La nuova forma del potere.

 

La nuova forma del potere.

 

 

 

Investire tra dazi e guerre fiscali:

strategie per imprese e Hnwi.

 We-wealth.com - 15 Maggio 2025 - Edoardo Tamagnone – ci dice:

 

Primo piano di una scacchiera con pezzi d'argento e oro e un cavallo al centro.

La luce naturale e soffusa ne esalta i dettagli, mentre gli altri pezzi sono sfocati.

 Il riferimento va alle strategie usate da imprese e “Hnwi” su come investire tra dazi e guerre fiscali.

Indice:

Dazi e investimenti: rischi e strategie per imprese e grandi patrimoni.

La nuova guerra dei dazi: cosa sta succedendo tra Usa, Cina ed Europa.

Quali sono le conseguenze sui mercati e sugli investimenti esteri.

Tassazione e geopolitica: i nuovi rischi per investitori e imprenditori.

Protezione patrimoniale: le strategie fiscali e legali che funzionano.

Come orientarsi: il ruolo della consulenza legale e fiscale internazionale.

Dazi e investimenti: rischi e strategie per imprese e grandi patrimoni.

 

In un contesto globale sempre più segnato da tensioni geopolitiche, frammentazione commerciale e politiche industriali aggressive, la dimensione economico-finanziaria internazionale torna al centro del dibattito.

La cosiddetta “nuova guerra dei dazi, “che coinvolge Stati Uniti, Cina ed Europa, sta ridefinendo le regole del commercio globale e influenzando direttamente i flussi di capitali, gli assetti societari e le scelte di pianificazione patrimoniale.

 

Per imprese e investitori, il rischio non è più solo fiscale o operativo, ma sistemico. Capire dove si stanno spostando i centri di potere economico e quali sono gli strumenti efficaci per tutelare patrimonio, redditività e libertà d’azione è oggi una priorità strategica.

 

La nuova guerra dei dazi: cosa sta succedendo tra Usa, Cina ed Europa.

Il ritorno dei dazi non è un mero incidente congiunturale. Dopo decenni di globalizzazione crescente, gli ultimi anni hanno segnato una cesura: pandemia, guerra in Ucraina, transizione energetica e competizione tecnologica hanno riaperto la partita della sovranità economica.

 

Gli Stati Uniti, già con la prima amministrazione Trump, avevano imposto dazi selettivi su acciaio, alluminio e prodotti cinesi; la linea è proseguita con Biden, sebbene in forma più strutturata e multilaterale.

Nel frattempo, l’Unione Europea ha reagito con l’adozione di strumenti difensivi – come il “Carbon Border Adjustment Mechanism” – e la Cina ha risposto con misure ritorsive e un rafforzamento interno del proprio mercato (strategia della “doppia circolazione”).

Le tensioni commerciali si sono evolute in vere e proprie rivalità geoeconomiche, alimentate da scelte protezionistiche, finanziamenti pubblici massivi e politiche industriali autonome.

 

Quali sono le conseguenze sui mercati e sugli investimenti esteri.

Le imprese che operano su scala internazionale – in particolare nei settori manifatturiero, tecnologico ed energetico – subiscono un doppio contraccolpo: volatilità nei costi di approvvigionamento e incertezza nella stabilità normativa. Questo ha portato a un riassetto delle catene del valore (nearshoring, friend-shoring), ma anche a una crescente cautela negli investimenti esteri diretti.

 

I fondi di investimento e le holding internazionali, specie quelle con partecipazioni in aree ad alto rischio geopolitico, stanno diversificando le giurisdizioni e rafforzando i dispositivi di compliance.

I trust con beneficiari o beni situati in Stati oggi a rischio sanzioni, o soggetti a black list, sono rivalutati in termini di governance e trasparenza.

Anche i fondi pensione e i veicoli assicurativi devono ricalibrare le loro esposizioni internazionali, per evitare impatti negativi sul profilo di rischio-rendimento.

Hai un’impresa e sei preoccupato per dazi e nuove regole fiscali? Scopri come proteggere il tuo patrimonio.

 

 

Tassazione e geopolitica: i nuovi rischi per investitori e imprenditori.

In parallelo, l’evoluzione normativa in ambito fiscale riflette e amplifica le tensioni geopolitiche.

Le politiche anti-elusione, iniziate con “Beps” e proseguite con la “Global Minimum Tax” (Pillar II), vengono ora affiancate da strumenti di controllo sempre più penetranti:

“ Dac6” in Europa, “Fatca” negli Stati Uniti, convenzioni multilaterali sulla trasparenza fiscale.

 

Le liste nere Ue e Ocse assumono un significato politico, oltre che tecnico.

La possibilità che uno Stato venga considerato “non cooperativo” comporta conseguenze gravi:

da limitazioni nella deducibilità dei costi a ritenute alla fonte maggiorate, fino a misure di ritorsione incrociata.

In alcuni casi, come nelle tensioni tra Usa e Cina, si parla apertamente di utilizzo della leva fiscale come strumento di guerra commerciale.

 In questo scenario, imprese e Hnwi devono adottare strategie difensive efficaci, senza violare la normativa internazionale.

 

Protezione patrimoniale: le strategie fiscali e legali che funzionano.

Per affrontare un contesto normativo incerto e un clima politico instabile, non basta più “ottimizzare” le scelte fiscali: serve una vera strategia di protezione patrimoniale e di pianificazione transnazionale.

 

I trust (in common law) e le fondazioni (in civil law) restano strumenti validi, ma devono essere gestiti secondo criteri di sostanza economica, finalità reale e piena tracciabilità.

Anche la scelta della residenza fiscale personale e societaria assume un peso crescente.

Giurisdizioni come Emirati Arabi Uniti, Singapore, Svizzera e alcune aree dell’Europa orientale offrono regimi fiscali competitivi, stabilità legale e accesso ai mercati.

La delocalizzazione, però, deve essere valutata alla luce dei trattati contro la doppia imposizione, delle clausole anti-abuso e del principio della “substance over form”.

Accanto a ciò, crescono soluzioni ibride come le polizze assicurative di private insurance, gli strumenti di “asset protection” integrati con le holding di famiglia e l’uso sofisticato di strutture multilivello.

 

Come orientarsi: il ruolo della consulenza legale e fiscale internazionale.

In un ambiente così dinamico e ad alta intensità normativa, la consulenza legale e fiscale diventa un asset strategico.

 Non si tratta più solo di “interpretare” norme tributarie, ma di prevedere scenari, anticipare rischi e costruire architetture patrimoniali capaci di resistere a pressioni politiche e mutamenti legislativi.

 

Gli studi legali internazionali, i fiscalisti con competenze in diritto comparato e gli advisor specializzati in “wealth planning” rappresentano un presidio indispensabile per chi opera tra più giurisdizioni o gestisce patrimoni complessi. L’integrazione tra competenze giuridiche, finanziarie e geopolitiche è oggi la vera leva competitiva.

La sfida non è più solo quella di “risparmiare” sul piano fiscale, ma di preservare libertà economica, stabilità e continuità in uno scenario globale dove l’incertezza è la nuova normalità.

 

 

 

 

“Tecnodestra. I nuovi paradigmi

 del potere” di Andrea Venanzoni.

  Pandorarivista.it – (18 aprile 2025) – Avvocato Luca Picotti – ci dice.

 

La categoria della “tecnodestra” è emersa nel dibattito italiano con una connotazione più che altro polemica e dispregiativa, alla stregua di un’etichetta sensazionalistica per segnalare il pericolo democratico insito nella commistione tra i giganti del digitale e la nuova amministrazione americana.

 

Nelle analisi più modeste il tutto si riduce a due volti, quello del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e quello dell’uomo più ricco del mondo Elon Musk.

In quelle un minimo più strutturate, ad essere intercettata è una tendenza generale – certo, esemplificata dai due soggetti di cui sopra – in cui il potere economico e digitale abbraccia le istanze politiche conservatrici o reazionarie, in un concentrato di liberismo e autoritarismo.

Resta il fatto che, il più delle volte, tali sortite si traducono in allarmismi tanto suggestivi quanto semplicistici, ove il messaggio finale, la narrazione, conta più del contenuto.

 In questo senso, il dibattito italiano ha conosciuto la tecno destra solo attraverso la rappresentazione datane da una parte politica e intellettuale, ascrivibile all’area progressista, che tra editoriali, convegni e dirette televisive ha tradotto tale concetto nei termini ad essa più consoni, ossia funzionali a denunciare il rischio democratico potendo finalmente unire i due filoni critici preferiti, l’ur-liberismo e l’ur-fascismo.

 La tecno destra merita invece un’analisi più bilanciata, proprio perché è un tema troppo serio, e con effettive implicazioni su democrazia, libertà e modelli di governo, per essere lasciato alle partigianerie interessate.

 

Da qui, un necessario punto di partenza:

per parlare di tecno destra bisogna effettivamente conoscerla.

 E per farlo ci viene in soccorso il recente libro del giurista e saggista “Andrea Venanzoni”, pubblicato da “Signs Books” e intitolato “Tecno destra”.

 I nuovi paradigmi del potere.

In una discussione che non ha mai veramente voluto conoscere, studiare e approfondire l’oggetto del dibattere, arriva un volume in grado di raccontare i protagonisti, le idee, i riferimenti culturali, gli intrecci politici, tecnologici e finanziari di quella galassia, tanto contraddittoria quanto in parte reale, che è la tecno destra.

Se si vuole conoscerla, anche e soprattutto per criticarla, sia per quanto concerne la sovrastruttura teoretica che la informa che per quanto riguarda l’effettiva concentrazione di potere politico, economico e tecnologico, si vada oltre alle analisi sensazionalistiche e si legga questo volume.

Un lavoro che nasce dalla stretta attualità ma non si presenta come un instant-book, anzi: con più di trecentocinquanta pagine e numerosissimi riferimenti bibliografici, sintetizza anni di studio dell’autore.

 Oltre a diverse parentesi e digressioni, sono tre i blocchi principali:

una panoramica teorica sui riferimenti culturali, dove si parte dall’ideologia californiana, si affronta la nascita della Silicon Valley, ci si imbatte nel “libertarismo e nel “paleolibertarismo”, e ancora nel “cypherpunk”, nell’”accelerazionismo”, sino al “neocameralismo” e all”’alt-right£, passando inoltre per il “gaming” e il “trolling”;

un approfondimento dei protagonisti, tra “PayPal Mafia” e continui riferimenti al “Signore degli Anelli”, con diversi passaggi su “Elon Musk”, “Peter Thiel”, “Palmer Luckey”, “Marc Andreessen” e” J. D. Vance”;

infine un viaggio, dettato anche dalla personale sensibilità di “Venanzoni” e dalla sua simpatia verso talune suggestioni libertarie, tra le teorie e le pratiche della tecno destra oltre gli Stati Uniti, alla ricerca di nuovi modelli di governo, con spunti su città-network, policentrismi digitali,” innovation zone” e altri esperimenti di ingegneria politico-istituzionale al di là dello Stato.

Ma cos’è, quindi, la tecno destra?

«Non è forma ideologica, ma prassi ricombinante che assomma e sintetizza modi, idee diverse, stili, sospesi tra alta tecnologia e politica, funzionalmente protesi alla comprensione di un presente accelerato».

Non è possibile darne una definizione unitaria, essendo percorsa da più anime, ma può essere colta nella duplice accezione, ossia in parte come azione, in parte come reazione.

Per comprenderne le traiettorie bisogna infatti partire, innanzitutto, dal sostrato culturale, politico e giuridico in contrapposizione al quale si sono via via sedimentate le basi stesse della tecno destra:

la cultura tendenzialmente progressista della “Silicon Valley”, interpretata da “Google”” e dal “primo Facebook;

 le pedagogie tradottesi nella burocrazia della moderazione dei contenuti;

 casi come quello dei “Twitter Files”;

normative rigide quali quelle dell’Unione Europea, tra GDPR, DSA e DMA, destinate a rendere più gravoso il business digitale, spesso all’insegna di nuove categorie di lecito e illecito al di là del penalmente rilevante;

burocrazie statali, dirigismo, regolazione e sussidi, con relativi sprechi, rigidità e inefficienze;

retoriche dei diritti supportate dall’azione statale per il mezzo di discriminazioni positive.

Un intero castello, di matrice progressista e liberal, che per molto tempo ha avuto un’ascendenza maggioritaria sul mondo dei magnati digitali, a parte nicchie eterodosse come la “PayPal Mafia”, e, in generale, negli approcci delle politiche pubbliche.

 Sino ad oggi, però, quando certe pedagogie univano potere politico, economico, tecnologico e culturale, non si è mai parlato, evidenzia “Venanzoni” non senza una dose di sarcasmo, di tecno sinistra.

Il dibattito si è attivato solo nel momento in cui questo castello ha iniziato a sgretolarsi e si sono verificate numerose trasformazioni nei paradigmi del potere.

 

L’evento spartiacque, sottolinea l’autore, è l’acquisizione di “Twitter”, rinominato successivamente” X”, da parte di Elon Musk.

 La culla del dibattito e della moderazione dei contenuti – con alcuni scheletri nell’armadio come i cosiddetti “Twitter Files” – si trasformerà da quel momento nell’agorà di un free speech aggressivo, e non senza contraddizioni, in cui lo stesso proprietario della piattaforma diventerà uno dei più assidui partecipanti, tra “trolling” e “meme,” con interventi sui più svariati argomenti, dalle acquisizioni di società rivali agli endorsment politici a partiti di destra radicale europea.

Questo spartiacque, già da subito denunciato da una certa area, si cristallizzerà in senso stretto nella nuova categoria, la tecno destra, quando poi Elon Musk scommetterà su “Donald Trump” e questi risulterà vincitore alle presidenziali statunitensi del novembre 2024.

 

Da qui, quel connubio che si trasforma anche in incarichi di governo, una staffetta tra il Presidente e l’uomo più ricco al mondo estremamente scenografica, connotata da una bulimia dichiarativa contro diverse ossature del vecchio castello, nonché verso alleati storici come i Paesi europei.

Se a questo poi si uniscono i riposizionamenti di altri grandi attori, come “Meta” di Mark Zuckerberg, che ha iniziato a rigettare le politiche di diversità e inclusione e ad essere sempre più insofferente verso la regolazione europea, ecco che il cerchio comincia a chiudersi:

 istanze conservatrici o reazionarie, rigetto delle politiche inclusive, ruoli di amministrazione per svuotare parte della burocrazia pubblica, de-regolamentazione, decisionismo, un connubio tra potere politico e digitale in cui gli interessi pubblici e privati finiscono per confondersi ulteriormente.

Questa traiettoria non va però letta come mera reazione, essendo anche azione: ossia frutto di un pensiero, di una visione di diversi protagonisti di questa galassia, scienziati, innovatori e investitori venture capital che anticipano o colgono le tendenze di questo tempo.

C’è il “Techno-Optimist Manifesto” di Marc Andreessen.

Oppure” The Technological Republic” di Alexander Carp, amministratore delegato di Palantir.

 In questi e altri testi si individua un pensiero nuovo e per certi versi più realistico di alcuni approcci ingenui della tradizione libertaria o anarco-capitalista, troppo dogmatici per cogliere i riflessi delle sfide geopolitiche e la centralità della sicurezza nazionale.

Proprio quest’ultimo concetto si va ad intrecciare con le sorti del digitale, in un nuovo complesso militare-industriale, ove ai tradizionali colossi della difesa si sono aggiunti, ritagliandosi sempre più peso, i nuovi protagonisti della tecno destra: SpaceX, Palantir, Anduril, ecc.

Una commistione tra sicurezza nazionale e digitale, ove i privati fungono sempre di più da “contractor del governo”, finalizzata a difendere la centralità americana dinnanzi alle nuove sfide, specie quella cinese.

Il digitale diventerebbe, in questo senso, una forma di sicurezza, per proteggere il sistema americano e, dunque, la libertà; allo stesso tempo, la libertà passerebbe per “free speech”, de-regolamentazione, rifiuto di ingerenze statali tramite discriminazioni positive, pedagogie dall’alto o dirigismo green;

infine, nella forza creatrice e distruptive dell’alta tecnologia si vorrebbe scorgere «il profilo della disossificazione di modelli istituzionali paralizzati, incapaci di muoversi, di evolversi, di decidere».

Una galassia contraddittoria?

Senz’altro, basti pensare, sul fronte pratico, ai legami di Musk con la Cina, che lo stesso Venanzoni evidenzia;

sul piano teorico, sono tanti i profili che non convincono, dalla mai rimossa antinomia tra libertà e freni conservatori alle trasformazioni sociali, culturali, di costume portate dalla stessa distruzione creatrice capitalistica, alla discrasia tra spinta verso sistemi più policentrici e orizzontali e accentramento tecnologico in nome della sicurezza nazionale in una sfida tra imperi.

 Pericolosa?

Senza rincorrere gli allarmismi, diversi presupposti teorici destano sicuramente qualche preoccupazione e l’approccio decisionista della nuova amministrazione americana – con l’”Executive Order “inteso al di là di ogni vincolo, quantomeno nel momento della sua sfacciata adozione – appare del tutto scomposto.

Molti sono, pertanto, i nodi, teorici e pratici.

Per discuterne occorre però conoscere l’oggetto.

Qui si inserisce l’importanza del volume di “Andrea Venanzoni£, che rappresenta una delle più nitide ricostruzioni di tutto ciò che compone la galassia della tecno destra, frutto di studi, di una cultura sterminata e un interesse anche pratico verso potenziali direzioni alternative nei sistemi di governo che, anche laddove non condivise, vanno quantomeno apprezzate in termini di dialettica intellettuale.

(Luca Picotti, avvocato).

 

 

 

 

Meloni Non Condanna Netanyahu:

“Una Crisi Umanitaria Innescata

 dall’Attacco di Hamas.”

Conoscenzealconfine.it – (18 Maggio 2025) - Andrea Sparaciari – ci dice:

 

Neanche le 60mila vittime civili di Gaza spingono Meloni a pronunciare la parola “condanna”.

Lo sterminio? “Tutto è iniziato da Hamas”.

Chi si aspettava (pochi in verità) uno moto di orgoglio politico, di indipendenza, o anche solo una semplice presa di posizione umanitaria della premier-madre-donna-cristiana Giorgia Meloni nei confronti dello sterminio in corso a Gaza, anche mercoledì scorso è rimasto deluso.

 Rispondendo al “premier time” alla Camera a un’interrogazione dell’”Avs” Angelo Bonelli, la presidente del Consiglio ha confermato che il governo italiano continuerà a fare quanto fatto fino a oggi per la tragedia palestinese: cioè assolutamente nulla.

Quelle Lunghe Conversazioni con Netanyahu.

“In questi mesi a più riprese ho sentito il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, sono state conversazioni spesso difficili, in cui ho sempre richiamato l’urgenza di trovare una strada per terminare le ostilità e rispettare il diritto internazionale e il diritto internazionale umanitario“, ha detto Meloni in aula.

“Una richiesta che rinnovo anche oggi, a fronte di una situazione umanitaria a Gaza che non ho difficoltà a definire sempre più drammatica e ingiustificabile”.

 

E già con queste poche frasi Meloni ha dimostrato la volontà di negare l’innegabile, che quello in corso a Gaza è un genocidio, non una grave “situazione umanitaria”.

Inoltre, affermando di aver richiamato Netanyahu al rispetto del diritto internazionale e umanitario, ha implicitamente confermato che Israele quel diritto l’ha violato.

Costantemente.

 E che quindi quello Stato andrebbe sanzionato, isolato, messo nelle condizioni di non uccidere oltre.

Invece “non è intenzione del governo richiamare l’ambasciatore italiano in Israele” ha chiarito Giorgia.

 

Per Meloni Gaza è Solo Colpa di Hamas.

“Non abbiamo condiviso”, ha poi aggiunto, “diverse scelte, non condividiamo le recenti proposte del Governo israeliano e non abbiamo mancato di dirlo ai nostri interlocutori, consapevoli però che non è stata Israele a iniziare le ostilità e che c’era un disegno, come ho detto varie volte, alla base dei disumani attacchi di Hamas, della crudeltà rivolta contro gli ostaggi.

Quello era un disegno che puntava all’isolamento e questo non può non farci riflettere su quanto sarebbe pericoloso assecondare il disegno dei terroristi, che non si sono fatti scrupoli a sacrificare la vita sia di israeliani che di palestinesi pur di perseguire i propri scopi”.

Quindi la logica dell’azione politica italiana è non condannare esplicitamente Israele che ha ucciso 60mila civili, per non fare il gioco dei terroristi.

“Continueremo” ha però assicurato la premier, “a impegnarci per una cessazione permanente delle ostilità. In questo quadro credo che non ci debbano essere da parte nostra ambiguità nel pretendere che Hamas rilasci immediatamente gli ostaggi, deponga le armi, nel dire che non c’è spazio per una presenza di Hamas nella Striscia in un futuro “Stato palestinese“.

 

“Italia Sempre in Prima Fila.”

E, forse per lavarsi la coscienza, ha terminato dicendo che “fin dall’inizio del conflitto il governo italiano è stato in prima fila tanto sul piano diplomatico quanto sul piano umanitario.

 Un ruolo che viene riconosciuto da tutti gli attori in campo. Oggi abbiamo evacuato altre 34 persone, tra cui 14 bambini”.

Di certo c’è anche “il silenzio prolungato del ministro degli Esteri Antonio Tajani su Gaza e la sua contrarietà all’arresto del presunto criminale Netanyahu”, su mandato della Corte penale internazionale, qualora dovesse atterrare nel nostro Paese.

 

Bonelli: “Calcolo Politico per Non Irritare gli Usa e Vendere Armi a Israele.”

Affermazioni che hanno indignato le opposizioni, a partire da Bonelli, che ha replicato:

“Sono inorridito, indignato dalla sua ipocrisia. Non ha avuto il coraggio di condannare i fatti criminali che stanno accadendo a Gaza. Ma lei da madre come si sente a vedere uccisi 18.000 bambini?”, ha chiesto.

“Non ha il coraggio di condannare Netanyahu e i ministri del governo che dicono che bisogna bombardare i depositi alimentari” e questa “la trovo francamente un’ipocrisia, che di fronte all’orrore che stiamo vedendo, lei non è in grado di esprimere una parola di condanna, di dare sanzioni a chi uccide bambini, le stesse che avete deciso per la Russia”.

E poi l’affondo: “Io le dico perché lei sta facendo questo, signora Presidente.

Perché lei sta facendo un calcolo politico.

 È più importante mantenere il suo potere, non inimicarsi Israele, non inimicarsi Washington, comprare armi da loro.

Vendere armi a Israele e dimenticare.

 Oggi lei è stata profondamente ipocrita, non ha avuto il coraggio di condannare ciò che è di fronte agli occhi del mondo, uno sterminio, una deportazione, una pulizia etnica, di questo lei si deve vergognare di fronte al popolo italiano”.

Cade nel Nulla l’Invito di Conte ad Alzarsi Contro lo Sterminio a Gaza.

E l’ultimo sfregio alle migliaia di vittime palestinesi la premier-madre-donna-cristiana l’ha regalato quando il presidente M5s, Giuseppe Conte, ha invitato l’intera Camera ad alzarsi in piedi per dare “un segno di umanità, condannando il silenzio sullo sterminio”.

Un segno che però non è arrivato, visto che tutto il governo e la maggioranza sono rimasti seduti.

Immobili.

Come davanti allo sterminio in atto.

(Andrea Sparaciari).

(lanotiziagiornale.it/gaza-da-meloni-non-arriva-la-condanna-di-netanyahu-una-crisi-umanitaria-innescata-dallattacco-di-hamas/).

 

 

 

 

 

Mercati e Big Tech sono i nuovi

poteri assoluti del mondo:

ecco i rischi.

Agendadigitale.eu – Lelio Demichelis – (25 Gen. 2022) – ci dice:

(Lelio Demichelis Sociologo della tecnica e del capitalismo).

 

 

Dov'è il potere.

Cultura e società digitali.

A differenza del passato, oggi la politica è subordinata, come mezzo, all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.

Abbiamo un enorme problema di democrazia.

 Ma non lo vediamo.

 Serve lo Stato contro un capitalismo che mai è stato bello, e oggi lo è ancor meno.

 

Big tech.

Cos’è il potere?

Dov’è il potere – anzi, il Potere, usando Pier Paolo Pasolini?

 Non tanto il potere politico – quello sembra facile da identificare, ha dei nomi di persona (Biden, Draghi, Lagarde, Putin) oppure rimanda a Istituzioni specifiche (la Ue, il Parlamento, il Governo, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità – Oms) – quanto ciò che, a monte, determina le reali forme del Potere e i modi con cui si esprime e si esercita su di noi:

cioè, qual’ è il Potere che governa la vita delle persone, ovvero, usando “Michel Foucault”, “conduce le condotte umane” in una direzione piuttosto che in un’altra.

La questione è antica, volendo potremmo risalire a Platone e ad Aristotele e alle loro distinzioni tra democrazia, oligarchia, governo degli uomini o governo delle leggi, democrazia formale e sostanziale, eccetera eccetera.

Ma rapportando la questione all’oggi, non possiamo non riconoscere che il potere dell’economia e della tecnologia (antidemocratici per essenza propria) è più forte del potere politico e della democrazia, è potere assoluto in quanto non bilanciato da altri poteri equi-valenti ed equi-potenti.

Indice degli argomenti:

I livelli di governo e i luoghi del Potere.

Cosa si intende per democrazia?

Chi governa il mondo (parte prima)?

Chi governa il mondo (parte seconda)?

La corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.

Il ruolo dello stato.

I livelli di governo e i luoghi del Potere.

Qui vogliamo quindi ricordare alcuni elementi che ci permettono di definire i diversi livelli di governo (di Potere) oggi esistenti, la loro struttura gerarchica e il loro rapporto con la democrazia, la sovranità, la libertà e l’autonomia delle persone – e il demos (i cittadini) titolare del potere in demo-crazia.

Non senza aggiungere che da sempre il potere corrompe chi lo pratica, che viene usato per corrompere (qualcun ricorda Mani pulite?), che spesso il popolo ama chi corrompe ed ama essere ingannato (cioè corrotto mentalmente e politicamente) dal potere (pensiamo a Trump e a quel 50% di americani che lo hanno votato e lo rivoterebbero).

 Sul tema della corruzione è recentemente uscito un nuovo libro dal titolo inequivocabile,

“Corruptible: Who Gets Power and How It Changes Us” (Scribner Book Company), di Brian Klass, columnist del Washington Post e basato su 500 interviste a uomini di potere.

Qui però useremo il concetto di corruzione e il processo del corrompere nel senso di “disfacimento, deterioramento materiale ma soprattutto morale” (Dizionario etimologico della lingua italiana – Zanichelli) e faremo una rilettura/interpretazione del potere concentrandoci sul macro-contesto entro il quale, oggi, si muovono o possono muoversi i diversi livelli di governo a scala nazionale, sovra-nazionale e locale, pre-determinandone (corrompendone) l’azione e gli effetti.

Questo macro-contesto è dato dal neoliberalismo, egemone nel mondo da quarant’anni a questa parte (è l’ideologia trionfante dopo la morte delle ideologie novecentesche) a dispetto di tutti i suoi fallimenti e del suo intrinseco nichilismo (possiede una potentissima e patologica coazione a ripetersi), sommato con le tecnologie di rete e con chi le possiede (e con la religione tecno-capitalista che esprimono, con il feticismo e il catechismo tecnofilo che producono).

Macro-contesto ideologico e tecnologico che ha profondamente modificato i livelli di governo esistenti prima degli anni ‘80.

Corrompendo in altro modo la società e la polis, corrompendo la democrazia, il concetto di libertà e imponendosi come modo di vivere/way of life tecno-capitalista sul mondo intero – la globalizzazione e la rete come espressione di questo meta-contesto a-democratico e impostosi come un dato di fatto.

Prima però, una distinzione: il governo è la struttura istituzionale/politica – articolata su diversi livelli – “che ha ottenuto il potere di scegliere, decidere e attuare politiche pubbliche. Nei sistemi democratici questo è ottenuto attraverso elezioni libere e la presentazione di programmi politici” (Bobbio-Matteucci-Pasquino, Il Dizionario di politica – Utet).

All’opposto accade nei sistemi autoritari o tecnocratici.

 

Diverso è invece il concetto di governo inteso come governare – ossia come attuare un determinato programma politico, scelto dal demos oppure imposto al demos.

 E ancora diverso è capire dov’è oggi il potere capace di governare, posto che non è più nel governo-istituzione democratica, ma non si sa bene dove sia.

Ci aveva provato, con ottimi risultati di analisi, il francese “Michel Foucault” (1926-1984) che definiva con governamentalità/biopolitica il modo con cui il potere (non necessariamente lo stato) guida e dirige appunto le condotte umane in un senso voluto dal potere, rendendo ciascuno utile e docile verso il potere – e il neoliberalismo era per Foucault una di queste forme di governamentalità/biopolitica (infra, Lippmann), che qui definiamo come macro-contesto e che altrove abbiamo definito come una delle forme di “human engineering” succedutesi nel corso della storia e soprattutto nel Novecento.

 

Cosa si intende per democrazia?

“Nella democrazia, l’agire politico non solo è pubblico, ma deve essere reso pubblico, messo sotto gli occhi del pubblico;

e lo è in due sensi: perché volto ad occuparsi di problemi che direttamente o indirettamente riguardano e condizionano tutti; e perché deve essere reso chiaro, giustificato e aperto al pubblico, esposto sempre al giudizio dei cittadini, i quali, in quanto corpo sovrano, hanno due poteri:

quello di autorizzare con il voto e quello di giudicare e controllare perpetuamente, prima o dopo aver votato, coloro che hanno autorizzato” a governarli (Urbinati, Liberi e uguali, Laterza).

 Ovvero, nella democrazia, aggiungeva il costituzionalista “Gustavo Zagrebelsky”, ci si deve poter attivare, mentre nelle altre forme politiche si è invece attivati da qualcuno/qualcosa di esterno.

L’essenza della democrazia è infatti in questa possibilità e capacità di ciascuno di attivarsi, cioè di pensare, fare, partecipare, decidere liberamente:

senza questa possibilità e capacità, non c’è democrazia.

 Perché, ancora Zagrebelsky, la democrazia moderna è in primo luogo la scelta dei fini e poi la predisposizione dei mezzi per raggiungere tali fini, ovvero il governo della polis è conseguenza della volontà dai cittadini espressa in un pensiero pro-gettante.

E allora, la domanda:

 i diversi livelli di governo esistenti oggi rispondono tutti a queste esigenze di democrazia, di partecipazione e di controllo da parte del demos?

Certamente no il potere della finanza e del denaro/mercati;

certamente no il potere della tecnica e dell’innovazione tecnologica;

 certamente no il potere delle multinazionali; certamente no il potere dei social.

 E il deficit di democrazia non solo va crescendo (populismi, autoritarismi, tecnocrazie, algoritmi), ma viene sempre più accettato come nuova e necessaria normalità del Potere.

E ad essere corrotto oggi da questi poteri non democratici – è quindi anche il principio della separazione dei poteri, essenziale in una democrazia perché sia possibile attivarsi e perché il potere sia trasparente, pubblico e controllabile dal demos.

Già “Montesquieu” (1689-1755) aveva tracciato la teoria della separazione dei poteri.

Partendo dalla considerazione che il “potere assoluto corrompe assolutamente”, aveva analizzato i tre poteri che vi sono in ogni stato:

 il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario.

Condizione oggettiva e necessaria per l’esercizio della libertà del cittadino che esercita il suo potere sovrano (sopra Urbinati e Zagrebelsky), è che questi tre poteri restino nettamente separati e bilanciati e controllati, per evitare che diventino appunto poteri assoluti.

Oggi, “i mercati e il Big Tech” sono i nuovi poteri assoluti del mondo (e non basta certo la decisione dell’Antitrust di multare Amazon per poter dire che esiste un controllo, perché questo controllo si esercita solo ex-post, mentre dovrebbe essere esercitabile anche ex-ante, la politica tornando a governare anche il mercato e i processi di innovazione tecnologica (o di regressione tecnologica, posto che Amazon è le vecchie vendite per corrispondenza, oggi algoritmiche; e che la Fabbrica 4.0 è solo il vecchio taylorismo, ma digitalizzato).

 

Oggi, quindi, il potere dell’economia e della tecnologia è potere assoluto.

Ieri il sistema economico e industriale veniva subordinato, come mezzo, alla politica, per realizzare dei fini sociali, decisi dal demos;

 oggi è la politica che è subordinata, come mezzo, all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.

Quindi abbiamo – di nuovo – un enorme problema di democrazia.

Ma non lo vediamo.

Il Potere sa nascondersi.

 

Chi governa il mondo (parte prima)?

Lo Stato, sempre meno.

 Il demos, sempre meno (le scelte economiche e di politica economica vengono imposte dai mercati, vedi il caso Europa/mercati/banche contro la Grecia nel 2015, con l’Europa democratica (sic!) che rifiuta di accettare l’esito di un voto popolare in un democratico referendum).

I mercati, sempre di più. I

l Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – cioè un oligopolio di monopoli), sempre di più (si pensi a come una singola impresa come Amazon ha stravolto in pochi anni, a sua totale discrezione e decisione, il sistema della piccola, ma anche della grande distribuzione e a come i social/imprese private finalizzate al profitto privato governano la vita di miliardi di persone).

La tecnica, sempre di più – si pensi alla delega di valutazione e di decisione che sempre più diamo ad algoritmi e digitale, a prescindere da ogni controllo e da ogni consapevolezza umana.

Le lobby: sempre di più – si pensi a come per decenni è stato negato il riscaldamento climatico e a quanto hanno pesato sul fallimento della recente Cop26.

 I sistemi di regolazione extra-statali, sempre di più.

 

Su questi ultimi sistemi di regolazione, tanto invisibili da essere sconosciuti ai più ma dal potere enorme sul governo della vita di ciascuno e dell’intero sistema globale, il giurista “Sabino Cassese” aveva scritto anni fa: “Chi governa il mondo?

 La risposta più comune è che il mondo è governato dagli stati che, tramite i propri organi esecutivi, stipulano accordi nelle diverse parti del globo.

 Gli stati non hanno tutti lo stesso peso e la stessa influenza e di conseguenza il potere non è ripartito equamente.

Essi infine stipulano convenzioni e trattati […].

Questa risposta tralascia però due fatti importanti.

La prima è che gli stati hanno vissuto nel tempo processi di aggregazione e di disaggregazione.

 La seconda è che sono stati affiancati da un numero sempre crescente di organismi non statali” (che non sono le “Ong”), ma con il potere di imporre norme estremamente vincolanti, al di fuori di qualunque sovranità e controllo da parte del demos (S. Cassese, Chi governa il mondo? – il Mulino).

Cassese definiva questo regime di regolazione come “global polity”.

 

Chi governa il mondo (parte seconda)?

Ma a governare il mondo è oggi soprattutto – come anticipato – il pensiero/ideologia neoliberale e tecnico (il meta-contesto, ciò che predetermina i modi del potere economico, tecnologico e politico; che ingegnerizza la vita sociale e individuale).

Che si basa su una serie di principi:

trasformazione pianificata della società in mercato e in rete;

stato da governare come un’impresa ma soprattutto stato come promotore del mercato; interconnessione/digitalizzazione/connessione/integrazione di tutti nel sistema tecnico e di mercato (che è la nuova forma dell’organizzazione, del comando e del controllo da parte del capitale, come direbbe Marx);

l’uomo non più come persona ma come capitale umano;

l’impresa solo nella sua forma autocratica.

Scriveva il neoliberale Walter Lippmann già negli anni ‘30 del ‘900, definendo chiaramente quella che sarebbe stata poi l’azione di pianificazione neoliberale della società a partire dagli anni ‘80:

“il liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e suo compito è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo; e poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo perfettamente realizzato e concluso” (Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo – DeriveApprodi).

Ovvero, per i neoliberali – in questo profondamente anti-democratici, illiberali e in contraddizione con sé stessi, negando di fatto la libertà dell’individuo e imponendo all’individuo di adattarsi a qualcosa che non deve governare e controllare – l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono tendere a formare un tutto armonico, in realtà integrato e soprattutto e peggio, integralistico.

 

Esiste poi il potere delle imprese.

Scriveva – lo abbiamo fatto in altre occasioni ma lo richiamiamo di nuovo – “Luciano Gallino” (1927-2015), nel 2011:

“La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. […]”.

 E invece, oggi “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” nei settori dell’economia, di fatto espropriati e alienati dalla democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa, industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia.

 Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia. […]

il potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca”.

Si pensi ancora ad Amazon, a Google, ai social.

Si pensi alla “Gkn” o alla “Whirlpool” e alla loro libertà di delocalizzare (e al governo tecnocratico di Draghi che ovviamente non glielo impedisce).

 

La corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.

Dunque, abbiamo un sistema complesso di livelli di governo, alcuni espliciti, altri nascosti, apparentemente disordinati, ma tutti in realtà organizzati, finalizzati, governati secondo il macro-contesto (il meta-livello di governo) del neoliberalismo e della tecnica (e della tecnocrazia).

Un macro-contesto che appunto pre-determina ogni scelta politica, corrompendo ex-ante la demo-crazia, corrompendo ex-ante la sovranità del demos, questo macro-contesto imponendosi come dato di fatto immodificabile, che non si deve e non si può governare democraticamente (anche perché confonde dolosamente rete e mercato con democrazia, facendoci credere che siano la stessa cosa – e ideologia significa anche, come scriveva Norberto Bobbio, “far credere”), senza permettere la ricerca di alternative.

È il macro-potere di sé stesso.

È il meta-livello di governo che subordina a sé e che sussume in sé tutti gli altri livelli di governo.

Che ha corrotto le radici della democrazia, illudendo di una libertà solo apparente.

 

Ha scritto “Joseph Stiglitz”, premio Nobel per l’economia nel 2001, valutando gli effetti delle politiche neoliberali (noi però aggiungendo la tecnica):

“1) le regole economiche neoliberiste hanno creato maggiori disuguaglianze, con un calo dei soggetti che condividono i benefici dell’attività economica e una crescita più lenta dell’economia in generale e persino degli investimenti”;

 2) “la finanza non è più al servizio dell’intera economia ma solo di se stessa”;

3) “i sistemi fiscali incoraggiano la speculazione e l’elusione fiscale da parte delle multinazionali”;

4) “le politiche monetarie e fiscali, troppo incentrate sulla difesa da certi rischi (deficit di bilancio e inflazione) ignorano le vere minacce alla prosperità economica, ovvero la crescente disuguaglianza e il sotto-investimento e hanno prodotto più disoccupazione, più instabilità e meno crescita”;

 5) “nel mercato del lavoro, i cambiamenti delle istituzioni, delle leggi, delle norme e dei regolamenti hanno indebolito il potere dei lavoratori, che ora hanno più difficoltà a contrapporsi agli eccessi di potere di mercato delle imprese”;

6) “la disuguaglianza è stata una scelta politica.”

 (Le nuove regole dell’economia, il Saggiatore).

 

Il ruolo dello stato.

Scriveva J. M. Keynes”, negli anni ‘30 del ‘900, un autore che dovremmo rileggere urgentemente per ripensare al ruolo da tornare ad affidare allo stato e alla necessità di governare democraticamente sia il mercato e sia il Big Tech):

 “La cosa importante per il governo, non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.

E aggiungeva: “I difetti lampanti dell’economia odierna sono:

 la sua incapacità di provvedere alla piena occupazione;

e la sua distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi” [esattamente oggi come allora].

E ancora: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari” [allora, come oggi]. Inoltre, spreca deliberatamente una quantità enorme di risorse nella lotta per la concorrenza [allora come oggi].

Keynes sosteneva quindi che fosse necessario guidare l’economia (e non lasciarsi guidare dall’economia) attraverso precise politiche monetarie, industriali, sociali e fiscali poiché i mercati quasi mai sono in grado di raggiungere un equilibrio efficiente.

 Salute e ambiente, ad esempio, sono beni pubblici che acquisiranno un valore crescente e questo giustificherà, scriveva, l’intervento dello stato. Il capitalismo inoltre – e questo diventa ancora più importante nel momento in cui, per la crisi climatica, dobbiamo pensare alle future generazioni – è incapace “di garantire l’allocazione inter-temporale delle risorse, dunque solo lo stato potrà occuparsi del nostro futuro a lungo termine”

(La fine del laissez-faire e altri scritti – Bollati Boringhieri).

 

 

 

Oggi la telefonata Trump-Putin, il leader russo:

 “Abbiamo la forza per continuare la guerra in Ucraina.”

 Msn.com – Fanpage.it - Storia di Davide Falcioni – (19-05- 2025) – ci dice:

 

Oggi la telefonata Trump-Putin, il leader russo: “Abbiamo la forza per continuare la guerra in Ucraina”

La Russia ha sferrato ieri uno dei più massicci attacchi con droni dall’inizio del conflitto, colpendo l’Ucraina con circa 273 velivoli esplosivi senza pilota nell'arco di una giornata. Il bombardamento, che ha provocato la morte di una donna e il ferimento di diversi civili, è stato interpretato da Kiev come un segnale di forza lanciato da Mosca alla vigilia dell'attesissimo colloquio, previsto per oggi, tra il presidente Donald Trump e il leader del Cremlino Vladimir Putin.

L’attacco è avvenuto a poche ore dall’annuncio di Trump, che sabato scorso ha dichiarato l’intenzione di parlare sia con Putin che con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, oltre che con i vertici della NATO.

 Zelensky ha già dato il suo consenso a un cessate il fuoco immediato e senza condizioni.

Mosca, invece, continua a procrastinare, avanzando precondizioni che l’Ucraina considera inaccettabili.

 

Nel frattempo, lo stesso Zelensky si è recato ieri a Roma per incontrare il vicepresidente statunitense JD Vance, in quello che è stato il primo confronto diretto dopo le tensioni emerse durante l’incontro alla Casa Bianca di febbraio.

L'attenzione tuttavia è tutta per la telefonata prevista tra Trump e Putin di oggi, una conversazione che è stata anticipata ieri da quelle tra il leader statunitense e i leader europei di Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia.

Oggi la telefonata Trump-Putin, il leader russo: “Abbiamo la forza per continuare la guerra in Ucraina”

Come ha riferito “Downing Street” in una nota i capi di Stato e di governo "hanno discusso della situazione in Ucraina e del costo catastrofico della guerra per entrambe le parti".

 "Prima della telefonata tra il presidente Trump e il presidente Putin, i leader hanno discusso della necessità di un cessate il fuoco incondizionato e della necessità che il presidente Putin prenda sul serio i colloqui di pace".

Dopo il fallimento dei colloqui tra Kiev e Mosca di venerdì in Turchia, i capi di Stato e di governo "hanno discusso anche dell'uso di sanzioni se la Russia non si impegna seriamente in un cessate il fuoco e in colloqui di pace", scrive “Downing Street”.

 

Sul fronte opposto il presidente Vladimir Putin ha rimarcato che la Russia è in grado di proseguire la guerra ancora a lungo:

"Abbiamo forze e mezzi sufficienti per portare a termine ciò che è stato avviato nel 2022 con il risultato di cui abbiamo ha bisogno.

 E questo risultato sta eliminando le cause di questa crisi, creando le condizioni per una pace duratura e garantendo la sicurezza dello Stato russo".

Intervistato da “Rossiya 1”, il capo del Cremlino ha dichiarato che intende tutelare gli interessi delle persone nei territori "in cui risiedono persone che considerano la lingua russa la loro lingua madre e la Russia la loro patria".

 

La "transizione" verso un nuovo ordine

 mondiale è al di là della maggior

parte degli eventi in Occidente.

 Unz.com - Alastair Crooke – (19 maggio 2025) – ci dice:

 

La nuova era segna la fine della "vecchia politica": il rosso contro il blu; Le etichette Destra e Sinistra perdono rilevanza.

Anche la necessità di una transizione – giusto per essere chiari – ha appena iniziato a essere riconosciuta negli Stati Uniti.

Per la leadership europea, tuttavia, e per i beneficiari della finanziarizzazione che si lamentano altezzosamente della "tempesta" di Trump scatenata incautamente sul mondo, le sue tesi economiche di base vengono ridicolizzate come nozioni bizzarre completamente separate dalla "realtà" economica.

Questo è completamente falso.

Perché, come sottolinea l'economista greco “Yanis Varoufakis”, la realtà della situazione occidentale e la necessità di una transizione sono state chiaramente spiegate da “Paul Volcker”, ex presidente della Federal Reserve, già nel 2005.

 

Il duro "fatto" del paradigma economico liberale globalista era evidente già allora:

"Ciò che tiene insieme il sistema globalista è un massiccio e crescente flusso di capitali dall'estero, che supera i 2 miliardi di dollari ogni giorno lavorativo – e in crescita.

 Non c'è alcun senso di tensione.

Come nazione non prendiamo consapevolmente in prestito o mendichiamo.

Non stiamo nemmeno offrendo tassi di interesse interessanti, né dobbiamo offrire ai nostri creditori protezione contro il rischio di un dollaro in calo".

 

"È tutto abbastanza per noi. Riempiamo i nostri negozi e garage con merci provenienti dall'estero e la concorrenza è stato un potente freno ai nostri prezzi interni.

Ha sicuramente contribuito a mantenere i tassi di interesse eccezionalmente bassi nonostante i nostri risparmi in termini di calore e la rapida crescita".

"Ed è stato anche per i nostri partner commerciali e comodo per coloro che forniscono il capitale.

 Alcuni, come la Cina [e l'Europa, in particolare la Germania], hanno fatto molto affidamento sui nostri mercati interni in espansione.

E per la maggior parte, le banche centrali del mondo emergente sono state disposte a detenere sempre più dollari, che sono, dopo tutto, la cosa più vicina che il mondo abbia a una valuta veramente internazionale".

" La difficoltà è che questo schema apparentemente confortevole non può andare avanti all'infinito ".

Proprio.

 E Trump è in procinto di far saltare in aria il sistema commerciale mondiale in modo da reimpostarlo.

Quei liberali occidentali, che oggi digrignano i denti e si lamentano dell'avvento dell'"economia trumpiana", stanno semplicemente negando che Trump abbia almeno riconosciuto la realtà americana più importante, vale a dire, che il modello non può andare avanti all'infinito e che il consumismo guidato dal debito ha superato di gran lunga la sua data di scadenza.

Ricordiamo che la maggior parte dei partecipanti al sistema finanziario occidentale non ha conosciuto nient'altro che il "mondo confortevole" di “Volcker” per tutta la vita.

Non c'è da stupirsi che avere difficoltà a pensare al di fuori della loro replica sigillata.

Ciò non significa, naturalmente, che la soluzione di Trump al problema funzionerà. Forse, la particolare forma di riequilibrio strutturale di Trump potrebbe peggiorare le cose.

Ciononostante, la ristrutturazione in qualche forma è chiaramente inevitabile.

 In caso contrario, si tratta di scegliere tra il fallimento lento o quello rapido e disordinato.

 

Il sistema globalista guidato dal dollaro ha funzionato bene inizialmente, almeno dal punto di vista degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti hanno esportato la loro sovraccapacità manifatturiera del secondo dopoguerra verso un'Europa appena dollarizzata, che ha consumato il surplus.

 E anche l'Europa ha goduto del vantaggio di avere il suo contesto macroeconomico (modelli trainati dall'export, garantiti dal mercato statunitense).

La crisi attuale è iniziata, tuttavia, quando il paradigma si è invertito, quando gli Stati Uniti sono entrati nell'era dei deficit strutturali di bilancio insostenibili, e quando la finanziarizzazione ha portato Wall Street a costruire la sua piramide rovesciata di "asset" derivati, poggiando su un minuscolo perno di asset reali.

La cruda realtà della crisi degli squilibri strutturali è già abbastanza grave.

Ma la crisi geostrategica occidentale va molto più in profondità della contraddizione strutturale dei flussi di capitale in entrata e di un dollaro "forte" che mangia il cuore del settore manifatturiero statunitense.

Perché è legato, anche, al concomitante collasso delle ideologie fondamentali che sostengono il” globalismo liberale”.

 

È proprio a causa di questa profonda devozione occidentale all'ideologia (così come al "comfort" di Volker offerto dal sistema) che si è scatenato un tale torrente di rabbia e di aperta derisione nei confronti dei piani di "riequilibrio" di Trump.

Quasi nessun economista occidentale ha una buona parola da dire, eppure non viene offerto alcun quadro alternativo plausibile.

 La loro passione rivolta a Trump non fa che sottolineare che anche la teoria economica occidentale è fallimentare.

Ciò significa che la crisi geostrategica più profonda dell'Occidente consiste sia nel crollo dell'ideologia archetipica sia in quello di un ordine elitario paralitico.

Per trent'anni, Wall Street ha venduto una fantasia (il debito non contava) ... e quell'illusione è semplicemente andata in frantumi.

 

Sì, alcuni capiscono che il paradigma economico occidentale del consumismo iper finanziarizzato e indebitato ha fatto il suo corso e che il cambiamento è inevitabile. Ma l'Occidente è così fortemente investito nel modello economico "anglo" che, per la maggior parte, gli economisti rimangono paralizzati nella ragnatela.

"Non c'è alternativa" (TINA) è il motto.

La spina dorsale ideologica del modello economico statunitense risiede, in primo luogo, ne " La via della schiavitù" di “Friedrich von Hayek “, che fu interpretato come il significato che qualsiasi coinvolgimento del governo nella gestione dell'economia fosse una violazione della "libertà" – e equivalente al socialismo.

 In secondo luogo, in seguito all'unione di” Hayek”con la “Scuola di Monetarismo di Chicago” nella persona di “Milton Friedman”, che avrebbe scritto l'"edizione americana" de "La via della schiavitù" (che (ironicamente) sarebbe stata intitolata "Capitalismo e libertà"), l'archetipo fu fissato.

"In compagnia educata, e in pubblico, puoi certamente essere di” sinistra o di destra”, ma sarai sempre, in qualche modo, neoliberista; altrimenti non ti sarà semplicemente permesso l'ingresso al discorso".

 

"Ogni paese può avere le sue peculiarità...

Ma in linea di principio seguono un modello simile: il neoliberismo guidato dal debito è, prima di tutto, una teoria di come riprogettare lo Stato al fine di garantire il successo dei mercati – e del suo partecipante più importante: le società moderne".

Ecco quindi il punto fondamentale: la” crisi del globalismo liberale” non è solo una questione di riequilibrio di una struttura fallimentare.

Lo squilibrio è comunque inevitabile quando tutte le economie perseguono allo stesso modo, tutte insieme, tutte insieme, il modello "aperto" anglo-guidato dalle esportazioni.

 

No, il problema più grande è che il mito archetipico degli individui (e degli oligarchi) che perseguono la propria massimizzazione dell'utilità separata e individuale – grazie alla mano nascosta della magia del mercato – è racconto che, nel complesso, i loro sforzi congiunti saranno a beneficio della comunità nel suo insieme (Adam Smith) è crollato.

In effetti, l'ideologia a cui l'Occidente si aggrappa così tenacemente – che la motivazione umana sia utilitaristica (e solo utilitaristica) è un'illusione.

Come hanno sottolineato filosofi della scienza come “Hans Albert”, la teoria della massimizzazione dell'utilità esclude a priori la mappatura del mondo reale, rendendo così la teoria non verificabile.

Paradossalmente, Trump, tuttavia, è ovviamente il principale di tutti i massimizzatori utilitaristici!

È quindi il profeta di un ritorno all'era dei magnati americani del diciannovesimo secolo, o è l'aderente a un ripensamento più fondamentale?

In parole povere, l'Occidente non può passare a una struttura economica alternativa (come un modello "chiuso" di circolazione interna) proprio perché è così pesantemente investito ideologicamente nelle basi filosofiche di quella attuale – che mettere in discussione quelle radici sembrano equivalere a un tradimento dei valori europei e dei valori libertari fondamentali dell'America (tratti dalla Rivoluzione francese).

La realtà è che oggi la visione occidentale dei suoi presunti "valori" ateniesi è screditata tanto quanto la sua teoria economica nel resto del mondo, così come tra una fetta significativa delle sue stesse popolazioni arrabbiate e scontente!

 

Quindi la linea di fondo è questa: non guardate alle élite europee per avere una visione coerente dell'ordine mondiale emergente.

Sono al collasso e sono preoccupati di cercare di salvarsi in mezzo al crollo della sfera occidentale e alla paura di ritorsioni da parte dei loro elettorati.

Questa nuova era, tuttavia, segna anche la fine della "vecchia politica":

il rosso contro il blu;

 Le etichette Destra e Sinistra perdono rilevanza.

Nuove identità politiche e raggruppamenti si stanno già formando, anche se i loro contorni non sono ancora definiti.

 

 

 

 

Ripensare le relazioni tra Stati Uniti

 e Cina dopo il naufragio dei dazi.

Unz.com - Mike Whitney – (18 maggio 2025) – ci dice:

 

Quando il presidente Donald Trump ha imposto i suoi dazi doganali il 2 aprile, aveva due obiettivi principali:

Ridurre i deficit commerciali.

Riportare posti di lavoro e produzione negli Stati Uniti.

Questi erano gli obiettivi dichiarati ma, come abbiamo presto scoperto, il vero scopo era indebolire la Cina impedendole di vendere beni ai consumatori statunitensi.

 L'amministrazione Trump ha anche utilizzato i dazi per isolare la Cina, offrendo incentivi alle nazioni che accettavano di ridurre i loro scambi commerciali con Pechino.

In breve, i dazi sono stati l'arma principale di una guerra commerciale contro un concorrente alla pari che ha superato gli Stati Uniti in quasi ogni settore della produzione industriale e tecnologica.

 

Fortunatamente, il piano di Trump è fallito, e lui è stato costretto ad allentare i dazi senza raggiungere nessuno dei suoi obiettivi principali.

 Il motivo per cui diciamo "fortunatamente" è perché la politica tariffaria non ha mai servito gli interessi del popolo americano.

 Al contrario, gli americani sono danneggiati da politiche unilaterali che ignorano le regole del commercio internazionale e interrompono inutilmente le catene di approvvigionamento.

Tutto ciò non fa che far salire i prezzi, ridurre l'occupazione e rallentare la crescita. Inoltre, manipolare i dazi con l'intenzione di distruggere un concorrente viola una serie di regole ampiamente accettate dell'OMC che proteggono gli interessi di tutti.

 

A differenza degli Stati Uniti, la Cina ha agito in modo coerente con la sua più ampia filosofia sociale, radicata nella sua peculiare interpretazione del socialismo.

Ha assunto un atteggiamento moralmente superiore, ha agito secondo i suoi principi e si è rifiutata di cedere alla coercizione di Trump.

Ha avviato contromisure solo in risposta alla campagna tariffaria di Trump, ignorando completamente le regole stabilite dall'”Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e il Commercio” (GATT), che stabilisce che i paesi non possono superare arbitrariamente le "aliquote vincolate" o colpire selettivamente un paese con dazi del 145% (l'equivalente di un embargo).

Agendo da solo, Trump ha sostanzialmente dimostrato il suo disprezzo per il sistema internazionale e per qualsiasi vincolo legale al suo potere.

Questo articolo è tratto dal “Global Times” :

 

Il sistema commerciale multilaterale, con l'”OMC” al suo centro, è il pilastro del commercio internazionale e svolge un ruolo importante nella governance economica globale.

Tutte le parti dovrebbero risolvere divergenze e controversie attraverso un dialogo paritario nell'ambito dell'OMC, sostenere congiuntamente il multilateralismo e il libero scambio e promuovere la stabilità e il buon funzionamento delle catene industriali e di approvvigionamento globali.

 Tempi globali

In altre parole, la sconfitta di Trump è stata una vittoria per il sistema del commercio internazionale.

 Ma è stata anche una vittoria per la Cina, perché la Cina è rimasta ferma sulla sua posizione e si è rifiutata di cedere alle pressioni di Washington.

Ecco un altro articolo di “Bloomberg”:

 

La decisione di “Xi Jinping” di mantenere la sua posizione contro Donald Trump non avrebbe potuto andare meglio per il leader cinese.

Dopo due giorni di colloqui ad alto rischio in Svizzera, i negoziatori commerciali delle maggiori economie del mondo hanno annunciato lunedì una massiccia de-escalation dei dazi.

In una dichiarazione congiunta attentamente coordinata, gli Stati Uniti hanno ridotto i dazi sui prodotti cinesi dal 145% al 30% per un periodo di 90 giorni, mentre Pechino ha abbassato il prelievo sulla maggior parte delle merci al 10%.

La drastica riduzione ha superato le aspettative in Cina e ha fatto impennare il dollaro e le azioni, fornendo un po' di sollievo al mercato a Trump, che sta subendo pressioni a causa dell'inflazione destinata ad accelerare in patria.

 Anche le azioni cinesi sono aumentate.

L'accordo ha finito per soddisfare quasi tutte le richieste principali di Pechino. L'elevata tariffa "reciproca" per la Cina, che Trump ha fissato al 34% il 2 aprile, è stata sospesa, lasciando al principale rivale degli Stati Uniti la stessa aliquota del 10% che si applica al Regno Unito, un alleato di lunga data...

"Questo è probabilmente il miglior risultato che la Cina potesse sperare:

gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro", ha affermato “Trey McArver”, co-fondatore della società di ricerca “Trivium China”.

 "In futuro, questo renderà la parte cinese fiduciosa di avere influenza sugli Stati Uniti in qualsiasi negoziato".

Informazioni svizzere.

Ripeto: questo è il miglior risultato che la Cina avrebbe potuto sperare: gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro"

La politica statunitense nei confronti della Cina non è solo profondamente immorale, ma anche controproducente.

Chiunque abbia seguito i recenti eventi sulla stampa estera sa bene che gli Stati Uniti si sono fatti molto male con le loro tattiche da bullo.

Ciò che la gente al di fuori degli Stati Uniti ha visto è stato un pugile invecchiato e indebolito salire sul ring con un giovane e feroce contendente che lo ha messo KO al primo round.

In meno di 6 settimane, Trump ha rimosso la maggior parte dei dazi, lasciandone solo il 30% per salvare la faccia agli occhi dei suoi sostenitori.

 In cambio, non ha ottenuto nulla dalla Cina.

Pechino non ha fatto alcuna concessione, se non quella di consentire a Trump di aumentare i dazi sulle importazioni cinesi dal 20 al 30%, il che significa che i colletti blu, uomini e donne, che sono i più accaniti sostenitori di Trump, pagheranno un ulteriore 10% nei loro grandi magazzini preferiti.

Quindi, mentre Trump promette enormi nuovi tagli fiscali per i super-ricchi, i lavoratori hanno appena visto le loro tasse aumentare di un enorme 10%.

 Ecco altri articoli del “Guardian”:

 

Donald Trump inevitabilmente definirà una vittoria la tregua temporanea di lunedì nella guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, ma i mercati finanziari sembrano averla interpretata per quello che è: una capitolazione...

In altre parole, il presidente ha ceduto.

 Potrebbe essere stato influenzato dalle oscillazioni del mercato, ma sembra più plausibile che i terribili avvertimenti dei rivenditori sugli scaffali vuoti – supportati dai dati che mostrano un crollo delle spedizioni verso i porti statunitensi – possano aver rafforzato la posizione dei moderati commerciali nell'amministrazione.

Di fronte agli avvertimenti di una carenza di giocattoli, Trump ha detto ai giornalisti che i bambini dovrebbero accontentarsi di "due bambole invece di 30 bambole" e potrebbero "costare un paio di dollari in più" del solito.

 Ma è difficile immaginare che anche questo presidente più rialzista possa resistere agli attacchi che gli arriverebbero se iniziassero a essere visto come responsabile della carenza di beni chiave in “stile Covid” nella più grande economia del mondo.

Invece, la Casa Bianca sembra aver optato per una ritirata tattica. I

l conflitto Cina-USA è sempre stato il teatro di scontro più acceso nella guerra commerciale di Trump, con una storia più lunga e un sostegno pubblico più profondo dei suoi attacchi donchisciotteschi a Messico e Canada.

 

Se Trump è davvero pronto a cedere anche con Pechino, ciò invia un segnale che alcuni degli altri aspetti aggressivi della sua politica commerciale potrebbero essere negoziabili.

Trump potrebbe rivendicare la vittoria sui dazi cinesi, ma questo è il Giorno della Capitolazione,” Guardian”.

Per quanto riguarda gli obiettivi dichiarati di Trump (ridurre i deficit commerciali e riportare l'occupazione e l'industria manifatturiera negli Stati Uniti), il presidente ha fallito su entrambi i fronti.

Ma anche per quanto riguarda i suoi obiettivi non dichiarati (indebolire e isolare la Cina) ha fallito.

E il motivo per cui ha fallito è dovuto a tre cose:

La Cina è stata in grado di mantenere i flussi commerciali globali attraverso la diversificazione (ha trovato altri acquirenti per le esportazioni dirette negli Stati Uniti).

La Cina ha risposto rapidamente alla necessità di stimoli fiscali e di interventi governativi (mantenendo i propri obiettivi di crescita).

La Cina è riuscita a infliggere gravi danni agli Stati Uniti bloccandone le esportazioni, lasciando i porti della costa occidentale in profonda difficoltà.

Ciò che la Cina ha ottenuto è quanto di più vicino a una vittoria completa si possa immaginare.

 Ciononostante, i mercati azionari sono saliti alle stelle poco dopo l'annuncio dell'accordo, motivo per cui a nessuno sembra importare dell'imbarazzante errore di Trump.

Una delle stranezze del polverone dei dazi è stato il fatto che la squadra di Trump non ha mai previsto la risposta di ritorsione della Cina.

 In realtà è incredibile.

 L'amministrazione vive in una bolla di informazioni tale che pensava che la Cina avrebbe ceduto dopo il comico annuncio del "Giorno della Liberazione".

A cosa stavano pensando?

Sappiamo cosa pensava il “Segretario al Tesoro Scott Bessent”, perché ha rilasciato diverse dichiarazioni pubbliche secondo cui gli Stati Uniti avevano un vantaggio sulla Cina perché "eravamo il Paese in deficit".

Ecco cosa ha detto in un'intervista alla “CNBC”:

 

"Siamo il Paese in deficit. Ci vendono quasi cinque volte più beni di quanti ne vendiamo noi a loro.

 Quindi, l'onere di eliminare questi dazi ricadrà su di loro. Sono insostenibili per loro".

Ha citato stime secondo cui la Cina potrebbe perdere dai 5 ai 10 milioni di posti di lavoro se i dazi persistessero, evidenziando la vulnerabilità economica della Cina.

Questa è un'idiozia.

Questo è come dire che il mendicante straccione all'angolo della strada è in vantaggio sull'uomo d'affari con milioni in banca.

Gli Stati Uniti hanno un debito di 36 trilioni di dollari, mentre la Cina ha un surplus di 3 trilioni di dollari!

 In che modo "essere al verde" ci dà "il vantaggio"?

Siamo fortunati che la Cina accetta ancora la nostra moneta, eppure il nostro Segretario al Tesoro pensa che essere indigenti ci dia il "sopravvento".

Un uomo come questo non dovrebbe essere Segretario al Tesoro.

Ha dimostrato più volte di non avere la più pallida idea di come funziona l'economia o di quali politiche aiuteranno a far avanzare gli interessi americani.

Ecco “Grok” su “Bessent”:

Le dichiarazioni pubbliche di “Bessent” riflettono un'attenzione strategica rivolta alla posizione di deficit degli Stati Uniti come vantaggio negoziale, supportata dalle vulnerabilità economiche della Cina e dall'eventuale accordo di Ginevra.

Tuttavia, lo spostamento delle esportazioni cinesi verso il Sud-est asiatico, le tattiche di trasbordo e la resilienza economica interna suggeriscono che abbia sottovalutato la capacità di Pechino di resistere ai dazi, limitando il vantaggio degli Stati Unit.

Entrambe le parti hanno dovuto affrontare dei costi, ma l'adattabilità della Cina ha fatto sì che il vantaggio del deficit fosse meno decisivo di quanto sostenuto da “Bessent”.

 (Grok).

Questo è un modo piuttosto prolisso per dire che il Bessent si sbagliava su tutto.

Dovremmo essere tutti grati che Trump abbia rinunciato alla sua "strategia tariffaria" prima che infliggesse danni ancora maggiori all'economia statunitense. Possiamo solo sperare che rifletta su quanto accaduto nelle ultime settimane e riconsideri seriamente le relazioni autolesionistiche di Washington con la Cina.

L'opinione comune tra le élite occidentali, i media e l'intera classe politica è che l'ascesa della Cina rappresenti una grave minaccia alla posizione privilegiata dell'America nell'ordine mondiale.

 È questo presupposto errato che plasma la politica statunitense nei confronti della Cina e ci mette tutti sulla strada di uno scontro militare.

Dobbiamo sradicare questa idea distruttiva alla radice e cercare modi costruttivi per collaborare con la Cina su progetti che contribuiscano a migliorare la sicurezza, aumentare la prosperità e porre fine alla guerra.

 

La Cina non è il nostro nemico e non cerca uno scontro con gli Stati Uniti.

 Ciò che la Cina vuole è ciò che la maggior parte degli americani comuni desidera: pace, sicurezza e "una comunità umana con un futuro condiviso in un mondo aperto, inclusivo, pulito e bello".

 Queste sono le parole del premier cinese “Xi Jinping”.

I suoi sentimenti potrebbero sembrare familiari ai lettori più anziani che potrebbero ricordare le parole altrettanto potenti del presidente “John F. Kennedy”, che disse:

"Perché, in ultima analisi, il nostro legame comune più profondo è che abitiamo tutti questo piccolo pianeta.

Respiriamo tutti la stessa aria. Abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli.

 E siamo tutti mortali."

 

 

La protervia del potere,

il dovere di reagire.

draIlmanifesto.it – (16 novembre 2024) – Alessandra Algostino – ci dice

Violenza istituzionale.

 È reale l’orizzonte fosco, nero, in cui siamo immersi, ma proprio per questo è necessario agire e resistere in direzione contraria:

non c’è un’unica via e non c’è una via già scritta.

Le piazze lo ricordano.

È l’insegnamento della nostra Costituzione, un realismo emancipante: gli ostacoli esistono, rimuoviamoli.

Sembra di vivere in una distopia surreale, ma reale è la criminalizzazione della protesta e reali sono i poteri che «come fortilizi contrapposti» si strappano potere; cito da Mattarella, e chioso: invero, è uno, l’esecutivo, che strappa il potere agli altri e spoglia dei diritti i cittadini.

 

Esponenti del governo di nuovo evocano il clima di odio e di violenza, scenari di altri tempi, per criminalizzare le manifestazioni degli studenti.

 È il diritto di protesta in sé ad essere stigmatizzato e delegittimato, si citano gli slogan come fossero prove di reato.

Una democrazia, scriveva “Passerin d’Entrèves”, è improntata alla “tolleranza del dissenso sino all’estremo limite possibile».

La violenza, certo, non è mai accettabile in una democrazia:

non lo è quando proviene dai manifestanti (ma qui certo non c’è mancanza di reazione, tanto che si ragiona di eccesso punitivo, con utilizzo improprio delle fattispecie penali, abuso di misure cautelari …);

non lo è quando assume la forma di violenza verbale da parte di chi rappresenta le istituzioni o di violenza fisica ingiustificata da parte delle forze di polizia.

 E non lo è quando presenta le vesti di una legislazione violenta, che chiude gli spazi del dissenso e punisce il disagio sociale, come è nel disegno di legge sicurezza in discussione, ultimo tassello di un processo (multi-partisan) di sterilizzazione dello spazio democratico.

E, ancora, non è tollerabile la violenza di un governo che attacca frontalmente la magistratura, o la violenza esercitata contro le persone che migrano, trattate letteralmente come pedine da muovere sullo scacchiere politico.

Oggi a raccontare di uno scontro violento sono anche le parole del presidente Mattarella sugli organi dello Stato che non sono «fortilizi contrapposti per strappare potere l’uno all’altro», ma «elementi della Costituzione chiamati a collaborare, ciascuno con il suo compito e rispettando quello altrui».

 «Fortilizi», «strappare» sono parole forti, che raccontano di una non rituale preoccupazione per la democrazia. In questione è l’equilibrio dei poteri, cardine della democrazia costituzionale, che presuppone il reciproco riconoscimento.

Colpisce la protervia con la quale il governo si scaglia contro la magistratura, attraverso delegittimazione, falsificazione di dati di fatto (l’incontestabilità dell’applicazione delle norme in tema di rapporti tra ordinamento italiano ed europeo) e riforme ad hoc.

Il tutto condito dal vittimismo di un potere che travalica i suoi limiti e pretende di incarnare anche l’oppresso dal potere.

Ad essere travolti sono l’indipendenza della magistratura, il senso proprio della sua soggezione soltanto alla legge, e il parlamento, ancora una volta piegato al compito di dare forma legislativa ai voleri del governo.

Le diverse forme di violenza hanno un comune precipitato nel fotografare in modo nitido la concentrazione del potere, la deriva decisionista e autoritaria, e – il ruolo riconosciuto a Musk è emblematico – il suo legame con gli interessi dell’oligarchia che possiede le leve di un modello economico predatorio, imperniato sulla massimizzazione del profitto di pochi.

Provvedimenti come il disegno di legge sicurezza chiudono il cerchio, blindando il modello, non a caso tenendo insieme la punizione della marginalità sociale e della divergenza politica.

Sembra quasi irreale, tuttavia è reale, giustificato e mistificato da menzogne, ripetute al di là di ogni evidenza, finché (è la «logica dell’insistenza» dei regimi autoritari) divengono la «verità».

La violenza si intreccia con la menzogna, per legittimarsi e delegittimare l’altro, esercitando una ulteriore violenza.

È la costruzione del nemico, da espellere, da eliminare.

È il contrario della democrazia come pluralismo, discussione e conflitto; è il contrario dell’uguaglianza, dell’eguale riconoscimento, che è fondamento della democrazia.

Se guardiamo al presente, con gli occhi di chi (si spera) vivrà il futuro, non vorrei che si dicesse, non avete voluto vedere.

Come scriveva pochi giorni fa “Andrea Fabozzi” su queste pagine: «Meglio accorgersene».

Reale è un governo che pretende di esercitare un potere assoluto, delegittimando le altre istituzioni così come criminalizzando chi critica e contesta;

reali sono le diseguaglianze e la devastazione ambientale causate da poteri economici selvaggi;

reale – grazie a studentesse e studenti che continuano a ricordarlo – è il genocidio in diretta dei palestinesi.

È reale l’orizzonte fosco, nero, in cui siamo immersi, ma proprio per questo è necessario agire e resistere in direzione contraria:

non c’è un’unica via e non c’è una via già scritta.

 Le piazze lo ricordano.

È l’insegnamento della nostra Costituzione, un realismo emancipante: gli ostacoli esistono, rimuoviamoli.

 

 

 

L’alleanza necessaria tra

scienza ed economia.

 Sbilanciamoci.info – (14 Maggio 2025) - Mauro Gallegati, Roberto Danovaro – ci dicono:

 

Gli effetti nefasti del cambiamento climatico sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti e ancora larga parte del settore economico ritiene la salvaguardia dell’ambiente come qualcosa di contrario alla crescita economica.

Eppure, la transizione ecologica non solo è necessaria per tutelare gli ecosistemi, è anche economicamente vantaggiosa.

La prefazione del libro “Rigenerare il pianeta”.

 

È da diversi anni ormai che subiamo gli effetti devastanti del cambiamento climatico e del degrado ambientale sulla nostra vita, sulla società e sullo sviluppo economico.

L’inquinamento e il riscaldamento globale causato dall’uso di combustibili fossili sono fatti incontrovertibili, sotto gli occhi di tutti.

Fino a qualche anno fa erano chiari solo a scienziati e climatologi, ma oggi li viviamo sulla nostra pelle, tra ondate di calore e alluvioni senza precedenti.

 Esiste una letteratura sterminata prodotta da migliaia di ricercatori in tutto il mondo che ne documenta ogni aspetto.

Certo, non mancano gli scettici e i negazionisti, sia sul clima sia sui vaccini, e abbiamo anche creazionisti che non credono all’evoluzione biologica.

 C’è chi giura financo che la Terra sia piatta.

In questo libro, tuttavia, non ci metteremo a ripetere quello che è stato ampiamente spiegato e scientificamente accertato: proveremo ad andare oltre.

 

Qui ci interessa cercare di conciliare ciò che è evidente per gli scienziati dell’ambiente, ma che ancora non lo è per larga parte del settore economico, che ritiene la salvaguardia dell’ambiente come qualcosa di contrario alla crescita economica.

Come molti economisti sanno, il capitalismo è soggetto a tre tipi di problemi,

 “le 3 i del sistema”: Instabilità della produzione, Iniquità della distribuzione di reddito e ricchezza e Inquinamento.

 (Ardeni P.G., Gallegati M., La trappola dell’efficienza. Ripensare il capitalismo per uno sviluppo diverso, Luiss University Press, Roma, 2024).

La transizione ecologica ha effetti diretti sulla terza, cioè sulla natura, ma, rispetto a 40 anni fa, si è capito che la natura comprende in sé la società e questa, a sua volta, l’economia.

Per risolvere le instabilità si deve quindi assumere un approccio olistico e multi-sistemico.

La transizione ecologica è un processo inevitabile, le soluzioni per attuarla sono innumerevoli e alcune sono già in campo.

Sappiamo cosa fare per sanare i problemi ambientali, ma queste scelte definite “ecologiche” sono viste come “costi” da parte della finanza e della teoria economica dominante.

 

Eppure, la transizione ecologica non solo è necessaria per tutelare gli ecosistemi, ma è anche economicamente vantaggiosa.

 Si tratta di un investimento con una resa elevata in termini economici e che ha ripercussioni positive anche sulla nostra salute.

Qui vogliamo allora tracciare una mappa verso tale transizione, una strada che è ormai l’unica percorribile.

 Cominceremo con lo spiegare cosa sia effettivamente la transizione ecologica, spesso confusa con la transizione energetica.

 Cercheremo di chiarire perché sia necessaria e i rischi a cui andiamo incontro se non agiamo:

 dalle migrazioni forzate al sempre maggior impatto del cambiamento climatico, dalle pandemie alla carenza di acqua, di terreni coltivabili, all’ampliamento dei deserti.

In seguito, illustreremo i molteplici vantaggi della realizzazione della transizione ecologica in termini economici e di salute pubblica.

Dopodiché, parleremo dei principali ostacoli (economici, sociali e normativi) che ancora si frappongono alla sua realizzazione.

Prima di chiudere ci soffermeremo sulle buone pratiche della transizione, su quali e quanti siano gli esempi virtuosi e i successi già conseguiti, per poi aprire una finestra sul mondo dopo la transizione, immaginando come potranno essere le cose una volta attuata.

Una prospettiva che possiamo, e dobbiamo, costruire insieme.

 Solo con la transizione ecologica possiamo sperare di uscire da questo reticolo di crisi molteplici e interconnesse in cui ci troviamo avviluppati.

 

Questo libro cerca di far tesoro dei segnali positivi e tracciare la via verso l’unico futuro possibile per l’umanità.

 È un imperativo a cui non possiamo più sottrarci: ne va della nostra sopravvivenza sul pianeta.

La transizione ecologica è lo strumento per riappropriarci di un futuro che ci sta sfuggendo dalle mani, ma che è ancora possibile.

Partecipare alla transizione verso un mondo ecologicamente sostenibile significa mettere in atto cambiamenti profondi, sia sul piano sociale e culturale sia nel nostro vivere quotidiano.

 L’essere umano ha già dimostrato di sapersi adattare a condizioni mutevoli: si pensi solo alla trasformazione avvenuta negli ultimi vent’anni attraverso il digitale, con l’espansione di internet e lo sviluppo di sistemi di comunicazione da remoto.

Ma gli effetti della transizione ecologica saranno ancor più marcati e significativi rispetto a quello che abbiamo visto in passato.

Immaginare questo futuro è possibile perché in larga parte è già una realtà, anche se rimane molto lavoro da fare.

Che volto avrà il mondo dopo la transizione?

 

Sicuramente, la qualità della nostra vita migliorerà in maniera determinante. L’impatto umano sul pianeta sarà azzerato o almeno reso sostenibile, cambieranno i sistemi di produzione dell’energia, le modalità e i sistemi di trasporto, l’agricoltura e l’allevamento, i rapporti con l’ambiente, i sistemi di consumo e le scelte di investimento degli Stati.

Habitat e biodiversità saranno rigenerati e recuperati dal loro stato di degrado, politiche serie di conservazione ne impediranno il danneggiamento.

Il nuovo approccio verso la natura e il pianeta che ci ospita ci permetterà di continuare a usufruire dei servizi ecosistemici essenziali, non più secondo la cieca logica del consumo sfrenato, ma in un circolo virtuoso che avrà anche ripercussioni sanitarie dirette e positive.

 Il PIL smetterà di essere il metro per giudicare il progresso di una nazione, gli individui passeranno da consumatori a cittadini attivi e il futuro finalmente avrà un posto di rilievo nelle scelte del presente.

Si ridurranno le distanze sociali tra le classi più ricche e quelle più povere, che sono aumentate negli ultimi anni (almeno 5 miliardi di persone sono più povere oggi rispetto a prima della pandemia) e anche la disoccupazione calerà.

 In questo senso, la transizione sarà un grande e portentoso strumento di pacificazione sociale, a livello locale e globale.

Poiché ridurrà le disuguaglianze, aiuterà a prevenire malattie, offrirà maggiori opportunità alle popolazioni meno sviluppate e alle comunità indigene.

 

La produzione di energie rinnovabili faciliterà il passaggio da un sistema di produzione energetica dominato da pochi e altamente controllato anche in termini di prezzi del mercato a un sistema dove perfino le piccole realtà isolate potranno essere autosufficienti, con la costituzione di comunità energetiche locali.

Tramite i sistemi a energia solare, abitazioni, complessi residenziali, singole famiglie, condomini e piccole e medie imprese potranno produrre energia a basso costo.

Saranno soprattutto i sistemi geotermici, eolici e solari a espandersi, aiutando a ridurre le emissioni di gas clima-alteranti.

Altri sistemi di produzione di energie rinnovabili come l’idroelettrico saranno invece sempre meno appetibili o entreranno in dismissione, diminuendo l’impatto delle dighe sugli equilibri ecosistemici e il funzionamento di interi territori.

Basati sull’idrogeno o sull’elettrico, i sistemi di trasporto del futuro saranno più efficienti, annullando inoltre le emissioni di polveri inquinanti e i loro effetti nocivi sulla nostra salute.

Lo sviluppo di infrastrutture verdi consentirà una maggiore efficienza energetica complessiva, attraverso sistemi termici basati su soluzioni naturali.

Le conseguenze negative delle cosiddette isole di calore urbano saranno mitigate, migliorando la qualità dell’aria e riducendo i contaminanti, contribuendo a una vita più sana e salubre anche nelle aree urbanizzate.

L’economia “circolare”” ci aiuterà a consumare in maniera più sostenibile, non solo in ambito alimentare, ma anche in alcuni settori con un “ritorno al passato”, cioè imparando di nuovo l’importanza del riutilizzo dei materiali e invertendo la tendenza allo smaltimento istantaneo.

Così diminuiranno naturalmente i rifiuti, le plastiche, le sostanze inquinanti e nocive per gli ambienti.

 Un nuovo modello di produzione contribuirà a stimolare il riciclo, ideando merci che, una volta esaurita la destinazione d’uso iniziale, saranno già progettate per adempiere ad altri compiti.

 

L’agricoltura 4.0 saprà minimizzare gli sprechi idrici, diversificare i prodotti, sviluppare modelli di agro-ecologia e permettere la produzione di cibo di elevata qualità nutrizionale senza l’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti, promuovendo la salute del suolo e tutelando il prezioso humus e le risorse idriche.

Questo è solo uno dei futuri possibili.

Probabilmente non tutto avverrà esattamente così, forse gli sviluppi tecnologici prenderanno una direzione invece che un’altra, ma indubbiamente è un futuro simile a questo, che si faccia carico di società e natura allo stesso tempo, quello di cui abbiamo bisogno.

 L’alternativa, lo abbiamo detto, è impensabile: ne va della sopravvivenza della nostra specie.

Un ripensamento delle attività umane di questa portata e complessità richiede impegno individuale, volontà politica e investimenti.

 I costi della transizione spesso spaventano, ma non si può dimenticare che il suo obiettivo è il benessere collettivo.

 Che le imprese multinazionali siano le principali responsabili dei danni ambientali è ben documentato, eppure il diritto internazionale sembra incapace di imporre a tali società vincoli stringenti per diventare ecologicamente sostenibili.

 La delocalizzazione dei processi produttivi si è tradotta in esternalità negative per gli ecosistemi naturali, tra cui l’inquinamento marino e atmosferico, lo sfruttamento di risorse non rinnovabili, l’inquinamento da petrolio e la deforestazione.

 

Secondo le stime, più della metà delle emissioni di anidride carbonica sono provocate dalle imprese multinazionali, responsabili anche della maggior parte dei rifiuti tossici generati dal settore dell’industria chimica e manifatturiera.

 Per questo è urgente che il quadro giuridico nazionale e internazionale faccia passare un principio sacrosanto: “chi inquina smette di produrre e chi ha già inquinato paga”.

Oltre a questo, la rimodulazione del nostro stile di vita, dei sistemi produttivi e delle scelte di investimento dello Stato richiedono tre elementi fondamentali:

1. un’educazione civica che spinga verso la consapevolezza ambientale, indirizzata agli obiettivi di sviluppo sostenibile che rappresentano la nuova carta dell’umanità, intesa come un programma globale di salvaguardia dei diritti dell’uomo e del pianeta;

2. una cooperazione globale, che abbia come nemico principale la contrapposizione delle culture, il frazionamento della natura, l’aumento del divario sociale. Una cooperazione che significhi anche la fine delle guerre, che distruggono l’ambiente e dirottano i fondi necessari alla transizione verso la produzione di armamenti;

3. il perseguimento di obiettivi di natura etica, di giustizia ambientale, poiché affrontare i problemi legati alla disuguaglianza significa anche affrontare la disuguaglianza ambientale, che contribuisce all’impoverimento e all’emarginazione delle popolazioni più povere del pianeta e delle comunità indigene.

 

L’Antropocene è un’era di indubbio successo economico, un successo che però si è materializzato a discapito della natura.

 Questa prospettiva non è più sostenibile.

 Anche azzerando la produzione di CO2 dovremo rimboccarci le maniche per affrontare enormi crisi ecologiche, dalla perdita della biodiversità alla deforestazione, dall’acidificazione degli oceani alla sovrappopolazione, dalla grave perturbazione del ciclo dell’azoto (e di altri cicli biogeochimici), a molti altri problemi che affrontiamo in questo libro.

La crescita della popolazione e l’idea di sviluppo imposta da un’economia predatoria hanno provocato effetti devastanti sull’integrità della biosfera e minacciano già di portare molte specie verso l’estinzione, incluso l’Homo sapiens. Ci sono vie di fuga meno drastiche rispetto a riprodursi di meno.

Si può produrre in modo compatibile con l’ambiente e con l’umanità, cioè col benessere e non col PIL.

Se non lo facciamo saranno le prossime generazioni a pagare.

Fingiamo che del futuro ci importi qualcosa, ma continuiamo a seguire lo stesso modello di sviluppo che ci sta portando alla catastrofe, senza preoccuparci poi troppo.

Ci comportiamo come Groucho Marx che diceva: “Perché dovrei preoccuparmi per le generazioni future? Cosa hanno fatto loro per me?”.

Prendere davvero consapevolezza che siamo su un cammino pericoloso e che esiste un sentiero più sicuro da seguire è il primo passo fondamentale per riconquistare il futuro.

 

 

 

Dietro la maschera del

negazionismo climatico.

Sbilanciamoci.info - Norma De Marco – (7 Febbraio 2025) – Recensioni – ci dice:

Il negazionismo climatico odierno utilizza una precisa strategia di manipolazione e inquinamento del dibattito pubblico.

 Un volume recentemente pubblicato da “Left Edizioni” esplora questo fronte indagando, insieme alle tecniche utilizzate, gli attori e gli interessi economici e di potere che lo animano.

 

Il sottobosco del negazionismo climatico è un terreno sempre più fitto e stratificato.

Alla sua esplorazione sono dedicate le pagine di un testo agile e istruttivo

, “Contro i mercanti del clima”, di recente pubblicato per “Left edizioni” (dicembre 2024, pp. 108 ) dal giornalista ambientale Giacomo Pellini.

 

Utilizzando come traccia del percorso di indagine una serie di episodi e dichiarazioni di imbarazzante faciloneria e disinformazione da parte di politici, esponenti di governo, giornalisti, Pellini ricostruisce il quadro del negazionismo climatico e smaschera le strategie manipolatorie e gli interessi economici e di potere che alimentano sui media e nel dibattito pubblico la macchina del fango messa in moto quotidianamente per screditare la lotta al “climate change” e, con essa, gli obiettivi di decarbonizzazione ed emissioni zero fissati nel “Green Deal”.

Partiamo da ciò che dovrebbe essere un fatto acquisito.

Il riscaldamento climatico esiste ed è causato dall’uomo:

a certificarlo è, numeri alla mano, il 99,9% della comunità scientifica.

Di fronte al consenso unanime degli scienziati sull’argomento, come può la tesi opposta ottenere credito e farsi largo nell’opinione pubblica?

Innanzitutto instillando dubbi, sostiene Pellini, proprio come facevano negli anni ’70-’80 del secolo scorso le lobby del tabacco americane.

Questi gruppi antesignani del negazionismo odierno legittimavano le proprie posizioni pro-tabacco foraggiando aggressive campagne mediatiche volte a seminare incertezze sulla veridicità degli effetti nocivi – già all’epoca ampiamente comprovati dalla scienza – del fumo sulla salute.

 

In particolare, l’enorme bacino di informazioni ed evidenze disponibili veniva utilizzato per infiltrarvi alcune tesi prive di fondamento scientifico e volte a sminuire la dannosità del tabacco.

 Il dubbio così instillato agisce come una goccia di aceto in un bicchiere d’acqua, che di fatto ne contamina la trasparenza: bastano poche falsità in un mare di evidenze scientifiche per inquinare e distorcere il dibattito.

 

È sempre questa, a quarant’anni di distanza, la strategia adottata da chi contesta oggi l’esistenza del cambiamento climatico e/o la sua origine antropica:

minimizzarne la gravità e mettere in dubbio l’efficacia delle soluzioni proposte dagli esperti.

 Da quest’analogia deriva appunto il titolo del libro: “i mercanti di dubbi” che nell’omonimo libro di Erik Conway e Naomi Oreskes (tradotto in Italia da Edizioni Ambiente) stavano a indicare i gruppi di potere che diffondevano menzogne sui danni del fumo, diventano i mercanti del clima dei nostri giorni.

Proprio riguardo al clima, il vecchio approccio negazionista che rifiutava l’esistenza stessa del “climate change”, è stato via via soppiantato da un nuovo e più subdolo negazionismo, che pur riconoscendone l’esistenza sminuisce la sua gravità o nega la sua origine antropica.

Gli strumenti di cui questo nuovo fronte si avvale non si limitano alla fabbricazione di dubbi, ma comprendono diverse e più sofisticate tecniche passate in rassegna nel libro, come il “cherry picking”, la “falsa scelta”, la criminalizzazione dei movimenti e delle proteste ambientaliste, il greenwashing.

 I negazionisti del nuovo millennio fanno inoltre leva su una tendenza cognitiva largamente diffusa a svalutare le ricompense future rispetto a quelle presenti, anche nel caso in cui le prime siano a tutti gli effetti molto più vantaggiose delle seconde.

 

In quest’ottica, affinché i benefici della transizione ecologica possano essere considerati da tutti e da subito appetibili, si sottolinea nel testo l’importanza di accompagnare le politiche climatiche a misure di redistribuzione della ricchezza, ad esempio «introducendo una carbon tax, una tassa climatica riassumibile con la formula ‘chi inquina paga’, tasse ‘verdi’ su attività o prodotti legati alle emissioni di gas ad effetto serra, e imposte sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie da redistribuire alle fasce più colpite dall’aumento dei costi della decarbonizzazione».

 

L’attuazione delle misure e delle politiche di contrasto al cambiamento climatico viene sistematicamente ostacolata o messa in mora dai negazionisti ricorrendo a una serie di obiezioni che Pellini smonta ricorrendo alle evidenze scientifiche, fornendo dati, percentuali e fonti della letteratura sull’affidabilità delle energie rinnovabili e dei vantaggi dei veicoli elettrici, sulla presunta minaccia al paesaggio degli impianti solari ed eolici, sui benefici per l’economia e il lavoro legati alla transizione ecologica.

 

A proposito dell’Italia, si denuncia «una mancanza di visione strategica che non solo rallenta la transizione ecologica, ma rischia di lasciare il Paese indietro rispetto agli altri in termini di competitività e sostenibilità»:

 un’inerzia che ben rispecchia, del resto, le posizioni di un governo in carica composto per due terzi dai partiti – Fratelli d’Italia e Lega – più scettici sul fronte dell’implementazione delle politiche per il clima e la transizione ecologica.

Così, mentre le inveterate dei negazionisti di casa nostra – inarrestabili anche di fronte alla certificazione da parte della stessa Nasa che l’estate 2023 sia stata la più calda dall’era preindustriale – finiscono per avere nei mezzi di informazione lo stesso peso di quelle di Antonello Pasini, autorevole ricercatore e fisico del clima, gli ecologisti vengono presentati dalla Presidente del Consiglio come fanatici e ideologici, «in contrapposizione a un presunto pragmatismo conservatore […], una scorciatoia semantica molto usata a destra per delegittimare o ridimensionare le istanze ecologiste».

 

Allargando lo sguardo all’Europa e alle recenti elezioni di giugno 2024 per l’europarlamento, Pellini ricostruisce l’avanzata dei partiti di estrema destra, accomunati da posizioni contrarie alla transizione verde legata al Green Deal.

La destra radicale vota quasi sempre a sfavore delle politiche per il clima e l’ambiente: tra i partiti più ostili – secondo il report redatto dalla ong francese Bloom cui si fa riferimento nel testo – vi sono appunto la Lega, la delegazione polacca di Ecr, gli spagnoli di Vox, gli ungheresi di Fidesz.

L’ultima parte di “Contro i mercanti del clima” è dedicata a distinguere le strategie efficaci a livello globale per affrontare i cambiamenti climatici dalle false soluzioni green.

Tra le prime, l’abbandono delle fonti fossili a favore delle rinnovabili, l’efficientamento energetico, lo sviluppo dell’agricoltura biologica, la promozione di un’economia circolare e di una mobilità sostenibile.

 Tra le seconde, il ritorno al nucleare, la cattura e lo stoccaggio di carbonio, l’uso dell’idrogeno blu:

le stesse ricette che vedono il nostro Governo, con Ministero dell’Ambiente e Ministero delle Imprese e del Made in Italy in prima fila, tra i principali sostenitori…

 

 

 

 

Nuovo anti-colonialismo,

altra forma dell'odio di sé.

Lanuovabq.it – Stefano Magni – (27_08_2024) – ci dice:

 

La protesta per la guerra a Gaza si alimenta con l'ideologia dominante nella sinistra: l'anti-colonialismo.

Che non è lotta contro gli imperi (che non ci sono più) ma contro i discendenti dei coloni.

(Editoriali Columbia University occupata-La Presse).

Con la riapertura delle università e dei campus negli Usa è probabile che ricomincino anche le occupazioni e gli accampamenti, contro la guerra a Gaza.

La guerra a Gaza ha già provocato le dimissioni di ben tre presidi delle grandi università:

 Elizabeth Magill della Pennsylvania University, Claudine Gay di Harvard e infine, il 16 agosto, anche Minouche Shafik, della Columbia University, epicentro della protesta pro-Palestina.

La Shafik, in particolare, si è trovata fra due fuochi, con la destra che l’ha accusata di non aver protetto abbastanza gli studenti ebrei e la sinistra che non le perdona la richiesta di intervento delle forze dell’ordine per sgomberare l’occupazione.

 

Come si spiega tanta passione per una guerra così lontana?

Non c’è neppure una frazione di questa mobilitazione per altri conflitti, come quello in Ucraina, dove pure gli Usa sono molto coinvolti.

Nessuno ha mai fatto un’occupazione universitaria per Kiev.

 Ma nemmeno per proteste sulla guerra nel Sudan (attualmente la peggior crisi umanitaria nel mondo) o nel Myanmar (morti nell’ordine delle decine di migliaia), solo per citare due conflitti contemporanei.

 La guerra in Israele interessa più delle altre il movimento studentesco di sinistra, perché riguarda direttamente la loro ideologia dominante: l’anti-colonialismo.

 Ma gli imperi coloniali non erano finiti negli anni Sessanta del secolo scorso?

 Sì, ma questo è un anti-colonialismo che demonizza i discendenti dei coloni.

A seguito delle dimissioni di “Minouche Shafik”, questa ideologia è stata descritta in modo esauriente dallo scrittore “Adam Kirsch” in un editoriale del “Wall Street Journal”.

 «La base ideologica delle proteste anti-israeliane è un insieme più ampio di idee sui ‘coloni’ e il ‘colonialismo’, un concetto accademico influente che considera alcuni paesi come intrinsecamente e permanentemente illegittimi a causa del modo in cui sono stati fondati».

 Israele è nato dall’acquisto/colonizzazione dei territori mediorientali da parte del movimento sionista, nel corso di tutta la prima metà del Novecento.

 Quindi i manifestanti pro-Palestina lo ritengono illegittimo in quanto “corpo estraneo” nel Medio Oriente, frutto di una dominazione straniera.

Non si accontenterebbero di un piano di pace ben riuscito.

Vorrebbero proprio che gli ebrei sloggiassero e tornassero in Europa, da dove sono arrivate le prime tre generazioni di ebrei sionisti.

“Tornate in Polonia”, è uno degli insulti più ricorrenti nelle occupazioni universitarie, rivolto ai contro-manifestanti ebrei e israeliani.

 

Ma questa ideologia non si ferma a Israele, riguarda anche gli stessi Usa:

 «In effetti, negli ultimi anni, teorici e scrittori ispirati dall’idea del colonialismo hanno creato quello che equivale a un nuovo contro-mito della storia americana», scrive Kirsch.

 «Ora per l’ideologia del colonialismo, gli Stati Uniti sono il cardine su cui ruota la storia mondiale.

 La differenza è che, per questa nuova scuola, si è trattato di una svolta verso la dannazione, non verso la redenzione.

 Nelle parole di “Roxanne Dunbar-Ortiz”, una delle principali storiche del colonialismo, "non sarebbe dovuto accadere che le grandi civiltà dell’emisfero occidentale venissero arbitrariamente distrutte, il graduale progresso dell’umanità è stato interrotto e avviato su un percorso di avidità e distruzione".

La frase più frequentemente citata nella letteratura sul colonialismo è quella dello studioso australiano “Patrick Wolfe”:

"L’invasione è una struttura, non un evento".

Wolfe si riferiva specificamente all’insediamento britannico in Australia, ma il principio si applica anche agli Stati Uniti e al Canada, anch’essi creati espropriando le popolazioni che vivevano lì quando arrivarono gli europei».

 

Nel caso americano, gli strumenti per esercitare l’ideologia anti-colonialista sono: dichiararsi “colonizzatori” pubblicamente, seguire fior di manuali per “decolonizzare” « la tua dieta, la tua libreria, il tuo giardino, il tuo consiglio di amministrazione e molto altro ancora», ma soprattutto il riconoscimento che stai occupando una terra non tua, anche ripristinando la toponomastica dei nativi.

 «Questa convinzione nell’illegittimità americana viene spesso invocata oggi riferendosi al Nord America come “Turtle Island,” apparentemente per rivendicare un’identità che esisteva prima di Cristoforo Colombo.

 Il nome trae ispirazione da un mito della creazione irochese, secondo il quale la Terra sarebbe cresciuta dal fango posto sul guscio di una tartaruga».

 

“Adam Kirsch” si sofferma, chiaramente, sul caso americano, ma non spiega come mai l’ideologia delle decolonizzazioni sia nata nel mondo anglosassone e riguardi solamente i popoli ebrei e cristiani.

Non c’è nulla di equivalente, ad esempio, fra gli indio dell’America centrale. Eppure Inca e Aztechi avevano costituito degli imperi, dominando altre popolazioni vicine.

Non c’è nulla di simile nel mondo arabo:

gli arabi, fino al VI Secolo, vivevano solo nella penisola arabica.

Dopo l’VIII Secolo erano in tutto il Medio Oriente e Nord Africa, un territorio immenso in cui l'arabo è tuttora la lingua dominante.

Ma in Marocco, così come in Iraq o nella stessa Palestina (conquistata dagli arabi nel VII Secolo) non si assiste a nessuna protesta anti-colonialista araba.

E lo stesso si può dire per quasi tutti i popoli asiatici, a partire dalla Cina che tuttora sta colonizzando Tibet e Xinjiang.

Per non parlare dei russi che erano limitati alla sola regione della Moscovia fino al XV Secolo ed oggi occupano i due terzi dell’Eurasia.

Ma non c’è alcun movimento anti-colonialista russo, specialmente in questi anni di guerra.

L’anti-colonialismo anglo-sassone è dunque un caso unico.

 Ed è un prodotto esclusivo della cultura di sinistra contemporanea.

E nasce, evidentemente dal suo odio anti-cristiano, che di conseguenza si estende anche a un odio anti-ebraico.

 Solo i colonizzatori cristiani europei, o quelli ebrei del Novecento, sono considerati colpevoli.

Nessun altro.

Si va oltre la sana autocritica: qui si arriva all'odio di sé.

 

 

 

 

La legge del dominio

di Trump.

 Pagina21.eu - Sergio Baraldi – (1° Marzo 2025) – ci dice: 

 

È un segno dei tempi il fatto che, in mondovisione Tv dal palcoscenico della Casa Bianca, sia stato messo in scena il brutale tentativo di affermazione della potenza che vuole determinare il destino delle nazioni.

E vuole farlo senza considerare nulla se non la propria volontà.

 È quello che abbiamo visto con il presidente degli Stati Uniti Trump e il suo vice Vance, che hanno teso un’imboscata televisiva ad un loro alleato, Zelensky, presidente di un Paese che combatte per la propria esistenza.

Per comprendere quello che abbiamo visto non dobbiamo farci distrarre dal linguaggio violento di Trump e del suo vice.

Né dobbiamo prestare attenzione solo alla sceneggiatura dell’incontro, che sembrava organizzato per umiliare un leader che ha il suo popolo bombardato ogni giorno dalla Russia.

Nella stanza ovale della prima superpotenza mondiale, abbiamo visto un mix di politica e di ideologia.

Ma si tratta di politica e ideologia scarnificate, purificate fino alla loro essenza cruda di potenza.

 È un istinto di dominio che pone l’Europa di fronte alla nuova realtà globale che deve affrontare.

 

Legge e legittimità del dominio secondo Trump.

Non si delinea solo una frattura tra Europa e America, divise sulla geopolitica, sul sistema di valori e di idee.

Quello che occorre riconoscere è che con Trump gli alleati di sempre, i paesi europei e l’Ucraina in guerra, sono diventati dei nemici da sottomettere a colpi di dazi e tariffe.

Trump vuole negoziare solo con “Putin” e “Xi Jinping,” due autocrati alla guida delle altre due superpotenze nucleari.

Trump sembra somigliare a loro.

È questa trasformazione dell’America, da potenza amica e fidata a nuovo possibile avversario inaffidabile, che occorre indagare.

 

Dovremmo rammentare la lezione di “Weber” per capire come l’ “America liberale e democratica” rappresenti oggi il fenomeno drammatico della dominazione e della sua legittimità imposta.

 L’America guidata dai repubblicani non è la superpotenza che, senza dimenticare i suoi interessi, ha garantito l’equilibrio globale e comunque ha tutelato le democrazie.

 Trump ha rovesciato la storia della strategia americana per instaurare la logica della forza, in cui contano il suo interesse e i suoi affari.

Il presidente lo ha dichiarato con parole sue al leader ucraino:

 «Tu non sei nella posizione per trattare».

Il che equivale a sostenere che il leader della nazione democratica aggredita, che soffre distruzione e morti, non è legittimato a partecipare al negoziato che riguarda il suo futuro.

Deve solo firmare ciò che il sovrano occidentale gli sottopone: un accordo per lo sfruttamento dei suoi preziosi minerali rari. E deve anche ringraziare, come ha spiegato Vance.

 

Ecco il punto: Zelensky non è legittimato.

 Glielo hanno spiegato con disprezzo, quando lo hanno accusato di avere fatto campagna per i democratici.

 Ma allora nella guerra che colpisce l’Ucraina chi è legittimato?

 Solo Putin e Trump lo sono, i quali stanno apparecchiando la trattativa per spartirsi con la Cina le rispettive zone di influenza globali.

E gli altri? Gli europei? Gli altri sono telespettatori in mondovisione.

Ogni mossa, per quando rude e grossolana, rivela la logica imperiale che ispira Trump come Putin e Xi Jinping.

 Del resto, l’aggressione a Zelensky ha una motivazione profonda per Trump:

ha voluto che il mondo vedesse in diretta che il dominante (il presidente americano) ha la capacità di esercitare la sua autorità sul dominato (il presidente ucraino).

Nella logica di potere tra servo e padrone è così che può confermare la sua legittimazione:

 Trump doveva dimostrare sul palcoscenico televisivo di sapere imporre obbedienza.

 «O firmi o noi siamo fuori» non suona tanto come un ricatto quanto come l’ultimatum del capo che esercita il controllo, che non esita, di fronte alla dignità dell’altro, ad usare la violenza.

 Zelensky deve capire che deve pagare per la protezione americana. È il prezzo dell’imperium, che il mondo occidentale in frantumi deve apprestarsi a versare.

 

Credenza, narrazione, simboli: l’ordine del dominio.

In questo modo sullo schermo televisivo si è manifestato il nuovo ordine simbolico del dominio.

Sembra quasi che Trump abbia messo in pratica l’insegnamento di Weber:

la legittimità è una credenza imposta dai dominanti ai dominati.

 

L’esibizione della forza contro il leader di un paese martoriato rispondeva a questo bisogno:

il potere deve autogiustificarsi nelle società democratiche in cui non c’è più la credenza nella divinità o nella tradizione che pone il leader sul trono repubblicano. Il leader moderno si connette al popolo che l’ha eletto e di cui si proclama l’unico interprete e voce.

Egli si autolegittima in virtù della posizione dominante che occupa, posizione che appunto Zelensky non ha.

Come Napoleone che nella cattedrale prese la corona di imperatore dalle mani del Papa, convocato a forza per la cerimonia di insediamento, e si incoronò da solo.

Possiamo sostenere che l’imboscata televisiva al presidente ucraino sia stata la cerimonia televisiva in cui Trump si è incoronato da solo.

 Ed ha annunciato il nuovo ordine del dominio.

 I simboli sono decisivi in politica e la tv è il luogo in cui mostrarli.

 

Non a caso poi Trump si è dichiarato neutrale tra la Russia e l’Ucraina. Non c’è ragione e torto, non c’è giustizia che distribuisce colpe e meriti. A livello dell’ordine esiste il diritto del leader ad essere obbedito sulla base dei suoi interessi, esiste la sua sovranità.

Per questo Trump ha rilanciato i temi classici di Putin contro Zelensky e ha accusato Biden di «non avere rispettato» il russo.

 Vale a dire: non ha riconosciuto che la logica dello zar è la stessa del pari grado occidentale.

Per Trump l’ex presidente ha sbagliato a non porsi su questo piano, in cui non valgono le regole o lo stato di diritto, ma solo la logica del potere, della spartizione di influenze, della forza.

 

La cerimonia televisiva e la mortificazione di Zelensky hanno il senso di costruire la legittimità di questo dominio. Weber parla della narrazione come di una «leggenda alimentata dai più privilegiati».

Nella società moderna, i potenti devono creare le basi della loro legittimazione. Devono costruire la narrazione di una relazione dall’alto verso il basso, in cui non c’è altra possibilità (il «there is no alternative» di Margareth Thatcher) che piegarsi o rivoltarsi.

Trump così vorrebbe affermare il proprio carisma per guidare un occidente subalterno, ma sacrificabile, in modo da affrontare il negoziato con Putin e Xi Jinping senza condizionamenti.

Il possibile conflitto per la legittimità.

Tuttavia, Trump deve fare i conti con un problema, anch’esso emerso nella trasmissione in mondovisione.

Non è sufficiente che legittimità del dominio sia costruita dal leader, deve essere il risultato di una relazione bidirezionale, in cui i dominati partecipano alla definizione di ciò che è o non è legittimo.

È quello che ha fatto Zelensky: «Non devo chiedere scusa, voglio garanzie».

 

Nel gioco del dominio la fiducia svolge un ruolo determinante.

 

Gli individui come le nazioni oggi non sono attori senza carattere davanti al potere.

Lo stesso potere ha degli obblighi, che derivano dal contratto sociale e dalla tutela dei diritti.

 Il presunto dominato partecipa alla costruzione della legittimità come il dominante.

 E questa partecipazione può diventare una competizione, nella quale la legittimità del sovrano può essere contestata.

 Non dimentichiamo che la legittimità è profondamente legata alla sovranità, che è prerogativa anche degli altri paesi.

Può nascere un conflitto di legittimità e sovranità, di credenze, di narrazioni su cosa sia accettabile e cosa no.

Le prime reazioni dei leader europei e soprattutto dello stesso Zelensky sembrano indicare che si apre una nuova fase: il conflitto potrebbe sorgere.

 La posta in gioco che l’Europa ha davanti sembra questa:

una legittimità posta dal basso (dai cittadini, dalle opinioni pubbliche, dai paesi) può sfidare quella imperiale proveniente dall’alto.

L’America può essere salvata dai suoi cittadini e dall’Europa?

 

 

 

 

Europa, la sfida egemonica

della tecnopolitica.

   Pagina21.eu - Sergio Baraldi - (18 Maggio 2025) – ci dice: 

 

L’Italia di Giorgia Meloni fuori dal gruppo che si candida a diventare l’interlocutore degli Usa e che vede in prima fila Germania, Francia, Inghilterra e Polonia.

La leadership europea deve affrontare la sfida lanciata da Trump per instaurare una nuova egemonia globale.

 Ma per riuscirci dovrebbe essere in grado di contrapporre una concezione dell’ordine globale diversa da quella del presidente americano fondata non sul diritto internazionale, ma sulla politica di potenza che affida la soluzione alla forza (vera o temuta).

Russia e Cina mostrano di riconoscersi in questa logica, ma operano per sostituire il declinante ordine internazionale unipolare, promosso dagli Stati Uniti, con un ordine multipolare che isoli proprio l’America e l’Occidente.

 

L’ascesa del potere transazionale: “geopolitica business oriented”.

Trump ha accentuato la rottura dell’assetto passato, aprendo una nuova fase negli equilibri globali.

 L’obiettivo dichiarato è fermare il declino della supremazia statunitense, ma le incertezze che sta alimentando rischiano di accelerarlo.

 Il presidente americano sembra guidato da una sorta di “principio Palmerston” aggiornato.

 Il premier inglese di fine Ottocento sostenne che l’impero britannico non aveva amici o nemici permanenti, ma solo interessi permanenti.

Trump considera amici e nemici intercambiabili e potrebbe sottoscrivere una simile affermazione.

Con una differenza: neppure gli interessi americani sono permanenti, sono diventati transazionali, se si esclude il primato americano.

 Per Trump tutto può diventare oggetto di trattativa.

La nuova normalità statunitense sovrappone geopolitica e business, come si è visto nel viaggio in Arabia o nell’accordo sulle terre rare ucraine.

 La centralità dell’economia è consolidata dallo spazio riservato agli affari, ai profitti dei grandi gruppi americani, della stessa famiglia presidenziale, che suggellano le intese.

 Di conseguenza lo scenario varia continuamente:

 i valori non obbligano, i trattati non vincolano, le alleanze si fanno e si disfano. Nella geopolitica business-oriented, dominano le convenienze del momento.

 

L’ideologia trumpiana consacra l’ascesa del nuovo potere transazionale.

È stato dismesso il “soft power”, che poggiava sull’influenza e sull’autorità, sostituito dall’”hard power”, il potere coercitivo dello Stato, che viene utilizzato in modo aggressivo sullo scenario globale per concludere transazioni favorevoli.

Ma viene brandito anche   all’interno degli Usa per tenere a freno l’opposizione.

In apparenza questa volontà di rottura degli equilibri e delle regole sembra una continuazione del liberismo degli ultimi decenni.

 Ma rivela anche una discontinuità profonda: la tecnologia, la finanza, l’economia, la deregolamentazione sono associate al rovesciamento delle strategie globaliste degli ultimi decenni.

E in parallelo procede negli Usa la “destrutturazione dello Stato federale”, adottando un approccio autoritario che punta a ridurre il dissenso e a legittimare una gerarchizzazione sociale.

È come se la destra americana abbia deciso di rispondere alla crisi del neoliberismo rilanciando la scommessa di un ultraliberismo dai tratti rivoluzionari, che usa il potere per un mutamento strutturale della società.

 

Le “Big tech” alter ego dello “Stato privatizzato”.

Il capovolgimento della geopolitica si combina con un’alterazione della costruzione democratica.

Lo Stato, inteso come sistema di norme e di limitazione dei poteri, entra in tensione con il capitalismo tecnologico.

E viene destrutturato per rispondere ai nuovi compiti.

La destra americana ipoteca il futuro: l’innovazione tecnologica e soprattutto l’intelligenza artificiale sono celebrate, ma servono a ridimensionare non solo i rapporti di produzione, i diritti, persino la concorrenza, ma la stessa idea di intervento pubblico.

Tutto a favore di una visione oligopolista.

 

“Alexander Karp”, amico di “Peter Thiel”, l’inventore di “PayPal” sostenitore di Trump, e socio nella “impresa Palantir” specializzata nella intelligence militare, ha scritto un libro, “La repubblica tecnologica”, in corso di pubblicazione presso “Silvio Berlusconi editore”, in cui sostiene che l’intelligenza artificiale per eccellere deve essere un’attività totalmente privata.

 Noi possiamo vincere la sfida con la Cina, sostiene “Karp”, ma lo Stato non deve intromettersi, per esempio non deve porre vincoli sulla privacy dei dati, altrimenti non ce la faremo.

Le grandi società digitali, le Big Tech, affermano sé stesse come alter ego delle istituzioni, il “Big State”.

È la filosofia che giustifica la privatizzazione e la frammentazione commerciale dello spazio pubblico e dello Stato.

 

La conseguenza è la corsa allo spazio affidata a Musk, il ridimensionamento del settore statale a opera del Doge (ancora Musk) con tagli a sanità, scuola, servizi sociali, la messa al bando delle regole dell’inclusività.

Lo Stato arretra e delega ai privati con l’obiettivo di aumentare l’efficienza, ridurre i costi, neutralizzare le resistenze di quello che la destra definisce il deep state.

L’intelligenza artificiale, nel disegno di Musk, potrà sostituire molti dipendenti pubblici: la tecnologia come surrogato dell’umano.

Trump così non rappresenta la vittoria di un conservatorismo estremizzato, ma di una destra radicale, drasticamente nuova:

 l’alleanza tra populismo e tecnologia oligopolistica, che genera incertezza e insicurezza.

In questo panorama c’è da porsi la domanda non solo sulla parabola della democrazia, ma sulla metamorfosi del capitalismo.

 

La tecnopolitica: il movimento che vuol farsi ordine.

Questo quadro conferma la perdita di centralità dell’Europa.

 Ma il continente non è più neppure una priorità.

Oggi Washington vede l’Europa come un concorrente commerciale infido, un normatore dannoso per le Big Tech, un teatro geopolitico di secondaria importanza.

 La sfida si è spostata nel Pacifico, l’avversario è la Cina.

Si tratta di una tendenza strategica non nuova: già Obama e Biden avevano focalizzato l’obiettivo strategico in Asia.

Con Trump la svolta ha accelerato.

 Si è radicalizzata, ha ridimensionato la diplomazia,

 ha dimenticato la responsabilità verso il pubblico.

Sono misurati solo i vantaggi materiali.

In un mondo in competizione crescente, la guerra in Ucraina sembra distrarre dall’obiettivo di stipulare nuovi accordi di spartizione d’influenza tra «coloro che hanno le carte», vale a dire le tre superpotenze.

 È in questo passaggio che si conferma la logica imperiale che ispira Trump. L’America è pronta a difendere il proprio primato anche a costo di indebolire l’alleanza transatlantica.

La guerra commerciale, la competizione tecnologica, rappresentano il terreno in cui lo scontro egemonico viene giocato tra strappi e negoziati.

 Uno scontro che implica un ridisegno della globalizzazione.

 

L’Europa osserva da spettatrice il conflitto tra il movimento guidato da Trump e l’ordine politico del passato.

Per ora Bruxelles non riesce a contrastare la forza espansiva del movimento americano, che punta a costruire una visione del mondo che vincoli gli altri, l’Europa, alla propria logica.

 L’intreccio tra potere, Stato, tecnologia digitale, finanza e affari rivela la natura egemonica della tecnopolitica.

Forse dobbiamo considerare la tecnopolitica come un nascente sistema ibrido, che racchiude un’ideologia che esprime volontà di potenza e di controllo.

 Il suo requisito sembra essere il senso di onnipotenza, di illimitatezza che segna la rottura con il liberismo.

Per meglio comprendere la spinta egemonica della tecnopolitica non possiamo adottare un solo punto di vista, ma occorre ampliare l’osservazione.

“Emmanuel Todd”, nel libro “La sconfitta dell’Occidente “spiega che al fondo della crisi c’è la scomparsa del substrato protestante, che aveva dato impulso alla forza economica occidentale.

La sua decadenza genera un nichilismo distruttivo, una «deificazione del vuoto», dice “Todd”, dominato da due tendenze istintive:

la distruzione di cose e persone e la distruzione della nozione di verità.

 È chiaro che solo un’Europa più integrata, unita, potrebbe controbilanciare questa forza espansiva.

Come spiega il professore “Gary Gerstle” nel suo libro “Ascesa e declino dell’ordine neoliberale”, l’attributo decisivo di un ordine politico «è la capacità del partito ideologicamente dominante di piegare alla propria volontà il partito di opposizione».

 

La forza egemonica della destra trumpiana vuole che questo movimento si faccia ordine.

E trova nella narrazione del presidente, nella durezza del suo linguaggio populista, un elemento determinante per farsi portatore di una visione complessiva del mondo e della società.

 La retorica con cui Trump ha giustificato la politica dei dazi ci offre un esempio del suo racconto:

 i dazi sono lo strumento con cui gli Stati Uniti ottengono la rivincita rispetto al mondo e all’Europa, che hanno prosperato alle spalle degli americani.

È venuto il momento di fare pagare agli altri Paesi il conto per la difesa che gli Usa hanno assicurato, per le imprese americane che si sono delocalizzate, per l’accesso al mercato dei consumatori più ricco del pianeta.

 Si tratta di una visione distorta, ma parla all’elettorato Maga.

È indirizzata a mantenere la presa sull’immaginario di ampi strati sociali che lo hanno votato, a orientare la parte conservatrice dell’opinione pubblica occidentale.

È la legge del dominio che si dispiega.

 

Il dubbio che in realtà questa strategia possa accelerare il declino americano, è messo a tacere.

 Trump stipula accordi miliardari con gli arabi, ma è un problema l’indebolimento del «privilegio esorbitante» del dollaro.

Il privilegio, spiegano gli economisti, deriva dalla funzione di riserva globale del dollaro, che consente agli Usa di emettere titoli di debito pubblico senza dovere offrire un rendimento particolarmente alto, neppure in periodi di crisi.

Le decisioni di Trump ora hanno incrinato la fiducia nel dollaro, si è innescato un parziale disimpegno dai titoli americani con una transizione di parte del risparmio globale verso l’Europa e la sua moneta.

Il fabbisogno globale di dollari potrebbe ridursi, attuando quella de-dollarizzazione dell’economia mondiale alla quale lavora a Cina.

La politica dei dazi con il suo potenziale effetto inflattivo rappresenta un altro rischio.

 E il Congresso si appresta a varare nuovi tagli delle tasse a favore delle imprese e dei più ricchi, che potrebbero portare il rapporto debito/Pil al 200%, creando uno squilibrio delicato per gli Usa.

Moody’s, infatti, ha abbassato il rating degli Stati Uniti da tripla A in Aa1.

 

Tecnologia e finanza al centro dei rapporti di forza.

L’Europa è in attesa, ma dovrebbe agire:

migliorare la propria competitività, costruire un mercato unico senza barriere interne, rafforzare la propria presenza autonoma in mercati come l’India, l’Africa, la Cina, rafforzare il dispositivo di difesa.

L’Europa però è divisa.

 

La Commissione non supera la logica intergovernativa, il freno sovranista pesa.

C’è una pluralità di voci, non è stato elaborato un chiaro posizionamento geopolitico capace di contrastare l’ordine trumpiano.

Né l’Europa sembra in grado di ricorrere a una narrazione convincente rispetto alle opinioni pubbliche globali.

Per questo il cancelliere Merz e il presidente francese Macron hanno rilanciato l’asse Berlino-Parigi, allargato alla Varsavia di Tusk e aperto alla Londra di Starmer.

 L’Italia della Meloni, con la sua ambiguità verso Trump, rimane fuori dal gruppo che si candida a diventare l’interlocutore degli Usa.

Le ambizioni della Meloni sono state ridimensionate dall’arrivo di Merz e dal suo nuovo asse con Macron, che ha rimesso al centro delle strategie non solo la Germania ma il Partito popolare europeo.

Il cancelliere ha teorizzato una piena autonomia da Mosca (un’inversione rispetto al passato), ma anche un’inedita indipendenza da Washington, che può aprire uno spazio e restituire vigore al progetto europeo.

L’Italia rischia di rimanere ai margini di questo processo.

 

Il successo di un ordine politico, spiega il professore “Gerstle”, non dipende tanto da una vittoria elettorale, ma dalla capacità di plasmare ciò che governanti ed eletti «da una parte e dall’altra della barricata considerano politicamente possibile e desiderabile».

La posta in gioco è attrarre gli altri attori all’interno della propria logica.

Merz, Macron, Tusk ci stanno provando, mettendo a segno qualche punto. La Meloni sembra perdere questo round.

 Trump, nonostante errori e giravolte, riesce a imporre la propria agenda e la propria leadership.

Ma fino a quando?

L’Europa deve trovare la capacità di disegnare un ordine post-americano.

Secondo il professore “Dani Rodrik”, nel libro “La globalizzazione intelligente” c’è un «trilemma» della globalizzazione, secondo il quale è a rischio la coesistenza tra globalizzazione, stato nazionale, democrazia.

Bisogna ridurre, ma non annullare, l’iper-globalizzazione che viviamo.

L’Europa può avere un ruolo in questo gioco, ma deve porsi il problema del come farlo.

 Può dirottare le risorse e ridimensionare il suo modello sociale, come è emerso nel dibattito sulla sicurezza e il riarmo, oppure può trovare una via innovativa in cui la difesa e altri progetti non assorbano lo stato sociale, che anzi andrebbe irrobustito.

Tecnologia e finanza sono al centro dei rapporti di forza e possono polarizzare non solo la società, ma le percezioni degli individui, frammentando la realtà.

Se prevalesse questa via, Trump e la tecnopolitica avrebbero vinto la partita dell’egemonia.

 

 

 

 

Fondamentalismo e

terrorismo islamico.

It.gariwo.net – Redazione – (20-05-2025) – ci dice:

 

Il terrorismo islamico è un fenomeno criminale che, negli ultimi anni, ha intensificato la sua attività portando a termine degli attacchi molto cruenti e di grande impatto mediatico.

 Esso ha quasi un secolo di vita – il primo movimento che ha teorizzato l’uso della violenza per ripristinare lo stile di vita fondamentalista e ortodosso dei primi credenti islamici, infatti, è stato quello dei Fratelli Musulmani fondato nel 1928 in Egitto.

Successivamente, esso si è fortemente “legato” a lotte di liberazione come le rivendicazioni territoriali palestinesi e la Rivoluzione iraniana, ma è stato a seguito della guerra russo-afghana che ha acquisito una veste globale e avversa all’Occidente.

Al-Qaeda e l’ISIS, le ultime organizzazioni terroristiche che si dichiarano di matrice islamica in ordine di tempo, con i loro sanguinosi attacchi, hanno reso manifesti al mondo gli obiettivi antimoderni del fondamentalismo e, soprattutto, i mezzi crudeli e sanguinari per conseguirli.

I loro attacchi hanno colpito e continuano a colpire le zone di guerra in Medio Oriente e in Africa, ma anche le metropoli occidentali, seminando distruzione e morte.

 

L’ideologia dello Stato Islamico: tra wahhabismo e salafismo.

Isis, le origini del Califfato.

Nel giugno 2014 l’ISIS proclamò la restaurazione del Califfato islamico, incuneato fra Iraq e Siria.

Si tratta dell’atto conclusivo di un processo iniziato con la ribellione al governo iracheno di una parte dei gradi superiori dell’esercito a seguito dell’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti.

La crisi politica e morale delle vecchie classi dirigenti in Iraq e Siria produsse un fenomeno di radicalizzazione dei ceti sociali che si sentivano estromessi dal potere. Gruppi sempre più numerosi si avvicinarono e alla fine abbracciarono ideologie religiose di stampo integralista e fondamentalista, quali il salafismo, il wahhabismo, il jihadismo e il panislamismo.

Nel 2013 lo Stato Islamico dell'Iraq proclamò unilateralmente la propria unificazione con la branca siriana di Al-Qaeda, che aveva conquistato una parte del territorio siriano nell'ambito della guerra civile contro il governo di Bashar al-Asad.

In seguito a questo annuncio il gruppo, scelta come propria capitale la città siriana di Raqqa, cambiò nome in “Stato Islamico dell'Iraq e della Siria” (ISIS).

 

L’Islam distorto dall’ideologia.

L’ideologia dell’autoproclamato Stato islamico si riconduce essenzialmente alle dottrine del salafismo, del wahhabismo e del panislamismo.

Definito nelle maniere più diverse - "ortodosso", "ultraconservatore", "austero" - il wahhabismo costituisce una forma estremamente rigida di Islam sunnita, che insiste su un'interpretazione letterale del Corano.

I wahhabiti credono che tutti coloro che non praticano l'Islam secondo le modalità da essi indicate siano pagani e nemici dell'Islam.

 I suoi critici affermano però che la rigidità wahhabita ha portato a un'interpretazione rigorista dell'Islam, ricordando come dalla loro linea di pensiero siano scaturiti personaggi come Osama bin Laden e i talebani.

 

Il salafismo è una corrente di pensiero che risale al medioevo con caratteri di apertura e riformismo.

 I primi segnali evidenti e ufficiali del mutamento ideologico e strategico del salafismo, da movimento "riformista" e tollerante a movimento "fondamentalista" e marcatamente ostile alla modernità, si possono forse riscontrare in Tunisia, verso gli anni Trenta del XX secolo.

 

La battaglia culturale contro il fondamentalismo.

Fu in quel contesto che il salafismo venne permeato da uno spirito wahhabita che, facendo piazza pulita del millenario retaggio culturale islamico, mise l’accento contro i “vizi” importati dall’Occidente e sulla necessità di decretare l’ostracismo contro le missioni cristiane e le loro attività di proselitismo.

In Egitto, la trasformazione del salafismo avvenne nello stesso periodo, con l'avvento della cosiddetta “Neo-Salafiyya”.

Nascono infatti diverse organizzazioni, fra cui la “Fratellanza Musulmana”, che non si rivolgono più a minoranze colte e "illuminate" (in qualche modo sensibili alla cultura occidentale) ma alle masse più incolte, impegnandosi in una profonda e capillare opera di "richiamo" all'Islam, cioè di riavvicinamento alla fede e alle pratiche canoniche dell'Islam, inteso in senso anti-intellettualistico e conservatore; una visione praticamente opposta a quella del movimento delle origini.

I “Foreign Fighters”.

Quando si parla di ISIS e Stato Islamico non si può fare a meno di nominare i Foreign Fighters, letteralmente "combattenti stranieri”: sono coloro che, pur non appartenendo geograficamente ai Paesi nei quali è nato il Califfato, decidono di affiliarsi allo Stato Islamico abbracciandone ideologie e metodi di combattimento a promessa di una vita migliore in uno Stato che garantisce giustizia sociale e benessere.

 

Come nasce un jihadista.

È molto difficile fare un ritratto univoco delle persone che decidono di affiliarsi allo Stato Islamico, tanto è varia la loro provenienza:

i Foreign Fighters provengono sia dagli strati più bassi della società che da famiglie benestanti, i loro livelli di istruzione sono diversi e l'arruolamento avviene sia tra musulmani (di prima, seconda o terza generazione che vivono in Occidente) che tra i cosiddetti "convertiti dell'ultimo minuto".

Ma cosa accomuna tutte queste persone?

Perché decidono di arruolarsi per combattere una guerra che non è la loro? Probabilmente trovano nell'ISIS un'ideologia forte, un motivo per cui combattere, nonché la prospettiva di una nuova vita in cui possano affermarsi anche dal punto di vista personale.

Essi si identificano con la “Jihad”, spesso per dare un senso alla propria esistenza: dall'Europa (e non solo) partono per l'addestramento in Medio Oriente per poi far ritorno e, spesso, colpire il mondo dal quale provengono.

Il “Jihad”, quindi, diventa per i “Foreign Fighters” una ragione di vita, tanto da portare ad un’identificazione in principi per i quali si è disposti a sacrificare la propria vita.

 

Foreign Fighters, responsabilità europea.

Attualmente risulta molto difficile controllare il fenomeno, soprattutto perché l'opera di proselitismo non avviene solo nei luoghi fisici. La propaganda si fa anche e soprattutto sul web, e in modo costante.

 Stando alle ultime stime, si pensa che i Foreign Fighters siano circa 20000 e di provenienza molto varia.

 I luoghi di provenienza sono non solo Nordafrica e Medio Oriente, ma anche Europa e Russia.

La fine dell’utopia jihadista dell’ISIS, dopo la caduta di Raqqa, Mosul e Deir el-Zor, ha comportato tuttavia un’altra insidia, molto pericolosa per l’Europa: quella dei Foreign Fighters di ritorno.

Molti sono stati incarcerati e finiti sotto processo, mentre altri sono stati inseriti in programmi di riabilitazione e reinserimento.

 

Il nuovo jihadismo europeo.

Il “Soufan Center” ha individuato almeno cinque diverse categorie di” returnees”: quelli che sono rientrati presto o dopo una breve permanenza, prima che iniziasse a perdere terreno;

quelli rientrati dopo, ma disillusi a causa dei comportamenti sempre più brutali; quelli che hanno utilizzato le tattiche ISIS per intraprendere nuove battaglie;

quelli costretti a lasciare il Califfato o catturati;

quelli spediti a combattere in altri scenari, come ad esempio le cellule create per compiere attacchi fuori dai confini (Parigi o Bruxelles).

Solo pochi di loro farebbero però parte di cellule attive.

 

 

 

 

Il nuovo Leviatano. Le sfide

politiche della crisi climatica.

Ilbolive.unipd.it - Sofia Belardinelli – (19 – 04- 2020) – ci dice:

 

 Viviamo nell’Antropocene, l’epoca umana. La presenza e l’attività dell’uomo sono divenute, nei secoli, sempre più pervasive, al punto da assumere un ruolo assolutamente primario nel modellare la natura e da trasformarlo, poco a poco, in una vera forza geologica.

 

La crisi climatica è l’involontario prodotto di questa prolungata ed incauta attività di costruzione di nicchia, il frutto accidentale della nostra corsa verso il benessere. Oggi, questo evento imprevisto da noi stessi generato domina la nostra comune esistenza, permeando la realtà e minacciandoci da ogni parte.

Ignorare questo stato di cose, decidere di non agire, non è (più) un’alternativa possibile:

 la questione climatica non riguarda soltanto l’ambiente – non esiste in una sfera lontana dal nostro presente –, ma ogni dimensione della nostra vita.

Bisogna, pertanto, che impariamo a concepirla come una questione innanzitutto politica.

 

Proprio questo – la natura politica del riscaldamento globale – è il punto da cui si dipana la riflessione sviluppata nel volume “Il nuovo Leviatano. Una filosofia politica del cambiamento climatico”, scritto da due docenti universitari statunitensi, “Geoff Mann” e “Joel Wainwright,” e pubblicato di recente da Treccani (2019, pp. 350).

I due autori si propongono di dare risposta ad un quesito centrale, che si fa di giorno in giorno più pressante:

l’attuale ordinamento politico ed economico – lo Stato-nazione capitalistico – sarà in grado di affrontare una sfida di proporzioni globali come la catastrofe climatica?

 

Sulla scorta di un nutrito armamentario filosofico – che si muove agilmente tra Hobbes, Marx, Gramsci, Foucault, e che s’inserisce nella scia della riflessione filosofico-politica di sinistra –, si riflette su alcune traiettorie che, in futuro, ci si potrebbero prospettare.

L’alternativa più plausibile è che presto, con l’aumentare dell’insicurezza e del conseguente bisogno di protezione di fronte ad una crisi che sarà al tempo stesso ambientale, sociale, economica, si instauri una sorta di “sovranità planetaria” non democratica, la quale otterrà legittimazione e consenso proprio in nome della sicurezza e della salvaguardia della vita sulla terra.

 

Si profila cioè il “Leviatano climatico”, una formazione sociale basata sul modello capitalistico e imperniata sulla sovranità, che tenterà di preservare il più possibile l’attuale paradigma della crescita cercando all’interno di esso una soluzione alla crisi imminente.

Il realizzarsi di un tale metodo di governo, ci avvertono gli autori, è al momento molto verosimile.

 Infatti, anche chi è consapevole del fatto che i problemi ambientali sono il prodotto intrinseco del capitalismo, e non una mera “esternalità”, e che l’attuale sistema di produzione e consumo andrebbe abbandonato – o, quanto meno, radicalmente modificato – sono privi della speranza in un cambiamento sostanziale, e credono che un reindirizzamento del capitalismo verso una “svolta verde” sia, in effetti, l’unica soluzione praticabile.

 

Per il Leviatano climatico, il capitalismo non costituisce un problema: esso, piuttosto, è considerato parte della soluzione.

 Ma ciò di cui non si tiene conto è il limite intrinseco del capitalismo, ciò che costituisce la sua debolezza e che potrebbe perfino portarlo al collasso: si tratta del meccanismo perverso che lo anima.

Il suo dinamismo, infatti, si spiega con una costante necessità di circolazione e accumulo del capitale; il circolo di produzione e consumo che da questo movimento prende avvio si autoalimenta, generando così una ininterrotta espansione del mercato e un continuo bisogno di risorse.

 Il fondo a cui attingere è, chiaramente, la natura, che viene considerata alla stregua di un pozzo senza fondo da sfruttare fino all’ultima goccia.

Il capitalismo, inoltre, è un sistema intrinsecamente basato sulla disuguaglianza:

 e proprio quest’ultima esso perpetua, nella forma non solo di uno squilibrio tra uomo e natura, ma anche di iniquità tra uomo e uomo.

Il capitalismo incoraggia la disparità tra ricchi e poveri;

dà molto ai primi e poco ai molti, e l’organizzazione sociale che ne deriva costituisce un ulteriore ostacolo alla conversione dell’economia e della politica verso forme più sostenibili.

Se ad un primo sguardo tale analisi potrebbe sembrare astratta, lontana dal reale, essa si rivela in realtà estremamente attuale:

il Leviatano climatico, in un certo senso, è già tra noi.

Già esiste, infatti, un organo che cerca di imporsi – almeno per quanto riguarda la gestione del riscaldamento globale – come autorità planetaria:

si tratta delle annuali “COP” (Conferences of Parties) patrocinate dall’”ONU”, durante le quali un piccolo numero di Stati effettivamente potenti cerca di imporre ai più deboli una linea d’azione da seguire, nel rispetto dei princìpi della sovranità e dell’economia liberista.

Finora, i provvedimenti adottati si sono mostrati largamente inefficaci:

a livello globale, infatti, si è deciso di non mettere in discussione l’imperativo del libero mercato, e di lasciarlo agire senza alcun vincolo nella speranza che esso, con la sua promessa di “auto-regolazione”, corregga quel “fallimento di mercato” che è la crisi climatica.

 

Insomma, si è scelto di preferire la mitigazione all’adattamento, nella convinzione che qualche piccola correzione nell’ingranaggio ci avrebbe protetto da qualsiasi sconvolgimento, da qualsiasi rinuncia significativa al nostro confortevole tenore di vita.

Ma dobbiamo ora renderci conto del fatto che mitigazione e adattamento non sono due soluzioni alternative:

 l’adattamento non è un’opzione di serie B, da adottare nel caso in cui la prima non dovesse riuscire. Le due strategie devono andare di pari passo.

Quali vite pagheranno il costo dell’adattamento a un pianeta surriscaldato?

G. Mann, J. Wainwright.

E, soprattutto, il primo adattamento da mettere in pratica è un adattamento del politico:

bisogna pretendere che la questione della giustizia climatica – “quali vite pagheranno il costo dell’adattamento a un pianeta surriscaldato?” – assuma una posizione primaria nell’affrontare la crisi climatica globale.

Non possiamo sperare di superare questo momento senza prima mettere in atto una vera e propria rivoluzione culturale, che ci consenta di superare la logica della dominazione, così radicata nell’antropocentrismo tipico del pensiero occidentale.

 

È evidente come ad un problema di così vasta portata non sia possibile rispondere senza un’autentica e concertata cooperazione internazionale:

 lo Stato-nazione è, perciò, completamente inadeguato per questo compito.

Le rimanenti possibilità, allora, sono solo due:

o una sovranità planetaria di stampo dittatoriale, non democratica, che garantisca la sicurezza a discapito della libertà, o un paradigma politico radicalmente nuovo, che gli autori definiscono – velandolo di un alone di mistero – “X climatica”.

(Joel Wainwright discute della "X climatica" nel corso di una trasmissione radiofonica)

 

Tale approdo non si configura – come sottolineano gli stessi autori – come una proposta politica strutturata: è, piuttosto, l’apertura di un varco di possibilità inedite.

La crisi climatica non è un problema solamente ambientale: è una crisi dell’immaginazione, una crisi dell’ideologia;

 è “il risultato di un’incapacità nel concepire alternative all’utilizzo di muri, armi e finanza come strumenti per affrontare i problemi che incombono all’orizzonte”.

A tutto ciò bisogna contrapporre un contesto ideologico alternativo, basato sull’uguaglianza, sulla solidarietà, sulla capacità di riconoscere la dignità dell’Altro, del radicalmente altro da sé.

Capitalismo e Stato-nazione, liberismo e sovranità, non sono le sole scelte a disposizione.

Viviamo in un momento di confine.

Ci troviamo ad affrontare un grosso rischio, è certo;

ma in esso si cela anche un’opportunità.

Se saremo capaci di immaginare traiettorie alternative rispetto ai percorsi già tracciati, forse si apriranno, davanti a noi, nuove possibilità d’azione.

 

 

 

 

Siria, l’ambiente come vittima

e strumento di guerra.

Ilbolive.junipd.it - Sara Segantini – (16 -5 -2025) – ci dice:

 

 “Il popolo siriano continua a soffrire l’assenza dei propri diritti dopo anni di repressione e isolamento forzato dal mondo. La comunità internazionale ha il potere di contribuire alla giustizia.”

(— Shilan Sheikh Musa, giornalista curdo-siriana da Qamishlo)

 

Figure chinate sulla sabbia, a difendere ciò che resta di una terra ormai deserto.

 Il fuoco brucia, carico dell’odio - volti nascosti che seminano rabbia, trasformando il granaio di Siria in un oceano di cenere.

Prima della guerra civile, nel Nord-est si producevano cereali per l’intero Paese; in poco più di dieci anni la produzione è dimezzata, andando a concorrere in maniera sostanziale alla grave crisi umanitaria che secondo le Nazioni Unite sta ormai colpendo più del 75% della popolazione.

Il nord-est della Siria, massacrato da 14 anni di guerra, è anche uno dei territori più colpiti dalla crisi climatica e sta affrontando disastri ambientali sempre più frequenti e intensi, tra cui ondate di calore, incendi boschivi, siccità prolungate e tempeste di sabbia.

La combinazione di strategie belliche che prendono di mira le infrastrutture idriche e le risorse ambientali e alimentari come arma di conflitto, l’esacerbarsi degli eventi estremi e pratiche agricole e industriali insostenibili hanno devastato il Paese, facendone un esempio emblematico di come l’ambiente possa diventare sia vittima che strumento di guerra.

 

Chi paga il prezzo maggiore.

A pagare il prezzo maggiore, come spesso accade, sono le fasce vulnerabili della popolazione.

Mentre sempre più persone cadono in povertà estrema e l’ecocidio, pur non essendo ancora formalmente riconosciuto come crimine perseguibile dalla “Corte Penale Internazionale”, diventa un devastante dato di realtà, la Siria resta prigioniera di un sistema politico e militare che nega giustizia e diritti a milioni di cittadine e cittadini.

Il futuro?

Un’ombra che pende come una spada di Damocle su una terra piegata e senza energie per reagire a ulteriori repressioni.

 Eppure, proprio nella violenza è cresciuta la consapevolezza del rapporto che c’è tra questioni sociali e questioni ambientali e la voce delle donne ha iniziato a levarsi con forza per difendere i propri diritti e quelli della Terra.

 “Le donne hanno avuto un ruolo centrale nella rivoluzione siriana fin dal suo inizio, partecipando alle manifestazioni, documentando le violazioni e offrendo aiuti umanitari e sanitari”, racconta “Shilan Sheikh Musa”, giornalista curda di “Qamishlo”, che da anni documenta le trasformazioni sociali e ambientali della regione scrivendo per numerose testate nazionali e internazionali.

 “Le donne siriane, così come le fasce deboli e le minoranze, hanno subito gravi pressioni e sofferenze, affrontando detenzioni arbitrarie, violazioni dei diritti su larga scala, violenze sessuali e diverse forme di ricatto.

Ma nonostante i tentativi di silenziarle, continuano la loro lotta per la giustizia e la libertà, sia dentro che fuori dal Paese.

 Rivendicano uguaglianza, giustizia legale, empowerment politico ed economico e una presenza concreta nei processi decisionali”.

 

Una resistenza silenziosa.

Custodi della Terra, protagoniste di una resistenza silenziosa che rappresenta un modo diverso di stare al mondo, le donne curde in Siria sono state protagoniste della resistenza politica contro l’autoritarismo e la repressione, diventando simbolo di coraggio e determinazione.

 Oltre all’impegno militare, hanno promosso un modello di società basato su parità di genere, ecologia sociale e democrazia diretta, come nel progetto del “Confederalismo Democratico in Rojava”, proprio nel Nord-est della Siria, dove l’”Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est “(DAANES) si ispira al pensiero di “Abdullah Öcalan,” fondatore e leader storico del “Partito dei Lavoratori del Kurdistan” (PKK) e imprigionato da più di 25 anni nell’isola-carcere di “Imrali”, nel Mar di Marmara.

In un’area segnata da guerre, patriarcato e repressioni, le donne curde hanno ridefinito radicalmente il ruolo femminile nei processi di liberazione, dando vita a una delle esperienze più significative di femminismo militante e rivoluzionario del nuovo millennio.

Ciononostante, “Sheikh Musa guarda all’attualità con disincantato scetticismo: “Non sono ottimista, la Siria non sta vivendo una fase di transizione basata sulla giustizia.

Le restrizioni alla partecipazione politica persistono e non c’è un reale passaggio a un governo inclusivo.

Finché le istituzioni non agiranno in maniera trasparente, garantendo la presenza attiva di tutte le componenti del popolo siriano al processo politico, comprese minoranze, donne e giovani;

finché non ci sarà il pieno rispetto dello stato di diritto, non ci potrà essere una fine delle violenze e un fiorire della democrazia”.

Nonostante la gioia per la caduta del regime, è ormai evidente che la Siria stia continuando a pagare il prezzo di anni di malgoverno:

 “Il mio Paese è stato vittima di logiche clientelari, familiari e settarie, di una classe politica basata sulla corruzione e sul nepotismo:

tutto ciò ha fatto sì che ricchezza e potere restassero nelle mani di un’élite fossilizzata sui propri privilegi.

 La distribuzione delle risorse era fortemente iniqua, la mia terra devastata dai conflitti armati e dalla repressione violenta di qualsiasi movimento civile pacifico che chiedesse riforme, o il semplice miglioramento delle condizioni sociali, politiche ed economiche.

Prima dello scoppio della rivoluzione del 2011, la Siria era governata da un regime monopartitico che si reggeva su un controllo autoritario e brutale da parte degli apparati di sicurezza.

 Il partito “Baath”, guidato dalla famiglia “Assad”, dominava la vita politica ed economica, annientando ogni forma di opposizione.

 A partire dal 2011, la repressione delle proteste popolari ha innescato una lunga e sanguinosa guerra civile, che ha coinvolto una molteplicità di attori interni e potenze straniere, causando centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e la frammentazione del territorio siriano.

Nonostante il sostegno di Russia e Iran, il regime è infine crollato nel 2024, quando “Bashar al-Assad è fuggito all’estero”. Il nuovo potere però, sotto la guida di “Ahmad al-Sharaa”, non solo risente delle conseguenze di queste dinamiche, ma continua ad alimentarle, aggravandone gli effetti.

Io non vedo un reale cambio di rotta” - conclude “Sheikh Musa”.

 

I danni ambientali di un conflitto.

Non c’è inoltre un vero piano di azione per affrontare i danni ambientali causati da decenni di conflitto.

La distruzione di infrastrutture industriali e petrolifere ha rilasciato sostanze tossiche che permangono nell'aria, nel suolo e nelle acque.

L’uso di armi contenenti metalli pesanti ha contaminato vaste aree, mentre la gestione dei rifiuti è collassata, portando a discariche incontrollate e incendi di rifiuti pericolosi.

 La deforestazione è aumentata a causa della necessità di legna da ardere, soprattutto nelle regioni costiere dove si è concentrata la popolazione sfollata.

Questo ha accelerato l’erosione del suolo e la desertificazione, minacciando la biodiversità e la capacità agricola del paese.

 A poco sono valse le linee d’azione definite dal “Ministero degli Affari Ambientali siriano”, che fin dal 1991 ha cercato di affrontare i problemi ambientali attraverso piani quinquennali e la partecipazione a convenzioni internazionali.

L’instabilità politica ed economica e la mancanza di risorse hanno minato l’efficacia di qualsiasi iniziativa concreta.

Anche l’adesione a trattati come la” Convenzione di Stoccolma” sugli inquinanti organici persistenti e la “Convenzione di Basilea sui rifiuti pericolosi” non sono mai uscite dai confini cartacei delle dichiarazioni di intenti.

Nei fatti, le infrastrutture idriche sono al collasso e il deserto avanza, aiutato da lunghi periodi di siccità - come quella che tra il 2006 e il 2011 ha costretto circa 1,5 milioni di agricoltori a lasciare le loro terre, o la più recente iniziata nel 2020 e che ha coinvolto Siria, Iraq e Iran - e dagli incendi dolosi usati come strategia bellica.

 Il Centro d’informazione del “Rojava” riporta che nel 2024 c’è stato un aumento drastico dei danni causati dagli incendi alle colture, con migliaia di ettari di territorio bruciati volontariamente dalle forze armate turche e siriane o da gruppi militari non sempre identificati.

Le cifre aumentano nei territori occupati da milizie islamiste che fanno capo alla Turchia, come nell’area montuosa di Afrin:

secondo l’”Organizzazione per i diritti umani di Afrin” (HROA), più del 65% delle aree verdi della zona è stato distrutto durante l’occupazione.

Nella regione amministrata dalla DAANES invece, la Turchia è accusata di utilizzare l'acqua come arma, riducendo intenzionalmente il flusso dei fiumi verso la Siria.

Questa tattica, aggiungendosi alle siccità, ha causato una crisi idrica disastrosa.

Si tratta di attacchi che non solo compromettono la sicurezza alimentare, ma mirano anche a cancellare l’identità culturale della popolazione curda.

 

In questo contesto, la DAANES nell’aprile 2024 ha organizzato la prima “Conferenza Generale sull’Ecologia” a “Qamishlo”, riunendo circa 120 delegati locali e internazionali per affrontare le sfide ambientali della regione.

La conferenza ha discusso soluzioni per una transizione ecologica equa, giusta e di sostanza, basata su una lotta alla crisi ambientale che vada in parallelo alla lotta contro il capitalismo e il colonialismo.

La chiave di interpretazione è quella della giustizia climatica e dell’intreccio inscindibile tra diritti umani e ambiente:

per affrontare i problemi che affliggono il Paese c’è bisogno di una governance che affronti le molteplici crisi in maniera integrata e sinergica.

Nonostante gli stravolgimenti politici che stanno scuotendo la Siria e i continui attacchi da parte di gruppi tribali e di milizie sostenute dalla Turchia, l’”Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est” è più attiva che mai e continua a operare nei territori del “Rojava”.

La DAANES propone una soluzione eco-socialista alle sfide poste da conflitti armati, pressioni geopolitiche e crisi ambientali, mantenendo il suo impegno nella costruzione di un modello politico basato su democrazia diretta, ecologia sociale e parità di genere.

Nel marzo 2025 è stato raggiunto un accordo tra il presidente ad interim “Ahmed al-Sharaa” e le “Forze Democratiche Siriane” - il braccio armato della DAANES, che accettano di venire integrate nelle strutture del nuovo esercito nazionale siriano.

 Questo processo mira a unificare le forze armate sotto l’egida del governo di transizione, promettendo di garantire i diritti costituzionali dei curdi e di integrare le istituzioni civili e militari del Nord-est siriano nel governo centrale.

Nei fatti permangono però le tensioni e sono in molti a palesare dubbi sull’effettivo rispetto dei diritti civili.

“Sheikh Musa” osserva l’evolversi della situazione politica del suo Paese con una consapevolezza che non vuole abbandonare la speranza, ma che non si lascia accecare dalle promesse “il futuro della Siria dipenderà da quali scelte verranno prese nel percorso politico di questo governo transizionale.

 Se il nuovo potere realizzerà una vera riconciliazione nazionale, abbandonerà i modelli di governo settari e coercitivi escludendo le politiche miliziane e portando avanti una transizione democratica stabile basata sul pluralismo, sull’accettazione del diverso, sulla partecipazione condivisa e sulla garanzia dei diritti di tutti i cittadini, allora la Siria potrà dirigersi verso uno Stato democratico, con istituzioni forti e una società prospera.

Se invece la situazione continuerà così — e i segnali attuali purtroppo pendono in questa direzione — e se le nuove autorità continueranno a minimizzare, nascondere o giustificare le violazioni dei diritti umani, etichettandole come episodi isolati o meno gravi di quanto i fatti dimostrino, il risultato sarà un ulteriore aggravamento dell’instabilità, con nuove ondate di violenza e conflitti interni, sia su base confessionale che tra fazioni diverse.

Questo condurrà a una prosecuzione della sofferenza umana e al blocco dei processi di ricostruzione”.

Una ricostruzione a rilento.

Una ricostruzione che intanto procede lentamente e in modo diseguale. Le stime ambientali indicano che la sola ricostruzione delle infrastrutture distrutte potrebbe generare oltre 22 milioni di tonnellate di CO₂.

Un carico ecologico immenso, in un contesto già devastato.

 I milioni di rifugiati che dopo anni possono tornare a casa trovano solo macerie, mentre aumentano a dismisura coloro che, senza più acqua né cibo, si uniscono all’ondata di nuovi perseguitati costretti a fuggire e a bussare alle porte di un’Europa sempre più blindata.

È ormai impossibile raccontare la Siria con una sola lente.

 La crisi climatica, le guerre, le discriminazioni, la repressione politica: tutto si tiene.

Affrontare le sfide ambientali in Siria richiede un impegno globale per riconoscere e condannare l’ecocidio, oltre a sostenere le comunità locali nella ricostruzione giusta e sostenibile.

Le parole di “Sheikh Musa” evidenziano la necessità di una risposta che non trascuri nessun aspetto della crisi siriana e non lasci nessuno indietro.

Le ultime frasi sono per il nostro continente:

“all’Europa voglio dire che il popolo siriano, sia all’interno del Paese che nella diaspora, dopo anni di repressione e isolamento forzato dal mondo continua a vedere i propri diritti violati.

La comunità internazionale ha il potere di contribuire al raggiungimento della giustizia, a partire dalla garanzia che nessuno dei responsabili di gravi violazioni e crimini di guerra rimanga impunito.

La crisi siriana non deve essere considerata solo come una questione di rifugiati, ma come una crisi politica complessa che richiede soluzioni durature”.

(“Shilan Sheikh Musa” è una giornalista curda di “Qamishli”, Siria.)

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.