il nuovo secolo politico.
il nuovo secolo politico.
La
“Preghiera-Sfida” di Traoré
a Papa
Leone XIV.
Conoscenzealconfine.it
– (16 Maggio 2025) - Leopoldo Salmaso – ci dice:
Una “contro-omelia
della liberazione” dall’Africa che alza la testa.
“A Sua
Santità Papa Roberto Francesco.
Non le
scrivo da un palazzo, né dalle comodità di ambasciate straniere, ma dal suolo
della mia patria, la terra del Burkina Faso, dove la polvere si mescola al
sangue dei nostri martiri e gli echi della rivoluzione sono più forti del
ronzio dei droni stranieri sopra le nostre teste.
Non le
scrivo come un uomo in cerca di approvazione, né come uno invischiato in
convenevoli diplomatici. Le scrivo come un figlio dell’Africa, audace, ferito,
indomito.
Ora
lei è il padre spirituale di oltre un miliardo di anime, inclusi milioni qui in
Africa. Lei eredita non solo una chiesa, ma una missione.
E in
questo momento di transizione, mentre il fumo bianco aleggia ancora sui tetti
del Vaticano, devo inviare questa lettera attraverso mari e deserti, oltre
guardie e cancellate, direttamente al suo cuore, perché la storia lo esige,
perché la verità lo impone, perché l’Africa, ferita e in rivolta, ci sta
guardando.
Santità,
noi africani conosciamo il potere della croce.
Conosciamo gli inni, le preghiere, le litanie.
Abbiamo
costruito chiese con mani callose e abbiamo difeso la nostra fede con il nostro
sangue.
Ma
conosciamo anche un’altra verità, una verità che troppi hanno preferito
seppellire:
che la
Chiesa a volte ha camminato al fianco dei colonizzatori, che mentre i
missionari pregavano per le nostre anime, i soldati profanavano le nostre
terre, che mentre voi predecessori parlavate del cielo, i nostri antenati erano
incatenati sulla terra.
E
anche ora, in questa cosiddetta era moderna, subiamo ancora le catene non del
ferro, ma del silenzio.
Dell’indifferenza
di giochi geopolitici che si svolgono in sacre oscurità.
Quindi
chiedo, in nome delle madri che pregano sui pavimenti di terra battuta e dei
bambini che frequentano il catechismo a stomaco vuoto: il suo papato sarà
diverso?
Sarà
lei il Papa che vede l’Africa non come una periferia, ma come il centro
profetico?
Sarà
il Papa che non si limita a visitare le baraccopoli per foto ricordi, ma che
osa parlare con rabbia contro le forze che rendono permanenti quelle
baraccopoli?
Vede,
Santità, io sono un uomo forgiato dalla guerra, non dalla ricchezza.
Non
sono stato rovinato dalle istituzioni occidentali per uso politico.
Non mi
hanno insegnato la diplomazia a Parigi.
Ho imparato la leadership in trincea, tra la
gente, dove il dolore è maestro e la speranza è resistenza.
Guido
una nazione che è stata emarginata dal mondo finché non ci siamo rifiutati di
stare zitti.
Ci è
stato detto che eravamo troppo poveri per essere indipendenti, troppo deboli
per essere sovrani, troppo instabili per resistere.
Ma
glielo dico con il tuono degli antenati nella voce:
abbiamo smesso di chiedere il permesso di
esistere.
Abbiamo
smesso di implorare validazione da parte dei poteri che sfruttano i nostri
minerali mentre predicano la moralità.
E abbiamo smesso, assolutamente smesso, di
accettare che i leader spirituali globali distolgano lo sguardo dalle grida
dell’Africa perché la politica è scomoda.
Santità,
non parlo ora solo per il Burkina Faso, ma per un continente troppo a lungo
dominato.
L’Africa non è un continente da compatire,
siamo un continente di profeti.
Profeti che sono stati incarcerati, esiliati e
assassinati per aver osato sfidare l’impero.
E lei,
ora che porta l’anello di San Pietro come simbolo, seguirà la via dei profeti?
O sarà
anche lei prigioniero della politica?
Non
abbiamo bisogno di altre banalità.
Non
abbiamo bisogno di altri auguri e preghiere mentre le multinazionali
occidentali estraggono uranio dal Niger, e oro dal Congo, sotto scorta armata.
Non
abbiamo bisogno di neutralità diplomatica mentre i giovani africani annegano
nel Mediterraneo fuggendo da guerre cui essi non hanno dato inizio, con armi
che essi non hanno fabbricato.
Non
abbiamo bisogno di dichiarazioni sdolcinate mentre la sovranità africana viene
messa all’asta a porte chiuse a Bruxelles, Washington e Ginevra.
Ciò di
cui abbiamo bisogno è un Papa che nomini l’Erode moderno, che tuoni contro gli
imperi economici con la stessa audacia con cui la Chiesa un tempo tuonò contro
il comunismo.
Un
Papa che dica senza indulgenze che è peccato per le nazioni trarre profitto
dalla distruzione dell’Africa.
Lei
conosce gli insegnamenti di Cristo
. Sa
che Lui rovesciò i tavoli dei cambiavalute.
Sa che Lui disse “Beati gli operatori di pace”
ma non disse mai “Beati i paci-finti”.
Quindi
le chiedo personalmente: parlerà contro il silenzio della Francia e le sue
operazioni segrete nel Sahel?
Condannerà
i traffici di armi che alimentano guerre per procura nei nostri deserti e nelle
nostre foreste?
Smaschererà
l’avidità che si ammanta di carità?
La
diplomazia che maschera l’imperialismo con colloqui di pace, perché lo vediamo
succedere, lo viviamo.
Sua
Santità, non le chiedo di essere africano.
Le
chiedo di essere umano, di essere morale, di essere coraggioso, perché il
coraggio, il vero coraggio, non è benedire i potenti.
È
difendere i deboli pagandone il costo.
Mi
permetta di parlare chiaro.
Il
Vaticano possiede ricchezze inimmaginabili, arte senza prezzo, accesso oltre
ogni confine.
Ma il
vero potere non si misura in tesori nascosti dietro mura di marmo, il vero
potere si misura nel coraggio di affrontare l’ingiustizia.
Anche
quando si presenta vestito con un abito su misura, con credenziali diplomatiche
e sorridendo nonostante i suoi peccati, Sua Santità, il mondo è sull’orlo del
precipizio e l’Africa, questo continente martoriato e bellissimo, non si limita
a guardare dal basso: ci stiamo sollevando.
Stiamo
sanguinando, stiamo risalendo e osiamo porre domande che risuonano più forte
del diritto canonico.
Dov’era
la Chiesa quando i nostri presidenti sono stati rovesciati da mercenari
spalleggiati dall’estero?
Dov’era
la Chiesa quando i nostri giovani sono stati rapiti e indottrinati in guerre
finanziate da nazioni che pretendono di essere forze di pace?
Dov’era
la Chiesa quando le nostre valute sono crollate, quando il Fondo Monetario
Internazionale ha soffocato le nostre economie?
Quando
i nostri leader sono stati puniti per aver scelto la sovranità anziché la
sottomissione?
Non ci
dica di perdonare mentre la frusta è ancora nella mano del carnefice.
Non ci dica di pregare mentre le nostre
preghiere vengono ricambiate con attacchi di droni.
Non
parli di pace senza nominare i profittatori della guerra.
Perché
il silenzio, Santità, non è più santo e la neutralità non è più nobile.
Se lei
deve essere il pastore di questo gregge globale, allora ascolti questo grido
dalla polvere di Ouagadougou.
Anche
noi siamo sue pecore. Ma non pascoliamo in silenzio nei campi, marciamo per le
strade, moriamo in prima linea.
Risorgiamo
dalle ceneri con il fuoco nelle ossa e le Scritture sulla lingua.
Non
chiediamo carità, esigiamo giustizia. E la giustizia deve iniziare dalla
verità.
La
verità è che il cristianesimo in Africa è stato sia un balsamo che una spada.
La verità è che la Chiesa ha nutrito i nostri
spiriti senza riuscire a proteggere i nostri corpi.
La
verità è che la redenzione senza riconoscimento è una mezza verità e le mezze
verità non hanno mai guarito le nazioni.
Santità,
ora lei siede sulla cattedra di San Pietro.
Ma
ricordi, Pietro rinnegò Cristo tre volte prima che il gallo cantasse.
Non permetta alla Storia di scrivere che la
Chiesa ha rinnegato l’Africa ancora una volta.
Faccia
sì che il gallo canti forte e chiaro in Vaticano.
Che
svegli la coscienza di cardinali e re.
Che
echeggi nei corridoi del potere, dove uomini in toga e uomini in uniforme
barattano il silenzio con l’influenza.
Che
annunci una nuova alba, non solo per la Chiesa, ma per il mondo.
Perché
qui in Africa non temiamo le albe, le creiamo.
Siamo
figli e figlie di Sankara, Lumumba, Nkrumah e Biko.
Portiamo
le Scritture in una mano e l’onore, il ricordo dei rivoluzionari nell’altra.
Abbiamo
imparato a pregare e protestare con lo stesso respiro.
E
chiediamo: il suo papato camminerà con noi?
Ci verrà lei incontro nel nostro dolore, non
solo tra i banchi delle nostre chiese? Riconoscerà Dio nella nostra fame?
Cristo
nel nostro caos, lo Spirito Santo nelle nostre lotte?
Perché
se non è questo il tempo, è quello di Giuda, e se la Chiesa continua a
predicare la pace ignorando la macchina dell’oppressione, in quale Buona
Novella ci resta da credere?
Non lo
dico con rabbia, ma con sacra urgenza.
Siamo
un popolo al crocevia tra profezia e politica, e il tempo dell’Africa non si
sta avvicinando, è qui.
Stiamo riscrivendo la narrazione, rimodellando
il futuro, rivendicando la dignità che ci è stata negata da secoli di
dominazione straniera e di manipolazione spirituale.
E la
Chiesa deve decidere da che parte stare: con i poteri forti qui, o con le
persone che sanguinano.
Non
scrivo questa lettera per condannare. La scrivo per invitarla, Santità, a una
solidarietà più profonda, a una solidarietà che cammini a piedi nudi con i
poveri, che osi dire la verità a Roma con la stessa audacia con cui lo fa in
Ruanda, che ricordi i santi non solo per i miracoli, ma per il loro impegno per
la giustizia.
Aspettiamo
le vostre voci, non dai balconi, ma dalle trincee e dalle favelas. Dai campi
profughi, da dietro le sbarre delle prigioni politiche dove la verità è
incarcerata.
Perché
solo quella voce, la vostra voce, può riscattare il silenzio. E se oserete
pronunciarla, non solo l’Africa vi ascolterà, ma il mondo intero“.
Burkina
Faso, figlio dell’Africa, servitore della sovranità.
(Capitano
“Ibrahim Traoré”, presidente della transizione.)
(byeon.com/ibrahim-traore/).
(vcomevittoria.it/la-preghiera-sfida-di-traore-a-papa-leone-xi).
L’affare.
Gognablog.sherpa-ghate.com – Lorenzo Merlo – (18
Maggio 2025) – ci dice:
Un
commento.
Si può
pensare che un imprenditore di successo diventato politicamente potente possa
ragionare e concepire la realtà e quindi la politica diversamente da come ha
sempre fatto?
Il suo
America first, espressione che contiene una storia profonda e una politica
precisa, ha anche il potere di tenere a bada e accudire l’elettorato lasciato
indietro dalle amministrazioni che l’hanno preceduto.
L’affare
di Lorenzo
Merlo.
L’amministrazione
Biden, sotto il sommo controllo delle lobby finanziarie e dello stato profondo,
ha tentato, forse per l’ultima volta nella storia, di sottomettere la Russia.
Un
progetto che rappresentava l’ultimo anello di una catena messa in atto dagli
statunitensi al fine di mantenere la loro egemonia mondiale mai così incerta.
In realtà,
la Russia a sua volta non era che un tassello, anche in questo caso forse
l’ultimo necessario per arrivare a contenere l’esplosione economica, quindi
anche militare, della Cina.
Il
lato B dell’idea di annichilire o guinzagliare la Russia e tenere a bada la
Cina era, a dir poco, esiziale.
Come
ho scritto in precedenza in altri due articoli (AUSA – Autarchici Stati Uniti
d’America e Rischio manifesto) si trattava di due rischi.
Il primo:
non
vedere rinnovato il monopolio del controllo sul mondo, con le relative ricadute
economiche a vantaggio statunitense, elemento a sua volta primario per
garantire longevità e benessere americano (anche se non per tutti);
il secondo,
forse
di superiore importanza, l’eventualità di autarchia coatta, nel caso Russia,
Cina e compagnia Brics avessero preso il controllo economico del mondo per poi
approfittarne applicando la legge del taglione.
Desiderio
in un certo senso legittimato dalla vergognosa collana di malefatte americane
distribuite su tutta la geografia del mondo negli ultimi cent’anni.
Se gli
elementi accennati delineano in qualche misura la ragione dei comportamenti
introdotti da Biden e dai suoi pupari, di tutt’altro ordine sono quelli che, in
poche settimane di lavoro del neoeletto Trump, si possono raccogliere in una
precisa costellazione che si staglia, più lucente delle altre, nel firmamento
della realtà.
L’America
first di Trump, oltre a essere un perno dei suoi ragionamenti, è anche un diversivo, un
mozzo intorno al quale far girare la giostra del suo luna park per scongiurare
il rischio già citato di trovarsi in un paese costretto all’autarchia.
Per
sua sorte, Putin e Xi Jinping, il primo per necessità, il secondo per cultura,
pare, quantomeno in ambito internazionale, abbiano buttato a mare la retorica
della sopraffazione e dell’esportazione di sé stessi, che ha aleggiato e che è
atterrata troppe volte sul mondo navigando e volando su flotte e squadriglie
travestite da missionari a stelle e strisce.
Il
segno e l’ascendente del presidente grande grosso e biondo sono tra di loro
identici: fare affari, fare affari.
Scalzando in un colpo l’intera retorica
moralistica e di controllo – quella che a Bruxelles il falso parlamento vende a
poco prezzo, quella che ormai un popolo crescente ha capito non valere niente –
il piano di lavoro di Trump non può che essere gradito a Est dell’antico Muro
di Berlino.
Partiamo
dallo sfondamento rugbistico che il biondo presidente ha compiuto sul campo di
gioco della guerra ucraina.
Un
modo di fare previsto anche dagli esperti della politica statunitense, in
bretelle o tweed con Clarks, che è andato diretto al punto, cioè a negoziare
con il dirimpettaio Vladimir i termini per un accordo di fine guerra.
Non solo, se la meta portata a segno appena
citata – tra l’altro rispettosa della promessa fatta ai suoi elettori di far
finire il conflitto slavo-fratricida (checché ne dicano gli ucraini) –
costituisce di per sé uno sconquasso geopolitico al pari di un’orca nel branco
di foche, di pari scompiglio è stata l’esplicita estromissione dal tavolo degli
accordi tanto di Zelensky, quanto dell’Unione Europea (attimo di pausa, che mi
vien male solo a nominarla, a pensare a chi la guida e a constatare su che
niente sta in piedi).
C’è
Crozza in regia?
Sì, perché l’indignazione indispettita che ha vestito
la reazione di queste due figure – che in quanto a figure barbine sono maestre
– aveva del divertente, anche forse un’anima alla Dario Fo, perché più che
divertente era surreale.
Hanno
alimentato la guerra fino all’ultimo poro senza perdere neppure un quanto di
energia da devolvere al conflitto in tutti i modi in cui questa poteva
materializzarsi:
armi,
munizioni, carri, denari, tanto che pare perfino strano non abbiano mandato
anche cristiani in mimetica.
Hanno
dimenticato il nazismo ucraino, piazza Maidan, il “fuck the EU”, la guerra
iniziata nel 2014, gli annosi avvertimenti di Putin in merito
all’avvicinamento-accerchiamento Nato, hanno perciò timbrato a ceralacca
l’inizio del conflitto nel 2021, e non hanno mai vacillato nel puntare il dito,
anzi il jingle, su un solo punto, quello della diade invasore-invaso, come se
la storia iniziasse in quel momento, come se non ci fosse altro da considerare.
Hanno
stuprato i negoziati di Minsk che avrebbero potuto comportare la salvazione di
un paese e di un popolo, e hanno tagliato la gola a quelli di Istanbul. Hanno
sostenuto contrattacchi primaverili, tacendo poi sulla conseguente disfatta. Ne
hanno fatte più di Bertoldo e ora si irritano per l’esclusione dai negoziati.
Ma siamo sul palco di Casa Cupiello?
Se
ogni espressione umana ha una ragione, un’architettura che la sorregge, una
biografia che ne necessita, quella che Trump sta mostrando al mondo, tenendo
presente la sua matrice di uomo d’affari, avrebbe una possibile spiegazione.
Donald:
Goodmorning dear Vladimir, how are you?
Vladimir:
Dobroye utro. Khorošo. E tu?
D:
Senti, Vladimir, facciamola breve, il tempo è denaro e così tante altre cose.
V: Ti
sento in forma. Dimmi.
D:
Allora: ti faccio uscire dalla guerra e per questo ti propongo un… cambio merce.
V:
Sentiamo, purché l’Ucraina stia fuori dalla Nato e le terre conquistate sul
campo rientrino nel confine della Federazione russa.
D: Lo
sapevo. Si può fare.
Oltre
al fatto che non so quanto la Nato possa ancora andare avanti. Per dire che
forse è una preoccupazione eccessiva. Non abbiamo più a che fare con l’Alleanza
Atlantica della guerra fredda, del dopo muro di Berlino e scioglimento del
Patto di Varsavia.
V:
Questo era chiaro da decenni, è carino ci siate arrivati.
D: Non
fare troppo sarcasmo sennò usciamo dal seminato. Dunque, dicevo, più
banalmente, la Nato non è più quella che fino a ieri sembrava potesse spaccare
il mondo come e quando voleva.
V:
Certo, le cose stanno cambiando proprio mentre ne stiamo parlando. Dimmi, cosa
avevi in mente?
D: Ti
tieni le terre conquistate e magari anche le intere regioni russofone del
Donbass e, Nato forte o Nato debole, l’Ucraina non ne farà parte.
V:
Immagino voglia per te la ricostruzione del Paese.
D:
Beh, va da sé.
Tu non
vuoi certo farlo, Donbass a parte naturalmente, e poi non vorrai mica che un
affare di tale portata possa essere lasciato all’Unione Europea o all’Europa –
non so neanche più come chiamare quel garbuglio senza bandolo – che non riesce
a vedere la realtà, tanto che ancora vuole sostenere l’Ucraina fino alla
vittoria. Ma come ragionano?
È
questo il valore aggiunto delle donne che la guidano?
V:
Sarcasmo net, avevamo detto.
D:
Giusto.
Né
sarcasmo, né distrazioni. Restiamo sul pezzo.
Ricostruzione a parte, che ci tocca senza possibilità
di alternativa, dunque, in questo nostro affare ha valore neutro, i giacimenti
delle terre rare sotto il suolo ucraino, Donbass incluso, sono invece la
cessione che, penso, tu sia costretto a fare.
V: Non
potevi non passare questa strettoia.
Va
bene, lo avevamo previsto. Si può fare, ma non senza contropartita.
D: Che
sarebbe?
V: Non
dirmi che a tua volta non l’hai messa in conto.
D: Ti
riferisci alle sanzioni e ai beni bloccati?
V:
Nientemeno.
D:
Certo che era in conto. Anzi, scontato, ovviamente per quelli che fanno capo a
noi.
V:
Bene. Quasi quasi ti aiuto anche alle prossime elezioni.
D:
Scherza poco che c’è davvero qualcuno che poi ci crede o che inventa le prove.
V:
Giusto, viviamo in un cesto di vipere. Proseguiamo. Altro?
D: Eh,
sì. Dunque, sono diversi punti.
V: Vai
col primo.
D:
Israele.
V:
Immaginavo. Continua.
D:
Azzeri ogni interferenza diretta o indiretta a favore dei palestinesi, di Hamas
e di Hezbollah.
V:
Cioè, dovrei mettere al guinzaglio l’Iran?
D:
Nientemeno.
V: Non
è come dirlo.
D:
Certo, ma negli affari a questo punto si dice: sono problemi tuoi.
V:
Conosco il criterio. Prosegui.
D:
Significa che con Israele me la vedo io e basta.
Dopo
tutto questi decenni di conflitto e instabilità, ritengo sia legittimo arrivare
a sistemare la faccenda medio-orientale.
È vero, i palestinesi sono stati espropriati della
terra che abitavano e in quell’enclave, tirata fuori dal cilindro degli
inglesi, si sono trovati gente estranea in tutto e per tutto.
Ma la
storia ha ripetutamente dimostrato che a tutto ciò, ingiustizia o diritti a
parte, lì e altrove nel mondo, non c’è soluzione equa.
Dunque, fare capo alla pragmatica è
praticamente divenuto un imperativo e soprattutto, per quanto possa apparire
raccapricciante a molti europei, anche una modalità più saggia delle altre.
Tutta
una premessa per dire che non resta che eliminare uno dei due contendenti… e
sappiamo quale ho in mente.
Ecco perché c’entrano le atomiche dell’Iran e
perché il tuo impegno a smorzare certi entusiasmi anti-israeliani e
anti-statunitensi è fondamentale.
V:
Come, in sostanza, a suo tempo fece il binomio Clinton-Nato, con la Jugoslavia
e con il Kosovo?
D:
Diciamo che si possono evincere delle similitudini con la situazione
israeliana. Soprattutto, per parlar sintetico e chiaro, fa ancora testo il “divide
et impera”.
V:
Beh, sei piuttosto franco.
D: Le
carte che si giocano in un affare sono sempre sincere. E in questo caso non sto
giocando a poker, dove il bluff vale come la verità. E poi le fregature le
prendono solo gli affaristi sprovveduti.
V: Più
è tutto in chiaro più gli Stati Uniti possono avviare il nuovo corso e, magari,
anche il processo di riduzione del debito pubblico, ora himalayano.
D: Ok,
ma lasciamo perdere ora questi dettagli. Torniamo a noi, all’Ucraina.
V: Va
bene. Però avresti dovuto aggiungere che sotto quelle terre che vorresti
sfruttare pare ci siano giacimenti da leccarsi i baffi.
D: Più
che avrei dovuto, avrei potuto. Non è che devo dirti tutto.
V:
Bene, restiamo sull’affare.
D: Con
la Siria ti lascio carta bianca, noi ce ne laviamo le mani. Vedrai tu come
sostenere gli interessi della tua federazione.
V: Lo
facevo anche prima, quando avevate le mani in pasta.
D:
Insomma, le cose sono diverse ora. Giriamo pagina, se no restiamo qui a
cincischiare e farfugliare e la situazione non cambia.
V: È
strano che non hai ancora citato la Cina e la paventata de dollarizzazione.
D:
Adesso ci arriviamo.
Andare
avanti a guerre non ci è più possibile. Il vostro multipolarismo è al momento
troppo rigoglioso per pensare di affrontarlo in modalità classica.
Noi prendiamo dall’Ucraina e dal Donbass le
materie prime che ci interessano nella misura che concorderemo.
E la
Russia, non la secca più nessuno.
E anche con la Cina, fino a ieri spauracchio
permanente, credo si potrà convivere e fare affari.
V: Bel
progetto. E l’Europa?
D: Se
intendi l’Unione Europea, che posso dire? È praticamente senza testa.
Durante
tutta la sua esistenza sono emerse carenze che oggi stanno culminando in un
crescente, forse inarrestabile, desiderio di sovranismo nazionale da parte dei
suoi stati membri.
Qualcuno
potrebbe dire che è sul letto di morte, anche se l’accanimento terapeutico
potrebbe tenerla in vita ancora lungamente.
Più
semplicemente, l’Europa non ha identità, quindi non ha sostanza, quindi non ha
peso. Diciamo che non è una priorità occuparsi e preoccuparsi di cosa farà o
dirà.
V: Non
ti preoccupa che possa rientrare nel nostro raggio d’azione, che l’Eurasia
possa diventare troppo potente?
D:
Pensiero legittimo, ma lontano. Occupiamoci di quelli vicini.
V: Il
dollaro è uno di questi.
D:
Altroché, ma la creazione di una valuta alternativa è più lontana. E, aggiungo,
certamente critica. In sostanza penso non convenga a nessuno tentare di
sostituire il dollaro.
V: Al
momento, non si tratta di sostituirlo. La politica Brics, e perciò anche la
nostra, è di favorire gli scambi entro il mondo Brics con le relative valute
locali e magari anche di crearne una comune, ma anche di continuare a dialogare
con il dollaro.
D: È
un problema di cui certamente tratteremo, ma che per la sua dimensione non può
stare in questi accordi sul fine guerra ucraina. Come pure la questione artica,
di pari portata. E poi, se non soprattutto, con tutto il rispetto, caro
Vladimir, avrai ancora in te qualche goccia di sangue zarista, ma non puoi
rappresentare l’intera politica Brics.
V:
Avevo visto bene, sei in gran forma.
D: E
non hai ancora visto cosa voglio fare a Gaza.
V:
Beh, ho visto un breve video su cosa stai immaginando per quel tratto di costa
mediterranea, mi ha colpito.
Indignazione a parte, che mi sento costretto a
lasciar fuori da questo nostro affare, in un certo senso, quel modo affaristico
di fare che non guarda in faccia a un intero popolo, che ha piantato in testa
il chiodo dei propri interessi “über alles”. Sarà un segno del nuovo paradigma geopolitico,
come lo è il nostro multipolarismo rispettoso?
D:
Puoi scommetterci. Business is business, il resto sono chiacchiere. Facciamo
questo affare, per il prossimo si vedrà.
V:
Vuoi dire che in affari non ci sono chimere?
D:
Dotta sintesi, direi forse tipicamente russa, per quel poco che so. E
aggiungerei che ci sono solo nelle ideologie.
V:
Simpatico e operativo! Mi ricordi i tempi del Kgb, quando riuscivamo a
costringere tutto l’infinito del mondo dentro lo scopo che ci eravamo
prefissati.
D:
Tempi d’oro per te. Anche allora c’era un popolo al quale non guardavate in
faccia.
V:
Allora non è vero che gli americani sono delle capre.
D: Eh,
sì, per fare affari è meglio conoscere il nemico.
V:
Però non sai che questo l’aveva già detto Sun Tzu.
D: Sun
Chi?
V:
Niente, non fa niente.
D: Ok.
Ci vediamo a Riyad per i dettagli.
V: Oloroso.
Note:
(1.
L’acronimo BRIC, risale al 2001. Esso deriva dalle iniziali dei paesi
fondatori: Brasile, Russia, India, Cina. Nel 2010 si aggiunge il Sud Africa e l’acronimo
muta in BRICS. Nel 2024 si uniscono all’Associazione altri Paesi. L’Indonesia
nel fa parte dal 2025.)
Il
Papa propone una mediazione
della
fraternità.
Avvenire.it
- Leonardo Becchetti- (venerdì 16 maggio 2025) – ci dice:
«Proprio
sentendomi chiamato a proseguire in questa scia, ho pensato di prendere il nome
di Leone XIV.
Diverse
sono le ragioni, però principalmente perché il Papa Leone XIII, con la storica “Enciclica
Rerum Novarum”, affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande
rivoluzione industriale;
e oggi la Chiesa offre a tutti il suo
patrimonio di dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione
industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove
sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro».
È
stato lo stesso cardinal “Prevost”, nuovo pontefice, a spiegarci all’inizio del
suo pontificato la scelta del suo nome.
L’ultimo
Leone (XIII) aveva avviato di fatto con la “Rerum Novarum” la riflessione della
dottrina sociale della chiesa sulla rivoluzione industriale, scendendo in campo
con la logica della fraternità nello scontro tra libertà di mercato ed
eguaglianza propugnata (allora con la violenza) dal movimento socialista.
Il nuovo papa, abituato come Francesco per la
sua storia di missione a vedere il mondo dalla prospettiva degli ultimi,
sceglie il nome di Leone XIV perché ritiene che la dottrina sociale della
chiesa debba riflettere delle Rerum Novarum dei nostri tempi legate al
terremoto della rivoluzione digitale e dell’intelligenza artificiale.
Leone
XIII era stato sensibile al grido di dolore e aveva riconosciuto le condizioni
difficili del proletariato del tempo e il suo sfruttamento che generava salari
ben distanti da una “giusta mercede”.
Ma
aveva voluto chiarire subito che la violenza, la lotta di classe e l’abolizione
della proprietà privata non erano il rimedio giusto.
Piuttosto,
nella logica della fraternità e dell’intelligenza relazionale, ammoniva, era
importante ricostruire il filo del dialogo tra capitale e lavoro e favorire
alleanze orizzontali dei lavoratori nelle associazioni sindacali.
Leone
XIV con tutta probabilità applicherà alle nuove questioni sul tappeto gli
stessi principi e la stessa strategia, fondata sulla mediazione della
fraternità.
Il
problema della “giusta mercede” è e resta oggi di strettissima attualità per il
fenomeno del lavoro povero e della “piena sottoccupazione”.
La
sfida più temibile è quella dell’intelligenza artificiale che non è solo un
aumento della velocità di circolazione delle conoscenze come quello prodotto
dall’avvento dei motori di ricerca sulla rete, ma bensì un’accelerazione
impressionante della capacità di rielaborazione delle conoscenze grazie al
lavoro degli assistenti digitali. Siamo entrati dentro una grande rivoluzione
di non riusciamo a calcolare tutte le conseguenze.
Quello
che già sappiamo è che la produttività è aumentata in modo impressionante e si
è in parte tradotta in benessere digitale fatto di “merci senza peso” per
tutti, ma i divari tra lavoratori con alte e basse competenze tendono ad
aumentare ancora di più.
La
politica sarà fondamentale per evitare che queste diseguaglianze interne a
ciascun paese alimentino ancor più populismi, complottismi e sfiducia nelle
istituzioni minando la coesione sociale e la democrazia.
L’appello
del pontefice e della comunità credente alla sensibilità delle coscienze degli
attori in gioco e di tutti noi sarà decisivo.
Nel migliore degli scenari possibili questo
aumento di produttività può generare più benessere diffuso e riduzione
dell’orario di lavoro (gli esperimenti di successo di settimane corte di
quattro giorni di lavoro in aziende di punta sono ormai numerosi).
Ci
sono tutte le potenzialità per puntare decisamente con questo di più di potenza
alla qualità del lavoro (libero, creativo, partecipativo e solidale come
chiedeva papa Francesco) aprendo spazi importanti alla domanda di benessere di
chi arriva da paesi lontani e molto più poveri (e ci risolve il problema della
mancanza di lavoro nella crisi demografica).
Il
lavoro sul campo della comunità credente lascia intravedere le coordinate di
una nuova sintesi di intelligenza relazionale alle sfide delle cose nuove.
C’è spazio per una rivalutazione del lavoro di
cura, la cui domanda è sempre più pressante di fronte al crescere del problema
della non autosufficienza e degli anni di vita non in buona salute.
Del diritto soggettivo alla formazione per cittadini e
lavoratori di tutte le età come vera cura contro la trappola del lavoro povero
nell’era dell’intelligenza artificiale.
Di
forme di reddito di base di formazione e partecipazione che aiutano chi è
scartato o espulso da processi sempre più veloci di distruzione e creazione di
posti di lavoro a reinserirsi e ritrovare la dignità perduta.
C’è
bisogno di potenziare i canali dei flussi di migrazioni legali che devono
collegare in modo efficiente l’eccesso di domanda di lavoro nei paesi in crisi
demografica con l’eccesso di offerta di lavoro (e di domanda di riscatto dalla
povertà) dai paesi a basso reddito.
C’è bisogno, sempre nella chiave
dell’intelligenza relazionale, di percorsi discernimento e di accompagnamento
di mentori e tutori per rendere efficaci orientamento e politiche attive.
Un
papa americano che viene da Chicago (la patria dell’economia mainstream) ma è
missionario e conosce bene il mondo dal punto di vista degli ultimi è la guida
migliore è più autorevole per guidare un processo che tenga assieme progresso
tecnologico e sfide sociali in questa fase così affascinante e difficile, piena
di sfide per la democrazia e la pace.
Trump
e l'America
a
contratto.
Avvenire.it - Giorgio Ferrari – (venerdì 16
maggio 2025) – ci dice:
Un
uomo d’affari percorre a passo di carica l’area del Golfo Persico (o come già
lo ha ribattezzato: il Golfo d’Arabia) munito di un’agenda sulla quale segnare
puntigliosamente i buoni affari che va accumulando:
di qua
un satollo carico di armamenti, di là una provvigione sulla futura estrazione
di terre rare, di qua 600 miliardi pagabili a vista dal leader saudita
“Mohammed bin Salman”, di là un incontro di gala con un ex tagliagole del Daesh
(appena sei mesi fa, “Ahmad Al-Sharaa” era un jihadista con sulla testa una
taglia di 10 milioni di dollari), ora rimesso a nuovo e vestito da damerino
occidentale, pronto ad accogliere le imprese americane intenzionate a investire
nel petrolio e nel gas della Siria del post-Assad.
Indubbiamente
dotato, questo uomo d’affari.
Il suo
tocco di Mida lo rende ad ogni giro di giostra sempre più ricco.
Ma c’è
un piccolo problema:
quel
tycoon dal ciuffo dorato è anche il presidente degli Stati Uniti.
Già,
un trionfante Donald d’Arabia, che vagheggia di innalzare una Trump Tower anche
a Damasco a completare quel mosaico di giganteschi menhir che celebrano la sua
potenza finanziaria a Honolulu come a New York, a Las Vegas come a Mumbai, a
Manila, a Istanbul.
Instancabile,
Trump è poi volato a Doha per vendere ai qatariani aerei, tecnologia, armi.
Un
nuovo diluvio di dollari.
In
altre parole, siamo di fronte a una nuova dottrina americana, che antepone gli
affari e gli accordi commerciali alla politica e alla diplomazia.
Addio
alle guerre preventive, ai “regime change” neocon cari a George W.Bush e
teorizzati da Donald Rumsfeld e Dick Cheney, e soprattutto addio all’
“exporting democracy” come cavallo di battaglia della politica estera americana.
La
sola eliminazione di “Saddam Hussein” costò a Washington 700 miliardi di
dollari e 4.400 caduti nelle forze armate americane.
Per
non dire della débâcle politica con il ritiro dall’Afghanistan. Errori da mai
più ripetere.
Donald
d’Arabia ha tutt’altra intenzione.
La
pace, sostiene, produce profitti.
Non
sappiamo se Trump abbia mai letto “La favola delle api”, il poema satirico di
“Bernard Mandeville”, ma di fatto si comporta come quell’amarissimo apologo del
1705:
sono i
vizi dei privati, la loro brama e ingordigia a generare le virtù collettive.
Qualcuno ha definito la nuova dottrina trumpiana «capitalismo clientelare».
E
sicuramente c’è del vero.
Ma è
vero anche –va dato atto – che la foga di risolvere tutto con una serie di
transazioni d’affari certi frutti li sta dando.
Gli
Accordi di Abramo, per cominciare.
Siglati
cinque anni fa a Washington fra Israele, Emirati Arabi e Bahrein erano la prima
pietra di quella Pax Americana perseguita non senza intoppi e interruzioni da
Donald Trump durante il suo primo mandato, che prevedeva il riconoscimento di
Israele da parte delle nazioni arabe che per mezzo secolo sono state ostili nei
confronti dell’unica democrazia del Medio Oriente.
Accordi
che si sono congelati dopo l’assalto di Hamas del 7 settembre 2023.
Il
progetto tuttavia rimane, ed è un capovolgimento copernicano rispetto
all’appeasement dell’amministrazione Obama:
l’avvicinamento
di Israele alle monarchie del Golfo è il più potente dei richiami per creare
una rete sunnita (originariamente in funzione anti-iraniana) ed anche per fare
affari.
E che
qualcosa nella geografia del Medio Oriente sia profondamente cambiata è sotto
gli occhi di tutti:
dall’intesa
imminente sul nucleare iraniano ai conciliaboli segreti con Hamas, dalla
plateale messa in mora delle incontinenze di Netanyahu (Trump non ha creduto di
fare tappa in Israele), fino al gioco di sponda con la Turchia di Erdogan.
Tutto
cambia, anche la presenza navale russa nella base siriana di Latakia, strappata
a “Bashar al-Assad “in cambio della sua integrità fisica.
Anche
i rapporti con Teheran beneficiano di un cambio di passo, ora che la Mezzaluna
sciita – un corridoio che si stendeva da Teheran al Mar Mediterraneo passando
per Baghdad, Deir ez-Zor, Palmira, Damasco, Latakia garantendo all’Iran una
fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio
Oriente – non è che un ricordo, dopo le robuste punizioni inflitte da Israele a
Hezbollah in Libano e in Siria e agli Houthi nello Yemen.
«L’America
non ha nemici permanenti – ha detto Trump a proposito dell’Iran –. Siamo vicini
a un accordo sul nucleare, siamo in trattative molto serie per una pace a lungo
termine».
In
cambio, si capisce, della revoca delle sanzioni a Teheran.
Un po’
è propaganda, un po’ c’è del vero.
«Stiamo lavorando duramente a Gaza – aggiunge
Trump –.
Gaza è
stata un territorio di morte e distruzione, ma gli Stati Uniti interverranno e
diventerà una “zona di libertà”».
Diventerà:
per ora a Gaza continua uno scempio senza fine.
Ma gli
affari reclamano:
«Abbiamo qui i più grandi leader aziendali del
mondo. Se ne andranno con un sacco di assegni», ha profetizzato Trump a Riad
accompagnato dai Ceo di Lockheed Martin, Northrop Grumman, Halliburton, Nvidia,
dal colosso di investimenti BlackRock.
È il
mondo nuovo, reclamano i corifei di” The Donald”.
E pazienza se accettare un “Air Force One”
come cadeau dal Qatar non è propriamente un gesto di eleganza etica: “business is business”, tutti lo
sanno, Donald Trump per primo:
un
tempo liquidava il Qatar come «un finanziatore del terrorismo di alto profilo»,
oggi tiene la famiglia reale “al-Thani” in palmo di mano.
E
mentre l’Arabia Saudita guadagna una centralità geopolitica che prima non
possedeva, il conflitto russo-ucraino rischia di scivolare sullo sfondo:
il
patto sulle terre rare con Kiev Trump lo ha già messo in tasca.
Il
resto, visto l’allungarsi delle trattative, comincia a sembrargli una
fastidiosa seccatura.
Il
Grande Gioco
non è
un gioco.
Poloniaeuropea.it
– (15 -5- 2023) - Marco Nicoletti – Redazione – ci dice:
La
guerra, brutta bestia, non è un romanzo d’avventura.
Marco
Nicoletti, che ringraziamo, segnala l’articolo di “Le Chiffre” (un nome, un
programma), Come la Russia da cacciatrice è diventata preda e perché l’Europa
deve svegliarsi, pubblicato su “Formiche” il 2 maggio 2023.
L’articolo
comincia così:
«The
Great Game è uno splendido libro che racconta la lotta tra due superpotenze
dell’Ottocento, Russia e Inghilterra, che si scontrarono ferocemente per il
controllo del subcontinente indiano e delle sue incredibili ricchezze.
La
Russia perse quel gioco e la sua storia nei decenni successivi subì
un’involuzione che poi la portò alla rivoluzione e alla fine del regno dei
Romanov.
L’Inghilterra, che la vinse, prosperò per un
altro secolo abbondante.
Oggi,
forse senza accorgercene, stiamo assistendo ad un nuovo “Great Game” e la
preda, ironia duplice della storia, è proprio la Russia di Putin che rischia di
essere il nuovo ed ultimo “Tsar” di “tutte le Russie”».
Il
termine “Il Grande Gioco” usato per definire la lotta tra l’Impero britannico e
l’Impero russo per il dominio sull’Asia centrale tra Otto e Novecento ha vari
padri nobili, tutti di lingua inglese (l’agente segreto Arthur Conolly, lo
scrittore Rudyard Kipling, lo storico Henry William Carless Davis).
Sinonimo
di lotta tra sfere di influenza nell’Asia del Sud e del Centro, la locuzione si
diffuse in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale e fu riportata alla
ribalta dalla guerra sovietico-afghana (1979-1989).
Avendo
successo è diventata però un’espressione passe-partout, anche abusata, anche
troppo giornalistica e soprattutto criticata in quanto poco rispettosa delle
popolazioni abitanti nei territori oggetto di contesa tra le (due o più) grandi
potenze. I
n
breve: un cliché-metafora, una parola-mito.
“L’orso
russo e il suo invincibile cavaliere incontrano la legione britannica”.
Una
caricatura mostra l’imperatrice “Caterina la Grande di Russia” con il corpo di
un orso (19
aprile 1791).
Il
Grande Gioco altro non fu che la rivalità coloniale, la contrapposizione di
potere e di influenza, il contrasto di strategie e interessi non solo economici
e non solo regionali tra l’impero russo e quello britannico per la supremazia
in Asia centrale: quella vasta porzione di mondo tra a ovest il Mar Caspio, a
est la Cina, a nord la Russia, a sud il Pakistan, l’Afghanistan e l’Iran.
Terminata
la minaccia napoleonica l’Impero zarista si lanciò alla conquista dei khanati e
delle tribù dell’Asia centrale espandendosi attraverso le steppe verso il
Caucaso e il Caspio, verso il Tibet e l’Himalaya, e verso gli sbocchi del Golfo
Persico e dell’Oceano Indiano.
La Gran Bretagna, tesa a consolidare e a estendere la
sua presa sull’India, temette che l’Impero russo potesse avanzare anche verso
l’India britannica e strapparle quel continente che era considerato a Londra il
gioiello della Corona.
Perno
centrale del teatro asiatico era l’Afghanistan, strategico sia per la Russia in
espansione sia per la Gran Bretagna preoccupata di contenerla.
Tra
spie, trafficanti e doppiogiochisti, esploratori e geografi-cartografi,
intrecci e intrighi, duelli diplomatici, mosse e contro-mosse, tensioni e
conflitti armati, la contrapposizione tra i due Imperi durò circa un secolo,
grosso modo fino alla Prima guerra mondiale.
Successivamente
sotto la voce de “il Grande Gioco” si sarebbero rubricate – dopo la seconda
guerra mondiale, dopo la fine della Guerra fredda e ancora in tempi recenti –
altre forme di competizione politica e militare con altri e più numerosi
attori.
L’Asia
centrale nell’Impero zarista. Le aree colorate indicano le unità amministrative
dell’Impero all’inizio del XX secolo, mentre le linee verde-chiaro mostrano i
confini degli attuali Stati nazionali
Turkestan
orientale, Mappa del 1872.
“Cynthia
Smith” della Geography and Map Division della” Library of Congress di
Washington” ha curato un elegante sito, “The Great Game and Afghanistan”, con
accurate ricostruzioni storiche e notevoli carte.
Sintetizza:
“Prima
del XIX secolo l’Afghanistan era un importante crocevia, dominato da altre
civiltà nel corso della sua storia (…) Dopo secoli di invasioni, la nazione
cominciò finalmente a prendere forma nel corso del XVIII secolo (…) Il Grande
Gioco tra Inghilterra e Russia iniziò nel 1830.
I due
imperi giunsero a confrontarsi quando le loro aree di influenza in Asia
centrale si avvicinarono progressivamente l’una all’altra (…)
Gli inglesi erano preoccupati per i progressi
russi in Asia centrale.
L’Inghilterra
usava l’Afghanistan come stato cuscinetto per proteggere l’India britannica da
ogni tentativo di invasione russa.
La preoccupazione britannica per l’influenza
russa sull’Afghanistan portò alla Prima guerra anglo-afghana (dal 1838 al 1842)
e alla Seconda guerra anglo-afghana (dal 1878 al 1880).
La
Terza guerra anglo-afghana iniziò nel maggio 1919 e durò un mese.
La Gran Bretagna non ebbe più il controllo
degli affari esteri dell’Afghanistan dopo la firma dell’armistizio dell’8
agosto 1919″.
Il
libro che maggiormente ha contribuito a rendere popolare il concetto di Grande
Gioco è quello del giornalista-scrittore “Peter Hopkirk, The great game”: o
n
secret service in high Asia, “London: John Murray, 1990”, apparso per la prima
volta in Inghilterra nel 1990, poi innumerevoli volte ristampato e tradotto in
molte lingue – in italiano” Il Grande Gioco”.
I servizi segreti in Asia centrale, traduzione
di Giorgio Petrini, Adelphi, 2010.
Si tratta di un saggio di divulgazione
storica che numerose recensioni descrivono come un “grande affresco storico”,
“una delle letture più appassionanti, “un saggio storico che somiglia molto a
un romanzo d’avventura”, “un grande romanzo d’avventure, popolato di
straordinari personaggi” (Umberto Eco), “guerre, trame e agguati”, “le alleanze con i khan, le
esplorazioni di terre misteriose, le trame, gli scontri, gli agguati, il doppio
gioco”;
in
sintesi:
le “affascinanti ‘mille e una notte’ della
diplomazia imperialista”.
Dalla
recensione de “Il rifugio di Long John Silver”, leggiamo:
“Uno
dei periodi storici sicuramente più interessanti ma decisamente sconosciuti al
grande pubblico è la guerra silenziosa che vide coinvolti per circa un secolo
(1800-1905) l’Impero Russo e quello Inglese per il controllo delle ricche zone
dell’Asia centrale, una guerra che ricorda per molti versi la successiva guerra
fredda tra URSS e Stati Uniti.
Una guerra atipica perché combattuta con mezzi
poco avvezzi all’arte militare e con le sottili arti della diplomazia e delle
spie.
Un conflitto che vide spesso come atipici eroi
negli esploratori e cartografi, che spesso per necessità dovettero nascondersi
dietro a vari travestimenti (come dei precursori di James Bond), in missioni
che si svolgevano in terre di cui non sapeva nulla e dove la legge era in mano
a sanguinari Khan che bisognava sperare di blandire con regali munifici e
confessioni di profonda amicizia alternate a tante bugie (e molte blandizie).
Un libro che spiega bene nel dettaglio le
piccole battaglie, la corsa sfrenata dei due imperi per il dominio di oasi o
posti chiave per stoppare l’avanzata nemica. Non una guerra in grande stile ma
svolta con una complessa trama fatta di piccoli colpi di mano, propaganda,
sotterfugi per far passare il nemico come la parte perdente, l’uso della
cartografia per creare mappe di luoghi completamente sconosciuti, il
superamento di catene montuose pericolosissime e infestata da predoni e
banditi.
L’isteria
collettiva che colpiva ora una ora l’altra parte alla notizia di una qualche
sconfitto o vittoria dell’avversario (…)
Un periodo decisamente sconosciuto che sembra
uscito da un romanzo di James Bond”; e una serie di storie che” – ecco un punto
da sottolineare – “non trasfigurirebbero in un romanzo o film/serie tv”.
Dalla
recensione di “Stefano Olivari”:
“nel libro di” Hopkirk”, peraltro
equilibratissimo e per niente anti-russo, si respira a pieni polmoni la parte
idealistica del colonialismo che c’è in “Kipling”, e che di recente ha messo “Kim”
nel mirino della” cancel-culture”.
Fra l’altro nel Grande Gioco l’oggetto del
desiderio finale è proprio l’India in cui cresce Kim, in una maniera quasi
ossessiva”.
Olivari si entusiasma non per i disegni
espansionistici di Regno Unito e Russia bensì per le “vicende umane di
protagonisti, spesso eroi solitari o comunque lasciati soli”.
Sono
“alcuni personaggi eccezionali, non necessariamente grandi condottieri o primi
ministri, anzi quasi mai, che provano a infrangere o a forzare le regole con
obbiettivi vaghi ma sempre trascinati da un misto di coraggio, sete di
conoscenza, avidità, brama di gloria e soprattutto inquietudine”;
personaggi
“pronti ad imprese militari impossibili o a incredibili operazioni di
spionaggio in ambienti sospettosi e dispotici”.
Insomma, un libro che “conquista anche per lo
spirito di avventura da romanzo che trasmette, davvero da brivido, superiore a
quello di un viaggio su Marte nel 2021.
Lo
spirito di uomini che volevano fare la differenza e il cui sangue ha reso più
grandi i loro paesi”.
Dalla
Scheda dell’”Editore Adelphi”:
“Davanti
al palazzo dell’”emiro di Buchara”, due uomini in cenci sono inginocchiati
nella polvere.
A poca
distanza, due fosse scavate di fresco, e tutt’intorno una folla sgomenta, che
assiste in un silenzio irreale.
Non è
certo insolito che l’emiro faccia pubblico sfoggio di crudeltà, ma è la prima
volta che il suo talento sanguinario si esercita su due bianchi, e per di più
servitori di Sua Maestà britannica.
La
scena non è stata scritta da “Kipling”, anche se di lì a poco la contesa fra
russi e inglesi per i luoghi che oggi chiamiamo Turkmenistan, Tagikistan o
Afghanistan avrebbe trovato, nelle pagine di Kim, un nome destinato a durare: “Grande Gioco”.
È
invece realmente accaduta una mattina di giugno del 1842, dando inizio a una
vicenda che in questo celebre libro “Peter Hopkirk “ricostruisce nella sua fase
più avventurosa, allorché gli ufficiali dei servizi segreti zarista e
vittoriano valicavano passi fino allora inaccessibili, cartografavano valli
inesplorate, raccoglievano informazioni dalle carovane di passaggio sulla Via
della Seta, tramavano complesse alleanze con i khan della regione, rischiando a
ogni mossa, come i loro epigoni attuali, di ridestare da un sonno millenario
quelli che “Bruce Chatwin “chiama «i giganti addormentati dell’Asia centrale»
Che le sorti del mondo dipendano da ciò che
avviene in quella vasta zona è una percezione antica, oggi confermata
quotidianamente da guerre, trame e agguati. Una storia, dunque, quanto mai
utile da conoscere.
Ma va aggiunto che nella fase raccontata nel “Grande
Gioco” quella storia era anche il romanzesco allo stato puro – e sarà un
intensissimo piacere per chi la ascolta.
Molte sono le memorie e i documenti che ne
compongono il mosaico, ma occorreva un maestro come “Peter Hopkirk” per farci
seguire in tutte le sue ramificazioni questo strepitoso romanzo a puntate”.
Ora
rovesciamo la prospettiva.
Certamente
l’autore “narra divinamente” e il libro è scritto “in uno stile davvero
coinvolgente ed emozionante” ed è ricco di mappe disegnate a mano,
illustrazioni, fotografie.
Ma
nelle “affascinanti ‘mille e una notte’ della diplomazia imperialista”, forse,
andrebbe sottolineato l’aggettivo “imperialista”.
L’oggetto della narrazione è pur sempre poco
nobile:
la lotta/guerra diplomatica e paramilitare fra
Inghilterra e Russia che scorre per tutto l’Ottocento, avente come obiettivo il
dominio politico-commerciale nell’Asia Centrale e la difesa degli interessi dei
rispettivi imperi.
Mentre “il grande impero moscovita scivolava
verso i mari caldi inghiottendo ogni giorno, mediamente, 150 chilometri
quadrati, la Gran Bretagna cercava di estendere verso nord i suoi possedimenti
indiani.
Vecchia
storia? Acqua passata?
Chi
darà un’occhiata alla carta geografica constaterà che i grandi attori hanno
cambiato volto e nome, ma i territori contesi o discussi sono sempre gli stessi
(…)
il lettore troverà l’antefatto di molti
avvenimenti degli scorsi anni in Afghanistan e in Iran.”
(Sergio Romano).
Indubbiamente
quello di “Peter Hopkirk” “è un libro prezioso per farsi un’idea di come si è
evoluta la storia in una zona chiave e nello steso tempo poco nota dell’Asia.
Inoltre,
è notevole come il passato abbia ancora riverberi e conseguenze sulla storia
contemporanea:
ad esempio si può capire come la
contrapposizione Impero Russo-Impero Britannico abbia lasciato strascichi sulla
psicologia di oggigiorno.
L’ambientazione
inoltre fa immergere in quella che era stata una zona chiave dell’”Antica Via
della Seta”.
Peccato
che nella parte terminale il libro scada in una lunga serie di descrizioni
dettagliate di imprese ‘eroiche’ di militari britannici contrapposti a quelli
che spesso vengono liquidati come ‘indigeni selvaggi’.
Dal che si capisce come l’antico atteggiamento
colonialista dei britannici non sia affatto scomparso.
Infine,
lascia sbigottiti come l’autore abbia descritto con noncuranza il massacro di
migliaia di monaci tibetani da parte dei ‘valorosi’ soldati britannici:
in
fondo l’esercito britannico stava solo invadendo un paese indipendente, cosa
pretendevano questi personaggi del medioevo? Mah …” – commenta un lettore (Corrado Crotti).
Un
altro lettore (Alberto D) osserva:
“Il tema è affrontato principalmente dal punto
di vista britannico, avendo l’autore (egli stesso inglese) attinto a fonti per
lo più britanniche ed essendo il libro apparso nel 1990 (pertanto in un periodo
in cui l’accesso a fonti d’archivio russe risultava tutt’altro che semplice).
(…) Unica vera pecca è che l’autore tende a
tratti a cadere nella trappola dell’esaltazione dell’eroe romantico
ottocentesco, inevitabilmente incarnato dal ‘giocatore’ britannico a scapito di
quello russo e dei popoli oggetto della contesa, e in generale dell’esaltazione
delle ‘mosse’ britanniche, facendo di tanto in tanto perdere di imparzialità ed
equilibrio alla trattazione”.
Un
terzo lettore (Andrea Pujatti) riconosce:
“L’unica
riserva riguarda la tendenza eccessiva a lodare e magnificare l’operato dei
britannici (è scritto da un inglese) nonostante il loro atteggiamento
imperialista non sia sempre stato positivo, trasparente e corretto.
Aiuta
a comprendere perché l’Afghanistan è tuttora una terra contrastata e oggetto di
conquista”.
Un
Quarto commentatore (Nicola Mucchi):
“lo
consiglio fortemente a chi intende sapere di più sulle azioni politiche
propagandistiche e militari che noi europei abbiamo intrapreso nel Medio ed
Estremo Oriente.”
Un
quinto (Nick
Parisi): “il tutto a danno delle popolazioni
locali che ne pagano le conseguenza ancora oggi”.
(Recensioni
a Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia centrale.
L’Afghanistan
chiede di essere salvato dalle ambizioni coloniali dei suoi “amici”, la Russia :
l’orso e la Gran Bretagna : il leone).
Putin
diserta il vertice di Istanbul
con
Zelensky, il gioco della sedia
con
Trump tra enigmi e ricatti.
Ilriformista.it
– Paolo Guzzanti – (15 -5 – 2025) – ci dice:
Sia il
leader russo che quello americano non vanno in Turchia.
Mosca
attacca: “Nostra delegazione una farsa?
Zelensky un clown.”
Torna
in mente la battuta di “Nanni Moretti”:
mi si
nota di più se vengo o se non vengo?
Il vertice sulla tregua in Ucraina previsto
oggi in Turchia dovrebbe mettere uno di fronte all’altro il russo Vladimir
Putin e l’ucraino Volodymyr Zelensky.
Tutto
sembrava definito e pronto, ma ecco che si profila il rischio della solita
sedia vacante, quella di Vladimir Putin.
Viene
o non viene?
Lo
hanno chiesto a Trump, che ha detto: “Non lo so: non è chiaro se Putin verrebbe
anche se io non ci fossi, e io devo capire se lui verrebbe anche se non ci
fossi io”.
Un
groviglio senza né capo né coda.
Putin
ha dichiarato che il clima è cambiato per colpa degli occidentali che, con
Macron in testa, vogliono garantire l’eventuale tregua.
Putin ha detto che sarebbe disposto ad andare
a Istanbul solo se ci fosse anche Trump, il quale ha risposto come abbiamo già
detto.
Il
gioco della sedia è diventato un imbroglio di enigmi e ricatti.
Finora questa tattica aveva funzionato per
Putin, ma oggi c’è un elemento nuovo: il presidente americano da due settimane
si dichiara preso in giro e vuole vedere se Putin ha davvero intenzione di
sedere al tavolo senza trucchi e senza imbrogli, ed ecco che il russo minaccia
di far saltare sedia e tavolo dandone la colpa a Macron, che minaccia di
dispiegare le sue armi nucleari nei Paesi alleati europei. L’arrivo in scena di
Leone XIV pesa a favore dell’Ucraina, per il Papa un Paese vittima che merita
una pace stabile e giusta, dunque protetta.
L’enigmatico
Putin.
Finora
il presidente russo ci ha abituati alle sue virtù di illusionista di procedere
come un gambero, con un passo avanti e due indietro.
Ha
cominciato promettendo una solenne tregua sulle centrali energetiche, ma non
l’ha mantenuta neppure per una notte.
Poi
disse che mai avrebbe trattato con Zelensky perché non lo considera un
legittimo presidente del Paese che invade da tre anni.
Ma
ecco che poi sembra che ci abbia ripensato, e che anche Zelensky va bene e che
l’incontro si può fare:
è ufficiale, tutti in Turchia oggi e senza
alcuna precondizione.
Finora Putin ha sempre mollato all’ultimo
momento e anche stavolta tiene tutti col fiato sospeso, confermando la celebre
definizione che della Russia dette Winston Churchill:
“È un rebus avvolto in un mistero che sta
dentro un enigma”.
“Andrej
Gromiko”, nipote dell’omonimo e più celebre e longevo ministro degli Esteri,
famoso per aver meritato il titolo di “Mister Nyet”, no a tutto, è stato
allontanato dal think tank del Cremlino e manifesta apertamente la sua
avversione contro la politica putiniana di traccheggiare, accertare e poi
rinviare.
Tuttavia,
la delegazione russa in partenza si sta formando e il portavoce del Cremlino
“Dmitrij Peskov “ha ripetuto ieri che la Russia è pronta a discutere con
l’Ucraina a Istanbul, ma non ha ancora sciolto la riserva sulla presenza fisica
del presidente russo Vladimir Putin.
E poi
c’è la Germania con il suo nuovo cancelliere di ferro “Friedrich Merz”, il
quale, con un linguaggio che sarebbe stato impensabile nella bocca dei suoi
predecessori “Scholz” e “Merkel”, ha detto che la posizione tedesca è oggi
quella di chiamare a raccolta europei e americani per rifiutare una pace
dettata dai termini della Russia.
E ha
detto che l’Ucraina non deve essere sottomessa all’imposizione di perdite
territoriali contro la sua volontà.
La
Germania dà questi primi vigorosi segnali di voler tornare alla guida
dell’Europa con una grinta simile a quella della vecchia Repubblica federale
tedesca con Capitale Bonn, quando la Guerra Fredda era molto calda e la
Germania occidentale contava molto di più di quanto abbia contato la Germania
unificata.
Lo
scenario.
L’esigenza
della pace in Ucraina è ormai un elemento fortemente spinto dall’economia:
in Russia
il partito dei grandi affaristi ha visto che dall’Ucraina c’è poco da ricavare
e vorrebbe un rientro nella comunità internazionale con l’abolizione delle
sanzioni, sia pur dando per scontato che occorrerà un lungo tempo di
decantazione prima di essere riammessa nel consesso internazionale.
Il cancelliere tedesco ha ripetuto che il suo
Paese deve tornare al ruolo di locomotiva economica che rimetta in moto la
crescita, e ha aggiunto che “non abbiamo mai conosciuto un periodo così lungo
di mancata crescita economica nella storia del nostro Paese”.
E
dunque la nuova Germania conservatrice sembra avere molta fretta affinché la
guerra d’invasione in Ucraina termini, e che termini non nei termini che Mosca
vorrebbe imporre.
In un editoriale su “Le Monde”, “Sylvie
Kauffmann” scrive che “Donald Trump” farebbe bene a sbrigarsi a decidere chi
sono gli aggrediti e chi gli aggressori, quali le dittature e quali le
democrazie.
Mentre,
al contrario, la diplomazia a breve termine usata da Trump ferma la politica
internazionale in un vicolo cieco.
L’arrivo
di Trump.
Il
presidente americano intanto ha lasciato gli Stati Uniti ed è atterrato in Sud
Arabia, accolto con tutti gli onori del tappeto rosso.
In America comici e stand up si sono scatenati
ed è di moda la battuta di” Stephen Colbert”, secondo cui i democratici
americani dovrebbero approfittare della sua assenza per chiudere porte e
aeroporti per far riprendere la vita politica ed economica.
Trump è stato accolto dal principe saudita “Mohammed
bin Salman” non solo con un untuoso tappeto rosso ma anche con un camion
modificato per lui.
Trump
però passa le ore al telefono per sapere che aria tira a Istanbul e quali siano
le ultime intenzioni di Putin che determineranno la sua decisione finale di
essere o non essere presente alla trattativa.
Le
previsioni di successo per ora sono scarse e i bookmakers danno la sedia
vacante al 90%.
(Paolo
Guzzanti).
ChatGPT
come Eva per Adamo,
l’AI è
la più grande rivoluzione
della storia dell’umanità.
Ilriformista.it
– Paolo Guzzanti – (15-5 – 2025) – ci dice:
Con
una eccezionale e breve pausa, tra la morte di Papa Francesco e i primi giorni
di Leone XIV, da sei mesi ogni conversazione ha tra i suoi temi l’Intelligenza
Artificiale.
Tra
tutte, pochi giorni fa, una in particolare.
Eravamo quattro amici al bar (come la
canzone), da poco entrati nella “fase Cassandra” dell’AI.
La fase Cassandra arriva subito dopo la “fase
delle grandi cazzate” – quella in cui si usa l’AI per fare cose piuttosto
stupide, ma divertenti.
Poi, un giorno, mentre guardi compiaciuto una
action figure, cominci improvvisamente a prendere consapevolezza del suo
incredibile potenziale.
Ne
resti affascinato e spaventato nello stesso istante.
Poi,
tutto cambia: realizzi la sua potenza.
Vorresti
dirlo a tutti, correre per la città annunciando l’imminente distruzione
generativa.
Lo
fai, ma nessuno ti si fila.
E quei
pochi che ti ascoltano ti dicono “Esageri! Tranquillo.
Lo
dicevi anche del metaverso, e poi non è successo nulla”.
L’IA e
il paragone sbagliato con la rivoluzione industriale.
Comunque,
tornando ai quattro amici al bar:
uno,
il più entusiasta, dice:
“L’AI
è la più grande rivoluzione della storia dell’umanità dall’invenzione della
stampa!”.
Ora,
il povero “Gutenberg” – pace all’anima sua – ne sarà soddisfatto, ma forse
quella era una buona metafora per Internet, penso tra me e me.
Meglio
del solito paragone – sbagliato – con la rivoluzione industriale.
Mentre
pensavo questo, un altro lo incalza con:
“Ma che dici, dai tempi del fuoco!”.
E
questa frase mi ha fatto sognare un po’ di più della precedente.
Il fuoco non cambiò solo il presente (calore,
difesa, cibo), ma trasformò i comportamenti futuri.
Quando
scoprimmo il fuoco, non lo sapevamo, ma stavamo inventando tutto il futuro.
Ad
esempio, le riunioni.
Perché iniziammo a sederci attorno al fuoco,
insieme, e qualcuno cominciò a raccontare storie.
E gli altri ascoltarono.
Prima,
il linguaggio era simile ai versi animali.
Con il
fuoco divenne sociale e narrativo.
Il
buio fu sconfitto. La luce divenne una scelta.
L’IA è
come il fuoco.
Per
chi non è cattolico, solo i giorni del conclave restano metafora – bellissima e
potente – della notte di Pasqua.
Tutto – penso tra me e me – è iniziato intorno
al fuoco, anche se chi lo accendeva allora non poteva immaginarlo.
Sì, ha ragione il mio amico.
L’AI è
come il fuoco.
Oggi
la uso per scaldarmi, ma solo il futuro ne rivelerà la vera, straordinaria
potenza evolutiva.
Ma i
miei pensieri sono stati spazzati via da una frase ancora più roboante e
potente delle precedenti.
Esplode il terzo amico:
“L’AI
è la più grande rivoluzione della storia dell’umanità dai tempi della scoperta
della figa!”. Sì. Hai letto bene.
Ora
non ricordo se, in ossequio alle riflessioni di Nanni Moretti”, abbia detto
figa o fica.
Beh,
comunque ha detto così.
L’evidente
e disdicevole riferimento volgare, misogino e patriarcale mi ha impedito di
ridere come forse avrei voluto.
Ma
riflettendoci, la frase porta in sé due enormi verità che il mio amico non ha
esitato a declinare.
Ci ha
spiegato, pontificando:
“Non
parlo solo della scoperta individuale, ma anche di quella universale”.
Quella
individuale (fate lo sforzo di intendere con la disdicevole espressione figa
semplicemente “l’altra metà del mondo”, con rispetto per i non binari) è la
grande scoperta dell’amore, dell’altro, di sé stesso nell’altro.
Mi
ritrovo.
Forse
un po’ estremo come esempio, ma l’AI aiuta moltissimo nella scoperta di sé,
come solo una relazione d’amore può fare.
ChatGPT
come Eva per Adamo.
Sì,
forse avrebbe potuto dire: “La più grande rivoluzione della storia dell’umanità
dai tempi della scoperta dell’amore”.
E forse, detto così, anche “L14” sarebbe
d’accordo.
Ma poi
c’è la potenza della scoperta universale, che il mio amico fa risalire a una
data che dovrebbe essere circa l’ottavo o nono giorno di vita della storia
dell’universo dalla creazione.
Quando
Dio, bontà sua, dona ad Adamo Eva.
Secondo
il mio amico, da quel momento ad oggi, l’unico evento paragonabile è stato il
giorno in cui abbiamo iniziato a usare ChatGPT.
Se ci
penso, di analogie ce ne sono.
La storia della costola, ad esempio.
Ma
anche quella della complementarità simmetrica.
L’AI che diventa il quarto, inatteso elemento
della creazione.
Fissando
– per sempre – la data del 30 novembre 2022 come il giorno in cui, dopo 100mila
anni, abbiamo iniziato a smettere di essere gli esseri più intelligenti su
questo pianeta.
Dimenticando
che Dio, quando era toccato a lui creare, questo errore non lo aveva fatto.
Avevo
ancora in testa le immagini del conclave nella Sistina.
Un
cardinale Pizzaballa, così affascinato dallo spettacolo della volta, da saltare
alcune frasi delle preghiere.
Ho
immaginato, proprio su quello straordinario affresco, il Creatore che dava l’AI
(5.0 Pro annuale) al suo Adamo, avvicinando il dito, come faccio ora io, al mio
Mac, per far riconoscere la mia impronta digitale e spegnerlo per un po’.
Elezioni
Polonia 2025, chi sono
i
candidati, quali sono i temi
decisivi
e qual è la posta in gioco.
Corriere.it - Francesco Battistini – (18-05 -2025) –
ci dice:
I
candidati alle elezioni presidenziali in Polonia sono undici.
I favoriti dai sondaggi sono “Trzaskowski”,”
Nawrocki” e “Mentzen”.
Il
successore di “Duda” dovrà scegliere:
pensare
europeo o trascinare anche i polacchi, come i rumeni e gli slovacchi, a mettere
il loro mattone sovranista?
Presentazione
elezioni Polonia.
“Rafal
Trzaskowski”, sindaco di Varsavia e favorito al primo turno (Epa).
In
Polonia, il 18 maggio, si svolgono le elezioni presidenziali:
si
vota per eleggere il successore di “Andrzej Duda”, giunto alla fine del suo
secondo mandato e perciò ineleggibile.
Se non
si dovesse decretare un vincitore, i polacchi torneranno alle urne per il
secondo turno il 1° giugno.
Di
seguito, l'analisi di Francesco Battistini.
Prima
scena.
Nel
Paese europeo con le regole più strette per chi lavora alle interruzioni di
gravidanza, arresto compreso, qualche settimana fa l’organizzazione “AboTak” ha
aperto un ufficio a pochi metri dal Parlamento di Varsavia:
ci
stanno gli attivisti dell’”Aborto Dream Team” e dell’ong “Aborto Senza
Frontiere” e si dà una mano – senza provvedere direttamente, perché è illegale
- alle 120mila polacche che ogni anno rinunciano a un figlio.
Seconda
scena.
Terminate
le indagini sull’incendio d’un grande centro commerciale di Varsavia, nel 2024,
i servizi d’intelligence polacchi hanno stabilito che trattasi di sabotaggio.
E il governo di Varsavia ha chiuso il
consolato russo di via Mariwilska a Cracovia, il secondo in pochi mesi.
L’accusa:
quel rogo è solo l’ultimo esempio dei cyberattacchi e delle interferenze
putiniane nella politica interna, come in Lituania, in Romania e in Moldova.
Terza
scena.
A migliaia hanno sfilato nella capitale
«contro l’immigrazione illegale» favorita dal governo di Donald Tusk.
«Fate il gioco della Germania!».
C’era
tre anni fa la Polonia che abbracciava milioni di rifugiati ucraini.
Oggi che di milione ne è rimasto uno, l’aria è
cambiata:
i contadini bloccano il grano di Kiev alle
frontiere e «la Polonia innanzi tutto!» è lo slogan più diffuso.
Cartoline
da una campagna elettorale.
Più aborti e più armi? O meno Ue e meno
Lgbtq+?
O ancora: meno Ucraina e niente aborti?
I temi
sono quelli e la Polonia, che domenica vota il suo nuovo presidente, sa
d’essere a una svolta.
Bisogna mandare a casa il “sovranista Andrzej
Duda”, a fine del secondo mandato e perciò ineleggibile.
E
decidere se si vuole una politica come quella del premier “Tusk”, il “nuovo
cocco dell’Ue! che al posto di Giorgia Meloni ha partecipato al «vertice dei
volenterosi» a Kiev, oppure scegliere un altro” Duda”.
I
candidati e i sondaggi.
Sugli
undici canditati al primo turno, ce n’è tre che hanno i profili giusti.
Il favorito (32%) è l’europeista “Rafal
Trzaskowski”, 53 anni, studi a Oxford e sei lingue parlate (pure l’italiano),
ex ministro e ora sindaco di Varsavia, figlio d’un pianista che osava il
vietatissimo jazz negli anni del comunismo, pronipote dell’uomo che aprì le
scuole superiori alle donne polacche:
sfida la Chiesa polacca più conservatrice,
promettendo d’allentare le leggi sull’aborto e di proteggere meglio i diritti
omosessuali.
Il suo
contendente principale, il nazionalista “Karol Nawrocki “(23%), 42 anni,
studioso di storia e dei crimini nazisti e comunisti, si vanta d’essere un
trumpiano della prima ora («l’ho incontrato in aprile alla Casa Bianca e mi ha
detto che vincerò»), è chiacchierato per qualche amicizia neonazi e sostiene la
causa dell’Ucraina, ma non le politiche dell’Europa: nel suo programma, c’è
anche la richiesta alla Germania dei danni per la Seconda Guerra mondiale.
Presentazione
elezioni Polonia.
“Karol
Nawrocki”, secondo nei sondaggi, si vanta di essere un trumpiano della prima
ora (Epa).
Infine,
è spuntato un estremista di destra: l”’economista iperliberista Slawomir
Mentzen”, 38 anni, milionario grazie ai bitcoin, 40 milioni di visualizzazioni
su TikTok, favorevole all’arresto per chiunque favorisca o compia un aborto –
perfino in caso di donne stuprate – e contrario a qualsiasi immigrato ucraino e
no, nostalgico delle «care e vecchie» punizioni corporali per i bambini, poco
propenso agli ebrei, ai gay, alle tasse e all’Ue.
I
sondaggi lo danno al 14%, ma la sua enorme popolarità sui social potrebbe
portarlo al ballottaggio e lo renderà comunque determinante per orientare i
voti del secondo turno, in giugno.
“Mentzen”
è contro le sanzioni a Putin, come tutti i sovranisti dell’Est Europa.
Soffre di sindrome d’Asperger, «come Elon
Musk».
E
sapendo di giocare sul ruolo di terzo incomodo, dice di sé: «Sono sempre stato
un tipo un po’ diverso da tutti gli altri…».
I
poteri.
In
Polonia, il presidente ha tre poteri soprattutto: orienta la politica estera,
può mettere il veto ad alcune leggi, comanda le forze armate.
Chiunque vinca, spiega un’analista
dell’università di Varsavia, “Ewa Marciniak,” «ci sono in gioco molte cose.
E la
prima è il rapporto col governo Tusk, quindi il nostro ruolo nei dossier di
Russia e Ue».
Duda
poneva molti veti, paralizzava spesso le scelte del premier.
E pochi giorni prima di lasciare il palazzo, “last
call”, ha ricevuto quel George Simion filorusso che potrebbe diventare il nuovo
presidente della Romania.
Il successore di Duda dovrà scegliere:
pensare
europeo o trascinare anche i polacchi, come i rumeni e gli slovacchi, a mettere
il loro mattone sovranista.
Alzando dentro l’Ue un altro muro.
I due
patti del conclave.
Vinonuovo.it
- Gilberto Borghi - (12 Maggio 2025) – ci dice:
Una
ricostruzione ipotetica del conclave, basata su pochi indizi concreti, che
spiegherebbe molto di ciò che si sta già vedendo.
Comunità.
Anti
bergogliani conclave continuisti moderati papa Leone XIV patto Spirito Santo.
Avevo
cercato di descrivere qui i possibili scenari del conclave.
Adesso, credo, ci sia la possibilità di
ipotizzare ciò che è accaduto, partendo da quegli stessi presupposti, pur
ammettendo che la mia è una ricostruzione basata su pochi indizi concreti,
interpretabili anche in altri modi, ma che spiegherebbe molto di ciò che si sta
già vedendo.
Le
congregazioni pre conclave dei cardinali hanno visto centrare le discussioni
soprattutto su questioni interne alla Chiesa, come ovvio che sia.
E le due tematiche che, sembra, abbiano tenuto
banco sono state l’unità della Chiesa e la sinodalità.
La
prima con una attenzione particolare alla ricomposizione della frattura tra
Francesco e la Chiesa nord americana, la seconda, connessa alla prima, nel
tentativo di garantirsi che la sinodalità vada avanti, ma senza aprire fratture
ulteriori.
Sembra,
poi, che negli ultimi due giorni i cardinali abbiano cercato di individuare chi
potesse essere il nome che maggiormente poteva raccogliere consensi su quei due
temi.
E qui,
probabilmente, c’è stata la mossa di una parte dell’episcopato del nord
America, quello meno “anti” Bergoglio, di offrire la candidatura di “Prevost”.
Questa avrebbe trovato molto consenso
nell’area moderata sulla base di un patto con i nord americani, chiedendo al
futuro papa la garanzia dell’unità della Chiesa e una certa quota di continuità
sul tema della sinodalità.
Patto
garantito, agli occhi dei moderati, dalla biografia di “Prevost”, come uomo
nato e cresciuto tutto dentro l’istituzione ecclesiastica (fin dai 14 anni!) e,
nello stesso tempo, voluto da Francesco in un dicastero chiave, come quello dei
vescovi.
Con
questo accordo e il relativo nome, sono entrati in conclave.
Nella
prima votazione, questa nomina è apparsa subito molto consistente, superando
già “Parolin “ed “Erdò”, gli altri due più votati.
A
questo punto, è altamente probabile che chi dall’area moderata votava Parolin,
si sia spostato su “Prevost” (della stessa area), visto l’impossibilità di fare
papa lo stesso Parolin.
Così
la seconda votazione, probabilmente, ha visto alzarsi i consensi su “Prevost”,
ma senza ancora raggiungere il quorum.
Segno
del fatto che la somma di quasi tutti i moderati e dei nord americani meno
estremi, non arrivava a 89 voti.
Ma se,
come rivelato sabato, “Prevost “è stato eletto con più di 100 voti, deve essere
intervenuto qualcosa tra la seconda e la terza votazione, per giustificare uno
spostamento di almeno 12 voti (probabilmente più di venti).
Ipotizzabile, quindi, che i sostenitori di
Prevost si siano resi conto che avrebbero dovuto trovare altri voti.
Ma
dove guardare?
Impossibile presso il gruppo più estremo degli
anti bergogliani, che continuava a votare “Erdò”.
Era
necessario, quindi, guardare ai continuisti meno estremi.
E qui
si potrebbe essere consumato, forse, un secondo patto, in cui alcuni
continuisti, (dai 15 ai 20) , fino ad allora su candidati minori, avrebbero
potuto spostarsi su Prevost a condizione che lui avesse garantito di mantenere
l’attenzione ai temi più sociali di Bergoglio:
la guerra, gli ultimi, il pianeta.
Accordo
possibile, questa volta, sulla base di altri due dati della biografia di
Prevost:
l’essere
stato missionario per 28 anni, compresi quelli da vescovo, e l’essere stato
pescato da Francesco per il cardinalato e la gestione del dicastero dei vescovi
da una oscura diocesi periferica del Perù, dove questi temi sociali erano molto
vivi. Così alla terza votazione il quorum è stato abbondantemente raggiunto.
La
cosa interessante, però, è che, già prima di entrare in conclave, “Leone XIV”
aveva annusato la possibilità di essere eletto, visto il primo patto.
Ciò è
segnalato da tre piccole tracce.
Sembra
che la sera prima di entrare in conclave, telefonando al fratello, Prevost
avesse discusso con lui dell’eventuale nome da assumere. Intervistato, poi,
prima dell’ingresso in conclave sulla possibilità che potesse essere lui il
nuovo papa avrebbe risposto:
“resta nelle mani di Dio”, invece di una più
attendibile risposta “schernita”, o di ritrosia, molto più consona al suo
carattere schivo e riservato.
Poi, dopo l’elezione, si è affacciato al
balcone con uno scritto, in una lingua non sua.
Contando
i tempi tecnici di accettazione dell’elezione, del saluto di ossequio da parte
dei cardinali e della vestizione, è difficile ipotizzare che quello scritto sia
stato redatto dopo l’elezione.
Questo,
se fosse vero, spiegherebbe, al momento, come le aree ecclesiali moderate, sia
“anti” che “pro” Bergoglio, tentino entrambe di ascriverlo alla propria parte,
mentre le ali estreme avvertono più disagio che attrazione.
Ma forse spiegherebbe anche come, sempre al
momento, i pochi discorsi di “Leone” lascino pensare che lui si senta più
debitore al primo patto, dal quale avrebbe avuto la stragrande maggioranza dei
voti, che non al secondo, arrivato solo a conclave già aperto.
I temi dell’unità della Chiesa e della
sinodalità sono stati ampiamente citati da Leone, mentre quelli degli ultimi e
del pianeta sembrano scivolati, per ora, sullo sfondo, salvando la fedeltà al
secondo patto solo sul tema della guerra.
A
questo punto entra, però, in gioco la personale teologia di Prevost, che come
tutti i credenti, si costruisce non solo sugli studi fatti, ma soprattutto
sulla propria esperienza personale ed esistenziale.
Per
ora è difficile dire, quindi, come Leone declinerà la fedeltà ai patti che lo
hanno eletto.
Ma già
si mostrano alcune tendenze, sue proprie:
una
missione prima “teologica e identitaria” e solo dopo “mediatrice e
umanizzatrice”;
una
comunicazione che pur partendo dalla persona tende ad anticipare molto la
presentazione della verità della Chiesa;
una percezione del mondo meno luogo potenziale
dello Spirito che parla alla Chiesa e più come luogo a cui la Chiesa deve
parlare;
uno
stile più istituzionale e rituale, che creativo e fuori schema.
Il che
spingerebbe ad ipotizzare un papato più centrato sulla Chiesa e meno sul mondo.
Perciò
attenzione maggiore sulla sinodalità e sull’unità della Chiesa e forse meno a
temi aperti sulla donna, sulla morale, sulla interconnessione tra povertà,
ecologia ed economia.
Il suo
curriculum dice che prima del gennaio 2023 era un quasi sconosciuto vescovo di
una diocesi di periferia del Perù, pur essendo stato superiore generale degli
Agostiniani.
Il
ruolo papale potrà aprirgli orizzonti interpretativi del mondo e della Chiesa
che al momento sono impossibili per lui?
Presto
per dirlo, ma probabile.
Un
dato, comunque, va sottolineato.
Le
aree ecclesiali “più vicine” a Bergoglio ammettono una pluralità di visioni del
vangelo, molto più di quanto non facciano quelle “anti”.
Perciò
mentre queste ultime, se l’istituzione viaggia in direzione contraria alla loro
visione, tendono a ribellarsi e ad aggredire, come è successo con Bergoglio, a
volte anche in forme poco evangeliche, le prime, invece, non reagiscono allo
stesso modo, perché sanno bene che una linea non simile alla loro è legittima e
che a guidare la Chiesa è sempre lo Spirito Santo, anche dopo il conclave.
Perciò,
se una delle due tendenze va un po’ “sacrificata” per garantire di più l’unità
della Chiesa, potremmo aspettarci che Leone mostri una linea un po’ più verso
la moderazione, rispetto al suo predecessore, in modo da far sopportare il
“peso” di questo camminare insieme (sinodo!) per l’unità a coloro (i
bergogliani) che meglio sanno sopportare evangelicamente le differenze, senza
produrre conflitti interni, così accesi come con Francesco.
Lo
Spirito soffia dove vuole, sia dentro che fuori la Chiesa, anche se dentro non
tutti ne sono proprio convinti.
Possiamo
aspettarci, perciò, una sinodalità e unità della Chiesa perseguite più
“dall’alto” che “dal basso”, ma anche la sorpresa di lati pastorali e
attenzioni teologiche di Leone che, al momento, non emergono, deludendo coloro
che in questi giorni hanno prontamente esultato per un ritorno indietro.
“Mircea
Eliade”, uno sciamano
alla
scrivania.
Doppiozero.com - Giampiero Comolli – (10
Maggio 2025) – ci dice:
Nel
1957, poco dopo essere giunto all’Università di Chicago come docente di storia
delle religioni, Mircea Eliade viene interpellato dall’antropologo Milton
Singer, curioso di sapere che cosa maggiormente lo avesse colpito negli Stati
Uniti.
«Gli scoiattoli!», gli risponde lui
prontamente, ricevendone in cambio un sorriso interdetto e imbarazzato, non
sapendo come reagire di fronte a quella che pareva solo una battuta ironica o
elusiva.
Ma
Eliade non intendeva fare il provocatore, e infatti annota poi sul suo
taccuino:
«ogni volta che vedo uno scoiattolo
avvicinarsi alla mia mano tesa, per prendere una mandorla, ogni volta che la
diffidenza, l’inimicizia, la lotta all’ultimo sangue tra l’uomo e le bestie
selvatiche mi sembrano abolite, anche solo per pochi attimi, cado preda di una
oscura e forte emozione…
Come
se fosse annullata la condizione attuale dell’uomo e del mondo e ci trovassimo
di nuovo in quell’epoca paradisiaca, esaltata dai miti primitivi.
Allora,
in illo tempore, anteriore alla “caduta” e al “peccato”, gli uomini vivevano in
pace con le fiere, ne comprendevano il linguaggio e parlavano loro
amichevolmente…».
Dagli
scoiattoli di Chicago al Paradiso Terrestre…
Molto
più significativo di quanto non appaia nella sua fiabesca semplicità, questo
minimo aneddoto si trova nascosto fra quella miriade portentosa di riflessioni,
ricordi, sogni, incontri, ansie, aspettative, rimpianti che formano le 500
pagine del “Diario” (Jurnal in romeno) tenuto da “Mircea Eliade” durante il
periodo parigino e poi americano, fra il 1945 e il 1969.
Già pubblicate da Boringhieri nel 1976, col
semplice titolo “Giornale”, tali memorie eliadiane escono ora da “Jaca Book”,
con la cura di “Roberto Scagno”, massimo conoscitore e promotore in Italia
dello scrittore romeno.
Il
titolo di questa nuova edizione è suggestivo e significativo:
Il
grande esilio, mentre l’accurata traduzione di Cristina Fantechi riprende e
arricchisce, con importanti integrazioni testuali e precise note a piè di
pagina, la già pregevole traduzione compiuta da “Liana Aurigemma” per
l’edizione Boringhieri del 1976.
Ma
perché scegliere un titolo così letterariamente connotato, “Il grande esilio”,
e non accontentarsi invece di qualcosa di più sobrio, tipo “Fragments d’un
journal” come già aveva proposto la vecchia edizione francese?
Perché
è proprio durante il ventennio abbondante preso in considerazione – gli anni
parigini e poi il primo periodo americano – che a “Mircea Eliade “si chiarisce
in modo definitivo, lacerante e dirompente la propria condizione di esule
totale, definitivo, costretto a non rivedere mai più quella madrepatria che
aveva amato in modo viscerale, fin eccessivo;
e
costretto oltretutto a non possedere più una vera casa, una dimora di famiglia,
per spostarsi invece senza posa fra alberghi scadenti, abbaini, mansarde,
residenze universitarie, appartamenti presso amici, in quella peregrinazione
senza fine che segnerà il suo stato di fuoriuscito a vita, afflitto per sempre
dalla nostalgia di un impossibile ritorno, ma al tempo stesso esaltato da
questa nuova condizione di soggetto libero, proiettato nel mondo, una sorta di
uomo cosmico, proteso senza posa verso gli inizi di una vera vita nuova, e
perennemente alla ricerca di quel supremo “centro del mondo”, dove si
congiungono finalmente cielo e terra. Come scrive lui stesso in un passo di
estrema lucidità, del 1° gennaio 1960:
«Ogni
esiliato è un Ulisse, in rotta verso Itaca.
Ogni
esistenza reale riproduce l’Odissea.
Il
cammino verso Itaca, verso il Centro. Tutto questo lo sapevo da molto tempo.
Ciò
che scopro all’improvviso, è che viene offerta l’opportunità di divenire un
novello Ulisse a qualunque esule (proprio perché è stato condannato dagli
“dèi”, vale a dire dalle Potenze che decidono dei destini storici, terreni).
Ma per rendersene conto l’esule deve essere
capace di penetrare il senso nascosto delle sue peregrinazioni e di intenderle
come una lunga serie di prove iniziatiche (volute dagli “dèi”) e come
altrettanti ostacoli sul cammino che lo riconduce a casa (verso il Centro).
Ciò significa: vedere segni, significati
nascosti, simboli, nelle sofferenze, nelle depressioni, negli inaridimenti di
tutti i giorni.
Vederli
e leggerli persino se non ci sono; se li si vede, si può costruire una
struttura e leggere un messaggio nel trascorrere amorfo delle cose e nel flusso
monotono dei fatti storici».
Ma per
comprendere meglio una simile postura esistenziale – tale per cui una biografia
privata trova il proprio senso ultimo trasfigurandosi nella reincarnazione di
un personaggio mitologico, o nell’autoidentificazione con un eroe dei tempi
primordiali – è bene ricordare brevemente le peripezie, altamente significative
e altamente compromettenti, di questo “Ulisse romeno” costretto a lasciare per
sempre la propria “Itaca”, persa nell’Europa sud-orientale.
Nato a
Bucarest nel 1907, “Mircea Eliade “entra precocissimo a far parte di quello
straordinario movimento di rinascita culturale che fiorisce in Romania nel
periodo interbellico.
Fonda riviste letterarie, collabora alle
pagine culturali di quotidiani, appena ventenne viaggia in Italia per conoscere
autori come Giovanni Papini, Ernesto Buonaiuti, Giovanni Gentile;
soggiorna
a Roma per la sua tesi di laurea sui filosofi rinascimentali…
E nel
1928, non appena laureato, parte con una borsa di studio per l’India, dove
rimarrà ininterrottamente fino al 1931:
sono i
famosi tre anni del viaggio in India, dove studierà il sanscrito, la filosofia
delle Upanishad, le pratiche dello yoga, le usanze religiose dei tribali.
Un’immersione nell’Oriente che, una volta fatto ritorno in patria, gli
permetterà fin da subito di distinguersi non solo in Romania ma anche in Europa
come eccellente studioso di orientalistica e di mistica indiana.
Non solo: oltre alla saggistica, comincia a
pubblicare romanzi, racconti, diari di viaggio, che gli valgono una fama
immediata e, non ancor trentenne, lo proiettano al centro della scena culturale
romena.
Di
più: si dedica pure allo studio del folclore romeno e s’impegna in un indefesso
lavoro di politica culturale per promuovere la “romenità”, le tradizioni
culturali dell’area balcanica, l’identità del popolo romeno, rimasto fino
allora ai margini della storia europea.
Ma qui
cominciano i problemi.
In
tale slancio di difesa dell’autenticità spirituale romena, Eliade entra a far
parte del movimento radicale di destra della Guardia di Ferro.
Senza
spingersi fino a concezioni razziste a sfondo biologico o all’affermazione
esplicita di tesi antiebraiche, senza mai richiamarsi a presunti complotti
ebraico-comunisti (lo ha chiarito, credo definitivamente, Roberto Scagno in
Libertà e terrore della storia. Studi sull’opera e il pensiero di Mircea
Eliade, ed. dell’Orso, 2022), tuttavia Eliade si fa sostenitore di una rigida
visione etno-nazionalista, a sfondo xenofobo.
Se ne
accorge bene il suo grande amico, lo scrittore ebreo “Mihail Sebastian”
(1907-1945), di cui Castelvecchi ha pubblicato recentemente lo straordinario
Diario.
Il 2
marzo 1937 annota dunque “Sebastian”:
«Lunga
discussione politica con Mircea, a casa sua. È stato lirico, confuso, prodigo
di esclamazioni, di battute, invettive (…) Dichiara finalmente, in modo
sincero, la sua infatuazione per la Guardia di Ferro, confidando in essa e
aspettandone la vittoria (…) Sua spiegazione in base alla quale lui aderisce
con tanto ardore alla Guardia: “Io ho sempre creduto nel primato dello
spirito”. Non è né un ciarlatano né un demente. È semplicemente un ingenuo. Ma
esistono ingenuità così catastrofiche!».
Molto
più lucido di Eliade, l’amico Sebastian coglie con autentico dispiacere il
punto debole di queste posizioni:
malgrado
la sua genialità di studioso delle tradizioni religiose, Eliade non ha alcun
senso delle dinamiche politiche e si lascia stolidamente trascinare nella
compromissione disastrosa con un movimento fascista.
La sua salvezza sta nel fatto di essersi
sempre limitato, nell’ambito della “Garda de Fier”, a un impegno politico
secondario, più ideale che concreto.
Ma dopo il colpo di Stato con cui il re Carol
II mette fuori gioco il gruppo dirigente della Guardia, anche Eliade (nel
febbraio del 1938) viene internato nel campo di concentramento di “Miercurea
Ciuc”.
La sua fortuna, appunto, rimane quella di
essere sempre stato un esponente di secondo piano della “Guardia” e soprattutto
di avere buone conoscenze ai piani alti della politica.
Nel novembre del 1938 viene così scarcerato e
può fare ritorno a Bucarest con l’impegno di tenersi d’ora in poi lontano da
ogni impegno politico: un monito che Eliade accetterà subito e di buon grado.
Allo scoppio della guerra riesce a farsi
nominare addetto culturale presso la legazione reale di Romania a Londra e
quindi (nel 1941) consigliere culturale all’ambasciata romena di Lisbona, dove
rimarrà fino al settembre del 1945.
In madrepatria non tornerà mai più:
sa
bene che, se avesse tentato di farlo, sarebbe stato subito arrestato dal nuovo
regime comunista, e questa volta non lo avrebbero mai liberato.
Il
lungo, malinconico soggiorno portoghese, mentre la guerra infuria in Europa e
in Romania, si rivela una sorta di limbo sospeso, un triste periodo di latenza
e solitudine (l’amatissima moglie Nina Mareş muore a Lisbona):
un
isolamento che gli permetterà tuttavia di redigere quegli studi preparatori
sullo sciamanesimo, sullo yoga, sulla storia delle religioni, che verranno
pubblicati, a ritmo incalzante e con successo crescente, poco dopo la fine
della guerra e via via, senza interruzione, in tutti gli anni successivi, fino
alla morte, sopraggiunta a Chicago nel 1986, all’età di 79 anni.
Ma
intanto, alla fine della guerra, con la chiusura della “Reale Ambasciata di
Romania”, lui a Lisbona non può più rimanere.
Sollecitato
del grande linguista “Georges Dumézil”, incoraggiato dal vecchio amico romeno “Emil
Cioran” (già rifugiato a Parigi come apolide), Eliade accoglie l’opportunità di
trasferirsi in Francia.
Così, il 17 settembre 1945, annota nella prima
pagina del suo nuovo Diario:
«Siamo
arrivati ieri mattina, domenica 16 settembre, Emil Cioran ci aveva prenotato
due camere all’Hôtel de l’Avenir, al 65 di rue Madame».
Non ha
un soldo, non ha un lavoro. Per Eliade è l’inizio del “grande esilio”.
Il
Diario annota via via gli eventi più significativi (il primo insegnamento
presso l’”École des Hautes Études”;
il
nuovo matrimonio con un’altra esule romena, l’amabile “Christinel Cottesco”; i
seminari ad Ascona con lo “stregonesco” Carl Gustav Jung…);
ci
riporta poi gli affascinanti incontri con “Emil Cioran”,” Eugène Ionesco”, “Allen
Gisnberg”…;
si sofferma sempre con entusiasmo sui ripetuti
viaggi in Italia;
ci
propone illuminanti riflessioni sul mito, sull’arte, il movimento hippie; il
tutto intercalato da una continua sofferenza per le notizie disastrose che gli
giungono senza posa da una Romania ormai reclusa al di là della Cortina di
Ferro…
Insomma,
ci troviamo di fronte alla straordinaria narrazione di un’interminabile
peripezia vissuta da un espatriato di metà Novecento. Ma ciò che tiene le fila
di queste disparate riflessioni autobiografiche è la trasfigurazione del Diario
in una sorta di “seconda patria”, alternativa a quella perduta.
Non
appena giunto a Parigi, Eliade dovrà per forza redigere in francese prima e in
inglese poi i suoi testi di antropologia religiosa.
Ma il
Diario lo deve assolutamente scrivere in romeno, per mantenere il legame con le
proprie origini.
E queste origini, sempre presenti, anzi
assillanti in lui, gli si manifestano a più riprese, nel corso di improvvisi
accadimenti che lo sconvolgono in modo struggente e che lui riporta ogni volta
con uno strazio che mai si attenua.
Il
25/7/46, gli basta la visione serale di una chiatta ancorata sulle rive della
Senna, per fargli rivivere «con precisione allucinante» i viaggi giovanili sul
Danubio.
Allora
corre a casa per «salvare» l’intensità di questo ricordo annotandolo sul
Diario:
così,
la traboccante «gioia segreta», ineffabile, che aveva provato a suo tempo sul
grande fiume romeno, lo travolge ora di nuovo con uguale intensità a Parigi,
come se il tempo originario gli fosse ritornato intatto nel tempo dell’esilio.
Intatto,
ma irrecuperabile, se non in una sorta di “fuoriuscita dal tempo”.
Come
osserva lui stesso qualche anno più tardi:
«con
un tumulto via via crescente avvertivo dentro di me questa rivelazione:
la condizione dell’esilio è una lunga e ardua
prova iniziatica destinata a purificarci, a trasformarci.
La
patria lontana, inaccessibile, è come un Paradiso al quale torniamo
spiritualmente, vale a dire “in spirito”, in segreto, ma realmente».
E a
quel punto «poco importa se mai torneremo fisicamente nel nostro Paese».
Ma
perché «poco importa», se tanto dolente è il desiderio?
Perché
proprio il Diario può permettere di interrompere l’irreversibilità dei fatti
storici, inseriti in una serie lineare di accadimenti unidirezionali, che
fuggono e premono senza posa verso il futuro.
Dunque è proprio la scrittura diaristica
quella che «salva “fissandoli” dei frammenti di tempo concreto».
Quando Eliade racconta (il 10/1/60) di aver
sfiorato per caso, con la sommità del capo, il soffitto della sua mansarda
parigina, annota che quella stessa sensazione l’aveva provata un tempo
nell’angolo della mansarda dove alloggiava da giovane in via Melodiei, a
Bucarest. Questa «traslazione istantanea» degli anni romeni 1922-25 nell’anno
1960 a Parigi gli procura allora la rivelazione «quasi inebriante che il senso
della mia vita, adesso, in questo giorno in questo anno consista nel riunire
queste due mansarde, nel reintegrare in uno stesso universo questi due mondi:
l’adolescenza, la maturità».
Dunque
il massimo del senso non sta nel mero recupero di un passato per sempre
trascorso e quindi non più vivibile nella sua integrità originaria, bensì nella
reduplicazione del tempo perduto nel tempo presente. Proprio tale «traslazione»
temporale, permette di spezzare la catena lin
eare
degli istanti per accedere alla libertà di un nuovo tempo extrastorico,
“eterno”, dove il senso della vita finalmente ci inonda in pienezza.
Simile
sotto molti aspetti alla rivelazione proustiana del tempo ritrovato (cosa di
cui Eliade era ben cosciente) tale irruzione di una dimensione sacra del senso
all’interno della quotidianità profana colpisce per l’intensità estatica da cui
Eliade viene travolto durante tali epifanie.
Ma
dobbiamo a questo punto soffermarci su una particolarità eccezionale, cruciale
del vissuto eliadiano, cui ancora non abbiamo fatto riferimento.
Vale a
dire la capacità visionaria, direi quasi allucinatoria, cui il nostro amico
risulta oltremodo propenso.
Nel
Diario ne parla lui stesso più volte per esteso.
Di
tanto in tanto, senza un’esplicita intenzione preliminare, cade in preda di
quello che definisce “rêve éveillé”, un sogno a occhi aperti, il quale s’impone
alla sua immaginazione fino a farlo cadere in una sorta di trance:
una
visione, una fantasia in cui lui rimane sì cosciente, ma alla quale non riesce
a sottrarsi.
Il 27/8/51, ad esempio, durante i seminari di “Eranos
ad Ascona” con Jung, mentre in camera si sta preparando a tenere una lezione
sullo yoga, vede d’improvviso sé stesso mentre parla in sanscrito ai
partecipanti, «incapace di esprimersi in altra lingua».
Osserva
gli astanti sconvolti, “Jung” molto interessato e sornione, la moglie “Christinel”
angosciata;
lui intanto s’immagina di gettare via i
vestiti, per insediarsi come un guru indù in riva al lago Maggiore. S
i vede
mentre cammina sulle acque, mentre discute in sanscrito con sapienti che “Jung”
ha fatto appositamente giungere dall’India… «Questo rêve éveillé – annota nel
Diario – mi ha “dominato” con un’incomprensibile forza per una mezz’ora (…)
Per
tutta la durata del sogno sapevo il sanscrito meglio di quanto lo sappia in
realtà.
Mi
sentivo parlarlo, cosa di cui sono incapace dal 1932 (…)
Mi
chiedo se, a furia di riflettere sui processi yogi di liberazione del tempo,
non abbia “animato” un’immagine capace di provocarmi questa euforia e questa
“uscita” fuori dal tempo mai sperimentata fino a ora».
Un’altra
volta, nel 1957 (data imprecisata), mentre si trova a Parigi, convalescente da
una malattia, disteso su un divano «tutto a un tratto mi vidi morto, deposto in
una bara e trasportato nella chiesa romena di rue Jean de Beauvais.
A un certo punto della funzione religiosa la
bara d’improvviso iniziò ad alzarsi in aria, uscì lentamente dalla porta (…) si
diresse verso sud». Eliade, sempre in preda alla visione, si libra a propria
volta dietro la bara in volo, finché questa non plana sulla sponda del Danubio.
Poi il
feretro riprende la sua traversata celeste verso Bucarest, mentre lui deve
rimanere appiedato sulla riva bulgara del fiume, impossibilitato a proseguire
fino in patria.
«Questo
stato di sogno a occhi aperti – conclude Eliade – durò all’incirca mezz’ora.
Più
volte tentai d’interromperlo, mettendomi a leggere qualcosa, ma dopo qualche
istante mi sorprendevo di nuovo a seguire la bara coperta di fiori, che
fluttuava tra le Alpi e il Danubio».
Potremmo
proseguire con ulteriori episodi del genere, simili agli stati di possessione,
ai voli estatici tipici di quegli sciamani siberiani studiati più volte sui
libri da Eliade stesso, senza che si fosse mai spinto fino in Siberia, senza
aver mai compiuto una ricerca diretta sul campo.
Ma non ne aveva bisogno.
Non
solo perché aveva letto tutto il possibile sulla materia, ma anche perché la
sua sorprendente capacità visionaria gli permetteva di “vivere” personalmente i
fenomeni estatici che andava studiando, con estrema lucidità ma anche con
estrema intensità.
A
questo proposito, lui stesso annota il 10/11/59:
«I
trent’anni e più che ho passato in mezzo a dèi e dee esotici, nutrito di miti,
ossessionato dai simboli, cullato e stregato da tante immagini arrivate fino a
me da questi mondi scomparsi, mi appaiono oggi come le tappe di una lunga
iniziazione.
A
ciascuna di queste figure divine, a ciascuno di questi miti e simboli si
ricollega un periodo affrontato e superato.
Quante
volte c’è mancato poco che mi “perdessi”, mi smarrissi in quel labirinto (…)
Non furono solo delle “conoscenze” acquisite
lentamente in tutta calma nei libri, ma anche altrettanti incontri, sfide,
tentazioni.
Oggi mi rendo perfettamente conto di tutti i
pericoli che ho rasentato durante questa lunga “ricerca” e, in primissimo
luogo, il rischio di dimenticare che avevo uno scopo, che mi stavo dirigendo
verso qualcosa, che volevo arrivare a un “centro”».
Per
quanto condotta solo a tavolino, e non sul campo, lo strenuo rigore della sua
ricerca sui miti, i riti, i simboli delle religioni arcaiche ha permesso a
Eliade di comprendere le strutture del pensiero religioso non solo grazie alla
meticolosità dello studio (non pubblicava nulla senza prima essere sicuro di
aver letto tutto quanto era stato scritto sull’argomento) ma anche grazie alla
sua capacità di identificarsi totalmente, di immergersi con tutta la propria
capacità immaginativa, nella cultura religiosa che di volta in volta andava
studiando.
Come
se lui fosse appunto una sorta di “sciamano alla scrivania”.
Il che
significava però rischiare di perdersi nel labirinto delle credenze senza più
riuscire a districarsene.
Ci si
può chiedere dunque come abbia potuto superare questa estrema Prova del
labirinto – per citare il titolo dell’illuminante intervista che gli fece “Claude-Henri
Rocquet” (Jaca Book, 1980).
Ma appunto, ci è riuscito immaginando se
stesso non più come un esule sperduto, schiacciato e terrorizzato dalle vicende
tumultuose della storia, bensì auto- raffigurandosi quale protagonista di un
misterioso rito iniziatico, come se la sua tragica vicenda di nomade smarrito
in un labirinto, non fosse semplicemente una peripezia individuale, personale,
limitata, ma la ripetizione, fuori dal tempo storico, delle gesta esemplari di
un “eroe mitico”, che doveva superare una prova iniziatica per uscire dal labirinto
e ritrovare quel nuovo “centro” della propria vita che le potenze del destino
gli avevano riservato.
La
scossa di Draghi e Mattarella all'Ue:
"Dobbiamo
agire, stare fermi non è un'opzione."
Today.it
– Redazione – Mario Draghi – (14 maggio 2025) – ci dice:
L'ex
presidente della Bce e del Consiglio italiano: "Con i dazi siamo al punto
di rottura dell'ordine multilaterale".
Il capo dello Stato: "Stare fermi non è
più un'opzione."
(LaPresse).
"Con
i dazi siamo al punto di rottura dell'ordine multilaterale."
È questo l'allarme senza precedenti che ha
lanciato Mario Draghi intervenendo al XVIII Simposio Cotec a Coimbra, in
Portogallo.
L'ex presidente della Bce e del Consiglio
italiano ha criticato l'uso crescente di azioni unilaterali per risolvere le
dispute commerciali e il progressivo svuotamento dell'”Organizzazione mondiale
del commercio” (Wto), parlando di un danno "difficilmente
reversibile" per il sistema multilaterale, in quello che è un velato
attacco alle politiche adottate dal presidente Usa Donald Trump.
A
fargli eco, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha chiuso il
vertice insieme al re di Spagna Filippo VI e al presidente portoghese “Marcelo
Rebelo” de Sousa.
"Il
nostro Simposio lancia un appello all'azione di grande attualità: è urgente,
direi prioritario, che l'Europa agisca.
Stare
fermi non è più un'opzione", ha affermato, citando persino Giacomo
Puccini: "Nessun dorma dentro l'Ue".
Il
ritardo tecnologico europeo.
Nel
suo intervento, Draghi ha posto l'accento sul ritardo accumulato dall'Europa
nelle "rivoluzioni" del cloud computing e dell'intelligenza
artificiale.
"Ci
siamo ritrovati tagliati fuori, pur continuando a creare un ambiente che
ostacola l'innovazione radicale".
In
particolare, l'ex premier ha individuato nella frammentazione del mercato unico
e nelle rigidità regolatorie due delle principali cause del mancato sviluppo
tecnologico europeo.
Draghi,
la ricetta è nota: ora serve il "do something."
"Le
nostre politiche di concorrenza non si sono adattate alla trasformazione
tecnologica in corso.
L'innovazione
avrebbe dovuto giocare un ruolo maggiore nelle decisioni", ha affermato
Draghi, denunciando un eccesso di regolamentazione che penalizza soprattutto le
piccole imprese europee, incapaci di competere con i giganti statunitensi.
"Oggi
ci troviamo con oltre 270 regolatori attivi nelle reti digitali nei vari Stati
membri: un quadro frammentato e, in alcuni ambiti, eccessivo".
Difesa
comune e integrazione.
Sul
fronte europeo, Draghi ha puntato il dito contro la lentezza degli Stati
membri: "Il
debito comune Ue è la chiave per investire nella difesa, ma solo cinque Paesi
dell'Eurozona hanno finora attivato la clausola di salvaguardia".
Una
situazione che rischia di lasciare l’Europa indietro in un contesto geopolitico
sempre più instabile.
L'Unione
Europea dispone, nel suo complesso, di una delle forze armate più numerose al
mondo, con 1,4 milioni di militari.
Eppure,
sul piano della difesa, resta "irrilevante", sostiene Draghi.
"Oggi
l'Europa può contare su una delle più grandi forze militari globali, ma è
divisa in 27 eserciti nazionali, senza una catena di comando comune,
tecnologicamente frammentata e priva di una strategia condivisa", ha
spiegato l'ex premier.
Un
assetto che, a suo avviso, compromette la capacità dell'Unione di reagire
efficacemente alle minacce.
Draghi
ha ricordato come "le crescenti minacce sul nostro confine orientale siano
evidenti da almeno un decennio".
E ha
accusato Mosca di non aver mai nascosto la propria ostilità verso l'Europa.
"La Russia ci considera un nemico da indebolire attraverso la guerra
ibrida:
dieci anni fa ha annesso la Crimea, tre anni
fa ha invaso l’Ucraina", ha detto. Nonostante questo scenario, secondo
l'ex premier italiano, l'Europa ha fatto "ben poco" per rafforzare la
propria sicurezza.
Anche
il presidente Mattarella ha rilanciato la necessità di una difesa comune
europea, un tema che, ha ricordato, è sul tavolo da oltre 70 anni, fin dal
“Trattato di Parigi “del 1952.
"Non
è difficile immaginare quale sarebbe oggi la condizione dell'Unione se avessimo
compiuto quel salto politico allora", ha osservato.
Secondo
Mattarella, l'Europa è oggi "in ritardo, in rincorsa rispetto agli
eventi" e deve agire con urgenza.
Le
iniziative promosse dalla Commissione europea vanno nella giusta direzione, ma
restano "un primo passo".
Per il
capo dello Stato serve una piena consapevolezza della posta in gioco:
"I
rischi dell'immobilismo, come illustrato nei” Rapporti Draghi e Letta”,
includono un arretramento nel benessere diffuso e un allontanamento dalla
frontiera tecnologica, con gravi vulnerabilità strategiche e
geopolitiche".
(today.it/politica/draghi-mattarella-ue-dobbiamo-agire-dazi-cotec.html).
Il
nuovo secolo di Netanyahu.
Iari.site
- (14 Ottobre 2024) - Omar Mohsen- ci dice:
“Non
fate i nostri stessi errori”. Così aveva ammonito il Presidente Joe Biden all’ indomani dei tragici fatti del 7
ottobre rivolgendosi ad Israele.
Già a inizio millennio si parlò di ridefinire
la mappa del Medioriente, e si tentò di farlo manu militari.
Tuttavia, lo iato tra obiettivi ed esiti fu
enorme. E ancor oggi se ne sentono le
conseguenze.
Il
progetto dei neocon americani
Ridisegnare
il Medioriente. Questo l’obiettivo che ha dichiarato di essersi posto
Netanyahu.
Evidenti
per molti versi le similitudini con quanto accaduto nella prima decade degli
anni 2000, quando a voler riconfigurare la mappa della Regione furono gli Stati
Uniti.
La
politica americana dell’allora presidente George W. Bush si uniformava a quelle
che erano le linee guidata portate avanti dagli ambienti neocon, e che grosso
modo facevano riferimento al think thank“Project for the New American Century
“(PNAC).
La
finalità era una riarticolazione della mappa dell’area e passava per la fine
del regime di “Saddam Hussain”.
Con
l’eventuale caduta del rais iracheno si puntava infatti, nelle intenzioni degli
ambienti neo-conservatori, a promuovere l’influenza della componente sciita in
vista di una futura democratizzazione del Paese tra i due fiumi.
Ciò
avrebbe avuto un effetto spillover in tutta la Regione e, anche e soprattutto,
in Iran.
A
informare le scelte del PNAC intellettuali vicini alla destra israeliana del
Likud, a loro volta “ansiosi” di seppellire la politica degli accordi di Oslo —
portata avanti dall’amministrazione Clinton — in vista di nuove dinamiche
regionali. Le idee neocon plasmarono la “strategia” del presidente George Bush
in Medioriente:
una
politica quella di Bush Junior che, lungi dal promuovere una democratizzazione
dell’area sullo stile occidentale e favorire il processo di pace, finì
esclusivamente per aumentare l’influenza della Repubblica islamica nella
Regione.
Se in
un primo momento questa è stata rallentata dalla presenza di truppe
statunitensi, il disimpegno americano ha via via tolto il freno all’espansione
iraniana.
Le Primavere arabe e la guerriglia sunnita
hanno paradossalmente costituito un ultimo baluardo rispetto a
quest’espansione, facendo sorgere dubbi in merito a un loro eventuale appoggio
da parte di ambienti ostili all’Iran.
Soprassedendo l’elemento puramente ideologico,
e tenendo presente il ruolo dell’intelligence baathista nel manovrare e
sostenere l’azione di “Daesh”, la guerra contro il sedicente “Stato islamico in
Mesopotamia” può essere letta come un ultimo atto della pluriennale lotta tra
Iraq e Iran.
Una
contrapposizione egemonica che precede la nascita della Repubblica islamica e
che vede l’instaurazione di un’alleanza tattica tra lo Shah e il Governo di Tel
Aviv;
alleanza
proseguita, a dispetto dei proclami infuocati contro quello che gli Ayatollah
definivano come “piccolo Satana”, anche nei primi anni della Repubblica
Islamica, con il sostegno indiretto israeliano a Teheran in funzione
anti-irachena. Sconfitto il “Daesh”, diminuita la presenza americana, respinti
gli accordi del JCPOA, Teheran ha visto aprirsi spazi per consolidare la
propria sfera d’influenza.
Gli
auspici portati avanti dal PNAC hanno dunque finito per rivelarsi totalmente
errati e la proiezione iraniana nella regione non ha fatto che rinvigorire
ulteriormente il regime, consentendo in qualche modo di “sedare” il dissenso
interno attraverso i successi esterni. In tal modo, si è inoltre irrobustita la
componente dei pasdaran nell’ambito del regime iraniano compromettendo, tra le
altre cose, il ruolo, il peso e le funzioni dell’ala politica riformista.
Esiste la “mappa” di Netanyahu.
Proprio
come l’ideologia neocon e la guerra al terrore del Presidente George Bush hanno
finito per destabilizzare irrimediabilmente la Regione, la politica portata
avanti da Netanyahu, e il suo progetto di ridisegnare la mappa del Medioriente,
potrebbero rivelarsi allo stesso modo fallimentari e deleteri.
In
primo luogo si consideri come di fatto la politica della
“guerra infinita” di Israele, al momento
articolata su ben 6 fronti, abbia una funzione contrapposta ma complementare a
quella dell’Iran: vengono proiettate all’esterno fragilità di natura interna e
la conservazione dello status quo è mantenuta in equilibrio grazie a uno “stato
di eccezione” permanente.
Inoltre,
questa politica va contro gli auspici di quei Paesi arabi del Golfo che
sarebbero i partner principali di un possibile nuovo ordine regionale:
ovvero
la stabilità e il mantenimento di un quadro geopolitico non conflittuale e
funzionale all’implementazione delle politiche posto il contenute nei vari
progetti “Vision” delle diverse Monarchie della Penisola arabica.
Pare
inutile sottolineare come le violazioni dei coloni, la mattanza del 7 ottobre,
la pulizia etnica di Gaza e i bombardamenti in Libano, non facciano altro che
aumentare la radicalizzazione e la polarizzazione dei fronti.
Si noti inoltre l’effetto che tutto ciò sta
avendo sulle masse dei vari Paesi arabi; Paesi con i quali Tel Aviv vorrebbe
implementare rapporti di partenariato, ma le cui popolazioni guarderanno con
sempre più simpatia al regime di Teheran.
Allo
stato attuale, l’Arabia Saudita — attore che riesce a dialogare tanto con
Washington che con Pechino, che ha congelato il processo di normalizzazione con
Tel Aviv, ma guarda a una pacificazione regionale, e che, al tempo stesso, ha
rinsaldato i canali diplomatici con Teheran — pare potenzialmente il soggetto
politico maggiormente in grado di porsi nel ruolo di stabilizzatore regionale e
frenare l’escalation in corso.
Nonostante
molti analisti facciano spesso riferimento al fatto che Tel Aviv stia facendo
il lavoro sporco che Riad vorrebbe, ma non può, fare, è altrettanto vero che,
come appena affermato qui sopra, gli imperativi derivanti dal nuovo corso
economico intrapreso dall’Arabia Saudita stonano con ogni tentativo di
escalation e contrapposizione militare con l’Iran.
Qualsiasi progetto di riconciliazione e successiva
integrazione, inoltre, non potrà evitare di affrontare l’annosa questione
palestinese, passando per un reciproco riconoscimento tra Israele e Palestina
e, possibilmente, per un cambio di paradigma nella gestione del problema delle
due rispettive statualità.
Stiamo
vivendo in un nuovo secolo americano, nonostante tutto.
Linkiesta.it - Francesco Costa – (6-3-2024) –
ci dice:
Negli
Stati Uniti oggi si vedono grandi conquiste economiche, ambientali, sociali,
bilanciate da una spaccatura politica che per certi versi risulta
incomprensibile. Una realtà apparentemente assurda raccontata da Francesco
Costa in “Frontiera.” (Mondadori).
(LaPresse).
Gli
americani si vestono come gli pare. Se accantonassimo per un momento la nostra
passione nazionale per la moda e lo stile, peraltro forse più sbandierata che
praticata, potremmo considerarla una qualità ammirevole, tra molte altre loro
caratteristiche che invece non capiamo – oppure che capiamo, e ci fanno
inorridire.
I
giornali scandalistici ci hanno abituati a servizi fotografici che mostrano le
star di Hollywood in condizioni pietose mentre scendono dalla macchina o
spingono il carrello della spesa.
Contano
sulla nostra reazione scandalizzata, «ma hai visto come si è ridotto», «era
così bella in quel film», «non l’avevo riconosciuto», «guarda che capelli!».
Siamo
fuori strada.
Quella
storia che ci raccontiamo spesso sull’importanza di essere noi stessi, di non
sentirci obbligati a adeguarci a un modello stabilito da qualcun altro, di
anteporre il nostro benessere al giudizio altrui… ecco, da quelle parti la
praticano per davvero.
Negli Stati Uniti non c’è niente di
particolarmente bizzarro in una donna in coda da Starbucks con le pantofole, o
in un uomo che gira per negozi indossando uno di quei vecchi e comodissimi
maglioni sdruciti da domenica pomeriggio sul divano.
Se gli
gira, gli americani si presentano a cena dagli amici con gli infradito, pur
trovandosi magari a qualche migliaio di chilometri dalla spiaggia.
Il sabato si mettono in macchina e vanno a
fare la spesa in pigiama.
Nelle occasioni eleganti indossano abiti
improbabili e sempre della taglia sbagliata.
E
quello che vale per l’abbigliamento vale per quasi tutto il resto.
Who
cares, cosa importa? si chiedono.
Sono
americani: il mondo non li spaventa.
O
meglio, il mondo li spaventa, certo che li spaventa: lo vediamo bene anche noi,
guardandoli da fuori.
Ma
loro tirano dritto, come se non se ne rendessero conto.
Abbiamo
una certa familiarità con il nazionalismo statunitense, la mano sul cuore
durante l’inno nazionale, le bandiere in giardino, la scritta «In God We Trust»
sui dollari e il giuramento di fedeltà alla patria recitato a scuola ogni
mattina. Tutto ci sembra sopra le righe.
La
loro aggressività infantile ci inquieta.
Il
loro atteggiamento spaccone ci respinge.
Ci capita persino di provare uno strano
imbarazzo quando li osserviamo descriversi e sentirsi speciali, il popolo
eletto, la guida del mondo libero, un faro di speranza, una città splendente
sulla collina:
tutte
espressioni che gli americani usano di frequente e senza ironia per parlare
della loro nazione.
Ci
sembra mitomania, oppure propaganda, ma quello di cui non siamo consapevoli è
che i primi bersagli di questa propaganda sono gli americani stessi:
e quindi che il principale obiettivo e
risultato di questi sforzi non sia convincere noi, il mondo fuori, della loro
eccezionalità, bensì convincere sé stessi.
E
sapete che c’è? Vero o falso che sia, funziona.
Ci
credono, quindi ogni tanto ci riescono.
Lo
stiamo vedendo ancora una volta in questi anni.
A
fronte della nota narrazione sul loro declino, infatti, negli ultimi anni gli
Stati Uniti hanno allargato la forza lavoro come non era mai accaduto prima, e
il tasso di disoccupazione è sceso ai livelli più bassi degli ultimi
cinquant’anni.
La
loro economia è cresciuta con tassi vicini al cinque per cento l’anno,
abbattendo l’inflazione molto prima del resto dell’Occidente e facendo crescere
gli stipendi più dell’inflazione;
e lo
hanno fatto mentre tagliavano le emissioni inquinanti.
Hanno innescato una nuova rinascita
industriale, hanno deciso il più grande investimento pubblico di sempre contro
il cambiamento climatico, hanno abbracciato le energie rinnovabili con una
rapidità che ha stupito gli esperti mentre, contemporaneamente, diventavano
esportatori netti di petrolio: stanno cambiando, con grande rapidità, sotto i
nostri occhi.
Le
loro alleanze politiche e militari sono più salde che in qualsiasi altro
momento degli ultimi vent’anni, mentre la Nato, data a lungo per moribonda, è
stata resuscitata e allargata.
Intanto la rivale del secolo, la Cina,
affronta la crisi economica più grave degli ultimi decenni e rinuncia al sogno
del tanto atteso sorpasso, ripiegandosi su se stessa fra grandi incertezze e
timori.
Quante
cose sono cambiate in pochi anni.
Nonostante
le battute d’arresto e gli eventi traumatici non siano mancati, e tanti dei
problemi del paese siano ancora lontani dall’essere risolti – ne parleremo –,
questa accelerazione sorprendente si spiega con l’esistenza di un paese che
vediamo meno, ma c’è e c’è sempre stato, e sa reagire ai danni che infligge a
sé stesso.
Un
paese profondo, ma non nel senso di bigotto: profondo proprio in quanto
sotterraneo, nascosto agli sguardi dei turisti e tuttavia in bella vista,
lontano dalle attenzioni dei media internazionali, dalla litigiosità della
politica e dalla polemica perpetua dei social media, costruito sulle relazioni
dirette tra le persone e sui loro valori comuni, su tutti il culto della
libertà, dell’identità, dell’efficienza, del denaro. In ogni momento e in ogni
luogo che gli appartenga, gli Stati Uniti sono coinvolti da una miriade di
fenomeni, alcuni piccolissimi e altri giganteschi, che cambiano il paese in
modi anche piuttosto radicali: invenzioni, progetti, culture e sottoculture,
idee, investimenti, volontariato, raccolte fondi, attivismi, studi, lotte.
Di
solito ce ne accorgiamo a cose fatte, quando inevitabilmente rotolano dalle
nostre parti.
Ispirate
da un atteggiamento culturale che non conosce la modestia e non ha paura di
bruciare le navi una volta arrivate in porto, le persone statunitensi sono gli
animali sociali e imprenditoriali per eccellenza: quelli che sanno giocare
meglio al gioco del capitalismo, che ci piacciano o no le sue regole.
A
completare un quadro che diventa più spiazzante man mano che ci avviciniamo
osservandoli, tutto viene tenuto insieme da un senso di comunità fortissimo,
anche e soprattutto negli angoli più isolati e rurali, malgrado i luoghi
comuni.
Spesso è la prima cosa a colpire gli italiani
che si trasferiscono oltreoceano, soprattutto se evitano le metropoli feroci
come New York, San Francisco o Los Angeles.
Eppure
l’aria è sempre elettrica, e tutti hanno la sensazione di ballare sul famoso
orlo del precipizio.
Il benessere economico senza precedenti di
questi anni ha raggiunto anche e soprattutto i gruppi sociali più
marginalizzati, ma non ha attenuato le tensioni.
La
radicalizzazione non si è arrestata e coinvolge ormai specularmente sia la
destra sia la sinistra.
Le
differenze culturali fra conservatori e progressisti si sono allargate, così
come quelle tra le città e la provincia.
La
paralisi della politica sui temi dal maggior valore identitario e simbolico ha
congegnato dei generatori perpetui di sofferenza, come l’immigrazione e le
armi. La presa di coscienza collettiva sulla pervasività del razzismo seguita
all’omicidio di George Floyd ha cambiato molte cose, ma ha anche esacerbato
nervosismi e intolleranze, invece che mitigarle.
Le donne, poi, hanno addirittura perso il
diritto a interrompere una gravidanza.
E c’è un ex presidente che ha cercato in ogni
modo di restare al potere dopo la sconfitta, anche facendo ricorso alla
violenza, che deve rispondere di novantuno gravi capi d’accusa e che nonostante
questo – o proprio per questo? – viene venerato da un’agguerrita minoranza
della popolazione, che lo tratta più come un messia che come un leader
politico.
La più
grande e influente superpotenza del pianeta, l’unica nazione mai costruita
sulla sistematica mescolanza di popoli e culture diverse, sta attraversando un
momento affascinante e contraddittorio, molto raccontato e poco compreso, per
certi versi unico nella sua vicenda nazionale.
Com’è possibile che queste cose accadano
insieme, nello stesso posto?
Cos’hanno
in testa gli americani?
In che
modo guardano a sé stessi e al mondo?
Cosa vogliono dal presente e dal futuro?
Governanti
e bande di stupratori:
come i traditori al vertice hanno
importato
e incubato il male non-bianco.
Unz.com
- Tobias Langdon – (9 maggio 2025) – ci dice:
Dov'era
allora la regina? Dov'è il Re adesso?
E
dov'è stata la Chiesa ovunque? Da nessuna parte, ecco dove.
Né gli
individui né l'istituzione hanno pronunciato una parola per condannare le
fiorenti bande di stupratori non-bianchi in Gran Bretagna o in difesa delle
vittime bianche.
E né
gli individui né l'istituzione possono dire: "Non lo sapevamo".
Violentata
da musulmani pakistani, tradita dall'élite laburista: una ragazza bianca della
classe operaia in Groomed: A National Scandal.
Entro
il 2020, l'intero Paese lo sapeva.
Le
bande di stupratori erano state ripetutamente denunciate dai media nazionali e
nessuno poteva negare di esserne a conoscenza.
Ma i governanti britannici sono chiaramente
dalla parte degli stupratori, non delle vittime.
Elisabetta
la Malvagia Chuck il Cornuto e la Chiesa
di Mudzone lo hanno reso chiaro con il loro silenzio.
I
nostri attuali governanti laburisti lo hanno reso chiaro con i loro sarcasmi.
I
sarcasmi in questione sono arrivati in risposta a Groomed:
uno
scandalo nazionale ONU documentario straziante sulle bande di stupratori
trasmesso in televisione nazionale nell'aprile 2025.
A Lucy
Powell, un'apparatchik d'élite laburista, è stato chiesto durante un dibattito
radiofonico se avesse visto il documentario.
Ha
risposto immediatamente :
"Oh, vogliamo suonare quella piccola
tromba ora, vero?
Sì,
ok, tiriamo fuori quel fischietto per cani".
Con "fischietto per cani" intendeva
"un appello mascherato ai razzisti"
Ed è chiaro che Powell, che è nientemeno che
il “Leader della Camera dei Comuni” , stava parlando a nome dell'intera élite
laburista. L
ei e
le sue compagne ferocemente femministe credono che sia sbagliato e razzista
menzionare lo stupro organizzato di decine o addirittura centinaia di migliaia
di ragazze bianche della classe operaia da parte di bande di stupratori
musulmani pakistani nelle città e nei paesi controllati dai laburisti in tutta
la Gran Bretagna.
Come
identificare il pensiero criminale.
Ed è
proprio perché il suo ghigno era così chiaro che ha dovuto fingere il
contrario. Il giorno dopo ha presentato delle scuse insincere ed evasive,
dicendo:
"Nel
vivo di una discussione su AQ [Any Questions , il dibattito radiofonico],
vorrei chiarire che considero le questioni dello sfruttamento e
dell'adescamento dei minori con la massima serietà.
Mi
dispiace se non sono stata chiara.
Stavo
contestando il ricatto politico che ne deriva, non la questione in sé.
Come
parlamentare di circoscrizione, ho affrontato casi orrendi.
Questo
governo sta agendo per arrivare alla verità e fare giustizia".
In
effetti, come ho spiegato in " Carry on Raping ", il governo
laburista sta agendo per nascondere la verità e distruggere la giustizia.
E con
"score politico", Powell intendeva "qualsiasi riferimento alle
bande di stupro da parte di uno psico criminale".
E come facciamo a sapere che qualcuno è uno
psico criminale?
È
facile rispondere.
Se ti
riferisci alle bande di stupro, sei uno psico criminale ed è quindi sbagliato e
razzista da parte tua riferirti alle bande di stupro.
Circolo
vizioso, pensatore del crimine!
Lucy
Powell, sorridente difensore delle bande di stupratori non bianchi
Questo
è l'atteggiamento ufficiale, ma taciuto, del Partito Laburista.
O almeno, avrebbe dovuto essere taciuto.
Ma
Lucy Powell ha lasciato cadere la maschera.
Il
Partito Laburista, fondato per difendere la classe operaia bianca, ora è nemico
convinto e spietato della classe operaia bianca.
Come
la Regina, il Re e la Chiesa d'Inghilterra, l'élite laburista è dalla parte
degli stupratori non bianchi, non delle ragazze bianche che sono state
violentate.
E che
continuano a essere violentate.
Come
ammette persino il “Guardian” , “Groomed” ha chiarito che la patologia continua
a dilagare in tutto il Regno devastato dagli ebrei.
Eretici
contro l'ortodossia di sinistra.
Ma
Groomed ha anche chiarito un'altra cosa:
che
non tutti i progressisti collaborano o cercano di nascondere le bande di
stupratori.
Il
documentario è stato realizzato da una giornalista di sinistra di nome “Anna
Hall”, che ha iniziato a lavorare su questo argomento quasi trent'anni fa.
Il documentario è stato trasmesso da “Channel
4”, un'emittente decisamente di sinistra.
“Julie
Bindel”, una giornalista lesbica di sinistra in parte ebrea, ha iniziato a
denunciare le bande di stupratori negli anni '80.
Lo stesso ha fatto la politica di sinistra
“Ann Cryer “, deputata laburista per la circoscrizione di Keighley nello
Yorkshire.
L'assistente
sociale di sinistra “Jayne Senior” e la politica di sinistra” Sarah Champion”,
deputata laburista per Rotherham, hanno seguito l'esempio di Cryer nel
ventunesimo secolo.
Come
Cryer, Bindel e Hall prima di loro, sono state denunciate come
"razziste" e "islamofobe".
Tutte
queste donne hanno coraggio morale.
Ecco perché diventano dissidenti, eretiche
contro l'ortodossia di sinistra e non rappresentano la sinistra nel suo
complesso.
Quindi
sì, non tutti i sinistri collaborano con le bande di stupratori, ma l'élite di
sinistra certamente sì.
La
sinistra come movimento è stata responsabile dell'importazione e
dell'incubazione di questo male non bianco.
E le bande di stupratori sono solo una parte
di questo male.
Importare uomini dal Terzo Mondo, amico dello
stupro, ha certamente causato enormi danni e sofferenze alle giovani donne
bianche.
Ma ha
causato enormi danni e sofferenze anche alle donne bianche anziane. Potete
essere certi che questi orrori descritti in Svezia si sono verificati in tutto
l'Occidente arricchito:
Questa
satira di Nick Bougas riflette accuratamente la realtà di sinistra della Svezia.
Lo
scandalo dello stupro di anziani in Svezia.
Gli
abusi sessuali su donne anziane da parte di assistenti migranti sono stati
vergognosamente ignorati.
Nell'autunno
dello scorso anno, la Svezia è stata scossa da uno scandalo che presenta alcune
inquietanti somiglianze con lo scandalo delle "gang di adescamento"
in Gran Bretagna.
Si
tratta di un caso di portata molto più ridotta.
Ma in Svezia, come in Gran Bretagna, sembra
che molte persone vulnerabili siano state stuprate e abusate sessualmente,
mentre coloro che avrebbero dovuto proteggerle non lo hanno fatto.
Inoltre,
chi ricopriva posizioni di autorità a volte ha minimizzato o messo a tacere le
accuse a causa della loro scarsa considerazione delle vittime e,
potenzialmente, dell'identità di alcuni degli autori.
La
grande differenza tra ciò che è accaduto nel Regno Unito e ciò che è accaduto
in Svezia è che le vittime non erano giovani ragazze.
Erano
signore anziane che dipendevano da badanti esterne che si prendevano cura di
loro.
Sostengono
che alcuni di questi caregiver hanno sfruttato brutalmente la loro posizione di
fiducia.
Lo
scandalo è scoppiato sul serio all'inizio di settembre dello scorso anno,
quando Elsa, 84 anni (che usava lo pseudonimo di "Vera") ha deciso di
parlare in un'intervista al quotidiano regionale “Upsala Nya Tidning” ( UNT ).
[Era stata violentata dalla sua
"badante" non bianca, che i funzionari di sinistra continuavano a
mandarle a casa nonostante le sue ripetute lamentele sul suo comportamento
inquietante.]
Quando
l'UNT ha intervistato Elsa lo scorso settembre, lei ha usato lo pseudonimo di
"Vera" perché era molto spaventata di ciò che la gente avrebbe
pensato di lei.
Ma il
suo coraggio si è rivelato un campanello d'allarme per Uppsala e, per molti
versi, per la Svezia nel suo complesso.
Nel giro di pochi giorni, altre donne anziane
hanno iniziato a farsi avanti per denunciare di essere state anche loro abusate
dalle loro badanti.
In particolare, c'era Siv , anche lei di
Uppsala.
Ha raccontato ai giornalisti di essere stata
regolarmente violentata da tre diverse badanti "dello stesso Paese [non
bianco]".
Uno di questi uomini era l'uomo che aveva
violentato Elsa.
Non
solo le facevano visita quando dovevano lavorare, ma iniziarono a presentarsi
anche la sera.
La
cosa andò avanti per mesi. “Siv racconta di essere stata sotto shock e di aver
avuto paura di dire qualcosa a qualcuno, almeno finché Elsa non rilasciò la sua
intervista.
Ben presto, altri media iniziarono a occuparsi
della vicenda.
E
l'Agenzia svedese per le pari opportunità, sostenuta dal governo, iniziò a
compilare un rapporto sugli abusi violenti sugli anziani.
Gli
abusi andavano chiaramente oltre i pochi casi
L'UNT ha contattato l'Ispettorato svedese
della Salute e dell'Assistenza Sociale (IVO) e ha chiesto di visionare tutte le
segnalazioni di abusi sessuali sugli anziani nel sistema di assistenza svedese
negli ultimi cinque anni.
È
emerso che i comuni di tutta la Svezia avevano ricevuto ben 45 segnalazioni.
Alcune di queste segnalazioni riguardavano più di un autore che abusava di una
singola vittima.
Altre
riguardavano diverse vittime che denunciavano un singolo autore. […]
Nel
2024, l'emittente televisiva TV4 ha intervistato una signora di 80 anni di nome
“Ylva”.
Seduta
su una sedia a rotelle, “Ylva” ha raccontato di essere stata violentata due
volte nel 2023 dalla sua badante.
Quando
ha parlato con la responsabile dell'assistenza domiciliare, le hanno detto di
tacere e di non dire una parola a nessuno.
Lei ha
fatto come le era stato detto.
Solo
quando ha visto l' articolo dell'UNT su Elsa, un anno dopo, ha trovato il
coraggio di parlarne.
"Elsa
è un'eroina", ha detto. Il responsabile del servizio di assistenza
domiciliare di Ylva continua a evitare tutte le domande dei giornalisti.
I casi
di abusi sugli anziani continuano ad aumentare.
Il 13
gennaio di quest'anno, “Baasim Yusuf” , un ventottenne di origine somala, è
stato condannato da un tribunale di Uppsala a otto anni di carcere per due casi
di stupro e tre di violenza sessuale, tutti da lui filmati.
Alcune
delle sue vittime, affette da problemi di memoria, non ricordavano cosa fosse
successo loro finché la polizia non ha mostrato loro le registrazioni video.
La
rabbia pubblica dopo che Elsa ha parlato, scatenando un torrente di accuse
orribili, è stata palpabile.
È
stata eguagliata solo dalla determinazione delle autorità a soffocare lo
scandalo. (" Lo scandalo degli stupri sugli anziani in Svezia ",
Spiked Online , 27 aprile 2025)
Easton
Grante ,Emmanuel Adeniji, sono stupratori gerontofili neri importati dalla
sinistra.
L'Inghilterra
ha avuto un prolifico stupratore gerontofilo di nome “WDelroy Easton Grant” ,
un nero giamaicano.
L'Irlanda ha avuto un prolifico stupratore
gerontofilo di nome “Emmanuel Adeniji” , un nero nigeriano.
Importare
persone dal Terzo Mondo significa incubare patologie del Terzo Mondo e
infliggere orrore a donne bianche di tutte le età.
Durante l'importazione, l'incubazione e
l'inflizione da parte della Gran Bretagna, la monarchia e la Chiesa
d'Inghilterra sono rimaste in silenzio.
Questo è un grave tradimento e la prova che
abbiamo dei traditori ai vertici.
Nel
frattempo, un altro grave tradimento ha avuto luogo più in basso nella scala
sociale, in un'istituzione non tradizionalmente considerata di sinistra, ovvero
la polizia britannica.
Il
documentario “Groomed” è pieno di esempi di come una virtù vitale sembri
completamente assente tra i macho della polizia britannica, proprio come sembra
essere completamente assente tra i macho delle forze armate britanniche.
Si
chiama coraggio morale e, a mia conoscenza, nessun agente di polizia maschio
l'ha mai dimostrato in risposta alle bande di stupratori, così come nessun
soldato, marinaio o aviatore maschio l'ha dimostrato in risposta alla
gayizzazione dell'esercito.
I
normali militari e poliziotti affronteranno facilmente la morte e le lesioni
gravi perché ciò garantisce loro l'approvazione sociale e l'elogio dei loro
leader. Tuttavia, non si opporranno apertamente alla sinistra perché ciò gli
causerebbe la disapprovazione sociale e la condanna dei loro leader.
Ecco perché il coraggio morale è molto più
raro del coraggio fisico.
Perché
non ci sono stati scioperi da parte della polizia britannica per protestare
contro il modo in cui i suoi leader traditori si sono rifiutati di permettere
loro di far rispettare la legge contro gli stupratori di minori non bianchi?
Sì, è illegale per la polizia scioperare, ma
questa è una ragione in più per farlo. Come la monarchia e la Chiesa
d'Inghilterra al di sopra di loro, la polizia ha il potere di denunciare il
male e mobilitare l'opinione pubblica in un modo che non può essere censurato o
negato.
Ma
come la monarchia e la Chiesa d'Inghilterra, la polizia non ha mai usato questo
potere.
Immaginate
l'effetto di un discorso della Regina negli anni '60 o '70 in cui denunciava
l'invasione del suo regno cristiano bianco da parte di non bianchi violenti e
improduttivi provenienti da culture del Terzo Mondo corrotte e infestate dalla
criminalità.
E
immaginate l'effetto degli scioperi della polizia nella stessa epoca in cui
denunciava lo stupro organizzato e ufficialmente tollerato che era già evidente
in città e paesi di tutto il paese.
Come
porre fine alle patologie del Terzo Mondo
Ma la
Regina non ha mai fatto un discorso del genere e la polizia non ha mai fatto
scioperi del genere.
La regina era una traditrice e la polizia
mancava di coraggio morale.
Quelli
maschili, almeno.
E anche quasi tutte quelle femminili. Maggie
Oliver era un'eccezione onorevole. Era una poliziotta di Manchester, ma non era
disposta a unirsi al resto delle forze nella sua politica implicita di
"Carry On Stupring".
Manchester è una delle grandi città che ho
descritto come "molto peggio di Rotherham".
Per
quanto brutte siano state le bande di stupratori a Rotherham, i loro crimini
sono stati riprodotti su scala molto più ampia in città come Manchester,
Birmingham, Leeds e Bradford.
Sempre
più bianchi lo stanno riconoscendo.
Stanno
anche riconoscendo la complicità e la collaborazione dell'élite di sinistra
britannica.
Ma,
cosa ancora più importante, sempre più bianchi stanno riconoscendo che esiste
una sola soluzione alle patologie del Terzo Mondo causate dalle popolazioni del
Terzo Mondo.
Le
patologie cesseranno solo quando le popolazioni saranno espulse.
Ho dato a “Elisabetta il Male “questo
soprannome perché non era una vera cristiana e non era una vera regina.
Se lo
fosse stata, avrebbe seguito l'esempio della sua illustre omonima del XVI
secolo.
Questa è la vera regina Elisabetta I che
ordina l'espulsione dei "diversi Blackmoores" dal suo regno.
Lettera
aperta al Lord Sindaco di Londra e ai suoi confratelli, e a tutti gli altri
Sindaci, Sceriffi, ecc. Sua Maestà è a conoscenza del fatto che ultimamente
diversi Black moores sono stati portati nel Reame, e che questa gente è pronta
a riunirsi qui, considerando come Dio abbia benedetto questa terra con un
grande incremento di persone della nostra Nazione come ogni altro Paese al
mondo, molte delle quali, per mancanza di servizi e di mezzi per metterli al
lavoro, cadono in inattività e in gravi difficoltà;
Sua
Maestà desidera pertanto che questo tipo di persone venga inviato fuori dal
Reame.
E a
tal fine è stato dato ordine a questo latore “Edwarde Banes” di prendere tra
quei Black moores che in quest'ultimo viaggio sotto Sir Thomas Baskerville,
furono portati in questo Reame al numero di “Tenn”, per essere da lui
trasportati fuori dal Reame.
Per
questo motivo vi chiediamo di assisterlo e assisterlo quando ne avrà bisogno,
senza mai mancare. (Vedi " Lettera aperta di Elisabetta I " presso
l'Archivio Nazionale).
Ciò
che Elisabetta I ordinò nel XVI secolo può essere realizzato nel XXI secolo. I
non bianchi devono tornare al loro posto.
Dopodiché, dobbiamo processare i traditori e
garantire che i futuri leader britannici non dimentichino mai che o servono i
veri britannici o subiscono le dolorose conseguenze del tradimento dei veri
britannici.
E gli
unici veri inglesi sono, ovviamente, quelli bianchi.
Le
uniche persone che stiamo
placando
sono i guerrafondai
di Bruxelles e Londra.
Unz.com
- Ian Orgoglioso –(7 maggio 2025) – ci dice:
Basta distorcere
la storia per creare falsi collegamenti tra la Russia e la Germania nazista
Una
delle linee di attacco ricorrenti di politici e giornalisti occidentali è che
qualsiasi concessione alla Russia nella conclusione della guerra in Ucraina
sarebbe simile all'appeasement della Germania nazista prima della Seconda
Guerra Mondiale.
Questo
semplifica enormemente e distorce la storia a nostro vantaggio, per prolungare
una guerra che non abbiamo mai avuto intenzione di combattere.
Le
uniche persone che stiamo placando sono i guerrafondai di Bruxelles e Londra.
Si
sostiene che, se facessimo concessioni alla Russia, avremmo placato il
presidente Putin nello stesso modo in cui placammo Adolf Hitler prima della
Seconda Guerra Mondiale.
Ma
questo significa distorcere la storia.
L'appeasement
avvenne quando le grandi potenze di Gran Bretagna e Francia cercarono di capire
come garantire la sicurezza collettiva europea, riportando la Germania su un
piano di pace e affrontando al contempo l'ascesa del comunismo e le conseguenze
del crollo dell'Impero austro-ungarico.
L'appeasement
fu un approccio, non una decisione individuale o una concessione nei confronti
della Germania, e durò per un paio di decenni dopo la conclusione della Prima
Guerra Mondiale.
I Trattati di Locarno del 1925 fissarono i
confini postbellici delle grandi potenze e inaugurarono l'adesione della
Germania alla Società delle Nazioni nel 1926.
Le potenze occidentali placarono Hitler per
anni, nel marzo del 1936, quando Hitler inviò la Wehrmacht nella Renania,
un'area che era stata smilitarizzata secondo i termini dell'accordo di
Versailles.
Seguì poi l'Anschluss in Austria nel marzo del
1938.
La
Gran Bretagna lo fece contemporaneamente, cercando di normalizzare le relazioni
con la Germania, temendo la minaccia sovietica nel contesto della grande
depressione degli anni Trenta.
La
Germania era ancora considerata una grande potenza industriale, proprio come la
Gran Bretagna, con profondi legami storici tra le nostre nazioni.
Durante
gli anni Trenta, importanti politici britannici fecero delle aperture, tra cui
l'ex Primo Ministro “Lloyd George”, che visitò Hitler in Baviera e disse:
"La
Germania non vuole la guerra e teme un attacco da parte della Russia".
Adolf
Hitler, notoriamente, considerava gli inglesi un alleato naturale e di
"razza germanica".
Regno
Unito e Germania mediarono un accordo navale nel 1935, che permise ai nazisti
di espandere la loro flotta oltre i limiti imposti da Versailles.
Furono
compiuti sforzi per approfondire i legami economici con la Germania nazista.
Nessuno
spirito di pacificazione simile è mai esistito tra la Gran Bretagna e l'Unione
Sovietica o la Russia moderna.
Abbiamo
sopportato una Guerra Fredda per scoraggiare l'espansionismo sovietico nel
cuore dell'Europa.
E la Federazione Russa non è mai stata
considerata strategicamente importante nel XXI secolo, come lo fu la Germania
dopo la Prima Guerra Mondiale.
Piuttosto,
la Russia era ampiamente considerata una reliquia frammentata e sminuita di un
detestato impero sovietico.
Ci
sono stati indubbiamente periodici disgeli nelle relazioni tra Regno Unito e
Russia dopo il 1991.
Ma gli
sforzi compiuti da Tony Blair e David Cameron per riprendere i rapporti con la
Russia sono stati spesso visti con sospetto e talvolta ostilità dai media
britannici, aggravati dagli eventi in Cecenia, dall'omicidio Litvinenko e
dall'attacco con l'agente nervino di Salisbury.
Piuttosto
che placare la Russia, si potrebbe sostenere che abbiamo guardato la Russia
dall'alto in basso e abbiamo perseguito politiche come l'espansione della NATO,
credendo che avremmo incontrato una resistenza minima.
La
Gran Bretagna fondamentalmente vedeva la sicurezza all'interno dell'Europa
negli anni Trenta come basata sulle tre maggiori potenze del Regno Unito,
Francia e Germania, e questo rimane il caso oggi.
Non avremmo mai combattuto per la
Cecoslovacchia nel 1938. Per la Polonia nel 1939. O per l'Ucraina dal 2014.
Nel
1938, le grandi potenze voltarono le spalle alla Cecoslovacchia proprio perché
era un residuo lacero dell'impero austro-ungarico.
Non
era un nostro problema.
Alla
vigilia dell'accordo per cedere i Sudeti alla Germania nazista nel settembre
1938, Neville Chamberlain fece una trasmissione in cui disse
"quanto
è orribile, fantastico, incredibile che dobbiamo scavare trincee e provare
maschere antigas qui a causa di una lite in un paese lontano tra persone di cui
non sappiamo nulla".
Per
quanto simpatizziamo per una piccola nazione di fronte a un vicino grande e
potente, non possiamo in ogni circostanza impegnarci a coinvolgere l'intero
impero britannico in guerra semplicemente per il suo conto.
Se
dobbiamo combattere, deve essere su questioni più grandi di questa".
Dopo
aver ottenuto l'accordo tra la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia fascista
per rivendicare i Sudeti nel settembre 1938, la Germania nazista si sarebbe poi
mossa incontrastata nel resto della Cecoslovacchia nel marzo 1939.
Anche
quando la Germania nazista invase la Polonia il 3 settembre 1939, la Gran
Bretagna e la Francia dichiararono guerra, ma non si impegnarono in guerra per
otto mesi in quella che fu chiamata la "guerra fasulla".
Solo
quando la Germania invase i Paesi Bassi, il Belgio e parti della Francia il 10
maggio 1940, lo "spirito di Locarno" fu distrutto, introducendo
Winston Churchill come primo ministro e portando la battaglia, letteralmente,
in Gran Bretagna nel luglio 1940, dopo il catastrofico ritiro da Dunkerque.
La
Gran Bretagna non è mai stata disposta a combattere per l'Ucraina perché non è
il cuore dell'Europa ed è vista come una reliquia politicamente ed
economicamente disfunzionale dell'epoca sovietica, proprio come la
Cecoslovacchia è stata vista nel 1938.
Nonostante le nostre esortazioni all'Ucraina a
sconfiggere la Russia sul campo di battaglia, in nessun momento siamo mai stati
disposti a schierare truppe britanniche in un ruolo di combattimento diretto in
Ucraina.
Ho perso il conto del numero di volte in cui
ho sentito gli alti diplomatici europei dire che "non combatteremo mai per
l'Ucraina".
E sono
stati di parola.
Si
potrebbe dire, naturalmente, che si è trattato di pacificazione, ma non sono
d'accordo.
L'espansionismo di Hitler era radicato nel “Lebensraum”
e nel desiderio di creare un grande Reich germanico che si estendesse fino al
Caucaso, ricco di petrolio
. La
Russia non aveva aspirazioni territoriali da placare.
Il
presidente Putin una volta disse:
"Chiunque
non rimpianga la scomparsa dell'Unione Sovietica non ha cuore.
Chiunque
voglia che venga restaurato non ha cervello".
All'inizio
del ventunesimo secolo, la Russia è stata presa in considerazione
economicamente per contemplare l'idea di assorbire l'Ucraina o qualsiasi altro
stato ex sovietico.
Prima
del 2014, la Russia non avanzava alcuna pretesa territoriale sull'Ucraina.
Aveva un accordo di base di lunga data per la
flotta del Mar Nero a Sebastopoli e le relazioni con l'Ucraina erano aperte e
stabili.
Non vi
sono prove che la Russia avesse intenzione di occupare la Crimea o di fomentare
disordini nel Donbass prima dell'inizio del 2014.
La
riunificazione della Crimea con la Russia è stata indubbiamente opportunistica,
giustificata dalla necessità di proteggere la popolazione a maggioranza
russofona. Allo stesso modo, il sostegno militare diretto russo ai separatisti
nel Donbass.
Persino
nel 2014, dopo l'inizio della crisi ucraina, alti funzionari russi ci dicevano
all'ambasciata britannica che non c'era alcuna intenzione di assorbire il
Donbass, che era un'enorme “rustbel”t.
Esistono
prove significative che la Russia desiderasse una risoluzione del conflitto
nell'Ucraina orientale attraverso negoziati e una devoluzione che tutelassero i
diritti della popolazione russofona.
Il
fatto che Putin abbia riconosciuto Donetsk e Lugansk come stati indipendenti,
per poi entrare in guerra, è stato probabilmente motivato dal “crollo degli
Accordi di Minsk”.
La
guerra ha portato la Russia a rivendicare i quattro oblast', prendendo un altro
morso dall'Ucraina e guidando la narrativa occidentale secondo cui altre parti
dell'Ucraina e persino gli Stati baltici potrebbero essere i prossimi.
Tuttavia,
lo vedo anche come guidato dall'opportunismo piuttosto che come parte di un
grande piano russo per conquistare tutta l'Ucraina.
Non ho
visto alcuna prova che la Russia intenda invadere gli Stati Baltici o la
Polonia in futuro.
La Russia non desidera più territorio in
circostanze in cui la sua popolazione è troppo piccola per difendere quello che
già possiede.
Sarebbe
anche un suicidio politico per il Presidente Putin dichiarare guerra alla NATO,
un punto che lui stesso ha accennato più volte.
Eppure,
giornalisti occidentali e politici baltici continuano a sostenere queste
affermazioni, collegandole a Hitler, che ripetutamente violò i suoi impegni
attraverso conquiste militari. L'”appeasement” permise alla Germania nazista di
riarmarsi, mentre Gran Bretagna e Francia ignorarono la spartizione dei resti
dell'Impero austro-ungarico.
Finché
non si comprese che Hitler sarebbe stato il prossimo a venire a prenderci.
Abbiamo
placato Hitler proprio perché rappresentava una minaccia esistenziale per
Francia e Gran Bretagna.
Se credete che stiamo conducendo una guerra
per procura in Ucraina perché la Russia rappresenta una minaccia esistenziale
per la Gran Bretagna, allora non sono d'accordo.
Armando
l'Ucraina per una guerra che non può vincere, le uniche persone che stiamo
placando sono i guerrafondai di Bruxelles e Londra.
Porre
fine a una guerra che ha già ucciso o ferito oltre un milione di persone è
moralmente la cosa giusta da fare.
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