il nuovo secolo politico.

 

il nuovo secolo  politico.

 

 

La “Preghiera-Sfida” di Traoré

a Papa Leone XIV.

Conoscenzealconfine.it – (16 Maggio 2025) - Leopoldo Salmaso – ci dice:

 

Una “contro-omelia della liberazione” dall’Africa che alza la testa.

“A Sua Santità Papa Roberto Francesco.

Non le scrivo da un palazzo, né dalle comodità di ambasciate straniere, ma dal suolo della mia patria, la terra del Burkina Faso, dove la polvere si mescola al sangue dei nostri martiri e gli echi della rivoluzione sono più forti del ronzio dei droni stranieri sopra le nostre teste.

Non le scrivo come un uomo in cerca di approvazione, né come uno invischiato in convenevoli diplomatici. Le scrivo come un figlio dell’Africa, audace, ferito, indomito.

Ora lei è il padre spirituale di oltre un miliardo di anime, inclusi milioni qui in Africa. Lei eredita non solo una chiesa, ma una missione.

E in questo momento di transizione, mentre il fumo bianco aleggia ancora sui tetti del Vaticano, devo inviare questa lettera attraverso mari e deserti, oltre guardie e cancellate, direttamente al suo cuore, perché la storia lo esige, perché la verità lo impone, perché l’Africa, ferita e in rivolta, ci sta guardando.

Santità, noi africani conosciamo il potere della croce.

 Conosciamo gli inni, le preghiere, le litanie.

Abbiamo costruito chiese con mani callose e abbiamo difeso la nostra fede con il nostro sangue.

Ma conosciamo anche un’altra verità, una verità che troppi hanno preferito seppellire:

che la Chiesa a volte ha camminato al fianco dei colonizzatori, che mentre i missionari pregavano per le nostre anime, i soldati profanavano le nostre terre, che mentre voi predecessori parlavate del cielo, i nostri antenati erano incatenati sulla terra.

E anche ora, in questa cosiddetta era moderna, subiamo ancora le catene non del ferro, ma del silenzio.

Dell’indifferenza di giochi geopolitici che si svolgono in sacre oscurità.

 

Quindi chiedo, in nome delle madri che pregano sui pavimenti di terra battuta e dei bambini che frequentano il catechismo a stomaco vuoto: il suo papato sarà diverso?

Sarà lei il Papa che vede l’Africa non come una periferia, ma come il centro profetico?

Sarà il Papa che non si limita a visitare le baraccopoli per foto ricordi, ma che osa parlare con rabbia contro le forze che rendono permanenti quelle baraccopoli?

Vede, Santità, io sono un uomo forgiato dalla guerra, non dalla ricchezza.

Non sono stato rovinato dalle istituzioni occidentali per uso politico.

Non mi hanno insegnato la diplomazia a Parigi.

 Ho imparato la leadership in trincea, tra la gente, dove il dolore è maestro e la speranza è resistenza.

Guido una nazione che è stata emarginata dal mondo finché non ci siamo rifiutati di stare zitti.

Ci è stato detto che eravamo troppo poveri per essere indipendenti, troppo deboli per essere sovrani, troppo instabili per resistere.

Ma glielo dico con il tuono degli antenati nella voce:

 abbiamo smesso di chiedere il permesso di esistere.

 

Abbiamo smesso di implorare validazione da parte dei poteri che sfruttano i nostri minerali mentre predicano la moralità.

 E abbiamo smesso, assolutamente smesso, di accettare che i leader spirituali globali distolgano lo sguardo dalle grida dell’Africa perché la politica è scomoda.

Santità, non parlo ora solo per il Burkina Faso, ma per un continente troppo a lungo dominato.

 L’Africa non è un continente da compatire, siamo un continente di profeti.

 Profeti che sono stati incarcerati, esiliati e assassinati per aver osato sfidare l’impero.

E lei, ora che porta l’anello di San Pietro come simbolo, seguirà la via dei profeti?

O sarà anche lei prigioniero della politica?

 

Non abbiamo bisogno di altre banalità.

Non abbiamo bisogno di altri auguri e preghiere mentre le multinazionali occidentali estraggono uranio dal Niger, e oro dal Congo, sotto scorta armata.

Non abbiamo bisogno di neutralità diplomatica mentre i giovani africani annegano nel Mediterraneo fuggendo da guerre cui essi non hanno dato inizio, con armi che essi non hanno fabbricato.

Non abbiamo bisogno di dichiarazioni sdolcinate mentre la sovranità africana viene messa all’asta a porte chiuse a Bruxelles, Washington e Ginevra.

Ciò di cui abbiamo bisogno è un Papa che nomini l’Erode moderno, che tuoni contro gli imperi economici con la stessa audacia con cui la Chiesa un tempo tuonò contro il comunismo.

Un Papa che dica senza indulgenze che è peccato per le nazioni trarre profitto dalla distruzione dell’Africa.

Lei conosce gli insegnamenti di Cristo

. Sa che Lui rovesciò i tavoli dei cambiavalute.

 Sa che Lui disse “Beati gli operatori di pace” ma non disse mai “Beati i paci-finti”.

 

Quindi le chiedo personalmente: parlerà contro il silenzio della Francia e le sue operazioni segrete nel Sahel?

Condannerà i traffici di armi che alimentano guerre per procura nei nostri deserti e nelle nostre foreste?

Smaschererà l’avidità che si ammanta di carità?

La diplomazia che maschera l’imperialismo con colloqui di pace, perché lo vediamo succedere, lo viviamo.

Sua Santità, non le chiedo di essere africano.

Le chiedo di essere umano, di essere morale, di essere coraggioso, perché il coraggio, il vero coraggio, non è benedire i potenti.

È difendere i deboli pagandone il costo.

 

Mi permetta di parlare chiaro.

Il Vaticano possiede ricchezze inimmaginabili, arte senza prezzo, accesso oltre ogni confine.

Ma il vero potere non si misura in tesori nascosti dietro mura di marmo, il vero potere si misura nel coraggio di affrontare l’ingiustizia.

Anche quando si presenta vestito con un abito su misura, con credenziali diplomatiche e sorridendo nonostante i suoi peccati, Sua Santità, il mondo è sull’orlo del precipizio e l’Africa, questo continente martoriato e bellissimo, non si limita a guardare dal basso: ci stiamo sollevando.

 

Stiamo sanguinando, stiamo risalendo e osiamo porre domande che risuonano più forte del diritto canonico.

Dov’era la Chiesa quando i nostri presidenti sono stati rovesciati da mercenari spalleggiati dall’estero?

Dov’era la Chiesa quando i nostri giovani sono stati rapiti e indottrinati in guerre finanziate da nazioni che pretendono di essere forze di pace?

Dov’era la Chiesa quando le nostre valute sono crollate, quando il Fondo Monetario Internazionale ha soffocato le nostre economie?

Quando i nostri leader sono stati puniti per aver scelto la sovranità anziché la sottomissione?

Non ci dica di perdonare mentre la frusta è ancora nella mano del carnefice.

 Non ci dica di pregare mentre le nostre preghiere vengono ricambiate con attacchi di droni.

Non parli di pace senza nominare i profittatori della guerra.

 

Perché il silenzio, Santità, non è più santo e la neutralità non è più nobile.

Se lei deve essere il pastore di questo gregge globale, allora ascolti questo grido dalla polvere di Ouagadougou.

Anche noi siamo sue pecore. Ma non pascoliamo in silenzio nei campi, marciamo per le strade, moriamo in prima linea.

Risorgiamo dalle ceneri con il fuoco nelle ossa e le Scritture sulla lingua.

Non chiediamo carità, esigiamo giustizia. E la giustizia deve iniziare dalla verità.

 

La verità è che il cristianesimo in Africa è stato sia un balsamo che una spada.

 La verità è che la Chiesa ha nutrito i nostri spiriti senza riuscire a proteggere i nostri corpi.

 

La verità è che la redenzione senza riconoscimento è una mezza verità e le mezze verità non hanno mai guarito le nazioni.

Santità, ora lei siede sulla cattedra di San Pietro.

Ma ricordi, Pietro rinnegò Cristo tre volte prima che il gallo cantasse.

 Non permetta alla Storia di scrivere che la Chiesa ha rinnegato l’Africa ancora una volta.

Faccia sì che il gallo canti forte e chiaro in Vaticano.

Che svegli la coscienza di cardinali e re.

Che echeggi nei corridoi del potere, dove uomini in toga e uomini in uniforme barattano il silenzio con l’influenza.

Che annunci una nuova alba, non solo per la Chiesa, ma per il mondo.

Perché qui in Africa non temiamo le albe, le creiamo.

Siamo figli e figlie di Sankara, Lumumba, Nkrumah e Biko.

 

Portiamo le Scritture in una mano e l’onore, il ricordo dei rivoluzionari nell’altra.

Abbiamo imparato a pregare e protestare con lo stesso respiro.

E chiediamo: il suo papato camminerà con noi?

 Ci verrà lei incontro nel nostro dolore, non solo tra i banchi delle nostre chiese? Riconoscerà Dio nella nostra fame?

Cristo nel nostro caos, lo Spirito Santo nelle nostre lotte?

 

Perché se non è questo il tempo, è quello di Giuda, e se la Chiesa continua a predicare la pace ignorando la macchina dell’oppressione, in quale Buona Novella ci resta da credere?

Non lo dico con rabbia, ma con sacra urgenza.

Siamo un popolo al crocevia tra profezia e politica, e il tempo dell’Africa non si sta avvicinando, è qui.

 Stiamo riscrivendo la narrazione, rimodellando il futuro, rivendicando la dignità che ci è stata negata da secoli di dominazione straniera e di manipolazione spirituale.

E la Chiesa deve decidere da che parte stare: con i poteri forti qui, o con le persone che sanguinano.

 

Non scrivo questa lettera per condannare. La scrivo per invitarla, Santità, a una solidarietà più profonda, a una solidarietà che cammini a piedi nudi con i poveri, che osi dire la verità a Roma con la stessa audacia con cui lo fa in Ruanda, che ricordi i santi non solo per i miracoli, ma per il loro impegno per la giustizia.

 

Aspettiamo le vostre voci, non dai balconi, ma dalle trincee e dalle favelas. Dai campi profughi, da dietro le sbarre delle prigioni politiche dove la verità è incarcerata.

 

Perché solo quella voce, la vostra voce, può riscattare il silenzio. E se oserete pronunciarla, non solo l’Africa vi ascolterà, ma il mondo intero“.

Burkina Faso, figlio dell’Africa, servitore della sovranità.

(Capitano “Ibrahim Traoré”, presidente della transizione.)

(byeon.com/ibrahim-traore/).

(vcomevittoria.it/la-preghiera-sfida-di-traore-a-papa-leone-xi).

 

 

 

 

L’affare.

 Gognablog.sherpa-ghate.com – Lorenzo Merlo – (18 Maggio 2025) – ci dice: 

 

Un commento.

Si può pensare che un imprenditore di successo diventato politicamente potente possa ragionare e concepire la realtà e quindi la politica diversamente da come ha sempre fatto?

Il suo America first, espressione che contiene una storia profonda e una politica precisa, ha anche il potere di tenere a bada e accudire l’elettorato lasciato indietro dalle amministrazioni che l’hanno preceduto.

 

L’affare di Lorenzo Merlo.

 

L’amministrazione Biden, sotto il sommo controllo delle lobby finanziarie e dello stato profondo, ha tentato, forse per l’ultima volta nella storia, di sottomettere la Russia.

Un progetto che rappresentava l’ultimo anello di una catena messa in atto dagli statunitensi al fine di mantenere la loro egemonia mondiale mai così incerta.

In realtà, la Russia a sua volta non era che un tassello, anche in questo caso forse l’ultimo necessario per arrivare a contenere l’esplosione economica, quindi anche militare, della Cina.

Il lato B dell’idea di annichilire o guinzagliare la Russia e tenere a bada la Cina era, a dir poco, esiziale.

Come ho scritto in precedenza in altri due articoli (AUSA – Autarchici Stati Uniti d’America e Rischio manifesto) si trattava di due rischi.

 Il primo:

non vedere rinnovato il monopolio del controllo sul mondo, con le relative ricadute economiche a vantaggio statunitense, elemento a sua volta primario per garantire longevità e benessere americano (anche se non per tutti);

 il secondo,

forse di superiore importanza, l’eventualità di autarchia coatta, nel caso Russia, Cina e compagnia Brics avessero preso il controllo economico del mondo per poi approfittarne applicando la legge del taglione.

Desiderio in un certo senso legittimato dalla vergognosa collana di malefatte americane distribuite su tutta la geografia del mondo negli ultimi cent’anni.

Se gli elementi accennati delineano in qualche misura la ragione dei comportamenti introdotti da Biden e dai suoi pupari, di tutt’altro ordine sono quelli che, in poche settimane di lavoro del neoeletto Trump, si possono raccogliere in una precisa costellazione che si staglia, più lucente delle altre, nel firmamento della realtà.

L’America first di Trump, oltre a essere un perno dei suoi ragionamenti, è anche un diversivo, un mozzo intorno al quale far girare la giostra del suo luna park per scongiurare il rischio già citato di trovarsi in un paese costretto all’autarchia.

Per sua sorte, Putin e Xi Jinping, il primo per necessità, il secondo per cultura, pare, quantomeno in ambito internazionale, abbiano buttato a mare la retorica della sopraffazione e dell’esportazione di sé stessi, che ha aleggiato e che è atterrata troppe volte sul mondo navigando e volando su flotte e squadriglie travestite da missionari a stelle e strisce.

 

Il segno e l’ascendente del presidente grande grosso e biondo sono tra di loro identici: fare affari, fare affari.

 Scalzando in un colpo l’intera retorica moralistica e di controllo – quella che a Bruxelles il falso parlamento vende a poco prezzo, quella che ormai un popolo crescente ha capito non valere niente – il piano di lavoro di Trump non può che essere gradito a Est dell’antico Muro di Berlino.

Partiamo dallo sfondamento rugbistico che il biondo presidente ha compiuto sul campo di gioco della guerra ucraina.

Un modo di fare previsto anche dagli esperti della politica statunitense, in bretelle o tweed con Clarks, che è andato diretto al punto, cioè a negoziare con il dirimpettaio Vladimir i termini per un accordo di fine guerra.

 Non solo, se la meta portata a segno appena citata – tra l’altro rispettosa della promessa fatta ai suoi elettori di far finire il conflitto slavo-fratricida (checché ne dicano gli ucraini) – costituisce di per sé uno sconquasso geopolitico al pari di un’orca nel branco di foche, di pari scompiglio è stata l’esplicita estromissione dal tavolo degli accordi tanto di Zelensky, quanto dell’Unione Europea (attimo di pausa, che mi vien male solo a nominarla, a pensare a chi la guida e a constatare su che niente sta in piedi).

 

C’è Crozza in regia?

 Sì, perché l’indignazione indispettita che ha vestito la reazione di queste due figure – che in quanto a figure barbine sono maestre – aveva del divertente, anche forse un’anima alla Dario Fo, perché più che divertente era surreale.

Hanno alimentato la guerra fino all’ultimo poro senza perdere neppure un quanto di energia da devolvere al conflitto in tutti i modi in cui questa poteva materializzarsi:

armi, munizioni, carri, denari, tanto che pare perfino strano non abbiano mandato anche cristiani in mimetica.

 

Hanno dimenticato il nazismo ucraino, piazza Maidan, il “fuck the EU”, la guerra iniziata nel 2014, gli annosi avvertimenti di Putin in merito all’avvicinamento-accerchiamento Nato, hanno perciò timbrato a ceralacca l’inizio del conflitto nel 2021, e non hanno mai vacillato nel puntare il dito, anzi il jingle, su un solo punto, quello della diade invasore-invaso, come se la storia iniziasse in quel momento, come se non ci fosse altro da considerare.

Hanno stuprato i negoziati di Minsk che avrebbero potuto comportare la salvazione di un paese e di un popolo, e hanno tagliato la gola a quelli di Istanbul. Hanno sostenuto contrattacchi primaverili, tacendo poi sulla conseguente disfatta. Ne hanno fatte più di Bertoldo e ora si irritano per l’esclusione dai negoziati.

 Ma siamo sul palco di Casa Cupiello? 

Se ogni espressione umana ha una ragione, un’architettura che la sorregge, una biografia che ne necessita, quella che Trump sta mostrando al mondo, tenendo presente la sua matrice di uomo d’affari, avrebbe una possibile spiegazione.

 

Donald: Goodmorning dear Vladimir, how are you?

Vladimir: Dobroye utro. Khorošo. E tu?

D: Senti, Vladimir, facciamola breve, il tempo è denaro e così tante altre cose.

V: Ti sento in forma. Dimmi.

D: Allora: ti faccio uscire dalla guerra e per questo ti propongo un… cambio merce.

V: Sentiamo, purché l’Ucraina stia fuori dalla Nato e le terre conquistate sul campo rientrino nel confine della Federazione russa.

D: Lo sapevo. Si può fare.

Oltre al fatto che non so quanto la Nato possa ancora andare avanti. Per dire che forse è una preoccupazione eccessiva. Non abbiamo più a che fare con l’Alleanza Atlantica della guerra fredda, del dopo muro di Berlino e scioglimento del Patto di Varsavia.

V: Questo era chiaro da decenni, è carino ci siate arrivati.

D: Non fare troppo sarcasmo sennò usciamo dal seminato. Dunque, dicevo, più banalmente, la Nato non è più quella che fino a ieri sembrava potesse spaccare il mondo come e quando voleva.

V: Certo, le cose stanno cambiando proprio mentre ne stiamo parlando. Dimmi, cosa avevi in mente?

 

D: Ti tieni le terre conquistate e magari anche le intere regioni russofone del Donbass e, Nato forte o Nato debole, l’Ucraina non ne farà parte.

V: Immagino voglia per te la ricostruzione del Paese.

D: Beh, va da sé.

Tu non vuoi certo farlo, Donbass a parte naturalmente, e poi non vorrai mica che un affare di tale portata possa essere lasciato all’Unione Europea o all’Europa – non so neanche più come chiamare quel garbuglio senza bandolo – che non riesce a vedere la realtà, tanto che ancora vuole sostenere l’Ucraina fino alla vittoria. Ma come ragionano?

È questo il valore aggiunto delle donne che la guidano?

V: Sarcasmo net, avevamo detto.

D: Giusto.

Né sarcasmo, né distrazioni. Restiamo sul pezzo.

 Ricostruzione a parte, che ci tocca senza possibilità di alternativa, dunque, in questo nostro affare ha valore neutro, i giacimenti delle terre rare sotto il suolo ucraino, Donbass incluso, sono invece la cessione che, penso, tu sia costretto a fare.

V: Non potevi non passare questa strettoia.

Va bene, lo avevamo previsto. Si può fare, ma non senza contropartita.

 

D: Che sarebbe?

V: Non dirmi che a tua volta non l’hai messa in conto.

D: Ti riferisci alle sanzioni e ai beni bloccati?

V: Nientemeno.

D: Certo che era in conto. Anzi, scontato, ovviamente per quelli che fanno capo a noi.

V: Bene. Quasi quasi ti aiuto anche alle prossime elezioni.

D: Scherza poco che c’è davvero qualcuno che poi ci crede o che inventa le prove.

V: Giusto, viviamo in un cesto di vipere. Proseguiamo. Altro?

D: Eh, sì. Dunque, sono diversi punti.

V: Vai col primo.

D: Israele.

V: Immaginavo. Continua.

D: Azzeri ogni interferenza diretta o indiretta a favore dei palestinesi, di Hamas e di Hezbollah.

V: Cioè, dovrei mettere al guinzaglio l’Iran?

D: Nientemeno.

 

V: Non è come dirlo.

D: Certo, ma negli affari a questo punto si dice: sono problemi tuoi.

V: Conosco il criterio. Prosegui.

D: Significa che con Israele me la vedo io e basta.

Dopo tutto questi decenni di conflitto e instabilità, ritengo sia legittimo arrivare a sistemare la faccenda medio-orientale.

 È vero, i palestinesi sono stati espropriati della terra che abitavano e in quell’enclave, tirata fuori dal cilindro degli inglesi, si sono trovati gente estranea in tutto e per tutto.

Ma la storia ha ripetutamente dimostrato che a tutto ciò, ingiustizia o diritti a parte, lì e altrove nel mondo, non c’è soluzione equa.

 Dunque, fare capo alla pragmatica è praticamente divenuto un imperativo e soprattutto, per quanto possa apparire raccapricciante a molti europei, anche una modalità più saggia delle altre.

Tutta una premessa per dire che non resta che eliminare uno dei due contendenti… e sappiamo quale ho in mente.

 Ecco perché c’entrano le atomiche dell’Iran e perché il tuo impegno a smorzare certi entusiasmi anti-israeliani e anti-statunitensi è fondamentale.

 

V: Come, in sostanza, a suo tempo fece il binomio Clinton-Nato, con la Jugoslavia e con il Kosovo?

D: Diciamo che si possono evincere delle similitudini con la situazione israeliana. Soprattutto, per parlar sintetico e chiaro, fa ancora testo il “divide et impera”.

V: Beh, sei piuttosto franco.

D: Le carte che si giocano in un affare sono sempre sincere. E in questo caso non sto giocando a poker, dove il bluff vale come la verità. E poi le fregature le prendono solo gli affaristi sprovveduti.

V: Più è tutto in chiaro più gli Stati Uniti possono avviare il nuovo corso e, magari, anche il processo di riduzione del debito pubblico, ora himalayano.

D: Ok, ma lasciamo perdere ora questi dettagli. Torniamo a noi, all’Ucraina.

V: Va bene. Però avresti dovuto aggiungere che sotto quelle terre che vorresti sfruttare pare ci siano giacimenti da leccarsi i baffi.

D: Più che avrei dovuto, avrei potuto. Non è che devo dirti tutto.

V: Bene, restiamo sull’affare.

D: Con la Siria ti lascio carta bianca, noi ce ne laviamo le mani. Vedrai tu come sostenere gli interessi della tua federazione.

V: Lo facevo anche prima, quando avevate le mani in pasta.

D: Insomma, le cose sono diverse ora. Giriamo pagina, se no restiamo qui a cincischiare e farfugliare e la situazione non cambia.

 

V: È strano che non hai ancora citato la Cina e la paventata de dollarizzazione.

D: Adesso ci arriviamo.

Andare avanti a guerre non ci è più possibile. Il vostro multipolarismo è al momento troppo rigoglioso per pensare di affrontarlo in modalità classica.

 Noi prendiamo dall’Ucraina e dal Donbass le materie prime che ci interessano nella misura che concorderemo.

E la Russia, non la secca più nessuno.

 E anche con la Cina, fino a ieri spauracchio permanente, credo si potrà convivere e fare affari.

V: Bel progetto. E l’Europa?

 

D: Se intendi l’Unione Europea, che posso dire? È praticamente senza testa.

Durante tutta la sua esistenza sono emerse carenze che oggi stanno culminando in un crescente, forse inarrestabile, desiderio di sovranismo nazionale da parte dei suoi stati membri.

Qualcuno potrebbe dire che è sul letto di morte, anche se l’accanimento terapeutico potrebbe tenerla in vita ancora lungamente.

Più semplicemente, l’Europa non ha identità, quindi non ha sostanza, quindi non ha peso. Diciamo che non è una priorità occuparsi e preoccuparsi di cosa farà o dirà.

V: Non ti preoccupa che possa rientrare nel nostro raggio d’azione, che l’Eurasia possa diventare troppo potente?

D: Pensiero legittimo, ma lontano. Occupiamoci di quelli vicini.

 

V: Il dollaro è uno di questi.

D: Altroché, ma la creazione di una valuta alternativa è più lontana. E, aggiungo, certamente critica. In sostanza penso non convenga a nessuno tentare di sostituire il dollaro.

V: Al momento, non si tratta di sostituirlo. La politica Brics, e perciò anche la nostra, è di favorire gli scambi entro il mondo Brics con le relative valute locali e magari anche di crearne una comune, ma anche di continuare a dialogare con il dollaro.

D: È un problema di cui certamente tratteremo, ma che per la sua dimensione non può stare in questi accordi sul fine guerra ucraina. Come pure la questione artica, di pari portata. E poi, se non soprattutto, con tutto il rispetto, caro Vladimir, avrai ancora in te qualche goccia di sangue zarista, ma non puoi rappresentare l’intera politica Brics.

 

V: Avevo visto bene, sei in gran forma.

D: E non hai ancora visto cosa voglio fare a Gaza.

V: Beh, ho visto un breve video su cosa stai immaginando per quel tratto di costa mediterranea, mi ha colpito.

 Indignazione a parte, che mi sento costretto a lasciar fuori da questo nostro affare, in un certo senso, quel modo affaristico di fare che non guarda in faccia a un intero popolo, che ha piantato in testa il chiodo dei propri interessi “über alles”. Sarà un segno del nuovo paradigma geopolitico, come lo è il nostro multipolarismo rispettoso?

D: Puoi scommetterci. Business is business, il resto sono chiacchiere. Facciamo questo affare, per il prossimo si vedrà.

 

V: Vuoi dire che in affari non ci sono chimere?

D: Dotta sintesi, direi forse tipicamente russa, per quel poco che so. E aggiungerei che ci sono solo nelle ideologie.

V: Simpatico e operativo! Mi ricordi i tempi del Kgb, quando riuscivamo a costringere tutto l’infinito del mondo dentro lo scopo che ci eravamo prefissati.

D: Tempi d’oro per te. Anche allora c’era un popolo al quale non guardavate in faccia.

V: Allora non è vero che gli americani sono delle capre.

D: Eh, sì, per fare affari è meglio conoscere il nemico.

V: Però non sai che questo l’aveva già detto Sun Tzu.

D: Sun Chi?

V: Niente, non fa niente.

D: Ok. Ci vediamo a Riyad per i dettagli.

V: Oloroso.

Note:

(1. L’acronimo BRIC, risale al 2001. Esso deriva dalle iniziali dei paesi fondatori: Brasile, Russia, India, Cina. Nel 2010 si aggiunge il Sud Africa e l’acronimo muta in BRICS. Nel 2024 si uniscono all’Associazione altri Paesi. L’Indonesia nel fa parte dal 2025.)

 

 

 

 

Il Papa propone una mediazione

della fraternità.

Avvenire.it - Leonardo Becchetti- (venerdì 16 maggio 2025) – ci dice:

 

«Proprio sentendomi chiamato a proseguire in questa scia, ho pensato di prendere il nome di Leone XIV.

Diverse sono le ragioni, però principalmente perché il Papa Leone XIII, con la storica “Enciclica Rerum Novarum”, affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale;

 e oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro».

È stato lo stesso cardinal “Prevost”, nuovo pontefice, a spiegarci all’inizio del suo pontificato la scelta del suo nome.

L’ultimo Leone (XIII) aveva avviato di fatto con la “Rerum Novarum” la riflessione della dottrina sociale della chiesa sulla rivoluzione industriale, scendendo in campo con la logica della fraternità nello scontro tra libertà di mercato ed eguaglianza propugnata (allora con la violenza) dal movimento socialista.

 Il nuovo papa, abituato come Francesco per la sua storia di missione a vedere il mondo dalla prospettiva degli ultimi, sceglie il nome di Leone XIV perché ritiene che la dottrina sociale della chiesa debba riflettere delle Rerum Novarum dei nostri tempi legate al terremoto della rivoluzione digitale e dell’intelligenza artificiale.

Leone XIII era stato sensibile al grido di dolore e aveva riconosciuto le condizioni difficili del proletariato del tempo e il suo sfruttamento che generava salari ben distanti da una “giusta mercede”.

Ma aveva voluto chiarire subito che la violenza, la lotta di classe e l’abolizione della proprietà privata non erano il rimedio giusto.

Piuttosto, nella logica della fraternità e dell’intelligenza relazionale, ammoniva, era importante ricostruire il filo del dialogo tra capitale e lavoro e favorire alleanze orizzontali dei lavoratori nelle associazioni sindacali.

Leone XIV con tutta probabilità applicherà alle nuove questioni sul tappeto gli stessi principi e la stessa strategia, fondata sulla mediazione della fraternità.

Il problema della “giusta mercede” è e resta oggi di strettissima attualità per il fenomeno del lavoro povero e della “piena sottoccupazione”.

La sfida più temibile è quella dell’intelligenza artificiale che non è solo un aumento della velocità di circolazione delle conoscenze come quello prodotto dall’avvento dei motori di ricerca sulla rete, ma bensì un’accelerazione impressionante della capacità di rielaborazione delle conoscenze grazie al lavoro degli assistenti digitali. Siamo entrati dentro una grande rivoluzione di non riusciamo a calcolare tutte le conseguenze.

Quello che già sappiamo è che la produttività è aumentata in modo impressionante e si è in parte tradotta in benessere digitale fatto di “merci senza peso” per tutti, ma i divari tra lavoratori con alte e basse competenze tendono ad aumentare ancora di più.

La politica sarà fondamentale per evitare che queste diseguaglianze interne a ciascun paese alimentino ancor più populismi, complottismi e sfiducia nelle istituzioni minando la coesione sociale e la democrazia.

L’appello del pontefice e della comunità credente alla sensibilità delle coscienze degli attori in gioco e di tutti noi sarà decisivo.

 Nel migliore degli scenari possibili questo aumento di produttività può generare più benessere diffuso e riduzione dell’orario di lavoro (gli esperimenti di successo di settimane corte di quattro giorni di lavoro in aziende di punta sono ormai numerosi).

Ci sono tutte le potenzialità per puntare decisamente con questo di più di potenza alla qualità del lavoro (libero, creativo, partecipativo e solidale come chiedeva papa Francesco) aprendo spazi importanti alla domanda di benessere di chi arriva da paesi lontani e molto più poveri (e ci risolve il problema della mancanza di lavoro nella crisi demografica).

Il lavoro sul campo della comunità credente lascia intravedere le coordinate di una nuova sintesi di intelligenza relazionale alle sfide delle cose nuove.

 C’è spazio per una rivalutazione del lavoro di cura, la cui domanda è sempre più pressante di fronte al crescere del problema della non autosufficienza e degli anni di vita non in buona salute.

 Del diritto soggettivo alla formazione per cittadini e lavoratori di tutte le età come vera cura contro la trappola del lavoro povero nell’era dell’intelligenza artificiale.

Di forme di reddito di base di formazione e partecipazione che aiutano chi è scartato o espulso da processi sempre più veloci di distruzione e creazione di posti di lavoro a reinserirsi e ritrovare la dignità perduta.

C’è bisogno di potenziare i canali dei flussi di migrazioni legali che devono collegare in modo efficiente l’eccesso di domanda di lavoro nei paesi in crisi demografica con l’eccesso di offerta di lavoro (e di domanda di riscatto dalla povertà) dai paesi a basso reddito.

 C’è bisogno, sempre nella chiave dell’intelligenza relazionale, di percorsi discernimento e di accompagnamento di mentori e tutori per rendere efficaci orientamento e politiche attive.

Un papa americano che viene da Chicago (la patria dell’economia mainstream) ma è missionario e conosce bene il mondo dal punto di vista degli ultimi è la guida migliore è più autorevole per guidare un processo che tenga assieme progresso tecnologico e sfide sociali in questa fase così affascinante e difficile, piena di sfide per la democrazia e la pace.

 

 

 

 

Trump e l'America

a contratto.

 Avvenire.it - Giorgio Ferrari – (venerdì 16 maggio 2025) – ci dice:

 

Un uomo d’affari percorre a passo di carica l’area del Golfo Persico (o come già lo ha ribattezzato: il Golfo d’Arabia) munito di un’agenda sulla quale segnare puntigliosamente i buoni affari che va accumulando:

di qua un satollo carico di armamenti, di là una provvigione sulla futura estrazione di terre rare, di qua 600 miliardi pagabili a vista dal leader saudita “Mohammed bin Salman”, di là un incontro di gala con un ex tagliagole del Daesh (appena sei mesi fa, “Ahmad Al-Sharaa” era un jihadista con sulla testa una taglia di 10 milioni di dollari), ora rimesso a nuovo e vestito da damerino occidentale, pronto ad accogliere le imprese americane intenzionate a investire nel petrolio e nel gas della Siria del post-Assad.

Indubbiamente dotato, questo uomo d’affari.

Il suo tocco di Mida lo rende ad ogni giro di giostra sempre più ricco.

Ma c’è un piccolo problema:

quel tycoon dal ciuffo dorato è anche il presidente degli Stati Uniti.

Già, un trionfante Donald d’Arabia, che vagheggia di innalzare una Trump Tower anche a Damasco a completare quel mosaico di giganteschi menhir che celebrano la sua potenza finanziaria a Honolulu come a New York, a Las Vegas come a Mumbai, a Manila, a Istanbul.

Instancabile, Trump è poi volato a Doha per vendere ai qatariani aerei, tecnologia, armi.

Un nuovo diluvio di dollari.

In altre parole, siamo di fronte a una nuova dottrina americana, che antepone gli affari e gli accordi commerciali alla politica e alla diplomazia.

Addio alle guerre preventive, ai “regime change” neocon cari a George W.Bush e teorizzati da Donald Rumsfeld e Dick Cheney, e soprattutto addio all’ “exporting democracy” come cavallo di battaglia della politica estera americana.

La sola eliminazione di “Saddam Hussein” costò a Washington 700 miliardi di dollari e 4.400 caduti nelle forze armate americane.

Per non dire della débâcle politica con il ritiro dall’Afghanistan. Errori da mai più ripetere.

Donald d’Arabia ha tutt’altra intenzione.

La pace, sostiene, produce profitti.

Non sappiamo se Trump abbia mai letto “La favola delle api”, il poema satirico di “Bernard Mandeville”, ma di fatto si comporta come quell’amarissimo apologo del 1705:

sono i vizi dei privati, la loro brama e ingordigia a generare le virtù collettive. Qualcuno ha definito la nuova dottrina trumpiana «capitalismo clientelare».

E sicuramente c’è del vero.

Ma è vero anche –va dato atto – che la foga di risolvere tutto con una serie di transazioni d’affari certi frutti li sta dando.

Gli Accordi di Abramo, per cominciare.

Siglati cinque anni fa a Washington fra Israele, Emirati Arabi e Bahrein erano la prima pietra di quella Pax Americana perseguita non senza intoppi e interruzioni da Donald Trump durante il suo primo mandato, che prevedeva il riconoscimento di Israele da parte delle nazioni arabe che per mezzo secolo sono state ostili nei confronti dell’unica democrazia del Medio Oriente.

Accordi che si sono congelati dopo l’assalto di Hamas del 7 settembre 2023.

Il progetto tuttavia rimane, ed è un capovolgimento copernicano rispetto all’appeasement dell’amministrazione Obama:

l’avvicinamento di Israele alle monarchie del Golfo è il più potente dei richiami per creare una rete sunnita (originariamente in funzione anti-iraniana) ed anche per fare affari.

E che qualcosa nella geografia del Medio Oriente sia profondamente cambiata è sotto gli occhi di tutti:

dall’intesa imminente sul nucleare iraniano ai conciliaboli segreti con Hamas, dalla plateale messa in mora delle incontinenze di Netanyahu (Trump non ha creduto di fare tappa in Israele), fino al gioco di sponda con la Turchia di Erdogan.

Tutto cambia, anche la presenza navale russa nella base siriana di Latakia, strappata a “Bashar al-Assad “in cambio della sua integrità fisica.

Anche i rapporti con Teheran beneficiano di un cambio di passo, ora che la Mezzaluna sciita – un corridoio che si stendeva da Teheran al Mar Mediterraneo passando per Baghdad, Deir ez-Zor, Palmira, Damasco, Latakia garantendo all’Iran una fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente – non è che un ricordo, dopo le robuste punizioni inflitte da Israele a Hezbollah in Libano e in Siria e agli Houthi nello Yemen.

«L’America non ha nemici permanenti – ha detto Trump a proposito dell’Iran –. Siamo vicini a un accordo sul nucleare, siamo in trattative molto serie per una pace a lungo termine».

In cambio, si capisce, della revoca delle sanzioni a Teheran.

Un po’ è propaganda, un po’ c’è del vero.

 «Stiamo lavorando duramente a Gaza – aggiunge Trump –.

Gaza è stata un territorio di morte e distruzione, ma gli Stati Uniti interverranno e diventerà una “zona di libertà”».

Diventerà: per ora a Gaza continua uno scempio senza fine.

Ma gli affari reclamano:

 «Abbiamo qui i più grandi leader aziendali del mondo. Se ne andranno con un sacco di assegni», ha profetizzato Trump a Riad accompagnato dai Ceo di Lockheed Martin, Northrop Grumman, Halliburton, Nvidia, dal colosso di investimenti BlackRock.

È il mondo nuovo, reclamano i corifei di” The Donald”.

 E pazienza se accettare un “Air Force One” come cadeau dal Qatar non è propriamente un gesto di eleganza etica: “business is business”, tutti lo sanno, Donald Trump per primo:

un tempo liquidava il Qatar come «un finanziatore del terrorismo di alto profilo», oggi tiene la famiglia reale “al-Thani” in palmo di mano.

E mentre l’Arabia Saudita guadagna una centralità geopolitica che prima non possedeva, il conflitto russo-ucraino rischia di scivolare sullo sfondo:

il patto sulle terre rare con Kiev Trump lo ha già messo in tasca.

Il resto, visto l’allungarsi delle trattative, comincia a sembrargli una fastidiosa seccatura.

 

 

 

 

 

Il Grande Gioco

non è un gioco.

Poloniaeuropea.it – (15 -5- 2023) - Marco Nicoletti – Redazione – ci dice:

La guerra, brutta bestia, non è un romanzo d’avventura.

Marco Nicoletti, che ringraziamo, segnala l’articolo di “Le Chiffre” (un nome, un programma), Come la Russia da cacciatrice è diventata preda e perché l’Europa deve svegliarsi, pubblicato su “Formiche” il 2 maggio 2023.

L’articolo comincia così:

«The Great Game è uno splendido libro che racconta la lotta tra due superpotenze dell’Ottocento, Russia e Inghilterra, che si scontrarono ferocemente per il controllo del subcontinente indiano e delle sue incredibili ricchezze.

La Russia perse quel gioco e la sua storia nei decenni successivi subì un’involuzione che poi la portò alla rivoluzione e alla fine del regno dei Romanov.

 L’Inghilterra, che la vinse, prosperò per un altro secolo abbondante.

Oggi, forse senza accorgercene, stiamo assistendo ad un nuovo “Great Game” e la preda, ironia duplice della storia, è proprio la Russia di Putin che rischia di essere il nuovo ed ultimo “Tsar” di “tutte le Russie”».

Il termine “Il Grande Gioco” usato per definire la lotta tra l’Impero britannico e l’Impero russo per il dominio sull’Asia centrale tra Otto e Novecento ha vari padri nobili, tutti di lingua inglese (l’agente segreto Arthur Conolly, lo scrittore Rudyard Kipling, lo storico Henry William Carless Davis).

Sinonimo di lotta tra sfere di influenza nell’Asia del Sud e del Centro, la locuzione si diffuse in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale e fu riportata alla ribalta dalla guerra sovietico-afghana (1979-1989).

Avendo successo è diventata però un’espressione passe-partout, anche abusata, anche troppo giornalistica e soprattutto criticata in quanto poco rispettosa delle popolazioni abitanti nei territori oggetto di contesa tra le (due o più) grandi potenze. I

n breve: un cliché-metafora, una parola-mito.

“L’orso russo e il suo invincibile cavaliere incontrano la legione britannica”.

Una caricatura mostra l’imperatrice “Caterina la Grande di Russia” con il corpo di un orso (19 aprile 1791).

 

Il Grande Gioco altro non fu che la rivalità coloniale, la contrapposizione di potere e di influenza, il contrasto di strategie e interessi non solo economici e non solo regionali tra l’impero russo e quello britannico per la supremazia in Asia centrale: quella vasta porzione di mondo tra a ovest il Mar Caspio, a est la Cina, a nord la Russia, a sud il Pakistan, l’Afghanistan e l’Iran.

Terminata la minaccia napoleonica l’Impero zarista si lanciò alla conquista dei khanati e delle tribù dell’Asia centrale espandendosi attraverso le steppe verso il Caucaso e il Caspio, verso il Tibet e l’Himalaya, e verso gli sbocchi del Golfo Persico e dell’Oceano Indiano.

 La Gran Bretagna, tesa a consolidare e a estendere la sua presa sull’India, temette che l’Impero russo potesse avanzare anche verso l’India britannica e strapparle quel continente che era considerato a Londra il gioiello della Corona.

Perno centrale del teatro asiatico era l’Afghanistan, strategico sia per la Russia in espansione sia per la Gran Bretagna preoccupata di contenerla.

Tra spie, trafficanti e doppiogiochisti, esploratori e geografi-cartografi, intrecci e intrighi, duelli diplomatici, mosse e contro-mosse, tensioni e conflitti armati, la contrapposizione tra i due Imperi durò circa un secolo, grosso modo fino alla Prima guerra mondiale.

Successivamente sotto la voce de “il Grande Gioco” si sarebbero rubricate – dopo la seconda guerra mondiale, dopo la fine della Guerra fredda e ancora in tempi recenti – altre forme di competizione politica e militare con altri e più numerosi attori.

L’Asia centrale nell’Impero zarista. Le aree colorate indicano le unità amministrative dell’Impero all’inizio del XX secolo, mentre le linee verde-chiaro mostrano i confini degli attuali Stati nazionali

Turkestan orientale, Mappa del 1872.

 

“Cynthia Smith” della Geography and Map Division della” Library of Congress di Washington” ha curato un elegante sito, “The Great Game and Afghanistan”, con accurate ricostruzioni storiche e notevoli carte.

Sintetizza:

“Prima del XIX secolo l’Afghanistan era un importante crocevia, dominato da altre civiltà nel corso della sua storia (…) Dopo secoli di invasioni, la nazione cominciò finalmente a prendere forma nel corso del XVIII secolo (…) Il Grande Gioco tra Inghilterra e Russia iniziò nel 1830.

I due imperi giunsero a confrontarsi quando le loro aree di influenza in Asia centrale si avvicinarono progressivamente l’una all’altra (…)

 Gli inglesi erano preoccupati per i progressi russi in Asia centrale.

L’Inghilterra usava l’Afghanistan come stato cuscinetto per proteggere l’India britannica da ogni tentativo di invasione russa.

 La preoccupazione britannica per l’influenza russa sull’Afghanistan portò alla Prima guerra anglo-afghana (dal 1838 al 1842) e alla Seconda guerra anglo-afghana (dal 1878 al 1880).

La Terza guerra anglo-afghana iniziò nel maggio 1919 e durò un mese.

 La Gran Bretagna non ebbe più il controllo degli affari esteri dell’Afghanistan dopo la firma dell’armistizio dell’8 agosto 1919″.

 

Il libro che maggiormente ha contribuito a rendere popolare il concetto di Grande Gioco è quello del giornalista-scrittore “Peter Hopkirk, The great game”: o

n secret service in high Asia, “London: John Murray, 1990”, apparso per la prima volta in Inghilterra nel 1990, poi innumerevoli volte ristampato e tradotto in molte lingue – in italiano” Il Grande Gioco”.

 I servizi segreti in Asia centrale, traduzione di Giorgio Petrini, Adelphi, 2010.

 

  Si tratta di un saggio di divulgazione storica che numerose recensioni descrivono come un “grande affresco storico”, “una delle letture più appassionanti, “un saggio storico che somiglia molto a un romanzo d’avventura”, “un grande romanzo d’avventure, popolato di straordinari personaggi” (Umberto Eco), “guerre, trame e agguati”, “le alleanze con i khan, le esplorazioni di terre misteriose, le trame, gli scontri, gli agguati, il doppio gioco”;

in sintesi:

 le “affascinanti ‘mille e una notte’ della diplomazia imperialista”.

 

Dalla recensione de “Il rifugio di Long John Silver”, leggiamo:

“Uno dei periodi storici sicuramente più interessanti ma decisamente sconosciuti al grande pubblico è la guerra silenziosa che vide coinvolti per circa un secolo (1800-1905) l’Impero Russo e quello Inglese per il controllo delle ricche zone dell’Asia centrale, una guerra che ricorda per molti versi la successiva guerra fredda tra URSS e Stati Uniti.

 Una guerra atipica perché combattuta con mezzi poco avvezzi all’arte militare e con le sottili arti della diplomazia e delle spie.

 Un conflitto che vide spesso come atipici eroi negli esploratori e cartografi, che spesso per necessità dovettero nascondersi dietro a vari travestimenti (come dei precursori di James Bond), in missioni che si svolgevano in terre di cui non sapeva nulla e dove la legge era in mano a sanguinari Khan che bisognava sperare di blandire con regali munifici e confessioni di profonda amicizia alternate a tante bugie (e molte blandizie).

 Un libro che spiega bene nel dettaglio le piccole battaglie, la corsa sfrenata dei due imperi per il dominio di oasi o posti chiave per stoppare l’avanzata nemica. Non una guerra in grande stile ma svolta con una complessa trama fatta di piccoli colpi di mano, propaganda, sotterfugi per far passare il nemico come la parte perdente, l’uso della cartografia per creare mappe di luoghi completamente sconosciuti, il superamento di catene montuose pericolosissime e infestata da predoni e banditi.

L’isteria collettiva che colpiva ora una ora l’altra parte alla notizia di una qualche sconfitto o vittoria dell’avversario (…)

 Un periodo decisamente sconosciuto che sembra uscito da un romanzo di James Bond”; e una serie di storie che” – ecco un punto da sottolineare – “non trasfigurirebbero in un romanzo o film/serie tv”.

 

  Dalla recensione di “Stefano Olivari”:

 “nel libro di” Hopkirk”, peraltro equilibratissimo e per niente anti-russo, si respira a pieni polmoni la parte idealistica del colonialismo che c’è in “Kipling”, e che di recente ha messo “Kim” nel mirino della” cancel-culture”.

 Fra l’altro nel Grande Gioco l’oggetto del desiderio finale è proprio l’India in cui cresce Kim, in una maniera quasi ossessiva”.

 Olivari si entusiasma non per i disegni espansionistici di Regno Unito e Russia bensì per le “vicende umane di protagonisti, spesso eroi solitari o comunque lasciati soli”.

Sono “alcuni personaggi eccezionali, non necessariamente grandi condottieri o primi ministri, anzi quasi mai, che provano a infrangere o a forzare le regole con obbiettivi vaghi ma sempre trascinati da un misto di coraggio, sete di conoscenza, avidità, brama di gloria e soprattutto inquietudine”;

personaggi “pronti ad imprese militari impossibili o a incredibili operazioni di spionaggio in ambienti sospettosi e dispotici”.

 Insomma, un libro che “conquista anche per lo spirito di avventura da romanzo che trasmette, davvero da brivido, superiore a quello di un viaggio su Marte nel 2021.

Lo spirito di uomini che volevano fare la differenza e il cui sangue ha reso più grandi i loro paesi”.

 

Dalla Scheda dell’”Editore Adelphi”:

“Davanti al palazzo dell’”emiro di Buchara”, due uomini in cenci sono inginocchiati nella polvere.

A poca distanza, due fosse scavate di fresco, e tutt’intorno una folla sgomenta, che assiste in un silenzio irreale.

Non è certo insolito che l’emiro faccia pubblico sfoggio di crudeltà, ma è la prima volta che il suo talento sanguinario si esercita su due bianchi, e per di più servitori di Sua Maestà britannica.

La scena non è stata scritta da “Kipling”, anche se di lì a poco la contesa fra russi e inglesi per i luoghi che oggi chiamiamo Turkmenistan, Tagikistan o Afghanistan avrebbe trovato, nelle pagine di Kim, un nome destinato a durare: “Grande Gioco”.

È invece realmente accaduta una mattina di giugno del 1842, dando inizio a una vicenda che in questo celebre libro “Peter Hopkirk “ricostruisce nella sua fase più avventurosa, allorché gli ufficiali dei servizi segreti zarista e vittoriano valicavano passi fino allora inaccessibili, cartografavano valli inesplorate, raccoglievano informazioni dalle carovane di passaggio sulla Via della Seta, tramavano complesse alleanze con i khan della regione, rischiando a ogni mossa, come i loro epigoni attuali, di ridestare da un sonno millenario quelli che “Bruce Chatwin “chiama «i giganti addormentati dell’Asia centrale»

 Che le sorti del mondo dipendano da ciò che avviene in quella vasta zona è una percezione antica, oggi confermata quotidianamente da guerre, trame e agguati. Una storia, dunque, quanto mai utile da conoscere.

 Ma va aggiunto che nella fase raccontata nel “Grande Gioco” quella storia era anche il romanzesco allo stato puro – e sarà un intensissimo piacere per chi la ascolta.

 Molte sono le memorie e i documenti che ne compongono il mosaico, ma occorreva un maestro come “Peter Hopkirk” per farci seguire in tutte le sue ramificazioni questo strepitoso romanzo a puntate”.

Ora rovesciamo la prospettiva.

Certamente l’autore “narra divinamente” e il libro è scritto “in uno stile davvero coinvolgente ed emozionante” ed è ricco di mappe disegnate a mano, illustrazioni, fotografie.

Ma nelle “affascinanti ‘mille e una notte’ della diplomazia imperialista”, forse, andrebbe sottolineato l’aggettivo “imperialista”.

 L’oggetto della narrazione è pur sempre poco nobile:

 la lotta/guerra diplomatica e paramilitare fra Inghilterra e Russia che scorre per tutto l’Ottocento, avente come obiettivo il dominio politico-commerciale nell’Asia Centrale e la difesa degli interessi dei rispettivi imperi.

 Mentre “il grande impero moscovita scivolava verso i mari caldi inghiottendo ogni giorno, mediamente, 150 chilometri quadrati, la Gran Bretagna cercava di estendere verso nord i suoi possedimenti indiani.

Vecchia storia? Acqua passata?

Chi darà un’occhiata alla carta geografica constaterà che i grandi attori hanno cambiato volto e nome, ma i territori contesi o discussi sono sempre gli stessi (…)

 il lettore troverà l’antefatto di molti avvenimenti degli scorsi anni in Afghanistan e in Iran.”

 (Sergio Romano).

Indubbiamente quello di “Peter Hopkirk” “è un libro prezioso per farsi un’idea di come si è evoluta la storia in una zona chiave e nello steso tempo poco nota dell’Asia.

Inoltre, è notevole come il passato abbia ancora riverberi e conseguenze sulla storia contemporanea:

 ad esempio si può capire come la contrapposizione Impero Russo-Impero Britannico abbia lasciato strascichi sulla psicologia di oggigiorno.

L’ambientazione inoltre fa immergere in quella che era stata una zona chiave dell’”Antica Via della Seta”.

Peccato che nella parte terminale il libro scada in una lunga serie di descrizioni dettagliate di imprese ‘eroiche’ di militari britannici contrapposti a quelli che spesso vengono liquidati come ‘indigeni selvaggi’.

 Dal che si capisce come l’antico atteggiamento colonialista dei britannici non sia affatto scomparso.

Infine, lascia sbigottiti come l’autore abbia descritto con noncuranza il massacro di migliaia di monaci tibetani da parte dei ‘valorosi’ soldati britannici:

in fondo l’esercito britannico stava solo invadendo un paese indipendente, cosa pretendevano questi personaggi del medioevo? Mah …” – commenta un lettore (Corrado Crotti).

 

Un altro lettore (Alberto D) osserva:

 “Il tema è affrontato principalmente dal punto di vista britannico, avendo l’autore (egli stesso inglese) attinto a fonti per lo più britanniche ed essendo il libro apparso nel 1990 (pertanto in un periodo in cui l’accesso a fonti d’archivio russe risultava tutt’altro che semplice).

 (…) Unica vera pecca è che l’autore tende a tratti a cadere nella trappola dell’esaltazione dell’eroe romantico ottocentesco, inevitabilmente incarnato dal ‘giocatore’ britannico a scapito di quello russo e dei popoli oggetto della contesa, e in generale dell’esaltazione delle ‘mosse’ britanniche, facendo di tanto in tanto perdere di imparzialità ed equilibrio alla trattazione”.

Un terzo lettore (Andrea Pujatti) riconosce:

“L’unica riserva riguarda la tendenza eccessiva a lodare e magnificare l’operato dei britannici (è scritto da un inglese) nonostante il loro atteggiamento imperialista non sia sempre stato positivo, trasparente e corretto.

Aiuta a comprendere perché l’Afghanistan è tuttora una terra contrastata e oggetto di conquista”.

Un Quarto commentatore (Nicola Mucchi):

“lo consiglio fortemente a chi intende sapere di più sulle azioni politiche propagandistiche e militari che noi europei abbiamo intrapreso nel Medio ed Estremo Oriente.”

Un quinto (Nick Parisi): “il tutto a danno delle popolazioni locali che ne pagano le conseguenza ancora oggi”.

(Recensioni a Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia centrale.

L’Afghanistan chiede di essere salvato dalle ambizioni coloniali dei suoi “amici”, la Russia : l’orso e la Gran Bretagna : il leone).

 

 

 

 

Putin diserta il vertice di Istanbul

con Zelensky, il gioco della sedia

con Trump tra enigmi e ricatti.

 

Ilriformista.it – Paolo Guzzanti – (15 -5 – 2025) – ci dice:

 

Sia il leader russo che quello americano non vanno in Turchia.

Mosca attacca: “Nostra delegazione una farsa?

 Zelensky un clown.”

 

Torna in mente la battuta di “Nanni Moretti”:

mi si nota di più se vengo o se non vengo?

 Il vertice sulla tregua in Ucraina previsto oggi in Turchia dovrebbe mettere uno di fronte all’altro il russo Vladimir Putin e l’ucraino Volodymyr Zelensky.

Tutto sembrava definito e pronto, ma ecco che si profila il rischio della solita sedia vacante, quella di Vladimir Putin.

Viene o non viene?

Lo hanno chiesto a Trump, che ha detto: “Non lo so: non è chiaro se Putin verrebbe anche se io non ci fossi, e io devo capire se lui verrebbe anche se non ci fossi io”.

Un groviglio senza né capo né coda.

Putin ha dichiarato che il clima è cambiato per colpa degli occidentali che, con Macron in testa, vogliono garantire l’eventuale tregua.

 Putin ha detto che sarebbe disposto ad andare a Istanbul solo se ci fosse anche Trump, il quale ha risposto come abbiamo già detto.

Il gioco della sedia è diventato un imbroglio di enigmi e ricatti.

 Finora questa tattica aveva funzionato per Putin, ma oggi c’è un elemento nuovo: il presidente americano da due settimane si dichiara preso in giro e vuole vedere se Putin ha davvero intenzione di sedere al tavolo senza trucchi e senza imbrogli, ed ecco che il russo minaccia di far saltare sedia e tavolo dandone la colpa a Macron, che minaccia di dispiegare le sue armi nucleari nei Paesi alleati europei. L’arrivo in scena di Leone XIV pesa a favore dell’Ucraina, per il Papa un Paese vittima che merita una pace stabile e giusta, dunque protetta.

 

L’enigmatico Putin.

Finora il presidente russo ci ha abituati alle sue virtù di illusionista di procedere come un gambero, con un passo avanti e due indietro.

Ha cominciato promettendo una solenne tregua sulle centrali energetiche, ma non l’ha mantenuta neppure per una notte.

Poi disse che mai avrebbe trattato con Zelensky perché non lo considera un legittimo presidente del Paese che invade da tre anni.

Ma ecco che poi sembra che ci abbia ripensato, e che anche Zelensky va bene e che l’incontro si può fare:

 è ufficiale, tutti in Turchia oggi e senza alcuna precondizione.

 Finora Putin ha sempre mollato all’ultimo momento e anche stavolta tiene tutti col fiato sospeso, confermando la celebre definizione che della Russia dette Winston Churchill:

 “È un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma”.

“Andrej Gromiko”, nipote dell’omonimo e più celebre e longevo ministro degli Esteri, famoso per aver meritato il titolo di “Mister Nyet”, no a tutto, è stato allontanato dal think tank del Cremlino e manifesta apertamente la sua avversione contro la politica putiniana di traccheggiare, accertare e poi rinviare.

Tuttavia, la delegazione russa in partenza si sta formando e il portavoce del Cremlino “Dmitrij Peskov “ha ripetuto ieri che la Russia è pronta a discutere con l’Ucraina a Istanbul, ma non ha ancora sciolto la riserva sulla presenza fisica del presidente russo Vladimir Putin.

E poi c’è la Germania con il suo nuovo cancelliere di ferro “Friedrich Merz”, il quale, con un linguaggio che sarebbe stato impensabile nella bocca dei suoi predecessori “Scholz” e “Merkel”, ha detto che la posizione tedesca è oggi quella di chiamare a raccolta europei e americani per rifiutare una pace dettata dai termini della Russia.

E ha detto che l’Ucraina non deve essere sottomessa all’imposizione di perdite territoriali contro la sua volontà.

La Germania dà questi primi vigorosi segnali di voler tornare alla guida dell’Europa con una grinta simile a quella della vecchia Repubblica federale tedesca con Capitale Bonn, quando la Guerra Fredda era molto calda e la Germania occidentale contava molto di più di quanto abbia contato la Germania unificata.

 

Lo scenario.

L’esigenza della pace in Ucraina è ormai un elemento fortemente spinto dall’economia:

in Russia il partito dei grandi affaristi ha visto che dall’Ucraina c’è poco da ricavare e vorrebbe un rientro nella comunità internazionale con l’abolizione delle sanzioni, sia pur dando per scontato che occorrerà un lungo tempo di decantazione prima di essere riammessa nel consesso internazionale.

 Il cancelliere tedesco ha ripetuto che il suo Paese deve tornare al ruolo di locomotiva economica che rimetta in moto la crescita, e ha aggiunto che “non abbiamo mai conosciuto un periodo così lungo di mancata crescita economica nella storia del nostro Paese”.

E dunque la nuova Germania conservatrice sembra avere molta fretta affinché la guerra d’invasione in Ucraina termini, e che termini non nei termini che Mosca vorrebbe imporre.

 In un editoriale su “Le Monde”, “Sylvie Kauffmann” scrive che “Donald Trump” farebbe bene a sbrigarsi a decidere chi sono gli aggrediti e chi gli aggressori, quali le dittature e quali le democrazie.

Mentre, al contrario, la diplomazia a breve termine usata da Trump ferma la politica internazionale in un vicolo cieco.

L’arrivo di Trump.

Il presidente americano intanto ha lasciato gli Stati Uniti ed è atterrato in Sud Arabia, accolto con tutti gli onori del tappeto rosso.

 In America comici e stand up si sono scatenati ed è di moda la battuta di” Stephen Colbert”, secondo cui i democratici americani dovrebbero approfittare della sua assenza per chiudere porte e aeroporti per far riprendere la vita politica ed economica.

 Trump è stato accolto dal principe saudita “Mohammed bin Salman” non solo con un untuoso tappeto rosso ma anche con un camion modificato per lui.

Trump però passa le ore al telefono per sapere che aria tira a Istanbul e quali siano le ultime intenzioni di Putin che determineranno la sua decisione finale di essere o non essere presente alla trattativa.

Le previsioni di successo per ora sono scarse e i bookmakers danno la sedia vacante al 90%.

(Paolo Guzzanti).

 

 

 

 

 

ChatGPT come Eva per Adamo,

l’AI è la più grande rivoluzione

 della storia dell’umanità.

Ilriformista.it – Paolo Guzzanti – (15-5 – 2025) – ci dice:

Con una eccezionale e breve pausa, tra la morte di Papa Francesco e i primi giorni di Leone XIV, da sei mesi ogni conversazione ha tra i suoi temi l’Intelligenza Artificiale.

Tra tutte, pochi giorni fa, una in particolare.

 Eravamo quattro amici al bar (come la canzone), da poco entrati nella “fase Cassandra” dell’AI.

 La fase Cassandra arriva subito dopo la “fase delle grandi cazzate” – quella in cui si usa l’AI per fare cose piuttosto stupide, ma divertenti.

 Poi, un giorno, mentre guardi compiaciuto una action figure, cominci improvvisamente a prendere consapevolezza del suo incredibile potenziale.

Ne resti affascinato e spaventato nello stesso istante.

Poi, tutto cambia: realizzi la sua potenza.

Vorresti dirlo a tutti, correre per la città annunciando l’imminente distruzione generativa.

Lo fai, ma nessuno ti si fila.

E quei pochi che ti ascoltano ti dicono “Esageri! Tranquillo.

Lo dicevi anche del metaverso, e poi non è successo nulla”.

 

L’IA e il paragone sbagliato con la rivoluzione industriale.

Comunque, tornando ai quattro amici al bar:

uno, il più entusiasta, dice:

“L’AI è la più grande rivoluzione della storia dell’umanità dall’invenzione della stampa!”.

Ora, il povero “Gutenberg” – pace all’anima sua – ne sarà soddisfatto, ma forse quella era una buona metafora per Internet, penso tra me e me.

Meglio del solito paragone – sbagliato – con la rivoluzione industriale.

Mentre pensavo questo, un altro lo incalza con:

 “Ma che dici, dai tempi del fuoco!”.

E questa frase mi ha fatto sognare un po’ di più della precedente.

 Il fuoco non cambiò solo il presente (calore, difesa, cibo), ma trasformò i comportamenti futuri.

Quando scoprimmo il fuoco, non lo sapevamo, ma stavamo inventando tutto il futuro.

Ad esempio, le riunioni.

 Perché iniziammo a sederci attorno al fuoco, insieme, e qualcuno cominciò a raccontare storie.

 E gli altri ascoltarono.

Prima, il linguaggio era simile ai versi animali.

Con il fuoco divenne sociale e narrativo.

Il buio fu sconfitto. La luce divenne una scelta.

L’IA è come il fuoco.

Per chi non è cattolico, solo i giorni del conclave restano metafora – bellissima e potente – della notte di Pasqua.

 Tutto – penso tra me e me – è iniziato intorno al fuoco, anche se chi lo accendeva allora non poteva immaginarlo.

 Sì, ha ragione il mio amico.

L’AI è come il fuoco.

Oggi la uso per scaldarmi, ma solo il futuro ne rivelerà la vera, straordinaria potenza evolutiva.

Ma i miei pensieri sono stati spazzati via da una frase ancora più roboante e potente delle precedenti.

 Esplode il terzo amico:

“L’AI è la più grande rivoluzione della storia dell’umanità dai tempi della scoperta della figa!”. Sì. Hai letto bene.

Ora non ricordo se, in ossequio alle riflessioni di Nanni Moretti”, abbia detto figa o fica.

Beh, comunque ha detto così.

L’evidente e disdicevole riferimento volgare, misogino e patriarcale mi ha impedito di ridere come forse avrei voluto.

Ma riflettendoci, la frase porta in sé due enormi verità che il mio amico non ha esitato a declinare.

Ci ha spiegato, pontificando:

“Non parlo solo della scoperta individuale, ma anche di quella universale”.

Quella individuale (fate lo sforzo di intendere con la disdicevole espressione figa semplicemente “l’altra metà del mondo”, con rispetto per i non binari) è la grande scoperta dell’amore, dell’altro, di sé stesso nell’altro.

Mi ritrovo.

Forse un po’ estremo come esempio, ma l’AI aiuta moltissimo nella scoperta di sé, come solo una relazione d’amore può fare.

ChatGPT come Eva per Adamo.

Sì, forse avrebbe potuto dire: “La più grande rivoluzione della storia dell’umanità dai tempi della scoperta dell’amore”.

 E forse, detto così, anche “L14” sarebbe d’accordo.

Ma poi c’è la potenza della scoperta universale, che il mio amico fa risalire a una data che dovrebbe essere circa l’ottavo o nono giorno di vita della storia dell’universo dalla creazione.

Quando Dio, bontà sua, dona ad Adamo Eva.

Secondo il mio amico, da quel momento ad oggi, l’unico evento paragonabile è stato il giorno in cui abbiamo iniziato a usare ChatGPT.

Se ci penso, di analogie ce ne sono.

 La storia della costola, ad esempio.

Ma anche quella della complementarità simmetrica.

 L’AI che diventa il quarto, inatteso elemento della creazione.

Fissando – per sempre – la data del 30 novembre 2022 come il giorno in cui, dopo 100mila anni, abbiamo iniziato a smettere di essere gli esseri più intelligenti su questo pianeta.

Dimenticando che Dio, quando era toccato a lui creare, questo errore non lo aveva fatto.

Avevo ancora in testa le immagini del conclave nella Sistina.

Un cardinale Pizzaballa, così affascinato dallo spettacolo della volta, da saltare alcune frasi delle preghiere.

Ho immaginato, proprio su quello straordinario affresco, il Creatore che dava l’AI (5.0 Pro annuale) al suo Adamo, avvicinando il dito, come faccio ora io, al mio Mac, per far riconoscere la mia impronta digitale e spegnerlo per un po’.

 

 

 

Elezioni Polonia 2025, chi sono

i candidati, quali sono i temi

decisivi e qual è la posta in gioco.

 Corriere.it - Francesco Battistini – (18-05 -2025) – ci dice:

I candidati alle elezioni presidenziali in Polonia sono undici.

 I favoriti dai sondaggi sono “Trzaskowski”,” Nawrocki” e “Mentzen”.

Il successore di “Duda” dovrà scegliere:

pensare europeo o trascinare anche i polacchi, come i rumeni e gli slovacchi, a mettere il loro mattone sovranista?

Presentazione elezioni Polonia.

“Rafal Trzaskowski”, sindaco di Varsavia e favorito al primo turno (Epa).

 

In Polonia, il 18 maggio, si svolgono le elezioni presidenziali:

si vota per eleggere il successore di “Andrzej Duda”, giunto alla fine del suo secondo mandato e perciò ineleggibile.

Se non si dovesse decretare un vincitore, i polacchi torneranno alle urne per il secondo turno il 1° giugno.

Di seguito, l'analisi di Francesco Battistini.

 

Prima scena.

Nel Paese europeo con le regole più strette per chi lavora alle interruzioni di gravidanza, arresto compreso, qualche settimana fa l’organizzazione “AboTak” ha aperto un ufficio a pochi metri dal Parlamento di Varsavia:

ci stanno gli attivisti dell’”Aborto Dream Team” e dell’ong “Aborto Senza Frontiere” e si dà una mano – senza provvedere direttamente, perché è illegale - alle 120mila polacche che ogni anno rinunciano a un figlio.

 

Seconda scena.

Terminate le indagini sull’incendio d’un grande centro commerciale di Varsavia, nel 2024, i servizi d’intelligence polacchi hanno stabilito che trattasi di sabotaggio.

 E il governo di Varsavia ha chiuso il consolato russo di via Mariwilska a Cracovia, il secondo in pochi mesi.

L’accusa: quel rogo è solo l’ultimo esempio dei cyberattacchi e delle interferenze putiniane nella politica interna, come in Lituania, in Romania e in Moldova.

 

Terza scena.

 A migliaia hanno sfilato nella capitale «contro l’immigrazione illegale» favorita dal governo di Donald Tusk.

 «Fate il gioco della Germania!».

C’era tre anni fa la Polonia che abbracciava milioni di rifugiati ucraini.

 Oggi che di milione ne è rimasto uno, l’aria è cambiata:

 i contadini bloccano il grano di Kiev alle frontiere e «la Polonia innanzi tutto!» è lo slogan più diffuso.

 

Cartoline da una campagna elettorale.

 Più aborti e più armi? O meno Ue e meno Lgbtq+?

 O ancora: meno Ucraina e niente aborti?

I temi sono quelli e la Polonia, che domenica vota il suo nuovo presidente, sa d’essere a una svolta.

 Bisogna mandare a casa il “sovranista Andrzej Duda”, a fine del secondo mandato e perciò ineleggibile.

E decidere se si vuole una politica come quella del premier “Tusk”, il “nuovo cocco dell’Ue! che al posto di Giorgia Meloni ha partecipato al «vertice dei volenterosi» a Kiev, oppure scegliere un altro” Duda”.

I candidati e i sondaggi.

Sugli undici canditati al primo turno, ce n’è tre che hanno i profili giusti.

 Il favorito (32%) è l’europeista “Rafal Trzaskowski”, 53 anni, studi a Oxford e sei lingue parlate (pure l’italiano), ex ministro e ora sindaco di Varsavia, figlio d’un pianista che osava il vietatissimo jazz negli anni del comunismo, pronipote dell’uomo che aprì le scuole superiori alle donne polacche:

 sfida la Chiesa polacca più conservatrice, promettendo d’allentare le leggi sull’aborto e di proteggere meglio i diritti omosessuali.

 

Il suo contendente principale, il nazionalista “Karol Nawrocki “(23%), 42 anni, studioso di storia e dei crimini nazisti e comunisti, si vanta d’essere un trumpiano della prima ora («l’ho incontrato in aprile alla Casa Bianca e mi ha detto che vincerò»), è chiacchierato per qualche amicizia neonazi e sostiene la causa dell’Ucraina, ma non le politiche dell’Europa: nel suo programma, c’è anche la richiesta alla Germania dei danni per la Seconda Guerra mondiale.

 

Presentazione elezioni Polonia.

“Karol Nawrocki”, secondo nei sondaggi, si vanta di essere un trumpiano della prima ora (Epa).

Infine, è spuntato un estremista di destra: l”’economista iperliberista Slawomir Mentzen”, 38 anni, milionario grazie ai bitcoin, 40 milioni di visualizzazioni su TikTok, favorevole all’arresto per chiunque favorisca o compia un aborto – perfino in caso di donne stuprate – e contrario a qualsiasi immigrato ucraino e no, nostalgico delle «care e vecchie» punizioni corporali per i bambini, poco propenso agli ebrei, ai gay, alle tasse e all’Ue.

I sondaggi lo danno al 14%, ma la sua enorme popolarità sui social potrebbe portarlo al ballottaggio e lo renderà comunque determinante per orientare i voti del secondo turno, in giugno.

“Mentzen” è contro le sanzioni a Putin, come tutti i sovranisti dell’Est Europa.

 Soffre di sindrome d’Asperger, «come Elon Musk».

E sapendo di giocare sul ruolo di terzo incomodo, dice di sé: «Sono sempre stato un tipo un po’ diverso da tutti gli altri…».

I poteri.

In Polonia, il presidente ha tre poteri soprattutto: orienta la politica estera, può mettere il veto ad alcune leggi, comanda le forze armate.

 Chiunque vinca, spiega un’analista dell’università di Varsavia, “Ewa Marciniak,” «ci sono in gioco molte cose.

E la prima è il rapporto col governo Tusk, quindi il nostro ruolo nei dossier di Russia e Ue».

Duda poneva molti veti, paralizzava spesso le scelte del premier.

 E pochi giorni prima di lasciare il palazzo, “last call”, ha ricevuto quel George Simion filorusso che potrebbe diventare il nuovo presidente della Romania.

 Il successore di Duda dovrà scegliere:

pensare europeo o trascinare anche i polacchi, come i rumeni e gli slovacchi, a mettere il loro mattone sovranista.

 Alzando dentro l’Ue un altro muro.

 

 

 

 

I due patti del conclave.

Vinonuovo.it - Gilberto Borghi - (12 Maggio 2025) – ci dice:

 

Una ricostruzione ipotetica del conclave, basata su pochi indizi concreti, che spiegherebbe molto di ciò che si sta già vedendo.

Comunità.

Anti bergogliani conclave continuisti moderati papa Leone XIV patto Spirito Santo.

Avevo cercato di descrivere qui i possibili scenari del conclave.

 Adesso, credo, ci sia la possibilità di ipotizzare ciò che è accaduto, partendo da quegli stessi presupposti, pur ammettendo che la mia è una ricostruzione basata su pochi indizi concreti, interpretabili anche in altri modi, ma che spiegherebbe molto di ciò che si sta già vedendo.

 

Le congregazioni pre conclave dei cardinali hanno visto centrare le discussioni soprattutto su questioni interne alla Chiesa, come ovvio che sia.

 E le due tematiche che, sembra, abbiano tenuto banco sono state l’unità della Chiesa e la sinodalità.

La prima con una attenzione particolare alla ricomposizione della frattura tra Francesco e la Chiesa nord americana, la seconda, connessa alla prima, nel tentativo di garantirsi che la sinodalità vada avanti, ma senza aprire fratture ulteriori.

Sembra, poi, che negli ultimi due giorni i cardinali abbiano cercato di individuare chi potesse essere il nome che maggiormente poteva raccogliere consensi su quei due temi.

E qui, probabilmente, c’è stata la mossa di una parte dell’episcopato del nord America, quello meno “anti” Bergoglio, di offrire la candidatura di “Prevost”.

 Questa avrebbe trovato molto consenso nell’area moderata sulla base di un patto con i nord americani, chiedendo al futuro papa la garanzia dell’unità della Chiesa e una certa quota di continuità sul tema della sinodalità.

Patto garantito, agli occhi dei moderati, dalla biografia di “Prevost”, come uomo nato e cresciuto tutto dentro l’istituzione ecclesiastica (fin dai 14 anni!) e, nello stesso tempo, voluto da Francesco in un dicastero chiave, come quello dei vescovi.

 

Con questo accordo e il relativo nome, sono entrati in conclave.

Nella prima votazione, questa nomina è apparsa subito molto consistente, superando già “Parolin “ed “Erdò”, gli altri due più votati.

A questo punto, è altamente probabile che chi dall’area moderata votava Parolin, si sia spostato su “Prevost” (della stessa area), visto l’impossibilità di fare papa lo stesso Parolin.

Così la seconda votazione, probabilmente, ha visto alzarsi i consensi su “Prevost”, ma senza ancora raggiungere il quorum.

 

Segno del fatto che la somma di quasi tutti i moderati e dei nord americani meno estremi, non arrivava a 89 voti.

Ma se, come rivelato sabato, “Prevost “è stato eletto con più di 100 voti, deve essere intervenuto qualcosa tra la seconda e la terza votazione, per giustificare uno spostamento di almeno 12 voti (probabilmente più di venti).

 Ipotizzabile, quindi, che i sostenitori di Prevost si siano resi conto che avrebbero dovuto trovare altri voti.

Ma dove guardare?

 Impossibile presso il gruppo più estremo degli anti bergogliani, che continuava a votare “Erdò”.

Era necessario, quindi, guardare ai continuisti meno estremi.

E qui si potrebbe essere consumato, forse, un secondo patto, in cui alcuni continuisti, (dai 15 ai 20) , fino ad allora su candidati minori, avrebbero potuto spostarsi su Prevost a condizione che lui avesse garantito di mantenere l’attenzione ai temi più sociali di Bergoglio:

 la guerra, gli ultimi, il pianeta.

Accordo possibile, questa volta, sulla base di altri due dati della biografia di Prevost:

l’essere stato missionario per 28 anni, compresi quelli da vescovo, e l’essere stato pescato da Francesco per il cardinalato e la gestione del dicastero dei vescovi da una oscura diocesi periferica del Perù, dove questi temi sociali erano molto vivi. Così alla terza votazione il quorum è stato abbondantemente raggiunto.

La cosa interessante, però, è che, già prima di entrare in conclave, “Leone XIV” aveva annusato la possibilità di essere eletto, visto il primo patto.

Ciò è segnalato da tre piccole tracce.

Sembra che la sera prima di entrare in conclave, telefonando al fratello, Prevost avesse discusso con lui dell’eventuale nome da assumere. Intervistato, poi, prima dell’ingresso in conclave sulla possibilità che potesse essere lui il nuovo papa avrebbe risposto:

 “resta nelle mani di Dio”, invece di una più attendibile risposta “schernita”, o di ritrosia, molto più consona al suo carattere schivo e riservato.

 Poi, dopo l’elezione, si è affacciato al balcone con uno scritto, in una lingua non sua.

Contando i tempi tecnici di accettazione dell’elezione, del saluto di ossequio da parte dei cardinali e della vestizione, è difficile ipotizzare che quello scritto sia stato redatto dopo l’elezione.

Questo, se fosse vero, spiegherebbe, al momento, come le aree ecclesiali moderate, sia “anti” che “pro” Bergoglio, tentino entrambe di ascriverlo alla propria parte, mentre le ali estreme avvertono più disagio che attrazione.

 Ma forse spiegherebbe anche come, sempre al momento, i pochi discorsi di “Leone” lascino pensare che lui si senta più debitore al primo patto, dal quale avrebbe avuto la stragrande maggioranza dei voti, che non al secondo, arrivato solo a conclave già aperto.

 I temi dell’unità della Chiesa e della sinodalità sono stati ampiamente citati da Leone, mentre quelli degli ultimi e del pianeta sembrano scivolati, per ora, sullo sfondo, salvando la fedeltà al secondo patto solo sul tema della guerra.

A questo punto entra, però, in gioco la personale teologia di Prevost, che come tutti i credenti, si costruisce non solo sugli studi fatti, ma soprattutto sulla propria esperienza personale ed esistenziale.

Per ora è difficile dire, quindi, come Leone declinerà la fedeltà ai patti che lo hanno eletto.

Ma già si mostrano alcune tendenze, sue proprie:

una missione prima “teologica e identitaria” e solo dopo “mediatrice e umanizzatrice”;

una comunicazione che pur partendo dalla persona tende ad anticipare molto la presentazione della verità della Chiesa;

 una percezione del mondo meno luogo potenziale dello Spirito che parla alla Chiesa e più come luogo a cui la Chiesa deve parlare;

uno stile più istituzionale e rituale, che creativo e fuori schema.

Il che spingerebbe ad ipotizzare un papato più centrato sulla Chiesa e meno sul mondo.

Perciò attenzione maggiore sulla sinodalità e sull’unità della Chiesa e forse meno a temi aperti sulla donna, sulla morale, sulla interconnessione tra povertà, ecologia ed economia.

Il suo curriculum dice che prima del gennaio 2023 era un quasi sconosciuto vescovo di una diocesi di periferia del Perù, pur essendo stato superiore generale degli Agostiniani.

Il ruolo papale potrà aprirgli orizzonti interpretativi del mondo e della Chiesa che al momento sono impossibili per lui?

Presto per dirlo, ma probabile.

 

Un dato, comunque, va sottolineato.

Le aree ecclesiali “più vicine” a Bergoglio ammettono una pluralità di visioni del vangelo, molto più di quanto non facciano quelle “anti”.

Perciò mentre queste ultime, se l’istituzione viaggia in direzione contraria alla loro visione, tendono a ribellarsi e ad aggredire, come è successo con Bergoglio, a volte anche in forme poco evangeliche, le prime, invece, non reagiscono allo stesso modo, perché sanno bene che una linea non simile alla loro è legittima e che a guidare la Chiesa è sempre lo Spirito Santo, anche dopo il conclave.

 

Perciò, se una delle due tendenze va un po’ “sacrificata” per garantire di più l’unità della Chiesa, potremmo aspettarci che Leone mostri una linea un po’ più verso la moderazione, rispetto al suo predecessore, in modo da far sopportare il “peso” di questo camminare insieme (sinodo!) per l’unità a coloro (i bergogliani) che meglio sanno sopportare evangelicamente le differenze, senza produrre conflitti interni, così accesi come con Francesco.

 

Lo Spirito soffia dove vuole, sia dentro che fuori la Chiesa, anche se dentro non tutti ne sono proprio convinti.

Possiamo aspettarci, perciò, una sinodalità e unità della Chiesa perseguite più “dall’alto” che “dal basso”, ma anche la sorpresa di lati pastorali e attenzioni teologiche di Leone che, al momento, non emergono, deludendo coloro che in questi giorni hanno prontamente esultato per un ritorno indietro.

 

 

 

 

“Mircea Eliade”, uno sciamano

alla scrivania.

 Doppiozero.com - Giampiero Comolli – (10 Maggio 2025) – ci dice:

 

Nel 1957, poco dopo essere giunto all’Università di Chicago come docente di storia delle religioni, Mircea Eliade viene interpellato dall’antropologo Milton Singer, curioso di sapere che cosa maggiormente lo avesse colpito negli Stati Uniti.

 «Gli scoiattoli!», gli risponde lui prontamente, ricevendone in cambio un sorriso interdetto e imbarazzato, non sapendo come reagire di fronte a quella che pareva solo una battuta ironica o elusiva.

Ma Eliade non intendeva fare il provocatore, e infatti annota poi sul suo taccuino:

 «ogni volta che vedo uno scoiattolo avvicinarsi alla mia mano tesa, per prendere una mandorla, ogni volta che la diffidenza, l’inimicizia, la lotta all’ultimo sangue tra l’uomo e le bestie selvatiche mi sembrano abolite, anche solo per pochi attimi, cado preda di una oscura e forte emozione…

Come se fosse annullata la condizione attuale dell’uomo e del mondo e ci trovassimo di nuovo in quell’epoca paradisiaca, esaltata dai miti primitivi.

Allora, in illo tempore, anteriore alla “caduta” e al “peccato”, gli uomini vivevano in pace con le fiere, ne comprendevano il linguaggio e parlavano loro amichevolmente…».

 

Dagli scoiattoli di Chicago al Paradiso Terrestre…

Molto più significativo di quanto non appaia nella sua fiabesca semplicità, questo minimo aneddoto si trova nascosto fra quella miriade portentosa di riflessioni, ricordi, sogni, incontri, ansie, aspettative, rimpianti che formano le 500 pagine del “Diario” (Jurnal in romeno) tenuto da “Mircea Eliade” durante il periodo parigino e poi americano, fra il 1945 e il 1969.

 Già pubblicate da Boringhieri nel 1976, col semplice titolo “Giornale”, tali memorie eliadiane escono ora da “Jaca Book”, con la cura di “Roberto Scagno”, massimo conoscitore e promotore in Italia dello scrittore romeno.

Il titolo di questa nuova edizione è suggestivo e significativo:

Il grande esilio, mentre l’accurata traduzione di Cristina Fantechi riprende e arricchisce, con importanti integrazioni testuali e precise note a piè di pagina, la già pregevole traduzione compiuta da “Liana Aurigemma” per l’edizione Boringhieri del 1976.

 

Ma perché scegliere un titolo così letterariamente connotato, “Il grande esilio”, e non accontentarsi invece di qualcosa di più sobrio, tipo “Fragments d’un journal” come già aveva proposto la vecchia edizione francese?

Perché è proprio durante il ventennio abbondante preso in considerazione – gli anni parigini e poi il primo periodo americano – che a “Mircea Eliade “si chiarisce in modo definitivo, lacerante e dirompente la propria condizione di esule totale, definitivo, costretto a non rivedere mai più quella madrepatria che aveva amato in modo viscerale, fin eccessivo;

e costretto oltretutto a non possedere più una vera casa, una dimora di famiglia, per spostarsi invece senza posa fra alberghi scadenti, abbaini, mansarde, residenze universitarie, appartamenti presso amici, in quella peregrinazione senza fine che segnerà il suo stato di fuoriuscito a vita, afflitto per sempre dalla nostalgia di un impossibile ritorno, ma al tempo stesso esaltato da questa nuova condizione di soggetto libero, proiettato nel mondo, una sorta di uomo cosmico, proteso senza posa verso gli inizi di una vera vita nuova, e perennemente alla ricerca di quel supremo “centro del mondo”, dove si congiungono finalmente cielo e terra. Come scrive lui stesso in un passo di estrema lucidità, del 1° gennaio 1960:

 

«Ogni esiliato è un Ulisse, in rotta verso Itaca.

Ogni esistenza reale riproduce l’Odissea.

Il cammino verso Itaca, verso il Centro. Tutto questo lo sapevo da molto tempo.

Ciò che scopro all’improvviso, è che viene offerta l’opportunità di divenire un novello Ulisse a qualunque esule (proprio perché è stato condannato dagli “dèi”, vale a dire dalle Potenze che decidono dei destini storici, terreni).

 Ma per rendersene conto l’esule deve essere capace di penetrare il senso nascosto delle sue peregrinazioni e di intenderle come una lunga serie di prove iniziatiche (volute dagli “dèi”) e come altrettanti ostacoli sul cammino che lo riconduce a casa (verso il Centro).

 Ciò significa: vedere segni, significati nascosti, simboli, nelle sofferenze, nelle depressioni, negli inaridimenti di tutti i giorni.

Vederli e leggerli persino se non ci sono; se li si vede, si può costruire una struttura e leggere un messaggio nel trascorrere amorfo delle cose e nel flusso monotono dei fatti storici».

 

Ma per comprendere meglio una simile postura esistenziale – tale per cui una biografia privata trova il proprio senso ultimo trasfigurandosi nella reincarnazione di un personaggio mitologico, o nell’autoidentificazione con un eroe dei tempi primordiali – è bene ricordare brevemente le peripezie, altamente significative e altamente compromettenti, di questo “Ulisse romeno” costretto a lasciare per sempre la propria “Itaca”, persa nell’Europa sud-orientale.

Nato a Bucarest nel 1907, “Mircea Eliade “entra precocissimo a far parte di quello straordinario movimento di rinascita culturale che fiorisce in Romania nel periodo interbellico.

 Fonda riviste letterarie, collabora alle pagine culturali di quotidiani, appena ventenne viaggia in Italia per conoscere autori come Giovanni Papini, Ernesto Buonaiuti, Giovanni Gentile;

soggiorna a Roma per la sua tesi di laurea sui filosofi rinascimentali…

E nel 1928, non appena laureato, parte con una borsa di studio per l’India, dove rimarrà ininterrottamente fino al 1931:

sono i famosi tre anni del viaggio in India, dove studierà il sanscrito, la filosofia delle Upanishad, le pratiche dello yoga, le usanze religiose dei tribali. Un’immersione nell’Oriente che, una volta fatto ritorno in patria, gli permetterà fin da subito di distinguersi non solo in Romania ma anche in Europa come eccellente studioso di orientalistica e di mistica indiana.

 Non solo: oltre alla saggistica, comincia a pubblicare romanzi, racconti, diari di viaggio, che gli valgono una fama immediata e, non ancor trentenne, lo proiettano al centro della scena culturale romena.

Di più: si dedica pure allo studio del folclore romeno e s’impegna in un indefesso lavoro di politica culturale per promuovere la “romenità”, le tradizioni culturali dell’area balcanica, l’identità del popolo romeno, rimasto fino allora ai margini della storia europea.

 

Ma qui cominciano i problemi.

In tale slancio di difesa dell’autenticità spirituale romena, Eliade entra a far parte del movimento radicale di destra della Guardia di Ferro.

Senza spingersi fino a concezioni razziste a sfondo biologico o all’affermazione esplicita di tesi antiebraiche, senza mai richiamarsi a presunti complotti ebraico-comunisti (lo ha chiarito, credo definitivamente, Roberto Scagno in Libertà e terrore della storia. Studi sull’opera e il pensiero di Mircea Eliade, ed. dell’Orso, 2022), tuttavia Eliade si fa sostenitore di una rigida visione etno-nazionalista, a sfondo xenofobo.

Se ne accorge bene il suo grande amico, lo scrittore ebreo “Mihail Sebastian” (1907-1945), di cui Castelvecchi ha pubblicato recentemente lo straordinario Diario.

Il 2 marzo 1937 annota dunque “Sebastian”:

 

«Lunga discussione politica con Mircea, a casa sua. È stato lirico, confuso, prodigo di esclamazioni, di battute, invettive (…) Dichiara finalmente, in modo sincero, la sua infatuazione per la Guardia di Ferro, confidando in essa e aspettandone la vittoria (…) Sua spiegazione in base alla quale lui aderisce con tanto ardore alla Guardia: “Io ho sempre creduto nel primato dello spirito”. Non è né un ciarlatano né un demente. È semplicemente un ingenuo. Ma esistono ingenuità così catastrofiche!».

 

Molto più lucido di Eliade, l’amico Sebastian coglie con autentico dispiacere il punto debole di queste posizioni:

malgrado la sua genialità di studioso delle tradizioni religiose, Eliade non ha alcun senso delle dinamiche politiche e si lascia stolidamente trascinare nella compromissione disastrosa con un movimento fascista.

 La sua salvezza sta nel fatto di essersi sempre limitato, nell’ambito della “Garda de Fier”, a un impegno politico secondario, più ideale che concreto.

 Ma dopo il colpo di Stato con cui il re Carol II mette fuori gioco il gruppo dirigente della Guardia, anche Eliade (nel febbraio del 1938) viene internato nel campo di concentramento di “Miercurea Ciuc”.

 La sua fortuna, appunto, rimane quella di essere sempre stato un esponente di secondo piano della “Guardia” e soprattutto di avere buone conoscenze ai piani alti della politica.

 Nel novembre del 1938 viene così scarcerato e può fare ritorno a Bucarest con l’impegno di tenersi d’ora in poi lontano da ogni impegno politico: un monito che Eliade accetterà subito e di buon grado.

 Allo scoppio della guerra riesce a farsi nominare addetto culturale presso la legazione reale di Romania a Londra e quindi (nel 1941) consigliere culturale all’ambasciata romena di Lisbona, dove rimarrà fino al settembre del 1945.

 In madrepatria non tornerà mai più:

sa bene che, se avesse tentato di farlo, sarebbe stato subito arrestato dal nuovo regime comunista, e questa volta non lo avrebbero mai liberato.

Il lungo, malinconico soggiorno portoghese, mentre la guerra infuria in Europa e in Romania, si rivela una sorta di limbo sospeso, un triste periodo di latenza e solitudine (l’amatissima moglie Nina Mareş muore a Lisbona):

un isolamento che gli permetterà tuttavia di redigere quegli studi preparatori sullo sciamanesimo, sullo yoga, sulla storia delle religioni, che verranno pubblicati, a ritmo incalzante e con successo crescente, poco dopo la fine della guerra e via via, senza interruzione, in tutti gli anni successivi, fino alla morte, sopraggiunta a Chicago nel 1986, all’età di 79 anni.

 

Ma intanto, alla fine della guerra, con la chiusura della “Reale Ambasciata di Romania”, lui a Lisbona non può più rimanere.

Sollecitato del grande linguista “Georges Dumézil”, incoraggiato dal vecchio amico romeno “Emil Cioran” (già rifugiato a Parigi come apolide), Eliade accoglie l’opportunità di trasferirsi in Francia.

 Così, il 17 settembre 1945, annota nella prima pagina del suo nuovo Diario:

«Siamo arrivati ieri mattina, domenica 16 settembre, Emil Cioran ci aveva prenotato due camere all’Hôtel de l’Avenir, al 65 di rue Madame».

Non ha un soldo, non ha un lavoro. Per Eliade è l’inizio del “grande esilio”.            

 

Il Diario annota via via gli eventi più significativi (il primo insegnamento presso l’”École des Hautes Études”;

il nuovo matrimonio con un’altra esule romena, l’amabile “Christinel Cottesco”; i seminari ad Ascona con lo “stregonesco” Carl Gustav Jung…);

ci riporta poi gli affascinanti incontri con “Emil Cioran”,” Eugène Ionesco”, “Allen Gisnberg”…;

 si sofferma sempre con entusiasmo sui ripetuti viaggi in Italia;

ci propone illuminanti riflessioni sul mito, sull’arte, il movimento hippie; il tutto intercalato da una continua sofferenza per le notizie disastrose che gli giungono senza posa da una Romania ormai reclusa al di là della Cortina di Ferro…

Insomma, ci troviamo di fronte alla straordinaria narrazione di un’interminabile peripezia vissuta da un espatriato di metà Novecento. Ma ciò che tiene le fila di queste disparate riflessioni autobiografiche è la trasfigurazione del Diario in una sorta di “seconda patria”, alternativa a quella perduta.

Non appena giunto a Parigi, Eliade dovrà per forza redigere in francese prima e in inglese poi i suoi testi di antropologia religiosa.

Ma il Diario lo deve assolutamente scrivere in romeno, per mantenere il legame con le proprie origini.

 E queste origini, sempre presenti, anzi assillanti in lui, gli si manifestano a più riprese, nel corso di improvvisi accadimenti che lo sconvolgono in modo struggente e che lui riporta ogni volta con uno strazio che mai si attenua.

 

Il 25/7/46, gli basta la visione serale di una chiatta ancorata sulle rive della Senna, per fargli rivivere «con precisione allucinante» i viaggi giovanili sul Danubio.

Allora corre a casa per «salvare» l’intensità di questo ricordo annotandolo sul Diario:

così, la traboccante «gioia segreta», ineffabile, che aveva provato a suo tempo sul grande fiume romeno, lo travolge ora di nuovo con uguale intensità a Parigi, come se il tempo originario gli fosse ritornato intatto nel tempo dell’esilio.

Intatto, ma irrecuperabile, se non in una sorta di “fuoriuscita dal tempo”.

Come osserva lui stesso qualche anno più tardi:

«con un tumulto via via crescente avvertivo dentro di me questa rivelazione:

 la condizione dell’esilio è una lunga e ardua prova iniziatica destinata a purificarci, a trasformarci.

La patria lontana, inaccessibile, è come un Paradiso al quale torniamo spiritualmente, vale a dire “in spirito”, in segreto, ma realmente».

E a quel punto «poco importa se mai torneremo fisicamente nel nostro Paese».

 

Ma perché «poco importa», se tanto dolente è il desiderio?

Perché proprio il Diario può permettere di interrompere l’irreversibilità dei fatti storici, inseriti in una serie lineare di accadimenti unidirezionali, che fuggono e premono senza posa verso il futuro.

 Dunque è proprio la scrittura diaristica quella che «salva “fissandoli” dei frammenti di tempo concreto».

 Quando Eliade racconta (il 10/1/60) di aver sfiorato per caso, con la sommità del capo, il soffitto della sua mansarda parigina, annota che quella stessa sensazione l’aveva provata un tempo nell’angolo della mansarda dove alloggiava da giovane in via Melodiei, a Bucarest. Questa «traslazione istantanea» degli anni romeni 1922-25 nell’anno 1960 a Parigi gli procura allora la rivelazione «quasi inebriante che il senso della mia vita, adesso, in questo giorno in questo anno consista nel riunire queste due mansarde, nel reintegrare in uno stesso universo questi due mondi: l’adolescenza, la maturità».

Dunque il massimo del senso non sta nel mero recupero di un passato per sempre trascorso e quindi non più vivibile nella sua integrità originaria, bensì nella reduplicazione del tempo perduto nel tempo presente. Proprio tale «traslazione» temporale, permette di spezzare la catena lin

eare degli istanti per accedere alla libertà di un nuovo tempo extrastorico, “eterno”, dove il senso della vita finalmente ci inonda in pienezza.

 

Simile sotto molti aspetti alla rivelazione proustiana del tempo ritrovato (cosa di cui Eliade era ben cosciente) tale irruzione di una dimensione sacra del senso all’interno della quotidianità profana colpisce per l’intensità estatica da cui Eliade viene travolto durante tali epifanie.

Ma dobbiamo a questo punto soffermarci su una particolarità eccezionale, cruciale del vissuto eliadiano, cui ancora non abbiamo fatto riferimento.

Vale a dire la capacità visionaria, direi quasi allucinatoria, cui il nostro amico risulta oltremodo propenso.

Nel Diario ne parla lui stesso più volte per esteso.

Di tanto in tanto, senza un’esplicita intenzione preliminare, cade in preda di quello che definisce “rêve éveillé”, un sogno a occhi aperti, il quale s’impone alla sua immaginazione fino a farlo cadere in una sorta di trance:

una visione, una fantasia in cui lui rimane sì cosciente, ma alla quale non riesce a sottrarsi.

 Il 27/8/51, ad esempio, durante i seminari di “Eranos ad Ascona” con Jung, mentre in camera si sta preparando a tenere una lezione sullo yoga, vede d’improvviso sé stesso mentre parla in sanscrito ai partecipanti, «incapace di esprimersi in altra lingua».

Osserva gli astanti sconvolti, “Jung” molto interessato e sornione, la moglie “Christinel” angosciata;

 lui intanto s’immagina di gettare via i vestiti, per insediarsi come un guru indù in riva al lago Maggiore. S

i vede mentre cammina sulle acque, mentre discute in sanscrito con sapienti che “Jung” ha fatto appositamente giungere dall’India… «Questo rêve éveillé – annota nel Diario – mi ha “dominato” con un’incomprensibile forza per una mezz’ora (…)

Per tutta la durata del sogno sapevo il sanscrito meglio di quanto lo sappia in realtà.

Mi sentivo parlarlo, cosa di cui sono incapace dal 1932 (…)

Mi chiedo se, a furia di riflettere sui processi yogi di liberazione del tempo, non abbia “animato” un’immagine capace di provocarmi questa euforia e questa “uscita” fuori dal tempo mai sperimentata fino a ora».

 

Un’altra volta, nel 1957 (data imprecisata), mentre si trova a Parigi, convalescente da una malattia, disteso su un divano «tutto a un tratto mi vidi morto, deposto in una bara e trasportato nella chiesa romena di rue Jean de Beauvais.

 A un certo punto della funzione religiosa la bara d’improvviso iniziò ad alzarsi in aria, uscì lentamente dalla porta (…) si diresse verso sud». Eliade, sempre in preda alla visione, si libra a propria volta dietro la bara in volo, finché questa non plana sulla sponda del Danubio.

Poi il feretro riprende la sua traversata celeste verso Bucarest, mentre lui deve rimanere appiedato sulla riva bulgara del fiume, impossibilitato a proseguire fino in patria.

«Questo stato di sogno a occhi aperti – conclude Eliade – durò all’incirca mezz’ora.

Più volte tentai d’interromperlo, mettendomi a leggere qualcosa, ma dopo qualche istante mi sorprendevo di nuovo a seguire la bara coperta di fiori, che fluttuava tra le Alpi e il Danubio».

 

Potremmo proseguire con ulteriori episodi del genere, simili agli stati di possessione, ai voli estatici tipici di quegli sciamani siberiani studiati più volte sui libri da Eliade stesso, senza che si fosse mai spinto fino in Siberia, senza aver mai compiuto una ricerca diretta sul campo.

 Ma non ne aveva bisogno.

Non solo perché aveva letto tutto il possibile sulla materia, ma anche perché la sua sorprendente capacità visionaria gli permetteva di “vivere” personalmente i fenomeni estatici che andava studiando, con estrema lucidità ma anche con estrema intensità.

A questo proposito, lui stesso annota il 10/11/59:

 

«I trent’anni e più che ho passato in mezzo a dèi e dee esotici, nutrito di miti, ossessionato dai simboli, cullato e stregato da tante immagini arrivate fino a me da questi mondi scomparsi, mi appaiono oggi come le tappe di una lunga iniziazione.

A ciascuna di queste figure divine, a ciascuno di questi miti e simboli si ricollega un periodo affrontato e superato.

Quante volte c’è mancato poco che mi “perdessi”, mi smarrissi in quel labirinto (…)

 Non furono solo delle “conoscenze” acquisite lentamente in tutta calma nei libri, ma anche altrettanti incontri, sfide, tentazioni.

 Oggi mi rendo perfettamente conto di tutti i pericoli che ho rasentato durante questa lunga “ricerca” e, in primissimo luogo, il rischio di dimenticare che avevo uno scopo, che mi stavo dirigendo verso qualcosa, che volevo arrivare a un “centro”».

 

Per quanto condotta solo a tavolino, e non sul campo, lo strenuo rigore della sua ricerca sui miti, i riti, i simboli delle religioni arcaiche ha permesso a Eliade di comprendere le strutture del pensiero religioso non solo grazie alla meticolosità dello studio (non pubblicava nulla senza prima essere sicuro di aver letto tutto quanto era stato scritto sull’argomento) ma anche grazie alla sua capacità di identificarsi totalmente, di immergersi con tutta la propria capacità immaginativa, nella cultura religiosa che di volta in volta andava studiando.

Come se lui fosse appunto una sorta di “sciamano alla scrivania”.

Il che significava però rischiare di perdersi nel labirinto delle credenze senza più riuscire a districarsene.

Ci si può chiedere dunque come abbia potuto superare questa estrema Prova del labirinto – per citare il titolo dell’illuminante intervista che gli fece “Claude-Henri Rocquet” (Jaca Book, 1980).

 Ma appunto, ci è riuscito immaginando se stesso non più come un esule sperduto, schiacciato e terrorizzato dalle vicende tumultuose della storia, bensì auto- raffigurandosi quale protagonista di un misterioso rito iniziatico, come se la sua tragica vicenda di nomade smarrito in un labirinto, non fosse semplicemente una peripezia individuale, personale, limitata, ma la ripetizione, fuori dal tempo storico, delle gesta esemplari di un “eroe mitico”, che doveva superare una prova iniziatica per uscire dal labirinto e ritrovare quel nuovo “centro” della propria vita che le potenze del destino gli avevano riservato.    

 

La scossa di Draghi e Mattarella all'Ue:

"Dobbiamo agire, stare fermi non è un'opzione."

Today.it – Redazione – Mario Draghi – (14 maggio 2025) – ci dice:

 

L'ex presidente della Bce e del Consiglio italiano: "Con i dazi siamo al punto di rottura dell'ordine multilaterale".

 Il capo dello Stato: "Stare fermi non è più un'opzione."

(LaPresse).

"Con i dazi siamo al punto di rottura dell'ordine multilaterale."

 È questo l'allarme senza precedenti che ha lanciato Mario Draghi intervenendo al XVIII Simposio Cotec a Coimbra, in Portogallo.

 L'ex presidente della Bce e del Consiglio italiano ha criticato l'uso crescente di azioni unilaterali per risolvere le dispute commerciali e il progressivo svuotamento dell'”Organizzazione mondiale del commercio” (Wto), parlando di un danno "difficilmente reversibile" per il sistema multilaterale, in quello che è un velato attacco alle politiche adottate dal presidente Usa Donald Trump.

 

A fargli eco, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha chiuso il vertice insieme al re di Spagna Filippo VI e al presidente portoghese “Marcelo Rebelo” de Sousa.

"Il nostro Simposio lancia un appello all'azione di grande attualità: è urgente, direi prioritario, che l'Europa agisca.

Stare fermi non è più un'opzione", ha affermato, citando persino Giacomo Puccini: "Nessun dorma dentro l'Ue".

Il ritardo tecnologico europeo.

Nel suo intervento, Draghi ha posto l'accento sul ritardo accumulato dall'Europa nelle "rivoluzioni" del cloud computing e dell'intelligenza artificiale.

"Ci siamo ritrovati tagliati fuori, pur continuando a creare un ambiente che ostacola l'innovazione radicale".

In particolare, l'ex premier ha individuato nella frammentazione del mercato unico e nelle rigidità regolatorie due delle principali cause del mancato sviluppo tecnologico europeo.

 

Draghi, la ricetta è nota: ora serve il "do something."

"Le nostre politiche di concorrenza non si sono adattate alla trasformazione tecnologica in corso.

L'innovazione avrebbe dovuto giocare un ruolo maggiore nelle decisioni", ha affermato Draghi, denunciando un eccesso di regolamentazione che penalizza soprattutto le piccole imprese europee, incapaci di competere con i giganti statunitensi.

"Oggi ci troviamo con oltre 270 regolatori attivi nelle reti digitali nei vari Stati membri: un quadro frammentato e, in alcuni ambiti, eccessivo".

Difesa comune e integrazione.

Sul fronte europeo, Draghi ha puntato il dito contro la lentezza degli Stati membri: "Il debito comune Ue è la chiave per investire nella difesa, ma solo cinque Paesi dell'Eurozona hanno finora attivato la clausola di salvaguardia".

Una situazione che rischia di lasciare l’Europa indietro in un contesto geopolitico sempre più instabile.

L'Unione Europea dispone, nel suo complesso, di una delle forze armate più numerose al mondo, con 1,4 milioni di militari.

Eppure, sul piano della difesa, resta "irrilevante", sostiene Draghi.

"Oggi l'Europa può contare su una delle più grandi forze militari globali, ma è divisa in 27 eserciti nazionali, senza una catena di comando comune, tecnologicamente frammentata e priva di una strategia condivisa", ha spiegato l'ex premier.

Un assetto che, a suo avviso, compromette la capacità dell'Unione di reagire efficacemente alle minacce.

 

Draghi ha ricordato come "le crescenti minacce sul nostro confine orientale siano evidenti da almeno un decennio".

E ha accusato Mosca di non aver mai nascosto la propria ostilità verso l'Europa. "La Russia ci considera un nemico da indebolire attraverso la guerra ibrida:

 dieci anni fa ha annesso la Crimea, tre anni fa ha invaso l’Ucraina", ha detto. Nonostante questo scenario, secondo l'ex premier italiano, l'Europa ha fatto "ben poco" per rafforzare la propria sicurezza.

 

Anche il presidente Mattarella ha rilanciato la necessità di una difesa comune europea, un tema che, ha ricordato, è sul tavolo da oltre 70 anni, fin dal “Trattato di Parigi “del 1952.

"Non è difficile immaginare quale sarebbe oggi la condizione dell'Unione se avessimo compiuto quel salto politico allora", ha osservato.

Secondo Mattarella, l'Europa è oggi "in ritardo, in rincorsa rispetto agli eventi" e deve agire con urgenza.

Le iniziative promosse dalla Commissione europea vanno nella giusta direzione, ma restano "un primo passo".

Per il capo dello Stato serve una piena consapevolezza della posta in gioco:

"I rischi dell'immobilismo, come illustrato nei” Rapporti Draghi e Letta”, includono un arretramento nel benessere diffuso e un allontanamento dalla frontiera tecnologica, con gravi vulnerabilità strategiche e geopolitiche".

(today.it/politica/draghi-mattarella-ue-dobbiamo-agire-dazi-cotec.html).

 

 

 

 

Il nuovo secolo di Netanyahu.

Iari.site - (14 Ottobre 2024) - Omar Mohsen- ci dice:

 

“Non fate i nostri stessi errori”. Così aveva ammonito il Presidente Joe Biden   all’ indomani dei tragici fatti del 7 ottobre rivolgendosi ad Israele.

 Già a inizio millennio si parlò di ridefinire la mappa del Medioriente, e si tentò di farlo manu militari.

 Tuttavia, lo iato tra obiettivi ed esiti fu enorme.  E ancor oggi se ne sentono le conseguenze. 

 

Il progetto dei neocon americani

Ridisegnare il Medioriente. Questo l’obiettivo che ha dichiarato di essersi posto Netanyahu.

Evidenti per molti versi le similitudini con quanto accaduto nella prima decade degli anni 2000, quando a voler riconfigurare la mappa della Regione furono gli Stati Uniti. 

La politica americana dell’allora presidente George W. Bush si uniformava a quelle che erano le linee guidata portate avanti dagli ambienti neocon, e che grosso modo facevano riferimento al think thank“Project for the New American Century “(PNAC).

La finalità era una riarticolazione della mappa dell’area e passava per la fine del regime di “Saddam Hussain”.

 

Con l’eventuale caduta del rais iracheno si puntava infatti, nelle intenzioni degli ambienti neo-conservatori, a promuovere l’influenza della componente sciita in vista di una futura democratizzazione del Paese tra i due fiumi.

Ciò avrebbe avuto un effetto spillover in tutta la Regione e, anche e soprattutto, in Iran.

A informare le scelte del PNAC intellettuali vicini alla destra israeliana del Likud, a loro volta “ansiosi” di seppellire la politica degli accordi di Oslo — portata avanti dall’amministrazione Clinton — in vista di nuove dinamiche regionali. Le idee neocon plasmarono la “strategia” del presidente George Bush in Medioriente:

una politica quella di Bush Junior che, lungi dal promuovere una democratizzazione dell’area sullo stile occidentale e favorire il processo di pace, finì esclusivamente per aumentare l’influenza della Repubblica islamica nella Regione.

Se in un primo momento questa è stata rallentata dalla presenza di truppe statunitensi, il disimpegno americano ha via via tolto il freno all’espansione iraniana.

 Le Primavere arabe e la guerriglia sunnita hanno paradossalmente costituito un ultimo baluardo rispetto a quest’espansione, facendo sorgere dubbi in merito a un loro eventuale appoggio da parte di ambienti ostili all’Iran.

 Soprassedendo l’elemento puramente ideologico, e tenendo presente il ruolo dell’intelligence baathista nel manovrare e sostenere l’azione di “Daesh”, la guerra contro il sedicente “Stato islamico in Mesopotamia” può essere letta come un ultimo atto della pluriennale lotta tra Iraq e Iran.

Una contrapposizione egemonica che precede la nascita della Repubblica islamica e che vede l’instaurazione di un’alleanza tattica tra lo Shah e il Governo di Tel Aviv;

alleanza proseguita, a dispetto dei proclami infuocati contro quello che gli Ayatollah definivano come “piccolo Satana”, anche nei primi anni della Repubblica Islamica, con il sostegno indiretto israeliano a Teheran in funzione anti-irachena. Sconfitto il “Daesh”, diminuita la presenza americana, respinti gli accordi del JCPOA, Teheran ha visto aprirsi spazi per consolidare la propria sfera d’influenza.

Gli auspici portati avanti dal PNAC hanno dunque finito per rivelarsi totalmente errati e la proiezione iraniana nella regione non ha fatto che rinvigorire ulteriormente il regime, consentendo in qualche modo di “sedare” il dissenso interno attraverso i successi esterni. In tal modo, si è inoltre irrobustita la componente dei pasdaran nell’ambito del regime iraniano compromettendo, tra le altre cose, il ruolo, il peso e le funzioni dell’ala politica riformista.

 

 Esiste la “mappa” di Netanyahu.

Proprio come l’ideologia neocon e la guerra al terrore del Presidente George Bush hanno finito per destabilizzare irrimediabilmente la Regione, la politica portata avanti da Netanyahu, e il suo progetto di ridisegnare la mappa del Medioriente, potrebbero rivelarsi allo stesso modo fallimentari e deleteri. 

 

In primo luogo si consideri come di fatto la politica della

 “guerra infinita” di Israele, al momento articolata su ben 6 fronti, abbia una funzione contrapposta ma complementare a quella dell’Iran: vengono proiettate all’esterno fragilità di natura interna e la conservazione dello status quo è mantenuta in equilibrio grazie a uno “stato di eccezione” permanente.

Inoltre, questa politica va contro gli auspici di quei Paesi arabi del Golfo che sarebbero i partner principali di un possibile nuovo ordine regionale:

ovvero la stabilità e il mantenimento di un quadro geopolitico non conflittuale e funzionale all’implementazione delle politiche posto il contenute nei vari progetti “Vision” delle diverse Monarchie della Penisola arabica.

Pare inutile sottolineare come le violazioni dei coloni, la mattanza del 7 ottobre, la pulizia etnica di Gaza e i bombardamenti in Libano, non facciano altro che aumentare la radicalizzazione e la polarizzazione dei fronti.

 Si noti inoltre l’effetto che tutto ciò sta avendo sulle masse dei vari Paesi arabi; Paesi con i quali Tel Aviv vorrebbe implementare rapporti di partenariato, ma le cui popolazioni guarderanno con sempre più simpatia al regime di Teheran.

 

Allo stato attuale, l’Arabia Saudita — attore che riesce a dialogare tanto con Washington che con Pechino, che ha congelato il processo di normalizzazione con Tel Aviv, ma guarda a una pacificazione regionale, e che, al tempo stesso, ha rinsaldato i canali diplomatici con Teheran — pare potenzialmente il soggetto politico maggiormente in grado di porsi nel ruolo di stabilizzatore regionale e frenare l’escalation in corso.

Nonostante molti analisti facciano spesso riferimento al fatto che Tel Aviv stia facendo il lavoro sporco che Riad vorrebbe, ma non può, fare, è altrettanto vero che, come appena affermato qui sopra, gli imperativi derivanti dal nuovo corso economico intrapreso dall’Arabia Saudita stonano con ogni tentativo di escalation e contrapposizione militare con l’Iran. 

Qualsiasi   progetto di riconciliazione e successiva integrazione, inoltre, non potrà evitare di affrontare l’annosa questione palestinese, passando per un reciproco riconoscimento tra Israele e Palestina e, possibilmente, per un cambio di paradigma nella gestione del problema delle due rispettive statualità.

 

 

 

 

Stiamo vivendo in un nuovo secolo americano, nonostante tutto.

 Linkiesta.it - Francesco Costa – (6-3-2024) – ci dice:

Negli Stati Uniti oggi si vedono grandi conquiste economiche, ambientali, sociali, bilanciate da una spaccatura politica che per certi versi risulta incomprensibile. Una realtà apparentemente assurda raccontata da Francesco Costa in “Frontiera.” (Mondadori).

(LaPresse).

Gli americani si vestono come gli pare. Se accantonassimo per un momento la nostra passione nazionale per la moda e lo stile, peraltro forse più sbandierata che praticata, potremmo considerarla una qualità ammirevole, tra molte altre loro caratteristiche che invece non capiamo – oppure che capiamo, e ci fanno inorridire.

I giornali scandalistici ci hanno abituati a servizi fotografici che mostrano le star di Hollywood in condizioni pietose mentre scendono dalla macchina o spingono il carrello della spesa.

Contano sulla nostra reazione scandalizzata, «ma hai visto come si è ridotto», «era così bella in quel film», «non l’avevo riconosciuto», «guarda che capelli!».

Siamo fuori strada.

Quella storia che ci raccontiamo spesso sull’importanza di essere noi stessi, di non sentirci obbligati a adeguarci a un modello stabilito da qualcun altro, di anteporre il nostro benessere al giudizio altrui… ecco, da quelle parti la praticano per davvero.

 Negli Stati Uniti non c’è niente di particolarmente bizzarro in una donna in coda da Starbucks con le pantofole, o in un uomo che gira per negozi indossando uno di quei vecchi e comodissimi maglioni sdruciti da domenica pomeriggio sul divano.

Se gli gira, gli americani si presentano a cena dagli amici con gli infradito, pur trovandosi magari a qualche migliaio di chilometri dalla spiaggia.

 Il sabato si mettono in macchina e vanno a fare la spesa in pigiama.

 Nelle occasioni eleganti indossano abiti improbabili e sempre della taglia sbagliata.

E quello che vale per l’abbigliamento vale per quasi tutto il resto.

Who cares, cosa importa? si chiedono.

Sono americani: il mondo non li spaventa.

O meglio, il mondo li spaventa, certo che li spaventa: lo vediamo bene anche noi, guardandoli da fuori.

Ma loro tirano dritto, come se non se ne rendessero conto.

Abbiamo una certa familiarità con il nazionalismo statunitense, la mano sul cuore durante l’inno nazionale, le bandiere in giardino, la scritta «In God We Trust» sui dollari e il giuramento di fedeltà alla patria recitato a scuola ogni mattina. Tutto ci sembra sopra le righe.

La loro aggressività infantile ci inquieta.

Il loro atteggiamento spaccone ci respinge.

 Ci capita persino di provare uno strano imbarazzo quando li osserviamo descriversi e sentirsi speciali, il popolo eletto, la guida del mondo libero, un faro di speranza, una città splendente sulla collina:

tutte espressioni che gli americani usano di frequente e senza ironia per parlare della loro nazione.

Ci sembra mitomania, oppure propaganda, ma quello di cui non siamo consapevoli è che i primi bersagli di questa propaganda sono gli americani stessi:

 e quindi che il principale obiettivo e risultato di questi sforzi non sia convincere noi, il mondo fuori, della loro eccezionalità, bensì convincere sé stessi.

E sapete che c’è? Vero o falso che sia, funziona.

Ci credono, quindi ogni tanto ci riescono.

 

Lo stiamo vedendo ancora una volta in questi anni.

A fronte della nota narrazione sul loro declino, infatti, negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno allargato la forza lavoro come non era mai accaduto prima, e il tasso di disoccupazione è sceso ai livelli più bassi degli ultimi cinquant’anni.

La loro economia è cresciuta con tassi vicini al cinque per cento l’anno, abbattendo l’inflazione molto prima del resto dell’Occidente e facendo crescere gli stipendi più dell’inflazione;

e lo hanno fatto mentre tagliavano le emissioni inquinanti.

 Hanno innescato una nuova rinascita industriale, hanno deciso il più grande investimento pubblico di sempre contro il cambiamento climatico, hanno abbracciato le energie rinnovabili con una rapidità che ha stupito gli esperti mentre, contemporaneamente, diventavano esportatori netti di petrolio: stanno cambiando, con grande rapidità, sotto i nostri occhi.

Le loro alleanze politiche e militari sono più salde che in qualsiasi altro momento degli ultimi vent’anni, mentre la Nato, data a lungo per moribonda, è stata resuscitata e allargata.

 Intanto la rivale del secolo, la Cina, affronta la crisi economica più grave degli ultimi decenni e rinuncia al sogno del tanto atteso sorpasso, ripiegandosi su se stessa fra grandi incertezze e timori.

Quante cose sono cambiate in pochi anni.

Nonostante le battute d’arresto e gli eventi traumatici non siano mancati, e tanti dei problemi del paese siano ancora lontani dall’essere risolti – ne parleremo –, questa accelerazione sorprendente si spiega con l’esistenza di un paese che vediamo meno, ma c’è e c’è sempre stato, e sa reagire ai danni che infligge a sé stesso.

 

Un paese profondo, ma non nel senso di bigotto: profondo proprio in quanto sotterraneo, nascosto agli sguardi dei turisti e tuttavia in bella vista, lontano dalle attenzioni dei media internazionali, dalla litigiosità della politica e dalla polemica perpetua dei social media, costruito sulle relazioni dirette tra le persone e sui loro valori comuni, su tutti il culto della libertà, dell’identità, dell’efficienza, del denaro. In ogni momento e in ogni luogo che gli appartenga, gli Stati Uniti sono coinvolti da una miriade di fenomeni, alcuni piccolissimi e altri giganteschi, che cambiano il paese in modi anche piuttosto radicali: invenzioni, progetti, culture e sottoculture, idee, investimenti, volontariato, raccolte fondi, attivismi, studi, lotte.

Di solito ce ne accorgiamo a cose fatte, quando inevitabilmente rotolano dalle nostre parti.

Ispirate da un atteggiamento culturale che non conosce la modestia e non ha paura di bruciare le navi una volta arrivate in porto, le persone statunitensi sono gli animali sociali e imprenditoriali per eccellenza: quelli che sanno giocare meglio al gioco del capitalismo, che ci piacciano o no le sue regole.

A completare un quadro che diventa più spiazzante man mano che ci avviciniamo osservandoli, tutto viene tenuto insieme da un senso di comunità fortissimo, anche e soprattutto negli angoli più isolati e rurali, malgrado i luoghi comuni.

 Spesso è la prima cosa a colpire gli italiani che si trasferiscono oltreoceano, soprattutto se evitano le metropoli feroci come New York, San Francisco o Los Angeles.

 

Eppure l’aria è sempre elettrica, e tutti hanno la sensazione di ballare sul famoso orlo del precipizio.

 Il benessere economico senza precedenti di questi anni ha raggiunto anche e soprattutto i gruppi sociali più marginalizzati, ma non ha attenuato le tensioni.

La radicalizzazione non si è arrestata e coinvolge ormai specularmente sia la destra sia la sinistra.

Le differenze culturali fra conservatori e progressisti si sono allargate, così come quelle tra le città e la provincia.

La paralisi della politica sui temi dal maggior valore identitario e simbolico ha congegnato dei generatori perpetui di sofferenza, come l’immigrazione e le armi. La presa di coscienza collettiva sulla pervasività del razzismo seguita all’omicidio di George Floyd ha cambiato molte cose, ma ha anche esacerbato nervosismi e intolleranze, invece che mitigarle.

 Le donne, poi, hanno addirittura perso il diritto a interrompere una gravidanza.

 E c’è un ex presidente che ha cercato in ogni modo di restare al potere dopo la sconfitta, anche facendo ricorso alla violenza, che deve rispondere di novantuno gravi capi d’accusa e che nonostante questo – o proprio per questo? – viene venerato da un’agguerrita minoranza della popolazione, che lo tratta più come un messia che come un leader politico.

La più grande e influente superpotenza del pianeta, l’unica nazione mai costruita sulla sistematica mescolanza di popoli e culture diverse, sta attraversando un momento affascinante e contraddittorio, molto raccontato e poco compreso, per certi versi unico nella sua vicenda nazionale.

 Com’è possibile che queste cose accadano insieme, nello stesso posto?

Cos’hanno in testa gli americani?

In che modo guardano a sé stessi e al mondo?

 Cosa vogliono dal presente e dal futuro?

 

 

 

 

Governanti e bande di stupratori:

 come i traditori al vertice hanno

importato e incubato il male non-bianco.

Unz.com - Tobias Langdon – (9 maggio 2025) – ci dice:

 

Dov'era allora la regina? Dov'è il Re adesso?

E dov'è stata la Chiesa ovunque? Da nessuna parte, ecco dove.

Né gli individui né l'istituzione hanno pronunciato una parola per condannare le fiorenti bande di stupratori non-bianchi in Gran Bretagna o in difesa delle vittime bianche.

E né gli individui né l'istituzione possono dire: "Non lo sapevamo".

 

Violentata da musulmani pakistani, tradita dall'élite laburista: una ragazza bianca della classe operaia in Groomed: A National Scandal.

Entro il 2020, l'intero Paese lo sapeva.

Le bande di stupratori erano state ripetutamente denunciate dai media nazionali e nessuno poteva negare di esserne a conoscenza.

 Ma i governanti britannici sono chiaramente dalla parte degli stupratori, non delle vittime.

Elisabetta la Malvagia  Chuck il Cornuto e la Chiesa di Mudzone lo hanno reso chiaro con il loro silenzio.

I nostri attuali governanti laburisti lo hanno reso chiaro con i loro sarcasmi.

I sarcasmi in questione sono arrivati in risposta a Groomed:

uno scandalo nazionale ONU documentario straziante sulle bande di stupratori trasmesso in televisione nazionale nell'aprile 2025.

A Lucy Powell, un'apparatchik d'élite laburista, è stato chiesto durante un dibattito radiofonico se avesse visto il documentario.

Ha risposto immediatamente :

 "Oh, vogliamo suonare quella piccola tromba ora, vero?

Sì, ok, tiriamo fuori quel fischietto per cani".

 Con "fischietto per cani" intendeva "un appello mascherato ai razzisti"

 Ed è chiaro che Powell, che è nientemeno che il “Leader della Camera dei Comuni” , stava parlando a nome dell'intera élite laburista. L

ei e le sue compagne ferocemente femministe credono che sia sbagliato e razzista menzionare lo stupro organizzato di decine o addirittura centinaia di migliaia di ragazze bianche della classe operaia da parte di bande di stupratori musulmani pakistani nelle città e nei paesi controllati dai laburisti in tutta la Gran Bretagna.

 

Come identificare il pensiero criminale.

Ed è proprio perché il suo ghigno era così chiaro che ha dovuto fingere il contrario. Il giorno dopo ha presentato delle scuse insincere ed evasive, dicendo:

"Nel vivo di una discussione su AQ [Any Questions , il dibattito radiofonico], vorrei chiarire che considero le questioni dello sfruttamento e dell'adescamento dei minori con la massima serietà.

Mi dispiace se non sono stata chiara.

Stavo contestando il ricatto politico che ne deriva, non la questione in sé.

Come parlamentare di circoscrizione, ho affrontato casi orrendi.

Questo governo sta agendo per arrivare alla verità e fare giustizia".

 

In effetti, come ho spiegato in " Carry on Raping ", il governo laburista sta agendo per nascondere la verità e distruggere la giustizia.

E con "score politico", Powell intendeva "qualsiasi riferimento alle bande di stupro da parte di uno psico criminale".

 E come facciamo a sapere che qualcuno è uno psico criminale?

È facile rispondere.

Se ti riferisci alle bande di stupro, sei uno psico criminale ed è quindi sbagliato e razzista da parte tua riferirti alle bande di stupro.

Circolo vizioso, pensatore del crimine!

Lucy Powell, sorridente difensore delle bande di stupratori non bianchi

Questo è l'atteggiamento ufficiale, ma taciuto, del Partito Laburista.

 O almeno, avrebbe dovuto essere taciuto.

Ma Lucy Powell ha lasciato cadere la maschera.

Il Partito Laburista, fondato per difendere la classe operaia bianca, ora è nemico convinto e spietato della classe operaia bianca.

Come la Regina, il Re e la Chiesa d'Inghilterra, l'élite laburista è dalla parte degli stupratori non bianchi, non delle ragazze bianche che sono state violentate.

E che continuano a essere violentate.

Come ammette persino il “Guardian” , “Groomed” ha chiarito che la patologia continua a dilagare in tutto il Regno devastato dagli ebrei.

 

Eretici contro l'ortodossia di sinistra.

Ma Groomed ha anche chiarito un'altra cosa:

che non tutti i progressisti collaborano o cercano di nascondere le bande di stupratori.

Il documentario è stato realizzato da una giornalista di sinistra di nome “Anna Hall”, che ha iniziato a lavorare su questo argomento quasi trent'anni fa.

 Il documentario è stato trasmesso da “Channel 4”, un'emittente decisamente di sinistra.

“Julie Bindel”, una giornalista lesbica di sinistra in parte ebrea, ha iniziato a denunciare le bande di stupratori negli anni '80.

 Lo stesso ha fatto la politica di sinistra “Ann Cryer “, deputata laburista per la circoscrizione di Keighley nello Yorkshire.

L'assistente sociale di sinistra “Jayne Senior” e la politica di sinistra” Sarah Champion”, deputata laburista per Rotherham, hanno seguito l'esempio di Cryer nel ventunesimo secolo.

Come Cryer, Bindel e Hall prima di loro, sono state denunciate come "razziste" e "islamofobe".

 

Tutte queste donne hanno coraggio morale.

 Ecco perché diventano dissidenti, eretiche contro l'ortodossia di sinistra e non rappresentano la sinistra nel suo complesso.

Quindi sì, non tutti i sinistri collaborano con le bande di stupratori, ma l'élite di sinistra certamente sì.

La sinistra come movimento è stata responsabile dell'importazione e dell'incubazione di questo male non bianco.

 E le bande di stupratori sono solo una parte di questo male.

 Importare uomini dal Terzo Mondo, amico dello stupro, ha certamente causato enormi danni e sofferenze alle giovani donne bianche.

Ma ha causato enormi danni e sofferenze anche alle donne bianche anziane. Potete essere certi che questi orrori descritti in Svezia si sono verificati in tutto l'Occidente arricchito:

Questa satira di Nick Bougas riflette accuratamente la realtà di sinistra della Svezia.

Lo scandalo dello stupro di anziani in Svezia.

Gli abusi sessuali su donne anziane da parte di assistenti migranti sono stati vergognosamente ignorati.

Nell'autunno dello scorso anno, la Svezia è stata scossa da uno scandalo che presenta alcune inquietanti somiglianze con lo scandalo delle "gang di adescamento" in Gran Bretagna.

Si tratta di un caso di portata molto più ridotta.

 Ma in Svezia, come in Gran Bretagna, sembra che molte persone vulnerabili siano state stuprate e abusate sessualmente, mentre coloro che avrebbero dovuto proteggerle non lo hanno fatto.

Inoltre, chi ricopriva posizioni di autorità a volte ha minimizzato o messo a tacere le accuse a causa della loro scarsa considerazione delle vittime e, potenzialmente, dell'identità di alcuni degli autori.

La grande differenza tra ciò che è accaduto nel Regno Unito e ciò che è accaduto in Svezia è che le vittime non erano giovani ragazze.

Erano signore anziane che dipendevano da badanti esterne che si prendevano cura di loro.

Sostengono che alcuni di questi caregiver hanno sfruttato brutalmente la loro posizione di fiducia.

 

Lo scandalo è scoppiato sul serio all'inizio di settembre dello scorso anno, quando Elsa, 84 anni (che usava lo pseudonimo di "Vera") ha deciso di parlare in un'intervista al quotidiano regionale “Upsala Nya Tidning” ( UNT ).

 [Era stata violentata dalla sua "badante" non bianca, che i funzionari di sinistra continuavano a mandarle a casa nonostante le sue ripetute lamentele sul suo comportamento inquietante.]

Quando l'UNT ha intervistato Elsa lo scorso settembre, lei ha usato lo pseudonimo di "Vera" perché era molto spaventata di ciò che la gente avrebbe pensato di lei.

Ma il suo coraggio si è rivelato un campanello d'allarme per Uppsala e, per molti versi, per la Svezia nel suo complesso.

 Nel giro di pochi giorni, altre donne anziane hanno iniziato a farsi avanti per denunciare di essere state anche loro abusate dalle loro badanti.

 In particolare, c'era Siv , anche lei di Uppsala.

 Ha raccontato ai giornalisti di essere stata regolarmente violentata da tre diverse badanti "dello stesso Paese [non bianco]".

 Uno di questi uomini era l'uomo che aveva violentato Elsa.

Non solo le facevano visita quando dovevano lavorare, ma iniziarono a presentarsi anche la sera.

La cosa andò avanti per mesi. “Siv racconta di essere stata sotto shock e di aver avuto paura di dire qualcosa a qualcuno, almeno finché Elsa non rilasciò la sua intervista.

 Ben presto, altri media iniziarono a occuparsi della vicenda.

E l'Agenzia svedese per le pari opportunità, sostenuta dal governo, iniziò a compilare un rapporto sugli abusi violenti sugli anziani.

 

Gli abusi andavano chiaramente oltre i pochi casi

 L'UNT ha contattato l'Ispettorato svedese della Salute e dell'Assistenza Sociale (IVO) e ha chiesto di visionare tutte le segnalazioni di abusi sessuali sugli anziani nel sistema di assistenza svedese negli ultimi cinque anni.

È emerso che i comuni di tutta la Svezia avevano ricevuto ben 45 segnalazioni. Alcune di queste segnalazioni riguardavano più di un autore che abusava di una singola vittima.

Altre riguardavano diverse vittime che denunciavano un singolo autore. […]

Nel 2024, l'emittente televisiva TV4 ha intervistato una signora di 80 anni di nome “Ylva”.

Seduta su una sedia a rotelle, “Ylva” ha raccontato di essere stata violentata due volte nel 2023 dalla sua badante.

Quando ha parlato con la responsabile dell'assistenza domiciliare, le hanno detto di tacere e di non dire una parola a nessuno.

Lei ha fatto come le era stato detto.

Solo quando ha visto l' articolo dell'UNT su Elsa, un anno dopo, ha trovato il coraggio di parlarne.

"Elsa è un'eroina", ha detto. Il responsabile del servizio di assistenza domiciliare di Ylva continua a evitare tutte le domande dei giornalisti.

 

I casi di abusi sugli anziani continuano ad aumentare.

Il 13 gennaio di quest'anno, “Baasim Yusuf” , un ventottenne di origine somala, è stato condannato da un tribunale di Uppsala a otto anni di carcere per due casi di stupro e tre di violenza sessuale, tutti da lui filmati.

Alcune delle sue vittime, affette da problemi di memoria, non ricordavano cosa fosse successo loro finché la polizia non ha mostrato loro le registrazioni video.

La rabbia pubblica dopo che Elsa ha parlato, scatenando un torrente di accuse orribili, è stata palpabile.

È stata eguagliata solo dalla determinazione delle autorità a soffocare lo scandalo. (" Lo scandalo degli stupri sugli anziani in Svezia ", Spiked Online , 27 aprile 2025)

 

Easton Grante ,Emmanuel Adeniji, sono stupratori gerontofili neri importati dalla sinistra.

L'Inghilterra ha avuto un prolifico stupratore gerontofilo di nome “WDelroy Easton Grant” , un nero giamaicano.

 L'Irlanda ha avuto un prolifico stupratore gerontofilo di nome “Emmanuel Adeniji” , un nero nigeriano.

Importare persone dal Terzo Mondo significa incubare patologie del Terzo Mondo e infliggere orrore a donne bianche di tutte le età.

 Durante l'importazione, l'incubazione e l'inflizione da parte della Gran Bretagna, la monarchia e la Chiesa d'Inghilterra sono rimaste in silenzio.

 Questo è un grave tradimento e la prova che abbiamo dei traditori ai vertici.

Nel frattempo, un altro grave tradimento ha avuto luogo più in basso nella scala sociale, in un'istituzione non tradizionalmente considerata di sinistra, ovvero la polizia britannica.

Il documentario “Groomed” è pieno di esempi di come una virtù vitale sembri completamente assente tra i macho della polizia britannica, proprio come sembra essere completamente assente tra i macho delle forze armate britanniche.

Si chiama coraggio morale e, a mia conoscenza, nessun agente di polizia maschio l'ha mai dimostrato in risposta alle bande di stupratori, così come nessun soldato, marinaio o aviatore maschio l'ha dimostrato in risposta alla gayizzazione dell'esercito.

I normali militari e poliziotti affronteranno facilmente la morte e le lesioni gravi perché ciò garantisce loro l'approvazione sociale e l'elogio dei loro leader. Tuttavia, non si opporranno apertamente alla sinistra perché ciò gli causerebbe la disapprovazione sociale e la condanna dei loro leader.

 Ecco perché il coraggio morale è molto più raro del coraggio fisico.

Perché non ci sono stati scioperi da parte della polizia britannica per protestare contro il modo in cui i suoi leader traditori si sono rifiutati di permettere loro di far rispettare la legge contro gli stupratori di minori non bianchi?

 Sì, è illegale per la polizia scioperare, ma questa è una ragione in più per farlo. Come la monarchia e la Chiesa d'Inghilterra al di sopra di loro, la polizia ha il potere di denunciare il male e mobilitare l'opinione pubblica in un modo che non può essere censurato o negato.

Ma come la monarchia e la Chiesa d'Inghilterra, la polizia non ha mai usato questo potere.

Immaginate l'effetto di un discorso della Regina negli anni '60 o '70 in cui denunciava l'invasione del suo regno cristiano bianco da parte di non bianchi violenti e improduttivi provenienti da culture del Terzo Mondo corrotte e infestate dalla criminalità.

E immaginate l'effetto degli scioperi della polizia nella stessa epoca in cui denunciava lo stupro organizzato e ufficialmente tollerato che era già evidente in città e paesi di tutto il paese.

 

Come porre fine alle patologie del Terzo Mondo

Ma la Regina non ha mai fatto un discorso del genere e la polizia non ha mai fatto scioperi del genere.

 La regina era una traditrice e la polizia mancava di coraggio morale.

Quelli maschili, almeno.

 E anche quasi tutte quelle femminili. Maggie Oliver era un'eccezione onorevole. Era una poliziotta di Manchester, ma non era disposta a unirsi al resto delle forze nella sua politica implicita di "Carry On Stupring".

 Manchester è una delle grandi città che ho descritto come "molto peggio di Rotherham".

Per quanto brutte siano state le bande di stupratori a Rotherham, i loro crimini sono stati riprodotti su scala molto più ampia in città come Manchester, Birmingham, Leeds e Bradford.

Sempre più bianchi lo stanno riconoscendo.

Stanno anche riconoscendo la complicità e la collaborazione dell'élite di sinistra britannica.

Ma, cosa ancora più importante, sempre più bianchi stanno riconoscendo che esiste una sola soluzione alle patologie del Terzo Mondo causate dalle popolazioni del Terzo Mondo.

Le patologie cesseranno solo quando le popolazioni saranno espulse.

 Ho dato a “Elisabetta il Male “questo soprannome perché non era una vera cristiana e non era una vera regina.

Se lo fosse stata, avrebbe seguito l'esempio della sua illustre omonima del XVI secolo.

 Questa è la vera regina Elisabetta I che ordina l'espulsione dei "diversi Blackmoores" dal suo regno.

 

Lettera aperta al Lord Sindaco di Londra e ai suoi confratelli, e a tutti gli altri Sindaci, Sceriffi, ecc. Sua Maestà è a conoscenza del fatto che ultimamente diversi Black moores sono stati portati nel Reame, e che questa gente è pronta a riunirsi qui, considerando come Dio abbia benedetto questa terra con un grande incremento di persone della nostra Nazione come ogni altro Paese al mondo, molte delle quali, per mancanza di servizi e di mezzi per metterli al lavoro, cadono in inattività e in gravi difficoltà;

Sua Maestà desidera pertanto che questo tipo di persone venga inviato fuori dal Reame.

E a tal fine è stato dato ordine a questo latore “Edwarde Banes” di prendere tra quei Black moores che in quest'ultimo viaggio sotto Sir Thomas Baskerville, furono portati in questo Reame al numero di “Tenn”, per essere da lui trasportati fuori dal Reame.

Per questo motivo vi chiediamo di assisterlo e assisterlo quando ne avrà bisogno, senza mai mancare. (Vedi " Lettera aperta di Elisabetta I " presso l'Archivio Nazionale).

 

Ciò che Elisabetta I ordinò nel XVI secolo può essere realizzato nel XXI secolo. I non bianchi devono tornare al loro posto.

 Dopodiché, dobbiamo processare i traditori e garantire che i futuri leader britannici non dimentichino mai che o servono i veri britannici o subiscono le dolorose conseguenze del tradimento dei veri britannici.

E gli unici veri inglesi sono, ovviamente, quelli bianchi.

 

 

 

 

 

 

Le uniche persone che stiamo

placando sono i guerrafondai

 di Bruxelles e Londra.

Unz.com - Ian Orgoglioso –(7 maggio 2025) – ci dice:

Basta distorcere la storia per creare falsi collegamenti tra la Russia e la Germania nazista

Una delle linee di attacco ricorrenti di politici e giornalisti occidentali è che qualsiasi concessione alla Russia nella conclusione della guerra in Ucraina sarebbe simile all'appeasement della Germania nazista prima della Seconda Guerra Mondiale.

Questo semplifica enormemente e distorce la storia a nostro vantaggio, per prolungare una guerra che non abbiamo mai avuto intenzione di combattere.

Le uniche persone che stiamo placando sono i guerrafondai di Bruxelles e Londra.

 

Si sostiene che, se facessimo concessioni alla Russia, avremmo placato il presidente Putin nello stesso modo in cui placammo Adolf Hitler prima della Seconda Guerra Mondiale.

Ma questo significa distorcere la storia.

L'appeasement avvenne quando le grandi potenze di Gran Bretagna e Francia cercarono di capire come garantire la sicurezza collettiva europea, riportando la Germania su un piano di pace e affrontando al contempo l'ascesa del comunismo e le conseguenze del crollo dell'Impero austro-ungarico.

L'appeasement fu un approccio, non una decisione individuale o una concessione nei confronti della Germania, e durò per un paio di decenni dopo la conclusione della Prima Guerra Mondiale.

 I Trattati di Locarno del 1925 fissarono i confini postbellici delle grandi potenze e inaugurarono l'adesione della Germania alla Società delle Nazioni nel 1926.

 Le potenze occidentali placarono Hitler per anni, nel marzo del 1936, quando Hitler inviò la Wehrmacht nella Renania, un'area che era stata smilitarizzata secondo i termini dell'accordo di Versailles.

 Seguì poi l'Anschluss in Austria nel marzo del 1938.

La Gran Bretagna lo fece contemporaneamente, cercando di normalizzare le relazioni con la Germania, temendo la minaccia sovietica nel contesto della grande depressione degli anni Trenta.

La Germania era ancora considerata una grande potenza industriale, proprio come la Gran Bretagna, con profondi legami storici tra le nostre nazioni.

Durante gli anni Trenta, importanti politici britannici fecero delle aperture, tra cui l'ex Primo Ministro “Lloyd George”, che visitò Hitler in Baviera e disse:

"La Germania non vuole la guerra e teme un attacco da parte della Russia".

Adolf Hitler, notoriamente, considerava gli inglesi un alleato naturale e di "razza germanica".

Regno Unito e Germania mediarono un accordo navale nel 1935, che permise ai nazisti di espandere la loro flotta oltre i limiti imposti da Versailles.

Furono compiuti sforzi per approfondire i legami economici con la Germania nazista.

Nessuno spirito di pacificazione simile è mai esistito tra la Gran Bretagna e l'Unione Sovietica o la Russia moderna.

Abbiamo sopportato una Guerra Fredda per scoraggiare l'espansionismo sovietico nel cuore dell'Europa.

 E la Federazione Russa non è mai stata considerata strategicamente importante nel XXI secolo, come lo fu la Germania dopo la Prima Guerra Mondiale.

Piuttosto, la Russia era ampiamente considerata una reliquia frammentata e sminuita di un detestato impero sovietico.

Ci sono stati indubbiamente periodici disgeli nelle relazioni tra Regno Unito e Russia dopo il 1991.

Ma gli sforzi compiuti da Tony Blair e David Cameron per riprendere i rapporti con la Russia sono stati spesso visti con sospetto e talvolta ostilità dai media britannici, aggravati dagli eventi in Cecenia, dall'omicidio Litvinenko e dall'attacco con l'agente nervino di Salisbury.

Piuttosto che placare la Russia, si potrebbe sostenere che abbiamo guardato la Russia dall'alto in basso e abbiamo perseguito politiche come l'espansione della NATO, credendo che avremmo incontrato una resistenza minima.

La Gran Bretagna fondamentalmente vedeva la sicurezza all'interno dell'Europa negli anni Trenta come basata sulle tre maggiori potenze del Regno Unito, Francia e Germania, e questo rimane il caso oggi.

 Non avremmo mai combattuto per la Cecoslovacchia nel 1938. Per la Polonia nel 1939. O per l'Ucraina dal 2014.

 

Nel 1938, le grandi potenze voltarono le spalle alla Cecoslovacchia proprio perché era un residuo lacero dell'impero austro-ungarico.

Non era un nostro problema.

 

Alla vigilia dell'accordo per cedere i Sudeti alla Germania nazista nel settembre 1938, Neville Chamberlain fece una trasmissione in cui disse

"quanto è orribile, fantastico, incredibile che dobbiamo scavare trincee e provare maschere antigas qui a causa di una lite in un paese lontano tra persone di cui non sappiamo nulla".

Per quanto simpatizziamo per una piccola nazione di fronte a un vicino grande e potente, non possiamo in ogni circostanza impegnarci a coinvolgere l'intero impero britannico in guerra semplicemente per il suo conto.

Se dobbiamo combattere, deve essere su questioni più grandi di questa".

Dopo aver ottenuto l'accordo tra la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia fascista per rivendicare i Sudeti nel settembre 1938, la Germania nazista si sarebbe poi mossa incontrastata nel resto della Cecoslovacchia nel marzo 1939.

Anche quando la Germania nazista invase la Polonia il 3 settembre 1939, la Gran Bretagna e la Francia dichiararono guerra, ma non si impegnarono in guerra per otto mesi in quella che fu chiamata la "guerra fasulla".

Solo quando la Germania invase i Paesi Bassi, il Belgio e parti della Francia il 10 maggio 1940, lo "spirito di Locarno" fu distrutto, introducendo Winston Churchill come primo ministro e portando la battaglia, letteralmente, in Gran Bretagna nel luglio 1940, dopo il catastrofico ritiro da Dunkerque.

La Gran Bretagna non è mai stata disposta a combattere per l'Ucraina perché non è il cuore dell'Europa ed è vista come una reliquia politicamente ed economicamente disfunzionale dell'epoca sovietica, proprio come la Cecoslovacchia è stata vista nel 1938.

 Nonostante le nostre esortazioni all'Ucraina a sconfiggere la Russia sul campo di battaglia, in nessun momento siamo mai stati disposti a schierare truppe britanniche in un ruolo di combattimento diretto in Ucraina.

 Ho perso il conto del numero di volte in cui ho sentito gli alti diplomatici europei dire che "non combatteremo mai per l'Ucraina".

E sono stati di parola.

 

Si potrebbe dire, naturalmente, che si è trattato di pacificazione, ma non sono d'accordo.

 L'espansionismo di Hitler era radicato nel “Lebensraum” e nel desiderio di creare un grande Reich germanico che si estendesse fino al Caucaso, ricco di petrolio

. La Russia non aveva aspirazioni territoriali da placare.

 

Il presidente Putin una volta disse:

"Chiunque non rimpianga la scomparsa dell'Unione Sovietica non ha cuore.

Chiunque voglia che venga restaurato non ha cervello".

All'inizio del ventunesimo secolo, la Russia è stata presa in considerazione economicamente per contemplare l'idea di assorbire l'Ucraina o qualsiasi altro stato ex sovietico.

 

Prima del 2014, la Russia non avanzava alcuna pretesa territoriale sull'Ucraina.

 Aveva un accordo di base di lunga data per la flotta del Mar Nero a Sebastopoli e le relazioni con l'Ucraina erano aperte e stabili.

Non vi sono prove che la Russia avesse intenzione di occupare la Crimea o di fomentare disordini nel Donbass prima dell'inizio del 2014.

La riunificazione della Crimea con la Russia è stata indubbiamente opportunistica, giustificata dalla necessità di proteggere la popolazione a maggioranza russofona. Allo stesso modo, il sostegno militare diretto russo ai separatisti nel Donbass.

Persino nel 2014, dopo l'inizio della crisi ucraina, alti funzionari russi ci dicevano all'ambasciata britannica che non c'era alcuna intenzione di assorbire il Donbass, che era un'enorme “rustbel”t.

 

Esistono prove significative che la Russia desiderasse una risoluzione del conflitto nell'Ucraina orientale attraverso negoziati e una devoluzione che tutelassero i diritti della popolazione russofona.

Il fatto che Putin abbia riconosciuto Donetsk e Lugansk come stati indipendenti, per poi entrare in guerra, è stato probabilmente motivato dal “crollo degli Accordi di Minsk”.

 

La guerra ha portato la Russia a rivendicare i quattro oblast', prendendo un altro morso dall'Ucraina e guidando la narrativa occidentale secondo cui altre parti dell'Ucraina e persino gli Stati baltici potrebbero essere i prossimi.

Tuttavia, lo vedo anche come guidato dall'opportunismo piuttosto che come parte di un grande piano russo per conquistare tutta l'Ucraina.

Non ho visto alcuna prova che la Russia intenda invadere gli Stati Baltici o la Polonia in futuro.

 La Russia non desidera più territorio in circostanze in cui la sua popolazione è troppo piccola per difendere quello che già possiede.

Sarebbe anche un suicidio politico per il Presidente Putin dichiarare guerra alla NATO, un punto che lui stesso ha accennato più volte.

 

Eppure, giornalisti occidentali e politici baltici continuano a sostenere queste affermazioni, collegandole a Hitler, che ripetutamente violò i suoi impegni attraverso conquiste militari. L'”appeasement” permise alla Germania nazista di riarmarsi, mentre Gran Bretagna e Francia ignorarono la spartizione dei resti dell'Impero austro-ungarico.

Finché non si comprese che Hitler sarebbe stato il prossimo a venire a prenderci.

 

Abbiamo placato Hitler proprio perché rappresentava una minaccia esistenziale per Francia e Gran Bretagna.

 Se credete che stiamo conducendo una guerra per procura in Ucraina perché la Russia rappresenta una minaccia esistenziale per la Gran Bretagna, allora non sono d'accordo.

Armando l'Ucraina per una guerra che non può vincere, le uniche persone che stiamo placando sono i guerrafondai di Bruxelles e Londra.

Porre fine a una guerra che ha già ucciso o ferito oltre un milione di persone è moralmente la cosa giusta da fare.

 

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