Se le democrazie collassano saranno soggette al totalitarismo.

 

Se le democrazie collassano saranno soggette al totalitarismo.

 

 

 

Totalitarismo democratico.

Iltascabile.com – (31 – 3 -2025) - Ida Dominijanni – Redazione – ci dice:

(Ida Dominijanni giornalista e filosofa della politica, fa parte del “Centro studi per la riforma dello Stato” di Roma).

 

Il testamento politico di Mario Tronti.

Si vive in tanti modi, si muore in tanti modi. Dare forma alla propria fine è un modo per ricomporre la forma della propria vita, e per consentire a chi resta di ereditarla senza sfigurarla. Non è da tutti: ci vuole del talento, e il dono del tempo necessario per poterlo fare. Mario Tronti, uno degli intellettuali comunisti più originali e influenti del Novecento italiano ed europeo, è morto il 7 agosto 2023 a novantadue anni, dopo una malattia abbastanza veloce da sottrarcelo senza che noi – le sue “amicizie politiche”, come gli piaceva chiamarci – ce ne rendessimo conto, ma abbastanza lunga da fargli licenziare il libro a cui stava lavorando. “Questo è pronto”, aveva detto consegnandolo a sua figlia Antonia pochi giorni prima di andarsene. Il testo è ora in libreria per il Saggiatore, a cura di Giulia Dettori, titolo (hegeliano) Il proprio tempo appreso col pensiero, sottotitolo (scarno) “libro politico postumo”. La copertina bianca con sopra il tronco di un albero rosso riproduce la ginestra essiccata che Tronti aveva fatto verniciare nel giardino della sua casa di Ferentillo dove si rifugiava a scrivere, ma funziona anche come citazione cromatica del quadro di El Lissitzky del 1920 sulla rivoluzione bolscevica, Spezza i Bianchi col cuneo rosso, di cui Tronti teneva sempre una copia bene in vista sulla scrivania e che ricorre anche in quest’ultimo scritto.

 

1.

Si tratta di un testo intenzionalmente, non accidentalmente, postumo, come prova un appunto dell’agosto 2021, risalente a ben prima della malattia, ritrovato per caso in uno dei tanti quaderni su cui Tronti annotava di tutto e posto ora in esergo al testo: “Un libro volutamente postumo, lasciato forse non finito. Scrivo non alcune pagine, ma alcune righe al giorno, e non tutti i giorni… un distillato di pensiero”. Un lascito ereditario dunque, affidato performativamente a un testo che (anche) sul tema dell’eredità ruota. L’eredità del Novecento nel secolo successivo che ne è un rovesciamento, l’eredità della politica moderna nell’epoca dell’antipolitica postmoderna, l’eredità del Movimento operaio nel tempo della sua sconfitta certificata. La postura è quella dell’angelo di Benjamin, con lo sguardo su un panorama di rovine e il futuro alle spalle: “Il passato in generale, e il passato novecentesco in particolare, sta davanti a noi come una città morta che il tempo ha devastato. Ma le rovine sono a cielo aperto. Nascoste sotto i detriti vivono dimenticati tesori di civiltà”.

 

Di fronte a questo deposito archeologico, e contro “il vuoto di memoria voluto e coltivato” dai “cattivi eredi” del movimento operaio che ne hanno dissipato il lascito, la memoria diventa una “risorsa antagonistica” strategica, il conflitto sull’interpretazione del passato diventa un conflitto sul presente, la decisione sull’eredità – su che cosa della tradizione merita di rivivere, e come – diventa una decisione politica. Alla rilevanza per il presente di questa triangolazione fra storia, memoria e tradizione Tronti ci aveva già abituati, con il “pensiero della fine” – fine del Novecento, finis Europae, fine della politica moderna, fine del conflitto di classe – che ha caratterizzato l’ultimo trentennio della sua produzione. Ma nel libro-testamento c’è un salto di tono e di umore. Se in precedenza la scrittura trontiana aveva il timbro di una pratica di elaborazione del lutto, adesso il lavoro del lutto è finito. “Le illusioni sono tutte consumate, i rischiaramenti tutti esauriti, le volontà abbattute, le velleità tutte ridicolizzate”: si può e si deve ricominciare da capo. “Dalla critica di tutto ciò che c’è”, perché nel conformismo pervasivo che connota lo spirito del nostro tempo è in primo luogo l’attitudine alla critica che è andata perduta: “Siamo in una condizione pre-marxiana”, dentro un contesto dominato da un dispositivo accelerato di innovazione reazionaria. Perciò, “mordere nuovamente bisogna. Con passaggi inediti, e strumenti sorprendenti, e strappi nella tradizione teorica, e ricongiungimenti con la tradizione storica”.

 

Colpendo al cuore il discorso pubblico dominante, di destra e di sinistra, Tronti approda a una critica affilata della “democrazia reale” che dopo la guerra fredda si è imposta come il regime politico vincente e come l’unico desiderabile.

 

Questo libro infatti morde in profondità, colpendo al cuore il discorso pubblico dominante, di destra e di sinistra, con una interpretazione in controtendenza della fase storica e politica che va dal 1989 ai giorni nostri, interpretazione che a sua volta riverbera sulla lettura dell’intero Novecento approdando a una critica affilata della “democrazia reale” che dopo la guerra fredda si è imposta come il regime politico vincente e come l’unico desiderabile. Basterebbero i due imperativi programmatici posti al centro del volume – “liberare la rivoluzione dal socialismo” e “liberare la libertà dalla democrazia” – per far trasalire tutto quel novero di uomini e donne “catturati dai lustri del Palazzo e dai meriti dell’Accademia”, nonché dalle luci del palcoscenico mediatico, nei quali Tronti vede i principali responsabili del “lento graduale processo di imborghesimento dei ceti politici e intellettuali” del nostro Paese. Ma prima di addentrarsi nei contenuti del libro è bene fermarsi ancora un momento sul significato che questo lascito testamentario “volutamente postumo” assume a conclusione della traiettoria teorica e politica dell’autore.

2.

Mario Tronti è da decenni consacrato in Italia e nel mondo, ed è stato ricordato nel momento della morte anche dall’informazione mainstream, come il padre dell’operaismo italiano. Inscindibilmente legata alla sua opera più famosa, Operai e capitale (Einaudi 1966), alla scossa antistoricista e antidogmatica che quel testo provocò nel marxismo italiano di allora, alla risonanza da cult-book che ebbe nel contesto delle lotte operaie degli anni Sessanta e del movimento del Sessantotto, questa definizione è incontrovertibile. E tuttavia non dev’essere considerata esaustiva dell’intero percorso di Tronti, soprattutto se finisce con l’oscurarne l’ultima stagione, incentrata sulla critica della democrazia politica, cui egli attribuiva la stessa intenzionalità sovversiva della prima, incentrata sulla critica dell’economia politica. Tronti stesso del resto, in una concisa e autoironica autobiografia filosofica scritta nel 2008 per Bompiani (poi in Dall’estremo possibile, a cura di Pasquale Serra, Futura 2011) avvertiva il rischio di poter restare “quasi imprigionato” nell’icona del leader teorico dell’operaismo (“Un consiglio: mai scrivere un libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì”, scrisse in un’altra circostanza).

 

Sia chiaro: non si tratta di disconoscere la matrice operaista del percorso di Tronti, né di derubricarne la portata. Basta leggere uno dei suoi testi più intensi, Noi operaisti (introduzione al volume su L’operaismo degli anni Sessanta, 2008), per capire quanto l’esperienza di Quaderni Rossi e Classe operaia, le due riviste-laboratorio dell’operaismo in cui maturò anche la stesura di Operai e capitale, abbia segnato per sempre la sua postura esistenziale e intellettuale, cristallizzandosi in uno “stile” inconfondibile: “dal modo di scrivere, battente come il ritmo della fabbrica, al modo di pensare, fuori dalla norma, in una sorta di stato d’eccezione intellettuale permanente” (“Fuori norma. Lo stile operaista”, il manifesto, 20 giugno 2006). Nemmeno si tratta, come pure è stato fatto insistentemente, di giocare una contro l’altra le diverse stagioni del percorso trontiano, soprattutto la seconda, quella incentrata sull’autonomia del politico, contro la prima, quella operaista. Più volte Tronti ha rivendicato l’intima coerenza di un itinerario che mantiene fermi alcuni punti di metodo e di merito – il punto di vista di parte, la critica radicale dell’esistente, l’intreccio originale fra marxismo antidogmatico, tradizione politica moderna, cultura della crisi, teologia politica – modificando di volta in volta il campo dell’analisi e l’oggetto della messa a fuoco, in stretto rapporto con le domande poste dal contesto storico-politico.

 

A volerla ripercorrere in estrema sintesi, l’analisi trontiana si concentra sul rapporto fra capitale e classe nella fase operaista, calata nelle lotte di fabbrica degli anni Sessanta; si sposta sulla sfera politica all’inizio degli anni Settanta, quando Tronti avverte che il conflitto anticapitalistico deve varcare i confini della fabbrica e assumere il politico come campo d’iniziativa autonomo dall’economico e dal sociale (Sull’autonomia del politico, Feltrinelli 1972);  ingaggia di conseguenza, durante i venti anni d’insegnamento all’università di Siena, un corpo a corpo con i classici del pensiero politico moderno, da Machiavelli a Nietzsche passando per un blasfemo accostamento fra Marx e Schmitt (Hegel politico, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1975; Il tempo della politica, Editori riuniti 1980; Il politico, Feltrinelli 1979-1982). Si sporge oltre i bordi della tradizione politica moderna, verso il pensiero teologico e mistico, quando il cambio di stagione annunciato dalle trasformazioni del capitalismo degli anni Ottanta domanda l’elaborazione di un nuovo paradigma antropologico-politico (Con le spalle al futuro, Editori riuniti 1992). E si concentra nell’ultima stagione, quella già citata del “pensiero della fine”, sulla critica della democrazia, sullo statuto della libertà e sul rilancio del criterio del politico in tempi di antipolitica (La politica al tramonto, Einaudi 1998; Dello spirito libero, Il Saggiatore 2015; Il popolo perduto, con Andrea Bianchi, Nutrimenti 2019). Fra un passaggio e l’altro, costante rimane il rapporto insieme problematico e inossidabile con il PCI (Partito Comunista Italiano, e poi con il PDS-DS, Partito Democratico della Sinistra – Democratici di Sinistra), e incessante la frequentazione di reti di elaborazione collettiva come la rivista Laboratorio politico negli anni Ottanta, l’eremo camaldolese di Montegiove e la rivista Bailamme fra anni Ottanta e Novanta, il Centro studi per la riforma dello Stato di cui Tronti è stato presidente dal 2004 al 2015.

 

Tronti invita a confrontarsi con la critica, “urgente e incomunicabile”, per non dire blasfema, della religione democratica, nell’epoca in cui su di essa a tutti, e a tutte, viene richiesto ogni giorno un giuramento di fede, quando non un arruolamento armato.

Chi volesse approcciare per la prima volta e nella sua interezza questo percorso dispone oggi, oltre che della monografia su Tronti di Franco Milanesi (Nel Novecento, Mimesis 2014), dell’ottima antologia dei principali testi trontiani uscita nel 2017 per il Mulino con il titolo Il demone della politica e curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila Mascat, tre dei giovani studiosi di cui Tronti amava circondarsi negli ultimi vent’anni, in grado di ereditarne il lascito anche “per cesura” generazionale, come essi stessi scrivono e com’è giusto che sia. E chi volesse addentrarsi nell’annoso ma sempre vivo dibattito sul rapporto fra il Tronti operaista e il Tronti pensatore del politico dispone altresì del piccolo e prezioso Anatomia del politico (Quodlibet 2022, anch’esso curato da Jamila Mascat), che raccoglie un dibattito parigino del 2019 fra Tronti, Étienne Balibar e Toni Negri precisamente sulla “tensione tra la continuità del punto di vista e la discontinuità dei punti di svolta”, come scrive Mascat, dell’itinerario trontiano. Vi si rintracciano tra l’altro, attualizzati, tutti i motivi della divaricazione delle due traiettorie di Tronti e Negri rispetto alla comune matrice operaista, nonché, avanzate da Balibar, alcune obiezioni che dalla prospettiva dei teorici della democrazia radicale possono essere rivolte alla prospettiva trontiana di critica radicale della democrazia.

 

Ma per tornare al libro postumo, ecco come qui lo stesso Tronti chiude la questione della coerenza della sua traiettoria: “E comunque si sappia che tutto questo accidentato percorso di matta e disperatissima ricerca ‒ operaismo, autonomia del politico, teologia politica, spiritualità e politica, grande pensiero conservatore, urlo di profezia, concretezza di utopia e perfino monachesimo combattente – ha in sé un filo che lega i passaggi, gli attraversamenti, tutti mirati a un al di là rispetto a questo tipo di mondo, a questo tipo di vita. Dietro, a fondamento, il punto di vista di parte, conquistato una volta per tutte, in giovane età”. Ed è vero che la tonalità battente di questo ultimo testo e la sua mira polemica contro “il senso comune intellettuale di massa” riportano, come in una magica chiusura del cerchio della vita, al “primo” Tronti. Tuttavia non è un caso che il cerchio si chiuda su questo testo, che porta a sintesi e coronamento “l’ultimo” Tronti, e non su un altro. Come se nel momento della fine “il pensatore politico, anzi il politico pensante”, come Tronti era solito definirsi per sottolineare la vocazione militante del suo lavoro filosofico, ci invitasse a non rinchiuderlo nella galleria dei classici, dove un posto post-mortem non si nega a nessuno, nemmeno al padre fondatore di una tradizione sovversiva come l’operaismo, ma a confrontarci con il suo messaggio più urticante per il presente e fin qui non abbastanza recepito, con il  “passaggio più difficile, aspro, respingente, improponibile”, della sua ricerca: la critica, “urgente e incomunicabile”, per non dire blasfema, della religione democratica, nell’epoca in cui su di essa a tutti, e a tutte, viene richiesto ogni giorno un giuramento di fede, quando non un arruolamento armato.

 

3.

Il progetto intitolato “Per la critica della democrazia politica”, parafrasi e complemento della marxiana critica dell’economia politica, venne lanciato da Tronti – ne sono testimone diretta – in un seminario alla Certosa di Pontignano del 1988, quando gli eventi del 1989-91 non erano né previsti né prevedibili, ma il XVIII Congresso aveva già innescato nella cultura del PCI la sostituzione dell’“orizzonte del comunismo”, come lo chiamava Cesare Luporini, con l’orizzonte liberaldemocratico, sostituzione che diventerà esplicita e programmatica con la svolta della Bolognina all’indomani del crollo del Muro di Berlino. Da allora la critica della democrazia reale non ha più smesso di contrassegnare la produzione trontiana: compare già in Con le spalle al futuro, viene messa a tema in due saggi del 2001 e del 2005 entrambi intitolati per l’appunto Per la critica della democrazia politica, si fa più affilata nelle Tesi su Benjamin che concludono La politica al tramonto, ricompare in Dello spirito libero, si cala nel vivo della crisi della sinistra e dell’emergenza populista ne Il popolo perduto. Fin dall’inizio si intreccia con la reinterpretazione storica del Novecento, mette in tensione filosoficamente la tradizione del pensiero liberale con quella democratica, e nel corso del tempo si confronta con la cronaca della crisi estenuante ed estenuata delle democrazie contemporanee. Soprattutto, e a differenza dei molti altri discorsi sullo stato delle democrazie occidentali, non guarda solo né tanto al disfunzionamento dei sistemi politici e istituzionali: va, a monte, alla radice del paradigma democratico, mettendo sotto analisi le sue aporie costitutive; e insiste, a valle, sulla crisi antropologica che attacca lo stato di salute del demos ancor più di quanto non appaia compromesso quello del kratos. Questo stesso impianto analitico ritorna nel libro-testamento, ma supportato da una diagnosi più stringente dei processi storici che ne radicalizza la prognosi politica.

 

4.

Il punto di partenza è la data spartiacque del 1989-91, il “biennio bianco” come lo chiama Tronti riprendendo il titolo del suo intervento a un convegno del CRS (Centro per la Riforma dello Stato) sul trentennale della caduta del Muro. Il nome, in evidente contrapposizione con il “biennio rosso” operaio del 1919-20, dice la cosa. Celebrati dalla narrativa neoliberale dominante, di destra e di sinistra, come l’inizio di un’era di libertà, progresso economico e ordine mondiale, l’abbattimento del Muro e il crollo dell’Unione Sovietica – il secondo per Tronti più importante del primo, per implicazioni e conseguenze storiche e geopolitiche – sono stati in realtà il sigillo di un’età di restaurazione. Più precisamente, il coronamento definitivo del “ritorno all’ordine” decretato dalla Trilateral già nel 1973 contro il “disordine” sociale degli anni Sessanta-Settanta, e portata avanti già durante gli anni Ottanta dalla ristrutturazione postindustriale del capitalismo e dalla razionalità neoliberale, unite nel demolire le condizioni di esistenza del conflitto di classe.

 

Celebrati dalla narrativa neoliberale dominante, di destra e di sinistra, come l’inizio di un’era di libertà, progresso economico e ordine mondiale, l’abbattimento del Muro e il crollo dell’Unione Sovietica sono stati in realtà il sigillo di un’età di restaurazione.

 

Il 1989-91 completa l’opera, con una tragica ambivalenza che la versione dei vincitori traduce in una marcia trionfale. Il crollo del Muro sancisce sì la liberazione dall’oppressione totalitaria dei regimi dell’Est, ma con la libertà degli individui scatena anche quella degli “spiriti animali” del capitalismo che quei regimi “avevano malamente trattenuto”. Il collasso dell’Unione Sovietica mette sì la parola fine a un esperimento fallito, ma con la fine di quell’esperimento viene decretata anche la fine tout court del conflitto fra capitalismo e socialismo. Abbattuta la carica simbolica del suo Altro, scrive Tronti, resta in campo solo la potenza indiscussa del capitalismo reale – ma qui si potrebbe dire, con Jacques Lacan, il Reale del capitalismo, o con Mark Fisher il “realismo capitalista” –, senza più nemmeno la pensabilità di un’alternativa di sistema.

Non avere tenuto aperta questa pensabilità è l’imperdonabile colpa che Tronti attribuisce alla sinistra post-1989, italiana ed europea. Il “biennio bianco” segna una rottura in senso proprio catastrofica del corso della storia, che andava pensata come tale e contrastata con un contrattacco, e che invece i cattivi eredi del Movimento operaio hanno interpretato come una tappa evolutiva verso il meglio, accodandosi alla narrativa dominante e attaccandosi alla tara storicista e progressista della propria cultura. Nessuna lettura critica della fine della guerra fredda da parte degli sconfitti, nessun laboratorio paragonabile alla Vienna o alla Weimar del primo dopoguerra. Nessuna analisi del perché e per come “un miracolo cominciato con il ‘che fare?’ di Lenin sia giunto alla fine con le sbronze di Eltsin” senza riuscire a mettere al mondo “l’uomo nuovo”, ovvero un’antropologia politica alternativa a quella della società capitalistica. E dunque, nessun tentativo di salvare l’assalto al cielo del 1917 dai misfatti dello stalinismo e dall’esito fallimentare del socialismo reale (“Quei regimi meritavano di cadere? Sì. Quell’esperimento meritava di morire? No”). Nell’“agghiacciante silenzio dei perdenti” la narrativa messianica dei vincitori – modernizzazione, globalizzazione e democrazia come unico regime politico legittimo e desiderabile, da esportare con le buone o con le cattive – diventa l’unico paradigma in campo. “I postcomunisti ne rimasero abbagliati, come il gatto che di notte si ferma davanti ai fari dell’auto in corsa”.

 

Da quell’abbaglio, le sinistre europee non si sono mai più riprese; e basta pensare alla loro sostanziale indistinguibilità dal fronte di centrodestra nella gestione europea della guerra d’Ucraina per capire quanto pesi tuttora nella loro cultura politica un difetto d’analisi del 1989-91 e dei suoi effetti di lungo periodo. Ma è la vicenda del principale partito della sinistra italiana, con quel progressivo slittamento dall’aggettivo “comunista” all’aggettivo “democratico” senza più neanche il sostantivo “sinistra”, a restare la più emblematica su scala continentale di quello che dopo il 1989-91 non fu affatto il “nuovo inizio” allora predicato, bensì “un cupio dissolvi” e “una resa senza condizioni”. Per uno come Tronti, che del PCI-PDS è stato un iscritto fedele ancorché eterodosso per quaranta anni, e che del PD è stato senatore sia pure indipendente dal 2013 al 2018, si tratta di un giudizio forse tardivo, ma definitivo e senza appello.

 

5.

Ma non è solo dal punto di vista delle sorti della sinistra che con il 1989-91 “i conti non sono stati fatti”: il “biennio bianco” riverbera all’indietro, sulla lettura complessiva del Novecento, e in avanti, sulla lettura complessiva del presente. È una tesi nota e discussa di Tronti, fin da La politica al tramonto, che la fine dell’assetto bipolare del mondo chiuda l’epoca della “grande politica” basata sul criterio amico/nemico, di cui la guerra fredda e il conflitto di classe sarebbero state l’ultima e civilizzata forma, e apra un’epoca di spoliticizzazione di massa sotto le insegne della democrazia. Nuova è invece in quest’ultimo libro l’analisi delle variazioni che il criterio dell’amico/nemico subisce fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, con effetti che si prolungano per tutta la guerra fredda e arrivano ai giorni nostri.

 

La contrapposizione fra democrazia e totalitarismo trapassa intatta dalla Seconda guerra mondiale alla guerra fredda, con la conseguenza nefasta dell’equiparazione fra il totalitarismo nazista e quello comunista, che furono invece contrapposti, per origini e fini. E rimane operativa anche dopo la fine della guerra fredda, quando viene riattivata nella sequenza di guerre “giuste”.

 

È con la Seconda guerra mondiale che alle motivazioni militaristiche tradizionali dei conflitti armati subentra il paradigma di ascendenze medievali della guerra giusta e moralmente giustificata contro un nemico identificato come il male assoluto. Non poteva che essere così, ed era giusto che fosse così, sottolinea Tronti, contro il nazismo che combatteva a sua volta in nome della superiorità della razza ariana: “Nasce sui cruenti campi di battaglia la contrapposizione ideale fra democrazia e totalitarismo che segnerà la seconda metà del Novecento”. E “il Movimento operaio degli anni Trenta fece la scelta giusta, irreversibile, di schierarsi dalla parte della democrazie”, mettendo fra parentesi il conflitto di classe per dare la priorità ai fronti popolari antifascisti; la guerra civile spagnola e la Resistenza italiana restano nella loro drammaticità scuole ineguagliate di formazione di un’intera generazione. Senonché “Qual è il problema? Il problema è che quella parentesi non si è più chiusa”. Lo schema di gioco della contrapposizione fra democrazia e totalitarismo trapassa intatto dalla Seconda guerra mondiale alla guerra fredda, con la conseguenza nefasta dell’equiparazione fra il totalitarismo nazista e quello comunista, che furono invece radicalmente diversi, anzi contrapposti, per origini e fini. E rimane operativo anche dopo la fine della guerra fredda, quando viene periodicamente riattivato nella sequenza di guerre “giuste” condotte in nome della democrazia contro nemici di varia natura, dai terroristi ai dittatori agli autocrati, ogni volta rappresentati come il male assoluto e ogni volta paragonati, non a caso, a Hitler. La risposta del fronte atlantista all’invasione russa dell’Ucraina (sulla quale Tronti si esprime più ampiamente nella bella intervista con Andrea Ampollini che chiude la recente riedizione DeriveApprodi di La politica al tramonto) è l’ultimo esempio di questa sequenza.

Non solo. Nel corso dei decenni il conflitto democrazia/totalitarismo ha finito con l’oscurare, anzi con l’eclissare, il conflitto di classe. “Si guardi a quanto è facile oggi essere antifascisti, quanto difficile essere anticapitalisti”. Si potrebbe obiettare, e molti di sicuro obietteranno, che oggi, di fronte alla nuova “internazionale nera” che va stringendo in una tenaglia le due sponde dell’Atlantico, essere antifascisti torna a essere un esercizio tutt’altro che facile oltre che necessario. Ma proprio la difficoltà di assegnare automaticamente alla categoria storica del fascismo le nuove destre, figlie dell’epoca neoliberale e contraddittoriamente intessute di reazione tradizionalista e innovazione capitalista, di gerarchismo e libertarismo, di protezionismo antiglobale e liberismo sfrenato, dimostra che oggi come e più di un secolo fa l’antifascismo senza analisi e critica del capitalismo rischia di essere una postura tanto nobile quanto insufficiente. Un’altra sveglia che suona, o dovrebbe, per una sinistra di cui il capitalismo è diventato, come denunciava Slavoj Žižek già svariati anni fa, il “fantasma fondamentale”, rimosso e innominabile.

 

6.

Dunque che cosa resta, un secolo dopo, della contrapposizione frontale fra democrazia e totalitarismo che ha plasmato il discorso teorico e orientato le politiche e la geopolitica novecenteschi, e che tuttora si ripresenta nel dibattito pubblico nella forma della contrapposizione fra democrazia e autocrazia? La categoria apparentemente ossimorica di “totalitarismo democratico” cui Tronti approda nel libro-testamento – ma che compare già nel primo dei due già citati saggi Per la critica della democrazia politica, e  ricompare nella produzione successiva – dice che quella contrapposizione non funziona più o non è più così frontale, e suggerisce di ripensare entrambi i termini che la compongono,  nelle differenze che li distinguono ma anche nelle segrete affinità che li accomunano, o nelle porosità che rendono possibile lo slittamento dall’uno all’altro. Tronti definisce il totalitarismo come “un sistema chiuso, internamente totalizzante, che mira a introiettare la funzione del potere nelle singole soggettività”, uniformando e massificando la coscienza individuale attraverso un forte apparato ideologico e l’uso dall’alto di mezzi di formazione di un consenso fideistico. Totalitario, attenzione, non è sinonimo di autoritario: che i due totalitarismi novecenteschi si siano avvalsi di metodi e forme di governo autoritari non esclude che la vocazione o la deriva totalitaria di un sistema politico possano presentarsi senza supporto autoritario o repressivo, o con un supporto autoritario debole infiltrato nella centralizzazione e verticalizzazione delle forme di esercizio del potere. Che è precisamente quello che sta accadendo nelle democrazie contemporanee. Dove la massificazione procede grazie alla “conta quantitativa dell’individuo senza qualità” e all’omologazione delle forme di vita, “la dittatura non è imposta con la violenza ma introdotta con il messaggio”, e “la servitù volontaria prende il posto della proibizione imposta”.

Non si tratta per Tronti, si badi, solo dell’effetto contingente delle note tendenze degenerative dei sistemi democratici contemporanei (torsione maggioritaria, presidenzialismo, uso manipolativo dei mass media), bensì di una deriva inerente allo statuto del modello democratico, contrassegnato ab origine da una matrice identitaria che annoda demos e kratos e non sopporta il taglio conflittuale della differenza (e infatti lo assorbe costantemente in un differenzialismo inclusivo che si ribalta sempre in pluralismo identitario). A questa deriva totalitaria originaria – che spiega fra l’altro il rispecchiamento fra popolo e leader tipico dei populismi contemporanei – se ne aggiunge al compimento della parabola democratica un’altra, che è la controfaccia del trionfo planetario conseguito dalla democrazia dopo il 1989-91, un trionfo che consacrandola come destino universale senza alternative ne alimenta perciò stesso la pretesa totalizzante.

 

7.

Ma se queste derive totalitarie sono vere, e se il totalitarismo è nemico della libertà, occorre spezzare il nesso automatico e scontato che tanto nella teoria quanto nel senso comune lega democrazia e libertà. Non si tratta solo, sul piano politico, di prendere atto che nelle democrazie contemporanee, tutte attraversate dai processi di massificazione della società e di verticalizzazione e personalizzazione del potere di cui sopra, “la libertà non viene negata ma raggirata” e il suo esercizio “diventa sempre più formale”. Si tratta anche di prendere atto sul piano teorico che la democrazia può divaricare dal liberalismo e rivelarsi invece compatibile con il totalitarismo. Accade all’esito di un processo storico e concettuale che per un verso ha annodato libertà politica e libertà economica fino a sovrapporle, per l’altro verso ha creduto di presidiare la libertà politica agganciandola a un sistema di diritti e garanzie giuridiche che finisce con l’essere complice di un individualismo esasperato e spoliticizzato. E accade all’esito di un gigantesco equivoco, anche questo teorico e politico, che equiparando autorità e autoritarismo ha messo in contrapposizione libertà e autorità.

 

Nel corso dei decenni il conflitto democrazia/totalitarismo ha finito con l’oscurare, anzi con l’eclissare, il conflitto di classe: “Si guardi a quanto è facile oggi essere antifascisti, quanto difficile essere anticapitalisti”.

 

Fra libertà e autorità – qui è esplicito il debito di Tronti con il laboratorio teorico-politico del femminismo della differenza – va riattivato invece un circolo positivo, perché la libertà è correlata al riconoscimento spontaneo della valenza simbolica dell’autorità e ne è potenziata. E viceversa, l’autoritarismo spunta proprio nei sistemi politici caratterizzati da un potere privo di autorità: una condizione, quest’ultima, che accomuna la parabola fallimentare del socialismo reale, dove l’esperimento rivoluzionario non ha generato una classe dirigente alla sua altezza, e la crisi terminale delle democrazie reali, dove il deficit d’autorità della politica sta alla radice dell’antipolitica e del populismo. Ne consegue un duplice compito, concettuale e pratico. Per un verso l’autorità va riformulata in positivo contro la sua identificazione corrente con l’autoritarismo, e “la distinzione fra potere e autorità acquista una portata strategica”. Per l’altro verso la libertà va riformulata come autonomia di pensiero contro il conformismo dilagante e come libertà affermativa, politica e relazionale contro la sua concezione individualistica e impolitica corrente. Repressa dai totalitarismi, impensata o subordinata all’eguaglianza dal marxismo, ridotta a libertà negativa dal liberalismo, a libertà di mercato dal neoliberalismo, a catalogo di diritti dal costituzionalismo, la libertà è il problema che il Novecento ci consegna aperto, e oggi più che mai domanda, come diceva Hannah Arendt, di essere rimessa al mondo.

8.

Al fondo, ciò che muove la critica trontiana della democrazia non è solo la constatazione che le democrazie contemporanee mostrano una crescente incapacità di governare crisi sistemiche ricorrenti (economiche, ecologiche, pandemiche, belliche), ma soprattutto la duplice convinzione che la base quantitativa e contabile del paradigma democratico è strutturalmente convergente con la logica capitalistica della merce, e che la  democrazia reale si è rivelata  “la forma politica finora meglio riuscita di neutralizzazione e spoliticizzazione del conflitto sociale”. Quest’ultima tesi è correlata al punto forse più contestato – anche dalla sottoscritta – dell’ultimo Tronti, la sua svalutazione del Sessantotto come una stagione solo illusoriamente rivoluzionaria, di fatto riassorbita dai processi di modernizzazione capitalistica e di inclusione democratica. È vero che nel ragionamento trontiano la denuncia della deriva spoliticizzante della democrazia fa velo alla comprensione dei processi di politicizzazione – non solo della sfera produttiva ma di quella riproduttiva, e della vita intera – che dal Sessantotto e dal femminismo in poi i movimenti sociali non cessano di innescare, scuotendo il teatro democratico e invadendolo con forme di soggettivazione irriducibili alla sua contabilità individualistica, alla sua grammatica dei diritti, alla sua sintassi rappresentativa. Ma è anche vero che il problema dell’effettiva capacità di rottura antisistemica di queste insorgenze è un punto irrisolto in tutta la teoria politica critica contemporanea, da quella marxista e moltitudinaria di Toni Negri e Michael Hardt a quella postmarxista e populista di Ernesto Laclau.

 

Lascio aperto questo punto – peraltro a mio avviso indecidibile solo in punta di teoria – per fare un’ultima considerazione. Tronti ha sempre presentato la sua critica della democrazia come una postazione teorica priva di implicazioni pratiche contro la democrazia. “Si può fare oggi critica della democrazia politica accettando, difendendo, sviluppando, riformando i sistemi politici democratici”, aveva scritto qualche anno fa (Dello spirito libero, p. 183) rivendicando, come altre volte, lo scarto fra teoria e pratica che spesso gli è stato contestato. Quella trontiana è dunque soprattutto una sfida per la pensabilità e l’immaginazione di un’altra forma di vita e di regime politico, contro le pretese universali e totalizzanti della religione democratica. Questa sfida deve partire dalla presa d’atto che il paradigma democratico è ormai realizzato e compiuto, che la sua crisi non dipende dalle sue promesse mancate, come sosteneva Norberto Bobbio già mezzo secolo fa, ma dalle sue premesse realizzate, e che dunque “è scaduto il termine per un uso diverso del concetto” (ibidem) e si sono ristretti i margini per riformarne gli esiti storici.

 

9.

Rispetto a quando, un anno e mezzo fa, Mario Tronti ha licenziato il suo libro-testamento, la storia si è messa a correre rendendo tanto più difficile quanto più necessario “apprendere il proprio tempo col pensiero”. E ha impresso un’accelerazione vertiginosa alla crisi della democrazia, che oggi non appare tanto, o soltanto, assediata da regimi autocratici ostili, come recita la vulgata dominante, quanto divorata dalle sue contraddizioni interne, come dimostra la parabola degli Stati Uniti trumpiani nonché il moto retrogrado delle democrazie europee verso suggestioni neo- e postfasciste che parevano consegnate all’archivio della storia. Il sodalizio fra democrazia e liberalismo sembra avviato a un divorzio tutt’altro che consensuale, l’autoritarismo avanza forte del consenso popolare, l’ottimismo progressista delle sinistre post-1989 viene stracciato dal futurismo tradizionalista della coppia Trump–Musk, il capitalismo tecnocratico e oligarchico è chiaramente intenzionato a emanciparsi definitivamente dalle correzioni redistributive novecentesche e comanda alla politica di riarmarsi, la libertà individualistica, prestazionale e competitiva dell’epoca neoliberale evolve nel libertarismo sovranista di quelli che possono, basato sulla schiavitù e la deportazione di quelli che non possono.

 

Occorre spezzare il nesso che tanto nella teoria quanto nel senso comune lega democrazia e libertà: nelle democrazie contemporanee “la libertà non viene negata ma raggirata” e il suo esercizio “diventa sempre più formale”.

 

Ma mentre la crisi della democrazia galoppa, la critica – e l’autocritica – tace, balbetta, indugia su rattoppi inefficaci e su retoriche poco credibili, si rifugia dentro trincee difensive friabili. Non ci voleva l’aggressione di Putin all’Ucraina per accorgersi che l’ordine mondiale istituito dopo la fine della guerra fredda stava per implodere. E non ci voleva la seconda incoronazione di Trump per accorgersi che la democrazia rischia di entrare a far parte del panorama di macerie novecentesche da cui avrebbe dovuto salvarsi e salvarci. Di fronte a questo rischio che impone ultimativamente la necessità di pensare un’altra forma di vita prima che un altro regime politico, la sfida lanciata da Tronti suona ancora più urgente, e ancora più calzante il suo invito a “cercare ancora” e a “credere nel possibile, malgrado tutte le prove empiriche dimostrino l’impossibile”. Cercheremo di essere all’altezza.

 

 

 

 

 

 

Trump Indica il “Clinton Body Count.”

Conoscenzealconfine.it – (23 Maggio 2025) – Redazione – ci dice:

Sabato il presidente “Trump” ha pubblicato su “Truth Social” un video con la conta delle vittime dei Clinton, in cui si suggerisce che diverse morti misteriose avvenute negli ultimi decenni siano collegate ai Clinton.

Nella clip vengono menzionati l’ex vice consigliere della Casa Bianca di Clinton, “Vince Foster”, il collaboratore di Clinton, “James McDougal”, il membro del “Comitato Nazionale Democratico”, “Seth Rich”, e la misteriosa morte di JFK Jr., che ha spianato la strada a Hillary Clinton per diventare senatrice degli Stati Uniti.

 

È degno di nota che “Foster” fu mentore di Hillary quando lavoravano insieme presso lo studio legale “Rose Law Firm” di “Little Rock”, in Arkansas.

 Quando Bill Clinton fu confermato 42° Presidente degli Stati Uniti il ​​20 gennaio 1993, “Foster “assunse il ruolo di suo Vice Consigliere alla Casa Bianca.

 Sei mesi dopo, esattamente in quel giorno, “Foster” fu trovato morto a” Fort Marcy Park”, lungo il fiume Potomac, apparentemente per “suicidio” causato da un colpo di pistola calibro 38.

 

È interessante notare che l’espressione “Clinton Body Count” fu coniata originariamente dallo scrittore “Danny Casolaro” alla fine degli anni Ottanta. “Casolaro” si “suicidò” nel 1991, mentre lavorava a un articolo che presumibilmente coinvolgeva una “cabala internazionale”.

L’ultima volta che #ClintonBodyCount è stato di tendenza su X (ex Twitter) è stato quando l’amico di Clinton, “Jeffrey Epstein”, avrebbe tentato il suicidio (prima di essere trovato morto nella sua cella) mentre attendeva il processo per le accuse di traffico sessuale di minori.

 

Come riportato da” Renovatio 21”, tre anni fa l’ex consigliere del presidente Clinton “Mark Middleton “fu trovato impiccato con un colpo di fucile al petto in un ranch in Arkansas.

 La morte venne dichiarata per suicidio.

Negli anni ’90, “Middleton” ha servito da filo conduttore tra “Clinton” e il pedofilo defunto miliardario “Jeffrey Epstein”, avendo organizzato almeno 7 delle 17 visite che Epstein fece alla Casa Bianca, e ha volato lui stesso più volte sul “Lolita Express”, secondo il “Daily Mail”.

 

Secondo la giornalista d’inchiesta “Whitney Webb”, il “Middleton” sarebbe stato legato negli anni Novanta allo scandalo detto “Chinagate”, ora dimenticato.

Come noto, la presidenza Clinton fu il fattore determinante dell’ingresso della “Repubblica Popolare Cinese nel WTO”, con la conseguente delocalizzazione massiva della manifattura e la distruzione della classe media occidentale.

 

Nel 2016 la “CBS di Las Vegas “pubblicò per intero questo elenco di persone in relazione con “Bill e Hillary Clinton” morti in circostanze misteriose durante tutta la durata del potere della coppia, dagli esordi nel piccolo stato dell’Arkansas alla Casa Bianca ed oltre.

 La lista finì citata anche in un bizzarro documentario inglese sulle teorie cospirative intorno al potere americano andato in onda nel Regno Unito nella settimana del voto americano nel 2016.

 

1 – James McDougal morto per un apparente attacco cardiaco, mentre era in isolamento.

Fu un testimone chiave nelle indagini di “Kenneth Starr”, il procuratore che voleva incastrare “Bill Clinton” passato poi incredibilmente ad avvocato difensore di “Epstein” al suo primo processo in Florida.

 Coinvolto nel caso “Whitewater,” uno scandalo immobiliare dei Clinton.

2 – Mary Mahoney Un’ex stagista della Casa Bianca assassinata nel luglio 1997 in una caffetteria “Starbucks” a “Georgetown”.

L’omicidio avvenne subito dopo la pubblicazione di una sua storia di molestie sessuali alla Casa Bianca.

 

3 – Vince Foster – Ex consigliere della Casa Bianca e collega di Hillary Clinton presso lo “studio legale Rose di Little Rock”.

 Morì per una ferita da arma da fuoco alla testa, venne categorizzato come suicidio.

 

4 – Ron Brown Segretario al Commercio ed ex Presidente dei Democratici. Morto ufficialmente per l’impatto di un incidente aereo.

 Un patologo vicino alle indagini ha riferito che c’era un buco nella parte superiore del cranio di Brown che ricordava una ferita da arma da fuoco.

Al momento della sua morte Brown era indagato e parlava pubblicamente della sua volontà di concludere un accordo con i pubblici ministeri.

Morirono anche il resto delle persone a bordo dell’aereo e pochi giorni dopo il controllore del traffico aereo si suicidò.

 

5 – C. Victor Raiser, II Raiser, uno dei principali responsabili dell’organizzazione di raccolta fondi di Clinton, morì in un incidente aereo privato nel luglio 1992.

 

6 – Paul Tulley Direttore politico del Comitato nazionale democratico trovato morto in una stanza d’albergo a Little Rock, nel settembre 1992. Descritto da Clinton come «caro amico e consigliere fidato».

 

7 – Ed Willey Addetto alla raccolta fondi dei Clinton, trovato morto nel novembre 1993 nel profondo del bosco in Virginia per una ferita da arma da fuoco alla testa.

 Si è suicidato.

Ed Willey morì lo stesso giorno in cui sua moglie Kathleen Willey affermò che Bill Clinton la approcciò nell’ufficio ovale alla Casa Bianca.

 

8 – Jerry Parks Capo della squadra di sicurezza governativa di Clinton a Little Rock.

Gli spararono in macchina in un incrocio deserto fuori Little Rock Park.

 Il figlio disse che suo padre stava costruendo un dossier su Clinton. Dopo la sua morte i file furono misteriosamente rimossi da casa sua.

 

9 – James Bunch Deceduto per suicidio da arma da fuoco. È stato riferito che aveva un «Libro nero» che conteneva nomi di persone influenti che visitavano prostitute in Texas e Arkansas.

 

10 – James Wilson Fu trovato impiccato nel maggio 1993. È stato riferito che aveva legami con” Whitewater”, lo scandalo legato agli investimenti immobiliari in Arkansas di Bill e Hillary Clinton e dei loro soci.

 

11 – Kathy Ferguson – Ex moglie del soldato dell’Arkansas “Danny Ferguson”, fu trovata morta nel maggio 1994, nel suo salotto con un colpo di pistola alla testa.

 Fu considerato un suicidio anche se c’erano diverse valigie piene, come se stesse andando da qualche parte.

“Danny Ferguson” era un co-imputato insieme a “Bill Clinton” nella causa di “Paula Jones”, una donna che si disse molestata da Bill Clinton.

Kathy Ferguson era un possibile testimone corroborante di Paula Jones.

12 – Bill Shelton Arkansas State Trooper e fidanzato di Kathy Ferguson. Critico dell’idea secondo la quale la sua fidanzata si sarebbe uccisa, è stato trovato morto nel giugno 1994 per una ferita da arma da fuoco davanti alla tomba dell’amata.

 

13 – Gandy Baugh L’avvocato dell’amico di Clinton” Dan Lassater”, è morto saltando fuori da una finestra di un alto edificio nel gennaio 1994. Il suo cliente era un distributore di droga condannato.

 

14 – Florence Martin Ragioniere e subappaltatore per la “CIA”, era legato al caso Barry Seal, Mena (Arkansas) un caso di traffico di droga aeroportuale.

 

15 – Suzanne Coleman Secondo quanto riferito, aveva una relazione con Clinton quando era procuratore generale dell’Arkansas. Morì per una ferita da arma da fuoco alla parte posteriore della testa: la morte venne schedata come suicidio. Era incinta al momento della sua morte.

16 – Paula Grober Interprete vocale di Clinton per non udenti dal 1978 fino alla sua morte, il 9 dicembre 1992. Morì in un incidente automobilistico.

 

17 – Danny Casolaro Giornalista investigativo, stava indagando sull’aeroporto di Mena e sull’autorità di finanziamento dello sviluppo dell’Arkansas. Si è tagliato i polsi, a quanto pare, nel mezzo della sua indagine.

 

18 – Paul Wilcher L’avvocato che indaga sulla corruzione all’aeroporto di Mena con Casolaro e la «October surprise» del 1980 fu trovato morto in bagno il 22 giugno 1993, nel suo appartamento di Washington DC aveva consegnato un rapporto a Janet Reno 3 settimane prima della sua morte.

 

19 – Jon Parnell Walker Investigatore dello “Scandalo Whitewater “per la risoluzione “Trust Corp”.

Saltò dal suo balcone dell’appartamento di Arlington, in Virginia, il 15 agosto 1993.

 Stava indagando sullo scandalo “Morgan Guaranty”, un altro scandalo che investiva i “McDougal, amici dei Clinton implicati anche nel “Whitewater.”

 

20 – Barbara Wise Staff del dipartimento del commercio. Ha lavorato a stretto contatto con Ron Brown e John Huang. Causa della morte: sconosciuta. Morì il 29 novembre 1996. Il suo corpo nudo e percosso fu trovato chiuso nel suo ufficio presso il Dipartimento del Commercio.

 

21 – Charles Meissner Assistente del Segretario al Commercio che ha concesso a John Huang un nulla osta di sicurezza, è morto poco dopo in un piccolo incidente aereo.

22 – Dr. Stanley Heard Il presidente del Comitato consultivo nazionale per la cura della chiropratica è morto con il suo avvocato Steve Dickson in un piccolo incidente aereo.

23 – Barry Seal Pilota della compagnia aerea commerciale TWA che agiva come corriere della droga da Mena (Arkansas).

Testimoniò il coinvolgimento della CIA nelle attività di contrabbando di droga dal Sudamerica, cartello di Pablo Escobar in uso.

È morto per tre ferite da arma da fuoco.

Di recente Tom Cruise ci ha fatto un film, “American Made”, che include anche le figure di Clinton (di cui si vede una telefonata che libera Seal appena arrestato) e di Bush.

 

24 – Johnny Lawhorn, Jr. – Meccanico, trovò un assegno intestato a Bill Clinton nel bagagliaio di un’auto lasciata nel suo negozio di riparazioni. Fu quindi trovato morto dopo che la sua macchina colpì un traliccio telefonico.

 

25 – Stanley Huggins – Altro investigatore del caso “Madison Guaranty”. La sua morte fu un presunto suicidio e il suo rapporto non fu mai pubblicato.

 

26 – Hershell Friday L’avvocato della raccolta fondi di Clinton morì il ​​1° marzo 1994, quando il suo aereo esplose.

 

27 – Kevin Ives e Don Henry Noto come caso dei «ragazzi dei binari».

I rapporti dicono che i ragazzi potrebbero essersi imbattuti nell’operazione di droga dell’aeroporto di Mena Arkansas.

Un caso controverso:

secondo il rapporto iniziale sulla morte, si sarebbero addormentati sui binari della ferrovia.

Rapporti successivi affermano che i 2 ragazzi erano stati uccisi prima di essere messi sui binari.

Molti sospettano che la testimonianza potesse arrivare davanti a un Gran Giurì.

La loro morte potrebbe aver ingenerato, sostiene qualcuno, le seguenti morti di persone che avevano informazioni sul caso.

 

28 – Keith Coney Morì quando la sua moto sbatté sul retro di un camion, luglio ‘88. Potrebbe aver avuto informazioni su Ives/Henry.

 

29 – Keith McMaskle Pugnalato 113 volte, novembre 1988. Potrebbe aver avuto informazioni su Ives/Henry.

 

30 – Gregory Collins Morì per una ferita da arma da fuoco del gennaio 1989. Potrebbe aver avuto informazioni su Ives/Henry.

 

31 – Jeff Rhodes Gli hanno sparato, lo hanno mutilato e trovato bruciato in una discarica nell’aprile 1989. Potrebbe aver avuto informazioni su Ives/Henry.

 

32 – James Milan Trovato decapitato. Tuttavia, il medico legale ha stabilito che la sua morte era dovuta a «cause naturali». Potrebbe aver avuto informazioni su Ives/Henry.

 

34 – Richard Winters Un sospettato nelle morti di Ives / Henry. Fu ucciso in una rapina organizzata nel luglio 1989.

Vi è quindi una lista di bodyguard dei Clinton, mestiere tra i più pericolosi al mondo:

35 – Major William S. Barkley, Jr.

36 – Capitano Scott J. Reynolds.

37 – Sergente Brian Hanley,

38 – Sergente Tim Sabel.

39 – Generale Maggiore William Robertson.

40 – Colonnello William Densberger.

41 – Colonnello Robert Kelly.

42 – Gary Rhodes.

43 – Steve Willis.

44 – Robert Williams.

45 – Conway LeBleu.

46 – Todd McKeehan.

 

Infine non dimentichiamo il caso sospetto più recente, “Seth Rich”, assassinato e «rapinato» (di nulla) il 10 luglio 2016.

Per alcuni era coinvolto nell’hacking delle email dei democratici.

Il fondatore di “Wikileaks Assange” afferma di avere informazioni in merito; sappiamo cosa poi accadde ad Assange.

 

In questa lista non sono inclusi i 4 ex-soldati al soldo della CIA uccisi a Bengasi per difendere l’ambasciatore nel fatale 2011.

 Lasciati morire senza che dalla Sicilia partisse nemmeno mezzo drone per togliere l’assedio sanguinario in cui erano finiti.

Ciò è visibile perfino nel film fracassone che ne ha fatto Hollywood, 13 hours, un polpettone action di pura propaganda che sembra creato per dare la colpa alla “CIA invece che al Dipartimento di Stato e agli intrighi orditi dall’allora “segretario di Stato Hillary Clinton”.

(renovatio21.com/trump-indica-il-clinton-body-count/).

 

 

 

 

 

La politica come esistenza autentica

 e la storia come narrazione:

“Hannah Arendt e l'esperienza totalitaria”.

Storicamento.org - Mara Casale – (31 -12 -2006) – ci dice:

 

Nota in tutto il mondo come filosofa politica, sebbene abbia sempre preferito definirsi un «pensatore» politico, Hannah Arendt è senza dubbio una delle personalità intellettuali più complesse e significative del Novecento.

Costantemente controversa e mai allineata, testimone consapevole della tragedia del proprio tempo, ella si è assunta il difficile compito di impegnarsi nella comprensione del male che ha segnato il XX secolo e che ha fatto di lei, come di milioni di altre persone, un’esule, un’apolide, una sradicata.

“Le origini del totalitarismo” resta ancora oggi la testimonianza più sofferta e più lucida dello sforzo da lei compiuto di illuminare l’evento più tragico che l’umanità abbia mai conosciuto, di rendere conoscibile ciò che non sarebbe mai dovuto accadere e che si configura come un momento estremo di rottura nella storia occidentale:

si può dire che l’opera del ’51 costituisca in un certo senso il momento fondamentale del suo complesso percorso esistenziale e intellettuale, l’esito maturo delle riflessioni elaborate in Francia e proseguite negli Stati Uniti, e nello stesso tempo il punto di partenza dal quale costruisce la sua teoria politica.

Si può dire, in sostanza, che tutta la produzione della Arendt sia in qualche modo un’indagine continua, affrontata da una prospettiva in cui all’analisi degli elementi storici si innestano costantemente teorizzazioni di carattere filosofico e politico, del fenomeno totalitario.

 

“Le origini del totalitarismo” è un’opera che svela i suoi segreti un po’ alla volta e che richiede molte letture prima di essere compresa in profondità.

 Ciò avviene perché la sua complessa stratificazione risponde perfettamente a un approccio metodologico che non può essere definito propriamente “accademico”, e che spazia liberamente tra molteplici suggestioni di carattere storico, filosofico, politico, letterario che si connettono tra di loro secondo la modalità del racconto che è propria dello stile e del pensiero di Hannah Arendt, e che rispecchiano appieno la sua ricca formazione intellettuale.

 A tal proposito è necessario osservare come tale formazione, benché stimolata e arricchita dal confronto con la realtà statunitense, avvenga essenzialmente in Europa e si ispiri principalmente alla cultura europea:

 pur rimanendo legata al nuovo paese che la ospita e al quale guarda come un esempio di democrazia in cui la nazionalità dominante non si identifica con lo Stato, la Arendt privilegia senza dubbio le fonti europee a quelle americane in un percorso che fa proprie con assoluta naturalezza la filosofia politica dell’antica Grecia, la poesia tedesca, la letteratura dell’Europa orientale, la fenomenologia tedesca e francese, la tradizione ebraica dei” pariah” e quella rivoluzionaria della partecipazione diretta dei cittadini alla cosa pubblica.

L’eterogenea strutturazione di questo strano capolavoro, che si snoda attraverso l’intreccio di molteplici storie e singoli episodi che improvvisamente si addensano nell’evento totalitario, deriva quasi certamente dalla presa di distanza dell’autrice rispetto alle posizioni espresse dalla tradizione storicistica tedesca, intendendo con ciò non solo la dottrina, di ispirazione hegeliana, che concepisce la storia come svolgimento reale e necessario, o quella più propriamente fideistica sostenuta da Troeltsch e Meinecke;

 ma anche il dibattito degli ultimi decenni dell’800, che riceve un sostanziale contributo dal pensiero di Max Weber, in merito ai problemi del metodo e della spiegazione della realtà storica, della storia intesa come un sistema di connessioni causali concrete, del legame che unisce ricerca storica e scienze sociali.

Sebbene il modello di spiegazione weberiano non possa essere quello di una “deduzione” degli avvenimenti da leggi generali, per Weber ogni scienza si avvale sempre della spiegazione causale, ed essa non può fare a meno non soltanto di concetti generali, ma anche di “regole empiriche”, di leggi.

L’obiezione principale che la Arendt muove alle scienze sociali presuppone il netto rifiuto dell’autrice di assumere la storia come insieme di eventi sottoposti a leggi o a “regolarità”:

le scienze sociali, infatti, attraverso l’esercizio della predizione e della ripetizione, negano la novità dei fenomeni, come quello totalitario, riconducendoli al già noto e riconducendo sempre ad altro l’azione umana, a cause psicologiche, sociali, culturali, economiche.

Al contrario l’azione umana, col suo carattere spontaneo e imprevedibile, si inserisce in un contesto di relazioni già date e difficilmente consegue lo scopo perseguito, di conseguenza il fatto storico trascende sempre i fattori che lo hanno determinato.

 Scrive lei stessa in un articolo del 1954:

La causalità, comunque, è una categoria assolutamente estranea e ingannevole nelle scienze storiche.

Non solo il significato effettivo di ogni evento in verità trascende qualsiasi serie di cause passate che possiamo attribuirgli […] ma questo stesso passato viene alla luce solo con l’evento stesso.

Solo quando qualcosa di irrevocabile è avvenuto possiamo cercare di ricostruirne la storia: l’evento illumina il proprio passato, non può mai essere dedotto da esso.

In nota si legge:

Tra gli elementi del totalitarismo vanno incluse anche le sue origini, se per origini non intendiamo cause.

Gli elementi in quanto tali non causano mai nulla.

 Essi diventano origini di eventi se e quando si cristallizzano improvvisamente in forme immutabili e definite.

 È la luce stessa dell’evento che ci consente di distinguere i suoi elementi reali da un numero infinito di possibilità astratte, ed è sempre questa stessa luce che deve guidarci all’indietro nel passato sempre oscuro e incerto di questi elementi stessi. In questo senso, è corretto parlare delle origini del totalitarismo, o di qualsiasi altro evento storico.

In tutta l’opera della Arendt è possibile scorgere una sorta di corrispondenza tra analisi degli avvenimenti concreti e riflessione concettuale, in una rete di rimandi e sollecitazioni imposte dall’urgenza di confrontarsi con il mondo reale e dalla necessità di fornire risposte nell’ambito della teorizzazione filosofico-politica.

La storia come narrazione è dunque l’espediente che l’autrice utilizza per ricostruire gli avvenimenti, mettendo in risalto la loro singolarità e tracciando un quadro che privilegia le azioni umane piuttosto che le forze impersonali della storia: in questo senso il rifiuto della processualità configura l’evento come «crocevia di itinerari possibili», e rappresenta il perno attorno al quale ruota la generale teoria politica dell’autrice.

 L’obiettivo di questo lavoro, pertanto, è quello di mettere in risalto la stretta connessione tra la teoria politica arendtiana e la struttura dell’opera.

 

La Arendt cominciò a scrivere “Le origini del totalitarismo” negli Stati Uniti tra il 1945 e il 1946, ma già in Francia aveva in mente di intraprendere un lavoro sull’ antisemitismo e sull’imperialismo, una ricerca storica su quel fenomeno che allora chiamava «imperialismo razziale», vale a dire l’oppressione delle minoranze nazionali da parte della nazione dominante di uno Stato sovrano.

 Il titolo provvisorio era “Gli elementi della vergogna:

 antisemitismo, imperialismo e razzismo, e sarebbero passati sei anni prima di giungere al titolo definitivo e alla struttura tripartita che conosciamo.

 I tre elementi, spiega la Arendt, sono ciascuno espressione di un insieme di problemi politici reali alla base del fenomeno totalitario, sorti sullo sfondo della disintegrazione dello Stato-nazione ottocentesco e del collasso delle strutture politiche e sociali.

Proprio all’interno di questa cornice si sviluppano gli elementi che costituiscono la trama dell’opera:

la questione ebraica, la nuova organizzazione dei popoli, l’organizzazione di un mondo che diventa sempre più piccolo, la nuova concezione del genere umano.

 

La trattazione del problema degli apolidi in particolare, tema molto caro alla Arendt anche in relazione alla sua esperienza personale, è senza dubbio la più rappresentativa per ciò che concerne il nesso tra la concezione della storia e della politica dell’autrice e la peculiare struttura dell’opera.

Le considerazioni di Hannah Arendt sulla figura dell’apolide muovono infatti dall’analisi del fenomeno da un punto di vista storico-politico per poi giungere a una riflessione critica sulla questione dei diritti umani e sul paradosso caratteristico della cittadinanza moderna, cioè la coincidenza fra quest’ultima e la nazionalità come principio fondante dello Stato-nazione:

 mentre le dichiarazioni dei diritti dell’uomo di stampo illuminista proclamavano l’ammissione di tutti gli individui al riconoscimento sociale e giuridico, il mondo assisteva sempre più all’aggravamento dei fenomeni di esclusione, da un lato, e allo slittamento del tentativo di inclusione nella pratica dell’assimilazione dall’altro.

Per comprendere appieno la catastrofe che si abbatte su individui che hanno perso la tutela di un governo e la garanzia di protezione dei diritti umani, è quindi necessario estendere il discorso alla più generale rappresentazione della politica che fornisce Hannah Arendt:

infatti, solo inserita all’interno della sua riflessione politica la condizione degli apolidi risalta in tutta la sua drammaticità, perché viene affrontato direttamente il problema tragico della perdita del mondo.

Punto di partenza è la distinzione del rapporto dell’uomo con il mondo secondo tre modalità:

 l’attività lavorativa, l’operare e l’agire, che insieme costituiscono la vita attiva.

La prima, l’attività lavorativa, corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano ed è legata al circolo prescritto dal processo biologico all’organismo vivente, nel quale tutto ciò che il lavoro produce viene immesso e consumato immediatamente per rigenerare il processo vitale e riprodurre nuova forza lavoro.

Al lavoro corrisponde la figura dell’”animal laborans”, l’uomo schiavo della necessità e dei bisogni del suo corpo, estraniato ed espulso dal mondo appunto perché imprigionato nella privatezza del proprio corpo.

L’operare invece è l’attività il cui frutto corrisponde al mondo “artificiale”, caratterizzato dalla durevolezza e nettamente distinto dal mondo naturale;

è l’attività dell’”homo faber” che letteralmente opera e fabbrica quell’infinita varietà di oggetti che saranno innanzitutto oggetti d’uso e solo secondariamente di consumo.

 

L’agire, sostiene la Arendt, è la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini, e corrisponde alla condizione umana della pluralità, «al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo»;

la pluralità è la condizione preliminare di ogni vita politica ed è «il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà».

Quindi possiamo dire che l’azione politica è l’attività specificamente umana, il luogo dell’esistenza autentica dove all’uomo è dato di realizzarsi come uomo e che scaturisce dalla libertà come potere di intraprendere qualcosa di nuovo. Strettamente connessa all’azione e categoria centrale del pensiero politico è pertanto la natalità, perché ogni nuova nascita dà inizio a qualcosa di nuovo. Spiega Enegrén:

 

Prima di tutto la nascita come venire al mondo è apparizione nel senso più forte: ogni nascita è l’inaugurazione di una linearità unica che rompe con l’eterno ritorno della natura poiché fa emergere nel mondo un essere che prima non esisteva.

Similmente l’azione fa apparire l’inedito.

 Ma il concetto di natalità fornisce anche un punto d’appoggio ontologico all’agire, in quanto ogni azione si può intendere come l’eco dell’inizio di una vita essa stessa destinata a cominciare: la condizione umana di natalità, a questo titolo, si declina appunto al livello delle azioni particolari di cui costituisce l’archetipo metafisico.

Se, infine, l’azione è appunto la risposta umana alla condizione di essere nato , ciò accade in quanto la nascita è, più originariamente, come matrice di tutte le azioni, la libertà prima che consente di rompere con il passato.

 

Solo nell’agire l’uomo è libero dalle necessità naturali e dagli imperativi della tecnica, e soprattutto dal rapporto strumentale mezzo-fine che introduce necessariamente un elemento di violenza.

 L’azione non è mai possibile nell’isolamento perché la sfera politica sorge direttamente dall’agire-insieme e dal confronto fra soggetti diversamente opinanti che si incontrano in uno spazio pubblico;

questa pluralità è contraddistinta dal duplice aspetto dell’eguaglianza e della distinzione, dove all’eguaglianza di condizione politica, che si esplica nell’accesso di tutti allo spazio pubblico e nell’eguale partecipazione al potere, si affianca la distinzione intesa come possibilità di distinguersi dagli altri manifestando la propria peculiare identità.

È proprio perché con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo che ci si può attendere l’inatteso dall’uomo:

 agire, ci fa notare la Arendt, ha proprio il significato di iniziare, come indica la parola greca “archein”, incominciare, condurre, governare;

e scaturisce dalla pluralità di essere unici, perché «se l’azione come cominciamento corrisponde al fatto della nascita, […] allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della condizione umana della pluralità».

Per la Arendt, dunque, il discorso e l’azione sono le modalità essenziali attraverso le quali riveliamo questa unicità nella distinzione, come per Aristotele erano le uniche due attività stimate politiche e costitutive del “bios politikos”, da cui trae origine il dominio degli affari umani nel quale ogni considerazione sull’utile o sulla necessità era rigorosamente esclusa.

 

La concezione politica di “Hannah Arendt” si ancora saldamente alla riflessione sull’esempio storico della polis greca, dove l’azione veniva innalzata al rango supremo, perché essa «ha determinato in misura decisiva, sul piano linguistico e del contenuto, l’idea europea della reale natura e del senso della politica» .

Questo non significa che la Arendt vagheggi nostalgicamente un ritorno a quel tipo di esperienza;

il suo scopo è quello di evidenziare come nell’esperienza greca si disveli uno spazio che può essere creato solo da molti e nel quale ognuno si muove tra i suoi pari, in contrasto con «l’espropriazione moderna della politica» e l’irresistibile ascesa della macchina amministrativa contro la possibilità della politica intesa come cittadinanza diretta.

Va aggiunto che nel pensiero politico tradizionale “Hannah Arendt” vede il progressivo affermarsi di determinazioni non originarie dell’agire e del politico, come evidenzia “Franco Volpi”:

Esse non sono originarie nel senso che non poggiano su un accoglimento genuino e appropriato dei caratteri specifici di tale campo fenomenico, ma lo comprendono invece nel quadro di un implicito privilegio della teoria, non messo in questione .

 

Il filo conduttore che attraversa le motivazioni originarie del progetto di Hannah Arendt è l’intento di una decostruzione del carattere teoretico del pensiero politico tradizionale, la quale, mutuando da Aristotele alcune strutture categoriali importanti, mira a spianare il terreno per una comprensione specifica dell’autenticità dell’agire come determinazione fondamentale del vivere umano.

 

Aristotele, ci dice la Arendt, distingueva diversi modi di vita che gli uomini potevano scegliere in libertà (la vita dei piaceri corporei, la vita dedicata alla polis e la vita del filosofo dedita alla contemplazione delle cose eterne), escludendo tutti quei modi di vita principalmente dediti alla conservazione della vita stessa, dunque l’attività lavorativa e l’operare.

 Infatti, poiché essi producevano ciò che era necessario, erano costretti dalle necessità umane e pertanto non potevano essere liberi, diversamente dalla vita politica che si svolgeva in una forma di organizzazione, la polis, liberamente scelta, e che presupponeva la costante presenza degli altri.

Quindi, mentre la libertà risiedeva esclusivamente nella sfera politica, la necessità era soprattutto un fenomeno prepolitico caratteristico dell’organizzazione domestica privata, in cui il capo della casa reggeva la famiglia e i suoi schiavi.

Poiché la polis rappresentava la forma più alta di convivenza umana, essere liberi e vivere in una polis erano in un certo senso la stessa cosa:

 tuttavia, per essere partecipe di questa esperienza, occorreva in primo luogo che l’uomo fosse già libero;

non poteva essere né uno schiavo soggetto all’altrui coercizione né un lavoratore manuale soggetto al bisogno di guadagnarsi il pane quotidiano.

Il mezzo decisivo per acquisire la libertà che avrebbe permesso la partecipazione alla vita politica e alla polis era la schiavitù, il potere di costringere altri ad assumersi l’onere del vivere quotidiano:

La polis si distingueva dalla sfera domestica in quanto si basava sull’eguaglianza di tutti i cittadini, mentre la vita familiare era il centro della più rigida disuguaglianza.

Essere liberi significava sia non essere soggetti alla necessità della vita o al comando di un altro, sia non essere in una situazione di comando.

 Significava non governare né essere governati. […]

 Essere liberi voleva dire essere liberi dalla disuguaglianza connessa a ogni tipo di dominio e muoversi in una sfera dove non si doveva né governare né essere governati.

 

Nella sfera domestica, quindi, non esisteva libertà, ma privazione dell’autenticità: in essa si realizzava l’emancipazione prepolitica per la libertà nella polis, e il capofamiglia era considerato libero solo in quanto aveva il potere di lasciare la propria casa per accedere alla sfera politica costituita dai suoi pari.

Questa sfera, in cui si muovono uomini uguali, è caratterizzata dall’isonomia, dal pari diritto all’attività politica, che nella polis era prevalentemente un’attività dialogica.

L’atto libero del discorso, nel mondo greco, è un surrogato del fare, o meglio, non vi è distinzione tra parlare e agire:

 in Omero infatti «chi compie grandi gesta deve sempre proferire anche grandi parole, e non solo perché le grandi parole devono accompagnare a mo’ di spiegazione le grandi gesta, che altrimenti, mute, cadrebbero nell’oblio, ma perché lo stesso parlare era considerato a priori un modo di agire”.

 

La capacità di dialogare, di comunicare con i molti e di esperire quella pluralità complessiva che è il mondo era l’effettivo contenuto del politico, perché soltanto nella libertà di dialogare il mondo appare nella sua obiettività visibile:

 per questo la vita privata ai greci appariva «idiota”, perché le era negata quella pluralità di discorrere e con essa l’esperienza della realtà del mondo.

Discorso ed azione venivano considerati equivalenti, e ciò significava che l’azione più politica si realizzava nel discorso, perché trovare le parole opportune al momento opportuno era l’unica risposta ai colpi inferti dagli dei.

Essere politici, vivere nella polis, significava che tutto si decideva con le parole:

 per questo alla famosa definizione aristotelica dell’uomo come “zoon politikon” si affianca l’altra, altrettanto famosa, dell’uomo come “zoon logon ekhon”, un essere vivente capace di discorso.

 In base a questa determinazione, lo schiavo, il barbaro, chiunque si trovasse al di fuori della polis era considerato “aneu logou”, «privo, naturalmente, non della facoltà di parlare, ma di un modo di vita nel quale solo il discorso aveva senso e nel quale l’attività fondamentale di tutti i cittadini era di parlare tra loro».

A garantire che la realtà fosse discussa e affermata da tutti e che tutti i pari avessero la possibilità di sperimentare effettivamente le condizioni di eguaglianza e libertà era lo spazio pubblico, l’elemento comune in cui tutti si raccolgono e in cui tutti gli oggetti possono risaltare nella loro poliedricità.

La facoltà argomentativa, sostiene la Arendt, consisteva nella facoltà di vedere realmente le cose da diversi lati, cioè di assumere sul piano politico le tante possibili posizioni presenti nel mondo reale da cui la stessa cosa può essere osservata;

 lo spazio pubblico è il luogo nel quale una cosa può essere vista e udita da tutti, e vivere insieme significa essenzialmente «che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune […];

 il mondo, come ogni in-fra (in-between), mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo (…].

La realtà della sfera pubblica si fonda sulla presenza simultanea di innumerevoli prospettive; ciascuno può essere visto e udito perché ciascuno vede e ode da una diversa posizione, e questo multi prospettivismo è l’unica garanzia della realtà del mondo, perché «solo dove le cose possono essere viste da molti in una varietà di aspetti senza che sia cambiata la loro identità, […]

la realtà del mondo può apparire certa e sicura».

Parzialità e pluralità di prospettive sono due concetti essenziali che la Arendt condivide del resto con “Merleau-Ponty”, il quale ci suggerisce un’esperienza del mondo nel senso di una totalità aperta la cui sintesi è interminabile e in cui gli oggetti sono reali perché penetrati da tutti i lati da un’infinità di sguardi:

 la pluralità di prospettive, che assicura la realtà e l’identità del mondo, «se è il mezzo che gli oggetti hanno per dissimularsi, è anche il mezzo che essi hanno per svelarsi. […]

 In altri termini: guardare un oggetto significa venire ad abitarlo, e da qui cogliere tutte le cose secondo la faccia che gli rivolgono».

La facoltà di osservare la stessa cosa dai punti di vista più disparati fa sì che alla propria posizione determinata l’uomo sostituisca quella degli altri con i quali condivide il mondo:

Il cogito altrui – continua “Merleau-Ponty” – destituisce di ogni valore il mio proprio cogito e mi fa perdere la sicurezza, che avevo nella solitudine, di accedere all’unico essere per me concepibile, all’essere così come viene intenzionato e costituito da me. […]

 In realtà, l’altro non è chiuso nella mia prospettiva sul mondo poiché questa prospettiva stessa non ha limiti definiti e scivola spontaneamente in quella altrui, poiché sono entrambe raccolte in un unico mondo al quale noi tutti partecipiamo come soggetti anonimi della percezione.

 

Per questo motivo il senso comune è definito il senso politico per eccellenza, che a sua volta assume a modello il giudizio estetico kantiano espresso nella “Critica del giudizio”, il quale riguarda un oggetto assolutamente particolare (giudizio riflettente).

Esso si radica «in una specie di “sensus communis”» come facoltà di giudicare che tiene conto, nella sua riflessione, del modo di rappresentare di tutti gli altri uomini, per mantenere il proprio giudizio nei limiti della ragione umana nel suo complesso e per evitare l’illusione di ritenere oggettive delle condizioni particolari e soggettive.

Il senso comune occupa un posto così rilevante nella gerarchia delle qualità politiche perché tramite esso i nostri cinque sensi riescono ad aderire alla realtà complessiva delle cose.

Così il giudizio estetico-politico di Kant ci porta inevitabilmente agli altri (la Arendt parla di” otherdirectedness”, l’eterodirezione fondamentale del giudizio) grazie al senso comune tramite il quale gli uomini comunicano;

 infatti, sebbene il giudizio sia segnato da interessi soggettivi,

[…] il dibattito decanta e moltiplica questa soggettività che, invece di relativizzarsi, si conferma incessantemente nello scambio e acquista un’oggettività di nuovo genere, poiché il mondo che si offre nella discussione è interamente presente negli aspetti infinitamente diversi che presenta. […]

Giudicare è scoprire un senso nel mondo, allo scopo di orientarsi in esso per un’azione il cui ambiente naturale è la contingenza nella quale essa deve sempre aprirsi un cammino, imprevedibilmente.

 

La parola, sostiene pertanto la Arendt, è rivelatrice, ed è anche manifestazione di colui che parla, il quale si scopre e si espone agli altri:

egli è l’attore esposto agli occhi di tutti e che ha come testimoni coloro insieme ai quali agisce, che non è nulla senza l’eco che gli rimandano i suoi pari;

in lui, essere-al-mondo e per-il-mondo, si intrecciano desiderio di vedere e desiderio di essere visto insieme all’incessante premura di distinguersi.

 Il singolo, nel suo isolamento, non è mai libero e la libertà, pertanto, trae sempre origine dall’infra che si crea soltanto dove si radunano molte persone e che può sussistere soltanto finché esse rimangono insieme;

così, nel mondo greco, essa era limitata spazialmente dalle mura della città, coincideva con la polis al di fuori della quale non era possibile essere uomini politici.

 «L’infra – suggerisce la Arendt – è ciò che è autenticamente storico-politico […]: non è l’uomo a essere uno “zoon politikon”, o a essere storico, ma gli uomini, nella misura in cui si muovono nell’ambito che sta tra di loro».

Attraverso il recupero dell’etimo originario della parola “agire”, la Arendt vuole mostrare anzitutto la stretta connessione tra azione e inizio, e quindi, tra azione e novità, nel senso che solo agendo si può imprimere una svolta alla storia:

per questo tutta la sua concezione politica si determina negativamente in rapporto alla natura, luogo della ineluttabilità in cui la spontaneità non riesce mai a collocare un elemento d’incertezza:

Solo nella sfera politica – commenta “Paolo Flores d’Arcais” – l’uomo attinge la propria «natura», si sottrae e contrappone cioè alla natura.

Solo politicamente vive fino in fondo il tratto peculiare che, entro il mondo della natura, lo qualifica come uomo, lo individua rispetto alla spora e all’unicorno. Privato della politica, l’uomo è privato di ciò che appartiene solo a lui e che perciò gli è proprio, gli appartiene in modo eminente: la differenza.

 

La natura è sinonimo di un incessante trascorrere, di un ordine necessario in cui la spontaneità assoluta, «il segno della possibilità essenziale dell’essere liberi», non trova espressione.

 Perciò l’azione è essenzialmente contro natura, nel senso che si sottrae alla in-differenza.

 

Dal carattere innovativo e libero che la Arendt imputa all’azione derivano i suoi esiti problematici e irrazionali, vale a dire la sua imprevedibilità e la sua irrevocabilità.

 Poiché imprevedibile, l’azione entra in modo del tutto inatteso in collisione con altre iniziative comportando ripercussioni non dominabili;

essa possiede una straordinaria capacità di propagazione e innesta catene di conseguenze che sfuggono totalmente alle intenzioni degli attori.

 Poiché irrevocabile, ogni azione determina conseguenze incancellabili nelle quali impegniamo la nostra responsabilità, sebbene nessuno di noi sia in grado di valutare il senso oggettivo della propria azione, non perché non ne siamo del tutto gli autori, ma perché «essa è sempre interazione che suscita effetti di composizione perfettamente inattesi».

L’intuizione fondamentale della Arendt consiste nel pensare che l’azione non dev’essere rappresentata secondo il rapporto strumentale mezzo-fine che governa la fabbricazione:

 per questo l’azione è essenzialmente “energeia”, “attualità”, nel senso di essere in atto, termine che Aristotele impiegava per designare tutte le attività che non perseguono un fine, ma esauriscono il loro significato nell’esecuzione stessa.

L’azione è dunque fine a sé stessa, perché il suo fine si trova nella stessa attività e perché esiste solo in pura attualità.

Poiché non mira ad alcun bene tangibile, essa, come direbbe “Lévinas”, «richiede a coloro che la esercitano una posta a fondo perduto»:

in altre parole, «il mezzo per conseguire il fine sarebbe già il fine; e questo fine, d’altro canto, non può esser considerato come un mezzo anche a diverso titolo, perché non c’è nulla di più elevato da raggiungere che questa stessa attualità».

 

La «triplice frustrazione» connessa all’agire – imprevedibilità dell’esito, irreversibilità del processo e anonimità degli autori – è il prezzo che l’uomo paga per poter esperire la realtà, e deriva in prima istanza dalla condizione umana della pluralità, il requisito preliminare di quello spazio dell’apparenza che è la sfera pubblica, lo spazio di visibilità in cui gli uni appaiono agli altri e si riconoscono a vicenda, che in sostanza costituisce la condizione di possibilità dell’essere-insieme.

Poiché ognuno detiene una propria posizione delimitata nel mondo, la caratteristica dello spazio pubblico è quella di unire e separare allo stesso tempo, cioè di «articolare la pluralità attraverso relazioni che non siano né verticali né gerarchiche né di tipo fusionale».

 Colpisce subito come la Arendt definisca il suo concetto di politica a partire da una concezione puramente orizzontale del potere, prodotto dell’interazione discorsiva e pratica di individui liberi ed eguali, che esclude ogni tipo di professionalizzazione della politica ed ogni tentativo di sottrazione della sfera pubblica.

 Ciò che mantiene in vita la sfera pubblica è il potere che si genera dal vivere insieme delle persone, dal condividere parole e azioni; esso corrisponde in primo luogo alla condizione della pluralità e per questa ragione può essere diviso senza che diminuisca:

 «Potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire ma di agire di concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e continua a esistere soltanto finché il gruppo rimane unito».

Il potere, quindi, consiste nella coesione dello spazio politico che si crea tra uomini che condividono parole e azioni, e pertanto non presuppone affatto la possibilità di sottomettere la volontà altrui.

Anziché caratterizzare il politico secondo le categorie dominio/obbedienza, per Hannah Arendt non esiste politica dove c’è dominio:

 come per i greci la relazione tra governare ed essere governati era considerata identica a quella tra padrone e schiavo e di conseguenza precludeva ogni possibilità di azione, così la Arendt intende qualsiasi forma di assoggettamento come il sintomo di una perdita di potere dei cittadini riuniti che assume connotazioni fondamentalmente antipolitiche.

La violenza è un principio opposto e incompatibile con il potere, non sarà mai potere, ma solo dispotismo e prevaricazione (sebbene la Arendt ammetta il ricorso alla violenza qualora l’uomo venga offeso nei fondamenti più elementari della sua dignità).

 

Per questo motivo propone un modello della politica che si ispira alla democrazia consiliare, individuando le molteplici occasioni in cui i cittadini hanno tentato spontaneamente di dar vita a forme di partecipazione diretta alla vita pubblica:

 le sezioni parigine della Rivoluzione francese, la Comune del 1871, i soviet del 1905 e del 1917, i Räte della Germania del primo dopoguerra, e infine i consigli della Rivoluzione ungherese del 1956.

Il modello della democrazia dei consigli si delinea come un tentativo di frammentazione del potere, che si configura così come un potere con-diviso, «il che non vuol dire semplicemente distribuito fra tutti, ma fra tutti partecipato a partire da divisione, punti di vista parziali (di parte!), opinioni che per definizione non aspirano affatto a oggettività».

 L’estensione del potere deve avvenire attraverso una condivisione che prevenga la sua degenerazione in una forza monopolizzabile, proprio perché il potere è pluralità; in questo senso i consigli (e qui ancora una volta avvertiamo l’influenza di Rosa Luxemburg) sono stati la testimonianza di un movimento interamente politico che cercava di assicurare la partecipazione attiva delle masse popolari in una democrazia senza limiti.

 Come la Luxemburg, Hannah Arendt insiste sul fatto che la buona organizzazione non precede l’azione ma ne è il prodotto, e proprio per questo nei suoi scritti non troviamo altro che indicazioni sparse intorno all’idea di un’organizzazione orizzontale del potere, ma mai un programma preciso o uno schema stabilito che, come osserva “Enegrén”, «ipotecherebbe una creazione che non può che essere inattesa».

 

Questo, a grandi linee, è lo sfondo che determina la riflessione della Arendt in merito al problema degli apolidi.

È chiaro che, inserita in questo contesto, la condizione dei senza patria si carica di un senso tragico che deriva dall’essere considerati, una volta persi i diritti nazionali, nient’altro che nuda vita.

Oltre ad aver perso la patria, vale a dire l’ambiente circostante, il tessuto sociale in cui si sono creati un posto nel mondo, e la protezione del governo con la conseguente perdita dello status giuridico in tutti i paesi, essi sono costretti a vivere al di fuori di ogni comunità.

Per loro non esiste più nessuna legge: essi sono diventati perfettamente «superflui», perché «la privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto».

Su un numero crescente di persone si è abbattuta la sventura di aver perso una comunità disposta a garantire qualsiasi diritto:

perdendo la comunità, essi sono considerati “aneu logou”, privi della capacità di instaurare ogni tipo di relazione umana e di intraprendere un’azione politica.

 In questo senso, si trovano condannati a vivere una condizione di superfluità che deriva dal fatto di non poter vedere né essere visti all’interno dello spazio pubblico, di essere privati della capacità di muoversi tra i propri pari e di riconoscersi come membri di una comunità composta di individui liberi ed uguali.

Per i greci, un uomo che non poteva accedere alla sfera pubblica, che non poteva apparire, come lo schiavo o il barbaro, non era pienamente umano:

questa è anche la condizione degli apolidi che, una volta costretti a vivere al di fuori di ogni comunità, sono confinati nella loro condizione naturale e ridotti a null’altro che rappresentanti della propria diversità assolutamente unica, l’astratta nudità dell’essere-nient’altro-che-uomo spogliata di ogni significato perché privata dell’azione in un mondo comune.

La perdita della comunità politica pertanto equivale, nella concezione della Arendt, alla perdita dell’umanità:

e «poiché soltanto i selvaggi non hanno più nulla da esibire all’infuori del minimo dell’origine umana, gli apolidi si aggrappano disperatamente alla loro nazionalità, che li distingue da quelli, pur non assicurandogli più né protezione né diritti», perché rappresenta l’unico superstite legame con l’umanità.

Dal momento che il” concetto di politica” significa appartenenza attiva ad una comunità di uomini liberi, l’uomo può essere protetto solo da una comunità politica che permette di eguagliare le differenze e consente l’azione paritaria di individui e popoli diversi.

 La vita politica si fonda sul presupposto dell’instaurazione dell’eguaglianza attraverso l’organizzazione, poiché, sostiene la Arendt, non si nasce eguali, «ma si diventa eguali come membri di un gruppo in virtù della decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti».

Solo la politica, intesa come impegno contrario al ripiegamento nella sfera individuale, può ridare il mondo agli uomini:

nella nuova congiuntura storica del primo dopoguerra, chi non possiede la nazionalità è come se non fosse nemmeno umano;

 l’espulsione dal mondo, la privazione di quello che la Arendt ha definito lo spazio dell’apparenza, sono come «un invito all’omicidio, in quanto che la morte di uomini esclusi da ogni rapporto di natura giuridica, sociale e politica, rimane priva di qualsiasi conseguenza per i sopravviventi».

 

La Arendt osserva che con la scomparsa dell’”antica città-stato” il termine “vita acetiva” perdette il suo significato originario e specificamente politico a favore di una concezione contemplativa della vita (bios theoretikos) che veniva elevata ad attività suprema dell’uomo e indicata come il solo modo di vita veramente libero.

La superiorità della vita contemplativa ha origine nella filosofia politica di Platone, dove la riorganizzazione utopistica della vita della polis non ha altro scopo che rendere possibile il modo di vita del filosofo:

Platone, il padre della filosofia politica occidentale, ha tentato in vario modo di contrapporsi alla polis e alla sua idea di libertà.

 Lo ha fatto ricorrendo a una teoria politica in cui i criteri del politico sono desunti non dalla politica stessa ma dalla filosofia, a una dettagliata stesura di una costituzione le cui leggi corrispondono alla idee accessibili soltanto ai filosofi.

 

L’evento decisivo fu il conflitto tra il filosofo e la polis che data dalla morte di Socrate:

con Platone si è affermato il primato del” bios theoretikos” e del modo di vita filosofico in opposizione alla futilità delle cose umane, poiché «nessuna opera prodotta dalle mani dell’uomo può eguagliare in bellezza e verità il “kosmos fisico”, che ruota nell’eternità immutabile senza alcuna interferenza o assistenza dall’esterno». La supremazia della contemplazione dell’eterno fa dell’apolitia una categoria privilegiata che riceverà la sua consacrazione dal cristianesimo.

L’”antipolitica cristiana” infatti, con il suo ripiegarsi sulla vita privata e sull’interiorità, si basava sull’assunto che il mondo non sarebbe durato, e fu in un certo senso la risposta destinata a tenere insieme una comunità di persone che avevano perduto il loro interesse nel mondo comune.

Il cristianesimo, con la sua fede in una vita futura, invitava all’astensione dal mondo;

poiché è questo, e non più l’uomo, ad essere mortale, è preferibile vivere calmi, occuparsi dei propri affari e rinviare qualsiasi forma di attività alle necessità della vita terrestre:

L’attività politica, che fino allora aveva derivato il suo più grande stimolo dall’aspirazione all’immortalità mondana, piombava ora al basso livello di un’attività soggetta alla necessità, destinata a riparare le conseguenze dello stato di peccato dell’uomo da una parte, e a provvedere ai legittimi bisogni e necessità della vita terrena, dall’altra.

 

L’insistenza cristiana sulla sacralità della vita tendeva oltretutto a livellare le antiche distinzioni all’interno della “vita attiva” e a considerare il lavoro, l’opera e l’azione come tre modalità egualmente soggette alla necessità del presente.

In seguito, nell’età moderna, l’opera prese il posto della vita contemplativa al culmine della gerarchia dei modi d’essere, conseguenza della rivoluzione galileiana che faceva coincidere il fare e il sapere e garantiva il trionfo dell’”homo faber”, il cui modello artificialista si sarebbe imposto anche nel pensiero politico con l’introduzione del rapporto strumentale mezzo-fine.

 A questo proposito la Arendt parla di alienazione e di perdizione dell’individuo nel genere, dell’opinione politica nella regola tecnica, del luogo pubblico nell’universo della fabbricazione in cui vige, sopra tutti, il principio di utilità.

 Gli atteggiamenti tipici dell’”homo faber”, la sua strumentalizzazione del mondo, la sua fiducia negli strumenti e nella portata onnicomprensiva della categoria mezzo-fine, la sua convinzione che ogni motivazione umana possa essere ridotta al principio di utilità, hanno portato inevitabilmente ad una identificazione acritica della fabbricazione con l’azione. Infine, a partire dalla rivoluzione industriale, anche gli ideali dell’”homo faber,” il costruttore del mondo, sono stati sacrificati a favore di quelli dell’”animal laborans” che, con l’emancipazione del lavoro e l’avvento della società, è stato messo nella condizione di occupare la sfera pubblica:

nella società moderna del consumo, infatti, rimaneva solo la forza del processo vitale, alla quale tutti gli uomini e tutte le attività umane erano egualmente sottomesse e il cui solo scopo era la sopravvivenza della specie dell’animale umano.

 L’apparizione e la visibilità del ciclo biologico del lavoro e del consumo in ultima analisi conducono al livellamento di tutte le possibilità di vita attiva che viene ridotta alla pura soddisfazione delle necessità della vita.

Nel ciclo produzione-consumo l’uomo non ottiene altro che un benessere istupidito:

L’ultimo stadio della società del lavoro, – afferma la Arendt – la società degli impiegati, richiede ai suoi membri un duplice funzionamento automatico, come se la vita individuale in effetti fosse stata sommersa dal processo vitale della specie e la sola decisione attiva ancora richiesta all’individuo fosse di lasciare andare, per così dire di abbandonare la sua individualità, la fatica e la pena di vivere sentiti ancora individualmente, e di adagiarsi in un attonito, tranquillizzato, tipo funzionale di comportamento.

 

La critica di Hannah Arendt verte principalmente sulla moderna scomparsa della sfera pubblica e della sua sostituzione con la sfera sociale:

 quest’ultima, che non è né privata né pubblica, è un fenomeno relativamente nuovo che ha coinciso con il sorgere dell’età moderna e ha trovato piena espressione politica nello Stato nazionale.

Ciò che la Arendt intende quando parla di questo ibrido che è il sociale è l’estensione della comunità domestica (oikia), e delle attività economiche ad essa connesse, al dominio pubblico, e la gestione collettiva di faccende che precedentemente rientravano nella sfera familiare:

 «La collettività di famiglie economicamente organizzate come facsimile di una famiglia superumana è ciò che chiamiamo società, e la sua forma politica di organizzazione è la nazione».

Fin dal principio la società è definita come una forma di comunità in cui l’economico, usurpando lo spazio prima riservato al politico, è trasportato nella visibilità del pubblico, e, come la sfera domestica, esclude la possibilità dell’azione che viene ora assorbita da un «potere amministrativo» sempre più esteso.

Naturalmente questo avvento della società ha preteso da ciascuno dei suoi membri la conformazione a un certo genere di comportamento, arrogandosi il diritto di stabilire regole e norme per «normalizzare» la loro condotta e per designare come «anormale» chiunque sfugga alle tipologie stabilite:

 la società di massa è riuscita anche ad estinguere la sfera privata, controllando tutti i membri della comunità in maniera uniforme e con la stessa forza.

L’eguaglianza moderna, riflette la Arendt, non è altro che il riconoscimento politico e giuridico del fatto che la società ha conquistato l’ambito pubblico, è cioè basata sul conformismo e sul fatto che «il comportamento ha sostituito l’azione come modalità primaria di relazione fra gli uomini».

 La critica alla società di massa condotta dalla Arendt si incentra sul problema della mancanza di responsabilità politica dei singoli e sui pericoli di una delega dell’azione politica a pochi esperti, tutti fattori che conducono ad una pericolosa chiusura degli uomini nella loro sfera lavorativa e alla perdita del mondo comune.

 

È proprio a partire da questo vasto quadro di riferimento che la peculiare struttura dell’opera, frutto di un complesso procedimento a ritroso teso a rintracciare i fattori che in qualche misura si sono cristallizzati nell’evento totalitario, appare motivata e in conformità con la visione politica della Arendt:

 infatti, l’assunzione e la descrizione della storia come insieme di eventi sottoposti a leggi – e la conseguente sottomissione alla coerenza che sottende il ragionamento logico e che è impossibile trovare nel reale –, significherebbe cancellare lo spazio per l’azione libera che sceglie, prodotta da individui che comunicano tra di loro.

 Non vi sarebbero più esistenze, ma solo le eterne leggi dell’essere nel suo processo causale:

 se vi è Storia, commenta allora “Flores d’Arcais”, non vi è futuro.

Perché le filosofie della storia e la filosofia politica hanno in comune il fatto di non cogliere mai il nocciolo della politica:

 l’uomo che agisce come essere-con-gli-altri superando tutti i calcoli e le aspettative.

 Il pensiero politico di Hannah Arendt muove da premesse diverse:

la vicenda umana è il luogo dell’inatteso, delle conseguenze impreviste e non pianificabili, e la contingenza degli eventi è il prezzo che si deve pagare se si vuole mantenere la libertà, l’«abisso della libertà» dove il giudizio diventa la prassi della responsabilità.

 

 

 

Sui dazi Elon Musk non

è d’accordo con Trump.

Ilpost.it – Mondo -Redazione – (5 aprile 2025) – ci dice:

Intervistato da Matteo Salvini al congresso della Lega ha detto di sperare che presto ci saranno «zero dazi» fra Europa e Stati Uniti.

Sabato il miliardario Elon Musk, fra i più stretti collaboratori di Donald Trump, ha detto di sperare che in futuro si arriverà a una «situazione di zero dazi» e a una «zona di libero scambio» fra Europa e Stati Uniti.

Ha aggiunto che questo è il «consiglio che ho dato al presidente».

 Nonostante non l’abbia direttamente criticata, Musk ha in parte preso le distanze dalla decisione di Trump di imporre dei dazi nei confronti di tutti i partner commerciali degli Stati Uniti:

tra questi c’è anche l’intera Unione Europea, a cui saranno imposti dazi del 20 per cento a partire dal 9 aprile.

Musk ha fatto queste dichiarazioni mentre veniva intervistato da remoto da Matteo Salvini durante il congresso della Lega, che si sta svolgendo questo fine settimana a Firenze.

Elon Musk è stato fino ad oggi uno dei più leali collaboratori di Trump, ma i toni della sua risposta sono stati molto diversi rispetto a quelli tenuti negli ultimi mesi: nell’ultimo anno ha sempre sostenuto e lodato pubblicamente tutte le proposte e le misure attuate da Trump e dalla sua amministrazione.

 Mercoledì invece non era presente all’evento in cui Trump annunciava i dazi e negli ultimi giorni non ha quasi commentato la misura su “X”, il social network che possiede e su cui pubblica abitualmente decine di tweet al giorno.

 

Oltre a far parte dell’amministrazione di Trump come capo del dipartimento per l’Efficienza del governo (DOGE), Elon Musk è amministratore delegato di diverse aziende, fra cui le più importanti sono “Tesla” e “SpaceX”, che insieme a moltissime altre hanno subito un contraccolpo economico in seguito all’annuncio dei dazi e a maggior ragione subiranno grosse perdite quando i dazi entreranno in vigore.

Oltre alle grosse perdite in borsa, “Tesla” produce e vende i suoi veicoli elettrici in molti paesi che non sono gli Stati Uniti, fra cui diversi stati membri dell’Unione Europea.

Sia “SpaceX “che Tesla inoltre si procurano molti componenti e materiali necessari per i loro prodotti dall’estero:

“ SpaceX” per esempio fa affidamento su fornitori che hanno sedi a Taiwan, in Vietnam e in Thailandia, su cui il governo statunitense ha imposto rispettivamente dei dazi del 32, 46 e 36 per cento.

 

I dazi annunciati da Trump, tra i più alti della storia recente e molto problematici, sono stati ampiamente criticati negli ultimi giorni da moltissimi leader internazionali, imprenditori ed economisti.

Giovedì hanno fatto crollare le borse, fra cui in particolare quella statunitense che ha avuto la sua giornata peggiore dalla primavera del 2020.

Molti ne hanno parlato come la possibile causa di una futura recessione globale, a partire da un probabile rallentamento della crescita economica degli Stati Uniti, cosa che Trump ha fortemente smentito.

Nessuno è contento dei dazi di Trump.

Di un possibile intervento di Musk al congresso della Lega si parlava già da qualche giorno.

Nelle ultime settimane Musk si era infatti avvicinato a Salvini e allontanato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni per via dei ripensamenti di Fratelli d’Italia sull’opportunità di definire un accordo con “SpaceX” per affidargli i servizi di telecomunicazione satellitare in ambiti istituzionali e militari.

Prima Elon Musk puntava su Meloni, ora su Salvini.

 

 

 

 

 

Le ginocchiate sotto

la cinta dell'Occidente.

Corriere.it -   Andrea Marinelli & C. – (20 febbraio 2025) – ci dicono:

 

Il nuovo asse fra Washington e Mosca spaventa l'Europa e fa felici alleati e sostenitori dei due leader:

nella capitale americana si seguono le decisioni imposte dal presidente, che fa cancellare gli abbonamenti ai giornali per ambasciate e consolati nel mondo e si intanto si proclama re di New York;

 in quella russa si festeggia per la ginocchiata inflitta sotto la cintura dell'Occidente collettivo dall'amico Donald.

Intanto a Bruxelles si cerca ancora un compromesso.

 

Oggi America Cina riparte da qua:

dal patto fra Trump e Putin, dalle conseguenze per l'Ucraina spinta verso le trattative e per la nostra vecchia Europa.

C'è tanto Donald, ancora una volta:

si accorda con il nemico, ne diffonde la propaganda, fa proposte che non si possono rifiutare, cancella d'autorità il pedaggio deciso a New York scavalcando la sovranità dello Stato, manda Musk a trattare con la Boeing perché vuole il suo nuovo Air Force One prima possibile.

Insomma, buona lettura.

 

 

1. Cosa c’è dietro il patto Putin-Trump.

Editorialista : Federico Fubini.

“Kirill Dmitriev,” amministratore delegato del «Fondo russo per gli investimenti diretti», pura creatura politica, era a Riad due giorni fa.

Accompagnava la sua delegazione per il primo incontro fra emissari di Mosca e Washington da oltre tre anni.

Al termine, lui stesso ha spiegato ai media che le due parti avevano discusso di «riprendere i legami economici in aree d’interesse comune», non solo del destino Ucraina.

Da sempre vicino a Vladimir Putin, “Dmitriev “conosce queste dinamiche.

Secondo il “Washington Post”, nell’aprile del 2017 era alle Seychelles per discutere di affari con” Erik Prince”, fondatore della milizia privata “Black water “e a quel tempo mediatore privato per Donald Trump (allora appena eletto alla Casa Bianca).

Da Mosca circola una voce, per il momento priva di conferme, coerente con la versione di “Dmitriev”:

il Cremlino stilerebbe una «lista bianca» di imprese americane alle quali offrire il privilegio di investire in Russia.

Lo stesso comunicato del dipartimento di Stato martedì da “Riad” parlava di «gettare le basi per una futura cooperazione su questioni di comune interesse geopolitico e su storiche opportunità economiche e d’investimento».

 Il cambio climatico, fra l’altro, permette di sviluppare le estrazioni di idrocarburi dal fondale dell’Artico:

 progetti per i quali la tecnologia americana tornerebbe utile;

specie se le opportunità sono offerte a figure influenti a Washington.

 

Tutto questo presuppone un allentarsi delle sanzioni, naturalmente.

 Oggi contro la Russia ce ne sono in vigore 15 mila — un numero mai visto — da parte di Stati Uniti, Unione europea, Regno Unito, Canada, Australia, Giappone, Corea del Sud.

I mercati finanziari anticipano già una loro ritirata dal 5 febbraio, quando Bloomberg scrisse che l’inviato americano “Keith Kellogg” avrebbe presentato un piano di pace sull’Ucraina alla “Conferenza sulla Sicurezza” di Monaco.

Da quel giorno “Sberbank”, principale banca russa, è salita del 13% alla Borsa di Mosca;

 l’austriaca “Raiffeisen”, banca europea più radicata in Russia, è balzata di oltre il 16%;

bene anche l’italiana “Danieli “(più 19%) che ha una presenza storica sia in Ucraina che soprattutto in Russia nei macchinari di lavorazione del metallo.

 

2. Mosca esulta per la nuova linea degli Usa: «Uniamoci per dividere l’Europa».

Editorialista : Marco Imarisio.

La parola «svet» in russo significa al tempo stesso luce e mondo.

Come è facile immaginare, in questi giorni abbondano i titoli di giornale e le facezie sul fatto che l’Europa, intesa come vecchio mondo, sia rimasta al buio.

 Dal canale di Stato” Rossiya-1” al quotidiano “Izvestia”, è tutto un infierire sul corpo di quello che visto da Mosca appare come un continente morto, o quasi.

“Rossiskaya Gazeta”, il giornale che esprime la posizione ufficiale del governo, esulta per questa settimana che viene definita come «la più grande doccia fredda possibile per le élite europee».

 Il “Moskovsky Komsomolets”, giornale di riferimento della capitale e del potere, racconta di una «Europa sbalordita», che continua a ricevere «ginocchiate sotto la cintura dall’America, senza avere neppure il tempo di respirare».

Stanno vincendo, e lo sanno.

 All’improvviso, il Grande Satana americano, corruttore dei costumi e avanguardia del degrado dei valori del vivere civile, frasi ripescate da rassegne stampa neppure troppo lontane degli organi di informazione già menzionati, non è più tale.

Evaporato, in una nuvola di esaltazione verso il nuovo corso di Donald Trump.

Il nuovo presidente americano è anzi la persona che ha riconosciuto una semplice verità:

 «Non si può discutere dell’ordine mondiale senza di noi, cercando in ogni modo di isolarci, e fallendo nell’impresa a causa dell’intelligenza e della pazienza di Vladimir Putin», come ha appena affermato “Dmitry Kiselyov”, il decano dei propagandisti russi.

 

3. Trump ribalta la realtà contro Zelensky: «Un dittatore che ha iniziato la guerra».

Editorialista : Matteo Percivalle.

«I clown sono i pali di sostegno che reggono il tendone del circo», diceva P.T. Barnum (1810-1891), leggendario impresario circense e inventore del moderno showbusiness, e nessuno meglio di Donald Trump al giorno d’oggi ricorda questa lezione.

 Perché si possono ingaggiare gli acrobati più bravi, esibire i leoni dal ruggito più terrificante, ma neanche i fenomeni da baraccone più strani potrebbero sorreggere il perituro interesse del pubblico senza la presenza decisiva dei pagliacci.

La baraonda è dunque il collante del metodo trumpiano:

gli ha fatto vincere due volte la Casa Bianca e scalare il partito repubblicano che, indossato il celebre berrettino rosso «Make America Great Again» e riposti in cantina i nobili ritratti di Lincoln, Eisenhower e Reagan, in Campidoglio approva speditamente ogni sua nomina — anche la più irrituale — senza fiatare (se il partito che un tempo fu del tonitruante Teddy Roosevelt si è trasformato nel maggiordomo di Batman, i democratici mettono in scena quotidianamente il remake di Weekend con il morto).

La puntata dell’altra notte del serial tv sulla presidenza Trump tornato in onda un mese fa dopo la cancellazione voluta dagli elettori americani nel 2020 è stata, finora, una delle più movimentate:

chi ragiona ancora con gli strumenti del secolo scorso forse immaginava una qualche correzione di rotta dopo il varo dell’inedita alleanza Washington-Mosca celebrata a Riad (senza rappresentanti dell’Ucraina: «Yalta, ma con Hitler seduto al tavolo» ha chiosato l’ex ambasciatore americano Michael McFaul).

 La realtà dello show trumpiano segue invece i suoi ferrei comandamenti strategici, che gli insegnò il mentore della sua gioventù, l’avvocato maccartista “Roy Cohn” (sul rapporto tra i due c’è un film candidato agli imminenti Oscar,” The Apprentice”):

 «La vita non è lo sport: segui sempre l’uomo, non la palla», e «se ti attaccano con un coltello tu rispondi con il bazooka».

 

4. Quella «proposta» che il leader ucraino «non può rifiutare».

Editorialista : Paolo Valentino.

Sull’Ucraina, è ancora una volta Il” padrino di Francis Ford Coppola” a darci il vocabolario per descrivere cosa stia succedendo.

Donald Trump sta facendo a Volodymyr Zelensky «una proposta che non può rifiutare».

 Nella liturgia mafiosa, significava costringere qualcuno a firmare un contratto a lui sfavorevole, puntandogli una pistola alla testa.

 Il presidente americano, infatti, non solo ha già dato via ogni carta negoziale della trattativa in fieri, dicendosi pronto a concedere alla Russia tutto o quasi ciò che chiede:

Kiev fuori dalla Nato, nessuna restituzione dei territori occupati da Mosca, limiti alle sue forze armate, oltre alla ciliegina del rientro della Russia nel G7.

Ma chiede anche una compensazione a tassi da usuraio dell’aiuto fin qui fornito dall’America all’Ucraina, fissato arbitrariamente in 500 miliardi di dollari.

 

 

5. Perché ora serve una nuova Unione europea.

Editorialista: Danilo Taino.

Siamo rimasti un po’ tutti stupiti, qualche giorno fa, quando “Mario Draghi” ha detto che le barriere al commercio interne all’Unione europea sono dazi che ci siamo imposti da soli, più alti di quelli di Trump.

Probabilmente è perché eravamo distratti, lo scorso 24 ottobre, quando il direttore del “Dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale”, Alfred Kammer, ha spiegato i contenuti dell’analisi effettuata nell’”Economic Outlook” autunnale dell’istituzione.

 Il primo messaggio del rapporto dell’Fmi secondo Kammer:

 «La ripresa dell’Europa è inferiore al suo pieno potenziale.

 E, ancora più importante, le prospettive di medio termine non sono meglio. L’Europa è rimasta indietro».

L’analisi del Fondo individua tre ragioni principali alla base di questo rimanere indietro.

 La prima – citata da Draghi nel suo articolo nel Financial Times – è la frammentazione del mercato interno della Ue, quello che dovrebbe consentire la libera circolazione di merci e servizi e che è considerato il maggiore successo dell’integrazione.

 In realtà lo è stato poco.

 «Noi – ha spiegato Kammer – stimiamo le barriere esistenti nel Mercato Unico Europeo essere equivalenti a un dazio ad valorem (in percentuale del valore, ndr) del 44% per la manifattura (tra gli Stati americani è il 15%) e quel dazio equivalente è il 110% per i servizi tra Paesi Ue».

Numeri «sbalorditivi».

 

6. L'escalation trumpiana di Conte e Salvini.

(Emanuele Buzzi).

L’asse gialloverde torna a farsi sentire prepotentemente.

Un uno-due targato Matteo Salvini e Giuseppe Conte, che, in piena sintonia e in momenti diversi, sposano pubblicamente la linea trumpiana sulla guerra in Ucraina.

«Ho enorme stima di Trump che sta facendo in poche settimane più di Biden in quattro anni, nell’interesse di tutti, a partire dall’Occidente, e quindi anche nostro», commenta Salvini.

E fa di più, porta il partito a prendere posizione.

Durante la riunione dei vertici della Lega, presieduta dal vicepremier, è stato evidenziato «il pieno sostegno all’impegno di Donald Trump per la fine dei conflitti».

Ma se Salvini sposa le prese di posizione del presidente Usa, Conte ne celebra le posizioni in contrasto all’Ue:

 «Trump con ruvidezza smaschera tutta la propaganda bellicista dell’Occidente sull’Ucraina e dice una verità che noi del Movimento 5 stelle stiamo dicendo da tre anni, insieme a tutti gli esperti militari, ossia che battere militarmente la Russia era irrealistico».

E aggiunge: «È una verità che pesa come un macigno sulla premier Meloni, che poteva ritagliare per l’Italia un ruolo da protagonista nel negoziato e invece ci ha portato a questo fallimento pur di compiacere le cancellerie internazionali.

 Io al posto della premier Meloni, di fronte a questa vergogna, a questo fallimento, mi dimetterei».

 

7. La forza, i diritti: Trump non si pone più limiti.

Editorialista : Massimo Gaggi.

Nel sistema americano un presidente ha pochi limiti:

all’interno gode della presunzione di immunità per tutti gli atti ufficiali, ha ampi poteri per attuare la sua agenda e può perdonare chiunque (compreso Elon Musk in caso di illegalità della sua task force).

 Certo, ci sono la Costituzione e la separazione dei poteri: ma con diversi ordini esecutivi Donald Trump ha già invaso l’area di competenza del Congresso, cioè del potere legislativo, mentre quello giudiziario, che reagisce sospendendo alcuni suoi atti, viene tenuto a bada con quel «chi salva il Paese non viola alcuna legge» che sa di presidenza imperiale: parole paragonate a quelle di Napoleone.

 

Mentre l’America si chiede se sia ancora possibile attivare il sistema di contrappesi creato per bilanciare i vasti poteri esecutivi che il presidente tende a rendere assoluti sostenendo che la vittoria elettorale gli dà carta bianca, Trump usa in modo ancor più brutale la sua forza nell’arena della politica estera.

 Qui la Costituzione gli lascia poteri pressoché assoluti.

Gli argini dovrebbero essere le alleanze, i trattati, il diritto internazionale.

Ma, sganciata la forza dal diritto, Trump non si pone più limiti:

se ancora di recente riconosceva a Zelensky una volontà di pace e ammoniva un recalcitrante Putin, oggi capovolge tutto.

Il presidente ucraino diventa dittatore impopolare: un attore fallito responsabile del conflitto che ha fatto spendere agli americani 350 miliardi di dollari per una guerra insensata mentre l’attacco agli alleati europei da commerciale diventa politico: «Incapaci di portare la pace».

 

8. ... e si «incorona» re di New York:

 «Il pedaggio per Manhattan è morto».

(Andrea Marinelli).

 L’amministrazione Trump vuole eliminare il «congestion pricing» di New York, il sistema di pedaggi introdotto appena un mese fa per decongestionare il traffico nell’area centrale di Manhattan e al tempo stesso finanziare i lavori necessari al sistema dei trasporti pubblici.

 Secondo la Casa Bianca, il governo federale ha giurisdizione sulle strade che portano in città e per questo ha intenzione di rescindere l'accordo stipulato con l'amministrazione locale ed eliminare un programma che — sostengono a Washington –— pesa ingiustamente sui lavoratori della regione.

 

«IL CONGESTION PRICING è MORTO. Manhattan, e tutta New York, è SALVA. LUNGA VITA AL RE!», ha tuonato Trump sui social con il solito ricorso alle maiuscole, definendosi un sovrano.

 Le sue parole hanno scatenato l'immediata reazione della governatrice democratica “Kathy Hochul”, che ha promesso battaglia legale:

 «Siamo una nazione di leggi, non governata da un re», ha replicato.

«Ci vediamo in tribunale».

 

La governatrice è stata informata con una lettera dal nuovo segretario ai Trasporti “Sean Duff”:

il governo non approva più il piano — ha riferito il ministro, definendo il «congestion pricing» uno «schiaffo in faccia ai lavoratori americani» — e vuole rescindere l’accordo.

«I pendolari che utilizzano le autostrade per entrare a New York hanno già finanziato la costruzione e il miglioramento delle infrastrutture attraverso le tasse su benzina o altro.

Ogni americano — ha specificato “Duffy “— dovrebbe avere il diritto di accedere a New York, indipendentemente dalle sue possibilità economiche».

9. ... e poi vuole anche il

suo nuovo Air Force One.

Editorialista : Irene Soave.

Donald Trump vuole il suo nuovo Air Force One, e fa sapere che se Boeing — che storicamente produce lo speciale jet in dotazione al presidente degli Stati Uniti — tarderà ancora a consegnarglielo, se lo farà fare da qualcun altro.

Specie dopo che ha visitato un Boeing 747-800 di tredici anni fa prodotto per la famiglia reale del Qatar:

 era parcheggiato all'aeroporto internazionale di Palm Beach, in Florida, e la visita è un modo di sottolineare l'idea di comprarne uno simile, e farlo riadattare.

 In una recente intervista a Fox News si è scatenato contro i produttori di Boeing: «Stanno costruendo questa roba da secoli, non so cosa stia succedendo».

E secondo il New York Times «vede l'aereo presidenziale come uno strumento di potere, e viaggiare sullo stesso aereo datato che trasportava già Bush padre lo rende furioso».

La consegna di due nuovi aerei presidenziali, indicata da un contratto, è in effetti in ritardo sulla data pattuita, che era il 2024;

 Boeing, in difficoltà per diverse settimane di scioperi, per l'incidente del volo Alaska Airlines e per la coda lunga delle perdite degli anni di pandemia, ha fatto slittare la consegna al 2027-28.

E gli aerei in uso hanno 35 anni.

Trump, che ormai parla spesso della sua insoddisfazione con Boeing, non si rivolgerà comunque al concorrente europeo di Boeing, Airbus:

 a domanda precisa di un giornalista ha risposto: «No, non prenderei in considerazione Airbus rispetto alla Boeing, ma potrei comprarne uno usato e convertirlo».

Di qui la visita al jet dei qatarini.

Un altro grattacapo per Boeing, di cui secondo diverse fonti citate dalla stampa statunitense il presidente si lamenterebbe continuamente:

il contratto con la Casa Bianca è già costato all'azienda 2,4 miliardi di dollari in penali, ed era già stato negoziato al ribasso proprio da Trump durante il suo primo mandato da presidente.

E il New York Times riporta che per accelerare la consegna dei due aerei che aspetta Donald Trump ha ingaggiato persino Elon Musk.

Ormai uomo dei tagli per la Casa Bianca, Musk sarebbe stato autorizzato a «esplorare opzioni drastiche per spingere la Boeing ad agire più velocemente, tra cui allentare gli standard di autorizzazione di sicurezza per alcuni che lavorano sugli aerei presidenziali».

 

10. Hamas consegna le bare con i corpi degli ostaggi israeliani.

(redazione Esteri) .

I funzionari della Croce rossa internazionale hanno firmato i documenti per la consegna dei corpi di quattro ostaggi israeliani.

Poco prima, il movimento islamista palestinese Hamas aveva disposto quattro bare contrassegnate ciascuna da una foto, che dovrebbero contenere i corpi di Shiri Bibas, dei suoi due figli Ariel e Kfir e di Oded Lifshitz.

Secondo il gruppo armato i quattro sono stati uccisi dagli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza mentre erano prigionieri.

 La Croce Rossa porterà i corpi alle truppe dell'Idf a Gaza.

Dopo aver ricevuto i corpi, l'esercito eseguirà una breve cerimonia militare guidata dal rabbino dell'Idf “Eyal Karim”, prima di portare gli ostaggi uccisi all'istituto forense Abu Kabir per l'identificazione.

Il processo di identificazione potrebbe richiedere fino a 48 ore.

Secondo l'emittente pubblica “Kan”, le bare sono state chiuse a chiave e Hamas non ha consegnato le chiavi per aprirle.

L'Idf sta controllando se con i corpi siano stati restituiti effetti personali appartenenti agli ostaggi.

Prima dell'apertura dei feretri, con altri mezzi, l'Idf ha controllato che non ci fossero trappole esplosive.

 

«Questo è un momento di angoscia e dolore.

Il cuore di un intero popolo è in frantumi. A nome dello Stato di Israele, chino la testa e chiedo perdono.

Mi dispiace di non avervi protetti in quel giorno maledetto.

Mi dispiace di non avervi riportato a casa sani e salvi. Che la loro memoria sia benedetta», ha dichiarato il presidente israeliano “Isaac Herzog”, mentre Hamas torna a sostenere che i quattro ostaggi sono «vittime dei bombardamenti di Israele».

Il gruppo rivendica di aver «preservato le vite dei prigionieri, di aver fornito loro ciò che era possibile e di averli trattati umanamente.

 Ma il loro esercito li ha uccisi insieme ai loro carcerieri».

 

Rivolgendosi alle famiglie “Bibas” e “Lifshitz”,” Hamas “aggiunge:

 «Avremmo preferito i vostri figli fossero tornati vivi, ma i vostri leader militari e di governo hanno scelto di ucciderli invece di riportarli indietro».

Nel novembre del 2023 le “Brigate al-Qassam”, braccio armato di Hamas, avevano già accusato Israele di aver ucciso i “Bibas”, la mamma e i suoi due figli, in un attacco aereo.

Israele non ha mai confermato che fossero morti.

 

Lo spettacolo inscenato da Hamas per mostrare alla folla le salme dei quattro ostaggi morti restituite oggi a Israele, si è tenuto accanto a un cimitero a Bani Suheila, dove — secondo al Jazeera — erano stati sepolti i corpi.

Un anno fa, riferisce l'Idf, era stato scoperto un tunnel sotterraneo proprio sotto il cimitero, con l'ufficio del comandante di battaglione di Khan Yunis da dove ha diretto i combattimenti del 7 ottobre.

Alla fine di gennaio scorso, afferma l'Idf, era stato individuato un passaggio sotterraneo con esplosivi e porte blindate.

All'interno del tunnel erano state trovate sale operative, postazioni di comando e dormitori per alti funzionari di Hamas.

Il tunnel faceva parte di un complesso sotterraneo lungo circa un chilometro. Dopo averlo trovato, l'esercito l'aveva distrutto.

 

 

11. Intanto al confine con il Messico si contrabbandano uova.

Editorialista : Guido Olimpio.

Non solo droga.

Al confine tra Usa e Messico è aumentato del 29 per cento il sequestro di uova di contrabbando.

 Un fenomeno legato alla penuria sul mercato americano a causa dell’aviaria e al rialzo, inevitabile dei prezzi.

Così molti americani attraversano la frontiera, acquistano il prodotto e tornano indietro «sfidando» il divieto.

Che riguarda anche pollame e carne.

 

Sono, invece, diminuiti i fermi di clandestini nel settore sud.

 L’ultimo dato della” Border Patrol “registra 61.465 casi. Il calo è attribuito ad una serie di fattori:

un minor numero di illegali tenta di passare; ci sono maggiori controlli e soprattutto i migranti temono l’espulsione immediata;

 i messicani hanno condotto grandi retate per dare un segnale a Donald Trump;

 i trafficanti aspettano e studiano contromisure, storicamente c’è sempre un periodo di aggiustamento da parte delle organizzazioni criminali.

Il Pentagono, intanto, continua a inviare rinforzi, con alcune centinaia di militari inviati ad appoggiare la polizia impegnata nella sorveglianza della «linea».

 Da segnalare anche un incontro ad alto livello tra ufficiali americani e messicani per avere un maggiore coordinamento.

 È un quadrante in pieno movimento dove la Casa Bianca potrebbe autorizzare azioni ancora più decise.

 

12. Pechino sogna la sesta portaerei

 (ma per ora ne ha tre).

Editorialista : Paolo Salom.

Da tre a sei.

La Cina si vuole proiettare sui mari e dunque progetta di raddoppiare la sua squadra di portaerei: da tre a sei appunto.

 La Marina militare è forse il settore delle forze armate di Pechino dove si investe di più e la ragione è semplice:

 l’avversario è potente e dispone di una flotta che governa il mondo dagli oceani. Per contrastare gli Stati Uniti, insomma, occorre raggiungere la parità strategica nel settore più efficace nel proiettare la potenza militare.

Esiste il modello in progetto.

Al momento, la Cina ha due portaerei operative, la “Liaoning “(ex vascello sovietico acquistato dall’Ucraina), la “Shandong” — di costruzione nazionale simile alla “Liaoning” (di vecchia concezione) — e la moderna “Fujian”, completamente progettata in Cina e al momento in mare per le prove finali prima di essere dichiarata operativa.

Secondo indiscrezioni, nei cantieri militari di” Jiangnan” sarebbe già in costruzione una quarta portaerei che, si dice, potrebbe essere dotata di propulsione nucleare.

Gli esperti sono ancora dubbiosi sulle capacità dei cinesi di realizzare un simile progetto.

Ma non sulla volontà di farlo: la spesa per la difesa è arrivata, nel 2024, a 215,5 miliardi di dollari, con un aumento del 7,2% rispetto all’anno precedente e dell’1,2% sul Pil che, come sappiamo, è secondo soltanto a quello degli Stati Uniti.

 

Ecco dunque che sulla carta la Repubblica popolare ha in animo di arrivare a mettere in mare fino a sei portaerei, le ultime delle quali dovranno essere capaci di competere con quelle americane.

Dunque, la sesta — quando sarà realizzata, intorno al 2030 — avrà sicuramente la propulsione nucleare, sistemi di lancio dei velivoli con tecnologia elettromagnetica e armamenti difensivi ultra sofisticati.

 Nel complesso, Pechino avrà a disposizione una flotta di 370 navi da guerra (gli Usa ne hanno circa 290) e, appunto, sei portaerei.

Sarà allora che comincerà la battaglia per il controllo degli oceani?

 

13. Milei inciampa sul crypto-gate: twitta, scatena gli acquisti e poi vola in America.

Editorialista : Sara Gandolfi.

Sarà anche lui caduto nel «trappolone», incantato dalle sirene della moneta facile, oppure conosceva l’inghippo?

 È il dubbio amletico che attanaglia in questi giorni la società argentina, e in particolare i fan del «turbo-capitalista» Javier Milei che, inseguito dai sospetti, ha pensato bene di prendere un volo per gli Stati Uniti, nona volta in un anno.

A Washington, il presidente più spettinato del pianeta oggi incontrerà la direttrice del” Fondo monetario internazionale” (Fmi) “Kristalina Georgieva” per raccontarle i successi delle sue riforme economico-istituzionali.

Sabato parlerà alla “Conservative Action Conference”, poche ore prima di Donald Trump, con cui spera di condividere una nuova «photo-opportunity» per dimostrare che sono ancora buoni amici.

 Di sicuro vedrà Elon Musk, che forse gli darà qualche consiglio per tirarsi fuori dallo scandalo che lo perseguita: il cryptogate.

Riassumiamo.

Dazi o no? Il caso Argentina: con la deregulation di Milei l’economia torna a crescere.

Il presidente argentino ha promosso sui social network — o «condiviso», secondo la sua versione dei fatti — la “meme coin” «$LIBRA».

Per chi non fosse avvezzo al linguaggio, le” meme coin”, o monete meme, sono appunto monete o «token» di criptovalute, che combinano cultura pop e investimenti digitali, spesso basate sui «meme» di Internet.

Un sistema altamente speculativo, in cui spesso si rischia soltanto di perdere soldi. Stavolta, però, un economista del calibro di Milei (3,8 milioni di followers su X) ci credeva.

 «Questo progetto privato sarà dedicato a incoraggiare la crescita dell’economia argentina», ha scritto l’autoproclamato anarco-capitalista venerdì sera.

 

 

 

Ecco perché Elon Musk si ritira

dalla politica: tutti i (veri) motivi.

  Msn.com – il Giornale – (25-05-2025) - Storia di Valerio Chiapparino – ci dice:

 

Il ritiro di Elon Musk dal mondo della politica americana è ormai cosa certa. O, almeno, così sembra.

 Nei giorni scorsi, intervenendo in video al “Qatar Economic Forum”, il patron di Tesla e Starlink ha dichiarato che da questo momento in poi ridurrà il suo contributo in donazioni politiche.

Una sortita accompagnata da una precisazione che lascia sperare una parte del partito repubblicano in vista delle elezioni di midterm del 2026: “se vedrò una ragione in futuro” per contribuire politicamente lo farò ma “al momento non ne vedo alcun motivo”.

 

Musk è tornato sull’argomento in un post pubblicato ieri su “X” nel quale ha scritto che deve concentrarsi “moltissimo su X/xAi e Tesla (oltre al lancio della “Starship” la prossima settimana) perché abbiamo tecnologie critiche in fase di sviluppo”.

 Il capo del Doge ha affermato che è tornato il momento di spendere la totalità del suo tempo al lavoro e di dormire “in sala conferenze/server/azienda”, ammettendo, a proposito di una serie di malfunzionamenti del social network di sua proprietà, che “importanti miglioramenti operativi sono necessari”.

 

I primi segnali di un ripensamento politico erano già emersi in occasione di una riunione di “Tesla” ad aprile nel corso della quale Musk aveva anticipato che avrebbe dedicato” uno o due giorni a settimana a questioni governative finché il presidente vorrà e finché sarà utile ma a partire dal mese prossimo dedicherò molto più tempo a Tesla, ora che il lavoro principale per istituire il dipartimento per l’Efficienza governativa è stato completato”.

 

La parabola da” attivista Maga” dell’imprenditore sudafricano, che questa settimana ha partecipato al teso vertice nello “Studio Ovale tra Donald Trump e il leader del Sud Africa Cyril Ramaphosa”, è cominciata circa un anno fa quando, in piena campagna elettorale per le presidenziali, Musk ha riunito strateghi e confidenti repubblicani nella sua abitazione ad Austin in Texas.

 Obiettivo dell’incontro: comunicare la sua disponibilità a fare "qualsiasi cosa" e a pagare "qualsiasi cifra" per sollevare “un’onda rossa” in tutto il Paese in grado di riportare Trump alla Casa Bianca.

Per il “Ceo di Tesla”, la vittoria del tycoon era ritenuta infatti essenziale per il futuro degli Stati Uniti.

E su questo non sembra comunque aver cambiato idea.

 

I commentatori Usa cercano in queste ore di ricostruire i motivi del dietrofront del miliardario.

Come confidano al “Washington Post” un paio di fonti vicine al capo del Doge, l’"ossessione politica" di Musk “si è trasformata in disincanto” a causa dei costi personali e le difficoltà nel produrre risultati.

Il proprietario di “X “sarebbe anche “profondamente” preoccupato per la sicurezza personale sua e della sua famiglia non avendo previsto le reazioni negative contro di lui e le sue aziende, spesso sfociate in attacchi violenti contro gli stabilimenti delle auto elettriche, e un forte calo di popolarità personale.

In contemporanea a queste considerazioni, Musk sarebbe inoltre tornato ad interessarsi alle sue due attività principali – “Tesla e SpaceX” – e al sogno di portare l’uomo su Marte.

Pesante, in effetti, è stato il costo economico pagato dalle aziende dell’imprenditore sudafricano che, in qualità di responsabile del Doge, ha visto crescere le contestazioni nei suoi confronti sin dal lancio della sua campagna di tagli nel settore federale.

Conto salato in particolare per Tesla che lo scorso mese ha riportato un calo dell’utile netto del 71%, del 9% dei ricavi e del 20% del fatturato dell'auto.

 Numeri che avrebbero convinto una volta di più Musk, che di recente ha incassato una sconfitta del “suo” candidato alla “Corte Suprema del Wisconsin”, a tornare a guardare altrove, o allo spazio in direzione di Marte.

E adesso c'è da giurare che per il miliardario visionario il Pianeta Rosso potrebbe apparire ben più vicino di quanto non lo sia Washington.

 

 

 

Il manifesto dell'assassinio

all'ambasciata israeliana.

Unz.com -Kevin Barrett – (22 maggio 2025) ci dice:

 

Elias Rodriguez su "La moralità della manifestazione armata.”

Dal “Substack” (altamente raccomandato) di “Ken Klippenstein”.

(Klippenstein è un giornalista professionista serio che controlla le sue fonti, con una solida esperienza, quindi possiamo accettarlo come autentico. “KB”.)

 

“Halintar” è una parola che significa qualcosa come tuono o fulmine.

Sulla scia di un atto le persone cercano un testo per fissarne il significato, quindi ecco un tentativo.

Le atrocità commesse dagli israeliani contro la Palestina sfidano la descrizione e la quantificazione.

Invece di leggere le descrizioni, per lo più le guardiamo svolgersi in video, a volte dal vivo.

 Dopo alcuni mesi di rapido aumento del numero di morti, Israele aveva cancellato la capacità di continuare a contare i morti, il che ha servito bene il suo genocidio.

Al momento in cui scriviamo, il ministero della sanità di Gaza registra 53.000 morti con la forza traumatica, almeno diecimila giacciono sotto le macerie, e chissà quante altre migliaia di morti di malattie prevenibili, la fame, con decine di migliaia ora a rischio di carestia imminente a causa del blocco israeliano, il tutto reso possibile dalla complicità del governo occidentale e arabo.

 L'ufficio informazioni di Gaza include i diecimila sotto le macerie con i morti nel loro stesso conteggio.

Nei notiziari ci sono stati quei "diecimila" sotto le macerie per mesi, nonostante la continua produzione di altre macerie e i ripetuti bombardamenti di macerie ancora e ancora e il bombardamento di tende tra le macerie.

Come il bilancio delle vittime dello Yemen, che è stato congelato a poche migliaia per anni sotto i bombardamenti sauditi, britannici e statunitensi prima di essere tardivamente rivelato a 500.000 morti, tutte queste cifre sono quasi sicuramente un sotto conteggio criminale.

Non ho problemi a credere alle stime che mettono il bilancio a 100.000 o più.

Da marzo di quest'anno sono stati uccisi più che in "Protective Edge" e "Piombo fuso" messi insieme.

 Che altro si può dire a questo punto sulla proporzione di esseri umani maciullati, bruciati ed esplosi che erano bambini.

 Noi che abbiamo permesso che ciò accadesse non meriteremo mai il perdono dei palestinesi.

Ce lo hanno fatto sapere.

Un'azione armata non è necessariamente un'azione militare.

Di solito non lo è.

 Di solito è teatro e spettacolo, una qualità che condivide con molte azioni disarmate.

Le proteste non violente nelle prime settimane del genocidio sembravano segnare una sorta di punto di svolta.

Mai prima d'ora così tante decine di migliaia di persone si erano unite ai palestinesi nelle strade di tutto l'Occidente.

Mai prima d'ora così tanti politici americani erano stati costretti ad ammettere che, almeno retoricamente, anche i palestinesi erano esseri umani.

Ma finora la retorica non ha prodotto molto.

 Gli stessi israeliani si vantano del “proprio shock” per la mano libera che gli americani hanno dato loro per sterminare i palestinesi.

L'opinione pubblica si è rivoltata contro lo stato di apartheid genocida, e il governo americano ha semplicemente scrollato le spalle:

 allora faranno a meno dell'opinione pubblica, la criminalizzeranno dove possono, la soffocheranno con blande rassicurazioni sul fatto che stanno facendo tutto il possibile per frenare Israele laddove non può criminalizzare apertamente le proteste.

“Aaron Bushnell “e altri si sono sacrificati nella speranza di fermare il massacro e lo Stato si impegna a farci credere che il loro sacrificio sia stato vano, che non c'è speranza di un'escalation a Gaza e che non ha senso riportare la guerra a casa. Non possiamo permettergli di avere successo.

I loro sacrifici non sono stati vani.

 

L'impunità che i rappresentanti del nostro governo provano nel favorire questo massacro dovrebbe rivelarsi un'illusione, allora.

 L'impunità che vediamo è la peggiore per quelli di noi che si trovano nelle immediate vicinanze dei genocidi.

Un chirurgo che ha curato le vittime del “genocidio Maya “da parte dello stato guatemalteco racconta un episodio in cui stava operando un paziente che era stato gravemente ferito durante un massacro quando, all'improvviso, uomini armati sono entrati nella stanza e hanno sparato al paziente a morte sul suo tavolo operatorio, ridendo mentre lo uccidevano.

Il medico ha detto che la parte peggiore è stata vedere gli assassini, a lui ben noti, girando apertamente spavaldi per le strade locali negli anni successivi.

Altrove un uomo di coscienza una volta tentò di gettare in mare “Robert McNamara” da un traghetto diretto a “Martha's Vineyard”, infuriato per la stessa impunità e arroganza che vedeva in quel macellaio del “Vietnam” mentre sedeva nella sala del traghetto a ridere con gli amici.

L'uomo ha contestato "l'atteggiamento di McNamara, dicendoti:

 'La mia storia va bene, e posso essere accucciato su un bar come questo con il mio buon amico Ralph qui e dovrai fare un grumo'".

 L'uomo non è riuscito a far cadere McNamara da una passerella in acqua, l'ex segretario di Stato è riuscito ad aggrapparsi alla ringhiera e a rialzarsi in piedi, ma l'aggressore ha spiegato il valore del tentativo dicendo "Beh, l'ho portato fuori, solo noi due, e all'improvviso la sua storia non era così bella, Era così?"

 

Una parola sulla moralità delle manifestazioni armate.

 Chi di noi è contrario al genocidio si compiace di sostenere che autori e complici abbiano perso la loro umanità.

Condivido questo punto di vista e ne comprendo il valore nel lenire la psiche che non sopporta di accettare le atrocità a cui assiste, nemmeno mediate attraverso lo schermo.

Ma la disumanità si è da tempo dimostrata scandalosamente comune, banale, prosaicamente umana.

Un autore può quindi essere un genitore amorevole, un figlio devoto, un amico generoso e caritatevole, un amabile sconosciuto, capace di forza morale quando gli conviene e a volte anche quando non gli conviene, e tuttavia essere un mostro. L'umanità non esime nessuno dalla responsabilità.

Un'azione del genere sarebbe stata moralmente giustificata se intrapresa 11 anni fa durante "Margine Protettivo", più o meno nel periodo in cui sono diventato personalmente consapevole della nostra brutale condotta in Palestina.

Ma penso che per la maggior parte degli americani un'azione del genere sarebbe stata illeggibile, sarebbe sembrata folle.

Sono contento che almeno oggi ci siano molti americani per i quali questa azione sarà estremamente comprensibile e, in un certo senso, l'unica cosa sensata da fare.

Vi amo mamma, papà, sorellina, il resto della mia famiglia, incluso te, O*****

(Palestina libera -Elias Rodríguez).

 

 

 

 

 

Far sparire la Palestina.

Unz.com - Filippo Giraldi – (23 maggio 2025) – ci dice:

 

Gli Stati Uniti e l'Europa danno a Netanyahu il via libera per la pulizia etnica.

È stata un'altra settimana emozionante in un mondo in guerra, dove la parola "diplomazia" non ha alcun significato e verrebbe probabilmente definita dal capo della Sicurezza Interna americana “Kristi Noem” come una dottrina in cui si spara a qualcuno prima che lui o lei possa sparare a te.

Nel mio articolo della scorsa settimana ho discusso le notizie secondo cui ci sarebbe stata una grave frattura tra il presidente Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, esemplificata dalla riluttanza di Trump a parlare con il leader israeliano, seguita dalla sua mancata visita in Israele durante il suo recente viaggio in Medio Oriente.

Alcune fonti hanno attribuito la rottura alla percezione di Trump di essere "manipolato" dagli israeliani, il che era del tutto plausibile, sebbene qualcosa che avrebbe dovuto essere riconosciuto e messo in guardia dai consiglieri di politica estera di Trump quando è salito alla presidenza nel 2017.

 Israele manipola sempre l'opinione pubblica sugli Stati Uniti attraverso il controllo dei media da parte della sua lobby e la corruzione dei politici.

 

Ho sostenuto che i resoconti sulla disillusione nei confronti del "miglior amico d'America" fossero credibili, probabilmente legati a un'attività di spionaggio che coinvolgeva il “Consigliere per la Sicurezza Nazionale” “Mike Waltz”, sebbene abbia anche osservato che molti dei miei contatti erano scettici, avvertendo che l'intera faccenda poteva essere una montatura orchestrata da “Steve Witkoff”, il negoziatore sionista itinerante di Trump, specificamente progettata per favorire Israele.

Ciò significa che gli Stati Uniti stavano fingendo una "rottura" con Netanyahu per raggiungere un accordo con tutti i principali paesi arabi del Medio Oriente al fine di confermare la sicurezza di Israele, mentre Netanyahu stava completamente cancellando i palestinesi dalla faccia della terra.

Trump ha infatti affermato che le sue politiche e il viaggio in Medio Oriente erano "molto positivi per Israele".

In un seguito al mio articolo, durante un'intervista con il giudice Andrew Napolitano, ho sostenuto che conviene essere scettici, poiché Trump non ha fatto assolutamente nulla per cambiare il comportamento di Israele, anzi, nonostante abbia avuto l'opportunità di sostenere la sovranità palestinese nel contesto dell'adesione alle Nazioni Unite e di chiedere la fine del genocidio in corso a Gaza.

La verità dietro l'effettiva rottura dei rapporti personali tra i due leader dovrebbe essere valutata alla luce della presenza o meno di conseguenze quando Israele persegue politiche dannose per gli interessi statunitensi.

In effetti, Netanyahu ha confermato personalmente che tutto va bene negli Stati Uniti.

Mercoledì scorso, in una conferenza stampa, ha dichiarato che il presidente Trump gli aveva assicurato che gli Stati Uniti e la sua amministrazione erano completamente impegnati nei confronti di Israele, nonostante la serie di resoconti dei media che hanno segnalato un problema tra i due leader.

 "Lasciatemi fornirvi alcuni dettagli che forse non sono stati resi pubblici.

Qualche giorno fa – credo circa 10 giorni fa, forse un po' di più – ho parlato al telefono con il presidente Trump.

 E mi ha detto, letteralmente: 'Bibi, voglio che tu sappia: ho un impegno assoluto nei tuoi confronti. Ho un impegno assoluto nei confronti dello Stato di Israele'".

 

Netanyahu ha anche parlato con il vicepresidente “JD Vance”, che, insieme al segretario alla Difesa Pete Hegseth”, aveva anche evitato una visita in Israele.

"[Vance] mi ha detto... "Ascolta, non prestare attenzione a tutte queste notizie false su questa rottura tra di noi... Ha detto: È tutta una montatura.

Questa non è la verità, sapete che non è vera, e vi sto dicendo che, da parte nostra, non è vera".

Netanyahu ha anche detto che Israele vuole portare avanti "il piano di Trump" per Gaza per includere la rimozione permanente della popolazione palestinese per creare un resort sul lungomare gestito dagli Stati Uniti sulle rovine della Striscia.

Secondo Netanyahu, gli israeliani hanno ora incluso la creazione di "Trump Gaza" come una delle condizioni per consentire la fine della guerra contro Hamas.

I media israeliani e mediorientali hanno ampiamente e criticamente trattato il genocidio e i vari attori coinvolti nell'agenda di Netanyahu.

 Un recente articolo ha parlato dei 29 paesi, per lo più dell'Unione Europea (UE), guidati da Regno Unito, Francia e Canada, che hanno ora chiesto a Israele di moderare il suo comportamento, pena sanzioni e la sospensione degli accordi commerciali UE-Israele, che avvantaggiano notevolmente lo Stato ebraico.

 L'UE ha dichiarato che l'annuncio di Israele di consentire l'ingresso di alcuni aiuti era "totalmente inadeguato.

 Se Israele non cessa la rinnovata offensiva militare e non revoca le restrizioni sugli aiuti umanitari, adotteremo ulteriori misure concrete in risposta", si legge nella dichiarazi

one dei leader.

Netanyahu ha risposto alla minaccia dichiarando assurdamente:

"Siete dalla parte sbagliata dell'umanità e della storia".

Ma, come si dice, purtroppo le chiacchiere sono a buon mercato, sia da parte di Netanyahu che dei nuovi critici di Israele.

Israele sta commettendo alcuni dei peggiori crimini di guerra a cui l'umanità abbia mai assistito e gli europei e gli americani danno l'impressione che certamente faranno marcia indietro, sottomettendosi a Israele e continuando a non fare assolutamente nulla che possa porre fine alle sofferenze.

 

Il gesto europeo, in particolare, è un tentativo di rimediare in qualche modo al suo sostegno a 19 mesi di genocidio.

Il completamente spregevole primo ministro del Regno Unito “Keir Starmer,” di fronte a un'opinione pubblica britannica fortemente anti-israeliana, ha fatto un grande spettacolo sull'azione contro Israele e gli israeliani hanno collaborato con lui facendo la loro parte, esprimendo indignazione per la temerarietà di chiunque dica loro come trattare con i loro vicini.

In effetti, c'è stata qualche conferma da parte di fonti israeliane informate che le minacce e le risposte da entrambe le parti erano poco più di un po' di Kabuki.

Un alto funzionario israeliano ha persino spiegato ai media perché i leader europei si sono presi la briga di cambiare posizione dopo 19 mesi di silenzio sul genocidio omicida di Gaza, per fingere invece un'indignazione immediata.

Tutto è stato coordinato in anticipo con Israele.

Ha detto che "le ultime 24 ore hanno fatto tutte parte di un'imboscata pianificata di cui eravamo a conoscenza.

 Si è trattato di una sequenza coordinata di mosse in vista della riunione dell'UE a Bruxelles e, grazie agli sforzi congiunti dei nostri ambasciatori e del ministro degli Esteri, siamo riusciti a moderare il risultato".

 

L'attuale indignazione è orchestrata tanto quanto il silenzio precedente.

Il ministro delle Finanze israeliano estremista “Bezalel Smotrich” ha spiegato perché Israele dovrebbe mantenere un equilibrio tra l'uccisione di tutti i palestinesi e il mantenimento del sostegno occidentale, consentendo l'ingresso di cibo a Gaza al minimo indispensabile:

"Abbiamo bisogno che i nostri amici nel mondo continuino a fornirci un ombrello internazionale di protezione contro il Consiglio di Sicurezza e il Tribunale dell'Aja, e che continuiamo a combattere, se Dio vuole, fino alla vittoria".

Ha anche affermato che il suo piano per la “Cisgiordania e Gaza” include la scelta tra “sottomissione”, “emigrazione” e “morte”.

“Smotrich” ha ripetutamente sostenuto l'uso della forza letale contro i bambini palestinesi, per evitare che crescano e diventino terroristi.

 Mercoledì l'esercito israeliano ha ribadito questo messaggio, dimostrando quanto poco gli importi di coccolare gli stranieri intrusi, aprendo il fuoco su 31 diplomatici europei in rappresentanza di 29 paesi, in visita all'”insediamento palestinese di Jenin” in “Cisgiordania”, in quello che si presumeva essere territorio amministrato al 100% dalla Palestina.

 

Il fatto è che a nessuno nei governi europeo e americano importa davvero dei palestinesi o del loro sterminio.

L'unica preoccupazione dei governanti è l'apparenza del loro atteggiamento agli occhi del resto del mondo e degli elettori dei loro paesi.

 Israele mente con tale entusiasmo nel sostenere le sue tesi e nel fornire false prove a sostegno del suo comportamento che c'è la tendenza a sospettare di qualsiasi cosa faccia.

 L'assassinio di due membri dello staff dell'ambasciata israeliana a Washington DC, avvenuto la scorsa settimana da un uomo che aveva appena urlato "Liberate la Palestina!", è stata una buona notizia per lo Stato ebraico, in quanto ha creato simpatia per un paese che è stato considerato una cattiva notizia per oltre un anno.

Negli ambienti dell'intelligence si sussurra già che si sia trattato di un attacco "false flag" architettato dal “Mossad” per creare un ciclo di notizie favorevole, mentre Israele si prepara segretamente a un imminente attacco contro l'Iran.

L'”Iran fobia” compare regolarmente nei media israeliani, inclusa una recente affermazione israeliana secondo cui l'Iran starebbe nascondendo i suoi impianti di arricchimento nucleare, il che è vero ma progettato per impedire agli israeliani di farli saltare in aria.

Il "ciclo di notizie favorevoli" ha incluso il deputato ebreo” Randy Fine” della Florida che ha chiesto l'uso di armi nucleari per distruggere Gaza e uccidere i suoi abitanti rimasti, proprio come "il Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale".

E per assicurarsi che l'Iran riesca a sentire la punta affilata della spada, l'emissario presidenziale “Witoffh” ha ora dichiarato che l'accordo di monitoraggio nucleare in fase di negoziazione con l'Iran deve includere l'arricchimento zero dell'uranio, qualcosa che non era sul tavolo quando sono iniziati i colloqui, quindi non andranno da nessuna parte garantiti.

Per Witkoff, "Non possiamo permettere nemmeno l'uno per cento di una capacità di arricchimento. L'arricchimento consente l'armamento".

Da dove viene questa domanda?

Da un Israele segretamente dotato di armi nucleari attraverso i traditori senatori “Israel Firster”, “Lindsey Graham” e “Tom Cotton”, senza dubbio.

E se si segue questa linea di pensiero, si può presumere che anche “Donald Trump” sia a bordo, in fila per tirare fuori la sedia di Netanyahu e inchinarsi a lui e poi alzare il suo potente pugno chiuso prima di inviare gli yankee per completare la distruzione della Persia.

E se l'Iran risponde efficacemente con la forza, Israele ha anche circa 200 armi nucleari che senza dubbio non esiterà a utilizzare come parte del suo piano di guerra "Opzione Sansone".

E “Trump” dirà senza dubbio qualcosa del tipo: "Ehi, che grande e bella esplosione! Non c'è niente di sbagliato in questo!

Abbiamo usato armi simili per porre fine alla Prima Guerra Mondiale!"

(Philip M. Giraldi, Ph.D., è Direttore Esecutivo del “Council for the National Interest”, una fondazione educativa 501(c)3).

 

 

 

Perché i leader occidentali sono

dei pagliacci così squilibrati?

Unz.com - Kevin Barrett – (25 maggio 2025) – ci dice:

 

Cervelli divorati da un virus? Demenza senile?

I malati ricattati da Zio devono solo fare domande?

Ultimamente si è notato molto.

La gente si sta accorgendo del genocidio di Gaza.

Si sta accorgendo che i leader occidentali, soprattutto quelli americani, lo stanno rendendo possibile.

 E si sta accorgendo del rapporto tra la complicità nel genocidio e la pessima qualità della leadership che prevale nell'Occidente odierno.

 

“Smuskiewicz osserva che il “POTUS-46”, alias "Dementia Joe”, meglio conosciuto come “Genocide Joe", era ancora più cerebralmente morto di quanto pensassimo, come spiegato nel nuovo libro di “Jake Tapper”.

Casualmente, proprio mentre il libro di “Tapper” sollevava dubbi su gravi illeciti e possibile tradimento da parte dei responsabili di “Zombie Biden”, abbiamo appreso che a Biden è stato "improvvisamente" diagnosticato un cancro alla prostata con punteggio Gleason 9/10, che doveva essersi diffuso da molti anni.

 I responsabili di Biden hanno forse insabbiato anche questo?

Oliver “Boyd-Barrett” commenta:

 

Accettiamo semplicemente che soffrisse di demenza e che per un lungo periodo abbiamo avuto un presidente che non era realmente funzionale.

Ma si potrebbe dire che, beh, un presidente che ha fatto buone scelte in materia di consiglieri, segretari di Stato e così via, nonostante ciò, un buon governo può essere mantenuto.

 Ma quello che è successo in realtà è che persone come “Sullivan” e “Blinken” hanno preso il controllo del governo per conto della cricca neoconservatrice che ha sostanzialmente governato almeno fino all'insediamento di Trump, e credo che in realtà governi ancora gli Stati Uniti.

 

Quindi avere un presidente zombie cerebralmente morto controllato da gestori della cabala neocon era in realtà abbastanza conveniente per quella cabala neocon.

Ha permesso il primo genocidio al mondo in diretta streaming, per prima cosa.

La cabala governa ancora?

Stanno usando un altro settantenne squilibrato?

Lo “squilibrio di Trump” si manifesta nel comportamento erratico satireggiato da “Smuskiewicz”:

 

La NATO e gli Stati Uniti hanno provocato la Russia a invadere l'Ucraina.

 Putin ha invaso l'Ucraina senza essere stato provocato perché vuole conquistare l'intero Paese, e forse anche la Polonia.

La Russia sta vincendo la guerra e ha tutte le carte in mano.

La Russia non sta vincendo la guerra e non ha nessuna carta in mano.

Forse l'Ucraina può entrare nella NATO.

L'Ucraina non potrà mai entrare nella NATO.

Putin vuole la pace.

Putin non vuole la pace, quindi colpiremo la Russia con sanzioni schiaccianti.

Non ci saranno più sanzioni contro la Russia.

 Zelensky vuole la pace.

 Zelensky non vuole la pace.

Fermeremo l'invio di tutte le armi all'Ucraina.

 Invieremo armi più numerose e migliori all'Ucraina.

L'Ucraina ha bisogno di elezioni. L'Ucraina non ha bisogno di elezioni.

Abbiamo un accordo sui minerali.

Non abbiamo un accordo sui minerali.

Nessuna truppa europea dovrebbe essere in Ucraina.

Le truppe europee dovrebbero essere in Ucraina.

Gli Stati Uniti dovrebbero interrompere ogni coinvolgimento in Ucraina. Gli Stati Uniti dovrebbero prendere il controllo delle centrali elettriche ucraine.

Sto parlando con Putin. Non sto parlando con Putin.

Ho solo parlato con Putin. Chi è Putin?

 

Israele dovrebbe finire il lavoro a Gaza e fare tutto il necessario per eliminare Hamas e vincere la guerra.

Israele deve fermare i combattimenti e le uccisioni a Gaza.

La gente di Gaza sta soffrendo e vuole vivere in pace.

Li aiuteremo.

La gente di Gaza non vuole la pace. Sono terroristi e devono essere distrutti. Israele può cacciare tutti i palestinesi e prendere il controllo di Gaza.

Ho intenzione di comprare Gaza e costruirvi resort e casinò.

Sarà bellissimo per tutti!

Netanyahu è un singhiozzo e io lo odio. Ho appena fatto l’ incontro con Bibi nello Studio Ovale mentre Miriam guardava, e ho detto a entrambi che avrei fatto tutto ciò che volevano che facessi.

 

Abbiamo completamente schiacciato i malvagi e deboli Houthi nello Yemen.

 Gli Houthi sono combattenti coraggiosi e forti.

“Ahmed al-Sharaa” è un malvagio terrorista con una taglia di 10 milioni di dollari sulla sua testa.

“Ahmed al-Sharaa” è un uomo molto attraente con un forte passato.

Serve un tè delizioso e adoro la sua barba!

L'Iran ha il diritto di arricchire l'uranio per il suo programma nucleare.

 L'Iran deve fermare ogni arricchimento dell'uranio e porre fine al suo programma nucleare.

Adoro le tariffe!

Le tariffe saranno del 10 per cento. No, il 20 per cento. 25 per cento. No aspetta, fallo al 50 percento.

 Ok, che ne dici del 125 percento? Ci arrivereste al 145 per cento?

 Aspettate, farò di loro cento miliardi di miliardi di trilioni per cento!

 Le tariffe più grandi che se siano mai viste, sarà un record! Tutti rimarranno a bocca aperta! Oh, dimenticatelo, torniamo al 10 per cento.

Tariffe doganali?

Tariffa non voglio. Non mi piacciono.

 

Al giorno d'oggi non serve esagerare molto per scrivere satira, come ho imparato a mie spese (o dovrei dire nel modo più semplice). E se cercate una diagnosi psichiatrica plausibilmente poco lusinghiera di “Genocide Don”, “Bandy Lee” e i suoi colleghi ci lavorano da quasi un decennio.

 

Dementia Joe” e “Dementia Don£ (anche noti come “Genocide Joe” e Genocide Don) potrebbero essere casi estremi, ma esemplificano il livello di leadership da pagliaccio che caratterizza l'Impero Occidentale di oggi.

Il pagliaccio più malvagio, ovviamente, è Netanyahu, la cui brama di torturare e uccidere i giovani fa sembrare “John Wayne Gacy “un assassino.

Ma Bibi non è l'unico clown malvagio che ha la responsabilità del primo genocidio al mondo trasmesso in diretta streaming.

Prendete “Macron” e “Starmer”, per favore.

Macron ha appena "preso il centro della scena" nel rovesciare la democrazia in Romania. Il

vincitore e legittimo presidente rumeno, “Călin Georgescu”,ha visto la sua vittoria annullata da un tribunale controllato dagli oligarchi sulla base del fatto che la Russia aveva "interferito".

 Si tenne una nuova votazione truccata, e gli oligarchi vi introdurranno qualcuno di nome” Nicursor Dan” (nessuna parentela con Steely).

Il Prof. Boyd-Barrett ha offerto alcune informazioni:

Suppongo che la linea di fondo a mio avviso, “Kevin”, sia che c'è un rapporto di lunga data tra Francia e Romania.

 Il francese è abbastanza ampiamente compreso e utilizzato in Romania, tra l'altro.

Quindi questo è qualcosa su cui Macron è in grado di costruire.

Ma per arrivare alla linea di fondo, la cosa principale qui, credo, è alla luce delle precedenti dichiarazioni di Macron e delle precedenti azioni di Macron, la cosa principale è se Macron, a nome dell'Unione Europea, può inviare truppe francesi in Romania e posizionarle in modo tale da avere un facile accesso da una posizione rumena in Ucraina, potenziale per difendere Odessa da un'ulteriore penetrazione russa in Ucraina.

 

Penso che questa sia la linea di fondo qui.

Affinché Macron sia in grado di farlo, lui e l'Unione europea devono mantenere buone relazioni con la Romania.

E questo è quasi certamente, a mio avviso, ciò che c'è dietro questi recenti imbrogli che sono andati avanti con la saga delle elezioni rumene.

 Come hai sottolineato, abbiamo avuto elezioni regolari a novembre o dicembre dello scorso anno, 2024.

Il candidato principale è che ha vinto il primo turno, “Georgescu-Roegen”, non era affatto un favore della continua partecipazione della Romania alla guerra dell'Europa contro la Russia per l'Ucraina come delegato.

E all'improvviso, dopo che i risultati del primo turno mostravano “Georgescu in testa”, in modo abbastanza misterioso, l'”intelligence rumena” ha inventato una stupida storia su come le elezioni fossero state corrotte da una sorta di pubblicità russa e simili su “TikTok”.

È stato stupido quasi quanto le accuse fatte su Trump nelle elezioni del 2016 negli Stati Uniti.

Ma questa volta hanno davvero ribaltato le elezioni, a differenza di Trump.

Quindi la Corte Costituzionale rumena ha semplicemente chiuso le elezioni.

E ci sono molte segnalazioni che lo abbiano fatto con il totale incoraggiamento, se non sotto il comando, di fonti a Bruxelles provenienti dai paesi europei.

Quindi hanno indetto un turno elettorale completamente nuovo, in cui un signore di nome “Simeon” ha ottenuto ottimi risultati al primo turno e ci si aspettava che vincesse al secondo, ma misteriosamente non ci è riuscito.

Invece, questo signore, “Dan”, viene più o meno dal nulla.

È un centrista assoluto.

 È totalmente favorevole all'Unione Europea.

 

In ogni caso, Macron ora si sente più forte.

Ha un amico in Romania. Se vuole, a nome della “Coalizione dei Morti di Cervello”, inviare un contingente di 10 truppe francesi per attaccare un'avanzata russa a Odessa... beh, buona fortuna a lui.

E speriamo che non scateni la Terza Guerra Mondiale, cosa che potrebbe benissimo accadere, tra l'altro.

 

Macron è stato plausibilmente accusato di omosessualità promiscua.

 Sua moglie, ex sua insegnante, lo ha molestato quando aveva quindici anni. “Candace Owens “ha strombazzato teorie secondo cui la moglie di Macron è un uomo, mentre Ron Unz sospetta che queste e altre accuse bizzarre e infondate possano essere state alimentate dalla squadra di copertura di Macron per distrarre dai veri scandali, proprio come la teoria "Michelle Obama è un uomo" ha distolto l'attenzione dalle accuse più plausibili di Larry Sinclair secondo cui Obama è un omosessuale promiscuo che abusa di cocaina e che le persone sono state uccise per coprire questo fatto.

 

I leader occidentali sono forse un branco di stupratori (Bill Clinton e Trump sono stati plausibilmente accusati) e pervertiti (la famiglia Bush, Obama, Biden)? Un recente incendio scoppiato nella casa del Primo Ministro britannico “Keir Starmer”, attribuito come sempre ai russi, ha rafforzato questa impressione.

 

Il primo ministro britannico “Keir Starmer” non ha pagato i servizi di escort di tre giovani ucraini, così questi hanno deciso di vendicarsi e hanno dato fuoco alla casa.

Lo riporta il canale televisivo ucraino "Politics of the country" con riferimento ai media britannici. (fonte).

Coincidenza o no, lo scandalo è scoppiato nello stesso momento in cui Netanyahu denunciava furiosamente “Starmer” come presunto “agente di Hamas”:

 

Incendiando la casa di “Starmer” e incolpando i call-boy non pagati, qualcuno potrebbe inviare un messaggio.

Lo stesso tipo di messaggio è stato consegnato a Bill Clinton a metà degli anni '90 da una risorsa oligarca sionista di nome” Monica Lewinsky”.

Lo scandalo che ne seguì minò il capitale politico di Clinton e lo distrasse, impedendogli di costringere Israele a rispettare il processo di pace di Oslo, e silurando le speranze di Clinton di passare alla storia come "il presidente che ha portato la pace in Medio Oriente".

Quindi, se i leader occidentali sono fondamentalmente un gruppo di pagliacci pervertiti, probabilmente è così intenzionale.

 Gli oligarchi ebrei sionisti che governano l'Occidente sono specializzati nel ricatto politico, come ha dimostrato il caso “Jeffrey Epstein”.

 Fin dai tempi in cui “J. Edgar Hoover” aveva materiale di ricatto su praticamente chiunque fosse importante, e il boss mafioso ebreo sionista” Meyer Lansky “aveva materiale di ricatto su Hoover, [gli oligarchi] hanno usato il loro denaro e le loro capacità di criminalità organizzata, ovvero di operazioni sotto copertura, per assicurarsi il controllo dei leader occidentali.

 Persone senza talento come il molestatore di bambini “Dennis Hastert” vengono promosse a posizioni elevate proprio perché gli ebrei sionisti li hanno filmati mentre facevano sesso con dei bambini.

È così che funziona il processo di selezione.

Non c'è da stupirsi che siano tutti dei pagliacci malvagi.

Ma la gente sta iniziando a notarlo.

Nota la presenza di pagliacci malvagi ai piani alti.

Nota “Jeffrey Epstein”.

Nota il “genocidio di Gaza” da parte di Israele e la complicità dei pagliacci malvagi che gli oligarchi ebrei hanno scelto per guidare l'Occidente.

Stanno persino notando che notare è ora un segno di antisemitismo.

Tutto questo nota mi ricorda i ferri da maglia di “Madame Defarge” in “A Tale of Two Cities”.

Resta da vedere quanto ancora ci vorrà prima che la gente si stufi della clowneria malvagia e inizi a prendere d'assalto le fortezze e a creare ghigliottine.

Il missile ipersonico iraniano

"Fattah-1" è preciso, letale

e inarrestabile.

 Unz.com - Mike Whitney – (22 aprile 2025) – ci dice:

 

Nel caso in cui gli Stati Uniti e Israele lanciano un attacco preventivo contro l'Iran, l'Iran è pronto a fornire una risposta fulminea che distruggerà le basi militari statunitensi, gli impianti di produzione petrolifera, le infrastrutture critiche ei centri di comando e controllo in tutto il Medio Oriente.

In breve, l'Iran ha la capacità di incendiare l'intera regione con la semplice pressione di un interruttore grazie alla sua prodigiosa capacità missilistica che supera quella degli Stati Uniti o di Israele.

Dai un'occhiata a questo estratto da un articolo di “The National Interest” intitolato Perché il missile ipersonico iraniano Fattah-1 è un disastro per la sicurezza israeliana:

Due anni fa, nel giugno 2023, la Repubblica Islamica dell'Iran ha presentato il Fattah-1, il primo missile balistico ipersonico del Paese, almeno secondo il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane.

Fattah significa "Conquistatore" in persiano.

 

Il missile rappresenta una pietra miliare significativa nelle ambizioni militari dell'Iran, segnalando la sua intenzione di proiettare potenza e sottolineando la natura radicale e in continua evoluzione della minaccia missilistica iraniana.

Per molti aspetti, questa minaccia preoccupa ancora di più gli strateghi occidentali rispetto alla soglia di capacità nucleare dell'Iran.

Dopotutto, anche se l'Iran sviluppasse tali armi, non potrebbe usarle senza rischiare il proprio annientamento.

Ma se Teheran avesse davvero sviluppato un missile balistico ipersonico, tutti sanno quale nazione prenderebbe di mira per prima...

 

A differenza dei tradizionali missili balistici che seguono traiettorie paraboliche prevedibili, il Fattah-1 è dotato di un veicolo di rientro manovrabile (MaRV), che gli consente di modificare la propria rotta in volo, sia all'interno che all'esterno dell'atmosfera terrestre.

Questa manovrabilità, facilitata da un sistema di propulsione a combustibile solido e da un ugello secondario mobile, è fondamentale per la capacità del Fattah-1 di eludere la maggior parte dei sistemi di difesa missilistica più avanzati, come l'”Arrow israeliano”, la” Fionda di David” e l'”Iron Dome”, o persino i sistemi americani come l'”Aegis” e il “Patriot”.

 

In altre parole, la presenza di “Fattah-1” dovrebbe indurre sia gli americani che gli israeliani a riflettere sulla necessità di attacchi aerei preventivi contro presunti impianti di sviluppo di armi nucleari iraniani.

Perché il missile ipersonico Fattah-1 dell'Iran è un disastro per la sicurezza e l'interesse nazionale israeliano.

Ripeto: i sistemi di difesa missilistica più avanzati degli Stati Uniti e di Israele (l'israeliano Arrow, il David's Sling, l'Iron Dome, l'Aegis e il Patriot) sono inutili contro i missili ipersonici iraniani. I

n altre parole,il Fattah-1 è inarrestabile.

Donald Trump è qualcosa di tutto questo?

No. Trump è circondato da "yes-men" e neoconservatori che gli dicono solo quello che vogliono fargli sentire

. È rinchiuso in una bolla di politica estera in cui tutti gli occupanti credono al mito illusorio dell'"invincibilità americana".

 Trump pensa che obsoleti gruppi di portaerei e bombardieri stealth B-2 vinceranno le guerre anche quando i suoi avversari avranno modernizzato e rifornito i loro arsenali di sistemi missilistici balistici all'avanguardia in grado di eludere qualsiasi dei loro obsoleti sistemi di difesa aerea e di puntare il loro carico direttamente sul bersaglio.

 Ecco un altro estratto dallo stesso articolo:

Mentre i bombardieri stealth a lungo raggio B-2 Spirit statunitensi potrebbero probabilmente colpire gli impianti nucleari iraniani dall'alto, gli iraniani possono minacciare rappresaglie contro una lunga lista di obiettivi nella regione:

 basi statunitensi esposte vicino al territorio iraniano, raffinerie di petrolio sensibili nella vicina Arabia Saudita, portaerei statunitensi nel Mar Rosso, nello Stretto di Hormuz e persino nel lontano Israele.

L'abbondanza di obiettivi deboli nella regione rappresenta una minaccia profonda contro la quale esiste poca difesa affidabile...

 

Il possesso da parte dell'Iran di missili come il Fattah-1 significa che la rappresaglia iraniana rappresenta una minaccia significativa per la regione.

Né Washington né Gerusalemme dovrebbero minimizzare questa reale minaccia alla loro sicurezza e prosperità economica.

 

E, per tutti gli oppositori che dicono che i precedenti round di "massicce rappresaglie" dell'Iran contro Israele nell'ultimo anno sono falliti, è importante capire il contesto geopolitico.

L'Iran sembra aver trattenuto le sue armi più importanti in quegli attacchi di rappresaglia e ci sono prove che suggeriscono che abbia tirato i pugni in seguito alle pressioni del suo principale partner militare, la Russia.

Perché l'Iran si è tirato indietro?

Sebbene la presa russa sull'Iran sia forte, il fatto è che i precedenti attacchi israeliani contro obiettivi iraniani hanno evitato i sospetti impianti di sviluppo di armi nucleari del paese.

Queste strutture rappresentano l'equivalente del Santo Graal per il regime islamico iraniano.

Se gli israeliani o gli americani colpissero queste strutture e le distruggessero – o addirittura le degradassero – è improbabile che anche la presa della Russia sull'Iran dissuaderebbe gli islamici infuriati dal colpire obiettivi statunitensi, israeliani e sauditi in modi finora inimmaginabili.

Pertanto, la minaccia missilistica iraniana è reale.

Dovrebbe essere evitata, se possibile.

E sebbene sia improbabile che i negoziati con l'Iran portino a grandi risultati, gli attacchi aerei sono un miraggio strategico.

 L'incertezza e l'instabilità che possono scatenare in una regione già caotica non valgono il rischio.

Perché il missile ipersonico Fattah-1 dell'Iran è un disastro per la sicurezza israeliana,” National Interest”.

La cosa interessante di questo articolo è che l'autore, che sembra essere un convinto sostenitore di Stati Uniti e Israele, offre un avvertimento basato sulla sua analisi oggettiva della sorprendente capacità missilistica dell'Iran.

Non sta esprimendo un giudizio morale sulla guerra imminente in sé, ma sta solo informando i presunti autori che incontreranno una forte resistenza e potrebbero perdere.

Esatto, gli Stati Uniti potrebbero perdere una guerra con l'Iran.

(In effetti, questo stesso scenario è stato "implementato" molte volte in passato e l'esito è sempre stato lo stesso).

Come minimo, uno scoppio delle ostilità con l'Iran manderebbe alle stelle i prezzi del petrolio, i mercati azionari in rovina e l'economia globale in una spirale mortale.

Trump spera di minimizzare i danni passando rapidamente ad armi nucleari tattiche "bunker buster" che (a suo avviso) porranno fine al conflitto in tempi rapidi.

Ma questo non accadrà.

Dopotutto, l'Iran si sta preparando a una guerra con gli Stati Uniti da quasi vent'anni e sono pronti a partire.

Ogni attacco ai loro impianti nucleari metterebbe in moto l'effetto domino, innescando ondate successive di attacchi con missili balistici contro obiettivi morbidi e duri in Israele e in tutto il Medio Oriente.

 

Naturalmente, diversi analisti ritengono che le capacità del Fattah-1 siano state notevolmente esagerate e siano tutte parte di una campagna di propaganda iraniana.

Non sorprende che siano le stesse persone che vogliono trascinare gli Stati Uniti in una guerra con l'Iran.

Vale la pena notare, tuttavia, che persino il conservatore “Washington Post” ha fornito "immagini satellitari di Planet Labs e valutazioni di esperti, che hanno confermato che almeno 24-32 missili (iraniani Fattah) hanno colpito o atterrato vicino a obiettivi israeliani, inclusi 20-32 colpi alla “base aerea di Nevatim”, tre alla “”base aerea di Tel Nof e due vicino al “quartier generale del Mossad.

 (I siti più protetti al mondo!)

I danni sono stati limitati, ma questo indica che alcuni missili sono sfuggiti all'intercettazione".

Quindi, alcuni missili sono stati intercettati?

Non è probabile.

Come ha confermato l'autore, i sistemi di difesa aerea statunitensi e israeliani non sono in grado di abbattere i missili ipersonici iraniani.

 

A proposito, il danno è stato "limitato" perché l'Iran non ha usato le sue testate più distruttive.

Si è trattato fondamentalmente di una "dimostrazione di forza", un "colpo a vuoto" da parte di aggressori impulsivi che non comprendono la portata della catastrofe che affronteranno se continueranno a seguire la loro strategia sbagliata.

Naturalmente, la copertura mediatica degli attacchi iraniani è stata in gran parte nascosta all'opinione pubblica per evitare che Trump si tirasse indietro e si rifiutasse di lanciare attacchi aerei secondo i piani.

 In breve, Israele ha teso una trappola a Trump, e Trump sembra esserci finito dritto dentro. Questo è tratto da un post del “Middle East Spectator”.

 

Il radar OTH iraniano "Sepehr" con una portata di 2.000 chilometri è finalmente diventato operativo, le immagini satellitari sembrano confermare.

Il radar è uno dei radar over-the-horizon più avanzati dell'Iran, con una lunghezza di oltre 1,5 chilometri.

 È in grado di rilevare decolli di singoli aerei o lanci di missili balistici a una distanza massima di 2.000 chilometri, anche all'interno dell'intero territorio di Israele.

Solo una manciata di paesi ha padroneggiato una tecnologia radar OTH così avanzata, e il radar fornisce all'Iran un prezioso sistema di allerta precoce in caso di un attacco imminente.

 Spettatore del Medio Oriente.

 

L'Iran ha quindi sviluppato sistemi radar avanzati in grado di rilevare qualsiasi aereo nemico o missile balistico lanciato da 2.000 chilometri di distanza.

 Ciò significa che l'esercito iraniano avrà tutto il tempo per impegnare i propri assetti difensivi mentre ordina qualsiasi attacco missilistico balistico di prima ondata abbia in mente.

Ma questo è solo l'inizio, perché – come sappiamo dagli attacchi aerei "occhio per occhio" (avvenuti) tra Israele e Iran lo scorso anno – questi sistemi di difesa aerea all'avanguardia e multistrato (integrati con S-200, S-300 russi, sistemi cinesi e altri elementi sconosciuti) hanno costretto gli aerei israeliani a invertire la rotta e a ritirarsi durante l'attacco del 19 aprile.

In effetti, gli israeliani "non si sono mai avvicinati a più di 70 km dall'Iran perché erano agganciati da "un sistema di difesa aerea sconosciuto" che li ha spaventati, spingendoli a una ritirata frettolosa.

Di conseguenza, i piloti israeliani sono stati costretti a lanciare i loro missili a lungo raggio contro obiettivi troppo lontani per essere efficaci.

In breve, il sistema di difesa aerea iraniano ha costretto gli israeliani ad abbandonare la missione e a tornare in patria dopo aver inflitto solo danni minori ai siti militari iraniani.

 Ci sono tutte le ragioni per credere che uno scenario simile si verificherà se saranno coinvolti caccia e bombardieri d'alta quota statunitensi.

Conclusione.

L'assalto aereo israeliano dimostra che i sistemi di difesa aerea iraniani, che sono tra i migliori al mondo, sono in grado di rilevare e contrastare aerei stealth come l'F-35.

I sistemi di guerra elettronica dell'Iran migliorano le sue difese aeree interrompendo il targeting o la comunicazione del nemico

Gli avanzati sistemi radar iraniani, in grado di rilevare qualsiasi aereo nemico o missile balistico da 2.000 chilometri di distanza, forniscono tutto il tempo alle forze armate iraniane per impegnare le loro risorse difensive e organizzare i contratti.

Il missile ipersonico iraniano Fattah-1, che viaggia a una velocità di Mach 13 (circa 10.000 miglia orarie), può eludere qualsiasi sistema di difesa aerea statunitense o israeliana e lanciare la sua testata con precisione sul bersaglio.

L'ex ufficiale dell'intelligence del Corpo dei Marines e ispettore delle Nazioni Unite, “Scott Ritter”, ha riassunto la situazione così:

 

Se entriamo in guerra con l'Iran, non vinceremo... L'Iran ha una significativa forza di missili balistici, con una capacità straordinaria.

 È in grado di prendere di mira le navi militari americane, affondare le portaerei americane...

La guerra con l'Iran sarebbe un suicidio e gli Stati Uniti perderanno.

Una parola al saggio è sufficiente.

 

 

 

Il vero default di Trump è la guerra

 europea con la Russia in modo

che gli Stati Uniti possano intensificare

 la guerra con la Cina – il caso della linea

di rifornimento di armi da Rzeszow a Kiev.

 

Unz.com - John Helmer – (22 aprile 2025) – ci dice:         

 

Nella lettura del Dipartimento di Stato della telefonata del Segretario di Stato “Marco Rubio” al Segretario Generale della NATO,” Mark Rutte”, Rubio ha detto:

"mentre la nostra nazione si è impegnata ad aiutare a porre fine alla guerra, se non emergerà presto un chiaro percorso verso la pace, gli Stati Uniti faranno un passo indietro dagli sforzi per mediare la pace".

 Era lo scorso venerdì, 18 aprile.

“Rubio” ripeteva ciò che aveva detto a Parigi due giorni prima, dopo i suoi colloqui su quelli che ha definito "contorni specifici di ciò che potrebbe essere necessario per porre fine alla guerra".

Nella sua breve conferenza stampa all'aeroporto di Le Bourget, Rubio si è ripetuto cinque volte in altrettanti minuti.

 

"Stiamo raggiungendo un punto in cui dobbiamo decidere e determinare se questo è possibile o meno, motivo per cui stiamo coinvolgendo entrambe le parti... Così siamo venuti qui ieri per... Cercate di capire molto presto – e sto parlando di una questione di giorni, non di settimane – se questa è una guerra che può essere conclusa o meno.

Se possibile, siamo pronti a fare tutto il possibile per giocare questo e assicurarci che accada, che finisca in modo duraturo e giusto.

 Se non è possibile – se siamo così distanti che questo non accadrà – allora penso che accada, che finisca in modo duraturo e giusto.

E che il Presidente sia probabilmente a un punto in cui dirà, beh, abbiamo finito. Faremo quello che possiamo ai margini Saremo pronti ad aiutarti ogni volta che sarai pronto per avere la pace”.

 

Ripeto: "Non c'è... nessuno dice che questo possa essere fatto in 12 ore. Ma vogliamo vedere quanto sono distanti e se queste differenze possono essere ridotte, se è possibile ottenere un movimento entro il periodo di tempo che abbiamo in mente".

E ancora: "Dobbiamo capire ora, nel giro di pochi giorni, se questo è fattibile a breve termine.

Perché se non lo è, allora penso che, dal nostro punto di vista, dovremo semplicemente andare avanti.

Il Presidente è fermamente convinto di questo. Ha dedicato molto tempo ed energie a questo, e ci sono molte cose che stanno succedendo nel mondo in questo momento su cui dobbiamo concentrarci.

Quindi, questo è importante, ma ci sono molte altre cose davvero importanti in corso che meritano altrettanta, se non maggiore, attenzione".

E ancora: "Dobbiamo capire se è possibile anche a breve termine. Posso dirvi questo:

questa guerra non ha una soluzione militare. In realtà non è così.

Non si deciderà con nessuna delle due parti e ha una certa capacità strategica per porre fine a questa guerra rapidamente...

 Se non accadrà, allora andremo avanti.

Passeremo ad altri argomenti che sono altrettanto, se non più importanti in qualche modo, per gli Stati Uniti".

E per la quinta volta:

"Ora siamo arrivati al punto in cui abbiamo altre cose su cui dobbiamo concentrarci.

Siamo pronti a impegnarci in questo per tutto il tempo necessario, ma non a tempo indeterminato, non senza progressi.

Se questo non è possibile, dovremo andare avanti... Ma se non accadrà, dobbiamo saperlo ora perché abbiamo altre cose da affrontare".

 

Trump ha poi ripetuto le ripetizioni di Rubio.

"Se per qualche motivo una delle parti lo rende molto difficile, diremo semplicemente che siete sciocchi, siete sciocchi, siete persone orribili, e passeremo oltre.

Speriamo di non doverlo fare... E Marco ha ragione a dire che stiamo arrivando... vogliamo vederlo finire".

Questo non è altro che orchestrazione.

L'interpretazione che ne deriva è che esiste una posizione predefinita degli Stati Uniti che Trump e i suoi uomini hanno già discusso e alla quale hanno deciso di tornare.

In alternativa, non si sono ancora messi d'accordo sul da farsi, e le ripetizioni di Rubio e Trump sono un bluff negoziale per ottenere ulteriori concessioni da Kiev, Mosca e dalle capitali europee.

In realtà, il default è entrambi:

 un bluff di Trump che a Rubio è stato detto di ripetere; e un pianoforte per combattere la guerra sia contro la Russia che contro la Cina, anche se non con la stessa intensità allo stesso tempo.

Questo schema predefinito è stato illustrato qualche tempo fa da “Wess Mitchell”, alto funzionario del Dipartimento di Stato durante il primo mandato di Trump e socio in affari di “Elbridge Colby”, ora capo stratega del Pentagono.

Lo schema predefinito di “Mitchell”, per citare i titoli di due dei suoi articoli, è " Per impedire alla Cina di appropriarsi di Taiwan, fermare la Russia in Ucraina " e " Sequenza strategica, rivisitata ".

Questo è l'obiettivo. I mezzi sono riorientare il grosso delle forze statunitensi verso la guerra contro la Cina; evitare una guerra su due fronti con Russia e Cina contemporaneamente;

e aumentare le capacità degli stati europei di continuare la lotta contro la Russia in Ucraina, pur mantenendo, o addirittura rafforzando, le riserve di truppe, missili e armi nucleari della potenza di fuoco statunitense in Europa.

 

"Il sequenziamento è una strategia", ha dichiarato “Mitchel” lo scorso ottobre, "per ottenere un vantaggio iniziale in quella competizione, non un rimedio per il fatto stesso che la competizione è intrinseca. Il punto è gestire il tempo con saggezza, utilizzando le guerre per procura in corso in Ucraina e Israele per aumentare la nostra capacità di condurre una guerra, in modo che una guerra più grande e con maggiori conseguenze possa essere evitata grazie alla nostra maggiore forza.

 Se una strategia di sequenziamento fallisce nei suoi obiettivi immediati, ma apporta comunque un significativo incremento alle capacità collettive dell'Occidente, ci lascerà comunque in una situazione migliore di quella in cui saremmo stati altrimenti per combattere una futura guerra nell'Indo-Pacifico, quando arriverà".

 

L'impostazione predefinita di Trump negli attuali "negoziati di pace" con la Russia è la guerra Mitchell-Colby contro Russia e Cina, ma non contemporaneamente: è la strategia militare dell'omelia del XVIII secolo, il punto in tempo per salvarne nove.

 

La prova pratica che questo è ciò che sta accadendo in questo momento è al confine polacco con l'Ucraina, dove le recenti dimostrano rivelano che l'esercito americano sta ritirando le sue scorte militari, uomini, missili e basi di trasporto a Rzezow.

“Mitchell”, un accademico americano di lingua tedesca, è stato premiato per l'idea che i governi che gestiscono l'impero con confini, basi e interessi lontani da difendere dovrebbero evitare troppi scontri con troppi nemici contemporaneamente.

La soluzione militare di Mitchell è l'orologio:

 mettere in sequenza le priorità militari nel tempo in modo da massimizzare la forza necessaria, un combattimento o una guerra alla volta.

In passato lo stipendio di Mitchell è stato pagato da un think tank impegnato nella guerra contro la Russia, denominato “Centre for European Policy Analysis” (CEPA), con sede a Washington; si può ,volendo,  saperne di più sul CEPA .

 

Più di recente, Mitchell ha fondato un think tank autonomo chiamato “The Marathon Initiative” con “Elbridge Colb£y, ora terzo funzionario al Pentagono in qualità di “Sottosegretario alla Difesa per la Politica””.

 Nel 2023, l'ente benefico Marathon ha incassato 1,07 milioni di dollari, di cui 374.000 a Mitchell e 377.216 a Colby. Le fonti di finanziamento provenivano da contratti con la “Defense Threat Reduction Agency “del Pentagono, da fondazioni e trust come il “Fidelity Investments Charitable Gift Fund” , a controllo familiare . Ora che Colby si è trasferito al Pentagono, è probabile che le donazioni alla Marathon Initiative “si moltiplichino come canale di influenza.

 

Come consulenti del loro think tank, Mitchell e Colby hanno reclutato l'ammiraglio “Dennis Blair”, ex comandante della flotta del Pacifico e direttore dell'intelligence nazionale (2009-2010); “Thomas de Maizière, “ministro della Difesa tedesco nell'amministrazion”e Merkel; due persone nominate da Trump al primo mandato e “Druva Jaishankar, figlio dell'attuale ministro degli Esteri indiano .

Si avvicinava alla campagna per la rielezione di Trump.

Nel 2021 ha sostenuto la costruzione della “Fortezza Ucraina” per ritardare la guerra diretta degli Stati Uniti e della NATO contro la Russia.

 "L'obiettivo della diplomazia americana - e il punto cruciale della nostra strategia per evitare una guerra su due fronti - dovrebbe essere quello di acquisire il dilemma della Russia e rendere quel paese meno minaccioso per noi stessi in una tempistica più rapida di quanto la Cina sia in grado di realizzare il suo ambizioso potenziale militare come grande potenza.

 infliggendo una sconfitta molto più grave di quella che ha sperimentato finora in Ucraina) presentando al contemporaneo nuove opportunità di cooperazione, investimenti e crescita nell'est della Russia".

 

Il 14 marzo 2022, tre settimane dopo che la Russia aveva deciso di difendersi preventivamente da questo schema, lanciando l'”Operazione Militare Speciale”, “Mitchell” si ripeté.

"È giusto che gli Stati Uniti e i suoi alleati esercitino la massima pressione il prima possibile nel conflitto, l'opposto dell'approccio a gradini [ sic ] dell'amministrazione Biden.

Siamo stati in grado di procedere con moderazione sui primi due cicli di sanzioni solo perché l'esercito russo ha finito per comportarsi male nei primi giorni del conflitto.

 La Cina poteva ragionevolmente concludere che in un lasso di tempo simile avrebbe potuto consolidare la sua posizione su Taiwan, mentre gli Stati Uniti e i suoi alleati si attardavano a valutare la volontà taiwanese di resistere.

Se gli Stati Uniti ora intendono sanzionare il settore energetico russo, sarebbe di gran lunga preferibile farlo insieme agli europei, anche per dimostrare ai cinesi che gli Stati Uniti e i loro alleati sono disposti ad accettare congiuntamente il dolore della recessione per fermare un'aggressione su larga scala".

 

Ignorando l'evidenza del tempo – e delle sconfitte sul campo di battaglia di ogni arma e piano operativo statunitense forniti dagli Stati Uniti nella guerra in Ucraina, e la perdita di gran parte dell'esercito ucraino – Mitchell scrisse il 18 ottobre 2024:

"Quello che vogliamo nell'Europa orientale è un forte “glacis” [termine che indica una fortificazione militare] che contribuisca a mantenere l'Europa stabile negli anni a venire, mentre gli Stati Uniti concentrano maggiormente l'attenzione sull'Asia.

L'Ucraina sarebbe logicamente il fulcro di quel “glacis”, poiché sarà la più grande e migliore forza combattente in Europa nel prossimo futuro. La diplomazia dovrebbe quindi sforzarsi di creare le condizioni per un'Ucraina il più possibile estesa territorialmente ed economicamente sostenibile".

 

Mitchell stava scrivendo questo alla vigilia della rielezione di Trump.

È stato il suggerimento suo, di Colby e dei loro collaboratori per la linea della campagna di Trump che avrebbe potuto negoziare una rapida fine della guerra in Ucraina.

"Nel caso dell'Ucraina", ha annunciato Mitchell, "non possiamo essere ansiosi di un accordo se arriva in un momento in cui è probabile che la realtà del campo di battaglia consegnino uno stato di scarto che avrà una bassa utilità nel ghiacciaio dell'Europa orientale di cui abbiamo bisogno per condurre un perno... forma che consente un riorientamento dell'attenzione verso il teatro primario senza assumere rischi eccessivi nel primo...

Dovremmo essere chiari sul fatto che non si tratta di "abbandonare" l'Europa. Anche una volta che gli Stati Uniti avranno dato priorità all'Asia, saranno una potenza europea e continueranno ad avere ragioni strategiche convincenti per mantenere certi tipi di hardware militare di fascia alta in quel teatro, sia per aumentare le capacità europee che per avere un punto d'appoggio [termine militare] da cui proiettare il potere in altri luoghi, compresa l'Asia. Washington dovrebbe cercare un nuovo grande accordo con l'Europa volto a modificare questo stato di cose.

Dovrebbe essere disposto a sostenere accordi creativi, comprese le formazioni militari congiunte franco-polacco-tedesche...

Per fare perno sull'Asia, l'America ha bisogno di un fulcro in Europa, e questo può essere fornito solo dagli europei stessi ".

 

A riprova del fatto che Trump non si sta ritirando dalla guerra con la Russia, ma sta lanciando l'orologio contro il presidente Vladimir Putin, i recenti rapporti dalla Polonia si rivelano camuffati, non con coincidenze.

Il 4 marzo, il politico polacco, rappresentante del partito della Confederazione Polacca al Parlamento europeo, ha pubblicato quella che ha definito la prova di "segnali concreti della fine degli aiuti finanziari statunitensi all'Ucraina".

Questo è apparso in un lungo testo che “Buczek” ha twittato con un filmato ripreso da un'auto di passaggio vicino, nella Polonia meridionale.

L'aeroporto, che prende il nome dal villaggio di” Jasionka”, alla periferia della città di “Rzeszów”, si trova a meno di 100 chilometri a est del confine ucraino;

 dal 2022 funge da hub per la consegna di uomini e materiali dagli Stati Uniti e dai paesi NATO, che sono stati poi trasferiti via camion o treno a Leopoli e poi verso il fronte orientale.

Secondo “Buczek”, "l'aeroporto di Rzeszow-Jasionka.

In questo luogo pochi giorni fa si trovavano le strutture logistiche e di magazzino dell'esercito americano con camion e attrezzature inviate in Ucraina.

 Anche la piazza lastricata di lastre di cemento, costruita a passo sostenuto nel 2022, sta scomparendo di questo passo.

In pochi giorni, le ultime sono state rimosse da un'area di quasi 2 ettari e il prossimo in linea per la liquidazione è già un altro di questi impianti tecnici con una superficie di circa 4 ettari".

(twitter.com/buczek_tomasz/status/1896877495238193331)

 

“Buczek ha poi concluso”:

"Nessuna alleanza dura per sempre.

E l'articolo 5 della NATO non è mai stato messo alla prova nella pratica.

 Pertanto “Confederation” ha messo in guardia contro tendenze pacifiste troppo ampie in Polonia e in Europa e contro le aspettative eccessive di sicurezza militare nelle alleanze internazionali.

 Le alleanze sono necessarie, è vero, ma più efficaci saranno uno stato ricco, una nazione forte, una propria industria bellica, un grande esercito dotato di carri armati e attrezzature ad alta tecnologia.

Nel frattempo, l'élite di Bruxelles è preoccupata per il clima".

Sebbene questa fosse un'eco della linea dell'amministrazione Trump e dell'obiettivo Mitchell-Colby di costruire forze anti-russe in Polonia, l'agenzia di stampa statale polacca ha riferito il giorno successivo, il 5 marzo, che “Buczek” si era sbagliato.

 

"Fake news", ha affermato il governo di Varsavia.

 C'è stato un trasferimento dagli Stati Uniti al controllo europeo e polacco dell'hub aeroportuale e dei suoi sistemi di difesa missilistica Patriot forniti dagli Stati Uniti, ma questa non è stata una decisione di Trump, né un ritiro degli Stati Uniti dalla guerra con la Russia.

 Al contrario, la fonte governativa ha annunciato che l'aeroporto sarà presto rinforzato da unità missilistiche tedesche e da uno squadrone di caccia F-35 dell'aeronautica militare norvegese.

(stripes.com/)

Il passaggio formale di consegne dei compiti relativi alla difesa missilistica dell'aeroporto di “Jasionka” un importante snodo militare per i rifornimenti all'Ucraina in guerra, da parte del battaglione missilistico Patriot statunitense, è avvenuto il 3 marzo.

Tuttavia, la decisione di sostituire gli americani con la Germania è stata presa prima dell'insediamento del presidente Donald Trump.

Il ritiro degli americani da “Jasionka” non è quindi direttamente correlato all'ultima decisione dell'amministrazione statunitense di sospendere gli aiuti militari all'Ucraina.

Non indica nemmeno che gli americani intendano ritirarsi dal territorio polacco, né che – come suggerisce l'autore [Buczek] del post verificato – l'alleanza polacco-americana si stia indebolendo.

 Piuttosto, i segnali provenienti dalla nuova amministrazione statunitense indicano che la presenza di truppe statunitensi in Polonia non è minacciata ...

Questo post contiene almeno due manipolazioni:

la rimozione degli americani da “Jasionka,” di cui l'abbandono dell'area occupata è un segno visibile, non è direttamente correlata alla recente decisione del presidente Trump di sospendere gli aiuti militari statunitensi all'Ucraina, e non è nemmeno un presagio del ritiro di migliaia di altri soldati americani dalla Polonia.

Come riportato il 3 marzo di quest'anno dal portale militare americano “Stripes.com” [il quotidiano a stelle e strisce], i soldati statunitensi hanno formalmente consegnato la missione di difesa missilistica Patriot in Polonia (a Jasionka) alle forze tedesche all'inizio di marzo, ma le decisioni in merito erano state prese molto prima.

Il 5° Battaglione dell'Esercito, 7° Reggimento di Artiglieria di Difesa Aerea, l'unico battaglione missilistico Patriot statunitense di stanza in Europa, è stato schierato all'aeroporto di “Rzeszow-Jasionka” poco dopo l'invasione russa su vasta scala dell'Ucraina all'inizio del 2022.

La notizia del trasferimento del battaglione missilistico Patriot in una base in Germania è apparsa pochi giorni prima del giuramento del presidente Donald Trump il 3 gennaio di quest'anno.

 "Il principale catalizzatore di questo cambiamento è che siamo stati dirottati verso gli sforzi di modernizzazione dal Capo di Stato Maggiore dell'Esercito", ha affermato il comandante di battaglione, il Tenente Colonnello Daniel Corbett, come riportato da” stripes.com”.

L'unità statunitense sarà il primo battaglione Patriot operativo a schierare il nuovo Sistema di Comando Integrato di Difesa Aerea e Missilistica (IPDC) dell'esercito. Pertanto, secondo Corbett, "si temeva che sarebbe stato difficile farlo durante lo svolgimento della missione in Polonia".

 

A loro volta, come si può leggere sul sito web del governo polacco, i tedeschi, che da marzo hanno sostituito gli americani, hanno delegato al nostro Paese, nell'ambito della missione dell'Alleanza Nord Atlantica, ovvero la NATO Security Assistance and Training for Ukraine, due batterie di missili antiaerei Patriot del 21° Gruppo missilistico antiaereo della Luftwaffe, provenienti da Sanitz, in Pomerania.

 D'altra parte, insieme alle batterie del sistema di difesa antiaerea e antimissile, sono arrivati in Polonia circa 200 soldati tedeschi.

 Lo stazionamento di truppe tedesche in Polonia rafforza anche la difesa aerea integrata della NATO sul fianco orientale dell'Alleanza.

 

"Nel novembre 2024, i norvegesi hanno anche accettato di difendere l'hub di “Jasionka”.

 La missione dell'unità di difesa aerea norvegese a Jasionka, che dispone del sistema NASAMS, è quella di mettere in sicurezza lo spazio aereo dell'aeroporto.

L'operazione in Norvegia fa parte dell'Operazione di Difesa Aerea e Missilistica Integrata della NATO, coordinata dal Comando Aereo Europeo dell'Alleanza (AIRCOM).

 Entro la Pasqua del 2025, la missione norvegese sarà estesa per includere quattro caccia F-35".

Il rapporto del governo polacco del 5 marzo:

"Contrariamente a quanto suggerito nella voce verificata [tweet di Buczek], non c'è nemmeno menzione del ritiro dei soldati americani dalla Polonia.

 Dopo l'incontro con il presidente Trump a Washington, “Andrzej Duda” ha ammesso in un'intervista ai giornalisti che il leader americano, "per quanto riguarda la Polonia", prevede di rafforzare la presenza dell'esercito americano, sottolineando che siamo uno degli alleati più affidabili.

Il presidente “Duda” ha avuto un'impressione simile – che la presenza militare americana in Polonia sarebbe stata 'almeno mantenuta' – dall'incontro a Varsavia con il segretario alla Difesa degli Stati Uniti “Pete Hegseth”.

 

Questa risposta polacca è stata rafforzata dall'annuncio del 7 aprile da parte del quartier generale dell'Esercito degli Stati Uniti in Europa che era in corso un riposizionamento di truppe statunitensi da Jasionka, pianificato da tempo, ma che le forze non avrebbero lasciato il fronte contro la Russia, bensì si sarebbero trasferite in altre basi in Polonia. "L'Esercito degli Stati Uniti in Europa e Africa annuncia il riposizionamento pianificato di equipaggiamenti e personale militare statunitense da Jasionka, in Polonia, ad altri siti nel paese. Questa transizione fa parte di una strategia più ampia per ottimizzare le operazioni militari statunitensi, migliorando il livello di supporto ad alleati e partner e aumentando al contempo l'efficienza. La decisione di riposizionare truppe ed equipaggiamenti riflette mesi di valutazione e pianificazione, in stretto coordinamento con i paesi ospitanti polacchi e gli alleati della NATO. L'importante lavoro di facilitare gli aiuti militari all'Ucraina tramite Jasionka proseguirà sotto la guida polacca e della NATO, supportata da una presenza militare statunitense snella. La Polonia e i suoi alleati manterranno la solida infrastruttura protettiva attorno a questo sito critico."

(europeafrica.army.mil/)

Nel 2022, le forze statunitensi hanno stabilito una presenza temporanea a Jasionka dopo l'invasione russa su vasta scala dell'Ucraina.

 Il sito non si trova presso una base militare polacca permanente, ma è stato utilizzato da forze statunitensi, NATO e partner per tre anni.

 Nel frattempo, l'esercito statunitense ha istituito la guarnigione in Polonia e strutture più solide sulla base di accordi con la nazione ospitante e di investimenti significativi in tali strutture da parte sia del governo polacco che di quello statunitense.

 

Osservate attentamente le date e la cronologia che rivelano.

 Il ridispiegamento delle forze statunitensi in Polonia – in realtà, un aumento del loro numero e della loro potenza di fuoco, secondo lo Stato Maggiore polacco – è stato deciso dall'amministrazione Biden come parte del suo piano di guerra contro la Russia.

 Trump, Rubio e il Segretario alla Difesa statunitense” Hegseth” stanno attuando questo piano, ma facendolo apparire come una loro iniziativa, non di Biden; e anche come parte dei "negoziati di pace" di Trump, non della guerra contro la Russia.

 

L'evidenza sul campo in Polonia è che questa è la posizione predefinita dell'amministrazione Trump. Gli annunci di Rubio e Trump della scorsa settimana sono camuffati.

 

Questa è la convinzione anche dell'intelligence militare russa, dello Stato Maggiore e del Presidente Putin.

 Per il momento, nessun russo lo dirà pubblicamente.

 Tuttavia, domenica (20 aprile) un blogger militare moscovita ha pubblicato una tabella degli arrivi di aerei statunitensi all'aeroporto di Rzeszów-Jasionka da gennaio 2023 a metà di questo mese.

 

Il commento afferma:

"Nonostante la retorica pubblica e le speculazioni sui media, il cambio di amministrazione americana non ha ancora influenzato il volume delle consegne di merci militari all'Ucraina... Se consideriamo i trasporti militari C-17 e S-5, così come i cargo civili noleggiati "Boeing-747" e "Douglas MD-11F", il quadro presentato nel grafico sopra risulta coerente.

Ci sono stati notevoli picchi anomali di rifornimenti nella preparazione dell'offensiva delle Forze Armate ucraine nel 2023 e alla fine del 2024 a causa dei timori dell'amministrazione Biden circa la cessazione delle consegne dopo l'insediamento di Trump.

Se si escludono queste anomalie, allora in media mensile nel 2023-2024, 35 di tali voli sono arrivati a Rzeszów.

E tra febbraio e aprile 2025, nonostante la pausa settimanale di marzo, si è registrata una media di 25 voli al mese. Durante i primi 19 giorni di Aprile, sono arrivati 20 voli."

 

Il 27 marzo il Ministero della Difesa di Varsavia ha imposto nuove norme per impedire a “Buczek” e ai “mini blogger russi “di pubblicare filmati e fotografie che espongano ciò che gli Stati Uniti, i tedeschi e le altre forze della NATO stanno facendo in Polonia.

"I nuovi regolamenti, introdotti come parte di un emendamento all'”Homeland Defense and Counter intelligence Act”, mirano a salvaguardare le infrastrutture nazionali chiave", ha annunciato la radio di Stato il 15 aprile.

 

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