Costruire una nuova società politica.
Costruire
una nuova società politica.
Ragionare
per costruire una
“nuova”
politica –
Giancarlo Infante.
Politicainsieme.com – ( Oct. 18- 2024) –
Giancarlo infante – ci dice
Cosa
significa parlare di una “nuova” politica?
Il tema cioè che affrontiamo a Roma domani,
sabato 19 ottobre, insieme a numerosi rappresentanti di altri gruppi e
associazioni che vogliono ragionale sulla possibilità di dare vita ad una
“Alleanza popolare e democratica” che faccia della libertà e della solidarietà
la doppia faccia di una sola medaglia di quel processo di trasformazione che
deve interessare il Paese sotto il profilo istituzionale, sociale ed economico.
In
primo luogo, significa superare la logica del bipolarismo in cui siamo finiti
negli ultimi trent’anni e più.
Cominciando
dai territori dove i contenuti programmatici fondamentali per rigenerare il
Paese diventano la cifra concreta e coerente con cui riannodare i rapporti tra
istituzioni, politica e popolo.
Negli
oltre tre decenni vissuti dal nostro sistema politico abbiamo registrato tanti
fenomeni di distorsione del quadro democratico.
Che
riguardano gli equilibri istituzionali, lo snaturamento dei partiti, un
profondo distacco del paese legale da quello reale.
Come ci ricorda il continuo ripresentarsi
dell’astensionismo, in crescita in qualunque tipo di consultazione elettorale.
La
nostra democrazia appare sempre più gracile e malata.
In coincidenza con l’affievolirsi di quelle
voci che hanno nella loro tradizione una forte carica solidale.
Come
quella popolare, ma non solo, perché una politica quasi esclusivamente basata
su un sistema di “nominati”, di partiti sempre più guidati da ristretti
circoli, e della logica della scelta per schieramento, ha di fatto tolto di
scena anche le grandi culture del mondo liberale, repubblicano e socialista.
Non si
tratta, pertanto, di pensare ad un mero posizionamento intermedio tra destra e
sinistra.
Bensì,
di costruire dal basso una vera e propria alternativa basata, come indicava il
Manifesto Zamagni, su di un pensiero forte in grado di dare voce ad un progetto
di autonomia che non significhi solitudine, ma, al contrario, una sfida sul
piano di contenuti programmatici che, in questa fase vissuta dal Paese,
richiamano, insieme e in forma coerente e compiuta, gli aspetti istituzionale,
ossia il Premierato;
l’organizzazione dello Stato e delle sue
propaggini regionali e locali, vedi l’Autonomia differenziata;
i
nuovi paradigmi economici e sociali da mettere in forte competizione con l’idea
di un liberismo individualista, e la collegata finanziarizzazione
dell’economia, rivelatisi negli ultimi decenni i più pericolosi fenomeni di
destabilizzazione economica e sociale.
Ciò è
a maggior ragione valido in un contesto internazionale che diventa sempre più
complesso e che fa inopinatamente ritornare a diventare la Pace il bene più
bene prezioso da coltivare, anche in una realtà come quella europea chiamata a
rafforzarsi per superare le lacerazioni interne, provocate dalle spinte
nazionalistiche che, a ben guardare, sono le vere cause di quei problemi
denunciati dai populisti, e tornare, così, ad una politica internazionale fatta
di dialogo e di collaborazione.
Anche
per questo l’Italia ha la necessità di interrogarsi e operare sulle proprie
condizioni di divisione e di smarrimento.
Cui si
è pensato di rispondere con le varie forme di populismo succedutesi nel corso
dell’ultimo decennio e che, oggi, ci fa trovare con il Governo più di destra,
più divisivo e accentratore delle disparità sociali e regionali, che il nostro
Paese abbia mai conosciuto.
Per
reagire a tutto ciò c’è bisogno di una cultura politica “nuova” adeguata alla
complessità del Paese e agli inediti equilibri in via di definizione nel mondo.
Sappiamo
che la società italiana è percorsa da un grande fermento.
Quello
ignorato dai grandi partiti e dal sistema dell’informazione.
E
questo spiega quella fase di ascolto in cui sembrano tornare a coinvolgersi il
mondo popolare e dell’impegno sociale in gran parte fatto, sì, di cattolici, ma
anche da espressioni di altre culture politiche, come noi intenzionate a dare
un senso costruttivo e di autentica trasformazione dell’impegno pubblico, e
che, come noi, credono nel consolidamento delle istituzioni libere,
democratiche e basate su di un reciproco rispetto dei loro distinti ruoli e
competenze.
Siamo
tutti consapevoli che abbiamo bisogno di consolidare le conquiste dell’Italia
repubblicana raggiunte a caro prezzo, basate sulla coesione sociale, sulla
partecipazione, sulla ricchezza delle vocazioni e specifiche articolazioni
locali e, quindi, curando ed esaltando una politica fatta di vicinanza con le
realtà territoriali.
Il
ragionare assieme, su di una base paritaria, senza la precostituzione di uno
schema imposto arbitrariamente dall’alto, serve anche per individuare, assieme,
le forme concrete in cui, a partire dalla collaborazione nei territori, e pure,
eventualmente, in un impegno elettorale da definire nei modi e nei tempi che,
soprattutto, il contesto locale richiede, si possa cominciare ad indicare che
la costruzione di una politica “nuova” è possibile.
(Giancarlo
Infante).
“AI
Overview”.
Costruire una nuova società politica.
Costruire
una nuova società politica significa creare un sistema politico che sia più
inclusivo, partecipativo e che tenga conto delle esigenze dei cittadini. Questo
può implicare riforme costituzionali, cambiamenti nei sistemi elettorali,
aumento della partecipazione civica, e un maggiore rispetto per i diritti umani
e le libertà fondamentali.
Ecco
alcuni aspetti chiave per costruire una nuova società politica:
1.
Riforme costituzionali:
Separatismo
dei poteri:
Garantire
una netta separazione tra legislativo, esecutivo e giudiziario per evitare
abusi di potere.
Controlli
e bilanciamenti:
Implementare
meccanismi di controllo e bilanciamento tra i diversi rami del governo per
prevenire la concentrazione del potere.
Cittadinanza
attiva:
Promuovere
la partecipazione dei cittadini alla vita politica attraverso strumenti come il
referendum e il bilancio partecipativo.
Riforme
elettorali:
Adottare
sistemi elettorali che promuovano la rappresentanza proporzionale e riducano la
possibilità di manipolazione del voto.
2.
Aumento della partecipazione civica:
Educazione
civica:
Implementare
programmi di educazione civica a scuola per promuovere la conoscenza dei
diritti e dei doveri dei cittadini.
Consigli
di quartiere:
Creare
strumenti di partecipazione diretta come i consigli di quartiere per permettere
ai cittadini di contribuire alle decisioni locali.
Organizzazioni
della società civile:
Supportare
le organizzazioni della società civile che promuovono la partecipazione
politica e la democrazia.
3.
Rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali:
Diritto
alla libertà di espressione:
Garantire
il pieno rispetto per la libertà di espressione e la libertà di stampa.
Diritto
di associazione:
Promuovere
la libertà di associazione e la partecipazione dei cittadini alle
organizzazioni politiche e civiche.
Diritto
di voto:
Garantire
il diritto di voto a tutti i cittadini in modo libero, equo e trasparente.
4.
Trasparenza e lotta alla corruzione:
Accesso
alle informazioni:
Garantire
il diritto di accesso alle informazioni pubbliche e favorire la trasparenza
nell'attività governativa.
Lotta
alla corruzione:
Implementare
misure per combattere la corruzione e promuovere l'integrità nella vita
politica.
Costruire
una nuova società politica è un processo complesso e richiede la collaborazione
di tutti gli attori politici e civici. Solo attraverso un impegno comune si
potrà realizzare una democrazia più inclusiva, partecipativa e rispettosa dei
diritti fondamentali dei cittadini.
Donald
Trump e la fine della “democrazia
esportata”: il tramonto
del
sionismo americano.
Lacrunadellago.net – (15/05/2025) – Cesare
Sacchetti – ci dice:
A
Riyadh hanno fatto davvero le cose in grande.
Non
appena il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha messo piede
nell’aeroporto della capitale saudita, per firmare l’accordo sulla vendita di
armi e di investimenti sauditi negli USA per un valore pari a 600 miliardi di
dollari è stato accolto da un interminabile tappeto viola che nelle tradizioni
locali significa regalità, magnificenza e abbondanza.
La
camminata di Trump assieme a Mohammed bin Salman, l’erede al trono saudita è
stata immortalata.
Il
regno saudita mostra tutto il rispetto possibile per il presidente americano e
sembra passato un secolo quando “Joe Biden” non riusciva nemmeno a parlare al
telefono con l’erede al trono, Mohammed bin Salman.
La
presidenza di Joe Biden un giorno andrà davvero studiata meglio perché mai
prima d’ora si era visto un atteggiamento simile da parte delle varie
cancellerie internazionali che snobbavano senza pudore alcuno quello che sulla
carta era il presidente degli Stati Uniti, ma che nella pratica non sembra
esserlo mai stato, soprattutto alla luce di quanto sta facendo emergere Trump
che parla di molte firme invalide da parte dell’ex inquilino della Casa Bianca.
La
storia adesso è completamente diversa.
Il
mondo sa chi è il comandante in capo, e i sauditi per primi non hanno alcun
dubbio al riguardo.
Si
ritorna da dove si era partiti dunque, quando nel 2016 Donald Trump allora
accompagnato da sua figlia Ivanka e suo marito,” Jared Kushner”, allontanato da
Trump per la sua vicinanza a Israele, erano atterrati a Riyadh per iniziare a
tessere il filo delle relazioni mediorientali dell’amministrazione Trump, ma
all’epoca l’Arabia Saudita attraversava una fase geopolitica molto diversa e
soprattutto Trump era appena agli inizi di un suo piano che prevedeva il
graduale divorzio degli Stati Uniti dello stato di Israele.
Dopo
aver visitato l’Arabia Saudita allora, Trump si recò in visita allo stato
ebraico, mentre in questa occasione il presidente è giunto in Medio Oriente
senza nemmeno fermarsi presso lo storico “alleato” americano.
È un
cambio radicale del paradigma della politica estera americana che per più di
mezzo secolo è stata saldamente nelle mani dei vari gruppi di pressioni ebraici
e sionisti.
La
politica degli Stati Uniti è ora nelle mani del mondo ebraico.
Non
c’era foglia un tempo infatti che non si muovesse in Medio Oriente che non
volesse non tanto Washington, ma Tel Aviv.
La
superpotenza americana si è ritrovata ad essere suo malgrado non come una
repubblica sovrana padrona del suo destino, ma piuttosto come un potentissimo
conglomerato politico, economico e militare che veniva utilizzato contro i vari
avversari dello stato ebraico.
Non è
esistita difatti per 80 anni una geopolitica americana, ma una israeliana che
ha agito sin dal primo momento della nascita dello stato ebraico voluto dal
filosofo sionista, “Theodor Herzl”, come un garante ed un esecutore della
volontà israeliana in Medio Oriente.
I
politici che provarono ad opporsi a questa condizione di sottomissione
dell’America verso Israele sono stati tutti via via estromessi, e alcuni sono
morti in circostanze mai realmente chiarite.
È
toccata simile sorte, ad esempio, a “James Forrestal”, ex segretario alla
Marina degli Stati Uniti, che sul finire degli anni’40 espresse tutta la sua
contrarierà alla creazione dello stato di Israele che a suo dire avrebbe
sconvolto completamente i fragili equilibri con gli altri Paesi del Medio
Oriente e compromesso i rapporti di Washington con il mondo arabo.
“Forrestal”
non fece in tempo a fare la sua denuncia che l’allora presidente Truman, altro
sodale della massoneria, lo estromise dalla sua amministrazione per poi
lasciarlo rinchiudere in un ospedale psichiatrico fino ad arrivare all’epilogo
del presunto suicidio dell’ex segretario americano, probabilmente invece ucciso
per le sue scomode posizioni.
(James
Forrestal: foto).
Stessa
sorte toccò a John Fitzgerald Kennedy, la cui famiglia aveva una lunga storia
di contrapposizione agli interessi del mondo ebraico, già quando suo padre,
“Joe”, il capostipite della famiglia, si scontrò con i signori della “mafia
ebraica”, “Meyer Lanksy” su tutti, per gli interessi sul commercio clandestino
di alcol ai tempi del proibizionismo.
JFK
aveva ricevuto una chiara lezione da suo padre Joe.
Sapeva
che la lobby sionista ed ebraica era diventata una potentissima forza e sapeva
anche che le famiglie che avevano in mano la banca centrale americana dal 1913
in poi erano quelle dei “Warburg”, dei” Rockefeller”, dei “Vanderbilt”, degli
“Schiff” e dei “Kuhn & Loeb”, ovvero i vari signori della finanza
askenazita che erano divenuti i padroni assoluti del capitale negli Stati
Uniti.
Sapeva
anche bene “John” che Israele difficilmente sarebbe venuta a miti consigli.
John
già dai tempi della sua ascesa in politica, quando divenne senatore per lo
stato del Massachusetts, aveva degli stretti rapporti con un imprenditore di
origini ebraiche quale “Benjamin Freedman” che fino a qualche decennio prima
era un convinto falco sionista fino a trovare poi la strada della conversione
al cattolicesimo che lo rese un acerrimo nemico e una figura da cancellare
dalla storia americana.
(Benjamin
Freedman: foto).
Raramente
infatti si trovano biografie o citazioni negli organi di stampa su questo vero
e proprio pentito del sionismo americano poiché soltanto raccontare la sua
storia sarebbe come a dire che non esiste alcun “complotto antisemita” riguardo
alle intenzioni di Israele di costruire un suo impero in Medio Oriente, ma
soltanto una realtà oggettiva ed effettiva rivelata da coloro che appartenevano
e appartengono tuttora a quel mondo.
Kennedy,
com’è noto, non fece in tempo a recidere i fili che legavano gli Stati Uniti ad
Israele.
Sulla
Dealey Plaza” di Dallas, in Texas, veniva ucciso a colpi di arma da fuoco da
coloro che volevano impedirgli di fermare il programma nucleare israeliano che
avrebbe dato allo stato ebraico una bomba atomica e la possibilità un domani di
provocare un vero e proprio olocausto nucleare contro i Paesi arabi “nemici” di
gran lunga più devastante dei crimini commessi dalla presidenza Truman contro i
civili di Hiroshima e Nagasaki, una città quest’ultima sede di cattolici
giapponesi a dimostrazione che lo stato profondo di Washington voleva
sterminare questi in particolar modo.
Gli
Stati Uniti così continuarono ad essere i fedeli vassalli dello stato ebraico.
A
prendere il potere dopo Kennedy fu “Lyndon Johnson”, il quale a distanza di
anni è stato confermato essere uno dei vari cospiratori che partecipo
all’omicidio del “suo” presidente.
Kennedy
non aveva stima alcuna per Johnson.
Gli fu imposto più che altro per logiche di
equilibri interni, e Johnson a sua volta ricambiava il disprezzo per i fratelli
Kennedy, tanto da apostrofarli come “figli di puttana” il giorno prima
dell’omicidio di JFK, come rivelò la ex amante di Johnson, Madeleine Duncan
Brown, che ammise che il vicepresidente sapeva che il 22 novembre del 1963
Kennedy sarebbe stato giustiziato.
“Johnson”,
nemmeno a dirlo, è stato un formidabile alleato, o servo, dello stato ebraico,
come ammettono i vari quotidiani israeliani che lo definiscono come uno dei
presidenti americani più sionisti della storia.
Non
c’è da sorprendersi che lo descrivano in tali termini, se si pensa che Johnson
fu quel presidente che nel 1967 lasciò uccidere da Israele 34 marinai americani
a bordo della nave USS liberty, bombardata dagli aerei israeliani che avevano
in programma di dare la colpa dell’attacco all’Egitto così da trascinare
l’America in un’altra guerra voluta da Israele.
La USS
Liberty dopo aver subito l’attacco da parte dei caccia israeliani.(Foto).
Nixon,
il successore di Johnson, era un uomo molto conscio che esisteva tale problema
negli Stati Uniti e nelle sue conversazioni nel 1972 con uno dei suoi
consiglieri, l’evangelista Billy Graham, affermava esplicitamente che gli ebrei
costituivano un problema per via della loro infedeltà verso gli Stati Uniti, ma
il presidente nulla riuscì a fare al riguardo.
Billy
Graham e il presidente Nixon parlano molto della questione sionista ed ebraica.
Si
ritrovò schiacciato nel 1973 dalla montatura del Watergate, orchestrata dal suo
segretario di Stato, Henry Kissinger, falco sionista e membro di tutti i club
del mondialismo che contano, tra i quali il Bilderberg, la Trilaterale e il
club di Roma.
Arrivano
così gli anni’90 e 2000, gli anni nei quali vengono eseguiti gli attentati
terroristici sui quali si trovano non poche impronte dello stato di Israele, a
partire da quelle dei cinque agenti del Mossad che esultavano estasiati davanti
al crollo delle torri gemelle, e a partire da quelle della società israeliana
che minò gli edifici caduti con degli esplosivi nei mesi precedenti.
Inizia l’era del terrore in Medio
Oriente. Inizia l’era della “democrazia esportata”.
A
Washington ci sono i pericolosi neocon come “Paul Wolfowitz”, “Dick Cheney”, “John
Bolton” e “Donald Rumsfeld” che sono i veri padroni dell’amministrazione Bush,
mero esecutore del programma scritto per lui dalla lobby sionista americana e
da quella setta “Chabad Lubavitch” che aspira ardentemente alla venuta del “moschiach
“e dell’inizio del “Nuovo Ordine Mondiale”.
Si
esegue in pratica il programma rivelato nel 2007 da un falco del Pentagono come
il “generale Wesley Clark “che disse in quell’occasione che Washington aveva
intenzione di scatenare guerre a sette Paesi quali l’Iraq, l’Afghanistan, la
Siria, la Somalia, l’Iraq, il Sudan e il Libano.
Esiste
l’intervista del generale Wesley Clark.
Non
esisteva alcuna logica geopolitica dal punto di vista americano nel fare guerra
a quei Paesi, ma la logica era soltanto quella dello stato di Israele che
voleva disfarsi dei suoi “nemici” e iniziare a poco a poco ad annettere le
parti dei suoi vicini alla ricerca del “sogno” imperiale della “Grande Israele”,
come negli ultimi tempi ha ribadito il ministro delle Finanze, “Smotrich,” che
senza troppi pudori ha ammesso che i confini di Israele devono giungere fino a
Damasco.
L’era
Trump e la fine del sionismo americano.
La
venuta di Donald Trump è quell’evento che cambia la storia e crea un’America
del tutto diversa da quella conosciuta dalla seconda guerra mondiale in poi.
Washington
torna alle sue radici.
Non
più potenza imperiale cuore della devastazione mondiale, ma repubblica sovrana,
indipendente, del tutto simile all’America lasciata in eredità da Abraham
Lincoln, ucciso da “William Booth”, uomo legato alla massoneria e vicino al
casato dei banchieri di Francoforte, i “Rothschild”.
Sin
dal primo momento, Trump ha mostrato una particolare astuzia e abilità politica
nei riguardi dello stato di Israele, al quale ribadiva la sua “amicizia”
attraverso varie dichiarazioni di stima, disattese però dalla sua geopolitica
in Medio Oriente che sin dal primo momento ha ordinato il ritiro delle truppe
americane dai Paesi arabi.
Trump
si è confermato alquanto astuto. Conosce bene la storia degli Stati Uniti.
Sa
quali sorti sono toccate ai vari presidenti che hanno sfidato Israele, e sapeva
che per avere la meglio su questa forza era necessario dissimulare le sue vere
intenzioni attraverso attestati di stima formali che prima o poi avrebbero
comunque portato ad attriti con Israele, una volta che il presidente avesse
iniziato a lasciare il Medio Oriente.
Già
nel 2019, il presidente americano aveva dichiarato la sua intenzione di
lasciare la Siria, e due anni dopo, all’alba della frode elettorale ai suoi
danni, il primo a riconoscere Biden come presidente è stato proprio Netanyahu
che sperava ancora una volta di avere il presidente americano dalla sua parte.
Il
divorzio definitivo tra Stati Uniti ed Israele.
Non
appena ha avuto inizio il secondo mandato di Trump, c’è stata l’inevitabile
incrinatura dei rapporti tra i due.
Il
presidente americano ha iniziato a trattare unilateralmente con Teheran senza
cercare alcuna approvazione da parte degli israeliani che sono andati su tutte
le furie e sono rimasti completamente spiazzati dalla determinazione di Trump.
A
nulla sono valsi i tentativi del consigliere della sicurezza nazionale, “Waltz”,
di sabotare l’agenda del presidente americano che non appena saputo che il suo
consigliere era all’opera per cercare un’altra guerra con l’Iran lo ha
prontamente spedito a New York a ricoprire il ruolo di ambasciatore presso
l’ONU, nella ennesima applicazione pratica della massima latina” promoveatur ut
amoveatur”.
Secondo
il giornalista americano “David Railly,” Trump avrebbe anche deciso di chiudere
le porte della Casa Bianca alla “famigerata lobby israeliana dell’AIPAC,” che
sin dalla sua esistenza è stata una forza decisiva non solo nello scegliere i
presidenti degli Stati Uniti, ma nell’indirizzarne fedelmente le loro politiche.
Stessa
musica per quello che riguarda un altro “nemico” di Israele, gli agguerriti “Houthi”
che hanno creato non pochi problemi allo stato ebraico il quale si lamentava
già prima dello scarso sostegno americano contro la milizia yemenita.
A Tel
Aviv sembrano essere pertanto giunti ad una conclusione inevitabile.
Il
sostegno di Trump non va oltre le parole, e nei fatti si vede poco o nulla,
salvo quella dichiarazione di riconoscimento di Gerusalemme come capitale
israeliana, che tra l’altro non è mai stato nemmeno completato poiché
l’ambasciata americana è ancora oggi a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme.
Il
presidente americano è dunque un vero e proprio “unicum”.
È il
primo capo di Stato americano dal’45 che riesce finalmente a portare avanti una
propria geopolitica in Medio Oriente che non sia quella voluta da Israele.
Il
divorzio era di conseguenza inevitabile e questo spiega perché sia nella frode
elettorale del 2020 sia nel tentativo di omicidio di Trump dello scorso luglio
ci sia la presenza dei vari fondi di investimento legati alla lobby sionista,
come ad esempio il “fondo Austin”, che il giorno prima che “Thomas Crooks”, il
20enne di origini ebraiche studente di” BlackRock”, sparasse contro la testa
del presidente e scommetteva somme da capogiro contro la società di Trump, ben
consapevoli che qualcosa di grave potesse accadere.
È a
sua volta consequenziale l’assalto mediatico degli organi di (dis) informazione
americana nelle mani di sei gruppi tutti integrati nel mondo sionista, a
dimostrazione che la campagna disinformativa della falsa controinformazione che
si è impegnata in ogni mondo a dimostrare che Trump è una marionetta di Israele
altro non è che una grossa menzogna fabbricata proprio da quegli ambienti
ostili a Trump.
Viene
quasi da sorridere se si pensa alla disfatta dei vari falsi contro-informatori
che affermavano che Trump fosse nelle mani dei “coniugi Adelson”, famigerati
magnati del sionismo, che da sempre finanziano il partito repubblicano,
indipendentemente da Trump, e che oggi si vedono negare al telefono proprio dal
presidente americano.
(I
coniugi Adelson: foto).
Trump
non risponde a nessuno. Non è un presidente a noleggio. Non è George W. Bush
nelle mani dei neocon, né tantomeno è Barack Obama, il premio “nobel per la
pace” che si dava da fare per mettere a ferro e fuoco il Medio Oriente
attraverso il suo sostegno all’ISIS, creatura dei sauditi e di Israele.
L’Arabia
Saudita: da alleato di Israele fa parte ora del mondo multipolare.
Il
miracolo più significativo che Trump ha compiuto è stato forse proprio questo.
Ha
stabilito una nuova alleanza con l’Arabia Saudita, la creatura del sionismo,
che da potenza destabilizzante del mondo arabo ha scaltramente saltato lo
steccato ed è passata con il mondo multipolare negli ultimi anni.
Soltanto
7 anni addietro, Riyadh era impegnata nel massacro della popolazione civile
yemenita e nel combattere gli Houthi, la milizia vicina all’Iran, perché i
sauditi non stavano seguendo un’agenda politica che facesse gli interessi del
loro Paese, ma piuttosto quella di Israele.
Non va
dimenticato che Mohammed bin Salman, l’erede al trono, è stato il primo
principe ereditario saudita a visitare Israele, a dimostrazione di quanto i
rapporti tra lui e Tel Aviv fossero stretti.
(Mohammed
bin Salman: foto).
Oggi
tra Riyadh e Tel Aviv c’è il gelo.
L’Arabia
Saudita ha iniziato una nuova fase di distensione con Teheran, tanto che poco
prima di ricevere Trump a Riyadh, i dignitari sauditi si incontravano con il
ministro degli Esteri iraniano, a conferma di una fase nuova, del tutto diversa
nella storia dei due Paesi che soltanto nel 2019 erano su fronti opposti.
La
storia sta cambiando veramente in fretta, ad una velocità incredibile se si
pensa che nel giro di poco più di un quinquennio stanno venendo meno equilibri
e assi che duravano da 80 anni.
Il
caso saudita resta probabilmente il più clamoroso.
La
culla del wahabismo e del terrorismo islamico benedetto da Israele e dallo
stato profondo di Washington che dopo l’era Trump e dopo l’avvento del
multipolarismo inizia a diventare una potenza regionale che non vuole più
destabilizzare i suoi vicini, ma cerca piuttosto di convivere pacificamente con
essi, come visto con la guerra nello Yemen, iniziata e terminata da bin Salman,
e come visto con la nuova politica di avvicinamento verso Teheran.
In
altre parole, Trump ha costruito un risiko mediorientale del tutto nuovo.
Non
esistono più gli Stati Uniti che bombardano indiscriminatamente i Paesi arabi
per compiacere lo stato ebraico dietro il paravento della esportazione della
democrazia, il paradigma al quale il mondo Occidentale liberale è ricorso per
anni pur di portare avanti la sua agenda imperialista e globalista.
Gli
Stati Uniti sono quel Paese che oggi va in Arabia Saudita e condanna quei
bombardamenti indiscriminati fatti da uomini come George W. Bush e Barack
Obama, fedeli emissari e rappresentanti della lobby sionista e della governance
globale della quale Washington era portavoce.
Trump
oggi dichiara che non può esistere una pace stabile e duratura che non passi
dall’esplicito riconoscimento e rispetto delle sovranità e culture nazionali
che non possono essere certo sostituite dal modello liberal-democratico nelle
mani di vari potentati bancari e industriali, che oggi tra l’altro si trovano
sempre più in difficoltà anche nell’Unione europea, l’ultima debole roccaforte
rimasta nelle mani dei decaduti signori del mondialismo.
Si
inaugura così una nuova era.
Non
poteva iniziare l’era di un’America finalmente libera e sovrana senza prima
passare dall’esautoramento della sua dipendenza da Israele.
L’ultimo
storico passo sarebbe il riconoscimento dello” Stato palestinese da parte degli
Stati Uniti”, una ipotesi che è trapelata nei giorni scorsi e che Trump
starebbe seriamente prendendo in considerazione.
Lo
stato ebraico così si ritrova solo e debole.
Non ci
sono più gli Stati Uniti dalla loro parte, tantomeno i sauditi che ormai
pensano alla esclusiva tutela dei loro interessi nazionali.
A Tel
Aviv, qualcuno ancora parla della necessità di invadere militarmente Gaza,
scenario fortemente condannato da Trump che attraverso il suo segretario di
Stato, Rubio, ha espresso la sua forte opposizione a qualsiasi piano per
espellere i palestinesi da Gaza.
Se
Israele vorrà veramente seguire tale strada in una condizione di assoluto
isolamento e senza il supporto degli Stati Uniti, non è escluso che possano
esserci futuri incidenti tra israeliani e americani proprio nella striscia di
Gaza.
A Tel
Aviv, sembrano essere in preda ad una delirante febbre imperialista.
Sembra
che non vogliano riconoscere il fatto ormai che lo stato ebraico ha perduto le
protezioni di un tempo, e sembra che non vogliano ammettere che oggi Israele fa
i conti con una strisciante guerra civile dentro i suoi servizi e dentro il suo
apparato militare, nei quali ci sono fazioni che vorrebbero mettere un freno a
questa folle corsa alla “Grande Israele”.
Non è
chiaro cosa voglia fare davvero Israele, ma a Tel Aviv sono avvisati.
Stavolta
alla Casa Bianca non c’è Lyndon Johnson.
C’è
Donald Trump, e se Israele metterà a rischio la sicurezza degli Stati Uniti, ci
sarà una probabile risposta.
Se
qualcuno soltanto 10 anni fa avesse detto che un giorno Israele e Stati Uniti
sarebbero giunti a questo punto, sarebbe stato preso per folle.
Ecco
dove si è arrivati nel tempo contemporaneo. Ecco dove ha portato il mondo
multipolare e la fine del mondialismo.
È la
fine degli imperi, degli imperialismi e dell’illimitato potere del sionismo.
È il
prepotente ritorno della difesa della sovranità nazionale.
Costruire
possibili nuovi
percorsi politici.
Argomenti2000.it - Giovanni Santarelli – (2 Gennaio,
2023) – ci dice:
Vedo –
e vivo – lo spaventoso sfacelo di questo Paese (Ungheria ndr), la sua
evoluzione verso una paranoia suicida.
Giorno
dopo giorno, i campioni nazionali dell'odio e i miei ricordi personali mi
rendono estraneo a esso.
Cresce la mia indifferenza nei suoi riguardi.
La
lingua – ecco l'unica cosa che mi lega a questa terra.
La mia
lingua madre, nella quale comprendo i miei assassini...".
“Imre
Kertész”, premio Nobel della Letteratura (Budapest 1929-2016).
Tratto
da” Io, un altro”.
Cronaca di una metamorfosi, Bompiani 2016.
Premessa.
Dover
fare i conti, a 100 anni dalla marcia su Roma, con un governo la cui
provenienza politica e culturale ha forti richiami con quel periodo storico,
che speravamo di aver definitivamente messo alle spalle, pone serie
considerazioni sul senso ormai acquisito da più parti della fine del modello di
democrazia liberale nata dalla resistenza.
Sappiamo
anche bene che la questione non sta tanto nel pericolo del ritorno a quelle
forme di dittatura che negli anni ’30 avevano coinvolto (o meglio “sconvolto”)
una gran parte dei paesi europei, ma nella crisi della democrazia
rappresentativa su cui il nostro paese ha costruito la propria carta
costituzionale e su cui qualche anno dopo è iniziata la costruzione del modello
di unione europea, ma nell’avanzare di nuove ipotesi di organizzazione
istituzionale e di convivenza civile le cui caratteristiche sono ancora
difficili da delineare, ma che si muovono ai limiti delle garanzie democratiche
acquisite.
I
criteri di analisi non possono non tenere conto infatti della particolarissima
situazione che stiamo vivendo in una fase che, citando “Papa Francesco”, non
possiamo non definire di “cambiamento d’epoca”.
Il
problema quindi oggi, per chi tenta delle analisi su cui poi costruire
possibili nuovi percorsi politici, ma anche esistenziali, è quello di tenere
presente alcuni paradigmi “macro” da cui partire per capire il contesto in cui
ci stiamo muovendo (un contesto mai verificatosi prima d’ora in queste
modalità), partendo però anche da alcuni elementi “micro” in grado di aiutarci
non solo a leggere, ma anche ad agire senza perderci troppo nella complessità
della svolta di cui non vediamo ancora gli esiti.
Quali
sono allora i paradigmi su cui leggere i processi di cambiamento in corso che,
secondo alcuni ci stanno portando allo “scivolo che conduce alla fine”?
Il sommarsi di crisi climatica, energetica, epidemica,
economica, bellica come mai era avvenuto prima assieme a fenomeni quali la
denatalità in occidente, l’indebolimento delle democrazie tradizionali
(liberali), il collasso delle istituzioni (e quindi anche dei partiti che ne
costituivano l’asse portante) ha portato a conseguenze importanti anche ad un
livello più propriamente sociale visibili nel prevalere della logica
conflittuale frutto delle diseguaglianze che hanno messo uno contro l’altro i
“poveri” da una parte e i “più poveri” dall’altra.
Sono questioni che riguardano un Occidente”,
come lo avevamo pensato, in crisi che non può che ripensare sé stesso.
Già
più di dieci anni fa “Marco Revelli”, allora presidente della “commissione
d’indagine sull’esclusione sociale (Cies)”, così commentava il rapporto allora
appena pubblicato:
“Il risentimento sembra diventato costume
nazionale, la principale cifra del rapporto reciproco con l’altro.
Un
rancore acre, sordo, neppure tanto sommerso, che talvolta si fa esplicitamente
ferocia verso il basso, là dove la società è più fragile” …
“Giorno
dopo giorno, impercettibilmente, il senso comune del paese si è trasformato …
L’impressione – prosegue – è quella di una regressione civile parallela e in
qualche modo connessa a una coeva gestione sociale”.
Inutile
dire che su questi processi hanno poi giocato la ricerca di consensi da parte
delle forze più populiste e reazionarie del paese che nel frattempo stavano
salendo.
Queste
dinamiche non sono state capite dal centro sinistra, o almeno non abbastanza,
il quale ha preferito schierarsi su fronti più lontani da queste logiche di
attenzione alle diseguaglianze per fermarsi a forme di “riformismo di
mediazione” disponibile a raccogliere dentro di sé anche dinamiche neoliberiste
in una fase di globalizzazione priva di controllo politico.
Dal
2008 (crisi economica) ad oggi si è sviluppato un “conflitto per molti versi
nuovo, “orizzontale”, tra poveri (per gran parte classi medie impoverite) o di
chi teme l’impoverimento contro altri poveri, “più poveri” alla ricerca di un
qualche risarcimento facile.
Potrebbe
essere tutto questo alla base del fallimento delle democrazie liberali e
paradossalmente proprio di quel modello culturale a cui noi stessi abbiamo
fatto e continuiamo a fare riferimento e cioè il cattolicesimo democratico da
una parte e il riformismo della sinistra socialdemocratica dall’altra?
Il nostro posizionamento politico, da cui
osserviamo ciò che ci circonda, è forse esso stesso causa ed effetto di una
crisi da “cambiamento d’epoca” che fatichiamo quindi a leggere da posizioni
nuove così come necessiterebbe?
Vale anche per il cattolico impegnato in
politica l’indicazione di “Papa Francesco” fatta alla chiesa universale di
evitare il “si è sempre fatto così” e il suo conseguente invito a mettersi in
ascolto?
Da
dove partire allora?
Alla
luce di tutto questo mi sono fatto alcune ipotesi di lettura partendo, come
dicevo, da questioni “macro” calandole però su alcune conseguenze “micro”
verificabili in alcuni settori delle politiche pubbliche di mia maggiore
conoscenza riferiti soprattutto al versante delle politiche del welfare.
Questioni
con cui dobbiamo fare i conti:
Democrazia
liberale, democrazia illiberale, democrazia del merito o nessuna di tutte
queste?
Cioè:
se l’attuale destra non è qualificabile come fascista, ma può trovare maggiore
riferimento a forme più vicine al modello “urbanista” col quale operare un
passaggio dalla democrazia liberale ad un sistema di cosiddetta “democrazia
illiberale” da proporre come nuovo modello anche europeo di “sovranismo, come
reagire?
Come
parlare di uguaglianza sociale in un contesto di post modernità?
Se pare essere entrata nella mentalità comune
l’idea della inevitabilità dell’essere diseguali, come dare senso e consenso a
nuove forme di lotta alle diseguaglianze?
Vale
ancora la pena di parlare di “partecipazione” della società civile e dei cosiddetti
corpi intermedi in ordine a decisioni che riguardano presente e futuro delle
nostre vite o siamo destinati alla frammentazione degli interessi e alla
impossibilità di fare sintesi democratiche?
Come reagire con credibilità a chi ritiene
tutto questo un inutile tempo perso contribuendo a dare stabilità ad un
rapporto diretto tra leader e popolo?
Si
all’Europa, ma quale?
Ventotene
o Visegrad?
Questi
sono i punti “macro” che mi sono sembrati oggi i più critici, e sui quali ho
provato a ragionare partendo da alcuni esempi concreti a partire dai quali
costruire possibili “politiche differenti” che possano caratterizzare un fronte
che voglia non solo contrastare la destra, ma creare elementi nuovi di azione
politica?
Elementi
però che partano, come vedremo, dal paradigma della “fragilità” intesa come
elemento di crescita e di sviluppo inclusivo?
I
documenti di riferimento sono il programma elettorale di “FdI”, il discorso di
insediamento del nuovo governo e alcuni punti della legge di bilancio inviata
dal governo al parlamento, ma anche i segnali lanciati da rappresentanti del
governo attraverso lo strumento della provocazione verbale con la quale far
intendere che obiettivo del governo non è tanto quello di risolvere problemi,
ma quello di creare una nuova cultura nei processi di convivenza civile.
La
democrazia del merito?
Cominciamo
dall’”ossimoro” rilanciato dal governo Meloni della “democrazia del merito” che
separa la competitività dei più capaci dall’assistenza verso chi non ce la fa e
che va comunque, per sua colpa, mantenuto ai margini.
Leggendo
considerazioni fatte da diversi analisti sulla legge di bilancio in fase di
approvazione in parlamento ho provato a verificare quale tipo di impostazione
culturale emerge da una norma che rappresenta il livello massimo della
connotazione politica di una maggioranza al governo, limitandomi come sempre al
settore del welfare.
La
sintetizzerei con l’appellativo di “welfare condizionale” fondato cioè sul
principio che “non esistono diritti acquisiti una volta per tutti dalle
persone”.
Tali
diritti dipendono dal comportamento e dal senso di responsabilità della persona
assistita.
Il
welfare cioè diventa uno strumento per cambiare il comportamento delle persone
con l’obiettivo di favorire l’acquisizione di una normalità e di una regolarità
nella fruizione dei benefici da parte delle singole persone assieme ad un
comportamento disciplinato da parte dei gruppi sociali che vivono condizioni di
grave svantaggio sociale.
Si
tratta di un approccio molto diverso da quello fino ad oggi considerato più
giusto (anche se non sempre applicato) dalla cultura prevalente in materia
sociale. Un approccio che consiste cioè nel riconoscimento di una condizione di
deprivazione e poi nella valutazione del livello di gravità di queste
condizioni certificato da una autorità pubblica sulla base di criteri definiti
una volta per tutte; in tutto questo la volontà della persona costituiva
certamente elemento importante, ma NON condizionante.
Il rischio è che le persone che non riescono a
comportarsi (per loro colpa?) in modo responsabile perdano il diritto a
ricevere le prestazioni di welfare (questa mi sembra la strada).
Domanda: Ma quelli che non ce la fanno? Che
fanno?
Probabilmente
si distaccano dai servizi di welfare e si rivolgono ad enti di terzo settore e
istituzioni pubbliche locali più o meno sensibili.
Si
tratta di quello che il ministro Sacconi definiva a suo tempo il “welfare
caritatevole” che doveva, a suo avviso, sostituire il welfare pubblico
(considerato "invasivo").
Non mi
sembra una bella prospettiva.
Forse è il caso di tornare a far prevalere la
logica costituzionale dell’Universalismo e del rispetto dei Diritti e al
welfare dei livelli essenziali e chiedere azioni di questo tipo anche agli enti
di terzo settore che, pur facendo assistenza, reclamano sempre garanzie dei
diritti per tutti.
Nelle
proposte di emendamento alla proposta di legge di bilancio presentate di “ANCI”
si propone di istituire il “fondo unico per le politiche Sociali” col quale
garantire l’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali (leps)
su TUTTO IL TERRTORIO NAZIONALE.
L’impostazione data alla proposta di legge
finanziaria di riproporre invece “bonus” al posto di interventi strutturali
mettendo in discussione a tale scopo la progressività della tassazione nella
costruzione di nuove politiche fiscali e di smettere di intervenire contro
l’evasione fiscale, pare andare verso la direzione opposta.
L’inevitabilità
di essere disuguali?
1. Il
caso dell’autonomia differenziata:
Nessuno
ne parla, ma molti si stanno muovendo verso una prospettiva di cambiamento
importante del sistema costituzionale italiano.
La strategia sembra essere quella di
mascherare il tema come modifica tecnica, di portare la scarna discussione su
questioni vaghe e generali (“autonomia” e “responsabilità”), di approvare il
tutto con la massima rapidità, senza alcun dibattito parlamentare e certamente
senza informare i cittadini sui rilevantissimi cambiamenti che si produrranno.
Di che
si tratta?
La
Costituzione prevede (art. 116) che le Regioni a statuto ordinario possano
richiedere ulteriori forme di autonomia nell’ambito di un elenco molto ampio di
materie, accompagnate dalle relative risorse economiche.
Va
detto però che se è lecito chiedere non è detto che sia obbligatorio concedere
da parte di esecutivo e legislativo i quali, fino a prova contraria
rappresentano gli interessi di tutti i cittadini italiani.
Lo
schieramento a favore di questo rafforzamento dell’autonomia è costituito ad
oggi da tre Regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna le quali hanno
sostanzialmente marciato unite (pur con alcune differenze).
Le richieste avanzate dalle stesse hanno
riguardato tutte le competenze in capo allo Stato centrale!
Quali sono state le risposta dei governi in
questi anni?
Governo
Gentiloni pochi giorni prima delle elezioni 2018:
Prevedeva la possibilità che i territori più
ricchi trattenessero parte del proprio gettito fiscale.
Governo
Conte 1:
il suo
programma dava la massima priorità al tema. Affidò la competenza alla ministra Stefani
della Lega.
Governo
Meloni: nel suo programma la realizzazione dell’autonomia regionale
differenziata è indicata a chiare lettere.
Domande:
Perché dovrebbe essere meglio trasferire il
patrimonio infrastrutturale a quelle regioni o dare loro nuove competenze in
tante materie?
Perché solo per alcune regioni e non per
tutte?
Quali
caratteristiche della singola regione giustificano il trasferimento della
specifica competenza (o di tutte)?
Perché
regionalizzare la scuola, differenziare i programmi e far dipendere gli
insegnanti dagli assessori?
Perché differenziare le normative ambientali
ed energetiche quando stiamo provando a costruire politiche europee?
A
questo proposito andrebbe ripreso quanto detto al punto precedente in cui si
ribadiva la necessità di mantenere fermo il principio dell’universalismo dei
diritti basato sulla individuazione dei livelli essenziali da garantire a tutti
(Costituzione italiana art. 117 lett. m) garantendo adeguati finanziamenti
presi dalla fiscalità generale progressiva.
2. Il
caso della “povertà colpevole”:
A
proposito del dibattito sul Reddito di cittadinanza andrebbe evitato il
riferimento al solo Reddito di Cittadinanza, per aprirsi ad una prospettiva di
più ampia politica di lotta alla povertà utilizzando però questo termine
“povertà” non tanto come specifico settore di intervento, ma come “paradigma”
su cui costruire una nuova proposta politica complessiva basata sull’idea che
“se il povero ha tutti hanno”).
Non
solo Reddito di cittadinanza (i cui limiti applicativi vanno sicuramente
corretti) ma anche rafforzamento del servizio sociale professionale, attenzione
alla povertà estrema e alla povertà minorile per arrivare solo successivamente
a specifici interventi di sostegno al reddito (sul modello REI però).
Costruire uno stretto rapporto tra azione
pubblica e interventi del terzo settore che in questi anni è stato l’unico
soggetto intervenuto nella lotta alla povertà a fronte di un totale
disinteresse del pubblico.
Anche qui va ripreso il principio della
garanzia dei diritti esigibili uguali per tutti di cui al già citato art. 117
lett. “m” della Costituzione italiana per evitare il rischio di “livelli
essenziali” diversificati tra ricchi e poveri anche in ordine all’accesso ai
servizi sanitari e socio sanitari.
3. Il
caso di un accesso ai servizi con qualità differenti a seconda del censo:
l’esempio che faccio è quello della non autosufficienza degli anziani:
Sono
stati identificati oltre 2,7 milioni di individui ultra-sessantacinquenni con
gravi difficoltà motorie, compromissioni dell’autonomia nelle attività
quotidiane di cura della persona.
Tra
questi 1,2 milioni dichiarano di non poter contare su un aiuto adeguato alle
proprie necessità di cui 1 milione vive solo o con familiari tutti oltre i 65
anni.
Infine
circa 100 mila anziani, soli o con familiari altrettanto anziani (perché noi
viviamo a lungo) oltre a non avere aiuti adeguati sono anche poveri di risorse
economiche.
Il
problema allora c’è!
Quindi?
Continuare
1. con il nulla,
2. con piccoli interventi frammentati (come si
legge in alcuni programmi elettorali) oppure
3.
lavorare ad un sistema che “metta in filiera” i vari tipi di offerta
privilegiando, laddove possibile, il mantenimento a casa dell’anziano senza
lasciare sola la famiglia?
Io
rispondo: “la terza che hai detto”.
Allora
che fare?
Innanzitutto: ricordare a chi di dovere che il
“Pnrr” prevede, tra le varie riforme OBBLIGATORIE, anche quella che chiama
“Sistema degli interventi in favore degli anziani non autosufficienti”
(Missione 5C2).
Vuol
dire che se non si fa la riforma si tolgono dei soldi anche alla parte dedicata
ai servizi;
poi
chiedere a chi oggi governa se intende andare avanti su questo obbligo o se
intende toglierlo (visto che si parla di revisione del “Pnrr”) lasciandoci
ancora privi di una norma che ci dica finalmente “cosa fare, come farlo, chi lo
fa e infine quanto costa e quindi chi paga”.
Su
questo però va detto che anche i vari governi di centro sinistra che si sono
succeduti in questi anni non sono stati all’altezza.
Serve
ancora parlare di partecipazione?
A
fronte di piccoli segnali innovativi nati dalla riforma del terzo settore in
ordine alle nuove possibilità di partecipazione previste nei processi di
costruzione di atti di programmazione e di gestione di servizi dando valore
istituzionale alla co-programmazione e alla co-progettazione pare che anche con
questo governo valga molto di più il rapporto diretto tra leader e massa
inventato a suo tempo da Berlusconi con i famosi Patti firmati da lui e “il
popolo” negli studi di “Porta Aperta”.
Oggi
si chiamano “gli appunti di Giorgia”, con cui il premier intende privilegiare
un suo rapporto diretto con i cittadini saltando tutto quello che c’è nel
mezzo.
Mi
pare che la strada sia ancora quella e che il suo successo vada ben oltre i
tentativi “social” fatti dai suoi avversari, ma anche da suoi componenti della
maggioranza.
Domanda:
come ricreare consenso su processi di
mediazione partecipata che fino ad oggi purtroppo sono stati visti solo come
tempo perso per l’incapacità dei vari livelli di governo (nazionale, regionale
e territoriale) di investire forze ed energie sulla “amministrazione condivisa”
dando agli stessi valore istituzionale, definendo tempi massimi di decisione e
dimostrando alla fine, nei propri atti e scelte, di aver fatto sintesi delle
migliori proposte emerse dal confronto?
Europa
sì, ma quale? Ventotene o Visegràd?
Qui
ritorna le possibili prospettive “Orban”e la crisi del modello liberale di
democrazia.
L’ipotesi che sta emergendo è che la
democrazia liberale non è l’unico modello possibile e nemmeno il più efficace,
anzi probabilmente funziona solo in anni di abbondanza delle risorse, mentre
esistono altre forme di rapporto tra la leadership e il popolo sperimentati in
vari Stati europei con apparente successo.
La logica è quella del rispetto della forma
esteriore della democrazia modificando però la sua sostanza, riducendola così
ad un guscio vuoto.
Questo
modello, attualmente all’opposizione nell’Unione Europea ambisce a diventare il
futuro modello UE.
Saldando
l’odio di Stato contro il migrante con l’attacco ai principi liberali delle
democrazie dei diritti e delle istituzioni si disegna di fatto una nuova
identità nazionale recintata dalla paura e dall’avversione e minacciata da
emergenze continue che ambisce a diventare maggioranza in Europa.
Si
tratta, dal loro punto di vista, di passare dal sovranismo nazionale al
sovranismo europeo visto ormai non si può fare a meno di Europa.
Tutto
questo emerge però in un contesto di crisi di consenso del modello di
democrazia liberale conseguente a scelte operate in questi anni dai governi che
si sono succeduti a favore di modelli neo liberisti che hanno annullato ogni
efficacia alle loro azioni di riequilibrio strutturale delle diseguaglianze
rispetto alle grandi potenze nate soprattutto sull’onda della rivoluzione
tecnologica.
Conclusioni.
Di
fronte al “fallimento di un approccio alla politica schiacciato sulle singole
persone, su correnti che non hanno alcun connotato culturale e su una
sostanziale estraneità al paese e ai suoi nodi vitali” come viene descritto
nello “Schema di lavoro in vista del congresso PD” predisposto da Argomenti
2000, occorre darsi tempo per ricominciare a leggere ciò che ci sta accadendo
attorno creando leadership in grado di dedicarsi all’ascolto e di recuperare
quelle “praterie” di possibile consenso messo purtroppo in mano a movimenti
che, con la scusa che destra e sinistra non esistono, hanno fatto man bassa di
voti?
Già oggi possiamo essere in grado di
recuperare i cocci rotti e rimetterli assieme in un contesto sociale che grida
“uguaglianza” senza avere sempre cognizione che accanto a diritti ormai persi,
vanno recuperati anche “doveri” non sempre graditi. Anche la società civile va
aiutata a mettersi in ascolto di sé stessa per evitare chiusure
autoreferenziali o paure ingiustificate utilizzate fino ad oggi da forze
politiche a fini di basso consenso.
Costruire
una politica di complementarità
tra risorse pubbliche e private.
Asvis.it
- Milos Skakal – (28 maggio 2024) – ci dice:
Sanità,
scuola, povertà.
L’evento ASviS sui Goal 1-10 ha affrontato la
questione dei servizi pubblici essenziali e della loro fornitura a livello
territoriale, considerando le disparità regionali e le mancanze delle
amministrazioni.
Costruire
una politica di complementarità tra risorse pubbliche e private.
Il
terzo settore non deve essere un meccanismo per attuare a ribasso le politiche
sociali, mentre il pubblico deve mantenere un controllo e una regia sulla
fornitura dei servizi.
Questo
è il messaggio emerso dall’evento del 22 maggio “Il pubblico che serve: come
assicurare equità di accesso e dignità del lavoro”, organizzato a Roma dal
Gruppo di lavoro ASviS sui Goal 1 “Sconfiggere la povertà” e Goal 10 “Ridurre
le disuguaglianze”, in collaborazione con il “Forum disuguaglianze e
diversità”, nell’ambito del “Festival dello Sviluppo Sostenibile”.
Ha
aperto i lavori” Flavia Terribile”, co-coordinatrice del Gruppo di lavoro ASviS
sui Goal 1 e 10.
“Qual
è il fine ultimo dello spazio pubblico?
Quello
di promuovere dei servizi essenziali di qualità per tutte e tutti i cittadini.
Ma
come lo fa?
Mettendo
al centro proprio la persona, la comunità, per rispondere a bisogni che sono
sempre più multidimensionali, che necessitano di un sistema integrato di
servizi essenziali”.
L’intento
dell’evento, ha spiegato Terribile, è quello di “partire da esperienze vere nel
campo della lotta alla povertà, del contrasto alla povertà educativa e della
salute”, nonché parlare del rapporto di collaborazione tra pubblico, sociale e
privato-sociale.
L’introduzione
è stata poi affidata a “Elena Granaglia”, del coordinamento “Forum
disuguaglianze e diversità” e docente presso l’Università degli Studi Roma Tre:
“Il pubblico, inteso come pubblica
amministrazione, non sempre serve finalità pubbliche e allo stesso tempo le
organizzazioni del privato e del privato-sociale possono svolgere attività
pubbliche.
In
breve, non esiste una connessione automatica tra la natura della proprietà e le
finalità perseguite”.
Granaglia
ha posto alcune delle problematiche affrontate dall’evento:
“cosa intendiamo esattamente per finalità
pubbliche?
E nell’ambito dei servizi per il benessere
delle persone, le organizzazioni del privato e del privato-sociale possono
realizzare tutte le finalità pubbliche, oppure alcune sono riservate alla
pubblica amministrazione?
In
altri termini, la nozione di pubblico ha solo una funzione regolativa, o di
finanziamento, oppure abbiamo bisogno di un assetto proprietario del
pubblico?”.
La
moderazione dei panel è stata affidata a “Raffaela Milano”, co-coordinatrice
del Goal 1-10, e direttrice “Ricerche e formazione di Save the Children”, che
ha introdotto il primo confronto sul tema “La tutela della salute”.
Ha quindi preso la parola “Serenella
Caravella”, ricercatrice Svimez, rimarcando che “l’accessibilità dei diritti di
cittadinanza è un presupposto per lo sviluppo socio-economico di un
territorio”.
Caravella
ha parlato del “rapporto Svimez” appena pubblicato, “Un Paese, due cure”,
all’interno del quale viene analizzato il “Sistema sanitario italiano” con le
sue forti disparità tra Nord e Sud, che sta vivendo “un forte indebolimento
rispetto al confronto europeo”.
“Fabrizio
Arena”, presidente del laboratorio “Zen Insieme” di Palermo, è poi intervenuto spiegando
che “le parole e i dati che mi hanno preceduto ci restituiscono la fotografia
di un’Italia, e di un Sud Italia, in cui la povertà sanitaria è sempre più in
aumento e sempre più incisiva”.
Arena ha affermato che la povertà sanitaria
porta con sé un senso di “ingiustizia sociale e di negazione di un diritto che
dovrebbe essere sancito costituzionalmente, che la rende ben più complessa”.
L’intervento
ha riportato “l’esperienza dell’ambulatorio sociale aperto allo Zen”, quartiere
popolare di Palermo, provando “a tradurre in realtà concreta” i dati visti
prima.
In
seguito è stato aperto il secondo panel “Contrasto alle povertà educative”, il
cui primo intervento di “Giulio Cederna”, direttore della” Fondazione Paolo
Bulgari”, si è concentrato sul lavoro svolto dalla “Fondazione nel quartiere di
Tor Bella Monaca” a Roma.
“La Fondazione Paolo Bulgari ha cominciato a
lavorare a partire dalla considerazione che nei territori esiste un ‘pubblico
alternativo’, cioè questa realtà fatta di terzo settore organizzato,
associazioni, cooperative, ma anche molte realtà informali”, come il progetto
“Cubo libero realizzato dal centro sociale di Tor Bella Monaca”.
“L’idea
che anima il nostro lavoro è quella di andare a sostenere questi anticorpi.
Questo ha prodotto, in collaborazione con le istituzioni, un intervento
importante come la riqualifica della scuola più complicata di Tor Bella Monaca,
dove abbiamo realizzato un’aula giardino”, ha raccontato Cederna.
“Fabio
Rocco”, docente dell’istituto comprensivo “San Camillo” di Padova e
coordinatore del “Patto educativo Padova”, ha poi riportato un punto di vista
interno al mondo della scuola.
“Durante
gli anni della pandemia è emerso il fatto che esistono dei problemi in ambito
scolastico, che in realtà non sono nati con la pandemia, sono semplicemente
esplosi.
Elementi
come l’abbandono, la dispersione, tutto quello che ha a che vedere con la
parità di opportunità che viene fornita attraverso le scuole viene di fatto
messa in crisi. In questo quadro”, ha spiegato Rocco, “sono emerse delle
possibilità. I patti educativi e il lavoro intorno alle comunità educanti hanno
questo tipo di senso”.
“Raffaela
Milano” ha quindi dato la parola a “Carla Antonucci”, dell’autorità di “Gestione
del Programma nazionale inclusione” del ministero del Lavoro e delle politiche
sociali, dando il via all’ultimo panel “Lotta alla povertà e promozione
dell’inclusione”.
Antonucci
ha parlato del Piano nazionale inclusione e povertà:
“Proprio
in questi mesi stiamo definendo il nuovo piano sociale 2024-2026, che al suo
interno contiene la programmazione di fondi nazionali importanti come il Fondo
nazionale politiche sociali, il Fondo povertà.
Stiamo
facendo un gran lavoro di messa a sistema di tutti i fondi del sociale, che è
un elemento fondamentale per far funzionare davvero questi interventi nei
territori attraverso gli “ets”.
È poi
arrivato il turno di “Alberto Campailla” e di” Ilaria Manti”, rispettivamente
presidente e responsabile area politiche di contrasto alla povertà dell’”associazione
Nonna Roma”.
Il
fine del progetto, ha spiegato Campailla, era quello di “costruire un banco
alimentare, quindi una risposta che stesse sul terreno della povertà
alimentare.
Ci
siamo da subito resi conto della natura multidimensionale della povertà”,
considerandola come il primo elemento che va messo al centro di una discussione
sul tema delle deprivazioni.
Campailla
ha aggiunto un elemento trasversale, ovvero quello di una povertà relazionale:
“oggi, se uno non può andare al cinema perché
costa 8-10 euro, il problema non è solo che non sono aggiornato, ma che
tendenzialmente non vedo mai nessuno”. Manti ha poi aggiunto una riflessione su
cosa vuol dire fare sociale e sul mondo del terzo settore: “
C’è
una parte di politica, di istituzione, che non riesce più a raggiungere le
persone, e c’è una parte di città che è escludente rispetto alle persone che
non possono permettersi di abitare nel centro città.
Questa esclusione verso le periferie e delle
periferie è stato il punto di partenza per identificare i bisogni, non solo per
creare comunità ma anche perché è sempre più facile entrare nel vortice della
povertà”.
Il
palco ha quindi lasciato spazio alla tavola rotonda “Orientamenti per le politiche pubbliche”, che è stata
moderata da Flavia Terribile.
Ha aperto la discussione “Carla Collicelli”,
responsabile relazioni istituzionali dell’ASviS e referente del Gruppo di
lavoro ASviS sul Goal 3 “Salute e benessere”:
“Noi
abbiamo un welfare e una sanità che per certi aspetti ci è invidiata, nel senso
che ha una forte base di universalismo che però fin dall’inizio ha avuto
importanti lacune.
Le prestazioni, che sono state messe in
cantiere per realizzare gli obiettivi della Costituzione, sono state affidate a
istituzioni molto burocratizzate, a trasferimenti di carattere economico e con
una scarsa attenzione a tutti quegli altri aspetti culturali fondamentali che
stanno alla base dell’Agenda Onu 2030”.
Il
panel è proseguito con la presa di parola di “Vincenzo Durante”, responsabile “Occupazione
di Invitalia”, il quale ha sottolineato che “serve una politica pubblica non
soltanto a sostegno della crescita economica e di regolamentazione del mercato
del lavoro, ma anche una politica che favorisca percorsi di autoimpiego, perché
soprattutto per le fasce di popolazione più deboli l’autoimpiego rischia di
essere una prospettiva più facilmente perseguibile rispetto a quella dello
status di dipendente”.
Durante
ha poi parlato delle iniziative promosse da Invitalia in questo senso, che
hanno coinvolto complessivamente 1.300 Neet.
“Andrea
Morniroli”, coordinatore del” Forum disuguaglianze e diversità”, ha poi
sottolineato che “il nostro Paese, attraverso l’integrazione pubblico-privato,
ha messo a terra alcune delle normative migliori.
Il
fatto che oggi troviamo delle difficoltà, che sono state raccontate anche da
alcune esperienze, è perché nel processo di dismissione del welfare pubblico è
stata anche attaccata quell’integrazione virtuosa pubblico-privato.
Perché
il pubblico è stato smantellato dal punto di vista delle risorse, perché il
mantra neoliberista ci ha detto che il pubblico era sempre sbagliato e che
andava favorito il privato, e perché è stato precarizzato il lavoro nella
sanità e nella scuola”.
“Il terzo settore,” ha spiegato Morniroli, “è
stato vissuto non come attore di politiche ma come attuatore al ribasso di
politiche di natura puramente prestazionale.
Dobbiamo tornare a una integrazione virtuosa
che c’è stata in questo Paese”.
“Daniele
Piccione”, consigliere parlamentare del Senato della Repubblica, ha invece
parlato della ridislocazione del rapporto tra privato e pubblico nella
fornitura dei servizi essenziali, considerandola come “il convitato di pietra
che ha atterrito le speranze di chi guardava a un rilancio del welfare, perché
è evidente che la devoluzione verso l’intesa del privato come surrogato del
pubblico ha fatto molto male all’effettività dei diritti sociali”.
“Questo
non vale soltanto per il diritto alla salute”, ha proseguito Piccione, “ma in
generale per le questioni che attengono a tutti quei diritti che si sviluppano
in ambito bio-psicosociale”.
Ha
evidenziato quindi che il privato non deve avere una posizione di
alternatività, ma deve avere delle grandi limitazioni, in sostanza “il pubblico
deve mantenere una funzione pivotale, che implica anche una funzione di
controllo”.
È poi
venuto il turno di “Marco Rossi Doria”, presidente dell’impresa sociale “Con i
Bambini”, che ha riportato il contesto italiano rispetto alla povertà minorile
e ha parlato della co-programmazione pubblico-privato nell’ambito del “Fondo
per il contrasto alla povertà educativa minorile”, raccontando alcune
valutazioni rispetto all’esperienza della sua organizzazione negli ultimi anni.
“Noi
vogliamo la prossimità tra il pubblico e il privato, ma spesso
l’amministrazione è consuetudinaria, la considera fatica in più.
I partiti politici non sono all’interno della
discussione fondamentale per superare la povertà e fare coesione sociale.
Abbiamo
un problema politico per poter continuare a ragionare su queste cose”, ha
sottolineato “Rossi Doria”.
“Katia
Scanavino”, vice segretaria generale di “ActionAid”, è intervenuta per ultima
nella tavola rotonda, rimarcando che “il concetto di accountability è
fondamentale.
Anche
il concetto di potere, perché bisogna ricostruire cosa significa potere e
ridistribuire il concetto stesso all’interno della nostra società.
Il potere non è solo dei partiti, ma è di
tutti i cittadini e le cittadine, delle persone che abitano un posto, della
cittadinanza attiva”.
Scanavino
ha rimarcato che l’accountability, il monitoraggio e la valutazione sono
importanti perché sono “una parte fondamentale della partecipazione ed è alla
partecipazione che bisogna dare potere”, e per partecipare sono fondamentali
dati e informazioni.
“Pierluigi
Stefanini”, presidente dell’ASviS, ha infine concluso l’evento.
“Serve un cambio di approccio che deve
attraversare contemporaneamente il pubblico e il privato sociale, perché
purtroppo prevale troppo spesso un approccio di natura economicistica.
Se permane questo approccio non riusciamo a
costruire una prospettiva in grado di esercitare pienamente la co-progettazione
e la co-programmazione.
Dobbiamo alzare il livello culturale e anche
di soluzione e risposta ai problemi. Bisogna costruire una strada”, ha
sottolineato “Stefanini”, “nella quale la reciprocità, la disponibilità, la
convergenza vera, la volontà di farlo insieme, siano i tratti che
caratterizzano una risposta adeguata a un diverso assetto sociale del nostro
Paese”.
Stefanini
ha concluso ribadendo che bisogna “agire per investire sulla coesione, sul
coraggio e la lungimiranza, dobbiamo farlo attraverso una strategia
multilivello, dobbiamo aumentare il grado di investimenti per allinearci
all’Europa, e su questo c’è una carenza insopportabile, dobbiamo costruire una
politica di complementarità tra le risorse pubbliche e quelle private. Infine,
dobbiamo investire in capacità”.
Guerra
totale?
Comune-info.Net - Raniero La Valle – (21
Gennaio 2024) -ci dice:
Mentre
è in corso un genocidio a Gaza non dimentichiamo l’Ucraina e il futuro stesso
del mondo.
Le notizie sono gravi.
Stanno
preparando la guerra totale con la Russia.
Dovrebbero
combatterla la NATO, gli Stati Uniti e l’Occidente.
Chi sono i soggetti di questo “stanno” non è
del tutto chiaro e interamente noto, altri ce ne sono a cui ognuno può cercare
di dare il nome in base alle informazioni oggi disponibili.
Il
nostro compito qui è di darvi queste informazioni, peraltro assai facilmente
fruibili dalla semplice lettura dei giornali.
Esse trattano tranquillamente l’ipotesi di una
guerra totale con la Russia, (previa a quella con la Cina), a ciò preparando
l’opinione pubblica sulla base di verbi tutti usati al condizionale, recanti
ardite supposizioni non corroborate da alcun dato di fatto ma solo da
pregiudizi e da voci.
Se poi sono millanterie si vedrà, ma anche
queste possono sfuggire di mano.
Citiamo
da queste fonti (nel virgolettato che segue il neretto è una sottolineatura
dell’originale, le nostre interpolazioni sono in corsivo).
La
“Repubblica” (18 gennaio) riferisce che il giornale “Bild” «ha pubblicato
documenti dell’intelligence tedesca sul timore di un attacco (russo) per
prendere il “Suvalki Gap”, corridoio che collega la Bielorussia a Kaliningrad
(l’ex Konigsberg). Potrebbe avvenire nel 2025 o anche nel 2024, giustificato
per soccorrere i cittadini di origine russa.
Il
corridoio passa per Polonia e Lituania la cui capitale Vilnius è a 33
chilometri dal confine con la Bielorussia.
Quindi
un’invasione farebbe scattare l’Articolo V della Nato sulla difesa collettiva.
L’Alleanza lo sa bene e ha convocato l’ultimo vertice proprio a Vilnius lo
scorso luglio.
Da
febbraio a giugno (5 mesi) terrà l’esercitazione “Steadfast Defender”, la più
grande dalla fine della guerra fredda a cui parteciperanno tutti i 31 Paesi
membri in Polonia, Germania e Paesi baltici.
La
Gran Bretagna ha annunciato che fornirà 20.000 soldati ma il totale è destinato
a superare 40.000 uomini e mezzi» (è ciò che papa Francesco e il capo di Stato
europeo che glielo suggerì, chiamerebbero “andare ad abbaiare sul confine della
Russia» e che Churchill direbbe “una cortina di ferro innalzata in Europa”).
Ancora
“Repubblica”: «Il presidente Biden ha detto che “se non fermiamo Putin in
Ucraina il suo appetito crescerà oltre”.
La candidata repubblicana (alla Casa Bianca)
“Nikki Haley” ha commentato così: “Putin ha già detto che se vincerà in Ucraina
poi toccherà a Polonia e Paesi baltici (quando lo ha detto?).
A quel punto saremmo in guerra perché sono
Paesi Nato e dovremmo mandare i nostri figli a combattere».
E
ancora: «Il presidente del “Military Committee” (della NATO), l’ammiraglio” Rob
Bauer”… ha aperto così la riunione dei 31 leader militari della Nato;
“Kiev avrà il nostro sostegno ogni giorno a
venire perché l’esito di questo conflitto determinerà il destino del mondo…
La
Russia teme qualcosa di molto più potente di qualsiasi arma fisica sulla terra:
la democrazia…
Questa
è la vera ragione per cui Putin teme il successo di Kiev, come modello politico
e di vita che insidierebbe la stabilità di Mosca.
Per
difendersi dal pericolo il Cremlino sfrutta la retorica nazionalistica, che ha
prima applicato all’Ucraina, ma ora l’allarga ai paesi baltici (dunque l’oggetto della guerra sarebbe
ideologico) nella speranza dichiarata (quando?) di ricostruire l’impero
sovietico».
Sempre
“La Repubblica”:
«l’Estonia è in allerta. Nei giorni scori la
premier “Kaja Kallas” ha detto di ritenere probabile un attacco russo
all’Europa “nei prossimi tre o cinque anni” confermando vari rapporti dei
servizi tedeschi e polacchi.
I
timori riguardano in particolare i Baltici, dove il Cremlino potrebbe tentare
di sobillare le minoranze russofone».
Domanda:
«“E
cosa suggerite per consentire a Kiev di respingere le truppe russe?”.
“Un recente documento del nostro ministero
della Difesa sostiene che l’Ucraina potrebbe vincere questa guerra se i 40
Paesi del gruppo di contatto di Ramstein stanziassero ciascuno lo 0,25% del
loro Pil annuo per l’Ucraina.
Il governo estone ha dato l’esempio e ha
deciso un aiuto militare a lungo termine all’Ucraina: per i prossimi quattro
anni (lungo termine?) l’Estonia è pronta a stanziare lo 0,25% del suo Pil per
gli aiuti militari all’Ucraina.
Lavoriamo per convincere gli altri Paesi a
seguire il nostro esempio”».
Domanda:
«il
presidente ucraino Zelensky ha annunciato a Davos di voler organizzare una
conferenza di pace in Svizzera, possibilmente con la Cina (senza la Russia!).
È il
momento giusto?”.
“Per quanto riguarda la pace in Ucraina
vediamo il piano di pace di dieci punti proposto dall’Ucraina come l’unico
praticabile”».
La
stessa “Repubblica riferisce poi delle dichiarazioni fatte da Putin ai sindaci:
«Putin ha fatto risalire alle porte aperte dalla Nato a Ucraina e Georgia nel
2008 non solo l’inizio del conflitto in Ucraina, ma anche “una serie di
decisioni che hanno portato a ciò che sta accadendo ora in Lettonia e in altre
repubbliche baltiche: quando i russi vengono cacciati via.
Cose
molto serie che influiscono direttamente sulla sicurezza del nostro Paese”».
E il
giornale commenta:
«Se
Putin applicasse la sua versione armata della storia imperiale russa, l’elenco
dei suoi potenziali obiettivi spazierebbe dalla Finlandia all’Asia centrale
fino all’Alalaska… Putin semina.
Pianta
germogli nello spazio informativo per future aggressioni con il pretesto di
difendere i suoi “compatrioti”».
Sulle
stesse dichiarazioni di Putin “Il Fatto quotidiano” del 17 gennaio riferisce
quanto segue:
«”L’Ucraina si rifiuta di negoziare con la
Russia”, ha detto Putin aggiungendo: “idioti, tutto sarebbe finito da molto
tempo”, e ricordando ancora una volta che erano “d’accordo su tutto”
riferendosi ai negoziati poi interrotti, “ma il giorno dopo hanno deciso di
gettare tutti gli accordi nella spazzatura, lo hanno ammesso pubblicamente,
compreso il capo di quel gruppo di negoziatori…
Eravamo
pronti, poi è arrivato l’allora primo ministro britannico “Boris Johnson” e ci
ha convinto a non attuare gli accordi”.
Questo,
secondo Putin, dimostrerebbe che gli ucraini non sono un popolo indipendente”».
Ancora
di più dimostrerebbe che quando si rifiuta di uscire da una guerra con un
negoziato, un accordo o una riconciliazione, resta solo la vecchia logica della
guerra, secondo cui se ne esce solo con la vittoria decisa sul campo, e lì
decide chi ha vinto, gli Alleati certo non concessero niente alla Germania
sconfitta, addirittura la fecero a pezzi.
Nessuno l’ha detto a Zelensky (o forse lui non
gli ha dato retta) e ora i falsi amici che l’hanno mandato allo sbaraglio, la
guerra la devono vincere loro, a spese di tutto il mondo, oppure abbandonarlo,
mentre ora Putin dichiara, sempre secondo “Il Fatto”:
«”Se
la guerra dovesse proseguire così lo Stato ucraino potrebbe subire un colpo
irreparabile e molto grave”.
Sarebbe
infatti “impossibile”, stando al capo del Cremlino, portare via alla Russia i
progressi militari effettuati sul campo.
Né
Mosca cederebbe mai i territori conquistati».
Quanto al “destino del mondo” che secondo
questi strateghi sarà determinato dall’esito di questo conflitto, esso è così
progettato nei documenti sulla Strategia e la Difesa nazionale americane
pubblicati nell’ottobre del 2022 dalla Casa Bianca e dal Pentagono (le
istituzioni che restano mentre presidenti e ministri passano):
si
tratta del decennio o dei due decenni decisivi «per far avanzare gli interessi
vitali dell’America e per plasmare il futuro dell’ordine internazionale»,
quando «non c’è nazione meglio posizionata degli Stati Uniti d’America per
guidare con forza e determinazione».
Saranno
loro a superare i loro concorrenti geopolitici e vincere, con il corteo dei
loro alleati e partner, la “competizione strategica” con la Russia, considerata
come un pericolo immediato, e con la Cina considerata come il vero antagonista
a lungo termine capace di reggere la “sfida culminante” lanciatale dagli Stati
Uniti, forti della più grande forza militare che ci sia mai stata sulla terra,
che nessuno dovrà mai non solo superare, ma nemmeno eguagliare ed è tale da
prevalere in ogni possibile conflitto.
Queste
sono le informazioni di cui disponiamo e questa la minaccia che grava sul
mondo.
Per
contrastarla ognuno usi la fionda che ha.
Una volta c’era la fionda del diritto, oggi la
vogliono togliere di mano perfino a Guterres.
Il
sistema europeo barcolla
verso
il collasso.
Unz.com
– Gregorio Cappuccio – (9 maggio 2025) – ci dice:
La
democrazia liberale dovrebbe essere un processo, non un risultato.
George Soros sostiene una "società
aperta" che si avvicini alla verità facendo a meno di sistemi di valori
irrazionali, autoritari e chiusi.
Invece,
attraverso un dibattito aperto, la tolleranza per le minoranze e i dissidenti,
i diritti civili e il cosmopolitismo, le democrazie possono trovare la verità.
Un re può trarre legittimità dal lignaggio
divino, dalla chiesa o dal successo militare, ma un leader democratico è un
semplice uomo la cui legittimità deriva dal consenso razionale delle masse.
Questa
è la teoria, comunque.
Forse
c'è stato un tempo in cui la gente ci credeva, ma ora è difficile crederci.
Ciò
che ancora chiamiamo democrazia in Occidente è un gioco di colpisci la talpa,
in cui un'alleanza mutevole di politici, burocrati internazionali, giudici e
"organizzazioni non governative" finanziate dai contribuenti danno
lezioni alle persone su chi è permesso votare e cosa è permesso dire.
Forse
l'esempio più convincente oggi è in Romania.
Nelle
ultime elezioni, George Simion ha ottenuto una vittoria decisiva al primo turno
con oltre il 40% dei voti, mentre il secondo classificato ha ricevuto solo
circa la metà.
Ci
sarà un ballottaggio, con Simion l'ovvio preferito.
Sì, la
Romania ha già avuto le elezioni lo scorso novembre, in cui “Călin Georgescu”
ha vinto il primo turno.
Era
anti-globalista, cristiano ortodosso, scettico nei confronti della NATO,
contrario al sostegno all'Ucraina e ha elogiato le figure nazionaliste che i
liberali chiamano "fascisti".
L'intelligence
rumena ha detto che la Russia ha manipolato i social media per dargli la
vittoria.
Il governo ha annullato tutte le elezioni e ha
impedito al vincitore di ricandidarsi. Questo potrebbe dover ritorcersi contro
il successo di Simion.
I
media internazionali hanno denunciato Simion come "di estrema destra"
e fuori dal mainstream.
Che
cosa significano queste parole quando il 40 per cento dell'elettorato ha già
votato per lui?
"
La ripetizione delle elezioni in Romania: cosa c'è in gioco con l'ascesa
dell'estrema destra ", “Bloomberg” , 7 maggio 2025.
"
Il candidato di estrema destra George Simion vince il primo turno delle
elezioni rumene ", “UPI”, 5 maggio 2025.
"
L'estrema destra supera la ripetizione presidenziale della Romania, per
affrontare il candidato pro-UE al ballottaggio ",” AFP”, 4 maggio 2025
“Politico”
ha una tipica calunnia da "meet the villian" :
"Vi
presento George Simion, il vincitore delle elezioni rumene di estrema destra
che è stato bandito dall'Ucraina".
Lo ha definito un "fanboy di Trump",
un "capo di estrema destra" e leader di un partito che è
"anti-scienza".
I
media liberali possono vedere tutti di centro-destra come essenzialmente
uguali, ma Simion si definisce in modo diverso da Georgescu-Roegen:
"Siamo
un partito trumpista che governerà la Romania e che farà della Romania un
partner forte nella NATO e un forte alleato degli Stati Uniti".
Ha
anche invocato la " melonizzazione " dell'Europa, riferendosi al
primo ministro italiano Giorgia Meloni, che riconosce di provenire dalla stessa
" famiglia politica dei conservatori europei ".
Simion
non è certo un radicale anti-NATO, soprattutto considerando il forte sostegno
di Giorgia Meloni all'Ucraina.
D'altra
parte, Simion ha anche suggerito che nominerà l'ex candidato Georgescu come
primo ministro se sarà eletto, il che senza dubbio inorridirà coloro che
vogliono continuare il sostegno rumeno all'Ucraina.
Simion
ha una forte base tra gli espatriati rumeni, in parte a causa del suo
nazionalismo e in parte perché è stato l'unico candidato che ha perseguito i
loro voti.
Gli
"esperti" citati da “Politico” hanno incolpato gli espatriati
"scarsamente istruiti" che cercano una "soluzione facile" e
TikTok, che non richiede "troppa attenzione".
Implicazione:
abbiamo bisogno di una maggiore regolamentazione dei social media.
Il signor Simion è un ex hooligan del football
e si dipingeva con lo spray graffiti nazionalisti e revanscisti con gli amici.
Questo non è il tipo di persona che i media
internazionali approvano.
L'establishment
rumeno ha risposto al primo turno con un panico a malapena celato.
Il Partito Socialdemocratico si è ritirato
dalla coalizione di governo a causa della sua evidente perdita di credibilità.
Anche il primo ministro socialdemocratico “Marcel
Ciolacu” si dimise e fu sostituito da “Catalin Predoiu”, del più conservatore “Partito
Nazionale Liberale”. Predoiu afferma che la Romania "deve rimanere una
democrazia resiliente, un paese i cui obiettivi di sviluppo rimangono ancorati
ai valori euro-atlantici".
La
coalizione comprende il partito ungherese “UDMR”, un membro interessante della
coalizione in un governo maggiormente preoccupato per le interferenze
straniere.
Sembra
che l'interferenza straniera sia una minaccia solo se i social media sono
manipolati da stranieri.
La
vittoria di Simion al secondo turno del 18 maggio non è garantita.
Il suo avversario sarà “Nicusor Dan”, sindaco
di Bucarest.
Il “Partito
Nazionale Liberale” lo sostiene, così come l'”UDMR” ungherese perché dice che
Simion è "anti-ungherese".
Il
cosiddetto gruppo di "centro-destra" del “Partito Popolare Europeo”
al Parlamento Europeo lo sta promuovendo e afferma che è
"inaccettabile" che i socialisti rumeni non sostengano (ancora) il
sindaco “Dan”.
Anche il blocco dei “Socialisti &
Democratici” al Parlamento europeo sostiene Dan, avvertendo che "di fronte
all'aumento dell'estremismo in tutta Europa, non c'è spazio per i giochi
politici".
Dan
può anche contare sul sostegno del partito al governo della Moldavia.
Niente
di tutto ciò è apparentemente inaccettabile "interferenza esterna".
Cosa
succede se il signor Simion vince?
Non lo sappiamo.
Tuttavia, sappiamo cosa succede in Germania
quando gli elettori si comportano di sesso maschile.
L'"Ufficio
federale per la protezione della Costituzione", l'agenzia di spionaggio
interna tedesca, ha recentemente designato il principale partito politico del
paese, l'”Alternativa per la democrazia”, come "estremista", il che
potrebbe essere un passo importante per mettere al bando il partito a titolo
definitivo.
Anche
il segretario di Stato “Marco Rubio” ha detto che si tratta di "tirannia
sotto mentite spoglie".
Sorprendentemente,
il governo tedesco ha risposto che questa è la democrazia in azione, con
l'elogio di gran parte della stampa internazionale.
"
Marco Rubio, difensore del partito anti-immigrati, ha critico la Germania.
Il Ministero degli Esteri ha reagito ", “Tempi
“di Los Angeles, “4 maggio 2025”
"La
Germania risponde a Marco Rubio dopo che ha definito 'tirannia' la sua
designazione 'estremista' del partito di estrema destra", “The Latin Times”
, 3 maggio 2025.
"
La Germania risponde alla difesa di Rubio del partito di estrema destra AfD
", NBC News,” 3 maggio 2025”.
Molti
guardano alla Germania moderna come esempio di come regolamentare la parola.
Nel
2021, il “Washington Post” ha sostenuto che il governo americano dovrebbe
trattare gli Stati Uniti nel modo in cui il governo tedesco tratta la Germania.
Questo è particolarmente agghiacciante perché la logica per definire l'”AfD”
estremista è che il partito non considera i non-tedeschi etnici come veramente
tedeschi.
L'agenzia di spionaggio ha riferito:
La
comprensione prevalente dell'etnia e della discendenza nel partito [AfD] non è
compatibile con l'ordine di base democratico libero.
Ha lo scopo di escludere alcuni gruppi di
popolazione dalla partecipazione paritaria alla società, di esporli a un
trattamento iniquo che non è conforme alla costituzione e quindi di assegnare
loro uno status giuridicamente svalutato.
In particolare, l'”AfD”, ad esempio, non
considera i cittadini tedeschi con una storia migratoria da paesi musulmani
come membri uguali del popolo tedesco etnicamente definito dal partito.
. . . Ciò si riflette nel gran numero di
dichiarazioni xenofobe, di minoranze, islamofobe e anti-musulmane fatte da
esponenti di spicco del partito.
Da
allora l'agenzia di spionaggio ha ritirato la designazione di
"estremista" e ora afferma che, mentre i procedimenti legali sono in
corso, monitorerà il partito solo come "caso sospetto"
Tuttavia,
l'agenzia sostiene che un principio costituzionale della Germania moderna è che
non esiste un vero popolo tedesco.
La "germanicità" sembra essere
determinata dalla mera occupazione, e i nuovi arrivati sono i benvenuti a
odiare i tedeschi etnici.
Le
identità nazionali, etniche e razziali sono vietate ai bianchi, ma vanno bene
per i non bianchi, specialmente quando insultano i bianchi nelle loro terre d'origine.
È quindi vietato organizzare un'opposizione
politica a un'occupazione ostile.
È
questo che i governanti dell'Occidente intendono per "democrazia"?
Il
significato delle parole è determinato da come vengono usate.
Ci
sono sedicenti "socialisti", come “Alexandria Ocasio-Cortez”, che non
credono nella fine della proprietà privata, ma sono fanatici dei diritti degli
immigrati e degli omosessuali.
Pertanto,
questo è il "socialismo".
Allo
stesso modo, vincere un'elezione o fare cose che piacciono agli elettori non è
sufficiente per essere un leader "democratico".
La
stampa internazionale definisce "autoritari" uomini come “Nayib
Bukele “e “Viktor Orban” nonostante le ripetute vittorie elettorali.
I
sondaggi mostrano che l'elettorato occidentale vuole livelli più bassi di
immigrazione, ma i governi li ignorano e addirittura vietano coloro che
vogliono il controllo delle frontiere.
Pertanto,
sembra che "democrazia" significhi sostituire la popolazione storica
con i non bianchi.
Allo
stesso modo, l'idea che la democrazia significa che i cittadini godono di
libere elezioni, libertà di parola o il diritto di opporsi al governo è ora
così obsoleta che sembra imbarazzante rivendicarla.
Certamente
non significa che il popolo governa.
"Proteggere la democrazia" non
significa più libertà, significa più censura.
La
democrazia stessa non è più una "società aperta", ma un sistema
chiuso.
Le
élite governano sempre, e qualsiasi sistema ha presupposti che non sono aperti
al dibattito.
Mentre
gli Stati Uniti hanno più libertà di quasi tutti gli altri paesi occidentali,
non siamo esenti da questa tendenza, e non abbiamo la libertà di parola che
davamo per scontata nei primi giorni dei social media – diciamo, 12 o 15 anni
fa.
Ci
sono segnali incoraggianti che i bianchi stanno abbandonando l'ortodossia
egualitaria, ma i nostri governanti potrebbero costringerci a distruggere quasi
tutte le istituzioni stabilite, le norme legali e i tabù sociali se questo è
ciò che serve per ottenere politiche di buon senso.
L'Europa
potrebbe sconfiggere l'"estrema destra" chiudendo le frontiere, ma a
parte la Danimarca, i governi sembrano irrazionalmente impegnati nel suicidio
demografico.
Stanno
giocando d'azzardo, i bianchi si arrenderanno.
Se i
governanti europei hanno torto, il loro rifiuto di ascoltare gli elettori
garantisce l'estremismo politico e persino la violenza.
Sono
stati avvertiti.
Basta
guardare i risultati elettorali. La scritta è sul muro.
I
falsi complotti terroristici
dell'intelligence
britannica.
Unz.com - Craig Murray – (10 maggio 2025) –
ci dice:
Ai
tempi della "Guerra al Terrore", i servizi di sicurezza del Regno
Unito hanno fabbricato molteplici falsi complotti terroristici.
C'è stato, ad esempio, il complotto della
bomba di Pasqua del 2009 a Manchester, che ha occupato intere prime pagine di
giornali.
Gordon
Brown, come primo ministro, lo ha pubblicizzato come un "grande complotto
terroristico".
Era
una totale invenzione, nessuno è stato condannato e alla fine è emerso che
l'"ingrediente per fabbricare bombe" strombazzato dalla polizia
confiscava dalle cucine era lo zucchero, in quantità normali.
La
“Grande Congiura della Ricina” nel 2003 era di nuovo ossessionato dalla cucina,
e i media che pubblicavano titoli urlanti sulla scoperta della ricina non si
sono preoccupati di riferire in seguito che le quantità che la polizia aveva
annunciato di aver scoperto si sono rivelate essere le tracce quasi
impercettibili che si potevano trovare in qualsiasi cucina.
Lo
scopo era la propaganda, che aumentava l'islamofobia per giustificare la
distruzione occidentale dell'Afghanistan, dell'Iraq e della Libia.
Quando l'attacco alla “Manchester Arena” è
avvenuto, si è scoperto che l'MI5 era stato lo sponsor dell'autore e che lui e
suo padre erano stati traghettati dalla Libia dalle forze armate britanniche.
La sponsorizzazione del terrorismo all'estero
è sempre suscettibile di provocare un contraccolpo in patria.
La
propaganda è ora di nuovo in fase di intensificazione per promuovere
l'islamofobia destinata a guidare il sostegno pubblico nel Regno Unito per il
genocidio di Gaza e un imminente attacco all'Iran.
Il
capo dell'MI5 “Ken McCallum” è probabilmente il bugiardo più prolifico e
duraturo nella storia del servizio pubblico britannico.
Non ha
ancora generato le morti con le sue bugie che “Alistair Campbell” ha causato,
ma data a “McCallum” il tempo di dare i frutti della sua ripetizione alla
Goebbels.
“McCallum”
ha un panorama mediatico molto più compiacente con cui lavorare rispetto a
quello esistente un quarto di secolo prima.
Devo
ricordare a me stesso che la mia continua indignazione per la distruzione di
milioni di persone reali e comuni in Medio Oriente dal 2003 in poi, per
garantire idrocarburi a uomini ricchi e malvagi e basata su menzogne totali
sulle armi irachene, è qualcosa di estremamente vivido e fondamentale per me,
ma lo studente universitario medio non era nemmeno nato all'epoca.
Il
mito di un Occidente "buono" si auto propaga continuamente.
I
media distraggono e offuscano in un costante e prolungato processo di
logoramento della verità;
si è
tentato di credere che il “genocidio a Gaza” abbia risvegliato una coscienza
pubblica che potrebbe essere una rottura storica del sistema.
Ma sta
già diventando più difficile accedere alle vere notizie da Gaza.
Meno
immagini sono disponibili mentre l'omicidio di innumerevoli giornalisti
cittadini e la limitazione di Internet a Gaza hanno effetto.
La
soppressione da parte dei social media della portata degli “account
pro-palestinesi” e il massiccio potenziamento degli “account sionisti “sono
rafforzati dalla sistematica persecuzione statale delle voci pro-palestinesi.
Anche
se i ministri israeliani proclamano apertamente il “genocidio e la pulizia
etnica di Gaza”, i ministri europei continuano a negarlo.
Mi
viene in mente il grande discorso di accettazione del premio Nobel di “Harold
Pinter”, che parlava in particolare delle menzogne e delle atrocità della
guerra in Iraq:
Questa
è la realtà del potere. Il potere non deve giustificarsi.
Il
potere fa quello che vuole, e ci si aspetta che il resto del mondo lo accetta.
Ma c'è
un'altra realtà, che viene raramente riportata.
La
realtà della resistenza.
La realtà delle persone che rifiutano di
accettare le menzogne, che rifiutano di essere messe a tacere.
In ogni paese in cui gli Stati Uniti sono
intervenuti, ci sono state persone che hanno reagito, non solo con le armi, ma
con le parole, con le idee, con il coraggio.
Queste
voci sono spesso ignorate dai media occidentali, che preferiscono concentrarsi
sulla narrativa della benevolenza americana.
Ma
esistono, e stanno crescendo.
Dall'America
Latina al Medio Oriente, la gente si oppone all'imperialismo, allo
sfruttamento, alla menzogna.
Siamo
ancora in piedi, ma le bugie continuano ad arrivare, lo sfruttamento continua
ad arrivare e l'omicidio continua ad arrivare.
Ora
torniamo all'arci-propagandista “Ken McCallum” e al suo ultimo complotto
inventato.
Questo è un grosso problema: il più grande allarme
terrorismo promosso dallo stato da vent'anni.
Come
al solito, non si sono rivelati efficaci.
Questo
pezzo di propaganda diretta del “Guardian” lo rende accidentalmente chiaro:
Naturalmente,
le armi che la polizia sta cercando potrebbero magicamente finire sotto il
letto. Ricordo la perquisizione della casa di “Charlie Rowley” dopo la morte
della povera “Dawn Sturgess”.
La polizia perquisì l'abitazione per cinque
giorni, alla ricerca di una piccola fiala di liquido, senza fortuna.
Poi,
incredibilmente, si scoprì che la boccetta di profumo era rimasta in bella
vista sul tavolo della cucina per tutto il tempo!
Quella
bottiglia di profumo aveva ovviamente qualità miracolose e poteva
materializzarsi e smaterializzarsi a piacimento, perché era rimasta inosservata
all'interno di un bidone delle donazioni di beneficenza regolarmente svuotato
per oltre tre mesi.
Suppongo
che un gioco di ruolo possa ancora materializzarsi sotto il divano nella
ricerca in corso; quando sono coinvolti la polizia e i servizi di sicurezza
britannici, le leggi della fisica sono spesso sospese.
Come
al solito, i "cinque complotti" di “Ken McCallum” dell'anno scorso
non hanno portato ad alcuna condanna, né a prove, e in effetti l'affermazione è
stata modesta per “McCallum”, che ha affermato che l'MI5 ha sventato "20
complotti" dal 2022.
Anche
quello non era il suo record.
“McCallum”
mi ricorda l'uomo che camminava per “St. James' Park” spargendo elastici
"per tenere lontani gli elefanti".
Quando gli è stato detto che non ci sono
elefanti, ha dichiarato:
"Vedi,
funziona, non è vero?"
“McCallum”
ha tenuto a bada una grande quantità di terrorismo iraniano in modo simile.
Ma,
insolitamente, nel 2023 uno dei "complotti iraniani" immaginari di “McCallum”
ha portato a una vera e propria condanna, e vorrei che consideraste questo come
una finestra sulla psiche contorta dei servizi di sicurezza.
“Iran International”,
finanziata dall'Arabia Saudita.
In un
campo affollato, “Iran International” è probabilmente il canale mediatico più
losco del mondo.
Un'operazione
di nicchia in “lingua farsi” finanziata dall'Arabia Saudita, si rivolge a
quegli iraniani che sostengono Israele, sostiene la restaurazione di uno scià e
sostengono l'Arabia Saudita.
Come
ho detto, è molto di nicchia.
Eppure
questa piccola operazione mediatica è stata messa in piedi con un investimento
saudita di un quarto di miliardo di dollari.
Sì, avete letto bene, 250 milioni di dollari.
Dove
siano finiti davvero tutti quei soldi è una domanda interessante.
Insistono voci di riciclaggio di denaro e di
legami con la criminalità organizzata dell'Europa orientale.
C'è
stato un breve periodo, dopo l'omicidio di “Jamal Khashoggi”, in cui i media
britannici hanno pubblicato articoli sgradevoli sui sauditi.
In quel breve lasso di tempo, questo articolo
è apparso sul “Guardian”.
“Iran
International”, forse non a caso, sostiene specificamente un'organizzazione
terroristica araba sunnita che opera in Iran:
il “Movimento di Lotta Arabo “per la “Liberazione
di Ahvaz” – ASMLA.
Si tratta di un gruppo “etno-nazionalista
sunnita” che conduce una lotta armata per la secessione di alcuni distretti
arabi dell'Iran meridionale dallo Stato a maggioranza persiana e sciita.
L'ASMLA
ha esattamente gli stessi sostenitori segreti di “Hayat Tahrir” al-Sham (HTS)
in Siria: ovvero l'Arabia Saudita e gli Stati del Golfo, Israele e i servizi di
sicurezza occidentali.
Nel
settembre 2018, l'ASMLA ha compiuto un attacco ad Ahvaz, uccidendo oltre 60
persone (anche l'ISIS ha rivendicato l'attacco, ma le due organizzazioni sono
collegate).
“Iran
International “ha rilasciato un'intervista a un portavoce dell'ASMLA, che ha
decisamente sostenuto l'organizzazione, insistendo sul diritto dell'ASMLA alla
resistenza armata e rivendicando specificamente la responsabilità dell'attacco
come una vittoria.
In
un'epoca in cui gli attivisti occidentali vengono regolarmente arrestati per
aver sostenuto il "terrorismo" se si oppongono al “genocidio di Gaza”,
si potrebbe immaginare che questo sarebbe un reato da parte di “Iran
International”.
Ma
sostenere i terroristi sostenuti dall'Occidente e dall'Arabia Saudita non è
solo tollerato, è la politica ufficiale del governo britannico, e in risposta
alle lamentele l'”Ufficio delle comunicazioni del Regno Unito “(OFCOM) ha
scoperto che “Iran International” aveva il diritto di intervistare il
sostenitore del giusto tipo di terrorismo.
Quindi,
come si collega questo alla singola condanna di tutti i presunti complotti
terroristici di” Ken McCallum”?
Qualcuno
di “Iran International” è stato condannato per aver glorificato il terrorismo,
giusto?
Non
essere sciocco.
“Iran
International” è filo-saudita e filo-israeliana e nel dicembre 2023 ha aperto
un secondo quartier generale a Washington, DC, con ulteriori finanziamenti
della CIA.
Ricorda che sono sullo stesso lato di HTS.
Iran International è la "vittima del terrorismo".
La
condanna ai sensi del “Terrorism Act” è stata per aver scattato fotografie
dell'edificio del quartier generale dell'”Iran International” a Chiswick.
Nel
dicembre 2023” Magomed-Husejn Dovtaev”, un ceceno con cittadinanza austriaca, è
stato condannato a tre anni e mezzo di carcere per aver fotografato il quartier
generale dell'”Iran International” a Chiswick, in quanto ritenuto un atto
preparatorio per un reato di terrorismo.
L'accusa
sosteneva specificamente che “Dovtaev” operava per conto del governo iraniano.
Nessuna
prova di legame con l'Iran.
Questa
è la parte importante.
In tribunale non è stata presentata alcuna
prova di alcun tipo dei legami tra “Dovtaev” e l'Iran.
Non
c'era nulla sul suo telefono e nulla di sorveglianza.
Non
aveva parlato con nessun iraniano né menzionato l'Iran.
L'accusa
ha sostenuto – e non scherzo – che “Dovtaev” era ceceno, che è in Russia, che è
geopoliticamente alleato dell'Iran, e quindi probabilmente agiva per conto
dell'Iran.
Questo
era tutto. Lo era davvero, davvero.
Questo
argomento ultra circostanziale è comunque sufficiente, ma ignora diversi
fattori individuali.
“Dovtaev”
è sunnita, quindi non allineato con l'Iran.
Non è
certamente uno di quei ceceni alleati della Russia.
La sua
famiglia è arrivata in Austria come rifugiati dalla guerra d'indipendenza
cecena ed è un nazionalista ceceno antirusso e cittadino austriaco.
Indossava
effettivamente l'abbigliamento dell'indipendenza cecena quando è stato
fotografato mentre fotografava l'edificio.
L'argomentazione
dell'accusa – secondo cui “Dovtaev” dovrebbe lavorare per l'Iran a causa dei
legami della Russia con l'Iran – è quindi una totale assurdità.
Ma si
adatta alla narrativa ufficiale anti-iraniana che ci viene imposta.
Ed è
stata imposta alla giuria.
Potrei
aggiungere che le prove che “Dovtaev” stesse effettivamente ispezionando il
luogo per qualche secondo fine erano molto solide, e non ne dubito.
Ma non
c'erano prove di alcun tipo che lo facesse per l'Iran, o per terrorismo, come
sostenuto dall'accusa.
La
sentenza non è stata pubblicata, motivo per cui non la linko.
Questa
è l'unica condanna per terrorismo iraniano per tutte le false affermazioni di
McCallum – e non è stato dimostrato alcun collegamento con l'Iran.
Il che
mi porta all'unico altro arresto effettivo – anche se non ancora condannato,
fino a questa settimana – in tutti i cosiddetti complotti terroristici iraniani
di McCallum.
Due giovani rumeni sono stati estradati da
Bucarest a Londra per aver accoltellato alla gamba un dipendente di ... avete
indovinato, “Iran International”.
“Nandito
Badea”, 19 anni, e “George Stana”, 23 anni, sono stati arrestati per aver
accoltellato a Londra la presentatrice di” Iran International” “Pouria Zerati”.
L'assalto è stato ripreso dalle telecamere a circuito chiuso.
Propaganda
con uno scopo.
Ora,
forse ricorderete che all'inizio ho detto che ci sono presunti legami tra le
finanze poco sicure di” Iran International” e la criminalità organizzata
dell'Europa orientale.
Ebbene, la storia riportata da Bucarest è che
gli imputati ammettono l'accoltellamento ma dicono che era un avvertimento per
quanto riguarda un debito aziendale.
Il
che, se ci pensiamo, ha molto più senso.
Le
telecamere a circuito chiuso mostrano che gli aggressori avrebbero potuto
uccidere la vittima, ma invece l'hanno pugnalata alla gamba.
Questo è un avvertimento della malavita, non
un'operazione statale.
L'idea
che l'Iran sta assumendo adolescenti rumeni a caso per ferire leggermente le
persone è una sciocchezza.
Inoltre,
la narrazione della "disputa commerciale" non ha infinitamente più
senso nel caso di “Dovtaev”, che non aveva legami con l'Iran?
Lo
scenario del gangster spiegherebbe pienamente perché avrebbe tenuto le labbra
ben sigillate su chi lo aveva davvero assunto e cosa stava facendo, anche a
costo di una condanna più dura per "terrorismo".
Quindi
queste sono tutte le prove concrete, o la loro mancanza, esistenti sui
molteplici complotti terroristici iraniani di “McCallum”.
Questo
è ora, naturalmente, aumentato da questa nuova narrativa urlata su un attacco
iraniano pianificato all'ambasciata israeliana a Londra.
Mentre
il” genocidio di Gaza” procede, si potrebbe scrivere un lungo saggio sull'etica
dell'attacco a un'ambasciata israeliana (e Israele non ha mostrato moderazione
nell'attaccare le sedi diplomatiche di altre nazioni, ma lascerò che questo
passi come non rilevante per il caso attuale).
Devi
chiedere "cui bono?"
L'Iran
ha mostrato un'enorme moderazione nell'evitare di essere trascinato in una
vasta guerra per Gaza di fronte ai continui attacchi, ed è nel bel mezzo di un
teso processo negoziale sul suo programma nucleare.
L'idea che, in questo momento, attaccherebbe
l'ambasciata israeliana a Londra è folle.
Tuttavia,
la narrazione serve molto fortemente l'interesse del Regno Unito, poiché il “sostegno
al genocidio a Gaza” diminuisce ulteriormente, soprattutto tra i sostenitori
del Partito Laburista.
E naturalmente un attacco del genere, o anche
l'accusa di un attacco pianificato, rafforza anche la perpetua narrativa
israeliana del vittimismo.
L'organizzazione
di questo falso complotto da parte dell'MI5 ora è del tutto prevedibile;
infatti
ho predetto operazioni sotto falsa bandiera da quando è iniziato il genocidio.
La mia
ipotesi è che probabilmente ci sia un'operazione di agente provocatore alla
base di questo, in cui alcuni poveri giovani sono stati intrappolati
nell'essere d'accordo con dichiarazioni selvagge o un piano di fantasia.
In
alternativa, come al solito si rivelerà una completa invenzione propagandistica
per influenzare l'opinione pubblica in un momento chiave.
Vale
la pena notare che gli Stati Uniti in questi ultimi giorni hanno attualmente
concentrati quattro bombardieri B-52 e sei B-2 su “Diego Garcia”.
Si
tratta di una concentrazione estremamente rara e indica la preparazione per
un'operazione importante;
L'Iran
è l'obiettivo più probabile.
Questo
tipo di forza è molto più grande di qualsiasi cosa dispiegata contro lo Yemen
fino ad oggi.
Questa
propaganda anti-iraniana non viene intensificata in questo momento senza alcuno
scopo.
Dagli
agricoltori alla
potenza
di fuoco.
Unz.com
- Rosa Pinochet – (14 maggio 2025) – ci dice:
Le
esercitazioni di guerra dell'India, la mano silenziosa di Israele e la linea di
maglia dei BRICS che nessuno sta guardando.
L'India
sta ora trasmettendo le istruzioni per la preparazione alla guerra sulla
televisione pubblica.
Non a bassa voce, non sepolti nei telegiornali
a tarda notte, ma nel bel mezzo della giornata, su ogni canale.
Il
messaggio è esplicito: ecco cosa fare se si viene attaccati, come trovare
rifugio, cosa ascoltare.
Non è
più teoria. È un avvertimento travestito da istruzione.
Il
subcontinente non è estraneo alle tensioni, ma non si tratta della solita
postura di confine.
Il
tono ufficiale, il livello di diffusione pubblica e l'agghiacciante normalità
con cui vengono presentati questi annunci di pubblica utilità suggeriscono
qualcosa di molto più serio.
Il
governo indiano non sta semplicemente preparando l'esercito, ma la popolazione.
Negli
ultimi giorni, la linea di controllo in Kashmir si è illuminata di nuovo con
bombardamenti e attività di droni.
Secondo
Reuters, il Pakistan ha riferito che tre delle sue basi aeree sono state prese
di mira da missili indiani.
Eppure,
dopo questa fiammata, è tornata la calma.
L'esercito
indiano ha confermato che le aree di confine hanno vissuto una notte
relativamente tranquilla dopo l'operazione “Sindoor”, che secondo quanto
riferito ha colpito i campi dei militanti in tutta la” LdC”.
Anche se è stato dichiarato un cessate il
fuoco, questa calma sembra meno una risoluzione e più una pausa tra un atto e
l'altro.
Ma
concentrarsi solo sul Kashmir significa fraintendere il teatro più ampio.
Il confronto non è locale, è globale.
Questa
è la punta visibile di un iceberg che rimodella l'ordine post-Guerra Fredda.
Il
crescente allineamento dell'India con il blocco allargato dei BRICS, che ora
include Russia, Cina, Iran, Arabia Saudita e Brasile, sta capovolgendo il
modello unipolare dominato dall'Occidente.
Quello
che era iniziato come un forum economico si è trasformato in un contrappeso
multipolare, sviluppando rotte commerciali energetiche, sistemi monetari
alternativi e reti parallele di condivisione dell'intelligenza.
L'India, nel frattempo, cammina su una linea
precaria, bilanciando legami economici più profondi con Russia e Cina e facendo
affidamento sul sostegno alla difesa e alla sorveglianza di Washington e Tel
Aviv.
È qui
che Israele entra nel campo di battaglia, come al solito.
Sebbene
non sia un membro dei BRICS, Israele è profondamente integrato
nell'infrastruttura di difesa dell'India.
Dagli attacchi di Mumbai del 2008, i due paesi
hanno forgiato una potente alleanza intorno all'antiterrorismo e alla guerra
digitale.
I
droni israeliani “Heron” e “Searcher” pattugliano i confini settentrionali
dell'India.
I missili anticarro “Spike” sono schierati
attraverso le postazioni avanzate indiane. I sistemi radar aviotrasportati in
tempo reale, sviluppati in collaborazione con Israele e Russia, sorvegliano il
terreno conteso.
Dietro
le quinte, i consiglieri israeliani hanno addestrato l'intelligence indiana e
le unità di combattimento urbano, e le società di sicurezza informatica
israeliane – alcune risorse legate a spyware di livello NSO Group – hanno
aiutato l'India a rintracciare il dissenso, le minacce di spionaggio e le reti
di ribelli.
Israele, ufficialmente al di fuori sia della
NATO che dei BRICS, è diventato un sistema nervoso centrale nei punti caldi più
instabili del mondo, dalle alture del Golan al Gujarat.
Nel
frattempo, il fattore Cina incombe.
Il
Pakistan si è sempre più rivolto alla tecnologia militare cinese in tutti i
settori: droni, sistemi missilistici, array radar.
L'India, al contrario, si appoggia alle
piattaforme occidentali e israeliane.
Come
ha recentemente dichiarato il senatore degli Stati Uniti ed ex Navy SEAL “Tim
Sheehy”:
"Il
Pakistan sembra aver vinto tutte le sue partnership finora con la tecnologia
cinese, al contrario della tecnologia occidentale, che l'India utilizza
principalmente. Questo non è un nostro vantaggio.
La
Cina non è più un 'concorrente quasi alla pari', ma un 'concorrente alla pari'
con gli Stati Uniti".
Infatti,
“Hua Bin” osserva su “Unz”:
La
scorsa settimana il mondo ha assistito a una guerra aerea sorprendentemente
unilaterale tra Pakistan e India.
L'aeronautica
pakistana, equipaggiata con sistemi d'arma cinesi, ha abbattuto un gran numero
di mezzi di combattimento aereo indiani senza subire perdite.
La
battaglia aerea ha visto la partecipazione di caccia J-10C di fabbricazione
cinese, missili aria-aria PL-15, sistema di difesa aerea HQ-9 e AWACS ZDK-03.
Tra le perdite indiane segnalate figurano 3
caccia “Rafale” di fabbricazione francese, 1 Su-30 di fabbricazione russa, 1
MiG-29 e 1 “drone Heron” di fabbricazione israeliana.
Ciò
che rende il risultato così scioccante è che il “caccia Rafale”, venduto
all'India a 240 milioni di dollari ciascuno, è spesso lodato come il più
avanzato jet da combattimento europeo, non è riuscito a combattere nel
confronto con il J-10C.
I missili aria-aria “Mica” e “Meteo”r
trasportati da Rafale sono stati scoperti intatti/non sparati tra i rottami.
Il
J-10C, in nessun modo un caccia arretrato, è considerato ben oltre il suo apice
nell'aeronautica cinese i cui caccia più avanzati includono J-20, J-35
(entrambi 5 esimo caccia stealth di nuova generazione), J-16, J-15 (4.5 esimo
generazione di caccia multiruolo), per non parlare del 6 esimo caccia di nuova
generazione (J-36 e J-50) che sono in fase di test.
Al
giorno d'oggi il J-10C è destinato principalmente all'esportazione.
Il Pakistan li ha acquisiti a 40 milioni di
dollari per unità.
Anche alcune nazioni del Medio Oriente stanno
prendendo in considerazione il jet, tra cui l'Egitto.
In
genere, l'esportazione militare cinese è una o una generazione e mezza indietro
rispetto a ciò che l'EPL si attrezza.
In
tutta onestà, “Rafale” sarebbe un forte avversario contro J-10C in un duello
testa a testa.
A 240
milioni di dollari, è anche più costoso dell'F-35.
Allora,
come ha fatto l'aviazione indiana a subire una sconfitta unilaterale così
umiliante contro un'aeronautica pakistana molto più piccola?
La
risposta sta nella forza del sistema d'arma cinese integrato utilizzato dal
Pakistan.
Piuttosto
che utilizzare un miscuglio di armi provenienti da Francia, Russia, Israele e
Stati Uniti, come nel caso dell'India, il Pakistan ha utilizzato una suite
completa di sistemi di combattimento aereo altamente integrati e sincronizzati
provenienti dalla Cina.
Questa
divergenza geopolitica e tecnologica non è solo accademica, ma è la realtà del
campo di battaglia.
In un mondo sempre più plasmato dalla guerra
informatica in tempo reale, dai flussi di energia e dalla sorveglianza guidata
dall'intelligenza artificiale, il fornitore conta tanto quanto la strategia.
E i
BRICS, pieni di capitali cinesi e petrolio russo, stanno rapidamente costruendo
l'impalcatura di un nuovo ordine.
Ma
forse la prima scossa di questo conflitto multipolare non è venuto dal campo di
battaglia, ma da un tweet.
Nel
2021, quando “Rihanna” ha espresso sostegno agli agricoltori indiani che
protestavano contro le riforme agricole, il governo Modi ha reagito come se
fosse stato colpito da un attacco aereo.
Greta Thunberg l'ha seguita.
Delhi
ha accusato queste figure di partecipare a una cospirazione internazionale. Una
protesta dei lavoratori domestici si era trasformata in una linea di politica
globale.
Questa
ipersensibilità non era solo teatro politico, era paranoia strategica. Ha
rivelato come l'India vedeva sé stessa:
una
potenza in ascesa sotto assedio, non solo da parte dei vicini, ma anche da
idee, immagini e narrazioni.
Il “tweet
di Rihanna” non è stato visto solo come un mal di testa per le pubbliche
relazioni, ma è stato trattato come un fronte in una guerra di percezione.
E
quattro anni dopo, sembra profetico.
L'India
non si sta semplicemente preparando per una guerra convenzionale:
si sta preparando per una crisi multi-dominio
che abbraccia confini fisici, cyberspazio, oleodotti, reti satellitari e flussi
di informazioni.
Il Kashmir è un fronte.
Taiwan
è un altro. Il Mar Rosso, Gaza, il Mar Cinese Meridionale: tutti frammenti di
un intricato sistema di attriti.
Questa
non è una guerra mondiale nel senso degli anni '40.
È una
guerra in rete, in cui eserciti, media, malware e sistemi monetari si scontrano
attraverso fusi orari e piattaforme.
E
mentre i BRICS si rafforzano contro le armi economiche occidentali e i loro
alleati occidentali si consolidano lungo la costa asiatica, la domanda non è se
ci sarà un punto critico.
È se
riconosceremo la guerra quando sarà già in pieno svolgimento.
Le
guerre non hanno più bisogno di dichiarazioni.
Hanno
solo bisogno di normalizzazione.
E
quando un governo inizia a diffondere pubblicamente istruzioni su come
sopravvivere a un attacco, quella normalizzazione è già iniziata.
L'intervista
di Jeremy Bowen
con il capo degli aiuti a Gaza
è
stata vergognosa – e lui lo sa.
Unz.com
- Jonathan Cook – (14 maggio 2025) – ci dice:
Non
c'erano scuse per la BBC per seguire Israele nel trattare il capo dell'UNRWA
come se fosse allineato con il terrorismo.
Questo
tipo di giornalismo vile rende più facile il lavoro di genocidio di Israele.
C'è
stato un altro vergognoso reportage da parte di “BBC News “a “Ten” ieri sera,
con l'editore internazionale “Jeremy Bowen il principale colpevole questa
volta.
Ha
preceduto un'intervista con “Philippe Lazzarini”, capo dell'”agenzia delle
Nazioni Unite per i rifugiati UNRWA”, con una dichiarazione di non
responsabilità del tutto ingiustificata – come se stessi parlando con un
terrorista, non con un importante difensore dei diritti umani che ha cercato
disperatamente di mantenere aperte le ultime linee di salvezza per gli aiuti
alla popolazione di Gaza mentre viene attivamente affamata a morte da Israele.
L'unica
volta che ricordo che “Bowen” ha preceduto un'intervista in termini così
apologetici è stato quando ha intervistato il vice capo politico di Hamas, “Khalil
al-Hayya”, lo scorso ottobre.
Anche
quello fu vergognoso.
Ma almeno in quell'occasione, Bowen aveva una
scusa:
secondo
il draconiano” Terrorism Act” britannico, dire o fare qualsiasi cosa che possa
essere considerata un favore ad Hamas può costare una condanna a 14 anni di
carcere per sostegno al terrorismo.
Ma
perché mai Bowen insinua che le osservazioni di “Lazzarini – sull'intensa
sofferenza della popolazione di Gaza nel terzo mese di un completo blocco degli
aiuti israeliani – devono essere trattate con cautela, allo stesso modo di
quelle di un leader di Hamas?
Per un
solo motivo.
Perché Israele, in modo assurdo e per ragioni
del tutto egoistiche, sostiene che l'”UNRWA” è una copertura per Hamas.
Da
gennaio, Israele ha messo fuori legge l'organizzazione dall'operare nei
territori palestinesi che continua ad occupare illegalmente.
Come sempre, la “BBC” è terrorizzata all'idea
di turbare gli israeliani.
Israele
desidera da tempo che l'UNRWA esca dai giochi perché è l'ultima organizzazione
significativa a tutelare i diritti dei rifugiati palestinesi sanciti dal
diritto internazionale.
Rappresenta quindi un ostacolo significativo
alla pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele, che si estende a ciò
che resta della loro patria.
Prima
di mandare in onda l'intervista a “Lazzarini”, “Bowen” ha avvertito:
"Israele
dice che è un bugiardo e che la sua organizzazione è stata infiltrata da Hamas.
Ma sentivo che era importante parlare con lui per una serie di motivi.
"Prima
di tutto, il governo britannico si occupa di lui e finanzia la sua
organizzazione.
Che è
il più grande che si occupa di rifugiati palestinesi.
Sanno
molto di quello che sta succedendo, quindi penso che sia importante parlare con
persone come lui".
“Bowen”
non prenderebbe mai in considerazione l'idea di introdurre un'intervista con “Benjamin
Netanyahu” in modo simile, anche se quanto segue sarebbe in realtà veritiero e
molto più meritato:
"La
Corte penale internazionale ha emesso un mandato d'arresto per il primo
ministro israeliano, accusandolo di crimini contro l'umanità. Ma sentivo che
era importante parlare con lui per una serie di motivi.
"Prima
di tutto, il governo britannico si occupa di lui e invia armi ai suoi militari
per compiere i crimini di cui è accusato.
Come suo leader, ovviamente sa molto di ciò
che Israele sta facendo, quindi penso che sia importante parlare con qualcuno
come lui".
Riuscite
a immaginare che la “BBC “abbia mai presentato Netanyahu in quel modo?
Certo, non si può, anche se, in termini
giornalistici, etici e legali, sarebbe pienamente giustificato.
Ma nel
caso dei “Lazzarini”, non ci sono assolutamente motivi per un racconto prologo
– se non quello di promuovere un'agenda israeliana pro-genocidio.
Le
osservazioni di Bowen suggeriscono che ha bisogno di spiegare perché, nel bel
mezzo di una carestia organizzata da Israele a Gaza, la “BBC “avrebbe scelto di
parlare con una delle figure pubbliche più informate su quella fama.
Il
ricorso di Bowen a una spiegazione dipinge immediatamente Lazzarini come
problematico e controverso.
Si allinea con la fusione completamente falsa di UNRWA
e Hamas da parte di Israele.
Anche
se le affermazioni di Israele sull'UNRWA fossero vere per il personale locale a
Gaza – e Israele non ha fornito alcuna prova che lo siano, come chiarisce
Lazzarini in un montaggio più lungo dell'intervista andata in onda su” Six
O'Clock News “della “BBC” – ciò non coinvolgerebbe in alcun modo Lazzarini.
Le sue osservazioni nell'intervista, sulle
catastrofiche sofferenze di Gaza, sono riprese da tutte le agenzie umanitarie.
Il
tono di scuse di Bowen non solo è servito a minare il potere di ciò che
Lazzarini stava dicendo, ma ha rafforzato le ridicole calunnie di Israele nei
confronti dell'UNRWA.
Questo
avrà deliziato Israele, e gli avrà dato un po' più di margine di manovra per
continuare a morire di fame a Gaza, anche se le prime voci dell'establishment
iniziano a chiedere tempo al genocidio – con 19 mesi di ritardo.
Si
noti questo anche da Bowen.
Chiede
a Lazzarini: "Quando la gente guarderà indietro a ciò che sta accadendo in
futuro, vedrà, in realtà, un grande fallimento internazionale?"
Lazzarini
risponde: "Penso che nei prossimi anni ci rendiamo conto di quanto ci
siamo sbagliati, di quanto siamo stati dalla parte sbagliata della storia.
Abbiamo, sotto la nostra sorveglianza, lasciato che si svolgesse un'atrocità di
massa".
Bowen
interviene: "Includeresti il 7 ottobre in questo?"
Lazzarini
risponde: "Includerei sicuramente il 7 ottobre".
Ma
l'impostazione di Bowen è del tutto ingiusta. Pone a Lazzarini una domanda sul
"fallimento internazionale" in relazione a Gaza, e Lazzarini risponde
sul fallimento dell'Occidente nel fare qualsiasi cosa per fermare un'atrocità –
più propriamente un genocidio – che si è svolta negli ultimi 19 mesi.
Gli
eventi del 7 ottobre 2023 sono irrilevanti ai fini di tale discussione. Non c'è
stato alcun "fallimento internazionale" nel sostenere Israele.
L'Occidente lo ha armato fino in fondo e ha dato la priorità alle sofferenze
causate agli israeliani dall'attacco di un giorno di Hamas rispetto alle
sofferenze incomparabilmente maggiori causate ai palestinesi da 19 mesi di
massacri e fama da parte di Israele.
La
domanda intromessa da Bowen sul 7 ottobre è una sciocchezza.
È
stata introdotta semplicemente per gettare ulteriori dubbi sulla buona fede di
Lazzarini nella speranza di placare Israele, o almeno di fornire alla BBC una
difesa quando Israele passerà all'offensiva contro Bowen per aver parlato con
l'UNRWA.
Le
atrocità perpetrate il 7 ottobre si sono verificate nel contesto di decenni di
brutale e illegale occupazione militare israeliana dei territori palestinesi,
di espansione degli insediamenti e di regime di apartheid, nonché di un assedio
di Gaza durato 16 anni.
La
comunità internazionale era certamente dalla "parte sbagliata della
storia", ma non nel senso che Bowen intende o che Lazzarini deduce dalla
domanda di Bowen. L'Occidente ha fallito perché non ha fatto assolutamente
nulla per fermare la brutalizzazione del popolo palestinese da parte di Israele
per tutti quei decenni – anzi, l'Occidente ha aiutato Israele – e ha quindi
garantito che i palestinesi di Gaza avrebbero cercato di evadere dal loro campo
di concentramento prima o poi.
Le
osservazioni di Lazzarini sulla catastrofe di Gaza dovrebbero essere viste come
ovvie. Ma Bowen e la BBC hanno minato il suo messaggio inquadrando lui e la sua
organizzazione come sospetti – e tutto perché Israele, uno stato criminale che
affama il popolo di Gaza, ha fatto un'accusa del tutto infondata contro
l'organizzazione che cerca di fermare i suoi crimini contro l'umanità.
Questo
è lo stesso schema di calunnie da parte di Israele che ha affermato che tutti i
36 ospedali di Gaza sono "centri di comando e controllo" di Hamas –
ancora una volta senza uno straccio di prova – per giustificare il
bombardamento di tutti, lasciando la popolazione di Gaza senza alcun sistema
sanitario significativo mentre la malnutrizione e la fama prendono piede.
Ieri
Israele ha colpito un altro ospedale, l'Ospedale Europeo di Khan Younis, mentre
i medici erano in attesa di evacuare i bambini malati e feriti. L'attacco ha
ucciso almeno 28 persone e ne ha ferite molte altre, tra cui un giornalista
freelance della BBC che stava conducendo un'intervista mentre i missili
colpivano.
In
particolare, BBC News su Ten ha oscurato il volto del suo giornalista,
aggiungendo: "Per la sua sicurezza, non riveliamo il suo nome". La
BBC non ha spiegato da chi il giornalista aveva bisogno di protezione, o
perché.
Questo
perché la BBC menziona raramente che Israele ha assassinato più di 200
giornalisti palestinesi a Gaza, oltre a vietare a tutti i corrispondenti
stranieri di entrare nell'enclave, nel tentativo di limitare la copertura delle
notizie e diffamare ciò che viene fuori come propaganda di Hamas. Israele
capisce che è più facile commettere un genocidio nell'oscurità.
Si
potrebbe pensare che una grande organizzazione giornalistica come la BBC
vorrebbe essere vista mostrare almeno un po' di solidarietà con coloro che
vengono uccisi per aver fatto giornalismo – alcuni di loro mentre lavoravano
per fornire notizie alla BBC. Ti sbaglieresti.
Non
dobbiamo fingere che sia stata una scelta di Bowen allegare un disclaimer così
vergognoso alla sua intervista. Capiamo tutti che è sotto un'enorme pressione,
sia all'interno che all'esterno della BBC.
I dirigenti
della BBC hanno nominato e protetto Raffi Berg, un uomo che pubblicamente
considera un amico un ex alto funzionario dell'agenzia di spionaggio israeliana
Mossad, per supervisionare la copertura mediatica dell'azienda.
E come
ha riportato il defunto Greg Philo nel suo libro del 2011 " , un redattore
della BBC News gli disse all'epoca: "Aspettiamo con timore la telefonata
degli israeliani". 14 anni dopo, la situazione è molto, molto peggiorata.
Le
scuse non si lavavano più. Siamo da 19 mesi in un genocidio. Aiutare Israele a
riciclare i suoi crimini significa diventarne complice. Nessun giornalista
dovrebbe permettersi di essere costretto a questo tipo di fallimento morale e
professionale.
L'intrepido
piano di Trump per abolire
completamente la libertà
di
parola in America.
Unz.com
- Andrew Anglin – (17 marzo 2025) – ci dice:
Mi
sono impegnato a essere onesto sul bene e sul male in cui l'amministrazione
Trump si sta impegnando.
L'enigma
che sto affrontando è che non c'è davvero molto di buono da indicare.
Tutta
questa faccenda è in una spirale mortale.
Trump
sta chiedendo che “Thomas Massie”, l'uomo che ho indicato come l'unico membro
degno del Congresso, sia nominato alle primarie e rimosso dal Congresso a causa
della sua mancanza di cieca devozione allo Stato di Israele.
Sta
prendendo il controllo delle università e ordinando loro di mettere a tacere
tutte le critiche a Israele tra il corpo studentesco, arrestando i titolari di
carta verde e deportandoli per aver lamentati dell'omicidio di massa di bambini
a Gaza, e dettando la politica universitaria, micro-gestendo non solo le loro
regole di protesta, ma anche il loro curriculum quando si lavorano di Israele e
delle questioni ebraiche.
È
andata così al di là di qualsiasi cosa che la "folla sveglia" di cui
i repubblicani hanno passato un decennio a lamentarsi lo ha fatto da essere
quasi incomprensibile.
Biden
non ha mai preso il controllo della Columbia e ha scritto il curriculum per
vietare le critiche alla “DEI”.
Se un
solo mi dice che non gli importa che un arabo venga deportato perché è arabo,
merita di essere trascinato fuori nel mezzo della piazza della città e di farsi
estrarre l'intestino da un Apache Brave, ci sono 250 milioni di immigrati in
America.
Avete
intenzione di sacrificare il Primo perché vi fa sentire bene espellere un
tizio?
Non
sei nemmeno umano.
Voglio
essere positivo. Ho combattuto più duramente di chiunque altro in questo paese
per far eleggere Donald Trump nel 2016.
Dimmi
in qualche modo chi ha combattuto più duramente.
Dammi
un nome.
Non potete inquadrarmi come una sorta di
piagnucolone anti-Trump. Ovviamente, sono stato critico nei confronti della sua
campagna "Israele First" del 2024 e ho detto chiaramente che si
trattava di un programma “Israel First”, ma speravo che ci sarebbero stati dei
lati positivi.
Quali
sono i lati positivi?
Sta
mandando in amministrazione controllata il programma di studi sul Medio Oriente
della Columbia.
Tutte
le università in America stanno guardando a questo, e tutti stanno al gioco.
Che
scelta hanno?
Marco Rubio sta prendendo il controllo del
sistema universitario statunitense per proteggere i sentimenti e la reputazione
degli ebrei. Quale possibile interpretazione positiva potresti dare a questo?
La
gente dice "oh, ma sta facendo anche delle cose buone". Vieni, cosa?
Non dirmi questo, e poi non fare esempi.
DOGE?
Guardate cosa sta facendo “DOGE”.
Dimmi
quali parti sono buone.
Sono
sicuro che puoi indicare qualcosa a caso, ma guarda la cosa nel suo insieme e
dimmi che è un beneficio netto.
Forse
la guerra in Ucraina, anche se l'ultima settimana non è stata particolarmente
impressionante.
In effetti, si tratta di una ritirata totale
dall'epico incontro di “Zelenskyj”.
In effetti, sembra che ci siano buone,
probabile che le cose tornino come al solito.
È
l'unico fronte su cui sono fiducioso, ma al momento in cui scrivo, è una farsa.
E
l'economia? Cosa sta succedendo? Capisco che ci voglia tempo, ma non è una
questione di poco conto.
Perché non è una priorità?
Perché
la priorità è prendere il controllo della Columbia e dare le primarie a “Thomas
Massie”?
Dimmi
le cose positive che stanno succedendo. Dammi una lista. L'USAID ha già
recuperato tutti i suoi soldi.
“Elon”
se la prende con “Medicare” e la “previdenza sociale”.
"Dategli
tempo" andrebbe bene se lavorasse a cose buone, ma a cosa sta lavorando?
A
sport femminili su una “DEI” totalmente inutile e a sciocchezze transgender?
Questa è solo una poltiglia emotiva per i
contadini, incapaci di comprendere il programma più ampio in atto.
Tutto
questo è ebraico e le ossa gettate ai sicofanti “fat-americani” non hanno
midollo.
Se
Trump stesse parlando di “BlackRock,” delle compagnie assicurative, dell'uso
dell'esercito per le deportazioni, e stesse solo lottando per riuscirci, si
potrebbe dire "dategli tempo".
Ma non
sta facendo niente di tutto ciò.
Sta
parlando di mettere al bando l'antisemitismo e di ripulire etnicamente Gaza.
Non
c'è praticamente una sola affermazione di questa amministrazione con cui mi
trovi d'accordo, a parte gli attacchi alle distrazioni woke, ritardate e
inutili.
Come
posso dare una svolta positiva a tutto questo?
Non è
una domanda retorica.
Di
cosa dovrei essere entusiasta?
Terre
rare e "reindustrializzazione."
Unz.com
- Hua Bin – (14 maggio 2025) – ci dice:
Di
solito, il “New York Times” non viene menzionato insieme al “Mining Journal” o
al “Northern Miner”, le riviste più importanti del settore minerario.
Ma tra
il 14 e il 17 aprile, il NYT ha pubblicato 5 articoli con i titoli sottostanti:
La
Cina sospende l'approvvigionamento di minerali essenziali mentre si intensifica
la guerra commerciale (14 aprile).
Cosa
sono le terre rare, l'export bloccato dalla Cina (15 aprile).
Come
la Cina ha preso il controllo dell'industria mondiale delle terre rare (16
aprile).
La
miniera è americana, i minerali sono cinesi (16 aprile).
Ecco
cosa sapere sui minerali delle terre rare e sulle energie rinnovabili (17
aprile).
Ad
aprile, il “NYT” ha pubblicato anche questi titoli:
“Elon
Musk “avverte: la carenza di magneti di terre rare potrebbe ritardare i “robot
di Tesla”.
Gli
Stati Uniti annunciano un accordo per condividere la ricchezza mineraria
dell'Ucraina.
Non
solo terre rare: gli Stati Uniti ricevono molti minerali essenziali dalla Cina
Il
blocco cinese dei minerali essenziali mette a rischio i programmi militari
statunitensi.
I
lettori potrebbero essere giustificati nel pensare che il” NYT” stia entrando
nell'arena normalmente riservata al settore” mining.com.”
È
significativo che dal 2 aprile, giorno della "liberazione", il “New
York Times” abbia pubblicato più articoli sui metalli delle terre rare che sul
potenziale dumping dei titoli del Tesoro USA da parte della Cina.
Il
NYT, da parte sua, non si è concentrato su frivole teatralità tipo "2
giocattoli invece di 30" durante la guerra dei dazi.
La vera carta vincente giocata dalla Cina è il
divieto di importazione di terre rare agli Stati Uniti.
In
breve, gli acquirenti statunitensi non potranno acquistare minerali di terre
rare dalla Cina, nemmeno se fossero disposti a pagare il dazio
"reciproco" del 145% (o qualsiasi cifra sia in un dato giorno).
Con questa mossa, la Cina sta colpendo la
giugulare.
Il
“New York Times” è consapevole dell'importanza centrale dei minerali delle
terre rare per la produzione manifatturiera “high-tech e militare statunitense”
(ne parleremo più avanti).
Chiaramente, ora che la Cina ha tagliato
l'accesso degli Stati Uniti alle terre rare, sviluppare questo settore è molto
più importante per l'economia e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti che
assemblare iPhone negli Stati Uniti – un fatto che sfugge naturalmente a geni
della finanza come “Miran”, “Navarro”, “Bessent” e “Lutnick”.
In
effetti, questa dovrebbe essere una priorità assoluta e un banco di prova per
la reindustrializzazione degli Stati Uniti, se il regime di Trump fa sul serio.
Ad esempio, senza terre rare, il tanto
decantato programma di caccia statunitense di sesta generazione F-47 sarebbe
destinato al fallimento.
Riusciranno
gli Stati Uniti a trasformare in realtà il sogno di una reindustrializzazione
nel settore cruciale delle terre rare, riducendo la dipendenza dalla Cina?
Cosa ci direbbe un caso di prova del genere
sulle loro prospettive di tornare a essere una potenza manifatturiera?
Approfondiamo
l'argomento.
Le
terre rare sono metalli grigio-argentei.
Ce ne
sono 17, che vanno dal lantanio (numero atomico 57) al lutezio (numero atomico
73), e la maggior parte di esse occupa una riga a sé stante nella tavola
periodica a causa della loro insolita struttura atomica.
A
proposito, Presidente Trump, la tavola periodica non va confusa con il ciclo
mestruale delle donne ("sangue che le esce da chissà dove").
La
disposizione degli elettroni conferisce loro proprietà straordinarie come la
luminescenza (utilizzata per gli schermi degli smartphone) e il magnetismo.
Vengono
spesso aggiunti ad altri metalli in piccole quantità per migliorarne le
prestazioni; i magneti con terre rare possono essere 15 volte più potenti di
quelli che ne sono privi.
Nonostante
il nome, le terre rare (REE) non sono particolarmente rare: sono solo difficili
da estrarre.
Questo
gruppo di 17 elementi si trova sulla crosta terrestre in molti luoghi del
mondo.
Ciò
che rende le terre rare speciali sono le loro proprietà uniche che le rendono
essenziali nella produzione high-tech.
Ecco un elenco incompleto di prodotti che
richiedono terre rare per essere realizzati:
Smartphone.
Semiconduttore.
Motore
aeronautico.
Veicolo
elettrico.
Turbina
eolica.
Robotica.
Cavo
in fibra ottica.
Missile
teleguidato.
Radar
ad alta frequenza.
Avionica
e sistemi di controllo del volo.
Rivestimenti
a barriera termica, sensori e ottici.
Drone
e razzo.
Occhiali
per visione notturna a infrarossi.
Laser
di precisione.
Guscio
del serbatoio perforante dell'armatura.
L'industria
delle terre rare sembra essere quella dominata dalla Cina:
Vantaggio
della riserva:
la
Cina blocca la quota maggiore della riserva globale di REE con il 37%, circa 44
milioni di tonnellate
Dominio
minerario: la Cina ha rappresentato 168.000 tonnellate su 240.000 di produzione
globale, rappresentando il 70% dell'estrazione totale di terre rare
Monopolio
della lavorazione e della raffinazione:
la
Cina domina circa il 90% della lavorazione globale delle terre rare,
trasformando i minerali grezzi in ossidi, metalli e magneti utilizzabili. Per
le terre rare pesanti come il terbio, l'itterbio e l'ittrio, il dominio della
Cina è assoluto al 100%.
Le terre rare pesanti (HREE) sono
particolarmente importanti nelle applicazioni ad alta tecnologia e militari (ad
esempio il rivestimento di motori a reazione).
Concentrazione
di produzione:
6
aziende statali controllano il 90% dell'industria delle terre rare in Cina,
come “China Norther Rare Earth” e “Shenghe Resources”.
Gli
impianti di raffinazione sono concentrati in 2 province: Mongolia Interna e Jiangxi
nel sud della Cina.
Dominanza
in ogni parte della catena di approvvigionamento: la forza della Cina nel
settore delle terre rare si estende dalle miniere, all'estrazione, alla
separazione, fino alla lavorazione e alla produzione di prodotti finali come i
magneti.
La
Cina possiede tecnologie proprietarie di estrazione, separazione e lavorazione
e sviluppa la maggior parte dei prodotti chimici, macchinari, utensili e
attrezzature specializzati.
La Cina possiede di gran lunga il più grande
pool di scienziati, ingegneri e tecnici specializzati nel settore delle terre
rare al mondo.
Controllo
sulla catena di approvvigionamento globale: come accennato, le terre rare si
trovano in molti luoghi, tra cui Vietnam, Australia, Myanmar e Stati Uniti.
Ma
anche le miniere non cinesi inviano minerali in Cina per la lavorazione, al
fine di acquisire know-how tecnico e strutture di lavorazione.
Ad
esempio, la miniera di “Mountain Pass in California” inviava la maggior parte
dei suoi minerali in Cina per la lavorazione prima della guerra dei dazi.
Competitività
in termini di costi e qualità: grazie all'ampia produzione e lavorazione di
terre rare (REE) in Cina, nonché al controllo sulle tecnologie chiave, i
produttori cinesi sono i più competitivi in termini di costi e qualità.
Sono i
produttori cinesi a dettare il prezzo delle “REE “sul mercato globale (che in
realtà è piuttosto basso rispetto a quello dei minerali più comunemente
utilizzati come litio, nichel o rame, data la natura di nicchia del prodotto).
L'esercito
americano fa affidamento sulle terre rare cinesi per produrre gran parte del
suo arsenale.
Secondo
un recente rapporto del CSIS, le terre rare sono essenziali per una serie di
tecnologie di difesa, tra cui i caccia F-35, i sottomarini di classe Virginia e
Columbia, i missili Tomahawk, i sistemi radar, i veicoli aerei senza pilota
Predator e la serie di bombe intelligenti “Joint Direct Attack Munition”.
Ad
esempio, il jet da combattimento F-35 contiene oltre 900 libbre di REE.
Un
cacciatorpediniere DDG-51 di classe” Arleigh Burke” richiede circa 5.200
libbre, mentre un sottomarino di classe Virginia ne utilizza circa 9.200
libbre.
Il
rapporto del CSIS ha fornito esempi come il modo in cui i jet da combattimento
statunitensi dipendono dalle terre rare di provenienza cinese sotto forma di
magneti e rivestimenti stealth, rivestimenti per motori.
Ad
esempio, l'ittrio è necessario per i rivestimenti dei motori a reazione ad alta
temperatura;
Tali
rivestimenti a barriera termica fonde sulle pale delle turbine impediscono ai
motori degli aerei dirsi durante il volo.
Nel
2022, il Pentagono ha temporaneamente sospeso le consegne di jet F-35 dopo che
Lockheed ha riconosciuto che una lega prodotta in Cina era in un componente del
jet, violando le regole federali di acquisizione della difesa.
Ma ha
dovuto esentare Lockheed e riprendere le consegne perché non è stato possibile
trovare un sostituto.
Il
Pentagono ha finito per violare le leggi statunitensi al fine di costruire armi
per combattere la Cina con parti provenienti dalla Cina.
Il
CSIS ha sottolineato che questo è simile a comprare proiettili dal tuo nemico
per combattere lo stesso nemico.
D'altra
parte, la maggior parte dei cinesi è arrivata a pensare che le aziende cinesi
che vendono tali minerali al complesso militare industriale degli Stati Uniti
debbano essere processate per tradimento. Ma questa è un'altra storia.
Secondo
“Govini”, una società di informazioni sull'acquisizione di armi nel settore
della difesa, l'inasprimento dei controlli sulle esportazioni di minerali
critici da parte della Cina potrebbe colpire più di tre quarti della catena di
approvvigionamento di armi degli Stati Uniti.
In un
rapporto intitolato "Dalla roccia al razzo: minerali critici e la guerra
commerciale per la sicurezza nazionale" (un breve documento di 11 pagine
facilmente reperibile online), Govini ha identificato 80.000 componenti di armi
realizzate utilizzando antimonio, gallio, germanio, tungsteno o tellurio, la
cui fornitura globale è dominata dalla Cina, "il che significa che circa
il 78 per cento di tutti i sistemi d'arma [del Pentagono] sono potenzialmente
interessati".
I
recenti divieti di esportazione e le restrizioni sui minerali essenziali
imposti dalla Cina hanno svelato un segreto di Pulcinella: nonostante la
retorica politica, gli Stati Uniti dipendono fondamentalmente dalla Cina per i
componenti essenziali dei loro sistemi d'arma.
Questi
materiali sono fondamentali per la produzione di equipaggiamento militare in
tutte le forze armate, dal 61,7% delle armi del Corpo dei Marines al 91,6% di
quelle della Marina.
Negli ultimi 15 anni, l'uso di questi cinque
minerali nelle armi statunitensi è aumentato in media del 23,2% all'anno,
secondo il rapporto.
Tra i
componenti chiave menzionati nel rapporto figurano l'uso dell'antimonio nei
sistemi di allarme missilistico a infrarossi del piano focale dell'F-35;
del
gallio nei radar avanzati AN/SPY-6;
del
germanio nei sistemi di rilevamento nucleare e nell'ottica a infrarossi del
missile Javelin;
del
tungsteno nei proiettili perforanti dei carri armati e del tellurio nei
generatori termoelettrici dei droni RQ-21 Blackjack.
Il
rapporto ha esaminato l'intero processo di produzione di 1.900 sistemi d'arma e
ha rilevato che la Cina è coinvolta nella maggior parte delle catene di
approvvigionamento, che vanno dall'82,4% nel caso del germanio al 91,2% del
tellurio.
Ha
detto che solo il 19% dell'antimonio necessario per i sistemi d'arma
statunitensi era disponibile al di fuori della Cina.
"Questa
forte dipendenza dall'antimonio raffinato in Cina non solo espone le catene di
approvvigionamento critiche della difesa a potenziali influenze politiche ed
economiche, ma può anche far aumentare i costi e ritardare i tempi di
produzione per le piattaforme militari statunitensi", ha aggiunto il
rapporto.
Ecco
una ripartizione dei sistemi d'arma statunitensi dipendenti da soli 3 REE
dominati dalla Cina (antimonio, gallio e germanio):
Parti”
DoD” che richiedono:
Antimonio:
6.335
Gallione:
11.351
Germanio:
12.777
Sistemi
d'arma interessati:
Marina
Militare: 501
Esercito:
267
Aeronautica
Militare: 193
Marines:
113
Guardia
Costiera: 1
Ci
sono 12.486 catene di approvvigionamento che supportano la produzione dei
1.000+ sistemi d'arma realizzati con antimonio, gallio e/o germanio.
L'87%
di queste catene di approvvigionamento (10.829) si affida a un fornitore cinese
a un certo punto.
Il
rapporto afferma: "il cerchio si sta chiudendo.
Anche
l'antimonio estratto in Australia diventa inutilizzabile per i sistemi
statunitensi poiché deve essere raffinato in Cina.
Il risultato: l'88% delle catene di
approvvigionamento di minerali critici del Dipartimento della Difesa è esposto
all'influenza cinese".
"La
dipendenza dell'America dalla Cina per i minerali critici rappresenta una
debolezza strategica evidente e crescente".
A meno
che non venga affrontata, questa debolezza potrebbe presto definire i limiti
della deterrenza degli Stati Uniti, non in dollari o in forza delle truppe, ma
in termini di scarsità elementare.
Dalla
pubblicazione del rapporto, i divieti di esportazione di Pechino si sono estesi
fino a includere tungsteno e tellurio. Più di recente, Pechino ha posto sotto
controllo le esportazioni di altri 7 metalli ad alta energia (HREE), tra cui
samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio.
Gli
Stati Uniti possono costruire un'industria delle terre rare?
Cosa direbbe questo caso di prova sulla sua
prospettiva di rilancio del settore manifatturiero?
Come
già detto, le terre rare sono reperibili in molti luoghi.
La
chiave sta nella capacità di estrarle e lavorarle.
Attualmente
negli Stati Uniti non esiste un'intensa attività di separazione e lavorazione
delle terre rare.
Secondo
il “New York Times”, la “MP Materials”, l'unica miniera di terre rare degli
Stati Uniti, è in grado di produrre su vasta scala (sia quella attuale che
quella pianificata) ciò che la Cina produce in un giorno.
È
chiaro che questo è un settore che gli Stati Uniti devono costruire. Per farlo,
è necessario passare attraverso una serie di passaggi:
Depositi
minerari prospettici (comprese le miniere fantasma che si dice siano in Ucraina
o Groenlandia).
Procedura
di autorizzazione e valutazioni ambientali poiché la produzione di terre rare
ha un impatto ambientale elevato, un processo che potrebbe richiedere molti
anni secondo le attuali normative.
Sviluppare
le tecnologie di estrazione, separazione e lavorazione come la lisciviazione
chimica dei minerali REE e l'estrazione con solvente.
Costruire
strumenti specializzati, prodotti chimici, macchinari e attrezzature.
Costruire
gli impianti e le strutture di lavorazione con le relative infrastrutture.
Sviluppare
una forza lavoro ingegneristica qualificata.
Proprio
come la catena di approvvigionamento dei semiconduttori in cui ASML e TSMC
dominano il processo di lavorazione e produzione, la Cina possiede la maggior
parte delle tecnologie, delle attrezzature e dei processi proprietari
nell'industria delle terre rare.
Le terre rare si trovano a monte della
produzione di semiconduttori come input chiave.
Come
mossa reciproca per il divieto dei chip che gli Stati Uniti hanno imposto alla
Cina, la Cina ha imposto le stesse restrizioni al flusso di tecnologie e
macchinari legati alle terre rare verso gli Stati Uniti.
Nel
dicembre 2023 la Cina ha imposto un divieto alle tecnologie di estrazione e
separazione delle terre rare. Ha avuto un impatto notevole sullo sviluppo delle
capacità della catena di approvvigionamento delle terre rare al di fuori della
Cina, poiché la Cina possiede competenze tecniche specializzate in questo campo
che altri paesi non hanno.
Ad
esempio, ha un vantaggio assoluto nelle tecniche di lavorazione dell'estrazione
con solvente per le terre rare, un'area in cui altri paesi hanno sfide sia
nell'implementazione di operazioni tecnologiche avanzate che nell'affrontare le
preoccupazioni ambientali.
Pechino
ha inviato un messaggio chiaro: mentre gli Stati Uniti potrebbero tentare di
tagliare fuori la Cina dai chip più avanzati e da altre tecnologie
all'avanguardia, la Cina potrebbe fare un ulteriore passo avanti tagliando la
catena di approvvigionamento a monte.
Anche
se gli Stati Uniti riusciranno a superare tali restrizioni e a sviluppare le
proprie tecnologie, il processo di costruzione delle fabbriche e delle
strutture richiederà anni, se non decenni. La sua competitività in termini di
costi e qualità con la Cina rimarrà un ampio differenziale, forse per sempre.
Nel
frattempo, il divario tra la Cina e il resto del mondo nell'estrazione e nella
raffinazione delle terre rare (REE) si sta ampliando.
A
marzo, è stata sviluppata una nuova tecnologia innovativa chiamata mining
elettrocinetico (EKM), guidata dai ricercatori dell'Istituto di Geochimica di
Guangzhou dell'Accademia Cinese delle Scienze, che aumenta l'efficienza di
estrazione al 95%, riducendo al contempo il consumo energetico del 60%,
l'agente di lisciviazione dell'80% e i tempi di estrazione del 70%.
È
importante sottolineare che, secondo il CSIS, in Cina ci sono decine di
università e istituti tecnici che offrono corsi di laurea in estrazione,
lavorazione ed estrazione di terre rare.
Il bacino di capitale umano per le terre rare
in Cina è enorme.
Al
contrario, negli Stati Uniti non esiste un solo corso di laurea universitario
che offra formazione tecnica nell'estrazione e lavorazione di terre rare.
Per
riassumere, è improbabile che gli Stati Uniti possano costruire un'industria
delle terre rare in grado di soddisfare le sue esigenze di alta tecnologia e
militari e competere con la Cina nel prossimo decennio.
Non può permettersi di interrompere le catene
di approvvigionamento globale senza mettere a pentimento le proprie ambizioni
economiche e tecnologiche.
Reindustrializzare
gli Stati Uniti può sembrare semplice per gli sviluppatori immobiliari di New
York o per i finanzieri di Wall Street. La cruda realtà è che non hanno idea di
come funzioni effettivamente l'industria.
In
effetti, la maggior parte degli americani si è disconnessa dalla produzione.
Non
capiscono davvero cosa richiede la produzione moderna. L'ambizione di risanare
l'industria americana è reale, ma gli strumenti su cui Trump si appoggia sono
radicati nell'economia e nella finanza (pessima economia e finanza), non
nell'industria.
Se gli
Stati Uniti vogliono davvero rilanciare il settore manifatturiero, devono
ricostruire l'intero ecosistema per sostenerlo.
Non si
tratta di ristrutturare un singolo settore, modificare una direzione politica o
potenziare una capacità specifica, né tantomeno di aumentare i dazi.
Innanzitutto,
dovrebbe costruire nuove fabbriche, acquistare attrezzature, formare i
lavoratori, realizzare infrastrutture di supporto e sviluppare processi
produttivi. Solo questo richiederebbe anni e genererebbe una produzione minima
o nulla all'inizio.
L'investimento
iniziale potrebbe facilmente ammontare a molti miliardi e verrebbe interamente
incluso nel costo finale.
E
questo presupponendo che abbiano il know-how per farlo.
Il “reshoring”
della produzione è un viaggio lungo e doloroso.
Richiede
il consenso di tutta la società, dal governo, alle istituzioni educative, alla
politica industriale e alle infrastrutture.
Significa
ricostruire le capacità su tutta la linea. Questo non è un progetto al termine
di 4 anni.
È un
impegno di 20 o 30 anni.
La
Cina ha attraversato la sua industrializzazione negli ultimi 40+ anni con una
pianificazione e un impegno governativo accurato e persistente.
E anche con questo, i risultati vanno a zig
zag a seconda del settore. Lo stesso semplicemente non accadrà oggi nel sistema
politico degli Stati Uniti.
Come
ho già scritto, l'ascesa della Cina come fabbrica globale non è casuale, ma
frutto di una meticolosa pianificazione industriale.
Prendiamo
ad esempio il piano Made in China 2025 (MIC25):
ci è voluto un decennio di investimenti e di
azioni concrete per raggiungere obiettivi quantificati e tangibili, stabiliti
per 10 settori industriali e con oltre 260 parametri specifici.
(huabinoliver.substack.com/p/revisiting-made-in-china-2025-mic25)
Per
dirla senza mezzi termini, al di fuori della Cina non esiste un livello di
capacità statale di pianificazione su larga scala e a lungo termine come
questo.
Dopo
aver perso contro la Cina nel capitalismo del libero mercato, Trump (e Biden
prima di lui) si è rivolto alla pianificazione statale per competere con la
Cina.
“
Chips Act”, “Inflation Reduction Act” o “Stargate”, possono sfoggiare slogan di
marketing fantasiosi, ma dubito che abbiano una capacità di resistenza.
Trump ha già distrutto gran parte di ciò che
Biden ha messo insieme.
Il
dominio delle terre rare in Cina è un ottimo esempio.
La
Cina ha raggiunto la pole position perché decenni fa ha pianificato di
controllare le parti più critiche della catena di approvvigionamento per la
produzione di fascia alta come veicoli elettrici, turbine eoliche, smartphone,
chip e hardware militare.
La
Cina può farlo perché i suoi leader nazionali e locali sono per lo più
ingegneri di formazione che comprendono l'importanza di tali bulloni e dadi
come le terre rare, le tecnologie di raffinazione/lavorazione e la loro
importanza per le industrie del futuro.
Ciascuno
degli ultimi tre leader in Cina aveva una laurea in ingegneria:
“Jiang
Zemin” con laurea in ingegneria meccanica presso l'”Università Jiaotong di
Shanghai”, “Hu Jintao” e “Xi Jinping” con lauree in ingegneria idroelettrica e
ingegneria chimica presso l'”Università Tsinghua”.
Semplicemente
non ci si può aspettare che politici formati come avvocati o finanzieri, che
non sanno nemmeno cosa sia una tavola periodica, hanno la capacità di prendere
tali decisioni.
Siamo
onesti: fare cose è molto più difficile che speculare sulle azioni o far
funzionare una macchina da stampa per piccoli pezzi di carta verde con i
ritratti dei presidenti morti.
L'accordo
minerario di Trump con l'Ucraina e l'auspicata annessione della Groenlandia
sono entrambi perseguiti con la speranza di ottenere giacimenti di terre rare,
che non sono provati in alcun modo.
Anche se Trump ottenesse i suoi accordi
minerari con l'Ucraina, annettesse la Groenlandia e avesse tutto l'accesso ai
giacimenti di terre rare, nessuna delle domande di cui sopra riguardanti la
tecnologia, i talenti e le dimensioni sarebbe risolta.
Il
caso delle terre rare illustra anche la differenza fondamentale tra la
pianificazione a lungo termine e quella a breve termine tra le aziende cinesi e
quelle statunitensi.
Le
imprese statunitensi si orientano al profitto a breve termine, mentre le
imprese statali cinesi si orientano agli obiettivi a lungo termine.
Per
settori come quello delle terre rare, che richiedono un lungo orizzonte di
investimenti, anni e decenni di sviluppo, le aziende statunitensi sono
intrinsecamente più propense a cedere terreno alla Cina.
Il
caso delle terre rare mostra che è improbabile che gli Stati Uniti siano in
grado di reindustrializzarsi in un settore molto critico, dove dipendono dalla
Cina.
Cosa
accadrebbe quando andasse in guerra con un avversario da cui deve procurarsi la
materia prima critica per la sua macchina da guerra?
Gli
Stati Uniti stanno progettando di entrare in guerra con la Cina, che non è solo
il loro banchiere (il più grande creditore) ma anche, in modo perverso, il loro
ultimo trafficante di armi.
Cosa
succede quando i soldi e le armi si fermano? Il regime di Trump può felicemente
consultare che con Vladimir "senza carte" Zelenskyj...”
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