Il ruolo delle Big tech.

 

Il ruolo delle Big tech.

 

 

“Big Tech” e “governi”

alla prova della verità.

Ispionline.it – (10 gennaio 2025) – Claudia Schettini – ci dice:

(Claudia Schettini associate Research Fellow).

Dopo anni di dominio quasi incontrastato, i colossi tecnologici sono a un banco di prova cruciale:

il loro futuro dipenderà dal complicato bilanciamento tra conformità normativa, sostenibilità e leadership settoriale.

Geoeconomia.

 

Negli ultimi anni la crescita indiscussa del settore tecnologico globale è costantemente al centro dell’attenzione mediatica, politica e geoeconomica.

 Aziende come SpaceX, NVIDIA e i giganti GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) hanno trasformato mercati, economie e società, raggiungendo un’influenza spesso superiore a quella degli Stati nazionali.

 Visionari come” Elon Musk” e “Jeff Bezos” incarnano un’epoca di innovazione senza precedenti.

 Tuttavia, il settore si trova ora al centro di un dibattito cruciale tra regolamentazione e innovazione, con una crescente pressione da parte di governi e organizzazioni internazionali preoccupati per le implicazioni sociali, economiche e geopolitiche.

 

Il ritorno di” Donald Trump” alla Casa Bianca e l’influenza di “Elon Musk”, oggi alla direzione del “DOGE” (Department of Government Efficiency), introducono nuove dinamiche per le Big Tech.

“Trump” potrebbe favorire un allentamento delle restrizioni antitrust, incentivando concentrazione e acquisizioni, mentre “Musk”, figura di rottura, sfida i regolatori imponendo standard alternativi, come dimostra” Starlink di SpaceX”, che fornisce Internet a oltre 4 milioni di utenti, spesso in aree remote prive di alternative.

Sulla scia di Musk che aveva rivoluzionato Twitter (ora X) in nome della libertà d’espressione, Mark Zuckerberg, presidente e amministratore delegato di Meta, ha deciso lo scorso 7 gennaio di eliminare i fact-checker su Facebook e Instagram, dichiarando di voler puntare anche lui sulla “libertà di parola”, attuando di fatto una forte deregolamentazione nel filtraggio dei contenuti pubblicati sulla piattaforma.

 Si tratta, almeno per ora, di una scelta limitata agli Stati Uniti.

Non è chiaro come si regolerà “Meta” per l’Europa, dove si applicano leggi più stringenti sulle politiche di moderazione, con più potere affidato agli utenti e ai cosiddetti “segnalatori attendibili” (di contenuti fake news o simili), certificati e indipendenti.

Questa convergenza tra politiche pro-business e innovazione radicale promette un’accelerazione tecnologica, ma rischia di ampliare disuguaglianze e monopoli. Come bilanciare regolamentazione e progresso diventa così una sfida urgente e decisiva.

 

Un potere senza precedenti e in ascesa.

Lo scorso novembre un’analisi S&P Global Market Intelligence ha evidenziato un forte incremento delle spese in conto capitale delle Big Tech tra il 2023 e il 2027. Gli investimenti, passati da 170 miliardi di dollari nel 2023 a una proiezione di oltre 250 miliardi di dollari nel 2027, sono guidati da “Alphabet” e “Amazon”, cui seguono in scia “Microsoft”, “Meta” e, in misura minore, “Oracle”.

Questo aumento riflette l’impegno nel rafforzare le infrastrutture tecnologiche per sostenere la crescita in settori strategici come “cloud computing”, “intelligenza artificiale” (IA), “spazio” e “difesa”.

 

I settori coinvolti e gli attori protagonisti sono molti.

Nel panorama digitale il “gruppo GAFAM “domina mercati chiave quali “advertising online”, “messaggistica” e” hardware consumer”, sviluppando ecosistemi sempre più chiusi e interconnessi.

Nel settore dell’”IA NVIDIA” si afferma come leader grazie ai suoi “chip grafici”, fondamentali per applicazioni avanzate come riconoscimento facciale e modelli linguistici.

 Secondo un rapporto di McKinsey, la corsa all’”IA generativa”, innescata da “OpenAI”, ha portato a un aumento nell’adozione della stessa, con il 65% delle organizzazioni che ne fanno regolarmente uso – quasi il doppio rispetto a dieci mesi prima.

 

Nel settore spazio e difesa “SpaceX” ha rivoluzionato l’industria riducendo i costi dei lanci e aprendo nuove possibilità per colonizzazione spaziale e comunicazioni satellitari.

 “Starlink”, con il suo impatto geopolitico e sulla sicurezza, dimostra come l’infrastruttura privata stia ridefinendo il ruolo strategico dello spazio.

 In effetti, la” NASA”, storicamente dominante, si trova progressivamente dipendente dall’innovazione e dalle infrastrutture del colosso privato, evidenziando un crescente squilibrio di potere che ridisegna il rapporto tra pubblico e privato nell’esplorazione spaziale.

 

Negli ultimi due decenni i colossi digitali, in particolare i “GAFAM”, hanno capitalizzato lacune normative per consolidare e ampliare il loro spazio di manovra, ottenendo il controllo di infrastrutture critiche, influenzando opinioni pubbliche e politiche nazionali e creando monopoli in diversi settori.

 Prima del “Regolamento generale sulla protezione dei dati” (GDPR) del 2018, le normative europee sulla protezione dei dati erano frammentarie, permettendo a “Facebook” e “Google” di basare i loro modelli di business sul tracciamento degli utenti senza consenso informato.

Analogamente l’assenza di regole chiare sulla concorrenza ha favorito pratiche aggressive da parte di “Amazon”, come il dumping per promuovere prodotti a marchio proprio.

E proprio la crescente consapevolezza del loro impatto ha portato governi, con l’UE in prima linea, a rafforzare la regolamentazione.

 

La stretta regolatoria in USA: un cambio di rotta?

A fronte di questa ascesa, il tema della regolamentazione è già stato oggetto di diverse azioni legislative, seppur con modalità differenti.

Negli Stati Uniti l’amministrazione Biden ha rafforzato il controllo sul settore con la “Federal Trade Commission” (FTC), che ha avviato “cause antitrust” contro numerose aziende tecnologiche per contrastare pratiche anticoncorrenziali.

Nel 2020 la FTC ha avviato la più famosa causa antitrust contro “Meta”, accusando l’azienda di mantenere illegalmente il monopolio nel mercato dei social network personali attraverso le acquisizioni di Instagram nel 2012” e “WhatsApp” nel 2014.

Tuttavia, con il ritorno di Trump e l’ascesa di “Elon Musk” si potrebbe assistere a un’inversione verso politiche più permissive, favorevoli alle Big Tech.

Trump ha, infatti, già espresso l’intenzione di smantellare quello che definisce il “cartello della censura” per le grandi aziende tecnologiche, nominando il consigliere legale “Brendan Carr”, noto per le sue posizioni conservatrici in maniera di regolamentazione, alla guida della” Federal Communications Commission” (FCC) proprio per affrontare la questione.

 

L’ultima mossa di Zuckerberg, ricalcando il modello “X”, sembra venire incontro alle posizioni del prossimo presidente degli Stati Uniti, che aveva più volte accusato il “CEO di Meta” di aver danneggiato i repubblicani rendendo meno visibili i loro post.

Dopo la vittoria di Trump alle elezioni di novembre contro” Kamala Harris”, “Meta e altre grandi aziende tecnologiche” hanno dunque provato a tutelarsi dalle possibili accuse di ostilità verso l’amministrazione entrante.

Volendo fare un paragone tra le figure, in questo momento chiave, di Zuckerberg e Musk, quali sono le principali differenze di policy tra i due?

 In primo luogo, sicuramente entrambi hanno adottato sistemi di moderazione basati sulla comunità, ma mentre” Musk” ha implementato le “Community Notes” su “X” per promuovere la trasparenza, “Zuckerberg” ha seguito questa strada solo recentemente, dopo aver inizialmente sostenuto un approccio più centralizzato con fact-checker indipendenti.

 Nel suo video del 7 gennaio il CEO di Meta, annunciando di voler lavorare con la nuova amministrazione USA “per respingere i governi di tutto il mondo che se la prendono con le società americane e premono per una censura maggiore”, ha accusato tra l’altro l’Europa di avere “un sempre crescente numero di leggi che istituzionalizzano la censura e rendono più difficile realizzare qualsiasi innovazione lì”.

Zuckerberg ha anche accusato l’amministrazione Biden di pressioni per la censura.

 

Inoltre, dopo essersi mosso rapidamente per sciogliere i rapporti tesi con la Casa Bianca, alcune decisioni recenti, avvenute in capo all’”amministrazione Meta”, possono essere viste come un tentativo di venire incontro a Trump.

Joel Kaplan, repubblicano di lunga data e vice-capo di gabinetto alla Casa Bianca durante l’amministrazione di George W. Bush, è stato promosso come nuovo responsabile della politica globale di Meta.

“Dana White”, capo dell’”Ultimate Fighting Championship” e alleata di Trump, si è unita al consiglio di amministrazione dell’azienda.

L’annuncio conferma un riallineamento dei colossi del tech con le strategie della Casa Bianca di Trump e del nuovo Congresso in mano repubblicana.

Dopo Musk e Bezos – il primo grande elettore del futuro presidente, il secondo tra i primi a congratularsi per il successo nel voto di novembre – anche Zuckerberg si sta preparando a un netto cambiamento nella leadership a Washington.

 

Quale regolamentazione fuori dagli USA?

Se negli USA si prevede un allentamento delle restrizioni, le altre grandi economie si stanno, invece, comportando diversamente.

A livello internazionale, l’Unione europea si conferma leader nella regolamentazione tecnologica con l’approvazione nel 2022 del “Digital Markets Act” (DMA) e del “Digital Services Act” (DSA), volti a limitare il potere monopolistico e a rafforzare trasparenza e responsabilità.

Negli ultimi anni giganti come Google e Amazon hanno affrontato sanzioni superiori a 10 miliardi di euro per violazioni delle norme sulla concorrenza.

In particolare, nel 2017 Google ha subito dalla Commissione europea una multa di 2,4 miliardi per abuso di posizione dominante nel servizio di comparazione prezzi, sanzione confermata dalla Corte di giustizia dell’UE nel settembre 2024. 

 

In Asia la Cina ha invece intrapreso un approccio radicale contro colossi nazionali come “Alibaba” e “Tencent”, imponendo restrizioni su algoritmi, dati e fintech per riaffermare la sovranità digitale.

“Alibaba” è così stata multata per abuso di posizione dominante nel mercato dell’e-commerce.

 Si sono aggiunte le più severe regolamentazioni della banca centrale cinese nei confronti della società di pagamento digitale affiliata, “Ant Group”, imponendo restrizioni sulle loro attività finanziarie.

Tuttavia, le misure cinesi si distinguono da quelle statunitensi ed europee per il controllo statale diretto, con l’utilizzo della regolamentazione come strumento politico.

 

Dal canto suo, nel 2021 la Corea del Sud è diventata il primo Paese al mondo a introdurre una legge per limitare il monopolio di Google e Apple sui pagamenti in-app.

La normativa obbliga le piattaforme a consentire l’uso di sistemi di pagamento alternativi, promuovendo una maggiore concorrenza e riducendo le commissioni imposte agli sviluppatori.

Questa misura segna un importante precedente nella regolamentazione delle Big Tech.

 Il Giappone ha intensificato i suoi sforzi regolatori, concentrandosi in particolare su questioni di antitrust e concorrenza riguardanti aziende come Apple e Google.

La strategia del Paese sembra mirare a un equilibrio tra lo stile normativo incisivo dell’UE e l’approccio storicamente cauto e ponderato delle pratiche di enforcement giapponesi.

Nell’Indo-Pacifico anche Paesi come India e Australia stanno implementando normative per riequilibrare il rapporto tra Big Tech ed economie locali, introducendo tassazioni più elevate e requisiti per la gestione nazionale dei dati degli utenti.

Tutti sviluppi che riflettono una crescente frammentazione dell’approccio globale al controllo delle grandi piattaforme digitali.

 

I costi della conformità per il settore digitale.

La crescente stretta regolatoria comporta rischi significativi per il settore tecnologico.

Un eccesso di restrizioni potrebbe rallentare l’innovazione, scoraggiando gli investimenti in ricerca e sviluppo, fondamentali per il progresso tecnologico.

Dopo l’introduzione del “GDPR” nell’UE molte start-up tecnologiche europee hanno ridotto lo” sviluppo di progetti basati su big data” per timore di non rispettare la normativa.

 

Tale onere finanziario potrebbe spingere le aziende a delocalizzare i centri di innovazione verso Paesi con regole più permissive, indebolendo la competitività delle economie più regolamentate.

Multinazionali come “OpenAI” e “Google Deep Mind” hanno espresso preoccupazioni sulle restrizioni proposte dall’”AI Act” europeo, con il rischio che i centri di ricerca vengano spostati negli USA o a Singapore, dove le normative risultano più flessibili.

L’eccessiva regolamentazione europea è, infatti, una delle ragioni principali del perché il settore tecnologico è dominato dagli Stati Uniti, che ospitano tre delle start-up di intelligenza artificiale più importanti (Anthropic, OpenAI e xAI).

 

È proprio il “Rapporto Draghi “sulla competitività europea a evidenziare come l’attuale quadro normativo dell’UE nel settore digitale presenti sfide significative, in particolare per le piccole e medie imprese (PMI), ostacolando l’innovazione e la crescita nel settore digitale delle stesse.

 I costi di conformità, inoltre, gravano in modo sproporzionato sulle PMI, consolidando il dominio dei grandi attori del mercato.

 L’adeguamento all’”AI Act “dell’UE potrebbe costare a una PMI tipo circa 300 mila euro – pari all’1,3% del suo fatturato.

Questo contesto rischia di scoraggiare l’innovazione e aumentare le disuguaglianze tra grandi aziende e piccole imprese.

 

Innovazione e adattamento: la chiave per mantenere la leadership.

Nonostante le sfide regolatorie, l’innovazione resta il fulcro delle Big Tech, che stanno rispondendo all’aumento della pressione regolatoria con strategie diversificate per proteggere il loro dominio di mercato.

Da un lato, aziende come “Alphabet” e “Microsoft” stanno rafforzando gli investimenti in compliance, creando infrastrutture legali e operative per rispettare le normative locali, in particolare in Europa.

Questo include la localizzazione dei dati e la trasparenza sugli algoritmi, requisiti previsti da regolamenti come il DMA.

Parallelamente, l’aumento delle spese in conto capitale, come in “data center”, riflette l’impegno nel mantenere la competitività globale senza incorrere in violazioni.

 Tuttavia, il vero nodo è rappresentato dall’effetto delle normative sull’innovazione:

mentre alcune restrizioni spingono a sviluppare tecnologie più etiche e sostenibili, altre rallentano il time-to-market, obbligando le aziende a ridimensionare o ripensare i propri modelli di business.

 

Oltre a essere motori di progresso, queste aziende rivestono anche una responsabilità cruciale nell’affrontare le grandi sfide globali.

La protezione dei dati personali, in particolare, è emersa come una priorità dopo lo scandalo di “Cambridge Analytica”, che ha evidenziato i rischi per la privacy degli utenti.

In risposta, alcune aziende stanno adottando misure concrete per rafforzare la fiducia e rispettare le normative locali.

“Microsoft”, con l’iniziativa “EU Data Boundary”, garantisce che i dati dei clienti europei siano archiviati e processati esclusivamente all’interno dell’UE, promuovendo la sovranità digitale europea e la conformità alle leggi sulla privacy. 

 

Parallelamente, la sostenibilità ambientale rappresenta una ulteriore sfida critica per il settore tecnologico.

Data center e attività estrattive di minerali rari contribuiscono al 4% delle emissioni globali di gas serra, superando quelle del settore aeronautico.

 In risposta, le Big Tech stanno investendo per ridurre la loro impronta ecologica.

“Apple ha raggiunto l’obiettivo di operare al 100% con energia rinnovabile e mira a rendere la sua intera catena di fornitura “carbon neutral” entro il 2030”.

“Google”, dal canto suo, ha finanziato progetti di energia pulita per compensare il consumo dei suoi data center, dimostrando come innovazione e responsabilità sociale possano coesistere per promuovere un progresso sostenibile ed equo.

 

Il mantenimento dell’influenza delle Big Tech dipenderà, dunque, dalla loro capacità di affrontare sfide strategiche chiave, a partire dall’adattamento ai nuovi approcci legislativi, cruciale per sostenere la crescita nel lungo termine.

Questi sforzi non solo rispondono alle richieste normative, ma rafforzano anche la fiducia dei consumatori, consolidando la loro posizione nei mercati globali.

L’eccessiva regolamentazione potrebbe, infatti, livellare il campo di gioco, aprendo spazi per nuovi attori, come le start-up tecnologiche.

 Aziende emergenti nell’intelligenza artificiale e nelle tecnologie verdi stanno già sfidando i giganti.

“ OpenAI”, ad esempio, ha dimostrato di poter competere con colossi come “Google” e “Meta” nel settore dell’ “IA generativa”. Anche in ambiti come la cybersicurezza aziende di nicchia stanno guadagnando terreno, approfittando della crescente attenzione verso soluzioni specializzate.

 

Un equilibrio possibile o la fine di un’era di dominio incontrastato?

Il panorama normativo globale potrebbe evolversi verso due tendenze principali: una maggiore armonizzazione delle regole o una frammentazione regionale.

 Nel primo scenario l’adozione di standard globali, soprattutto in ambiti come l’IA, potrebbe facilitare l’innovazione e ridurre i costi di compliance.

Tuttavia, un approccio frammentato, con normative divergenti tra UE, Stati Uniti e Cina, rischia di creare ecosistemi tecnologici regionalizzati, limitando la scalabilità e la competizione globale.

 In parallelo, la competizione geopolitica renderà le Big Tech protagoniste nei settori della sicurezza nazionale e delle infrastrutture critiche.

L’esempio di Starlink, che ha rivoluzionato le comunicazioni satellitari con implicazioni strategiche globali, dimostra come l’innovazione privata possa influenzare equilibri geopolitici.

In questo contesto le Big Tech dovranno bilanciare la conformità normativa con la spinta all’innovazione in settori emergenti come il “quantum computing”, l’“IA generativa” e la “biotecnologia”, ridefinendo il loro ruolo non solo come attori economici, ma anche come players strategici nella politica globale.

 

Infine, il futuro richiede un nuovo equilibrio nel rapporto tra pubblico e privato, dove un approccio collaborativo possa rappresentare la via più efficace.

Regole chiare e trasparenti, capaci di bilanciare lo sviluppo tecnologico con la necessità di equità e sostenibilità, saranno fondamentali per affrontare le sfide del nostro tempo.

 In un’epoca in cui il digitale è il motore dell’economia globale, la capacità di gestire questa complessa dualità determinerà il nostro futuro.

Le Big Tech sono a un banco di prova cruciale, così come le istituzioni chiamate a guidare, e non solo a regolamentare, il cammino verso un progresso condiviso.

 

 

 

Governare la potenza delle Big Tech,

 prima che sia troppo tardi:

i rischi del “Wild Web.”

Agendadigitale.eu – Emiliano Mandroni – (25 settembre 2024) ci dice:

 

Digitale e democrazia.

Mercati digitali.

L’approccio deregolamentato delle Big Tech americane ricorda il Far West: tanto spazio, poche leggi.

 La concentrazione economica genera potere politico, minacciando la qualità democratica.

 Urge regolamentare il potere tecnologico, includendo hardware e software nel contratto sociale, per evitare che l’economia domini la politica e tutelare i cittadini dalla perdita di sovranità

 

Big tech.

L’approccio degli americani con il Web è stato lo stesso tenuto col West:

tanto spazio e poche leggi.

La storia la scrivono i vincitori, anche nelle guerre finanziarie e tecnologiche: chi ce l’ha fatta ha ragione.

Dietro questo equivoco si nasconde ancora l’idea che il fine giustifichi i mezzi, ignorando principi, valori e diritti conquistati nel tempo, derubricati a esitazioni e scrupoli morali.

Così si riafferma il primato (di fatto) dell’economia sulla politica che porta a confondere leadership e consenso.

Indice degli argomenti.

Governare la potenza delle imprese tecnologiche.

Tecno-regolamentazione: le norme dettate dalle big tech.

Contratti digitali e cessione di sovranità.

I rischi della democrazia eterodiretta influenzata dai social.

I rischi dei monopoli digitali.

Conclusioni:

Governare la potenza delle imprese tecnologiche.

Il binomio fortuna economica – consenso politico sta diventando sempre più ricorrente mettendo in discussione la qualità delle democrazie.

 Quando la concentrazione economica è così grande produce un potere politico rilevante, che non può essere lasciato ad una élite di miliardari eccentrici.

 La potenza delle imprese tecnologiche è iperbolica e va governata prima che superi il punto di non ritorno.

Le istituzioni, dunque, devono collocare pure l’hardware e il software nel perimetro del contratto sociale, come tutti gli altri poteri.

 

La natura dell’impresa digitale – apparentemente intangibile – ha sorpreso istituzioni novecentesche pensate per la manifattura, l’industria e il commercio, aggirando un caposaldo del libero mercato come la concorrenza.

L’antitrust fu pensato ben 110 anni fa per smembrare la flotta di petroliere di Rockefeller, egemone a livello mondiale.

Una concentrazione non dissimile da quella delle odierne big-tech (Google, Microsoft, Meta, X … Amazon o Apple).

È più facile vedere le petroliere che i server?

 

Sempre più numerose e frequenti sono le intromissioni nella politica, le prese di posizioni, gli anatemi o le minacce che fanno questi tycoon. Come latifondisti che gestiscono il loro spazio di influenza non come proprietari ma più come veri e propri governatori di quell’ambiente.

 Insomma, i tiranni digitali (Mandrone, 2022) fanno quello che vogliono, fagocitano gli oppositori e infondono paura, soprattutto in chi gli è vicino.

Non contemplano la discussione, non hanno bisogno di consenso e si sentono infallibili.

Poco gli importa delle conseguenze dei loro capricci sui paesi e le persone.

 

Tecno-regolamentazione: le norme dettate dalle big tech.

Si è parlato spesso di fuga dal diritto, cioè della ricerca sistematica di rapporti che eludono gli ordinamenti degli Stati sovrani per sfuggire alle loro prescrizioni (tassazione, sicurezza, remunerazione, normativa) ma, oggi, forse bisognerebbe aggiungere la “tecno-regolamentazione”, ovvero quella patina di para-normativa imposta dalle grandi imprese e dalle piattaforme per utilizzarle ma senza un mandato popolare. Di fatto, ulteriore codice ma senza alcuna legittimazione democratica è stato redatto per regolare la dimensione digitale.

 

Contratti digitali e cessione di sovranità.

I contratti che stipuliamo – distrattamente – sul web creano continuamente sovrastrutture che hanno un impatto reale e forte sulla vita delle persone. Curvando il diritto dei singoli ambiti e paesi ad una pletora di precisazioni e indicazioni pervasive e sempre più tecniche.

Sono spacciate per politiche aziendali, strategie commerciali, adesioni volontarie, regole di comunità, pensate affinché l’utente, da ovunque digiti, aderisca ad un sistema di riferimento solidale ad un set certo valoriale, salvo cedere progressivamente parti sempre maggiori della propria sovranità.

 

La parte più insidiosa della questione è l’idea che ogni volta, ognuno di noi, dovrebbe leggere patti e accordi per accedere ai servizi, magari sempre gli stessi: dai social ai media, dalle piattaforme pubbliche (scuola, sanità fisco, anagrafe, ecc.) a quelle private (banche, assicurazioni, servizi, utenze, ecc.). Questo escamotage è una resa dell’ordinamento nazionale e comunitario che, invece, dovrebbe tutelare e circoscrivere le azioni unilaterali di questi soggetti per i cittadini, per quelli che non sono in grado di comprendere le implicazioni di certe scelte.

 

I rischi della democrazia eterodiretta influenzata dai social.

Inoltre, lo strapotere dei social-media corrompe la meccanica democratica poiché la loro influenza (se non manipolazione o, in certi casi, propaganda) non consente al cittadino comune una lettura corretta e una valutazione adeguata delle questioni (sempre più complesse) riducendo il suo voto a una liturgia laica (sempre meno partecipata).

Siamo passati dalla democrazia diretta alla democrazia eterodiretta, senza neanche accorgercene.

 

I legislatori riponevano grande fiducia nella capacità della scuola pubblica, e quindi di un livello di istruzione medio, la realizzazione degli auspici, dei diritti e delle prerogative democratiche. Ciò è sempre meno vero, con la conseguenza di una partecipazione sempre meno consapevole.

 

Chi usa un computer deve essere tutelato dalla legge e dalle istituzioni locali come chi usa guida una automobile o compra una maglietta, indipendentemente da dove è prodotta. Non è possibile delegare ai singoli cittadini la tutela della propria privacy e dei propri dati. È una posizione asimmetrica, in cui il cittadino-web user è la parte debole.

 

Abbiamo progressivamente perso quote di potere in cambio delle briciole di quei cookies che si premurano continuamente di farci autenticare. Ma chi gli ha dato l’autorità per farlo? Perché surrettiziamente le garanzie analogiche ci sono state sottratte nel piano digitale? Prima che sia troppo tardi, è il momento di frenare lo strapotere delle grandi aziende tecnologiche e dei suoi proprietari.

 

Principi, regole e limiti vanno negoziati preliminarmente. Dobbiamo essere informati (noi o i nostri rappresentanti) per valutarne le implicazioni. Ma, soprattutto, dovrebbero essere i player a uniformarsi alle nostre regole (europee) non chiedere di aderire, per parti o per l’intero, a norme d’oltreoceano. Quale altro prodotto o servizio accettereste di sottoscrivere sapendo che è regolato da leggi diverse da quelle del vostro Paese o che sono decise (e possono cambiare) unilateralmente?

 

I rischi dei monopoli digitali.

Forse si è aperta una breccia in questo muro.

Un giudice federale degli Stati Uniti ha condannato “Alphabet,” la società proprietaria di “Google”, per aver agito con lo scopo di mantenere un monopolio nella ricerca online.

È accusato di aver consolidato illegalmente il suo predominio, in parte, pagando ad altre aziende, come “Apple e Samsung”, miliardi di dollari all’anno (nella sentenza si parla di più di 26 miliardi di dollari nel solo 2021) per gestire le ricerche sui loro smartphone e browser web.

“Google “controlla il 90% delle ricerche online:

una posizione totalmente dominante, non concessa a nessuna azienda in nessun settore.

 I giudici affermano quello che già tutti sapevamo: Google è un monopolista.

 

Il monopolista, la storia ce lo insegna, agisce come un predatore al vertice della catena alimentare, guidato dall’istinto, senza alcun timore, lasciando solo gli scarti della sua preda agli avvoltoi.

 Il mercato, senza un regolatore pubblico efficace, torna allo stato di natura, homo homini lupus.

 

Conclusioni

Questa gara verso il successo ha fatto correre tanti rischi ma ha alimentato tantissimo il progresso tecnologico.

 Dai garage in cui scrivere programmi o assemblare componenti fino alle big-tech, tanti hanno partecipato alla corsa all’oro digitale.

La competizione tecnologica esasperata, però, ha i suoi costi:

qualcuno vince, molti perdono.

Parafrasando Sergio Leone; quando un uomo con un computer nuovo incontra uno con un computer vecchio, quello con il computer vecchio è un uomo morto.

 

 

 

Le Big Tech e il racconto

dell’intelligenza artificiale.

Centroriformastato.it – (5 Luglio 2024) - Daniela Tafani – ci dice.

Il problema politico relativo allo sviluppo e alle applicazioni dei sistemi di intelligenza artificiale non riguarda l’allineamento di una mente artificiale con i nostri valori, ma il disallineamento tra gli interessi dei monopoli della tecnologia e l’interesse pubblico.

L’economia delle promesse.

Nella famiglia di tecnologie denominata, per ragioni di marketing, «intelligenza artificiale», alcuni genuini progressi sono stati ottenuti, a partire dal 2010, con sistemi di natura statistica, antropomorficamente definiti di «apprendimento automatico» (machine learning).

 Si tratta di sistemi che, anziché procedere secondo le istruzioni scritte da un programmatore, costruiscono modelli a partire da esempi.

Sono statistiche automatizzate, prive, in quanto tali, di intelligenza:

«sistemi probabilistici che riconoscono modelli statistici in enormi quantità di dati» (Whittaker 2024).

Dovrebbero perciò essere utilizzati solo per compiti con una elevata tolleranza al rischio.

 

La costruzione dei sistemi di apprendimento automatico richiede, tra gli altri, un’elevata potenza di calcolo e enormi quantità di dati:

queste sono oggi nella disponibilità dei soli monopoli della tecnologia (le cosiddette Big Tech), che detengono l’accesso al mercato necessario per l’intercettazione di grandi flussi di dati e metadati individuali e le potenti infrastrutture di calcolo per la raccolta e l’elaborazione di tali dati (Lynn, von Thun, Montoya 2023).

 Su tali aziende si concentrano gli investimenti del capitale di rischio.

A chi investa in capitale di rischio non serve che una tecnologia sia utile o che funzioni;

serve soltanto che le persone credano che funzioni, per un tempo sufficientemente lungo da rendere possibile un ritorno sugli investimenti, e che le responsabilità per i danni causati da prodotti pericolosi o non funzionanti non ricadano sulle aziende che producono o distribuiscono tali prodotti.

 Il capitale di rischio è alla base di un’economia delle promesse:

la promessa di un enorme guadagno finanziario in breve tempo e la promessa che la tecnologia ci condurrà verso un futuro meraviglioso (Foureault 2024).

Di qui, i messianesimi eugenetici dei miliardari bianchi che invitano l’opinione pubblica a occuparsi del futuro dell’umanità, anziché del presente, e la promessa che il bene dell’umanità sarà il frutto delle tecnologie su cui questi stessi miliardari concentrano, di volta in volta, i loro investimenti (Gebru, Torres 2024).

 

Il modello di business dei monopoli della tecnologia si regge sulla sorveglianza di massa, che consente loro di fornire a soggetti pubblici e privati la promessa di una profilazione algoritmica e servizi di sorveglianza extragiudiziale.

 La stessa intelligenza artificiale è oggi una tecnologia di sorveglianza.

Nei paesi nei quali una sorveglianza generalizzata e pervasiva è vietata, il modello di business delle grandi aziende tecnologiche si basa su una «bolla giuridica» ossia sulla violazione sistematica di diritti giuridicamente tutelati e sulla scommessa che sarà il diritto a cedere.

Le aziende scommettono, in particolare, che l’illegale trasformazione in merce di tutti i dati e i metadati personali dei cittadini darà luogo non a interventi sanzionatori, bensì alla rinuncia alla tutela giuridica dei diritti fondamentali violati da tale pratica (Giraudo, Forsch-Villaronga, Malgieri 2024).

 

Le narrazioni dei monopoli digitali.

 

Affinché ciò accada, le Big Tech hanno diffuso alcune narrazioni – idee trasmesse nella forma di storie – che danno forma alla percezione pubblica del rapporto tra etica, politica, diritto e tecnologia.

Così, i monopoli della tecnologia affrontano il conflitto tra i loro interessi privati e l’interesse pubblico non con un’aperta imposizione della loro volontà, ma facendo sì che alcune narrazioni entrino a far parte del senso comune, determinando l’impostazione di fondo e gli assiomi di qualsiasi discussione pubblica sull’intelligenza artificiale (Tafani 2023b).

Si tratta di una forma di cattura del regolatore che opera nella dimensione culturale:

distorcendo la concezione condivisa di ciò che è di interesse pubblico e sopprimendo la possibilità stessa di concepire alternative, si ottiene che le politiche pubbliche favoriscano le industrie che dovrebbero regolare, a scapito del reale interesse pubblico e senza che si manifestino dissensi o proteste significativi.

Il conflitto è infatti soppresso in via preliminare, attraverso narrazioni che oscurano gli interessi in gioco e producono un consenso generale, accompagnato dalla tendenza a liquidare come retrogrado o luddista chiunque non condivida in partenza l’impostazione prefissata.

Il regolatore consulterà allora, quali esperti, i lobbisti delle aziende che dovrebbe regolare, giacché condivide con loro gli schemi culturali e le assunzioni fondamentali riguardo agli obiettivi da perseguire con la regolazione stessa (Y Li 2023).

 

Le principali narrazioni riguardano oggi la digitalizzazione, il concetto stesso di intelligenza artificiale, il principio dell’inevitabilità della tecnologia, il principio di innovazione, il soluzionismo tecnologico, la fine del lavoro, i miti dell’eccezionalismo tecnologico e del vuoto giuridico e il ruolo dell’etica.

Trattandosi di narrazioni strumentali, finalizzate a proteggere un modello di business, ne possono essere diffuse di nuove con la stessa velocità con cui si procede al lancio di una campagna di marketing.

 

La funzione di tali narrazioni è anzitutto quella di quella di garantire la generale accettazione della sorveglianza di massa come inevitabile e benefica:

 negli anni, anche nei documenti ufficiali di istituzioni sovranazionali quali l’OCSE, il termine «sorveglianza» è stato sostituito da «digitalizzazione», con uno slittamento da una rappresentazione della sorveglianza di massa come caratteristica dei regimi totalitari, incompatibile con la protezione dei diritti fondamentali e inaccettabile entro i sistemi democratici, a una concezione positiva della medesima sorveglianza, nella sua versione digitalizzata (Padden 2023).

Con un approccio soluzionistico, in virtù del quale qualsiasi problema sociale sarebbe passibile di una soluzione tecnica, la moltiplicazione di prodotti, fabbriche e addirittura intere città smart, ossia connesse e in grado di trasmettere dati e metadati personali, a fini di sorveglianza e controllo, è presentata ora quale tappa inevitabile nel progresso dell’umanità, utile a meglio organizzare la società e foriera di sicurezza, efficienza e crescita economica.

 

La narrazione per cui «la tecnologia» sarebbe inevitabile e inarrestabile serve a nascondere gli attori umani, le loro scelte interessate e le loro responsabilità, inducendo a dare per scontato che ogni singolo sistema di intelligenza artificiale sia «qui per restare» o che «se non lo facciamo noi, lo farà qualcun altro».

Qualsiasi dibattito ha luogo perciò entro la logica del fatto compiuto, svuotando preventivamente di significato le domande sulla legittimità e sull’opportunità dello sviluppo o dell’applicazione di alcune specifiche tecnologie (Tafani 2023b).

A chi ponga tali domande, non è riconosciuto neppure il ruolo di interlocutore nel dibattito;

lo si riduce a un problema – con una «resistenza alla resistenza» (Padden 2023), che mira a neutralizzare la possibilità stessa di un conflitto – che può essere risolto instillando nei cittadini, con un antropomorfismo di stampo religioso, la fiducia nell’intelligenza artificiale.

 

L’antropomorfizzazione dei sistemi di intelligenza artificiale.

 

L’antropomorfizzazione dei sistemi di intelligenza artificiale è indotta dalle aziende in quanto consente loro di immettere sul mercato prodotti e servizi basati su tecnologie immature – che dovrebbero essere oggetto, al momento, di sola ricerca, non di distribuzione generalizzata e commercio – presentandoli come intelligenti e autonomi e sfuggendo così alle proprie responsabilità.

 Quando sistemi statistici automatizzati siano utilizzati per prevedere il futuro di singoli individui e assumere di conseguenza decisioni rilevanti per le loro vite, si generano automaticamente discriminazioni ineliminabili contro chiunque si trovi ai margini dei modelli algoritmici di normalità.

 Si tratta di sistemi incompatibili con lo Stato di diritto (Tafani 2024), per i quali alcuni giuristi hanno proposto di prevedere un’automatica «presunzione di illegalità» (Malgieri, Pasquale 2024).

 In virtù dell’antropomorfizzazione dell’intelligenza artificiale, le aziende, anziché ammettere che simili sistemi semplicemente non funzionano, possono sostenere che essi, come gli esseri umani, adottano talvolta decisioni discriminatorie.

 Appare così plausibile che ai danni, alle ingiustizie e alla assurdità prodotte dai sistemi di apprendimento automatico si possa porre rimedio con l’etica dell’intelligenza artificiale, ossia con la moralizzazione di un sistema di calcolo, anziché, come avviene con qualsiasi prodotto pericoloso e non funzionante, con il divieto della sua distribuzione (Tafani 2023b).

 

Affinché i sistemi di intelligenza artificiale siano considerati agenti autonomi, anziché artefatti di cui il produttore è responsabile, gli elementi materiali necessari alla loro realizzazione – terre rare, energia, acqua e lavoro – sono in genere rimossi dalle narrazioni.

I primi due elementi sono decisivi nei conflitti geopolitici legati all’intelligenza artificiale e danno luogo a costi ambientali elevatissimi, che le aziende esternalizzano con pratiche di impostazione coloniale.

Quella che appare come intelligenza artificiale richiede inoltre il lavoro nascosto di milioni di persone – per lo più prive di qualsiasi forma di diritti o tutele – alle quali sono affidate le attività necessarie al funzionamento dei sistemi di intelligenza artificiale e le operazioni che consentono di simulare un’autonomia, o un livello di affidabilità, che tali sistemi costitutivamente non possiedono e che sono tuttavia dichiarati dai produttori.

Il mito della sostituzione dei lavoratori umani con robot o sistemi informatici non ha alcun fondamento nello stato attuale di sviluppo della tecnologia:

ad oggi, l’ossessione per la sostituzione dei lavoratori umani, che guida e orienta la progettazione dei sistemi di intelligenza artificiale, diffonde soprattutto un’automazione mediocre, che è di ostacolo alla produttività (Acemoglu, Johnson 2023).

 

Rendere invisibili gli elementi materiali dei prodotti basati su sistemi di intelligenza artificiale aiuta le aziende a sostenere che a tali sistemi, in virtù della loro novità e straordinarietà, le leggi vigenti non siano applicabili, e che servano dunque nuove leggi, scritte ad hoc per ciascun sistema.

 Il mito del vuoto giuridico dà luogo a una corsa che vede il legislatore perennemente in affanno, nel rincorrere le più recenti novità tecnologiche, e oscura il fatto che i sistemi di intelligenza artificiale, come qualsiasi altro prodotto o servizio, sono soggetti alla legislazione ordinaria (Tafani 2023b).

 

Utili a sfuggire al diritto sono per le Big Tech anche gli appelli all’etica e le promesse di autoregolazione – ossia gli inviti a fidarsi del loro buon cuore e a sostituire il diritto con la declamazione di linee guida e principi etici – e l’appello al principio di innovazione, con la narrazione secondo la quale il diritto nuocerebbe all’innovazione e con ciò allo sviluppo economico e sociale.

In realtà, i monopoli ostacolano qualsiasi innovazione, per quanto dirompente e benefica, che non si adatti al loro modello di business, e promuovono soprattutto un’innovazione tossica che estrae o distrugge valore, anziché produrlo.

 Il contrasto non è dunque tra la tutela dei diritti e il principio di innovazione, ma tra la tutela dei diritti e il modello di business delle grandi compagnie tecnologie (Tafani 2023a).

 

Il problema politico relativo allo sviluppo e alle applicazioni dei sistemi di intelligenza artificiale non riguarda l’allineamento di una mente artificiale con i nostri valori, ma il disallineamento tra gli interessi dei monopoli della tecnologia e l’interesse pubblico (O’Reilly, Strauss, Mazzucato et al. 2024).

I primi mirano ad aumentare i profitti e a consolidare la propria posizione dominante, realizzando, in violazione del diritto vigente, soli sistemi di sorveglianza, controllo e estrazione del valore.

In nome del secondo, invece, potrebbe essere promosso lo sviluppo non di sistemi «intelligenti», progettati per sorvegliare, manipolare o sostituire gli esseri umani e utili soltanto a una ristrettissima élite, bensì di sistemi progettati per essere utilizzati liberamente dalle persone (Doctorow 2023), per dare potere ai lavoratori e contribuire a una produzione condivisa di valore (Acemoglu, Johnson 2023).

 

 

 

 

 

Microchip strategici: il ruolo delle

Big Tech europee e italiane.

Aliseoeditoriale.it - Giovanni Lorenzo Restifo – (21 Nov. 2024) -ci dice:

 

L'Unione Europea e i tentativi per tornare a competere nel mercato dei microchip: rischi, misure e prospettive.

Il 20 agosto la Commissione Europea ha approvato un finanziamento di cinque miliardi di euro per la realizzazione di una fabbrica di microchip ad alte prestazioni in Germania.

Lo stabilimento sarà sviluppato da un’azienda creata ad hoc, la “European semiconductor manufacturing company” (Esmc), una joint venture formata dalla taiwanese “Tsmc”, leader globale del settore, e tre aziende tedesche:

“Bosch”, “Infineon” e “Nxp”, le ultime due specializzate nella produzione di microchip.

 

La scelta della Commissione non era scontata e può essere interpretata come un modo per dare concretezza al Chips Act”, la direttiva emanata nel 2023 per incentivare lo sviluppo della filiera europea dei semiconduttori, in particolare il settore della produzione, in modo da rendere più autonomi i Paesi dell’Unione rispetto ai produttori asiatici.

I microchip sono ovunque ed è molto complicato realizzarli;

dalle auto passando per l’energia eolica, fino all’intelligenza artificiale e agli armamenti, tutte le tecnologie necessarie per l’innovazione e la difesa ne hanno bisogno.

 

La filiera industriale per produrre i componenti elettronici è formata da decine di processi e necessita di centinaia di materiali chimici.

 Alcuni dei passaggi chiave della catena sono in mano alle grandi aziende statunitensi e taiwanesi, con altri Paesi asiatici che sono riusciti a ritagliarsi un ruolo importante, come la Corea del Sud ed il Giappone.

 

Lo sviluppo di un microchip può essere suddiviso in quattro macro-fasi:

 la prima è la progettazione del singolo componente, in base all’impiego;

 la seconda fase è la produzione primaria, cioè il processo di incisione del silicio per ricavare il chip;

 la terza fase è la produzione secondaria, durante la quale più chip vengono impacchettati a formare componenti elettronici come i circuiti integrati;

la quarta fase è l’integrazione, in cui i componenti vengono assemblati per formare apparecchi utilizzabili, come una scheda elettronica di un computer.

 

Le aziende statunitensi “Intel”, “Nvidia” e “Qualcomm” sono le più importanti nel settore della progettazione:

dominano il mercato e hanno la capacità di progettare i microchip con le più elevate prestazioni, come quelli usati per sviluppare i modelli di intelligenza artificiale.

 

Le fasi di produzione sono invece in mano alle aziende di Taiwan;

 in particolare la “Tsmc”, che ha gran parte dei suoi stabilimenti sul territorio taiwanese, produce circa il 60% di tutti microchip venduti al mondo, e circa il 90% di quelli ad alte prestazioni.

 

Da ciò ne deriva che l’economia moderna si basa sugli impianti di produzione di un Paese al centro della disputa geopolitica tra Stati Uniti e Cina:

 Taiwan, il quale in futuro potrebbe essere il luogo di scontro militare tra le due superpotenze.

Questo elemento rende molto fragile la catena di produzione dei microchip e da qualche anno sia l’Unione Europea sia gli Stati Uniti stanno provando ad aumentare la loro autonomia.

 

I Paesi europei soddisfano solo circa il 10% del proprio fabbisogno di semiconduttori con la produzione interna, che consiste in larga parte di componenti a medie o basse prestazioni;

 il resto arriva dall’altra parte dell’oceano.

 Durante la pandemia del Covid è apparso evidente che in questo scenario non solo le dispute geopolitiche, ma anche i problemi logistici, come la chiusura di alcuni porti, possono mettere in ginocchio l’approvvigionamento di componenti essenziali.

 

L’Europa sta cercando di rimediare, provando a portare in casa parte della capacità produttiva di microchip.

 Ma la fase di produzione non è tutto.

 Analizzando i processi della catena, è evidente che Taiwan e gli Stati Uniti abbiano un ruolo centrale e indispensabile, tuttavia esistono numerosi sotto processi e componenti ausiliari in cui i Paesi europei possono giocare un ruolo di primo piano.

 

Gli stabilimenti taiwanesi e sudcoreani hanno bisogno di macchinari ad altissime prestazioni prodotti in Europa per incidere il silicio, e lo stesso vale per i componenti chimici necessari al processo.

In questo contesto, l’elevata complessità dell’ecosistema di produzione diventa un vantaggio, in quanto è ragionevole pensare che nessuna singola azienda o singolo stato riusciranno mai a controllare tutta la catena, dall’inizio alla fine.

 

Quindi la strategia europea dovrebbe muoversi su due binari:

da un lato è saggio recuperare terreno in alcuni settori, come la produzione e la progettazione, in modo che l’Europa non resti ostaggio delle dinamiche geopolitiche o dei problemi logistici del commercio mondiale;

d’altro canto, è necessario investire in quelle nicchie di processo talvolta meno evidenti ma indispensabili alla produzione di microchip, in cui i Paesi europei hanno già dei ruoli di rilievo.

 

Il Chips Act europeo e l’aiuto esterno.

La Commissione Europea ha varato nel 2023 la direttiva” Chips Act”, con la quale sono stati stanziati 43 miliardi di euro fino al 2030, con l’obiettivo di stimolare gli investimenti nel settore della produzione di chip e dell’innovazione di processo.

 

Per recuperare il tempo perduto, i Paesi europei avranno ancora bisogno della collaborazione delle grandi aziende statunitensi e asiatiche.

Nel corso del 2023 l’americana “Intel” ha presentato un piano di investimenti da 88 miliardi di dollari in Europa, da suddividere in diversi progetti.

 

Il più importante sarà un impianto di produzione a “Magdeburg”, in Germania, finanziato dal governo tedesco con 11 miliardi di euro, a cui si aggiungono 30 miliardi forniti da “Intel”.

In aggiunta, l’azienda della Silicon Valley investirà circa 12 miliardi per l’ampliamento del suo stabilimento a “Leixlip”, in Irlanda, unico stabilimento per la produzione di microchip ad alte prestazioni già attivo in Europa.

 

Infine, sempre “Intel” ha presentato un progetto per realizzare un sito in Polonia, in cui saranno testati i componenti innovativi prodotti negli altri stabilimenti europei.

 

Anche “Nvidia”, leader nella progettazione di microchip per l’”Ia”, ha introdotto investimenti in Europa, in particolare in società che si occupano di sviluppare modelli di intelligenza artificiale, come la francese” Mistral AI” e l’incubatore di start-up tedesco “Ai Accelerator”.

 

Tuttavia, l’aiuto americano non deve essere dato per scontato.

 Gli Stati Uniti, sin dalla prima presidenza di Donald Trump, stanno provando ad essere meno dipendenti dalle aziende di Taiwan, a causa delle tensioni con Pechino.

 In questo contesto, Washington sta cercando Paesi alleati che possano sostituire almeno in parte Taiwan, nel sud-est dell’Asia e in Europa. 

 

Allo stesso tempo, con la presidenza di “Joe Biden”, gli Stati Uniti hanno reso la produzione di microchip una questione di sicurezza nazionale, quindi è probabile che vogliano mantenere le tecnologie più efficienti ed avanzate in casa.

 Inoltre, con il ritorno di “Trump” gli investimenti verso l’estero potrebbero essere in qualche modo ostacolati, per favorire la rinascita dell’industria interna.

 

Le Big Tech europee, un punto di partenza.

Il “Chips Act” ha già attratto investimenti da colossi come” Intel” e “Tmsc”, che porteranno parte delle loro competenze in Europa.

Ma bisogna restare realisti:

 è molto improbabile che Taiwan ceda il suo vantaggio tecnologico, su cui basa anche la propria posizione geopolitica nel mondo.

 

“Tmsc” investe dagli anni ’80 nei semiconduttori ed i Paesi europei impiegheranno decenni a recuperare nel processo di produzione, quindi nel frattempo dovrebbero concentrarsi sui loro punti di forza:

 i componenti ausiliari, i materiali chimici e i sotto processi.

Una delle critiche mosse al “Chips Act” è proprio di aver tralasciato lo sviluppo dei cavalli di battaglia dell’Europa.

 

Facciamo quindi una panoramica delle Big Tech europee nel campo dei microchip.

 L’”Asml” è un’azienda olandese, con sede a “Veldhoven”, che sviluppa macchine per la litografia ultravioletta estrema (Euv).

In pratica, sono dei macchinari che permettono di tagliare il silicio con incisioni dell’ordine dei nanometri, con cui si realizzano i chip più avanzati al mondo.

Tra i clienti principali di “Asml c’è proprio la “taiwanese Tsmc”, che senza questi macchinari non potrebbe produrre nulla.

 

Poi abbiamo la “Carl Zeiss Smt”, azienda tedesca leader nella realizzazione di strumenti ottici come specchi e lenti, indispensabili per i macchinari che creano i microchip.

Per quanto riguarda i materiali e i precursori chimici, le eccellenze del mercato sono” Merck” e “Basf”, con sede in Germania, leader mondiali nella fornitura di elementi chimici e polimeri necessari per i semiconduttori, insieme alla giapponese “Jsr.”

 Ognuna di queste aziende ricopre un ruolo indispensabile per l’economia globale dell’elettronica.

 

l’Italia a che punto è in questo scenario?

L’azienda più importante nel settore con sedi italiane è l’italo-francese “STMicroelectronics”, che ha due siti di produzione, uno in provincia di Milano e l’altro nel catanese.

Insieme alla tedesca” Infineon” e all’olandese” Nxp”, è una delle poche aziende europee con capacità produttive avanzate, e di recente ha ricevuto un finanziamento dal governo di Roma di circa cinque  miliardi di euro per ampliare la sede produttiva di Catania.

 

Quanto descritto finora ci porta a due conclusioni.

 Gli investimenti spinti dalla Commissione Europea nel settore della produzione di microchip sono utili, ma porteranno dei frutti nel lungo termine e con molta difficoltà daranno un’elevata autonomia ai Paesi europei.

Gli impianti produttivi in Europa devono essere pensati più come un supporto nel caso di gravi emergenze di approvvigionamento a livello globale.

 

In secondo luogo, l’industria dei microchip ha una struttura che costringe i Paesi del mondo a interfacciarsi tra loro, che lo vogliano o meno:

 essere completamente autonomi sarebbe una chimera, anche per gli Stati Uniti, Taiwan o la Cina.

 I Paesi europei devono sfruttare questa complessità per provare a rendersi indispensabili in alcuni punti della catena e ottenere così una leva da sfruttare nel campo dell’innovazione digitale, energetica e della difesa.

 

 

 

 

 

Big Tech, perché è l’IA

la grande nube sul futuro.

Agendadigitale.eu - analisi di Umberto  Bertelè – (8 maggio 2024) – ci dice:

(Umberto Bertelè - professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano).

 

Pesano sulle maggiori imprese tech le accuse di comportamenti monopolistici e la reale valenza economica dell’intelligenza artificiale generativa, al momento difficile da valutare, su cui le top six stanno facendo grosse scommesse.

 Un’analisi delle reazioni del mercato alle trimestrali e dei fattori che potrebbero avere influenza sul futuro.

 

Big tech.

Apple è stata l’ultima fra le “big five” a presentare la trimestrale – il 2 maggio – due giorni dopo quella di Amazon. Nella settimana precedente era stata Meta ad “aprire le danze” il 24 aprile, seguita il 25 da Microsoft e Alphabet.

Mentre Nvidia, l’ultima – aggiungendosi alle “big five” – a essere entrata nel club delle imprese con la maggior capitalizzazione al mondo , farà la sua presentazione il 22 maggio.

 

I risultati – come ampiamente discusso sulla stampa (per le prime tre anche da me su Agenda Digitale) – sono stati tutti in linea con le aspettative degli analisti, quando non le hanno superate, e con poche eccezioni in crescita rispetto a un anno fa.

Ma non intendo con questo articolo ritornare sui dettagli dei risultati del I semestre, né su quelli delle aspettative sul semestre in corso.

 

Indice degli argomenti:

I due fattori che pesano sul futuro delle big tech.

Quasi “calma piatta” nelle valutazioni sul mercato delle big five prima e dopo le trimestrali.

Perché Meta è stata “punita”

…e perché Apple e Google sono state premiate.

La minacciosa ombra dell’antitrust statunitense sul futuro delle big four.

La grande incognita: la reale valenza economica dell’IA generativa.

I due fattori che pesano sul futuro delle big tech.

Voglio piuttosto dare uno sguardo d’insieme a come il mercato finanziario ha complessivamente reagito alle presentazioni stesse e soffermarmi su due importanti tematiche, oggetto di attenzione della grande stampa economica internazionale nei giorni scorsi, che potrebbero avere rilevanti impatti sul futuro delle big five (o se si allarga il discorso a Nvidia di quelle che io chiamo le top six):

 

l’esito delle accuse di comportamenti monopolistici contro quattro di esse, da parte delle due authority in cui si articola l’antitrust statunitense (il Justice Department e la FTC-Federal Trade Commission), che inizierà a vedersi nelle prossime settimane o mesi con la sentenza del giudice federale – a dibattito ormai concluso – sulle accuse a Google di aver costruito un monopolio nel search:

 il più importante caso antitrust dopo la chiusura, circa un quarto di secolo fa, del celebre caso Microsoft (che nella prima sentenza prevedeva addirittura la spaccatura in due tronconi di Microsoft stessa);

la reale valenza economica dell’intelligenza artificiale generativa, al momento difficile da valutare, su cui le top six stanno facendo grosse scommesse con investimenti annui che per alcune di esse superano i 50 miliardi di dollari.

 

Quasi “calma piatta” nelle valutazioni sul mercato delle big five prima e dopo le trimestrali.

Uno sguardo alle differenze nelle valutazioni di mercato delle” big five” – nonché di “Nvidia” – fra il 3 maggio (giorno successivo all’ultima presentazione) e il 12 aprile (data che ho scelto a caso precedente alla prima) mette in luce che:

 

le variazioni, soprattutto se considerate in termini percentuali, sono state relativamente modeste: a testimonianza del fatto che i risultati presentati – anche quando inferiori (come alcuni numeri di Apple) ai corrispondenti dell’anno precedente – sono stati quasi sempre un po’ superiori rispetto alle previsioni degli analisti

le crescite e i cali di valore si sono almeno in parte compensati, per cui la somma delle variazioni delle big five e ancor più quella delle top six sono inferiori all’1%;

Meta appare come l’impresa più punita (- 12,2%), nonostante i brillanti risultati del trimestre;

Alphabet-Google (+ 5,6%) e Apple (+ 3,7%), quest’ultima nonostante i risultati non tutti brillanti, appaiono invece come le più premiate;

Microsoft (- 3,5%) appare tra i puniti, ma in realtà – da quando pochi mesi fa ha soppiantato Apple ai vertici – ha una capitalizzazione che continua ad oscillare attorno alla soglia dei 3 trilioni;

Amazon (- 1,5%) ha anch’essa una capitalizzazione che continua ad oscillare, dopo il notevole balzo fatto in precedenza, poco sotto la soglia dei 2 trilioni.

 

Perché “Meta” è stata “punita.”

Perché Meta è stata sensibilmente colpita, dopo il successo della presentazione di febbraio e i buoni risultati annunciati?

Due le cause:

 

la prima: i dubbi espressi in sede di presentazione sull’andamento del trimestre in corso, a fronte delle attese positive delle altre 4;

la seconda, forse di impatto maggiore: l’annuncio dell’innalzamento degli investimenti previsti per l’anno a 40 miliardi di dollari – parte nell’IA generativa e parte nella realtà virtuale/aumentata e nella costruzione dell’avatar-filled metaverse – investimenti giudicati incerti nei ritorni ed eccessivi se rapportati a ricavi e utili. Duro il giudizio del Financial Times a tale proposito, sulla “monetizzabilità” dei primi (“AI is a multibillion-dollar project with no clear timeline for revenues”) e sulle continue perdite (3,85 miliardi di $ nel solo I trimestre e destinate a crescere) della divisione Reality Labs che gestisce i secondi.

…e perché Apple e Google sono state premiate

Perché sono state premiate Alphabet-Google e ancor più – nonostante il robusto calo di vendite dell’iPhone – Apple? Due motivazioni, una più legata alle prospettive di business annunciate e l’altra legata a quella che potremmo definire una captatio bene volentia e degli azionisti.

 

Alphabet è sicuramente piaciuta per la forte determinazione che continua a mostrare nel perseguimento dell’efficienza, anche con frequenti tagli mirati del personale che fanno seguito a quelli massicci precedenti;

 

Apple ha promesso, in risposta alle frequenti accuse sui suoi ritardi nell’IA generativa, annunci a breve sui progetti in fase di lancio – “ (Tim Cook si è mostrato ottimista sulle prospettive delle nuove funzioni di intelligenza artificiale generativa che incrementeranno le vendite di hardware e ha promesso maggiori dettagli nelle prossime settimane”, in FT “Apple shares rise as revenue falls less than feared despite rocky quarter”) – e ha espresso ottimismo sull’andamento del semestre in corso; ambedue hanno giocato, come detto, la carta della captatio bene volentia e con gli azionisti:

 confermando” Alphabet” la fissazione a 70 miliardi di dollari del buyback e portandolo a 110 miliardi Apple;

elevando” Apple” i dividendi e introducendoli per la prima volta” Alphabet” (la stessa operazione fatta da Meta in occasione della trimestrale precedente con una forte crescita del titolo).

 

La minacciosa ombra dell’antitrust statunitense sul futuro delle “big four.”

Parlo un po’ impropriamente di “big four” nel titolo perché Microsoft, dopo la durissima battaglia con l’antitrust conclusasi un quarto di secolo fa, è l’unica delle “big five” a non essere sotto attacco né da parte dal “Justice Department “né dalla “FTC”.

Ma il tema dei pericoli potenzialmente derivanti alle altre quattro dalle cause in corso, che sembra al momento essere quasi ignorato dai mercati, sta diventando molto rilevante:

e questo perché dopo i lunghi anni che ciascuna di queste procedure richiede, la prima sentenza – quella relativa all’accusa di monopolio nel “search” a “Google “(che coinvolgerà anche Apple per la posizione di motore di ricerca by default sull’iPhone garantita alla stessa Google a fronte di un pagamento annuo che sembra essere pari a 20 miliardi di dollari) avanzata dal Justice Department – potrebbe essere emessa a breve dal giudice federale cui è stata affidata la decisione.

 

 (Il caso antitrust degli Stati Uniti contro Google è solo l’inizio: Mentre il caso del Dipartimento di Giustizia contro Google si avvicina alla fine, il governo federale ha in cantiere altre cause per cercare di controllare le Big Tech.) è il titolo di un articolo di “The New York Times” del 3 maggio, che fa anche un elenco delle altre cause in corso, da parte del “Justice Department”:

la seconda contro Google, relativa in questo caso a pratiche monopolistiche nell’advertising,

quella recente contro Apple, accusata di comportamenti monopolistici nella gestione dei servizi legati all’iPhone: (“Apple ha impedito alle aziende di offrire applicazioni in concorrenza con i prodotti Apple, come le app di streaming basate su cloud, la messaggistica e il portafoglio digitale”);

e da parte della FTC,

 

contro Amazon, con l’accusa di (“proteggere un monopolio comprimendo i venditori sul suo vasto mercato e favorendo i propri servizi”), nonché di aver arrecato danni ai consumatori, provocando in certi casi prezzi artificialmente più alti impedendo ai venditori operanti sul suo sito di offrire gli stessi prodotti a minor prezzo su altri siti;

contro Meta, con l’accusa di aver creato un monopolio nei social media con l’acquisizione (peraltro all’epoca autorizzata dalle authority antitrust su scala mondiale) di Instagram e WhatsApp e di aver così privato i consumatori di piattaforme alternative a quella di Meta stessa: un’accusa bloccata dal giudice federale, per l’assenza di una chiara definizione dei confini del monopolio, ma non respinta definitivamente per la concessione fatta a FTC di poter riformulare l’accusa.

La sentenza relativa al primo caso Google è ritenuta particolarmente importante non solo per sé, ma per l’influenza che essa potrà avere, nell’accettare o respingere le diverse motivazioni e nello stabilire i cosiddetti “rimedi”, sulle cause discusse successivamente.

Credo interessante a tale scopo riportare alcuni orientamenti del giudice federale, emersi dal dibattito appena concluso e tratteggiati nel recentissimo articolo di The Wall Street Journal “ (“Il verdetto dell’Antitrust su Google incombe. Ecco cosa aspettarsi: Un giudice federale potrebbe emettere una sentenza quest’estate sul caso storico del governo”).

 

Il giudice federale:

sul tema fondamentale della definizione dei confini del mercato in relazione al quale valutare la posizione più o meno monopolistica, ha condiviso la definizione più ristretta – e vorrei dire più usuale – del “Justice Department”, in cui “Google” appare con una quota del 90 per cento, a fronte di quella allargata di Google stessa, che vede tra le possibili fonti di informazione alternative al suo motore di ricerca (e a quelli direttamente concorrenti come Bing di Microsoft) “the social media app TikTok, the retailer Amazon, or travel booking sites such as Expedia”;

è apparso molto apprezzativo nei riguardi degli investimenti e delle innovazioni apportate da Google, dichiarando esplicitamente (“Credo che nessuno contesti il fatto che la ricerca oggi sia molto diversa da quella di 10-15 anni fa e che gran parte di questo, o parte di questo, sia attribuibile a Google e ai suoi continui sforzi per innovare la ricerca”).

 Ed è apparso condividere anche la tesi di Google che la posizione dominante nel “search” può essere attribuita ai “savvy early investments in smartphone technology” (“investimenti tempestivi nella tecnologia degli smartphone”), che come emerso dalle testimonianze colsero di sorpresa Microsoft, aggiungendo (“Non è anticoncorrenziale il fatto che Google sia stata abbastanza intelligente da salire sul carro dei cellulari prima di Microsoft”);

ha riconosciuto che l’accordo con Apple rappresenta un limite alla competizione, ma ha anche provocatoriamente chiesto al rappresentante del “Justice Department “che cosa Google avrebbe dovuto fare a fronte dell’offerta di condivisione dei ritorni da parte di “Apple”  (“Non avrebbero dovuto competere? Avrebbero dovuto rimanere in disparte? Avrebbero dovuto abbassare la loro offerta di rev-share [accordo di condivisione dei ricavi]?)”.

Una ultima osservazione è opportuna sull’impatto che una possibile/probabile sentenza, che comporti la cessazione dell’accordo di condivisione dei ritorni, potrebbe avere su Apple:

un impatto penso pesante, perché i 20 miliardi annui ora versati da Google sono pari a un quinto circa dell’utile netto di Apple e perché non credo che sarà facile per Apple sostituirli, se non in misura molto più ridotta, se non vuole rischiare accuse di comportamenti anti competitivi.

 

La grande incognita: la reale valenza economica dell’”IA generativa”.

La sensazione che ho, quando si parla di “IA generativa”, è che spesso si guardi più (con un ottimismo non raramente venato di conflitti di interesse) a quello che l’IA generativa può o potrebbe permettere di fare che non alla valenza economica del suo utilizzo e/o degli investimenti in infrastrutture materiali e immateriali che ne permettano/agevolino l’utilizzo.

È comprensibile che ciò si faccia per una tecnologia in continua evoluzione, ma – più elevati sono gli investimenti richiesti per “rimanere in gara” in un comparto che tenderà presumibilmente a selezionare i suoi protagonisti – più il tema della valenza economica diventa importante.

 

E gli investimenti al momento rappresentano la voce più certa, a fronte viceversa della forte incertezza sui ritorni:

 sulla loro consistenza e sui tempi di “payback”.

E sono investimenti molto rilevanti, dice “Richard Waters” (FT’s west coast editor) in un suo recente articolo focalizzato sulle “tre big tech” – “Amazon”, “Microsoft” e “Alphabet-Google” – titolari delle infrastrutture di “cloud computing” ai primi tre posti nel mondo,

evidenziando come la somma delle spese in conto capitale delle tre quest’anno supererà i 150 miliardi di dollari, 40 in più rispetto all’anno precedente, mentre i ricavi per Microsoft – la più attiva delle tre – attribuibili alla presenza nell’”AI generativa” (essenzialmente gli aumenti indotti nel fatturato del cloud) sono stimati in non più di 4 miliardi;

evidenziando anche come, in mancanza di certezze sui ritorni, esse cerchino di ridurne l’impatto “visivo” sul mercato (Alphabet-Google ha ad esempio prolungato i tempi di ammortamento) e/o di giustificarli con i picchi di utilizzo a breve-medio termine (non necessariamente sostenibili nel tempo) legati all’istruzione dei nuovi sistemi di IA e alla sperimentazione da parte delle imprese e istituzioni potenzialmente utilizzatrici;

aggiungendo la considerazione (“capire dove la tecnologia sta iniziando a produrre risultati aziendali reali – e dove non lo sta facendo – sarà fondamentale per distinguere i vincitori dell’IA dai perdenti dell’IA nei prossimi mesi e anni”.).

Ai 150 miliardi delle tre si devono aggiungere i 40 circa (rispetto ai 28 del 2023) di “Meta” visti in precedenza, in parte però destinati al” metaverso “e alla VR/AR, che sono costati a” Meta” stessa la caduta in Borsa.

 Va notato a tale proposito che “Meta”, non disponendo di un suo cloud, ha più difficoltà al momento nel trovare una semplice via di monetizzazione.

 

“Apple”, di cui come detto non sono stati ancora esplicitati i progetti né quantizzati gli investimenti, seguirà presumibilmente una strada diversa, che le permetta allo stesso tempo di monetizzare e di rilanciare l’immagine di qualità tecnologica e le vendite degli iPhone:

introdurre l’”IA generativa “negli “iPhone” stessi, nonché in alcuni degli altri dispostivi che fanno parte del suo portafoglio prodotti-servizi.

Una strada per certi versi obbligata, se non vuole farsi precedere in questa mossa da “Samsung” e dai sempre più agguerriti concorrenti cinesi.

 

“Nvidia” è fra le” top six” l’unica ad avere più certezze sul mercato, anche se la sua attuale posizione quasi monopolistica potrebbe essere soggetta a erosioni, sia per l’emergere di concorrenti (fra cui le stesse” big five” che cercano di aumentare la quota di microprocessori fatti in casa) sia per le modifiche nella composizione della domanda (dovuta alle minori prestazioni richieste ai microprocessori nelle fasi di utilizzo dei modelli di AI rispetto a quelli indispensabili per la loro istruzione).

 

 

 

 

The Donald e le Big Tech.

Azionecattolica.it – Antonio Martino – (20-01- 2025) – ci dice:

 

Oggi si insedia Donald Trump. È tempo di interrogarsi sul potere delle Big Tech di manipolare le democrazie.

Nel giorno dell’insediamento di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti, la riflessione sul rapporto tra Democrazia e Big Tech (Apple, Amazon, Google, Facebook, Microsoft per citare le prime cinque) si fa quanto mai urgente e necessaria.

 Le grandi piattaforme digitali hanno avuto un ruolo fondamentale non solo nel plasmare l’opinione pubblica, ma anche nell’influenzare le dinamiche politiche e sociali di intere nazioni.

Ma qual è il prezzo di questa influenza?

Le “Big Tech” con il loro controllo su strumenti come i social media, i motori di ricerca e le infrastrutture di comunicazione, sono diventate il nuovo spazio pubblico globale.

Piattaforme come la già citata “Facebook”, come “X” (già Twitter) o come il colosso” Google” non sono più semplici aziende tecnologiche;

esse si configurano come arbitri del discorso pubblico, selezionando, amplificando o oscurando informazioni.

Questo potere, spesso esercitato senza trasparenza e con una regolamentazione insufficiente, solleva interrogativi profondi sulla natura della democrazia nel XXI secolo.

 

L’uso e L’abuso dei dati personali.

Uno degli aspetti più inquietanti è la capacità delle Big Tech di manipolare i comportamenti individuali attraverso l’uso dei dati personali.

Gli algoritmi, progettati per massimizzare l’engagement, tendono a privilegiare contenuti polarizzanti e sensazionalistici, creando camere d’eco che rafforzano le convinzioni esistenti e radicalizzano le opinioni.

Questo fenomeno non solo alimenta la divisione sociale, ma mina anche la capacità degli individui di formarsi un’opinione informata, elemento cardine della democrazia.

Inoltre, la mancanza di responsabilità delle piattaforme è emersa chiaramente in episodi come lo scandalo “Cambridge Analytica”, che ha rivelato come i dati personali di milioni di utenti siano stati utilizzati per influenzare elezioni in diverse parti del mondo.

Questo ha dimostrato che le Big Tech non solo riflettono il potere politico, ma lo modellano attivamente, spesso a vantaggio di interessi economici o ideologici specifici.

 

Tecnocrazia: il vero nemico della democrazia.

A complicare ulteriormente il quadro è il concetto di tecnocrazia, ovvero un sistema di governance in cui il potere decisionale è affidato a esperti tecnici e tecnologi, piuttosto che a rappresentanti eletti.

In un mondo dominato dalle Big Tech, il rischio di una tecnocrazia digitale è sempre più concreto:

 le decisioni che influenzano milioni di persone vengono prese da un ristretto gruppo di individui o aziende, spesso senza il coinvolgimento diretto dei cittadini. Questo fenomeno riduce ulteriormente lo spazio per il controllo democratico e alimenta una crescente disuguaglianza di potere.

 

Le democrazie, tradizionalmente fondate sul principio di rappresentanza e sul dialogo informato, si trovano oggi a fare i conti con una nuova forma di potere, non elettivo e transnazionale, che sfugge ai tradizionali meccanismi di controllo democratico.

 Le Big Tech operano su scala globale, mentre le normative e le istituzioni democratiche sono per lo più locali o nazionali, creando uno squilibrio che è difficile da colmare.

 

Tuttavia, ciò non significa che il futuro sia privo di speranza.

Per ristabilire un equilibrio tra democrazia e tecnologia, è necessario un approccio collettivo e multilaterale.

 Occorre promuovere una regolamentazione che garantisca maggiore trasparenza sugli algoritmi, protezione dei dati personali e responsabilità delle piattaforme per i contenuti che ospitano.

Parallelamente, è fondamentale educare i cittadini a un uso critico e consapevole delle tecnologie digitali, rendendoli partecipi di un dibattito pubblico più inclusivo e informato.

 

 

 

Gaza: Israele Revoca il Blocco,

Aiuti con il Contagocce e Dopo

 Riconoscimento Facciale.

Conoscenzealconfine.it – (20 Maggio 2025) - Claudia Carpinella – ci dice:

 

Israele ha approvato la ripresa immediata – seppur centellinata – degli aiuti a Gaza.

Dopo 77 giorni di fame e sete, il gabinetto di sicurezza israeliano ha deciso di revocare il blocco degli aiuti, imposto deliberatamente dallo scorso 2 marzo.

Secondo quanto riportato dal “Jerusalem Post”, la decisione è stata presa senza alcuna votazione formale, scatenando l’ira di diversi ministri contrari, tra cui “Bezalel Smotrich”, che ha ribadito con forza la sua posizione:

 “Non deve entrare nemmeno un chicco di grano nella Striscia.”

 

Le Forti Pressioni degli Stati Uniti.

L’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che la decisione “è stata presa per agevolare l’espansione dell’esercito israeliano a Gaza” – una motivazione che, si legge su “Al Jazeera”, risulta priva di logica e che suggerisce altro.

Appare dunque più che plausibile che questa svolta sia il risultato delle forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti.

Nei giorni scorsi, l’inviato speciale USA “Steve Witkoff” aveva infatti affermato che “Donald Trump” considera gli aiuti a Gaza una priorità urgente, affidando al suo team il compito di “fare tutto il possibile per accelerare il processo e garantire l’arrivo rapido degli aiuti umanitari alla popolazione.”

 

Come riferisce “Haaretz”, Israele si impegnerà a fornire “una quantità di base di cibo per la popolazione”, per evitare l’insorgere di una carestia nella Striscia.

Tali dichiarazioni sollevano però gravi interrogativi, in primis perché, come riportato dalle stesse Nazioni Unite, già 57 bambini sono morti di fame da quando Tel Aviv ha imposto il blocco degli aiuti.

 

La Distribuzione Selettiva e l’IA.

Gli aiuti umanitari che torneranno a entrare saranno inizialmente distribuiti attraverso diverse organizzazioni internazionali, come avveniva prima della scellerata chiusura di 77 giorni.

 Tuttavia, questa modalità di gestione cambierà radicalmente a partire dal 24 maggio, quando entrerà in vigore il controverso piano di distribuzione approvato da Israele giovedì scorso – secondo quanto riferisce il “Jerusalem Post”.

 

Il Governo israeliano, infatti, ha varato un piano che impone nuove e severe restrizioni alla distribuzione di aiuti umanitari e forniture alimentari a Gaza.

 Tra le misure più deplorevoli, figura l’introduzione dell’obbligo di riconoscimento facciale per i beneficiari.

Il piano prevede inoltre la chiusura di centinaia di mense e centri di soccorso in tutto il territorio, restringendo l’approvvigionamento alimentare ad un’unica zona militare israeliana nel sud di Gaza.

Una scelta già fermamente condannata dalle Nazioni Unite, poiché – si legge in una nota ufficiale – “contravviene ai principi umanitari fondamentali.”

“I palestinesi dovrebbero recarsi in questi luoghi, registrarsi ed essere sottoposti a controllo tramite tecnologia di riconoscimento facciale.

Ritirerebbero i pacchi destinati alle loro famiglie”, ha spiegato il giornalista di “NPR”, “Daniel Estrin”.

 

Il Piano per Espandere il Controllo sulla Striscia.

Dal canto suo, Israele afferma che il piano mira a impedire ad Hamas di accedere agli aiuti umanitari.

 Tuttavia, “Estrin” ha citato un funzionario israeliano secondo cui, tale modus operandi: “Fa in realtà parte di una strategia più ampia per spingere la popolazione civile palestinese a trasferirsi in massa in un’area più piccola e concentrata di Gaza, in modo da permettere all’esercito di espandere il territorio sotto il proprio controllo.”

 

Già lo scorso marzo, il “New York Times” aveva riportato che Israele ha implementato sistemi di riconoscimento facciale a Gaza, utilizzando tecnologie dell’azienda privata israeliana “Corsight”, oltre a strumenti comuni come Google Foto.

Sin dalle prime ore del genocidio, Israele ha fatto largo uso dell’intelligenza artificiale:

prima con il sistema di “targeting Lavender “– che ha contrassegnato migliaia di gazawi come obiettivi sospetti da assassinare – e ora anche per selezionare chi potrà accedere agli aiuti umanitari.

 

Un impiego non solo immorale, ma anche fallace nel suo obiettivo distorto e disumanizzante, dal momento che – come confermato dagli stessi soldati israeliani – l’IA ha più volte scambiato civili per militanti di Hamas.

(Claudia Carpinella).

(it.insideover.com/guerra/gaza-israele-revoca-il-blocco-aiuti-con-il-contagocce-e-dopo-riconoscimento-facciale.html).

 

 

 

"Nessun arricchimento significa nessun accordo."

Trump usa la richiesta illegittima come pretesto

 per la guerra all'Iran.

  Unz.com - Mike Whitney – (20 maggio 2025) – ci dice:

 

Abbiamo una linea rossa molto, molto chiara: l'arricchimento.

 Non possiamo permettere nemmeno l'1% della nostra capacità di arricchimento ", ha dichiarato “Steve Witkoff”, inviato speciale degli Stati Uniti, nel programma "This Week" della “ABC”.

"Pretendere l'arricchimento zero dell'uranio significa NESSUN ACCORDO" , ha dichiarato il ministro degli Esteri iraniano” Sayed Abbas Araghchi”.

 

Avresti potuto notarlo da un miglio di distanza.

 

Il presidente Trump, che ha sabotato l'accordo nucleare più rigoroso e completo della storia (il JCPOA), ha ordinato al suo inviato speciale di fare un annuncio a sorpresa che supera tutte le "linee rosse" dell'Iran e rende inevitabile la guerra tra Stati Uniti e Iran.

Chiunque abbia un briciolo di cervello avrebbe potuto capire che questa era la strategia fin dall'inizio.

 Proprio come Washington ha incoraggiato Kiev a intensificare i bombardamenti del Donbass, costringendo Putin a inviare truppe russe in Ucraina, allo stesso modo Washington ha attirato Teheran nei "colloqui" nucleari con la chiara intenzione di creare un pretesto per scatenare una guerra contro l'Iran.

In entrambi i casi, i pianificatori di guerra statunitensi hanno "spostato mari e monti" per far sembrare che la parte avversa avesse provocato il conflitto, quando, in realtà, Washington ne era il principale istigatore.

Lasciate che vi spieghi:

 

Domenica, l'inviato speciale degli Stati Uniti “Steve Witkoff” ha dichiarato quanto segue nel programma "This Week" della “ABC “:

"Abbiamo una linea rossa molto, molto chiara, ed è l'arricchimento. Non possiamo permettere nemmeno l'1% di una capacità di arricchimento".

 

Punto.

I commenti di “Witkoff” richiedono un'analisi approfondita e imparziale, principalmente perché sono concepiti con un unico scopo in mente:

sabotare i colloqui sul nucleare.

 Non c'è altra spiegazione.

L'amministrazione Trump e chiunque abbia seguito questa questione negli ultimi quindici anni sa che la linea rossa più grande e più evidente per l'Iran è l'arricchimento.

Nei quattro incontri che si sono svolti in Oman da aprile, ai negoziatori statunitensi è stato detto esplicitamente che l'arricchimento nucleare era "non negoziabile" e "fuori discussione."

 In altre parole, hanno concordato che la questione non sarebbe stata discussa o nemmeno sollevata. (Non negoziabile significa non negoziabile.)

Quindi, dobbiamo supporre che il motivo per cui “Witkoff” ha deciso di fare questo annuncio inaspettato sia stato perché voleva silurare i negoziati o perché non capisce l'inglese semplice.

Quale delle due?

 

Pensiamo che” Witkoff” capisca l'inglese semplice, anzi, ne siamo certi.

 Allora, qual era il suo movimento; perché ha deciso di consegnare questa bomba alla TV nazionale a un pubblico americano invece che ai negoziatori iraniani che lo avrebbero sfidato sulla questione?

Perché?

 

Ci può essere solo una ragione;

 Vuole sabotare i colloqui.

Vuole costringere gli iraniani a porre fine agli incontri, in modo che sembri che non cerchino sinceramente la pace.

Questo è il modo in cui Trump e soci intendono ribaltare la situazione e far sembrare che l'Iran sia il "cattivo".

Ancora più importante, qualsiasi sospensione dei colloqui da parte dell'Iran sarà utilizzata come giustificazione per gli attacchi aerei USA-Israele su obiettivi in Iran. Trump ha già minacciato che, se i colloqui si fossero interrotti, avrebbe scatenato l'inferno contro l'Iran.

“Witkoff “ha ora gettato le basi per quegli attacchi.

 

Altri analisti stanno iniziando a capire cosa sta succedendo dietro la cortina fumogena dei colloqui sul nucleare.

 Ecco come “Michael Tracey” ha riassunto la situazione:

 

Se qualcuno sospettava che lo scopo di questo esercizio di "negoziazione" fosse quello di stabilire un punto finale impossibile (umiliare la capitolazione iraniana) e poi, quando l'Iran si tira indietro, lo usasse come pretesto per bombardare l'Iran ("Abbiamo cercato di negoziare prima!") ci sono prove crescenti per i suoi sospetti.

 

Ha ragione, no?

I colloqui erano una "messa in scena" che era stata inventata per creare una giustificazione per la guerra.

È chiaro come il giorno.

Gran parte della confusione dell'opinione pubblica su questo argomento è attribuibile allo stesso” Witkoff”, che sembra un tipo affabile e credibile, la cui posizione sull'arricchimento nucleare è identica a quella dei rabbiosi guerrafondai "con la schiuma alla bocca" come “John Bolton” e “Mike Pompeo”.

 Pensateci per un minuto; la posizione di” Witkoff” è la stessa di Bolton e Pompeo. Non c'è differenza.

 

Allora, perché l'arricchimento nucleare è un affare così grande che l'Iran non ne vuole nemmeno discutere?

 

Perché gli iraniani sono molto orgogliosi e non permetteranno di essere trattati come cittadini di seconda classe da gente come gli Stati Uniti e Israele. Ecco perché.

 

Guardate:

il diritto dell'Iran all'arricchimento nucleare non è un privilegio concesso da un decreto esecutivo o da un editto presidenziale.

Si tratta di un diritto fondamentale sancito dal diritto internazionale ai sensi del “Trattato di non proliferazione nucleare.”

Il presidente Donald Trump non ha l'autorità di vietare all'Iran di impegnarsi in attività che non solo sono perfettamente legali ai sensi degli statuti del TNP, ma anche affermate dalla clausola del "diritto inalienabile" del trattato.

Le persone curiose potrebbero voler leggere la sezione del trattato stesso per corroborare ciò che stiamo dicendo qui:

 

L'articolo IV del TNP e il diritto alla tecnologia nucleare

 

Articolo IV Testo (sul diritto alla tecnologia nucleare):

 

Paragrafo 1:

"Nessuna disposizione del presente Trattato può essere interpretata nel senso di pregiudicare il diritto inalienabile di tutte le Parti del Trattato di sviluppare la ricerca, la produzione e l'uso dell'energia nucleare per scopi pacifici senza discriminazioni e in conformità con gli articoli I e II del presente Trattato."

 

Paragrafo 2:

Incoraggia la cooperazione nella condivisione della tecnologia nucleare per usi pacifici, in particolare per i paesi in via di sviluppo.

 

Quale parte dell'affermazione di cui sopra è ambigua?

Non c'è nulla di ambiguo in questa affermazione.

L'Iran ha chiaramente "il diritto inalienabile... sviluppare la ricerca, la produzione e l'uso dell'energia nucleare per scopi pacifici senza discriminazioni".

Ciò significa che né Trump né nessun altro può ordinare selettivamente all'Iran di smettere di fare ciò che è chiaramente consentito da un trattato riconosciuto a livello internazionale.

E dobbiamo anche prestare particolare attenzione al linguaggio che viene utilizzato nel brano.

Il trattato non si riferisce semplicemente ai "diritti" delle parti partecipanti;

Si riferiscono al "diritto inalienabile", il che significa che l'arricchimento nucleare è un "diritto naturale fondamentale che non può essere tolto o ceduto, né da un governo né da un individuo".

La formulazione è stata formulata per evitare la situazione in cui ci troviamo oggi in cui un despota impulsivo e prepotente abroga arbitrariamente le leggi (e i diritti) che non si allineano con i suoi dubbi obiettivi politici.

Rifiutando di rispettare l'editto esecutivo di Trump, l'Iran sta fondamentalmente difendendo il sistema globale su cui si basa il diritto internazionale.

 È un rifiuto dell'unilateralismo dal pugno di ferro di Trump. Dovremmo tutti essere grati per la coraggiosa perseveranza dell'Iran.

 

A proposito, giusto per sottolineare l'ipocrisia di “Witkoff” su questo argomento, ecco un breve video su Fox News in cui “Witkoff” afferma inequivocabilmente che all'Iran sarebbe stato permesso di arricchire al 3,67%, una posizione che ora respinge.

 L'intervista è stata condotta ad aprile, un mese prima che “Witkoff” vietasse tutte le attività di arricchimento.

 

Quali conclusioni possiamo trarre da questo improvviso voltafaccia da parte dell'amministrazione che ci ha messo tutti sulla strada della guerra?

 

Prima di tutto, possiamo presumere che i negoziati USA-Iran siano stati impostati per fallire, infatti, il piano per creare una giustificazione per la guerra richiedeva che i colloqui fallissero.

 

In secondo luogo, possiamo presumere che Trump – che si è presentato come un oppositore degli interventi stranieri e che ha promesso "di cercare una nuova era di pace, comprensione e buona volontà" – sta seguendo le orme dei suoi predecessori fondai e non abbia alcuna intenzione di guerra di mantenere la parola data al popolo americano.

 

E nel terzo luogo, possiamo presumere che Trump si stia concentrando sull'Iran per ripagare i ricchi miliardari sionisti che hanno riempito le sue casse elettorali (con oltre 100 milioni di dollari) e lo hanno aiutato a vincere le elezioni del 2024.

 

 Non abbiamo mai creduto per un minuto che i milioni di donazioni elettorali fossero stati dati senza "vincoli".

 Bibi ei suoi alleati sionisti vogliono che gli Stati Uniti guidino una guerra contro l'Iran, e Trump è l'uomo che può portare quella guerra.

 Tutto ciò di cui ha bisogno è un qualche tipo di giustificazione credibile per lanciare i suoi attacchi preventivi che i negoziati falliti forniranno.

 

 

 

 

Le big tech sono nemiche delle

democrazie o caschi blu digitali?

Garanteprivacy.it - (MF, 8 marzo 2022) – Guido Scorza – ci dice:

 

Intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali.

Quando, qualche giorno fa, la Russia ha invaso l'Ucraina dando il via alla più vicina e drammatiche delle guerre per chi è nato dopo il secondo conflitto mondiale, le Big Tech stavano vivendo, probabilmente, uno dei momenti più difficili della loro storia.

 L'incantesimo dell'Internet per tutti, aperta, partecipata, nuova agorà globale era, ormai, finito da tempo e i regolatori di mezzo mondo, inclusi quelli degli Usa, che pure ha dato i natali a tutte le cosiddette Gagam (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft) erano impegnati a richiamarle all'ordine, a cercare, in modi diversi, di ridimensionarle o, almeno, ridimensionarne gli effetti, non solo, non tutti, non sempre positivi prodotti sulla società, sui mercati e sulle democrazie nell'ultimo ventennio o poco più.

 In Europa sono in discussione il “Digital Service Act” e il “Digital Market Act” che hanno per scopo quello di ridurre il loro strapotere.

Lo stesso Joe Biden, il 1 "marzo, nel suo primo discorso alla nazione, ha usato parole durissime, forse le più dure mai usate da un presidente Usa in carica, proprio all'indirizzo delle Big Tech:

 «E' il momento di rafforzare le tutele alla privacy, vietare la pubblicità mirata ai bambini e chiedere alle società tecnologiche di smetterla di raccogliere i dati personali dei nostri figli».

 

Poi è scoppiata la guerra o, almeno, la guerra è entrata nella sua fase più calda, cruda, cruenta e drammatica.

 E, a quel punto, è cambiato tutto o, forse, meglio, tutto ci è apparso sotto una luce diversa.

Elon Musk, signore delle tecnologie presenti e future e, tra l'altro, patron di “Tesla”, “Neuralink “e “SpaceX”, ha risposto a un appello lanciato dal governo ucraino via social e ha letteralmente riportato, accendendo i satelliti della sua “StarLink”, in Ucraina quell'Internet che i russi avevano sostanzialmente spento.

Facebook e Google hanno dichiarato la più massiccia, determinata e, almeno sin qui, efficace campagna contro la disinformazione riuscendo se non a bloccare, almeno ad arginare e ridimensionare significativamente la propaganda digitale filorussa che correva sui social.

I social tutti, con poche distinzioni, sono tornati, nell'immaginario collettivo, attraverso la narrativa mediatica globale, a rappresentare quella sconfinata piazza pubblica globale nella quale gli ucraini hanno potuto raccontare al mondo il loro dramma, lanciare le loro urla di dolore, manifestare il loro orgoglio e chiedere aiuto al la comunità internazionale e i russi, o, almeno, quella parte pure consistente, contraria all'iniziativa bellica di Putin.

I socialnetwork, in questo contesto, sembrano tornati a essere gli eroi della libertà idolatrati dal la comunità internazionale come ai tempi della primavera araba.

E, senza tanti giri di parole ne false ipocrisie istituzionali bisogna dire chiaro e forte che quegli stessi governi che sino a qualche giorno prima li additavano come un problema da risolvere in fretta, hanno visto in loro un'opportunità per contribuire a fermare la tragedia della guerra e hanno, a più riprese e sotto profili diversi, chiesto il loro aiuto, quando in pubblico e quando in privato, nella più parte dei casi e, anzi, forse sempre, ottenendolo.

Nello spazio di qualche giorno la narrativa è cambiata sensibilmente e, a tratti, è parsa far passare le” Big Tech” da nemiche delle democrazie e del libero mercato a forze di pace, caschi blu digitali delle nazioni unite.

 Ma chi sono davvero?

Ne nemici, ne forze di pace, in effetti.

 E, anzi, forse, sotto taluni profili, la circostanza che non si possa far a meno di chiedere toro aiuto in tempo di guerra - così come, per la verità, in occasione di ogni genere di dramma umanitario dalla pandemia alle calamità naturali, e che il loro aiuto risulti spesso determinante, efficace, talvolta risolutivo è la miglior conferma delle ragioni che devono indurci non a temerle ma regolarle, governarle, vigilarle, talvolta, anche spuntar loro le ali perché si tratta di straordinarie concentrazioni di poteri privati superiori, ormai, per forza e dimensione, alla più parte dei poteri pubblici, che possono essere indistintamente utilizzate per i più nobili e per i meno nobili degli scopi.

 

Anche se e proprio della natura umana avere l'esigenza di dividere il mondo in buoni e cattivi, dovremmo approfittare di questa drammatica guerra - che, peraltro, segue a ruota la non meno drammatica pandemia nella quale egualmente le Big Tech hanno giocato un ruolo determinante nel rendere sostenibile il nostro quotidiano - per convincerci, una volta per tutte, che le “Gafam” e i foro concorrenti - non sono né angeli, né demoni, sono solo alcuni tra i più mirabili risultati del progresso tecnologico che le regole dei mercati e quelle dei governi possono rendere i migliori alleati del genere umano o i loro peggiori nemici.

 

 

 

 

La regolamentazione europea

delle Big Tech.

Mondointernazionale.org - Eleonora Strano – (23 aprile 2025) – ci dice:

 

 

Tra tutela del mercato e tensioni transatlantiche.

Negli ultimi anni, l'Unione Europea ha intensificato gli sforzi per regolamentare le grandi aziende tecnologiche con l'obiettivo di garantire maggiore equità nel mercato digitale e proteggere i diritti dei cittadini.

Queste iniziative si sono concretizzate in una serie di normative di ampio respiro, tra cui il “Digital Markets Act” (DMA) e il” Digital Services Act” (DSA).

 Entrambi i provvedimenti mirano a disciplinare le attività delle principali piattaforme online, riducendo il loro potere monopolistico e imponendo loro responsabilità più stringenti nella gestione dei contenuti.

Questa regolamentazione ha avuto un impatto significativo sulle aziende tecnologiche statunitensi, che operano su scala globale e ora devono adeguarsi a regole più rigide per continuare a fare affari in Europa.

 In questo contesto, è emerso un crescente scontro tra il modello normativo europeo e gli interessi delle” big tech americane,” con alcune aziende che hanno cercato l’appoggio del governo statunitense per mitigare gli effetti delle nuove leggi.

 

Il Digital Markets Act e il Digital Services Act: un nuovo quadro normativo.

 

Il DMA, entrato in vigore nel 2023, è stato progettato per contrastare le pratiche anticoncorrenziali delle grandi piattaforme digitali, spesso definite "gate keeper".

 Queste aziende – tra cui Google, Apple, Amazon, Microsoft e Meta – detengono una posizione dominante nei loro rispettivi mercati e il DMA impone loro una serie di obblighi per garantire un mercato più aperto e competitivo.

 

Tra le disposizioni più rilevanti del DMA:

 

Obbligo di interoperabilità: le piattaforme devono permettere la compatibilità tra i propri servizi e quelli di terze parti.

Divieto di auto preferenza:

le aziende non possono favorire i propri servizi o prodotti rispetto a quelli dei concorrenti (ad esempio, nei risultati dei motori di ricerca o negli app store).

Maggiore trasparenza negli algoritmi e nei criteri di ranking.

Il DSA, invece, si concentra sulla responsabilità delle piattaforme online nella gestione dei contenuti.

 Le grandi aziende devono adottare misure più rigorose per contrastare la diffusione di disinformazione, discorsi d'odio e contenuti illegali.

 Le piattaforme devono inoltre fornire agli utenti strumenti efficaci per segnalare contenuti illeciti e garantire maggiore trasparenza sulle politiche pubblicitarie.

Entrambi i provvedimenti confermano la volontà dell’UE di imporre regole più severe alle aziende tecnologiche, limitando il loro potere di mercato e aumentando la tutela degli utenti.

 

Le reazioni delle aziende tecnologiche.

 

L'entrata in vigore di queste normative ha spinto le big tech statunitensi a rivedere le proprie strategie per operare all'interno dell'Unione Europea.

Alcune aziende si sono adeguate rapidamente, modificando le proprie politiche per conformarsi alle nuove regole, mentre altre hanno adottato un approccio più difensivo, sollevando critiche e cercando di influenzare il dibattito normativo.

Meta”, ad esempio, ha manifestato più volte la sua preoccupazione riguardo all’impatto economico e operativo delle nuove normative.

Nel maggio 2023, la società è stata multata per 1,3 miliardi di dollari per il trasferimento illecito di dati degli utenti europei verso gli Stati Uniti, in violazione del “Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati” (GDPR).

Questo episodio ha evidenziato la crescente rigidità delle autorità europee nei confronti delle pratiche delle grandi piattaforme digitali.

Inoltre, la Commissione Europea ha recentemente avviato indagini su” Facebook” e “Instagram” per presunte violazioni del DSA, in particolare per la gestione della disinformazione elettorale e per la tutela degli utenti più vulnerabili.

Queste indagini potrebbero tradursi in ulteriori sanzioni e in nuovi obblighi per le aziende coinvolte.

 

La richiesta di assistenza alla Casa Bianca.

Di fronte alle nuove sfide normative imposte dall'UE, alcune aziende tecnologiche statunitensi hanno deciso di rivolgersi direttamente all’amministrazione americana per cercare un supporto politico e diplomatico.

Secondo fonti interne, “Meta” avrebbe chiesto assistenza alla Casa Bianca per affrontare la regolamentazione europea, sostenendo che le norme imposte dall’UE rappresentano un rischio per la competitività delle aziende americane nel mercato globale.

L’azienda ha sottolineato come le sanzioni e le restrizioni imposte dalla normativa europea possano creare barriere commerciali che favoriscono, indirettamente, le aziende tecnologiche cinesi e altre realtà non soggette agli stessi obblighi normativi.

 

Questa richiesta di aiuto si inserisce in un dibattito più ampio tra Stati Uniti ed Europa sulle regole del mercato digitale.

 Da un lato, l’UE considera le nuove normative necessarie per contrastare il potere eccessivo delle big tech e proteggere la privacy degli utenti.

Dall’altro, gli Stati Uniti vedono queste regole come un potenziale ostacolo per le aziende americane e un mezzo per rafforzare la posizione delle imprese europee nel settore tecnologico.

 

La regolamentazione europea nel settore tecnologico sta ridefinendo il panorama digitale globale, imponendo nuovi limiti alle grandi piattaforme e aumentando la tutela degli utenti.

Il Digital Markets Act e il Digital Services Act rappresentano una svolta importante nel controllo delle big tech, stabilendo regole più severe per garantire un mercato più equo e trasparente.

Tuttavia, queste misure hanno generato forti tensioni tra l’UE e le aziende tecnologiche statunitensi, alcune delle quali stanno cercando di ottenere il supporto del governo americano per contrastare le nuove normative.

Il caso di “Meta” dimostra come la regolamentazione europea sia diventata un tema di discussione anche nelle relazioni transatlantiche, con implicazioni non solo economiche, ma anche politiche e diplomatiche.

Nei prossimi anni, il dibattito sulla regolamentazione delle piattaforme digitali continuerà a essere un punto centrale delle politiche europee e globali.

L’UE ha dimostrato di voler assumere un ruolo di leadership nella regolamentazione del settore tecnologico, ma resta da vedere come le aziende e i governi risponderanno a queste nuove sfide.

 

Due facce della stessa medaglia:

Big Tech e industria militare.

Ilmanifesto.it - Giovanna Branca – (14 -02-2024) – ci dice:

 

 

Intervista parla “Dario Guarascio”, fra gli autori di uno studio fra grandi piattaforme e apparati di sicurezza.

Da 100 milioni di dollari nel 2008 a un picco di ben oltre 500 milioni nel 2020: è il valore dei contratti stipulati dal Pentagono e da altre agenzie di sicurezza Usa con le principali compagnie tech – “Amazon, Microsoft, Google e Meta”.

Uno studio di Dario Guarascio della Sapienza di Roma, Andrea Coveri dell’Università di Urbino e Claudio Cozza dell’Università di Napoli Parthenope analizza come queste piattaforme «hanno assunto il ruolo di partner indispensabile nelle attività militari e legate alla sicurezza».

Ne abbiamo parlato con “Dario Guarascio”.

 

La vostra ricerca evidenzia come negli anni siano cresciuti esponenzialmente gli investimenti delle agenzie militari e di sicurezza nelle grandi compagnie digitali.

Cosa comporta?

Il primo driver del potere delle grandi piattaforme digitali è il controllo di infrastrutture e tecnologie critiche nell’ambito dell’archiviazione dei dati.

Un ambito molto rilevante per spiegare perché sono così potenti, da dove vengono e perché è così difficile mettere in discussione il loro potere.

Il motivo del rapporto peculiare che hanno con gli stati e in particolare con le agenzie militari è semplice:

 in primo luogo le piattaforme stesse sono il risultato di investimenti e attività di ricerca e sviluppo degli apparati militari.

Senza questi ultimi non esisterebbero le conoscenze e le tecnologie di base su cui si è sviluppato internet, e che sono poi state trasferite a una manciata di imprese:

 le BigTech odierne.

In secondo luogo le infrastrutture, le tecnologie – pensiamo al cloud, all’AI, al quantum computing – sono in buona misura controllate dalle grandi piattaforme che possiedono i brevetti.

 In questi ambiti le competenze sono complementari alle tecnologie, sono “firm specific” – proprie di una determinata compagnia – quindi diventano molto difficili da trasferire e da interpretare al di fuori dell’impresa.

Che ha così ha una leva molto forte da esercitare anche nei confronti dello stato. Questo è particolarmente vero perché oggi le guerre sono in buona misura digitali: se si vuole colpire a distanza, sventare un cyber attacco o perpetrarne uno difficilmente si può fare a meno dell’alleanza con le grandi piattaforme.

Lo evidenzia la crescita esponenziale del numero di contratti e l’ammontare delle risorse che negli ultimi 15 anni gli sono state destinate.

E il numero di progetti che delegano loro la gestione di servizi critici come il cloud per la Difesa. Ci sono inoltre le cosiddette revolving door:

molti membri dei consigli di amministrazione delle Big Tech – non ultimo l’ex amministratore delegato di Alphabet (Google) – transitano nelle agenzie pubbliche della Difesa, della sicurezza o dell’intelligence che si occupano di sviluppare tecnologie a scopi militari.

È notizia recente che un generale americano, direttore della “Nasa” per più di dieci anni, ora è nel “board di “Amazon”.

Azienda che con i suoi servizi cloud è tra gli oligopolisti che dominano questo settore nevralgico.

 

Fate l’esempio di “Elon Musk” e dell’impiego di “Starlink” nella guerra in Ucraina, che aggiunge un elemento di problematicità:

entra in campo la discrezionalità di un singolo privato, come ha dimostrato la sua decisione di spegnere i satelliti quando avrebbero potuto facilitare un attacco in Crimea.

Il protagonismo dei grandi imprenditori digitali come” Musk” sembra essere in qualche modo una riedizione nei tempi contemporanei di contraddizioni antiche del capitalismo e di una crasi inquietante tra capitale monopolistico e potere pubblico nelle sue forme più violente.

 Il fatto che un soggetto come” Musk” operi in modo spericolato, cercando di portare pezzi dell’establishment americano a suo vantaggio, ma sfruttando anche i legami autonomi che ha con soggetti pubblici di paesi relativamente in conflitto con gli Stati uniti ne è una manifestazione:

è un soggetto che gioca un ruolo quasi monopolistico.

 Quella dei mini satelliti è un’industria parallela e ancillare a quella digitale, dove Musk è presente con uno dei pezzi fondamentali dell’ecosistema dei social network,” X”.

Inoltre ha modificato radicalmente il settore dell’aerospazio e anche il rapporto tra pubblico e privato in quel settore.

 

Come mai la voce di spesa principale delle agenzie militari e di sicurezza è il cloud?

Perché cloud significa dati.

Tutti i servizi tecnologicamente più avanzati si basano sui dati, prima fra tutti l’intelligenza artificiale.

In ambito civile, chi domina la “frontiera del cloud “è avvantaggiato nella predizione dei consumi, dell’incontro tra domanda e offerta, nella gestione di attività in ambito commerciale che da un lato allargano il mercato e dall’altro consolidano il potere dei soggetti che controllano queste tecnologie.

 In ambito militare significa una maggiore efficacia dei sistemi di sorveglianza, riconoscimento facciale, combinazioni di fonti diverse – immagini, suoni, testo – a scopi securitari.

All’esterno, pensiamo agli Stati uniti, significa invece avere “occhi e orecchie” sia nei paesi “rivali” che in quelli interni alla loro sfera di influenza.

Primi fra tutti i paesi europei dove molti sono stati gli scandali e le cause derivanti dal fatto che le grandi piattaforme americane sono dei collettori di dati e dei terminali, attraverso cui le informazioni possono essere trasferite anche agli apparati di intelligence e sicurezza.

Nei paesi con cui invece la relazione è conflittuale le tecnologie di cui dispongono le piattaforme e soprattutto i sistemi di cloud diventano la rete da pesca attraverso cui ottenere informazioni rilevanti in un’ottica di intelligence.

Infine l’ecosistema innovativo del cloud, poiché il processo di crescita in questo contesto si caratterizza per cumulativi – chi controlla il potere è destinato a consolidarlo – fa sì che molto difficilmente le grandi piattaforme possano essere messe in discussione da delle startup con una qualche soluzione tecnologica innovativa.

 Nel 90% dei casi vengono fagocitate dalle Big Tech.

 Quindi, da questo punto di vista lo stato è costretto a trasferire risorse a chi monopolizza queste tecnologie

 

E questa interdipendenza fa sì, come scrivete, che il governo americano non abbia alcun interesse a limitare le strategie espansionistiche delle Big Tech.

Sono oramai 15 anni che da più parti si denunciano i rischi e le implicazioni negative di una concentrazione di potere tecnologico e economico come quello rappresentato dalle Big Tech.

Ma se i soggetti protagonisti di questa concentrazione di potere diventano partner essenziali e irrinunciabili dello stato, per il perseguimento di obiettivi vitali come quelli relativi alla difesa e alla sicurezza, risulta difficile immaginare che si possa mettere in discussione questo potere.

Ormai una decina di anni fa la senatrice Usa” Elizabeth Warren” aveva provato a dire che bisognava spezzare a metà, o in tre, queste società, come successe con l’oligopolio delle telecomunicazioni o all’inizio del Novecento, quando è nata la disciplina antitrust con lo Sherman Act.

Il problema in più da questo punto di vista è che c’è una trasversalità settoriale molto più pervasiva rispetto alle vecchie multinazionali.

Inoltre, le tecnologie digitali non sono sviluppate in un contesto neutrale, dove si scandagliano tutti gli esiti possibili e l’obiettivo è il benessere generale.

 Chi ha le risorse e le investe per la ricerca e lo sviluppo di queste tecnologie sono di fatto due attori:

un blocco oligopolistico che mira a preservare lo status quo e la sua controparte militare.

 

Come si inserisce questo discorso nello scontro fra Stati Uniti e Cina?

Qualche anno fa quando “Huawei “era sul punto di ottenere delle commesse rilevanti per l’infrastrutturazione digitale in Europa c’è stato uno scontro diplomatico ai massimi livelli.

E l’accordo è stato impedito: una manifestazione plastica di questo conflitto. Un’altra sono le norme statunitensi che vietano alle imprese americane e europee di esportare in Cina le componenti necessarie per realizzare i semiconduttori di ultima generazione necessari per far funzionare le tecnologie di intelligenza artificiale – quindi contravvenendo alla logica della globalizzazione, del libero mercato, che viene contraddetta   ogni qual volta le necessità capitalistiche sono di ordine diverso.

 

Poco tempo fa “The Intercept “ha scritto che “OpenAI” ha rimosso dalla sua policy ogni riferimento al “divieto di impiegare le sue tecnologie per scopi militari”.

Mi sembra una sorta di segreto di Pulcinella: OpenAI di fatto è Microsoft.

E “Microsoft”, più di “Amazon”, è il principale fornitore e partner del ministero della Difesa Usa in fatto di tecnologie digitali.

 I carri armati forniti dagli Stati uniti che operano oggi in Ucraina e i visori dei militari sono forniti da Microsoft e dotati di tecnologie avveniristiche.

“ OpenAi” viene da lì e quindi non deve stupirci il fatto che questa sia la direzione che sta seguendo.

Deve forse però farci riflettere sulla necessità di avere una prospettiva autonoma, consapevole e sufficientemente informata, su cosa sono queste tecnologie, come si stanno sviluppando e dove potrebbero dirigersi.

Lo dico perché negli ultimi mesi abbiamo sentito dichiarazioni sulla necessità di preservare il genere umano dai rischi dell’intelligenza artificiale da parte di coloro che hanno portato questo settore a svilupparsi nel modo che vediamo, e le scelte che stanno facendo dimostrano che è in corso un processo per garantire e consolidare il potere di cui godono i soggetti principali che vi operano, tra cui “Microsoft.”

 

 

Cina-USA: Trump prepara

lo scontro del secolo?

Ispionline.it – (29 Apr. 2025) – Filippo Fasulo – ci dice:

 

In soli 100 giorni, Trump ha cambiato varie posizioni sulla Cina di Xi Jinping. Per comprendere questa evoluzione bisogna ricordare che la Cina ha sempre avuto un ruolo centrale nell’agenda politica del tycoon.

L’avvio di una nuova guerra fredda, un paese esportatore in surplus come tanti, il paese contro cui mettere i dazi più alti, il paese con cui trovare un accordo commerciale, anche nonostante le smentite di Pechino.

 In soli 100 giorni, sono già cambiate più volte le posizioni di Donald Trump verso la Cina di Xi Jinping.

 

Per comprendere questa evoluzione bisogna ricordare come la Cina abbia sempre avuto un ruolo centrale nell’agenda politica di Donald Trump.

 Senza esagerare, si potrebbe persino dire che l’intera politica dei due mandati di Trump sia centrata proprio sul rapporto con la Cina, intesa come potenza concorrente nel campo manufatturiero.

Un concetto da cui discendono una visione della classe media americana in declino a causa di tale competizione e l’urgenza di invertire tale processo attraverso lo strumento dei dazi.

In pratica, è stato questo l’approccio adottato nel corso del primo mandato con una revisione in senso competitivo del rapporto con Pechino che era stata una delle poche scelte di Trump condivise in maniera sostanzialmente bipartisan.

 Un approccio più muscolare con la Cina, infatti, era stato poi raccolto da Biden, seppur con una differenza di fondo:

 Trump percepiva la contrapposizione con la Cina in senso negoziale, ovvero con l’obiettivo di trovare un punto di contatto che risolvesse (tendenzialmente in favore statunitense) le differenze, mentre Biden ha fin dall’inizio privilegiato un approccio di tipo ideologico, leggendo il confronto non solo dal punto di vista economico, ma come uno scontro tra due diverse visioni politiche del mondo diviso fra democrazie e autocrazie.

 L’approccio di Biden si prestava così alla costruzione di un rapporto di alleanze di paesi che si contrapponevano alla Cina per via della comune agenda politica della promozione delle democrazie, minacciate dalla possibile coercizione economica delle autarchiche Cina e Russia.

La seconda amministrazione Trump è così partita da tali premesse ereditando sia il clima di contrapposizione con la Cina che aveva inaugurato nel 2018 con l’avvio della “Trade War”, sia una struttura in via di istituzionalizzazione di una rete di alleanze costruite attorno ai concetti di Indo-Pacifico – cui fanno riferimento le iniziative “Aukus” e “Quad “in ambito militare e “IPEF “in ambito economico – e di economic security.

 Secondo questo principio, in particolare, le merci diventano un’arma e, di conseguenza, maggiore interdipendenza non porta a una riduzione dei conflitti, ma semplicemente a un’altra maniera di condurre tali conflitti.

Fino al giorno dell’inaugurazione della seconda amministrazione Trump​ il 20 gennaio, dunque, il tema principale sul tavolo di Trump era “vincere” la gara con Pechino.

 Un punto di vista ben differente da quello dell’Europa per cui l’obiettivo era quello di “gestire” al meglio il rapporto con la Cina minimizzando i costi della strategia di de-risking volta a ridurre l’esposizione verso Pechino.

Una dinamica simile era presente nel Sud Est asiatico, in Giappone e in Corea del Sud, paesi che cercavano un bilanciamento nella competizione tra grandi potenze e, soprattutto una cooperazione economica statunitense – che, come detto, punta a “vincere” tale competizione – mentre riducevano la dipendenza dalla Cina.

Le prime mosse di Trump, che hanno rivolto dazi contro ogni paese in surplus con Washington, hanno però sorpreso quei paesi che si consideravano – a buon titolo – alleati degli Stati Uniti e che, anche alla luce della rete di contenimento anti-cinese promossa da Biden pensavano di essere coinvolti nella strategia di fondo. Infatti, la preoccupazione che più era diffusa nell’Unione Europea era piuttosto, alla luce del dichiarato approccio negoziale di Trump – di essere tagliati fuori da un accordo bilaterale USA-Cina negativo per l’Europa, ma non di essere messi sullo stesso piano come avvenuto con l’applicazione dei dazi “reciproci”, poi sospesi.

 Questo timore era motivato dall’esistenza di un precedente accordo tra Usa e Cina siglato da Trump, ovvero il “Phase-One Deal”, chiuso alla vigilia dello scoppio della pandemia, che prevedeva una riduzione del deficit commerciale statunitense con la promessa di acquisti in settori selezionati e che rappresenta la possibile base per un nuovo accordo tra Washington e Pechino.

 

Nella relazione tra la Cina e la seconda amministrazione Trump, è così centrale il ruolo degli alleati.

 Il punto di fondo è che con le decisioni sui dazi del” Liberation Day” si è indebolito il concetto di “friend shoring”— quell’idea di costruire catene del valore tra Paesi amici – che aveva rappresentato una delle principali risposte di Biden alla crescente assertività cinese e anche l’effetto della guerra commerciale nella prima amministrazione Trump.

Nel contesto del “friend shoring” erano risultati vincitori​ Paesi come Vietnam, Malesia o Messico, oggi tra i più colpiti dai dazi.

E, allo stesso modo, l’India aveva assunto una centralità economica in quanto possibile sede di delocalizzazione via dalla Cina per ragioni politiche.

 Oggi Trump punta a penalizzare anche quei Paesi che possono rappresentare una via alternativa per le merci cinesi per massimizzare l’interesse economico nazionale.

Nei primi 100 giorni del suo mandato, dunque, la strategia di Trump verso la Cina è stata fortemente altalenante con tentativi ripetuti di prendere le distanze e altri di riprendere contatto, senza però riuscire più tanto ad ottenere concessioni da parte cinese.

 Oltre al quadro appena descritto, bisogna infatti anche richiamare come sia i primi dazi a Messico e Canada – con il riferimento alle importazioni di” fentanyl” – sia l’avvicinamento alla Russia di Putin fossero motivate in senso anti-cinese.

In particolare, ha avuto grande spazio nel dibattito pubblico l’ipotesi del cosiddetto “reverse Nixon”, ovvero il tentativo di avvicinarsi alla Russia contro la Cina, come avvenuto in senso opposto negli anni ’70 con la diplomazia del ping-pong che favorì il riconoscimento della Repubblica popolare cinese da parte dell’Occidente per isolare l’Unione Sovietica.

L’esito di queste azioni è però limitato, visto che da un lato i dazi sono stati poi applicati a tutto il mondo senza più il riferimento al “fentanyl” e Mosca non ha alcuna intenzione di allontanarsi da Pechino.

 Anzi, “Xi Jinping” parteciperà alla parata per l’anniversario degli 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale a Mosca il 9 maggio, dimostrando il mantenimento di un rapporto stabile.

 

Lo stato attuale, dunque, è quello di una erosione da parte degli alleati della fiducia negli Stati Uniti come partner nel ridurre la propria dipendenza economica della Cina.

Al contrario, molti vedono la Cina stessa come una alternativa all’instabilità economica rappresentata dagli Stati Uniti.

 Inoltre, Trump sta facendo ripetuti appelli non raccolti per un accordo economico con la Cina, che, dunque, appare sempre più difficile.

 Infine, Russia e Cina non sembrano intenzionate a mettere in discussione il proprio rapporto.

È possibile, allora, che nelle prossime settimane prenda forza l’approccio ideologico su quello negoziale di modo da poter trovare nuovamente un punto di vicinanza con gli alleati, seppur spaventati dalle mosse apparentemente irrazionali di questi primi 100 giorni di seconda amministrazione Trump.

 

 

 

 

Scontro Usa-Cina sui chip.

Pechino: "Bullismo unilaterale.”

Agi.it – (21 maggio 2025) – Redazione – ci dice:

 

Reazioni forti da parte del gigante asiatico di fronte alle nuove misure introdotte da Washington.

AGI - La Cina ha reagito con durezza alle nuove restrizioni statunitensi sull’uso di chip cinesi nel settore dell’intelligenza artificiale, accusando Washington di “bullismo unilaterale” e annunciando “misure ferme” in risposta.

Le tensioni sui semiconduttori tornano così al centro dello scontro geopolitico tra le due superpotenze.

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Le linee guida pubblicate dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti mettono in guardia l’industria tecnologica dal rischio di utilizzare semiconduttori provenienti dalla Cina, affermando che “sono stati probabilmente sviluppati e prodotti violando i controlli sulle esportazioni americani”.

 

Pechino: “Protezionismo e minaccia allo sviluppo globale.”

Il Ministero del Commercio cinese ha definito le nuove misure come “una combinazione di protezionismo e intimidazione”, accusando Washington di voler “privare la Cina e altri Paesi del diritto di sviluppare settori ad alta tecnologia come i chip avanzati e l’IA”.

Per Pechino, gli Stati Uniti stanno “abusando dei controlli sulle esportazioni per contenere e reprimere la Cina”, danneggiando le aziende locali e “mettendo a rischio gli interessi di sviluppo del Paese”.

I chip per intelligenza artificiale rappresentano oggi uno dei terreni di scontro più strategici tra Stati Uniti e Cina.

Negli ultimi anni, Washington ha imposto restrizioni per evitare che i semiconduttori americani vengano utilizzati per scopi militari o per alimentare modelli di IA cinesi in grado di competere con quelli statunitensi.

Le nuove direttive, a differenza delle restrizioni imposte dall’amministrazione Biden, non sono vincolanti, ma hanno comunque un forte valore politico e simbolico.

L’obiettivo dichiarato è “condividere la tecnologia americana con Paesi affidabili ed evitare che cada nelle mani di potenziali avversari”.

 Tra i chip nel mirino ci sono anche i semiconduttori “Ascend “di “Huawei”, considerati da Washington particolarmente sensibili per l’impiego in progetti di IA avanzata.

 

“Nvidia” contro le restrizioni: “Hanno favorito la Cina.”

Le nuove regole sono state criticate anche da aziende americane.

Il CEO di Nvidia, “Jensen Huang”, ha definito le restrizioni “un fallimento”, affermando che “hanno dato slancio e supporto alle aziende cinesi, accelerando lo sviluppo interno di tecnologie all’avanguardia”.

Parlando da Taipei,” Huang” ha aggiunto che “la Cina ha un ecosistema tecnologico estremamente dinamico e ospita il 50% dei ricercatori globali in intelligenza artificiale”.

 

Le pressioni interne ed esterne su Washington.

Le precedenti limitazioni imposte anche ad alcuni Paesi alleati – come Messico e Portogallo – sono state in parte revocate sotto la pressione di governi esteri e produttori americani.

Ma il nodo resta aperto.

Pechino accusa Washington di voler rallentare artificialmente lo sviluppo cinese per mantenere il proprio dominio tecnologico, e promette ritorsioni.

Con i chip diventati la nuova posta in gioco nella competizione globale, la frattura tra Cina e Stati Uniti sul fronte dell’intelligenza artificiale appare destinata ad allargarsi.

 

 

 

Il duello tra Cina e America è

tra due ideologie che non

riconoscono più la stessa realtà.

Linkiesta.it – (19 aprile 2025) – Redazione – ci dice:

 

La crisi tra Washington e Pechino è solo l’ultimo atto di un confronto strutturale che mette in discussione le regole su cui si è costruita l’economia globale.

Quella tra Cina e Stati Uniti non è soltanto una guerra commerciale, ma il riflesso di un conflitto ideologico profondo.

Da una parte, l’espressione viscerale di un’America ferita, nostalgica e muscolare, che cerca nel protezionismo una scorciatoia per riaffermare il proprio primato. Dall’altra, una Cina tutt’altro che perfetta, attraversata da contraddizioni strutturali e sempre in bilico tra controllo e instabilità, che progetta il futuro con l’ansia di chi teme il crollo interno più della pressione esterna.

L’aumento dei dazi al centoquarantacinque per cento deciso da Donald Trump sui beni cinesi è un gesto simbolico, pensato per stanare la tradizionale imperturbabilità cinese.

In economia Pechino non si muove come una barca a vela, ma come una petroliera:

 ci mette una vita a virare, ma poi tiene quella posizione per molto tempo.

 La reazione cinese è stata come al solito fredda, anche se questa volta più radicale del solito perché nella sua immagine pubblica, “Xi Jinping” non può tollerare compromessi con l’Occidente percepiti internamente come sottomissioni.

Due ideologie si fronteggiano, ma non si parlano.

 Da una parte c’è il “Make America Great Again”, la promessa trumpiana di un ritorno a un passato mitico di potenza industriale e supremazia incontestata. Dall’altra c’è il grande rinnovamento della nazione cinese, annunciato da “Xi Jinping “nel 2012 sui gradini del Museo nazionale, come una restaurazione legittima dopo il cosiddetto secolo delle umiliazioni.

“ Xi” lo ha definito «il più grande sogno della nazione cinese nella storia moderna».

Non è un semplice slogan:

è una dottrina che fonde sviluppo economico, orgoglio nazionale e disciplina sociale in un unico progetto.

È un patto implicito tra Partito e popolo, che non può essere infranto senza che crolli la narrazione stessa del potere.

 

Ogni passo compiuto dalla Cina negli ultimi anni — dalle restrizioni all’export strategico alle contro-tariffe — risponde a quel disegno originario.

Ed è proprio questa struttura ideologica, rigida e totalizzante, a rendere inefficace qualsiasi trattativa in stile trumpiano, costruita su show da piazzista, pressioni e colpi di teatro.

Quando la posta in gioco è identitaria, ogni concessione diventa una sconfitta. Quando la diplomazia si costruisce su emozioni contrapposte — intimidazione da un lato, disciplina dall’altro — la possibilità di un terreno comune evapora.

Secondo “Stephen Roach”, ex presidente di “Morgan Stanley Asia”, «il conflitto nasce da due visioni politiche inconciliabili».

Come scrive in un approfondimento per il “Financial Times”, Trump usa dazi e minacce come strumenti di intimidazione e spettacolo, mentre “Xi “adotta una strategia fredda e calcolata, fondata su un’idea organica di rinascita nazionale.

La risposta cinese non arriva mai per vie spettacolari:

 nessun comizio, nessun tweet, solo misure calibrate, spesso annunciate in modo sobrio e burocratico, come la recente contro-tariffa apparsa in una nota del Ministero delle Finanze.

Negli ultimi giorni, Pechino ha intensificato gli sforzi per evitare che altre economie si schierino con Washington.

 Il ministro del commercio cinese ha avviato colloqui con l’Unione Europea, ha parlato con Giappone e Corea del Sud, mentre” Xi” è volato personalmente in Vietnam e Malesia per proporre un’alleanza contro quello che definisce «bullismo unilaterale».

 

A Kuala Lumpur ha invitato i Paesi del Sud-Est a «respingere la disconnessione, l’interruzione delle catene di fornitura e l’abuso dei dazi».

Come spiega il “New York Times”, si tratta di una vera offensiva diplomatica, con cui la Cina cerca di evitare che la pressione americana si traduca in un effetto domino di isolamento.

Ma il messaggio non attecchisce ovunque.

 L’Europa continua a esprimere preoccupazione per il dumping industriale cinese, e ha smentito qualsiasi convergenza esplicita contro Washington.

 L’Australia ha respinto al mittente l’invito dell’ambasciatore cinese a «unirsi contro le pressioni americane».

 In Vietnam, nonostante l’accoglienza calorosa, la leadership ha firmato solo un generico comunicato contro «l’egemonismo e la politica di potenza», lasciando intendere che il vero destinatario potrebbe essere proprio Pechino, con cui Hanoi ha contenziosi territoriali aperti nel Mar Cinese Meridionale.

 

Dietro ogni gesto di conciliazione c’è una minaccia latente.

Pechino ha già colpito con dazi punitivi il Canada, e il messaggio vale per tutti: chi si schiera con Washington rischia ritorsioni economiche.

Come sottolinea il blog ufficiale “Yuyuan Tantian,” «se qualcuno userà gli interessi cinesi come pegno di fedeltà verso gli Stati Uniti, la Cina non sarà mai d’accordo».

Allo stesso tempo, il margine per una diplomazia multilaterale si restringe.

 Ogni Paese è costretto a scegliere, o almeno a fingere di non farlo.

Il charm offensive cinese appare meno affascinante di quanto auspicato, e le ambiguità strategiche si fanno sempre più difficili da sostenere.

 

Nel frattempo, Trump punta su pressioni rapide e accordi bilaterali lampo.

 Anche il Vietnam, per evitare una penalizzazione tariffaria del quarantasei per cento, ha inviato a Washington una delegazione negoziale e promesso di reprimere le frodi commerciali legate all’uso di merci cinesi mascherate.

 Ma Trump ha liquidato tutto dicendo che l’incontro tra “Xi” e “To Lam” era probabilmente finalizzato a «fregare l’America».

Più che di diplomazia, si tratta ormai di una recita brutale dove le comparse cambiano, ma il copione è sempre lo stesso.

In questo scenario, la vera sfida non è commerciale ma strutturale.

Ogni passo, ogni dazio, ogni dichiarazione va letta come parte di una strategia più ampia:

l’erosione dell’architettura economica globale fondata sull’interdipendenza.

Non si tratta solo di difendere il mercato interno o correggere squilibri, ma di affermare un nuovo ordine.

La Cina vuole dimostrare di non essere isolabile.

Gli Stati Uniti vogliono evitare di essere superati.

 Ma in questo braccio di ferro tra due visioni del mondo, la parte mancante è una terza forza capace di ristabilire un linguaggio comune.

Finché non emergerà, ogni nuova crisi sarà solo un’eco della precedente.

 

 

 

 

Canada, Panama, Groenlandia, Cina: così gli Stati Uniti si preparano alla guerra

I piani di guerra degli Stati Uniti, della Cina e la profezia di Lincoln. L'intervento di Francesco D'Arrigo

 

26 Marzo 2025 08:48

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Canada, Panama, Cina:

 così gli Stati Uniti si

preparano alla guerra.

Starmag.it – Francesco D’Arrigo – (26 marzo 2025) – ci dice:

 

Ormai è chiaro a tutti che l’amministrazione Trump non rappresenta una semplice alternanza tra democratici e repubblicani, ma un vero e proprio ribaltamento ideologico, dei valori e delle alleanze che gli Stati Uniti hanno costruito dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Governando con l’intenzione di annullare ogni forma di contropotere, il presidente Trump sta incrinando le fondamenta istituzionali degli Stati Uniti, gli orientamenti economici e soprattutto ogni riferimento diplomatico.

Uno degli aspetti più preoccupanti di questa amministrazione è rappresentato dalla costante oscillazione tra isolazionismo ed interventi contraddittori annunciati, che stanno ridefinendo il potere americano come una variabile aleatoria ed inaffidabile.

Questa postura aggressiva contro partner ed alleati, una sorta di imperialismo-isolazionista, si sta palesando attraverso minacce e decisioni unilaterali, in particolare nella gestione delle guerre in Ucraina e in Medioriente, nelle alleanze e nella guerra commerciale globale che ha innescato con i dazi. La retorica protezionistica e le barriere tariffarie imposte soprattutto ai propri alleati e partner commerciali stanno alimentando un’incertezza sistemica.

Lungi dal promuovere la nuova “golden era americana” questo approccio pseudo-muscolare ha amplificato le tensioni commerciali, raffreddato gli investimenti, fatto crollare i listini azionari, con il rischio di una stagnazione unita a un’impennata dell’inflazione.

 Affermando di ripristinare la prosperità perduta, Trump sta indebolendo l’architettura economica globale.

In politica estera, l’improvvisa sfiducia di Washington nelle alleanze e nelle istituzioni multilaterali ha fatto crollare la credibilità degli Stati Uniti, favorendo la diplomazia transazionale e la vicinanza ai regimi autoritari.

La Casa Bianca sta delegittimando il ruolo stabilizzatore degli Stati Uniti, rendendo il mondo meno sicuro.

Una scomposizione geopolitica che accentua le minacce poste da Russia, Cina, Iran e Corea del Nord con rivalità che lasciano vuoti geostrategici che verranno certamente colmati da altre potenze emergenti.

I piani di guerra degli Stati Uniti.

Il presidente Donald Trump, sin dal discorso di pre-insediamento ha esplicitato la sua nuova dottrina di politica estera imperialista, e da quel giorno non ha mai smesso di minacciare di annettere agli Stati Uniti il Canada e la Groenlandia, di voler riprendere il controllo del Canale di Panama, di costringere il presidente Zelensky a cedere il 50% di terre rare e risorse minerarie ucraine per ripagare gli Usa del sostegno ricevuto nei 3 anni di aggressione russa, di imporre dazi a tutti i Paesi che commerciano con gli Usa.

Per comunicare ai media di tutto il mondo e a chiunque lo incontri questa nuova postura “America first”, il presidente Trump oltre ad aver rivoluzionato il look dello Studio Ovale della Casa Bianca, ha riorganizzato i ritratti dei suoi predecessori, mettendo in primo piano quello dell’undicesimo presidente degli Stati Uniti, “James K. Polk”, che evidentemente il tycoon ha scelto come suo nuovo mentore geopolitico.

In soli quattro anni in carica, il “presidente Polk” annesse con la forza delle armi il Texas, un terzo del territorio del Messico, inclusa la California, il Nevada ed altri territori trasformando gli Stati Uniti in una potenza continentale.

Diverse similitudini associano il “presidente Polk” al suo successore “Trump II”:

entrambi hanno fatto una campagna elettorale imperialista per l’annessione di nuovi territori;

 entrambi rappresentano candidati che hanno inaspettatamente vinto le elezioni presidenziali degli Stati Uniti.

 

Il “presidente Polk” è anche spesso associato al concetto di “dark horse” (incognita) o anche di “predestinato”, una dottrina cara a una frangia della destra e dell’estrema destra americana.

il presidente Donald Trump sta sfruttando in maniera inquietante il concetto di predestinato, associando un significato religioso al fallito tentativo di assassinarlo mentre teneva un comizio elettorale in Pennsylvania, il 13 luglio 2024:

 “Il proiettile che mi ha colpito di striscio ad un orecchio è stato deviato da un miracolo di Dio, permettendomi di sopravvivere per salvare la nazione”.

 

Una manovra politica che alimenta il “culto messianico della fan base del movimento di Trump” con rituali alla Casa Bianca in cui politici, influencer, esponenti del conservatorismo religioso e telepredicatori evangelici fautori della dottrina della “prosperità”, sostengono sia stato l’intervento di Dio a salvarlo dal recente attentato.

Il presidente ha anche firmato un ordine esecutivo per aprire un “Faith Office” alla Casa Bianca, guidato dalla telepredicatrice “Paula White”, considerata la consigliera spirituale di Trump, con l’obiettivo di trasformare gli elettori in devoti.

Dopo aver posto il suo primo mandato sotto il segno del “presidente Andrew Jackson”, il 47° presidente degli Stati Uniti Trump, oggi, oltre a James K. Polk, si affida anche al “25° presidente William McKinley”, famoso per l’imposizione di dazi.

Altro elemento in comune tra l’attuale inquilino della Casa Bianca e questi due presidenti riguarda l’espansione territoriale che nel diciannovesimo secolo crearono le condizioni per una forte crescita economica, trasformando gli Stati Uniti in una superpotenza.

Un’età dell’oro nordamericana della fine del diciannovesimo che però fu vantaggiosa solo per pochi ricchi industriali, come avviene oggi con i tecno-oligarchi.

Panama.

Gli Stati Uniti e Panama sono vincolati da un trattato a difendere il canale da qualsiasi minaccia alla sua neutralità, e Washington è autorizzata ad intraprendere azioni unilaterali per garantirla.

Recentemente la Casa Bianca ha sostenuto la cordata formata da “BlackRock”, “Global Infrastrutture Partner” e “Msc” nell’acquisizione dei due porti alle estremità del Canale di Panama, che ne assicurano il controllo in entrata ed in uscita del Canale, di proprietà del gruppo cinese “Ck Hutchison”.

Ciononostante, il presidente Trump non ha mai escluso l’uso della forza per riprendersi il controllo strategico del Canale di Panama per sottrarlo definitivamente all’influenza cinese.

 

Non soddisfatto dell’acquisto dei due porti di accesso, ha fatto un ulteriore passo verso tale opzione chiedendo al Pentagono di elaborare varie “opzioni” per riprendere il controllo totale del canale. L’Ammiraglio” Alvin Wolsey”, Comandante delle Forze meridionali degli Stati Uniti (SOUTHCOM), ha già presentato le proposte di strategie militari al segretario alla Difesa, “Pete Hegseth”, che il prossimo mese dovrebbe visitare Panama.

Gli scenari possibili vanno dall’aumento della pressione militare attraverso il rafforzamento della presenza della US Navy nell’area, all’opzione di espropriare il Canale.

L’uso della forza, sarebbe direttamente collegato all’eventuale insufficiente collaborazione delle autorità locali.

Canada

L’ex giornalista del “Washington Post” “Peter Carlson”, in un suo recente articolo racconta come è venuto a conoscenza di un piano militare per attaccare il Canada, progettato nel 1930 e ritornato in auge con il secondo mandato del presidente Trump.

Nel 2005, mentre “Carlson” effettuava delle ricerche studiando dei file declassificati negli Archivi Nazionali di College Park, ha potuto visionare e fotografare le 94 pagine di una pianificazione militare del 1930 classificata “Top-Secret” che gli Stati Uniti hanno progettato e poi declassificato negli anni ’70, per invadere il Canada.

 

Il Piano denominato “War Plan Red” (Piano di Guerra Rosso), nell’attuale contesto di crescenti tensioni tra Usa e Canada scatenate dall’Amministrazione Trump, potrebbe essere riesumato, adattato ed implementato per realizzare l’obiettivo di annettere il Canada e farlo diventare il “51° Stato” americano.

Quello visionato da “Carlson” è un documento di 94 pagine intitolato “Joint Army and Navy Basic War Plan — Red”, con la parola” SECRET” stampata sulla copertina.

Si tratta di un piano audace, di un piano imponente, di un piano che descrive dettagliatamente come invadere, conquistare e annettere l’Alleato.

Il “Piano di Guerra Rosso” fu redatto e approvato dal “Dipartimento della Guerra nel 1930”, poi aggiornato nel 1934 e nel 1935. Declassificato nel 1974, quando la parola “SEGRETO” è stata cancellata con un pennarello nero.

Il Piano di Guerra Rosso fu in realtà progettato per una guerra contro l’Inghilterra.

Alla fine degli anni ‘20, gli strateghi militari americani svilupparono piani anche per una guerra contro il Giappone (nome in codice Orange), la Germania (Black), il Messico (Green) e l’Inghilterra (Red).

Gli americani immaginavano un conflitto tra gli Stati Uniti (Blu) e l’Inghilterra per il commercio internazionale:

“L’obiettivo bellico del ROSSO in una guerra con il BLU è concepito per essere la definitiva eliminazione degli Stati Uniti come rivale economico e commerciale”.

In caso di guerra, i pianificatori americani pensavano che l’Inghilterra avrebbe usato il Canada – allora un dominio britannico semi-indipendente – come rampa di lancio per “un’invasione diretta del territorio BLU”.

Gli strateghi militari prevedevano una guerra “di lunga durata” perché “la razza rossa” è “più o meno flemmatica” ma “nota per la sua capacità di combattere fino alla fine”.

Inoltre, se canadesi e inglesi rinforzati da truppe “di colore” provenienti dalle loro colonie avessero vinto la guerra, i pianificatori prevedevano che “Crimsom” (Canada) avrebbe preteso anche l’annessione dell’Alaska.

 

Se da oltre un secolo gli Stati Uniti aspirano e progettano di sottomettere il Canada, se e quando dovessero invaderlo, nessuno potrà dirsi sorpreso come è successo con l’invasione dell’Ucraina lanciata dal presidente Putin.

Anche lui lo aveva più volte pubblicamente annunciato e dimostrato di volerlo fare, con le diverse annessioni della Crimea nel 2014, l’”Operazione Militare Speciale” del 2022 e le sue ulteriori ed altrettanto palesate ambizioni nei confronti di Paesi baltici ed ex Sovietici.

Cina.

I leader cinesi ritengono che gli Stati Uniti siano distratti dai conflitti interni e con i loro alleati e che la loro leadership manchi di visione strategica.

La Cina è molto scettica su ciò che Trump sta cercando di ottenere e non vede una “Grand strategy” nella dottrina di politica estera degli Stati Uniti.

Anzi, Pechino ritiene che gli sforzi di Trump alla lunga crolleranno sotto il peso delle sue stesse contraddizioni ideologiche e dell’inevitabile opposizione che il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti riceverà dal sistema politico americano ed internazionale.

Pechino pensa che gli Stati Uniti sono intenzionati ad intraprendere azioni militari per il controllo di Panama e/o della Groenlandia, e di conseguenza “Xi Jinping” si prepara ad attaccare Taiwan.

 

Stando così le cose, diventa più probabile, piuttosto che meno, che la Cina faccia un calcolo strategico sul fatto che potrebbe presentarsi il momento ideale per colpire uno dei suoi vicini.

 L’attacco potrebbe avere come obiettivo le “Filippine” nel Mar Cinese Meridionale, o le contestate” isole Senkaku “nel Mar Cinese Orientale, o forse la stessa “Taiwan”.

 In ogni caso, Pechino ritiene che Trump, sempre più isolato dagli alleati occidentali, sarà sopraffatto e incapace di impedire le azioni della Cina o di invertirle una volta completate.

Che questo sia vero o meno è irrilevante: questo è ciò che credono molte élite cinesi.

 

Questa linea di pensiero non deve essere presa alla leggera.

 Nel corso della storia, sono stati commessi gravi errori di calcolo strategico da parte di nazioni emergenti che credevano che i loro rivali di status quo non fossero più le potenze dominanti di un tempo.

A volte queste supposizioni sono corrette, come quando il Giappone attaccò l’Impero russo in difficoltà nel 1904, giudicandolo eccessivamente esteso e debole.

 Altre volte, queste convinzioni si rivelano rovinose per la potenza attaccante, come quando il Giappone agì sulla base delle stesse premesse contro gli Stati Uniti quarant’anni dopo.

 

Il protagonismo di Elon Musk.

Elon Musk, l’uomo ombra del presidente Trump che dirige il “Department of Government Efficiency” (DOGE), che con il suo processo decisionale oltre a destrutturare l’intero sistema pubblico, sta acutizzando la polarizzazione della società americana e minando la fiducia nelle istituzioni, mostra un irrefrenabile interesse anche per tutto ciò che riguarda la politica estera e quella di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

 Di recente ha espresso forti critiche con post pubblicati sulla sua piattaforma “X” sulle acquisizioni di sistemi di difesa, chiedendo al Pentagono di interrompere i finanziamenti per la produzione e gli acquisti di caccia F-35 della Lockheed Martin, suggerendo di sostituirli con una grande flotta di droni.

“I caccia con equipaggio sono sistemi obsoleti nell’era dei droni. Faranno solo uccidere i piloti”.

Affermazioni che denotano una scarsa conoscenza strategica e che probabilmente derivano dal fatto che la “Lockheed Martin” è uno dei maggiori concorrenti di “SpaceX” (di proprietà di Musk) nei lanci nello Spazio.

 

Nondimeno, venerdì 21 marzo, ricevuto dal nuovo Segretario alla Difesa “Pete Hegseth”, il DOGE ha visitato il Pentagono, creando un ennesimo vortice di critiche sui suoi enormi conflitti di interesse e altrettanti sospetti sul nulla osta di segretezza che possiede.

Secondo indiscrezioni comparse sui principali media, il super consigliere di Trump avrebbe dovuto ricevere un briefing su temi militari Top-secret concernenti alcuni progetti tecnologici e in particolare sui piani di guerra segreti.

 Piani di guerra che potrebbero provocare ripercussioni imprevedibili sui suoi interessi in Cina.

 

Mentre l’amministrazione Trump non riesce ad uscire dalla frenesia mediatica che avvolge la Casa Bianca dal suo insediamento, i cinesi potrebbero prepararsi a colpire.

Il presidente cinese “Xi Jinping”, da un lato risponde colpo su colpo ai dazi, dall’altro sta inviando messaggi concilianti a Trump ed agli europei, con l’obiettivo di negoziare accordi commerciali ed assumere un rilevante ruolo nei processi di pace in Ucraina e Medioriente.

La pace fa bene agli affari.

Ma anche la guerra può essere un bene per gli interessi di nazioni imperialiste, soprattutto se si è un leader cinese che ritiene il proprio Paese abbia raggiunto una potenza tale da poter attaccare Taiwan e minacciare gli altri suoi vicini, senza temere la reazione di un Occidente indebolito dalla dottrina di politica estera trumpiana.

 

Una recente ondata di video di propaganda cinese è proliferata sui media cinesi, immediatamente diventata virale a livello globale.

 Una campagna che fa mostra di modernissime navi, aerei, droni, sistemi d’arma tecnologicamente avanzati, affidati ad un esercito di 2 milioni di uomini super addestrati e motivati, in servizio attivo e in stand-by 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Questi video di propaganda sottolineano il fatto che la Cina ha la maggiore capacità di mobilitazione di tutta l’Asia orientale.

 I video spiegano poi che la Cina è pronta a operare al “livello uno di prontezza”, uno stato di preparazione militare che è stato attivato solo sei volte dalla fondazione del Partito Comunista Cinese.

Il livello uno è l’equivalente di “Defcon One” nell’esercito degli Stati Uniti. Se attivato, significa che la Cina è in guerra.

 

Sebbene i video di propaganda siano generalmente progettati per operazioni di guerra psicologica, per fuorviare, ingannare e disinformare, il fatto che questi video stiano proliferando nei media di tutto il mondo, indica che in Cina sta prendendo forma una narrativa ufficiale.

Questa narrazione è che l’esercito cinese può – e probabilmente lo farà – intraprendere un’azione drastica ed inarrestabile contro uno dei suoi vicini.

Lo stanno facendo perché i leader cinesi ritengono che gli Stati Uniti siano distratti e che la loro leadership sia indebolita e manchi di visione strategica.

Una intensissima campagna di propaganda per comunicare che la Cina è più che mai pronta ad avviare una massiccia azione militare contro uno dei suoi vicini – molto probabilmente, anche se non certamente, Taiwan.

 

Ma Pechino, “Xi Jinping” e le “élite cinesi” si sbagliano nelle loro valutazioni, proprio come le élite giapponesi che ottantacinque anni fa spingevano per una guerra con gli Stati Uniti.

A prescindere da come andranno i rapporti con gli Stati Uniti, la coalizione dei volenterosi si sta velocemente organizzando e vede sempre più nazioni aderire al progetto di difesa comune ed in sostegno dell’Ucraina.

In questa situazione di tensioni tra Usa e EU, anche la Cina sta valutando la propria disponibilità all’invio di forze di peacekeeping in Ucraina, su un piano diverso da quello europeo, da un lato volto a rassicurare e proteggere il suo alleato russo, dall’altro per tutelare i propri interessi economici e geopolitici.

 Partecipare a una missione in ucraina significherebbe garantirsi un ruolo di primo piano nella fase di ricostruzione post bellica dell’Ucraina, tutelare i propri investimenti minerari e soprattutto proiettare un’immagine da potenza responsabile e affidabile.

Le fratture tra l’amministrazione Trump e l’Ue sono un’occasione inaspettata per un rapido riavvicinamento Cina-Europa.

E Pechino non si lascerà sfuggire questa opportunità, mettendo in campo operazioni strategiche per ricostruire il proprio soft power in seno alla Ue, minato dal suo sostegno all’”Operazione Militare Speciale”.

Groenlandia.

Il presidente Trump intende “rendere la Groenlandia di nuovo grande” e ha definito la proprietà americana dell’isola artica come “una necessità assoluta” per la sicurezza nazionale americana.

Il tycoon ha ribadito il concetto anche in una telefonata con la premier danese “Mette Fredriksen”, i cui toni sono stati definiti “controversi e aggressivi”.

 

Anche la Groenlandia fa parte dei piani di guerra Usa sin dal secolo scorso.

Durante il secondo conflitto mondiale, l’isola fu un protettorato statunitense ed accettò di ospitare truppe americane dopo l’invasione nazista della Danimarca.

 La più grande isola del mondo venne proclamata dal presidente Franklin D. Roosevelt parte integrante della zona di influenza degli Stati Uniti, nonostante la sua appartenenza alla corona danese.

Il presidente Trump ritiene che l’annessione della Groenlandia da parte degli Stati Uniti si verificherà, perché gli Stati Uniti hanno bisogno della grande isola artica – “per la sicurezza internazionale”.

Per tutti questi motivi, oggi non bisogna ripetere gli errori di valutazione commessi a marzo 2022, quando molti esperti italiani di geopolitica escludevano e minimizzavano ogni velleità bellica della Federazione russa. Non bisogna assolutamente sottovalutare l’imprevedibilità e le ambizioni strategiche della nuova Amministrazione Trump.

L’America ha dichiarato guerra a sé stessa?

Osserveremo attentamente gli sviluppi che nei prossimi mesi nell’Atlantico, nell’Indo-Pacifico e nell’Artico, con l’auspicio che non si realizzi la profezia del presidente Abraham Lincoln.

Nel gennaio del 1838, il presidente degli Stati Uniti “Abraham Lincoln” avvertì in un discorso a Springfield, nell’Illinois, dei pericoli che minacciavano gli Usa:

“Se il pericolo dovesse mai raggiungerci, sorgerà in mezzo a noi. Non può venire dall’esterno. Se il nostro destino è la distruzione, noi stessi ne saremo gli autori e gli artefici. Come nazione di uomini liberi, dobbiamo vivere per l’eternità, o morire suicida”.

 

L’uomo che sarebbe diventato il sedicesimo presidente americano anticipò così una verità senza tempo:

le democrazie non muoiono sotto i colpi delle forze ostili, ma sotto l’effetto delle loro stesse contraddizioni.

Questo avvertimento sta risuonando sempre più forte in occidente di fronte ai recenti sconvolgimenti nella leadership degli Stati Uniti.

 

 

Ecco come le aziende Usa

si stanno adattando

ai dazi di Trump.

Starmag.it – Luca Sebatini – (21 Maggio 2025) – ci dice:

 

Pensieri e mosse delle aziende americane alle prese con la politica doganale di Trump. Fatti, numeri e approfondimenti.

Le aziende Usa si stanno adattando ai dazi di Trump.

Le negoziazioni in corso tra gli Stati Uniti e la Cina, così come con il resto del mondo, hanno portato a un disgelo tra le parti sulla questione dazi.

 Seppur le tariffe statunitense siano state abbassate, al 10% a decine di paesi e al 30% quelle sulla Cina, la situazione è ben lontana dall’essere risolta.

Per questo le aziende americane, e non solo, stanno comunque continuando a correre ai ripari.

 

FIDUCIA E UMORE SOTTO ZERO PER LE AZIENDE.

Gli esportatori di tutto il mondo, infatti, sono impegnati in un rapido riadattamento delle proprie catene di approvvigionamento.

Obiettivo: evitare il più possibile l’impatto dei dazi, che si stima possano portare a perdite sulle esportazioni globali di 305 miliardi di dollari solo nel 2025.

 A riportarlo è uno studio di Allianz sul commercio globale.

Un’indagine condotta, prima e dopo l’annuncio di Donald Trump delle tariffe, su 4500 aziende sparse in nove paesi:

 Usa, Regno Unito, Cina, Francia, Germania, Singapore, Italia, Polonia e Spagna.

 

Tra queste aziende, meno della metà prevede una crescita delle esportazioni e il 27% di esse ritiene possibile dover interrompere la propria produzione almeno per un breve periodo a causa della volatilità dovuta ai dazi.

Preparandosi a ritardi e tagli, la fiducia delle aziende sta calando sempre più. Specie per via dell’incertezza riguardo la strategia dell’amministrazione Trump.

 E in molte sono orientate a incrementare i prezzi ai danni di consumatori e clienti.

 

LE AZIENDE AUMENTANO I PREZZI, I CASI WALMART E HOME DEPOT.

 

Sempre secondo lo stesso studio di Allianz, “gli aumenti dei prezzi rimarranno probabilmente la strategia preferita a livello globale per contrastare l’impatto dei dazi”.

Tra le aziende statunitensi, il 54% ha affermato di aver scelto l’aumento dei prezzi come strada da percorrere.

Negli altri paesi, invece, la percentuale è più bassa.

 Negli Stati Uniti, tra chi ha deciso di alzare i prezzi per via delle tariffe, c’è “Walmart”, multinazionale e catena di negozi al dettaglio.

L’aumento annunciato potrebbe avvenire già in queste settimane ed è il motivo per cui è stata attaccata ferocemente da Trump.

Al contrario, “Home Depot”, altra multinazionale che vende elettrodomestici, servizi per la casa, attrezzi e materiali da costruzione, ha annunciato un’altra strategia.

 Il direttore finanziario dell’azienda, “Richard McPhail”, ha infatti dichiarato: “Grazie alle nostre dimensioni, alle ottime partnership con i nostri fornitori e alla produttività che continuiamo a promuovere nella nostra attività, intendiamo mantenere in generale i nostri attuali livelli di prezzo per tutto il nostro portafoglio”.

Niente aumento dei prezzi, quindi.

 E una stoccata a Walmart.

“Home Depot” ha spinto per diversificare le fonti di approvvigionamento.

 Come detto da “McPhail”, oltre la metà dei prodotti dell’azienda è realizzata negli Usa e nessun altro paese straniero rappresenterà più del 10% degli acquisti da qui al prossimo anno.

 

Ma come riportato da “Quartz”, la scelta di “Home Depot “potrebbe essere solamente politico-strategica (e temporanea).

Tra i suoi fornitori, infatti, in diversi hanno già preannunciato possibili aumenti dei prezzi, che potrebbero ricadere direttamente su “Home Depot”.

 E nel primo trimestre del 2025 le vendite dell’azienda sono diminuite, pur registrando un leggero aumento negli Usa.

 Cercando di mantenere i prezzi uguali, dazi o non dazi, l’azienda starebbe cercando di conquistare così la fiducia dei clienti.

 

LA CORSA AI MAGAZZINI DOGANALI NEGLI USA.

Intanto, un’altra mossa di molte compagnie americane che importano beni dalla Cina per rispondere ai dazi è quella di accaparrarsi spazi e magazzini doganali. Cioè delle strutture in cui depositare le merci importate senza pagare immediatamente i dazi doganali.

Dazi che vengono pagati solo quando le merci effettivamente escono dal magazzino per la vendita, quindi in rate più piccole.

Comprando gli spazi di questi magazzini, i cui prezzi sono quadruplicati nel 2025, le aziende di fatto provano a temporeggiare, scommettendo sul carattere temporaneo della guerra commerciale tra Usa e Cina.

 Attualmente questi magazzini doganali sono circa 1700 in tutti gli Stati Uniti.

Ma oltre a cercare di comprare spazi al loro interno, le aziende stanno provando a crearne di nuovi, presentando domanda alla “Us Customs and Border Protection”.

 I tempi però si sono allungati tremendamente:

se l’anno scorso ci voleva un paio di mesi, ora si è arrivato a sei.

In tutto ciò, il rischio è maggiore perché non si sa quali saranno gli sviluppi dopo i 90 giorni di pausa decisi dalla Casa Bianca.

WALL STREET SOTTOVALUTA I RISCHI DEI DAZI?

 

Nel frattempo, a lanciare un allarme sulla situazione generale economica per gli Usa dovuta ai dazi trumpiani, è stato “Jamie Dimon”, ceo di JpMorgan.

Secondo lui, infatti, “Wall Street “starebbe sottovalutando i rischi di deficit crescenti, dazi e tensioni geopolitiche, parlando di un ottimismo del mercato come “un’enorme dose di compiacimento” per via prima del crollo e poi della sua risalita.

 Per Dimon anche le “banche centrali” sono quasi compiacenti davanti a tutto ciò. “Voi tutti pensate che possano gestire tutto questo. Io non credo che ci riusciranno”, ha avvertito durante la riunione annuale degli investitori della sua banca.

Dimon ha messo in guardia sul rischio, per lui, principale: la stagflazione.

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