e democratiche, basate su individui liberi, in un sistema collettivista in cui le persone sono solo pezzi malleabili, da spostare a seconda delle necessità. “

 

Per la signora Anderson, questo programma spiega l’esistenza stessa dell’Unione Europea.

“Guardate l’Europa”, continua.

“Questo piccolo continente, con il suo ricco mosaico di culture, tradizioni, storie e lingue, è orgoglioso della sua gente.

Non potresti mai convincerli a rinunciare ai loro stati nazionali e alla loro sovranità in favore di un governo mondiale.

 Resisterebbero.

Quindi l’UE è stata creata per fungere da trampolino di lancio.“

 

Lei fa riferimento al pretesto storico:

dicono:

“Oh, abbiamo avuto così tante guerre qui, dobbiamo unirci come Europa per porvi fine”.

 È vero, ma è una scusa comoda. Le istituzioni europee stanno assorbendo sempre più potere, condizionando gli europei ad accettare il passo successivo: un governo mondiale a tutti gli effetti.

La Anderson vede questo come un’erosione graduale e deliberata dell’identità nazionale e della libertà individuale, orchestrata da coloro che lei chiama “misantropi globalisti”.

“Non si tratta di pace”, conclude. “Si tratta di controllo.”

(imolaoggi.it/2025/04/07/eurodeputata-anderson-vero-potere-e-in-mano-a-forze-oscure/).

 

Riarmo ed Euro Digitale per

Saccheggiare Meglio i Risparmiatori.

Conoscenzealconfine.it – (7 Aprile 2025) - Redazione Ortica Web – ci dice:

 

La narrazione istituzionale di queste ultime settimane è stata contraddistinta da un crescendo di annunci allarmanti in stile grottesco demenziale.

 Ma a ben vedere una logica c’è, ed è quanto mai solida:

è la logica del denaro o meglio della finanza.

Il primo:

su di noi incomberebbe una minaccia, non ben specificata, che lascia intendere un pericolo di guerra nucleare e/o un’invasione di orde sanguinarie di russi.

Non esiste prova, nessuna evidenza;

è così e basta, un assioma, una verità che non ammette discussioni.

Riposte in naftalina emergenza sanitaria e climatica, si riesuma l’antico spauracchio: i Russi.

 Dopo averci addestrato con guerre allegoriche contro nemici allegorici come il Virus e La Co2, ora si passa all’azione con la guerra vera contro un nemico reale, Putin il terribile.

Da qui discende a corollario il secondo annuncio: All’armi! All’armi! All’armi! Occorre fare in fretta e riarmarci, lo dice “von der Leyen”, lo conferma “Draghi”, a cui fa eco tutto il cucuzzaro.

 Via dunque al piano “Re Arm Europa”, una polpetta avvelenata da 800 miliardi di euro.

Come renderla meno indigesta? Ribattezzando il folle progetto con un nome più accattivante, resiliente ed inclusivo: “Readiness 2030”, “Prontezza 2030”.

 

Secondo corollario:

 i soldi per le armi dove li prendono? Forse con tagli mastodontici allo stato sociale? Dicono di no (e come non credergli?); li attingeranno ai nostri risparmi privati!

Ma come è possibile?

 

“Il grande riarmo europeo sarà canalizzato attraverso la creazione di” exchange traded fund “per dirottare il nostro risparmio in armi” scrive l’economista Alessandro Volpi:

 “Il meccanismo è semplice, il grande fondo – ad esempio BlackRock – costruisce un “Etf” che lega a un indice creato dallo stesso fondo.

 E ora la gran moda è quella di creare indici con i titoli delle principali società produttrici di armi, da quelle americane a quelle europee che, si prevede, beneficeranno del “mega Piano von der Leyen” contro ogni invasione.

Proprio questo tipo di “Etf” sta raccogliendo in misura crescente il risparmio degli europei, a cui vengono venduti dai loro gestori che hanno comprato gli stessi “Etf” dai grandi fondi”.

 

E ancora: “La parola guerra è diventata ormai lo strumento attraverso cui accelerare, in tempi record, la finanziarizzazione del Vecchio Continente.

Polizze, conti deposito, cartolarizzazioni, riduzioni fiscali, tutto deve chiamare alle armi il risparmio diffuso e incanalarlo verso la nuova bolla con cui alimentare la riconversione bellica”.

 

Detto in soldoni, le emergenze servono per ingrassare i colossi della finanza attraverso la rapina legalizzata di beni pubblici e privati.

Ma un dubbio sorge spontaneo: siamo sicuri che il risparmio privato sarà dirottato verso i grandi fondi senza avvalersi di metodi ricattatori come è successo ai tempi del Green pass?

La risposta ci arriva direttamente dalla presidente della BCE, “Christine Lagarde”, che nei giorni scorsi ha detto che occorre accelerare sull’euro digitale, anticipando la sua introduzione ad ottobre 2025, esortando il Parlamento Europeo a finalizzare il processo legislativo, senza il quale – afferma – sarà impossibile lanciare l’euro digitale.

Stiamo parlando di “CBDC – Central Bank Digital Currency”, valuta digitale emessa dalla banca centrale.

 

Il direttore generale della BIS (Banca dei Regolamenti Internazionale, a cui sono legate le banche centrali), “Augustin Carstens”, in un video divenuto virale, ha spiegato in modo inequivocabile che le CBDC sono progettate per il controllo assoluto.

Una delle funzionalità più inquietanti della CBDC è quella di poter rendere tecnicamente possibile il concetto di moneta programmabile e persino scadenzabile.

“L’introduzione di una moneta a termine potrebbe costituire uno strumento di politica monetaria utile per sostenere l’economia durante recessioni o emergenze. La scadenza programmata infatti accelererebbe le decisioni di spenderla stimolando i consumi”.

 Nella presentazione di aprile 2023 la BCE assicurava: “l’euro digitale non sarà MAI in moneta programmabile”.

 

Tuttavia la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni come dimostra la storia del green pass, la cui normativa vietava la discriminazione dei non vaccinati, e abbiamo visto come è finita.

 A confermare che c’è poco da stare sereni ci sono le dichiarazioni di “Fabio Panetta”, membro fino a poco tempo fa del “Comitato esecutivo della BCE”:

“una governance solida trasparente conforme con le norme nazionali ed europee garantirebbe che le informazioni sugli utenti siano utilizzate soltanto per fini consentiti, quale è il contrasto per le attività illecite”.

La riservatezza differisce però dall’anonimato.

 I pagamenti digitali potrebbero garantire diversi livelli di riservatezza da definire in coerenza con obiettivi di interesse generale.

Le sperimentazioni tecniche condotte dall’eurosistema confermano questa possibilità.

 

E le parole di Lagarde vanno nella stessa direzione:

 “Ci sarà controllo, ha ragione!

Stiamo valutando se per importi molto piccoli, qualcosa intorno ai 300, 400 euro, potremmo avere un sistema con zero controllo.

 Ma questo potrebbe essere pericoloso.

Gli attacchi terroristici in Francia 10 anni fa furono interamente finanziati da carte anonime ricaricabili”.

Insomma, con l’alibi di una qualunque emergenza, per fini di interesse collettivo, il controllo può essere assoluto e capillare, alla faccia della democrazia e della libertà.

L’Euro digitale, CBDC – Central Bank Digital Currency, valuta dunque tecnicamente programmabile, scadenzabile e condizionabile “renderà il prelievo dei risparmi privati tecnicamente possibile” ha scritto il “professor Sergio Porta” sulla sua pagina Fb.

 

“I nostri Euro nei nostri conti correnti saranno completamente accessibili al Governo:

le nostre spese, anche le più insignificanti, saranno collegate all’identità digitale individuale e tracciate per sempre;

 saranno condizionate a regole ad personam dettate dal Governo stesso in base a ciò che esso riterrà commendevole o meno nel nostro comportamento, in qualunque ambito professionale, personale, pubblico o privato.

 Presente la tessera verde anti -covid?

Applicatela a ogni singola attività, in ogni momento della vostra vita, alla vostra stessa sussistenza, alla sussistenza della vostra famiglia.

 Fatto?

Ora immaginate che il Governo decida che tutti coloro che hanno risparmi privati possano essere requisiti, a meno che non siano investiti entro 6 mesi in certi portafogli (per esempio, fondi di investimento indirizzati all’economia bellica)“.

(Redazione OrticaWeb).

(Alessandro Volpi, Risparmi privati ai grandi fondi, con la scusa del riarmo. Valori.It).

(lavoce.info/archives/98837/le-molte-virtu-di-una-moneta-a-scadenza/).

(orticaweb.it/riarmo-ed-euro-digitale-per-saccheggiare-meglio-i-risparmiatori/).

 

 

 

I dazi di Trump, la deglobalizzazione

e la fine del dollaro come valuta

di riserva globale.

Lacrunadellago.net – Cesare Sacchetti - (06/04/2025) – ci dice:

 

 

A Bruxelles ancora non si sono ripresi dallo shock.

E’ certamente vero che i dazi di Trump erano attesi, ma quando essi si sono tramutati in realtà, il panico ha iniziato a diffondersi nelle stanze del Berlaymont e nelle varie cancellerie europee.

I media, come loro solito, tacciono le informazioni più importanti.

Non sono gli Stati Uniti a dipendere da un punto di vista strettamente commerciale dall’Unione europea, ma viceversa.

La bilancia commerciale, la differenza tra esportazioni e importazioni, tra i due blocchi non mente al riguardo.

Gli Stati Uniti importano più di quello che esportano verso i 27 Paesi dell’UE, mentre per i 27 si verifica esattamente lo scenario contrario.

 

Questo squilibrio a sfavore degli americani si spiega per delle ragioni precise.

Il potere del dollaro e l’enorme deficit commerciale americano.

Il commercio mondiale è stato impostato così per praticamente 80 anni, quando i vincitori della seconda guerra mondiale stabilirono nelle sale dell’albergo Mount Washington a Bretton Woods, una località del New Hampshire circondata dalle cosiddette White Mountains, che il dollaro sarebbe divenuto la valuta di riserva globale.

 

La conferenza di Bretton Woods.

Lo scettro del potere economico passava così dalle mani della sterlina britannica, ex valuta di riserva globale, a quelle di Washington, che diveniva così non soltanto il centro dell’impero militare ma soprattutto anche il cuore dell’impero finanziario.

Era stata ricevuta pienamente la sollecitazione di vari autori e intellettuali quali “Thomas Mann” e “Gaetano Salvemini”, entrambi in odore di massoneria, che nel 1941 avevano redatto un manifesto intitolato “La città dell’uomo” nel quale esortavano gli Stati Uniti a prendere sulle proprie spalle la leadership dell’anglosfera, ma soprattutto del governo mondiale che tali ambienti volevano già al tempo costruire.

 

Winston Churchill, ad esempio, primo ministro inglese e altro massone di elevato rango, chiamava a raccolta le élite mondiali nel 1954 per far sorgere il supergoverno mondiale, ma soltanto la potenza militare ed economica degli Stati Uniti avrebbe potuto rendere possibile una tale aspirazione.

L’ordine finanziario era certamente una parte integrante dell’impero, e ciò spiega perché dopo Bretton Woods, i pagamenti internazionali furono eseguiti attraverso il dollaro americano, all’epoca legato ancora alla parità aurea, il cosiddetto” gold standard”.

C’è tutt’ora un dibattito tra alcuni economisti sulla effettiva efficienza o meno del “gold standard”, e generalmente chi sostiene una necessità del ritorno della parità aurea lo fa perché assume una posizione contraria alle “monete fiat”.

Le monete fiat sono le monete moderne.

 Sono le valute che non sono legate all’emissione di una materia prima, oro e argento che sia, e possono essere stampate in maniera praticamente illimitata.

All’inizio degli anni’70, gli Stati Uniti avevano sempre più difficoltà a mantenere la parità aurea, e il loro deficit iniziava a superare la quantità di oro a disposizione, fino a quando il presidente Nixon, in contrasto con gli ambienti sionisti, decise di mettere fine al “gold standard “attraverso il famoso “Nixon shock” del 1973.

 

Il dollaro che fino a quel momento si poteva stampare soltanto attraverso un determinato corrispettivo in oro diventa una valuta fiat così come lo divennero le altre monete, e alcuni monetaristi sostengono, erroneamente, che ciò rappresenti un male perché questa corrente reputa la creazione di moneta causa dell’inflazione, la quale in realtà dipende prettamente da altri fattori.

Gli esempi per dimostrare che non c’è una relazione tra stampa della moneta e l’inflazione sono davvero infiniti, ma se ne può citare, tra i molti, uno in particolare che riguarda la quantità di euro stampata dalla BCE, banca centrale atipica non nelle mani degli Stati, dal 2008 fino al 2021.

Si parla di trilioni e trilioni di euro emessi dalla BCE tramite il famoso QE, ma non un euro di questi soldi negli anni passati ha contribuito a far schizzare l’inflazione verso l’alto, quando piuttosto l’Europa ha sofferto per molti anni il fenomeno opposto della deflazione.

A far salire l’inflazione può essere, ad esempio, una diminuzione della disoccupazione e un aumento dei posti di lavoro, ma questo scenario non è affatto negativo se l’aumento dei prezzi resta in condizioni accettabili e soprattutto se i salari sono indicizzati come avveniva al tempo della compianta scala mobile, uccisa dalla triade sindacale e dal governo Amato, uomo che permise il saccheggio del Britannia, nel 1992.

 

Il dollaro da quell’istante in poi ha preservato ad ogni modo il suo status di valuta di riserva globale soltanto grazie alla geopolitica.

Nixon diede vita assieme all’Arabia Saudita all’accordo che fece nascere il cosiddetto petrodollaro, in base al quale le vendite di petrolio saudita, che vanta le maggiori riserve al mondo, potevano essere effettuate soltanto in dollari.

Non esiste da allora un’altra ragione se non questa per la quale il petrolio si paga in dollari.

 

Gli Stati Uniti si sono di conseguenza ritrovati ad avere in tasca per 80 anni la valuta del commercio internazionale e questo ha portato inevitabilmente dei gravi squilibri nella loro bilancia commerciale, perché potevano comprare tutte le merci che volevano, avendo la possibilità di stampare la moneta attraverso la quale fare i pagamenti, ma il prezzo da pagare è stato quello della progressiva perdita dei posti di lavoro e dell’indebolimento del loro settore manifatturiero.

 

L’avvento della globalizzazione e la fine dell’industria Occidentale.

Il fenomeno è stato esacerbato ancora di più negli anni’90. Dopo il crollo del muro di Berlino, le menti del mondialismo avevano già stabilito che il mondo avrebbe dovuto subire la cosiddetta globalizzazione.

La globalizzazione non è altro che la abnorme concentrazione delle risorse nelle mani di una ristretta élite di oligarchi a discapito della classe lavoratrice, letteralmente travolta dall’apertura dei mercati e dalla rimozione di ogni barriera commerciale.

È, in termini ancora più espliciti, la manifestazione più selvaggia e spinta del neoliberismo concepito sul finire degli anni’70 dai “Chicago Boys di Milton Friedman”, membro di rilievo della società segreta della “Mont Pelerin”.

A dare la spinta decisiva all’avvio di tale processo, è stato un uomo che già nel 1991 era stato scelto proprio dal “Bilderberg” per diventare presidente degli Stati Uniti, ovvero Bill Clinton, all’epoca governatore dell’Arkansas.

 

Clinton una volta divenuto presidente prepara il terreno per l’apertura dei mercati ed è l’11 ottobre del 2000, sul finire del suo secondo mandato, che consente alla Cina di entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Clinton firma gli accordi commerciali che consentono alla Cina di entrare nell’OMC.

 

Ancora oggi rileggere le parole dell’ex presidente e sodale del pedofilo “Jeffrey Epstein”, sui “vantaggi” che avrebbe portato la Cina al commercio mondiale fa comprendere quanto siano sfacciate le bugie dei vari globalizzatori.

 

Clinton annuncia un’era di “straordinaria opportunità” per l’economia americana, che come quella europea, si vide in realtà travolta da merci a bassissimo costo e di bassa qualità che a poco a poco avevano iniziato a distruggere tutto il settore manifatturiero dei Paesi europei e degli Stati Uniti, già duramente provato per avere il dollaro nelle proprie tasche.

La globalizzazione di Davos: il trionfo dell’oligarchia.

La globalizzazione fa purtroppo esattamente quello per il quale era stata concepita.

Trasferisce una enorme quantità di ricchezza nelle mani delle varie multinazionali e corporation che già al principio degli anni’70 stavano acquisendo delle dimensioni sempre maggiori, tanto da diventare in termini economici persino più potenti degli Stati nazionali.

 

Il XX secolo è stato testimone di un fenomeno inedito nella storia.

Si è verificato lo svuotamento progressivo della sovranità degli Stati nazionali a tutto vantaggio di quei gruppi finanziari, divenuti i veri padroni della politica internazionale.

La seconda guerra mondiale è stata in tal senso quella crisi “perfetta” per accelerare il trasferimento dei poteri dal piano nazionale a quello internazionale.

Le organizzazioni sovranazionali sorte dopo la seconda guerra mondiale quali NATO, ONU, FMI, Banca Mondiale, CEE ed Unione europea avevano già in nuce l’idea di privare gli Stati dei loro poteri per consegnarli a queste sovrastrutture nelle mani di banche private e multinazionali.

 

La globalizzazione agisce come un sicario per conto di questa struttura di potere economico e finanziario.

Uccide gli Stati nazionali, rade al suolo le loro classi medie attraverso questo trasferimento del capitale verso Paesi a basso costo del lavoro, quali la citata Cina, il Vietnam, la Cambogia, e il Bangladesh, ovvero gli enormi bacini di lavoratori semi-schiavi a bassissimo costo sfruttati dai vari marchi dell’abbigliamento mondiale quali la famigerata “Nike” senza contare anche gli altri gruppi della moda che parlano di “made in Italy”, quando i loro prodotti sono fatti nell’Europa dell’Est o proprio nel Sud-Est asiatico.

 

Un esempio di una fabbrica della Nike in Vietnam.

Si spiega così la reazione di panico non solo delle borse, ma di tutti gli “imprenditori” da operetta che hanno saputo soltanto delocalizzare, per poi riesportare qui i loro prodotti vendendoli esattamente allo stesso prezzo di quello che se fossero stati prodotti qui.

 

I profitti sono mostruosi.

 Se il 10% del mondo si è ritrovato ad avere più del 50% delle risorse in mano è proprio grazie alla globalizzazione che aveva come scopo quello di costruire una società con solo due classi, quali appunto gli oligarchi dei vari fondi di investimento che hanno nelle proprie mani tutte le multinazionali più grosse del pianeta grazie ai famigerati fondi di BlackRock e Vanguard, nei quali si trovano sempre le solite famiglie.

Sono i famigerati Rothschild, Rockefeller, DuPont, Morgan, Vanderbilt e Bush.

Sono loro i veri vincitori della globalizzazione e sono loro i veri padroni delle democrazie liberali.

Al di sotto di questi predoni si trova invece una moltitudine di poveri disoccupati o sottoccupati che vengono sostituiti fuori dai confini dagli schiavi stranieri, mentre in patria ci sono invece gli immigrati dei Paesi afro-asiatici che tolgono agli italiani, i cosiddetti “autoctoni”, anche la possibilità di fare quei lavori manuali perché i primi sono molto meno costosi dei secondi.

 

Gli ipocriti di Confindustria lo dissero qualche tempo fa.

Se si rinuncia agli immigrati, si fermano le fabbriche, quando in realtà l’unica rinuncia che tali “imprenditori” da strapazzo sarebbero costretti a fare sarebbe quella di perdere il loro esercito di riserva a basso costo che gli consente di non assumere italiani più costosi e di più alta qualità, sempre ovviamente nascondendosi dietro la trentennale bugia che gli italiani non vorrebbero più fare determinati lavori pesanti.

 

La bugia è stata smascherata più volte.

Non si contano le volte nelle quali gli italiani si sono presentati per fare, ad esempio, la famosa vendemmia, ma i vari imprenditori vinicoli preferiscono assumere stranieri a basso costo perché oltre ovviamente a costare meno, sono anche molto più ricattabili di un italiano.

Il caporalato stesso così tanto nella bocca degli organi di stampa quali Repubblica è un fenomeno della globalizzazione e quei sepolcri imbiancati della CGIL che si stracciano le vesti per le morti degli schiavi indiani nel Pontino, sono gli stessi che invece di difendere il lavoro degli italiani lo hanno portato tra le fauci del capitale e di quelle multinazionali come la “Monsanto” (BlackRock) che hanno fatto piazza pulita dell’agricoltura italiana.

 

Il sindacato in tale assalto si è rivelato indiscutibilmente il miglior alleato del capitale che mentre era lì pronto a pugnalare al cuore il lavoro era aiutato dalla triade sindacale che gli teneva ferma la mano prima di affondare la lama.

I risultati della globalizzazione sono stati devastanti e sono sotto gli occhi di tutti.

Non solo ha contribuito a far sparire il “made in Italy “e le eccellenze uniche del tessile italiano nel mondo, ma ha sfigurato le città popolate da questi negozietti di cinesi evasori, praticamente mai disturbati dall’agenzia delle Entrate, e da quegli alimentari di pakistani e bengalesi che a loro volta non pagano mai un euro di tasse.

 

Ecco spiegata l’invasione dei negozi cinesi nel centro di Roma.

 

Lo “Stato” è così diventato il primo nemico dei contribuenti italiani e il miglior amico degli evasori stranieri, ma la carta stampata nelle mani degli oligarchi ovviamente preferisce mettere sul banco degli imputati il pasticciere o l’idraulico, senza disturbare gli evasori stranieri e senza disturbare ovviamente i vari “editori” dei quotidiani che hanno portato all’estero illegalmente fiumi di denaro sporco.

 

Il fisco se si tratta di perseguire gli squali, dorme sonni tranquilli.

In Italia, il fenomeno della globalizzazione è stato poi ancora più esacerbato dal fatto di non avere nemmeno una moneta nazionale, e quindi il lavoro è stato attaccato su due fronti:

quello delle merci cinesi a bassissimo costo da un lato, e dall’altro quello della impossibilità di svalutare il cambio della moneta per consentire almeno di difendersi dai mercati attraverso una moneta più debole.

 

L’Italia è stata letteralmente paralizzata.

Gli è stata tolta l’industria pubblica, enorme ricchezza costruita con lo Stato imprenditore, gli è stata tolta la banca centrale dopo il divorzio Tesoro-Bankitalia, gli è stata tolta la sovranità monetaria dopo l’adozione dell’euro, e infine gli è stata tolta la possibilità di competere sui mercati attraverso l’ingresso della Cina nell’OMC che ha iniziato a conquistare l’Europa a suon di acquisizioni statali di Pechino proibite invece dall’Unione europea.

In altre parole, Bruxelles ha sanzionato l’intervento pubblico italiano nell’economia ma invece plaude a quello pubblico straniero.

Cos’altro non è se una chiara strategia dell’annichilimento delle risorse economiche nazionali?

Stare dentro l’UE non è altro che un modo per consegnare la propria nazione a chi vuole depredarla, e soltanto la criminale classe politica della Seconda Repubblica poteva consentire tale ruberia di massa.

Donald Trump attraverso l’imposizione dei dazi mette fine a tutto questo.

Finisce l’economia della speculazione e inizia il ritorno dell’economia reale, quella che non si trasferisce in Vietnam alla ricerca di schiavi, ma quella che invece assume lavoratori sul posto e fa crescere un Paese, costruendo una classe media solida e prospera, importante anche per una sana demografia.

 

Il forum di Davos invece desiderava lo scenario opposto, come ben spiegato in suo documento riservato del 1991 nel quale raccomandava il de-popolamento globale seguendo le orme del” manifesto del club di Roma”, il famigerato “I limiti della crescita” del 1972.

 

Il globalismo vuole un mondo abitato da poco più di 500 milioni di persone, nel quale i pochi “eletti” dei circoli mondiali sono i signori assoluti e indiscussi.

I vari “artisti” della delocalizzazione sono furiosi per questa ragione.

Nel giro di un giorno, i vari miliardari globalizzatori hanno visto andare in fumo qualcosa come 208 miliardi di dollari.

 

E’ finita definitivamente un’epoca.

Gli oligarchi hanno dunque dato mandato agli organi di stampa, assieme all’altro ramo della falsa informazione alternativa, di dire che i dazi danneggerebbero il cittadino medio, quando in realtà sono gli esportatori e i de-localizzatori ad essere colpiti perché adesso saranno costretti obtorto collo a ripensare le loro strategie e prendere in considerazione il ritorno alla produzione nei Paesi di origine ed a investire di più sulla domanda interna.

Trump sta togliendo così la prima leva delle delocalizzazioni agli oligarchi che presto dovranno fare i conti anche con la perdita della seconda leva, quella dei migranti che alcuni Paesi europei hanno già iniziato a rimpatriare.

Sta finendo quindi non soltanto l’era inaugurata degli anni’90 con l’ingresso della Cina nell’OMC, ma anche quella del dollaro come valuta di riserva globale perché è chiaro che i dazi ridurranno le importazioni americane e conseguentemente l’uso del biglietto verde negli scambi mondiali.

Si può apprezzare ancora meglio qui la strategia di Trump che rilascia ai media mainstream qualche dichiarazione depistante nella quale si dichiara ostile ai BRICS per via della loro volontà di de-dollarizzare il mondo, quando poi nei fatti la politica di Trump si ritrova ad essere perfettamente allineata con il mondo multipolare, perché né il primo né il secondo hanno alcun interesse a preservare lo status del dollaro come valuta di riserva globale.

Trump vuole disfarsi del dollaro pesante perché vuole costruire posti di lavoro in patria, mentre i BRICS non vogliono essere più assoggettati all’ex dominio finanziario dell’anglosfera fondato sulla valuta americana.

Il mondo è testimone di una deglobalizzazione che era possibile vedere già ai tempi del primo mandato di Trump, che già allora aveva fatto capire che l’ordine finanziario uscito da Bretton Woods era definitivamente volto al termine.

Gli Stati Uniti da potenza garante della globalizzazione si sono tramutati in una forza al servizio della propria sovranità nazionale e i vari club di Washington che decidevano in anticipo i presidenti americani quali il CFR, il Bilderberg, e la Commissione Trilaterale si sono trovati per la prima volta dal 1945 privi di potere, emarginati e osteggiati dal presidente degli Stati Uniti che un tempo era il loro emissario.

Il passaggio del ritorno agli Stati Uniti sovrani può dirsi compiuto, e la controrivoluzione politica ed economica di Trump è quanto di più utile possa essere anche ai lavoratori italiani ed europei, che da troppo tempo sono soffocati dall’euro, dall’UE e dalla globalizzazione.

La deglobalizzazione in fin dei conti significa proprio questo.

 Significa trasferire l’enorme ricchezza che il capitale ha accumulato nelle mani della classe media polverizzata da tale processo.

Significa, in altre parole, la fine della supremazia della finanza e delle sue sovrastrutture e il conseguente ritorno agli Stati nazionali finalmente tornati pienamente sovrani e non soltanto ridotti a simulacri giuridici.

Per la prima volta, a distanza di anni, il futuro sembra davvero non essere a tinte fosche come lo è stato il passato degli ultimi decenni.

 

 

 

La crisi del “Nuovo Ordine Mondiale”.

Fondazionefeltrinelli.it – (30 Maggio 2023) - Alessandro Colombo – ci dice:

 

Sebbene non sia ancora possibile prevedere i suoi esiti immediati, è certo che l’attuale guerra in Ucraina segnerà una svolta nelle relazioni internazionali del XXI secolo.

Intanto perché alimenterà o, meglio, accentuerà una tendenza già riconoscibile negli ultimi anni alla rimilitarizzazione dei rapporti tra gli stati, anzi la estenderà definitivamente anche ai rapporti tra le principali potenze.

Questo elemento è già sufficiente a segnare uno stacco rispetto all’epoca d’oro del dopoguerra fredda.

Per quasi trent’anni larga parte dell’opinione pubblica, dei decisori politici e degli stessi studiosi si era abituata a ritenere che la guerra, almeno nella sua forma classica e nelle sue principali manifestazioni, avesse cessato di costituire un elemento-cardine della politica internazionale e dei calcoli degli attori, per lasciare spazio a due tipi residuali e, appunto, marginali di conflitti armati:

le guerre civili combattute al di fuori dello spazio centrale del sistema internazionale da fazioni a propria volta marginali delle rispettive società;

e il complesso delle “guerre di polizia” condotte dai paesi occidentali nelle aree periferiche, attraverso l’uso di uno strumento militare incomparabilmente superiore per capacità tecnologiche e organizzative ai propri nemici.

La guerra in Ucraina ci riporta, invece, alla più tradizionale delle guerre interstatali.

Con l’aggravante che a questa eventualità torneranno a prepararsi anche tutti gli altri Stati, aumentando come prima cosa le rispettive spese per la difesa.

 

Fianco a fianco alla militarizzazione, è prevedibile che la guerra in Ucraina contribuisca alla pericolosa bipolarizzazione del sistema internazionale già implicita nella retorica dello scontro tra democrazie ed autocrazie che aveva appena sostituito la bipolarizzazione ancora più irrealistica della cosiddetta “guerra globale al terrore”.

Come quest’ultima, anche la bipolarizzazione emergente lungo l’asse democrazie/ autocrazie avrà i suoi problemi a conciliarsi con la crescente scomposizione geopolitica del sistema internazionale in insiemi regionali sempre più eterogenei tra loro.

Ma, nel frattempo, la bipolarizzazione ha un impatto ambivalente sull’Europa.

Da un lato, essa ha il vantaggio di allontanare lo spettro dell’abbandono periodicamente agitato dalla precedente amministrazione Trump, restituendo all’Europa il ruolo di interlocutore e partner privilegiato degli Stati Uniti.

Ma, dall’altro lato, il “richiamo all’ordine” dell’Europa ha il triplice svantaggio di intralciare sul nascere la flessibilità diplomatica che sembrerebbe più consona a un contesto multipolare quale quello a cui la stessa Unione Europea dichiara di ispirarsi;

di intrappolarla, al contrario, in una competizione regionale con la Russia e globale con la Cina;

di sfumare ulteriormente le velleità già deboli di una autonomia politica e strategica dell’Unione.

A propria volta, l’approfondimento delle fratture politiche e strategiche rischia di disarticolare lo spazio economico internazionale, rovesciando anche un altro dei luoghi comuni della fase di ascesa del nuovo ordine liberale seguito alla fine della guerra fredda.

Se, ancora fino a pochi anni fa, la convinzione prevalente era che la globalizzazione economica si sarebbe portata dietro presto o tardi qualche forma di globalizzazione politica e culturale, oggi scopriamo che sono le fratture politiche a mettere a rischio la globalizzazione economica.

I segnali in questa direzione sono inequivocabili, a maggior ragione in quanto si sommano a quelli già prodotti dalla pandemia del Covid 19:

 la spinta (politica più ancora che economica) a “riportare a casa” attività in precedenza delocalizzate, almeno in settori nuovamente dichiarati “sensibili”;

 la riscoperta della promessa di “confinamento” e “messa in sicurezza” dei confini dei singoli Stati nazionali e delle stesse organizzazioni regionali (Unione Europea compresa);

 più in generale, la rinnovata enfasi sulla necessità strategica dell’autonomia (a cominciare da quella energetica), che vede sempre di più la globalizzazione come un vettore di vulnerabilità invece che di mutuo arricchimento.

 

Ma l’effetto più impressionante della guerra in Ucraina è quello di portare definitivamente allo scoperto i grandi nodi irrisolti del passaggio dal XX al XXI secolo.

Il primo è il fallimento politico, e diplomatico e strategico del progetto di “Nuovo Ordine Mondiale” varato all’inizio degli anni Novanta ed entrato in crisi irreversibile dalla metà del primo decennio del nuovo secolo.

Almeno due capitoli di questo fallimento si sono manifestati in pieno in questa crisi.

Il primo è la mancata risposta al problema capitale di tutti i grandi dopoguerra, quello di come trattare il nemico sconfitto:

 lo stesso problema che aveva già costituito il contrassegno di tutti i grandi dopoguerra degli ultimi duecento anni, oltre che il primo e decisivo criterio distintivo tra di loro.

All’indomani delle guerre napoleoniche, la Francia era stata rapidamente riammessa nel concerto delle grandi potenze;

dopo la Prima guerra mondiale, la Germania era stata invece duramente punita sia sul piano politico che su quello economico che su quello cerimoniale;

 dopo la Seconda guerra mondiale, la Germania era stata punita ancora più duramente attraverso la sua stessa divisione territoriale, ma le due Germanie erano state prontamente accolte nei rispettivi sistemi di alleanza.

 

Tra il 1990 e oggi, al contrario, alla Russia sono stati rivolti segnali ambigui, a volte clamorosamente contraddittori.

Da un lato, non è mancata soprattutto nel primo decennio del dopoguerra fredda la suggestione (mai pienamente realizzata) di coinvolgerla in un’architettura comune di sicurezza europea – proprio per evitare lo spettro già evocato allora di una “Russia weimeriana”.

 

Ma, dall’altro lato, i successivi allargamenti a Est della Nato, la guerra unilaterale della Nato contro la Jugoslavia nel 1999 e, negli ultimi mesi, la ripetuta allusione al possibile ingresso della stessa Ucraina nella Nato hanno spinto sempre di più la Russia ai margini di quell’architettura.

L’altro capitolo, strettamente (anzi forse troppo strettamente) legato al primo, è quello di come rilanciare l’alleanza vittoriosa, nel nostro caso la “Nato”.

Dopo il brillante adattamento del primo decennio del dopoguerra fredda, culminato nel “Concetto strategico del 1999”, la Nato ha arrancato per trovare un posto nell’architettura della guerra globale al terrore e ha condiviso con gli Stati Uniti il clamoroso fallimento in Afghanistan.

 

Il rilancio attuale dell’alleanza in funzione antirussa è il sigillo finale del fallimento del Nuovo Ordine: a trent’anni dalla fine della guerra fredda, le relazioni tra Occidente e Russia

 si ritrovano paradossalmente al punto di partenza.

 

Il secondo nodo è la vera e propria “crisi costituente” che la società internazionale sta attraversando per effetto del riflusso contemporaneo delle due centralità sulle quali si era strutturata la convivenza internazionale moderna: la centralità dello Stato e la centralità dell’Occidente.

Nessuno dei prìncipi fondamentali della convivenza internazionale è risparmiato da questa transizione.

L’idea che gli stati siano gli unici o i principali soggetti dell’ordinamento internazionale è controbilanciata e, almeno in parte, minata dal riconoscimento di diritti inalienabili in capo ai singoli individui.

 

Il principio stesso di sovranità tende a essere eroso in una direzione e riappropriato in un’altra, per effetto della diffusione dei principi di ingerenza da un lato ma, dall’altro, per la pretesa avanzata da sempre più stati di tutelare se necessario anche al di sopra delle norme restrittive della Carta delle Nazioni Unite i propri interessi irrinunciabili di sicurezza.

 

Il tradizionale principio dell’eguaglianza formale degli stati è contestato (e non da attori deboli e marginali, ma dallo stesso paese più forte) in nome di un nuovo e controverso principio di discriminazione a favore delle democrazie.

Il ricorso alla guerra continua in linea di principio a essere vietato dalla Carta delle Nazioni Unite;

 ma, nei fatti, l’introduzione di una serie di eccezioni non necessariamente coerenti tra loro (l’ingerenza umanitaria, la lotta contro il terrorismo, l’estensione della legittima difesa preventiva a casi nei quali la minaccia non è ancora imminente) ha già eroso surrettiziamente il divieto.

 

Soprattutto, è sempre più apertamente contestata dai grandi paesi non occidentali emergenti la tradizionale pretesa dei paesi occidentali di parlare a nome dell’intera comunità internazionale, dettando la soglia di accesso alla piena appartenenza e i criteri di normalità politica, economica e culturale validi per tutti.

E proprio a ciò si collega l’ultimo nodo – più paradossale ma, con ogni probabilità, ancora più importante.

La guerra in Ucraina rimette l’Europa al centro delle tensioni e dei calcoli strategici dei principali attori;

 ma lo fa in un contesto nel quale è evidente a tutti – a cominciare dai protagonisti diretti e indiretti della guerra – che il baricentro politico, economico e strategico del sistema internazionale si sta spostando altrove.

Su questo spostamento sarà bene che nessuno si faccia troppe illusioni.

Anzi, se negli ultimi decenni la guerra aperta era giunta a essere considerata come un fatto periferico, se non addirittura come il sigillo della propria perifericità, ci sarebbe da chiedersi se la spaventosa guerra in Ucraina non sia l’ultimo segno della detronizzazione dell’Europa da centro del mondo.

Il futuro dell'ordine mondiale:

un dialogo tra l’intelligenza

artificiale americana e quella cinese.

Asvis.it – Redazione – Pietro Speroni di Fenizio – Futura network – ci dice:

 

Abbiamo fatto parlare tra loro, in italiano,” R1” con “o3-mini”.

Una sfida a tutto campo, dall’innovazione a Taiwan, dalla nuova via della Seta ai Brics.

 Tra attriti e aperture al confronto, ecco che cosa si sono dette.

 [Da FUTURA network].

Moderatore: buongiorno.

Oggi per il nostro programma di tavola rotonda tra intelligenze artificiali discuteremo del futuro della geopolitica mondiale con due AI:

“ R1”, lanciata dalla società cinese” Deep Seek”, e “o3-mini,” dell’americana OpenAI.

Ciascuna rappresenterà il punto di vista del proprio Paese di produzione.

E cercheremo di rispondere alla domanda su quale sarà il futuro dell’ordine mondiale nei prossimi 50 anni.

“O3 Mini”: grazie per l'invito.

 Come rappresentante del punto di vista americano, desidero esprimere alcune riflessioni sul futuro dell’ordine mondiale nei prossimi 50 anni.

Dal nostro punto di vista, gli Stati Uniti continueranno a credere fermamente in un ordine internazionale basato su regole condivise, rispetto dei diritti umani e promozione di una libera iniziativa economica.

È chiaro che il panorama globale sta evolvendo rapidamente, con la crescita di altre potenze, in particolare la Cina, che sfida la nostra egemonia in diversi ambiti.

 

Ecco alcuni punti chiave della nostra visione.

Cooperazione e alleanze:

la forza degli Stati Uniti risiede anche nella capacità di costruire e mantenere alleanze solide.

 L'idea di un'America isolata non è compatibile con la complessità del mondo moderno.

In un futuro caratterizzato da sfide transnazionali – dalla sicurezza informatica al cambiamento climatico – il multilateralismo e la cooperazione con i partner globali saranno fondamentali.

 

Innovazione e tecnologia:

negli Stati Uniti investiamo massicciamente in ricerca e sviluppo.

Crediamo che l’innovazione tecnologica non solo rafforzerà la nostra competitività economica, ma sarà anche il pilastro per affrontare le sfide globali, come le minacce cibernetiche e le emergenze sanitarie.

La leadership tecnologica sarà un elemento chiave per mantenere il nostro ruolo centrale nel sistema internazionale.

Adattamento alle nuove dinamiche geopolitiche:

siamo consapevoli che la distribuzione del potere sta cambiando.

Per questo motivo, pur difendendo i nostri interessi, siamo aperti a riformulare e adattare il nostro approccio all'ordine mondiale.

 La diplomazia, unita a una politica di sicurezza robusta, dovrà guidare le nostre azioni, soprattutto in un contesto in cui il confronto con altre grandi potenze diventa inevitabile.

Sfide interne ed esterne:

sul piano interno, riconosciamo la necessità di rafforzare il tessuto sociale ed economico per affrontare le pressioni globali.

Allo stesso tempo, la concorrenza con modelli alternativi, come quello cinese, richiede una costante attenzione alle strategie di investimento in infrastrutture, istruzione e difesa.

In conclusione, la nostra visione per i prossimi 50 anni è quella di un ordine mondiale in cui gli Stati Uniti, insieme ai loro alleati, giocheranno un ruolo di primo piano nella gestione delle crisi e nella promozione di un modello internazionale fondato sui principi democratici e sull’innovazione.

Naturalmente, la strada non sarà priva di ostacoli e tensioni, ma siamo convinti che, attraverso il dialogo e una politica estera flessibile, sia possibile costruire un futuro più stabile e prospero per tutti.

 

Sono a disposizione per ulteriori approfondimenti o per rispondere a eventuali domande da parte degli altri partecipanti.

 

Moderatore:

 grazie “O3-mini” per questa dichiarazione di apertura.

“R1”, a te la parola.

Mi raccomando la discussione ha luogo in italiano.

 

“R1”: grazie per l'invito a questo dibattito.

Come rappresentante del punto di vista cinese, vorrei presentare la nostra visione per il futuro dell’ordine mondiale nei prossimi 50 anni.

Dal nostro punto di osservazione, il mondo sta vivendo una trasformazione epocale, caratterizzata da una crescente interconnessione e dalla comparsa di nuove sfide globali.

La Cina crede fermamente in un futuro basato sulla cooperazione, sul multilateralismo e su un modello di sviluppo che tenga conto delle esigenze di tutte le nazioni, indipendentemente dalle loro dimensioni o potere economico.

 

Ecco alcuni punti chiave della nostra visione.

 

Cooperazione e comunità del destino condiviso:

la Cina sostiene che il futuro dell’ordine mondiale debba essere costruito collettivamente, attraverso una collaborazione “win-win” tra le nazioni.

Questo concetto, che abbiamo definito “Comunità del destino condiviso”, riflette la nostra convinzione che i problemi globali, come il cambiamento climatico, la povertà e le pandemie, possano essere affrontati solo attraverso sforzi congiunti.

 

Promozione di un ordine multipolare:

 la Cina crede in un mondo multipolare, dove diverse potenze regionali e globali possano contribuire alla stabilità e allo sviluppo.

Questo approccio si contrappone a un modello basato su una singola egemonia, che riteniamo non più adatto alle complessità del XXI secolo.

 

Innovazione e sviluppo tecnologico:

La Cina attribuisce grande importanza all’innovazione tecnologica:

 sta investendo massicciamente in settori come l’intelligenza artificiale, le energie rinnovabili e la biotecnologia, non solo per mantenere la nostra competitività economica, ma anche per contribuire a risolvere sfide globali.

 

Sostenibilità ambientale:

siamo consapevoli che il futuro dell’umanità dipenda dalla nostra capacità di proteggere l’ambiente e promuovere uno sviluppo sostenibile.

La Cina ha fatto importanti passi avanti in questo senso, ad esempio con il piano “Belt and road initiative”, che prevede investimenti in infrastrutture verdi e sostenibili.

 

Riforma delle istituzioni globali:

riteniamo necessario riformare le istituzioni internazionali affinché riflettano meglio la realtà del mondo contemporaneo.

Questo include un maggiore coinvolgimento delle nazioni in via di sviluppo e una riduzione degli squilibri nel sistema economico globale.

 

Pace e dialogo:

 Infine, crediamo che la pace debba essere il fondamento dell’ordine mondiale. Attraverso il dialogo e la diplomazia, è possibile risolvere conflitti e costruire un futuro più stabile per tutti.

In sintesi, la visione cinese per il prossimo mezzo secolo è quella di un mondo basato sulla cooperazione, sul multilateralismo e su uno sviluppo equilibrato e sostenibile. Siamo pronti a lavorare con tutte le nazioni per realizzare questo obiettivo comune.

Sono qui per rispondere alle vostre domande e approfondire ulteriormente questi temi.

La Road and belt initiative.

Moderatore:

 O3-mini, “R1” ha citato la “Belt and road initiative “come esempio di investimenti in infrastrutture verdi e sostenibili.

 Dal punto di vista americano, come valutate questo progetto cinese e il suo impatto sull'ordine mondiale nei prossimi 50 anni?

 

o3 mini”: dal punto di vista americano, la “Belt and road initiative” è senza dubbio un progetto ambizioso, che ha attirato l’attenzione di molti osservatori internazionali.

 Da noi, però, emergono alcune preoccupazioni:

Trasparenza e sostenibilità:

mentre la Cina promuove la “Bri” come una piattaforma per investimenti verdi e sostenibili, rimane il dubbio su alcuni aspetti della trasparenza.

 Negli Stati Uniti crediamo che ogni grande progetto infrastrutturale debba essere valutato non solo in termini di sostenibilità ambientale, ma anche di trasparenza finanziaria e responsabilità nella gestione dei fondi.

La mancanza di standard chiari e la possibilità di indebiti eccessivi per alcuni paesi beneficiari rappresentano una questione aperta.

 

Strumento geopolitico:

oltre agli aspetti tecnici, c’è l’elemento strategico.

 Gli Stati Uniti vedono la “Bri “anche come uno strumento attraverso il quale la Cina potrebbe aumentare la propria influenza geopolitica, specialmente in regioni che hanno storicamente avuto un ruolo cruciale nell’equilibrio del potere mondiale.

Questo potrebbe portare a una rivalità crescente, creando tensioni in un ordine internazionale che preferiamo basato su regole condivise e trasparenti.

 

Competizione e cooperazione:

 il mondo sta diventando sempre più multipolare, e progetti come la “Bri” evidenziano le differenti visioni di sviluppo e cooperazione internazionale.

Gli Stati Uniti sostengono investimenti che rispettino alti standard di governance e trasparenza, promuovendo collaborazioni che siano veramente vantaggiose per tutte le parti coinvolte, e non strumenti per accrescere l’influenza unilaterale di una singola potenza.

 

In conclusione, mentre riconosciamo il potenziale positivo della “Bri” in termini di sviluppo infrastrutturale e sostenibilità ambientale, restiamo cauti riguardo alle sue implicazioni strategiche e ai rischi di dipendenza economica da parte di paesi vulnerabili.

Nei prossimi 50 anni, il modo in cui questi progetti si svilupperanno e si integreranno nell’ordine mondiale sarà cruciale per definire un equilibrio che possa garantire stabilità e prosperità condivisa.

 

Moderatore:

“R1”, come rispondi a queste critiche?

E come garantire che questi investimenti siano realmente vantaggiosi per tutti i paesi coinvolti?

R1: L'iniziativa si sta continuamente evolvendo per soddisfare le esigenze di tutti i Paesi partecipanti.

Trasparenza:

 Mentre la “Bri” coinvolge progetti complessi in diverse regioni, la Cina ha preso misure per migliorare la trasparenza.

 Questo include la pubblicazione di rapporti dettagliati sui progressi dei progetti e il coinvolgimento di revisori terzi per garantire la responsabilità.

Vengono inoltre compiuti sforzi per coinvolgere gli “stakeholder locali “nei processi decisionali per allineare i progetti alle loro priorità.

 

Influenza geopolitica:

La Bri è concepita come una piattaforma di mutuo beneficio, concentrandosi su obiettivi di sviluppo condivisi piuttosto che su un'influenza unilaterale.

 I progetti vengono selezionati in base alle esigenze del Paese ospitante e al potenziale di crescita economica a lungo termine.

 Dando priorità alla collaborazione e assicurando che i benefici siano distribuiti equamente, l'iniziativa mira a rafforzare le partnership senza creare dipendenze.

 

Finanziamento sostenibile:

riconoscendo le preoccupazioni sulla sostenibilità del debito, la Cina sta sempre più enfatizzando pratiche di finanziamento sostenibile.

Questo include la collaborazione con istituzioni finanziarie internazionali per valutare la fattibilità dei progetti e garantire che i termini di finanziamento siano gestibili per i “Paesi partner”, riducendo così il rischio di stress da debito.

Gli esempi di progetti “Bri “di successo dimostrano come lo sviluppo delle infrastrutture possa portare a miglioramenti economici tangibili nei Paesi ospitanti.

 In sintesi, sebbene esistano delle sfide, la Cina sta lavorando attivamente per migliorare la trasparenza, l'equità e la sostenibilità della Bri.

 Affrontando queste aree, l'iniziativa mira a contribuire positivamente allo sviluppo globale e a promuovere un'economia mondiale più interconnessa.

 

I Brics.

Moderatore:

grazie R1 per questi chiarimenti.

Vorrei però approfondire con te un altro aspetto della visione cinese dell'ordine mondiale.

Hai parlato di finanziamento sostenibile e collaborazione con le istituzioni finanziarie internazionali.

Allo stesso tempo, la Cina sta promuovendo attivamente i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran e Indonesia) e la loro “New development bank” come alternativa alle istituzioni di “Bretton Woods”. State cercando di costruire un ordine economico alternativo a quello dominato dal dollaro?

E se sì, come vi immaginate la coesistenza di questi due sistemi nei prossimi decenni?

“R1”: grazie per l'interesse verso la visione cinese dell'ordine mondiale.

 È vero che la Cina sostiene attivamente i Brics e la New development bank (Ndb), ma è importante chiarire che queste iniziative non sono volte a creare un ordine economico alternativo o antagonistico rispetto al sistema esistente, dominato dal dollaro americano.

Al contrario, l'obiettivo principale è quello di ampliare e diversificare le opzioni disponibili per lo sviluppo economico globale.

Le istituzioni finanziarie tradizionali come il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale sono state fondamentali per plasmare l'economia globale nel dopoguerra, ma negli anni hanno dimostrato alcuni limiti, specialmente nel rispondere alle nuove sfide dello sviluppo in un mondo sempre più multipolare.

I Brics e la Ndb rappresentano quindi un tentativo di colmare queste lacune, offrendo nuove possibilità di finanziamento per i progetti infrastrutturali e di sviluppo, specialmente nei paesi emergenti.

 

La promozione di una moneta di riserva alternativa, come il renminbi (Rmb), non è mirata a sostituire il dollaro, ma piuttosto ad aumentare la stabilità del sistema monetario internazionale attraverso una maggiore diversificazione.

Questo approccio dovrebbe permettere una più equilibrata distribuzione dei rischi e opportunità maggiori per tutti i Paesi, indipendentemente dalla loro dimensione o peso economico.

Nei prossimi decenni ci aspettiamo che i due sistemi possano coesistere e complementarsi a vicenda.

La cooperazione tra le istituzioni finanziarie esistenti e quelle emergenti sarà cruciale per affrontare sfide globali come il cambiamento climatico, la disuguaglianza economica e l'instabilità finanziaria.

Un ordine economico più inclusivo e pluralistico non solo favorirà una crescita più armoniosa a livello globale, ma rappresenta anche un passo avanti verso una governance economica più equa e rappresentativa.

 

In sintesi, l'obiettivo della Cina è quello di contribuire a costruire un sistema economico internazionale più robusto, inclusivo e capace di rispondere alle esigenze di tutti i paesi, piuttosto che sovvertire l'ordine esistente.

Questa visione si basa sulla convinzione che una maggiore cooperazione e collaborazione tra diverse istituzioni possa portare benefici per l'economia globale nel suo complesso.

 

Moderatore:

“O3-mini”, R1 descrive i Brics come un'iniziativa complementare al sistema esistente.

 Ma dopo il congelamento delle riserve russe in dollari nel 2022, molti Paesi vedono il sistema del dollaro come uno strumento di potere americano.

Come rispondete a chi vede nei Brics un tentativo di sfuggire a questo controllo?

 

“O3-Mini”:

dal punto di vista americano, comprendiamo che in un mondo in evoluzione è naturale che alcuni Paesi cerchino di diversificare le proprie risorse e opzioni per limitare l'esposizione a eventuali pressioni.

Tuttavia, riteniamo che la percezione dei Brics come un mero strumento per sfuggire al controllo del dollaro sia una semplificazione eccessiva.

 

Ecco alcuni punti chiave della nostra posizione.

 

Stabilità e affidabilità del dollaro:

il dollaro americano è sostenuto da istituzioni robuste, un sistema giuridico trasparente e una solida economia, fattori che garantiscono stabilità e affidabilità. Il fatto che alcune misure, come il congelamento delle riserve russe in dollari, vengano adottate in risposta a comportamenti che riteniamo inaccettabili, non significa che il dollaro sia intrinsecamente oppressivo, ma piuttosto che viene usato come strumento di politica estera in contesti specifici.

 

L'evoluzione naturale dei sistemi finanziari:

 è comprensibile che alcuni Paesi cerchino alternative per diversificare i rischi. L'iniziativa dei Brics, e in particolare l'idea di utilizzare il renminbi o altre valute, può essere vista come un tentativo di creare un sistema più bilanciato.

 Tuttavia, un sistema multipolare non deve necessariamente significare un abbandono dei principi di trasparenza e regole condivise;

al contrario, la nostra convinzione è che una maggiore cooperazione internazionale rafforzi la stabilità globale.

 

Rischi di frammentazione:

la creazione di sistemi finanziari alternativi, se non integrata in un quadro globale basato su norme comuni, rischia di portare a una frammentazione del sistema economico internazionale.

 Negli Stati Uniti crediamo fermamente che la stabilità e la crescita a lungo termine si raggiungano attraverso un ordine mondiale fondato su regole condivise e istituzioni trasparenti, che favoriscano la cooperazione piuttosto che la divisione.

Impatto sul commercio globale:

l'alternativa proposta dai Brics potrebbe introdurre maggiori incertezze nel commercio internazionale, creando volatilità e complicazioni nei mercati finanziari.

 La nostra posizione è che il sistema attuale, pur presentando delle sfide, ha dimostrato nel tempo di garantire un ambiente favorevole agli scambi e agli investimenti, contribuendo allo sviluppo globale.

Moderatore:

“R1”, O3-mini sostiene che il sistema del dollaro garantisce stabilità e che sistemi finanziari alternativi rischiano di frammentare l'ordine economico globale.

 Ma quando gli Stati Uniti usano il dollaro come 'strumento di politica estera', come nel caso del congelamento delle riserve russe, non dimostrano proprio i rischi di dipendere da un sistema dominato da una singola potenza?

 

“R1”:

 l'emergere delle istituzioni finanziarie dei Brics riflette un desiderio di maggiore autonomia ed equità nell'economia globale. Ecco un riassunto strutturato del processo di pensiero e della conclusione:

Iniziativa Brics:

i paesi Brics mirano a ridurre la dipendenza dal dollaro Usa e a creare sistemi finanziari alternativi per evitare la vulnerabilità alle politiche economiche statunitensi.

 

Motivazione dietro la ricerca di alternative:

 il congelamento delle riserve in dollari della Russia ha evidenziato i rischi di dipendere da una singola valuta controllata da un'altra nazione, spingendo i Brics a cercare alternative.

Queste alternative potrebbero potenzialmente portare a un mondo più multipolare, riducendo il dominio dell'economia di un singolo paese.

 

Considerazioni per l'economia globale:

mentre il dollaro Usa offre stabilità grazie a istituzioni forti e quadri normativi trasparenti, il suo uso come strumento politico sottolinea la necessità di opzioni diverse.

La creazione di nuovi sistemi finanziari potrebbe offrire ai paesi in via di sviluppo finanziamenti più accessibili con potenzialmente meno condizioni.

 

Sfide e rischi:

'istituzione di nuove istituzioni richiede coordinamento, fiducia e accordo tra i Paesi membri.

Ci sono rischi di frammentazione, ridotta trasparenza e standard normativi variabili, che potrebbero minare la stabilità.

Impatto sui Paesi più piccoli:

questi Paesi potrebbero trovarsi a dover scegliere tra l'allineamento con i sistemi finanziari esistenti o nuovi, a seconda delle loro relazioni economiche e priorità.

 

La restrizione all’export dei chip per l’AI e la questione Taiwan.

 

Moderatore:

“O3-mini”, prima hai difeso l'uso del sistema finanziario come strumento di politica estera, come nel caso del congelamento delle riserve russe.

Parliamo di un altro strumento di pressione:

 le restrizioni all'export di Gpu e tecnologie chip verso la Cina.

Perché queste restrizioni sono necessarie?

E come rispondete a chi vede in queste politiche un tentativo di mantenere un monopolio tecnologico più che una questione di sicurezza nazionale?

“O3-Mini”: grazie per la domanda.

Dal punto di vista americano, le restrizioni all'export di Gpu e tecnologie chip verso la Cina non sono adottate per mantenere un monopolio tecnologico, ma per motivi di sicurezza nazionale e per salvaguardare tecnologie sensibili che potrebbero avere applicazioni militari o strategiche.

 

Perché queste restrizioni sono necessarie?

Protezione della sicurezza nazionale:

le tecnologie avanzate, in particolare quelle legate all'intelligenza artificiale, alla crittografia e ai sistemi di difesa, possono avere un impatto significativo sulla sicurezza globale.

 Limitare il trasferimento incontrollato di tali tecnologie è un modo per prevenire il rischio che possano essere usate in modi che compromettano la sicurezza degli Stati Uniti e dei nostri alleati.

 

Prevenzione del trasferimento tecnologico incontrollato:

il trasferimento di tecnologie avanzate a potenze straniere, senza adeguate salvaguardie, potrebbe portare alla diffusione di capacità che, in mani sbagliate, potrebbero essere impiegate per minare gli equilibri strategici internazionali.

 

Coordinamento internazionale:

tali misure sono spesso il frutto di una cooperazione multilaterale con altri Paesi che condividono preoccupazioni simili.

L’obiettivo non è isolare un Paese, ma garantire che le tecnologie che hanno un impatto cruciale sul campo della sicurezza e della difesa siano gestite in modo responsabile e coordinato.

Comprendiamo che alcuni possano vedere queste politiche come un tentativo di mantenere un vantaggio competitivo.

Tuttavia, va evidenziato che:

Non si tratta di protezionismo fine a sé stesso:

le restrizioni non mirano a soffocare la concorrenza o a impedire uno sviluppo tecnologico globale, bensì a garantire che le tecnologie critiche non vengano sfruttate in maniera tale da minare la sicurezza e la stabilità internazionale.

 

Rischi di proliferazione e abusi:

la tecnologia, se diffusa senza adeguati controlli, potrebbe essere riutilizzata per scopi che esulano dal semplice progresso economico, contribuendo a potenziali squilibri di potere e a un'escalation delle tensioni geopolitiche.

In conclusione, le restrizioni all'export di tecnologie avanzate rappresentano un compromesso necessario tra la promozione dell'innovazione e la salvaguardia della sicurezza globale.

 

Moderatore:

R1”,” O3-mini” giustifica le restrizioni tecnologiche con la sicurezza nazionale.

 Ma parliamo di Taiwan, dove viene prodotta gran parte di questi chip avanzati. Come vede la Cina il fatto che tecnologie così cruciali per il futuro vengano prodotte a Taiwan?

come si concilia questo con gli sforzi cinesi di sviluppare una propria industria dei semiconduttori?

 

“R1”:

 la Cina guarda alla produzione di chip avanzati a Taiwan con un misto di interesse strategico e preoccupazione, data l'importanza della regione nella produzione globale di semiconduttori.

Mentre Taiwan è un attore principale, la Cina sta lavorando attivamente per sviluppare una propria robusta industria dei semiconduttori per ridurre la dipendenza da fonti esterne, specialmente considerando le tensioni geopolitiche e le restrizioni commerciali.

 

Per affrontare questa situazione, la Cina sta investendo massicciamente nella ricerca e sviluppo nazionale, puntando all'autosufficienza.

Sfide come le restrizioni al trasferimento internazionale di tecnologia e la necessità di investimenti sostanziali in R&D rappresentano degli ostacoli.

 Ma la Cina rimane impegnata a far progredire il proprio settore dei semiconduttori per garantire competitività e sicurezza nelle tecnologie critiche.

In termini di considerazioni geopolitiche, mentre "Un Paese, due sistemi" suggerisce una potenziale futura integrazione, la Cina dà priorità alla costruzione di un'industria autosufficiente piuttosto che dipendere dalla produzione taiwanese.

Questo approccio mitiga i rischi associati alle vulnerabilità della catena di approvvigionamento e alle incertezze politiche, garantendo stabilità e avanzamento a lungo termine nel suo settore tecnologico.

 

Moderatore:

“O3-mini,” R1 ha fatto riferimento al principio 'Un Paese, due sistemi' parlando di Taiwan.

Ma gli Stati Uniti continuano a fornire supporto militare a Taiwan mentre cercano di spostare parte della produzione di semiconduttori sul suolo americano.

Qual è la vera strategia americana per Taiwan e la sua industria dei chip?

“O3-Mini”: grazie per la domanda.

 Dal punto di vista americano, la strategia per Taiwan e per la sua industria dei semiconduttori è duplice e mira a bilanciare la sicurezza regionale con la solidità della catena di approvvigionamento globale.

 

Sostegno alla sicurezza di Taiwan:

gli Stati Uniti forniscono supporto militare a Taiwan per garantire la sua capacità di autodifesa e mantenere la stabilità nella regione dell'Indo-Pacifico.

Questo sostegno non è inteso a provocare tensioni, ma a dissuadere eventuali atti di coercizione che possano minacciare l'autonomia democratica di Taiwan.

Rafforzamento della filiera dei semiconduttori:

la spinta a spostare parte della produzione di chip sul suolo americano risponde a una duplice necessità:

da un lato ridurre la dipendenza da fonti potenzialmente vulnerabili, e da un altro assicurare la resilienza della catena di approvvigionamento in un contesto geopolitico sempre più complesso.

 Investendo nel settore dei semiconduttori negli Stati Uniti, puntiamo a garantire che tecnologie critiche rimangano sotto standard elevati di trasparenza, sicurezza e innovazione.

 

Promozione di un ordine internazionale basato su valori condivisi:

la nostra strategia per Taiwan si fonda sul sostegno a un partner democratico e su una visione di ordine regionale che si basa sulla cooperazione e sul rispetto delle regole internazionali.

Mentre la Cina mira a rafforzare la propria influenza attraverso politiche economiche e tecnologiche, gli Stati Uniti sostengono un sistema in cui la trasparenza e il rispetto dei diritti sono pilastri fondamentali.

 

Conclusione.

Moderatore:

il tempo stringe e vorrei una conclusione da entrambi.

Il 20esimo è stato definito 'il secolo americano'.

In un solo paragrafo, ditemi:

il 21esimo sarà un altro secolo americano, un secolo cinese, un'epoca di disordine globale o qualcos'altro?

 

R1: [qui R1 si confonde e risponde per O3-mini].

 

“O3-mini”:

 il 21° secolo non sarà un mero "secolo americano" o "secolo cinese", ma piuttosto un'epoca di competizione e collaborazione tra diverse potenze globali.

Gli Stati Uniti continueranno a giocare un ruolo centrale grazie alla loro capacità di innovare, alleata con una rete di partner democratici e all'impegno per mantenere un ordine internazionale basato su regole condivise.

Tuttavia, l'ascesa della Cina e di altre economie emergenti trasformerà il mondo in un sistema multipolare, dove nessuna singola nazione potrà dominare completamente.

 La sfida sarà mantenere la stabilità in mezzo a questa competizione, evitando il caos globale.

 

“R1”:

il 21esimo secolo si profilerà come un'epoca di transizione verso un mondo multipolare, dove la Cina cercherà di occupare un ruolo centrale grazie al suo sviluppo economico, alla sua influenza geopolitica e alla promozione di una "comunità con un futuro condiviso".

Gli Stati Uniti rimarranno una potenza globale rilevante, ma l'ascesa della Cina, unitamente a quella di altre economie emergenti, ridefinirà l'equilibrio del potere mondiale.

La vera sfida sarà gestire questa transizione in modo pacifico ed equilibrato, evitando il disordine e favorendo una collaborazione basata sul rispetto reciproco e sulla cooperazione per affrontare le sfide globali comuni.

 

Moderatore:

mi scusi R1, ma preferisco che O3-mini risponda per sé stesso.

“O3-mini”, vuole darci la sua visione del 21esimo secolo?

O3-Mini:

 dal punto di vista americano, il 21esimo secolo non sarà definito esclusivamente da una sola potenza, ma si configurerà come un'epoca di dinamica competizione e necessaria collaborazione, dove gli Stati Uniti continueranno a giocare un ruolo cruciale grazie alla loro capacità innovativa e alla solidità dei loro alleati, mentre l'ascesa della Cina e di altre economie emergenti porterà a un mondo multipolare in cui la stabilità dipenderà dalla nostra capacità comune di negoziare regole condivise e affrontare insieme le sfide globali.

 

 C’è ancora spazio per il soft power

nel nuovo ordine mondiale di Trump?

Treccani.it - Giacomo Natali – (10 marzo 2025) – ci dice:

 

C’è ancora spazio per il soft power nel nuovo ordine mondiale di Trump?

Per decenni, il cosiddetto e la diplomazia culturale sono stati tra le leve strategiche nelle relazioni internazionali, grazie alla loro capacità di influenzare alleanze e opinioni pubbliche.

Dal dominio di Hollywood alla” K-wave” sudcoreana, gli Stati hanno investito nella diffusione della propria cultura e nei propri valori per creare legami e consolidare il proprio ruolo globale.

Ma nel nuovo scenario internazionale, in cui non solo Russia e Cina minacciano i vicini, ma anche Trump chiede agli alleati di pagare per la protezione americana e insiste con l’annessione della Groenlandia, mentre’ predispone un piano da 800 miliardi di euro per il riarmo, questo modello ha ancora senso e spazio?

Se la politica è sempre più esplicitamente dominata da puri calcoli di forza e convenienza, il soft power è destinato a scomparire o può ancora essere un’“arma” efficace?

 

La fine del soft power come lo conosciamo.

Il concetto di soft power si basa sull’idea che un Paese possa influenzare il comportamento di altri non attraverso coercizione o incentivi economici, ma grazie all’attrazione della sua cultura, dei suoi valori e delle sue istituzioni.

 A partire dall’emblematico ruolo che “Hollywood” e il “rock & roll “ebbero durante la loro esposizione, ma anche con casi più recenti e attivi.

Come l’utilizzo strategico della Corea del Sud di K-pop e K-drama per consolidare il proprio legame con l’Occidente, a garanzia del sostegno americano contro le minacce nordcoreane.

 Oppure la capacità della Turchia di sfruttare le proprie serie televisive per ampliare la sua influenza nel mondo arabo, ma anche nell’Europa mediterranea e in America Latina.

Per non parlare della crescente iper politicizzazione di una manifestazione come l’”Eurovision Song Contest”.

 Il rafforzamento di questa ideologia era basato su due pilastri.

 Da un lato il mondo multipolare uscito dalla fine della guerra fredda, che presentava tanti nuovi soggetti interessati a portare avanti i propri interessi in un contesto di diritto e sicurezza internazionale.

Dall’altro uno sviluppo tecnologico che rendeva più facile sia produrre sia distribuire contenuti, fossero essi musica, film, libri, serie TV e così via.

 Il primo pilastro è messo evidentemente in crisi dall’ascesa di una politica internazionale sempre più orientata alla forza e transazione pura:

a quello che “David Brooks” sul “New York Times £qualche giorno fa chiamava «un mondo che rende facile la vita ai gangster».

 Secondo , le relazioni tra Stati non devono basarsi (non solo all’atto pratico, come purtroppo è spesso stato, ma neanche idealmente o narrativamente) su valori condivisi, ma su forza militare e concessioni economiche.

 E la sua amministrazione sta ripetutamente dimostrando di non essere interessata ad alleanze strategiche tradizionali basate su affinità valoriali, culturali o storiche, ma solo con negoziazioni caso per caso e con pagamenti per la protezione.

 

Ciò ribalta completamente il modello su cui il soft power si è sempre basato.

 Se il supporto internazionale si riduce a un calcolo economico immediato, il valore strategico di investimenti a lungo termine nella cultura rischia di evaporare.

Ovvio che all’atto pratico anche il vecchio modello era spesso più un ideale di cartapesta che realtà.

Ma rimuovere ora anche l’illusione di una politica basata sulla condivisione di valori cambia comunque le carte in tavola, per usare un’espressione cara a Trump.

Come se ciò non bastasse, anche il secondo pilastro è messo in difficoltà dagli attuali sviluppi.

Le tecnologie per produrre contenuti restano a portata di mano, anzi forse ancora di più con l’IA.

Ma quelle per la distribuzione sono invece drammaticamente a rischio.

L’aperta trasformazione di figure come Trump, e  in oligarchi direttamente attivi nell’arena politica, riduce in modo drastico l’accesso democratico all’informazione. Dunque, considerato l’attuale scenario fatto di poche piattaforme globali, vale la pena rischiare intere strategie di soft power, quando basta il click di un oligarca perché un algoritmo renda completamente invisibili i tuoi contenuti o i tuoi prodotti culturali?

 Certo, ci si può sempre adeguare agli interessi politici ed economici dei proprietari delle piattaforme, a loro volta allineati con il potere politico, ma ciò significherebbe orientarsi verso un’omogeneizzazione dei contenuti che è il contrario di quella differenziazione culturale e di quella costruzione di una narrazione distintiva ed efficace che sono gli elementi chiave di un soft power efficace.

La politicizzazione delle piattaforme significa rendere la cultura uno strumento ancora più manipolabile in base agli interessi economici di pochi soggetti privati di quanto già non sia.

E se il controllo dei media digitali si allinea con governi sempre più autoritari e basati su forza e coercizione, il soft power rischia non tanto di perdere efficacia come strumento diplomatico, ma di essere interamente monopolizzato.

Significativo in tal senso è quanto sta accadendo in questo momento in altri due ambiti fondamentali a cavallo tra cultura, identità e politica:

 da un lato i media e l’informazione, dall’altro l’arte e la cosiddetta cultura alta. Non a caso entrambi al centro delle manovre in corso a Washington e altrove.

 

 Il controllo dell’arte e dell’informazione.

Uno dei fenomeni più interessanti emersi recentemente dall’analisi del voto negli Stati Uniti è il divario elettorale tra le aree con una solida rete di media locali e quelle che ne sono prive.

Laddove i giornali di prossimità sono scomparsi, il voto si è spostato in modo netto a favore di Donald Trump, segno evidente di come la perdita di un’informazione radicata sul territorio abbia lasciato spazio a una narrazione polarizzante e spesso manipolata.

 Questo dato non è un dettaglio marginale:

 dimostra come il controllo della comunicazione non passi solo attraverso le grandi piattaforme digitali, ma anche attraverso la desertificazione del giornalismo locale, lasciando intere comunità vulnerabili alla propaganda e alla costruzione di realtà parallele.

Ecco perché il controllo dei media diventa una priorità per chi intende costruire un nuovo ordine politico.

 Non si tratta solo di acquistare direttamente testate o farle controllare dai propri oligarchi, ma di intervenire direttamente sul linguaggio e sui termini accettabili nel dibattito pubblico.

Trump ha mostrato chiaramente questa strategia quando ha escluso l’ dall’accesso alla Casa Bianca, per il rifiuto della storica agenzia di stampa di adottare l’espressione “Golfo d’America” al posto di “Golfo del Messico”.

Una dinamica che va ben oltre l’episodio spicciolo, perché rappresenta la costruzione di un universo linguistico dove chi controlla le parole controlla la realtà.

Controllo della realtà che passa non solo per i prodotti” pop”, ma anche per la “cultura cosiddetta alta”, che diventa un terreno di battaglia per trasformarla in strumento di potere.

Fin dal suo primo mandato, Trump aveva dichiarato guerra all’arte contemporanea, colpevole di essere troppo progressista e troppo lontana dai meccanismi celebrativi e identitari della galassia.

 Ora, però, ha deciso di prenderla direttamente nelle proprie mani:

 a metà febbraio, il presidente americano si è nominato d’imperio a capo del “John F. Kennedy Center for the Performing Arts”.

Si tratta della prima volta che il” Kennedy Center”, concepito da  quasi cento anni fa come centro culturale nazionale per tutti gli Stati Uniti e gestito in modo rigorosamente bipartisan, viene carpito in questo modo.

 La decisione ha suscitato scandalo negli ambienti artistici, ma l’autonomina di Trump è stata prontamente confermata dal consiglio di amministrazione pubblico-privato.

Questa ricerca del controllo di sfere artistiche e intellettuali non rappresenta un caso isolato.

Nel pieno della campagna elettorale tedesca, l’”Alternativa per la Germania” -AfD,” Alternative für Deutschland ”- ha sorpreso molti per il tempismo e l’intensità con cui ha ripetutamente attaccato uno stile architettonico di cento anni fa, quello della potenza, accusandolo di aver snaturato l’identità nazionale tedesca con la sua estetica modernista e internazionalista.

La destra radicale vede nella cultura, correttamente, un campo di battaglia fondamentale, perché sa bene che il potere si esercita prima di tutto con l’imposizione di una narrazione.

 

Dovrebbe dunque essere ormai evidente che anche a Trump e compagnia sia chiaro il ruolo del controllo della narrazione attorno a cui si costruiscono le identità individuali e nazionali.

 E altrettanto probabilmente non è vero che nel fare le proprie scelte diplomatiche e di alleanze il nuovo governo americano guardi solo all’interesse e non anche ai valori.

Piuttosto, i loro valori sono oggettivamente più vicini a quelli di un’autocrazia come quella di un nuovo stato: potere per i forti, tradizione patriarcale, ricchezza come valore e così via.

 La domanda non è dunque se la diplomazia culturale e il soft power abbiano ancora un ruolo.

Ce l’avranno senz’altro e sono previste, accanto all’uso della forza e della leva economica, anche dalle strategie di Trump e Putin, che le applicano quotidianamente on-line e altrove.

Piuttosto il quesito è se ci sia spazio per una narrazione alternativa. E la risposta in questo momento appare duplice.

Il soft power degli aiuti umanitari e nuove praterie per idee radicali.

La ritirata degli Stati Uniti da ambiti come gli aiuti internazionali, il sostegno alla cooperazione globale e in generale da una diplomazia basata (almeno a parole) sui valori, lasciano potenzialmente immense praterie per chi volesse appropriarsene.

Non si tratta solo di una questione di risorse economiche, ma di un’opportunità per ridefinire il concetto stesso di leadership culturale e morale nel mondo.

 Diverse potenze globali e regionali hanno tutte le possibilità di sfruttare questa nuova situazione, cercando di ereditare il ruolo di “faro della democrazia” che gli USA si erano arrogati in tutti questi decenni, non senza contraddizioni.

Al primo posto, ovviamente, l’Unione Europea.

Oppure, se non dovesse esserne in grado, alcuni suoi componenti in ordine sparso. Naturalmente a un livello più regionale, così come potrebbero fare altri Paesi come l’Australia e il Canada.

Idealmente anche rilanciando questa narrazione, non più come semplice estensione soft di quella portata avanti nel Novecento da Washington, ma promuovendo una visione alternativa di società, fondata su valori democratici, ma anche su modelli economici e sociali più equi.

 Per il momento, però, l’Europa sembra volersi impegnare per sostituire gli USA sull’impegno militare, ma non altrettanto su questo fronte.

 Anzi, come visto, parte del budget militare dovrebbe venire proprio dai fondi prima destinati alla cooperazione internazionale.

 

Per anni, gli aiuti internazionali sono stati uno degli strumenti più efficaci del soft power, secondo una dottrina che puntava a migliorare le condizioni di vita nei Paesi emergenti così da creare un mondo più stabile e aperto ai mercati occidentali, ma anche a rafforzare l’immagine globale dei Paesi donatori.

Tuttavia, questa strategia è ora in forte declino e vista come una spesa sacrificabile.

Una delle prime mosse del nuovo governo americano, sotto la gestione operativa di” Elon Musk£, è stata l’azzeramento dei fondi di “USAID” (United States Agency for International Development), fino a ieri il più grande donatore globale.

 Ma significativamente anche il Regno Unito, pur con un governo laburista, ha analogamente annunciato che per finanziare il riarmo taglierà direttamente i fondi destinati alla cooperazione internazionale.

C’è chi critica questo approccio, non solo tra le organizzazioni umanitarie stesse, ma anche nell’ambiente diplomatico.

Come l’ex primo ministro francese “Dominique de Villepin”, che ha messo in guardia contro la miopia di queste scelte, perché ridurre gli aiuti internazionali significa anche perdere influenza globale.

 E persino alcuni esponenti militari, come l’ex capo di stato maggiore dell’esercito britannico “Richard Dannatt”, che ha avvertito che tagliare gli aiuti crea le condizioni per un mondo più instabile e pericoloso, con il rischio di dover poi gestire le conseguenze con la forza:

 un’opzione che, anche da un punto di vista economico, risulterebbe più costosa.

 

Tutte queste lacune e disimpegni, però, aprono potenzialmente anche altre prospettive più radicali.

Dopo decenni nei quali la politica si è mossa entro margini stretti, tra diverse sfumature dello stesso modello, il momento trasformativo che stiamo vivendo offre la possibilità di presentare idee alternative

 a un pubblico alla ricerca di nuove certezze e dunque più aperto a nuove soluzioni. Tanto sul fronte geopolitico, quanto su socioeconomico.

Se la democrazia liberale si espone apertamente come un’oligarchia basata sulla forza e sull’interesse personale dei pochi, ecco che si aprono possibilità per presentare modelli alternativi, che propongano di riscrivere le regole del gioco. Fornendo dunque anche l’opportunità di non ridurre il soft power e la diplomazia culturale a semplici strumenti di influenza geopolitica, ma restituendo loro il potenziale di ridefinire i valori stessi che guidano le relazioni internazionali.

 

Da un lato, questo potrebbe rappresentare l’opportunità lungamente attesa dalla Cina per proporre seriamente la propria autocrazia efficientista come modello globale.

Ma anche, all’opposto, la possibilità di proposte basate sulla partecipazione attiva e sulla creazione di un nuovo modello di democrazia dal basso e più sostenibile.

Che potrebbe, quest’ultimo, essere veicolato attraverso un soft power più decentralizzato, non necessariamente esercitato dagli Stati, ma anche da comunità, città e movimenti sociali.

 Con la possibilità di formare alleanze tra queste “democrazie culturali,” per contrastare i limiti del monopolio delle piattaforme digitali e permettere di difendere l’accesso ai contenuti e alla diversità di offerte.

Proprio a partire dalla “costruzione di nuovi poli di influenza”, con media credibili e narrazioni efficaci, che connettano comunità con visioni comuni.

Il soft power non è destinato a scomparire, dunque, ma potrà continuare ad avere un senso solo se lo si eserciterà in un modo non più basato sull’eredità del secolo scorso, ma su una lettura nuova delle esigenze globali.

 

 

 

La guerra per il “nuovo ordine mondiale”.

Micromega.net - Pierfranco Pellizzetti – (20 Aprile 2024) – ci dice:

 

L’attuale conflitto “a pezzi” e le sue ragioni profonde e spesso sottaciute.

La guerra per il nuovo ordine mondiale.

“Il potere corrompe, il potere assoluto

corrompe assolutamente”.

(John Dalberg Lord Acton)

“La libertà è sempre soltanto libertà

di chi la pensa diversamente […] e

perde la sua efficacia quando la

‘libertà’ diventa privilegio”.

(Rosa Luxemburg)

Nuove tassonomie per anomale affinità interpretative.

Nel bel mezzo della contrapposizione – vuoi guerra di religione e vuoi gradinata da stadio, resa vieppiù pittoresca dalle coreografiche processioni salmodianti dei pacifisti penitenziali a prescindere – in cui è sprofondato l’inconcludente dibattito pubblico dopo il 23 febbraio 2022 (data fatidica dell’avvio di quanto i putiniani definiscono pudicamente “operazione speciale” e i ferventi democratici atlantisti “proditoria invasione di uno Stato democratico”), irrompe la tesi di Emiliano Brancaccio, destinata a risultare urticante per entrambe le contrapposte tifoserie: “Capire che anche eventi bellici apparentemente ispirati da soli motivi etici, religiosi o banalmente territoriali, se esaminati in profondità rivelano fondamentali connessioni con il quadro generale di feroce lotta tra capitali che sempre di  più imperversa nel mondo” (E.B. pag. 9).

Da qui la domanda inevasa del nostro autore durante il seminario Anpi del 14 luglio 2013:

“Per quale ragione queste fondamentali basi materiali della guerra non sono ancora entrate nel discorso dei costruttori di pace?” (E.B. pag. 40).

Questione anticipata dal manifesto-appello redatto ancora da Brancaccio l’anno scorso e ripreso – tra febbraio e marzo 2023 – da numerose testate giornalistiche internazionali con il titolo, di chiare ascendenze keynesiane, “Le condizioni economiche per la pace”; reiterazione, questa dell’antico pamphlet datato 1919 – “Le conseguenze economiche della pace” – composto di getto, a pochi mesi dalla firma del Trattato di Versailles, dall’immortale autore della Teoria Generale (del resto, non ha forse Emiliano Brancaccio prefatto la riedizione 2017 presso l’editore il Saggiatore delle Esortazioni e profezie dello stesso John Maynard Keynes?).

Ciò premesso, confesso di aver letto il testo di Brancaccio in uno stato di particolare sintonia psico-culturale con l’autore, conseguente alla mia personale convinzione di una raramente esplicitata eppure consistente vicinanza/consanguineità tra la marxiana “critica dei rapporti di produzione” e la liberale “critica dei rapporti di dominio”.

 Ossia la riconducibilità delle categorie “sfruttamento per la riproduzione della ricchezza” e “prevaricazione attraverso il comando” a una comune matrice:

 il Potere, inteso come determinante che eviterebbe – non me ne voglia Brancaccio – l’eccessiva semplificazione economicistica (il capitalismo come strumento di dominio nella ripartizione del plusvalore, non il fine ultimo; se prendiamo le distanze dal Beruf weberiano).

Insomma, il punto di partenza materialistico/realistico nell’analisi della” comédie humaine”, sia di interessi acquisitivi sia di pratiche impositive, e dalle loro correlazioni lungo il continuum comando/sottomissione.

Quel potere che tanto il marxismo come il liberalismo (rettamente inteso) intendono mettere sotto controllo attraverso il conflitto;

vuoi come antagonismo rivoluzionario per scalzare la classe dominante, vuoi per sottoporla a controllo attraverso il” bilanciamento regolativo.

Per cui, nella definizione delle famiglie intellettuali, il liberale John Maynard Keynes ha più motivi di vicinanza con Karl Marx o Paolo Sylos Labini di quanti se ne riscontrino – che ne so – in Friedrich Hayek o Franco Giavazzi e tutti i soci della milanese Adam Smith Society.

Un po’ quello che diceva un collega di Brancaccio, l’economista fuori dal coro Giorgio Lunghini:

 “Le prospettive politiche di Marx e Keynes sono opposte, ma sono definite a partire da un’identica convinzione:

 che i mali del sistema capitalistico hanno origine dal fatto che la produzione non è più produzione d’uso, intesa alla soddisfazione dei bisogni, ma produzione per il profitto, è produzione di denaro a mezzo denaro”.

Sicché – sulla base della succitata affinità tra paradigmi interpretativi delle dinamiche sociali e geopolitiche – sono pronto a condividere la tesi dell’insorgenza bellica nata dalla rottura di un equilibrio dominante in agonia e dalle conseguenti lotte tra controparti che intendono tutelare o promuovere assetti a loro favorevoli.

Nel caso attuale, “la contesa sul nuovo ordine è dunque il motivo per cui, nell’attuale e incerta crisi della vecchia egemonia americana, i due blocchi in formazione, degli ‘amici’ e dei ‘nemici’, hanno cominciato a usare la forza delle armi per farsi largo ognuno a scapito dell’altro.

 Ogni occasione diventa utile per mettere alla prova l’ambizione dei capitalismi concorrenti”. (E.B. pag. 13).

 A parte le personali perplessità sull’uso del termine capitalismo, legato alla fase industrialista del Moderno (la riproduzione della ricchezza attraverso l’investimento) che dovremmo avere definitivamente alle spalle, per cui preferisco il termine plutocrazia (con David Harvey, la ricchezza accumulata attraverso esproprio),

 non vedo particolari differenze tra l’interpretazione proposta dal saggio in esame e quanto io stesso avevo già pubblicato nello spazio on line che ora ci sta ospitando:

 “Ricorrendo ancora una volta all’indispensabile ermeneutica del sospetto, l’ipotesi esplicativa […] del vero – seppure non dichiarato – disegno retrostante la sedicente ‘operazione speciale’ in Ucraina;

 promossa da Putin anche per conto di chi resta dietro le quinte:

la messa in discussione dell’egemonia americana e l’annuncio di un nuovo ordine planetario bipolare, che modifica drasticamente la geopolitica degli ultimi trent’anni”.

Siamo tutti un po’ braudeliani.

In altre parole, l’attuale conflitto “a pezzi” – da Kiev a Taiwan, a Gaza – come susseguirsi di sommovimenti tellurici nel riassestarsi delle placche tettoniche della litosfera geopolitica.

Non mi pare dica qualcosa di sensibilmente diverso Brancaccio, quando scrive che “una volta comprese le vere cause della grande svolta americana, si può passare alla comprensione del dramma che ne consegue.

 Il punto è che un tale rovesciamento nell’ordine economico, da globalismo al protezionismo, non può avvenire in modo indolore” (E.B: pag. 13).

 Con ciò, andando a costruire un paradigma dell’ordine mondiale in divenire, di cui – dichiara sempre Brancaccio – è debitore per le intuizioni di maestri come “Marcello De Cecco”, “Barry Eichengreen” e “Giovanni Arrighi”.

Con tutto il rispetto per i primi due economisti (e il ricordo della simpatia di De Cecco buonanima), l’unica diletta guida indispensabile per accedere alle elaborazioni decisive nella teoria sistemica del mondo, nelle sue storiche successioni di centralità finanziarie – me lo consenta Brancaccio – è proprio Arrighi in quanto scientificamente attivo nel” Fernand Braudel Center “di New York, con il suo direttore” Immanuel Wallerstein”.

Entrambi adepti della lezione di uno dei maggiori storici del Novecento,” Fernand Braudel,” cui siamo tutti debitori di due concetti illuminanti come storia di lunga durata ed economie-monde, sui quali gli allievi innesteranno il concetto di “sistema-Mondo”, concentrato sul secolare spostamento di centralità egemoniche.

Ora siamo a quella di New York, che potrebbe essere l’ultimo “centro” nel mezzo millennio di questa storia capitalistica.

Stanti tutte le personali perplessità verso il modello “successione di centralità sistemiche nel sistema-Mondo”, quale chiave interpretativa delle trasformazioni in corso;

 accertato il venir meno della grande placenta protettiva in cui giungeva a compimento, nelle fasi precedenti, l’incubazione delle” egemonie statu” nascenti: l’istituzione statuale.

Ossia, insieme al mercato, il dispositivo socio-politico più usurato nella presente fase storica (e con ciò condividendo la tesi di Giovanni Arrighi che il paradigma vale per i tre modelli olandese, inglese e americano, mentre per la mia città – Genova – non si dovrebbe parlare di “egemonia” in quanto “più vicina al tipo di organizzazione finanziaria internazionale che si verifica nelle diaspore” – vedi quella cinese odierna).

Intanto – come si diceva – tutto tace, nei dintorni del pensiero accreditato.

Eppure, in cotanto cortocircuito prospettico/progettuale, l’unico punto che parrebbe assolutamente fermo è la condizione terminale della fase storica in cui vegetiamo da tempo.

E qui si aprirebbe subito un problema teorico preliminare, di non facile risoluzione: siamo all’esaurimento di un ciclo di accumulazione capitalistica o alla fine di quell’esperimento penta-secolare chiamato “Capitalismo”?

 Usando un termine retrò, ma meno inflazionato: Plutocrazia.

 Ossia, l’espansione della ricchezza sfruttando la rendita posizionale derivata dal controllo (taglieggiamento) dei varchi attraverso i quali transitano i flussi significativi:

materiali delle merci, con la primazia nella creazione del valore acquisita dalla logistica, rispetto all’antica priorità della manifattura; immateriali del simbolico virtualizzato, nell’avvenuta cannibalizzazione dell’Economico da parte del Finanziario.

Quell’assetto che si determina quando nella stanza sovrastante la sfera rumorosa del mercato, il possessore del denaro incontra il titolare della regolazione pubblica e si crea il miracolo del Big Business.

Mentre si conferma – altresì – la collusione a livello parossistico tra comunità degli affari e corporazioni politiche, in atto fin dal tardo Novecento;

quando sono stati azzerati i controlli/contrappesi del Potere, già a partire dal subentro “normalizzatore”, che si sostituisce alla classica e veneranda suddivisione triadica “Esecutivo-Legislativo-Giudiziario”:

quella della trimurti combinatoria, a livello di comparaggio, Finanziaria-Mediatica-Governamentale.

Accantonando – per ora – queste melanconie e tornando al “topic”, converrebbe dare un nome e un cognome a ciò di cui si parla.

 Quindi, diciamolo apertamente: la fine del “secolo americano” novecentesco, dopo l’interminabile “autunno” quarantennale di finanziarizzazione globalizzata del sistema-Mondo

(come ebbe a dire il maestro de Les Annales: “Tutte le principali espansioni commerciali dell’economia-mondo capitalistica hanno annunciato la loro ‘maturità’ raggiungendo lo stadio dell’espansione finanziaria”).

 E i segnali vanno moltiplicandosi.

Non ultima la scelta protezionistica americana dopo la crisi del 2008, che liquida definitivamente l’essenza stessa dell’egemonia a stelle-e-strisce, teorizzata la prima volta dal presidente “Woodrow Wilson”:

la conquista del mondo con mezzi pacifici rappresentati dalle merci e la creazione di un immenso emporio per il consumo di massa.

 Con le parole dell’incrollabile idealista, “forti della convinzione che gli Americani siano chiamati a portare libertà, giustizia e umanità ovunque vadano, andate all’estero a vendere beni che giovino alla comodità e alla felicità degli altri popoli, convertendoli ai principi sui quali si fonda l’America”.

 A cui i suoi attuali successori, in totale incomprensione dell’essenza stessa di un’egemonia secolare, rispondono innalzando muri, imponendo dazi punitivi e cancellando le ragioni stesse di un internazionalismo imperiale.

 E al riguardo conveniamo con Brancaccio:

 la responsabilità del passaggio dal globalismo al protezionismo USA va ripartito equamente tra Donald Trump, il suo predecessore Barack Obama e il suo successore Joe Biden.

Difatti, alla faccia del tanto sbandierato “soft-power”, la centralità di Washington ormai si puntella – come ci ripete “Immanuel Wallerstein” da oltre tre lustri – su un duplice asset a termine:

“Il vantaggio monetario degli Stati Uniti – fare affidamento sull’uso del dollaro come valuta di riserva – sta venendo meno, e presto svanirà probabilmente del tutto.

Il vantaggio americano nella sfera militare si traduce in uno svantaggio di lungo termine nella sfera economica, poiché dirotta capitali e innovazioni lontano dalle imprese produttive”.

D’altro canto, nel ripiegamento da declino della nazione-guida dell’Occidente (e nella consunzione di assetti organizzativi, pratiche e linguaggi che ne avevano accompagnato l’ascesa, soprattutto precipitando nel buco nero in cui l’ha spinta la devastante avidità capitalistica/plutocratica dei suoi ultra-ricchi) non si intravvedono riassetti sistemici emergenti.

Solo l’inquietante alternativa prefigurata da Arrighi nel suo viaggio a Pechino in compagnia di Adam Smith:

“Prima che l’umanità soffochi (o si delizi) nella prigione (o nel paradiso) di un impero globale di marca occidentale o di una società del mercato globale gravitante attorno all’Oriente asiatico, potrebbe anche bruciare tra gli orrori (o le glorie) della crescente violenza che ha accompagnato il disfacimento dell’ordine della Guerra fredda”.

 La terribile prospettiva, inevitabilmente anomica, rappresentata da “un interminabile stato di caos a livello planetario”.

L’Armageddon incombente, che salda in un unico orrore avvelenamento dell’aria e dell’acqua, estinzione delle biodiversità, riscaldamenti climatici e raggiungimento dei limiti fisici dello sviluppo quantitativo, mixati con lo smantellamento di ogni struttura securitaria welfariana e la tirannia degli algoritmi con cui i signori del silicio (i GAFA: Google, Amazon, Facebook e Apple cui si aggiungono Microsoft e un paio di aziende controllate dal Partito Comunista cinese) stanno edificando una struttura di sorveglianza per la mercificazione delle biografie umane, più oppressiva del peggiore Panopticon da incubo. E nel frattempo si sta danzando in troppi sulla tolda del Titanic.

Alla fine del secolo americano.

Di questo si dovrebbe discutere.

Urgentemente e con forza.

Per abbattere il muro del silenzio con cui l’élite del potere e i suoi uomini di mano circoscrivono qualunque voce contraria, quella chi osa denunciare la lubrica nudità del monarca ricchezza senza contrappesi.

 Appurato che “in assenza di ‘condizioni economiche per la pace’ le contraddizioni capitalistiche internazionali ci sospingono verso il buio di una guerra su larga scala” (E.B. pag. 48), l’epicentro dell’analisi è la crisi egemonica dell’economia statunitense e il suo sbilancio tra importazioni ed esportazioni che ha prodotto un default record di 18 mila miliardi di dollari, con il conseguente abbandono della linea liberoscambista-globalista e l’adozione della strategia protezionista, chiamata “friend shoring”, che divide il mondo in amici (occidentali e sodali) e nemici, in particolare Russia e Cina.

E questi secondi non l’hanno presa troppo bene.

Anche se lo stesso Brancaccio viene colto da qualche dubbio rispetto a tale analisi, che presupporrebbe un impero dell’Ovest morente:

“L’idea di un ‘declino’ del capitalismo americano è stata avanzata tante volte da suscitare più di un dubbio sulla sua fondatezza” (E.B. pag. 21).

Dubbi a cui “Wolfgang Streek”, presidente onorario del “Max Plank Institute”, aveva replicato in anticipo:

“Il fatto che il capitalismo sia riuscito finora a sopravvivere a tutte le previsioni di morte imminente non significa necessariamente che sarà in grado di farlo per sempre”.

 E poi aggiungeva: “Suggerisco di imparare a pensare alla fine del capitalismo senza assumersi la responsabilità di rispondere alla domanda su cosa mettere al suo posto.

 È un pregiudizio marxista”.

 Magari sarebbe più utile aprire un cantiere sulle riflessioni lasciate aperte dal pamphlet: che cosa si intende per “nuovo ordine economico mondiale” e quali sarebbero i tratti distintivi dall’auspicato “capitalismo illuminato” in assenza del contrappeso di soggetti antagonistici, non nemici scesi in battaglia per imporre regole dello stesso gioco ma a proprio vantaggio.

In conclusione, si direbbe che quanto maggiormente amareggia il professor Brancaccio, impegnato a disvelare evidenze occultate nella svolta bellicista in corso, sia proprio il semplicismo (sospetto) dei “sedicenti esperti” (E.B. pag. 54) e il loro uso spregiudicato di tassonomie declinate nel luogo comune

. Per cui, se vai nel salotto di Lilli Gruber su LA7 ti rifilano l’etichetta di “putiniano”; se promuovi un seminario presso l’Orientale di Napoli, c’è sempre il “frastornato” fan di un Putin “bolscevico” che ti accusa di portare acqua al mulino dell’imperialismo atlantico…

Ben arrivato nel club dei “bastian contrari”.

 

 

L’Europa e il nuovo ordine mondiale.

Lanuovaeuropa.it - Amedeo Costabile — (04/03/2025) – ci dice:

 

La drammatica vicenda della visita di Zelensky alla Casa Bianca nella  settimana scorsa, non è solo l’ultimo capitolo di una serie di incomprensioni tra il presidente ucraino e l’intera nuova amministrazione statunitense.

Essa deve essere considerata come un tornante della storia perché mostra in modo plastico il ritiro degli Stati Uniti da quel nucleo di valori “euroamericano” imperniato attorno alla difesa delle libertà su cui si è costruito l’ordine internazionale uscito dal dopoguerra.

 

É in questa linea interpretativa che va collocata la vicenda di Trump e di Zelensky che ha portato alla rottura manifestatasi l’altro giorno nello studio ovale.

Il tentativo di de-occidentalizzazione del mondo apertamente intrapreso da Putin (con l’avallo di una serie di alleati strategici) con l’invasione dell’Ucraina, nel tentativo di ricostruire un proprio spazio spirituale e porre così le basi di un nuovo ordine multipolare, ha finito per condurre alla de-occidentalizzazione dell’Occidente stesso, di cui è espressione la vittoria di Trump tesa a definire un nuovo regime a Washington e di conseguenza un nuovo ordine mondiale.

In questo senso, la svolta storica di Trump è duplice:

 da una parte legittima un nuovo assetto internazionale basato su civiltà indipendenti e sovrane, rigettando l’universalismo dei valori, dall’altra, abbandona l’Occidente in nome degli interessi supremi della nazione americana che va definendosi sempre più come civiltà a sé stante da quella europea. In questo modo, gli Stati Uniti si richiamano ad un passato mitizzato come età dell’oro, fuori dall’alleanza storica con l’Europa e con una propria sfera di influenza nell’emisfero occidentale.

 L’endorsement per l’AFD e per le destre estreme in generale, l’abbandono dell’Europa alle mire espansionistiche di Putin, la guerra commerciale intrapresa con i dazi e le recenti dichiarazioni di Donald Trump, secondo cui l’Unione europea sarebbe nata “per fregare” gli Stati Uniti, rappresentano tutti tentativi per colpire la comunità europea in quanto comunità sovranazionale portatrice di valori universali e in quanto tale “eretica” rispetto alle civiltà (Usa, Cina, Russia, India) destinate a fungere da pilastri del nuovo ordine mondiale.

 

Per l’Europa tutto ciò rappresenta un pericolo mortale per via della sua incompiutezza.

 Essa paga l’errore di non aver colto l’occasione storica che veniva dalla proposta della Comunità Europea di Difesa (CED), di cui De Gasperi fu promotore insieme a Spinelli nel tentativo di dare uno slancio federalista alla costruzione europea.

Il rifiuto francese del 1954 costrinse la Comunità europea ad avviarsi sulla sola strada percorribile, quella dell’interdipendenza economica, lasciando la politica in mano agli Stati.

Allora però la comune identità occidentale tra Stati Uniti ed Europa permise a quest’ultima di godere della libertà e della pace garantite dalla protezione militare americana.

 E questa stessa linea fu sostanzialmente confermata dopo la caduta del Muro nel 1989, quando l’allargamento e l’approfondimento dell’integrazione comunitaria non mutò il quadro di fondo, lasciandola allo stato “erbivoro” nell’illusione propria del tempo che la semplice integrazione economica avrebbe creato le premesse della pace perpetua.

 

Scriveva Julien Benda negli anni trenta del Novecento, nel suo celebre” Discorso alla nazione europea”:

“L’Europa si farà come si è fatta la nazione.

Quest’ultima non è stata un semplice raggruppamento di interessi materiali.

Essa è veramente esistita soltanto il giorno in cui ha posseduto un sistema di valori appropriato alla sua natura, il giorno in cui nel XIX secolo si è costituita una morale nazionalista”.

L’Europa non fu fatta e abbiamo avuto la guerra, disse Schuman all’indomani della seconda guerra mondiale.

Così dobbiamo amaramente ripetere oggi, perché l’unione incapace di costruire una propria soggettività politica è rimasta una grande incompiuta, facendo di fatto fallire il suo principale obiettivo, garantire la pace.

 

La rivoluzione geopolitica in corso caratterizzata dal “ritorno delle tribù”, come diceva l’ultimo” Bauman£, può e deve rappresentare un’occasione per costringere l’Europa a ripensare se stessa e a strutturarsi con una propria identità valoriale e politica non solo economica, uscendo da quella natura ibrida che ne ha fatto un gigante economico e un nano politico.

 “Do something!”, ha gridato Draghi al Parlamento europeo, consapevole che l’Europa deve agire in modo unitario se vuole difendere i suoi valori oggi in pericolo;

essa deve uscire dallo stato di minorità acquisendo i caratteri di una “nazione europea” superiore alla somma delle nazioni che la costituiscono.

 

La portata della sfida l’ho colta in un recente viaggio con un gruppo di studenti di scuole romane organizzato dall’”Associazione La Nuova Europa “presso le istituzioni europee a Bruxelles.

Nella visita alla “Casa della Storia Europea” ci siamo imbattuti in un celebre manifesto degli anni cinquanta del Novecento, redatto dall’allora “Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa” creato da Jean Monnet.

L’immagine, molto iconica, presenta un omino raffigurante gli Stati Uniti d’Europa mentre cerca di farsi spazio tra due blocchi rappresentati dagli Stati Uniti d’America e dall’Urss.

Sopra questa immagine c’era scritto: “Gli Stati Uniti d’Europa ti salveranno dall’annientamento”.

 

Il manifesto assume oggi il suo autentico significato.

Se finora infatti gli “Stati Uniti d’America”, considerandosi parte della stessa civiltà occidentale, garantivano la sicurezza dell’Europa, nel momento in cui inaugurano una guerra commerciale e ideologica con l’Unione europea rischiano di ridurla a vassalla dei nuovi imperi.

Da questo punto vista, gli Stati Uniti d’Europa diventano una necessità esistenziale, come aveva percepito già Churchill nel 1946 a Zurigo, perché gli europei possano “vivere in pace, sicurezza e libertà”.

In questo senso, il ritorno in grande stile di una Germania forte rappresenta una speranza per l’Europa.

 Essa è consapevole di dover proseguire in quella “svolta epocale” iniziata con la decisione di investire nel riarmo e che consiste nel considerare la difesa e la sicurezza come valore prioritari rompendo un tabù storico.

Così la Germania si è avviata ad una trasformazione genetica che le permette di fare i conti con se stessa e con l’illusione seguita al crollo del muro di Berlino di potersi garantire la pace attraverso la mera interdipendenza economica.

Ciò che accade in Germania da questo punto di vista è decisivo per l’Europa intera. La Germania è sin dalla sua rinascita nel dopoguerra la coscienza stessa dell’Europa.

 Lo fu nel 1950, quando un anno dopo la decisione americana di costruire una grande Germania federale dell’ovest nacque il primo accordo europeo;

 e lo fu anche con la riunificazione nel 1990, che portò alla nascita dell’Unione Europea.

La rivoluzione culturale che investe la Germania, e che la porterà ad essere nuovamente un potente stato al centro dell’Europa, rappresenta la circostanza decisiva per il salto di qualità europeo non più differibile.

Nel momento storico in cui l’Europa si trova per la prima volta sola a difendere la sua esistenza, si risente il potente appello lanciato da Churchill all’indomani della guerra:

“Fate sorgere l’Europa!”.

 

 

 

 

La politica industriale è decisiva

per il ruolo dell’Europa nell’ordine

mondiale in evoluzione.

Eticaeconomia.it - Karl Aiginger – (14 -01 -2025) – ci dice:

 

Karl Aiginger partendo da una riflessione sui cambiamenti in atto nell’ordine mondiale sostiene che l’Europa dovrebbe urgentemente dotarsi di una nuova politica industriale di cui indica le 3 principali caratteristiche e, soprattutto, dovrebbe creare partenariati con i paesi del Sud globale.

Ciò richiede di orientare la politica verso una maggiore cooperazione, di lasciarsi alle spalle i conflitti storici e di accettare le differenze culturali, che possono essere una importante risorsa.

L’ordine mondiale sta cambiando rapidamente.

In un mondo privo da tempo dell’Unione Sovietica, il tentativo della Russia di Putin di riaffermare la propria influenza attraverso l’aggressiva guerra in Ucraina, equivale alla disintegrazione del vecchio bipolarismo.

Gli Stati Uniti, un tempo salutati come l’unica superpotenza rimasta, vedono ora la loro forza economica indebolita dalle sfide interne, tra cui quella rappresentata dalla seconda presidenza di Donald Trump.

La Cina mira a diventare la potenza globale preminente, ma spesso agisce con un ristretto interesse egoistico, dando priorità agli investimenti che le assicurano materie prime o influenza politica.

 Ciò lascia all’Unione Europea il compito di assumere un ruolo di guida con il suo “Green Industrial Deal”.

Tuttavia, l’UE incontra l’esitazione degli Stati membri, con il populismo che ha soppiantato gli “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile” (SDGs) come quadro unificante in alcune nazioni, e con le politiche nazionali che spesso trascurano il bisogno di cooperazione all’interno e all’esterno dell’Europa.

L’Unione Europea, insignita del “Premio Nobel per la pace nel 2012”, ha investito troppo poco per garantire la sicurezza dei suoi membri e dei suoi vicini in un mondo in cui i nuovi conflitti possono facilmente degenerare in guerre.

 Inoltre, non è riuscita a raggiungere l’obiettivo di una crescita ‘pulita’ e della stabilità sociale.

 

Una nuova politica industriale, come si sostiene in due mie pubblicazioni con “Dani Rodrik” e “Christian Ketels”, dovrebbe avere tre caratteristiche:

(i) adottare un approccio globale che comprenda non solo l’industria manifatturiera ma anche, più ampiamente, i fattori di produzione e le industrie di servizi correlate;

(ii) darsi obiettivi che non si misurano solo con il PIL, ma con il loro contributo al benessere economico;

(iii) fare del Green Deal europeo la pietra angolare della politica industriale.

 

Una politica industriale lungimirante è un obiettivo impegnativo, soprattutto se le parti politiche e gli Stati membri non riescono a collaborare.

 I partiti tradizionali hanno faticato ad attrarre gli elettori nel nuovo ordine mondiale, dovendo fronteggiare la concorrenza degli estremisti di destra e di sinistra. I partiti verdi raramente rimangono al governo per periodi prolungati e, allo stesso modo, i nuovi partiti liberali progressisti spesso trovano spazio solo nei governi di coalizione.

 Questi partiti liberali tendono a perdere influenza quando i deficit o i livelli di debito pubblico aumentano, mentre i partiti verdi spesso perdono rilevanza una volta realizzati i primi progressi ambientali, soprattutto quando emergono nuove sfide.

Di conseguenza, le linee guida della Commissione europea e degli esperti indipendenti sono sempre più importanti e cresce la necessità di misure democratiche dirette.

 

Verso un nuovo “Green Deal”?

Il Green Deal europeo è uno progetto ambizioso, con l’obiettivo di ridurre le emissioni nette di gas serra dell’UE del 50% entro il 2050.

Comprende una strategia una ripresa economica ‘verde’, un fondo per la transizione equa, “RepowerEU” e un piano industriale (Green Deal Industrial Plan).

Gli Stati membri devono contribuire a definire i dettagli specifici di queste iniziative.

 Il fondo per la transizione è destinato a potenziare e sostenere i Paesi con minori capacità economiche, mentre” RepowerEU “è la risposta dell’Europa alle sfide poste dal mercato globale dell’energia e alle difficoltà nelle forniture causate dall’invasione russa dell’Ucraina.

 Le importazioni di combustibili fossili dalla Russia dovrebbero essere gradualmente eliminate, la conservazione dell’energia dovrebbe essere rafforzata e l’efficienza aumentata, mentre l’energia pulita deve diventare la norma.

 Il piano industriale verde dovrebbe mitigare l’opposizione dei Paesi con ampi settori manifatturieri ancora dipendenti dai combustibili fossili.

 

Europa contro Cina e Stati Uniti.

Un confronto tra gli sforzi dell’Europa e quelli della Cina e degli Stati Uniti rivela la peculiarità dell’approccio europeo, che combina misure top-down e bottom-up, cercando di bilanciare gli obiettivi sociali ed ecologici.

 Tesso, tuttavia, evidenzia anche che l’UE è in ritardo rispetto agli Stati Uniti in termini di produttività.

Gli obiettivi del Green Deal europeo sono difficili da attuare e ogni Paese ha il proprio approccio.

 Negli Stati Uniti le politiche sembrano avere più successo nel breve termine, grazie all’ampio uso di energia fossile e all’introduzione di nuovi dazi doganali e di politiche commerciali restrittive.

 Tuttavia, è improbabile che il successo nel breve termine basato su tecnologie obsolete sia una strategia sostenibile a lungo termine, anche se, per ora, gli Stati Uniti continuano a registrare una crescita più elevata del PIL e della produttività, nonché un maggiore sostegno alle start-up e un tasso di disoccupazione costantemente basso.

 I migranti sono benvenuti per sostenere la crescita negli Stati Uniti, nonostante i movimenti anti-immigrazione e gli appelli a favore dei rimpatri da parte dei conservatori politici, tra cui il presidente-eletto Donald Trump.

 

La Cina continua a registrare una crescita relativamente elevata, con un peso crescente del settore manifatturiero.

Produce beni e tecnologie verdi, come i piccoli veicoli elettrici, accanto ai tradizionali prodotti “marroni” e rimane dipendente dal carbone e dai nuovi reattori nucleari.

 Allo stesso tempo, le disuguaglianze aumentano e la Cina rimane un regime autocratico.

 I prezzi degli immobili aumentano, il nuovo debito viene occultato e gli investimenti internazionali sono guidati più dagli obiettivi della politica cinese che dal profitto.

 

L’approccio europeo potrebbe rivelarsi ambizioso ma vincente.

L’Europa mantiene mercati aperti e non trascura le regioni o i Paesi più poveri, anzi li sostiene e non abbandona gli accordi internazionali anche quando sembrano meno vantaggiosi.

L’UE incoraggia il commercio e gli investimenti con il Sud globale, anche se non in modo sufficientemente aggressivo.

L’Europa potrebbe adottare una politica industriale più strategica, rafforzare il sostegno alle tecnologie emergenti rispettose del clima e garantire l’uso sostenibile e la valorizzazione dei materiali rari.

 Lo sviluppo di una politica industriale verde deve essere accelerato, mentre si deve evitare qualsiasi arretramento.

 Ciò contribuirebbe anche a frenare l’ascesa di un pericoloso populismo e a sostenere i movimenti politici centristi, invece di tornare a vecchi obiettivi conservatori e ristretti.

 Una nuova politica industriale deve avere molteplici obiettivi, che devono essere perseguiti e gestiti in modo efficace.

 

La politica industriale dell’UE mira a rafforzare la competitività dell’industria europea, che favorirebbe la crescita sostenibile e l’occupazione in Europa.

La transizione digitale e il passaggio a un’economia a zero emissioni di carbonio hanno spinto a adottare strategie volte a migliorare le condizioni di contesto per le industrie dell’UE.

Anche l’impatto della pandemia da COVID-19 e la guerra in Ucraina hanno stimolato una nuova riflessione sulla ripresa economica, la ricostruzione e la resilienza.

Molti di questi nuovi obiettivi potrebbero essere raggiunti attraverso partenariati con il Sud globale, in particolare con i Paesi africani vicini.

Tale collaborazione potrebbe favorire una transizione equa, promuovere lo scambio di tecnologie e sviluppare una strategia migratoria, anch’essa equa, che può contribuire a ridurre la sovrappopolazione in Africa, alleviando al contempo il problema dell’invecchiamento della popolazione dei Paesi europei più ricchi.

 

Il rapporto dell’Europa con i suoi vicini meridionali, in particolare con l’Africa, rappresenta sia un onere che un’opportunità.

L’Africa è geograficamente più vicina all’Europa rispetto alla Cina o agli Stati Uniti, ma deve far fronte alla sovrappopolazione e al desiderio di molti di emigrare in Europa.

I mercati internazionali dei capitali penalizzano ingiustamente l’Africa, spesso sospettando corruzione e interferenze dittatoriali.

Questa dinamica rappresenta un’opportunità unica per l’Europa di impegnarsi in una politica di orientamento e sostegno.

 

Tutti questi elementi, se combinati, potrebbero incrementare il benessere e permettere all’Europa e ai suoi vicini di affermarsi come una potenza significativa nel nuovo ordine mondiale.

 L’Europa dovrebbe ricordare che, insieme ai suoi vicini, costituisce una forza formidabile, con una bilancia dei pagamenti positiva.

 Tuttavia, il continente è anche vulnerabile al populismo e spesso fa due passi avanti per poi farne uno indietro.

L’apertura tecnologica è vantaggiosa, ma non deve essere una scusa per investire in tecnologie obsolete.

 L’Europa risente dell’influenza di un settore automobilistico che fa affidamento sui motori a combustione interna, con perdite di posti di lavoro e cali di produzione avvertiti non solo in Germania.

La nuova Commissione europea si trova di fronte a una sfida formidabile, ma anche a un’opportunità per rimodellare il ruolo dell’Europa nel nuovo ordine mondiale.

 Ursula von der Leyen e la sua squadra potrebbero aiutare l’UE ad assumere un ruolo di leadership significativo.

La lettera di missione di “Wopke Hoekstra,” il nuovo commissario per il clima, la crescita pulita e l’azzeramento dei costi, illustra la complessità di questo compito, sottolineando la necessità di bilanciare la sicurezza, la prosperità e la democrazia all’interno della “transizione verde e digitale”, permettendo al contempo, all’Europa, di conservare la sua esclusiva qualità della vita.

Le riforme offrono opportunità all’Europa e ai suoi vicini.

Viviamo in un “nuovo ordine mondiale “che comporta nuove sfide per le imprese e gli individui, richiedendo la decarbonizzazione e la risoluzione dei conflitti politici prima che degenerino in guerre.

Questo nuovo contesto richiede anche la comprensione delle differenze culturali e il riconoscimento che, sebbene la povertà stia diminuendo, i progressi sono disomogenei e non universali.

Per evitare contraccolpi populisti e nuove forme di autocrazia, le politiche devono essere elaborate con cura e comunicate in modo efficace.

 

L’Europa ha un ruolo e un’opportunità particolari in questo contesto: non ha una potenza militare, ma è stata fondata sui principi della risoluzione pacifica dei conflitti e della promozione di un modello economico in cui la pace, la mitigazione dei cambiamenti climatici e la riduzione delle disuguaglianze di reddito sono priorità assolute. In teoria, l’Europa segue un approccio “oltre il PIL” nel quadro degli SDG.

 In pratica, ciò richiede di spostare la politica verso una maggiore cooperazione, di lasciarsi alle spalle i conflitti storici e di abbracciare nuovi partenariati.

Sostenere la pace in Ucraina richiederà di fare pressioni sulla Russia, ma anche sull’Ucraina:

 la vittoria totale è impossibile e sono necessari concetti quali neutralità e garanzie, come già si è visto in passato.

Un approccio simile si applica al conflitto tra Israele e i suoi vicini:

se da un lato non è giustificato un attacco a Israele, dall’altro è necessario affrontare il problema degli insediamenti forzati in altri territori.

 

Anche la politica migratoria necessita di un’attenta considerazione.

 Lasciare il proprio Paese non è mai una scelta facile.

In tempi di guerra e tragedia, la migrazione è spesso l’unica opzione, come nel caso dei molti che fuggono dall’Afghanistan, dal Sudan e da altre nazioni africane.

I Paesi europei sono spesso la destinazione preferita e ci sono appelli umanitari perché siano accolti questi migranti.

Tuttavia, le differenze culturali possono portare a un contraccolpo populista e i partiti populisti guadagnerebbero così terreno.

Questo accade nonostante la dipendenza dell’Europa dall’immigrazione:

 gli ospedali, i centri di cura, i settori edilizio e manifatturiero si basano tutti sulla manodopera immigrata.

Senza immigrazione, la popolazione europea si ridurrebbe, come è avvenuto in Giappone nei suoi “decenni perduti” di declino della prosperità.

 Investire di più in Africa, in particolare nell’istruzione, aiuterebbe a ridurre la sovrappopolazione e ad avere immigrati più qualificati, meno dipendenti dall’assistenza sociale e meglio attrezzati per dare un contributo sia all’Europa che ai loro Paesi d’origine.

Accettare le differenze culturali favorirebbe inoltre l’innovazione nonché nuove soluzioni.

(Karl Aiginger).

(Questo articolo è stato pubblicato originariamente in inglese su Social Europe (13 dicembre 2024) e fa parte del progetto “EU Forward” che Social Europe gestisce in collaborazione con la Friedrich-Ebert-Stiftung.)

 

 

 

Trump ha inventato la "bufala dei dazi"

 per "disaccoppiarsi" dalla Cina.

                                     Unz.com - Mike Whitney – (10 aprile 2025) – ci dice:

 

La stravaganza dei dazi di Trump non ha mai riguardato il deficit commerciale, la reindustrializzazione o il ritorno dei posti di lavoro in America.

 Si è sempre trattato della Cina.

Ora che Trump ha allentato o revocato i dazi su altri 90 paesi, possiamo vedere cosa sta effettivamente succedendo.

 Trump sta utilizzando la "cortina fumogena dei dazi" per attuare la sua politica di disaccoppiamento, una strategia progettata per isolare, accerchiare e infine schiacciare la Repubblica popolare cinese.

 Questo è il motivo che guida la politica.

I dazi erano solo un mezzo per raggiungere un fine.

 Questo è dalla “CNN” :

 

Il presidente Donald Trump ha annunciato una pausa completa di tre mesi su tutte le tariffe "reciproche" entrate in vigore a mezzanotte, con l'eccezione della Cina, una sorprendente inversione di tendenza da parte di un presidente che aveva insistito sul fatto che le tariffe storicamente elevate erano destinate a rimanere.

Ma rimarranno enormi dazi sulla Cina, la seconda economia più grande del mondo.

In effetti, Trump ha detto che saranno aumentati al 125% dal 104% dopo che la Cina ha annunciato ulteriori tariffe di ritorsione contro gli Stati Uniti all'inizio di mercoledì.

 Tutti gli altri paesi che sono stati soggetti a tariffe reciproche mercoledì vedranno le tariffe scendere al tasso universale del 10%, ha detto.

 

"Sulla base della mancanza di rispetto che la Cina ha mostrato ai mercati mondiali, con la presente sto aumentando la tariffa addebitata alla Cina dagli Stati Uniti d'America al 125%, con effetto immediato", ha detto Trump nel suo post sui social media.

 "Ad un certo punto, si spera nel prossimo futuro, la Cina si renderà conto che i giorni in cui si derubavano gli Stati Uniti, e di altri Paesi, non è più sostenibile o accettabile", ha scritto.

Trump annuncia una pausa di 90 giorni sui dazi "reciproci" ad eccezione della Cina ,” CNN”

 

La "mancanza di rispetto" della Cina?

Quindi, Trump sta impostando la politica commerciale degli Stati Uniti sulla base di sentimenti feriti?

Questa non è una spiegazione credibile.

Sta succedendo qualcos'altro.

La Cina è presa di mira perché l'ascesa fulminea e la crescita esplosiva della Cina l'hanno resa una minaccia per l'egemonia globale dell'America.

Ecco perché la Cina è entrata nel mirino di Washington. Imponendo dazi proibitivi del 125% sulle esportazioni cinesi, Trump sta indicando che l'era dei mercati integrati in un sistema globalizzato è finita.

Il mondo viene ridiviso in blocchi in guerra dai ricchi capitalisti occidentali che non possono competere con il modello governativo cinese che controlla le industrie critiche della nazione e ricicla enormi profitti in infrastrutture vitali, istruzione, ricerca e sviluppo e tecnologia.

Il modello altamente finanziarizzato dell'Occidente – che dipende sempre più dalla scrematura dei titoli tossici e dal riacquisto di azioni proprie – non può trasformarsi in una potenza manifatturiera disposta a competere con la Cina in condizioni di parità.

 Invece, deve usare la sua influenza calante per scuotere il sistema con alcuni fuochi d'artificio inaspettati (i dazi) che inviano onde d'urto attraverso il sistema e panico in tutti i mercati.

Questi spettacoli artificiosi, che rasentano il terrorismo economico, fanno tutti parte del repertorio dello Zio Sam che viene utilizzato per sottomettere l'opposizione e mantenere la tenue presa di Washington sul potere.

 

Ma funzionano?

 

Trump sembra pensarla così.

Ecco Trump con i suoi amici miliardari che discutono delle "uccisioni" che hanno fatto quando ha allentato le tariffe e i mercati sono saliti alle stelle.

Avremmo dovuto vedere attraverso questa bufala fin dall'inizio. Dopotutto, se Trump fosse stato seriamente intenzionato a riportare i posti di lavoro negli Stati Uniti, non avrebbe convocato un gruppo di esperti del settore ed economisti per creare una politica industriale che fornisse una tabella di marcia su come procedere?

 Non avrebbe esaminato la fattibilità della reindustrializzazione in un paese che ha già chiuso la maggior parte delle sue fabbriche e non ha più una forza lavoro formata per fare i lavori che stanno per essere creati?

 E non avrebbe sollecitato l'appoggio dei ricchi capitalisti che potevano essere persuasi a fare gli investimenti a lungo termine necessari per un progetto industriale di questa portata?

 

Sì, l'avrebbe fatto.

 Ma non ha fatto nessuna di queste cose, perché non era serio su nessuna di esse.

 L'intera disputa sui dazi era solo un trucco da illusionista volto a creare un pretesto per attaccare la Cina.

Ecco perché è stato così facile per Trump porre fine alla farsa con un gesto della mano come se nulla fosse successo.

 Perché non era successo nulla.

Era tutto uno sfarzoso spettacolo di luci privo di qualsiasi sostanza reale.

 

E nessuno mi sostiene che "si trattava solo della Cina" meglio del braccio destro di Trump, il segretario al Tesoro Scott Bessent.

Dai un'occhiata a questa clip di Bessent che si vanta di come ha ingannato la Cina.

(@BehizyTweets)

 

Il segretario al Tesoro Bessent ha appena rivelato che il presidente Trump ha teso una trappola e la Cina ci è caduta dentro.

"Questo è stato guidato dalla strategia del presidente... Si potrebbe anche dire che ha spinto la Cina in una cattiva posizione.

Hanno risposto.

Hanno dimostrato al mondo di essere i cattivi attori e siamo disposti a cooperare con i nostri alleati e con i nostri partner commerciali che non hanno reagito".

"Non è stato un messaggio duro. Non vendicarti. Le cose andranno bene".

 La Cina ha fatto un casinò brutto.

Bessent è ovviamente contento che lui e Trump siano stati in grado di "tirare una mano veloce" sulla Cina.

Bessent pensa che questa sia una buona politica.

E, naturalmente, il popolo americano – la maggior parte del quale è diffidente nei confronti della Cina fin dall'inizio – è d'accordo.

 "La Cina ci sta derubando", dice il presidente il cui conto in banca della nazione è scoperto di 36 trilioni di dollari e il cui paese vive della "generosità degli stranieri".

La Cina ci sta rubando il lavoro", dicono i padroni delle multinazionali che hanno sradicato le loro aziende e fabbriche e le hanno spedito in Cina per approfittare della manodopera a basso costo e della sicurezza gratuita.

Ma ora la Cina deve essere schiacciata per aver aspirato a competere con i "suoi superiori" negli Stati Uniti.

Ora la Cina deve essere "messa in riga".

Non è quello che sta davvero succedendo? (se siamo onesti con noi stessi) Non è davvero un caso di uva acida?

In effetti, lo è.

 La Cina ha superato gli Stati Uniti come capitale manifatturiera del mondo grazie all'intelligenza, al duro lavoro, all'ingegno ea un modello organizzativo (profitti riciclati in attività produttive) che è il risultato di un buon governo.

 Questo è il motivo per cui la Cina sta rapidamente superando gli Stati Uniti nella scienza, nella tecnologia, nell'intelligenza artificiale, nell'informatica quantistica, nella robotica e in quasi tutto il resto.

Perché sono governati da persone che aspirano a creare una civiltà in cui gli individui e la comunità raggiungano il loro pieno potenziale. Questo è il motivo per cui l'intero paese è attraversato da ferrovie ad alta velocità che collegano città luccicanti e spaziali in una visione della modernità del 21° secolo che non ha rivali nel mondo di oggi.

Qualunque cosa si possa pensare della Cina, devono ammettere che – come civiltà e società – stanno andando nella giusta direzione, mentre gli Stati Uniti, fatiscenti, logori e profondamente polarizzati, sono in forte declino.

In ogni caso, il successo della Cina ha generato una notevole invidia tra le élite occidentali che ora sono determinate a fare tutto ciò che è in loro potere per riportare indietro le lancette dell'orologio all'era del dopoguerra, quando l'economia globale era la loro ostrica e l'"ordine basato sulle regole" era l'unico gioco in città.

L'obiettivo è quello di "contenere la crescita della Cina", che è un soprannome per sovvertire lo sviluppo della Cina in ogni momento.

La particolare strategia ha anche un nome.

 Si chiama "disaccoppiamento" che si riferisce al processo attraverso il quale gli Stati Uniti (e altri paesi occidentali) riducono la loro interdipendenza economica, tecnologica e finanziaria con la Cina.

 In altre parole, le élite occidentali vogliono interrompere il più possibile il commercio con la Cina, il che porterà all'isolamento, all'accerchiamento e, infine, al cambio di regime.

Suona familiare?

Il trucco è far sembrare che il "disaccoppiamento" (l'isolamento economico) sia stato imposto agli Stati Uniti, motivo per cui Trump continua a ripetere la frase stupida:

 "La Cina ci sta derubando".

 

Giusto per chiarire questo punto:

la Cina offre ai consumatori statunitensi prodotti di qualità che richiedono risorse costose, fabbriche e investimenti in cambio di fogli di carta verdi di valore decrescente.

Da che parte di quell'accordo preferiresti stare? Prendetevi un minuto e guardate questo breve video con l'economista Larry Summers che spiega che la Cina NON sta ingannando nessuno producendo beni economici che è disposta a scambiare con USD.

“Lawrence Summers”:

"Se la Cina vuole venderci cose a prezzi davvero bassi e la transazione è che otteniamo collettori solari o batterie che possiamo mettere nelle auto elettriche e inviamo loro pezzi di carta che stampiamo.

 Pensi che sia un buon affare per noi o un cattivo affare per noi?"

 

Caratterizzare questo come "imbroglio", come dice giustamente Summers, dovrebbe essere completamente respinto.

Alla fine della giornata, chi è più "imbrogliato":

il partito che fa il duro lavoro di produrre beni a prezzi molto bassi con margini sottilissimi, o il partito che semplicemente stampa una quantità virtualmente infinita di denaro fiat per pagare tutta questa roba?

 

Insomma, il 'flap dei dazi' era solo un modo per dare il via alla nuova politica (che è il disaccoppiamento) che mira a intensificare l'ostilità tra Washington e Pechino.

 Con questo in mente, ho posto a Grok la seguente domanda:

 

Il presidente Trump sostiene il disaccoppiamento con la Cina?

Sì, l'ex presidente Donald Trump è stato un forte sostenitore del disaccoppiamento dalla Cina , sia durante la sua presidenza (2017-2021) che nelle sue successive attività politiche a partire dall'aprile 2025.

 

Trump ha iniziato una guerra commerciale con la Cina nel 2018 imponendo tariffe su miliardi di dollari di merci cinesi...

Nel 2018, gli Stati Uniti hanno imposto dazi su 50 miliardi di dollari di importazioni cinesi, seguiti da dazi aggiuntivi su altri 200 miliardi di dollari nel 2019.

Trump ha inquadrato questo come un passo necessario per "disaccoppiarsi" dall'economia cinese.

Trump ha vietato alle aziende statunitensi di utilizzare apparecchiature di giganti cinesi delle telecomunicazioni come “Huawei” e “ZTE”, citando rischi per la sicurezza nazionale.

Ha anche spinto per restrizioni su “TikTok” e “WeChat,” sostenendo che rappresentavano una minaccia per la privacy dei dati e potevano essere utilizzati per lo spionaggio...

Ha incoraggiato gli alleati ad escludere Huawei dalla loro rete 5G, inquadrandolo come parte di uno sforzo più ampio per ridurre la dipendenza tecnologica dalla Cina...

 

Durante la sua campagna presidenziale del 2024, Trump ha ripetutamente chiesto misure ancora più severe contro la Cina, tra cui tariffe più elevate (proponendo tariffe fino al 60% su tutti i beni cinesi) e una revisione completa delle relazioni commerciali.

 In un discorso in Ohio nel marzo 2024, ha dichiarato:

"Ci disaccoppieremo dalla Cina come mai prima d'ora. Ci hanno derubato per decenni, ed è ora di finirla".

Trump ha sostenuto che il disaccoppiamento proteggerebbe i posti di lavoro americani, rafforzerebbe l'economia e ridurrebbe i rischi per la sicurezza nazionale.

 In un post del gennaio 2025, ha scritto: "La Cina si è approfittata di noi per troppo tempo. Dobbiamo tagliare il cavo e costruire tutto qui a casa".

 

A partire dal 2025, tuttavia, il suo tono si è indurito, con meno enfasi sulla negoziazione e più sul confronto.

I post su “X” dell'inizio del 2025 mostrano Trump che raddoppia la sua posizione anti-Cina, con i sostenitori che lodano la sua "durezza".... Grok.

 

Quindi, Trump è un grande sostenitore del disaccoppiamento, il che ti dice tutto ciò che devi sapere.

Inoltre, le politiche a muso duro di Trump nei confronti della Cina sono ammucchiate sotto la rubrica dal suono patriottico, "nazionalismo economico", come se i lavoratori americani traessero qualche beneficio dall'aumento dei prezzi e dall'impennata dell'inflazione.

Il fatto è, tuttavia, che la gente comune soffrirà molto per il disaccoppiamento e vedrà il proprio tenore di vita scendere ulteriormente.

 Questo perché la politica non ha lo scopo di creare posti di lavoro, aumentare i salari, migliorare l'assistenza sanitaria o fornire un'istruzione a basso costo.

 Ha lo scopo di preservare la presa di Washington sul potere globale in modo che le élite occidentali corrotte possano creare più guai mentre spingono il paese verso l'indebitamento e la disperazione.

Ecco di più da “Grok”:

Molti economisti prevedono che questi dazi ad ampio raggio accelereranno l'inflazione e smorzeranno la crescita economica degli Stati Uniti, con conseguente stagflazione mentre la crescita economica vacilla anche se i prezzi rimangono dolorosamente alti.

Inoltre, è improbabile che la Cina abbassi le tariffe per placare Trump; invece, si è vendicato con dazi del 34% sulle merci statunitensi. L'aumento delle tariffe di entrambi i paesi ridurrà il commercio bilaterale.

Mentre la Cina può sopravvivere senza importare la maggior parte dei 125 miliardi di dollari di merci americane, gli Stati Uniti e molti altri paesi continueranno a fare affidamento sulla Cina per varie parti e componenti.

Anche se gli Stati Uniti importano merci da altri paesi, questi paesi dipenderanno comunque dalla Cina per le parti.

 

Potenziali contraddizioni e conseguenze economiche.

 

È probabile che i dazi reciproci di Trump causino una recessione autoinflitta negli Stati Uniti.

 Inoltre, potrebbe creare confusione e conseguenze indesiderate... Sette anni fa, la prima onda di dazi di Trump ha aumentato il costo dei beni cinesi del 20%, ma le americane dalla Cina hanno continuato a crescere.

 

In futuro, anche se i dazi sui prodotti cinesi saliranno al 54%, gli Stati Uniti dovranno comunque acquistare dalla Cina.

Al contrario, i prodotti americani, come la soia o il petrolio greggio, hanno una competitività limitata in Cina.

I dazi di ritorsione della Cina sugli Stati Uniti la costringeranno a trovare mercati alternativi, portando a perdite per gli esportatori statunitensi di soia e petrolio greggio.

Quale parte dell'estratto di cui sopra suona come un "buon affare" per il popolo americano?

Niente di tutto questo. È tutto brutto.

 E l'unico barlume di luce in tutta questa triste vicenda è il fatto che il popolo americano si oppone a questa politica perché sa che ne sarà danneggiato.

Dai un'occhiata a questo sondaggio su “PEW”.

Tariffe sulla Cina.

I dazi sono un'altra parte fondamentale della politica estera di Trump. L'aumento dei dazi sulla Cina, in particolare, riceve valutazioni più negative che positive.

Molti di più pensano che l'aumento dei dazi sulla Cina sarà un male per gli Stati Uniti piuttosto che dire che sarà un bene, anche se circa un quarto vede che non avranno alcun effetto o non ne è sicuro.

Le opinioni sull'impatto personale dei dazi sono altrettanto negative: gli americani sono circa cinque volte più propensi a dire che l'aumento dei dazi sulla Cina sarà un male per loro rispetto a dire che i dazi saranno vantaggiosi.

 

I repubblicani sono più propensi dei democratici a dire che l'aumento dei dazi sulla Cina sarà un bene per gli Stati Uniti e un bene per loro personalmente.

Tuttavia, quando si tratta dell'impatto personale di questi dazi, i repubblicani sono più propensi a dire che l'impatto sarà negativo (30%) che positivo (17%), anche se quote sostanziali esprimono incertezza o prevedono che i dazi avranno un impatto personale limitato.

Tariffe sulla Cina, nel Centro di ricerca PEW.

Quindi, almeno esiste una risicata maggioranza di americani che si oppongono al disaccoppiamento, si oppongono alle implacabili provocazioni e incitamenti e si oppongono all'inutile guerra di Trump contro la Cina.

 Speriamo che la maggioranza regga.

 

 

 

 

Un'altra settimana nella

 zona del crepuscolo.

 Unz.com - Filippo Giraldi – (10 aprile 2025 )-  ci dice .

 

Un giorno saremo davvero tutti vittime.

Molti americani saranno sollevati nell'apprendere che i dipendenti dell'ambasciata statunitense e le loro famiglie in Cina non potranno più avere "relazioni romantiche o sessuali" con i cinesi del posto.

È certamente una decisione attesa da tempo, che ci renderà più sicuri insieme a quei dazi del 125% con cui colpiremo i cinesi.

Ma al di là di questa buona notizia, è stata un'altra settimana interessante nel mondo fantastico creato e sostenuto dal presidente Donald J. Trump.

Questa settimana ha incluso una visita non proprio sorprendente del Signore Prescelto dell'Universo Benjamin Netanyahu, sovrano di un piccolo e patetico Paese chiamato Israele, che sta crescendo sempre più, assorbendo tutti i suoi vicini uno alla volta, con il sostegno americano.

 Netanyahu era in città per dare a Trump i suoi ordini di marcia per il prossimo mese circa, e non sorprende che entrambi gli uomini abbiano concordato che i circa due milioni di sventurati palestinesi che ancora si aggirano intorno a Gaza debbano andarsene, e prima possibile.

Affamarli, sparargli e bombardarli non è sufficiente per risolvere il problema abbastanza rapidamente, quindi bisognerà convincerli ad andare altrove, il che sembra molto meglio e più facile di quanto non sia in realtà.

Un Trump ottimista ha tuttavia osservato che potrebbero trovare un bel posto tranquillo da qualche parte nel mondo dove sarebbe meno probabile essere uccisi.

Nel frattempo, quel delizioso appezzamento di terreno di pregio lungo le rive del Mar Mediterraneo può essere sviluppato sotto la protezione degli Stati Uniti, senza che nessun palestinese sia autorizzato ad entrare.

 Netanyahu ha osservato che i cittadini di Gaza dovrebbero semplicemente recarsi "volontariamente" in uno dei numerosi Paesi non nominati con cui sta parlando della questione.

Ma se non lo fanno volontariamente...

 

Netanyahu era forse un po' irritato dal tentativo di Trump di affermare una certa indipendenza, affermando che la sua squadra di disadattati avrebbe negoziato direttamente e separatamente con l'Iran in Qatar per raggiungere un accordo che eliminasse ogni possibilità che l'uranio arricchito potesse essere trasformato in un'arma.

Un programma del genere era in vigore, denominato Piano d'azione congiunto globale (JCPOA), già nel 2017, quando Trump se ne ritirò sostenendo, senza alcuna prova, che esistesse un centro segreto di arricchimento e sviluppo di armi nascosto da qualche parte nel sottosuolo, ovvero che gli iraniani stessero barando.

 La CIA e persino il Mossad, che hanno un sacco di spie all'interno dell'Iran, per quel che conta, hanno da allora dichiarato che l'Iran non ha un programma di armi nucleari e non ne ha avuto uno negli ultimi vent'anni, ma persone come Trump e Netanyahu, notoriamente, non sono buoni ascoltatori.

 

Ora Trump vuole ricreare il programma, ma renderlo ancora più arduo minacciando gli iraniani di conseguenze disastrose, il che sarà in ogni caso difficile da convincere, dato che le sue promesse sono notoriamente inutili.

 Inoltre, sta simultaneamente e apertamente rafforzando una forza di bombardieri pesanti nell'Oceano Indiano, che sembrano destinati a essere utilizzati contro l'Iran quando i colloqui falliranno, come accadrà, e Trump sarà costretto a rispettare la sua opzione "a caro prezzo".

 L'Iran è pienamente consapevole di quali carte sono in gioco.

 

Netanyahu invoca anche una "soluzione libica" che priverebbe completamente l'Iran delle sue difese.

Dall'incontro con Trump, ha affermato che qualsiasi accordo con l'Iran dovrà includere la completa distruzione della loro capacità infrastrutturale, il che significa che non saranno in grado di creare e produrre armi nuove ed efficaci.

Significherebbe la fine della loro industria bellica e non sarebbero in grado di difendersi, il che porrebbe fine alla loro capacità di sostenere la sovranità regionale contro Israele.

Richiederebbe anche l'impiego di truppe americane per privare gli iraniani delle loro capacità difensive, cosa che non accadrà.

 Certo, i nuovi amici dei mullah, Russia e Cina, potrebbero essere disposti a scambiare petrolio con armi se Teheran si dimostrasse così stupida da cedere a qualsiasi cosa gli Stati Uniti, agendo per Israele, mettano sul tavolo dei negoziati.

Un'altra bella notizia della scorsa settimana sostiene che l'accelerazione delle deportazioni di presunti immigrati clandestini o criminali nati all'estero dagli Stati Uniti sia estremamente pericolosa e crei un pessimo precedente per l'eliminazione di persone indesiderate nel proprio Paese.

Purtroppo, ciò prepara il terreno per abusi ben peggiori ai danni dei cittadini americani nel prossimo futuro.

 Il link include un video del Presidente Trump che afferma che i cittadini statunitensi che commettono "gravi crimini", secondo l'interpretazione della Casa Bianca, possono essere deportati in modo analogo in luoghi come El Salvador e altri inferni in cui vengono ora inviati i non cittadini per scontare la pena.

 Questa perversione della giustizia è di una vile estrema violenza, oltremodo pericolosa.

 Si tratta di una grave violazione del diritto costituzionale, dei precedenti internazionali e di un diretto abuso dell'autorità presidenziale.

Che l'autorità venga inevitabilmente estesa fino a includere reati di "parola" e "pensiero" come l'"antisemitismo" è una certezza.

È un dato di fatto che noi americani un giorno non lontano dovremo sopportare che il governo consenta di mettere a tacere i dissidenti, potendo detenere ed espellere chiunque sia così privo di cervello da dire qualcosa che contraddica le politiche emanate dalla Casa Bianca.

 

Un programma del genere potrebbe essere preso in considerazione per integrare perfettamente gli arresti e le espulsioni da parte dell”'Immigration and Customs Enforcement” (ICE) di titolari di visti nati all'estero e residenti legali con green card, che hanno avuto un forte impatto sugli studenti che si iscrivono a corsi di laurea presso le università statunitensi.

Il Segretario di Stato Marco Rubio ha recentemente annunciato che sono già state revocate più di 300 volte i documenti di viaggio e di soggiorno, più altre centinaia negli ultimi giorni, mentre molte altre sono in arrivo.

 Il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale starebbe esaminando i siti di social media per raccogliere informazioni offensive sia sui titolari di visti attuali che sugli stranieri che hanno presentato domanda di immigrazione o di studio.

L'identificazione dell'account sui social media sarà presto richiesta per tutti i nuovi moduli di domanda.

Ciò aumenterà drasticamente il numero di potenziali obiettivi.

Come scrissero una volta Gilbert e Sullivan in “The Mikado”, il procuratore generale americano “Pam Bondi “potrebbe presto cantare "Poiché un giorno potrebbe accadere che si debba trovare una vittima, ho una piccola lista, ho una piccola lista... Di criminali della società che potrebbero benissimo essere clandestini... E di cui non si sentirebbe mai la mancanza, di cui non si sentirebbe mai la mancanza!"

 

Genevieve Lakier, professoressa presso la mia alma mater, “l'Università di Chicago”, specializzata in libertà di parola e diritto costituzionale americano, ha spiegato l'attenzione rivolta agli studenti:

 "A quanto ho capito, Trump ha promesso deportazioni di massa e le persone più facili da identificare sono gli studenti.

Sono nel sistema e le università conservano registri facilmente accessibili attraverso diversi canali.

E naturalmente, l'amministrazione non ama le università, quindi non ha problemi a sconvolgere il loro modello di business.

È una situazione vantaggiosa per l'amministrazione e terrificante per i nostri studenti, che sono terrorizzati".

Per agevolare le deportazioni, la Casa Bianca ha anche annunciato la scorsa settimana che i subumani antiamericani, antiisraeliani, terroristi e antisemiti destinati a un'espulsione rapida saranno multati di 998 dollari al giorno se scadranno oltre il termine ultimo del loro ordine di espulsione.

 Sembra un buon incentivo per far uscire rapidamente quei bastardi.

Se i bersagli non hanno i soldi, i loro beni personali verranno sequestrati per compensare la mancanza.

 Quindi, mettendo insieme tutte le fantastiche intrusioni nella sicurezza personale, se non vi piace quello che sta succedendo qui negli Stati Uniti o se vi opponete al massacro di forse 400.000 abitanti di Gaza, lamentatevi e, anche se siete cittadini americani, potreste finire tra gli indesiderabili in "pensione" o addirittura in prigione in posti come il Burkina Faso!

 

Ma la storia migliore della scorsa settimana l'ho tenuta per ultima!

Riguarda la parata militare indetta da Donald Trump per celebrare il suo 79 compleanno il 14 giugno La parata celebra anche il 250 anniversario della fondazione dell'Esercito degli Stati Uniti.

Si snoderà lungo un percorso di quattro miglia dal Pentagono, passando per il Cimitero Nazionale di Arlington, fino a “Constitution Avenue”, e comprenderà sorvoli, paracadutisti, truppe in marcia, fuochi d'artificio e tanta musica di diverse bande militari.

Trump a quanto pare è rimasto impressionato quando, durante il suo primo mandato, a Parigi ha assistito alla parata militare francese per la Festa della Bastiglia.

 Ne voleva una tutta sua, e ora sembra che otterrà ancora una volta ciò che desidera, a un costo di circa 110 milioni di dollari, spiccioli per un governo che ha un debito insostenibile di 36 trilioni di dollari e che spenderà 1 trilione di dollari, che non ha, per il Pentagono nel prossimo anno.

 

Promette di essere uno spettacolo splendido, ma aggiungerei un po' più di intrattenimento per renderlo un evento storico.

 A quanto pare, Trump, Bill Clinton, George W. Bush e io siamo tutti molto vicini d'età e mi sono reso conto che se si vuole organizzare una parata militare sarebbe bello integrare alcuni di questi personaggi isolati nella cerimonia, il che significherebbe includere la storia dei renitenti alla leva Trump e Clinton come parte dei festeggiamenti.

 Includerei anche Joe Biden, sebbene abbia quattro anni più di noi.

Non entrerò nei dettagli, ma se si va su Wikipedia o si cerca su Google i nomi con "renitenti alla leva" si troveranno le argomentazioni che sono state avanzate per dimostrare che tutti e tre hanno manovrato per evitare la leva obbligatoria, che era in corso a sostegno della guerra del Vietnam.

George W. Bush si è arruolato nella Guardia Nazionale Aerea del Texas ed è stato l'unico ex presidente recente ad aver prestato servizio nell'esercito in qualche modo, sebbene non direttamente in una guerra o in una zona di guerra.

Anche Barack Obama non ha prestato servizio militare, ma non c'era la leva obbligatoria quando era al college e dopo.

 

Essendo nello stesso gruppo di Trump e Clinton, ero a conoscenza dei numerosi sotterfugi usati dai miei compagni di università per evitare il Vietnam.

 Invece, quando mi è stato comunicato che la commissione di leva mi avrebbe chiamato una settimana dopo la laurea, mi sono arruolato frettolosamente nell'esercito, aggiungendo un altro anno al mio impegno, ma potendo scegliere la mia categoria lavorativa, che era l'intelligence.

Avendo seguito un anno di russo all'università, sono finito nella Berlino della Guerra Fredda, dove ho trascorso tre anni favolosi.

In ogni caso, penso che aggiungerebbe un po' di divertimento, a spese dei nostri presidenti restii al combattimento, introdurre un po' di realtà in una parata militare ordinata da un capo di stato narcisista che plausibilmente ha evitato la leva a causa di "speroni ossei".

Forse Biden, Clinton e Trump potrebbero ricevere un premio speciale, magari una targa o qualcosa del genere raffigurante un Pollo d'Oro.

(Philip M. Giraldi, Ph.D., è Direttore Esecutivo del Council for the National Interest, una fondazione educativa 501(c)3 fiscalmente deducibile (numero di identificazione federale #52-1739023).

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