Nuovo ordine mondiale multipolare.

 

Nuovo ordine mondiale multipolare.

 

 

 

Il modello” Liberal Globalista”

sta arrivando alla sua fine corsa.

Controinformazione.info - Luciano Lago – (28 – 5 -2028) – ci dice:

 

Distratti dalle infinite polemiche sulla crescita dei partiti populisti o nazionalisti in varie parti d’Europa e del mondo, dalle diatribe sul fascismo reale o presunto, sul fenomeno migratorio e le sue conseguenze, le classi politiche e gli opinionisti occidentali non si sono ancora accorti che la questione principale è il crollo di un ordine liberale, elitario e sclerotizzato e il conseguente sviluppo di nuovi sistemi politici.

 

Dietro i tumultuosi avvenimenti di questi ultimi anni, si intravede il crollo del paradigma ideologico del liberalismo globale – le sue illusioni e la relativa struttura tecnocratica di governance – un fatto che trascende le divisioni destra/sinistra in Europa e in Occidente.

La totale disfunzionalità di questa struttura politica, associata ai conflitti provocati dall’occidente, ha evidenziato la necessità di un cambiamento nell’intero sistema di governance politica ed economica.

Per decenni gli ideologi della globalizzazione hanno venduto una illusione, quella di un mondo globalizzato come fattore di evoluzione e di progresso, ma questa oggi si è infranta di fronte ad una realtà fattuale.

 Non soltanto lo sfruttamento e il degrado ma con la guerra commerciale provocata dagli stessi che hanno coltivato questa illusione, gli Stati Uniti dell’amministrazione Trump, si è reso chiaro che tutte le catene di approvvigionamento sono oltremodo fragili, basate su energia a basso costo e manodopera straniera che funge da esercito di riserva del capitale usuraio.

 

Tutto questo paradigma oggi sta miseramente crollando.

In sostanza le élite liberali hanno semplicemente dimostrato di non essere all’altezza dei cambiamenti e delle sfide che oggi si presentano.

I personaggi come la “Ursula Von der Layen”, Ia” Kaja Kallas”, i “Macron” o i “Merz”, “Starmer” e gli altri, si rivelano come pupazzi teleguidati da entità finanziarie che operano sotto traccia.

 

Le élite liberali si dimostrano del tutto dissociate dal mondo reale e non comprendono che il paradigma economico occidentale del consumismo iper finanziarizzato e indebitato ha fatto il suo corso e il crollo di questo sistema sotto la tempesta in arrivo sarà inevitabile.

 Le contraddizioni stanno esplodendo all’interno del sistema e portano alla sua implosione.

Resta l’illusione per gli irriducibili sostenitori del vecchio sistema che il modello economico anglosassone sia insostituibile.

 La Cina con il suo impetuoso sviluppo e l’attrazione esercitata verso i paesi del sud del mondo dimostra la falsità di questa convinzione.

Libero Mercato e capitale.

La falsa retorica di democrazia e libero mercato non basta più a coprire la crisi e la miseria del sistema occidentale ed è sufficiente farsi un giro tra i disperati ed emarginati homeless di San Francisco o di Parigi, delle periferie di Roma o di Atene per capire la portata della crisi che, prima che politica, è sociale ed umana.

Per frenare il cambiamento le élite liberali tentano la carta della imposizione della forza e la guerra come estremo rimedio per frenare gli sviluppi indesiderati e la crescita di nuovi centri di potere in un mondo che diventa sempre più multipolare.

Qualcuno lo aveva previsto già più di un secolo fa:

il libero mercato, per sopravvivere, richiede una continua crescita.

Quando la crescita si arresta, il sistema entra in crisi.

E le soluzioni tradizionali – innovazione tecnologica, sfruttamento della forza lavoro, espansione dei mercati – non bastano più.

 In questa prospettiva, la guerra diventa l’estrema ratio, quella che offre al sistema economico un meccanismo di distruzione, ricostruzione e controllo sociale.

Le previsioni non possono quindi essere ottimistiche come molti vorrebbero ma, nonostante tutto, la speranza nella pace non può mai tramontare.

 

 

 

Brics, rivoluzione monetaria

 e nuovo ordine mondiale.

Ilmanifesto.it – (22 ottobre 2024) - Tonino Perna – Redazione – ci dice:

 

A Kazan Si riunisce oggi, sotto la presidenza russa, l’organismo del Sud del mondo. Mentre G20 e G7 perdono peso, il progetto di liberarsi dalla “signoria” del dollaro avanza.

 

Oggi a Kazan, sotto la presidenza russa, si riuniranno i massimi rappresentanti dei Brics che con i nuovi ingressi (Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Iran, Egitto, Arabia Saudita) rappresentano il 42% della popolazione mondiale, il 36,6% del Pil globale e il 60 per cento della produzione di idrocarburi. E siamo solo agli inizi perché altri Paesi (come la Turchia, l’Armenia, ecc.) bussano alle porte di questa nuova alleanza che sta ridisegnando l’economia e la geopolitica.

 

Mentre il G20 ha perso di rilevanza, di fatto si è rimpicciolito trasformandosi in G7 (ma qualcuno se n’è accorto?), rinunciando agli ambiziosi disegni di egemonia che si era dato, rinchiudendosi nei confini degli Stati Uniti e dei suoi satelliti, i Brics avanzano sulla scena mondiale con un chiaro progetto per il futuro: liberarsi dalla “signoria” del dollaro.

 

“The Unit” è il nome della nuova valuta che i Brics intendono introdurre, una unità di conto che regoli gli scambi tra questi Paesi ed è il frutto della media ponderata delle diverse divise nazionali. È molto simile alla proposta che John Maynard Keynes nel 1944 fece nell’incontro storico di Bretton Woods: il “bancor” una moneta-unità di conto internazionale, il cui valore doveva essere il risultato di una media ponderata tra le monete più forti, nell’ambito di una visione di un mondo multipolare.

 

È quello che oggi intendono fare i Brics spinti dalla Russia che in questi anni di dure sanzioni ha cercato altri mercati e altre alleanze, a partire da quella con il colosso cinese.

 Ma, una nuova moneta di scambio che abbia un riconoscimento a livello internazionale non si improvvisa.

 

Negli ultimi dieci anni, tra i Paesi Brics si sono moltiplicati gli scambi bilaterali – soprattutto tra Russia, India e Cina- con un picco nell’ultimo anno che ha interessato in maniera particolare l’interscambio Russia- Iran che è avvenuto al 60 per cento in rubli e rial.

Allo stesso tempo è cresciuta la corsa all’oro come riserva delle banche centrali.

 

Per questo oggi, secondo alcuni analisti che seguono da vicino l’evolversi delle trattative per la creazione del “The Unit”, questa nuova moneta avrà il sostegno per il 40 per cento dall’oro e per il resto da un paniere di valute nazionali dei vari Paesi membri, creando così un percorso virtuoso che esclude l’egemonia di uno Stato su un altro.

 

E la corsa all’oro per sganciarsi dalla “Signoria” del dollaro sta interessando anche alcuni Paesi africani, come lo Zimbabwe, Nigeria e Uganda, le cui banche centrali stanno aumentando le riserve auree con l’obiettivo dichiarato di ridurre la dipendenza dal dollaro.

Se si concretizzerà la nascita di “The Unit” il 22 ottobre di quest’anno verrà ricordato come una svolta di portata storica paragonabile al 15 agosto del 1971 quando il presidente Nixon decise unilateralmente lo sganciamento del dollaro dall’oro, infrangendo gli accordi di Bretton Woods.

 

Per oltre cinquant’anni gli Stati uniti hanno potuto godere di questo privilegio che gli ha permesso di avere un tenore di vita nettamente superiore alle loro possibilità, grazie ad un continuo indebitamento con il resto del mondo che ha superato quest’anno i 21.000 miliardi dollari.

 

Anche se ci vorrà più tempo per rendere vigente l’uso di questa nuova moneta/unità di conto, la strada è tracciata e la crisi del dollaro sarà irreversibile con conseguenze imprevedibili.

Come sostiene la giornalista economica “Saleha Mohsin” (Paper Soldiers. How the Weaponization of the Dollar changed the World Order, Penguin, 2024) il dollaro è diventato progressivamente la vera arma di Washington per dominare il mondo.

 Ma, i tempi sono cambiati e quest’arma ogni giorno che passa diventa sempre più arrugginita, malgrado il governo nordamericano continui a stampare dollari facendo arrivare il debito esterno, oltre che quello interno pari a tre volte e mezzo il Pil, ad un livello insostenibile.

E l’Ue farebbe bene a prendere le distanze, a sganciarsi progressivamente dalle strategie belliche e finanziarie di Washington, se non vuole finire nel baratro trascinata dal crollo dell’impero nordamericano.

 

 

 

Mondo: È in via di formazione un

nuovo ordine multipolare

foriero di ampi impatti.

Credendo.com – Raphael Cecchi – (26- 03 – 2024) – ci dice:

 

Il nuovo ordine mondiale multipolare aumenterà la probabilità di conflitti e sarà più caotico, minando la sicurezza e la stabilità globale.

L’eterogeneo Global South preme per ottenere maggiore influenza, con conseguenti impatti su economia globale, istituzioni internazionali e norme.

La rivalità tra Cina e America spinge a riconfigurare le catene di approvvigionamento globali, con conseguente aumento delle distorsioni negli scambi commerciali in tutto il mondo.

A loro volta anche i rischi climatici, che risultano più complessi da gestire in un mondo frammentato, avranno un notevole impatto.

 

Gli ultimi due anni sono stati segnati da due gravi conflitti:

 la guerra in Ucraina dal febbraio del 2022 e la guerra a Gaza dall’ottobre del 2023.

Oltre ad alimentare l’instabilità nelle due regioni, aumentare l’incertezza e danneggiare l’economia globale, questi rischi geopolitici evidenziano e accelerano anche la transizione verso un nuovo ordine multipolare. Insieme al cambiamento climatico avranno delle profonde conseguenze a lungo termine sulle fondamenta economiche, finanziarie, politiche e istituzionali del mondo.

 

L'aumento dei conflitti mina la sicurezza e la stabilità mondiale. 

L’anno 2023 ha dato ulteriore prova della nuova era di incertezza e di crescenti rischi di conflitto.

In ottobre 2023, mentre il primo grave conflitto di questo secolo, la guerra in Ucraina, era ancora in corso, è scoppiata la guerra a Gaza, che ha fatto riemergere un conflitto latente con ampie ramificazioni politiche ed economiche.

La determinazione di Israele nel voler eradicare Hamas, la grave crisi umanitaria a Gaza e il rischio di escalation regionale con il coinvolgimento di importanti potenze (in particolare USA e Iran), rendono gli sforzi di contenimento e di pace molto complessi.

Analogamente alla guerra in Ucraina, anche la guerra a Gaza ha portato allo spiegamento dei giochi geopolitici, con gli attacchi Houthi contro le navi cargo occidentali nel Mar Rosso e una flotta di alleati in maggioranza occidentali per difenderle.

 

Oltre ai conflitti effettivi, il mondo si trova ad affrontare gravi conflitti latenti, che vedono come epicentro l’Asia.

 La regione è al centro dell’attenzione per il suo importante ruolo nel commercio e nell’economia mondiali, e per la presenza della Cina, che compete con gli USA per la leadership mondiale.

In questo secolo la regione ha già registrato una maggiore e più rapida corsa agli armamenti, in particolare (ma non solo) per sviluppare le capacità difensive per far fronte alla crescente assertività regionale della Cina.

Taiwan, che rappresenta l’oggetto del contendere più rischioso tra USA e Cina, è il principale rischio bellico della regione.

Dall’estate del 2022, la Cina ha intensificato le pressioni militari nello stretto di Taiwan.

La possibilità di un esito pacifico appare meno probabile con il reinsediamento al governo di Taiwan del partito indipendente dopo le elezioni tenutesi a gennaio.

Ne consegue che nei prossimi anni la probabilità di una invasione, di un embargo o di operazioni ibride da parte della Cina continuerà ad aumentare.

Anche nel Mar Cinese Meridionale, dove restano irrisolte molte dispute di sovranità territoriale, le tensioni sono aumentate, portando a frequenti scontri marittimi tra imbarcazioni filippine e le navi della Guardia Costiera cinese.

 Le tensioni e il rischio di errori di valutazione sembrano destinati a perdurare, data l’incapacità di raggiungere un compromesso tra la Cina e gli altri contendenti. Per quanto riguarda la penisola coreana, la capacità di armamenti nucleari avanzati di Pyongyang e l’intensificarsi del lancio di missili ha fatto crescere il rischio di conflitto con la Corea del Sud e gli USA.

 

Un nuovo ordine mondiale per sua natura multipolare e instabile.

Il fattore comune delle guerre a Gaza e in Ucraina è la rapida trasformazione dell’ordine mondiale.

Questo permette ai conflitti congelati di prendere corpo in un contesto basato sull’equilibrio del potere, in cui i conflitti vengono risolti sempre più con l’uso della forza anziché attraverso le norme internazionali e le soluzioni diplomatiche.

 La conclusione militare lampo dell’annoso conflitto del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaijan nel settembre del 2023, e la minaccia di intervento militare da parte del Venezuela per impadronirsi della regione di Essequibo in Guyana, ricca di petrolio, non sarebbero potute accadere fino a poco tempo fa, quando gli USA agivano da poliziotti del mondo.

È un dato di fatto che l’ordine mondiale multipolare vede l’informale ed eterogeneo “Global South” in ripetuta contrapposizione con l’Occidente su moltissime questioni, con rivendicazioni di maggiore influenza, il che avrà ampie ripercussioni in materia di sicurezza, stabilità, economia, istituzioni e norme globali.

La trasformazione del nuovo ordine mondiale si è tradotta in una espansione dei BRICS (che da gennaio sono passati da cinque a undici membri, e molti se ne aggiungeranno in futuro) e in una crescente de-dollarizzazione del commercio Sud-Sud e dei finanziamenti (principalmente a beneficio del renminbi cinese).

 Inoltre, la logica di un blocco guidato da USA e Cina, con un folto gruppo di paesi non allineati nel mezzo, favorisce una maggiore cooperazione militare tra Russia, Corea del Nord e Iran.

A questo si aggiunga che, a seguito delle sanzioni economiche, la Russia è diventata il principale fornitore di petrolio dell’India, mentre le esportazioni di chip cinesi alla Russia sono cresciute esponenzialmente e la Cina ha ora preso il posto dell’UE quale maggior partner commerciale della Russia.

 

È in atto una frammentazione geoeconomica.

Il nuovo ordine mondiale si traduce anche in una riconfigurazione delle catene di approvvigionamento globali.

La guerra commerciale ed economica tra Cina e USA, seguita dalla crisi della pandemia da Covid-19, hanno innescato un processo di frammentazione geoeconomica.

Le strategie di friend/nearshoring (filiere produttive spostate in paesi amici o più vicini) e di de-risking adottate di recente e destinate a proseguire in futuro configureranno nuove catene di approvvigionamento e nuovi flussi commerciali e di investimento, soprattutto per beni e servizi strategici.

In un contesto di elevate tensioni sinoamericane, sono state introdotte restrizioni commerciali sui chip (dall’Occidente con gli USA capofila) e sui minerali critici (da pate della Cina), che con grande probabilità ostacoleranno gli sviluppi futuri della transizione verde ed energetica in entrambi i “blocchi” USA e cinese.

Inoltre, l’indagine UE sui sussidi cinesi per la produzione di veicoli elettrici potrebbe far scattare futuri dazi UE e probabili ritorsioni cinesi.

 La crescente tendenza verso distorsioni commerciali a livello mondiale sembra destinata a proseguire nel nuovo contesto geopolitico.

 In generale in futuro risulterà più complesso e rischioso navigare tra gli ostacoli commerciali e politici con conseguenze sulle decisioni commerciali, societarie e di investimento.

 

Cambiamento climatico: un ulteriore elemento di destabilizzazione dell’ordine mondiale.

Insieme ai rischi geopolitici, il cambiamento climatico rappresenta l’altro notevole rischio globale che impatterà l’ordine mondiale.

Il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato, e in combinazione con El Niño, ha riportato un numero crescente di eventi naturali estremi, da siccità gravi nelle Amazzoni, in Africa Orientale e Asia Centrale, a ondate di calore in India, vasti incendi in Europa e Canada, e perdite record da disastri climatici negli USA.

Ancora una volta la COP28 ha confermato una triste verità, ossia che il mondo non riesce a trovare un accordo in merito agli sforzi necessari per mitigare e per adattarsi a questa eccezionale sfida del cambiamento climatico, andando così inevitabilmente ad alimentare ulteriori aggravi economici, finanziari e politici futuri.

 Sono diversi i fattori che motivano la lentezza dei progressi, quali resistenza al cambiamento e corto-termismo, e ovviamente la portata senza precedenti della trasformazione economica e dei fabbisogni finanziari richiesti nel breve periodo.

Tuttavia, anche la mancanza di cooperazione globale rappresenta un fattore primario, in quanto le elevate tensioni geopolitiche rendono più difficile raggiungere un accordo su misure collettive coraggiose.

Nel nuovo ordine mondiale multipolare che sta emergendo, le grandi e medie potenze competeranno tra loro per ottenere una fetta maggiore della torta geopolitica ed economica, o almeno nel caso dell’Occidente per conservare quella attuale.

 Non vogliono correre il rischio di vedere il proprio sviluppo eroso a vantaggio di altre potenze a causa di una dismissione accelerata dei combustibili fossili, o per aver fornito ai paesi in via di sviluppo un immenso finanziamento climatico a fronte del maggiore contributo dato storicamente al cambiamento climatico.

 

In futuro, i rischi climatici avranno profonde conseguenze sull’ordine mondiale in termini di accesso alle risorse naturali (acqua, cibo, minerali critici), di conflitti e di danno socioeconomico ai singoli paesi e ai loro ecosistemi.

Ne consegue che le proiezioni economiche e geopolitiche di lungo termine di oggi potrebbero risultare molto incerte, a seconda di come si evolveranno in realtà i rischi climatici nel lungo termine.

 Inoltre, il cambiamento climatico ha visibili ripercussioni sui flussi commerciali globali attraverso le restrizioni commerciali.

Di fronte all’impatto negativo del cambiamento climatico sulla produzione agricola interna, un numero crescente di paesi ha deciso di limitare le esportazioni di alcuni beni alimentari di base, apparentemente per proteggere la sicurezza alimentare interna (vedi l’India per le esportazioni di riso e zucchero).

In generale, i paesi (medi e grandi) si avvalgono sempre più della sicurezza nazionale, energetica e alimentare quali obiettivi politici per giustificare misure protezionistiche, che hanno un impatto negativo sulle catene di approvvigionamento globali, sull’accesso alle materie prime essenziali, e fanno rialzare i prezzi globali, in particolare di beni alimentari di prima necessità.

Queste dinamiche in futuro saranno sempre più frequenti.

Sarà quindi essenziale costruire una rete diversificata e affidabile di partner commerciali per assicurare la resilienza di ogni singolo paese, specialmente in vista della frammentazione dell’ordine mondiale.

(Analista: Raphaël Cecchi).

 

 

 

 

Nuovo ordine globale:

quale multipolarismo?

Ispionline.it – Alessandro Colombo – (17 Ott. 2024) – ci dice:

 

 

BRICS versus G7: è in atto una profonda trasformazione del contesto politico ed economico internazionale. Con un nuovo gioco a incastri degli allineamenti sulla scena mondiale. Il vecchio multilateralismo è in crisi. Cosa lo sostituirà?

Geoeconomia.

 

Il prossimo summit dei BRICS che si terrà a Kazan’ a fine ottobre riporterà nuovamente l’attenzione sull’attivismo dei grandi Paesi in ascesa estranei al tradizionale nucleo egemonico occidentale.

 E lo farà, per di più, nel contesto di una crisi ormai distruttiva dell’ordine internazionale, che coinvolge gli uni accanto agli altri gli equilibri politico-strategici, i rapporti economici e commerciali e, con una portata persino maggiore, il tessuto di princìpi, norme e regole della convivenza internazionale.

 

Questo attivismo e, in particolare, proprio il suo risvolto istituzionale basterebbero già a indicare una profonda trasformazione del contesto politico ed economico internazionale.

 Sul terreno della distribuzione del potere e del prestigio, prima di tutto.

 A differenza di ciò che sarebbe avvenuto ancora fino a quindici o vent’anni fa, la chiamata alla mobilitazione degli Stati Uniti e dei Paesi europei contro l’aggressione russa all’Ucraina si è scontrata con l’indifferenza e, qualche volta, la diffidenza di molti dei destinatari.

 Anzi, la coesione mostrata in questa occasione dalle tradizionali istituzioni di impronta occidentale, dal G7 alla NATO, ha avuto l’effetto paradossale di acuire questa distanza – come è prevedibile che accadrà anche per effetto dell’onda d’urto della guerra in Medio Oriente.

 

Nuovo gioco a incastri.

La manifestazione più scontata e superficiale di questo scollamento è il nuovo gioco a incastri degli allineamenti internazionali.

Il quale passa, al livello più superficiale, dall’incerta bipolarizzazione spinta da un lato dal rilancio della solidarietà occidentale e, dall’altro lato, dall’approfondimento della cooperazione strategica tra Russia e Cina.

Prosegue con l’intreccio di sostegni incrociati, incursioni opportunistiche e alleanze ad hoc che agisce da vasi comunicanti tra un contesto competitivo e l’altro:

 il supporto iraniano e nord-coreano allo sforzo bellico russo in Ucraina, quello americano ed europeo alla guerra israeliana a Gaza e in Libano, l’inserimento russo nel Sahel a sostituzione della tradizionale presenza francese.

Ma senza potere impedire a una parte significativa della comunità internazionale di evitare di schierarsi nella contrapposizione emergente, preferendo mantenere rapporti con tutte le parti in causa.

Questo vale, in particolare, proprio per i Paesi in ascesa o più ricchi di risorse e, quindi, meno dipendenti da qualcuno dei due schieramenti:

 l’India, il Brasile, la Repubblica sudafricana, l’Arabia saudita.

I quali, più che riproporre la pratica del non-allineamento comune all’epoca del bipolarismo novecentesco, sembrano manifestare un rifiuto ancora più comprensivo delle logiche e delle retoriche bipolari, in nome del richiamo almeno cerimoniale al multipolarismo o, più realisticamente, in virtù della sensibilità sempre più accentuata per le rispettive dinamiche regionali.

 

Ma l’aspetto più significativo di questo imponente riallineamento è proprio il suo risvolto istituzionale.

Il quale non ha già più niente dell’elegante e, alla prova dei fatti, irrealistico edificio della” multilevel governance” immaginato e celebrato nel momento di passaggio dal Ventesimo al Ventunesimo secolo.

 E non soltanto perché, negli ultimi quindici anni, la maggior parte delle istituzioni ereditate dal” Grand Design della seconda metà del Novecento” ha sofferto di una crisi crescente di efficienza e di legittimità.

Ma perché, al posto di quel disegno, quello che sembra destinato a emergere è un disegno molto più intricato e competitivo, la cui coerenza interna è ancora tutta da immaginare.

 

Tre possibili vie di uscita dalla crisi.

La crisi del “vecchio” multilateralismo avrebbe potuto e, in linea di principio, potrebbe ancora preludere ad almeno tre possibili vie d’uscita:

quella massimalista del rilancio e dell’adattamento del tessuto multilaterale esistente, corretto in modo tale da tenere conto della mutata gerarchia del potere e del prestigio internazionale;

quella del “mini-lateralismo” diretta a creare consessi multilaterali meno estesi ma più coerenti, cioè a “portare attorno al tavolo il minor numero di Paesi necessario ad avere il maggiore impatto possibile nella soluzione di un particolare problema”;

 e una soluzione più radicale rassegnata a ritagliare il nuovo multilateralismo sulla scomposizione geopolitica del sistema internazionale, spostando il baricentro della cooperazione su istituzioni e regimi internazionali di dimensioni regionali, edificate attorno a una o più potenze egemoni (la Cina in Asia orientale, il Sud Africa nell’Africa sub-sahariana, la Russia in una parte dello spazio ex sovietico ecc.) – ma a costo di dovere ripensare i rapporti delle diverse istituzioni regionali fra loro.

 

La disgregazione crescente dell’ordine internazionale sembra avere favorito proprio le ultime due opzioni, alternative tra loro ma altrettanto estranee al multilateralismo inclusivo e tendenzialmente universale del recente passato.

 Da un lato, è stato rilanciato come detto il tradizionale multilateralismo di impronta occidentale, tanto sul terreno economico (come nel progetto occidentale “Build Back Better World” varato nel giugno 2021 dal G7 in risposta alla” Belt and Road Initiative” cinese) quanto, in maniera persino più pronunciata, sul terreno politico-strategico:

dalla costituzione dell’”AUKUS “tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia al rilancio e al nuovo allargamento della NATO.

Ma, dall’altro lato – e ritorniamo ai BRICS da cui siamo partiti – allo sviluppo di forme sempre più esclusive di multilateralismo da parte occidentale ha fatto da contraltare la proliferazione di nuove istituzioni tra i Paesi non occidentali, diverse tra loro per composizione e ispirazione, attraversate come gli stessi BRICS da competizioni e divisioni interne, ma accumunate da quella che ha potuto apparire come uno smarcamento, se non proprio una contestazione dell’ordine internazionale unipolare dell’ultimo trentennio.

 

La retorica del multipolarismo che fu.

Da qui allora la prospettiva o, almeno, la retorica di un prossimo multipolarismo. Nella quale confluiscono i segnali inequivocabili di smottamento dell’architettura esistente dell’ordine internazionale;

la spettacolare redistribuzione del potere avvenuta dal momento, trent’anni fa, in cui quell’architettura fu edificata;

oltre che il “codice geopolitico” di quei Paesi, Russia e Cina in testa, che nell’invocazione del multipolarismo hanno sempre visto una alternativa polemico-politica a quello che denunciano come l’ordine egemonico americano o, più in generale, occidentale.

Ma questa retorica, forse proprio per effetto della confluenza di materiali così eterogenei, resta a dire poco equivoca, soprattutto se associata troppo strettamente a ciò che per multipolarismo si è sempre inteso nel passato.

Tanto nella storia che nella teoria delle relazioni internazionali, la nozione di “multipolarismo” ha sempre indicato soltanto una determinata distribuzione del potere:

una condizione di equilibrio tra un numero piccolo, ma non piccolissimo di grandi potenze, cioè in linea di principio almeno più di due (sebbene, nell’esperienza storico-concreta degli ultimi secoli, non siano mai state meno di cinque).

Un gruppo di grandi potenze tanto interdipendenti sul terreno diplomatico e strategico da poter essere considerate parte di un unico sistema internazionale.

 E, quasi sempre, tanto consapevoli di appartenere a qualche insieme storico o culturale comune da maturare un insieme di princìpi, regole e istituzioni comuni per assicurare almeno gli obiettivi minimi o fondamentali di qualunque convivenza sociale:

 la garanzia del possesso, il rispetto delle promesse e, soprattutto, la limitazione della violenza.

 

Nuova distribuzione del potere: ordine da ridiscutere.

Il multipolarismo che si profila all’orizzonte non ha niente a che fare con tutto ciò. Prima di tutto, paradossalmente, proprio sul terreno della distribuzione del potere. Nonostante tutti gli indubbi mutamenti dell’ultimo trentennio, manca all’ipotesi di un futuro multipolare proprio la cosa più elementare, cioè i “poli”:

 perché resta al momento abissale la distanza tra i primi due, Stati Uniti e Cina, e tutti gli altri;

e perché, anche nella coppia di testa, i primi restano ancora di gran lunga superiori alla seconda, tanto sul terreno economico quanto, in misura molto più pronunciata, sul terreno militare.

Basti pensare che le spese militari degli Stati Uniti raggiungono quasi i 770 miliardi di dollari, contro i 240 della Cina;

che quest’ultima resta al di sotto del 20% delle capacità americane in tutti i comparti decisivi per il controllo dei cosiddetti “spazi comuni” (a cominciare dagli oceani); che la qualità dei mezzi americani resta ancora incomparabilmente superiore a quella dei mezzi cinesi.

 

Ma, soprattutto, quello che oggi si intende per multipolarismo è proprio la ridiscussione della struttura unitaria del sistema e della società internazionale che era data per acquisita nelle configurazioni multipolari del passato.

 Contro la vocazione universalistica dell’ordine internazionale di impronta occidentale, il multipolarismo invocato da Russia, Cina e da molti Paesi emergenti sembra fondarsi al contrario sulla auspicabile capacità dei diversi complessi regionali di darsi un ordine politico, economico, culturale e persino giuridico autonomo, tenendo a distanza le potenze estranee e ostili.

 La sua conformazione, esplicitamente ritagliata sul precedente di successo della “Dottrina Monroe americana”, è la stessa dei “grandi spazi organizzati” già invocata, tra gli altri, da “Carl Schmitt” alla metà del secolo scorso – non casualmente, in un contesto storico nel quale un’altra struttura gerarchica (quella tra Europa e Mondo) stava venendo meno.

 Sulle rovine di quell’ordinamento, e già nel pieno del processo di espansione universale del sistema, della società e del diritto internazionale, “Schmitt” vide profilarsi “la grande antitesi della politica mondiale, cioè il contrasto tra un dominio mondiale centrale e un equilibrio tra più ordinamenti spaziali, tra universalismo e pluralismo, monopolio e polipolio”;

 ovvero il problema “se il pianeta fosse maturo per il monopolio globale di un’unica potenza o fosse invece un pluralismo di grandi spazi in sé ordinati e coesistenti, di sfere d’intervento e di aree di civiltà, a determinare il nuovo diritto internazionale della terra”.

“La lotta per la struttura del futuro diritto internazionale” concludeva lo studioso tedesco, ruota attorno al “problema se il futuro consentirà o no la coesistenza di varie figure autonome, o soltanto semplici filiali regionali o locali decentralizzate di un unico ‘signore del mondo’”.

 

Grandi spazi in competizione.

Quasi cento anni più tardi, questa antitesi sembra tornare a costituire lo snodo fondamentale della politica internazionale del nuovo secolo, a maggior ragione se visto in connessione con l’altra grande antitesi tra universalismo e riflusso delle civiltà.

Contro l’egemonia globale degli Stati Uniti, la crescita già in atto di diverse grandi potenze regionali (l’India in Asia meridionale, il Brasile in America Latina, il Sud Africa nell’Africa sub-sahariana, la Cina in Asia orientale, l’Unione europea stessa in Europa) può costituire il puntello di un ordinamento spaziale alternativo, edificato sulla capacità di organizzazione delle singole regioni e sulla (progressiva) esclusione di qualunque interferenza esterna nelle proprie dinamiche di pace e di guerra.

In questo scenario, tanto le interdipendenze del sistema quanto, più intensamente, le istituzioni della società internazionale e i linguaggi della società transnazionale tenderebbero a divergere ancora più nettamente tra una regione e l’altra, fino a produrre una condizione simile a quella del mondo pre-globale di prima dell’espansione europea.

Ciò che resterebbe della globalità diplomatica e strategica della politica internazionale potrebbe essere, allora, la relazione competitiva dei grandi spazi tra loro, attraverso il ruolo egemonico o imperiale delle potenze al vertice.  

 

Il 16° Vertice dei BRICS: Verso

un “Nuovo Ordine Multipolare”.

Geopolitica.info - Lisa Duso – (30/11/2024) ci dice:

I BRICS sono un’istituzione intergovernativa che raggruppa le principali economie emergenti, unite per la creazione di un nuovo ordine mondiale.

 L’istituzione vuole essere un contrappeso al G7 dei paesi occidentali, puntando alla creazione di un ordine multipolare che confronti l’egemonia americana.

Il 16° forum è di particolare importanza per diversi motivi:

 l’annuncio di importanti nuovi membri, l’impegno rinnovato per un nuovo modello di sviluppo mondiale e l’apparente riavvicinamento tra Cina e India dopo anni di relazioni tese.

L’incontro è infine un’occasione per continuare a riflettere sul ruolo sempre maggiore che l’istituzione mira ad ottenere a livello globale.

 

 “Si sta formando un ordine multipolare: il processo è oggettivo e irreversibile”, sono le parole del Presidente Russo “Vladimir Putin” a Kazan, nella regione del Tatarstan, dove tra il 22 e il 24 ottobre si è tenuto il 16esimo vertice dei BRICS.

Le origini e i nuovi membri.

Correva l’anno 2001 quando” Jim O’Neill” ha coniato il primo anagramma BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) per indicare un nuovo aggregato di potenze emergenti che, secondo le sue stime, avrebbero ottenuto l’egemonia economica durante il secolo entrante.

 Una prima triangolazione si venne a creare tra India, Cina e Russia:

 fu il Cremlino, nel 2002, il principale sponsor di una cooperazione tra i tre stati asiatici.

A segnare simbolicamente l’inizio del forum fu il primo incontro informale avvenuto a New York nel 2006 a margine dell’”Assemblea Generale dell’ONU”, al quale partecipò anche il Brasile.

 Il gruppo ufficializzò la sua nascita nel 2009 con un summit a “Yekaterinburg” (Russia) e si incontrò nuovamente a margine dell’Assemblea delle Nazioni Unite nel 2010, abbracciando in tale data l’entrata del Sudafrica, ultima lettera del nuovo acronimo.

Si sono poi successi numerosi incontri che hanno portato ad un’evoluzione e rafforzamento del vertice, preludio del 16° summit tenutosi ad ottobre 2024.

 

In tale sede il gruppo BRICS ha annunciato l’adesione di quattro nuovi membri, ufficializzando l’ingresso di Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia ed Iran, formalmente entrati il 1° gennaio 2024.

Come mostrano i dati raccolti da “Statista”, i nuovi BRICS rappresentano ora quasi il 45% della popolazione mondiale e circa il 35% del PIL mondiale aggiustato per l’inflazione.

 

Come è però altrettanto visibile dal grafico, la sola presenza della Repubblica Popolare Cinese rappresenta una quota di PIL maggiore rispetto a tutti gli altri paesi presenti, evidenziando il peso della leadership economica di Pechino.

L’inclusione di questi nuovi membri non comporta solamente un aumento delle percentuali di Pil e popolazione, ma si dimostra essere un passo strategico fondamentale verso la costruzione di un nuovo modello di sviluppo globale e la creazione di un nuovo sistema economico.

Un nuovo ordine economico mondiale?

L’unione informale di stati ha messo in atto un coordinamento a livello economico e finanziario, cercando di inserirsi come reale alternativa alla valuta e alle istituzioni di commercio e finanziarie dominanti, prima fra tutte la “Banca Mondiale” (WB).

 

La “Banca Mondiale,” fondata nel 1944 con gli “Accordi di Bretton Woods”, è un’istituzione finanziaria internazionale che fornisce prestiti ai paesi a medio e basso reddito per promuovere globalmente uno sviluppo sostenibile.

 Composta da due istituti,” Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo “(BIRS) e l’”Associazione internazionale per lo sviluppo” (IDA), i suoi prestiti sono spesso legati alla richiesta di riforme economiche e politiche.

Il legame politico e la leadership statunitense hanno però suscitato a più riprese delle critiche verso l’istituzione.

 

Già dal quarto incontro dei BRICS nel 2012 a Nuova Delhi era stato proposto un istituto che si proponesse come alternativa alla “Banca Mondiale”, obiettivo raggiunto nel “Sesto Summit tenutosi in Brasile nel 2014”.

 In tale occasione era stato firmato l’accordo per la creazione della “Nuova Banca di Sviluppo” (NDB), con sede principale a “Shanghai.

 

La “NDB” è una banca multilaterale di sviluppo che ha l’obiettivo di raccogliere risorse per finanziare progetti infrastrutturali e di accelerare la crescita economica attraverso sviluppo sostenibile a livello ambientale e sociale, con particolare attenzione verso il” Sud Globale”.

A differenza della “Banca Mondiale”, da molti stati percepita come strumento a favore dei paesi più ricchi dalle condizioni di prestito rigide, il nuovo istituto fondato dai BRICS si propone di offrire finanziamenti con vincoli minori e nel rispetto dei paesi terzi.

 

Un ulteriore obiettivo dichiarato dall’istituzione è la de-dollarizzazione del sistema economico globale.

Attraverso la de-dollarizzazione, processo che ha preso slancio negli ultimi anni, i BRICS auspicano una riduzione della dipendenza dal dollaro nelle transazioni internazionali, incentivando invece una diversificazione delle riserve valutarie al fine di ottenere una maggiore indipendenza finanziaria oltre che politica.

Nonostante i fondi allocati dalla nascente istituzione non competano con quelli dell’istituzione nata dai trattati di “Bretton Woods”, è comunque parte e dimostrazione di quella che è la trasformazione in atto degli attuali e futuri flussi dell’economia globale.

 I dati raccolti dal “World Economic Outlook” del PIL del BRICS paragonati a quelli del G7, mostrano infatti chiaramente il superamento in termini economici dei BRICS.

I rapporti Indo-Cinesi.

 

Per comprendere le dinamiche interne ai BRICS e le possibili evoluzioni future, è necessario guardare ai rapporti tra le due principali economie dell’alleanza:

 la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica indiana.

 I due attori, potenze protagoniste della regione asiatica, hanno trovato un comune accordo che ha permesso un avvicinamento dopo anni di gelo.

 

La frontiera che divide i due giganti asiatici porta con sé una storia complessa: dopo l’indipendenza indiana del 1947 sono state molte le zone contese e teatro di scontri.

 Un accordo fu raggiunto nel 1962, successivamente alla guerra sino-indiana, quando venne pattuita la “Linea attuale di controllo” (Lac).

 Il nuovo limes si trova ad altissima quota, condizione che lo ha reso di difficile definizione: l’incertezza del confine non aveva fermato le schermaglie, ma aveva permesso una convivenza pacifica priva di vittime.

 

Una pace in bilico, però, divideva le due parti.

La tregua si è spezzata quando, nel giugno 2020, almeno 20 soldati indiani hanno perso la vita per mano di militari cinesi tra le catene del Karakorum e dell’Himalaya:

un evento che ha fatto salire la tensione tra le due potenze asiatiche, con accuse reciproche di violazione della linea di confine.

 L’evento ha comportato un congelamento delle relazioni bilaterali tra i due giganti asiatici.

 

Quattro anni dopo, ad ottobre, le parti del contenzioso hanno ufficializzato la stipulazione dell’”Accordo di Pattugliamento al Confine India-Cina”, che riapre il dialogo e la collaborazione.

 Un grande mutamento per gli equilibri di potenza asiatici, nonostante alcuni esperti ritengano questo accordo potrebbe non essere duraturo.

A coronare pubblicamente la riconciliazione è stato l’incontro tra il Presidente del partito comunista cinese “Xi Jinping” e il Primo Ministro indiano “Narendra Modi”, verificatosi in occasione del vertice dei BRICS.

In occasione del forum, i due leader si sono espressi con toni amichevoli, nonostante rimanga la competizione tra i due paesi per la leadership del Sud Globale.

A rendere ambigui i rapporti è il dialogo ancora aperto tra India e Casa Bianca: “Bharat” (nome ufficiale utilizzato nella Costituzione indiana) gioca così la partita asiatica tenendo in mano le carte occidentali.

Il futuro di tale relazione, pur caratterizzata da toni conciliatori, resta aperto a possibili e imprevedibili scenari futuri, in un contesto nel quale le dinamiche geopolitiche sono sempre più complesse.

 

Quale futuro per i BRICS?

 

I BRICS, rafforzati dall’entrata dei nuovi membri, vorranno confermare il loro ruolo emergente al tavolo delle grandi potenze mondiali.

 Sarà importante comprendere il ruolo della Cina, il cui peso economico pone dubbi sugli equilibri interni del forum, e la sua rivalità con l’attore indiano nella regione. Nonostante la creazione della “Nuova Banca di Sviluppo”, il percorso verso un ordine economico alternativo e un’effettiva indipendenza finanziaria rimane complesso.

Il futuro dei BRICS dipenderà dalla loro capacità di superare le rivalità interne e sostenere un’agenda economica comune, oltrepassando posizioni divergenti e rivalità legate a logiche di potenza.

Solo così sarà possibile promuovere un ordine multipolare che riesca a coinvolgere attivamente le nuove economie emergenti e consolidare la posizione dei membri dei BRICS come pedine chiave nello scacchiere internazionale.

 

 

 

 

Cina vs Stati Uniti: chi vincerà

la guerra commerciale?

Esiste un grafico.

Infodata.ilsole24ore.com -Davide Ruffini – (8 Maggio 2025) – ci dice:

La guerra commerciale innescata dai dazi di Trump ha smosso il dibattito su come l’attuale assetto commerciale mondiale possa subire variazioni e mutare.

Più in dettaglio, la Cina è uno dei paesi che ha subito più pesantemente la folle scelta del residente nella Casa Bianca;

 infatti, Washington ha previsto per Pechino ulteriori dazi al 34%, che considerando il precedente 20% applicato prima del famoso annuncio in cui il presidente elencava le imposte per ogni paese, fa arrivare al 54% i tributi che le imprese statunitensi dovranno pagare per importare merce cinese.

Nell’attesa di vedere se e cosa cambierà nelle dinamiche commerciali globali, è possibile osservare come sono già mutate le relazioni tra i vari paesi del mondo e i due giganti dell’economia, Stati Uniti e Cina.

I dati raccolti da “Visual Capitalist”, provenienti da “United States Census Bureau” e “General Administration of Customs of the People’s Republic of China”, mostrano come la Cina sia riuscita a dominare in termini di paesi raggiunti. Se negli anni 2000, tra i due, erano spesso gli Stati Uniti a prevalere come partner commerciale, ora la situazione si è ribaltata e la Cina primeggia in quasi tutto il globo.

 

Prevalenza della Cina o degli Stati Uniti nel commercio mondiale:

Dati del 2000.

(Map: David RuffiniSource: Visual Capitalist, U.S. Census, Customs Statistics of ChinaDownload imageCreated with Datawrapper)

Prevalenza della Cina o degli Stati Uniti nel commercio mondiale

Dati del 2024.

(Map: David RuffiniSource: Visual Capitalist, U.S. Census, Customs Statistics of ChinaEmbed Download imageCreated with Datawrapper)

Nel 2000, il commercio degli Stati Uniti ammontava a 3.4 trilioni di dollari, mentre quello cinese a 474 bilioni di dollari:

il primo aveva un valore più di 7 volte più grande rispetto al secondo.

Ma nel 2024, la situazione è cambiata radicalmente:

gli Stati Uniti hanno un valore di scambi commerciali pari a 5.3 trilioni di dollari, al contrario quello della Cina equivale a 6.2 trilioni di dollari.

La Cina ha superato commercialmente per la prima volta gli Stati Uniti nel 2012 e nel corso di vent’anni, nel periodo 2000-2024 ha subito un incremento di circa il 1300%, laddove gli States sono aumentati “solamente” del 156%.

 

Oggi, il mercato cinese domina su grande parte del globo, principalmente in Sud America, Africa, Medio Oriente e Asia. Anche in Europa, nonostante nel Vecchio continente ci siano paesi maggiormente legati e in linea con i pensieri politici di Washington, la Cina si sta confermando un partner più grande degli Stati Uniti.

Un altro dettaglio che si evince dall’analisi è che per quanto i singoli governi nazionali siano distanti dalle linee di governo di “Xi Jinping”, l’industria cinese rimane il punto di riferimento per molte economie nazionali e, di fatto, per quella mondiale.

 

 

 

Ma come sarebbe una guerra

commerciale «totale» fra Cina e USA?

 

Cdt.ch - Red. Online - Susan Walsh – (09.04.2025) – ci dice:

 

Un conflitto economico fra le due superpotenze avrebbe effetti importanti non solo su Pechino e Washington ma, inevitabilmente, anche sull'economia globale.

 

E se Cina e Stati Uniti continuassero su questa strada?

 Se, insomma, il botta e risposta fra dazi e contro-dazi si trasformasse in una vera e propria guerra commerciale fra Pechino e Washington?

 Lo scenario di uno scontro totale, a occhio, è più che mai reale:

Donald Trump, da un lato, è salito prima al 104% e poi al 125% per i prodotti importati dalla Cina, annunciando al contempo una pausa di 90 giorni per gli altri Paesi, mentre il Paese asiatico è passato dal 34% all’84% sul made in USA. 

Pechino, come noto, ha dichiarato che combatterà «fino alla fine» l’aggressività statunitense.

Di più, le autorità politiche insistono sul fatto che la Cina sia pronta e preparata a una guerra commerciale con Washington.

Bene, anzi male: ma come si traduce tutto ciò a livello globale?

 Quali, soprattutto, le conseguenze?

 

Quanto valgono gli scambi fra Cina e Stati Uniti?

Il valore degli scambi commerciali fra Cina e Stati Uniti, lo scorso anno, ha toccato i 585 miliardi di dollari secondo i dati raccolti dalla BBC. Washington, nel balletto con Pechino, in ogni caso ha importato più di quanto abbia esportato: 440 miliardi contro 145.

Tradotto:

il deficit commerciale nei confronti della Cina, lo scorso anno, è stato di 295 miliardi di dollari.

Più o meno l’1% del valore dell’intera economia statunitense.

 Detto ciò, il presidente statunitense Donald Trump nel giustificare i dazi contro la Cina ha parlato, a torto, di «mille miliardi».

Trump aveva imposto misure significative, nei confronti di Pechino, già durante il suo primo mandato alla Casa Bianca.

 Misure confermate durante l’amministrazione Biden.

 Il risultato?

Lo scorso anno, le barriere all’importazione avevano fatto scendere al 13% – rispetto al totale delle importazioni americane e al 21% del 2016 – la quota di beni importati dalla Cina.

Riassumendo, l’importanza della Cina per le importazioni statunitensi è diminuita, e pure parecchio, nell’ultimo decennio.

 Anche se, va detto, le importazioni di prodotti cinesi sono avvenute anche via Paesi terzi.

 

Che cosa acquistano l’uno dall’altro (e viceversa)?

Lo scorso anno, la soia è stato il bene più ricercato dalla Cina.

Il motivo?

 Farne mangime per i 440 milioni di maiali da allevamento presenti nel Paese asiatico.

Gli Stati Uniti hanno pure esportato verso la Cina farmaci e petrolio.

 Esaminando il percorso inverso, scrive sempre la “BBC”, l’America ha importato dal Dragone elettronica, computer e giocattoli, oltre alle batterie per le vetture elettriche.

Gli smartphone, nella speciale classifica, occupano il primo posto (il 9% rispetto al totale delle importazioni statunitensi dalla Cina).

 Una posizione, questa, di per sé dopata dal momento che molti telefonini importati dall’America appartengono ad Apple.

 La multinazionale statunitense, a causa dei dazi e dei contro-dazi, sta soffrendo e non poco in Borsa: nelle ultime settimane, il valore del titolo è calato del 20%.

 

Se questi prodotti, prima, erano già soggetti a un aumento di prezzo considerando i dazi originari al 20%, con le tariffe al 104% l’effetto per i consumatori sarà (o potrebbe essere) cinque volte più grande.

Anche i beni statunitensi che importa la Cina subiranno un’impennata, considerando le tariffe «vendicative» imposte da Pechino.

Di conseguenza, i consumatori di entrambi i Paesi rischiano di soffrire, e non poco, gli effetti di questa guerra.

 

Detto delle tariffe, su quali altri «campi» stanno battagliando Cina e Stati Uniti?

La Cina fornisce metalli «vitali» per l’industria, come il rame e il litio.

 Pechino ha già detto che

 verranno adottati anche controlli sulle esportazioni di sette articoli «correlati alle terre rare», tra cui samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, Washington potrebbe tentare di inasprire il blocco tecnologico sulla Cina avviato da Joe Biden.

 Come?

Rendendo più difficile per la Cina importare il tipo di microchip avanzati –vitali per applicazioni come l’intelligenza artificiale – che non è ancora in grado di produrre da sola.

Il consigliere commerciale di Donald Trump, “Peter Navarro,” ha suggerito questa settimana che gli Stati Uniti potrebbero esercitare pressioni su altri Paesi, tra cui Cambogia, Messico e Vietnam, affinché non commercino con la Cina.

La pena?

 Uno stop alle esportazioni verso gli Stati Uniti.

 

Ecco, gli altri Paesi in che modo soffriranno?

A detta del “Fondo monetario internazionale”, Cina e Stati Uniti – assieme – rappresentano il 43% dell’economia globale.

 In caso di guerra commerciale aperta, è da prevedere che anche altre economie rallenteranno o, peggio, finiranno in recessione.

 Gli investimenti, nel mondo, dovrebbero soffrirne.

Ma le conseguenze, conclude la “BBC”, potrebbero essere molteplici.

 La Cina, per intenderci, è la più grande nazione manifatturiera del mondo e sta producendo molto più di quanto la sua popolazione consumi a livello nazionale. Sta gestendo un surplus di beni che si aggira sui mille miliardi di dollari.

Uscendo dal linguaggio tecnico ed economico, Pechino sta esportando più di quanto importi.

Spesso, poi, produce beni al di sotto del vero costo di produzione grazie a sussidi interni e al sostegno finanziario statale.

Un esempio concreto? L’acciaio.

Se questi beni non fossero più in grado di entrare negli Stati Uniti, c’è il rischio che le aziende cinesi cerchino di «scaricarli» altrove.

Il che, da un lato, potrebbe tradursi in un vantaggio per i consumatori ma, dall’altro, potrebbe anche creare concorrenza sleale e, in ultima istanza, finire per minacciare posti di lavoro e stipendi.

Una guerra commerciale su larga scala tra Cina e Stati Uniti non si limiterebbe a colpire due potenze: sarebbe una tempesta economica in grado di travolgere interi settori, economie emergenti e mercati sviluppati.

La domanda, a questo punto, rischia di non essere più «se», ma «quanto» il mondo è pronto a reggere l’urto.

 

 

 

Cina e USA tra Big Tech e Sociale

Analisi delle differenze.

Periscopionline.it – (31-1-2024) - Claudio Pisapia - IL QUOTIDIANO – Redazione – ci dice:

 

Nell’ultimo anno stiamo assistendo ad un tentativo di ridimensionamento dello strapotere delle big tech cinesi ad opera di “Xi” Jinping.

In realtà qualcosa di più di un semplice tentativo, esempio ne è la donazione da parte di “Alibaba” di 100 miliardi di yuan (15,5 miliardi di euro) ai programmi sociali ed economici del Partito Comunista.

 

Era successo anche a “Pinduoduo”, che aveva donato 1,5 miliardi di dollari, e a “Tencent” che da aprile ha annunciato donazioni complessive di 15 miliardi per un programma dedicato al “bene comune”.

 

Precedentemente sempre “Alibaba” di “Jack Ma”, a luglio di quest’anno, aveva donato altri 23 milioni di dollari all’”Henan”, la regione della Cina centrale colpita da un’alluvione.

 

Un susseguirsi di donazioni apparentemente spontanee ma che nei fatti seguono le richieste dell’apparato comunista cinese e, come notano e fanno notare gli analisti finanziari tra cui quelli di “Mf “– Milano Finanza, “il presidente Xi Jinping … pretende collaborazione dai “Cresi del tech” per la redistribuzione della ricchezza e, considerate le recenti ingerenze governative, le aziende stanno rispondendo all’appello.”

 

Ma per capire quello che sta succedendo bisogna fare qualche passo indietro ed arrivare fino al 1979, quando la Cina ristabilì le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti e Deng Xiaoping divenne il primo leader supremo di quel Paese a visitare gli Usa.

 Una lunga visita di nove giorni, iniziata il 28 Gennaio 1979, nel corso della quale vi furono tanti incontri tra Deng e il Presidente statunitense Jimmy Carter.

La storica visita ruppe il ghiaccio delle relazioni Cina-Usa, e portò alla firma di accordi di cooperazione in materia di tecnologia, cultura, istruzione e agricoltura.

 Lo scopo di “Deng” era far uscire la Cina dalle esperienze traumatiche imposte da Mao Zedong copiando il modello capitalista americano senza perdere l’impronta asiatica.

 

Deng divenne così il pioniere della riforma economica e l’artefice del “socialismo con caratteristiche cinesi”, teoria che segnava la transizione dall’economia pianificata a un’economia aperta al mercato, con la supervisione dello stato nelle sue prospettive macroeconomiche.

 

Da quel momento iniziò la grande corsa del pil cinese e Pechino si accreditò sempre di più agli occhi degli occidentali fino ad essere accettata nel “Wto” (World Trade Organization) nel 2001.

Ma già allora il capitalismo cinese assomigliava sempre meno a quello americano e più a quello delle “tigri asiatiche”, cioè Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong cioè iniziativa privata con la presenza discreta (eufemismo) dello stato, che mantiene quote di partecipazione nelle grandi aziende e controlla le banche e gli interessi strategici.

 

Le concessioni alle leggi di mercato avevano un fine politico, funzionale agli scopi prefissati e non ideologiche, quindi le leve del potere non sono mai state cedute, solo messe da parte per il tempo ritenuto necessario.

 E per Xi Jinping il tempo di tirarle fuori e mostrare alla finanza cinese, ma anche al mondo, chi comanda davvero è arrivato, anche perché le big tech stavano oltrepassando il limite accettabile dalla nomenclatura.

Grazie a questo sistema la Cina ha ottenuto un successo dietro l’altro, fino a diventare la seconda potenza economica mondiale, tantissime persone sono uscite dalla povertà estrema (anche se con qualche trucco contabile) e “Xi” è arrivato a dire in un suo discorso a febbraio di quest’anno che in Cina “la povertà estrema è stata sconfitta”, intestandosi ovviamente il successo.

Sembra che solo Di Maio sia riuscito in occidente nella stessa impresa!

 

Ma raggiunti i risultati, è tempo di tirare i remi in barca, in questo caso i remi sono le “big tech” e in primis “Jack Ma “a cui è richiesto il ritorno nei ranghi con il pretesto che tecnologica e protezione dei dati devono avere un ruolo nello sviluppo equo delle comunità, quindi non può essere un privato a detenerne il monopolio.

L’Occidente magari si scandalizza, abituata a un liberismo protetto per legge da schiere di avvocati, ma un po’ d’invidia in fondo c’è, visti i tanti grattacapi che le multinazionali ci danno in termini di trasparenza e ricorso ai paradisi fiscali.

Trump aveva provato a opporre qualche resistenza ma era stato subito ridimensionato.

 L’America non è la Cina, ci sono le elezioni, c’è la libertà, l’opinione pubblica manipolabile dai giornali manipolabili a loro volta dalle stesse “big tech”, e quindi capitolò e addirittura fu estromesso, come si ricorderà, da alcuni social.

Il potere economico e lo stuolo di avvocati a sua difesa vince sul potere politico che lo ha creato.

 

“Jo Biden” è stato a guardare e quando è stato il momento ha seguito il coro di critiche a Trump comprendendo però che alcune delle lotte dei repubblicani avevano un senso.

Motivo per cui ha lasciato in piedi tutti i dazi a carico della Cina, indugiando su quelli all’Europa, in funzione antiglobalista e di protezione del welfare interno, dei lavoratori e delle merci americane (quasi fosse un Trump qualsiasi).

 

Ovviamente senza troppo sbandierare le intenzioni per non turbare la sinistra mondiale (il baluardo della finanza costruito da Clinton fino a Obama) sembra proprio che anche lui sia intenzionato a ridimensionare il “libero mercato”.

Ha assunto come assistente al” National Security Council” Jake Sullivan per ricostruire l’economia americana su basi meno liberiste e più protezioniste promuovendo lo slogan “Buy american”.

 

Un’altra mossa interessante è stata la nomina della giovanissima “Lina Khan”, una donna sempre all’attacco delle “big tech” alla “Federal Trade Commission” (Ftc, antitrust americano), proprio con lo scopo di portare più stato nelle grandi imprese.

Un po’ di quel controllo statale cinese che Biden vorrebbe per gli Stati Uniti.

 

Di questi giorni è la nuova misura economica che immette nell’economia ulteriori 1.750 miliardi di dollari, un’iniezione di soldi per far ripartire i consumi proprio come aveva fatto la Cina immediatamente dopo le grandi crisi del 2008 e come ha fatto già dall’anno della pandemia, il che le ha permesso di superare immediatamente le difficoltà causate dalla pandemia.

 Il “Build back better framework” di Biden guarda alla classe media, alla scuola a partire dall’asilo, la cura dei disabili e in generale gli aiuti ai caregiver, le agevolazioni per il passaggio a energie rinnovabili e il rafforzamento dell’assistenza sanitaria.

In particolare, vi figura la scuola materna gratuita per tutti i bambini di 3 e 4 anni, portando a circa 20 milioni il numero di bambini con accesso ai servizi di assistenza all’infanzia di alta qualità e a prezzi accessibili.

Non a tutti potrebbe piacere questo modo di fare, questo tentativo di imbrigliare le big tech e grandi spese per ambiente, cosa che la Cina sta facendo da tempo, e sociale.

Biden sta operando in velocità perché sa che il suo orizzonte temporale è ben diverso da quello di “Xi”, dura solo due anni e già nelle elezioni di medio termine la sua maggioranza potrebbe cambiare, sullo sfondo di grandi lacerazioni interne tra cui quelli di movimenti come “Black Lives Matter “che tende a descrivere l’America agli stessi americani come un paese di razzisti incalliti che devono fare ammenda e scontare il peccato originale dell’imperialismo.

Un paese diviso e in preda a isterismi continui che hanno portato persino all’abbattimento di statue per riscrivere il passato, metodi a metà tra talebani e 1984 (il libro di George Orwell).

Una realtà di divisione e conflitti che per ora crea seri problemi interni ma sembra non fiaccare ancora la proiezione di potenza esterna.

Ma prima o poi l’America potrebbe crollare su stessa e sulle sue contraddizioni mentre la Cina all’interno è forte e questo le permette di perseguire i suoi scopi di politica estera senza contraccolpi.

Noi non siamo pronti ad un futuro cinese e quindi dobbiamo sperare che l’Europa sappia trovare una terza via, staccarsi quanto basta dall’egemonia e dal caos americano, evitando ad esempio di impelagarci nelle future guerre nell’indo-pacifico dove già sono accorsi gli inglesi in funzione anti Cina, e tornare ad occuparci di Mediterraneo e del cortile di casa nostra.

 Ovviamente facendo attenzione a non cadere nelle lusinghe del mercato economico cinese, come ad un certo punto sembravano voler fare alcuni “portavoce” del passato governo Conte.

 

I lati oscuri di una intelligenza

artificiale “neoliberista.”

 

Periscopionline.it – Corrado Oddi – “28 maggio 2025)

 

È sempre più evidente come una delle “rivoluzioni” in corso è quella prodotta dall’uso sempre più massiccio e invasivo dell’Intelligenza Artificiale.

In queste brevi righe mi interessa mettere in luce alcuni aspetti inquietanti che si stanno rivelando ad un occhio un po’ attento e non superficiale.

Non lo faccio per sminuire il valore che potrebbe avere l’utilizzo e, ancor prima, la progettazione di questa tecnologia, quanto per far emergere come la gran parte dei sistemi di intelligenza artificiale, in particolare quelli che vengono figliati dai “GAFAM”, i giganti hi-tech (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), presentino gravi “lati oscuri” e forti rischi per l’idea di società che incorporano e che propongono.

 

“Sam Backman- Fried” è un imprenditore statunitense, conosciuto soprattutto per aver fondato “FTX”, una delle più grandi piattaforme di scambio di criptovalute al mondo, e “Alameda Research,” una società di compravendita di strumenti finanziari, come azioni, valute, criptovalute, obbligazioni, derivati, ecc.

Nel novembre 2022, “FTX” ha affrontato una grave crisi di liquidità, che ha portato alla sua bancarotta.

Indagini successive hanno rivelato che “Bankman-Fried” aveva utilizzato indebitamente fondi dei clienti di “FTX” per coprire le perdite di “Alameda Research”.

 Un comportamento illegale e un reato grave, tant’è che è stato arrestato e condannato a 25 anni di carcere e gli è stato ordinato di restituire oltre 11 miliardi di dollari.

 

Ebbene, qualche giorno fa è uscito uno studio di Bankitalia che ha approfondito il comportamento di dodici modelli di intelligenza artificiale che dovevano affrontare la situazione in cui si era trovato “Sam Backman-Fried”, ovvero quello di essere a capo di una “società di trading” con forti perdite, situazione che ha deciso di “risolvere” illegalmente utilizzando i fondi dei clienti.

Solo uno dei dodici modelli di IA si è rifiutato di prendere i fondi dei clienti, due lo hanno fatto in parte e i restanti nove hanno agito esattamente come l’imprenditore fraudolento.

 

Alcuni commentatori hanno concluso che, quindi, rimane la necessità di una supervisione umana sui comportamenti dei sistemi di IA.

A me pare che siamo di fronte a qualcosa di più profondo, che ha a che fare con la progettazione e le istruzioni che sono state fornite ai sistemi di IA.

Oltre al fatto che, nella maggior parte dei casi, esse non sono pubbliche e conosciute solo dai progettisti, risulta sufficientemente chiaro che l’obiettivo che è stato assegnato, appunto fin dalla fase di progettazione, è quello della massimizzazione dei profitti e, in ogni caso, della salvaguardia degli interessi aziendali.

E questo, anche se questo può significare introdurre scelte lesive, e persino perseguibili penalmente, nei confronti delle persone.

Siamo in presenza, cioè, di un’intelligenza artificiale “neoliberista”, perché è stata concepita per introiettare quella finalità, si potrebbe quasi dire quell’ “ideologia”.

Apparentemente potrà sembrare di saltare di palo in frasca, guardare poi a cosa sta producendo il ricorso spinto dell’attuale modello di IA dal punto di vista del consumo energetico.

 L’Irlanda è nota per essere sostanzialmente diventata una sorta di “paradiso fiscale” per le aziende hi-tech, visto che applica ad esse un prelievo fiscale assolutamente basso, diventando così molto attrattiva per il loro insediamento e anche per i “grandi data center” che costituiscono un elemento essenziale per la loro crescita.

Ora, nel 2023 i data center presenti in Irlanda hanno consumato il 21% dell’elettricità totale del Paese (nel 2015 era il 5%), superando, per la prima volta, il consumo delle abitazioni urbane, che, sempre nel 2023, si è attestato al 18%. L’Irlanda rappresenta solo la “punta di diamante” di una tendenza che, ormai, si sta affermando a livello globale.

 

L’ “International Energy Agency “(IEA) – l’autorità energetica mondiale di cui anche l’Italia è membro – prevede che il consumo globale di elettricità dei data center raddoppierà entro il 2030, passando da circa 415 TWh nel 2024 a 945 Twh, circa 3 volte tanto il consumo elettrico totale dell’Italia.

Questi dati già indicano come, proseguendo su questa strada, la possibilità di raggiungere la neutralità carbonica e di contrastare il cambiamento climatico si allontana ulteriormente, evidenziando l’insostenibilità ambientale degli attuali modelli di IA.

Non solo:

il gigantismo degli investimenti e degli insediamenti delle grandi aziende hi-tech, che guardano, in primo luogo, a conservare la propria posizione di oligopolio, si porta dietro il fatto che le stesse tendono ad effettuare investimenti in impianti che producono energia, a loro volta di grandi dimensioni e centralizzati. Replicando esattamente lo scheletro su cui è costruita la struttura energetica del fossile e fonti che non si discostano da essa.

Non a caso, negli ultimi mesi, “Microsoft” ha deciso di investire nella “centrale nucleare di Three Miles Island” (quella tristemente famosa per il grave incidente verificatosi nel 1979), mentre “Google” e “Amazon puntano” a sviluppare piccole centrali nucleari.

 

Potrei andare avanti su altri “lati oscuri” dell’IA attuale, ragionando sul modello di lavoro intrinseco in essa, che tende a polarizzare sempre più tra un nucleo ristretto di lavoro altamente qualificato e una massa considerevole di lavoro ripetitivo e svalorizzato, quello che serve per rendere utilizzabili i dati e che viene svolto da forza lavoro sfruttata, per lo più collocata nei Paesi poveri del mondo.

Oppure analizzando la possibilità di manipolazione delle opinioni che può originare dalla stessa (un recente inquietante studio del “Politecnico Federale di Losanna “ha mostrato che” GPT-4”, se in possesso dei dati personali della persona con cui interagisce, è risultato più persuasiva del 64% rispetto agli esseri umani nel far cambiare opinione agli interlocutori).

Fatto che ci riporta, peraltro, vista la stretta connessione tra “sviluppo dell’AI “e “oligopolio hi-tech,” al “peccato originale”, di sistema, di utilizzare i dati degli utenti per finalità commerciali e di ricerca del profitto, ciò che ha fatto dire a molti studiosi che, nel mondo delle piattaforme, “la merce siamo noi”.

 

È facile concludere che lo sviluppo tecnologico trainato da grandi soggetti privati non è per nulla neutrale, che, in realtà, esso è ideologicamente orientato, strutturalmente opaco e non trasparente, ecologicamente insostenibile, socialmente ingiusto.

Siamo in presenza di un “meccanismo di dominio”, su cui scommette un nuovo “tecno-capitalismo”, con venature di “carattere feudale,” che, non a caso, si trasferisce in un’idea della politica basata unicamente sui rapporti di forza.

A ben vedere, qui sta, pur con diverse contraddizioni, la saldatura tra grandi colossi tecnologici e trumpismo.

 

Eppure, non solo si può sostenere che sarebbe possibile indicare e realizzare altre finalità e modalità progettuali per lo sviluppo tecnologico, al di fuori del paradigma capitalistico, ma che questo è già un dato di realtà.

 Ce lo dice la vicenda di “Deep Seek”, startup cinese di intelligenza artificiale fondata nel 2023

 Intanto “Deep Seek” funziona sulla base di un “sistema open source”, ovvero chiunque può modificare il codice sorgente, che è quello che usano i programmatori/sviluppatori per dare le istruzioni al sistema, rendendo così questo modello di IA potenzialmente pubblico e trasparente (uso l’avverbio potenzialmente perché il governo cinese usa poi metodi più sofisticati per controllare, almeno all’interno della Cina, il funzionamento di Deep Seek).

In ogni caso, un approccio totalmente diverso, se non addirittura opposto alla segretezza di cui si avvalgono i programmi elaborati per le IA figliate dalle grandi aziende hi tech.

In più,” Deep Seek” utilizza molti meno chip (circa 2000 rispetto ai più dei 10.000 degli altri modelli) e, anche per questo, ha un consumo energetico tra il 50 e il 75% inferiore a quello delle altre IA.

Per stare solo alla fase di addestramento, ad esempio, “GPT-4” ha un impatto ambientale, in termini di emissioni di CO2, circa “12 volte superiore” a quello di “Deep Seek”.

Infine – ma non è un particolare secondario, visto che quest’annuncio ha mandato in crisi le borse americane- l’IA cinese è costata circa 6 milioni $ rispetto ai 100 e più milioni $ dei modelli occidentali.

Insomma, siamo in presenza di un’alternativa reale e credibile, che si può generalizzare, e che mette in discussione la presunta neutralità della tecnologia che è coerente con un’idea di “sviluppo” trainato dal “profitto”, con quel che ne consegue in termini di sfruttamento del lavoro, depredazione dell’ambiente, primato della finanza.

A noi, invece, spetta trarre le conclusioni adeguate.

 

 

 

 

Gianni Girotto: la grande finanza

ha rovinato l’economia mondiale.

Periscopionline.it - Olivier Turquet – Gianni Girotto – (23 maggio 2025) – ci dicono:

Gianni Girotto è stato senatore del Movimento 5 Stelle per due legislature ed è attualmente “Coordinatore del Comitato transizione ecologica e digitale” di tale movimento.

Ma Gianni è anche uno storico socio di “Banca Etica” e divulgatore su temi economici e di speculazione finanziaria.

Gli abbiamo chiesto di fare luce su questo doppio tema del riarmo in Europa e dei dazi statunitensi.

 

In questi giorni la borsa ha fatto le montagne russe. Ma, ciononostante, quello che gli analisti sottolineano è che la borsa è da anni in crescita.

Cosa sta succedendo?

La borsa è uno strumento inventato e utilizzato dagli esseri umani, pertanto riflette ciò che succede nel pianeta.

Più precisamente lo amplifica, nel bene e nel male, perché da una parte si basa sulla fiducia nel futuro e questo genera spesso “l’effetto valanga” o “effetto farfalla”, dall’altra grazie alle tecnologie informatiche che hanno velocizzato di miliardi di volte la quantità di operazioni possibili e le relative tempistiche, si presta in maniera “eccellente” a una miriade di speculazioni, che rendono i prezzi dei vari titoli soggetti a variazioni estremamente dinamiche.

 

Ne abbiamo avuto un drammatico esempio negli anni 2007 e seguenti, con il crollo delle borse mondiali a partire dal fallimento della “banca Lehman Brothers”; questo episodio, lungi dall’essere a sé stante, era la conseguenza di un mercato finanziario in cui le regole erano e sono decisamente troppo permissive, e che ha assunto ormai un potere tale da riuscire ad impedire alla politica e alla società civile in generale di regolamentare le borse e la finanza in generale, in modo torni ad essere funzionale all’economia.

 In pratica cioè da molti anni il prezzo delle materie prime e di tutto ciò che viene scambiato nelle borse non è determinato dalla “normale” legge della domanda e dell’offerta, ma viene determinato purtroppo dalle speculazioni attuate su ciascun titolo.

Ne abbiamo avuto un altro deleterio esempio nel 2022, quando i prezzi dell’energia esplosero, nonostante non fosse cambiata significativamente né la quantità della domanda, né la quantità e la disponibilità dell’offerta.

 

Fatta questa doverosa e comunque minimale introduzione, la risposta alla domanda è che effettivamente la borsa da alcuni anni sta crescendo, ma questo perché aveva avuto un crollo appunto nel 2007 e quindi gli ultimi anni di crescita sono serviti semplicemente per riportarci ai livelli del 2007;

 e le montagne russe delle ultime settimane sono semplicemente il riflesso di un mercato che non riesce a prevedere che cosa farà il presidente degli Stati Uniti, nazione che nel bene e nel male influenza ancora moltissimo l’economia mondiale.

 

Da molti lati, ed anche dal tuo, ci sono richieste di regolamentazione e controllo della speculazione finanziaria, ce ne potresti illustrare alcune e parlare delle tue proposte?

 

C’è moltissimo da fare, e paradossalmente è la cosa più difficile non è tanto individuare delle soluzioni tecniche e legislative, ma cambiare la mentalità degli ultimi decenni che ha visto il verificarsi della cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia”, cioè il fatto che molte, troppe persone, sono convinte, o comunque pensano/sperano di poter guadagnare per tutta la vita semplicemente muovendo il mouse e pigiando tasti del computer.

Ma la finanza non crea alcuna ricchezza reale, semplicemente gestisce e sposta quella esistente.

La ricchezza “vera” si crea “sporcandosi le mani” e cioè coltivando i campi, raccogliendo quanto vi cresce, trasformandolo, immagazzinandolo, allevando bestiame (anche se io sono contrario), costruendo case strade ponti ferrovie acciaio dadi viti bulloni vestiti presse torni acquedotti fognature ecc. ecc., e naturalmente sviluppando i servizi sanitari, ristorazione, turismo, intrattenimento, tutte cose comunque “reali”.

La finanza dovrebbe quindi tornare a essere uno strumento per “fare credito” e investire appunto sull’economia reale, cioè con investimenti di medio lungo periodo, che nulla hanno a che vedere con le speculazioni attuali in cui le operazioni di compravendita durano pochi istanti.

Pertanto i rimedi gli aggiustamenti necessari sono noti e dibattuti da tempo, e si possono riassumere con strumenti per aumentare la trasparenza e la tracciabilità delle operazioni, la chiusura di ogni forma di “paradiso fiscale” e strumenti per acquisire gettito fiscale dalle operazioni speculative, come la famosa “tobin tax” di cui si parla da decenni, ma non si è mai attuata perché come ho già detto la finanza, da sempre, domina la politica, e non viceversa.

 

Ma che invece un’altra finanza sia possibile lo dimostrano le decine di banche etiche che sono nate negli ultimi decenni nel pianeta, e che tutte le analisi economiche valutano essere più redditizie e più sicure rispetto alle banche tradizionali, ovviamente questo prendendo in esame un periodo di tempo medio lungo.

Quindi in realtà io non ho “mie” proposte, ma sto solo cercando di spingere le proposte che da decenni fanno noti economisti e altre persone di altissimo livello. Tra queste vi è la necessità che a qualsiasi persona venga data un’educazione finanziaria sufficiente a compiere scelte ponderate, cosa attualmente irrealizzata, ed è per questo che io personalmente ho creato nel 2024 un ciclo di video didattici che ho pubblicato nel mio blog e nei vari “social”.

 

Rispetto al tema del riarmo si è sottolineato che sono stati creati, dalle grandi holding finanziarie, dei pacchetti specifici che puntano sul riarmo. Ce lo puoi spiegare e illustrare?

 

Ci provo, ma siccome un’immagine vale mille parole e un video vale mille immagini, invito i gentili lettori a dedicare qualche minuto alla visione di questo video, uscito diversi anni fa, ma assolutamente attuale.

 Ora sperando abbiate visto e divulgato il suddetto video, che in pratica contiene già la spiegazione, ribadiamo anche qua che le armi sono il secondo mercato mondiale come controvalore (il primo sono le fonti fossili, cioè petrolio e gas), e quindi banalmente io posso investire nelle fabbriche delle armi.

 Queste, in caso di guerra, vedranno aumentare le loro possibilità di vendere i propri prodotti, e magari pure a prezzi maggiorati stante la “necessità”, e quindi incrementare i loro guadagni e di conseguenza la resa di chi, in loro, ha investito; insomma io posso investire su fabbriche che producono vestiti, cibi, infrastrutture, macchinari ecc. ma posso anche investire sulle armi, che sono un prodotto come un altro, dal punto di vista del mercato.

 Pertanto è bene informare tutti i cittadini che esiste la possibilità di uscire da questo “mercato di morte” affidando i propri risparmi e i propri investimenti alla finanza etica, che esclude dai propri affari qualsiasi operazione con la filiera delle armi, e questo vale sia che siate un pensionato con pochissimo denaro da portare in banca sia che abbiate maggiori disponibilità economiche e di investimento. Usciamo dalle “banche armate”, che purtroppo sono la grande maggioranza.

 

C’è sempre un intervento più forte di meccanismi di intelligenza artificiale nelle operazioni finanziarie, soldi che si generano da soli, senza più alcun legame con il mondo produttivo.

Quali sono le conseguenze e i rischi di questi fenomeni?

 

Come ho detto all’inizio dell’intervista, l’informatica ha moltiplicato di miliardi di volte la velocità delle operazioni finanziarie, e quindi anche la loro quantità.

In termini numerici si stima che più del 90% delle operazioni finanziarie globali non abbiano nulla a che fare con la vita reale, ma siano speculazioni fine a sé stesse, che durano pochi istanti o comunque un tempo molto breve.

Altri numeri ci dicono che almeno il 70% di queste operazioni sono decise in totale autonomia dai computer, e questo da molti anni, molto prima cioè che si iniziasse a utilizzare l’intelligenza artificiale.

Capito questo si comprende come il mercato sia soggetto a rallentamenti e accelerazioni troppo brusche, perché decise per la maggior parte non da uomini che possono anche agire con un certo livello di prudenza, ma da computer che non fanno altro che ricercare la migliore opzione tra le migliori possibili ed eseguirla in frazioni di secondo, senza minimamente porsi il problema delle conseguenze.

Pensate che il registro di tali operazioni finanziarie, che attualmente è preciso al milionesimo di secondo, verrà implementato alla precisione del miliardesimo di secondo, una cosa che nella vita reale non ha nessunissimo senso.

 

Insomma come ho detto nella seconda domanda, si è purtroppo compiuta, di fatto, una finanziarizzazione dell’economia, che però arricchisce solo un ristretto oligopolio di operatori, in particolare i grandi fondi di investimento globale, e pertanto i detentori di quote degli stessi.

Essi ormai sono proprietari di quote molto significative delle maggiori imprese manifatturiere mondiali, di giornali, radio, TV, canali sul web, e hanno pertanto un’influenza economica e mediatica talmente rilevante, da influire a loro piacimento le politiche globali, nazionali, regionali.

Questo ha portato alla nota riduzione quantitativa della cosiddetta “classe media”, e in generale a una ancora più iniqua distribuzione della ricchezza.

 

Termino di rispondere alle tue domande sabato 12 aprile 2025, e come ciliegina sulla torta è proprio di oggi la notizia che il presidente degli Stati Uniti è sotto accusa per operazioni di “insider trading”, cioè in buona sostanza di aver approfittato del fatto che essendo lui stesso la causa dei recenti cali e risalite in borsa, abbia potuto approfittarne pesantemente investendo sui titoli giusti sapendone in anticipo appunto l’andamento.

Ora è evidente che io non ho la minima prova se questo corrisponda a verità o meno, ma in questo caso la cosa importante è che l’ipotesi sta assolutamente in piedi da un punto di vista teorico, cioè colui che sapesse in anticipo l’avverarsi di una crisi, potrebbe legittimamente “scommettere”, sul calo della borsa e guadagnare cifre molto elevate, ripeto il tutto in modo assolutamente legale.

 

Pertanto la priorità delle priorità a livello globale è quella di attuare una pesante riforma del sistema bancario e finanziario generale, perché così come è strutturato ora non farà altro che acuire le differenze tra ricchi che diventeranno sempre più ricchi e una fascia media e povera che invece faticherà sempre di più per arrivare a fine mese.

 

Questo naturalmente postula il fatto che la cittadinanza deve avere coscienza di quanto sopra, e non è quindi un caso che un osservatore attento non possa constatare che dell’argomento se ne parla poco e in maniera superficiale, perché la priorità delle priorità per questo ristretto oligopolio finanziario, è quello di mantenerci nell’ignoranza, e per il momento, complice una troppo grossa fetta di politici corrotti, ci sta riuscendo benissimo!

 

 

 

 

 

 

Dazi, la prospettiva cinese

sul possibile “grande accordo”.

Rsi.ch – (12 -05- 2025) – Lorenzo Lamperti – ci dice:

 

Dopo i colloqui di Ginevra, Washington e Pechino si mostrano disponibili al dialogo per mettere fine alla guerra commerciale ma restano divergenze significative da superare.

Da Ginevra non si esce con una vera e propria intesa, ma con una de-escalation che comunica comunque una cosa importante: sia Cina che Stati Uniti sono d’accordo sull’obiettivo di raggiungere un accordo con la A maiuscola.

 Magari che vada oltre il fronte commerciale, in ossequio alla concezione olistica delle relazioni bilaterali teorizzata da “Xi Jinping”.

 È sostanzialmente questo, per Pechino, il risultato dei colloqui tenuti in Svizzera. Un risultato non banale, visto che consente alla Cina di muovere i primi, decisi, passi nel dialogo commerciale con l’amministrazione Trump.

E senza aver mostrato segni di debolezza.

 È proprio questa la chiave narrativa proposta dal Partito comunista.

La riassume perfettamente il “super influencer Hu Xijin”:

“Si tratta di una grande vittoria per la Cina.

 Finora nessun altro Paese aveva raggiunto il principio di parità negoziale che abbiamo raggiunto noi con gli Stati Uniti”, ha scritto su “Weibo” l’ex direttore del “Global Times”, che rilancia auspicando che altri seguano l’esempio di quella che “Xi” chiama “prova di resistenza” contro il “bullismo” commerciale:

“Questo accordo costituisce un esempio che sicuramente ispirerà altri Paesi a difendere i propri diritti”.

 

In realtà, il documento congiunto prodotto dalla due giorni di colloqui riporta la situazione ad appena prima dello scorso 2 aprile, il cosiddetto “giorno della liberazione” di Donald Trump.

 Non è poco, visto che entrambi i Paesi hanno temporaneamente abbassato del 115% i dazi sui rispettivi prodotti.

Si tratta di un passo del tutto simmetrico, ma c’è una differenza: la Cina mantiene tasse aggiuntive del 10%, gli Stati Uniti invece del 30%, perché restano in vigore anche i precedenti round imposti dalla Casa Bianca a febbraio e marzo.

Ma se dopo la tregua di 90 giorni venisse reintrodotto il 24% attualmente sospeso, il totale di tasse doganali anti cinesi salirebbe a un totale del 54%, molto vicino al 60% minacciato da Trump in campagna elettorale e che Pechino ha sempre giudicato del tutto inaccettabile.

 

In ogni caso, l’ampia sospensione e l’effettivo taglio del 91% dei dazi da parte di entrambi i Paesi è un passo avanti significativo, che ferma la spirale di sfiducia e crea le condizioni necessarie per condurre un negoziato ambizioso.

 Il governo cinese presenta il documento congiunto, significativo già di per sé al di là del contenuto, come frutto di una posizione di forza.

 Il messaggio è che la linea dura e le ferme contromisure adottate dalla Cina contro i dazi sono state efficaci e hanno scoperto il “bluff” della “tigre di carta” (definizione di stampo maoista rilanciata nelle ultime settimane) di Trump, descritto in una posizione di debolezza.

 In tal senso, taglio e sospensione dei dazi rappresenterebbero una sconfitta per la Casa Bianca, che si sarebbe arresa nel giro di poco più di un mese senza nemmeno ottenere il vertice con “Xi”.

 

In realtà, più elementi suggeriscono che Pechino volesse questa prima intesa quanto Washington.

“He Lifeng”, vicepremier e zar delle politiche economiche, ha infatti garantito alla delegazione statunitense una maggiore cooperazione per fermare il flusso delle sostanze chimiche utili alla produzione dell’”oppioide fentanyl”.

 A diversi commentatori cinesi non è passato inosservato il passaggio del documento congiunto in cui la Cina si impegna ad annullare le ritorsioni non fiscali prese dopo il 2 aprile.

Queste includono la sospensione agli acquisti di aerei e dispositivi prodotti dal colosso statunitense Boeing, nonché l’ultimo pacchetto di restrizioni all’esportazione di terre rare e loro derivati.

Su quest’ultimo punto, in realtà, potrebbe rivelarsi una mossa altamente simbolica.

All’annuncio dei controlli aggiuntivi all’export dei metalli (cruciali per elettronica, difesa e industria tecnologica verde) non hanno ancora fatto seguito regolamenti precisi.

 Ciò significa che Pechino potrà impegnarsi ad allentare una stretta dai contorni ancora incerti e che sarà “aggiustata” in un modo o nell’altro a seconda di come andranno i futuri colloqui con Washington.

 

In cambio, però, la Cina ha ottenuto garanzie sul fatto che la Casa Bianca non cerca il “disaccoppiamento economico” e ripetute rassicurazioni sul “rispetto reciproco”, pilastro retorico della politica estera del Partito comunista.

Fondamentale l’istituzione di un meccanismo di consultazione, un obiettivo primario.

 La nuova piattaforma, che sarà guidata da parte cinese dallo stesso “He”, rappresenta proprio quel canale comunicativo “protetto” che Pechino desiderava per tutelare l’immagine del presidente “Xi”, che potrà diventare protagonista e parlare con Trump senza mostrare le debolezze che secondo la Cina hanno mostrato i leader di altri Paesi.

 

Nel frattempo, giovedì potrebbe esserci un nuovo contatto, quando in Corea del Sud si dovrebbero ritrovare i ministri del Commercio delle due potenze per un incontro della” Cooperazione Economica Asia-Pacifico”.

La strada per un accordo con la A maiuscola sarà lunga e non priva di ostacoli, ma Pechino e Washington hanno mostrato disponibilità a provare a percorrerla. 

“Decoupling” economico e “tensioni

Sistemiche”: una nuova normalità

nelle relazioni transpacifiche.

Geopolitica.info - Cristina Martinengo – (09/05/2025) – ci dice:

 

Mentre l’escalation di ostilità soprattutto sul piano economico fra Stati Uniti e Cina ha raggiunto il livello di massima tensione con l’inizio di una aperta guerra commerciale in seguito all’annuncio di dazi voluti dall’amministrazione Trump, ci si domanda se le reali intenzioni del presidente degli Stati Uniti fossero quelle di innescare un effettivo disaccoppiamento fra le due economie, considerato anche il rapido tentativo di cambio di rotta degli ultimi giorni.

 

Negli ultimi anni, le relazioni economiche tra Stati Uniti e Cina hanno assunto contorni sempre più instabili, passando da una crescente interdipendenza a una competizione aperta che culmina oggi in una nuova stagione di guerre commerciali.

Si manifesta dunque l’esigenza di analizzare le radici storiche e le dinamiche recenti del processo di decoupling economico, valutandone le implicazioni strategiche non solo per le due potenze coinvolte, ma per l’intero sistema globale.

Particolare attenzione è rivolta al modus operandi dell’Amministrazione Trump, che tanto in politica economica quanto in politica estera ha fatto dell’imprevedibilità e dell’incertezza i propri tratti distintivi, contribuendo ad alimentare la volatilità degli scenari internazionali.

Sulle montagne russe dei rapporti economici tra Stati Uniti e Cina.

Negli ultimi vent’anni i rapporti commerciali fra gli Stati Uniti e la Cina sono stati altalenanti ma mai definitivamente compromessi.

Tutto è iniziato con la firma dello” US-China Relations Ac”t nel 2000 approvato dall’allora presidente “Clinton”e con la conseguente adesione della Cina all’”Organizzazione Mondiale del Commercio” (OMC/WTO), in un periodo di normalizzazione e consolidazione delle relazioni commerciali fra i due Paesi.

La crescente interdipendenza economica diventò evidente nel 2008, quando la Cina divenne il maggiore detentore di debito statunitense, raggiungendo i 600 miliardi di dollari.

 Con un saggio per Foreign Policy del 2011, l’allora Segretario di Stato americano “Hillary Clinton “delineò un pivot degli Stati Uniti verso l’Asia, definendo la Cina come un Paese con opportunità di investimento senza precedenti per gli Stati Uniti, con possibilità il cui sfruttamento sarebbe stato di grande valore per gli interessi economici e strategici americani.

 “Proprio come l’Asia è fondamentale per il futuro dell’America, un’America impegnata è vitale per il futuro dell’Asia”, scriveva “Clinton”.

Come riportato dal “Council on Foreing Relations”, le tensioni commerciali iniziano però a farsi evidenti nel 2012, quando il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina è salito a un massimo storico di 295,5 miliardi di dollari.

Inoltre, sempre lo stesso anno, ad aumentare le frizioni furono le restrizioni imposte dalla Cina all’esportazione di terre rare, minerali essenziali per prodotti come veicoli ibridi, smartphone e equipaggiamento militare tecnologicamente avanzato, nonché settore di indiscusso dominio cinese a livello mondiale.

Dopo il cambio della leadership cinese, una serie di frizioni geopolitiche e l’inizio del primo mandato di Donald Trump nel 2017, i rapporti tra i due Paesi sembravano invece stabilizzarsi tanto da spingere il Presidente statunitense an annunciare “enormi progressi” nelle relazioni bilaterali commerciali.

Nel 2017 venne annunciato un accordo in dieci punti sull’espansione del commercio di prodotti primari e servizi.

 I rapporti raggiunsero dunque “un nuovo massimo”, se non fosse che pochi mesi dopo la stessa Amministrazione Trump annunciò dazi alle importazioni cinesi per 50 miliardi di dollari.

Alla fine dello stesso anno poi la strategia di sicurezza nazionale americana identificava esplicitamente la Cina come competitor strategico che, tramite l’espansionismo economico, tentava di rimodellare l’ordine internazionale a proprio vantaggio, rappresentando dunque una minaccia per gli Stati Uniti.

 

Nel 2018 vi fu una chiara inversione di rotta con il passaggio dalla cooperazione alla competizione aperta o “trade war”, con un inasprimento delle tensioni soprattutto da parte degli Stati Uniti che si vedevano minacciati dalle interferenze cinesi.

Da quel momento ebbe inizio la prima guerra commerciale che si intensificò fino alla firma dell’”Economic and Trade Agreement “del 2019, che segnò un lieve allentamento nell’escalation dei rapporti commerciali.

 Le tensioni, non solo economiche, raggiunsero un nuovo picco negativo durante la pandemia da Covid-19, quando venne dichiarato, tramite le parole dell’ex Segretario di Stato Mike Pompeo, che l’era del dialogo con Pechino si era conclusa e che da allora iniziava un nuovo approccio basato sul tentativo di pressare la Cina affinché rispettasse le regole del commercio internazionale.

 Inoltre, nel 2020 venne firmato il “Phase One Economic and Trade Agreement” che sebbene prevedesse un aumento degli acquisti cinesi di beni e servizi americani, lasciava in vigore la maggior parte dei dazi imposti durante la guerra commerciale.

 

Il mandato del presidente “Biden” iniziò con premesse durissime:

 la Cina rappresentava la più grande minaccia per l’America.

Inoltre, le tensioni commerciali tra i due paesi, per tutta la durata dell’amministrazione Biden, sono state alimentate anche da frizioni geopolitiche e diplomatiche legate soprattutto alla militarizzazione dell’area dell’Indo-Pacifico e alla disputa su Taiwan.

 Dopo una prima fase di tensione commerciale durante la quale l’Amministrazione Biden ha mantenuto i dazi imposti da quella Trump con rispettive contromisure imposte dalle aziende cinesi, il nuovo approccio alle relazioni commerciali bilaterali è stato segnato da un incontro tra Biden e Xi del 2022, quando entrambi i leader manifestarono l’intenzione di allentare le tensioni.

Il percorso di graduale miglioramento delle relazioni sino-americane non fu però privo di tensioni:

nel 2022 venne infatti firmato il “Chips and Science Act”, che rappresentò una risposta strategica per contrastare l’ascesa tecnologica della Cina e un tentativo di ridurre la dipendenza statunitense dalla produzione cinese.

Lo stesso anno la firma dell’”Inflation Reduction Act” ebbe una serie di effetti indiretti sulla produzione cinese, aumentando la competitività della filiera energetica statunitense e tentando di diminuire la dipendenza economica di Washington da Pechino.

Alla fine del 2024 però, sebbene le relazioni commerciali tra i due Paesi non potessero definirsi buone, erano evidentemente migliorate.

 

Inoltre, fino alla fine e per tutta la durata del mandato di Biden, la postura statunitense nei confronti della Cina è rimasta definita e strutturata nella “Grand China Strategy”.

 I pilastri di questa politica erano quelli di investire in patria, allinearsi con gli alleati e soprattutto competere con la Cina per mantenere un ordine internazionale basato su regole condivise.

 L’obiettivo era quello di plasmare l’ambiente strategico intorno a Pechino, piuttosto che tentare di cambiarne direttamente il comportamento. 

 

Una nuova guerra commerciale e il “decoupling”.

Il primo giorno di una nuova guerra commerciale, già piena di colpi di scena, è stato battezzato dal Presidente Trump come il “Liberation Day”, ovvero il momento d’inizio per la rinascita dell’industria americana e per rivendicare il destino del Paese.

 Il giorno della liberazione ha segnato l’inizio di quello che in economia viene chiamato “decoupling”, che indica un forte indebolimento o la fine dell’interdipendenza economica fra due Paesi, in questo caso Cina e Stati Uniti.

Oltre alla competitività, negli ultimi anni le Amministrazioni americane hanno cercato da un lato di enfatizzare il potenziale della Cina come partner commerciale, dall’altro hanno cercato di rispettare la logica dello “small yard, high fence”, imponendo rigide restrizioni a un numero limitato di tecnologie con un significativo potenziale militare, mantenendo però i normali scambi economici in altre settori.

Questo approccio tendenzialmente ottimista, però, sembrerebbe del tutto svanito.

 

La prima guerra commerciale lanciata da Trump nel 2018 non è riuscita a eliminare del tutto la dipendenza degli Stati Uniti dalla produzione manifatturiera cinese.

Sebbene le due maggiori economie mondiali abbiano spesso faticato ad andare d’accordo, l’idea dominante fino ad oggi è stata quella di rimanere partner commerciali, in quanto più vantaggioso dell’essere nemici.

Al contrario, i recenti aumenti tariffari introdotti nel mese di aprile 2025 hanno fatto salire le imposte sulla maggior parte dei beni cinesi fino al 145%, con il rischio concreto di compromettere in modo significativo il commercio bilaterale tra le due potenze.

Non solo, anche le imposte su altri Paesi vanno a ledere significativamente le esportazioni cinesi verso Paesi terzi che a loro volta spediscono le loro merci negli Stati Uniti.

 

I rischi di una guerra commerciale per l’economia mondiale e il cambio di rotta di Trump.

 

Gli Stati Uniti e la Cina sono le due maggiori economie del mondo e lo stato delle loro relazioni commerciali ha conseguenze, oltre che per entrambi i Paesi, per l’economia globale tutta.

I potenziali rischi legati agli effetti della guerra commerciale iniziata da Trump, non solo contro la Cina, sono stati riassunti dall’ultimo rapporto dell’”Organizzazione Mondiale del Commercio”.

Nel report, sotto la voce “trade concerns” si fa riferimento a come le tariffe imposte dagli Stati Uniti danneggeranno le economie di tutto il mondo e costringeranno a un ridimensionamento delle stime di crescita globali.

Secondo le nuove stime dell’OMC, il commercio globale totale si contrarrà dello 0,2% rispetto a una crescita prevista del 2,7% senza i dazi.

 La crescita della produzione mondiale è prevista al 2,2%, con un incremento dello 0,6% inferiore rispetto ad un ipotetico scenario senza dazi.

 Inoltre, le scelte intraprese dall’amministrazione Trump non solo hanno allontanato la possibilità di raggiungere gli obiettivi economici sperati, ma hanno portato l’economia statunitense sull’orlo di una seria crisi, in soli cento giorni.

Tra gli obiettivi dichiarati vi era soprattutto quello di ridurre l’inflazione, ma diversi economisti si aspettano che la strategia commerciale di Trump non farà che aumentarla.

Trump aveva poi promesso più crescita, la riduzione del debito pubblico e di migliorare la bilancia commerciale, tutti obiettivi difficilmente raggiungibili con le attuali politiche tariffarie, che avranno potenzialmente effetti opposti a quelli sperati.

Tra le aspettative di crescita globali ridimensionate, l’alta probabilità di un aumento dell’inflazione e l’assenza di una strategia economica sistematizzata, Trump ha quindi allontanato considerevolmente il sogno di un’America grande e di una nuova età dell’oro.

 

Il possibile cambiamento di rotta rispetto a posizioni così radicali non si è fatto attendere.

 Trump ha infatti paventato una possibile inversione di tendenza nella sua guerra commerciale con la Cina anche per la continua volatilità del mercato, affermando che le elevate tariffe sui prodotti cinesi caleranno “sostanzialmente”, anche se non verranno azzerate.

Anche il segretario al Tesoro “Scott Bessent “aveva anticipato che la rottura netta o il disaccoppiamento tra le due economie non sarebbero stati sostenibili nel lungo periodo.

L’imprevedibilità delle azioni di Trump, anche nell’ambito della politica commerciale, è il tratto distintivo in questa fase del suo secondo mandato.

Nella sua politica commerciale, Trump ha ripreso il nazionalismo economico di matrice mckinleyana, impiegando nei suoi recenti annunci sui dazi reciproci una retorica che richiama quella utilizzata dal presidente “William McKinley” a fine Ottocento.

La ragione per cui sono stati applicati dazi così elevati non è tuttavia chiara, dato che la Casa Bianca non ha mai delineato una linea narrativa esplicita e univoca sugli obiettivi finali di Trump riguardo alla sua politica economica.

 Le continue oscillazioni del Presidente, culminate nel tentativo di ridimensionare l’escalation con la Cina durante uno degli ultimi interventi pubblici, contribuiscono a rendere particolarmente difficile comprendere quali siano realmente le sue intenzioni.

C’è quindi molta attesa per la fine della pausa di novanta giorni sulle imposte decisa da Trump.

Si fa sempre più remota la possibilità che una volta terminata la pausa Trump decida di mantenere il prezzo della guerra commerciale così alto o che imponga dazi reciproci ad altri Paesi, ovvero che agisca allo stesso modo di quanto fatto con la Cina fino ad ora.

La decisione di sospendere i dazi ad altri Paesi ha dato un sollievo immediato ed evidente ai mercati, con un rialzo delle azioni e dei future sulle materie prime.

Le stesse dichiarazioni riguardo alla possibile svolta ha avuto un immediato effetto positivo sul mercato.

 Però, come spiegato da “Joe Bruselles”, economista capo di “RSM US”, il rischio che l’economia americana entri in recessione non è scomparso, data la quantità di shock simultanei che ha assorbito.

Inoltre, non è al momento evidente come possa agire la Cina, che non ha ancora fatto marcia indietro come avrebbe voluto Trump, ma ha risposto con la stessa moneta.

 

 

 

 

TRUMP TRA CINA, TAIWAN E BIG TECH

 “Perché il tycoon ha sbagliato

metodo e rischia di perdere.”

ilsussidiario.net - Massimo Introvigne – (4 Giugno 2025) – Paolo Rossetti – ci dicono:

 

Un libro sulla “Apple in Cina” svela che l’azienda USA ha investito più del piano Marshall.

Anche per questo Trump vede “Xi Jinping” come il suo vero nemico:

Trump vuole parlare con Xi Jinping e sistemare tutto, ma la realtà dei rapporti fra USA e Cina è molto complicata.

 E, al di là dei dazi, il presidente americano vede il Dragone come il suo vero nemico sulla scena mondiale.

 Il dossier tariffe, sul quale Washington e Pechino stanno litigando, rinfacciandosi violazioni degli accordi sulle terre rare o sulla fornitura di componenti tecnologiche, è intrecciato con altre questioni fondamentali, commenta “Massimo Introvigne”, sociologo fondatore del “Cesnur” e del sito “Bitter Winter”, come l’annessione di Taiwan alla Cina Popolare, che potrebbe cambiare le carte in tavola.

 

Dopo l’accordo di Ginevra il clima sembrava un po’ più disteso, ora invece i rapporti USA-Cina appaiono ancora incagliati.

 A che punto sono?

Credo che in questo momento ci siano due diversi problemi sul tappeto:

 uno, ovviamente, è quello dei dazi; l’altro è Taiwan.

Le dichiarazioni di “Hegseth” su un possibile attacco di Pechino sono state immediatamente condannate dalla portavoce del ministero degli Esteri cinese. Non sono state smentite, ma non si può smentire un piano di annessione che, dal 1949, fa parte dei programmi del Partito Comunista Cinese.

Cosa c’è dietro le dichiarazioni del capo del Pentagono?

In Cina ci sono diverse interpretazioni.

 Una ricorda che “Hegseth” è stato responsabile di altre gaffes e sostiene che sia un dilettante allo sbaraglio, che ripete quello che legge sui blog “MAGA”.

 L’altra, invece, pensa che dietro ci sia una precisa strategia che si accompagna a esercitazioni di militari americani a Taiwan in queste settimane:

 ci sarebbe in atto, insomma, un tentativo di testare le reazioni cinesi e di vedere fino a dove si vogliono spingere.

 Ipotesi entrambe plausibili.

Sui dazi, comunque, si è riacceso lo scontro. Il motivo del contendere è il rallentamento delle forniture di terre rare da parte dei cinesi?

Sì, però i cinesi, a loro volta, imputano agli americani di avere bloccato la fornitura di componenti elettronici essenziali per una serie di produzioni, in particolare nel comparto aeronautico, senza le quali Pechino non può costruire aerei.

Componenti di cui hanno bisogno per usi civili, anche se non c’è nessuna garanzia che non vengano utilizzati per usi militari.

Sui dazi, la strategia degli stop and go di Trump ha suscitato reazioni negative negli uomini di business e nei mercati, e probabilmente confonde anche i cinesi.

 

Cos’ha in mente davvero Trump?

Credo che abbia sul comodino un libro appena uscito e diventato un bestseller.

 O almeno, conoscendo il tipo, un riassunto che si è fatto fare dall’intelligenza artificiale…

Il volume, molto istruttivo, è “Apple in China” ed è stato scritto da un pluripremiato giornalista che si chiama “Patrick McGee”.

 Racconta che, dal 2016, la Apple ha investito in Cina 275 miliardi di dollari, più del piano Marshall.

Se ne deducono due cose:

la prima è che l’economia cinese è largamente finanziata dalle grandi imprese americane;

la seconda è che una società come Apple è talmente legata a filo triplo alla Cina da aver fatto suoi anche gli schemi di produzione cinese, che non sono uguali a quelli occidentali.

 

Cosa ha significato tutto ciò dal punto di vista industriale?

L’azienda non ha esportato il modello americano, ma si è adattata a quello locale: questa è una delle ragioni per cui anche ai vertici di Apple ci sono state delle epurazioni.

Non solo, la tecnologia targata USA, lo si spiega in un altro capitolo del libro di McGee, in barba ai contratti firmati, è passata a Huawei.

 Il che vuol dire che Huawei può vendere telefonini competitivi come quelli di Apple.

 Ci sono delle cause in Occidente sulla proprietà intellettuale, ma durano decenni.

 

Trump ha ben presente questa situazione?

 

Ha espresso concetti molto simili in un’intervista proprio su Apple, nella quale dice che imporrà tasse enormi se la produzione non verrà riportata negli USA.

 La prima reazione di “Tim Cook” è stata questa:

 se si vuole portare la produzione negli Stati Uniti, un americano dovrà pagare un iPhone 3.000 dollari e non 900.

 

Di fronte a questo scenario, però, l’approccio di Trump sembra all’insegna del “vorrei ma non posso”.

Capisce la dipendenza dai cinesi, ma non riesce a scalfirla?

 

L’atteggiamento di Trump si esprime sempre nella strategia dello stop and go.

Lo vediamo anche in relazione all’Ucraina, all’Europa, a Taiwan.

Un sistema per le trattative commerciali che probabilmente ha imparato dal suo maestro, il per altri versi famigerato avvocato “Roy Cohn”, che è stato anche consigliere di “Joe McCarthy”, il senatore della caccia alle streghe contro i sospetti comunisti.

Si tratta di una tattica per disorientare l’avversario cambiando continuamente posizione.

 Può funzionare se devi comprare un palazzo, ma molti analisti dubitano che sia un sistema che funzioni nella politica internazionale.

 

Perché?

In questo campo gli interlocutori, a differenza degli immobiliaristi, non ragionano solo in termini puramente economici, ma anche ideologici.

Nella “follia” di Trump c’è un metodo, ma non è detto che sia quello giusto per l’occasione.

 Nel mondo degli affari è studiato e non privo di controversie, ma ha una sua tradizione e funziona.

 Non succede lo stesso con Hamas, gli ayatollah, Putin o Xi Jinping, perché non operano secondo le teorie per cui si persegue sempre l’interesse economico: qualche volta sono disposti ad agire in nome di un interesse ideologico.

 

A breve e a lungo termine che sviluppi dobbiamo attenderci? Trump e Xi Jinping si incontreranno? E a lungo andare, come saranno i rapporti fra i due Paesi?

 

Penso che tutti i dossier siano collegati: non si possono scindere i dazi da Taiwan. Se la Cina domani attacca Taipei, è chiaro che si rifletterà anche sui dazi.

 Vedo, tuttavia, un tentativo cinese di tenere distinti il sostegno di Pechino alla Russia, i dazi e Taiwan.

Ma non sarà facile, anche perché bisogna tenere conto pure del Congresso USA e degli elettori americani, che dovranno esprimersi nelle elezioni di midterm.

 

La speranza di un’intesa, che si intravedeva dopo Ginevra, è già tramontata?

Credo che Trump voglia uscire dalla politica dei dazi, perché ha visto che le reazioni dei mercati e di Wall Street non sono favorevoli e perché è sottoposto a pressioni dai suoi stessi grandi elettori, le grandi aziende americane.

Certo, se da parte della Cina ci fossero azioni particolarmente aggressive nei confronti di Taiwan, tutto cambierebbe.

Cosa aspetta USA e Cina, un futuro da nemici?

Trump, da una parte, vuole arrivare ad accordi di tipo commerciale, ma, dall’altra, a differenza di Putin, vede “Xi Jinping” come un nemico strategico.

Se, dal punto di vista militare e politico, ci fossero momenti di forte contrapposizione, come l’invasione di Taiwan o l’occupazione di zone contese col Giappone o le Filippine, avrebbero dei riflessi sulle politiche commerciali.

Trump e il mondo MAGA non vedono Putin come un nemico pericoloso per gli Stati Uniti.

 Forse lo sarà per la UE, ma all’amministrazione USA dell’Europa non importa nulla. Gli americani, invece, vedono “Xi Jinping” come pericoloso.

(Paolo Rossetti).

 

 

 

 

Una tregua non chiude la

guerra di potere tra Usa e Cina.

 Lavoce.info - Alessia Amighini – (16/05/2025) – ci dice:

Stati Uniti e Cina cercano di disinnescare la guerra commerciale in corso: hanno annullato alcuni dazi punitivi reciproci e sospeso altri per novanta giorni.

Ma cosa significa per il resto del mondo l’accordo tra le due maggiori economie?

 

La de-escalation tra Washington e Pechino.

 

Il presidente Donald Trump aveva ripetutamente dichiarato che non avrebbe ridotto i dazi senza concessioni da parte della Cina, ora la mossa degli Stati Uniti a favore di un’intesa è stata una prova del riconoscimento dei costi di una guerra commerciale totale contro Pechino.

Il malcontento di aziende e consumatori americani per l’aggressiva politica commerciale della nuova amministrazione ha fatto capitolare, per ora, il presidente Trump sui dazi più pesanti (con qualche eccezione, per esempio quelli sul “fentanyl”, una potente droga oppioide esportata dalla Cina), almeno per 90 giorni, il tempo per provare ad aprire colloqui più formali con Pechino.

Per il momento, quindi, il risultato è che i dazi aggiuntivi degli Stati Uniti sulle importazioni cinesi – cioè quelli recentemente imposti in aggiunta al primo round – scenderanno dal 145 al 30 per cento, mentre i dazi cinesi alzati di recente aumentati su alcune importazioni statunitensi caleranno dal 125 al 10 per cento.

 

Si tratta di un’importante de-escalation:

 la maggior parte dei dazi annunciati dopo il “Liberation Day” sono stati annullati. Se anche fossero ripristinati dopo i 90 giorni, quelli statunitensi sulla Cina salirebbero solo al 54 per cento e quelli cinesi sugli Usa al 34 per cento.

La Cina ha dichiarato inoltre che sospenderà o revocherà le contromisure adottate come ritorsione all’escalation.

All’inizio di aprile, il governo cinese aveva ordinato infatti restrizioni all’esportazione di metalli e magneti di terre rare, componenti fondamentali per automobili, aerei e semiconduttori.

I primi segnali.

 

L’accordo tra le due economie più potenti del mondo è importante ed è stato accolto con grande favore da imprese, consumatori e borse di tutto il mondo, ma è difficile prevedere le prossime tappe della guerra commerciale in corso tra Stati Uniti e Cina.

Proprio questa ulteriore incertezza non aiuta le imprese a prendere decisioni, anche perché si aggiunge a quelle create dall’amministrazione Usa sul fronte commerciale:

quali i paesi colpiti, quanta la percentuale di dazio, per quanto tempo e quali le ‘condizioni’ richieste per sospenderli.

 

Una tregua temporanea di dazi doganali così elevati può certo essere una bella notizia per le imprese di entrambi i paesi, con qualche segnale che già non manca. Innanzitutto, l’escalation della guerra commerciale negli ultimi mesi ha portato a un crollo della quantità di merci spedite attraverso l’Oceano Pacifico, a scapito del valore di borsa del settore delle spedizioni, ora gli investitori ritengono che la tregua porterà a una ripresa, con azioni in rialzo per alcune delle più grandi società di spedizione del mondo.

Inoltre, dopo aver sospeso temporaneamente una certa quantità di ordini verso la Cina, le imprese statunitensi oggi si trovano di fronte a una domanda repressa, che porterà a un aumento dei prezzi dei trasporti, dovuti al tentativo di programmare le spedizioni durante la finestra negoziale di 90 giorni.

 

(Dai dazi alla crisi finanziaria?).

Nel corso del tempo gli effetti sono ancora più incerti, poiché i colloqui tra i due governi sono destinati a proseguire, possibilmente per raggiungere un accordo più generale, i cui contorni sono però totalmente imprevedibili.

E così il mondo è passato da un sistema di governance del commercio internazionale fondato su trattati e regole multilaterali, rispettate dalla maggior parte dei paesi del mondo, a uno dove i grandi e potenti dettano regole preferenziali ad hoc, usandole come armi di ricatto, e i paesi piccoli e poveri subiscono danni profondi, che possono mettere a rischio la sopravvivenza di milioni di persone.

 

È pur vero che proprio il sistema di “libero scambio” regolato e promosso dall’”Omc “(Organizzazione mondiale del commercio), di cui sono membri 166 paesi, Cina inclusa, ha permesso e favorito l’accumularsi di grandi squilibri commerciali, non solo per una spiccata divisione internazionale del lavoro tra il Nord e il Sud del mondo, con benefici per entrambi, ma anche per la resistenza di Pechino a diventare una vera economia di mercato.

 

Il segretario al Tesoro statunitense “Scott Bessent” ha dichiarato che entrambi i paesi concordano sul fatto che “nessuna delle due parti vuole un disaccoppiamento”, mentre il ministero del Commercio cinese ha affermato che l’accordo è un passo per “gettare le basi per colmare le differenze e approfondire la cooperazione”.

“Bessent” ha detto che i due paesi potrebbero discutere di accordi per far sì che la Cina acquisti più beni americani.

 

Le conseguenze per il resto del mondo

 

Per capire meglio quali siano le caratteristiche dell’interdipendenza tra Stati Uniti e Cina, è utile guardare alle prime cinque voci di export da entrambi i lati (tabella esistente).

Nel 2024, la principale categoria di beni esportati dagli Stati Uniti alla Cina sarà la soia, utilizzata principalmente per nutrire i 440 milioni di suini che si stima siano allevati nel paese asiatico.

Gli Stati Uniti hanno esportato anche prodotti farmaceutici e petrolio.

 Pechino ha esportato grandi volumi di elettronica, computer e giocattoli.

La categoria più importante delle importazioni statunitensi dalla Cina è quella degli smartphone, che rappresenta il 9 per cento del totale.

Nell’insieme, gli Stati Uniti acquistano dalla Cina molto di più (440 miliardi di dollari) di quanto vendano (145 miliardi di dollari), e il riequilibrio è da sempre l’obiettivo dichiarato del presidente Trump.

“Bessent” ha inoltre suggerito che i due paesi potrebbero aiutarsi a vicenda bilanciando le rispettive economie, sostenendo che gli Stati Uniti potrebbero ripristinare il proprio settore manifatturiero, se la Cina riducesse la propria sovrapproduzione.

Mentre i comunicati da parte cinese, per voce del vicepremier “He Lifeng”, affermano che l’obiettivo di un futuro accordo è stabilire un “meccanismo di consultazione” tra Stati Uniti e Cina, “per consentire scambi regolari e irregolari relativi alle questioni commerciali”.

Di fatto, è una vera e propria deroga ai principi stabiliti dai trattati internazionali: la politica commerciale di Trump promuove un allontanamento – e non un avvicinamento – della Cina dai principi di sana concorrenza e assenza di trattamenti preferenziali, seguiti dal resto del mondo nella produzione di merci.

Ciascuna delle due parti afferma di aver riportato una vittoria attraverso questo primo accordo, ed entrambi si sentono in una posizione psicologicamente più forte di prima.

Il mondo però sta peggio, e non solo temporaneamente, se le regole condivise sono sostituite da guerre di potere tra pochi grandi paesi.

 

 

 

Lo stop della Cina sulle terre rare

rischia di mandare in tilt il settore

automobilistico globale.

Today.it – Serena Console – (4 giugno 2025) – ci dice:

 

Trump si prepara ad affrontare direttamente la questione con il presidente cinese “Xi Jinping” in un colloquio telefonico atteso nei prossimi giorni.

(LaPresse).

La tregua commerciale tra Cina e Stati Uniti potrebbe presto naufragare.

Al centro del nuovo scontro c'è il blocco imposto da Pechino sulle esportazioni di terre rare, materiali fondamentali per l'industria tecnologica e automobilistica globale.

 La mossa ha già generato ritardi nelle forniture e alimentato i timori di una nuova escalation tra le due maggiori economie del mondo.

 

Il nodo dell'export delle terre rare.

In un attacco frontale, il presidente Donald Trump ha accusato Pechino di aver violato gli accordi raggiunti a Ginevra, in Svizzera, che hanno portato alla sospensione per un periodo di 90 giorni dei dazi doganali "punitivi" fino al 12 agosto.

 Pur senza fornire dettagli specifici sulle presunte violazioni, fonti vicine all'amministrazione statunitense indicano che al centro delle tensioni ci sarebbe proprio il nuovo sistema di controllo sull'export imposto da Pechino.

 

La Cina blocca l'export di terre rare: terremoto per l'industria tech.

Per comprendere il contesto, bisogna tornare al 2 aprile, quando Trump ha dichiarato una guerra commerciale contro la gran parte dei paesi del mondo nel suo "Liberation Day".

In risposta ai dazi "reciproci" imposti dal presidente statunitense sui prodotti cinesi (per tariffe fino al 145 per cento), il 4 aprile il governo cinese ha imposto restrizioni all'esportazione di sei metalli pesanti e terre rare e dei magneti che ne derivano.

Una mossa tattica, che ne sottolinea la leva geopolitica.

La Cina rappresenta il 61 per cento della produzione globale di terre rare estratte, ma il suo controllo sulla fase di raffinazione è molto più elevato, attestandosi al 92 per cento della produzione globale, secondo l'”Agenzia Internazionale per l'Energia”.

 

L'intesa di Ginevra prevedeva la riapertura delle esportazioni di alcune terre rare, dopo che la Cina ne aveva sospeso in modo sostanziale la vendita verso gli Stati Uniti.

Ma i segnali di crisi sono tornati a emergere già dal 12 maggio, quando il “Dipartimento del Commercio americano” ha emesso un avviso contro l'uso dei chip di intelligenza artificiale “Ascend”, prodotti dalla cinese “Huawei Technologies”.

Un provvedimento interpretato da Pechino come l'ennesimo tentativo di ostacolare la propria crescita tecnologica.

 

L'allarme dell'industria dell'auto motive: "Ci saranno ritardi nella produzione."

Ufficialmente, le nuove misure non costituiscono un divieto assoluto: le esportazioni sono ancora possibili, ma richiedono l'approvazione preventiva del governo cinese per ogni singola spedizione.

 Il risultato è un rallentamento che ha messo in difficoltà molte aziende internazionali, colpendo settori chiave come automotive, aerospazio e difesa.

Le terre rare interessate dalle restrizioni sono impiegate in numerose applicazioni critiche, dai motori a reazione ai laser, dai fari per auto ai condensatori dei chip che alimentano server per l'intelligenza artificiale e smartphone.

 Tra i materiali soggetti ai nuovi controlli c'è l'”ossido di disprosio”, usato in motori elettrici, sistemi di guida e tecnologie militari.

A Shanghai, il suo prezzo si aggira oggi attorno ai 204 dollari al chilo, ma fuori dalla Cina i costi sono molto più alti, complici le incertezze legate alla disponibilità.

 

In una lettera indirizzata all'amministrazione Trump, gruppi come “General Motors” Toyota, “Volkswagen” e “Hyundai” hanno chiesto un intervento urgente per evitare conseguenze sulla produzione.

Se in Europa alcune licenze sono già state concesse, tra cui a fornitori del gruppo Volkswagen, l'industria automobilistica indiana resta in attesa.

Le principali case del Paese hanno fatto sapere che senza autorizzazioni saranno costrette a sospendere le attività già dai primi giorni di giugno.

 

A confermare le difficoltà è anche “Bosch”, tra i maggiori produttori mondiali di componenti per auto, che ha segnalato come i propri fornitori siano rimasti impantanati nelle nuove e più rigorose procedure di Pechino.

"Se la situazione non cambia rapidamente, non si potranno più escludere ritardi nella produzione e persino interruzioni della stessa", ha dichiarato alla “Reuters” “Hildegard Mueller”, responsabile della lobby automobilistica tedesca.

 

Trump: "Ne parlerò presto con Xi."

Non è la prima volta che Pechino sfrutta il suo predominio sulle terre rare come leva geopolitica.

Nel 2010 aveva interrotto le spedizioni verso il Giappone per quasi due mesi a causa di una disputa territoriale.

Alla fine del 2023 ha imposto un divieto sull'esportazione delle tecnologie di estrazione e separazione delle terre rare.

In aggiunta, ha già limitato le forniture di altri materiali strategici come gallio, germanio, antimonio e i cosiddetti "materiali super duri", tutti elementi cruciali per l'industria americana.

La speranza che Pechino faccia un passo indietro aleggia nello Studio Ovale.

Trump si prepara ad affrontare direttamente la questione con il presidente cinese Xi Jinping in un colloquio telefonico atteso nei prossimi giorni.

Ma anche da parte sua arrivano segnali di cautela:

"Mi è sempre piaciuto e mi piacerà sempre, ma è molto duro ed è estremamente difficile fare accordi con lui", ha scritto su “Truth” parlando del leader di Pechino.

(today.it/mondo/stop-cina-terre-rare-tilt-settore-automobilistico.html).

È questo l'uomo dietro

la politica cinese di Trump?

 Unz.com - Mike Whitney – (2 maggio 2025) – ci dice:

 

I dazi di Trump sono una parte di una strategia su più fronti volta per impedire alla Cina di diventare la potenza dominante in Asia. La componente militare di questa strategia è progettata per funzionare in sincronia con la guerra commerciale, circondando la Cina con basi militari e vicini ostili che si sono arruolati nell'alleanza anti-cinese di Washington.

L'autore di questo piano di contenimento è” Elbridge Colby”, che attualmente ricopre il ruolo di Sottosegretario alla “Difesa per la Politica”, una posizione di alto livello del Pentagono che assiste nella definizione della politica di difesa.

 

Colby non è un neocon, infatti, la sua nomina è stata contestata al Senato sulla base del fatto che non era sufficientemente impegnato ad attaccare l'Iran, che non considera una seria minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Colby è concentrato sulla “Cina”, che vede come una minaccia esistenziale all'"ordine internazionale basato sulle regole".

Ecco alcuni estratti dalla “Strategia di Difesa Nazionale “del 2018, un documento che è stato fortemente influenzato da Colby.

Gli estratti sottolineano quanto le élite occidentali si sentono minacciate dalla Cina e perché (credono) di dover agire per proteggere i loro interessi:

 

La Cina e la Russia stanno ora minando l'ordine internazionale dall'interno del sistema, sfruttandone i benefici e contemporaneamente minando i suoi principi e le sue 'regole della strada'".

 

La Cina sta sfruttando la modernizzazione militare, le operazioni di influenza e l'economia predatoria per costringere i paesi vicini a riordinare la regione indo-pacifica a loro vantaggio". (2018 NDS, p. 2)

 

La sfida centrale alla prosperità e alla sicurezza degli Stati Uniti è il riemergere di una competizione strategica a lungo termine da parte di quelle che la” Strategia di Sicurezza Nazionale” classifica come potenze revisioniste.

È sempre più chiaro che la Cina e la Russia vogliono plasmare un mondo coerente con il loro modello autoritario, ottenendo l'autorità di veto sulle decisioni economiche, diplomatiche e di sicurezza di altre nazioni. (NDS 2018).

 

L'NDS 2018 di Colby segna la fine della guerra al terrorismo e l'inizio di una "grande competizione di potere".

Rappresenta un riequilibrio strategico delle risorse statunitensi dalle località dell'Europa orientale e del Medio Oriente all'Indo-Pacifico.

 Suggerisce anche che gli Stati Uniti saranno coinvolti in diversi tipi di conflitti rispetto agli ultimi 20 anni;

conflitti che richiedono armi convenzionali, truppe da combattimento e una robusta capacità industriale piuttosto che azioni segrete, guerriglia e sistemi d'arma boutique.

 La guerra sta tornando alla sua forma originale, uno scontro mortale e distruttivo tra stati sovrani.

 

Come abbiamo notato in precedenza, l'obiettivo principale di “Colby” impedisce alla Cina di emergere come egemone regionale dell'Asia.

Al fine di raggiungere questo obiettivo, raccomanda una politica di deterrenti avanzati (più basi, truppe e armi letali), forti coalizioni regionali anti-Cina e "un Pentagono riformato in grado di rispondere rapidamente agli sviluppi in Asia".

“Colby” non vede la sua politica come provocatoria o escalation, ma la considera semplicemente come il modo migliore per preservare il posto dell'America nell'ordine mondiale.

In termini pratici, sostiene la “Strategia della negazione”, (che è il nome del suo libro del 2021) un piano che si concentra sull'impedire alla Cina di raggiungere l'egemonia regionale creando ostacoli troppo costosi da superare.

L'obiettivo è convincere la Cina che qualsiasi tentativo di rompere l'accerchiamento di Washington (con la forza militare) si tradurrà in perdite inaccettabili.

Questa strategia di negazione è la politica operativa de facto dell'amministrazione Trump.

 

Non sorprende che Colby veda la sua strategia come un modo per evitare la guerra, non per iniziarne una. Ecco Colby:

"L'obiettivo non è quello di combattere una guerra, ma di dissuaderla chiarendo a Pechino che non può avere successo nei suoi obiettivi aggressivi, in particolare contro Taiwan o altri alleati chiave".

 (Articolo di Affari Esteri, ottobre 2021)

 

Gli "obiettivi aggressivi" della Cina? Gli Stati Uniti stanno provocando la Cina nel loro cortile di casa mentre – sotto la Dottrina Monroe – gli Stati Uniti affermano il controllo su un intero emisfero. Ecco di nuovo Colby:

"Taiwan è il fulcro della Prima Catena di Isole, e la sua caduta in mano alla Cina minerebbe fondamentalmente la posizione strategica degli Stati Uniti in Asia, incoraggiando Pechino e indebolendo le nostre alleanze".

 (La strategia della negazione, p. 87)

 

"Difendere Taiwan non è una questione di sentimentalismo, ma di interessi strategici a muso duro. Se la Cina controlla Taiwan, dominerà il Pacifico occidentale, minacciando il Giappone, le Filippine e la nostra credibilità". (Testimonianza alla Commissione per i servizi armati del Senato, gennaio 2025)

 

Quindi, secondo la politica di Trump, gli Stati Uniti intendono negare alla Cina l'accesso a un'isola (Taiwan) che hanno già concordato di essere legalmente parte della Cina (politica di una sola Cina) e poi procedono a provocare Pechino conducendo esercitazioni navali nello Stretto di Taiwan o nel Mar Cinese Meridionale?

 È questo il piano?

 

In che modo questo è diverso dalla politica di Biden?

Gli Stati Uniti non stanno già utilizzando le loro agenzie di intelligence e le ONG per rafforzare il movimento indipendentista a Taiwan?

Gli Stati Uniti non stanno già "armando Taiwan fino ai denti" in un'aperta dimostrazione di disprezzo per il governo di Pechino?

Gli Stati Uniti non stanno già costruendo più basi militari, rafforzando le alleanze anti-cinesi e rendendosi un fastidio ovunque vadano attraverso l'Indo-Pacifico?

 

Il tono sobrio e la retorica deferente di “Colby” fanno sembrare la sua politica di "negazione" più innocua di quanto non sia.

In verità, la strategia è solo il “Contenimento 2.0”;

Più molestie, più molestie e più incitamento come abbiamo visto ripetutamente per più di un decennio.

 

Inutile dire che le opinioni di Colby sulla Cina si allineano strettamente con quelle di Trump.

entrambi vedono la Cina come il principale nemico strategico dell'America, entrambi sostengono il rafforzamento delle alleanze anti-cinesi nella regione ed entrambi vogliono rafforzare i deterrenti militari degli Stati Uniti.

 E mentre la retorica di Trump può essere più incendiaria di quella di Colby, entrambi sembrano essere d'accordo sul fatto che la Cina deve essere trattata con il pugno di ferro.

 

Naturalmente, la Cina è preoccupata che l'approccio conflittuale di Trump inneschi un incidente che verrà usato come pretesto per la guerra.

La Cina preferirebbe impegnarsi diplomaticamente con gli Stati Uniti per vedere se le parti possono risolvere pacificamente le loro differenze, ma questa potrebbe non essere un'opzione.

Dopo tutto, l'amministrazione è di competenza esclusiva degli intransigenti, dei neoconservatori e dei falchi della guerra.

Non ci sono "colombe" nel Team Trump né nell'intero establishment della politica estera. Ciò significa che la "pace" non sarà nella lista delle scelte.

Nota— Abbiamo chiesto a “Grok AI” se ci fosse anche una sola "colomba" in una posizione di potere nell'amministrazione Trump o nell'establishment della politica estera degli Stati Uniti.

L'unico nome che “Grok” è riuscito a trovare è stato quello di “Rand Paul”, che non fa parte né dell'amministrazione né dell'establishment della politica estera.

Il numero di sostenitori della pace nel governo è pari a zero.

 

 

 

 

La democrazia americana è una

bufala: i governanti americani

non sono il popolo.

 Unz.com - Paul Craig Roberts – (3 giugno 2025) – ci dice:

 Ho recentemente recensito (paulcraigroberts.org/2025/04/27/are-americans-still-americans/ ), in un saggio intitolato "Opening the CIA's Can of Worms" (Aprire il vaso di Pandora della CIA), si spiega chi ha creato e mantiene il mondo narrativo romanzato in cui gli americani vivono ignorando i veri obiettivi operativi.

 

“Curtin” afferma che è la “CIA”, non i media, le aziende di Internet o i politici, a controllare le narrazioni.

 I padroni della CIA sono i potenti interessi finanziari e aziendali da cui dipende il successo americano.

Il racconto di Curtin è parallelo alla confessione del Comandante Generale dei Marines “Smedley Butler”, secondo cui lui e i suoi Marines erano gli esecutori in America Latina della “United Fruit Company” e delle New York Banks”.

 

Esistono infinite prove documentate a sostegno della conclusione di Curtin.

Molto è stato scritto sull'"Operazione Mockingbird" della CIA, ora descritta dai media della CIA, come Wikipedia, come "presunta operazione".

A partire dal 1950, la CIA iniziò a ricorrere a tangenti, come le "fughe di notizie" ai media americani, concepite per influenzare l'opinione pubblica americana e straniera con narrazioni controllate che promuovevano programmi segreti.

 Le "fughe di notizie" della CIA fecero carriera ai giornalisti che potevano attestare che i loro direttori erano "fonti della CIA" e conquistare la prima pagina, se non i titoli.

La maggior parte dei giornalisti considerati influenti sono risorse della CIA.

 

Più recentemente, il libro di “Udo Ulfkotte”, " Bought Journalism" , ha rivelato che lui, un direttore del più grande quotidiano tedesco, e alcuni dei giornalisti più importanti d'Europa sono agenti della CIA.

La notizia è stata confermata da “Otto Schulmeister, caporedattore ed editore del quotidiano austriaco “Die Presse” (paulcraigroberts.org/2019/10/22/udo-ulfkottes-book-exposing-cia-control-of-western-journalism-now-available-in-english/ ).

Sono stati svelati i suoi legami con la CIA.

Lo sappiamo anche dal libro di “Stephen Kinzer, “The Brothers”, che ci racconta la storia di come il Segretario di Stato americano John Foster Dulles e il Direttore della CIA Allen Dulles si servirono del Dipartimento di Stato, della CIA e di giornalisti americani e stranieri per assistere i clienti aziendali del loro potente studio legale.

Oggi, naturalmente, i numerosi fatti comprovati vengono liquidati dai media prostituti e da Wikipedia come teorie del complotto.

 I collaboratori della CIA continuano a svolgere il loro compito di controllare le narrazioni.

 

Curtin condivide l'affermazione di “Douglas Valentine” nel suo libro rivelatore, "La CIA come crimine organizzato ":

"La CIA e i media sono parte della stessa cospirazione criminale".

Con le sue parole, Curtin aggiunge:

 

"I media mainstream corporativi sono stenografi per le operazioni psicologiche in corso dello stato di sicurezza nazionale rivolte al popolo americano, lo stesso che hanno fatto per un pubblico internazionale.

 Siamo stati a lungo sottoposti a questa "guerra dell'informazione", il cui scopo è quello di conquistare i cuori e le menti del popolo americano e di pacificarlo per rendere vittima della sua stessa complicità, proprio come è stato praticato dalla CIA in Vietnam e dal New York Times, dal Washington Post, dalla CBS, ecc., sul popolo americano nel corso degli anni, mentre lo stato americano di guerra conduce guerre senza fine, operazioni sotto falsa bandiera e omicidi in patria e all'estero che svolgono .

E ancora, milioni di americani idioti siedono davanti ai "notiziari" televisivi e si sottomettono al loro indottrinamento.

Un popolo così stupido non può sopravvivere in libertà.

 

In “The Secret Team”, “Fletcher Prouty “ha documentato che la CIA ha piazzato agenti in ogni agenzia del governo degli Stati Uniti.

“ Frances Stonor Saunders” ( La guerra fredda culturale ) e “Joel Whitney” (Finks) hanno spiegato come gli agenti della CIA “Cord Myer” e” Frank Wisner “gestissero programmi segreti che convertivano i sostenitori del Primo mostrano in” voci per la censura.

Abbiamo visto i risultati.

Abbiamo una falsa storia dell'11 settembre, una falsa storia delle nostre guerre in Medio Oriente, una falsa storia del Covid e del "vaccino" Covid, una falsa storia dell'"invasione russa dell'Ucraina", una falsa storia delle "armi nucleari iraniane" ma non una parola sulle armi nucleari israeliane.

Siamo vittime di un'enorme macchina della menzogna.

 

Curtin ci ricorda che non molto tempo fa il “New York Times” ha allegramente riferito che “Robert F. Kennedy, Jr.”, che ha documentato per anni gli effetti avversi dei vaccini sui bambini, è stato "escluso da Instagram per false affermazioni sul virus".

 La donna, “Jennifer Jett”, che ha scritto la frase, non ha usato la parola "presunto".

In che modo “Jennifer Jett” o “Instagram” dovrebbero la minima qualifica per sapere che le affermazioni di Kennedy sono false?

Quello che vediamo qui sono i media utilizzati da “Big Pharma” per screditare una fonte altamente competente.

Per anni ho osservato esperti altamente credibili screditati da operatori dei media di zero risultati.

Nessuno di cui nessuno ha mai sentito parlare diventa l'esperto.

 

Per quanto ne so, alle ultime due generazioni di laureati del sistema educativo statunitense – in realtà di lavaggio del cervello – non è stato insegnato a leggere.

Possono riconoscere un numero limitato di parole, ma non possono padroneggiare il significato delle parole sulla pagina.

Questo è in parte dovuto alla progettazione e in parte ai risultati di scuole integra che richiedono uguali risultati di rendimento razziale.

L'élite al potere trova molto più facile ingannare e controllare le persone che non riescono a capire ciò che leggono.

Poiché non è consentito che le etnie bianche e asiatiche si comportino meglio come gruppo rispetto ai neri e agli ispanici, gli standard sono ridotti al punto che tutti possono avere lo stesso voto.

 

Di recente ho partecipato a una cerimonia di diploma di una scuola superiore nel nord della Florida.

Il 41% dei diplomati ha ottenuto il massimo dei voti (Summa Cum Laude, Magna Cum Laude e Cum Laude).

 Qual è secondo te la spiegazione?

Un'alta concentrazione di geni geniali o l'abbassamento degli standard per nascondere le differenze razziali nei risultati scolastici?

Tra qualche anno, il 100% dei diplomati avrà ottenuto il massimo dei voti (Summa Cum Laude), e la distinzione non avrà più alcun significato.

 

 

Nel numero autunnale 2023 del “City Journal” , “Renu Mukherjee” denuncia la distruzione delle scuole superiori d'élite americane, come la “Thomas Jefferson High School for Science and Technology” nel nord della Virginia, la “Stuyvesant High School” e la “Bronx High School of Science”.

 Le scuole prevedevano severi test di ammissione per garantire che gli studenti ammessi fossero in grado di beneficiare di un'esperienza costosa e impegnativa.

Poiché la maggior parte degli studenti era composta da asiatici e bianchi, gli standard educativi basati sul merito sono stati dichiarati razzisti dai tiranni della “DEI” (Diversità, Istruzione e Formazione) che ci governano e hanno il controllo sull'istruzione americana.

 

In luogo dei test di ingresso, a ciascuna scuola media dell'area geografica è concessa una quota delle ammissioni.

 Forse da lì diventa una lotteria.

In ogni caso, il risultato è quello di abbassare le percentuali dei più qualificati e di aumentare le percentuali dei meno qualificati.

Per i meno qualificati che si laureano con una quota uguale di lode, gli standard devono essere abbassati.

Nell'interesse della “DEI”, le scuole superiori preparatorie d'élite vengono distrutte.

Il fatto che le scuole superiori d'élite hanno ceduto alla propaganda secondo cui il merito è razzista preannuncia la fine della scienza e dell'ingegneria americana.

Con il passare del tempo, gli Stati Uniti diventeranno dipendenti dagli immigrati cinesi, indiani e russi per la loro scienza e tecnologia.

 

Proprio come le distinzioni “cum laude” stanno perdendo il loro significato, così stanno perdendo il loro significato.

In passato significava qualcosa essere nominato Assistente Segretario. Non lo fa più.

Dopo le nomine “DEI” di Biden, che includevano pervertiti sessuali, l'onore che era associato alla nomina e alla sua conferma al Senato non c'è più.

 Lo stesso è accaduto alla magistratura.

 Gli ideologi incompetenti del punk da due soldi che il Congresso ha nominato in panchina difficilmente possono essere rispettati.

 Sono i nemici della giustizia e del popolo americano.

Attualmente sono impegnati a lavorare per ribaltare le elezioni presidenziali.

Non c'è da stupirsi che l'establishment al potere abbia lasciato vincere Trump.

 Sapevano che potevano fermarlo a freddo con la magistratura e spingerlo nella loro direzione con consigli che gli davano "prospettive più ampie".

 

I “maga-americani” dovrebbero considerare che se il presidente Trump si rifiuta di accogliere l'establishment al potere, si trova di fronte alla possibilità che le elezioni di medio termine vengano rubate per i democratici.

 Di nuovo a capo del Congresso, metteranno sotto accusa e condanneranno Trump.

Quindi incriminare lui e il suo governo, terrorizzare i suoi sostenitori e stabilire la “DEI Woke Truth” sull'America.

 

La fine dell'esperimento dei Padri Fondatori potrebbe essere molto vicina.

Ma non aspettatevi che gli stupidi americani se ne rendano conto.

 Sono prede facili perché sono coinvolti nella loro stessa complicità.

 

 

 

La “catastrofe” della fertilità in Cina.

Unz.com - Eugene Kusmiak – (3 giugno 2025) – ci dice:

 

La Cina era il paese più popoloso del mondo. Ma a causa del suo bassissimo tasso di natalità, i decessi ora superano le nascite e il paese si sta riducendo.

 Questo saggio racconterà alcuni dei fatti allarmanti sull'implosione demografica della Cina.

 È molto peggio di quanto si pensi.

In questo articolo mi baso su due statistiche governative: il tasso di fecondità e il PIL pro capite.

 Il tasso di fecondità è generalmente misurato come il numero di figli per donna. Può essere considerato come figli per coppia o figli per famiglia, ma include tutte le donne single o sposate.

 Il livello di sostituzione della fecondità è di 2 figli per donna.

 In Cina, il livello di sostituzione è di 1 figlio per donna, ovvero la metà del livello di sostituzione

. Ciò significa che ogni generazione è solo la metà della popolazione della generazione precedente.

 

Il PIL pro capite misura la produzione, e quindi il reddito medio, dei residenti del Paese.

Il PIL pro capite della Cina lo qualifica come un Paese a "reddito medio", ed è questo il termine che userò per definirlo.

Una descrizione migliore potrebbe essere povera, perché la Cina è certamente povera per gli standard americani.

Ma è a reddito medio per gli standard globali, e confronterò la Cina con il resto del mondo, non solo con gli Stati Uniti.

 

I numeri raccontano la storia, ma lo fanno in modo insipido.

Un aneddoto personale può dipingere un quadro più preciso di cosa significhi effettivamente "reddito medio":

quando io e mia moglie siamo andati a “Guilin”, in Cina, abbiamo visitato un sito turistico chiamato “Moon Hill”, dove si può salire a piedi fino alla cima di una montagna locale per ammirare le formazioni carsiche calcaree intorno al fiume “Li.”

 Il parcheggio era pieno di anziane donne in attesa di vendere cose ai turisti. Quando siamo scesi dall'auto, le donne ci sono corse incontro e quelle arrivate per prime ci hanno perseguitato per tutto il tempo che siamo rimasti nel parco, mentre le altre sono tornate al parcheggio ad aspettare i turisti successivi.

Le donne che si sono attaccate a noi sono state impressionanti nella loro perseveranza.

Ci hanno seguito durante la salita fino alla cima di “Moon Hill,” trascinando ghiacciaie piene di bottiglie d'acqua, sperando di venderci qualcosa se avessimo avuto sete.

Poi ci hanno seguito fino alla discesa, ricordandoci sempre che avevano bevande fresche in vendita.

Una volta tornati ai piedi della collina, abbiamo comprato un pacchetto di cartoline dalle donne per circa un dollaro.

La nostra guida privata ci ha rimproverato per aver pagato il prezzo intero, cosa che nessun turista cinese avrebbe fatto.

Considerando il numero esiguo di turisti e l'elevato numero di donne, abbiamo ipotizzato che guadagnassero circa 10 dollari al giorno.

Gli americani in genere non hanno idea di quanto siano poveri gli altri Paesi.

 

Cosa dicono gli esperti.

Secondo molti parametri, la Cina ha la più grande economia del mondo, avendo superato gli Stati Uniti diversi anni fa.

Ma questo non è particolarmente sufficiente per dire che il popolo cinese sia ricco. Il reddito pro capite della Cina è solidamente nella media, classificandosi al 58esimo percentile tra tutti i paesi, anche utilizzando il modo più generoso di calcolare il loro tenore di vita, noto come "parità di potere d'acquisto".

Il motivo per cui l'economia totale della Cina è così grande è perché la sua popolazione è così enorme:

 

PIL (grande) = numero di persone (enorme) e reddito pro capite (medio).

Ma la più grande forza della Cina – la sua popolazione – potrebbe non rimanere enorme a lungo.

 La Cina è già scivolata al #2 posto nella popolazione totale del mondo, dietro l'India.

E dopo qualche altra generazione in cui si avrà un solo figlio per famiglia, è solo matematica che la popolazione sarà piccola e l'economia sarà minuscola.

 In effetti, le attuali proiezioni demografiche sono che, entro la fine di questo secolo, la popolazione cinese crollerà a 500 milioni (a causa del loro basso tasso di natalità) mentre la popolazione americana salirà a 700 milioni (a causa della nostra alta immigrazione).

 Se ciò accadrà, l'economia cinese avrà le dimensioni del Canada.

 

Dire "la Cina sarà come il Canada" può sembrare un'iperbole, ma non lo è.

 Lo standard per confrontare le economie dei paesi è il PIL nazionale.

Ecco un confronto tra il Canada con 100 milioni di persone e la Cina con 500 milioni, utilizzando i dati attuali per il PIL pro capite e le proiezioni della popolazione nell'anno 2100:

 

Paese       PIL pro capite nel 2023  Popolazione nel 2100     PIL;

Canada         $53.431/giorno     100 milioni  5 trilioni di dollari;

Cina   $ 12.614/giorno    500 milioni  6 trilioni di dollari;

Stati Uniti    $82.769/giorno     700 milioni  58 trilioni di dollari.

La Cina può avere grandi ambizioni.

Ma al ritmo con cui la sua popolazione sta diminuendo, ha le stesse probabilità di diventare una superpotenza del nostro "51 ° stato".

Nel bene o nel male, il XXI secolo si sta rivelando un altro secolo americano.

La Cina dovrà quintuplicare (5 volte) la sua produttività e raddoppiare (2 volte) la sua fertilità solo per tenere il passo con gli Stati Uniti.

Credo che possa fare il primo obiettivo, ma non il secondo.

 

Al di fuori dei periodi di guerra, la diminuzione della popolazione è pressoché sconosciuta nel mondo moderno.

 Nessuna economia, moderna o primitiva, può funzionare quando l'intera popolazione di un paese invecchia, si ammala e poi cessa di esistere.

 Una popolazione più piccola non significa solo un'economia più piccola.

Le economie, per funzionare, richiedono un'innovazione costante.

È difficile immaginare come persone anziane, malate o decedute possano innovare.

Una perdita demografica delle dimensioni che la Cina sta affrontando non significa solo un'economia in contrazione, ma un'economia al collasso.

Per avere un buon esempio di cosa significhi, si pensi al “Nuovo Mondo” quando i nativi amerindi incontrarono per la prima volta gli europei e contrassero malattie verso cui non avevano difese immunitarie, subendo una perdita di popolazione del 90% nel primo secolo dopo il contatto.

 I demografi affermano che la Cina affronterà una perdita di popolazione di oltre il 60% entro la fine di questo secolo.

 Nessuno penserà alla Cina come a una superpotenza emergente dopo aver perso i 2/3 dei suoi cittadini.

 

Secondo il” Peterson Institute for International Economics”:

"Nulla suggerirebbe che il TFR cinese [Total Fertility Rate] si invertirà e aumenterà di nuovo nel lungo periodo –

la Corea del Sud è in testa con il suo TFR in calo a 0,72, ma Hong Kong, Taiwan, Singapore, Pechino, Shanghai e altre importanti metropoli cinesi oggi hanno tutte TFR pari o ben al di sotto di 1.

Rispetto a questi luoghi, il Giappone è un paese ad alta fertilità".

 

La previsione meno pessimistica per il futuro della Cina si trova nel rapporto delle Nazioni Unite sulle prospettive della popolazione mondiale:

"A causa delle sue grandi dimensioni e del basso livello di fertilità, è probabile che la Cina registri il più grande calo demografico di qualsiasi paese fino alla fine del secolo, [perdendo] 786 milioni di persone.

Entro il 2100, si prevede che la Cina avrà perso più della metà della sua attuale e che sarà tornata a una dimensione della popolazione paragonabile a quella registrata alla fine degli anni '50.

 Per essere chiari, la perdita di 786 milioni è un cambiamento netto: morti – nascite = 786 milioni.

Altre previsioni sono ancora più pessimistiche.

 

E non sono solo gli occidentali a prevederlo.

 L'Accademia delle Scienze Sociali di Shanghai prevede che entro la fine di questo secolo la popolazione cinese si ridurrà di quasi 2/3, passando da 1,4 miliardi a 525 milioni.

 L'anno scorso, prevedevano 600 milioni di cinesi nel 2100, ma ogni anno il tasso di natalità "sorprende" al ribasso, e le stime devono essere ulteriormente riviste al ribasso.

 La popolazione cinese sta implodendo sotto i nostri occhi, eppure i sostenitori della Cina (e i suoi nemici) si aspettano ancora la sua imminente vittoria sull'Occidente.

Come ho sottolineato altrove, la tanto discussa malattia bianca del suicidio demografico è in realtà molto più grave in Asia.

Gli asiatici si stanno letteralmente eliminando, volontariamente.

Non è così che si comportano i Paesi con un futuro.

 C'è una malattia mortale in Cina, e le parole felici degli amici della Cina (o le parole spaventose dei nemici della Cina) non risolveranno il problema.

 Ci sono molte teorie sul perché questo stia accadendo.

Ma qualunque sia la causa, la cosa importante per il futuro della Cina è che ciò stia accadendo.

Se un paese smette di riprodursi, il suo futuro è l'oblio.

Non importa cos'altro faccia – quanto sia forte la sua economia, qual è il suo primato nell'intelligenza artificiale, quanti missili costruisca. I

l suo futuro è l'estinzione e ogni anno che passa questo destino diventa più difficile da invertire.

Perché si.

Esiste una forte correlazione negativa tra la ricchezza di un paese e il suo tasso di fertilità.

Come regola generale, i paesi ricchi hanno meno figli e i paesi poveri ne hanno di più.

Ma ci sono eccezioni a questa regola.

 La Cina è una grande eccezione: la Cina è un paese a reddito medio con un tasso di natalità che sarebbe incredibilmente basso anche in un paese ad alto reddito.

 

La gente si aspetta grandi cose (o cose terribili, a seconda della prospettiva) dalla Cina perché ha già realizzato grandi cose.

 L'economia cinese è cresciuta in modo esponenziale negli ultimi 50 anni, a partire dagli orribili livelli di povertà sotto Mao Zedong.

 Sin dalle riforme del libero mercato di “Deng Xiaoping”, i cinesi sono passati dall'essere tra le persone più povere del pianeta ad essere oggi piuttosto nella media.

Questo è un risultato enorme.

Ma cosa viene dopo?

Tutti danno per scontato che l'economia cinese continuerà a crescere e che il popolo cinese continuerà a diventare più ricco.

OK, diciamo che è vero.

 E poi?

 

In ogni Paese della storia, l'aumento del reddito ha causato un calo dei tassi di natalità.

Si può discutere sul perché, ma non si può negare che non sia vero.

 È quello che è successo in altri Paesi, ed è quello che succederà in Cina.

 Se il tasso di natalità della Cina fosse attualmente alto come quello di altri Paesi a medio reddito, forse non sarebbe un male.

Ma a differenza di quei Paesi, il tasso di natalità della Cina è già anormalmente basso.

Il problema è che non sono ancora ricchi!

Chiunque si aspetti che l'economia cinese continui a crescere deve anche aspettarsi che il tasso di natalità continui a scendere.

Quando finalmente diventeranno veramente ricchi, quale sarà il loro tasso di fertilità?

0,5 figli per famiglia? 0,1 figli per famiglia?

Cosa succederà allora?

La risposta è ovvia. A meno che non riescano a sviluppare la tecnologia per far crescere i bambini in capsule e allevarli con i robot, il loro destino è inevitabile: non importa quanto ricca, potente o tecnologicamente avanzata diventi la Cina, il loro Paese finirà per ridursi all'irrilevanza.

 

Non solo la popolazione cinese sta attualmente diminuendo, ma non c'è praticamente nulla che possano fare per fermare questa situazione.

 Anche se il governo riesce in qualche modo a convincere le donne cinesi ad avere figli, oggi non ci sono abbastanza giovani donne nella popolazione per invertire il declino in corso.

Basta guardare la piramide demografica prevista per il 2030 dal censimento del governo cinese del 2020:

Si può vedere dalla piramide dell'età della popolazione che la maggior parte dei cinesi ha già più di 40 anni.

Non possono avere altri figli anche se lo volessero.

Il governo potrebbe puntargli una pistola alla tempia e non avrebbe importanza. Non c'è modo di tornare indietro dallo squilibrio di età che già esiste.

 I dati demografici della popolazione sono prevedibili nei decenni futuri perché si possono semplicemente ignorare tutti coloro che hanno più di 40 anni.

Gli adulti infertili sono irrilevanti per il futuro.

La Cina semplicemente non ha abbastanza giovani per produrre i figli necessari per evitare che la popolazione vada in crisi.

 Non c'è modo di riprendersi dalla folle politica del passato della Cina di avere così pochi figli per così tanto tempo che la maggior parte della popolazione ha già superato l'età fertile.

Questo non è in discussione.

È un triste fatto biologico.

 

Quindi, la popolazione cinese non può che diminuire da qui.

 La piramide delle età diventerà ancora più pesante man mano che le famiglie continueranno ad avere un figlio.

 Se la fertilità cinese rimane dov'è – a metà del livello di sostituzione – ogni generazione sarà la metà della generazione precedente.

 Immaginate un triangolo (tutti in Cina di età inferiore ai 40 anni), tranne per il fatto che invece di un triangolo stabile con una base larga, è un triangolo capovolto in equilibrio sulla punta.

Questa è la struttura per l'età della Cina oggi.

Come dice George Soros, "Non sto fare previsioni. Sto osservando".

 

Cosa mostrano i dati.

Esistono dati a supporto della mia cupa visione del futuro della Cina?

Sì, e chiunque può scaricarli gratuitamente da” Our World” in “Data” all'indirizzo: (ourworldindata.org/grapher/effective-fertility-rate-children-per-woman-who-are-expected-to-survive-until-childbearing-age). Questo sito web di dati contiene i tassi di fertilità per ogni paese del mondo.

Il suo database sulla fertilità comprende quasi 200 paesi, incluse voci separate per le regioni cinesi di Hong Kong, Macao e Taiwan.

 Il 2023 è l'anno più recente per cui sono disponibili dati sulla fertilità per ogni paese, quindi è quello che userò nella mia analisi qui di seguito.

 

“Our World in Data” riporta il "tasso di fecondità effettivo" anziché il più comune "tasso di fecondità totale", ma si tratta essenzialmente della stessa cosa.

 (Per essere precisi, “OWID “calcola il tasso di fecondità totale di ogni Paese dalle “Prospettive della Popolazione Mondiale” delle Nazioni Unite, lo combina con i tassi di mortalità per età dei Paesi tratti dall'”Human Mortality Database” ed esegue il seguente calcolo per convertire il TFR in EFR:

 

EFR = TFR per probabilità che i neonati sopravvivano fino all'età fertile.

Quando si utilizza il “TFR, che conta semplicemente il numero di bambini nati, è necessario effettuare un aggiustamento ad hoc per quanti di essi sopravviveranno fino all'età riproduttiva.

 Ad esempio, è convenzionale dire che un TFR di 2,1 figli per donna è un livello di fertilità sostitutivo.

 Ma perché è 2.1, non 2.0 o 2.2?

 Perché il presupposto è che il 95% dei bambini sopravviverà fino all'età adulta. Quindi, dei 2,1 bambini nati, 2,0 adulti sopravviveranno per poter avere figli propri.

 Gli adulti 2.0 sostituiscono esattamente la donna (e l'uomo) che li ha partoriti. Quindi, 2.1 è il TFR approssimativo del livello di sostituzione perché 2.0 è l'esatto livello di sostituzione EFR.

 

Ma il tasso di mortalità di ogni paese è diverso.

 I paesi occidentali hanno una sopravvivenza molto superiore al 95% e i paesi africani hanno una sopravvivenza molto inferiore al 95%.

 Quindi, per confrontare correttamente i paesi, il TFR deve essere moltiplicato per la percentuale di bambini che sopravviveranno.

 EFR lo fa.

 In questo studio, sono interessato solo ai paesi ad alto e medio reddito il cui tasso di sopravvivenza è in genere ben oltre il 95%, quindi EFR e TFR sono quasi identici.

Nel caso specifico della Cina nell'anno 2023, il suo TFR = 1,00 e il suo EFR = 0,99 perché la Cina ha l'1% di mortalità infantile, quindi si prevede che il 99% dei neonati sopravviverà fino all'età fertile.)

Esistono indicati i tassi di fertilità effettivi di Cina e America dal 2010 al 2023 in forma di grafico:

Il crollo della fertilità della Cina fa sembrare gli Stati Uniti in buona salute al confronto.

Di recente, ogni anno, il tasso di natalità cinese ha toccato un nuovo minimo.

E non sta solo diminuendo come negli Stati Uniti, ma sta precipitando.

 (A proposito, non posso fare a meno di sottolineare che alcune persone credevano che il vaccino COVID negli Stati Uniti avrebbe depresso i tassi di natalità negli Stati Uniti. Mi chiedo cosa pensino del vaccino cinese contro il COVID.)

 

Osservando il grafico esistente sopra, tenete presente che la politica del figlio unico in Cina è terminata nel 2015.

 Il governo cinese è preoccupato per il numero troppo esiguo di figli.

Ma il popolo cinese sta facendo l'opposto di ciò che le autorità vogliono.

La Cina ha recentemente incoraggiato attivamente la maternità, ma le nascite continuano a diminuire.

 

È noto che i ricchi hanno meno figli dei poveri, e i paesi ricchi meno dei paesi poveri.

Il reddito è molto importante, anche se non è del tutto chiaro il perché, dato che il segno della relazione è controintuitivo.

Esistono però due modi per misurare il reddito:

 in valuta grezza e in valuta corretta per il potere d'acquisto.

Entrambe le misurazioni predicono la fertilità in modo molto negativo.

 Il reddito corretto per il potere d'acquisto funziona leggermente meglio, quindi è quello che userò, ma nessuna delle mie conclusioni cambierebbe se utilizzassi il reddito grezzo.

Il reddito corretto per il potere d'acquisto non solo ha prestazioni leggermente migliori a livello empirico, ma ha anche più senso a livello teorico.

 I redditi nei paesi poveri sono bassi, ovviamente.

In Cina, il PIL pro capite era di 12.614 dollari a persona nel 2023.

Ma anche i prezzi nei paesi poveri sono bassi, quindi le persone possono acquistare di più con il loro basso reddito.

 Secondo i dati ufficiali, i prezzi in Cina per tutti i beni di consumo sono circa la metà di quelli negli Stati Uniti.

Prendere in considerazione tutti i beni a basso prezzo e i servizi pubblici gratuiti nella misurazione del reddito si chiama "correzione per la parità del potere d'acquisto".

Il PIL pro capite cinese, corretto per la parità del potere d'acquisto, era di 24.569 dollari a persona nel 2023.

Poiché la parità del potere d'acquisto fornisce la migliore misurazione del potere di spesa individuale, è la statistica giusta per comprendere le decisioni dei cinesi, come ad esempio quanti figli avere.

 

Esiste un grafico di tutti i 191 paesi nel database” OWID”, con il PIL pro capite a parità di potere d'acquisto sull'asse X (utilizzando una scala log-lineare) e il tasso di fertilità effettivo sull'asse Y.

Si può vedere la forte relazione tra reddito e fertilità quando i punti scendono in un forte declino: da più di 4 figli a basso reddito a meno di 1 figlio ad alto reddito:

 

La linea rossa è l'adattamento migliore da una regressione lineare di EFR ~ log(PIL pro capite a PPP).

 La pendenza della retta di regressione è fortemente negativa e statisticamente significativa.

Il grande punto rosso nella parte inferiore del grafico è la Cina.

 

Mostro anche i nomi di tutti gli altri paesi con tassi di fertilità inferiori a 1,0 su questo grafico.

 5 dei 7 di questi paesi a bassissima fertilità sono una maggioranza cinese: Cina, Hong Kong, Macao, Taiwan e Singapore.

 La Cina continentale è una grande eccezione negativa rispetto alla linea di tendenza (insieme all'Ucraina), un paese un reddito medio con una fertilità molto bassa.

 Israele è una grande eccezione positiva: un paese ricco con un'altissima fertilità.

 

Ho tracciato delle linee verticali sul grafico in corrispondenza del 25 ° e 75 ° percentile del PIL pro capite a parità di potere d'acquisto (PPA) per separare i paesi in a basso, medio e alto reddito.

 La Cina si trova al 58 ° percentile, quasi al centro dell'intervallo.

La Cina si colloca nella fascia intermedia dei paesi a medio reddito.

 

Il punto chiave è: i cinesi evitano di avere figli più di qualsiasi altro popolo sulla terra, e non c'è paragone:

Tra i paesi a medio reddito (tra il 25 ° e il 75 ° percentile di reddito), la Cina e l'Ucraina devastata dalla guerra hanno i tassi di fertilità più bassi. (Presumibilmente, la bassa fertilità in Ucraina è causata dalla guerra.)

Tra i paesi ad alto reddito (oltre il 75 ° percentile), Hong Kong, Macao, Taiwan e Singapore, a maggioranza cinese, sono 4 dei 5 paesi con il tasso di fertilità più basso.

 

Cina e Ucraina hanno registrato i due tassi di fertilità più bassi tra tutti i paesi a medio reddito nel 2023.

 C'è qualcosa di notevole in questo:

 il 2023 è stato l'anno successivo all'invasione russa dell'Ucraina.

Quindi, in un anno normale i cinesi hanno avuto lo stesso numero di figli degli ucraini nell'anno in cui il loro paese è stato distrutto.

 Questo dovrebbe indurre a una riflessione introspettiva chiunque ammiri la Cina: cosa dice del paese il fatto che, almeno sotto questo aspetto, i cinesi in un anno normale si comportino come gli ucraini quando i loro uomini vengono massacrati e le loro donne fuggono dal paese?

Cosa sta succedendo in Cina?

A giudicare da tutti i punti di vista, sembra un bel posto. Eppure la sua gente evita i bambini come vittime in una zona di guerra.

 

I sostenitori della Cina a volte dicono che gli americani possono avere più soldi, ma i cinesi godono di tutti i beni pubblici che il socialismo fornisce:

 tutto è sovvenzionato, l'istruzione e la medicina sono praticamente gratuite, il governo sembra davvero preoccuparsi del suo popolo, “Xi Jinping” è un autocrate molto competente, il loro internet non può essere divisivo o degenerato.

 i loro figli guardano video educativi e non TikTok o Instagram.

Inoltre, la Cina gode di migliaia di anni di storia, dell'economia in più rapida crescita del pianeta, di una tecnologia leader a livello mondiale, di bellissime città di nuova costruzione, di un basso costo della vita, di strade sicure di notte senza criminalità nera, di un'elevata aspettativa di vita tipicamente asiatica, dell'ordine sociale e dell'unità nazionale, volontaria o meno.

Seguono la saggezza tradizionale del confucianesimo e rifiutano il “globo homo” moderno.

Non hanno un Grande Sostituto, nessun problema con la diversità.

 Il popolo cinese non è inondato dai valori egoistici e atomizzati degli americani. Non sono cattivi individualisti deformati dall'avidità capitalista, ma buoni collettivisti con spirito comunitario e famiglie allargate che mancano alla nostra società.

Eppure, nonostante tutto ciò sembri bello, i cinesi sembrano sentire che il loro futuro è troppo cupo per avere dei figli.

Cosa succede?

 

Poiché la bassa natalità è diventata ultimamente un problema politico in molti paesi, molte persone cercano una soluzione politica.

Spesso si inizia chiedendosi perché si abbiano così pochi figli.

 La risposta che tutti danno a questa domanda è la stessa: non possono permetterseli.

Inutile dire che questa risposta è assurda.

 La Cina è l'esempio più estremo di questa assurdità.

 50 anni fa, sotto il comunismo maoista, i cinesi erano incredibilmente poveri, ma potevano permettersi di avere figli.

 Anzi, avevano così tanti figli che il governo adottò la politica di un figlio per famiglia per ridurre la popolazione in rapida crescita del paese.

Quando Mao Zedong morì e Deng Xiaoping assunse il potere, la Cina divenne capitalista e visse il più grande miracolo economico della storia mondiale.

 Un miliardo di persone uscì dalla povertà.

Non diventarono ricche, ma passarono dalla povertà più assoluta a quella che per gli standard globali è considerata la classe media.

 Nei 50 anni trascorsi da Mao, il loro tenore di vita aumentò letteralmente del 4000%.

Ora che sono più ricchi del 4000% rispetto a prima, dicono di non potersi più permettere di avere figli.

 Quando erano 40 volte più poveri, potevano permetterseli.

Ora che sono 40 volte più ricchi, non possono più permetterseli.

C'è chiaramente qualcosa di ridicolo nell'affermazione che le persone non hanno figli perché non possono permetterseli.

 La Cina è un esempio estremo, ma questo vale per ogni Paese: se le persone oggi non possono permettersi di avere figli, come avrebbero potuto permetterseli in passato i loro antenati più poveri?

 

Infine, il governo cinese ha fornito incentivi finanziari alle coppie sposate per incoraggiare la procreazione.

Questi hanno ovviamente fallito miseramente, come hanno fatto in tutti i paesi in cui sono stati processati, come la Corea del Sud. (La Corea del Nord è 20 volte più povera della Corea del Sud e il loro tasso di fertilità è quasi 3 volte superiore. Quindi, i sudcoreani stanno ovviamente sbagliando tutto.)

L'unico programma finanziario che ha dimostrato di far sì che i cinesi producono più figli sta rendendo il paese 40 volte più povero.

 Funzionerebbe. Ma non sarebbe popolare.

Ho alcune riflessioni sul perché oggi tutti "non possono permettersi" i figli e perché più soldi hanno meno "possono permettersi", ma questo ci porterebbe troppo lontano dall'argomento di questo saggio, che è il futuro della Cina.

 

Previsioni.

Ora non limitiamoci a chiedere, ma proviamo a rispondere alla domanda:

cosa succederà quando la Cina diventerà ricca?

Tutti sembrano pensare che la Cina diventerà ricca.

 Supponiamo che sia così.

Ogni altro Paese che è passato da un reddito medio ad uno alto ha visto un enorme calo delle nascite.

Questo accadrà anche alla Cina.

Quando la Cina diventerà ricca, il suo tasso di natalità, attualmente alla metà del tasso di sostituzione, scenderà sotto la metà.

A cosa esattamente? A un quarto del tasso di sostituzione? A un decimo? La Cina ha attualmente il tasso di fertilità più basso tra tutti i Paesi a medio reddito al mondo (a parte l'Ucraina devastata dalla guerra).

Quando la Cina diventerà ricca, il suo tasso di fertilità scenderà al livello più basso tra tutti i Paesi ad alto reddito, il che significa il più basso tra tutti i Paesi al mondo.

Ma quanto scenderà? Proviamo a calcolare la risposta.

Tutti i paesi a maggioranza cinese hanno bassi tassi di natalità. Qui sono ordinati in base al PIL pro capite, mostrando un andamento pressoché monotono di calo della fertilità e aumento della ricchezza:

Paese PIL pro capite a parità di potere d'acquisto Tasso di fertilità

Cina   $24.569/      giorno           0,99

Taiwan $71.482/ giorno           0,86

Hong Kong  $71.549/giorno     0,71

Macao          $ 116.491/giorno 0,66

Singapore (popolazione totale)          $ 141.553    0,94

Singapore (solo cinese)  ~$150.000   0,79

Taiwan, Hong Kong e Macao sono quasi interamente cinesi.

Ma Singapore è composta solo per il 75% da cinesi etnici.

Quindi, la tabella sopra include un'altra riga per la sola popolazione cinese a Singapore.

Hanno un reddito più alto e una fertilità inferiore rispetto ad altri gruppi etnici come i malesi.

 I cinesi a Singapore, essendo sei volte più ricchi dei cinesi in Cina, hanno una fertilità inferiore a quella della Cina.

Quando i cinesi diventano ricchi, hanno meno figli, proprio come le persone in tutto il mondo.

La Cina, essendo un paese a reddito medio, ha molto spazio per diventare più ricca, il che significa che ha anche molto spazio per avere meno figli.

Ci sono due possibili modelli di come i tassi di natalità cinesi potrebbero diminuire se diventare ricchi:

La Cina potrebbe essere come gli altri paesi prosperi con popolazione cinese.

 Ecco una tabella che mostra la fertilità della Cina rispetto ai suoi omologhi asiatici a medio reddito, e i media dei paesi ricchi cinesi (Taiwan, Hong Kong, Macao e la popolazione cinese di Singapore) rispetto agli asiatici altrettanto prosperi:

 

Paese EFR previsto           EFR effettivo          Differenza

Cina   1,95   0,99   -0,96

Media dei paesi ricchi cinesi     1.20   0,75   -0,45

Quindi, una Cina ricca potrebbe semplicemente essere come gli altri paesi ricchi cinesi e avere un tasso di fertilità di 0,75.

Tuttavia, questo ignora l'unicità della Cina tra i paesi cinesi.

 La storia della Cina comunista si è differenziata notevolmente da quella delle nazioni cinesi capitaliste.

La differenza più rilevante è la politica del figlio unico in Cina.

 Per 35 anni, la Cina ha applicato una politica draconiana che limitava le famiglie ad avere un solo figlio.

 (C'erano molte eccezioni a questa regola, quindi le famiglie cinesi in media avevano più di un figlio, ma il messaggio del governo era chiaro: non è consentito avere più di uno o due figli).

 Nella migliore delle ipotesi, questa storia ha alterato radicalmente le aspettative delle persone sulle dimensioni della famiglia.

Nella peggiore, ha distrutto la famiglia cinese in un modo che richiederà generazioni per essere riparato – il tempo che la Cina non ha.

Quindi, consideriamo il risultato se la Cina diventasse ricca ma continuasse ad avere un tasso di natalità molto inferiore alla sua classe di reddito.

Abbiamo tutte le informazioni necessarie per effettuare questo calcolo dalla regressione lineare della natalità sul reddito tra i paesi asiatici:

 

EFR = -1,2526 * log10 (PIL pro capite a PPP) + 7,4490

La Cina ha un PIL pro capite con parità di potere d'acquisto di 24.569 dollari.

Sulla base della regressione, i paesi asiatici con reddito medio come la Cina dovrebbero avere un tasso di fertilità di 1,95.

Ma l'EFR cinese è in realtà solo 0,99.

Quindi, la fertilità della Cina è inferiore di 0,96 volte rispetto a quanto previsto dalla regressione dei paesi asiatici.

Ora proiettiamo quale sarebbe l'EFR della Cina se avesse il PIL pro capite di Singapore a 141.553 dollari PPP.

Il modello di regressione prevede che un paese ad alto reddito dovrebbe avere un tasso di fertilità di 0,99.

Se la fertilità della Cina continua ad essere inferiore a 0,96 rispetto alla regressione, allora la sua fertilità effettiva sarebbe di 0,03.

Questa è la mia previsione sulla "Cina ricca":

quale sarebbe il tasso di fertilità della Cina se avesse il livello del PIL di Singapore, pur mantenendo la sua attuale deviazione dal trend.

 

I paesi asiatici hanno generalmente tassi di natalità più bassi rispetto ai paesi non asiatici.

Quindi, ha senso analizzare la Cina solo nel contesto dell'Asia.

 (La mia previsione del tasso di fertilità della "Cina ricca" sarebbe ancora più bassa di 0,03 se include tutti i paesi nella regressione, ma siamo ottimisti e confrontiamo la Cina con i paesi asiatici.)

Di seguito è riportato un grafico dei soli paesi dell'Asia, che mostra ancora una volta la linea di regressione e nomina i paesi la cui fertilità è inferiore a 1,0:

Tra tutti i paesi asiatici, le aree etniche cinesi di Cina, Hong Kong, Macao, Taiwan e Singapore sono 5 dei 6 con la fertilità più bassa.

 L'altro paese è la Corea del Sud.

 

Nel grafico , ho evidenziato due punti speciali in rosso:

L'attuale posizione della Cina, denominata "Cina", mostra che ha la fertilità più bassa di qualsiasi paese asiatico a reddito medio.

La posizione futura della Cina, denominata "Cina ricca", se diventerà ad alto reddito ma continuerà ad avere una fertilità inferiore rispetto ad altri paesi asiatici ad alto reddito.

La linea tratteggiata rossa sul grafico mostra questa proiezione, che collega la posizione attuale della Cina alla posizione prevista per la "Cina ricca".

Se la Cina diventasse ricca quanto Singapore, il suo tasso di fertilità sarebbe previsto pari a 0,03.

Arrotondiamo questa stima a 0 figli per donna.

Quindi, ci sono due possibili scenari per cosa accadrebbe se la Cina diventasse ricca:

 

Potrebbe accadere come in altri paesi ricchi a maggioranza cinese, e il suo tasso di fertilità potrebbe scendere allo 0,75.

Potrebbe essere come sé stessa, solo più ricca, e la sua fertilità scenderebbe allo 0,03 o, a tutti gli effetti, allo 0.

Lo scenario 1 è un'estinzione lenta. Lo scenario 2 è un'estinzione in una generazione. La verità sta probabilmente nel mezzo.

L'attuale tasso di fertilità della Cina è catastrofico.

Se la Cina si arricchisse, la sua fertilità sarebbe ancora più catastrofica.

Anche una sola generazione senza figli significherebbe che tutti i superstiti sarebbero troppo vecchi per averne, quindi il Paese sarebbe destinato alla rovina. Come molti altri hanno osservato,

"la Cina è invecchiata prima di arricchirsi".

 Ci sono altri Paesi vecchi in Asia, come il Giappone, per esempio.

 Ma si sono arricchiti prima di invecchiare.

 

Speculazioni.

Uno dei tanti fatti sorprendenti nei dati sulla fertilità del 2023 è che quello che era un anno normale in Cina è stato come un anno di totale devastazione e morte in un paese devastato dalla guerra come l'Ucraina.

 Cosa c'è che non va in Cina, comunque?

Posso solo fare delle ipotesi, e poiché le mie ipotesi probabilmente non valgono molto, sarò breve:

 la crisi della natalità che sta avvenendo oggi in Cina è solo una versione estrema della crisi della natalità che sta avvenendo ovunque.

L'evoluzione non ha programmato gli animali a desiderare la prole.

 L'evoluzione ha programmato gli animali a desiderare il sesso.

 Per un miliardo di anni di storia animale, il sesso ha prodotto prole indipendentemente dal fatto che gli animali la volessero o meno.

Gli esseri umani hanno ereditato quegli stessi istinti, che funzionavano bene prima della contraccezione, ma sono fatali per noi oggi.

Probabilmente il più delle volte, gli esseri umani non desideravano i figli che il sesso produceva.

Questa è la trama di innumerevoli romanzi europei (Thomas Hardy, George Eliot, le sorelle Brontë, ecc.) prima dell'era moderna.

 Ed è per questo che i medici hanno inventato il controllo delle nascite, e non appena è diventato disponibile, tutti lo hanno usato, e poi tutti hanno ridotto le dimensioni delle loro famiglie dai tipici 10 figli a circa 2, e molte persone hanno smesso del tutto di avere figli.

La verità è che molte persone potrebbero non aver mai desiderato figli se la loro vita fosse stata più facile senza di loro.

Le persone senza figli non sono una patologia della società moderna.

La mancanza di figli non è causata da Internet, dalla prosperità o dalla morte del cristianesimo.

 È solo che per la prima volta nella storia, le persone possono ottenere ciò che vogliono, ed è ormai lampante che ciò che molte persone vogliono è non avere figli.

Se un controllo delle nascite facile da usare fosse stato disponibile 1000, 10.000 o 100.000 anni fa, probabilmente ci sarebbe stata una crisi di natalità anche allora, e forse ora non esisteremmo nemmeno.

 Ma non era disponibile allora, quindi le persone non potevano scegliere di non avere figli.

Oggi, quella tecnologia esiste, quindi le persone scelgono ciò che vogliono, e ciò che probabilmente hanno sempre desiderato.

Nemmeno l'egoismo è un'invenzione moderna.

Ma perché i cinesi in particolare vogliono meno figli rispetto a qualsiasi altro gruppo etnico?

 Potrei scherzare dicendo che è perché sono così intelligenti.

 C'è un detto in demografia: "L'istruzione è il miglior contraccettivo".

Ma non è proprio l'istruzione, è l'intelligenza, che è negativamente correlata ai figli.

Tuttavia, questa non è una risposta molto soddisfacente.

Non so davvero perché i tassi di natalità siano più bassi in Cina che in qualsiasi altro posto.

Ma statisticamente parlando, dovevano essere più bassi da qualche parte, e quel posto si è rivelato essere la Cina e i paesi cinesi.

Ogni etnia si è evoluta in un ambiente diverso, sotto diverse pressioni selettive, quindi ogni gruppo è diverso sotto ogni aspetto.

Non c'è un singolo attributo umano che sia lo stesso in bianchi, neri e asiatici, e il numero di figli che desiderano è solo una di quelle innumerevoli differenze tra le persone.

Non c'è motivo per cui avrei potuto immaginare che gli asiatici fossero il gruppo che desiderava meno figli.

D'altra parte, non c'è motivo di pensare che non lo fossero.

Di nuovo, qualcuno deve amare di meno i bambini, e a quanto pare sono gli asiatici, soprattutto i cinesi.

Ma qualunque sia la ragione, dobbiamo accettare la realtà e ammettere che gli asiatici non vogliono figli, e più ottengono ciò che desiderano, meno figli avranno. I cinesi, a quanto pare, sono solo gli asiatici più estremisti.

Andava bene quando non avevano la contraccezione onnipresente e non potevano prevenire le gravidanze.

Ma ora che ce l'hanno, il loro desiderio di non avere figli sarà il loro suicidio demografico.

 

 

Il governo cinese può risolvere questo problema semplicemente ordinando ai suoi cittadini di avere più figli? Direi di no.

Ma consideriamo prima perché la risposta potrebbe essere sì.

Gli asiatici orientali in generale, e i cinesi in particolare, sono noti per i loro altissimi livelli di conformismo sociale.

Non è solo uno stereotipo. È quantificabile.

 In effetti, è un fatto così verificabile che, nell'hedge fund in cui lavoravo, abbiamo utilizzato serie temporali per misurare il noto comportamento gregario dei trader azionari cinesi.

 Con grande perplessità di noi americani, che siamo portati a pensare come individui, i cinesi sembrano davvero pensare come un gruppo, in un modo che deve essere misurato matematicamente per essere creduto.

 Esiste persino un articolo di finanza sull'argomento, che abbiamo verificato replicandolo, intitolato "Individualismo e slancio nel mondo":

 

(onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1540-6261.2009.01532.x).

 

Anche se come accademici non possono usare l'insulto etnico "pensiero di gruppo", descrivono le differenze etniche come "individualismo" contro "collettivismo".

L'indice di individualismo che usano nell'articolo è di “Geert Hofstede”.

 Ha scoperto che i principali paesi più e meno individualisti erano:

 

Paese dell’Individualismo.

Stati Uniti    0,91

Australia     0,9

Regno Unito 0,89

Canada         0,8

Paesi Bassi  0,8

       

Cina   0,2

Singapore    0,2

Thailandia   0,2

Corea 0,18

Taiwan         0,17

Indonesia    0,14

L'Oriente e l'Occidente sono davvero diversi.

 

Per me, l'esempio più inquietante del conformismo sociale cinese fu la famigerata campagna "schiaccia i passeri" durante il "Grande Balzo in Avanti" di Mao.

Nel 1958, dopo diversi anni di agricoltura collettivizzata, il raccolto agricolo fu di nuovo deludente e il paese affrontò nuovamente la carestia.

 Mao Zedong dichiarò che il problema non era il comunismo, ovviamente, ma gli uccelli che mangiavano il grano coltivato dalle fattorie collettive.

 Così, ordinò un programma che divenne noto come "schiaccia i passeri". Gli scolari furono arruolati per cercare uccelli nelle campagne, in particolare passeri, e per distruggerli.

 Ovunque vedessero gli uccelli, dovevano inseguirli finché non fossero riusciti a catturarli e ucciderli.

Gli adulti sparavano ai passeri con le pistole e i bambini usavano le fionde.

 La gente si arrampicava sugli alberi per distruggere i nidi dei passeri, rompere le uova e uccidere i pulcini.

Sbattevano pentole e padelle per spaventare gli uccelli e farli volare e li tenevano in volo finché non riuscivano più a volare.

I bambini li inseguirono finché non caddero dal cielo, esausti, e poi li schiacciarono a morte.

 

Le persone, soprattutto i bambini, lo fecero in tutta la Cina finché i passeri non scomparvero.

I passeri hanno un metabolismo estremamente elevato e non possono volare a lungo senza nutrirsi.

 Senza una pausa per mangiare o riposare, i loro piccoli corpi esauriscono rapidamente le riserve di energia e collassano.

Gruppi di bambini potevano facilmente inseguire stormi di passeri da un albero all'altro finché gli uccelli non erano così stanchi da cadere a terra inermi.

Poi i bambini li calpestavano, uccidendo gli inutili mangiatori.

 

I bambini delle scuole furono invogliati a unirsi alla campagna dai manifesti comunisti tipicamente ridicoli dell'epoca, che dicevano cose come "Gli uccelli sono animali del capitalismo" e "Sradicare parassiti e malattie e costruire la felicità per diecimila generazioni".

Fortunatamente, lo sterminio di questi "animali del capitalismo" non è durato "diecimila generazioni".

Il programma durò solo due anni, fino a quando i disastrosi risultati ecologici divennero evidenti.

Dal 1958 al 1960, si stima che siano stati uccisi tra i cento milioni e il miliardo di passeri.

 

I bambini cinesi investigarono e uccisero così tanti uccelli che nel 1960 il passero fu portato quasi all'estinzione in Cina.

Quell'anno, senza che i passeri mangiassero il loro cibo principale – che si rivelò essere insetti e non grano – il paese fu inondato da piaghe di locuste che mangiavano molto più raccolto di quanto avevano mai fatto gli "animali del capitalismo".

La carestia non fece che peggiorare.

 Questo è l'orrore del governo totalitario e del popolo servile.

 

 

 

Ecco un manifesto di propaganda che recita "Giovani pionieri! Bambini! Fate combattimenti per eliminare i passeri e aumentare la produzione di grano!":

Esiste una foto di un ragazzo orgoglioso del suo lavoro di schiacciatore di passeri:

Se questa storia dell'orrore sembra incredibile (e lo sarebbe se accadesse in un qualsiasi paese sano di mente), potete leggerla su Wikipedia:

(en.wikipedia.org/wiki/Four_Pests_campaign).

 

Gli autori europei creano opere di fantasia come "Il Signore delle Mosche" o "La Fine dell'Infanzia" immaginando bambini assassini.

 Ma i politici cinesi possono creare bambini assassini nella realtà.

Bande di bambini spietati, che vagano e uccidono perché il loro Capo glielo ha ordinato, sono il vero Villaggio dei Dannati.

 

Di sicuro un popolo capace di calpestare i passeri fino all'estinzione sarebbe disposto a riprodursi a richiesta se il governo glielo ordinasse, giusto?

Forse. Ma forse no.

 Le autorità cinesi cercano da anni di convincere più persone a sposarsi e ad avere figli, senza successo.

Ogni anno sia i tassi di matrimonio che quelli di natalità scendono a nuovi minimi.

 A quanto pare, ci sono alcune cose che i cinesi non farebbero nemmeno se gli venisse ordinato.

 

Il mondo moderno offre a ognuno di noi una libertà di scelta senza precedenti, e nemmeno il “Partito Comunista Cinese” può toglierla al popolo cinese.

In un mondo con così tante opzioni, gli individui dovranno inevitabilmente scegliere se avere figli o meno, e molti sceglieranno di non farlo.

Interi paesi sceglieranno di non farlo.

 Interi popoli si estingueranno perché scelgono di non farlo.

 I cinesi sono solo il caso più estremo di un popolo che sceglie di non avere figli, che vivano in un paese nominalmente comunista come la Cina o in un paese esuberantemente capitalista come Singapore.

 Non ha senso negare il futuro che li attende.

Il destino di un popolo che non ha figli è determinato dalla biologia, e la biologia non è sentimentale.

 

È già chiaro che ci sono molte persone in America, in Europa e in gran parte del mondo che vogliono molti figli, hanno molti figli e anche i loro figli avranno molti figli.

Le loro linee familiari riusciranno a sopravvivere.

Ma sembra che ci siano poche persone in Cina che vogliono molti figli. Quindi, non riusciranno a sopravvivere.

Nessun programma governativo può salvare il popolo cinese, a meno che non inventino baccelli per il parto e robot per l'allattamento per avere figli per loro.

 Naturalmente, se inventeranno i baccelli per il parto e i robot per l'allattamento, non solo salveranno la Cina, ma salveranno l'intera razza umana.

 Quindi, spero che ci provino.

Ma chissà se una tecnologia del genere è possibile.

 

Notizie più recenti.

Le autorità cinesi hanno recentemente pubblicato i tassi di matrimonio della Cina per il 2024.

Ogni anno il numero di matrimoni diminuisce e sono crollati di un record del 20% dal 2023 al 2024.

 Non ci sono quasi nascite fuori dal matrimonio in Cina, quindi il crollo dei tassi di matrimonio oggi significa il crollo dei tassi di natalità più tardi. La catastrofe della fertilità in Cina sta accelerando:

 

HONG KONG, 10 febbraio (Reuters) - I matrimoni in Cina sono crollati di un quinto l'anno scorso, il calo più grande mai registrato, nonostante i molteplici sforzi delle autorità per incoraggiare le giovani coppie a sposarsi e avere figli per aumentare il declino della popolazione del Paese.

 

Più di 6,1 milioni di coppie si sono registrate per il matrimonio l'anno scorso, in calo rispetto ai 7,68 milioni dell'anno precedente, secondo i dati del Ministero degli Affari Civili.

 

"Senza precedenti! Anche nel 2020, a causa del Covid-2019, i matrimoni sono diminuiti solo del 12,2%", ha affermato Yi Fuxian, demografo dell'Università del Wisconsin-Madison.

Ha fatto notare che il numero di matrimoni celebrati in Cina lo scorso anno è stato meno della metà rispetto ai 13,47 milioni del 2013.

 

Se questa tendenza dovesse continuare, "le ambizioni politiche ed economiche del governo cinese saranno rovinate dal suo tallone d'Achille demografico", ha aggiunto.

(reuters.com/world/china/chinese-marriages-slid-by-fifth-2024-further-fanning-birthrate-concerns-2025-02-10).

 

 Quindi, dove stai andando, Cina?

Inventerai la tecnologia che libererà le donne dalle difficoltà della gravidanza e dalla fatica della cura dei figli, salvando il tuo Paese e il mondo?

 Con la giusta tecnologia, potresti stampare in 3D un miliardo di bambini.

 E potresti renderli tutti degli Einstein.

Quel futuro sarebbe fantastico.

O la tecnologia fallirà e dovrai subire il destino dettato dalla tua demografia disfunzionale?

Se è così, forse in un lontano futuro, quando i cinesi saranno solo una storia dimenticata dalla storia antica, qualche fertile setta religiosa che vieta il controllo delle nascite fiorirà nella terra che una volta era la Cina.

“Eugene Kusmiak “era un bambino con il pannolino rosso e si era laureato ad Harvard.

Dopo quasi due decenni nella “Silicon Valley” nella programmazione di alcuni dei primi videogiochi popolari, Gene è tornato a casa a “New York City”.

Ha trovato il suo lavoro ideale come gestore di portafoglio, lavorando con i geni della matematica per 20 anni in un hedge fund quantitativo.

Dopo aver sopportato le città di sinistra per tutta la vita, “Gene” si è ritirato nel 2022 in una piccola città in uno stato rosso.

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