La nuova forma del potere.
La
nuova forma del potere.
Investire
tra dazi e guerre fiscali:
strategie
per imprese e Hnwi.
We-wealth.com - 15 Maggio 2025 - Edoardo
Tamagnone – ci dice:
Primo
piano di una scacchiera con pezzi d'argento e oro e un cavallo al centro.
La
luce naturale e soffusa ne esalta i dettagli, mentre gli altri pezzi sono
sfocati.
Il riferimento va alle strategie usate da
imprese e “Hnwi” su come investire tra dazi e guerre fiscali.
Indice:
Dazi e
investimenti: rischi e strategie per imprese e grandi patrimoni.
La
nuova guerra dei dazi: cosa sta succedendo tra Usa, Cina ed Europa.
Quali
sono le conseguenze sui mercati e sugli investimenti esteri.
Tassazione
e geopolitica: i nuovi rischi per investitori e imprenditori.
Protezione
patrimoniale: le strategie fiscali e legali che funzionano.
Come
orientarsi: il ruolo della consulenza legale e fiscale internazionale.
Dazi e
investimenti: rischi e strategie per imprese e grandi patrimoni.
In un
contesto globale sempre più segnato da tensioni geopolitiche, frammentazione
commerciale e politiche industriali aggressive, la dimensione
economico-finanziaria internazionale torna al centro del dibattito.
La
cosiddetta “nuova guerra dei dazi, “che coinvolge Stati Uniti, Cina ed Europa,
sta ridefinendo le regole del commercio globale e influenzando direttamente i
flussi di capitali, gli assetti societari e le scelte di pianificazione
patrimoniale.
Per
imprese e investitori, il rischio non è più solo fiscale o operativo, ma
sistemico. Capire dove si stanno spostando i centri di potere economico e quali
sono gli strumenti efficaci per tutelare patrimonio, redditività e libertà
d’azione è oggi una priorità strategica.
La
nuova guerra dei dazi: cosa sta succedendo tra Usa, Cina ed Europa.
Il
ritorno dei dazi non è un mero incidente congiunturale. Dopo decenni di
globalizzazione crescente, gli ultimi anni hanno segnato una cesura: pandemia,
guerra in Ucraina, transizione energetica e competizione tecnologica hanno
riaperto la partita della sovranità economica.
Gli
Stati Uniti, già con la prima amministrazione Trump, avevano imposto dazi
selettivi su acciaio, alluminio e prodotti cinesi; la linea è proseguita con Biden,
sebbene in forma più strutturata e multilaterale.
Nel
frattempo, l’Unione Europea ha reagito con l’adozione di strumenti difensivi –
come il “Carbon Border Adjustment Mechanism” – e la Cina ha risposto con misure
ritorsive e un rafforzamento interno del proprio mercato (strategia della
“doppia circolazione”).
Le
tensioni commerciali si sono evolute in vere e proprie rivalità geoeconomiche,
alimentate da scelte protezionistiche, finanziamenti pubblici massivi e
politiche industriali autonome.
Quali
sono le conseguenze sui mercati e sugli investimenti esteri.
Le
imprese che operano su scala internazionale – in particolare nei settori
manifatturiero, tecnologico ed energetico – subiscono un doppio contraccolpo:
volatilità nei costi di approvvigionamento e incertezza nella stabilità
normativa. Questo ha portato a un riassetto delle catene del valore
(nearshoring, friend-shoring), ma anche a una crescente cautela negli
investimenti esteri diretti.
I
fondi di investimento e le holding internazionali, specie quelle con
partecipazioni in aree ad alto rischio geopolitico, stanno diversificando le
giurisdizioni e rafforzando i dispositivi di compliance.
I
trust con beneficiari o beni situati in Stati oggi a rischio sanzioni, o
soggetti a black list, sono rivalutati in termini di governance e trasparenza.
Anche
i fondi pensione e i veicoli assicurativi devono ricalibrare le loro
esposizioni internazionali, per evitare impatti negativi sul profilo di
rischio-rendimento.
Hai
un’impresa e sei preoccupato per dazi e nuove regole fiscali? Scopri come
proteggere il tuo patrimonio.
Tassazione
e geopolitica: i nuovi rischi per investitori e imprenditori.
In
parallelo, l’evoluzione normativa in ambito fiscale riflette e amplifica le
tensioni geopolitiche.
Le
politiche anti-elusione, iniziate con “Beps” e proseguite con la “Global
Minimum Tax” (Pillar II), vengono ora affiancate da strumenti di controllo
sempre più penetranti:
“
Dac6” in Europa, “Fatca” negli Stati Uniti, convenzioni multilaterali sulla
trasparenza fiscale.
Le
liste nere Ue e Ocse assumono un significato politico, oltre che tecnico.
La
possibilità che uno Stato venga considerato “non cooperativo” comporta
conseguenze gravi:
da
limitazioni nella deducibilità dei costi a ritenute alla fonte maggiorate, fino
a misure di ritorsione incrociata.
In
alcuni casi, come nelle tensioni tra Usa e Cina, si parla apertamente di
utilizzo della leva fiscale come strumento di guerra commerciale.
In questo scenario, imprese e Hnwi devono
adottare strategie difensive efficaci, senza violare la normativa
internazionale.
Protezione
patrimoniale: le strategie fiscali e legali che funzionano.
Per
affrontare un contesto normativo incerto e un clima politico instabile, non
basta più “ottimizzare” le scelte fiscali: serve una vera strategia di
protezione patrimoniale e di pianificazione transnazionale.
I
trust (in common law) e le fondazioni (in civil law) restano strumenti validi,
ma devono essere gestiti secondo criteri di sostanza economica, finalità reale
e piena tracciabilità.
Anche
la scelta della residenza fiscale personale e societaria assume un peso
crescente.
Giurisdizioni
come Emirati Arabi Uniti, Singapore, Svizzera e alcune aree dell’Europa
orientale offrono regimi fiscali competitivi, stabilità legale e accesso ai
mercati.
La
delocalizzazione, però, deve essere valutata alla luce dei trattati contro la
doppia imposizione, delle clausole anti-abuso e del principio della “substance
over form”.
Accanto
a ciò, crescono soluzioni ibride come le polizze assicurative di private
insurance, gli strumenti di “asset protection” integrati con le holding di
famiglia e l’uso sofisticato di strutture multilivello.
Come
orientarsi: il ruolo della consulenza legale e fiscale internazionale.
In un
ambiente così dinamico e ad alta intensità normativa, la consulenza legale e
fiscale diventa un asset strategico.
Non si tratta più solo di “interpretare” norme
tributarie, ma di prevedere scenari, anticipare rischi e costruire architetture
patrimoniali capaci di resistere a pressioni politiche e mutamenti legislativi.
Gli
studi legali internazionali, i fiscalisti con competenze in diritto comparato e
gli advisor specializzati in “wealth planning” rappresentano un presidio
indispensabile per chi opera tra più giurisdizioni o gestisce patrimoni
complessi. L’integrazione tra competenze giuridiche, finanziarie e geopolitiche
è oggi la vera leva competitiva.
La
sfida non è più solo quella di “risparmiare” sul piano fiscale, ma di
preservare libertà economica, stabilità e continuità in uno scenario globale
dove l’incertezza è la nuova normalità.
“Tecnodestra.
I nuovi paradigmi
del potere” di Andrea Venanzoni.
Pandorarivista.it – (18 aprile 2025) –
Avvocato Luca Picotti – ci dice.
La
categoria della “tecnodestra” è emersa nel dibattito italiano con una
connotazione più che altro polemica e dispregiativa, alla stregua di
un’etichetta sensazionalistica per segnalare il pericolo democratico insito
nella commistione tra i giganti del digitale e la nuova amministrazione
americana.
Nelle
analisi più modeste il tutto si riduce a due volti, quello del Presidente degli
Stati Uniti Donald Trump e quello dell’uomo più ricco del mondo Elon Musk.
In
quelle un minimo più strutturate, ad essere intercettata è una tendenza
generale – certo, esemplificata dai due soggetti di cui sopra – in cui il
potere economico e digitale abbraccia le istanze politiche conservatrici o
reazionarie, in un concentrato di liberismo e autoritarismo.
Resta
il fatto che, il più delle volte, tali sortite si traducono in allarmismi tanto
suggestivi quanto semplicistici, ove il messaggio finale, la narrazione, conta
più del contenuto.
In questo senso, il dibattito italiano ha
conosciuto la tecno destra solo attraverso la rappresentazione datane da una
parte politica e intellettuale, ascrivibile all’area progressista, che tra
editoriali, convegni e dirette televisive ha tradotto tale concetto nei termini
ad essa più consoni, ossia funzionali a denunciare il rischio democratico
potendo finalmente unire i due filoni critici preferiti, l’ur-liberismo e
l’ur-fascismo.
La tecno destra merita invece un’analisi più
bilanciata, proprio perché è un tema troppo serio, e con effettive implicazioni
su democrazia, libertà e modelli di governo, per essere lasciato alle
partigianerie interessate.
Da
qui, un necessario punto di partenza:
per
parlare di tecno destra bisogna effettivamente conoscerla.
E per farlo ci viene in soccorso il recente
libro del giurista e saggista “Andrea Venanzoni”, pubblicato da “Signs Books” e
intitolato “Tecno destra”.
I nuovi paradigmi del potere.
In una
discussione che non ha mai veramente voluto conoscere, studiare e approfondire
l’oggetto del dibattere, arriva un volume in grado di raccontare i
protagonisti, le idee, i riferimenti culturali, gli intrecci politici,
tecnologici e finanziari di quella galassia, tanto contraddittoria quanto in
parte reale, che è la tecno destra.
Se si
vuole conoscerla, anche e soprattutto per criticarla, sia per quanto concerne
la sovrastruttura teoretica che la informa che per quanto riguarda l’effettiva
concentrazione di potere politico, economico e tecnologico, si vada oltre alle
analisi sensazionalistiche e si legga questo volume.
Un
lavoro che nasce dalla stretta attualità ma non si presenta come un
instant-book, anzi: con più di trecentocinquanta pagine e numerosissimi
riferimenti bibliografici, sintetizza anni di studio dell’autore.
Oltre a diverse parentesi e digressioni, sono
tre i blocchi principali:
una
panoramica teorica sui riferimenti culturali, dove si parte dall’ideologia
californiana, si affronta la nascita della Silicon Valley, ci si imbatte nel
“libertarismo e nel “paleolibertarismo”, e ancora nel “cypherpunk”,
nell’”accelerazionismo”, sino al “neocameralismo” e all”’alt-right£, passando
inoltre per il “gaming” e il “trolling”;
un
approfondimento dei protagonisti, tra “PayPal Mafia” e continui riferimenti al “Signore
degli Anelli”, con diversi passaggi su “Elon Musk”, “Peter Thiel”, “Palmer
Luckey”, “Marc Andreessen” e” J. D. Vance”;
infine
un viaggio, dettato anche dalla personale sensibilità di “Venanzoni” e dalla
sua simpatia verso talune suggestioni libertarie, tra le teorie e le pratiche
della tecno destra oltre gli Stati Uniti, alla ricerca di nuovi modelli di
governo, con spunti su città-network, policentrismi digitali,” innovation zone”
e altri esperimenti di ingegneria politico-istituzionale al di là dello Stato.
Ma
cos’è, quindi, la tecno destra?
«Non è
forma ideologica, ma prassi ricombinante che assomma e sintetizza modi, idee
diverse, stili, sospesi tra alta tecnologia e politica, funzionalmente protesi
alla comprensione di un presente accelerato».
Non è
possibile darne una definizione unitaria, essendo percorsa da più anime, ma può
essere colta nella duplice accezione, ossia in parte come azione, in parte come
reazione.
Per
comprenderne le traiettorie bisogna infatti partire, innanzitutto, dal sostrato
culturale, politico e giuridico in contrapposizione al quale si sono via via
sedimentate le basi stesse della tecno destra:
la
cultura tendenzialmente progressista della “Silicon Valley”, interpretata da “Google””
e dal “primo Facebook;
le pedagogie tradottesi nella burocrazia della
moderazione dei contenuti;
casi come quello dei “Twitter Files”;
normative
rigide quali quelle dell’Unione Europea, tra GDPR, DSA e DMA, destinate a
rendere più gravoso il business digitale, spesso all’insegna di nuove categorie
di lecito e illecito al di là del penalmente rilevante;
burocrazie
statali, dirigismo, regolazione e sussidi, con relativi sprechi, rigidità e
inefficienze;
retoriche
dei diritti supportate dall’azione statale per il mezzo di discriminazioni
positive.
Un
intero castello, di matrice progressista e liberal, che per molto tempo ha
avuto un’ascendenza maggioritaria sul mondo dei magnati digitali, a parte
nicchie eterodosse come la “PayPal Mafia”, e, in generale, negli approcci delle
politiche pubbliche.
Sino ad oggi, però, quando certe pedagogie
univano potere politico, economico, tecnologico e culturale, non si è mai
parlato, evidenzia “Venanzoni” non senza una dose di sarcasmo, di tecno sinistra.
Il
dibattito si è attivato solo nel momento in cui questo castello ha iniziato a
sgretolarsi e si sono verificate numerose trasformazioni nei paradigmi del
potere.
L’evento
spartiacque, sottolinea l’autore, è l’acquisizione di “Twitter”, rinominato
successivamente” X”, da parte di Elon Musk.
La culla del dibattito e della moderazione dei
contenuti – con alcuni scheletri nell’armadio come i cosiddetti “Twitter Files”
– si trasformerà da quel momento nell’agorà di un free speech aggressivo, e non
senza contraddizioni, in cui lo stesso proprietario della piattaforma diventerà
uno dei più assidui partecipanti, tra “trolling” e “meme,” con interventi sui
più svariati argomenti, dalle acquisizioni di società rivali agli endorsment
politici a partiti di destra radicale europea.
Questo
spartiacque, già da subito denunciato da una certa area, si cristallizzerà in
senso stretto nella nuova categoria, la tecno destra, quando poi Elon Musk
scommetterà su “Donald Trump” e questi risulterà vincitore alle presidenziali
statunitensi del novembre 2024.
Da
qui, quel connubio che si trasforma anche in incarichi di governo, una
staffetta tra il Presidente e l’uomo più ricco al mondo estremamente
scenografica, connotata da una bulimia dichiarativa contro diverse ossature del
vecchio castello, nonché verso alleati storici come i Paesi europei.
Se a
questo poi si uniscono i riposizionamenti di altri grandi attori, come “Meta”
di Mark Zuckerberg, che ha iniziato a rigettare le politiche di diversità e
inclusione e ad essere sempre più insofferente verso la regolazione europea,
ecco che il cerchio comincia a chiudersi:
istanze conservatrici o reazionarie, rigetto
delle politiche inclusive, ruoli di amministrazione per svuotare parte della
burocrazia pubblica, de-regolamentazione, decisionismo, un connubio tra potere
politico e digitale in cui gli interessi pubblici e privati finiscono per
confondersi ulteriormente.
Questa
traiettoria non va però letta come mera reazione, essendo anche azione: ossia
frutto di un pensiero, di una visione di diversi protagonisti di questa
galassia, scienziati, innovatori e investitori venture capital che anticipano o
colgono le tendenze di questo tempo.
C’è il
“Techno-Optimist Manifesto” di Marc Andreessen.
Oppure”
The Technological Republic” di Alexander Carp, amministratore delegato di
Palantir.
In questi e altri testi si individua un
pensiero nuovo e per certi versi più realistico di alcuni approcci ingenui
della tradizione libertaria o anarco-capitalista, troppo dogmatici per cogliere
i riflessi delle sfide geopolitiche e la centralità della sicurezza nazionale.
Proprio
quest’ultimo concetto si va ad intrecciare con le sorti del digitale, in un
nuovo complesso militare-industriale, ove ai tradizionali colossi della difesa
si sono aggiunti, ritagliandosi sempre più peso, i nuovi protagonisti della
tecno destra: SpaceX, Palantir, Anduril, ecc.
Una
commistione tra sicurezza nazionale e digitale, ove i privati fungono sempre di
più da “contractor del governo”, finalizzata a difendere la centralità
americana dinnanzi alle nuove sfide, specie quella cinese.
Il
digitale diventerebbe, in questo senso, una forma di sicurezza, per proteggere
il sistema americano e, dunque, la libertà; allo stesso tempo, la libertà
passerebbe per “free speech”, de-regolamentazione, rifiuto di ingerenze statali
tramite discriminazioni positive, pedagogie dall’alto o dirigismo green;
infine,
nella forza creatrice e distruptive dell’alta tecnologia si vorrebbe scorgere
«il profilo della disossificazione di modelli istituzionali paralizzati,
incapaci di muoversi, di evolversi, di decidere».
Una
galassia contraddittoria?
Senz’altro,
basti pensare, sul fronte pratico, ai legami di Musk con la Cina, che lo stesso
Venanzoni evidenzia;
sul
piano teorico, sono tanti i profili che non convincono, dalla mai rimossa
antinomia tra libertà e freni conservatori alle trasformazioni sociali,
culturali, di costume portate dalla stessa distruzione creatrice capitalistica,
alla discrasia tra spinta verso sistemi più policentrici e orizzontali e
accentramento tecnologico in nome della sicurezza nazionale in una sfida tra
imperi.
Pericolosa?
Senza
rincorrere gli allarmismi, diversi presupposti teorici destano sicuramente
qualche preoccupazione e l’approccio decisionista della nuova amministrazione
americana – con l’”Executive Order “inteso al di là di ogni vincolo, quantomeno
nel momento della sua sfacciata adozione – appare del tutto scomposto.
Molti
sono, pertanto, i nodi, teorici e pratici.
Per
discuterne occorre però conoscere l’oggetto.
Qui si
inserisce l’importanza del volume di “Andrea Venanzoni£, che rappresenta una
delle più nitide ricostruzioni di tutto ciò che compone la galassia della tecno
destra, frutto di studi, di una cultura sterminata e un interesse anche pratico
verso potenziali direzioni alternative nei sistemi di governo che, anche
laddove non condivise, vanno quantomeno apprezzate in termini di dialettica
intellettuale.
(Luca Picotti, avvocato).
Meloni
Non Condanna Netanyahu:
“Una
Crisi Umanitaria Innescata
dall’Attacco di Hamas.”
Conoscenzealconfine.it
– (18 Maggio 2025) - Andrea Sparaciari – ci dice:
Neanche
le 60mila vittime civili di Gaza spingono Meloni a pronunciare la parola
“condanna”.
Lo
sterminio? “Tutto è iniziato da Hamas”.
Chi si
aspettava (pochi in verità) uno moto di orgoglio politico, di indipendenza, o
anche solo una semplice presa di posizione umanitaria della
premier-madre-donna-cristiana Giorgia Meloni nei confronti dello sterminio in
corso a Gaza, anche mercoledì scorso è rimasto deluso.
Rispondendo al “premier time” alla Camera a
un’interrogazione dell’”Avs” Angelo Bonelli, la presidente del Consiglio ha
confermato che il governo italiano continuerà a fare quanto fatto fino a oggi
per la tragedia palestinese: cioè assolutamente nulla.
Quelle
Lunghe Conversazioni con Netanyahu.
“In
questi mesi a più riprese ho sentito il primo ministro israeliano Benjamin
Netanyahu, sono state conversazioni spesso difficili, in cui ho sempre
richiamato l’urgenza di trovare una strada per terminare le ostilità e
rispettare il diritto internazionale e il diritto internazionale umanitario“,
ha detto Meloni in aula.
“Una
richiesta che rinnovo anche oggi, a fronte di una situazione umanitaria a Gaza
che non ho difficoltà a definire sempre più drammatica e ingiustificabile”.
E già
con queste poche frasi Meloni ha dimostrato la volontà di negare l’innegabile,
che quello in corso a Gaza è un genocidio, non una grave “situazione
umanitaria”.
Inoltre,
affermando di aver richiamato Netanyahu al rispetto del diritto internazionale
e umanitario, ha implicitamente confermato che Israele quel diritto l’ha
violato.
Costantemente.
E che quindi quello Stato andrebbe sanzionato,
isolato, messo nelle condizioni di non uccidere oltre.
Invece
“non è intenzione del governo richiamare l’ambasciatore italiano in Israele” ha
chiarito Giorgia.
Per
Meloni Gaza è Solo Colpa di Hamas.
“Non
abbiamo condiviso”, ha poi aggiunto, “diverse scelte, non condividiamo le
recenti proposte del Governo israeliano e non abbiamo mancato di dirlo ai
nostri interlocutori, consapevoli però che non è stata Israele a iniziare le
ostilità e che c’era un disegno, come ho detto varie volte, alla base dei
disumani attacchi di Hamas, della crudeltà rivolta contro gli ostaggi.
Quello
era un disegno che puntava all’isolamento e questo non può non farci riflettere
su quanto sarebbe pericoloso assecondare il disegno dei terroristi, che non si
sono fatti scrupoli a sacrificare la vita sia di israeliani che di palestinesi
pur di perseguire i propri scopi”.
Quindi
la logica dell’azione politica italiana è non condannare esplicitamente Israele
che ha ucciso 60mila civili, per non fare il gioco dei terroristi.
“Continueremo”
ha però assicurato la premier, “a impegnarci per una cessazione permanente
delle ostilità. In questo quadro credo che non ci debbano essere da parte
nostra ambiguità nel pretendere che Hamas rilasci immediatamente gli ostaggi,
deponga le armi, nel dire che non c’è spazio per una presenza di Hamas nella
Striscia in un futuro “Stato palestinese“.
“Italia
Sempre in Prima Fila.”
E,
forse per lavarsi la coscienza, ha terminato dicendo che “fin dall’inizio del
conflitto il governo italiano è stato in prima fila tanto sul piano diplomatico
quanto sul piano umanitario.
Un ruolo che viene riconosciuto da tutti gli
attori in campo. Oggi abbiamo evacuato altre 34 persone, tra cui 14 bambini”.
Di
certo c’è anche “il silenzio prolungato del ministro degli Esteri Antonio
Tajani su Gaza e la sua contrarietà all’arresto del presunto criminale
Netanyahu”, su mandato della Corte penale internazionale, qualora dovesse
atterrare nel nostro Paese.
Bonelli:
“Calcolo Politico per Non Irritare gli Usa e Vendere Armi a Israele.”
Affermazioni
che hanno indignato le opposizioni, a partire da Bonelli, che ha replicato:
“Sono
inorridito, indignato dalla sua ipocrisia. Non ha avuto il coraggio di
condannare i fatti criminali che stanno accadendo a Gaza. Ma lei da madre come
si sente a vedere uccisi 18.000 bambini?”, ha chiesto.
“Non
ha il coraggio di condannare Netanyahu e i ministri del governo che dicono che
bisogna bombardare i depositi alimentari” e questa “la trovo francamente
un’ipocrisia, che di fronte all’orrore che stiamo vedendo, lei non è in grado
di esprimere una parola di condanna, di dare sanzioni a chi uccide bambini, le
stesse che avete deciso per la Russia”.
E poi
l’affondo: “Io le dico perché lei sta facendo questo, signora Presidente.
Perché
lei sta facendo un calcolo politico.
È più importante mantenere il suo potere, non
inimicarsi Israele, non inimicarsi Washington, comprare armi da loro.
Vendere
armi a Israele e dimenticare.
Oggi lei è stata profondamente ipocrita, non
ha avuto il coraggio di condannare ciò che è di fronte agli occhi del mondo,
uno sterminio, una deportazione, una pulizia etnica, di questo lei si deve
vergognare di fronte al popolo italiano”.
Cade
nel Nulla l’Invito di Conte ad Alzarsi Contro lo Sterminio a Gaza.
E
l’ultimo sfregio alle migliaia di vittime palestinesi la
premier-madre-donna-cristiana l’ha regalato quando il presidente M5s, Giuseppe
Conte, ha invitato l’intera Camera ad alzarsi in piedi per dare “un segno di umanità, condannando il
silenzio sullo sterminio”.
Un
segno che però non è arrivato, visto che tutto il governo e la maggioranza sono
rimasti seduti.
Immobili.
Come
davanti allo sterminio in atto.
(Andrea
Sparaciari).
(lanotiziagiornale.it/gaza-da-meloni-non-arriva-la-condanna-di-netanyahu-una-crisi-umanitaria-innescata-dallattacco-di-hamas/).
Mercati
e Big Tech sono i nuovi
poteri
assoluti del mondo:
ecco i
rischi.
Agendadigitale.eu
– Lelio Demichelis – (25 Gen. 2022) – ci dice:
(Lelio
Demichelis Sociologo della tecnica e del capitalismo).
Dov'è
il potere.
Cultura
e società digitali.
A
differenza del passato, oggi la politica è subordinata, come mezzo,
all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.
Abbiamo
un enorme problema di democrazia.
Ma non lo vediamo.
Serve lo Stato contro un capitalismo che mai è
stato bello, e oggi lo è ancor meno.
Big
tech.
Cos’è
il potere?
Dov’è
il potere – anzi, il Potere, usando Pier Paolo Pasolini?
Non tanto il potere politico – quello sembra
facile da identificare, ha dei nomi di persona (Biden, Draghi, Lagarde, Putin)
oppure rimanda a Istituzioni specifiche (la Ue, il Parlamento, il Governo, il
Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità – Oms) –
quanto ciò
che, a monte, determina le reali forme del Potere e i modi con cui si esprime e
si esercita su di noi:
cioè,
qual’ è il Potere che governa la vita delle persone, ovvero, usando “Michel
Foucault”, “conduce le condotte umane” in una direzione piuttosto che in
un’altra.
La
questione è antica, volendo potremmo risalire a Platone e ad Aristotele e alle
loro distinzioni tra democrazia, oligarchia, governo degli uomini o governo
delle leggi, democrazia formale e sostanziale, eccetera eccetera.
Ma
rapportando la questione all’oggi, non possiamo non riconoscere che il potere
dell’economia e della tecnologia (antidemocratici per essenza propria) è più
forte del potere politico e della democrazia, è potere assoluto in quanto non
bilanciato da altri poteri equi-valenti ed equi-potenti.
Indice
degli argomenti:
I
livelli di governo e i luoghi del Potere.
Cosa
si intende per democrazia?
Chi
governa il mondo (parte prima)?
Chi
governa il mondo (parte seconda)?
La
corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.
Il
ruolo dello stato.
I
livelli di governo e i luoghi del Potere.
Qui
vogliamo quindi ricordare alcuni elementi che ci permettono di definire i
diversi livelli di governo (di Potere) oggi esistenti, la loro struttura
gerarchica e il loro rapporto con la democrazia, la sovranità, la libertà e
l’autonomia delle persone – e il demos (i cittadini) titolare del potere in
demo-crazia.
Non
senza aggiungere che da sempre il potere corrompe chi lo pratica, che viene
usato per corrompere (qualcun ricorda Mani pulite?), che spesso il popolo ama
chi corrompe ed ama essere ingannato (cioè corrotto mentalmente e
politicamente) dal potere (pensiamo a Trump e a quel 50% di americani che lo
hanno votato e lo rivoterebbero).
Sul tema della corruzione è recentemente
uscito un nuovo libro dal titolo inequivocabile,
“Corruptible:
Who Gets Power and How It Changes Us” (Scribner Book Company), di Brian Klass,
columnist del Washington Post e basato su 500 interviste a uomini di potere.
Qui
però useremo il concetto di corruzione e il processo del corrompere nel senso
di “disfacimento, deterioramento materiale ma soprattutto morale” (Dizionario
etimologico della lingua italiana – Zanichelli) e faremo una
rilettura/interpretazione del potere concentrandoci sul macro-contesto entro il
quale, oggi, si muovono o possono muoversi i diversi livelli di governo a scala
nazionale, sovra-nazionale e locale, pre-determinandone (corrompendone)
l’azione e gli effetti.
Questo
macro-contesto è dato dal neoliberalismo, egemone nel mondo da quarant’anni a
questa parte (è l’ideologia trionfante dopo la morte delle ideologie
novecentesche) a dispetto di tutti i suoi fallimenti e del suo intrinseco
nichilismo (possiede una potentissima e patologica coazione a ripetersi),
sommato con le tecnologie di rete e con chi le possiede (e con la religione
tecno-capitalista che esprimono, con il feticismo e il catechismo tecnofilo che
producono).
Macro-contesto
ideologico e tecnologico che ha profondamente modificato i livelli di governo
esistenti prima degli anni ‘80.
Corrompendo
in altro modo la società e la polis, corrompendo la democrazia, il concetto di
libertà e imponendosi come modo di vivere/way of life tecno-capitalista sul
mondo intero – la globalizzazione e la rete come espressione di questo
meta-contesto a-democratico e impostosi come un dato di fatto.
Prima
però, una distinzione: il governo è la struttura istituzionale/politica –
articolata su diversi livelli – “che ha ottenuto il potere di scegliere,
decidere e attuare politiche pubbliche. Nei sistemi democratici questo è
ottenuto attraverso elezioni libere e la presentazione di programmi politici”
(Bobbio-Matteucci-Pasquino, Il Dizionario di politica – Utet).
All’opposto
accade nei sistemi autoritari o tecnocratici.
Diverso
è invece il concetto di governo inteso come governare – ossia come attuare un
determinato programma politico, scelto dal demos oppure imposto al demos.
E ancora diverso è capire dov’è oggi il potere
capace di governare, posto che non è più nel governo-istituzione democratica,
ma non si sa bene dove sia.
Ci
aveva provato, con ottimi risultati di analisi, il francese “Michel Foucault”
(1926-1984) che definiva con governamentalità/biopolitica il modo con cui il
potere (non necessariamente lo stato) guida e dirige appunto le condotte umane
in un senso voluto dal potere, rendendo ciascuno utile e docile verso il potere
– e il neoliberalismo era per Foucault una di queste forme di
governamentalità/biopolitica (infra, Lippmann), che qui definiamo come
macro-contesto e che altrove abbiamo definito come una delle forme di “human
engineering” succedutesi nel corso della storia e soprattutto nel Novecento.
Cosa
si intende per democrazia?
“Nella
democrazia, l’agire politico non solo è pubblico, ma deve essere reso pubblico,
messo sotto gli occhi del pubblico;
e lo è
in due sensi: perché volto ad occuparsi di problemi che direttamente o
indirettamente riguardano e condizionano tutti; e perché deve essere reso
chiaro, giustificato e aperto al pubblico, esposto sempre al giudizio dei
cittadini, i quali, in quanto corpo sovrano, hanno due poteri:
quello
di autorizzare con il voto e quello di giudicare e controllare perpetuamente,
prima o dopo aver votato, coloro che hanno autorizzato” a governarli (Urbinati,
Liberi e uguali, Laterza).
Ovvero, nella democrazia, aggiungeva il
costituzionalista “Gustavo Zagrebelsky”, ci si deve poter attivare, mentre
nelle altre forme politiche si è invece attivati da qualcuno/qualcosa di
esterno.
L’essenza
della democrazia è infatti in questa possibilità e capacità di ciascuno di
attivarsi, cioè di pensare, fare, partecipare, decidere liberamente:
senza
questa possibilità e capacità, non c’è democrazia.
Perché, ancora Zagrebelsky, la democrazia
moderna è in primo luogo la scelta dei fini e poi la predisposizione dei mezzi
per raggiungere tali fini, ovvero il governo della polis è conseguenza della
volontà dai cittadini espressa in un pensiero pro-gettante.
E
allora, la domanda:
i diversi livelli di governo esistenti oggi
rispondono tutti a queste esigenze di democrazia, di partecipazione e di
controllo da parte del demos?
Certamente
no il potere della finanza e del denaro/mercati;
certamente
no il potere della tecnica e dell’innovazione tecnologica;
certamente no il potere delle multinazionali;
certamente no il potere dei social.
E il deficit di democrazia non solo va
crescendo (populismi, autoritarismi, tecnocrazie, algoritmi), ma viene sempre
più accettato come nuova e necessaria normalità del Potere.
E ad
essere corrotto oggi da questi poteri non democratici – è quindi anche il
principio della separazione dei poteri, essenziale in una democrazia perché sia
possibile attivarsi e perché il potere sia trasparente, pubblico e
controllabile dal demos.
Già “Montesquieu”
(1689-1755) aveva tracciato la teoria della separazione dei poteri.
Partendo
dalla considerazione che il “potere assoluto corrompe assolutamente”, aveva
analizzato i tre poteri che vi sono in ogni stato:
il potere legislativo, il potere esecutivo e
il potere giudiziario.
Condizione
oggettiva e necessaria per l’esercizio della libertà del cittadino che esercita
il suo potere sovrano (sopra Urbinati e Zagrebelsky), è che questi tre poteri
restino nettamente separati e bilanciati e controllati, per evitare che
diventino appunto poteri assoluti.
Oggi, “i
mercati e il Big Tech” sono i nuovi poteri assoluti del mondo (e non basta
certo la decisione dell’Antitrust di multare Amazon per poter dire che esiste
un controllo, perché questo controllo si esercita solo ex-post, mentre dovrebbe
essere esercitabile anche ex-ante, la politica tornando a governare anche il
mercato e i processi di innovazione tecnologica (o di regressione tecnologica,
posto che Amazon è le vecchie vendite per corrispondenza, oggi algoritmiche; e
che la Fabbrica 4.0 è solo il vecchio taylorismo, ma digitalizzato).
Oggi,
quindi, il potere dell’economia e della tecnologia è potere assoluto.
Ieri
il sistema economico e industriale veniva subordinato, come mezzo, alla
politica, per realizzare dei fini sociali, decisi dal demos;
oggi è la politica che è subordinata, come
mezzo, all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.
Quindi
abbiamo – di nuovo – un enorme problema di democrazia.
Ma non
lo vediamo.
Il
Potere sa nascondersi.
Chi
governa il mondo (parte prima)?
Lo
Stato, sempre meno.
Il demos, sempre meno (le scelte economiche e
di politica economica vengono imposte dai mercati, vedi il caso
Europa/mercati/banche contro la Grecia nel 2015, con l’Europa democratica
(sic!) che rifiuta di accettare l’esito di un voto popolare in un democratico
referendum).
I
mercati, sempre di più. I
l
Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – cioè un oligopolio di
monopoli), sempre di più (si pensi a come una singola impresa come Amazon ha stravolto
in pochi anni, a sua totale discrezione e decisione, il sistema della piccola,
ma anche della grande distribuzione e a come i social/imprese private
finalizzate al profitto privato governano la vita di miliardi di persone).
La
tecnica, sempre di più – si pensi alla delega di valutazione e di decisione che
sempre più diamo ad algoritmi e digitale, a prescindere da ogni controllo e da
ogni consapevolezza umana.
Le
lobby: sempre di più – si pensi a come per decenni è stato negato il riscaldamento
climatico e a quanto hanno pesato sul fallimento della recente Cop26.
I sistemi di regolazione extra-statali, sempre
di più.
Su
questi ultimi sistemi di regolazione, tanto invisibili da essere sconosciuti ai
più ma dal potere enorme sul governo della vita di ciascuno e dell’intero
sistema globale, il giurista “Sabino Cassese” aveva scritto anni fa: “Chi
governa il mondo?
La risposta più comune è che il mondo è
governato dagli stati che, tramite i propri organi esecutivi, stipulano accordi
nelle diverse parti del globo.
Gli stati non hanno tutti lo stesso peso e la
stessa influenza e di conseguenza il potere non è ripartito equamente.
Essi
infine stipulano convenzioni e trattati […].
Questa
risposta tralascia però due fatti importanti.
La
prima è che gli stati hanno vissuto nel tempo processi di aggregazione e di
disaggregazione.
La seconda è che sono stati affiancati da un
numero sempre crescente di organismi non statali” (che non sono le “Ong”), ma
con il potere di imporre norme estremamente vincolanti, al di fuori di
qualunque sovranità e controllo da parte del demos (S. Cassese, Chi governa il
mondo? – il Mulino).
Cassese
definiva questo regime di regolazione come “global polity”.
Chi
governa il mondo (parte seconda)?
Ma a
governare il mondo è oggi soprattutto – come anticipato – il pensiero/ideologia
neoliberale e tecnico (il meta-contesto, ciò che predetermina i modi del potere
economico, tecnologico e politico; che ingegnerizza la vita sociale e
individuale).
Che si
basa su una serie di principi:
trasformazione
pianificata della società in mercato e in rete;
stato
da governare come un’impresa ma soprattutto stato come promotore del mercato;
interconnessione/digitalizzazione/connessione/integrazione di tutti nel sistema
tecnico e di mercato (che è la nuova forma dell’organizzazione, del comando e
del controllo da parte del capitale, come direbbe Marx);
l’uomo
non più come persona ma come capitale umano;
l’impresa
solo nella sua forma autocratica.
Scriveva
il neoliberale Walter Lippmann già negli anni ‘30 del ‘900, definendo
chiaramente quella che sarebbe stata poi l’azione di pianificazione neoliberale
della società a partire dagli anni ‘80:
“il
liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e suo compito è
modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del
capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”,
accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo; e
poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo
perfettamente realizzato e concluso” (Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo –
DeriveApprodi).
Ovvero,
per i
neoliberali – in questo profondamente anti-democratici, illiberali e in
contraddizione con sé stessi, negando di fatto la libertà dell’individuo e
imponendo all’individuo di adattarsi a qualcosa che non deve governare e
controllare – l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono tendere a
formare un tutto armonico, in realtà integrato e soprattutto e peggio,
integralistico.
Esiste
poi il potere delle imprese.
Scriveva
– lo abbiamo fatto in altre occasioni ma lo richiamiamo di nuovo – “Luciano
Gallino” (1927-2015), nel 2011:
“La
democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri
di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di
partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la
loro esistenza. […]”.
E invece, oggi “la grandissima maggioranza
della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che
ogni giorno si prendono” nei settori dell’economia, di fatto espropriati e
alienati dalla democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande
impresa, industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia.
“Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della
grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove
produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato
così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e
sulla stessa economia. […]
il
potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di
democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra
epoca”.
Si
pensi ancora ad Amazon, a Google, ai social.
Si
pensi alla “Gkn” o alla “Whirlpool” e alla loro libertà di delocalizzare (e al governo tecnocratico di Draghi
che ovviamente non glielo impedisce).
La
corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.
Dunque,
abbiamo un sistema complesso di livelli di governo, alcuni espliciti, altri
nascosti, apparentemente disordinati, ma tutti in realtà organizzati,
finalizzati, governati secondo il macro-contesto (il meta-livello di governo)
del neoliberalismo e della tecnica (e della tecnocrazia).
Un
macro-contesto che appunto pre-determina ogni scelta politica, corrompendo
ex-ante la demo-crazia, corrompendo ex-ante la sovranità del demos, questo
macro-contesto imponendosi come dato di fatto immodificabile, che non si deve e
non si può governare democraticamente (anche perché confonde dolosamente rete e
mercato con democrazia, facendoci credere che siano la stessa cosa – e
ideologia significa anche, come scriveva Norberto Bobbio, “far credere”), senza
permettere la ricerca di alternative.
È il
macro-potere di sé stesso.
È il
meta-livello di governo che subordina a sé e che sussume in sé tutti gli altri
livelli di governo.
Che ha
corrotto le radici della democrazia, illudendo di una libertà solo apparente.
Ha
scritto “Joseph Stiglitz”, premio Nobel per l’economia nel 2001, valutando gli
effetti delle politiche neoliberali (noi però aggiungendo la tecnica):
“1) le
regole economiche neoliberiste hanno creato maggiori disuguaglianze, con un
calo dei soggetti che condividono i benefici dell’attività economica e una
crescita più lenta dell’economia in generale e persino degli investimenti”;
2) “la finanza non è più al servizio
dell’intera economia ma solo di se stessa”;
3) “i
sistemi fiscali incoraggiano la speculazione e l’elusione fiscale da parte
delle multinazionali”;
4) “le
politiche monetarie e fiscali, troppo incentrate sulla difesa da certi rischi
(deficit di bilancio e inflazione) ignorano le vere minacce alla prosperità
economica, ovvero la crescente disuguaglianza e il sotto-investimento e hanno
prodotto più disoccupazione, più instabilità e meno crescita”;
5) “nel mercato del lavoro, i cambiamenti
delle istituzioni, delle leggi, delle norme e dei regolamenti hanno indebolito
il potere dei lavoratori, che ora hanno più difficoltà a contrapporsi agli
eccessi di potere di mercato delle imprese”;
6) “la
disuguaglianza è stata una scelta politica.”
(Le nuove regole dell’economia, il
Saggiatore).
Il
ruolo dello stato.
“Scriveva J. M. Keynes”, negli anni
‘30 del ‘900, un autore che dovremmo rileggere urgentemente per ripensare al
ruolo da tornare ad affidare allo stato e alla necessità di governare
democraticamente sia il mercato e sia il Big Tech):
“La cosa importante per il governo, non è fare
ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare
ciò che presentemente non si fa del tutto”.
E
aggiungeva: “I difetti lampanti dell’economia odierna sono:
la sua incapacità di provvedere alla piena
occupazione;
e la
sua distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi”
[esattamente oggi come allora].
E
ancora: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è
virtuoso e non produce i beni necessari” [allora, come oggi]. Inoltre, spreca
deliberatamente una quantità enorme di risorse nella lotta per la concorrenza
[allora come oggi].
Keynes
sosteneva quindi che fosse necessario guidare l’economia (e non lasciarsi
guidare dall’economia) attraverso precise politiche monetarie, industriali,
sociali e fiscali poiché i mercati quasi mai sono in grado di raggiungere un
equilibrio efficiente.
Salute e ambiente, ad esempio, sono beni
pubblici che acquisiranno un valore crescente e questo giustificherà, scriveva,
l’intervento dello stato. Il capitalismo inoltre – e questo diventa ancora più
importante nel momento in cui, per la crisi climatica, dobbiamo pensare alle
future generazioni – è incapace “di garantire l’allocazione inter-temporale
delle risorse, dunque solo lo stato potrà occuparsi del nostro futuro a lungo
termine”
(La
fine del laissez-faire e altri scritti – Bollati Boringhieri).
Oggi
la telefonata Trump-Putin, il leader russo:
“Abbiamo la forza per continuare la guerra in
Ucraina.”
Msn.com – Fanpage.it - Storia di Davide
Falcioni – (19-05- 2025) – ci dice:
Oggi
la telefonata Trump-Putin, il leader russo: “Abbiamo la forza per continuare la
guerra in Ucraina”
La
Russia ha sferrato ieri uno dei più massicci attacchi con droni dall’inizio del
conflitto, colpendo l’Ucraina con circa 273 velivoli esplosivi senza pilota
nell'arco di una giornata. Il bombardamento, che ha provocato la morte di una
donna e il ferimento di diversi civili, è stato interpretato da Kiev come un
segnale di forza lanciato da Mosca alla vigilia dell'attesissimo colloquio,
previsto per oggi, tra il presidente Donald Trump e il leader del Cremlino
Vladimir Putin.
L’attacco
è avvenuto a poche ore dall’annuncio di Trump, che sabato scorso ha dichiarato
l’intenzione di parlare sia con Putin che con il presidente ucraino Volodymyr
Zelensky, oltre che con i vertici della NATO.
Zelensky ha già dato il suo consenso a un
cessate il fuoco immediato e senza condizioni.
Mosca,
invece, continua a procrastinare, avanzando precondizioni che l’Ucraina
considera inaccettabili.
Nel
frattempo, lo stesso Zelensky si è recato ieri a Roma per incontrare il
vicepresidente statunitense JD Vance, in quello che è stato il primo confronto
diretto dopo le tensioni emerse durante l’incontro alla Casa Bianca di
febbraio.
L'attenzione
tuttavia è tutta per la telefonata prevista tra Trump e Putin di oggi, una
conversazione che è stata anticipata ieri da quelle tra il leader statunitense
e i leader europei di Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia.
Oggi
la telefonata Trump-Putin, il leader russo: “Abbiamo la forza per continuare la
guerra in Ucraina”
Come
ha riferito “Downing Street” in una nota i capi di Stato e di governo
"hanno discusso della situazione in Ucraina e del costo catastrofico della
guerra per entrambe le parti".
"Prima della telefonata tra il presidente
Trump e il presidente Putin, i leader hanno discusso della necessità di un
cessate il fuoco incondizionato e della necessità che il presidente Putin
prenda sul serio i colloqui di pace".
Dopo
il fallimento dei colloqui tra Kiev e Mosca di venerdì in Turchia, i capi di
Stato e di governo "hanno discusso anche dell'uso di sanzioni se la Russia
non si impegna seriamente in un cessate il fuoco e in colloqui di pace",
scrive “Downing Street”.
Sul
fronte opposto il presidente Vladimir Putin ha rimarcato che la Russia è in
grado di proseguire la guerra ancora a lungo:
"Abbiamo
forze e mezzi sufficienti per portare a termine ciò che è stato avviato nel
2022 con il risultato di cui abbiamo ha bisogno.
E questo risultato sta eliminando le cause di
questa crisi, creando le condizioni per una pace duratura e garantendo la
sicurezza dello Stato russo".
Intervistato
da “Rossiya 1”, il capo del Cremlino ha dichiarato che intende tutelare gli interessi
delle persone nei territori "in cui risiedono persone che considerano la
lingua russa la loro lingua madre e la Russia la loro patria".
La
"transizione" verso un nuovo ordine
mondiale è al di là della maggior
parte
degli eventi in Occidente.
Unz.com - Alastair Crooke – (19 maggio 2025) –
ci dice:
La
nuova era segna la fine della "vecchia politica": il rosso contro il
blu; Le etichette Destra e Sinistra perdono rilevanza.
Anche
la necessità di una transizione – giusto per essere chiari – ha appena iniziato
a essere riconosciuta negli Stati Uniti.
Per la
leadership europea, tuttavia, e per i beneficiari della finanziarizzazione che
si lamentano altezzosamente della "tempesta" di Trump scatenata
incautamente sul mondo, le sue tesi economiche di base vengono ridicolizzate
come nozioni bizzarre completamente separate dalla "realtà"
economica.
Questo
è completamente falso.
Perché,
come sottolinea l'economista greco “Yanis Varoufakis”, la realtà della
situazione occidentale e la necessità di una transizione sono state chiaramente
spiegate da “Paul Volcker”, ex presidente della Federal Reserve, già nel 2005.
Il
duro "fatto" del paradigma economico liberale globalista era evidente
già allora:
"Ciò
che tiene insieme il sistema globalista è un massiccio e crescente flusso di
capitali dall'estero, che supera i 2 miliardi di dollari ogni giorno lavorativo
– e in crescita.
Non c'è alcun senso di tensione.
Come
nazione non prendiamo consapevolmente in prestito o mendichiamo.
Non
stiamo nemmeno offrendo tassi di interesse interessanti, né dobbiamo offrire ai
nostri creditori protezione contro il rischio di un dollaro in calo".
"È
tutto abbastanza per noi. Riempiamo i nostri negozi e garage con merci
provenienti dall'estero e la concorrenza è stato un potente freno ai nostri
prezzi interni.
Ha
sicuramente contribuito a mantenere i tassi di interesse eccezionalmente bassi
nonostante i nostri risparmi in termini di calore e la rapida crescita".
"Ed
è stato anche per i nostri partner commerciali e comodo per coloro che
forniscono il capitale.
Alcuni, come la Cina [e l'Europa, in
particolare la Germania], hanno fatto molto affidamento sui nostri mercati
interni in espansione.
E per
la maggior parte, le banche centrali del mondo emergente sono state disposte a
detenere sempre più dollari, che sono, dopo tutto, la cosa più vicina che il
mondo abbia a una valuta veramente internazionale".
"
La difficoltà è che questo schema apparentemente confortevole non può andare
avanti all'infinito ".
Proprio.
E Trump è in procinto di far saltare in aria
il sistema commerciale mondiale in modo da reimpostarlo.
Quei
liberali occidentali, che oggi digrignano i denti e si lamentano dell'avvento
dell'"economia trumpiana", stanno semplicemente negando che Trump
abbia almeno riconosciuto la realtà americana più importante, vale a dire, che
il modello non può andare avanti all'infinito e che il consumismo guidato dal
debito ha superato di gran lunga la sua data di scadenza.
Ricordiamo
che la maggior parte dei partecipanti al sistema finanziario occidentale non ha
conosciuto nient'altro che il "mondo confortevole" di “Volcker” per
tutta la vita.
Non
c'è da stupirsi che avere difficoltà a pensare al di fuori della loro replica
sigillata.
Ciò
non significa, naturalmente, che la soluzione di Trump al problema funzionerà.
Forse, la particolare forma di riequilibrio strutturale di Trump potrebbe
peggiorare le cose.
Ciononostante,
la ristrutturazione in qualche forma è chiaramente inevitabile.
In caso contrario, si tratta di scegliere tra
il fallimento lento o quello rapido e disordinato.
Il
sistema globalista guidato dal dollaro ha funzionato bene inizialmente, almeno
dal punto di vista degli Stati Uniti.
Gli
Stati Uniti hanno esportato la loro sovraccapacità manifatturiera del secondo
dopoguerra verso un'Europa appena dollarizzata, che ha consumato il surplus.
E anche l'Europa ha goduto del vantaggio di
avere il suo contesto macroeconomico (modelli trainati dall'export, garantiti
dal mercato statunitense).
La
crisi attuale è iniziata, tuttavia, quando il paradigma si è invertito, quando
gli Stati Uniti sono entrati nell'era dei deficit strutturali di bilancio
insostenibili, e quando la finanziarizzazione ha portato Wall Street a
costruire la sua piramide rovesciata di "asset" derivati, poggiando
su un minuscolo perno di asset reali.
La
cruda realtà della crisi degli squilibri strutturali è già abbastanza grave.
Ma la
crisi geostrategica occidentale va molto più in profondità della contraddizione
strutturale dei flussi di capitale in entrata e di un dollaro "forte"
che mangia il cuore del settore manifatturiero statunitense.
Perché
è legato, anche, al concomitante collasso delle ideologie fondamentali che
sostengono il” globalismo liberale”.
È
proprio a causa di questa profonda devozione occidentale all'ideologia (così
come al "comfort" di Volker offerto dal sistema) che si è scatenato
un tale torrente di rabbia e di aperta derisione nei confronti dei piani di
"riequilibrio" di Trump.
Quasi
nessun economista occidentale ha una buona parola da dire, eppure non viene
offerto alcun quadro alternativo plausibile.
La loro passione rivolta a Trump non fa che
sottolineare che anche la teoria economica occidentale è fallimentare.
Ciò
significa che la crisi geostrategica più profonda dell'Occidente consiste sia
nel crollo dell'ideologia archetipica sia in quello di un ordine elitario
paralitico.
Per
trent'anni, Wall Street ha venduto una fantasia (il debito non contava) ... e
quell'illusione è semplicemente andata in frantumi.
Sì,
alcuni capiscono che il paradigma economico occidentale del consumismo iper finanziarizzato
e indebitato ha fatto il suo corso e che il cambiamento è inevitabile. Ma
l'Occidente è così fortemente investito nel modello economico "anglo"
che, per la maggior parte, gli economisti rimangono paralizzati nella
ragnatela.
"Non
c'è alternativa" (TINA) è il motto.
La
spina dorsale ideologica del modello economico statunitense risiede, in primo
luogo, ne " La via della schiavitù" di “Friedrich von Hayek “, che fu
interpretato come il significato che qualsiasi coinvolgimento del governo nella
gestione dell'economia fosse una violazione della "libertà" – e
equivalente al socialismo.
In secondo luogo, in seguito all'unione di”
Hayek”con la “Scuola di Monetarismo di Chicago” nella persona di “Milton
Friedman”, che avrebbe scritto l'"edizione americana" de "La via
della schiavitù" (che (ironicamente) sarebbe stata intitolata
"Capitalismo e libertà"), l'archetipo fu fissato.
"In
compagnia educata, e in pubblico, puoi certamente essere di” sinistra o di
destra”, ma sarai sempre, in qualche modo, neoliberista; altrimenti non ti sarà
semplicemente permesso l'ingresso al discorso".
"Ogni paese può avere le sue
peculiarità...
Ma in
linea di principio seguono un modello simile: il neoliberismo guidato dal
debito è, prima di tutto, una teoria di come riprogettare lo Stato al fine di
garantire il successo dei mercati – e del suo partecipante più importante: le
società moderne".
Ecco
quindi il punto fondamentale: la” crisi del globalismo liberale” non è solo una
questione di riequilibrio di una struttura fallimentare.
Lo
squilibrio è comunque inevitabile quando tutte le economie perseguono allo
stesso modo, tutte insieme, tutte insieme, il modello "aperto"
anglo-guidato dalle esportazioni.
No, il
problema più grande è che il mito archetipico degli individui (e degli
oligarchi) che perseguono la propria massimizzazione dell'utilità separata e
individuale – grazie alla mano nascosta della magia del mercato – è racconto
che, nel complesso, i loro sforzi congiunti saranno a beneficio della comunità
nel suo insieme (Adam Smith) è crollato.
In
effetti, l'ideologia a cui l'Occidente si aggrappa così tenacemente – che la
motivazione umana sia utilitaristica (e solo utilitaristica) è un'illusione.
Come
hanno sottolineato filosofi della scienza come “Hans Albert”, la teoria della
massimizzazione dell'utilità esclude a priori la mappatura del mondo reale,
rendendo così la teoria non verificabile.
Paradossalmente,
Trump, tuttavia, è ovviamente il principale di tutti i massimizzatori
utilitaristici!
È
quindi il profeta di un ritorno all'era dei magnati americani del
diciannovesimo secolo, o è l'aderente a un ripensamento più fondamentale?
In
parole povere, l'Occidente non può passare a una struttura economica
alternativa (come un modello "chiuso" di circolazione interna)
proprio perché è così pesantemente investito ideologicamente nelle basi
filosofiche di quella attuale – che mettere in discussione quelle radici
sembrano equivalere a un tradimento dei valori europei e dei valori libertari
fondamentali dell'America (tratti dalla Rivoluzione francese).
La
realtà è che oggi la visione occidentale dei suoi presunti "valori"
ateniesi è screditata tanto quanto la sua teoria economica nel resto del mondo,
così come tra una fetta significativa delle sue stesse popolazioni arrabbiate e
scontente!
Quindi
la linea di fondo è questa: non guardate alle élite europee per avere una
visione coerente dell'ordine mondiale emergente.
Sono
al collasso e sono preoccupati di cercare di salvarsi in mezzo al crollo della
sfera occidentale e alla paura di ritorsioni da parte dei loro elettorati.
Questa
nuova era, tuttavia, segna anche la fine della "vecchia politica":
il
rosso contro il blu;
Le etichette Destra e Sinistra perdono
rilevanza.
Nuove
identità politiche e raggruppamenti si stanno già formando, anche se i loro
contorni non sono ancora definiti.
Ripensare
le relazioni tra Stati Uniti
e Cina dopo il naufragio dei dazi.
Unz.com
- Mike Whitney – (18 maggio 2025) – ci dice:
Quando
il presidente Donald Trump ha imposto i suoi dazi doganali il 2 aprile, aveva
due obiettivi principali:
Ridurre
i deficit commerciali.
Riportare
posti di lavoro e produzione negli Stati Uniti.
Questi
erano gli obiettivi dichiarati ma, come abbiamo presto scoperto, il vero scopo
era indebolire la Cina impedendole di vendere beni ai consumatori statunitensi.
L'amministrazione Trump ha anche utilizzato i
dazi per isolare la Cina, offrendo incentivi alle nazioni che accettavano di
ridurre i loro scambi commerciali con Pechino.
In
breve, i dazi sono stati l'arma principale di una guerra commerciale contro un
concorrente alla pari che ha superato gli Stati Uniti in quasi ogni settore
della produzione industriale e tecnologica.
Fortunatamente,
il piano di Trump è fallito, e lui è stato costretto ad allentare i dazi senza
raggiungere nessuno dei suoi obiettivi principali.
Il motivo per cui diciamo
"fortunatamente" è perché la politica tariffaria non ha mai servito
gli interessi del popolo americano.
Al contrario, gli americani sono danneggiati
da politiche unilaterali che ignorano le regole del commercio internazionale e
interrompono inutilmente le catene di approvvigionamento.
Tutto
ciò non fa che far salire i prezzi, ridurre l'occupazione e rallentare la
crescita. Inoltre, manipolare i dazi con l'intenzione di distruggere un
concorrente viola una serie di regole ampiamente accettate dell'OMC che
proteggono gli interessi di tutti.
A
differenza degli Stati Uniti, la Cina ha agito in modo coerente con la sua più
ampia filosofia sociale, radicata nella sua peculiare interpretazione del
socialismo.
Ha
assunto un atteggiamento moralmente superiore, ha agito secondo i suoi principi
e si è rifiutata di cedere alla coercizione di Trump.
Ha
avviato contromisure solo in risposta alla campagna tariffaria di Trump,
ignorando completamente le regole stabilite dall'”Accordo Generale sulle
Tariffe Doganali e il Commercio” (GATT), che stabilisce che i paesi non possono
superare arbitrariamente le "aliquote vincolate" o colpire
selettivamente un paese con dazi del 145% (l'equivalente di un embargo).
Agendo
da solo, Trump ha sostanzialmente dimostrato il suo disprezzo per il sistema
internazionale e per qualsiasi vincolo legale al suo potere.
Questo
articolo è tratto dal “Global Times” :
Il
sistema commerciale multilaterale, con l'”OMC” al suo centro, è il pilastro del
commercio internazionale e svolge un ruolo importante nella governance
economica globale.
Tutte
le parti dovrebbero risolvere divergenze e controversie attraverso un dialogo
paritario nell'ambito dell'OMC, sostenere congiuntamente il multilateralismo e
il libero scambio e promuovere la stabilità e il buon funzionamento delle
catene industriali e di approvvigionamento globali.
Tempi globali
In altre
parole, la sconfitta di Trump è stata una vittoria per il sistema del commercio
internazionale.
Ma è stata anche una vittoria per la Cina,
perché la Cina è rimasta ferma sulla sua posizione e si è rifiutata di cedere
alle pressioni di Washington.
Ecco
un altro articolo di “Bloomberg”:
La
decisione di “Xi Jinping” di mantenere la sua posizione contro Donald Trump non
avrebbe potuto andare meglio per il leader cinese.
Dopo
due giorni di colloqui ad alto rischio in Svizzera, i negoziatori commerciali
delle maggiori economie del mondo hanno annunciato lunedì una massiccia
de-escalation dei dazi.
In una
dichiarazione congiunta attentamente coordinata, gli Stati Uniti hanno ridotto
i dazi sui prodotti cinesi dal 145% al 30% per un periodo di 90 giorni, mentre
Pechino ha abbassato il prelievo sulla maggior parte delle merci al 10%.
La
drastica riduzione ha superato le aspettative in Cina e ha fatto impennare il
dollaro e le azioni, fornendo un po' di sollievo al mercato a Trump, che sta
subendo pressioni a causa dell'inflazione destinata ad accelerare in patria.
Anche le azioni cinesi sono aumentate.
L'accordo
ha finito per soddisfare quasi tutte le richieste principali di Pechino.
L'elevata tariffa "reciproca" per la Cina, che Trump ha fissato al
34% il 2 aprile, è stata sospesa, lasciando al principale rivale degli Stati
Uniti la stessa aliquota del 10% che si applica al Regno Unito, un alleato di
lunga data...
"Questo
è probabilmente il miglior risultato che la Cina potesse sperare:
gli
Stati Uniti hanno fatto marcia indietro", ha affermato “Trey McArver”,
co-fondatore della società di ricerca “Trivium China”.
"In futuro, questo renderà la parte
cinese fiduciosa di avere influenza sugli Stati Uniti in qualsiasi
negoziato".
Informazioni
svizzere.
Ripeto:
questo è
il miglior risultato che la Cina avrebbe potuto sperare: gli Stati Uniti hanno
fatto marcia indietro"
La
politica statunitense nei confronti della Cina non è solo profondamente
immorale, ma anche controproducente.
Chiunque
abbia seguito i recenti eventi sulla stampa estera sa bene che gli Stati Uniti
si sono fatti molto male con le loro tattiche da bullo.
Ciò
che la gente al di fuori degli Stati Uniti ha visto è stato un pugile
invecchiato e indebolito salire sul ring con un giovane e feroce contendente
che lo ha messo KO al primo round.
In
meno di 6 settimane, Trump ha rimosso la maggior parte dei dazi, lasciandone
solo il 30% per salvare la faccia agli occhi dei suoi sostenitori.
In cambio, non ha ottenuto nulla dalla Cina.
Pechino
non ha fatto alcuna concessione, se non quella di consentire a Trump di
aumentare i dazi sulle importazioni cinesi dal 20 al 30%, il che significa che
i colletti blu, uomini e donne, che sono i più accaniti sostenitori di Trump,
pagheranno un ulteriore 10% nei loro grandi magazzini preferiti.
Quindi,
mentre Trump promette enormi nuovi tagli fiscali per i super-ricchi, i
lavoratori hanno appena visto le loro tasse aumentare di un enorme 10%.
Ecco altri articoli del “Guardian”:
Donald
Trump inevitabilmente definirà una vittoria la tregua temporanea di lunedì
nella guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, ma i mercati finanziari
sembrano averla interpretata per quello che è: una capitolazione...
In
altre parole, il presidente ha ceduto.
Potrebbe essere stato influenzato dalle
oscillazioni del mercato, ma sembra più plausibile che i terribili avvertimenti
dei rivenditori sugli scaffali vuoti – supportati dai dati che mostrano un
crollo delle spedizioni verso i porti statunitensi – possano aver rafforzato la
posizione dei moderati commerciali nell'amministrazione.
Di
fronte agli avvertimenti di una carenza di giocattoli, Trump ha detto ai
giornalisti che i bambini dovrebbero accontentarsi di "due bambole invece
di 30 bambole" e potrebbero "costare un paio di dollari in più"
del solito.
Ma è difficile immaginare che anche questo
presidente più rialzista possa resistere agli attacchi che gli arriverebbero se
iniziassero a essere visto come responsabile della carenza di beni chiave in “stile
Covid” nella più grande economia del mondo.
Invece,
la Casa Bianca sembra aver optato per una ritirata tattica. I
l
conflitto Cina-USA è sempre stato il teatro di scontro più acceso nella guerra
commerciale di Trump, con una storia più lunga e un sostegno pubblico più
profondo dei suoi attacchi donchisciotteschi a Messico e Canada.
Se
Trump è davvero pronto a cedere anche con Pechino, ciò invia un segnale che
alcuni degli altri aspetti aggressivi della sua politica commerciale potrebbero
essere negoziabili.
Trump
potrebbe rivendicare la vittoria sui dazi cinesi, ma questo è il Giorno della
Capitolazione,” Guardian”.
Per
quanto riguarda gli obiettivi dichiarati di Trump (ridurre i deficit
commerciali e riportare l'occupazione e l'industria manifatturiera negli Stati
Uniti), il presidente ha fallito su entrambi i fronti.
Ma
anche per quanto riguarda i suoi obiettivi non dichiarati (indebolire e isolare
la Cina) ha fallito.
E il
motivo per cui ha fallito è dovuto a tre cose:
La
Cina è stata in grado di mantenere i flussi commerciali globali attraverso la
diversificazione (ha trovato altri acquirenti per le esportazioni dirette negli
Stati Uniti).
La
Cina ha risposto rapidamente alla necessità di stimoli fiscali e di interventi
governativi (mantenendo i propri obiettivi di crescita).
La
Cina è riuscita a infliggere gravi danni agli Stati Uniti bloccandone le
esportazioni, lasciando i porti della costa occidentale in profonda difficoltà.
Ciò
che la Cina ha ottenuto è quanto di più vicino a una vittoria completa si possa
immaginare.
Ciononostante, i mercati azionari sono saliti
alle stelle poco dopo l'annuncio dell'accordo, motivo per cui a nessuno sembra
importare dell'imbarazzante errore di Trump.
Una
delle stranezze del polverone dei dazi è stato il fatto che la squadra di Trump
non ha mai previsto la risposta di ritorsione della Cina.
In realtà è incredibile.
L'amministrazione vive in una bolla di
informazioni tale che pensava che la Cina avrebbe ceduto dopo il comico
annuncio del "Giorno della Liberazione".
A cosa
stavano pensando?
Sappiamo
cosa pensava il “Segretario al Tesoro Scott Bessent”, perché ha rilasciato
diverse dichiarazioni pubbliche secondo cui gli Stati Uniti avevano un
vantaggio sulla Cina perché "eravamo il Paese in deficit".
Ecco
cosa ha detto in un'intervista alla “CNBC”:
"Siamo
il Paese in deficit. Ci vendono quasi cinque volte più beni di quanti ne
vendiamo noi a loro.
Quindi, l'onere di eliminare questi dazi
ricadrà su di loro. Sono insostenibili per loro".
Ha
citato stime secondo cui la Cina potrebbe perdere dai 5 ai 10 milioni di posti
di lavoro se i dazi persistessero, evidenziando la vulnerabilità economica
della Cina.
Questa
è un'idiozia.
Questo
è come dire che il mendicante straccione all'angolo della strada è in vantaggio
sull'uomo d'affari con milioni in banca.
Gli
Stati Uniti hanno un debito di 36 trilioni di dollari, mentre la Cina ha un
surplus di 3 trilioni di dollari!
In che modo "essere al verde" ci dà
"il vantaggio"?
Siamo
fortunati che la Cina accetta ancora la nostra moneta, eppure il nostro
Segretario al Tesoro pensa che essere indigenti ci dia il
"sopravvento".
Un
uomo come questo non dovrebbe essere Segretario al Tesoro.
Ha
dimostrato più volte di non avere la più pallida idea di come funziona
l'economia o di quali politiche aiuteranno a far avanzare gli interessi
americani.
Ecco “Grok”
su “Bessent”:
Le
dichiarazioni pubbliche di “Bessent” riflettono un'attenzione strategica
rivolta alla posizione di deficit degli Stati Uniti come vantaggio negoziale,
supportata dalle vulnerabilità economiche della Cina e dall'eventuale accordo
di Ginevra.
Tuttavia,
lo spostamento delle esportazioni cinesi verso il Sud-est asiatico, le tattiche
di trasbordo e la resilienza economica interna suggeriscono che abbia
sottovalutato la capacità di Pechino di resistere ai dazi, limitando il
vantaggio degli Stati Unit.
Entrambe
le parti hanno dovuto affrontare dei costi, ma l'adattabilità della Cina ha
fatto sì che il vantaggio del deficit fosse meno decisivo di quanto sostenuto
da “Bessent”.
(Grok).
Questo è un modo piuttosto prolisso per dire che il Bessent
si sbagliava su tutto.
Dovremmo
essere tutti grati che Trump abbia rinunciato alla sua "strategia
tariffaria" prima che infliggesse danni ancora maggiori all'economia
statunitense. Possiamo solo sperare che rifletta su quanto accaduto nelle
ultime settimane e riconsideri seriamente le relazioni autolesionistiche di
Washington con la Cina.
L'opinione
comune tra le élite occidentali, i media e l'intera classe politica è che
l'ascesa della Cina rappresenti una grave minaccia alla posizione privilegiata
dell'America nell'ordine mondiale.
È questo presupposto errato che plasma la
politica statunitense nei confronti della Cina e ci mette tutti sulla strada di
uno scontro militare.
Dobbiamo
sradicare questa idea distruttiva alla radice e cercare modi costruttivi per
collaborare con la Cina su progetti che contribuiscano a migliorare la
sicurezza, aumentare la prosperità e porre fine alla guerra.
La
Cina non è il nostro nemico e non cerca uno scontro con gli Stati Uniti.
Ciò che la Cina vuole è ciò che la maggior
parte degli americani comuni desidera: pace, sicurezza e "una comunità
umana con un futuro condiviso in un mondo aperto, inclusivo, pulito e
bello".
Queste sono le parole del premier cinese “Xi
Jinping”.
I suoi
sentimenti potrebbero sembrare familiari ai lettori più anziani che potrebbero
ricordare le parole altrettanto potenti del presidente “John F. Kennedy”, che
disse:
"Perché,
in ultima analisi, il nostro legame comune più profondo è che abitiamo tutti
questo piccolo pianeta.
Respiriamo
tutti la stessa aria. Abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli.
E siamo tutti mortali."
La
protervia del potere,
il
dovere di reagire.
draIlmanifesto.it
– (16 novembre 2024) – Alessandra Algostino – ci dice
Violenza
istituzionale.
È reale l’orizzonte fosco, nero, in cui siamo immersi,
ma proprio per questo è necessario agire e resistere in direzione contraria:
non
c’è un’unica via e non c’è una via già scritta.
Le
piazze lo ricordano.
È
l’insegnamento della nostra Costituzione, un realismo emancipante: gli ostacoli
esistono, rimuoviamoli.
Sembra
di vivere in una distopia surreale, ma reale è la criminalizzazione della
protesta e reali sono i poteri che «come fortilizi contrapposti» si strappano
potere; cito da Mattarella, e chioso: invero, è uno, l’esecutivo, che strappa
il potere agli altri e spoglia dei diritti i cittadini.
Esponenti
del governo di nuovo evocano il clima di odio e di violenza, scenari di altri
tempi, per criminalizzare le manifestazioni degli studenti.
È il diritto di protesta in sé ad essere
stigmatizzato e delegittimato, si citano gli slogan come fossero prove di
reato.
Una democrazia, scriveva “Passerin d’Entrèves”, è improntata
alla “tolleranza del dissenso sino all’estremo limite possibile».
La
violenza, certo, non è mai accettabile in una democrazia:
non lo
è quando proviene dai manifestanti (ma qui certo non c’è mancanza di reazione,
tanto che si ragiona di eccesso punitivo, con utilizzo improprio delle
fattispecie penali, abuso di misure cautelari …);
non lo
è quando assume la forma di violenza verbale da parte di chi rappresenta le
istituzioni o di violenza fisica ingiustificata da parte delle forze di
polizia.
E non lo è quando presenta le vesti di una
legislazione violenta, che chiude gli spazi del dissenso e punisce il disagio
sociale, come è nel disegno di legge sicurezza in discussione, ultimo tassello
di un processo (multi-partisan) di sterilizzazione dello spazio democratico.
E,
ancora, non è tollerabile la violenza di un governo che attacca frontalmente la
magistratura, o la violenza esercitata contro le persone che migrano, trattate
letteralmente come pedine da muovere sullo scacchiere politico.
Oggi a
raccontare di uno scontro violento sono anche le parole del presidente
Mattarella sugli organi dello Stato che non sono «fortilizi contrapposti per
strappare potere l’uno all’altro», ma «elementi della Costituzione chiamati a
collaborare, ciascuno con il suo compito e rispettando quello altrui».
«Fortilizi», «strappare» sono parole forti,
che raccontano di una non rituale preoccupazione per la democrazia. In
questione è l’equilibrio dei poteri, cardine della democrazia costituzionale,
che presuppone il reciproco riconoscimento.
Colpisce
la protervia con la quale il governo si scaglia contro la magistratura,
attraverso delegittimazione, falsificazione di dati di fatto
(l’incontestabilità dell’applicazione delle norme in tema di rapporti tra
ordinamento italiano ed europeo) e riforme ad hoc.
Il
tutto condito dal vittimismo di un potere che travalica i suoi limiti e
pretende di incarnare anche l’oppresso dal potere.
Ad
essere travolti sono l’indipendenza della magistratura, il senso proprio della
sua soggezione soltanto alla legge, e il parlamento, ancora una volta piegato
al compito di dare forma legislativa ai voleri del governo.
Le
diverse forme di violenza hanno un comune precipitato nel fotografare in modo
nitido la concentrazione del potere, la deriva decisionista e autoritaria, e –
il ruolo riconosciuto a Musk è emblematico – il suo legame con gli interessi
dell’oligarchia che possiede le leve di un modello economico predatorio,
imperniato sulla massimizzazione del profitto di pochi.
Provvedimenti
come il disegno di legge sicurezza chiudono il cerchio, blindando il modello,
non a caso tenendo insieme la punizione della marginalità sociale e della
divergenza politica.
Sembra
quasi irreale, tuttavia è reale, giustificato e mistificato da menzogne,
ripetute al di là di ogni evidenza, finché (è la «logica dell’insistenza» dei
regimi autoritari) divengono la «verità».
La
violenza si intreccia con la menzogna, per legittimarsi e delegittimare
l’altro, esercitando una ulteriore violenza.
È la
costruzione del nemico, da espellere, da eliminare.
È il
contrario della democrazia come pluralismo, discussione e conflitto; è il
contrario dell’uguaglianza, dell’eguale riconoscimento, che è fondamento della
democrazia.
Se
guardiamo al presente, con gli occhi di chi (si spera) vivrà il futuro, non
vorrei che si dicesse, non avete voluto vedere.
Come
scriveva pochi giorni fa “Andrea Fabozzi” su queste pagine: «Meglio accorgersene».
Reale
è un governo che pretende di esercitare un potere assoluto, delegittimando le
altre istituzioni così come criminalizzando chi critica e contesta;
reali
sono le diseguaglianze e la devastazione ambientale causate da poteri economici
selvaggi;
reale
– grazie a studentesse e studenti che continuano a ricordarlo – è il genocidio
in diretta dei palestinesi.
È
reale l’orizzonte fosco, nero, in cui siamo immersi, ma proprio per questo è
necessario agire e resistere in direzione contraria:
non
c’è un’unica via e non c’è una via già scritta.
Le piazze lo ricordano.
È
l’insegnamento della nostra Costituzione, un realismo emancipante: gli ostacoli
esistono, rimuoviamoli.
L’alleanza
necessaria tra
scienza
ed economia.
Sbilanciamoci.info – (14 Maggio 2025) - Mauro
Gallegati, Roberto Danovaro – ci dicono:
Gli
effetti nefasti del cambiamento climatico sono quotidianamente sotto gli occhi
di tutti e ancora larga parte del settore economico ritiene la salvaguardia
dell’ambiente come qualcosa di contrario alla crescita economica.
Eppure,
la transizione ecologica non solo è necessaria per tutelare gli ecosistemi, è
anche economicamente vantaggiosa.
La
prefazione del libro “Rigenerare il pianeta”.
È da
diversi anni ormai che subiamo gli effetti devastanti del cambiamento climatico
e del degrado ambientale sulla nostra vita, sulla società e sullo sviluppo
economico.
L’inquinamento
e il riscaldamento globale causato dall’uso di combustibili fossili sono fatti
incontrovertibili, sotto gli occhi di tutti.
Fino a
qualche anno fa erano chiari solo a scienziati e climatologi, ma oggi li
viviamo sulla nostra pelle, tra ondate di calore e alluvioni senza precedenti.
Esiste una letteratura sterminata prodotta da
migliaia di ricercatori in tutto il mondo che ne documenta ogni aspetto.
Certo,
non mancano gli scettici e i negazionisti, sia sul clima sia sui vaccini, e
abbiamo anche creazionisti che non credono all’evoluzione biologica.
C’è chi giura financo che la Terra sia piatta.
In
questo libro, tuttavia, non ci metteremo a ripetere quello che è stato
ampiamente spiegato e scientificamente accertato: proveremo ad andare oltre.
Qui ci
interessa cercare di conciliare ciò che è evidente per gli scienziati
dell’ambiente, ma che ancora non lo è per larga parte del settore economico,
che ritiene la salvaguardia dell’ambiente come qualcosa di contrario alla
crescita economica.
Come
molti economisti sanno, il capitalismo è soggetto a tre tipi di problemi,
“le 3 i del sistema”: Instabilità della
produzione, Iniquità della distribuzione di reddito e ricchezza e Inquinamento.
(Ardeni P.G., Gallegati M., La trappola
dell’efficienza. Ripensare il capitalismo per uno sviluppo diverso, Luiss
University Press, Roma, 2024).
La
transizione ecologica ha effetti diretti sulla terza, cioè sulla natura, ma,
rispetto a 40 anni fa, si è capito che la natura comprende in sé la società e
questa, a sua volta, l’economia.
Per
risolvere le instabilità si deve quindi assumere un approccio olistico e
multi-sistemico.
La
transizione ecologica è un processo inevitabile, le soluzioni per attuarla sono
innumerevoli e alcune sono già in campo.
Sappiamo
cosa fare per sanare i problemi ambientali, ma queste scelte definite
“ecologiche” sono viste come “costi” da parte della finanza e della teoria
economica dominante.
Eppure,
la transizione ecologica non solo è necessaria per tutelare gli ecosistemi, ma
è anche economicamente vantaggiosa.
Si tratta di un investimento con una resa
elevata in termini economici e che ha ripercussioni positive anche sulla nostra
salute.
Qui
vogliamo allora tracciare una mappa verso tale transizione, una strada che è
ormai l’unica percorribile.
Cominceremo con lo spiegare cosa sia effettivamente la
transizione ecologica, spesso confusa con la transizione energetica.
Cercheremo di chiarire perché sia necessaria e
i rischi a cui andiamo incontro se non agiamo:
dalle migrazioni forzate al sempre maggior
impatto del cambiamento climatico, dalle pandemie alla carenza di acqua, di
terreni coltivabili, all’ampliamento dei deserti.
In
seguito, illustreremo i molteplici vantaggi della realizzazione della
transizione ecologica in termini economici e di salute pubblica.
Dopodiché,
parleremo dei principali ostacoli (economici, sociali e normativi) che ancora
si frappongono alla sua realizzazione.
Prima
di chiudere ci soffermeremo sulle buone pratiche della transizione, su quali e
quanti siano gli esempi virtuosi e i successi già conseguiti, per poi aprire
una finestra sul mondo dopo la transizione, immaginando come potranno essere le
cose una volta attuata.
Una
prospettiva che possiamo, e dobbiamo, costruire insieme.
Solo con la transizione ecologica possiamo sperare di
uscire da questo reticolo di crisi molteplici e interconnesse in cui ci
troviamo avviluppati.
Questo
libro cerca di far tesoro dei segnali positivi e tracciare la via verso l’unico
futuro possibile per l’umanità.
È un imperativo a cui non possiamo più
sottrarci: ne va della nostra sopravvivenza sul pianeta.
La
transizione ecologica è lo strumento per riappropriarci di un futuro che ci sta
sfuggendo dalle mani, ma che è ancora possibile.
Partecipare
alla transizione verso un mondo ecologicamente sostenibile significa mettere in
atto cambiamenti profondi, sia sul piano sociale e culturale sia nel nostro
vivere quotidiano.
L’essere umano ha già dimostrato di sapersi
adattare a condizioni mutevoli: si pensi solo alla trasformazione avvenuta
negli ultimi vent’anni attraverso il digitale, con l’espansione di internet e
lo sviluppo di sistemi di comunicazione da remoto.
Ma gli
effetti della transizione ecologica saranno ancor più marcati e significativi
rispetto a quello che abbiamo visto in passato.
Immaginare
questo futuro è possibile perché in larga parte è già una realtà, anche se
rimane molto lavoro da fare.
Che
volto avrà il mondo dopo la transizione?
Sicuramente,
la qualità della nostra vita migliorerà in maniera determinante. L’impatto
umano sul pianeta sarà azzerato o almeno reso sostenibile, cambieranno i
sistemi di produzione dell’energia, le modalità e i sistemi di trasporto,
l’agricoltura e l’allevamento, i rapporti con l’ambiente, i sistemi di consumo
e le scelte di investimento degli Stati.
Habitat
e biodiversità saranno rigenerati e recuperati dal loro stato di degrado,
politiche serie di conservazione ne impediranno il danneggiamento.
Il
nuovo approccio verso la natura e il pianeta che ci ospita ci permetterà di
continuare a usufruire dei servizi ecosistemici essenziali, non più secondo la
cieca logica del consumo sfrenato, ma in un circolo virtuoso che avrà anche
ripercussioni sanitarie dirette e positive.
Il PIL smetterà di essere il metro per giudicare il
progresso di una nazione, gli individui passeranno da consumatori a cittadini
attivi e il futuro finalmente avrà un posto di rilievo nelle scelte del
presente.
Si
ridurranno le distanze sociali tra le classi più ricche e quelle più povere,
che sono aumentate negli ultimi anni (almeno 5 miliardi di persone sono più
povere oggi rispetto a prima della pandemia) e anche la disoccupazione calerà.
In questo senso, la transizione sarà un grande
e portentoso strumento di pacificazione sociale, a livello locale e globale.
Poiché
ridurrà le disuguaglianze, aiuterà a prevenire malattie, offrirà maggiori
opportunità alle popolazioni meno sviluppate e alle comunità indigene.
La
produzione di energie rinnovabili faciliterà il passaggio da un sistema di
produzione energetica dominato da pochi e altamente controllato anche in
termini di prezzi del mercato a un sistema dove perfino le piccole realtà isolate
potranno essere autosufficienti, con la costituzione di comunità energetiche
locali.
Tramite
i sistemi a energia solare, abitazioni, complessi residenziali, singole
famiglie, condomini e piccole e medie imprese potranno produrre energia a basso
costo.
Saranno
soprattutto i sistemi geotermici, eolici e solari a espandersi, aiutando a
ridurre le emissioni di gas clima-alteranti.
Altri
sistemi di produzione di energie rinnovabili come l’idroelettrico saranno
invece sempre meno appetibili o entreranno in dismissione, diminuendo l’impatto
delle dighe sugli equilibri ecosistemici e il funzionamento di interi
territori.
Basati
sull’idrogeno o sull’elettrico, i sistemi di trasporto del futuro saranno più
efficienti, annullando inoltre le emissioni di polveri inquinanti e i loro
effetti nocivi sulla nostra salute.
Lo
sviluppo di infrastrutture verdi consentirà una maggiore efficienza energetica
complessiva, attraverso sistemi termici basati su soluzioni naturali.
Le
conseguenze negative delle cosiddette isole di calore urbano saranno mitigate,
migliorando la qualità dell’aria e riducendo i contaminanti, contribuendo a una
vita più sana e salubre anche nelle aree urbanizzate.
L’economia
“circolare”” ci aiuterà a consumare in maniera più sostenibile, non solo in
ambito alimentare, ma anche in alcuni settori con un “ritorno al passato”, cioè
imparando di nuovo l’importanza del riutilizzo dei materiali e invertendo la
tendenza allo smaltimento istantaneo.
Così
diminuiranno naturalmente i rifiuti, le plastiche, le sostanze inquinanti e
nocive per gli ambienti.
Un nuovo modello di produzione contribuirà a
stimolare il riciclo, ideando merci che, una volta esaurita la destinazione
d’uso iniziale, saranno già progettate per adempiere ad altri compiti.
L’agricoltura
4.0 saprà minimizzare gli sprechi idrici, diversificare i prodotti, sviluppare
modelli di agro-ecologia e permettere la produzione di cibo di elevata qualità
nutrizionale senza l’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti, promuovendo la
salute del suolo e tutelando il prezioso humus e le risorse idriche.
Questo
è solo uno dei futuri possibili.
Probabilmente
non tutto avverrà esattamente così, forse gli sviluppi tecnologici prenderanno
una direzione invece che un’altra, ma indubbiamente è un futuro simile a
questo, che si faccia carico di società e natura allo stesso tempo, quello di
cui abbiamo bisogno.
L’alternativa, lo abbiamo detto, è
impensabile: ne va della sopravvivenza della nostra specie.
Un
ripensamento delle attività umane di questa portata e complessità richiede
impegno individuale, volontà politica e investimenti.
I costi della transizione spesso spaventano,
ma non si può dimenticare che il suo obiettivo è il benessere collettivo.
Che le imprese multinazionali siano le
principali responsabili dei danni ambientali è ben documentato, eppure il
diritto internazionale sembra incapace di imporre a tali società vincoli
stringenti per diventare ecologicamente sostenibili.
La delocalizzazione dei processi produttivi si
è tradotta in esternalità negative per gli ecosistemi naturali, tra cui
l’inquinamento marino e atmosferico, lo sfruttamento di risorse non
rinnovabili, l’inquinamento da petrolio e la deforestazione.
Secondo
le stime, più della metà delle emissioni di anidride carbonica sono provocate
dalle imprese multinazionali, responsabili anche della maggior parte dei
rifiuti tossici generati dal settore dell’industria chimica e manifatturiera.
Per questo è urgente che il quadro giuridico
nazionale e internazionale faccia passare un principio sacrosanto: “chi inquina
smette di produrre e chi ha già inquinato paga”.
Oltre
a questo, la rimodulazione del nostro stile di vita, dei sistemi produttivi e
delle scelte di investimento dello Stato richiedono tre elementi fondamentali:
1.
un’educazione civica che spinga verso la consapevolezza ambientale, indirizzata
agli obiettivi di sviluppo sostenibile che rappresentano la nuova carta
dell’umanità, intesa come un programma globale di salvaguardia dei diritti
dell’uomo e del pianeta;
2. una
cooperazione globale, che abbia come nemico principale la contrapposizione
delle culture, il frazionamento della natura, l’aumento del divario sociale.
Una cooperazione che significhi anche la fine delle guerre, che distruggono
l’ambiente e dirottano i fondi necessari alla transizione verso la produzione
di armamenti;
3. il
perseguimento di obiettivi di natura etica, di giustizia ambientale, poiché
affrontare i problemi legati alla disuguaglianza significa anche affrontare la
disuguaglianza ambientale, che contribuisce all’impoverimento e
all’emarginazione delle popolazioni più povere del pianeta e delle comunità
indigene.
L’Antropocene
è un’era di indubbio successo economico, un successo che però si è
materializzato a discapito della natura.
Questa prospettiva non è più sostenibile.
Anche azzerando la produzione di CO2 dovremo
rimboccarci le maniche per affrontare enormi crisi ecologiche, dalla perdita
della biodiversità alla deforestazione, dall’acidificazione degli oceani alla
sovrappopolazione, dalla grave perturbazione del ciclo dell’azoto (e di altri
cicli biogeochimici), a molti altri problemi che affrontiamo in questo libro.
La
crescita della popolazione e l’idea di sviluppo imposta da un’economia
predatoria hanno provocato effetti devastanti sull’integrità della biosfera e
minacciano già di portare molte specie verso l’estinzione, incluso l’Homo
sapiens. Ci sono vie di fuga meno drastiche rispetto a riprodursi di meno.
Si può
produrre in modo compatibile con l’ambiente e con l’umanità, cioè col benessere
e non col PIL.
Se non
lo facciamo saranno le prossime generazioni a pagare.
Fingiamo
che del futuro ci importi qualcosa, ma continuiamo a seguire lo stesso modello
di sviluppo che ci sta portando alla catastrofe, senza preoccuparci poi troppo.
Ci
comportiamo come Groucho Marx che diceva: “Perché dovrei preoccuparmi per le
generazioni future? Cosa hanno fatto loro per me?”.
Prendere
davvero consapevolezza che siamo su un cammino pericoloso e che esiste un
sentiero più sicuro da seguire è il primo passo fondamentale per riconquistare
il futuro.
Dietro
la maschera del
negazionismo
climatico.
Sbilanciamoci.info
- Norma De Marco – (7 Febbraio 2025) – Recensioni – ci dice:
Il
negazionismo climatico odierno utilizza una precisa strategia di manipolazione
e inquinamento del dibattito pubblico.
Un volume recentemente pubblicato da “Left
Edizioni” esplora questo fronte indagando, insieme alle tecniche utilizzate,
gli attori e gli interessi economici e di potere che lo animano.
Il
sottobosco del negazionismo climatico è un terreno sempre più fitto e
stratificato.
Alla
sua esplorazione sono dedicate le pagine di un testo agile e istruttivo
, “Contro
i mercanti del clima”, di recente pubblicato per “Left edizioni” (dicembre
2024, pp. 108 ) dal giornalista ambientale Giacomo Pellini.
Utilizzando
come traccia del percorso di indagine una serie di episodi e dichiarazioni di
imbarazzante faciloneria e disinformazione da parte di politici, esponenti di
governo, giornalisti, Pellini ricostruisce il quadro del negazionismo climatico
e smaschera le strategie manipolatorie e gli interessi economici e di potere
che alimentano sui media e nel dibattito pubblico la macchina del fango messa
in moto quotidianamente per screditare la lotta al “climate change” e, con
essa, gli obiettivi di decarbonizzazione ed emissioni zero fissati nel “Green
Deal”.
Partiamo
da ciò che dovrebbe essere un fatto acquisito.
Il
riscaldamento climatico esiste ed è causato dall’uomo:
a
certificarlo è, numeri alla mano, il 99,9% della comunità scientifica.
Di
fronte al consenso unanime degli scienziati sull’argomento, come può la tesi
opposta ottenere credito e farsi largo nell’opinione pubblica?
Innanzitutto
instillando dubbi, sostiene Pellini, proprio come facevano negli anni ’70-’80
del secolo scorso le lobby del tabacco americane.
Questi
gruppi antesignani del negazionismo odierno legittimavano le proprie posizioni
pro-tabacco foraggiando aggressive campagne mediatiche volte a seminare
incertezze sulla veridicità degli effetti nocivi – già all’epoca ampiamente
comprovati dalla scienza – del fumo sulla salute.
In
particolare, l’enorme bacino di informazioni ed evidenze disponibili veniva utilizzato
per infiltrarvi alcune tesi prive di fondamento scientifico e volte a sminuire
la dannosità del tabacco.
Il dubbio così instillato agisce come una
goccia di aceto in un bicchiere d’acqua, che di fatto ne contamina la
trasparenza: bastano poche falsità in un mare di evidenze scientifiche per
inquinare e distorcere il dibattito.
È
sempre questa, a quarant’anni di distanza, la strategia adottata da chi
contesta oggi l’esistenza del cambiamento climatico e/o la sua origine
antropica:
minimizzarne
la gravità e mettere in dubbio l’efficacia delle soluzioni proposte dagli
esperti.
Da quest’analogia deriva appunto il titolo del libro:
“i mercanti di dubbi” che nell’omonimo libro di Erik Conway e Naomi Oreskes
(tradotto in Italia da Edizioni Ambiente) stavano a indicare i gruppi di potere
che diffondevano menzogne sui danni del fumo, diventano i mercanti del clima
dei nostri giorni.
Proprio
riguardo al clima, il vecchio approccio negazionista che rifiutava l’esistenza
stessa del “climate change”, è stato via via soppiantato da un nuovo e più
subdolo negazionismo, che pur riconoscendone l’esistenza sminuisce la sua
gravità o nega la sua origine antropica.
Gli
strumenti di cui questo nuovo fronte si avvale non si limitano alla
fabbricazione di dubbi, ma comprendono diverse e più sofisticate tecniche
passate in rassegna nel libro, come il “cherry picking”, la “falsa scelta”, la
criminalizzazione dei movimenti e delle proteste ambientaliste, il
greenwashing.
I negazionisti del nuovo millennio fanno
inoltre leva su una tendenza cognitiva largamente diffusa a svalutare le
ricompense future rispetto a quelle presenti, anche nel caso in cui le prime
siano a tutti gli effetti molto più vantaggiose delle seconde.
In
quest’ottica, affinché i benefici della transizione ecologica possano essere
considerati da tutti e da subito appetibili, si sottolinea nel testo
l’importanza di accompagnare le politiche climatiche a misure di
redistribuzione della ricchezza, ad esempio «introducendo una carbon tax, una
tassa climatica riassumibile con la formula ‘chi inquina paga’, tasse ‘verdi’
su attività o prodotti legati alle emissioni di gas ad effetto serra, e imposte
sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie da redistribuire alle
fasce più colpite dall’aumento dei costi della decarbonizzazione».
L’attuazione
delle misure e delle politiche di contrasto al cambiamento climatico viene
sistematicamente ostacolata o messa in mora dai negazionisti ricorrendo a una
serie di obiezioni che Pellini smonta ricorrendo alle evidenze scientifiche, fornendo dati,
percentuali e fonti della letteratura sull’affidabilità delle energie
rinnovabili e dei vantaggi dei veicoli elettrici, sulla presunta minaccia al
paesaggio degli impianti solari ed eolici, sui benefici per l’economia e il
lavoro legati alla transizione ecologica.
A
proposito dell’Italia, si denuncia «una mancanza di visione strategica che non
solo rallenta la transizione ecologica, ma rischia di lasciare il Paese
indietro rispetto agli altri in termini di competitività e sostenibilità»:
un’inerzia che ben rispecchia, del resto, le posizioni
di un governo in carica composto per due terzi dai partiti – Fratelli d’Italia
e Lega – più scettici sul fronte dell’implementazione delle politiche per il
clima e la transizione ecologica.
Così,
mentre le inveterate dei negazionisti di casa nostra – inarrestabili anche di
fronte alla certificazione da parte della stessa Nasa che l’estate 2023 sia
stata la più calda dall’era preindustriale – finiscono per avere nei mezzi di
informazione lo stesso peso di quelle di Antonello Pasini, autorevole
ricercatore e fisico del clima, gli ecologisti vengono presentati dalla Presidente del
Consiglio come fanatici e ideologici, «in contrapposizione a un presunto
pragmatismo conservatore […], una scorciatoia semantica molto usata a destra
per delegittimare o ridimensionare le istanze ecologiste».
Allargando
lo sguardo all’Europa e alle recenti elezioni di giugno 2024 per
l’europarlamento, Pellini ricostruisce l’avanzata dei partiti di estrema
destra, accomunati da posizioni contrarie alla transizione verde legata al
Green Deal.
La
destra radicale vota quasi sempre a sfavore delle politiche per il clima e
l’ambiente: tra i partiti più ostili – secondo il report redatto dalla ong
francese Bloom cui si fa riferimento nel testo – vi sono appunto la Lega, la
delegazione polacca di Ecr, gli spagnoli di Vox, gli ungheresi di Fidesz.
L’ultima
parte di “Contro i mercanti del clima” è dedicata a distinguere le strategie
efficaci a livello globale per affrontare i cambiamenti climatici dalle false
soluzioni green.
Tra le
prime, l’abbandono delle fonti fossili a favore delle rinnovabili,
l’efficientamento energetico, lo sviluppo dell’agricoltura biologica, la
promozione di un’economia circolare e di una mobilità sostenibile.
Tra le seconde, il ritorno al nucleare, la
cattura e lo stoccaggio di carbonio, l’uso dell’idrogeno blu:
le
stesse ricette che vedono il nostro Governo, con Ministero dell’Ambiente e
Ministero delle Imprese e del Made in Italy in prima fila, tra i principali
sostenitori…
Nuovo
anti-colonialismo,
altra
forma dell'odio di sé.
Lanuovabq.it
– Stefano Magni – (27_08_2024) – ci dice:
La
protesta per la guerra a Gaza si alimenta con l'ideologia dominante nella
sinistra: l'anti-colonialismo.
Che
non è lotta contro gli imperi (che non ci sono più) ma contro i discendenti dei
coloni.
(Editoriali
Columbia University occupata-La Presse).
Con la
riapertura delle università e dei campus negli Usa è probabile che ricomincino
anche le occupazioni e gli accampamenti, contro la guerra a Gaza.
La
guerra a Gaza ha già provocato le dimissioni di ben tre presidi delle grandi
università:
Elizabeth Magill della Pennsylvania
University, Claudine Gay di Harvard e infine, il 16 agosto, anche Minouche
Shafik, della Columbia University, epicentro della protesta pro-Palestina.
La
Shafik, in particolare, si è trovata fra due fuochi, con la destra che l’ha
accusata di non aver protetto abbastanza gli studenti ebrei e la sinistra che
non le perdona la richiesta di intervento delle forze dell’ordine per
sgomberare l’occupazione.
Come
si spiega tanta passione per una guerra così lontana?
Non
c’è neppure una frazione di questa mobilitazione per altri conflitti, come
quello in Ucraina, dove pure gli Usa sono molto coinvolti.
Nessuno
ha mai fatto un’occupazione universitaria per Kiev.
Ma nemmeno per proteste sulla guerra nel Sudan
(attualmente la peggior crisi umanitaria nel mondo) o nel Myanmar (morti
nell’ordine delle decine di migliaia), solo per citare due conflitti
contemporanei.
La guerra in Israele interessa più delle altre
il movimento studentesco di sinistra, perché riguarda direttamente la loro
ideologia dominante: l’anti-colonialismo.
Ma gli imperi coloniali non erano finiti negli
anni Sessanta del secolo scorso?
Sì, ma questo è un anti-colonialismo che
demonizza i discendenti dei coloni.
A
seguito delle dimissioni di “Minouche Shafik”, questa ideologia è stata
descritta in modo esauriente dallo scrittore “Adam Kirsch” in un editoriale del
“Wall Street Journal”.
«La base ideologica delle proteste
anti-israeliane è un insieme più ampio di idee sui ‘coloni’ e il
‘colonialismo’, un concetto accademico influente che considera alcuni paesi
come intrinsecamente e permanentemente illegittimi a causa del modo in cui sono
stati fondati».
Israele è nato dall’acquisto/colonizzazione
dei territori mediorientali da parte del movimento sionista, nel corso di tutta
la prima metà del Novecento.
Quindi i manifestanti pro-Palestina lo ritengono
illegittimo in quanto “corpo estraneo” nel Medio Oriente, frutto di una
dominazione straniera.
Non si
accontenterebbero di un piano di pace ben riuscito.
Vorrebbero
proprio che gli ebrei sloggiassero e tornassero in Europa, da dove sono
arrivate le prime tre generazioni di ebrei sionisti.
“Tornate
in Polonia”, è uno degli insulti più ricorrenti nelle occupazioni
universitarie, rivolto ai contro-manifestanti ebrei e israeliani.
Ma
questa ideologia non si ferma a Israele, riguarda anche gli stessi Usa:
«In effetti, negli ultimi anni, teorici e
scrittori ispirati dall’idea del colonialismo hanno creato quello che equivale
a un nuovo contro-mito della storia americana», scrive Kirsch.
«Ora per l’ideologia del colonialismo, gli
Stati Uniti sono il cardine su cui ruota la storia mondiale.
La differenza è che, per questa nuova scuola,
si è trattato di una svolta verso la dannazione, non verso la redenzione.
Nelle parole di “Roxanne Dunbar-Ortiz”, una
delle principali storiche del colonialismo, "non sarebbe dovuto accadere
che le grandi civiltà dell’emisfero occidentale venissero arbitrariamente
distrutte, il graduale progresso dell’umanità è stato interrotto e avviato su
un percorso di avidità e distruzione".
La
frase più frequentemente citata nella letteratura sul colonialismo è quella
dello studioso australiano “Patrick Wolfe”:
"L’invasione è una struttura, non un
evento".
Wolfe
si riferiva specificamente all’insediamento britannico in Australia, ma il
principio si applica anche agli Stati Uniti e al Canada, anch’essi creati
espropriando le popolazioni che vivevano lì quando arrivarono gli europei».
Nel
caso americano, gli strumenti per esercitare l’ideologia anti-colonialista
sono: dichiararsi “colonizzatori” pubblicamente, seguire fior di manuali per
“decolonizzare” « la tua dieta, la tua libreria, il tuo giardino, il tuo
consiglio di amministrazione e molto altro ancora», ma soprattutto il
riconoscimento che stai occupando una terra non tua, anche ripristinando la
toponomastica dei nativi.
«Questa convinzione nell’illegittimità
americana viene spesso invocata oggi riferendosi al Nord America come “Turtle
Island,” apparentemente per rivendicare un’identità che esisteva prima di
Cristoforo Colombo.
Il nome trae ispirazione da un mito della creazione
irochese, secondo il quale la Terra sarebbe cresciuta dal fango posto sul
guscio di una tartaruga».
“Adam
Kirsch” si sofferma, chiaramente, sul caso americano, ma non spiega come mai
l’ideologia delle decolonizzazioni sia nata nel mondo anglosassone e riguardi
solamente i popoli ebrei e cristiani.
Non
c’è nulla di equivalente, ad esempio, fra gli indio dell’America centrale.
Eppure Inca e Aztechi avevano costituito degli imperi, dominando altre
popolazioni vicine.
Non
c’è nulla di simile nel mondo arabo:
gli
arabi, fino al VI Secolo, vivevano solo nella penisola arabica.
Dopo
l’VIII Secolo erano in tutto il Medio Oriente e Nord Africa, un territorio
immenso in cui l'arabo è tuttora la lingua dominante.
Ma in
Marocco, così come in Iraq o nella stessa Palestina (conquistata dagli arabi
nel VII Secolo) non si assiste a nessuna protesta anti-colonialista araba.
E lo
stesso si può dire per quasi tutti i popoli asiatici, a partire dalla Cina che
tuttora sta colonizzando Tibet e Xinjiang.
Per
non parlare dei russi che erano limitati alla sola regione della Moscovia fino
al XV Secolo ed oggi occupano i due terzi dell’Eurasia.
Ma non
c’è alcun movimento anti-colonialista russo, specialmente in questi anni di
guerra.
L’anti-colonialismo
anglo-sassone è dunque un caso unico.
Ed è un prodotto esclusivo della cultura di
sinistra contemporanea.
E
nasce, evidentemente dal suo odio anti-cristiano, che di conseguenza si estende
anche a un odio anti-ebraico.
Solo i colonizzatori cristiani europei, o
quelli ebrei del Novecento, sono considerati colpevoli.
Nessun
altro.
Si va
oltre la sana autocritica: qui si arriva all'odio di sé.
La
legge del dominio
di
Trump.
Pagina21.eu - Sergio Baraldi – (1° Marzo 2025)
– ci dice:
È un
segno dei tempi il fatto che, in mondovisione Tv dal palcoscenico della Casa
Bianca, sia stato messo in scena il brutale tentativo di affermazione della
potenza che vuole determinare il destino delle nazioni.
E
vuole farlo senza considerare nulla se non la propria volontà.
È quello che abbiamo visto con il presidente
degli Stati Uniti Trump e il suo vice Vance, che hanno teso un’imboscata
televisiva ad un loro alleato, Zelensky, presidente di un Paese che combatte
per la propria esistenza.
Per
comprendere quello che abbiamo visto non dobbiamo farci distrarre dal
linguaggio violento di Trump e del suo vice.
Né
dobbiamo prestare attenzione solo alla sceneggiatura dell’incontro, che
sembrava organizzato per umiliare un leader che ha il suo popolo bombardato
ogni giorno dalla Russia.
Nella
stanza ovale della prima superpotenza mondiale, abbiamo visto un mix di
politica e di ideologia.
Ma si
tratta di politica e ideologia scarnificate, purificate fino alla loro essenza
cruda di potenza.
È un istinto di dominio che pone l’Europa di
fronte alla nuova realtà globale che deve affrontare.
Legge
e legittimità del dominio secondo Trump.
Non si
delinea solo una frattura tra Europa e America, divise sulla geopolitica, sul
sistema di valori e di idee.
Quello
che occorre riconoscere è che con Trump gli alleati di sempre, i paesi europei
e l’Ucraina in guerra, sono diventati dei nemici da sottomettere a colpi di
dazi e tariffe.
Trump
vuole negoziare solo con “Putin” e “Xi Jinping,” due autocrati alla guida delle
altre due superpotenze nucleari.
Trump
sembra somigliare a loro.
È
questa trasformazione dell’America, da potenza amica e fidata a nuovo possibile
avversario inaffidabile, che occorre indagare.
Dovremmo
rammentare la lezione di “Weber” per capire come l’ “America liberale e
democratica” rappresenti oggi il fenomeno drammatico della dominazione e della
sua legittimità imposta.
L’America guidata dai repubblicani non è la
superpotenza che, senza dimenticare i suoi interessi, ha garantito l’equilibrio
globale e comunque ha tutelato le democrazie.
Trump ha rovesciato la storia della strategia
americana per instaurare la logica della forza, in cui contano il suo interesse
e i suoi affari.
Il
presidente lo ha dichiarato con parole sue al leader ucraino:
«Tu non sei nella posizione per trattare».
Il che
equivale a sostenere che il leader della nazione democratica aggredita, che
soffre distruzione e morti, non è legittimato a partecipare al negoziato che
riguarda il suo futuro.
Deve
solo firmare ciò che il sovrano occidentale gli sottopone: un accordo per lo
sfruttamento dei suoi preziosi minerali rari. E deve anche ringraziare, come ha
spiegato Vance.
Ecco
il punto: Zelensky non è legittimato.
Glielo hanno spiegato con disprezzo, quando lo
hanno accusato di avere fatto campagna per i democratici.
Ma allora nella guerra che colpisce l’Ucraina
chi è legittimato?
Solo Putin e Trump lo sono, i quali stanno
apparecchiando la trattativa per spartirsi con la Cina le rispettive zone di
influenza globali.
E gli
altri? Gli europei? Gli altri sono telespettatori in mondovisione.
Ogni
mossa, per quando rude e grossolana, rivela la logica imperiale che ispira
Trump come Putin e Xi Jinping.
Del resto, l’aggressione a Zelensky ha una
motivazione profonda per Trump:
ha
voluto che il mondo vedesse in diretta che il dominante (il presidente
americano) ha la capacità di esercitare la sua autorità sul dominato (il
presidente ucraino).
Nella
logica di potere tra servo e padrone è così che può confermare la sua
legittimazione:
Trump doveva dimostrare sul palcoscenico
televisivo di sapere imporre obbedienza.
«O firmi o noi siamo fuori» non suona tanto come un
ricatto quanto come l’ultimatum del capo che esercita il controllo, che non
esita, di fronte alla dignità dell’altro, ad usare la violenza.
Zelensky deve capire che deve pagare per la
protezione americana. È il prezzo dell’imperium, che il mondo occidentale in
frantumi deve apprestarsi a versare.
Credenza,
narrazione, simboli: l’ordine del dominio.
In
questo modo sullo schermo televisivo si è manifestato il nuovo ordine simbolico
del dominio.
Sembra
quasi che Trump abbia messo in pratica l’insegnamento di Weber:
la
legittimità è una credenza imposta dai dominanti ai dominati.
L’esibizione
della forza contro il leader di un paese martoriato rispondeva a questo
bisogno:
il
potere deve autogiustificarsi nelle società democratiche in cui non c’è più la
credenza nella divinità o nella tradizione che pone il leader sul trono
repubblicano. Il leader moderno si connette al popolo che l’ha eletto e di cui
si proclama l’unico interprete e voce.
Egli
si autolegittima in virtù della posizione dominante che occupa, posizione che
appunto Zelensky non ha.
Come Napoleone
che nella cattedrale prese la corona di imperatore dalle mani del Papa,
convocato a forza per la cerimonia di insediamento, e si incoronò da solo.
Possiamo
sostenere che l’imboscata televisiva al presidente ucraino sia stata la
cerimonia televisiva in cui Trump si è incoronato da solo.
Ed ha annunciato il nuovo ordine del dominio.
I simboli sono decisivi in politica e la tv è
il luogo in cui mostrarli.
Non a
caso poi Trump si è dichiarato neutrale tra la Russia e l’Ucraina. Non c’è ragione
e torto, non c’è giustizia che distribuisce colpe e meriti. A livello
dell’ordine esiste il diritto del leader ad essere obbedito sulla base dei suoi
interessi, esiste la sua sovranità.
Per
questo Trump ha rilanciato i temi classici di Putin contro Zelensky e ha
accusato Biden di «non avere rispettato» il russo.
Vale a dire: non ha riconosciuto che la logica
dello zar è la stessa del pari grado occidentale.
Per
Trump l’ex presidente ha sbagliato a non porsi su questo piano, in cui non
valgono le regole o lo stato di diritto, ma solo la logica del potere, della
spartizione di influenze, della forza.
La
cerimonia televisiva e la mortificazione di Zelensky hanno il senso di
costruire la legittimità di questo dominio. Weber parla della narrazione come
di una «leggenda alimentata dai più privilegiati».
Nella
società moderna, i potenti devono creare le basi della loro legittimazione.
Devono costruire la narrazione di una relazione dall’alto verso il basso, in
cui non c’è altra possibilità (il «there is no alternative» di Margareth
Thatcher) che piegarsi o rivoltarsi.
Trump
così vorrebbe affermare il proprio carisma per guidare un occidente subalterno,
ma sacrificabile, in modo da affrontare il negoziato con Putin e Xi Jinping
senza condizionamenti.
Il
possibile conflitto per la legittimità.
Tuttavia,
Trump deve fare i conti con un problema, anch’esso emerso nella trasmissione in
mondovisione.
Non è
sufficiente che legittimità del dominio sia costruita dal leader, deve essere
il risultato di una relazione bidirezionale, in cui i dominati partecipano alla
definizione di ciò che è o non è legittimo.
È
quello che ha fatto Zelensky: «Non devo chiedere scusa, voglio garanzie».
Nel
gioco del dominio la fiducia svolge un ruolo determinante.
Gli
individui come le nazioni oggi non sono attori senza carattere davanti al
potere.
Lo
stesso potere ha degli obblighi, che derivano dal contratto sociale e dalla
tutela dei diritti.
Il presunto dominato partecipa alla
costruzione della legittimità come il dominante.
E questa partecipazione può diventare una
competizione, nella quale la legittimità del sovrano può essere contestata.
Non dimentichiamo che la legittimità è
profondamente legata alla sovranità, che è prerogativa anche degli altri paesi.
Può
nascere un conflitto di legittimità e sovranità, di credenze, di narrazioni su
cosa sia accettabile e cosa no.
Le
prime reazioni dei leader europei e soprattutto dello stesso Zelensky sembrano
indicare che si apre una nuova fase: il conflitto potrebbe sorgere.
La posta in gioco che l’Europa ha davanti
sembra questa:
una
legittimità posta dal basso (dai cittadini, dalle opinioni pubbliche, dai
paesi) può sfidare quella imperiale proveniente dall’alto.
L’America
può essere salvata dai suoi cittadini e dall’Europa?
Europa,
la sfida egemonica
della
tecnopolitica.
Pagina21.eu - Sergio Baraldi - (18 Maggio
2025) – ci dice:
L’Italia
di Giorgia Meloni fuori dal gruppo che si candida a diventare l’interlocutore
degli Usa e che vede in prima fila Germania, Francia, Inghilterra e Polonia.
La
leadership europea deve affrontare la sfida lanciata da Trump per instaurare
una nuova egemonia globale.
Ma per riuscirci dovrebbe essere in grado di
contrapporre una concezione dell’ordine globale diversa da quella del
presidente americano fondata non sul diritto internazionale, ma sulla politica
di potenza che affida la soluzione alla forza (vera o temuta).
Russia
e Cina mostrano di riconoscersi in questa logica, ma operano per sostituire il
declinante ordine internazionale unipolare, promosso dagli Stati Uniti, con un
ordine multipolare che isoli proprio l’America e l’Occidente.
L’ascesa
del potere transazionale: “geopolitica business oriented”.
Trump
ha accentuato la rottura dell’assetto passato, aprendo una nuova fase negli
equilibri globali.
L’obiettivo dichiarato è fermare il declino
della supremazia statunitense, ma le incertezze che sta alimentando rischiano
di accelerarlo.
Il presidente americano sembra guidato da una
sorta di “principio Palmerston” aggiornato.
Il premier inglese di fine Ottocento sostenne che
l’impero britannico non aveva amici o nemici permanenti, ma solo interessi
permanenti.
Trump
considera amici e nemici intercambiabili e potrebbe sottoscrivere una simile
affermazione.
Con
una differenza: neppure gli interessi americani sono permanenti, sono diventati
transazionali, se si esclude il primato americano.
Per Trump tutto può diventare oggetto di
trattativa.
La
nuova normalità statunitense sovrappone geopolitica e business, come si è visto
nel viaggio in Arabia o nell’accordo sulle terre rare ucraine.
La centralità dell’economia è consolidata dallo spazio
riservato agli affari, ai profitti dei grandi gruppi americani, della stessa
famiglia presidenziale, che suggellano le intese.
Di conseguenza lo scenario varia
continuamente:
i valori non obbligano, i trattati non
vincolano, le alleanze si fanno e si disfano. Nella geopolitica
business-oriented, dominano le convenienze del momento.
L’ideologia
trumpiana consacra l’ascesa del nuovo potere transazionale.
È
stato dismesso il “soft power”, che poggiava sull’influenza e sull’autorità,
sostituito dall’”hard power”, il potere coercitivo dello Stato, che viene
utilizzato in modo aggressivo sullo scenario globale per concludere transazioni
favorevoli.
Ma
viene brandito anche all’interno degli
Usa per tenere a freno l’opposizione.
In
apparenza questa volontà di rottura degli equilibri e delle regole sembra una
continuazione del liberismo degli ultimi decenni.
Ma rivela anche una discontinuità profonda: la
tecnologia, la finanza, l’economia, la deregolamentazione sono associate al
rovesciamento delle strategie globaliste degli ultimi decenni.
E in
parallelo procede negli Usa la “destrutturazione dello Stato federale”,
adottando un approccio autoritario che punta a ridurre il dissenso e a
legittimare una gerarchizzazione sociale.
È come
se la destra americana abbia deciso di rispondere alla crisi del neoliberismo
rilanciando la scommessa di un ultraliberismo dai tratti rivoluzionari, che usa
il potere per un mutamento strutturale della società.
Le “Big
tech” alter ego dello “Stato privatizzato”.
Il
capovolgimento della geopolitica si combina con un’alterazione della
costruzione democratica.
Lo
Stato, inteso come sistema di norme e di limitazione dei poteri, entra in
tensione con il capitalismo tecnologico.
E
viene destrutturato per rispondere ai nuovi compiti.
La
destra americana ipoteca il futuro: l’innovazione tecnologica e soprattutto
l’intelligenza artificiale sono celebrate, ma servono a ridimensionare non solo
i rapporti di produzione, i diritti, persino la concorrenza, ma la stessa idea
di intervento pubblico.
Tutto
a favore di una visione oligopolista.
“Alexander
Karp”, amico di “Peter Thiel”, l’inventore di “PayPal” sostenitore di Trump, e
socio nella “impresa Palantir” specializzata nella intelligence militare, ha
scritto un libro, “La repubblica tecnologica”, in corso di pubblicazione presso
“Silvio Berlusconi editore”, in cui sostiene che l’intelligenza artificiale per
eccellere deve essere un’attività totalmente privata.
Noi possiamo vincere la sfida con la Cina,
sostiene “Karp”, ma lo Stato non deve intromettersi, per esempio non deve porre
vincoli sulla privacy dei dati, altrimenti non ce la faremo.
Le
grandi società digitali, le Big Tech, affermano sé stesse come alter ego delle
istituzioni, il “Big State”.
È la
filosofia che giustifica la privatizzazione e la frammentazione commerciale
dello spazio pubblico e dello Stato.
La
conseguenza è la corsa allo spazio affidata a Musk, il ridimensionamento del
settore statale a opera del Doge (ancora Musk) con tagli a sanità, scuola,
servizi sociali, la messa al bando delle regole dell’inclusività.
Lo
Stato arretra e delega ai privati con l’obiettivo di aumentare l’efficienza,
ridurre i costi, neutralizzare le resistenze di quello che la destra definisce
il deep state.
L’intelligenza
artificiale, nel disegno di Musk, potrà sostituire molti dipendenti pubblici:
la tecnologia come surrogato dell’umano.
Trump
così non rappresenta la vittoria di un conservatorismo estremizzato, ma di una
destra radicale, drasticamente nuova:
l’alleanza tra populismo e tecnologia
oligopolistica, che genera incertezza e insicurezza.
In
questo panorama c’è da porsi la domanda non solo sulla parabola della
democrazia, ma sulla metamorfosi del capitalismo.
La
tecnopolitica: il movimento che vuol farsi ordine.
Questo
quadro conferma la perdita di centralità dell’Europa.
Ma il continente non è più neppure una
priorità.
Oggi
Washington vede l’Europa come un concorrente commerciale infido, un normatore
dannoso per le Big Tech, un teatro geopolitico di secondaria importanza.
La sfida si è spostata nel Pacifico,
l’avversario è la Cina.
Si
tratta di una tendenza strategica non nuova: già Obama e Biden avevano
focalizzato l’obiettivo strategico in Asia.
Con
Trump la svolta ha accelerato.
Si è radicalizzata, ha ridimensionato la
diplomazia,
ha dimenticato la responsabilità verso il
pubblico.
Sono
misurati solo i vantaggi materiali.
In un
mondo in competizione crescente, la guerra in Ucraina sembra distrarre
dall’obiettivo di stipulare nuovi accordi di spartizione d’influenza tra
«coloro che hanno le carte», vale a dire le tre superpotenze.
È in questo passaggio che si conferma la
logica imperiale che ispira Trump. L’America è pronta a difendere il proprio
primato anche a costo di indebolire l’alleanza transatlantica.
La
guerra commerciale, la competizione tecnologica, rappresentano il terreno in
cui lo scontro egemonico viene giocato tra strappi e negoziati.
Uno scontro che implica un ridisegno della
globalizzazione.
L’Europa
osserva da spettatrice il conflitto tra il movimento guidato da Trump e
l’ordine politico del passato.
Per
ora Bruxelles non riesce a contrastare la forza espansiva del movimento
americano, che punta a costruire una visione del mondo che vincoli gli altri,
l’Europa, alla propria logica.
L’intreccio tra potere, Stato, tecnologia digitale,
finanza e affari rivela la natura egemonica della tecnopolitica.
Forse
dobbiamo considerare la tecnopolitica come un nascente sistema ibrido, che
racchiude un’ideologia che esprime volontà di potenza e di controllo.
Il suo requisito sembra essere il senso di
onnipotenza, di illimitatezza che segna la rottura con il liberismo.
Per
meglio comprendere la spinta egemonica della tecnopolitica non possiamo
adottare un solo punto di vista, ma occorre ampliare l’osservazione.
“Emmanuel
Todd”, nel libro “La sconfitta dell’Occidente “spiega che al fondo della crisi
c’è la scomparsa del substrato protestante, che aveva dato impulso alla forza
economica occidentale.
La sua
decadenza genera un nichilismo distruttivo, una «deificazione del vuoto», dice “Todd”,
dominato da due tendenze istintive:
la
distruzione di cose e persone e la distruzione della nozione di verità.
È chiaro che solo un’Europa più integrata,
unita, potrebbe controbilanciare questa forza espansiva.
Come
spiega il professore “Gary Gerstle” nel suo libro “Ascesa e declino dell’ordine
neoliberale”, l’attributo decisivo di un ordine politico «è la capacità del partito
ideologicamente dominante di piegare alla propria volontà il partito di
opposizione».
La
forza egemonica della destra trumpiana vuole che questo movimento si faccia
ordine.
E
trova nella narrazione del presidente, nella durezza del suo linguaggio
populista, un elemento determinante per farsi portatore di una visione
complessiva del mondo e della società.
La retorica con cui Trump ha giustificato la
politica dei dazi ci offre un esempio del suo racconto:
i dazi sono lo strumento con cui gli Stati
Uniti ottengono la rivincita rispetto al mondo e all’Europa, che hanno
prosperato alle spalle degli americani.
È
venuto il momento di fare pagare agli altri Paesi il conto per la difesa che
gli Usa hanno assicurato, per le imprese americane che si sono delocalizzate,
per l’accesso al mercato dei consumatori più ricco del pianeta.
Si tratta di una visione distorta, ma parla
all’elettorato Maga.
È
indirizzata a mantenere la presa sull’immaginario di ampi strati sociali che lo
hanno votato, a orientare la parte conservatrice dell’opinione pubblica
occidentale.
È la
legge del dominio che si dispiega.
Il
dubbio che in realtà questa strategia possa accelerare il declino americano, è
messo a tacere.
Trump stipula accordi miliardari con gli
arabi, ma è un problema l’indebolimento del «privilegio esorbitante» del
dollaro.
Il
privilegio, spiegano gli economisti, deriva dalla funzione di riserva globale
del dollaro, che consente agli Usa di emettere titoli di debito pubblico senza
dovere offrire un rendimento particolarmente alto, neppure in periodi di crisi.
Le
decisioni di Trump ora hanno incrinato la fiducia nel dollaro, si è innescato
un parziale disimpegno dai titoli americani con una transizione di parte del
risparmio globale verso l’Europa e la sua moneta.
Il
fabbisogno globale di dollari potrebbe ridursi, attuando quella
de-dollarizzazione dell’economia mondiale alla quale lavora a Cina.
La
politica dei dazi con il suo potenziale effetto inflattivo rappresenta un altro
rischio.
E il Congresso si appresta a varare nuovi
tagli delle tasse a favore delle imprese e dei più ricchi, che potrebbero
portare il rapporto debito/Pil al 200%, creando uno squilibrio delicato per gli
Usa.
Moody’s,
infatti, ha abbassato il rating degli Stati Uniti da tripla A in Aa1.
Tecnologia
e finanza al centro dei rapporti di forza.
L’Europa
è in attesa, ma dovrebbe agire:
migliorare
la propria competitività, costruire un mercato unico senza barriere interne,
rafforzare la propria presenza autonoma in mercati come l’India, l’Africa, la
Cina, rafforzare il dispositivo di difesa.
L’Europa
però è divisa.
La
Commissione non supera la logica intergovernativa, il freno sovranista pesa.
C’è
una pluralità di voci, non è stato elaborato un chiaro posizionamento
geopolitico capace di contrastare l’ordine trumpiano.
Né
l’Europa sembra in grado di ricorrere a una narrazione convincente rispetto
alle opinioni pubbliche globali.
Per
questo il cancelliere Merz e il presidente francese Macron hanno rilanciato
l’asse Berlino-Parigi, allargato alla Varsavia di Tusk e aperto alla Londra di
Starmer.
L’Italia della Meloni, con la sua ambiguità
verso Trump, rimane fuori dal gruppo che si candida a diventare l’interlocutore
degli Usa.
Le
ambizioni della Meloni sono state ridimensionate dall’arrivo di Merz e dal suo
nuovo asse con Macron, che ha rimesso al centro delle strategie non solo la
Germania ma il Partito popolare europeo.
Il
cancelliere ha teorizzato una piena autonomia da Mosca (un’inversione rispetto
al passato), ma anche un’inedita indipendenza da Washington, che può aprire uno
spazio e restituire vigore al progetto europeo.
L’Italia
rischia di rimanere ai margini di questo processo.
Il
successo di un ordine politico, spiega il professore “Gerstle”, non dipende
tanto da una vittoria elettorale, ma dalla capacità di plasmare ciò che
governanti ed eletti «da una parte e dall’altra della barricata considerano
politicamente possibile e desiderabile».
La
posta in gioco è attrarre gli altri attori all’interno della propria logica.
Merz,
Macron, Tusk ci stanno provando, mettendo a segno qualche punto. La Meloni
sembra perdere questo round.
Trump, nonostante errori e giravolte, riesce a
imporre la propria agenda e la propria leadership.
Ma
fino a quando?
L’Europa
deve trovare la capacità di disegnare un ordine post-americano.
Secondo
il professore “Dani Rodrik”, nel libro “La globalizzazione intelligente” c’è un
«trilemma» della globalizzazione, secondo il quale è a rischio la coesistenza
tra globalizzazione, stato nazionale, democrazia.
Bisogna
ridurre, ma non annullare, l’iper-globalizzazione che viviamo.
L’Europa
può avere un ruolo in questo gioco, ma deve porsi il problema del come farlo.
Può dirottare le risorse e ridimensionare il
suo modello sociale, come è emerso nel dibattito sulla sicurezza e il riarmo,
oppure può trovare una via innovativa in cui la difesa e altri progetti non
assorbano lo stato sociale, che anzi andrebbe irrobustito.
Tecnologia
e finanza sono al centro dei rapporti di forza e possono polarizzare non solo
la società, ma le percezioni degli individui, frammentando la realtà.
Se
prevalesse questa via, Trump e la tecnopolitica avrebbero vinto la partita
dell’egemonia.
Fondamentalismo
e
terrorismo
islamico.
It.gariwo.net
– Redazione – (20-05-2025) – ci dice:
Il
terrorismo islamico è un fenomeno criminale che, negli ultimi anni, ha
intensificato la sua attività portando a termine degli attacchi molto cruenti
e di grande impatto mediatico.
Esso ha quasi un secolo di vita – il primo
movimento che ha teorizzato l’uso della violenza per ripristinare lo stile di
vita fondamentalista e ortodosso dei primi credenti islamici, infatti, è stato
quello dei Fratelli Musulmani fondato nel 1928 in Egitto.
Successivamente,
esso si è fortemente “legato” a lotte di liberazione come le rivendicazioni
territoriali palestinesi e la Rivoluzione iraniana, ma è stato a seguito della
guerra russo-afghana che ha acquisito una veste globale e avversa
all’Occidente.
Al-Qaeda
e l’ISIS, le ultime organizzazioni terroristiche che si dichiarano di matrice
islamica in ordine di tempo, con i loro sanguinosi attacchi, hanno reso
manifesti al mondo gli obiettivi antimoderni del fondamentalismo e,
soprattutto, i mezzi crudeli e sanguinari per conseguirli.
I loro
attacchi hanno colpito e continuano a colpire le zone di guerra in Medio
Oriente e in Africa, ma anche le metropoli occidentali, seminando distruzione e
morte.
L’ideologia
dello Stato Islamico: tra wahhabismo e salafismo.
Isis,
le origini del Califfato.
Nel
giugno 2014 l’ISIS proclamò la restaurazione del Califfato islamico, incuneato
fra Iraq e Siria.
Si
tratta dell’atto conclusivo di un processo iniziato con la ribellione al
governo iracheno di una parte dei gradi superiori dell’esercito a seguito
dell’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti.
La
crisi politica e morale delle vecchie classi dirigenti in Iraq e Siria produsse
un fenomeno di radicalizzazione dei ceti sociali che si sentivano estromessi
dal potere. Gruppi sempre più numerosi si avvicinarono e alla fine
abbracciarono ideologie religiose di stampo integralista e fondamentalista,
quali il salafismo, il wahhabismo, il jihadismo e il panislamismo.
Nel
2013 lo Stato Islamico dell'Iraq proclamò unilateralmente la propria
unificazione con la branca siriana di Al-Qaeda, che aveva conquistato una parte
del territorio siriano nell'ambito della guerra civile contro il governo di
Bashar al-Asad.
In
seguito a questo annuncio il gruppo, scelta come propria capitale la città
siriana di Raqqa, cambiò nome in “Stato Islamico dell'Iraq e della Siria”
(ISIS).
L’Islam
distorto dall’ideologia.
L’ideologia
dell’autoproclamato Stato islamico si riconduce essenzialmente alle dottrine del salafismo, del
wahhabismo e del panislamismo.
Definito
nelle maniere più diverse - "ortodosso",
"ultraconservatore", "austero" - il wahhabismo costituisce
una forma estremamente rigida di Islam sunnita, che insiste su
un'interpretazione letterale del Corano.
I
wahhabiti credono
che tutti coloro che non praticano l'Islam secondo le modalità da essi indicate
siano pagani e nemici dell'Islam.
I suoi critici affermano però che la rigidità
wahhabita ha portato a un'interpretazione rigorista dell'Islam, ricordando come
dalla loro linea di pensiero siano scaturiti personaggi come Osama bin Laden e
i talebani.
Il
salafismo è
una corrente di pensiero che risale al medioevo con caratteri di apertura e
riformismo.
I primi segnali evidenti e ufficiali del
mutamento ideologico e strategico del salafismo, da movimento
"riformista" e tollerante a movimento "fondamentalista" e
marcatamente ostile alla modernità, si possono forse riscontrare in Tunisia,
verso gli anni Trenta del XX secolo.
La
battaglia culturale contro il fondamentalismo.
Fu in
quel contesto che il salafismo venne permeato da uno spirito wahhabita che,
facendo piazza pulita del millenario retaggio culturale islamico, mise
l’accento contro i “vizi” importati dall’Occidente e sulla necessità di
decretare l’ostracismo contro le missioni cristiane e le loro attività di
proselitismo.
In
Egitto, la trasformazione del salafismo avvenne nello stesso periodo, con
l'avvento della cosiddetta “Neo-Salafiyya”.
Nascono
infatti diverse organizzazioni, fra cui la “Fratellanza Musulmana”, che non si
rivolgono più a minoranze colte e "illuminate" (in qualche modo
sensibili alla cultura occidentale) ma alle masse più incolte, impegnandosi in
una profonda e capillare opera di "richiamo" all'Islam, cioè di
riavvicinamento alla fede e alle pratiche canoniche dell'Islam, inteso in senso
anti-intellettualistico e conservatore; una visione praticamente opposta a quella
del movimento delle origini.
I
“Foreign Fighters”.
Quando
si parla di ISIS e Stato Islamico non si può fare a meno di nominare i Foreign
Fighters, letteralmente "combattenti stranieri”: sono coloro che, pur non
appartenendo geograficamente ai Paesi nei quali è nato il Califfato, decidono
di affiliarsi allo Stato Islamico abbracciandone ideologie e metodi di
combattimento a promessa di una vita migliore in uno Stato che garantisce
giustizia sociale e benessere.
Come
nasce un jihadista.
È
molto difficile fare un ritratto univoco delle persone che decidono di
affiliarsi allo Stato Islamico, tanto è varia la loro provenienza:
i
Foreign Fighters provengono sia dagli strati più bassi della società che da
famiglie benestanti, i loro livelli di istruzione sono diversi e l'arruolamento
avviene sia tra musulmani (di prima, seconda o terza generazione che vivono in
Occidente) che tra i cosiddetti "convertiti dell'ultimo minuto".
Ma
cosa accomuna tutte queste persone?
Perché
decidono di arruolarsi per combattere una guerra che non è la loro?
Probabilmente trovano nell'ISIS un'ideologia forte, un motivo per cui
combattere, nonché la prospettiva di una nuova vita in cui possano affermarsi
anche dal punto di vista personale.
Essi
si identificano con la “Jihad”, spesso per dare un senso alla propria
esistenza: dall'Europa (e non solo) partono per l'addestramento in Medio
Oriente per poi far ritorno e, spesso, colpire il mondo dal quale provengono.
Il “Jihad”,
quindi, diventa per i “Foreign Fighters” una ragione di vita, tanto da portare
ad un’identificazione in principi per i quali si è disposti a sacrificare la
propria vita.
Foreign
Fighters, responsabilità europea.
Attualmente
risulta molto difficile controllare il fenomeno, soprattutto perché l'opera di
proselitismo non avviene solo nei luoghi fisici. La propaganda si fa anche e
soprattutto sul web, e in modo costante.
Stando alle ultime stime, si pensa che i
Foreign Fighters siano circa 20000 e di provenienza molto varia.
I luoghi di provenienza sono non solo
Nordafrica e Medio Oriente, ma anche Europa e Russia.
La
fine dell’utopia jihadista dell’ISIS, dopo la caduta di Raqqa, Mosul e Deir
el-Zor, ha comportato tuttavia un’altra insidia, molto pericolosa per l’Europa:
quella dei Foreign Fighters di ritorno.
Molti
sono stati incarcerati e finiti sotto processo, mentre altri sono stati
inseriti in programmi di riabilitazione e reinserimento.
Il
nuovo jihadismo europeo.
Il “Soufan
Center” ha individuato almeno cinque diverse categorie di” returnees”: quelli che sono rientrati presto o dopo una breve permanenza, prima
che iniziasse a perdere terreno;
quelli
rientrati dopo, ma disillusi a causa dei comportamenti sempre più brutali; quelli che
hanno utilizzato le tattiche ISIS per intraprendere nuove battaglie;
quelli
costretti a lasciare il Califfato o catturati;
quelli
spediti a combattere in altri scenari, come ad esempio le cellule create per
compiere attacchi fuori dai confini (Parigi o Bruxelles).
Solo
pochi di loro farebbero però parte di cellule attive.
Il
nuovo Leviatano. Le sfide
politiche
della crisi climatica.
Ilbolive.unipd.it - Sofia Belardinelli – (19 – 04-
2020) – ci dice:
Viviamo nell’Antropocene, l’epoca umana. La
presenza e l’attività dell’uomo sono divenute, nei secoli, sempre più
pervasive, al punto da assumere un ruolo assolutamente primario nel modellare
la natura e da trasformarlo, poco a poco, in una vera forza geologica.
La
crisi climatica è l’involontario prodotto di questa prolungata ed incauta
attività di costruzione di nicchia, il frutto accidentale della nostra corsa
verso il benessere. Oggi, questo evento imprevisto da noi stessi generato
domina la nostra comune esistenza, permeando la realtà e minacciandoci da ogni
parte.
Ignorare
questo stato di cose, decidere di non agire, non è (più) un’alternativa
possibile:
la questione climatica non riguarda soltanto
l’ambiente – non esiste in una sfera lontana dal nostro presente –, ma ogni
dimensione della nostra vita.
Bisogna,
pertanto, che impariamo a concepirla come una questione innanzitutto politica.
Proprio
questo – la natura politica del riscaldamento globale – è il punto da cui si
dipana la riflessione sviluppata nel volume “Il nuovo Leviatano. Una filosofia
politica del cambiamento climatico”, scritto da due docenti universitari
statunitensi, “Geoff Mann” e “Joel Wainwright,” e pubblicato di recente da
Treccani (2019, pp. 350).
I due
autori si propongono di dare risposta ad un quesito centrale, che si fa di
giorno in giorno più pressante:
l’attuale
ordinamento politico ed economico – lo Stato-nazione capitalistico – sarà in
grado di affrontare una sfida di proporzioni globali come la catastrofe climatica?
Sulla
scorta di un nutrito armamentario filosofico – che si muove agilmente tra
Hobbes, Marx, Gramsci, Foucault, e che s’inserisce nella scia della riflessione
filosofico-politica di sinistra –, si riflette su alcune traiettorie che, in
futuro, ci si potrebbero prospettare.
L’alternativa
più plausibile è che presto, con l’aumentare dell’insicurezza e del conseguente
bisogno di protezione di fronte ad una crisi che sarà al tempo stesso
ambientale, sociale, economica, si instauri una sorta di “sovranità planetaria”
non democratica, la quale otterrà legittimazione e consenso proprio in nome
della sicurezza e della salvaguardia della vita sulla terra.
Si
profila cioè il “Leviatano climatico”, una formazione sociale basata sul
modello capitalistico e imperniata sulla sovranità, che tenterà di preservare
il più possibile l’attuale paradigma della crescita cercando all’interno di
esso una soluzione alla crisi imminente.
Il
realizzarsi di un tale metodo di governo, ci avvertono gli autori, è al momento
molto verosimile.
Infatti, anche chi è consapevole del fatto che
i problemi ambientali sono il prodotto intrinseco del capitalismo, e non una
mera “esternalità”, e che l’attuale sistema di produzione e consumo andrebbe
abbandonato – o, quanto meno, radicalmente modificato – sono privi della
speranza in un cambiamento sostanziale, e credono che un reindirizzamento del
capitalismo verso una “svolta verde” sia, in effetti, l’unica soluzione
praticabile.
Per il
Leviatano climatico, il capitalismo non costituisce un problema: esso,
piuttosto, è considerato parte della soluzione.
Ma ciò di cui non si tiene conto è il limite
intrinseco del capitalismo, ciò che costituisce la sua debolezza e che potrebbe
perfino portarlo al collasso: si tratta del meccanismo perverso che lo anima.
Il suo
dinamismo, infatti, si spiega con una costante necessità di circolazione e
accumulo del capitale; il circolo di produzione e consumo che da questo
movimento prende avvio si autoalimenta, generando così una ininterrotta
espansione del mercato e un continuo bisogno di risorse.
Il fondo a cui attingere è, chiaramente, la
natura, che viene considerata alla stregua di un pozzo senza fondo da sfruttare
fino all’ultima goccia.
Il
capitalismo, inoltre, è un sistema intrinsecamente basato sulla disuguaglianza:
e proprio quest’ultima esso perpetua, nella
forma non solo di uno squilibrio tra uomo e natura, ma anche di iniquità tra
uomo e uomo.
Il
capitalismo incoraggia la disparità tra ricchi e poveri;
dà
molto ai primi e poco ai molti, e l’organizzazione sociale che ne deriva
costituisce un ulteriore ostacolo alla conversione dell’economia e della
politica verso forme più sostenibili.
Se ad
un primo sguardo tale analisi potrebbe sembrare astratta, lontana dal reale,
essa si rivela in realtà estremamente attuale:
il
Leviatano climatico, in un certo senso, è già tra noi.
Già
esiste, infatti, un organo che cerca di imporsi – almeno per quanto riguarda la
gestione del riscaldamento globale – come autorità planetaria:
si
tratta delle annuali “COP” (Conferences of Parties) patrocinate dall’”ONU”,
durante le quali un piccolo numero di Stati effettivamente potenti cerca di
imporre ai più deboli una linea d’azione da seguire, nel rispetto dei princìpi
della sovranità e dell’economia liberista.
Finora,
i provvedimenti adottati si sono mostrati largamente inefficaci:
a
livello globale, infatti, si è deciso di non mettere in discussione
l’imperativo del libero mercato, e di lasciarlo agire senza alcun vincolo nella
speranza che esso, con la sua promessa di “auto-regolazione”, corregga quel
“fallimento di mercato” che è la crisi climatica.
Insomma,
si è scelto di preferire la mitigazione all’adattamento, nella convinzione che
qualche piccola correzione nell’ingranaggio ci avrebbe protetto da qualsiasi
sconvolgimento, da qualsiasi rinuncia significativa al nostro confortevole
tenore di vita.
Ma
dobbiamo ora renderci conto del fatto che mitigazione e adattamento non sono
due soluzioni alternative:
l’adattamento non è un’opzione di serie B, da
adottare nel caso in cui la prima non dovesse riuscire. Le due strategie devono
andare di pari passo.
Quali
vite pagheranno il costo dell’adattamento a un pianeta surriscaldato?
G.
Mann, J. Wainwright.
E,
soprattutto, il primo adattamento da mettere in pratica è un adattamento del
politico:
bisogna
pretendere che la questione della giustizia climatica – “quali vite pagheranno il costo
dell’adattamento a un pianeta surriscaldato?” – assuma una posizione primaria
nell’affrontare la crisi climatica globale.
Non
possiamo sperare di superare questo momento senza prima mettere in atto una
vera e propria rivoluzione culturale, che ci consenta di superare la logica
della dominazione, così radicata nell’antropocentrismo tipico del pensiero
occidentale.
È
evidente come ad un problema di così vasta portata non sia possibile rispondere
senza un’autentica e concertata cooperazione internazionale:
lo Stato-nazione è, perciò, completamente
inadeguato per questo compito.
Le
rimanenti possibilità, allora, sono solo due:
o una
sovranità planetaria di stampo dittatoriale, non democratica, che garantisca la
sicurezza a discapito della libertà, o un paradigma politico radicalmente
nuovo, che gli autori definiscono – velandolo di un alone di mistero – “X
climatica”.
(Joel
Wainwright discute della "X climatica" nel corso di una trasmissione
radiofonica)
Tale
approdo non si configura – come sottolineano gli stessi autori – come una
proposta politica strutturata: è, piuttosto, l’apertura di un varco di
possibilità inedite.
La
crisi climatica non è un problema solamente ambientale: è una crisi
dell’immaginazione, una crisi dell’ideologia;
è “il risultato di un’incapacità nel concepire
alternative all’utilizzo di muri, armi e finanza come strumenti per affrontare
i problemi che incombono all’orizzonte”.
A
tutto ciò bisogna contrapporre un contesto ideologico alternativo, basato
sull’uguaglianza, sulla solidarietà, sulla capacità di riconoscere la dignità
dell’Altro, del radicalmente altro da sé.
Capitalismo
e Stato-nazione, liberismo e sovranità, non sono le sole scelte a disposizione.
Viviamo
in un momento di confine.
Ci
troviamo ad affrontare un grosso rischio, è certo;
ma in
esso si cela anche un’opportunità.
Se
saremo capaci di immaginare traiettorie alternative rispetto ai percorsi già
tracciati, forse si apriranno, davanti a noi, nuove possibilità d’azione.
Siria,
l’ambiente come vittima
e
strumento di guerra.
Ilbolive.junipd.it
- Sara Segantini – (16 -5 -2025) – ci dice:
“Il popolo siriano continua a soffrire l’assenza dei
propri diritti dopo anni di repressione e isolamento forzato dal mondo. La
comunità internazionale ha il potere di contribuire alla giustizia.”
(—
Shilan Sheikh Musa, giornalista curdo-siriana da Qamishlo)
Figure
chinate sulla sabbia, a difendere ciò che resta di una terra ormai deserto.
Il fuoco brucia, carico dell’odio - volti
nascosti che seminano rabbia, trasformando il granaio di Siria in un oceano di
cenere.
Prima
della guerra civile, nel Nord-est si producevano cereali per l’intero Paese; in
poco più di dieci anni la produzione è dimezzata, andando a concorrere in
maniera sostanziale alla grave crisi umanitaria che secondo le Nazioni Unite
sta ormai colpendo più del 75% della popolazione.
Il
nord-est della Siria, massacrato da 14 anni di guerra, è anche uno dei
territori più colpiti dalla crisi climatica e sta affrontando disastri
ambientali sempre più frequenti e intensi, tra cui ondate di calore, incendi
boschivi, siccità prolungate e tempeste di sabbia.
La
combinazione di strategie belliche che prendono di mira le infrastrutture
idriche e le risorse ambientali e alimentari come arma di conflitto,
l’esacerbarsi degli eventi estremi e pratiche agricole e industriali
insostenibili hanno devastato il Paese, facendone un esempio emblematico di
come l’ambiente possa diventare sia vittima che strumento di guerra.
Chi
paga il prezzo maggiore.
A
pagare il prezzo maggiore, come spesso accade, sono le fasce vulnerabili della
popolazione.
Mentre
sempre più persone cadono in povertà estrema e l’ecocidio, pur non essendo
ancora formalmente riconosciuto come crimine perseguibile dalla “Corte Penale
Internazionale”, diventa un devastante dato di realtà, la Siria resta
prigioniera di un sistema politico e militare che nega giustizia e diritti a
milioni di cittadine e cittadini.
Il
futuro?
Un’ombra
che pende come una spada di Damocle su una terra piegata e senza energie per
reagire a ulteriori repressioni.
Eppure, proprio nella violenza è cresciuta la
consapevolezza del rapporto che c’è tra questioni sociali e questioni
ambientali e la voce delle donne ha iniziato a levarsi con forza per difendere
i propri diritti e quelli della Terra.
“Le donne hanno avuto un ruolo centrale nella
rivoluzione siriana fin dal suo inizio, partecipando alle manifestazioni,
documentando le violazioni e offrendo aiuti umanitari e sanitari”, racconta “Shilan
Sheikh Musa”, giornalista curda di “Qamishlo”, che da anni documenta le
trasformazioni sociali e ambientali della regione scrivendo per numerose
testate nazionali e internazionali.
“Le donne siriane, così come le fasce deboli e
le minoranze, hanno subito gravi pressioni e sofferenze, affrontando detenzioni
arbitrarie, violazioni dei diritti su larga scala, violenze sessuali e diverse
forme di ricatto.
Ma
nonostante i tentativi di silenziarle, continuano la loro lotta per la
giustizia e la libertà, sia dentro che fuori dal Paese.
Rivendicano uguaglianza, giustizia legale,
empowerment politico ed economico e una presenza concreta nei processi
decisionali”.
Una
resistenza silenziosa.
Custodi
della Terra, protagoniste di una resistenza silenziosa che rappresenta un modo
diverso di stare al mondo, le donne curde in Siria sono state protagoniste
della resistenza politica contro l’autoritarismo e la repressione, diventando
simbolo di coraggio e determinazione.
Oltre all’impegno militare, hanno promosso un
modello di società basato su parità di genere, ecologia sociale e democrazia
diretta, come nel progetto del “Confederalismo Democratico in Rojava”, proprio
nel Nord-est della Siria, dove l’”Amministrazione Autonoma della Siria del Nord
e dell’Est “(DAANES) si ispira al pensiero di “Abdullah Öcalan,” fondatore e
leader storico del “Partito dei Lavoratori del Kurdistan” (PKK) e imprigionato
da più di 25 anni nell’isola-carcere di “Imrali”, nel Mar di Marmara.
In
un’area segnata da guerre, patriarcato e repressioni, le donne curde hanno
ridefinito radicalmente il ruolo femminile nei processi di liberazione, dando
vita a una delle esperienze più significative di femminismo militante e
rivoluzionario del nuovo millennio.
Ciononostante,
“Sheikh Musa guarda all’attualità con disincantato scetticismo: “Non sono
ottimista, la Siria non sta vivendo una fase di transizione basata sulla
giustizia.
Le
restrizioni alla partecipazione politica persistono e non c’è un reale
passaggio a un governo inclusivo.
Finché
le istituzioni non agiranno in maniera trasparente, garantendo la presenza
attiva di tutte le componenti del popolo siriano al processo politico, comprese
minoranze, donne e giovani;
finché
non ci sarà il pieno rispetto dello stato di diritto, non ci potrà essere una
fine delle violenze e un fiorire della democrazia”.
Nonostante
la gioia per la caduta del regime, è ormai evidente che la Siria stia
continuando a pagare il prezzo di anni di malgoverno:
“Il mio Paese è stato vittima di logiche
clientelari, familiari e settarie, di una classe politica basata sulla
corruzione e sul nepotismo:
tutto
ciò ha fatto sì che ricchezza e potere restassero nelle mani di un’élite
fossilizzata sui propri privilegi.
La distribuzione delle risorse era fortemente
iniqua, la mia terra devastata dai conflitti armati e dalla repressione
violenta di qualsiasi movimento civile pacifico che chiedesse riforme, o il
semplice miglioramento delle condizioni sociali, politiche ed economiche.
Prima
dello scoppio della rivoluzione del 2011, la Siria era governata da un regime
monopartitico che si reggeva su un controllo autoritario e brutale da parte
degli apparati di sicurezza.
Il partito “Baath”, guidato dalla famiglia “Assad”,
dominava la vita politica ed economica, annientando ogni forma di opposizione.
A partire dal 2011, la repressione delle
proteste popolari ha innescato una lunga e sanguinosa guerra civile, che ha
coinvolto una molteplicità di attori interni e potenze straniere, causando
centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e la frammentazione del
territorio siriano.
Nonostante
il sostegno di Russia e Iran, il regime è infine crollato nel 2024, quando “Bashar
al-Assad è fuggito all’estero”. Il nuovo potere però, sotto la guida di “Ahmad
al-Sharaa”, non solo risente delle conseguenze di queste dinamiche, ma continua
ad alimentarle, aggravandone gli effetti.
Io non
vedo un reale cambio di rotta” - conclude “Sheikh Musa”.
I danni
ambientali di un conflitto.
Non
c’è inoltre un vero piano di azione per affrontare i danni ambientali causati
da decenni di conflitto.
La
distruzione di infrastrutture industriali e petrolifere ha rilasciato sostanze
tossiche che permangono nell'aria, nel suolo e nelle acque.
L’uso
di armi contenenti metalli pesanti ha contaminato vaste aree, mentre la
gestione dei rifiuti è collassata, portando a discariche incontrollate e
incendi di rifiuti pericolosi.
La deforestazione è aumentata a causa della
necessità di legna da ardere, soprattutto nelle regioni costiere dove si è
concentrata la popolazione sfollata.
Questo
ha accelerato l’erosione del suolo e la desertificazione, minacciando la
biodiversità e la capacità agricola del paese.
A poco sono valse le linee d’azione definite
dal “Ministero degli Affari Ambientali siriano”, che fin dal 1991 ha cercato di
affrontare i problemi ambientali attraverso piani quinquennali e la
partecipazione a convenzioni internazionali.
L’instabilità
politica ed economica e la mancanza di risorse hanno minato l’efficacia di
qualsiasi iniziativa concreta.
Anche
l’adesione a trattati come la” Convenzione di Stoccolma” sugli inquinanti
organici persistenti e la “Convenzione di Basilea sui rifiuti pericolosi” non
sono mai uscite dai confini cartacei delle dichiarazioni di intenti.
Nei
fatti, le infrastrutture idriche sono al collasso e il deserto avanza, aiutato
da lunghi periodi di siccità - come quella che tra il 2006 e il 2011 ha
costretto circa 1,5 milioni di agricoltori a lasciare le loro terre, o la più
recente iniziata nel 2020 e che ha coinvolto Siria, Iraq e Iran - e dagli
incendi dolosi usati come strategia bellica.
Il Centro d’informazione del “Rojava” riporta
che nel 2024 c’è stato un aumento drastico dei danni causati dagli incendi alle
colture, con migliaia di ettari di territorio bruciati volontariamente dalle
forze armate turche e siriane o da gruppi militari non sempre identificati.
Le
cifre aumentano nei territori occupati da milizie islamiste che fanno capo alla
Turchia, come nell’area montuosa di Afrin:
secondo
l’”Organizzazione per i diritti umani di Afrin” (HROA), più del 65% delle aree
verdi della zona è stato distrutto durante l’occupazione.
Nella
regione amministrata dalla DAANES invece, la Turchia è accusata di utilizzare
l'acqua come arma, riducendo intenzionalmente il flusso dei fiumi verso la
Siria.
Questa
tattica, aggiungendosi alle siccità, ha causato una crisi idrica disastrosa.
Si
tratta di attacchi che non solo compromettono la sicurezza alimentare, ma
mirano anche a cancellare l’identità culturale della popolazione curda.
In
questo contesto, la DAANES nell’aprile 2024 ha organizzato la prima “Conferenza
Generale sull’Ecologia” a “Qamishlo”, riunendo circa 120 delegati locali e
internazionali per affrontare le sfide ambientali della regione.
La
conferenza ha discusso soluzioni per una transizione ecologica equa, giusta e
di sostanza, basata su una lotta alla crisi ambientale che vada in parallelo
alla lotta contro il capitalismo e il colonialismo.
La
chiave di interpretazione è quella della giustizia climatica e dell’intreccio
inscindibile tra diritti umani e ambiente:
per
affrontare i problemi che affliggono il Paese c’è bisogno di una governance che
affronti le molteplici crisi in maniera integrata e sinergica.
Nonostante
gli stravolgimenti politici che stanno scuotendo la Siria e i continui attacchi
da parte di gruppi tribali e di milizie sostenute dalla Turchia, l’”Amministrazione
Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est” è più attiva che mai e continua
a operare nei territori del “Rojava”.
La
DAANES propone una soluzione eco-socialista alle sfide poste da conflitti
armati, pressioni geopolitiche e crisi ambientali, mantenendo il suo impegno
nella costruzione di un modello politico basato su democrazia diretta, ecologia
sociale e parità di genere.
Nel
marzo 2025 è stato raggiunto un accordo tra il presidente ad interim “Ahmed
al-Sharaa” e le “Forze Democratiche Siriane” - il braccio armato della DAANES,
che accettano di venire integrate nelle strutture del nuovo esercito nazionale
siriano.
Questo processo mira a unificare le forze armate sotto
l’egida del governo di transizione, promettendo di garantire i diritti
costituzionali dei curdi e di integrare le istituzioni civili e militari del
Nord-est siriano nel governo centrale.
Nei
fatti permangono però le tensioni e sono in molti a palesare dubbi
sull’effettivo rispetto dei diritti civili.
“Sheikh
Musa” osserva l’evolversi della situazione politica del suo Paese con una
consapevolezza che non vuole abbandonare la speranza, ma che non si lascia
accecare dalle promesse “il futuro della Siria dipenderà da quali scelte
verranno prese nel percorso politico di questo governo transizionale.
Se il nuovo potere realizzerà una vera
riconciliazione nazionale, abbandonerà i modelli di governo settari e
coercitivi escludendo le politiche miliziane e portando avanti una transizione
democratica stabile basata sul pluralismo, sull’accettazione del diverso, sulla
partecipazione condivisa e sulla garanzia dei diritti di tutti i cittadini,
allora la Siria potrà dirigersi verso uno Stato democratico, con istituzioni
forti e una società prospera.
Se
invece la situazione continuerà così — e i segnali attuali purtroppo pendono in
questa direzione — e se le nuove autorità continueranno a minimizzare,
nascondere o giustificare le violazioni dei diritti umani, etichettandole come
episodi isolati o meno gravi di quanto i fatti dimostrino, il risultato sarà un
ulteriore aggravamento dell’instabilità, con nuove ondate di violenza e
conflitti interni, sia su base confessionale che tra fazioni diverse.
Questo
condurrà a una prosecuzione della sofferenza umana e al blocco dei processi di
ricostruzione”.
Una
ricostruzione a rilento.
Una
ricostruzione che intanto procede lentamente e in modo diseguale. Le stime
ambientali indicano che la sola ricostruzione delle infrastrutture distrutte
potrebbe generare oltre 22 milioni di tonnellate di CO₂.
Un carico
ecologico immenso, in un contesto già devastato.
I milioni di rifugiati che dopo anni possono
tornare a casa trovano solo macerie, mentre aumentano a dismisura coloro che,
senza più acqua né cibo, si uniscono all’ondata di nuovi perseguitati costretti
a fuggire e a bussare alle porte di un’Europa sempre più blindata.
È
ormai impossibile raccontare la Siria con una sola lente.
La crisi climatica, le guerre, le discriminazioni, la
repressione politica: tutto si tiene.
Affrontare
le sfide ambientali in Siria richiede un impegno globale per riconoscere e
condannare l’ecocidio, oltre a sostenere le comunità locali nella ricostruzione
giusta e sostenibile.
Le
parole di “Sheikh Musa” evidenziano la necessità di una risposta che non
trascuri nessun aspetto della crisi siriana e non lasci nessuno indietro.
Le
ultime frasi sono per il nostro continente:
“all’Europa
voglio dire che il popolo siriano, sia all’interno del Paese che nella
diaspora, dopo anni di repressione e isolamento forzato dal mondo continua a
vedere i propri diritti violati.
La
comunità internazionale ha il potere di contribuire al raggiungimento della
giustizia, a partire dalla garanzia che nessuno dei responsabili di gravi
violazioni e crimini di guerra rimanga impunito.
La
crisi siriana non deve essere considerata solo come una questione di rifugiati,
ma come una crisi politica complessa che richiede soluzioni durature”.
(“Shilan Sheikh Musa” è una giornalista curda di “Qamishli”,
Siria.)
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