Italia al centro.

 

Italia al centro.

 

I documenti declassificati dello Spygate:

l’Italia al centro del complotto contro Trump.

Lacrunadellago.net – Cesare Sacchetti – (12/04/2025) – ci dice.

 

 

Erano attesi da diverso tempo, e alla fine sono arrivati.

Sono i documenti declassificati dello “scandalo dello Spygate”, ovvero una fitta trama di spionaggio internazionale tessuta contro il nemico comune dell’anglosfera:

Donald Trump.

Sono i tempi della prima campagna elettorale del candidato repubblicano che aveva già all’inizio del 2016 sbaragliato i suoi concorrenti di partito alle primarie e che si presentava a tutti gli effetti come l’uomo più temibile per Hillary Clinton.

A Washington, tutti volevano che vincesse l’ex segretario di Stato americano e consorte dell’ex presidente Bill Clinton, già intimo sodale del pedofilo del Mossad, Jeffrey Epstein, e frequentatore del gruppo Bilderberg che aveva deciso la sua vittoria alla Casa Bianca almeno un anno prima della sua candidatura, nel 1991.

 

Hillary Clinton era il cavallo sul quale i vari esponenti della governance globale e del blocco Euro-Atlantico puntavano per poter continuare ad esercitare il controllo dell’impero americano, vero e proprio perno indispensabile per l’intera anglosfera e l’Unione europea.

Nel partito democratico americano si inizia a diffondere sempre di più il timore che Donald Trump possa farcela e sconfiggere Hillary Clinton, e allora i dem decidono che c’è bisogno di qualche polpetta avvelenata per fermare la corsa del facoltoso imprenditore di New York.

 

C’è bisogno di uno scandalo fabbricato a tavolino che possa screditare agli occhi della opinione pubblica Trump, fino a raffigurarlo, falsamente, come un traditore.

C’è bisogno appunto dello “Spy gate” o del “Russia gate”, quella grottesca montatura che ha cercato sin dal principio di rappresentare Donald Trump come un agente sotto copertura di Vladimir Putin.

 

La Clinton e la nascita del “dossier patacca” di “Steele”.

 

Hillary decide così di rivolgersi ad una società privata di intelligence di Washington, la “Fusion GPS”, che già in passato aveva svolto delle consulenze sia per il partito democratico sia per la famigerata lobby dell’aborto, “Planned Parenthood”, verso la quale affluiscono i finanziamenti delle più grosse corporation dove si incontrano i soliti fondi di investimento “BlackRock e Vanguard”, anch’essi nelle mani delle “grandi” famiglie del capitale americano internazionale.

La Clinton si rivolge ad “amici” perché vuole essere sicura che venga fuori esattamente il risultato da lei desiderato, ovvero quello di screditare Trump attraverso una falsa accusa di essere al soldo di un Paese straniero.

“Fusion GPS” decide a sua volta di appaltare ad un esterno questa “opera” di macchina del fango, e allora pensa “bene” di contattare una ex barba finta dei servizi segreti britannici dell’MI6, quale “Christopher Steele”, all’epoca attivo presso la” società di intelligence Orbit Business Intelligence”.

 

Christopher Steele.

Steele durante i suoi anni al servizio del MI6 dirigeva la sezione che si occupava della Russia, un dipartimento molto particolare specializzato nella creazione dei famigerati false flag, ovvero attentati di vario tipo eseguiti dall’intelligence inglese per far ricadere la colpa invece sugli odiati russi.

 

L’ex agente inglese è una delle figure chiave dell’intero scandalo dello Spy gate.

È lui infatti a fabbricare il famigerato dossier contro Donald Trump, nel quale si afferma che l’allora candidato dei repubblicani avrebbe anni prima avuto rapporti con prostitute russe in un hotel di Mosca nella stessa camera d’albergo dove avrebbe soggiornato “Barack Obama”.

Non contento delle sue peripezie edonistiche, Trump avrebbe persino ordinato alle donne di urinare sul letto dove avrebbe dormito qualche tempo prima” Barack Obama” a dimostrazione di tutto il suo esaltato disprezzo verso il presidente democratico e della presunta fedeltà di Donald Trump a Vladimir Putin.

 

A dare questa “chicca” a Steele era stato un “analista” russo di nome” Igor Danchenko”, e anche chi non era un addetto ai lavori poteva facilmente capire che questo dossier fabbricato dall’ex agente del MI6 era chiaramente solo e soltanto una patacca.

 

Igor Danchenko.

Gli uomini dell’FBI invece non solo non lo scartano immediatamente come avrebbero dovuto fare, ma ascoltano attentamente “Steele” tanto da riceverlo in diverse occasioni ufficiali nelle quali prendono nota delle sue “rivelazioni”.

 

Gli incontri di Steele con l’FBI.

Tra i numerosi incontri avuti dall”analista” britannico, ce n’è uno in particolare riportato con dovizia di particolari nei file declassificati della inchiesta del Russia gate ed è quello avvenuto il 18 settembre del 2017 a Londra.

Hillary Clinton è stata già sconfitta, Donald Trump è già alla Casa Bianca, ma la montatura del Russia gate è ancora vigorosa sui media mainstream americani che cercano di preparare il terreno ad un “falso casus belli “per chiedere la messa in stato di accusa contro il presidente degli Stati Uniti, e, al tempo stesso, di ostacolare i rapporti tra Stati Uniti e Russia, da sempre lo scenario più temuto da tutti i vari esponenti dei circoli mondialisti internazionali.

 

“Steele” si vede in quell’occasione nel prestigioso “albergo di Grosvenor”, nel cuore di Londra, con due uomini dell’FBI, dei quali si conosce soltanto l’identità di “Brian Buten”, perché il nome dell’altro agente federale è stato coperto in nero nel documento reso pubblico.

Steele si presenta con un altro socio d’affari della sua “Orbit”, “Christopher Burrows”, e i due sembrano subito molto preoccupati per come si è conclusa la loro relazione con l’agenzia investigativa più importante degli Stati Uniti.

 

“Burrows” in particolare prova a scusarsi con i due rappresentanti dell’FBI per aver passato alla stampa durante la campagna elettorale per le presidenziali il “dossier patacca di Steele”, ma il braccio destro di Steele non gira intorno alla questione.

Gli ex membri dell’intelligence britannica avevano due rapporti di lavoro.

Il primo era quello con il loro cliente, Hillary Clinton, che li aveva espressamente ingaggiati per gettare fango su Donald Trump.

Il secondo era quello con l’FBI che aveva aperto l’inchiesta nota come “Crossfire Hurricane” per indagare sulle fantomatiche collusioni di Trump con i russi, e già questo fa capire quanto sia gravemente compromessa l’FBI in tale faccenda.

 

“Steele” aveva un conflitto di interessi grosso come una casa, ma l’agenzia allora diretta da “James Comey”, nominato da Barack Obama, nemmeno si pose il problema.

Non solo decise di dare credito alle “fonti farlocche russe” di Steele, ma gli diede persino i soldi dei contribuenti americani per comprare queste “pregiate informazioni” che l’uomo al servizio della Clinton passava all’agenzia investigativa americana.

 

Che “Steele” fosse legato da un rapporto d’affari con il partito democratico americano era chiaro, ma che fosse al tempo stesso spinto ad agire per motivi politici contro Donald Trump era altrettanto palese tanto che l’ex agente del MI6 nel corso dell’incontro con “Buten” e il suo collega dichiara che il loro “nemico comune” era Donald Trump che attraverso la sua presidenza avrebbe potuto mettere a rischio la storica partnership tra il Regno Unito e gli Stati Uniti, e mettere così fine al potere dell’anglosfera che è stato il caposaldo di tutto l”ordine” partorito dalla seconda guerra mondiale.

 

Il versante italiano dello “Spy gate”.

 

Se c’era una chiara intenzione da parte dell’apparato britannico e dei suoi servizi di screditare in ogni modo Trump e di rovesciare la sua presidenza, la stessa intenzione sembrava esserci chiaramente a Roma, dove all’epoca dei fatti c’erano i controversi governi di Matteo Renzi e Matteo Gentiloni.

Roma appare un altro elemento chiave per dipanare la matassa di questa trama eversiva, perché “Christopher Steele “era a strettissimo contatto con gli uomini dell’FBI in servizio presso l’ambasciata americana di via Veneto.

Ogni singolo depistaggio dell’uomo del MI6 veniva sempre indirizzato a Roma, il quartier generale del complotto contro Trump, e questo spiega perché nella documentazione sullo “Spy gate” si trovino moltissime schede compilate da uno degli attaché diplomatici del bureau in Italia, “Michael J. Gaeta”, che riferiva su tutte le “informazioni” che Steele gli passava.

Il rapporto tra Steele e l’FBI era in realtà già iniziato nel 2013, ma dalla metà del 2016 in poi tutte le relazioni si incentrano esclusivamente sulla presunta corruttela della politica russa, assieme ai fantomatici rapporti che Trump avrebbe avuto con il Cremlino.

 

Steele passa a “Gaeta” anche l’informazione che l’ex avvocato di Trump, “Michael Cohen”, finito poi dietro le sbarre, sarebbe il ponte di collegamento tra il presidente americano e il Cremlino.

 

A pagina 54 della documentazione declassificata, si afferma persino che il padre della moglie russa di Cohen, “Yefin Shusterman”, sarebbe un altro dei punti di contatto tra Trump e i russi, ma a parte le parentele della consorte dell’ex avvocato di Trump, non viene offerto nulla per sostenere la presunta “complicità” tra Trump e i russi.

Esiste il rapporto dell’uomo del FBI a Roma sulle “fonti” di Steele.

A pagina 56, le affermazioni si fanno ancora, se possibile, più inverosimili quando Steele riferisce che Cohen avrebbe avuto a Praga un incontro nell’agosto del 2016, 3 mesi prima delle presidenziali, con ufficiali del Cremlino, ma l’avvocato caduto in disgrazia non si trovava nella Repubblica Ceca, ma negli Stati Uniti, a Los Angeles.

“Christopher Steele” continuava a passare all’FBI una serie di patacche una dopo l’altra, ma da approfondire è il ruolo giocato dall’Italia, scelta come una delle centrali per eseguire il complotto contro Trump.

 

Si è visto infatti come Steele avesse come riferimento sempre l’ambasciata americana a Via Veneto, ma prima ancora dell’ex agente del MI6, c’era stata una collaborazione accertata tra la polizia postale italiana, rappresentata dalla dirigente “Nunzia Ciardi”, e “Kieran Ramsey”, un altro rappresentante dell’FBI a Roma, che aveva scritto una lettera alla Ciardi stessa nell’aprile del 2016 per ringraziarla della cooperazione fornita dalla Postale per aiutare gli americani a localizzare i server utilizzati dall’ingegnere “Giulio Occhionero”.

 

Esiste la lettera di Kieran Ramsey a Nunzia Ciardi.

 

“Occhionero”, all’epoca, almeno per l’opinione pubblica, era un perfetto sconosciuto e diventerà famoso, suo malgrado, quando la procura di Roma emetterà ad ottobre del 2016 un mandato di arresto nei suoi confronti con l’accusa di spionaggio ai danni di diverse personalità di spicco delle istituzioni italiane.

L’FBI si stava però già interessando a lui ad aprile per una faccenda totalmente diversa, e che probabilmente è la chiave per comprendere perché “Occhionero” è finito nella bufera giudiziaria.

L’ingegnere sostiene infatti di essersi trovato al centro di una macchinazione ordita proprio dalla “Polizia postale italiana” e della sua “divisione informatica”, la “CNAIPC”, che avrebbe volontariamente hackerato i server della sua società negli Stati Uniti.

 

Secondo “Occhionero”, le autorità italiane avrebbero fatto tale operazione per piantare sui suoi server le “famose email di Hillary Clinton”, e accusare così Trump, ancora una volta, di “collusione” con i russi, dati gli stretti rapporti dell’ingegnere con il partito repubblicano americano.

 

Si è così agito evidentemente su due fronti.

“Steele “che ufficiosamente per conto dei servizi britannici fabbricava le sue false informazioni ai danni di Trump, e in Italia i servizi di intelligence italiani che si mettevano a disposizione dell’amministrazione Obama per attuare la stessa operazione di diffamazione ai danni del presidente Trump attraverso un altro versante.

In altre parole, lo “Spy gate” è la storia di una stretta “liaison” eversiva tra i servizi inglesi e italiani che su diretto impulso dell’Obama e dell’FBI avrebbero appunto lavorato fianco a fianco per screditare Trump e accusarlo di tradimento nei confronti degli Stati Uniti.

 

“Papadopoulos” e le accuse contro” Renzi”.

Un altro dei personaggi coinvolti in questa rete internazionale eversiva, l’ex collaboratore della campagna di Trump, “George Papadopoulos”, è stato ancora più esplicito al riguardo.

Ad aiutare Barack Obama nel suo piano per sbarrare la strada della Casa Bianca a Trump, sarebbe stato l’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, già molto vicino agli ambienti del partito democratico americano ai tempi della sua improvvisa comparsa sulla scena politica nazionale che risale al suo periodo da sindaco di Firenze, nel 2009.

I rapporti tra Renzi e lo stato profondo americano in quegli anni appaiono già molto stretti tanto che si ventilava la possibilità di un incontro tra lui e Bill Clinton nel 2012, anche se poi l’ufficio stampa di Renzi negò che i due si fossero visti.

Nel PD in quegli anni infuriava la guerra aperta per la leadership del partito e gli ambienti angloamericani che sostengono Renzi avrebbero gradito molto un cambio della guardia, necessario non tanto in termini di fedeltà a Washington dei dirigenti piddini come D’Alema e Bersani, ma più che altro perché serviva l’immagine di un giovane esordiente e non troppo “compromesso” con il passato per proseguire sull’agenda dell’austerità voluta da Bruxelles e sulla politica delle migrazioni illegali incontrollate che Renzi ha permesso in cambio di una misera elemosina sul deficit.

“Renzi ha fame di potere” ed è appoggiato talmente tanto dall’anglosfera e da Israele tramite il suo uomo di collegamento con lo stato ebraico, “Marco Carrai”, ex console onorario di Israele, che riesce a salire a palazzo Chigi nel 2014 senza nemmeno aver vinto alcuna elezione.

Ad essere spodestato fu “Enrico Letta”, uomo anch’egli del Bilderberg, ma il rottamatore della Leopolda allora aveva, come detto, l’appoggio unanime di tutte le alte sfere.

 

Nel 2016 però la sua stella sembra in declino.

 Ci sono divisioni all’interno dell’apparato della sinistra progressista italiana che lo ha voluto lì, e il suo referendum costituzionale non è gradito a vari personaggi di riferimento dell’establishment italiano, su tutti l’ingegner De Benedetti che lo voleva già fuori nel 2016.

Il presidente del Consiglio così si guarda intorno in cerca di aiuto, e si dirige ancora una volta a Washington, proprio quando Barack Obama aveva ordinato all’FBI di avviare l’inchiesta “Crossfire Hurricane” contro Trump.

 

A fornire il pretesto agli agenti federali per aprire il fascicolo contro Trump era stato soltanto pochi mesi prima proprio “Papadopoulos” che avrebbe incautamente rivelato ad un diplomatico australiano vicino ai Clinton, “Alexander Downer,” che l’enigmatico professore maltese della “Link Campus di Roma”, “Joseph Mifsud”, era in grado di consegnargli le ormai leggendarie email di Hillary Clinton.

 

“Mifsud” ovviamente non aveva nulla in mano.

 Aveva soltanto gettato un’appetitosa esca all’ingenuo Papadopoulos fingendosi come un amico della campagna Trump, quando in realtà era vicino, come” Downer”, ai “Clinton” e agli ambienti dei servizi italiani e anglo-americani che volevano a tutti i costi incastrare Trump.

La macchina della sovversione era in quell’estate già in moto, e “Renzi” proprio nel mezzo della sua campagna per il referendum costituzionale decide di andare ad ottobre alla “Casa Bianca”, dove viene ricevuto da “Obama”.

L’accoglienza di Obama a Matteo Renzi.

Lì, secondo Papadopoulos, Renzi avrebbe dato rassicurazioni ad Obama sulla sua disponibilità a coinvolgere i servizi segreti italiani nel piano contro Donald Trump.

Nonostante gli sforzi massicci dell’FBI e dei servizi italiani e inglesi, la bolla del Russia gate si sgonfia definitivamente nel 2018, e a distanza di 7 anni, vengono pubblicati altri documenti che confermano come questi apparati abbiano fabbricato una campagna di bugie contro il presidente degli Stati Uniti.

 

Soltanto un anno dopo, nell’agosto del 2019, giunge a Roma il procuratore speciale nominato da Trump, “John Durham,” per fare luce sul caso e sul coinvolgimento dei “governi Renzi e Gentiloni”, anche se “Conte”, allora presidente del Consiglio, negherà il tutto per non attirarsi addosso le accuse dell’ex rottamatore, che puntualmente gli sono arrivate ugualmente.

 

Se da un lato però “Conte “fingeva di voler aiutare Trump nella sua inchiesta, dall’altro, secondo quanto riportato dal giornalista “Paul Sperry”, si premurava di passare una falsa accusa di reati finanziari contro il presidente americano.

Esiste il tweet di Paul Sperry.

 

“Conte” alla fine, al netto di qualche timida giravolta, si sarebbe attenuto alla consegna trasmessa a tutti gli uomini della politica italiana.

Il nemico da abbattere ad ogni costo era “Donald Trump”.

Era ed è lui l’uomo che ha reciso il cordone ombelicale che legava la politica italiana a Washington, e questo spiega perché in ogni trama contro il presidente, si incontrino puntualmente i disgraziati e indegni politici della Seconda Repubblica, disposti a tutto pur di salvare il proprio orticello.

Trump però appare avere la memoria di un elefante. Non dimentica nulla.

La dimostrazione è data dal fatto che sta ordinando di far uscire altri documenti declassificati sul tentativo di colpo di Stato ai suoi danni.

“Non si invidiano di certo le varie comparse della politica italiana che si sono impegnate in questa guerra contro Trump”.

Il presidente degli Stati Uniti appare determinato come non mai, e non sembra intenzionato a fare prigionieri.

 

 

 

IPCEI Nucleare: l’Italia al centro

di progetti strategici europei sulle

tecnologie nucleari innovative.

Mase.gov.it – Redazione Comunicati – (10-04 – 2025) – ci dice:

 

Sostegno all’iniziativa, si entra nella fase di design dei progetti.

Roma, 10 aprile - Il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, “Gilberto Pichetto Fratin”, e il Ministro delle Imprese e del Made in Italy, “Adolfo Urso”, accolgono con grande soddisfazione la comunicazione della Commissione Europea relativa all’approvazione di un nuovo IPCEI (Important Project of Common European Interest) dedicato alle tecnologie nucleari innovative.

L’approvazione dell’IPCEI nucleare, che entrerà già da oggi nella fase di design dei progetti, rappresenta un riconoscimento del valore strategico del nucleare a livello europeo.

L’Italia ha fornito il proprio pieno sostegno all’iniziativa, sottoscrivendo la “endorsement letter “sul nucleare, insieme ad altri 12 Paesi europei, a conferma della vitalità di una filiera industriale nazionale che, insieme alla ricerca e all'accademia, è rimasta attiva e competitiva negli ultimi quarant’anni, nonostante l’assenza di produzione di energia da fonte nucleare sul territorio nazionale.

Questo importante risultato è frutto di un intenso lavoro di collaborazione tra il “MASE” e il “MIMIT”, con il determinante supporto dalla Piattaforma Nazionale per un Nucleare Sostenibile” (PNNS), istituita presso il “MASE”, che ha pubblicato lo scorso 4 aprile i risultati di un anno di intenso lavoro collaborativo tra i più importanti stakeholder nazionale sul nucleare.

I due ministeri evidenziano che, per la prima volta dall’istituzione degli IPCEI, all’Italia è stato riconosciuto il “ruolo di penholder “(coordinatore) a livello europeo, in particolare per le tecnologie di fusione nucleare.

Il nostro Paese ha però dato un contributo ugualmente determinante a livello europeo nell’ambito delle tecnologie di fissione nucleare e delle applicazioni mediche delle tecnologie nucleari.

 

La fase di design dei progetti apre ora un percorso che richiederà un ulteriore e significativo impegno da parte dei ministeri coinvolti, in stretta sinergia con l’intero sistema industriale, accademico e della ricerca italiano.

 

Nel momento in cui il Parlamento si appresta a confrontarsi sulla legge delega in materia di energia nucleare sostenibile, questo IPCEI rappresenta uno strumento fondamentale per sostenere una filiera nazionale che opera da decenni ai più alti livelli europei e internazionali, sia nel campo della fissione nucleare che della fusione.

 

 

 

Al centro del problema.

 

Rivistailmulino.it - Paolo Pombeni – (18 dicembre 2024) – Politica – ci dice:

La questione di fondo è dove vada cercato il centro, se nei partiti esistenti o promuovendo la formazione di un nuovo soggetto che da questi si differenzi.

 

C’è un gran discutere sul problema del rilancio in politica di un “centro” che alcuni ritengono possa essere un elemento equilibratore, forse anche riformista dinamico; cosa che altri, più o meno in maniera interessata, negano risolutamente

 Certo, l’etichetta è abbastanza ambigua, per non dire equivoca: alternativa alle radicalizzazioni di destra e di sinistra per moderarle dall’interno, o autonoma proposta che trascende la dinamica conservazione/progresso?

 

La questione di fondo è dove vada cercato questo “centro”, se nei partiti esistenti o promuovendo la formazione di un nuovo soggetto che da questi si differenzi.

Se volessimo riproporre un po’ di storia politica potremmo ricordare due panorami.

 Il primo è quello che a metà Ottocento suggeriva, in alternativa alla secca divisione destra/sinistra, lo svilupparsi di una componente moderata che potesse consentire un dialogo fra i rispettivi centri, fino al punto di promuovere in casi particolari una loro alleanza per porre un argine comune agli estremismi di destra e di sinistra.

Quando una tale proposta venne teorizzata, come “congiunzione dei centri” (in Francia), o come “trasformazione dei partiti” (in Italia), venne etichettata come “opportunismo” o come “trasformismo”, termini che sono rimasti con valenza negativa nel linguaggio politico. Quando venne praticata negando che venisse accettata, ha costruito occasioni di consenso allargato e di sviluppo.

 

Il secondo scenario è quello che vede sulla scena, ma stiamo parlando del Secondo dopoguerra, partiti di massa che vogliono caratterizzarsi come di centro e che in quanto tali conquistano la guida politica del loro Paese.

È il caso notissimo della Dc in Italia, ma anche quello della “Cdu” in Germania.

 Il primo dissoltosi dopo quasi un cinquantennio anche sotto la spinta di una critica diffusa proprio a questa sua natura peculiare (sebbene la causa principale fosse il contemporaneo venir meno di un particolare contesto sociale e di una classe politica capace di adeguarsi a questo cambiamento), il secondo in astratto ancora centrale nella politica tedesca, ma avendo subìto una profonda trasformazione che qui non è possibile analizzare.

Il centro come alternativa alle radicalizzazioni di destra e di sinistra per moderarle dall’interno, o autonoma proposta che trascende la dinamica conservazione/progresso?

 

Torniamo su questi temi perché si è riacceso il dibattito sulla mancanza o meno, e sulla possibile presenza/creazione, di un “centro” come elemento necessario per rinvigorire una politica italiana che a molti appare immiserita, stretta com’è fra scontri legati da un lato alla dimensione politicante e dall’altro al prevalere di dibattiti culturali (?) dominati dalle contrapposizioni di maniera che ripropongono vecchie idolatrie novecentesche.

Ci si potrebbe chiedere, per rimanere al quadro che abbiamo delineato in apertura, se e quanto esistano correnti centriste all’interno dei partiti attualmente presenti nel nostro contesto politico.

Ovviamente, essendo il termine, come già abbiamo detto, ambiguo, consideriamo ascrivibili a questo quadro quelle componenti che, più o meno decisamente, dichiarano di contrapporsi alla radicalizzazione a cui si ispirano molti partiti politici.

È il caso, nell’ambito della coalizione di destra-centro, attualmente al governo, di Forza Italia e di Noi moderati.

 Sebbene siano due formazioni che sono piuttosto incerte nel denunciare le derive radicali dei loro alleati, si può rilevare che puntano ad allargare lo spazio del loro consenso elettorale proprio presentandosi come elementi che quelle derive tengono a freno.

La situazione è più difficile da analizzare nell’ambito della sinistra-centro che si colloca all’opposizione.

La presenza di due piccole formazioni che si definiscono di centro, Italia Viva e Azione, entrambe partiti personali, è penalizzata dal loro marginale successo a livello elettorale.

 Il problema si pone in termini particolari per quanto riguarda il Partito democratico

 Nato in teoria per far convergere in uno stesso contenitore tradizioni riformiste diverse che si riallacciavano a precedenti filoni (comunista, democristiano, laico-liberale), ha sempre dovuto fare i conti con le ambiguità che il termine riformismo ha conosciuto nella storia delle nostre culture politiche:

 la svalutazione come versione ammorbidita e tentennante delle proposte di riforma radicale.

 

Questa situazione del Pd è in un certo senso esplosa con l’arrivo alla segreteria di Elly Schlein sulla spinta di un moto radical-movimentista in buona parte esterno ai quadri esistenti e la conseguente prevalenza nella comunicazione pubblica e nella gestione di quel partito di un approccio che tendeva a marginalizzare le componenti in senso lato riformiste.

 

Nel complesso la situazione delle componenti centriste nei partiti che dominano l’attuale quadro della politica-politicante non è tale da dare il tono all’andamento attuale del confronto che rimane dominato dalla ricerca di un bipolarismo fortemente radicalizzato (non tutti i bipolarismi sono così) per uscire dal quale si invoca da più parti la costruzione di un “partito di centro” capace di evitare ciò che viene considerato come una deriva assai poco favorevole a un qualche tipo di idem sentire de repubblica necessario in tempi di complessa transizione storica.

 

Non sembra alle viste che le componenti centriste all’interno dei partiti possano guadagnare un potere di indirizzo, sia per la debolezza della loro progettualità culturale, sia per le dinamiche imposte dall’attuale sistema elettorale.

 

In astratto si potrebbe anche pensare che le componenti centriste o riformiste all’interno dei partiti possano guadagnare un potere di indirizzo, ma in concreto ciò non sembra alle viste, sia per la debolezza della loro progettualità culturale, sia per le dinamiche imposte dall’attuale sistema elettorale:

due elementi che concorrono a tenere ancorato il quadro alla esasperazione dello scontro sull’asse destra/sinistra, quadro ben supportato da tutto un contesto di “influencer” che in esso hanno fatto confortevoli nidi.

 

Al momento, almeno in una parte non piccola dell’opinione pubblica che partecipa alla vita politico-culturale, si pone così la questione concreta di come si possa arrivare alla creazione di una formazione di centro in grado di operare con una certa efficacia nel contesto attuale. Prevalentemente il tema è affrontato chiedendosi chi possa assumersi il ruolo di “federatore” dell’area che non si sente rappresentata dai partiti strutturati come governo o come opposizione.

 

Le osservazioni che mi pare possibile avanzare riguardo a questo fenomeno sono le seguenti.

 La prima è che sia difficile partire dalla ricerca di un federatore, per la semplice ragione che mancano i soggetti federabili.

Il rinvio che si fa all’esperienza dell’Ulivo di Romano Prodi è inpropria, almeno da un punto di vista.

 La riuscita della candidatura di Prodi alla guida della coalizione è dubbio sarebbe riuscita se il Pds guidato da D’Alema non avesse appoggiato la tesi del “papa straniero” (secondo le interpretazioni maligne pensava di poterlo condizionare).

Solo molto più tardi ci fu la piena legittimazione di Prodi con le primarie.

 

Nel caso di cui oggi si discute non riesco a vedere soggetti già presenti che siano disponibili a farsi federare da un papa più o meno straniero e un ennesimo cartello-ammucchiata elettorale non ha chance di successo.

Bisognerebbe immaginare la presenza di un personaggio fortemente carismatico di suo, il che significa capace di generare “sequela” attorno alla sua figura. In ogni caso andrebbe ricordato che i movimenti che nascono attorno a figure carismatiche impiegano tempi lunghi a espandersi e a conquistare il peso specifico che ne fa attori di rilievo. Ora, a prescindere dal fatto che i carismatici non si inventano a tavolino o dalle cattedre, mediatiche e non (rileggersi Max Weber), non sembra ci siano i tempi per affrontare la classica “traversata del deserto” (quando la fece De Gaulle, che pure di carisma ne aveva, durò un buon decennio…).

Altra cosa è la ricerca di un ipotetico federatore del centro da incoronare per superare l'impostazione per cui a essere candidato premier della sinistra-centro non debba più essere la/il leader del partito elettoralmente più consistente (leggi: Elly Schlein) aprendo invece la via a primarie di coalizione in cui più d'uno potrebbe introdurre la mobilitazione del proprio cosiddetto “popolo” (a cominciare da Conte). Sarebbe però un giochetto da politica politicante con scarso respiro.

 

Chi seriamente vuol misurarsi nella costruzione del nuovo partito di centro deve dunque muoversi a partire da una enclave già esistente, sufficientemente individuabile e strutturata.

 Per questa ragione torna in campo l’ipotesi che questa possa essere il mondo cattolico.

È ragionevole riconoscere che in quest’ambito sia presente, per certi versi sopravvissuta, una classe dirigente, e che la Chiesa abbia mantenuto un suo circuito che ne fa ancora un’agenzia sociale, per quanto assai ridimensionata.

 Ciò che a me pare dubbio è che intorno a questa ci sia oggi una enclave sociale abbastanza omogenea da essere mobilitabile in quanto tale e perciò in grado di fornire a dei gruppi dirigenti quello zoccolo forte intorno al quale raccogliere poi le membra disperse di quell’opinione pubblica che si sta staccando dall’età delle utopie.

Il mondo cattolico è tutt’altro che un monolite, ma soprattutto al momento, a mio modesto giudizio, non dispone di una cultura omogeneizzante.

Basterebbe ricordare le molte tensioni impolitiche (mi si consenta la franchezza) che circolano in materia di pacifismo e organizzazione della difesa militare, di interpretazione dei fenomeni migratori, di connessioni con l’ambientalismo, di rapporto con le trasformazioni economiche e relativi impatti sociali.

Ci sono problemi strutturali con cui ci si dovrebbe confrontare, a partire dal fatto che esistono tensioni, positive, fra l’etica della carità e l’etica della responsabilità collettiva in capo alle istituzioni: ed è solo il più banale degli esempi.

 

Non credo che ci siano disponibilità a conferire alle strutture ecclesiastiche compiti di direzione dell’evoluzione politica:

 vescovi e clero è bene continuino nei loro compiti religiosi e pastorali senza tornare a operazioni di direzione politica che in una società secolarizzata non sarebbero accettate neppure da gran parte dei cattolici.

 

Mi sembra di poter concludere che la costruzione di una presenza riformista, che solo per pigrizia mentale si può definire di centro nel senso moderato del termine, vada innanzitutto costruita come una forte operazione culturale.

Se non disponiamo di una cultura che possa creare consenso intorno a un modo di interpretare la transizione che viviamo collocandosi fuori dagli schemi dei massimalismi radicaloidi di destra e/o di sinistra, non si consolida il terreno su cui far approdare una parte consistente dell’opinione pubblica e di conseguenza della classe politica.

Che questa nasca all’interno dei partiti oggi sulla scena, oppure sia espressione di nuove forme di aggregazione presenti nella dinamica sociale, oppure, cosa più normale, che scaturisca dalla dialettica fra le due componenti lo deciderà lo svilupparsi degli eventi.

 Se le classi dirigenti e pensanti (i due aspetti non sempre convivono) lavorassero per far maturare l’humus riformatore che ci manca, si potrebbe sperare con fondamento che possano arrivare anche i leader necessari, federatori o innovatori che siano.

 

 

 

 

Quando la marea si ritira,

sappiamo chi sta nuotando nudo.

Unz.com - Hua Bin – (14 aprile 2025) – ci dice:

 

Re Trump è l'imperatore senza vestiti.

Quando ho scritto il mio ultimo saggio La strategia della Cina per sconfiggere gli Stati Uniti mandandoli in bancarotta (huabinoliver.substack.com/p/china-s-strategy-to-defeat-the-us) poco prima del "giorno della liberazione" di Trump, ho pensato che avrei fatto un follow-up nel giro di un mese, dopo che le acque si saranno un po' calmate.

Le cose si sono mosse lungo la traiettoria come previsto, ma a un ritmo molto più veloce di quanto mi aspettassi.

Con l'annuncio di venerdì scorso che Trump sta esentando gli smartphone, i chip, i computer e l'elettronica prodotti in Cina dalla tariffa del 125% "reciproca (una farsa completa)", che rappresenta circa un quarto delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti, re Trump ha sostanzialmente piegato le ginocchia e ha capitolato. Comunque “Karoline Leavitt” la giri, Trump non si è limitato a battere ciglio, ha schivato.

Anthony Blinken aveva ragione.

Nelle relazioni internazionali, o sei a tavola o sei nel menu.

Abbiamo scoperto che il pollo Trump è nel menu insieme al pollo alla Kiev.

Ho commentato nell'ultimo saggio che la politica commerciale di Trump è stata come puntare una pistola alla sua tempia per minacciare il mondo.

Non sapevo che si sarebbe messo un rasoio sulla gola con l'altra mano e avrebbe anche mangiato del veleno per topi.

In genere traevo conclusioni dopo "lascia che il proiettile voli un po' più a lungo". Tuttavia, alcune cose sono già chiare dal 2 aprile 2025, Giornata degli sciocchi. Possiamo anticipare ciò che probabilmente accadrà nei prossimi mesi e anni.

In questo saggio, condividerò le mie previsioni.

Mi concentrerò sul quadro più ampio e sconsiglio di non essere prigioniero dei titoli quotidiani (anche di ora in ora) che sicuramente arriveranno dai media saturati.

 

In un saggio di follow-up che sarà pubblicato in seguito, condividerò le lezioni apprese dagli eventi della scorsa settimana: così tanti miti sono stati infranti e così tante verità nude sono venute fuori quando le maree si sono ritirate.

Ecco le mie previsioni principali:

Trump ha perso e otterrà poche concessioni dalla Cina.

Togliendo via tutta la teatralità delle ultime 2 settimane, è chiaro che l'obiettivo principale della guerra tariffaria a tutto campo di Trump è la Cina.

Purtroppo per lui, come ha detto a Zelensky, questa volta lo stesso Trump non ha carte.

La guerra commerciale avviene a due livelli: economico e politico.

 

A livello economico, gli Stati Uniti sono il terzo mercato per le esportazioni cinesi dopo l'ASEAN e l'UE, con il 12,5% (440 miliardi di dollari su 3,5 trilioni di dollari), in calo rispetto al 20% del 2018.

 Le esportazioni statunitensi di 440 miliardi di dollari rappresentano il 2,3% del PIL cinese (19 trilioni di dollari).

Il commercio della Cina con gli Stati Uniti si è ridotto dal 2018.

 Il suo commercio con il resto del mondo (la Russia e il sud del mondo in generale) è cresciuto rapidamente.

 

Gli Stati Uniti non sono già un mercato così importante per i prodotti cinesi.

Ad esempio, la Cina non esporta alcun veicolo elettrico negli Stati Uniti (tariffa del 100% grazie a Biden) ed è ancora il primo esportatore di veicoli elettrici al mondo.

Anche se il commercio con gli Stati Uniti va a zero, la Cina può compensare le esportazioni statunitensi perse consumando di più a livello interno e vendendo di più al resto del mondo.

Il governo cinese dispone di numerosi strumenti fiscali e monetari per stimolare i consumi a livello nazionale.

 Ci sono 3 trilioni di dollari di riserve estere (compresi i 760 miliardi di dollari del tesoro degli Stati Uniti) e 13 trilioni di dollari di risparmi interni.

 Il solo surplus commerciale della Cina è stato di 1 trilione di dollari nel 2024.

Molti di questi fondi possono essere utilizzati per compensare l'impatto negativo di una guerra commerciale con gli Stati Uniti.

Scavando un po' più a fondo, il 90% delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti è costituito da prodotti tecnologici, macchinari, prodotti farmaceutici, batterie, prodotti per l'energia verde e minerali critici.

Solo il 10% è costituito da prodotti a basso valore aggiunto come scarpe, abbigliamento, giocattoli e mobili.

Il 30-40% delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti va nel processo di produzione negli Stati Uniti come parti e componenti.

 

Data la posizione della Cina nella catena di approvvigionamento globale, le imprese e i consumatori statunitensi troveranno molto difficile sostituire economicamente i prodotti cinesi, direttamente o indirettamente nel commercio con altri paesi.

Altrimenti, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sarebbero diventate molto più basse dopo la prima guerra commerciale di Trump del 2018.

D'altra parte, il 70% delle importazioni cinesi dagli Stati Uniti è costituito da prodotti agricoli ed energetici che possono essere sostituiti con altri fornitori in Brasile, Russia e altrove.

 

Entro il 2022, gli Stati Uniti si sono affidati alla Cina per 532 categorie di prodotti chiave, quasi quattro volte il livello del 2000, mentre la dipendenza della Cina dai prodotti statunitensi è stata dimezzata nello stesso periodo.

 Gli Stati Uniti si affidano quasi esclusivamente alla Cina per le terre rare per la produzione di alta tecnologia e per gli API (ingredienti farmaceutici attivi) per la produzione di farmaci. Il 95% degli antibiotici utilizzati negli Stati Uniti è prodotto in Cina.

Se tagliate fuori, le industrie tecnologiche e farmaceutiche statunitensi ne soffriranno.

 La più grande dipendenza della Cina dagli Stati Uniti erano i semiconduttori, ma il commercio è già stato interrotto dall'embargo sui chip di Biden.

In breve, la Cina ha semplicemente una dipendenza commerciale molto più bassa dagli Stati Uniti rispetto al contrario.

A livello di quadro generale, la Cina si trova in cima alla catena di approvvigionamento globale (come produttore) e gli Stati Uniti sono in fondo alla classifica (come consumatori).

 La Cina può causare altrettanto, se non di più, dolore alle imprese e alle famiglie statunitensi.

 

Inoltre, sul fronte finanziario, la Cina può infliggere enormi sconvolgimenti all'economia statunitense se decide di scaricare le riserve del Tesoro degli Stati Uniti, facendo aumentare i costi di finanziamento per tutti negli Stati Uniti.

 Questo potrebbe infliggere un duro colpo agli Stati Uniti, poiché il paese è fortemente indebitato a tutti i livelli, dal governo, alle imprese, alle famiglie.

 La Cina finora si è astenuta dall'esercitare questa opzione nucleare, ma certamente è sul tavolo se la guerra economica si intensifica.

A livello politico, la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è diventata una gara di determinazione nazionale.

 Fa parte del confronto USA-Cina a tutto spettro.

 “Xi” ha un sostegno interno quasi universale per resistere a Trump, la cui guerra commerciale contro la Cina si è trasformata in un appello alla mobilitazione.

 La totale mancanza di rispetto di Trump per i partner commerciali degli Stati Uniti ("baciarmi il culo") che sono pronti a negoziare (come il Vietnam e il Giappone) serve solo a respingere i cinesi e a rendere estremamente sgradevoli le concessioni.

D'altro canto, il caos nei mercati finanziari statunitensi (azioni, obbligazioni, valute) e la prospettiva di un'inflazione galoppante stanno portando a un diffuso risentimento per le sofferenze autoinflitte da Trump da parte dei miliardari e della classe operaia.

 Anche gli irriducibili del MAGA sono preoccupati per l'impatto sui loro portafogli. Re Trump non ha né il capitale politico né la grinta personale per rimanere saldo.

 

Mentre Trump si vanta di altre nazioni che "mi baciano il culo", “Xi” si sta sculacciando il culo con i pantaloni abbassati di fronte al mondo.

Mentre Trump ha pateticamente proclamato "Xi è il mio buon amico", l'affetto non è mai ricambiato e trattato con completo disprezzo da Pechino.

 Xi non ha nemmeno menzionato il nome di Trump in pubblico dal 2 aprile.

 

Poiché l'obiettivo più importante della guerra commerciale è quello di danneggiare la Cina, la dura posizione della Cina ha reso l'intera politica tariffaria di Trump irrilevante e il bersaglio di un brutto scherzo.

Trump otterrà alcune concessioni limitate dai paesi deboli e dagli stati vassalli e dichiarerà una grande vittoria.

Come ha detto crudamente Trump, molti paesi si sono messi in contatto per "baciarmi il culo... per favore, signore, per favore".

 Senza dubbio sta facendo cazzate con i numeri:

 erano "più di 50 paesi", "70 paesi" e poi "più di 75 paesi" da un portavoce all'altro.

Eppure, paesi come il Vietnam, il Giappone, la Corea del Sud, l'India, il Canada, il Messico, ecc. sì inchineranno alla sua coercizione a vari livelli.

Offriranno di abbassare le tariffe, prometteranno di acquistare più beni statunitensi e forse investiranno nella produzione statunitense o acquisteranno più debito statunitense.

Il ricatto di Trump estrarrà la sua libbra di carne dalle vittime deboli.

Tuttavia, avrebbe potuto facilmente ottenere quegli accordi attraverso negoziati bilaterali (dal momento che molti sono stati vassalli con poca influenza) e senza umiliare questi partner commerciali.

 Invece ha scelto di far incazzare tutti, anche quelli che lo prendono a calci in culo non amano essere chiamati in questo modo...

 

La traiettoria economica degli Stati Uniti non cambierà.

Con o senza i dazi "reciproci", gli Stati Uniti non reindustrializzeranno e non riporteranno i posti di lavoro nel settore manifatturiero in modo significativo, in tempi brevi.

Questo perché la politica tariffaria non affronterà la vera causa principale dei problemi economici degli Stati Uniti di oggi.

La deindustrializzazione è il risultato di decenni di finanziarizzazione, esternalizzazione guidata dal profitto, infrastrutture interne e istruzione scadenti, regolamentazione eccessiva e pratiche economiche neoliberiste incentrate sugli azionisti a breve termine.

 

Le trasformazioni tecnologiche come l'intelligenza artificiale e l'automazione erodono ulteriormente qualsiasi prospettiva di riportare i posti di lavoro nel settore manifatturiero.

Gli Stati Uniti di oggi sono un'economia ad alto costo.

Le sue infrastrutture, dalle strade, ai ponti, ai porti, alle ferrovie, sono fatiscenti e non sono in grado di sostenere la produzione industriale su larga scala.

La sua forza lavoro è scarsamente qualificata e non addestrata per eseguire produzioni high-tech di fascia alta.

I baristi di caffè Starbucks e i flipper di hamburger di McDonald's non producono automaticamente la meccanica della batteria.

E non ci saranno "milioni e milioni" di lavoratori americani che metteranno minuscole viti sugli iPhone, come “Lutnick” ha pontificato in modo molto utile.

La sua classe manageriale è trainata dagli utili trimestrali e respinta dagli investimenti a lungo termine e dall'assunzione di rischi.

La sua élite dominante è composta da finanzieri e avvocati, non da ingegneri:

 non sanno come costruire fabbriche, sviluppare la catena di approvvigionamento, progettare e produrre cose e gestire una forza lavoro.

Dopotutto, è molto più facile fare soldi in borsa o come teste parlanti in TV o come influencer online.

È più facile studiare marketing o legge che fisica e ingegneria.

 Il duro lavoro di fare le cose non è più nel DNA degli Stati Uniti.

 

I costi della reindustrializzazione sono semplicemente troppo alti, nell'ordine dei molti trilioni, al di là di un paese con già 36 trilioni di dollari di debito nazionale (senza contare i molti altri trilioni di debiti delle imprese e delle famiglie).

I tradizionali beni rifugio come il tesoro e la valuta degli Stati Uniti crolleranno – la de-dollarizzazione accelererà.

Nonostante abbia minacciato a gran voce qualsiasi paese di de-dollarizzare durante la sua campagna elettorale ("Metterò dazi al 100% su chiunque non voglia usare il dollaro USA"), Trump ha consegnato il regalo più grande ai sostenitori della de-dollarizzazione.

Essendo una valuta fiat, l'intero valore del dollaro USA risiede nella credibilità dell'emittente: il governo degli Stati Uniti.

 Trump, l'agente del caos con i suoi sbalzi d'umore, le sue divagazioni incoerenti, il suo processo decisionale irrazionale e la totale mancanza di buon senso economico, è riuscito a fare l'impossibile: far crollare allo stesso tempo le azioni, le obbligazioni e la valuta degli Stati Uniti!

Il risultato delle sue folli mosse è un aumento dei costi di finanziamento, una riduzione degli investimenti, un'inflazione più elevata, un tenore di vita più basso e un esodo accelerato dal dollaro USA non solo da parte dei nemici degli Stati Uniti, ma anche dei suoi "amici".

“Xi” e “Putin” non possono fare nulla di tutto questo.

Solo Re Trump può farcela, trasformando gli Stati Uniti in uno stato canaglia terrorista economico!

 

La rivalità degli Stati Uniti con la Cina sarà ulteriormente militarizzata e una guerra calda è più probabile che mai.

Dopo essere caduti a terra con la guerra commerciale e la guerra tecnologica con la Cina, gli Stati Uniti si prepareranno ulteriormente per una resa dei conti militare.

 Sta già aumentando la spesa militare a uno storico trilione di dollari (secondo il profuso ringraziamento di “Hegseth”, Mr. Presidente “X” post).

 

La gente dice che Trump è un presidente di pace e non gli piacciono le guerre.

 Non ho mai comprato la schifezza per un secondo.

Se avete imparato qualcosa su di lui, dal suo comportamento pubblico agli scaffali di libri pubblicati da persone che hanno interagito con lui, dovreste sapere che Donald Trump non ha alcuna bussola morale, è un imbroglione e un bullo bellicoso in tutto e per tutto.

Non è un pacificatore.

Le sue azioni in Yemen e le minacce contro l'Iran ne sono la prova evidente.

 

È una conclusione ormai scontata:

 la priorità numero uno del regime degli Stati Uniti è indebolire e distruggere la Cina con ogni mezzo disponibile.

 L'unica ragione per cui non è scoppiata una guerra calda è perché le probabilità sono contro l'esercito americano e il regime degli Stati Uniti nutre ancora l'illusione di sconfiggere la Cina economicamente e tecnologicamente.

 Tuttavia, poiché l'ascesa della Cina diventa inarrestabile e tutte le sue carte vengono distribuite e fallite, gli Stati Uniti ricorreranno alla forza.

 

Come per la guerra commerciale e la guerra tecnologica, la Cina si è preparata da tempo per un'eventuale resa dei conti nel Pacifico occidentale.

 Che si tratti di una guerra calda a Taiwan o nel Mar Cinese Meridionale, che si tratti di una guerra per procura o diretta, la Cina combatterà fino alla fine e vincerà.

(huabinoliver.substack.com/p/comparing-war-readiness-between-china).

 

La corsa è iniziata: gli Stati Uniti imploderanno e andranno in bancarotta per primi o scoppierà una guerra calda tra Stati Uniti e Cina?

Come esposto nel mio saggio precedente, la strategia della Cina per sconfiggere gli Stati Uniti è quella di costringerli alla bancarotta prima che scoppi una guerra calda, proprio come la strategia degli Stati Uniti che ha sconfitto l'URSS.

La guerra tariffaria di Trump e il bilancio del Pentagono hanno accelerato il ritmo – gli Stati Uniti stanno affrontando un costo di finanziamento più elevato (quindi pagamenti di interessi) e una maggiore spesa militare allo stesso tempo – le due maggiori spese per il governo degli Stati Uniti.

 Si può anche contare sul fatto che Trump segua il “piano neocon Project 2025” per tagliare le tasse ai suoi ricchi donatori.

Ridurre i ricavi e aumentare i costi è un modo infallibile per andare in bancarotta, qualcosa in cui Donald Trump ha molta esperienza.

 Dopotutto, questo è un ragazzo che è andato in rovina 6 volte e in qualche modo è riuscito a mandare in bancarotta i casinò!

Mentre la Cina persegue la strategia dell'arte della guerra di “Sun Tzu per vincere senza combattere”, Trump persegue la sua scoreggia dell'accordo per bluffare e truffare.

Come ho detto l'ultima volta, Trump è il miglior agente non pagato per la Cina (orgogliosamente) comunista.

 

 

 

Trump ha utilizzato i "poteri di emergenza"

per imporre le sue tariffe.

Dovremmo preoccuparci?

Unz.com - Mike Whitney – (13 aprile 2025) – ci dice:

 

Trump non ha completamente usurpato i poteri dittatoriali per imporre le sue tariffe.

 Tuttavia, le sue azioni, in particolare l'uso dell'”International Emergency Economic Powers Act” (IEEPA) e di altri poteri di emergenza, hanno sollevato preoccupazioni significative tra i critici, gli studiosi di diritto e alcuni membri del Congresso sul fatto che sta spingendo i confini dell'autorità esecutiva in modi che potrebbero essere visti come autoritari o dittatoriali. (Grok).

Incontra il nuovo capo, come il vecchio capo.

Abbiamo appena appreso che la persona più potente del mondo, Donald Trump, ha un capo: il mercato obbligazionario.

Potrebbe non essere riconosciuto a se stesso, ma il tumulto finanziario globale che ha causato. lo ha rinchiuso in una prigione fiscale. ...

È totalmente legato alla buona volontà degli investitori obbligazionari.

 

Ha anche consegnato una pistola carica al suo presunto nemico, la Cina, e al suo presunto alleato Giappone.

 Le pistole cariche che hanno sono le... più di un trilione di dollari di titoli del Tesoro USA e la Cina non molto meno.

Se dovessero vendere quelle obbligazioni, o anche se scegliessero di non rifinanziare le obbligazioni in scadenza, potrebbe essere un disastro per Trump. Perché potrebbe causare un'altra impennata potenzialmente paralizzante dei rendimenti obbligazionari.

 

Ecco la misura della debacle di Trump.

 Potrebbe aver cestinato il più importante vantaggio finanziario competitivo dell'America, vale a dire che gli investitori hanno tradizionalmente acquistato il dollaro e i Treasury statunitensi in un momento di incertezza economica e politica. Non più, perché lui stesso è diventato la fonte dell'incertezza economica e dell'ansia del mondo.

 Quindi, come ho detto, ora è in una prigione fiscale.

 E se gli investitori obbligazionari, tra cui Giappone e Cina, lo vedranno imporre dazi o tagliare le tasse in modi che non gli piacciono,...

Hanno i mezzi e il potere per fermarlo. (Robert Peston@Peston).

Perché i mercati hanno reagito in modo così irregolare all'annuncio di Trump del "Giorno della Liberazione"?

Gli investitori non amano l'incertezza.

 L'incertezza genera paura, la paura genera panico e il panico genera crolli dei mercati.

 L'improvvisa imposizione di dazi doganali ingenti da parte di Trump ha scatenato il timore che cambiamenti radicali nel commercio globale avrebbero prodotto un'inflazione più elevata, una crescita più lenta, interruzioni delle linee di approvvigionamento e un'escalation dei conflitti con i partner commerciali americani.

 Questi sono i risultati attesi che hanno messo in agitazione gli investitori e fatto crollare i mercati.

 

Trump ha cercato di placare i timori degli investitori presentando i dazi come parte essenziale della sua politica "America First".

Sta cercando di convincere i suoi sostenitori che questi nuovi dazi "libereranno" i lavoratori americani da quelle che Trump definisce "pratiche commerciali sleali".

(In un discorso, Trump ha paragonato i dazi a una dichiarazione di indipendenza economica , tracciando parallelismi con altre pietre miliari storiche degli Stati Uniti).

 

Cosa possiamo estrapolare da questo?

 

Innanzitutto, che (nella mente di Trump) gli Stati Uniti sono stati vittime di abusi da parte di alleati e rivali.

Come ha detto Trump: "Ci stanno derubando".

 Questa è la mentalità di base che alimenta la filosofia del "Giorno della Liberazione" di Trump, una filosofia secondo cui il resto del mondo dovrebbe essere punito per il deficit generato dall'eccessivo consumo americano e per il suo oceano di perdite da 36 trilioni di dollari.

 La colpa è di tutti gli altri, non nostra.

E soprattutto è colpa della Cina, perché la Cina ha aperto il suo paese alle voraci multinazionali americane che hanno trasferito le loro industrie per approfittare della manodopera a basso costo cinese.

Secondo Trump, anche la Cina dovrebbe essere incolpata per questo.

 

Il problema con la politica economica "America First" è che anche gli altri Paesi difenderanno i propri interessi economici.

 Quindi, se qualcuno come Trump cercasse di abolire arbitrariamente l'attuale sistema di commercio internazionale e imporre la propria versione, incontrerebbe una dura opposizione (come ha fatto).

 

Ciononostante, l'annuncio di Trump ha avuto un effetto disastroso sul sistema finanziario globale, innescando una fuga convulsa dai titoli del Tesoro statunitensi. Questo, a sua volta, ha spinto molti analisti a ipotizzare che la guerra commerciale di Trump cambierà radicalmente il modo in cui vengono gestiti gli scambi commerciali internazionali.

 Ciò, naturalmente, ha suscitato ulteriori allarmi, facendo salire a nuovi massimi l'ansia degli investitori.

Il Ministro degli Esteri di Singapore, “Vivian Balakrishnan”, ha riassunto la situazione in questo modo:

 

Questa è la fine di un'era... L'architetto, il pianificatore generale, lo sviluppatore del sistema di integrazione economica basato su regole ha deciso che ora è necessario impegnarsi in una demolizione su vasta scala dello stesso sistema che ha creato.

Ha ragione, vero?

 L'era dei mercati integrati in un sistema globalizzato è finita.

 Il mondo viene nuovamente diviso in blocchi in guerra da un'amministrazione convinta che il Paese che indebita e consuma più di qualsiasi altro nella storia dell'umanità venga ingiustamente sfruttato dai lavoratori sottopagati di tutto il pianeta.

L'idea è ridicola.

Per comprendere appieno fino a che punto la teoria di fondo di Trump dipenda dalla convinzione che "ci stanno derubando", abbiamo estratto questo breve estratto da un post di “Arnaud Bertrand” che commenta un discorso del presidente del “Council of Economic Advisers” di Trump, “Steve Miran”:

 

Il nocciolo della tesi di Miran è quello di riposizionare lo status di valuta di riserva globale del dollaro non come un privilegio esorbitante... ma come in qualche modo un "peso" che il resto del mondo deve compensare per il peso che gli Stati Uniti sopportano.

Come spiega Miran, avere il dollaro come valuta di riserva "ha causato persistenti distorsioni valutarie e ha contribuito, insieme alle ingiuste barriere commerciali di altri paesi, a deficit commerciali insostenibili" che "hanno decimato il nostro settore manifatturiero".

 

Quindi, vuole rinunciare allo status di valuta di riserva del dollaro, giusto?

Sbagliato.

Vuole avere entrambe le cose.

 Afferma che "il dominio finanziario dell'America non può essere dato per scontato; e l'amministrazione Trump è determinata a preservarlo", ma questo stesso dominio finanziario "ha un costo" e "altre nazioni" devono pagarlo...

Fermiamoci un attimo a riflettere sulla pura follia di tutto questo:

 gli Stati Uniti stanno letteralmente suggerendo ai paesi di inviare assegni al Tesoro come tributo per il "privilegio" di mantenere il dollaro come valuta di riserva globale, quando è proprio questo status di riserva del dollaro a essere il fondamento del potere statunitense.

(Arnaud Bertrand).

Ma che diavolo?

Quindi “Miran” pensa che il consumo eccessivo e la spesa in deficit siano così indispensabili per il sistema economico globale, che altri paesi dovrebbero pagare gli Stati Uniti per continuare con il loro spudorato sfruttamento?

In effetti, questa è la sua posizione.

 E questa convinzione non si limita a “Miran”.

Anzi, è proprio questo il cardine ideologico su cui si fonda la filosofia commerciale di Trump. "Noi spenderemo; voi pagherete. Noi prenderemo; voi darete. Noi governeremo, voi seguirete".

Capito il concetto?

Ah, e per aggiungere la beffa al danno, ci consideriamo anche noi le "vittime" di questa relazione.

 ("Ci stanno fregando").

È sconcertante.

L'approccio frammentato di Trump al commercio internazionale è la prova di questa arroganza senza limiti.

 E questa sembra essere la forza trainante del "Liberation Day", l'immutabile convinzione che il resto del mondo esista solo per servire gli interessi degli Stati Uniti.

Mi sbaglio?

Non mi sbaglio.

Basta guardare i mercati. Gli investitori votano con i piedi.

Si stanno dirigendo verso le uscite.

Il loro panico è un referendum sulle politiche commerciali di Trump.

Non si tratta di una "crisi finanziaria".

Si tratta di una "corsa ai dazi sugli asset rischiosi statunitensi" attribuibile a un solo uomo: Donald Trump.

Nessun altro ha causato questo.

 

Il programma economico distintivo di Trump (i dazi reciproci) si basa sull'errata convinzione che il resto del mondo debba fungere da bancomat personale per gli Stati Uniti.

Ma gli investitori non condividono questa convinzione; pensano che i dazi innescheranno una svendita di asset finanziari statunitensi e faranno crollare il mercato.

Ed è ciò che ci sta dicendo anche il crollo del mercato dei titoli del Tesoro.

 Questo è tratto da un articolo di “Politico”:

 

Il forte sell-off dei titoli di debito pubblico che sostengono il sistema finanziario globale ha spinto il presidente Donald Trump a sospendere per 90 giorni i suoi piani per imporre dazi punitivi a dozzine di partner commerciali.

Gli investitori spesso trattano i titoli di Stato come un rifugio durante i periodi di stress del mercato.

Ora, è accaduto il contrario.

Gli hedge fund e altri investitori hanno scaricato i titoli del Tesoro anche se le azioni sono crollate, spingendo verso l'alto i rendimenti che vengono utilizzati per confrontare tutto, dai tassi ipotecari ai prestiti aziendali.

La pausa di 90 giorni ha fatto poco per placare i timori del mercato. …

 Se l'incertezza della politica commerciale continua a scuotere gli investitori obbligazionari e a far salire i costi di finanziamento, Trump si troverebbe di fronte a un mix letale di alti tassi di interesse, riscatto elevato e crescita economica lenta o addirittura negativa.

Al momento, c'è poca chiarezza su quanto il nervosismo del mercato obbligazionario sia causato dalle turbolenze generali del mercato – alcuni investitori stanno vendendo titoli del Tesoro perché hanno bisogno di liquidità – o se possa segnalare qualcosa di più inquietante, come una minore fiducia negli asset statunitensi con Trump che sta sovvertendo l'ordine economico globale...

Il fatto che il dollaro e i titoli del Tesoro stiano affondando, mentre le azioni crollano, riflette interrogativi più ampi su "chi finanzierà i deficit continui. Da dove arriveranno i capitali per sostenere gli asset statunitensi in generale?".

 Mal di movimento del mercato obbligazionario nell'economia di Trump, “Politico”.

 

La situazione è disastrosa, ed è per questo che Trump ha gettato la spugna e ha rimosso i dazi su 90 paesi, esclusa la Cina.

 Il suo piano di usare i dazi come mezzo per infliggere danni ai partner commerciali è stato vanificato da un'inaspettata fuga dal debito statunitense, che non aveva previsto.

Non è esagerato affermare che il mercato dei titoli del Tesoro statunitensi è il pilastro su cui poggia il capitalismo di stampo occidentale e che qualsiasi crepa in queste fondamenta rischia di avere un impatto catastrofico sull'economia mondiale.

Ecco perché Trump ha ceduto rapidamente e ha allentato la politica monetaria nei confronti di tutti tranne che della Cina.

 

Per quanto riguarda la Cina, il Paese è ora di fatto sotto embargo statunitense, imposto senza autorizzazione del Congresso e in chiara violazione delle norme dell'OMC.

Ecco un breve commento di “Grok”:

 

L'OMC definisce un quadro normativo per il commercio internazionale (che include) il divieto di barriere commerciali arbitrarie o ingiustificate... (i dazi) non possono essere utilizzati per discriminare ingiustamente tra i partner commerciali.

I dazi di Trump violano le norme dell'OMC... in quanto sembrano violare gli impegni NPF, di non discriminazione e di vincolo tariffario senza una chiara giustificazione ai sensi delle eccezioni dell'OMC.

 (I dazi) mancano inoltre di una giustificazione sufficiente ai sensi delle eccezioni per la sicurezza nazionale e sono considerati discriminatori e protezionistici. (Grok).

Vale anche la pena notare che ai Paesi a cui Trump ha imposto dazi viene chiesto di allinearsi agli obiettivi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Si tratta di una questione che i media non hanno trattato in dettaglio, ma l'implicazione è che l'amministrazione stia usando la coercizione economica per arruolare una coalizione anti-Cina che si unirà agli Stati Uniti nei suoi sforzi per sanzionare, isolare e accerchiare la “RPC”.

 

Inoltre, "Trump ha invocato l'”International Emergency Economic Powers Act” (IEEPA) per giustificare i suoi dazi, compresi quelli annunciati nell'ambito della sua politica del "Giorno della Liberazione" e di azioni precedenti.

 Secondo “Grok”:

Un foglio informativo della Casa Bianca del 2 aprile 2025 afferma che Trump ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale a causa delle "pratiche economiche e commerciali estere" che creano una minaccia alla sicurezza nazionale ed economica degli Stati Uniti, e menziona l'uso dell'”IEEPA” per imporre "tariffe reattive" per affrontare questa emergenza...

L'”IEEPA”, promulgato nel 1977, consente al presidente di dichiarare lo stato di emergenza nazionale in risposta a una "minaccia insolita e straordinaria" alla sicurezza nazionale, alla politica estera o all'economia che ha origine al di fuori degli Stati Uniti.

Una volta dichiarata l'emergenza, il presidente può bloccare le transazioni, regolamentare le importazioni/esportazioni e adottare altre misure economiche.

 

...Conclusione.

 

Sì, Trump ha invocato l'”IEEEPA” per giustificare i suoi dazi, inclusi quelli derivanti dall'annuncio del “Giorno della Liberazione” del 2 aprile 2025 e dalle azioni precedenti del febbraio 2025.

 Ha dichiarato l'emergenza nazionale ai sensi dell'”IEEEPA” imponendo sia il dazio di base del 10% su tutte le importazioni sia i dazi reciproci più elevati, inquadrando i deficit commerciali e le questioni correlate come minacce alla sicurezza economica e nazionale degli Stati Uniti. (Grok)

Trump ha utilizzato l'”International Emergency Economic Powers Act” (IEEPA) per evitare di ottenere l'approvazione del Congresso per la sua politica commerciale?

Sì, Trump ha utilizzato l”'International Emergency Economic Powers Ac”t (IEEPA) per evitare la necessità dell'approvazione del Congresso per i suoi dazi, inclusi quelli del Liberation Day e le precedenti azioni del 2025.

 Dichiarando emergenze nazionali legate a deficit commerciali, traffico di droga e migrazione, rivendica l'autorità unilaterale ai sensi dell'IEEPA per imporre dazi senza il consenso legislativo, sfruttando gli ampi poteri di emergenza della legge.

 

Domanda: Il Congresso ha l'autorità legale per supervisionare l'imposizione delle tariffe?

Sì, il Congresso ha il diritto legale di supervisionare l'imposizione di tariffe doganali ai sensi della Costituzione e della legge federale (Articolo I, Sezione 8), in quanto detiene l'autorità suprema per regolamentare il commercio estero e imporre dazi. Tuttavia, l'uso da parte di Trump dell'IEEPA per dichiarare emergenze nazionali gli consente di aggirare temporaneamente questa supervisione, affidandosi ad ampi poteri esecutivi che non richiedono l'approvazione del Congresso.

Ultima domanda per “Grok”:

come chiamiamo un leader politico che usurpa la legittima autorità costituzionale del Congresso e si attribuisce tutto il potere statale?

Un leader politico che usurpa la legittima autorità costituzionale del Congresso e si attribuisce tutto il potere statale viene comunemente definito autocrate, dittatore o, in casi estremi, tiranno...

Per Trump in particolare, le etichette dipendono dalla prospettiva:

i critici vedono il suo utilizzo dell'IEEPA come autoritario, mentre i sostenitori lo vedono come una leadership audace.

La colpa è tanto del Congresso quanto di Trump ma, da qualunque punto di vista la si guardi, ci troviamo in acque inesplorate.

 

 

 

In definitiva, non sono stati il comunismo

o il capitalismo, ma la supremazia ebraica

a minare il nazionalismo occidentale.

Unz.com - Jung-Freud – (7 aprile 2025) – ci dice:

 

È un enorme errore confondere la "wokeness" inventata dagli ebrei-capitalisti con il comunismo e scommettere il futuro su un'alleanza con la destra ebraica decidendo di degradare tutte le “identità goy” verso la “schiavitù di Sion”.

L'espiazione per aver aiutato il genocidio tedesco degli ebrei sta aiutando il genocidio ebraico dei palestinesi.

 La lezione della Seconda Guerra Mondiale non è che nessun popolo ha il diritto di fare un genocidio su un altro popolo, ma che le vite degli ebrei sono così preziosi che è un crimine uccidere gli ebrei, ma non è un crimine per gli ebrei uccidere i “goyim”.

 

Si potrebbe fare un caso teorico del marxismo o del comunismo come opposti al nazionalismo.

Dopo tutto, il marxismo si è sviluppato come un movimento internazionale che collegava i "lavoratori di tutto il mondo" contro i loro oppressori, vale a dire che se i capitalisti esercitavano la loro influenza su scala globale, allora anche i lavoratori dovevano pensare al di là dei "meschini" interessi nazionali.

In teoria, tutto questo era vero.

 

Ma nella pratica storica, il comunismo non era necessariamente antinazionalista.

Soprattutto in seguito all'insistenza di “Josef Stalin” sullo sviluppo del "socialismo in un solo paese" in opposizione al piano di “Lev Trotsky” per la rivoluzione mondiale (che in realtà si concentrava sulla Germania come motore principale della rivoluzione socialista), il comunismo prese ad assumere un carattere nazionalista.

Naturalmente, data la composizione multietnica, multireligiosa e multiculturale dell'Unione Sovietica (essenzialmente un'erede dell'Impero russo), varie nazioni venivano periodicamente soppresse o brutalizzate al servizio dell'ideologia o degli interessi geopolitici sovietici.

 

Certo, la prima Unione Sovietica non era una continuazione del dominio russo o dell'egemonia sui gruppi non russi, ma più simile a una vendetta non russa sulla Russia, soprattutto perché i leader principali erano per lo più costituiti da minoranze etniche;

consideravano il sistema pr -sovietico come quello dello sciovinismo della Grande Russia, anche se, a dire il vero, la dinastia regnante dei Romanov e molti membri dell'élite non erano di etnia russa.

L'identità etnica e il patrimonio culturale sopravvissero, anzi prosperarono, sotto il comunismo per due ragioni fondamentali.

 La prima era il pragmatismo, poiché il programma radicale di cancellare tutte le differenze etniche e culturali al fine di creare l'Uomo Nuovo era un compito arduo per un esperimento politico nascente.

Si riteneva più vantaggioso appellarsi alle varie comunità etniche con la promessa del comunismo come loro protettore e garante piuttosto che abolizionista, ovvero, pur insistendo sulla giustizia socioeconomica e sull'egualitarismo, il comunismo non avrebbe violato la ricchezza delle diverse culture.

Inoltre, sebbene l'iniziativa sovietica avesse spesso decretato gli spostamenti di massa delle popolazioni per realizzare progetti industriali, la libera circolazione basata sull'iniziativa individuale, una caratteristica comune dell'esperienza americana, fu limitata, il che significava che la maggior parte delle popolazioni etniche rimase più o meno nei territori dei propri antenati.

Inoltre, la relativa soppressione della cultura popolare (nel senso consumistico occidentale) ha fatto sì che la cultura e il patrimonio folkloristico giocassero un ruolo di primo piano nel definire il senso di identità e di appartenenza, mentre l'elevazione e la diffusione pervasiva della cultura pop hanno portato a una rapida omogeneizzazione negli Stati Uniti, così come nell'Europa occidentale.

Per il bene della stabilità sociale, i comunisti consideravano la cultura folkloristica e il patrimonio etnico meno minacciosi della cultura popolare, inscindibile dalla logica del capitalismo.

Pertanto, se la cultura capitalista cercava di far sì che tutti, negli Stati Uniti e in Europa (e nel mondo intero), si ispirassero a idoli di tendenza come “Elvis Presley”, i “Beatles” e “007, il comunismo ha posto maggiore enfasi sulle culture radicate nella tradizione e nel folklore.

Un grosso problema con l'attuale discussione sulla politica e sugli affari mondiali è l'assoluta diagnosi errata degli eventi e delle loro conseguenze.

 Gran parte di questo sembra intenzionale, principalmente per paura del Potere Ebraico (e dei suoi commissari cornuti), anche se, a dire il vero, molte persone sembrano davvero ingoiare la linea ufficiale o approvata.

 

Prendiamo ad esempio il caso dell'Ungheria.

 Viktor Orban vorrebbe farci credere che il complotto globalista di Soros per sovvertire la nazionalità, la cultura e l'eredità ungherese sia in qualche modo legato al passato comunista del suo paese.

In altre parole, le forze "woke" delle frontiere aperte, dell'ideologia anti-bianca, della virulenza anti-cristiana e del “globo homo” sono semplicemente reiterazioni del comunismo.

 Contro questa minaccia "di sinistra", gli ungheresi devono essere risoluti nel ricordare i giorni bui del governo della sinistra radicale e fare causa comune con i sionisti e la destra europea (e il MAGA) per resistere e infine prevalere.

Ma ha davvero senso?

 

Sebbene ci fossero molti aspetti sbagliati nel comunismo, ha mai rappresentato una minaccia esistenziale per la nazionalità, l'identità e la cultura ungherese?

Il comunismo ha cercato di spalancare i confini dell'Ungheria a ondate infinite di stranieri, soprattutto non europei?

Ha promosso degenerazioni culturali come la celebrazione della sodomia e altre perversioni quasi sessuali?

Gli ungheresi venivano forse indotti a vergognarsi di essere ungheresi?

Agli ungheresi veniva negata la loro storia o il loro patrimonio culturale?

Ora, il potere della Chiesa era certamente represso in Ungheria, ma gli ungheresi avevano il diritto di praticare il culto a livello personale.

Come minimo, nessuno avrebbe mai preso in considerazione l'idea di addobbare le chiese con simboli di degenerazione sessuale, un fenomeno che ha travolto l'Occidente capitalista, dove le chiese con simboli di "wokeness", solitamente negro latria o globo homo, sono una vista comune.

Mentre il comunismo in Ungheria era economicamente restrittivo e repressivo dell'impresa privata, in nessuna forma tentò di cancellare la nazione ungherese – il suo popolo, la sua cultura e la sua storia – e di sostituirla con orde di stranieri.

 E anche se gli ebrei erano, come nell'Unione Sovietica, prominenti nelle prime fasi del regime comunista, il governo in seguito fu in gran parte uno degli stati ungheresi governati da “ungheresi etnici”.

 

Vale anche la pena sottolineare che l'Unione Sovietica ha permesso, persino incoraggiato, una sorta di nazionalismo vassallo, cioè il nazionalismo ungherese non è stato un problema finché è rimasto fedele al blocco sovietico.

 Anche se il nazionalismo vassallo non era la forma più preferibile di nazionalismo, che idealmente avrebbe dovuto essere sovrano, consentiva comunque il patriottismo e la conservazione nazionale, anche se all'interno del quadro più ampio dell'impero.

 A differenza del Giappone, che sosteneva il regime fantoccio in Manciuria per permettere ai giapponesi di colonizzare e prendere il sopravvento, i sovietici non avevano alcun piano di colonizzare e prendere il controllo dei loro vassalli del blocco orientale.

 L'URSS tollerava il nazionalismo in quelle nazioni finché non era antisovietico.

 

La dominazione sovietica era in parte ideologica ma anche geopolitica, poiché i sovietici (o i russi) temevano, correttamente come si è scoperto nella realtà post-Guerra Fredda, che la perdita di uno dei loro vassalli dell'Europa orientale non fosse tanto un segnale di indipendenza nazionale quanto un'altra pedina per l'Occidente anti-sovietico (o anti-russo).

 In effetti, i russi lo scoprirono all'indomani della Guerra Fredda, quando l'Unione Sovietica, in uno stato di rapida dissoluzione, scelse di lasciare che i suoi ex alleati dell'Europa orientale andassero per la loro strada.

Semmai, i russi sono andati ancora oltre e hanno presieduto alla disgregazione dell'Unione Sovietica, con ogni ex repubblica sovietica che sceglieva il proprio sistema di governo e l'agenda nazionale.

Ma ciò che seguì non fu tanto l'ascesa di nuovi nazionalismi, quanto l'espansione dell'Impero d'Occidente guidata dagli Stati Uniti, controllati dagli ebrei.

Data la difficile situazione delle nazioni dell'Europa orientale e delle ex repubbliche sovietiche, le loro élite furono più che disposte a sacrificare la sovranità nazionale per unirsi al campo occidentale con il suo ricco bagaglio di ricchezze.

Così, la NATO si espanse verso est e gli Stati Uniti fecero breccia nelle varie repubbliche che circondavano la Russia, ormai in declino.

Inoltre, l'agenda occidentale in quelle regioni non era quella di rafforzare l'identità nazionale e il patriottismo, un senso di liberazione dopo decenni di repressione comunista e dominazione sovietica, ma di trasformarle in satrapie del globalismo, dove l'identità nazionale e la sicurezza nazionale sarebbero state sacrificate sull'altare del culto ebraico (sionismo e olocausto), del globo homo e della negro latria.

In ogni ex nazione ed ex repubblica sovietica, la stessa triade globalista di ebrei, omosessuali e neri veniva promossa a scapito dell'identità nazionale, della cultura e del patrimonio culturale, lo stesso copione con cui il potere ebraico aveva profondamente trasformato i paesi dell'Occidente capitalista.

Anche quando l'Occidente incoraggiava il nazionalismo, si trattava di solito di opportunismo più che di idealismo, uno stratagemma per alimentare il settarismo e indebolire i legami, così da frammentare uno stato consolidato in parti più piccole, più facilmente assimilabili al Nuovo Ordine Mondiale.

 La tragedia jugoslava, per esempio.

 E l'Ucraina, naturalmente.

Il capitalismo era il vero nemico del nazionalismo?

Sebbene il capitalismo contribuisse maggiormente a erodere nazionalismo e tradizionalismo con la sua enfasi su individualismo, consumismo, edonismo, dinamismo e moderazione, non ne fu il fattore essenziale.

Prima della conquista ebraica dell'Anglosfera (e quindi dell'intero Occidente), gli Stati Uniti capitalisti, sotto il dominio angloamericano, avevano anche consentito una sorta di nazionalismo vassallo alle loro nazioni satellite o clienti.

Pur dovendo rimanere sotto l'egemonia americana, ciascuna poteva enfatizzare la propria forma di nazionalismo entro tali limiti.

Il loro senso di patriottismo, il patrimonio culturale e l'autoconservazione etnica non venivano messi in discussione.

Diventavano problematiche solo se osavano liberarsi dall'egemonia americana, soprattutto con l'obiettivo di unirsi al campo comunista per ragioni ideologiche o geopolitiche.

Altrimenti, gli Stati Uniti non si allarmavano per l'orgoglio giapponese in Giappone, per l'orgoglio italiano in Italia, per l'orgoglio messicano in Messico, per l'orgoglio greco in Grecia, per l'orgoglio turco in Turchia, e così via.

Mentre gli internazionalisti americani desideravano che altri paesi adottassero il sistema americano e l'insieme di principi universali fondamentali fondati sulla civiltà occidentale, non avevano alcun obiettivo ambizioso di imporre la Grande Sostituzione ai paesi vassalli, degradandone la cultura con la negro latria e il globo homo, o minacciandoli di distruzione per non essersi inchinati ai sionisti con sufficiente deferenza.

In effetti, se il capitalismo è così dannoso per il nazionalismo e l'identità etnica, perché l'Occidente capitalista è così zelante nel sostenere l'identità ebraica e l'iniziativa sionista?

Se il capitalismo è intrinsecamente antinazionalista, dovrebbe essere contrario all'idea di patria ebraica tanto quanto all'idea di patria britannica, francese, polacca o ungherese.

 

Prima della presa del potere da parte degli ebrei, non ricordo che le élite americane dicessero ai loro vassalli, come il Giappone, di accogliere orde di stranieri come "Nuovi Giapponesi" e promuovessero la Grande sostituzione come la cosa più grande dai tempi del sushi a fette.

E per la maggior parte della storia della Germania Ovest dopo la seconda guerra mondiale, la cittadinanza era ancora basata sul sangue, cioè le persone di origine germanica in terre non tedesche potevano fare domanda per stabilizzarsi in Germania, e gli Stati Uniti non avevano problemi con questo.

E anche se gli Stati Uniti hanno dovuto sfruttare al meglio la loro diversità di razze e gruppi etnici, il mantra "La diversità è la nostra forza" non esisteva quasi mai prima di poco tempo.

C'era un'immigrazione non bianca nell'Europa occidentale negli anni del dopoguerra, ma le ragioni erano razionali o morali, sia per compensare un'acuta carenza di manodopera nella ricostruzione delle economie distrutte dalla guerra, sia per fornire rifugio ai collaboratori che affrontavano il pericolo, persino la morte, nelle loro nazioni appena emergenti (o ex colonie liberate).

 Era la cosa giusta per i francesi accettare quegli algerini che avevano servito il sistema coloniale e avevano degli obiettivi sulle spalle.

 L'immigrazione limitata di non bianchi all'epoca aveva qualche ragione convincente, e pochi sostenevano che l'immigrazione per il bene dell'immigrazione fosse una buona idea semplicemente sulla base della "diversità muh" o della negralistia.

Ma sempre di più, guidati dagli Stati Uniti di ascesa ebraica, c'era l'idea che l'immigrazione di massa in sé e per sé fosse una grande idea, che il culto della diversità fosse sacrosanto e che la bianchezza fosse intrinsecamente problematica, cioè che le società che erano per lo più bianche e omogenee erano in qualche modo malate o patologiche e dovevano essere curate dalla malattia con la panacea dell'immigrazione di massa non bianca.

Col tempo, l'idea divenne il nuovo modello dell'anglosfera egemonica (dove la lingua era l'inglese ma la paternità era ebraica), e poi, gli Stati Uniti iniziarono a farla pressione su tutti i loro stati vassalli, ad esempio quelli come Rahm Emanuel in Giappone che spingevano per una maggiore immigrazione, la celebrazione della diversità, la negro latria e il globo homo.

 Le pressioni sono state maggiori sull'Europa, con qualsiasi nazione che desideri l'autoconservazione etichettata come "estrema destra", "suprematista bianca" o "neonazista".

 L'etichetta di "estrema destra" che un tempo veniva applicata agli “skinhead”, ai “neonazisti” e simili è ora impressa sul desiderio moderato di sopravvivenza etnica, conservazione culturale e sicurezza delle frontiere.

Alla fine, il più grande nemico del nazionalismo “goy “non era né il comunismo né il capitalismo, ma la supremazia ebraica, e questo è dovuto a una certa mentalità che è pervasiva sia tra gli ebrei religiosi che tra quelli laici, vale a dire che, indipendentemente dai loro atteggiamenti sulle questioni spirituali, essi condividono l'etnocentrismo dell'identità ebraica.

L'ebraicità è diversa dalla maggior parte delle identità etniche e delle grandi religioni nella sua fusione di identità e santità.

Essere tedeschi, italiani, francesi, turchi o messicani è semplicemente una questione etnica.

Mentre qualsiasi etnia può essere sciovinista – "Noi italiani siamo i migliori del mondo!"  la supremazia non è intrinseca alla maggior parte delle identità.

 Essere birmani o bulgari significa semplicemente essere di origine birmana o bulgara.

Per quanto riguarda le due più grandi religioni del mondo, il cristianesimo e l'islam, l'adesione o la devozione è definita dal credo, dalla fede o dal credo piuttosto che dall'identità.

Non si è cristiani di sangue semplicemente perché i propri genitori sono cristiani. Lo stesso vale per la fede islamica.

Mentre i genitori musulmani possono crescere i loro figli per essere buoni musulmani, uno non è musulmano per nascita.

Bisogna crescere adottando e praticando la fede.

Non esiste sangue cristiano o sangue musulmano, ma solo lo spirito cristiano o lo spirito musulmano che si adotta come proprio.

 

Al contrario, l'ebraicità dice che gli ebrei sono nati con sangue sacro, cioè il semplice fatto di essere nati ebrei rende un membro dello speciale "Eletto" dell'Unico Vero Dio.

 Ciò significa che un ebreo è semplicemente nato superiore ai “goyim”.

Anche senza alcuno sforzo per essere una persona pia o un cittadino decente, gli ebrei hanno cosmicamente diritto alla superiorità semplicemente sulla base dell'ascendenza.

Questo suggerisce perché gli ebrei laici, nonostante tutto il loro liberalismo o razionalismo professato, tendono a condividere gli atteggiamenti suprematisti degli ebrei religiosi.

Anche senza l'elemento spirituale, c'è la persistente sensazione che l'ebraicità sia speciale solo sulla base dell'identità (poiché gli ebrei per migliaia di anni si sono aggrappati alla convinzione che la loro identità fosse sinonimo di santità).

 

“Suprematista ebreo” si vanta del complotto per de- razzinare tutte le nazioni “goy”.

Si potrebbe dire che ci fosse un mito simile al centro dello Sebbene qualsiasi identità possa essere influenzata da atteggiamenti suprematisti, il suprematismo è insito nella torta dell'ebraismo, concepito come un tribalismo spirituale.

Shintoismo che, soprattutto nella sua moderna versione politicizzata, postulava che la razza giapponese-Yamato fosse speciale perché condivideva lo stesso sangue con l'imperatore divino (considerato un dio vivente), ma presentava anche differenze fondamentali.

A differenza degli ebrei che insistevano sul fatto che il loro Dio fosse l'unico Dio, i giapponesi non facevano alcuna affermazione del genere.

Piuttosto, i giapponesi credevano di essere tutt'uno con gli unici del Giappone, un riconoscimento del fatto che altri popoli e culture hanno i propri dei, spiriti e cosmologie.

 "Noi abbiamo i nostri dei, e voi avete i vostri dei" non è arrogante quanto l'affermazione ebraica di "C'è un solo vero Dio, e Lui ci ha scelti, e tutti i vostri dei sono falsi".

Inoltre, mentre i giapponesi erano confinati al Giappone in un isolamento storico, la diaspora ebraica significava che i” goyim” in vari luoghi dovevano confrontarsi con una tribù che si considerava la Tribù, l'unica identità speciale e degna scelta da Dio, il cui corollario era che i gentili esistono principalmente per servire e placare gli ebrei il cui sangue è sacro solo per nascita.

Inoltre, il Giappone perse la Seconda Guerra Mondiale, nota anche come Guerra del Pacifico, e il loro divino imperatore-dio fu costretto a ricoprire il ruolo di una figura laica e cerimoniale comica, qualcosa di simile a un Charlie Chaplin asiatico.

Così, il legame spirituale tra il popolo giapponese e la divinità (personificata dall'Imperatore) andò perduto per sempre.

 

Al contrario, il culto dell'Olocausto che è emerso dalle ceneri della seconda guerra mondiale ha elevato gli ebrei ancora più in alto.

Se, prima della Shoah, il senso ebraico di esagerata autostima (quasi al limite della megalomania) era contenuto all'interno della comunità ebraica, la consacrazione di quella tragedia nella narrazione finale (sui santi ebrei uccisi in massa dal Diavolo incarnato nella forma di Adolf Hitler e dei nazisti) ha universalizzato la santità ebraica agli occhi dei” goy” di tutto il mondo.

 L'Olocausto ha evangelizzato che gli ebrei o gli ebrei sono morti per i peccati dei “goyim” posseduti dallo spirito malvagio dell'"antisemitismo".

Per molti “goyim”, gli ebrei maltrattati che sopravvissero alla seconda guerra mondiale sembravano un innocuo cucciolo di tigre affamato che aveva bisogno di cura e affetto speciali.

Non avevano idea che sarebbe diventato un predatore all'apice, la tigre famelica, con l'appetito di divorare il mondo.

 

“Stew Peters “denuncia l'idolatria di Donald Trump, il” Shill di Sion”.

Quando personaggi come Viktor Orbán si scagliano contro il globalismo, il progetto europeo o la "wokeness" come affini al comunismo o all'Impero sovietico, sono sinceri (e stupidi) o stanno giocando a una versione sgangherata di scacchi in 4D, basata sul presupposto che il potere ebraico sia così schiacciante da non poter essere nominato, pur essendo il principale colpevole che affligge l'Occidente (e anche il resto del mondo)?

Ma in realtà, cosa c'entrava il comunismo con il capitalismo oligarchico, il fondamento economico del globalismo, con personaggi come” George Soros” e “Blackrock”, gestiti dagli ebrei, che giocavano con il mondo?

L'Unione Sovietica e il comunismo possono essere stati culturalmente repressivi (soprattutto nell'ambito della cultura pop e del modernismo d'avanguardia), ma quando mai hanno promosso degenerazione, decadenza e perversione sessuale, soprattutto come base di un nuovo tipo di quasi-spiritualità?

Il comunismo deve rispondere dei suoi numerosi crimini, ma adorare l'ano di “Harvey Milk” non era uno di questi.

E, sebbene il comunismo simpatizzasse con il Terzo Mondo nella sua lotta per liberarsi dall'egemonia imperialista occidentale, quando mai ha esaltato un singolo gruppo etnico o una singola razza, ebrei, neri o qualsiasi altra, come meritevole di maggiore affetto, anzi di adulazione?

Non ricordo città comuniste afflitte da rivolte in onore di una particolare razza.

 Le rivolte del BLM erano più simili a pogrom pre-rivoluzionari.

 Non ricordo che l'Unione Sovietica incitasse le masse a ribellarsi per particolare deferenza a una particolare razza o gruppo etnico.

Lo stalinismo prendeva ufficialmente di mira certe classi per la distruzione, ma non si trattava di favoritismi etnici.

La destra politica accusa spesso la "wokeness" dell'agenda radicale dell'egualitarismo, ma da quando la "wokeness" esprime uguale simpatia per tutti i gruppi?

Semmai, si è fissata sull'elevare i neri e gli omosessuali, entrambi appositamente selezionati dagli ebrei, al di sopra di tutti gli altri, e sulla soppressione della simpatia per le vittime del sionismo e del suprematismo ebraico.

 Coloro che equiparano le proteste pro-palestinesi alla "wokeness" stanno confondendo la correlazione con la causalità.

Se è vero che una discreta quantità di simpatizzanti pro-palestinesi sono stati coinvolti nella politica "woke", la loro nuova passione è in realtà un caso di fuga dalla riserva o piantagione "woke", qualcosa di imprevisto e indesiderato dagli oligarchi e dai commissari ebrei che hanno finanziato e modellato la "wokeness" e le sue varianti principalmente per umiliare e soggiogare i bianchi in una modalità di espiazione moralmente inferiore per i “goy” bianchi.

Tutto si riduce a "È un bene per gli ebrei?"

Considerato come il presunto "progressista" Bill Ackman si sia trasformato da un giorno all'altro in “Bill Eichmann” nel suo sostegno al "letteralmente Hitler" Donald Trump, nella speranza che il GOP sostenga più ciecamente il "genocidio di Gaza".

 

Per fortuna, alcuni idioti del movimento "woke" hanno finalmente fatto 2 più 2 e si sono resi conto che il Potere Ebraico è il più grande suprematismo, anzi uno immerso nella modalità genocida della supremazia razziale.

E hanno pagato un prezzo per averlo notato.

Personaggi come “Greta Thunberg”, un tempo una causa celebre nei circoli "progressisti" dominati dagli ebrei, sono diventati improvvisamente persona-non-grata nei media globalisti.

 

Mentre l'attuale UE ha alcune somiglianze con la vecchia Unione Sovietica, le differenze sono più nette.

 L'Unione Sovietica riguardava principalmente il mantenimento dei suoi cittadini all'interno e all'esterno degli stranieri.

 In effetti, il fatto che si sia frammentato in varie repubbliche dopo il crollo suggerisce che il comunismo non era stato una minaccia esistenziale per le nazionalità, che erano state economicamente soppresse ma non negate etnicamente o culturalmente.

Se l'Unione Sovietica fosse stata decisa a cancellare tutte le nazionalità, nazioni come la Lituania, l'Estonia, la Lettonia, la Georgia, il Kazakistan, l'Armenia, l'Uzbekistan e così via non sarebbero potute sorgere dalle ceneri del regime comunista.

Era ancora più vero con il blocco orientale, con nazioni come la Polonia, la Bulgaria, l'Ungheria, la Romania e la Cecoslovacchia che emergevano in condizioni nazionali incontaminate.

Mentre il comunismo li ha trattenuti economicamente e tecnologicamente, non ha posto alcuna minaccia alla loro integrità e identità nazionale.

I sovietici insistevano sul fatto che i loro nazionalismi fossero subordinati a Mosca, ma non li invalidavano come standard organizzativo e definitivo.

L'idea sovietica dell'internazionalismo e dell'ideologia della fratellanza dell'uomo significava cameratismo tra le nazioni comuniste, non una dissoluzione dei confini e la decostruzione della cultura e del patrimonio, il tipo di agenda che ha guadagnato terreno in Occidente, specialmente sotto l'influenza ebraica (che tuttavia ha protetto ed escluso l'identità ebraica e gli interessi sionisti da un simile scrutinio, ridicolo e negazione).

 

Il comunismo europeo è stato un fallimento economico, ma non un attacco all'orgoglio nazionale e alla salute.

Sotto il comunismo, non c'era il culto della vergogna ungherese o della colpa polacca.

Dato che molte nazioni del blocco orientale erano state alleate della Germania nazionalsocialista e avevano partecipazione all'invasione dell'Unione Sovietica, si potrebbe pensare che i comunisti avrebbero incolpato tutte le loro popolazioni per aver collaborato con i malvagi nazisti.

Ma anche se i nazisti e gli elementi collaborazionisti sono stati diffamati nella narrazione ufficiale, le nazioni nel loro insieme sono state risparmiate da accuse e abusi indiscriminati, in netto contrasto con il culto della colpa progettato dagli ebrei in Occidente per cui tutti i tedeschi per tutta l'eternità sono stati ritenuti colpevoli dell'Olocausto e tutti gli europei sono stati gravati dalla colpa della collaborazione.

E seguiti da inglesi e americani che sono stati anche accusati collettivamente di non aver fatto abbastanza per salvare gli ebrei.

E poi, tutti gli americani bianchi erano gravati dal senso di colpa per la questione nera, anche i bianchi che arrivarono come immigrati DOPO la Guerra Civile.

Tutto questo è piuttosto comico o tragicomico dal momento che l'influenza ebraica ha assicurato che i russi non sarebbero stati i benvenuti al 70° anniversario della liberazione di Auschwitz.

Immaginatelo.

Gli ebrei che se la prendevano con gli europei (e anche con gli americani) per non aver fatto abbastanza per salvare gli ebrei dai nazisti stanno ora lavorando con i nazisti in Ucraina e bandendo la nazione che ha fatto di più per sconfiggere la Germania nazista da una commemorazione dell'Olocausto.

Tale viltà non fa altro che conferire legittimità all'antisemitismo.

 

Il nazionalismo andava bene nel mondo comunista finché non era sciovinista, mentre in Occidente (sotto il crescente controllo ebraico) qualsiasi espressione di patriottismo” goy” e desiderio di autoconservazione veniva contestata come "estrema", "odiosa", "suprematista bianca", "di estrema destra" e/o "neonazista".

Allo stesso modo, il semplice sentimento di "Va bene essere bianchi" è considerato "suprematista bianco", mentre, naturalmente, l'inadeguata deferenza verso lo stato genocida di Israele è "antisemitismo."

 È un caso di "Testa vinco io, croce perdi tu".

 

Ora, perché a un gruppo ostile dovrebbe essere affidato il destino del vostro popolo quando nega al vostro popolo il suo nazionalismo, insistendo nel frattempo su di esso per sostenere il suo tipo estremo di nazionalismo-imperialismo suprematista-sciovinista?

Una spiegazione è che le élite del vostro popolo sono vermi cornuti che vendono i loro corpi e le loro anime alla miglior offerta, e gli ebrei hanno il maggior numero di "benjamin".

Un'altra spiegazione è che sono veri aderenti a una visione del mondo suprematista razziale, anche se eleva un altro gruppo come i legittimi padroni del mondo.

Che si tratti dei battitori della “Bibbia di Scofield” che devono gli ebrei come la razza prescelta superiore o dei cultisti del “QI” del processo “Scopes HDB” che utilizzano gli ebrei come la razza geniale superiore, lo spirito animatore della visione del mondo americana è che gli ebrei sono la razza padrona con il diritto divino di fare ciò che vogliono, mentre il resto dell'umanità, gli umili “goyim”, possono solo aspirare a ottenere l'approvazione o ingraziarsi i favori degli “Ebrei Terribili”.

 

Come appaiono i “goy bianchi” ai suprematisti sionisti. È anche il modo in cui si comportano i “goyim bianchi”.

Come cani che servono un padrone.

Questa marcescenza non si limita agli evangelici e agli HDB-isti, poiché persino i membri della destra europea, come” Viktor Orbán” e “Marine Le Pen”, sono sempre adulatori degli ebrei.

Se nove ebrei su dieci sputano loro addosso, si prostreranno comunque davanti all'unico ebreo che stringe loro la mano (anche se solo per un vantaggio ebraico).

La lealtà verso Israele è come un'assicurazione per i “goyim” odiati dagli ebrei.

 Persino la Russia mantiene buoni rapporti con Israele, il paese che ha contribuito maggiormente a indebolire il tentativo russo di sostenere il regime di Assad in Siria.

Gli ebrei sono considerati così sacri che se l'Occidente guidato dagli ebrei prende di mira la vostra nazione e la vostra cultura per distruggerla, la vostra ultima speranza è appellarvi a Israele e a gente come Netanyahu nella speranza che la vostra fazione non venga diffamata come "antisemita".

"Ehi, come possiamo essere "antisemiti" quando sosteniamo il sionismo?"

Ma non importa che Netanyahu e il Likud collaborino con l'ebraismo mondiale "liberale" per diffondere l'influenza suprematista ebraica.

Non importa che ciò che gli ebrei hanno fatto ai palestinesi sia solo un preludio alla loro guerra di annientamento di tutte le “nazionalità goy”.

L'idea che l'unico modo per opporsi a Soros sia abbracciare Netanyahu è l'illusione più stupida del mondo.

Il cornuto di Putin con Israele ha impedito il disastro in Ucraina?

Il fatto che Orban abbia tradito Netanyahu fornisce alla sua nazione un po' di sollievo dalle infinite invettive dell'UE controllata dagli ebrei?

 L'impegno di “Le Pen” per il sionismo l'ha risparmiata dalla legge diretta dai suoi nemici che prendono i loro ordini di marcia dall'ebraismo mondiale?

Se davvero l'estrema destra israeliana è in contrasto con gli ebrei presumibilmente "liberali" e "di sinistra" che costituiscono la maggior parte dell'ebraismo mondiale (come la destra europea si autoassicura), perché il potere concentrato delle élite ebraiche in Occidente è volto a garantire che i “goyim” di ogni tipo (soprattutto i bianchi) sostengano incondizionatamente Israele e il “suo progetto di Grande Israele” o Yinonismo?

“George Soros “potrebbe non essere amico intimo di Netanyahu, ma è un eroe per la stragrande maggioranza degli ebrei "liberali", che non sono meno coinvolti nel progetto sionista di quanto lo siano i neoconservatori.

Qual è esattamente la differenza tra “Tony Blinken” e” Stephen Miller “sul conflitto israelo-palestinese?

 

La cosa più necessaria è una rivalutazione delle spiegazioni ideologiche prevalenti a destra sulle fonti dei guai che affliggono l'Occidente.

L'uso improprio della terminologia ideologica e la confusione tra ciò che costituisce la sinistra e la destra ha portato molte persone a fare false supposizioni sul passato e sul presente.

 Il comunismo era una camicia di forza economica ma, almeno nell'Europa orientale, non rappresentava una minaccia per il patriottismo, la sicurezza delle frontiere e la conservazione culturale.

Semmai, il comunismo ha fatto di più per salvaguardare i pilastri dell'unità nazionale e della sopravvivenza di quanto abbia fatto l'Occidente capitalista.

In ogni caso, non è stato il capitalismo in sé, ma la dominazione ebraica attraverso il successo capitalistico che ha portato all'attacco all'identità bianca, all'etnia europea, alla cultura occidentale e ai valori che garantiscono una società sana con la determinazione a sopravvivere e respingere le minacce.

 

Una cosa è certa: dobbiamo rivalutare le correnti più profonde della storia dopo la seconda guerra mondiale.

 Durante la Guerra Fredda, la paura era l'invasione dell'impero sovietico verso l'Europa occidentale, e la NATO era giustificata da motivi di difesa contro l'aggressione comunista.

L'idea era che l'Occidente fosse tollerante e liberale, permettendo differenze di credo e valori, mentre l'Est comunista era dogmaticamente impegnato nella rivoluzione mondiale basata su un'ideologia radicale.

Così, la Guerra Fredda non è stata vista come l'Occidente di destra contro l'Est di sinistra, ma come l'Occidente non ideologico (che ammetteva la sinistra e la destra e tutto il resto) contro l'Est di sinistra che non tollerava alcun dissenso ideologico.

Contro tale virulenza, i paesi "liberi" e "liberali" dovettero coalizzarsi contro l'URSS che avrebbe potuto usare l'Europa orientale come trampolino di lancio per la conquista.

Naturalmente, i sovietici vedevano le cose in modo diverso.

 Dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, il cui peso ricadde sull'URSS, gli stati cuscinetto contro l'Occidente con la sua eredità di imperialismo e dominio sembravano essenziali, soprattutto perché gli Stati Uniti, il nuovo egemone, erano armati con armi nucleari che potevano devastare la Russia in modi che i tedeschi non avrebbero mai potuto fare con tutti i loro armamenti avanzati.

Dal punto di vista russo, l'Europa orientale era un muro difensivo e un terreno di preparazione per la battaglia.

Ironia della sorte, nonostante il carattere apertamente ideologico (o rivoluzionario) del sistema sovietico, la sua visione della Guerra Fredda era molto più realistica e pragmatica, più incentrata sulla sicurezza nazionale che su una battaglia di idee.

 Dopotutto, nonostante la sua presa sull'Europa orientale, la potenza egemonica americana era situata nel cuore dell'Europa (Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia), con la Turchia come parte della NATO.

Mentre i sovietici non avevano praticamente alcuna presenza nelle Americhe, gli americani erano ben posizionati a breve distanza dalla Russia.

C'è stato il caso di Cuba (e della crisi dei missili), e la drastica reazione dell'America dimostra che, di fronte a una minaccia "esistenziale", le sue paure non erano molto diverse da quelle della Russia.

È diventata meno una questione di ideologia e più di fredde realtà di sicurezza nazionale.

Poiché la Guerra Fredda è stata spiegata e giustificata su basi ideologiche – l'Occidente non ha alcun problema con i russi di per sé, ma solo con la loro ideologia radicale e aggressiva di tirannia comunista –, il risultato logico della fine della Guerra Fredda avrebbe dovuto essere lo scioglimento della NATO.

 Che bisogno c'era di più di una tale organizzazione quando l'Unione Sovietica non c'era più, e le varie repubbliche che emersero dalla sua disgregazione abbandonarono il marxismo-leninismo.

In effetti, dato il fervore ideologico della Guerra Fredda, sembra che gli stessi russi abbiano accettato l'idea che la linea di demarcazione cruciale tra Occidente e Est fosse l'ideologia, non la politica di potenza:

 farla finita con l'ideologia radicale del comunismo, e non ci dovrebbe essere più inimicizia tra Occidente e Est.

Sicuramente, alcuni sovietici dissentivano e consideravano l'aspetto ideologico della Guerra Fredda come fumo negli occhi manipolati dall'Occidente al nascondere una divisione più profonda, basata sulla politica di potenza, sul dominio del mondo e sulla mentalità imperialista.

In altre parole, l'abbandono da parte della Russia della sua ideologia aggressiva non negherebbe i conflitti più profondi basati sulla geopolitica, e l'Occidente sfrutterebbe la debolezza dell'Oriente per invadere la sua sovranità.

Quelle voci si sono dimostrate corrette come la Fine della Storia (come la definì Francis Fukuyama, una grande battaglia di idee), molto lontana per disinnescare le tensioni tra Occidente e Est, non ha fatto altro che intensificarle, con la NATO che non solo ha continuato ad esistere, ma si è espansa verso Est e ha istituito sempre più basi militari contro la Russia (e ha rinnegato gli accordi di disarmo).

Certo, è possibile che la fine della Guerra Fredda avrebbe potuto facilitare una nuova era di pace e comprensione se non fosse stato per l'ascesa ebraica, poiché gli ebrei, più di ogni altro gruppo in Occidente, erano più decisi a circondare, indebolire e distruggere la Russia come civiltà sovrana.

Comunque sia, l'abbandono dell'ideologia da parte dell'Est ha portato a un conflitto ancora peggiore, che non poteva essere risolto con un dibattito intellettuale o morale.

 Semmai, l'Occidente ha inventato nuove (e fasulle) giustificazioni ideologiche per il conflitto:

 "Occidente liberal-democratico basato sul governo" contro "Est autoritario autocratico".

Nel complesso, la nuova divisione riguardava meno l'ideologia che l'idolatria, una delle maggiori lamentele era che la Russia preferiva la croce cristiana alla bandiera della sodomia e alle” Pussy Riot”.

 Il protrarsi delle tensioni con la Russia suggeriva un conflitto più profondo che era stato offuscato durante la Guerra Fredda, con tutti i discorsi su capitalismo contro comunismo o democrazia contro totalitarismo che distoglievano l'attenzione da altri fattori.

C'era stata una dinamica simile nella breve Pace Fredda tra la Germania nazionalsocialista e l'Unione Sovietica.

Se la Guerra Fredda ha velato le questioni geopolitiche con il pretesto delle differenze ideologiche, la Pace Fredda ha de-enfatizzato le differenze ideologiche nell'interesse di una geopolitica reciprocamente vantaggiosa, che tuttavia si è rivelata troppo fragile per frenare le ambizioni egemoniche più profonde di entrambe le parti, in particolare i tedeschi e il piano Lebensraum.

I tedeschi, come gli ebrei, guardavano alla Russia come a un'ingiustizia geopolitica, cioè a un popolo inferiore, stupido, barbaro, infantile e servile come gli slavi che non avrebbero dovuto diritto avere a tutta quella terra e alle sue risorse. Gli "ariani" lo volevano durante la seconda guerra mondiale, e gli ebrei lo vogliono ora.

Le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina indicano anche che l'ideologia conta molto meno nella prospettiva americana.

 Sono lontani i giorni della Cina maoista che cercava di esportare il suo marchio di rivoluzione nel Terzo Mondo.

La Cina ha adottato l'economia di mercato e le relazioni amichevoli con l'Occidente sulla base del rispetto reciproco, ma gli Stati Uniti continuano ad aumentare le tensioni che hanno poco a che fare con l'ideologia.

Certo, alcuni negli Stati Uniti, come “Steve Bannon” e “Tom Cotton,” cercano di riaccendere l'animus ideologico insistendo costantemente sul "PCC" per insinuare che la Cina è governata da un gruppo di comunisti tirannici ancora dediti al maoismo.

Per questi tipi, i palestinesi sono semplicemente "Hamas" e la Cina è semplicemente "PCC" o "Chicom".

Dato che la Cina ha rinunciato alla rivoluzione marxista e vuole la pace e il commercio con il mondo, la crescente ostilità americana tradisce il gioco, cioè l'ideologia è stata secondaria rispetto all'egemonia dell'Occidente, in particolare degli Stati Uniti, e in particolare degli Stati Uniti gestiti dagli ebrei che, nella dinamica inversa degli europei e degli anglosassoni che si sono ritirati dall'impero, cercano di mantenere e persino espandere il dominio globale alla maniera di “Michael Ledeen”:

"Ogni dieci anni o giù di lì, gli Stati Uniti hanno bisogno di prendere un piccolo paese schifoso e gettarlo contro il muro, solo per mostrare al mondo che facciamo sul serio".

Mentre gli ebrei governano gli Stati Uniti, l'imperialismo americano è ora un'espressione del suprematismo ebraico, e non sappiamo per certo se le cose sarebbero potute andare diversamente se gli anglo-americani (o WASP) avrebbero mantenuto il potere e potenza.

Una cosa è certa:

mentre paesi come la Russia, la Cina e l'Iran seguono i loro interessi nazionali, gli Stati Uniti, pur essendo il paese più potente del mondo, non lo fanno, dato che il 98% della popolazione, i “goyim”, prendono ordini di marcia dal 2% che è ebreo.

 Gli Stati Uniti riguardano l'interesse nazionale tanto quanto l'India coloniale lo era sotto il dominio britannico, cioè proprio come prima della sua indipendenza gli interessi "nazionali" indiani erano sempre subordinati agli interessi imperiali britannici, gli interessi americani sono sempre subordinati agli interessi globali ebraici, la differenza è che, mentre gli inglesi si assicuravano che tutti capissero che erano al potere, Gli ebrei hanno mantenuto la facciata degli Stati Uniti ancora guidati da cristiani bianchi per lo più gentili che, in realtà, sono ancora più servili agli interessi della supremazia ebraica di quanto gli indù e i musulmani in India lo siano mai stati agli interessi imperialisti britannici.

 

 

 

C'è chi va a caccia di nuovi spazi

 per i data center nel sud Italia.

Wired.it – Simona Buscaglia – (16-04 -2025) – ci dice:

Mediterranea è pronta a scommettere 150 milioni nel Meridione per la costruzione di centri di elaborazione dati. I suoi piani per l'Italia,

Data center nel sud Italia c'è chi va a caccia di spazi.

Più data center nel Sud Italia.

Se la concentrazione di data center in Italia al momento vede la Lombardia, soprattutto il Milanese davanti a tutti, si è aperta la caccia ai cosiddetti “oceani blu”, aree dove la concorrenza è meno forte e dove potenzialmente le opportunità non sono state ancora scandagliate.

A spiegarlo, nella cornice della nuova sede italiana, è “Emmanuel Becker”, ad di Mediterranea, azienda che costruisce data center regionali in città digitalmente strategiche del sud Europa, e che ha intenzione di investire 250 milioni di euro in Italia nei prossimi due anni (100 nel Centro-Nord Italia e 150 anche al Sud).

“Pensiamo che l'Italia non sia fatta solo da due città, Milano e Roma", ha detto.

"Vogliamo dare la possibilità a tutti di avere accesso al digitale.

 Questo è un paese che ha una grossa fetta di Pil legato alla produzione, che lavora molto sull'export e che ha bisogno di avere dei collegamenti privilegiati con i suoi mercati.

Si tratta di attività produttive che non sono solo a Milano ma su tutto il territorio nazionale”.

 

Così il primo investimento nel nostro paese è stato l'acquisizione a Roma, nel Tecnopolo Tiburtino, di Cloud Europe, un data center green di livello “Tier IV”, progettato per operare a basso impatto ambientale e alimentato da energia rinnovabile.

Un data center “Tier IV” risponde a criteri particolarmente rigidi in termini di sicurezza.

I lavori di riqualificazione, per un investimento complessivo di 80 milioni di euro, saranno ultimati nel 2025.

“Anche nei progetti sui prossimi investimenti italiani sui quali stiamo lavorando, non consumiamo altro suolo ma interveniamo sull'esistente, creando un beneficio per la comunità, per diventare anche un importante volano per l'economia di quel territorio” precisa “Alessandro Mussari”, “senior principal di Dws infrastructure investments”, che gestisce il fondo istituzionale” Peif III “(Pan-European infrastructure III) che sta dietro all'azienda.

 

Data center su tutto il territorio italiano?

“Attualmente in Italia ci sono tanti Ced (Centri di elaborazione dei dati, ndr), spesso di proprietà di un'impresa, presenti nei suoi spazi per gestire la sua informatica.

 Strutture, però, di fatto isolate e spesso non efficienti a livello energetico – aggiunge Becker –.

Noi vogliamo aiutare questi “Ced” a riconcentrarsi su dei centri nodali regionali forti, efficienti e sicuri, creando degli ecosistemi dove sarà possibile anche collegarsi tra loro”.

 

 

“Mimit”, un anno di “Licei del Made

 in Italy”: le competenze per

il futuro delle eccellenze italiane.

Mimiyt.gov.it – (15 Aprile 2025) – Redazione – ci dice:

 

Urso: "formazione e sviluppo delle competenze fondamentali per consolidare il saper fare italiano".

Il bilancio e i risultati raggiunti, le prospettive e l'evoluzione dei percorsi formativi a un anno dalla partenza dei Licei del Made in Italy.

Questo il tema al centro dell'evento che si è tenuto a Palazzo Piacentini, nell’ambito delle celebrazioni della “Giornata Nazionale del Made in Italy 2025”, istituita dalla legge quadro n. 206 del 2023.

 

All'incontro hanno partecipato il ministro delle Imprese e del Made in Italy, sen.” Adolfo Urso”, il ministro dell’Istruzione e del Merito, “Giuseppe Valditara”, il sottosegretario di Stato “Paola Frassinetti “e il presidente della “Fondazione Imprese e Competenze per il Made in Italy”, “Gianni Brugnoli”.

 

"Identità e innovazione sono i binari su cui corre il treno del Made in Italy, marchio di qualità ed eccellenza riconosciuto nel mondo.

Formazione e sviluppo delle competenze giocano un ruolo fondamentale nel rafforzare il saper fare italiano e nel preparare le nuove generazioni ad affrontare le sfide globali.

 L’apprezzamento crescente per i Licei del Made in Italy conferma l’interesse verso un’educazione pragmatica, capace di valorizzare le eccellenze e offrire reali prospettive professionali e formative", ha dichiarato il ministro Urso.

 

Nello specifico, i “Licei del Made in Italy” - che quest’anno, secondo i dati del “MIM”, hanno registrato un incremento delle iscrizioni del 22% rispetto all’anno scolastico precedente - offrono un percorso formativo completo che integra le “discipline umanistiche e STEM” con quelle economiche e giuridiche.

 L'obiettivo è quello di formare una generazione di professionisti in grado di apprendere tecniche e strategie per sostenere il Made in Italy, dalle realtà locali fino ai mercati globali.

Durante l'evento, a supporto di questo percorso formativo, è stata ricordata anche la nascita, a partire dal 10 aprile, della “Fondazione Imprese e Competenze”. L'ente si propone di promuovere il Made in Italy attraverso la formazione e il collegamento diretto con il mondo produttivo, con l'obiettivo di diventare un alleato fondamentale per il” Liceo del Made in Italy”, in grado di ampliare l'offerta formativa in sintonia con le caratteristiche specifiche dei vari settori produttivi e delle realtà territoriali.

 

 

Dazi: Orsini, Ue deve correre e

 mettere industria al centro,

Mercosur va approvato.

Borsaitaliana.it – (16-04 – 2025) – Radiocor – Redazione – ci dice:

 

'Non ci serve solo la prognosi ma la cura e serve subito' (Il Sole 24 Ore Radiocor) –

Roma, 16 apr - 'Noi dobbiamo essere pronti e prepararci a trovare nuovi mercati. Per questo noi siamo stati a Bruxelles la settimana scorsa, dove abbiamo chiesto di fare presto sull'accordo del Mercosur.

 

Non possiamo pensare che il voto vada alla fine dell'anno, all'inizio dell'anno prossimo. In un momento come questo serve correre, serve urgenza'.

 Lo ha detto il presidente di Confindustria, “Emanuele Orsini”, a margine degli Stati generali di Federturismo.

 'Se il presidente degli Stati Uniti con delle ordinanze riesce a costruire e cambiare le politiche economiche in un giorno, noi non possiamo neanche pensare di non fare un accordo in otto mesi quindi per noi serve correre un po' di piu'', ha aggiunto Orsini, specificando che l'Europa deve 'essere piu' competitiva per togliere quella parte di costi' che frenano le imprese.

 'E per fare questo serve fare cose in Italia e serve fare cose ovviamente a livello europeo e a Bruxelles', ha continuato Orsini, indicando che in Italia c' è da risolvere 'il tema del costo dell'energia e la burocrazia.

Sappiamo tutti che la burocrazia in Italia costa 80 miliardi e dall'altro punto, dal lato europeo, si deve correre'.

 Infatti, ha proseguito Orsini, 'oggi non possiamo più pensare che noi ci siamo sempre messi nella parte dell'essere virtuosi, perché' sapete quanto l'industria italiana e europea è vicina all'ambiente, l'abbiamo dimostrato con i dati, non serve neanche più che continuiamo a raccontarlo, perche' dopo sembra che ci vogliamo autocelebrare, ma non è questo il nostro tema, ma il vero tema è riuscire comunque a sospendere quelle norme che ci ingessano e quando invece altri continenti fanno correre l'impresa', facendo l'esempio delle norme sulle 'emissioni del Co2, la speculazione sul costo del gas'.

 

Quindi, ha concluso Orsini, 'noi abbiamo bisogno di avere un'Europa che metta al centro l'industria, ma sia concreta e attuativa.

Ci fa piacere che si prenda atto in questi documenti di quali siano i problemi, però a noi non serve solo la prognosi, a noi serve la cura e la cura serve subito'.

 

 

 

 

IPCEI Nucleare: l’Italia al centro

di progetti strategici europei

 sulle tecnologie nucleari innovative

 Ilnautilus.it - Redazione –(11 Aprile 2025) –R redazione - Gilberto Pichetto Fratin – ci dice:

 

Sostegno all’iniziativa, si entra nella fase di design dei progetti.

Roma. Il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, e il Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, accolgono con grande soddisfazione la comunicazione della Commissione Europea relativa all’approvazione di un nuovo IPCEI (Important Project of Common European Interest) dedicato alle tecnologie nucleari innovative.

L’approvazione dell’IPCEI nucleare, che entrerà già da oggi nella fase di design dei progetti, rappresenta un riconoscimento del valore strategico del nucleare a livello europeo.

L’Italia ha fornito il proprio pieno sostegno all’iniziativa, sottoscrivendo la endorsement letter sul nucleare, insieme ad altri 12 Paesi europei, a conferma della vitalità di una filiera industriale nazionale che, insieme alla ricerca e all’Accademia, è rimasta attiva e competitiva negli ultimi quarant’anni, nonostante l’assenza di produzione di energia da fonte nucleare sul territorio nazionale.

Questo importante risultato è frutto di un intenso lavoro di collaborazione tra il MASE e il MIMIT, con il determinante supporto dalla Piattaforma Nazionale per un Nucleare Sostenibile (PNNS), istituita presso il MASE, che ha pubblicato lo scorso 4 aprile i risultati di un anno di intenso lavoro collaborativo tra i più importanti stakeholder nazionale sul nucleare.

I due Ministeri evidenziano che, per la prima volta dall’istituzione degli IPCEI, all’Italia è stato riconosciuto il ruolo di penholder (coordinatore) a livello europeo, in particolare per le tecnologie di fusione nucleare.

Il nostro Paese ha però dato un contributo ugualmente determinante a livello europeo nell’ambito delle tecnologie di fissione nucleare e delle applicazioni mediche delle tecnologie nucleari.

La fase di design dei progetti apre ora un percorso che richiederà un ulteriore e significativo impegno da parte dei Ministeri coinvolti, in stretta sinergia con l’intero sistema industriale, accademico e della ricerca italiano.

Nel momento in cui il Parlamento si appresta a confrontarsi sulla legge delega in materia di energia nucleare sostenibile, questo IPCEI rappresenta uno strumento fondamentale per sostenere una filiera nazionale che opera da decenni ai più alti livelli europei e internazionali, sia nel campo della fissione nucleare che della fusione.

 

 

 

 

C’è solo un partito di centro, Forza Italia.

Ma si deve allargare…

Formiche.net - Giorgio Merlo - (21/07/2024) – ci dice:

 

 

Una sfida, quella di Forza Italia, che non riguarda solo il futuro di quel partito ma la stessa prospettiva della politica di centro nel nostro paese. Un obiettivo utile per la qualità della nostra democrazia.

 La riflessione di Giorgio Merlo.

 

Il fallimento politico ed elettorale, per certi aspetti clamoroso, del cosiddetto Terzo Polo ha definitivamente lasciato aperto e contendibile il campo del Centro nel nostro paese.

Un campo che, come tutti sanno, resta decisivo nonché indispensabile per il buon funzionamento del nostro sistema politico.

Insomma, senza il Centro un paese come l’Italia sbanda e per una ragione di fondo. E cioè, non si può governare l’Italia con la deriva e la prassi degli “opposti estremismi”.

E con una permanente e strutturale radicalizzazione del confronto politico.

 Ora, proprio l’ultima ed ennesima piroetta del capo di Italia Viva “Matteo Renzi” che ha siglato un accordo politico con la sinistra radicale e massimalista della “Schlein”, con la sinistra populista e demagogica dei 5 stelle e con la sinistra estremista e fondamentalista del trio “Fratoianni-Bonelli-Salis”, ha segnato anche platealmente la necessità di ripartire con una vera ricostruzione di un Centro riformista, democratico, di governo e innovativo.

Un Centro che, com’è ormai evidente a tutti, non può certo riconoscersi nel partito personale di Renzi e neanche nell’altro partito personale di Calenda.

 

E questo non solo perché si tratta di una alleanza chiaramente di sinistra dove, di fatto, il ruolo dei partitini centristi sarebbe simile a quello dei “partiti contadini” di comunista memoria, ma per la semplice ragione che nell’attuale scenario politico italiano c’è, oggi, un solo partito che può ambire ad occupare quello spazio.

E quel partito si chiama Forza Italia.

Perché si tratta di un partito dichiaratamente centrista, moderato e riformista; perché è un partito che non si vergogna di costruire un orizzonte centrista e, soprattutto, perché è un partito che individua nel Centro la prospettiva politica più calzante per il nostro paese.

Ma tutto ciò è possibile solo se Forza Italia si allarga.

 

Un allargamento politico, culturale e sociale nei confronti di tutte quelle tendenze, sensibilità e culture che sono riconducibili all’universo centrista e riformista nel nostro paese.

 Un allargamento che si rende possibile se quel partito recupera e fa proprio sino in fondo un approccio inclusivo.

Ovvero un partito autenticamente plurale, democratico al suo interno e capace di rappresentare un elettorato che semplicemente non si reca più alle urne perché non esiste una offerta politica adeguata e pertinente.

Un elettorato che, tra l’altro, nella storia democratica del nostro paese è sempre esistito e che nel passato votava e si riconosceva in quei partiti che facevano del Centro e della politica di centro la loro ragion d’essere.

 Nulla a che vedere, quindi, con i “partiti contadini”, con i grigi ed insignificanti cartelli elettorali e con tutti quei tentativi che fanno del Centro solo un espediente strumentale per raggiungere un piccolo potere personale per sé e per i propri cari.

Una sfida, quella di Forza Italia, che non riguarda solo il futuro di quel partito ma la stessa prospettiva della politica di centro nel nostro paese.

 Un obiettivo utile per la qualità della nostra democrazia, per la credibilità delle nostre istituzioni e, soprattutto, per l’efficacia e l’efficienza dell’azione di governo.

 

 

 

 

Orsini: “lanceremo Piano su export”,

per Italia 80 miliardi in più.

Ilsole24ore.com – Redazione Roma – (15 aprile 2025) – ci dice:

Lo ha detto il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, intervenendo alla settima edizione del “Sustainable Economy Forum”, organizzato dall’associazione di Viale dell’Astronomia e dalla Comunità San Patrignano.

I punti chiave.

Orsini: parlare di dazi per noi è un problema.

Ue trovi subito nuovi mercati, rimandare è follia.

Serve piano industriale italiano ed europeo.

Come Italia sul fronte dell’export «abbiamo la capacità e la possibilità di crescere e, per questo, il 27 maggio presenteremo una piattaforma, durante la nostra assemblea a Bologna, dove al centro metteremo un piano» dedicato alle esportazioni, visto che «abbiamo la capacità di raggiungere nuovi mercati nell’immediato per ulteriori 80 miliardi».

Così il presidente di Confindustria, “Emanuele Orsini”, intervenendo alla settima edizione del “Sustainable Economy Forum”, organizzato dall’associazione di Viale dell’Astronomia e dalla Comunità San Patrignano.

 

Orsini: parlare di dazi per noi è un problema.

Le sfide, prosegue, «sono tante, sia all’interno dell’Italia che in Europa» ma «il problema più importante in questo momento è l’incertezza, servono idee chiare».

Da questo punto di vista, anche l’Unione europea «deve prendere coraggio perché noi crediamo nell’Europa» affinché «capisca che in passato sono state fatte scelte dure verso l’industria, mentre oggi dobbiamo rimetterla al centro».

 Di certo, «in un mondo interconnesso come il nostro, oggi parlare di dazi e di chiusure per noi è un problema».

Davanti al tema dei dazi, «serve che l’Europa sia rapida.

Non è possibile che, se qualche mercato si chiude, noi non ne apriamo altri» ha aggiunto Orsini.

Per questo è necessario che l’Ue «agisca in maniera rapida».

 Tra gli esempi, «ci sembra una follia che il voto sul Mercosur» possa essere a fine 2025, o ulteriormente slittare, perché «se si chiude qualche mercato dobbiamo aprirne altri».

Serve piano industriale italiano ed europeo.

Per affrontare la difficile congiuntura economica «serve avere una visione: quello che stiamo chiedendo al governo oggi è di avere un piano industriale del Paese, da trasmettere poi in un piano industriale europeo».

È questa la richiesta avanzata dal presidente di Confindustria.

Solo in questo modo «riusciamo a costruire e dare coraggio ai nostri imprenditori che sono pronti a investire».

Per Orsini, però, dobbiamo avere «la voglia e la capacità di dimostrare ai nostri imprenditori e ai Paesi che comunque l’industria torna al centro, penso ai temi dell’Ets, delle emissioni di carbonio, che è un tema che sta colpendo l’acciaio, sta colpendo la ceramica, sta colpendo ovviamente i trasporti anche marittimi».

«Ovvio che in tutto questo Confindustria farà la sua parte, ma noi abbiamo bisogno di tutti per portare avanti le nostre necessità e le necessità dell’impresa».

 

 

 

 

L'etica del lavoro può tornare?

Theburrningplatform.com – (15 aprile 2025) - Jeffrey A. Tucker tramite The Epoch Times – ci dice:

 

Sono entusiasta come chiunque altro della prospettiva di un ritorno della produzione americana.

Ma ci sono enormi barriere, tra cui le metriche di redditività della contabilità.

 Avrà senso da un punto di vista economico? Senza questo tassello, i desideri politici e la determinazione nazionale non saranno sufficienti.

Un operaio aziona una grande macchina sospesa su una puleggia in uno stabilimento industriale in mezzo a fasci di luce, intorno al 1950.

Gli Stati Uniti hanno esternalizzato grandi quantità della loro potenza manifatturiera, un tempo potente, in Cina, in Messico e altrove.

Per decenni è sembrato reciprocamente vantaggioso, fino a quando non abbiamo preso atto di quanto sia strano che l'America debba avere così poche industrie che può chiamare proprie.

Esistono diversi modi per affrontare questo problema.

 Ma la portata non è ampiamente compresa.

 I differenziali salariali tra gli Stati Uniti e gli altri paesi sono giganteschi e non facilmente superabili.

Anche altri differenziali dei costi di produzione contano, così come il valore problematico del dollaro.

 Il suo status di valuta di riserva mondiale cementa la logica economica delle importazioni rispetto alle esportazioni.

 

Ci sono altre questioni, tra cui qualcosa di più fondamentale: l'etica del lavoro americana.

 Questo è un problema culturale che emerge da decenni di soldi facili e da una perdita di spinta imprenditoriale.

Un breve aneddoto di ieri.

Mi sono messo in fila al supermercato dietro una persona con un enorme cesto pieno di generi alimentari ma erano disposti in modo strano.

Quando li ha messi sul nastro per il checkout, ha iniziato a utilizzare i separatori, non in base al tipo di prodotto ma su altre basi.

L'ho osservata attentamente mentre metteva i sacchetti di carta in ogni pila.

 Dopo che la prima tranche è andata a buon fine, ha tirato fuori una carta e ha pagato.

 Lei lo ripeté. Poi l'ho capito.

 Stava facendo acquisti per “Instacart,” non solo per una persona ma per ben cinque famiglie.

Ho decodificato il suo processo.

Quando è entrata nel negozio, aveva una lista enorme e mentre attraversava ogni corridoio, aveva tirato fuori la spesa per ogni cliente, separandola accuratamente e mantenendo quella separazione attraverso il checkout, il pagamento, l'imbustamento e infine il trasporto.

La possibilità di errori deve essere enorme in questo tipo di operazione.

 Un errore e il cliente si lamenterebbe sicuramente.

Ero un po' sbalordito dall'impresa ingegneristica che si stava svolgendo davanti ai miei occhi.

 Ho chiesto cosa stesse succedendo e lei ha detto che lo stava facendo, ma non ha detto molto di più.

 Il suo inglese era stentato, quindi c'erano difficoltà linguistiche.

 Ancora più importante, era semplicemente troppo occupata per chiacchierare con un tizio in piedi a chiedere un articolo.

Mentre ci pensavo, la guardavo lavorare con un certo grado di stupore.

È stato meraviglioso.

Sulla base delle sue competenze linguistiche, è molto probabile che sia un'immigrata recente, probabilmente senza un'istruzione "superiore" ma con alcune abilità pazzesche.

 

Come ha fatto a diventare così brava in questo?

La ripetizione e il miglioramento che ne deriva.

 È da lì che viene l'abilità. Perché lo ripeteva così spesso?

Perché doveva farlo per guadagnare soldi.

Il bisogno crea la disciplina e la disciplina favorisce l'abilità.

Un rapido esempio.

 Supponiamo che tu porti a casa quattro sgabelli da bar girevoli dal negozio di casa, ma devono essere assemblati.

Il primo è un pasticcio con viti e confusione e potresti doverlo rifare una o anche due volte, mentre ti destreggi tra le istruzioni.

È terribile.

 Il secondo è migliore. Quando arrivi al quarto, stai assemblando lo sgabello in una frazione del tempo.

Potresti pensare: "Wow, sono così bravo in questo che potrei fare un affare per assemblare questi".

Ma è solo un'abilità che ora possiedi.

 Lo guadagni in un paio d'ore intense, ma ora ce l'hai.

 Questo è il modo in cui la concentrazione, la disciplina, la motivazione, lo scopo e l'esperienza alimentano competenze e valore sul posto di lavoro.

“Tim Cook” di Apple ha chiarito che il vero motivo per cui gli iPhone e gli altri prodotti Apple sono prodotti in Cina piuttosto che negli Stati Uniti non sono i salari.

 È abilità tecnica e precisione.

 Questi prodotti richiedono estrema disciplina, conoscenza e profonda esperienza. Il numero di lavoratori che possono farlo in Cina è elevato; negli Stati Uniti è minuscolo.

Penso a tutti i "colletti bianchi" che ho conosciuto che farebbero saltare una guarnizione mentale se mai gli venisse chiesto di fare qualcosa di così lontanamente complicato.

Dimentica di assemblare un iPhone.

 Non potevano fare la spesa per cinque famiglie contemporaneamente, imbustare la spesa e consegnarla.

È un'abilità che è fuori portata e sarebbero infastiditi dalla domanda. Probabilmente si lamenterebbero con le risorse umane e preparerebbero una causa.

 Avrebbero incasinato il primo ordine, avuto a che fare con clienti arrabbiati e un capo officioso, e avrebbero preso il flacone della pillola o la soda al THC per far sparire il dolore.

A questo punto della storia, non sono sicuro che la classe professionale negli Stati Uniti sia all'altezza di questo tipo di produttività.

La realtà tabù del periodo di lockdown è che la maggior parte delle persone si è davvero goduta due anni di vita lussuosa e ha solo fatto finta di lavorare.

Quel periodo ha anche distrutto la spinta di molti, rovinando un'intera generazione di lavoratori d'élite a pensare che fare soldi sia facile e senza sforzo.

SIETE DAVVERO PREPARATI PER QUELLO CHE STA ARRIVANDO?

Per 25 anni di tassi di interesse artificialmente bassi – in particolare dal 2008 – la Fed ha coltivato la sensazione che l'intero sistema sia basato su una sorta di illusione.

Certo, alcune persone sono ricche e altre sono povere, ma la differenza non ha nulla a che fare con il lavoro che fanno.

 È tutta una questione di nascita, classe, credenziali e fortuna dell'attrazione demografica.

Questa è una percezione tragica, completamente incoerente con l'ethos tradizionale americano del duro lavoro e della mobilità di classe.

Una caratteristica dell'agenda di Trump è quella di riconquistare e ricostruire quell'idea con un cambiamento nelle strutture economiche, compresa la deregolamentazione e i tagli fiscali.

I dazi fanno parte di questo, spinti sul presupposto che gli americani abbiano la roba necessaria per fare di nuovo le cose.

Una presunzione alla base di questa politica è che gli investitori, gli imprenditori, i costruttori di imprese e i lavoratori americani si butteranno a capofitto e faranno cose meravigliose, godendo della protezione che le tariffe forniscono contro la concorrenza straniera.

 Anche se ciò dovesse accadere, è un grande se, gli americani sono davvero pronti ad andarci?

L'esternalizzazione di così tanta produzione è andata avanti per la maggior parte degli ultimi 50 anni.

Le azioni di questo acquirente di “Instacart”, impegnato in un enorme atto di abilità manageriale, sottolineano il punto.

Per generazioni, ci è stato detto che l'intelligenza e l'abilità sono distribuite in modo sproporzionato nei livelli superiori della struttura di classe degli Stati Uniti.

 

Personalmente, non ci credo.

 È più probabile il contrario: le persone che lottano per vivere, facendo due o tre lavori per pagare le bollette, hanno più competenze della maggior parte delle persone nel terzo superiore della distribuzione del reddito che non hanno mai dovuto preoccuparsi di pagare le bollette.

Parla con qualsiasi persona seria in qualsiasi azienda di medie dimensioni oggi e ti racconteranno delle loro lotte.

 I regolamenti e le tasse sono fastidiosi, ma sono i problemi quotidiani del lavoro che inibiscono davvero le loro operazioni e il loro progresso.

 È estremamente difficile trovare lavoratori che facciano ciò che dovrebbero fare in modo tempestivo, con attenzione ai dettagli e senza costanti mani e lodi.

Questo declino dell'etica del lavoro americana risale in parte alle istituzioni educative, ma anche al fatto che la maggior parte dei giovani nella metà più alta dei percettori di reddito non ha mai lavorato un giorno nella loro vita fino a quando non hanno guadagnato le loro credenziali.

Non hanno idea di cosa significhi abbracciare un lavoro duro e perseverare fino a quando non hanno finito.

 Si risentono delle strutture autoritarie sul posto di lavoro e tentano di ingannare il sistema nello stesso modo in cui hanno giocato con la scuola per più di 16 anni.

Una cosa è sviluppare competenze per la sopravvivenza in classe e una cosa radicalmente diversa è avere competenze per un nuovo mondo della produzione.

Le lezioni di negozio nelle scuole superiori sono per lo più scomparse (solo il 6% degli studenti le frequenta contro il 20% negli anni '80) e due terzi degli adolescenti evitano completamente il lavoro remunerativo, semplicemente perché non è necessario.

Sono passate generazioni da quando la maggior parte delle persone non conosceva nulla della vita agricola, per non parlare della vita in fabbrica.

Trump sta cercando di risolvere un problema vecchio di mezzo secolo in quattro anni.

Si tratta di una sfida seria e non posso dire di essere ottimista.

 Detto questo, ora ci sono opportunità reali per persone come l'acquirente di cui ho parlato sopra, persone che lavorano sodo, lavorano bene, si attengono al compito e sono grate per le loro opportunità.

 Purtroppo, questi tratti sfuggono in gran parte ai laureati delle istituzioni educative più prestigiose della nostra nazione.

 

 

 

 

 

CULTURA FILOSOFIA.

«TEMPUS FUGIT.»

Inchiostronero.it - Redazione Inchiostro nero - (16-04 – 2025) - Il Simplicissimus – ci dice:

 

Dall’oblio del presente eterno al ritorno del tempo: fragili come foglie, riscopriamo la storia.

Tempus fugit, il tempo fugge — ma per anni abbiamo vissuto come se non esistesse.

 Sospesi nell’eterno presente del neoliberismo, immersi in un flusso anestetizzato di merci, trend e appagamenti immediati, abbiamo smarrito il senso della storia, della memoria, perfino del futuro.

 In questo scenario, la poesia di Ungaretti torna a parlarci con forza: “Si sta come d’autunno…”, non più solo i soldati in trincea, ma noi tutti, foglie ingiallite in equilibrio precario, nell’attesa della folata.

Questo pezzo riflette sul ritorno del tempo come dimensione storica e umana, dopo decenni di ibernazione culturale.

Un invito a riaprire l’orizzonte, a riconoscere la fragilità e la profondità dell’essere, fuori dal ciclo compulsivo del consumo e dell’oblio. (f.d.b.)

 

Si sta come d’autunno…” Sì, tutti stiamo come foglie ingiallite, precariamente attaccate all’albero in attesa della folata che ci farà cadere ed è questa, forse, la ragione della fortuna che ha avuto questa poesia fulminante nell’era della memoria da pesci rossi.

 Lo possiamo percepire meglio ora che la storia e anche le nostre stesse storie sono uscite dall’ibernazione neoliberista, dall’eterno presente che esso ci propone, dall’assenza di memoria e dunque di futuro in cui eravamo immersi come se la vita fosse strisciare carte di credito per ottenere dosi di dopamina, inseguire tendenze che svaniscono da un giorno all’altro e misurare le nostre vite in clip virali ed “esperienze” fugaci.

 Tutto è stato travolto e macinato dentro questo mulino dove futilità ed emergenze create ad arte hanno dato vita a un flusso circolare e occluso, come certe perturbazioni che non se ne vogliono andare.

Proprio tutto, dalla letteratura alla politica:

il tempo, con il suo faticoso lavorio e gli orizzonti sono stati messi da parte, sono stati esclusi come parte fondamentale dell’equazione umana.

Si capisce perciò che alcuni rifiutino di essere scongelati, ci stanno troppo bene nelle loro vaschette da freezer, nelle loro piccole o grandi rendite di posizione, nella loro tranquillità mentale e perciò arrivano a puntare su una guerra infinita che, oltre a favorire speculazioni economiche e ogni tipo di attentato a quel po’ di democrazia che resta, sia pure solo nelle forme, sconfessi il significato storico dello scontro in Ucraina, ovvero la sconfitta di un sistema.

Temono che ciò riavvii la cognizione del tempo e la consapevolezza del passaggio a un nuovo paradigma.

È lo scontro fra i due terzi di umanità che guardano al futuro e un terzo che ritiene di aver raggiunto l’unico futuro possibile.

E tuttavia la precarietà, l’assenza di una visione temporale di lungo periodo è quanto mai evidente proprio in questi giorni:

di fronte a problemi epocali si procede di giorno in giorno come se fossimo dipendenti dal momento, come se tutto fosse ridotto a un evento, dazi messi oggi e tolti il giorno dopo, minacce all’Iran e poi colloqui, tregua a Gaza e poi bombe, tamburi di guerra europei che poi si risolvono in nulla.

Questa tattica che assume aspetti grotteschi con Trump è in realtà operante già da decenni e riflette l’incapacità di andare oltre gli schemi già prefabbricati e l’ideologia della fine della storia.

Abbiamo barattato la dignità della pazienza per il caos del presente che non passa. Questa non è solo una crisi finanziaria, una crisi umanitaria, una crisi politica, una crisi militare, è in primo luogo una carestia mentale.

 Abbiamo dimenticato come piantare semi che impiegano decenni a crescere, anzi non sappiamo nemmeno cosa siano, abbiamo dimenticato come costruire un mondo per bambini che non incontreremo mai:

il culto della gratificazione istantanea ha assassinato ogni visione.

Scorriamo, spendiamo, corriamo – e ci ritroviamo con portafogli vuoti, relazioni vuote e nazioni che boccheggiano.

Ciò che è importante è essere qualcosa come individui, anzi assolutizzare l’individualità come se incarnassimo un Io fichtiano atomizzato, ma non essere nulla come comunità perché questa ci limiterebbe.

Una donna spagnola è stata condannata per aver detto che la Spagna è cristiana, come se questo fosse un crimine di odio verso i non cristiani.

Il resto del pianeta ride:

sarebbe come condannare un abitante di Casablanca se dicesse che il Marocco è mussulmano.

E ho fatto un esempio di un Paese che ospita centinaia di migliaia di europei, soprattutto pensionati che si sottraggono alla povertà con questa emigrazione forzata verso posti dove la vita costa di meno.

La maggior parte dei nostri antenati ha agito e vissuto per cose che non avrebbero visto:

l’obolo per cattedrali in cui solo i nipoti avrebbero messo piede, strade che solo i figli avrebbero percorso, viaggi perigliosi per un futuro tutto da immaginare, mentre noi siamo schiavi dell’immediato e perciò essenzialmente irresponsabili e allo stesso tempo impolitici, visto che la politica è l’arte di agire nel presente per preparare il futuro.

Certo si vive solo una volta, ma questo non significa pensare che dopo di noi il mondo non esisterà più o come correlato oggettivo che spesso si riscontra nei più giovani, che non c’è stato nulla prima.

 Da ragazzo scrissi un saggetto di qualche pagina per inseguire le ragioni della poca fortuna che il grande romanzo ha avuto in Italia e lo trovai nel limitato sentimento del tempo che si ha paradossalmente in uno dei Paesi più ricchi di storia del mondo:

 il grande romanzo ha bisogno di un ampio respiro temporale, anche solo come scenario.

Non so se avessi ragione, ma in ogni caso non avevo la più pallida idea di essere un profeta.

Che avrei visto il mondo a tre dimensioni in cui vivevo trasformarsi in una platea dove solo la banalità del momento ha posto e dove si recita a soggetto senza che i personaggi abbiano bisogno di un autore.

Ignari che l’attimo può essere colto davvero solo se è circondato da esperienza e speranze.

La carbon tax marittima globale

scatena il dibattito sulla libertà

economica e l'ambizione climatica.

 Naturalnews.com – (15/04/2025) - Willow Tohi – ci dice:

 

L'IMO ha introdotto una tassa sul carbonio sulle emissioni marittime, fissata a 100-380 per tonnellata per le navi che superano le soglie (introdotta gradualmente entro il 2027).

Le entrate (11-13 miliardi di dollari all'anno) finanzieranno la tecnologia di spedizione verde e aiuteranno i paesi in via di sviluppo, anche se i critici le definiscono insufficienti.

La misura ha diviso le nazioni:

 63 (UE, Cina, Sudafrica) l'hanno sostenuta; 16 (Arabia Saudita, Russia) si sono opposti; e 25 (isole del Pacifico, altre) si sono astenuti, citando i deboli tagli alle emissioni e l'esclusione dai negoziati.

Gli stati vulnerabili hanno lamentato la sua inadeguata protezione del clima.

Gli Stati Uniti hanno respinto la tassa come "ingiusta", avvertendo di misure di ritorsione.

 I critici hanno sostenuto che grava sulle catene di approvvigionamento, aumenta i costi dei consumatori e invade la sovranità nazionale, favorendo i mandati unilaterali rispetto a quelli internazionali.

 

Alcune ONG hanno elogiato la tassa come un progresso, ma hanno chiesto standard più severi sui carburanti, mentre altre (ad esempio, Opportunity Green) l'hanno definita una scappatoia "pay-to-pollute".

Gli obiettivi di emissione dell'IMO sono inferiori agli obiettivi dell'Accordo di Parigi (10% contro tagli del 30% entro il 2030).

La tassa riflette la crescente azione per il clima, ma deve affrontare lo scetticismo sull'efficacia e sull'impatto economico.

 Con l'adozione definitiva nel 2025, persisteranno le tensioni tra gli obiettivi di decarbonizzazione, i mercati dell'energia e le catene di approvvigionamento globali.

L'”Organizzazione marittima internazionale” (IMO) ha approvato la prima carbon tax globale al mondo sulle emissioni marittime, suddividendo le nazioni lungo linee economiche e climatiche.

 La misura, che impone tariffe fino a 380 dollari per tonnellata di emissioni in eccesso, ha suscitato l'immediata opposizione dell'amministrazione statunitense e l'esame dei critici che sostengono che manchi di incisività.

Finalizzato venerdì a Londra, l'accordo impone alle navi che superano le soglie di emissione di pagare 100 per tonnellata metrica per le emissioni in eccesso incrementali e 380 per le porzioni più intensive a partire dal 2027.

 Le entrate, previste tra gli 11 e i 13 miliardi all'anno, sono destinate alle tecnologie di spedizione ecologiche e all'aiuto ai paesi in via di sviluppo nella transizione verso combustibili a basse emissioni di carbonio.

Tuttavia, il patto esclude un uso più ampio dei finanziamenti per il clima, un compromesso che ha sfidato le richieste delle nazioni insulari e di altri stati vulnerabili.

Gli Stati Uniti, assenti dai negoziati, hanno respinto l'accordo come "palesemente ingiusto" e hanno minacciato misure di ritorsione contro le tasse sulle navi americane.

"Questo accordo grava ingiustamente sui cittadini e sulle imprese americane senza affrontare la radice della sfida climatica", si legge in una lettera dell'amministrazione Trump che delinea le potenziali contromisure.

Lo stallo geopolitico riflette il cambiamento delle priorità energetiche.

Il voto dell'IMO rifletteva forti divisioni.

 Sessantatré nazioni, tra cui l'UE, la Cina e il Sudafrica, hanno sostenuto la tassa, mentre 16 – guidate da esportatori di petrolio come l'Arabia Saudita e la Russia – l'hanno respinta.

Venticinque nazioni, compresi gli stati insulari del Pacifico, si sono astenuti, citando tagli inadeguati alle emissioni e l'esclusione dai negoziati.

Il ministro dei trasporti di Tuvalu, Simon Kofe, ha lamentato la "debolezza" dell'accordo, sostenendo che non è riuscito a proteggere le nazioni vulnerabili al clima dall'innalzamento dei mari e dalle tempeste.

 Nel frattempo, il ministro delle Seychelles “Antony Derjacques” ha criticato le nazioni più ricche per aver bloccato le proposte di reindirizzare le entrate fiscali verso l'adattamento climatico, affermando:

"Come possiamo chiedere al nostro popolo di accettare un accordo che ignora le loro sofferenze?"

Eppure i giganti globali dello shipping e le industrie cantieristiche erano cautamente ottimisti.

 Il compromesso negoziato dalla Norvegia ha messo insieme meccanismi di scambio di imposte e crediti, con l'obiettivo di bilanciare gli oneri dei costi.

 Il segretario generale dell'IMO,” Arsenio Dominguez”, ha definito il patto come un progresso, affermando:

"Questo consenso riflette un percorso per modernizzare il trasporto marittimo affrontando gli imperativi climatici".

I sostenitori della libertà energetica mettono in guardia contro la soppressione del mercato.

Gli analisti conservatori e i sostenitori della libertà energetica hanno avvertito che la tassa rischia di soffocare il commercio e di allocare male le risorse.

 "Questo approccio dall'alto verso il basso mette sotto pressione le aziende senza fornire benefici ambientali misurabili", ha affermato l'analista politico “Mark Distler “dell'Energy Independence Project.

"I costi elevati graveranno sulle già fragili catene di approvvigionamento globali, danneggiando i consumatori e arricchendo le autorità di regolamentazione".

I critici hanno sottolineato che la quota di emissioni del 3% del trasporto marittimo lo rende una piccola fetta del totale globale.

 "Perché gravare solo su questo settore quando il carbone, il petrolio e altre industrie dominano le emissioni?", si è chiesto” Distler”.

Altri hanno notato che le soglie di riduzione graduale della tassa potrebbero consentire di continuare a fare affidamento su combustibili fossili come il “GNL”, che gli ambientalisti etichettano come "carburante ponte" con benefici netti discutibili.

L'opposizione statunitense sottolinea un più ampio scetticismo nei confronti dei mandati internazionali.

 "Le decisioni sulla regolamentazione economica appartengono alle nazioni sovrane, non alle piccole burocrazie delle Nazioni Unite", ha sostenuto la negoziatrice statunitense “Jessica Winslow”, aggiungendo:

 "La decarbonizzazione forzata danneggia i lavoratori dei settori diesel e marittimo, per non parlare delle famiglie che devono affrontare prezzi più elevati per i beni importati".

Gli ambientalisti si dividono sulla sostenibilità dell'accordo "storico".

Gli ambientalisti hanno offerto reazioni contrastanti.

“ Natacha Stamatiou” dell'”Environmental Defense Fund” ha elogiato la tassa come punto di partenza, ma ha sollecitato standard più severi per i carburanti.

Nel frattempo, “Opportunity Green”, con sede nel Regno Unito, lo ha definito "un fallimento per i paesi vulnerabili al clima", sostenendo che i livelli delle tariffe potrebbero consentire alle aziende di "pagare per inquinare" piuttosto che innovare.

 

Il legame dell'IMO con l'obiettivo di 1,5°C dell'Accordo di Parigi ha ulteriormente agitato gli attivisti.

 Una road map dell'IMO per il 2023 mirava a ridurre le emissioni del 30% entro il 2030, ma gli obiettivi attuali fornirebbero solo il 10%.

"Questa tassa è un ostacolo, non un punto di svolta", ha detto l'inviato del Pacifico” Albon Ishoda”.

Un percorso diviso in avanti.

La storica tassa sul carbonio segnala un'azione globale per il clima, ma la sua efficacia rimane incerta.

(La tassa sulla Co2 è una colossale truffa che tutti i “veri scienziati del clima” la deridono. N.D.R.)

Per i critici, rappresenta un eccesso in un'arena geopolitica già tesa dalla domanda di energia.

 Mentre il Segretario Generale “Dominguez” ha sollecitato un dialogo più ampio, il passaggio degli Stati Uniti a misure unilaterali suggerisce futuri attriti.

Con l'adozione definitiva delle regole dell'IMO nell'ottobre 2025, la lotta per la libertà economica contro l'ambizione climatica promette di intensificarsi, dagli hub di spedizione a Singapore ai corridoi della catena di approvvigionamento in Ohio.

 Per ora, i mari, come la politica, rimangono turbolenti.

(YourNews.com - EnviroNewNigeria.com - APNews.com).

 

 

 

Quindi, se Elon Musk comprasse Planned

Parenthood, i democratici brucerebbero

tutte le cliniche abortive?

 Naturalnews.com – (15/04/2025) -  S.D. Wells – ci dice:   .

 

Cospirazione per i vaccini e l'autismo – Si sostiene che il programma di vaccinazione ampliato del CDC causi l'autismo (ora 1 bambino su 50), con accuse che Big Pharma e le agenzie governative sopprimono la verità.

 RFK Jr. ha promesso di denunciarlo presto.

Planned Parenthood come strumento eugenetico – L'organizzazione è accusata di prendere di mira le comunità nere attraverso l'aborto e di fungere da "macchina del genocidio" nell'ambito di un'agenda di spopolamento.

 I democratici sostengono l'infanticidio mentre coprono il ruolo di Planned Parenthood nella pulizia etnica.

Elon Musk compra Planned Parenthood?

 Uno scenario ipotetico suggerisce che Musk potrebbe smascherare l'ipocrisia:

se acquisisse l'organizzazione, la sinistra potrebbe protestare violentemente (come con i concessionari di veicoli elettrici), rivelando la loro vera agenda.

Prossima strategia per combattere lo spopolamento. 

La soluzione proposta è la chiusura sia dei mandati vaccinali che di Planned Parenthood per "sradicare i vettori di spopolamento", con le prossime rivelazioni di RFK Jr. come passo chiave.

La maggior parte degli americani non ha idea che i vaccini e Planned Parenthood siano vettori primari per il controllo della popolazione e le macchine del genocidio di "pulizia etnica".

I vaccini causano l'autismo, che distrugge la vita dei bambini che probabilmente non metteranno mai su una famiglia propria e che avranno bisogno di costose cure croniche per tutta la vita.

Anche l'ex capo del CDC, il famoso scienziato Dr. William Thompson, ha denunciato i vaccini MMR che contribuiscono all'autismo, specialmente tra i giovani ragazzi neri di età inferiore ai tre anni.

Tutto questo è stato coperto dalla FDA e dal CDC.

 Inoltre, Planned Parenthood, se l'avete notato, ha centri principalmente nelle città metropolitane degli Stati Uniti dove ci sono prevalentemente demografie nere in modo che le donne nere vi entrino e abortiscano.

Capito?

Quindi, dal momento che i democratici sostengono il comunismo in America, e tutti soffrono della sindrome da squilibrio di Trump, sarebbero così pazzi da bruciare tutti i centri di Planned Parenthood se Elon Musk li comprasse, come stanno facendo con i centri di vendita di veicoli elettrici ora, anche se affermano di essere "all in" per salvare la terra dal riscaldamento globale causato dai veicoli a gas?

Finora, Trump e Musk hanno completamente superato in astuzia la folle sinistra e l'hanno aiutata ad alimentare la propria scomparsa e caduta.

 È tempo di sradicare tutti i vettori dello spopolamento, compresi i vaccini e Planned Parenthood.

Qual è la prossima strategia per raggiungere questo obiettivo?

RFK Jr. dice al presidente Trump che il mondo conoscerà la causa della massiccia esplosione dell'autismo entro settembre.

Il mondo sembra non sapere cosa causa l'autismo.

La medicina occidentale finge di non avere idea che i vaccini siano i principali colpevoli, quando le neurotossine e gli agenti cancerogeni noti vengono iniettati nei neonati e mandano il loro sistema nervoso centrale in una spirale discendente, il loro sistema immunitario in uno shock massiccio e depositano veleni di metalli pesanti nel loro piccolo cervello in via di sviluppo Oh, cosa potrebbe essere? Non deve essere così.

 I vaccini sono sempre sicuri al 95% ed efficaci al 95%, giusto?

Beh, se è così, l'altro 5% si ammala di autismo, Covid e SIDS, perché a partire da ora, 1 bambino su 50 a cui vengono iniettati questi vaccini mortali è mutilato per la vita o morto.

Per fortuna, Robert F. Kennedy Jr. lo sa.

 Sta promettendo a Trump che svelerà la verità sui vaccini sporchi e lo farà sapere al mondo, ma sa che deve avere le prove supportate dalla scienza per dimostrarlo, e fino ad ora, il Complesso Industriale dei Vaccini ha seppellito tali verità e ricerche.

Censurato tutto.

L'ha definito "anti-scienza" e "anti-vax" per denunciare questi pericoli del programma di vaccinazione infantile raccomandato dal CDC.

 

Forse Elon Musk dovrebbe comprare tutti i centri di Planned Parenthood in modo che i Democratici li bombardino, e poi potrebbe chiuderli tutti, dal momento che in realtà non si tratta di aiutare nessuno a pianificare la genitorialità, ma al contrario si tratta di sterminare i bambini nel grembo materno prima che abbiano una possibilità di vita.

Poi, se questo non funziona, la polizia Vax arriva e inietta ai sopravvissuti 70 vaccini mortali nei loro primi anni di vita in modo che non possano mai condurre una vita normale e sana con abbastanza intelligenza da avere pensieri indipendenti e critici che li aiutino a votare per i propri diritti di libertà medica e sanitaria.

(Pandemia.notizie - NaturalNews.com)

(Vaccines.news ai tuoi siti Web indipendenti preferiti per aggiornamenti su vaccini sporchi come l'MMR e l'mRNA che causano l'autismo e la sindrome Long-Vax.).

 

 

 

Il gigante degli hedge fund avverte

della crisi finanziaria globale tra le

 turbolenze tariffarie statunitensi

 e i rischi del debito.

  Naturalnews.com – (16/04/2025) - Willow Tohi – ci dice:

“Ray Dalio”, fondatore di” Bridgewater Associates”, avverte che gli Stati Uniti si stanno avvicinando a un collasso economico di gran lunga peggiore di una tipica recessione a causa di tariffe aggressive, debito record, divisioni politiche e tensioni geopolitiche, potenzialmente superiore alla crisi del 2008.

“Dalio” paragona la situazione attuale alle turbolenze economiche degli anni '30 e '70, evidenziando come le tariffe protezionistiche, l'aumento del debito e le mutevoli dinamiche di potere globali (in particolare le tensioni tra Stati Uniti e Cina) abbiano storicamente portato a crisi come la Grande Depressione e il crollo monetario del 1971.

 

I dazi di Trump, che vanno dal 10% al 145%, stanno sconvolgendo il commercio globale, mettendo a dura prova le industrie (semiconduttori, auto, tecnologia) e intensificando i conflitti con alleati e rivali come la Cina.

 Dalio paragona questo a "lanciare sassi nel sistema di produzione", rischiando il collasso della catena di approvvigionamento.

 

Il debito federale degli Stati Uniti che supera i 36 trilioni di dollari minaccia la stabilità fiscale.

“Dalio” sostiene che i deficit incontrollati potrebbero innescare un "ciclo di deflazione del debito", in cui il calo dei prezzi degli asset peggiora le recessioni economiche.

Goldman Sachs aumenta le probabilità di recessione al 45% entro un anno a causa dei dazi e dell'erosione della fiducia.

“Dalio” esorta il Congresso a contenere i deficit, stabilizzare le politiche tariffarie e riformare la strategia monetaria.

Tuttavia, lo stallo politico e le politiche commerciali incoerenti della Casa Bianca minano le soluzioni. Senza un'azione rapida, gli Stati Uniti rischiano un collasso sistemico simile a disastri economici storici.

L'investitore miliardario “Ray Dalio”, fondatore di Bridgewater Associates, ha lanciato l'allarme sul fatto che gli Stati Uniti siano sull'orlo di un collasso economico di gran lunga peggiore di una tipica recessione.

 In un'apparizione a “Meet the Press “della NBC il 13 aprile 2025, Dalio ha avvertito che le politiche tariffarie aggressive del presidente Donald Trump, insieme al debito federale record, all'escalation delle tensioni geopolitiche e alle divisioni politiche interne, potrebbero innescare un collasso sistemico dell'ordine finanziario globale.

Facendo eco ai parallelismi con gli anni '30 e '70, Dalio ha sottolineato la fragilità del ruolo del dollaro USA come valuta di riserva globale e ha avvertito che senza un'azione rapida e strategica, il paese si trova ad affrontare una crisi più profonda del crollo finanziario del 2008.

 

Precedenti storici e rischi attuali.

Gli avvertimenti di Dalio hanno fatto paragoni diretti con momenti cruciali della storia economica, tra cui la Grande Depressione e lo shock di Nixon del 1971.

 Ha sottolineato come le tariffe protezionistiche, il debito espansivo e le rivalità geopolitiche negli anni '30 abbiano alimentato le turbolenze economiche, scrivendo:

"Questi tempi sono molto simili agli anni '30. Se si prendono i dazi, il debito, una potenza in ascesa che sfida la potenza esistente, questi cambiamenti negli ordini sono molto, molto dirompenti".

La crisi attuale, ha detto, dipende dall'uso "dirompente" dei dazi da parte del presidente Trump come arma commerciale.

 La Casa Bianca ha imposto una tariffa di base del 10% su tutte le importazioni e ha imposto dazi "reciproci" fino al 50% su dozzine di paesi, compresi alleati come l'UE e il Canada.

 La Cina, bersagliata con i tassi più alti (145% sulle importazioni), ha reagito con le proprie sanzioni, destabilizzando le catene di approvvigionamento globali.

 

Turbolenze tariffarie e ricadute geopolitiche.

Dalio ha descritto la strategia tariffaria di Trump come simile a "lanciare pietre nel sistema produttivo", avvertendo che le misure hanno già iniziato a soffocare l'efficienza del commercio globale.

I settori dei semiconduttori, dell’automotive e della tecnologia devono ora affrontare costi di input elevati, mentre a settori come smartphone e pannelli solari sono state concesse esenzioni di breve durata, per poi affrontare una nuova incertezza quando il segretario al Commercio” Howard Lutnick” ha avvertito che le tariffe potrebbero tornare in due mesi.

 

Dal punto di vista geopolitico, le politiche hanno approfondito le fratture tra gli Stati Uniti e i loro partner commerciali.

Dalio ha osservato che, storicamente, tali cambiamenti nelle dinamiche di potere globale – dal declino della Gran Bretagna all'ascesa della Cina – hanno spesso preceduto guerre o collasso valutario.

 "L'escalation del conflitto potrebbe essere come il collasso del sistema monetario nel 1971", ha detto, riferendosi alla brusca fine del gold standard da parte di Nixon e al caos inflazionistico che ne è seguito.

 

La crisi del debito incombe sulla politica fiscale degli Stati Uniti.

Al centro delle preoccupazioni di Dalio c'è il debito federale degli Stati Uniti, che ora supera i 36 trilioni di dollari.

Sostiene che questo livello di indebitamento, guidato dai pacchetti di stimolo e dalla spesa fiscale, metterà a dura prova la capacità del governo di stabilizzare i mercati durante una recessione.

"Se non riduciamo il deficit di bilancio al 3% del PIL, ci troveremo di fronte a un problema di domanda e offerta per il debito", ha detto Dalio, esortando il Congresso a impegnarsi nella disciplina fiscale.

La recente valutazione di Goldman Sachs sottolinea le sue preoccupazioni, elevando il rischio di recessione negli Stati Uniti al 45% entro 12 mesi a causa dell'inflazione guidata dai dazi e dell'erosione della fiducia dei consumatori.

 Gli analisti avvertono che una recessione potrebbe trasformarsi in un "ciclo di deflazione del debito", in cui il calo dei prezzi degli asset costringe a liquidazioni di massa, soffocando ulteriormente l'attività economica.

 

Richieste di azione del Congresso.

Dalio ha proposto una soluzione su più fronti: contenere il deficit di bilancio, negoziare i dazi "in modo stabile" e ripensare la politica monetaria.

Ha sottolineato che il tempo stringe:

"Il modo in cui questi fattori vengono gestiti ora potrebbe produrre qualcosa di peggio di una recessione, o potrebbe essere gestito bene".

 

Tuttavia, lo stallo politico e i messaggi incoerenti della Casa Bianca sui dazi complicano il percorso da seguire.

Mentre il team di Trump insiste sul fatto che i dazi sono strumenti per "ri-localizzare" la produzione, le modifiche alle esenzioni e ai dazi hanno spaventato gli investitori.

"La mancanza di chiarezza è stata dannosa", ha detto” Felix Stellmaszek “del “Boston Consulting Group”, osservando che le aziende ora presumono attriti commerciali prolungati.

 

Crollo imminente?

Gli avvertimenti di Dalio sottolineano un crescente consenso tra gli economisti:

le politiche statunitensi stanno spingendo l'economia verso un bivio.

Senza una gestione fiscale disciplinata e negoziati commerciali strategici, i rischi di una recessione prolungata o, peggio, di un collasso monetario, aumentano.

Gli echi della storia – dai dazi “Smoot-Hawley” allo shock economico di Nixon – servono come cupi promemoria dei pericoli di sottovalutare la fragilità sistemica.

Per ora, il mondo sta a guardare per vedere se i politici sceglieranno la stabilità piuttosto che la convenienza, o se l'economia statunitense cadrà negli abissi previsti da Dalio.

Mentre i mercati inciampano e la fiducia nel dollaro vacilla, il costo dell'inazione potrebbe essere la prossima grande resa dei conti economica della civiltà.

(RT.com -- Independent.co.uk -- Fiance.yahoo.com).

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