Il ruolo delle Big tech.
Il
ruolo delle Big tech.
“Big
Tech” e “governi”
alla
prova della verità.
Ispionline.it
– (10 gennaio 2025) – Claudia Schettini – ci dice:
(Claudia
Schettini associate Research Fellow).
Dopo
anni di dominio quasi incontrastato, i colossi tecnologici sono a un banco di
prova cruciale:
il
loro futuro dipenderà dal complicato bilanciamento tra conformità normativa,
sostenibilità e leadership settoriale.
Geoeconomia.
Negli
ultimi anni la crescita indiscussa del settore tecnologico globale è
costantemente al centro dell’attenzione mediatica, politica e geoeconomica.
Aziende come SpaceX, NVIDIA e i giganti GAFAM
(Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) hanno trasformato mercati,
economie e società, raggiungendo un’influenza spesso superiore a quella degli
Stati nazionali.
Visionari come” Elon Musk” e “Jeff Bezos”
incarnano un’epoca di innovazione senza precedenti.
Tuttavia, il settore si trova ora al centro di
un dibattito cruciale tra regolamentazione e innovazione, con una crescente
pressione da parte di governi e organizzazioni internazionali preoccupati per
le implicazioni sociali, economiche e geopolitiche.
Il
ritorno di” Donald Trump” alla Casa Bianca e l’influenza di “Elon Musk”, oggi
alla direzione del “DOGE” (Department of Government Efficiency), introducono
nuove dinamiche per le Big Tech.
“Trump”
potrebbe favorire un allentamento delle restrizioni antitrust, incentivando
concentrazione e acquisizioni, mentre “Musk”, figura di rottura, sfida i
regolatori imponendo standard alternativi, come dimostra” Starlink di SpaceX”,
che fornisce Internet a oltre 4 milioni di utenti, spesso in aree remote prive
di alternative.
Sulla
scia di Musk che aveva rivoluzionato Twitter (ora X) in nome della libertà
d’espressione, Mark Zuckerberg, presidente e amministratore delegato di Meta,
ha deciso lo scorso 7 gennaio di eliminare i fact-checker su Facebook e
Instagram, dichiarando di voler puntare anche lui sulla “libertà di parola”,
attuando di fatto una forte deregolamentazione nel filtraggio dei contenuti
pubblicati sulla piattaforma.
Si tratta, almeno per ora, di una scelta
limitata agli Stati Uniti.
Non è
chiaro come si regolerà “Meta” per l’Europa, dove si applicano leggi più
stringenti sulle politiche di moderazione, con più potere affidato agli utenti
e ai cosiddetti “segnalatori attendibili” (di contenuti fake news o simili),
certificati e indipendenti.
Questa
convergenza tra politiche pro-business e innovazione radicale promette
un’accelerazione tecnologica, ma rischia di ampliare disuguaglianze e monopoli.
Come bilanciare regolamentazione e progresso diventa così una sfida urgente e
decisiva.
Un
potere senza precedenti e in ascesa.
Lo
scorso novembre un’analisi S&P Global Market Intelligence ha evidenziato un
forte incremento delle spese in conto capitale delle Big Tech tra il 2023 e il
2027. Gli investimenti, passati da 170 miliardi di dollari nel 2023 a una
proiezione di oltre 250 miliardi di dollari nel 2027, sono guidati da “Alphabet”
e “Amazon”, cui seguono in scia “Microsoft”, “Meta” e, in misura minore, “Oracle”.
Questo
aumento riflette l’impegno nel rafforzare le infrastrutture tecnologiche per
sostenere la crescita in settori strategici come “cloud computing”, “intelligenza
artificiale” (IA), “spazio” e “difesa”.
I
settori coinvolti e gli attori protagonisti sono molti.
Nel
panorama digitale il “gruppo GAFAM “domina mercati chiave quali “advertising
online”, “messaggistica” e” hardware consumer”, sviluppando ecosistemi sempre
più chiusi e interconnessi.
Nel
settore dell’”IA NVIDIA” si afferma come leader grazie ai suoi “chip grafici”,
fondamentali per applicazioni avanzate come riconoscimento facciale e modelli
linguistici.
Secondo un rapporto di McKinsey, la corsa all’”IA
generativa”, innescata da “OpenAI”, ha portato a un aumento nell’adozione della
stessa, con il 65% delle organizzazioni che ne fanno regolarmente uso – quasi
il doppio rispetto a dieci mesi prima.
Nel
settore spazio e difesa “SpaceX” ha rivoluzionato l’industria riducendo i costi
dei lanci e aprendo nuove possibilità per colonizzazione spaziale e
comunicazioni satellitari.
“Starlink”, con il suo impatto geopolitico e
sulla sicurezza, dimostra come l’infrastruttura privata stia ridefinendo il
ruolo strategico dello spazio.
In effetti, la” NASA”, storicamente dominante,
si trova progressivamente dipendente dall’innovazione e dalle infrastrutture
del colosso privato, evidenziando un crescente squilibrio di potere che
ridisegna il rapporto tra pubblico e privato nell’esplorazione spaziale.
Negli
ultimi due decenni i colossi digitali, in particolare i “GAFAM”, hanno
capitalizzato lacune normative per consolidare e ampliare il loro spazio di
manovra, ottenendo il controllo di infrastrutture critiche, influenzando
opinioni pubbliche e politiche nazionali e creando monopoli in diversi settori.
Prima del “Regolamento generale sulla
protezione dei dati” (GDPR) del 2018, le normative europee sulla protezione dei
dati erano frammentarie, permettendo a “Facebook” e “Google” di basare i loro
modelli di business sul tracciamento degli utenti senza consenso informato.
Analogamente
l’assenza di regole chiare sulla concorrenza ha favorito pratiche aggressive da
parte di “Amazon”, come il dumping per promuovere prodotti a marchio proprio.
E
proprio la crescente consapevolezza del loro impatto ha portato governi, con
l’UE in prima linea, a rafforzare la regolamentazione.
La
stretta regolatoria in USA: un cambio di rotta?
A
fronte di questa ascesa, il tema della regolamentazione è già stato oggetto di
diverse azioni legislative, seppur con modalità differenti.
Negli
Stati Uniti l’amministrazione Biden ha rafforzato il controllo sul settore con
la “Federal Trade Commission” (FTC), che ha avviato “cause antitrust” contro
numerose aziende tecnologiche per contrastare pratiche anticoncorrenziali.
Nel
2020 la FTC ha avviato la più famosa causa antitrust contro “Meta”, accusando
l’azienda di mantenere illegalmente il monopolio nel mercato dei social network
personali attraverso le acquisizioni di Instagram nel 2012” e “WhatsApp” nel
2014.
Tuttavia,
con il ritorno di Trump e l’ascesa di “Elon Musk” si potrebbe assistere a
un’inversione verso politiche più permissive, favorevoli alle Big Tech.
Trump
ha, infatti, già espresso l’intenzione di smantellare quello che definisce il
“cartello della censura” per le grandi aziende tecnologiche, nominando il
consigliere legale “Brendan Carr”, noto per le sue posizioni conservatrici in
maniera di regolamentazione, alla guida della” Federal Communications
Commission” (FCC) proprio per affrontare la questione.
L’ultima
mossa di Zuckerberg, ricalcando il modello “X”, sembra venire incontro alle
posizioni del prossimo presidente degli Stati Uniti, che aveva più volte
accusato il “CEO di Meta” di aver danneggiato i repubblicani rendendo meno
visibili i loro post.
Dopo
la vittoria di Trump alle elezioni di novembre contro” Kamala Harris”, “Meta e
altre grandi aziende tecnologiche” hanno dunque provato a tutelarsi dalle
possibili accuse di ostilità verso l’amministrazione entrante.
Volendo
fare un paragone tra le figure, in questo momento chiave, di Zuckerberg e Musk,
quali sono le principali differenze di policy tra i due?
In primo luogo, sicuramente entrambi hanno adottato
sistemi di moderazione basati sulla comunità, ma mentre” Musk” ha implementato
le “Community Notes” su “X” per promuovere la trasparenza, “Zuckerberg” ha
seguito questa strada solo recentemente, dopo aver inizialmente sostenuto un
approccio più centralizzato con fact-checker indipendenti.
Nel suo video del 7 gennaio il CEO di Meta,
annunciando di voler lavorare con la nuova amministrazione USA “per respingere
i governi di tutto il mondo che se la prendono con le società americane e
premono per una censura maggiore”, ha accusato tra l’altro l’Europa di avere
“un sempre crescente numero di leggi che istituzionalizzano la censura e
rendono più difficile realizzare qualsiasi innovazione lì”.
Zuckerberg
ha anche accusato l’amministrazione Biden di pressioni per la censura.
Inoltre,
dopo essersi mosso rapidamente per sciogliere i rapporti tesi con la Casa
Bianca, alcune decisioni recenti, avvenute in capo all’”amministrazione Meta”,
possono essere viste come un tentativo di venire incontro a Trump.
Joel
Kaplan, repubblicano di lunga data e vice-capo di gabinetto alla Casa Bianca
durante l’amministrazione di George W. Bush, è stato promosso come nuovo
responsabile della politica globale di Meta.
“Dana
White”, capo dell’”Ultimate Fighting Championship” e alleata di Trump, si è
unita al consiglio di amministrazione dell’azienda.
L’annuncio
conferma un riallineamento dei colossi del tech con le strategie della Casa
Bianca di Trump e del nuovo Congresso in mano repubblicana.
Dopo
Musk e Bezos – il primo grande elettore del futuro presidente, il secondo tra i
primi a congratularsi per il successo nel voto di novembre – anche Zuckerberg
si sta preparando a un netto cambiamento nella leadership a Washington.
Quale
regolamentazione fuori dagli USA?
Se
negli USA si prevede un allentamento delle restrizioni, le altre grandi
economie si
stanno, invece, comportando diversamente.
A
livello internazionale, l’Unione europea si conferma leader nella
regolamentazione tecnologica con l’approvazione nel 2022 del “Digital Markets
Act” (DMA) e del “Digital Services Act” (DSA), volti a limitare il potere
monopolistico e a rafforzare trasparenza e responsabilità.
Negli
ultimi anni giganti come Google e Amazon hanno affrontato sanzioni superiori a
10 miliardi di euro per violazioni delle norme sulla concorrenza.
In
particolare, nel 2017 Google ha subito dalla Commissione europea una multa di
2,4 miliardi per abuso di posizione dominante nel servizio di comparazione
prezzi, sanzione confermata dalla Corte di giustizia dell’UE nel settembre
2024.
In
Asia la Cina ha invece intrapreso un approccio radicale contro colossi
nazionali come “Alibaba” e “Tencent”, imponendo restrizioni su algoritmi, dati
e fintech per riaffermare la sovranità digitale.
“Alibaba”
è così stata multata per abuso di posizione dominante nel mercato
dell’e-commerce.
Si sono aggiunte le più severe
regolamentazioni della banca centrale cinese nei confronti della società di
pagamento digitale affiliata, “Ant Group”, imponendo restrizioni sulle loro
attività finanziarie.
Tuttavia,
le misure cinesi si distinguono da quelle statunitensi ed europee per il
controllo statale diretto, con l’utilizzo della regolamentazione come strumento
politico.
Dal
canto suo, nel 2021 la Corea del Sud è diventata il primo Paese al mondo a
introdurre una legge per limitare il monopolio di Google e Apple sui pagamenti
in-app.
La
normativa obbliga le piattaforme a consentire l’uso di sistemi di pagamento
alternativi, promuovendo una maggiore concorrenza e riducendo le commissioni
imposte agli sviluppatori.
Questa
misura segna un importante precedente nella regolamentazione delle Big Tech.
Il Giappone ha intensificato i suoi sforzi
regolatori, concentrandosi in particolare su questioni di antitrust e
concorrenza riguardanti aziende come Apple e Google.
La
strategia del Paese sembra mirare a un equilibrio tra lo stile normativo
incisivo dell’UE e l’approccio storicamente cauto e ponderato delle pratiche di
enforcement giapponesi.
Nell’Indo-Pacifico
anche Paesi come India e Australia stanno implementando normative per
riequilibrare il rapporto tra Big Tech ed economie locali, introducendo
tassazioni più elevate e requisiti per la gestione nazionale dei dati degli
utenti.
Tutti
sviluppi che riflettono una crescente frammentazione dell’approccio globale al
controllo delle grandi piattaforme digitali.
I
costi della conformità per il settore digitale.
La
crescente stretta regolatoria comporta rischi significativi per il settore
tecnologico.
Un
eccesso di restrizioni potrebbe rallentare l’innovazione, scoraggiando gli
investimenti in ricerca e sviluppo, fondamentali per il progresso tecnologico.
Dopo
l’introduzione del “GDPR” nell’UE molte start-up tecnologiche europee hanno
ridotto lo” sviluppo di progetti basati su big data” per timore di non
rispettare la normativa.
Tale
onere finanziario potrebbe spingere le aziende a delocalizzare i centri di
innovazione verso Paesi con regole più permissive, indebolendo la competitività
delle economie più regolamentate.
Multinazionali
come “OpenAI” e “Google Deep Mind” hanno espresso preoccupazioni sulle
restrizioni proposte dall’”AI Act” europeo, con il rischio che i centri di
ricerca vengano spostati negli USA o a Singapore, dove le normative risultano
più flessibili.
L’eccessiva
regolamentazione europea è, infatti, una delle ragioni principali del perché il
settore tecnologico è dominato dagli Stati Uniti, che ospitano tre delle
start-up di intelligenza artificiale più importanti (Anthropic, OpenAI e xAI).
È
proprio il “Rapporto Draghi “sulla competitività europea a evidenziare come
l’attuale quadro normativo dell’UE nel settore digitale presenti sfide
significative, in particolare per le piccole e medie imprese (PMI), ostacolando
l’innovazione e la crescita nel settore digitale delle stesse.
I costi di conformità, inoltre, gravano in
modo sproporzionato sulle PMI, consolidando il dominio dei grandi attori del
mercato.
L’adeguamento all’”AI Act “dell’UE potrebbe
costare a una PMI tipo circa 300 mila euro – pari all’1,3% del suo fatturato.
Questo
contesto rischia di scoraggiare l’innovazione e aumentare le disuguaglianze tra
grandi aziende e piccole imprese.
Innovazione
e adattamento: la chiave per mantenere la leadership.
Nonostante
le sfide regolatorie, l’innovazione resta il fulcro delle Big Tech, che stanno
rispondendo all’aumento della pressione regolatoria con strategie diversificate
per proteggere il loro dominio di mercato.
Da un
lato, aziende come “Alphabet” e “Microsoft” stanno rafforzando gli investimenti
in compliance, creando infrastrutture legali e operative per rispettare le
normative locali, in particolare in Europa.
Questo
include la localizzazione dei dati e la trasparenza sugli algoritmi, requisiti
previsti da regolamenti come il DMA.
Parallelamente,
l’aumento delle spese in conto capitale, come in “data center”, riflette
l’impegno nel mantenere la competitività globale senza incorrere in violazioni.
Tuttavia, il vero nodo è rappresentato
dall’effetto delle normative sull’innovazione:
mentre
alcune restrizioni spingono a sviluppare tecnologie più etiche e sostenibili,
altre rallentano il time-to-market, obbligando le aziende a ridimensionare o
ripensare i propri modelli di business.
Oltre
a essere motori di progresso, queste aziende rivestono anche una responsabilità
cruciale nell’affrontare le grandi sfide globali.
La
protezione dei dati personali, in particolare, è emersa come una priorità dopo
lo scandalo di “Cambridge Analytica”, che ha evidenziato i rischi per la
privacy degli utenti.
In
risposta, alcune aziende stanno adottando misure concrete per rafforzare la
fiducia e rispettare le normative locali.
“Microsoft”,
con l’iniziativa “EU Data Boundary”, garantisce che i dati dei clienti europei
siano archiviati e processati esclusivamente all’interno dell’UE, promuovendo
la sovranità digitale europea e la conformità alle leggi sulla privacy.
Parallelamente,
la sostenibilità ambientale rappresenta una ulteriore sfida critica per il
settore tecnologico.
Data
center e attività estrattive di minerali rari contribuiscono al 4% delle
emissioni globali di gas serra, superando quelle del settore aeronautico.
In risposta, le Big Tech stanno investendo per
ridurre la loro impronta ecologica.
“Apple
ha raggiunto l’obiettivo di operare al 100% con energia rinnovabile e mira a
rendere la sua intera catena di fornitura “carbon neutral” entro il 2030”.
“Google”,
dal canto suo, ha finanziato progetti di energia pulita per compensare il
consumo dei suoi data center, dimostrando come innovazione e responsabilità
sociale possano coesistere per promuovere un progresso sostenibile ed equo.
Il
mantenimento dell’influenza delle Big Tech dipenderà, dunque, dalla loro
capacità di affrontare sfide strategiche chiave, a partire dall’adattamento ai
nuovi approcci legislativi, cruciale per sostenere la crescita nel lungo
termine.
Questi
sforzi non solo rispondono alle richieste normative, ma rafforzano anche la
fiducia dei consumatori, consolidando la loro posizione nei mercati globali.
L’eccessiva
regolamentazione potrebbe, infatti, livellare il campo di gioco, aprendo spazi
per nuovi attori, come le start-up tecnologiche.
Aziende emergenti nell’intelligenza
artificiale e nelle tecnologie verdi stanno già sfidando i giganti.
“
OpenAI”, ad esempio, ha dimostrato di poter competere con colossi come “Google”
e “Meta” nel settore dell’ “IA generativa”. Anche in ambiti come la
cybersicurezza aziende di nicchia stanno guadagnando terreno, approfittando
della crescente attenzione verso soluzioni specializzate.
Un
equilibrio possibile o la fine di un’era di dominio incontrastato?
Il
panorama normativo globale potrebbe evolversi verso due tendenze principali:
una maggiore armonizzazione delle regole o una frammentazione regionale.
Nel primo scenario l’adozione di standard
globali, soprattutto in ambiti come l’IA, potrebbe facilitare l’innovazione e
ridurre i costi di compliance.
Tuttavia,
un approccio frammentato, con normative divergenti tra UE, Stati Uniti e Cina,
rischia di creare ecosistemi tecnologici regionalizzati, limitando la
scalabilità e la competizione globale.
In parallelo, la competizione geopolitica
renderà le Big Tech protagoniste nei settori della sicurezza nazionale e delle
infrastrutture critiche.
L’esempio
di Starlink, che ha rivoluzionato le comunicazioni satellitari con implicazioni
strategiche globali, dimostra come l’innovazione privata possa influenzare
equilibri geopolitici.
In
questo contesto le Big Tech dovranno bilanciare la conformità normativa con la
spinta all’innovazione in settori emergenti come il “quantum computing”, l’“IA
generativa” e la “biotecnologia”, ridefinendo il loro ruolo non solo come
attori economici, ma anche come players strategici nella politica globale.
Infine,
il futuro richiede un nuovo equilibrio nel rapporto tra pubblico e privato,
dove un approccio collaborativo possa rappresentare la via più efficace.
Regole
chiare e trasparenti, capaci di bilanciare lo sviluppo tecnologico con la
necessità di equità e sostenibilità, saranno fondamentali per affrontare le
sfide del nostro tempo.
In un’epoca in cui il digitale è il motore
dell’economia globale, la capacità di gestire questa complessa dualità
determinerà il nostro futuro.
Le Big
Tech sono a un banco di prova cruciale, così come le istituzioni chiamate a
guidare, e non solo a regolamentare, il cammino verso un progresso condiviso.
Governare
la potenza delle Big Tech,
prima che sia troppo tardi:
i
rischi del “Wild Web.”
Agendadigitale.eu
– Emiliano Mandroni – (25 settembre 2024) ci dice:
Digitale
e democrazia.
Mercati
digitali.
L’approccio
deregolamentato delle Big Tech americane ricorda il Far West: tanto spazio,
poche leggi.
La concentrazione economica genera potere
politico, minacciando la qualità democratica.
Urge regolamentare il potere tecnologico,
includendo hardware e software nel contratto sociale, per evitare che
l’economia domini la politica e tutelare i cittadini dalla perdita di sovranità
Big
tech.
L’approccio
degli americani con il Web è stato lo stesso tenuto col West:
tanto
spazio e poche leggi.
La
storia la scrivono i vincitori, anche nelle guerre finanziarie e tecnologiche:
chi ce l’ha fatta ha ragione.
Dietro
questo equivoco si nasconde ancora l’idea che il fine giustifichi i mezzi,
ignorando principi, valori e diritti conquistati nel tempo, derubricati a
esitazioni e scrupoli morali.
Così
si riafferma il primato (di fatto) dell’economia sulla politica che porta a
confondere leadership e consenso.
Indice
degli argomenti.
Governare
la potenza delle imprese tecnologiche.
Tecno-regolamentazione:
le norme dettate dalle big tech.
Contratti
digitali e cessione di sovranità.
I
rischi della democrazia eterodiretta influenzata dai social.
I
rischi dei monopoli digitali.
Conclusioni:
Governare
la potenza delle imprese tecnologiche.
Il
binomio fortuna economica – consenso politico sta diventando sempre più
ricorrente mettendo in discussione la qualità delle democrazie.
Quando la concentrazione economica è così
grande produce un potere politico rilevante, che non può essere lasciato ad una
élite di miliardari eccentrici.
La potenza delle imprese tecnologiche è iperbolica e
va governata prima che superi il punto di non ritorno.
Le
istituzioni, dunque, devono collocare pure l’hardware e il software nel
perimetro del contratto sociale, come tutti gli altri poteri.
La
natura dell’impresa digitale – apparentemente intangibile – ha sorpreso
istituzioni novecentesche pensate per la manifattura, l’industria e il
commercio, aggirando un caposaldo del libero mercato come la concorrenza.
L’antitrust
fu pensato ben 110 anni fa per smembrare la flotta di petroliere di
Rockefeller, egemone a livello mondiale.
Una
concentrazione non dissimile da quella delle odierne big-tech (Google,
Microsoft, Meta, X … Amazon o Apple).
È più
facile vedere le petroliere che i server?
Sempre
più numerose e frequenti sono le intromissioni nella politica, le prese di
posizioni, gli anatemi o le minacce che fanno questi tycoon. Come latifondisti che gestiscono il
loro spazio di influenza non come proprietari ma più come veri e propri
governatori di quell’ambiente.
Insomma, i tiranni digitali (Mandrone, 2022)
fanno quello che vogliono, fagocitano gli oppositori e infondono paura,
soprattutto in chi gli è vicino.
Non
contemplano la discussione, non hanno bisogno di consenso e si sentono
infallibili.
Poco
gli importa delle conseguenze dei loro capricci sui paesi e le persone.
Tecno-regolamentazione:
le norme dettate dalle big tech.
Si è
parlato spesso di fuga dal diritto, cioè della ricerca sistematica di rapporti
che eludono gli ordinamenti degli Stati sovrani per sfuggire alle loro
prescrizioni (tassazione, sicurezza, remunerazione, normativa) ma, oggi, forse bisognerebbe
aggiungere la “tecno-regolamentazione”, ovvero quella patina di para-normativa
imposta dalle grandi imprese e dalle piattaforme per utilizzarle ma senza un
mandato popolare. Di fatto, ulteriore codice ma senza alcuna legittimazione democratica è
stato redatto per regolare la dimensione digitale.
Contratti
digitali e cessione di sovranità.
I
contratti che stipuliamo – distrattamente – sul web creano continuamente
sovrastrutture che hanno un impatto reale e forte sulla vita delle persone. Curvando il diritto dei singoli
ambiti e paesi ad una pletora di precisazioni e indicazioni pervasive e sempre
più tecniche.
Sono
spacciate per politiche aziendali, strategie commerciali, adesioni volontarie,
regole di comunità, pensate affinché l’utente, da ovunque digiti, aderisca ad
un sistema di riferimento solidale ad un set certo valoriale, salvo cedere progressivamente parti
sempre maggiori della propria sovranità.
La
parte più insidiosa della questione è l’idea che ogni volta, ognuno di noi,
dovrebbe leggere patti e accordi per accedere ai servizi, magari sempre gli
stessi: dai social ai media, dalle piattaforme pubbliche (scuola, sanità fisco,
anagrafe, ecc.) a quelle private (banche, assicurazioni, servizi, utenze,
ecc.). Questo escamotage è una resa dell’ordinamento nazionale e comunitario
che, invece, dovrebbe tutelare e circoscrivere le azioni unilaterali di questi
soggetti per i cittadini, per quelli che non sono in grado di comprendere le
implicazioni di certe scelte.
I
rischi della democrazia eterodiretta influenzata dai social.
Inoltre,
lo strapotere dei social-media corrompe la meccanica democratica poiché la loro
influenza (se non manipolazione o, in certi casi, propaganda) non consente al
cittadino comune una lettura corretta e una valutazione adeguata delle
questioni (sempre più complesse) riducendo il suo voto a una liturgia laica
(sempre meno partecipata).
Siamo
passati dalla democrazia diretta alla democrazia eterodiretta, senza neanche
accorgercene.
I
legislatori riponevano grande fiducia nella capacità della scuola pubblica, e
quindi di un livello di istruzione medio, la realizzazione degli auspici, dei
diritti e delle prerogative democratiche. Ciò è sempre meno vero, con la
conseguenza di una partecipazione sempre meno consapevole.
Chi
usa un computer deve essere tutelato dalla legge e dalle istituzioni locali
come chi usa guida una automobile o compra una maglietta, indipendentemente da
dove è prodotta. Non è possibile delegare ai singoli cittadini la tutela della
propria privacy e dei propri dati. È una posizione asimmetrica, in cui il
cittadino-web user è la parte debole.
Abbiamo
progressivamente perso quote di potere in cambio delle briciole di quei cookies
che si premurano continuamente di farci autenticare. Ma chi gli ha dato
l’autorità per farlo? Perché surrettiziamente le garanzie analogiche ci sono
state sottratte nel piano digitale? Prima che sia troppo tardi, è il momento di
frenare lo strapotere delle grandi aziende tecnologiche e dei suoi proprietari.
Principi,
regole e limiti vanno negoziati preliminarmente. Dobbiamo essere informati (noi
o i nostri rappresentanti) per valutarne le implicazioni. Ma, soprattutto,
dovrebbero essere i player a uniformarsi alle nostre regole (europee) non
chiedere di aderire, per parti o per l’intero, a norme d’oltreoceano. Quale
altro prodotto o servizio accettereste di sottoscrivere sapendo che è regolato
da leggi diverse da quelle del vostro Paese o che sono decise (e possono
cambiare) unilateralmente?
I
rischi dei monopoli digitali.
Forse
si è aperta una breccia in questo muro.
Un
giudice federale degli Stati Uniti ha condannato “Alphabet,” la società
proprietaria di “Google”, per aver agito con lo scopo di mantenere un monopolio
nella ricerca online.
È
accusato di aver consolidato illegalmente il suo predominio, in parte, pagando
ad altre aziende, come “Apple e Samsung”, miliardi di dollari all’anno (nella
sentenza si parla di più di 26 miliardi di dollari nel solo 2021) per gestire
le ricerche sui loro smartphone e browser web.
“Google
“controlla il 90% delle ricerche online:
una
posizione totalmente dominante, non concessa a nessuna azienda in nessun
settore.
I giudici affermano quello che già tutti
sapevamo: Google è un monopolista.
Il
monopolista, la storia ce lo insegna, agisce come un predatore al vertice della
catena alimentare, guidato dall’istinto, senza alcun timore, lasciando solo gli
scarti della sua preda agli avvoltoi.
Il mercato, senza un regolatore pubblico
efficace, torna allo stato di natura, homo homini lupus.
Conclusioni
Questa
gara verso il successo ha fatto correre tanti rischi ma ha alimentato
tantissimo il progresso tecnologico.
Dai garage in cui scrivere programmi o
assemblare componenti fino alle big-tech, tanti hanno partecipato alla corsa
all’oro digitale.
La
competizione tecnologica esasperata, però, ha i suoi costi:
qualcuno
vince, molti perdono.
Parafrasando
Sergio Leone; quando un uomo con un computer nuovo incontra uno con un computer
vecchio, quello con il computer vecchio è un uomo morto.
Le Big
Tech e il racconto
dell’intelligenza
artificiale.
Centroriformastato.it – (5 Luglio 2024) - Daniela
Tafani – ci dice.
Il
problema politico relativo allo sviluppo e alle applicazioni dei sistemi di intelligenza
artificiale non riguarda l’allineamento di una mente artificiale con i nostri
valori, ma il disallineamento tra gli interessi dei monopoli della tecnologia e
l’interesse pubblico.
L’economia
delle promesse.
Nella
famiglia di tecnologie denominata, per ragioni di marketing, «intelligenza
artificiale», alcuni genuini progressi sono stati ottenuti, a partire dal 2010,
con sistemi di natura statistica, antropomorficamente definiti di
«apprendimento automatico» (machine learning).
Si tratta di sistemi che, anziché procedere
secondo le istruzioni scritte da un programmatore, costruiscono modelli a
partire da esempi.
Sono
statistiche automatizzate, prive, in quanto tali, di intelligenza:
«sistemi
probabilistici che riconoscono modelli statistici in enormi quantità di dati»
(Whittaker 2024).
Dovrebbero
perciò essere utilizzati solo per compiti con una elevata tolleranza al
rischio.
La
costruzione dei sistemi di apprendimento automatico richiede, tra gli altri,
un’elevata potenza di calcolo e enormi quantità di dati:
queste
sono oggi nella disponibilità dei soli monopoli della tecnologia (le cosiddette
Big Tech), che detengono l’accesso al mercato necessario per l’intercettazione
di grandi flussi di dati e metadati individuali e le potenti infrastrutture di
calcolo per la raccolta e l’elaborazione di tali dati (Lynn, von Thun, Montoya
2023).
Su tali aziende si concentrano gli
investimenti del capitale di rischio.
A chi
investa in capitale di rischio non serve che una tecnologia sia utile o che
funzioni;
serve
soltanto che le persone credano che funzioni, per un tempo sufficientemente
lungo da rendere possibile un ritorno sugli investimenti, e che le
responsabilità per i danni causati da prodotti pericolosi o non funzionanti non
ricadano sulle aziende che producono o distribuiscono tali prodotti.
Il capitale di rischio è alla base di
un’economia delle promesse:
la
promessa di un enorme guadagno finanziario in breve tempo e la promessa che la
tecnologia ci condurrà verso un futuro meraviglioso (Foureault 2024).
Di
qui, i messianesimi eugenetici dei miliardari bianchi che invitano l’opinione
pubblica a occuparsi del futuro dell’umanità, anziché del presente, e la promessa che il bene
dell’umanità sarà il frutto delle tecnologie su cui questi stessi miliardari
concentrano, di volta in volta, i loro investimenti (Gebru, Torres 2024).
Il
modello di business dei monopoli della tecnologia si regge sulla sorveglianza
di massa, che consente loro di fornire a soggetti pubblici e privati la
promessa di una profilazione algoritmica e servizi di sorveglianza
extragiudiziale.
La stessa intelligenza artificiale è oggi una
tecnologia di sorveglianza.
Nei
paesi nei quali una sorveglianza generalizzata e pervasiva è vietata, il
modello di business delle grandi aziende tecnologiche si basa su una «bolla
giuridica» ossia sulla violazione sistematica di diritti giuridicamente
tutelati e sulla scommessa che sarà il diritto a cedere.
Le
aziende scommettono, in particolare, che l’illegale trasformazione in merce di
tutti i dati e i metadati personali dei cittadini darà luogo non a interventi
sanzionatori, bensì alla rinuncia alla tutela giuridica dei diritti
fondamentali violati da tale pratica (Giraudo, Forsch-Villaronga, Malgieri
2024).
Le
narrazioni dei monopoli digitali.
Affinché
ciò accada, le Big Tech hanno diffuso alcune narrazioni – idee trasmesse nella
forma di storie – che danno forma alla percezione pubblica del rapporto tra
etica, politica, diritto e tecnologia.
Così,
i monopoli della tecnologia affrontano il conflitto tra i loro interessi
privati e l’interesse pubblico non con un’aperta imposizione della loro
volontà, ma facendo sì che alcune narrazioni entrino a far parte del senso
comune, determinando l’impostazione di fondo e gli assiomi di qualsiasi
discussione pubblica sull’intelligenza artificiale (Tafani 2023b).
Si
tratta di una forma di cattura del regolatore che opera nella dimensione
culturale:
distorcendo
la concezione condivisa di ciò che è di interesse pubblico e sopprimendo la
possibilità stessa di concepire alternative, si ottiene che le politiche
pubbliche favoriscano le industrie che dovrebbero regolare, a scapito del reale
interesse pubblico e senza che si manifestino dissensi o proteste
significativi.
Il
conflitto è infatti soppresso in via preliminare, attraverso narrazioni che
oscurano gli interessi in gioco e producono un consenso generale, accompagnato
dalla tendenza a liquidare come retrogrado o luddista chiunque non condivida in
partenza l’impostazione prefissata.
Il
regolatore consulterà allora, quali esperti, i lobbisti delle aziende che
dovrebbe regolare, giacché condivide con loro gli schemi culturali e le
assunzioni fondamentali riguardo agli obiettivi da perseguire con la
regolazione stessa (Y Li 2023).
Le
principali narrazioni riguardano oggi la digitalizzazione, il concetto stesso
di intelligenza artificiale, il principio dell’inevitabilità della tecnologia,
il principio di innovazione, il soluzionismo tecnologico, la fine del lavoro, i
miti dell’eccezionalismo tecnologico e del vuoto giuridico e il ruolo
dell’etica.
Trattandosi
di narrazioni strumentali, finalizzate a proteggere un modello di business, ne
possono essere diffuse di nuove con la stessa velocità con cui si procede al
lancio di una campagna di marketing.
La funzione
di tali narrazioni è anzitutto quella di quella di garantire la generale
accettazione della sorveglianza di massa come inevitabile e benefica:
negli anni, anche nei documenti ufficiali di
istituzioni sovranazionali quali l’OCSE, il termine «sorveglianza» è stato
sostituito da «digitalizzazione», con uno slittamento da una rappresentazione
della sorveglianza di massa come caratteristica dei regimi totalitari,
incompatibile con la protezione dei diritti fondamentali e inaccettabile entro
i sistemi democratici, a una concezione positiva della medesima sorveglianza,
nella sua versione digitalizzata (Padden 2023).
Con un
approccio soluzionistico, in virtù del quale qualsiasi problema sociale sarebbe
passibile di una soluzione tecnica, la moltiplicazione di prodotti, fabbriche e
addirittura intere città smart, ossia connesse e in grado di trasmettere dati e
metadati personali, a fini di sorveglianza e controllo, è presentata ora quale
tappa inevitabile nel progresso dell’umanità, utile a meglio organizzare la
società e foriera di sicurezza, efficienza e crescita economica.
La
narrazione per cui «la tecnologia» sarebbe inevitabile e inarrestabile serve a
nascondere gli attori umani, le loro scelte interessate e le loro
responsabilità, inducendo a dare per scontato che ogni singolo sistema di
intelligenza artificiale sia «qui per restare» o che «se non lo facciamo noi,
lo farà qualcun altro».
Qualsiasi
dibattito ha luogo perciò entro la logica del fatto compiuto, svuotando
preventivamente di significato le domande sulla legittimità e sull’opportunità
dello sviluppo o dell’applicazione di alcune specifiche tecnologie (Tafani
2023b).
A chi
ponga tali domande, non è riconosciuto neppure il ruolo di interlocutore nel
dibattito;
lo si
riduce a un problema – con una «resistenza alla resistenza» (Padden 2023), che
mira a neutralizzare la possibilità stessa di un conflitto – che può essere
risolto instillando nei cittadini, con un antropomorfismo di stampo religioso,
la fiducia nell’intelligenza artificiale.
L’antropomorfizzazione
dei sistemi di intelligenza artificiale.
L’antropomorfizzazione
dei sistemi di intelligenza artificiale è indotta dalle aziende in quanto
consente loro di immettere sul mercato prodotti e servizi basati su tecnologie
immature – che dovrebbero essere oggetto, al momento, di sola ricerca, non di distribuzione
generalizzata e commercio – presentandoli come intelligenti e autonomi e
sfuggendo così alle proprie responsabilità.
Quando sistemi statistici automatizzati siano
utilizzati per prevedere il futuro di singoli individui e assumere di
conseguenza decisioni rilevanti per le loro vite, si generano automaticamente
discriminazioni ineliminabili contro chiunque si trovi ai margini dei modelli
algoritmici di normalità.
Si tratta di sistemi incompatibili con lo
Stato di diritto (Tafani 2024), per i quali alcuni giuristi hanno proposto di
prevedere un’automatica «presunzione di illegalità» (Malgieri, Pasquale 2024).
In virtù dell’antropomorfizzazione dell’intelligenza
artificiale, le aziende, anziché ammettere che simili sistemi semplicemente non
funzionano, possono sostenere che essi, come gli esseri umani, adottano
talvolta decisioni discriminatorie.
Appare così plausibile che ai danni, alle
ingiustizie e alla assurdità prodotte dai sistemi di apprendimento automatico
si possa porre rimedio con l’etica dell’intelligenza artificiale, ossia con la
moralizzazione di un sistema di calcolo, anziché, come avviene con qualsiasi
prodotto pericoloso e non funzionante, con il divieto della sua distribuzione (Tafani 2023b).
Affinché
i sistemi di intelligenza artificiale siano considerati agenti autonomi,
anziché artefatti di cui il produttore è responsabile, gli elementi materiali
necessari alla loro realizzazione – terre rare, energia, acqua e lavoro – sono
in genere rimossi dalle narrazioni.
I
primi due elementi sono decisivi nei conflitti geopolitici legati
all’intelligenza artificiale e danno luogo a costi ambientali elevatissimi, che
le aziende esternalizzano con pratiche di impostazione coloniale.
Quella
che appare come intelligenza artificiale richiede inoltre il lavoro nascosto di
milioni di persone – per lo più prive di qualsiasi forma di diritti o tutele –
alle quali sono affidate le attività necessarie al funzionamento dei sistemi di
intelligenza artificiale e le operazioni che consentono di simulare
un’autonomia, o un livello di affidabilità, che tali sistemi costitutivamente
non possiedono e che sono tuttavia dichiarati dai produttori.
Il
mito della sostituzione dei lavoratori umani con robot o sistemi informatici
non ha alcun fondamento nello stato attuale di sviluppo della tecnologia:
ad
oggi, l’ossessione per la sostituzione dei lavoratori umani, che guida e
orienta la progettazione dei sistemi di intelligenza artificiale, diffonde
soprattutto un’automazione mediocre, che è di ostacolo alla produttività (Acemoglu, Johnson 2023).
Rendere
invisibili gli elementi materiali dei prodotti basati su sistemi di
intelligenza artificiale aiuta le aziende a sostenere che a tali sistemi, in
virtù della loro novità e straordinarietà, le leggi vigenti non siano
applicabili, e che servano dunque nuove leggi, scritte ad hoc per ciascun
sistema.
Il mito del vuoto giuridico dà luogo a una
corsa che vede il legislatore perennemente in affanno, nel rincorrere le più
recenti novità tecnologiche, e oscura il fatto che i sistemi di intelligenza
artificiale, come qualsiasi altro prodotto o servizio, sono soggetti alla
legislazione ordinaria (Tafani 2023b).
Utili
a sfuggire al diritto sono per le Big Tech anche gli appelli all’etica e le
promesse di autoregolazione – ossia gli inviti a fidarsi del loro buon cuore e
a sostituire il diritto con la declamazione di linee guida e principi etici – e
l’appello al principio di innovazione, con la narrazione secondo la quale il
diritto nuocerebbe all’innovazione e con ciò allo sviluppo economico e sociale.
In
realtà, i monopoli ostacolano qualsiasi innovazione, per quanto dirompente e
benefica, che non si adatti al loro modello di business, e promuovono
soprattutto un’innovazione tossica che estrae o distrugge valore, anziché
produrlo.
Il contrasto non è dunque tra la tutela dei
diritti e il principio di innovazione, ma tra la tutela dei diritti e il
modello di business delle grandi compagnie tecnologie (Tafani 2023a).
Il
problema politico relativo allo sviluppo e alle applicazioni dei sistemi di
intelligenza artificiale non riguarda l’allineamento di una mente artificiale
con i nostri valori, ma il disallineamento tra gli interessi dei monopoli della
tecnologia e l’interesse pubblico (O’Reilly, Strauss, Mazzucato et al. 2024).
I
primi mirano ad aumentare i profitti e a consolidare la propria posizione
dominante, realizzando, in violazione del diritto vigente, soli sistemi di
sorveglianza, controllo e estrazione del valore.
In
nome del secondo, invece, potrebbe essere promosso lo sviluppo non di sistemi
«intelligenti», progettati per sorvegliare, manipolare o sostituire gli esseri
umani e utili soltanto a una ristrettissima élite, bensì di sistemi progettati
per essere utilizzati liberamente dalle persone (Doctorow 2023), per dare
potere ai lavoratori e contribuire a una produzione condivisa di valore
(Acemoglu, Johnson 2023).
Microchip
strategici: il ruolo delle
Big
Tech europee e italiane.
Aliseoeditoriale.it
- Giovanni Lorenzo Restifo – (21 Nov. 2024) -ci dice:
L'Unione
Europea e i tentativi per tornare a competere nel mercato dei microchip:
rischi, misure e prospettive.
Il 20
agosto la Commissione Europea ha approvato un finanziamento di cinque miliardi
di euro per la realizzazione di una fabbrica di microchip ad alte prestazioni
in Germania.
Lo
stabilimento sarà sviluppato da un’azienda creata ad hoc, la “European
semiconductor manufacturing company” (Esmc), una joint venture formata dalla
taiwanese “Tsmc”, leader globale del settore, e tre aziende tedesche:
“Bosch”,
“Infineon” e “Nxp”, le ultime due specializzate nella produzione di microchip.
La
scelta della Commissione non era scontata e può essere interpretata come un
modo per dare concretezza al Chips Act”, la direttiva emanata nel 2023 per
incentivare lo sviluppo della filiera europea dei semiconduttori, in
particolare il settore della produzione, in modo da rendere più autonomi i
Paesi dell’Unione rispetto ai produttori asiatici.
I
microchip sono ovunque ed è molto complicato realizzarli;
dalle
auto passando per l’energia eolica, fino all’intelligenza artificiale e agli
armamenti, tutte le tecnologie necessarie per l’innovazione e la difesa ne
hanno bisogno.
La
filiera industriale per produrre i componenti elettronici è formata da decine
di processi e necessita di centinaia di materiali chimici.
Alcuni dei passaggi chiave della catena sono
in mano alle grandi aziende statunitensi e taiwanesi, con altri Paesi asiatici
che sono riusciti a ritagliarsi un ruolo importante, come la Corea del Sud ed
il Giappone.
Lo
sviluppo di un microchip può essere suddiviso in quattro macro-fasi:
la prima è la progettazione del singolo
componente, in base all’impiego;
la seconda fase è la produzione primaria, cioè
il processo di incisione del silicio per ricavare il chip;
la terza fase è la produzione secondaria,
durante la quale più chip vengono impacchettati a formare componenti
elettronici come i circuiti integrati;
la
quarta fase è l’integrazione, in cui i componenti vengono assemblati per
formare apparecchi utilizzabili, come una scheda elettronica di un computer.
Le
aziende statunitensi “Intel”, “Nvidia” e “Qualcomm” sono le più importanti nel
settore della progettazione:
dominano
il mercato e hanno la capacità di progettare i microchip con le più elevate
prestazioni, come quelli usati per sviluppare i modelli di intelligenza
artificiale.
Le
fasi di produzione sono invece in mano alle aziende di Taiwan;
in particolare la “Tsmc”, che ha gran parte
dei suoi stabilimenti sul territorio taiwanese, produce circa il 60% di tutti
microchip venduti al mondo, e circa il 90% di quelli ad alte prestazioni.
Da ciò
ne deriva che l’economia moderna si basa sugli impianti di produzione di un
Paese al centro della disputa geopolitica tra Stati Uniti e Cina:
Taiwan, il quale in futuro potrebbe essere il
luogo di scontro militare tra le due superpotenze.
Questo
elemento rende molto fragile la catena di produzione dei microchip e da qualche
anno sia l’Unione Europea sia gli Stati Uniti stanno provando ad aumentare la
loro autonomia.
I
Paesi europei soddisfano solo circa il 10% del proprio fabbisogno di
semiconduttori con la produzione interna, che consiste in larga parte di
componenti a medie o basse prestazioni;
il resto arriva dall’altra parte dell’oceano.
Durante la pandemia del Covid è apparso
evidente che in questo scenario non solo le dispute geopolitiche, ma anche i
problemi logistici, come la chiusura di alcuni porti, possono mettere in
ginocchio l’approvvigionamento di componenti essenziali.
L’Europa
sta cercando di rimediare, provando a portare in casa parte della capacità
produttiva di microchip.
Ma la fase di produzione non è tutto.
Analizzando i processi della catena, è
evidente che Taiwan e gli Stati Uniti abbiano un ruolo centrale e
indispensabile, tuttavia esistono numerosi sotto processi e componenti
ausiliari in cui i Paesi europei possono giocare un ruolo di primo piano.
Gli
stabilimenti taiwanesi e sudcoreani hanno bisogno di macchinari ad altissime
prestazioni prodotti in Europa per incidere il silicio, e lo stesso vale per i
componenti chimici necessari al processo.
In
questo contesto, l’elevata complessità dell’ecosistema di produzione diventa un
vantaggio, in quanto è ragionevole pensare che nessuna singola azienda o
singolo stato riusciranno mai a controllare tutta la catena, dall’inizio alla
fine.
Quindi
la strategia europea dovrebbe muoversi su due binari:
da un
lato è saggio recuperare terreno in alcuni settori, come la produzione e la
progettazione, in modo che l’Europa non resti ostaggio delle dinamiche
geopolitiche o dei problemi logistici del commercio mondiale;
d’altro
canto, è necessario investire in quelle nicchie di processo talvolta meno
evidenti ma indispensabili alla produzione di microchip, in cui i Paesi europei
hanno già dei ruoli di rilievo.
Il
Chips Act europeo e l’aiuto esterno.
La
Commissione Europea ha varato nel 2023 la direttiva” Chips Act”, con la quale
sono stati stanziati 43 miliardi di euro fino al 2030, con l’obiettivo di
stimolare gli investimenti nel settore della produzione di chip e
dell’innovazione di processo.
Per
recuperare il tempo perduto, i Paesi europei avranno ancora bisogno della
collaborazione delle grandi aziende statunitensi e asiatiche.
Nel
corso del 2023 l’americana “Intel” ha presentato un piano di investimenti da 88
miliardi di dollari in Europa, da suddividere in diversi progetti.
Il più
importante sarà un impianto di produzione a “Magdeburg”, in Germania,
finanziato dal governo tedesco con 11 miliardi di euro, a cui si aggiungono 30
miliardi forniti da “Intel”.
In
aggiunta, l’azienda della Silicon Valley investirà circa 12 miliardi per
l’ampliamento del suo stabilimento a “Leixlip”, in Irlanda, unico stabilimento
per la produzione di microchip ad alte prestazioni già attivo in Europa.
Infine,
sempre “Intel” ha presentato un progetto per realizzare un sito in Polonia, in
cui saranno testati i componenti innovativi prodotti negli altri stabilimenti
europei.
Anche “Nvidia”,
leader nella progettazione di microchip per l’”Ia”, ha introdotto investimenti
in Europa, in particolare in società che si occupano di sviluppare modelli di
intelligenza artificiale, come la francese” Mistral AI” e l’incubatore di
start-up tedesco “Ai Accelerator”.
Tuttavia,
l’aiuto americano non deve essere dato per scontato.
Gli Stati Uniti, sin dalla prima presidenza di
Donald Trump, stanno provando ad essere meno dipendenti dalle aziende di
Taiwan, a causa delle tensioni con Pechino.
In questo contesto, Washington sta cercando
Paesi alleati che possano sostituire almeno in parte Taiwan, nel sud-est
dell’Asia e in Europa.
Allo
stesso tempo, con la presidenza di “Joe Biden”, gli Stati Uniti hanno reso la
produzione di microchip una questione di sicurezza nazionale, quindi è
probabile che vogliano mantenere le tecnologie più efficienti ed avanzate in
casa.
Inoltre, con il ritorno di “Trump” gli
investimenti verso l’estero potrebbero essere in qualche modo ostacolati, per
favorire la rinascita dell’industria interna.
Le Big
Tech europee, un punto di partenza.
Il “Chips
Act” ha già attratto investimenti da colossi come” Intel” e “Tmsc”, che
porteranno parte delle loro competenze in Europa.
Ma
bisogna restare realisti:
è molto improbabile che Taiwan ceda il suo
vantaggio tecnologico, su cui basa anche la propria posizione geopolitica nel
mondo.
“Tmsc”
investe dagli anni ’80 nei semiconduttori ed i Paesi europei impiegheranno
decenni a recuperare nel processo di produzione, quindi nel frattempo
dovrebbero concentrarsi sui loro punti di forza:
i componenti ausiliari, i materiali chimici e
i sotto processi.
Una
delle critiche mosse al “Chips Act” è proprio di aver tralasciato lo sviluppo
dei cavalli di battaglia dell’Europa.
Facciamo
quindi una panoramica delle Big Tech europee nel campo dei microchip.
L’”Asml” è un’azienda olandese, con sede a
“Veldhoven”, che sviluppa macchine per la litografia ultravioletta estrema
(Euv).
In
pratica, sono dei macchinari che permettono di tagliare il silicio con
incisioni dell’ordine dei nanometri, con cui si realizzano i chip più avanzati
al mondo.
Tra i
clienti principali di “Asml c’è proprio la “taiwanese Tsmc”, che senza questi
macchinari non potrebbe produrre nulla.
Poi
abbiamo la “Carl Zeiss Smt”, azienda tedesca leader nella realizzazione di
strumenti ottici come specchi e lenti, indispensabili per i macchinari che
creano i microchip.
Per
quanto riguarda i materiali e i precursori chimici, le eccellenze del mercato
sono” Merck” e “Basf”, con sede in Germania, leader mondiali nella fornitura di
elementi chimici e polimeri necessari per i semiconduttori, insieme alla
giapponese “Jsr.”
Ognuna di queste aziende ricopre un ruolo
indispensabile per l’economia globale dell’elettronica.
l’Italia
a che punto è in questo scenario?
L’azienda
più importante nel settore con sedi italiane è l’italo-francese “STMicroelectronics”,
che ha due siti di produzione, uno in provincia di Milano e l’altro nel
catanese.
Insieme
alla tedesca” Infineon” e all’olandese” Nxp”, è una delle poche aziende europee
con capacità produttive avanzate, e di recente ha ricevuto un finanziamento dal
governo di Roma di circa cinque miliardi
di euro per ampliare la sede produttiva di Catania.
Quanto
descritto finora ci porta a due conclusioni.
Gli investimenti spinti dalla Commissione
Europea nel settore della produzione di microchip sono utili, ma porteranno dei
frutti nel lungo termine e con molta difficoltà daranno un’elevata autonomia ai
Paesi europei.
Gli
impianti produttivi in Europa devono essere pensati più come un supporto nel
caso di gravi emergenze di approvvigionamento a livello globale.
In
secondo luogo, l’industria dei microchip ha una struttura che costringe i Paesi
del mondo a interfacciarsi tra loro, che lo vogliano o meno:
essere completamente autonomi sarebbe una
chimera, anche per gli Stati Uniti, Taiwan o la Cina.
I Paesi europei devono sfruttare questa
complessità per provare a rendersi indispensabili in alcuni punti della catena
e ottenere così una leva da sfruttare nel campo dell’innovazione digitale,
energetica e della difesa.
Big
Tech, perché è l’IA
la
grande nube sul futuro.
Agendadigitale.eu
- analisi di Umberto Bertelè – (8 maggio
2024) – ci dice:
(Umberto
Bertelè - professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital
Innovation Politecnico di Milano).
Pesano
sulle maggiori imprese tech le accuse di comportamenti monopolistici e la reale
valenza economica dell’intelligenza artificiale generativa, al momento
difficile da valutare, su cui le top six stanno facendo grosse scommesse.
Un’analisi delle reazioni del mercato alle
trimestrali e dei fattori che potrebbero avere influenza sul futuro.
Big
tech.
Apple
è stata l’ultima fra le “big five” a presentare la trimestrale – il 2 maggio –
due giorni dopo quella di Amazon. Nella settimana precedente era stata Meta ad
“aprire le danze” il 24 aprile, seguita il 25 da Microsoft e Alphabet.
Mentre
Nvidia, l’ultima – aggiungendosi alle “big five” – a essere entrata nel club
delle imprese con la maggior capitalizzazione al mondo , farà la sua
presentazione il 22 maggio.
I
risultati – come ampiamente discusso sulla stampa (per le prime tre anche da me
su Agenda Digitale) – sono stati tutti in linea con le aspettative degli
analisti, quando non le hanno superate, e con poche eccezioni in crescita
rispetto a un anno fa.
Ma non
intendo con questo articolo ritornare sui dettagli dei risultati del I
semestre, né su quelli delle aspettative sul semestre in corso.
Indice
degli argomenti:
I due
fattori che pesano sul futuro delle big tech.
Quasi
“calma piatta” nelle valutazioni sul mercato delle big five prima e dopo le
trimestrali.
Perché
Meta è stata “punita”
…e
perché Apple e Google sono state premiate.
La
minacciosa ombra dell’antitrust statunitense sul futuro delle big four.
La
grande incognita: la reale valenza economica dell’IA generativa.
I due
fattori che pesano sul futuro delle big tech.
Voglio
piuttosto dare uno sguardo d’insieme a come il mercato finanziario ha
complessivamente reagito alle presentazioni stesse e soffermarmi su due
importanti tematiche, oggetto di attenzione della grande stampa economica
internazionale nei giorni scorsi, che potrebbero avere rilevanti impatti sul
futuro delle big five (o se si allarga il discorso a Nvidia di quelle che io
chiamo le top six):
l’esito
delle accuse di comportamenti monopolistici contro quattro di esse, da parte
delle due authority in cui si articola l’antitrust statunitense (il Justice
Department e la FTC-Federal Trade Commission), che inizierà a vedersi nelle
prossime settimane o mesi con la sentenza del giudice federale – a dibattito
ormai concluso – sulle accuse a Google di aver costruito un monopolio nel
search:
il più importante caso antitrust dopo la
chiusura, circa un quarto di secolo fa, del celebre caso Microsoft (che nella
prima sentenza prevedeva addirittura la spaccatura in due tronconi di Microsoft
stessa);
la
reale valenza economica dell’intelligenza artificiale generativa, al momento
difficile da valutare, su cui le top six stanno facendo grosse scommesse con
investimenti annui che per alcune di esse superano i 50 miliardi di dollari.
Quasi
“calma piatta” nelle valutazioni sul mercato delle big five prima e dopo le
trimestrali.
Uno sguardo
alle differenze nelle valutazioni di mercato delle” big five” – nonché di “Nvidia”
– fra il 3 maggio (giorno successivo all’ultima presentazione) e il 12 aprile
(data che ho scelto a caso precedente alla prima) mette in luce che:
le
variazioni, soprattutto se considerate in termini percentuali, sono state
relativamente modeste: a testimonianza del fatto che i risultati presentati –
anche quando inferiori (come alcuni numeri di Apple) ai corrispondenti
dell’anno precedente – sono stati quasi sempre un po’ superiori rispetto alle
previsioni degli analisti
le
crescite e i cali di valore si sono almeno in parte compensati, per cui la
somma delle variazioni delle big five e ancor più quella delle top six sono
inferiori all’1%;
Meta
appare come l’impresa più punita (- 12,2%), nonostante i brillanti risultati
del trimestre;
Alphabet-Google
(+ 5,6%) e
Apple (+ 3,7%), quest’ultima nonostante i risultati non tutti brillanti,
appaiono invece come le più premiate;
Microsoft
(- 3,5%)
appare tra i puniti, ma in realtà – da quando pochi mesi fa ha soppiantato
Apple ai vertici – ha una capitalizzazione che continua ad oscillare attorno
alla soglia dei 3 trilioni;
Amazon (- 1,5%) ha anch’essa una
capitalizzazione che continua ad oscillare, dopo il notevole balzo fatto in
precedenza, poco sotto la soglia dei 2 trilioni.
Perché
“Meta” è stata “punita.”
Perché
Meta è stata sensibilmente colpita, dopo il successo della presentazione di
febbraio e i buoni risultati annunciati?
Due le
cause:
la
prima: i
dubbi espressi in sede di presentazione sull’andamento del trimestre in corso,
a fronte delle attese positive delle altre 4;
la
seconda,
forse di impatto maggiore: l’annuncio dell’innalzamento degli investimenti
previsti per l’anno a 40 miliardi di dollari – parte nell’IA generativa e parte
nella realtà virtuale/aumentata e nella costruzione dell’avatar-filled
metaverse – investimenti giudicati incerti nei ritorni ed eccessivi se
rapportati a ricavi e utili. Duro il giudizio del Financial Times a tale
proposito, sulla “monetizzabilità” dei primi (“AI is a multibillion-dollar
project with no clear timeline for revenues”) e sulle continue perdite (3,85
miliardi di $ nel solo I trimestre e destinate a crescere) della divisione
Reality Labs che gestisce i secondi.
…e
perché Apple e Google sono state premiate
Perché
sono state premiate Alphabet-Google e ancor più – nonostante il robusto calo di
vendite dell’iPhone – Apple? Due motivazioni, una più legata alle prospettive
di business annunciate e l’altra legata a quella che potremmo definire una
captatio bene volentia e degli azionisti.
Alphabet
è sicuramente piaciuta per la forte determinazione che continua a mostrare nel
perseguimento dell’efficienza, anche con frequenti tagli mirati del personale
che fanno seguito a quelli massicci precedenti;
Apple
ha promesso, in risposta alle frequenti accuse sui suoi ritardi nell’IA
generativa, annunci a breve sui progetti in fase di lancio – “ (Tim Cook si è
mostrato ottimista sulle prospettive delle nuove funzioni di intelligenza
artificiale generativa che incrementeranno le vendite di hardware e ha promesso
maggiori dettagli nelle prossime settimane”, in FT “Apple shares rise as
revenue falls less than feared despite rocky quarter”) – e ha espresso
ottimismo sull’andamento del semestre in corso; ambedue hanno giocato, come
detto, la carta della captatio bene volentia e con gli azionisti:
confermando” Alphabet” la fissazione a 70
miliardi di dollari del buyback e portandolo a 110 miliardi Apple;
elevando”
Apple” i dividendi e introducendoli per la prima volta” Alphabet” (la stessa
operazione fatta da Meta in occasione della trimestrale precedente con una
forte crescita del titolo).
La
minacciosa ombra dell’antitrust statunitense sul futuro delle “big four.”
Parlo
un po’ impropriamente di “big four” nel titolo perché Microsoft, dopo la
durissima battaglia con l’antitrust conclusasi un quarto di secolo fa, è
l’unica delle “big five” a non essere sotto attacco né da parte dal “Justice
Department “né dalla “FTC”.
Ma il
tema dei pericoli potenzialmente derivanti alle altre quattro dalle cause in
corso, che sembra al momento essere quasi ignorato dai mercati, sta diventando
molto rilevante:
e
questo perché dopo i lunghi anni che ciascuna di queste procedure richiede, la
prima sentenza – quella relativa all’accusa di monopolio nel “search” a “Google
“(che coinvolgerà anche Apple per la posizione di motore di ricerca by default
sull’iPhone garantita alla stessa Google a fronte di un pagamento annuo che
sembra essere pari a 20 miliardi di dollari) avanzata dal Justice Department – potrebbe essere
emessa a breve dal giudice federale cui è stata affidata la decisione.
(Il caso antitrust degli Stati Uniti contro
Google è solo l’inizio: Mentre il caso del Dipartimento di Giustizia contro
Google si avvicina alla fine, il governo federale ha in cantiere altre cause
per cercare di controllare le Big Tech.) è il titolo di un articolo di “The New
York Times” del 3 maggio, che fa anche un elenco delle altre cause in corso, da
parte del “Justice Department”:
la
seconda contro Google, relativa in questo caso a pratiche monopolistiche
nell’advertising,
quella
recente contro Apple, accusata di comportamenti monopolistici nella gestione
dei servizi legati all’iPhone: (“Apple ha impedito alle aziende di offrire
applicazioni in concorrenza con i prodotti Apple, come le app di streaming
basate su cloud, la messaggistica e il portafoglio digitale”);
e da
parte della FTC,
contro
Amazon, con l’accusa di (“proteggere un
monopolio comprimendo i venditori sul suo vasto mercato e favorendo i propri
servizi”), nonché di aver arrecato danni ai consumatori, provocando in certi
casi prezzi artificialmente più alti impedendo ai venditori operanti sul suo
sito di offrire gli stessi prodotti a minor prezzo su altri siti;
contro
Meta, con
l’accusa di aver creato un monopolio nei social media con l’acquisizione
(peraltro all’epoca autorizzata dalle authority antitrust su scala mondiale) di
Instagram e WhatsApp e di aver così privato i consumatori di piattaforme
alternative a quella di Meta stessa: un’accusa bloccata dal giudice federale,
per l’assenza di una chiara definizione dei confini del monopolio, ma non
respinta definitivamente per la concessione fatta a FTC di poter riformulare
l’accusa.
La
sentenza relativa al primo caso Google è ritenuta particolarmente importante
non solo per sé, ma per l’influenza che essa potrà avere, nell’accettare o
respingere le diverse motivazioni e nello stabilire i cosiddetti “rimedi”,
sulle cause discusse successivamente.
Credo
interessante a tale scopo riportare alcuni orientamenti del giudice federale,
emersi dal dibattito appena concluso e tratteggiati nel recentissimo articolo
di The Wall Street Journal “ (“Il verdetto dell’Antitrust su Google incombe.
Ecco cosa aspettarsi: Un giudice federale potrebbe emettere una sentenza
quest’estate sul caso storico del governo”).
Il
giudice federale:
sul
tema fondamentale della definizione dei confini del mercato in relazione al
quale valutare la posizione più o meno monopolistica, ha condiviso la
definizione più ristretta – e vorrei dire più usuale – del “Justice
Department”, in cui “Google” appare con una quota del 90 per cento, a fronte di
quella allargata di Google stessa, che vede tra le possibili fonti di
informazione alternative al suo motore di ricerca (e a quelli direttamente
concorrenti come Bing di Microsoft) “the social media app TikTok, the retailer
Amazon, or travel booking sites such as Expedia”;
è
apparso molto apprezzativo nei riguardi degli investimenti e delle innovazioni
apportate da Google, dichiarando esplicitamente (“Credo che nessuno contesti il
fatto che la ricerca oggi sia molto diversa da quella di 10-15 anni fa e che
gran parte di questo, o parte di questo, sia attribuibile a Google e ai suoi
continui sforzi per innovare la ricerca”).
Ed è apparso condividere anche la tesi di
Google che la posizione dominante nel “search” può essere attribuita ai “savvy
early investments in smartphone technology” (“investimenti tempestivi nella
tecnologia degli smartphone”), che come emerso dalle testimonianze colsero di
sorpresa Microsoft, aggiungendo (“Non è anticoncorrenziale il fatto che Google
sia stata abbastanza intelligente da salire sul carro dei cellulari prima di
Microsoft”);
ha
riconosciuto che l’accordo con Apple rappresenta un limite alla competizione,
ma ha anche provocatoriamente chiesto al rappresentante del “Justice Department
“che cosa Google avrebbe dovuto fare a fronte dell’offerta di condivisione dei
ritorni da parte di “Apple” (“Non
avrebbero dovuto competere? Avrebbero dovuto rimanere in disparte? Avrebbero
dovuto abbassare la loro offerta di rev-share [accordo di condivisione dei
ricavi]?)”.
Una
ultima osservazione è opportuna sull’impatto che una possibile/probabile
sentenza, che comporti la cessazione dell’accordo di condivisione dei ritorni,
potrebbe avere su Apple:
un
impatto penso pesante, perché i 20 miliardi annui ora versati da Google sono
pari a un quinto circa dell’utile netto di Apple e perché non credo che sarà
facile per Apple sostituirli, se non in misura molto più ridotta, se non vuole
rischiare accuse di comportamenti anti competitivi.
La
grande incognita: la reale valenza economica dell’”IA generativa”.
La
sensazione che ho, quando si parla di “IA generativa”, è che spesso si guardi
più (con un ottimismo non raramente venato di conflitti di interesse) a quello
che l’IA generativa può o potrebbe permettere di fare che non alla valenza
economica del suo utilizzo e/o degli investimenti in infrastrutture materiali e
immateriali che ne permettano/agevolino l’utilizzo.
È
comprensibile che ciò si faccia per una tecnologia in continua evoluzione, ma –
più elevati sono gli investimenti richiesti per “rimanere in gara” in un
comparto che tenderà presumibilmente a selezionare i suoi protagonisti – più il
tema della valenza economica diventa importante.
E gli
investimenti al momento rappresentano la voce più certa, a fronte viceversa
della forte incertezza sui ritorni:
sulla loro consistenza e sui tempi di
“payback”.
E sono
investimenti molto rilevanti, dice “Richard Waters” (FT’s west coast editor) in
un suo recente articolo focalizzato sulle “tre big tech” – “Amazon”,
“Microsoft” e “Alphabet-Google” – titolari delle infrastrutture di “cloud
computing” ai primi tre posti nel mondo,
evidenziando
come la somma delle spese in conto capitale delle tre quest’anno supererà i 150
miliardi di dollari, 40 in più rispetto all’anno precedente, mentre i ricavi
per Microsoft – la più attiva delle tre – attribuibili alla presenza nell’”AI
generativa” (essenzialmente gli aumenti indotti nel fatturato del cloud) sono
stimati in non più di 4 miliardi;
evidenziando
anche come, in mancanza di certezze sui ritorni, esse cerchino di ridurne
l’impatto “visivo” sul mercato (Alphabet-Google ha ad esempio prolungato i
tempi di ammortamento) e/o di giustificarli con i picchi di utilizzo a
breve-medio termine (non necessariamente sostenibili nel tempo) legati
all’istruzione dei nuovi sistemi di IA e alla sperimentazione da parte delle
imprese e istituzioni potenzialmente utilizzatrici;
aggiungendo
la considerazione (“capire dove la tecnologia sta iniziando a produrre
risultati aziendali reali – e dove non lo sta facendo – sarà fondamentale per
distinguere i vincitori dell’IA dai perdenti dell’IA nei prossimi mesi e
anni”.).
Ai 150
miliardi delle tre si devono aggiungere i 40 circa (rispetto ai 28 del 2023) di
“Meta” visti in precedenza, in parte però destinati al” metaverso “e alla
VR/AR, che sono costati a” Meta” stessa la caduta in Borsa.
Va notato a tale proposito che “Meta”, non
disponendo di un suo cloud, ha più difficoltà al momento nel trovare una
semplice via di monetizzazione.
“Apple”,
di cui come detto non sono stati ancora esplicitati i progetti né quantizzati
gli investimenti, seguirà presumibilmente una strada diversa, che le permetta
allo stesso tempo di monetizzare e di rilanciare l’immagine di qualità
tecnologica e le vendite degli iPhone:
introdurre
l’”IA generativa “negli “iPhone” stessi, nonché in alcuni degli altri
dispostivi che fanno parte del suo portafoglio prodotti-servizi.
Una
strada per certi versi obbligata, se non vuole farsi precedere in questa mossa
da “Samsung” e dai sempre più agguerriti concorrenti cinesi.
“Nvidia”
è fra le” top six” l’unica ad avere più certezze sul mercato, anche se la sua
attuale posizione quasi monopolistica potrebbe essere soggetta a erosioni, sia
per l’emergere di concorrenti (fra cui le stesse” big five” che cercano di
aumentare la quota di microprocessori fatti in casa) sia per le modifiche nella
composizione della domanda (dovuta alle minori prestazioni richieste ai
microprocessori nelle fasi di utilizzo dei modelli di AI rispetto a quelli
indispensabili per la loro istruzione).
The
Donald e le Big Tech.
Azionecattolica.it
– Antonio Martino – (20-01- 2025) – ci dice:
Oggi
si insedia Donald Trump. È tempo di interrogarsi sul potere delle Big Tech di
manipolare le democrazie.
Nel
giorno dell’insediamento di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti, la
riflessione sul rapporto tra Democrazia e Big Tech (Apple, Amazon, Google,
Facebook, Microsoft per citare le prime cinque) si fa quanto mai urgente e
necessaria.
Le grandi piattaforme digitali hanno avuto un
ruolo fondamentale non solo nel plasmare l’opinione pubblica, ma anche
nell’influenzare le dinamiche politiche e sociali di intere nazioni.
Ma
qual è il prezzo di questa influenza?
Le “Big
Tech” con il loro controllo su strumenti come i social media, i motori di
ricerca e le infrastrutture di comunicazione, sono diventate il nuovo spazio
pubblico globale.
Piattaforme
come la già citata “Facebook”, come “X” (già Twitter) o come il colosso” Google”
non sono più semplici aziende tecnologiche;
esse
si configurano come arbitri del discorso pubblico, selezionando, amplificando o
oscurando informazioni.
Questo
potere, spesso esercitato senza trasparenza e con una regolamentazione
insufficiente, solleva interrogativi profondi sulla natura della democrazia nel XXI
secolo.
L’uso
e L’abuso dei dati personali.
Uno
degli aspetti più inquietanti è la capacità delle Big Tech di manipolare i
comportamenti individuali attraverso l’uso dei dati personali.
Gli
algoritmi, progettati per massimizzare l’engagement, tendono a privilegiare
contenuti polarizzanti e sensazionalistici, creando camere d’eco che rafforzano
le convinzioni esistenti e radicalizzano le opinioni.
Questo
fenomeno non solo alimenta la divisione sociale, ma mina anche la capacità
degli individui di formarsi un’opinione informata, elemento cardine della
democrazia.
Inoltre,
la mancanza di responsabilità delle piattaforme è emersa chiaramente in episodi
come lo scandalo “Cambridge Analytica”, che ha rivelato come i dati personali
di milioni di utenti siano stati utilizzati per influenzare elezioni in diverse
parti del mondo.
Questo
ha dimostrato che le Big Tech non solo riflettono il potere politico, ma lo
modellano attivamente, spesso a vantaggio di interessi economici o ideologici
specifici.
Tecnocrazia:
il vero nemico della democrazia.
A
complicare ulteriormente il quadro è il concetto di tecnocrazia, ovvero un
sistema di governance in cui il potere decisionale è affidato a esperti tecnici
e tecnologi, piuttosto che a rappresentanti eletti.
In un
mondo dominato dalle Big Tech, il rischio di una tecnocrazia digitale è sempre
più concreto:
le decisioni che influenzano milioni di
persone vengono prese da un ristretto gruppo di individui o aziende, spesso
senza il coinvolgimento diretto dei cittadini. Questo fenomeno riduce
ulteriormente lo spazio per il controllo democratico e alimenta una crescente
disuguaglianza di potere.
Le
democrazie, tradizionalmente fondate sul principio di rappresentanza e sul
dialogo informato, si trovano oggi a fare i conti con una nuova forma di
potere, non elettivo e transnazionale, che sfugge ai tradizionali meccanismi di
controllo democratico.
Le Big Tech operano su scala globale, mentre
le normative e le istituzioni democratiche sono per lo più locali o nazionali,
creando uno squilibrio che è difficile da colmare.
Tuttavia,
ciò non significa che il futuro sia privo di speranza.
Per
ristabilire un equilibrio tra democrazia e tecnologia, è necessario un
approccio collettivo e multilaterale.
Occorre promuovere una regolamentazione che
garantisca maggiore trasparenza sugli algoritmi, protezione dei dati personali
e responsabilità delle piattaforme per i contenuti che ospitano.
Parallelamente,
è fondamentale educare i cittadini a un uso critico e consapevole delle
tecnologie digitali, rendendoli partecipi di un dibattito pubblico più
inclusivo e informato.
Gaza:
Israele Revoca il Blocco,
Aiuti
con il Contagocce e Dopo
Riconoscimento Facciale.
Conoscenzealconfine.it
– (20 Maggio 2025) - Claudia Carpinella – ci dice:
Israele
ha approvato la ripresa immediata – seppur centellinata – degli aiuti a Gaza.
Dopo
77 giorni di fame e sete, il gabinetto di sicurezza israeliano ha deciso di
revocare il blocco degli aiuti, imposto deliberatamente dallo scorso 2 marzo.
Secondo
quanto riportato dal “Jerusalem Post”, la decisione è stata presa senza alcuna
votazione formale, scatenando l’ira di diversi ministri contrari, tra cui “Bezalel
Smotrich”, che ha ribadito con forza la sua posizione:
“Non deve entrare nemmeno un chicco di grano
nella Striscia.”
Le
Forti Pressioni degli Stati Uniti.
L’ufficio
del primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che la decisione “è stata
presa per agevolare l’espansione dell’esercito israeliano a Gaza” – una
motivazione che, si legge su “Al Jazeera”, risulta priva di logica e che
suggerisce altro.
Appare
dunque più che plausibile che questa svolta sia il risultato delle forti
pressioni esercitate dagli Stati Uniti.
Nei
giorni scorsi, l’inviato speciale USA “Steve Witkoff” aveva infatti affermato
che “Donald Trump” considera gli aiuti a Gaza una priorità urgente, affidando al suo team il compito di
“fare tutto il possibile per accelerare il processo e garantire l’arrivo rapido
degli aiuti umanitari alla popolazione.”
Come
riferisce “Haaretz”, Israele si impegnerà a fornire “una quantità di base di
cibo per la popolazione”, per evitare l’insorgere di una carestia nella
Striscia.
Tali
dichiarazioni sollevano però gravi interrogativi, in primis perché, come
riportato dalle stesse Nazioni Unite, già 57 bambini sono morti di fame da
quando Tel Aviv ha imposto il blocco degli aiuti.
La
Distribuzione Selettiva e l’IA.
Gli
aiuti umanitari che torneranno a entrare saranno inizialmente distribuiti
attraverso diverse organizzazioni internazionali, come avveniva prima della
scellerata chiusura di 77 giorni.
Tuttavia, questa modalità di gestione cambierà
radicalmente a partire dal 24 maggio, quando entrerà in vigore il controverso
piano di distribuzione approvato da Israele giovedì scorso – secondo quanto
riferisce il “Jerusalem Post”.
Il
Governo israeliano, infatti, ha varato un piano che impone nuove e severe
restrizioni alla distribuzione di aiuti umanitari e forniture alimentari a
Gaza.
Tra le misure più deplorevoli, figura
l’introduzione dell’obbligo di riconoscimento facciale per i beneficiari.
Il
piano prevede inoltre la chiusura di centinaia di mense e centri di soccorso in
tutto il territorio, restringendo l’approvvigionamento alimentare ad un’unica
zona militare israeliana nel sud di Gaza.
Una
scelta già fermamente condannata dalle Nazioni Unite, poiché – si legge in una
nota ufficiale – “contravviene ai principi umanitari fondamentali.”
“I
palestinesi dovrebbero recarsi in questi luoghi, registrarsi ed essere
sottoposti a controllo tramite tecnologia di riconoscimento facciale.
Ritirerebbero
i pacchi destinati alle loro famiglie”, ha spiegato il giornalista di “NPR”, “Daniel
Estrin”.
Il
Piano per Espandere il Controllo sulla Striscia.
Dal
canto suo, Israele afferma che il piano mira a impedire ad Hamas di accedere
agli aiuti umanitari.
Tuttavia, “Estrin” ha citato un funzionario
israeliano secondo cui, tale modus operandi: “Fa in realtà parte di una strategia
più ampia per spingere la popolazione civile palestinese a trasferirsi in massa
in un’area più piccola e concentrata di Gaza, in modo da permettere
all’esercito di espandere il territorio sotto il proprio controllo.”
Già lo
scorso marzo, il “New York Times” aveva riportato che Israele ha implementato
sistemi di riconoscimento facciale a Gaza, utilizzando tecnologie dell’azienda
privata israeliana “Corsight”, oltre a strumenti comuni come Google Foto.
Sin
dalle prime ore del genocidio, Israele ha fatto largo uso dell’intelligenza
artificiale:
prima
con il sistema di “targeting Lavender “– che ha contrassegnato migliaia di
gazawi come obiettivi sospetti da assassinare – e ora anche per selezionare chi
potrà accedere agli aiuti umanitari.
Un
impiego non solo immorale, ma anche fallace nel suo obiettivo distorto e
disumanizzante, dal momento che – come confermato dagli stessi soldati
israeliani – l’IA ha più volte scambiato civili per militanti di Hamas.
(Claudia
Carpinella).
(it.insideover.com/guerra/gaza-israele-revoca-il-blocco-aiuti-con-il-contagocce-e-dopo-riconoscimento-facciale.html).
"Nessun
arricchimento significa nessun accordo."
Trump
usa la richiesta illegittima come pretesto
per la guerra all'Iran.
Unz.com - Mike Whitney – (20 maggio 2025) – ci dice:
Abbiamo
una linea rossa molto, molto chiara: l'arricchimento.
Non possiamo permettere nemmeno l'1% della
nostra capacità di arricchimento ", ha dichiarato “Steve Witkoff”, inviato
speciale degli Stati Uniti, nel programma "This Week" della “ABC”.
"Pretendere
l'arricchimento zero dell'uranio significa NESSUN ACCORDO" , ha dichiarato
il ministro degli Esteri iraniano” Sayed Abbas Araghchi”.
Avresti
potuto notarlo da un miglio di distanza.
Il
presidente Trump, che ha sabotato l'accordo nucleare più rigoroso e completo
della storia (il JCPOA), ha ordinato al suo inviato speciale di fare un
annuncio a sorpresa che supera tutte le "linee rosse" dell'Iran e
rende inevitabile la guerra tra Stati Uniti e Iran.
Chiunque
abbia un briciolo di cervello avrebbe potuto capire che questa era la strategia
fin dall'inizio.
Proprio come Washington ha incoraggiato Kiev a
intensificare i bombardamenti del Donbass, costringendo Putin a inviare truppe
russe in Ucraina, allo stesso modo Washington ha attirato Teheran nei
"colloqui" nucleari con la chiara intenzione di creare un pretesto
per scatenare una guerra contro l'Iran.
In
entrambi i casi, i pianificatori di guerra statunitensi hanno "spostato
mari e monti" per far sembrare che la parte avversa avesse provocato il
conflitto, quando, in realtà, Washington ne era il principale istigatore.
Lasciate
che vi spieghi:
Domenica,
l'inviato speciale degli Stati Uniti “Steve Witkoff” ha dichiarato quanto segue
nel programma "This Week" della “ABC “:
"Abbiamo
una linea rossa molto, molto chiara, ed è l'arricchimento. Non possiamo permettere
nemmeno l'1% di una capacità di arricchimento".
Punto.
I
commenti di “Witkoff” richiedono un'analisi approfondita e imparziale,
principalmente perché sono concepiti con un unico scopo in mente:
sabotare
i colloqui sul nucleare.
Non c'è altra spiegazione.
L'amministrazione
Trump e chiunque abbia seguito questa questione negli ultimi quindici anni sa
che la linea rossa più grande e più evidente per l'Iran è l'arricchimento.
Nei
quattro incontri che si sono svolti in Oman da aprile, ai negoziatori
statunitensi è stato detto esplicitamente che l'arricchimento nucleare era
"non negoziabile" e "fuori discussione."
In altre parole, hanno concordato che la
questione non sarebbe stata discussa o nemmeno sollevata. (Non negoziabile
significa non negoziabile.)
Quindi,
dobbiamo supporre che il motivo per cui “Witkoff” ha deciso di fare questo
annuncio inaspettato sia stato perché voleva silurare i negoziati o perché non
capisce l'inglese semplice.
Quale
delle due?
Pensiamo
che” Witkoff” capisca l'inglese semplice, anzi, ne siamo certi.
Allora, qual era il suo movimento; perché ha
deciso di consegnare questa bomba alla TV nazionale a un pubblico americano
invece che ai negoziatori iraniani che lo avrebbero sfidato sulla questione?
Perché?
Ci può
essere solo una ragione;
Vuole sabotare i colloqui.
Vuole
costringere gli iraniani a porre fine agli incontri, in modo che sembri che non
cerchino sinceramente la pace.
Questo
è il modo in cui Trump e soci intendono ribaltare la situazione e far sembrare
che l'Iran sia il "cattivo".
Ancora
più importante, qualsiasi sospensione dei colloqui da parte dell'Iran sarà
utilizzata come giustificazione per gli attacchi aerei USA-Israele su obiettivi
in Iran. Trump ha già minacciato che, se i colloqui si fossero interrotti,
avrebbe scatenato l'inferno contro l'Iran.
“Witkoff
“ha ora gettato le basi per quegli attacchi.
Altri
analisti stanno iniziando a capire cosa sta succedendo dietro la cortina
fumogena dei colloqui sul nucleare.
Ecco come “Michael Tracey” ha riassunto la
situazione:
Se
qualcuno sospettava che lo scopo di questo esercizio di
"negoziazione" fosse quello di stabilire un punto finale impossibile
(umiliare la capitolazione iraniana) e poi, quando l'Iran si tira indietro, lo
usasse come pretesto per bombardare l'Iran ("Abbiamo cercato di negoziare
prima!") ci sono prove crescenti per i suoi sospetti.
Ha
ragione, no?
I
colloqui erano una "messa in scena" che era stata inventata per
creare una giustificazione per la guerra.
È
chiaro come il giorno.
Gran
parte della confusione dell'opinione pubblica su questo argomento è
attribuibile allo stesso” Witkoff”, che sembra un tipo affabile e credibile, la
cui posizione sull'arricchimento nucleare è identica a quella dei rabbiosi
guerrafondai "con la schiuma alla bocca" come “John Bolton” e “Mike
Pompeo”.
Pensateci per un minuto; la posizione di”
Witkoff” è la stessa di Bolton e Pompeo. Non c'è differenza.
Allora,
perché l'arricchimento nucleare è un affare così grande che l'Iran non ne vuole
nemmeno discutere?
Perché
gli iraniani sono molto orgogliosi e non permetteranno di essere trattati come
cittadini di seconda classe da gente come gli Stati Uniti e Israele. Ecco
perché.
Guardate:
il
diritto dell'Iran all'arricchimento nucleare non è un privilegio concesso da un
decreto esecutivo o da un editto presidenziale.
Si
tratta di un diritto fondamentale sancito dal diritto internazionale ai sensi
del “Trattato di non proliferazione nucleare.”
Il
presidente Donald Trump non ha l'autorità di vietare all'Iran di impegnarsi in
attività che non solo sono perfettamente legali ai sensi degli statuti del TNP,
ma anche affermate dalla clausola del "diritto inalienabile" del
trattato.
Le
persone curiose potrebbero voler leggere la sezione del trattato stesso per
corroborare ciò che stiamo dicendo qui:
L'articolo
IV del TNP e il diritto alla tecnologia nucleare
Articolo
IV Testo (sul diritto alla tecnologia nucleare):
Paragrafo
1:
"Nessuna
disposizione del presente Trattato può essere interpretata nel senso di
pregiudicare il diritto inalienabile di tutte le Parti del Trattato di
sviluppare la ricerca, la produzione e l'uso dell'energia nucleare per scopi
pacifici senza discriminazioni e in conformità con gli articoli I e II del
presente Trattato."
Paragrafo
2:
Incoraggia
la cooperazione nella condivisione della tecnologia nucleare per usi pacifici, in
particolare per i paesi in via di sviluppo.
Quale
parte dell'affermazione di cui sopra è ambigua?
Non
c'è nulla di ambiguo in questa affermazione.
L'Iran
ha chiaramente "il diritto inalienabile... sviluppare la ricerca, la
produzione e l'uso dell'energia nucleare per scopi pacifici senza
discriminazioni".
Ciò
significa che né Trump né nessun altro può ordinare selettivamente all'Iran di
smettere di fare ciò che è chiaramente consentito da un trattato riconosciuto a
livello internazionale.
E
dobbiamo anche prestare particolare attenzione al linguaggio che viene
utilizzato nel brano.
Il
trattato non si riferisce semplicemente ai "diritti" delle parti
partecipanti;
Si
riferiscono al "diritto inalienabile", il che significa che
l'arricchimento nucleare è un "diritto naturale fondamentale che non può
essere tolto o ceduto, né da un governo né da un individuo".
La
formulazione è stata formulata per evitare la situazione in cui ci troviamo
oggi in cui un despota impulsivo e prepotente abroga arbitrariamente le leggi
(e i diritti) che non si allineano con i suoi dubbi obiettivi politici.
Rifiutando
di rispettare l'editto esecutivo di Trump, l'Iran sta fondamentalmente
difendendo il sistema globale su cui si basa il diritto internazionale.
È un rifiuto dell'unilateralismo dal pugno di
ferro di Trump. Dovremmo tutti essere grati per la coraggiosa perseveranza
dell'Iran.
A
proposito, giusto per sottolineare l'ipocrisia di “Witkoff” su questo
argomento, ecco un breve video su Fox News in cui “Witkoff” afferma inequivocabilmente
che all'Iran sarebbe stato permesso di arricchire al 3,67%, una posizione che
ora respinge.
L'intervista è stata condotta ad aprile, un
mese prima che “Witkoff” vietasse tutte le attività di arricchimento.
Quali
conclusioni possiamo trarre da questo improvviso voltafaccia da parte
dell'amministrazione che ci ha messo tutti sulla strada della guerra?
Prima
di tutto, possiamo presumere che i negoziati USA-Iran siano stati impostati per
fallire, infatti, il piano per creare una giustificazione per la guerra
richiedeva che i colloqui fallissero.
In
secondo luogo, possiamo presumere che Trump – che si è presentato come un
oppositore degli interventi stranieri e che ha promesso "di cercare una
nuova era di pace, comprensione e buona volontà" – sta seguendo le orme
dei suoi predecessori fondai e non abbia alcuna intenzione di guerra di
mantenere la parola data al popolo americano.
E nel
terzo luogo, possiamo presumere che Trump si stia concentrando sull'Iran per
ripagare i ricchi miliardari sionisti che hanno riempito le sue casse
elettorali (con oltre 100 milioni di dollari) e lo hanno aiutato a vincere le
elezioni del 2024.
Non abbiamo mai creduto per un minuto che i
milioni di donazioni elettorali fossero stati dati senza "vincoli".
Bibi ei suoi alleati sionisti vogliono che gli
Stati Uniti guidino una guerra contro l'Iran, e Trump è l'uomo che può portare
quella guerra.
Tutto ciò di cui ha bisogno è un qualche tipo
di giustificazione credibile per lanciare i suoi attacchi preventivi che i
negoziati falliti forniranno.
Le big
tech sono nemiche delle
democrazie
o caschi blu digitali?
Garanteprivacy.it
- (MF, 8 marzo 2022) – Guido Scorza – ci dice:
Intervento
di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali.
Quando,
qualche giorno fa, la Russia ha invaso l'Ucraina dando il via alla più vicina e
drammatiche delle guerre per chi è nato dopo il secondo conflitto mondiale, le
Big Tech stavano vivendo, probabilmente, uno dei momenti più difficili della
loro storia.
L'incantesimo dell'Internet per tutti, aperta,
partecipata, nuova agorà globale era, ormai, finito da tempo e i regolatori di
mezzo mondo, inclusi quelli degli Usa, che pure ha dato i natali a tutte le
cosiddette Gagam (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft) erano impegnati
a richiamarle all'ordine, a cercare, in modi diversi, di ridimensionarle o,
almeno, ridimensionarne gli effetti, non solo, non tutti, non sempre positivi
prodotti sulla società, sui mercati e sulle democrazie nell'ultimo ventennio o
poco più.
In Europa sono in discussione il “Digital
Service Act” e il “Digital Market Act” che hanno per scopo quello di ridurre il
loro strapotere.
Lo
stesso Joe Biden, il 1 "marzo, nel suo primo discorso alla nazione, ha
usato parole durissime, forse le più dure mai usate da un presidente Usa in
carica, proprio all'indirizzo delle Big Tech:
«E' il momento di rafforzare le tutele alla
privacy, vietare la pubblicità mirata ai bambini e chiedere alle società
tecnologiche di smetterla di raccogliere i dati personali dei nostri figli».
Poi è
scoppiata la guerra o, almeno, la guerra è entrata nella sua fase più calda,
cruda, cruenta e drammatica.
E, a quel punto, è cambiato tutto o, forse,
meglio, tutto ci è apparso sotto una luce diversa.
Elon
Musk, signore delle tecnologie presenti e future e, tra l'altro, patron di “Tesla”,
“Neuralink “e “SpaceX”, ha risposto a un appello lanciato dal governo ucraino
via social e ha letteralmente riportato, accendendo i satelliti della sua “StarLink”,
in Ucraina quell'Internet che i russi avevano sostanzialmente spento.
Facebook
e Google hanno dichiarato la più massiccia, determinata e, almeno sin qui,
efficace campagna contro la disinformazione riuscendo se non a bloccare, almeno
ad arginare e ridimensionare significativamente la propaganda digitale
filorussa che correva sui social.
I
social tutti, con poche distinzioni, sono tornati, nell'immaginario collettivo,
attraverso la narrativa mediatica globale, a rappresentare quella sconfinata
piazza pubblica globale nella quale gli ucraini hanno potuto raccontare al
mondo il loro dramma, lanciare le loro urla di dolore, manifestare il loro
orgoglio e chiedere aiuto al la comunità internazionale e i russi, o, almeno,
quella parte pure consistente, contraria all'iniziativa bellica di Putin.
I
socialnetwork, in questo contesto, sembrano tornati a essere gli eroi della
libertà idolatrati dal la comunità internazionale come ai tempi della primavera
araba.
E,
senza tanti giri di parole ne false ipocrisie istituzionali bisogna dire chiaro
e forte che quegli stessi governi che sino a qualche giorno prima li additavano
come un problema da risolvere in fretta, hanno visto in loro un'opportunità per
contribuire a fermare la tragedia della guerra e hanno, a più riprese e sotto
profili diversi, chiesto il loro aiuto, quando in pubblico e quando in privato,
nella più parte dei casi e, anzi, forse sempre, ottenendolo.
Nello
spazio di qualche giorno la narrativa è cambiata sensibilmente e, a tratti, è
parsa far passare le” Big Tech” da nemiche delle democrazie e del libero
mercato a forze di pace, caschi blu digitali delle nazioni unite.
Ma chi sono davvero?
Ne
nemici, ne forze di pace, in effetti.
E, anzi, forse, sotto taluni profili, la
circostanza che non si possa far a meno di chiedere toro aiuto in tempo di
guerra - così come, per la verità, in occasione di ogni genere di dramma
umanitario dalla pandemia alle calamità naturali, e che il loro aiuto risulti
spesso determinante, efficace, talvolta risolutivo è la miglior conferma delle
ragioni che devono indurci non a temerle ma regolarle, governarle, vigilarle,
talvolta, anche spuntar loro le ali perché si tratta di straordinarie
concentrazioni di poteri privati superiori, ormai, per forza e dimensione, alla
più parte dei poteri pubblici, che possono essere indistintamente utilizzate
per i più nobili e per i meno nobili degli scopi.
Anche
se e proprio della natura umana avere l'esigenza di dividere il mondo in buoni
e cattivi, dovremmo approfittare di questa drammatica guerra - che, peraltro,
segue a ruota la non meno drammatica pandemia nella quale egualmente le Big
Tech hanno giocato un ruolo determinante nel rendere sostenibile il nostro
quotidiano - per convincerci, una volta per tutte, che le “Gafam” e i foro
concorrenti - non sono né angeli, né demoni, sono solo alcuni tra i più
mirabili risultati del progresso tecnologico che le regole dei mercati e quelle
dei governi possono rendere i migliori alleati del genere umano o i loro
peggiori nemici.
La
regolamentazione europea
delle
Big Tech.
Mondointernazionale.org
- Eleonora Strano – (23 aprile 2025) – ci dice:
Tra
tutela del mercato e tensioni transatlantiche.
Negli
ultimi anni, l'Unione Europea ha intensificato gli sforzi per regolamentare le
grandi aziende tecnologiche con l'obiettivo di garantire maggiore equità nel
mercato digitale e proteggere i diritti dei cittadini.
Queste
iniziative si sono concretizzate in una serie di normative di ampio respiro,
tra cui il “Digital Markets Act” (DMA) e il” Digital Services Act” (DSA).
Entrambi i provvedimenti mirano a disciplinare
le attività delle principali piattaforme online, riducendo il loro potere
monopolistico e imponendo loro responsabilità più stringenti nella gestione dei
contenuti.
Questa
regolamentazione ha avuto un impatto significativo sulle aziende tecnologiche
statunitensi, che operano su scala globale e ora devono adeguarsi a regole più
rigide per continuare a fare affari in Europa.
In questo contesto, è emerso un crescente
scontro tra il modello normativo europeo e gli interessi delle” big tech
americane,” con alcune aziende che hanno cercato l’appoggio del governo
statunitense per mitigare gli effetti delle nuove leggi.
Il
Digital Markets Act e il Digital Services Act: un nuovo quadro normativo.
Il
DMA, entrato in vigore nel 2023, è stato progettato per contrastare le pratiche
anticoncorrenziali delle grandi piattaforme digitali, spesso definite
"gate keeper".
Queste aziende – tra cui Google, Apple,
Amazon, Microsoft e Meta – detengono una posizione dominante nei loro
rispettivi mercati e il DMA impone loro una serie di obblighi per garantire un
mercato più aperto e competitivo.
Tra le
disposizioni più rilevanti del DMA:
Obbligo
di interoperabilità: le piattaforme devono permettere la compatibilità tra i
propri servizi e quelli di terze parti.
Divieto
di auto preferenza:
le
aziende non possono favorire i propri servizi o prodotti rispetto a quelli dei
concorrenti (ad esempio, nei risultati dei motori di ricerca o negli app
store).
Maggiore
trasparenza negli algoritmi e nei criteri di ranking.
Il
DSA, invece, si concentra sulla responsabilità delle piattaforme online nella
gestione dei contenuti.
Le grandi aziende devono adottare misure più
rigorose per contrastare la diffusione di disinformazione, discorsi d'odio e
contenuti illegali.
Le piattaforme devono inoltre fornire agli
utenti strumenti efficaci per segnalare contenuti illeciti e garantire maggiore
trasparenza sulle politiche pubblicitarie.
Entrambi
i provvedimenti confermano la volontà dell’UE di imporre regole più severe alle
aziende tecnologiche, limitando il loro potere di mercato e aumentando la
tutela degli utenti.
Le
reazioni delle aziende tecnologiche.
L'entrata
in vigore di queste normative ha spinto le big tech statunitensi a rivedere le
proprie strategie per operare all'interno dell'Unione Europea.
Alcune
aziende si sono adeguate rapidamente, modificando le proprie politiche per
conformarsi alle nuove regole, mentre altre hanno adottato un approccio più
difensivo, sollevando critiche e cercando di influenzare il dibattito
normativo.
“Meta”, ad esempio, ha manifestato più
volte la sua preoccupazione riguardo all’impatto economico e operativo delle
nuove normative.
Nel
maggio 2023, la società è stata multata per 1,3 miliardi di dollari per il
trasferimento illecito di dati degli utenti europei verso gli Stati Uniti, in
violazione del “Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati” (GDPR).
Questo
episodio ha evidenziato la crescente rigidità delle autorità europee nei
confronti delle pratiche delle grandi piattaforme digitali.
Inoltre,
la Commissione Europea ha recentemente avviato indagini su” Facebook” e “Instagram”
per presunte violazioni del DSA, in particolare per la gestione della
disinformazione elettorale e per la tutela degli utenti più vulnerabili.
Queste
indagini potrebbero tradursi in ulteriori sanzioni e in nuovi obblighi per le
aziende coinvolte.
La
richiesta di assistenza alla Casa Bianca.
Di
fronte alle nuove sfide normative imposte dall'UE, alcune aziende tecnologiche
statunitensi hanno deciso di rivolgersi direttamente all’amministrazione
americana per cercare un supporto politico e diplomatico.
Secondo
fonti interne, “Meta” avrebbe chiesto assistenza alla Casa Bianca per
affrontare la regolamentazione europea, sostenendo che le norme imposte dall’UE
rappresentano un rischio per la competitività delle aziende americane nel
mercato globale.
L’azienda
ha sottolineato come le sanzioni e le restrizioni imposte dalla normativa
europea possano creare barriere commerciali che favoriscono, indirettamente, le
aziende tecnologiche cinesi e altre realtà non soggette agli stessi obblighi
normativi.
Questa
richiesta di aiuto si inserisce in un dibattito più ampio tra Stati Uniti ed
Europa sulle regole del mercato digitale.
Da un lato, l’UE considera le nuove normative
necessarie per contrastare il potere eccessivo delle big tech e proteggere la
privacy degli utenti.
Dall’altro,
gli Stati Uniti vedono queste regole come un potenziale ostacolo per le aziende
americane e un mezzo per rafforzare la posizione delle imprese europee nel
settore tecnologico.
La
regolamentazione europea nel settore tecnologico sta ridefinendo il panorama
digitale globale, imponendo nuovi limiti alle grandi piattaforme e aumentando
la tutela degli utenti.
Il
Digital Markets Act e il Digital Services Act rappresentano una svolta
importante nel controllo delle big tech, stabilendo regole più severe per
garantire un mercato più equo e trasparente.
Tuttavia,
queste misure hanno generato forti tensioni tra l’UE e le aziende tecnologiche
statunitensi, alcune delle quali stanno cercando di ottenere il supporto del
governo americano per contrastare le nuove normative.
Il
caso di “Meta” dimostra come la regolamentazione europea sia diventata un tema
di discussione anche nelle relazioni transatlantiche, con implicazioni non solo
economiche, ma anche politiche e diplomatiche.
Nei
prossimi anni, il dibattito sulla regolamentazione delle piattaforme digitali
continuerà a essere un punto centrale delle politiche europee e globali.
L’UE
ha dimostrato di voler assumere un ruolo di leadership nella regolamentazione
del settore tecnologico, ma resta da vedere come le aziende e i governi
risponderanno a queste nuove sfide.
Due
facce della stessa medaglia:
Big
Tech e industria militare.
Ilmanifesto.it
- Giovanna Branca – (14 -02-2024) – ci dice:
Intervista
parla “Dario Guarascio”, fra gli autori di uno studio fra grandi piattaforme e
apparati di sicurezza.
Da 100
milioni di dollari nel 2008 a un picco di ben oltre 500 milioni nel 2020: è il
valore dei contratti stipulati dal Pentagono e da altre agenzie di sicurezza
Usa con le principali compagnie tech – “Amazon, Microsoft, Google e Meta”.
Uno
studio di Dario Guarascio della Sapienza di Roma, Andrea Coveri dell’Università
di Urbino e Claudio Cozza dell’Università di Napoli Parthenope analizza come
queste piattaforme «hanno assunto il ruolo di partner indispensabile nelle
attività militari e legate alla sicurezza».
Ne
abbiamo parlato con “Dario Guarascio”.
La
vostra ricerca evidenzia come negli anni siano cresciuti esponenzialmente gli
investimenti delle agenzie militari e di sicurezza nelle grandi compagnie
digitali.
Cosa
comporta?
Il
primo driver del potere delle grandi piattaforme digitali è il controllo di
infrastrutture e tecnologie critiche nell’ambito dell’archiviazione dei dati.
Un
ambito molto rilevante per spiegare perché sono così potenti, da dove vengono e
perché è così difficile mettere in discussione il loro potere.
Il
motivo del rapporto peculiare che hanno con gli stati e in particolare con le
agenzie militari è semplice:
in primo luogo le piattaforme stesse sono il
risultato di investimenti e attività di ricerca e sviluppo degli apparati
militari.
Senza
questi ultimi non esisterebbero le conoscenze e le tecnologie di base su cui si
è sviluppato internet, e che sono poi state trasferite a una manciata di
imprese:
le BigTech odierne.
In
secondo luogo le infrastrutture, le tecnologie – pensiamo al cloud, all’AI, al
quantum computing – sono in buona misura controllate dalle grandi piattaforme
che possiedono i brevetti.
In questi ambiti le competenze sono
complementari alle tecnologie, sono “firm specific” – proprie di una
determinata compagnia – quindi diventano molto difficili da trasferire e da
interpretare al di fuori dell’impresa.
Che ha
così ha una leva molto forte da esercitare anche nei confronti dello stato.
Questo è particolarmente vero perché oggi le guerre sono in buona misura
digitali: se si vuole colpire a distanza, sventare un cyber attacco o
perpetrarne uno difficilmente si può fare a meno dell’alleanza con le grandi
piattaforme.
Lo
evidenzia la crescita esponenziale del numero di contratti e l’ammontare delle
risorse che negli ultimi 15 anni gli sono state destinate.
E il
numero di progetti che delegano loro la gestione di servizi critici come il
cloud per la Difesa. Ci sono inoltre le cosiddette revolving door:
molti
membri dei consigli di amministrazione delle Big Tech – non ultimo l’ex
amministratore delegato di Alphabet (Google) – transitano nelle agenzie
pubbliche della Difesa, della sicurezza o dell’intelligence che si occupano di
sviluppare tecnologie a scopi militari.
È
notizia recente che un generale americano, direttore della “Nasa” per più di
dieci anni, ora è nel “board di “Amazon”.
Azienda
che con i suoi servizi cloud è tra gli oligopolisti che dominano questo settore
nevralgico.
Fate
l’esempio di “Elon Musk” e dell’impiego di “Starlink” nella guerra in Ucraina,
che aggiunge un elemento di problematicità:
entra
in campo la discrezionalità di un singolo privato, come ha dimostrato la sua
decisione di spegnere i satelliti quando avrebbero potuto facilitare un attacco
in Crimea.
Il
protagonismo dei grandi imprenditori digitali come” Musk” sembra essere in
qualche modo una riedizione nei tempi contemporanei di contraddizioni antiche
del capitalismo e di una crasi inquietante tra capitale monopolistico e potere
pubblico nelle sue forme più violente.
Il fatto che un soggetto come” Musk” operi in
modo spericolato, cercando di portare pezzi dell’establishment americano a suo
vantaggio, ma sfruttando anche i legami autonomi che ha con soggetti pubblici
di paesi relativamente in conflitto con gli Stati uniti ne è una
manifestazione:
è un
soggetto che gioca un ruolo quasi monopolistico.
Quella dei mini satelliti è un’industria
parallela e ancillare a quella digitale, dove Musk è presente con uno dei pezzi
fondamentali dell’ecosistema dei social network,” X”.
Inoltre
ha modificato radicalmente il settore dell’aerospazio e anche il rapporto tra
pubblico e privato in quel settore.
Come
mai la voce di spesa principale delle agenzie militari e di sicurezza è il
cloud?
Perché
cloud significa dati.
Tutti
i servizi tecnologicamente più avanzati si basano sui dati, prima fra tutti
l’intelligenza artificiale.
In
ambito civile, chi domina la “frontiera del cloud “è avvantaggiato nella
predizione dei consumi, dell’incontro tra domanda e offerta, nella gestione di
attività in ambito commerciale che da un lato allargano il mercato e dall’altro
consolidano il potere dei soggetti che controllano queste tecnologie.
In ambito militare significa una maggiore
efficacia dei sistemi di sorveglianza, riconoscimento facciale, combinazioni di
fonti diverse – immagini, suoni, testo – a scopi securitari.
All’esterno,
pensiamo agli Stati uniti, significa invece avere “occhi e orecchie” sia nei
paesi “rivali” che in quelli interni alla loro sfera di influenza.
Primi
fra tutti i paesi europei dove molti sono stati gli scandali e le cause
derivanti dal fatto che le grandi piattaforme americane sono dei collettori di
dati e dei terminali, attraverso cui le informazioni possono essere trasferite
anche agli apparati di intelligence e sicurezza.
Nei
paesi con cui invece la relazione è conflittuale le tecnologie di cui
dispongono le piattaforme e soprattutto i sistemi di cloud diventano la rete da
pesca attraverso cui ottenere informazioni rilevanti in un’ottica di
intelligence.
Infine
l’ecosistema innovativo del cloud, poiché il processo di crescita in questo
contesto si caratterizza per cumulativi – chi controlla il potere è destinato a
consolidarlo – fa sì che molto difficilmente le grandi piattaforme possano
essere messe in discussione da delle startup con una qualche soluzione
tecnologica innovativa.
Nel 90% dei casi vengono fagocitate dalle Big
Tech.
Quindi, da questo punto di vista lo stato è
costretto a trasferire risorse a chi monopolizza queste tecnologie
E
questa interdipendenza fa sì, come scrivete, che il governo americano non abbia
alcun interesse a limitare le strategie espansionistiche delle Big Tech.
Sono
oramai 15 anni che da più parti si denunciano i rischi e le implicazioni
negative di una concentrazione di potere tecnologico e economico come quello
rappresentato dalle Big Tech.
Ma se
i soggetti protagonisti di questa concentrazione di potere diventano partner
essenziali e irrinunciabili dello stato, per il perseguimento di obiettivi
vitali come quelli relativi alla difesa e alla sicurezza, risulta difficile
immaginare che si possa mettere in discussione questo potere.
Ormai
una decina di anni fa la senatrice Usa” Elizabeth Warren” aveva provato a dire
che bisognava spezzare a metà, o in tre, queste società, come successe con
l’oligopolio delle telecomunicazioni o all’inizio del Novecento, quando è nata
la disciplina antitrust con lo Sherman Act.
Il
problema in più da questo punto di vista è che c’è una trasversalità settoriale
molto più pervasiva rispetto alle vecchie multinazionali.
Inoltre,
le tecnologie digitali non sono sviluppate in un contesto neutrale, dove si
scandagliano tutti gli esiti possibili e l’obiettivo è il benessere generale.
Chi ha le risorse e le investe per la ricerca e lo
sviluppo di queste tecnologie sono di fatto due attori:
un
blocco oligopolistico che mira a preservare lo status quo e la sua controparte militare.
Come
si inserisce questo discorso nello scontro fra Stati Uniti e Cina?
Qualche
anno fa quando “Huawei “era sul punto di ottenere delle commesse rilevanti per
l’infrastrutturazione digitale in Europa c’è stato uno scontro diplomatico ai
massimi livelli.
E
l’accordo è stato impedito: una manifestazione plastica di questo conflitto.
Un’altra sono le norme statunitensi che vietano alle imprese americane e
europee di esportare in Cina le componenti necessarie per realizzare i
semiconduttori di ultima generazione necessari per far funzionare le tecnologie
di intelligenza artificiale – quindi contravvenendo alla logica della globalizzazione, del
libero mercato, che viene contraddetta ogni qual volta le necessità capitalistiche
sono di ordine diverso.
Poco
tempo fa “The Intercept “ha scritto che “OpenAI” ha rimosso dalla sua policy
ogni riferimento al “divieto di impiegare le sue tecnologie per scopi militari”.
Mi
sembra una sorta di segreto di Pulcinella: OpenAI di fatto è Microsoft.
E
“Microsoft”, più di “Amazon”, è il principale fornitore e partner del ministero
della Difesa Usa in fatto di tecnologie digitali.
I carri armati forniti dagli Stati uniti che
operano oggi in Ucraina e i visori dei militari sono forniti da Microsoft e
dotati di tecnologie avveniristiche.
“
OpenAi” viene da lì e quindi non deve stupirci il fatto che questa sia la
direzione che sta seguendo.
Deve
forse però farci riflettere sulla necessità di avere una prospettiva autonoma,
consapevole e sufficientemente informata, su cosa sono queste tecnologie, come
si stanno sviluppando e dove potrebbero dirigersi.
Lo
dico perché negli ultimi mesi abbiamo sentito dichiarazioni sulla necessità di
preservare il genere umano dai rischi dell’intelligenza artificiale da parte di
coloro che hanno portato questo settore a svilupparsi nel modo che vediamo, e
le scelte che stanno facendo dimostrano che è in corso un processo per
garantire e consolidare il potere di cui godono i soggetti principali che vi
operano, tra cui “Microsoft.”
Cina-USA:
Trump prepara
lo scontro
del secolo?
Ispionline.it
– (29 Apr. 2025) – Filippo Fasulo – ci dice:
In
soli 100 giorni, Trump ha cambiato varie posizioni sulla Cina di Xi Jinping.
Per comprendere questa evoluzione bisogna ricordare che la Cina ha sempre avuto
un ruolo centrale nell’agenda politica del tycoon.
L’avvio
di una nuova guerra fredda, un paese esportatore in surplus come tanti, il
paese contro cui mettere i dazi più alti, il paese con cui trovare un accordo
commerciale, anche nonostante le smentite di Pechino.
In soli 100 giorni, sono già cambiate più
volte le posizioni di Donald Trump verso la Cina di Xi Jinping.
Per
comprendere questa evoluzione bisogna ricordare come la Cina abbia sempre avuto
un ruolo centrale nell’agenda politica di Donald Trump.
Senza esagerare, si potrebbe persino dire che
l’intera politica dei due mandati di Trump sia centrata proprio sul rapporto
con la Cina, intesa come potenza concorrente nel campo manufatturiero.
Un
concetto da cui discendono una visione della classe media americana in declino
a causa di tale competizione e l’urgenza di invertire tale processo attraverso
lo strumento dei dazi.
In
pratica, è stato questo l’approccio adottato nel corso del primo mandato con
una revisione in senso competitivo del rapporto con Pechino che era stata una
delle poche scelte di Trump condivise in maniera sostanzialmente bipartisan.
Un approccio più muscolare con la Cina,
infatti, era stato poi raccolto da Biden, seppur con una differenza di fondo:
Trump percepiva la contrapposizione con la
Cina in senso negoziale, ovvero con l’obiettivo di trovare un punto di contatto
che risolvesse (tendenzialmente in favore statunitense) le differenze, mentre
Biden ha fin dall’inizio privilegiato un approccio di tipo ideologico, leggendo
il confronto non solo dal punto di vista economico, ma come uno scontro tra due
diverse visioni politiche del mondo diviso fra democrazie e autocrazie.
L’approccio di Biden si prestava così alla
costruzione di un rapporto di alleanze di paesi che si contrapponevano alla
Cina per via della comune agenda politica della promozione delle democrazie,
minacciate dalla possibile coercizione economica delle autarchiche Cina e
Russia.
La
seconda amministrazione Trump è così partita da tali premesse ereditando sia il
clima di contrapposizione con la Cina che aveva inaugurato nel 2018 con l’avvio
della “Trade War”, sia una struttura in via di istituzionalizzazione di una
rete di alleanze costruite attorno ai concetti di Indo-Pacifico – cui fanno
riferimento le iniziative “Aukus” e “Quad “in ambito militare e “IPEF “in
ambito economico – e di economic security.
Secondo questo principio, in particolare, le
merci diventano un’arma e, di conseguenza, maggiore interdipendenza non porta a
una riduzione dei conflitti, ma semplicemente a un’altra maniera di condurre
tali conflitti.
Fino
al giorno dell’inaugurazione della seconda amministrazione Trump il 20
gennaio, dunque, il tema principale sul tavolo di Trump era “vincere” la gara
con Pechino.
Un punto di vista ben differente da quello
dell’Europa per cui l’obiettivo era quello di “gestire” al meglio il rapporto
con la Cina minimizzando i costi della strategia di de-risking volta a ridurre
l’esposizione verso Pechino.
Una
dinamica simile era presente nel Sud Est asiatico, in Giappone e in Corea del
Sud, paesi che cercavano un bilanciamento nella competizione tra grandi potenze
e, soprattutto una cooperazione economica statunitense – che, come detto, punta
a “vincere” tale competizione – mentre riducevano la dipendenza dalla Cina.
Le
prime mosse di Trump, che hanno rivolto dazi contro ogni paese in surplus con
Washington, hanno però sorpreso quei paesi che si consideravano – a buon titolo
– alleati degli Stati Uniti e che, anche alla luce della rete di contenimento
anti-cinese promossa da Biden pensavano di essere coinvolti nella strategia di
fondo. Infatti, la preoccupazione che più era diffusa nell’Unione Europea era
piuttosto, alla luce del dichiarato approccio negoziale di Trump – di essere
tagliati fuori da un accordo bilaterale USA-Cina negativo per l’Europa, ma non
di essere messi sullo stesso piano come avvenuto con l’applicazione dei dazi
“reciproci”, poi sospesi.
Questo timore era motivato dall’esistenza di
un precedente accordo tra Usa e Cina siglato da Trump, ovvero il “Phase-One
Deal”, chiuso alla vigilia dello scoppio della pandemia, che prevedeva una
riduzione del deficit commerciale statunitense con la promessa di acquisti in
settori selezionati e che rappresenta la possibile base per un nuovo accordo
tra Washington e Pechino.
Nella
relazione tra la Cina e la seconda amministrazione Trump, è così centrale il
ruolo degli alleati.
Il punto di fondo è che con le decisioni sui
dazi del” Liberation Day” si è indebolito il concetto di “friend shoring”—
quell’idea di costruire catene del valore tra Paesi amici – che aveva
rappresentato una delle principali risposte di Biden alla crescente assertività
cinese e anche l’effetto della guerra commerciale nella prima amministrazione
Trump.
Nel
contesto del “friend shoring” erano risultati vincitori Paesi come Vietnam,
Malesia o Messico, oggi tra i più colpiti dai dazi.
E,
allo stesso modo, l’India aveva assunto una centralità economica in quanto
possibile sede di delocalizzazione via dalla Cina per ragioni politiche.
Oggi Trump punta a penalizzare anche quei
Paesi che possono rappresentare una via alternativa per le merci cinesi per
massimizzare l’interesse economico nazionale.
Nei
primi 100 giorni del suo mandato, dunque, la strategia di Trump verso la Cina è
stata fortemente altalenante con tentativi ripetuti di prendere le distanze e
altri di riprendere contatto, senza però riuscire più tanto ad ottenere
concessioni da parte cinese.
Oltre al quadro appena descritto, bisogna
infatti anche richiamare come sia i primi dazi a Messico e Canada – con il
riferimento alle importazioni di” fentanyl” – sia l’avvicinamento alla Russia
di Putin fossero motivate in senso anti-cinese.
In
particolare, ha avuto grande spazio nel dibattito pubblico l’ipotesi del
cosiddetto “reverse Nixon”, ovvero il tentativo di avvicinarsi alla Russia
contro la Cina, come avvenuto in senso opposto negli anni ’70 con la diplomazia
del ping-pong che favorì il riconoscimento della Repubblica popolare cinese da
parte dell’Occidente per isolare l’Unione Sovietica.
L’esito
di queste azioni è però limitato, visto che da un lato i dazi sono stati poi
applicati a tutto il mondo senza più il riferimento al “fentanyl” e Mosca non
ha alcuna intenzione di allontanarsi da Pechino.
Anzi, “Xi Jinping” parteciperà alla parata per
l’anniversario degli 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale a Mosca
il 9 maggio, dimostrando il mantenimento di un rapporto stabile.
Lo
stato attuale, dunque, è quello di una erosione da parte degli alleati della
fiducia negli Stati Uniti come partner nel ridurre la propria dipendenza
economica della Cina.
Al
contrario, molti vedono la Cina stessa come una alternativa all’instabilità
economica rappresentata dagli Stati Uniti.
Inoltre, Trump sta facendo ripetuti appelli
non raccolti per un accordo economico con la Cina, che, dunque, appare sempre
più difficile.
Infine, Russia e Cina non sembrano
intenzionate a mettere in discussione il proprio rapporto.
È
possibile, allora, che nelle prossime settimane prenda forza l’approccio
ideologico su quello negoziale di modo da poter trovare nuovamente un punto di
vicinanza con gli alleati, seppur spaventati dalle mosse apparentemente
irrazionali di questi primi 100 giorni di seconda amministrazione Trump.
Scontro
Usa-Cina sui chip.
Pechino:
"Bullismo unilaterale.”
Agi.it
– (21 maggio 2025) – Redazione – ci dice:
Reazioni
forti da parte del gigante asiatico di fronte alle nuove misure introdotte da
Washington.
AGI -
La Cina ha reagito con durezza alle nuove restrizioni statunitensi sull’uso di
chip cinesi nel settore dell’intelligenza artificiale, accusando Washington di
“bullismo unilaterale” e annunciando “misure ferme” in risposta.
Le
tensioni sui semiconduttori tornano così al centro dello scontro geopolitico
tra le due superpotenze.
ADV.
Le
linee guida pubblicate dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti mettono
in guardia l’industria tecnologica dal rischio di utilizzare semiconduttori
provenienti dalla Cina, affermando che “sono stati probabilmente sviluppati e
prodotti violando i controlli sulle esportazioni americani”.
Pechino:
“Protezionismo e minaccia allo sviluppo globale.”
Il
Ministero del Commercio cinese ha definito le nuove misure come “una
combinazione di protezionismo e intimidazione”, accusando Washington di voler
“privare la Cina e altri Paesi del diritto di sviluppare settori ad alta
tecnologia come i chip avanzati e l’IA”.
Per
Pechino, gli Stati Uniti stanno “abusando dei controlli sulle esportazioni per
contenere e reprimere la Cina”, danneggiando le aziende locali e “mettendo a
rischio gli interessi di sviluppo del Paese”.
I chip
per intelligenza artificiale rappresentano oggi uno dei terreni di scontro più
strategici tra Stati Uniti e Cina.
Negli
ultimi anni, Washington ha imposto restrizioni per evitare che i semiconduttori
americani vengano utilizzati per scopi militari o per alimentare modelli di IA
cinesi in grado di competere con quelli statunitensi.
Le
nuove direttive, a differenza delle restrizioni imposte dall’amministrazione
Biden, non sono vincolanti, ma hanno comunque un forte valore politico e
simbolico.
L’obiettivo
dichiarato è “condividere la tecnologia americana con Paesi affidabili ed
evitare che cada nelle mani di potenziali avversari”.
Tra i chip nel mirino ci sono anche i
semiconduttori “Ascend “di “Huawei”, considerati da Washington particolarmente
sensibili per l’impiego in progetti di IA avanzata.
“Nvidia”
contro le restrizioni: “Hanno favorito la Cina.”
Le
nuove regole sono state criticate anche da aziende americane.
Il CEO
di Nvidia, “Jensen Huang”, ha definito le restrizioni “un fallimento”,
affermando che “hanno dato slancio e supporto alle aziende cinesi, accelerando
lo sviluppo interno di tecnologie all’avanguardia”.
Parlando
da Taipei,” Huang” ha aggiunto che “la Cina ha un ecosistema tecnologico
estremamente dinamico e ospita il 50% dei ricercatori globali in intelligenza
artificiale”.
Le
pressioni interne ed esterne su Washington.
Le
precedenti limitazioni imposte anche ad alcuni Paesi alleati – come Messico e
Portogallo – sono state in parte revocate sotto la pressione di governi esteri
e produttori americani.
Ma il
nodo resta aperto.
Pechino
accusa Washington di voler rallentare artificialmente lo sviluppo cinese per
mantenere il proprio dominio tecnologico, e promette ritorsioni.
Con i
chip diventati la nuova posta in gioco nella competizione globale, la frattura
tra Cina e Stati Uniti sul fronte dell’intelligenza artificiale appare
destinata ad allargarsi.
Il
duello tra Cina e America è
tra
due ideologie che non
riconoscono
più la stessa realtà.
Linkiesta.it
– (19 aprile 2025) – Redazione – ci dice:
La
crisi tra Washington e Pechino è solo l’ultimo atto di un confronto strutturale
che mette in discussione le regole su cui si è costruita l’economia globale.
Quella
tra Cina e Stati Uniti non è soltanto una guerra commerciale, ma il riflesso di
un conflitto ideologico profondo.
Da una
parte, l’espressione viscerale di un’America ferita, nostalgica e muscolare,
che cerca nel protezionismo una scorciatoia per riaffermare il proprio primato.
Dall’altra, una Cina tutt’altro che perfetta, attraversata da contraddizioni
strutturali e sempre in bilico tra controllo e instabilità, che progetta il
futuro con l’ansia di chi teme il crollo interno più della pressione esterna.
L’aumento
dei dazi al centoquarantacinque per cento deciso da Donald Trump sui beni
cinesi è un gesto simbolico, pensato per stanare la tradizionale
imperturbabilità cinese.
In
economia Pechino non si muove come una barca a vela, ma come una petroliera:
ci mette una vita a virare, ma poi tiene
quella posizione per molto tempo.
La reazione cinese è stata come al solito
fredda, anche se questa volta più radicale del solito perché nella sua immagine
pubblica, “Xi Jinping” non può tollerare compromessi con l’Occidente percepiti
internamente come sottomissioni.
Due
ideologie si fronteggiano, ma non si parlano.
Da una parte c’è il “Make America Great
Again”, la promessa trumpiana di un ritorno a un passato mitico di potenza
industriale e supremazia incontestata. Dall’altra c’è il grande rinnovamento
della nazione cinese, annunciato da “Xi Jinping “nel 2012 sui gradini del Museo
nazionale, come una restaurazione legittima dopo il cosiddetto secolo delle
umiliazioni.
“ Xi”
lo ha definito «il più grande sogno della nazione cinese nella storia moderna».
Non è
un semplice slogan:
è una
dottrina che fonde sviluppo economico, orgoglio nazionale e disciplina sociale
in un unico progetto.
È un
patto implicito tra Partito e popolo, che non può essere infranto senza che
crolli la narrazione stessa del potere.
Ogni
passo compiuto dalla Cina negli ultimi anni — dalle restrizioni all’export
strategico alle contro-tariffe — risponde a quel disegno originario.
Ed è
proprio questa struttura ideologica, rigida e totalizzante, a rendere
inefficace qualsiasi trattativa in stile trumpiano, costruita su show da
piazzista, pressioni e colpi di teatro.
Quando
la posta in gioco è identitaria, ogni concessione diventa una sconfitta. Quando
la diplomazia si costruisce su emozioni contrapposte — intimidazione da un
lato, disciplina dall’altro — la possibilità di un terreno comune evapora.
Secondo
“Stephen Roach”, ex presidente di “Morgan Stanley Asia”, «il conflitto nasce da
due visioni politiche inconciliabili».
Come
scrive in un approfondimento per il “Financial Times”, Trump usa dazi e minacce
come strumenti di intimidazione e spettacolo, mentre “Xi “adotta una strategia
fredda e calcolata, fondata su un’idea organica di rinascita nazionale.
La
risposta cinese non arriva mai per vie spettacolari:
nessun comizio, nessun tweet, solo misure
calibrate, spesso annunciate in modo sobrio e burocratico, come la recente
contro-tariffa apparsa in una nota del Ministero delle Finanze.
Negli
ultimi giorni, Pechino ha intensificato gli sforzi per evitare che altre
economie si schierino con Washington.
Il ministro del commercio cinese ha avviato
colloqui con l’Unione Europea, ha parlato con Giappone e Corea del Sud, mentre”
Xi” è volato personalmente in Vietnam e Malesia per proporre un’alleanza contro
quello che definisce «bullismo unilaterale».
A
Kuala Lumpur ha invitato i Paesi del Sud-Est a «respingere la disconnessione,
l’interruzione delle catene di fornitura e l’abuso dei dazi».
Come
spiega il “New York Times”, si tratta di una vera offensiva diplomatica, con
cui la Cina cerca di evitare che la pressione americana si traduca in un
effetto domino di isolamento.
Ma il
messaggio non attecchisce ovunque.
L’Europa continua a esprimere preoccupazione
per il dumping industriale cinese, e ha smentito qualsiasi convergenza
esplicita contro Washington.
L’Australia ha respinto al mittente l’invito
dell’ambasciatore cinese a «unirsi contro le pressioni americane».
In Vietnam, nonostante l’accoglienza calorosa,
la leadership ha firmato solo un generico comunicato contro «l’egemonismo e la
politica di potenza», lasciando intendere che il vero destinatario potrebbe
essere proprio Pechino, con cui Hanoi ha contenziosi territoriali aperti nel
Mar Cinese Meridionale.
Dietro
ogni gesto di conciliazione c’è una minaccia latente.
Pechino
ha già colpito con dazi punitivi il Canada, e il messaggio vale per tutti: chi
si schiera con Washington rischia ritorsioni economiche.
Come
sottolinea il blog ufficiale “Yuyuan Tantian,” «se qualcuno userà gli interessi
cinesi come pegno di fedeltà verso gli Stati Uniti, la Cina non sarà mai
d’accordo».
Allo
stesso tempo, il margine per una diplomazia multilaterale si restringe.
Ogni Paese è costretto a scegliere, o almeno a
fingere di non farlo.
Il
charm offensive cinese appare meno affascinante di quanto auspicato, e le
ambiguità strategiche si fanno sempre più difficili da sostenere.
Nel
frattempo, Trump punta su pressioni rapide e accordi bilaterali lampo.
Anche il Vietnam, per evitare una
penalizzazione tariffaria del quarantasei per cento, ha inviato a Washington
una delegazione negoziale e promesso di reprimere le frodi commerciali legate
all’uso di merci cinesi mascherate.
Ma Trump ha liquidato tutto dicendo che
l’incontro tra “Xi” e “To Lam” era probabilmente finalizzato a «fregare
l’America».
Più
che di diplomazia, si tratta ormai di una recita brutale dove le comparse
cambiano, ma il copione è sempre lo stesso.
In
questo scenario, la vera sfida non è commerciale ma strutturale.
Ogni
passo, ogni dazio, ogni dichiarazione va letta come parte di una strategia più
ampia:
l’erosione
dell’architettura economica globale fondata sull’interdipendenza.
Non si
tratta solo di difendere il mercato interno o correggere squilibri, ma di
affermare un nuovo ordine.
La
Cina vuole dimostrare di non essere isolabile.
Gli
Stati Uniti vogliono evitare di essere superati.
Ma in questo braccio di ferro tra due visioni
del mondo, la parte mancante è una terza forza capace di ristabilire un
linguaggio comune.
Finché
non emergerà, ogni nuova crisi sarà solo un’eco della precedente.
Canada,
Panama, Groenlandia, Cina: così gli Stati Uniti si preparano alla guerra
I
piani di guerra degli Stati Uniti, della Cina e la profezia di Lincoln.
L'intervento di Francesco D'Arrigo
26
Marzo 2025 08:48
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Canada,
Panama, Cina:
così gli Stati Uniti si
preparano
alla guerra.
Starmag.it
– Francesco D’Arrigo – (26 marzo 2025) – ci dice:
Ormai
è chiaro a tutti che l’amministrazione Trump non rappresenta una semplice
alternanza tra democratici e repubblicani, ma un vero e proprio ribaltamento
ideologico, dei valori e delle alleanze che gli Stati Uniti hanno costruito
dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Governando
con l’intenzione di annullare ogni forma di contropotere, il presidente Trump
sta incrinando le fondamenta istituzionali degli Stati Uniti, gli orientamenti
economici e soprattutto ogni riferimento diplomatico.
Uno
degli aspetti più preoccupanti di questa amministrazione è rappresentato dalla
costante oscillazione tra isolazionismo ed interventi contraddittori
annunciati, che stanno ridefinendo il potere americano come una variabile
aleatoria ed inaffidabile.
Questa
postura aggressiva contro partner ed alleati, una sorta di
imperialismo-isolazionista, si sta palesando attraverso minacce e decisioni
unilaterali, in particolare nella gestione delle guerre in Ucraina e in
Medioriente, nelle alleanze e nella guerra commerciale globale che ha innescato
con i dazi. La retorica protezionistica e le barriere tariffarie imposte
soprattutto ai propri alleati e partner commerciali stanno alimentando
un’incertezza sistemica.
Lungi
dal promuovere la nuova “golden era americana” questo approccio
pseudo-muscolare ha amplificato le tensioni commerciali, raffreddato gli
investimenti, fatto crollare i listini azionari, con il rischio di una
stagnazione unita a un’impennata dell’inflazione.
Affermando di ripristinare la prosperità
perduta, Trump sta indebolendo l’architettura economica globale.
In
politica estera, l’improvvisa sfiducia di Washington nelle alleanze e nelle
istituzioni multilaterali ha fatto crollare la credibilità degli Stati Uniti,
favorendo la diplomazia transazionale e la vicinanza ai regimi autoritari.
La
Casa Bianca sta delegittimando il ruolo stabilizzatore degli Stati Uniti,
rendendo il mondo meno sicuro.
Una
scomposizione geopolitica che accentua le minacce poste da Russia, Cina, Iran e
Corea del Nord con rivalità che lasciano vuoti geostrategici che verranno
certamente colmati da altre potenze emergenti.
I
piani di guerra degli Stati Uniti.
Il
presidente Donald Trump, sin dal discorso di pre-insediamento ha esplicitato la
sua nuova dottrina di politica estera imperialista, e da quel giorno non ha mai
smesso di minacciare di annettere agli Stati Uniti il Canada e la Groenlandia,
di voler riprendere il controllo del Canale di Panama, di costringere il
presidente Zelensky a cedere il 50% di terre rare e risorse minerarie ucraine
per ripagare gli Usa del sostegno ricevuto nei 3 anni di aggressione russa, di
imporre dazi a tutti i Paesi che commerciano con gli Usa.
Per
comunicare ai media di tutto il mondo e a chiunque lo incontri questa nuova
postura “America first”, il presidente Trump oltre ad aver rivoluzionato il
look dello Studio Ovale della Casa Bianca, ha riorganizzato i ritratti dei suoi
predecessori, mettendo in primo piano quello dell’undicesimo presidente degli
Stati Uniti, “James K. Polk”, che evidentemente il tycoon ha scelto come suo
nuovo mentore geopolitico.
In
soli quattro anni in carica, il “presidente Polk” annesse con la forza delle
armi il Texas, un terzo del territorio del Messico, inclusa la California, il
Nevada ed altri territori trasformando gli Stati Uniti in una potenza
continentale.
Diverse
similitudini associano il “presidente Polk” al suo successore “Trump II”:
entrambi
hanno fatto una campagna elettorale imperialista per l’annessione di nuovi
territori;
entrambi rappresentano candidati che hanno
inaspettatamente vinto le elezioni presidenziali degli Stati Uniti.
Il “presidente
Polk” è anche spesso associato al concetto di “dark horse” (incognita) o anche
di “predestinato”, una dottrina cara a una frangia della destra e dell’estrema
destra americana.
il
presidente Donald Trump sta sfruttando in maniera inquietante il concetto di
predestinato, associando un significato religioso al fallito tentativo di
assassinarlo mentre teneva un comizio elettorale in Pennsylvania, il 13 luglio
2024:
“Il proiettile che mi ha colpito di striscio
ad un orecchio è stato deviato da un miracolo di Dio, permettendomi di
sopravvivere per salvare la nazione”.
Una
manovra politica che alimenta il “culto messianico della fan base del movimento
di Trump” con rituali alla Casa Bianca in cui politici, influencer, esponenti
del conservatorismo religioso e telepredicatori evangelici fautori della
dottrina della “prosperità”, sostengono sia stato l’intervento di Dio a
salvarlo dal recente attentato.
Il
presidente ha anche firmato un ordine esecutivo per aprire un “Faith Office”
alla Casa Bianca, guidato dalla telepredicatrice “Paula White”, considerata la
consigliera spirituale di Trump, con l’obiettivo di trasformare gli elettori in
devoti.
Dopo
aver posto il suo primo mandato sotto il segno del “presidente Andrew Jackson”,
il 47° presidente degli Stati Uniti Trump, oggi, oltre a James K. Polk, si
affida anche al “25° presidente William McKinley”, famoso per l’imposizione di
dazi.
Altro
elemento in comune tra l’attuale inquilino della Casa Bianca e questi due
presidenti riguarda l’espansione territoriale che nel diciannovesimo secolo
crearono le condizioni per una forte crescita economica, trasformando gli Stati
Uniti in una superpotenza.
Un’età
dell’oro nordamericana della fine del diciannovesimo che però fu vantaggiosa
solo per pochi ricchi industriali, come avviene oggi con i tecno-oligarchi.
Panama.
Gli
Stati Uniti e Panama sono vincolati da un trattato a difendere il canale da
qualsiasi minaccia alla sua neutralità, e Washington è autorizzata ad
intraprendere azioni unilaterali per garantirla.
Recentemente
la Casa Bianca ha sostenuto la cordata formata da “BlackRock”, “Global Infrastrutture
Partner” e “Msc” nell’acquisizione dei due porti alle estremità del Canale di
Panama, che ne assicurano il controllo in entrata ed in uscita del Canale, di
proprietà del gruppo cinese “Ck Hutchison”.
Ciononostante,
il presidente Trump non ha mai escluso l’uso della forza per riprendersi il
controllo strategico del Canale di Panama per sottrarlo definitivamente
all’influenza cinese.
Non
soddisfatto dell’acquisto dei due porti di accesso, ha fatto un ulteriore passo
verso tale opzione chiedendo al Pentagono di elaborare varie “opzioni” per
riprendere il controllo totale del canale. L’Ammiraglio” Alvin Wolsey”,
Comandante delle Forze meridionali degli Stati Uniti (SOUTHCOM), ha già
presentato le proposte di strategie militari al segretario alla Difesa, “Pete
Hegseth”, che il prossimo mese dovrebbe visitare Panama.
Gli
scenari possibili vanno dall’aumento della pressione militare attraverso il
rafforzamento della presenza della US Navy nell’area, all’opzione di
espropriare il Canale.
L’uso
della forza, sarebbe direttamente collegato all’eventuale insufficiente
collaborazione delle autorità locali.
Canada
L’ex
giornalista del “Washington Post” “Peter Carlson”, in un suo recente articolo
racconta come è venuto a conoscenza di un piano militare per attaccare il
Canada, progettato nel 1930 e ritornato in auge con il secondo mandato del
presidente Trump.
Nel
2005, mentre “Carlson” effettuava delle ricerche studiando dei file
declassificati negli Archivi Nazionali di College Park, ha potuto visionare e
fotografare le 94 pagine di una pianificazione militare del 1930 classificata
“Top-Secret” che gli Stati Uniti hanno progettato e poi declassificato negli
anni ’70, per invadere il Canada.
Il
Piano denominato “War Plan Red” (Piano di Guerra Rosso), nell’attuale contesto
di crescenti tensioni tra Usa e Canada scatenate dall’Amministrazione Trump,
potrebbe essere riesumato, adattato ed implementato per realizzare l’obiettivo
di annettere il Canada e farlo diventare il “51° Stato” americano.
Quello
visionato da “Carlson” è un documento di 94 pagine intitolato “Joint Army and
Navy Basic War Plan — Red”, con la parola” SECRET” stampata sulla copertina.
Si
tratta di un piano audace, di un piano imponente, di un piano che descrive
dettagliatamente come invadere, conquistare e annettere l’Alleato.
Il “Piano
di Guerra Rosso” fu redatto e approvato dal “Dipartimento della Guerra nel 1930”,
poi aggiornato nel 1934 e nel 1935. Declassificato nel 1974, quando la parola
“SEGRETO” è stata cancellata con un pennarello nero.
Il
Piano di Guerra Rosso fu in realtà progettato per una guerra contro
l’Inghilterra.
Alla
fine degli anni ‘20, gli strateghi militari americani svilupparono piani anche
per una guerra contro il Giappone (nome in codice Orange), la Germania (Black),
il Messico (Green) e l’Inghilterra (Red).
Gli
americani immaginavano un conflitto tra gli Stati Uniti (Blu) e l’Inghilterra
per il commercio internazionale:
“L’obiettivo
bellico del ROSSO in una guerra con il BLU è concepito per essere la definitiva
eliminazione degli Stati Uniti come rivale economico e commerciale”.
In
caso di guerra, i pianificatori americani pensavano che l’Inghilterra avrebbe
usato il Canada – allora un dominio britannico semi-indipendente – come rampa
di lancio per “un’invasione diretta del territorio BLU”.
Gli
strateghi militari prevedevano una guerra “di lunga durata” perché “la razza
rossa” è “più o meno flemmatica” ma “nota per la sua capacità di combattere
fino alla fine”.
Inoltre,
se canadesi e inglesi rinforzati da truppe “di colore” provenienti dalle loro
colonie avessero vinto la guerra, i pianificatori prevedevano che “Crimsom”
(Canada) avrebbe preteso anche l’annessione dell’Alaska.
Se da
oltre un secolo gli Stati Uniti aspirano e progettano di sottomettere il
Canada, se e quando dovessero invaderlo, nessuno potrà dirsi sorpreso come è
successo con l’invasione dell’Ucraina lanciata dal presidente Putin.
Anche
lui lo aveva più volte pubblicamente annunciato e dimostrato di volerlo fare,
con le diverse annessioni della Crimea nel 2014, l’”Operazione Militare
Speciale” del 2022 e le sue ulteriori ed altrettanto palesate ambizioni nei
confronti di Paesi baltici ed ex Sovietici.
Cina.
I
leader cinesi ritengono che gli Stati Uniti siano distratti dai conflitti
interni e con i loro alleati e che la loro leadership manchi di visione
strategica.
La
Cina è molto scettica su ciò che Trump sta cercando di ottenere e non vede una “Grand
strategy” nella dottrina di politica estera degli Stati Uniti.
Anzi,
Pechino ritiene che gli sforzi di Trump alla lunga crolleranno sotto il peso
delle sue stesse contraddizioni ideologiche e dell’inevitabile opposizione che
il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti riceverà dal sistema politico
americano ed internazionale.
Pechino
pensa che gli Stati Uniti sono intenzionati ad intraprendere azioni militari
per il controllo di Panama e/o della Groenlandia, e di conseguenza “Xi Jinping”
si prepara ad attaccare Taiwan.
Stando
così le cose, diventa più probabile, piuttosto che meno, che la Cina faccia un
calcolo strategico sul fatto che potrebbe presentarsi il momento ideale per
colpire uno dei suoi vicini.
L’attacco potrebbe avere come obiettivo le “Filippine”
nel Mar Cinese Meridionale, o le contestate” isole Senkaku “nel Mar Cinese
Orientale, o forse la stessa “Taiwan”.
In ogni caso, Pechino ritiene che Trump,
sempre più isolato dagli alleati occidentali, sarà sopraffatto e incapace di
impedire le azioni della Cina o di invertirle una volta completate.
Che
questo sia vero o meno è irrilevante: questo è ciò che credono molte élite
cinesi.
Questa
linea di pensiero non deve essere presa alla leggera.
Nel corso della storia, sono stati commessi
gravi errori di calcolo strategico da parte di nazioni emergenti che credevano
che i loro rivali di status quo non fossero più le potenze dominanti di un
tempo.
A
volte queste supposizioni sono corrette, come quando il Giappone attaccò
l’Impero russo in difficoltà nel 1904, giudicandolo eccessivamente esteso e
debole.
Altre volte, queste convinzioni si rivelano
rovinose per la potenza attaccante, come quando il Giappone agì sulla base
delle stesse premesse contro gli Stati Uniti quarant’anni dopo.
Il
protagonismo di Elon Musk.
Elon
Musk, l’uomo ombra del presidente Trump che dirige il “Department of Government
Efficiency” (DOGE), che con il suo processo decisionale oltre a destrutturare
l’intero sistema pubblico, sta acutizzando la polarizzazione della società
americana e minando la fiducia nelle istituzioni, mostra un irrefrenabile
interesse anche per tutto ciò che riguarda la politica estera e quella di
sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Di recente ha espresso forti critiche con post
pubblicati sulla sua piattaforma “X” sulle acquisizioni di sistemi di difesa,
chiedendo al Pentagono di interrompere i finanziamenti per la produzione e gli
acquisti di caccia F-35 della Lockheed Martin, suggerendo di sostituirli con
una grande flotta di droni.
“I
caccia con equipaggio sono sistemi obsoleti nell’era dei droni. Faranno solo
uccidere i piloti”.
Affermazioni
che denotano una scarsa conoscenza strategica e che probabilmente derivano dal
fatto che la “Lockheed Martin” è uno dei maggiori concorrenti di “SpaceX” (di
proprietà di Musk) nei lanci nello Spazio.
Nondimeno,
venerdì 21 marzo, ricevuto dal nuovo Segretario alla Difesa “Pete Hegseth”, il
DOGE ha visitato il Pentagono, creando un ennesimo vortice di critiche sui suoi
enormi conflitti di interesse e altrettanti sospetti sul nulla osta di
segretezza che possiede.
Secondo
indiscrezioni comparse sui principali media, il super consigliere di Trump
avrebbe dovuto ricevere un briefing su temi militari Top-secret concernenti
alcuni progetti tecnologici e in particolare sui piani di guerra segreti.
Piani di guerra che potrebbero provocare
ripercussioni imprevedibili sui suoi interessi in Cina.
Mentre
l’amministrazione Trump non riesce ad uscire dalla frenesia mediatica che
avvolge la Casa Bianca dal suo insediamento, i cinesi potrebbero prepararsi a
colpire.
Il
presidente cinese “Xi Jinping”, da un lato risponde colpo su colpo ai dazi,
dall’altro sta inviando messaggi concilianti a Trump ed agli europei, con
l’obiettivo di negoziare accordi commerciali ed assumere un rilevante ruolo nei
processi di pace in Ucraina e Medioriente.
La
pace fa bene agli affari.
Ma
anche la guerra può essere un bene per gli interessi di nazioni imperialiste,
soprattutto se si è un leader cinese che ritiene il proprio Paese abbia
raggiunto una potenza tale da poter attaccare Taiwan e minacciare gli altri
suoi vicini, senza temere la reazione di un Occidente indebolito dalla dottrina
di politica estera trumpiana.
Una
recente ondata di video di propaganda cinese è proliferata sui media cinesi, immediatamente
diventata virale a livello globale.
Una campagna che fa mostra di modernissime
navi, aerei, droni, sistemi d’arma tecnologicamente avanzati, affidati ad un
esercito di 2 milioni di uomini super addestrati e motivati, in servizio attivo
e in stand-by 24 ore su 24, 7 giorni su 7.
Questi
video di propaganda sottolineano il fatto che la Cina ha la maggiore capacità
di mobilitazione di tutta l’Asia orientale.
I video spiegano poi che la Cina è pronta a
operare al “livello uno di prontezza”, uno stato di preparazione militare che è
stato attivato solo sei volte dalla fondazione del Partito Comunista Cinese.
Il
livello uno è l’equivalente di “Defcon One” nell’esercito degli Stati Uniti. Se
attivato, significa che la Cina è in guerra.
Sebbene
i video di propaganda siano generalmente progettati per operazioni di guerra
psicologica, per fuorviare, ingannare e disinformare, il fatto che questi video
stiano proliferando nei media di tutto il mondo, indica che in Cina sta
prendendo forma una narrativa ufficiale.
Questa
narrazione è che l’esercito cinese può – e probabilmente lo farà –
intraprendere un’azione drastica ed inarrestabile contro uno dei suoi vicini.
Lo
stanno facendo perché i leader cinesi ritengono che gli Stati Uniti siano
distratti e che la loro leadership sia indebolita e manchi di visione
strategica.
Una
intensissima campagna di propaganda per comunicare che la Cina è più che mai
pronta ad avviare una massiccia azione militare contro uno dei suoi vicini –
molto probabilmente, anche se non certamente, Taiwan.
Ma
Pechino, “Xi Jinping” e le “élite cinesi” si sbagliano nelle loro valutazioni,
proprio come le élite giapponesi che ottantacinque anni fa spingevano per una
guerra con gli Stati Uniti.
A
prescindere da come andranno i rapporti con gli Stati Uniti, la coalizione dei
volenterosi si sta velocemente organizzando e vede sempre più nazioni aderire
al progetto di difesa comune ed in sostegno dell’Ucraina.
In
questa situazione di tensioni tra Usa e EU, anche la Cina sta valutando la
propria disponibilità all’invio di forze di peacekeeping in Ucraina, su un
piano diverso da quello europeo, da un lato volto a rassicurare e proteggere il
suo alleato russo, dall’altro per tutelare i propri interessi economici e
geopolitici.
Partecipare a una missione in ucraina
significherebbe garantirsi un ruolo di primo piano nella fase di ricostruzione
post bellica dell’Ucraina, tutelare i propri investimenti minerari e
soprattutto proiettare un’immagine da potenza responsabile e affidabile.
Le
fratture tra l’amministrazione Trump e l’Ue sono un’occasione inaspettata per
un rapido riavvicinamento Cina-Europa.
E
Pechino non si lascerà sfuggire questa opportunità, mettendo in campo
operazioni strategiche per ricostruire il proprio soft power in seno alla Ue,
minato dal suo sostegno all’”Operazione Militare Speciale”.
Groenlandia.
Il
presidente Trump intende “rendere la Groenlandia di nuovo grande” e ha definito
la proprietà americana dell’isola artica come “una necessità assoluta” per la
sicurezza nazionale americana.
Il
tycoon ha ribadito il concetto anche in una telefonata con la premier danese “Mette
Fredriksen”, i cui toni sono stati definiti “controversi e aggressivi”.
Anche
la Groenlandia fa parte dei piani di guerra Usa sin dal secolo scorso.
Durante
il secondo conflitto mondiale, l’isola fu un protettorato statunitense ed
accettò di ospitare truppe americane dopo l’invasione nazista della Danimarca.
La più grande isola del mondo venne proclamata dal
presidente Franklin D. Roosevelt parte integrante della zona di influenza degli
Stati Uniti, nonostante la sua appartenenza alla corona danese.
Il
presidente Trump ritiene che l’annessione della Groenlandia da parte degli
Stati Uniti si verificherà, perché gli Stati Uniti hanno bisogno della grande
isola artica – “per la sicurezza internazionale”.
Per
tutti questi motivi, oggi non bisogna ripetere gli errori di valutazione
commessi a marzo 2022, quando molti esperti italiani di geopolitica escludevano
e minimizzavano ogni velleità bellica della Federazione russa. Non bisogna
assolutamente sottovalutare l’imprevedibilità e le ambizioni strategiche della
nuova Amministrazione Trump.
L’America
ha dichiarato guerra a sé stessa?
Osserveremo
attentamente gli sviluppi che nei prossimi mesi nell’Atlantico,
nell’Indo-Pacifico e nell’Artico, con l’auspicio che non si realizzi la profezia del
presidente Abraham Lincoln.
Nel
gennaio del 1838, il presidente degli Stati Uniti “Abraham Lincoln” avvertì in
un discorso a Springfield, nell’Illinois, dei pericoli che minacciavano gli
Usa:
“Se il
pericolo dovesse mai raggiungerci, sorgerà in mezzo a noi. Non può venire dall’esterno.
Se il nostro destino è la distruzione, noi stessi ne saremo gli autori e gli
artefici. Come nazione di uomini liberi, dobbiamo vivere per l’eternità, o
morire suicida”.
L’uomo
che sarebbe diventato il sedicesimo presidente americano anticipò così una
verità senza tempo:
le
democrazie non muoiono sotto i colpi delle forze ostili, ma sotto l’effetto
delle loro stesse contraddizioni.
Questo
avvertimento sta risuonando sempre più forte in occidente di fronte ai recenti
sconvolgimenti nella leadership degli Stati Uniti.
Ecco
come le aziende Usa
si
stanno adattando
ai
dazi di Trump.
Starmag.it
– Luca Sebatini – (21 Maggio 2025) – ci dice:
Pensieri
e mosse delle aziende americane alle prese con la politica doganale di Trump.
Fatti, numeri e approfondimenti.
Le
aziende Usa si stanno adattando ai dazi di Trump.
Le
negoziazioni in corso tra gli Stati Uniti e la Cina, così come con il resto del
mondo, hanno portato a un disgelo tra le parti sulla questione dazi.
Seppur le tariffe statunitense siano state
abbassate, al 10% a decine di paesi e al 30% quelle sulla Cina, la situazione è
ben lontana dall’essere risolta.
Per
questo le aziende americane, e non solo, stanno comunque continuando a correre
ai ripari.
FIDUCIA
E UMORE SOTTO ZERO PER LE AZIENDE.
Gli
esportatori di tutto il mondo, infatti, sono impegnati in un rapido
riadattamento delle proprie catene di approvvigionamento.
Obiettivo:
evitare il più possibile l’impatto dei dazi, che si stima possano portare a
perdite sulle esportazioni globali di 305 miliardi di dollari solo nel 2025.
A riportarlo è uno studio di Allianz sul
commercio globale.
Un’indagine
condotta, prima e dopo l’annuncio di Donald Trump delle tariffe, su 4500
aziende sparse in nove paesi:
Usa, Regno Unito, Cina, Francia, Germania,
Singapore, Italia, Polonia e Spagna.
Tra
queste aziende, meno della metà prevede una crescita delle esportazioni e il
27% di esse ritiene possibile dover interrompere la propria produzione almeno
per un breve periodo a causa della volatilità dovuta ai dazi.
Preparandosi
a ritardi e tagli, la fiducia delle aziende sta calando sempre più. Specie per
via dell’incertezza riguardo la strategia dell’amministrazione Trump.
E in molte sono orientate a incrementare i
prezzi ai danni di consumatori e clienti.
LE
AZIENDE AUMENTANO I PREZZI, I CASI WALMART E HOME DEPOT.
Sempre
secondo lo stesso studio di Allianz, “gli aumenti dei prezzi rimarranno
probabilmente la strategia preferita a livello globale per contrastare
l’impatto dei dazi”.
Tra le
aziende statunitensi, il 54% ha affermato di aver scelto l’aumento dei prezzi
come strada da percorrere.
Negli
altri paesi, invece, la percentuale è più bassa.
Negli Stati Uniti, tra chi ha deciso di alzare
i prezzi per via delle tariffe, c’è “Walmart”, multinazionale e catena di
negozi al dettaglio.
L’aumento
annunciato potrebbe avvenire già in queste settimane ed è il motivo per cui è
stata attaccata ferocemente da Trump.
Al
contrario, “Home Depot”, altra multinazionale che vende elettrodomestici,
servizi per la casa, attrezzi e materiali da costruzione, ha annunciato
un’altra strategia.
Il direttore finanziario dell’azienda, “Richard
McPhail”, ha infatti dichiarato: “Grazie alle nostre dimensioni, alle ottime
partnership con i nostri fornitori e alla produttività che continuiamo a
promuovere nella nostra attività, intendiamo mantenere in generale i nostri
attuali livelli di prezzo per tutto il nostro portafoglio”.
Niente
aumento dei prezzi, quindi.
E una stoccata a Walmart.
“Home
Depot” ha spinto per diversificare le fonti di approvvigionamento.
Come detto da “McPhail”, oltre la metà dei
prodotti dell’azienda è realizzata negli Usa e nessun altro paese straniero
rappresenterà più del 10% degli acquisti da qui al prossimo anno.
Ma
come riportato da “Quartz”, la scelta di “Home Depot “potrebbe essere solamente
politico-strategica (e temporanea).
Tra i
suoi fornitori, infatti, in diversi hanno già preannunciato possibili aumenti
dei prezzi, che potrebbero ricadere direttamente su “Home Depot”.
E nel primo trimestre del 2025 le vendite
dell’azienda sono diminuite, pur registrando un leggero aumento negli Usa.
Cercando di mantenere i prezzi uguali, dazi o
non dazi, l’azienda starebbe cercando di conquistare così la fiducia dei
clienti.
LA
CORSA AI MAGAZZINI DOGANALI NEGLI USA.
Intanto,
un’altra mossa di molte compagnie americane che importano beni dalla Cina per
rispondere ai dazi è quella di accaparrarsi spazi e magazzini doganali. Cioè
delle strutture in cui depositare le merci importate senza pagare
immediatamente i dazi doganali.
Dazi
che vengono pagati solo quando le merci effettivamente escono dal magazzino per
la vendita, quindi in rate più piccole.
Comprando
gli spazi di questi magazzini, i cui prezzi sono quadruplicati nel 2025, le
aziende di fatto provano a temporeggiare, scommettendo sul carattere temporaneo
della guerra commerciale tra Usa e Cina.
Attualmente questi magazzini doganali sono
circa 1700 in tutti gli Stati Uniti.
Ma
oltre a cercare di comprare spazi al loro interno, le aziende stanno provando a
crearne di nuovi, presentando domanda alla “Us Customs and Border Protection”.
I tempi però si sono allungati tremendamente:
se
l’anno scorso ci voleva un paio di mesi, ora si è arrivato a sei.
In
tutto ciò, il rischio è maggiore perché non si sa quali saranno gli sviluppi
dopo i 90 giorni di pausa decisi dalla Casa Bianca.
WALL
STREET SOTTOVALUTA I RISCHI DEI DAZI?
Nel
frattempo, a lanciare un allarme sulla situazione generale economica per gli
Usa dovuta ai dazi trumpiani, è stato “Jamie Dimon”, ceo di JpMorgan.
Secondo
lui, infatti, “Wall Street “starebbe sottovalutando i rischi di deficit
crescenti, dazi e tensioni geopolitiche, parlando di un ottimismo del mercato
come “un’enorme dose di compiacimento” per via prima del crollo e poi della sua
risalita.
Per Dimon anche le “banche centrali” sono
quasi compiacenti davanti a tutto ciò. “Voi tutti pensate che possano gestire
tutto questo. Io non credo che ci riusciranno”, ha avvertito durante la
riunione annuale degli investitori della sua banca.
Dimon
ha messo in guardia sul rischio, per lui, principale: la stagflazione.
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