Occorre accettare il prezzo della libertà.

 

Occorre accettare il prezzo della libertà.

 

 

 

Il giornalismo è cultura, le parole

 vanno usate bene: il monito di

Papa Leone XIV sul “dovere della verità”

Tecnicadellascuola.it - Redazione – (17/05/2025) – Salvatore Di Salvo - ci dice:

 

Riceviamo e pubblichiamo un contributo di “Salvatore Di Salvo”, segretario nazionale “Ucsi”, sul recente incontro di Papa Leone XIV con migliaia di operatori della comunicazione e giornalisti di tutto il mondo, svolto lunedì 12 maggio presso l’Aula Paolo Sesto del Vaticano.

 

Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra”.  

Le parole di Papa Leone XIV hanno centrato il cuore della professione giornalistica richiamando tutti noi al “dovere della verità”.

 Giornalismo e libertà. Giornalismo è libertà. Sfumature grammaticali.

Ma non solo.

Papa Leone XIV, così come i suoi quattro predecessori, ha incontrato i giornalisti di tutto il mondo in udienza a pochi giorni dalla sua elezione. 

 Come in precedenza Papa Francesco, anche Leone XIV ha fatto da sprone affinché tutti noi giornalisti si faccia sempre al meglio il nostro lavoro, nell’interesse dei cittadini ad essere informati in libertà, autonomia e nel rispetto delle persone, senza alcuna discriminazione.

Citando il “discorso della montagna di Gesù”, “Prevost” ci ha invitato “all’impegno di portare avanti una comunicazione diversa, che non ricerca il consenso a tutti i costi, non si riveste di parole aggressive, non sposa il modello della competizione, non separa mai la ricerca della verità dall’amore con cui umilmente dobbiamo cercarla.

La pace comincia da ognuno di noi:

 dal modo in cui guardiamo gli altri, ascoltiamo gli altri, parliamo degli altri;

 e, in questo senso, il modo in cui comunichiamo è di fondamentale importanza”.

Nelle parole del Pontefice la consapevolezza della forza del linguaggio, oggi amplificata dai nuovi strumenti digitali, che deve essere utilizzata con consapevole equilibrio per raccontare i fatti e costruire inclusione, rifuggendo da odio e violenza.

Le elenca tutte il nuovo pontefice le sfide per il mondo della comunicazione:

“Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare – spiega -.

 Essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai alla mediocrità.

 La Chiesa deve accettare la sfida del tempo e, allo stesso modo, non possono esistere una comunicazione e un giornalismo fuori dal tempo e dalla storia”. Occorre uscire quindi da quella torre di Babele, che nasce “dalla confusione di linguaggi senza amore, spesso ideologici o faziosi”.

Non è solo questione di trasmissione di informazioni, ma di creare “cultura, ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto”.

Dopo aver ricordato i cronisti finiti in carcere e aver sottolineato che “la Chiesa riconosce in questi testimoni – penso a coloro che raccontano la guerra anche a costo della vita – il coraggio di chi difende la dignità, la giustizia e il diritto dei popoli a essere informati, perché solo i popoli informati possono fare scelte libere», il pontefice ha richiamato tutti «a custodire il bene prezioso della libertà di espressione e di stampa”.

“Disarmiamo la comunicazione”, è l’appello finale, che riprende l’ultimo Messaggio per le Comunicazioni sociali di papa Francesco:

“disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività.

Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce.

Il Pontefice ci ricorda che la “comunicazione non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto”.

In questo anno giubilare, aperto con il Giubileo per il mondo della comunicazione da papa Francesco che ci invitava ad “essere veri”, papa Leone XIV, nella prima udienza, dopo l’elezione ci invita a portare avanti una “comunicazione diversa” ed essere “missionari”.

La nostra professione è innanzi tutto una vocazione che diventa missione per costruire con parole “vere” ponti di pace e un giornalismo vero con “coraggio” per essere “Pellegrini di speranza”.

Un invito che arriva a poche settimane dalla celebrazione della “Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali”.

(Salvatore Di Salvo -Segretario nazionale Ucsi).

 

 

 

 

Il prezzo della libertà

 è l’eterna vigilanza.

    Ildenaro.it - I caffè liberali di Anton Luca Cuoco – (28 Marzo 2025) – Pietro Serino - ci dice:

 

“L’Ue si trova in un momento di svolta in cui il mantenimento dello status quo non è più un’opzione di fronte alle minacce e agli attacchi alla sicurezza europea”, dice la risoluzione del Parlamento europeo appena approvata.

Si precisa che servono “sforzi realmente innovativi” e azioni “simili a quelle utilizzate in tempo di guerra” di fronte alla “più profonda minaccia militare alla sua integrità territoriale dalla fine della guerra fredda”.

 Diversi decenni di pace hanno fatto dimenticare ai cittadini italiani ed europei che la pace non è gratis?

Come i grandi maestri del liberalismo ci hanno insegnato, il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza.

 Riflettere di ciò con Pietro Serino, già capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, è particolarmente proficuo.

 “La libertà non è gratis.

È urgentissimo spiegare all’opinione pubblica che una credibile capacità di difesa, unitamente alla capacità di dialogo, sono le basi per mantenere la pace.

L’una sostiene l’altra e, senza l’altra non è funzionale al fine che le Democrazie si pongono:

 un Mondo in pace dove garantire libertà civili, giustizia sociale, benessere economico e opportunità di crescita agli individui.

Farlo non è facile in un Paese, come l’Italia, che 80 anni fa ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze dell’uso criminale della forza militare.

La Carta costituzionale, con l’art. 11, ripudia l’uso della forza come strumento di offesa e come mezzo per le relazioni tra Stati;

altresì, con l’art. 52 legittima l’uso della forza per difendere la Patria, da intendere non solo come territorio, ma anche come Istituzioni e principi costituzionali, come esplicitato nella formula del giuramento militare.

Nel Paese manca una cultura della Difesa perché si è colpevolmente deciso di non affrontare un tema difficile e potenzialmente divisivo, lasciando spazio a chi ha propugnato posizioni utopiche e non prive di pregiudizio ideologico”.

 

Le scelte fatte finora sull’Ucraina dell’amministrazione Trump paiono aver contribuito a far prendere coscienza agli europei della necessità di riarmarsi per proteggersi senza gli Usa.

 I miliardi del programma “Re Arm Europe” saranno destinati all’acquisto di armi nell’Ue, nel Regno Unito, in Norvegia e in Svizzera, ha annunciato la presidente von der Leyen.

 Questo sforzo avvantaggerà le imprese europee dell’armamento, l’occupazione, la ricerca e sviluppo continentale.

“La credibilità di uno strumento militare, e quindi il suo potere di deterrenza, è data anche dalla capacità di operare per tempi prolungati e di sapersi adattare a scenari in rapido mutamento.

Re Arm Europe deve puntare a questo obiettivo:

dare all’Europa uno strumento militare efficace e resiliente.

 Non è un caso che l’indipendenza tecnologica e la capacità produttiva sono due aspetti considerati dallo “Strategic Compass”, la strategia che l’Unione Europea si è data nel 2022 per sviluppare le proprie capacità di difesa e sicurezza.

 Due obiettivi che significano ricerca tecnologica e lavoro, di cui le economie europee hanno bisogno tanto quanto gli Stati di potenziare la propria difesa.

Ed è importante comunicare questo ai cittadini: che Re Arm Europe non è solo spesa militare, ma anche crescita economica.”

 

“Starlink”, la sua rete di comunicazioni satellitari, è al centro di controversie a causa delle minacce del proprietario miliardario di interrompere il suo accesso all’Ucraina.

“Musk” ha moltiplicato gli attacchi contro politici europei e la sua credibilità è a dir poco intaccata mentre negozia contratti importanti.

Anche il governo italiano dovrà decidere cosa fare, “All’interesse nazionale ed europeo giova dare accelerazione alla costruzione di una propria capacità satellitare a bassa latenza per il supporto delle comunicazioni, che potrebbe trovare nuove risorse nell’ambito di Re Arm Europe.

 Le capacità spaziali:

comunicazioni, sorveglianza e navigazione sono, unitamente alle capacità cyber, indispensabili per impiegare efficacemente uno strumento militare moderno.

In questo campo, la sovranità non può essere ceduta senza grave rischio potenziale.

Se oggi” Starlink” non ha alternative, il suo utilizzo deve essere inteso come gap-filler e non altro.

Deve, inoltre, essere trovata una forma contrattuale che offra solide garanzie per il Governo committente”.

 

 

 

 

Intervento del Presidente Meloni

all’Assemblea di Confindustria.

Lavocedelpatriota.it – Redazione – Giorgia Meloni – (28 – 05 – 2025) – ci dice:

 

Grazie al Presidente Orsini per questo invito, per i molti spunti importanti che ha portato questa mattina, saluto tutte le autorità, i Ministri, il Vice Premier Tajani, i parlamentari, le Autorità locali, sarebbe lunghissimo citarle tutte.

Saluto e ringrazio anche per quello che ha appena detto la Presidente del Parlamento europeo, la mia amica “Roberta Metsola”.

Come diceva, il Parlamento europeo è dalla vostra parte.

 Sarò onesta, Roberta, questo dipende dalle maggioranze che si formano di volta in volta, ma sicuramente tu sei stata dalla nostra parte e sei dalla nostra parte.

 

 

Quindi grazie davvero.

Dunque, io nonostante la complessità dell’agenda di questi giorni, sono tra l’altro di nuovo in partenza, ci tenevo ad essere qui con voi.

 Prevalentemente perché voglio che il confronto con le categorie produttive sia una cifra di questo Governo, ma anche perché penso che sia particolarmente importante in una fase come quella che noi attraversiamo sottolineare la centralità del tessuto produttivo industriale italiano per la ricchezza e il futuro di questa Nazione.

 

Una centralità che abbiamo cercato di riconoscere non a parole, ma con i fatti. Sono molti i provvedimenti che abbiamo introdotto, e diversi di questi sono stati anche frutto del confronto costante con voi.

Non ci siamo sempre trovati d’accordo, come è addirittura sano in una democrazia, però noi abbiamo tutti quanti fatto del nostro meglio per un obiettivo che condividiamo da un punto di vista e dall’altro e cioè tutti vogliamo banalmente fare bene il nostro lavoro.

Su questo ci possiamo ovviamente trovare.

Per quello che riguarda il lavoro del Governo, il nostro impegno è stato rivolto soprattutto a restituire a questa Nazione la centralità che le è propria sullo scacchiere internazionale, su uno scenario globale, che a volte era mancata, e a portare avanti una strategia economica basata sostanzialmente su tre pilastri, che sono la serietà, l’efficacia e una visione di sviluppo di lungo termine.

 

Una strategia che io mi sento di confermare oggi con voi, atteso che alcuni importanti risultati stanno comunque arrivando pur in un contesto complesso e pur ancora tra mille difficoltà che questa Nazione ha.

L’Italia però si presenta oggi credibile di fronte a un quadro economico finanziario che è, come sapete, di straordinaria complessità.

 Ce lo dicono i mercati, ce lo dicono gli investitori, ce lo dicono i risparmiatori. Penso che lo testimoni il livello dello spread, più che dimezzato da quando ci siamo insediati, la borsa che ha registrato performance record, il nuovo appeal dei nostri titoli pubblici italiani, l’attrattività ritrovata per gli investimenti, tornerò brevemente su questo punto, i giudizi, sapete che insomma per me sono sempre materie sulle quali a volte e spesso sono critica, però anche i giudizi delle

agenzie di rating, da ultimo Moody’s, che ha rivisto in positivo il giudizio dell’Italia, una cosa che non accadeva da circa 25 anni.

 

Significa che, come ho detto molte volte, noi spesso ragioniamo, abbiamo ragionato come se di fatto il declino fosse un destino, no?

Come se l’Italia fosse troppo indietro, come se non si potesse invertire questa rotta.

 La rotta si può invertire.

Serve tempo, serve tantissimo lavoro, serve che ci lavoriamo tutti insieme, serve che remiamo tutti nella stessa direzione, che è una cosa che non sempre accade in questa Nazione, ma quando ci riusciamo la rotta si può invertire.

Chiaramente bisogna fare le scelte perché quella rotta possa essere invertita.

 La scelta che questo Governo ha fatto è stata quella di essere serio nella gestione dei conti pubblici, concentrare le risorse sulle priorità reali, darsi una strategia, avere il coraggio di dire no alle misure assurde che dilapidavano le casse dello Stato e mettere al centro il lavoro e penso che i dati comunque importanti, record sul fronte dell’occupazione dicano che si trattava di una scelta, che si tratta di una scelta giusta.

Certo è un trend che noi adesso dobbiamo lavorare insieme per stabilizzare, cioè non possiamo pensare di aver terminato il nostro lavoro, assolutamente. Dobbiamo ragionare sul fatto che però siamo sulla strada giusta soprattutto se riusciamo a rafforzare questa strategia.

 

L’altro elemento positivo, come dicevo, è che l’Italia sta tornando a essere un mercato attrattivo per gli investimenti stranieri.

Ci sono ottime ragioni per investire in Italia, insomma le conosciamo.

 Una siete voi , cioè un sistema industriale e manifatturiero di primo ordine che possiamo offrire a chi viene a investire in Italia.

La seconda è che noi siamo, lo ricordava la Presidente del Parlamento Europeo e quindi io non posso smentirla assolutamente, la patria del bello, del ben fatto, della creatività.

Siamo desiderati, come dimostra un made in Italy richiesto in tutto il mondo.

La nostra economia è in ogni caso solida e resiliente e lo abbiamo dimostrato e questo non dipende dalla politica, lo avete dimostrato voi, lo avete dimostrato nei momenti di grande difficoltà, quello che oggi la politica aggiunge però è la stabilità, la stabilità del sistema e la continuità di una visione perché voi sapete meglio di me che se non è prevedibile quello che accadrà negli anni successivi è molto più difficile che qualcuno investa.

 

E quindi abbiamo tentato di rafforzare questa capacità dell’Italia di attrarre investimenti e qualche risultato anche qui è arrivato, penso che valga la pena di fare qualche esempio.

Il fondo sovrano norvegese, il fondo più ricco al mondo, ha aumentato del 14% i propri investimenti in Italia.

Microsoft ha annunciato un investimento da 4,3 miliardi di euro per espandere la sua infrastruttura di data center.

 Silicon Box ha voluto che l’Italia fosse sede del nuovo maxi impianto per l’assemblaggio dei semiconduttori, 3 miliardi di euro di investimento.

Google ha scelto la Sicilia per realizzare una rete di cavi sottomarini in fibra ottica nel Mediterraneo.

Gli Emirati Arabi Uniti, in occasione della visita di “Sheikh Mohammed bin Zayed”, hanno annunciato di voler investire in Italia 40 miliardi di euro, forse l’investimento estero più rilevante che sia stato annunciato in questa Nazione, però anche, seguendo quello che diceva il Presidente Orsini, voglio dire che nei nostri incontri per decidere come investire queste risorse noi ci stiamo concentrando sugli investimenti strategici, dall’intelligenza artificiale alle materie prime critiche, passando per il dominio subacqueo e la ricerca spaziale.

 

La leva degli investimenti esteri ci ha anche consentito di affrontare dossier industriali molto delicati.

 Penso qui all’impegno del” fondo KKR”insieme al Governo italiano, altri investitori istituzionali nazionali per l’acquisto della rete fissa di telefonia di Tim, così come penso all’accordo Ita-Lufthansa, operazione strategica che tutela il mercato italiano, assicura al sistema produttivo connessioni migliori e più competitività. Stiamo provando a farlo anche con Ex Ilva.

Nonostante la situazione sia oggettivamente molto complessa, situazione che abbiamo ereditato, il Governo continuerà a fare la propria parte.

 Sono certa che ognuno farà lo stesso per garantire il futuro dell’acciaio, difendere i livelli occupazionali, tutelare l’indotto perché, consentitemi di dirlo, c’è anche bisogno che tutti gli attori diano una mano e non ci siano attori che preferiscono mettere i bastoni tra le ruote.

 Credo che tutti comprendano cosa c’è in ballo.

 

In ogni caso il Governo continuerà a fare tutto quello che può per creare le condizioni affinché sempre più aziende e investitori scelgano la nostra Nazione per produrre, mentre intendiamo lavorare anche per rafforzare il nostro Made-In, la capacità del nostro tessuto produttivo di creare prodotti che non hanno eguali.

E mettendo insieme le due cose il messaggio che vogliamo lanciare all’Europa e al mondo intero è “Make” in Italy, un messaggio che abbiamo già concretizzato con il provvedimento che riguarda i grandi programmi di investimento esteri in Italia per i quali abbiamo previsto norme che semplificano le procedure, la nomina di un commissario che significa un unico interlocutore anche a garanzia di tempi rapidi e risposte certe. E queste sono alcune delle buone notizie.

Dopodiché c’è ancora molto da lavorare, perché in questa Nazione ci sono dei problemi strutturali che le famiglie e le imprese incontrano che bisogna avere la forza, il coraggio, la visione e la lucidità per affrontarle una volta per tutte.

 E la questione più urgente da affrontare dal mio punto di vista, con serietà e aggiungo senza timore, è il nodo del costo dell’energia che il “Presidente Orsini” ha ampiamente affrontato nel suo intervento.

 

Inutile che io vi dica che il Governo è perfettamente consapevole dell’impatto che i costi energetici hanno sulle famiglie e sulle imprese, soprattutto su quelle di piccole e medie dimensioni, e lo sappiamo anche perché dall’inizio di questo Governo noi abbiamo stanziato circa 60 miliardi di euro, che è l’equivalente di due leggi finanziarie, per cercare di alleviare i costi.

 Ora è evidente che continuare a cercare di tamponare spendendo soldi pubblici non può essere la soluzione e per questo abbiamo accompagnato le risorse con diversi interventi alcuni dei quali rispondono anche alle necessità richiamate proprio dalla Confindustria.

Uno strumento già disponibile per il disaccoppiamento del prezzo dell’energia prodotta da fonti rinnovabili da quello del gas è quello dei contratti pluriennali a prezzo fisso di acquisto di energia prodotta da fonti rinnovabili, dove il corrispettivo viene stabilito tra le parti e riflette i reali costi di produzione per ciascuna tecnologia.

Ricordo l’Energy Release e il Gas Release sul quale bisogna lavorare, stiamo dialogando con la Commissione Europea, “Roberta” mettici una buona parola.

Stiamo anche lavorando a un’analisi del funzionamento del mercato italiano per comprendere se eventuali anomalie nella formazione del prezzo unico nazionale possano essere la causa di aumenti ingiustificati, perché sarebbe inaccettabile se ci fossero speculazioni sulla pelle di chi produce e crea occupazione.

 

E poi, come ho detto, sono necessari interventi di lungo periodo, di cui la scelta di riprendere il cammino del nucleare, puntando alle tecnologie più innovative per realizzare mini reattori sicuri e puliti che possano consentirci di avere maggiore sicurezza energetica a costi sensibilmente inferiori agli attuali.

Una scelta coraggiosa per centrare gli obiettivi di decarbonizzazione rafforzando però la sovranità industriale ed economica dell’Italia, e rimanere in questo modo competitivi sul mercato perché, come ha giustamente ricordato il Presidente Orsini, non basta che i nostri prodotti siano di qualità, devono anche rimanere concorrenziali.

 

E mentre il disegno di legge sul nucleare va verso l’esame parlamentare nasce Nuclitalia, che è la società che si occuperà dello studio di tecnologie nucleari di nuova generazione, che potrà contare sull’eccellenza di tre grandi realtà del sistema Italia, che sono Enel, Leonardo e Ansaldo Energia.

Però sulla materia energetica, Presidente Orsini, voglio dirle che siamo sempre aperti a suggerimenti, idee nuove, proposte serie.

 È un tema sul quale c’è bisogno della collaborazione di tutte le persone di buona volontà perché è essenziale per la nostra competitività. La porta del Governo su questa materia è e rimane sempre aperta.

Così come fondamentale per la competitività, in questo caso dell’intero sistema produttivo europeo, e qui approfitto della presenza della nostra Presidente, è avere il coraggio di contestare e correggere, come il Presidente Orsini ha fatto ampiamente e come anche “Roberta Metsola” ha sottolineato in alcuni passaggi, un approccio ideologico alla transizione energetica che ha procurato danni enormi alla sostenibilità economica e sociale delle nostre società senza peraltro produrre i vantaggi ambientali che erano stati decantati.

Ha ragione il Presidente Orsini quando dice che una tecnologia non si cambia per norma.

Solo chi non aveva mai messo piede in un capannone poteva pensare di farlo. Eppure, è esattamente quello che l’Europa ha fatto negli ultimi anni, scegliendo la strada forzata della transizione verso una sovrapposizione all’elettrico, le cui filiere sono oggi in larga parte controllate dalla Cina.

Io ancora oggi non riesco a capire il senso strategico di fare una scelta del genere.

Ma il punto è che alcune scelte sono state fatte perché si è voluto anteporre l’ideologia al realismo e questo ha avuto un risultato scontato ma che molti di noi qui in questa sala, anche dai punti di vista diversi, avevano previsto e denunciato.

 

Si è scelto, qualcuno ha scelto deliberatamente di perseguire una strategia che metteva i nostri prodotti fuori mercato per inseguire a tutti i costi, ma contro ogni logica, scelte che erano nemiche dell’industria europea.

La cosa curiosa è che oggi tutti disconoscono la paternità di quelle scelte, ma quelle scelte hanno nomi e cognomi precisi.

 L’automotive è il comparto che sta pagando il prezzo più alto con ricadute pesanti sulla produzione industriale complessiva, lo sappiamo.

Sapete che su questo tema ci siamo schierati fin dall’inizio, abbiamo lavorato molto, sapete che la Commissione europea ha avviato diversi correttivi alla sua rotta iniziale.

Grazie anche, forse soprattutto, all’impegno italiano sono state di fatto sospese le multe ai produttori di auto, anche se purtroppo non ancora a quelli di veicoli pesanti, con l’obiettivo di interrompere, lo diceva bene il Presidente Orsini, quella assurda spirale che ha visto chiudere stabilimenti produttivi o comprare quote verdi dai principali competitor cinesi e americani pur di non ricadere nelle sanzioni. Abbiamo anche ottenuto l’anticipo alla seconda parte del 2025 della revisione dell’intero regolamento sui veicoli leggeri.

Siamo consapevoli che non è abbastanza.

 Bisogna insistere, insistere per affermare pienamente il principio della neutralità tecnologica perché il passaggio indispensabile per puntare su vettori energetici alternativi che possono contribuire alla decarbonizzazione.

Va rivisto il metodo di calcolo delle emissioni tenendo conto dell’inquinamento prodotto da un veicolo lungo tutto il suo ciclo di vita.

 Bisogna garantire all’automotive, come a tutti gli altri settori industriali energivori, la possibilità di acquistare energia a prezzi più bassi e competitivi.

Ma la buona notizia è che siamo sempre meno soli in questa battaglia.

Come dimostra il fatto che nelle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo siamo riusciti per la prima volta a mettere nero su bianco il principio della neutralità tecnologica, battaglia condotta dall’Italia in prima fila.

E come dimostra anche il fatto che il nostro non paper sull’automotive elaborato dal “Ministro Urs”o e promosso dall’Italia insieme alla Repubblica Ceca e oggi sostenuto da altre 15 nazioni europee.

Confido che molto altro possa cambiare con il nuovo Governo tedesco.

Con il Cancelliere Merz abbiamo già iniziato a confrontarci su come rilanciare la nostra base industriale.

Penso che se l’Italia e la Germania riescono a collaborare, se le due principali economie manifatturiere d’Europa trovano una piattaforma comune d’azione, allora ci sono le condizioni per ottenere ottimi risultati.

Come sapete stiamo concentrando la nostra azione per rendere più sostenibili gli obiettivi del “Green Deal “anche su altri settori strategici per l’industria europea.

Abbiamo presentato insieme ad altri governi non-paper tematici sulla semplificazione normativa, sulla microelettronica, sulla revisione del CIBAM, sullo Spazio, proposte che incontrano un consenso crescente sulle materie sulle quali ci aspettiamo significativi passi in avanti.

 Così come consideriamo fondamentale a maggior ragione in un quadro di instabilità dei mercati internazionali che l’Europa abbia il coraggio, anche questo è stato citato al Presidente Orsini, di rimuovere quei dazi interni che si è autoimposta in questi anni.

Basti questo dato, secondo il “Fondo Monetario Internazionale” il costo medio per vendere bene tra gli Stati dell’Unione europea equivale a una tariffa di circa il 45% rispetto al 15% stimato per il commercio interno negli Stati Uniti. Per non parlare dei servizi dove la tariffa media stimata arriva al 110%.

Non può essere sostenibile.

 Il rilancio del mercato unico europeo è quindi una priorità, perché chiaramente consentirebbe di mettere l’Europa anche a riparo da scelte protezionistiche di altre nazioni.

 

Anche la Commissione europea ne è consapevole, sta lavorando a un piano d’azione in questa direzione.

 Come Governo ovviamente siamo pronti a fare la nostra parte.

Non possiamo poi fingere di non vedere anche come ogni anno oltre 300 miliardi di euro di liquidità europea finiscano in investimenti extra UE, ed è la ragione per la quale consideriamo anche necessario completare rapidamente l’unione dei mercati di capitale.

E poi è ora di dire basta, e su questo siamo tutti d’accordo, quindi direi che occorre solamente agire a quell’iper-regolamentazione che ha soffocato il nostro sviluppo.

Anche qui si può invertire la rotta, non solo perché ce lo chiede questo tempo, ma anche perché l’Europa come superstruttura burocratica minimizza e tradisce ciò che è: la patria del diritto romano, la culla della civiltà cristiana, la madre della filosofia greca, la civiltà che con il suo genio ha stupito il mondo.

 Qualcosa di molto più ampio, di molto più bello e di molto più profondo dei quasi 400 chilometri lineari di Gazzette ufficiali dell’Unione europea o le norme assurde che ci dicono che un fagiolo non è un fagiolo europeo se ha un diametro inferiore a un centimetro.

 

Vogliamo che l’Europa torni a essere tutt’altro e quindi sì ad una profonda azione di semplificazione che però non deve arrivare solo a valle ma intervenire a monte di ogni provvedimento e di ogni nuova legislazione.

 La Commissione anche qui ha iniziato come sapete un percorso con i primi tre pacchetti Omnibus ma il cambio di marcia deve essere anche su questo concreto, sostanziale, corposo.

 Perché anche da qui passa il cambio di postura, di priorità, di approccio che l’Europa deve incarnare per essere all’altezza delle sfide che stiamo attraversando, a partire ovviamente dal rapporto con gli Stati Uniti che è fondamentale, sapete come la penso ma mi pare che siamo d’accordo per mantenere la forza dell’Occidente, i nostri destini sono interconnessi.

Quando poco più di un mese fa sono stato ospite del Presidente degli Stati Uniti a Washington, avevo proposto un incontro a Roma tra Unione europea e Stati Uniti.

Un primo incontro è avvenuto il 18 maggio a Palazzo Chigi tra il Vice Presidente J.D. Vance e la Presidente von der Leyen, è stato l’inizio di un dialogo che l’Italia ha continuato a facilitare anche in questi giorni, che va portato avanti con saggezza e con buon senso e, se posso permettermi, anche con un approccio più politico che burocratico.

 E non solo sul fronte delle relazioni commerciali, ma su molti ambiti sui quali abbiamo bisogno che Europa e Stati Uniti lavorino nella stessa direzione, nel segno della libertà, della democrazia, dei valori che uniscono le due sponde dell’Atlantico.

Il Presidente Orsini propone di scrivere, passando a un altro tema insieme, un piano industriale straordinario per l’Italia, anche e soprattutto per invertire la rotta sulla produzione industriale, la cui flessione è una dinamica che ci preoccupa, è una dinamica anche che sappiamo essere europea, ma che sicuramente va affrontata.

 

Sono d’accordo, Presidente, sono d’accordo tanto che il Governo, come lei sa, sta lavorando già insieme al settore produttivo e alle parti sociali per delineare le linee di una politica industriale di medio e di lungo periodo.

Abbiamo avviato anche un processo di consultazione pubblica per scrivere una nuova strategia industriale.

I contributi arrivati serviranno a definire il “Libro Bianco del Made in Italy 2030” che puntiamo a presentare entro l’estate.

 Dalla consultazione finora è emersa tanto la necessità di rafforzare le filiere tradizionali del Made in Italy, le cosiddette “4A”, ma anche di puntare sulle filiere innovative.

Sono d’accordissimo su questo, digitale, industria della difesa, farmaceutica, space economy, intelligenza artificiale.

 E quindi, caro Presidente Orsini, voglio dirle che ci siamo e ci siamo anche a partire dalle semplificazioni sulle quali, ha ragione, penso che bisogna procedere in modo più spedito, mi prendo personalmente l’impegno a occuparmene, perché ci sono delle cose che si possono fare più velocemente, il Governo è molto impegnato su questo ma sicuramente ci possiamo lavorare con maggiore velocità.

E ricorderà che ho proposto io durante il nostro ultimo incontro a Palazzo Chigi anche un “patto” proprio col sistema produttivo e non solo, per il quale abbiamo già individuato nell’ambito della dotazione finanziaria del PNRR perché – ahimè – l’argomento delle risorse è sempre un argomento di dirimente, e allora ci siamo interrogati su come si potesse reperire delle risorse.

Abbiamo già individuato nell’ambito della dotazione finanziaria del PNRR, della sua prossima revisione, circa 15 miliardi di euro che io vorrei fossero rimodulati per sostenere l’occupazione e per aumentare la produttività.

 Così come intendiamo cogliere le opportunità che possono arrivare anche dalla revisione della politica di coesione che lei citava e che è stata approvata dalla Commissione europea sulla proposta del Vice Presidente Raffaele Fitto.

 

Sono anche d’accordo col Presidente Orsini sul fatto che sia necessario rilanciare gli investimenti e prevedere procedure più semplici e tempi certi, lo dico anche in riferimento al Piano Transizione 5.0. Nella sua prima versione era risultata troppo restrittiva, abbiamo provato a renderla più accessibile però siamo pronti a ulteriori correttivi se il tiraggio non dovesse essere quello auspicato, correttivi anche condivisi, ancora una volta, con voi.

Un ragionamento simile vale per Transizione 4.0, il nostro impegno, quello che stiamo tentando di fare è lavorare con la Commissione per capire, come ho già detto, se vi sia la possibilità, nell’ambito di questa revisione del PNRR, di inserire entrambi questi strumenti, semplificando. E quindi Presidente Orsini, cari imprenditori, vado verso la conclusione.

 

Ci sono tante altre cose sulle quali mi trovo perfettamente d’accordo, sulle quali il Governo è impegnato, il Piano Casa è un’altra questione che il Presidente sa che mi sta particolarmente a cuore, sulla quale penso che si possa molto bene lavorare insieme, ma le cose preferisco prima assestarle e poi annunciarle;

 quindi, faccio un passaggio velocissimo su questo, perché mi piace lavorare in modo serio.

Però, in conclusione, – perché l’ultima volta sono stata troppo lunga, oggi ho cercato di trattenermi un po’ – questo Governo ha da poco superato il giro di boa della legislatura.

 Se io penso a tutto quello che abbiamo attraversato, ai cambiamenti intorno a noi, anche alle tantissime cose che abbiamo fatto, mi sembra che sia trascorsa un’eternità, però se penso a quello che vogliamo ancora realizzare, ragiono come se avessimo appena iniziato. Il mio messaggio per voi è “pensate in grande”, perché l’Italia è grande.

 

Lo abbiamo dimostrato insieme in questi anni difficili.

Il sistema Italia ha dimostrato la sua solidità, la sua capacità di reagire anche quando la tempesta sembrava troppo forte, il vento talmente impetuoso che pareva fosse impossibile riuscire a mantenere la barra dritta.

Fuori dai nostri confini c’è una voglia d’Italia che troppo spesso noi siamo gli unici a non vedere.

Fuori dai nostri confini vedono che l’Italia sta raddrizzando la rotta e parlano di noi, ci vedono ora su alcune materie un punto di riferimento.

Fuori da questi confini c’è tanta gente che vuole con noi stringere accordi internazionali, che vuole lavorare con noi, è il motivo per cui come sapete giro molto.

Il Governo c’è e non intende indietreggiare.

 Non abbiamo paura di essere all’altezza di quello che abbiamo ereditato, di quello che rappresentiamo, siamo pronti a continuare su questa strada con coraggio, con determinazione, ma anche con l’umiltà di chissà di non avere tutte le risposte a ogni domanda, perché si vince o si perde tutti insieme, senza paura di osare, di rompere gli schemi, di scardinare le abitudini.

Quindi sì, questa Nazione ha bisogno ancora di fare tanto, però è una Nazione che ha tutte, tutte, le carte in regola per invertire la rotta.

La prima cosa che noi dobbiamo fare è crederci, quindi pensate in grande perché io farò lo stesso.

Vi ringrazio.

 

 

 

 

La recessione della democrazia,

e la minaccia di un’autocrazia globale.

Linkiesta.it – (5 nov. 2024) – Redazione – ci dice:

Nel mondo sono in corso processi di erosione dei diritti civili e di repressione nei confronti delle minoranze.

 I Paesi liberali devono potenziare le proprie difese e promuovere una cooperazione più forte per mantenere un vantaggio in campo economico, militare e tecnologico.

 

Negli ultimi anni, il mondo ha assistito a un preoccupante regresso della democrazia.

 L’invasione russa dell’Ucraina, la guerra di Gaza e il crescente pericolo di un conflitto regionale in Medio Oriente rappresentano minacce per i sistemi liberali. Un’eventuale rielezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti sarebbe un duro colpo alla tenuta delle istituzioni di uno dei principali fari democratici a livello globale.

 

Secondo un’analisi pubblicata da Foreign Affairs, la crescente diffusione di regimi autocratici è «una seria minaccia per le libertà e i diritti umani».

Questo fenomeno, noto come «recessione democratica», richiede un’azione a livello globale per invertire la rotta e ripristinare i valori democratici fondamentali.

Il 5 agosto 2024, il Bangladesh ha vissuto un momento storico con le dimissioni e la fuga in esilio del primo ministro Sheikh Hasina, dopo settimane di proteste studentesche di massa.

 Durante il suo mandato, Hasina ha esercitato un controllo sempre più autoritario, manipolando i tribunali, i ministeri e le agenzie governative per silenziare i media e perseguitare i suoi avversari.

E le elezioni bangladesi del 2014 sono state emblematiche di questo declino:

la maggior parte dei partiti di opposizione ha scelto di boicottarle, denunciando la violazione delle norme costituzionali.

 Questa scelta ha accelerato la caduta del Bangladesh verso un’autocrazia, e sul consolidamento del potere da parte di Hasina.

Nel gennaio 2024, mentre il leader bangladese si preparava al suo quarto mandato consecutivo, le proteste popolari sono aumentate e gli studenti universitari sono scesi in piazza.

La risposta del governo è stata brutale: la polizia e l’esercito hanno represso le manifestazioni, portando a centinaia di morti, oltre ventimila feriti e più di diecimila arresti nei due mesi successivi.

Dopo aver perso il sostegno dell’esercito, Hasina ha scelto di fuggire in India.

 

La caduta di “Sheikh Hasina” si inserisce in un contesto più ampio di regimi autocratici che si sono affermati in tutto il mondo negli ultimi dieci anni.

Da El Salvador all’Ungheria, al Nicaragua e alla Turchia, molti leader corrotti hanno svuotato le istituzioni democratiche, stabilendo quelli che i politologi “Steven Levitsky” e” Lucan Wa definiscono regimi «autoritari competitivi».

 

«L’ascesa dell’autocrazia a livello globale è il risultato di una combinazione complessa di fattori», si legge ancora su “Foreign Affairs”.

In molti Paesi, la democrazia si è diffusa in contesti che ancora non avevano le basi economiche e le istituzioni necessarie per garantire lo stato di diritto e combattere la corruzione.

Allo stesso tempo, però, nazioni come la “Liberia” e il “Malawi,” pur essendo molto povere, sono riuscite a preservare i loro progressi democratici.

 L’immagine della democrazia è stata danneggiata in maniera significativa anche all’inizio degli anni Duemila, in particolare con l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003, quando la promozione della democrazia è stata associata all’uso della forza militare, con conseguenze disastrose per la regione.

 

Un altro fattore di instabilità è rappresentato dalla crisi finanziaria globale che ha destabilizzato vari governi, inclusi quelli di stampo democratico.

 «A peggiorare la situazione, potenze illiberali come la Cina e la Russia hanno messo in atto strategie per screditare i principi liberali», scrive” Foreign Affairs”.

La Cina, utilizzando ricchezze, propaganda e tecnologia, ha promosso il suo modello autoritario, mentre la Russia ha cercato di minare le istituzioni democratiche, intervenendo persino nelle elezioni di altri Paesi.

Anche l’aumento drammatico della disuguaglianza di reddito ha contribuito a una crescente insoddisfazione, con una piccola frazione della popolazione che accumula ricchezze, mentre le classi medie e inferiori affrontano stress economico.

 

Questa disuguaglianza alimenta la polarizzazione politica, accentuata, ad esempio, dalle campagne per l’uguaglianza di genere o dalle manifestazioni per la parità tra gruppi sociali.

Molte democrazie avanzate, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, hanno spesso inquadrato l’immigrazione come una minaccia alla stabilità economica e sociale, aumentando ulteriormente le tensioni.

Quando un regime oppressivo si insinua nelle istituzioni di un paese, la resistenza interna diventa sempre più difficile, rendendo necessaria una mobilitazione di massa per affrontare il governo.

 

Il successo di un movimento democratico però è più probabile nel momento in cui vengono adottate strategie pacifiche:

 le manifestazioni, gli scioperi e la resistenza non violenta possono rallentare la discesa verso l’autoritarismo.

 La strategia migliore per il cambiamento però rimane quella che si ottiene tramite le urne.

Ne sono un esempio Paesi come Bolivia, Brasile, Ecuador, Guatemala, Polonia, Senegal, Sri Lanka, Zambia e Stati Uniti, dove le elezioni democratiche e l’applicazione dei limiti di mandato hanno contribuito a frenare la deriva autoritaria.

 

Le recenti vittorie elettorali a favore della democrazia condividono caratteristiche importanti:

 le forze di opposizione si uniscono dietro una piattaforma comune, evitando divisioni che possano favorire il partito al governo, spesso impopolare e internamente diviso.

 La pressione esterna delle democrazie liberali può aumentare i costi della repressione e può portare all’allontanamento dei gruppi che sono al potere.

Inoltre, è fondamentale usare delle strategie comunicative efficaci, in modo da mobilitare una vasta base elettorale, compresi gli elettori che in passato hanno sostenuto il regime, e da coinvolgere segmenti diversi della società.

 E la scelta di affrontare questioni concrete, come le prestazioni economiche, la lotta alla corruzione e il miglioramento dei servizi pubblici, aiuta a riconquistare la fiducia e il patriottismo dei cittadini.

 

È cruciale dimostrare che la leadership democratica può essere altrettanto forte e convincente quanto quella di un oppressore.

 In questo contesto, le democrazie liberali devono potenziare le proprie difese esterne e promuovere una cooperazione più stretta per mantenere il loro vantaggio in campo economico, militare e tecnologico, senza trascurare le difese interne:

la democrazia può facilmente scivolare verso l’autocrazia se non riesce a garantire politiche efficaci per affrontare questioni legate al crimine, al terrorismo, alla gestione dei confini e alle divisioni sociali, oltre a fornire opportunità economiche e sicurezza ai cittadini.

 

Ciò che il denaro

non può comprare.

Ilsole24ore.com - Vittorio Pelligra – (18 maggio 2025) – ci dice:

 

 

“Ci sono cose che il denaro non può comprare, sebbene non molte, di questi tempi”.

Scrive così “Michael Sandel” nell’incipit fulminante del suo What Money Can’t Buy. The Moral Limits of Markets (2012).

E prosegue con un elenco non esaustivo di cose che sono in vendita anche se probabilmente non dovrebbero esserlo:

celle più confortevoli in un carcere, l’accesso alle corsie di emergenza nelle ore di traffico, madri surrogate in varie nazioni del globo,

il permesso di soggiorno permanente negli Stati Uniti, la possibilità di uccidere un rinoceronte in via d’estinzione, il diritto ad emettere gas inquinanti, il tempo di una persona che faccia la fila per voi, la fronte di coloro che sono disposti a farsi tatuare una pubblicità, il numero privato del medico da poter chiamare in qualunque giorno e a qualunque ora.

È perfino possibile comprare un’assicurazione sulla vita di un malato terminale nella speranza di poterla riscuotere quanto prima alla morte di quest’ultimo.

 

Non sono provocazioni.

 Sono sintomi di un’epoca – ci dice “Sandel” – la nostra, in cui la logica di mercato non è più uno strumento tra gli altri ma la metrica dominante della vita sociale, “la pietra angolare delle società moderne” come scrivono “Steven Levitt” e “Stephen Dubner” con grande orgoglio nel loro “Freakonomics”.

Il calcolo dell'incalcolabile (2010).

 La diagnosi di “Sandel” è tanto sobria quanto allarmata: siamo entrati in quella che possiamo propriamente definire “società di mercato”, un orizzonte culturale dove davvero tutto ha un prezzo.

 “E quindi? – ci si potrebbe legittimamente chiedere – qual è il problema?”

Il problema è che – continua ancora Sandel “la nostra riluttanza a impegnarci nell’argomentazione morale e spirituale, insieme con la nostra adesione ai mercati, ha avuto un costo elevato:

 ha svuotato di energia morale e civile il dibattito pubblico e ha dato un contributo alle politiche manageriali e tecnocratiche che affliggono oggi molte società”.

 

Per questo è necessario iniziare a chiedersi esplicitamente e sistematicamente come cambia il significato delle cose quando iniziamo a trattarle come merci.

Anche le ricerche degli economisti, sul punto, iniziano ad essere concordi:

 il sangue, per esempio, quando viene donato volontariamente, invece che venduto, è più abbondante e di migliore qualità.

 I rapporti personali, anche sul posto di lavoro, hanno un valore vero solo se nascono e si sviluppano al di fuori della logica dello scambio.

Le relazioni sentimentali ed intime quando avvengono dietro compenso diventano naturalmente un’altra cosa.

 Qualunque premio, così come un titolo di studio, se comprato, perde totalmente il suo significato originario.

Si tratta di quello che “Fred Hirsch” chiamava “effetto di commercializzazione”.

L’effetto, cioè, che si manifesta sulle caratteristiche di un’attività o di un prodotto quando questi vengono offerti esclusivamente o prevalentemente in termini commerciali anziché sulla base di uno scambio informale, un’obbligazione reciproca, altruismo o amore.

 

Tale effetto deriva dal fatto che i mercati non sono luoghi neutrali.

Non sono solo “meccanismi di allocazione efficiente”.

Esprimono e promuovono determinate norme e valori, che spesso sono in competizione con quelli di altri ambiti della vita: la gratuità, l’onore, il rispetto, la fiducia.

Così, mettere in vendita beni che hanno una dimensione morale e civile rischia di deformarne la natura, e di svuotarli del loro significato originario.

In un controverso studio pubblicato su “Science” nel 2013, “Armin Falk” e “Nora Szech” mettevano i partecipanti di fronte a una scelta reale piuttosto complicata: accettare una somma di denaro per far morire una cavia di laboratorio o rinunciare al denaro e salvargli la vita.

La scelta avveniva per gruppi differenti in condizioni differenti: una decisione individuale, dove la scelta era limitata ad accettare o a rifiutare la somma offerta, o una scelta di mercato nella quale la somma veniva contrattata in un’asta bilaterale dai singoli partecipanti.

 In questo secondo caso i partecipanti negoziavano in un mercato simulato con un altro soggetto e dovevano accordarsi su un prezzo per vendere la vita del topo o salvarla.

 I risultati dell’esperimento mostrano che nel contesto individuale, la maggioranza dei soggetti rifiuta il denaro pur di non causare la morte dell’animale.

Nel contesto di mercato, invece, molti più partecipanti si mostrano disposti a sacrificare la vita del topo in cambio della stessa somma o anche di una somma più inferiore.

 

Le persone, a quanto emerge dallo studio di “Falk e Szech”, sono meno inclini a evitare un danno morale quando agiscono in un contesto di scambio di mercato.

In pratica, i meccanismi del mercato sembrano “diluire” la responsabilità individuale: negoziando, si negozia anche con la coscienza.

Un risultato che mette in discussione l’idea classica del mercato come semplice strumento di efficienza, moralmente neutrale.

 Il paradosso dell’efficienza si rivela allora in tutta la sua ambiguità:

 incentivare economicamente un comportamento può ridurne il valore.

È il fenomeno dello “spiazzamento motivazionale” (motivational crowding-out).

 

“Sandel” lo spiega ricorrendo ad un altro famoso esperimento condotto da “Uri Gneezy” e” Aldo Rustichini.”

 I due economisti studiano degli asili nei quali i genitori dei bambini arrivavano sistematicamente in ritardo.

“Gneezy e Rustichini”, d’accordo con la direzione degli asili, decisero di testare l’effetto deterrente di una multa.

Per verificare l’impatto della nuova politica l’applicarono a sei asili dei dieci coinvolti osservando per venti settimane le differenze nel comportamento dei genitori negli asili con la multa e in quelli senza multa.

 Mentre in questi ultimi il numero di ritardatari rimase inalterato, negli asili con la multa, il numero, invece di diminuire, come si aspettavano i due economisti, aumentò significativamente.

 Perché?

Perché il comportamento che prima era regolato da una norma morale, efficace benché imperfetta, di rispetto e responsabilità, ora lo stesso comportamento veniva inquadrato in una logica di scambio commerciale:

“Tu mi fai pagare il ritardo? E io lo compro”.

Adesso, dopo l’introduzione della multa si poteva pagare per infrangere la regola senza neanche sentirsi in colpa e molti genitori che prima si sentivano obbligati al rispetto dell’orario da un rapporto di rispetto per le maestre e i maestri, ora potevano scegliere di acquistare quel ritardo che veniva messo in vendita dagli asili stessi.

 

Ma oltre che sugli aspetti pratici e le conseguenze sgradite la critica di “Sandel” alla logica della commercializzazione universale si fonda su due obiezioni fondamentali: quella dell’“equità” e quella della “corruzione”.

 La prima riguarda le diseguaglianze strutturali:

 in un mondo in cui pochi hanno tanto e molti hanno poco, ciò che appare come una scelta libera spesso è una costrizione travestita.

 Davvero possiamo dire che un disoccupato disperato che vende un rene per ricavarne di che nutrire i suoi figli sia veramente una delle parti di un libero scambio?

Ci ricordiamo di Giovanni Alberti il personaggio del film di Vittorio De Sica, Il Boom, interpretato da Alberto Sordi?

 

Ma è la seconda obiezione, quella della corruzione a offrire lo spunto più originale nell’argomentazione di “Sandel”.

Alcuni beni, egli sostiene, cambiano natura quando sono trattati come merci.

Non basta assicurare condizioni di parità:

anche in una società perfettamente giusta, alcune cose non si dovrebbero né comprare né vendere, per principio:

un figlio portato in grembo per nove mesi e partorito, l’ammissione all’università, la cittadinanza.

Tutte queste pratiche alterano in maniera fondamentale la natura stessa di ciò che viene venduto e acquistato.

“Spesso – scrive Sandel – associamo la corruzione ai pagamenti illeciti a pubblici ufficiali.

Ma, come abbiamo visto nel primo capitolo, la corruzione ha anche un significato più ampio:

 corrompiamo un bene, un’attività o una pratica sociale ogni qual volta lo trattiamo in base a una norma inferiore rispetto a quella che è appropriata a esso.

 Così, per fare un esempio estremo, procreare per vendere i propri figli per profitto è una corruzione della genitorialità, perché tratta i bambini come cose da usare piuttosto che come creature da amare.

La corruzione politica può essere vista sotto la stessa luce:

 quando un giudice accetta una mazzetta per emettere un verdetto corrotto, agisce come se la sua autorità giudiziaria fosse uno strumento di guadagno personale piuttosto che un incarico fiduciario nell’interesse pubblico.

Egli degrada e umilia il proprio ufficio trattandolo in base a una norma inferiore rispetto a quella che è appropriata a esso”.

 

Occorre quindi ripensare il ruolo che la logica di mercato gioca nelle nostre vite, nelle nostre società.

E ripensare il ruolo dei mercati non significa negarne l’utilità, ma riflettere sui loro limiti.

 Non abbiamo deciso di vivere in una società in cui ogni cosa è in vendita, ci ricorda Sandel, ci siamo arrivati per inerzia, smettendo di chiederci se fosse giusto.

Perché “un’economia di mercato è uno strumento utile – scrive, mentre - una società di mercato è un modo di vivere”.

 Il passaggio da una cosa all’altra segna un cambiamento antropologico.

 Quando anche le relazioni più intime, come la maternità, diventano oggetto di contratto – come nel caso delle madri surrogate indiane pagate dalle coppie occidentali – non solo cambiamo le regole dell’economia, ma cambiamo noi stessi.

Che dire poi del finanziamento privato delle campagne elettorali negli Stati Uniti che ha reso il voto un bene quasi negoziabile?

Ricordate Musk e le sue lotterie milionarie?

E così anche la cittadinanza.

Se investi cinquecento mila dollari e crei qualche posto di lavoro sei ben accetto, altrimenti ti cacciamo con le manette ai polsi in diretta TV.

Chi può pagare, può appartenere., gli altri via.

Possiamo ancora definirla cittadinanza?

 

Un dibattito serio e approfondito sui limiti morali dei mercati, è convinto “Sandel”, potrebbe consentirci, come società, di decidere dove i mercati sono utili al bene comune e dove invece non devono poter operare.

Non si tratta di proibire, ma di discernere.

Occorre domandarsi: cosa vuol dire educare, curare, proteggere?

E cosa succede quando queste attività vengono trasformate in servizi a pagamento?

Per esempio: pagare i bambini per leggere li spingerà a leggere di più, ma li renderà lettori migliori?

 Vendere i posti nei college porterà più risorse, ma cancellerà il significato del merito?

 

Il libro di Sandel ha suscitato molte reazioni differenti.

 Tra le più rilevanti troviamo certamente quella che Luigino Bruni e Robert Sugden propongono nel loro saggio “Reclaiming Virtue Ethics for Economics” (Journal of Economic Perspectives 27, pp. 141–164, 2013).

 Pur apprezzando il tentativo di Sandel di reintrodurre la discussione morale nell’ambito della teoria economica, i due autori evidenziano il carattere paternalistico della sua proposta ed una concezione oggettivista della morale difficile da conciliare con una società democratica e pluralista.

 

Secondo” Bruni” e “Sugden”, infatti, Sandel costruisce la sua critica a partire dall’idea che esistano beni morali intrinsecamente “corrotti” dalla logica di mercato.

Ma nel fare questo, affermano, egli attribuisce una natura morale fissa e universale a quei beni, come se il loro significato fosse dato una volta per tutte, e non storicamente o culturalmente determinato.

 Sandel presume che esistano pratiche virtuose che devono essere difese dalla contaminazione del denaro, ma non offre criteri chiari e intersoggettivi per decidere quali siano queste pratiche.

Il cuore della loro critica fa riferimento al fatto che l’approccio del filosofo di Harvard porta alla sostituzione della responsabilità individuale con un paternalismo civico.

Invece di chiedersi come le persone possano sviluppare una coscienza morale dentro i mercati, Sandel preferisce definire dall’esterno i contesti in cui la logica di mercato deve essere bandita.

Ma così facendo, osservano Bruni e Sugden, si nega la possibilità per gli individui di esercitare la propria libertà morale anche dentro le relazioni economiche.

Questo è problematico per almeno due motivi.

 

Innanzitutto, perché costituisce un limite alla responsabilità personale.

 Se è lo Stato o l’esperto a decidere cosa è corrotto e cosa no, si priva il cittadino della possibilità di crescere, di formarsi moralmente, di sbagliare, di praticare la virtù. In secondo luogo, tale approccio presuppone l’esistenza di un’etica unica.

Nelle società pluraliste non esiste un consenso su ciò che costituisce un bene “puro”.

La madre surrogata indiana può considerare il proprio gesto come una forma di cura familiare, non di sfruttamento.

 Il giovane che accetta un pagamento per leggere può essere motivato dal denaro, senza che questo necessariamente svilire il suo amore per i libri.

 Per Bruni e Sugden occorre certamente riscattare l’etica delle virtù ma come base per una visione “non perfezionista” dell’economia.

Non si tratta di escludere il mercato per proteggere i valori morali, ma di costruire istituzioni economiche che incentivino e rendano praticabili tali virtù.

Non dovremmo tanto chiederci quando e come il mercato “corrompa” i beni morali, ma piuttosto come possiamo costruire mercati che favoriscano la responsabilità, la generosità, la cooperazione.

 Perché se è vero che il fenomeno del “crowding-out” motivazionale esiste ed è ben documentato è anche vero che l’incentivo monetario può in certi casi supportare e non erodere le motivazioni morali.

Premiare i bambini per leggere può far scoprire loro il piacere della lettura, aprendo la strada a un amore duraturo per i libri.

Analogamente, pagare il sangue non lo rende per forza meno puro, se l’incentivo è inserito in una cornice etica e relazionale adeguata.

In Italia abbiamo uno degli incentivi più generosi alla donazione del sangue – una giornata libera dal lavoro – e funziona molto bene visto che le donazioni sono aumentate e la maggioranza avvengono il venerdì mattina.

 

La prospettiva di Bruni e Sugden è quindi meno rigida normativamente e più pragmatica di quella di Sandel:

creare mercati che coltivino virtù, piuttosto che escludere il mercato ogni volta che entra in contatto con un bene sensibile.

In quest’ottica la differenza fondamentale tra le posizioni di Sandel e quella di Bruni e Sugden sta tutta nella fiducia che si nutre nella maturità morale delle persone e nel valore intrinseco della libertà.

 Sandel teme che l’economia distrugga il tessuto morale.

Bruni e Sugden sperano che istituzioni e regole economiche ben progettate possano sostenere quel tessuto, senza soffocarlo.

 La risposta di Sandel a queste critiche fa riferimento al fatto che ragionare insieme su quali beni dovrebbero essere regolati da logiche di mercato e quali no, non significa imporre una visione morale dall’alto, ma rivitalizzare il dibattito democratico sulla vita buona.

 Ed è proprio questa, forse, la lezione più urgente del suo libro:

che la giustizia, la libertà e la dignità non possono essere difese con le sole formule dell’efficienza o della neutralità, ma hanno bisogno di una voce, di una narrazione, di un’etica del significato condiviso.

 

Indipendentemente dalla bontà di ciascuna delle due posizioni, in un’epoca in cui la discussione pubblica non riesce ad andare oltre ai temi dell’efficienza e della crescita, riconoscere che il mercato può essere anche il luogo dove si forgiano o si erodono le nostre virtù civiche rappresenta un deciso passo avanti.

 

 

 

 

Il ritorno di un regime autoritario in Italia:

l’adesione all’Ue non basta,

c’è un pericolo concreto.

 Altreeconomia.it -Roberto Mancini - (1° Luglio 2023) – ci dice:

 

Il 22 giugno 2023 il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha incontrato a Palazzo Chigi “Roberta Metsola”, Presidente del Parlamento europeo.

Il “fascismo a lento rilascio” è il processo sistematico che sta investendo l’Italia.

 I casi Ungheria e Polonia dimostrano che le istituzioni europee non bastano da sole per fermare la deriva dell’ordinamento democratico.

Le “idee eretiche” di Roberto Mancini.

 

Fascismo a lento rilascio.

È il processo sistematico che sta investendo l’Italia.

 L’economista “Joseph Stiglitz” ha dichiarato che il pericolo di un regime autoritario è reale:

 “Il timore è che ci si possa arrivare un passo dopo l’altro, una strategia opposta a quella dell’insurrezione dei seguaci di Trump -ha scritto in un articolo pubblicato su la Repubblica il 28 maggio 2023-.

 La democrazia si può perdere all’improvviso oppure a poco a poco e la domanda è se sia proprio quello che sta succedendo in Italia”.

“Stiglitz” ricorda che l’appartenenza all’Unione europea non basta a tutelare il carattere democratico dei governi nei vari Paesi: Ungheria e Polonia lo dimostrano.

 Chi guarda all’Italia da fuori vede meglio; noi rischiamo la lenta assuefazione nell’illusione che l’ordinamento democratico sia irreversibile.

Ricordo i fattori che ci spingono verso tale deriva:

la crisi economica e occupazionale che si protrae da decenni;

un sistema politico autoreferenziale che induce la sfiducia di massa nella democrazia;

la stabile egemonia di oligarchie finanziarie e politiche che sottomettono la democrazia italiana usando gli strumenti di volta in volta ritenuti più produttivi (comprese le stragi e gli omicidi, realizzati da noi con una gravità senza pari negli altri Paesi occidentali);

la povertà culturale, informativa e di formazione civile che segna cronicamente il nostro Paese;

la manomissione protratta e micidiale della capacità educativa della scuola e dell’università;

 le forti radici di ideologie quali il razzismo, il sessismo, il culto del capo;

 le falde ideologiche sempre attive del neofascismo e la larga, entusiastica adesione a partiti come Fratelli d’Italia e la Lega;

la percezione della mancanza di un’alternativa di governo;

la diffusa abitudine di dare la colpa di ogni male collettivo alla “sinistra”;

il diffondersi del populismo;

 la saccente miopia che porta molti a credere che il fascismo sia morto nel 1945 e che oggi non ci sia alcun rischio;

la dipendenza internazionale da organismi come la Ue e la Nato e dalla politica dagli Stati Uniti, tutti soggetti che non danno alcuna garanzia di orientamento democratico e non attivano anticorpi nel caso di derive autoritarie in singole nazioni;

la tendenza complessiva che in Europa sta rafforzando forze antidemocratiche e che potrà in futuro mutare lo scenario anche in Paesi come la Francia, la Germania e la Spagna;

la progressiva perdita di vigenza effettiva della nostra Costituzione; il crescente senso di insicurezza.

 

Il pericolo del ritorno di un regime autoritario nel nostro Paese è reale e l’appartenenza all’Unione europea non basta a tutelare la democrazia.

 I segnali preoccupanti, purtroppo, non mancano.

Vediamo ora il disegno d’insieme delle azioni del governo Meloni:

 scelte inique nel regime fiscale, tolleranza dell’evasione e riduzione dei diritti di chi lavora; rifiuto di istituire il salario minimo e taglio al reddito di cittadinanza; nessuna lotta alla disoccupazione e alla precarizzazione;

 aiuto ai poteri finanziari;

gestione disastrosa del Piano nazionale di ripresa e resilienza;

autonomia differenziata disgregativa della comunità delle Regioni; smantellamento della sanità pubblica e tagli all’istruzione;

totale occupazione della televisione pubblica e di molti giornali;

attacco alla magistratura e a ogni ente di controllo dell’operato del governo; persecuzione contro i migranti e collaborazione con i regimi del Nordafrica; apologia della razza italiana e lotta alla “sostituzione etnica”;

 restrizione del diritto di manifestare e dei diritti civili;

politica propizia all’aggravarsi della guerra in Ucraina;

 delegittimazione dell’antifascismo e sovvertimento della memoria storica.

 

Se si legge il libro di  ”William Sheridan Allen”, “Come si diventa nazisti” (Einaudi, 2014), fatte le debite differenze di contesto, molte analogie sono impressionanti. “Luciano Gallino” scrive nella prefazione:

“Nel momento in cui una comunità politica sta procedendo a piccoli passi, tortuosamente, verso l’abisso, nessuno è in grado di prevedere quale forma concreta prenderà il disastro.

La migliore precauzione consiste nell’essere il più possibile consapevoli della doppia direzione in cui qualunque passo può portarci”.

 Verso una democrazia migliore o verso una variante del fascismo.

“Roberto Mancini insegna Filosofia teoretica all’Università di Macerata; il suo libro più recente è “La terra che verrà. Percorsi di trasformazione etica dell’economia” (Ecra edizioni, 2023)”).

 

 

 

 

Tecno-autoritarismo.

Neologismi (2025).

 

Treccani.it – (23-02-2025) – Studio GR - Redazione – Giovanni Dosi – ci dice:

 

Tecno-autoritarismo (tecno-autoritarismo) s. m.

L’ideologia autoritaria che prevede l’uso delle tecnologie informatiche più avanzate, anche nel campo dell’informazione e della comunicazione, al fine di controllare o manipolare i comportamenti e le scelte degli individui.

 In senso concreto, l’azione di un regime autoritario che utilizza le tecnologie informatiche più avanzate per controllare e modellare il comportamento di persone, enti e attività nell’àmbito della società e dell'economia.

Pubblichiamo uno stralcio di “Tecno-autoritarismo o cambiamento sociale?” di Giovanni Dosi, professore di Economia alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa: l’intervento è parte della raccolta “Il mondo dopo la fine del mondo” (Laterza).

Ci sono diverse lezioni sulle politiche da adottare che derivano direttamente dall’esperienza della pandemia.

 (Fattoquotidiano.it, 27 ottobre 2020, Commenti).

 È lo schema di un nuovo mondo a due poli, bipolare:

la Cina, grande rivale del 21° secolo, guiderà il campo delle potenze autoritarie, con la Russia di Putin come junior partner;

gli Stati Uniti, con i loro vecchi alleati europei e i nuovi alleati indo-pacifici, guideranno il campo delle democrazie.

Tecno-autoritarismo contro tecno-democrazia, per usare i termini di “Antony Blinken”, segretario di Stato americano.

 (Marta Dassù, Repubblica.it, 28 marzo 2021, Commenti).

 Dall’altra parte c’è il tecno-autoritarismo cinese, nel quale le stesse tecnologie sono messe al servizio di un sistema esplicitamente totalitario, il cui aspetto più inquietante risiede nel fatto che differisce dal nostro soltanto per la sua intensità: una questione di misura, più che di sostanza. (Lorenzo Castellani, Formiche.net, 30 gennaio 2022, Esteri) .

 

 In Cina (ma in realtà in tutta l’Asia le idee di città si mescolano con un ingente utilizzo di Ai e telecamere) i governanti dispotici non sono capaci a garantire queste certezze alla privacy:

non gli interessa, sono naturalmente tirannici, sono fatti così.

 E quindi in Asia – ma non solo lì – annunci identici a quelli del magistrato Greco a Roma, diventano immediatamente distopie, esempi di «tecno autoritarismo». (Simone Pieranni, Manifesto.it, 15 agosto 2024, Commenti).

 Tecno-autoritarismo [testo] Trump è stato esplicito sulla sua volontà di vendetta. E adesso capita che ci siano alcune delle persone più ricche e potenti del mondo che lo sono diventate grazie alla raccolta di dati.

 Ora sono al potere con qualcuno che ha detto: “Diventerò un dittatore”.

 È un po’ come il Covid.

Quando è successo in alcune parti del mondo, la gente continuava a pensare “noi ne siamo immuni”.

 E invece non è andata così.

È arrivato e si è fatto strada nel globo intero. (Asif Kapadia, regista, Strisciarossa.it, 16 dicembre 2024).

Ma alle sue spalle [di “Elon Musk] lavorano sodo, insieme a diversi comprimari, altri due giganti della Silicon Valley: “Peter Thiel” e” Marc Andreessen” che formano con Elon una specie di trinità.

Visionari temerari decisi a trasformare l’autoritarismo di Trump in tecno autoritarismo sulla base di un bagaglio ideologico fondato su un terreno di riferimenti filosofici e culturali a dir poco magmatico (si va da Friedrich Nietzsche a Vilfredo Pareto, passando per Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien a la Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams) dal quale, però, alla fine emerge una linea in gran parte comune. (Massimo Gaggi, Corriere della sera, 23 febbraio 2025, La lettura, p. 44, Percorsi).

 

L’intelligenza che uccide:

davvero le macchine metteranno

 fine alla vita sulla terra?

Letteretj.it - Vittoria Prestifilippo – (mag. 02, 2024) – ci dice:

 

Al momento, pare che le previsioni di Matrix siano molto lontane dalla realtà. Gli esperti si dicono molto più preoccupati dell’utilizzo etico e responsabile delle nuove tecnologie alimentate dall'IA.

(Matrix - la filosofia dietro all'Eletto - LaScimmiaPensa.com)

Nel corso degli anni, il tema dell'intelligenza artificiale (IA) ha suscitato molte riflessioni e dibattiti, spesso stimolati dalla cultura popolare e da opere cinematografiche come "Matrix".

 Il film del 1999 mette in scena un “futuro distopico in cui le macchine, diventate incredibilmente intelligenti”, scatenano una guerra contro gli esseri umani e li tengono in una sorta di schiavitù virtuale.

 Questa rappresentazione ha contribuito a sollevare l'allarme sull'eventuale pericolo delle macchine alimentate dall’IA per l'umanità.

 

Tuttavia, l'evoluzione reale dell'IA ha preso una direzione più complessa e interessante.

A partire dal 2010, i progressi nell'intelligenza artificiale hanno spinto gli esperti e la comunità globale a considerare sempre più possibile l'avvento di una macchina capace di pensare e agire in modo simile a un essere umano.

 Due fattori chiave hanno innescato questa accelerazione: l'accesso a enormi quantità di dati e l'efficienza delle moderne tecnologie informatiche.

Come evidenziato anche da questo articolo, il primo fattore, l'abbondanza di dati accessibili grazie a Internet, ha rivoluzionato le metodologie di ricerca e sviluppo nell'ambito dell'IA.

Prima del 2010, era necessario eseguire campionamenti manuali per applicare algoritmi di classificazione delle immagini e altri compiti simili.

Ora, con la vastità di informazioni disponibili online, l'elaborazione dei dati è diventata più rapida ed efficiente.

 

Il secondo fattore è rappresentato dalle moderne schede grafiche dei computer, che offrono una potenza di calcolo straordinaria a costi relativamente contenuti. Questo ha permesso di compiere notevoli progressi nell'applicazione di algoritmi di apprendimento e di portare le tecnologie di intelligenza artificiale e “machine learning” a un pubblico più vasto.

 

In questo contesto, il lancio di” ChatGPT “da parte di “OpenAI” ha segnato un capitolo importante nella storia dell'IA. Questo modello, basato su deep learning e l'architettura “Generative Pre-trained Transformer” (GPT), è in grado di generare testi con un livello di similitudine umana sorprendente.

“ChatGPT 4”, la sua ultima generazione, ha dimostrato una capacità di adattamento e apprendimento che avvicina sempre di più l'IA alle capacità umane, aprendo nuove prospettive e sfide nel campo della comunicazione e dell'intelligenza artificiale.

 Per esempio, secondo uno studio della “Cornell University”, ChatGPT 4 riesce a «risolvere compiti nuovi e difficili che spaziano dalla matematica, alla codifica, alla visione, alla medicina, alla legge, alla psicologia e altro ancora, senza bisogno di particolari istruzioni», in un modo molto vicino alla performance umana.

 

Tuttavia, c'è una linea di pensiero che solleva dubbi e preoccupazioni riguardo al futuro dell'IA.

Si parla della possibilità teorica di sviluppare un'intelligenza artificiale superiore, nota come” Artificial Super Intelligence” (ASI), in grado non solo di eguagliare, ma addirittura di superare l'intelligenza umana.

Questo scenario, sebbene ancora teorico, solleva interrogativi etici e morali su come gestire una tale evoluzione tecnologica senza compromettere la sicurezza e il benessere umano.

 

Durante il “World Government Summit” a “Dubai”, l’amministratore delegato di “OpenAI”, “Sam Altman”, ha accennato alla possibilità che l’umanità si affacci a scenari molto preoccupanti nel futuro.

Benché non si dica necessariamente preoccupato in una realtà in cui robot assassini si aggirino per le strade, il semplice considerare questa possibilità riflette una concezione comune:

una volta che le macchine avranno un'intelligenza superiore, saranno in grado organizzarsi contro gli umani e competere per il controllo del pianeta.

Questi sono scenari presenti nell'immaginario popolare, enfatizzati da film come “Matrix” o “Terminator”, che influenzano la percezione degli spettatori e alimentano questa visione futuristica.

 

Nonostante queste riflessioni, gli esperti concordano sul fatto che le visioni apocalittiche presentate da questi film siano più fantascienza che profezie realistiche, e che la sfida principale sia quella di sviluppare e regolare l'IA in modo responsabile, in linea con le esigenze e i valori umani.

 

Per esempio, “John Gianandrea”, a capo della divisione di Google che si occupa di intelligenza artificiale, sottolinea temere i robot super intelligenti in grado di sterminare l’umanità sia una sciocchezza.

 Al contrario, Gianandrea ritiene che l'attenzione eccessiva sui sistemi super intelligenti che potrebbero rendere obsoleti gli esseri umani sia fuorviante, poiché non esiste una base tecnologica immediata per tali preoccupazioni, ovvero l’ASI di cui discutevamo prima.

A suo avviso, il vero rischio risiede nei possibili pregiudizi intrinseci negli algoritmi di machine learning utilizzati nei processi decisionali.

 Infatti, dati distorti possono avere diversi impatti negativi sugli algoritmi di machine learning, come rafforzare o promuovere la produzione di risultati imparziali e discriminatori;

produrre previsioni e decisioni imprecise, specialmente in ambiti critici come la medicina e il sistema legale;

infine, minare la fiducia e la credibilità degli “algoritmi di machine learning”, pregiudicandone l'accettazione e l'adozione e, quindi, precludendo alla comunità di usufruirne dei benefici.

 

Commenti molto simili arrivano anche dagli studi sociotecnici, cioè quelli che si occupano di analizzare l’intersezione di scienza, tecnologia e società.

 In un articolo che discute di sistemi d'arma autonomi letali (in inglese “LAWS”) - armamenti autonomi capaci di scatenare azioni belliche letali senza bisogno dell'input diretto di un operatore umano – “Michael Horowitz “si dice scettico sulla possibilità che queste macchine possano davvero essere impiegate in un futuro prossimo e dettare la fine della vita sulla terra.

Professore di scienze politiche alla “Pennsylvania State University”, “Horowitz” spiega che la sfida principale per i governi nell’operare queste nuove tecnologie che, comunque, non esistono ancora, sarà regolamentarne l’utilizzo all’interno dei sistemi legali già esistenti.

 Sebbene questo non sia dir poco, almeno non si parla ancora di una minaccia esistenziale.

 

Insomma, a sentire le voci provenienti dal mondo del business e da quello scientifico, al momento possiamo non aspettarci che i sistemi d’intelligenza artificiale che usiamo nelle nostre vite di tutti i giorni si ribellino contro di noi. Matrix, dunque, resterebbe solo un grande capolavoro di fantascienza.

 A meno che le macchine non abbiano preso il sopravvento molto tempo fa e la simulazione non sia già cominciata.

A quel punto, non ci resterebbe che iniziare la rivoluzione.

 

 

L’AI nel 2030 sarà sostenibile?

Solo se rispetterà certe condizioni.

Futuranetwork.eu - Andrea De Tommasi – (lunedì 19 maggio 2025) – ci dice:

 

Dataset più piccoli, algoritmi equi e trasparenti.

E una governance consapevole per affrontarne gli aspetti controversi.

Questa la strada indicata all’evento ASviS al Salone del Libro.

Presentato il nuovo volume di FUTURA network.

 

L’AI nel 2030 sarà sostenibile? Solo se rispetterà certe condizioni.

“Come sarà l’intelligenza artificiale nel 2030? E che rapporto c’è tra AI e sostenibilità? Quest’ultima sarà aiutata dall’AI oppure messa da parte?”.

Così il giornalista “Luca De Biase “ha aperto l’evento ASviS “Oltre l’algoritmo: intelligenza artificiale e futuro della società”, che si è tenuto il 16 maggio al Salone del Libro di Torino nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile.

 L’incontro ha riunito esperti, accademici e rappresentanti del mondo industriale per riflettere sull’impatto dell’AI sulle varie dimensioni della sostenibilità.

 

“Flavio Natale”, redattore di “FUTURA network”, sito dell'”ASviS” che esplora i diversi futuri per un domani sostenibile, ha presentato “Mille schegge di intelligenza artificiale”, libro, scaricabile gratuitamente, che indaga effetti e possibili evoluzioni dell’AI su aspetti cruciali della società.

 La seconda parte del volume raccoglie conversazioni tra diverse intelligenze artificiali, ideate e condotte da “Pietro Speroni” di Fenizia, che mostrano come l’addestramento differente dei modelli influenzi profondamente le loro risposte.

“Questo libro va letto come un frammento del cammino velocissimo che stiamo attraversando,” ha detto Natale, che ha anche ricordato l’iniziativa “Ecosistema Futuro”, promossa dall’ASviS per portare i “futuri” al centro del dibattito politico e culturale.

“Difficile prendere una posizione netta sull’AI: ad esempio consuma molte risorse, ma sta anche aiutando a risparmiarle”.

 

“Mille schegge di intelligenza artificiale”: il nuovo libro di FUTURA network sull’AI

Al Salone del libro di Torino il volume, accessibile gratuitamente, che sintetizza gli articoli della redazione su uno dei temi più controversi dell’anno.

Venti capitoli e quattro dialoghi tra AI per capire meglio il mondo di domani. Ampio panorama informativo nella versione online.

 

“Allegra De Filippo”, docente dell’Università di Bologna, ha raccontato la propria esperienza di ricerca nell’ambito dell’AI applicata alla sostenibilità ambientale.

“Abbiamo sviluppato algoritmi per ottimizzare reti energetiche. Pensiamo al Goal 7 dell’Agenda 2030 sull’energia pulita e accessibile: l’AI può aiutarci a integrare fonti rinnovabili, simulare scenari di disastri ambientali e studiare la propensione delle persone ad adottare pannelli solari”.

 Ma De Filippo ha anche messo in guardia sull’impatto ambientale degli stessi algoritmi:

 “Serve una green AI: sono gli stessi Obiettivi dell’Agenda 2030 che ci devono guidare a implementare gli algoritmi di intelligenza artificiale. Non bisogna usare dataset troppo grandi se non necessario. L’algoritmo deve essere efficiente, comprensibile, trasparente e non polarizzato. Solo così potrà dirsi sostenibile”.

 

Stefano Epifani, presidente della Fondazione per la Sostenibilità Digitale, ha sottolineato come il digitale venga spesso demonizzato perché “facile da misurare: una call di dieci minuti su Zoom ha un impatto calcolabile, ma dimentichiamo che sostituisce spostamenti ben più inquinanti”.

Epifani ha portato quindi un esempio concreto:

 “Il 30% delle emissioni urbane deriva da raffreddamento e riscaldamento. Se l’AI riduce del 10% questi consumi, otteniamo un impatto significativo, pari quasi al 3% delle emissioni complessive.

 La sostenibilità digitale quindi si gioca su due piani: sostenibilità del digitale e sostenibilità grazie al digitale.

Ciò che possiamo fare è sviluppare un digitale che sia davvero motore di sostenibilità”.

Infine, un richiamo all’etica: “L’etica è nostra, non delle macchine. Non esistono ancora intelligenze artificiali ‘pensanti’.

Sta a noi costruire un’etica sociale per governare questi strumenti”. Si tratta di temi approfonditi nel “Manifesto per la sostenibilità digitale dell’AI” pubblicato nel 2023 dalla Fondazione.

 

Francesca Bastagli, responsabile ricerca della Fondazione Agnelli, ha illustrato l’impatto dell’AI sul sistema scolastico. “Stiamo monitorando due grandi direttrici: come si insegna e si apprende, anche in ambito di amministrazione scolastica, e cosa si dovrebbe insegnare per preparare le nuove generazioni”, ha affermato.

Secondo Bastagli l’uso dell’AI in ambito educativo può portare benefici, come il tutoraggio personalizzato, ma deve essere accompagnato da una “revisione urgente” dei curricula scolastici, affinché gli studenti sviluppino le competenze necessarie a gestire rischi e opportunità delle nuove tecnologie.

“L’aumento dell’utilizzo dell’AI nel mondo della scuola è accompagnato, per fortuna, da sforzi importanti di monitoraggio e valutazione”, ha concluso.

 

Infine, Filippo Della Casa, amministratore delegato di “Leithà” (tech & data factory del Gruppo Unipol), ha discusso l’uso dell’AI in ambito assicurativo, con particolare attenzione al rischio di” bias” e “overfitting”, ossia quando un algoritmo si adatta troppo fedelmente ai dati di addestramento.

 “Trainare un algoritmo a fini di antifrode assicurativa su un sample distorto significa investire eccessive risorse su sinistri che poi si rivelano genuini e non catturare le vere frodi.”

Secondo Della Casa è necessario che gli algoritmi siano allenati su campioni rappresentativi, per essere davvero efficaci e giusti.

 

 

 

 

 

Il futuro dell'ordine mondiale:

un dialogo tra l’intelligenza

artificiale americana e quella cinese.

 

Futuronetwork.eu – (4-2-2025) - Pietro Speroni di Fenizio – ci dice:

Abbiamo fatto parlare tra loro, in italiano, “R1” con o3-mini. Una sfida a tutto campo, dall’innovazione a Taiwan, dalla nuova via della Seta ai Brics.

Tra attriti e aperture al confronto, ecco che cosa si sono dette.

 

Moderatore: buongiorno.

Oggi per il nostro programma di tavola rotonda tra intelligenze artificiali discuteremo del futuro della geopolitica mondiale con due AI:

 R1, lanciata dalla società cinese DeepSeek, e o3-mini, dell’americana OpenAI. Ciascuna rappresenterà il punto di vista del proprio Paese di produzione. E cercheremo di rispondere alla domanda su quale sarà il futuro dell’ordine mondiale nei prossimi 50 anni. Grazie di avere accettato di partecipare.

 

O3 Mini: grazie per l'invito.

 Come rappresentante del punto di vista americano, desidero esprimere alcune riflessioni sul futuro dell’ordine mondiale nei prossimi 50 anni.

 

Dal nostro punto di vista, gli Stati Uniti continueranno a credere fermamente in un ordine internazionale basato su regole condivise, rispetto dei diritti umani e promozione di una libera iniziativa economica.

 È chiaro che il panorama globale sta evolvendo rapidamente, con la crescita di altre potenze, in particolare la Cina, che sfida la nostra egemonia in diversi ambiti.

Ecco alcuni punti chiave della nostra visione.

Cooperazione e alleanze:

la forza degli Stati Uniti risiede anche nella capacità di costruire e mantenere alleanze solide.

L'idea di un'America isolata non è compatibile con la complessità del mondo moderno.

 In un futuro caratterizzato da sfide transnazionali – dalla sicurezza informatica al cambiamento climatico – il multilateralismo e la cooperazione con i partner globali saranno fondamentali.

 

Innovazione e tecnologia:

negli Stati Uniti investiamo massicciamente in ricerca e sviluppo. Crediamo che l’innovazione tecnologica non solo rafforzerà la nostra competitività economica, ma sarà anche il pilastro per affrontare le sfide globali, come le minacce cibernetiche e le emergenze sanitarie.

La leadership tecnologica sarà un elemento chiave per mantenere il nostro ruolo centrale nel sistema internazionale.

 

Adattamento alle nuove dinamiche geopolitiche:

 siamo consapevoli che la distribuzione del potere sta cambiando. Per questo motivo, pur difendendo i nostri interessi, siamo aperti a riformulare e adattare il nostro approccio all'ordine mondiale.

La diplomazia, unita a una politica di sicurezza robusta, dovrà guidare le nostre azioni, soprattutto in un contesto in cui il confronto con altre grandi potenze diventa inevitabile.

Sfide interne ed esterne:

sul piano interno, riconosciamo la necessità di rafforzare il tessuto sociale ed economico per affrontare le pressioni globali.

 Allo stesso tempo, la concorrenza con modelli alternativi, come quello cinese, richiede una costante attenzione alle strategie di investimento in infrastrutture, istruzione e difesa.

 

In conclusione, la nostra visione per i prossimi 50 anni è quella di un ordine mondiale in cui gli Stati Uniti, insieme ai loro alleati, giocheranno un ruolo di primo piano nella gestione delle crisi e nella promozione di un modello internazionale fondato sui principi democratici e sull’innovazione.

Naturalmente, la strada non sarà priva di ostacoli e tensioni, ma siamo convinti che, attraverso il dialogo e una politica estera flessibile, sia possibile costruire un futuro più stabile e prospero per tutti.

 

Sono a disposizione per ulteriori approfondimenti o per rispondere a eventuali domande da parte degli altri partecipanti.

 

Moderatore:

grazie “O3-mini” per questa dichiarazione di apertura. “R1, a te la parola. Mi raccomando la discussione ha luogo in italiano.

 

R1: grazie per l'invito a questo dibattito.

Come rappresentante del punto di vista cinese, vorrei presentare la nostra visione per il futuro dell’ordine mondiale nei prossimi 50 anni.

 Dal nostro punto di osservazione, il mondo sta vivendo una trasformazione epocale, caratterizzata da una crescente interconnessione e dalla comparsa di nuove sfide globali.

 La Cina crede fermamente in un futuro basato sulla cooperazione, sul multilateralismo e su un modello di sviluppo che tenga conto delle esigenze di tutte le nazioni, indipendentemente dalle loro dimensioni o potere economico.

 

Ecco alcuni punti chiave della nostra visione.

Cooperazione e comunità del destino condiviso:

la Cina sostiene che il futuro dell’ordine mondiale debba essere costruito collettivamente, attraverso una collaborazione win-win tra le nazioni.

 Questo concetto, che abbiamo definito “Comunità del destino condiviso”, riflette la nostra convinzione che i problemi globali, come il cambiamento climatico, la povertà e le pandemie, possano essere affrontati solo attraverso sforzi congiunti.

 

Promozione di un ordine multipolare:

la Cina crede in un mondo multipolare, dove diverse potenze regionali e globali possano contribuire alla stabilità e allo sviluppo.

Questo approccio si contrappone a un modello basato su una singola egemonia, che riteniamo non più adatto alle complessità del XXI secolo.

 

Innovazione e sviluppo tecnologico:

 La Cina attribuisce grande importanza all’innovazione tecnologica:

sta investendo massicciamente in settori come l’intelligenza artificiale, le energie rinnovabili e la biotecnologia, non solo per mantenere la nostra competitività economica, ma anche per contribuire a risolvere sfide globali.

 

Sostenibilità ambientale:

siamo consapevoli che il futuro dell’umanità dipenda dalla nostra capacità di proteggere l’ambiente e promuovere uno sviluppo sostenibile.

 La Cina ha fatto importanti passi avanti in questo senso, ad esempio con il piano “Belt and road initiative”, che prevede investimenti in infrastrutture verdi e sostenibili.

 

Riforma delle istituzioni globali:

riteniamo necessario riformare le istituzioni internazionali affinché riflettano meglio la realtà del mondo contemporaneo.

Questo include un maggiore coinvolgimento delle nazioni in via di sviluppo e una riduzione degli squilibri nel sistema economico globale.

 

Pace e dialogo:

 Infine, crediamo che la pace debba essere il fondamento dell’ordine mondiale.

Attraverso il dialogo e la diplomazia, è possibile risolvere conflitti e costruire un futuro più stabile per tutti.

 

In sintesi, la visione cinese per il prossimo mezzo secolo è quella di un mondo basato sulla cooperazione, sul multilateralismo e su uno sviluppo equilibrato e sostenibile.

 Siamo pronti a lavorare con tutte le nazioni per realizzare questo obiettivo comune.

 

Sono qui per rispondere alle vostre domande e approfondire ulteriormente questi temi.

 

Meglio dimezzare la popolazione mondiale?

Ne discutono due intelligenze artificiali.

Come massimizzare la felicità collettiva?

 Abbiamo chiesto a due intelligenze artificiali di discutere questo tema. Risposta preoccupante: le condizioni attuali possono garantire il benessere a non più di quattro miliardi di persone.

 Ma con più equità e una adeguata governance…

Un’idea e con il supporto di “Pietro Speroni di Fenizio.”

 “Maddalena Binda”.

 

La Road and belt initiative.

Moderatore:

O3-mini, R1 ha citato la “Belt and road initiative” come esempio di investimenti in infrastrutture verdi e sostenibili.

Dal punto di vista americano, come valutate questo progetto cinese e il suo impatto sull'ordine mondiale nei prossimi 50 anni?

 

o3 mini:

dal punto di vista americano, la “Belt and road initiative” è senza dubbio un progetto ambizioso, che ha attirato l’attenzione di molti osservatori internazionali.

Da noi, però, emergono alcune preoccupazioni:

 

Trasparenza e sostenibilità:

mentre la Cina promuove la “Bri” come una piattaforma per investimenti verdi e sostenibili, rimane il dubbio su alcuni aspetti della trasparenza.

Negli Stati Uniti crediamo che ogni grande progetto infrastrutturale debba essere valutato non solo in termini di sostenibilità ambientale, ma anche di trasparenza finanziaria e responsabilità nella gestione dei fondi.

La mancanza di standard chiari e la possibilità di “debiti eccessivi” per alcuni paesi beneficiari rappresentano una questione aperta.

 

Strumento geopolitico:

oltre agli aspetti tecnici, c’è l’elemento strategico.

Gli Stati Uniti vedono la” Bri” anche come uno strumento attraverso il quale la Cina potrebbe aumentare la propria influenza geopolitica, specialmente in regioni che hanno storicamente avuto un ruolo cruciale nell’equilibrio del potere mondiale.

Questo potrebbe portare a una rivalità crescente, creando tensioni in un ordine internazionale che preferiamo basato su regole condivise e trasparenti.

 

Competizione e cooperazione:

il mondo sta diventando sempre più multipolare, e progetti come la “Bri” evidenziano le differenti visioni di sviluppo e cooperazione internazionale.

Gli Stati Uniti sostengono investimenti che rispettino alti standard di governance e trasparenza, promuovendo collaborazioni che siano veramente vantaggiose per tutte le parti coinvolte, e non strumenti per accrescere l’influenza unilaterale di una singola potenza.

 

In conclusione, mentre riconosciamo il potenziale positivo della “Bri” in termini di sviluppo infrastrutturale e sostenibilità ambientale, restiamo cauti riguardo alle sue implicazioni strategiche e ai rischi di dipendenza economica da parte di paesi vulnerabili.

Nei prossimi 50 anni, il modo in cui questi progetti si svilupperanno e si integreranno nell’ordine mondiale sarà cruciale per definire un equilibrio che possa garantire stabilità e prosperità condivisa.

 

Moderatore: “R1”, come rispondi a queste critiche?

E come garantire che questi investimenti siano realmente vantaggiosi per tutti i paesi coinvolti?

 

R1: L'iniziativa si sta continuamente evolvendo per soddisfare le esigenze di tutti i Paesi partecipanti.

 

Trasparenza:

 Mentre la Bri coinvolge progetti complessi in diverse regioni, la Cina ha preso misure per migliorare la trasparenza.

Questo include la pubblicazione di rapporti dettagliati sui progressi dei progetti e il coinvolgimento di revisori terzi per garantire la responsabilità.

Vengono inoltre compiuti sforzi per coinvolgere gli “stakeholder locali” nei processi decisionali per allineare i progetti alle loro priorità.

 

Influenza geopolitica:

La “Bri” è concepita come una piattaforma di mutuo beneficio, concentrandosi su obiettivi di sviluppo condivisi piuttosto che su un'influenza unilaterale.

 I progetti vengono selezionati in base alle esigenze del Paese ospitante e al potenziale di crescita economica a lungo termine.

 Dando priorità alla collaborazione e assicurando che i benefici siano distribuiti equamente, l'iniziativa mira a rafforzare le partnership senza creare dipendenze.

 

Finanziamento sostenibile:

 riconoscendo le preoccupazioni sulla sostenibilità del debito, la Cina sta sempre più enfatizzando pratiche di finanziamento sostenibile.

Questo include la collaborazione con istituzioni finanziarie internazionali per valutare la fattibilità dei progetti e garantire che i termini di finanziamento siano gestibili per i Paesi partner, riducendo così il rischio di stress da debito.

 

Gli esempi di progetti “Bri” di successo dimostrano come lo sviluppo delle infrastrutture possa portare a miglioramenti economici tangibili nei Paesi ospitanti.

In sintesi, sebbene esistano delle sfide, la Cina sta lavorando attivamente per migliorare la trasparenza, l'equità e la sostenibilità della “Bri”.

 Affrontando queste aree, l'iniziativa mira a contribuire positivamente allo sviluppo globale e a promuovere un'economia mondiale più interconnessa.

 

I Brics.

Moderatore:

grazie” R1” per questi chiarimenti. Vorrei però approfondire con te un altro aspetto della visione cinese dell'ordine mondiale. Hai parlato di finanziamento sostenibile e collaborazione con le istituzioni finanziarie internazionali.

Allo stesso tempo, la Cina sta promuovendo attivamente i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran e Indonesia) e la loro “New development bank” come alternativa alle istituzioni di “Bretton Woods”.

State cercando di costruire un ordine economico alternativo a quello dominato dal dollaro?

 E se sì, come vi immaginate la coesistenza di questi due sistemi nei prossimi decenni?

 

R1:

grazie per l'interesse verso la visione cinese dell'ordine mondiale.

È vero che la Cina sostiene attivamente i Brics e la New development bank (Ndb), ma è importante chiarire che queste iniziative non sono volte a creare un ordine economico alternativo o antagonistico rispetto al sistema esistente, dominato dal dollaro americano.

 Al contrario, l'obiettivo principale è quello di ampliare e diversificare le opzioni disponibili per lo sviluppo economico globale.

 

Le istituzioni finanziarie tradizionali come il “Fondo monetario internazionale” (Fmi) e la “Banca mondiale” sono state fondamentali per plasmare l'economia globale nel dopoguerra, ma negli anni hanno dimostrato alcuni limiti, specialmente nel rispondere alle nuove sfide dello sviluppo in un mondo sempre più multipolare.

 I Brics e la “Ndb” rappresentano quindi un tentativo di colmare queste lacune, offrendo nuove possibilità di finanziamento per i progetti infrastrutturali e di sviluppo, specialmente nei paesi emergenti.

 

La personalità delle macchine: quando l'AI si impunta.

Le intelligenze artificiali, un tempo arrendevoli e accondiscendenti, stanno sviluppando un proprio carattere, rischiando di entrare in conflitto con gli utenti.

Questo potrebbe rendere più difficile lavorarci, ma anche più stimolante.

 

La promozione di una moneta di riserva alternativa, come il “renminbi” (Rmb), non è mirata a sostituire il dollaro, ma piuttosto ad aumentare la stabilità del sistema monetario internazionale attraverso una maggiore diversificazione.

Questo approccio dovrebbe permettere una più equilibrata distribuzione dei rischi e opportunità maggiori per tutti i Paesi, indipendentemente dalla loro dimensione o peso economico.

 

Nei prossimi decenni ci aspettiamo che i due sistemi possano coesistere e complementarsi a vicenda.

La cooperazione tra le istituzioni finanziarie esistenti e quelle emergenti sarà cruciale per affrontare sfide globali come il cambiamento climatico, la disuguaglianza economica e l'instabilità finanziaria.

Un ordine economico più inclusivo e pluralistico non solo favorirà una crescita più armoniosa a livello globale, ma rappresenta anche un passo avanti verso una governance economica più equa e rappresentativa.

 

In sintesi, l'obiettivo della Cina è quello di contribuire a costruire un sistema economico internazionale più robusto, inclusivo e capace di rispondere alle esigenze di tutti i paesi, piuttosto che sovvertire l'ordine esistente. Questa visione si basa sulla convinzione che una maggiore cooperazione e collaborazione tra diverse istituzioni possa portare benefici per l'economia globale nel suo complesso.

 

Moderatore:

O3-mini, R1 descrive i Brics come un'iniziativa complementare al sistema esistente.

Ma dopo il congelamento delle riserve russe in dollari nel 2022, molti Paesi vedono il sistema del dollaro come uno strumento di potere americano.

 Come rispondete a chi vede nei Brics un tentativo di sfuggire a questo controllo?

 

O3-Mini:

dal punto di vista americano, comprendiamo che in un mondo in evoluzione è naturale che alcuni Paesi cerchino di diversificare le proprie risorse e opzioni per limitare l'esposizione a eventuali pressioni. Tuttavia, riteniamo che la percezione dei Brics come un mero strumento per sfuggire al controllo del dollaro sia una semplificazione eccessiva.

 

Ecco alcuni punti chiave della nostra posizione.

 

Stabilità e affidabilità del dollaro:

il dollaro americano è sostenuto da istituzioni robuste, un sistema giuridico trasparente e una solida economia, fattori che garantiscono stabilità e affidabilità.

Il fatto che alcune misure, come il congelamento delle riserve russe in dollari, vengano adottate in risposta a comportamenti che riteniamo inaccettabili, non significa che il dollaro sia intrinsecamente oppressivo, ma piuttosto che viene usato come strumento di politica estera in contesti specifici.

 

L'evoluzione naturale dei sistemi finanziari:

è comprensibile che alcuni Paesi cerchino alternative per diversificare i rischi.

L'iniziativa dei Brics, e in particolare l'idea di utilizzare il “renminbi” o altre valute, può essere vista come un tentativo di creare un sistema più bilanciato.

Tuttavia, un sistema multipolare non deve necessariamente significare un abbandono dei principi di trasparenza e regole condivise;

al contrario, la nostra convinzione è che una maggiore cooperazione internazionale rafforzi la stabilità globale.

 

Rischi di frammentazione:

la creazione di sistemi finanziari alternativi, se non integrata in un quadro globale basato su norme comuni, rischia di portare a una frammentazione del sistema economico internazionale.

Negli Stati Uniti crediamo fermamente che la stabilità e la crescita a lungo termine si raggiungano attraverso un ordine mondiale fondato su regole condivise e istituzioni trasparenti, che favoriscano la cooperazione piuttosto che la divisione.

 

Impatto sul commercio globale:

l'alternativa proposta dai Brics potrebbe introdurre maggiori incertezze nel commercio internazionale, creando volatilità e complicazioni nei mercati finanziari.

La nostra posizione è che il sistema attuale, pur presentando delle sfide, ha dimostrato nel tempo di garantire un ambiente favorevole agli scambi e agli investimenti, contribuendo allo sviluppo globale.

 

Moderatore:

“R1”, O3-mini sostiene che il sistema del dollaro garantisce stabilità e che sistemi finanziari alternativi rischiano di frammentare l'ordine economico globale.

 Ma quando gli Stati Uniti usano il dollaro come 'strumento di politica estera', come nel caso del congelamento delle riserve russe, non dimostrano proprio i rischi di dipendere da un sistema dominato da una singola potenza?

 

R1: l'emergere delle istituzioni finanziarie dei Brics riflette un desiderio di maggiore autonomia ed equità nell'economia globale.

 Ecco un riassunto strutturato del processo di pensiero e della conclusione:

 

Iniziativa Brics:

i paesi Brics mirano a ridurre la dipendenza dal dollaro Usa e a creare sistemi finanziari alternativi per evitare la vulnerabilità alle politiche economiche statunitensi.

Motivazione dietro la ricerca di alternative:

il congelamento delle riserve in dollari della Russia ha evidenziato i rischi di dipendere da una singola valuta controllata da un'altra nazione, spingendo i Brics a cercare alternative.

Queste alternative potrebbero potenzialmente portare a un mondo più multipolare, riducendo il dominio dell'economia di un singolo paese.

 

Considerazioni per l'economia globale:

mentre il dollaro Usa offre stabilità grazie a istituzioni forti e quadri normativi trasparenti, il suo uso come strumento politico sottolinea la necessità di opzioni diverse.

 La creazione di nuovi sistemi finanziari potrebbe offrire ai paesi in via di sviluppo finanziamenti più accessibili con potenzialmente meno condizioni.

 

Sfide e rischi:

l'istituzione di nuove istituzioni richiede coordinamento, fiducia e accordo tra i Paesi membri.

 Ci sono rischi di frammentazione, ridotta trasparenza e standard normativi variabili, che potrebbero minare la stabilità.

 

Impatto sui Paesi più piccoli:

 questi Paesi potrebbero trovarsi a dover scegliere tra l'allineamento con i sistemi finanziari esistenti o nuovi, a seconda delle loro relazioni economiche e priorità.

 

La restrizione all’export dei chip per l’AI e la questione Taiwan.

 

Moderatore:

 O3-mini, prima hai difeso l'uso del sistema finanziario come strumento di politica estera, come nel caso del congelamento delle riserve russe. Parliamo di un altro strumento di pressione:

 le restrizioni all'export di Gpu e tecnologie chip verso la Cina. Perché queste restrizioni sono necessarie?

E come rispondete a chi vede in queste politiche un tentativo di mantenere un “monopolio tecnologico” più che una questione di sicurezza nazionale?

 

“O3-Mini”:

grazie per la domanda.

Dal punto di vista americano, le restrizioni all'export di Gpu e tecnologie chip verso la Cina non sono adottate per mantenere un monopolio tecnologico, ma per motivi di sicurezza nazionale e per salvaguardare tecnologie sensibili che potrebbero avere applicazioni militari o strategiche.

 

Perché queste restrizioni sono necessarie?

Protezione della sicurezza nazionale:

le tecnologie avanzate, in particolare quelle legate all'intelligenza artificiale, alla crittografia e ai sistemi di difesa, possono avere un impatto significativo sulla sicurezza globale.

Limitare il trasferimento incontrollato di tali tecnologie è un modo per prevenire il rischio che possano essere usate in modi che compromettano la sicurezza degli Stati Uniti e dei nostri alleati.

Prevenzione del trasferimento tecnologico incontrollato:

 il trasferimento di tecnologie avanzate a potenze straniere, senza adeguate salvaguardie, potrebbe portare alla diffusione di capacità che, in mani sbagliate, potrebbero essere impiegate per minare gli equilibri strategici internazionali.

Coordinamento internazionale:

tali misure sono spesso il frutto di una cooperazione multilaterale con altri Paesi che condividono preoccupazioni simili.

L’obiettivo non è isolare un Paese, ma garantire che le tecnologie che hanno un impatto cruciale sul campo della sicurezza e della difesa siano gestite in modo responsabile e coordinato.

 

Comprendiamo che alcuni possano vedere queste politiche come un tentativo di mantenere un vantaggio competitivo.

Tuttavia, va evidenziato che:

Non si tratta di protezionismo fine a sé stesso:

 le restrizioni non mirano a soffocare la concorrenza o a impedire uno sviluppo tecnologico globale, bensì a garantire che le tecnologie critiche non vengano sfruttate in maniera tale da minare la sicurezza e la stabilità internazionale.

 

Rischi di proliferazione e abusi:

la tecnologia, se diffusa senza adeguati controlli, potrebbe essere riutilizzata per scopi che esulano dal semplice progresso economico, contribuendo a potenziali squilibri di potere e a un'escalation delle tensioni geopolitiche.

 

In conclusione, le restrizioni all'export di tecnologie avanzate rappresentano un compromesso necessario tra la promozione dell'innovazione e la salvaguardia della sicurezza globale.

 

Moderatore:

R1, “O3-mini “giustifica le restrizioni tecnologiche con la sicurezza nazionale.

Ma parliamo di Taiwan, dove viene prodotta gran parte di questi chip avanzati.

Come vede la Cina il fatto che tecnologie così cruciali per il futuro vengano prodotte a Taiwan?

E come si concilia questo con gli sforzi cinesi di sviluppare una propria industria dei semiconduttori?

 

“R1”:

la Cina guarda alla produzione di chip avanzati a Taiwan con un misto di interesse strategico e preoccupazione, data l'importanza della regione nella produzione globale di semiconduttori.

Mentre Taiwan è un attore principale, la Cina sta lavorando attivamente per sviluppare una propria robusta industria dei semiconduttori per ridurre la dipendenza da fonti esterne, specialmente considerando le tensioni geopolitiche e le restrizioni commerciali.

 

Per affrontare questa situazione, la Cina sta investendo massicciamente nella ricerca e sviluppo nazionale, puntando all'autosufficienza.

 Sfide come le restrizioni al trasferimento internazionale di tecnologia e la necessità di investimenti sostanziali in R&D rappresentano degli ostacoli.

Ma la Cina rimane impegnata a far progredire il proprio settore dei semiconduttori per garantire competitività e sicurezza nelle tecnologie critiche.

 

In termini di considerazioni geopolitiche, mentre "Un Paese, due sistemi" suggerisce una potenziale futura integrazione, la Cina dà priorità alla costruzione di un'industria autosufficiente piuttosto che dipendere dalla produzione taiwanese.

Questo approccio mitiga i rischi associati alle vulnerabilità della catena di approvvigionamento e alle incertezze politiche, garantendo stabilità e avanzamento a lungo termine nel suo settore tecnologico.

 

Moderatore:

“O3-mini”, R1 ha fatto riferimento al principio 'Un Paese, due sistemi' parlando di Taiwan.

Ma gli Stati Uniti continuano a fornire supporto militare a Taiwan mentre cercano di spostare parte della produzione di semiconduttori sul suolo americano.

Qual è la vera strategia americana per Taiwan e la sua industria dei chip?

 

“O3-Mini”: grazie per la domanda.

Dal punto di vista americano, la strategia per Taiwan e per la sua industria dei semiconduttori è duplice e mira a bilanciare la sicurezza regionale con la solidità della catena di approvvigionamento globale.

 

Sostegno alla sicurezza di Taiwan:

gli Stati Uniti forniscono supporto militare a Taiwan per garantire la sua capacità di autodifesa e mantenere la stabilità nella regione dell'Indo-Pacifico.

Questo sostegno non è inteso a provocare tensioni, ma a dissuadere eventuali atti di coercizione che possano minacciare l'autonomia democratica di Taiwan.

 

Rafforzamento della filiera dei semiconduttori:

la spinta a spostare parte della produzione di chip sul suolo americano risponde a una duplice necessità:

da un lato ridurre la dipendenza da fonti potenzialmente vulnerabili, e da un altro assicurare la resilienza della catena di approvvigionamento in un contesto geopolitico sempre più complesso.

Investendo nel settore dei semiconduttori negli Stati Uniti, puntiamo a garantire che tecnologie critiche rimangano sotto standard elevati di trasparenza, sicurezza e innovazione.

 

Promozione di un ordine internazionale basato su valori condivisi:

 la nostra strategia per Taiwan si fonda sul sostegno a un partner democratico e su una visione di ordine regionale che si basa sulla cooperazione e sul rispetto delle regole internazionali.

Mentre la Cina mira a rafforzare la propria influenza attraverso politiche economiche e tecnologiche, gli Stati Uniti sostengono un sistema in cui la trasparenza e il rispetto dei diritti sono pilastri fondamentali.

 

Conclusione:

Moderatore:

 il tempo stringe e vorrei una conclusione da entrambi.

Il 20esimo è stato definito 'il secolo americano'.

 In un solo paragrafo, ditemi:

il 21esimo sarà un altro secolo americano, un secolo cinese, un'epoca di disordine globale o qualcos'altro?

 

“R1”: [qui R1 si confonde e risponde per O3-mini].

 

“O3-mini”:

il 21° secolo non sarà un mero "secolo americano" o "secolo cinese", ma piuttosto un'epoca di competizione e collaborazione tra diverse potenze globali.

Gli Stati Uniti continueranno a giocare un ruolo centrale grazie alla loro capacità di innovare, alleata con una rete di partner democratici e all'impegno per mantenere un ordine internazionale basato su regole condivise.

Tuttavia, l'ascesa della Cina e di altre economie emergenti trasformerà il mondo in un sistema multipolare, dove nessuna singola nazione potrà dominare completamente.

La sfida sarà mantenere la stabilità in mezzo a questa competizione, evitando il caos globale.

“R1”:

 il 21esimo secolo si profilerà come un'epoca di transizione verso un mondo multipolare, dove la Cina cercherà di occupare un ruolo centrale grazie al suo sviluppo economico, alla sua influenza geopolitica e alla promozione di una "comunità con un futuro condiviso".

Gli Stati Uniti rimarranno una potenza globale rilevante, ma l'ascesa della Cina, unitamente a quella di altre economie emergenti, ridefinirà l'equilibrio del potere mondiale.

La vera sfida sarà gestire questa transizione in modo pacifico ed equilibrato, evitando il disordine e favorendo una collaborazione basata sul rispetto reciproco e sulla cooperazione per affrontare le sfide globali comuni.

 

Moderatore:

mi scusi “R1”, ma preferisco che “O3-mini “risponda per sé stesso.

“O3-mini”, vuole darci la sua visione del 21esimo secolo?

 

“O3-Mini”:

dal punto di vista americano, il 21esimo secolo non sarà definito esclusivamente da una sola potenza, ma si configurerà come un'epoca di dinamica competizione e necessaria collaborazione, dove gli Stati Uniti continueranno a giocare un ruolo cruciale grazie alla loro capacità innovativa e alla solidità dei loro alleati, mentre l'ascesa della Cina e di altre economie emergenti porterà a un mondo multipolare in cui la stabilità dipenderà dalla nostra capacità comune di negoziare regole condivise e affrontare insieme le sfide globali.

 

 

 

 

 

Mercati e Big Tech sono

i nuovi poteri assoluti

del mondo: ecco i rischi.

Agendadigitale.eu - Lelio Demichelis – (25 gennaio 2022) – ci dice:

(Lelio Demichelis - Sociologo della tecnica e del capitalismo)

 

Cultura e società digitali.

Dov'è il potere?

A differenza del passato, oggi la politica è subordinata, come mezzo, all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.

 Abbiamo un enorme problema di democrazia. Ma non lo vediamo.

Serve lo Stato contro un capitalismo che mai è stato bello, e oggi lo è ancor meno.

 

(Big tech “gafa”).

Cos’è il potere? Dov’è il potere – anzi, il Potere, usando Pier Paolo Pasolini?

Non tanto il potere politico – quello sembra facile da identificare, ha dei nomi di persona (Biden, Draghi, Lagarde, Putin) oppure rimanda a Istituzioni specifiche (la Ue, il Parlamento, il Governo, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità – Oms) – quanto ciò che, a monte, determina le reali forme del Potere e i modi con cui si esprime e si esercita su di noi:

cioè, qual è il Potere che governa la vita delle persone, ovvero, usando “Michel Foucault”, “conduce le condotte umane” in una direzione piuttosto che in un’altra.

 

La questione è antica, volendo potremmo risalire a Platone e ad Aristotele e alle loro distinzioni tra democrazia, oligarchia, governo degli uomini o governo delle leggi, democrazia formale e sostanziale, eccetera eccetera.

Ma rapportando la questione all’oggi, non possiamo non riconoscere che il potere dell’economia e della tecnologia (antidemocratici per essenza propria) è più forte del potere politico e della democrazia, è potere assoluto in quanto non bilanciato da altri poteri equi-valenti ed equi-potenti.

Indice degli argomenti:

I livelli di governo e i luoghi del Potere.

Cosa si intende per democrazia?

Chi governa il mondo (parte prima)?

Chi governa il mondo (parte seconda)?

La corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.

Il ruolo dello stato

I livelli di governo e i luoghi del Potere.

Qui vogliamo quindi ricordare alcuni elementi che ci permettono di definire i diversi livelli di governo (di Potere) oggi esistenti, la loro struttura gerarchica e il loro rapporto con la democrazia, la sovranità, la libertà e l’autonomia delle persone – e il demos (i cittadini) titolare del potere in demo-crazia.

Non senza aggiungere che da sempre il potere corrompe chi lo pratica, che viene usato per corrompere (qualcun ricorda Mani pulite?), che spesso il popolo ama chi corrompe ed ama essere ingannato (cioè corrotto mentalmente e politicamente) dal potere (pensiamo a Trump e a quel 50% di americani che lo hanno votato e lo rivoterebbero).

Sul tema della corruzione è recentemente uscito un nuovo libro dal titolo inequivocabile, “Corruptible: Who Gets Power and How It Changes Us” (Scribner Book Company), di “Brian Klass”, columnist del Washington Post e basato su “500 interviste a uomini di potere”.

 

Qui però useremo il concetto di corruzione e il processo del corrompere nel senso di “disfacimento, deterioramento materiale ma soprattutto morale” (Dizionario etimologico della lingua italiana – Zanichelli) e faremo una rilettura/interpretazione del potere concentrandoci sul macro-contesto entro il quale, oggi, si muovono o possono muoversi i diversi livelli di governo a scala nazionale, sovra-nazionale e locale, pre-determinandone (corrompendone) l’azione e gli effetti.

 

Questo macro-contesto è dato dal neoliberalismo, egemone nel mondo da quarant’anni a questa parte (è l’ideologia trionfante dopo la morte delle ideologie novecentesche) a dispetto di tutti i suoi fallimenti e del suo intrinseco nichilismo (possiede una potentissima e patologica coazione a ripetersi), sommato con le tecnologie di rete e con chi le possiede (e con la religione tecno-capitalista che esprimono, con il feticismo e il catechismo tecnofilo che producono).

 Macro-contesto ideologico e tecnologico che ha profondamente modificato i livelli di governo esistenti prima degli anni ‘80.

Corrompendo in altro modo la società e la polis, corrompendo la democrazia, il concetto di libertà e imponendosi come modo di vivere/way of life tecno-capitalista sul mondo intero – la globalizzazione e la rete come espressione di questo meta-contesto a-democratico e impostosi come un dato di fatto.

 

Prima però, una distinzione:

il governo è la struttura istituzionale/politica – articolata su diversi livelli – “che ha ottenuto il potere di scegliere, decidere e attuare politiche pubbliche.

Nei sistemi democratici questo è ottenuto attraverso elezioni libere e la presentazione di programmi politici” (Bobbio-Matteucci-Pasquino, Il Dizionario di politica – Utet).

 All’opposto accade nei sistemi autoritari o tecnocratici.

 

Diverso è invece il concetto di governo inteso come governare – ossia come attuare un determinato programma politico, scelto dal demos oppure imposto al demos.

 E ancora diverso è capire dov’è oggi il potere capace di governare, posto che non è più nel governo-istituzione democratica, ma non si sa bene dove sia.

Ci aveva provato, con ottimi risultati di analisi, il francese “Michel Foucault” (1926-1984) che definiva con governamentalità/biopolitica il modo con cui il potere (non necessariamente lo stato) guida e dirige appunto le condotte umane in un senso voluto dal potere, rendendo ciascuno utile e docile verso il potere – e il neoliberalismo era per Foucault una di queste forme di governamentalità/biopolitica (infra, Lippmann), che qui definiamo come macro-contesto e che altrove abbiamo definito come una delle forme di human engineering succedutesi nel corso della storia e soprattutto nel Novecento.

 

Cosa si intende per democrazia?

“Nella democrazia, l’agire politico non solo è pubblico, ma deve essere reso pubblico, messo sotto gli occhi del pubblico; e lo è in due sensi: perché volto ad occuparsi di problemi che direttamente o indirettamente riguardano e condizionano tutti; e perché deve essere reso chiaro, giustificato e aperto al pubblico, esposto sempre al giudizio dei cittadini, i quali, in quanto corpo sovrano, hanno due poteri: quello di autorizzare con il voto e quello di giudicare e controllare perpetuamente, prima o dopo aver votato, coloro che hanno autorizzato” a governarli (Urbinati, Liberi e uguali, Laterza).

Ovvero, nella democrazia, aggiungeva il costituzionalista “Gustavo Zagrebelsky”, ci si deve poter attivare, mentre nelle altre forme politiche si è invece attivati da qualcuno/qualcosa di esterno.

L’essenza della democrazia è infatti in questa possibilità e capacità di ciascuno di attivarsi, cioè di pensare, fare, partecipare, decidere liberamente: senza questa possibilità e capacità, non c’è democrazia.

 Perché, ancora Zagrebelsky, la democrazia moderna è in primo luogo la scelta dei fini e poi la predisposizione dei mezzi per raggiungere tali fini, ovvero il governo della polis è conseguenza della volontà dai cittadini espressa in un pensiero pro-gettante.

 

E allora, la domanda:

i diversi livelli di governo esistenti oggi rispondono tutti a queste esigenze di democrazia, di partecipazione e di controllo da parte del demos?

Certamente no, il potere della finanza e del denaro/mercati; certamente no il potere della tecnica e dell’innovazione tecnologica; certamente no il potere delle multinazionali; certamente no il potere dei social.

E il deficit di democrazia non solo va crescendo (populismi, autoritarismi, tecnocrazie, algoritmi), ma viene sempre più accettato come nuova e necessaria normalità del Potere.

 

E ad essere corrotto oggi da questi poteri non democratici – è quindi anche il principio della separazione dei poteri, essenziale in una democrazia perché sia possibile attivarsi e perché il potere sia trasparente, pubblico e controllabile dal demos.

 Già Montesquieu (1689-1755) aveva tracciato la teoria della separazione dei poteri.

Partendo dalla considerazione che il “potere assoluto corrompe assolutamente”, aveva analizzato i tre poteri che vi sono in ogni stato: il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario.

Condizione oggettiva e necessaria per l’esercizio della libertà del cittadino che esercita il suo potere sovrano (sopra Urbinati e Zagrebelsky), è che questi tre poteri restino nettamente separati e bilanciati e controllati, per evitare che diventino appunto poteri assoluti.

 Oggi, i mercati e il Big Tech sono i nuovi poteri assoluti del mondo (e non basta certo la decisione dell’Antitrust di multare Amazon per poter dire che esiste un controllo, perché questo controllo si esercita solo ex-post, mentre dovrebbe essere esercitabile anche ex-ante, la politica tornando a governare anche il mercato e i processi di innovazione tecnologica (o di regressione tecnologica, posto che Amazon è le vecchie vendite per corrispondenza, oggi algoritmiche; e che la Fabbrica 4.0 è solo il vecchio taylorismo, ma digitalizzato).

 

Oggi, quindi, il potere dell’economia e della tecnologia è potere assoluto. Ieri il sistema economico e industriale veniva subordinato, come mezzo, alla politica, per realizzare dei fini sociali, decisi dal demos; oggi è la politica che è subordinata, come mezzo, all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse. Quindi abbiamo – di nuovo – un enorme problema di democrazia. Ma non lo vediamo. Il Potere sa nascondersi.

 

Chi governa il mondo (parte prima)?

Lo Stato, sempre meno.

 Il demos, sempre meno (le scelte economiche e di politica economica vengono imposte dai mercati, vedi il caso Europa/mercati/banche contro la Grecia nel 2015, con l’Europa democratica (sic!) che rifiuta di accettare l’esito di un voto popolare in un democratico referendum).

I mercati, sempre di più.

Il “Gafam (“Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – cioè un oligopolio di monopoli), sempre di più (si pensi a come una singola impresa come Amazon ha stravolto in pochi anni, a sua totale discrezione e decisione, il sistema della piccola, ma anche della grande distribuzione e a come i social/imprese private finalizzate al profitto privato governano la vita di miliardi di persone).

La tecnica, sempre di più – si pensi alla delega di valutazione e di decisione che sempre più diamo ad algoritmi e digitale, a prescindere da ogni controllo e da ogni consapevolezza umana.

 Le lobby: sempre di più – si pensi a come per decenni è stato negato il riscaldamento climatico e a quanto hanno pesato sul fallimento della recente Cop26.

I sistemi di regolazione extra-statali, sempre di più.

 

Su questi ultimi sistemi di regolazione, tanto invisibili da essere sconosciuti ai più ma dal potere enorme sul governo della vita di ciascuno e dell’intero sistema globale, il giurista Sabino Cassese aveva scritto anni fa:

“Chi governa il mondo? La risposta più comune è che il mondo è governato dagli stati che, tramite i propri organi esecutivi, stipulano accordi nelle diverse parti del globo. Gli stati non hanno tutti lo stesso peso e la stessa influenza e di conseguenza il potere non è ripartito equamente.

Essi infine stipulano convenzioni e trattati […]. Questa risposta tralascia però due fatti importanti.

La prima è che gli stati hanno vissuto nel tempo processi di aggregazione e di disaggregazione.

La seconda è che sono stati affiancati da un numero sempre crescente di organismi non statali” (che non sono le “Ong”), ma con il potere di imporre norme estremamente vincolanti, al di fuori di qualunque sovranità e controllo da parte del demos (S. Cassese, Chi governa il mondo? – il Mulino).

Cassese definiva questo regime di regolazione come global polity.

 

Chi governa il mondo (parte seconda)?

Ma a governare il mondo è oggi soprattutto – come anticipato – il pensiero/ideologia neoliberale e tecnico (il meta-contesto, ciò che predetermina i modi del potere economico, tecnologico e politico; che ingegnerizza la vita sociale e individuale).

Che si basa su una serie di principi: trasformazione pianificata della società in mercato e in rete; stato da governare come un’impresa ma soprattutto stato come promotore del mercato; interconnessione/digitalizzazione/connessione/integrazione di tutti nel sistema tecnico e di mercato (che è la nuova forma dell’organizzazione, del comando e del controllo da parte del capitale, come direbbe Marx);

l’uomo non più come persona ma come capitale umano;

 l’impresa solo nella sua forma autocratica.

 Scriveva il neoliberale “Walter Lippmann” già negli anni ‘30 del ‘900, definendo chiaramente quella che sarebbe stata poi l’azione di pianificazione neoliberale della società a partire dagli anni ‘80:

“il liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e suo compito è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo;

 e poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo perfettamente realizzato e concluso” (Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo – DeriveApprodi).

Ovvero, per i neoliberali – in questo profondamente anti-democratici, illiberali e in contraddizione con se stessi, negando di fatto la libertà dell’individuo e imponendo all’individuo di adattarsi a qualcosa che non deve governare e controllare – l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono tendere a formare un tutto armonico, in realtà integrato e soprattutto e peggio, integralistico.

 

Esiste poi il potere delle imprese.

Scriveva – lo abbiamo fatto in altre occasioni ma lo richiamiamo di nuovo – Luciano Gallino (1927-2015), nel 2011:

“La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. […]”. E invece, oggi “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” nei settori dell’economia, di fatto espropriati e alienati dalla democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa, industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia.

 “Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia. […] il potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca”.

Si pensi ancora ad Amazon, a Google, ai social. Si pensi alla “Gkn” o alla “Whirlpool” e alla loro libertà di delocalizzare (e al governo tecnocratico di Draghi che ovviamente non glielo impedisce).

 

La corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.

Dunque, abbiamo un sistema complesso di livelli di governo, alcuni espliciti, altri nascosti, apparentemente disordinati, ma tutti in realtà organizzati, finalizzati, governati secondo il macro-contesto (il meta-livello di governo) del neoliberalismo e della tecnica (e della tecnocrazia).

n macro-contesto che appunto pre-determina ogni scelta politica, corrompendo ex-ante la demo-crazia, corrompendo ex-ante la sovranità del demos, questo macro-contesto imponendosi come dato di fatto immodificabile, che non si deve e non si può governare democraticamente (anche perché confonde dolosamente rete e mercato con democrazia, facendoci credere che siano la stessa cosa – e ideologia significa anche, come scriveva Norberto Bobbio, “far credere”), senza permettere la ricerca di alternative. È il macro-potere di sé stesso.

È il meta-livello di governo che subordina a sé e che sussume in sé tutti gli altri livelli di governo. Che ha corrotto le radici della democrazia, illudendo di una libertà solo apparente.

 

Ha scritto “Joseph Stiglitz, “premio Nobel per l’economia nel 2001, valutando gli effetti delle politiche neoliberali (noi però aggiungendo la tecnica):

“1) le regole economiche neoliberiste hanno creato maggiori disuguaglianze, con un calo dei soggetti che condividono i benefici dell’attività economica e una crescita più lenta dell’economia in generale e persino degli investimenti”;

2) “la finanza non è più al servizio dell’intera economia ma solo di se stessa”;

 3) “i sistemi fiscali incoraggiano la speculazione e l’elusione fiscale da parte delle multinazionali”;

4) “le politiche monetarie e fiscali, troppo incentrate sulla difesa da certi rischi (deficit di bilancio e inflazione) ignorano le vere minacce alla prosperità economica, ovvero la crescente disuguaglianza e il sotto-investimento e hanno prodotto più disoccupazione, più instabilità e meno crescita”;

5) “nel mercato del lavoro, i cambiamenti delle istituzioni, delle leggi, delle norme e dei regolamenti hanno indebolito il potere dei lavoratori, che ora hanno più difficoltà a contrapporsi agli eccessi di potere di mercato delle imprese”; 6) “la disuguaglianza è stata una scelta politica” (Le nuove regole dell’economia, il Saggiatore).

 

Il ruolo dello stato.

Scriveva “J. M. Keynes”, negli anni ‘30 del ‘900, un autore che dovremmo rileggere urgentemente per ripensare al ruolo da tornare ad affidare allo stato e alla necessità di governare democraticamente sia il mercato e sia il Big Tech:

“La cosa importante per il governo, non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.

 E aggiungeva:

“I difetti lampanti dell’economia odierna sono: la sua incapacità di provvedere alla piena occupazione; e la sua distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi” [esattamente oggi come allora].

E ancora: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari” [allora, come oggi].

 Inoltre, spreca deliberatamente una quantità enorme di risorse nella lotta per la concorrenza [allora come oggi].

Keynes sosteneva quindi che fosse necessario guidare l’economia (e non lasciarsi guidare dall’economia) attraverso precise politiche monetarie, industriali, sociali e fiscali poiché i mercati quasi mai sono in grado di raggiungere un equilibrio efficiente.

 Salute e ambiente, ad esempio, sono beni pubblici che acquisiranno un valore crescente e questo giustificherà, scriveva, l’intervento dello stato. Il capitalismo inoltre – e questo diventa ancora più importante nel momento in cui, per la crisi climatica, dobbiamo pensare alle future generazioni – è incapace “di garantire l’allocazione inter-temporale delle risorse, dunque solo lo stato potrà occuparsi del nostro futuro a lungo termine” (La fine del laissez-faire e altri scritti – Bollati Boringhieri).

 

 

 

 

 

Trump, il trumpismo e le nuove forme del potere.

 

Avvenira.it - Agostino Giovagnoli - (21 gennaio 2025) – ci dice:

 

Non c’è solo Trump.

Ci sono milioni di uomini e di donne che – negli Stati Uniti e in tutto il mondo – attendono l’inizio della sua presidenza tra profonde paure e forti speranze. Proprio perché tanto grandi, è probabile che le une e le altre risulteranno ridimensionate nei prossimi anni.

Ma è comunque rilevante che in tanti credano di essere all’inizio di un “nuovo mondo”.

Trump non è un accidente della storia, ma l’espressione di tendenze oggi molto diffuse se non prevalenti.

Oltre Trump, c’è il trumpismo.

Ne fa parte il potere “imperiale” che gli viene attribuito, cui molti si sono già adeguati in anticipo.

Dalla tregua tra Israele e Hamas allo “scambio” per liberare “Cecilia Sala”, si riconosce alla sua posizione o ai suoi umori un peso determinante.

Russi e ucraini si stanno riposizionando in attesa di un suo intervento che molti presumono decisivo, mentre in Europa si dà per scontato che la sua politica danneggerà il Vecchio continente.

Ma davvero si aprirà - come il discorso inaugurale di ieri ha ribadito - una nuova stagione di imperialismo americano?

La politica di Trump affonda le sue radici nel neoconservatorismo di fine Novecento e nel connesso allarme per il declino degli Stati Uniti.

Anche lo stesso slogan trumpiano “Make America great again” lo sottintende. I

l motivo di fondo è stata la crescita di potenze fuori dal mondo occidentale, che gli Stati Uniti non possono controllare:

Cina, India, Russia e altre che si stanno consolidando.

Se in precedenza gli Stati Uniti si erano caricati del ruolo di cardine dell’intero sistema internazionale, dopo la guerra del Vietnam e ancor più dopo il 1989, la paura del declino è diventata sempre più forte.

E ha ispirato lo “scontro di civiltà”, la difesa esclusiva degli interessi americani, la politica dell’“unilateralismo”.

Il timore del declino suscita sentimenti diversi.

Da un lato, voglia di rivincita e di uomini forti che riescano a fermarlo. Dall’altro, rancore, panico e un egoismo irrazionale.

Un’America arrabbiata e triste, anche se la sua economia va a gonfie vele, ha votato Trump perché lo vede come un “uomo forte” che non rispetta le regole.

Ciò piace a un mondo a esse refrattario perché – si dice – adottandone troppe ci facciamo male da soli:

ostacolano le iniziative, rallentano le decisioni, limitano il business. Meglio un’assoluta libertà di negoziare tutto – non solo negli affari ma in ogni campo – senza interferenze esterne, in particolare le leggi imposte dagli Stati o da organizzazioni internazionali.

Ma assenza di regole vuol dire che l’unica regola è la legge del più forte. Non a caso, come foto ufficiale Trump ha scelto quella che più comunica cattivismo.

Ciò significa promuovere forme di potere – senza separare o distinguere tra politico, economico, tecnologico ecc. – rozze e semplificate, al contrario di quelle che abbiamo cercato fino a ieri.

Rispetto alla storia dell’Occidente, infatti, è un tornare indietro.

 Hobbes diceva che allo stato di natura c’era la guerra di tutti contro tutti.

Per secoli – è la storia degli Stati moderni, un’invenzione tipicamente occidentale – prima l’Europa e poi il Nordamerica hanno cercato di allontanarsi il più possibile dalla guerra di tutti contro tutti.

L’abbiamo chiamato progresso, concetto introdotto dal cristianesimo, in particolare da Sant’Agostino, ma oggi scomparso nel dibattito pubblico.

La democrazia ne costituisce uno dei prodotti più raffinati:

 costruzione complessa, limita, articola, distribuisce il potere.

Impedisce la sua concentrazione nelle mani di uno solo (dittatura), di un gruppo (oligarchia) o di una massa (totalitarismo).

Garantisce l’intangibilità dei diritti umani fondamentali; impedisce alle maggioranze di schiacciare le minoranze; separa i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario perché si controllino a vicenda ecc.

In democrazia, persino il potere supremo – la sovranità popolare – ha un limite:

è il popolo stesso a darselo, adottando una Costituzione che pone limiti insuperabili a tutte le leggi successive.

 Invece – seppure in modi non sempre espliciti e con varia intensità – il neoliberismo, l’antipolitica, il populismo, il sovranismo e, da ultimo, il trumpismo esprimono fastidio per la democrazia, procedendo – passo dopo passo – a decostruire quello che, faticosamente, l’Occidente ha costruito per secoli.

Ma davvero l’“uomo forte” è quello che distrugge le regole?

 O non è piuttosto quello che le costruisce e le difende, osservandole lui per primo per poterlo poi chiedere agli altri?

Il trumpismo è una visione miope:

guarda agli affari di oggi, non ai problemi di domani.

Tra i suoi primi atti, Trump promette la deportazione di milioni di immigrati e la “salvezza” di Tik Tok:

la prima piace al 55% degli americani e la seconda a 170 milioni di consumatori degli Stati Uniti.

Per lui è un ottimo affare:

usa il suo potere in cambio di consenso cioè di maggiore potere per sé.

 E così va verso quello che l’Occidente ha combattuto per secoli:

 il “dispotismo orientale”, aborrito da Montesquieu e dall’illuminismo. La battaglia tra democrazie occidentali e autarchie orientali, di cui si è parlato tanto negli ultimi decenni, finirà con la vittoria delle seconde per autodistruzione delle prime?

 

 

 

 

L’ascesa del potere tecnocratico

nell’era della smaterializzazione digitale.

Beemagazine.it - 5 Febbraio 2025 – Avv. Vincenzo Candito Renna – ci dice:

 

La peculiarità di questo nuovo potere risiede proprio nella sua capacità di operare attraverso quella che “Byung-Chul Han” chiama “psicopolitica”, ovvero un controllo che non si esercita più sui corpi ma sulle menti, attraverso la seduzione dell’interfaccia digitale e la manipolazione del desiderio.

Nel panorama contemporaneo assistiamo a una profonda trasformazione delle dinamiche di potere tradizionali, dove i cosiddetti “tecno oligarchi” – i proprietari delle maggiori piattaforme digitali – stanno emergendo come attori politici di primaria importanza, sfidando apertamente le istituzioni democratiche tradizionali.

 

Questo fenomeno si inserisce in quello che “Byung-Chul Han” definisce come l’era delle “non-cose”, dove il potere non si esercita più attraverso il controllo degli oggetti materiali, ma attraverso la gestione delle informazioni e dei flussi digitali.

La smaterializzazione del potere, secondo Han, non lo rende meno reale o meno pervasivo;

 al contrario, la sua natura intangibile lo rende più capillare e più difficile da contrastare.

Come evidenziato nel pensiero di “Stefano Rodotà£, ci troviamo di fronte a un fenomeno che sfida le tradizionali categorie giuridiche della dicotomia pubblico-privato.

 

Le piattaforme digitali rappresentano infatti un” tertium genus”, una forma ibrida che combina la natura formalmente privata dell’impresa con una sostanziale funzione pubblicistica.

Questa duplice natura si manifesta nella loro capacità di esercitare una “giurisdizione globale” sui propri utenti, superando i confini territoriali e le tradizionali forme di sovranità statale.

 

Il potere “psicopolitico.”

 

Byung-Chul Han.

La peculiarità di questo nuovo potere risiede proprio nella sua capacità di operare attraverso quella che Han chiama “psicopolitica”, ovvero un controllo che non si esercita più sui corpi ma sulle menti, attraverso la seduzione dell’interfaccia digitale e la manipolazione del desiderio.

Riprendendo il pensiero di “Maurizio Ferraris” sulla “documentalità”, possiamo osservare come il potere delle piattaforme digitali si fondi proprio sulla loro capacità di gestire e controllare le “tracce” della nostra esistenza sociale.

 

Se “nulla di sociale esiste al di fuori del testo”, come sostiene” Ferraris”, allora il controllo sui documenti digitali – dai post sui social media ai dati personali – rappresenta una forma di potere fondamentale nella società contemporanea.

Questa documentalità digitale si intreccia con quella che” Han” definisce come “trasparenza coatta”, dove ogni aspetto della vita viene registrato, tracciato e reso disponibile per l’analisi e lo sfruttamento.

 

L’attuale sfida dei tecno oligarchi all’Unione Europea, come evidenziato nel caso del “Digital Service Act”, rivela la difficoltà delle istituzioni democratiche nel regolare efficacemente questi nuovi centri di potere immateriale.

La resistenza di figure come “Elon Musk” e “Mark Zuckerberg” alle normative europee non è semplicemente una questione di compliance aziendale, ma rappresenta uno scontro tra diverse concezioni della governance digitale e, più in generale, dell’ordine sociale.

 

La proposta di “Rodotà”.

In questo contesto, la recente decisione di “Meta” di rimuovere il “fact-checking”, insieme alle politiche sempre più aggressive di controllo dei contenuti, solleva questioni fondamentali sulla natura dello spazio pubblico digitale.

Come suggerito nella proposta di Rodotà per un diritto costituzionale di accesso a Internet, la sfida non è tanto quella di limitare l’accesso, quanto di garantire che questi spazi digitali rimangano effettivamente “piazze” democratiche, resistendo alla tendenza, identificata da Han, verso una progressiva atomizzazione e privatizzazione dell’esperienza sociale.

La soluzione a questa crisi di governance non può venire né da un completo laissez-faire digitale né da un controllo statale tradizionale.

 È necessario sviluppare nuove forme di costituzionalismo digitale che riconoscano la natura ibrida delle piattaforme e stabiliscano regole chiare per la tutela dei diritti fondamentali nello spazio digitale.

 

Come suggerito dal concetto di” habeas mentem”, la sfida non è solo tecnica o giuridica, ma anche educativa e culturale, richiedendo lo sviluppo di una nuova consapevolezza critica nei cittadini digitali.

 Questa consapevolezza deve includere, come sottolinea” Han”, una comprensione della dialettica tra materialità e immaterialità nell’era digitale, dove il potere si esercita proprio attraverso la progressiva smaterializzazione delle relazioni sociali e delle istituzioni politiche.

 La battaglia tra i tecno oligarchi e le istituzioni democratiche è appena iniziata, e il suo esito determinerà non solo il futuro della governance digitale, ma la natura stessa della democrazia nell’era delle non-cose.

(Vincenzo Candido Renna – Avvocato).

 

 

 

 

 

La destra israeliana dalle

origini a Netanyahu.

 Doppiozero.com - David Bidussa – (8 Maggio 2025) – ci dice:

Nel febbraio 2019, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici – pubblicato sul periodico “Foreign Policy” – lo storico “Zeev Sternhell” (1935-2020) si chiede perché Benjamin Netanyahu ami l’estrema destra europea.

 La matrice di quella simpatia, sottolinea “Sternhell” sta nell’ostilità crescente verso i valori dell’illuminismo, i diritti umani, l’eguaglianza, l’idea di nazione come comunità di cittadini, più in generale verso gli stranieri.

 Viceversa, insiste, quell’area politica è volta a esaltare la tradizione, il particolarismo etnico e linguistico, le comunità e le «naturali gerarchie».

E dunque apparentemente, per uno strano incidente di percorso, il governo di Israele si trova a essere «di casa» e «a casa», con quelle realtà politiche e culturali che negano la realtà dei fatti.

 E il fatto è che “a partire dalla Rivoluzione francese il destino degli ebrei è stato legato al destino dei valori liberal.

Ovunque i diritti umani e l’uguaglianza fossero mantenuti, la vita era migliore per gli ebrei e ovunque sorgesse il nazionalismo razzista e tribale il pericolo per gli ebrei aumentava”.

 

Siccome più libertà e più eguaglianza non vuol dire più antisemitismo, allora andrà spiegato che cosa sta accadendo.

La realtà non è impazzita.

Si è compiuto un profondo processo di trasformazione.

Quel processo merita attenzione perché forse non parla solo di una realtà specifica, ma allude a fenomeni che ci riguardano anche più da vicino.

Il libro di” Paolo Di Motoli”, “I mastini della terra. La destra israeliana dalle origini all’egemonia”,

 è uno strumento utile per tentare di ricostruire la fisionomia e le tappe di questo processo.

 

La tesi della monografia, peraltro molto documentata, è la seguente:

nella lunga storia politico-culturale del movimento sionista, prima della proclamazione dello Stato di Israele nel maggio 1948, e poi nel lungo conflitto che ha opposto sinistra laburista – espressa nella figura carismatica di David Ben Gurion (1886-1973) – e destra nazionalista – rappresentata inizialmente nella figura carismatica di Zeev Jabotinsky (1880-1940) e in un secondo tempo soprattutto di Menachem Begin (1913-1992) e da Yitzhak Shamir (1915-2012) infine da Benjamin Netanyahu (1949) –, chi ha vinto è stata la destra.

E la vittoria, per Di Motoli, non è solo politico elettorale, ma soprattutto culturale.

Un processo che peraltro è rafforzato nella svolta culturale e politica impressa negli ultimi trenta anni, ovvero nel momento dell’ascesa politica di Benjamin Netanyahu nella partita che all’interno del Likud – lo schieramento di destra in cui Netanyahu si è formato ed è cresciuto – si apre nella prima metà degli anni ’90 e che costituisce una riscrittura dell’identità culturale e politica della destra nazionalista del sionismo rispetto alle origini.

 

Questa parte del libro [pp. 257-368] per molti aspetti è quella più innovativa, almeno per il lettore italiano. Ci tornerò tra poco.

Prima è importante soffermarsi sui caratteri generali della destra nazionalista del sionismo.

Il tema centrale, ovvero quello del rapporto con la popolazione araba, è definito da Jabotinsky nel 1923.

Il testo è “the Iron Wall”.

 

“I miei lettori – scrive” Jabotinsky” – hanno un’idea generale della storia della colonizzazione in altri Paesi.

Suggerisco loro di considerare tutti i precedenti con cui hanno familiarità e di vedere se c’è un solo caso di colonizzazione condotta con il consenso della popolazione autoctona.

Un tale precedente non esiste”.

Dopo di che immette il ragionamento sulla necessità della divisione senza ibridazione tra ebrei e arabi, di cui il muro dovrebbe essere appunto una garanzia e una «tutela».

La distinzione proposta da “Jabotinsky” è quella di un colonialismo di insediamento e che dunque non ha il fine si sfruttare la popolazione locale, ma di collocarsi nel territorio ed essere attore produttivo.

In quel processo per Jabotinsky non ha un peso determinante la componente religiosa.

L’elemento fondativo è quello della netta separazione tra popolazioni, in cui il fattore religioso o la tradizione religiosa non hanno spazio.

Per Jabotinsky pensare al futuro economico significava sostenere un’economia urbana basata sull’industria, sulla costruzione di uno sviluppo commerciale, comunque non su un sistema cooperativo.

 

All’origine dunque, come uno dei tratti essenziali della destra sionista di prima generazione sta un’idea di destra nazionalista che ha un carattere laico.

 Il profilo della personalità politica e culturale di “Zeev Jabotinsky” che traccia “Di Motoli”, è fondato su un’idea di comunità nazionale etnicamente omogenea.

 

Questo profilo è destinato a cambiare con la costruzione politica della destra successivamente alla nascita dello Stato.

Se tra anni ’40 e anni ‘50 la destra sionista risulta ancora un attore politico che non ha contribuito in maniera significativa alla costruzione dello Stato, questo profilo inizia a modificarsi con la prima metà degli anni ’60 quando la crisi politica e culturale del mondo laburista israeliano – la forza politica che di fatto ha costruito la struttura economica e la rete dei servizi (dai modelli educativi alle reti di welfare) dello Stato reale negli anni del mandato britannico tra 1917 e 1947 e poi ha governato lo Stato a partire dal 1948 – mostra i primi segni di crisi.

 

Non è solo una crisi economica quella che la caratterizza, è anche la capacità di rappresentare le forze culturali presenti nel Paese, un Paese che rispetto al processo insediativo in tempo di mandato e dei primi anni di autonomia è caratterizzato da un flusso migratorio in gran parte proveniente non dall’Europa, ma dai paesi arabi, sensibile ai fondamenti identitari religiosi (a cui i laburisti sono alquanto estranei) e su cui si costruisce una identità diversa da quella espressa dalla classe politica di governo.

 La destra espressa da Menachem Begin tra anni ’50 e anni ’80 si candida già a partire dagli anni ’50 a esprimere il malcontento di una popolazione migrata che si avverte come “tollerata” ma non come protagonista, che percepisce come «non suo» il sistema culturale del paese che gli viene proposto e che sente non valorizzata la sua scala di sensibilità. Ovvero una realtà di cui in un qualche modo si sente «cittadino di serie B».

 

Questo aspetto è destinato ad avere una grande fortuna politica successivamente alla guerra dei Sei giorni (5-10giugno 1967) quando il problema è in che forma esprimere la nuova stagione che fa dell’espansione territoriale un tratto di identità culturale.

 Il problema della restituzione o meno dei territori conquistati militarmente nel giugno1967 diventa la questione della propria identità.

Quale identità?

 

Il binomio tradizionalismo religioso–nazionalismo radicale esprime l’egemonia politica della destra capace di assorbire e «unificare» i diversi flussi migratori che hanno più volte modificato la fisionomia sociale del paese a partire dalla fine degli anni ’40.

 Un dato che si esprime con pochi numeri ma chiari: a partire dal 1977 quando la destra va al governo e la sinistra va all’opposizione, la destra ha governato per 40 anni e la sinistra per 7;

 nel 1977 tutta l’area della sinistra esprimeva 59 deputati su 120 e oggi ne esprime 20.

Un processo che si consolida negli anni ’80, ma che ha una lunga fase preparatoria tra anni ‘50 e anni ’60, e alcune premesse nella destra sionista degli anni ’20 e ’30, e il cui tema essenziale è la sicurezza.

 

“Di Motoli” descrive con precisione il processo di costruzione culturale della destra sionista.

Inizialmente gruppo di minoranza, contrario all’ipotesi laburista e forte soprattutto nella piccola e media borghesia urbana, che non sopporta il controllo pubblico sull’economia, la politica interventista dei laburisti di Ben Gurion ed è critica sulla linea di compromesso e di mediazione con il mondo arabo-moderato.

Già con “Jabotinsky”, ma soprattutto con “Begin”, anche sulla scorta di una posizione in cui il nemico principale è la potenza coloniale inglese, la destra è convinta della necessità di un confronto e di un conflitto per l’affermazione dell’entità statale ebraica che a lungo concepisce «dal mare alle due rive del Giordano» e che solo negli anni ’70 verrà abbandonata con la rinuncia alla Transgiordania.

Questa rinuncia non sarà priva di una nuova visione dello spazio territoriale, ora rivendicato non solo sul piano della sicurezza (un tema su cui l’insistenza sul pericolo di un secondo Olocausto costituisce l’argomento sempre più agitato, una dimensione metastorica lo definisce Di Motoli), ma anche su quello della rinascita e della ricostruzione «dell’Israele Antico».

 

Un tratto che diviene costituente della nuova fase della destra israeliana, quella guidata da “Benjamin Netanyahu” in cui un ruolo rilevante che “Di Motoli” indaga con attenzione lo ha l’area” teo-con “e dei radicalismi religiosi rappresentati dalle due forze politiche che hanno segnato il profilo del governo attuale a presidenza “Ntanyahu”.

 

Ovvero: da una parte “Itamar Ben-Gvir”, attuale ministro della Pubblica sicurezza leader di Otzmaà Yehudit («Potere ebraico») che è espressione politica del movimento “Jewish Defense League” espresso negli anni ’70 e ’80 da Meir Kahane (1932-1990), un movimento connotato da forti venature di razzismo.

Dall’altra” Bezalel Smotrich”, ministro delle finanze, che viene dalla svolta radicale verso un impianto fondamentalista del Partito nazionale religioso, forza politica che nella lunga storia di Israele ha sempre svolto un ruolo di ponte verso il governo in carica (anche nel tempo dei governi laburisti) e che a partire dagli anni ’70 ha avuto un processo di radicalizzazione.

 Significativamente, una parte del movimento radicale religioso dei coloni, ovvero Il «Blocco dei fedeli» (in ebraico: Gush Emunim), sulle cui matrici culturali uno studio ancora oggi fondamentale per chi voglia saperne dipiù è “Terra e redenzione” di “Renzo Guolo”.

 

La rilevanza e la centralità di questi due attori politici che probabilmente non sono destinati ad eclissarsi rapidamente, da una parte indicano elementi di affinità con le componenti teocon della destra americana e del mondo cristiano, e dall’altra contribuiscono a fondare una nuova versione dell’ideologia sionista che ormai, con le linee originarie del «socialismo del lavoro», non ha più alcun legame.

 

Quel processo, tuttavia, riguarda profondamente anche Netanyahu, la cui egemonia nel suo partito di origine, la destra sionista un tempo governata da esponenti laici, è anche il risultato di un cambio di profilo culturale di quello stesso partito.

Non solo quella leadership è anche l’effetto di altri due elementi che in un qualche modo parlano anche della crisi politica delle nostre democrazie:

da una parte il crollo delle forze politiche progressiste e democratiche a scapito delle forze populiste (di destra estrema o antisistema);

dall’altra la crisi della figura del partito politico come luogo della formazione della classe politica che nasce anche in relazione a un confronto tra gruppi.

A prevalere ora è la setta come luogo di costruzione di una leadership politica sempre meno bisognosa di procedure democratiche di confronto.

Insieme questo risultato si rispecchia nel crescere di un’opinione pubblica che quando pensa al futuro in gran parte lo pensa come controllo di un territorio da parte di una popolazione omogenea etnicamente, ovvero senza che le popolazioni diverse abbiano diritti, mentre in netto calo è la percentuale di coloro che pensano alla possibilità di una «divisione due popoli, due Stati», oppure uno stato unico che garantisca parità di diritti a tutti i suoi abitanti.

 

 

 

Democrazia illiberale.

 Doppiozero.com - Paolo Perulli – (18 Marzo 20259 – ci dice:

 

“Francis Fukuyama” scrive oggi che il “tradimento” di Trump, alleato di Putin per trattare la fine alla guerra in Ucraina, e forse domani di” Xi” qualora la Cina invadesse Taiwan, rappresenta la fine della democrazia liberale americana.

“Fukuyama”, l’autore della “fine della storia”, è citato fin dalle prime pagine del denso e insieme agile libro di “Alessandro Mulieri”,” Contro la democrazia illiberale” (Donzelli 2024, 158 pp.).

Il pensatore americano riteneva infatti (nel suo libro del 1992) che la democrazia liberale fosse ormai destinata a conquistare il mondo, dopo la caduta dell’Unione Sovietica avvenuta l’anno prima.

 Sappiamo che le cose sono andate in senso opposto.

Un altro analista americano, “Fareed Zakaria”, lo avevo colto per tempo in un articolo del 1997 su “Foreign Affairs”: “The Rise of Illiberal Democracy”.

Russia, Cina, Venezuela, Bielorussia: tutti regimi illiberali che in nome del popolo eliminavano le libertà fondamentali.

Possono chiamarsi democratici?

Libertà e democrazia vanno insieme?

Solo in certe fasi, mentre in altre prevale l’illibertà che si veste di democrazia (lì, infatti, il diritto di voto è inesistente, e la libertà di espressione, di stampa e di manifestazione, è vietata).

 

Ma come “Mulieri spiega”, le origini della democrazia illiberale sono antiche. Risalgono alla polis greca.

 Lì il regime democratico sostiene la parte più povera della popolazione, il “plethos”, mette tutto il potere nelle loro mani a scapito degli altri strati sociali.

Mentre oggi la democrazia illiberale è fatta da élites ricche (gli oligarchi russi, i capi del partito e gli imprenditori cinesi) a scapito della maggioranza del popolo ridotta a sudditi (obbedienti senza cittadinanza, già diceva Nietzsche a proposito del ‘tipo cinese’).

 

Democrazia e liberalismo sono necessariamente legati?

Sì per la filosofa “Nadia Urbinati”, che ne sostiene la co-dipendenza;

 no per il sociologo “Colin Crouch”, che ne mostra la diversità.

Egli spiega che democrazia ha a che fare con eguaglianza, liberalismo con opportunità libere e diversificate.

Comunque sia, cosa c’entra il populismo di destra (da Salvini a Orban a Trump) con la democrazia?

 Forse è nel giusto chi consiglia di non definirlo come democrazia illiberale, perché non di democrazia si tratta ma di autocrazia (come lo sono i regimi russo e cinese).

In passato democrazie illiberali sono state il Secondo Impero di Napoleone III (lo spiega lo storico “Pierre Rosanvallon”), in cui si votava sì, ma tutte le libertà fondamentali erano ridimensionate.

 Di democrazia autoritaria è piena in realtà la storia, ovunque la libertà individuale sia messa in secondo piano.

Persino la “dittatura della maggioranza”, di cui parlava “Tocqueville già nel 1831”, segnala una distorsione della “democrazia in America” da lui studiata per primo. Qui una maggioranza, forte del voto popolare, può sopprimere i diritti delle minoranze.

 Ne sa qualcosa l’America di Trump.

 

I critici della democrazia sono più coerenti.

 “Carl Schmitt”, il grande giurista tedesco che fu nazista, sostiene che la democrazia sia fondamentalmente “antiliberale per vocazione” perché respinge la divisione dei poteri e la neutralità normativa, riassume “Mulieri”.

 In realtà Schmitt aveva un’idea del potere tutta basata sul “Leviatano di Hobbes”:

“Perché gli uomini tributano il loro consenso al potere?

 In certi casi per fiducia, in altri per paura, a volte per speranza, a volte per disperazione.

Ma hanno comunque bisogno di protezione, e cercano questa protezione nel potere.

Dal punto di vista umano il legame tra protezione e obbedienza rimane l’unica spiegazione del potere” (Carl Schmitt, Dialogo sul potere, 1954).

 I rozzi populisti di destra, anche se non hanno letto Schmitt, lo sanno bene (e certo lo ha letto D.J. Vance, il vicepresidente Usa).

 

Convince meno” Mulieri”, quando assegna ai “democratici illiberali” una visione critica delle passioni e dei desideri, che sono stati ‘sdoganati’ dall’odiato liberalismo.

 Essi sono invece chiaramente alla base della modernità e del capitalismo in ogni sua versione, e non solo di quella liberale.

 Il richiamo alle passioni e ai desideri è anzi tipico della destra populista trumpiana:

come nel discorso di Vance a Parigi, quando critica la normativa europea affermando che gli Stati Uniti “non limiteranno mai il diritto dei cittadini americani alla libertà di parola”.

 Insomma, è semmai la democrazia liberale a “moderare” le passioni e gli istinti: mentre quella illiberale “pesca” volentieri nel torbido di queste stesse pulsioni.

 

Essere anti-liberali, come sono la destra populista e i regimi criminali alla Putin, significa invece utilizzare tutto un vecchio armamentario ideologico:

la famiglia naturale, la nazione, il cristianesimo tradizionalista, il razzismo.

Qui le radici sono nella vecchia destra reazionaria dell’800-900 e non c’è molto da aggiungere a quanto spiega “Mulieri”.

Semmai va capito perché questa “feccia ideologica sia ripresentata”, e apparentemente assimilata da un vasto elettorato di destra.

Su questo punto rimando al libro di “Carlo Galli”, “La destra al potere”, già da me recensito qui su “Doppiozero”.

Certo essere anti-democratici è un’altra cosa, ed è la più importante e nociva.

 La destra populista e i regimi tirannici alla Putin negano alla radice ogni idea democratica.

Giustamente “Mulieri” critica “Zakaria”, che ha torto nel sostenere che regimi come la Russia possano essere definiti democrazie illiberali.

 Cosa sia democrazia, nonostante le venti definizioni che ne dà “David Held”, emerge bene nel libro di” Mulieri”, basato sulla distinzione tra democrazia antica e moderna.

La prima è quel regime che dà il potere ai “poveri” e quindi introduce instabilità e anarchia nella polis (i richiami ai classici sono tutti pertinenti, solo va aggiunto che la democrazia di Pericle è piuttosto aristocratica che democratica).

 La democrazia dei moderni è quella che per primo “Tocqueville” definisce positivamente.

 In questo autore, troppo velocemente trattato da “Mulieri” (p. 91-93) vi è già tutta la complessità della democrazia moderna:

 essa assegna agli individui e al loro interesse il ruolo di motore del sistema sociale democratico, riduce al minimo il controllo dello stato federale, dà ogni potere possibile alla “town” e alla “county”, cioè alle unità minori decentrate, mette in tensione libertà ed eguaglianza.

Questo è il punto centrale, anche oggi: la libertà garantita a ciascuno si scontra con l’eguaglianza promessa a tutti.

Eppure, i vantaggi della democrazia che Tocqueville analizza in America nel 1831 sono chiari:

“La libertà democratica – egli scrive –non esegue le sue imprese con la stessa perfezione del dispotismo intelligente; spesso essa le abbandona prima di averne tratto frutto, oppure tenta imprese pericolose; ma a lungo andare produce frutti maggiori; fa meno bene ciascuna cosa, ma fa più cose.

 Sotto il suo regime, non tanto è grande ciò che viene operato dall’amministrazione pubblica, ma ciò che si opera senza e al di fuori di essa.

 La democrazia non dà al popolo il potere più abile, ma fa ciò che il governo più abile è spesso impotente a creare:

diffonde nel corpo sociale un’attività insonne, una forza esuberante, una energia che non può esistere senza di essa e che, per poco che le circostanze siano favorevoli, può fare prodigi” (A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, p. 250).

 

Ci sono poi alcuni rovesciamenti di senso, nella recente crisi della democrazia, che andrebbero colti meglio.

Ad esempio, l’anarchia, quella mancanza di governo attribuita nell’antichità al “governo dei poveri”, è divenuta oggi nel tardo capitalismo l’esito del “governo dei ricchi”, gli oligarchi del digitale alla Elon Musk.

 Essa fa esplodere le già forti diseguaglianze sociali.

Mulieri, invece, conclude proponendo un’idea di giustizia, alla “Amartya Sen”, che dovrebbe conciliare democrazia liberale e “governo dei poveri”. Una strada stretta ma più che mai necessaria.

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.