Le democrazie si stanno militarizzando.

 

Le democrazie si stanno militarizzando.

 

Le Radici del Male.

Conoscenzealconfine.it – (25 Maggio 2025) - Massimo Mazzucco – ci dice:

 

Il colonialismo classico ha sempre funzionato nello stesso modo: una nazione forte invadeva una nazione più debole, ne prendeva il controllo, e restava lì a comandare per sfruttarne le risorse economiche. Ma lasciava in loco tutti i suoi abitanti, i quali diventavano semplicemente nuovi schiavi/sudditi dell’impero.

È successo così per l’India, colonizzata dagli inglesi, per il Brasile, colonizzato dai portoghesi, per il resto dell’America Latina, colonizzata dagli spagnoli, o per varie nazioni africane e asiatiche, colonizzate nel tempo da francesi, portoghesi, olandesi, ecc.

Solo in tre casi, nella storia recente, i colonialisti invasori hanno sistematicamente rimosso la popolazione locale, prendendo fisicamente il suo posto.

 Gli Stati Uniti, l’Australia e Israele.

Negli Stati Uniti, i bianchi hanno sterminato la popolazione locale, rinchiuso nelle riserve i sopravvissuti, e preso fisicamente il loro posto.

 In Australia, i bianchi hanno sterminato la popolazione locale, rinchiuso nelle riserve i sopravvissuti, e preso fisicamente il loro posto.

In Palestina, i sionisti hanno sterminato buona parte della popolazione locale (1948), rinchiuso in campi di concentramento/campi profughi i sopravvissuti, e preso fisicamente il loro posto.

 

Progressivamente, dal ’48 in poi, i nomi delle città e dei villaggi arabi sono stati cambiati in nomi ebraici, mentre l’intera terra di Palestina veniva ridenominata Israele.

Oggi restano ancora due zone da integrare, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Una volta incorporati questi territori, la terza operazione coloniale integrale della storia moderna sarà completata.

Non si può non notare che all’origine di queste particolari operazioni di sostituzione etnica ci siano sempre gli inglesi.

Inglesi erano i conquistatori/colonizzatori dei futuri Stati Uniti, inglesi erano i conquistatori/colonizzatori dell’Australia, e inglesi sono stati, fin dall’inizio, coloro che hanno permesso e favorito in tutti i modi la conquista/colonizzazione della Palestina da parte dei sionisti.

Fu sotto il mandato britannico (1922) che gli inglesi implementarono leggi particolari in Palestina, per permettere agli ebrei di acquisire con estrema facilità territori appartenenti agli arabi.

Furono gli inglesi (1929 -1936) a reprimere con ferocia le rivolte arabe in Palestina, in modo da favorire l’espansione territoriale dei sionisti.

 Furono gli inglesi (Orde Wingate) ad insegnare ai sionisti le tecniche di guerriglia e attacco militare ai villaggi arabi.

 Furono sempre gli inglesi ad insegnare ai sionisti la tecnica di distruzione sistematica delle case dei palestinesi fuggiti, per impedire un loro eventuale ritorno.

 

Furono gli inglesi ad introdurre il concetto di “punizione collettiva” che ancora oggi (Gaza) viene usato dai sionisti contro i palestinesi.

Furono infine gli inglesi a voltare lo sguardo altrove, nel ’48, quando tutte queste tecniche vennero messe in atto in modo sistematico dai sionisti, i quali sterminarono ed evacuarono 700.000 palestinesi dalle loro case e dai loro villaggi (Nakba).

Poi, con le operazioni in corso, gli inglesi se ne andarono dalla Palestina, lasciando ai sionisti il controllo militare completo di tutto il territorio.

 

In tutto e per tutto, la conquista della Palestina da parte dei sionisti fu una complessa operazione coloniale iniziata, favorita e controllata interamente dagli inglesi.

È chiaro che dietro a queste tre operazioni di “colonialismo sostitutivo” – Stati Uniti, Australia e Israele – ci debba essere la stessa mentalità comune di dominio e di superiorità dell’uomo bianco sulle razze inferiori.

Questa mentalità, profondamente razzista, è stata sintetizzata al meglio da un pensiero di “Winston Churchill”, espresso dopo la nascita dello stato di Israele:

 “Io non mi scuso per il fatto che gli ebrei abbiano tolto il controllo della regione ai palestinesi, così come non mi scuso per il fatto che i bianchi abbiano tolto l’America ai pellerossa, o per aver tolto l’Australia ai neri. È normale che una razza superiore domini quella inferiore.”

Con un maestro del genere, figuriamoci se mai dovrà sentire il bisogno di scusarsi il suo discepolo più fedele ed esemplare che la storia abbia mai prodotto, Benjamin Netanyahu”.

(Massimo Mazzucco).

(luogocomune.net/palestina/le-radici-del-male).

 

 

 

 

Armare la democrazia.

Ugotramballi.blog.ilsole24ore.com – (13 Marzo 2025) - Ugo Tramballi - ci dice:

 

Il bilancio indiano per la Difesa nell’anno finanziario 2025/26 aumenterà del 9,53%.

Due anni prima erano già stati spesi 83,6 miliardi di dollari – il 2,4% del Pil – e l’India era stato il quarto paese al mondo quanto a spese militari, dopo i soliti Usa, Russia e Cina.

 L’Arabia Saudita era stata la quinta: 75,8 miliardi, il 7,1 del Pil.

Già nel 2022 gli indiani avevano speso più di 81 miliardi di dollari.

 

La Cina continua a mantenere segreto il suo arsenale nucleare ma gli Stati Uniti sono convinti che nel 2035 avrà 1.500 testate operative:

avvicinandosi alla quantità dispiegata sia da Usa che da Russia (più di 1.700). Cresce senza sosta anche l’arsenale convenzionale cinese.

Qualche anno fa il partito aveva stabilito che la Cina si auto- proclamerà superpotenza solo nel 2049, centenario della Repubblica Popolare.

“Xi Jinping” ha deciso che la modernizzazione militare avverrà in tre fasi: nel 2027, 2035 e ’49.

Il presidente ha ordinato all’Esercito popolare di liberazione – le forze armate – di essere attrezzato per invadere Taiwan, appunto per il 202

7: fra due anni, mese più, mese meno.

E il partito deve essere “pronto per la tempesta”, senza specificare di quale bufera stesse parlando.

 

Il riarmo indiano e saudita non minaccia l’Europa.

 Nemmeno quello cinese:

sebbene i porti nel Mediterraneo acquistati e le vie commerciali acquisite dal “piano della Via della Seta “potrebbero un giorno essere difesi.

In fondo è così che nel XVIII e XIX secolo nacque l’impero britannico, prima commerciale, poi militare e politico.

Tuttavia il notevole attivismo asiatico nel campo della difesa ci aiuta a capire dove va il mondo.

Già alla fine del 2020 “Xi” aveva annunciato al Comitato centrale del Partito comunista che “l’Oriente sta crescendo e l’Occidente declinando”.

 Forse no, ma aveva tutta l’aria di essere l’incipit di un programma imperiale.

È utile ricordare quelle parole del presidente cinese ora che il secondo mandato di Donald Trump sembra confermare quella minaccia riguardo alla tenuta della civiltà occidentale.

 

Ma se indiani, sauditi e forse nemmeno i cinesi sono un pericolo imminente per l’Europa, la Russia di Vladimir Putin lo è.

 L’anno scorso i paesi europei avevano speso 457miliardi per la Difesa:

era sembrata una cifra enorme, considerando che si trattava del doppio di quanto avevamo investito nel 2014, quando Putin si prese Crimea e province orientali Ucraine.

Secondo l’”International Institute for Strategic Studies”, l’IISS di Londra, nel 2024 la Russia ha speso 146 miliardi di dollari:

il 35% di tutte le spese dello stato, il 40% più dell’anno precedente, il 6,7% del Pil nazionale.

Ma se quei 146 miliardi vengono calcolati in termini di parità del potere d’acquisto – utilizzata in paesi come la Russia dove le spese nazionali sono significativamente più economiche del mercato mondiale – quei 146 miliardi diventano 461,6, secondo l’”IISS”.

 

È difficile dire se per l’Europa siano più preoccupanti le spese militari russe o le dichiarazioni spesso seguite dai fatti, di Donald Trump.

A ogni opinione pubblica del vecchio continente non fa piacere riarmarsi.

Ma in nessun paese il dibattito è così radicale e divisivo come in Italia.

Nemmeno in Spagna che è ancora più lontana di noi dai confini russi: storicamente, fra i membri Ue la serietà di un problema si misura dalla sua distanza geografica.

 

La Russia non invaderà l’Italia ma può farlo in diversi paesi dell’Europa orientale che sono nostri alleati:

condividono le stesse libertà e per averle hanno sopportato decenni di oppressione russa, prima zarista, poi sovietica.

Questi valori non sono gratuiti:

conquistarli e poi difenderli costa.

Fra tali virtù che ci distinguono, c’è anche la solidarietà. Se Putin è un pericolo reale per i nostri alleati, lo è anche per noi.

 

L’accordo fra americani e ucraini su una possibile tregua, è una magnifica notizia. Ma non basta per spingere a ritenere superfluo “ReArm Europe”:

nemmeno se i russi vi aderissero.

L’interruzione delle ostilità è solo una pausa: come la tregua di Gaza, non risolve le cause del conflitto.

 

Che si chiami “ReArm” o “DeFend Europe” non cambia nulla, a meno che non si cerchino pretesti.

 Il mondo non è quello che vorremmo fosse, non possiamo ignorarlo.

Ancor meno credere che Vladimir Putin non sia quello che realmente è:

un dittatore pericoloso.

 Piaccia o no, e anche se sembra un paradosso, la deterrenza rimane uno strumento di difesa della pace.

E se “ReArm “avesse avuto la presunzione di finanziare un esercito continentale che non esiste, i tempi sarebbero stati troppo lunghi.

 Ma è ovvio che l’obiettivo debba essere quello.

Oggi l’Europa ha sei volte il numero di sistemi d’arma degli Stati Uniti:

 troppi carri armati, artiglierie, navi diverse da un paese all’altro con costi inutili.

 “ReArm” è un essenziale passo verso il vero obiettivo della nostra difesa comune.

 

 

 

 

Se la guerra “ibrida” travolge la democrazia.

Centridiricerca.unicatt.it - Damiano Palano – articolo del “Giornale” di Brescia – (24 aprile 2024) -ci dice (26-05-2025): 

Dai fronti dell'Ucraina e di Gaza non arrivano notizie incoraggianti, tanto che appare molto difficile intravedere persino minimi spiragli per una cessazione dei conflitti.

Molti altri segnali indicano invece che il clima di guerra sta rapidamente modificando le priorità degli Stati.

Con conseguenze che potrebbero avere ricadute anche sullo stato di salute delle nostre democrazie.

Oltre ad approvare un nuovo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina, la Camera degli Stati Uniti ha innanzitutto dato il via libera a una disposizione che obbliga la società cinese “ByteDance” a vendere “TikTok”.

 Per la diffusione che ha raggiunto, il “social network” viene infatti considerato da Washington una minaccia.

La Cina potrebbe d’altronde utilizzare i dati di milioni di utenti per finalità improprie, e inoltre l’algoritmo della app potrebbe filtrare i contenuti con finalità di propaganda o di censura.

 Annunciata da tempo, la misura decisa dal Congresso si inquadra peraltro in una più ampia battaglia per “riprendere il controllo” della rete.

 

Pochi giorni fa, il “Washington Post” ha invece diffuso un documento riservato del “Ministero degli Esteri russo” nel quale si indicano alcune linee di intervento finalizzate a indebolire gli Stati “ostili”.

L’offensiva contro l’Occidente e a favore della costruzione di un ordine internazionale multipolare dovrebbe comportare, da parte di Mosca, solo in minima parte il ricorso a strumenti propriamente militari.

Il Cremlino guarda infatti più che altro a una “campagna di informazione offensiva”, che sia in grado di investire la sfera politica e quella economica, oltre che di sfruttare le potenzialità della “guerra psicologica”.

 

Anche in questo caso, non si tratta di una novità.

 Come è ormai ampiamente noto, da più di un decennio Mosca investe molte energie nello sviluppo della propria capacità offensiva informatica, con il duplice obiettivo di influire sulle opinioni pubbliche occidentali e di rivolgere attacchi hacker contro potenze rivali.

Per molti versi, si tratta solo delle armi più conosciute della “guerra ibrida”: una logica che combina strumenti militari e non militari, e che in prevalenza si propone di evitare il ricorso al conflitto aperto, puntando piuttosto a ottenere la resa degli avversari senza la necessità di combattere sul campo.

 

Benché spesso si consideri la “guerra ibrida” come un’invenzione del Cremlino, in realtà quell’espressione identifica (in modo generico) una logica strategica delineata nel corso dell’ultimo trentennio dapprima dagli Stati Uniti e in seguito da altre grandi potenze.

 Le origini affondano infatti nel ripensamento iniziato dopo la prima Guerra del Golfo:

 un conflitto che aveva visto l’alleanza internazionale sbaragliare rapidamente l’esercito di Saddam Hussein, ma che aveva comportato un enorme dispendio di uomini e risorse.

 A partire da quel momento, a Washington si iniziò a ritenere che la soverchiante supremazia tecnologica occidentale consentisse di vincere le guerre quasi senza mettere “gli stivali sul terreno”, puntando solo su strumentazioni avanzate.

La guerra in Afghanistan offrì una prima parziale conferma dell’efficacia della “rivoluzione negli affari militari”.

E più tardi anche la guerra cibernetica dimostrò il proprio potenziale, per esempio quando nel 2010 dissuase l’Iran dal proseguire il programma nucleare. 

 

Al tempo stesso, gli sfidanti della potenza americana cominciarono a ritenere che, per insidiare il gigante a stelle e strisce, fosse del tutto controproducente ricorrere a un conflitto aperto.

Piuttosto, ai loro occhi era più opportuno adottare strumenti prevalentemente non militari.

 La Russia iniziò in particolare a sviluppare una propria visione della “guerra ibrida” con l’obiettivo di rispondere alla sfida delle “rivoluzioni colorate”, percepite dal Cremlino come l’esito della manipolazione orchestrata dall’Occidente per estendere la propria area di influenza.

 

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato sulla scena una guerra tradizionale, che assomiglia molto più alle guerre di trincea della prima metà del Novecento che ai conflitti dell’ultimo trentennio.

 Ma non dobbiamo pensare che gli Stati cesseranno di dotarsi di armi adeguate alla guerra ibrida.

Anzi, come dimostrano le notizie provenienti in questi giorni da Washington e da Mosca, è molto probabile che la “guerra ibrida e la “cyber war” finiranno col diventare presenze costanti. O, quantomeno, minacce che qualsiasi Stato – e dunque anche ogni Stato democratico – dovrà tenere in debita considerazione.

 

È proprio per questo che il nuovo contesto potrebbe comportare conseguenze rilevanti per le nostre democrazie, forse ancor più che l’accelerazione verso un’economia di guerra, evocata sempre più spesso dai leader europei.

 Nell’ultimo rapporto sulla” libertà della rete”, “Freedom House” – un’organizzazione che si occupa di monitorare lo stato della libertà mondo – ha registrato per il nono anno consentivo un peggioramento della situazione.

 I progressi compiuti nel campo dell’”Intelligenza Artificiale” stanno in particolare offrendo strumenti preziosi nelle mani dei regimi autocratici per imporre meccanismi di censura e per implementare tecniche capillari di sorveglianza.

 E, al tempo stesso, l’IA può consentire di fabbricare “fake news” sempre più sofisticate.

 

Naturalmente la distanza tra regimi autocratici come Cina e Russia e i regimi liberal-democratici rimane abissale, e sarebbe maldestro accostare esperienze così diverse.

Non possiamo comunque escludere che il prezzo della sicurezza possa prima o poi richiedere la rinuncia a porzioni di libertà.

Ma il rischio è che – senza che vi sia una chiara percezione di ciò che sta avvenendo – il clima di guerra ci faccia scivolare in quella direzione.

E che, giorno dopo giorno, i nostri sistemi politici assomiglino sempre meno a quel “governo esposto al controllo della pubblica opinione” in cui “Norberto Bobbio” ritrovava il cuore della democrazia.

(Damiano Palano è Direttore di Polidemos.).

 

 

 

 

Se l’Unione Europea vuole

la guerra, allora è meglio

lasciarla!

Ilfattoquotidiano.it - Enrico Grazzini – (30-3-2025) – ci dice:

(Enrico Grazzini. Giornalista economico e saggista).

Per fare un esercito la “U”e dovrebbe farsi Stato, come suggerisce (velleitariamente) Mario Draghi.

 Ma sarebbe uno Stato senza democrazia.

 

Unione Europea- Ursula Von Der Leyen.

Chi è per la pace e contro la guerra dovrebbe combattere anche questa Unione Europea che – contro la volontà dei popoli – sta militarizzando l’Europa e sta montando un’isterica campagna di odio bellicistico verso la Russia che mette in pericolo tutti gli europei.

Donald Trump è certamente un politico fascistoide: ma l’unica cosa buona che sta facendo – paradossalmente anche a favore dell’Europa che lui odia – è cercare di concludere la guerra in Ucraina.

 La Ue invece ostacola il suo sforzo in nome di una “pace giusta” (?) e del ritiro completo e senza condizioni della Russia, evidentemente impossibile dal momento che Putin sta vincendo la guerra.

 Continuare la guerra, come vorrebbe la “Ue” guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen, mette in pericolo 450 milioni di europei e, ancora di più, l’Ucraina: i russi potrebbero infatti raggiungere il porto di Odessa e chiudere a Kiev l’accesso al mare.

 

È dunque ora di chiudere il conflitto, anche se la conclusione sarà certamente negativa per il presidente Zelensky.

Del resto lui stesso è un pessimo politico.

 Sobillato dagli americani, ha abbandonato lo status di neutralità dell’Ucraina per chiedere l’adesione alla Nato – un’organizzazione militare antirussa che ha combattuto e perso guerre di attacco (e non di difesa) in Serbia, Afghanistan, Iraq, Siria e Libia, provocando centinaia di migliaia di morti innocenti: così ha contribuito in maniera decisiva a scatenare l’invasione di Putin e alla catastrofe del suo popolo.

 Putin aveva avvertito che considerava l’adesione alla Nato da parte di Kiev una minaccia diretta alla sicurezza russa e una linea rossa da non oltrepassare: Zelensky ha trascinato irresponsabilmente il suo popolo in una guerra persa in partenza contro la potenza atomica russa.

Se la “Ue di Ursula” – seguendo gli interessi del presidente francese “Emmanuel Macron”, del premier britannico “Keir Starmer” e delle industrie delle armi – accontentasse Zelensky e riuscisse a ostacolare i tentativi di Trump, porterebbe gli europei vicino o dentro alla guerra atomica, semplicemente perché la Russia non cederà mai sulla neutralità politica e militare dell’Ucraina.

Se Bruxelles non accettasse la pace che verrà in Ucraina, allora il governo italiano farebbe bene a prendere in seria considerazione la possibilità o la necessità di lasciare questa” Ue” irresponsabile, stupida, impotente ma guerrafondaia.

Bruxelles vuole riarmarsi per prepararsi all’attacco russo.

Ma credere che la Russia voglia conquistare l’Europa è paranoico.

Putin è certamente un dittatore ma non è uno stupido e, dopo le grandi difficoltà militari incontrate nella pur inferiore Ucraina, è praticamente impossibile che voglia aggredire gli europei e la Nato.

 È meglio avere la Russia amica piuttosto che nemica.

 

Una difesa coordinata a livello europeo è tuttavia necessaria.

Ma la tedesca Ursula, il presidente italiano Sergio Mattarella, la segreteria del Pd Elly Schlein possono mettersi il cuore in pace:

non ci sarà mai un esercito europeo.

Non può esserci prima di tutto perché Maastricht prevede che la Ue abbia competenze dirette sull’economia ma non sulle questioni della politica estera e della difesa:

queste restano e resteranno (fortunatamente) prerogative delle democrazie nazionali.

Se Ursula cercasse di costruire l’esercito europeo abuserebbe del suo mandato. Francia e Germania stanno cercando di formare la “unione armata dei volenterosi”, ma la “Ue” è fuori dai giochi.

(“La prima cosa da fare non è il riarmo, la pace in Ucraina o a Gaza.

Se vogliamo cambiare la società dobbiamo ritrovare gli altri”: così i Negrita.

“La prima cosa da fare non è il riarmo, la pace in Ucraina o a Gaza.

Se vogliamo cambiare la società dobbiamo ritrovare gli altri”: così i Negrita.)

Per fare un esercito la Ue dovrebbe farsi Stato, come suggerisce (velleitariamente) Mario Draghi.

 (Alcune “fonti” dicono che Draghi -quale presidente della BCE – ha concesso nel 2008 un prestito agli Usa di alcune miliardi di dollari, ma che nel libro contabile bancario della BCE  non ne risulta la restituzione! N.D.R.)

Infatti solo uno Stato può decidere una sua politica estera e avere un suo esercito. Ma la “UE” che riunisce 27 paesi differenti non potrà mai avere una strategia unitaria:

 già oggi Germania e Francia hanno idee molto diverse sull’Ucraina.

Anche se la Ue diventasse uno Stato, sarebbe uno Stato senza democrazia.

 La “Ue” infatti è un’organizzazione dispotica con una verniciata molto sottile di democrazia.

 A Bruxelles decidono i capi di governo riuniti nel Consiglio Europeo, e il Parlamento – eletto su base nazionale, e quindi non europeo – ha solo un potere di veto su alcune materie.

I popoli europei non hanno nessun controllo democratico su Bruxelles.

Per rimediare all’impotenza della “Ue” Mattarella e Schlein reclamano l’accelerazione del processo decisionale grazie all’introduzione del voto di maggioranza (qualificata) al posto del voto all’unanimità – richiesto attualmente per le questioni più importanti, relative per esempio alla difesa e al fisco.

Ma questa pretesa peggiora l’autoritarismo della “Ue” e comunque è destinata a fallire.

Nessuna piccola o media nazione (Italia compresa) vuole cambiare sistema di voto con il rischio di dovere andare in guerra solo perché la maggior parte degli altri Stati – guidati da Francia e Germania (che detengono la maggioranza relativa) – la votano.

Se si adottasse il voto a maggioranza sulle questioni della difesa, l’uscita dell’Italia democratica dalla Ue non democratica sarebbe pienamente giustificata.

 

 

 

Michael Hardt, oltre il

“regime di guerra globale”.

 

Ilmanifesto.it - Roberto Ciccarelli – (14 – 05 – 2025) – ci dice:

Intervista.

 Parla il filosofo politico statunitense che domani sarà a Parigi per il convegno «Negri oltre Negri».

 «I principali movimenti di oggi, da “Black Lives Matter “ai “Gilets Jaunes” a “Non Una di Meno”, cercano di sviluppare forme organizzative per articolare un’ampia varietà di progetti di liberazione».

 

Il filosofo statunitense “Michael Hardt” è a Parigi dove domani inizia il convegno internazionale Negri oltre Negri.

 L’incontro sull’eredità e le prospettive del lavoro di “Antonio Negri” avviene mentre “DeriveApprodi “ha pubblicato la traduzione italiana del libro che Hardt ha dedicato agli anni Settanta sovversivi (DeriveApprodi, qui la recensione di” Sandro Mezzadra” pubblicata su Alias Domenica), un decennio centrale sia per la riflessione di Negri, che per la nostra attualità.

 

Michael Hardt, cosa ha significato per lei l’incontro con “Toni Negri “con il quale ha scritto almeno cinque libri?

È una domanda difficile.

Per oltre trent’anni, ho sempre lavorato con lui su un libro.

Abbiamo dovuto parlare spesso al telefono e vederci regolarmente di persona perché c’era un libro da scrivere.

A volte ho pensato che avremmo dovuto immaginare la cosa al contrario: scrivere sempre un libro era una condizione della nostra amicizia.

 Era una scusa, o un veicolo, per continuare a parlare e incontrarsi, per mantenere la vicinanza.

 Il mio sugli anni Settanta è stato il primo libro che ho scritto da solo, dall’inizio dei Novanta.

Ho scoperto che ci si sente soli. O, per dirla in un altro modo, mi sono ricordato di quanto sia bello scrivere insieme a qualcun altro.

Il vostro lavoro ha permesso di pensare l’«Impero». C’è molta confusione su questo concetto oggi. Cosa avete inteso dire?

È un modo per parlare dei processi di globalizzazione e riconoscere che l’ordine globale non può più essere dettato e sostenuto da un’unica potenza egemone, né gli Stati uniti né altri Stati nazionali.

Abbiamo invece proposto di analizzarlo nei termini di una «costituzione mista» che prevede più livelli coordinati tra loro.

A un livello monarchico della costituzione potrebbero essere situati l’arsenale nucleare statunitense e il potere del dollaro;

al livello aristocratico, ci sono gli Stati nazionali dominanti, le più potenti società capitalistiche e le istituzioni sovranazionali;

al livello più basso, un’ampia varietà di altri poteri, tra cui gli Stati nazionali subordinati, i media e così via.

 Il punto era per noi creare uno schema per comprendere un ordine globale composto dalla dinamica tra molteplici poteri diseguali.

 

Oggi sono tornate a galla diverse caratteristiche dell’imperialismo. Qual è il loro rapporto con l’«Impero»?

Una delle basi della nostra riflessione è che l’egemonia globale degli Stati Uniti sia in declino.

Un’ipotesi che abbiamo condiviso con “Giovanni Arrighi”.

Per molti aspetti, le azioni dell’attuale governo Trump confermano questa ipotesi. Il progetto imperialista statunitense nella seconda metà del XX secolo ha introdotto varie forme di forza e violenza: guerre, colpi di Stato e simili.

Ma è stato in grado di mantenere l’egemonia solo generando un certo livello di consenso internazionale, principalmente attraverso forme di cosiddetto “soft power”, che vanno dai progetti culturali allo sviluppo economico.

 Senza di esse gli Stati uniti non potrebbero mantenere l’egemonia.

E cosa si può aggiungere riguardo al presente?

Il governo Trump è giunto alla conclusione che questi strumenti di egemonia non sono più efficaci.

Mantenerli non vale lo sforzo e le spese, e li sta eliminando tutti molto rapidamente.

Non ha più i mezzi per generare consenso su scala internazionale e ricorre a violenze, minacce e ricatti.

Non c’è bisogno di “Machiavelli e “Gramsci per capire che la coercizione, senza consenso, sia una forma di governo molto instabile.

 È un’altra faccia del regime di guerra globale.

 

Può spiegarci un «regime di guerra globale»?

Negli anni Novanta, quando ho scritto “Impero” con “Toni”, ci sembrava che da questo processo sarebbe emerso un nuovo ordine.

Invece, finora non è emerso alcun ordine stabile, anzi.

Oggi, con “Sandro Mezzadra”, sto cercando di cogliere alcuni aspetti di questa realtà con il concetto di “regime di guerra globale”.

Non solo stiamo assistendo a una proliferazione di guerre apparentemente senza fine, ma anche al fatto che vari settori della società si stanno militarizzando e sono trasformati da logiche militari, attraverso guerre commerciali, guerre culturali e altro ancora.

 

Il ritorno al potere di “Trump” è un nuovo fascismo?

Il suo secondo mandato sta rapidamente distruggendo le basi primarie della democrazia liberale ed è già una forma di governo terribile e autoritaria.

C’è anche il rischio che diventi molto peggiore.

Tuttavia, continuo a trovare difficile la questione del fascismo.

Per me, una caratteristica centrale del dominio fascista è che non può essere sfidato e trasformato con mezzi politici.

Nel fascismo non c’è mediazione con le forze politiche di opposizione, ma solo repressione e violenza.

Oggi i mezzi politici di opposizione sono ancora possibili, ma non escludo l’eventualità che si crei una situazione in cui non lo siano, e a quel punto dovremo adattare e cambiare radicalmente la nostra strategia.

 

L’analisi degli anni Settanta è parte della ricerca di questa strategia?

Sì. Sono stati l’inizio della nostra epoca: i loro problemi politici restano i nostri. Riconoscere chiaramente questi problemi, e scoprire come sono stati affrontati dai militanti di allora, può aiutarci a trovare soluzioni oggi.

 

Quali sono i problemi?

C’è un’opinione comune negli Stati uniti che assume forme simili in altri paesi secondo la quale la frammentazione abbia minato il movimento rivoluzionario negli anni Settanta.

 C’erano le rivendicazioni dei lavoratori autonomi contro la leadership sindacale tradizionale;

le femministe contro le strutture patriarcali;

 i «razzializzati», gli attivisti della liberazione gay e altri.

 Dobbiamo considerare questo processo non come una tragedia, ma come un’opportunità per progredire e per riunire molteplici processi di liberazione. Articolare queste lotte multiple è diventato un obiettivo centrale dell’agenda e molte esperienze di attivismo, soprattutto tra i gruppi femministi, hanno fatto grandi progressi in questa direzione.

Quei movimenti hanno trovato una soluzione?

Hanno individuato i problemi politici reali che sono ancora i nostri.

 Marx diceva che, una volta che riusciamo a formulare chiaramente i problemi politici reali, siamo già a metà strada per risolverli.

Tutti i principali movimenti di oggi, da “Black Lives Matter” ai “Gilets Jaunes “a “Non Una di Meno”, cercano di sviluppare forme organizzative per articolare un’ampia varietà di progetti di liberazione.

 

In Italia è influente l’associazione tra gli anni Settanta e gli «anni di piombo». Quali sono stati gli effetti?

Questo è stato un ostacolo quando ho iniziato a scrivere il libro.

 La memoria collettiva è bloccata solo sugli atti spettacolari di violenza politica e le stragi dello Stato e dei gruppi fascisti.

Lo stesso accade in molti altri paesi: Giappone, Germania, Stati Uniti e Argentina. Anche lì la straordinaria sperimentazione politica dei movimenti di massa è stata cancellata da un’attenzione apparentemente irresistibile per i drammatici atti di violenza politica.

Ciò ha oscurato le straordinarie innovazioni politiche dei movimenti di massa di quel periodo.

 

Che tipo di lavoro ha fatto?

Invece che dai gruppi armati clandestini, sono partito dalle nuove forme di lotta di classe, i movimenti femministi o i movimenti di liberazione gay.

 La cosa più importante per me è scoprire la continuità tra questi movimenti in diversi paesi.

 Esiste una continuità tra le pratiche organizzative e le aspirazioni politiche condivise in differenti contesti nazionali.

 Una volta compreso questo, sono tornato ad analizzare i gruppi clandestini che non hanno risolto il problema posto dai movimenti.

 

La sinistra è divisa tra un’opzione “neoliberista “e una “nazionalista”. Ci sono soluzioni alternative?

Creare un nuovo internazionalismo, un internazionalismo dal basso, che emerga dai movimenti.

Il progetto è ampio e difficile.

Ma potrebbe essere l’unica strada per sconfiggere i militarismi e le altre opzioni in campo.

Sta a noi inventare un modo per porre fine al nuovo regime di guerra globale.

Non possiamo aspettare che crolli da solo.

È probabile che alla fine fallisca, proprio come sono fallite le occupazioni statunitensi dell’Afghanistan e dell’Iraq, che però hanno creato enormi distruzioni e sofferenze.

 

 

 

 

L’EUROPA E IL RIARMO: UN PASSAGGIO

NECESSARIO PER LA SICUREZZA.

  Opinione.it - Andrea Chiavistelli – (17 marzo 2025) – ci dice:

 

L’Europa e il riarmo: un passaggio necessario per la sicurezza.

Sabato in Piazza del Popolo c’era di tutto:

 da chi vuole porre fine alla guerra ma si oppone agli sforzi americani per riuscirci a chi vuole sconfiggere la Russia sul campo ma rifiuta ogni politica di riarmo.

 Quale fosse la proposta, la richiesta o il piano politico alla base della manifestazione, non è dato saperlo.

Al di là di un abbondante sventolio di drappi blu stellati e degli immancabili cori “Europa! Europa!”, di concreto non c’è stato nulla.

Tanta confusione, tante idee in contrasto, nascoste da una marea di bandiere blu. Che la Russia non possa essere considerata un Paese amico, né una nazione a cui concedere eccessiva fiducia, è ormai un dato di fatto.

 E questo mette d’accordo anche tutti i mille e più animi della manifestazione “europea” (anche se ad un’altra manifestazione, sempre a Roma, a Piazza Bocca della verità, qualcuno avrebbe da ridire anche su questo).

 La sua aggressione in Ucraina ha dimostrato la sua capacità di espandere la propria influenza con la forza se necessario, mettendo a rischio non solo l’Ucraina, ma l’intera stabilità dell’Europa.

Eppure, se vogliamo davvero raggiungere un accordo di pace, dobbiamo essere pronti a sederci al tavolo delle trattative anche con la Russia.

 

E gli Stati Uniti lo sanno bene.

L’Amministrazione Trump sta lavorando per trovare una soluzione che possa porre fine al conflitto, e l’Europa deve seguirne l’esempio.

Non possiamo rimanere spettatori, né tantomeno ostacolare questi sforzi.

Ma seguire l’impegno dei nostri alleati americani per la pace non è in contrasto con la necessità di rafforzare le nostre capacità militari.

 Anzi, è proprio attraverso una maggiore preparazione che l’Europa può guadagnare autorevolezza e contribuire attivamente alla stabilità globale. Investire nella difesa non significa rinunciare alla diplomazia, ma garantirle il supporto necessario per essere efficace.

Perché non ci si siede al tavolo da pari se si è deboli.

Ed è proprio questo che oggi divide l’opinione pubblica, la stessa che sabato si è ritrovata sotto lo stesso palco.

 La convinzione errata che investire nel settore della difesa, ridurre il nostro gap militare con i nostri alleati d’oltreoceano e assumersi maggiori impegni sul nostro territorio equivalga automaticamente a un passo verso la guerra.

 Non è così.

 Non cadiamo nella retorica pacifista che dipinge la spesa militare come pericolosa.

Questa visione è fuori dalla realtà e rischia di indebolire irrimediabilmente la nostra posizione nel mondo.

Le grandi potenze intorno a noi si stanno armando.

 

La Russia ha portato la sua spesa militare a un livello record nel 2024, raggiungendo circa 145 miliardi di dollari, pari al 6,7 per cento del Pil.

 La Cina ha aumentato il suo budget per la difesa del 7,2 per cento, arrivando a circa 231 miliardi di dollari.

L’Iran, pur con un incremento più modesto, continua a investire nelle proprie capacità militari.

Di fronte a questa realtà, l’Europa non può restare indietro.

Anche all’interno della Nato il tema della spesa militare è cruciale.

 L’Italia, ma anche altri Paesi europei, non rispetta l’impegno di destinare almeno il 2 per cento del Pil alla difesa.

 Mentre altri Stati, più vicini alla Russia e più consapevoli del rischio, stanno investendo massicciamente nelle proprie forze armate, noi restiamo indietro.

 E questo è un problema non solo per la nostra sicurezza, ma anche per il nostro ruolo all’interno della Nato.

 L’Europa non può più continuare a sfruttare gli sforzi degli Stati Uniti senza impegnarsi attivamente per la stabilità della propria ragione.

La nostra libertà e la nostra democrazia non possono essere date per scontate.

Gli investimenti nella difesa non sono strumenti di aggressione, ma di deterrenza. Sono il prezzo da pagare per garantire la sicurezza dei nostri cittadini e per avere un ruolo autorevole nelle decisioni internazionali.

Se non siamo disposti a fare questo sacrificio, rischiamo di trovarci vulnerabili, non solo di fronte alla Russia, ma anche ad altri attori destabilizzanti.

 

Un’Europa sicura non è solo un’Europa ben difesa, ma anche un’Europa capace di far valere la propria voce nel mondo.

 Se vogliamo essere protagonisti nelle trattative di pace, se vogliamo che le nostre scelte abbiano un peso, dobbiamo dimostrare di essere pronti a difendere i nostri valori e il nostro futuro.

La sicurezza non è mai gratuita, e la pace che desideriamo può essere raggiunta solo se siamo in grado di proteggerla.

Non si tratta solo di aumentare la spesa militare, ma di costruire una forza credibile.

Una difesa solida non è un simbolo, ma una vera garanzia di sicurezza.

Se vogliamo garantire un’Europa stabile e pacifica, dobbiamo essere pronti a fare ciò che è necessario, senza compromessi.

Un’Europa forte è un’Europa sicura.

 Un’Europa debole è un’Europa irrilevante.

Noi dobbiamo decidere da che parte stare.

 

 

 

 

UN PAESE SENZA CONSERVATORI

 NÉ RIFORMISTI.

  Opinione.it - Francesco Carella – (26 maggio 2025) – ci dice:

 

Un Paese senza conservatori né riformisti.

A percorrere l’intero spettro politico occupato dalle diverse formazioni protagoniste della storia del nostro Paese, dall’Unità ai giorni nostri, troviamo partiti moderati, gruppi reazionari, movimenti massimalisti o riformisti, ma mai un partito che si definisca conservatore e che rivendichi senza imbarazzo alcuno il ruolo di difensore di valori e tradizioni che rappresentano la bussola del pensiero conservatore in tutte le democrazie occidentali.

 

Il risultato finale di una tale assenza non poteva non produrre una serie di ricadute negative sullo svolgimento della vita pubblica.

Si pensi all’incertezza in cui continua a trovarsi ancora oggi gran parte della classe politica nell’assumere posizioni definite e chiare in difesa della nostra identità storica, culturale e religiosa rispetto al fenomeno dell’immigrazione.

Si sa che per comprendere le ragioni del presente occorra conoscere i motivi del passato e, nella fattispecie, le dinamiche attraverso le quali si è giunti all’Unità d’Italia.

A tal proposito, resta un punto di riferimento l’analisi (datata 1882) dell’accademico e politico” Ruggiero Bonghi” quando, dopo avere ricordato il carattere rivoluzionario con il quale nasce lo Stato unitario, scrive che “il partito moderato e liberale non ha potuto e talora non ha voluto essere un partito conservatore.

Esso ha avuto davanti agli occhi unicamente un fine solo: quello di costituire l’Italia.

Nel costituirla non si può affermare che abbia avuto continuo riguardo ai diritti acquisiti, alle abitudini antiche, agli interessi legittimi, alla coscienza religiosa concreta della cittadinanza.

Dove di proposito, dove per necessità di cose, ha trascurato tutto quello il cui diligente rispetto è la norma e la forza di un partito conservatore”.

 

Lo storico” Gaetano Arfé”, partendo dalle osservazioni dell’esponente della destra storica, rintraccia il seme da cui scaturisce un’altra anomalia del sistema politico italiano ovvero l’incapacità del partito socialista di strutturarsi in termini riformisti, finendo con il lasciare campo libero (dal congresso di Reggio Emilia del 1912 in avanti) alla corrente massimalista e anti-sistema.

La qual cosa inciderà negativamente sulle scelte della sinistra per tutto il Novecento con ripercussioni presenti tuttora.

 In tal modo, si gettano le basi culturali dei tre regimi politici conosciuti dal 1861 in poi – liberale, fascista e repubblicano – durante i quali nessun partito dichiara apertamente di essere conservatore né alcuna forza si accredita come portatrice di un moderno riformismo.

 

Chiarite le motivazioni di ordine storico, non è azzardato affermare che gli ostacoli fin qui descritti non abbiano più nell’area moderata i motivi d’essere di un tempo e che la strada per la costituzione di un partito conservatore e liberale, a fronte della persistenza di alcune divisioni, appartenga al campo delle scelte necessarie per rendere più moderno il nostro sistema politico.

In tal senso, è inutile ribadire che molto dipenderà dalla capacità e dalla lungimiranza delle attuali leadership.    

 

Resta sul tappeto quella che “Arfè “indica come l’anomalia della sinistra: il massimalismo.

Parafrasando una commedia di Eduardo De Filippo è proprio il caso di dire che in Italia le “anomalie non finiscono mai”. 

 

 

 

 

DUE CONTI SENZA L’OSTE.

  Opinione.it - Massimo Negrotti – (26 maggio 2025) – ci dice:

 

Due conti senza l’oste.

Nel coro di politici e commentatori che lamentano l’apparente disimpegno di Trump nei confronti dell’Europa c’è un argomento che campeggia:

l’Europa non è, al momento, in grado di difendersi senza l’intervento degli Usa.

Il quadro in cui si svolge la vicenda è peraltro piuttosto chiaro:

a differenza degli anni Quaranta del secolo scorso, nei quali la svolta decisiva fu la guerra contro l’Urss da parte dei tedeschi e degli italiani, ora l’Europa teme il contrario, cioè un attacco da parte della Russia.

Negli anni Quaranta, parlandone i termini strettamente militari e dunque non politici, i tedeschi erano ben armati e ben condotti da generali che sapevano fare il proprio mestiere e, in parte, anche gli italiani svolsero un ruolo secondario ma importante.

Tuttavia, la disastrosa sconfitta fu inevitabile non solo per le capacità di adattamento e di faticosa resistenza dei russi ma anche per i calcoli sbagliati di chi, a Berlino e a Roma, aveva ritenuto possibile ciò che, in realtà, non lo era per ragioni oggettive ampiamente chiarite da tempo.

 

C’è però da chiedersi perché mai, oggi, l’Europa dovrebbe temere la terrificante efficacia di un’eventuale aggressione russa ai propri confini.

Da un lato, la tanto sottolineata debolezza militare europea sembra contraddetta dal fatto che sono anche i suoi aiuti in fatto di armamenti − che evidentemente ha − a consentire all’Ucraina di resistere contro la ‘potenza’ russa.

Dall’altro, non va scordato che la situazione delle forze armate russe non è fra le più brillanti sia perché poco motivate sin dall’inizio (il popolo russo sogna di vivere come si vive in Occidente e non di ricostruire l’impero sovietico, povero, chiuso e illiberale) sia perché per proseguire l’operazione militare speciale Mosca ha ritenuto necessario rinforzare il proprio esercito con mercenari e persino con personale non russo, come i coreani del Nord.

 

A fare la differenza è ovviamente l’enorme disponibilità, per Mosca, di ordigni nucleari ma, anche qui, non occorre un genio per capire che, ciò che conta, è il primo che le sgancia, dove, come e quando e non la mera quantità a disposizione.

In altre parole, i russi temono le bombe nucleari francesi e britanniche – e altre? – non meno di quanto noi temiamo le loro.

 Se, dunque, rimaniamo sul piano militare “classico”, vediamo come stanno le cose anticipando che, chi scrive, non intende stabilire verità strategiche, di competenza altrui ma, più semplicemente, fare i conti con i dati pubblicamente disponibili.

 

La Russia ha, o meglio aveva prima dell’operazione speciale in Ucraina, circa 1.300.000 militari, cui vanno sommati altri 2.000.000 di riservisti.

 I Paesi europei, nel loro insieme, trascurando i pur utilissimi Paesi minori, hanno circa 1.600.000 militari, ai quali, in numerosi casi, andrebbero aggiunti i riservisti o nuovi arruolamenti.

Non tutti sono operativi, ovviamente, ma nemmeno quelli russi lo sono.

In fatto di carri armati, la Russia dispone, o disponeva, di circa 6.000 mezzi di cui alcune migliaia sono andate perdute in Ucraina, mentre l’Europa conta circa 2.300 unità.

In tema di aerei, e naturalmente senza entrare nel dettaglio delle loro caratteristiche operative, la Russia dispone di circa 4.300 mezzi da combattimento, mentre i Paesi europei possono contare su circa 1.400 caccia.

 Infine, per quanto riguarda la flotta navale, inclusi i sottomarini, la Russia ha circa 400 mezzi mentre i Paesi europei ne contano oltre 1.100.

Discorso a parte sarebbe quello dei missili di medio raggio, i più efficaci contro l’Europa, ma su questi non c’è notizia pubblica affidabile per nessun Paese. Altrettanto vale per le munizioni che, attualmente, scarseggiano sia in Russia sia in Europa.

 

Sulla carta, dunque e senza voler stabilire alcuna verità assoluta, la Russia si presenta con dati militari apparentemente superiori, per ora, ai Paesi europei.

Ma, appunto, sulla carta perché un’analisi professionale andrebbe fatta sulla qualità sia degli armamenti russi sia su quelli europei nonché sulla abilità operativa del personale.

In buona sostanza, comunque, la partita non sembra necessariamente persa da un lato e vinta dall’altro.

Il problema centrale, semmai, è dato dal carattere frammentato delle forze armate dell’Europa – parallelo alla frammentazione della sua politica interna ed estera – a fronte di forze armate monolitiche da parte russa.

 Ma anche Napoleone e Hitler, sulla carta, erano preponderanti e oggi la vicenda potrebbe pervenire alla stessa deludente conclusione per chi la volesse rinnovare, in termini invertiti.

A meno che, a fianco della Russia, non devesse schierarsi apertamente anche la Cina ma allora gli Usa, ammesso e non concesso che si vogliano davvero disinteressare del vecchio continente, non starebbero a guardare.

 Meno che meno Trump.

 

 

 

DECADENZA DELL’OCCIDENTE.

  Opinione.it - Francesco Carella – (16 maggio 2025) – ci dice:

 

Decadenza dell’Occidente.

Ormai non c’è riflessione, sia per mano dell’élite colta sia per voce popolare, che non interpreti i pur gravosi problemi del nostro tempo come un segno della profonda decadenza della civiltà occidentale.

 Che si focalizzi l’attenzione sui problemi climatico-ambientali o ci si occupi di qualità delle classi dirigenti, per dire solo di due argomenti, la conclusione a cui si giunge è sempre la medesima: la catastrofe è dietro l’angolo.

Eppure, se si riuscisse a chiudere l’audio, evitando di ricevere il frastuono della cronaca quotidiana, qualcosa di più razionale si riuscirebbe a capire rispetto ai problemi che affliggono la modernità.

Basterebbe solo allargare il prisma attraverso il quale leggere gli eventi, per scoprire con le lenti della “lunga durata” che ciò che sembra una novità del Ventunesimo secolo altro non è che un’ennesima replica della storia.

Sarebbe superfluo riportare le cifre con cui le analisi statistiche hanno raccontato i progressi compiuti negli ultimi 100 anni nella parte Ovest del mondo.

 Infatti, anche i più inveterati pessimisti non possono non riconoscere che le condizioni di vita siano migliorate senza eguali rispetto al passato, che la grande conquista della liberazione dalla fatica fisica e dalla condizione di povertà siano traguardi ormai consolidati, per non dire della vita media e della qualità di essa che non trova riscontro nella storia dell’umanità.

 

Nondimeno, il pessimismo continua ad essere la colonna sonora che accompagna come sottofondo ogni dibattito pubblico.

La domanda è: da che cosa nasce tutto questo?

Il politologo “Francis Fukuyama” non ha dubbi.

“È stato il Novecento – ha scritto pochi anni fa – a fare precipitare nella cupezza il comune sentire degli occidentali.

Due guerre mondiali e i flagelli dei totalitarismi – nazifascista e comunista – non potevano non lasciare pesanti cicatrici”.

Mentre nel primo Novecento “Oswald Spengler “scriveva nel “Tramonto dell’Occidente” che le civiltà “vivono un ciclo naturale di sviluppo che va dall’alto verso il basso fino alla decadenza”.

L’Europa, secondo il filosofo tedesco, si trovava nell’ultimo stadio e stava per entrare nel “tunnel dell’inverno”.

Il diffuso sentimento di una caduta imminente della civiltà non riguarda solo il “Secolo breve”.

 Infatti, le teorie sulla decadenza affondano le radici in un passato molto più lontano del XX secolo.

 

Già Esiodo, quasi 800 anni prima di Cristo, divideva la storia umana in cinque distinte fasi:

partiva da un’età dell’oro per approdare a un’età del ferro.

Il poeta greco era convinto di vivere nell’ultima fase ovvero la peggiore. Dopodiché, l’intero ciclo sarebbe ricominciato.

 Le aspettative apocalittiche segnano in modo marcato la tradizione giudaico-cristiana, la vera cifra connotativa dell’Occidente.

In tal senso, illuminanti sono le osservazioni dello storico “Oliver Bennet”, quando scrive, in” Il Pessimismo culturale,” che “l’idea di decadenza è parte integrante della teleologia giudaico-cristiana

. Essa lascia il segno nella cultura occidentale.

 Il Medioevo non ha mai avanzato dubbi sull’ineluttabilità dell’Apocalisse. Successivamente, con gli adattamenti operati dall’abate” Gioacchino da Fiore”, l’Apocalisse fu calata nella storia.

 Da qui nacque quell’associazione fra distruzione apocalittica e ricostruzione politica che ritroviamo fino alla nostra epoca”.

Del resto, la stessa visione marxista di un mondo borghese corrotto e fatiscente che viene abbattuto dal proletariato in nome del comunismo altro non è che un'altra variante della concezione della storia intesa come un processo di “distruzione e rigenerazione”.

 Tutto ciò premesso, non si vuole in alcun modo negare l’esistenza di problemi nuovi, alcuni inquietanti, che oggi occorre affrontare.

 Ricordare il pessimismo del passato serve, però, per ridimensionare il pessimismo post-moderno.

 Essere consapevoli di tutto questo aiuta ad affrontare con metodo razionale, senza catastrofismi e falsificazioni della realtà, le gravi questioni che abbiamo davanti.

 

 

 

 

Il grande disordine mondiale.    Il ritorno

della guerra ad alta intensità.

   Ilfoglio.it – (14 ott. 2024) - Nicolas Baverez – ci dice:

    

Le guerre in Ucraina e a Gaza sono la matrice del Ventunesimo secolo. Siamo passati dalla globalizzazione a un sistema multipolare, eterogeneo e bellicoso, scrive “Nicolas Baverez”.

Due anni e mezzo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e un anno dopo i massacri perpetrati da Hamas il 7 ottobre, il mondo non è più come prima – scrive “Nicolas Baverez” sul “Figaro” del 6 ottobre.

 Le guerre in Ucraina e a Gaza sono la matrice del Ventunesimo secolo, così come i conflitti della Rivoluzione e dell’Impero erano la matrice del Diciannovesimo e la Grande guerra era la matrice del Ventesimo.

Restiamo immersi nell’epoca della storia universale.

Ma si è passati dalla globalizzazione, segnata dall’abolizione delle frontiere economiche, dallo scambio di dati e dall’apertura delle società, a un sistema multipolare – senza la rassicurazione di una superpotenza – eterogeneo – con una contrapposizione insormontabile tra istituzioni, costumi e sistemi di valori – e bellicoso – con un numero di conflitti armati senza precedenti dal 1945.

La nuova era strategica è dominata dal grande scontro tra democrazie e imperi autoritari, strutturato attorno all’alleanza tra Cina e Russia, cui si aggiungono l’Iran dell’ayatollah Ali Khamenei, la Turchia di Recep Erdogan, la Corea del Nord di Kim Jong-un e il Venezuela di Nicolás Maduro.

A ciò si aggiunge l’opposizione tra sud e occidente, dovuta al risentimento legato al passato coloniale.

 

L’aumento delle tensioni internazionali si riflette nel ritorno della guerra ad alta intensità e nel rischio di escalation in Ucraina, con l’estensione delle operazioni al territorio russo in medio oriente, con lo scontro tra Israele e Iran, nel Pacifico attorno a Taiwan, al Mar Cinese Meridionale e al ricatto nucleare della Corea del Nord, e in Asia centrale, con la spietata pulizia etnica del Nagorno-Karabakh da parte dell’Azerbaigian.

La maggior parte di questi conflitti locali hanno effetti globali e sono aggravati dalla minaccia dell’uso di armi di distruzione di massa.

 

Le guerre civili si stanno diffondendo in tutto il mondo, dal Myanmar al Congo e al Sudan, passando per l’Iraq e la Libia, accompagnate da un’epidemia di colpi di stato in Africa.

Approfittando delle guerre in Ucraina e a Gaza, nonché della proliferazione di aree fuori dal controllo statale, il jihad sta tornando a essere una minaccia strategica, avanzando lungo un arco del terrore che si estende dal golfo di Guinea alle Filippine, passando per la creazione di un vasto “Sahelistan” dopo il ritiro dell’esercito francese.

Allo stesso tempo, le relazioni economiche si stanno militarizzando, trasformando in armi le materie prime critiche, cibo, energia, dati e valute.

Tutto questo avviene in un contesto di decadenza del multilateralismo – simboleggiato dalla perdita di legittimità e dall’impotenza cronica delle Nazioni Unite – in un momento in cui si moltiplicano i problemi globali legati alle migrazioni, alle pandemie, alla tecnologia (IA) e al cambiamento climatico.

 

La forza trionfa sul diritto e la violenza si affranca dalle istituzioni, dalle convenzioni e dalle regole che erano state create per contenerla.

 I conflitti, poiché si basano su questioni di identità e rappresentano una minaccia esistenziale per gli stati e i popoli, non possono più essere risolti diplomaticamente.

La violenza aumenta di intensità e cambia di natura.

Non è più solo monopolio degli stati, ma anche di milizie, gruppi terroristici e organizzazioni criminali che dispongono di forze strategiche e armi.

 Si sta espandendo in nuove aree, dallo spazio ai fondali marini al cyber mondo. Prende di mira principalmente popolazioni e attività civili.

Si sta banalizzando, radicalizzando e si mette in scena, fino a diventare il suo stesso fine, affermandosi come principio dei regimi autocratici, vettore di propaganda e strumento di reclutamento dei jihadisti attraverso i social network.

Così come il 1918, anche il 1989 è una pace mancata.

L’ordine del 1945 è ormai obsoleto.

Gli Stati Uniti non hanno più la volontà o i mezzi per garantirlo.

 L’occidente, che l’aveva ispirato, sembra essere in declino, con una combinazione di crollo demografico, stagnazione economica, paralisi istituzionale, crisi democratica e perdita di fiducia nei suoi valori.

 I suoi princìpi sono ora messi in discussione dalla maggioranza dell’umanità:

la Cina, potenza in ascesa, la Russia e gli stati revisionisti, e il sud emergente.

 Il periodo post Guerra fredda, che va dal 1989 al 2022, si è rivelato un nuovo periodo interbellico, in cui le democrazie hanno sperato di vedere l’avvento di una pace perpetua.

La sfida è grande per le democrazie, che devono affrontare il contagio interno della violenza che mina le libertà e la minaccia esistenziale di autocrati che le considerano nemiche e rivendicano un ordine post occidentale.

 

Tuttavia, la guerra e il caos non sono necessariamente lo stadio finale della storia universale.

La fine del ciclo della globalizzazione non ha eliminato l’interdipendenza tra le economie e le società, anche se queste sono maggiormente controllate dagli stati. Con l’eccezione della Russia, la tentazione di un’economia di guerra si scontra con la resilienza del commercio e dei mercati.

La sconfitta delle democrazie non è affatto inevitabile, come sottolineano le difficoltà degli imperi autoritari, che si tratti della Cina intrappolata in una deflazione alla giapponese, dell’impasse strategica in cui si è impantanata la Russia o della rivolta di massa degli iraniani contro la Repubblica islamica.

Infine, la dinamica del caos e l’estremizzazione verso la guerra totale non sono ineluttabili.

Ma solo se le democrazie si sveglieranno dal loro sonnambulismo e faranno del contenimento della violenza la loro priorità.

La pace attraverso il diritto e il commercio è una grande illusione.

 La pace attraverso l’impero si riduce a un inferno totalitario che annienta la dignità umana e la libertà.

 Ciò che rimane è la pace attraverso un equilibrio di potere.

Questa via è certamente difficile in un sistema multipolare, eterogeneo e volatile. Tuttavia, non è impensabile la graduale ricostruzione di un ordine mondiale tra i giganti del Ventunesimo secolo, purché abbiano un interesse comune a trovare una risposta ai rischi planetari e a evitare l’escalation di una guerra totale che potrebbe annientare l’umanità.

Ma ciò implica che le democrazie ristabiliscano la loro capacità di agire come deterrente militare e tecnologico nei confronti delle tirannie contemporanee e che l’Europa ripensi sé stessa come potenza.

Come ci ricorda “Stefan Zweig” nel suo libro “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo”:

 “Ma ogni ombra, in fondo, è anche figlia della luce, e solo chi ha conosciuto la luce e le tenebre, la guerra e la pace, la grandezza e la decadenza, ha vissuto veramente”.

 

 

 

La sinistra che si oppone al riarmo

 rischia di condannarsi all’irrilevanza

e di consegnare l’Unione Europea

ai regimi autoritari.

Valigiablu.it – (17 Marzo 2025) - Hanna Perekhoda – ci dice:

 

La sinistra che si oppone al riarmo rischia di condannarsi all’irrilevanza e di consegnare l’Unione Europea ai regimi autoritari.

Il Parlamento europeo ha votato la settimana scorsa una risoluzione non vincolante che stabilisce la linea sulla difesa e il riarmo.

 Le critiche più aspre alla risoluzione della Commissione europea sulla difesa e il riarmo sono arrivate da esponenti del della Sinistra (GUE/NGL).

 “Si trovano soldi per i carri armati ma non per gli ospedali”, ha detto l'eurodeputata francese Manon Aubry (La France Insoumise), osservando sarcasticamente:

 “è come se, all'improvviso, non ci fossero più il riscaldamento globale o la povertà, e l'unica priorità fossero i veicoli blindati”.

Analogamente, “Benedetta Scuderi” dei Verdi ha sostenuto che “per la corsa al riarmo si mette in discussione tutto” a partire dalla spesa sociale.

Altre voci si sono unite al coro, tra cui il co-presidente della Sinistra “Martin Schirdewan” e “Danilo Della Valle” del Movimento 5 Stelle, partito che ha inscenato una protesta sventolando slogan come "basta armi" o "+ sanità - armi".

 

In definitiva, la posizione di questi politici si riduce a:

lasciamo che il mondo intorno a noi crolli, che i paesi vengano invasi, tanto non sono affari nostri.

Dichiarano di voler preservare il loro modello sociale aumentando il budget per il welfare e limitando la spesa per la sicurezza - un ideale che qualsiasi politico di sinistra condividerebbe.

Ciò che comodamente ignorano è che lo stesso modello sociale che cercano di proteggere è stato reso possibile proprio perché la sicurezza è stata esternalizzata ad altri attori, ovvero gli Stati Uniti.

Ma cosa succede quando la sicurezza non è più garantita da questi attori?

 

Questa è una domanda che non affrontano mai, proponendo invece semplici slogan.

La realtà della competizione di potere internazionale - che oggi vive uno dei momenti più drammatici degli ultimi decenni - è semplicemente ignorata.

Mentre la Francia, la Spagna, l'Italia o la Germania non devono affrontare una minaccia militare immediata, per la Polonia, gli Stati Baltici e i Paesi Nordici il pericolo è diretto.

Quando il tuo vicino è una delle maggiori potenze militari del mondo, un paese che nell'ultimo decennio ha violato tutti i principali accordi internazionali, bombarda quotidianamente le città ucraine e sorpassa l'Europa nella corsa agli armamenti, la capacità di difendersi non è una “corsa agli armamenti”, ma un prerequisito per la sopravvivenza.

 

Alla base di questo problema c'è il rifiuto di vedere l'Europa come un progetto condiviso.

 Ironicamente, questo tipo di opposizione di sinistra alla difesa europea è una forma di nazionalismo camuffato.

 L'Unione Europea non è mai stata solo un progetto economico, ma un progetto politico e di sicurezza volto a prevenire le guerre, una lezione appresa dalle ripetute catastrofi del passato.

Il piano di riarmo europeo di fronte a un nuovo ordine mondiale.

Ciò che rende questa posizione particolarmente dannosa per la sinistra è che rispecchiano l'isolazionismo dei partiti sovranisti di destra

. Ciò è chiaramente illustrato dal voto di “Alternative für Deutschland” a fianco della sinistra.

 Tuttavia, a differenza della sinistra, la destra è coerentemente isolazionista.

 La loro posizione è diretta:

 rifiutano gli impegni militari esterni e si oppongono ai migranti, rafforzando una visione del mondo in cui contano solo gli interessi della loro nazione e nulla al di fuori dei loro confini merita attenzione.

 Questa posizione ha almeno il vantaggio della coerenza, che la rende più attraente per gli elettori che credono nell'interesse personale assoluto.

 

Al contrario, l'isolazionismo selettivo della sinistra - in cui le minacce alla sicurezza vengono ignorate, mentre persistono gli appelli alla solidarietà internazionale su questioni sociali e ambientali - manca di coerenza e non riesce a entrare in sintonia con un pubblico più ampio.

 Suscitando sentimenti isolazionisti ed egoistici, la sinistra populista coltiva un terreno emotivo che in ultima analisi avvantaggia la destra.

 Dopo tutto, se lo stato d'animo politico dominante è quello dell'egocentrismo nazionale, è la destra - non la sinistra - a offrire una visione più chiara.

 

Tuttavia, bisogna ammettere che le voci critiche di sinistra ed ecologiste che denunciano i piani di riarmo dell'Europa hanno pienamente ragione nel sottolineare che né la crisi climatica né la disuguaglianza sistemica sono scomparse.

Si tratta effettivamente di minacce esistenziali per l'umanità.

 Ma hanno ragione a presentare la capacità militare e il sostegno all'Ucraina come un ostacolo nell'affrontare queste sfide globali?

In realtà, la lotta per la sicurezza e quella contro il cambiamento climatico sono profondamente interconnesse.

Prendiamo ad esempio il consumo di combustibili fossili.

La dipendenza dell'Europa - e in particolare della Germania - dai combustibili fossili russi a basso costo non è stata solo un disastro ambientale, ma anche una grave responsabilità geopolitica.

La dipendenza energetica dalla Russia ha dato al Cremlino uno dei suoi più efficaci strumenti di influenza politica sull'Europa.

Ha finanziato la macchina bellica russa e allo stesso tempo ha reso le nazioni europee vulnerabili al ricatto energetico.

Pertanto, il rapido sviluppo di fonti energetiche alternative non è solo un imperativo ambientale: è una necessità geopolitica.

 È proprio quello che chiedono gli ucraini e gli altri Stati minacciati dall'espansionismo russo.

Le democrazie che si affidano a regimi autoritari per una questione così cruciale come l'energia stanno sabotando la propria sovranità e sicurezza.

 

Come giustamente affermato dall'europarlamentare” Li Andersson,” anche lei membro del gruppo della Sinistra, l'UE dovrebbe porsi l'obiettivo strategico di ridurre la dipendenza da attori esterni, compresi l'energia e la sfera digitale.

Tuttavia, proprio in questo momento, secondo quanto riportato dal sito investigativo” iStories” le autorità tedesche, russe e statunitensi stanno discutendo la ripresa delle forniture di petrolio e gas russo alla Germania - una mossa che contraddice direttamente la sicurezza e l'indipendenza energetica a lungo termine dell'Europa.

 

Risolvere le sfide globali come cambiamento climatico e disuguaglianze sociali è senza dubbio una priorità, ma farlo in un quadro di isolamento e sovranismo è una contraddizione.

In un mondo in cui il concetto di bene collettivo scompare e la politica è dettata unicamente dalla massimizzazione degli interessi nazionali, le forze che ne traggono vantaggio non sono quelle che sostengono la giustizia climatica o l'uguaglianza sociale.

 

Al contrario, un mondo del genere è proprio quello che Trump e Putin promuovono apertamente:

un mondo in cui la natura e la vita umana sono risorse sacrificabili per il perseguimento del potere statale, al servizio degli autocrati che lo controllano. Questo non significa che le democrazie liberali diano automaticamente priorità alla natura e alla vita umana.

La differenza, tuttavia, è che nei sistemi democratici c'è spazio per l'opposizione e la possibilità di imporre visioni alternative.

Basta chiedere agli eco-attivisti e ai sindacalisti russi e cinesi quale sia la loro capacità di lottare per la giustizia sociale e climatica.

Negli Stati Uniti, la presidenza Trump ha dimostrato quanto rapidamente i progetti ambientali e sociali possano essere smantellati e i loro valori messi a tacere e criminalizzati.

 

Né la vita umana né l'ambiente possono essere protetti in uno Stato che rientra nella “zona di interesse” di potenze imperiali autocratiche.

L'ironia della sinistra isolazionista è che, rifiutando la cooperazione in materia di sicurezza, sta accelerando la propria irrilevanza politica.

In un mondo dominato dalla politica incontrollata delle grandi potenze, loro e i loro valori saranno spinti ai margini, prima politicamente e poi fisicamente.

 

Trump, Putin e la guerra in Ucraina: il risveglio doloroso dell’Europa di fronte all’ascesa del fascismo globale.

Il contratto sociale delle nostre società si basa sull'idea che lo Stato esista per proteggere i diritti e le libertà dei suoi cittadini, non per sacrificarli per ambizioni espansionistiche.

I regimi autoritari considerano la vita umana come una risorsa sacrificabile da utilizzare per perseguire obiettivi geopolitici.

 Le democrazie sono vincolate da considerazioni etiche e politiche.

Gli Stati autoritari possiedono un controllo centralizzato sui mezzi di comunicazione e una repressione efficace, che consente loro di condurre guerre con scarsa attenzione all'opinione pubblica.

Mentre nelle democrazie i politici, concentrati sui cicli elettorali, danno priorità ai risultati a breve termine rispetto alle strategie a lungo termine.

 

Pertanto, le società democratiche hanno una vulnerabilità strategica intrinseca quando si confrontano con Stati autoritari aggressivi.

 Eppure, molte persone preferiscono aggrapparsi alla convinzione che la diplomazia, l'interdipendenza economica o la superiorità morale da sole ci impediranno un'eventuale aggressione militare.

Questo pensiero velleitario porta all'inazione e a una vulnerabilità ancora maggiore che i regimi autoritari sfruttano efficacemente, dipingendo la resistenza ai poteri autocratici come inutile e non vincente.

 

Gli slogan astratti sulla “abolizione della guerra” rivelano non solo la mancanza di soluzioni pratiche, ma anche la mancanza di volontà di assumersi responsabilità. Permettono invece di sentirsi giusti senza impegnarsi nel difficile lavoro di governo e strategia.

Rifiutando di confrontarsi con le realtà militari, questi movimenti diventano spettatori piuttosto che attori, commentando gli eventi piuttosto che plasmarli. Così facendo, in ultima analisi, cedono i compiti critici della sicurezza e della difesa a coloro cui si oppongono ideologicamente.

 

 

 

 

L’Europa a fianco

dell’Ucraina per difendere

libertà e democrazia.

Linkiesta.it – (21 -2 – 2025) – Redazione – Cristian Rocca – ci dice:

 

Che fare?

Nello spazio Esperienza Europa-David Sassoli a Roma, il direttore de Linkiesta ha moderato una tavola rotonda con la vice presidente del Parlamento europeo Pina Picierno, l’eurodeputato di Forza Italia Salvatore De Meo, l’ambasciatore polacco in Italia “Ryszard Schnepf” e altri ospiti per parlare del ruolo dell'alleanza transatlantica, di sicurezza e deterrenza europea, e sostegno di Kyjiv.

 

Ufficio del Parlamento europeo in Italia.

Cosa succederà ora in Ucraina?

 Se lo chiede tutto il mondo a pochi giorni dalle deliranti dichiarazioni di Trump e Putin.

Se lo chiede l’Europa, che cerca di organizzarsi per evitare che i negoziati di pace si trasformino in una resa.

 Se lo chiede Volodymyr Zelensky, che al momento è stato escluso dai negoziati tra Washington e Mosca.

Se lo chiedono gli ucraini, civili e soldati, mentre si interrogano sul loro destino.

E ce lo chiediamo anche noi, cittadini di democrazie liberali, di fronte agli eventi sconcertanti degli ultimi giorni, spaventati da un futuro che si delinea sempre meno libero e sicuro.

Perché la guerra russa all’Ucraina non è solo un conflitto militare, ma una battaglia per la ridefinizione dell’ordine mondiale, un test di resistenza per le democrazie liberali e un banco di prova per l’Unione europea, e la Nato. 

 

L’interrogativo sul futuro dell’Ucraina è anche il punto di partenza scelto dal direttore de Linkiesta “Christian Rocca” per gli ospiti della tavola rotonda “L’Europa a fianco dell’Ucraina per difendere libertà e democrazia”, tenutosi oggi nello spazio “Esperienza Europa-David Sassoli” a Roma.

 Il primo a dare una risposta è “Yaroslav Trofimov”, capo corrispondente per la politica estera del “Wall Street Journal” e finalista due volte del” Premio Pulitzer “per i suoi reportage sul Medio Oriente e sull’Ucraina, “Trofimov” ha pubblicato lo scorso anno il saggio “Our Enemies Will Vanish”, dedicato all’invasione russa in Ucraina.

Recentemente, in Italia è uscito anche un suo romanzo, “Non c’è posto per l’amore qui” (La nave di Teseo) ambientato in Ucraina ai tempi della carestia imposta dal regime stalinista, che causò la morte di circa quattro milioni di ucraini.

 

«La guerra che vediamo oggi, la più sanguinosa in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, non è solo una guerra per il territorio o per il potere geopolitico: è anche una guerra di storia, di narrativa e di identità.

L’ex presidente russo “Dmitrij Medvedev”, e attuale leader del partito al governo in Russia, ha detto esplicitamente che gli ucraini hanno solo due scelte: diventare russi o morire.

 Ha affermato che, se gli ucraini non accetteranno di unirsi al “popolo russo”, l’Ucraina sarà distrutta», ha spiegato “Trofimov” in videocollegamento.

 

Oggi, l’esercito ucraino conta più di un milione di uomini ed è la forza armata più numerosa tra le democrazie europee.

Infatti, ha più soldati rispetto agli eserciti di Italia, Francia, Germania e Regno Unito messi insieme.

Nel mondo attuale, è una delle forze militari con esperienza reale nel combattere un nemico moderno e sofisticato.

Un patrimonio di conoscenze e di coraggio che non può essere dimenticato, né sottovalutato.

«Oggi l’Ucraina è lo scudo dell’Europa. Con la sua resistenza, sta guadagnando tempo per permettere ai Paesi europei di prepararsi e di investire finalmente nella propria difesa e nei loro eserciti.

 Finché la battaglia resta confinata nel Donbas, non si combatte nel resto d’Europa. E l’Europa ha ancora tempo per prepararsi», chiarisce “Trofimov”.

 

Mai come in questo momento, con un cambio di clima alla Casa Bianca, la presenza e la capacità di reazione dell’Europa appaiono fondamentali.

 Anche per questo motivo, la decisione della vicepresidente del Parlamento europeo “Pina Picierno” di recarsi a Kyjiv il 24 febbraio nel terzo anniversario di guerra è la concreta testimonianza della vicinanza delle istituzioni Ue al popolo ucraino.

Secondo Picierno è doveroso farlo perché:

 «l’Europa è di fronte a un bivio. Sento con urgenza la necessità di imboccare la strada giusta, soprattutto alla luce di una pericolosa saldatura individuata per prima dal presidente Macron:

 l’alleanza tra il movimento eversivo dell’estrema destra, che trova un punto di riferimento in Donald Trump, e il regime autoritario e criminale di Vladimir Putin. Siamo dentro un perimetro estremamente angosciante e pericoloso.

 L’Europa deve reagire e farlo con urgenza».

 

Pur ritenendo eccezionale la compattezza e capacità di reazione dell’Europa nel contrastare l’invasione criminale di Putin in Ucraina, “Picierno” ha sottolineato uno dei principali ostacoli operativi delle istituzioni Ue:

l’impossibilità di prendere decisioni cruciali di politica estera senza il vincolo dell’unanimità:

«La storia della nostra Unione europea non è mai stata costruita in modo scontato o con il consenso unanime di tutti.

 Non è stato così per l’euro, non è stato così per Schengen, né per il “Trattato di Prüm “sulla collaborazione antiterrorismo.

 Per questo penso che sia arrivato il momento di agire con un’avanguardia europeista che avverte l’urgenza di una reazione.

 Bisogna procedere con chi è pronto a farlo, magari attraverso un trattato internazionale che sancisca finalmente l’Unione europea della difesa.

 Ci sono questioni enormi da risolvere, e il momento di affrontarle è oggi, non domani.

Rispondere alle sfide del nostro tempo non è più una possibilità: è una necessità», ha concluso Picierno.

Il senso di urgenza di una risposta europea è condiviso dal terzo ospite della tavola rotonda, “Salvatore De Meo” eurodeputato di Forza Italia nel gruppo del “Partito popolare europeo” che ha espresso qualche dubbio sulla capacità europea di reagire prontamente alle nuove sfide geopolitiche:

 «Il mondo sta cambiando a una velocità che non è più compatibile con le nostre regole attuali.

 Dobbiamo riconoscere le criticità e le mancanze di un’Europa che, nei decenni scorsi, non ha saputo rafforzarsi né unirsi attorno a un progetto che vada oltre le sole regole economiche.

Nella scorsa legislatura sono stato presidente della “Commissione Affari Costituzionali” e ricordo bene quanto sia stato difficile portare avanti la riforma dei trattati.

In quella riforma si era anche discusso dell’abolizione del principio dell’unanimità, ma purtroppo la proposta non è passata e oggi giace nei cassetti del Consiglio».

 

Secondo “De Me”o non può esistere pace senza il coinvolgimento dell’Ucraina, ma nemmeno senza un’Europa consapevole del proprio ruolo in questa battaglia:

 «Se la guerra è il fallimento dell’umanità, dobbiamo evitare che la pace diventi il fallimento della democrazia, della libertà e della diplomazia.

Questo è il rischio che corriamo oggi.

Si stanno creando dinamiche particolari anche all’interno dell’Alleanza Atlantica. In qualità di Presidente della delegazione europea presso l’Assemblea parlamentare della Nato, nelle varie interlocuzioni percepiamo con chiarezza questa tensione:

 più che una provocazione, si tratta di una vera e propria minaccia di abbandono dell’Alleanza.

E questo non possiamo permettercelo».

 

La pace si costruisce attraverso la deterrenza.

 Ed è proprio in questo contesto che l’Europa deve giocare un ruolo da protagonista.

 «Rafforzare la nostra industria della difesa e le nostre relazioni diplomatiche, potenziando la nostra capacità di protezione, significa creare condizioni di equilibrio e soprattutto di credibilità sullo scenario internazionale», spiega “De Meo”.

Ma non possiamo ridurre il concetto di difesa esclusivamente alla dimensione militare.

 La difesa è qualcosa di molto più ampio: riguarda l’equilibrio globale, necessario affinché possano esistere anche il welfare, la formazione, la cultura e le infrastrutture:

 «Diffido di chi semplifica questo dibattito riducendolo a mere percentuali – il due, tre, quattro per cento – o contrapponendo investimenti nella difesa a quelli per la sanità o altri settori.

 Questo approccio è divisivo e non tiene conto di un principio fondamentale:

 per garantire servizi essenziali come la sanità, la cultura e lo sviluppo economico, è indispensabile un contesto di pace».

 

Alla tavola rotonda organizzata nello Spazio Europa è intervenuto anche “Ryszard Schnepf”, ambasciatore polacco in Italia.

Dal primo gennaio la Polonia ha assunto la presidenza di turno del Consiglio Ue, l’organo che riunisce i governi dei ventisette Stati membri.

Per ragioni storiche e geografiche è più coinvolta rispetto ad altri Paesi europei in ciò che sta accadendo in Ucraina.

 Di fatto, è il leader del fronte atlantista nell’Ue, determinata a mantenere uno stretto rapporto con gli Stati Uniti, indipendentemente dalla presidenza di Donald Trump.

 Questo perché è consapevole che, almeno per il momento, la sicurezza europea dipende ancora in larga parte dal sostegno americano.

 

Ma come si comporterà Varsavia di fronte al nuovo atteggiamento del presidente degli Stati Uniti?

 «Ci troviamo di fronte a una forma estrema di realpolitik, in cui tutti i valori su cui abbiamo costruito la nostra Unione vengono messi in discussione e valutati anche in termini economici

. Nonostante le incertezze, crediamo ancora nella collaborazione con gli Stati Uniti. Dopo tutto ciò che abbiamo costruito insieme, possiamo e dobbiamo rimanere una forza occidentale determinata a difendere la democrazia e la sovranità di un Paese che oggi è sotto attacco», spiega “Schnepf”.

 

L’ambasciatore polacco ha poi voluto ricordare come la Polonia, già prima dell’invasione russa del 2014 in Crimea e Donbas, avesse messo in guardia Washington e Bruxelles sulle reali intenzioni di Mosca.

 «Sapevamo che non si trattava solo di un’azione politica o di un intervento militare, ma di un cambiamento globale degli equilibri di potere.

I sogni imperiali di Vladimir Putin non si fermeranno, continueranno ad avanzare».

 

La priorità, ha sottolineato” Schnepf,” è restare uniti, discutere le politiche di bilancio per permettere ai Paesi di rafforzare le proprie capacità difensive senza generare costi aggiuntivi insostenibili.

Una buona strategia potrebbe essere quella di creare una difesa aerea comune, a partire dal controllo dello spazio aereo sul Mar Baltico, ma anche dell’Europa orientale, che si trova sotto una minaccia diretta.

Non si tratta di un cambiamento immediato, ma di una strada che Parlamento, Commissione e Consiglio europeo devono intraprendere per lavorare insieme per proteggere

«Abbiamo bisogno di pazienza e unità. È come tra fratelli: il più anziano deve sostenere il più giovane, anche quando quest’ultimo non è ancora pienamente consapevole della propria situazione.».

 

“Nona Mikhelidze”, responsabile di ricerca presso l”’Istituto Affari Internazionali” (Iai), è intervenuta invece sulle intenzioni della Federazione Russa e i nuovi piani di Donald Trump.

«È un momento particolare: l’Ucraina oggi si trova contro due potenze nucleari.

E il fatto che due uomini forti si incontrino per decidere il nostro destino non è altro che una dimostrazione della nostra mancanza di libertà interna», ma «ogni volta che succedono questi eventi si crea un paradosso: sono proprio gli analisti e i rappresentanti della società civile ucraina a dover rassicurare gli europei, affinché non si deprimano troppo».

Per “Mikhelidze” l’Europa dovrebbe concentrarsi su due fronti:

prepararsi in via preventiva a uno stop degli aiuti americani, e rafforzare al contempo la difesa ai confini dell’Unione:

 «Creare forze di deterrenza – che non sono “peace keepers”, ma strumenti di protezione – è fondamentale.

Un piano credibile potrebbe includere il dispiegamento di trentamila truppe in Ucraina, il controllo dello spazio aereo con il sostegno americano e il monitoraggio del fronte con l’uso di droni».

 

Ma resta il nodo principale:

 la possibilità reale di raggiungere un cessate il fuoco, data per scontata da molti, ma per niente sicura.

 «Temo che il negoziato sia solo una manovra tattica della Russia per guadagnare tempo, dividere ulteriormente Stati Uniti ed Europa e far saltare il tavolo quando sarà più conveniente per Mosca.

 Gli stessi americani hanno detto che, se si arriverà a un accordo, ci vorranno almeno centottanta giorni.

Ma nel frattempo?

Se gli Stati Uniti decidessero di interrompere il sostegno militare all’Ucraina, chi fornirebbe le armi?

Dove troverà l’Europa le risorse necessarie?

 Cosa si farà con i trecento miliardi di asset russi congelati, di cui oltre duecento miliardi sono nelle banche europee?

L’Europa sarà in grado di usare questi fondi per sostenere militarmente l’Ucraina al posto degli Stati Uniti?».

Domande necessarie, che però al momento non trovano risposta.

Il rischio più grande per “Mikhelidze” è che gli Stati Uniti si preparino a uno scenario in cui l’Ucraina diventi il capro espiatorio:

 «Zelensky e il popolo ucraino potrebbero essere accusati di non aver voluto la pace».

 

Pur mantenendo il necessario realismo e la concretezza nelle misure da adottare, c’è un aspetto politico che secondo “Picierno “non possiamo ignorare:

 «Se questi negoziati si concludessero senza una netta condanna politica da parte del mondo libero, domani potremmo svegliarci con “Xi Jinping” che invade Taiwan o con Trump che – sul serio – prova a comprarsi la Groenlandia.

 Se vengono meno le regole del diritto internazionale, se si accetta che i confini di uno Stato sovrano possano essere ridisegnati con la forza militare, allora tutto diventa possibile.

 Ci troveremmo in un mondo ancora più instabile e pericoloso, con crisi ben più gravi di quelle che stiamo già affrontando».

Per Picierno lo sforzo del mondo libero e delle democrazie liberali deve essere rivolto alla difesa del multilateralismo, dello Stato di diritto e delle regole che ci siamo dati.

 Sostenere oggi l’Ucraina significa esattamente questo.

 

Non tutti i paesi europei hanno la stessa opinione su come affrontare la Russia.

In Polonia, maggioranza e opposizione sono unite sul sostegno all’Ucraina, mentre in Italia c’è divisione su questo tema persino nel governo:

Forza Italia ha una posizione chiara e atlantista, la Lega invece è storicamente più vicina alla Russia.

 Come può la coalizione di governo trovare un punto di convergenza su un tema così delicato e strategico per la nostra sicurezza nazionale?

 «Sul tema dell’Ucraina, bisogna riconoscere che, al di là di alcune differenze, il governo non ha mai avuto ripensamenti.

La presidente “Meloni” si è sempre schierata a favore di Kiev, instaurando con Zelensky un rapporto che è andato oltre quello istituzionale e che oggi le permette di esercitare un ruolo importante», spiega De Meo.

«Al di là di chi sia alla guida della Casa Bianca, il rapporto con Washington deve rimanere solido.

 È vero che questa nuova presidenza americana si distingue per particolarità e toni diversi, ma l’alleanza con gli Stati Uniti resta fondamentale, e noi abbiamo sempre creduto nella necessità di costruire un dialogo costruttivo con loro», spiega De Meo.

 

Secondo “Mikhelidze” la guerra in Ucraina non si combatte solo sul campo militare, ma anche sul piano narrativo.

 Nelle relazioni internazionali, le percezioni giocano un ruolo enorme nei processi decisionali, come dimostrato dal costruttivismo

. «Lo abbiamo visto chiaramente nella politica estera russa, dove ideologie e percezioni hanno avuto un impatto determinante nella formulazione delle strategie.

Per questo è fondamentale che l’Europa presti attenzione anche a come si racconta, sia nel comunicare i successi ottenuti in questi tre anni, sia nel modo in cui spiega la guerra alla propria popolazione».

 

In effetti all’inizio del conflitto, si diceva che “Kyjiv “sarebbe caduta in tre giorni, e invece oggi l’Ucraina resiste.

Non solo: ha riconquistato più territori di quanti ne avesse persi dopo il 2022.  «Dobbiamo contrastare la narrativa secondo cui sarebbe stato meglio firmare l’accordo di Istanbul, quando in realtà, all’epoca, l’Ucraina controllava molti meno territori di quanti ne controlli ora», conclude “Mikhelidze”.

 

“Carlo Corazza”, direttore dell’Ufficio italiano del Parlamento europeo, ha chiuso i lavori ribadendo l’impegno dell’Unione europea per l’Ucraina:

«la settimana prossima a Kyjiv, è un segnale chiaro e netto:

continueremo, come abbiamo fatto dal primo giorno, a sostenere l’Ucraina con forza.

 È importante ricordare che finora l’Europa ha investito molto più degli Stati Uniti: centotrenta miliardi di euro contro i cento miliardi stanziati da Washington. Abbiamo attivato la direttiva sulla protezione temporanea, accolto milioni di profughi e continueremo a farlo, senza esitazioni e senza cedimenti.

Allo stesso modo, continueremo a lavorare per accelerare il processo di adesione dell’Ucraina e degli altri Paesi che hanno fatto richiesta, come la Georgia».

Per “Corazza” il punto fondamentale per la difesa europea non è solo spendere di più – raggiungendo il due per cento del Pil e oltre – ma soprattutto spendere meglio, a livello europeo.

«Serve un fondo comune: oggi abbiamo un budget di sette miliardi, ma come proposto da Mario Draghi, dovrebbe arrivare almeno a cento miliardi.

Questo permetterebbe di fare ciò che già aziende come “Leonardo” stanno facendo con l’industria tedesca e polacca: integrare, creare economie di scala, sviluppare interoperabilità».

 

Infine, rivolgendosi agli studenti degli istituti romani presenti al dibattito, ha fatto un parallelo storico:

«L’identità dell’Occidente si è formata nel V secolo a.C. in Grecia, grazie a due eventi fondamentali.

 Il primo sono state le guerre persiane, che avrete sicuramente studiato: il piccolo mondo occidentale dell’epoca – Atene, Sparta, Tebe – si unì per difendere la propria libertà, definendo la propria identità in contrapposizione alla tirannia.

Il secondo evento, altrettanto cruciale, fu il pensiero di Socrate, che sconfisse i sofisti nel dibattito filosofico.

Socrate sosteneva la ricerca della verità, mentre i sofisti ritenevano che non esistesse una verità assoluta, ma solo percezioni soggettive.

Oggi stiamo assistendo a una nuova versione di quello scontro.

Il primo fronte della guerra tra autocrazie e democrazie liberali è la disinformazione.

 Quando si parla di “free speech” in modo distorto, sono i nuovi sofisti che riemergono, cercando di convincerci che la verità non esiste.

Ma la verità esiste.

Il pensiero occidentale è nato con Socrate e dobbiamo esserne fieri.

Soprattutto, dobbiamo difenderlo».

 

 

 

L’aggressione all’Ucraina: un emblematico

confine tra democrazia e autocrazia.

Ilpopolo.cloud.it - (26 Aprile 2022) – Luigi Rapisarda – ci dice:

 

 È sempre più stupefacente leggere prese di posizioni, anche all’interno della nostra area culturale (in senso lato), ove non si fa velo di incontrollate impulsività e di veemenza lessicale con cui, ora si commentano le strategie sanguinarie del capo del Cremlino, ora si connotano posizioni personali divergenti.

 

E se da una parte esse trovano la naturale giustificazione perché qui è in gioco il futuro e la sovranità di tanti popoli, dall’altra fa un certo effetto cogliere, nei sensi più espressivi di questi confronti, il segno di posizioni, così apodittiche, che, come vasi non comunicanti, sembrano destinati a non convergere.

In questa dimensione oltre a fare un torto alla “Ragion pratica” di Kantiana memoria, difficilmente un confronto così apodittico e fazioso, come ne stiamo vedendo tutti i giorni nei “talk show” e nelle specifiche posizioni dei leader politici, può essere fucina di soluzioni capace di comporre ciò che in politica è molteplice e complesso.

 

Con il paradosso che, ancora una volta “Draghi”, lasciato solo, mentre i partiti litigano sul che fare, finisce per lasciarsi ammaliare (forse guardando ad altro) da posizioni che forzano, in qualche modo, i nostri principi costituzionali.

Alludo in particolare alla decisione di fornire armi, che, a questo punto, sembra quasi, senza condizione.

Così si corre il rischio di smarrire tutta quella parte della dimensione morale che ci impone, sempre, l’etica del dover essere.

 

Certo non in nome di ideologie che pretendono obbligatoriamente un solo comune” habitus mentale” nel quale lo Stato si arroga il diritto di educare il proprio popolo ad un pensiero che non tollera dissenso (e qui non è solo la Russia, ma anche la Cina e tutti i regimi confessionali).

Tutto questo in una visione cinica e spregiudicata della vita e del mondo piegata a riproporre quelle condizioni pre-giuridiche che furono oggetto, con “Il Leviatano”, delle speculazioni di “Thomas Hobbes”.

 

Scrive, in occasione del 25 aprile scorso, il direttore dell’Osservatore Romano,” Andrea Monda”: “La “desertificazione” delle emozioni ha prodotto un uomo squilibrato, armato solo della fredda razionalità, ma che ha perso il cuore dell’umanità”.

Una mutazione antropologica che affonda le radici già nella speculazione filosofica espressa con grande acume da” Baruch Spinoza”, con cui, nel tentativo di convincere i governanti a porre fine alla” follia di una guerra interminabile”, che in quei secoli insanguinava l’Europa, il filosofo olandese esortava con la famosa frase a leggere le “cose umane”, e che il direttore dell’Osservatore Romano ci ricorda:

«Non ridere, non” lugere neque detestari sed intelligere”, ossia «Non ridere, non piangere né detestare ma (cerca solo di) capire».

 

In questa chiave di lettura, ossia rimuovendo ogni rivolo di emotività può agire, senza inganni, il focus della comprensione e lo scandaglio dell’intelligenza.

 

Così il” razionalismo di Spinoza” apriva la strada all’epoca dell’Illuminismo.

Certo la rivalutazione dell'emozionalità non tardò a trovare nell’”Idealismo di Hegel” e successivamente nel filone romantico, nel quale possiamo riconnettere, sia pure atipicamente, le iperboli metaforiche del “pensiero di Nietzsche”, l’esaltazione di quella parte motivazionale delle azioni umane più istintuale,” e senza freni “Superuomo”, che fece da” humus culturale per travolgere i limiti di quell’equilibrio di valori che il “giusnaturalismo” aveva già ben demarcato.

E finì per divenire la genesi di aberranti disegni di dominio nel ‘900, con ben due conflitti mondiali combattuti sul continente europeo.

 

Ancora oggi le nostre democrazie devono stare allerta affinché quelle che appaiono come marginali caratterizzazioni populiste e nazionaliste di certe forze politiche, non prendano il sopravvento.

Purtroppo non è bastato il fatto che dopo la seconda guerra mondiale le Cancellerie del mondo si trovarono concordi nel rifondare la “Società delle Nazioni,” dando nuova veste giuridica all’”Onu” e scolpire nelle Costituzioni( ma non fu così per i paesi del blocco sovietico e per la Cina e il sud-est asiatico)quel virtuoso florilegio dei principi universali che le Rivoluzioni, americana e francese, seppero esprimere nelle tre emblematiche parole: liberte’, egalite’, fraternite’, per rendere non più riproponibile uno scenario da terza guerra mondiale.

 

Oggi ripercorriamo quello “scontro di civiltà” che attraversa, da più di due secoli, l’affermazione di quei principi universali che la Carta dell’Onu ha riconosciuto come valori imprescindibili per la tutela dei diritti umani e dei popoli.

Ora la minaccia viene dal ventre molle di una Nazione (per essere più precisi una Confederazione) che non ha conosciuto la Democrazia (come si intende in Occidente) e lo stato di diritto e che vagheggia da secoli, persino durante il Comunismo, sogni imperialisti.

Un contesto nel quale ha grande peso il “controllo dei media” e la scarsa acculturazione per la sua dimensione prevalentemente rurale.

Ma anche un paese che ha saputo esprimere élite culturali capaci di cogliere le più profonde vibrazioni dell’animo umano attraverso le pagine di “F. Dostoevskij” e “L. Tolstoj”.

 

Putin, facendo leva su un forte revanscismo delle dottrine imperialiste, che in quel paese sono rimaste sempre sotto la cenere, in un mix di integralismo e populismo, e inebriato dallo sconfinato potere personale che ha acquisito, si comporta capricciosamente come un despota assoluto nella certezza che ogni sua volontà (di potenza) oramai non trova più argine.

 

E non è il solo.

 

In piccolo, li abbiamo anche fin sotto casa: “Erdogan” e “Al Sisi”.

Cosa che dovrebbe tenere molto prudenti le Cancellerie nel pur necessitato disegno di agire tra sostegni alla guerra, sanzioni incisive e isolamento monetario.

È proprio di ieri l’ennesima minaccia di una terza guerra mondiale che il ministro degli” Esteri Lavrov” ha fatto riecheggiare nei media di tutto il mondo.

Mentre nessuna incisività sembrano aver avuto i tentativi di trovare condivisione nelle due superpotenze asiatiche: Cina ed India, per indurre Putin al cessate il fuoco.

 

Esse fanno orecchio da mercante perché sono proiettate verso un nuovo ordine mondiale teso ad indebolire la funzione di presidio delle democrazie nel mondo che gli USA, con tutti i loro limiti (vedasi tutta la polemica sulla pretesa esportazione della democrazia nei paesi di altra cultura politica, Iraq e Afghanistan ne sono palmare esempio) hanno rappresentato.

Mentre sembrano più credibili le performance di “Erdogan” al cessate il fuoco per gli evidenti interessi del suo paese in quel quadrante geopolitico che dai Dardanelli arriva fino al mar di Azov.

Uno scenario che non ci rassicura perché rende evidente il crinale che hanno imboccato inesorabilmente le potenze Eurasiatiche per le quali la democrazia è una dottrina al crepuscolo.

Un crinale che ha palesemente bandito dai principi internazionali la sicurezza dei territori ed il rispetto delle scelte dei popoli.

Ed è proprio in questi momenti, nei quali la Storia è costretta a scrivere le pagine peggiori, che ci tocca fronteggiare con il massimo dell’acume e della intelligenza, simili aberrazioni.   

 

Ma è anche vero che, in un quadro di pacifica convivenza tra i popoli, c’è un diritto comune, non scritto, che impone la solidarietà ed il sostegno, non solo umanitario, alla resistenza militare e civile di un paese aggredito.

Troppo c’eravamo illusi e, anche stupiti, che fossero passate bellamente ben più di settant’anni senza che si intravedesse la concreta minaccia di un terzo conflitto mondiale.

Un errore di valutazione o una lettura sbagliata dei contesti geopolitici che man mano si sono venuti a determinare nei quadranti più caldi dei nostri continenti.

Tra essi la questione Ucraina è stata senz’altro, e per troppo tempo, sottovalutata dalle super potenze.

 

Eppure non è mancato chi, come il decano dei diplomatici, “Henry Kissinger”, già  nel 2014, ci aveva messo in guardia della singolare situazione Ucraina, divisa tra mire imperialiste della Russia di Putin e voglia di Europa di gran parte del suo popolo.

La piccola rivoluzione del 2014 era stato il segnale più evidente dello scontro di civiltà che in quel territorio, al confine con la Russia, si stava giocando nella logica di una nuova demarcazione tra democrazia e autocrazie.

Noi - parlo della cultura politica cattolico-democratica che ci accomuna in tanti - non abbiamo mai propiziato il ricorso alle armi, salvo che non sia stato per difendere la Patria in pericolo.

E al contempo, portatori di una cultura politica che affonda le radici nel popolarismo e nella tutela della vita e della persona, non possiamo non sforzarci di comprendere come è difficile accettare contesti così devastanti per civili inermi:

donne, bambini, anziani, davanti ai quali il Papa ha amaramente constatato che «La nostra civiltà, i nostri tempi, hanno perso il senso del pianto».

Mentre non giova il facile manicheismo di quanti bollano, come espedienti “filo-Putin”, invocazioni e Appelli di invito alla pace e al cessate il fuoco.

 

Le connotazioni negative lasciamole al facile sfogo della coscienza umana nei momenti in cui essa si divincola dalle “missioni” che spesso caratterizzano i nostri orizzonti politici.

Il nostro impegno di Cristiani e i nostri principi mettono l'Umanità e ciascuna persona al centro dell’azione politica.

Perseguiamo il raggiungimento del bene comune, e agiamo e dialoghiamo per raggiungere ovunque obiettivi di convivenza civile e per mutare in meglio i contesti storici entro cui operiamo.

Così se è doveroso non stare con gli occhi chiusi di fronte a così grave tragedia umana che sta vivendo il popolo ucraino, nondimeno ci autorizza a scegliere o a vederne come unica via, il terreno militare ed il sostegno in armi come unico mezzo per risolvere il conflitto.

 

Vero è che la difesa della democrazia, ma anche qualunque aggressione, non può e non ci fa mai restare inerti nella solidarietà e nel sostegno verso ogni popolo aggredito.

 

Ma cosa diversa è, se con dichiarazioni plateali e talvolta provocatorie, come sembra essere l’attuale linea di Biden, che stride con le modalità con cui si è affrettato ad abbandonare l'Afghanistan, si va ad armare un paese aggredito, scatenando inconsulte reazioni da parte del paese invasore che, non vincolato da alcuna ritualità istituzionale che non sia la volontà del suo presidente, finisce per puntare solamente sulla soluzione militare.

 

Con l’aggravante che può essere un ottimo pretesto per Putin per allargare il teatro di guerra, come pare stia per verificarsi con le recenti incursioni militari in Transnistria, magari attraverso incidenti appositamente provocati.

Un evento, quello dell’allargamento del conflitto, che in tutti i modi dobbiamo invece scongiurare perché, oltre a non arrivare a nessun negoziato, si rischia di esporre milioni di cittadini europei alle brutalità della guerra.

 

C’è invece necessità di parole serie e non bellicose che solo la diplomazia rende possibili per trovare i punti di interesse per un accordo negoziale che risolva la convivenza, attraverso speciali autonomie alle regioni del fianco est delle due diverse culture politiche, oltre che di lingua, dentro l’Ucraina.

Tuttavia scontiamo tutta l’impotenza in cui naviga da tempo l’Ue, che non riesce ad accreditarsi come interlocutore valido, per le tante ragioni a noi note, e che in definitiva le impediscono di assumere un univoco atteggiamento, sia sul piano economico che degli aiuti ad ampio raggio all’Ucraina, finendo per arrancare dietro al carro degli USA che non fanno velo di essere il contendente, non solo occulto, di questa guerra (non pochi osservatori l’hanno definita per procura) il cui teatro è, ancora una volta, il continente europeo, senza riuscire a trovare sponda nell’apparente indifferenza della Cina, che ha invece tutto l’interesse a non squilibrare il suo disegno neo-colonialista e a tenere lontani gli Stati Uniti dall’asse Indo-cinese.

 

E non da poco pesano sull’atteggiamento irresoluto dell’Ue, le eccessive dipendenze energetiche che a cominciare dalla Germania non si è disposti a troncare a breve.

Retaggio di quella malintesa globalizzazione che ci ha ciecamente portati a fare a meno di produzioni  o infrastrutture energetiche interne, nel solco di quei teoremi, tradotti nella tavola di “Heckscher-Ohlin”, che consigliava gli import se a prezzi ancora minori si poteva ottenere la stessa quantità e qualità comprando la medesima merce da altri paesi, ma che hanno finito per intaccare la piena sovranità di questi paesi e rendere la politica subalterna all’economia.

 

E di certo non aiuta la fragile e finta baldanza degli Usa e la politica a zig zag della NATO.

Entrambi hanno chiuso gli occhi in questi due precedenti lustri lasciando alla Russia di occupare militarmente la Crimea e sorvegliare militarmente il Donbass, senza sollevate decise questioni in campo internazionale, finendo per non agevolare da subito una soluzione  che accontentasse le due parti e impedisse una sovraesposizione della vicenda destinata da quel momento a far presagire un prevedibile intervento militare, come fu facile profeta Henry Kissinger in un articolo del Washington post.

 

Peraltro gli innumerevoli sondaggi in campo, ci delineano con nettezza quanto sia fortemente avvertita nella coscienza di tanti italiani, di fronte alle brutalità che le truppe del Cremlino stanno facendo, prendendo di mira civili inermi, ove non pare possa escludersi il ricorso ad arsenali chimici, come sembrerebbe, secondo fonti giornalistiche e le prime inchieste giudiziarie, la priorità di prodigarsi il più possibile per un immediato cessate il fuoco ed una soluzione negoziale del conflitto.

Per di più non è da sottovalutare l’esplicita minaccia di Putin a non farsi scrupoli per un eventuale ricorso ad armi nucleari.

Mentre vien da chiedersi a chi giova offrire a bella posta il pretesto per incidenti che possano coinvolgere paesi confinanti dell’ex patto di Varsavia?

 

Se da una parte è giusto fornire armi di difesa per consentire alle truppe di resistenza Ucraine di fronteggiare l’invasione, non pare altrettanto savio entrare nella logica di un sostegno totale dell’esercito ucraino rifornendoli di armi di ogni tipo, senza fare distinzioni tra armi difensive ed offensive.

 

Questo perché è palese che l’obiettivo che muove Putin non appare essere solo l’annessione definitiva della Crimea e del Donbass.

Anzi, senza troppe finzioni ha chiaramente dichiarato guerra all’Occidente nella convinzione che esso non è altro che l’espressione, oggi sempre più decadente e corrotta, della Democrazia, che Putin non ama.

 

Ma questo è un disegno a medio e lungo termine che militarmente non può realizzare in questa stagione.

Ecco perché è necessario che si arrivi prima possibile ad un cessate il fuoco e sedersi seriamente attorno ad un tavolo per negoziare i prodromi di una pace.

In tale scenario entrerebbero giocoforza le altre superpotenze, Usa, Uk, Ue, Turchia (che già ospita l’attuale tavolo negoziale con grandi interessi in campo) Cina, India, e qualche rappresentante dell’Africa, sotto l’egida dell’Onu, cogliendo l’occasione per una ridefinizione delle zone d’influenza.

 

In tale scenario non appare molto rasserenante l’atteggiamento di Biden che sta forzando la pressione psicologica su Putin per indurlo a non negoziare nella convinzione che più si allunga la guerra più egli si impantana nelle sacche di resistenza degli Ucraini, fidando che questa défaillance porti ad un cambio di regime.

Una strategia che seppur in una logica di logoramento finalizzata a convincere la Cina a sedersi ad un tavolo per delineare un nuovo ordine di sfere d’influenza, non si acconcia con le attese dei paesi dell’Europa democratica che vedono nel prolungarsi del conflitto un pericolo sempre più concreto di un’escalation capace di trascinare dentro una terza guerra mondiale il Continente europeo, con tutti i rischi veri di una soluzione nucleare.

 

Insomma un negoziato a metà tra una “nuova Yalta” e una riedizione del “Congresso di Vienna” senza obiettivi di restaurazione ma di pacifica convivenza che però dovrebbe trovare la conditio sine qua non, in prospettiva, di un disarmo nucleare totale.

Ma viene anche da chiedersi se sia davvero il caso di riportare il mondo ad una riedizione della divisione per blocchi, facendo pagare a tutti quei territori di confine tra i modelli politici antitetici, democrazie e autocrazie, un prezzo così alto, imponendogli di fatto una rinuncia al principio di autodeterminazione.

(Luigi Rapisarda).

 

 

 

 

Perché l’India è la chiave di

volta del nuovo assetto

internazionale.

  Lichiesta.it - Gianni Vernetti – (21 -03 – 2025) – ci dice:

 

Il “Raisina Dialogue” ha sancito il posizionamento di Delhi come grande potenza democratica, lontana dai Brics e dalle autocrazie.

Il governo Modi è un naturale ponte fra il global south e l’Occidente.

Si è da poco concluso a Delhi il decimo “Raisina Dialogue”, il più rilevante evento geopolitico e geoeconomico del subcontinente indiano, con il quale l’India esibisce al mondo il suo nuovo status di potenza economica, politica e militare e il proprio posizionamento in un mondo in rapida evoluzione.

Quello di questi giorni è stato il “Raisina Dialogue “più partecipato di sempre, con tremila settecento delegati, ottocento relatori e delegati di governi, imprese e società civile di centotrenta Paesi del mondo.

Inaugurato dal primo ministro “Narendra Modi”, e da un “keynote speech “del primo ministro della Nuova Zelanda “Christopher Luxon”, la Davos/Monaco indiana ha fornito alcuni segnali inequivocabili alla comunità internazionale. Primo fa tutti il definitivo posizionamento dell’India nel campo della comunità delle democrazie.

 

Il Paese più popolato al mondo è anche la più grande democrazia del pianeta: multietnica, multiconfessionale, multiculturale, con efficaci checks and balances fra potere legislativo ed esecutivo, magistratura indipendente, stampa libera, una sempre più dinamica economia di mercato e a breve il terzo Paese al mondo per ricchezza prodotta.

 Il posizionamento geopolitico dell’India nel campo dell’alleanza fra le democrazie potrebbe rappresentare una chiave di volta rilevante nel crescente confronto con autocrazie sempre più assertive.

 

L’India è oggi un caso di successo della globalizzazione.

È anche la dimostrazione concreta che sviluppo e democrazia possano convivere, e che il modello cinese (mercato senza democrazia e capitalismo guidato), ancora attrattivo in diverse aree del sud del pianeta, non è una scelta né scontata, né migliore.

In questi giorni è apparso evidente come il posizionamento strategico dell’India non sia certamente con i Brics, ma che la grande democrazia indiana è già parte a pieno titolo di quell’occidente globale, tanto inviso alle autocrazie, candidandosi peraltro a diventare il naturale ponte fra il global south e l’Occidente stesso.

 

I tre grandi assenti di questi giorni erano la Cina, la Russia e l’Iran:

 le tre autocrazie che, con modalità diverse, stanno promuovendo un progetto di sovversione del sistema internazionale fondato sulle regole e sui diritti.

 I protagonisti indiscussi di queste giornate sono stati invece il “Quad” (l’alleanza quadrilaterale fra India; Australia, Giappone e Stati Uniti); i “Free Trade Agreement” con l’Unione Europea, il Regno Unito e Washington;

 l’asse strategico fra India e mondo sunnita moderato, a cominciare dagli Emirati Arabi Uniti.

 

Il governo indiano, con il ministro degli Esteri “Subrahmanyam Jaishankar “promotore delle tre giornate, ha inviato un segnale fortissimo alla Repubblica popolare cinese quando nella sala “Durbar “del “Taj Hotel” ha riunito in uno degli incontri più seguiti dell’intero evento, i capi delle forze navali di India, Stati Uniti e Australia e i capi di stato maggiore degli eserciti di Giappone e Filippine.

 

Il panel ha fornito un messaggio forte e chiaro a Pechino:

 le democrazie dell’Indo-Pacifico sono impegnate a garantire e difendere la libertà di navigazione e il commercio globale nell’area, e sono pronte a impedire atti unilaterali di cambiamento dello status quo nello stretto di Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale.

I rappresentanti delle marine e degli eserciti dei cinque Paesi hanno tutti in vario modo confermato l’impegno a proseguire con esercizi militari comuni per aumentare l’interoperabilità fra le varie forze militari e a impegnarsi per la sicurezza e la stabilità dell’intera area.

 

L’ammiraglio “Samuel Paparo”, Comandante dello “US Indo-Pacific Command,” si è spinto più in là:

 «Xi Jinping ha dichiarato di volere annettere con ogni mezzo Taiwan e si parla spesso del 2027 come data per un possibile intervento militare cinese.

 Gli Stati Uniti e le forze alleate qui presenti sono in grado di mettere in cantiere una forte deterrenza che credo sarà sufficiente a dissuadere “Xi” da un azzardo militare, ma se ciò accadesse, noi siamo pronti per impedirlo».

 

II generale “Romeo Brawner”, capo di stato maggiore dell’esercito delle Filippine, ha parlato della minaccia per il suo Paese costituita dall’occupazione illegale da parte della Cina di una porzione enorme del Mar Cinese Meridionale e dalla realizzazione di quella «”Great Wall of Islands”, da parte di Pechino con la costruzione di una rete di infrastrutture militari che minacciano la stabilità dell’intero sud-est asiatico».

 

Un altro grande protagonista delle giornate indiane è stato l’asse strategico fra “Delhi e “Abu Dhabi”.

Come mi ha ricordato “Samir Saran”, presidente dell’”Observer Research Foundation” e “mastermind del Raisina Dialogue:

 «Non c’è alcun ambito politico, economico e militare nel quale il rapporto strategico fra India ed Emirati Arabi Uniti non possa svilupparsi in modo esponenziale nei prossimi anni».

Quindi sostegno strategico agli “Accordi di Abramo”, a partire dall’Arabia Saudita e impegno per la realizzazione di” Imeec “(India-Middle East-Europe Economic Corridor), la vera alternativa al progetto della Via della Seta di Pechino, con la creazione di un’ampia rete infrastrutturale nave-treno-nave fra l’India, i Paesi del Golfo, Israele, il Mediterraneo e l’Europa.

 

Nato in sordina un paio d’anni fa come uno spin-off degli Accordi di Abramo – con la nascita di un mini-Quad fra India, Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti – il progetto di Imeec prevede la realizzazione di una ferrovia di alta velocità/alta capacità fra Haifa e Abu Dhabi, in grado di superare le tre strozzature geopolitiche che hanno storicamente condizionato i rapporti fra il Mediterraneo e l’Indo-Pacifico:

il canale di Suez e gli stretti di Hormuz e Bab el-Mandeb.

 

Per l’Italia e l’Europa è un’opportunità da non mancare e una grande occasione per realizzare quel sempre più necessario ponte geoeconomico e geopolitico fra Mediterraneo e Indo-Pacifico.

Infine l’Europa fra guerra in Ucraina e Accordo di libero scambio.

L’asse strategico con l’Europa, l’accelerazione dell’accordo di libero scambio fra Unione europea e India, l’apprezzamento per la prima visita del suo nuovo mandato di “Ursula von der Leyen” a Delhi, hanno confermato la priorità del governo indiano nel rapporto con il vecchio continente.

E per l’Europa (e l’Italia) non c’è oggi un dossier nel quale non siano evidenti i vantaggi di un’alleanza globale con l’India:

sicurezza internazionale; contenimento della politica autoritaria ed espansiva di Pechino;

de-coupling e de-risking dalla Cina e costruzione di nuove catene di approvvigionamento stabili e sicure (una democratic supply chain); ulteriore integrazione fra le rispettive economie.

 

Nell’incertezza sulle scelte della nuova amministrazione americana, la platea del “Raisina Dialogue” ha infine rivolto un’accoglienza calorosa ad” Andrii Sybiha”, il ministro degli Esteri dell’Ucraina che ha ricordato come «l’Ucraina lavora per una pace giusta e duratura, che non può però prescindere dal ripristino di un mondo fondato sulle regole e sui diritti».

 

 

 

Per il sesto anno cresce la fame:

 295 milioni di persone senza cibo.

Avvenire.it – (17 maggio 2025) – Redazione – ci dice:

 

Secondo il Rapporto globale sulle crisi alimentari del Food Security Information Network, l'emergenza riguarda soprattutto 38 milioni di bambini sotto ai 5 anni che sono gravemente malnutriti.

Nella Striscia di Gaza è emergenza alimentare – “Reuters”.

 

L’emergenza fame nel mondo «è più di un fallimento dei sistemi, è un fallimento dell'umanità».

L’allarme è del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, commentando il “Rapporto globale sulle crisi alimentari edizione 2025” prodotto annualmente dal “Food Security Information Network” (Fsin) e lanciato dalla Rete globale contro le crisi alimentari (Gnafc), un’alleanza internazionale delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e di agenzie governative e non governative che lavorano insieme per affrontare le crisi alimentari.

Questo rapporto, afferma Guterres, «è un altro atto d’accusa risoluto contro un mondo pericolosamente fuori rotta».

E denuncia: «A crisi di lunga data se ne aggiunge un’altra, più recente: la drastica riduzione dei finanziamenti umanitari salvavita per rispondere a questi bisogni. Questo è più di un fallimento dei sistemi: è un fallimento dell’umanità. La fame nel Ventunesimo secolo è indifendibile. Non possiamo rispondere agli stomaci vuoti con le mani vuote e le spalle voltate».

Infatti, oltre 295 milioni di persone in 53 Paesi e territori si trovano sul baratro di livelli acuti di fame con un aumento, nel 2024, di quasi 14 milioni sul 2023.

 In crescita per il sesto anno consecutivo con un peggioramento che ora si attesta al 22,6% della popolazione valutata.

Ed è emergenza per l’infanzia, con quasi 38 milioni di bimbi sotto i cinque anni gravemente malnutriti in 26 crisi nutrizionali.

 

La malnutrizione, in particolare tra i bambini, rileva il Rapporto sulle crisi nutrizionali nel mondo, ha raggiunto livelli estremamente elevati, anche nella Striscia di Gaza, in Mali, in Sudan e nello Yemen.

Si evidenzia inoltre anche un forte aumento della fame causata dagli sfollamenti forzati, con quasi 95 milioni di persone che vivono in Paesi come la Repubblica democratica del Congo, la Colombia, il Sudan e la Siria, su un totale globale di 128 milioni di sfollati forzati.

 

«Nel momento in cui lanciamo il rapporto mondiale 2025 sulle crisi alimentari, siamo consapevoli che l’insicurezza alimentare acuta non è solo una crisi, ma è una realtà costante per milioni di persone, la maggior parte delle quali vive nelle aree rurali», ha detto il direttore generale della” Fao” “QU Dongyu”.

In particolare, il rapporto sottolinea che i conflitti sono rimasti la principale causa di insicurezza alimentare acuta, colpendo circa 140 milioni di persone in 20 Paesi e territori.

Carestia confermata in Sudan con altri punti caldi di livelli catastrofici nella Striscia di Gaza, nel Sud Sudan, ad Haiti e in Mali.

Livelli acuti di fame da choc economici per quasi 60 milioni di persone in quindici Paesi, quasi il doppio dei livelli pre-Covid-19 nonostante un modesto calo rispetto al 2023, mentre gli eventi climatici estremi - in particolare la siccità e le inondazioni indotte da El Niño - hanno spinto diciotto Paesi del mondo in una crisi alimentare che ha colpito oltre 96 milioni di persone.

 

 

 

 

Le scelte strategiche dell’Occidente delle

democrazie tra minacce ideologiche e militari.

Geopolitica.info - Maurizio Delli Santi – (24/02/2024) – ci dice:

 

Nel terzo anno di guerra all’Ucraina, Putin è sempre più determinato nella sua svolta autoritaria e bellicista, come dimostrano la morte del perseguitato “Alexei Navalny “e la narrazione ossessiva sull’«identità russa» degli ucraini e sull’espansione della Nato.

La distopica prospettiva di Putin va invece contrastata riaffermando l’identità storica dell’Ucraina e il suo percorso di libertà.

Il sostegno all’Ucraina aggredita rimane perciò una priorità per l’Occidente delle democrazie, che dovranno rafforzare la deterrenza e la diplomazia per arrivare a negoziare una «pace giusta e duratura».

 La strada dei negoziati, che escludano perciò una “resa” di fatto del Paese aggredito, passa da ciò che l’Ucraina potrà riconquistare sul terreno e da quanto l’Occidente sarà capace di contrastare il disegno neo-imperiale di Putin riaffermando le regole del diritto internazionale.

 

Inquietudini in due anni di guerra.

 

A due anni da quel 24 febbraio 2022 in cui Putin ha intrapreso l’«operazione militare speciale» contro l’Ucraina si guarda con giustificata apprensione al futuro del conflitto.

Il contesto generale peraltro vede l’escalation del disordine globale in altre parti del mondo – in Medio Oriente, nel Sahel e nell’Indo-pacifico – mentre la disaffezione del c.d. Global South cresce contro l’Occidente delle democrazie.

Inoltre, se mai ce ne fosse stato bisogno, la morte del dissidente russo Alexey Navalny – avvenuta il 16 febbraio, dopo due avvelenamenti, in una colonia penale agli estremi del circolo polare Artico – dimostra la deriva estrema che ha assunto la Russia, ormai giunta alla riesumazione dei metodi inquietanti dell’impero sovietico.

Su questi profili della dimensione ideologica sempre più autoritaria e bellicista che sta connotando il regime imposto da Putin si gioca purtroppo il principale fattore di rischio per l’evoluzione del conflitto in Ucraina.

 Ed è appunto da questa prospettiva che è necessario partire per un’analisi sui possibili scenari che potranno configurarsi in questo terzo anno di guerra.

 

Lo stato della «minaccia ideologica».

 

In prossimità della scadenza del secondo anno di guerra, a delineare il quadro più rappresentativo dello stato della «minaccia ideologica» è intervenuto lo stesso Vladimir Putin, che ha riconsegnato alla storia le sue distopiche ragioni del conflitto contro l’Ucraina.

Sul sito ufficiale del Cremlino compare il testo integrale della “intervista” – tra virgolette perché il termine non è proprio adatto al caso in esame – concessa al discusso giornalista filo-trumpiano “Tucker Carlson”:

il presidente russo si è dilungato di un discorso che ha trovato solo un interlocutore compiacente e senza che abbia osato porre qualche dubbio serio rispetto alle verità dell’intervistato.

È stata l’occasione per Putin di richiamare la dottrina mistificatoria enunciata nel saggio “Sull’unità storica di russi e ucraini “pubblicato il 12 luglio 2021, nel più noto discorso alla nazione del 24 febbraio 2022 quando ha annunciato l’inizio dell’«operazione militare speciale» per «smilitarizzare» e «denazificare» l’Ucraina, e un anno dopo, il 21 febbraio 2023, nel discorso alla Duma in occasione del riconoscimento delle autoproclamate “Repubbliche popolari” di Donetsk e Luhansk.

I primi venti minuti della prolusione di Putin sono tutti dedicati alle origini della grande Rus’ medievale, sorta su tre momenti storici:

l’Anno 862, quando dalla Scandinavia il principe vichingo Rurik giunse a Novgorod; l’Anno 882 in cui il successore di Rurik, il principe Oleg, si insediò a Kiev;

 e l’Anno 998, quando il principe Vladimir, pronipote di Rurik, celebrò il Battesimo della Rus’ adottando il Cristianesimo ortodosso orientale.

 Il passaggio è indicativo della visione di Putin:

il presidente lo omette volutamente ma se si parla di Rus’ si indica la “Rus’ di Kiev”, il principato che in età medievale aveva l’odierna capitale ucraina – prima di Mosca – e comprendeva le attuali Ucraina, Russia occidentale, Bielorussia, Moldavia, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia orientali.

Sul punto l’intervistatore “Carlson” si è ben guardato dall’osservare che si potrebbe sostenere allora che erano Kiev e quelle popolazioni non russe ad avere un primato, prima che da Mosca si consolidasse un vero e proprio “mondo russo”.

L’excursus storico attraversa l’ascesa del “Granducato di Lituania” e poi del “Regno di Polonia”, cui si deve – sostiene Putin – «la ‘colonizzazione’ di quelle parte della popolazione per decenni:

 i polacchi hanno introdotto lì la loro lingua, hanno iniziato a inculcare l’idea che non sono veramente russi, e che dal momento che vivono “vicino” alla regione sono ucraini»

. Perché, chiosa ancora il presidente-storico, «originariamente la parola ucraino significava che una persona viveva alla periferia dello stato, vicino al confine, o era impegnata nel servizio di frontiera, appunto.

Non si riferiva a nessun gruppo etnico in particolare».

Una conferma dunque che Putin si contraddice ancora, perché quelle popolazioni non potevano considerarsi russe.

Putin prosegue la sua narrazione e giunge al primo richiamo suggestivo del ruolo salvifico della Madre Russia per i suoi popoli oppressi.

Esibisce le lettere di “Bohdan Khmelnytsky”, detto “Bogdan il Nero”, l’etmano dei cosacchi d’Ucraina, sterminatore di ebrei (particolare che l’intervistato non menziona), che guidò il sollevamento contro la nobiltà polacca nel 1648 e si mise sotto la protezione dello zar di zar Alessio I di Russia, che acquisì così la riva orientale del Dnepr.

 Il racconto di Putin continua ossessivamente nel tentativo di dimostrare che l’identità nazionale dell’Ucraina non sarebbe che opera di falsificazioni degli Stati nemici della Russia, come alla vigilia dei nazionalismi della I guerra mondiale, e dell’errore di Lenin che assecondò le istanze separatiste delle repubbliche sovietiche, fino ad arrivare alla «creazione artificiale» voluta da Stalin:

l’Ucraina nasce dall’accorpamento di vari territori eterogenei, tra cui quelli appartenuti a Polonia, Ungheria e Romania.

Da qui il suggerimento dell’intervistatore per far precisare a Putin che, pur non avendo affrontato l’argomento con Orban, «gli ungheresi che vivono lì, naturalmente, vogliono tornare nella loro patria storica».

Putin omette anche di menzionare l’”Holodomor “(1932 – 1933) , lo sterminio per fame di circa 6 milioni di ucraini imposto dalle politiche staliniane, per il quale Krusciov – russo autentico, che da giovane era vissuto nel Donbass del confine russo-ucraino – nel 1954 sentì il bisogno di ‘indennizzare’ Kiev con l’attribuzione della Crimea, una regione dove comunque l’elemento etnico russo non poteva dirsi esclusivo vista la presenza storica dei tatari.

 Peraltro la stessa storia del Donbass mostra che è proprio la presenza russa ad essere stata imposta “artificialmente” quando la Mosca coloniale incoraggiò, e in alcuni casi impose, il trasferimento di popolazioni delle più remote regioni russe per alimentare la manodopera dell’industria mineraria della regione.

 

Una narrazione «ossessiva» sull’Ucraina.

 

Quanto al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica il discorso di Putin diventa essenziale, ovviamente con altre omissioni.

 Non c’è qui alcuna menzione dell’ “Atto di dichiarazione d’indipendenza” pronunciato dal Soviet della RSS Ucraina nel 1991 e del “Memorandum di Budapest” del 1994, in cui la Federazione Russia si impegnò a riconoscere e a rispettare la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina in cambio dell’acquisizione dell’arsenale nucleare.

Per Putin questa parte della Storia è presto liquidata:

con il crollo dell’Unione Sovietica «tutto ciò che l’Ucraina aveva ricevuto in dono dalla Russia, “dalla spalla del Signore”, se l’è trascinato dietro».

E giunge alla tesi centrale:

 «Dopo il 1991, quando la Russia si aspettava di essere accettata nella famiglia fraterna delle “nazioni civilizzate”, non è successo nulla del genere.

 Ci avete ingannato».

Prosegue quindi l’ossessione putiniana: l’Ucraina è russa, l’Occidente ci ha tradito ripetutamente, la NATO aveva promesso di non espandersi e invece l’ha fatto più volte, «ben cinque volte» precisa Putin.

 E ancora, la Russia «non ha attaccato mai l’Ucraina», ma, come accaduto per la Crimea, ha «dovuto difendere con le armi» i cittadini russi da governi imposti da colpi di Stato voluti dalla CIA che ha alimentato la nascita di movimenti neonazisti e nazionalisti.

 Insomma, negando l’autenticità delle c.d. rivoluzioni colorate e dell’Euromaidan – la rivolta europeista degli ucraini del 2013-14 – si torna al ribaltamento della Storia sofferta di popoli che invece hanno guardato all’Occidente perché volevano libertà e democrazia.

Né si fa cenno a oltre un ventennio di “omini verdi” infiltrati e ingerenze armate della Russia che, con il pretesto di difendere incerte minoranze russe e in nome dell’identità del popolo russo, ha colpito la Georgia, occupato la Crimea e il Donbass ucraini, sino ad arrivare alla Transnistria moldava, riducendo anche la Bielorussia ad un servente Stato-satellite.

 D’altro canto la sfrontatezza di Putin non sorprende, come emerge dal passaggio emblematico del discorso del 24 febbraio 2022:

 «Voglio ribadire che i nostri piani non includono l’occupazione dei territori ucraini. Non imporremo nulla a nessuno con la forza».

 È noto purtroppo quanto i fatti abbiano dimostrato altro.

 L’intervista prosegue sulle prospettive della guerra per le quali Putin mette ancora sull’avviso chi sostiene l’Ucraina, e dichiarando il proposito di accettare il negoziato che sarebbe però ostacolato dagli altri:

la guerra finirebbe presto se gli USA e l’Europa smettessero di fornire fondi e armi all’Ucraina, a scapito dei loro contribuenti.

Poco dovrebbe importare dunque all’Occidente se Putin non intende cedere i territori occupati e mira solo a una resa incondizionata dell’Ucraina, considerati anche gli altri rischi della prosecuzione del conflitto.

Nel resto delle parole ci sono poi le altre cortine fumogene per celare malamente il disegno imperiale di Putin:

 vuole riportare la Russia al ruolo di “grande potenza”, e per la sua propaganda ideologica – anche per ricercare il consenso del “Global South anticoloniale “e in vista delle prossime elezioni presidenziali del 17 marzo – sono sempre utili le narrazioni dell’antiamericanismo e dell’egemonia “culturale” imposta dal corrotto «Occidente collettivo».

 In sintesi, lo stato della «minaccia ideologica» che si coglie nei messaggi di Putin sembrerebbe ancora in escalation, come è ben tratteggiato dall’attuale direttore della Cia “William Burns,” che non è stato un “operativo” dell’intelligence ma è un diplomatico di carriera.

Su Foreign Affairs ha sottolineato la «combinazione infiammabile di rancore, ambizione e insicurezza che il presidente russo incarna», per cui sarebbe un errore sottovalutare la sua «fissazione» per il controllo dell’Ucraina:

Putin lo ritiene indispensabile perché la Russia sia considerata ancora una grande potenza e lui stesso un grande leader russo.

Un’analisi rassicurante vorrebbe questa esasperazione ideologica solo propaganda per alzare la posta nei negoziati e ad uso interno in vista delle elezioni presidenziali del 17 marzo.

Ma nel dubbio e nell’imprevedibilità delle personalità degli autocrati è bene comunque non trascurare la visione ossessiva di Putin.

 

Lo stato della «minaccia militare»

 

È il momento dunque di scandagliare il secondo profilo dell’analisi:

lo stato della «minaccia militare».

Il generale “Zalužnyj “a novembre ha concesso un’intervista all’Economist piuttosto discussa perché gli argomenti trattati probabilmente non andavano resi pubblici.

Sta di fatto che il leader militare – che taluni osservatori danno in predicato per un futuro politico che insidierebbe lo stesso Zelensky – ha comunque delineato le criticità rappresentando uno scenario di estrema vulnerabilità.

 Lo “stallo” può evolvere negativamente se si verificano due condizioni:

1) se l’Ucraina non estende la mobilitazione assicurando la turnazione al fronte con nuovi soldati addestrati, perché quelli che hanno sinora combattuto sono stanchi fisicamente e psicologicamente;

2) se l’Occidente non fa giungere ancora munizioni, armi, carri armati, aerei, droni e altre tecnologie, perché queste sono necessarie per resistere all’imponente pressione della Russia, che potrebbe anche sferrare una manovra offensiva su larga scala o comunque di lunga durata.

Altre analisi offrono prospettive più dettagliate, come quelle presentate dall”’Institute for the Study of War “e dagli analisti geopolitici di “Le Grand Continent”.

Intanto occorre sfatare la facile tesi del “fallimento della controffensiva” degli ucraini.

Se da questa si attendeva un’azione decisa che portasse a riprendere tutti i territori occupati certo l’obiettivo non è stato raggiunto, ma questo era l’ obiettivo “massimo”.

Nella realtà occorre valutare invece alcuni dati oggettivi, partendo dal rapporto di forze, attuale e potenziale.

La popolazione della Russia è tre volte quella dell’Ucraina, ma i condizionamenti cui Putin è sottoposto dalla classe media cittadina lo hanno indotto a limitare fortemente la mobilitazione affondando il reclutamento nelle regioni periferiche e più povere, e persino promuovendo l’arruolamento di criminali ed ergastolani.

Sta di fatto che – pur potendo contare su un paio di milioni di riservisti – di fatto nei territori occupati ucraini non vi sarebbero che 420.000 soldati russi, un numero probabilmente superato dagli attuali reclutamenti degli ucraini.

Secondo gli statunitensi, 500.000 uomini di entrambi gli eserciti sarebbero stati feriti o uccisi in azione:

la Russia avrebbe subito le perdite più pesanti, con 120.000 morti e 170.000–180.000 feriti, rispetto ai 70.000 morti e 100.000–120.000 feriti dell’Ucraina.

Certamente l’Ucraina sta vivendo una fase critica, confermata purtroppo dall’ultima perdita di” Avdiivka”, ma è prematuro valutare i vantaggi strategici conseguiti dalla Russia, che dopo essere stata qui logorata nella spinta offensiva potrebbe essere anche fermata sulla vicina linea dal fronte dove l’Ucraina si è nel frattempo rafforzata.

 Altri dati possono meglio inquadrare la progressione territoriale e qualche successo strategico a favore dell’Ucraina.

Se prima dell’invasione del 20 febbraio 2022 la Russia controllava il 7,04% del territorio ucraino, più di 42.000 km², il controllo militare russo oggi è su circa il 17% dell’Ucraina, ovvero oltre 100.000 km².

E tuttavia va ricordato che i russi in un anno hanno perso il 10% dei territori occupati a marzo 2022 e hanno subìto perdite del 20% del tonnellaggio della flotta del Mar Nero colpita dai droni ucraini, tanto da doversi ritirare dalle acque della Crimea, mentre sul fronte degli innumerevoli attacchi dal cielo lo scudo ucraino ha di molto contenuto la minaccia russa di missili e droni.

 

Le sfide dopo lo “stallo.”

 

In sostanza, se di “stallo” si parla – come precisa l’analista “Eric Ciaramella” della “Carnegie Endowment For International Peace” – in termini scacchistici tradizionali lo “stallo” implica che non c’è mossa che nessuna parte può fare per cambiare l’immagine sulla scacchiera.

 Per cui «quello che sta succedendo qui è una corsa al riarmo.

In questo caso, quello cui stiamo assistendo è una ricostituzione militare russa in corso».

L’”Institute for the Study of War” prospetta un programma di implementazione della produzione bellica della Federazione Russa con al centro il potenziamento dei droni affidato ad imprese nelle aree di Izhevsk, nella Repubblica di Udmurtia, di Tomsk, Samara e della stessa San Pietroburgo.

Mosca starebbe anche lavorando a stretto contatto con Teheran per costruire una fabbrica in Iran in grado di produrre fino a 6.000 droni all’anno entro l’estate del 2025.

In cambio il regime iraniano vuole acquisire l’equivalente di attrezzature militari russe, come aerei da combattimento, elicotteri, sistemi di difesa aerea per far fronte alle emergenze dello scenario mediorientale.

 Anche secondo l’”International Institute for Strategic Studies “di Londra la Federazione Russa ha aumentato le spese militari del 60 % rispetto allo scorso anno, arrivando al 7,5 % del suo Pil, incidendo per un terzo del bilancio complessivo.

Le analisi internazionali evidenziano comunque criticità nel comparto produttivo militare russo, su cui persino la testata russa ultranazionalista “Tsargrad” ha denunciato la corruzione e l’inefficienza di grandi aziende statali e monopolistiche del settore.

Rimane dunque da chiarire cosa l’Ucraina possa fare, essendo condizionata dall’incerto sostegno di un’Unione Europea che potrebbe dividersi sugli aiuti a Kiev, e di quello più serio degli Stati Uniti che potrebbero vedere il ritorno del filo-putiniano Trump.

Su quest’ultimo, per inciso, si può anche sperare che lo spirito identitario e conservatore dei repubblicani lo induca a riconsiderare la concreta minaccia che rappresenterebbero anche per gli americani una Ucraina sconfitta e un’Europa a rischio.

 Gli USA rimangono in ogni caso i maggiori investitori nelle spese militari con 905 miliardi dollari (erano 839 l’anno precedente), una cifra che rappresenta il 40% del dato mondiale e il 70% in ambito Nato.

Per l’Ucraina dunque non mancano i progetti di rafforzamento imminente grazie alla ampia disponibilità data dallo sblocco dei 50 miliardi di euro dell’Unione Europea e dallo stanziamento di circa 3 miliardi di dollari concessi in uno storico “accordo per la sicurezza” sottoscritto dal Regno Unito.

Kiev spera anche che nell’Unione Europea si anticipi la consegna promessa di carri armati e artiglierie missilistiche di ultima generazione, come anche degli attesi aerei F-16 (certamente 42 dai Paesi Bassi e 19 dalla Danimarca) che insieme ai droni potrebbero rappresentare l’elemento di svolta per bloccare gli sforzi offensivi russi e rilanciare i contrattacchi ucraini.

 Quanto alle altre progettualità dell’Ucraina sono significative alcune dichiarazioni dei suoi leader politici.

 Il Vice Primo ministro “Mykhailo Fedorov”, si è fatto sfuggire che Kiev sta puntando su una nuova tecnologia di difesa:

il «mantello dell’invisibilità», pensato per confondere le telecamere termiche russe e i droni che ne sono equipaggiati, offrendo così un’ulteriore protezione ai soldati ucraini.

 

Il momento della «difesa attiva».

 

Di più ampia visione è l’annuncio dato da Zelensky sul lancio di una nuova scelta strategica: la «difesa attiva».

 Si può discutere che nella dottrina militare – sia sotto il profilo strategico (cioè rivolto agli obiettivi finali e su larga scala, propri della “manovra difensiva”) sia sotto il profilo tattico (riferito al contesto operativo più ravvicinato, nel tempo e nello spazio, dai c.d. “sbarramenti” e “capisaldi” fino alla “reazione dinamica”) – è la stessa definizione di «difesa» che non è mai intesa in senso passivo, e preveda auspicabilmente sempre un aspetto o una fase proattiva per riguadagnare terreno o spazi di manovra.

Con il termine di «difesa attiva» Zelensky sembrerebbe dunque non volersi sbilanciare rinunciando al progetto rimasto incompiuto della «controffensiva».

 Il primo obiettivo è dunque rallentare ogni ulteriore progressione del nemico, e quindi il programma difensivo degli ucraini prevede una sorta di «linea Zelensky» in risposta alla «linea Surovikin» realizzata dai russi a protezione del sud occupato e della Crimea.

Si tratta di un sistema di fortificazioni su più linee e barriere, scandite da campi minati estesi e fronti di denti di drago e altri ostacoli per carri armati e mezzi meccanizzati, supportati dalla potenza di fuoco dell’artiglieria missilistica e dallo scudo di aerei e di droni.

Per gli analisti vi sarebbe anche un non-detto, che rimarrebbe nei piani segreti del vertice politico strategico.

 Si vuole certo partire da una posizione di forza che – con il potenziamento delle strutture difensive, appunto – riesca a bloccare i prossimi attacchi dei russi.

 Ma Zelensky ha cambiato la leadership militare anche per rilanciare un elemento di vantaggio degli ucraini:

la capacità di compiere operazioni audaci, tattiche d’inganno e innovative, come accaduto all’inizio del conflitto con i colpi mirati che hanno “neutralizzato” i comandanti russi (peraltro con uno sforzo poco rilevante, visto che sono stati sfruttati i social e le localizzazioni dei telefonini), oppure con le manovre diversive a sud per riconquistare Kherson, e con gli attacchi imprevedibili alla marina, al ponte di Crimea e quelli in profondità nella stessa Russi.

Nelle scelte del nuovo stato maggiore potrebbero esserci ora altre iniziative non prevedibili, come la progettazione di altri droni hi tech, immuni ai sistemi di disturbo elettromagnetici, e di nuovi strumenti della cyber war, specie per puntare ai centri logistici e ad altri obiettivi nevralgici nelle retrovie russe.

E in un’analisi della “Carnegie Endowment “si è posto anche il problema di «riconsiderare le limitazioni politiche poste agli attacchi a lungo raggio contro obiettivi militari all’interno della Russia vera e propria».

Il tema qui pone il rischio di una risposta nucleare tattica che va sempre temuta in uno scenario di escalation.

Il 15 febbraio scorso dal New York Times si è appreso che al Congresso e agli alleati europei sarebbero giunte informazioni di intelligence su nuove capacità nucleari russe che nel tempo potrebbero diventare serie per la sicurezza internazionale, anche se sono in fase di sviluppo.

Per “Politico.eu” le informazioni riguarderebbero pure i propositi di Mosca di sviluppare una pericolosa «arma antisatellite nello spazio», che potrebbe interdire le attività dei satelliti occidentali.

A Bruxelles intanto si è tornato a parlare della minaccia ai Paesi Baltici, e di una deterrenza nucleare europea guardando con maggiore interesse alle potenzialità di quella francese offerta da Macron.

 In ogni caso, «sorpresa» e «resilienza» rimangono i canoni su cui l’Ucraina potrà ancora fermare la Russia, pur senza superare la linea rossa della «minaccia esistenziale» per una potenza che nella sua dottrina prevede il ricorso all’arma nucleare.

Anche per questi aspetti rimarrà fondamentale che l’Ucraina continui ad avere al suo fianco l’Occidente per assicurare la deterrenza necessaria, considerando peraltro che questa può essere utile anche per rafforzare una diplomazia più efficace per la fine del conflitto.

 

Deterrenza e diplomazia.

 

Rimane dunque da esaminare il tema conclusivo dello scenario di un’iniziativa diplomatica che possa avere tratti di concretezza e realismo per l’avvio di negoziati, partendo in ogni caso da un assunto che non va dimenticato:

il 24 febbraio segna l’inizio del terzo anno di una “guerra di aggressione” contro un Paese libero.

La Federazione Russa, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la distopica pretesa di un “diritto storico” alla riunificazione di popolazioni perdute ha rinnegato il diritto internazionale violando la sovranità dell’Ucraina e l’obbligo posto dalla “Carta delle Nazioni Unite “di risolvere le controversie internazionali con mezzi pacifici.

La condanna per la guerra intrapresa da Mosca è stata ribadita da diverse “Risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite” (a cominciare dalla Un A/ES-II/L.1 del 1° marzo 2022) e da una pronuncia della “Corte internazionale di giustizia” (Order Ukraine v. Russian Federation 182 Icj, 16.3.2022).

 Lo stesso Putin è colpito da un ordine di arresto per il trasferimento forzato di minori ucraini emesso dalla “Corte penale internazionale”, che sta indagando su altri crimini di guerra come i bombardamenti indiscriminati e il massacro di Buča.

Ciò posto, nei giorni successivi all’intervista concessa da Putin alcuni analisti si sono lanciati in ottimistiche interpretazioni su una propensione russa al negoziato.

Ma a non smentire l’ambiguità dei proclami russi è intervenuto il Ministro degli esteri “Lavrov” con le sue precisazioni alla “Duma di Stato”.

In un primo passaggio ha detto:

 «Rimaniamo aperti a una soluzione politica e diplomatica basata sulla presa in considerazione dei nostri interessi legittimi e delle realtà che si sono sviluppate nel corso di molti anni e che ora hanno portato alla situazione attuale».

Poi ha indicato: «Tuttavia, in assenza di proposte serie da parte di coloro che ci hanno dichiarato guerra e della loro riluttanza a tenere conto dei nostri interessi o delle realtà sul terreno, non sarà ancora possibile parlare al tavolo delle trattative. Nessuna di queste opzioni è visibile».

Come dire, in sostanza:

se l’Ucraina non rinuncia ai territori occupati e all’ingresso nella Nato, non se ne fa nulla.

Come è noto, Zelensky ha ritenuto di non estendere alla Russia l’iniziativa avviata con altri 80 paesi per un’ipotesi di negoziato basato sul “piano dei dieci punti” che dovrebbe essere presentato ad una Conferenza per la pace convocata dalla Svizzera rimasta ufficialmente neutrale.

 In questa fase il percorso è ancora molto arduo, anche perché rimangono problematici i punti 5.

Carta delle Nazioni Unite e integrità territoriale dell’Ucraina,

 6. Truppe russe e ostilità, e

7. Giustizia.

Sono i punti che nella formulazione dell’Ucraina prevedono il completo ritiro di tutti i territori occupati dalla Russia (dove sembra volersi includere anche quelli occupati prima del 2022, in Donbass e Crimea) e la costituzione di un Tribunale speciale per perseguire il crimine di aggressione e assicurare una giustizia riparativa. In questi termini è difficile pensare di superare la riluttanza della Federazione Russa, e tuttavia la strada di un percorso diplomatico deve rimanere tra le priorità dell’Occidente.

Nel maggio 2022 l’Italia si è fatta avanti con una proposta di pace presentata dal Ministero degli Affari Esteri – avallata dal Presidente del Consiglio dell’epoca Mario Draghi – al Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.

Tra i passaggi scanditi dal piano italiano c’era la previsione del cessate il fuoco garantito da una forza di interposizione con Italia, Usa, Francia, Regno Unito, Canada, Polonia, Israele, Turchia e altri paesi disponibili, e la “neutralità” dell’Ucraina con garanzie delle maggiori potenze e l’ingresso nell’Unione Europea.

Ad oggi sul piano italiano piuttosto discutibili rimangono perciò la mancata previsione dell’ingresso nella NATO, condizione “esistenziale” per Kiev inserita nella Costituzione, e le soluzioni all’epoca previste con la conferma dei confini definiti al momento dell’indipendenza ma con imprecisate forme di autonomia nelle aree contese e il non-detto sul destino di Crimea e Sebastopoli.

Tuttavia, uno spazio negoziale sulla linea italiana potrebbe essere riaperto sull’ultimo punto che prevede l’avvio di negoziati per una “nuova Helsinki”.

L’iniziativa potrebbe avere ancora un senso per l’intento di proporsi con una ragionevole mediazione rispetto alle aspettative più accettabili di una Federazione Russa con un ruolo non emarginato in una nuova architettura della sicurezza in Europa.

 Quanto meno l’Occidente può concretamente manifestare di non avere alcun interesse a vedere un crollo della Russia, anche per il rischio di implosione di una potenza nucleare che ha ordigni tattici e strategici in varie regioni.

Nella prospettiva di Putin una svolta che richiami anche la Russia al “Concerto europeo” delle grandi potenze potrà consentirgli di proporsi anche sul fronte interno in qualche modo “vincitore”.

Tuttavia si dovrà rimanere fermi sul principio che il diritto internazionale va ripristinato, e su questo la Russia dovrà dimostrare concreta disponibilità cominciando col ritirare gli schieramenti in Ucraina e ai confini dei già minacciati Paesi Baltici, accettando che la Nato è un’alleanza difensiva affatto imposta ma ricercata in un processo di autodeterminazione dai Paesi che, insieme all’adesione all’UE, si riconoscono in un sistema di valori e di libertà, per cui la sua presenza in Europa non potrà subire riduzioni e dovrà assicurare inevitabilmente la protezione dell’Ucraina.

Un’altra prospettiva favorevole sulla strada dei negoziati va colta in un passo in avanti compiuto anche coinvolgendo almeno una parte del “Global South che – come osserva “Le Grand Continent” – in passato si è tenuto a distanza: nell’ agosto scorso l’Arabia Saudita è stata promotrice del vertice di Gedda dove 40 Stati e i rappresentanti dell’Unione Europea hanno iniziato a condividere «consultazioni» sui «principi chiave per ripristinare una pace duratura e giusta per l’Ucraina».

 

In conclusione, la strada dei negoziati che escludano una “resa” di fatto del Paese aggredito passa dal convincere Putin e il resto del mondo che questo è quello che vogliono non solo gli Stati Uniti, ma soprattutto l’Unione Europea che vede negli ucraini un popolo che combatte anche per le libertà e i confini europei.

Per questo l’Ucraina deve essere ancora sostenuta per riconquistare la maggior parte possibile del terreno perduto, ma soprattutto l’Occidente dovrà essere capace di contrastare con più convinzione il disegno di Putin con le armi efficaci di cui può disporre: la deterrenza e la diplomazia.

Entrambe rimangono fondamentali nella prospettiva di un conflitto che nel terzo anno di guerra si presenta ancora logorante, ma con possibilità di variabili estreme e imprevisti, che potrebbero anche far fallire le ambizioni imperiali di Putin.

 

 

 

 

Quegli ex soldati che si oppongono

alla guerra di Netanyahu.

 

Avvenire.it - Lucia Capuzzi – (17 aprile 2025) – ci dice:

 

La protesta di migliaia di riservisti scuote Israele: cresce ogni giorno il numero delle adesioni alla petizione per riportare a casa gli ostaggi «anche se ciò significa mettere fine allo scontro».

Una manifestazione dei “Paracadutisti per la democrazia”: chiedono al governo di Netanyahu di negoziare con Hamas un accordo per riportare a casa i 59 ostaggi.

Una manifestazione dei “Paracadutisti per la democrazia”: chiedono al governo di Netanyahu di negoziare con Hamas un accordo per riportare a casa i 59 ostaggi.

 

Gli ultimi sono stati duecento ex ufficiali di polizia.

Almeno fino ad ora, perché la mobilitazione cresce di ora in ora.

Uno dopo l’altro, migliaia di riservisti delle forze di sicurezza israeliane – in maggioranza pensionati ma anche in servizio attivo – si stanno unendo al grido della società per la fine della guerra a Gaza.

 O, meglio, come recita la formula scritta e pubblicata in ebraico e in inglese, per un accordo che riporti a casa i 59 ostaggi ancora nelle mani di Hamas «anche se ciò significa mettere fine al conflitto».

«Abbiamo scelto le parole con molta attenzione.

Ogni termine, perfino ogni virgola è stata discussa.

Ci abbiamo messo dieci giorni e diciassette versioni per arrivare a un testo condiviso che equilibrasse le differenti istanze.

Alcuni premevano per una posizione più forte, altri volevano una petizione più soft», racconta in un bar di Giaffa “Guy Poran”, 69 anni, imprenditore in pensione nel settore dell’high-tech, per oltre vent’anni volontario nell’aeronautica di Tel Aviv.

 Un corpo militare di enorme prestigio.

«Ne siamo consapevoli. Per questo non abbiamo agito a cuor leggero. Certo, non immaginavamo che avesse tanta eco» prosegue il promotore di quella che i media hanno soprannominato “la rivolta dei piloti”.

 

Iniziata giovedì scorso – quando è stata diffusa la lettera con 970 firme –, si è estesa al resto delle Forze armate (Tzahal, l’acronimo).

 Circa 10mila adesioni, numeri triplicati nel giro di 48 ore.

Secondo una mappa ancora incompleta ottenuta da “Avvenire”, nel giro di sette giorni hanno chiesto lo stop alle armi riservisti di almeno sette realtà:

oltre 500 delle unità speciali, 200 medici militari, 1.700 veterani carristi, più di 2.500 paracadutisti, 1.250 della Marina, inclusi 500 ufficiali e 250 della formazione scelta “Shayetet 13”, un migliaio di veterani dell’intelligence.

Un quinto ha combattuto dopo il 7 ottobre.

A questi si sommano 400 ex agenti del Mossad – compresi gli ex capi “Dani Yotam”, “Efraim Halevi” e “Tamir Pardo” – e diverse centinaia dello” Shin Bet”.

Nonché cento allievi del “National security college “– accademia militare d’élite –, 200 laureati in sicurezza del prestigioso programma “Talpiot” e 1.500 genitori di soldati.

 

A scatenare la rabbia dei militari ha contribuito la linea dura del governo di “Benjamin Netanyahu” che ha definito la protesta dell’Aeronautica una «ribellione di qualche pensionato anarchico radicale».

Mentre il capo delle Forze armate, “Eyal Zamir”, in accordo con il comandante dell’Aeronautica, “Tomer Bar”, ha rimosso dall’elenco della riserva i piloti attivi, accusati di ingerenza politica e di incitamento all’obiezione.

 Sessanta, secondo Tzahal.

Alcune centinaia, sostiene Poran.

«Ovviamente la gran parte siamo “ex”.

Ma non è questo il punto. Si tratta comunque di un fatto cruciale.

 I militari, men che meno i piloti, di norma, non intervengono in questioni cosiddette politiche.

Questa, però, non lo è.

Politiche – o, meglio, di sopravvivenza al potere – sono le ragioni che hanno spinto il premier a rompere unilateralmente l’intesa e a riprendere i combattimenti nella Striscia il 18 marzo.

La nostra è un’iniziativa umanitaria per salvare i rapiti.

Non invitiamo al rifiuto né diciamo ai soldati che cosa fare».

«È una rivolta morale.

 Chiediamo di mettere gli ostaggi al primo posto.

Cosa si aspetta il governo: che stiamo tutti zitti di fronte alla sua negligenza?», afferma “Eran Duvdevani,” ingegnere meccanico 65enne e pilota di jet commerciali, ex riservista dei paracadutisti e promotore della petizione firmata da questi ultimi, di cui una cinquantina ancora attivi.

«Non lasciare indietro nessuno, insieme a quello di portare a termine la missione affidata, è il cardine del rapporto tra Stato e forza armate. Senza fiducia i soldati non rischiano la vita».

 

La questione è al cuore della società israeliana formata da “civili in armi” perché il servizio militare è obbligatorio e tutti possono essere richiamati come riservisti fino a circa 40 anni.

Questo spiega perché immediatamente la “rivolta dei piloti” sia uscita dalle caserme:

 oltre 100mila cittadini – dai medici agli accademici, dagli scrittori ai manager – si sono pronunciati in loro sostegno.

Niente come il dissenso in divisa, però, scuote Tel Aviv.

All’indomani del massacro 7 ottobre, pressoché tutti i riservisti si erano presentati per l’arruolamento volontario in nome della salvaguardia di Israele.

Con il protrarsi del conflitto, è aumentata la sensazione di andare a morire e uccidere non per il Paese ma per giochi di potere della leadership.

 Un anno fa, era arrivato il primo segnale:

con una lettera aperta, 40 riservisti avevano minacciato l’obiezione contro l’invasione di Rafah.

 Cinque mesi dopo, lo scorso ottobre, le adesioni erano diventate 130:

i firmatari dichiaravano lo «sciopero dal servizio» fino alla liberazione dei sequestrati.

Ora sono 240 e sono riuniti nel gruppo “Soldiers for the hostages”, in prima linea ai cortei di protesta.

 «Ogni atto di resistenza alla guerra di Netanyahu è una dimostrazione di forza etica.

Il rifiuto di combattere è il vero patriottismo, in linea con i valori in cui siamo stati educati»,

afferma il 29enne “Max Hirsch”, uno dei fondatori, dopo aver preso parte al conflitto per 66 giorni.

 

A quella pubblica, si somma poi “l’obiezione silenziosa” la cui crescita è esponenziale.

Riguarda, secondo fonti interne, la metà dei riformisti attivi che eludono, con varie giustificazioni il reclutamento.

«Ormai non è più un tabù:

è entrata nel dibattito nazionale.

 Si vede dal mutato atteggiamento dei media che hanno smesso di stigmatizzare chi rifiuta», dice “Dan Eliav”, 63 anni, la cui firma figura fin dalla petizione dello scorso aprile.

Se Netanyahu ostenta sicurezza, “Tzahal” è preoccupato.

I vertici cercano di ricucire con i ribelli mentre, come raccontano fonti ben informate, per ridurre la dipendenza dai riservisti, a Gaza è stato incrementato il numero di soldati di leva.

Netanyahu non vuole cedere: la guerra non deve finire.

 

 

 

 

L'esperto vicino a Xi: “La Cina

 si prepari alla Terza guerra mondiale.

Scoppierà in Asia, ecco perché”

 

Corriere.it - Federico Rampini – (12 ottobre 2024) ci dice:

 

«La Terza guerra mondiale scoppierà in Asia, ecco perché».

 Lo spiega “Zheng Yongnian, un esperto vicino a “Xi Jinping”.

 

La Cina si sta preparando alla Terza guerra mondiale?

La considera possibile/probabile?

Se sì, in che modo si sta attrezzando?

Attingo a uno spunto prezioso che mi viene fornito dalla newsletter di “Bill Bishop,” “Sinocism”, uno degli osservatori della Cina che seguo con attenzione.

È lui a segnalare l’analisi pubblicata su “WeChat” (il social più popolare in Cina) da un autorevole esperto di geopolitica, il professor” Zheng Yongnian”, studioso ascoltato dai vertici del regime.

Il saggio ha un titolo che non potrebbe essere più esplicito:

«La terza guerra mondiale e la sua polveriera asiatica». 

Non solo questo testo è diventato virale, raccogliendo un enorme successo tra gli utenti di “WeChat”, ma sembra che sia stato letto e commentato da “Xi Jinping” in persona (anche se non conosciamo il tenore dei suoi commenti).

Una delle lezioni è questa:

la Cina deve rendersi pronta per la terza guerra mondiale… anche se intende evitarla.

 

Che cos'è «la strategia dell'anaconda» che la Cina usa con Taiwan: sarà la prossima crisi?

L’analisi di “Zheng Yongnian”, venendo da uno studioso di regime, naturalmente carica tutte le responsabilità di un eventuale conflitto sugli Stati Uniti e il loro imperialismo aggressivo.

 Non sfugge il tono propagandistico dell’autore.

 Ma siccome è uno specchio fedele della mentalità dei dirigenti comunisti, è utile immergersi in questa lettura.

Eccone quindi alcuni estratti.

Da qui in poi il testo è quello dello studioso cinese.

 

 

«Con la disintegrazione dell’ordine mondiale che si era creato dopo la seconda guerra mondiale, centrato sulle Nazioni Unite, la geopolitica torna a focalizzarsi sulla competizione fra superpotenze ed è sempre più turbolenta.

Questo spinge un crescente numero di persone a credere che la Terza guerra mondiale possa essere inevitabile.

 Di fatto, secondo molti, una nuova forma di guerra fredda è già iniziata tra le superpotenze.

 

Quindi la domanda da porsi è: quale sarà il principale terreno di battaglia della terza guerra mondiale?

Sotto ogni prospettiva, sarà l’Asia-Pacifico.

 La ragione è semplice.

Questa parte del mondo possiede tutti gli elementi suscettibili di scatenare una guerra mondiale.

Possono essere riassunti così: interessi economici + Stati Uniti + una versione asiatica della Nato + modernizzazione militare + nazionalismo.

In altri termini, gli Stati Uniti stanno diventando un significativo promotore della guerra in Asia.

 La principale ragione per cui l’America pianifica la guerra sono gli enormi benefici economici che può ricavare in Asia.

 

Se partiamo dalla considerazione che l’America non può risolvere i suoi gravi problemi interni attraverso la rivoluzione, allora la guerra esterna diventa più probabile.

Nei tempi moderni, rivoluzione e guerra esterna sono state le due soluzioni principali ai problemi interni, e non c’è ragione per sottovalutare la possibilità che l’America vada in guerra per risolvere i suoi problemi.

In generale, il «Pivot to Asia» (svolta strategica verso l’Asia) di “Barack Obama” fu visto come un segno che l’America cominciava a spostare la sua attenzione, le sue priorità temporali, le sue risorse, verso l’area asiatica per aumentare le proprie possibilità di vincere la competizione decisiva del nostro tempo.

Il «Pivot to Asia» era rivolto alla Cina.

 La sua origine risale molto più indietro.

Il crollo dell’Unione sovietica, la fine della guerra fredda dopo mezzo secolo, significava la scomparsa del nemico tradizionale.

Da allora l’America ha cercato di ridefinire il proprio «nemico», ed è la Cina. Quando arrivò al potere George W. Bush la politica estera dei conservatori iniziò a prevalere negli Stati Uniti e aveva come bersaglio la Cina.

Fu solo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 a cambiare la focalizzazione strategica e a rinviare la strategia asiatica degli Stati Uniti.

 

Dal punto di vista dei grandi spostamenti geopolitici, l’Asia è di fronte a un pericolo di guerra senza precedenti.

 Che si tratti di competizione politica, guerra convenzionale, o deterrenza nucleare, la situazione in Asia si sta deteriorando rapidamente.

Ciò che rende pessimisti, è che non solo le società asiatiche sono poco consapevoli del pericolo, ma un crescente numero di Paesi si uniscono a questo minaccioso “war game”, attivamente o passivamente.

I sentimenti nazionalisti in Asia sono in aumento.

Storicamente questi sentimenti sono spesso stati fattori importanti per condurre ai conflitti tra nazioni.

Nell’era dei social media, i leader in molti paesi sono più facilmente influenzati da sentimenti nazionalisti, perdono razionalità e possono prendere decisioni irrazionali.

La Cina si trova nell’occhio del ciclone.

Visti gli sconvolgimenti geopolitici, il nostro popolo capirà cosa sono i «cambiamenti mai visti da un secolo» (espressione ricorrente nei discorsi di “Xi Jinping”, ndr).

Come reagire a queste trasformazioni geopolitiche, è la sfida più tremenda per questa generazione».

 

Qui si conclude l’estratto dall’analisi del professor “Zheng Yongnian”.

Non stupisce che possa essere stata letta con approvazione da “Xi Jinping”.

 

Due cose balzano agli occhi subito.

La prima è la cornice marxista-leninista di questa analisi.

I grandi padri del comunismo mondiale, Karl Marx e ancor più Vladimir Lenin, teorizzavano che il capitalismo ha bisogno della guerra per risolvere le sue contraddizioni interne.

Lenin e Stalin ne derivarono una profezia sballata:

la previsione di una guerra tra Inghilterra e Stati Uniti.

 

Curiosa superficialità storica:

quel tipo di analisi sorvola sul fatto che tutte le civiltà pre-capitaliste hanno praticato la guerra;

mentre nessuna guerra ha mai opposto fra loro due liberaldemocrazie capitaliste. Viceversa i regimi comunisti hanno combattuto anche svariate guerre fratricide: Urss contro Cina, Vietnam contro Cambogia, Cina contro Vietnam.

L’analisi dello studioso cinese inoltre attribuisce esclusivamente agli altri la diffusione del nazionalismo in Asia, e la tentazione della guerra:

ignora quanto il suo stesso regime stia indottrinando la popolazione, fin dai banchi di scuola instilla negli animi dei cinesi un nazionalismo rancoroso e revanscista (vedi il mio Oriente Occidente di giovedì sulla xenofobia cinese e le aggressioni contro stranieri).

Ignora soprattutto il ruolo di Pechino nel fomentare un clima bellicoso con le continue provocazioni militari ai danni dei paesi vicini: non solo Taiwan ma anche Filippine, Vietnam, Malesia, Corea del Sud, Giappone.

 

In ogni caso, che l’analisi del professore sia organica al pensiero di Xi Jinping, a noi serve: proprio per capire quale visione del mondo ispira la leadership cinese.

Le conseguenze sono ben visibili nella strategia della superpotenza comunista:

 è in atto la costruzione di una «economia-fortezza», progettata per possedere la massima autosufficienza e quindi resilienza di fronte agli shock esterni.

 Di qui a definirla una economia di guerra, il passo è breve e il confine è labile.

 Da anni, tutto ciò che Pechino sta facendo in termini di politica industriale, protezionismo, strategia di sostegno alle esportazioni, accaparramento di filiere strategiche per l’approvvigionamento in energia e materie prime, più la stessa transizione verso le energie rinnovabili, tutto è orientato a mettere la nazione in condizioni di affrontare «situazioni estreme».

Sicurezza alimentare, indipendenza energetica, controllo delle catene di fornitura e manifattura: la sicurezza nazionale ispira tutte queste politiche economiche.

 

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