Esplosione della domanda mondiale di tecno sorveglianza.

 

Esplosione della domanda mondiale di tecno sorveglianza.

 

 

 

 

La tecnologia realizza l’incubo della

 sorveglianza globale: allarme ONU.

Agendadigitale.eu – (31 Ott.2022) - Angelo Alù – ci dice:

 

Il rapporto Onu “Il diritto alla privacy nell’era digitale” ipotizza una vera e propria moratoria sull’uso e sulla vendita di strumenti di “hacking” invasivi e auspica l’emanazione di una nuova regolamentazione conforme agli standard internazionali vigenti in materia di diritti umani.

A rischio i nostri diritti.

Ecco perché.

 

Linee guida cookie, garante, privacy.

La privacy digitale è sotto assedio.

 Si registra un preoccupante scenario di cyber-sorveglianza su larga scala e gli utenti sono esposti al pericolo di generalizzati controlli per effetto di sofisticati spyware sempre più invasivi in grado di effettuare un monitoraggio personale 24 ore su 24.

 In altre parole, lo spazio virtuale sta assumendo i tratti di un “campo minato” tutt’altro che sicuro e accogliente:

prende così forma il lato oscuro della Rete con l’avvento del cosiddetto “autoritarismo digitale” caratterizzato dall’uso pervasivo di sistemi automatizzati di controllo in grado di erodere la libertà su Internet.

 

Indice degli argomenti.

Diritto alla privacy: il rapporto ONU.

Il ricorso sempre più frequente degli Stati ai sistemi di sorveglianza massiva.

I danni di una normativa troppo frammentata.

Il ruolo della crittografia

Conclusioni.

Diritto alla privacy: il rapporto ONU.

Lo mette nero su bianco, ad esempio, anche il recente rapporto delle Nazioni Unite A/HRC/51/17 – inequivocabilmente intitolato “il diritto alla privacy nell’era digitale” ove si ipotizza la necessità di una vera e propria “moratoria” sull’uso e sulla vendita di strumenti di “hacking” invasivi sino all’emanazione di una nuova regolamentazione conforme agli standard internazionali vigenti in materia di diritti umani per ridurre l’impatto negativo delle minacce attualmente configurabili online.

 

Venendo progressivamente meno le originarie potenzialità positive legate allo sviluppo embrionale della Rete come straordinaria fonte divulgativa di informazioni e risorse distribuite a livello globale, in uno scenario di profonda metamorfosi dell’ambiente virtuale, pur senza ancora del tutto precludersi la fruizione dei relativi benefici, è indubbio che, secondo l’analisi delle Nazioni Unite, le tecnologie stiano diventando gli strumenti ideali per effettuare interventi di sorveglianza senza precedenti a causa della raccolta automatizzata delle informazioni estrapolate da ingenti database biometrici che consentono di processare con estrema facilità e precisione le “identità digitalizzate” delle persone.

 

Il ricorso sempre più frequente degli Stati ai sistemi di sorveglianza massiva.

L’utilizzo di tali sistemi, lungi dal costituire, come “extrema ratio”, una misura esclusivamente limitata a contrastare eccezionalmente specifici atti e/o comportamenti gravemente pregiudizievoli per la salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale al fine di scongiurare, anche in un’ottica preventiva, fenomeni delinquenziali (come il terrorismo o la criminalità organizzata), rappresenta invero un consueto “modus operandi” cui ricorrono sempre più spesso in via ordinaria le autorità statali.

Sono, infatti, frequenti le “intromissioni elettroniche” sui dispositivi personali degli utenti, che confermano così la tendenza ad ampliare in via esponenziale il raggio d’azione delle tecnologie anche per perseguire finalità illegittime (ad esempio: la repressione di opinioni dissenzienti), compreso l’effetto “bavaglio” a discapito di attivisti e giornalisti non allineati alla “narrazione” ufficiale imposta dal “mainstream” filogovernativo.

 

A riprova di tali insidie le Nazioni Unite richiamano le evidenze documentate da “Forbidden Stories”, nell’ambito di una corposa attività di giornalismo investigativo, sulle discusse implicazioni del “software Pegasus”, (tra i più noti spyware che stanno registrando un picco di crescita della relativa domanda in tutto il mondo), al punto da indurre persino il Parlamento europeo a costituire una Commissione di inchiesta ad hoc per indagare in ordine a tali aspetti, sulla falsariga dell’iniziativa del medesimo tenore assunta dalla Commissione interamericana per i diritti umani (IACHR).

 

Gli strumenti di sorveglianza sono suscettibili di compromettere, mediante modalità mirate e occulte, la tutela dei diritti umani anche in ragione dell’elevato numero di presunte vittime dei dispositivi infettati a causa del cosiddetto “attacco zeroclick” in grado di ottenere l’accesso completo e illimitato a tutti i sensori (compresi microfono e telecamera), nonché ai dati di geolocalizzazione, e-mail, messaggi, foto e video e ad ogni altra applicazione ivi installata, come descrivono con estrema precisione gli approfondimenti realizzati in materia (richiamati dalle Nazioni Unite nel citato Report A/HRC/51/17).

 

In particolare, entrando nel merito della sua relazione particolareggiata, l’ONU evidenzia chiaramente che i software di sorveglianza possono essere pericolosi non solo per la capacità di monitorare i “movimenti” degli utenti, ma soprattutto perché riescono a “manipolare il dispositivo” mediante tecniche di “alterazione, cancellazione o aggiunta di file”, con il rischio di “falsificare prove per incriminare o ricattare gli individui presi di mira”.

I danni di una normativa troppo frammentata.

Alla luce di tale scenario, le Nazioni Unite rilevano, come rilevante criticità, l’esistenza di un panorama normativo troppo frammentato, generalista e obsoleto che difetta di “leggi chiare e precise”, unitamente ad un preoccupante “attivismo” governativo nell’adozione di misure di controllo pregiudizievoli per la salvaguardia della riservatezza individuale, da cui discende un vero e proprio “vulnus” alla tutela della privacy, anche perché proliferano le intercettazioni di massa sulle comunicazioni della popolazione (spesso ignara di tali controlli) e aumenta, a livello globale, l’installazione di telecamere di sorveglianza presso i luoghi pubblici: in alcune aree del globo, ad esempio, la densità dei sistemi di videosorveglianza oscilla tra 39 e 115 impianti per ogni 1.000 abitanti.

 

Peraltro, in un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i pericoli per la privacy degli individui sembrano destinati ad aggravarsi ulteriormente come diretta conseguenza del cd. “dominio dell’identità” connesso al progressivo perfezionamento tecnico delle tecnologie di riconoscimento biometrico, reso oltremodo performante dall’impatto evolutivo dell’Intelligenza Artificiale che costituisce il substrato tecnologico fondante l’implementazione della cosiddetta “Smart City”, ove sofisticati sensori sono in grado di raccogliere e processare una mole significativa di dati con preoccupanti effetti collaterali di permanente monitoraggio generale a svantaggio degli individui.

 

In altre parole, ben oltre le legittime finalità che consentono di giustificare, in via del tutto eccezionale, il ricorso a invasivi strumenti di controllo suscettibili di limitare i diritti degli individui, le Nazioni Unite ritengono che, nella concreta prassi, la sorveglianza pubblica sia stata indebitamente utilizzata, tra l’altro, per identificare e rintracciare i dissidenti politici, realizzare discriminazioni etniche e razziali, colpire le minoranze e, in generale, valutare, in una logica di ortodosso conformismo sociale, l’adeguamento – non necessariamente spontaneo ma appunto anche indotto – delle persone alle dominanti norme vigenti.

In controtendenza rispetto a tali discutibili usi, il” Rapporto ONU” subordina l’applicazione dei sistemi tecnologici di sorveglianza alla condizione che le relative misure adottate siano sempre necessarie e proporzionate.

 

Il ruolo della crittografia.

Al fine di evitare qualsivoglia rischio di compressione del diritto alla privacy, l’ONU valorizza il ruolo della crittografia come “fattore chiave” per la sicurezza online a presidio delle libertà fondamentali, nell’ottica di consentire alle persone di esercitare i propri diritti e condividere apertamente le proprie idee e opinioni senza il timore di subire ritorsioni, censure e limitazioni, purché le competenti autorità pubbliche siano sempre in grado di “decrittografare” i dati secondo adeguati e proporzionati standard di tracciabilità, per risalire a qualsiasi messaggio veicolato fino al suo effettivo mittente.

 

Conclusioni.

Contestualmente, le Nazioni Unite sollecitano gli Stati a verificare periodicamente, mediante trasparenti valutazioni d’impatto (da eseguire durante l’intero ciclo di progettazione, sviluppo, implementazione e gestione di sistemi di sorveglianza) i possibili rischi di abuso a danno dei diritti individuali, procedendo a una generale revisione delle legislazioni attualmente vigenti.

 

Basterà una mera raccomandazione “soft” dell’ONU per realizzare un necessario – e auspicato – cambio di rotta nella prospettiva di rafforzare la protezione dei dati personali, oppure sembra ormai destinata definitivamente ad avverarsi l’annunciata profezia sull’imminente “morte della privacy” con l’avvento pervasivo delle tecnologie digitali?

 

 

 

L’esplosione dell’intelligenza

artificiale generativa.

Bugnion.eu – Simone Milli – (24 settembre 2024) – ci dice:

 

Come è sotto gli occhi di tutti, l’intelligenza artificiale generativa (GenAI) sta conoscendo una crescita esponenziale, rivoluzionando settori diversificati e ridefinendo il concetto stesso di innovazione tecnologica.

Questa esplosione di innovazione è stata fra l’altro anche documentata in un recente rapporto dell’”Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale” (OMPI), che ha analizzato oltre 54.000 domande di brevetto depositate nell’ultimo decennio, con un sorprendente 25% depositato solo nel 2023.

L’esplosione delle domande di brevetto legate alla “GenAI”, e il termine “esplosione” è certamente fra i più azzeccati, è un indicatore chiave della rapidità con cui questa tecnologia sta avanzando, nonché della competizione globale che ne deriva, con la Cina saldamente in testa.

 

Cercheremo di esplorare l’evoluzione del panorama dei brevetti nell’intelligenza artificiale generativa, analizzando le dinamiche che stanno plasmando il futuro dell’innovazione e della proprietà intellettuale in questo settore.

 

Il rapporto tra innovazione tecnologica e attività brevettuale è molto stretto e d’altro canto anche piuttosto complesso.

I brevetti, in quanto strumenti legali che conferiscono diritti esclusivi su invenzioni, sono un indicatore fondamentale della “vitalità” di un settore tecnologico.

 La rapida crescita del numero di brevetti legati alla “GenAI” riflette non solo l’avanzamento della ricerca scientifica, ma anche l’importanza strategica che le aziende attribuiscono alla protezione delle loro innovazioni basate sulla” GenAI”.

 

E’ da rilevare che i brevetti nel settore della “GenAI” non riguardano solo le tecnologie di base, come gli algoritmi e i modelli di apprendimento automatico, che possono o meno essere applicati a tecnologie tradizionali (impianti, macchine, apparati di produzione o processo) o essere implementati mediante calcolatori di tipo tradizionale, ma si estendono anche alle applicazioni specifiche, come la generazione automatica di contenuti, la sintesi vocale e la creazione di immagini digitali, che sono in sempre più rapida espansione.

 

Volendo analizzare la distribuzione geografica relativi ai depositi brevettuali afferenti la “GenAI”, è da rimarcare che il ruolo della Cina nel panorama globale dei brevetti legati alla “GenAI è assolutamente dominante.

Tra il 2014 e il 2023, la Cina ha depositato oltre 38.000 brevetti in questo settore, superando di gran lunga gli Stati Uniti, che occupano la seconda posizione con circa 6.300 brevetti.

Questo dominio cinese non è solo quantitativo, ma anche qualitativo: molte delle innovazioni brevettate in Cina riguardano tecnologie all’avanguardia che stanno definendo gli standard globali nel campo dell’intelligenza artificiale.

 

La strategia cinese di investimento massiccio in ricerca e sviluppo, combinata con politiche governative che promuovono l’innovazione tecnologica e la proprietà intellettuale, ha portato il paese a una posizione di leadership.

  Le aziende cinesi, in particolare colossi come “Tencent”, “Ping An Insurance”, e “Baidu”, sono tra i principali depositanti di brevetti a livello mondiale. 

Le aziende cinesi, in particolare, si distinguono anche per la loro capacità di tradurre queste innovazioni in vantaggi competitivi sul mercato.

“Tencent”, ad esempio, non solo guida la classifica mondiale dei brevetti nel settore della” GenAI”, ma sta anche integrando queste tecnologie in una vasta gamma di prodotti, dalle piattaforme di social media ai servizi finanziari.

 

Accanto alle aziende, le istituzioni di ricerca svolgono un ruolo cruciale; questa sinergia tra ricerca accademica e innovazione industriale è uno dei motori principali dell’espansione della” GenAI” in Cina, contribuendo a consolidare la posizione del paese come leader globale.

Ad ogni modo, non è certo da trascurare il fatto che gli Stati Uniti e la Corea del Sud continuano a giocare un ruolo importante.

Negli Stati Uniti, aziende come” IBM” e “Alphabet/Google” sono tra i principali depositanti di domande di brevetto legate alla “GenAI.

IBM, in particolare, è nota per il suo vasto portafoglio di brevetti nel campo dell’IA, che riflette un impegno a lungo termine nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie avanzate.

 

La Corea del Sud, con oltre 4.100 domande di brevetto depositate tra il 2014 e il 2023, è un altro attore chiave.

“Samsung Electronics”, in particolare, ha investito pesantemente nella “GenAI”, sviluppando tecnologie che spaziano dalla produzione di semiconduttori all’elettronica di consumo.

 

La presenza di questi paesi nel panorama globale dei brevetti dimostra che, nonostante il predominio cinese, l’innovazione in questo settore è un fenomeno veramente globale.

 

Il rapido aumento dei brevetti legati alla “GenAI” ha implicazioni profonde per l’innovazione e la competizione globale.

 

Da un lato, è noto che la protezione brevettuale stimola l’innovazione, incentivando le aziende a investire in ricerca e sviluppo.

 Dall’altro, però, l’accumulo di brevetti in un tempo limitato in un settore specifico e strategico può anche portare a una “guerra dei brevetti”, in cui le aziende utilizzano i loro portafogli brevettuali non solo per difendersi dalla concorrenza, ma anche per bloccare o rallentare l’innovazione altrui.

 

L’espansione rapida della “GenAI” solleva poi anche una serie di sfide giuridiche ed etiche.

 Una delle questioni più complesse riguarda la proprietà intellettuale e la definizione di cosa può essere brevettato.

 Le leggi sulla proprietà intellettuale variano da paese a paese, e ciò che può essere brevettato in un contesto giuridico potrebbe non essere brevettabile in un altro.

 In buona sostanza, ci troviamo su una terra di frontiera della brevettabilità e certe invenzioni basate sulla “GenAI” potrebbero essere tutelabili in certi paesi, mentre in altri essere esclusi dalla tutelabilità.

 

Inoltre, la natura stessa della “GenAI” porta domande sulla paternità delle invenzioni, che in questi anni sono già in parte arrivate presso i vada uffici brevetti, senza ottenere una risposta univoca (si veda la vicenda dell’algoritmo inventore Dabus “ideato dallo scienziato statunitense Dott. Stephen Thale).

Queste questioni richiederanno probabilmente nuove interpretazioni legali e normative specifiche.

 

In conclusione, l’ascesa della “GenAI” sta trasformando il panorama dell’innovazione globale, e i brevetti sono al centro di questa rivoluzione.

La Cina ha dimostrato una capacità straordinaria di capitalizzare su questa tecnologia emergente, diventando il leader indiscusso in termini di brevetti e innovazioni

. Tuttavia, la competizione rimane intensa, con Stati Uniti, Corea del Sud e altri paesi che continuano a giocare un ruolo significativo.

 

Il futuro della “GenAI” e dei brevetti in questo settore dipenderà dalla capacità dei governi, delle aziende e delle istituzioni di ricerca di navigare le sfide legali ed etiche che emergeranno.

Mentre i brevetti continueranno a essere un motore fondamentale dell’innovazione, i prossimi anni saranno decisivi per determinare come questa tecnologia influenzerà la società e l’economia globale.

 

 

 

10 anni fa scoppiava il caso Snowden:

ecco come ha cambiato le nostre vite.

 

Wired.it – Philip Di Salvo – (06 -06-2023) – ci dice:

Denunciando la sorveglianza di massa nel 2013, il whistleblower americano ha cambiato profondamente il modo in cui guardiamo a internet. Un decennio dopo, viviamo ancora nelle conseguenze di quelle rivelazioni.

 

Il 6 giugno del 2013, dieci anni fa, il quotidiano britannico “The Guardian “pubblicava il primo articolo di una lunga serie dedicata alla “sorveglianza di massa” da parte della “National Security Agency” (NSA) degli Stati Uniti.

 Quel primo articolo si riferiva a come l’intelligence Usa potesse raccogliere i dati telefonici di milioni di clienti statunitensi di “Verizon”, uno dei maggiori fornitori di servizi di telecomunicazione, in base a un’ordinanza top secret.

 L’articolo era basato proprio sul testo di quell’ordinanza, ottenuto dal quotidiano di Londra da una fonte interna alla NSA cui era stato garantito l’anonimato.

L’articolo conteneva la prima delle rivelazioni di “Edward Snowden”, ex membro dell'intelligence Usa e uno dei maggiori “whistleblower” della sua generazione.

 A quell’articolo ne sono seguiti decine di altri che, nel complesso, hanno costruito uno dei maggiori casi giornalistici di questa epoca, la cui eco si fa ancora sentire a un decennio di distanza.

 

Al caso “Snowden” si devono infatti molte cose e in primis una mai così dettagliata ricostruzione di come funzionino le operazioni di sorveglianza in questa epoca e quanto diffuse esse siano anche da parte di governi saldamente democratici.

Per quanto il focus delle rivelazioni di Snowden fosse principalmente sugli Stati Uniti e i paesi ad essi più strettamente alleati, i materiali forniti dal “whsitleblower” hanno mostrato, prove alla mano, le varie possibilità a disposizione dei governi per raccogliere e analizzare dati prodotti dalla digitalizzazione e come questa raccolta sia, in molti casi, in pieno contrasto con i diritti fondamentali.

 In secondo luogo, Snowden ha mostrato come, spesso, i mondi delle “aziende tech” della Silicon Valley e quello dell’”intelligence” fossero vicini, spesso in modo quasi simbiotico, come nel caso del programma “Prism”, forse il più noto (ma anche il più frainteso) tra quelli analizzati dai giornalisti coinvolti nelle indagini dei materiali forniti da Snowden.

Temi caldi: “privacy” e “data Justice”.

Andando però oltre i dettagli tecnici della sorveglianza della NSA, si può affermare come al caso Snowden si debbano molti dei dibattiti pubblici ancora in corso attorno a temi fondamentali come privacy e data Justice che da allora si sono susseguiti e che oggi tornano in modo ancora più evidente nel contesto dell’intelligenza artificiale.

Se il tema della riservatezza e dei diritti digitali è oggi al centro di buona parte delle questioni tecnologiche lo si deve in buona parte al” bing bang” iniziato con il caso Snowden dieci anni fa.

Conseguenze indirette del caso Snowden sono anche molte scelte normative avvenute negli ultimi anni, a cominciare dal “GDPR in Europa” fino alla recente multa record inflitta a “Meta” per come i dati degli utenti europei sono trattati negli Stati Uniti.

 La lista potrebbe però essere però molto più lunga, proprio perché l’esplosione del caso Snowden, come pochi altri casi simili in tempi recenti, ha letteralmente tracciato una riga che divide la storia di internet tra un prima e un dopo.

Tutt’ora, insomma, è impossibile tracciare tutte le conseguenze di quello che è stato definito come “Snowden Effect”.

 

Dieci anni, nei termini di internet, sono un’eternità, letteralmente un’era geologica.

Eppure, i documenti forniti da Snowden ai giornalisti nel 2013 sono tutt’ora di estrema attualità perché, come ha scritto la ricercatrice “Kate Crawford,” offrono uno spaccato senza precedenti del periodo storico che ha segnato l'ascesa delle tecniche che è possibile inserire sotto il generico cappello di “big data” e che oggi, per esempio, sono al centro di come funzionano strumenti come”” ChatGPT e i “large Language model” (LLM).

 I documenti di Snowden, insomma, raccontavano di come si potessero intercettare a scopi di sorveglianza i cavi sottomarini che fanno funzionare internet ma, in nuche, includevano già le prime avvisaglie dell'assetto tecnologico-politico oggi dominante e votato alla quantificazione e alla datificazioni di ogni attività umana. Questo non significa, certamente, che prima di Snowden questi temi non esistessero:

nell’accademia si parla di “surveillance studies” almeno dagli anni ’70 e il mondo dell’attivismo digitale e dell’hacking ne discute a sua volta da diversi decenni. Snowden, però, ha fatto di queste questioni un tema in tutto e per tutto politico, consentendo a queste questioni critiche di entrare direttamente nelle agende più importanti e più coinvolte, compresa quel settore tecnologico, da allora estremamente più attento – almeno sulla carta – alle questioni di privacy e sicurezza.

Un velo di ipocrisia.

Per quanto questi temi ora esistano e siano dibattuti più che mai, altrettanto non si può dire del successo di molte delle battaglie insite nei file di Snowden.

 Dirlo solleva non poca amarezza, ma si tratta di battaglie in buona parte perdute: viviamo, infatti, in un mondo ancora più sorvegliato - sia da governi che da entità private -e dove gli occhi e i sensori in grado di monitorarci si sono, se possibile, ulteriormente moltiplicati nel business come nella politica.

 La “sorveglianza biometrica”, per esempio - quella svolta tramite riconoscimento facciale, tra gli altri – è più in voga che mai in un campo che è ancora poco o nulla normato, mentre l’”industria della sorveglianza “ha trovato negli “spyware” – ancora non così sviluppati nel 2013 come sono invece oggi – una nuova direzione di espansione e un ricco settore di business, anche in Italia.

Le rivelazioni di Snowden, però, hanno certamente rotto il velo di ipocrisia attorno al modo in cui parliamo di internet, hanno contribuito alla demistificazione di diversi miti attorno alla tecnologia e aperto il campo per far sì che una critica della digitalizzazione possa esistere e avvenire in spazi pubblici che prima non le erano concessi.

Da un punto di vista più politico, inoltre, hanno rappresentato un momento di profonda riflessione sullo” stato di salute della democrazia” e di come questa possa essere messa in discussione o come internet possa essere usata per scopi e finalità in contrasto con i principi democratici.

 Infine, il caso ha ricordato come il “whistleblowing” – una pratica le cui origini sono da cercare ben prima di quelle di internet – sia, insieme al giornalismo, uno strumento fondamentale in una società governata troppo spesso da “scatole nere” tecnologiche e non il cui scrutinio è spesso impossibile.

 Insieme a “Chelsea Manning”, la fonte delle maggiori pubblicazioni di Wikileaks, Edward Snowden va indubbiamente considerato come il “whistleblowe”r quintessenziale della sua generazione, nonché come uno dei maggiori ispiratori di una serie di fughe di notizie di rilevanza mondiale che si sono susseguite a partire dal 2013.

 

La fuga in Russia.

In questa storia vi è poi quella personale di” Edward Snowden” stesso e delle conseguenze che la scelta di diventare whistleblower hanno avuto sulla sua vita privata.

Dieci anni dopo, infatti, “Snowden” è ancora formalmente ricercato dagli Stati Uniti per spionaggio, nonostante sia stato una fonte giornalistica e non altro e nonostante il profondo interesse pubblico delle sue denunce sia stato confermato da sentenze di tribunali Usa che hanno definito come “illegali” alcune delle pratiche denunciate da Snowden stesso.

Né Obama, né Trump prima né Biden ora hanno optato per far cadere i capi di accusa contro Snowden che, se condannato, verrebbe con ogni probabilità incarcerato per scontare una pena molto lunga, come già “Chelsea Manning” e gli altri “whistleblower” statunitensi che hanno esposto denunce nell’ambito della sicurezza nazionale.

 Nel frattempo, Snowden si trova da dieci anni in Russia, paese dove è diventato padre due volte, dove si è sposato e di cui ha recentemente ricevuto il passaporto.

 

È bene ricordare, perché la questione è ancora spesso ritenuta controversa, che Snowden non si trova in Russia per sua scelta, ma per le conseguenze della revoca dei suoi documenti americani avvenuta mentre il whistleblower si trovava in scalo a Mosca e in viaggio verso l’Ecuador, paese ad avergli concesso asilo politico nel 2013, contrariamente a qualsiasi altro governo occidentale.

Non ci sono dubbi che la Russia, già dieci anni fa, ma specialmente ora, sia forse il peggior luogo dove trovarsi per Snowden – che ha comunque in più occasioni contestato il regime – ma le energie spese in editoriali per attaccare Snowden e il suo presunto non essere sufficientemente coraggioso (o peggio) nel criticare il Cremlino potrebbero essere spese nel fare pressione sulle nostre democrazie affinché sia tesa una mano, dieci anni dopo, nei confronti del whistleblower.

 

Anche dopo un decennio, però, la spinta per la caduta delle accuse statunitensi, richiesta da più parti, o in alternativa per una qualche forma di clemenza o sostegno diplomatico, sembra essere l’unico tra i riconoscimenti non a disposizione di Edward Snowden.

 

 

 

 

 

Tecnologie, mercati e regolazione

 dell’economia: il caso

dell’intelligenza artificiale.

 Dirittobanacario.it – (15 Ottobre 2024) - Giovanni Luchina, Professore di diritto – ci dice:

Di cosa si parla in questo articolo:

“AI Act” - Intelligenza Artificiale.

 

 SOMMARIO: L’individuazione degli effetti sulla regolazione dell’economia inerenti all’uso dei sistemi di intelligenza artificiale è l’obiettivo principale del presente contributo.

L’approvazione dell’”AI Act” apre una serie di prospettive d’indagine concernenti l’intensità della regolazione e gli obiettivi della medesima, incalzata dalla presenza di players internazionali che detengono significative quote di mercato nel settore.

Appare degno di rilievo il fatto che l’esigenza della regolazione nel campo dell’intelligenza artificiale costituisce la ragione fondamentale di un approccio non soltanto economico-giuridico ma anche geopolitico nella prospettiva di rendere l’Unione europea come il maggiore competitor delle grandi Big Tech a livello mondiale.

Il contributo si prefigge di individuare, infine, le tecniche di regolazione nel campo dell’intelligenza artificiale aventi a riguardo gli effetti sull’economia e le strategie politico-economiche della Commissione, che persegue l’obiettivo della cosiddetta sovranità digitale europea.

 

1. La velocità con la quale si sviluppano le nuove tecnologie richiede un approccio regolatorio che garantisca una pluralità di soggetti coinvolti dalle produzioni delle medesime e/o dal loro utilizzo, in particolare nel campo dell’intelligenza artificiale che sembra essere uno dei campi nei quali il giuridico (è costretto a) rincorre(re) l’economico.

 

Si tratta, invero, di una tendenza che non riguarda soltanto l’implementazione e l’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale ma anche, di conseguenza, l’impatto dei medesimi su settori dell’economia come quello dell’ambiente e dell’energia che, soprattutto negli ultimi anni, hanno (ri)acquistato una certa centralità nella regolazione giuridica, sia sovranazionale sia domestica.

 

La stagione della programmazione dell’economia, d’altro canto, ha prodotto l’accentuazione del fenomeno regolatorio tanto che la fase attuale può essere considerata da un lato, come del consolidamento dell’approccio europeo volto ad entrare sempre di più nelle dinamiche giuridiche, dall’altro, della restituzione allo Stato di una certa intensità regolatoria a presidio del funzionamento di taluni mercati e dell’implementazione del suo ruolo nella programmazione dell’economia (quindi, dal punto di vista promozionale).

 

Nel caso dell’intelligenza artificiale, sulla quale il legislatore è intervenuto quando già le imprese leader del settore hanno irrobustito la loro posizione nel mercato globale, il tema è particolarmente rilevante, fra l’altro, nel quadro dell’incidenza del regolatore sul presente del mercato e sul futuro del posizionamento europeo.

 

Tali questioni sono direttamente connesse alle modalità attraverso le quali il legislatore europeo ha strutturato la fisionomia della regolazione dell’economia, o di taluni suoi profili, o comunque degli obiettivi perseguiti dal regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, recentemente approvato dopo una lunga gestazione, considerata la complessità e l’ampiezza delle situazioni giuridico-economiche ivi disciplinate.

 

Del resto, l’esigenza della regolazione in un campo come quello dell’intelligenza artificiale si palesa nella sua ineluttabilità in quanto essa si caratterizza per essere una “disruptive Technologies” considerata la sua portata, per dir così, inerente, potenzialmente, ad una pluralità di ambiti, attività, situazioni giuridiche soggettive e posizioni giuridiche economicamente rilevanti.

 

Da tale cambiamento radicale emerge l’orizzonte conformativo del diritto (spesso connotato non dalla creazione di nuove categorie giuridiche ma dall’utilizzo di quelle esistenti) che obbliga i mercati nei quali la tecnologia innovativa è assente o in via di formazione a “rincorrere”, come si diceva poc’anzi, lo sviluppo delle tecnologie da parte dei Paesi c.d. follower in un settore esposto ad enormi profitti e a forte impatto nelle relazioni economiche.

 

Basti pensare ai servizi bancari e a quelli assicurativi, alla sua applicazione nel settore turistico o alle problematiche connesse ai diritti di proprietà intellettuale che com’è noto, possono essere attribuiti solo a persone fisiche e giuridiche (il tema è, dunque, quello della individuazione dell’entità creativa), a quello del patrimonio culturale (in termini di ampliamento delle possibilità di fruizione, miglioramento dei servizi e di implementazione delle forme cooperative), all’uso in campo giudiziario o sanitario (ambito clinico, diagnostica, sorveglianza delle malattie infettive, ecc.) e così via, fino a lambire il terreno del neuromarketing «che conduce comportamenti sotto la soglia di consapevolezza personale».

 

Per tale ragione, nel contesto suindicato, il ruolo del legislatore non può che essere quello di tracciare percorsi di intervento proattivo in termini di formazione di uno spazio unico europeo dell’intelligenza artificiale quale segnale di un’attenzione crescente rispetto a tecnologie ad alto impatto economico e sociale, geopolitico e strategico (basti pensare all’implementazione dei sistemi connessi alla difesa e alla sicurezza nazionale) che importa considerazioni che fanno riferimento sia agli aspetti commerciali globali sia alla tutela dei diritti dei soggetti più vulnerabili sia, infine, alla competitività delle imprese.

 

Del resto, sotto il profilo teleologico, è l’art. 179 TFUE che indica nello sviluppo tecnologico uno degli obiettivi dell’Unione europea nel quadro della politica industriale, con un’impronta orientata alla collaborazione interna e internazionale e alla più ampia diffusione dei risultati della ricerca.

E, su questo versante, la direzione impressa dalle autorità europee sembra seguire il tracciato disciplinare costituito dalla base giuridica contenuta nel trattato di Lisbona (in termini di applicazione del modello economico di riferimento), oltre ad essere diventata, come si diceva poc’anzi, una necessità derivante dal rapido sviluppo delle tecnologie di frontiera.

 

«Plasmare la trasformazione digitale», del resto, costituisce probabilmente il principale obiettivo politico che il Parlamento europeo ha posto dinanzi alla Commissione al fine, tra l’altro, di attivare forme di sviluppo che generino vantaggi in favore delle imprese europee, specialmente nei settori dell’economia circolare, della meccanica, del turismo e di altri settori rilevanti:

 la crescita della data economy, dunque, rappresenterebbe il completamento delle iniziative in tale settore che vede l’Unione europea occupare significative quote di mercato nella industria digitale e nelle applicazioni business-to-business.

 E, infatti, per rendere effettivo questo “progetto” le risorse stanziate costituiscono un’importante leva per sostenere le imprese (pubbliche e private) al fine di implementare il settore (come dimostra l’esperienza statunitense e dei Paesi asiatici).

 

2. La regolazione dell’economia (in generale delle tecnologie di frontiera e, in particolare, quella prevista dall’AI Act) riguarda ed interessa aspetti che attengono a numerosi profili attinenti alle conseguenze economiche scaturenti dalla produzione e dall’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale.

 

Non può non rilevarsi, innanzitutto, come una delle “preoccupazioni” principali del recente regolamento europeo faccia emergere, fra i suoi scopi precipui, quello della tutela del mercato interno, con una serie implicazioni che involgono il posizionamento dell’Unione europea nel mercato mondiale della produzione di sistemi di IA.

Con il che si è soliti indicare una duplice visuale:

sia dell’efficienza economica sia degli aspetti extraeconomici del mercato e, in qualche caso, anche ultra economici (una nuova prospettiva che fa riferimento, per l’appunto, all’uso delle tecnologie innovative per l’ottimizzazione dei processi produttivi, per la riduzione dei costi e per il miglioramento della qualità dei prodotti e dei servizi).

 

In tal senso, la regolazione europeo è incentrata a tenere insieme sia lo sviluppo delle tecnologie per lo sviluppo dell’economia sia la tutela delle libertà fondamentali.

E potrebbe aggiungersi che la prospettiva extraeconomica attiene altresì agli aspetti legati alla tutela dei diritti sociali con conseguenze dirette non soltanto sulle amministrazioni pubbliche ma anche sulle imprese in termini di responsabilità sociale: i sistemi di IA utilizzati nel settore pubblico impongono una «responsabilità digitale» delle imprese, quale portato della più ampia “Corporate Social Responsabilità”, alla luce degli effetti sociali che l’utilizzo dei sistemi di IA possono produrre nel momento nel quale le imprese utilizzano dati e tecnologie. Oltre tutto, l’approccio, non solo quello eticamente responsabile ma anche giuridico, assume una portata maggiore a seguito dell’approvazione della direttiva n. 1760 del 13 giugno 2024 che, per l’appunto, delinea il quadro della regolazione spostandolo dalla dimensione prettamente volontaristica a quella più propriamente giuridica, almeno per quanto attiene agli obblighi statali, a maggior ragione in un settore dominato dal rischio com’è quello dell’intelligenza artificiale, in chiave trasformativa involgente cioè la comprensione e l’adattamento delle attività dell’impresa alle dinamiche macro-sistemiche.

L’impianto disciplinare ha cura, fra l’altro, di tenere in considerazione le nuove tecnologie avendo a riferimento l’impatto attuale o potenziale delle medesime allorquando le imprese avviano attività economiche in nuovi mercati e aree geografiche o convertono ad altro settore le loro attività imprenditoriali per il tramite dell’uso delle nuove tecnologie.

 

L’Unione europea si propone di svolgere un ruolo da leader nel campo della intelligenza artificiale e, dunque, si autocandida quale soggetto, per dir così, rilevante nel mercato, anche se, sotto certi aspetti, sembrerebbe agire in chiave difensiva non essendo l’Unione europea un’entità fra le più accorsate quale produttore di sistemi di IA.

 

L’erompere dell’IA ha innescato un processo definibile “rivoluzionario” (si parla, a tale proposito, di “quarta rivoluzione industriale” come teorizzata dal citato “Klaus Schwab” in termini di crescita esponenziale del livello di interconnessione generata dalle tecnologie) in quanto la sua presenza è oggi un elemento che involge una serie di settori economici, oltre che profili etici di rilevanza basica con riferimento all’uso dei sistemi, che implica la scelta di un modello di regolazione nel quale non appare più sufficiente la regolazione nazionale e probabilmente neppure quella dell’Unione europea, trattandosi di aspetti di natura globale difficilmente eludibili.

 

Sta di fatto che lo stesso regolamento dell’UE produce i suoi effetti non soltanto nel mercato interno ma anche per l’appunto in quello globale – cioè sulle imprese di paesi terzi – avendo la sua regolamentazione una proiezione internazionale resa evidente dal fatto che la posizione di mercato dell’Europa non è paragonabile a quella né degli Stati Uniti d’America né della Cina.

 

La prima, madre delle grandi imprese tecnologiche, utilizza un approccio regolatorio assai sfumato, se non assente, quale conseguenza della tradizione giuridica di quel Paese fondato sulla self-regolazioni.

Si tratta di un modello di regolazione definibile residuale che si fonda su una sorta di diritto naturale delle imprese ad autodeterminare le proprie regole.

 E, in più, la strategia del decisore politico è orientata a far prevalere le politiche di espansione delle grandi industrie tecnologiche di quel Paese attuando, di fatto, politiche protezionistiche che sembrerebbero essere lontane dal modello economico di riferimento che, com’è noto, predilige la tutela del mercato aperto e in libera concorrenza e, dunque, un modello che non dovrebbe lasciare spazio a politiche domestiche di protezione del mercato interno.

Eppure è proprio nel Paese dell’ultraliberismo e dell’anarco capitalismo che l’intervento statale a finalità protezionistiche si è fatto strada in maniera alquanto decisa non solo considerando le ultime misure introdotte dall’amministrazione Biden ma anche osservando storicamente il forte impulso dato da vari governi federali al sostegno pubblico alle imprese per lo sviluppo tecnologico. Si tratta della ben nota politica che presenta elementi dello sviluppismo, nel senso cioè dell’instaurazione di un modello che vede nel rafforzamento e nella cooperazione fra soggetti pubblici (lo Stato, in primis) e l’impresa, in un contesto capitalista e concorrenziale, il motore dello sviluppo economico in un processo dinamico di interazione nel quale emergano e si consolidino i rispettivi ruoli (in tal caso, non consideriamo le specifiche differenze fra singoli Paesi dove la forma di Stato può essere democratica ovvero autoritaria).

In sintesi, l’approccio statunitense potrebbe essere assimilato a talune modalità operative nel campo dell’intervento pubblico tipiche dello Stato sviluppista nel quale si realizza la formula cooperativa pubblico-privata per tenere insieme lo Stato, le imprese e la società civile il cui connubio è sorretto da fondamenta istituzionali costituite per dar vita ad uno sviluppo economico a lungo termine.

 

La seconda, al contrario, adotta un metodo di regolazione definibile centralizzato e a struttura verticale (comando and control) che punta a realizzare un meccanismo di controllo del potere delle compagnie, oltre che, naturalmente, del mercato medesimo: si tratta, in definitiva, di set di regole volte a controllare non soltanto gli effetti delle pratiche derivanti dall’utilizzo dell’intelligenza artificiale ma anche a indirizzare le scelte di investimento.

Norme che hanno sì una valenza tecnica ma anche giuridico-politica perché la prospettiva è quella di esercitare un controllo per limitare il potere delle suddette compagnie come prevedono, ad esempio, le recenti leggi di quel Paese sulla sicurezza dei dati, sulla “Personal Information” e quella sulla “Cybersecurity”.

 

Sulla linea mediana si colloca la normativa dell’”Unione europea” che, come precedentemente accennato, ha l’ambizione di svolgere un ruolo dominante nello scenario globale con un obiettivo forse a lei stessa estraneo, almeno fino a questo momento, cioè realizzare un cambio di impostazione consistente nello «spostamento dalla tecnologia alle regole».

 Si registra un cambio di passo in ambito europeo considerato come la legislazione UE sia stata, per dir così, allineata a quella degli Stati Uniti rispetto, ad esempio, al tema della irresponsabilità degli intermediari digitali.

 

Si evidenzia un profilo d’interesse che attiene al rapporto tra nuove tecnologi e regolazione, oggetto di una rinnovata attenzione negli ultimi anni in considerazione dell’esplosione di talune di esse e della necessità di prevedere forme di regolamentazione che operino sia in funzione di controllo delle possibili criticità derivanti dal suo utilizzo sia d’impostare un corpo di regole in funzione della prevedibilità di talune circostanze potenzialmente lesive dei diritti fondamentali, sia, infine, di indirizzare il sostegno economico delle imprese verso l’innovazione tecnologica senza sconfessare l’impostazione originaria del principio del mercato aperto e in libera concorrenza.

 

L’Unione europea, come certifica la “Banca europea per gli investimenti” nella sua relazione relativa al 2018-2019, non tiene il passo con la concorrenza mondiale, anche a causa delle scarse attività di ricerca e sviluppo svolta dalle imprese.

 In tale contesto, vengono in rilievo le disposizioni contenute nella disciplina sugli aiuti alla ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica che, nell’ambito delle possibili attività di sostegno a favore delle imprese, si rivolgono a quelle attività, fra le quali quelle inerenti all’intelligenza artificiale, rivolte allo sviluppo sperimentale come «l’acquisizione, la combinazione, la strutturazione e l’utilizzo delle conoscenze e capacità esistenti di natura scientifica, tecnologica, commerciale e di altro tipo allo scopo di sviluppare prodotti, processi o servizi nuovi o migliorati, compresi i prodotti, processi o servizi digitali, in qualsiasi ambito, tecnologia, industria o settore» o ancora nell’ambito della ricerca industriale in termini di «ricerca pianificata o indagini critiche miranti ad acquisire nuove conoscenze e capacità, da utilizzare per sviluppare nuovi prodotti, processi o servizi o apportare un notevole miglioramento ai prodotti, processi o servizi esistenti, compresi prodotti, processi o servizi digitali in qualsiasi ambito, tecnologia, industria o settore».

 Del resto, lo stesso “AI Act” considera in modo positivo il sostegno economico alle PMI e, in particolare alle start-up, le quali peraltro, ai fini della concessione dei finanziamenti, non sono soggette all’obbligo della notifica preventiva costituendo una delle ipotesi previste dal “GBER” (Regolamento sulle esenzioni per determinate categorie di aiuti orizzontali) per le quali la Commissione accorda agli Stati un certo favore ai fini della concessione di interventi di sostegno delle imprese (ma che non esclude controlli successivi in ragione, ad esempio, di una denuncia da parte di terzi).

 

3. Il concetto di «adeguata regolazione» – che costituisce l’approccio della “good regulation” su base europea prevalentemente rivolta all’economic rationale – riguarda sia ai «limiti» e alle «direttrici di uno sviluppo apparentemente irreversibile» che attiene alla «priorità dell’umano» sia alla latitudine dell’intervento normativo in ordine agli sviluppi della tecnologia e in relazione alla sfera d’intervento pubblico in termini di elasticità o di rigidità delle proposizioni contenutistiche.

 

L’adeguatezza della regolazione, dunque, può svilupparsi in termini più o meno ampi, diminuiti o semplicemente proclamati, vaghi o dettagliati, ecc. in relazione al ruolo che lo Stato e, in generale, gli attori pubblici (sovranazionali e globali) svolgono nell’economia.

Così, nel campo dell’intelligenza artificiale l’adeguata regolazione, per quel che concerne il suo impatto sull’economia, può avere differenti modalità di approccio.

 

L’”AI Act”, ad esempio, prevede una serie di disposizioni inerenti alla regolazione economica che fanno riferimento alle tecniche tradizionali utilizzate dall’Unione europea consistenti nella previsione di controlli o di ordini al fine di influenzare i players del mercato europeo ma, soprattutto, la regolazione sembra inserirsi in un solco regolatorio che vede l’Unione europea sempre più protagonista nella regolazione pubblica.

Anzi, potrebbe dirsi che l’”AI Act” si collochi a pieno titolo in una scia che ha come obiettivo la regolamentazione di fenomeni complessi derivanti dell’implementazione delle nuove tecnologie nelle quali il mercato europeo appare “subire”, per così dire, la spinta delle imprese globali del settore.

 

Va rilevato, in ogni caso, come la regolazione sia complessa con elementi di varia natura fra i quali gli strumenti tipici del “command and control” (regolazione diretta), procedure dettagliate, valutazioni (impatto sui diritti fondamentali), monitoraggio.

 

Invero, se nella teorica della regolazione questo può comprimere le politiche d’incentivazione economica, nel caso delle tecnologie di frontiera la “missione” delle autorità europee (e nazionali) è quella della regolazione per incentivi attraverso la quale il regolatore indirizza una determinata politica per implementare, come nel caso delle tecnologie, ricerca, sviluppo e innovazione. In questo senso, la regolazione, nel caso dei sistemi normativi basati sul rischio, si fonda sul bilanciamento degli interessi coinvolti, cioè tutela dei diritti e impulso all’innovazione.

 

4. L’espressione «sovranità digitale europea», utilizzata anche nel quadro delle politiche relative all’IA, indica una prospettiva cosmopolitica e anti sovranista all’interno dell’UE considerato che, in particolare in questo campo, l’isolazionismo può essere foriero di difficoltà dal punto di vista della costruzione del mercato concorrenziale del digitale e delle tecnologie di frontiera.

 

In definitiva, il tentativo è quello di riarticolare il potere digitale all’interno dell’UE quale “terza via” tra la self-regulation e l’accentramento.

La «sovranità digitale» ha un significato che opera, per così dire, per sottrazione: le spinte interne volte a proteggere gli Stati dalle “intrusioni tecnologiche” foriere di rischi e di incertezze (giuridiche ed economiche) e la protezione delle stesse imprese dall’erompere delle tecnologie dell’intelligenza artificiale (come lo stesso AI Act enuncia) può essere intesa anche secondo un’altra visuale caratterizzata da una concezione della sovranità digitale come ambito di qualificazione di un percorso giuridico di respiro europeo, sottraendo, dunque, agli Stati i tentativi di polarizzazione isolazionista in termini di imposizione di regole «sulle attività e sull’economia della rete, persino se transnazionali e globali»; si spiega, così, anche l’utilizzo del regolamento quale strumento di armonizzazione.

 

Esigenze di sviluppo economico e capacità di innovazione spiegano l’insistenza sul tema della sovranità digitale europea quale formula politica di sostegno al progetto giuridico, proprio del regolamento IA, consistente nell’uniformare la legislazione ai valori, ai principi e ai diritti fondamentali dell’Unione.

 Non solo, ma l’intelligenza artificiale può «fornire vantaggi competitivi fondamentali alle imprese e condurre a risultati vantaggiosi sul piano sociale e ambientale, ad esempio in materia di assistenza sanitaria, agricoltura, sicurezza alimentare, istruzione e formazione, media, sport, cultura, gestione delle infrastrutture, energia, trasporti e logistica, servizi pubblici, sicurezza, giustizia, efficienza dal punto di vista energetico e delle risorse, monitoraggio ambientale, conservazione e ripristino della biodiversità e degli ecosistemi, mitigazione dei cambiamenti climatici e adattamento ad essi».

 

Si tratta di un approccio post-vestfaliano, nell’ambito della cui teorica viene in evidenza l’apertura alle culture dei singoli Stati e alla tutela delle differenze, che segna una torsione non trascurabile nei confronti delle istanze di “protezione statuale” delle dinamiche economiche.

 

Si riscontra, dunque, una tipologia di regolazione mista o comunque contaminata da istanze di protezione del proprio posizionamento sul mercato (come nel ricordato caso degli Stati Uniti d’America) e da prospettive di crescita e di sviluppo delle tecnologie a fini economici e sociali.

 

Oltre tutto, vengono in evidenza i presupposti del cosiddetto costituzionalismo digitale il cui costrutto teorico pone in luce la prospettiva dei limiti al potere dei grandi agglomerati digitali, peraltro non collocati sul territorio dell’UE ma che nell’UE operano attraverso l’attività lobbistica.

 

In tale contesto, il regolamento IA rappresenta un potenziale (ma forse solo illusorio) limite al potere delle corporation che possono influenzare le vite dei cittadini/consumatori europei e le economie dei Paesi membri.

La sovranità in quanto espressione del potere assoluto e perpetuo modula il suo esercizio in funzione di un obiettivo di carattere europeo, in ossequio alla trama teorica habermasiana della sovranità condivisa che proprio nell’ambito delle nuove tecnologie, e in particolare dell’IA, trova una immediata formula consensuale nella sua applicazione concreta.

Se la c.d. sovranità digitale possa rappresentare l’avvio per la realizzazione di un nuovo percorso di regolazione finalistica è una questione che appare di difficile determinazione considerando che, dal punto di vista normativo, il modello economico europeo di riferimento, il sistema di attribuzione delle competenze e il crescente ruolo dell’Unione europea nell’ambito delle politiche industriali globali e così via sembrano non consentire di percorrere una via tangenziale.

 

La globalizzazione della sorveglianza.

 

Sussidiarita.net – (10 GIU. 2023) - Alessandro Colombo - Carlo Vignola – Ci dicono:

 

L’anacronistica domanda di sicurezza in Occidente, insieme alla caduta di sovranità, sta producendo società sempre in allerta, con l’ansia del pericolo costante.

E questo non fa che generare forme di controllo sempre più invasive verso cittadini impauriti.

 Una pratica che mette in discussione valori accertati e lungamente condivisi. Istigata da una tecnologia che in materia ha gioco facile.

Una fotografia rischia di essere un tratto caratteristico nella nuova configurazione del mondo.

 Dei mondi.

 Là dove le relazioni non possono avere una possibilità positiva se il criterio prevalente è la mentalità securitaria.

Si tratta di un deficit, prima di tutto, di cultura.

Emergenza delle emergenze.

 

“Il XXI secolo – scrive “Alessandro Colombo”, esperto di politica internazionale, nel suo ultimo saggio, Il governo mondiale dell’emergenza (Cortina) – ha avuto, fino a questo momento, un andamento ironico: iniziato in modo quasi solenne all’insegna del mito dell’irreversibilità (della democrazia liberale, del capitalismo, delle organizzazioni internazionali e del ‘nuovo ordine mondiale’ nel suo complesso), gli sono bastati meno di vent’anni per finire immerso in un clima dilagante di insicurezza.

Questa insicurezza rovescia una dietro l’altra le aspettative celebrate nell’epoca d’oro dell’ordine liberale, tra la seconda metà degli anni Ottanta e gli anni Novanta dell’ultimo secolo:

 la fine della guerra, l’avvento di un mondo senza confini, la maturazione continua del tessuto multilaterale della convivenza internazionale, l’allargamento e, in prospettiva, l’universalizzazione del mercato e della democrazia, la mancanza di alternative praticabili alla democrazia liberale”.

 

In pratica, appunto, la fine della globalizzazione.

 O almeno la fine di un certo modello di globalizzazione, basato sul liberismo economico e sul profilo unipolare della politica internazionale.

 

In mezzo, tra le illusioni di “Francis Fukuyama e le paure “di oggi, c’è un convitato di pietra, qualcosa che pensavamo di aver relegato ai confini del nostro mondo e della nostra psiche collettiva: la guerra.

 Non c’è dubbio – dice Colombo – che una rinnovata situazione di belligeranza quasi permanente (Iraq, Libia, Siria, Ucraina…) “sia destinata a cambiare in profondità il contesto internazionale:

rimilitarizzando le relazioni tra i principali attori, spingendo ancora più avanti la pericolosa tendenza alla bipolarizzazione del sistema, spezzando la stessa globalizzazione in aree politico-economiche sempre più coese al proprio interno e sempre più diffidenti verso l’esterno”.

 

Eppure, nonostante il fallimento delle “promesse irrealistiche” di trent’anni fa, al crollo del comunismo, “esse continuano a costituire la matrice, o persino l’unità di misura, attraverso la quale le élite politiche e intellettuali interpretano e valutano la realtà attuale, con il risultato di non riuscire mai a fare i conti sino in fondo con le ragioni della sua crisi”.

 

Un mondo unipolare.

 

E l’enfasi eccessiva, anacronistica sulla questione della sicurezza dell’Occidente, saldandosi oggi con il “declino della sovranità” finisce, paradossalmente, per mettere in gestazione una società pericolosa per il cittadino, la quale esercita “una sorveglianza diretta contro i violatori dell’ordine politico, giuridico, persino morale, più che contro nemici propriamente politici, sottratta al controllo delle opinioni pubbliche”.

Tutto questo, naturalmente, facilitato e quasi istigato da una rapida evoluzione della tecnologia che permette ormai di tenere sotto controllo i cittadini e le loro idee “uno per uno”.

Protagonisti della grande utopia liberale fallita sono stati soprattutto gli Stati Uniti e le loro “promesse di palingenesi”, il tono quasi messianico della “religione civile della transizione al mercato e alla democrazia, in un catechismo quotidiano di racconti edificanti”.

Tutto un armamentario ideologico che alla prova della storia non ha funzionato affatto:

quello di un mondo unipolare, dice Colombo, accoppiato alla “presunta neutralità della tecnica”, di volta in volta economica, sanitaria, ambientale o di polizia, rivestita dall’impianto retorico della lotta al terrorismo e alla “radicalizzazione”.

 

I segnali di scomposizione del quadro “sono inequivocabili:

 la spinta (politica più ancora che economica) a ‘riportare a casa ’ attività in precedenza delocalizzate, almeno in settori nuovamente dichiarati ‘strategici’ quali quello sanitario e quello energetico;

 la riscoperta della promessa di ‘confinamento’ e ‘messa in sicurezza’ dei confini dei singoli Stati nazionali e delle stesse organizzazioni regionali, ‘Unione Europea compresa’”.

La risposta alla crisi sarebbe “la tentazione di smontare, e semmai rimontare, la globalizzazione in spazi più ristretti e solo attorno ad attori, principi e progetti compatibili con i propri”.

 

Il pericolo di una società morbosa.

Questa ossessione per la sicurezza, e il mito parallelo della centralità delle soluzioni politiche occidentali, sono per Colombo il terreno di coltura di una società autoritaria di nuovo in costruzione, in cui l’esercizio libero del pensiero non è più un’opzione socialmente interessante, situazione paradossale proprio in quel mondo liberale che della difesa della libertà del singolo ha sempre fatto il suo cardine.

 

La sua controfigura è quella che “Ivan Illich” chiamava “una società morbosa”, ipocondriaca, sempre spaventata:

“Non soltanto nelle cosiddette autocrazie, ma anche negli Stati liberali, la sorveglianza sembra aver imboccato una dinamica di crescita senza fine”.

 Riprese a circuito chiuso dotate di sistemi di riconoscimento facciale, videocamere di controllo ovunque, localizzatori GPS, programmi di intercettazioni su vasta scala delle comunicazioni, banche dati del DNA sono tutti dispositivi che “renderebbero quasi impossibile sfuggire i tentacoli di un regime totalitario”.

Quella che Colombo chiama “la Repubblica del Bene e i suoi Custodi”, entrambi maiuscoli, si profila come una “globalizzazione della sorveglianza” in cui le grandi compagnie diventano i più strenui difensori dell’ordine sociale esistente, molto più dello Stato nazionale in declino.

 

Così l’ordine internazionale non si propone solo come un ordine politico, e neanche semplicemente come ordine economico sovra-statuale, ma come un “ordine morale indefettibile”, che emana le sue leggi e applica le sanzioni molto severamente al suo interno, e innesca una guerra permanente con tutto il mondo che sta al di fuori dei suoi confini, geografici e culturali, convinto che la sua superiorità tecnica e morale siano tutt’uno.

 

Professor Colombo, perché siamo scivolati in questo stato di “insicurezza permanente”?

 

Il fatto è che negli anni Novanta ci siamo dati un criterio totalmente irrealistico: abbiamo ritenuto che essere sicuri significasse non essere più esposti ad alcun tipo di sfida, di alternativa, di smentita, di competizione politica o economica.

Era un criterio destinato, evidentemente, a naufragare.

La mia sensazione è che da alcuni anni stiamo reagendo in modo esagerato, a volte quasi paranoico alle difficoltà che incontriamo.

Nella storia, e a maggior ragione nella sfera politica, ci sono sempre stati dei competitors, ci sono sempre state delle alternative, e anche dei pericoli.

Tutte cose a proposito delle quali invece si sono ascoltati in questi anni quasi degli “annunci dell’Apocalisse”.

 Faccio l’esempio più banale: abbiamo avvertito fin dall’inizio nella crescita della Cina una minaccia catastrofica; credo che sia figlia anch’essa dell’illusione di poter vivere senza più competitors.

 

La sicurezza del cittadino è un elemento chiave di qualsiasi società: ma una società non è solo autoprotezione.

 

Certo.

È un po’ un vizio originario dell’ordine politico moderno, che nasce molto fragilmente fondato, incapace di darsi una base forte di legittimità.

 E dall’inizio scambia questa incapacità con la promessa di sicurezza che, però, diventa la sua ossessione.

Noi viviamo in un universo che è securitario non occasionalmente, questo è il nostro modo di concepire lo scambio di diritti e doveri tra Stato e cittadino: ciò che ci aspettiamo dall’ordine politico è anzitutto sicurezza.

 

Questa diffidenza verso il mondo esterno ha l’aria di essere una debolezza culturale, prima che politica.

Credo che sia uno dei principali ritardi culturali che, soprattutto noi europei, ma in parte anche gli americani, stiamo soffrendo da diversi decenni:

 non vogliamo fare i conti con il fatto che i tre secoli nei quali siamo stati al centro del mondo siano finiti.

 Non è tanto, come si dice spesso, un po’ retoricamente, un fastidio che noi proviamo nei confronti dell’“altro”, no, chi è diverso da noi ci dà fastidio quando si emancipa dalla propria posizione di debolezza.

A noi gli altri piacciono finché sono ammassati sui barconi, è quando escono dalla loro condizione di precarietà e ci sfidano che non li sopportiamo.

 Questo è il problema.

Quando troviamo dei soggetti che sono totalmente diversi da noi, e che mettono in discussione la tradizionale pretesa occidentale di parlare a nome della comunità internazionale, noi replichiamo con una serie di scorciatoie, come quella che ha inventato l’amministrazione Biden da un paio d’anni a questa parte:

 la contrapposizione fra autocrazie e democrazie, che è un modo proprio di voler evitare il problema, non volerlo vedere.

 

Non eravamo i paladini del pensiero critico, capace di mettere in discussione anche sé stesso?

 

La mia sensazione è che ci sia appunto un collasso di tipo culturale.

 È l’ultimo esito di una filiera educativa in profonda crisi, ed è un’osservazione che non vale affatto solo per l’Italia:

osserviamo una rescissione dei rapporti con la grande cultura del passato, un ripiegamento quasi claustrofobico nella contemporaneità.

Basti pensare a come vengono continuamente ristretti i corsi di Storia all’interno dell’insegnamento universitario.

Con la retorica degli anni Novanta sulla “fine della Storia” ci siamo abituati all’idea che noi viviamo in un contesto che non solo non ha un futuro, ma in realtà non ha neppure un passato, perché vive dentro la sua “perfezione”.

 È un’idea che abbiamo introiettato non solo a livello intellettuale ma anche politico ed economico.

Siamo tutti dentro questo incanto.

 Io in università tengo uno dei miei due corsi in inglese e vengono studenti anche da altri Paesi europei:

 a volte chiedo ai ragazzi chi di loro abbia letto Dostoevskij, o Thomas Mann o altri autori giganteschi, che hanno fatto parte della nostra formazione: oggi quasi nessuno li conosce.

C’è un processo di analfabetizzazione di massa impressionante.

 Io credo che questo abbia anche un impatto sulla nostra capacità di comprendere gli altri: non soltanto non li comprendiamo dello spazio – il mondo che non è “Occidente” –, ma non li comprendiamo neanche nel tempo, giudichiamo tutte le civiltà del passato con le categorie nostre, per cui finiamo in una spirale autistica, giudichiamo tutto a partire da noi.

Ma l’autismo è una forma patologica.

 

Lei sottolinea il rischio legato all’infiltrarsi ovunque della tecnologia digitale, che si “mangia” una dimensione essenziale nelle società moderne: la sfera privata.

 

Sì, vedo il convergere di una serie di cose che mi fanno paura.

 E sulle quali non abbiamo alcun controllo.

L’aumento esponenziale della capacità tecnologica credo, purtroppo, che sia un processo difficilmente governabile.

Negli ultimi anni si è diffusa una disponibilità crescente alla sorveglianza reciproca. Nel cuore delle società liberali emerge un carattere che somiglia alle derive totalitarie del Novecento: tutti controllano tutti.

 Il senso di essere sotto minaccia spinge verso una diffusione della sorveglianza che non è più, com’era fino a qualche decennio addietro, una sorveglianza dall’alto ma – cosa ancor più preoccupante - dal basso, diffusa, nella quale tutti hanno fretta di partecipare al gioco.

È un fenomeno che ha delle dimensioni quasi ludiche, in superficie, quello che adottiamo adoperando i social media: io non li uso, dall’inizio ho avvertito come pericolosa l’idea di un mezzo come Facebook attraverso il quale uno guarda dal buco della serratura le vite degli altri.

Eppure, ormai è uno standard generalizzato delle nostre relazioni sociali.

 All’inizio sembra divertente, poi – a poco a poco – ci si intossica e si diffonde questa abitudine a guardarsi di soppiatto, o, peggio ancora, a sapere di essere guardato.

Io personalmente cerco di evitare in tutti i modi le occasioni in cui posso essere scovato, non perché abbia qualcosa da nascondere ma mi dà un fastidio fisico essere osservato.

Conosco però individui che passano le giornate a spiare la vita degli altri.

 

I mass-media, che dovrebbero essere strumenti di pensiero critico, sono molto omologati.

 È inquietante il livello di conformismo anche dei nostri giornali.

Hai la sensazione di leggere sempre lo stesso articolo, in parte perché le fonti sono sempre le medesime:

un giorno leggo su un quotidiano inglese qualcosa di polemico sul primo ministro britannico, il giorno dopo ritrovo essenzialmente lo stesso articolo su qualche giornale italiano, e lo stesso vale naturalmente anche viceversa.

Diventa una specie di enorme gioco della ripetizione.

Il capitolo conclusivo del mio ultimo saggio l’ho dedicato alla ripresa di quel meraviglioso libro che è “Gli ultimi giorni dell’umanità” di “Karl Kraus”, uscito nel 1918, in cui c’è la figura del “capannello”, nel quale si finisce quotidianamente per ripetersi sempre le stesse cose, che hanno un contenuto aggressivo;

è la condizione nella quale ci troviamo noi, credo, con la differenza che quel capannello non si riunisce più per le strade di Vienna ma ovunque.

 

La mentalità liberale, nei secoli passati, aveva una nota di fondo più empirista, prudente: oggi è diventata utopista, e moralista, non trova?

Io credo la cultura diffusa oggi sia estremamente moralista, ma senza una dimensione utopica, che è stata una delle grandi vittime del Novecento.

 Nel secolo scorso noi abbiamo vissuto delle” utopie sanguinarie “che si sono scontrate tra loro, e per seppellirle ci siamo appiattiti in una dimensione atemporale, non c’è più utopia né curiosità;

questa è l’altra cosa che emerge dai nostri processi educativi, sia scolastici che universitari, tutto davvero si sta riducendo a una semplice e pura tecnica di gestione dell’esistente.

L’idea stessa che ci possa essere una realtà diversa da quella in cui già stiamo vivendo, sbiadisce.

Chi ancora la conserva appare come un individuo antidiluviano.

 

Lei descrive un mondo in cui la vecchia sovranità statale è in declino, e quel po’ di vena anarchica che c’è in noi ci fa pensare che, avendo uno Stato meno forte, siamo destinati a essere più liberi: invece rischiamo di esserlo di meno.

 

La crisi di tutte le istituzioni in cui noi abbiamo fatto in tempo a crescere – lo Stato, la famiglia, la scuola – alla fine ci espone a una vulnerabilità.

Le risposte delle istituzioni sono sempre state più o meno carenti, ma erano delle risposte.

Oggi la fiducia che queste istituzioni possano soddisfare il nostro criterio di sicurezza non l’abbiamo più, e il risultato è una spirale di incertezza che si porta dietro una richiesta davvero quasi paranoica di protezione, un clima culturale che poi diventa inevitabilmente anche molto intollerante.

 Il mercato politico ne è dominato, ormai è una gara a chi riesce a fare più paura su qualche aspetto della vita sociale:

a chi rivendica la paura di qualche cosa, gli altri rispondono con una paura diversa. Bisognerà fermarsi, uscire almeno qualche minuto da questa spirale e ragionarci un po’.

 

L’alternativa cos’è, riprendere in mano l’uso della ragione?

 

Non lo so, l’alternativa credo che sia cercare, nei limiti del possibile, di sottrarsi a questo gioco che non fa che aumentare continuamente la pressione sociale a uniformarsi.

Io vedo una serie infinita di meccanismi omologanti, ovunque.

Meccanismi che puniscono duramente qualunque forma di non conformità.

 E questo è pericoloso.

Noi diciamo che nei Paesi cosiddetti autocratici il capo si circonda solo di “yes men”:

ma anche da noi ce n’è un intero circo!

Più che la ragione, oggi, a noi basterebbe già recuperare un po’ di senso del ridicolo.

(Alessandro Colombo è professore ordinario di Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano.)

 

 

Smart City più sicure con le nuove

tecnologie e le telecamere di

rete intelligenti.

Safetysecuritymagazine.com – Redazione - Cristian Randieri, PhD – (10-2-2024) – ci dice

 

Diversi fattori tra loro convergenti, quali il crescente bisogno di sicurezza urbana, l’esigenza di una maggiore fruibilità di servizi pubblici e di diffusione delle informazioni, nonché l’attenzione sempre maggiore rivolta al risparmio energetico e all’ambiente, hanno spinto le grandi aree metropolitane di tutto il mondo a ripensare la modalità attraverso cui gestire la sicurezza di ogni cittadino secondo i più moderni canoni della Smart City.

 

Oggi una città a misura d’uomo, più sicura, con una comunicazione efficace, un turismo florido e un’aria più salubre non può prescindere dall’uso combinato delle moderne tecnologie che assieme rientrano nella definizione concreta del concetto di Smart City.

La città intelligente, intesa come tale, è un progetto urbanistico in grado di connettere tecnologia e capitale umano capace di rendere più sostenibile l’ambiente in cui viviamo migliorando la vita dei cittadini, riducendo al tempo stesso l’impatto ambientale dello sviluppo e rendendo più accessibili i servizi.

 

La sicurezza urbana è da sempre stato un argomento molto controverso e ampiamente dibattuto che riguarda la gestione delle città. Oggi la prevenzione delle nuove forme di crimine richiede un controllo sempre più capillare del territorio, imponendo alle amministrazioni locali costi rilevanti a cui si sommano i continui tagli alle forze dell’ordine, mettendo in crisi la capacità di monitoraggio della sicurezza dei cittadini.

Se poi consideriamo le frequenti catastrofi naturali che affliggono il nostro paese, e l’accentuata instabilità politica sul territorio (sia nazionale che estero) da cui scaturiscono nuovi rischi ambientali e terroristici, si manifesta sempre più l’esigenza di avere una maggiore capacità non solo di prevedere e prevenire ma soprattutto reagire tempestivamente alle potenziali situazioni di crisi. In tutti questi aspetti le tecnologie più moderne svolgono un ruolo di fattore abilitante fondamentale se usate con intelligenza e lungimiranza.

 

Il principio guida alla base di qualsiasi Smart City usa l’innovazione per migliorare la qualità della vita delle persone con il fine di accrescere il loro benessere equo e sostenibile favorendo allo stesso tempo la nascita e il consolidamento di una comunità destinata a crescere sempre più nell’immediato futuro.

 

Sotto il profilo della sicurezza anticrimine, se da un lato le città del futuro hanno la possibilità di sfruttare nuove soluzioni tecnologiche sempre più intelligenti, dall’altro, il più delle volte il loro pieno utilizzo si trova ad essere limitato da infrastrutture di comunicazione poco efficienti accompagnate da una visione “miope” da parte delle Pubbliche Amministrazioni.

Queste ultime dovrebbero cambiare il modo di considerare e progettare la sicurezza dei propri cittadini passando dalla cultura dell’emergenza a quella della prevenzione, senza trovarsi a dover intervenire impreparati e all’ultimo minuto per provare a salvare il possibile.

 

Gli investimenti della pubblica amministrazione dovrebbero essere mirati ad un effettivo miglioramento della sicurezza anziché migliorarne semplicemente la percezione comune.

Di contro i professionisti della sicurezza hanno un ruolo altrettanto importante che non può semplicemente limitarsi a quello di comparsa, poiché sono chiamati in prima linea col ruolo di autentici artefici del cambiamento.

 

Sono proprio le aziende di settore che investono maggiormente in ricerca e sviluppo (R&S) ad essere le maggiori candidate nel proporre e suggerire soluzioni ancor più sostenibili ed efficaci.

 

Ciò che ancora oggi manca è la cultura e la concretezza per far in modo che il tema Smart City sia attuabile anche nel nostro paese, senza che questa rimanga solamente un’idealizzazione di un concetto futuristico pressoché irraggiungibile. Più nel concreto, nelle nostre comunità bisogna realizzare progetti in cui mettendo al centro le persone si riesca ad interpretare le loro percezioni in merito a come si sentano protetti all’interno del contesto in cui vivono. Per esempio sarebbe necessario andare oltre i tipici messaggi della protezione civile e le allerte meteo, favorendo invece la cultura della prevenzione e della sicurezza.

Considerato che i problemi che interessano le grandi città sono in scala gli stessi delle piccole comunità ma con esigenze diverse, è proprio a partire da ciò che la tecnologia da adoperare per contrastare il crimine deve essere adattata al meglio alle specifiche esigenze di un mondo criminale in continua evoluzione.

 

Nelle Smart City la sicurezza è un bene fondamentale e primario poiché alla base della coesione sociale, proprio per questo una città intelligente deve essere considerata un luogo sicuro. Per questa ragione la tecnologia deve non solo coinvolgere attivamente anche i cittadini, ma anche agevolare gli interventi delle Forze dell’Ordine.

Attualmente le diverse migliaia di telecamere che sorvegliano di continuo le nostre città supportano il servizio d’ordine pubblico in modo poco ottimale ed efficiente poiché la maggior parte delle volte non sono interconnesse ad un unico centro servizi, limitandosi a delle semplici registrazioni difficili anche da consultare.

Da qui la necessità di ricondurre la sicurezza di una città non tanto all’esplosione numerica delle telecamere installate, quanto al privilegiare la loro integrazione, la gestione e l’analisi delle immagini a favore dell’impiego più efficace delle nuove tecnologie. In un contesto di continua crescita della popolazione è naturale aspettarsi anche un aumento del crimine direttamente proporzionale alla relativa densità.

Crimine che nelle città intelligenti sarà sempre più evoluto e che spingerà le Forze dell’Ordine ad essere sempre pronte e più preparate nel garantire la sicurezza anche a fronte dei nuovi scenari molti dei quali imprevedibili.

 

In quest’ottica, il ruolo della moderna videosorveglianza è emblematica viste le potenzialità di un simile strumento.

Per migliorare la sicurezza di una città, contrastando i crimini e assicurando l’ordine pubblico, bisogna intervenire in modo capillare partendo dal basso, ovvero dalle strade, utilizzando le telecamere di rete (o più comunemente telecamere IP o Network Camere) come strumento di prevenzione e di indagine sui reati commessi.

La videosorveglianza cittadina oltre ad essere uno strumento vero e proprio per garantire la sicurezza, aiuta le persone a sentirsi più sicure a casa loro, proteggendo le strutture e le infrastrutture più critiche da minacce ambientali e criminali.

Negli anni l’evoluzione della videosorveglianza ha potenziato il valore di tale tecnologia migliorando non solo nel fronte della sicurezza ma anche in quello del “Decisione Support System”, offrendo nuovi strumenti a supporto della pianificazione degli interventi immediati ed in tempo reale.

 

Grazie alle nuove modalità di visione, tipologie di registrazione e di connessione, la video sorveglianza di ultima generazione (molte volte definita col termine videosorveglianza 2.0), è largamente apprezzata in ogni ambito della sicurezza delle persone e delle cose.

 Il fulcro di tale evoluzione è intrinseco nell’utilizzo delle telecamere di rete che unitamente ad una migliore gestione delle informazioni associate alle immagini con un maggiore livello di dettaglio e di analisi diventa uno strumento fortemente strategico se applicato nell’ottica dei “Big Data”.

 

I più moderni sistemi di ripresa IP integrati con una nuova intelligenza applicativa, potenziano ancor più il valore della videosorveglianza.

Le telecamere di rete più moderne, infatti, sono da considerarsi dei veri e propri sensori hi-tech capaci non solo di catturare immagini ad una qualità superiore, ma anche di integrare al proprio interno degli algoritmi di analisi che oggi rappresentano un tassello fondamentale della moderna tecnologia definita con l’Internet of Things (IoT) intesa come elemento basilare su cui poggia l’intero concetto di Smart City.

 

Quando si parla di “IoT” ci si riferisce ad oggetti intelligenti (ovvero capaci di avere una capacità di elaborare i dati internamente) interconnessi tra loro, meglio identificati come un nodo di una rete tipicamente ethernet. Facendo leva su queste nuove tecnologie è possibile incrementare la qualità dei servizi associati alle attività di monitoraggio e di controllo, introducendo una nuova capacità di identificazione e tracciabilità delle informazioni atte a favorire uno sviluppo sempre più virtuoso delle Smart City.

 

Da quando i sistemi di videosorveglianza fanno di internet un elemento strutturare è stato possibile acquisire sempre più informazioni interpretabili con un orizzonte di comprensione contestuale più ampio che spazia dal miglioramento del flusso del traffico al sostegno dei servizi on-demand

. Secondo i più noti analisti del settore risulta che se siamo ancora all’inizio di uno sviluppo massivo che caratterizzerà un mercato della videosorveglianza sempre più dinamico ed in continua evoluzione.

 In Italia l’ANIE Sicurezza stima in un anno un giro d’affari pari a 19,4 miliardi di dollari per il mercato che comprende: telecamere, software di gestione video, DVR (Digital Video Recorder), NVR (Network Video Recorder) e storage.

 

Per creare una città intelligente del futuro non bastano solo le telecamere intelligenti se queste non sono dovutamente interconnesse tra loro in modo efficace al fine di convergere in una piattaforma operativa centralizzata in cui processare tutte le informazioni acquisiste in campo.

 E’ pertanto essenziale, se non fondamentale, che i dati registrati vengano analizzati e trasformati in informazioni interattive che sappiano coinvolgere appieno non solo le istituzioni pubbliche ma anche i cittadini chiamati ad essere parte attiva dell’ecosistema intelligente della città.

La carenza di infrastrutture di rete purtroppo ancora oggi rappresenta uno dei punti deboli del nostro Paese

 

Grazie ai moderni smartphone e tablet tutti i cittadini e turisti, definibili col termine “Smart”, potranno interagire con le istituzioni fornendo informazioni preziose in tempo reale relative allo stato di sicurezza e alla gestione della città. In questo modo le amministrazioni locali potranno estendere la loro rete di sensori in modo dinamico e distribuito a costo zero, avendo uno strumento in più per essere informate in anticipo in merito a tutte le possibili allerte, ponendo al tempo stesso i cittadini al centro della città intelligente.

Si tratta di una svolta epocale, perché decentralizzando l’intelligenza si può ridurre il carico di lavoro dei sistemi centrali, ma anche il traffico, con vantaggi facilmente intuibili. Infatti è solamente attraverso una piattaforma di collaborazione comune che tutti i diversi device potranno dialogare tra loro, moltiplicando così le opportunità e i vantaggi per tutti i cittadini che devono diventare sempre più “Smart”.

È possibile pertanto prevedere uno scenario di collaborazione in cui sono sempre più coinvolti i social media, che vedono i cittadini trasformarsi da semplici fruitori ad autentici fornitori di informazioni rivelandosi utili per altre persone presenti nella medesima area metropolitana. In questo modo, è possibile superare tutte le problematiche legate alla mancanza di connessione che spesso rappresentano uno dei principali limiti a un reale sviluppo delle Smart City e al potenziamento dei sistemi di sicurezza già esistenti.

 

Solo partendo da una base sociale di coesione e partecipazione comune è possibile sfruttare al meglio i sensori, la piattaforma e le applicazioni che caratterizzeranno le nostre città.

Solo a partire da un’attenta analisi contestuale e storica dei dati sarà possibile attivare nuove applicazioni sempre più intelligenti per la città, come la gestione ottimizzata dell’energia, del traffico, del rumore e della sicurezza.

Le telecamere di rete racchiudono in sé delle grandi potenzialità ancora oggi non molto sfruttate.

Essendo dei veri e propri computer embedded, tipicamente con sistema operativo Linux, è possibile realizzare al loro interno applicazioni molto complesse e completamente innovative capaci di interagire con altri sensori esterni ed algoritmi che permettono ad esempio la gestione ottimale dell’illuminazione pubblica in base alle esigenze di illuminazione reali a favore della riduzione del consumo di energia elettrica.

Proprio per questo motivo le telecamere di rete costituiranno la spina dorsale dell’internet delle cose cittadina, a condizione che siano progettate per una facile integrazione e con un’architettura aperta e scalabile.

 

Se da un lato la tecnologia è pienamente matura dall’altro si riscontra che gli installatori non sono ancora sufficientemente preparati in termini di “Intelligent Content Management” legato all’uso della videosorveglianza di nuova generazione dove la security non si limita semplicemente al controllo e monitoraggio di ambienti ma si riferisce soprattutto all’analisi dei comportamenti per definire migliori servizi di supporto ai cittadini.

Gli installatori che in un prossimo futuro non si aggiorneranno o adegueranno alle nuove tecnologie rischieranno di perdere competitività in un mercato fiorente caratterizzato da un’elevata dinamicità.

Secondo l’Osservatorio “Internet of Things” del Politecnico di Milano, in Italia, l’attenzione dei consumatori a questo tema cresce:

 quasi il 50% dei proprietari di casa dichiara di essere intenzionato ad acquistare prodotti dalla videosorveglianza caratterizzati da una nuova sensoristica integrata.

Il 65% degli utenti, preferirebbe gestire in modo integrato gli oggetti intelligenti. Dal momento che l’87% delle soluzioni censite nel rapporto risultano verticali e non integrabili tra di loro e tanto meno con prodotti di altri fornitori: agli installatori è richiesta una maggiore capacità d’integrazione dei vari prodotti e sistemi.

Gli installatori che non faranno un salto di qualità in questa direzione, diventando dei veri e propri System Integrator, resteranno indietro e verranno superati dai loro colleghi più competenti che meglio si saranno adattati alla continua metamorfosi che investe la pluralità di nuove tecnologie a supporto non solo delle Smart City ma anche dello Smart Building e della Smart Home.

Nell’immediato futuro le telecamere di rete intelligenti avranno un ruolo fondamentale nella definizione di una piattaforma aperta per lo sviluppo di nuove applicazioni nel contesto Smart City.

Occorrerà lavorare duramente nel mettere a punto a livello normativo la standardizzazione della piattaforma di comunicazione tra i vari sistemi.

 

La nuova frontiera della videosorveglianza sarà il “Data Enrichment”, ovvero la capacità di migliorare i dati grezzi acquisiti dalle telecamere superando tutte le limitazioni in cui i dati raccolti vengano semplicemente salvati, senza che questi possano essere utilizzati per scopi pratici.

 Il futuro di questo settore non può prescindere da città intelligenti capaci di mettere in correlazione infrastrutture diverse e tra loro eterogenee facendo leva sulla raccolta ed analisi dei cosiddetti Big Data.

In tale scenario, la videosorveglianza può giocare un ruolo importante, che non si limita a trasmettere l’allarme o l’immagine, ma crea una base di dati davvero utile per migliorare la vivibilità di una città.

Partendo dalla sicurezza urbana, passando per le moderne tecnologie IoT e Big Data, le Smart City possono davvero contribuire a creare un contesto sempre più piacevole e sicuro per i cittadini.

Le tecnologie esistono già: la sorveglianza cittadina con opportuni e mirati investimenti per la videosorveglianza è un mercato sempre più aperto e dinamico, ma occorre aumentare la consapevolezza e competenza degli amministratori in merito alle potenzialità offerte dalla tecnologia stessa. In fin dei conti una città può essere considerata “intelligente” solo se si mostra tale assieme a chi l’amministra.

(Cristian Randieri, PhD).

 

 

 

 

Sorveglianza e tecnologie israeliane:

dal laboratorio dei territori occupati

al mercato globale.

 Isla-media.com – (14.05.2025) – Redazione – Isiride Lancetti – ci dice:

 

Le tecnologie di sorveglianza sviluppate da Israele rappresentano oggi uno dei punti di riferimento nel mercato globale della sicurezza. Non è un caso che molte di queste soluzioni vengano definite "provate sul campo", poiché spesso la loro efficacia è stata testata nei territori occupati palestinesi, dove il controllo della popolazione è capillare e pervasivo.

Questo aspetto solleva interrogativi complessi e controversi, che toccano il confine tra innovazione tecnologica, diritti umani e sicurezza.

 

Il laboratorio dei territori occupati.

"I territori occupati, oltre che un campo di battaglia, sono diventati un gigantesco laboratorio in cui la sorveglianza è estesa, grazie all'intelligenza artificiale, all'intera popolazione palestinese, a prescindere dal fatto di essere criminali o terroristi", spiega “Meron Rapoport”, direttore del sito Local Call.

 Questo contesto di test continuo permette alle aziende israeliane di sviluppare e perfezionare sistemi di controllo sempre più sofisticati.

Strumenti come telecamere ad alta risoluzione, software di riconoscimento facciale e piattaforme di analisi dei dati vengono utilizzati quotidianamente per monitorare la vita di milioni di palestinesi.

 Questi sistemi, progettati per garantire la sicurezza e prevenire atti di violenza, rischiano però di comprimere gravemente le libertà fondamentali.

 

Dal campo al mercato globale.

Il know-how maturato nei territori occupati è diventato una delle principali armi competitive di Israele sul mercato internazionale della sicurezza.

Numerosi governi, occidentali e arabi, acquistano queste tecnologie per proteggere le proprie infrastrutture critiche e monitorare potenziali minacce. Tuttavia, non sempre l'uso di questi strumenti è limitato alla lotta contro il terrorismo o la criminalità organizzata.

 

Un esempio significativo è rappresentato dal caso dello “spyware Paragon”, una tecnologia avanzata di spionaggio che può essere utilizzata per monitorare giornalisti, attivisti per i diritti umani e altri gruppi sensibili.

Questo tipo di utilizzo mette in discussione l'equilibrio tra sicurezza nazionale e rispetto della privacy individuale.

 

Intelligenza artificiale e guerra: test sul campo e commercio globale.

Israele non si limita alla sorveglianza quando si parla di tecnologie avanzate.

L'uso dell'intelligenza artificiale nei bombardamenti, nei sistemi di riconoscimento e nelle operazioni di spionaggio è una parte integrante delle sue strategie militari. I territori occupati diventano il banco di prova di queste tecnologie, permettendo allo Stato ebraico di testare e perfezionare strumenti di guerra di precisione in contesti reali.

Tra i sistemi più noti ci sono i droni autonomi e i software che analizzano in tempo reale i dati raccolti dai sensori sul campo.

 Questi strumenti non solo incrementano l'efficacia delle operazioni militari, ma riducono i tempi decisionali, consentendo interventi rapidi e mirati.

 Il costo umano di queste operazioni, tuttavia, è spesso altissimo, con conseguenze devastanti per le popolazioni locali.

Una volta perfezionate, queste tecnologie vengono commercializzate a livello globale.

Israele, leader nel settore della difesa, esporta sistemi che promettono di rivoluzionare le capacità belliche dei governi acquirenti.

 Questi strumenti, presentati come indispensabili per garantire la sicurezza nazionale, finiscono per essere utilizzati in contesti ben lontani dal teatro di guerra, spesso con applicazioni discutibili sul piano etico.

 

Implicazioni etiche e rischi globali.

L'esportazione di tecnologie di sorveglianza solleva questioni etiche rilevanti. Se da un lato queste soluzioni possono contribuire a rafforzare la sicurezza, dall'altro possono essere utilizzate per reprimere il dissenso o perpetrare violazioni dei diritti umani.

Nei territori occupati, il controllo massivo viene giustificato dal contesto di conflitto, ma quando queste tecnologie vengono applicate in Paesi democratici, il rischio di abusi non può essere ignorato.

 

In Italia, ad esempio, l'adozione di questi strumenti potrebbe avvenire in modo selettivo, mirato a specifici gruppi o individui.

 "Forse non su larga scala, ma come dovrebbe insegnarci il caso dello “spyware Paragon”, i sistemi di spionaggio e sorveglianza sperimentati qui potrebbero essere usati contro determinati gruppi", sottolinea ancora “Rapoport”.

 

Un futuro da definire.

La questione centrale è come bilanciare l'esigenza di sicurezza con la tutela delle libertà individuali. In un mondo sempre più connesso e interdipendente, è fondamentale stabilire regole chiare e condivise per l'utilizzo di queste tecnologie.

Ciò include la necessità di una maggiore trasparenza sui contratti di vendita e sull'uso effettivo degli strumenti acquistati, oltre all'introduzione di normative che proteggano la privacy e i diritti fondamentali.

 

Israele, con il suo ruolo di leader nel mercato della sicurezza, pone interrogativi che vanno ben oltre i confini del Medio Oriente.

Le tecnologie di sorveglianza non sono solo strumenti, ma anche specchi delle società che le adottano.

La loro diffusione potrebbe trasformare profondamente il modo in cui concepiamo libertà, diritti e sicurezza.

La domanda è: siamo pronti ad affrontare queste sfide etiche?

E, soprattutto, chi vigila sui guardiani?

 

 

 

 

Elon Musk: «Lavorare? Non servirà più,

grazie a robot e intelligenza artificiale.»

ilsole24ore.com - Franco Sarcina - 26 maggio 2024 – ci dice:

 

Per il secondo uomo più ricco del mondo, per vivere ci sarà bisogno di un «alto reddito universale».

Ma non ha precisato cosa sarebbe e come potrebbe essere distribuito.

Acqua, Elon Musk al World Water Forum: "La soluzione alla crisi idrica è la desalinizzazione."

 

Visionario? Forse. Provocatorio? Di sicuro.

 In un intervento in videoconferenza a Parigi, Elon Musk ha detto che in un prossimo futuro nessuno avrà più la necessità di lavorare.

 Tutti i compiti e le fatiche verranno svolte dall’ intelligenza artificiale e dai robot.

«Probabilmente nessuno di noi avrà un lavoro», ha detto il patron di Tesla in un intervento in remoto al “VivaTech 2024” di Parigi giovedì scorso, Musk ha descritto un futuro in cui i lavori sarebbero «facoltativi», e ha detto che questo evento epocale non sarebbe necessariamente un male.

«Se vorrai fare un lavoro che sia un po’ come un hobby, potrai farlo», ha detto Musk.

 «Ma per il resto, l’intelligenza artificiale e i robot forniranno tutti i beni e i servizi che desideri».

Ma come la mettiamo con la necessità di portare a casa i “dindi” per mangiare, avere un tetto sopra la testa e possibilmente divertirsi un po’ ogni tanto (e avere i soldi per continuare a lavorare)?

 Anche per questo, Musk avrebbe una soluzione.

 Servirà un «universal high income».

Locuzione che possiamo tradurre come «alto reddito universale», da non confondersi con il reddito di base universale (Ubi), di cui si parla da un po’ e che è stato sperimentato in Finlandia dopo la metà dello scorso decennio, per poi essere abolito dopo circa due anni.

Su cosa sia effettivamente questo “alto reddito universale”, però, il secondo uomo più ricco del mondo non si è soffermato.

 E tantomeno ha fatto intendere come questo possa essere creato e come potrebbe venir distribuito.

Una domanda Musk però se la è posta, durante il suo intervento.

 In un futuro senza lavoro, le persone si sentiranno emotivamente realizzate?

 «La domanda è proprio questa: se il computer e i robot possono fare tutto meglio di te, la tua vita ha ancora un significato?» ha detto.

Questa la sua risposta: «Penso che forse ci sarà ancora un ruolo per gli esseri umani. Possiamo dare un significato all’intelligenza artificiale».

 

 

 

 

Trump contro Putin, orrore e caos

a Gaza, Meloni e

i «dazi interni» dell'Ue.

  Corriere.it - Luca Angelini – (28-05-2025) – Redazione -ci dice:

 

«Ciò che Vladimir Putin non capisce è che se non fosse stato per me, alla Russia sarebbero già successe molte cose brutte, e intendo MOLTO BRUTTE. Sta giocando col fuoco!»

Le maiuscole già fanno capire che quelle parole sono di Donald Trump.

Il presidente americano, che poche ore prima si era chiesto se il leader del Cremlino fosse per caso impazzito, è tornato ad attaccarlo.

Incassando la risposta, al solito sopra le righe, del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitry Medvedev:

 «Riguardo alle parole di Trump su Putin che “gioca col fuoco” e sulle “cose davvero brutte” che stanno accadendo alla Russia, conosco solo una cosa davvero brutta: la Terza guerra mondiale. Spero che Trump lo capisca!».

Da Mosca è arrivata anche la replica alle parole del cancelliere tedesco “Friedrich Merz”, il quale aveva fatto capire che anche il suo Paese, come già deciso da Usa, Gran Bretagna e Francia, ha revocato le limitazioni alla gittata degli armamenti forniti all’Ucraina perché siano utilizzati in territorio russo.

Merz «ha confuso tutti, se non addirittura sé stesso», ha commentato il portavoce del Cremlino” Dmitry Peskov”.

 Se Berlino fornirà missili a lungo raggio Taurus, «bruceranno come fiammiferi», la Germania «sprofonderà ulteriormente nella fossa in cui si trova da tempo il regime di Kiev che sostiene», ha minacciato la portavoce del ministero degli Esteri “Maria Zakharova”.

 

Al di là della guerra di parole, e di quelle che, purtroppo, continua sul campo (qui il punto militare dell’inviata a Kiev” Marta Serafini”), da New York la corrispondente “Viviana Mazza” segnala che dai media americani arrivano segnali contraddittori. Secondo fonti del “Wall Street Journal,” Trump starebbe meditando nuove sanzioni contro Mosca (le stesse fonti, però, non escludono che, alla fine, potrebbe cambiare idea).

Secondo altri, il presidente Usa sarebbe sempre più tentato dall’idea di abbandonare del tutto i negoziati.

 

Nel suo editoriale, “Massimo Gaggi” scrive che «Trump oggi paga (e fa pagare a tutti i Paesi nel mirino della Russia) la sua illusione di poter mettere fine alle guerre con accordi tra grandi oligarchi del Pianeta nei quali lui pensava di prevalere grazie alla sua imprevedibilità e alla sua capacità di trasformare tutto in trattativa commerciale, senza perdere tempo a leggere dossier sulle cause profonde dei conflitti e ad ascoltare relazioni di diplomatici e intelligence sulle reali forze in campo.

Fidandosi solo del suo istinto, il leader americano sembra non capire che dietro l’autoritarismo che lui ammira, Putin ha la spietata razionalità dell’ex funzionario del Kgb, deciso a sfruttare tutti gli spazi che gli si aprono davanti per ridare alla Russia una grandezza imperiale dopo le umiliazioni del crollo dell’Unione Sovietica».

 

L’inferno senza fine di Gaza.

 

«Per Gaza chiediamo il rispetto del diritto internazionale umanitario, l’ingresso di aiuti senza restrizioni, l’apertura di corridoi umanitari e, soprattutto, la promozione di un dialogo verso la soluzione “due popoli, due Stati”», ha detto ieri il cardinale Matteo Zuppi, presidente dei vescovi italiani.

 «Chiediamo che si fermino i bombardamenti e che arrivino gli aiuti necessari per la popolazione. Il diritto umanitario internazionale deve valere sempre, e per tutti.

Ma ribadiamo con forza anche la richiesta ad Hamas di rilasciare subito tutti gli ostaggi ancora in vita, e di restituire i corpi di quelli uccisi dopo il barbaro attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele» gli ha fatto eco il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin.

 

Non sta andando così.

 La distribuzione dei primi pacchi alimentari dentro Gaza è diventata un caos che evidentemente nemmeno gli ideatori del sistema avevano messo nel conto. Migliaia di palestinesi si sono accalcati nelle due aree entrate in funzione — quella di “Tel as-Sultan,” a Rafah, nel Sud della Striscia e quella del “Corridoio di Morag”, che divide Rafah da Khan Yunis — e hanno preso d’assalto i centri di consegna del cibo distruggendoli.

Pacchi alimentari, sedie e tavoli sono stati portati via, la recinzione che doveva limitare la folla spostata dalla sede originaria.

Gli uomini della società statunitense ingaggiata per occuparsi della sicurezza sono fuggiti e sono stati sparati colpi in aria per disperdere la folla.

 

In serata la stessa “Gaza Humanitarian Foundation” (la fondazione sostenuta da Usa e Israele per gestire il piano degli aiuti umanitari con l’aiuto di contractor privati per la sicurezza) ha diffuso una nota in cui non nega gli assalti.

C’è stato un momento — dice in sostanza la nota — in cui «il volume di persone arrivato al sito di distribuzione è stato tale che la squadra della “Ghf “è indietreggiata per permettere a un piccolo numero di gazawi di prendere gli aiuti in modo sicuro e poi disperdersi».

Per “Ghf” il bilancio è, comunque, positivo:

 «Finora sono stati distribuiti circa 8.000 pacchi di cibo, per un totale di 462.000 pasti».

Dopo il direttore esecutivo “Jake Wood”, anche il capo delle operazioni “David Burke” si è però dimesso dalla” Gaza Humanitarian Foundation”.

Non è chiara in questo caso la motivazione, mentre “Wood” aveva abdicato perché — dice — il nuovo piano di distribuzione degli aiuti non è rispettoso dei «principi umanitari di neutralità, imparzialità e indipendenza».

 

La presidente della Commissione europea, “Ursula von der Leyen”, ha definito ieri «abominevoli» le operazioni militari israeliane contro la popolazione civile, come quella che ha fatto strage in una ex scuola di Khan Yunis divenuta rifugio di sfollati.

E il cancelliere tedesco Friedrich Merz, in visita ufficiale in Finlandia, si è detto «sconvolto dalla spaventosa sofferenza della popolazione civile» palestinese.

 

Contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu torna anche a sfogarsi la rabbia dei familiari degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas (58, dei quali però solo una ventina sarebbero ancora vivi).

«Adesso – scrive da Tel Aviv l’inviata “Giusi Fasano” - la pazienza è finita, prevale l’indignazione.

I familiari degli ostaggi sono sempre più infuriati per questo infinito ricominciare daccapo.

 E sono infuriati anche per le promesse non mantenute.

Come la dichiarazione di due giorni fa del premier Benjamin Netanyahu: “Spero di fare un annuncio sui rapiti, oggi o domani”, aveva detto.

E poi il suo ufficio aveva precisato che “oggi o domani” era più un modo di dire “presto” che un termine preciso

. E così ieri i media del Paese hanno raccolto i commenti dei parenti degli ostaggi: “Si prende gioco di noi”, fa “terrore psicologico”».

 (Degli orrori di Gaza ha scritto anche “Gianluca Mercuri” nella nostra Rassegna)

 

Confindustria, Meloni e i «dazi interni»

 

Per 25 mesi di fila, la produzione industriale in Italia ha fatto segnare il segno meno. Inevitabile che, dall’assemblea generale di Confindustria, ieri a Bologna, sia arrivata la richiesta al governo di misure per invertire la tendenza. In particolare, ha spiegato il presidente Emanuele Orsini, «un piano industriale triennale» per l’Italia: 8 miliardi l’anno per tre anni minimo, meglio cinque.

Con l’obiettivo di aumentare la crescita del Pil dallo 0,7% previsto quest’anno al 2%. Perché convincere le imprese a investire in una fase di crisi «è come convincere un cassintegrato a comprarsi l’auto nuova».

Dal palco dell’assemblea di Bologna, la premier Giorgia Meloni ha risposto che sono già stati individuati 15 miliardi di euro del Pnrr che possono essere rimodulati e indirizzati verso misure per aumentare l’occupazione e la produttività.

A queste risorse ne potrebbero essere aggiunte altre, grazie alla riforma dei fondi di coesione Ue del commissario Raffaele Fitto.

 

Fra Orsini e Meloni si è comunque notata una sintonia che, scrive Rita Querzè, «parte da un terreno comune di critica alle politiche europee.

Anche ieri il presidente di Confindustria ha chiesto di cancellare lo stop alla produzione auto con motori a scoppio dal 2035.

Dal canto suo Meloni ha chiesto di "correggere un approccio ideologico alla transizione energetica".

 E, in concreto, di eliminare i dazi interni ai Paesi europei, ben superiori a quelli esistenti all’interno degli Stati Uniti».

 

Da dove arrivino quei dazi interni l’aveva spiegato, a febbraio, in un intervento sul Financial Times, l’ex premier Mario Draghi:

 «Le barriere interne sono un retaggio di tempi in cui lo Stato nazionale era la cornice naturale per l'azione. Ma ora è chiaro che agire in questo modo non ha portato né benessere agli europei, né finanze pubbliche sane, né tantomeno autonomia nazionale, che è minacciata dalle pressioni dall'estero».

 In concreto, dettagliano “Francesca Basso” e “Giuliana Ferraino”, «sono le barriere normative esistenti tra gli Stati Ue che in passato sono state messe in piedi per proteggere settori della propria economia (prodotti e servizi): regimi fiscali diversi, differenti prezzi dei fattori produttivi, diverse regole per il riconoscimento dei titoli professionali e così via».

 

A commento di quell’intervento di Draghi e dell’Italia, il politologo “Luigi Tivelli” aveva scritto, sul Riformista:

«Questo non è solo il Paese dei balneari che si sono eretti come un sol uomo, trovando molti difensori a destra come a sinistra, a difesa delle loro rendite assurde, o dei tassisti.

È il Paese delle troppe congregazioni e corporazioni, oltre che dei troppi ordini professionali chiusi.

Da qui derivano i dazi interni, spesso impliciti e da ben pochi percepiti o scovati, che paghiamo.

A distinguere i liberaldemocratici dovrebbe essere appunto il concentrarsi sul “mal di concorrenza” e l’individuare terapie adeguate, fatte di liberalizzazioni e di altri aspetti idonei a scardinare le troppe catene corporative».

 

Bene, dunque, che Meloni, pur affezionata alla sovranità nazionale (e, diranno i maligni, agli interessi di alcune delle categorie citate sopra), chieda all’Europa di smantellare in fretta quelle barriere interne che proprio gli egoismi nazionali (di ogni colore) hanno contribuito ad alzare.

Del resto, la presidente dell’Europarlamento, “Roberta Metsola”, anche lei ospite dell’assemblea di Bologna, ha detto: «La nostra bandiera blu con dodici stelle non oscura il vostro tricolore, un’Italia forte e di successo è garanzia di una Europa forte e di successo. Se vogliamo un’Europa più vicina e legittimata è però necessario rafforzare il diritto di iniziativa del Parlamento europeo».

 

E il presidente di “Techint Gianfelice Rocca”, uno dei grandi nomi dell’industria italiana, intervistato da Querzè aggiunge: «Se vogliamo avere un’Europa in grado di decidere in fretta e in modo efficace, per rispondere a quanto sono in grado di dare gli Stati Uniti da una parte e la Cina dall’altra, allora serve un’integrazione più forte. Metsola ce lo ha detto in modo chiaro, difficile darle torto. La premier Meloni ha evidenziato la necessità di eliminare le barriere interne, come già fatto in precedenza da Mario Draghi.

Anche questa è una evidente necessità.

Ma per fare tutto questo è necessario superare il diritto di veto e in generale intervenire sulla governance dell’Unione».

Insomma, par di capire, più sovranità europea e meno sovranità nazionale.

 

In fondo, è quel che dice anche l’ex ministro “Vittorio Colao” a “Daniele Manca”: «Se guardiamo alla tecnologia, l’Ue ha avviato iniziative per finanziare le “AIGigaFactory”, per portare capitali di rischio alle imprese innovative, per semplificare direttive pesanti per le imprese.

. Ma gli Stati, i governi in questo momento devono fare di più. Se consideriamo una debolezza non avere infrastrutture nello Spazio, siamo sicuri si debba continuare a difendere con i denti programmi nazionali?

Se c’è già l’AI act, ogni Paese europeo davvero deve farsi la sua legge sull’Intelligenza artificiale? (…)

 Quando le dico che sono ottimista sulla tecnologia in Europa, è perché vedo che dalla sanità ai supercomputer per l’AI, dai chip allo Spazio, dalla robotica alle biotecnologie, abbiamo iniziative pubblico-private che, se implementate da tutti gli Stati membri evitando sovranismi locali, possono farci recuperare terreno».

 

A tenere banco all’assemblea di Bologna, anche il costo dell’energia, che penalizza le imprese italiane.

 Gli industriali lamentano che gli sconti in bolletta siano finiti soltanto nelle tasche delle piccole imprese artigiane.

Inoltre chiedono con forza il «disaccoppiamento»: la possibilità di pagare di meno l’energia prodotta con costi più bassi, cioè quella da fonti rinnovabili.

 Meloni ha risposto che «uno degli strumenti già disponibili per il disaccoppiamento sono i contratti pluriennali con prezzo fisso concordato tra le parti» (come avviene già spesso in Spagna, ndr).

 Anche perché «continuare a tamponare spendendo soldi pubblici non può essere la soluzione».

 «In altre parole – traduce Querzè - difficile ridurre in modo strutturale le bollette privando le casse dello Stato delle entrate legate agli oneri di sistema».

 «Stiamo anche lavorando — ha aggiunto Meloni — a una analisi del funzionamento del mercato italiano per comprendere se eventuali anomalie nella formazione del prezzo unico nazionale siano all’origine di aumenti ingiustificati».

 

 

 

Può l’Italia sopravvivere senza gli Usa?

Il super debito, 25 anni di sconfitte,

le ragioni per scegliere.

 

Corriere.it - Federico Fubini – (10 -3-2025) – ci dice:

Paradossalmente il maggiore successo Usa dell’ultimo quarto di secolo è la difesa dell’Ucraina da parte di Biden.

Malgrado in Italia si professi il contrario, ha fatto sì che la scommessa di Putin del febbraio 2022 sia andata male.

 

C’è una foto che non riesco a togliermi dalla testa mentre l’Occidente cambia sotto i colpi di Donald Trump.

È l’immagine dei presidenti americani ancora in vita, ai funerali di Jimmy Carter il 9 gennaio scorso (qui sopra).

Undici giorni dopo Trump avrebbe fatto il suo ritorno alla Casa Bianca, ma ora erano riuniti lì con le mogli.

Quasi tutti ormai anziani, avevano presieduto su un quarto di secolo straordinario per l’America.

Non solo il prodotto interno lordo del Paese non si è ridotto di molto come quota dell’economia mondiale, malgrado l’emergere della Cina, dell’India e dell’America Latina.

Addirittura, da una decina di anni, quella quota è tornata ad allargarsi.

 Gli Stati Uniti pesavano per il 30% del Pil del pianeta nel 1999, sono scesi al 21% dopo la Grande Recessione, ma l’anno scorso erano già tornati sopra il 26%.

Per dare un’idea, il peso relativo degli attuali 27 Paesi dell’Unione europea è costantemente sceso da circa il 25% nel 1999, al 13,4%.

 Ed eccoli lì quegli uomini, uniti solo nel lutto per un loro pari:

si riconoscono Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama, Donald Trump. Dietro gli ex vicepresidenti Al Gore e Mike Pence, davanti l’uscente Joe Biden e la sua vice – sconfitta – Kamala Harris.

 Sono i volti di uno dei grandi miracoli tecnologici e finanziari della storia: oltre 40 mila miliardi di valore azionario creato nello S&P500 di Wall Street in un quarto di secolo e, per la prima volta, sette aziende innovative che da sole arrivano a capitalizzare più di un terzo di quel totale.

Quale altra immagine più chiara della potenza di una nazione?

 Eppure c’è un altro modo di guardare a quegli uomini, con un occhio alle vulnerabilità internazionali e finanziarie dell’America.

Queste spiegano perché, anche senza Trump, l’Europa si sarebbe comunque trovata dov’è oggi:

spalle al muro, obbligata a diventare un’entità politica e militare o finire in balia degli eventi. Il che dovrebbe chiarire una volta per tutte le idee anche in Italia. Vediamo.

La svolta del 1999.

Ho scelto di contare dal 1999, perché quell’anno ha un doppio significato per l’America. Il crollo del Muro di Berlino, con il conseguente mito sulla “fine della storia”, era di appena dieci anni prima.

 Eppure il 1999 è stato l’ultimo anno in cui gli Stati Uniti registrano un chiaro successo di politica estera e uno degli ultimissimi con un attivo del bilancio federale (grafico sotto).

Da allora il progredire dei deficit pubblici e l’aumentare del debito dal 54% al 122% del Pil viaggiano in parallelo a oltre un quarto di secolo di sconfitte, umiliazioni, calcoli sbagliati e arretramenti del ruolo dell’America nel mondo.

 

L’ultima operazione riuscita di politica estera è stata il Kosovo, sotto Clinton, nella primavera del ’99.

L’amministrazione guidò una coalizione della Nato e, colpendo dal cielo, costrinse la Serbia fermare i massacri degli albanesi.

Entrai in Kosovo subito dopo la fine della guerra:

 il territorio è pari a una piccola provincia italiana, ma erano dispiegate forze di pace sotto mandato Onu con 40 mila uomini (russi compresi, relegati in un campeggio nell’aeroporto).

Oggi si spera di stabilizzare l’Ucraina, il Paese più vasto d’Europa in guerra con il Paese più vasto al mondo, con 30 mila peace-keeper.

 In Kosovo i villaggi erano carbonizzati dai serbi.

La terra sui fianchi delle colline era rivoltata di fresco, per le sepolture di quasi diecimila caduti.

L’America aveva evitato una catastrofe umanitaria ancora peggiore.

Fu una delle ultime volte. Appena due anni dopo l’11 settembre segna una vittoria di Al Qaeda, il fallimento

dell’intelligence americana e innesca la più grave sbandata strategica degli Stati Uniti dopo il Vietnam.

 La guerra all’Iraq inizia nel marzo 2003 sulla base di prove false sulle armi di Saddam Hussein, costa la vita a 4.400 militari americani, 200 mila militari e civili iracheni e costa duemila miliardi di dollari al bilancio federale, senza riuscire a stabilizzare il Paese o a costruire una plausibile democrazia.

L’attacco all’Afghanistan aveva invece ragioni più solide, perché i talebani avevano fornito le basi ad Al Qaeda;

ma dopo vent’anni di presenza militare, 2.400 militari statunitensi e 47 mila fra militari e civili afgani uccisi nel conflitto, più 2.300 miliardi di dollari spesi dall’America, prima Trump e poi Biden negoziano una ritirata che riconsegna il Paese ai talebani.

È l’estate del 2021.

Quella fuga umiliante, con il tradimento della società civile di Kabul o Kandahar, convince Vladimir Putin che si poteva provare a soggiogare l’Ucraina, perché l’America non si sarebbe opposta a lungo.

 

Solo le due avventure di Iraq e Afghanistan sarebbero costate l’equivalente di venti volte circa il deficit federale degli Stati Uniti nei primi anni del secolo.

Può l’Italia vivere senza l’America? 25 anni di sconfitte, il super debito Usa, è tempo di decidere.

Sconfitte e deficit.

La grande recessione avrebbe affossato il bilancio ancora di più, mentre i passi indietro di politica estera si ripetono e i conti continuano a deteriorarsi. Le guerre, la crisi finanziaria nata dalla deregolamentazione di Wall Street, la detassazione dei ricchi e delle imprese, l’impatto del Covid fanno arrivare il debito pubblico al 132% del Pil, quando l’America aveva conti in ordine e debito “tedesco” al passaggio di mano fra Clinton e Bush. Da decenni i saldi di bilancio sono strutturalmente in fase di progressivo deteriorarsi, malgrado la crescita sorprendente dell’economia .

 

Proprio Bush accoglie la Russia nel G7 (divenuto G8) puntando sulla sua integrazione con le democrazie, ma Putin risponde invadendo la Georgia nel 2008. Quindi, a partire dal 2011, falliscono le strategie di Obama dopo le “primavere arabe”. Non solo neppure una delle rivoluzioni riesce a produrre una democrazia stabile (ultima a cadere, quella tunisina); soprattutto Obama sbaglia tragicamente in Libia e Siria, spalancando le porte all’interferenza russa.

Lo stesso Obama alla fine dei suoi anni alla Casa Bianca definirà l’intervento militare in Libia il suo “errore peggiore”, per non aver pianificato cosa fare dopo la caduta del colonnello Muhammar Gheddafi (incredibile, specie dopo la lezione irachena). I bombardamenti sulla Libia avevano avuto la motivazione clintoniana di prevenire una “catastrofe umanitaria”, ma ne segue anche una geopolitica: il Paese sprofonda nelle guerre tribali, nei saccheggi, nei traffici di migranti e accetta a Est una tutela militare russa che dura fino ad oggi.

 

Lo stesso Obama non ne esce meglio sulla Siria.

Non solo Bashar Al Assad ignora il suo invito a smettere di bombardare gli insorti e a farsi da parte; il dittatore di Damasco lo umilia, dimostrando quanto sia vuota la minaccia del presidente degli Stati Uniti di intervenire se le aree dei nemici interni fossero state bersagliate con armi chimiche.

Assad fa strage di migliaia di connazionali, ma Obama si nasconde dietro al Congresso anziché ordinare un attacco aereo. Il trauma e i costi anche finanziari dell’Iraq hanno lasciato il segno.

Anche qui è la Russia – questa volta con la Turchia – a riempire il vuoto lasciato dall’Occidente e a salvare Assad, distruggendo dal cielo le città degli insorti.

 

In Medio Oriente intanto, per più un decennio, gli Stati Uniti non riescono a fermare il programma nucleare iraniano né il finanziamento dei piani di Hamas a Gaza ad opera del Qatar (sulla carta, un alleato di Washington).

 

Trump, rinviati i dazi al Messico su beni inclusi nel trattato Usmca.

Ma le ingenuità di Obama riguardano anche la Russia.

 Dopo l’aggressione alla Georgia del 2008 sotto Bush, già l’anno dopo il nuovo presidente propone un “reset” – un ristabilimento dei rapporti – al quale Putin risponde affermando il suo ruolo in Libia, in Siria e soprattutto con l’annessione della Crimea nel febbraio del 2014.

 Per la prima volta dal 1945 i confini in Europa sono spostati con la forza. L’Occidente reagisce con sanzioni deliberatamente deboli.

 Un mese dopo, nel marzo del 2014, Obama sfida la nevrosi imperiale Putin leggendo malissimo il suo rabbioso complesso d’inferiorità: definisce la Russia “una potenza regionale che minaccia i suoi vicini a causa della propria debolezza”. Al Cremlino suona come una provocazione e meno di un mese dopo parte l’attacco al Donbass: probabilmente sarebbe scattato comunque, di certo continua ancora.

 

Paradossalmente il maggiore successo americano di politica estera dell’ultimo quarto di secolo è proprio la difesa dell’Ucraina da parte di Biden.

 Non solo il vecchio presidente ha tenuto in piedi un’Ucraina libera, democratica e indipendente;

non solo ha evitato l’escalation ad altri Paesi dell’ex Patto di Varsavia e disinnescato le minacce nucleari russe.

Malgrado in Italia si propali spesso il contrario, Biden ha fatto sì che la scommessa di Putin del febbraio del 2022 sia andata male.

 Altro che “vittoria”.

 Oggi il Cremlino controlla meno territorio in Ucraina di quanto ne controllasse nell’aprile di tre anni fa (circa il 19% oggi, contro il 22% a fine aprile del 2022). Intanto la Russia ha perso oltre 200 mila dei suoi uomini, ha avuto oltre 600 mila feriti spesso gravi, ha subito la fuga all’estero di almeno 700 mila giovani altamente istruiti, bruciato circa 200 miliardi di dollari nello sforzo di distruzione, è danneggiata dalle sanzioni, è ridotta a un sistema totalitario e ha un’economia scricchiolante, che funziona solo per produrre mezzi di guerra ma è in grado di reggere così forse solo fino alla fine dell’anno.

 

È il bilancio di una catastrofe, per Putin. Solo Trump poteva offrirgli una trionfale via d’uscita proprio ora. 

Può l’Italia vivere senza l’America? 25 anni di sconfitte, il super debito Usa, è tempo di decidere

Paradosso americano.

Ma proprio qui è il paradosso americano.

Quest’America che per un quarto di secolo colleziona trionfi tecnologici e a Wall Street, ma umiliazioni nel mondo, sarebbe tentata di ritrarsi. Di curare solo la rivalità crescente con la Cina.

Ma non può.

Il grafico sopra, che ho elaborato su dati della Federal Reserve di St. Louis e della Banca Mondiale, mostra il peso degli squilibri di bilancio americani e la dipendenza di Trump dall’estero.

 In questi due decenni il deficit e il debito americano sono cresciuti costantemente, appunto anche perché il Paese non tassa abbastanza i propri residenti più ricchi e le grandi imprese.

 Il grafico mostra il fabbisogno di nuovi prestiti supplementari del Tesoro americano, anno per anno dal 1999 al 2024, in proporzione alla crescita nominale mondiale.

Per esempio, l’economia mondiale nel 1999 ha generato poco più di mille miliardi nominali di crescita (inflazione inclusa) e il Tesoro americano ha avuto bisogno di 121 miliardi di prestiti in più: appena l’11% della crescita mondiale – America inclusa – bastava a finanziare il governo degli Stati Uniti a rendimenti bassi e sostenibili.

Ma negli ultimi anni questa proporzione è cresciuta stabilmente sopra al 50%. L’America ha bisogno di aspirare sempre più soldi dal resto del mondo per tamponare i propri squilibri.

Nel 2023 l’economia mondiale ha generato 4.990 miliardi di dollari di crescita lorda – dunque di nuovo risparmio – ma il governo americano ha avuto bisogno di 3.128 miliardi di prestiti supplementari.

 I nuovi tagli alle tasse promessi da Trump minacciano di peggiorare le cose. Il problema del presidente, a cui tutta l’amministrazione guarda con ansia, è di cooptare con l’intimidazione gli altri Paesi per finanziare a costi accettabili i crescenti squilibri americani.

 La superpotenza è vulnerabile. E lo sa.

 

Perciò l’America prima o poi si sarebbe ritirata comunque dai suoi impegni in Europa, anche se Trump lo fa nel suo modo traumatico.

E perciò l’Europa comunque non ha altra strada se non quella di costruire la propria sovranità politica e di difesa.

 Con questo peculiare declino americano – unito a un trionfo tecnologico – è finita una stagione durata ottant’anni.

 L’opposizione di sinistra in Italia si illude raccontandosi che la spesa militare non serve e che, in fondo, l’Europa può continuare nel suo piccolo mondo antico: quel mondo non c’è più.

E Giorgia Meloni si illude di poter continuare a difendere il diritto di veto in politica estera a Bruxelles e di restare sospesa fra Washington e Bruxelles.

 Non è più tempo di difendere un’alleanza che non tornerà – non per parecchi anni – ma di ricostruire le fondamenta dell’Europa.

Per l’Italia è il tempo di scegliere: se non ci saremo stavolta, o ci saremo ambiguamente, non saremo più con la stessa credibilità fra i Paesi fondatori.

 

 

 

 

La denuncia di Potere al Popolo:

“Siamo stati infiltrati e spiati

 dalla polizia per 10 mesi.”

Fanpage.it – (27-05 -2025) - Antonio Musella – ci dice:

 

Scoperto a Napoli un presunto agente sotto copertura all’interno di un partito politico. In rete le foto del giuramento in polizia e delle feste con i colleghi in divisa.

“Non siamo la gioventù meloniana, non abbiamo nulla da nascondere”.

Giuliano Granato è il portavoce nazionale di Potere al popolo.

Una denuncia clamorosa quella che Potere al Popolo, il partito di estrema sinistra che da molti anni partecipa alle elezioni politiche ed amministrative, ha affidato a Fanpage.it

. Come spiega il portavoce nazionale, Giuliano Granato, per 10 mesi il partito sarebbe stato infiltrato e spiato dalla polizia.

L'agente sotto copertura sarebbe un giovane di 21 anni, uscito dalla scuola di polizia nel 2023.

 Si sarebbe presentato agli attivisti di PaP a Napoli come studente fuori sede. Assiduo frequentatore di tutte le iniziative di Potere al Popolo, ha partecipato anche a diversi incontri nazionali del partito.

A far saltare la copertura però sarebbero stati proprio gli atti ufficiali del suo ingresso in polizia.

 Da una semplice ricerca infatti, è stato possibile trovare non solo il risultato del concorso in polizia che ha vinto, ma anche le foto del giuramento in polizia e, attraverso una serie di contatti social, a foto di gruppo in divisa con altri colleghi.

Ad insospettire i militanti di Potere al Popolo, uno strano incontro a cui sarebbe stato visto per caso in un ristorante lo scorso 1°Maggio.

 Una volta scoperto, il presunto agente sotto copertura non avrebbe battuto ciglio, allontanandosi ed augurando "Buona giornata" agli attivisti di “Pap”.

 

"L'infiltrazione iniziata 10 mesi fa."

A raccontare la vicenda a Fanpage.it è il portavoce nazionale del partito, Giuliano Granato, che ha raccontato tutte le fasi dell'infiltrazione del presunto agente di polizia, fino alla sua definitiva scoperta da parte del partito. "Tutto è iniziato circa 10 mesi fa – spiega – questo ragazzo di appena 21 anni si è presentato a noi come uno studente fuori sede, proveniente dalla Puglia. In questi mesi ha partecipato in maniera assidua a qualsiasi iniziativa, dal blocco degli sfratti, alle lotte studentesche, partecipando anche ai momenti nazionali di Potere al Popolo. Non mancava mai". Una circostanza però aveva insospettato gli attivisti napoletani di Potere al Popolo. "Era estremamente presente quando c'erano iniziative politiche, ma non ha mai legati personalmente con nessuno. Mai una serata insieme, una birra, una cena, molto strano per uno studente universitario fuori sede" spiega Granato. E così per puro caso, alcuni attivisti sono riusciti a risalire alla vera identità, in un modo la cui semplicità sembra disarmante. "I suoi social erano quasi vuoti – spiega Granato – anche questo abbastanza strano per un 21enne. Ma quando abbiamo digitato il suo nome e cognome e la sua data di nascita su Google si è aperto un mondo".

 

La prima cosa che è stata trovata è la sua assunzione in Polizia, al termine del corso, con tanto di nominativo, data di nascita e punteggio. E' stato a quel punto facile risalire alle origini. Si tratterebbe di un agente figlio di poliziotto, con altri parenti in Polizia, entrato in servizio nel 2023. La sua presa di incarico sarebbe avvenuta due mesi dopo, a quanto riportato dai documenti del Ministero dell'Interno. Per fugare dubbi su possibili omonimie si è risalito, attraverso alcuni sui contatti social, ad altri amici, anche loro poliziotti. E da lì si sono ritrovate le foto del giuramento in Polizia, ma anche foto di feste ed incontri con altri colleghi. Tutti in divisa. A guardare i riscontri raccolti da Potere al Popolo la vicenda è davvero impressionante. Da un lato perché lo stesso agente in divisa, si nota poi in alcuni reel pubblicati dagli attivisti universitari di Potere al Popolo, con il megafono in mano e la bandiera del partito, dall'altro proprio per la superficialità dell'operazione. Il nome del presunto agente sarebbe infatti lo stesso, mentre la biografia raccontata, figlio di persone povere e studente a Bari per un anno, sarebbe del tutto inventata.

(fanpage.it/politica/la-denuncia-di-potere-al-popolo-siamo-stati-infiltrati-e-spiati-dalla-polizia-per-10-mesi/).

(fanpage.it/).

 

 

 

 

 

Il dinamismo costituzionale

del popolo.

Rivistailmulino.it -i Graziella Romeo – (10 gennaio 2025) – ci dice:

 

Il concetto di «popolo» è accompagnato da un’ambiguità costante nel suo utilizzo. Ambiguità che è bene indagare, a partire dai significati che ne dà la Costituzione

 

Esplorare il significato giuridico della nozione di “popolo” richiede una premessa. Nell’ambito del diritto pubblico e costituzionale, il popolo rappresenta il fondamento concettuale di due nozioni cardine: quella di “cittadinanza” e quella di “Costituzione”.

Comprenderne il significato implica dunque attraversare tre momenti fondamentali della sua identificazione, ciascuno corrispondente a una diversa modalità di riflessione giuridica:

 il popolo come elemento essenziale dello Stato, il popolo come soggetto definito dalla cittadinanza e il popolo come attore che anima e sostiene le garanzie costituzionali.

Questo contributo si propone di indagare il significato giuridico del popolo, difendendo al contempo l’idea del suo intrinseco dinamismo.

 

Dal punto di vista giuridico, la nozione di popolo si articola generalmente in due prospettive:

a) come componente della triade territorio-popolo-sovranità, oggetto della teoria generale del diritto che identifica le condizioni necessarie per l’esistenza dello Stato;

b) come entità concretamente individuata attraverso la qualificazione giuridica dello status di cittadino, ambito di studio del diritto pubblico e costituzionale.

Queste due prospettive, tuttavia, non sono completamente scindibili, poiché il modo in cui concepiamo il popolo come elemento della teoria generale dello Stato influisce inevitabilmente sulla definizione giuridica dei soggetti che lo compongono (cfr. A. Mattioni e F. Fardella, Teoria generale dello Stato e della Costituzione. Un’antologia ragionata, Giappichelli, 2002).

 

La cultura giuridica europea è consapevole della complessità di questo intreccio – il popolo come fondamento dello Stato e il popolo come entità concretamente identificata – avendo sperimentato storicamente la distinzione, offerta da “Friedrich Meinecke”, tra due concezioni di nazione.

Da un lato, la nazione culturale, fondata su un patrimonio culturale comune conquistato con uno sforzo condiviso, e

dall’altro la nazione territoriale, in cui il legame unitario si radica in una storia comune e viene consolidato nel tempo attraverso le istituzioni politiche.

 

Entrambi i concetti si prestano a interpretazioni diversificate, con rilevanti implicazioni sull’identificazione del popolo.

Nell’ambito teorico della nazione culturale, il popolo, in una distorsione di matrice nazionalista, può essere ridotto a un’idea di “eguaglianza di stirpe” in senso anti-pluralista (C. Schmitt), arrivando persino a costituire il fondamento di ricostruzioni razziste.

Queste visioni hanno spesso attinto al concetto di radicamento al suolo, ovvero alla dimensione normativa del rapporto tra l’uomo e la terra.

 

La nazione culturale può tuttavia assumere connotazioni diverse, rappresentando un destino comune, il risultato di un processo che riflette l’immutabilità di tratti socio-culturali resistenti al trascorrere del tempo.

In questa prospettiva, il popolo subisce trasformazioni, ma non si configura come protagonista di un processo aperto di identificazione e reinvenzione riflessiva.

 Si pensi, ad esempio, al passaggio tratto da “Memoria della speranza” (brano ripreso da Mattioni e Fardella, cit.):

 

“La Francia viene dalla notte dei tempi. Essa vive. La voce dei secoli la chiama. Ma resta sé stessa nel fluire dei tempi… vi abitano popoli che affrontano, nel corso della Storia, le prove più diverse, ma che la natura delle cose, messa a profitto dalla politica, impasta incessantemente in una sola nazione. Essa ha abbracciato numerose generazioni e diverse ne comprende attualmente. Molte altre ne partorirà, ma grazie alla geografia che le è propria, al genio delle razze che la compongono, ai Paesi che la circondano, essa riveste un carattere costante per cui i francesi di ogni epoca dipendono dai loro padri e si sentono impegnati per i loro discendenti”.

 

Questo brano rappresenta il popolo attraverso il prisma della tradizione. Nonostante l’indubbia forza evocativa e poetica di questa visione, il concetto espresso da De Gaulle risulta problematico, poiché suggerisce una continuità rigida, priva di apertura a una rinnovata riflessione identitaria.

 

Innanzitutto, la linearità del legame tra nazione (intesa come origine culturale di un popolo) e territorio si rivela assai meno reale e intuitiva di quanto possa apparire a prima vista.

Da un lato, vi sono nazioni disperse su territori diversi; dall’altro, vi sono casi in cui lo Stato si configura come uno strumento contingente che “crea” – nel senso di generare – una nazione. Questo è vero, ad esempio, per la Svizzera. Lo è, in una certa misura, anche per gli Stati Uniti, dove l’unità politica, espressa nel celebre “We, the people”, culmina con l’adozione della Costituzione.

 

Questi esempi raccontano qualcosa di fondamentale: il popolo può essere il risultato di un’unità politica, e dunque non necessariamente un dato pre-esistente, concepito come un fatto naturale da cui deriverebbe, senza interruzioni o fratture identitarie, la costruzione dello Stato.

 Al contrario, il popolo può rappresentare il punto di arrivo, piuttosto che il presupposto naturalistico, dell’unità politica.

Il concetto di popolo come espressione concreta e reale di una nazione culturale, percepita come parzialmente immutabile, è utile nelle riflessioni sul diritto all’autodeterminazione dei popoli e nella tutela delle minoranze

Il declino degli Stati-nazione dopo la Seconda guerra mondiale e la nascita del progetto europeo sembravano aver svuotato il concetto di popolo delle sue connotazioni più strettamente genealogiche, rendendo interpretazioni di questo tipo antistoriche, ovvero incapaci di cogliere lo spirito dei tempi.

Eppure, il concetto di popolo come espressione concreta e reale di una nazione culturale, percepita come parzialmente immutabile, è utile nelle riflessioni sul diritto all’autodeterminazione dei popoli e nella tutela delle minoranze.

Esiste, dunque, una attualità perenne del concetto di popolo, accompagnata da un’ambiguità costante nel suo utilizzo, sia nella retorica politica sia nel dibattito pubblico. Risulta perciò cruciale indagare questa ambiguità, in particolare per comprendere come il concetto di “popolo” si relazioni con quello di “Costituzione”.

Nella Costituzione italiana, la nozione di popolo ricorre in diverse disposizioni: nell’articolo 1 (“La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”);

 nell’articolo 11 (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…”);

nell’articolo 71, c. 2 (“Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi”);

negli articoli 75 e 138 (referendum popolare);

nell’articoli 101, c. 1 (“La giustizia è amministrata nel nome del popolo”); nell’articolo 102, c. 3 (“La legge regola i casi e le forme di partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia”).

 

In tutti questi articoli, il popolo è concepito sia come riflesso di un’unità politica, sia come elemento dinamico che anima la democrazia e genera sviluppi costituzionali spesso imprevedibili. In questa prospettiva, il popolo è al tempo stesso sovrano e interlocutore perenne dei poteri sovrani.

Tuttavia, questa lettura del popolo come fondamento dell’unità politica garantita dall’esistenza della Costituzione convive con un altro significato storico:

il popolo come la parte economicamente e politicamente svantaggiata della comunità politica.

Questo secondo senso non deve essere interpretato necessariamente in termini deteriori.

“Alessandra Facchi “osserva, per esempio, che nella Costituzione italiana vi è una norma, l’articolo 47 (sulla tutela del risparmio), in cui emerge un aspetto del popolo concepito come componente caratterizzata da inferiorità economica e politica (A. Facchi, Popolo, in A. Barbera (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, 2007).

 

Sebbene un testo costituzionale possa impiegare questo senso di popolo in chiave di tutela della sua posizione sociale, il concetto si presta talvolta a distorsioni. L’idea del popolo come soggetto in posizione di svantaggio economico, politico e, più recentemente, culturale – marginalizzato anche se demograficamente dominante – emerge frequentemente nella retorica politica.

 È il significato del popolo che predomina nel discorso populista, dove si contrappone un “vero popolo” a un’entità elitista, distante e non partecipe della comunità popolare, perché dotata di appartenenze più moderne e cosmopolite.

 

Nel contesto attuale, il concetto di popolo che si affaccia – talvolta in modo aggressivo – sulla scena politica è quello di un soggetto che rivendica una sovranità escludente.

Una sovranità che, prima di tutto, traccia confini rigidi tra “amici” e “nemici”, definendo chi è dentro e chi è fuori dai confini territoriali.

 Questa logica si riflette chiaramente nelle politiche sull’immigrazione e sulla cittadinanza.

 La definizione dei criteri per la cittadinanza risponde proprio a questa visione, restringendo la nozione di popolo a un gruppo selezionato, spesso concepito come svantaggiato, che diviene il “vero” destinatario della sovranità enunciata nell’articolo 1 Cost.

In questa prospettiva, la sovranità popolare viene rappresentata come un bene indisponibile, che richiede protezione assoluta contro ogni trasformazione.

La politica, cioè, dipinge il popolo come un’entità da proteggere a ogni costo, opponendosi a qualsiasi apertura al diritto internazionale o ampliamento della cittadinanza.

La cessione di sovranità, l’accoglienza di diritti cosmopoliti e l’estensione delle maglie della cittadinanza vengono interpretati come tradimenti.

L’esclusione dalla cittadinanza di chi potrebbe culturalmente appartenere al popolo segna un ritorno a una concezione antica di Costituzione, che si limita a unire politicamente una porzione selezionata della comunità.

 

Un esempio significativo di questa dinamica è il dibattito sulla riforma della cittadinanza in Italia, in particolare sulla proposta dello “ius scholae” (o, in alcune versioni, dello ius culturae), che pone il tema del radicamento sul territorio. Su questo punto, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 222/2013 in tema di diritti sociali dei non cittadini, offre indicazioni importanti.

La Consulta spiega che il radicamento non rileva solo in senso negativo, per giustificare il diniego di una prestazione sociale, ma anche in senso positivo, per fondare il riconoscimento di diritti, anche in assenza dei requisiti per il soggiorno di lungo periodo, quando un individuo ha stabilito sul territorio legami di vita, lavoro, affetto o famiglia.

 

Questo dibattito evidenzia l’attualità di un’intuizione fondamentale di Aristotele, contenuta nel Libro IV della Politica:

le forme costituzionali sono il risultato della partecipazione delle classi sociali all’attività politica

. Limitare la cittadinanza, dunque, diventa uno strumento per preservare un’idea ristretta di popolo, nella quale il radicamento territoriale non è sufficiente.

 

L’esclusione dalla cittadinanza di chi potrebbe culturalmente appartenere al popolo segna un ritorno a una concezione antica di Costituzione, che si limita a unire politicamente una porzione selezionata della comunità.

Questo approccio, però, contrasta con i principi espressi negli articoli 1, 3, 4 e 10 della Costituzione, secondo cui la partecipazione attiva costruisce la cittadinanza e, quindi, il popolo.

Nel costituzionalismo moderno, il “popolo” è necessariamente un concetto dinamico: è un soggetto politico che interagisce con il diritto costituzionale, il quale ne disciplina le forme senza limitarne la forza vitale e motrice.

 

 

 

Oligopoli alimentari che prosperano

mentre nel mondo cresce la fame:

4 multinazionali controllano il 51%

del commercio mondiale.

 Repubblica.it – (30 settembre 2024) - Rita Cantarino – ci dice:

 

Oligopoli alimentari che prosperano mentre nel mondo cresce la fame: 4 multinazionali controllano il 51% del commercio mondiale

Il matrimonio tra due giganti dell'agroalimentare è in grado di far salire i prezzi in tutto il mondo, che un sù e giù senza alcun legame con la domanda e l’offerta.

 

ROMA – Si restringono sempre di più i perimetri dell’oligopolio nell’industria alimentare mondiale. Sempre meno aziende controllano fette sempre più ampie del grande business. È l’incipit dell’articolo di Rita Cantarino pubblicato su Valori.it, notizie di finanza etica ed economia sostenibile, il giornale online diretto da “Andrea Barolini”.

 

Un matrimonio tra monarchie assolute.

 Il 23 giugno dello scorso anno l’azienda cerealicola Bunge ha annunciato l’acquisto della canadese Viterra.

L’acquisizione rappresenta un vero e proprio royal wedding: Bunge è la quinta impresa per dimensioni e fatturato al mondo nel suo campo. Viterra, che ha sede nei Paesi Bassi, è un colosso canadese del grano.

 

La Commissione europea fa buon viso a cattivo gioco.

Non si tratta solo di un affare privato tra imprese.

L’accordo può comportare importanti conseguenze sulla distribuzione delle capacità produttive nel settore e sulle condizioni di vita materiali di molti agricoltori, dentro e fuori l’Unione.

 Eppure, non è la prima volta che la Commissione concede il suo benestare a una fusione che incentiva oligopoli commerciali, nonostante siano espressamente vietati dal Regolamento 139/2004.

E nonostante la stessa Commissione abbia riconosciuto una forte accentuazione della tendenza negli ultimi 25 anni.

Nel 2016 il matrimonio tra Monsanto e Bayer. Generò un colosso dal fatturato globale di 23 miliardi di euro. La soglia consentita dal Regolamento 139/2004 è di 5 miliardi.

L’acquisizione ha avuto un ruolo chiave nell’aumento dei prezzi delle sementi in tutto il mondo e ha generato fusioni a cascata che hanno contratto ulteriormente il numero di attori sul mercato.

 

4 multinazionali controllano il 51% del commercio mondiale. Allo stato attuale, quattro multinazionali controllano il 51% del commercio mondiale di semi e il 61% di quello di prodotti agro-chimici.

L’accordo porterà una sostanziale riduzione della concorrenza, alimentando l’oligopolio.

 L’accordo tra Bunge e Viterra desta preoccupazioni anche in Canada, dove interverrà l’autorità di regolamentazione visto che, con la fusione, si arriverà a una concentrazione del mercato di oltre il 35%.

 

Le dimensioni di Bunge.

È leader globale della trasformazione di semi oleosi, opera in 40 Paesi e ha un fatturato di più di 57 miliardi di dollari.

È un’azienda dall’enorme potere economico e, di conseguenza, politico. Fa parte delle cosiddette ABCCD:

ADM, Bunge, COFCO, Cargill e Louis Dreyfuss.

Un gruppo di imprese che detiene il 70% del commercio globale di cereali. E che decide il bello e il cattivo tempo dell’andamento dei prezzi, spesso senza alcun legame con domanda e offerta.

 

Le dimensioni di Viterra.

 È di proprietà di “Canada Pension Plan Investment Board”, “British Columbia Investment Management Corporation” e della” multinazionale mineraria Glencore”, è un colosso del mercato del grano con affari in 38 Paesi e 53 miliardi di dollari di fatturato.

 

Calano la concorrenza e i prezzi pagati agli agricoltori. Il” Competion Bureau Canada” ha sottolineato che la loro unione porterà «una sostanziale riduzione della concorrenza in alcuni mercati rilevanti, come una diminuzione dei prezzi pagati agli agricoltori e una riduzione della scelta a causa dell’eliminazione della rivalità tra Bunge e Viterra».

Le prime proiezioni sugli impatti mostrano una riduzione del reddito degli agricoltori canadesi di 770 miliardi di dollari l’anno.

 

Saliranno i prezzi dei prodotti alimentari.

Secondo il Coordinamento europeo Via Campesina, l’operazione genererà una delle tre più grandi aziende del mondo, elemento centrale dell’oligopolio mondiale.

Un mostro bicefalo, con il dominio della trasformazione dei semi da un lato, e quello della vendita del grano dall’altro.

 Con un potere sconfinato sul mercato, che limiterà la capacità di commercializzazione degli agricoltori che esportano nell’Unione europea.

L’inflazione dei venditori. E farà salire i prezzi.

Gli economisti denunciano il pericolo di “inflazione dei venditori”, il meccanismo alla base dell’aumento dei prezzi alimentari tra il 2018 e il 2023.

 L’inflazione dei venditori è il fenomeno per cui l’aumento dei prezzi si sposta di fase in fase della catena di produzione, sommando percentuali di rincari a ogni passaggio, per poi abbattersi sul costo finale. E, quindi, sui consumatori. È successo in Germania, dove tra il 2022 e il 2023 il prezzo dei cereali nazionali è cresciuto nonostante non ci fossero problemi di offerta.

È un fenomeno che ha caratterizzato tutta la storia del nuovo secolo: dopo la stabilizzazione degli anni Ottanta e Novanta, i prezzi hanno cominciato a salire senza più arrestarsi, determinando le crisi del 2007-2008, del 2010-2012 e del 2020-2023.

La fame nel mondo.

In questo contesto le società ABCCD prosperano.

Nel 2022 le persone affamate in tutto il mondo erano una ogni dieci, ma le cinque big del settore hanno comunicato che il 2021 è stato l’anno più redditizio della storia del commercio agricolo.

L’aumento registrato rispetto al periodo 2016-2020 è tra il 75% e il 260%. T

utto questo mentre nel mondo le guerre e la pandemia interrompevano le catene di approvvigionamento determinando lo shock dei prezzi.

Un trend che si è confermato nel 2022 e nel 2023, senza alcuna capacità da parte di governi e istituzioni internazionali di porre un argine.

(Rita Cantalino – Valori.it).

 

Piattaforme digitali

e conflitti globali.

Collettiva.it - Dario Guarascio – (29 luglio 2022) – ci dice:

 

Le grandi imprese transnazionali hanno fatto un salto di qualità. È un disegno ‘imperialista’, finalizzato alla colonizzazione di nuovi mercati e all’espansione della massa di informazioni da archiviare, rielaborare e vendere.

La tendenza alla concentrazione di potere economico e tecnologico è un tratto distintivo del sistema capitalistico, sin dalle sue origini.

Autori come Marx, Schumpeter, Hilferding e Lenin riconoscono nei grandi oligopoli tecnologici il motore fondamentale delle trasformazioni economiche e sociali del loro tempo nonché la causa primaria di diseguaglianza, instabilità politica e guerre.

Nella seconda metà del Novecento, i teorici del ‘Capitale Monopolistico’ riportano le grandi imprese transnazionali e il loro potere al centro dell’analisi. La capacità che queste entità hanno di controllare lo spazio economico, abbattendo barriere spazio-temporali, vincoli politici e imponendo una ‘divisione del lavoro’ funzionale ai loro obiettivi strategici, viene individuata come la causa principale delle crescenti diseguaglianze e dei divari di sviluppo tra Paesi.

 

Con l’avvento delle grandi piattaforme digitali tale processo di concentrazione del potere sperimenta un salto di qualità.

Il potere delle grandi piattaforme si basa sul dominio delle tecnologie, delle infrastrutture e dei servizi necessari a mantenere il controllo sui sempre più vasti flussi di informazione digitale.

Il controllo dei dati garantisce alle piattaforme una posizione dominante circa lo sviluppo e l’offerta di servizi essenziali per la vita degli individui, delle imprese e degli Stati.

La piattaforma si trasforma in un “panottico”: il controllo dei flussi di dati le consente di monitorare in modo costante l’economia discriminando tra i settori ove si limita a beneficiare della propria primazia tecnologico-organizzativa estraendo le relative rendite;

e quelli ove può rivelarsi strategico penetrare e competere direttamente con le imprese insediate, spesso con il fine di estrometterle completamente dal mercato.

 

Il controllo dei dati è importante anche per influenzare la composizione dei panieri di consumo degli utenti che interagiscono con le piattaforme dal lato della domanda.

Utilizzando algoritmi di Intelligenza Artificiale (IA) che consentono di “profilare” gli utenti e di personalizzare le attività di marketing, le piattaforme digitali riescono a stimare con estrema precisione la probabilità che un consumatore effettui un determinato acquisto.

 Di fatto, le piattaforme “anticipano” la domanda.

Questo consente loro di ottenere significativi guadagni di efficienza e di accrescere il valore di servizi complementari, come nel caso dei servizi pubblicitari “targettizzati”.

Per Amazon, ad esempio, l’anticipazione dei flussi di domanda è centrale per massimizzare l’efficienza delle attività di produzione, stoccaggio, logistica, e di relazione con le terze parti nell’ambito del suo “marketplace” virtuale.

 

Quanto più grande e ricca è la massa di informazioni controllata dalla piattaforma, tanto maggiore è il valore delle tecnologie di IA, basate in larga parte su algoritmi di apprendimento, di cui questa dispone.

 Da questo punto di vista, è paradigmatico il caso della penetrazione in settori nevralgici quali la sanità e la finanza, recentemente oggetto di ingenti investimenti da parte di piattaforme come “Alphabet” e “Amazon”.

 

Per quanto riguarda la sanità, parallelamente all’intenzione di acquisire quote di mercato in settori ad alto valore aggiunto, l’obiettivo strategico è quello di privatizzare flussi di informazione dal valore inestimabile perché caratterizzati da unicità come, ad esempio, quelli relativi alla salute degli individui.

 Quanto più le informazioni cui la piattaforma riesce ad avere accesso sono pregiate, tanto più la stessa può sviluppare nuovi prodotti, privatizzare la conoscenza ad essi associata e rafforzare le tecnologie di cui già dispone.

 Tutto ciò le consente di accrescere il proprio vantaggio competitivo di natura tecnologica subordinando le controparti (private e pubbliche) a una più acuta dipendenza.

 

Negli anni recenti, la crescita del potere economico delle grandi piattaforme ha dato luogo a una serie di reazioni da parte dei governi e, in particolare, delle autorità di regolamentazione.

Si è tentato, invero con scarso successo, di contenere il loro potere sanzionando le azioni considerate lesive della concorrenza e tentando (timidamente) di ridurre la capacità delle stesse piattaforme di appropriarsi in modo automatico delle informazioni private relative ai loro utenti.

 

Il potere delle piattaforme, tuttavia, va molto al di là della loro capitalizzazione o della mera accumulazione di profitti e quote di mercato.

 Vi è una dimensione, relativamente poco investigata, che riguarda il ruolo delle grandi piattaforme nelle strategie geopolitiche e militari delle potenze – Cina e Stati Uniti – a cui fanno riferimento. In primo luogo, è opportuno ricordare che, come la gran parte degli oligopoli tecnologici del Novecento, anche le odierne piattaforme digitali hanno un’origine militare.

 Internet e le tecnologie su cui si basa sono il risultato di cinquant’anni di investimenti realizzati dagli apparati della difesa statunitensi.

Da un lato, la privatizzazione delle tecnologie della rete e la ‘commercializzazione di Internet’ che ha luogo nella prima metà degli anni Novanta su impulso di Al Gore e Bill Clinton costituiscono gli ‘atti originari’ a partire dai quali le piattaforme cominciano a costruire il loro impero economico.

Dall’altro, le piattaforme divengono i controllori di infrastrutture e tecnologie di rete che, come già detto, nascono come militari e che avranno un ruolo sempre più rilevante nelle attività di sicurezza e difesa.

 

Tale controllo fornisce alle piattaforme un potere significativo verso l’interno, potendo condizionare i governi dei Paesi ove risiedono.

Gli esempi recenti abbondano.

 C’è, ad esempio, quello dello Stato di New York, che si è rivolto a Microsoft e Google per gestire l’emergenza pandemica consentendo loro di appropriarsi di tutte le informazioni private che si sarebbero trovate a gestire.

 O quello della National Security Agency (NSA) che ha appena assegnato ad Amazon un contratto da 10 miliardi di dollari per la gestione dell’apparato cloud dell’agenzia.

In realtà, l’intreccio tra apparati militari e oligopoli digitali è visibile anche guardando agli sviluppi istituzionali più recenti.

Andrew Jassy, AD di Amazon, siede assieme all’ex AD di Alphabet Eric Schmidt all’interno della ‘National Security Commission on Artificial Intelligence’.

 La Commissione è stata istituita nel 2018 dal Congresso degli Stati Uniti per definire ‘gli usi militari e di sicurezza della” IA’4.” 

 

A livello internazionale, le piattaforme perseguono un proprio disegno ‘imperialista’, finalizzato alla colonizzazione di nuovi mercati e all’espansione della massa di informazioni da archiviare, rielaborare e vendere.

Si pensi, ad esempio, ad Amazon e alla rapidità con cui si è diffusa a livello globale rendendo milioni di consumatori e imprese dipendenti dai suoi servizi.

 Similmente, si pensi alla capacità di Facebook e Google (Alphabet) di acquisire quote maggioritarie dei mercati pubblicitari in tutto il mondo.

Allo stesso tempo, la stretta relazione che le piattaforme intrattengono con gli Stati di appartenenza (Stati Uniti e Cina) e i loro apparati militari le trasforma in soggetti attivi nell’ambito delle strategie imperialiste di quegli stessi Stati.

 In primo luogo, le piattaforme divengono un ‘avamposto virtuale’ in grado di assorbire enormi quantità di informazioni.

In secondo luogo, le piattaforme tendono ad assumere il ruolo di fornitori privilegiati di servizi sensibili - quali quelli legati alla gestione degli archivi virtuali, delle comunicazioni digitali e della cybersicurezza – instaurando relazioni di dipendenza con i governi che le ospitano.

Un caso lampante è quello del progetto “Gaia-X”, inizialmente disegnato per consentire all’Unione Europea di recuperare sovranità digitale proprio nei confronti delle grandi piattaforme (e, implicitamente, nei confronti di Stati Uniti e Cina) attraverso la costruzione di un ‘cloud europeo’.

Con l’avvio delle procedure finalizzate ad appaltare le attività infrastrutturali e quelle relative ai servizi ci si è tuttavia resi conto che, allo stato attuale, il gap tecnologico è incolmabile:

le grandi piattaforme statunitensi (quelle cinesi sono estromesse per ragioni geopolitiche del tutto connesse alle argomentazioni proposte sin qui) sembrano essere le uniche in grado di dare concretezza al progetto europeo.

Ciò significa che, dato il divario esistente, la dipendenza, tecnologica, economica e geopolitica è destinata ad aumentare.

 

La guerra in Ucraina ha messo ulteriormente in evidenza il ruolo geopolitico che le grandi piattaforme digitali sono in grado di giocare.

 In primis, una parte significativa della guerra è combattuta sui social network attraverso i quali viene veicolata la quasi totalità dell’attività propagandistica.

 Le piattaforme hanno un’autorità totale su questi media potendo stabilire quali informazioni filtrare o quali account oscurare.

In secondo luogo, controllando direttamente infrastrutture di rete e servizi ormai di natura essenziale, le piattaforme possono discrezionalmente decidere di supportare una o l’altra parte in conflitto.

Nel caso ucraino, le azioni delle grandi piattaforme americane attuate per colpire la Russia e i suoi esponenti politici sono state salutate con favore dall’opinione pubblica.

Queste stesse azioni, tuttavia, mettono in luce la capacità delle grandi piattaforme di agire ‘come se fossero degli Stati’ pur essendo dei soggetti privati il cui fine ultimo è quello di accumulare profitti e espandere il loro controllo della sfera economica.

Una distorsione che è oggetto di scarsa attenzione in questo momento di forte polarizzazione del dibattito ma che potrebbe aprire la strada a sviluppi inquietanti nel prossimo futuro soprattutto nel caso in cui il conflitto latente tra gli Stati Uniti e la Cina dovesse inasprirsi.

Più in generale, quando si assiste a conflitti ‘reali’ come quello che sta producendo morte e distruzione in Ucraina, non dovremmo dimenticare che gli stessi hanno delle radici materiali e che spesso queste sono da cercare nella contrapposizione tra poli economico-tecnologici.

Come quelli rappresentati dalle grandi piattaforme statunitensi e cinesi.

 

 

 

 

Da Tesla a ExxonMobil:

come le grandi multinazionali

stanno erodendo la democrazia.

 Valigiablu.it – (1° Ottobre 2024) - Mattia Marasti – ci dice:

Da Tesla a ExxonMobil: come le grandi multinazionali stanno erodendo la democrazia.

Nel 1970, il futuro Premio Nobel per l’Economia Milton Friedman scrisse un editoriale sul The New York Times.

Nel suo pezzo, Friedman sostiene che il compito fondamentale di chi dirige un’azienda non sia rispondere ai bisogni della società o perseguire obiettivi di natura sociale o ambientale, quanto il massimo ritorno finanziario per coloro che possiedono l'azienda.

 Friedman, ovviamente, ammette che ci sono limiti legali ed etici che le imprese devono rispettare.

Le aziende devono rispettare leggi e regolamenti, e non devono ricorrere a pratiche di dubbia legalità o ingannevoli.

Tuttavia, se restano all'interno di queste regole, l’unico obiettivo deve essere quello di massimizzare i profitti.

 

Da quando Friedman ha scritto quell’articolo, le cose sono cambiate.

Le aziende hanno raggiunto dimensioni mai viste prima, con la nascita di colossi come Amazon, Apple e le altre big tech;

la quota salari - cioè la percentuale di reddito nazionale che va a retribuire il fattore lavoro - è in declino;

per molte persone anche della classe media il lavoro è diventato sempre meno soddisfacente e retribuito, con prospettive di deterioramento dovute all’automazione;

la crisi climatica, alimentata anche dalle pratiche delle grandi aziende, porta con sé conseguenze nefaste sulle persone più povere e sulla classe media;

i partiti populisti e di destra radicale hanno preso piede nelle nostre democrazie anche grazie alla diffusione di fake news e ingerenze, con conseguenze anche sulla polarizzazione che affligge il dibattito politico, dove il ruolo dei social media e dei media tradizionali è cruciale.

 

D’altronde gli indicatori dello stato di salute delle democrazie, come quello redatto dal “The Economist”, mostrano che una crisi è in atto.

Anche solo i segnali degli ultimi mesi sono eloquenti:

 la Francia è in una situazione di instabilità politica inedita per la Quinta repubblica, con la destra radicale del Rassemblement National che gioca un ruolo di primo piano nel governo e attende con ansia le prossime presidenziali;

la Germania si trova invece con un’ascesa costante dell’AfD, complice anche la crisi della coalizione semaforo che in questi anni non ha saputo costruire consenso attorno alla sua proposta politica;

gli Stati Uniti rischiano un ritorno di Donald Trump con una retorica più aggressiva rispetto a quanto visto sia nel 2016 sia nel 2020.

Per non parlare di altri segnali, come nuovi fenomeni di repressione del dissenso e di controllo.

 

Questa situazione estremamente delicata per le democrazie è causata, anche, dallo strapotere delle imprese che, nel tentativo appunto di massimizzare i loro profitti, hanno innescato degli effetti a cascata che erodono, giorno dopo giorno, il supporto verso la democrazia e quindi il suo corretto funzionamento, come rileva anche un report pubblicato qualche giorno fa dalla” International Trade Union Confederation (ITUC), la più grande confederazione sindacale al mondo.

 

Di cosa parliamo in questo articolo:

Barare seguendo le regole: il caso dell’elusione fiscale.

La tendenza al monopolio: dal potere economico a quello politico.

Il controllo sui media: social e no.

Nessuna azienda è un’isola.

Barare seguendo le regole: il caso dell’elusione fiscale.

 

Il primo tema su cui vale la pena porre l’accento è quello fiscale, ovvero su come le aziende, per aumentare i loro profitti, sfruttino il sistema fiscale implementato dagli Stati per raccogliere le imposte e le tasse.

 È necessario fare una premessa.

In Italia si parla spesso del problema dell’evasione fiscale che, secondo i report del Ministero dell’Economia e delle Finanze, vale tra i 90 e i 100 miliardi l’anno.

 Si tratta di un tema importante, ma che non riguarda le grandi imprese: l’evasione fiscale infatti è concentrata su vendita al dettaglio e lavoratori autonomi, dove è possibile nascondere le transazioni.

Nel caso delle grandi imprese le cose si fanno più delicate:

non siamo più nel campo dell’evasione fiscale, quanto dell’elusione fiscale.

Si tratta di un fenomeno in cui le aziende sfruttano lacune normative, trattati fiscali favorevoli e strutture societarie complesse per ridurre il carico fiscale che dovrebbero pagare allo stato.

 Le grandi aziende sono presenti in vari paesi e possono sfruttare questa caratteristica per sfuggire a sistemi fiscali più rigidi e sfruttare invece vari paradisi fiscali in cui la tassazione sulle imprese è molto bassa.

 

Secondo i dati dell’”Eu Tax Observatory “(un istituto di ricerca indipendente dedicato allo studio dell'evasione e dell'elusione fiscale nell'Unione Europea), questo fenomeno in Europa porta a una perdita del 20% del gettito, una percentuale particolarmente alta.

Eppure anche in seno al vecchio continente vi sono paesi che possono essere ascritti a Paradisi Fiscali, cioè regioni in cui la tassazione per le imprese è particolarmente.

Un esempio su tutti è quello dell’Irlanda che, in questi ultimi anni, ha visto il suo gettito da imposte e tasse su imprese aumentare notevolmente, con il 90% proveniente da aziende estere.

 

Nel corso degli ultimi anni gli Stati stanno cercando di porre un freno a questa pratica.

L’esempio paradigmatico riguarda proprio la diatriba tra l’Europa e l’Irlanda che ha permesso ad Apple di godere di una tassazione fino allo 0,005 per cento sui profitti provenienti da varie regioni del mondo. Questa strategia avrebbe minacciato il mercato unico, secondo la Commissione Europea.

 

Dopo una lunga diatriba legale, la Corte di Giustizia dell’UE ha stabilito che la società americana dovrà versare nelle casse dell’Irlanda, che continua appunto a essere un paradiso fiscale, 13 miliardi di euro per compensare le tasse dovute tra il 2003 e il 2013.

 Quanto di più sorprendente è che fin dall’inizio della causa il paese europeo ha preso le parti della multinazionale di Cupertino, nella paura che la sentenza potesse incentivare anche altre multinazionali che sfruttano i suoi regimi fiscali ad abbandonare il paese.

 

Ciò mostra un altro problema:

al netto delle necessità di bilancio, quello che innesca una situazione di questo tipo è una corsa al ribasso per la tassazione delle grandi imprese, lasciando indietro gli Stati che non possono permetterselo.

Questa pratica non solo danneggia la collettività, ma in senso lato danneggia anche l’impresa stessa.

 Oltre ad altri strumenti come il ricorso al debito o i profitti di aziende statali, sono proprio imposte e tasse che garantiscono l’erogazione di beni pubblici cruciali per la crescita economica di un paese.

Questo significa che se determinate aziende decidono di spostare la loro sede fiscale, quei soldi non potranno essere utilizzati per infrastrutture, scuole e sanità.

 Eppure senza un tessuto infrastrutturale in grado di collegare le varie zone del paese, le imprese faranno più fatica a consegnare i loro prodotti incorrendo in dei costi - di tempo, per fare un esempio - maggiori. Lo stesso vale per l’istruzione e per la sanità:

 è proprio una forza lavoro che ha accumulato capitale umano e allo stesso tempo è in salute che permette a queste imprese di funzionare e di poter fare profitti.

 Il deterioramento dei servizi pubblici ha poi dei risvolti politici. L’insoddisfazione della popolazione può portare a un aumento dei consensi per i partiti o istanze populisti, come dimostra il caso Brexit.

Durante la campagna referendaria, infatti, uno degli slogan più in voga del “Vote Leave” era proprio che fuoriuscire dall’Europa avrebbe garantito maggiori risorse per l’NHS, cioè il Sistema Sanitario Britannico.

Ovviamente, quando Johnson e i sostenitori della Brexit sono arrivati a Nr. 10 Downing Street, la situazione non ha fatto altro che peggiorare.

 

La tendenza al monopolio: dal potere economico a quello politico.

Il secondo aspetto è quello della tendenza al monopolio e oligopolio. Uno studio accademico ha preso in considerazione le aziende americane tra il 1955 e il 2016 andando a misurare l’aumento del” mark up”, cioè la differenza tra il costo di produzione di un prodotto e il suo prezzo finale di vendita al consumatore.

L’andamento dei “mark up” rappresenta un buon indicatore della tendenza all’oligopolio/monopolio.

I risultati dello studio mostrano che dopo una fase di stallo tra il 1955 e il 1980, i mark up sono andati aumentando, con una crescita concentrata in particolare nella coda della distribuzione, cioè nelle aziende di più grandi dimensioni, per dirla in modo semplice.

Secondo un report del “Brooking Institute”, questa tendenza è destinata a peggiorare a causa delle nuove tecnologie.

Tra i motivi c’è il cosiddetto effetto network.

 Questo si verifica quando un servizio diventa più appetibile con l’aumentare del numero degli utenti: più persone lo utilizzano, più il suo valore cresce per tutti.

 

Un esempio è fornito non solo dai social media, ma anche dai provider di musica e intrattenimento.

Se utilizzo “Spotify”, ad esempio, e il numero di utenti è molto basso, le raccomandazioni di Spotify non soddisfano i miei gusti perché ha a sua disposizione un numero limitato di dati.

Al contrario, quando il numero di utenti aumenta, attraverso degli algoritmi che riescono a raggruppare utenti con gusti simili, la piattaforma è in grado di fornire raccomandazioni più accurate, garantendo un’esperienza migliore per l’ascoltatore.

Poiché questo meccanismo dipende dal numero di utenti che lo utilizzano, questo porta a dinamiche che distorcono la concorrenza e creano barriere all’entrata.

 

La discussione sulle implicazioni economiche della tendenza all’oligopolio o monopolio sono enormi, ma in questo caso è più cocente concentrarci su come il potere economico influenza altre forme di potere all’interno della società.

 

In primo luogo il” potere di lobbying “di queste aziende sulla politica - e anche sul settore accademico.

 Le grandi aziende possono infatti influenzare i legislatori, grazie al potere che hanno dal punto di vista economico e alle eventuali ricadute economiche che un loro disimpegno potrebbe avere.

Questo porta a legislazioni che sono fatte appositamente per fornire un vantaggio alle grandi imprese - o a proteggerle da determinate spinte nella società - andando quindi ad aumentare ancora di più il potere economico.

 

Uno dei casi più eclatanti è quello degli “Uber Files”, migliaia di documenti interni trapelati a giornalisti, che hanno rivelato tattiche aggressive da parte di “Uber” per consolidare la propria presenza nei mercati internazionali tra il 2013 e il 2017.

 L’azienda avrebbe infatti fatto pressione su vari governi, tra cui quello francese.

 La corrispondenza tra Uber e l'allora ministro dell'Economia durante il governo Valls “Emmanuel Macron”, poi diventato Presidente della Repubblica, ha suscitato particolare indignazione, tanto da spingere le opposizioni a chiarimenti.

Secondo i documenti emersi, “Macron” si sarebbe impegnato a sostenere Uber contro le resistenze dei sindacati dei tassisti, negoziando direttamente con i leader dell'azienda.

 

Secondo le mail, anche economisti sarebbero stati coinvolti in questo scandalo tra cui il compianto Alan Krueger”, ex Consigliere Economico alla Casa Bianca durante l’Amministrazione Obama.

 

Un altro caso riguarda la crisi climatica.

Secondo i dati del “Carbon Majors Database”, sono 57 le imprese che da sole sono responsabili dell’80% delle emissioni di CO2 dal 2016.

Tra queste ci sono i nomi di imprese importanti nel campo dell’energia come ExxonMobil, Shell, BP.

 Ma questo impatto devastante sulla crisi climatica è mediato dall’attività di lobbying che queste imprese fanno e dal loro controllo dei media.

Un esempio recente è fornito da un’inchiesta del “The Guardian”. Secondo il giornale britannico, le grandi compagnie petrolifere avrebbero fatto pressione e lavorato dietro le quinte assieme ai legislatori di alcuni Stati degli USA per inasprire le pene per coloro che protestano per la crisi climatica.

 

Inoltre, sono gli stessi dirigenti delle aziende inquinanti a detenere quote delle compagnie, proseguendo quindi con il “business as usual” rispetto agli investimenti necessari per la transizione ecologica.

 

Il secondo aspetto riguarda invece gli equilibri nel mercato del lavoro, in particolare nel rapporto coi sindacati.

 L’esempio svedese è paradigmatico: il sistema che ha portato a una prosperità diffusa ed egualitaria nella Svezia del dopoguerra si basava appunto su una forte presenza dei sindacati che, grazie al loro potere contrattuale, potevano garantire alti salari e tutele nei confronti dei lavoratori.

 

Nella situazione odierna, invece, i sindacati sono sempre più deboli.

Tra i motivi di questa debolezza, ci sono anche le pressioni fatte da parte delle grandi imprese contro la sindacalizzazione dei propri lavoratori. Negli Stati Uniti, i tentativi di sindacalizzare i “magazzini Amazon” da parte dei lavoratori sono stati ostacolati con pratiche illegali e intimidatorie, proiettando ad esempio slogan anti-sindacali attraverso gli schermi dei computer e impedendo ai lavoratori di parlare del tema durante l’orario di lavoro.

Non è un caso: da anni infatti Amazon viene accusata di condizioni di lavoro insostenibili per i lavoratori che tendono a licenziarsi anche in posti dove le opportunità di lavoro sono risibili.

 

Il problema non riguarda solo Amazon.

 Anche “Elon Musk” ha dichiarato che la sindacalizzazione crea un sistema di “servi e signori” mentre le indagini mostrano come sia i ritmi di lavoro sia le condizioni a cui sono sottoposti i lavoratori delle sue aziende siano insostenibili.

 

Questi tentativi di ostacolare i sindacati hanno appunto delle conseguenze non trascurabili dal punto di vista sia della disuguaglianza salariale sia del benessere dei lavoratori.

 Mentre la ricerca sottolinea l’importanza che hanno i sindacati nel negoziare salari più elevati riducendo le disuguaglianze, oggi la situazione è profondamente cambiata:

 secondo i dati Oxfam, nelle 350 più grandi imprese statunitensi la retribuzione di un amministratore delegato è aumentata in media del 1200% tra il 1978 e il 2022, superando il tasso di aumento dei salari.

 

Il controllo sui media: social e no.

Un elemento centrale nella crescente influenza delle grandi aziende e nella conseguente erosione delle democrazie è il controllo che queste esercitano sui media, sia quelli tradizionali sia i social media.

In particolare, i social network hanno radicalmente trasformato il modo in cui l'informazione viene prodotta, diffusa e consumata.

Piattaforme come Meta, TikTok, Twitter (ora X), YouTube e Instagram hanno un'influenza enorme sul discorso pubblico globale, e la concentrazione del potere nelle mani di poche multinazionali che gestiscono queste piattaforme rappresenta una minaccia diretta alla pluralità dell'informazione e alla qualità del dibattito democratico.

 

Uno degli aspetti più preoccupanti è che i social media non si limitano a diffondere informazioni:

amplificano divisioni politiche e sociali.

Questo effetto è dovuto principalmente agli algoritmi di raccomandazione che privilegiano contenuti emozionali, polarizzanti o estremi, poiché tendono a generare maggiori interazioni.

 I ricercatori hanno osservato che piattaforme come Facebook tendevano a privilegiare i post che provocano rabbia:

 l'algoritmo assegna un peso più elevato alle reazioni di rabbia rispetto ai "like", aumentando così la diffusione di contenuti controversi.

 Anche i media tradizionali hanno alimentato questa dinamica.

Nel libro “Network Propaganda “(2018), i ricercatori del “Berkman Klein Center hanno analizzato l'ecosistema mediatico statunitense, evidenziando un'asimmetria:

 mentre i media progressisti rimangono più vicini a fonti centriste, quelli di destra, come “Fox News”, adottano un approccio più estremista e fazioso.

 

Uno studio sulle proteste negli Stati Uniti, inoltre, supporta la tesi dell'“amplificazione della destra”, secondo la quale l'infrastruttura sociale e tecnologica dei social media conferirebbe una maggiore visibilità ai contenuti conservatori.

 

Nonostante gli sforzi dichiarati per combattere la disinformazione, le grandi aziende tecnologiche che gestiscono queste piattaforme, come Meta e X, hanno spesso dimostrato una certa reticenza a prendere misure efficaci. In molti casi, infatti, non hanno alcun incentivo economico a farlo: la viralità di contenuti controversi, falsi o divisivi genera più traffico, il che si traduce in maggiori introiti pubblicitari per le piattaforme.

O, in altri casi, a utilizzare le piattaforme per determinati scopi politici.

 Il caso paradigmatico è l’acquisizione del social Twitter, ora X, da parte di Elon Musk.

Questa acquisizione ha sollevato preoccupazioni per l'indipendenza e la trasparenza della piattaforma, soprattutto alla luce del suo approccio permissivo verso la moderazione dei contenuti.

La visione di Musk, che promuove la "libertà di parola assoluta", ha spinto molti a temere un aumento della disinformazione e della retorica violenta sulla piattaforma.

Come mostrano i dati, infatti, l’utilizzo di termini offensivi è aumentato considerevolmente dopo l’acquisizione, portando però a una fuga degli investitori.

Musk non ha poi nascosto le sue simpatie per la destra, arrivando a lanciare la candidatura, poi fallita, di “Ronan De Santis” alle primarie repubblicane proprio con uno “Space di Twitter”.

 

Un altro esempio di questa tendenza si è verificato con l'acquisizione del “The Washington Post” da parte di Jeff Bezos”, fondatore di Amazon, nel 2013.

Sebbene Bezos abbia affermato di non interferire con le linee editoriali del giornale, l'acquisizione ha sollevato interrogativi sul crescente controllo delle élite tecnologiche sui media tradizionali.

Se per anni Bezos è rimasto abbastanza in disparte riguardo le questioni politiche, nel corso degli ultimi anni è intervenuto maggiormente, innescando ad esempio uno scambio acceso con la Casa Bianca sul ruolo dei profitti delle aziende nella dinamica dell’inflazione e sull’aumento delle imposte, tanto che recentemente il “The Washington Post” - a ragione o torto - è tornato sull’argomento.

 

L’acquisizione di media da parte di miliardari non è un fenomeno esclusivo degli Stati Uniti.

In Europa - in particolare nel Regno Unito e in Italia - grandi gruppi economici e imprenditori con legami stretti con il potere politico detengono una quota significativa dei principali giornali e canali televisivi:

basti pensare al caso Berlusconi in Italia o all’impero creato da Murdoch.

Ciò porta a un ulteriore indebolimento del pluralismo.

In una situazione di legami sempre più stretti tra il mondo dell’informazione e quello dell’economia, il ruolo dei media sembra scivolare sempre di più verso l’essere una cassa di risonanza per il padrone di turno, più che una fonte di informazione.

 

Nessuna azienda è un’isola.

Quanto detto finora non deve far pensare che l’obiettivo di un’impresa non sia, effettivamente, fare profitti.

Al di là dell’eterogeneità che si può trovare, il fine ultimo di un’azienda resta quello - a dire il vero un po’ generico - di vendere i propri prodotti. Non solo:

 le grandi aziende hanno lati positivi.

Sappiamo che sono le grandi aziende a poter puntare di più sull’innovazione e quindi ad avere un maggior impatto sia sulla crescita economica sia sul benessere delle persone.

Inoltre, proprio in virtù di questo, sono sempre le grandi aziende a poter fornire, in linea teorica, posizioni e salari competitivi per la forza lavoro.

 

Sulle grandi aziende è quindi necessario trovare un fragile equilibrio che tenga conto sia dei loro effetti benefici sia del rischio che l’accentramento di potere economico e politico provoca.

Ma non tocca alle aziende trovare questo equilibrio, quanto alla politica che può e deve intervenire in maniera più ambiziosa, orientando attraverso i suoi strumenti gli incentivi al funzionamento delle aziende e in generale dei mercati.

 

Per fare un esempio concreto, recentemente un lavoro di studiose italiane dell’Università di Torino ha evidenziato come il mercato abbia cominciato a ritenere rischioso investire in aziende inquinanti dopo gli accordi di Parigi.

Questo, spiegano le ricercatrici, è dovuto alle aspettative degli agenti riguardo l’impegno dei legislatori nel contrastare la crisi climatica.

La politica e l’opinione pubblica quindi possono influenzare i comportamenti delle aziende e dei mercati.

Anche in questo caso è necessario non essere troppo ottimisti.

Abbiamo visto come le grandi imprese possono esercitare pressione sui legislatori attraverso attività di lobbying e sulla società attraverso social media e media tradizionali.

Come riuscire ad arginare questi fenomeni sarà uno dei problemi di cui discutere se vogliamo salvaguardare i processi democratici.

 

Logistica capitalistica

dell’”AIg.

 

Concetticontrastivi.org – (10 Maggio 2025 ) - Marco Guastavigna – ci dice:

 

La tesi di fondo per un’analisi critica dei dispositivi di intelligenza artificiale generativa, andando oltre il sensazionalismo, ruota attorno all’idea che essi siano prioritariamente infrastrutture della logistica della conoscenza e dell’istruzione, profondamente radicate e coerenti con i rapporti di produzione capitalistici e una visione del mondo neoliberale.

La loro funzione principale non è quella di “comprendere” o “pensare”, ma di catturare, modellizzare e riproporre la conoscenza collettiva trasformandola in una risorsa economica da sfruttare per il profitto degli oligopoli che li controllano. Questa infrastruttura tecnologica costruisce cultura, “fa mondo”, pone vincoli e viola diritti.

 

I concetti a supporto di questa tesi sono molteplici e si intersecano:

 

Natura Tecnica e Epistemologia dei Dispositivi:

Sono definiti “macchine statistico predittive addestrate con dataset”, che operano su una matrice probabilistica.

Questi dispositivi imparano a raggiungere esiti o risultati senza comprendere nulla.

La definizione di intelligenza si attesta sulla “capacità di produrre cambiamento in un ambiente sulla base di dati che raccoglie”, dimostrandosi efficiente ed efficace nel raggiungere questi esiti, a differenza dei sistemi esperti basati su logiche deduttive che si sono rivelati fallaci.

L’analisi si concentra sugli esiti dei processi di computazione, non sui processi di ragionamento o comprensione.

Questa idea, che risale al test di Turing, attraversa la storia dei dispositivi digitali.

Sono visti come una “scorciatoia”.

Il concetto di “comunicazione artificiale” è proposto come etichetta più precisa rispetto a “intelligenza artificiale”.

Linguaggio, Marketing e Opacità:

Le espressioni come “intelligenza artificiale generativa” sono in primo luogo linguaggio del marketing commerciale, industriale e militare.

 Questi termini creano una “nebulosità” che impedisce l’analisi critica.

È fondamentale “decostruire” questo linguaggio e uscire dalla fase in cui si pensa con le parole degli altri.

I dataset utilizzati per addestrare queste macchine sono per lo più opachi, e non si conosce il loro contenuto.

Logica Prestazionale e Impatto Socio-Economico:

Il modello prevalente veicola una “visione prestazionale dell’intelligenza”, che guarda ai risultati anziché ai processi.

 Questo modello di intelligenza è descritto come “abilista e competitiva”, misurata in termini di efficienza, efficacia e velocità.

Questa visione è “coerente con i rapporti di produzione capitalistici” e veicola “l’idea neoliberale” del mondo.

Tale modello prestazionale si è già ampiamente diffuso anche in contesti come la scuola attraverso test e approcci.

Rappresentano la “forma attuale della cattura e dello sfruttamento della conoscenza collettiva”.

 Il linguaggio naturale viene trasformato in “risorse economiche di mercato finalizzate al profitto”.

 I modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) sono chiusi e “da utilizzare per il profitto”.

Sono controllati da oligopoli e costituiscono una risorsa che privilegia il nord del mondo dal punto di vista geopolitico, cognitivo e culturale.

Il loro funzionamento si basa sul “lavoro invisibilizzato”, il “microlavoro digitale taschificato”, svolto da persone retribuite in modo “disonorevole, non dignitoso” e allocate “soprattutto nel sud del mondo” al servizio del nord del mondo.

Hanno un fortissimo impatto ambientale, dovuto ai data center (“cloud”) che consumano enormi quantità di energia e possono devastare i luoghi.

Incorporano pregiudizi (bias) derivanti dai dataset.

Nel mercato dell’attenzione, vengono usati per produrre contenuti effimeri o ideologizzati al fine di catturare l’attenzione (per marketing, pubblicità, o per generare conflitto), portando a una “poverizzazione del pensiero”.

Rapporto Umano-Macchina e Implicazioni Sociali:

Si confronta il concetto di rapporto complementare (come gli assistenti matematici storici) con il principio della sostituzione, particolarmente preoccupante nell’istruzione, dove si promuove la riduzione dello sforzo di studio a favore di materiali di sintesi prodotti dalle macchine.

L’adozione di questi strumenti nell’istruzione rischia di creare “famiglie premium e studenti premium”, accentuando le disuguaglianze nell’accesso a percorsi formativi basati su questi dispositivi.

Comprendere e decostruire questi dispositivi è una ragione di cittadinanza, necessaria per partecipare in forma collettiva alla vita associata.

La loro integrazione in piattaforme comuni (come WhatsApp) rende la disconnessione un “meccanismo molto costrittivo” che viola un approccio etico e cattura abitudini e dati.

Necessità della Critica e Ricerca di Alternative:

È necessario un atteggiamento critico assoluto e resistere all’intelligenza artificiale.

L’approccio “antifascista” proposto da “McWill “non implica che l’IA sia fascista, ma che la sua pseudo-neutralità statistica può essere usata per giustificare scelte autoritarie e la riduzione dei diritti.

Il dibattito non deve essere “referendario” (sì/no) senza un’analisi e una decostruzione approfondite dei meccanismi sottostanti.

È fondamentale diffondere la consapevolezza che esistono “apparati digitali diversi da quelli estrattivi di tipo capitalistico”, basati sulla sorveglianza e la manipolazione.

 Esistono dispositivi “conviviali”, fondati sulla condivisione cooperativa e mutualistica della conoscenza, che pongono il problema della sostenibilità e spingono verso l’autonomia dell’utente.

In sintesi, la tesi centrale è che l’”IA generativa”, nella sua incarnazione attuale, non è uno strumento neutro, ma un potente veicolo di logiche capitalistiche e neoliberali che opera come infrastruttura di cattura e sfruttamento della conoscenza globale, con significativi impatti sociali, economici e politici che richiedono un’analisi critica e una resistenza attiva.

L’evoluzione della logistica della conoscenza sta profondamente ridefinendo il rapporto tra istruzione e conoscenza.

 

Il relatore nel testo pone la logistica della conoscenza e dell’istruzione come il tema centrale di interesse, uscendo dall’illusione che l’istruzione sia l’insieme più ampio e la conoscenza un suo sottoinsieme.

Secondo questa prospettiva, l’istruzione è da tempo, e probabilmente lo è sempre stata, un sottoinsieme della conoscenza, e la logistica della conoscenza sta cambiando profondamente a livello globale, non solo per il singolo individuo.

 La logistica della conoscenza e dell’istruzione si riferisce a come un’infrastruttura di modelli tecnologici costruisce cultura, crea il mondo, pone vincoli e viola diritti.

 

Nel contesto di questa evoluzione, i dispositivi di intelligenza artificiale generativa (o “cosiddetta intelligenza artificiale”) giocano un ruolo significativo. Questi dispositivi si basano su meccanismi probabilistici e computazione statistica, non sulla comprensione.

Vengono visti come una “scorciatoia” e la loro logica si attesta sul meccanismo probabilistico perché si è dimostrato il più efficiente nel raggiungere esiti basandosi sulla raccolta di dati.

 

Un aspetto cruciale di come questi dispositivi ridefiniscono il rapporto è che rappresentano la forma attuale della cattura e dello sfruttamento della conoscenza collettiva.

 Essi catturano, modellizzano e ripropongono la conoscenza, trasformandola in termini di modello e quindi di generazione.

Questo avviene spesso attraverso l’uso di dataset che sono per lo più opachi. Questa cattura della conoscenza avviene a fini di profitto ed è coerente con i rapporti di produzione capitalistici.

 

La visione dell’intelligenza veicolata da questi dispositivi è prestazionale, misurata in termini di efficienza, efficacia e velocità.

Questo si riflette in un’idea dell’uomo la cui capacità è misurata negli stessi termini, promuovendo un’idea di intelligenza “abilista” e competitiva, che si allinea con un’idea neoliberale del mondo.

 

Questa visione prestazionale ha un impatto diretto sull’istruzione.

 Il modello prestazionale, abilista e competitivo è già ampiamente diffuso nella scuola, presente in molti test e approcci didattici.

 Inoltre, nel mercato dell’istruzione (che è un sotto segmento del mercato della conoscenza), stanno comparendo dispositivi “pret-à-porter” rivolti a insegnanti e studenti.

Questi strumenti offrono moduli specifici per attività come la produzione di slide o mappe concettuali.

 

Sorge la preoccupazione per il principio della sostituzione, ovvero la possibilità di ridurre l’impegno e la fatica dello studio a favore dell’acquisizione di materiali di sintesi o schematizzazione prodotti da questi dispositivi.

Molti professionisti sembrano disponibili ad accettare queste soluzioni pre-confezionate, richiedendo materiali già pronti.

Questo solleva interrogativi sul rapporto dei docenti con la propria professione e vocazione civile.

 

L’affermarsi di un mercato dell’istruzione basato sull’efficienza e sull’abilismo potrebbe portare alla configurazione di famiglie e studenti “premium”, ovvero coloro che per ragioni culturali, economiche o di altro tipo hanno le risorse da investire in processi di acquisizione tramite questi strumenti, potenzialmente acuendo le disuguaglianze.

Infine, le fonti sottolineano la necessità di un approccio critico.

Il linguaggio che definisce questi dispositivi, come “intelligenza artificiale generativa” o “il digitale”, è spesso un linguaggio di marketing commerciale, industriale e militare che va decostruito.

Il termine “digitale” come sostantivo, pur essendo comodo, nasconde complessità e favorisce l’idea di unicità dei dispositivi a matrice capitalistica che catturano conoscenza per profitto.

È fondamentale resistere e applicare un atteggiamento critico, analizzando non solo l’esperienza dell’utente ma anche i meccanismi sottostanti e l’impatto sul sistema della conoscenza.

Esistono, tuttavia, anche apparati digitali diversi da quelli estrattivi capitalistici, basati sulla condivisione cooperativa e sull’autonomia dell’utente, che offrono una logica diversa.

Certamente.

Basandosi sulle informazioni fornite nelle fonti, l’evoluzione della logistica della conoscenza sta profondamente ridefinendo il rapporto tra istruzione e conoscenza.

Il relatore nel testo pone la logistica della conoscenza e dell’istruzione come il tema centrale di interesse, uscendo dall’illusione che l’istruzione sia l’insieme più ampio e la conoscenza un suo sottoinsieme.

Secondo questa prospettiva, l’istruzione è da tempo, e probabilmente lo è sempre stata, un sottoinsieme della conoscenza, e la logistica della conoscenza sta cambiando profondamente a livello globale, non solo per il singolo individuo.

 La logistica della conoscenza e dell’istruzione si riferisce a come un’infrastruttura di modelli tecnologici costruisce cultura, crea il mondo, pone vincoli e viola diritti.

 

Nel contesto di questa evoluzione, i dispositivi di intelligenza artificiale generativa (o “cosiddetta intelligenza artificiale”) giocano un ruolo significativo.

 Questi dispositivi si basano su meccanismi probabilistici e computazione statistica, non sulla comprensione.

Vengono visti come una “scorciatoia” e la loro logica si attesta sul meccanismo probabilistico perché si è dimostrato il più efficiente nel raggiungere esiti basandosi sulla raccolta di dati.

 

Un aspetto cruciale di come questi dispositivi ridefiniscono il rapporto è che rappresentano la forma attuale della cattura e dello sfruttamento della conoscenza collettiva.

Essi catturano, modellizzano e ripropongono la conoscenza, trasformandola in termini di modello e quindi di generazione.

 Questo avviene spesso attraverso l’uso di dataset che sono per lo più opachi. Questa cattura della conoscenza avviene a fini di profitto ed è coerente con i rapporti di produzione capitalistici.

La visione dell’intelligenza veicolata da questi dispositivi è prestazionale, misurata in termini di efficienza, efficacia e velocità.

Questo si riflette in un’idea dell’uomo la cui capacità è misurata negli stessi termini, promuovendo un’idea di intelligenza “abilista” e competitiva, che si allinea con un’idea neoliberale del mondo.

 

Questa visione prestazionale ha un impatto diretto sull’istruzione.

 Il modello prestazionale, abilista e competitivo è già ampiamente diffuso nella scuola, presente in molti test e approcci didattici.

Inoltre, nel mercato dell’istruzione (che è un sotto segmento del mercato della conoscenza), stanno comparendo dispositivi “pret-à-porter” rivolti a insegnanti e studenti. Questi strumenti offrono moduli specifici per attività come la produzione di slide o mappe concettuali.

 

Sorge la preoccupazione per il principio della sostituzione, ovvero la possibilità di ridurre l’impegno e la fatica dello studio a favore dell’acquisizione di materiali di sintesi o schematizzazione prodotti da questi dispositivi.

 

Molti professionisti sembrano disponibili ad accettare queste soluzioni pre-confezionate, richiedendo materiali già pronti. Questo solleva interrogativi sul rapporto dei docenti con la propria professione e vocazione civile.

 

L’affermarsi di un mercato dell’istruzione basato sull’efficienza e sull’abilismo potrebbe portare alla configurazione di famiglie e studenti “premium”, ovvero coloro che per ragioni culturali, economiche o di altro tipo hanno le risorse da investire in processi di acquisizione tramite questi strumenti, potenzialmente acuendo le disuguaglianze.

 

Infine, le fonti sottolineano la necessità di un approccio critico. Il linguaggio che definisce questi dispositivi, come “intelligenza artificiale generativa” o “il digitale”, è spesso un linguaggio di marketing commerciale, industriale e militare che va decostruito. Il termine “digitale” come sostantivo, pur essendo comodo, nasconde complessità e favorisce l’idea di unicità dei dispositivi a matrice capitalistica che catturano conoscenza per profitto. È fondamentale resistere e applicare un atteggiamento critico, analizzando non solo l’esperienza dell’utente ma anche i meccanismi sottostanti e l’impatto sul sistema della conoscenza. Esistono, tuttavia, anche apparati digitali diversi da quelli estrattivi capitalistici, basati sulla condivisione cooperativa e sull’autonomia dell’utente, che offrono una logica diversa.

Il modello prestazionale dell’intelligenza artificiale generativa (IA generativa) è strettamente legato alle logiche neoliberiste e contribuisce a rafforzare le disuguaglianze globali in diversi modi.

 

Modello Prestazionale e Logica Capitalista/Neoliberale:

Le fonti descrivono una “visione prestazionale” dell’intelligenza, non basata sulla comprensione o sui processi di ragionamento, ma sulla capacità di raggiungere risultati e produrre cambiamenti in un ambiente sulla base dei dati raccolti. Questa visione si focalizza sull’efficienza, sull’efficacia e sulla velocità.

Tale visione dell’intelligenza e il modello statistico-predittivo su cui si basa l’IA generativa (macchine statistico predittive addestrate con dataset opachi) vengono esplicitamente definiti come “più coerente con i rapporti di produzione capitalistici”.

L’investimento su questo modello è una scelta che “è la scelta più coerente con i rapporti di produzione capitalistici” e veicola “un’idea del mondo che… è l’idea neoliberale”.

Questo modello promuove un’idea dell’intelligenza che è “abilista e competitiva”. Questa logica prestazionale si è già diffusa ampiamente, anche in contesti come la scuola, attraverso test e approcci che valorizzano la performance.

Cattura della Conoscenza e Profitto:

Al centro della logistica della conoscenza (cioè il modo in cui l’infrastruttura tecnologica costruisce cultura e pone vincoli), questi dispositivi rappresentano la “forma attuale della cattura e dello sfruttamento della conoscenza collettiva”.

Trasformano l’insieme del linguaggio naturale (e non solo) in “risorse economiche di mercato” finalizzate al “profitto”.

I dispositivi digitali “estrattivi di tipo capitalistico” catturano la conoscenza, la trasformano in “pattern privatizzati”, e costruiscono i grandi modelli linguistici

(LLM) che sono chiusi e “da utilizzare per il profitto”.

Disuguaglianze Globali e Sfruttamento:

Il sistema si basa su “oligopoli”. Questi dispositivi di IA sono “oligopolistici” e costituiscono sostanzialmente “una risorsa che privilegia dal punto di vista geopolitico, ma anche dal punto di vista della supremazia cognitiva e culturale, il nord del mondo”.

Un aspetto fondamentale che rafforza la disuguaglianza è il “lavoro invisibilizzato”.

Molti dispositivi di IA (anche non generativa, ma il principio si estende) vengono addestrati attraverso il “micro l avoro digitale taschificato”.

Questo micro avoro consiste in micro azioni (come etichettare immagini) retribuite in modo “disonorevole non dignitosi”.

Questi “micro lavoratori” sono “allocati soprattutto nel sud del mondo ed è al servizio del nord del mondo”.

Questo lavoro umano è cruciale per l’addestramento e la verifica dei modelli, ma viene raramente riconosciuto.

Ci sono anche impatti ambientali significativi legati agli oligopoli dei server, che consumano enormi quantità di energia e possono avere effetti devastanti sui luoghi in cui sono insediati.

Nel campo dell’istruzione, il prevalere di questo modello basato sull’efficienza e sulla performance (abilista e competitiva) rischia di creare “le famiglie premium e gli studenti premium,” ovvero coloro che, per ragioni culturali, economiche o di altro tipo, possiedono le risorse per investire in processi di acquisizione basati su questi dispositivi, potenzialmente accentuando le disuguaglianze educative.

In sintesi, le fonti presentano l’IA generativa, nel suo modello prestazionale attuale, come profondamente intrecciata con il capitalismo estrattivo e il neoliberismo.

Questo si manifesta nella trasformazione della conoscenza collettiva in risorsa per il profitto degli oligopoli, nel rafforzamento della supremazia geopolitica, cognitiva e culturale del nord del mondo, e nello sfruttamento del lavoro invisibilizzato nel sud del mondo, oltre a potenziali nuove forme di disuguaglianza nell’accesso all’istruzione.

 Le fonti contrastano questo modello con dispositivi e approcci conviviali basati sulla condivisione cooperativa e mutualistica.

Possiamo delineare un percorso per sviluppare un approccio critico e alternativo all’intelligenza artificiale (IA).

 

Le fonti sottolineano innanzitutto la necessità di tale approccio a causa della natura e dell’impatto dei dispositivi attuali, in particolare quelli di IA generativa. Questi dispositivi si basano su un meccanismo probabilistico che si è dimostrato efficiente nel raggiungere esiti, ma imparano a fare cose “senza comprendere nulla”.

Vengono definiti come “macchine ingannevoli” che possono essere scambiate per esseri umani basandosi sugli esiti dei loro processi di computazione, non di ragionamento.

 L’intelligenza, in questa visione, è definita come la capacità di raggiungere esiti in un ambiente basandosi sulla raccolta di dati.

Questa impostazione si concentra sugli esiti e non sui processi.

Le fonti criticano fortemente il linguaggio e la narrazione dominante sull’IA generativa, definendoli sensazionalistici, nebulosi, manipolatori, e sostanzialmente un linguaggio del marketing commerciale, industriale e militare. È necessario uscire da questa fase in cui “pensiamo con le parole degli altri”.

 

Ecco alcuni elementi chiave per sviluppare un approccio critico e alternativo:

 

Decostruire il linguaggio e i concetti:

È fondamentale “decostruire” espressioni come “intelligenza artificiale generativa” e il concetto stesso di “digitale”, che è un aggettivo trasformato in sostantivo che nasconde una visione approssimativa e favorevole all’idea di unicità dei dispositivi capitalistici.

Dobbiamo appropriarci di un linguaggio che sia il più possibile critico, analitico e che esca dai luoghi comuni.

Approfondire la conoscenza e costruire un lessico critico: Le fonti suggeriscono di approfondire il campo ben oltre il sensazionalismo mediatico e l’impressione personale.

È utile studiare autori e ragionamenti che offrono nuove concettualizzazioni. Costruire un lessico e delle concettualizzazioni autenticamente utili significa che devono essere critiche e politiche.

Alcuni autori citati che offrono spunti sono Esposito (comunicazione artificiale), Natale (macchine ingannevoli, inganno benevolo, analisi degli esiti), Cristianini (scorciatoia, visione prestazionale dell’intelligenza), McWill (resistenza assoluta, approccio antifascista, pseudo neutralità statistica che può giustificare scelte autoritarie), Pasquinelli (macchine statistico-predittive, cattura e sfruttamento della conoscenza collettiva, coerenza con i rapporti di produzione capitalistici), e Casilli (microlavoro digitale taschificato, lavoro invisibilizzato).

Analizzare l’IA come “logistica della conoscenza”:

Questo è considerato il concetto più importante.

Si tratta di capire “come un’infrastruttura dei modelli tecnologici costruiscono cultura, facciano mondo, pongano vincoli, violino diritti, eccetera eccetera”.

 L’IA generativa è la forma attuale della “cattura e dello sfruttamento della conoscenza collettiva”.

Dobbiamo analizzare non solo cosa succede all’utente, ma “cosa questi dispositivi fanno sull’insieme, sulla globalità delle cose e in particolare della conoscenza”.

Riconoscere la natura politica ed economica dell’IA:

L’IA generativa non è l’intelligenza generale in assoluto, ma l’ultima fase di un’idea di macchine come assistenti esecutivi probabilistici.

 I dispositivi statistico-predittivi sono la scelta più coerente con i rapporti di produzione capitalistici.

L’IA è uno strumento di “cattura della conoscenza a fini di profitto”, legata al mercato dell’attenzione.

Promuove una visione prestazionale, abilista e competitiva dell’intelligenza e dell’uomo, veicolando un’idea del mondo neoliberale.

Può giustificare scelte autoritarie e ridurre i diritti.

I dispositivi oligopolistici privilegiano il nord del mondo dal punto di vista geopolitico, cognitivo e culturale.

Dobbiamo uscire dalla fase in cui siamo “prigionieri” dei luoghi comuni, finendo in posizione subalterna.

Considerare l’impatto sociale e ambientale:

Le fonti menzionano i pregiudizi (bias), il fortissimo impatto ambientale (giganteschi annidamenti di server che consumano energia), gli oligopoli, e il lavoro invisibilizzato del microlavoro digitale.

Questi sono aspetti cruciali da analizzare in un approccio critico.

Guardare oltre il paradigma dominante e cercare alternative:

Non dobbiamo pensare solo ai dispositivi a matrice capitalistica, che catturano conoscenza e costruiscono LLM chiusi da utilizzare per il profitto.

 È fondamentale “capire, diffondere che esistono apparati digitali diversi da quelli estrattivi di tipo capitalistico della sorveglianza per il mercato e per la manipolazione ideologica e politica”.

Esistono “dispositivi conviviali” che operano in una logica diversa, fondati sulla condivisione della conoscenza su base cooperativa, mutualistica, paritaria, che si pongono il problema della sostenibilità economica e ambientale, e che mirano a mantenere la piena autonomia per chi li utilizza.

In sintesi, sviluppare un approccio critico e alternativo all’IA richiede di andare oltre la superficie del sensazionalismo e del marketing, decostruire il linguaggio imposto, analizzare l’IA come un’infrastruttura politica ed economica legata alla logistica della conoscenza, comprendere i suoi impatti sociali e ambientali e, soprattutto, riconoscere e promuovere l’esistenza di apparati digitali alternativi basati sulla cooperazione, condivisione e autonomia.

 L’approccio critico non è solo una questione professionale per insegnanti, ma una ragione di cittadinanza per chiunque voglia partecipare alla vita associata.

Dobbiamo smettere di ragionare in termini referendari “sì versus no” senza aver costruito analisi e concettualizzazioni adeguate.

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