Nuovo ordine mondiale multipolare.
Nuovo
ordine mondiale multipolare.
Il
modello” Liberal Globalista”
sta
arrivando alla sua fine corsa.
Controinformazione.info
- Luciano Lago – (28 – 5 -2028) – ci dice:
Distratti
dalle infinite polemiche sulla crescita dei partiti populisti o nazionalisti in
varie parti d’Europa e del mondo, dalle diatribe sul fascismo reale o presunto,
sul fenomeno migratorio e le sue conseguenze, le classi politiche e gli
opinionisti occidentali non si sono ancora accorti che la questione principale
è il crollo di un ordine liberale, elitario e sclerotizzato e il conseguente
sviluppo di nuovi sistemi politici.
Dietro
i tumultuosi avvenimenti di questi ultimi anni, si intravede il crollo del
paradigma ideologico del liberalismo globale – le sue illusioni e la relativa
struttura tecnocratica di governance – un fatto che trascende le divisioni
destra/sinistra in Europa e in Occidente.
La
totale disfunzionalità di questa struttura politica, associata ai conflitti
provocati dall’occidente, ha evidenziato la necessità di un cambiamento
nell’intero sistema di governance politica ed economica.
Per
decenni gli ideologi della globalizzazione hanno venduto una illusione, quella
di un mondo globalizzato come fattore di evoluzione e di progresso, ma questa
oggi si è infranta di fronte ad una realtà fattuale.
Non soltanto lo sfruttamento e il degrado ma
con la guerra commerciale provocata dagli stessi che hanno coltivato questa
illusione, gli Stati Uniti dell’amministrazione Trump, si è reso chiaro che
tutte le catene di approvvigionamento sono oltremodo fragili, basate su energia
a basso costo e manodopera straniera che funge da esercito di riserva del
capitale usuraio.
Tutto
questo paradigma oggi sta miseramente crollando.
In
sostanza le élite liberali hanno semplicemente dimostrato di non essere
all’altezza dei cambiamenti e delle sfide che oggi si presentano.
I
personaggi come la “Ursula Von der Layen”, Ia” Kaja Kallas”, i “Macron” o i “Merz”,
“Starmer” e gli altri, si rivelano come pupazzi teleguidati da entità
finanziarie che operano sotto traccia.
Le
élite liberali si dimostrano del tutto dissociate dal mondo reale e non
comprendono che il paradigma economico occidentale del consumismo iper finanziarizzato
e indebitato ha fatto il suo corso e il crollo di questo sistema sotto la
tempesta in arrivo sarà inevitabile.
Le contraddizioni stanno esplodendo
all’interno del sistema e portano alla sua implosione.
Resta
l’illusione per gli irriducibili sostenitori del vecchio sistema che il modello
economico anglosassone sia insostituibile.
La Cina con il suo impetuoso sviluppo e
l’attrazione esercitata verso i paesi del sud del mondo dimostra la falsità di
questa convinzione.
Libero
Mercato e capitale.
La
falsa retorica di democrazia e libero mercato non basta più a coprire la crisi
e la miseria del sistema occidentale ed è sufficiente farsi un giro tra i
disperati ed emarginati homeless di San Francisco o di Parigi, delle periferie
di Roma o di Atene per capire la portata della crisi che, prima che politica, è
sociale ed umana.
Per
frenare il cambiamento le élite liberali tentano la carta della imposizione
della forza e la guerra come estremo rimedio per frenare gli sviluppi
indesiderati e la crescita di nuovi centri di potere in un mondo che diventa
sempre più multipolare.
Qualcuno
lo aveva previsto già più di un secolo fa:
il
libero mercato, per sopravvivere, richiede una continua crescita.
Quando
la crescita si arresta, il sistema entra in crisi.
E le
soluzioni tradizionali – innovazione tecnologica, sfruttamento della forza
lavoro, espansione dei mercati – non bastano più.
In questa prospettiva, la guerra diventa l’estrema
ratio, quella che offre al sistema economico un meccanismo di distruzione,
ricostruzione e controllo sociale.
Le
previsioni non possono quindi essere ottimistiche come molti vorrebbero ma,
nonostante tutto, la speranza nella pace non può mai tramontare.
Brics,
rivoluzione monetaria
e nuovo ordine mondiale.
Ilmanifesto.it
– (22 ottobre 2024) - Tonino Perna – Redazione – ci dice:
A
Kazan Si riunisce oggi, sotto la presidenza russa, l’organismo del Sud del
mondo. Mentre G20 e G7 perdono peso, il progetto di liberarsi dalla “signoria”
del dollaro avanza.
Oggi a
Kazan, sotto la presidenza russa, si riuniranno i massimi rappresentanti dei
Brics che con i nuovi ingressi (Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Iran, Egitto,
Arabia Saudita) rappresentano il 42% della popolazione mondiale, il 36,6% del
Pil globale e il 60 per cento della produzione di idrocarburi. E siamo solo
agli inizi perché altri Paesi (come la Turchia, l’Armenia, ecc.) bussano alle
porte di questa nuova alleanza che sta ridisegnando l’economia e la
geopolitica.
Mentre
il G20 ha perso di rilevanza, di fatto si è rimpicciolito trasformandosi in G7
(ma qualcuno se n’è accorto?), rinunciando agli ambiziosi disegni di egemonia
che si era dato, rinchiudendosi nei confini degli Stati Uniti e dei suoi
satelliti, i Brics avanzano sulla scena mondiale con un chiaro progetto per il
futuro: liberarsi dalla “signoria” del dollaro.
“The
Unit” è il nome della nuova valuta che i Brics intendono introdurre, una unità
di conto che regoli gli scambi tra questi Paesi ed è il frutto della media
ponderata delle diverse divise nazionali. È molto simile alla proposta che John
Maynard Keynes nel 1944 fece nell’incontro storico di Bretton Woods: il
“bancor” una moneta-unità di conto internazionale, il cui valore doveva essere
il risultato di una media ponderata tra le monete più forti, nell’ambito di una
visione di un mondo multipolare.
È
quello che oggi intendono fare i Brics spinti dalla Russia che in questi anni
di dure sanzioni ha cercato altri mercati e altre alleanze, a partire da quella
con il colosso cinese.
Ma, una nuova moneta di scambio che abbia un
riconoscimento a livello internazionale non si improvvisa.
Negli
ultimi dieci anni, tra i Paesi Brics si sono moltiplicati gli scambi bilaterali
– soprattutto tra Russia, India e Cina- con un picco nell’ultimo anno che ha
interessato in maniera particolare l’interscambio Russia- Iran che è avvenuto
al 60 per cento in rubli e rial.
Allo
stesso tempo è cresciuta la corsa all’oro come riserva delle banche centrali.
Per
questo oggi, secondo alcuni analisti che seguono da vicino l’evolversi delle
trattative per la creazione del “The Unit”, questa nuova moneta avrà il
sostegno per il 40 per cento dall’oro e per il resto da un paniere di valute
nazionali dei vari Paesi membri, creando così un percorso virtuoso che esclude
l’egemonia di uno Stato su un altro.
E la
corsa all’oro per sganciarsi dalla “Signoria” del dollaro sta interessando
anche alcuni Paesi africani, come lo Zimbabwe, Nigeria e Uganda, le cui banche
centrali stanno aumentando le riserve auree con l’obiettivo dichiarato di
ridurre la dipendenza dal dollaro.
Se si
concretizzerà la nascita di “The Unit” il 22 ottobre di quest’anno verrà
ricordato come una svolta di portata storica paragonabile al 15 agosto del 1971
quando il presidente Nixon decise unilateralmente lo sganciamento del dollaro
dall’oro, infrangendo gli accordi di Bretton Woods.
Per
oltre cinquant’anni gli Stati uniti hanno potuto godere di questo privilegio
che gli ha permesso di avere un tenore di vita nettamente superiore alle loro
possibilità, grazie ad un continuo indebitamento con il resto del mondo che ha
superato quest’anno i 21.000 miliardi dollari.
Anche
se ci vorrà più tempo per rendere vigente l’uso di questa nuova moneta/unità di
conto, la strada è tracciata e la crisi del dollaro sarà irreversibile con
conseguenze imprevedibili.
Come
sostiene la giornalista economica “Saleha Mohsin” (Paper Soldiers. How the
Weaponization of the Dollar changed the World Order, Penguin, 2024) il dollaro
è diventato progressivamente la vera arma di Washington per dominare il mondo.
Ma, i tempi sono cambiati e quest’arma ogni
giorno che passa diventa sempre più arrugginita, malgrado il governo
nordamericano continui a stampare dollari facendo arrivare il debito esterno,
oltre che quello interno pari a tre volte e mezzo il Pil, ad un livello
insostenibile.
E l’Ue
farebbe bene a prendere le distanze, a sganciarsi progressivamente dalle
strategie belliche e finanziarie di Washington, se non vuole finire nel baratro
trascinata dal crollo dell’impero nordamericano.
Mondo:
È in via di formazione un
nuovo
ordine multipolare
foriero
di ampi impatti.
Credendo.com
– Raphael Cecchi – (26- 03 – 2024) – ci dice:
Il
nuovo ordine mondiale multipolare aumenterà la probabilità di conflitti e sarà
più caotico, minando la sicurezza e la stabilità globale.
L’eterogeneo
Global South preme per ottenere maggiore influenza, con conseguenti impatti su
economia globale, istituzioni internazionali e norme.
La
rivalità tra Cina e America spinge a riconfigurare le catene di
approvvigionamento globali, con conseguente aumento delle distorsioni negli
scambi commerciali in tutto il mondo.
A loro
volta anche i rischi climatici, che risultano più complessi da gestire in un
mondo frammentato, avranno un notevole impatto.
Gli
ultimi due anni sono stati segnati da due gravi conflitti:
la guerra in Ucraina dal febbraio del 2022 e
la guerra a Gaza dall’ottobre del 2023.
Oltre
ad alimentare l’instabilità nelle due regioni, aumentare l’incertezza e
danneggiare l’economia globale, questi rischi geopolitici evidenziano e accelerano
anche la transizione verso un nuovo ordine multipolare. Insieme al cambiamento
climatico avranno delle profonde conseguenze a lungo termine sulle fondamenta
economiche, finanziarie, politiche e istituzionali del mondo.
L'aumento
dei conflitti mina la sicurezza e la stabilità mondiale.
L’anno
2023 ha dato ulteriore prova della nuova era di incertezza e di crescenti
rischi di conflitto.
In
ottobre 2023, mentre il primo grave conflitto di questo secolo, la guerra in
Ucraina, era ancora in corso, è scoppiata la guerra a Gaza, che ha fatto
riemergere un conflitto latente con ampie ramificazioni politiche ed
economiche.
La
determinazione di Israele nel voler eradicare Hamas, la grave crisi umanitaria
a Gaza e il rischio di escalation regionale con il coinvolgimento di importanti
potenze (in particolare USA e Iran), rendono gli sforzi di contenimento e di
pace molto complessi.
Analogamente
alla guerra in Ucraina, anche la guerra a Gaza ha portato allo spiegamento dei
giochi geopolitici, con gli attacchi Houthi contro le navi cargo occidentali
nel Mar Rosso e una flotta di alleati in maggioranza occidentali per
difenderle.
Oltre
ai conflitti effettivi, il mondo si trova ad affrontare gravi conflitti
latenti, che vedono come epicentro l’Asia.
La regione è al centro dell’attenzione per il
suo importante ruolo nel commercio e nell’economia mondiali, e per la presenza
della Cina, che compete con gli USA per la leadership mondiale.
In
questo secolo la regione ha già registrato una maggiore e più rapida corsa agli
armamenti, in particolare (ma non solo) per sviluppare le capacità difensive
per far fronte alla crescente assertività regionale della Cina.
Taiwan,
che rappresenta l’oggetto del contendere più rischioso tra USA e Cina, è il
principale rischio bellico della regione.
Dall’estate
del 2022, la Cina ha intensificato le pressioni militari nello stretto di
Taiwan.
La
possibilità di un esito pacifico appare meno probabile con il reinsediamento al
governo di Taiwan del partito indipendente dopo le elezioni tenutesi a gennaio.
Ne
consegue che nei prossimi anni la probabilità di una invasione, di un embargo o
di operazioni ibride da parte della Cina continuerà ad aumentare.
Anche
nel Mar Cinese Meridionale, dove restano irrisolte molte dispute di sovranità
territoriale, le tensioni sono aumentate, portando a frequenti scontri
marittimi tra imbarcazioni filippine e le navi della Guardia Costiera cinese.
Le tensioni e il rischio di errori di
valutazione sembrano destinati a perdurare, data l’incapacità di raggiungere un
compromesso tra la Cina e gli altri contendenti. Per quanto riguarda la
penisola coreana, la capacità di armamenti nucleari avanzati di Pyongyang e
l’intensificarsi del lancio di missili ha fatto crescere il rischio di
conflitto con la Corea del Sud e gli USA.
Un
nuovo ordine mondiale per sua natura multipolare e instabile.
Il
fattore comune delle guerre a Gaza e in Ucraina è la rapida trasformazione
dell’ordine mondiale.
Questo
permette ai conflitti congelati di prendere corpo in un contesto basato
sull’equilibrio del potere, in cui i conflitti vengono risolti sempre più con
l’uso della forza anziché attraverso le norme internazionali e le soluzioni
diplomatiche.
La conclusione militare lampo dell’annoso
conflitto del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaijan nel settembre del 2023,
e la minaccia di intervento militare da parte del Venezuela per impadronirsi
della regione di Essequibo in Guyana, ricca di petrolio, non sarebbero potute
accadere fino a poco tempo fa, quando gli USA agivano da poliziotti del mondo.
È un
dato di fatto che l’ordine mondiale multipolare vede l’informale ed eterogeneo “Global
South” in ripetuta contrapposizione con l’Occidente su moltissime questioni,
con rivendicazioni di maggiore influenza, il che avrà ampie ripercussioni in
materia di sicurezza, stabilità, economia, istituzioni e norme globali.
La
trasformazione del nuovo ordine mondiale si è tradotta in una espansione dei
BRICS (che da gennaio sono passati da cinque a undici membri, e molti se ne
aggiungeranno in futuro) e in una crescente de-dollarizzazione del commercio
Sud-Sud e dei finanziamenti (principalmente a beneficio del renminbi cinese).
Inoltre, la logica di un blocco guidato da USA
e Cina, con un folto gruppo di paesi non allineati nel mezzo, favorisce una
maggiore cooperazione militare tra Russia, Corea del Nord e Iran.
A
questo si aggiunga che, a seguito delle sanzioni economiche, la Russia è
diventata il principale fornitore di petrolio dell’India, mentre le
esportazioni di chip cinesi alla Russia sono cresciute esponenzialmente e la
Cina ha ora preso il posto dell’UE quale maggior partner commerciale della
Russia.
È in
atto una frammentazione geoeconomica.
Il
nuovo ordine mondiale si traduce anche in una riconfigurazione delle catene di
approvvigionamento globali.
La
guerra commerciale ed economica tra Cina e USA, seguita dalla crisi della
pandemia da Covid-19, hanno innescato un processo di frammentazione
geoeconomica.
Le
strategie di friend/nearshoring (filiere produttive spostate in paesi amici o
più vicini) e di de-risking adottate di recente e destinate a proseguire in
futuro configureranno nuove catene di approvvigionamento e nuovi flussi
commerciali e di investimento, soprattutto per beni e servizi strategici.
In un
contesto di elevate tensioni sinoamericane, sono state introdotte restrizioni
commerciali sui chip (dall’Occidente con gli USA capofila) e sui minerali
critici (da pate della Cina), che con grande probabilità ostacoleranno gli
sviluppi futuri della transizione verde ed energetica in entrambi i “blocchi”
USA e cinese.
Inoltre,
l’indagine UE sui sussidi cinesi per la produzione di veicoli elettrici
potrebbe far scattare futuri dazi UE e probabili ritorsioni cinesi.
La crescente tendenza verso distorsioni
commerciali a livello mondiale sembra destinata a proseguire nel nuovo contesto
geopolitico.
In generale in futuro risulterà più complesso
e rischioso navigare tra gli ostacoli commerciali e politici con conseguenze
sulle decisioni commerciali, societarie e di investimento.
Cambiamento
climatico: un ulteriore elemento di destabilizzazione dell’ordine mondiale.
Insieme
ai rischi geopolitici, il cambiamento climatico rappresenta l’altro notevole
rischio globale che impatterà l’ordine mondiale.
Il
2023 è stato l’anno più caldo mai registrato, e in combinazione con El Niño, ha
riportato un numero crescente di eventi naturali estremi, da siccità gravi
nelle Amazzoni, in Africa Orientale e Asia Centrale, a ondate di calore in
India, vasti incendi in Europa e Canada, e perdite record da disastri climatici
negli USA.
Ancora
una volta la COP28 ha confermato una triste verità, ossia che il mondo non
riesce a trovare un accordo in merito agli sforzi necessari per mitigare e per
adattarsi a questa eccezionale sfida del cambiamento climatico, andando così
inevitabilmente ad alimentare ulteriori aggravi economici, finanziari e
politici futuri.
Sono diversi i fattori che motivano la
lentezza dei progressi, quali resistenza al cambiamento e corto-termismo, e
ovviamente la portata senza precedenti della trasformazione economica e dei
fabbisogni finanziari richiesti nel breve periodo.
Tuttavia,
anche la mancanza di cooperazione globale rappresenta un fattore primario, in
quanto le elevate tensioni geopolitiche rendono più difficile raggiungere un
accordo su misure collettive coraggiose.
Nel
nuovo ordine mondiale multipolare che sta emergendo, le grandi e medie potenze
competeranno tra loro per ottenere una fetta maggiore della torta geopolitica
ed economica, o almeno nel caso dell’Occidente per conservare quella attuale.
Non vogliono correre il rischio di vedere il
proprio sviluppo eroso a vantaggio di altre potenze a causa di una dismissione
accelerata dei combustibili fossili, o per aver fornito ai paesi in via di
sviluppo un immenso finanziamento climatico a fronte del maggiore contributo
dato storicamente al cambiamento climatico.
In
futuro, i rischi climatici avranno profonde conseguenze sull’ordine mondiale in
termini di accesso alle risorse naturali (acqua, cibo, minerali critici), di
conflitti e di danno socioeconomico ai singoli paesi e ai loro ecosistemi.
Ne
consegue che le proiezioni economiche e geopolitiche di lungo termine di oggi
potrebbero risultare molto incerte, a seconda di come si evolveranno in realtà
i rischi climatici nel lungo termine.
Inoltre, il cambiamento climatico ha visibili
ripercussioni sui flussi commerciali globali attraverso le restrizioni
commerciali.
Di
fronte all’impatto negativo del cambiamento climatico sulla produzione agricola
interna, un numero crescente di paesi ha deciso di limitare le esportazioni di
alcuni beni alimentari di base, apparentemente per proteggere la sicurezza
alimentare interna (vedi l’India per le esportazioni di riso e zucchero).
In
generale, i paesi (medi e grandi) si avvalgono sempre più della sicurezza
nazionale, energetica e alimentare quali obiettivi politici per giustificare
misure protezionistiche, che hanno un impatto negativo sulle catene di
approvvigionamento globali, sull’accesso alle materie prime essenziali, e fanno
rialzare i prezzi globali, in particolare di beni alimentari di prima
necessità.
Queste
dinamiche in futuro saranno sempre più frequenti.
Sarà
quindi essenziale costruire una rete diversificata e affidabile di partner
commerciali per assicurare la resilienza di ogni singolo paese, specialmente in
vista della frammentazione dell’ordine mondiale.
(Analista:
Raphaël Cecchi).
Nuovo
ordine globale:
quale
multipolarismo?
Ispionline.it
– Alessandro Colombo – (17 Ott. 2024) – ci dice:
BRICS
versus G7: è in atto una profonda trasformazione del contesto politico ed
economico internazionale. Con un nuovo gioco a incastri degli allineamenti
sulla scena mondiale. Il vecchio multilateralismo è in crisi. Cosa lo
sostituirà?
Geoeconomia.
Il
prossimo summit dei BRICS che si terrà a Kazan’ a fine ottobre riporterà
nuovamente l’attenzione sull’attivismo dei grandi Paesi in ascesa estranei al
tradizionale nucleo egemonico occidentale.
E lo farà, per di più, nel contesto di una
crisi ormai distruttiva dell’ordine internazionale, che coinvolge gli uni
accanto agli altri gli equilibri politico-strategici, i rapporti economici e
commerciali e, con una portata persino maggiore, il tessuto di princìpi, norme
e regole della convivenza internazionale.
Questo
attivismo e, in particolare, proprio il suo risvolto istituzionale basterebbero
già a indicare una profonda trasformazione del contesto politico ed economico
internazionale.
Sul terreno della distribuzione del potere e
del prestigio, prima di tutto.
A differenza di ciò che sarebbe avvenuto
ancora fino a quindici o vent’anni fa, la chiamata alla mobilitazione degli
Stati Uniti e dei Paesi europei contro l’aggressione russa all’Ucraina si è
scontrata con l’indifferenza e, qualche volta, la diffidenza di molti dei
destinatari.
Anzi, la coesione mostrata in questa occasione
dalle tradizionali istituzioni di impronta occidentale, dal G7 alla NATO, ha
avuto l’effetto paradossale di acuire questa distanza – come è prevedibile che
accadrà anche per effetto dell’onda d’urto della guerra in Medio Oriente.
Nuovo
gioco a incastri.
La
manifestazione più scontata e superficiale di questo scollamento è il nuovo
gioco a incastri degli allineamenti internazionali.
Il
quale passa, al livello più superficiale, dall’incerta bipolarizzazione spinta
da un lato dal rilancio della solidarietà occidentale e, dall’altro lato,
dall’approfondimento della cooperazione strategica tra Russia e Cina.
Prosegue
con l’intreccio di sostegni incrociati, incursioni opportunistiche e alleanze
ad hoc che agisce da vasi comunicanti tra un contesto competitivo e l’altro:
il supporto iraniano e nord-coreano allo
sforzo bellico russo in Ucraina, quello americano ed europeo alla guerra
israeliana a Gaza e in Libano, l’inserimento russo nel Sahel a sostituzione
della tradizionale presenza francese.
Ma
senza potere impedire a una parte significativa della comunità internazionale
di evitare di schierarsi nella contrapposizione emergente, preferendo mantenere
rapporti con tutte le parti in causa.
Questo
vale, in particolare, proprio per i Paesi in ascesa o più ricchi di risorse e,
quindi, meno dipendenti da qualcuno dei due schieramenti:
l’India, il Brasile, la Repubblica
sudafricana, l’Arabia saudita.
I
quali, più che riproporre la pratica del non-allineamento comune all’epoca del
bipolarismo novecentesco, sembrano manifestare un rifiuto ancora più
comprensivo delle logiche e delle retoriche bipolari, in nome del richiamo
almeno cerimoniale al multipolarismo o, più realisticamente, in virtù della
sensibilità sempre più accentuata per le rispettive dinamiche regionali.
Ma
l’aspetto più significativo di questo imponente riallineamento è proprio il suo
risvolto istituzionale.
Il
quale non ha già più niente dell’elegante e, alla prova dei fatti, irrealistico
edificio della” multilevel governance” immaginato e celebrato nel momento di
passaggio dal Ventesimo al Ventunesimo secolo.
E non soltanto perché, negli ultimi quindici
anni, la maggior parte delle istituzioni ereditate dal” Grand Design della
seconda metà del Novecento” ha sofferto di una crisi crescente di efficienza e
di legittimità.
Ma
perché, al posto di quel disegno, quello che sembra destinato a emergere è un
disegno molto più intricato e competitivo, la cui coerenza interna è ancora
tutta da immaginare.
Tre
possibili vie di uscita dalla crisi.
La
crisi del “vecchio” multilateralismo avrebbe potuto e, in linea di
principio, potrebbe ancora preludere ad almeno tre possibili vie d’uscita:
quella
massimalista del rilancio e dell’adattamento del tessuto multilaterale esistente,
corretto in modo tale da tenere conto della mutata gerarchia del potere e del
prestigio internazionale;
quella
del “mini-lateralismo” diretta a creare consessi multilaterali meno estesi ma
più coerenti, cioè a “portare attorno al tavolo il minor numero di Paesi necessario
ad avere il maggiore impatto possibile nella soluzione di un particolare
problema”;
e una soluzione più radicale rassegnata a ritagliare
il nuovo multilateralismo sulla scomposizione geopolitica del sistema
internazionale, spostando il baricentro della cooperazione su istituzioni e regimi
internazionali di dimensioni regionali, edificate attorno a una o più potenze
egemoni (la Cina in Asia orientale, il Sud Africa nell’Africa sub-sahariana, la
Russia in una parte dello spazio ex sovietico ecc.) – ma a costo di dovere
ripensare i rapporti delle diverse istituzioni regionali fra loro.
La
disgregazione crescente dell’ordine internazionale sembra avere favorito
proprio le ultime due opzioni, alternative tra loro ma altrettanto estranee al
multilateralismo inclusivo e tendenzialmente universale del recente passato.
Da un lato, è stato rilanciato come detto il
tradizionale multilateralismo di impronta occidentale, tanto sul terreno
economico (come
nel progetto occidentale “Build Back Better World” varato nel giugno 2021 dal
G7 in risposta alla” Belt and Road Initiative” cinese) quanto, in maniera
persino più pronunciata, sul terreno politico-strategico:
dalla
costituzione dell’”AUKUS “tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia al rilancio
e al nuovo allargamento della NATO.
Ma,
dall’altro lato – e ritorniamo ai BRICS da cui siamo partiti – allo sviluppo di
forme sempre più esclusive di multilateralismo da parte occidentale ha fatto da
contraltare la proliferazione di nuove istituzioni tra i Paesi non occidentali,
diverse tra loro per composizione e ispirazione, attraversate come gli stessi
BRICS da competizioni e divisioni interne, ma accumunate da quella che ha
potuto apparire come uno smarcamento, se non proprio una contestazione
dell’ordine internazionale unipolare dell’ultimo trentennio.
La
retorica del multipolarismo che fu.
Da qui
allora la prospettiva o, almeno, la retorica di un prossimo multipolarismo.
Nella quale confluiscono i segnali inequivocabili di smottamento
dell’architettura esistente dell’ordine internazionale;
la
spettacolare redistribuzione del potere avvenuta dal momento, trent’anni fa, in
cui quell’architettura fu edificata;
oltre
che il “codice geopolitico” di quei Paesi, Russia e Cina in testa, che
nell’invocazione del multipolarismo hanno sempre visto una alternativa
polemico-politica a quello che denunciano come l’ordine egemonico americano o,
più in generale, occidentale.
Ma
questa retorica, forse proprio per effetto della confluenza di materiali così
eterogenei, resta a dire poco equivoca, soprattutto se associata troppo
strettamente a ciò che per multipolarismo si è sempre inteso nel passato.
Tanto
nella storia che nella teoria delle relazioni internazionali, la nozione di
“multipolarismo” ha sempre indicato soltanto una determinata distribuzione del
potere:
una
condizione di equilibrio tra un numero piccolo, ma non piccolissimo di grandi
potenze, cioè in linea di principio almeno più di due (sebbene, nell’esperienza
storico-concreta degli ultimi secoli, non siano mai state meno di cinque).
Un
gruppo di grandi potenze tanto interdipendenti sul terreno diplomatico e
strategico da poter essere considerate parte di un unico sistema
internazionale.
E, quasi sempre, tanto consapevoli di
appartenere a qualche insieme storico o culturale comune da maturare un insieme
di princìpi, regole e istituzioni comuni per assicurare almeno gli obiettivi
minimi o fondamentali di qualunque convivenza sociale:
la garanzia del possesso, il rispetto delle
promesse e, soprattutto, la limitazione della violenza.
Nuova
distribuzione del potere: ordine da ridiscutere.
Il
multipolarismo che si profila all’orizzonte non ha niente a che fare con tutto
ciò. Prima di tutto, paradossalmente, proprio sul terreno della distribuzione
del potere. Nonostante tutti gli indubbi mutamenti dell’ultimo trentennio,
manca all’ipotesi di un futuro multipolare proprio la cosa più elementare, cioè
i “poli”:
perché resta al momento abissale la distanza
tra i primi due, Stati Uniti e Cina, e tutti gli altri;
e
perché, anche nella coppia di testa, i primi restano ancora di gran lunga
superiori alla seconda, tanto sul terreno economico quanto, in misura molto più
pronunciata, sul terreno militare.
Basti
pensare che le spese militari degli Stati Uniti raggiungono quasi i 770
miliardi di dollari, contro i 240 della Cina;
che
quest’ultima resta al di sotto del 20% delle capacità americane in tutti i
comparti decisivi per il controllo dei cosiddetti “spazi comuni” (a cominciare
dagli oceani); che la qualità dei mezzi americani resta ancora
incomparabilmente superiore a quella dei mezzi cinesi.
Ma,
soprattutto, quello che oggi si intende per multipolarismo è proprio la
ridiscussione della struttura unitaria del sistema e della società
internazionale che era data per acquisita nelle configurazioni multipolari del
passato.
Contro la vocazione universalistica
dell’ordine internazionale di impronta occidentale, il multipolarismo invocato
da Russia, Cina e da molti Paesi emergenti sembra fondarsi al contrario sulla
auspicabile capacità dei diversi complessi regionali di darsi un ordine
politico, economico, culturale e persino giuridico autonomo, tenendo a distanza
le potenze estranee e ostili.
La sua conformazione, esplicitamente
ritagliata sul precedente di successo della “Dottrina Monroe americana”, è la
stessa dei “grandi spazi organizzati” già invocata, tra gli altri, da “Carl
Schmitt” alla metà del secolo scorso – non casualmente, in un contesto storico
nel quale un’altra struttura gerarchica (quella tra Europa e Mondo) stava
venendo meno.
Sulle rovine di quell’ordinamento, e già nel
pieno del processo di espansione universale del sistema, della società e del
diritto internazionale, “Schmitt” vide profilarsi “la grande antitesi della
politica mondiale, cioè il contrasto tra un dominio mondiale centrale e un
equilibrio tra più ordinamenti spaziali, tra universalismo e pluralismo,
monopolio e polipolio”;
ovvero il problema “se il pianeta fosse maturo
per il monopolio globale di un’unica potenza o fosse invece un pluralismo di
grandi spazi in sé ordinati e coesistenti, di sfere d’intervento e di aree di
civiltà, a determinare il nuovo diritto internazionale della terra”.
“La
lotta per la struttura del futuro diritto internazionale” concludeva lo
studioso tedesco, ruota attorno al “problema se il futuro consentirà o no la
coesistenza di varie figure autonome, o soltanto semplici filiali regionali o
locali decentralizzate di un unico ‘signore del mondo’”.
Grandi
spazi in competizione.
Quasi
cento anni più tardi, questa antitesi sembra tornare a costituire lo snodo
fondamentale della politica internazionale del nuovo secolo, a maggior ragione
se visto in connessione con l’altra grande antitesi tra universalismo e
riflusso delle civiltà.
Contro
l’egemonia globale degli Stati Uniti, la crescita già in atto di diverse grandi
potenze regionali (l’India in Asia meridionale, il Brasile in America Latina,
il Sud Africa nell’Africa sub-sahariana, la Cina in Asia orientale, l’Unione
europea stessa in Europa) può costituire il puntello di un ordinamento spaziale
alternativo, edificato sulla capacità di organizzazione delle singole regioni e
sulla (progressiva) esclusione di qualunque interferenza esterna nelle proprie
dinamiche di pace e di guerra.
In
questo scenario, tanto le interdipendenze del sistema quanto, più intensamente,
le istituzioni della società internazionale e i linguaggi della società
transnazionale tenderebbero a divergere ancora più nettamente tra una regione e
l’altra, fino a produrre una condizione simile a quella del mondo pre-globale
di prima dell’espansione europea.
Ciò
che resterebbe della globalità diplomatica e strategica della politica
internazionale potrebbe essere, allora, la relazione competitiva dei grandi
spazi tra loro, attraverso il ruolo egemonico o imperiale delle potenze al
vertice.
Il 16°
Vertice dei BRICS: Verso
un “Nuovo
Ordine Multipolare”.
Geopolitica.info
- Lisa Duso – (30/11/2024) ci dice:
I
BRICS sono un’istituzione intergovernativa che raggruppa le principali economie
emergenti, unite per la creazione di un nuovo ordine mondiale.
L’istituzione vuole essere un contrappeso al
G7 dei paesi occidentali, puntando alla creazione di un ordine multipolare che
confronti l’egemonia americana.
Il 16°
forum è di particolare importanza per diversi motivi:
l’annuncio di importanti nuovi membri,
l’impegno rinnovato per un nuovo modello di sviluppo mondiale e l’apparente
riavvicinamento tra Cina e India dopo anni di relazioni tese.
L’incontro
è infine un’occasione per continuare a riflettere sul ruolo sempre maggiore che
l’istituzione mira ad ottenere a livello globale.
“Si sta formando un ordine multipolare: il
processo è oggettivo e irreversibile”, sono le parole del Presidente Russo “Vladimir
Putin” a Kazan, nella regione del Tatarstan, dove tra il 22 e il 24 ottobre si
è tenuto il 16esimo vertice dei BRICS.
Le
origini e i nuovi membri.
Correva
l’anno 2001 quando” Jim O’Neill” ha coniato il primo anagramma BRIC (Brasile,
Russia, India, Cina) per indicare un nuovo aggregato di potenze emergenti che,
secondo le sue stime, avrebbero ottenuto l’egemonia economica durante il secolo
entrante.
Una prima triangolazione si venne a creare tra
India, Cina e Russia:
fu il Cremlino, nel 2002, il principale
sponsor di una cooperazione tra i tre stati asiatici.
A
segnare simbolicamente l’inizio del forum fu il primo incontro informale
avvenuto a New York nel 2006 a margine dell’”Assemblea Generale dell’ONU”, al
quale partecipò anche il Brasile.
Il gruppo ufficializzò la sua nascita nel 2009
con un summit a “Yekaterinburg” (Russia) e si incontrò nuovamente a margine
dell’Assemblea delle Nazioni Unite nel 2010, abbracciando in tale data
l’entrata del Sudafrica, ultima lettera del nuovo acronimo.
Si
sono poi successi numerosi incontri che hanno portato ad un’evoluzione e
rafforzamento del vertice, preludio del 16° summit tenutosi ad ottobre 2024.
In
tale sede il gruppo BRICS ha annunciato l’adesione di quattro nuovi membri,
ufficializzando l’ingresso di Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia ed Iran,
formalmente entrati il 1° gennaio 2024.
Come
mostrano i dati raccolti da “Statista”, i nuovi BRICS rappresentano ora quasi
il 45% della popolazione mondiale e circa il 35% del PIL mondiale aggiustato
per l’inflazione.
Come è
però altrettanto visibile dal grafico, la sola presenza della Repubblica
Popolare Cinese rappresenta una quota di PIL maggiore rispetto a tutti gli
altri paesi presenti, evidenziando il peso della leadership economica di
Pechino.
L’inclusione
di questi nuovi membri non comporta solamente un aumento delle percentuali di
Pil e popolazione, ma si dimostra essere un passo strategico fondamentale verso
la costruzione di un nuovo modello di sviluppo globale e la creazione di un
nuovo sistema economico.
Un
nuovo ordine economico mondiale?
L’unione
informale di stati ha messo in atto un coordinamento a livello economico e
finanziario, cercando di inserirsi come reale alternativa alla valuta e alle
istituzioni di commercio e finanziarie dominanti, prima fra tutte la “Banca
Mondiale” (WB).
La “Banca
Mondiale,” fondata nel 1944 con gli “Accordi di Bretton Woods”, è
un’istituzione finanziaria internazionale che fornisce prestiti ai paesi a
medio e basso reddito per promuovere globalmente uno sviluppo sostenibile.
Composta da due istituti,” Banca
internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo “(BIRS) e l’”Associazione
internazionale per lo sviluppo” (IDA), i suoi prestiti sono spesso legati alla
richiesta di riforme economiche e politiche.
Il
legame politico e la leadership statunitense hanno però suscitato a più riprese
delle critiche verso l’istituzione.
Già
dal quarto incontro dei BRICS nel 2012 a Nuova Delhi era stato proposto un
istituto che si proponesse come alternativa alla “Banca Mondiale”, obiettivo
raggiunto nel “Sesto Summit tenutosi in Brasile nel 2014”.
In tale occasione era stato firmato l’accordo
per la creazione della “Nuova Banca di Sviluppo” (NDB), con sede principale a “Shanghai.
La “NDB”
è una banca multilaterale di sviluppo che ha l’obiettivo di raccogliere risorse
per finanziare progetti infrastrutturali e di accelerare la crescita economica
attraverso sviluppo sostenibile a livello ambientale e sociale, con particolare
attenzione verso il” Sud Globale”.
A
differenza della “Banca Mondiale”, da molti stati percepita come strumento a
favore dei paesi più ricchi dalle condizioni di prestito rigide, il nuovo
istituto fondato dai BRICS si propone di offrire finanziamenti con vincoli
minori e nel rispetto dei paesi terzi.
Un
ulteriore obiettivo dichiarato dall’istituzione è la de-dollarizzazione del
sistema economico globale.
Attraverso
la de-dollarizzazione, processo che ha preso slancio negli ultimi anni, i BRICS
auspicano una riduzione della dipendenza dal dollaro nelle transazioni
internazionali, incentivando invece una diversificazione delle riserve
valutarie al fine di ottenere una maggiore indipendenza finanziaria oltre che
politica.
Nonostante
i fondi allocati dalla nascente istituzione non competano con quelli
dell’istituzione nata dai trattati di “Bretton Woods”, è comunque parte e
dimostrazione di quella che è la trasformazione in atto degli attuali e futuri flussi
dell’economia globale.
I dati raccolti dal “World Economic Outlook”
del PIL del BRICS paragonati a quelli del G7, mostrano infatti chiaramente il
superamento in termini economici dei BRICS.
I
rapporti Indo-Cinesi.
Per
comprendere le dinamiche interne ai BRICS e le possibili evoluzioni future, è
necessario guardare ai rapporti tra le due principali economie dell’alleanza:
la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica
indiana.
I due attori, potenze protagoniste della
regione asiatica, hanno trovato un comune accordo che ha permesso un
avvicinamento dopo anni di gelo.
La
frontiera che divide i due giganti asiatici porta con sé una storia complessa:
dopo l’indipendenza indiana del 1947 sono state molte le zone contese e teatro
di scontri.
Un accordo fu raggiunto nel 1962,
successivamente alla guerra sino-indiana, quando venne pattuita la “Linea
attuale di controllo” (Lac).
Il nuovo limes si trova ad altissima quota,
condizione che lo ha reso di difficile definizione: l’incertezza del confine
non aveva fermato le schermaglie, ma aveva permesso una convivenza pacifica
priva di vittime.
Una
pace in bilico, però, divideva le due parti.
La
tregua si è spezzata quando, nel giugno 2020, almeno 20 soldati indiani hanno
perso la vita per mano di militari cinesi tra le catene del Karakorum e
dell’Himalaya:
un
evento che ha fatto salire la tensione tra le due potenze asiatiche, con accuse
reciproche di violazione della linea di confine.
L’evento ha comportato un congelamento delle
relazioni bilaterali tra i due giganti asiatici.
Quattro
anni dopo, ad ottobre, le parti del contenzioso hanno ufficializzato la
stipulazione dell’”Accordo di Pattugliamento al Confine India-Cina”, che riapre
il dialogo e la collaborazione.
Un grande mutamento per gli equilibri di
potenza asiatici, nonostante alcuni esperti ritengano questo accordo potrebbe
non essere duraturo.
A
coronare pubblicamente la riconciliazione è stato l’incontro tra il Presidente
del partito comunista cinese “Xi Jinping” e il Primo Ministro indiano “Narendra
Modi”, verificatosi in occasione del vertice dei BRICS.
In
occasione del forum, i due leader si sono espressi con toni amichevoli,
nonostante rimanga la competizione tra i due paesi per la leadership del Sud
Globale.
A
rendere ambigui i rapporti è il dialogo ancora aperto tra India e Casa Bianca: “Bharat”
(nome ufficiale utilizzato nella Costituzione indiana) gioca così la partita
asiatica tenendo in mano le carte occidentali.
Il
futuro di tale relazione, pur caratterizzata da toni conciliatori, resta aperto
a possibili e imprevedibili scenari futuri, in un contesto nel quale le
dinamiche geopolitiche sono sempre più complesse.
Quale
futuro per i BRICS?
I
BRICS, rafforzati dall’entrata dei nuovi membri, vorranno confermare il loro
ruolo emergente al tavolo delle grandi potenze mondiali.
Sarà importante comprendere il ruolo della
Cina, il cui peso economico pone dubbi sugli equilibri interni del forum, e la
sua rivalità con l’attore indiano nella regione. Nonostante la creazione della “Nuova
Banca di Sviluppo”, il percorso verso un ordine economico alternativo e
un’effettiva indipendenza finanziaria rimane complesso.
Il
futuro dei BRICS dipenderà dalla loro capacità di superare le rivalità interne
e sostenere un’agenda economica comune, oltrepassando posizioni divergenti e
rivalità legate a logiche di potenza.
Solo
così sarà possibile promuovere un ordine multipolare che riesca a coinvolgere
attivamente le nuove economie emergenti e consolidare la posizione dei membri
dei BRICS come pedine chiave nello scacchiere internazionale.
Cina
vs Stati Uniti: chi vincerà
la
guerra commerciale?
Esiste
un grafico.
Infodata.ilsole24ore.com
-Davide Ruffini – (8 Maggio 2025) – ci dice:
La
guerra commerciale innescata dai dazi di Trump ha smosso il dibattito su come
l’attuale assetto commerciale mondiale possa subire variazioni e mutare.
Più in
dettaglio, la Cina è uno dei paesi che ha subito più pesantemente la folle
scelta del residente nella Casa Bianca;
infatti, Washington ha previsto per Pechino
ulteriori dazi al 34%, che considerando il precedente 20% applicato prima del
famoso annuncio in cui il presidente elencava le imposte per ogni paese, fa
arrivare al 54% i tributi che le imprese statunitensi dovranno pagare per
importare merce cinese.
Nell’attesa
di vedere se e cosa cambierà nelle dinamiche commerciali globali, è possibile
osservare come sono già mutate le relazioni tra i vari paesi del mondo e i due
giganti dell’economia, Stati Uniti e Cina.
I dati
raccolti da “Visual Capitalist”, provenienti da “United States Census Bureau” e
“General Administration of Customs of the People’s Republic of China”, mostrano
come la Cina sia riuscita a dominare in termini di paesi raggiunti. Se negli
anni 2000, tra i due, erano spesso gli Stati Uniti a prevalere come partner
commerciale, ora la situazione si è ribaltata e la Cina primeggia in quasi
tutto il globo.
Prevalenza
della Cina o degli Stati Uniti nel commercio mondiale:
Dati
del 2000.
(Map:
David RuffiniSource: Visual Capitalist, U.S. Census, Customs Statistics of ChinaDownload
imageCreated with Datawrapper)
Prevalenza
della Cina o degli Stati Uniti nel commercio mondiale
Dati
del 2024.
(Map:
David RuffiniSource: Visual Capitalist, U.S. Census, Customs Statistics of
ChinaEmbed Download imageCreated with Datawrapper)
Nel
2000, il commercio degli Stati Uniti ammontava a 3.4 trilioni di dollari,
mentre quello cinese a 474 bilioni di dollari:
il
primo aveva un valore più di 7 volte più grande rispetto al secondo.
Ma nel
2024, la situazione è cambiata radicalmente:
gli
Stati Uniti hanno un valore di scambi commerciali pari a 5.3 trilioni di
dollari, al contrario quello della Cina equivale a 6.2 trilioni di dollari.
La
Cina ha superato commercialmente per la prima volta gli Stati Uniti nel 2012 e
nel corso di vent’anni, nel periodo 2000-2024 ha subito un incremento di circa
il 1300%, laddove gli States sono aumentati “solamente” del 156%.
Oggi,
il mercato cinese domina su grande parte del globo, principalmente in Sud
America, Africa, Medio Oriente e Asia. Anche in Europa, nonostante nel Vecchio
continente ci siano paesi maggiormente legati e in linea con i pensieri
politici di Washington, la Cina si sta confermando un partner più grande degli
Stati Uniti.
Un
altro dettaglio che si evince dall’analisi è che per quanto i singoli governi
nazionali siano distanti dalle linee di governo di “Xi Jinping”, l’industria
cinese rimane il punto di riferimento per molte economie nazionali e, di fatto,
per quella mondiale.
Ma
come sarebbe una guerra
commerciale
«totale» fra Cina e USA?
Cdt.ch
- Red. Online - Susan Walsh – (09.04.2025) – ci dice:
Un
conflitto economico fra le due superpotenze avrebbe effetti importanti non solo
su Pechino e Washington ma, inevitabilmente, anche sull'economia globale.
E se
Cina e Stati Uniti continuassero su questa strada?
Se, insomma, il botta e risposta fra dazi e
contro-dazi si trasformasse in una vera e propria guerra commerciale fra
Pechino e Washington?
Lo scenario di uno scontro totale, a occhio, è
più che mai reale:
Donald
Trump, da un lato, è salito prima al 104% e poi al 125% per i prodotti
importati dalla Cina, annunciando al contempo una pausa di 90 giorni per gli
altri Paesi, mentre il Paese asiatico è passato dal 34% all’84% sul made in
USA.
Pechino,
come noto, ha dichiarato che combatterà «fino alla fine» l’aggressività
statunitense.
Di
più, le autorità politiche insistono sul fatto che la Cina sia pronta e
preparata a una guerra commerciale con Washington.
Bene,
anzi male: ma come si traduce tutto ciò a livello globale?
Quali, soprattutto, le conseguenze?
Quanto
valgono gli scambi fra Cina e Stati Uniti?
Il
valore degli scambi commerciali fra Cina e Stati Uniti, lo scorso anno, ha
toccato i 585 miliardi di dollari secondo i dati raccolti dalla BBC.
Washington, nel balletto con Pechino, in ogni caso ha importato più di quanto
abbia esportato: 440 miliardi contro 145.
Tradotto:
il
deficit commerciale nei confronti della Cina, lo scorso anno, è stato di 295
miliardi di dollari.
Più o
meno l’1% del valore dell’intera economia statunitense.
Detto ciò, il presidente statunitense Donald
Trump nel giustificare i dazi contro la Cina ha parlato, a torto, di «mille
miliardi».
Trump
aveva imposto misure significative, nei confronti di Pechino, già durante il
suo primo mandato alla Casa Bianca.
Misure confermate durante l’amministrazione
Biden.
Il risultato?
Lo
scorso anno, le barriere all’importazione avevano fatto scendere al 13% –
rispetto al totale delle importazioni americane e al 21% del 2016 – la quota di
beni importati dalla Cina.
Riassumendo,
l’importanza della Cina per le importazioni statunitensi è diminuita, e pure
parecchio, nell’ultimo decennio.
Anche se, va detto, le importazioni di
prodotti cinesi sono avvenute anche via Paesi terzi.
Che
cosa acquistano l’uno dall’altro (e viceversa)?
Lo
scorso anno, la soia è stato il bene più ricercato dalla Cina.
Il
motivo?
Farne mangime per i 440 milioni di maiali da
allevamento presenti nel Paese asiatico.
Gli
Stati Uniti hanno pure esportato verso la Cina farmaci e petrolio.
Esaminando il percorso inverso, scrive sempre
la “BBC”, l’America ha importato dal Dragone elettronica, computer e
giocattoli, oltre alle batterie per le vetture elettriche.
Gli
smartphone, nella speciale classifica, occupano il primo posto (il 9% rispetto
al totale delle importazioni statunitensi dalla Cina).
Una posizione, questa, di per sé dopata dal
momento che molti telefonini importati dall’America appartengono ad Apple.
La multinazionale statunitense, a causa dei
dazi e dei contro-dazi, sta soffrendo e non poco in Borsa: nelle ultime
settimane, il valore del titolo è calato del 20%.
Se
questi prodotti, prima, erano già soggetti a un aumento di prezzo considerando
i dazi originari al 20%, con le tariffe al 104% l’effetto per i consumatori
sarà (o potrebbe essere) cinque volte più grande.
Anche
i beni statunitensi che importa la Cina subiranno un’impennata, considerando le
tariffe «vendicative» imposte da Pechino.
Di
conseguenza, i consumatori di entrambi i Paesi rischiano di soffrire, e non
poco, gli effetti di questa guerra.
Detto
delle tariffe, su quali altri «campi» stanno battagliando Cina e Stati Uniti?
La
Cina fornisce metalli «vitali» per l’industria, come il rame e il litio.
Pechino ha già detto che
verranno adottati anche controlli sulle
esportazioni di sette articoli «correlati alle terre rare», tra cui samario,
gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio.
Per
quanto riguarda gli Stati Uniti, Washington potrebbe tentare di inasprire il
blocco tecnologico sulla Cina avviato da Joe Biden.
Come?
Rendendo
più difficile per la Cina importare il tipo di microchip avanzati –vitali per
applicazioni come l’intelligenza artificiale – che non è ancora in grado di
produrre da sola.
Il
consigliere commerciale di Donald Trump, “Peter Navarro,” ha suggerito questa
settimana che gli Stati Uniti potrebbero esercitare pressioni su altri Paesi,
tra cui Cambogia, Messico e Vietnam, affinché non commercino con la Cina.
La
pena?
Uno stop alle esportazioni verso gli Stati
Uniti.
Ecco,
gli altri Paesi in che modo soffriranno?
A
detta del “Fondo monetario internazionale”, Cina e Stati Uniti – assieme –
rappresentano il 43% dell’economia globale.
In caso di guerra commerciale aperta, è da
prevedere che anche altre economie rallenteranno o, peggio, finiranno in
recessione.
Gli investimenti, nel mondo, dovrebbero
soffrirne.
Ma le
conseguenze, conclude la “BBC”, potrebbero essere molteplici.
La Cina, per intenderci, è la più grande
nazione manifatturiera del mondo e sta producendo molto più di quanto la sua
popolazione consumi a livello nazionale. Sta gestendo un surplus di beni che si
aggira sui mille miliardi di dollari.
Uscendo
dal linguaggio tecnico ed economico, Pechino sta esportando più di quanto
importi.
Spesso,
poi, produce beni al di sotto del vero costo di produzione grazie a sussidi
interni e al sostegno finanziario statale.
Un
esempio concreto? L’acciaio.
Se
questi beni non fossero più in grado di entrare negli Stati Uniti, c’è il
rischio che le aziende cinesi cerchino di «scaricarli» altrove.
Il
che, da un lato, potrebbe tradursi in un vantaggio per i consumatori ma,
dall’altro, potrebbe anche creare concorrenza sleale e, in ultima istanza,
finire per minacciare posti di lavoro e stipendi.
Una
guerra commerciale su larga scala tra Cina e Stati Uniti non si limiterebbe a
colpire due potenze: sarebbe una tempesta economica in grado di travolgere
interi settori, economie emergenti e mercati sviluppati.
La
domanda, a questo punto, rischia di non essere più «se», ma «quanto» il mondo è
pronto a reggere l’urto.
Cina e
USA tra Big Tech e Sociale
Analisi
delle differenze.
Periscopionline.it
– (31-1-2024) - Claudio Pisapia - IL QUOTIDIANO – Redazione – ci dice:
Nell’ultimo
anno stiamo assistendo ad un tentativo di ridimensionamento dello strapotere
delle big tech cinesi ad opera di “Xi” Jinping.
In
realtà qualcosa di più di un semplice tentativo, esempio ne è la donazione da
parte di “Alibaba” di 100 miliardi di yuan (15,5 miliardi di euro) ai programmi
sociali ed economici del Partito Comunista.
Era
successo anche a “Pinduoduo”, che aveva donato 1,5 miliardi di dollari, e a
“Tencent” che da aprile ha annunciato donazioni complessive di 15 miliardi per
un programma dedicato al “bene comune”.
Precedentemente
sempre “Alibaba” di “Jack Ma”, a luglio di quest’anno, aveva donato altri 23
milioni di dollari all’”Henan”, la regione della Cina centrale colpita da
un’alluvione.
Un
susseguirsi di donazioni apparentemente spontanee ma che nei fatti seguono le
richieste dell’apparato comunista cinese e, come notano e fanno notare gli
analisti finanziari tra cui quelli di “Mf “– Milano Finanza, “il presidente Xi
Jinping … pretende collaborazione dai “Cresi del tech” per la redistribuzione
della ricchezza e, considerate le recenti ingerenze governative, le aziende
stanno rispondendo all’appello.”
Ma per
capire quello che sta succedendo bisogna fare qualche passo indietro ed
arrivare fino al 1979, quando la Cina ristabilì le relazioni diplomatiche con
gli Stati Uniti e Deng Xiaoping divenne il primo leader supremo di quel Paese a
visitare gli Usa.
Una lunga visita di nove giorni, iniziata il
28 Gennaio 1979, nel corso della quale vi furono tanti incontri tra Deng e il
Presidente statunitense Jimmy Carter.
La
storica visita ruppe il ghiaccio delle relazioni Cina-Usa, e portò alla firma
di accordi di cooperazione in materia di tecnologia, cultura, istruzione e
agricoltura.
Lo scopo di “Deng” era far uscire la Cina
dalle esperienze traumatiche imposte da Mao Zedong copiando il modello
capitalista americano senza perdere l’impronta asiatica.
Deng
divenne così il pioniere della riforma economica e l’artefice del “socialismo
con caratteristiche cinesi”, teoria che segnava la transizione dall’economia
pianificata a un’economia aperta al mercato, con la supervisione dello stato
nelle sue prospettive macroeconomiche.
Da
quel momento iniziò la grande corsa del pil cinese e Pechino si accreditò
sempre di più agli occhi degli occidentali fino ad essere accettata nel “Wto”
(World Trade Organization) nel 2001.
Ma già
allora il capitalismo cinese assomigliava sempre meno a quello americano e più
a quello delle “tigri asiatiche”, cioè Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong
Kong cioè iniziativa privata con la presenza discreta (eufemismo) dello stato,
che mantiene quote di partecipazione nelle grandi aziende e controlla le banche
e gli interessi strategici.
Le
concessioni alle leggi di mercato avevano un fine politico, funzionale agli
scopi prefissati e non ideologiche, quindi le leve del potere non sono mai
state cedute, solo messe da parte per il tempo ritenuto necessario.
E per Xi Jinping il tempo di tirarle fuori e
mostrare alla finanza cinese, ma anche al mondo, chi comanda davvero è
arrivato, anche perché le big tech stavano oltrepassando il limite accettabile
dalla nomenclatura.
Grazie
a questo sistema la Cina ha ottenuto un successo dietro l’altro, fino a
diventare la seconda potenza economica mondiale, tantissime persone sono uscite
dalla povertà estrema (anche se con qualche trucco contabile) e “Xi” è arrivato
a dire in un suo discorso a febbraio di quest’anno che in Cina “la povertà
estrema è stata sconfitta”, intestandosi ovviamente il successo.
Sembra
che solo Di Maio sia riuscito in occidente nella stessa impresa!
Ma
raggiunti i risultati, è tempo di tirare i remi in barca, in questo caso i remi
sono le “big tech” e in primis “Jack Ma “a cui è richiesto il ritorno nei
ranghi con il pretesto che tecnologica e protezione dei dati devono avere un
ruolo nello sviluppo equo delle comunità, quindi non può essere un privato a
detenerne il monopolio.
L’Occidente
magari si scandalizza, abituata a un liberismo protetto per legge da schiere di
avvocati, ma un po’ d’invidia in fondo c’è, visti i tanti grattacapi che le
multinazionali ci danno in termini di trasparenza e ricorso ai paradisi fiscali.
Trump
aveva provato a opporre qualche resistenza ma era stato subito ridimensionato.
L’America non è la Cina, ci sono le elezioni,
c’è la libertà, l’opinione pubblica manipolabile dai giornali manipolabili a
loro volta dalle stesse “big tech”, e quindi capitolò e addirittura fu
estromesso, come si ricorderà, da alcuni social.
Il
potere economico e lo stuolo di avvocati a sua difesa vince sul potere politico
che lo ha creato.
“Jo
Biden” è stato a guardare e quando è stato il momento ha seguito il coro di
critiche a Trump comprendendo però che alcune delle lotte dei repubblicani
avevano un senso.
Motivo
per cui ha lasciato in piedi tutti i dazi a carico della Cina, indugiando su
quelli all’Europa, in funzione antiglobalista e di protezione del welfare
interno, dei lavoratori e delle merci americane (quasi fosse un Trump qualsiasi).
Ovviamente
senza troppo sbandierare le intenzioni per non turbare la sinistra mondiale (il
baluardo della finanza costruito da Clinton fino a Obama) sembra proprio che
anche lui sia intenzionato a ridimensionare il “libero mercato”.
Ha
assunto come assistente al” National Security Council” Jake Sullivan per
ricostruire l’economia americana su basi meno liberiste e più protezioniste
promuovendo lo slogan “Buy american”.
Un’altra
mossa interessante è stata la nomina della giovanissima “Lina Khan”, una donna
sempre all’attacco delle “big tech” alla “Federal Trade Commission” (Ftc,
antitrust americano), proprio con lo scopo di portare più stato nelle grandi
imprese.
Un po’
di quel controllo statale cinese che Biden vorrebbe per gli Stati Uniti.
Di
questi giorni è la nuova misura economica che immette nell’economia ulteriori
1.750 miliardi di dollari, un’iniezione di soldi per far ripartire i consumi
proprio come aveva fatto la Cina immediatamente dopo le grandi crisi del 2008 e
come ha fatto già dall’anno della pandemia, il che le ha permesso di superare
immediatamente le difficoltà causate dalla pandemia.
Il “Build back better framework” di Biden
guarda alla classe media, alla scuola a partire dall’asilo, la cura dei
disabili e in generale gli aiuti ai caregiver, le agevolazioni per il passaggio
a energie rinnovabili e il rafforzamento dell’assistenza sanitaria.
In
particolare, vi figura la scuola materna gratuita per tutti i bambini di 3 e 4
anni, portando a circa 20 milioni il numero di bambini con accesso ai servizi
di assistenza all’infanzia di alta qualità e a prezzi accessibili.
Non a
tutti potrebbe piacere questo modo di fare, questo tentativo di imbrigliare le
big tech e grandi spese per ambiente, cosa che la Cina sta facendo da tempo, e
sociale.
Biden
sta operando in velocità perché sa che il suo orizzonte temporale è ben diverso
da quello di “Xi”, dura solo due anni e già nelle elezioni di medio termine la
sua maggioranza potrebbe cambiare, sullo sfondo di grandi lacerazioni interne
tra cui quelli di movimenti come “Black Lives Matter “che tende a descrivere
l’America agli stessi americani come un paese di razzisti incalliti che devono
fare ammenda e scontare il peccato originale dell’imperialismo.
Un
paese diviso e in preda a isterismi continui che hanno portato persino
all’abbattimento di statue per riscrivere il passato, metodi a metà tra
talebani e 1984 (il libro di George Orwell).
Una
realtà di divisione e conflitti che per ora crea seri problemi interni ma
sembra non fiaccare ancora la proiezione di potenza esterna.
Ma
prima o poi l’America potrebbe crollare su stessa e sulle sue contraddizioni
mentre la Cina all’interno è forte e questo le permette di perseguire i suoi
scopi di politica estera senza contraccolpi.
Noi
non siamo pronti ad un futuro cinese e quindi dobbiamo sperare che l’Europa
sappia trovare una terza via, staccarsi quanto basta dall’egemonia e dal caos
americano, evitando ad esempio di impelagarci nelle future guerre
nell’indo-pacifico dove già sono accorsi gli inglesi in funzione anti Cina, e
tornare ad occuparci di Mediterraneo e del cortile di casa nostra.
Ovviamente facendo attenzione a non cadere
nelle lusinghe del mercato economico cinese, come ad un certo punto sembravano
voler fare alcuni “portavoce” del passato governo Conte.
I lati
oscuri di una intelligenza
artificiale
“neoliberista.”
Periscopionline.it – Corrado Oddi – “28 maggio 2025)
È
sempre più evidente come una delle “rivoluzioni” in corso è quella prodotta dall’uso
sempre più massiccio e invasivo dell’Intelligenza Artificiale.
In
queste brevi righe mi interessa mettere in luce alcuni aspetti inquietanti che
si stanno rivelando ad un occhio un po’ attento e non superficiale.
Non lo
faccio per sminuire il valore che potrebbe avere l’utilizzo e, ancor prima, la
progettazione di questa tecnologia, quanto per far emergere come la gran parte
dei sistemi di intelligenza artificiale, in particolare quelli che vengono
figliati dai “GAFAM”, i giganti hi-tech (Google, Amazon, Facebook, Apple,
Microsoft), presentino gravi “lati oscuri” e forti rischi per l’idea di società
che incorporano e che propongono.
“Sam
Backman- Fried” è un imprenditore statunitense, conosciuto soprattutto per aver
fondato “FTX”, una delle più grandi piattaforme di scambio di criptovalute al
mondo, e “Alameda Research,” una società di compravendita di strumenti
finanziari, come azioni, valute, criptovalute, obbligazioni, derivati, ecc.
Nel
novembre 2022, “FTX” ha affrontato una grave crisi di liquidità, che ha portato
alla sua bancarotta.
Indagini
successive hanno rivelato che “Bankman-Fried” aveva utilizzato indebitamente
fondi dei clienti di “FTX” per coprire le perdite di “Alameda Research”.
Un comportamento illegale e un reato grave,
tant’è che è stato arrestato e condannato a 25 anni di carcere e gli è stato
ordinato di restituire oltre 11 miliardi di dollari.
Ebbene,
qualche giorno fa è uscito uno studio di Bankitalia che ha approfondito il
comportamento di dodici modelli di intelligenza artificiale che dovevano
affrontare la situazione in cui si era trovato “Sam Backman-Fried”, ovvero
quello di essere a capo di una “società di trading” con forti perdite,
situazione che ha deciso di “risolvere” illegalmente utilizzando i fondi dei
clienti.
Solo
uno dei dodici modelli di IA si è rifiutato di prendere i fondi dei clienti,
due lo hanno fatto in parte e i restanti nove hanno agito esattamente come
l’imprenditore fraudolento.
Alcuni
commentatori hanno concluso che, quindi, rimane la necessità di una
supervisione umana sui comportamenti dei sistemi di IA.
A me
pare che siamo di fronte a qualcosa di più profondo, che ha a che fare con la
progettazione e le istruzioni che sono state fornite ai sistemi di IA.
Oltre
al fatto che, nella maggior parte dei casi, esse non sono pubbliche e
conosciute solo dai progettisti, risulta sufficientemente chiaro che
l’obiettivo che è stato assegnato, appunto fin dalla fase di progettazione, è
quello della massimizzazione dei profitti e, in ogni caso, della salvaguardia
degli interessi aziendali.
E
questo, anche se questo può significare introdurre scelte lesive, e persino
perseguibili penalmente, nei confronti delle persone.
Siamo
in presenza, cioè, di un’intelligenza artificiale “neoliberista”, perché è
stata concepita per introiettare quella finalità, si potrebbe quasi dire quell’
“ideologia”.
Apparentemente
potrà sembrare di saltare di palo in frasca, guardare poi a cosa sta producendo
il ricorso spinto dell’attuale modello di IA dal punto di vista del consumo
energetico.
L’Irlanda è nota per essere sostanzialmente
diventata una sorta di “paradiso fiscale” per le aziende hi-tech, visto che
applica ad esse un prelievo fiscale assolutamente basso, diventando così molto
attrattiva per il loro insediamento e anche per i “grandi data center” che
costituiscono un elemento essenziale per la loro crescita.
Ora,
nel 2023 i data center presenti in Irlanda hanno consumato il 21%
dell’elettricità totale del Paese (nel 2015 era il 5%), superando, per la prima
volta, il consumo delle abitazioni urbane, che, sempre nel 2023, si è attestato
al 18%. L’Irlanda rappresenta solo la “punta di diamante” di una tendenza che,
ormai, si sta affermando a livello globale.
L’ “International
Energy Agency “(IEA) – l’autorità energetica mondiale di cui anche l’Italia è
membro – prevede che il consumo globale di elettricità dei data center
raddoppierà entro il 2030, passando da circa 415 TWh nel 2024 a 945 Twh, circa
3 volte tanto il consumo elettrico totale dell’Italia.
Questi
dati già indicano come, proseguendo su questa strada, la possibilità di
raggiungere la neutralità carbonica e di contrastare il cambiamento climatico
si allontana ulteriormente, evidenziando l’insostenibilità ambientale degli
attuali modelli di IA.
Non
solo:
il
gigantismo degli investimenti e degli insediamenti delle grandi aziende
hi-tech, che guardano, in primo luogo, a conservare la propria posizione di
oligopolio, si porta dietro il fatto che le stesse tendono ad effettuare
investimenti in impianti che producono energia, a loro volta di grandi
dimensioni e centralizzati. Replicando esattamente lo scheletro su cui è
costruita la struttura energetica del fossile e fonti che non si discostano da
essa.
Non a
caso, negli ultimi mesi, “Microsoft” ha deciso di investire nella “centrale
nucleare di Three Miles Island” (quella tristemente famosa per il grave
incidente verificatosi nel 1979), mentre “Google” e “Amazon puntano” a
sviluppare piccole centrali nucleari.
Potrei
andare avanti su altri “lati oscuri” dell’IA attuale, ragionando sul modello di
lavoro intrinseco in essa, che tende a polarizzare sempre più tra un nucleo
ristretto di lavoro altamente qualificato e una massa considerevole di lavoro
ripetitivo e svalorizzato, quello che serve per rendere utilizzabili i dati e
che viene svolto da forza lavoro sfruttata, per lo più collocata nei Paesi
poveri del mondo.
Oppure
analizzando la possibilità di manipolazione delle opinioni che può originare
dalla stessa (un recente inquietante studio del “Politecnico Federale di
Losanna “ha mostrato che” GPT-4”, se in possesso dei dati personali della
persona con cui interagisce, è risultato più persuasiva del 64% rispetto agli
esseri umani nel far cambiare opinione agli interlocutori).
Fatto
che ci riporta, peraltro, vista la stretta connessione tra “sviluppo dell’AI “e
“oligopolio hi-tech,” al “peccato originale”, di sistema, di utilizzare i dati
degli utenti per finalità commerciali e di ricerca del profitto, ciò che ha
fatto dire a molti studiosi che, nel mondo delle piattaforme, “la merce siamo
noi”.
È
facile concludere che lo sviluppo tecnologico trainato da grandi soggetti
privati non è per nulla neutrale, che, in realtà, esso è ideologicamente
orientato, strutturalmente opaco e non trasparente, ecologicamente
insostenibile, socialmente ingiusto.
Siamo
in presenza di un “meccanismo di dominio”, su cui scommette un nuovo “tecno-capitalismo”,
con venature di “carattere feudale,” che, non a caso, si trasferisce in un’idea
della politica basata unicamente sui rapporti di forza.
A ben
vedere, qui sta, pur con diverse contraddizioni, la saldatura tra grandi
colossi tecnologici e trumpismo.
Eppure,
non solo si può sostenere che sarebbe possibile indicare e realizzare altre
finalità e modalità progettuali per lo sviluppo tecnologico, al di fuori del
paradigma capitalistico, ma che questo è già un dato di realtà.
Ce lo dice la vicenda di “Deep Seek”, startup
cinese di intelligenza artificiale fondata nel 2023
Intanto “Deep Seek” funziona sulla base di un “sistema
open source”, ovvero chiunque può modificare il codice sorgente, che è quello
che usano i programmatori/sviluppatori per dare le istruzioni al sistema, rendendo così questo modello di IA
potenzialmente pubblico e trasparente (uso l’avverbio potenzialmente perché
il governo cinese usa poi metodi più sofisticati per controllare, almeno
all’interno della Cina, il funzionamento di Deep Seek).
In
ogni caso, un approccio totalmente diverso, se non addirittura opposto alla
segretezza di cui si avvalgono i programmi elaborati per le IA figliate dalle
grandi aziende hi tech.
In
più,” Deep Seek” utilizza molti meno chip (circa 2000 rispetto ai più dei
10.000 degli altri modelli) e, anche per questo, ha un consumo energetico tra
il 50 e il 75% inferiore a quello delle altre IA.
Per
stare solo alla fase di addestramento, ad esempio, “GPT-4” ha un impatto
ambientale, in termini di emissioni di CO2, circa “12 volte superiore” a quello
di “Deep Seek”.
Infine
– ma non è un particolare secondario, visto che quest’annuncio ha mandato in
crisi le borse americane- l’IA cinese è costata circa 6 milioni $ rispetto ai
100 e più milioni $ dei modelli occidentali.
Insomma,
siamo in presenza di un’alternativa reale e credibile, che si può
generalizzare, e che mette in discussione la presunta neutralità della
tecnologia che è coerente con un’idea di “sviluppo” trainato dal “profitto”,
con quel che ne consegue in termini di sfruttamento del lavoro, depredazione
dell’ambiente, primato della finanza.
A noi,
invece, spetta trarre le conclusioni adeguate.
Gianni
Girotto: la grande finanza
ha
rovinato l’economia mondiale.
Periscopionline.it
- Olivier Turquet – Gianni Girotto – (23 maggio 2025) – ci dicono:
Gianni
Girotto è stato senatore del Movimento 5 Stelle per due legislature ed è
attualmente “Coordinatore del Comitato transizione ecologica e digitale” di
tale movimento.
Ma
Gianni è anche uno storico socio di “Banca Etica” e divulgatore su temi
economici e di speculazione finanziaria.
Gli
abbiamo chiesto di fare luce su questo doppio tema del riarmo in Europa e dei
dazi statunitensi.
In
questi giorni la borsa ha fatto le montagne russe. Ma, ciononostante, quello
che gli analisti sottolineano è che la borsa è da anni in crescita.
Cosa
sta succedendo?
La
borsa è uno strumento inventato e utilizzato dagli esseri umani, pertanto
riflette ciò che succede nel pianeta.
Più
precisamente lo amplifica, nel bene e nel male, perché da una parte si basa
sulla fiducia nel futuro e questo genera spesso “l’effetto valanga” o “effetto
farfalla”, dall’altra grazie alle tecnologie informatiche che hanno velocizzato
di miliardi di volte la quantità di operazioni possibili e le relative
tempistiche, si presta in maniera “eccellente” a una miriade di speculazioni,
che rendono i prezzi dei vari titoli soggetti a variazioni estremamente
dinamiche.
Ne
abbiamo avuto un drammatico esempio negli anni 2007 e seguenti, con il crollo
delle borse mondiali a partire dal fallimento della “banca Lehman Brothers”;
questo episodio, lungi dall’essere a sé stante, era la conseguenza di un
mercato finanziario in cui le regole erano e sono decisamente troppo
permissive, e che ha assunto ormai un potere tale da riuscire ad impedire alla
politica e alla società civile in generale di regolamentare le borse e la
finanza in generale, in modo torni ad essere funzionale all’economia.
In pratica cioè da molti anni il prezzo delle materie
prime e di tutto ciò che viene scambiato nelle borse non è determinato dalla
“normale” legge della domanda e dell’offerta, ma viene determinato purtroppo
dalle speculazioni attuate su ciascun titolo.
Ne
abbiamo avuto un altro deleterio esempio nel 2022, quando i prezzi dell’energia
esplosero, nonostante non fosse cambiata significativamente né la quantità
della domanda, né la quantità e la disponibilità dell’offerta.
Fatta
questa doverosa e comunque minimale introduzione, la risposta alla domanda è
che effettivamente la borsa da alcuni anni sta crescendo, ma questo perché
aveva avuto un crollo appunto nel 2007 e quindi gli ultimi anni di crescita
sono serviti semplicemente per riportarci ai livelli del 2007;
e le montagne russe delle ultime settimane
sono semplicemente il riflesso di un mercato che non riesce a prevedere che
cosa farà il presidente degli Stati Uniti, nazione che nel bene e nel male
influenza ancora moltissimo l’economia mondiale.
Da
molti lati, ed anche dal tuo, ci sono richieste di regolamentazione e controllo
della speculazione finanziaria, ce ne potresti illustrare alcune e parlare
delle tue proposte?
C’è
moltissimo da fare, e paradossalmente è la cosa più difficile non è tanto
individuare delle soluzioni tecniche e legislative, ma cambiare la mentalità
degli ultimi decenni che ha visto il verificarsi della cosiddetta
“finanziarizzazione dell’economia”, cioè il fatto che molte, troppe persone,
sono convinte, o comunque pensano/sperano di poter guadagnare per tutta la vita
semplicemente muovendo il mouse e pigiando tasti del computer.
Ma la
finanza non crea alcuna ricchezza reale, semplicemente gestisce e sposta quella
esistente.
La
ricchezza “vera” si crea “sporcandosi le mani” e cioè coltivando i campi,
raccogliendo quanto vi cresce, trasformandolo, immagazzinandolo, allevando
bestiame (anche se io sono contrario), costruendo case strade ponti ferrovie
acciaio dadi viti bulloni vestiti presse torni acquedotti fognature ecc. ecc.,
e naturalmente sviluppando i servizi sanitari, ristorazione, turismo,
intrattenimento, tutte cose comunque “reali”.
La
finanza dovrebbe quindi tornare a essere uno strumento per “fare credito” e
investire appunto sull’economia reale, cioè con investimenti di medio lungo
periodo, che nulla hanno a che vedere con le speculazioni attuali in cui le
operazioni di compravendita durano pochi istanti.
Pertanto
i rimedi gli aggiustamenti necessari sono noti e dibattuti da tempo, e si
possono riassumere con strumenti per aumentare la trasparenza e la
tracciabilità delle operazioni, la chiusura di ogni forma di “paradiso fiscale”
e strumenti per acquisire gettito fiscale dalle operazioni speculative, come la famosa “tobin tax” di cui si
parla da decenni, ma non si è mai attuata perché come ho già detto la finanza,
da sempre, domina la politica, e non viceversa.
Ma che
invece un’altra finanza sia possibile lo dimostrano le decine di banche etiche
che sono nate negli ultimi decenni nel pianeta, e che tutte le analisi
economiche valutano essere più redditizie e più sicure rispetto alle banche
tradizionali, ovviamente questo prendendo in esame un periodo di tempo medio
lungo.
Quindi
in realtà io non ho “mie” proposte, ma sto solo cercando di spingere le
proposte che da decenni fanno noti economisti e altre persone di altissimo
livello. Tra queste vi è la necessità che a qualsiasi persona venga data
un’educazione finanziaria sufficiente a compiere scelte ponderate, cosa
attualmente irrealizzata, ed è per questo che io personalmente ho creato nel
2024 un ciclo di video didattici che ho pubblicato nel mio blog e nei vari
“social”.
Rispetto
al tema del riarmo si è sottolineato che sono stati creati, dalle grandi
holding finanziarie, dei pacchetti specifici che puntano sul riarmo. Ce lo puoi
spiegare e illustrare?
Ci
provo, ma siccome un’immagine vale mille parole e un video vale mille immagini,
invito i gentili lettori a dedicare qualche minuto alla visione di questo
video, uscito diversi anni fa, ma assolutamente attuale.
Ora sperando abbiate visto e divulgato il
suddetto video, che in pratica contiene già la spiegazione, ribadiamo anche qua
che le armi sono il secondo mercato mondiale come controvalore (il primo sono
le fonti fossili, cioè petrolio e gas), e quindi banalmente io posso investire
nelle fabbriche delle armi.
Queste, in caso di guerra, vedranno aumentare
le loro possibilità di vendere i propri prodotti, e magari pure a prezzi
maggiorati stante la “necessità”, e quindi incrementare i loro guadagni e di
conseguenza la resa di chi, in loro, ha investito; insomma io posso investire
su fabbriche che producono vestiti, cibi, infrastrutture, macchinari ecc. ma
posso anche investire sulle armi, che sono un prodotto come un altro, dal punto
di vista del mercato.
Pertanto è bene informare tutti i cittadini che esiste
la possibilità di uscire da questo “mercato di morte” affidando i propri
risparmi e i propri investimenti alla finanza etica, che esclude dai propri
affari qualsiasi operazione con la filiera delle armi, e questo vale sia che
siate un pensionato con pochissimo denaro da portare in banca sia che abbiate
maggiori disponibilità economiche e di investimento. Usciamo dalle “banche
armate”, che purtroppo sono la grande maggioranza.
C’è
sempre un intervento più forte di meccanismi di intelligenza artificiale nelle
operazioni finanziarie, soldi che si generano da soli, senza più alcun legame
con il mondo produttivo.
Quali
sono le conseguenze e i rischi di questi fenomeni?
Come
ho detto all’inizio dell’intervista, l’informatica ha moltiplicato di miliardi
di volte la velocità delle operazioni finanziarie, e quindi anche la loro
quantità.
In
termini numerici si stima che più del 90% delle operazioni finanziarie globali
non abbiano nulla a che fare con la vita reale, ma siano speculazioni fine a sé
stesse, che durano pochi istanti o comunque un tempo molto breve.
Altri
numeri ci dicono che almeno il 70% di queste operazioni sono decise in totale
autonomia dai computer, e questo da molti anni, molto prima cioè che si
iniziasse a utilizzare l’intelligenza artificiale.
Capito
questo si comprende come il mercato sia soggetto a rallentamenti e
accelerazioni troppo brusche, perché decise per la maggior parte non da uomini
che possono anche agire con un certo livello di prudenza, ma da computer che
non fanno altro che ricercare la migliore opzione tra le migliori possibili ed
eseguirla in frazioni di secondo, senza minimamente porsi il problema delle
conseguenze.
Pensate
che il registro di tali operazioni finanziarie, che attualmente è preciso al
milionesimo di secondo, verrà implementato alla precisione del miliardesimo di
secondo, una cosa che nella vita reale non ha nessunissimo senso.
Insomma
come ho detto nella seconda domanda, si è purtroppo compiuta, di fatto, una
finanziarizzazione dell’economia, che però arricchisce solo un ristretto
oligopolio di operatori, in particolare i grandi fondi di investimento globale,
e pertanto i detentori di quote degli stessi.
Essi
ormai sono proprietari di quote molto significative delle maggiori imprese
manifatturiere mondiali, di giornali, radio, TV, canali sul web, e hanno
pertanto un’influenza economica e mediatica talmente rilevante, da influire a
loro piacimento le politiche globali, nazionali, regionali.
Questo
ha portato alla nota riduzione quantitativa della cosiddetta “classe media”, e
in generale a una ancora più iniqua distribuzione della ricchezza.
Termino
di rispondere alle tue domande sabato 12 aprile 2025, e come ciliegina sulla
torta è proprio di oggi la notizia che il presidente degli Stati Uniti è sotto
accusa per operazioni di “insider trading”, cioè in buona sostanza di aver
approfittato del fatto che essendo lui stesso la causa dei recenti cali e
risalite in borsa, abbia potuto approfittarne pesantemente investendo sui
titoli giusti sapendone in anticipo appunto l’andamento.
Ora è
evidente che io non ho la minima prova se questo corrisponda a verità o meno,
ma in questo caso la cosa importante è che l’ipotesi sta assolutamente in piedi
da un punto di vista teorico, cioè colui che sapesse in anticipo l’avverarsi di
una crisi, potrebbe legittimamente “scommettere”, sul calo della borsa e
guadagnare cifre molto elevate, ripeto il tutto in modo assolutamente legale.
Pertanto
la priorità delle priorità a livello globale è quella di attuare una pesante
riforma del sistema bancario e finanziario generale, perché così come è
strutturato ora non farà altro che acuire le differenze tra ricchi che
diventeranno sempre più ricchi e una fascia media e povera che invece faticherà
sempre di più per arrivare a fine mese.
Questo
naturalmente postula il fatto che la cittadinanza deve avere coscienza di
quanto sopra, e non è quindi un caso che un osservatore attento non possa
constatare che dell’argomento se ne parla poco e in maniera superficiale,
perché la priorità delle priorità per questo ristretto oligopolio finanziario,
è quello di mantenerci nell’ignoranza, e per il momento, complice una troppo
grossa fetta di politici corrotti, ci sta riuscendo benissimo!
Dazi,
la prospettiva cinese
sul
possibile “grande accordo”.
Rsi.ch
– (12 -05- 2025) – Lorenzo Lamperti – ci dice:
Dopo i
colloqui di Ginevra, Washington e Pechino si mostrano disponibili al dialogo
per mettere fine alla guerra commerciale ma restano divergenze significative da
superare.
Da
Ginevra non si esce con una vera e propria intesa, ma con una de-escalation che
comunica comunque una cosa importante: sia Cina che Stati Uniti sono d’accordo
sull’obiettivo di raggiungere un accordo con la A maiuscola.
Magari che vada oltre il fronte commerciale,
in ossequio alla concezione olistica delle relazioni bilaterali teorizzata da
“Xi Jinping”.
È sostanzialmente questo, per Pechino, il
risultato dei colloqui tenuti in Svizzera. Un risultato non banale, visto che
consente alla Cina di muovere i primi, decisi, passi nel dialogo commerciale
con l’amministrazione Trump.
E
senza aver mostrato segni di debolezza.
È proprio questa la chiave narrativa proposta
dal Partito comunista.
La
riassume perfettamente il “super influencer Hu Xijin”:
“Si
tratta di una grande vittoria per la Cina.
Finora nessun altro Paese aveva raggiunto il
principio di parità negoziale che abbiamo raggiunto noi con gli Stati Uniti”,
ha scritto su “Weibo” l’ex direttore del “Global Times”, che rilancia
auspicando che altri seguano l’esempio di quella che “Xi” chiama “prova di
resistenza” contro il “bullismo” commerciale:
“Questo
accordo costituisce un esempio che sicuramente ispirerà altri Paesi a difendere
i propri diritti”.
In
realtà, il documento congiunto prodotto dalla due giorni di colloqui riporta la
situazione ad appena prima dello scorso 2 aprile, il cosiddetto “giorno della
liberazione” di Donald Trump.
Non è poco, visto che entrambi i Paesi hanno
temporaneamente abbassato del 115% i dazi sui rispettivi prodotti.
Si
tratta di un passo del tutto simmetrico, ma c’è una differenza: la Cina
mantiene tasse aggiuntive del 10%, gli Stati Uniti invece del 30%, perché
restano in vigore anche i precedenti round imposti dalla Casa Bianca a febbraio
e marzo.
Ma se
dopo la tregua di 90 giorni venisse reintrodotto il 24% attualmente sospeso, il
totale di tasse doganali anti cinesi salirebbe a un totale del 54%, molto
vicino al 60% minacciato da Trump in campagna elettorale e che Pechino ha
sempre giudicato del tutto inaccettabile.
In
ogni caso, l’ampia sospensione e l’effettivo taglio del 91% dei dazi da parte
di entrambi i Paesi è un passo avanti significativo, che ferma la spirale di
sfiducia e crea le condizioni necessarie per condurre un negoziato ambizioso.
Il governo cinese presenta il documento
congiunto, significativo già di per sé al di là del contenuto, come frutto di
una posizione di forza.
Il messaggio è che la linea dura e le ferme
contromisure adottate dalla Cina contro i dazi sono state efficaci e hanno
scoperto il “bluff” della “tigre di carta” (definizione di stampo maoista
rilanciata nelle ultime settimane) di Trump, descritto in una posizione di
debolezza.
In tal senso, taglio e sospensione dei dazi
rappresenterebbero una sconfitta per la Casa Bianca, che si sarebbe arresa nel
giro di poco più di un mese senza nemmeno ottenere il vertice con “Xi”.
In
realtà, più elementi suggeriscono che Pechino volesse questa prima intesa
quanto Washington.
“He
Lifeng”, vicepremier e zar delle politiche economiche, ha infatti garantito
alla delegazione statunitense una maggiore cooperazione per fermare il flusso
delle sostanze chimiche utili alla produzione dell’”oppioide fentanyl”.
A diversi commentatori cinesi non è passato
inosservato il passaggio del documento congiunto in cui la Cina si impegna ad
annullare le ritorsioni non fiscali prese dopo il 2 aprile.
Queste
includono la sospensione agli acquisti di aerei e dispositivi prodotti dal
colosso statunitense Boeing, nonché l’ultimo pacchetto di restrizioni
all’esportazione di terre rare e loro derivati.
Su
quest’ultimo punto, in realtà, potrebbe rivelarsi una mossa altamente
simbolica.
All’annuncio
dei controlli aggiuntivi all’export dei metalli (cruciali per elettronica,
difesa e industria tecnologica verde) non hanno ancora fatto seguito
regolamenti precisi.
Ciò significa che Pechino potrà impegnarsi ad
allentare una stretta dai contorni ancora incerti e che sarà “aggiustata” in un
modo o nell’altro a seconda di come andranno i futuri colloqui con Washington.
In
cambio, però, la Cina ha ottenuto garanzie sul fatto che la Casa Bianca non
cerca il “disaccoppiamento economico” e ripetute rassicurazioni sul “rispetto
reciproco”, pilastro retorico della politica estera del Partito comunista.
Fondamentale
l’istituzione di un meccanismo di consultazione, un obiettivo primario.
La nuova piattaforma, che sarà guidata da
parte cinese dallo stesso “He”, rappresenta proprio quel canale comunicativo
“protetto” che Pechino desiderava per tutelare l’immagine del presidente “Xi”,
che potrà diventare protagonista e parlare con Trump senza mostrare le
debolezze che secondo la Cina hanno mostrato i leader di altri Paesi.
Nel
frattempo, giovedì potrebbe esserci un nuovo contatto, quando in Corea del Sud
si dovrebbero ritrovare i ministri del Commercio delle due potenze per un
incontro della” Cooperazione Economica Asia-Pacifico”.
La
strada per un accordo con la A maiuscola sarà lunga e non priva di ostacoli, ma
Pechino e Washington hanno mostrato disponibilità a provare a percorrerla.
“Decoupling”
economico e “tensioni
Sistemiche”:
una nuova normalità
nelle
relazioni transpacifiche.
Geopolitica.info
- Cristina Martinengo – (09/05/2025) – ci dice:
Mentre
l’escalation di ostilità soprattutto sul piano economico fra Stati Uniti e Cina
ha raggiunto il livello di massima tensione con l’inizio di una aperta guerra
commerciale in seguito all’annuncio di dazi voluti dall’amministrazione Trump,
ci si domanda se le reali intenzioni del presidente degli Stati Uniti fossero
quelle di innescare un effettivo disaccoppiamento fra le due economie,
considerato anche il rapido tentativo di cambio di rotta degli ultimi giorni.
Negli
ultimi anni, le relazioni economiche tra Stati Uniti e Cina hanno assunto
contorni sempre più instabili, passando da una crescente interdipendenza a una
competizione aperta che culmina oggi in una nuova stagione di guerre
commerciali.
Si
manifesta dunque l’esigenza di analizzare le radici storiche e le dinamiche
recenti del processo di decoupling economico, valutandone le implicazioni
strategiche non solo per le due potenze coinvolte, ma per l’intero sistema
globale.
Particolare
attenzione è rivolta al modus operandi dell’Amministrazione Trump, che tanto in
politica economica quanto in politica estera ha fatto dell’imprevedibilità e
dell’incertezza i propri tratti distintivi, contribuendo ad alimentare la
volatilità degli scenari internazionali.
Sulle
montagne russe dei rapporti economici tra Stati Uniti e Cina.
Negli
ultimi vent’anni i rapporti commerciali fra gli Stati Uniti e la Cina sono
stati altalenanti ma mai definitivamente compromessi.
Tutto
è iniziato con la firma dello” US-China Relations Ac”t nel 2000 approvato
dall’allora presidente “Clinton”e con la conseguente adesione della Cina
all’”Organizzazione Mondiale del Commercio” (OMC/WTO), in un periodo di
normalizzazione e consolidazione delle relazioni commerciali fra i due Paesi.
La
crescente interdipendenza economica diventò evidente nel 2008, quando la Cina
divenne il maggiore detentore di debito statunitense, raggiungendo i 600
miliardi di dollari.
Con un saggio per Foreign Policy del 2011,
l’allora Segretario di Stato americano “Hillary Clinton “delineò un pivot degli
Stati Uniti verso l’Asia, definendo la Cina come un Paese con opportunità di
investimento senza precedenti per gli Stati Uniti, con possibilità il cui
sfruttamento sarebbe stato di grande valore per gli interessi economici e
strategici americani.
“Proprio come l’Asia è fondamentale per il
futuro dell’America, un’America impegnata è vitale per il futuro dell’Asia”,
scriveva “Clinton”.
Come
riportato dal “Council on Foreing Relations”, le tensioni commerciali iniziano
però a farsi evidenti nel 2012, quando il deficit commerciale degli Stati Uniti
con la Cina è salito a un massimo storico di 295,5 miliardi di dollari.
Inoltre,
sempre lo stesso anno, ad aumentare le frizioni furono le restrizioni imposte
dalla Cina all’esportazione di terre rare, minerali essenziali per prodotti
come veicoli ibridi, smartphone e equipaggiamento militare tecnologicamente
avanzato, nonché settore di indiscusso dominio cinese a livello mondiale.
Dopo
il cambio della leadership cinese, una serie di frizioni geopolitiche e
l’inizio del primo mandato di Donald Trump nel 2017, i rapporti tra i due Paesi
sembravano invece stabilizzarsi tanto da spingere il Presidente statunitense an
annunciare “enormi progressi” nelle relazioni bilaterali commerciali.
Nel
2017 venne annunciato un accordo in dieci punti sull’espansione del commercio
di prodotti primari e servizi.
I rapporti raggiunsero dunque “un nuovo
massimo”, se non fosse che pochi mesi dopo la stessa Amministrazione Trump
annunciò dazi alle importazioni cinesi per 50 miliardi di dollari.
Alla
fine dello stesso anno poi la strategia di sicurezza nazionale americana
identificava esplicitamente la Cina come competitor strategico che, tramite
l’espansionismo economico, tentava di rimodellare l’ordine internazionale a
proprio vantaggio, rappresentando dunque una minaccia per gli Stati Uniti.
Nel
2018 vi fu una chiara inversione di rotta con il passaggio dalla cooperazione
alla competizione aperta o “trade war”, con un inasprimento delle tensioni
soprattutto da parte degli Stati Uniti che si vedevano minacciati dalle
interferenze cinesi.
Da
quel momento ebbe inizio la prima guerra commerciale che si intensificò fino
alla firma dell’”Economic and Trade Agreement “del 2019, che segnò un lieve
allentamento nell’escalation dei rapporti commerciali.
Le tensioni, non solo economiche, raggiunsero
un nuovo picco negativo durante la pandemia da Covid-19, quando venne
dichiarato, tramite le parole dell’ex Segretario di Stato Mike Pompeo, che
l’era del dialogo con Pechino si era conclusa e che da allora iniziava un nuovo
approccio basato sul tentativo di pressare la Cina affinché rispettasse le
regole del commercio internazionale.
Inoltre, nel 2020 venne firmato il “Phase One
Economic and Trade Agreement” che sebbene prevedesse un aumento degli acquisti
cinesi di beni e servizi americani, lasciava in vigore la maggior parte dei
dazi imposti durante la guerra commerciale.
Il
mandato del presidente “Biden” iniziò con premesse durissime:
la Cina rappresentava la più grande minaccia per
l’America.
Inoltre,
le tensioni commerciali tra i due paesi, per tutta la durata
dell’amministrazione Biden, sono state alimentate anche da frizioni
geopolitiche e diplomatiche legate soprattutto alla militarizzazione dell’area
dell’Indo-Pacifico e alla disputa su Taiwan.
Dopo una prima fase di tensione commerciale
durante la quale l’Amministrazione Biden ha mantenuto i dazi imposti da quella
Trump con rispettive contromisure imposte dalle aziende cinesi, il nuovo
approccio alle relazioni commerciali bilaterali è stato segnato da un incontro
tra Biden e Xi del 2022, quando entrambi i leader manifestarono l’intenzione di
allentare le tensioni.
Il
percorso di graduale miglioramento delle relazioni sino-americane non fu però
privo di tensioni:
nel
2022 venne infatti firmato il “Chips and Science Act”, che rappresentò una
risposta strategica per contrastare l’ascesa tecnologica della Cina e un
tentativo di ridurre la dipendenza statunitense dalla produzione cinese.
Lo
stesso anno la firma dell’”Inflation Reduction Act” ebbe una serie di effetti
indiretti sulla produzione cinese, aumentando la competitività della filiera
energetica statunitense e tentando di diminuire la dipendenza economica di
Washington da Pechino.
Alla
fine del 2024 però, sebbene le relazioni commerciali tra i due Paesi non
potessero definirsi buone, erano evidentemente migliorate.
Inoltre,
fino alla fine e per tutta la durata del mandato di Biden, la postura
statunitense nei confronti della Cina è rimasta definita e strutturata nella “Grand
China Strategy”.
I pilastri di questa politica erano quelli di
investire in patria, allinearsi con gli alleati e soprattutto competere con la
Cina per mantenere un ordine internazionale basato su regole condivise.
L’obiettivo era quello di plasmare l’ambiente
strategico intorno a Pechino, piuttosto che tentare di cambiarne direttamente
il comportamento.
Una
nuova guerra commerciale e il “decoupling”.
Il
primo giorno di una nuova guerra commerciale, già piena di colpi di scena, è
stato battezzato dal Presidente Trump come il “Liberation Day”, ovvero il
momento d’inizio per la rinascita dell’industria americana e per rivendicare il
destino del Paese.
Il giorno della liberazione ha segnato
l’inizio di quello che in economia viene chiamato “decoupling”, che indica un
forte indebolimento o la fine dell’interdipendenza economica fra due Paesi, in
questo caso Cina e Stati Uniti.
Oltre
alla competitività, negli ultimi anni le Amministrazioni americane hanno
cercato da un lato di enfatizzare il potenziale della Cina come partner
commerciale, dall’altro hanno cercato di rispettare la logica dello “small
yard, high fence”, imponendo rigide restrizioni a un numero limitato di
tecnologie con un significativo potenziale militare, mantenendo però i normali
scambi economici in altre settori.
Questo
approccio tendenzialmente ottimista, però, sembrerebbe del tutto svanito.
La
prima guerra commerciale lanciata da Trump nel 2018 non è riuscita a eliminare
del tutto la dipendenza degli Stati Uniti dalla produzione manifatturiera
cinese.
Sebbene
le due maggiori economie mondiali abbiano spesso faticato ad andare d’accordo,
l’idea dominante fino ad oggi è stata quella di rimanere partner commerciali,
in quanto più vantaggioso dell’essere nemici.
Al
contrario, i recenti aumenti tariffari introdotti nel mese di aprile 2025 hanno
fatto salire le imposte sulla maggior parte dei beni cinesi fino al 145%, con
il rischio concreto di compromettere in modo significativo il commercio
bilaterale tra le due potenze.
Non
solo, anche le imposte su altri Paesi vanno a ledere significativamente le
esportazioni cinesi verso Paesi terzi che a loro volta spediscono le loro merci
negli Stati Uniti.
I
rischi di una guerra commerciale per l’economia mondiale e il cambio di rotta
di Trump.
Gli
Stati Uniti e la Cina sono le due maggiori economie del mondo e lo stato delle
loro relazioni commerciali ha conseguenze, oltre che per entrambi i Paesi, per
l’economia globale tutta.
I
potenziali rischi legati agli effetti della guerra commerciale iniziata da
Trump, non solo contro la Cina, sono stati riassunti dall’ultimo rapporto dell’”Organizzazione
Mondiale del Commercio”.
Nel
report, sotto la voce “trade concerns” si fa riferimento a come le tariffe
imposte dagli Stati Uniti danneggeranno le economie di tutto il mondo e
costringeranno a un ridimensionamento delle stime di crescita globali.
Secondo
le nuove stime dell’OMC, il commercio globale totale si contrarrà dello 0,2%
rispetto a una crescita prevista del 2,7% senza i dazi.
La crescita della produzione mondiale è
prevista al 2,2%, con un incremento dello 0,6% inferiore rispetto ad un
ipotetico scenario senza dazi.
Inoltre, le scelte intraprese
dall’amministrazione Trump non solo hanno allontanato la possibilità di
raggiungere gli obiettivi economici sperati, ma hanno portato l’economia
statunitense sull’orlo di una seria crisi, in soli cento giorni.
Tra
gli obiettivi dichiarati vi era soprattutto quello di ridurre l’inflazione, ma
diversi economisti si aspettano che la strategia commerciale di Trump non farà
che aumentarla.
Trump
aveva poi promesso più crescita, la riduzione del debito pubblico e di
migliorare la bilancia commerciale, tutti obiettivi difficilmente raggiungibili
con le attuali politiche tariffarie, che avranno potenzialmente effetti opposti
a quelli sperati.
Tra le
aspettative di crescita globali ridimensionate, l’alta probabilità di un
aumento dell’inflazione e l’assenza di una strategia economica sistematizzata,
Trump ha quindi allontanato considerevolmente il sogno di un’America grande e
di una nuova età dell’oro.
Il
possibile cambiamento di rotta rispetto a posizioni così radicali non si è fatto
attendere.
Trump ha infatti paventato una possibile inversione di
tendenza nella sua guerra commerciale con la Cina anche per la continua
volatilità del mercato, affermando che le elevate tariffe sui prodotti cinesi
caleranno “sostanzialmente”, anche se non verranno azzerate.
Anche
il segretario al Tesoro “Scott Bessent “aveva anticipato che la rottura netta o
il disaccoppiamento tra le due economie non sarebbero stati sostenibili nel
lungo periodo.
L’imprevedibilità
delle azioni di Trump, anche nell’ambito della politica commerciale, è il
tratto distintivo in questa fase del suo secondo mandato.
Nella
sua politica commerciale, Trump ha ripreso il nazionalismo economico di matrice
mckinleyana, impiegando nei suoi recenti annunci sui dazi reciproci una
retorica che richiama quella utilizzata dal presidente “William McKinley” a
fine Ottocento.
La
ragione per cui sono stati applicati dazi così elevati non è tuttavia chiara,
dato che la Casa Bianca non ha mai delineato una linea narrativa esplicita e
univoca sugli obiettivi finali di Trump riguardo alla sua politica economica.
Le continue oscillazioni del Presidente,
culminate nel tentativo di ridimensionare l’escalation con la Cina durante uno
degli ultimi interventi pubblici, contribuiscono a rendere particolarmente
difficile comprendere quali siano realmente le sue intenzioni.
C’è
quindi molta attesa per la fine della pausa di novanta giorni sulle imposte
decisa da Trump.
Si fa
sempre più remota la possibilità che una volta terminata la pausa Trump decida
di mantenere il prezzo della guerra commerciale così alto o che imponga dazi
reciproci ad altri Paesi, ovvero che agisca allo stesso modo di quanto fatto
con la Cina fino ad ora.
La
decisione di sospendere i dazi ad altri Paesi ha dato un sollievo immediato ed
evidente ai mercati, con un rialzo delle azioni e dei future sulle materie
prime.
Le
stesse dichiarazioni riguardo alla possibile svolta ha avuto un immediato
effetto positivo sul mercato.
Però, come spiegato da “Joe Bruselles”,
economista capo di “RSM US”, il rischio che l’economia americana entri in
recessione non è scomparso, data la quantità di shock simultanei che ha
assorbito.
Inoltre,
non è al momento evidente come possa agire la Cina, che non ha ancora fatto
marcia indietro come avrebbe voluto Trump, ma ha risposto con la stessa moneta.
TRUMP
TRA CINA, TAIWAN E BIG TECH
“Perché il tycoon ha sbagliato
metodo
e rischia di perdere.”
ilsussidiario.net
- Massimo Introvigne – (4 Giugno 2025)
– Paolo Rossetti – ci dicono:
Un
libro sulla “Apple in Cina” svela che l’azienda USA ha investito più del piano
Marshall.
Anche
per questo Trump vede “Xi Jinping” come il suo vero nemico:
Trump
vuole parlare con Xi Jinping e sistemare tutto, ma la realtà dei rapporti fra
USA e Cina è molto complicata.
E, al di là dei dazi, il presidente americano
vede il Dragone come il suo vero nemico sulla scena mondiale.
Il dossier tariffe, sul quale Washington e
Pechino stanno litigando, rinfacciandosi violazioni degli accordi sulle terre
rare o sulla fornitura di componenti tecnologiche, è intrecciato con altre
questioni fondamentali, commenta “Massimo Introvigne”, sociologo fondatore del
“Cesnur” e del sito “Bitter Winter”, come l’annessione di Taiwan alla Cina
Popolare, che potrebbe cambiare le carte in tavola.
Dopo
l’accordo di Ginevra il clima sembrava un po’ più disteso, ora invece i
rapporti USA-Cina appaiono ancora incagliati.
A che punto sono?
Credo
che in questo momento ci siano due diversi problemi sul tappeto:
uno, ovviamente, è quello dei dazi; l’altro è
Taiwan.
Le
dichiarazioni di “Hegseth” su un possibile attacco di Pechino sono state
immediatamente condannate dalla portavoce del ministero degli Esteri cinese.
Non sono state smentite, ma non si può smentire un piano di annessione che, dal
1949, fa parte dei programmi del Partito Comunista Cinese.
Cosa
c’è dietro le dichiarazioni del capo del Pentagono?
In
Cina ci sono diverse interpretazioni.
Una ricorda che “Hegseth” è stato responsabile
di altre gaffes e sostiene che sia un dilettante allo sbaraglio, che ripete
quello che legge sui blog “MAGA”.
L’altra, invece, pensa che dietro ci sia una
precisa strategia che si accompagna a esercitazioni di militari americani a
Taiwan in queste settimane:
ci sarebbe in atto, insomma, un tentativo di
testare le reazioni cinesi e di vedere fino a dove si vogliono spingere.
Ipotesi entrambe plausibili.
Sui
dazi, comunque, si è riacceso lo scontro. Il motivo del contendere è il
rallentamento delle forniture di terre rare da parte dei cinesi?
Sì,
però i cinesi, a loro volta, imputano agli americani di avere bloccato la
fornitura di componenti elettronici essenziali per una serie di produzioni, in
particolare nel comparto aeronautico, senza le quali Pechino non può costruire
aerei.
Componenti
di cui hanno bisogno per usi civili, anche se non c’è nessuna garanzia che non
vengano utilizzati per usi militari.
Sui
dazi, la strategia degli stop and go di Trump ha suscitato reazioni negative
negli uomini di business e nei mercati, e probabilmente confonde anche i cinesi.
Cos’ha
in mente davvero Trump?
Credo
che abbia sul comodino un libro appena uscito e diventato un bestseller.
O almeno, conoscendo il tipo, un riassunto che
si è fatto fare dall’intelligenza artificiale…
Il
volume, molto istruttivo, è “Apple in China” ed è stato scritto da un
pluripremiato giornalista che si chiama “Patrick McGee”.
Racconta che, dal 2016, la Apple ha investito
in Cina 275 miliardi di dollari, più del piano Marshall.
Se ne
deducono due cose:
la
prima è che l’economia cinese è largamente finanziata dalle grandi imprese
americane;
la
seconda è che una società come Apple è talmente legata a filo triplo alla Cina
da aver fatto suoi anche gli schemi di produzione cinese, che non sono uguali a
quelli occidentali.
Cosa
ha significato tutto ciò dal punto di vista industriale?
L’azienda
non ha esportato il modello americano, ma si è adattata a quello locale: questa
è una delle ragioni per cui anche ai vertici di Apple ci sono state delle
epurazioni.
Non
solo, la tecnologia targata USA, lo si spiega in un altro capitolo del libro di
McGee, in barba ai contratti firmati, è passata a Huawei.
Il che vuol dire che Huawei può vendere
telefonini competitivi come quelli di Apple.
Ci sono delle cause in Occidente sulla
proprietà intellettuale, ma durano decenni.
Trump
ha ben presente questa situazione?
Ha
espresso concetti molto simili in un’intervista proprio su Apple, nella quale
dice che imporrà tasse enormi se la produzione non verrà riportata negli USA.
La prima reazione di “Tim Cook” è stata
questa:
se si vuole portare la produzione negli Stati
Uniti, un americano dovrà pagare un iPhone 3.000 dollari e non 900.
Di
fronte a questo scenario, però, l’approccio di Trump sembra all’insegna del
“vorrei ma non posso”.
Capisce
la dipendenza dai cinesi, ma non riesce a scalfirla?
L’atteggiamento
di Trump si esprime sempre nella strategia dello stop and go.
Lo
vediamo anche in relazione all’Ucraina, all’Europa, a Taiwan.
Un
sistema per le trattative commerciali che probabilmente ha imparato dal suo
maestro, il per altri versi famigerato avvocato “Roy Cohn”, che è stato anche
consigliere di “Joe McCarthy”, il senatore della caccia alle streghe contro i
sospetti comunisti.
Si
tratta di una tattica per disorientare l’avversario cambiando continuamente
posizione.
Può funzionare se devi comprare un palazzo, ma
molti analisti dubitano che sia un sistema che funzioni nella politica
internazionale.
Perché?
In
questo campo gli interlocutori, a differenza degli immobiliaristi, non
ragionano solo in termini puramente economici, ma anche ideologici.
Nella
“follia” di Trump c’è un metodo, ma non è detto che sia quello giusto per
l’occasione.
Nel mondo degli affari è studiato e non privo
di controversie, ma ha una sua tradizione e funziona.
Non succede lo stesso con Hamas, gli
ayatollah, Putin o Xi Jinping, perché non operano secondo le teorie per cui si
persegue sempre l’interesse economico: qualche volta sono disposti ad agire in
nome di un interesse ideologico.
A
breve e a lungo termine che sviluppi dobbiamo attenderci? Trump e Xi Jinping si
incontreranno? E a lungo andare, come saranno i rapporti fra i due Paesi?
Penso
che tutti i dossier siano collegati: non si possono scindere i dazi da Taiwan.
Se la Cina domani attacca Taipei, è chiaro che si rifletterà anche sui dazi.
Vedo, tuttavia, un tentativo cinese di tenere
distinti il sostegno di Pechino alla Russia, i dazi e Taiwan.
Ma non
sarà facile, anche perché bisogna tenere conto pure del Congresso USA e degli
elettori americani, che dovranno esprimersi nelle elezioni di midterm.
La
speranza di un’intesa, che si intravedeva dopo Ginevra, è già tramontata?
Credo
che Trump voglia uscire dalla politica dei dazi, perché ha visto che le
reazioni dei mercati e di Wall Street non sono favorevoli e perché è sottoposto
a pressioni dai suoi stessi grandi elettori, le grandi aziende americane.
Certo,
se da parte della Cina ci fossero azioni particolarmente aggressive nei
confronti di Taiwan, tutto cambierebbe.
Cosa
aspetta USA e Cina, un futuro da nemici?
Trump,
da una parte, vuole arrivare ad accordi di tipo commerciale, ma, dall’altra, a
differenza di Putin, vede “Xi Jinping” come un nemico strategico.
Se,
dal punto di vista militare e politico, ci fossero momenti di forte
contrapposizione, come l’invasione di Taiwan o l’occupazione di zone contese
col Giappone o le Filippine, avrebbero dei riflessi sulle politiche
commerciali.
Trump
e il mondo MAGA non vedono Putin come un nemico pericoloso per gli Stati Uniti.
Forse lo sarà per la UE, ma
all’amministrazione USA dell’Europa non importa nulla. Gli americani, invece,
vedono “Xi Jinping” come pericoloso.
(Paolo Rossetti).
Una
tregua non chiude la
guerra
di potere tra Usa e Cina.
Lavoce.info - Alessia Amighini – (16/05/2025)
– ci dice:
Stati
Uniti e Cina cercano di disinnescare la guerra commerciale in corso: hanno
annullato alcuni dazi punitivi reciproci e sospeso altri per novanta giorni.
Ma
cosa significa per il resto del mondo l’accordo tra le due maggiori economie?
La
de-escalation tra Washington e Pechino.
Il
presidente Donald Trump aveva ripetutamente dichiarato che non avrebbe ridotto
i dazi senza concessioni da parte della Cina, ora la mossa degli Stati Uniti a
favore di un’intesa è stata una prova del riconoscimento dei costi di una
guerra commerciale totale contro Pechino.
Il
malcontento di aziende e consumatori americani per l’aggressiva politica
commerciale della nuova amministrazione ha fatto capitolare, per ora, il
presidente Trump sui dazi più pesanti (con qualche eccezione, per esempio
quelli sul “fentanyl”, una potente droga oppioide esportata dalla Cina), almeno
per 90 giorni, il tempo per provare ad aprire colloqui più formali con Pechino.
Per il
momento, quindi, il risultato è che i dazi aggiuntivi degli Stati Uniti sulle
importazioni cinesi – cioè quelli recentemente imposti in aggiunta al primo
round – scenderanno dal 145 al 30 per cento, mentre i dazi cinesi alzati di
recente aumentati su alcune importazioni statunitensi caleranno dal 125 al 10
per cento.
Si
tratta di un’importante de-escalation:
la maggior parte dei dazi annunciati dopo il
“Liberation Day” sono stati annullati. Se anche fossero ripristinati dopo i 90
giorni, quelli statunitensi sulla Cina salirebbero solo al 54 per cento e
quelli cinesi sugli Usa al 34 per cento.
La
Cina ha dichiarato inoltre che sospenderà o revocherà le contromisure adottate
come ritorsione all’escalation.
All’inizio
di aprile, il governo cinese aveva ordinato infatti restrizioni
all’esportazione di metalli e magneti di terre rare, componenti fondamentali
per automobili, aerei e semiconduttori.
I
primi segnali.
L’accordo
tra le due economie più potenti del mondo è importante ed è stato accolto con
grande favore da imprese, consumatori e borse di tutto il mondo, ma è difficile
prevedere le prossime tappe della guerra commerciale in corso tra Stati Uniti e
Cina.
Proprio
questa ulteriore incertezza non aiuta le imprese a prendere decisioni, anche
perché si aggiunge a quelle create dall’amministrazione Usa sul fronte
commerciale:
quali
i paesi colpiti, quanta la percentuale di dazio, per quanto tempo e quali le
‘condizioni’ richieste per sospenderli.
Una
tregua temporanea di dazi doganali così elevati può certo essere una bella
notizia per le imprese di entrambi i paesi, con qualche segnale che già non
manca. Innanzitutto, l’escalation della guerra commerciale negli ultimi mesi ha
portato a un crollo della quantità di merci spedite attraverso l’Oceano
Pacifico, a scapito del valore di borsa del settore delle spedizioni, ora gli
investitori ritengono che la tregua porterà a una ripresa, con azioni in rialzo
per alcune delle più grandi società di spedizione del mondo.
Inoltre,
dopo aver sospeso temporaneamente una certa quantità di ordini verso la Cina,
le imprese statunitensi oggi si trovano di fronte a una domanda repressa, che
porterà a un aumento dei prezzi dei trasporti, dovuti al tentativo di
programmare le spedizioni durante la finestra negoziale di 90 giorni.
(Dai
dazi alla crisi finanziaria?).
Nel
corso del tempo gli effetti sono ancora più incerti, poiché i colloqui tra i
due governi sono destinati a proseguire, possibilmente per raggiungere un
accordo più generale, i cui contorni sono però totalmente imprevedibili.
E così
il mondo è passato da un sistema di governance del commercio internazionale
fondato su trattati e regole multilaterali, rispettate dalla maggior parte dei
paesi del mondo, a uno dove i grandi e potenti dettano regole preferenziali ad
hoc, usandole come armi di ricatto, e i paesi piccoli e poveri subiscono danni
profondi, che possono mettere a rischio la sopravvivenza di milioni di persone.
È pur
vero che proprio il sistema di “libero scambio” regolato e promosso dall’”Omc
“(Organizzazione mondiale del commercio), di cui sono membri 166 paesi, Cina
inclusa, ha permesso e favorito l’accumularsi di grandi squilibri commerciali,
non solo per una spiccata divisione internazionale del lavoro tra il Nord e il
Sud del mondo, con benefici per entrambi, ma anche per la resistenza di Pechino
a diventare una vera economia di mercato.
Il
segretario al Tesoro statunitense “Scott Bessent” ha dichiarato che entrambi i
paesi concordano sul fatto che “nessuna delle due parti vuole un
disaccoppiamento”, mentre il ministero del Commercio cinese ha affermato che
l’accordo è un passo per “gettare le basi per colmare le differenze e
approfondire la cooperazione”.
“Bessent”
ha detto che i due paesi potrebbero discutere di accordi per far sì che la Cina
acquisti più beni americani.
Le
conseguenze per il resto del mondo
Per
capire meglio quali siano le caratteristiche dell’interdipendenza tra Stati
Uniti e Cina, è utile guardare alle prime cinque voci di export da entrambi i
lati (tabella esistente).
Nel
2024, la principale categoria di beni esportati dagli Stati Uniti alla Cina
sarà la soia, utilizzata principalmente per nutrire i 440 milioni di suini che
si stima siano allevati nel paese asiatico.
Gli
Stati Uniti hanno esportato anche prodotti farmaceutici e petrolio.
Pechino ha esportato grandi volumi di
elettronica, computer e giocattoli.
La
categoria più importante delle importazioni statunitensi dalla Cina è quella
degli smartphone, che rappresenta il 9 per cento del totale.
Nell’insieme,
gli Stati Uniti acquistano dalla Cina molto di più (440 miliardi di dollari) di
quanto vendano (145 miliardi di dollari), e il riequilibrio è da sempre
l’obiettivo dichiarato del presidente Trump.
“Bessent”
ha inoltre suggerito che i due paesi potrebbero aiutarsi a vicenda bilanciando
le rispettive economie, sostenendo che gli Stati Uniti potrebbero ripristinare
il proprio settore manifatturiero, se la Cina riducesse la propria
sovrapproduzione.
Mentre
i comunicati da parte cinese, per voce del vicepremier “He Lifeng”, affermano
che l’obiettivo di un futuro accordo è stabilire un “meccanismo di
consultazione” tra Stati Uniti e Cina, “per consentire scambi regolari e
irregolari relativi alle questioni commerciali”.
Di
fatto, è una vera e propria deroga ai principi stabiliti dai trattati
internazionali: la politica commerciale di Trump promuove un allontanamento – e
non un avvicinamento – della Cina dai principi di sana concorrenza e assenza di
trattamenti preferenziali, seguiti dal resto del mondo nella produzione di
merci.
Ciascuna
delle due parti afferma di aver riportato una vittoria attraverso questo primo
accordo, ed entrambi si sentono in una posizione psicologicamente più forte di
prima.
Il
mondo però sta peggio, e non solo temporaneamente, se le regole condivise sono
sostituite da guerre di potere tra pochi grandi paesi.
Lo
stop della Cina sulle terre rare
rischia
di mandare in tilt il settore
automobilistico
globale.
Today.it
– Serena Console – (4 giugno 2025) – ci dice:
Trump
si prepara ad affrontare direttamente la questione con il presidente cinese “Xi
Jinping” in un colloquio telefonico atteso nei prossimi giorni.
(LaPresse).
La
tregua commerciale tra Cina e Stati Uniti potrebbe presto naufragare.
Al
centro del nuovo scontro c'è il blocco imposto da Pechino sulle esportazioni di
terre rare, materiali fondamentali per l'industria tecnologica e
automobilistica globale.
La mossa ha già generato ritardi nelle
forniture e alimentato i timori di una nuova escalation tra le due maggiori
economie del mondo.
Il
nodo dell'export delle terre rare.
In un
attacco frontale, il presidente Donald Trump ha accusato Pechino di aver
violato gli accordi raggiunti a Ginevra, in Svizzera, che hanno portato alla
sospensione per un periodo di 90 giorni dei dazi doganali "punitivi"
fino al 12 agosto.
Pur senza fornire dettagli specifici sulle
presunte violazioni, fonti vicine all'amministrazione statunitense indicano che
al centro delle tensioni ci sarebbe proprio il nuovo sistema di controllo
sull'export imposto da Pechino.
La
Cina blocca l'export di terre rare: terremoto per l'industria tech.
Per
comprendere il contesto, bisogna tornare al 2 aprile, quando Trump ha
dichiarato una guerra commerciale contro la gran parte dei paesi del mondo nel
suo "Liberation Day".
In
risposta ai dazi "reciproci" imposti dal presidente statunitense sui
prodotti cinesi (per tariffe fino al 145 per cento), il 4 aprile il governo
cinese ha imposto restrizioni all'esportazione di sei metalli pesanti e terre
rare e dei magneti che ne derivano.
Una
mossa tattica, che ne sottolinea la leva geopolitica.
La
Cina rappresenta il 61 per cento della produzione globale di terre rare
estratte, ma il suo controllo sulla fase di raffinazione è molto più elevato,
attestandosi al 92 per cento della produzione globale, secondo l'”Agenzia
Internazionale per l'Energia”.
L'intesa
di Ginevra prevedeva la riapertura delle esportazioni di alcune terre rare,
dopo che la Cina ne aveva sospeso in modo sostanziale la vendita verso gli
Stati Uniti.
Ma i
segnali di crisi sono tornati a emergere già dal 12 maggio, quando il
“Dipartimento del Commercio americano” ha emesso un avviso contro l'uso dei
chip di intelligenza artificiale “Ascend”, prodotti dalla cinese “Huawei
Technologies”.
Un
provvedimento interpretato da Pechino come l'ennesimo tentativo di ostacolare
la propria crescita tecnologica.
L'allarme
dell'industria dell'auto motive: "Ci saranno ritardi nella produzione."
Ufficialmente,
le nuove misure non costituiscono un divieto assoluto: le esportazioni sono
ancora possibili, ma richiedono l'approvazione preventiva del governo cinese
per ogni singola spedizione.
Il risultato è un rallentamento che ha messo
in difficoltà molte aziende internazionali, colpendo settori chiave come
automotive, aerospazio e difesa.
Le
terre rare interessate dalle restrizioni sono impiegate in numerose
applicazioni critiche, dai motori a reazione ai laser, dai fari per auto ai
condensatori dei chip che alimentano server per l'intelligenza artificiale e
smartphone.
Tra i materiali soggetti ai nuovi controlli
c'è l'”ossido di disprosio”, usato in motori elettrici, sistemi di guida e
tecnologie militari.
A
Shanghai, il suo prezzo si aggira oggi attorno ai 204 dollari al chilo, ma
fuori dalla Cina i costi sono molto più alti, complici le incertezze legate
alla disponibilità.
In una
lettera indirizzata all'amministrazione Trump, gruppi come “General Motors” Toyota,
“Volkswagen” e “Hyundai” hanno chiesto un intervento urgente per evitare
conseguenze sulla produzione.
Se in
Europa alcune licenze sono già state concesse, tra cui a fornitori del gruppo
Volkswagen, l'industria automobilistica indiana resta in attesa.
Le
principali case del Paese hanno fatto sapere che senza autorizzazioni saranno
costrette a sospendere le attività già dai primi giorni di giugno.
A
confermare le difficoltà è anche “Bosch”, tra i maggiori produttori mondiali di
componenti per auto, che ha segnalato come i propri fornitori siano rimasti
impantanati nelle nuove e più rigorose procedure di Pechino.
"Se
la situazione non cambia rapidamente, non si potranno più escludere ritardi
nella produzione e persino interruzioni della stessa", ha dichiarato alla “Reuters”
“Hildegard Mueller”, responsabile della lobby automobilistica tedesca.
Trump:
"Ne parlerò presto con Xi."
Non è
la prima volta che Pechino sfrutta il suo predominio sulle terre rare come leva
geopolitica.
Nel
2010 aveva interrotto le spedizioni verso il Giappone per quasi due mesi a
causa di una disputa territoriale.
Alla
fine del 2023 ha imposto un divieto sull'esportazione delle tecnologie di
estrazione e separazione delle terre rare.
In
aggiunta, ha già limitato le forniture di altri materiali strategici come
gallio, germanio, antimonio e i cosiddetti "materiali super duri",
tutti elementi cruciali per l'industria americana.
La
speranza che Pechino faccia un passo indietro aleggia nello Studio Ovale.
Trump
si prepara ad affrontare direttamente la questione con il presidente cinese Xi
Jinping in un colloquio telefonico atteso nei prossimi giorni.
Ma
anche da parte sua arrivano segnali di cautela:
"Mi
è sempre piaciuto e mi piacerà sempre, ma è molto duro ed è estremamente
difficile fare accordi con lui", ha scritto su “Truth” parlando del leader
di Pechino.
(today.it/mondo/stop-cina-terre-rare-tilt-settore-automobilistico.html).
È
questo l'uomo dietro
la
politica cinese di Trump?
Unz.com - Mike Whitney – (2 maggio 2025) – ci
dice:
I dazi
di Trump sono una parte di una strategia su più fronti volta per impedire alla
Cina di diventare la potenza dominante in Asia. La componente militare di
questa strategia è progettata per funzionare in sincronia con la guerra
commerciale, circondando la Cina con basi militari e vicini ostili che si sono
arruolati nell'alleanza anti-cinese di Washington.
L'autore
di questo piano di contenimento è” Elbridge Colby”, che attualmente ricopre il
ruolo di Sottosegretario alla “Difesa per la Politica”, una posizione di alto
livello del Pentagono che assiste nella definizione della politica di difesa.
Colby
non è un neocon, infatti, la sua nomina è stata contestata al Senato sulla base
del fatto che non era sufficientemente impegnato ad attaccare l'Iran, che non
considera una seria minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Colby
è concentrato sulla “Cina”, che vede come una minaccia esistenziale
all'"ordine internazionale basato sulle regole".
Ecco
alcuni estratti dalla “Strategia di Difesa Nazionale “del 2018, un documento
che è stato fortemente influenzato da Colby.
Gli
estratti sottolineano quanto le élite occidentali si sentono minacciate dalla
Cina e perché (credono) di dover agire per proteggere i loro interessi:
La
Cina e la Russia stanno ora minando l'ordine internazionale dall'interno del
sistema, sfruttandone i benefici e contemporaneamente minando i suoi principi e
le sue 'regole della strada'".
La
Cina sta sfruttando la modernizzazione militare, le operazioni di influenza e
l'economia predatoria per costringere i paesi vicini a riordinare la regione
indo-pacifica a loro vantaggio". (2018 NDS, p. 2)
La
sfida centrale alla prosperità e alla sicurezza degli Stati Uniti è il
riemergere di una competizione strategica a lungo termine da parte di quelle
che la” Strategia di Sicurezza Nazionale” classifica come potenze revisioniste.
È
sempre più chiaro che la Cina e la Russia vogliono plasmare un mondo coerente
con il loro modello autoritario, ottenendo l'autorità di veto sulle decisioni
economiche, diplomatiche e di sicurezza di altre nazioni. (NDS 2018).
L'NDS
2018 di Colby segna la fine della guerra al terrorismo e l'inizio di una
"grande competizione di potere".
Rappresenta
un riequilibrio strategico delle risorse statunitensi dalle località
dell'Europa orientale e del Medio Oriente all'Indo-Pacifico.
Suggerisce anche che gli Stati Uniti saranno
coinvolti in diversi tipi di conflitti rispetto agli ultimi 20 anni;
conflitti
che richiedono armi convenzionali, truppe da combattimento e una robusta
capacità industriale piuttosto che azioni segrete, guerriglia e sistemi d'arma
boutique.
La guerra sta tornando alla sua forma
originale, uno scontro mortale e distruttivo tra stati sovrani.
Come
abbiamo notato in precedenza, l'obiettivo principale di “Colby” impedisce alla
Cina di emergere come egemone regionale dell'Asia.
Al
fine di raggiungere questo obiettivo, raccomanda una politica di deterrenti
avanzati (più basi, truppe e armi letali), forti coalizioni regionali anti-Cina
e "un Pentagono riformato in grado di rispondere rapidamente agli sviluppi
in Asia".
“Colby”
non vede la sua politica come provocatoria o escalation, ma la considera
semplicemente come il modo migliore per preservare il posto dell'America nell'ordine
mondiale.
In
termini pratici, sostiene la “Strategia della negazione”, (che è il nome del
suo libro del 2021) un piano che si concentra sull'impedire alla Cina di
raggiungere l'egemonia regionale creando ostacoli troppo costosi da superare.
L'obiettivo
è convincere la Cina che qualsiasi tentativo di rompere l'accerchiamento di
Washington (con la forza militare) si tradurrà in perdite inaccettabili.
Questa
strategia di negazione è la politica operativa de facto dell'amministrazione
Trump.
Non
sorprende che Colby veda la sua strategia come un modo per evitare la guerra,
non per iniziarne una. Ecco Colby:
"L'obiettivo
non è quello di combattere una guerra, ma di dissuaderla chiarendo a Pechino
che non può avere successo nei suoi obiettivi aggressivi, in particolare contro
Taiwan o altri alleati chiave".
(Articolo di Affari Esteri, ottobre 2021)
Gli
"obiettivi aggressivi" della Cina? Gli Stati Uniti stanno provocando
la Cina nel loro cortile di casa mentre – sotto la Dottrina Monroe – gli Stati
Uniti affermano il controllo su un intero emisfero. Ecco di nuovo Colby:
"Taiwan è il fulcro della Prima Catena
di Isole, e la sua caduta in mano alla Cina minerebbe fondamentalmente la
posizione strategica degli Stati Uniti in Asia, incoraggiando Pechino e
indebolendo le nostre alleanze".
(La strategia della negazione, p. 87)
"Difendere
Taiwan non è una questione di sentimentalismo, ma di interessi strategici a
muso duro. Se la Cina controlla Taiwan, dominerà il Pacifico occidentale,
minacciando il Giappone, le Filippine e la nostra credibilità". (Testimonianza alla Commissione per i
servizi armati del Senato, gennaio 2025)
Quindi,
secondo la politica di Trump, gli Stati Uniti intendono negare alla Cina
l'accesso a un'isola (Taiwan) che hanno già concordato di essere legalmente
parte della Cina (politica di una sola Cina) e poi procedono a provocare
Pechino conducendo esercitazioni navali nello Stretto di Taiwan o nel Mar
Cinese Meridionale?
È questo il piano?
In che
modo questo è diverso dalla politica di Biden?
Gli
Stati Uniti non stanno già utilizzando le loro agenzie di intelligence e le ONG
per rafforzare il movimento indipendentista a Taiwan?
Gli
Stati Uniti non stanno già "armando Taiwan fino ai denti" in
un'aperta dimostrazione di disprezzo per il governo di Pechino?
Gli
Stati Uniti non stanno già costruendo più basi militari, rafforzando le
alleanze anti-cinesi e rendendosi un fastidio ovunque vadano attraverso
l'Indo-Pacifico?
Il
tono sobrio e la retorica deferente di “Colby” fanno sembrare la sua politica
di "negazione" più innocua di quanto non sia.
In
verità, la strategia è solo il “Contenimento 2.0”;
Più
molestie, più molestie e più incitamento come abbiamo visto ripetutamente per
più di un decennio.
Inutile
dire che le opinioni di Colby sulla Cina si allineano strettamente con quelle
di Trump.
entrambi
vedono la Cina come il principale nemico strategico dell'America, entrambi
sostengono il rafforzamento delle alleanze anti-cinesi nella regione ed
entrambi vogliono rafforzare i deterrenti militari degli Stati Uniti.
E mentre la retorica di Trump può essere più
incendiaria di quella di Colby, entrambi sembrano essere d'accordo sul fatto
che la Cina deve essere trattata con il pugno di ferro.
Naturalmente,
la Cina è preoccupata che l'approccio conflittuale di Trump inneschi un
incidente che verrà usato come pretesto per la guerra.
La
Cina preferirebbe impegnarsi diplomaticamente con gli Stati Uniti per vedere se
le parti possono risolvere pacificamente le loro differenze, ma questa potrebbe
non essere un'opzione.
Dopo
tutto, l'amministrazione è di competenza esclusiva degli intransigenti, dei
neoconservatori e dei falchi della guerra.
Non ci
sono "colombe" nel Team Trump né nell'intero establishment della
politica estera. Ciò significa che la "pace" non sarà nella lista
delle scelte.
Nota— Abbiamo chiesto a “Grok AI” se ci
fosse anche una sola "colomba" in una posizione di potere
nell'amministrazione Trump o nell'establishment della politica estera degli
Stati Uniti.
L'unico
nome che “Grok” è riuscito a trovare è stato quello di “Rand Paul”, che non fa
parte né dell'amministrazione né dell'establishment della politica estera.
Il
numero di sostenitori della pace nel governo è pari a zero.
La
democrazia americana è una
bufala:
i governanti americani
non
sono il popolo.
Unz.com - Paul Craig Roberts – (3 giugno 2025)
– ci dice:
Ho recentemente recensito (paulcraigroberts.org/2025/04/27/are-americans-still-americans/
), in un
saggio intitolato "Opening the CIA's Can of Worms" (Aprire il vaso di
Pandora della CIA), si spiega chi ha creato e mantiene il mondo narrativo
romanzato in cui gli americani vivono ignorando i veri obiettivi operativi.
“Curtin”
afferma che è la “CIA”, non i media, le aziende di Internet o i politici, a
controllare le narrazioni.
I padroni della CIA sono i potenti interessi
finanziari e aziendali da cui dipende il successo americano.
Il
racconto di Curtin è parallelo alla confessione del Comandante Generale dei
Marines “Smedley Butler”, secondo cui lui e i suoi Marines erano gli esecutori
in America Latina della “United Fruit Company” e delle New York Banks”.
Esistono
infinite prove documentate a sostegno della conclusione di Curtin.
Molto
è stato scritto sull'"Operazione Mockingbird" della CIA, ora
descritta dai media della CIA, come Wikipedia, come "presunta
operazione".
A
partire dal 1950, la CIA iniziò a ricorrere a tangenti, come le "fughe di
notizie" ai media americani, concepite per influenzare l'opinione pubblica
americana e straniera con narrazioni controllate che promuovevano programmi
segreti.
Le "fughe di notizie" della CIA
fecero carriera ai giornalisti che potevano attestare che i loro direttori
erano "fonti della CIA" e conquistare la prima pagina, se non i
titoli.
La
maggior parte dei giornalisti considerati influenti sono risorse della CIA.
Più
recentemente, il libro di “Udo Ulfkotte”, " Bought Journalism" , ha
rivelato che lui, un direttore del più grande quotidiano tedesco, e alcuni dei
giornalisti più importanti d'Europa sono agenti della CIA.
La
notizia è stata confermata da “Otto Schulmeister, caporedattore ed editore del
quotidiano austriaco “Die Presse” (paulcraigroberts.org/2019/10/22/udo-ulfkottes-book-exposing-cia-control-of-western-journalism-now-available-in-english/ ).
Sono
stati svelati i suoi legami con la CIA.
Lo
sappiamo anche dal libro di “Stephen Kinzer, “The Brothers”, che ci racconta la
storia di come il Segretario di Stato americano John Foster Dulles e il
Direttore della CIA Allen Dulles si servirono del Dipartimento di Stato, della
CIA e di giornalisti americani e stranieri per assistere i clienti aziendali
del loro potente studio legale.
Oggi,
naturalmente, i numerosi fatti comprovati vengono liquidati dai media
prostituti e da Wikipedia come teorie del complotto.
I collaboratori della CIA continuano a
svolgere il loro compito di controllare le narrazioni.
Curtin
condivide l'affermazione di “Douglas Valentine” nel suo libro rivelatore,
"La CIA come crimine organizzato ":
"La
CIA e i media sono parte della stessa cospirazione criminale".
Con le
sue parole, Curtin aggiunge:
"I
media mainstream corporativi sono stenografi per le operazioni psicologiche in
corso dello stato di sicurezza nazionale rivolte al popolo americano, lo stesso
che hanno fatto per un pubblico internazionale.
Siamo stati a lungo sottoposti a questa
"guerra dell'informazione", il cui scopo è quello di conquistare i
cuori e le menti del popolo americano e di pacificarlo per rendere vittima
della sua stessa complicità, proprio come è stato praticato dalla CIA in
Vietnam e dal New York Times, dal Washington Post, dalla CBS, ecc., sul popolo
americano nel corso degli anni, mentre lo stato americano di guerra conduce
guerre senza fine, operazioni sotto falsa bandiera e omicidi in patria e
all'estero che svolgono .
E
ancora, milioni di americani idioti siedono davanti ai "notiziari"
televisivi e si sottomettono al loro indottrinamento.
Un
popolo così stupido non può sopravvivere in libertà.
In “The
Secret Team”, “Fletcher Prouty “ha documentato che la CIA ha piazzato agenti in
ogni agenzia del governo degli Stati Uniti.
“
Frances Stonor Saunders” ( La guerra fredda culturale ) e “Joel Whitney”
(Finks) hanno spiegato come gli agenti della CIA “Cord Myer” e” Frank Wisner “gestissero
programmi segreti che convertivano i sostenitori del Primo mostrano in” voci
per la censura.
Abbiamo
visto i risultati.
Abbiamo
una falsa storia dell'11 settembre, una falsa storia delle nostre guerre in
Medio Oriente, una falsa storia del Covid e del "vaccino" Covid, una
falsa storia dell'"invasione russa dell'Ucraina", una falsa storia
delle "armi nucleari iraniane" ma non una parola sulle armi nucleari
israeliane.
Siamo
vittime di un'enorme macchina della menzogna.
Curtin
ci ricorda che non molto tempo fa il “New York Times” ha allegramente riferito
che “Robert F. Kennedy, Jr.”, che ha documentato per anni gli effetti avversi
dei vaccini sui bambini, è stato "escluso da Instagram per false
affermazioni sul virus".
La donna, “Jennifer Jett”, che ha scritto la
frase, non ha usato la parola "presunto".
In che
modo “Jennifer Jett” o “Instagram” dovrebbero la minima qualifica per sapere
che le affermazioni di Kennedy sono false?
Quello
che vediamo qui sono i media utilizzati da “Big Pharma” per screditare una
fonte altamente competente.
Per
anni ho osservato esperti altamente credibili screditati da operatori dei media
di zero risultati.
Nessuno
di cui nessuno ha mai sentito parlare diventa l'esperto.
Per
quanto ne so, alle ultime due generazioni di laureati del sistema educativo
statunitense – in realtà di lavaggio del cervello – non è stato insegnato a
leggere.
Possono
riconoscere un numero limitato di parole, ma non possono padroneggiare il
significato delle parole sulla pagina.
Questo
è in parte dovuto alla progettazione e in parte ai risultati di scuole integra
che richiedono uguali risultati di rendimento razziale.
L'élite
al potere trova molto più facile ingannare e controllare le persone che non
riescono a capire ciò che leggono.
Poiché
non è consentito che le etnie bianche e asiatiche si comportino meglio come
gruppo rispetto ai neri e agli ispanici, gli standard sono ridotti al punto che
tutti possono avere lo stesso voto.
Di
recente ho partecipato a una cerimonia di diploma di una scuola superiore nel
nord della Florida.
Il 41%
dei diplomati ha ottenuto il massimo dei voti (Summa Cum Laude, Magna Cum Laude
e Cum Laude).
Qual è secondo te la spiegazione?
Un'alta
concentrazione di geni geniali o l'abbassamento degli standard per nascondere
le differenze razziali nei risultati scolastici?
Tra
qualche anno, il 100% dei diplomati avrà ottenuto il massimo dei voti (Summa
Cum Laude), e la distinzione non avrà più alcun significato.
Nel
numero autunnale 2023 del “City Journal” , “Renu Mukherjee” denuncia la
distruzione delle scuole superiori d'élite americane, come la “Thomas Jefferson
High School for Science and Technology” nel nord della Virginia, la “Stuyvesant
High School” e la “Bronx High School of Science”.
Le scuole prevedevano severi test di
ammissione per garantire che gli studenti ammessi fossero in grado di
beneficiare di un'esperienza costosa e impegnativa.
Poiché
la maggior parte degli studenti era composta da asiatici e bianchi, gli
standard educativi basati sul merito sono stati dichiarati razzisti dai tiranni
della “DEI” (Diversità, Istruzione e Formazione) che ci governano e hanno il
controllo sull'istruzione americana.
In
luogo dei test di ingresso, a ciascuna scuola media dell'area geografica è
concessa una quota delle ammissioni.
Forse da lì diventa una lotteria.
In
ogni caso, il risultato è quello di abbassare le percentuali dei più
qualificati e di aumentare le percentuali dei meno qualificati.
Per i
meno qualificati che si laureano con una quota uguale di lode, gli standard
devono essere abbassati.
Nell'interesse
della “DEI”, le scuole superiori preparatorie d'élite vengono distrutte.
Il
fatto che le scuole superiori d'élite hanno ceduto alla propaganda secondo cui
il merito è razzista preannuncia la fine della scienza e dell'ingegneria
americana.
Con il
passare del tempo, gli Stati Uniti diventeranno dipendenti dagli immigrati
cinesi, indiani e russi per la loro scienza e tecnologia.
Proprio
come le distinzioni “cum laude” stanno perdendo il loro significato, così
stanno perdendo il loro significato.
In
passato significava qualcosa essere nominato Assistente Segretario. Non lo fa
più.
Dopo
le nomine “DEI” di Biden, che includevano pervertiti sessuali, l'onore che era
associato alla nomina e alla sua conferma al Senato non c'è più.
Lo stesso è accaduto alla magistratura.
Gli ideologi incompetenti del punk da due
soldi che il Congresso ha nominato in panchina difficilmente possono essere
rispettati.
Sono i nemici della giustizia e del popolo
americano.
Attualmente
sono impegnati a lavorare per ribaltare le elezioni presidenziali.
Non
c'è da stupirsi che l'establishment al potere abbia lasciato vincere Trump.
Sapevano che potevano fermarlo a freddo con la
magistratura e spingerlo nella loro direzione con consigli che gli davano
"prospettive più ampie".
I “maga-americani”
dovrebbero considerare che se il presidente Trump si rifiuta di accogliere
l'establishment al potere, si trova di fronte alla possibilità che le elezioni
di medio termine vengano rubate per i democratici.
Di nuovo a capo del Congresso, metteranno
sotto accusa e condanneranno Trump.
Quindi
incriminare lui e il suo governo, terrorizzare i suoi sostenitori e stabilire
la “DEI Woke Truth” sull'America.
La
fine dell'esperimento dei Padri Fondatori potrebbe essere molto vicina.
Ma non
aspettatevi che gli stupidi americani se ne rendano conto.
Sono prede facili perché sono coinvolti nella
loro stessa complicità.
La “catastrofe”
della fertilità in Cina.
Unz.com
- Eugene Kusmiak – (3 giugno 2025) – ci dice:
La
Cina era il paese più popoloso del mondo. Ma a causa del suo bassissimo tasso
di natalità, i decessi ora superano le nascite e il paese si sta riducendo.
Questo saggio racconterà alcuni dei fatti
allarmanti sull'implosione demografica della Cina.
È molto peggio di quanto si pensi.
In
questo articolo mi baso su due statistiche governative: il tasso di fecondità e
il PIL pro capite.
Il tasso di fecondità è generalmente misurato
come il numero di figli per donna. Può essere considerato come figli per coppia
o figli per famiglia, ma include tutte le donne single o sposate.
Il livello di sostituzione della fecondità è
di 2 figli per donna.
In Cina, il livello di sostituzione è di 1
figlio per donna, ovvero la metà del livello di sostituzione
. Ciò
significa che ogni generazione è solo la metà della popolazione della
generazione precedente.
Il PIL
pro capite misura la produzione, e quindi il reddito medio, dei residenti del
Paese.
Il PIL
pro capite della Cina lo qualifica come un Paese a "reddito medio",
ed è questo il termine che userò per definirlo.
Una
descrizione migliore potrebbe essere povera, perché la Cina è certamente povera
per gli standard americani.
Ma è a
reddito medio per gli standard globali, e confronterò la Cina con il resto del
mondo, non solo con gli Stati Uniti.
I
numeri raccontano la storia, ma lo fanno in modo insipido.
Un
aneddoto personale può dipingere un quadro più preciso di cosa significhi
effettivamente "reddito medio":
quando
io e mia moglie siamo andati a “Guilin”, in Cina, abbiamo visitato un sito
turistico chiamato “Moon Hill”, dove si può salire a piedi fino alla cima di
una montagna locale per ammirare le formazioni carsiche calcaree intorno al
fiume “Li.”
Il parcheggio era pieno di anziane donne in
attesa di vendere cose ai turisti. Quando siamo scesi dall'auto, le donne ci
sono corse incontro e quelle arrivate per prime ci hanno perseguitato per tutto
il tempo che siamo rimasti nel parco, mentre le altre sono tornate al
parcheggio ad aspettare i turisti successivi.
Le
donne che si sono attaccate a noi sono state impressionanti nella loro
perseveranza.
Ci
hanno seguito durante la salita fino alla cima di “Moon Hill,” trascinando
ghiacciaie piene di bottiglie d'acqua, sperando di venderci qualcosa se
avessimo avuto sete.
Poi ci
hanno seguito fino alla discesa, ricordandoci sempre che avevano bevande
fresche in vendita.
Una
volta tornati ai piedi della collina, abbiamo comprato un pacchetto di
cartoline dalle donne per circa un dollaro.
La
nostra guida privata ci ha rimproverato per aver pagato il prezzo intero, cosa
che nessun turista cinese avrebbe fatto.
Considerando
il numero esiguo di turisti e l'elevato numero di donne, abbiamo ipotizzato che
guadagnassero circa 10 dollari al giorno.
Gli
americani in genere non hanno idea di quanto siano poveri gli altri Paesi.
Cosa
dicono gli esperti.
Secondo
molti parametri, la Cina ha la più grande economia del mondo, avendo superato
gli Stati Uniti diversi anni fa.
Ma
questo non è particolarmente sufficiente per dire che il popolo cinese sia
ricco. Il reddito pro capite della Cina è solidamente nella media,
classificandosi al 58esimo percentile tra tutti i paesi, anche utilizzando il
modo più generoso di calcolare il loro tenore di vita, noto come "parità
di potere d'acquisto".
Il
motivo per cui l'economia totale della Cina è così grande è perché la sua
popolazione è così enorme:
PIL
(grande) = numero di persone (enorme) e reddito pro capite (medio).
Ma la
più grande forza della Cina – la sua popolazione – potrebbe non rimanere enorme
a lungo.
La Cina è già scivolata al #2 posto nella
popolazione totale del mondo, dietro l'India.
E dopo
qualche altra generazione in cui si avrà un solo figlio per famiglia, è solo
matematica che la popolazione sarà piccola e l'economia sarà minuscola.
In effetti, le attuali proiezioni demografiche
sono che, entro la fine di questo secolo, la popolazione cinese crollerà a 500
milioni (a causa del loro basso tasso di natalità) mentre la popolazione
americana salirà a 700 milioni (a causa della nostra alta immigrazione).
Se ciò accadrà, l'economia cinese avrà le
dimensioni del Canada.
Dire
"la Cina sarà come il Canada" può sembrare un'iperbole, ma non lo è.
Lo standard per confrontare le economie dei
paesi è il PIL nazionale.
Ecco
un confronto tra il Canada con 100 milioni di persone e la Cina con 500
milioni, utilizzando i dati attuali per il PIL pro capite e le proiezioni della
popolazione nell'anno 2100:
Paese PIL pro capite nel 2023 Popolazione nel 2100 PIL;
Canada $53.431/giorno 100 milioni 5 trilioni di
dollari;
Cina $ 12.614/giorno 500 milioni 6 trilioni di
dollari;
Stati
Uniti $82.769/giorno 700 milioni 58
trilioni di dollari.
La
Cina può avere grandi ambizioni.
Ma al
ritmo con cui la sua popolazione sta diminuendo, ha le stesse probabilità di
diventare una superpotenza del nostro "51 ° stato".
Nel
bene o nel male, il XXI secolo si sta rivelando un altro secolo americano.
La
Cina dovrà quintuplicare (5 volte) la sua produttività e raddoppiare (2 volte)
la sua fertilità solo per tenere il passo con gli Stati Uniti.
Credo
che possa fare il primo obiettivo, ma non il secondo.
Al di
fuori dei periodi di guerra, la diminuzione della popolazione è pressoché
sconosciuta nel mondo moderno.
Nessuna economia, moderna o primitiva, può
funzionare quando l'intera popolazione di un paese invecchia, si ammala e poi
cessa di esistere.
Una popolazione più piccola non significa solo
un'economia più piccola.
Le
economie, per funzionare, richiedono un'innovazione costante.
È
difficile immaginare come persone anziane, malate o decedute possano innovare.
Una
perdita demografica delle dimensioni che la Cina sta affrontando non significa
solo un'economia in contrazione, ma un'economia al collasso.
Per
avere un buon esempio di cosa significhi, si pensi al “Nuovo Mondo” quando i
nativi amerindi incontrarono per la prima volta gli europei e contrassero
malattie verso cui non avevano difese immunitarie, subendo una perdita di
popolazione del 90% nel primo secolo dopo il contatto.
I demografi affermano che la Cina affronterà
una perdita di popolazione di oltre il 60% entro la fine di questo secolo.
Nessuno penserà alla Cina come a una
superpotenza emergente dopo aver perso i 2/3 dei suoi cittadini.
Secondo
il” Peterson Institute for International Economics”:
"Nulla
suggerirebbe che il TFR cinese [Total Fertility Rate] si invertirà e aumenterà
di nuovo nel lungo periodo –
la
Corea del Sud è in testa con il suo TFR in calo a 0,72, ma Hong Kong, Taiwan,
Singapore, Pechino, Shanghai e altre importanti metropoli cinesi oggi hanno
tutte TFR pari o ben al di sotto di 1.
Rispetto
a questi luoghi, il Giappone è un paese ad alta fertilità".
La
previsione meno pessimistica per il futuro della Cina si trova nel rapporto
delle Nazioni Unite sulle prospettive della popolazione mondiale:
"A
causa delle sue grandi dimensioni e del basso livello di fertilità, è probabile
che la Cina registri il più grande calo demografico di qualsiasi paese fino
alla fine del secolo, [perdendo] 786 milioni di persone.
Entro
il 2100, si prevede che la Cina avrà perso più della metà della sua attuale e
che sarà tornata a una dimensione della popolazione paragonabile a quella
registrata alla fine degli anni '50.
Per essere chiari, la perdita di 786 milioni è
un cambiamento netto: morti – nascite = 786 milioni.
Altre
previsioni sono ancora più pessimistiche.
E non
sono solo gli occidentali a prevederlo.
L'Accademia delle Scienze Sociali di Shanghai
prevede che entro la fine di questo secolo la popolazione cinese si ridurrà di
quasi 2/3, passando da 1,4 miliardi a 525 milioni.
L'anno scorso, prevedevano 600 milioni di
cinesi nel 2100, ma ogni anno il tasso di natalità "sorprende" al
ribasso, e le stime devono essere ulteriormente riviste al ribasso.
La popolazione cinese sta implodendo sotto i
nostri occhi, eppure i sostenitori della Cina (e i suoi nemici) si aspettano
ancora la sua imminente vittoria sull'Occidente.
Come
ho sottolineato altrove, la tanto discussa malattia bianca del suicidio
demografico è in realtà molto più grave in Asia.
Gli
asiatici si stanno letteralmente eliminando, volontariamente.
Non è
così che si comportano i Paesi con un futuro.
C'è una malattia mortale in Cina, e le parole
felici degli amici della Cina (o le parole spaventose dei nemici della Cina)
non risolveranno il problema.
Ci sono molte teorie sul perché questo stia
accadendo.
Ma
qualunque sia la causa, la cosa importante per il futuro della Cina è che ciò
stia accadendo.
Se un
paese smette di riprodursi, il suo futuro è l'oblio.
Non
importa cos'altro faccia – quanto sia forte la sua economia, qual è il suo
primato nell'intelligenza artificiale, quanti missili costruisca. I
l suo
futuro è l'estinzione e ogni anno che passa questo destino diventa più
difficile da invertire.
Perché
si.
Esiste
una forte correlazione negativa tra la ricchezza di un paese e il suo tasso di
fertilità.
Come
regola generale, i paesi ricchi hanno meno figli e i paesi poveri ne hanno di
più.
Ma ci
sono eccezioni a questa regola.
La Cina è una grande eccezione: la Cina è un
paese a reddito medio con un tasso di natalità che sarebbe incredibilmente
basso anche in un paese ad alto reddito.
La
gente si aspetta grandi cose (o cose terribili, a seconda della prospettiva)
dalla Cina perché ha già realizzato grandi cose.
L'economia cinese è cresciuta in modo
esponenziale negli ultimi 50 anni, a partire dagli orribili livelli di povertà
sotto Mao Zedong.
Sin dalle riforme del libero mercato di “Deng
Xiaoping”, i cinesi sono passati dall'essere tra le persone più povere del
pianeta ad essere oggi piuttosto nella media.
Questo
è un risultato enorme.
Ma
cosa viene dopo?
Tutti
danno per scontato che l'economia cinese continuerà a crescere e che il popolo
cinese continuerà a diventare più ricco.
OK,
diciamo che è vero.
E poi?
In
ogni Paese della storia, l'aumento del reddito ha causato un calo dei tassi di
natalità.
Si può
discutere sul perché, ma non si può negare che non sia vero.
È quello che è successo in altri Paesi, ed è
quello che succederà in Cina.
Se il tasso di natalità della Cina fosse
attualmente alto come quello di altri Paesi a medio reddito, forse non sarebbe
un male.
Ma a
differenza di quei Paesi, il tasso di natalità della Cina è già anormalmente
basso.
Il
problema è che non sono ancora ricchi!
Chiunque
si aspetti che l'economia cinese continui a crescere deve anche aspettarsi che
il tasso di natalità continui a scendere.
Quando
finalmente diventeranno veramente ricchi, quale sarà il loro tasso di
fertilità?
0,5
figli per famiglia? 0,1 figli per famiglia?
Cosa
succederà allora?
La
risposta è ovvia. A meno che non riescano a sviluppare la tecnologia per far
crescere i bambini in capsule e allevarli con i robot, il loro destino è
inevitabile: non importa quanto ricca, potente o tecnologicamente avanzata
diventi la Cina, il loro Paese finirà per ridursi all'irrilevanza.
Non
solo la popolazione cinese sta attualmente diminuendo, ma non c'è praticamente
nulla che possano fare per fermare questa situazione.
Anche se il governo riesce in qualche modo a
convincere le donne cinesi ad avere figli, oggi non ci sono abbastanza giovani
donne nella popolazione per invertire il declino in corso.
Basta
guardare la piramide demografica prevista per il 2030 dal censimento del
governo cinese del 2020:
Si può
vedere dalla piramide dell'età della popolazione che la maggior parte dei
cinesi ha già più di 40 anni.
Non
possono avere altri figli anche se lo volessero.
Il
governo potrebbe puntargli una pistola alla tempia e non avrebbe importanza.
Non c'è modo di tornare indietro dallo squilibrio di età che già esiste.
I dati demografici della popolazione sono
prevedibili nei decenni futuri perché si possono semplicemente ignorare tutti
coloro che hanno più di 40 anni.
Gli
adulti infertili sono irrilevanti per il futuro.
La
Cina semplicemente non ha abbastanza giovani per produrre i figli necessari per
evitare che la popolazione vada in crisi.
Non c'è modo di riprendersi dalla folle
politica del passato della Cina di avere così pochi figli per così tanto tempo
che la maggior parte della popolazione ha già superato l'età fertile.
Questo
non è in discussione.
È un
triste fatto biologico.
Quindi,
la popolazione cinese non può che diminuire da qui.
La piramide delle età diventerà ancora più
pesante man mano che le famiglie continueranno ad avere un figlio.
Se la fertilità cinese rimane dov'è – a metà
del livello di sostituzione – ogni generazione sarà la metà della generazione
precedente.
Immaginate un triangolo (tutti in Cina di età
inferiore ai 40 anni), tranne per il fatto che invece di un triangolo stabile
con una base larga, è un triangolo capovolto in equilibrio sulla punta.
Questa
è la struttura per l'età della Cina oggi.
Come
dice George Soros, "Non sto fare previsioni. Sto osservando".
Cosa
mostrano i dati.
Esistono
dati a supporto della mia cupa visione del futuro della Cina?
Sì, e
chiunque può scaricarli gratuitamente da” Our World” in “Data” all'indirizzo: (ourworldindata.org/grapher/effective-fertility-rate-children-per-woman-who-are-expected-to-survive-until-childbearing-age).
Questo
sito web di dati contiene i tassi di fertilità per ogni paese del mondo.
Il suo
database sulla fertilità comprende quasi 200 paesi, incluse voci separate per
le regioni cinesi di Hong Kong, Macao e Taiwan.
Il 2023 è l'anno più recente per cui sono disponibili
dati sulla fertilità per ogni paese, quindi è quello che userò nella mia
analisi qui di seguito.
“Our
World in Data” riporta il "tasso di fecondità effettivo" anziché il
più comune "tasso di fecondità totale", ma si tratta essenzialmente
della stessa cosa.
(Per essere precisi, “OWID “calcola il tasso
di fecondità totale di ogni Paese dalle “Prospettive della Popolazione Mondiale”
delle Nazioni Unite, lo combina con i tassi di mortalità per età dei Paesi
tratti dall'”Human Mortality Database” ed esegue il seguente calcolo per
convertire il TFR in EFR:
EFR =
TFR per probabilità che i neonati sopravvivano fino all'età fertile.
Quando
si utilizza il “TFR, che conta semplicemente il numero di bambini nati, è
necessario effettuare un aggiustamento ad hoc per quanti di essi
sopravviveranno fino all'età riproduttiva.
Ad esempio, è convenzionale dire che un TFR di
2,1 figli per donna è un livello di fertilità sostitutivo.
Ma perché è 2.1, non 2.0 o 2.2?
Perché il presupposto è che il 95% dei bambini
sopravviverà fino all'età adulta. Quindi, dei 2,1 bambini nati, 2,0 adulti
sopravviveranno per poter avere figli propri.
Gli adulti 2.0 sostituiscono esattamente la
donna (e l'uomo) che li ha partoriti. Quindi, 2.1 è il TFR approssimativo
del livello di sostituzione perché 2.0 è l'esatto livello di sostituzione EFR.
Ma il
tasso di mortalità di ogni paese è diverso.
I paesi occidentali hanno una sopravvivenza
molto superiore al 95% e i paesi africani hanno una sopravvivenza molto
inferiore al 95%.
Quindi, per confrontare correttamente i paesi,
il TFR deve essere moltiplicato per la percentuale di bambini che
sopravviveranno.
EFR lo fa.
In questo studio, sono interessato solo ai
paesi ad alto e medio reddito il cui tasso di sopravvivenza è in genere ben
oltre il 95%, quindi EFR e TFR sono quasi identici.
Nel
caso specifico della Cina nell'anno 2023, il suo TFR = 1,00 e il suo EFR = 0,99
perché la Cina ha l'1% di mortalità infantile, quindi si prevede che il 99% dei
neonati sopravviverà fino all'età fertile.)
Esistono
indicati i tassi di fertilità effettivi di Cina e America dal 2010 al 2023 in
forma di grafico:
Il
crollo della fertilità della Cina fa sembrare gli Stati Uniti in buona salute
al confronto.
Di
recente, ogni anno, il tasso di natalità cinese ha toccato un nuovo minimo.
E non
sta solo diminuendo come negli Stati Uniti, ma sta precipitando.
(A proposito, non posso fare a meno di
sottolineare che alcune persone credevano che il vaccino COVID negli Stati
Uniti avrebbe depresso i tassi di natalità negli Stati Uniti. Mi chiedo cosa
pensino del vaccino cinese contro il COVID.)
Osservando
il grafico esistente sopra, tenete presente che la politica del figlio unico in
Cina è terminata nel 2015.
Il governo cinese è preoccupato per il numero
troppo esiguo di figli.
Ma il
popolo cinese sta facendo l'opposto di ciò che le autorità vogliono.
La
Cina ha recentemente incoraggiato attivamente la maternità, ma le nascite
continuano a diminuire.
È noto
che i ricchi hanno meno figli dei poveri, e i paesi ricchi meno dei paesi
poveri.
Il
reddito è molto importante, anche se non è del tutto chiaro il perché, dato che
il segno della relazione è controintuitivo.
Esistono
però due modi per misurare il reddito:
in valuta grezza e in valuta corretta per il
potere d'acquisto.
Entrambe
le misurazioni predicono la fertilità in modo molto negativo.
Il reddito corretto per il potere d'acquisto
funziona leggermente meglio, quindi è quello che userò, ma nessuna delle mie
conclusioni cambierebbe se utilizzassi il reddito grezzo.
Il
reddito corretto per il potere d'acquisto non solo ha prestazioni leggermente
migliori a livello empirico, ma ha anche più senso a livello teorico.
I redditi nei paesi poveri sono bassi,
ovviamente.
In
Cina, il PIL pro capite era di 12.614 dollari a persona nel 2023.
Ma
anche i prezzi nei paesi poveri sono bassi, quindi le persone possono
acquistare di più con il loro basso reddito.
Secondo i dati ufficiali, i prezzi in Cina per
tutti i beni di consumo sono circa la metà di quelli negli Stati Uniti.
Prendere
in considerazione tutti i beni a basso prezzo e i servizi pubblici gratuiti
nella misurazione del reddito si chiama "correzione per la parità del
potere d'acquisto".
Il PIL
pro capite cinese, corretto per la parità del potere d'acquisto, era di 24.569
dollari a persona nel 2023.
Poiché
la parità del potere d'acquisto fornisce la migliore misurazione del potere di
spesa individuale, è la statistica giusta per comprendere le decisioni dei
cinesi, come ad esempio quanti figli avere.
Esiste
un grafico di tutti i 191 paesi nel database” OWID”, con il PIL pro capite a
parità di potere d'acquisto sull'asse X (utilizzando una scala log-lineare) e
il tasso di fertilità effettivo sull'asse Y.
Si può
vedere la forte relazione tra reddito e fertilità quando i punti scendono in un
forte declino: da più di 4 figli a basso reddito a meno di 1 figlio ad alto
reddito:
La
linea rossa è l'adattamento migliore da una regressione lineare di EFR ~
log(PIL pro capite a PPP).
La pendenza della retta di regressione è
fortemente negativa e statisticamente significativa.
Il
grande punto rosso nella parte inferiore del grafico è la Cina.
Mostro
anche i nomi di tutti gli altri paesi con tassi di fertilità inferiori a 1,0 su
questo grafico.
5 dei 7 di questi paesi a bassissima fertilità
sono una maggioranza cinese: Cina, Hong Kong, Macao, Taiwan e Singapore.
La Cina continentale è una grande eccezione
negativa rispetto alla linea di tendenza (insieme all'Ucraina), un paese un
reddito medio con una fertilità molto bassa.
Israele è una grande eccezione positiva: un
paese ricco con un'altissima fertilità.
Ho
tracciato delle linee verticali sul grafico in corrispondenza del 25 ° e 75 °
percentile del PIL pro capite a parità di potere d'acquisto (PPA) per separare
i paesi in a basso, medio e alto reddito.
La Cina si trova al 58 ° percentile, quasi al
centro dell'intervallo.
La
Cina si colloca nella fascia intermedia dei paesi a medio reddito.
Il
punto chiave è: i cinesi evitano di avere figli più di qualsiasi altro popolo
sulla terra, e non c'è paragone:
Tra i
paesi a medio reddito (tra il 25 ° e il 75 ° percentile di reddito), la Cina e
l'Ucraina devastata dalla guerra hanno i tassi di fertilità più bassi.
(Presumibilmente, la bassa fertilità in Ucraina è causata dalla guerra.)
Tra i
paesi ad alto reddito (oltre il 75 ° percentile), Hong Kong, Macao, Taiwan e
Singapore, a maggioranza cinese, sono 4 dei 5 paesi con il tasso di fertilità
più basso.
Cina e
Ucraina hanno registrato i due tassi di fertilità più bassi tra tutti i paesi a
medio reddito nel 2023.
C'è qualcosa di notevole in questo:
il 2023 è stato l'anno successivo
all'invasione russa dell'Ucraina.
Quindi,
in un anno normale i cinesi hanno avuto lo stesso numero di figli degli ucraini
nell'anno in cui il loro paese è stato distrutto.
Questo dovrebbe indurre a una riflessione
introspettiva chiunque ammiri la Cina: cosa dice del paese il fatto che, almeno
sotto questo aspetto, i cinesi in un anno normale si comportino come gli
ucraini quando i loro uomini vengono massacrati e le loro donne fuggono dal
paese?
Cosa
sta succedendo in Cina?
A
giudicare da tutti i punti di vista, sembra un bel posto. Eppure la sua gente
evita i bambini come vittime in una zona di guerra.
I
sostenitori della Cina a volte dicono che gli americani possono avere più
soldi, ma i cinesi godono di tutti i beni pubblici che il socialismo fornisce:
tutto è sovvenzionato, l'istruzione e la
medicina sono praticamente gratuite, il governo sembra davvero preoccuparsi del
suo popolo, “Xi Jinping” è un autocrate molto competente, il loro internet non
può essere divisivo o degenerato.
i loro figli guardano video educativi e non
TikTok o Instagram.
Inoltre,
la Cina gode di migliaia di anni di storia, dell'economia in più rapida
crescita del pianeta, di una tecnologia leader a livello mondiale, di
bellissime città di nuova costruzione, di un basso costo della vita, di strade
sicure di notte senza criminalità nera, di un'elevata aspettativa di vita
tipicamente asiatica, dell'ordine sociale e dell'unità nazionale, volontaria o
meno.
Seguono
la saggezza tradizionale del confucianesimo e rifiutano il “globo homo”
moderno.
Non
hanno un Grande Sostituto, nessun problema con la diversità.
Il popolo cinese non è inondato dai valori
egoistici e atomizzati degli americani. Non sono cattivi individualisti
deformati dall'avidità capitalista, ma buoni collettivisti con spirito
comunitario e famiglie allargate che mancano alla nostra società.
Eppure,
nonostante tutto ciò sembri bello, i cinesi sembrano sentire che il loro futuro
è troppo cupo per avere dei figli.
Cosa
succede?
Poiché
la bassa natalità è diventata ultimamente un problema politico in molti paesi,
molte persone cercano una soluzione politica.
Spesso
si inizia chiedendosi perché si abbiano così pochi figli.
La risposta che tutti danno a questa domanda è
la stessa: non possono permetterseli.
Inutile
dire che questa risposta è assurda.
La Cina è l'esempio più estremo di questa
assurdità.
50 anni fa, sotto il comunismo maoista, i
cinesi erano incredibilmente poveri, ma potevano permettersi di avere figli.
Anzi, avevano così tanti figli che il governo
adottò la politica di un figlio per famiglia per ridurre la popolazione in
rapida crescita del paese.
Quando
Mao Zedong morì e Deng Xiaoping assunse il potere, la Cina divenne capitalista
e visse il più grande miracolo economico della storia mondiale.
Un miliardo di persone uscì dalla povertà.
Non
diventarono ricche, ma passarono dalla povertà più assoluta a quella che per
gli standard globali è considerata la classe media.
Nei 50 anni trascorsi da Mao, il loro tenore
di vita aumentò letteralmente del 4000%.
Ora
che sono più ricchi del 4000% rispetto a prima, dicono di non potersi più
permettere di avere figli.
Quando erano 40 volte più poveri, potevano
permetterseli.
Ora
che sono 40 volte più ricchi, non possono più permetterseli.
C'è
chiaramente qualcosa di ridicolo nell'affermazione che le persone non hanno
figli perché non possono permetterseli.
La Cina è un esempio estremo, ma questo vale
per ogni Paese: se le persone oggi non possono permettersi di avere figli, come
avrebbero potuto permetterseli in passato i loro antenati più poveri?
Infine,
il governo cinese ha fornito incentivi finanziari alle coppie sposate per
incoraggiare la procreazione.
Questi
hanno ovviamente fallito miseramente, come hanno fatto in tutti i paesi in cui
sono stati processati, come la Corea del Sud. (La Corea del Nord è 20 volte più
povera della Corea del Sud e il loro tasso di fertilità è quasi 3 volte
superiore. Quindi, i sudcoreani stanno ovviamente sbagliando tutto.)
L'unico
programma finanziario che ha dimostrato di far sì che i cinesi producono più
figli sta rendendo il paese 40 volte più povero.
Funzionerebbe. Ma non sarebbe popolare.
Ho
alcune riflessioni sul perché oggi tutti "non possono permettersi" i
figli e perché più soldi hanno meno "possono permettersi", ma questo
ci porterebbe troppo lontano dall'argomento di questo saggio, che è il futuro
della Cina.
Previsioni.
Ora
non limitiamoci a chiedere, ma proviamo a rispondere alla domanda:
cosa
succederà quando la Cina diventerà ricca?
Tutti
sembrano pensare che la Cina diventerà ricca.
Supponiamo che sia così.
Ogni
altro Paese che è passato da un reddito medio ad uno alto ha visto un enorme
calo delle nascite.
Questo
accadrà anche alla Cina.
Quando
la Cina diventerà ricca, il suo tasso di natalità, attualmente alla metà del
tasso di sostituzione, scenderà sotto la metà.
A cosa
esattamente? A un quarto del tasso di sostituzione? A un decimo? La Cina ha
attualmente il tasso di fertilità più basso tra tutti i Paesi a medio reddito
al mondo (a parte l'Ucraina devastata dalla guerra).
Quando
la Cina diventerà ricca, il suo tasso di fertilità scenderà al livello più
basso tra tutti i Paesi ad alto reddito, il che significa il più basso tra
tutti i Paesi al mondo.
Ma
quanto scenderà? Proviamo a calcolare la risposta.
Tutti
i paesi a maggioranza cinese hanno bassi tassi di natalità. Qui sono ordinati
in base al PIL pro capite, mostrando un andamento pressoché monotono di calo
della fertilità e aumento della ricchezza:
Paese PIL pro capite a parità di potere d'acquisto Tasso di fertilità
Cina $24.569/
giorno 0,99
Taiwan
$71.482/ giorno 0,86
Hong
Kong $71.549/giorno 0,71
Macao $ 116.491/giorno 0,66
Singapore
(popolazione totale) $ 141.553 0,94
Singapore
(solo cinese) ~$150.000 0,79
Taiwan,
Hong Kong e Macao sono quasi interamente cinesi.
Ma
Singapore è composta solo per il 75% da cinesi etnici.
Quindi,
la tabella sopra include un'altra riga per la sola popolazione cinese a
Singapore.
Hanno
un reddito più alto e una fertilità inferiore rispetto ad altri gruppi etnici
come i malesi.
I cinesi a Singapore, essendo sei volte più
ricchi dei cinesi in Cina, hanno una fertilità inferiore a quella della Cina.
Quando
i cinesi diventano ricchi, hanno meno figli, proprio come le persone in tutto
il mondo.
La
Cina, essendo un paese a reddito medio, ha molto spazio per diventare più
ricca, il che significa che ha anche molto spazio per avere meno figli.
Ci
sono due possibili modelli di come i tassi di natalità cinesi potrebbero
diminuire se diventare ricchi:
La
Cina potrebbe essere come gli altri paesi prosperi con popolazione cinese.
Ecco una tabella che mostra la fertilità della
Cina rispetto ai suoi omologhi asiatici a medio reddito, e i media dei paesi
ricchi cinesi (Taiwan, Hong Kong, Macao e la popolazione cinese di Singapore)
rispetto agli asiatici altrettanto prosperi:
Paese EFR previsto EFR
effettivo Differenza
Cina 1,95 0,99 -0,96
Media
dei paesi ricchi cinesi 1.20 0,75 -0,45
Quindi,
una Cina ricca potrebbe semplicemente essere come gli altri paesi ricchi cinesi
e avere un tasso di fertilità di 0,75.
Tuttavia,
questo ignora l'unicità della Cina tra i paesi cinesi.
La storia della Cina comunista si è
differenziata notevolmente da quella delle nazioni cinesi capitaliste.
La
differenza più rilevante è la politica del figlio unico in Cina.
Per 35 anni, la Cina ha applicato una politica
draconiana che limitava le famiglie ad avere un solo figlio.
(C'erano molte eccezioni a questa regola,
quindi le famiglie cinesi in media avevano più di un figlio, ma il messaggio
del governo era chiaro: non è consentito avere più di uno o due figli).
Nella migliore delle ipotesi, questa storia ha
alterato radicalmente le aspettative delle persone sulle dimensioni della
famiglia.
Nella
peggiore, ha distrutto la famiglia cinese in un modo che richiederà generazioni
per essere riparato – il tempo che la Cina non ha.
Quindi,
consideriamo il risultato se la Cina diventasse ricca ma continuasse ad avere
un tasso di natalità molto inferiore alla sua classe di reddito.
Abbiamo
tutte le informazioni necessarie per effettuare questo calcolo dalla
regressione lineare della natalità sul reddito tra i paesi asiatici:
EFR =
-1,2526 * log10 (PIL pro capite a PPP) + 7,4490
La
Cina ha un PIL pro capite con parità di potere d'acquisto di 24.569 dollari.
Sulla
base della regressione, i paesi asiatici con reddito medio come la Cina
dovrebbero avere un tasso di fertilità di 1,95.
Ma
l'EFR cinese è in realtà solo 0,99.
Quindi,
la fertilità della Cina è inferiore di 0,96 volte rispetto a quanto previsto
dalla regressione dei paesi asiatici.
Ora
proiettiamo quale sarebbe l'EFR della Cina se avesse il PIL pro capite di
Singapore a 141.553 dollari PPP.
Il
modello di regressione prevede che un paese ad alto reddito dovrebbe avere un
tasso di fertilità di 0,99.
Se la
fertilità della Cina continua ad essere inferiore a 0,96 rispetto alla
regressione, allora la sua fertilità effettiva sarebbe di 0,03.
Questa
è la mia previsione sulla "Cina ricca":
quale
sarebbe il tasso di fertilità della Cina se avesse il livello del PIL di
Singapore, pur mantenendo la sua attuale deviazione dal trend.
I
paesi asiatici hanno generalmente tassi di natalità più bassi rispetto ai paesi
non asiatici.
Quindi,
ha senso analizzare la Cina solo nel contesto dell'Asia.
(La mia previsione del tasso di fertilità
della "Cina ricca" sarebbe ancora più bassa di 0,03 se include tutti
i paesi nella regressione, ma siamo ottimisti e confrontiamo la Cina con i
paesi asiatici.)
Di
seguito è riportato un grafico dei soli paesi dell'Asia, che mostra ancora una
volta la linea di regressione e nomina i paesi la cui fertilità è inferiore a
1,0:
Tra
tutti i paesi asiatici, le aree etniche cinesi di Cina, Hong Kong, Macao,
Taiwan e Singapore sono 5 dei 6 con la fertilità più bassa.
L'altro paese è la Corea del Sud.
Nel
grafico , ho evidenziato due punti speciali in rosso:
L'attuale
posizione della Cina, denominata "Cina", mostra che ha la fertilità
più bassa di qualsiasi paese asiatico a reddito medio.
La
posizione futura della Cina, denominata "Cina ricca", se diventerà ad
alto reddito ma continuerà ad avere una fertilità inferiore rispetto ad altri
paesi asiatici ad alto reddito.
La
linea tratteggiata rossa sul grafico mostra questa proiezione, che collega la
posizione attuale della Cina alla posizione prevista per la "Cina
ricca".
Se la
Cina diventasse ricca quanto Singapore, il suo tasso di fertilità sarebbe
previsto pari a 0,03.
Arrotondiamo
questa stima a 0 figli per donna.
Quindi,
ci sono due possibili scenari per cosa accadrebbe se la Cina diventasse ricca:
Potrebbe
accadere come in altri paesi ricchi a maggioranza cinese, e il suo tasso di
fertilità potrebbe scendere allo 0,75.
Potrebbe
essere come sé stessa, solo più ricca, e la sua fertilità scenderebbe allo 0,03
o, a tutti gli effetti, allo 0.
Lo
scenario 1 è un'estinzione lenta. Lo scenario 2 è un'estinzione in una
generazione. La verità sta probabilmente nel mezzo.
L'attuale
tasso di fertilità della Cina è catastrofico.
Se la
Cina si arricchisse, la sua fertilità sarebbe ancora più catastrofica.
Anche
una sola generazione senza figli significherebbe che tutti i superstiti
sarebbero troppo vecchi per averne, quindi il Paese sarebbe destinato alla
rovina. Come molti altri hanno osservato,
"la
Cina è invecchiata prima di arricchirsi".
Ci sono altri Paesi vecchi in Asia, come il
Giappone, per esempio.
Ma si sono arricchiti prima di invecchiare.
Speculazioni.
Uno
dei tanti fatti sorprendenti nei dati sulla fertilità del 2023 è che quello che
era un anno normale in Cina è stato come un anno di totale devastazione e morte
in un paese devastato dalla guerra come l'Ucraina.
Cosa c'è che non va in Cina, comunque?
Posso
solo fare delle ipotesi, e poiché le mie ipotesi probabilmente non valgono
molto, sarò breve:
la crisi della natalità che sta avvenendo oggi
in Cina è solo una versione estrema della crisi della natalità che sta
avvenendo ovunque.
L'evoluzione
non ha programmato gli animali a desiderare la prole.
L'evoluzione ha programmato gli animali a
desiderare il sesso.
Per un miliardo di anni di storia animale, il
sesso ha prodotto prole indipendentemente dal fatto che gli animali la
volessero o meno.
Gli
esseri umani hanno ereditato quegli stessi istinti, che funzionavano bene prima
della contraccezione, ma sono fatali per noi oggi.
Probabilmente
il più delle volte, gli esseri umani non desideravano i figli che il sesso
produceva.
Questa
è la trama di innumerevoli romanzi europei (Thomas Hardy, George Eliot, le
sorelle Brontë, ecc.) prima dell'era moderna.
Ed è per questo che i medici hanno inventato
il controllo delle nascite, e non appena è diventato disponibile, tutti lo
hanno usato, e poi tutti hanno ridotto le dimensioni delle loro famiglie dai
tipici 10 figli a circa 2, e molte persone hanno smesso del tutto di avere
figli.
La
verità è che molte persone potrebbero non aver mai desiderato figli se la loro
vita fosse stata più facile senza di loro.
Le
persone senza figli non sono una patologia della società moderna.
La
mancanza di figli non è causata da Internet, dalla prosperità o dalla morte del
cristianesimo.
È solo che per la prima volta nella storia, le
persone possono ottenere ciò che vogliono, ed è ormai lampante che ciò che
molte persone vogliono è non avere figli.
Se un
controllo delle nascite facile da usare fosse stato disponibile 1000, 10.000 o
100.000 anni fa, probabilmente ci sarebbe stata una crisi di natalità anche
allora, e forse ora non esisteremmo nemmeno.
Ma non era disponibile allora, quindi le
persone non potevano scegliere di non avere figli.
Oggi,
quella tecnologia esiste, quindi le persone scelgono ciò che vogliono, e ciò
che probabilmente hanno sempre desiderato.
Nemmeno
l'egoismo è un'invenzione moderna.
Ma
perché i cinesi in particolare vogliono meno figli rispetto a qualsiasi altro
gruppo etnico?
Potrei scherzare dicendo che è perché sono
così intelligenti.
C'è un detto in demografia: "L'istruzione
è il miglior contraccettivo".
Ma non
è proprio l'istruzione, è l'intelligenza, che è negativamente correlata ai
figli.
Tuttavia,
questa non è una risposta molto soddisfacente.
Non so
davvero perché i tassi di natalità siano più bassi in Cina che in qualsiasi
altro posto.
Ma
statisticamente parlando, dovevano essere più bassi da qualche parte, e quel
posto si è rivelato essere la Cina e i paesi cinesi.
Ogni
etnia si è evoluta in un ambiente diverso, sotto diverse pressioni selettive,
quindi ogni gruppo è diverso sotto ogni aspetto.
Non
c'è un singolo attributo umano che sia lo stesso in bianchi, neri e asiatici, e
il numero di figli che desiderano è solo una di quelle innumerevoli differenze
tra le persone.
Non
c'è motivo per cui avrei potuto immaginare che gli asiatici fossero il gruppo
che desiderava meno figli.
D'altra
parte, non c'è motivo di pensare che non lo fossero.
Di
nuovo, qualcuno deve amare di meno i bambini, e a quanto pare sono gli
asiatici, soprattutto i cinesi.
Ma
qualunque sia la ragione, dobbiamo accettare la realtà e ammettere che gli
asiatici non vogliono figli, e più ottengono ciò che desiderano, meno figli
avranno. I cinesi, a quanto pare, sono solo gli asiatici più estremisti.
Andava
bene quando non avevano la contraccezione onnipresente e non potevano prevenire
le gravidanze.
Ma ora
che ce l'hanno, il loro desiderio di non avere figli sarà il loro suicidio
demografico.
Il
governo cinese può risolvere questo problema semplicemente ordinando ai suoi
cittadini di avere più figli? Direi di no.
Ma
consideriamo prima perché la risposta potrebbe essere sì.
Gli
asiatici orientali in generale, e i cinesi in particolare, sono noti per i loro
altissimi livelli di conformismo sociale.
Non è
solo uno stereotipo. È quantificabile.
In effetti, è un fatto così verificabile che,
nell'hedge fund in cui lavoravo, abbiamo utilizzato serie temporali per
misurare il noto comportamento gregario dei trader azionari cinesi.
Con grande perplessità di noi americani, che
siamo portati a pensare come individui, i cinesi sembrano davvero pensare come
un gruppo, in un modo che deve essere misurato matematicamente per essere
creduto.
Esiste persino un articolo di finanza
sull'argomento, che abbiamo verificato replicandolo, intitolato
"Individualismo e slancio nel mondo":
(onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1540-6261.2009.01532.x).
Anche
se come accademici non possono usare l'insulto etnico "pensiero di
gruppo", descrivono le differenze etniche come "individualismo"
contro "collettivismo".
L'indice
di individualismo che usano nell'articolo è di “Geert Hofstede”.
Ha scoperto che i principali paesi più e meno
individualisti erano:
Paese
dell’Individualismo.
Stati
Uniti 0,91
Australia 0,9
Regno
Unito 0,89
Canada 0,8
Paesi
Bassi 0,8
… …
Cina 0,2
Singapore 0,2
Thailandia 0,2
Corea 0,18
Taiwan 0,17
Indonesia 0,14
L'Oriente
e l'Occidente sono davvero diversi.
Per
me, l'esempio più inquietante del conformismo sociale cinese fu la famigerata
campagna "schiaccia i passeri" durante il "Grande Balzo in
Avanti" di Mao.
Nel
1958, dopo diversi anni di agricoltura collettivizzata, il raccolto agricolo fu
di nuovo deludente e il paese affrontò nuovamente la carestia.
Mao Zedong dichiarò che il problema non era il
comunismo, ovviamente, ma gli uccelli che mangiavano il grano coltivato dalle
fattorie collettive.
Così, ordinò un programma che divenne noto
come "schiaccia i passeri". Gli scolari furono arruolati per
cercare uccelli nelle campagne, in particolare passeri, e per distruggerli.
Ovunque vedessero gli uccelli, dovevano
inseguirli finché non fossero riusciti a catturarli e ucciderli.
Gli
adulti sparavano ai passeri con le pistole e i bambini usavano le fionde.
La gente si arrampicava sugli alberi per
distruggere i nidi dei passeri, rompere le uova e uccidere i pulcini.
Sbattevano
pentole e padelle per spaventare gli uccelli e farli volare e li tenevano in
volo finché non riuscivano più a volare.
I
bambini li inseguirono finché non caddero dal cielo, esausti, e poi li
schiacciarono a morte.
Le
persone, soprattutto i bambini, lo fecero in tutta la Cina finché i passeri non
scomparvero.
I
passeri hanno un metabolismo estremamente elevato e non possono volare a lungo
senza nutrirsi.
Senza una pausa per mangiare o riposare, i
loro piccoli corpi esauriscono rapidamente le riserve di energia e collassano.
Gruppi
di bambini potevano facilmente inseguire stormi di passeri da un albero
all'altro finché gli uccelli non erano così stanchi da cadere a terra inermi.
Poi i
bambini li calpestavano, uccidendo gli inutili mangiatori.
I
bambini delle scuole furono invogliati a unirsi alla campagna dai manifesti
comunisti tipicamente ridicoli dell'epoca, che dicevano cose come "Gli
uccelli sono animali del capitalismo" e "Sradicare parassiti e
malattie e costruire la felicità per diecimila generazioni".
Fortunatamente,
lo sterminio di questi "animali del capitalismo" non è durato
"diecimila generazioni".
Il
programma durò solo due anni, fino a quando i disastrosi risultati ecologici
divennero evidenti.
Dal
1958 al 1960, si stima che siano stati uccisi tra i cento milioni e il miliardo
di passeri.
I
bambini cinesi investigarono e uccisero così tanti uccelli che nel 1960 il
passero fu portato quasi all'estinzione in Cina.
Quell'anno,
senza che i passeri mangiassero il loro cibo principale – che si rivelò essere
insetti e non grano – il paese fu inondato da piaghe di locuste che mangiavano
molto più raccolto di quanto avevano mai fatto gli "animali del
capitalismo".
La
carestia non fece che peggiorare.
Questo è l'orrore del governo totalitario e
del popolo servile.
Ecco
un manifesto di propaganda che recita "Giovani pionieri! Bambini! Fate combattimenti
per eliminare i passeri e aumentare la produzione di grano!":
Esiste
una foto di un ragazzo orgoglioso del suo lavoro di schiacciatore di passeri:
Se
questa storia dell'orrore sembra incredibile (e lo sarebbe se accadesse in un
qualsiasi paese sano di mente), potete leggerla su Wikipedia:
(en.wikipedia.org/wiki/Four_Pests_campaign).
Gli
autori europei creano opere di fantasia come "Il Signore delle
Mosche" o "La Fine dell'Infanzia" immaginando bambini assassini.
Ma i politici cinesi possono creare bambini
assassini nella realtà.
Bande
di bambini spietati, che vagano e uccidono perché il loro Capo glielo ha
ordinato, sono il vero Villaggio dei Dannati.
Di
sicuro un popolo capace di calpestare i passeri fino all'estinzione sarebbe
disposto a riprodursi a richiesta se il governo glielo ordinasse, giusto?
Forse.
Ma forse no.
Le autorità cinesi cercano da anni di
convincere più persone a sposarsi e ad avere figli, senza successo.
Ogni
anno sia i tassi di matrimonio che quelli di natalità scendono a nuovi minimi.
A quanto pare, ci sono alcune cose che i
cinesi non farebbero nemmeno se gli venisse ordinato.
Il
mondo moderno offre a ognuno di noi una libertà di scelta senza precedenti, e
nemmeno il “Partito Comunista Cinese” può toglierla al popolo cinese.
In un
mondo con così tante opzioni, gli individui dovranno inevitabilmente scegliere
se avere figli o meno, e molti sceglieranno di non farlo.
Interi
paesi sceglieranno di non farlo.
Interi popoli si estingueranno perché scelgono
di non farlo.
I cinesi sono solo il caso più estremo di un
popolo che sceglie di non avere figli, che vivano in un paese nominalmente
comunista come la Cina o in un paese esuberantemente capitalista come
Singapore.
Non ha senso negare il futuro che li attende.
Il
destino di un popolo che non ha figli è determinato dalla biologia, e la
biologia non è sentimentale.
È già
chiaro che ci sono molte persone in America, in Europa e in gran parte del
mondo che vogliono molti figli, hanno molti figli e anche i loro figli avranno
molti figli.
Le
loro linee familiari riusciranno a sopravvivere.
Ma
sembra che ci siano poche persone in Cina che vogliono molti figli. Quindi, non
riusciranno a sopravvivere.
Nessun
programma governativo può salvare il popolo cinese, a meno che non inventino
baccelli per il parto e robot per l'allattamento per avere figli per loro.
Naturalmente, se inventeranno i baccelli per
il parto e i robot per l'allattamento, non solo salveranno la Cina, ma
salveranno l'intera razza umana.
Quindi, spero che ci provino.
Ma
chissà se una tecnologia del genere è possibile.
Notizie
più recenti.
Le
autorità cinesi hanno recentemente pubblicato i tassi di matrimonio della Cina
per il 2024.
Ogni
anno il numero di matrimoni diminuisce e sono crollati di un record del 20% dal
2023 al 2024.
Non ci sono quasi nascite fuori dal matrimonio
in Cina, quindi il crollo dei tassi di matrimonio oggi significa il crollo dei
tassi di natalità più tardi. La catastrofe della fertilità in Cina sta
accelerando:
HONG
KONG, 10 febbraio (Reuters) - I matrimoni in Cina sono crollati di un quinto
l'anno scorso, il calo più grande mai registrato, nonostante i molteplici
sforzi delle autorità per incoraggiare le giovani coppie a sposarsi e avere
figli per aumentare il declino della popolazione del Paese.
Più di
6,1 milioni di coppie si sono registrate per il matrimonio l'anno scorso, in
calo rispetto ai 7,68 milioni dell'anno precedente, secondo i dati del
Ministero degli Affari Civili.
"Senza
precedenti! Anche nel 2020, a causa del Covid-2019, i matrimoni sono diminuiti
solo del 12,2%", ha affermato Yi Fuxian, demografo dell'Università del
Wisconsin-Madison.
Ha
fatto notare che il numero di matrimoni celebrati in Cina lo scorso anno è
stato meno della metà rispetto ai 13,47 milioni del 2013.
Se
questa tendenza dovesse continuare, "le ambizioni politiche ed economiche
del governo cinese saranno rovinate dal suo tallone d'Achille
demografico", ha aggiunto.
(reuters.com/world/china/chinese-marriages-slid-by-fifth-2024-further-fanning-birthrate-concerns-2025-02-10).
Quindi, dove stai andando, Cina?
Inventerai
la tecnologia che libererà le donne dalle difficoltà della gravidanza e dalla
fatica della cura dei figli, salvando il tuo Paese e il mondo?
Con la giusta tecnologia, potresti stampare in
3D un miliardo di bambini.
E potresti renderli tutti degli Einstein.
Quel
futuro sarebbe fantastico.
O la
tecnologia fallirà e dovrai subire il destino dettato dalla tua demografia
disfunzionale?
Se è
così, forse in un lontano futuro, quando i cinesi saranno solo una storia
dimenticata dalla storia antica, qualche fertile setta religiosa che vieta il
controllo delle nascite fiorirà nella terra che una volta era la Cina.
“Eugene
Kusmiak “era un bambino con il pannolino rosso e si era laureato ad Harvard.
Dopo
quasi due decenni nella “Silicon Valley” nella programmazione di alcuni dei
primi videogiochi popolari, Gene è tornato a casa a “New York City”.
Ha
trovato il suo lavoro ideale come gestore di portafoglio, lavorando con i geni
della matematica per 20 anni in un hedge fund quantitativo.
Dopo
aver sopportato le città di sinistra per tutta la vita, “Gene” si è ritirato
nel 2022 in una piccola città in uno stato rosso.
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