Esplosione della domanda mondiale di tecno sorveglianza.
Esplosione
della domanda mondiale di tecno sorveglianza.
La
tecnologia realizza l’incubo della
sorveglianza globale: allarme ONU.
Agendadigitale.eu
– (31 Ott.2022) - Angelo Alù – ci dice:
Il
rapporto Onu “Il diritto alla privacy nell’era digitale” ipotizza una vera e
propria moratoria sull’uso e sulla vendita di strumenti di “hacking” invasivi e
auspica l’emanazione di una nuova regolamentazione conforme agli standard
internazionali vigenti in materia di diritti umani.
A
rischio i nostri diritti.
Ecco
perché.
Linee
guida cookie, garante, privacy.
La
privacy digitale è sotto assedio.
Si registra un preoccupante scenario di
cyber-sorveglianza su larga scala e gli utenti sono esposti al pericolo di
generalizzati controlli per effetto di sofisticati spyware sempre più invasivi
in grado di effettuare un monitoraggio personale 24 ore su 24.
In altre parole, lo spazio virtuale sta
assumendo i tratti di un “campo minato” tutt’altro che sicuro e accogliente:
prende
così forma il lato oscuro della Rete con l’avvento del cosiddetto
“autoritarismo digitale” caratterizzato dall’uso pervasivo di sistemi
automatizzati di controllo in grado di erodere la libertà su Internet.
Indice
degli argomenti.
Diritto
alla privacy: il rapporto ONU.
Il
ricorso sempre più frequente degli Stati ai sistemi di sorveglianza massiva.
I
danni di una normativa troppo frammentata.
Il
ruolo della crittografia
Conclusioni.
Diritto
alla privacy: il rapporto ONU.
Lo
mette nero su bianco, ad esempio, anche il recente rapporto delle Nazioni Unite
A/HRC/51/17 – inequivocabilmente intitolato “il diritto alla privacy nell’era
digitale” –
ove si
ipotizza la necessità di una vera e propria “moratoria” sull’uso e sulla
vendita di strumenti di “hacking” invasivi sino all’emanazione di una nuova
regolamentazione conforme agli standard internazionali vigenti in materia di
diritti umani per ridurre l’impatto negativo delle minacce attualmente
configurabili online.
Venendo
progressivamente meno le originarie potenzialità positive legate allo sviluppo
embrionale della Rete come straordinaria fonte divulgativa di informazioni e
risorse distribuite a livello globale, in uno scenario di profonda metamorfosi
dell’ambiente virtuale, pur senza ancora del tutto precludersi la fruizione dei
relativi benefici, è indubbio che, secondo l’analisi delle Nazioni Unite, le
tecnologie stiano diventando gli strumenti ideali per effettuare interventi di
sorveglianza senza precedenti a causa della raccolta automatizzata delle
informazioni estrapolate da ingenti database biometrici che consentono di
processare con estrema facilità e precisione le “identità digitalizzate” delle
persone.
Il
ricorso sempre più frequente degli Stati ai sistemi di sorveglianza massiva.
L’utilizzo
di tali sistemi, lungi dal costituire, come “extrema ratio”, una misura
esclusivamente limitata a contrastare eccezionalmente specifici atti e/o
comportamenti gravemente pregiudizievoli per la salvaguardia dell’ordine
pubblico e della sicurezza nazionale al fine di scongiurare, anche in un’ottica
preventiva, fenomeni delinquenziali (come il terrorismo o la criminalità
organizzata), rappresenta invero un consueto “modus operandi” cui ricorrono
sempre più spesso in via ordinaria le autorità statali.
Sono,
infatti, frequenti le “intromissioni elettroniche” sui dispositivi personali
degli utenti, che confermano così la tendenza ad ampliare in via esponenziale
il raggio d’azione delle tecnologie anche per perseguire finalità illegittime
(ad esempio: la repressione di opinioni dissenzienti), compreso l’effetto
“bavaglio” a discapito di attivisti e giornalisti non allineati alla
“narrazione” ufficiale imposta dal “mainstream” filogovernativo.
A
riprova di tali insidie le Nazioni Unite richiamano le evidenze documentate da “Forbidden
Stories”, nell’ambito di una corposa attività di giornalismo investigativo,
sulle discusse implicazioni del “software Pegasus”, (tra i più noti spyware che
stanno registrando un picco di crescita della relativa domanda in tutto il
mondo), al
punto da indurre persino il Parlamento europeo a costituire una Commissione di
inchiesta ad hoc per indagare in ordine a tali aspetti, sulla falsariga
dell’iniziativa del medesimo tenore assunta dalla Commissione interamericana
per i diritti umani (IACHR).
Gli
strumenti di sorveglianza sono suscettibili di compromettere, mediante modalità
mirate e occulte, la tutela dei diritti umani anche in ragione dell’elevato
numero di presunte vittime dei dispositivi infettati a causa del cosiddetto
“attacco zeroclick” in grado di ottenere l’accesso completo e illimitato a
tutti i sensori (compresi microfono e telecamera), nonché ai dati di
geolocalizzazione, e-mail, messaggi, foto e video e ad ogni altra applicazione
ivi installata, come descrivono con estrema precisione gli approfondimenti
realizzati in materia (richiamati dalle Nazioni Unite nel citato Report
A/HRC/51/17).
In
particolare, entrando nel merito della sua relazione particolareggiata, l’ONU
evidenzia chiaramente che i software di sorveglianza possono essere pericolosi
non solo per la capacità di monitorare i “movimenti” degli utenti, ma
soprattutto perché riescono a “manipolare il dispositivo” mediante tecniche di
“alterazione, cancellazione o aggiunta di file”, con il rischio di “falsificare
prove per incriminare o ricattare gli individui presi di mira”.
I
danni di una normativa troppo frammentata.
Alla
luce di tale scenario, le Nazioni Unite rilevano, come rilevante criticità,
l’esistenza di un panorama normativo troppo frammentato, generalista e obsoleto
che difetta di “leggi chiare e precise”, unitamente ad un preoccupante
“attivismo” governativo nell’adozione di misure di controllo pregiudizievoli
per la salvaguardia della riservatezza individuale, da cui discende un vero e
proprio “vulnus” alla tutela della privacy, anche perché proliferano le
intercettazioni di massa sulle comunicazioni della popolazione (spesso ignara
di tali controlli) e aumenta, a livello globale, l’installazione di telecamere
di sorveglianza presso i luoghi pubblici: in alcune aree del globo, ad esempio,
la densità dei sistemi di videosorveglianza oscilla tra 39 e 115 impianti per
ogni 1.000 abitanti.
Peraltro,
in un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i pericoli per la privacy
degli individui sembrano destinati ad aggravarsi ulteriormente come diretta
conseguenza del cd. “dominio dell’identità” connesso al progressivo
perfezionamento tecnico delle tecnologie di riconoscimento biometrico, reso
oltremodo performante dall’impatto evolutivo dell’Intelligenza Artificiale che
costituisce il substrato tecnologico fondante l’implementazione della
cosiddetta “Smart City”, ove sofisticati sensori sono in grado di raccogliere e
processare una mole significativa di dati con preoccupanti effetti collaterali
di permanente monitoraggio generale a svantaggio degli individui.
In
altre parole, ben oltre le legittime finalità che consentono di giustificare,
in via del tutto eccezionale, il ricorso a invasivi strumenti di controllo suscettibili di
limitare i diritti degli individui, le Nazioni Unite ritengono che, nella
concreta prassi, la sorveglianza pubblica sia stata indebitamente utilizzata, tra l’altro, per identificare e
rintracciare i dissidenti politici, realizzare discriminazioni etniche e
razziali, colpire le minoranze e, in generale, valutare, in una logica di
ortodosso conformismo sociale, l’adeguamento – non necessariamente spontaneo ma
appunto anche indotto – delle persone alle dominanti norme vigenti.
In
controtendenza rispetto a tali discutibili usi, il” Rapporto ONU” subordina
l’applicazione dei sistemi tecnologici di sorveglianza alla condizione che le
relative misure adottate siano sempre necessarie e proporzionate.
Il
ruolo della crittografia.
Al
fine di evitare qualsivoglia rischio di compressione del diritto alla privacy,
l’ONU valorizza il ruolo della crittografia come “fattore chiave” per la
sicurezza online a presidio delle libertà fondamentali, nell’ottica di
consentire alle persone di esercitare i propri diritti e condividere
apertamente le proprie idee e opinioni senza il timore di subire ritorsioni,
censure e limitazioni, purché le competenti autorità pubbliche siano sempre in
grado di “decrittografare” i dati secondo adeguati e proporzionati standard di
tracciabilità, per risalire a qualsiasi messaggio veicolato fino al suo
effettivo mittente.
Conclusioni.
Contestualmente,
le Nazioni Unite sollecitano gli Stati a verificare periodicamente, mediante
trasparenti valutazioni d’impatto (da eseguire durante l’intero ciclo di
progettazione, sviluppo, implementazione e gestione di sistemi di sorveglianza)
i possibili rischi di abuso a danno dei diritti individuali, procedendo a una
generale revisione delle legislazioni attualmente vigenti.
Basterà
una mera raccomandazione “soft” dell’ONU per realizzare un necessario – e
auspicato – cambio di rotta nella prospettiva di rafforzare la protezione dei
dati personali, oppure sembra ormai destinata definitivamente ad avverarsi
l’annunciata profezia sull’imminente “morte della privacy” con l’avvento
pervasivo delle tecnologie digitali?
L’esplosione
dell’intelligenza
artificiale
generativa.
Bugnion.eu
– Simone Milli – (24 settembre 2024) – ci dice:
Come è
sotto gli occhi di tutti, l’intelligenza artificiale generativa (GenAI) sta
conoscendo una crescita esponenziale, rivoluzionando settori diversificati e
ridefinendo il concetto stesso di innovazione tecnologica.
Questa
esplosione di innovazione è stata fra l’altro anche documentata in un recente
rapporto dell’”Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale” (OMPI),
che ha analizzato oltre 54.000 domande di brevetto depositate nell’ultimo
decennio, con un sorprendente 25% depositato solo nel 2023.
L’esplosione
delle domande di brevetto legate alla “GenAI”, e il termine “esplosione” è
certamente fra i più azzeccati, è un indicatore chiave della rapidità con cui
questa tecnologia sta avanzando, nonché della competizione globale che ne
deriva, con la Cina saldamente in testa.
Cercheremo
di esplorare l’evoluzione del panorama dei brevetti nell’intelligenza
artificiale generativa, analizzando le dinamiche che stanno plasmando il futuro
dell’innovazione e della proprietà intellettuale in questo settore.
Il
rapporto tra innovazione tecnologica e attività brevettuale è molto stretto e
d’altro canto anche piuttosto complesso.
I
brevetti, in quanto strumenti legali che conferiscono diritti esclusivi su
invenzioni, sono un indicatore fondamentale della “vitalità” di un settore
tecnologico.
La rapida crescita del numero di brevetti
legati alla “GenAI” riflette non solo l’avanzamento della ricerca scientifica,
ma anche l’importanza strategica che le aziende attribuiscono alla protezione
delle loro innovazioni basate sulla” GenAI”.
E’ da
rilevare che i brevetti nel settore della “GenAI” non riguardano solo le
tecnologie di base, come gli algoritmi e i modelli di apprendimento automatico,
che possono o meno essere applicati a tecnologie tradizionali (impianti,
macchine, apparati di produzione o processo) o essere implementati mediante
calcolatori di tipo tradizionale, ma si estendono anche alle applicazioni
specifiche, come la generazione automatica di contenuti, la sintesi vocale e la
creazione di immagini digitali, che sono in sempre più rapida espansione.
Volendo
analizzare la distribuzione geografica relativi ai depositi brevettuali
afferenti la “GenAI”, è da rimarcare che il ruolo della Cina nel panorama
globale dei brevetti legati alla “GenAI è assolutamente dominante.
Tra il
2014 e il 2023, la Cina ha depositato oltre 38.000 brevetti in questo settore,
superando di gran lunga gli Stati Uniti, che occupano la seconda posizione con
circa 6.300 brevetti.
Questo
dominio cinese non è solo quantitativo, ma anche qualitativo: molte delle
innovazioni brevettate in Cina riguardano tecnologie all’avanguardia che stanno
definendo gli standard globali nel campo dell’intelligenza artificiale.
La
strategia cinese di investimento massiccio in ricerca e sviluppo, combinata con
politiche
governative che promuovono l’innovazione tecnologica e la proprietà
intellettuale, ha portato il paese a una posizione di leadership.
Le aziende cinesi, in particolare colossi
come “Tencent”, “Ping An Insurance”, e “Baidu”, sono tra i principali
depositanti di brevetti a livello mondiale.
Le
aziende cinesi, in particolare, si distinguono anche per la loro capacità di
tradurre queste innovazioni in vantaggi competitivi sul mercato.
“Tencent”,
ad esempio, non solo guida la classifica mondiale dei brevetti nel settore
della” GenAI”, ma sta anche integrando queste tecnologie in una vasta gamma di
prodotti, dalle piattaforme di social media ai servizi finanziari.
Accanto
alle aziende, le istituzioni di ricerca svolgono un ruolo cruciale; questa
sinergia tra ricerca accademica e innovazione industriale è uno dei motori
principali dell’espansione della” GenAI” in Cina, contribuendo a consolidare la
posizione del paese come leader globale.
Ad
ogni modo, non è certo da trascurare il fatto che gli Stati Uniti e la Corea
del Sud continuano a giocare un ruolo importante.
Negli
Stati Uniti, aziende come” IBM” e “Alphabet/Google” sono tra i principali
depositanti di domande di brevetto legate alla “GenAI.
IBM,
in particolare, è nota per il suo vasto portafoglio di brevetti nel campo
dell’IA, che riflette un impegno a lungo termine nella ricerca e nello sviluppo
di tecnologie avanzate.
La
Corea del Sud, con oltre 4.100 domande di brevetto depositate tra il 2014 e il
2023, è un altro attore chiave.
“Samsung
Electronics”, in particolare, ha investito pesantemente nella “GenAI”,
sviluppando tecnologie che spaziano dalla produzione di semiconduttori
all’elettronica di consumo.
La
presenza di questi paesi nel panorama globale dei brevetti dimostra che,
nonostante il predominio cinese, l’innovazione in questo settore è un fenomeno
veramente globale.
Il
rapido aumento dei brevetti legati alla “GenAI” ha implicazioni profonde per
l’innovazione e la competizione globale.
Da un
lato, è noto che la protezione brevettuale stimola l’innovazione, incentivando
le aziende a investire in ricerca e sviluppo.
Dall’altro, però, l’accumulo di brevetti in un
tempo limitato in un settore specifico e strategico può anche portare a una
“guerra dei brevetti”, in cui le aziende utilizzano i loro portafogli
brevettuali non solo per difendersi dalla concorrenza, ma anche per bloccare o
rallentare l’innovazione altrui.
L’espansione
rapida della “GenAI” solleva poi anche una serie di sfide giuridiche ed etiche.
Una delle questioni più complesse riguarda la
proprietà intellettuale e la definizione di cosa può essere brevettato.
Le leggi sulla proprietà intellettuale variano
da paese a paese, e ciò che può essere brevettato in un contesto giuridico
potrebbe non essere brevettabile in un altro.
In buona sostanza, ci troviamo su una terra di
frontiera della brevettabilità e certe invenzioni basate sulla “GenAI”
potrebbero essere tutelabili in certi paesi, mentre in altri essere esclusi
dalla tutelabilità.
Inoltre,
la natura stessa della “GenAI” porta domande sulla paternità delle invenzioni,
che in questi anni sono già in parte arrivate presso i vada uffici brevetti,
senza ottenere una risposta univoca (si veda la vicenda dell’algoritmo
inventore Dabus “ideato dallo scienziato statunitense Dott. Stephen Thale).
Queste
questioni richiederanno probabilmente nuove interpretazioni legali e normative
specifiche.
In
conclusione, l’ascesa della “GenAI” sta trasformando il panorama
dell’innovazione globale, e i brevetti sono al centro di questa rivoluzione.
La
Cina ha dimostrato una capacità straordinaria di capitalizzare su questa
tecnologia emergente, diventando il leader indiscusso in termini di brevetti e
innovazioni
.
Tuttavia, la competizione rimane intensa, con Stati Uniti, Corea del Sud e
altri paesi che continuano a giocare un ruolo significativo.
Il
futuro della “GenAI” e dei brevetti in questo settore dipenderà dalla capacità
dei governi, delle aziende e delle istituzioni di ricerca di navigare le sfide
legali ed etiche che emergeranno.
Mentre
i brevetti continueranno a essere un motore fondamentale dell’innovazione, i
prossimi anni saranno decisivi per determinare come questa tecnologia
influenzerà la società e l’economia globale.
10
anni fa scoppiava il caso Snowden:
ecco
come ha cambiato le nostre vite.
Wired.it
– Philip Di Salvo – (06 -06-2023) – ci dice:
Denunciando
la sorveglianza di massa nel 2013, il whistleblower americano ha cambiato
profondamente il modo in cui guardiamo a internet. Un decennio dopo, viviamo
ancora nelle conseguenze di quelle rivelazioni.
Il 6
giugno del 2013, dieci anni fa, il quotidiano britannico “The Guardian “pubblicava
il primo articolo di una lunga serie dedicata alla “sorveglianza di massa” da
parte della “National Security Agency” (NSA) degli Stati Uniti.
Quel primo articolo si riferiva a come
l’intelligence Usa potesse raccogliere i dati telefonici di milioni di clienti
statunitensi di “Verizon”, uno dei maggiori fornitori di servizi di
telecomunicazione, in base a un’ordinanza top secret.
L’articolo era basato proprio sul testo di
quell’ordinanza, ottenuto dal quotidiano di Londra da una fonte interna alla
NSA cui era stato garantito l’anonimato.
L’articolo
conteneva la prima delle rivelazioni di “Edward Snowden”, ex membro
dell'intelligence Usa e uno dei maggiori “whistleblower” della sua generazione.
A quell’articolo ne sono seguiti decine di
altri che, nel complesso, hanno costruito uno dei maggiori casi giornalistici
di questa epoca, la cui eco si fa ancora sentire a un decennio di distanza.
Al
caso “Snowden” si devono infatti molte cose e in primis una mai così
dettagliata ricostruzione di come funzionino le operazioni di sorveglianza in
questa epoca e quanto diffuse esse siano anche da parte di governi saldamente
democratici.
Per
quanto il focus delle rivelazioni di Snowden fosse principalmente sugli Stati
Uniti e i paesi ad essi più strettamente alleati, i materiali forniti dal “whsitleblower”
hanno mostrato, prove alla mano, le varie possibilità a disposizione dei
governi per raccogliere e analizzare dati prodotti dalla digitalizzazione e
come questa raccolta sia, in molti casi, in pieno contrasto con i diritti
fondamentali.
In secondo luogo, Snowden ha mostrato come, spesso, i
mondi delle “aziende tech” della Silicon Valley e quello dell’”intelligence”
fossero vicini, spesso in modo quasi simbiotico, come nel caso del programma
“Prism”, forse il più noto (ma anche il più frainteso) tra quelli analizzati
dai giornalisti coinvolti nelle indagini dei materiali forniti da Snowden.
Temi
caldi: “privacy” e “data Justice”.
Andando
però oltre i dettagli tecnici della sorveglianza della NSA, si può affermare
come al caso Snowden si debbano molti dei dibattiti pubblici ancora in corso
attorno a temi fondamentali come privacy e data Justice che da allora si sono
susseguiti e che oggi tornano in modo ancora più evidente nel contesto
dell’intelligenza artificiale.
Se il
tema della riservatezza e dei diritti digitali è oggi al centro di buona parte
delle questioni tecnologiche lo si deve in buona parte al” bing bang” iniziato
con il caso Snowden dieci anni fa.
Conseguenze
indirette del caso Snowden sono anche molte scelte normative avvenute negli
ultimi anni, a cominciare dal “GDPR in Europa” fino alla recente multa record
inflitta a “Meta” per come i dati degli utenti europei sono trattati negli
Stati Uniti.
La lista potrebbe però essere però molto più
lunga, proprio perché l’esplosione del caso Snowden, come pochi altri casi
simili in tempi recenti, ha letteralmente tracciato una riga che divide la
storia di internet tra un prima e un dopo.
Tutt’ora,
insomma, è impossibile tracciare tutte le conseguenze di quello che è stato
definito come “Snowden Effect”.
Dieci
anni, nei termini di internet, sono un’eternità, letteralmente un’era
geologica.
Eppure,
i documenti forniti da Snowden ai giornalisti nel 2013 sono tutt’ora di estrema
attualità perché, come ha scritto la ricercatrice “Kate Crawford,” offrono uno
spaccato senza precedenti del periodo storico che ha segnato l'ascesa delle
tecniche che è possibile inserire sotto il generico cappello di “big data” e
che oggi, per esempio, sono al centro di come funzionano strumenti come””
ChatGPT e i “large Language model” (LLM).
I documenti di Snowden, insomma, raccontavano
di come si potessero intercettare a scopi di sorveglianza i cavi sottomarini
che fanno funzionare internet ma, in nuche, includevano già le prime avvisaglie
dell'assetto tecnologico-politico oggi dominante e votato alla quantificazione
e alla datificazioni di ogni attività umana. Questo non significa, certamente,
che prima di Snowden questi temi non esistessero:
nell’accademia
si parla di “surveillance studies” almeno dagli anni ’70 e il mondo
dell’attivismo digitale e dell’hacking ne discute a sua volta da diversi
decenni. Snowden, però, ha fatto di queste questioni un tema in tutto e per
tutto politico, consentendo a queste questioni critiche di entrare direttamente
nelle agende più importanti e più coinvolte, compresa quel settore tecnologico,
da allora estremamente più attento – almeno sulla carta – alle questioni di
privacy e sicurezza.
Un
velo di ipocrisia.
Per
quanto questi temi ora esistano e siano dibattuti più che mai, altrettanto non
si può dire del successo di molte delle battaglie insite nei file di Snowden.
Dirlo solleva non poca amarezza, ma si tratta
di battaglie in buona parte perdute: viviamo, infatti, in un mondo ancora più
sorvegliato - sia da governi che da entità private -e dove gli occhi e i
sensori in grado di monitorarci si sono, se possibile, ulteriormente
moltiplicati nel business come nella politica.
La “sorveglianza biometrica”, per esempio -
quella svolta tramite riconoscimento facciale, tra gli altri – è più in voga
che mai in un campo che è ancora poco o nulla normato, mentre l’”industria
della sorveglianza “ha trovato negli “spyware” – ancora non così sviluppati nel
2013 come sono invece oggi – una nuova direzione di espansione e un ricco
settore di business, anche in Italia.
Le
rivelazioni di Snowden, però, hanno certamente rotto il velo di ipocrisia
attorno al modo in cui parliamo di internet, hanno contribuito alla
demistificazione di diversi miti attorno alla tecnologia e aperto il campo per
far sì che una critica della digitalizzazione possa esistere e avvenire in
spazi pubblici che prima non le erano concessi.
Da un
punto di vista più politico, inoltre, hanno rappresentato un momento di
profonda riflessione sullo” stato di salute della democrazia” e di come questa
possa essere messa in discussione o come internet possa essere usata per scopi
e finalità in contrasto con i principi democratici.
Infine, il caso ha ricordato come il “whistleblowing”
– una pratica le cui origini sono da cercare ben prima di quelle di internet –
sia, insieme al giornalismo, uno strumento fondamentale in una società
governata troppo spesso da “scatole nere” tecnologiche e non il cui scrutinio è
spesso impossibile.
Insieme a “Chelsea Manning”, la fonte delle
maggiori pubblicazioni di Wikileaks, Edward Snowden va indubbiamente
considerato come il “whistleblowe”r quintessenziale della sua generazione,
nonché come uno dei maggiori ispiratori di una serie di fughe di notizie di
rilevanza mondiale che si sono susseguite a partire dal 2013.
La
fuga in Russia.
In
questa storia vi è poi quella personale di” Edward Snowden” stesso e delle
conseguenze che la scelta di diventare whistleblower hanno avuto sulla sua vita
privata.
Dieci
anni dopo, infatti, “Snowden” è ancora formalmente ricercato dagli Stati Uniti
per spionaggio, nonostante sia stato una fonte giornalistica e non altro e
nonostante il profondo interesse pubblico delle sue denunce sia stato
confermato da sentenze di tribunali Usa che hanno definito come “illegali”
alcune delle pratiche denunciate da Snowden stesso.
Né
Obama, né Trump prima né Biden ora hanno optato per far cadere i capi di accusa
contro Snowden che, se condannato, verrebbe con ogni probabilità incarcerato
per scontare una pena molto lunga, come già “Chelsea Manning” e gli altri “whistleblower”
statunitensi che hanno esposto denunce nell’ambito della sicurezza nazionale.
Nel frattempo, Snowden si trova da dieci anni
in Russia, paese dove è diventato padre due volte, dove si è sposato e di cui
ha recentemente ricevuto il passaporto.
È bene
ricordare, perché la questione è ancora spesso ritenuta controversa, che
Snowden non si trova in Russia per sua scelta, ma per le conseguenze della
revoca dei suoi documenti americani avvenuta mentre il whistleblower si trovava
in scalo a Mosca e in viaggio verso l’Ecuador, paese ad avergli concesso asilo
politico nel 2013, contrariamente a qualsiasi altro governo occidentale.
Non ci
sono dubbi che la Russia, già dieci anni fa, ma specialmente ora, sia forse il
peggior luogo dove trovarsi per Snowden – che ha comunque in più occasioni
contestato il regime – ma le energie spese in editoriali per attaccare Snowden
e il suo presunto non essere sufficientemente coraggioso (o peggio) nel
criticare il Cremlino potrebbero essere spese nel fare pressione sulle nostre
democrazie affinché sia tesa una mano, dieci anni dopo, nei confronti del
whistleblower.
Anche
dopo un decennio, però, la spinta per la caduta delle accuse statunitensi,
richiesta da più parti, o in alternativa per una qualche forma di clemenza o
sostegno diplomatico, sembra essere l’unico tra i riconoscimenti non a
disposizione di Edward Snowden.
Tecnologie,
mercati e regolazione
dell’economia: il caso
dell’intelligenza
artificiale.
Dirittobanacario.it – (15 Ottobre 2024) - Giovanni
Luchina, Professore di diritto – ci dice:
Di
cosa si parla in questo articolo:
“AI
Act” - Intelligenza Artificiale.
SOMMARIO: L’individuazione degli effetti sulla
regolazione dell’economia inerenti all’uso dei sistemi di intelligenza
artificiale è l’obiettivo principale del presente contributo.
L’approvazione
dell’”AI Act” apre una serie di prospettive d’indagine concernenti l’intensità
della regolazione e gli obiettivi della medesima, incalzata dalla presenza di
players internazionali che detengono significative quote di mercato nel
settore.
Appare
degno di rilievo il fatto che l’esigenza della regolazione nel campo
dell’intelligenza artificiale costituisce la ragione fondamentale di un
approccio non soltanto economico-giuridico ma anche geopolitico nella
prospettiva di rendere l’Unione europea come il maggiore competitor delle
grandi Big Tech a livello mondiale.
Il
contributo si prefigge di individuare, infine, le tecniche di regolazione nel
campo dell’intelligenza artificiale aventi a riguardo gli effetti sull’economia
e le strategie politico-economiche della Commissione, che persegue l’obiettivo
della cosiddetta sovranità digitale europea.
1. La
velocità con la quale si sviluppano le nuove tecnologie richiede un approccio
regolatorio che garantisca una pluralità di soggetti coinvolti dalle produzioni
delle medesime e/o dal loro utilizzo, in particolare nel campo
dell’intelligenza artificiale che sembra essere uno dei campi nei quali il
giuridico (è costretto a) rincorre(re) l’economico.
Si
tratta, invero, di una tendenza che non riguarda soltanto l’implementazione e
l’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale ma anche, di conseguenza,
l’impatto dei medesimi su settori dell’economia come quello dell’ambiente e
dell’energia che, soprattutto negli ultimi anni, hanno (ri)acquistato una certa
centralità nella regolazione giuridica, sia sovranazionale sia domestica.
La
stagione della programmazione dell’economia, d’altro canto, ha prodotto
l’accentuazione del fenomeno regolatorio tanto che la fase attuale può essere
considerata da un lato, come del consolidamento dell’approccio europeo volto ad
entrare sempre di più nelle dinamiche giuridiche, dall’altro, della
restituzione allo Stato di una certa intensità regolatoria a presidio del
funzionamento di taluni mercati e dell’implementazione del suo ruolo nella
programmazione dell’economia (quindi, dal punto di vista promozionale).
Nel
caso dell’intelligenza artificiale, sulla quale il legislatore è intervenuto
quando già le imprese leader del settore hanno irrobustito la loro posizione
nel mercato globale, il tema è particolarmente rilevante, fra l’altro, nel
quadro dell’incidenza del regolatore sul presente del mercato e sul futuro del
posizionamento europeo.
Tali
questioni sono direttamente connesse alle modalità attraverso le quali il
legislatore europeo ha strutturato la fisionomia della regolazione
dell’economia, o di taluni suoi profili, o comunque degli obiettivi perseguiti
dal regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, recentemente approvato
dopo una lunga gestazione, considerata la complessità e l’ampiezza delle
situazioni giuridico-economiche ivi disciplinate.
Del
resto, l’esigenza della regolazione in un campo come quello dell’intelligenza
artificiale si palesa nella sua ineluttabilità in quanto essa si caratterizza
per essere una “disruptive Technologies” considerata la sua portata, per dir
così, inerente, potenzialmente, ad una pluralità di ambiti, attività,
situazioni giuridiche soggettive e posizioni giuridiche economicamente
rilevanti.
Da
tale cambiamento radicale emerge l’orizzonte conformativo del diritto (spesso
connotato non dalla creazione di nuove categorie giuridiche ma dall’utilizzo di
quelle esistenti) che obbliga i mercati nei quali la tecnologia innovativa è
assente o in via di formazione a “rincorrere”, come si diceva poc’anzi, lo
sviluppo delle tecnologie da parte dei Paesi c.d. follower in un settore
esposto ad enormi profitti e a forte impatto nelle relazioni economiche.
Basti
pensare ai servizi bancari e a quelli assicurativi, alla sua applicazione nel
settore turistico o alle problematiche connesse ai diritti di proprietà
intellettuale che com’è noto, possono essere attribuiti solo a persone fisiche
e giuridiche (il tema è, dunque, quello della individuazione dell’entità
creativa), a quello del patrimonio culturale (in termini di ampliamento delle
possibilità di fruizione, miglioramento dei servizi e di implementazione delle
forme cooperative), all’uso in campo giudiziario o sanitario (ambito clinico,
diagnostica, sorveglianza delle malattie infettive, ecc.) e così via, fino a
lambire il terreno del neuromarketing «che conduce comportamenti sotto la
soglia di consapevolezza personale».
Per
tale ragione, nel contesto suindicato, il ruolo del legislatore non può che
essere quello di tracciare percorsi di intervento proattivo in termini di
formazione di uno spazio unico europeo dell’intelligenza artificiale quale
segnale di un’attenzione crescente rispetto a tecnologie ad alto impatto
economico e sociale, geopolitico e strategico (basti pensare
all’implementazione dei sistemi connessi alla difesa e alla sicurezza
nazionale) che importa considerazioni che fanno riferimento sia agli aspetti commerciali
globali sia alla tutela dei diritti dei soggetti più vulnerabili sia, infine,
alla competitività delle imprese.
Del
resto, sotto il profilo teleologico, è l’art. 179 TFUE che indica nello
sviluppo tecnologico uno degli obiettivi dell’Unione europea nel quadro della
politica industriale, con un’impronta orientata alla collaborazione interna e
internazionale e alla più ampia diffusione dei risultati della ricerca.
E, su
questo versante, la direzione impressa dalle autorità europee sembra seguire il
tracciato disciplinare costituito dalla base giuridica contenuta nel trattato
di Lisbona (in termini di applicazione del modello economico di riferimento),
oltre ad essere diventata, come si diceva poc’anzi, una necessità derivante dal
rapido sviluppo delle tecnologie di frontiera.
«Plasmare
la trasformazione digitale», del resto, costituisce probabilmente il principale
obiettivo politico che il Parlamento europeo ha posto dinanzi alla Commissione
al fine, tra l’altro, di attivare forme di sviluppo che generino vantaggi in
favore delle imprese europee, specialmente nei settori dell’economia circolare,
della meccanica, del turismo e di altri settori rilevanti:
la crescita della data economy, dunque,
rappresenterebbe il completamento delle iniziative in tale settore che vede
l’Unione europea occupare significative quote di mercato nella industria
digitale e nelle applicazioni business-to-business.
E, infatti, per rendere effettivo questo
“progetto” le risorse stanziate costituiscono un’importante leva per sostenere
le imprese (pubbliche e private) al fine di implementare il settore (come
dimostra l’esperienza statunitense e dei Paesi asiatici).
2. La
regolazione dell’economia (in generale delle tecnologie di frontiera e, in
particolare, quella prevista dall’AI Act) riguarda ed interessa aspetti che
attengono a numerosi profili attinenti alle conseguenze economiche scaturenti
dalla produzione e dall’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale.
Non
può non rilevarsi, innanzitutto, come una delle “preoccupazioni” principali del
recente regolamento europeo faccia emergere, fra i suoi scopi precipui, quello
della tutela del mercato interno, con una serie implicazioni che involgono il
posizionamento dell’Unione europea nel mercato mondiale della produzione di
sistemi di IA.
Con il
che si è soliti indicare una duplice visuale:
sia
dell’efficienza economica sia degli aspetti extraeconomici del mercato e, in
qualche caso, anche ultra economici (una nuova prospettiva che fa riferimento,
per l’appunto, all’uso delle tecnologie innovative per l’ottimizzazione dei
processi produttivi, per la riduzione dei costi e per il miglioramento della
qualità dei prodotti e dei servizi).
In tal
senso, la regolazione europeo è incentrata a tenere insieme sia lo sviluppo
delle tecnologie per lo sviluppo dell’economia sia la tutela delle libertà
fondamentali.
E
potrebbe aggiungersi che la prospettiva extraeconomica attiene altresì agli
aspetti legati alla tutela dei diritti sociali con conseguenze dirette non
soltanto sulle amministrazioni pubbliche ma anche sulle imprese in termini di
responsabilità sociale: i sistemi di IA utilizzati nel settore pubblico
impongono una «responsabilità digitale» delle imprese, quale portato della più
ampia “Corporate Social Responsabilità”, alla luce degli effetti sociali che
l’utilizzo dei sistemi di IA possono produrre nel momento nel quale le imprese
utilizzano dati e tecnologie. Oltre tutto, l’approccio, non solo quello
eticamente responsabile ma anche giuridico, assume una portata maggiore a
seguito dell’approvazione della direttiva n. 1760 del 13 giugno 2024 che, per
l’appunto, delinea il quadro della regolazione spostandolo dalla dimensione
prettamente volontaristica a quella più propriamente giuridica, almeno per
quanto attiene agli obblighi statali, a maggior ragione in un settore dominato
dal rischio com’è quello dell’intelligenza artificiale, in chiave trasformativa
involgente cioè la comprensione e l’adattamento delle attività dell’impresa
alle dinamiche macro-sistemiche.
L’impianto
disciplinare ha cura, fra l’altro, di tenere in considerazione le nuove
tecnologie avendo a riferimento l’impatto attuale o potenziale delle medesime
allorquando le imprese avviano attività economiche in nuovi mercati e aree
geografiche o convertono ad altro settore le loro attività imprenditoriali per
il tramite dell’uso delle nuove tecnologie.
L’Unione
europea si propone di svolgere un ruolo da leader nel campo della intelligenza
artificiale e, dunque, si autocandida quale soggetto, per dir così, rilevante
nel mercato, anche se, sotto certi aspetti, sembrerebbe agire in chiave
difensiva non essendo l’Unione europea un’entità fra le più accorsate quale
produttore di sistemi di IA.
L’erompere
dell’IA ha innescato un processo definibile “rivoluzionario” (si parla, a tale
proposito, di “quarta rivoluzione industriale” come teorizzata dal citato “Klaus
Schwab” in termini di crescita esponenziale del livello di interconnessione
generata dalle tecnologie) in quanto la sua presenza è oggi un elemento che
involge una serie di settori economici, oltre che profili etici di rilevanza
basica con riferimento all’uso dei sistemi, che implica la scelta di un modello
di regolazione nel quale non appare più sufficiente la regolazione nazionale e
probabilmente neppure quella dell’Unione europea, trattandosi di aspetti di
natura globale difficilmente eludibili.
Sta di
fatto che lo stesso regolamento dell’UE produce i suoi effetti non soltanto nel
mercato interno ma anche per l’appunto in quello globale – cioè sulle imprese
di paesi terzi – avendo la sua regolamentazione una proiezione internazionale
resa evidente dal fatto che la posizione di mercato dell’Europa non è
paragonabile a quella né degli Stati Uniti d’America né della Cina.
La
prima, madre delle grandi imprese tecnologiche, utilizza un approccio
regolatorio assai sfumato, se non assente, quale conseguenza della tradizione
giuridica di quel Paese fondato sulla self-regolazioni.
Si
tratta di un modello di regolazione definibile residuale che si fonda su una
sorta di diritto naturale delle imprese ad autodeterminare le proprie regole.
E, in più, la strategia del decisore politico
è orientata a far prevalere le politiche di espansione delle grandi industrie
tecnologiche di quel Paese attuando, di fatto, politiche protezionistiche che
sembrerebbero essere lontane dal modello economico di riferimento che, com’è
noto, predilige la tutela del mercato aperto e in libera concorrenza e, dunque,
un modello che non dovrebbe lasciare spazio a politiche domestiche di
protezione del mercato interno.
Eppure
è proprio nel Paese dell’ultraliberismo e dell’anarco capitalismo che
l’intervento statale a finalità protezionistiche si è fatto strada in maniera
alquanto decisa non solo considerando le ultime misure introdotte
dall’amministrazione Biden ma anche osservando storicamente il forte impulso
dato da vari governi federali al sostegno pubblico alle imprese per lo sviluppo
tecnologico. Si tratta della ben nota politica che presenta elementi dello
sviluppismo, nel senso cioè dell’instaurazione di un modello che vede nel
rafforzamento e nella cooperazione fra soggetti pubblici (lo Stato, in primis)
e l’impresa, in un contesto capitalista e concorrenziale, il motore dello
sviluppo economico in un processo dinamico di interazione nel quale emergano e
si consolidino i rispettivi ruoli (in tal caso, non consideriamo le specifiche
differenze fra singoli Paesi dove la forma di Stato può essere democratica
ovvero autoritaria).
In
sintesi, l’approccio statunitense potrebbe essere assimilato a talune modalità
operative nel campo dell’intervento pubblico tipiche dello Stato sviluppista
nel quale si realizza la formula cooperativa pubblico-privata per tenere
insieme lo Stato, le imprese e la società civile il cui connubio è sorretto da
fondamenta istituzionali costituite per dar vita ad uno sviluppo economico a
lungo termine.
La
seconda, al contrario, adotta un metodo di regolazione definibile centralizzato
e a struttura verticale (comando and control) che punta a realizzare un
meccanismo di controllo del potere delle compagnie, oltre che, naturalmente,
del mercato medesimo: si tratta, in definitiva, di set di regole volte a
controllare non soltanto gli effetti delle pratiche derivanti dall’utilizzo
dell’intelligenza artificiale ma anche a indirizzare le scelte di investimento.
Norme
che hanno sì una valenza tecnica ma anche giuridico-politica perché la
prospettiva è quella di esercitare un controllo per limitare il potere delle
suddette compagnie come prevedono, ad esempio, le recenti leggi di quel Paese
sulla sicurezza dei dati, sulla “Personal Information” e quella sulla “Cybersecurity”.
Sulla
linea mediana si colloca la normativa dell’”Unione europea” che, come
precedentemente accennato, ha l’ambizione di svolgere un ruolo dominante nello
scenario globale con un obiettivo forse a lei stessa estraneo, almeno fino a
questo momento, cioè realizzare un cambio di impostazione consistente nello «spostamento
dalla tecnologia alle regole».
Si registra un cambio di passo in ambito europeo
considerato come la legislazione UE sia stata, per dir così, allineata a quella
degli Stati Uniti rispetto, ad esempio, al tema della irresponsabilità degli
intermediari digitali.
Si
evidenzia un profilo d’interesse che attiene al rapporto tra nuove tecnologi e
regolazione, oggetto di una rinnovata attenzione negli ultimi anni in
considerazione dell’esplosione di talune di esse e della necessità di prevedere
forme di regolamentazione che operino sia in funzione di controllo delle
possibili criticità derivanti dal suo utilizzo sia d’impostare un corpo di
regole in funzione della prevedibilità di talune circostanze potenzialmente
lesive dei diritti fondamentali, sia, infine, di indirizzare il sostegno
economico delle imprese verso l’innovazione tecnologica senza sconfessare
l’impostazione originaria del principio del mercato aperto e in libera
concorrenza.
L’Unione
europea, come certifica la “Banca europea per gli investimenti” nella sua
relazione relativa al 2018-2019, non tiene il passo con la concorrenza
mondiale, anche a causa delle scarse attività di ricerca e sviluppo svolta
dalle imprese.
In tale contesto, vengono in rilievo le
disposizioni contenute nella disciplina sugli aiuti alla ricerca, sviluppo e
innovazione tecnologica che, nell’ambito delle possibili attività di sostegno a
favore delle imprese, si rivolgono a quelle attività, fra le quali quelle
inerenti all’intelligenza artificiale, rivolte allo sviluppo sperimentale come
«l’acquisizione, la combinazione, la strutturazione e l’utilizzo delle
conoscenze e capacità esistenti di natura scientifica, tecnologica, commerciale
e di altro tipo allo scopo di sviluppare prodotti, processi o servizi nuovi o
migliorati, compresi i prodotti, processi o servizi digitali, in qualsiasi
ambito, tecnologia, industria o settore» o ancora nell’ambito della ricerca
industriale in termini di «ricerca pianificata o indagini critiche miranti ad
acquisire nuove conoscenze e capacità, da utilizzare per sviluppare nuovi
prodotti, processi o servizi o apportare un notevole miglioramento ai prodotti,
processi o servizi esistenti, compresi prodotti, processi o servizi digitali in
qualsiasi ambito, tecnologia, industria o settore».
Del resto, lo stesso “AI Act” considera in modo
positivo il sostegno economico alle PMI e, in particolare alle start-up, le
quali peraltro, ai fini della concessione dei finanziamenti, non sono soggette
all’obbligo della notifica preventiva costituendo una delle ipotesi previste
dal “GBER” (Regolamento sulle esenzioni per determinate categorie di aiuti
orizzontali) per le quali la Commissione accorda agli Stati un certo favore ai
fini della concessione di interventi di sostegno delle imprese (ma che non esclude controlli
successivi in ragione, ad esempio, di una denuncia da parte di terzi).
3. Il
concetto di «adeguata regolazione» – che costituisce l’approccio della “good
regulation” su base europea prevalentemente rivolta all’economic rationale –
riguarda sia ai «limiti» e alle «direttrici di uno sviluppo apparentemente
irreversibile» che attiene alla «priorità dell’umano» sia alla latitudine
dell’intervento normativo in ordine agli sviluppi della tecnologia e in
relazione alla sfera d’intervento pubblico in termini di elasticità o di
rigidità delle proposizioni contenutistiche.
L’adeguatezza
della regolazione, dunque, può svilupparsi in termini più o meno ampi,
diminuiti o semplicemente proclamati, vaghi o dettagliati, ecc. in relazione al
ruolo che lo Stato e, in generale, gli attori pubblici (sovranazionali e
globali) svolgono nell’economia.
Così,
nel campo dell’intelligenza artificiale l’adeguata regolazione, per quel che
concerne il suo impatto sull’economia, può avere differenti modalità di
approccio.
L’”AI
Act”, ad esempio, prevede una serie di disposizioni inerenti alla regolazione
economica che fanno riferimento alle tecniche tradizionali utilizzate
dall’Unione europea consistenti nella previsione di controlli o di ordini al
fine di influenzare i players del mercato europeo ma, soprattutto, la
regolazione sembra inserirsi in un solco regolatorio che vede l’Unione europea
sempre più protagonista nella regolazione pubblica.
Anzi,
potrebbe dirsi che l’”AI Act” si collochi a pieno titolo in una scia che ha
come obiettivo la regolamentazione di fenomeni complessi derivanti
dell’implementazione delle nuove tecnologie nelle quali il mercato europeo
appare “subire”, per così dire, la spinta delle imprese globali del settore.
Va
rilevato, in ogni caso, come la regolazione sia complessa con elementi di varia
natura fra i quali gli strumenti tipici del “command and control” (regolazione
diretta), procedure dettagliate, valutazioni (impatto sui diritti
fondamentali), monitoraggio.
Invero,
se nella teorica della regolazione questo può comprimere le politiche
d’incentivazione economica, nel caso delle tecnologie di frontiera la
“missione” delle autorità europee (e nazionali) è quella della regolazione per
incentivi attraverso la quale il regolatore indirizza una determinata politica
per implementare, come nel caso delle tecnologie, ricerca, sviluppo e
innovazione. In questo senso, la regolazione, nel caso dei sistemi normativi
basati sul rischio, si fonda sul bilanciamento degli interessi coinvolti, cioè
tutela dei diritti e impulso all’innovazione.
4.
L’espressione «sovranità digitale europea», utilizzata anche nel quadro delle
politiche relative all’IA, indica una prospettiva cosmopolitica e anti sovranista
all’interno dell’UE considerato che, in particolare in questo campo,
l’isolazionismo può essere foriero di difficoltà dal punto di vista della
costruzione del mercato concorrenziale del digitale e delle tecnologie di
frontiera.
In
definitiva, il tentativo è quello di riarticolare il potere digitale
all’interno dell’UE quale “terza via” tra la self-regulation e l’accentramento.
La
«sovranità digitale» ha un significato che opera, per così dire, per
sottrazione: le spinte interne volte a proteggere gli Stati dalle “intrusioni
tecnologiche” foriere di rischi e di incertezze (giuridiche ed economiche) e la
protezione delle stesse imprese dall’erompere delle tecnologie
dell’intelligenza artificiale (come lo stesso AI Act enuncia) può essere intesa
anche secondo un’altra visuale caratterizzata da una concezione della sovranità
digitale come ambito di qualificazione di un percorso giuridico di respiro
europeo, sottraendo, dunque, agli Stati i tentativi di polarizzazione
isolazionista in termini di imposizione di regole «sulle attività e
sull’economia della rete, persino se transnazionali e globali»; si spiega,
così, anche l’utilizzo del regolamento quale strumento di armonizzazione.
Esigenze
di sviluppo economico e capacità di innovazione spiegano l’insistenza sul tema
della sovranità digitale europea quale formula politica di sostegno al progetto
giuridico, proprio del regolamento IA, consistente nell’uniformare la
legislazione ai valori, ai principi e ai diritti fondamentali dell’Unione.
Non solo, ma l’intelligenza artificiale può
«fornire vantaggi competitivi fondamentali alle imprese e condurre a risultati
vantaggiosi sul piano sociale e ambientale, ad esempio in materia di assistenza
sanitaria, agricoltura, sicurezza alimentare, istruzione e formazione, media,
sport, cultura, gestione delle infrastrutture, energia, trasporti e logistica,
servizi pubblici, sicurezza, giustizia, efficienza dal punto di vista
energetico e delle risorse, monitoraggio ambientale, conservazione e ripristino
della biodiversità e degli ecosistemi, mitigazione dei cambiamenti climatici e
adattamento ad essi».
Si
tratta di un approccio post-vestfaliano, nell’ambito della cui teorica viene in
evidenza l’apertura alle culture dei singoli Stati e alla tutela delle
differenze, che segna una torsione non trascurabile nei confronti delle istanze
di “protezione statuale” delle dinamiche economiche.
Si
riscontra, dunque, una tipologia di regolazione mista o comunque contaminata da
istanze di protezione del proprio posizionamento sul mercato (come nel
ricordato caso degli Stati Uniti d’America) e da prospettive di crescita e di
sviluppo delle tecnologie a fini economici e sociali.
Oltre
tutto, vengono in evidenza i presupposti del cosiddetto costituzionalismo
digitale il cui costrutto teorico pone in luce la prospettiva dei limiti al
potere dei grandi agglomerati digitali, peraltro non collocati sul territorio
dell’UE ma che nell’UE operano attraverso l’attività lobbistica.
In
tale contesto, il regolamento IA rappresenta un potenziale (ma forse solo
illusorio) limite al potere delle corporation che possono influenzare le vite
dei cittadini/consumatori europei e le economie dei Paesi membri.
La
sovranità in quanto espressione del potere assoluto e perpetuo modula il suo
esercizio in funzione di un obiettivo di carattere europeo, in ossequio alla
trama teorica habermasiana della sovranità condivisa che proprio nell’ambito
delle nuove tecnologie, e in particolare dell’IA, trova una immediata formula
consensuale nella sua applicazione concreta.
Se la
c.d. sovranità digitale possa rappresentare l’avvio per la realizzazione di un
nuovo percorso di regolazione finalistica è una questione che appare di
difficile determinazione considerando che, dal punto di vista normativo, il
modello economico europeo di riferimento, il sistema di attribuzione delle
competenze e il crescente ruolo dell’Unione europea nell’ambito delle politiche
industriali globali e così via sembrano non consentire di percorrere una via
tangenziale.
La
globalizzazione della sorveglianza.
Sussidiarita.net
– (10 GIU. 2023) - Alessandro Colombo - Carlo Vignola – Ci dicono:
L’anacronistica
domanda di sicurezza in Occidente, insieme alla caduta di sovranità, sta
producendo società sempre in allerta, con l’ansia del pericolo costante.
E
questo non fa che generare forme di controllo sempre più invasive verso
cittadini impauriti.
Una pratica che mette in discussione valori
accertati e lungamente condivisi. Istigata da una tecnologia che in materia ha
gioco facile.
Una
fotografia rischia di essere un tratto caratteristico nella nuova
configurazione del mondo.
Dei mondi.
Là dove le relazioni non possono avere una
possibilità positiva se il criterio prevalente è la mentalità securitaria.
Si
tratta di un deficit, prima di tutto, di cultura.
Emergenza
delle emergenze.
“Il
XXI secolo – scrive “Alessandro Colombo”, esperto di politica internazionale,
nel suo ultimo saggio, Il governo mondiale dell’emergenza (Cortina) – ha avuto,
fino a questo momento, un andamento ironico: iniziato in modo quasi solenne
all’insegna del mito dell’irreversibilità (della democrazia liberale, del
capitalismo, delle organizzazioni internazionali e del ‘nuovo ordine mondiale’
nel suo complesso), gli sono bastati meno di vent’anni per finire immerso in un
clima dilagante di insicurezza.
Questa
insicurezza rovescia una dietro l’altra le aspettative celebrate nell’epoca
d’oro dell’ordine liberale, tra la seconda metà degli anni Ottanta e gli anni
Novanta dell’ultimo secolo:
la fine della guerra, l’avvento di un mondo
senza confini, la maturazione continua del tessuto multilaterale della
convivenza internazionale, l’allargamento e, in prospettiva,
l’universalizzazione del mercato e della democrazia, la mancanza di alternative
praticabili alla democrazia liberale”.
In
pratica, appunto, la fine della globalizzazione.
O almeno la fine di un certo modello di
globalizzazione, basato sul liberismo economico e sul profilo unipolare della
politica internazionale.
In
mezzo, tra le illusioni di “Francis Fukuyama e le paure “di oggi, c’è un convitato
di pietra, qualcosa che pensavamo di aver relegato ai confini del nostro mondo
e della nostra psiche collettiva: la guerra.
Non c’è dubbio – dice Colombo – che una
rinnovata situazione di belligeranza quasi permanente (Iraq, Libia, Siria,
Ucraina…) “sia destinata a cambiare in profondità il contesto internazionale:
rimilitarizzando
le relazioni tra i principali attori, spingendo ancora più avanti la pericolosa
tendenza alla bipolarizzazione del sistema, spezzando la stessa globalizzazione
in aree politico-economiche sempre più coese al proprio interno e sempre più diffidenti
verso l’esterno”.
Eppure,
nonostante il fallimento delle “promesse irrealistiche” di trent’anni fa, al
crollo del comunismo, “esse continuano a costituire la matrice, o persino
l’unità di misura, attraverso la quale le élite politiche e intellettuali
interpretano e valutano la realtà attuale, con il risultato di non riuscire mai
a fare i conti sino in fondo con le ragioni della sua crisi”.
Un
mondo unipolare.
E
l’enfasi eccessiva, anacronistica sulla questione della sicurezza
dell’Occidente, saldandosi oggi con il “declino della sovranità” finisce,
paradossalmente, per mettere in gestazione una società pericolosa per il
cittadino, la quale esercita “una sorveglianza diretta contro i violatori
dell’ordine politico, giuridico, persino morale, più che contro nemici
propriamente politici, sottratta al controllo delle opinioni pubbliche”.
Tutto
questo, naturalmente, facilitato e quasi istigato da una rapida evoluzione
della tecnologia che permette ormai di tenere sotto controllo i cittadini e le
loro idee “uno per uno”.
Protagonisti
della grande utopia liberale fallita sono stati soprattutto gli Stati Uniti e
le loro “promesse di palingenesi”, il tono quasi messianico della “religione
civile della transizione al mercato e alla democrazia, in un catechismo
quotidiano di racconti edificanti”.
Tutto
un armamentario ideologico che alla prova della storia non ha funzionato
affatto:
quello
di un mondo unipolare, dice Colombo, accoppiato alla “presunta neutralità della
tecnica”, di volta in volta economica, sanitaria, ambientale o di polizia,
rivestita dall’impianto retorico della lotta al terrorismo e alla
“radicalizzazione”.
I
segnali di scomposizione del quadro “sono inequivocabili:
la spinta (politica più ancora che economica)
a ‘riportare a casa ’ attività in precedenza delocalizzate, almeno in settori
nuovamente dichiarati ‘strategici’ quali quello sanitario e quello energetico;
la riscoperta della promessa di ‘confinamento’
e ‘messa in sicurezza’ dei confini dei singoli Stati nazionali e delle stesse
organizzazioni regionali, ‘Unione Europea compresa’”.
La
risposta alla crisi sarebbe “la tentazione di smontare, e semmai rimontare, la
globalizzazione in spazi più ristretti e solo attorno ad attori, principi e
progetti compatibili con i propri”.
Il
pericolo di una società morbosa.
Questa
ossessione per la sicurezza, e il mito parallelo della centralità delle
soluzioni politiche occidentali, sono per Colombo il terreno di coltura di una
società autoritaria di nuovo in costruzione, in cui l’esercizio libero del
pensiero non è più un’opzione socialmente interessante, situazione paradossale
proprio in quel mondo liberale che della difesa della libertà del singolo ha
sempre fatto il suo cardine.
La sua
controfigura è quella che “Ivan Illich” chiamava “una società morbosa”,
ipocondriaca, sempre spaventata:
“Non
soltanto nelle cosiddette autocrazie, ma anche negli Stati liberali, la
sorveglianza sembra aver imboccato una dinamica di crescita senza fine”.
Riprese a circuito chiuso dotate di sistemi di
riconoscimento facciale, videocamere di controllo ovunque, localizzatori GPS,
programmi di intercettazioni su vasta scala delle comunicazioni, banche dati
del DNA sono tutti dispositivi che “renderebbero quasi impossibile sfuggire i
tentacoli di un regime totalitario”.
Quella
che Colombo chiama “la Repubblica del Bene e i suoi Custodi”, entrambi
maiuscoli, si profila come una “globalizzazione della sorveglianza” in cui le
grandi compagnie diventano i più strenui difensori dell’ordine sociale
esistente, molto più dello Stato nazionale in declino.
Così
l’ordine internazionale non si propone solo come un ordine politico, e neanche
semplicemente come ordine economico sovra-statuale, ma come un “ordine morale
indefettibile”, che emana le sue leggi e applica le sanzioni molto severamente
al suo interno, e innesca una guerra permanente con tutto il mondo che sta al
di fuori dei suoi confini, geografici e culturali, convinto che la sua
superiorità tecnica e morale siano tutt’uno.
Professor
Colombo, perché siamo scivolati in questo stato di “insicurezza permanente”?
Il
fatto è che negli anni Novanta ci siamo dati un criterio totalmente
irrealistico: abbiamo ritenuto che essere sicuri significasse non essere più
esposti ad alcun tipo di sfida, di alternativa, di smentita, di competizione
politica o economica.
Era un
criterio destinato, evidentemente, a naufragare.
La mia
sensazione è che da alcuni anni stiamo reagendo in modo esagerato, a volte
quasi paranoico alle difficoltà che incontriamo.
Nella
storia, e a maggior ragione nella sfera politica, ci sono sempre stati dei
competitors, ci sono sempre state delle alternative, e anche dei pericoli.
Tutte
cose a proposito delle quali invece si sono ascoltati in questi anni quasi
degli “annunci dell’Apocalisse”.
Faccio l’esempio più banale: abbiamo avvertito
fin dall’inizio nella crescita della Cina una minaccia catastrofica; credo che
sia figlia anch’essa dell’illusione di poter vivere senza più competitors.
La sicurezza
del cittadino è un elemento chiave di qualsiasi società: ma una società non è
solo autoprotezione.
Certo.
È un
po’ un vizio originario dell’ordine politico moderno, che nasce molto
fragilmente fondato, incapace di darsi una base forte di legittimità.
E dall’inizio scambia questa incapacità con la
promessa di sicurezza che, però, diventa la sua ossessione.
Noi
viviamo in un universo che è securitario non occasionalmente, questo è il
nostro modo di concepire lo scambio di diritti e doveri tra Stato e cittadino:
ciò che ci aspettiamo dall’ordine politico è anzitutto sicurezza.
Questa
diffidenza verso il mondo esterno ha l’aria di essere una debolezza culturale,
prima che politica.
Credo
che sia uno dei principali ritardi culturali che, soprattutto noi europei, ma
in parte anche gli americani, stiamo soffrendo da diversi decenni:
non vogliamo fare i conti con il fatto che i
tre secoli nei quali siamo stati al centro del mondo siano finiti.
Non è tanto, come si dice spesso, un po’
retoricamente, un fastidio che noi proviamo nei confronti dell’“altro”, no, chi
è diverso da noi ci dà fastidio quando si emancipa dalla propria posizione di
debolezza.
A noi
gli altri piacciono finché sono ammassati sui barconi, è quando escono dalla
loro condizione di precarietà e ci sfidano che non li sopportiamo.
Questo è il problema.
Quando
troviamo dei soggetti che sono totalmente diversi da noi, e che mettono in
discussione la tradizionale pretesa occidentale di parlare a nome della
comunità internazionale, noi replichiamo con una serie di scorciatoie, come
quella che ha inventato l’amministrazione Biden da un paio d’anni a questa
parte:
la contrapposizione fra autocrazie e
democrazie, che è un modo proprio di voler evitare il problema, non volerlo
vedere.
Non
eravamo i paladini del pensiero critico, capace di mettere in discussione anche
sé stesso?
La mia
sensazione è che ci sia appunto un collasso di tipo culturale.
È l’ultimo esito di una filiera educativa in
profonda crisi, ed è un’osservazione che non vale affatto solo per l’Italia:
osserviamo
una rescissione dei rapporti con la grande cultura del passato, un ripiegamento
quasi claustrofobico nella contemporaneità.
Basti
pensare a come vengono continuamente ristretti i corsi di Storia all’interno
dell’insegnamento universitario.
Con la
retorica degli anni Novanta sulla “fine della Storia” ci siamo abituati
all’idea che noi viviamo in un contesto che non solo non ha un futuro, ma in
realtà non ha neppure un passato, perché vive dentro la sua “perfezione”.
È un’idea che abbiamo introiettato non solo a
livello intellettuale ma anche politico ed economico.
Siamo
tutti dentro questo incanto.
Io in università tengo uno dei miei due corsi
in inglese e vengono studenti anche da altri Paesi europei:
a volte chiedo ai ragazzi chi di loro abbia
letto Dostoevskij, o Thomas Mann o altri autori giganteschi, che hanno fatto
parte della nostra formazione: oggi quasi nessuno li conosce.
C’è un
processo di analfabetizzazione di massa impressionante.
Io credo che questo abbia anche un impatto
sulla nostra capacità di comprendere gli altri: non soltanto non li
comprendiamo dello spazio – il mondo che non è “Occidente” –, ma non li
comprendiamo neanche nel tempo, giudichiamo tutte le civiltà del passato con le
categorie nostre, per cui finiamo in una spirale autistica, giudichiamo tutto a
partire da noi.
Ma
l’autismo è una forma patologica.
Lei
sottolinea il rischio legato all’infiltrarsi ovunque della tecnologia digitale,
che si “mangia” una dimensione essenziale nelle società moderne: la sfera privata.
Sì,
vedo il convergere di una serie di cose che mi fanno paura.
E sulle quali non abbiamo alcun controllo.
L’aumento
esponenziale della capacità tecnologica credo, purtroppo, che sia un processo
difficilmente governabile.
Negli
ultimi anni si è diffusa una disponibilità crescente alla sorveglianza
reciproca. Nel cuore delle società liberali emerge un carattere che somiglia
alle derive totalitarie del Novecento: tutti controllano tutti.
Il senso di essere sotto minaccia spinge verso
una diffusione della sorveglianza che non è più, com’era fino a qualche
decennio addietro, una sorveglianza dall’alto ma – cosa ancor più preoccupante
- dal basso, diffusa, nella quale tutti hanno fretta di partecipare al gioco.
È un
fenomeno che ha delle dimensioni quasi ludiche, in superficie, quello che
adottiamo adoperando i social media: io non li uso, dall’inizio ho avvertito
come pericolosa l’idea di un mezzo come Facebook attraverso il quale uno guarda
dal buco della serratura le vite degli altri.
Eppure,
ormai è uno standard generalizzato delle nostre relazioni sociali.
All’inizio sembra divertente, poi – a poco a
poco – ci si intossica e si diffonde questa abitudine a guardarsi di soppiatto,
o, peggio ancora, a sapere di essere guardato.
Io
personalmente cerco di evitare in tutti i modi le occasioni in cui posso essere
scovato, non perché abbia qualcosa da nascondere ma mi dà un fastidio fisico
essere osservato.
Conosco
però individui che passano le giornate a spiare la vita degli altri.
I
mass-media, che dovrebbero essere strumenti di pensiero critico, sono molto
omologati.
È inquietante il livello di conformismo anche
dei nostri giornali.
Hai la
sensazione di leggere sempre lo stesso articolo, in parte perché le fonti sono
sempre le medesime:
un
giorno leggo su un quotidiano inglese qualcosa di polemico sul primo ministro
britannico, il giorno dopo ritrovo essenzialmente lo stesso articolo su qualche
giornale italiano, e lo stesso vale naturalmente anche viceversa.
Diventa
una specie di enorme gioco della ripetizione.
Il
capitolo conclusivo del mio ultimo saggio l’ho dedicato alla ripresa di quel
meraviglioso libro che è “Gli ultimi giorni dell’umanità” di “Karl Kraus”,
uscito nel 1918, in cui c’è la figura del “capannello”, nel quale si finisce
quotidianamente per ripetersi sempre le stesse cose, che hanno un contenuto
aggressivo;
è la
condizione nella quale ci troviamo noi, credo, con la differenza che quel
capannello non si riunisce più per le strade di Vienna ma ovunque.
La
mentalità liberale, nei secoli passati, aveva una nota di fondo più empirista,
prudente: oggi è diventata utopista, e moralista, non trova?
Io
credo la cultura diffusa oggi sia estremamente moralista, ma senza una
dimensione utopica, che è stata una delle grandi vittime del Novecento.
Nel secolo scorso noi abbiamo vissuto delle”
utopie sanguinarie “che si sono scontrate tra loro, e per seppellirle ci siamo
appiattiti in una dimensione atemporale, non c’è più utopia né curiosità;
questa
è l’altra cosa che emerge dai nostri processi educativi, sia scolastici che
universitari, tutto davvero si sta riducendo a una semplice e pura tecnica di
gestione dell’esistente.
L’idea
stessa che ci possa essere una realtà diversa da quella in cui già stiamo
vivendo, sbiadisce.
Chi
ancora la conserva appare come un individuo antidiluviano.
Lei
descrive un mondo in cui la vecchia sovranità statale è in declino, e quel po’
di vena anarchica che c’è in noi ci fa pensare che, avendo uno Stato meno
forte, siamo destinati a essere più liberi: invece rischiamo di esserlo di meno.
La
crisi di tutte le istituzioni in cui noi abbiamo fatto in tempo a crescere – lo
Stato, la famiglia, la scuola – alla fine ci espone a una vulnerabilità.
Le
risposte delle istituzioni sono sempre state più o meno carenti, ma erano delle
risposte.
Oggi
la fiducia che queste istituzioni possano soddisfare il nostro criterio di
sicurezza non l’abbiamo più, e il risultato è una spirale di incertezza che si
porta dietro una richiesta davvero quasi paranoica di protezione, un clima
culturale che poi diventa inevitabilmente anche molto intollerante.
Il mercato politico ne è dominato, ormai è una
gara a chi riesce a fare più paura su qualche aspetto della vita sociale:
a chi
rivendica la paura di qualche cosa, gli altri rispondono con una paura diversa.
Bisognerà fermarsi, uscire almeno qualche minuto da questa spirale e ragionarci
un po’.
L’alternativa
cos’è, riprendere in mano l’uso della ragione?
Non lo
so, l’alternativa credo che sia cercare, nei limiti del possibile, di sottrarsi
a questo gioco che non fa che aumentare continuamente la pressione sociale a
uniformarsi.
Io
vedo una serie infinita di meccanismi omologanti, ovunque.
Meccanismi
che puniscono duramente qualunque forma di non conformità.
E questo è pericoloso.
Noi
diciamo che nei Paesi cosiddetti autocratici il capo si circonda solo di “yes
men”:
ma
anche da noi ce n’è un intero circo!
Più
che la ragione, oggi, a noi basterebbe già recuperare un po’ di senso del
ridicolo.
(Alessandro
Colombo è professore ordinario di Relazioni internazionali all’Università
Statale di Milano.)
Smart
City più sicure con le nuove
tecnologie
e le telecamere di
rete
intelligenti.
Safetysecuritymagazine.com
– Redazione - Cristian Randieri, PhD – (10-2-2024) – ci dice
Diversi
fattori tra loro convergenti, quali il crescente bisogno di sicurezza urbana,
l’esigenza di una maggiore fruibilità di servizi pubblici e di diffusione delle
informazioni, nonché l’attenzione sempre maggiore rivolta al risparmio
energetico e all’ambiente, hanno spinto le grandi aree metropolitane di tutto
il mondo a ripensare la modalità attraverso cui gestire la sicurezza di ogni
cittadino secondo i più moderni canoni della Smart City.
Oggi
una città a misura d’uomo, più sicura, con una comunicazione efficace, un
turismo florido e un’aria più salubre non può prescindere dall’uso combinato
delle moderne tecnologie che assieme rientrano nella definizione concreta del
concetto di Smart City.
La
città intelligente, intesa come tale, è un progetto urbanistico in grado di
connettere tecnologia e capitale umano capace di rendere più sostenibile
l’ambiente in cui viviamo migliorando la vita dei cittadini, riducendo al tempo
stesso l’impatto ambientale dello sviluppo e rendendo più accessibili i
servizi.
La
sicurezza urbana è da sempre stato un argomento molto controverso e ampiamente
dibattuto che riguarda la gestione delle città. Oggi la prevenzione delle nuove
forme di crimine richiede un controllo sempre più capillare del territorio,
imponendo alle amministrazioni locali costi rilevanti a cui si sommano i
continui tagli alle forze dell’ordine, mettendo in crisi la capacità di
monitoraggio della sicurezza dei cittadini.
Se poi
consideriamo le frequenti catastrofi naturali che affliggono il nostro paese, e
l’accentuata instabilità politica sul territorio (sia nazionale che estero) da
cui scaturiscono nuovi rischi ambientali e terroristici, si manifesta sempre
più l’esigenza di avere una maggiore capacità non solo di prevedere e prevenire
ma soprattutto reagire tempestivamente alle potenziali situazioni di crisi. In
tutti questi aspetti le tecnologie più moderne svolgono un ruolo di fattore
abilitante fondamentale se usate con intelligenza e lungimiranza.
Il
principio guida alla base di qualsiasi Smart City usa l’innovazione per
migliorare la qualità della vita delle persone con il fine di accrescere il
loro benessere equo e sostenibile favorendo allo stesso tempo la nascita e il
consolidamento di una comunità destinata a crescere sempre più nell’immediato
futuro.
Sotto
il profilo della sicurezza anticrimine, se da un lato le città del futuro hanno
la possibilità di sfruttare nuove soluzioni tecnologiche sempre più
intelligenti, dall’altro, il più delle volte il loro pieno utilizzo si trova ad
essere limitato da infrastrutture di comunicazione poco efficienti accompagnate
da una visione “miope” da parte delle Pubbliche Amministrazioni.
Queste
ultime dovrebbero cambiare il modo di considerare e progettare la sicurezza dei
propri cittadini passando dalla cultura dell’emergenza a quella della
prevenzione, senza trovarsi a dover intervenire impreparati e all’ultimo minuto
per provare a salvare il possibile.
Gli
investimenti della pubblica amministrazione dovrebbero essere mirati ad un
effettivo miglioramento della sicurezza anziché migliorarne semplicemente la
percezione comune.
Di
contro i professionisti della sicurezza hanno un ruolo altrettanto importante
che non può semplicemente limitarsi a quello di comparsa, poiché sono chiamati
in prima linea col ruolo di autentici artefici del cambiamento.
Sono
proprio le aziende di settore che investono maggiormente in ricerca e sviluppo
(R&S) ad essere le maggiori candidate nel proporre e suggerire soluzioni
ancor più sostenibili ed efficaci.
Ciò
che ancora oggi manca è la cultura e la concretezza per far in modo che il tema
Smart City sia attuabile anche nel nostro paese, senza che questa rimanga
solamente un’idealizzazione di un concetto futuristico pressoché
irraggiungibile. Più nel concreto, nelle nostre comunità bisogna realizzare
progetti in cui mettendo al centro le persone si riesca ad interpretare le loro
percezioni in merito a come si sentano protetti all’interno del contesto in cui
vivono. Per esempio sarebbe necessario andare oltre i tipici messaggi della
protezione civile e le allerte meteo, favorendo invece la cultura della
prevenzione e della sicurezza.
Considerato
che i problemi che interessano le grandi città sono in scala gli stessi delle
piccole comunità ma con esigenze diverse, è proprio a partire da ciò che la
tecnologia da adoperare per contrastare il crimine deve essere adattata al
meglio alle specifiche esigenze di un mondo criminale in continua evoluzione.
Nelle
Smart City la sicurezza è un bene fondamentale e primario poiché alla base
della coesione sociale, proprio per questo una città intelligente deve essere
considerata un luogo sicuro. Per questa ragione la tecnologia deve non solo
coinvolgere attivamente anche i cittadini, ma anche agevolare gli interventi
delle Forze dell’Ordine.
Attualmente
le diverse migliaia di telecamere che sorvegliano di continuo le nostre città
supportano il servizio d’ordine pubblico in modo poco ottimale ed efficiente
poiché la maggior parte delle volte non sono interconnesse ad un unico centro
servizi, limitandosi a delle semplici registrazioni difficili anche da
consultare.
Da qui
la necessità di ricondurre la sicurezza di una città non tanto all’esplosione
numerica delle telecamere installate, quanto al privilegiare la loro
integrazione, la gestione e l’analisi delle immagini a favore dell’impiego più
efficace delle nuove tecnologie. In un contesto di continua crescita della
popolazione è naturale aspettarsi anche un aumento del crimine direttamente
proporzionale alla relativa densità.
Crimine
che nelle città intelligenti sarà sempre più evoluto e che spingerà le Forze
dell’Ordine ad essere sempre pronte e più preparate nel garantire la sicurezza
anche a fronte dei nuovi scenari molti dei quali imprevedibili.
In
quest’ottica, il ruolo della moderna videosorveglianza è emblematica viste le
potenzialità di un simile strumento.
Per
migliorare la sicurezza di una città, contrastando i crimini e assicurando
l’ordine pubblico, bisogna intervenire in modo capillare partendo dal basso,
ovvero dalle strade, utilizzando le telecamere di rete (o più comunemente
telecamere IP o Network Camere) come strumento di prevenzione e di indagine sui
reati commessi.
La
videosorveglianza cittadina oltre ad essere uno strumento vero e proprio per
garantire la sicurezza, aiuta le persone a sentirsi più sicure a casa loro,
proteggendo le strutture e le infrastrutture più critiche da minacce ambientali
e criminali.
Negli
anni l’evoluzione della videosorveglianza ha potenziato il valore di tale
tecnologia migliorando non solo nel fronte della sicurezza ma anche in quello
del “Decisione Support System”, offrendo nuovi strumenti a supporto della
pianificazione degli interventi immediati ed in tempo reale.
Grazie
alle nuove modalità di visione, tipologie di registrazione e di connessione, la
video sorveglianza di ultima generazione (molte volte definita col termine
videosorveglianza 2.0), è largamente apprezzata in ogni ambito della sicurezza
delle persone e delle cose.
Il fulcro di tale evoluzione è intrinseco
nell’utilizzo delle telecamere di rete che unitamente ad una migliore gestione
delle informazioni associate alle immagini con un maggiore livello di dettaglio
e di analisi diventa uno strumento fortemente strategico se applicato
nell’ottica dei “Big Data”.
I più
moderni sistemi di ripresa IP integrati con una nuova intelligenza applicativa,
potenziano ancor più il valore della videosorveglianza.
Le
telecamere di rete più moderne, infatti, sono da considerarsi dei veri e propri
sensori hi-tech capaci non solo di catturare immagini ad una qualità superiore,
ma anche di integrare al proprio interno degli algoritmi di analisi che oggi
rappresentano un tassello fondamentale della moderna tecnologia definita con
l’Internet of Things (IoT) intesa come elemento basilare su cui poggia l’intero
concetto di Smart City.
Quando
si parla di “IoT” ci si riferisce ad oggetti intelligenti (ovvero capaci di
avere una capacità di elaborare i dati internamente) interconnessi tra loro,
meglio identificati come un nodo di una rete tipicamente ethernet. Facendo leva
su queste nuove tecnologie è possibile incrementare la qualità dei servizi
associati alle attività di monitoraggio e di controllo, introducendo una nuova
capacità di identificazione e tracciabilità delle informazioni atte a favorire
uno sviluppo sempre più virtuoso delle Smart City.
Da
quando i sistemi di videosorveglianza fanno di internet un elemento strutturare
è stato possibile acquisire sempre più informazioni interpretabili con un
orizzonte di comprensione contestuale più ampio che spazia dal miglioramento
del flusso del traffico al sostegno dei servizi on-demand
.
Secondo i più noti analisti del settore risulta che se siamo ancora all’inizio
di uno sviluppo massivo che caratterizzerà un mercato della videosorveglianza
sempre più dinamico ed in continua evoluzione.
In Italia l’ANIE Sicurezza stima in un anno un
giro d’affari pari a 19,4 miliardi di dollari per il mercato che comprende:
telecamere, software di gestione video, DVR (Digital Video Recorder), NVR
(Network Video Recorder) e storage.
Per
creare una città intelligente del futuro non bastano solo le telecamere
intelligenti se queste non sono dovutamente interconnesse tra loro in modo
efficace al fine di convergere in una piattaforma operativa centralizzata in
cui processare tutte le informazioni acquisiste in campo.
E’ pertanto essenziale, se non fondamentale,
che i dati registrati vengano analizzati e trasformati in informazioni
interattive che sappiano coinvolgere appieno non solo le istituzioni pubbliche
ma anche i cittadini chiamati ad essere parte attiva dell’ecosistema
intelligente della città.
La
carenza di infrastrutture di rete purtroppo ancora oggi rappresenta uno dei
punti deboli del nostro Paese
Grazie
ai moderni smartphone e tablet tutti i cittadini e turisti, definibili col
termine “Smart”, potranno interagire con le istituzioni fornendo informazioni
preziose in tempo reale relative allo stato di sicurezza e alla gestione della
città. In questo modo le amministrazioni locali potranno estendere la loro rete
di sensori in modo dinamico e distribuito a costo zero, avendo uno strumento in
più per essere informate in anticipo in merito a tutte le possibili allerte,
ponendo al tempo stesso i cittadini al centro della città intelligente.
Si
tratta di una svolta epocale, perché decentralizzando l’intelligenza si può
ridurre il carico di lavoro dei sistemi centrali, ma anche il traffico, con
vantaggi facilmente intuibili. Infatti è solamente attraverso una piattaforma
di collaborazione comune che tutti i diversi device potranno dialogare tra
loro, moltiplicando così le opportunità e i vantaggi per tutti i cittadini che
devono diventare sempre più “Smart”.
È
possibile pertanto prevedere uno scenario di collaborazione in cui sono sempre
più coinvolti i social media, che vedono i cittadini trasformarsi da semplici
fruitori ad autentici fornitori di informazioni rivelandosi utili per altre
persone presenti nella medesima area metropolitana. In questo modo, è possibile
superare tutte le problematiche legate alla mancanza di connessione che spesso
rappresentano uno dei principali limiti a un reale sviluppo delle Smart City e
al potenziamento dei sistemi di sicurezza già esistenti.
Solo
partendo da una base sociale di coesione e partecipazione comune è possibile
sfruttare al meglio i sensori, la piattaforma e le applicazioni che
caratterizzeranno le nostre città.
Solo a
partire da un’attenta analisi contestuale e storica dei dati sarà possibile
attivare nuove applicazioni sempre più intelligenti per la città, come la
gestione ottimizzata dell’energia, del traffico, del rumore e della sicurezza.
Le
telecamere di rete racchiudono in sé delle grandi potenzialità ancora oggi non
molto sfruttate.
Essendo
dei veri e propri computer embedded, tipicamente con sistema operativo Linux, è
possibile realizzare al loro interno applicazioni molto complesse e
completamente innovative capaci di interagire con altri sensori esterni ed
algoritmi che permettono ad esempio la gestione ottimale dell’illuminazione
pubblica in base alle esigenze di illuminazione reali a favore della riduzione
del consumo di energia elettrica.
Proprio
per questo motivo le telecamere di rete costituiranno la spina dorsale
dell’internet delle cose cittadina, a condizione che siano progettate per una
facile integrazione e con un’architettura aperta e scalabile.
Se da
un lato la tecnologia è pienamente matura dall’altro si riscontra che gli
installatori non sono ancora sufficientemente preparati in termini di
“Intelligent Content Management” legato all’uso della videosorveglianza di
nuova generazione dove la security non si limita semplicemente al controllo e
monitoraggio di ambienti ma si riferisce soprattutto all’analisi dei
comportamenti per definire migliori servizi di supporto ai cittadini.
Gli
installatori che in un prossimo futuro non si aggiorneranno o adegueranno alle
nuove tecnologie rischieranno di perdere competitività in un mercato fiorente
caratterizzato da un’elevata dinamicità.
Secondo
l’Osservatorio “Internet of Things” del Politecnico di Milano, in Italia,
l’attenzione dei consumatori a questo tema cresce:
quasi il 50% dei proprietari di casa dichiara
di essere intenzionato ad acquistare prodotti dalla videosorveglianza
caratterizzati da una nuova sensoristica integrata.
Il 65%
degli utenti, preferirebbe gestire in modo integrato gli oggetti intelligenti.
Dal momento che l’87% delle soluzioni censite nel rapporto risultano verticali
e non integrabili tra di loro e tanto meno con prodotti di altri fornitori:
agli installatori è richiesta una maggiore capacità d’integrazione dei vari
prodotti e sistemi.
Gli
installatori che non faranno un salto di qualità in questa direzione,
diventando dei veri e propri System Integrator, resteranno indietro e verranno
superati dai loro colleghi più competenti che meglio si saranno adattati alla
continua metamorfosi che investe la pluralità di nuove tecnologie a supporto
non solo delle Smart City ma anche dello Smart Building e della Smart Home.
Nell’immediato
futuro le telecamere di rete intelligenti avranno un ruolo fondamentale nella
definizione di una piattaforma aperta per lo sviluppo di nuove applicazioni nel
contesto Smart City.
Occorrerà
lavorare duramente nel mettere a punto a livello normativo la standardizzazione
della piattaforma di comunicazione tra i vari sistemi.
La
nuova frontiera della videosorveglianza sarà il “Data Enrichment”, ovvero la
capacità di migliorare i dati grezzi acquisiti dalle telecamere superando tutte
le limitazioni in cui i dati raccolti vengano semplicemente salvati, senza che
questi possano essere utilizzati per scopi pratici.
Il futuro di questo settore non può
prescindere da città intelligenti capaci di mettere in correlazione
infrastrutture diverse e tra loro eterogenee facendo leva sulla raccolta ed
analisi dei cosiddetti Big Data.
In
tale scenario, la videosorveglianza può giocare un ruolo importante, che non si
limita a trasmettere l’allarme o l’immagine, ma crea una base di dati davvero
utile per migliorare la vivibilità di una città.
Partendo
dalla sicurezza urbana, passando per le moderne tecnologie IoT e Big Data, le
Smart City possono davvero contribuire a creare un contesto sempre più
piacevole e sicuro per i cittadini.
Le
tecnologie esistono già: la sorveglianza cittadina con opportuni e mirati
investimenti per la videosorveglianza è un mercato sempre più aperto e
dinamico, ma occorre aumentare la consapevolezza e competenza degli
amministratori in merito alle potenzialità offerte dalla tecnologia stessa. In
fin dei conti una città può essere considerata “intelligente” solo se si mostra
tale assieme a chi l’amministra.
(Cristian
Randieri, PhD).
Sorveglianza
e tecnologie israeliane:
dal
laboratorio dei territori occupati
al
mercato globale.
Isla-media.com – (14.05.2025) – Redazione –
Isiride Lancetti – ci dice:
Le
tecnologie di sorveglianza sviluppate da Israele rappresentano oggi uno dei
punti di riferimento nel mercato globale della sicurezza. Non è un caso che
molte di queste soluzioni vengano definite "provate sul campo",
poiché spesso la loro efficacia è stata testata nei territori occupati
palestinesi, dove il controllo della popolazione è capillare e pervasivo.
Questo
aspetto solleva interrogativi complessi e controversi, che toccano il confine
tra innovazione tecnologica, diritti umani e sicurezza.
Il
laboratorio dei territori occupati.
"I
territori occupati, oltre che un campo di battaglia, sono diventati un
gigantesco laboratorio in cui la sorveglianza è estesa, grazie all'intelligenza
artificiale, all'intera popolazione palestinese, a prescindere dal fatto di
essere criminali o terroristi", spiega “Meron Rapoport”, direttore del
sito Local Call.
Questo contesto di test continuo permette alle
aziende israeliane di sviluppare e perfezionare sistemi di controllo sempre più
sofisticati.
Strumenti
come telecamere ad alta risoluzione, software di riconoscimento facciale e
piattaforme di analisi dei dati vengono utilizzati quotidianamente per
monitorare la vita di milioni di palestinesi.
Questi sistemi, progettati per garantire la
sicurezza e prevenire atti di violenza, rischiano però di comprimere gravemente
le libertà fondamentali.
Dal
campo al mercato globale.
Il
know-how maturato nei territori occupati è diventato una delle principali armi
competitive di Israele sul mercato internazionale della sicurezza.
Numerosi
governi, occidentali e arabi, acquistano queste tecnologie per proteggere le
proprie infrastrutture critiche e monitorare potenziali minacce. Tuttavia, non
sempre l'uso di questi strumenti è limitato alla lotta contro il terrorismo o
la criminalità organizzata.
Un
esempio significativo è rappresentato dal caso dello “spyware Paragon”, una
tecnologia avanzata di spionaggio che può essere utilizzata per monitorare
giornalisti, attivisti per i diritti umani e altri gruppi sensibili.
Questo
tipo di utilizzo mette in discussione l'equilibrio tra sicurezza nazionale e
rispetto della privacy individuale.
Intelligenza
artificiale e guerra: test sul campo e commercio globale.
Israele
non si limita alla sorveglianza quando si parla di tecnologie avanzate.
L'uso
dell'intelligenza artificiale nei bombardamenti, nei sistemi di riconoscimento
e nelle operazioni di spionaggio è una parte integrante delle sue strategie
militari. I territori occupati diventano il banco di prova di queste
tecnologie, permettendo allo Stato ebraico di testare e perfezionare strumenti
di guerra di precisione in contesti reali.
Tra i
sistemi più noti ci sono i droni autonomi e i software che analizzano in tempo
reale i dati raccolti dai sensori sul campo.
Questi strumenti non solo incrementano
l'efficacia delle operazioni militari, ma riducono i tempi decisionali,
consentendo interventi rapidi e mirati.
Il costo umano di queste operazioni, tuttavia,
è spesso altissimo, con conseguenze devastanti per le popolazioni locali.
Una
volta perfezionate, queste tecnologie vengono commercializzate a livello
globale.
Israele,
leader nel settore della difesa, esporta sistemi che promettono di
rivoluzionare le capacità belliche dei governi acquirenti.
Questi strumenti, presentati come
indispensabili per garantire la sicurezza nazionale, finiscono per essere
utilizzati in contesti ben lontani dal teatro di guerra, spesso con
applicazioni discutibili sul piano etico.
Implicazioni
etiche e rischi globali.
L'esportazione
di tecnologie di sorveglianza solleva questioni etiche rilevanti. Se da un lato
queste soluzioni possono contribuire a rafforzare la sicurezza, dall'altro
possono essere utilizzate per reprimere il dissenso o perpetrare violazioni dei
diritti umani.
Nei
territori occupati, il controllo massivo viene giustificato dal contesto di
conflitto, ma quando queste tecnologie vengono applicate in Paesi democratici,
il rischio di abusi non può essere ignorato.
In
Italia, ad esempio, l'adozione di questi strumenti potrebbe avvenire in modo
selettivo, mirato a specifici gruppi o individui.
"Forse non su larga scala, ma come
dovrebbe insegnarci il caso dello “spyware Paragon”, i sistemi di spionaggio e
sorveglianza sperimentati qui potrebbero essere usati contro determinati
gruppi", sottolinea ancora “Rapoport”.
Un
futuro da definire.
La
questione centrale è come bilanciare l'esigenza di sicurezza con la tutela
delle libertà individuali. In un mondo sempre più connesso e interdipendente, è
fondamentale stabilire regole chiare e condivise per l'utilizzo di queste
tecnologie.
Ciò
include la necessità di una maggiore trasparenza sui contratti di vendita e
sull'uso effettivo degli strumenti acquistati, oltre all'introduzione di
normative che proteggano la privacy e i diritti fondamentali.
Israele,
con il suo ruolo di leader nel mercato della sicurezza, pone interrogativi che
vanno ben oltre i confini del Medio Oriente.
Le
tecnologie di sorveglianza non sono solo strumenti, ma anche specchi delle
società che le adottano.
La
loro diffusione potrebbe trasformare profondamente il modo in cui concepiamo
libertà, diritti e sicurezza.
La
domanda è: siamo pronti ad affrontare queste sfide etiche?
E,
soprattutto, chi vigila sui guardiani?
Elon
Musk: «Lavorare? Non servirà più,
grazie
a robot e intelligenza artificiale.»
ilsole24ore.com
- Franco Sarcina - 26 maggio 2024 – ci dice:
Per il
secondo uomo più ricco del mondo, per vivere ci sarà bisogno di un «alto
reddito universale».
Ma non
ha precisato cosa sarebbe e come potrebbe essere distribuito.
Acqua,
Elon Musk al World Water Forum: "La soluzione alla crisi idrica è la
desalinizzazione."
Visionario?
Forse. Provocatorio? Di sicuro.
In un intervento in videoconferenza a Parigi,
Elon Musk ha detto che in un prossimo futuro nessuno avrà più la necessità di
lavorare.
Tutti i compiti e le fatiche verranno svolte
dall’ intelligenza artificiale e dai robot.
«Probabilmente
nessuno di noi avrà un lavoro», ha detto il patron di Tesla in un intervento in
remoto al “VivaTech 2024” di Parigi giovedì scorso, Musk ha descritto un futuro
in cui i lavori sarebbero «facoltativi», e ha detto che questo evento epocale non
sarebbe necessariamente un male.
«Se
vorrai fare un lavoro che sia un po’ come un hobby, potrai farlo», ha detto
Musk.
«Ma per il resto, l’intelligenza artificiale e
i robot forniranno tutti i beni e i servizi che desideri».
Ma
come la mettiamo con la necessità di portare a casa i “dindi” per mangiare,
avere un tetto sopra la testa e possibilmente divertirsi un po’ ogni tanto (e
avere i soldi per continuare a lavorare)?
Anche per questo, Musk avrebbe una soluzione.
Servirà un «universal high income».
Locuzione
che possiamo tradurre come «alto reddito universale», da non confondersi con il
reddito di base universale (Ubi), di cui si parla da un po’ e che è stato
sperimentato in Finlandia dopo la metà dello scorso decennio, per poi essere
abolito dopo circa due anni.
Su
cosa sia effettivamente questo “alto reddito universale”, però, il secondo uomo
più ricco del mondo non si è soffermato.
E tantomeno ha fatto intendere come questo
possa essere creato e come potrebbe venir distribuito.
Una
domanda Musk però se la è posta, durante il suo intervento.
In un futuro senza lavoro, le persone si
sentiranno emotivamente realizzate?
«La domanda è proprio questa: se il computer e
i robot possono fare tutto meglio di te, la tua vita ha ancora un significato?»
ha detto.
Questa
la sua risposta: «Penso che forse ci sarà ancora un ruolo per gli esseri umani.
Possiamo dare un significato all’intelligenza artificiale».
Trump
contro Putin, orrore e caos
a
Gaza, Meloni e
i
«dazi interni» dell'Ue.
Corriere.it - Luca Angelini – (28-05-2025) –
Redazione -ci dice:
«Ciò
che Vladimir Putin non capisce è che se non fosse stato per me, alla Russia sarebbero
già successe molte cose brutte, e intendo MOLTO BRUTTE. Sta giocando col
fuoco!»
Le
maiuscole già fanno capire che quelle parole sono di Donald Trump.
Il
presidente americano, che poche ore prima si era chiesto se il leader del
Cremlino fosse per caso impazzito, è tornato ad attaccarlo.
Incassando
la risposta, al solito sopra le righe, del vicepresidente del Consiglio di
sicurezza russo Dmitry Medvedev:
«Riguardo alle parole di Trump su Putin che
“gioca col fuoco” e sulle “cose davvero brutte” che stanno accadendo alla
Russia, conosco solo una cosa davvero brutta: la Terza guerra mondiale. Spero
che Trump lo capisca!».
Da
Mosca è arrivata anche la replica alle parole del cancelliere tedesco
“Friedrich Merz”, il quale aveva fatto capire che anche il suo Paese, come già
deciso da Usa, Gran Bretagna e Francia, ha revocato le limitazioni alla gittata
degli armamenti forniti all’Ucraina perché siano utilizzati in territorio
russo.
Merz
«ha confuso tutti, se non addirittura sé stesso», ha commentato il portavoce
del Cremlino” Dmitry Peskov”.
Se Berlino fornirà missili a lungo raggio
Taurus, «bruceranno come fiammiferi», la Germania «sprofonderà ulteriormente
nella fossa in cui si trova da tempo il regime di Kiev che sostiene», ha
minacciato la portavoce del ministero degli Esteri “Maria Zakharova”.
Al di
là della guerra di parole, e di quelle che, purtroppo, continua sul campo (qui
il punto militare dell’inviata a Kiev” Marta Serafini”), da New York la
corrispondente “Viviana Mazza” segnala che dai media americani arrivano segnali
contraddittori. Secondo fonti del “Wall Street Journal,” Trump starebbe
meditando nuove sanzioni contro Mosca (le stesse fonti, però, non escludono
che, alla fine, potrebbe cambiare idea).
Secondo
altri, il presidente Usa sarebbe sempre più tentato dall’idea di abbandonare
del tutto i negoziati.
Nel
suo editoriale, “Massimo Gaggi” scrive che «Trump oggi paga (e fa pagare a
tutti i Paesi nel mirino della Russia) la sua illusione di poter mettere fine
alle guerre con accordi tra grandi oligarchi del Pianeta nei quali lui pensava
di prevalere grazie alla sua imprevedibilità e alla sua capacità di trasformare
tutto in trattativa commerciale, senza perdere tempo a leggere dossier sulle
cause profonde dei conflitti e ad ascoltare relazioni di diplomatici e
intelligence sulle reali forze in campo.
Fidandosi
solo del suo istinto, il leader americano sembra non capire che dietro
l’autoritarismo che lui ammira, Putin ha la spietata razionalità dell’ex
funzionario del Kgb, deciso a sfruttare tutti gli spazi che gli si aprono
davanti per ridare alla Russia una grandezza imperiale dopo le umiliazioni del
crollo dell’Unione Sovietica».
L’inferno
senza fine di Gaza.
«Per
Gaza chiediamo il rispetto del diritto internazionale umanitario, l’ingresso di
aiuti senza restrizioni, l’apertura di corridoi umanitari e, soprattutto, la
promozione di un dialogo verso la soluzione “due popoli, due Stati”», ha detto
ieri il cardinale Matteo Zuppi, presidente dei vescovi italiani.
«Chiediamo che si fermino i bombardamenti e
che arrivino gli aiuti necessari per la popolazione. Il diritto umanitario
internazionale deve valere sempre, e per tutti.
Ma
ribadiamo con forza anche la richiesta ad Hamas di rilasciare subito tutti gli
ostaggi ancora in vita, e di restituire i corpi di quelli uccisi dopo il
barbaro attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele» gli ha fatto eco il
segretario di Stato vaticano Pietro Parolin.
Non
sta andando così.
La distribuzione dei primi pacchi alimentari
dentro Gaza è diventata un caos che evidentemente nemmeno gli ideatori del
sistema avevano messo nel conto. Migliaia di palestinesi si sono accalcati
nelle due aree entrate in funzione — quella di “Tel as-Sultan,” a Rafah, nel
Sud della Striscia e quella del “Corridoio di Morag”, che divide Rafah da Khan
Yunis — e hanno preso d’assalto i centri di consegna del cibo distruggendoli.
Pacchi
alimentari, sedie e tavoli sono stati portati via, la recinzione che doveva
limitare la folla spostata dalla sede originaria.
Gli
uomini della società statunitense ingaggiata per occuparsi della sicurezza sono
fuggiti e sono stati sparati colpi in aria per disperdere la folla.
In
serata la stessa “Gaza Humanitarian Foundation” (la fondazione sostenuta da Usa
e Israele per gestire il piano degli aiuti umanitari con l’aiuto di contractor
privati per la sicurezza) ha diffuso una nota in cui non nega gli assalti.
C’è
stato un momento — dice in sostanza la nota — in cui «il volume di persone
arrivato al sito di distribuzione è stato tale che la squadra della “Ghf “è
indietreggiata per permettere a un piccolo numero di gazawi di prendere gli
aiuti in modo sicuro e poi disperdersi».
Per
“Ghf” il bilancio è, comunque, positivo:
«Finora sono stati distribuiti circa 8.000
pacchi di cibo, per un totale di 462.000 pasti».
Dopo
il direttore esecutivo “Jake Wood”, anche il capo delle operazioni “David
Burke” si è però dimesso dalla” Gaza Humanitarian Foundation”.
Non è
chiara in questo caso la motivazione, mentre “Wood” aveva abdicato perché —
dice — il nuovo piano di distribuzione degli aiuti non è rispettoso dei
«principi umanitari di neutralità, imparzialità e indipendenza».
La
presidente della Commissione europea, “Ursula von der Leyen”, ha definito ieri
«abominevoli» le operazioni militari israeliane contro la popolazione civile,
come quella che ha fatto strage in una ex scuola di Khan Yunis divenuta rifugio
di sfollati.
E il
cancelliere tedesco Friedrich Merz, in visita ufficiale in Finlandia, si è
detto «sconvolto dalla spaventosa sofferenza della popolazione civile»
palestinese.
Contro
il premier israeliano Benjamin Netanyahu torna anche a sfogarsi la rabbia dei
familiari degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas (58, dei quali però solo una
ventina sarebbero ancora vivi).
«Adesso
– scrive da Tel Aviv l’inviata “Giusi Fasano” - la pazienza è finita, prevale
l’indignazione.
I
familiari degli ostaggi sono sempre più infuriati per questo infinito
ricominciare daccapo.
E sono infuriati anche per le promesse non
mantenute.
Come
la dichiarazione di due giorni fa del premier Benjamin Netanyahu: “Spero di
fare un annuncio sui rapiti, oggi o domani”, aveva detto.
E poi
il suo ufficio aveva precisato che “oggi o domani” era più un modo di dire
“presto” che un termine preciso
. E
così ieri i media del Paese hanno raccolto i commenti dei parenti degli
ostaggi: “Si prende gioco di noi”, fa “terrore psicologico”».
(Degli orrori di Gaza ha scritto anche “Gianluca
Mercuri” nella nostra Rassegna)
Confindustria,
Meloni e i «dazi interni»
Per 25
mesi di fila, la produzione industriale in Italia ha fatto segnare il segno
meno. Inevitabile che, dall’assemblea generale di Confindustria, ieri a
Bologna, sia arrivata la richiesta al governo di misure per invertire la
tendenza. In particolare, ha spiegato il presidente Emanuele Orsini, «un piano
industriale triennale» per l’Italia: 8 miliardi l’anno per tre anni minimo,
meglio cinque.
Con
l’obiettivo di aumentare la crescita del Pil dallo 0,7% previsto quest’anno al
2%. Perché convincere le imprese a investire in una fase di crisi «è come
convincere un cassintegrato a comprarsi l’auto nuova».
Dal
palco dell’assemblea di Bologna, la premier Giorgia Meloni ha risposto che sono
già stati individuati 15 miliardi di euro del Pnrr che possono essere
rimodulati e indirizzati verso misure per aumentare l’occupazione e la
produttività.
A
queste risorse ne potrebbero essere aggiunte altre, grazie alla riforma dei
fondi di coesione Ue del commissario Raffaele Fitto.
Fra
Orsini e Meloni si è comunque notata una sintonia che, scrive Rita Querzè,
«parte da un terreno comune di critica alle politiche europee.
Anche
ieri il presidente di Confindustria ha chiesto di cancellare lo stop alla
produzione auto con motori a scoppio dal 2035.
Dal
canto suo Meloni ha chiesto di "correggere un approccio ideologico alla
transizione energetica".
E, in concreto, di eliminare i dazi interni ai
Paesi europei, ben superiori a quelli esistenti all’interno degli Stati Uniti».
Da
dove arrivino quei dazi interni l’aveva spiegato, a febbraio, in un intervento
sul Financial Times, l’ex premier Mario Draghi:
«Le barriere interne sono un retaggio di tempi
in cui lo Stato nazionale era la cornice naturale per l'azione. Ma ora è chiaro
che agire in questo modo non ha portato né benessere agli europei, né finanze
pubbliche sane, né tantomeno autonomia nazionale, che è minacciata dalle
pressioni dall'estero».
In concreto, dettagliano “Francesca Basso” e “Giuliana
Ferraino”, «sono le barriere normative esistenti tra gli Stati Ue che in
passato sono state messe in piedi per proteggere settori della propria economia
(prodotti e servizi): regimi fiscali diversi, differenti prezzi dei fattori
produttivi, diverse regole per il riconoscimento dei titoli professionali e
così via».
A
commento di quell’intervento di Draghi e dell’Italia, il politologo “Luigi
Tivelli” aveva scritto, sul Riformista:
«Questo
non è solo il Paese dei balneari che si sono eretti come un sol uomo, trovando
molti difensori a destra come a sinistra, a difesa delle loro rendite assurde,
o dei tassisti.
È il
Paese delle troppe congregazioni e corporazioni, oltre che dei troppi ordini
professionali chiusi.
Da qui
derivano i dazi interni, spesso impliciti e da ben pochi percepiti o scovati,
che paghiamo.
A
distinguere i liberaldemocratici dovrebbe essere appunto il concentrarsi sul
“mal di concorrenza” e l’individuare terapie adeguate, fatte di
liberalizzazioni e di altri aspetti idonei a scardinare le troppe catene
corporative».
Bene,
dunque, che Meloni, pur affezionata alla sovranità nazionale (e, diranno i
maligni, agli interessi di alcune delle categorie citate sopra), chieda
all’Europa di smantellare in fretta quelle barriere interne che proprio gli
egoismi nazionali (di ogni colore) hanno contribuito ad alzare.
Del
resto, la presidente dell’Europarlamento, “Roberta Metsola”, anche lei ospite
dell’assemblea di Bologna, ha detto: «La nostra bandiera blu con dodici stelle
non oscura il vostro tricolore, un’Italia forte e di successo è garanzia di una
Europa forte e di successo. Se vogliamo un’Europa più vicina e legittimata è
però necessario rafforzare il diritto di iniziativa del Parlamento europeo».
E il
presidente di “Techint Gianfelice Rocca”, uno dei grandi nomi dell’industria
italiana, intervistato da Querzè aggiunge: «Se vogliamo avere un’Europa in
grado di decidere in fretta e in modo efficace, per rispondere a quanto sono in
grado di dare gli Stati Uniti da una parte e la Cina dall’altra, allora serve
un’integrazione più forte. Metsola ce lo ha detto in modo chiaro, difficile
darle torto. La premier Meloni ha evidenziato la necessità di eliminare le
barriere interne, come già fatto in precedenza da Mario Draghi.
Anche
questa è una evidente necessità.
Ma per
fare tutto questo è necessario superare il diritto di veto e in generale
intervenire sulla governance dell’Unione».
Insomma,
par di capire, più sovranità europea e meno sovranità nazionale.
In
fondo, è quel che dice anche l’ex ministro “Vittorio Colao” a “Daniele Manca”:
«Se guardiamo alla tecnologia, l’Ue ha avviato iniziative per finanziare le “AIGigaFactory”,
per portare capitali di rischio alle imprese innovative, per semplificare
direttive pesanti per le imprese.
. Ma
gli Stati, i governi in questo momento devono fare di più. Se consideriamo una
debolezza non avere infrastrutture nello Spazio, siamo sicuri si debba
continuare a difendere con i denti programmi nazionali?
Se c’è
già l’AI act, ogni Paese europeo davvero deve farsi la sua legge
sull’Intelligenza artificiale? (…)
Quando le dico che sono ottimista sulla
tecnologia in Europa, è perché vedo che dalla sanità ai supercomputer per l’AI,
dai chip allo Spazio, dalla robotica alle biotecnologie, abbiamo iniziative
pubblico-private che, se implementate da tutti gli Stati membri evitando
sovranismi locali, possono farci recuperare terreno».
A
tenere banco all’assemblea di Bologna, anche il costo dell’energia, che
penalizza le imprese italiane.
Gli industriali lamentano che gli sconti in
bolletta siano finiti soltanto nelle tasche delle piccole imprese artigiane.
Inoltre
chiedono con forza il «disaccoppiamento»: la possibilità di pagare di meno
l’energia prodotta con costi più bassi, cioè quella da fonti rinnovabili.
Meloni ha risposto che «uno degli strumenti
già disponibili per il disaccoppiamento sono i contratti pluriennali con prezzo
fisso concordato tra le parti» (come avviene già spesso in Spagna, ndr).
Anche perché «continuare a tamponare spendendo
soldi pubblici non può essere la soluzione».
«In altre parole – traduce Querzè - difficile
ridurre in modo strutturale le bollette privando le casse dello Stato delle
entrate legate agli oneri di sistema».
«Stiamo anche lavorando — ha aggiunto Meloni —
a una analisi del funzionamento del mercato italiano per comprendere se
eventuali anomalie nella formazione del prezzo unico nazionale siano
all’origine di aumenti ingiustificati».
Può
l’Italia sopravvivere senza gli Usa?
Il
super debito, 25 anni di sconfitte,
le
ragioni per scegliere.
Corriere.it
- Federico Fubini – (10 -3-2025) – ci dice:
Paradossalmente
il maggiore successo Usa dell’ultimo quarto di secolo è la difesa dell’Ucraina
da parte di Biden.
Malgrado
in Italia si professi il contrario, ha fatto sì che la scommessa di Putin del
febbraio 2022 sia andata male.
C’è
una foto che non riesco a togliermi dalla testa mentre l’Occidente cambia sotto
i colpi di Donald Trump.
È
l’immagine dei presidenti americani ancora in vita, ai funerali di Jimmy Carter
il 9 gennaio scorso (qui sopra).
Undici
giorni dopo Trump avrebbe fatto il suo ritorno alla Casa Bianca, ma ora erano
riuniti lì con le mogli.
Quasi
tutti ormai anziani, avevano presieduto su un quarto di secolo straordinario
per l’America.
Non
solo il prodotto interno lordo del Paese non si è ridotto di molto come quota
dell’economia mondiale, malgrado l’emergere della Cina, dell’India e
dell’America Latina.
Addirittura,
da una decina di anni, quella quota è tornata ad allargarsi.
Gli Stati Uniti pesavano per il 30% del Pil
del pianeta nel 1999, sono scesi al 21% dopo la Grande Recessione, ma l’anno
scorso erano già tornati sopra il 26%.
Per
dare un’idea, il peso relativo degli attuali 27 Paesi dell’Unione europea è
costantemente sceso da circa il 25% nel 1999, al 13,4%.
Ed eccoli lì quegli uomini, uniti solo nel
lutto per un loro pari:
si
riconoscono Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama, Donald Trump. Dietro
gli ex vicepresidenti Al Gore e Mike Pence, davanti l’uscente Joe Biden e la
sua vice – sconfitta – Kamala Harris.
Sono i volti di uno dei grandi miracoli
tecnologici e finanziari della storia: oltre 40 mila miliardi di valore
azionario creato nello S&P500 di Wall Street in un quarto di secolo e, per
la prima volta, sette aziende innovative che da sole arrivano a capitalizzare
più di un terzo di quel totale.
Quale
altra immagine più chiara della potenza di una nazione?
Eppure c’è un altro modo di guardare a quegli
uomini, con un occhio alle vulnerabilità internazionali e finanziarie
dell’America.
Queste
spiegano perché, anche senza Trump, l’Europa si sarebbe comunque trovata dov’è
oggi:
spalle
al muro, obbligata a diventare un’entità politica e militare o finire in balia
degli eventi. Il che dovrebbe chiarire una volta per tutte le idee anche in
Italia. Vediamo.
La
svolta del 1999.
Ho
scelto di contare dal 1999, perché quell’anno ha un doppio significato per
l’America. Il crollo del Muro di Berlino, con il conseguente mito sulla “fine
della storia”, era di appena dieci anni prima.
Eppure il 1999 è stato l’ultimo anno in cui
gli Stati Uniti registrano un chiaro successo di politica estera e uno degli
ultimissimi con un attivo del bilancio federale (grafico sotto).
Da
allora il progredire dei deficit pubblici e l’aumentare del debito dal 54% al
122% del Pil viaggiano in parallelo a oltre un quarto di secolo di sconfitte,
umiliazioni, calcoli sbagliati e arretramenti del ruolo dell’America nel mondo.
L’ultima
operazione riuscita di politica estera è stata il Kosovo, sotto Clinton, nella
primavera del ’99.
L’amministrazione
guidò una coalizione della Nato e, colpendo dal cielo, costrinse la Serbia
fermare i massacri degli albanesi.
Entrai
in Kosovo subito dopo la fine della guerra:
il territorio è pari a una piccola provincia
italiana, ma erano dispiegate forze di pace sotto mandato Onu con 40 mila
uomini (russi compresi, relegati in un campeggio nell’aeroporto).
Oggi
si spera di stabilizzare l’Ucraina, il Paese più vasto d’Europa in guerra con
il Paese più vasto al mondo, con 30 mila peace-keeper.
In Kosovo i villaggi erano carbonizzati dai
serbi.
La
terra sui fianchi delle colline era rivoltata di fresco, per le sepolture di
quasi diecimila caduti.
L’America
aveva evitato una catastrofe umanitaria ancora peggiore.
Fu una
delle ultime volte. Appena due anni dopo l’11 settembre segna una vittoria di
Al Qaeda, il fallimento
dell’intelligence
americana e innesca la più grave sbandata strategica degli Stati Uniti dopo il
Vietnam.
La guerra all’Iraq inizia nel marzo 2003 sulla
base di prove false sulle armi di Saddam Hussein, costa la vita a 4.400
militari americani, 200 mila militari e civili iracheni e costa duemila
miliardi di dollari al bilancio federale, senza riuscire a stabilizzare il
Paese o a costruire una plausibile democrazia.
L’attacco
all’Afghanistan aveva invece ragioni più solide, perché i talebani avevano
fornito le basi ad Al Qaeda;
ma
dopo vent’anni di presenza militare, 2.400 militari statunitensi e 47 mila fra
militari e civili afgani uccisi nel conflitto, più 2.300 miliardi di dollari
spesi dall’America, prima Trump e poi Biden negoziano una ritirata che
riconsegna il Paese ai talebani.
È
l’estate del 2021.
Quella
fuga umiliante, con il tradimento della società civile di Kabul o Kandahar,
convince Vladimir Putin che si poteva provare a soggiogare l’Ucraina, perché
l’America non si sarebbe opposta a lungo.
Solo
le due avventure di Iraq e Afghanistan sarebbero costate l’equivalente di venti
volte circa il deficit federale degli Stati Uniti nei primi anni del secolo.
Può
l’Italia vivere senza l’America? 25 anni di sconfitte, il super debito Usa, è
tempo di decidere.
Sconfitte
e deficit.
La
grande recessione avrebbe affossato il bilancio ancora di più, mentre i passi
indietro di politica estera si ripetono e i conti continuano a deteriorarsi. Le
guerre, la crisi finanziaria nata dalla deregolamentazione di Wall Street, la
detassazione dei ricchi e delle imprese, l’impatto del Covid fanno arrivare il
debito pubblico al 132% del Pil, quando l’America aveva conti in ordine e
debito “tedesco” al passaggio di mano fra Clinton e Bush. Da decenni i saldi di
bilancio sono strutturalmente in fase di progressivo deteriorarsi, malgrado la
crescita sorprendente dell’economia .
Proprio
Bush accoglie la Russia nel G7 (divenuto G8) puntando sulla sua integrazione
con le democrazie, ma Putin risponde invadendo la Georgia nel 2008. Quindi, a
partire dal 2011, falliscono le strategie di Obama dopo le “primavere arabe”.
Non solo neppure una delle rivoluzioni riesce a produrre una democrazia stabile
(ultima a cadere, quella tunisina); soprattutto Obama sbaglia tragicamente in
Libia e Siria, spalancando le porte all’interferenza russa.
Lo
stesso Obama alla fine dei suoi anni alla Casa Bianca definirà l’intervento
militare in Libia il suo “errore peggiore”, per non aver pianificato cosa fare
dopo la caduta del colonnello Muhammar Gheddafi (incredibile, specie dopo la
lezione irachena). I bombardamenti sulla Libia avevano avuto la motivazione
clintoniana di prevenire una “catastrofe umanitaria”, ma ne segue anche una
geopolitica: il Paese sprofonda nelle guerre tribali, nei saccheggi, nei
traffici di migranti e accetta a Est una tutela militare russa che dura fino ad
oggi.
Lo
stesso Obama non ne esce meglio sulla Siria.
Non
solo Bashar Al Assad ignora il suo invito a smettere di bombardare gli insorti
e a farsi da parte; il dittatore di Damasco lo umilia, dimostrando quanto sia
vuota la minaccia del presidente degli Stati Uniti di intervenire se le aree
dei nemici interni fossero state bersagliate con armi chimiche.
Assad
fa strage di migliaia di connazionali, ma Obama si nasconde dietro al Congresso
anziché ordinare un attacco aereo. Il trauma e i costi anche finanziari
dell’Iraq hanno lasciato il segno.
Anche
qui è la Russia – questa volta con la Turchia – a riempire il vuoto lasciato
dall’Occidente e a salvare Assad, distruggendo dal cielo le città degli
insorti.
In
Medio Oriente intanto, per più un decennio, gli Stati Uniti non riescono a
fermare il programma nucleare iraniano né il finanziamento dei piani di Hamas a
Gaza ad opera del Qatar (sulla carta, un alleato di Washington).
Trump,
rinviati i dazi al Messico su beni inclusi nel trattato Usmca.
Ma le
ingenuità di Obama riguardano anche la Russia.
Dopo l’aggressione alla Georgia del 2008 sotto
Bush, già l’anno dopo il nuovo presidente propone un “reset” – un
ristabilimento dei rapporti – al quale Putin risponde affermando il suo ruolo
in Libia, in Siria e soprattutto con l’annessione della Crimea nel febbraio del
2014.
Per la prima volta dal 1945 i confini in
Europa sono spostati con la forza. L’Occidente reagisce con sanzioni
deliberatamente deboli.
Un mese dopo, nel marzo del 2014, Obama sfida
la nevrosi imperiale Putin leggendo malissimo il suo rabbioso complesso
d’inferiorità: definisce la Russia “una potenza regionale che minaccia i suoi
vicini a causa della propria debolezza”. Al Cremlino suona come una
provocazione e meno di un mese dopo parte l’attacco al Donbass: probabilmente
sarebbe scattato comunque, di certo continua ancora.
Paradossalmente
il maggiore successo americano di politica estera dell’ultimo quarto di secolo
è proprio la difesa dell’Ucraina da parte di Biden.
Non solo il vecchio presidente ha tenuto in
piedi un’Ucraina libera, democratica e indipendente;
non
solo ha evitato l’escalation ad altri Paesi dell’ex Patto di Varsavia e
disinnescato le minacce nucleari russe.
Malgrado
in Italia si propali spesso il contrario, Biden ha fatto sì che la scommessa di
Putin del febbraio del 2022 sia andata male.
Altro che “vittoria”.
Oggi il Cremlino controlla meno territorio in
Ucraina di quanto ne controllasse nell’aprile di tre anni fa (circa il 19%
oggi, contro il 22% a fine aprile del 2022). Intanto la Russia ha perso oltre
200 mila dei suoi uomini, ha avuto oltre 600 mila feriti spesso gravi, ha
subito la fuga all’estero di almeno 700 mila giovani altamente istruiti,
bruciato circa 200 miliardi di dollari nello sforzo di distruzione, è
danneggiata dalle sanzioni, è ridotta a un sistema totalitario e ha un’economia
scricchiolante, che funziona solo per produrre mezzi di guerra ma è in grado di
reggere così forse solo fino alla fine dell’anno.
È il
bilancio di una catastrofe, per Putin. Solo Trump poteva offrirgli una
trionfale via d’uscita proprio ora.
Può
l’Italia vivere senza l’America? 25 anni di sconfitte, il super debito Usa, è
tempo di decidere
Paradosso
americano.
Ma
proprio qui è il paradosso americano.
Quest’America
che per un quarto di secolo colleziona trionfi tecnologici e a Wall Street, ma
umiliazioni nel mondo, sarebbe tentata di ritrarsi. Di curare solo la rivalità
crescente con la Cina.
Ma non
può.
Il
grafico sopra, che ho elaborato su dati della Federal Reserve di St. Louis e
della Banca Mondiale, mostra il peso degli squilibri di bilancio americani e la
dipendenza di Trump dall’estero.
In questi due decenni il deficit e il debito
americano sono cresciuti costantemente, appunto anche perché il Paese non tassa
abbastanza i propri residenti più ricchi e le grandi imprese.
Il grafico mostra il fabbisogno di nuovi
prestiti supplementari del Tesoro americano, anno per anno dal 1999 al 2024, in
proporzione alla crescita nominale mondiale.
Per
esempio, l’economia mondiale nel 1999 ha generato poco più di mille miliardi
nominali di crescita (inflazione inclusa) e il Tesoro americano ha avuto
bisogno di 121 miliardi di prestiti in più: appena l’11% della crescita
mondiale – America inclusa – bastava a finanziare il governo degli Stati Uniti
a rendimenti bassi e sostenibili.
Ma
negli ultimi anni questa proporzione è cresciuta stabilmente sopra al 50%.
L’America ha bisogno di aspirare sempre più soldi dal resto del mondo per
tamponare i propri squilibri.
Nel
2023 l’economia mondiale ha generato 4.990 miliardi di dollari di crescita
lorda – dunque di nuovo risparmio – ma il governo americano ha avuto bisogno di
3.128 miliardi di prestiti supplementari.
I nuovi tagli alle tasse promessi da Trump
minacciano di peggiorare le cose. Il problema del presidente, a cui tutta
l’amministrazione guarda con ansia, è di cooptare con l’intimidazione gli altri
Paesi per finanziare a costi accettabili i crescenti squilibri americani.
La superpotenza è vulnerabile. E lo sa.
Perciò
l’America prima o poi si sarebbe ritirata comunque dai suoi impegni in Europa,
anche se Trump lo fa nel suo modo traumatico.
E
perciò l’Europa comunque non ha altra strada se non quella di costruire la
propria sovranità politica e di difesa.
Con questo peculiare declino americano – unito
a un trionfo tecnologico – è finita una stagione durata ottant’anni.
L’opposizione di sinistra in Italia si illude
raccontandosi che la spesa militare non serve e che, in fondo, l’Europa può
continuare nel suo piccolo mondo antico: quel mondo non c’è più.
E
Giorgia Meloni si illude di poter continuare a difendere il diritto di veto in
politica estera a Bruxelles e di restare sospesa fra Washington e Bruxelles.
Non è più tempo di difendere un’alleanza che
non tornerà – non per parecchi anni – ma di ricostruire le fondamenta
dell’Europa.
Per
l’Italia è il tempo di scegliere: se non ci saremo stavolta, o ci saremo
ambiguamente, non saremo più con la stessa credibilità fra i Paesi fondatori.
La
denuncia di Potere al Popolo:
“Siamo
stati infiltrati e spiati
dalla polizia per 10 mesi.”
Fanpage.it
– (27-05
-2025) - Antonio
Musella – ci dice:
Scoperto
a Napoli un presunto agente sotto copertura all’interno di un partito politico.
In rete le foto del giuramento in polizia e delle feste con i colleghi in
divisa.
“Non
siamo la gioventù meloniana, non abbiamo nulla da nascondere”.
Giuliano
Granato è il portavoce nazionale di Potere al popolo.
Una
denuncia clamorosa quella che Potere al Popolo, il partito di estrema sinistra
che da molti anni partecipa alle elezioni politiche ed amministrative, ha
affidato a Fanpage.it
. Come
spiega il portavoce nazionale, Giuliano Granato, per 10 mesi il partito sarebbe
stato infiltrato e spiato dalla polizia.
L'agente
sotto copertura sarebbe un giovane di 21 anni, uscito dalla scuola di polizia
nel 2023.
Si sarebbe presentato agli attivisti di PaP a
Napoli come studente fuori sede. Assiduo frequentatore di tutte le iniziative
di Potere al Popolo, ha partecipato anche a diversi incontri nazionali del
partito.
A far
saltare la copertura però sarebbero stati proprio gli atti ufficiali del suo
ingresso in polizia.
Da una semplice ricerca infatti, è stato
possibile trovare non solo il risultato del concorso in polizia che ha vinto,
ma anche le foto del giuramento in polizia e, attraverso una serie di contatti
social, a foto di gruppo in divisa con altri colleghi.
Ad
insospettire i militanti di Potere al Popolo, uno strano incontro a cui sarebbe
stato visto per caso in un ristorante lo scorso 1°Maggio.
Una volta scoperto, il presunto agente sotto
copertura non avrebbe battuto ciglio, allontanandosi ed augurando "Buona
giornata" agli attivisti di “Pap”.
"L'infiltrazione
iniziata 10 mesi fa."
A
raccontare la vicenda a Fanpage.it è il portavoce nazionale del partito,
Giuliano Granato, che ha raccontato tutte le fasi dell'infiltrazione del
presunto agente di polizia, fino alla sua definitiva scoperta da parte del
partito. "Tutto è iniziato circa 10 mesi fa – spiega – questo ragazzo di
appena 21 anni si è presentato a noi come uno studente fuori sede, proveniente
dalla Puglia. In questi mesi ha partecipato in maniera assidua a qualsiasi
iniziativa, dal blocco degli sfratti, alle lotte studentesche, partecipando
anche ai momenti nazionali di Potere al Popolo. Non mancava mai". Una
circostanza però aveva insospettato gli attivisti napoletani di Potere al
Popolo. "Era estremamente presente quando c'erano iniziative politiche, ma
non ha mai legati personalmente con nessuno. Mai una serata insieme, una birra,
una cena, molto strano per uno studente universitario fuori sede" spiega
Granato. E così per puro caso, alcuni attivisti sono riusciti a risalire alla
vera identità, in un modo la cui semplicità sembra disarmante. "I suoi
social erano quasi vuoti – spiega Granato – anche questo abbastanza strano per
un 21enne. Ma quando abbiamo digitato il suo nome e cognome e la sua data di
nascita su Google si è aperto un mondo".
La
prima cosa che è stata trovata è la sua assunzione in Polizia, al termine del
corso, con tanto di nominativo, data di nascita e punteggio. E' stato a quel
punto facile risalire alle origini. Si tratterebbe di un agente figlio di
poliziotto, con altri parenti in Polizia, entrato in servizio nel 2023. La sua
presa di incarico sarebbe avvenuta due mesi dopo, a quanto riportato dai
documenti del Ministero dell'Interno. Per fugare dubbi su possibili omonimie si
è risalito, attraverso alcuni sui contatti social, ad altri amici, anche loro
poliziotti. E da lì si sono ritrovate le foto del giuramento in Polizia, ma
anche foto di feste ed incontri con altri colleghi. Tutti in divisa. A guardare
i riscontri raccolti da Potere al Popolo la vicenda è davvero impressionante.
Da un lato perché lo stesso agente in divisa, si nota poi in alcuni reel
pubblicati dagli attivisti universitari di Potere al Popolo, con il megafono in
mano e la bandiera del partito, dall'altro proprio per la superficialità
dell'operazione. Il nome del presunto agente sarebbe infatti lo stesso, mentre
la biografia raccontata, figlio di persone povere e studente a Bari per un
anno, sarebbe del tutto inventata.
(fanpage.it/politica/la-denuncia-di-potere-al-popolo-siamo-stati-infiltrati-e-spiati-dalla-polizia-per-10-mesi/).
(fanpage.it/).
Il
dinamismo costituzionale
del
popolo.
Rivistailmulino.it
-i Graziella Romeo – (10 gennaio 2025) – ci dice:
Il
concetto di «popolo» è accompagnato da un’ambiguità costante nel suo utilizzo.
Ambiguità che è bene indagare, a partire dai significati che ne dà la
Costituzione
Esplorare
il significato giuridico della nozione di “popolo” richiede una premessa.
Nell’ambito del diritto pubblico e costituzionale, il popolo rappresenta il
fondamento concettuale di due nozioni cardine: quella di “cittadinanza” e
quella di “Costituzione”.
Comprenderne
il significato implica dunque attraversare tre momenti fondamentali della sua
identificazione, ciascuno corrispondente a una diversa modalità di riflessione
giuridica:
il popolo come elemento essenziale dello
Stato, il popolo come soggetto definito dalla cittadinanza e il popolo come
attore che anima e sostiene le garanzie costituzionali.
Questo
contributo si propone di indagare il significato giuridico del popolo,
difendendo al contempo l’idea del suo intrinseco dinamismo.
Dal
punto di vista giuridico, la nozione di popolo si articola generalmente in due
prospettive:
a)
come componente della triade territorio-popolo-sovranità, oggetto della teoria
generale del diritto che identifica le condizioni necessarie per l’esistenza
dello Stato;
b)
come entità concretamente individuata attraverso la qualificazione giuridica
dello status di cittadino, ambito di studio del diritto pubblico e
costituzionale.
Queste
due prospettive, tuttavia, non sono completamente scindibili, poiché il modo in
cui concepiamo il popolo come elemento della teoria generale dello Stato
influisce inevitabilmente sulla definizione giuridica dei soggetti che lo
compongono (cfr. A. Mattioni e F. Fardella, Teoria generale dello Stato e della
Costituzione. Un’antologia ragionata, Giappichelli, 2002).
La
cultura giuridica europea è consapevole della complessità di questo intreccio –
il popolo come fondamento dello Stato e il popolo come entità concretamente
identificata – avendo sperimentato storicamente la distinzione, offerta da “Friedrich
Meinecke”, tra due concezioni di nazione.
Da un
lato, la nazione culturale, fondata su un patrimonio culturale comune
conquistato con uno sforzo condiviso, e
dall’altro
la nazione territoriale, in cui il legame unitario si radica in una storia
comune e viene consolidato nel tempo attraverso le istituzioni politiche.
Entrambi
i concetti si prestano a interpretazioni diversificate, con rilevanti
implicazioni sull’identificazione del popolo.
Nell’ambito
teorico della nazione culturale, il popolo, in una distorsione di matrice
nazionalista, può essere ridotto a un’idea di “eguaglianza di stirpe” in senso
anti-pluralista (C. Schmitt), arrivando persino a costituire il fondamento di
ricostruzioni razziste.
Queste
visioni hanno spesso attinto al concetto di radicamento al suolo, ovvero alla
dimensione normativa del rapporto tra l’uomo e la terra.
La
nazione culturale può tuttavia assumere connotazioni diverse, rappresentando un
destino comune, il risultato di un processo che riflette l’immutabilità di
tratti socio-culturali resistenti al trascorrere del tempo.
In
questa prospettiva, il popolo subisce trasformazioni, ma non si configura come
protagonista di un processo aperto di identificazione e reinvenzione
riflessiva.
Si pensi, ad esempio, al passaggio tratto da “Memoria
della speranza” (brano ripreso da Mattioni e Fardella, cit.):
“La
Francia viene dalla notte dei tempi. Essa vive. La voce dei secoli la chiama.
Ma resta sé stessa nel fluire dei tempi… vi abitano popoli che affrontano, nel
corso della Storia, le prove più diverse, ma che la natura delle cose, messa a
profitto dalla politica, impasta incessantemente in una sola nazione. Essa ha
abbracciato numerose generazioni e diverse ne comprende attualmente. Molte
altre ne partorirà, ma grazie alla geografia che le è propria, al genio delle
razze che la compongono, ai Paesi che la circondano, essa riveste un carattere
costante per cui i francesi di ogni epoca dipendono dai loro padri e si sentono
impegnati per i loro discendenti”.
Questo
brano rappresenta il popolo attraverso il prisma della tradizione. Nonostante
l’indubbia forza evocativa e poetica di questa visione, il concetto espresso da
De Gaulle risulta problematico, poiché suggerisce una continuità rigida, priva
di apertura a una rinnovata riflessione identitaria.
Innanzitutto,
la linearità del legame tra nazione (intesa come origine culturale di un
popolo) e territorio si rivela assai meno reale e intuitiva di quanto possa
apparire a prima vista.
Da un
lato, vi sono nazioni disperse su territori diversi; dall’altro, vi sono casi
in cui lo Stato si configura come uno strumento contingente che “crea” – nel
senso di generare – una nazione. Questo è vero, ad esempio, per la Svizzera. Lo
è, in una certa misura, anche per gli Stati Uniti, dove l’unità politica,
espressa nel celebre “We, the people”, culmina con l’adozione della
Costituzione.
Questi
esempi raccontano qualcosa di fondamentale: il popolo può essere il risultato
di un’unità politica, e dunque non necessariamente un dato pre-esistente,
concepito come un fatto naturale da cui deriverebbe, senza interruzioni o
fratture identitarie, la costruzione dello Stato.
Al contrario, il popolo può rappresentare il
punto di arrivo, piuttosto che il presupposto naturalistico, dell’unità
politica.
Il
concetto di popolo come espressione concreta e reale di una nazione culturale,
percepita come parzialmente immutabile, è utile nelle riflessioni sul diritto
all’autodeterminazione dei popoli e nella tutela delle minoranze
Il
declino degli Stati-nazione dopo la Seconda guerra mondiale e la nascita del
progetto europeo sembravano aver svuotato il concetto di popolo delle sue
connotazioni più strettamente genealogiche, rendendo interpretazioni di questo
tipo antistoriche, ovvero incapaci di cogliere lo spirito dei tempi.
Eppure,
il concetto di popolo come espressione concreta e reale di una nazione
culturale, percepita come parzialmente immutabile, è utile nelle riflessioni
sul diritto all’autodeterminazione dei popoli e nella tutela delle minoranze.
Esiste,
dunque, una attualità perenne del concetto di popolo, accompagnata da
un’ambiguità costante nel suo utilizzo, sia nella retorica politica sia nel
dibattito pubblico. Risulta perciò cruciale indagare questa ambiguità, in
particolare per comprendere come il concetto di “popolo” si relazioni con
quello di “Costituzione”.
Nella
Costituzione italiana, la nozione di popolo ricorre in diverse disposizioni:
nell’articolo 1 (“La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme
e nei limiti della Costituzione”);
nell’articolo 11 (“L’Italia ripudia la guerra
come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…”);
nell’articolo
71, c. 2 (“Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi”);
negli
articoli 75 e 138 (referendum popolare);
nell’articoli
101, c. 1 (“La giustizia è amministrata nel nome del popolo”); nell’articolo
102, c. 3 (“La legge regola i casi e le forme di partecipazione diretta del
popolo all’amministrazione della giustizia”).
In
tutti questi articoli, il popolo è concepito sia come riflesso di un’unità
politica, sia come elemento dinamico che anima la democrazia e genera sviluppi
costituzionali spesso imprevedibili. In questa prospettiva, il popolo è al
tempo stesso sovrano e interlocutore perenne dei poteri sovrani.
Tuttavia,
questa lettura del popolo come fondamento dell’unità politica garantita
dall’esistenza della Costituzione convive con un altro significato storico:
il
popolo come la parte economicamente e politicamente svantaggiata della comunità
politica.
Questo
secondo senso non deve essere interpretato necessariamente in termini
deteriori.
“Alessandra
Facchi “osserva, per esempio, che nella Costituzione italiana vi è una norma,
l’articolo 47 (sulla tutela del risparmio), in cui emerge un aspetto del popolo
concepito come componente caratterizzata da inferiorità economica e politica (A. Facchi, Popolo, in A. Barbera (a
cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, 2007).
Sebbene
un testo costituzionale possa impiegare questo senso di popolo in chiave di
tutela della sua posizione sociale, il concetto si presta talvolta a
distorsioni. L’idea del popolo come soggetto in posizione di svantaggio
economico, politico e, più recentemente, culturale – marginalizzato anche se
demograficamente dominante – emerge frequentemente nella retorica politica.
È il significato del popolo che predomina nel
discorso populista, dove si contrappone un “vero popolo” a un’entità elitista,
distante e non partecipe della comunità popolare, perché dotata di appartenenze
più moderne e cosmopolite.
Nel
contesto attuale, il concetto di popolo che si affaccia – talvolta in modo
aggressivo – sulla scena politica è quello di un soggetto che rivendica una
sovranità escludente.
Una
sovranità che, prima di tutto, traccia confini rigidi tra “amici” e “nemici”,
definendo chi è dentro e chi è fuori dai confini territoriali.
Questa logica si riflette chiaramente nelle
politiche sull’immigrazione e sulla cittadinanza.
La definizione dei criteri per la cittadinanza
risponde proprio a questa visione, restringendo la nozione di popolo a un
gruppo selezionato, spesso concepito come svantaggiato, che diviene il “vero”
destinatario della sovranità enunciata nell’articolo 1 Cost.
In
questa prospettiva, la sovranità popolare viene rappresentata come un bene
indisponibile, che richiede protezione assoluta contro ogni trasformazione.
La
politica, cioè, dipinge il popolo come un’entità da proteggere a ogni costo,
opponendosi a qualsiasi apertura al diritto internazionale o ampliamento della
cittadinanza.
La
cessione di sovranità, l’accoglienza di diritti cosmopoliti e l’estensione
delle maglie della cittadinanza vengono interpretati come tradimenti.
L’esclusione
dalla cittadinanza di chi potrebbe culturalmente appartenere al popolo segna un
ritorno a una concezione antica di Costituzione, che si limita a unire
politicamente una porzione selezionata della comunità.
Un
esempio significativo di questa dinamica è il dibattito sulla riforma della
cittadinanza in Italia, in particolare sulla proposta dello “ius scholae” (o,
in alcune versioni, dello ius culturae), che pone il tema del radicamento sul
territorio. Su questo punto, la Corte costituzionale, nella sentenza n.
222/2013 in tema di diritti sociali dei non cittadini, offre indicazioni
importanti.
La
Consulta spiega che il radicamento non rileva solo in senso negativo, per
giustificare il diniego di una prestazione sociale, ma anche in senso positivo,
per fondare il riconoscimento di diritti, anche in assenza dei requisiti per il
soggiorno di lungo periodo, quando un individuo ha stabilito sul territorio
legami di vita, lavoro, affetto o famiglia.
Questo
dibattito evidenzia l’attualità di un’intuizione fondamentale di Aristotele,
contenuta nel Libro IV della Politica:
le
forme costituzionali sono il risultato della partecipazione delle classi
sociali all’attività politica
.
Limitare la cittadinanza, dunque, diventa uno strumento per preservare un’idea
ristretta di popolo, nella quale il radicamento territoriale non è sufficiente.
L’esclusione
dalla cittadinanza di chi potrebbe culturalmente appartenere al popolo segna un
ritorno a una concezione antica di Costituzione, che si limita a unire
politicamente una porzione selezionata della comunità.
Questo
approccio, però, contrasta con i principi espressi negli articoli 1, 3, 4 e 10
della Costituzione, secondo cui la partecipazione attiva costruisce la
cittadinanza e, quindi, il popolo.
Nel
costituzionalismo moderno, il “popolo” è necessariamente un concetto dinamico:
è un soggetto politico che interagisce con il diritto costituzionale, il quale
ne disciplina le forme senza limitarne la forza vitale e motrice.
Oligopoli
alimentari che prosperano
mentre
nel mondo cresce la fame:
4
multinazionali controllano il 51%
del
commercio mondiale.
Repubblica.it – (30 settembre 2024) - Rita Cantarino
– ci dice:
Oligopoli
alimentari che prosperano mentre nel mondo cresce la fame: 4 multinazionali
controllano il 51% del commercio mondiale
Il
matrimonio tra due giganti dell'agroalimentare è in grado di far salire i
prezzi in tutto il mondo, che un sù e giù senza alcun legame con la domanda e
l’offerta.
ROMA –
Si restringono sempre di più i perimetri dell’oligopolio nell’industria
alimentare mondiale. Sempre meno aziende controllano fette sempre più ampie del
grande business. È l’incipit dell’articolo di Rita Cantarino pubblicato su
Valori.it, notizie di finanza etica ed economia sostenibile, il giornale online
diretto da “Andrea Barolini”.
Un
matrimonio tra monarchie assolute.
Il 23 giugno dello scorso anno l’azienda
cerealicola Bunge ha annunciato l’acquisto della canadese Viterra.
L’acquisizione
rappresenta un vero e proprio royal wedding: Bunge è la quinta impresa per
dimensioni e fatturato al mondo nel suo campo. Viterra, che ha sede nei Paesi
Bassi, è un colosso canadese del grano.
La
Commissione europea fa buon viso a cattivo gioco.
Non si
tratta solo di un affare privato tra imprese.
L’accordo
può comportare importanti conseguenze sulla distribuzione delle capacità
produttive nel settore e sulle condizioni di vita materiali di molti
agricoltori, dentro e fuori l’Unione.
Eppure, non è la prima volta che la
Commissione concede il suo benestare a una fusione che incentiva oligopoli
commerciali, nonostante siano espressamente vietati dal Regolamento 139/2004.
E
nonostante la stessa Commissione abbia riconosciuto una forte accentuazione
della tendenza negli ultimi 25 anni.
Nel
2016 il matrimonio tra Monsanto e Bayer. Generò un colosso dal fatturato
globale di 23 miliardi di euro. La soglia consentita dal Regolamento 139/2004 è
di 5 miliardi.
L’acquisizione
ha avuto un ruolo chiave nell’aumento dei prezzi delle sementi in tutto il
mondo e ha generato fusioni a cascata che hanno contratto ulteriormente il
numero di attori sul mercato.
4
multinazionali controllano il 51% del commercio mondiale. Allo stato attuale,
quattro multinazionali controllano il 51% del commercio mondiale di semi e il
61% di quello di prodotti agro-chimici.
L’accordo
porterà una sostanziale riduzione della concorrenza, alimentando l’oligopolio.
L’accordo tra Bunge e Viterra desta
preoccupazioni anche in Canada, dove interverrà l’autorità di regolamentazione
visto che, con la fusione, si arriverà a una concentrazione del mercato di
oltre il 35%.
Le
dimensioni di Bunge.
È
leader globale della trasformazione di semi oleosi, opera in 40 Paesi e ha un
fatturato di più di 57 miliardi di dollari.
È
un’azienda dall’enorme potere economico e, di conseguenza, politico. Fa parte
delle cosiddette ABCCD:
ADM,
Bunge, COFCO, Cargill e Louis Dreyfuss.
Un
gruppo di imprese che detiene il 70% del commercio globale di cereali. E che
decide il bello e il cattivo tempo dell’andamento dei prezzi, spesso senza
alcun legame con domanda e offerta.
Le
dimensioni di Viterra.
È di proprietà di “Canada Pension Plan
Investment Board”, “British Columbia Investment Management Corporation” e della”
multinazionale mineraria Glencore”, è un colosso del mercato del grano con
affari in 38 Paesi e 53 miliardi di dollari di fatturato.
Calano
la concorrenza e i prezzi pagati agli agricoltori. Il” Competion Bureau Canada”
ha sottolineato che la loro unione porterà «una sostanziale riduzione della
concorrenza in alcuni mercati rilevanti, come una diminuzione dei prezzi pagati
agli agricoltori e una riduzione della scelta a causa dell’eliminazione della
rivalità tra Bunge e Viterra».
Le
prime proiezioni sugli impatti mostrano una riduzione del reddito degli
agricoltori canadesi di 770 miliardi di dollari l’anno.
Saliranno
i prezzi dei prodotti alimentari.
Secondo
il Coordinamento europeo Via Campesina, l’operazione genererà una delle tre più
grandi aziende del mondo, elemento centrale dell’oligopolio mondiale.
Un
mostro bicefalo, con il dominio della trasformazione dei semi da un lato, e
quello della vendita del grano dall’altro.
Con un potere sconfinato sul mercato, che
limiterà la capacità di commercializzazione degli agricoltori che esportano
nell’Unione europea.
L’inflazione
dei venditori. E farà salire i prezzi.
Gli
economisti denunciano il pericolo di “inflazione dei venditori”, il meccanismo
alla base dell’aumento dei prezzi alimentari tra il 2018 e il 2023.
L’inflazione dei venditori è il fenomeno per
cui l’aumento dei prezzi si sposta di fase in fase della catena di produzione,
sommando percentuali di rincari a ogni passaggio, per poi abbattersi sul costo
finale. E, quindi, sui consumatori. È successo in Germania, dove tra il 2022 e
il 2023 il prezzo dei cereali nazionali è cresciuto nonostante non ci fossero
problemi di offerta.
È un
fenomeno che ha caratterizzato tutta la storia del nuovo secolo: dopo la
stabilizzazione degli anni Ottanta e Novanta, i prezzi hanno cominciato a
salire senza più arrestarsi, determinando le crisi del 2007-2008, del 2010-2012
e del 2020-2023.
La
fame nel mondo.
In
questo contesto le società ABCCD prosperano.
Nel
2022 le persone affamate in tutto il mondo erano una ogni dieci, ma le cinque
big del settore hanno comunicato che il 2021 è stato l’anno più redditizio
della storia del commercio agricolo.
L’aumento
registrato rispetto al periodo 2016-2020 è tra il 75% e il 260%. T
utto
questo mentre nel mondo le guerre e la pandemia interrompevano le catene di
approvvigionamento determinando lo shock dei prezzi.
Un
trend che si è confermato nel 2022 e nel 2023, senza alcuna capacità da parte
di governi e istituzioni internazionali di porre un argine.
(Rita Cantalino – Valori.it).
Piattaforme
digitali
e
conflitti globali.
Collettiva.it
- Dario Guarascio – (29 luglio 2022) –
ci dice:
Le
grandi imprese transnazionali hanno fatto un salto di qualità. È un disegno
‘imperialista’, finalizzato alla colonizzazione di nuovi mercati e
all’espansione della massa di informazioni da archiviare, rielaborare e vendere.
La
tendenza alla concentrazione di potere economico e tecnologico è un tratto
distintivo del sistema capitalistico, sin dalle sue origini.
Autori
come Marx, Schumpeter, Hilferding e Lenin riconoscono nei grandi oligopoli
tecnologici il motore fondamentale delle trasformazioni economiche e sociali
del loro tempo nonché la causa primaria di diseguaglianza, instabilità politica
e guerre.
Nella
seconda metà del Novecento, i teorici del ‘Capitale Monopolistico’ riportano le
grandi imprese transnazionali e il loro potere al centro dell’analisi. La
capacità che queste entità hanno di controllare lo spazio economico, abbattendo
barriere spazio-temporali, vincoli politici e imponendo una ‘divisione del
lavoro’ funzionale ai loro obiettivi strategici, viene individuata come la
causa principale delle crescenti diseguaglianze e dei divari di sviluppo tra
Paesi.
Con
l’avvento delle grandi piattaforme digitali tale processo di concentrazione del
potere sperimenta un salto di qualità.
Il
potere delle grandi piattaforme si basa sul dominio delle tecnologie, delle
infrastrutture e dei servizi necessari a mantenere il controllo sui sempre più
vasti flussi di informazione digitale.
Il
controllo dei dati garantisce alle piattaforme una posizione dominante circa lo
sviluppo e l’offerta di servizi essenziali per la vita degli individui, delle
imprese e degli Stati.
La
piattaforma si trasforma in un “panottico”: il controllo dei flussi di dati le
consente di monitorare in modo costante l’economia discriminando tra i settori
ove si limita a beneficiare della propria primazia tecnologico-organizzativa
estraendo le relative rendite;
e
quelli ove può rivelarsi strategico penetrare e competere direttamente con le
imprese insediate, spesso con il fine di estrometterle completamente dal
mercato.
Il
controllo dei dati è importante anche per influenzare la composizione dei
panieri di consumo degli utenti che interagiscono con le piattaforme dal lato
della domanda.
Utilizzando
algoritmi di Intelligenza Artificiale (IA) che consentono di “profilare” gli
utenti e di personalizzare le attività di marketing, le piattaforme digitali
riescono a stimare con estrema precisione la probabilità che un consumatore
effettui un determinato acquisto.
Di fatto, le piattaforme “anticipano” la
domanda.
Questo
consente loro di ottenere significativi guadagni di efficienza e di accrescere
il valore di servizi complementari, come nel caso dei servizi pubblicitari
“targettizzati”.
Per
Amazon, ad esempio, l’anticipazione dei flussi di domanda è centrale per
massimizzare l’efficienza delle attività di produzione, stoccaggio, logistica,
e di relazione con le terze parti nell’ambito del suo “marketplace” virtuale.
Quanto
più grande e ricca è la massa di informazioni controllata dalla piattaforma,
tanto maggiore è il valore delle tecnologie di IA, basate in larga parte su
algoritmi di apprendimento, di cui questa dispone.
Da questo punto di vista, è paradigmatico il
caso della penetrazione in settori nevralgici quali la sanità e la finanza,
recentemente oggetto di ingenti investimenti da parte di piattaforme come “Alphabet”
e “Amazon”.
Per
quanto riguarda la sanità, parallelamente all’intenzione di acquisire quote di
mercato in settori ad alto valore aggiunto, l’obiettivo strategico è quello di
privatizzare flussi di informazione dal valore inestimabile perché
caratterizzati da unicità come, ad esempio, quelli relativi alla salute degli
individui.
Quanto più le informazioni cui la piattaforma
riesce ad avere accesso sono pregiate, tanto più la stessa può sviluppare nuovi
prodotti, privatizzare la conoscenza ad essi associata e rafforzare le
tecnologie di cui già dispone.
Tutto ciò le consente di accrescere il proprio
vantaggio competitivo di natura tecnologica subordinando le controparti
(private e pubbliche) a una più acuta dipendenza.
Negli
anni recenti, la crescita del potere economico delle grandi piattaforme ha dato
luogo a una serie di reazioni da parte dei governi e, in particolare, delle
autorità di regolamentazione.
Si è
tentato, invero con scarso successo, di contenere il loro potere sanzionando le
azioni considerate lesive della concorrenza e tentando (timidamente) di ridurre
la capacità delle stesse piattaforme di appropriarsi in modo automatico delle
informazioni private relative ai loro utenti.
Il
potere delle piattaforme, tuttavia, va molto al di là della loro
capitalizzazione o della mera accumulazione di profitti e quote di mercato.
Vi è una dimensione, relativamente poco
investigata, che riguarda il ruolo delle grandi piattaforme nelle strategie
geopolitiche e militari delle potenze – Cina e Stati Uniti – a cui fanno
riferimento. In primo luogo, è opportuno ricordare che, come la gran parte
degli oligopoli tecnologici del Novecento, anche le odierne piattaforme
digitali hanno un’origine militare.
Internet e le tecnologie su cui si basa sono
il risultato di cinquant’anni di investimenti realizzati dagli apparati della
difesa statunitensi.
Da un
lato, la privatizzazione delle tecnologie della rete e la ‘commercializzazione
di Internet’ che ha luogo nella prima metà degli anni Novanta su impulso di Al
Gore e Bill Clinton costituiscono gli ‘atti originari’ a partire dai quali le
piattaforme cominciano a costruire il loro impero economico.
Dall’altro,
le piattaforme divengono i controllori di infrastrutture e tecnologie di rete
che, come già detto, nascono come militari e che avranno un ruolo sempre più
rilevante nelle attività di sicurezza e difesa.
Tale
controllo fornisce alle piattaforme un potere significativo verso l’interno,
potendo condizionare i governi dei Paesi ove risiedono.
Gli
esempi recenti abbondano.
C’è, ad esempio, quello dello Stato di New
York, che si è rivolto a Microsoft e Google per gestire l’emergenza pandemica
consentendo loro di appropriarsi di tutte le informazioni private che si
sarebbero trovate a gestire.
O quello della National Security Agency (NSA)
che ha appena assegnato ad Amazon un contratto da 10 miliardi di dollari per la
gestione dell’apparato cloud dell’agenzia.
In
realtà, l’intreccio tra apparati militari e oligopoli digitali è visibile anche
guardando agli sviluppi istituzionali più recenti.
Andrew
Jassy, AD di Amazon, siede assieme all’ex AD di Alphabet Eric Schmidt
all’interno della ‘National Security Commission on Artificial Intelligence’.
La Commissione è stata istituita nel 2018 dal
Congresso degli Stati Uniti per definire ‘gli usi militari e di sicurezza della”
IA’4.”
A
livello internazionale, le piattaforme perseguono un proprio disegno
‘imperialista’, finalizzato alla colonizzazione di nuovi mercati e
all’espansione della massa di informazioni da archiviare, rielaborare e
vendere.
Si
pensi, ad esempio, ad Amazon e alla rapidità con cui si è diffusa a livello
globale rendendo milioni di consumatori e imprese dipendenti dai suoi servizi.
Similmente, si pensi alla capacità di Facebook
e Google (Alphabet) di acquisire quote maggioritarie dei mercati pubblicitari
in tutto il mondo.
Allo
stesso tempo, la stretta relazione che le piattaforme intrattengono con gli
Stati di appartenenza (Stati Uniti e Cina) e i loro apparati militari le
trasforma in soggetti attivi nell’ambito delle strategie imperialiste di quegli
stessi Stati.
In primo luogo, le piattaforme divengono un
‘avamposto virtuale’ in grado di assorbire enormi quantità di informazioni.
In
secondo luogo, le piattaforme tendono ad assumere il ruolo di fornitori
privilegiati di servizi sensibili - quali quelli legati alla gestione degli
archivi virtuali, delle comunicazioni digitali e della cybersicurezza –
instaurando relazioni di dipendenza con i governi che le ospitano.
Un
caso lampante è quello del progetto “Gaia-X”, inizialmente disegnato per
consentire all’Unione Europea di recuperare sovranità digitale proprio nei
confronti delle grandi piattaforme (e, implicitamente, nei confronti di Stati
Uniti e Cina) attraverso la costruzione di un ‘cloud europeo’.
Con
l’avvio delle procedure finalizzate ad appaltare le attività infrastrutturali e
quelle relative ai servizi ci si è tuttavia resi conto che, allo stato attuale,
il gap tecnologico è incolmabile:
le
grandi piattaforme statunitensi (quelle cinesi sono estromesse per ragioni
geopolitiche del tutto connesse alle argomentazioni proposte sin qui) sembrano
essere le uniche in grado di dare concretezza al progetto europeo.
Ciò
significa che, dato il divario esistente, la dipendenza, tecnologica, economica
e geopolitica è destinata ad aumentare.
La
guerra in Ucraina ha messo ulteriormente in evidenza il ruolo geopolitico che
le grandi piattaforme digitali sono in grado di giocare.
In primis, una parte significativa della
guerra è combattuta sui social network attraverso i quali viene veicolata la
quasi totalità dell’attività propagandistica.
Le piattaforme hanno un’autorità totale su
questi media potendo stabilire quali informazioni filtrare o quali account
oscurare.
In
secondo luogo, controllando direttamente infrastrutture di rete e servizi ormai
di natura essenziale, le piattaforme possono discrezionalmente decidere di
supportare una o l’altra parte in conflitto.
Nel
caso ucraino, le azioni delle grandi piattaforme americane attuate per colpire
la Russia e i suoi esponenti politici sono state salutate con favore
dall’opinione pubblica.
Queste
stesse azioni, tuttavia, mettono in luce la capacità delle grandi piattaforme
di agire ‘come se fossero degli Stati’ pur essendo dei soggetti privati il cui
fine ultimo è quello di accumulare profitti e espandere il loro controllo della
sfera economica.
Una
distorsione che è oggetto di scarsa attenzione in questo momento di forte
polarizzazione del dibattito ma che potrebbe aprire la strada a sviluppi
inquietanti nel prossimo futuro soprattutto nel caso in cui il conflitto
latente tra gli Stati Uniti e la Cina dovesse inasprirsi.
Più in
generale, quando si assiste a conflitti ‘reali’ come quello che sta producendo
morte e distruzione in Ucraina, non dovremmo dimenticare che gli stessi hanno
delle radici materiali e che spesso queste sono da cercare nella
contrapposizione tra poli economico-tecnologici.
Come
quelli rappresentati dalle grandi piattaforme statunitensi e cinesi.
Da
Tesla a ExxonMobil:
come
le grandi multinazionali
stanno
erodendo la democrazia.
Valigiablu.it – (1° Ottobre 2024) - Mattia
Marasti – ci dice:
Da
Tesla a ExxonMobil: come le grandi multinazionali stanno erodendo la democrazia.
Nel
1970, il futuro Premio Nobel per l’Economia Milton Friedman scrisse un
editoriale sul The New York Times.
Nel
suo pezzo, Friedman sostiene che il compito fondamentale di chi dirige
un’azienda non sia rispondere ai bisogni della società o perseguire obiettivi
di natura sociale o ambientale, quanto il massimo ritorno finanziario per
coloro che possiedono l'azienda.
Friedman, ovviamente, ammette che ci sono
limiti legali ed etici che le imprese devono rispettare.
Le
aziende devono rispettare leggi e regolamenti, e non devono ricorrere a
pratiche di dubbia legalità o ingannevoli.
Tuttavia,
se restano all'interno di queste regole, l’unico obiettivo deve essere quello
di massimizzare i profitti.
Da
quando Friedman ha scritto quell’articolo, le cose sono cambiate.
Le
aziende hanno raggiunto dimensioni mai viste prima, con la nascita di colossi
come Amazon, Apple e le altre big tech;
la
quota salari - cioè la percentuale di reddito nazionale che va a retribuire il
fattore lavoro - è in declino;
per
molte persone anche della classe media il lavoro è diventato sempre meno
soddisfacente e retribuito, con prospettive di deterioramento dovute
all’automazione;
la
crisi climatica, alimentata anche dalle pratiche delle grandi aziende, porta
con sé conseguenze nefaste sulle persone più povere e sulla classe media;
i
partiti populisti e di destra radicale hanno preso piede nelle nostre
democrazie anche grazie alla diffusione di fake news e ingerenze, con
conseguenze anche sulla polarizzazione che affligge il dibattito politico, dove
il ruolo dei social media e dei media tradizionali è cruciale.
D’altronde
gli indicatori dello stato di salute delle democrazie, come quello redatto dal “The
Economist”, mostrano che una crisi è in atto.
Anche
solo i segnali degli ultimi mesi sono eloquenti:
la Francia è in una situazione di instabilità
politica inedita per la Quinta repubblica, con la destra radicale del
Rassemblement National che gioca un ruolo di primo piano nel governo e attende
con ansia le prossime presidenziali;
la
Germania si trova invece con un’ascesa costante dell’AfD, complice anche la
crisi della coalizione semaforo che in questi anni non ha saputo costruire
consenso attorno alla sua proposta politica;
gli
Stati Uniti rischiano un ritorno di Donald Trump con una retorica più
aggressiva rispetto a quanto visto sia nel 2016 sia nel 2020.
Per
non parlare di altri segnali, come nuovi fenomeni di repressione del dissenso e
di controllo.
Questa
situazione estremamente delicata per le democrazie è causata, anche, dallo
strapotere delle imprese che, nel tentativo appunto di massimizzare i loro
profitti, hanno innescato degli effetti a cascata che erodono, giorno dopo
giorno, il supporto verso la democrazia e quindi il suo corretto funzionamento,
come rileva anche un report pubblicato qualche giorno fa dalla” International
Trade Union Confederation (ITUC), la più grande confederazione sindacale al
mondo.
Di
cosa parliamo in questo articolo:
Barare
seguendo le regole: il caso dell’elusione fiscale.
La
tendenza al monopolio: dal potere economico a quello politico.
Il
controllo sui media: social e no.
Nessuna
azienda è un’isola.
Barare
seguendo le regole: il caso dell’elusione fiscale.
Il
primo tema su cui vale la pena porre l’accento è quello fiscale, ovvero su come
le aziende, per aumentare i loro profitti, sfruttino il sistema fiscale
implementato dagli Stati per raccogliere le imposte e le tasse.
È necessario fare una premessa.
In
Italia si parla spesso del problema dell’evasione fiscale che, secondo i report
del Ministero dell’Economia e delle Finanze, vale tra i 90 e i 100 miliardi
l’anno.
Si tratta di un tema importante, ma che non
riguarda le grandi imprese: l’evasione fiscale infatti è concentrata su vendita
al dettaglio e lavoratori autonomi, dove è possibile nascondere le transazioni.
Nel
caso delle grandi imprese le cose si fanno più delicate:
non
siamo più nel campo dell’evasione fiscale, quanto dell’elusione fiscale.
Si
tratta di un fenomeno in cui le aziende sfruttano lacune normative, trattati
fiscali favorevoli e strutture societarie complesse per ridurre il carico
fiscale che dovrebbero pagare allo stato.
Le grandi aziende sono presenti in vari paesi
e possono sfruttare questa caratteristica per sfuggire a sistemi fiscali più
rigidi e sfruttare invece vari paradisi fiscali in cui la tassazione sulle
imprese è molto bassa.
Secondo
i dati dell’”Eu Tax Observatory “(un istituto di ricerca indipendente dedicato
allo studio dell'evasione e dell'elusione fiscale nell'Unione Europea), questo
fenomeno in Europa porta a una perdita del 20% del gettito, una percentuale
particolarmente alta.
Eppure
anche in seno al vecchio continente vi sono paesi che possono essere ascritti a
Paradisi Fiscali, cioè regioni in cui la tassazione per le imprese è
particolarmente.
Un
esempio su tutti è quello dell’Irlanda che, in questi ultimi anni, ha visto il
suo gettito da imposte e tasse su imprese aumentare notevolmente, con il 90%
proveniente da aziende estere.
Nel
corso degli ultimi anni gli Stati stanno cercando di porre un freno a questa
pratica.
L’esempio
paradigmatico riguarda proprio la diatriba tra l’Europa e l’Irlanda che ha
permesso ad Apple di godere di una tassazione fino allo 0,005 per cento sui
profitti provenienti da varie regioni del mondo. Questa strategia avrebbe
minacciato il mercato unico, secondo la Commissione Europea.
Dopo
una lunga diatriba legale, la Corte di Giustizia dell’UE ha stabilito che la
società americana dovrà versare nelle casse dell’Irlanda, che continua appunto
a essere un paradiso fiscale, 13 miliardi di euro per compensare le tasse
dovute tra il 2003 e il 2013.
Quanto di più sorprendente è che fin
dall’inizio della causa il paese europeo ha preso le parti della multinazionale
di Cupertino, nella paura che la sentenza potesse incentivare anche altre
multinazionali che sfruttano i suoi regimi fiscali ad abbandonare il paese.
Ciò
mostra un altro problema:
al
netto delle necessità di bilancio, quello che innesca una situazione di questo
tipo è una corsa al ribasso per la tassazione delle grandi imprese, lasciando
indietro gli Stati che non possono permetterselo.
Questa
pratica non solo danneggia la collettività, ma in senso lato danneggia anche
l’impresa stessa.
Oltre ad altri strumenti come il ricorso al
debito o i profitti di aziende statali, sono proprio imposte e tasse che
garantiscono l’erogazione di beni pubblici cruciali per la crescita economica
di un paese.
Questo
significa che se determinate aziende decidono di spostare la loro sede fiscale,
quei soldi non potranno essere utilizzati per infrastrutture, scuole e sanità.
Eppure senza un tessuto infrastrutturale in
grado di collegare le varie zone del paese, le imprese faranno più fatica a
consegnare i loro prodotti incorrendo in dei costi - di tempo, per fare un
esempio - maggiori. Lo stesso vale per l’istruzione e per la sanità:
è proprio una forza lavoro che ha accumulato
capitale umano e allo stesso tempo è in salute che permette a queste imprese di
funzionare e di poter fare profitti.
Il deterioramento dei servizi pubblici ha poi
dei risvolti politici. L’insoddisfazione della popolazione può portare a un
aumento dei consensi per i partiti o istanze populisti, come dimostra il caso
Brexit.
Durante
la campagna referendaria, infatti, uno degli slogan più in voga del “Vote Leave”
era proprio che fuoriuscire dall’Europa avrebbe garantito maggiori risorse per
l’NHS, cioè il Sistema Sanitario Britannico.
Ovviamente,
quando Johnson e i sostenitori della Brexit sono arrivati a Nr. 10 Downing
Street, la situazione non ha fatto altro che peggiorare.
La
tendenza al monopolio: dal potere economico a quello politico.
Il
secondo aspetto è quello della tendenza al monopolio e oligopolio. Uno studio
accademico ha preso in considerazione le aziende americane tra il 1955 e il
2016 andando a misurare l’aumento del” mark up”, cioè la differenza tra il
costo di produzione di un prodotto e il suo prezzo finale di vendita al
consumatore.
L’andamento
dei “mark up” rappresenta un buon indicatore della tendenza
all’oligopolio/monopolio.
I
risultati dello studio mostrano che dopo una fase di stallo tra il 1955 e il
1980, i mark up sono andati aumentando, con una crescita concentrata in
particolare nella coda della distribuzione, cioè nelle aziende di più grandi
dimensioni, per dirla in modo semplice.
Secondo
un report del “Brooking Institute”, questa tendenza è destinata a peggiorare a
causa delle nuove tecnologie.
Tra i
motivi c’è il cosiddetto effetto network.
Questo si verifica quando un servizio diventa
più appetibile con l’aumentare del numero degli utenti: più persone lo
utilizzano, più il suo valore cresce per tutti.
Un
esempio è fornito non solo dai social media, ma anche dai provider di musica e
intrattenimento.
Se
utilizzo “Spotify”, ad esempio, e il numero di utenti è molto basso, le
raccomandazioni di Spotify non soddisfano i miei gusti perché ha a sua
disposizione un numero limitato di dati.
Al
contrario, quando il numero di utenti aumenta, attraverso degli algoritmi che
riescono a raggruppare utenti con gusti simili, la piattaforma è in grado di
fornire raccomandazioni più accurate, garantendo un’esperienza migliore per
l’ascoltatore.
Poiché
questo meccanismo dipende dal numero di utenti che lo utilizzano, questo porta
a dinamiche che distorcono la concorrenza e creano barriere all’entrata.
La
discussione sulle implicazioni economiche della tendenza all’oligopolio o
monopolio sono enormi, ma in questo caso è più cocente concentrarci su come il
potere economico influenza altre forme di potere all’interno della società.
In
primo luogo il” potere di lobbying “di queste aziende sulla politica - e anche
sul settore accademico.
Le grandi aziende possono infatti influenzare
i legislatori, grazie al potere che hanno dal punto di vista economico e alle
eventuali ricadute economiche che un loro disimpegno potrebbe avere.
Questo
porta a legislazioni che sono fatte appositamente per fornire un vantaggio alle
grandi imprese - o a proteggerle da determinate spinte nella società - andando
quindi ad aumentare ancora di più il potere economico.
Uno
dei casi più eclatanti è quello degli “Uber Files”, migliaia di documenti
interni trapelati a giornalisti, che hanno rivelato tattiche aggressive da
parte di “Uber” per consolidare la propria presenza nei mercati internazionali
tra il 2013 e il 2017.
L’azienda avrebbe infatti fatto pressione su
vari governi, tra cui quello francese.
La corrispondenza tra Uber e l'allora ministro
dell'Economia durante il governo Valls “Emmanuel Macron”, poi diventato
Presidente della Repubblica, ha suscitato particolare indignazione, tanto da
spingere le opposizioni a chiarimenti.
Secondo
i documenti emersi, “Macron” si sarebbe impegnato a sostenere Uber contro le
resistenze dei sindacati dei tassisti, negoziando direttamente con i leader
dell'azienda.
Secondo
le mail, anche economisti sarebbero stati coinvolti in questo scandalo tra cui
il compianto Alan Krueger”, ex Consigliere Economico alla Casa Bianca durante
l’Amministrazione Obama.
Un
altro caso riguarda la crisi climatica.
Secondo
i dati del “Carbon Majors Database”, sono 57 le imprese che da sole sono
responsabili dell’80% delle emissioni di CO2 dal 2016.
Tra
queste ci sono i nomi di imprese importanti nel campo dell’energia come
ExxonMobil, Shell, BP.
Ma questo impatto devastante sulla crisi
climatica è mediato dall’attività di lobbying che queste imprese fanno e dal
loro controllo dei media.
Un
esempio recente è fornito da un’inchiesta del “The Guardian”. Secondo il
giornale britannico, le grandi compagnie petrolifere avrebbero fatto pressione
e lavorato dietro le quinte assieme ai legislatori di alcuni Stati degli USA
per inasprire le pene per coloro che protestano per la crisi climatica.
Inoltre,
sono gli stessi dirigenti delle aziende inquinanti a detenere quote delle
compagnie, proseguendo quindi con il “business as usual” rispetto agli
investimenti necessari per la transizione ecologica.
Il
secondo aspetto riguarda invece gli equilibri nel mercato del lavoro, in
particolare nel rapporto coi sindacati.
L’esempio svedese è paradigmatico: il sistema
che ha portato a una prosperità diffusa ed egualitaria nella Svezia del
dopoguerra si basava appunto su una forte presenza dei sindacati che, grazie al
loro potere contrattuale, potevano garantire alti salari e tutele nei confronti
dei lavoratori.
Nella
situazione odierna, invece, i sindacati sono sempre più deboli.
Tra i
motivi di questa debolezza, ci sono anche le pressioni fatte da parte delle
grandi imprese contro la sindacalizzazione dei propri lavoratori. Negli Stati
Uniti, i tentativi di sindacalizzare i “magazzini Amazon” da parte dei
lavoratori sono stati ostacolati con pratiche illegali e intimidatorie,
proiettando ad esempio slogan anti-sindacali attraverso gli schermi dei
computer e impedendo ai lavoratori di parlare del tema durante l’orario di
lavoro.
Non è
un caso: da anni infatti Amazon viene accusata di condizioni di lavoro
insostenibili per i lavoratori che tendono a licenziarsi anche in posti dove le
opportunità di lavoro sono risibili.
Il
problema non riguarda solo Amazon.
Anche “Elon Musk” ha dichiarato che la
sindacalizzazione crea un sistema di “servi e signori” mentre le indagini
mostrano come sia i ritmi di lavoro sia le condizioni a cui sono sottoposti i
lavoratori delle sue aziende siano insostenibili.
Questi
tentativi di ostacolare i sindacati hanno appunto delle conseguenze non
trascurabili dal punto di vista sia della disuguaglianza salariale sia del
benessere dei lavoratori.
Mentre la ricerca sottolinea l’importanza che
hanno i sindacati nel negoziare salari più elevati riducendo le disuguaglianze,
oggi la situazione è profondamente cambiata:
secondo i dati Oxfam, nelle 350 più grandi
imprese statunitensi la retribuzione di un amministratore delegato è aumentata
in media del 1200% tra il 1978 e il 2022, superando il tasso di aumento dei
salari.
Il
controllo sui media: social e no.
Un
elemento centrale nella crescente influenza delle grandi aziende e nella
conseguente erosione delle democrazie è il controllo che queste esercitano sui
media, sia quelli tradizionali sia i social media.
In
particolare, i social network hanno radicalmente trasformato il modo in cui
l'informazione viene prodotta, diffusa e consumata.
Piattaforme
come Meta, TikTok, Twitter (ora X), YouTube e Instagram hanno un'influenza
enorme sul discorso pubblico globale, e la concentrazione del potere nelle mani
di poche multinazionali che gestiscono queste piattaforme rappresenta una
minaccia diretta alla pluralità dell'informazione e alla qualità del dibattito
democratico.
Uno
degli aspetti più preoccupanti è che i social media non si limitano a
diffondere informazioni:
amplificano
divisioni politiche e sociali.
Questo
effetto è dovuto principalmente agli algoritmi di raccomandazione che
privilegiano contenuti emozionali, polarizzanti o estremi, poiché tendono a
generare maggiori interazioni.
I ricercatori hanno osservato che piattaforme
come Facebook tendevano a privilegiare i post che provocano rabbia:
l'algoritmo assegna un peso più elevato alle
reazioni di rabbia rispetto ai "like", aumentando così la diffusione
di contenuti controversi.
Anche i media tradizionali hanno alimentato
questa dinamica.
Nel
libro “Network Propaganda “(2018), i ricercatori del “Berkman Klein Center
hanno analizzato l'ecosistema mediatico statunitense, evidenziando
un'asimmetria:
mentre i media progressisti rimangono più
vicini a fonti centriste, quelli di destra, come “Fox News”, adottano un
approccio più estremista e fazioso.
Uno
studio sulle proteste negli Stati Uniti, inoltre, supporta la tesi
dell'“amplificazione della destra”, secondo la quale l'infrastruttura sociale e
tecnologica dei social media conferirebbe una maggiore visibilità ai contenuti
conservatori.
Nonostante
gli sforzi dichiarati per combattere la disinformazione, le grandi aziende
tecnologiche che gestiscono queste piattaforme, come Meta e X, hanno spesso
dimostrato una certa reticenza a prendere misure efficaci. In molti casi,
infatti, non hanno alcun incentivo economico a farlo: la viralità di contenuti
controversi, falsi o divisivi genera più traffico, il che si traduce in
maggiori introiti pubblicitari per le piattaforme.
O, in
altri casi, a utilizzare le piattaforme per determinati scopi politici.
Il caso paradigmatico è l’acquisizione del
social Twitter, ora X, da parte di Elon Musk.
Questa
acquisizione ha sollevato preoccupazioni per l'indipendenza e la trasparenza
della piattaforma, soprattutto alla luce del suo approccio permissivo verso la
moderazione dei contenuti.
La
visione di Musk, che promuove la "libertà di parola assoluta", ha
spinto molti a temere un aumento della disinformazione e della retorica
violenta sulla piattaforma.
Come
mostrano i dati, infatti, l’utilizzo di termini offensivi è aumentato
considerevolmente dopo l’acquisizione, portando però a una fuga degli
investitori.
Musk
non ha poi nascosto le sue simpatie per la destra, arrivando a lanciare la
candidatura, poi fallita, di “Ronan De Santis” alle primarie repubblicane
proprio con uno “Space di Twitter”.
Un
altro esempio di questa tendenza si è verificato con l'acquisizione del “The
Washington Post” da parte di Jeff Bezos”, fondatore di Amazon, nel 2013.
Sebbene
Bezos abbia affermato di non interferire con le linee editoriali del giornale,
l'acquisizione ha sollevato interrogativi sul crescente controllo delle élite
tecnologiche sui media tradizionali.
Se per
anni Bezos è rimasto abbastanza in disparte riguardo le questioni politiche,
nel corso degli ultimi anni è intervenuto maggiormente, innescando ad esempio
uno scambio acceso con la Casa Bianca sul ruolo dei profitti delle aziende
nella dinamica dell’inflazione e sull’aumento delle imposte, tanto che
recentemente il “The Washington Post” - a ragione o torto - è tornato
sull’argomento.
L’acquisizione
di media da parte di miliardari non è un fenomeno esclusivo degli Stati Uniti.
In
Europa - in particolare nel Regno Unito e in Italia - grandi gruppi economici e
imprenditori con legami stretti con il potere politico detengono una quota
significativa dei principali giornali e canali televisivi:
basti
pensare al caso Berlusconi in Italia o all’impero creato da Murdoch.
Ciò
porta a un ulteriore indebolimento del pluralismo.
In una
situazione di legami sempre più stretti tra il mondo dell’informazione e quello
dell’economia, il ruolo dei media sembra scivolare sempre di più verso l’essere
una cassa di risonanza per il padrone di turno, più che una fonte di
informazione.
Nessuna
azienda è un’isola.
Quanto
detto finora non deve far pensare che l’obiettivo di un’impresa non sia,
effettivamente, fare profitti.
Al di
là dell’eterogeneità che si può trovare, il fine ultimo di un’azienda resta
quello - a dire il vero un po’ generico - di vendere i propri prodotti. Non
solo:
le grandi aziende hanno lati positivi.
Sappiamo
che sono le grandi aziende a poter puntare di più sull’innovazione e quindi ad
avere un maggior impatto sia sulla crescita economica sia sul benessere delle
persone.
Inoltre,
proprio in virtù di questo, sono sempre le grandi aziende a poter fornire, in
linea teorica, posizioni e salari competitivi per la forza lavoro.
Sulle
grandi aziende è quindi necessario trovare un fragile equilibrio che tenga
conto sia dei loro effetti benefici sia del rischio che l’accentramento di
potere economico e politico provoca.
Ma non
tocca alle aziende trovare questo equilibrio, quanto alla politica che può e
deve intervenire in maniera più ambiziosa, orientando attraverso i suoi
strumenti gli incentivi al funzionamento delle aziende e in generale dei
mercati.
Per
fare un esempio concreto, recentemente un lavoro di studiose italiane
dell’Università di Torino ha evidenziato come il mercato abbia cominciato a
ritenere rischioso investire in aziende inquinanti dopo gli accordi di Parigi.
Questo,
spiegano le ricercatrici, è dovuto alle aspettative degli agenti riguardo
l’impegno dei legislatori nel contrastare la crisi climatica.
La
politica e l’opinione pubblica quindi possono influenzare i comportamenti delle
aziende e dei mercati.
Anche
in questo caso è necessario non essere troppo ottimisti.
Abbiamo
visto come le grandi imprese possono esercitare pressione sui legislatori
attraverso attività di lobbying e sulla società attraverso social media e media
tradizionali.
Come
riuscire ad arginare questi fenomeni sarà uno dei problemi di cui discutere se
vogliamo salvaguardare i processi democratici.
Logistica
capitalistica
dell’”AIg.
Concetticontrastivi.org
– (10 Maggio 2025 ) - Marco Guastavigna – ci dice:
La
tesi di fondo per un’analisi critica dei dispositivi di intelligenza
artificiale generativa, andando oltre il sensazionalismo, ruota attorno
all’idea che essi siano prioritariamente infrastrutture della logistica della
conoscenza e dell’istruzione, profondamente radicate e coerenti con i rapporti
di produzione capitalistici e una visione del mondo neoliberale.
La
loro funzione principale non è quella di “comprendere” o “pensare”, ma di
catturare, modellizzare e riproporre la conoscenza collettiva trasformandola in
una risorsa economica da sfruttare per il profitto degli oligopoli che li
controllano. Questa infrastruttura tecnologica costruisce cultura, “fa mondo”,
pone vincoli e viola diritti.
I
concetti a supporto di questa tesi sono molteplici e si intersecano:
Natura
Tecnica e Epistemologia dei Dispositivi:
Sono
definiti “macchine statistico predittive addestrate con dataset”, che operano
su una matrice probabilistica.
Questi
dispositivi imparano a raggiungere esiti o risultati senza comprendere nulla.
La
definizione di intelligenza si attesta sulla “capacità di produrre cambiamento
in un ambiente sulla base di dati che raccoglie”, dimostrandosi efficiente ed
efficace nel raggiungere questi esiti, a differenza dei sistemi esperti basati
su logiche deduttive che si sono rivelati fallaci.
L’analisi
si concentra sugli esiti dei processi di computazione, non sui processi di
ragionamento o comprensione.
Questa
idea, che risale al test di Turing, attraversa la storia dei dispositivi
digitali.
Sono
visti come una “scorciatoia”.
Il
concetto di “comunicazione artificiale” è proposto come etichetta più precisa
rispetto a “intelligenza artificiale”.
Linguaggio,
Marketing e Opacità:
Le
espressioni come “intelligenza artificiale generativa” sono in primo luogo
linguaggio del marketing commerciale, industriale e militare.
Questi termini creano una “nebulosità” che impedisce
l’analisi critica.
È
fondamentale “decostruire” questo linguaggio e uscire dalla fase in cui si
pensa con le parole degli altri.
I dataset
utilizzati per addestrare queste macchine sono per lo più opachi, e non si
conosce il loro contenuto.
Logica
Prestazionale e Impatto Socio-Economico:
Il
modello prevalente veicola una “visione prestazionale dell’intelligenza”, che
guarda ai risultati anziché ai processi.
Questo modello di intelligenza è descritto
come “abilista e competitiva”, misurata in termini di efficienza, efficacia e
velocità.
Questa
visione è “coerente con i rapporti di produzione capitalistici” e veicola
“l’idea neoliberale” del mondo.
Tale
modello prestazionale si è già ampiamente diffuso anche in contesti come la
scuola attraverso test e approcci.
Rappresentano
la “forma attuale della cattura e dello sfruttamento della conoscenza
collettiva”.
Il linguaggio naturale viene trasformato in
“risorse economiche di mercato finalizzate al profitto”.
I modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) sono
chiusi e “da utilizzare per il profitto”.
Sono
controllati da oligopoli e costituiscono una risorsa che privilegia il nord del
mondo dal punto di vista geopolitico, cognitivo e culturale.
Il
loro funzionamento si basa sul “lavoro invisibilizzato”, il “microlavoro
digitale taschificato”, svolto da persone retribuite in modo “disonorevole, non
dignitoso” e allocate “soprattutto nel sud del mondo” al servizio del nord del
mondo.
Hanno
un fortissimo impatto ambientale, dovuto ai data center (“cloud”) che consumano
enormi quantità di energia e possono devastare i luoghi.
Incorporano
pregiudizi (bias) derivanti dai dataset.
Nel
mercato dell’attenzione, vengono usati per produrre contenuti effimeri o
ideologizzati al fine di catturare l’attenzione (per marketing, pubblicità, o
per generare conflitto), portando a una “poverizzazione del pensiero”.
Rapporto
Umano-Macchina e Implicazioni Sociali:
Si
confronta il concetto di rapporto complementare (come gli assistenti matematici
storici) con il principio della sostituzione, particolarmente preoccupante
nell’istruzione, dove si promuove la riduzione dello sforzo di studio a favore
di materiali di sintesi prodotti dalle macchine.
L’adozione
di questi strumenti nell’istruzione rischia di creare “famiglie premium e
studenti premium”, accentuando le disuguaglianze nell’accesso a percorsi
formativi basati su questi dispositivi.
Comprendere
e decostruire questi dispositivi è una ragione di cittadinanza, necessaria per
partecipare in forma collettiva alla vita associata.
La
loro integrazione in piattaforme comuni (come WhatsApp) rende la disconnessione
un “meccanismo molto costrittivo” che viola un approccio etico e cattura
abitudini e dati.
Necessità
della Critica e Ricerca di Alternative:
È
necessario un atteggiamento critico assoluto e resistere all’intelligenza
artificiale.
L’approccio
“antifascista” proposto da “McWill “non implica che l’IA sia fascista, ma che
la sua pseudo-neutralità statistica può essere usata per giustificare scelte
autoritarie e la riduzione dei diritti.
Il
dibattito non deve essere “referendario” (sì/no) senza un’analisi e una
decostruzione approfondite dei meccanismi sottostanti.
È
fondamentale diffondere la consapevolezza che esistono “apparati digitali
diversi da quelli estrattivi di tipo capitalistico”, basati sulla sorveglianza
e la manipolazione.
Esistono dispositivi “conviviali”, fondati
sulla condivisione cooperativa e mutualistica della conoscenza, che pongono il
problema della sostenibilità e spingono verso l’autonomia dell’utente.
In
sintesi, la tesi centrale è che l’”IA generativa”, nella sua incarnazione
attuale, non è uno strumento neutro, ma un potente veicolo di logiche
capitalistiche e neoliberali che opera come infrastruttura di cattura e
sfruttamento della conoscenza globale, con significativi impatti sociali,
economici e politici che richiedono un’analisi critica e una resistenza attiva.
L’evoluzione
della logistica della conoscenza sta profondamente ridefinendo il rapporto tra
istruzione e conoscenza.
Il
relatore nel testo pone la logistica della conoscenza e dell’istruzione come il
tema centrale di interesse, uscendo dall’illusione che l’istruzione sia
l’insieme più ampio e la conoscenza un suo sottoinsieme.
Secondo
questa prospettiva, l’istruzione è da tempo, e probabilmente lo è sempre stata,
un sottoinsieme della conoscenza, e la logistica della conoscenza sta cambiando
profondamente a livello globale, non solo per il singolo individuo.
La logistica della conoscenza e
dell’istruzione si riferisce a come un’infrastruttura di modelli tecnologici
costruisce cultura, crea il mondo, pone vincoli e viola diritti.
Nel
contesto di questa evoluzione, i dispositivi di intelligenza artificiale
generativa (o “cosiddetta intelligenza artificiale”) giocano un ruolo
significativo. Questi dispositivi si basano su meccanismi probabilistici e
computazione statistica, non sulla comprensione.
Vengono
visti come una “scorciatoia” e la loro logica si attesta sul meccanismo
probabilistico perché si è dimostrato il più efficiente nel raggiungere esiti
basandosi sulla raccolta di dati.
Un
aspetto cruciale di come questi dispositivi ridefiniscono il rapporto è che
rappresentano la forma attuale della cattura e dello sfruttamento della
conoscenza collettiva.
Essi catturano, modellizzano e ripropongono la
conoscenza, trasformandola in termini di modello e quindi di generazione.
Questo
avviene spesso attraverso l’uso di dataset che sono per lo più opachi. Questa
cattura della conoscenza avviene a fini di profitto ed è coerente con i
rapporti di produzione capitalistici.
La
visione dell’intelligenza veicolata da questi dispositivi è prestazionale,
misurata in termini di efficienza, efficacia e velocità.
Questo
si riflette in un’idea dell’uomo la cui capacità è misurata negli stessi
termini, promuovendo un’idea di intelligenza “abilista” e competitiva, che si
allinea con un’idea neoliberale del mondo.
Questa
visione prestazionale ha un impatto diretto sull’istruzione.
Il modello prestazionale, abilista e
competitivo è già ampiamente diffuso nella scuola, presente in molti test e
approcci didattici.
Inoltre, nel mercato dell’istruzione (che è un sotto segmento
del mercato della conoscenza), stanno comparendo dispositivi “pret-à-porter”
rivolti a insegnanti e studenti.
Questi
strumenti offrono moduli specifici per attività come la produzione di slide o
mappe concettuali.
Sorge
la preoccupazione per il principio della sostituzione, ovvero la possibilità di
ridurre l’impegno e la fatica dello studio a favore dell’acquisizione di
materiali di sintesi o schematizzazione prodotti da questi dispositivi.
Molti
professionisti sembrano disponibili ad accettare queste soluzioni
pre-confezionate, richiedendo materiali già pronti.
Questo
solleva interrogativi sul rapporto dei docenti con la propria professione e
vocazione civile.
L’affermarsi
di un mercato dell’istruzione basato sull’efficienza e sull’abilismo potrebbe
portare alla configurazione di famiglie e studenti “premium”, ovvero coloro che
per ragioni culturali, economiche o di altro tipo hanno le risorse da investire
in processi di acquisizione tramite questi strumenti, potenzialmente acuendo le
disuguaglianze.
Infine,
le fonti sottolineano la necessità di un approccio critico.
Il
linguaggio che definisce questi dispositivi, come “intelligenza artificiale
generativa” o “il digitale”, è spesso un linguaggio di marketing commerciale,
industriale e militare che va decostruito.
Il
termine “digitale” come sostantivo, pur essendo comodo, nasconde complessità e
favorisce l’idea di unicità dei dispositivi a matrice capitalistica che
catturano conoscenza per profitto.
È
fondamentale resistere e applicare un atteggiamento critico, analizzando non
solo l’esperienza dell’utente ma anche i meccanismi sottostanti e l’impatto sul
sistema della conoscenza.
Esistono,
tuttavia, anche apparati digitali diversi da quelli estrattivi capitalistici,
basati sulla condivisione cooperativa e sull’autonomia dell’utente, che offrono
una logica diversa.
Certamente.
Basandosi
sulle informazioni fornite nelle fonti, l’evoluzione della logistica della
conoscenza sta profondamente ridefinendo il rapporto tra istruzione e
conoscenza.
Il
relatore nel testo pone la logistica della conoscenza e dell’istruzione come il
tema centrale di interesse, uscendo dall’illusione che l’istruzione sia
l’insieme più ampio e la conoscenza un suo sottoinsieme.
Secondo
questa prospettiva, l’istruzione è da tempo, e probabilmente lo è sempre stata,
un sottoinsieme della conoscenza, e la logistica della conoscenza sta cambiando
profondamente a livello globale, non solo per il singolo individuo.
La logistica della conoscenza e dell’istruzione si
riferisce a come un’infrastruttura di modelli tecnologici costruisce cultura,
crea il mondo, pone vincoli e viola diritti.
Nel
contesto di questa evoluzione, i dispositivi di intelligenza artificiale
generativa (o “cosiddetta intelligenza artificiale”) giocano un ruolo
significativo.
Questi dispositivi si basano su meccanismi
probabilistici e computazione statistica, non sulla comprensione.
Vengono
visti come una “scorciatoia” e la loro logica si attesta sul meccanismo
probabilistico perché si è dimostrato il più efficiente nel raggiungere esiti
basandosi sulla raccolta di dati.
Un
aspetto cruciale di come questi dispositivi ridefiniscono il rapporto è che
rappresentano la forma attuale della cattura e dello sfruttamento della
conoscenza collettiva.
Essi
catturano, modellizzano e ripropongono la conoscenza, trasformandola in termini
di modello e quindi di generazione.
Questo avviene spesso attraverso l’uso di
dataset che sono per lo più opachi. Questa cattura della conoscenza avviene a
fini di profitto ed è coerente con i rapporti di produzione capitalistici.
La
visione dell’intelligenza veicolata da questi dispositivi è prestazionale,
misurata in termini di efficienza, efficacia e velocità.
Questo
si riflette in un’idea dell’uomo la cui capacità è misurata negli stessi
termini, promuovendo un’idea di intelligenza “abilista” e competitiva, che si
allinea con un’idea neoliberale del mondo.
Questa
visione prestazionale ha un impatto diretto sull’istruzione.
Il modello prestazionale, abilista e
competitivo è già ampiamente diffuso nella scuola, presente in molti test e
approcci didattici.
Inoltre,
nel mercato dell’istruzione (che è un sotto segmento del mercato della
conoscenza), stanno comparendo dispositivi “pret-à-porter” rivolti a insegnanti
e studenti. Questi strumenti offrono moduli specifici per attività come la
produzione di slide o mappe concettuali.
Sorge
la preoccupazione per il principio della sostituzione, ovvero la possibilità di
ridurre l’impegno e la fatica dello studio a favore dell’acquisizione di
materiali di sintesi o schematizzazione prodotti da questi dispositivi.
Molti
professionisti sembrano disponibili ad accettare queste soluzioni
pre-confezionate, richiedendo materiali già pronti. Questo solleva
interrogativi sul rapporto dei docenti con la propria professione e vocazione
civile.
L’affermarsi
di un mercato dell’istruzione basato sull’efficienza e sull’abilismo potrebbe
portare alla configurazione di famiglie e studenti “premium”, ovvero coloro che
per ragioni culturali, economiche o di altro tipo hanno le risorse da investire
in processi di acquisizione tramite questi strumenti, potenzialmente acuendo le
disuguaglianze.
Infine,
le fonti sottolineano la necessità di un approccio critico. Il linguaggio che
definisce questi dispositivi, come “intelligenza artificiale generativa” o “il
digitale”, è spesso un linguaggio di marketing commerciale, industriale e
militare che va decostruito. Il termine “digitale” come sostantivo, pur essendo
comodo, nasconde complessità e favorisce l’idea di unicità dei dispositivi a
matrice capitalistica che catturano conoscenza per profitto. È fondamentale
resistere e applicare un atteggiamento critico, analizzando non solo
l’esperienza dell’utente ma anche i meccanismi sottostanti e l’impatto sul
sistema della conoscenza. Esistono, tuttavia, anche apparati digitali diversi
da quelli estrattivi capitalistici, basati sulla condivisione cooperativa e
sull’autonomia dell’utente, che offrono una logica diversa.
Il
modello prestazionale dell’intelligenza artificiale generativa (IA generativa)
è strettamente legato alle logiche neoliberiste e contribuisce a rafforzare le
disuguaglianze globali in diversi modi.
Modello
Prestazionale e Logica Capitalista/Neoliberale:
Le
fonti descrivono una “visione prestazionale” dell’intelligenza, non basata
sulla comprensione o sui processi di ragionamento, ma sulla capacità di
raggiungere risultati e produrre cambiamenti in un ambiente sulla base dei dati
raccolti. Questa visione si focalizza sull’efficienza, sull’efficacia e sulla
velocità.
Tale
visione dell’intelligenza e il modello statistico-predittivo su cui si basa
l’IA generativa (macchine statistico predittive addestrate con dataset opachi)
vengono esplicitamente definiti come “più coerente con i rapporti di produzione
capitalistici”.
L’investimento
su questo modello è una scelta che “è la scelta più coerente con i rapporti di
produzione capitalistici” e veicola “un’idea del mondo che… è l’idea
neoliberale”.
Questo
modello promuove un’idea dell’intelligenza che è “abilista e competitiva”.
Questa logica prestazionale si è già diffusa ampiamente, anche in contesti come
la scuola, attraverso test e approcci che valorizzano la performance.
Cattura
della Conoscenza e Profitto:
Al
centro della logistica della conoscenza (cioè il modo in cui l’infrastruttura
tecnologica costruisce cultura e pone vincoli), questi dispositivi
rappresentano la “forma attuale della cattura e dello sfruttamento della
conoscenza collettiva”.
Trasformano
l’insieme del linguaggio naturale (e non solo) in “risorse economiche di
mercato” finalizzate al “profitto”.
I
dispositivi digitali “estrattivi di tipo capitalistico” catturano la
conoscenza, la trasformano in “pattern privatizzati”, e costruiscono i grandi
modelli linguistici
(LLM)
che sono chiusi e “da utilizzare per il profitto”.
Disuguaglianze
Globali e Sfruttamento:
Il
sistema si basa su “oligopoli”. Questi dispositivi di IA sono “oligopolistici”
e costituiscono sostanzialmente “una risorsa che privilegia dal punto di vista
geopolitico, ma anche dal punto di vista della supremazia cognitiva e
culturale, il nord del mondo”.
Un
aspetto fondamentale che rafforza la disuguaglianza è il “lavoro
invisibilizzato”.
Molti
dispositivi di IA (anche non generativa, ma il principio si estende) vengono
addestrati attraverso il “micro l avoro digitale taschificato”.
Questo
micro avoro consiste in micro azioni (come etichettare immagini) retribuite in
modo “disonorevole non dignitosi”.
Questi
“micro lavoratori” sono “allocati soprattutto nel sud del mondo ed è al
servizio del nord del mondo”.
Questo
lavoro umano è cruciale per l’addestramento e la verifica dei modelli, ma viene
raramente riconosciuto.
Ci
sono anche impatti ambientali significativi legati agli oligopoli dei server,
che consumano enormi quantità di energia e possono avere effetti devastanti sui
luoghi in cui sono insediati.
Nel
campo dell’istruzione, il prevalere di questo modello basato sull’efficienza e
sulla performance (abilista e competitiva) rischia di creare “le famiglie
premium e gli studenti premium,” ovvero coloro che, per ragioni culturali,
economiche o di altro tipo, possiedono le risorse per investire in processi di
acquisizione basati su questi dispositivi, potenzialmente accentuando le
disuguaglianze educative.
In
sintesi, le fonti presentano l’IA generativa, nel suo modello prestazionale
attuale, come profondamente intrecciata con il capitalismo estrattivo e il
neoliberismo.
Questo
si manifesta nella trasformazione della conoscenza collettiva in risorsa per il
profitto degli oligopoli, nel rafforzamento della supremazia geopolitica,
cognitiva e culturale del nord del mondo, e nello sfruttamento del lavoro
invisibilizzato nel sud del mondo, oltre a potenziali nuove forme di
disuguaglianza nell’accesso all’istruzione.
Le fonti contrastano questo modello con
dispositivi e approcci conviviali basati sulla condivisione cooperativa e
mutualistica.
Possiamo
delineare un percorso per sviluppare un approccio critico e alternativo
all’intelligenza artificiale (IA).
Le
fonti sottolineano innanzitutto la necessità di tale approccio a causa della
natura e dell’impatto dei dispositivi attuali, in particolare quelli di IA
generativa. Questi dispositivi si basano su un meccanismo probabilistico che si
è dimostrato efficiente nel raggiungere esiti, ma imparano a fare cose “senza
comprendere nulla”.
Vengono
definiti come “macchine ingannevoli” che possono essere scambiate per esseri
umani basandosi sugli esiti dei loro processi di computazione, non di
ragionamento.
L’intelligenza, in questa visione, è definita
come la capacità di raggiungere esiti in un ambiente basandosi sulla raccolta
di dati.
Questa
impostazione si concentra sugli esiti e non sui processi.
Le
fonti criticano fortemente il linguaggio e la narrazione dominante sull’IA
generativa, definendoli sensazionalistici, nebulosi, manipolatori, e
sostanzialmente un linguaggio del marketing commerciale, industriale e
militare. È necessario uscire da questa fase in cui “pensiamo con le parole
degli altri”.
Ecco
alcuni elementi chiave per sviluppare un approccio critico e alternativo:
Decostruire
il linguaggio e i concetti:
È
fondamentale “decostruire” espressioni come “intelligenza artificiale
generativa” e il concetto stesso di “digitale”, che è un aggettivo trasformato
in sostantivo che nasconde una visione approssimativa e favorevole all’idea di
unicità dei dispositivi capitalistici.
Dobbiamo
appropriarci di un linguaggio che sia il più possibile critico, analitico e che
esca dai luoghi comuni.
Approfondire
la conoscenza e costruire un lessico critico: Le fonti suggeriscono di
approfondire il campo ben oltre il sensazionalismo mediatico e l’impressione
personale.
È
utile studiare autori e ragionamenti che offrono nuove concettualizzazioni.
Costruire un lessico e delle concettualizzazioni autenticamente utili significa
che devono essere critiche e politiche.
Alcuni
autori citati che offrono spunti sono Esposito (comunicazione artificiale),
Natale (macchine ingannevoli, inganno benevolo, analisi degli esiti),
Cristianini (scorciatoia, visione prestazionale dell’intelligenza), McWill
(resistenza assoluta, approccio antifascista, pseudo neutralità statistica che
può giustificare scelte autoritarie), Pasquinelli (macchine
statistico-predittive, cattura e sfruttamento della conoscenza collettiva,
coerenza con i rapporti di produzione capitalistici), e Casilli (microlavoro
digitale taschificato, lavoro invisibilizzato).
Analizzare
l’IA come “logistica della conoscenza”:
Questo
è considerato il concetto più importante.
Si
tratta di capire “come un’infrastruttura dei modelli tecnologici costruiscono
cultura, facciano mondo, pongano vincoli, violino diritti, eccetera eccetera”.
L’IA generativa è la forma attuale della
“cattura e dello sfruttamento della conoscenza collettiva”.
Dobbiamo
analizzare non solo cosa succede all’utente, ma “cosa questi dispositivi fanno
sull’insieme, sulla globalità delle cose e in particolare della conoscenza”.
Riconoscere
la natura politica ed economica dell’IA:
L’IA
generativa non è l’intelligenza generale in assoluto, ma l’ultima fase di
un’idea di macchine come assistenti esecutivi probabilistici.
I dispositivi statistico-predittivi sono la
scelta più coerente con i rapporti di produzione capitalistici.
L’IA è
uno strumento di “cattura della conoscenza a fini di profitto”, legata al
mercato dell’attenzione.
Promuove
una visione prestazionale, abilista e competitiva dell’intelligenza e
dell’uomo, veicolando un’idea del mondo neoliberale.
Può
giustificare scelte autoritarie e ridurre i diritti.
I
dispositivi oligopolistici privilegiano il nord del mondo dal punto di vista
geopolitico, cognitivo e culturale.
Dobbiamo
uscire dalla fase in cui siamo “prigionieri” dei luoghi comuni, finendo in
posizione subalterna.
Considerare
l’impatto sociale e ambientale:
Le
fonti menzionano i pregiudizi (bias), il fortissimo impatto ambientale
(giganteschi annidamenti di server che consumano energia), gli oligopoli, e il
lavoro invisibilizzato del microlavoro digitale.
Questi
sono aspetti cruciali da analizzare in un approccio critico.
Guardare
oltre il paradigma dominante e cercare alternative:
Non
dobbiamo pensare solo ai dispositivi a matrice capitalistica, che catturano
conoscenza e costruiscono LLM chiusi da utilizzare per il profitto.
È fondamentale “capire, diffondere che
esistono apparati digitali diversi da quelli estrattivi di tipo capitalistico
della sorveglianza per il mercato e per la manipolazione ideologica e
politica”.
Esistono
“dispositivi conviviali” che operano in una logica diversa, fondati sulla
condivisione della conoscenza su base cooperativa, mutualistica, paritaria, che
si pongono il problema della sostenibilità economica e ambientale, e che mirano
a mantenere la piena autonomia per chi li utilizza.
In
sintesi, sviluppare un approccio critico e alternativo all’IA richiede di
andare oltre la superficie del sensazionalismo e del marketing, decostruire il
linguaggio imposto, analizzare l’IA come un’infrastruttura politica ed
economica legata alla logistica della conoscenza, comprendere i suoi impatti
sociali e ambientali e, soprattutto, riconoscere e promuovere l’esistenza di
apparati digitali alternativi basati sulla cooperazione, condivisione e
autonomia.
L’approccio critico non è solo una questione
professionale per insegnanti, ma una ragione di cittadinanza per chiunque
voglia partecipare alla vita associata.
Dobbiamo
smettere di ragionare in termini referendari “sì versus no” senza aver
costruito analisi e concettualizzazioni adeguate.
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