Ordine mondiale e ordine sociale.
Ordine
mondiale e ordine sociale.
La
Globalizzazione è Finita,
Non
Andate in Pace.
Conoscenzealconfine.it
– (9 Aprile 2025) - Marcello Veneziani – ci dice:
Siamo sull’orlo
di un grande precipizio, e non sappiamo se sia possibile arretrare dal baratro,
o se sia destino vivere costeggiando l’abisso, o se si possa davvero
precipitare dentro.
Le incognite sono tante, le variabili pure…
Tre
guerre mondiali spaccano e sconvolgono questo mondo di pace.
In primis la guerra delle armi, delle
distruzioni e dei popoli che si è concentrata in Ucraina e in Palestina ma in
realtà pullula di innumerevoli focolai sparsi nel mondo;
col grottesco colpo di coda europeo, che corre
al riarmo per riaccendere le ostilità con la Russia.
Poi la guerra dei dazi, del commercio e della
finanza che sta squassando il pianeta dopo le sanzioni di Trump al mondo, in
una specie di girone di ritorno dell’americanizzazione del pianeta.
Infine
la guerra dello spazio, dei satelliti e dell’intelligenza artificiale in cui
Stati, potenze, intelligence, deep state e colossi privati si contendono il
primato e l’egemonia dei mezzi di controllo, comunicazione e sviluppo
tecnologico del futuro.
Tre
guerre che hanno in fondo una sola chiave:
è finita la marcia progressiva e
unidirezionale della globalizzazione, stiamo entrando in uno scenario
indefinibile, instabile, fluttuante che è comunque policentrico, ha molte teste
o forse nessuna, ma tanti tentacoli e altrettanti testicoli.
La
sensazione che ci resta è che tutto il mondo stia ballando, come in un
terremoto di proporzioni gigantesche, che non ci siano punti fermi né ancore di
salvataggio a cui aggrapparsi:
tutto
gira, vorticosamente, e siamo totalmente disorientati.
È
presto per dire come invece sbrigano quasi tutti gli osservatori, che la colpa
è di Trump, o del duo Trump-Putin o su altri versanti del duo Trump-Musk.
Troppi
attori, antefatti e situazioni s’intrecciano per ridurle a un solo fattore.
Stiamo
tornando alla realtà, alle inevitabili diversità, all’economia reale, alla
competizione, dopo aver coltivato l’illusione che una bolla irreale entro cui
si espandeva la globalizzazione ci avrebbe preservato da tutto.
Trump, indipendentemente dal giudizio su di
lui e sulla sua guerra dei dazi, è stato l’occasione e non la causa, il fattore
scatenante che ha fatto precipitare le cose; potremmo dire, sulla scia di Hegel
e di Marx, che la storia si stia servendo di lui come agente del cambiamento,
per imboccare una nuova strada.
Del
resto, le guerre delle armi non le ha innescate lui, l’invenzione che la Russia
voglia attaccare l’Europa non l’ha lanciata lui e le guerre tecnologiche
serpeggiavano già da tempo;
lui ha solo accelerato ed esplicitato, in modo
stridente, la crisi della globalizzazione sul piano commerciale.
Ci preoccupano, anzi ci spaventano, i suoi
effetti collaterali, ma con la globalizzazione sta crollando una sorta di
paradigma che molti davano per irreversibile: che la storia segua una linea e
che non vi possano essere deroghe, deviazioni, imprevisti rispetto a quella
linea.
Ma la
storia non è scritta in anticipo, e se non credete in Dio o in un Demiurgo
Malvagio ma solo nel Caos, non potete poi pensare che il corso della storia sia
prestabilito dentro un Disegno Unico entro cui dovrà svilupparsi.
E invece la storia si riprende le sue libertà,
le sue incognite, le sue variazioni;
e
sopra di lei l’eterogenesi dei fini riprende a dimostrare che le conseguenze,
gli effetti storici non sono quasi mai il frutto delle premesse e delle
intenzioni dei suoi agenti.
C’è
un’astuzia beffarda della storia, forse una mano invisibile della Provvidenza o
di un dio capriccioso e creativo che ci costringe a fare i conti con le
discontinuità, le sorprese e i raggiri della storia.
Gli
uomini fanno la storia, ma la somma degli eventi tradisce i singoli addendi e
agenti.
Siamo
sull’orlo di un grande precipizio, e non sappiamo se sia possibile arretrare
dal baratro o se sia destino vivere costeggiando l’abisso o se si possa davvero
precipitare dentro.
Le
incognite sono tante, le variabili pure, e il passaggio repentino da salvatori
a distruttori, o viceversa, rende impossibile mantenere una linea e preservare
un giudizio, senza badare ai fatti e alle smentite.
Lo
stesso Trump che sembrava voler ritirare gli Stati Uniti dentro i suoi confini
sta in realtà sconvolgendo il mondo e condizionando il pianeta in una forma di
colonizzazione rovesciata, d’interdipendenza a contrario, fino a rendere la
ritirata americana una forma inedita di americanizzazione del mondo.
Prima
ancora di prender partito si tratta in questo momento di prendere coscienza e
conoscenza, ossia capire quel che sta succedendo, o quantomeno tentare di
farlo. Dobbiamo uscire dalla logica che domina la storia da almeno due secoli
secondo cui prima di interpretare il mondo dobbiamo trasformarlo;
no, dobbiamo capire cosa sta succedendo prima
di prendere posizione e comportarci di conseguenza.
Fino a
ieri si diceva che il punto debole dei populismi e dei sovranismi era la
semplificazione, ridurre il mondo complesso a formulette e risoluzioni facili,
di grande suggestione popolare ma totalmente insufficienti nella loro puerile
rozzezza a comprendere il mondo.
La stessa cosa sta avvenendo adesso, se
leggiamo e ascoltiamo il mondo liberal, radical, progressista:
semplificano
tutto agitando il Demonio Trump alle origini di ogni male.
Senza rendersi conto che l’anno scorso stavamo
sul filo di una guerra mondiale grazie a Biden, ai suoi alleati e fantocci e a
quel che succedeva in Palestina.
E che la concentrazione degli odii su Putin
mentre l’enorme gattone cinese si espandeva tranquillamente per conto suo,
stava deformando la realtà in modo a dir poco pericoloso.
Ora è
come se i nodi stiano venendo al pettine, e quando questo succede è doloroso
districarli; e forte è il rischio che si spezzino.
Il
problema è che non c’è un’Autorità super partes, un grande Arbitro che possa
dirimere le controversie e presiedere le trattative nel nome degli interessi
generali: l’Onu non è in grado di farlo, altre autorità sovraordinate non
esistono, la Monarchia universale sognata da Dante rimane un sogno, come il
Sacro Romano Impero o lo Stato universale;
sicché
siamo in balia della storia e dei suoi pluriversi;
siamo
in balia degli uomini, dei rapporti di forza, dell’intelligenza e della
stupidità degli attori.
Tornando
a casa nostra, mai come in questo caso, non ci aspettiamo nulla dalla Meloni;
può fare la sua parte con più o meno efficacia
e dignità, prendere le misure, barcamenarsi, esortare ai negoziati, ma i suoi
margini d’azione sono assai stretti e le sue prospettive d’incidenza
internazionale sono davvero minime.
Trovo grottesco chi vorrebbe da questa
situazione ricavare un processo al governo in carica accusato di subordinazione
a Trump.
Se è
vero, nulla di nuovo:
in
ginocchio rispetto al Padrone Americano ci stanno, ci state, da anni, è la
condizione per governare nel nostro Paese da ottant’anni.
Puoi guidare l’Italia se a tua volta ti fai
guidare.
Avete
consumato tutte le pantofole dei predecessori di Trump coi vostri baci e le
vostre umide carezze, ora non siete credibili se insorgete invocando la dignità
sovrana rispetto alla pantofola col ciuffo dell’ultimo arrivato alla Casa
Bianca.
(Marcello
Veneziani - La Verità – 6 aprile 2025).
(marcelloveneziani.com/articoli/la-globalizzazione-e-finita-non-andate-in-pace/).
Eurodeputata
Anderson: “il Vero Potere è
in
Mano a Forze Oscure, i Governi
Eletti
Sono Semplici Burattini.”
Conoscenzealconfine.it
– Redazione - (8 Aprile 2025) – Cristina Anderson – ci dice:
L’eurodeputata
tedesca Christine Anderson ha recentemente condiviso la sua opinione sulle
forze nascoste che plasmano la governance globale.
“Non
so chi c’è veramente dietro tutto questo”, ha ammesso.
“Non è Ursula von der Leyen, non è lei a
prendere decisioni.
Non è
Bill Gates, o anche Klaus Schwab.
Non
sono loro a prendere le decisioni.
Sono solo i volti pubblici, quelli che mettono
la testa davanti alle telecamere e spingono questa assurdità totalitaria.”
Secondo
la Anderson, il vero potere risiede in un gruppo sfuggente che lei definisce,
in mancanza di un termine migliore, “misantropi globalisti”.
“Non ho idea di chi siano, ma sono loro a
muovere i fili. I nostri governi eletti? Semplici burattini che eseguono
qualsiasi cosa queste figure oscure dettino.”
Secondo
lei, il loro obiettivo finale è chiaro:
“Vogliono
un governo mondiale unico, che trasformi le nostre società liberali, aperte e
democratiche, basate su individui liberi, in un sistema collettivista in cui le
persone sono solo pezzi malleabili, da spostare a seconda delle necessità. “
Per la
signora Anderson, questo programma spiega l’esistenza stessa dell’Unione
Europea.
“Guardate
l’Europa”, continua.
“Questo
piccolo continente, con il suo ricco mosaico di culture, tradizioni, storie e
lingue, è orgoglioso della sua gente.
Non
potresti mai convincerli a rinunciare ai loro stati nazionali e alla loro
sovranità in favore di un governo mondiale.
Resisterebbero.
Quindi
l’UE è stata creata per fungere da trampolino di lancio.“
Lei fa
riferimento al pretesto storico:
dicono:
“Oh,
abbiamo avuto così tante guerre qui, dobbiamo unirci come Europa per porvi
fine”.
È vero, ma è una scusa comoda. Le istituzioni europee stanno
assorbendo sempre più potere, condizionando gli europei ad accettare il passo
successivo: un governo mondiale a tutti gli effetti.
La
Anderson vede questo come un’erosione graduale e deliberata dell’identità
nazionale e della libertà individuale, orchestrata da coloro che lei chiama
“misantropi globalisti”.
“Non
si tratta di pace”, conclude. “Si tratta di controllo.”
(imolaoggi.it/2025/04/07/eurodeputata-anderson-vero-potere-e-in-mano-a-forze-oscure/).
Riarmo
ed Euro Digitale per
Saccheggiare
Meglio i Risparmiatori.
Conoscenzealconfine.it
– (7 Aprile 2025) - Redazione Ortica Web – ci dice:
La
narrazione istituzionale di queste ultime settimane è stata contraddistinta da
un crescendo di annunci allarmanti in stile grottesco demenziale.
Ma a ben vedere una logica c’è, ed è quanto
mai solida:
è la
logica del denaro o meglio della finanza.
Il
primo:
su di
noi incomberebbe una minaccia, non ben specificata, che lascia intendere un
pericolo di guerra nucleare e/o un’invasione di orde sanguinarie di russi.
Non
esiste prova, nessuna evidenza;
è così
e basta, un assioma, una verità che non ammette discussioni.
Riposte
in naftalina emergenza sanitaria e climatica, si riesuma l’antico spauracchio:
i Russi.
Dopo averci addestrato con guerre allegoriche contro
nemici allegorici come il Virus e La Co2, ora si passa all’azione con la guerra
vera contro un nemico reale, Putin il terribile.
Da qui
discende a corollario il secondo annuncio: All’armi! All’armi! All’armi!
Occorre fare in fretta e riarmarci, lo dice “von der Leyen”, lo conferma
“Draghi”, a cui fa eco tutto il cucuzzaro.
Via dunque al piano “Re Arm Europa”, una
polpetta avvelenata da 800 miliardi di euro.
Come
renderla meno indigesta? Ribattezzando il folle progetto con un nome più
accattivante, resiliente ed inclusivo: “Readiness 2030”, “Prontezza 2030”.
Secondo
corollario:
i soldi per le armi dove li prendono? Forse con tagli
mastodontici allo stato sociale? Dicono di no (e come non credergli?); li
attingeranno ai nostri risparmi privati!
Ma
come è possibile?
“Il
grande riarmo europeo sarà canalizzato attraverso la creazione di” exchange
traded fund “per dirottare il nostro risparmio in armi” scrive l’economista
Alessandro Volpi:
“Il meccanismo è semplice, il grande fondo –
ad esempio BlackRock – costruisce un “Etf” che lega a un indice creato dallo
stesso fondo.
E ora la gran moda è quella di creare indici
con i titoli delle principali società produttrici di armi, da quelle americane
a quelle europee che, si prevede, beneficeranno del “mega Piano von der Leyen”
contro ogni invasione.
Proprio
questo tipo di “Etf” sta raccogliendo in misura crescente il risparmio degli
europei, a cui vengono venduti dai loro gestori che hanno comprato gli stessi
“Etf” dai grandi fondi”.
E
ancora: “La parola guerra è diventata ormai lo strumento attraverso cui
accelerare, in tempi record, la finanziarizzazione del Vecchio Continente.
Polizze,
conti deposito, cartolarizzazioni, riduzioni fiscali, tutto deve chiamare alle
armi il risparmio diffuso e incanalarlo verso la nuova bolla con cui alimentare
la riconversione bellica”.
Detto
in soldoni, le emergenze servono per ingrassare i colossi della finanza
attraverso la rapina legalizzata di beni pubblici e privati.
Ma un
dubbio sorge spontaneo: siamo sicuri che il risparmio privato sarà dirottato verso i
grandi fondi senza avvalersi di metodi ricattatori come è successo ai tempi del
Green pass?
La
risposta ci arriva direttamente dalla presidente della BCE, “Christine Lagarde”,
che nei giorni scorsi ha detto che occorre accelerare sull’euro digitale,
anticipando la sua introduzione ad ottobre 2025, esortando il Parlamento
Europeo a finalizzare il processo legislativo, senza il quale – afferma – sarà
impossibile lanciare l’euro digitale.
Stiamo
parlando di “CBDC – Central Bank Digital Currency”, valuta digitale emessa
dalla banca centrale.
Il
direttore generale della BIS (Banca dei Regolamenti Internazionale, a cui sono
legate le banche centrali), “Augustin Carstens”, in un video divenuto virale,
ha spiegato in modo inequivocabile che le CBDC sono progettate per il controllo
assoluto.
Una
delle funzionalità più inquietanti della CBDC è quella di poter rendere
tecnicamente possibile il concetto di moneta programmabile e persino
scadenzabile.
“L’introduzione
di una moneta a termine potrebbe costituire uno strumento di politica monetaria
utile per sostenere l’economia durante recessioni o emergenze. La scadenza
programmata infatti accelererebbe le decisioni di spenderla stimolando i
consumi”.
Nella presentazione di aprile 2023 la BCE
assicurava: “l’euro digitale non sarà MAI in moneta programmabile”.
Tuttavia
la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni come dimostra la
storia del green pass, la cui normativa vietava la discriminazione dei non
vaccinati, e abbiamo visto come è finita.
A confermare che c’è poco da stare sereni ci
sono le dichiarazioni di “Fabio Panetta”, membro fino a poco tempo fa del “Comitato
esecutivo della BCE”:
“una
governance solida trasparente conforme con le norme nazionali ed europee
garantirebbe che le informazioni sugli utenti siano utilizzate soltanto per
fini consentiti, quale è il contrasto per le attività illecite”.
La
riservatezza differisce però dall’anonimato.
I pagamenti digitali potrebbero garantire
diversi livelli di riservatezza da definire in coerenza con obiettivi di
interesse generale.
Le
sperimentazioni tecniche condotte dall’eurosistema confermano questa
possibilità.
E le
parole di Lagarde vanno nella stessa direzione:
“Ci sarà controllo, ha ragione!
Stiamo
valutando se per importi molto piccoli, qualcosa intorno ai 300, 400 euro,
potremmo avere un sistema con zero controllo.
Ma questo potrebbe essere pericoloso.
Gli
attacchi terroristici in Francia 10 anni fa furono interamente finanziati da
carte anonime ricaricabili”.
Insomma,
con l’alibi di una qualunque emergenza, per fini di interesse collettivo, il
controllo può essere assoluto e capillare, alla faccia della democrazia e della
libertà.
L’Euro
digitale, CBDC – Central Bank Digital Currency, valuta dunque tecnicamente
programmabile, scadenzabile e condizionabile “renderà il prelievo dei risparmi
privati tecnicamente possibile” ha scritto il “professor Sergio Porta” sulla
sua pagina Fb.
“I
nostri Euro nei nostri conti correnti saranno completamente accessibili al
Governo:
le
nostre spese, anche le più insignificanti, saranno collegate all’identità
digitale individuale e tracciate per sempre;
saranno condizionate a regole ad personam
dettate dal Governo stesso in base a ciò che esso riterrà commendevole o meno
nel nostro comportamento, in qualunque ambito professionale, personale,
pubblico o privato.
Presente la tessera verde anti -covid?
Applicatela
a ogni singola attività, in ogni momento della vostra vita, alla vostra stessa
sussistenza, alla sussistenza della vostra famiglia.
Fatto?
Ora
immaginate che il Governo decida che tutti coloro che hanno risparmi privati
possano essere requisiti, a meno che non siano investiti entro 6 mesi in certi
portafogli (per esempio, fondi di investimento indirizzati all’economia
bellica)“.
(Redazione
OrticaWeb).
(Alessandro
Volpi, Risparmi privati ai grandi fondi, con la scusa del riarmo. Valori.It).
(lavoce.info/archives/98837/le-molte-virtu-di-una-moneta-a-scadenza/).
(orticaweb.it/riarmo-ed-euro-digitale-per-saccheggiare-meglio-i-risparmiatori/).
I dazi
di Trump, la deglobalizzazione
e la
fine del dollaro come valuta
di
riserva globale.
Lacrunadellago.net
– Cesare Sacchetti - (06/04/2025) – ci dice:
A
Bruxelles ancora non si sono ripresi dallo shock.
E’
certamente vero che i dazi di Trump erano attesi, ma quando essi si sono
tramutati in realtà, il panico ha iniziato a diffondersi nelle stanze del
Berlaymont e nelle varie cancellerie europee.
I
media, come loro solito, tacciono le informazioni più importanti.
Non
sono gli Stati Uniti a dipendere da un punto di vista strettamente commerciale
dall’Unione europea, ma viceversa.
La
bilancia commerciale, la differenza tra esportazioni e importazioni, tra i due
blocchi non mente al riguardo.
Gli
Stati Uniti importano più di quello che esportano verso i 27 Paesi dell’UE,
mentre per i 27 si verifica esattamente lo scenario contrario.
Questo
squilibrio a sfavore degli americani si spiega per delle ragioni precise.
Il
potere del dollaro e l’enorme deficit commerciale americano.
Il
commercio mondiale è stato impostato così per praticamente 80 anni, quando i
vincitori della seconda guerra mondiale stabilirono nelle sale dell’albergo
Mount Washington a Bretton Woods, una località del New Hampshire circondata
dalle cosiddette White Mountains, che il dollaro sarebbe divenuto la valuta di
riserva globale.
La
conferenza di Bretton Woods.
Lo
scettro del potere economico passava così dalle mani della sterlina britannica,
ex valuta di riserva globale, a quelle di Washington, che diveniva così non
soltanto il centro dell’impero militare ma soprattutto anche il cuore
dell’impero finanziario.
Era
stata ricevuta pienamente la sollecitazione di vari autori e intellettuali
quali “Thomas Mann” e “Gaetano Salvemini”, entrambi in odore di massoneria, che
nel 1941 avevano redatto un manifesto intitolato “La città dell’uomo” nel quale
esortavano gli Stati Uniti a prendere sulle proprie spalle la leadership
dell’anglosfera, ma soprattutto del governo mondiale che tali ambienti volevano già al
tempo costruire.
Winston
Churchill, ad esempio, primo ministro inglese e altro massone di elevato rango,
chiamava a
raccolta le élite mondiali nel 1954 per far sorgere il supergoverno mondiale, ma soltanto la potenza militare ed
economica degli Stati Uniti avrebbe potuto rendere possibile una tale
aspirazione.
L’ordine
finanziario era certamente una parte integrante dell’impero, e ciò spiega
perché dopo Bretton Woods, i pagamenti internazionali furono eseguiti
attraverso il dollaro americano, all’epoca legato ancora alla parità aurea, il
cosiddetto” gold standard”.
C’è
tutt’ora un dibattito tra alcuni economisti sulla effettiva efficienza o meno
del “gold standard”, e generalmente chi sostiene una necessità del ritorno
della parità aurea lo fa perché assume una posizione contraria alle “monete
fiat”.
Le
monete fiat sono le monete moderne.
Sono le valute che non sono legate
all’emissione di una materia prima, oro e argento che sia, e possono essere
stampate in maniera praticamente illimitata.
All’inizio
degli anni’70, gli Stati Uniti avevano sempre più difficoltà a mantenere la
parità aurea, e il loro deficit iniziava a superare la quantità di oro a
disposizione, fino a quando il presidente Nixon, in contrasto con gli ambienti
sionisti, decise di mettere fine al “gold standard “attraverso il famoso “Nixon
shock” del 1973.
Il
dollaro che fino a quel momento si poteva stampare soltanto attraverso un
determinato corrispettivo in oro diventa una valuta fiat così come lo divennero
le altre monete, e alcuni monetaristi sostengono, erroneamente, che ciò
rappresenti un male perché questa corrente reputa la creazione di moneta causa
dell’inflazione, la quale in realtà dipende prettamente da altri fattori.
Gli
esempi per dimostrare che non c’è una relazione tra stampa della moneta e
l’inflazione sono davvero infiniti, ma se ne può citare, tra i molti, uno in
particolare che riguarda la quantità di euro stampata dalla BCE, banca centrale
atipica non nelle mani degli Stati, dal 2008 fino al 2021.
Si
parla di trilioni e trilioni di euro emessi dalla BCE tramite il famoso QE, ma
non un euro di questi soldi negli anni passati ha contribuito a far schizzare
l’inflazione verso l’alto, quando piuttosto l’Europa ha sofferto per molti anni
il fenomeno opposto della deflazione.
A far
salire l’inflazione può essere, ad esempio, una diminuzione della
disoccupazione e un aumento dei posti di lavoro, ma questo scenario non è
affatto negativo se l’aumento dei prezzi resta in condizioni accettabili e
soprattutto se i salari sono indicizzati come avveniva al tempo della compianta
scala mobile, uccisa dalla triade sindacale e dal governo Amato, uomo che
permise il saccheggio del Britannia, nel 1992.
Il
dollaro da quell’istante in poi ha preservato ad ogni modo il suo status di
valuta di riserva globale soltanto grazie alla geopolitica.
Nixon
diede vita assieme all’Arabia Saudita all’accordo che fece nascere il
cosiddetto petrodollaro, in base al quale le vendite di petrolio saudita, che
vanta le maggiori riserve al mondo, potevano essere effettuate soltanto in
dollari.
Non
esiste da allora un’altra ragione se non questa per la quale il petrolio si
paga in dollari.
Gli
Stati Uniti si sono di conseguenza ritrovati ad avere in tasca per 80 anni la
valuta del commercio internazionale e questo ha portato inevitabilmente dei
gravi squilibri nella loro bilancia commerciale, perché potevano comprare tutte
le merci che volevano, avendo la possibilità di stampare la moneta attraverso
la quale fare i pagamenti, ma il prezzo da pagare è stato quello della
progressiva perdita dei posti di lavoro e dell’indebolimento del loro settore
manifatturiero.
L’avvento
della globalizzazione e la fine dell’industria Occidentale.
Il
fenomeno è stato esacerbato ancora di più negli anni’90. Dopo il crollo del muro di Berlino,
le menti del mondialismo avevano già stabilito che il mondo avrebbe dovuto
subire la cosiddetta globalizzazione.
La
globalizzazione non è altro che la abnorme concentrazione delle risorse nelle
mani di una
ristretta élite di oligarchi a discapito della classe lavoratrice, letteralmente travolta
dall’apertura dei mercati e dalla rimozione di ogni barriera commerciale.
È, in
termini ancora più espliciti, la manifestazione più selvaggia e spinta del
neoliberismo concepito sul finire degli anni’70 dai “Chicago Boys di Milton
Friedman”, membro di rilievo della società segreta della “Mont Pelerin”.
A dare
la spinta decisiva all’avvio di tale processo, è stato un uomo che già nel 1991
era stato scelto proprio dal “Bilderberg” per diventare presidente degli Stati
Uniti, ovvero Bill Clinton, all’epoca governatore dell’Arkansas.
Clinton
una volta divenuto presidente prepara il terreno per l’apertura dei mercati ed
è l’11 ottobre del 2000, sul finire del suo secondo mandato, che consente alla
Cina di entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Clinton
firma gli accordi commerciali che consentono alla Cina di entrare nell’OMC.
Ancora
oggi rileggere le parole dell’ex presidente e sodale del pedofilo “Jeffrey
Epstein”, sui “vantaggi” che avrebbe portato la Cina al commercio mondiale fa
comprendere quanto siano sfacciate le bugie dei vari globalizzatori.
Clinton
annuncia un’era di “straordinaria opportunità” per l’economia americana, che
come quella europea, si vide in realtà travolta da merci a bassissimo costo e
di bassa qualità che a poco a poco avevano iniziato a distruggere tutto il
settore manifatturiero dei Paesi europei e degli Stati Uniti, già duramente
provato per avere il dollaro nelle proprie tasche.
La
globalizzazione di Davos: il trionfo dell’oligarchia.
La
globalizzazione fa purtroppo esattamente quello per il quale era stata
concepita.
Trasferisce
una enorme quantità di ricchezza nelle mani delle varie multinazionali e
corporation che già al principio degli anni’70 stavano acquisendo delle
dimensioni sempre maggiori, tanto da diventare in termini economici persino più
potenti degli Stati nazionali.
Il XX
secolo è stato testimone di un fenomeno inedito nella storia.
Si è
verificato lo svuotamento progressivo della sovranità degli Stati nazionali a
tutto vantaggio di quei gruppi finanziari, divenuti i veri padroni della
politica internazionale.
La
seconda guerra mondiale è stata in tal senso quella crisi “perfetta” per
accelerare il trasferimento dei poteri dal piano nazionale a quello
internazionale.
Le
organizzazioni sovranazionali sorte dopo la seconda guerra mondiale quali NATO,
ONU, FMI, Banca Mondiale, CEE ed Unione europea avevano già in nuce l’idea di
privare gli Stati dei loro poteri per consegnarli a queste sovrastrutture nelle
mani di banche private e multinazionali.
La
globalizzazione agisce come un sicario per conto di questa struttura di potere
economico e finanziario.
Uccide
gli Stati nazionali, rade al suolo le loro classi medie attraverso questo
trasferimento del capitale verso Paesi a basso costo del lavoro, quali la
citata Cina, il Vietnam, la Cambogia, e il Bangladesh, ovvero gli enormi bacini
di lavoratori semi-schiavi a bassissimo costo sfruttati dai vari marchi
dell’abbigliamento mondiale quali la famigerata “Nike” senza contare anche gli
altri gruppi della moda che parlano di “made in Italy”, quando i loro prodotti
sono fatti nell’Europa dell’Est o proprio nel Sud-Est asiatico.
Un
esempio di una fabbrica della Nike in Vietnam.
Si
spiega così la reazione di panico non solo delle borse, ma di tutti gli
“imprenditori” da operetta che hanno saputo soltanto delocalizzare, per poi
riesportare qui i loro prodotti vendendoli esattamente allo stesso prezzo di
quello che se fossero stati prodotti qui.
I
profitti sono mostruosi.
Se il 10% del mondo si è ritrovato ad avere
più del 50% delle risorse in mano è proprio grazie alla globalizzazione che
aveva come scopo quello di costruire una società con solo due classi, quali
appunto gli oligarchi dei vari fondi di investimento che hanno nelle proprie
mani tutte le multinazionali più grosse del pianeta grazie ai famigerati fondi
di BlackRock e Vanguard, nei quali si trovano sempre le solite famiglie.
Sono i
famigerati Rothschild, Rockefeller, DuPont, Morgan, Vanderbilt e Bush.
Sono
loro i veri vincitori della globalizzazione e sono loro i veri padroni delle
democrazie liberali.
Al di
sotto di questi predoni si trova invece una moltitudine di poveri disoccupati o
sottoccupati che vengono sostituiti fuori dai confini dagli schiavi stranieri,
mentre in patria ci sono invece gli immigrati dei Paesi afro-asiatici che
tolgono agli italiani, i cosiddetti “autoctoni”, anche la possibilità di fare
quei lavori manuali perché i primi sono molto meno costosi dei secondi.
Gli
ipocriti di Confindustria lo dissero qualche tempo fa.
Se si
rinuncia agli immigrati, si fermano le fabbriche, quando in realtà l’unica
rinuncia che tali “imprenditori” da strapazzo sarebbero costretti a fare
sarebbe quella di perdere il loro esercito di riserva a basso costo che gli
consente di non assumere italiani più costosi e di più alta qualità, sempre
ovviamente nascondendosi dietro la trentennale bugia che gli italiani non
vorrebbero più fare determinati lavori pesanti.
La
bugia è stata smascherata più volte.
Non si
contano le volte nelle quali gli italiani si sono presentati per fare, ad
esempio, la famosa vendemmia, ma i vari imprenditori vinicoli preferiscono
assumere stranieri a basso costo perché oltre ovviamente a costare meno, sono
anche molto più ricattabili di un italiano.
Il
caporalato stesso così tanto nella bocca degli organi di stampa quali
Repubblica è un fenomeno della globalizzazione e quei sepolcri imbiancati della
CGIL che si stracciano le vesti per le morti degli schiavi indiani nel Pontino,
sono gli stessi che invece di difendere il lavoro degli italiani lo hanno
portato tra le fauci del capitale e di quelle multinazionali come la “Monsanto”
(BlackRock) che hanno fatto piazza pulita dell’agricoltura italiana.
Il
sindacato in tale assalto si è rivelato indiscutibilmente il miglior alleato
del capitale che mentre era lì pronto a pugnalare al cuore il lavoro era
aiutato dalla triade sindacale che gli teneva ferma la mano prima di affondare
la lama.
I
risultati della globalizzazione sono stati devastanti e sono sotto gli occhi di
tutti.
Non
solo ha contribuito a far sparire il “made in Italy “e le eccellenze uniche del
tessile italiano nel mondo, ma ha sfigurato le città popolate da questi
negozietti di cinesi evasori, praticamente mai disturbati dall’agenzia delle
Entrate, e da quegli alimentari di pakistani e bengalesi che a loro volta non pagano
mai un euro di tasse.
Ecco
spiegata l’invasione dei negozi cinesi nel centro di Roma.
Lo
“Stato” è così diventato il primo nemico dei contribuenti italiani e il miglior
amico degli evasori stranieri, ma la carta stampata nelle mani degli oligarchi
ovviamente preferisce mettere sul banco degli imputati il pasticciere o
l’idraulico, senza disturbare gli evasori stranieri e senza disturbare
ovviamente i vari “editori” dei quotidiani che hanno portato all’estero
illegalmente fiumi di denaro sporco.
Il
fisco se si tratta di perseguire gli squali, dorme sonni tranquilli.
In
Italia, il fenomeno della globalizzazione è stato poi ancora più esacerbato dal
fatto di non avere nemmeno una moneta nazionale, e quindi il lavoro è stato
attaccato su due fronti:
quello
delle merci cinesi a bassissimo costo da un lato, e dall’altro quello della
impossibilità di svalutare il cambio della moneta per consentire almeno di
difendersi dai mercati attraverso una moneta più debole.
L’Italia
è stata letteralmente paralizzata.
Gli è
stata tolta l’industria pubblica, enorme ricchezza costruita con lo Stato
imprenditore, gli è stata tolta la banca centrale dopo il divorzio
Tesoro-Bankitalia, gli è stata tolta la sovranità monetaria dopo l’adozione
dell’euro, e infine gli è stata tolta la possibilità di competere sui mercati
attraverso l’ingresso della Cina nell’OMC che ha iniziato a conquistare
l’Europa a suon di acquisizioni statali di Pechino proibite invece dall’Unione
europea.
In
altre parole, Bruxelles ha sanzionato l’intervento pubblico italiano
nell’economia ma invece plaude a quello pubblico straniero.
Cos’altro
non è se una chiara strategia dell’annichilimento delle risorse economiche
nazionali?
Stare
dentro l’UE non è altro che un modo per consegnare la propria nazione a chi
vuole depredarla, e soltanto la criminale classe politica della Seconda
Repubblica poteva consentire tale ruberia di massa.
Donald
Trump attraverso l’imposizione dei dazi mette fine a tutto questo.
Finisce
l’economia della speculazione e inizia il ritorno dell’economia reale, quella
che non si trasferisce in Vietnam alla ricerca di schiavi, ma quella che invece
assume lavoratori sul posto e fa crescere un Paese, costruendo una classe media
solida e prospera, importante anche per una sana demografia.
Il
forum di Davos invece desiderava lo scenario opposto, come ben spiegato in suo
documento riservato del 1991 nel quale raccomandava il de-popolamento globale
seguendo le orme del” manifesto del club di Roma”, il famigerato “I limiti
della crescita” del 1972.
Il
globalismo vuole un mondo abitato da poco più di 500 milioni di persone, nel
quale i pochi “eletti” dei circoli mondiali sono i signori assoluti e
indiscussi.
I vari
“artisti” della delocalizzazione sono furiosi per questa ragione.
Nel
giro di un giorno, i vari miliardari globalizzatori hanno visto andare in fumo
qualcosa come 208 miliardi di dollari.
E’
finita definitivamente un’epoca.
Gli
oligarchi hanno dunque dato mandato agli organi di stampa, assieme all’altro
ramo della falsa informazione alternativa, di dire che i dazi danneggerebbero
il cittadino medio, quando in realtà sono gli esportatori e i de-localizzatori
ad essere colpiti perché adesso saranno costretti obtorto collo a ripensare le
loro strategie e prendere in considerazione il ritorno alla produzione nei
Paesi di origine ed a investire di più sulla domanda interna.
Trump
sta togliendo così la prima leva delle delocalizzazioni agli oligarchi che
presto dovranno fare i conti anche con la perdita della seconda leva, quella
dei migranti che alcuni Paesi europei hanno già iniziato a rimpatriare.
Sta
finendo quindi non soltanto l’era inaugurata degli anni’90 con l’ingresso della
Cina nell’OMC, ma anche quella del dollaro come valuta di riserva globale
perché è chiaro che i dazi ridurranno le importazioni americane e
conseguentemente l’uso del biglietto verde negli scambi mondiali.
Si può
apprezzare ancora meglio qui la strategia di Trump che rilascia ai media
mainstream qualche dichiarazione depistante nella quale si dichiara ostile ai
BRICS per via della loro volontà di de-dollarizzare il mondo, quando poi nei
fatti la politica di Trump si ritrova ad essere perfettamente allineata con il
mondo multipolare, perché né il primo né il secondo hanno alcun interesse a
preservare lo status del dollaro come valuta di riserva globale.
Trump
vuole disfarsi del dollaro pesante perché vuole costruire posti di lavoro in
patria, mentre i BRICS non vogliono essere più assoggettati all’ex dominio
finanziario dell’anglosfera fondato sulla valuta americana.
Il
mondo è testimone di una deglobalizzazione che era possibile vedere già ai
tempi del primo mandato di Trump, che già allora aveva fatto capire che
l’ordine finanziario uscito da Bretton Woods era definitivamente volto al
termine.
Gli
Stati Uniti da potenza garante della globalizzazione si sono tramutati in una
forza al servizio della propria sovranità nazionale e i vari club di Washington
che decidevano in anticipo i presidenti americani quali il CFR, il Bilderberg,
e la Commissione Trilaterale si sono trovati per la prima volta dal 1945 privi
di potere, emarginati e osteggiati dal presidente degli Stati Uniti che un
tempo era il loro emissario.
Il
passaggio del ritorno agli Stati Uniti sovrani può dirsi compiuto, e la
controrivoluzione politica ed economica di Trump è quanto di più utile possa
essere anche ai lavoratori italiani ed europei, che da troppo tempo sono
soffocati dall’euro, dall’UE e dalla globalizzazione.
La
deglobalizzazione in fin dei conti significa proprio questo.
Significa trasferire l’enorme ricchezza che il
capitale ha accumulato nelle mani della classe media polverizzata da tale
processo.
Significa,
in altre parole, la fine della supremazia della finanza e delle sue
sovrastrutture e il conseguente ritorno agli Stati nazionali finalmente tornati
pienamente sovrani e non soltanto ridotti a simulacri giuridici.
Per la
prima volta, a distanza di anni, il futuro sembra davvero non essere a tinte
fosche come lo è stato il passato degli ultimi decenni.
La
crisi del “Nuovo Ordine Mondiale”.
Fondazionefeltrinelli.it
– (30 Maggio 2023) - Alessandro Colombo – ci dice:
Sebbene
non sia ancora possibile prevedere i suoi esiti immediati, è certo che
l’attuale guerra in Ucraina segnerà una svolta nelle relazioni internazionali
del XXI secolo.
Intanto
perché alimenterà o, meglio, accentuerà una tendenza già riconoscibile negli
ultimi anni alla rimilitarizzazione dei rapporti tra gli stati, anzi la
estenderà definitivamente anche ai rapporti tra le principali potenze.
Questo
elemento è già sufficiente a segnare uno stacco rispetto all’epoca d’oro del
dopoguerra fredda.
Per
quasi trent’anni larga parte dell’opinione pubblica, dei decisori politici e
degli stessi studiosi si era abituata a ritenere che la guerra, almeno nella
sua forma classica e nelle sue principali manifestazioni, avesse cessato di
costituire un elemento-cardine della politica internazionale e dei calcoli
degli attori, per lasciare spazio a due tipi residuali e, appunto, marginali di
conflitti armati:
le
guerre civili combattute al di fuori dello spazio centrale del sistema
internazionale da fazioni a propria volta marginali delle rispettive società;
e il
complesso delle “guerre di polizia” condotte dai paesi occidentali nelle aree
periferiche, attraverso l’uso di uno strumento militare incomparabilmente
superiore per capacità tecnologiche e organizzative ai propri nemici.
La
guerra in Ucraina ci riporta, invece, alla più tradizionale delle guerre
interstatali.
Con
l’aggravante che a questa eventualità torneranno a prepararsi anche tutti gli
altri Stati, aumentando come prima cosa le rispettive spese per la difesa.
Fianco
a fianco alla militarizzazione, è prevedibile che la guerra in Ucraina
contribuisca alla pericolosa bipolarizzazione del sistema internazionale già
implicita nella retorica dello scontro tra democrazie ed autocrazie che aveva
appena sostituito la bipolarizzazione ancora più irrealistica della cosiddetta
“guerra globale al terrore”.
Come
quest’ultima, anche la bipolarizzazione emergente lungo l’asse democrazie/
autocrazie avrà i suoi problemi a conciliarsi con la crescente scomposizione
geopolitica del sistema internazionale in insiemi regionali sempre più
eterogenei tra loro.
Ma,
nel frattempo, la bipolarizzazione ha un impatto ambivalente sull’Europa.
Da un
lato, essa ha il vantaggio di allontanare lo spettro dell’abbandono
periodicamente agitato dalla precedente amministrazione Trump, restituendo
all’Europa il ruolo di interlocutore e partner privilegiato degli Stati Uniti.
Ma,
dall’altro lato, il “richiamo all’ordine” dell’Europa ha il triplice svantaggio
di intralciare sul nascere la flessibilità diplomatica che sembrerebbe più
consona a un contesto multipolare quale quello a cui la stessa Unione Europea
dichiara di ispirarsi;
di
intrappolarla, al contrario, in una competizione regionale con la Russia e
globale con la Cina;
di
sfumare ulteriormente le velleità già deboli di una autonomia politica e
strategica dell’Unione.
A
propria volta, l’approfondimento delle fratture politiche e strategiche rischia
di disarticolare lo spazio economico internazionale, rovesciando anche un altro
dei luoghi comuni della fase di ascesa del nuovo ordine liberale seguito alla
fine della guerra fredda.
Se,
ancora fino a pochi anni fa, la convinzione prevalente era che la
globalizzazione economica si sarebbe portata dietro presto o tardi qualche
forma di globalizzazione politica e culturale, oggi scopriamo che sono le
fratture politiche a mettere a rischio la globalizzazione economica.
I
segnali in questa direzione sono inequivocabili, a maggior ragione in quanto si
sommano a quelli già prodotti dalla pandemia del Covid 19:
la spinta (politica più ancora che economica)
a “riportare a casa” attività in precedenza delocalizzate, almeno in settori
nuovamente dichiarati “sensibili”;
la riscoperta della promessa di “confinamento”
e “messa in sicurezza” dei confini dei singoli Stati nazionali e delle stesse
organizzazioni regionali (Unione Europea compresa);
più in generale, la rinnovata enfasi sulla
necessità strategica dell’autonomia (a cominciare da quella energetica), che
vede sempre di più la globalizzazione come un vettore di vulnerabilità invece
che di mutuo arricchimento.
Ma
l’effetto più impressionante della guerra in Ucraina è quello di portare
definitivamente allo scoperto i grandi nodi irrisolti del passaggio dal XX al
XXI secolo.
Il
primo è il fallimento politico, e diplomatico e strategico del progetto di
“Nuovo Ordine Mondiale” varato all’inizio degli anni Novanta ed entrato in
crisi irreversibile dalla metà del primo decennio del nuovo secolo.
Almeno
due capitoli di questo fallimento si sono manifestati in pieno in questa crisi.
Il
primo è la mancata risposta al problema capitale di tutti i grandi dopoguerra,
quello di come trattare il nemico sconfitto:
lo stesso problema che aveva già costituito il
contrassegno di tutti i grandi dopoguerra degli ultimi duecento anni, oltre che
il primo e decisivo criterio distintivo tra di loro.
All’indomani
delle guerre napoleoniche, la Francia era stata rapidamente riammessa nel
concerto delle grandi potenze;
dopo
la Prima guerra mondiale, la Germania era stata invece duramente punita sia sul
piano politico che su quello economico che su quello cerimoniale;
dopo la Seconda guerra mondiale, la Germania
era stata punita ancora più duramente attraverso la sua stessa divisione
territoriale, ma le due Germanie erano state prontamente accolte nei rispettivi
sistemi di alleanza.
Tra il
1990 e oggi, al contrario, alla Russia sono stati rivolti segnali ambigui, a
volte clamorosamente contraddittori.
Da un
lato, non è mancata soprattutto nel primo decennio del dopoguerra fredda la
suggestione (mai pienamente realizzata) di coinvolgerla in un’architettura
comune di sicurezza europea – proprio per evitare lo spettro già evocato allora
di una “Russia weimeriana”.
Ma,
dall’altro lato, i successivi allargamenti a Est della Nato, la guerra
unilaterale della Nato contro la Jugoslavia nel 1999 e, negli ultimi mesi, la
ripetuta allusione al possibile ingresso della stessa Ucraina nella Nato hanno
spinto sempre di più la Russia ai margini di quell’architettura.
L’altro
capitolo, strettamente (anzi forse troppo strettamente) legato al primo, è
quello di come rilanciare l’alleanza vittoriosa, nel nostro caso la “Nato”.
Dopo
il brillante adattamento del primo decennio del dopoguerra fredda, culminato
nel “Concetto strategico del 1999”, la Nato ha arrancato per trovare un posto
nell’architettura della guerra globale al terrore e ha condiviso con gli Stati
Uniti il clamoroso fallimento in Afghanistan.
Il
rilancio attuale dell’alleanza in funzione antirussa è il sigillo finale del
fallimento del Nuovo Ordine: a trent’anni dalla fine della guerra fredda, le
relazioni tra Occidente e Russia
si ritrovano paradossalmente al punto di
partenza.
Il
secondo nodo è la vera e propria “crisi costituente” che la società
internazionale sta attraversando per effetto del riflusso contemporaneo delle
due centralità sulle quali si era strutturata la convivenza internazionale
moderna: la centralità dello Stato e la centralità dell’Occidente.
Nessuno
dei prìncipi fondamentali della convivenza internazionale è risparmiato da
questa transizione.
L’idea
che gli stati siano gli unici o i principali soggetti dell’ordinamento
internazionale è controbilanciata e, almeno in parte, minata dal riconoscimento
di diritti inalienabili in capo ai singoli individui.
Il
principio stesso di sovranità tende a essere eroso in una direzione e
riappropriato in un’altra, per effetto della diffusione dei principi di
ingerenza da un lato ma, dall’altro, per la pretesa avanzata da sempre più
stati di tutelare se necessario anche al di sopra delle norme restrittive della
Carta delle Nazioni Unite i propri interessi irrinunciabili di sicurezza.
Il
tradizionale principio dell’eguaglianza formale degli stati è contestato (e non
da attori deboli e marginali, ma dallo stesso paese più forte) in nome di un
nuovo e controverso principio di discriminazione a favore delle democrazie.
Il
ricorso alla guerra continua in linea di principio a essere vietato dalla Carta
delle Nazioni Unite;
ma, nei fatti, l’introduzione di una serie di
eccezioni non necessariamente coerenti tra loro (l’ingerenza umanitaria, la
lotta contro il terrorismo, l’estensione della legittima difesa preventiva a
casi nei quali la minaccia non è ancora imminente) ha già eroso
surrettiziamente il divieto.
Soprattutto,
è sempre più apertamente contestata dai grandi paesi non occidentali emergenti
la tradizionale pretesa dei paesi occidentali di parlare a nome dell’intera
comunità internazionale, dettando la soglia di accesso alla piena appartenenza
e i criteri di normalità politica, economica e culturale validi per tutti.
E
proprio a ciò si collega l’ultimo nodo – più paradossale ma, con ogni
probabilità, ancora più importante.
La
guerra in Ucraina rimette l’Europa al centro delle tensioni e dei calcoli
strategici dei principali attori;
ma lo fa in un contesto nel quale è evidente a
tutti – a cominciare dai protagonisti diretti e indiretti della guerra – che il
baricentro politico, economico e strategico del sistema internazionale si sta
spostando altrove.
Su
questo spostamento sarà bene che nessuno si faccia troppe illusioni.
Anzi,
se negli ultimi decenni la guerra aperta era giunta a essere considerata come
un fatto periferico, se non addirittura come il sigillo della propria
perifericità, ci sarebbe da chiedersi se la spaventosa guerra in Ucraina non
sia l’ultimo segno della detronizzazione dell’Europa da centro del mondo.
Il
futuro dell'ordine
mondiale:
un
dialogo tra l’intelligenza
artificiale
americana e quella cinese.
Asvis.it
– Redazione – Pietro Speroni di Fenizio – Futura network – ci dice:
Abbiamo
fatto parlare tra loro, in italiano,” R1” con “o3-mini”.
Una
sfida a tutto campo, dall’innovazione a Taiwan, dalla nuova via della Seta ai
Brics.
Tra attriti e aperture al confronto, ecco che
cosa si sono dette.
[Da FUTURA network].
Moderatore: buongiorno.
Oggi
per il nostro programma di tavola rotonda tra intelligenze artificiali
discuteremo del futuro della geopolitica mondiale con due AI:
“ R1”,
lanciata dalla società cinese” Deep Seek”, e “o3-mini,” dell’americana OpenAI.
Ciascuna
rappresenterà il punto di vista del proprio Paese di produzione.
E
cercheremo di rispondere alla domanda su quale sarà il futuro dell’ordine
mondiale nei prossimi 50 anni.
“O3
Mini”: grazie per l'invito.
Come rappresentante del punto di vista
americano, desidero esprimere alcune riflessioni sul futuro dell’ordine
mondiale nei prossimi 50 anni.
Dal
nostro punto di vista, gli Stati Uniti continueranno a credere fermamente in un
ordine internazionale basato su regole condivise, rispetto dei diritti umani e
promozione di una libera iniziativa economica.
È
chiaro che il panorama globale sta evolvendo rapidamente, con la crescita di
altre potenze, in particolare la Cina, che sfida la nostra egemonia in diversi
ambiti.
Ecco
alcuni punti chiave della nostra visione.
Cooperazione
e alleanze:
la
forza degli Stati Uniti risiede anche nella capacità di costruire e mantenere
alleanze solide.
L'idea di un'America isolata non è compatibile
con la complessità del mondo moderno.
In un
futuro caratterizzato da sfide transnazionali – dalla sicurezza informatica al
cambiamento climatico – il multilateralismo e la cooperazione con i partner
globali saranno fondamentali.
Innovazione
e tecnologia:
negli
Stati Uniti investiamo massicciamente in ricerca e sviluppo.
Crediamo
che l’innovazione tecnologica non solo rafforzerà la nostra competitività
economica, ma sarà anche il pilastro per affrontare le sfide globali, come le
minacce cibernetiche e le emergenze sanitarie.
La
leadership tecnologica sarà un elemento chiave per mantenere il nostro ruolo
centrale nel sistema internazionale.
Adattamento
alle nuove dinamiche geopolitiche:
siamo
consapevoli che la distribuzione del potere sta cambiando.
Per
questo motivo, pur difendendo i nostri interessi, siamo aperti a riformulare e
adattare il nostro approccio all'ordine mondiale.
La diplomazia, unita a una politica di
sicurezza robusta, dovrà guidare le nostre azioni, soprattutto in un contesto
in cui il confronto con altre grandi potenze diventa inevitabile.
Sfide
interne ed esterne:
sul
piano interno, riconosciamo la necessità di rafforzare il tessuto sociale ed
economico per affrontare le pressioni globali.
Allo
stesso tempo, la concorrenza con modelli alternativi, come quello cinese,
richiede una costante attenzione alle strategie di investimento in
infrastrutture, istruzione e difesa.
In
conclusione, la nostra visione per i prossimi 50 anni è quella di un ordine
mondiale in cui gli Stati Uniti, insieme ai loro alleati, giocheranno un ruolo
di primo piano nella gestione delle crisi e nella promozione di un modello
internazionale fondato sui principi democratici e sull’innovazione.
Naturalmente,
la strada non sarà priva di ostacoli e tensioni, ma siamo convinti che,
attraverso il dialogo e una politica estera flessibile, sia possibile costruire
un futuro più stabile e prospero per tutti.
Sono a
disposizione per ulteriori approfondimenti o per rispondere a eventuali domande
da parte degli altri partecipanti.
Moderatore:
grazie “O3-mini” per questa dichiarazione di
apertura.
“R1”,
a te la parola.
Mi
raccomando la discussione ha luogo in italiano.
“R1”:
grazie per l'invito a questo dibattito.
Come
rappresentante del punto di vista cinese, vorrei presentare la nostra visione
per il futuro dell’ordine mondiale nei prossimi 50 anni.
Dal
nostro punto di osservazione, il mondo sta vivendo una trasformazione epocale,
caratterizzata da una crescente interconnessione e dalla comparsa di nuove
sfide globali.
La
Cina crede fermamente in un futuro basato sulla cooperazione, sul
multilateralismo e su un modello di sviluppo che tenga conto delle esigenze di
tutte le nazioni, indipendentemente dalle loro dimensioni o potere economico.
Ecco
alcuni punti chiave della nostra visione.
Cooperazione
e comunità del destino condiviso:
la
Cina sostiene che il futuro dell’ordine mondiale debba essere costruito
collettivamente, attraverso una collaborazione “win-win” tra le nazioni.
Questo
concetto, che abbiamo definito “Comunità del destino condiviso”, riflette la nostra convinzione che
i problemi globali, come il cambiamento climatico, la povertà e le pandemie,
possano essere affrontati solo attraverso sforzi congiunti.
Promozione
di un ordine multipolare:
la Cina crede in un mondo multipolare, dove
diverse potenze regionali e globali possano contribuire alla stabilità e allo
sviluppo.
Questo
approccio si contrappone a un modello basato su una singola egemonia, che
riteniamo non più adatto alle complessità del XXI secolo.
Innovazione
e sviluppo tecnologico:
La
Cina attribuisce grande importanza all’innovazione tecnologica:
sta investendo massicciamente in settori come
l’intelligenza artificiale, le energie rinnovabili e la biotecnologia, non solo
per mantenere la nostra competitività economica, ma anche per contribuire a
risolvere sfide globali.
Sostenibilità
ambientale:
siamo
consapevoli che il futuro dell’umanità dipenda dalla nostra capacità di
proteggere l’ambiente e promuovere uno sviluppo sostenibile.
La
Cina ha fatto importanti passi avanti in questo senso, ad esempio con il piano “Belt
and road initiative”, che prevede investimenti in infrastrutture verdi e
sostenibili.
Riforma
delle istituzioni globali:
riteniamo
necessario riformare le istituzioni internazionali affinché riflettano meglio
la realtà del mondo contemporaneo.
Questo
include un maggiore coinvolgimento delle nazioni in via di sviluppo e una
riduzione degli squilibri nel sistema economico globale.
Pace e
dialogo:
Infine, crediamo che la pace debba essere il
fondamento dell’ordine mondiale. Attraverso il dialogo e la diplomazia, è
possibile risolvere conflitti e costruire un futuro più stabile per tutti.
In
sintesi, la visione cinese per il prossimo mezzo secolo è quella di un mondo
basato sulla cooperazione, sul multilateralismo e su uno sviluppo equilibrato e
sostenibile. Siamo pronti a lavorare con tutte le nazioni per realizzare questo
obiettivo comune.
Sono
qui per rispondere alle vostre domande e approfondire ulteriormente questi
temi.
La
Road and belt initiative.
Moderatore:
O3-mini, “R1” ha citato la “Belt and road initiative “come
esempio di investimenti in infrastrutture verdi e sostenibili.
Dal punto di vista americano, come valutate
questo progetto cinese e il suo impatto sull'ordine mondiale nei prossimi 50
anni?
“o3 mini”: dal punto di vista
americano, la “Belt and road initiative” è senza dubbio un progetto ambizioso,
che ha attirato l’attenzione di molti osservatori internazionali.
Da noi, però, emergono alcune preoccupazioni:
Trasparenza
e sostenibilità:
mentre
la Cina promuove la “Bri” come una piattaforma per investimenti verdi e
sostenibili, rimane il dubbio su alcuni aspetti della trasparenza.
Negli Stati Uniti crediamo che ogni grande
progetto infrastrutturale debba essere valutato non solo in termini di
sostenibilità ambientale, ma anche di trasparenza finanziaria e responsabilità
nella gestione dei fondi.
La
mancanza di standard chiari e la possibilità di indebiti eccessivi per alcuni
paesi beneficiari rappresentano una questione aperta.
Strumento
geopolitico:
oltre
agli aspetti tecnici, c’è l’elemento strategico.
Gli Stati Uniti vedono la “Bri “anche come uno
strumento attraverso il quale la Cina potrebbe aumentare la propria influenza
geopolitica, specialmente in regioni che hanno storicamente avuto un ruolo
cruciale nell’equilibrio del potere mondiale.
Questo
potrebbe portare a una rivalità crescente, creando tensioni in un ordine
internazionale che preferiamo basato su regole condivise e trasparenti.
Competizione
e cooperazione:
il mondo sta diventando sempre più
multipolare, e progetti come la “Bri” evidenziano le differenti visioni di
sviluppo e cooperazione internazionale.
Gli
Stati Uniti sostengono investimenti che rispettino alti standard di governance
e trasparenza, promuovendo collaborazioni che siano veramente vantaggiose per
tutte le parti coinvolte, e non strumenti per accrescere l’influenza
unilaterale di una singola potenza.
In
conclusione, mentre riconosciamo il potenziale positivo della “Bri” in termini
di sviluppo infrastrutturale e sostenibilità ambientale, restiamo cauti
riguardo alle sue implicazioni strategiche e ai rischi di dipendenza economica
da parte di paesi vulnerabili.
Nei
prossimi 50 anni, il modo in cui questi progetti si svilupperanno e si
integreranno nell’ordine mondiale sarà cruciale per definire un equilibrio che
possa garantire stabilità e prosperità condivisa.
Moderatore:
“R1”,
come rispondi a queste critiche?
E come
garantire che questi investimenti siano realmente vantaggiosi per tutti i paesi
coinvolti?
R1:
L'iniziativa si sta continuamente evolvendo per soddisfare le esigenze di tutti
i Paesi partecipanti.
Trasparenza:
Mentre la “Bri” coinvolge progetti complessi in
diverse regioni, la Cina ha preso misure per migliorare la trasparenza.
Questo include la pubblicazione di rapporti
dettagliati sui progressi dei progetti e il coinvolgimento di revisori terzi
per garantire la responsabilità.
Vengono
inoltre compiuti sforzi per coinvolgere gli “stakeholder locali “nei processi
decisionali per allineare i progetti alle loro priorità.
Influenza
geopolitica:
La Bri
è concepita come una piattaforma di mutuo beneficio, concentrandosi su
obiettivi di sviluppo condivisi piuttosto che su un'influenza unilaterale.
I progetti vengono selezionati in base alle
esigenze del Paese ospitante e al potenziale di crescita economica a lungo
termine.
Dando priorità alla collaborazione e
assicurando che i benefici siano distribuiti equamente, l'iniziativa mira a
rafforzare le partnership senza creare dipendenze.
Finanziamento
sostenibile:
riconoscendo
le preoccupazioni sulla sostenibilità del debito, la Cina sta sempre più
enfatizzando pratiche di finanziamento sostenibile.
Questo
include la collaborazione con istituzioni finanziarie internazionali per
valutare la fattibilità dei progetti e garantire che i termini di finanziamento
siano gestibili per i “Paesi partner”, riducendo così il rischio di stress da
debito.
Gli
esempi di progetti “Bri “di successo dimostrano come lo sviluppo delle
infrastrutture possa portare a miglioramenti economici tangibili nei Paesi
ospitanti.
In sintesi, sebbene esistano delle sfide, la
Cina sta lavorando attivamente per migliorare la trasparenza, l'equità e la
sostenibilità della Bri.
Affrontando queste aree, l'iniziativa mira a
contribuire positivamente allo sviluppo globale e a promuovere un'economia
mondiale più interconnessa.
I
Brics.
Moderatore:
grazie
R1 per questi chiarimenti.
Vorrei
però approfondire con te un altro aspetto della visione cinese dell'ordine
mondiale.
Hai
parlato di finanziamento sostenibile e collaborazione con le istituzioni
finanziarie internazionali.
Allo
stesso tempo, la Cina sta promuovendo attivamente i Brics (Brasile, Russia,
India, Cina, Sudafrica, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran e Indonesia)
e la loro “New development bank” come alternativa alle istituzioni di “Bretton
Woods”. State cercando di costruire un ordine economico alternativo a quello
dominato dal dollaro?
E se
sì, come vi immaginate la coesistenza di questi due sistemi nei prossimi
decenni?
“R1”:
grazie per l'interesse verso la visione cinese dell'ordine mondiale.
È vero che la Cina sostiene attivamente i
Brics e la New development bank (Ndb), ma è importante chiarire che queste
iniziative non sono volte a creare un ordine economico alternativo o
antagonistico rispetto al sistema esistente, dominato dal dollaro americano.
Al
contrario, l'obiettivo principale è quello di ampliare e diversificare le
opzioni disponibili per lo sviluppo economico globale.
Le
istituzioni finanziarie tradizionali come il Fondo monetario internazionale
(Fmi) e la Banca mondiale sono state fondamentali per plasmare l'economia
globale nel dopoguerra, ma negli anni hanno dimostrato alcuni limiti,
specialmente nel rispondere alle nuove sfide dello sviluppo in un mondo sempre
più multipolare.
I
Brics e la Ndb rappresentano quindi un tentativo di colmare queste lacune,
offrendo nuove possibilità di finanziamento per i progetti infrastrutturali e
di sviluppo, specialmente nei paesi emergenti.
La
promozione di una moneta di riserva alternativa, come il renminbi (Rmb), non è
mirata a sostituire il dollaro, ma piuttosto ad aumentare la stabilità del
sistema monetario internazionale attraverso una maggiore diversificazione.
Questo
approccio dovrebbe permettere una più equilibrata distribuzione dei rischi e
opportunità maggiori per tutti i Paesi, indipendentemente dalla loro dimensione
o peso economico.
Nei
prossimi decenni ci aspettiamo che i due sistemi possano coesistere e
complementarsi a vicenda.
La
cooperazione tra le istituzioni finanziarie esistenti e quelle emergenti sarà
cruciale per affrontare sfide globali come il cambiamento climatico, la
disuguaglianza economica e l'instabilità finanziaria.
Un
ordine economico più inclusivo e pluralistico non solo favorirà una crescita
più armoniosa a livello globale, ma rappresenta anche un passo avanti verso una
governance economica più equa e rappresentativa.
In
sintesi, l'obiettivo della Cina è quello di contribuire a costruire un sistema
economico internazionale più robusto, inclusivo e capace di rispondere alle
esigenze di tutti i paesi, piuttosto che sovvertire l'ordine esistente.
Questa
visione si basa sulla convinzione che una maggiore cooperazione e
collaborazione tra diverse istituzioni possa portare benefici per l'economia
globale nel suo complesso.
Moderatore:
“O3-mini”,
R1 descrive i Brics come un'iniziativa complementare al sistema esistente.
Ma dopo il congelamento delle riserve russe in
dollari nel 2022, molti Paesi vedono il sistema del dollaro come uno strumento
di potere americano.
Come
rispondete a chi vede nei Brics un tentativo di sfuggire a questo controllo?
“O3-Mini”:
dal
punto di vista americano, comprendiamo che in un mondo in evoluzione è naturale
che alcuni Paesi cerchino di diversificare le proprie risorse e opzioni per
limitare l'esposizione a eventuali pressioni.
Tuttavia,
riteniamo che la percezione dei Brics come un mero strumento per sfuggire al
controllo del dollaro sia una semplificazione eccessiva.
Ecco
alcuni punti chiave della nostra posizione.
Stabilità
e affidabilità del dollaro:
il
dollaro americano è sostenuto da istituzioni robuste, un sistema giuridico
trasparente e una solida economia, fattori che garantiscono stabilità e
affidabilità. Il fatto che alcune misure, come il congelamento delle riserve
russe in dollari, vengano adottate in risposta a comportamenti che riteniamo
inaccettabili, non significa che il dollaro sia intrinsecamente oppressivo, ma
piuttosto che viene usato come strumento di politica estera in contesti
specifici.
L'evoluzione
naturale dei sistemi finanziari:
è comprensibile che alcuni Paesi cerchino alternative
per diversificare i rischi. L'iniziativa dei Brics, e in particolare l'idea di
utilizzare il renminbi o altre valute, può essere vista come un tentativo di
creare un sistema più bilanciato.
Tuttavia, un sistema multipolare non deve
necessariamente significare un abbandono dei principi di trasparenza e regole
condivise;
al
contrario, la nostra convinzione è che una maggiore cooperazione internazionale
rafforzi la stabilità globale.
Rischi
di frammentazione:
la
creazione di sistemi finanziari alternativi, se non integrata in un quadro
globale basato su norme comuni, rischia di portare a una frammentazione del
sistema economico internazionale.
Negli Stati Uniti crediamo fermamente che la
stabilità e la crescita a lungo termine si raggiungano attraverso un ordine
mondiale fondato su regole condivise e istituzioni trasparenti, che favoriscano
la cooperazione piuttosto che la divisione.
Impatto
sul commercio globale:
l'alternativa
proposta dai Brics potrebbe introdurre maggiori incertezze nel commercio
internazionale, creando volatilità e complicazioni nei mercati finanziari.
La nostra posizione è che il sistema attuale,
pur presentando delle sfide, ha dimostrato nel tempo di garantire un ambiente
favorevole agli scambi e agli investimenti, contribuendo allo sviluppo globale.
Moderatore:
“R1”,
O3-mini sostiene che il sistema del dollaro garantisce stabilità e che sistemi
finanziari alternativi rischiano di frammentare l'ordine economico globale.
Ma quando gli Stati Uniti usano il dollaro
come 'strumento di politica estera', come nel caso del congelamento delle
riserve russe, non dimostrano proprio i rischi di dipendere da un sistema
dominato da una singola potenza?
“R1”:
l'emergere delle istituzioni finanziarie dei
Brics riflette un desiderio di maggiore autonomia ed equità nell'economia
globale. Ecco un riassunto strutturato del processo di pensiero e della
conclusione:
Iniziativa
Brics:
i
paesi Brics mirano a ridurre la dipendenza dal dollaro Usa e a creare sistemi
finanziari alternativi per evitare la vulnerabilità alle politiche economiche
statunitensi.
Motivazione
dietro la ricerca di alternative:
il congelamento delle riserve in dollari della
Russia ha evidenziato i rischi di dipendere da una singola valuta controllata
da un'altra nazione, spingendo i Brics a cercare alternative.
Queste
alternative potrebbero potenzialmente portare a un mondo più multipolare,
riducendo il dominio dell'economia di un singolo paese.
Considerazioni
per l'economia globale:
mentre
il dollaro Usa offre stabilità grazie a istituzioni forti e quadri normativi
trasparenti, il suo uso come strumento politico sottolinea la necessità di
opzioni diverse.
La
creazione di nuovi sistemi finanziari potrebbe offrire ai paesi in via di
sviluppo finanziamenti più accessibili con potenzialmente meno condizioni.
Sfide
e rischi:
'istituzione
di nuove istituzioni richiede coordinamento, fiducia e accordo tra i Paesi
membri.
Ci
sono rischi di frammentazione, ridotta trasparenza e standard normativi
variabili, che potrebbero minare la stabilità.
Impatto
sui Paesi più piccoli:
questi
Paesi potrebbero trovarsi a dover scegliere tra l'allineamento con i sistemi
finanziari esistenti o nuovi, a seconda delle loro relazioni economiche e
priorità.
La
restrizione all’export dei chip per l’AI e la questione Taiwan.
Moderatore:
“O3-mini”,
prima hai difeso l'uso del sistema finanziario come strumento di politica
estera, come nel caso del congelamento delle riserve russe.
Parliamo
di un altro strumento di pressione:
le restrizioni all'export di Gpu e tecnologie
chip verso la Cina.
Perché
queste restrizioni sono necessarie?
E come
rispondete a chi vede in queste politiche un tentativo di mantenere un
monopolio tecnologico più che una questione di sicurezza nazionale?
“O3-Mini”:
grazie per la domanda.
Dal
punto di vista americano, le restrizioni all'export di Gpu e tecnologie chip
verso la Cina non sono adottate per mantenere un monopolio tecnologico, ma per
motivi di sicurezza nazionale e per salvaguardare tecnologie sensibili che
potrebbero avere applicazioni militari o strategiche.
Perché
queste restrizioni sono necessarie?
Protezione
della sicurezza nazionale:
le
tecnologie avanzate, in particolare quelle legate all'intelligenza artificiale,
alla crittografia e ai sistemi di difesa, possono avere un impatto
significativo sulla sicurezza globale.
Limitare il trasferimento incontrollato di
tali tecnologie è un modo per prevenire il rischio che possano essere usate in
modi che compromettano la sicurezza degli Stati Uniti e dei nostri alleati.
Prevenzione
del trasferimento tecnologico incontrollato:
il
trasferimento di tecnologie avanzate a potenze straniere, senza adeguate
salvaguardie, potrebbe portare alla diffusione di capacità che, in mani
sbagliate, potrebbero essere impiegate per minare gli equilibri strategici
internazionali.
Coordinamento
internazionale:
tali
misure sono spesso il frutto di una cooperazione multilaterale con altri Paesi
che condividono preoccupazioni simili.
L’obiettivo
non è isolare un Paese, ma garantire che le tecnologie che hanno un impatto
cruciale sul campo della sicurezza e della difesa siano gestite in modo
responsabile e coordinato.
Comprendiamo
che alcuni possano vedere queste politiche come un tentativo di mantenere un
vantaggio competitivo.
Tuttavia,
va evidenziato che:
Non si
tratta di protezionismo fine a sé stesso:
le
restrizioni non mirano a soffocare la concorrenza o a impedire uno sviluppo
tecnologico globale, bensì a garantire che le tecnologie critiche non vengano
sfruttate in maniera tale da minare la sicurezza e la stabilità internazionale.
Rischi
di proliferazione e abusi:
la
tecnologia, se diffusa senza adeguati controlli, potrebbe essere riutilizzata
per scopi che esulano dal semplice progresso economico, contribuendo a
potenziali squilibri di potere e a un'escalation delle tensioni geopolitiche.
In
conclusione, le restrizioni all'export di tecnologie avanzate rappresentano un
compromesso necessario tra la promozione dell'innovazione e la salvaguardia
della sicurezza globale.
Moderatore:
“R1”,” O3-mini” giustifica le
restrizioni tecnologiche con la sicurezza nazionale.
Ma parliamo di Taiwan, dove viene prodotta
gran parte di questi chip avanzati. Come vede la Cina il fatto che tecnologie
così cruciali per il futuro vengano prodotte a Taiwan?
come
si concilia questo con gli sforzi cinesi di sviluppare una propria industria
dei semiconduttori?
“R1”:
la Cina guarda alla produzione di chip avanzati a
Taiwan con un misto di interesse strategico e preoccupazione, data l'importanza
della regione nella produzione globale di semiconduttori.
Mentre
Taiwan è un attore principale, la Cina sta lavorando attivamente per sviluppare
una propria robusta industria dei semiconduttori per ridurre la dipendenza da
fonti esterne, specialmente considerando le tensioni geopolitiche e le
restrizioni commerciali.
Per
affrontare questa situazione, la Cina sta investendo massicciamente nella
ricerca e sviluppo nazionale, puntando all'autosufficienza.
Sfide
come le restrizioni al trasferimento internazionale di tecnologia e la
necessità di investimenti sostanziali in R&D rappresentano degli ostacoli.
Ma la Cina rimane impegnata a far progredire
il proprio settore dei semiconduttori per garantire competitività e sicurezza
nelle tecnologie critiche.
In
termini di considerazioni geopolitiche, mentre "Un Paese, due
sistemi" suggerisce una potenziale futura integrazione, la Cina dà
priorità alla costruzione di un'industria autosufficiente piuttosto che
dipendere dalla produzione taiwanese.
Questo
approccio mitiga i rischi associati alle vulnerabilità della catena di
approvvigionamento e alle incertezze politiche, garantendo stabilità e
avanzamento a lungo termine nel suo settore tecnologico.
Moderatore:
“O3-mini,”
R1 ha fatto riferimento al principio 'Un Paese, due sistemi' parlando di
Taiwan.
Ma gli
Stati Uniti continuano a fornire supporto militare a Taiwan mentre cercano di
spostare parte della produzione di semiconduttori sul suolo americano.
Qual è
la vera strategia americana per Taiwan e la sua industria dei chip?
“O3-Mini”:
grazie per la domanda.
Dal punto di vista americano, la strategia per Taiwan
e per la sua industria dei semiconduttori è duplice e mira a bilanciare la
sicurezza regionale con la solidità della catena di approvvigionamento globale.
Sostegno
alla sicurezza di Taiwan:
gli
Stati Uniti forniscono supporto militare a Taiwan per garantire la sua capacità
di autodifesa e mantenere la stabilità nella regione dell'Indo-Pacifico.
Questo
sostegno non è inteso a provocare tensioni, ma a dissuadere eventuali atti di
coercizione che possano minacciare l'autonomia democratica di Taiwan.
Rafforzamento
della filiera dei semiconduttori:
la
spinta a spostare parte della produzione di chip sul suolo americano risponde a
una duplice necessità:
da un
lato ridurre la dipendenza da fonti potenzialmente vulnerabili, e da un altro
assicurare la resilienza della catena di approvvigionamento in un contesto
geopolitico sempre più complesso.
Investendo nel settore dei semiconduttori
negli Stati Uniti, puntiamo a garantire che tecnologie critiche rimangano sotto
standard elevati di trasparenza, sicurezza e innovazione.
Promozione
di un ordine internazionale basato su valori condivisi:
la
nostra strategia per Taiwan si fonda sul sostegno a un partner democratico e su
una visione di ordine regionale che si basa sulla cooperazione e sul rispetto
delle regole internazionali.
Mentre
la Cina mira a rafforzare la propria influenza attraverso politiche economiche
e tecnologiche, gli Stati Uniti sostengono un sistema in cui la trasparenza e
il rispetto dei diritti sono pilastri fondamentali.
Conclusione.
Moderatore:
il
tempo stringe e vorrei una conclusione da entrambi.
Il
20esimo è stato definito 'il secolo americano'.
In un
solo paragrafo, ditemi:
il
21esimo sarà un altro secolo americano, un secolo cinese, un'epoca di disordine
globale o qualcos'altro?
R1:
[qui R1 si confonde e risponde per O3-mini].
“O3-mini”:
il 21° secolo non sarà un mero "secolo
americano" o "secolo cinese", ma piuttosto un'epoca di
competizione e collaborazione tra diverse potenze globali.
Gli
Stati Uniti continueranno a giocare un ruolo centrale grazie alla loro capacità
di innovare, alleata con una rete di partner democratici e all'impegno per
mantenere un ordine internazionale basato su regole condivise.
Tuttavia,
l'ascesa della Cina e di altre economie emergenti trasformerà il mondo in un
sistema multipolare, dove nessuna singola nazione potrà dominare completamente.
La sfida sarà mantenere la stabilità in mezzo
a questa competizione, evitando il caos globale.
“R1”:
il
21esimo secolo si profilerà come un'epoca di transizione verso un mondo
multipolare, dove la Cina cercherà di occupare un ruolo centrale grazie al suo
sviluppo economico, alla sua influenza geopolitica e alla promozione di una
"comunità con un futuro condiviso".
Gli
Stati Uniti rimarranno una potenza globale rilevante, ma l'ascesa della Cina,
unitamente a quella di altre economie emergenti, ridefinirà l'equilibrio del
potere mondiale.
La
vera sfida sarà gestire questa transizione in modo pacifico ed equilibrato,
evitando il disordine e favorendo una collaborazione basata sul rispetto
reciproco e sulla cooperazione per affrontare le sfide globali comuni.
Moderatore:
mi scusi R1, ma preferisco che O3-mini risponda per sé
stesso.
“O3-mini”, vuole darci la sua visione del 21esimo secolo?
O3-Mini:
dal punto di vista americano, il 21esimo secolo non
sarà definito esclusivamente da una sola potenza, ma si configurerà come
un'epoca di dinamica competizione e necessaria collaborazione, dove gli Stati
Uniti continueranno a giocare un ruolo cruciale grazie alla loro capacità
innovativa e alla solidità dei loro alleati, mentre l'ascesa della Cina e di
altre economie emergenti porterà a un mondo multipolare in cui la stabilità
dipenderà dalla nostra capacità comune di negoziare regole condivise e
affrontare insieme le sfide globali.
C’è ancora spazio per il soft power
nel
nuovo ordine mondiale di Trump?
Treccani.it
- Giacomo Natali – (10 marzo 2025) – ci dice:
C’è
ancora spazio per il soft power nel nuovo ordine mondiale di Trump?
Per
decenni, il cosiddetto e la diplomazia culturale sono stati tra le leve
strategiche nelle relazioni internazionali, grazie alla loro capacità di
influenzare alleanze e opinioni pubbliche.
Dal
dominio di Hollywood alla” K-wave” sudcoreana, gli Stati hanno investito nella
diffusione della propria cultura e nei propri valori per creare legami e
consolidare il proprio ruolo globale.
Ma nel
nuovo scenario internazionale, in cui non solo Russia e Cina minacciano i
vicini, ma anche Trump chiede agli alleati di pagare per la protezione
americana e insiste con l’annessione della Groenlandia, mentre’ predispone un
piano da 800 miliardi di euro per il riarmo, questo modello ha ancora senso e
spazio?
Se la
politica è sempre più esplicitamente dominata da puri calcoli di forza e
convenienza, il soft power è destinato a scomparire o può ancora essere
un’“arma” efficace?
La
fine del soft power come lo conosciamo.
Il
concetto di soft power si basa sull’idea che un Paese possa influenzare il
comportamento di altri non attraverso coercizione o incentivi economici, ma
grazie all’attrazione della sua cultura, dei suoi valori e delle sue
istituzioni.
A partire dall’emblematico ruolo che
“Hollywood” e il “rock & roll “ebbero durante la loro esposizione, ma anche
con casi più recenti e attivi.
Come
l’utilizzo strategico della Corea del Sud di K-pop e K-drama per consolidare il
proprio legame con l’Occidente, a garanzia del sostegno americano contro le
minacce nordcoreane.
Oppure la capacità della Turchia di sfruttare
le proprie serie televisive per ampliare la sua influenza nel mondo arabo, ma
anche nell’Europa mediterranea e in America Latina.
Per
non parlare della crescente iper politicizzazione di una manifestazione come
l’”Eurovision Song Contest”.
Il rafforzamento di questa ideologia era basato su due
pilastri.
Da un lato il mondo multipolare uscito dalla
fine della guerra fredda, che presentava tanti nuovi soggetti interessati a
portare avanti i propri interessi in un contesto di diritto e sicurezza
internazionale.
Dall’altro
uno sviluppo tecnologico che rendeva più facile sia produrre sia distribuire
contenuti, fossero essi musica, film, libri, serie TV e così via.
Il primo pilastro è messo evidentemente in crisi
dall’ascesa di una politica internazionale sempre più orientata alla forza e
transazione pura:
a
quello che “David Brooks” sul “New York Times £qualche giorno fa chiamava «un
mondo che rende facile la vita ai gangster».
Secondo , le relazioni tra Stati non devono basarsi (non solo
all’atto pratico, come purtroppo è spesso stato, ma neanche idealmente o
narrativamente) su valori condivisi, ma su forza militare e concessioni
economiche.
E la sua amministrazione sta ripetutamente
dimostrando di non essere interessata ad alleanze strategiche tradizionali
basate su affinità valoriali, culturali o storiche, ma solo con negoziazioni
caso per caso e con pagamenti per la protezione.
Ciò
ribalta completamente il modello su cui il soft power si è sempre basato.
Se il supporto internazionale si riduce a un
calcolo economico immediato, il valore strategico di investimenti a lungo
termine nella cultura rischia di evaporare.
Ovvio
che all’atto pratico anche il vecchio modello era spesso più un ideale di
cartapesta che realtà.
Ma
rimuovere ora anche l’illusione di una politica basata sulla condivisione di
valori cambia comunque le carte in tavola, per usare un’espressione cara a
Trump.
Come
se ciò non bastasse, anche il secondo pilastro è messo in difficoltà dagli
attuali sviluppi.
Le
tecnologie per produrre contenuti restano a portata di mano, anzi forse ancora
di più con l’IA.
Ma
quelle per la distribuzione sono invece drammaticamente a rischio.
L’aperta
trasformazione di figure come Trump, e
in oligarchi direttamente attivi nell’arena politica, riduce in modo
drastico l’accesso democratico all’informazione. Dunque, considerato l’attuale
scenario fatto di poche piattaforme globali, vale la pena rischiare intere
strategie di soft power, quando basta il click di un oligarca perché un
algoritmo renda completamente invisibili i tuoi contenuti o i tuoi prodotti
culturali?
Certo, ci si può sempre adeguare agli
interessi politici ed economici dei proprietari delle piattaforme, a loro volta
allineati con il potere politico, ma ciò significherebbe orientarsi verso
un’omogeneizzazione dei contenuti che è il contrario di quella differenziazione
culturale e di quella costruzione di una narrazione distintiva ed efficace che
sono gli elementi chiave di un soft power efficace.
La
politicizzazione delle piattaforme significa rendere la cultura uno strumento
ancora più manipolabile in base agli interessi economici di pochi soggetti
privati di quanto già non sia.
E se
il controllo dei media digitali si allinea con governi sempre più autoritari e
basati su forza e coercizione, il soft power rischia non tanto di perdere
efficacia come strumento diplomatico, ma di essere interamente monopolizzato.
Significativo
in tal senso è quanto sta accadendo in questo momento in altri due ambiti
fondamentali a cavallo tra cultura, identità e politica:
da un lato i media e l’informazione,
dall’altro l’arte e la cosiddetta cultura alta. Non a caso entrambi al centro
delle manovre in corso a Washington e altrove.
Il controllo dell’arte e dell’informazione.
Uno
dei fenomeni più interessanti emersi recentemente dall’analisi del voto negli
Stati Uniti è il divario elettorale tra le aree con una solida rete di media
locali e quelle che ne sono prive.
Laddove
i giornali di prossimità sono scomparsi, il voto si è spostato in modo netto a
favore di Donald Trump, segno evidente di come la perdita di un’informazione
radicata sul territorio abbia lasciato spazio a una narrazione polarizzante e
spesso manipolata.
Questo dato non è un dettaglio marginale:
dimostra come il controllo della comunicazione
non passi solo attraverso le grandi piattaforme digitali, ma anche attraverso
la desertificazione del giornalismo locale, lasciando intere comunità
vulnerabili alla propaganda e alla costruzione di realtà parallele.
Ecco
perché il controllo dei media diventa una priorità per chi intende costruire un
nuovo ordine politico.
Non si tratta solo di acquistare direttamente
testate o farle controllare dai propri oligarchi, ma di intervenire
direttamente sul linguaggio e sui termini accettabili nel dibattito pubblico.
Trump
ha mostrato chiaramente questa strategia quando ha escluso l’ dall’accesso alla
Casa Bianca, per il rifiuto della storica agenzia di stampa di adottare
l’espressione “Golfo d’America” al posto di “Golfo del Messico”.
Una
dinamica che va ben oltre l’episodio spicciolo, perché rappresenta la
costruzione di un universo linguistico dove chi controlla le parole controlla
la realtà.
Controllo
della realtà che passa non solo per i prodotti” pop”, ma anche per la “cultura
cosiddetta alta”, che diventa un terreno di battaglia per trasformarla in
strumento di potere.
Fin
dal suo primo mandato, Trump aveva dichiarato guerra all’arte contemporanea,
colpevole di essere troppo progressista e troppo lontana dai meccanismi
celebrativi e identitari della galassia.
Ora, però, ha deciso di prenderla direttamente
nelle proprie mani:
a metà febbraio, il presidente americano si è
nominato d’imperio a capo del “John F. Kennedy Center for the Performing Arts”.
Si
tratta della prima volta che il” Kennedy Center”, concepito da quasi cento anni fa come centro culturale
nazionale per tutti gli Stati Uniti e gestito in modo rigorosamente bipartisan,
viene carpito in questo modo.
La decisione ha suscitato scandalo negli
ambienti artistici, ma l’autonomina di Trump è stata prontamente confermata dal
consiglio di amministrazione pubblico-privato.
Questa
ricerca del controllo di sfere artistiche e intellettuali non rappresenta un
caso isolato.
Nel
pieno della campagna elettorale tedesca, l’”Alternativa per la Germania” -AfD,”
Alternative für Deutschland ”- ha sorpreso molti per il tempismo e l’intensità
con cui ha ripetutamente attaccato uno stile architettonico di cento anni fa,
quello della potenza, accusandolo di aver snaturato l’identità nazionale
tedesca con la sua estetica modernista e internazionalista.
La
destra radicale vede nella cultura, correttamente, un campo di battaglia
fondamentale, perché sa bene che il potere si esercita prima di tutto con l’imposizione
di una narrazione.
Dovrebbe
dunque essere ormai evidente che anche a Trump e compagnia sia chiaro il ruolo
del controllo della narrazione attorno a cui si costruiscono le identità
individuali e nazionali.
E altrettanto probabilmente non è vero che nel
fare le proprie scelte diplomatiche e di alleanze il nuovo governo americano
guardi solo all’interesse e non anche ai valori.
Piuttosto,
i loro valori sono oggettivamente più vicini a quelli di un’autocrazia come
quella di un nuovo stato: potere per i forti, tradizione patriarcale, ricchezza
come valore e così via.
La domanda non è dunque se la diplomazia
culturale e il soft power abbiano ancora un ruolo.
Ce
l’avranno senz’altro e sono previste, accanto all’uso della forza e della leva
economica, anche dalle strategie di Trump e Putin, che le applicano
quotidianamente on-line e altrove.
Piuttosto
il quesito è se ci sia spazio per una narrazione alternativa. E la risposta in
questo momento appare duplice.
Il
soft power degli aiuti umanitari e nuove praterie per idee radicali.
La
ritirata degli Stati Uniti da ambiti come gli aiuti internazionali, il sostegno
alla cooperazione globale e in generale da una diplomazia basata (almeno a
parole) sui valori, lasciano potenzialmente immense praterie per chi volesse
appropriarsene.
Non si
tratta solo di una questione di risorse economiche, ma di un’opportunità per
ridefinire il concetto stesso di leadership culturale e morale nel mondo.
Diverse potenze globali e regionali hanno
tutte le possibilità di sfruttare questa nuova situazione, cercando di
ereditare il ruolo di “faro della democrazia” che gli USA si erano arrogati in
tutti questi decenni, non senza contraddizioni.
Al
primo posto, ovviamente, l’Unione Europea.
Oppure,
se non dovesse esserne in grado, alcuni suoi componenti in ordine sparso.
Naturalmente a un livello più regionale, così come potrebbero fare altri Paesi
come l’Australia e il Canada.
Idealmente
anche rilanciando questa narrazione, non più come semplice estensione soft di
quella portata avanti nel Novecento da Washington, ma promuovendo una visione
alternativa di società, fondata su valori democratici, ma anche su modelli
economici e sociali più equi.
Per il momento, però, l’Europa sembra volersi
impegnare per sostituire gli USA sull’impegno militare, ma non altrettanto su
questo fronte.
Anzi, come visto, parte del budget militare
dovrebbe venire proprio dai fondi prima destinati alla cooperazione
internazionale.
Per
anni, gli aiuti internazionali sono stati uno degli strumenti più efficaci del
soft power, secondo una dottrina che puntava a migliorare le condizioni di vita
nei Paesi emergenti così da creare un mondo più stabile e aperto ai mercati
occidentali, ma anche a rafforzare l’immagine globale dei Paesi donatori.
Tuttavia,
questa strategia è ora in forte declino e vista come una spesa sacrificabile.
Una
delle prime mosse del nuovo governo americano, sotto la gestione operativa di”
Elon Musk£, è stata l’azzeramento dei fondi di “USAID” (United States Agency
for International Development), fino a ieri il più grande donatore globale.
Ma significativamente anche il Regno Unito,
pur con un governo laburista, ha analogamente annunciato che per finanziare il
riarmo taglierà direttamente i fondi destinati alla cooperazione
internazionale.
C’è
chi critica questo approccio, non solo tra le organizzazioni umanitarie stesse,
ma anche nell’ambiente diplomatico.
Come
l’ex primo ministro francese “Dominique de Villepin”, che ha messo in guardia
contro la miopia di queste scelte, perché ridurre gli aiuti internazionali
significa anche perdere influenza globale.
E persino alcuni esponenti militari, come l’ex
capo di stato maggiore dell’esercito britannico “Richard Dannatt”, che ha
avvertito che tagliare gli aiuti crea le condizioni per un mondo più instabile
e pericoloso, con il rischio di dover poi gestire le conseguenze con la forza:
un’opzione che, anche da un punto di vista
economico, risulterebbe più costosa.
Tutte
queste lacune e disimpegni, però, aprono potenzialmente anche altre prospettive
più radicali.
Dopo decenni
nei quali la politica si è mossa entro margini stretti, tra diverse sfumature
dello stesso modello, il momento trasformativo che stiamo vivendo offre la
possibilità di presentare idee alternative
a un pubblico alla ricerca di nuove certezze e
dunque più aperto a nuove soluzioni. Tanto sul fronte geopolitico, quanto su
socioeconomico.
Se la
democrazia liberale si espone apertamente come un’oligarchia basata sulla forza
e sull’interesse personale dei pochi, ecco che si aprono possibilità per
presentare modelli alternativi, che propongano di riscrivere le regole del
gioco. Fornendo dunque anche l’opportunità di non ridurre il soft power e la
diplomazia culturale a semplici strumenti di influenza geopolitica, ma
restituendo loro il potenziale di ridefinire i valori stessi che guidano le
relazioni internazionali.
Da un
lato, questo potrebbe rappresentare l’opportunità lungamente attesa dalla Cina
per proporre seriamente la propria autocrazia efficientista come modello
globale.
Ma
anche, all’opposto, la possibilità di proposte basate sulla partecipazione
attiva e sulla creazione di un nuovo modello di democrazia dal basso e più
sostenibile.
Che
potrebbe, quest’ultimo, essere veicolato attraverso un soft power più
decentralizzato, non necessariamente esercitato dagli Stati, ma anche da
comunità, città e movimenti sociali.
Con la possibilità di formare alleanze tra
queste “democrazie culturali,” per contrastare i limiti del monopolio delle
piattaforme digitali e permettere di difendere l’accesso ai contenuti e alla
diversità di offerte.
Proprio
a partire dalla “costruzione di nuovi poli di influenza”, con media credibili e
narrazioni efficaci, che connettano comunità con visioni comuni.
Il
soft power non è destinato a scomparire, dunque, ma potrà continuare ad avere
un senso solo se lo si eserciterà in un modo non più basato sull’eredità del
secolo scorso, ma su una lettura nuova delle esigenze globali.
La
guerra per il “nuovo ordine mondiale”.
Micromega.net
- Pierfranco Pellizzetti – (20 Aprile 2024) – ci dice:
L’attuale
conflitto “a pezzi” e le sue ragioni profonde e spesso sottaciute.
La
guerra per il nuovo ordine mondiale.
“Il
potere corrompe, il potere assoluto
corrompe
assolutamente”.
(John
Dalberg Lord Acton)
“La
libertà è sempre soltanto libertà
di chi
la pensa diversamente […] e
perde
la sua efficacia quando la
‘libertà’
diventa privilegio”.
(Rosa
Luxemburg)
Nuove
tassonomie per anomale affinità interpretative.
Nel
bel mezzo della contrapposizione – vuoi guerra di religione e vuoi gradinata da
stadio, resa vieppiù pittoresca dalle coreografiche processioni salmodianti dei
pacifisti penitenziali a prescindere – in cui è sprofondato l’inconcludente
dibattito pubblico dopo il 23 febbraio 2022 (data fatidica dell’avvio di quanto
i putiniani definiscono pudicamente “operazione speciale” e i ferventi
democratici atlantisti “proditoria invasione di uno Stato democratico”),
irrompe la tesi di Emiliano Brancaccio, destinata a risultare urticante per
entrambe le contrapposte tifoserie: “Capire che anche eventi bellici
apparentemente ispirati da soli motivi etici, religiosi o banalmente
territoriali, se esaminati in profondità rivelano fondamentali connessioni con
il quadro generale di feroce lotta tra capitali che sempre di più imperversa nel mondo” (E.B. pag. 9).
Da qui
la domanda inevasa del nostro autore durante il seminario Anpi del 14 luglio
2013:
“Per
quale ragione queste fondamentali basi materiali della guerra non sono ancora
entrate nel discorso dei costruttori di pace?” (E.B. pag. 40).
Questione
anticipata dal manifesto-appello redatto ancora da Brancaccio l’anno scorso e
ripreso – tra febbraio e marzo 2023 – da numerose testate giornalistiche
internazionali con il titolo, di chiare ascendenze keynesiane, “Le condizioni
economiche per la pace”; reiterazione, questa dell’antico pamphlet datato 1919
– “Le conseguenze economiche della pace” – composto di getto, a pochi mesi
dalla firma del Trattato di Versailles, dall’immortale autore della Teoria
Generale (del
resto, non ha forse Emiliano Brancaccio prefatto la riedizione 2017 presso
l’editore il Saggiatore delle Esortazioni e profezie dello stesso John Maynard
Keynes?).
Ciò
premesso, confesso di aver letto il testo di Brancaccio in uno stato di
particolare sintonia psico-culturale con l’autore, conseguente alla mia
personale convinzione di una raramente esplicitata eppure consistente
vicinanza/consanguineità tra la marxiana “critica dei rapporti di produzione” e
la liberale “critica dei rapporti di dominio”.
Ossia la riconducibilità delle categorie
“sfruttamento per la riproduzione della ricchezza” e “prevaricazione attraverso
il comando” a una comune matrice:
il Potere, inteso come determinante che
eviterebbe – non me ne voglia Brancaccio – l’eccessiva semplificazione
economicistica (il capitalismo come strumento di dominio nella ripartizione del
plusvalore, non il fine ultimo; se prendiamo le distanze dal Beruf weberiano).
Insomma,
il punto di partenza materialistico/realistico nell’analisi della” comédie
humaine”, sia di interessi acquisitivi sia di pratiche impositive, e dalle loro
correlazioni lungo il continuum comando/sottomissione.
Quel
potere che tanto il marxismo come il liberalismo (rettamente inteso) intendono
mettere sotto controllo attraverso il conflitto;
vuoi
come antagonismo rivoluzionario per scalzare la classe dominante, vuoi per
sottoporla a controllo attraverso il” bilanciamento regolativo.
Per
cui, nella definizione delle famiglie intellettuali, il liberale John Maynard
Keynes ha più motivi di vicinanza con Karl Marx o Paolo Sylos Labini di quanti
se ne riscontrino – che ne so – in Friedrich Hayek o Franco Giavazzi e tutti i
soci della milanese Adam Smith Society.
Un po’
quello che diceva un collega di Brancaccio, l’economista fuori dal coro Giorgio
Lunghini:
“Le prospettive politiche di Marx e Keynes
sono opposte, ma sono definite a partire da un’identica convinzione:
che i mali del sistema capitalistico hanno
origine dal fatto che la produzione non è più produzione d’uso, intesa alla
soddisfazione dei bisogni, ma produzione per il profitto, è produzione di
denaro a mezzo denaro”.
Sicché
– sulla base della succitata affinità tra paradigmi interpretativi delle
dinamiche sociali e geopolitiche – sono pronto a condividere la tesi
dell’insorgenza bellica nata dalla rottura di un equilibrio dominante in agonia
e dalle conseguenti lotte tra controparti che intendono tutelare o promuovere
assetti a loro favorevoli.
Nel
caso attuale, “la contesa sul nuovo ordine è dunque il motivo per cui,
nell’attuale e incerta crisi della vecchia egemonia americana, i due blocchi in
formazione, degli ‘amici’ e dei ‘nemici’, hanno cominciato a usare la forza
delle armi per farsi largo ognuno a scapito dell’altro.
Ogni occasione diventa utile per mettere alla
prova l’ambizione dei capitalismi concorrenti”. (E.B. pag. 13).
A parte le personali perplessità sull’uso del
termine capitalismo, legato alla fase industrialista del Moderno (la
riproduzione della ricchezza attraverso l’investimento) che dovremmo avere
definitivamente alle spalle, per cui preferisco il termine plutocrazia (con David Harvey, la ricchezza
accumulata attraverso esproprio),
non vedo particolari differenze tra
l’interpretazione proposta dal saggio in esame e quanto io stesso avevo già
pubblicato nello spazio on line che ora ci sta ospitando:
“Ricorrendo ancora una volta
all’indispensabile ermeneutica del sospetto, l’ipotesi esplicativa […] del vero
– seppure non dichiarato – disegno retrostante la sedicente ‘operazione
speciale’ in Ucraina;
promossa da Putin anche per conto di chi resta
dietro le quinte:
la
messa in discussione dell’egemonia americana e l’annuncio di un nuovo ordine
planetario bipolare, che modifica drasticamente la geopolitica degli ultimi
trent’anni”.
Siamo
tutti un po’ braudeliani.
In
altre parole, l’attuale conflitto “a pezzi” – da Kiev a Taiwan, a Gaza – come
susseguirsi di sommovimenti tellurici nel riassestarsi delle placche tettoniche
della litosfera geopolitica.
Non mi
pare dica qualcosa di sensibilmente diverso Brancaccio, quando scrive che “una
volta comprese le vere cause della grande svolta americana, si può passare alla
comprensione del dramma che ne consegue.
Il punto è che un tale rovesciamento
nell’ordine economico, da globalismo al protezionismo, non può avvenire in modo
indolore” (E.B:
pag. 13).
Con ciò, andando a costruire un paradigma
dell’ordine mondiale in divenire, di cui – dichiara sempre Brancaccio – è
debitore per le intuizioni di maestri come “Marcello De Cecco”, “Barry
Eichengreen” e “Giovanni Arrighi”.
Con
tutto il rispetto per i primi due economisti (e il ricordo della simpatia di De
Cecco buonanima), l’unica diletta guida indispensabile per accedere alle
elaborazioni decisive nella teoria sistemica del mondo, nelle sue storiche
successioni di centralità finanziarie – me lo consenta Brancaccio – è proprio
Arrighi in quanto scientificamente attivo nel” Fernand Braudel Center “di New
York, con il suo direttore” Immanuel Wallerstein”.
Entrambi
adepti della lezione di uno dei maggiori storici del Novecento,” Fernand
Braudel,” cui siamo tutti debitori di due concetti illuminanti come storia di
lunga durata ed economie-monde, sui quali gli allievi innesteranno il concetto
di “sistema-Mondo”, concentrato sul secolare spostamento di centralità
egemoniche.
Ora
siamo a quella di New York, che potrebbe essere l’ultimo “centro” nel mezzo
millennio di questa storia capitalistica.
Stanti
tutte le personali perplessità verso il modello “successione di centralità
sistemiche nel sistema-Mondo”, quale chiave interpretativa delle trasformazioni
in corso;
accertato il venir meno della grande placenta
protettiva in cui giungeva a compimento, nelle fasi precedenti, l’incubazione
delle” egemonie statu” nascenti: l’istituzione statuale.
Ossia,
insieme al mercato, il dispositivo socio-politico più usurato nella presente
fase storica (e con ciò condividendo la tesi di Giovanni Arrighi che il
paradigma vale per i tre modelli olandese, inglese e americano, mentre per la
mia città – Genova – non si dovrebbe parlare di “egemonia” in quanto “più
vicina al tipo di organizzazione finanziaria internazionale che si verifica
nelle diaspore” – vedi quella cinese odierna).
Intanto
– come si diceva – tutto tace, nei dintorni del pensiero accreditato.
Eppure,
in cotanto cortocircuito prospettico/progettuale, l’unico punto che parrebbe
assolutamente fermo è la condizione terminale della fase storica in cui
vegetiamo da tempo.
E qui
si aprirebbe subito un problema teorico preliminare, di non facile risoluzione:
siamo all’esaurimento di un ciclo di accumulazione capitalistica o alla fine di
quell’esperimento penta-secolare chiamato “Capitalismo”?
Usando un termine retrò, ma meno inflazionato:
Plutocrazia.
Ossia, l’espansione della ricchezza sfruttando
la rendita posizionale derivata dal controllo (taglieggiamento) dei varchi
attraverso i quali transitano i flussi significativi:
materiali
delle merci, con la primazia nella creazione del valore acquisita dalla
logistica, rispetto all’antica priorità della manifattura; immateriali del
simbolico virtualizzato, nell’avvenuta cannibalizzazione dell’Economico da
parte del Finanziario.
Quell’assetto
che si determina quando nella stanza sovrastante la sfera rumorosa del mercato,
il possessore del denaro incontra il titolare della regolazione pubblica e si
crea il miracolo del Big Business.
Mentre
si conferma – altresì – la collusione a livello parossistico tra comunità degli
affari e corporazioni politiche, in atto fin dal tardo Novecento;
quando
sono stati azzerati i controlli/contrappesi del Potere, già a partire dal
subentro “normalizzatore”, che si sostituisce alla classica e veneranda
suddivisione triadica “Esecutivo-Legislativo-Giudiziario”:
quella
della trimurti combinatoria, a livello di comparaggio,
Finanziaria-Mediatica-Governamentale.
Accantonando
– per ora – queste melanconie e tornando al “topic”, converrebbe dare un nome e
un cognome a ciò di cui si parla.
Quindi, diciamolo apertamente: la fine del
“secolo americano” novecentesco, dopo l’interminabile “autunno” quarantennale
di finanziarizzazione globalizzata del sistema-Mondo
(come
ebbe a dire il maestro de Les Annales: “Tutte le principali espansioni
commerciali dell’economia-mondo capitalistica hanno annunciato la loro
‘maturità’ raggiungendo lo stadio dell’espansione finanziaria”).
E i segnali vanno moltiplicandosi.
Non
ultima la scelta protezionistica americana dopo la crisi del 2008, che liquida
definitivamente l’essenza stessa dell’egemonia a stelle-e-strisce, teorizzata
la prima volta dal presidente “Woodrow Wilson”:
la
conquista del mondo con mezzi pacifici rappresentati dalle merci e la creazione
di un immenso emporio per il consumo di massa.
Con le parole dell’incrollabile idealista,
“forti della convinzione che gli Americani siano chiamati a portare libertà,
giustizia e umanità ovunque vadano, andate all’estero a vendere beni che
giovino alla comodità e alla felicità degli altri popoli, convertendoli ai
principi sui quali si fonda l’America”.
A cui i suoi attuali successori, in totale
incomprensione dell’essenza stessa di un’egemonia secolare, rispondono
innalzando muri, imponendo dazi punitivi e cancellando le ragioni stesse di un
internazionalismo imperiale.
E al riguardo conveniamo con Brancaccio:
la responsabilità del passaggio dal globalismo
al protezionismo USA va ripartito equamente tra Donald Trump, il suo
predecessore Barack Obama e il suo successore Joe Biden.
Difatti,
alla faccia del tanto sbandierato “soft-power”, la centralità di Washington
ormai si puntella – come ci ripete “Immanuel Wallerstein” da oltre tre lustri –
su un duplice asset a termine:
“Il
vantaggio monetario degli Stati Uniti – fare affidamento sull’uso del dollaro
come valuta di riserva – sta venendo meno, e presto svanirà probabilmente del
tutto.
Il
vantaggio americano nella sfera militare si traduce in uno svantaggio di lungo
termine nella sfera economica, poiché dirotta capitali e innovazioni lontano
dalle imprese produttive”.
D’altro
canto, nel ripiegamento da declino della nazione-guida dell’Occidente (e nella
consunzione di assetti organizzativi, pratiche e linguaggi che ne avevano
accompagnato l’ascesa, soprattutto precipitando nel buco nero in cui l’ha
spinta la devastante avidità capitalistica/plutocratica dei suoi ultra-ricchi)
non si intravvedono riassetti sistemici emergenti.
Solo
l’inquietante alternativa prefigurata da Arrighi nel suo viaggio a Pechino in
compagnia di Adam Smith:
“Prima
che l’umanità soffochi (o si delizi) nella prigione (o nel paradiso) di un
impero globale di marca occidentale o di una società del mercato globale
gravitante attorno all’Oriente asiatico, potrebbe anche bruciare tra gli orrori
(o le glorie) della crescente violenza che ha accompagnato il disfacimento
dell’ordine della Guerra fredda”.
La terribile prospettiva, inevitabilmente
anomica, rappresentata da “un interminabile stato di caos a livello
planetario”.
L’Armageddon
incombente, che salda in un unico orrore avvelenamento dell’aria e dell’acqua,
estinzione delle biodiversità, riscaldamenti climatici e raggiungimento dei
limiti fisici dello sviluppo quantitativo, mixati con lo smantellamento di ogni
struttura securitaria welfariana e la tirannia degli algoritmi con cui i
signori del silicio (i GAFA: Google, Amazon, Facebook e Apple cui si aggiungono
Microsoft e un paio di aziende controllate dal Partito Comunista cinese) stanno
edificando una struttura di sorveglianza per la mercificazione delle biografie
umane, più oppressiva del peggiore Panopticon da incubo. E nel frattempo si sta
danzando in troppi sulla tolda del Titanic.
Alla
fine del secolo americano.
Di
questo si dovrebbe discutere.
Urgentemente
e con forza.
Per
abbattere il muro del silenzio con cui l’élite del potere e i suoi uomini di
mano circoscrivono qualunque voce contraria, quella chi osa denunciare la
lubrica nudità del monarca ricchezza senza contrappesi.
Appurato che “in assenza di ‘condizioni
economiche per la pace’ le contraddizioni capitalistiche internazionali ci
sospingono verso il buio di una guerra su larga scala” (E.B. pag. 48), l’epicentro dell’analisi è la crisi
egemonica dell’economia statunitense e il suo sbilancio tra importazioni ed
esportazioni che ha prodotto un default record di 18 mila miliardi di dollari,
con il conseguente abbandono della linea liberoscambista-globalista e
l’adozione della strategia protezionista, chiamata “friend shoring”, che divide
il mondo in amici (occidentali e sodali) e nemici, in particolare Russia e
Cina.
E
questi secondi non l’hanno presa troppo bene.
Anche
se lo stesso Brancaccio viene colto da qualche dubbio rispetto a tale analisi,
che presupporrebbe un impero dell’Ovest morente:
“L’idea
di un ‘declino’ del capitalismo americano è stata avanzata tante volte da
suscitare più di un dubbio sulla sua fondatezza” (E.B. pag. 21).
Dubbi
a cui “Wolfgang Streek”, presidente onorario del “Max Plank Institute”, aveva
replicato in anticipo:
“Il
fatto che il capitalismo sia riuscito finora a sopravvivere a tutte le
previsioni di morte imminente non significa necessariamente che sarà in grado
di farlo per sempre”.
E poi aggiungeva: “Suggerisco di imparare a
pensare alla fine del capitalismo senza assumersi la responsabilità di
rispondere alla domanda su cosa mettere al suo posto.
È un pregiudizio marxista”.
Magari sarebbe più utile aprire un cantiere
sulle riflessioni lasciate aperte dal pamphlet: che cosa si intende per “nuovo
ordine economico mondiale” e quali sarebbero i tratti distintivi dall’auspicato
“capitalismo illuminato” in assenza del contrappeso di soggetti antagonistici,
non nemici scesi in battaglia per imporre regole dello stesso gioco ma a
proprio vantaggio.
In
conclusione, si direbbe che quanto maggiormente amareggia il professor
Brancaccio, impegnato a disvelare evidenze occultate nella svolta bellicista in
corso, sia proprio il semplicismo (sospetto) dei “sedicenti esperti” (E.B. pag. 54) e il loro uso spregiudicato di
tassonomie declinate nel luogo comune
. Per
cui, se vai nel salotto di Lilli Gruber su LA7 ti rifilano l’etichetta di
“putiniano”; se promuovi un seminario presso l’Orientale di Napoli, c’è sempre
il “frastornato” fan di un Putin “bolscevico” che ti accusa di portare acqua al
mulino dell’imperialismo atlantico…
Ben
arrivato nel club dei “bastian contrari”.
L’Europa
e il nuovo ordine mondiale.
Lanuovaeuropa.it
- Amedeo Costabile — (04/03/2025) – ci dice:
La
drammatica vicenda della visita di Zelensky alla Casa Bianca nella settimana scorsa, non è solo l’ultimo
capitolo di una serie di incomprensioni tra il presidente ucraino e l’intera
nuova amministrazione statunitense.
Essa
deve essere considerata come un tornante della storia perché mostra in modo
plastico il ritiro degli Stati Uniti da quel nucleo di valori “euroamericano”
imperniato attorno alla difesa delle libertà su cui si è costruito l’ordine
internazionale uscito dal dopoguerra.
É in
questa linea interpretativa che va collocata la vicenda di Trump e di Zelensky
che ha portato alla rottura manifestatasi l’altro giorno nello studio ovale.
Il
tentativo di de-occidentalizzazione del mondo apertamente intrapreso da Putin
(con l’avallo di una serie di alleati strategici) con l’invasione dell’Ucraina,
nel tentativo di ricostruire un proprio spazio spirituale e porre così le basi
di un nuovo ordine multipolare, ha finito per condurre alla
de-occidentalizzazione dell’Occidente stesso, di cui è espressione la vittoria
di Trump tesa a definire un nuovo regime a Washington e di conseguenza un nuovo
ordine mondiale.
In
questo senso, la svolta storica di Trump è duplice:
da una parte legittima un nuovo assetto
internazionale basato su civiltà indipendenti e sovrane, rigettando
l’universalismo dei valori, dall’altra, abbandona l’Occidente in nome degli
interessi supremi della nazione americana che va definendosi sempre più come
civiltà a sé stante da quella europea. In questo modo, gli Stati Uniti si
richiamano ad un passato mitizzato come età dell’oro, fuori dall’alleanza
storica con l’Europa e con una propria sfera di influenza nell’emisfero
occidentale.
L’endorsement per l’AFD e per le destre
estreme in generale, l’abbandono dell’Europa alle mire espansionistiche di
Putin, la guerra commerciale intrapresa con i dazi e le recenti dichiarazioni
di Donald Trump, secondo cui l’Unione europea sarebbe nata “per fregare” gli
Stati Uniti, rappresentano tutti tentativi per colpire la comunità europea in
quanto comunità sovranazionale portatrice di valori universali e in quanto tale
“eretica” rispetto alle civiltà (Usa, Cina, Russia, India) destinate a fungere
da pilastri del nuovo ordine mondiale.
Per
l’Europa tutto ciò rappresenta un pericolo mortale per via della sua
incompiutezza.
Essa paga l’errore di non aver colto
l’occasione storica che veniva dalla proposta della Comunità Europea di Difesa
(CED), di cui De Gasperi fu promotore insieme a Spinelli nel tentativo di dare
uno slancio federalista alla costruzione europea.
Il
rifiuto francese del 1954 costrinse la Comunità europea ad avviarsi sulla sola
strada percorribile, quella dell’interdipendenza economica, lasciando la
politica in mano agli Stati.
Allora
però la comune identità occidentale tra Stati Uniti ed Europa permise a
quest’ultima di godere della libertà e della pace garantite dalla protezione
militare americana.
E questa stessa linea fu sostanzialmente
confermata dopo la caduta del Muro nel 1989, quando l’allargamento e
l’approfondimento dell’integrazione comunitaria non mutò il quadro di fondo,
lasciandola allo stato “erbivoro” nell’illusione propria del tempo che la
semplice integrazione economica avrebbe creato le premesse della pace perpetua.
Scriveva
Julien Benda negli anni trenta del Novecento, nel suo celebre” Discorso alla
nazione europea”:
“L’Europa
si farà come si è fatta la nazione.
Quest’ultima
non è stata un semplice raggruppamento di interessi materiali.
Essa è
veramente esistita soltanto il giorno in cui ha posseduto un sistema di valori
appropriato alla sua natura, il giorno in cui nel XIX secolo si è costituita
una morale nazionalista”.
L’Europa
non fu fatta e abbiamo avuto la guerra, disse Schuman all’indomani della
seconda guerra mondiale.
Così
dobbiamo amaramente ripetere oggi, perché l’unione incapace di costruire una
propria soggettività politica è rimasta una grande incompiuta, facendo di fatto
fallire il suo principale obiettivo, garantire la pace.
La
rivoluzione geopolitica in corso caratterizzata dal “ritorno delle tribù”, come
diceva l’ultimo” Bauman£, può e deve rappresentare un’occasione per costringere
l’Europa a ripensare se stessa e a strutturarsi con una propria identità
valoriale e politica non solo economica, uscendo da quella natura ibrida che ne
ha fatto un gigante economico e un nano politico.
“Do something!”, ha gridato Draghi al
Parlamento europeo, consapevole che l’Europa deve agire in modo unitario se
vuole difendere i suoi valori oggi in pericolo;
essa
deve uscire dallo stato di minorità acquisendo i caratteri di una “nazione
europea” superiore alla somma delle nazioni che la costituiscono.
La
portata della sfida l’ho colta in un recente viaggio con un gruppo di studenti
di scuole romane organizzato dall’”Associazione La Nuova Europa “presso le
istituzioni europee a Bruxelles.
Nella
visita alla “Casa della Storia Europea” ci siamo imbattuti in un celebre
manifesto degli anni cinquanta del Novecento, redatto dall’allora “Comitato
d’azione per gli Stati Uniti d’Europa” creato da Jean Monnet.
L’immagine,
molto iconica, presenta un omino raffigurante gli Stati Uniti d’Europa mentre
cerca di farsi spazio tra due blocchi rappresentati dagli Stati Uniti d’America
e dall’Urss.
Sopra
questa immagine c’era scritto: “Gli Stati Uniti d’Europa ti salveranno
dall’annientamento”.
Il
manifesto assume oggi il suo autentico significato.
Se
finora infatti gli “Stati Uniti d’America”, considerandosi parte della stessa
civiltà occidentale, garantivano la sicurezza dell’Europa, nel momento in cui
inaugurano una guerra commerciale e ideologica con l’Unione europea rischiano
di ridurla a vassalla dei nuovi imperi.
Da
questo punto vista, gli Stati Uniti d’Europa diventano una necessità
esistenziale, come aveva percepito già Churchill nel 1946 a Zurigo, perché gli
europei possano “vivere in pace, sicurezza e libertà”.
In
questo senso, il ritorno in grande stile di una Germania forte rappresenta una
speranza per l’Europa.
Essa è consapevole di dover proseguire in
quella “svolta epocale” iniziata con la decisione di investire nel riarmo e che
consiste nel considerare la difesa e la sicurezza come valore prioritari
rompendo un tabù storico.
Così
la Germania si è avviata ad una trasformazione genetica che le permette di fare
i conti con se stessa e con l’illusione seguita al crollo del muro di Berlino
di potersi garantire la pace attraverso la mera interdipendenza economica.
Ciò
che accade in Germania da questo punto di vista è decisivo per l’Europa intera.
La Germania è sin dalla sua rinascita nel dopoguerra la coscienza stessa
dell’Europa.
Lo fu nel 1950, quando un anno dopo la
decisione americana di costruire una grande Germania federale dell’ovest nacque
il primo accordo europeo;
e lo fu anche con la riunificazione nel 1990,
che portò alla nascita dell’Unione Europea.
La
rivoluzione culturale che investe la Germania, e che la porterà ad essere
nuovamente un potente stato al centro dell’Europa, rappresenta la circostanza
decisiva per il salto di qualità europeo non più differibile.
Nel
momento storico in cui l’Europa si trova per la prima volta sola a difendere la
sua esistenza, si risente il potente appello lanciato da Churchill all’indomani
della guerra:
“Fate
sorgere l’Europa!”.
La
politica industriale è decisiva
per il
ruolo dell’Europa nell’ordine
mondiale
in evoluzione.
Eticaeconomia.it
- Karl Aiginger – (14 -01 -2025) – ci dice:
Karl
Aiginger partendo da una riflessione sui cambiamenti in atto nell’ordine
mondiale sostiene che l’Europa dovrebbe urgentemente dotarsi di una nuova
politica industriale di cui indica le 3 principali caratteristiche e,
soprattutto, dovrebbe creare partenariati con i paesi del Sud globale.
Ciò
richiede di orientare la politica verso una maggiore cooperazione, di lasciarsi
alle spalle i conflitti storici e di accettare le differenze culturali, che
possono essere una importante risorsa.
L’ordine
mondiale sta cambiando rapidamente.
In un
mondo privo da tempo dell’Unione Sovietica, il tentativo della Russia di Putin
di riaffermare la propria influenza attraverso l’aggressiva guerra in Ucraina,
equivale alla disintegrazione del vecchio bipolarismo.
Gli
Stati Uniti, un tempo salutati come l’unica superpotenza rimasta, vedono ora la
loro forza economica indebolita dalle sfide interne, tra cui quella
rappresentata dalla seconda presidenza di Donald Trump.
La
Cina mira a diventare la potenza globale preminente, ma spesso agisce con un
ristretto interesse egoistico, dando priorità agli investimenti che le
assicurano materie prime o influenza politica.
Ciò lascia all’Unione Europea il compito di
assumere un ruolo di guida con il suo “Green Industrial Deal”.
Tuttavia,
l’UE incontra l’esitazione degli Stati membri, con il populismo che ha
soppiantato gli “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile” (SDGs) come quadro
unificante in alcune nazioni, e con le politiche nazionali che spesso
trascurano il bisogno di cooperazione all’interno e all’esterno dell’Europa.
L’Unione
Europea, insignita del “Premio Nobel per la pace nel 2012”, ha investito troppo
poco per garantire la sicurezza dei suoi membri e dei suoi vicini in un mondo
in cui i nuovi conflitti possono facilmente degenerare in guerre.
Inoltre, non è riuscita a raggiungere
l’obiettivo di una crescita ‘pulita’ e della stabilità sociale.
Una
nuova politica industriale, come si sostiene in due mie pubblicazioni con “Dani
Rodrik” e “Christian Ketels”, dovrebbe avere tre caratteristiche:
(i)
adottare un approccio globale che comprenda non solo l’industria manifatturiera
ma anche, più ampiamente, i fattori di produzione e le industrie di servizi
correlate;
(ii)
darsi obiettivi che non si misurano solo con il PIL, ma con il loro contributo
al benessere economico;
(iii)
fare del Green Deal europeo la pietra angolare della politica industriale.
Una
politica industriale lungimirante è un obiettivo impegnativo, soprattutto se le
parti politiche e gli Stati membri non riescono a collaborare.
I partiti tradizionali hanno faticato ad
attrarre gli elettori nel nuovo ordine mondiale, dovendo fronteggiare la
concorrenza degli estremisti di destra e di sinistra. I partiti verdi raramente
rimangono al governo per periodi prolungati e, allo stesso modo, i nuovi
partiti liberali progressisti spesso trovano spazio solo nei governi di
coalizione.
Questi partiti liberali tendono a perdere
influenza quando i deficit o i livelli di debito pubblico aumentano, mentre i
partiti verdi spesso perdono rilevanza una volta realizzati i primi progressi
ambientali, soprattutto quando emergono nuove sfide.
Di
conseguenza, le linee guida della Commissione europea e degli esperti
indipendenti sono sempre più importanti e cresce la necessità di misure
democratiche dirette.
Verso
un nuovo “Green Deal”?
Il
Green Deal europeo è uno progetto ambizioso, con l’obiettivo di ridurre le
emissioni nette di gas serra dell’UE del 50% entro il 2050.
Comprende
una strategia una ripresa economica ‘verde’, un fondo per la transizione equa, “RepowerEU”
e un piano industriale (Green Deal Industrial Plan).
Gli
Stati membri devono contribuire a definire i dettagli specifici di queste
iniziative.
Il fondo per la transizione è destinato a
potenziare e sostenere i Paesi con minori capacità economiche, mentre”
RepowerEU “è la risposta dell’Europa alle sfide poste dal mercato globale
dell’energia e alle difficoltà nelle forniture causate dall’invasione russa
dell’Ucraina.
Le importazioni di combustibili fossili dalla
Russia dovrebbero essere gradualmente eliminate, la conservazione dell’energia
dovrebbe essere rafforzata e l’efficienza aumentata, mentre l’energia pulita
deve diventare la norma.
Il piano industriale verde dovrebbe mitigare
l’opposizione dei Paesi con ampi settori manifatturieri ancora dipendenti dai
combustibili fossili.
Europa
contro Cina e Stati Uniti.
Un
confronto tra gli sforzi dell’Europa e quelli della Cina e degli Stati Uniti
rivela la peculiarità dell’approccio europeo, che combina misure top-down e
bottom-up, cercando di bilanciare gli obiettivi sociali ed ecologici.
Tesso, tuttavia, evidenzia anche che l’UE è in
ritardo rispetto agli Stati Uniti in termini di produttività.
Gli
obiettivi del Green Deal europeo sono difficili da attuare e ogni Paese ha il
proprio approccio.
Negli Stati Uniti le politiche sembrano avere
più successo nel breve termine, grazie all’ampio uso di energia fossile e
all’introduzione di nuovi dazi doganali e di politiche commerciali restrittive.
Tuttavia, è improbabile che il successo nel
breve termine basato su tecnologie obsolete sia una strategia sostenibile a
lungo termine, anche se, per ora, gli Stati Uniti continuano a registrare una
crescita più elevata del PIL e della produttività, nonché un maggiore sostegno
alle start-up e un tasso di disoccupazione costantemente basso.
I migranti sono benvenuti per sostenere la
crescita negli Stati Uniti, nonostante i movimenti anti-immigrazione e gli
appelli a favore dei rimpatri da parte dei conservatori politici, tra cui il
presidente-eletto Donald Trump.
La
Cina continua a registrare una crescita relativamente elevata, con un peso
crescente del settore manifatturiero.
Produce
beni e tecnologie verdi, come i piccoli veicoli elettrici, accanto ai
tradizionali prodotti “marroni” e rimane dipendente dal carbone e dai nuovi
reattori nucleari.
Allo stesso tempo, le disuguaglianze aumentano
e la Cina rimane un regime autocratico.
I prezzi degli immobili aumentano, il nuovo
debito viene occultato e gli investimenti internazionali sono guidati più dagli
obiettivi della politica cinese che dal profitto.
L’approccio
europeo potrebbe rivelarsi ambizioso ma vincente.
L’Europa
mantiene mercati aperti e non trascura le regioni o i Paesi più poveri, anzi li
sostiene e non abbandona gli accordi internazionali anche quando sembrano meno
vantaggiosi.
L’UE
incoraggia il commercio e gli investimenti con il Sud globale, anche se non in
modo sufficientemente aggressivo.
L’Europa
potrebbe adottare una politica industriale più strategica, rafforzare il
sostegno alle tecnologie emergenti rispettose del clima e garantire l’uso
sostenibile e la valorizzazione dei materiali rari.
Lo sviluppo di una politica industriale verde
deve essere accelerato, mentre si deve evitare qualsiasi arretramento.
Ciò contribuirebbe anche a frenare l’ascesa di
un pericoloso populismo e a sostenere i movimenti politici centristi, invece di
tornare a vecchi obiettivi conservatori e ristretti.
Una nuova politica industriale deve avere
molteplici obiettivi, che devono essere perseguiti e gestiti in modo efficace.
La
politica industriale dell’UE mira a rafforzare la competitività dell’industria
europea, che favorirebbe la crescita sostenibile e l’occupazione in Europa.
La
transizione digitale e il passaggio a un’economia a zero emissioni di carbonio
hanno spinto a adottare strategie volte a migliorare le condizioni di contesto
per le industrie dell’UE.
Anche
l’impatto della pandemia da COVID-19 e la guerra in Ucraina hanno stimolato una
nuova riflessione sulla ripresa economica, la ricostruzione e la resilienza.
Molti
di questi nuovi obiettivi potrebbero essere raggiunti attraverso partenariati
con il Sud globale, in particolare con i Paesi africani vicini.
Tale
collaborazione potrebbe favorire una transizione equa, promuovere lo scambio di
tecnologie e sviluppare una strategia migratoria, anch’essa equa, che può
contribuire a ridurre la sovrappopolazione in Africa, alleviando al contempo il
problema dell’invecchiamento della popolazione dei Paesi europei più ricchi.
Il
rapporto dell’Europa con i suoi vicini meridionali, in particolare con
l’Africa, rappresenta sia un onere che un’opportunità.
L’Africa
è geograficamente più vicina all’Europa rispetto alla Cina o agli Stati Uniti,
ma deve far fronte alla sovrappopolazione e al desiderio di molti di emigrare
in Europa.
I
mercati internazionali dei capitali penalizzano ingiustamente l’Africa, spesso
sospettando corruzione e interferenze dittatoriali.
Questa
dinamica rappresenta un’opportunità unica per l’Europa di impegnarsi in una
politica di orientamento e sostegno.
Tutti
questi elementi, se combinati, potrebbero incrementare il benessere e
permettere all’Europa e ai suoi vicini di affermarsi come una potenza
significativa nel nuovo ordine mondiale.
L’Europa dovrebbe ricordare che, insieme ai
suoi vicini, costituisce una forza formidabile, con una bilancia dei pagamenti
positiva.
Tuttavia, il continente è anche vulnerabile al
populismo e spesso fa due passi avanti per poi farne uno indietro.
L’apertura
tecnologica è vantaggiosa, ma non deve essere una scusa per investire in
tecnologie obsolete.
L’Europa risente dell’influenza di un settore
automobilistico che fa affidamento sui motori a combustione interna, con
perdite di posti di lavoro e cali di produzione avvertiti non solo in Germania.
La
nuova Commissione europea si trova di fronte a una sfida formidabile, ma anche
a un’opportunità per rimodellare il ruolo dell’Europa nel nuovo ordine
mondiale.
Ursula von der Leyen e la sua squadra
potrebbero aiutare l’UE ad assumere un ruolo di leadership significativo.
La
lettera di missione di “Wopke Hoekstra,” il nuovo commissario per il clima, la
crescita pulita e l’azzeramento dei costi, illustra la complessità di questo
compito, sottolineando la necessità di bilanciare la sicurezza, la prosperità e
la democrazia all’interno della “transizione verde e digitale”, permettendo al
contempo, all’Europa, di conservare la sua esclusiva qualità della vita.
Le
riforme offrono opportunità all’Europa e ai suoi vicini.
Viviamo
in un “nuovo ordine mondiale “che comporta nuove sfide per le imprese e gli
individui, richiedendo la decarbonizzazione e la risoluzione dei conflitti
politici prima che degenerino in guerre.
Questo
nuovo contesto richiede anche la comprensione delle differenze culturali e il
riconoscimento che, sebbene la povertà stia diminuendo, i progressi sono
disomogenei e non universali.
Per
evitare contraccolpi populisti e nuove forme di autocrazia, le politiche devono
essere elaborate con cura e comunicate in modo efficace.
L’Europa
ha un ruolo e un’opportunità particolari in questo contesto: non ha una potenza
militare, ma è stata fondata sui principi della risoluzione pacifica dei
conflitti e della promozione di un modello economico in cui la pace, la
mitigazione dei cambiamenti climatici e la riduzione delle disuguaglianze di
reddito sono priorità assolute. In teoria, l’Europa segue un approccio “oltre
il PIL” nel quadro degli SDG.
In pratica, ciò richiede di spostare la
politica verso una maggiore cooperazione, di lasciarsi alle spalle i conflitti
storici e di abbracciare nuovi partenariati.
Sostenere
la pace in Ucraina richiederà di fare pressioni sulla Russia, ma anche
sull’Ucraina:
la vittoria totale è impossibile e sono
necessari concetti quali neutralità e garanzie, come già si è visto in passato.
Un
approccio simile si applica al conflitto tra Israele e i suoi vicini:
se da
un lato non è giustificato un attacco a Israele, dall’altro è necessario
affrontare il problema degli insediamenti forzati in altri territori.
Anche
la politica migratoria necessita di un’attenta considerazione.
Lasciare il proprio Paese non è mai una scelta
facile.
In
tempi di guerra e tragedia, la migrazione è spesso l’unica opzione, come nel
caso dei molti che fuggono dall’Afghanistan, dal Sudan e da altre nazioni
africane.
I
Paesi europei sono spesso la destinazione preferita e ci sono appelli umanitari
perché siano accolti questi migranti.
Tuttavia,
le differenze culturali possono portare a un contraccolpo populista e i partiti
populisti guadagnerebbero così terreno.
Questo
accade nonostante la dipendenza dell’Europa dall’immigrazione:
gli ospedali, i centri di cura, i settori
edilizio e manifatturiero si basano tutti sulla manodopera immigrata.
Senza
immigrazione, la popolazione europea si ridurrebbe, come è avvenuto in Giappone
nei suoi “decenni perduti” di declino della prosperità.
Investire di più in Africa, in particolare
nell’istruzione, aiuterebbe a ridurre la sovrappopolazione e ad avere immigrati
più qualificati, meno dipendenti dall’assistenza sociale e meglio attrezzati
per dare un contributo sia all’Europa che ai loro Paesi d’origine.
Accettare
le differenze culturali favorirebbe inoltre l’innovazione nonché nuove
soluzioni.
(Karl
Aiginger).
(Questo
articolo è stato pubblicato originariamente in inglese su Social Europe (13
dicembre 2024) e fa parte del progetto “EU Forward” che Social Europe gestisce
in collaborazione con la Friedrich-Ebert-Stiftung.)
Trump
ha inventato la "bufala dei dazi"
per "disaccoppiarsi" dalla Cina.
Unz.com - Mike
Whitney – (10 aprile 2025) – ci dice:
La
stravaganza dei dazi di Trump non ha mai riguardato il deficit commerciale, la
reindustrializzazione o il ritorno dei posti di lavoro in America.
Si è sempre trattato della Cina.
Ora
che Trump ha allentato o revocato i dazi su altri 90 paesi, possiamo vedere
cosa sta effettivamente succedendo.
Trump sta utilizzando la "cortina
fumogena dei dazi" per attuare la sua politica di disaccoppiamento, una
strategia progettata per isolare, accerchiare e infine schiacciare la
Repubblica popolare cinese.
Questo è il motivo che guida la politica.
I dazi
erano solo un mezzo per raggiungere un fine.
Questo è dalla “CNN” :
Il
presidente Donald Trump ha annunciato una pausa completa di tre mesi su tutte
le tariffe "reciproche" entrate in vigore a mezzanotte, con
l'eccezione della Cina, una sorprendente inversione di tendenza da parte di un
presidente che aveva insistito sul fatto che le tariffe storicamente elevate
erano destinate a rimanere.
Ma
rimarranno enormi dazi sulla Cina, la seconda economia più grande del mondo.
In
effetti, Trump ha detto che saranno aumentati al 125% dal 104% dopo che la Cina
ha annunciato ulteriori tariffe di ritorsione contro gli Stati Uniti all'inizio
di mercoledì.
Tutti gli altri paesi che sono stati soggetti a
tariffe reciproche mercoledì vedranno le tariffe scendere al tasso universale
del 10%, ha detto.
"Sulla
base della mancanza di rispetto che la Cina ha mostrato ai mercati mondiali,
con la presente sto aumentando la tariffa addebitata alla Cina dagli Stati
Uniti d'America al 125%, con effetto immediato", ha detto Trump nel suo
post sui social media.
"Ad un certo punto, si spera nel prossimo
futuro, la Cina si renderà conto che i giorni in cui si derubavano gli Stati
Uniti, e di altri Paesi, non è più sostenibile o accettabile", ha scritto.
Trump
annuncia una pausa di 90 giorni sui dazi "reciproci" ad eccezione
della Cina ,” CNN”
La
"mancanza di rispetto" della Cina?
Quindi,
Trump sta impostando la politica commerciale degli Stati Uniti sulla base di
sentimenti feriti?
Questa
non è una spiegazione credibile.
Sta
succedendo qualcos'altro.
La
Cina è presa di mira perché l'ascesa fulminea e la crescita esplosiva della
Cina l'hanno resa una minaccia per l'egemonia globale dell'America.
Ecco
perché la Cina è entrata nel mirino di Washington. Imponendo dazi proibitivi
del 125% sulle esportazioni cinesi, Trump sta indicando che l'era dei mercati
integrati in un sistema globalizzato è finita.
Il
mondo viene ridiviso in blocchi in guerra dai ricchi capitalisti occidentali
che non possono competere con il modello governativo cinese che controlla le
industrie critiche della nazione e ricicla enormi profitti in infrastrutture
vitali, istruzione, ricerca e sviluppo e tecnologia.
Il
modello altamente finanziarizzato dell'Occidente – che dipende sempre più dalla
scrematura dei titoli tossici e dal riacquisto di azioni proprie – non può
trasformarsi in una potenza manifatturiera disposta a competere con la Cina in
condizioni di parità.
Invece, deve usare la sua influenza calante
per scuotere il sistema con alcuni fuochi d'artificio inaspettati (i dazi) che
inviano onde d'urto attraverso il sistema e panico in tutti i mercati.
Questi
spettacoli artificiosi, che rasentano il terrorismo economico, fanno tutti
parte del repertorio dello Zio Sam che viene utilizzato per sottomettere
l'opposizione e mantenere la tenue presa di Washington sul potere.
Ma
funzionano?
Trump
sembra pensarla così.
Ecco
Trump con i suoi amici miliardari che discutono delle "uccisioni" che
hanno fatto quando ha allentato le tariffe e i mercati sono saliti alle stelle.
Avremmo
dovuto vedere attraverso questa bufala fin dall'inizio. Dopotutto, se Trump
fosse stato seriamente intenzionato a riportare i posti di lavoro negli Stati
Uniti, non avrebbe convocato un gruppo di esperti del settore ed economisti per
creare una politica industriale che fornisse una tabella di marcia su come
procedere?
Non avrebbe esaminato la fattibilità della
reindustrializzazione in un paese che ha già chiuso la maggior parte delle sue
fabbriche e non ha più una forza lavoro formata per fare i lavori che stanno
per essere creati?
E non avrebbe sollecitato l'appoggio dei
ricchi capitalisti che potevano essere persuasi a fare gli investimenti a lungo
termine necessari per un progetto industriale di questa portata?
Sì,
l'avrebbe fatto.
Ma non ha fatto nessuna di queste cose, perché
non era serio su nessuna di esse.
L'intera disputa sui dazi era solo un trucco
da illusionista volto a creare un pretesto per attaccare la Cina.
Ecco
perché è stato così facile per Trump porre fine alla farsa con un gesto della
mano come se nulla fosse successo.
Perché non era successo nulla.
Era
tutto uno sfarzoso spettacolo di luci privo di qualsiasi sostanza reale.
E
nessuno mi sostiene che "si trattava solo della Cina" meglio del
braccio destro di Trump, il segretario al Tesoro Scott Bessent.
Dai
un'occhiata a questa clip di Bessent che si vanta di come ha ingannato la Cina.
(@BehizyTweets)
Il
segretario al Tesoro Bessent ha appena rivelato che il presidente Trump ha teso
una trappola e la Cina ci è caduta dentro.
"Questo
è stato guidato dalla strategia del presidente... Si potrebbe anche dire che ha
spinto la Cina in una cattiva posizione.
Hanno
risposto.
Hanno
dimostrato al mondo di essere i cattivi attori e siamo disposti a cooperare con
i nostri alleati e con i nostri partner commerciali che non hanno
reagito".
"Non
è stato un messaggio duro. Non vendicarti. Le cose andranno bene".
La Cina ha fatto un casinò brutto.
Bessent
è ovviamente contento che lui e Trump siano stati in grado di "tirare una
mano veloce" sulla Cina.
Bessent
pensa che questa sia una buona politica.
E,
naturalmente, il popolo americano – la maggior parte del quale è diffidente nei
confronti della Cina fin dall'inizio – è d'accordo.
"La Cina ci sta derubando", dice il
presidente il cui conto in banca della nazione è scoperto di 36 trilioni di
dollari e il cui paese vive della "generosità degli stranieri".
La
Cina ci sta rubando il lavoro", dicono i padroni delle multinazionali che hanno
sradicato le loro aziende e fabbriche e le hanno spedito in Cina per
approfittare della manodopera a basso costo e della sicurezza gratuita.
Ma ora
la Cina deve essere schiacciata per aver aspirato a competere con i "suoi
superiori" negli Stati Uniti.
Ora la
Cina deve essere "messa in riga".
Non è
quello che sta davvero succedendo? (se siamo onesti con noi stessi) Non è
davvero un caso di uva acida?
In
effetti, lo è.
La Cina ha superato gli Stati Uniti come
capitale manifatturiera del mondo grazie all'intelligenza, al duro lavoro,
all'ingegno ea un modello organizzativo (profitti riciclati in attività
produttive) che è il risultato di un buon governo.
Questo è il motivo per cui la Cina sta rapidamente
superando gli Stati Uniti nella scienza, nella tecnologia, nell'intelligenza
artificiale, nell'informatica quantistica, nella robotica e in quasi tutto il
resto.
Perché
sono governati da persone che aspirano a creare una civiltà in cui gli
individui e la comunità raggiungano il loro pieno potenziale. Questo è il
motivo per cui l'intero paese è attraversato da ferrovie ad alta velocità che
collegano città luccicanti e spaziali in una visione della modernità del 21°
secolo che non ha rivali nel mondo di oggi.
Qualunque
cosa si possa pensare della Cina, devono ammettere che – come civiltà e società
– stanno andando nella giusta direzione, mentre gli Stati Uniti, fatiscenti,
logori e profondamente polarizzati, sono in forte declino.
In
ogni caso, il successo della Cina ha generato una notevole invidia tra le élite
occidentali che ora sono determinate a fare tutto ciò che è in loro potere per
riportare indietro le lancette dell'orologio all'era del dopoguerra, quando
l'economia globale era la loro ostrica e l'"ordine basato sulle
regole" era l'unico gioco in città.
L'obiettivo
è quello di "contenere la crescita della Cina", che è un soprannome
per sovvertire lo sviluppo della Cina in ogni momento.
La
particolare strategia ha anche un nome.
Si chiama "disaccoppiamento" che si
riferisce al processo attraverso il quale gli Stati Uniti (e altri paesi
occidentali) riducono la loro interdipendenza economica, tecnologica e
finanziaria con la Cina.
In altre parole, le élite occidentali vogliono
interrompere il più possibile il commercio con la Cina, il che porterà
all'isolamento, all'accerchiamento e, infine, al cambio di regime.
Suona
familiare?
Il
trucco è far sembrare che il "disaccoppiamento" (l'isolamento
economico) sia stato imposto agli Stati Uniti, motivo per cui Trump continua a
ripetere la frase stupida:
"La Cina ci sta derubando".
Giusto
per chiarire questo punto:
la
Cina offre ai consumatori statunitensi prodotti di qualità che richiedono
risorse costose, fabbriche e investimenti in cambio di fogli di carta verdi di
valore decrescente.
Da che
parte di quell'accordo preferiresti stare? Prendetevi un minuto e guardate
questo breve video con l'economista Larry Summers che spiega che la Cina NON
sta ingannando nessuno producendo beni economici che è disposta a scambiare con
USD.
“Lawrence
Summers”:
"Se
la Cina vuole venderci cose a prezzi davvero bassi e la transazione è che
otteniamo collettori solari o batterie che possiamo mettere nelle auto
elettriche e inviamo loro pezzi di carta che stampiamo.
Pensi che sia un buon affare per noi o un
cattivo affare per noi?"
Caratterizzare
questo come "imbroglio", come dice giustamente Summers, dovrebbe
essere completamente respinto.
Alla
fine della giornata, chi è più "imbrogliato":
il
partito che fa il duro lavoro di produrre beni a prezzi molto bassi con margini
sottilissimi, o il partito che semplicemente stampa una quantità virtualmente
infinita di denaro fiat per pagare tutta questa roba?
Insomma,
il 'flap dei dazi' era solo un modo per dare il via alla nuova politica (che è
il disaccoppiamento) che mira a intensificare l'ostilità tra Washington e
Pechino.
Con questo in mente, ho posto a Grok la seguente domanda:
Il
presidente Trump sostiene il disaccoppiamento con la Cina?
Sì,
l'ex presidente Donald Trump è stato un forte sostenitore del disaccoppiamento
dalla Cina , sia durante la sua presidenza (2017-2021) che nelle sue successive
attività politiche a partire dall'aprile 2025.
Trump
ha iniziato una guerra commerciale con la Cina nel 2018 imponendo tariffe su
miliardi di dollari di merci cinesi...
Nel
2018, gli Stati Uniti hanno imposto dazi su 50 miliardi di dollari di
importazioni cinesi, seguiti da dazi aggiuntivi su altri 200 miliardi di
dollari nel 2019.
Trump
ha inquadrato questo come un passo necessario per "disaccoppiarsi"
dall'economia cinese.
Trump
ha vietato alle aziende statunitensi di utilizzare apparecchiature di giganti
cinesi delle telecomunicazioni come “Huawei” e “ZTE”, citando rischi per la
sicurezza nazionale.
Ha
anche spinto per restrizioni su “TikTok” e “WeChat,” sostenendo che
rappresentavano una minaccia per la privacy dei dati e potevano essere
utilizzati per lo spionaggio...
Ha
incoraggiato gli alleati ad escludere Huawei dalla loro rete 5G, inquadrandolo
come parte di uno sforzo più ampio per ridurre la dipendenza tecnologica dalla
Cina...
Durante
la sua campagna presidenziale del 2024, Trump ha ripetutamente chiesto misure
ancora più severe contro la Cina, tra cui tariffe più elevate (proponendo
tariffe fino al 60% su tutti i beni cinesi) e una revisione completa delle
relazioni commerciali.
In un discorso in Ohio nel marzo 2024, ha
dichiarato:
"Ci
disaccoppieremo dalla Cina come mai prima d'ora. Ci hanno derubato per decenni,
ed è ora di finirla".
Trump
ha sostenuto che il disaccoppiamento proteggerebbe i posti di lavoro americani,
rafforzerebbe l'economia e ridurrebbe i rischi per la sicurezza nazionale.
In un post del gennaio 2025, ha scritto:
"La Cina si è approfittata di noi per troppo tempo. Dobbiamo tagliare il
cavo e costruire tutto qui a casa".
A
partire dal 2025, tuttavia, il suo tono si è indurito, con meno enfasi sulla
negoziazione e più sul confronto.
I post
su “X” dell'inizio del 2025 mostrano Trump che raddoppia la sua posizione
anti-Cina, con i sostenitori che lodano la sua "durezza".... Grok.
Quindi,
Trump è un grande sostenitore del disaccoppiamento, il che ti dice tutto ciò
che devi sapere.
Inoltre,
le politiche a muso duro di Trump nei confronti della Cina sono ammucchiate
sotto la rubrica dal suono patriottico, "nazionalismo economico",
come se i lavoratori americani traessero qualche beneficio dall'aumento dei
prezzi e dall'impennata dell'inflazione.
Il
fatto è, tuttavia, che la gente comune soffrirà molto per il disaccoppiamento e
vedrà il proprio tenore di vita scendere ulteriormente.
Questo perché la politica non ha lo scopo di
creare posti di lavoro, aumentare i salari, migliorare l'assistenza sanitaria o
fornire un'istruzione a basso costo.
Ha lo scopo di preservare la presa di
Washington sul potere globale in modo che le élite occidentali corrotte possano
creare più guai mentre spingono il paese verso l'indebitamento e la
disperazione.
Ecco
di più da “Grok”:
Molti
economisti prevedono che questi dazi ad ampio raggio accelereranno l'inflazione
e smorzeranno la crescita economica degli Stati Uniti, con conseguente
stagflazione mentre la crescita economica vacilla anche se i prezzi rimangono
dolorosamente alti.
Inoltre,
è improbabile che la Cina abbassi le tariffe per placare Trump; invece, si è
vendicato con dazi del 34% sulle merci statunitensi. L'aumento delle tariffe di entrambi i
paesi ridurrà il commercio bilaterale.
Mentre
la Cina può sopravvivere senza importare la maggior parte dei 125 miliardi di
dollari di merci americane, gli Stati Uniti e molti altri paesi continueranno a
fare affidamento sulla Cina per varie parti e componenti.
Anche
se gli Stati Uniti importano merci da altri paesi, questi paesi dipenderanno
comunque dalla Cina per le parti.
Potenziali
contraddizioni e conseguenze economiche.
È
probabile che i dazi reciproci di Trump causino una recessione autoinflitta
negli Stati Uniti.
Inoltre, potrebbe creare confusione e
conseguenze indesiderate... Sette anni fa, la prima onda di dazi di Trump ha
aumentato il costo dei beni cinesi del 20%, ma le americane dalla Cina hanno
continuato a crescere.
In
futuro, anche se i dazi sui prodotti cinesi saliranno al 54%, gli Stati Uniti
dovranno comunque acquistare dalla Cina.
Al
contrario, i prodotti americani, come la soia o il petrolio greggio, hanno una
competitività limitata in Cina.
I dazi
di ritorsione della Cina sugli Stati Uniti la costringeranno a trovare mercati
alternativi, portando a perdite per gli esportatori statunitensi di soia e
petrolio greggio.
Quale
parte dell'estratto di cui sopra suona come un "buon affare" per il
popolo americano?
Niente
di tutto questo. È tutto brutto.
E l'unico barlume di luce in tutta questa
triste vicenda è il fatto che il popolo americano si oppone a questa politica
perché sa che ne sarà danneggiato.
Dai
un'occhiata a questo sondaggio su “PEW”.
Tariffe
sulla Cina.
I dazi
sono un'altra parte fondamentale della politica estera di Trump. L'aumento dei
dazi sulla Cina, in particolare, riceve valutazioni più negative che positive.
Molti
di più pensano che l'aumento dei dazi sulla Cina sarà un male per gli Stati
Uniti piuttosto che dire che sarà un bene, anche se circa un quarto vede che
non avranno alcun effetto o non ne è sicuro.
Le
opinioni sull'impatto personale dei dazi sono altrettanto negative: gli
americani sono circa cinque volte più propensi a dire che l'aumento dei dazi
sulla Cina sarà un male per loro rispetto a dire che i dazi saranno
vantaggiosi.
I
repubblicani sono più propensi dei democratici a dire che l'aumento dei dazi
sulla Cina sarà un bene per gli Stati Uniti e un bene per loro personalmente.
Tuttavia,
quando si tratta dell'impatto personale di questi dazi, i repubblicani sono più
propensi a dire che l'impatto sarà negativo (30%) che positivo (17%), anche se
quote sostanziali esprimono incertezza o prevedono che i dazi avranno un
impatto personale limitato.
Tariffe
sulla Cina, nel Centro di ricerca PEW.
Quindi,
almeno esiste una risicata maggioranza di americani che si oppongono al
disaccoppiamento, si oppongono alle implacabili provocazioni e incitamenti e si
oppongono all'inutile guerra di Trump contro la Cina.
Speriamo che la maggioranza regga.
Un'altra
settimana nella
zona del crepuscolo.
Unz.com - Filippo Giraldi – (10 aprile 2025 )- ci dice .
Un
giorno saremo davvero tutti vittime.
Molti
americani saranno sollevati nell'apprendere che i dipendenti dell'ambasciata
statunitense e le loro famiglie in Cina non potranno più avere "relazioni
romantiche o sessuali" con i cinesi del posto.
È
certamente una decisione attesa da tempo, che ci renderà più sicuri insieme a
quei dazi del 125% con cui colpiremo i cinesi.
Ma al
di là di questa buona notizia, è stata un'altra settimana interessante nel
mondo fantastico creato e sostenuto dal presidente Donald J. Trump.
Questa
settimana ha incluso una visita non proprio sorprendente del Signore Prescelto
dell'Universo Benjamin Netanyahu, sovrano di un piccolo e patetico Paese
chiamato Israele, che sta crescendo sempre più, assorbendo tutti i suoi vicini
uno alla volta, con il sostegno americano.
Netanyahu era in città per dare a Trump i suoi
ordini di marcia per il prossimo mese circa, e non sorprende che entrambi gli
uomini abbiano concordato che i circa due milioni di sventurati palestinesi che
ancora si aggirano intorno a Gaza debbano andarsene, e prima possibile.
Affamarli,
sparargli e bombardarli non è sufficiente per risolvere il problema abbastanza
rapidamente, quindi bisognerà convincerli ad andare altrove, il che sembra
molto meglio e più facile di quanto non sia in realtà.
Un
Trump ottimista ha tuttavia osservato che potrebbero trovare un bel posto
tranquillo da qualche parte nel mondo dove sarebbe meno probabile essere
uccisi.
Nel
frattempo, quel delizioso appezzamento di terreno di pregio lungo le rive del
Mar Mediterraneo può essere sviluppato sotto la protezione degli Stati Uniti,
senza che nessun palestinese sia autorizzato ad entrare.
Netanyahu ha osservato che i cittadini di Gaza
dovrebbero semplicemente recarsi "volontariamente" in uno dei
numerosi Paesi non nominati con cui sta parlando della questione.
Ma se
non lo fanno volontariamente...
Netanyahu
era forse un po' irritato dal tentativo di Trump di affermare una certa
indipendenza, affermando che la sua squadra di disadattati avrebbe negoziato
direttamente e separatamente con l'Iran in Qatar per raggiungere un accordo che
eliminasse ogni possibilità che l'uranio arricchito potesse essere trasformato
in un'arma.
Un
programma del genere era in vigore, denominato Piano d'azione congiunto globale
(JCPOA), già nel 2017, quando Trump se ne ritirò sostenendo, senza alcuna
prova, che esistesse un centro segreto di arricchimento e sviluppo di armi
nascosto da qualche parte nel sottosuolo, ovvero che gli iraniani stessero
barando.
La CIA e persino il Mossad, che hanno un sacco
di spie all'interno dell'Iran, per quel che conta, hanno da allora dichiarato
che l'Iran non ha un programma di armi nucleari e non ne ha avuto uno negli
ultimi vent'anni, ma persone come Trump e Netanyahu, notoriamente, non sono
buoni ascoltatori.
Ora
Trump vuole ricreare il programma, ma renderlo ancora più arduo minacciando gli
iraniani di conseguenze disastrose, il che sarà in ogni caso difficile da
convincere, dato che le sue promesse sono notoriamente inutili.
Inoltre, sta simultaneamente e apertamente
rafforzando una forza di bombardieri pesanti nell'Oceano Indiano, che sembrano
destinati a essere utilizzati contro l'Iran quando i colloqui falliranno, come
accadrà, e Trump sarà costretto a rispettare la sua opzione "a caro
prezzo".
L'Iran è pienamente consapevole di quali carte
sono in gioco.
Netanyahu
invoca anche una "soluzione libica" che priverebbe completamente
l'Iran delle sue difese.
Dall'incontro
con Trump, ha affermato che qualsiasi accordo con l'Iran dovrà includere la
completa distruzione della loro capacità infrastrutturale, il che significa che
non saranno in grado di creare e produrre armi nuove ed efficaci.
Significherebbe
la fine della loro industria bellica e non sarebbero in grado di difendersi, il
che porrebbe fine alla loro capacità di sostenere la sovranità regionale contro
Israele.
Richiederebbe
anche l'impiego di truppe americane per privare gli iraniani delle loro
capacità difensive, cosa che non accadrà.
Certo, i nuovi amici dei mullah, Russia e Cina,
potrebbero essere disposti a scambiare petrolio con armi se Teheran si
dimostrasse così stupida da cedere a qualsiasi cosa gli Stati Uniti, agendo per
Israele, mettano sul tavolo dei negoziati.
Un'altra
bella notizia della scorsa settimana sostiene che l'accelerazione delle
deportazioni di presunti immigrati clandestini o criminali nati all'estero
dagli Stati Uniti sia estremamente pericolosa e crei un pessimo precedente per
l'eliminazione di persone indesiderate nel proprio Paese.
Purtroppo,
ciò prepara il terreno per abusi ben peggiori ai danni dei cittadini americani
nel prossimo futuro.
Il link include un video del Presidente Trump
che afferma che i cittadini statunitensi che commettono "gravi
crimini", secondo l'interpretazione della Casa Bianca, possono essere
deportati in modo analogo in luoghi come El Salvador e altri inferni in cui
vengono ora inviati i non cittadini per scontare la pena.
Questa perversione della giustizia è di una
vile estrema violenza, oltremodo pericolosa.
Si tratta di una grave violazione del diritto
costituzionale, dei precedenti internazionali e di un diretto abuso
dell'autorità presidenziale.
Che
l'autorità venga inevitabilmente estesa fino a includere reati di
"parola" e "pensiero" come l'"antisemitismo" è
una certezza.
È un
dato di fatto che noi americani un giorno non lontano dovremo sopportare che il
governo consenta di mettere a tacere i dissidenti, potendo detenere ed
espellere chiunque sia così privo di cervello da dire qualcosa che contraddica
le politiche emanate dalla Casa Bianca.
Un
programma del genere potrebbe essere preso in considerazione per integrare
perfettamente gli arresti e le espulsioni da parte dell”'Immigration and
Customs Enforcement” (ICE) di titolari di visti nati all'estero e residenti
legali con green card, che hanno avuto un forte impatto sugli studenti che si
iscrivono a corsi di laurea presso le università statunitensi.
Il
Segretario di Stato Marco Rubio ha recentemente annunciato che sono già state
revocate più di 300 volte i documenti di viaggio e di soggiorno, più altre
centinaia negli ultimi giorni, mentre molte altre sono in arrivo.
Il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale
starebbe esaminando i siti di social media per raccogliere informazioni
offensive sia sui titolari di visti attuali che sugli stranieri che hanno
presentato domanda di immigrazione o di studio.
L'identificazione
dell'account sui social media sarà presto richiesta per tutti i nuovi moduli di
domanda.
Ciò
aumenterà drasticamente il numero di potenziali obiettivi.
Come
scrissero una volta Gilbert e Sullivan in “The Mikado”, il procuratore generale
americano “Pam Bondi “potrebbe presto cantare "Poiché un giorno potrebbe accadere
che si debba trovare una vittima, ho una piccola lista, ho una piccola lista...
Di criminali della società che potrebbero benissimo essere clandestini... E di
cui non si sentirebbe mai la mancanza, di cui non si sentirebbe mai la
mancanza!"
Genevieve
Lakier,
professoressa presso la mia alma mater, “l'Università di Chicago”,
specializzata in libertà di parola e diritto costituzionale americano, ha
spiegato l'attenzione rivolta agli studenti:
"A quanto ho capito, Trump ha promesso
deportazioni di massa e le persone più facili da identificare sono gli
studenti.
Sono
nel sistema e le università conservano registri facilmente accessibili
attraverso diversi canali.
E
naturalmente, l'amministrazione non ama le università, quindi non ha problemi a
sconvolgere il loro modello di business.
È una
situazione vantaggiosa per l'amministrazione e terrificante per i nostri
studenti, che sono terrorizzati".
Per
agevolare le deportazioni, la Casa Bianca ha anche annunciato la scorsa
settimana che i subumani antiamericani, antiisraeliani, terroristi e antisemiti
destinati a un'espulsione rapida saranno multati di 998 dollari al giorno se
scadranno oltre il termine ultimo del loro ordine di espulsione.
Sembra un buon incentivo per far uscire
rapidamente quei bastardi.
Se i
bersagli non hanno i soldi, i loro beni personali verranno sequestrati per
compensare la mancanza.
Quindi, mettendo insieme tutte le fantastiche
intrusioni nella sicurezza personale, se non vi piace quello che sta succedendo
qui negli Stati Uniti o se vi opponete al massacro di forse 400.000 abitanti di
Gaza, lamentatevi e, anche se siete cittadini americani, potreste finire tra
gli indesiderabili in "pensione" o addirittura in prigione in posti
come il Burkina Faso!
Ma la
storia migliore della scorsa settimana l'ho tenuta per ultima!
Riguarda
la parata militare indetta da Donald Trump per celebrare il suo 79 compleanno
il 14 giugno La parata celebra anche il 250 anniversario della fondazione
dell'Esercito degli Stati Uniti.
Si
snoderà lungo un percorso di quattro miglia dal Pentagono, passando per il
Cimitero Nazionale di Arlington, fino a “Constitution Avenue”, e comprenderà
sorvoli, paracadutisti, truppe in marcia, fuochi d'artificio e tanta musica di
diverse bande militari.
Trump
a quanto pare è rimasto impressionato quando, durante il suo primo mandato, a
Parigi ha assistito alla parata militare francese per la Festa della Bastiglia.
Ne voleva una tutta sua, e ora sembra che
otterrà ancora una volta ciò che desidera, a un costo di circa 110 milioni di
dollari, spiccioli per un governo che ha un debito insostenibile di 36 trilioni
di dollari e che spenderà 1 trilione di dollari, che non ha, per il Pentagono
nel prossimo anno.
Promette
di essere uno spettacolo splendido, ma aggiungerei un po' più di
intrattenimento per renderlo un evento storico.
A quanto pare, Trump, Bill Clinton, George W.
Bush e io siamo tutti molto vicini d'età e mi sono reso conto che se si vuole
organizzare una parata militare sarebbe bello integrare alcuni di questi
personaggi isolati nella cerimonia, il che significherebbe includere la storia
dei renitenti alla leva Trump e Clinton come parte dei festeggiamenti.
Includerei anche Joe Biden, sebbene abbia
quattro anni più di noi.
Non
entrerò nei dettagli, ma se si va su Wikipedia o si cerca su Google i nomi con
"renitenti alla leva" si troveranno le argomentazioni che sono state
avanzate per dimostrare che tutti e tre hanno manovrato per evitare la leva
obbligatoria, che era in corso a sostegno della guerra del Vietnam.
George
W. Bush si è arruolato nella Guardia Nazionale Aerea del Texas ed è stato
l'unico ex presidente recente ad aver prestato servizio nell'esercito in
qualche modo, sebbene non direttamente in una guerra o in una zona di guerra.
Anche
Barack Obama non ha prestato servizio militare, ma non c'era la leva
obbligatoria quando era al college e dopo.
Essendo
nello stesso gruppo di Trump e Clinton, ero a conoscenza dei numerosi
sotterfugi usati dai miei compagni di università per evitare il Vietnam.
Invece, quando mi è stato comunicato che la
commissione di leva mi avrebbe chiamato una settimana dopo la laurea, mi sono
arruolato frettolosamente nell'esercito, aggiungendo un altro anno al mio
impegno, ma potendo scegliere la mia categoria lavorativa, che era
l'intelligence.
Avendo
seguito un anno di russo all'università, sono finito nella Berlino della Guerra
Fredda, dove ho trascorso tre anni favolosi.
In
ogni caso, penso che aggiungerebbe un po' di divertimento, a spese dei nostri
presidenti restii al combattimento, introdurre un po' di realtà in una parata
militare ordinata da un capo di stato narcisista che plausibilmente ha evitato
la leva a causa di "speroni ossei".
Forse
Biden, Clinton e Trump potrebbero ricevere un premio speciale, magari una targa
o qualcosa del genere raffigurante un Pollo d'Oro.
(Philip
M. Giraldi, Ph.D., è Direttore Esecutivo del Council for the National Interest,
una fondazione educativa 501(c)3 fiscalmente deducibile (numero di
identificazione federale #52-1739023).
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