Costruire una nuova società politica.

 

Costruire una nuova società politica.

 

 

 

Ragionare per costruire una

“nuova” politica –

 Giancarlo Infante.

   Politicainsieme.com – ( Oct. 18- 2024) – Giancarlo infante – ci dice

 

Cosa significa parlare di una “nuova” politica?

 Il tema cioè che affrontiamo a Roma domani, sabato 19 ottobre, insieme a numerosi rappresentanti di altri gruppi e associazioni che vogliono ragionale sulla possibilità di dare vita ad una “Alleanza popolare e democratica” che faccia della libertà e della solidarietà la doppia faccia di una sola medaglia di quel processo di trasformazione che deve interessare il Paese sotto il profilo istituzionale, sociale ed economico.

 

In primo luogo, significa superare la logica del bipolarismo in cui siamo finiti negli ultimi trent’anni e più.

Cominciando dai territori dove i contenuti programmatici fondamentali per rigenerare il Paese diventano la cifra concreta e coerente con cui riannodare i rapporti tra istituzioni, politica e popolo.

Negli oltre tre decenni vissuti dal nostro sistema politico abbiamo registrato tanti fenomeni di distorsione del quadro democratico.

Che riguardano gli equilibri istituzionali, lo snaturamento dei partiti, un profondo distacco del paese legale da quello reale.

 Come ci ricorda il continuo ripresentarsi dell’astensionismo, in crescita in qualunque tipo di consultazione elettorale.

La nostra democrazia appare sempre più gracile e malata.

 In coincidenza con l’affievolirsi di quelle voci che hanno nella loro tradizione una forte carica solidale.

Come quella popolare, ma non solo, perché una politica quasi esclusivamente basata su un sistema di “nominati”, di partiti sempre più guidati da ristretti circoli, e della logica della scelta per schieramento, ha di fatto tolto di scena anche le grandi culture del mondo liberale, repubblicano e socialista.

 

Non si tratta, pertanto, di pensare ad un mero posizionamento intermedio tra destra e sinistra.

Bensì, di costruire dal basso una vera e propria alternativa basata, come indicava il Manifesto Zamagni, su di un pensiero forte in grado di dare voce ad un progetto di autonomia che non significhi solitudine, ma, al contrario, una sfida sul piano di contenuti programmatici che, in questa fase vissuta dal Paese, richiamano, insieme e in forma coerente e compiuta, gli aspetti istituzionale, ossia il Premierato;

 l’organizzazione dello Stato e delle sue propaggini regionali e locali, vedi l’Autonomia differenziata;

i nuovi paradigmi economici e sociali da mettere in forte competizione con l’idea di un liberismo individualista, e la collegata finanziarizzazione dell’economia, rivelatisi negli ultimi decenni i più pericolosi fenomeni di destabilizzazione economica e sociale.

 

Ciò è a maggior ragione valido in un contesto internazionale che diventa sempre più complesso e che fa inopinatamente ritornare a diventare la Pace il bene più bene prezioso da coltivare, anche in una realtà come quella europea chiamata a rafforzarsi per superare le lacerazioni interne, provocate dalle spinte nazionalistiche che, a ben guardare, sono le vere cause di quei problemi denunciati dai populisti, e tornare, così, ad una politica internazionale fatta di dialogo e di collaborazione.

Anche per questo l’Italia ha la necessità di interrogarsi e operare sulle proprie condizioni di divisione e di smarrimento.

Cui si è pensato di rispondere con le varie forme di populismo succedutesi nel corso dell’ultimo decennio e che, oggi, ci fa trovare con il Governo più di destra, più divisivo e accentratore delle disparità sociali e regionali, che il nostro Paese abbia mai conosciuto.

 

Per reagire a tutto ciò c’è bisogno di una cultura politica “nuova” adeguata alla complessità del Paese e agli inediti equilibri in via di definizione nel mondo.

Sappiamo che la società italiana è percorsa da un grande fermento.

Quello ignorato dai grandi partiti e dal sistema dell’informazione.

E questo spiega quella fase di ascolto in cui sembrano tornare a coinvolgersi il mondo popolare e dell’impegno sociale in gran parte fatto, sì, di cattolici, ma anche da espressioni di altre culture politiche, come noi intenzionate a dare un senso costruttivo e di autentica trasformazione dell’impegno pubblico, e che, come noi, credono nel consolidamento delle istituzioni libere, democratiche e basate su di un reciproco rispetto dei loro distinti ruoli e competenze.

Siamo tutti consapevoli che abbiamo bisogno di consolidare le conquiste dell’Italia repubblicana raggiunte a caro prezzo, basate sulla coesione sociale, sulla partecipazione, sulla ricchezza delle vocazioni e specifiche articolazioni locali e, quindi, curando ed esaltando una politica fatta di vicinanza con le realtà territoriali.

 

Il ragionare assieme, su di una base paritaria, senza la precostituzione di uno schema imposto arbitrariamente dall’alto, serve anche per individuare, assieme, le forme concrete in cui, a partire dalla collaborazione nei territori, e pure, eventualmente, in un impegno elettorale da definire nei modi e nei tempi che, soprattutto, il contesto locale richiede, si possa cominciare ad indicare che la costruzione di una politica “nuova” è possibile.

(Giancarlo Infante).

 

 

 

 

“AI Overview”.

 Costruire una nuova società politica.

Costruire una nuova società politica significa creare un sistema politico che sia più inclusivo, partecipativo e che tenga conto delle esigenze dei cittadini. Questo può implicare riforme costituzionali, cambiamenti nei sistemi elettorali, aumento della partecipazione civica, e un maggiore rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali.

Ecco alcuni aspetti chiave per costruire una nuova società politica:

1. Riforme costituzionali:

Separatismo dei poteri:

Garantire una netta separazione tra legislativo, esecutivo e giudiziario per evitare abusi di potere.

Controlli e bilanciamenti:

Implementare meccanismi di controllo e bilanciamento tra i diversi rami del governo per prevenire la concentrazione del potere.

Cittadinanza attiva:

Promuovere la partecipazione dei cittadini alla vita politica attraverso strumenti come il referendum e il bilancio partecipativo.

Riforme elettorali:

Adottare sistemi elettorali che promuovano la rappresentanza proporzionale e riducano la possibilità di manipolazione del voto.

2. Aumento della partecipazione civica:

Educazione civica:

Implementare programmi di educazione civica a scuola per promuovere la conoscenza dei diritti e dei doveri dei cittadini.

Consigli di quartiere:

Creare strumenti di partecipazione diretta come i consigli di quartiere per permettere ai cittadini di contribuire alle decisioni locali.

Organizzazioni della società civile:

Supportare le organizzazioni della società civile che promuovono la partecipazione politica e la democrazia.

3. Rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali:

Diritto alla libertà di espressione:

Garantire il pieno rispetto per la libertà di espressione e la libertà di stampa.

Diritto di associazione:

Promuovere la libertà di associazione e la partecipazione dei cittadini alle organizzazioni politiche e civiche.

Diritto di voto:

Garantire il diritto di voto a tutti i cittadini in modo libero, equo e trasparente.

4. Trasparenza e lotta alla corruzione:

Accesso alle informazioni:

Garantire il diritto di accesso alle informazioni pubbliche e favorire la trasparenza nell'attività governativa.

Lotta alla corruzione:

Implementare misure per combattere la corruzione e promuovere l'integrità nella vita politica.

Costruire una nuova società politica è un processo complesso e richiede la collaborazione di tutti gli attori politici e civici. Solo attraverso un impegno comune si potrà realizzare una democrazia più inclusiva, partecipativa e rispettosa dei diritti fondamentali dei cittadini.

 

 

 

Donald Trump e la fine della “democrazia

 esportata”: il tramonto

del sionismo americano.

  Lacrunadellago.net – (15/05/2025) – Cesare Sacchetti – ci dice:

 

A Riyadh hanno fatto davvero le cose in grande.

Non appena il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha messo piede nell’aeroporto della capitale saudita, per firmare l’accordo sulla vendita di armi e di investimenti sauditi negli USA per un valore pari a 600 miliardi di dollari è stato accolto da un interminabile tappeto viola che nelle tradizioni locali significa regalità, magnificenza e abbondanza.

La camminata di Trump assieme a Mohammed bin Salman, l’erede al trono saudita è stata immortalata.

 

Il regno saudita mostra tutto il rispetto possibile per il presidente americano e sembra passato un secolo quando “Joe Biden” non riusciva nemmeno a parlare al telefono con l’erede al trono, Mohammed bin Salman.

La presidenza di Joe Biden un giorno andrà davvero studiata meglio perché mai prima d’ora si era visto un atteggiamento simile da parte delle varie cancellerie internazionali che snobbavano senza pudore alcuno quello che sulla carta era il presidente degli Stati Uniti, ma che nella pratica non sembra esserlo mai stato, soprattutto alla luce di quanto sta facendo emergere Trump che parla di molte firme invalide da parte dell’ex inquilino della Casa Bianca.

 

La storia adesso è completamente diversa.

Il mondo sa chi è il comandante in capo, e i sauditi per primi non hanno alcun dubbio al riguardo.

Si ritorna da dove si era partiti dunque, quando nel 2016 Donald Trump allora accompagnato da sua figlia Ivanka e suo marito,” Jared Kushner”, allontanato da Trump per la sua vicinanza a Israele, erano atterrati a Riyadh per iniziare a tessere il filo delle relazioni mediorientali dell’amministrazione Trump, ma all’epoca l’Arabia Saudita attraversava una fase geopolitica molto diversa e soprattutto Trump era appena agli inizi di un suo piano che prevedeva il graduale divorzio degli Stati Uniti dello stato di Israele.

 

Dopo aver visitato l’Arabia Saudita allora, Trump si recò in visita allo stato ebraico, mentre in questa occasione il presidente è giunto in Medio Oriente senza nemmeno fermarsi presso lo storico “alleato” americano.

È un cambio radicale del paradigma della politica estera americana che per più di mezzo secolo è stata saldamente nelle mani dei vari gruppi di pressioni ebraici e sionisti.

La politica degli Stati Uniti è ora nelle mani del mondo ebraico.

Non c’era foglia un tempo infatti che non si muovesse in Medio Oriente che non volesse non tanto Washington, ma Tel Aviv.

La superpotenza americana si è ritrovata ad essere suo malgrado non come una repubblica sovrana padrona del suo destino, ma piuttosto come un potentissimo conglomerato politico, economico e militare che veniva utilizzato contro i vari avversari dello stato ebraico.

 

Non è esistita difatti per 80 anni una geopolitica americana, ma una israeliana che ha agito sin dal primo momento della nascita dello stato ebraico voluto dal filosofo sionista, “Theodor Herzl”, come un garante ed un esecutore della volontà israeliana in Medio Oriente.

I politici che provarono ad opporsi a questa condizione di sottomissione dell’America verso Israele sono stati tutti via via estromessi, e alcuni sono morti in circostanze mai realmente chiarite.

 

È toccata simile sorte, ad esempio, a “James Forrestal”, ex segretario alla Marina degli Stati Uniti, che sul finire degli anni’40 espresse tutta la sua contrarierà alla creazione dello stato di Israele che a suo dire avrebbe sconvolto completamente i fragili equilibri con gli altri Paesi del Medio Oriente e compromesso i rapporti di Washington con il mondo arabo.

“Forrestal” non fece in tempo a fare la sua denuncia che l’allora presidente Truman, altro sodale della massoneria, lo estromise dalla sua amministrazione per poi lasciarlo rinchiudere in un ospedale psichiatrico fino ad arrivare all’epilogo del presunto suicidio dell’ex segretario americano, probabilmente invece ucciso per le sue scomode posizioni.

(James Forrestal: foto).

Stessa sorte toccò a John Fitzgerald Kennedy, la cui famiglia aveva una lunga storia di contrapposizione agli interessi del mondo ebraico, già quando suo padre, “Joe”, il capostipite della famiglia, si scontrò con i signori della “mafia ebraica”, “Meyer Lanksy” su tutti, per gli interessi sul commercio clandestino di alcol ai tempi del proibizionismo.

 

JFK aveva ricevuto una chiara lezione da suo padre Joe.

Sapeva che la lobby sionista ed ebraica era diventata una potentissima forza e sapeva anche che le famiglie che avevano in mano la banca centrale americana dal 1913 in poi erano quelle dei “Warburg”, dei” Rockefeller”, dei “Vanderbilt”, degli “Schiff” e dei “Kuhn & Loeb”, ovvero i vari signori della finanza askenazita che erano divenuti i padroni assoluti del capitale negli Stati Uniti.

 

Sapeva anche bene “John” che Israele difficilmente sarebbe venuta a miti consigli.

John già dai tempi della sua ascesa in politica, quando divenne senatore per lo stato del Massachusetts, aveva degli stretti rapporti con un imprenditore di origini ebraiche quale “Benjamin Freedman” che fino a qualche decennio prima era un convinto falco sionista fino a trovare poi la strada della conversione al cattolicesimo che lo rese un acerrimo nemico e una figura da cancellare dalla storia americana.

(Benjamin Freedman: foto).

 

Raramente infatti si trovano biografie o citazioni negli organi di stampa su questo vero e proprio pentito del sionismo americano poiché soltanto raccontare la sua storia sarebbe come a dire che non esiste alcun “complotto antisemita” riguardo alle intenzioni di Israele di costruire un suo impero in Medio Oriente, ma soltanto una realtà oggettiva ed effettiva rivelata da coloro che appartenevano e appartengono tuttora a quel mondo.

Kennedy, com’è noto, non fece in tempo a recidere i fili che legavano gli Stati Uniti ad Israele.

Sulla Dealey Plaza” di Dallas, in Texas, veniva ucciso a colpi di arma da fuoco da coloro che volevano impedirgli di fermare il programma nucleare israeliano che avrebbe dato allo stato ebraico una bomba atomica e la possibilità un domani di provocare un vero e proprio olocausto nucleare contro i Paesi arabi “nemici” di gran lunga più devastante dei crimini commessi dalla presidenza Truman contro i civili di Hiroshima e Nagasaki, una città quest’ultima sede di cattolici giapponesi a dimostrazione che lo stato profondo di Washington voleva sterminare questi in particolar modo.

 

Gli Stati Uniti così continuarono ad essere i fedeli vassalli dello stato ebraico.

A prendere il potere dopo Kennedy fu “Lyndon Johnson”, il quale a distanza di anni è stato confermato essere uno dei vari cospiratori che partecipo all’omicidio del “suo” presidente.

 

Kennedy non aveva stima alcuna per Johnson.

 Gli fu imposto più che altro per logiche di equilibri interni, e Johnson a sua volta ricambiava il disprezzo per i fratelli Kennedy, tanto da apostrofarli come “figli di puttana” il giorno prima dell’omicidio di JFK, come rivelò la ex amante di Johnson, Madeleine Duncan Brown, che ammise che il vicepresidente sapeva che il 22 novembre del 1963 Kennedy sarebbe stato giustiziato.

 

“Johnson”, nemmeno a dirlo, è stato un formidabile alleato, o servo, dello stato ebraico, come ammettono i vari quotidiani israeliani che lo definiscono come uno dei presidenti americani più sionisti della storia.

Non c’è da sorprendersi che lo descrivano in tali termini, se si pensa che Johnson fu quel presidente che nel 1967 lasciò uccidere da Israele 34 marinai americani a bordo della nave USS liberty, bombardata dagli aerei israeliani che avevano in programma di dare la colpa dell’attacco all’Egitto così da trascinare l’America in un’altra guerra voluta da Israele.

La USS Liberty dopo aver subito l’attacco da parte dei caccia israeliani.(Foto).

Nixon, il successore di Johnson, era un uomo molto conscio che esisteva tale problema negli Stati Uniti e nelle sue conversazioni nel 1972 con uno dei suoi consiglieri, l’evangelista Billy Graham, affermava esplicitamente che gli ebrei costituivano un problema per via della loro infedeltà verso gli Stati Uniti, ma il presidente nulla riuscì a fare al riguardo.

 

Billy Graham e il presidente Nixon parlano molto della questione sionista ed ebraica.

Si ritrovò schiacciato nel 1973 dalla montatura del Watergate, orchestrata dal suo segretario di Stato, Henry Kissinger, falco sionista e membro di tutti i club del mondialismo che contano, tra i quali il Bilderberg, la Trilaterale e il club di Roma.

Arrivano così gli anni’90 e 2000, gli anni nei quali vengono eseguiti gli attentati terroristici sui quali si trovano non poche impronte dello stato di Israele, a partire da quelle dei cinque agenti del Mossad che esultavano estasiati davanti al crollo delle torri gemelle, e a partire da quelle della società israeliana che minò gli edifici caduti con degli esplosivi nei mesi precedenti.

Inizia l’era del terrore in Medio Oriente. Inizia l’era della “democrazia esportata”.

A Washington ci sono i pericolosi neocon come “Paul Wolfowitz”, “Dick Cheney”, “John Bolton” e “Donald Rumsfeld” che sono i veri padroni dell’amministrazione Bush, mero esecutore del programma scritto per lui dalla lobby sionista americana e da quella setta “Chabad Lubavitch” che aspira ardentemente alla venuta del “moschiach “e dell’inizio del “Nuovo Ordine Mondiale”.

Si esegue in pratica il programma rivelato nel 2007 da un falco del Pentagono come il “generale Wesley Clark “che disse in quell’occasione che Washington aveva intenzione di scatenare guerre a sette Paesi quali l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria, la Somalia, l’Iraq, il Sudan e il Libano.

Esiste l’intervista del generale Wesley Clark.

Non esisteva alcuna logica geopolitica dal punto di vista americano nel fare guerra a quei Paesi, ma la logica era soltanto quella dello stato di Israele che voleva disfarsi dei suoi “nemici” e iniziare a poco a poco ad annettere le parti dei suoi vicini alla ricerca del “sogno” imperiale della “Grande Israele”, come negli ultimi tempi ha ribadito il ministro delle Finanze, “Smotrich,” che senza troppi pudori ha ammesso che i confini di Israele devono giungere fino a Damasco.

 

L’era Trump e la fine del sionismo americano.

La venuta di Donald Trump è quell’evento che cambia la storia e crea un’America del tutto diversa da quella conosciuta dalla seconda guerra mondiale in poi.

Washington torna alle sue radici.

Non più potenza imperiale cuore della devastazione mondiale, ma repubblica sovrana, indipendente, del tutto simile all’America lasciata in eredità da Abraham Lincoln, ucciso da “William Booth”, uomo legato alla massoneria e vicino al casato dei banchieri di Francoforte, i “Rothschild”.

 

Sin dal primo momento, Trump ha mostrato una particolare astuzia e abilità politica nei riguardi dello stato di Israele, al quale ribadiva la sua “amicizia” attraverso varie dichiarazioni di stima, disattese però dalla sua geopolitica in Medio Oriente che sin dal primo momento ha ordinato il ritiro delle truppe americane dai Paesi arabi.

Trump si è confermato alquanto astuto. Conosce bene la storia degli Stati Uniti.

Sa quali sorti sono toccate ai vari presidenti che hanno sfidato Israele, e sapeva che per avere la meglio su questa forza era necessario dissimulare le sue vere intenzioni attraverso attestati di stima formali che prima o poi avrebbero comunque portato ad attriti con Israele, una volta che il presidente avesse iniziato a lasciare il Medio Oriente.

 

Già nel 2019, il presidente americano aveva dichiarato la sua intenzione di lasciare la Siria, e due anni dopo, all’alba della frode elettorale ai suoi danni, il primo a riconoscere Biden come presidente è stato proprio Netanyahu che sperava ancora una volta di avere il presidente americano dalla sua parte.

Il divorzio definitivo tra Stati Uniti ed Israele.

 

Non appena ha avuto inizio il secondo mandato di Trump, c’è stata l’inevitabile incrinatura dei rapporti tra i due.

Il presidente americano ha iniziato a trattare unilateralmente con Teheran senza cercare alcuna approvazione da parte degli israeliani che sono andati su tutte le furie e sono rimasti completamente spiazzati dalla determinazione di Trump.

A nulla sono valsi i tentativi del consigliere della sicurezza nazionale, “Waltz”, di sabotare l’agenda del presidente americano che non appena saputo che il suo consigliere era all’opera per cercare un’altra guerra con l’Iran lo ha prontamente spedito a New York a ricoprire il ruolo di ambasciatore presso l’ONU, nella ennesima applicazione pratica della massima latina” promoveatur ut amoveatur”.

Secondo il giornalista americano “David Railly,” Trump avrebbe anche deciso di chiudere le porte della Casa Bianca alla “famigerata lobby israeliana dell’AIPAC,” che sin dalla sua esistenza è stata una forza decisiva non solo nello scegliere i presidenti degli Stati Uniti, ma nell’indirizzarne fedelmente le loro politiche.

 

Stessa musica per quello che riguarda un altro “nemico” di Israele, gli agguerriti “Houthi” che hanno creato non pochi problemi allo stato ebraico il quale si lamentava già prima dello scarso sostegno americano contro la milizia yemenita.

A Tel Aviv sembrano essere pertanto giunti ad una conclusione inevitabile.

Il sostegno di Trump non va oltre le parole, e nei fatti si vede poco o nulla, salvo quella dichiarazione di riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana, che tra l’altro non è mai stato nemmeno completato poiché l’ambasciata americana è ancora oggi a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme.

 

Il presidente americano è dunque un vero e proprio “unicum”.

 

È il primo capo di Stato americano dal’45 che riesce finalmente a portare avanti una propria geopolitica in Medio Oriente che non sia quella voluta da Israele.

Il divorzio era di conseguenza inevitabile e questo spiega perché sia nella frode elettorale del 2020 sia nel tentativo di omicidio di Trump dello scorso luglio ci sia la presenza dei vari fondi di investimento legati alla lobby sionista, come ad esempio il “fondo Austin”, che il giorno prima che “Thomas Crooks”, il 20enne di origini ebraiche studente di” BlackRock”, sparasse contro la testa del presidente e scommetteva somme da capogiro contro la società di Trump, ben consapevoli che qualcosa di grave potesse accadere.

 

È a sua volta consequenziale l’assalto mediatico degli organi di (dis) informazione americana nelle mani di sei gruppi tutti integrati nel mondo sionista, a dimostrazione che la campagna disinformativa della falsa controinformazione che si è impegnata in ogni mondo a dimostrare che Trump è una marionetta di Israele altro non è che una grossa menzogna fabbricata proprio da quegli ambienti ostili a Trump.

Viene quasi da sorridere se si pensa alla disfatta dei vari falsi contro-informatori che affermavano che Trump fosse nelle mani dei “coniugi Adelson”, famigerati magnati del sionismo, che da sempre finanziano il partito repubblicano, indipendentemente da Trump, e che oggi si vedono negare al telefono proprio dal presidente americano.

(I coniugi Adelson: foto).

 

Trump non risponde a nessuno. Non è un presidente a noleggio. Non è George W. Bush nelle mani dei neocon, né tantomeno è Barack Obama, il premio “nobel per la pace” che si dava da fare per mettere a ferro e fuoco il Medio Oriente attraverso il suo sostegno all’ISIS, creatura dei sauditi e di Israele.

L’Arabia Saudita: da alleato di Israele fa parte ora del mondo multipolare.

Il miracolo più significativo che Trump ha compiuto è stato forse proprio questo.

Ha stabilito una nuova alleanza con l’Arabia Saudita, la creatura del sionismo, che da potenza destabilizzante del mondo arabo ha scaltramente saltato lo steccato ed è passata con il mondo multipolare negli ultimi anni.

Soltanto 7 anni addietro, Riyadh era impegnata nel massacro della popolazione civile yemenita e nel combattere gli Houthi, la milizia vicina all’Iran, perché i sauditi non stavano seguendo un’agenda politica che facesse gli interessi del loro Paese, ma piuttosto quella di Israele.

Non va dimenticato che Mohammed bin Salman, l’erede al trono, è stato il primo principe ereditario saudita a visitare Israele, a dimostrazione di quanto i rapporti tra lui e Tel Aviv fossero stretti.

(Mohammed bin Salman: foto).

 

Oggi tra Riyadh e Tel Aviv c’è il gelo.

L’Arabia Saudita ha iniziato una nuova fase di distensione con Teheran, tanto che poco prima di ricevere Trump a Riyadh, i dignitari sauditi si incontravano con il ministro degli Esteri iraniano, a conferma di una fase nuova, del tutto diversa nella storia dei due Paesi che soltanto nel 2019 erano su fronti opposti.

La storia sta cambiando veramente in fretta, ad una velocità incredibile se si pensa che nel giro di poco più di un quinquennio stanno venendo meno equilibri e assi che duravano da 80 anni.

Il caso saudita resta probabilmente il più clamoroso.

La culla del wahabismo e del terrorismo islamico benedetto da Israele e dallo stato profondo di Washington che dopo l’era Trump e dopo l’avvento del multipolarismo inizia a diventare una potenza regionale che non vuole più destabilizzare i suoi vicini, ma cerca piuttosto di convivere pacificamente con essi, come visto con la guerra nello Yemen, iniziata e terminata da bin Salman, e come visto con la nuova politica di avvicinamento verso Teheran.

 

In altre parole, Trump ha costruito un risiko mediorientale del tutto nuovo.

Non esistono più gli Stati Uniti che bombardano indiscriminatamente i Paesi arabi per compiacere lo stato ebraico dietro il paravento della esportazione della democrazia, il paradigma al quale il mondo Occidentale liberale è ricorso per anni pur di portare avanti la sua agenda imperialista e globalista.

 

Gli Stati Uniti sono quel Paese che oggi va in Arabia Saudita e condanna quei bombardamenti indiscriminati fatti da uomini come George W. Bush e Barack Obama, fedeli emissari e rappresentanti della lobby sionista e della governance globale della quale Washington era portavoce.

Trump oggi dichiara che non può esistere una pace stabile e duratura che non passi dall’esplicito riconoscimento e rispetto delle sovranità e culture nazionali che non possono essere certo sostituite dal modello liberal-democratico nelle mani di vari potentati bancari e industriali, che oggi tra l’altro si trovano sempre più in difficoltà anche nell’Unione europea, l’ultima debole roccaforte rimasta nelle mani dei decaduti signori del mondialismo.

Si inaugura così una nuova era.

Non poteva iniziare l’era di un’America finalmente libera e sovrana senza prima passare dall’esautoramento della sua dipendenza da Israele.

L’ultimo storico passo sarebbe il riconoscimento dello” Stato palestinese da parte degli Stati Uniti”, una ipotesi che è trapelata nei giorni scorsi e che Trump starebbe seriamente prendendo in considerazione.

 

Lo stato ebraico così si ritrova solo e debole.

Non ci sono più gli Stati Uniti dalla loro parte, tantomeno i sauditi che ormai pensano alla esclusiva tutela dei loro interessi nazionali.

A Tel Aviv, qualcuno ancora parla della necessità di invadere militarmente Gaza, scenario fortemente condannato da Trump che attraverso il suo segretario di Stato, Rubio, ha espresso la sua forte opposizione a qualsiasi piano per espellere i palestinesi da Gaza.

Se Israele vorrà veramente seguire tale strada in una condizione di assoluto isolamento e senza il supporto degli Stati Uniti, non è escluso che possano esserci futuri incidenti tra israeliani e americani proprio nella striscia di Gaza.

 

A Tel Aviv, sembrano essere in preda ad una delirante febbre imperialista.

Sembra che non vogliano riconoscere il fatto ormai che lo stato ebraico ha perduto le protezioni di un tempo, e sembra che non vogliano ammettere che oggi Israele fa i conti con una strisciante guerra civile dentro i suoi servizi e dentro il suo apparato militare, nei quali ci sono fazioni che vorrebbero mettere un freno a questa folle corsa alla “Grande Israele”.

Non è chiaro cosa voglia fare davvero Israele, ma a Tel Aviv sono avvisati.

Stavolta alla Casa Bianca non c’è Lyndon Johnson.

C’è Donald Trump, e se Israele metterà a rischio la sicurezza degli Stati Uniti, ci sarà una probabile risposta.

Se qualcuno soltanto 10 anni fa avesse detto che un giorno Israele e Stati Uniti sarebbero giunti a questo punto, sarebbe stato preso per folle.

Ecco dove si è arrivati nel tempo contemporaneo. Ecco dove ha portato il mondo multipolare e la fine del mondialismo.

È la fine degli imperi, degli imperialismi e dell’illimitato potere del sionismo.

È il prepotente ritorno della difesa della sovranità nazionale.

 

 

 

Costruire possibili nuovi

 percorsi politici.

  Argomenti2000.it - Giovanni Santarelli – (2 Gennaio, 2023) – ci dice:

 

Vedo – e vivo – lo spaventoso sfacelo di questo Paese (Ungheria ndr), la sua evoluzione verso una paranoia suicida.

Giorno dopo giorno, i campioni nazionali dell'odio e i miei ricordi personali mi rendono estraneo a esso.

 Cresce la mia indifferenza nei suoi riguardi.

La lingua – ecco l'unica cosa che mi lega a questa terra.

La mia lingua madre, nella quale comprendo i miei assassini...".

“Imre Kertész”, premio Nobel della Letteratura (Budapest 1929-2016).

Tratto da” Io, un altro”.

 Cronaca di una metamorfosi, Bompiani 2016.

Premessa.

Dover fare i conti, a 100 anni dalla marcia su Roma, con un governo la cui provenienza politica e culturale ha forti richiami con quel periodo storico, che speravamo di aver definitivamente messo alle spalle, pone serie considerazioni sul senso ormai acquisito da più parti della fine del modello di democrazia liberale nata dalla resistenza.

 

Sappiamo anche bene che la questione non sta tanto nel pericolo del ritorno a quelle forme di dittatura che negli anni ’30 avevano coinvolto (o meglio “sconvolto”) una gran parte dei paesi europei, ma nella crisi della democrazia rappresentativa su cui il nostro paese ha costruito la propria carta costituzionale e su cui qualche anno dopo è iniziata la costruzione del modello di unione europea, ma nell’avanzare di nuove ipotesi di organizzazione istituzionale e di convivenza civile le cui caratteristiche sono ancora difficili da delineare, ma che si muovono ai limiti delle garanzie democratiche acquisite.

 

I criteri di analisi non possono non tenere conto infatti della particolarissima situazione che stiamo vivendo in una fase che, citando “Papa Francesco”, non possiamo non definire di “cambiamento d’epoca”.

 

Il problema quindi oggi, per chi tenta delle analisi su cui poi costruire possibili nuovi percorsi politici, ma anche esistenziali, è quello di tenere presente alcuni paradigmi “macro” da cui partire per capire il contesto in cui ci stiamo muovendo (un contesto mai verificatosi prima d’ora in queste modalità), partendo però anche da alcuni elementi “micro” in grado di aiutarci non solo a leggere, ma anche ad agire senza perderci troppo nella complessità della svolta di cui non vediamo ancora gli esiti.

Quali sono allora i paradigmi su cui leggere i processi di cambiamento in corso che, secondo alcuni ci stanno portando allo “scivolo che conduce alla fine”?

 Il sommarsi di crisi climatica, energetica, epidemica, economica, bellica come mai era avvenuto prima assieme a fenomeni quali la denatalità in occidente, l’indebolimento delle democrazie tradizionali (liberali), il collasso delle istituzioni (e quindi anche dei partiti che ne costituivano l’asse portante) ha portato a conseguenze importanti anche ad un livello più propriamente sociale visibili nel prevalere della logica conflittuale frutto delle diseguaglianze che hanno messo uno contro l’altro i “poveri” da una parte e i “più poveri” dall’altra.

 Sono questioni che riguardano un Occidente”, come lo avevamo pensato, in crisi che non può che ripensare sé stesso.

 

Già più di dieci anni fa “Marco Revelli”, allora presidente della “commissione d’indagine sull’esclusione sociale (Cies)”, così commentava il rapporto allora appena pubblicato:

 “Il risentimento sembra diventato costume nazionale, la principale cifra del rapporto reciproco con l’altro.

Un rancore acre, sordo, neppure tanto sommerso, che talvolta si fa esplicitamente ferocia verso il basso, là dove la società è più fragile” …

“Giorno dopo giorno, impercettibilmente, il senso comune del paese si è trasformato … L’impressione – prosegue – è quella di una regressione civile parallela e in qualche modo connessa a una coeva gestione sociale”.

 

Inutile dire che su questi processi hanno poi giocato la ricerca di consensi da parte delle forze più populiste e reazionarie del paese che nel frattempo stavano salendo.

Queste dinamiche non sono state capite dal centro sinistra, o almeno non abbastanza, il quale ha preferito schierarsi su fronti più lontani da queste logiche di attenzione alle diseguaglianze per fermarsi a forme di “riformismo di mediazione” disponibile a raccogliere dentro di sé anche dinamiche neoliberiste in una fase di globalizzazione priva di controllo politico.

Dal 2008 (crisi economica) ad oggi si è sviluppato un “conflitto per molti versi nuovo, “orizzontale”, tra poveri (per gran parte classi medie impoverite) o di chi teme l’impoverimento contro altri poveri, “più poveri” alla ricerca di un qualche risarcimento facile.

 

Potrebbe essere tutto questo alla base del fallimento delle democrazie liberali e paradossalmente proprio di quel modello culturale a cui noi stessi abbiamo fatto e continuiamo a fare riferimento e cioè il cattolicesimo democratico da una parte e il riformismo della sinistra socialdemocratica dall’altra?

 Il nostro posizionamento politico, da cui osserviamo ciò che ci circonda, è forse esso stesso causa ed effetto di una crisi da “cambiamento d’epoca” che fatichiamo quindi a leggere da posizioni nuove così come necessiterebbe?

 Vale anche per il cattolico impegnato in politica l’indicazione di “Papa Francesco” fatta alla chiesa universale di evitare il “si è sempre fatto così” e il suo conseguente invito a mettersi in ascolto?

 

Da dove partire allora?

Alla luce di tutto questo mi sono fatto alcune ipotesi di lettura partendo, come dicevo, da questioni “macro” calandole però su alcune conseguenze “micro” verificabili in alcuni settori delle politiche pubbliche di mia maggiore conoscenza riferiti soprattutto al versante delle politiche del welfare.

Questioni con cui dobbiamo fare i conti:

Democrazia liberale, democrazia illiberale, democrazia del merito o nessuna di tutte queste?

Cioè: se l’attuale destra non è qualificabile come fascista, ma può trovare maggiore riferimento a forme più vicine al modello “urbanista” col quale operare un passaggio dalla democrazia liberale ad un sistema di cosiddetta “democrazia illiberale” da proporre come nuovo modello anche europeo di “sovranismo, come reagire?

Come parlare di uguaglianza sociale in un contesto di post modernità?

 Se pare essere entrata nella mentalità comune l’idea della inevitabilità dell’essere diseguali, come dare senso e consenso a nuove forme di lotta alle diseguaglianze?

Vale ancora la pena di parlare di “partecipazione” della società civile e dei cosiddetti corpi intermedi in ordine a decisioni che riguardano presente e futuro delle nostre vite o siamo destinati alla frammentazione degli interessi e alla impossibilità di fare sintesi democratiche?

 Come reagire con credibilità a chi ritiene tutto questo un inutile tempo perso contribuendo a dare stabilità ad un rapporto diretto tra leader e popolo?

Si all’Europa, ma quale?

Ventotene o Visegrad?

 

Questi sono i punti “macro” che mi sono sembrati oggi i più critici, e sui quali ho provato a ragionare partendo da alcuni esempi concreti a partire dai quali costruire possibili “politiche differenti” che possano caratterizzare un fronte che voglia non solo contrastare la destra, ma creare elementi nuovi di azione politica?

Elementi però che partano, come vedremo, dal paradigma della “fragilità” intesa come elemento di crescita e di sviluppo inclusivo?

I documenti di riferimento sono il programma elettorale di “FdI”, il discorso di insediamento del nuovo governo e alcuni punti della legge di bilancio inviata dal governo al parlamento, ma anche i segnali lanciati da rappresentanti del governo attraverso lo strumento della provocazione verbale con la quale far intendere che obiettivo del governo non è tanto quello di risolvere problemi, ma quello di creare una nuova cultura nei processi di convivenza civile.

 

La democrazia del merito?

Cominciamo dall’”ossimoro” rilanciato dal governo Meloni della “democrazia del merito” che separa la competitività dei più capaci dall’assistenza verso chi non ce la fa e che va comunque, per sua colpa, mantenuto ai margini.

 

Leggendo considerazioni fatte da diversi analisti sulla legge di bilancio in fase di approvazione in parlamento ho provato a verificare quale tipo di impostazione culturale emerge da una norma che rappresenta il livello massimo della connotazione politica di una maggioranza al governo, limitandomi come sempre al settore del welfare.

La sintetizzerei con l’appellativo di “welfare condizionale” fondato cioè sul principio che “non esistono diritti acquisiti una volta per tutti dalle persone”.

Tali diritti dipendono dal comportamento e dal senso di responsabilità della persona assistita.

Il welfare cioè diventa uno strumento per cambiare il comportamento delle persone con l’obiettivo di favorire l’acquisizione di una normalità e di una regolarità nella fruizione dei benefici da parte delle singole persone assieme ad un comportamento disciplinato da parte dei gruppi sociali che vivono condizioni di grave svantaggio sociale.

Si tratta di un approccio molto diverso da quello fino ad oggi considerato più giusto (anche se non sempre applicato) dalla cultura prevalente in materia sociale. Un approccio che consiste cioè nel riconoscimento di una condizione di deprivazione e poi nella valutazione del livello di gravità di queste condizioni certificato da una autorità pubblica sulla base di criteri definiti una volta per tutte; in tutto questo la volontà della persona costituiva certamente elemento importante, ma NON condizionante.

 Il rischio è che le persone che non riescono a comportarsi (per loro colpa?) in modo responsabile perdano il diritto a ricevere le prestazioni di welfare (questa mi sembra la strada).

 Domanda: Ma quelli che non ce la fanno? Che fanno?

Probabilmente si distaccano dai servizi di welfare e si rivolgono ad enti di terzo settore e istituzioni pubbliche locali più o meno sensibili.

Si tratta di quello che il ministro Sacconi definiva a suo tempo il “welfare caritatevole” che doveva, a suo avviso, sostituire il welfare pubblico (considerato "invasivo").

Non mi sembra una bella prospettiva.

 Forse è il caso di tornare a far prevalere la logica costituzionale dell’Universalismo e del rispetto dei Diritti e al welfare dei livelli essenziali e chiedere azioni di questo tipo anche agli enti di terzo settore che, pur facendo assistenza, reclamano sempre garanzie dei diritti per tutti.

Nelle proposte di emendamento alla proposta di legge di bilancio presentate di “ANCI” si propone di istituire il “fondo unico per le politiche Sociali” col quale garantire l’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali (leps) su TUTTO IL TERRTORIO NAZIONALE.

 L’impostazione data alla proposta di legge finanziaria di riproporre invece “bonus” al posto di interventi strutturali mettendo in discussione a tale scopo la progressività della tassazione nella costruzione di nuove politiche fiscali e di smettere di intervenire contro l’evasione fiscale, pare andare verso la direzione opposta.

 

L’inevitabilità di essere disuguali?

1. Il caso dell’autonomia differenziata:

Nessuno ne parla, ma molti si stanno muovendo verso una prospettiva di cambiamento importante del sistema costituzionale italiano.

 La strategia sembra essere quella di mascherare il tema come modifica tecnica, di portare la scarna discussione su questioni vaghe e generali (“autonomia” e “responsabilità”), di approvare il tutto con la massima rapidità, senza alcun dibattito parlamentare e certamente senza informare i cittadini sui rilevantissimi cambiamenti che si produrranno.

Di che si tratta?

La Costituzione prevede (art. 116) che le Regioni a statuto ordinario possano richiedere ulteriori forme di autonomia nell’ambito di un elenco molto ampio di materie, accompagnate dalle relative risorse economiche.

Va detto però che se è lecito chiedere non è detto che sia obbligatorio concedere da parte di esecutivo e legislativo i quali, fino a prova contraria rappresentano gli interessi di tutti i cittadini italiani.

Lo schieramento a favore di questo rafforzamento dell’autonomia è costituito ad oggi da tre Regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna le quali hanno sostanzialmente marciato unite (pur con alcune differenze).

 Le richieste avanzate dalle stesse hanno riguardato tutte le competenze in capo allo Stato centrale!

 Quali sono state le risposta dei governi in questi anni?

Governo Gentiloni pochi giorni prima delle elezioni 2018:

 Prevedeva la possibilità che i territori più ricchi trattenessero parte del proprio gettito fiscale.

Governo Conte 1:

il suo programma dava la massima priorità al tema. Affidò la competenza alla ministra Stefani della Lega.

Governo Meloni: nel suo programma la realizzazione dell’autonomia regionale differenziata è indicata a chiare lettere.

Domande:

 Perché dovrebbe essere meglio trasferire il patrimonio infrastrutturale a quelle regioni o dare loro nuove competenze in tante materie?

 Perché solo per alcune regioni e non per tutte?

Quali caratteristiche della singola regione giustificano il trasferimento della specifica competenza (o di tutte)?

Perché regionalizzare la scuola, differenziare i programmi e far dipendere gli insegnanti dagli assessori?

 Perché differenziare le normative ambientali ed energetiche quando stiamo provando a costruire politiche europee?

A questo proposito andrebbe ripreso quanto detto al punto precedente in cui si ribadiva la necessità di mantenere fermo il principio dell’universalismo dei diritti basato sulla individuazione dei livelli essenziali da garantire a tutti (Costituzione italiana art. 117 lett. m) garantendo adeguati finanziamenti presi dalla fiscalità generale progressiva.

 

2. Il caso della “povertà colpevole”:

A proposito del dibattito sul Reddito di cittadinanza andrebbe evitato il riferimento al solo Reddito di Cittadinanza, per aprirsi ad una prospettiva di più ampia politica di lotta alla povertà utilizzando però questo termine “povertà” non tanto come specifico settore di intervento, ma come “paradigma” su cui costruire una nuova proposta politica complessiva basata sull’idea che “se il povero ha tutti hanno”).

Non solo Reddito di cittadinanza (i cui limiti applicativi vanno sicuramente corretti) ma anche rafforzamento del servizio sociale professionale, attenzione alla povertà estrema e alla povertà minorile per arrivare solo successivamente a specifici interventi di sostegno al reddito (sul modello REI però).

 Costruire uno stretto rapporto tra azione pubblica e interventi del terzo settore che in questi anni è stato l’unico soggetto intervenuto nella lotta alla povertà a fronte di un totale disinteresse del pubblico.

 Anche qui va ripreso il principio della garanzia dei diritti esigibili uguali per tutti di cui al già citato art. 117 lett. “m” della Costituzione italiana per evitare il rischio di “livelli essenziali” diversificati tra ricchi e poveri anche in ordine all’accesso ai servizi sanitari e socio sanitari.

 

3. Il caso di un accesso ai servizi con qualità differenti a seconda del censo: l’esempio che faccio è quello della non autosufficienza degli anziani:

Sono stati identificati oltre 2,7 milioni di individui ultra-sessantacinquenni con gravi difficoltà motorie, compromissioni dell’autonomia nelle attività quotidiane di cura della persona.

Tra questi 1,2 milioni dichiarano di non poter contare su un aiuto adeguato alle proprie necessità di cui 1 milione vive solo o con familiari tutti oltre i 65 anni.

Infine circa 100 mila anziani, soli o con familiari altrettanto anziani (perché noi viviamo a lungo) oltre a non avere aiuti adeguati sono anche poveri di risorse economiche.

Il problema allora c’è!

 Quindi?

Continuare 1. con il nulla,

 2. con piccoli interventi frammentati (come si legge in alcuni programmi elettorali) oppure

3. lavorare ad un sistema che “metta in filiera” i vari tipi di offerta privilegiando, laddove possibile, il mantenimento a casa dell’anziano senza lasciare sola la famiglia?

Io rispondo: “la terza che hai detto”.

Allora che fare?

 Innanzitutto: ricordare a chi di dovere che il “Pnrr” prevede, tra le varie riforme OBBLIGATORIE, anche quella che chiama “Sistema degli interventi in favore degli anziani non autosufficienti” (Missione 5C2).

Vuol dire che se non si fa la riforma si tolgono dei soldi anche alla parte dedicata ai servizi;

poi chiedere a chi oggi governa se intende andare avanti su questo obbligo o se intende toglierlo (visto che si parla di revisione del “Pnrr”) lasciandoci ancora privi di una norma che ci dica finalmente “cosa fare, come farlo, chi lo fa e infine quanto costa e quindi chi paga”.

Su questo però va detto che anche i vari governi di centro sinistra che si sono succeduti in questi anni non sono stati all’altezza.

 

Serve ancora parlare di partecipazione?

A fronte di piccoli segnali innovativi nati dalla riforma del terzo settore in ordine alle nuove possibilità di partecipazione previste nei processi di costruzione di atti di programmazione e di gestione di servizi dando valore istituzionale alla co-programmazione e alla co-progettazione pare che anche con questo governo valga molto di più il rapporto diretto tra leader e massa inventato a suo tempo da Berlusconi con i famosi Patti firmati da lui e “il popolo” negli studi di “Porta Aperta”.

Oggi si chiamano “gli appunti di Giorgia”, con cui il premier intende privilegiare un suo rapporto diretto con i cittadini saltando tutto quello che c’è nel mezzo.

Mi pare che la strada sia ancora quella e che il suo successo vada ben oltre i tentativi “social” fatti dai suoi avversari, ma anche da suoi componenti della maggioranza.

Domanda:

 come ricreare consenso su processi di mediazione partecipata che fino ad oggi purtroppo sono stati visti solo come tempo perso per l’incapacità dei vari livelli di governo (nazionale, regionale e territoriale) di investire forze ed energie sulla “amministrazione condivisa” dando agli stessi valore istituzionale, definendo tempi massimi di decisione e dimostrando alla fine, nei propri atti e scelte, di aver fatto sintesi delle migliori proposte emerse dal confronto?

 

Europa sì, ma quale? Ventotene o Visegràd?

 

Qui ritorna le possibili prospettive “Orban”e la crisi del modello liberale di democrazia.

 L’ipotesi che sta emergendo è che la democrazia liberale non è l’unico modello possibile e nemmeno il più efficace, anzi probabilmente funziona solo in anni di abbondanza delle risorse, mentre esistono altre forme di rapporto tra la leadership e il popolo sperimentati in vari Stati europei con apparente successo.

 La logica è quella del rispetto della forma esteriore della democrazia modificando però la sua sostanza, riducendola così ad un guscio vuoto.

Questo modello, attualmente all’opposizione nell’Unione Europea ambisce a diventare il futuro modello UE.

Saldando l’odio di Stato contro il migrante con l’attacco ai principi liberali delle democrazie dei diritti e delle istituzioni si disegna di fatto una nuova identità nazionale recintata dalla paura e dall’avversione e minacciata da emergenze continue che ambisce a diventare maggioranza in Europa.

Si tratta, dal loro punto di vista, di passare dal sovranismo nazionale al sovranismo europeo visto ormai non si può fare a meno di Europa.

Tutto questo emerge però in un contesto di crisi di consenso del modello di democrazia liberale conseguente a scelte operate in questi anni dai governi che si sono succeduti a favore di modelli neo liberisti che hanno annullato ogni efficacia alle loro azioni di riequilibrio strutturale delle diseguaglianze rispetto alle grandi potenze nate soprattutto sull’onda della rivoluzione tecnologica.

 

Conclusioni.

Di fronte al “fallimento di un approccio alla politica schiacciato sulle singole persone, su correnti che non hanno alcun connotato culturale e su una sostanziale estraneità al paese e ai suoi nodi vitali” come viene descritto nello “Schema di lavoro in vista del congresso PD” predisposto da Argomenti 2000, occorre darsi tempo per ricominciare a leggere ciò che ci sta accadendo attorno creando leadership in grado di dedicarsi all’ascolto e di recuperare quelle “praterie” di possibile consenso messo purtroppo in mano a movimenti che, con la scusa che destra e sinistra non esistono, hanno fatto man bassa di voti?

 Già oggi possiamo essere in grado di recuperare i cocci rotti e rimetterli assieme in un contesto sociale che grida “uguaglianza” senza avere sempre cognizione che accanto a diritti ormai persi, vanno recuperati anche “doveri” non sempre graditi. Anche la società civile va aiutata a mettersi in ascolto di sé stessa per evitare chiusure autoreferenziali o paure ingiustificate utilizzate fino ad oggi da forze politiche a fini di basso consenso.

 

Costruire una politica di complementarità

 tra risorse pubbliche e private.

Asvis.it - Milos Skakal – (28 maggio 2024) – ci dice:

 

Sanità, scuola, povertà.

 L’evento ASviS sui Goal 1-10 ha affrontato la questione dei servizi pubblici essenziali e della loro fornitura a livello territoriale, considerando le disparità regionali e le mancanze delle amministrazioni.

 

Costruire una politica di complementarità tra risorse pubbliche e private.

Il terzo settore non deve essere un meccanismo per attuare a ribasso le politiche sociali, mentre il pubblico deve mantenere un controllo e una regia sulla fornitura dei servizi.

Questo è il messaggio emerso dall’evento del 22 maggio “Il pubblico che serve: come assicurare equità di accesso e dignità del lavoro”, organizzato a Roma dal Gruppo di lavoro ASviS sui Goal 1 “Sconfiggere la povertà” e Goal 10 “Ridurre le disuguaglianze”, in collaborazione con il “Forum disuguaglianze e diversità”, nell’ambito del “Festival dello Sviluppo Sostenibile”.

Ha aperto i lavori” Flavia Terribile”, co-coordinatrice del Gruppo di lavoro ASviS sui Goal 1 e 10.

“Qual è il fine ultimo dello spazio pubblico?

Quello di promuovere dei servizi essenziali di qualità per tutte e tutti i cittadini.

Ma come lo fa?

Mettendo al centro proprio la persona, la comunità, per rispondere a bisogni che sono sempre più multidimensionali, che necessitano di un sistema integrato di servizi essenziali”.

L’intento dell’evento, ha spiegato Terribile, è quello di “partire da esperienze vere nel campo della lotta alla povertà, del contrasto alla povertà educativa e della salute”, nonché parlare del rapporto di collaborazione tra pubblico, sociale e privato-sociale.

L’introduzione è stata poi affidata a “Elena Granaglia”, del coordinamento “Forum disuguaglianze e diversità” e docente presso l’Università degli Studi Roma Tre:

 “Il pubblico, inteso come pubblica amministrazione, non sempre serve finalità pubbliche e allo stesso tempo le organizzazioni del privato e del privato-sociale possono svolgere attività pubbliche.

In breve, non esiste una connessione automatica tra la natura della proprietà e le finalità perseguite”.

Granaglia ha posto alcune delle problematiche affrontate dall’evento:

 “cosa intendiamo esattamente per finalità pubbliche?

 E nell’ambito dei servizi per il benessere delle persone, le organizzazioni del privato e del privato-sociale possono realizzare tutte le finalità pubbliche, oppure alcune sono riservate alla pubblica amministrazione?

In altri termini, la nozione di pubblico ha solo una funzione regolativa, o di finanziamento, oppure abbiamo bisogno di un assetto proprietario del pubblico?”.

La moderazione dei panel è stata affidata a “Raffaela Milano”, co-coordinatrice del Goal 1-10, e direttrice “Ricerche e formazione di Save the Children”, che ha introdotto il primo confronto sul tema “La tutela della salute”.

 Ha quindi preso la parola “Serenella Caravella”, ricercatrice Svimez, rimarcando che “l’accessibilità dei diritti di cittadinanza è un presupposto per lo sviluppo socio-economico di un territorio”.

Caravella ha parlato del “rapporto Svimez” appena pubblicato, “Un Paese, due cure”, all’interno del quale viene analizzato il “Sistema sanitario italiano” con le sue forti disparità tra Nord e Sud, che sta vivendo “un forte indebolimento rispetto al confronto europeo”.

 

“Fabrizio Arena”, presidente del laboratorio “Zen Insieme” di Palermo, è poi intervenuto spiegando che “le parole e i dati che mi hanno preceduto ci restituiscono la fotografia di un’Italia, e di un Sud Italia, in cui la povertà sanitaria è sempre più in aumento e sempre più incisiva”.

 Arena ha affermato che la povertà sanitaria porta con sé un senso di “ingiustizia sociale e di negazione di un diritto che dovrebbe essere sancito costituzionalmente, che la rende ben più complessa”.

L’intervento ha riportato “l’esperienza dell’ambulatorio sociale aperto allo Zen”, quartiere popolare di Palermo, provando “a tradurre in realtà concreta” i dati visti prima.

 

In seguito è stato aperto il secondo panel “Contrasto alle povertà educative”, il cui primo intervento di “Giulio Cederna”, direttore della” Fondazione Paolo Bulgari”, si è concentrato sul lavoro svolto dalla “Fondazione nel quartiere di Tor Bella Monaca” a Roma.

 “La Fondazione Paolo Bulgari ha cominciato a lavorare a partire dalla considerazione che nei territori esiste un ‘pubblico alternativo’, cioè questa realtà fatta di terzo settore organizzato, associazioni, cooperative, ma anche molte realtà informali”, come il progetto “Cubo libero realizzato dal centro sociale di Tor Bella Monaca”.

“L’idea che anima il nostro lavoro è quella di andare a sostenere questi anticorpi. Questo ha prodotto, in collaborazione con le istituzioni, un intervento importante come la riqualifica della scuola più complicata di Tor Bella Monaca, dove abbiamo realizzato un’aula giardino”, ha raccontato Cederna.

“Fabio Rocco”, docente dell’istituto comprensivo “San Camillo” di Padova e coordinatore del “Patto educativo Padova”, ha poi riportato un punto di vista interno al mondo della scuola.

“Durante gli anni della pandemia è emerso il fatto che esistono dei problemi in ambito scolastico, che in realtà non sono nati con la pandemia, sono semplicemente esplosi.

Elementi come l’abbandono, la dispersione, tutto quello che ha a che vedere con la parità di opportunità che viene fornita attraverso le scuole viene di fatto messa in crisi. In questo quadro”, ha spiegato Rocco, “sono emerse delle possibilità. I patti educativi e il lavoro intorno alle comunità educanti hanno questo tipo di senso”. 

 

“Raffaela Milano” ha quindi dato la parola a “Carla Antonucci”, dell’autorità di “Gestione del Programma nazionale inclusione” del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, dando il via all’ultimo panel “Lotta alla povertà e promozione dell’inclusione”.

Antonucci ha parlato del Piano nazionale inclusione e povertà:

“Proprio in questi mesi stiamo definendo il nuovo piano sociale 2024-2026, che al suo interno contiene la programmazione di fondi nazionali importanti come il Fondo nazionale politiche sociali, il Fondo povertà.

Stiamo facendo un gran lavoro di messa a sistema di tutti i fondi del sociale, che è un elemento fondamentale per far funzionare davvero questi interventi nei territori attraverso gli “ets”.

 

È poi arrivato il turno di “Alberto Campailla” e di” Ilaria Manti”, rispettivamente presidente e responsabile area politiche di contrasto alla povertà dell’”associazione Nonna Roma”.

Il fine del progetto, ha spiegato Campailla, era quello di “costruire un banco alimentare, quindi una risposta che stesse sul terreno della povertà alimentare.

Ci siamo da subito resi conto della natura multidimensionale della povertà”, considerandola come il primo elemento che va messo al centro di una discussione sul tema delle deprivazioni.

Campailla ha aggiunto un elemento trasversale, ovvero quello di una povertà relazionale:

 “oggi, se uno non può andare al cinema perché costa 8-10 euro, il problema non è solo che non sono aggiornato, ma che tendenzialmente non vedo mai nessuno”. Manti ha poi aggiunto una riflessione su cosa vuol dire fare sociale e sul mondo del terzo settore: “

C’è una parte di politica, di istituzione, che non riesce più a raggiungere le persone, e c’è una parte di città che è escludente rispetto alle persone che non possono permettersi di abitare nel centro città.

 Questa esclusione verso le periferie e delle periferie è stato il punto di partenza per identificare i bisogni, non solo per creare comunità ma anche perché è sempre più facile entrare nel vortice della povertà”.

Il palco ha quindi lasciato spazio alla tavola rotonda “Orientamenti per le politiche pubbliche”, che è stata moderata da Flavia Terribile.

 Ha aperto la discussione “Carla Collicelli”, responsabile relazioni istituzionali dell’ASviS e referente del Gruppo di lavoro ASviS sul Goal 3 “Salute e benessere”:

“Noi abbiamo un welfare e una sanità che per certi aspetti ci è invidiata, nel senso che ha una forte base di universalismo che però fin dall’inizio ha avuto importanti lacune.

 Le prestazioni, che sono state messe in cantiere per realizzare gli obiettivi della Costituzione, sono state affidate a istituzioni molto burocratizzate, a trasferimenti di carattere economico e con una scarsa attenzione a tutti quegli altri aspetti culturali fondamentali che stanno alla base dell’Agenda Onu 2030”.

Il panel è proseguito con la presa di parola di “Vincenzo Durante”, responsabile “Occupazione di Invitalia”, il quale ha sottolineato che “serve una politica pubblica non soltanto a sostegno della crescita economica e di regolamentazione del mercato del lavoro, ma anche una politica che favorisca percorsi di autoimpiego, perché soprattutto per le fasce di popolazione più deboli l’autoimpiego rischia di essere una prospettiva più facilmente perseguibile rispetto a quella dello status di dipendente”.

Durante ha poi parlato delle iniziative promosse da Invitalia in questo senso, che hanno coinvolto complessivamente 1.300 Neet.

 

“Andrea Morniroli”, coordinatore del” Forum disuguaglianze e diversità”, ha poi sottolineato che “il nostro Paese, attraverso l’integrazione pubblico-privato, ha messo a terra alcune delle normative migliori.

Il fatto che oggi troviamo delle difficoltà, che sono state raccontate anche da alcune esperienze, è perché nel processo di dismissione del welfare pubblico è stata anche attaccata quell’integrazione virtuosa pubblico-privato.

Perché il pubblico è stato smantellato dal punto di vista delle risorse, perché il mantra neoliberista ci ha detto che il pubblico era sempre sbagliato e che andava favorito il privato, e perché è stato precarizzato il lavoro nella sanità e nella scuola”.

 “Il terzo settore,” ha spiegato Morniroli, “è stato vissuto non come attore di politiche ma come attuatore al ribasso di politiche di natura puramente prestazionale.

 Dobbiamo tornare a una integrazione virtuosa che c’è stata in questo Paese”.

 

“Daniele Piccione”, consigliere parlamentare del Senato della Repubblica, ha invece parlato della ridislocazione del rapporto tra privato e pubblico nella fornitura dei servizi essenziali, considerandola come “il convitato di pietra che ha atterrito le speranze di chi guardava a un rilancio del welfare, perché è evidente che la devoluzione verso l’intesa del privato come surrogato del pubblico ha fatto molto male all’effettività dei diritti sociali”.

“Questo non vale soltanto per il diritto alla salute”, ha proseguito Piccione, “ma in generale per le questioni che attengono a tutti quei diritti che si sviluppano in ambito bio-psicosociale”.

Ha evidenziato quindi che il privato non deve avere una posizione di alternatività, ma deve avere delle grandi limitazioni, in sostanza “il pubblico deve mantenere una funzione pivotale, che implica anche una funzione di controllo”.

 

È poi venuto il turno di “Marco Rossi Doria”, presidente dell’impresa sociale “Con i Bambini”, che ha riportato il contesto italiano rispetto alla povertà minorile e ha parlato della co-programmazione pubblico-privato nell’ambito del “Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile”, raccontando alcune valutazioni rispetto all’esperienza della sua organizzazione negli ultimi anni.

“Noi vogliamo la prossimità tra il pubblico e il privato, ma spesso l’amministrazione è consuetudinaria, la considera fatica in più.

 I partiti politici non sono all’interno della discussione fondamentale per superare la povertà e fare coesione sociale.

Abbiamo un problema politico per poter continuare a ragionare su queste cose”, ha sottolineato “Rossi Doria”.

“Katia Scanavino”, vice segretaria generale di “ActionAid”, è intervenuta per ultima nella tavola rotonda, rimarcando che “il concetto di accountability è fondamentale.

Anche il concetto di potere, perché bisogna ricostruire cosa significa potere e ridistribuire il concetto stesso all’interno della nostra società.

 Il potere non è solo dei partiti, ma è di tutti i cittadini e le cittadine, delle persone che abitano un posto, della cittadinanza attiva”.

Scanavino ha rimarcato che l’accountability, il monitoraggio e la valutazione sono importanti perché sono “una parte fondamentale della partecipazione ed è alla partecipazione che bisogna dare potere”, e per partecipare sono fondamentali dati e informazioni.

“Pierluigi Stefanini”, presidente dell’ASviS, ha infine concluso l’evento.

 “Serve un cambio di approccio che deve attraversare contemporaneamente il pubblico e il privato sociale, perché purtroppo prevale troppo spesso un approccio di natura economicistica.

 Se permane questo approccio non riusciamo a costruire una prospettiva in grado di esercitare pienamente la co-progettazione e la co-programmazione.

 Dobbiamo alzare il livello culturale e anche di soluzione e risposta ai problemi. Bisogna costruire una strada”, ha sottolineato “Stefanini”, “nella quale la reciprocità, la disponibilità, la convergenza vera, la volontà di farlo insieme, siano i tratti che caratterizzano una risposta adeguata a un diverso assetto sociale del nostro Paese”.

Stefanini ha concluso ribadendo che bisogna “agire per investire sulla coesione, sul coraggio e la lungimiranza, dobbiamo farlo attraverso una strategia multilivello, dobbiamo aumentare il grado di investimenti per allinearci all’Europa, e su questo c’è una carenza insopportabile, dobbiamo costruire una politica di complementarità tra le risorse pubbliche e quelle private. Infine, dobbiamo investire in capacità”.

 

 

 

 

 

 

Guerra totale?

 Comune-info.Net - Raniero La Valle – (21 Gennaio 2024) -ci dice:

 

Mentre è in corso un genocidio a Gaza non dimentichiamo l’Ucraina e il futuro stesso del mondo.

 Le notizie sono gravi.

Stanno preparando la guerra totale con la Russia.

Dovrebbero combatterla la NATO, gli Stati Uniti e l’Occidente.

 Chi sono i soggetti di questo “stanno” non è del tutto chiaro e interamente noto, altri ce ne sono a cui ognuno può cercare di dare il nome in base alle informazioni oggi disponibili.

Il nostro compito qui è di darvi queste informazioni, peraltro assai facilmente fruibili dalla semplice lettura dei giornali.

 Esse trattano tranquillamente l’ipotesi di una guerra totale con la Russia, (previa a quella con la Cina), a ciò preparando l’opinione pubblica sulla base di verbi tutti usati al condizionale, recanti ardite supposizioni non corroborate da alcun dato di fatto ma solo da pregiudizi e da voci.

 Se poi sono millanterie si vedrà, ma anche queste possono sfuggire di mano.

 

Citiamo da queste fonti (nel virgolettato che segue il neretto è una sottolineatura dell’originale, le nostre interpolazioni sono in corsivo).

La “Repubblica” (18 gennaio) riferisce che il giornale “Bild” «ha pubblicato documenti dell’intelligence tedesca sul timore di un attacco (russo) per prendere il “Suvalki Gap”, corridoio che collega la Bielorussia a Kaliningrad (l’ex Konigsberg). Potrebbe avvenire nel 2025 o anche nel 2024, giustificato per soccorrere i cittadini di origine russa.

Il corridoio passa per Polonia e Lituania la cui capitale Vilnius è a 33 chilometri dal confine con la Bielorussia.

Quindi un’invasione farebbe scattare l’Articolo V della Nato sulla difesa collettiva. L’Alleanza lo sa bene e ha convocato l’ultimo vertice proprio a Vilnius lo scorso luglio.

Da febbraio a giugno (5 mesi) terrà l’esercitazione “Steadfast Defender”, la più grande dalla fine della guerra fredda a cui parteciperanno tutti i 31 Paesi membri in Polonia, Germania e Paesi baltici.

La Gran Bretagna ha annunciato che fornirà 20.000 soldati ma il totale è destinato a superare 40.000 uomini e mezzi» (è ciò che papa Francesco e il capo di Stato europeo che glielo suggerì, chiamerebbero “andare ad abbaiare sul confine della Russia» e che Churchill direbbe “una cortina di ferro innalzata in Europa”).

Ancora “Repubblica”: «Il presidente Biden ha detto che “se non fermiamo Putin in Ucraina il suo appetito crescerà oltre”.

 La candidata repubblicana (alla Casa Bianca) “Nikki Haley” ha commentato così: “Putin ha già detto che se vincerà in Ucraina poi toccherà a Polonia e Paesi baltici (quando lo ha detto?).

 A quel punto saremmo in guerra perché sono Paesi Nato e dovremmo mandare i nostri figli a combattere».

E ancora: «Il presidente del “Military Committee” (della NATO), l’ammiraglio” Rob Bauer”… ha aperto così la riunione dei 31 leader militari della Nato;

 “Kiev avrà il nostro sostegno ogni giorno a venire perché l’esito di questo conflitto determinerà il destino del mondo…

La Russia teme qualcosa di molto più potente di qualsiasi arma fisica sulla terra: la democrazia…

Questa è la vera ragione per cui Putin teme il successo di Kiev, come modello politico e di vita che insidierebbe la stabilità di Mosca.

Per difendersi dal pericolo il Cremlino sfrutta la retorica nazionalistica, che ha prima applicato all’Ucraina, ma ora l’allarga ai paesi baltici  (dunque l’oggetto della guerra sarebbe ideologico) nella speranza dichiarata (quando?) di ricostruire l’impero sovietico».

Sempre “La Repubblica”:

 «l’Estonia è in allerta. Nei giorni scori la premier “Kaja Kallas” ha detto di ritenere probabile un attacco russo all’Europa “nei prossimi tre o cinque anni” confermando vari rapporti dei servizi tedeschi e polacchi.

I timori riguardano in particolare i Baltici, dove il Cremlino potrebbe tentare di sobillare le minoranze russofone».

Domanda:

«“E cosa suggerite per consentire a Kiev di respingere le truppe russe?”.

 “Un recente documento del nostro ministero della Difesa sostiene che l’Ucraina potrebbe vincere questa guerra se i 40 Paesi del gruppo di contatto di Ramstein stanziassero ciascuno lo 0,25% del loro Pil annuo per l’Ucraina.

 Il governo estone ha dato l’esempio e ha deciso un aiuto militare a lungo termine all’Ucraina: per i prossimi quattro anni (lungo termine?) l’Estonia è pronta a stanziare lo 0,25% del suo Pil per gli aiuti militari all’Ucraina.

 Lavoriamo per convincere gli altri Paesi a seguire il nostro esempio”».

Domanda:

«il presidente ucraino Zelensky ha annunciato a Davos di voler organizzare una conferenza di pace in Svizzera, possibilmente con la Cina (senza la Russia!).

È il momento giusto?”.

 “Per quanto riguarda la pace in Ucraina vediamo il piano di pace di dieci punti proposto dall’Ucraina come l’unico praticabile”».

 

La stessa “Repubblica riferisce poi delle dichiarazioni fatte da Putin ai sindaci: «Putin ha fatto risalire alle porte aperte dalla Nato a Ucraina e Georgia nel 2008 non solo l’inizio del conflitto in Ucraina, ma anche “una serie di decisioni che hanno portato a ciò che sta accadendo ora in Lettonia e in altre repubbliche baltiche: quando i russi vengono cacciati via.

Cose molto serie che influiscono direttamente sulla sicurezza del nostro Paese”».

E il giornale commenta:

«Se Putin applicasse la sua versione armata della storia imperiale russa, l’elenco dei suoi potenziali obiettivi spazierebbe dalla Finlandia all’Asia centrale fino all’Alalaska… Putin semina.

Pianta germogli nello spazio informativo per future aggressioni con il pretesto di difendere i suoi “compatrioti”».

 

Sulle stesse dichiarazioni di Putin “Il Fatto quotidiano” del 17 gennaio riferisce quanto segue:

 «”L’Ucraina si rifiuta di negoziare con la Russia”, ha detto Putin aggiungendo: “idioti, tutto sarebbe finito da molto tempo”, e ricordando ancora una volta che erano “d’accordo su tutto” riferendosi ai negoziati poi interrotti, “ma il giorno dopo hanno deciso di gettare tutti gli accordi nella spazzatura, lo hanno ammesso pubblicamente, compreso il capo di quel gruppo di negoziatori…

Eravamo pronti, poi è arrivato l’allora primo ministro britannico “Boris Johnson” e ci ha convinto a non attuare gli accordi”.

Questo, secondo Putin, dimostrerebbe che gli ucraini non sono un popolo indipendente”».

Ancora di più dimostrerebbe che quando si rifiuta di uscire da una guerra con un negoziato, un accordo o una riconciliazione, resta solo la vecchia logica della guerra, secondo cui se ne esce solo con la vittoria decisa sul campo, e lì decide chi ha vinto, gli Alleati certo non concessero niente alla Germania sconfitta, addirittura la fecero a pezzi.

 Nessuno l’ha detto a Zelensky (o forse lui non gli ha dato retta) e ora i falsi amici che l’hanno mandato allo sbaraglio, la guerra la devono vincere loro, a spese di tutto il mondo, oppure abbandonarlo, mentre ora Putin dichiara, sempre secondo “Il Fatto”:

«”Se la guerra dovesse proseguire così lo Stato ucraino potrebbe subire un colpo irreparabile e molto grave”.

Sarebbe infatti “impossibile”, stando al capo del Cremlino, portare via alla Russia i progressi militari effettuati sul campo.

Né Mosca cederebbe mai i territori conquistati».

 Quanto al “destino del mondo” che secondo questi strateghi sarà determinato dall’esito di questo conflitto, esso è così progettato nei documenti sulla Strategia e la Difesa nazionale americane pubblicati nell’ottobre del 2022 dalla Casa Bianca e dal Pentagono (le istituzioni che restano mentre presidenti e ministri passano):

si tratta del decennio o dei due decenni decisivi «per far avanzare gli interessi vitali dell’America e per plasmare il futuro dell’ordine internazionale», quando «non c’è nazione meglio posizionata degli Stati Uniti d’America per guidare con forza e determinazione».

Saranno loro a superare i loro concorrenti geopolitici e vincere, con il corteo dei loro alleati e partner, la “competizione strategica” con la Russia, considerata come un pericolo immediato, e con la Cina considerata come il vero antagonista a lungo termine capace di reggere la “sfida culminante” lanciatale dagli Stati Uniti, forti della più grande forza militare che ci sia mai stata sulla terra, che nessuno dovrà mai non solo superare, ma nemmeno eguagliare ed è tale da prevalere in ogni possibile conflitto.

Queste sono le informazioni di cui disponiamo e questa la minaccia che grava sul mondo.

Per contrastarla ognuno usi la fionda che ha.

 Una volta c’era la fionda del diritto, oggi la vogliono togliere di mano perfino a Guterres.

 

 

 

 

Il sistema europeo barcolla

verso il collasso.

Unz.com – Gregorio Cappuccio – (9 maggio 2025) – ci dice:

 

La democrazia liberale dovrebbe essere un processo, non un risultato.

 George Soros sostiene una "società aperta" che si avvicini alla verità facendo a meno di sistemi di valori irrazionali, autoritari e chiusi.

Invece, attraverso un dibattito aperto, la tolleranza per le minoranze e i dissidenti, i diritti civili e il cosmopolitismo, le democrazie possono trovare la verità.

 Un re può trarre legittimità dal lignaggio divino, dalla chiesa o dal successo militare, ma un leader democratico è un semplice uomo la cui legittimità deriva dal consenso razionale delle masse.

Questa è la teoria, comunque.

Forse c'è stato un tempo in cui la gente ci credeva, ma ora è difficile crederci.

Ciò che ancora chiamiamo democrazia in Occidente è un gioco di colpisci la talpa, in cui un'alleanza mutevole di politici, burocrati internazionali, giudici e "organizzazioni non governative" finanziate dai contribuenti danno lezioni alle persone su chi è permesso votare e cosa è permesso dire.

Forse l'esempio più convincente oggi è in Romania.

Nelle ultime elezioni, George Simion ha ottenuto una vittoria decisiva al primo turno con oltre il 40% dei voti, mentre il secondo classificato ha ricevuto solo circa la metà.

Ci sarà un ballottaggio, con Simion l'ovvio preferito.

Sì, la Romania ha già avuto le elezioni lo scorso novembre, in cui “Călin Georgescu” ha vinto il primo turno.

Era anti-globalista, cristiano ortodosso, scettico nei confronti della NATO, contrario al sostegno all'Ucraina e ha elogiato le figure nazionaliste che i liberali chiamano "fascisti".

 

L'intelligence rumena ha detto che la Russia ha manipolato i social media per dargli la vittoria.

 Il governo ha annullato tutte le elezioni e ha impedito al vincitore di ricandidarsi. Questo potrebbe dover ritorcersi contro il successo di Simion.

I media internazionali hanno denunciato Simion come "di estrema destra" e fuori dal mainstream.

Che cosa significano queste parole quando il 40 per cento dell'elettorato ha già votato per lui?

" La ripetizione delle elezioni in Romania: cosa c'è in gioco con l'ascesa dell'estrema destra ", “Bloomberg” , 7 maggio 2025.

" Il candidato di estrema destra George Simion vince il primo turno delle elezioni rumene ", “UPI”, 5 maggio 2025.

" L'estrema destra supera la ripetizione presidenziale della Romania, per affrontare il candidato pro-UE al ballottaggio ",” AFP”, 4 maggio 2025

“Politico” ha una tipica calunnia da "meet the villian" :

"Vi presento George Simion, il vincitore delle elezioni rumene di estrema destra che è stato bandito dall'Ucraina".

 Lo ha definito un "fanboy di Trump", un "capo di estrema destra" e leader di un partito che è "anti-scienza".

 

I media liberali possono vedere tutti di centro-destra come essenzialmente uguali, ma Simion si definisce in modo diverso da Georgescu-Roegen:

"Siamo un partito trumpista che governerà la Romania e che farà della Romania un partner forte nella NATO e un forte alleato degli Stati Uniti".

Ha anche invocato la " melonizzazione " dell'Europa, riferendosi al primo ministro italiano Giorgia Meloni, che riconosce di provenire dalla stessa " famiglia politica dei conservatori europei ".

Simion non è certo un radicale anti-NATO, soprattutto considerando il forte sostegno di Giorgia Meloni all'Ucraina.

D'altra parte, Simion ha anche suggerito che nominerà l'ex candidato Georgescu come primo ministro se sarà eletto, il che senza dubbio inorridirà coloro che vogliono continuare il sostegno rumeno all'Ucraina.

 

Simion ha una forte base tra gli espatriati rumeni, in parte a causa del suo nazionalismo e in parte perché è stato l'unico candidato che ha perseguito i loro voti.

Gli "esperti" citati da “Politico” hanno incolpato gli espatriati "scarsamente istruiti" che cercano una "soluzione facile" e TikTok, che non richiede "troppa attenzione".

Implicazione: abbiamo bisogno di una maggiore regolamentazione dei social media.

 Il signor Simion è un ex hooligan del football e si dipingeva con lo spray graffiti nazionalisti e revanscisti con gli amici.

 Questo non è il tipo di persona che i media internazionali approvano.

L'establishment rumeno ha risposto al primo turno con un panico a malapena celato.

 Il Partito Socialdemocratico si è ritirato dalla coalizione di governo a causa della sua evidente perdita di credibilità.

 Anche il primo ministro socialdemocratico “Marcel Ciolacu” si dimise e fu sostituito da “Catalin Predoiu”, del più conservatore “Partito Nazionale Liberale”. Predoiu afferma che la Romania "deve rimanere una democrazia resiliente, un paese i cui obiettivi di sviluppo rimangono ancorati ai valori euro-atlantici".

La coalizione comprende il partito ungherese “UDMR”, un membro interessante della coalizione in un governo maggiormente preoccupato per le interferenze straniere.

Sembra che l'interferenza straniera sia una minaccia solo se i social media sono manipolati da stranieri.

 

La vittoria di Simion al secondo turno del 18 maggio non è garantita.

 Il suo avversario sarà “Nicusor Dan”, sindaco di Bucarest.

Il “Partito Nazionale Liberale” lo sostiene, così come l'”UDMR” ungherese perché dice che Simion è "anti-ungherese".

Il cosiddetto gruppo di "centro-destra" del “Partito Popolare Europeo” al Parlamento Europeo lo sta promuovendo e afferma che è "inaccettabile" che i socialisti rumeni non sostengano (ancora) il sindaco “Dan”.

 Anche il blocco dei “Socialisti & Democratici” al Parlamento europeo sostiene Dan, avvertendo che "di fronte all'aumento dell'estremismo in tutta Europa, non c'è spazio per i giochi politici".

Dan può anche contare sul sostegno del partito al governo della Moldavia.

Niente di tutto ciò è apparentemente inaccettabile "interferenza esterna".

 

Cosa succede se il signor Simion vince?

 Non lo sappiamo.

 Tuttavia, sappiamo cosa succede in Germania quando gli elettori si comportano di sesso maschile.

L'"Ufficio federale per la protezione della Costituzione", l'agenzia di spionaggio interna tedesca, ha recentemente designato il principale partito politico del paese, l'”Alternativa per la democrazia”, come "estremista", il che potrebbe essere un passo importante per mettere al bando il partito a titolo definitivo.

Anche il segretario di Stato “Marco Rubio” ha detto che si tratta di "tirannia sotto mentite spoglie".

Sorprendentemente, il governo tedesco ha risposto che questa è la democrazia in azione, con l'elogio di gran parte della stampa internazionale.

" Marco Rubio, difensore del partito anti-immigrati, ha critico la Germania.

 Il Ministero degli Esteri ha reagito ", “Tempi “di Los Angeles, “4 maggio 2025”

"La Germania risponde a Marco Rubio dopo che ha definito 'tirannia' la sua designazione 'estremista' del partito di estrema destra", “The Latin Times” , 3 maggio 2025.

" La Germania risponde alla difesa di Rubio del partito di estrema destra AfD ", NBC News,” 3 maggio 2025”.

Molti guardano alla Germania moderna come esempio di come regolamentare la parola.

Nel 2021, il “Washington Post” ha sostenuto che il governo americano dovrebbe trattare gli Stati Uniti nel modo in cui il governo tedesco tratta la Germania. Questo è particolarmente agghiacciante perché la logica per definire l'”AfD” estremista è che il partito non considera i non-tedeschi etnici come veramente tedeschi.

 L'agenzia di spionaggio ha riferito:

La comprensione prevalente dell'etnia e della discendenza nel partito [AfD] non è compatibile con l'ordine di base democratico libero.

 Ha lo scopo di escludere alcuni gruppi di popolazione dalla partecipazione paritaria alla società, di esporli a un trattamento iniquo che non è conforme alla costituzione e quindi di assegnare loro uno status giuridicamente svalutato.

 In particolare, l'”AfD”, ad esempio, non considera i cittadini tedeschi con una storia migratoria da paesi musulmani come membri uguali del popolo tedesco etnicamente definito dal partito.

 . . . Ciò si riflette nel gran numero di dichiarazioni xenofobe, di minoranze, islamofobe e anti-musulmane fatte da esponenti di spicco del partito.

Da allora l'agenzia di spionaggio ha ritirato la designazione di "estremista" e ora afferma che, mentre i procedimenti legali sono in corso, monitorerà il partito solo come "caso sospetto"

Tuttavia, l'agenzia sostiene che un principio costituzionale della Germania moderna è che non esiste un vero popolo tedesco.

 La "germanicità" sembra essere determinata dalla mera occupazione, e i nuovi arrivati sono i benvenuti a odiare i tedeschi etnici.

Le identità nazionali, etniche e razziali sono vietate ai bianchi, ma vanno bene per i non bianchi, specialmente quando insultano i bianchi nelle loro terre d'origine.

 È quindi vietato organizzare un'opposizione politica a un'occupazione ostile.

È questo che i governanti dell'Occidente intendono per "democrazia"?

 

Il significato delle parole è determinato da come vengono usate.

Ci sono sedicenti "socialisti", come “Alexandria Ocasio-Cortez”, che non credono nella fine della proprietà privata, ma sono fanatici dei diritti degli immigrati e degli omosessuali.

Pertanto, questo è il "socialismo".

Allo stesso modo, vincere un'elezione o fare cose che piacciono agli elettori non è sufficiente per essere un leader "democratico".

La stampa internazionale definisce "autoritari" uomini come “Nayib Bukele “e “Viktor Orban” nonostante le ripetute vittorie elettorali.

I sondaggi mostrano che l'elettorato occidentale vuole livelli più bassi di immigrazione, ma i governi li ignorano e addirittura vietano coloro che vogliono il controllo delle frontiere.

Pertanto, sembra che "democrazia" significhi sostituire la popolazione storica con i non bianchi.

Allo stesso modo, l'idea che la democrazia significa che i cittadini godono di libere elezioni, libertà di parola o il diritto di opporsi al governo è ora così obsoleta che sembra imbarazzante rivendicarla.

Certamente non significa che il popolo governa.

 "Proteggere la democrazia" non significa più libertà, significa più censura.

 

La democrazia stessa non è più una "società aperta", ma un sistema chiuso.

Le élite governano sempre, e qualsiasi sistema ha presupposti che non sono aperti al dibattito.

Mentre gli Stati Uniti hanno più libertà di quasi tutti gli altri paesi occidentali, non siamo esenti da questa tendenza, e non abbiamo la libertà di parola che davamo per scontata nei primi giorni dei social media – diciamo, 12 o 15 anni fa.

 

Ci sono segnali incoraggianti che i bianchi stanno abbandonando l'ortodossia egualitaria, ma i nostri governanti potrebbero costringerci a distruggere quasi tutte le istituzioni stabilite, le norme legali e i tabù sociali se questo è ciò che serve per ottenere politiche di buon senso.

L'Europa potrebbe sconfiggere l'"estrema destra" chiudendo le frontiere, ma a parte la Danimarca, i governi sembrano irrazionalmente impegnati nel suicidio demografico.

Stanno giocando d'azzardo, i bianchi si arrenderanno.

Se i governanti europei hanno torto, il loro rifiuto di ascoltare gli elettori garantisce l'estremismo politico e persino la violenza.

Sono stati avvertiti.

Basta guardare i risultati elettorali. La scritta è sul muro.

 

 

 

 

I falsi complotti terroristici

dell'intelligence britannica.

   Unz.com - Craig Murray – (10 maggio 2025) – ci dice:

 

Ai tempi della "Guerra al Terrore", i servizi di sicurezza del Regno Unito hanno fabbricato molteplici falsi complotti terroristici.

 C'è stato, ad esempio, il complotto della bomba di Pasqua del 2009 a Manchester, che ha occupato intere prime pagine di giornali.

Gordon Brown, come primo ministro, lo ha pubblicizzato come un "grande complotto terroristico".

Era una totale invenzione, nessuno è stato condannato e alla fine è emerso che l'"ingrediente per fabbricare bombe" strombazzato dalla polizia confiscava dalle cucine era lo zucchero, in quantità normali.

 

La “Grande Congiura della Ricina” nel 2003 era di nuovo ossessionato dalla cucina, e i media che pubblicavano titoli urlanti sulla scoperta della ricina non si sono preoccupati di riferire in seguito che le quantità che la polizia aveva annunciato di aver scoperto si sono rivelate essere le tracce quasi impercettibili che si potevano trovare in qualsiasi cucina.

Lo scopo era la propaganda, che aumentava l'islamofobia per giustificare la distruzione occidentale dell'Afghanistan, dell'Iraq e della Libia.

 Quando l'attacco alla “Manchester Arena” è avvenuto, si è scoperto che l'MI5 era stato lo sponsor dell'autore e che lui e suo padre erano stati traghettati dalla Libia dalle forze armate britanniche.

 La sponsorizzazione del terrorismo all'estero è sempre suscettibile di provocare un contraccolpo in patria.

La propaganda è ora di nuovo in fase di intensificazione per promuovere l'islamofobia destinata a guidare il sostegno pubblico nel Regno Unito per il genocidio di Gaza e un imminente attacco all'Iran.

 

Il capo dell'MI5 “Ken McCallum” è probabilmente il bugiardo più prolifico e duraturo nella storia del servizio pubblico britannico.

Non ha ancora generato le morti con le sue bugie che “Alistair Campbell” ha causato, ma data a “McCallum” il tempo di dare i frutti della sua ripetizione alla Goebbels.

“McCallum” ha un panorama mediatico molto più compiacente con cui lavorare rispetto a quello esistente un quarto di secolo prima.

Devo ricordare a me stesso che la mia continua indignazione per la distruzione di milioni di persone reali e comuni in Medio Oriente dal 2003 in poi, per garantire idrocarburi a uomini ricchi e malvagi e basata su menzogne totali sulle armi irachene, è qualcosa di estremamente vivido e fondamentale per me, ma lo studente universitario medio non era nemmeno nato all'epoca.

 

Il mito di un Occidente "buono" si auto propaga continuamente.

I media distraggono e offuscano in un costante e prolungato processo di logoramento della verità;

si è tentato di credere che il “genocidio a Gaza” abbia risvegliato una coscienza pubblica che potrebbe essere una rottura storica del sistema.

Ma sta già diventando più difficile accedere alle vere notizie da Gaza.

Meno immagini sono disponibili mentre l'omicidio di innumerevoli giornalisti cittadini e la limitazione di Internet a Gaza hanno effetto.

La soppressione da parte dei social media della portata degli “account pro-palestinesi” e il massiccio potenziamento degli “account sionisti “sono rafforzati dalla sistematica persecuzione statale delle voci pro-palestinesi.

Anche se i ministri israeliani proclamano apertamente il “genocidio e la pulizia etnica di Gaza”, i ministri europei continuano a negarlo.

Mi viene in mente il grande discorso di accettazione del premio Nobel di “Harold Pinter”, che parlava in particolare delle menzogne e delle atrocità della guerra in Iraq:

Questa è la realtà del potere. Il potere non deve giustificarsi.

Il potere fa quello che vuole, e ci si aspetta che il resto del mondo lo accetta.

 

Ma c'è un'altra realtà, che viene raramente riportata.

La realtà della resistenza.

 La realtà delle persone che rifiutano di accettare le menzogne, che rifiutano di essere messe a tacere.

 In ogni paese in cui gli Stati Uniti sono intervenuti, ci sono state persone che hanno reagito, non solo con le armi, ma con le parole, con le idee, con il coraggio.

Queste voci sono spesso ignorate dai media occidentali, che preferiscono concentrarsi sulla narrativa della benevolenza americana.

Ma esistono, e stanno crescendo.

Dall'America Latina al Medio Oriente, la gente si oppone all'imperialismo, allo sfruttamento, alla menzogna.

 

Siamo ancora in piedi, ma le bugie continuano ad arrivare, lo sfruttamento continua ad arrivare e l'omicidio continua ad arrivare.

Ora torniamo all'arci-propagandista “Ken McCallum” e al suo ultimo complotto inventato.

 Questo è un grosso problema: il più grande allarme terrorismo promosso dallo stato da vent'anni.

Come al solito, non si sono rivelati efficaci.

Questo pezzo di propaganda diretta del “Guardian” lo rende accidentalmente chiaro:

Naturalmente, le armi che la polizia sta cercando potrebbero magicamente finire sotto il letto. Ricordo la perquisizione della casa di “Charlie Rowley” dopo la morte della povera “Dawn Sturgess”.

 La polizia perquisì l'abitazione per cinque giorni, alla ricerca di una piccola fiala di liquido, senza fortuna.

Poi, incredibilmente, si scoprì che la boccetta di profumo era rimasta in bella vista sul tavolo della cucina per tutto il tempo!

Quella bottiglia di profumo aveva ovviamente qualità miracolose e poteva materializzarsi e smaterializzarsi a piacimento, perché era rimasta inosservata all'interno di un bidone delle donazioni di beneficenza regolarmente svuotato per oltre tre mesi.

 

Suppongo che un gioco di ruolo possa ancora materializzarsi sotto il divano nella ricerca in corso; quando sono coinvolti la polizia e i servizi di sicurezza britannici, le leggi della fisica sono spesso sospese.

Come al solito, i "cinque complotti" di “Ken McCallum” dell'anno scorso non hanno portato ad alcuna condanna, né a prove, e in effetti l'affermazione è stata modesta per “McCallum”, che ha affermato che l'MI5 ha sventato "20 complotti" dal 2022.

Anche quello non era il suo record.

“McCallum” mi ricorda l'uomo che camminava per “St. James' Park” spargendo elastici "per tenere lontani gli elefanti".

 Quando gli è stato detto che non ci sono elefanti, ha dichiarato:

"Vedi, funziona, non è vero?"

“McCallum” ha tenuto a bada una grande quantità di terrorismo iraniano in modo simile.

Ma, insolitamente, nel 2023 uno dei "complotti iraniani" immaginari di “McCallum” ha portato a una vera e propria condanna, e vorrei che consideraste questo come una finestra sulla psiche contorta dei servizi di sicurezza.

 

“Iran International”, finanziata dall'Arabia Saudita.

In un campo affollato, “Iran International” è probabilmente il canale mediatico più losco del mondo.

Un'operazione di nicchia in “lingua farsi” finanziata dall'Arabia Saudita, si rivolge a quegli iraniani che sostengono Israele, sostiene la restaurazione di uno scià e sostengono l'Arabia Saudita.

 

Come ho detto, è molto di nicchia.

Eppure questa piccola operazione mediatica è stata messa in piedi con un investimento saudita di un quarto di miliardo di dollari.

 Sì, avete letto bene, 250 milioni di dollari.

Dove siano finiti davvero tutti quei soldi è una domanda interessante.

 Insistono voci di riciclaggio di denaro e di legami con la criminalità organizzata dell'Europa orientale.

C'è stato un breve periodo, dopo l'omicidio di “Jamal Khashoggi”, in cui i media britannici hanno pubblicato articoli sgradevoli sui sauditi.

 In quel breve lasso di tempo, questo articolo è apparso sul “Guardian”.

“Iran International”, forse non a caso, sostiene specificamente un'organizzazione terroristica araba sunnita che opera in Iran:

 il “Movimento di Lotta Arabo “per la “Liberazione di Ahvaz” – ASMLA.

 Si tratta di un gruppo “etno-nazionalista sunnita” che conduce una lotta armata per la secessione di alcuni distretti arabi dell'Iran meridionale dallo Stato a maggioranza persiana e sciita.

L'ASMLA ha esattamente gli stessi sostenitori segreti di “Hayat Tahrir” al-Sham (HTS) in Siria: ovvero l'Arabia Saudita e gli Stati del Golfo, Israele e i servizi di sicurezza occidentali.

Nel settembre 2018, l'ASMLA ha compiuto un attacco ad Ahvaz, uccidendo oltre 60 persone (anche l'ISIS ha rivendicato l'attacco, ma le due organizzazioni sono collegate).

“Iran International “ha rilasciato un'intervista a un portavoce dell'ASMLA, che ha decisamente sostenuto l'organizzazione, insistendo sul diritto dell'ASMLA alla resistenza armata e rivendicando specificamente la responsabilità dell'attacco come una vittoria.

In un'epoca in cui gli attivisti occidentali vengono regolarmente arrestati per aver sostenuto il "terrorismo" se si oppongono al “genocidio di Gaza”, si potrebbe immaginare che questo sarebbe un reato da parte di “Iran International”.

Ma sostenere i terroristi sostenuti dall'Occidente e dall'Arabia Saudita non è solo tollerato, è la politica ufficiale del governo britannico, e in risposta alle lamentele l'”Ufficio delle comunicazioni del Regno Unito “(OFCOM) ha scoperto che “Iran International” aveva il diritto di intervistare il sostenitore del giusto tipo di terrorismo.

 

Quindi, come si collega questo alla singola condanna di tutti i presunti complotti terroristici di” Ken McCallum”?

Qualcuno di “Iran International” è stato condannato per aver glorificato il terrorismo, giusto?

Non essere sciocco.

“Iran International” è filo-saudita e filo-israeliana e nel dicembre 2023 ha aperto un secondo quartier generale a Washington, DC, con ulteriori finanziamenti della CIA.

 Ricorda che sono sullo stesso lato di HTS. Iran International è la "vittima del terrorismo".

La condanna ai sensi del “Terrorism Act” è stata per aver scattato fotografie dell'edificio del quartier generale dell'”Iran International” a Chiswick.

Nel dicembre 2023” Magomed-Husejn Dovtaev”, un ceceno con cittadinanza austriaca, è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere per aver fotografato il quartier generale dell'”Iran International” a Chiswick, in quanto ritenuto un atto preparatorio per un reato di terrorismo.

L'accusa sosteneva specificamente che “Dovtaev” operava per conto del governo iraniano.

 

Nessuna prova di legame con l'Iran.

Questa è la parte importante.

 In tribunale non è stata presentata alcuna prova di alcun tipo dei legami tra “Dovtaev” e l'Iran.

Non c'era nulla sul suo telefono e nulla di sorveglianza.

Non aveva parlato con nessun iraniano né menzionato l'Iran.

L'accusa ha sostenuto – e non scherzo – che “Dovtaev” era ceceno, che è in Russia, che è geopoliticamente alleato dell'Iran, e quindi probabilmente agiva per conto dell'Iran.

Questo era tutto. Lo era davvero, davvero.

 

Questo argomento ultra circostanziale è comunque sufficiente, ma ignora diversi fattori individuali.

“Dovtaev” è sunnita, quindi non allineato con l'Iran.

Non è certamente uno di quei ceceni alleati della Russia.

La sua famiglia è arrivata in Austria come rifugiati dalla guerra d'indipendenza cecena ed è un nazionalista ceceno antirusso e cittadino austriaco.

Indossava effettivamente l'abbigliamento dell'indipendenza cecena quando è stato fotografato mentre fotografava l'edificio.

L'argomentazione dell'accusa – secondo cui “Dovtaev” dovrebbe lavorare per l'Iran a causa dei legami della Russia con l'Iran – è quindi una totale assurdità.

Ma si adatta alla narrativa ufficiale anti-iraniana che ci viene imposta.

Ed è stata imposta alla giuria.

Potrei aggiungere che le prove che “Dovtaev” stesse effettivamente ispezionando il luogo per qualche secondo fine erano molto solide, e non ne dubito.

Ma non c'erano prove di alcun tipo che lo facesse per l'Iran, o per terrorismo, come sostenuto dall'accusa.

La sentenza non è stata pubblicata, motivo per cui non la linko.

Questa è l'unica condanna per terrorismo iraniano per tutte le false affermazioni di McCallum – e non è stato dimostrato alcun collegamento con l'Iran.

Il che mi porta all'unico altro arresto effettivo – anche se non ancora condannato, fino a questa settimana – in tutti i cosiddetti complotti terroristici iraniani di McCallum.

 Due giovani rumeni sono stati estradati da Bucarest a Londra per aver accoltellato alla gamba un dipendente di ... avete indovinato, “Iran International”.

“Nandito Badea”, 19 anni, e “George Stana”, 23 anni, sono stati arrestati per aver accoltellato a Londra la presentatrice di” Iran International” “Pouria Zerati”. L'assalto è stato ripreso dalle telecamere a circuito chiuso.

 

Propaganda con uno scopo.

Ora, forse ricorderete che all'inizio ho detto che ci sono presunti legami tra le finanze poco sicure di” Iran International” e la criminalità organizzata dell'Europa orientale.

 Ebbene, la storia riportata da Bucarest è che gli imputati ammettono l'accoltellamento ma dicono che era un avvertimento per quanto riguarda un debito aziendale.

Il che, se ci pensiamo, ha molto più senso.

Le telecamere a circuito chiuso mostrano che gli aggressori avrebbero potuto uccidere la vittima, ma invece l'hanno pugnalata alla gamba.

 Questo è un avvertimento della malavita, non un'operazione statale.

 

L'idea che l'Iran sta assumendo adolescenti rumeni a caso per ferire leggermente le persone è una sciocchezza.

Inoltre, la narrazione della "disputa commerciale" non ha infinitamente più senso nel caso di “Dovtaev”, che non aveva legami con l'Iran?

 

Lo scenario del gangster spiegherebbe pienamente perché avrebbe tenuto le labbra ben sigillate su chi lo aveva davvero assunto e cosa stava facendo, anche a costo di una condanna più dura per "terrorismo".

Quindi queste sono tutte le prove concrete, o la loro mancanza, esistenti sui molteplici complotti terroristici iraniani di “McCallum”.

Questo è ora, naturalmente, aumentato da questa nuova narrativa urlata su un attacco iraniano pianificato all'ambasciata israeliana a Londra.

Mentre il” genocidio di Gaza” procede, si potrebbe scrivere un lungo saggio sull'etica dell'attacco a un'ambasciata israeliana (e Israele non ha mostrato moderazione nell'attaccare le sedi diplomatiche di altre nazioni, ma lascerò che questo passi come non rilevante per il caso attuale).

 

Devi chiedere "cui bono?"

L'Iran ha mostrato un'enorme moderazione nell'evitare di essere trascinato in una vasta guerra per Gaza di fronte ai continui attacchi, ed è nel bel mezzo di un teso processo negoziale sul suo programma nucleare.

 L'idea che, in questo momento, attaccherebbe l'ambasciata israeliana a Londra è folle.

Tuttavia, la narrazione serve molto fortemente l'interesse del Regno Unito, poiché il “sostegno al genocidio a Gaza” diminuisce ulteriormente, soprattutto tra i sostenitori del Partito Laburista.

 E naturalmente un attacco del genere, o anche l'accusa di un attacco pianificato, rafforza anche la perpetua narrativa israeliana del vittimismo.

L'organizzazione di questo falso complotto da parte dell'MI5 ora è del tutto prevedibile;

infatti ho predetto operazioni sotto falsa bandiera da quando è iniziato il genocidio.

 

La mia ipotesi è che probabilmente ci sia un'operazione di agente provocatore alla base di questo, in cui alcuni poveri giovani sono stati intrappolati nell'essere d'accordo con dichiarazioni selvagge o un piano di fantasia.

In alternativa, come al solito si rivelerà una completa invenzione propagandistica per influenzare l'opinione pubblica in un momento chiave.

Vale la pena notare che gli Stati Uniti in questi ultimi giorni hanno attualmente concentrati quattro bombardieri B-52 e sei B-2 su “Diego Garcia”.

Si tratta di una concentrazione estremamente rara e indica la preparazione per un'operazione importante;

L'Iran è l'obiettivo più probabile.

Questo tipo di forza è molto più grande di qualsiasi cosa dispiegata contro lo Yemen fino ad oggi.

Questa propaganda anti-iraniana non viene intensificata in questo momento senza alcuno scopo.

 

 

 

 

 

Dagli agricoltori alla

potenza di fuoco.

Unz.com - Rosa Pinochet – (14 maggio 2025) – ci dice:

 

Le esercitazioni di guerra dell'India, la mano silenziosa di Israele e la linea di maglia dei BRICS che nessuno sta guardando.

L'India sta ora trasmettendo le istruzioni per la preparazione alla guerra sulla televisione pubblica.

 Non a bassa voce, non sepolti nei telegiornali a tarda notte, ma nel bel mezzo della giornata, su ogni canale.

Il messaggio è esplicito: ecco cosa fare se si viene attaccati, come trovare rifugio, cosa ascoltare.

Non è più teoria. È un avvertimento travestito da istruzione.

Il subcontinente non è estraneo alle tensioni, ma non si tratta della solita postura di confine.

Il tono ufficiale, il livello di diffusione pubblica e l'agghiacciante normalità con cui vengono presentati questi annunci di pubblica utilità suggeriscono qualcosa di molto più serio.

Il governo indiano non sta semplicemente preparando l'esercito, ma la popolazione.

 

Negli ultimi giorni, la linea di controllo in Kashmir si è illuminata di nuovo con bombardamenti e attività di droni.

Secondo Reuters, il Pakistan ha riferito che tre delle sue basi aeree sono state prese di mira da missili indiani.

Eppure, dopo questa fiammata, è tornata la calma.

L'esercito indiano ha confermato che le aree di confine hanno vissuto una notte relativamente tranquilla dopo l'operazione “Sindoor”, che secondo quanto riferito ha colpito i campi dei militanti in tutta la” LdC”.

 Anche se è stato dichiarato un cessate il fuoco, questa calma sembra meno una risoluzione e più una pausa tra un atto e l'altro.

Ma concentrarsi solo sul Kashmir significa fraintendere il teatro più ampio.

 Il confronto non è locale, è globale.

Questa è la punta visibile di un iceberg che rimodella l'ordine post-Guerra Fredda.

 

Il crescente allineamento dell'India con il blocco allargato dei BRICS, che ora include Russia, Cina, Iran, Arabia Saudita e Brasile, sta capovolgendo il modello unipolare dominato dall'Occidente.

Quello che era iniziato come un forum economico si è trasformato in un contrappeso multipolare, sviluppando rotte commerciali energetiche, sistemi monetari alternativi e reti parallele di condivisione dell'intelligenza.

 L'India, nel frattempo, cammina su una linea precaria, bilanciando legami economici più profondi con Russia e Cina e facendo affidamento sul sostegno alla difesa e alla sorveglianza di Washington e Tel Aviv.

È qui che Israele entra nel campo di battaglia, come al solito.

Sebbene non sia un membro dei BRICS, Israele è profondamente integrato nell'infrastruttura di difesa dell'India.

 Dagli attacchi di Mumbai del 2008, i due paesi hanno forgiato una potente alleanza intorno all'antiterrorismo e alla guerra digitale.

I droni israeliani “Heron” e “Searcher” pattugliano i confini settentrionali dell'India.

 I missili anticarro “Spike” sono schierati attraverso le postazioni avanzate indiane. I sistemi radar aviotrasportati in tempo reale, sviluppati in collaborazione con Israele e Russia, sorvegliano il terreno conteso.

 

Dietro le quinte, i consiglieri israeliani hanno addestrato l'intelligence indiana e le unità di combattimento urbano, e le società di sicurezza informatica israeliane – alcune risorse legate a spyware di livello NSO Group – hanno aiutato l'India a rintracciare il dissenso, le minacce di spionaggio e le reti di ribelli.

 Israele, ufficialmente al di fuori sia della NATO che dei BRICS, è diventato un sistema nervoso centrale nei punti caldi più instabili del mondo, dalle alture del Golan al Gujarat.

Nel frattempo, il fattore Cina incombe.

Il Pakistan si è sempre più rivolto alla tecnologia militare cinese in tutti i settori: droni, sistemi missilistici, array radar.

 L'India, al contrario, si appoggia alle piattaforme occidentali e israeliane.

Come ha recentemente dichiarato il senatore degli Stati Uniti ed ex Navy SEAL “Tim Sheehy”:

"Il Pakistan sembra aver vinto tutte le sue partnership finora con la tecnologia cinese, al contrario della tecnologia occidentale, che l'India utilizza principalmente. Questo non è un nostro vantaggio.

La Cina non è più un 'concorrente quasi alla pari', ma un 'concorrente alla pari' con gli Stati Uniti".

 

Infatti, “Hua Bin” osserva su “Unz”:

 

La scorsa settimana il mondo ha assistito a una guerra aerea sorprendentemente unilaterale tra Pakistan e India.

L'aeronautica pakistana, equipaggiata con sistemi d'arma cinesi, ha abbattuto un gran numero di mezzi di combattimento aereo indiani senza subire perdite.

La battaglia aerea ha visto la partecipazione di caccia J-10C di fabbricazione cinese, missili aria-aria PL-15, sistema di difesa aerea HQ-9 e AWACS ZDK-03.

 Tra le perdite indiane segnalate figurano 3 caccia “Rafale” di fabbricazione francese, 1 Su-30 di fabbricazione russa, 1 MiG-29 e 1 “drone Heron” di fabbricazione israeliana.

Ciò che rende il risultato così scioccante è che il “caccia Rafale”, venduto all'India a 240 milioni di dollari ciascuno, è spesso lodato come il più avanzato jet da combattimento europeo, non è riuscito a combattere nel confronto con il J-10C.

 I missili aria-aria “Mica” e “Meteo”r trasportati da Rafale sono stati scoperti intatti/non sparati tra i rottami.

 

Il J-10C, in nessun modo un caccia arretrato, è considerato ben oltre il suo apice nell'aeronautica cinese i cui caccia più avanzati includono J-20, J-35 (entrambi 5 esimo caccia stealth di nuova generazione), J-16, J-15 (4.5 esimo generazione di caccia multiruolo), per non parlare del 6 esimo caccia di nuova generazione (J-36 e J-50) che sono in fase di test.

Al giorno d'oggi il J-10C è destinato principalmente all'esportazione.

 Il Pakistan li ha acquisiti a 40 milioni di dollari per unità.

 Anche alcune nazioni del Medio Oriente stanno prendendo in considerazione il jet, tra cui l'Egitto.

In genere, l'esportazione militare cinese è una o una generazione e mezza indietro rispetto a ciò che l'EPL si attrezza.

In tutta onestà, “Rafale” sarebbe un forte avversario contro J-10C in un duello testa a testa.

A 240 milioni di dollari, è anche più costoso dell'F-35.

Allora, come ha fatto l'aviazione indiana a subire una sconfitta unilaterale così umiliante contro un'aeronautica pakistana molto più piccola?

La risposta sta nella forza del sistema d'arma cinese integrato utilizzato dal Pakistan.

Piuttosto che utilizzare un miscuglio di armi provenienti da Francia, Russia, Israele e Stati Uniti, come nel caso dell'India, il Pakistan ha utilizzato una suite completa di sistemi di combattimento aereo altamente integrati e sincronizzati provenienti dalla Cina.

Questa divergenza geopolitica e tecnologica non è solo accademica, ma è la realtà del campo di battaglia.

 In un mondo sempre più plasmato dalla guerra informatica in tempo reale, dai flussi di energia e dalla sorveglianza guidata dall'intelligenza artificiale, il fornitore conta tanto quanto la strategia.

E i BRICS, pieni di capitali cinesi e petrolio russo, stanno rapidamente costruendo l'impalcatura di un nuovo ordine.

Ma forse la prima scossa di questo conflitto multipolare non è venuto dal campo di battaglia, ma da un tweet.

 

Nel 2021, quando “Rihanna” ha espresso sostegno agli agricoltori indiani che protestavano contro le riforme agricole, il governo Modi ha reagito come se fosse stato colpito da un attacco aereo.

 Greta Thunberg l'ha seguita.

Delhi ha accusato queste figure di partecipare a una cospirazione internazionale. Una protesta dei lavoratori domestici si era trasformata in una linea di politica globale.

Questa ipersensibilità non era solo teatro politico, era paranoia strategica. Ha rivelato come l'India vedeva sé stessa:

una potenza in ascesa sotto assedio, non solo da parte dei vicini, ma anche da idee, immagini e narrazioni.

Il “tweet di Rihanna” non è stato visto solo come un mal di testa per le pubbliche relazioni, ma è stato trattato come un fronte in una guerra di percezione.

 

E quattro anni dopo, sembra profetico.

L'India non si sta semplicemente preparando per una guerra convenzionale:

 si sta preparando per una crisi multi-dominio che abbraccia confini fisici, cyberspazio, oleodotti, reti satellitari e flussi di informazioni.

 Il Kashmir è un fronte.

Taiwan è un altro. Il Mar Rosso, Gaza, il Mar Cinese Meridionale: tutti frammenti di un intricato sistema di attriti.

Questa non è una guerra mondiale nel senso degli anni '40.

È una guerra in rete, in cui eserciti, media, malware e sistemi monetari si scontrano attraverso fusi orari e piattaforme.

E mentre i BRICS si rafforzano contro le armi economiche occidentali e i loro alleati occidentali si consolidano lungo la costa asiatica, la domanda non è se ci sarà un punto critico.

È se riconosceremo la guerra quando sarà già in pieno svolgimento.

 

Le guerre non hanno più bisogno di dichiarazioni.

Hanno solo bisogno di normalizzazione.

E quando un governo inizia a diffondere pubblicamente istruzioni su come sopravvivere a un attacco, quella normalizzazione è già iniziata.

 

 

 

L'intervista di Jeremy Bowen

 con il capo degli aiuti a Gaza

è stata vergognosa – e lui lo sa.

Unz.com - Jonathan Cook – (14 maggio 2025) – ci dice:

 

Non c'erano scuse per la BBC per seguire Israele nel trattare il capo dell'UNRWA come se fosse allineato con il terrorismo.

Questo tipo di giornalismo vile rende più facile il lavoro di genocidio di Israele.

C'è stato un altro vergognoso reportage da parte di “BBC News “a “Ten” ieri sera, con l'editore internazionale “Jeremy Bowen il principale colpevole questa volta.

Ha preceduto un'intervista con “Philippe Lazzarini”, capo dell'”agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati UNRWA”, con una dichiarazione di non responsabilità del tutto ingiustificata – come se stessi parlando con un terrorista, non con un importante difensore dei diritti umani che ha cercato disperatamente di mantenere aperte le ultime linee di salvezza per gli aiuti alla popolazione di Gaza mentre viene attivamente affamata a morte da Israele.

 

L'unica volta che ricordo che “Bowen” ha preceduto un'intervista in termini così apologetici è stato quando ha intervistato il vice capo politico di Hamas, “Khalil al-Hayya”, lo scorso ottobre.

Anche quello fu vergognoso.

 Ma almeno in quell'occasione, Bowen aveva una scusa:

secondo il draconiano” Terrorism Act” britannico, dire o fare qualsiasi cosa che possa essere considerata un favore ad Hamas può costare una condanna a 14 anni di carcere per sostegno al terrorismo.

Ma perché mai Bowen insinua che le osservazioni di “Lazzarini – sull'intensa sofferenza della popolazione di Gaza nel terzo mese di un completo blocco degli aiuti israeliani – devono essere trattate con cautela, allo stesso modo di quelle di un leader di Hamas?

 

Per un solo motivo.

 Perché Israele, in modo assurdo e per ragioni del tutto egoistiche, sostiene che l'”UNRWA” è una copertura per Hamas.

Da gennaio, Israele ha messo fuori legge l'organizzazione dall'operare nei territori palestinesi che continua ad occupare illegalmente.

 Come sempre, la “BBC” è terrorizzata all'idea di turbare gli israeliani.

Israele desidera da tempo che l'UNRWA esca dai giochi perché è l'ultima organizzazione significativa a tutelare i diritti dei rifugiati palestinesi sanciti dal diritto internazionale.

 Rappresenta quindi un ostacolo significativo alla pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele, che si estende a ciò che resta della loro patria.

Prima di mandare in onda l'intervista a “Lazzarini”, “Bowen” ha avvertito:

"Israele dice che è un bugiardo e che la sua organizzazione è stata infiltrata da Hamas. Ma sentivo che era importante parlare con lui per una serie di motivi.

 

"Prima di tutto, il governo britannico si occupa di lui e finanzia la sua organizzazione.

Che è il più grande che si occupa di rifugiati palestinesi.

Sanno molto di quello che sta succedendo, quindi penso che sia importante parlare con persone come lui".

“Bowen” non prenderebbe mai in considerazione l'idea di introdurre un'intervista con “Benjamin Netanyahu” in modo simile, anche se quanto segue sarebbe in realtà veritiero e molto più meritato:

"La Corte penale internazionale ha emesso un mandato d'arresto per il primo ministro israeliano, accusandolo di crimini contro l'umanità. Ma sentivo che era importante parlare con lui per una serie di motivi.

"Prima di tutto, il governo britannico si occupa di lui e invia armi ai suoi militari per compiere i crimini di cui è accusato.

 Come suo leader, ovviamente sa molto di ciò che Israele sta facendo, quindi penso che sia importante parlare con qualcuno come lui".

 

Riuscite a immaginare che la “BBC “abbia mai presentato Netanyahu in quel modo?

 Certo, non si può, anche se, in termini giornalistici, etici e legali, sarebbe pienamente giustificato.

 

Ma nel caso dei “Lazzarini”, non ci sono assolutamente motivi per un racconto prologo – se non quello di promuovere un'agenda israeliana pro-genocidio.

Le osservazioni di Bowen suggeriscono che ha bisogno di spiegare perché, nel bel mezzo di una carestia organizzata da Israele a Gaza, la “BBC “avrebbe scelto di parlare con una delle figure pubbliche più informate su quella fama.

Il ricorso di Bowen a una spiegazione dipinge immediatamente Lazzarini come problematico e controverso.

 Si allinea con la fusione completamente falsa di UNRWA e Hamas da parte di Israele.

Anche se le affermazioni di Israele sull'UNRWA fossero vere per il personale locale a Gaza – e Israele non ha fornito alcuna prova che lo siano, come chiarisce Lazzarini in un montaggio più lungo dell'intervista andata in onda su” Six O'Clock News “della “BBC” – ciò non coinvolgerebbe in alcun modo Lazzarini.

 Le sue osservazioni nell'intervista, sulle catastrofiche sofferenze di Gaza, sono riprese da tutte le agenzie umanitarie.

 

Il tono di scuse di Bowen non solo è servito a minare il potere di ciò che Lazzarini stava dicendo, ma ha rafforzato le ridicole calunnie di Israele nei confronti dell'UNRWA.

Questo avrà deliziato Israele, e gli avrà dato un po' più di margine di manovra per continuare a morire di fame a Gaza, anche se le prime voci dell'establishment iniziano a chiedere tempo al genocidio – con 19 mesi di ritardo.

Si noti questo anche da Bowen.

Chiede a Lazzarini: "Quando la gente guarderà indietro a ciò che sta accadendo in futuro, vedrà, in realtà, un grande fallimento internazionale?"

Lazzarini risponde: "Penso che nei prossimi anni ci rendiamo conto di quanto ci siamo sbagliati, di quanto siamo stati dalla parte sbagliata della storia. Abbiamo, sotto la nostra sorveglianza, lasciato che si svolgesse un'atrocità di massa".

 

Bowen interviene: "Includeresti il 7 ottobre in questo?"

Lazzarini risponde: "Includerei sicuramente il 7 ottobre".

Ma l'impostazione di Bowen è del tutto ingiusta. Pone a Lazzarini una domanda sul "fallimento internazionale" in relazione a Gaza, e Lazzarini risponde sul fallimento dell'Occidente nel fare qualsiasi cosa per fermare un'atrocità – più propriamente un genocidio – che si è svolta negli ultimi 19 mesi.

Gli eventi del 7 ottobre 2023 sono irrilevanti ai fini di tale discussione. Non c'è stato alcun "fallimento internazionale" nel sostenere Israele. L'Occidente lo ha armato fino in fondo e ha dato la priorità alle sofferenze causate agli israeliani dall'attacco di un giorno di Hamas rispetto alle sofferenze incomparabilmente maggiori causate ai palestinesi da 19 mesi di massacri e fama da parte di Israele.

 

La domanda intromessa da Bowen sul 7 ottobre è una sciocchezza.

È stata introdotta semplicemente per gettare ulteriori dubbi sulla buona fede di Lazzarini nella speranza di placare Israele, o almeno di fornire alla BBC una difesa quando Israele passerà all'offensiva contro Bowen per aver parlato con l'UNRWA.

Le atrocità perpetrate il 7 ottobre si sono verificate nel contesto di decenni di brutale e illegale occupazione militare israeliana dei territori palestinesi, di espansione degli insediamenti e di regime di apartheid, nonché di un assedio di Gaza durato 16 anni.

 

La comunità internazionale era certamente dalla "parte sbagliata della storia", ma non nel senso che Bowen intende o che Lazzarini deduce dalla domanda di Bowen. L'Occidente ha fallito perché non ha fatto assolutamente nulla per fermare la brutalizzazione del popolo palestinese da parte di Israele per tutti quei decenni – anzi, l'Occidente ha aiutato Israele – e ha quindi garantito che i palestinesi di Gaza avrebbero cercato di evadere dal loro campo di concentramento prima o poi.

 

Le osservazioni di Lazzarini sulla catastrofe di Gaza dovrebbero essere viste come ovvie. Ma Bowen e la BBC hanno minato il suo messaggio inquadrando lui e la sua organizzazione come sospetti – e tutto perché Israele, uno stato criminale che affama il popolo di Gaza, ha fatto un'accusa del tutto infondata contro l'organizzazione che cerca di fermare i suoi crimini contro l'umanità.

 

Questo è lo stesso schema di calunnie da parte di Israele che ha affermato che tutti i 36 ospedali di Gaza sono "centri di comando e controllo" di Hamas – ancora una volta senza uno straccio di prova – per giustificare il bombardamento di tutti, lasciando la popolazione di Gaza senza alcun sistema sanitario significativo mentre la malnutrizione e la fama prendono piede.

 

Ieri Israele ha colpito un altro ospedale, l'Ospedale Europeo di Khan Younis, mentre i medici erano in attesa di evacuare i bambini malati e feriti. L'attacco ha ucciso almeno 28 persone e ne ha ferite molte altre, tra cui un giornalista freelance della BBC che stava conducendo un'intervista mentre i missili colpivano.

 

In particolare, BBC News su Ten ha oscurato il volto del suo giornalista, aggiungendo: "Per la sua sicurezza, non riveliamo il suo nome". La BBC non ha spiegato da chi il giornalista aveva bisogno di protezione, o perché.

 

Questo perché la BBC menziona raramente che Israele ha assassinato più di 200 giornalisti palestinesi a Gaza, oltre a vietare a tutti i corrispondenti stranieri di entrare nell'enclave, nel tentativo di limitare la copertura delle notizie e diffamare ciò che viene fuori come propaganda di Hamas. Israele capisce che è più facile commettere un genocidio nell'oscurità.

Si potrebbe pensare che una grande organizzazione giornalistica come la BBC vorrebbe essere vista mostrare almeno un po' di solidarietà con coloro che vengono uccisi per aver fatto giornalismo – alcuni di loro mentre lavoravano per fornire notizie alla BBC. Ti sbaglieresti.

Non dobbiamo fingere che sia stata una scelta di Bowen allegare un disclaimer così vergognoso alla sua intervista. Capiamo tutti che è sotto un'enorme pressione, sia all'interno che all'esterno della BBC.

 

I dirigenti della BBC hanno nominato e protetto Raffi Berg, un uomo che pubblicamente considera un amico un ex alto funzionario dell'agenzia di spionaggio israeliana Mossad, per supervisionare la copertura mediatica dell'azienda.

E come ha riportato il defunto Greg Philo nel suo libro del 2011 " , un redattore della BBC News gli disse all'epoca: "Aspettiamo con timore la telefonata degli israeliani". 14 anni dopo, la situazione è molto, molto peggiorata.

Le scuse non si lavavano più. Siamo da 19 mesi in un genocidio. Aiutare Israele a riciclare i suoi crimini significa diventarne complice. Nessun giornalista dovrebbe permettersi di essere costretto a questo tipo di fallimento morale e professionale.

 

 

 

 

L'intrepido piano di Trump per abolire

 completamente la libertà

di parola in America.

Unz.com - Andrew Anglin – (17 marzo 2025) – ci dice:

Mi sono impegnato a essere onesto sul bene e sul male in cui l'amministrazione Trump si sta impegnando.

L'enigma che sto affrontando è che non c'è davvero molto di buono da indicare.

Tutta questa faccenda è in una spirale mortale.

 

Trump sta chiedendo che “Thomas Massie”, l'uomo che ho indicato come l'unico membro degno del Congresso, sia nominato alle primarie e rimosso dal Congresso a causa della sua mancanza di cieca devozione allo Stato di Israele.

Sta prendendo il controllo delle università e ordinando loro di mettere a tacere tutte le critiche a Israele tra il corpo studentesco, arrestando i titolari di carta verde e deportandoli per aver lamentati dell'omicidio di massa di bambini a Gaza, e dettando la politica universitaria, micro-gestendo non solo le loro regole di protesta, ma anche il loro curriculum quando si lavorano di Israele e delle questioni ebraiche.

È andata così al di là di qualsiasi cosa che la "folla sveglia" di cui i repubblicani hanno passato un decennio a lamentarsi lo ha fatto da essere quasi incomprensibile.

Biden non ha mai preso il controllo della Columbia e ha scritto il curriculum per vietare le critiche alla “DEI”.

 

Se un solo mi dice che non gli importa che un arabo venga deportato perché è arabo, merita di essere trascinato fuori nel mezzo della piazza della città e di farsi estrarre l'intestino da un Apache Brave, ci sono 250 milioni di immigrati in America.

Avete intenzione di sacrificare il Primo perché vi fa sentire bene espellere un tizio?

 

Non sei nemmeno umano.

 

Voglio essere positivo. Ho combattuto più duramente di chiunque altro in questo paese per far eleggere Donald Trump nel 2016.

Dimmi in qualche modo chi ha combattuto più duramente.

Dammi un nome.

 Non potete inquadrarmi come una sorta di piagnucolone anti-Trump. Ovviamente, sono stato critico nei confronti della sua campagna "Israele First" del 2024 e ho detto chiaramente che si trattava di un programma “Israel First”, ma speravo che ci sarebbero stati dei lati positivi.

 

Quali sono i lati positivi?

 

Sta mandando in amministrazione controllata il programma di studi sul Medio Oriente della Columbia.

Tutte le università in America stanno guardando a questo, e tutti stanno al gioco.

Che scelta hanno?

 Marco Rubio sta prendendo il controllo del sistema universitario statunitense per proteggere i sentimenti e la reputazione degli ebrei. Quale possibile interpretazione positiva potresti dare a questo?

 

La gente dice "oh, ma sta facendo anche delle cose buone". Vieni, cosa? Non dirmi questo, e poi non fare esempi.

DOGE? Guardate cosa sta facendo “DOGE”.

Dimmi quali parti sono buone.

Sono sicuro che puoi indicare qualcosa a caso, ma guarda la cosa nel suo insieme e dimmi che è un beneficio netto.

 

Forse la guerra in Ucraina, anche se l'ultima settimana non è stata particolarmente impressionante.

 In effetti, si tratta di una ritirata totale dall'epico incontro di “Zelenskyj”.

 In effetti, sembra che ci siano buone, probabile che le cose tornino come al solito.

È l'unico fronte su cui sono fiducioso, ma al momento in cui scrivo, è una farsa.

 

E l'economia? Cosa sta succedendo? Capisco che ci voglia tempo, ma non è una questione di poco conto.

 Perché non è una priorità?

Perché la priorità è prendere il controllo della Columbia e dare le primarie a “Thomas Massie”?

 

Dimmi le cose positive che stanno succedendo. Dammi una lista. L'USAID ha già recuperato tutti i suoi soldi.

“Elon” se la prende con “Medicare” e la “previdenza sociale”.

 

"Dategli tempo" andrebbe bene se lavorasse a cose buone, ma a cosa sta lavorando?

A sport femminili su una “DEI” totalmente inutile e a sciocchezze transgender?

 Questa è solo una poltiglia emotiva per i contadini, incapaci di comprendere il programma più ampio in atto.

 

Tutto questo è ebraico e le ossa gettate ai sicofanti “fat-americani” non hanno midollo.

 

Se Trump stesse parlando di “BlackRock,” delle compagnie assicurative, dell'uso dell'esercito per le deportazioni, e stesse solo lottando per riuscirci, si potrebbe dire "dategli tempo".

Ma non sta facendo niente di tutto ciò.

Sta parlando di mettere al bando l'antisemitismo e di ripulire etnicamente Gaza.

 

Non c'è praticamente una sola affermazione di questa amministrazione con cui mi trovi d'accordo, a parte gli attacchi alle distrazioni woke, ritardate e inutili.

Come posso dare una svolta positiva a tutto questo?

Non è una domanda retorica.

Di cosa dovrei essere entusiasta?

 

 

 

Terre rare e "reindustrializzazione."

Unz.com - Hua Bin – (14 maggio 2025) – ci dice:

 

Di solito, il “New York Times” non viene menzionato insieme al “Mining Journal” o al “Northern Miner”, le riviste più importanti del settore minerario.

Ma tra il 14 e il 17 aprile, il NYT ha pubblicato 5 articoli con i titoli sottostanti:

La Cina sospende l'approvvigionamento di minerali essenziali mentre si intensifica la guerra commerciale (14 aprile).

Cosa sono le terre rare, l'export bloccato dalla Cina (15 aprile).

Come la Cina ha preso il controllo dell'industria mondiale delle terre rare (16 aprile).

La miniera è americana, i minerali sono cinesi (16 aprile).

Ecco cosa sapere sui minerali delle terre rare e sulle energie rinnovabili (17 aprile).

Ad aprile, il “NYT” ha pubblicato anche questi titoli:

 

“Elon Musk “avverte: la carenza di magneti di terre rare potrebbe ritardare i “robot di Tesla”.

Gli Stati Uniti annunciano un accordo per condividere la ricchezza mineraria dell'Ucraina.

Non solo terre rare: gli Stati Uniti ricevono molti minerali essenziali dalla Cina

Il blocco cinese dei minerali essenziali mette a rischio i programmi militari statunitensi.

I lettori potrebbero essere giustificati nel pensare che il” NYT” stia entrando nell'arena normalmente riservata al settore” mining.com.”

 

È significativo che dal 2 aprile, giorno della "liberazione", il “New York Times” abbia pubblicato più articoli sui metalli delle terre rare che sul potenziale dumping dei titoli del Tesoro USA da parte della Cina.

Il NYT, da parte sua, non si è concentrato su frivole teatralità tipo "2 giocattoli invece di 30" durante la guerra dei dazi.

 La vera carta vincente giocata dalla Cina è il divieto di importazione di terre rare agli Stati Uniti.

In breve, gli acquirenti statunitensi non potranno acquistare minerali di terre rare dalla Cina, nemmeno se fossero disposti a pagare il dazio "reciproco" del 145% (o qualsiasi cifra sia in un dato giorno).

 Con questa mossa, la Cina sta colpendo la giugulare.

 

Il “New York Times” è consapevole dell'importanza centrale dei minerali delle terre rare per la produzione manifatturiera “high-tech e militare statunitense” (ne parleremo più avanti).

 Chiaramente, ora che la Cina ha tagliato l'accesso degli Stati Uniti alle terre rare, sviluppare questo settore è molto più importante per l'economia e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti che assemblare iPhone negli Stati Uniti – un fatto che sfugge naturalmente a geni della finanza come “Miran”, “Navarro”, “Bessent” e “Lutnick”.

 

In effetti, questa dovrebbe essere una priorità assoluta e un banco di prova per la reindustrializzazione degli Stati Uniti, se il regime di Trump fa sul serio.

 Ad esempio, senza terre rare, il tanto decantato programma di caccia statunitense di sesta generazione F-47 sarebbe destinato al fallimento.

Riusciranno gli Stati Uniti a trasformare in realtà il sogno di una reindustrializzazione nel settore cruciale delle terre rare, riducendo la dipendenza dalla Cina?

 Cosa ci direbbe un caso di prova del genere sulle loro prospettive di tornare a essere una potenza manifatturiera?

Approfondiamo l'argomento.

Le terre rare sono metalli grigio-argentei.

Ce ne sono 17, che vanno dal lantanio (numero atomico 57) al lutezio (numero atomico 73), e la maggior parte di esse occupa una riga a sé stante nella tavola periodica a causa della loro insolita struttura atomica.

 

A proposito, Presidente Trump, la tavola periodica non va confusa con il ciclo mestruale delle donne ("sangue che le esce da chissà dove").

La disposizione degli elettroni conferisce loro proprietà straordinarie come la luminescenza (utilizzata per gli schermi degli smartphone) e il magnetismo.

Vengono spesso aggiunti ad altri metalli in piccole quantità per migliorarne le prestazioni; i magneti con terre rare possono essere 15 volte più potenti di quelli che ne sono privi.

Nonostante il nome, le terre rare (REE) non sono particolarmente rare: sono solo difficili da estrarre.

Questo gruppo di 17 elementi si trova sulla crosta terrestre in molti luoghi del mondo.

 

Ciò che rende le terre rare speciali sono le loro proprietà uniche che le rendono essenziali nella produzione high-tech.

 Ecco un elenco incompleto di prodotti che richiedono terre rare per essere realizzati:

 

Smartphone.

Semiconduttore.

Motore aeronautico.

Veicolo elettrico.

Turbina eolica.

Robotica.

Cavo in fibra ottica.

Missile teleguidato.

Radar ad alta frequenza.

Avionica e sistemi di controllo del volo.

Rivestimenti a barriera termica, sensori e ottici.

Drone e razzo.

Occhiali per visione notturna a infrarossi.

Laser di precisione.

Guscio del serbatoio perforante dell'armatura.

L'industria delle terre rare sembra essere quella dominata dalla Cina:

 

Vantaggio della riserva:

la Cina blocca la quota maggiore della riserva globale di REE con il 37%, circa 44 milioni di tonnellate

Dominio minerario: la Cina ha rappresentato 168.000 tonnellate su 240.000 di produzione globale, rappresentando il 70% dell'estrazione totale di terre rare

Monopolio della lavorazione e della raffinazione:

la Cina domina circa il 90% della lavorazione globale delle terre rare, trasformando i minerali grezzi in ossidi, metalli e magneti utilizzabili. Per le terre rare pesanti come il terbio, l'itterbio e l'ittrio, il dominio della Cina è assoluto al 100%.

 Le terre rare pesanti (HREE) sono particolarmente importanti nelle applicazioni ad alta tecnologia e militari (ad esempio il rivestimento di motori a reazione).

Concentrazione di produzione:

6 aziende statali controllano il 90% dell'industria delle terre rare in Cina, come “China Norther Rare Earth” e “Shenghe Resources”.

Gli impianti di raffinazione sono concentrati in 2 province: Mongolia Interna e Jiangxi nel sud della Cina.

Dominanza in ogni parte della catena di approvvigionamento: la forza della Cina nel settore delle terre rare si estende dalle miniere, all'estrazione, alla separazione, fino alla lavorazione e alla produzione di prodotti finali come i magneti.

La Cina possiede tecnologie proprietarie di estrazione, separazione e lavorazione e sviluppa la maggior parte dei prodotti chimici, macchinari, utensili e attrezzature specializzati.

 La Cina possiede di gran lunga il più grande pool di scienziati, ingegneri e tecnici specializzati nel settore delle terre rare al mondo.

Controllo sulla catena di approvvigionamento globale: come accennato, le terre rare si trovano in molti luoghi, tra cui Vietnam, Australia, Myanmar e Stati Uniti.

Ma anche le miniere non cinesi inviano minerali in Cina per la lavorazione, al fine di acquisire know-how tecnico e strutture di lavorazione.

Ad esempio, la miniera di “Mountain Pass in California” inviava la maggior parte dei suoi minerali in Cina per la lavorazione prima della guerra dei dazi.

Competitività in termini di costi e qualità: grazie all'ampia produzione e lavorazione di terre rare (REE) in Cina, nonché al controllo sulle tecnologie chiave, i produttori cinesi sono i più competitivi in termini di costi e qualità.

Sono i produttori cinesi a dettare il prezzo delle “REE “sul mercato globale (che in realtà è piuttosto basso rispetto a quello dei minerali più comunemente utilizzati come litio, nichel o rame, data la natura di nicchia del prodotto).

L'esercito americano fa affidamento sulle terre rare cinesi per produrre gran parte del suo arsenale.

 

Secondo un recente rapporto del CSIS, le terre rare sono essenziali per una serie di tecnologie di difesa, tra cui i caccia F-35, i sottomarini di classe Virginia e Columbia, i missili Tomahawk, i sistemi radar, i veicoli aerei senza pilota Predator e la serie di bombe intelligenti “Joint Direct Attack Munition”.

 

Ad esempio, il jet da combattimento F-35 contiene oltre 900 libbre di REE.

Un cacciatorpediniere DDG-51 di classe” Arleigh Burke” richiede circa 5.200 libbre, mentre un sottomarino di classe Virginia ne utilizza circa 9.200 libbre.

 

Il rapporto del CSIS ha fornito esempi come il modo in cui i jet da combattimento statunitensi dipendono dalle terre rare di provenienza cinese sotto forma di magneti e rivestimenti stealth, rivestimenti per motori.

Ad esempio, l'ittrio è necessario per i rivestimenti dei motori a reazione ad alta temperatura;

Tali rivestimenti a barriera termica fonde sulle pale delle turbine impediscono ai motori degli aerei dirsi durante il volo.

 

Nel 2022, il Pentagono ha temporaneamente sospeso le consegne di jet F-35 dopo che Lockheed ha riconosciuto che una lega prodotta in Cina era in un componente del jet, violando le regole federali di acquisizione della difesa.

Ma ha dovuto esentare Lockheed e riprendere le consegne perché non è stato possibile trovare un sostituto.

Il Pentagono ha finito per violare le leggi statunitensi al fine di costruire armi per combattere la Cina con parti provenienti dalla Cina.

 

Il CSIS ha sottolineato che questo è simile a comprare proiettili dal tuo nemico per combattere lo stesso nemico.

 

D'altra parte, la maggior parte dei cinesi è arrivata a pensare che le aziende cinesi che vendono tali minerali al complesso militare industriale degli Stati Uniti debbano essere processate per tradimento. Ma questa è un'altra storia.

 

Secondo “Govini”, una società di informazioni sull'acquisizione di armi nel settore della difesa, l'inasprimento dei controlli sulle esportazioni di minerali critici da parte della Cina potrebbe colpire più di tre quarti della catena di approvvigionamento di armi degli Stati Uniti.

 

In un rapporto intitolato "Dalla roccia al razzo: minerali critici e la guerra commerciale per la sicurezza nazionale" (un breve documento di 11 pagine facilmente reperibile online), Govini ha identificato 80.000 componenti di armi realizzate utilizzando antimonio, gallio, germanio, tungsteno o tellurio, la cui fornitura globale è dominata dalla Cina, "il che significa che circa il 78 per cento di tutti i sistemi d'arma [del Pentagono] sono potenzialmente interessati".

 

I recenti divieti di esportazione e le restrizioni sui minerali essenziali imposti dalla Cina hanno svelato un segreto di Pulcinella: nonostante la retorica politica, gli Stati Uniti dipendono fondamentalmente dalla Cina per i componenti essenziali dei loro sistemi d'arma.

 

Questi materiali sono fondamentali per la produzione di equipaggiamento militare in tutte le forze armate, dal 61,7% delle armi del Corpo dei Marines al 91,6% di quelle della Marina.

 Negli ultimi 15 anni, l'uso di questi cinque minerali nelle armi statunitensi è aumentato in media del 23,2% all'anno, secondo il rapporto.

 

Tra i componenti chiave menzionati nel rapporto figurano l'uso dell'antimonio nei sistemi di allarme missilistico a infrarossi del piano focale dell'F-35;

del gallio nei radar avanzati AN/SPY-6;

del germanio nei sistemi di rilevamento nucleare e nell'ottica a infrarossi del missile Javelin;

del tungsteno nei proiettili perforanti dei carri armati e del tellurio nei generatori termoelettrici dei droni RQ-21 Blackjack.

 

Il rapporto ha esaminato l'intero processo di produzione di 1.900 sistemi d'arma e ha rilevato che la Cina è coinvolta nella maggior parte delle catene di approvvigionamento, che vanno dall'82,4% nel caso del germanio al 91,2% del tellurio.

 

Ha detto che solo il 19% dell'antimonio necessario per i sistemi d'arma statunitensi era disponibile al di fuori della Cina.

 

"Questa forte dipendenza dall'antimonio raffinato in Cina non solo espone le catene di approvvigionamento critiche della difesa a potenziali influenze politiche ed economiche, ma può anche far aumentare i costi e ritardare i tempi di produzione per le piattaforme militari statunitensi", ha aggiunto il rapporto.

 

Ecco una ripartizione dei sistemi d'arma statunitensi dipendenti da soli 3 REE dominati dalla Cina (antimonio, gallio e germanio):

 

Parti” DoD” che richiedono:

 

Antimonio: 6.335

Gallione: 11.351

Germanio: 12.777

Sistemi d'arma interessati:

 

Marina Militare: 501

Esercito: 267

Aeronautica Militare: 193

Marines: 113

Guardia Costiera: 1

Ci sono 12.486 catene di approvvigionamento che supportano la produzione dei 1.000+ sistemi d'arma realizzati con antimonio, gallio e/o germanio.

L'87% di queste catene di approvvigionamento (10.829) si affida a un fornitore cinese a un certo punto.

 

 

Il rapporto afferma: "il cerchio si sta chiudendo.

Anche l'antimonio estratto in Australia diventa inutilizzabile per i sistemi statunitensi poiché deve essere raffinato in Cina.

 Il risultato: l'88% delle catene di approvvigionamento di minerali critici del Dipartimento della Difesa è esposto all'influenza cinese".

 

"La dipendenza dell'America dalla Cina per i minerali critici rappresenta una debolezza strategica evidente e crescente".

A meno che non venga affrontata, questa debolezza potrebbe presto definire i limiti della deterrenza degli Stati Uniti, non in dollari o in forza delle truppe, ma in termini di scarsità elementare.

 

Dalla pubblicazione del rapporto, i divieti di esportazione di Pechino si sono estesi fino a includere tungsteno e tellurio. Più di recente, Pechino ha posto sotto controllo le esportazioni di altri 7 metalli ad alta energia (HREE), tra cui samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio.

 

Gli Stati Uniti possono costruire un'industria delle terre rare?

 Cosa direbbe questo caso di prova sulla sua prospettiva di rilancio del settore manifatturiero?

 

Come già detto, le terre rare sono reperibili in molti luoghi.

La chiave sta nella capacità di estrarle e lavorarle.

Attualmente negli Stati Uniti non esiste un'intensa attività di separazione e lavorazione delle terre rare.

 

Secondo il “New York Times”, la “MP Materials”, l'unica miniera di terre rare degli Stati Uniti, è in grado di produrre su vasta scala (sia quella attuale che quella pianificata) ciò che la Cina produce in un giorno.

 

È chiaro che questo è un settore che gli Stati Uniti devono costruire. Per farlo, è necessario passare attraverso una serie di passaggi:

 

Depositi minerari prospettici (comprese le miniere fantasma che si dice siano in Ucraina o Groenlandia).

Procedura di autorizzazione e valutazioni ambientali poiché la produzione di terre rare ha un impatto ambientale elevato, un processo che potrebbe richiedere molti anni secondo le attuali normative.

Sviluppare le tecnologie di estrazione, separazione e lavorazione come la lisciviazione chimica dei minerali REE e l'estrazione con solvente.

Costruire strumenti specializzati, prodotti chimici, macchinari e attrezzature.

Costruire gli impianti e le strutture di lavorazione con le relative infrastrutture.

Sviluppare una forza lavoro ingegneristica qualificata.

Proprio come la catena di approvvigionamento dei semiconduttori in cui ASML e TSMC dominano il processo di lavorazione e produzione, la Cina possiede la maggior parte delle tecnologie, delle attrezzature e dei processi proprietari nell'industria delle terre rare.

 Le terre rare si trovano a monte della produzione di semiconduttori come input chiave.

 

Come mossa reciproca per il divieto dei chip che gli Stati Uniti hanno imposto alla Cina, la Cina ha imposto le stesse restrizioni al flusso di tecnologie e macchinari legati alle terre rare verso gli Stati Uniti.

 

Nel dicembre 2023 la Cina ha imposto un divieto alle tecnologie di estrazione e separazione delle terre rare. Ha avuto un impatto notevole sullo sviluppo delle capacità della catena di approvvigionamento delle terre rare al di fuori della Cina, poiché la Cina possiede competenze tecniche specializzate in questo campo che altri paesi non hanno.

 

Ad esempio, ha un vantaggio assoluto nelle tecniche di lavorazione dell'estrazione con solvente per le terre rare, un'area in cui altri paesi hanno sfide sia nell'implementazione di operazioni tecnologiche avanzate che nell'affrontare le preoccupazioni ambientali.

 

Pechino ha inviato un messaggio chiaro: mentre gli Stati Uniti potrebbero tentare di tagliare fuori la Cina dai chip più avanzati e da altre tecnologie all'avanguardia, la Cina potrebbe fare un ulteriore passo avanti tagliando la catena di approvvigionamento a monte.

 

Anche se gli Stati Uniti riusciranno a superare tali restrizioni e a sviluppare le proprie tecnologie, il processo di costruzione delle fabbriche e delle strutture richiederà anni, se non decenni. La sua competitività in termini di costi e qualità con la Cina rimarrà un ampio differenziale, forse per sempre.

 

Nel frattempo, il divario tra la Cina e il resto del mondo nell'estrazione e nella raffinazione delle terre rare (REE) si sta ampliando.

A marzo, è stata sviluppata una nuova tecnologia innovativa chiamata mining elettrocinetico (EKM), guidata dai ricercatori dell'Istituto di Geochimica di Guangzhou dell'Accademia Cinese delle Scienze, che aumenta l'efficienza di estrazione al 95%, riducendo al contempo il consumo energetico del 60%, l'agente di lisciviazione dell'80% e i tempi di estrazione del 70%.

 

È importante sottolineare che, secondo il CSIS, in Cina ci sono decine di università e istituti tecnici che offrono corsi di laurea in estrazione, lavorazione ed estrazione di terre rare.

 Il bacino di capitale umano per le terre rare in Cina è enorme.

Al contrario, negli Stati Uniti non esiste un solo corso di laurea universitario che offra formazione tecnica nell'estrazione e lavorazione di terre rare.

Per riassumere, è improbabile che gli Stati Uniti possano costruire un'industria delle terre rare in grado di soddisfare le sue esigenze di alta tecnologia e militari e competere con la Cina nel prossimo decennio.

 Non può permettersi di interrompere le catene di approvvigionamento globale senza mettere a pentimento le proprie ambizioni economiche e tecnologiche.

 

Reindustrializzare gli Stati Uniti può sembrare semplice per gli sviluppatori immobiliari di New York o per i finanzieri di Wall Street. La cruda realtà è che non hanno idea di come funzioni effettivamente l'industria.

 

In effetti, la maggior parte degli americani si è disconnessa dalla produzione.

Non capiscono davvero cosa richiede la produzione moderna. L'ambizione di risanare l'industria americana è reale, ma gli strumenti su cui Trump si appoggia sono radicati nell'economia e nella finanza (pessima economia e finanza), non nell'industria.

Se gli Stati Uniti vogliono davvero rilanciare il settore manifatturiero, devono ricostruire l'intero ecosistema per sostenerlo.

Non si tratta di ristrutturare un singolo settore, modificare una direzione politica o potenziare una capacità specifica, né tantomeno di aumentare i dazi.

Innanzitutto, dovrebbe costruire nuove fabbriche, acquistare attrezzature, formare i lavoratori, realizzare infrastrutture di supporto e sviluppare processi produttivi. Solo questo richiederebbe anni e genererebbe una produzione minima o nulla all'inizio.

L'investimento iniziale potrebbe facilmente ammontare a molti miliardi e verrebbe interamente incluso nel costo finale.

E questo presupponendo che abbiano il know-how per farlo.

 

Il “reshoring” della produzione è un viaggio lungo e doloroso.

Richiede il consenso di tutta la società, dal governo, alle istituzioni educative, alla politica industriale e alle infrastrutture.

Significa ricostruire le capacità su tutta la linea. Questo non è un progetto al termine di 4 anni.

È un impegno di 20 o 30 anni.

 

La Cina ha attraversato la sua industrializzazione negli ultimi 40+ anni con una pianificazione e un impegno governativo accurato e persistente.

 E anche con questo, i risultati vanno a zig zag a seconda del settore. Lo stesso semplicemente non accadrà oggi nel sistema politico degli Stati Uniti.

 

Come ho già scritto, l'ascesa della Cina come fabbrica globale non è casuale, ma frutto di una meticolosa pianificazione industriale.

Prendiamo ad esempio il piano Made in China 2025 (MIC25):

 ci è voluto un decennio di investimenti e di azioni concrete per raggiungere obiettivi quantificati e tangibili, stabiliti per 10 settori industriali e con oltre 260 parametri specifici.

(huabinoliver.substack.com/p/revisiting-made-in-china-2025-mic25)

 

Per dirla senza mezzi termini, al di fuori della Cina non esiste un livello di capacità statale di pianificazione su larga scala e a lungo termine come questo.

Dopo aver perso contro la Cina nel capitalismo del libero mercato, Trump (e Biden prima di lui) si è rivolto alla pianificazione statale per competere con la Cina.

“ Chips Act”, “Inflation Reduction Act” o “Stargate”, possono sfoggiare slogan di marketing fantasiosi, ma dubito che abbiano una capacità di resistenza.

 Trump ha già distrutto gran parte di ciò che Biden ha messo insieme.

 

Il dominio delle terre rare in Cina è un ottimo esempio.

La Cina ha raggiunto la pole position perché decenni fa ha pianificato di controllare le parti più critiche della catena di approvvigionamento per la produzione di fascia alta come veicoli elettrici, turbine eoliche, smartphone, chip e hardware militare.

La Cina può farlo perché i suoi leader nazionali e locali sono per lo più ingegneri di formazione che comprendono l'importanza di tali bulloni e dadi come le terre rare, le tecnologie di raffinazione/lavorazione e la loro importanza per le industrie del futuro.

Ciascuno degli ultimi tre leader in Cina aveva una laurea in ingegneria:

“Jiang Zemin” con laurea in ingegneria meccanica presso l'”Università Jiaotong di Shanghai”, “Hu Jintao” e “Xi Jinping” con lauree in ingegneria idroelettrica e ingegneria chimica presso l'”Università Tsinghua”.

 

Semplicemente non ci si può aspettare che politici formati come avvocati o finanzieri, che non sanno nemmeno cosa sia una tavola periodica, hanno la capacità di prendere tali decisioni.

Siamo onesti: fare cose è molto più difficile che speculare sulle azioni o far funzionare una macchina da stampa per piccoli pezzi di carta verde con i ritratti dei presidenti morti.

 

L'accordo minerario di Trump con l'Ucraina e l'auspicata annessione della Groenlandia sono entrambi perseguiti con la speranza di ottenere giacimenti di terre rare, che non sono provati in alcun modo.

 Anche se Trump ottenesse i suoi accordi minerari con l'Ucraina, annettesse la Groenlandia e avesse tutto l'accesso ai giacimenti di terre rare, nessuna delle domande di cui sopra riguardanti la tecnologia, i talenti e le dimensioni sarebbe risolta.

 

Il caso delle terre rare illustra anche la differenza fondamentale tra la pianificazione a lungo termine e quella a breve termine tra le aziende cinesi e quelle statunitensi.

Le imprese statunitensi si orientano al profitto a breve termine, mentre le imprese statali cinesi si orientano agli obiettivi a lungo termine.

Per settori come quello delle terre rare, che richiedono un lungo orizzonte di investimenti, anni e decenni di sviluppo, le aziende statunitensi sono intrinsecamente più propense a cedere terreno alla Cina.

Il caso delle terre rare mostra che è improbabile che gli Stati Uniti siano in grado di reindustrializzarsi in un settore molto critico, dove dipendono dalla Cina.

Cosa accadrebbe quando andasse in guerra con un avversario da cui deve procurarsi la materia prima critica per la sua macchina da guerra?

 

Gli Stati Uniti stanno progettando di entrare in guerra con la Cina, che non è solo il loro banchiere (il più grande creditore) ma anche, in modo perverso, il loro ultimo trafficante di armi.

Cosa succede quando i soldi e le armi si fermano? Il regime di Trump può felicemente consultare che con Vladimir "senza carte" Zelenskyj...”

 

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