Se le democrazie collassano saranno soggette al totalitarismo.
Se le
democrazie collassano saranno soggette al totalitarismo.
Totalitarismo
democratico.
Iltascabile.com
– (31 – 3 -2025) - Ida Dominijanni – Redazione – ci dice:
(Ida
Dominijanni giornalista e filosofa della politica, fa parte del “Centro studi
per la riforma dello Stato” di Roma).
Il
testamento politico di Mario Tronti.
Si
vive in tanti modi, si muore in tanti modi. Dare forma alla propria fine è un
modo per ricomporre la forma della propria vita, e per consentire a chi resta
di ereditarla senza sfigurarla. Non è da tutti: ci vuole del talento, e il dono
del tempo necessario per poterlo fare. Mario Tronti, uno degli intellettuali
comunisti più originali e influenti del Novecento italiano ed europeo, è morto
il 7 agosto 2023 a novantadue anni, dopo una malattia abbastanza veloce da
sottrarcelo senza che noi – le sue “amicizie politiche”, come gli piaceva
chiamarci – ce ne rendessimo conto, ma abbastanza lunga da fargli licenziare il
libro a cui stava lavorando. “Questo è pronto”, aveva detto consegnandolo a sua
figlia Antonia pochi giorni prima di andarsene. Il testo è ora in libreria per
il Saggiatore, a cura di Giulia Dettori, titolo (hegeliano) Il proprio tempo
appreso col pensiero, sottotitolo (scarno) “libro politico postumo”. La
copertina bianca con sopra il tronco di un albero rosso riproduce la ginestra
essiccata che Tronti aveva fatto verniciare nel giardino della sua casa di
Ferentillo dove si rifugiava a scrivere, ma funziona anche come citazione
cromatica del quadro di El Lissitzky del 1920 sulla rivoluzione bolscevica,
Spezza i Bianchi col cuneo rosso, di cui Tronti teneva sempre una copia bene in
vista sulla scrivania e che ricorre anche in quest’ultimo scritto.
1.
Si
tratta di un testo intenzionalmente, non accidentalmente, postumo, come prova
un appunto dell’agosto 2021, risalente a ben prima della malattia, ritrovato
per caso in uno dei tanti quaderni su cui Tronti annotava di tutto e posto ora
in esergo al testo: “Un libro volutamente postumo, lasciato forse non finito.
Scrivo non alcune pagine, ma alcune righe al giorno, e non tutti i giorni… un
distillato di pensiero”. Un lascito ereditario dunque, affidato
performativamente a un testo che (anche) sul tema dell’eredità ruota. L’eredità
del Novecento nel secolo successivo che ne è un rovesciamento, l’eredità della
politica moderna nell’epoca dell’antipolitica postmoderna, l’eredità del
Movimento operaio nel tempo della sua sconfitta certificata. La postura è quella
dell’angelo di Benjamin, con lo sguardo su un panorama di rovine e il futuro
alle spalle: “Il passato in generale, e il passato novecentesco in particolare,
sta davanti a noi come una città morta che il tempo ha devastato. Ma le rovine
sono a cielo aperto. Nascoste sotto i detriti vivono dimenticati tesori di
civiltà”.
Di
fronte a questo deposito archeologico, e contro “il vuoto di memoria voluto e
coltivato” dai “cattivi eredi” del movimento operaio che ne hanno dissipato il
lascito, la memoria diventa una “risorsa antagonistica” strategica, il
conflitto sull’interpretazione del passato diventa un conflitto sul presente,
la decisione sull’eredità – su che cosa della tradizione merita di rivivere, e
come – diventa una decisione politica. Alla rilevanza per il presente di questa
triangolazione fra storia, memoria e tradizione Tronti ci aveva già abituati,
con il “pensiero della fine” – fine del Novecento, finis Europae, fine della
politica moderna, fine del conflitto di classe – che ha caratterizzato l’ultimo
trentennio della sua produzione. Ma nel libro-testamento c’è un salto di tono e
di umore. Se in precedenza la scrittura trontiana aveva il timbro di una
pratica di elaborazione del lutto, adesso il lavoro del lutto è finito. “Le
illusioni sono tutte consumate, i rischiaramenti tutti esauriti, le volontà
abbattute, le velleità tutte ridicolizzate”: si può e si deve ricominciare da
capo. “Dalla critica di tutto ciò che c’è”, perché nel conformismo pervasivo
che connota lo spirito del nostro tempo è in primo luogo l’attitudine alla
critica che è andata perduta: “Siamo in una condizione pre-marxiana”, dentro un
contesto dominato da un dispositivo accelerato di innovazione reazionaria.
Perciò, “mordere nuovamente bisogna. Con passaggi inediti, e strumenti
sorprendenti, e strappi nella tradizione teorica, e ricongiungimenti con la
tradizione storica”.
Colpendo
al cuore il discorso pubblico dominante, di destra e di sinistra, Tronti
approda a una critica affilata della “democrazia reale” che dopo la guerra
fredda si è imposta come il regime politico vincente e come l’unico
desiderabile.
Questo
libro infatti morde in profondità, colpendo al cuore il discorso pubblico
dominante, di destra e di sinistra, con una interpretazione in controtendenza
della fase storica e politica che va dal 1989 ai giorni nostri, interpretazione
che a sua volta riverbera sulla lettura dell’intero Novecento approdando a una
critica affilata della “democrazia reale” che dopo la guerra fredda si è
imposta come il regime politico vincente e come l’unico desiderabile.
Basterebbero i due imperativi programmatici posti al centro del volume –
“liberare la rivoluzione dal socialismo” e “liberare la libertà dalla
democrazia” – per far trasalire tutto quel novero di uomini e donne “catturati
dai lustri del Palazzo e dai meriti dell’Accademia”, nonché dalle luci del
palcoscenico mediatico, nei quali Tronti vede i principali responsabili del
“lento graduale processo di imborghesimento dei ceti politici e intellettuali”
del nostro Paese. Ma prima di addentrarsi nei contenuti del libro è bene
fermarsi ancora un momento sul significato che questo lascito testamentario
“volutamente postumo” assume a conclusione della traiettoria teorica e politica
dell’autore.
2.
Mario
Tronti è da decenni consacrato in Italia e nel mondo, ed è stato ricordato nel
momento della morte anche dall’informazione mainstream, come il padre
dell’operaismo italiano. Inscindibilmente legata alla sua opera più famosa,
Operai e capitale (Einaudi 1966), alla scossa antistoricista e antidogmatica
che quel testo provocò nel marxismo italiano di allora, alla risonanza da
cult-book che ebbe nel contesto delle lotte operaie degli anni Sessanta e del
movimento del Sessantotto, questa definizione è incontrovertibile. E tuttavia
non dev’essere considerata esaustiva dell’intero percorso di Tronti,
soprattutto se finisce con l’oscurarne l’ultima stagione, incentrata sulla
critica della democrazia politica, cui egli attribuiva la stessa intenzionalità
sovversiva della prima, incentrata sulla critica dell’economia politica. Tronti
stesso del resto, in una concisa e autoironica autobiografia filosofica scritta
nel 2008 per Bompiani (poi in Dall’estremo possibile, a cura di Pasquale Serra,
Futura 2011) avvertiva il rischio di poter restare “quasi imprigionato”
nell’icona del leader teorico dell’operaismo (“Un consiglio: mai scrivere un
libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì”,
scrisse in un’altra circostanza).
Sia
chiaro: non si tratta di disconoscere la matrice operaista del percorso di
Tronti, né di derubricarne la portata. Basta leggere uno dei suoi testi più
intensi, Noi operaisti (introduzione al volume su L’operaismo degli anni
Sessanta, 2008), per capire quanto l’esperienza di Quaderni Rossi e Classe
operaia, le due riviste-laboratorio dell’operaismo in cui maturò anche la
stesura di Operai e capitale, abbia segnato per sempre la sua postura
esistenziale e intellettuale, cristallizzandosi in uno “stile” inconfondibile:
“dal modo di scrivere, battente come il ritmo della fabbrica, al modo di
pensare, fuori dalla norma, in una sorta di stato d’eccezione intellettuale
permanente” (“Fuori norma. Lo stile operaista”, il manifesto, 20 giugno 2006).
Nemmeno si tratta, come pure è stato fatto insistentemente, di giocare una
contro l’altra le diverse stagioni del percorso trontiano, soprattutto la
seconda, quella incentrata sull’autonomia del politico, contro la prima, quella
operaista. Più volte Tronti ha rivendicato l’intima coerenza di un itinerario
che mantiene fermi alcuni punti di metodo e di merito – il punto di vista di
parte, la critica radicale dell’esistente, l’intreccio originale fra marxismo
antidogmatico, tradizione politica moderna, cultura della crisi, teologia
politica – modificando di volta in volta il campo dell’analisi e l’oggetto
della messa a fuoco, in stretto rapporto con le domande poste dal contesto
storico-politico.
A
volerla ripercorrere in estrema sintesi, l’analisi trontiana si concentra sul
rapporto fra capitale e classe nella fase operaista, calata nelle lotte di
fabbrica degli anni Sessanta; si sposta sulla sfera politica all’inizio degli
anni Settanta, quando Tronti avverte che il conflitto anticapitalistico deve
varcare i confini della fabbrica e assumere il politico come campo d’iniziativa
autonomo dall’economico e dal sociale (Sull’autonomia del politico, Feltrinelli
1972); ingaggia di conseguenza, durante
i venti anni d’insegnamento all’università di Siena, un corpo a corpo con i
classici del pensiero politico moderno, da Machiavelli a Nietzsche passando per
un blasfemo accostamento fra Marx e Schmitt (Hegel politico, Istituto
dell’Enciclopedia italiana, 1975; Il tempo della politica, Editori riuniti
1980; Il politico, Feltrinelli 1979-1982). Si sporge oltre i bordi della
tradizione politica moderna, verso il pensiero teologico e mistico, quando il
cambio di stagione annunciato dalle trasformazioni del capitalismo degli anni
Ottanta domanda l’elaborazione di un nuovo paradigma antropologico-politico
(Con le spalle al futuro, Editori riuniti 1992). E si concentra nell’ultima
stagione, quella già citata del “pensiero della fine”, sulla critica della
democrazia, sullo statuto della libertà e sul rilancio del criterio del
politico in tempi di antipolitica (La politica al tramonto, Einaudi 1998; Dello
spirito libero, Il Saggiatore 2015; Il popolo perduto, con Andrea Bianchi,
Nutrimenti 2019). Fra un passaggio e l’altro, costante rimane il rapporto
insieme problematico e inossidabile con il PCI (Partito Comunista Italiano, e
poi con il PDS-DS, Partito Democratico della Sinistra – Democratici di
Sinistra), e incessante la frequentazione di reti di elaborazione collettiva
come la rivista Laboratorio politico negli anni Ottanta, l’eremo camaldolese di
Montegiove e la rivista Bailamme fra anni Ottanta e Novanta, il Centro studi
per la riforma dello Stato di cui Tronti è stato presidente dal 2004 al 2015.
Tronti
invita a confrontarsi con la critica, “urgente e incomunicabile”, per non dire
blasfema, della religione democratica, nell’epoca in cui su di essa a tutti, e
a tutte, viene richiesto ogni giorno un giuramento di fede, quando non un
arruolamento armato.
Chi
volesse approcciare per la prima volta e nella sua interezza questo percorso
dispone oggi, oltre che della monografia su Tronti di Franco Milanesi (Nel
Novecento, Mimesis 2014), dell’ottima antologia dei principali testi trontiani
uscita nel 2017 per il Mulino con il titolo Il demone della politica e curata
da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila Mascat, tre dei giovani
studiosi di cui Tronti amava circondarsi negli ultimi vent’anni, in grado di
ereditarne il lascito anche “per cesura” generazionale, come essi stessi
scrivono e com’è giusto che sia. E chi volesse addentrarsi nell’annoso ma
sempre vivo dibattito sul rapporto fra il Tronti operaista e il Tronti
pensatore del politico dispone altresì del piccolo e prezioso Anatomia del
politico (Quodlibet 2022, anch’esso curato da Jamila Mascat), che raccoglie un
dibattito parigino del 2019 fra Tronti, Étienne Balibar e Toni Negri
precisamente sulla “tensione tra la continuità del punto di vista e la
discontinuità dei punti di svolta”, come scrive Mascat, dell’itinerario
trontiano. Vi si rintracciano tra l’altro, attualizzati, tutti i motivi della
divaricazione delle due traiettorie di Tronti e Negri rispetto alla comune
matrice operaista, nonché, avanzate da Balibar, alcune obiezioni che dalla prospettiva
dei teorici della democrazia radicale possono essere rivolte alla prospettiva
trontiana di critica radicale della democrazia.
Ma per
tornare al libro postumo, ecco come qui lo stesso Tronti chiude la questione
della coerenza della sua traiettoria: “E comunque si sappia che tutto questo
accidentato percorso di matta e disperatissima ricerca ‒ operaismo, autonomia
del politico, teologia politica, spiritualità e politica, grande pensiero
conservatore, urlo di profezia, concretezza di utopia e perfino monachesimo
combattente – ha in sé un filo che lega i passaggi, gli attraversamenti, tutti
mirati a un al di là rispetto a questo tipo di mondo, a questo tipo di vita.
Dietro, a fondamento, il punto di vista di parte, conquistato una volta per
tutte, in giovane età”. Ed è vero che la tonalità battente di questo ultimo
testo e la sua mira polemica contro “il senso comune intellettuale di massa”
riportano, come in una magica chiusura del cerchio della vita, al “primo”
Tronti. Tuttavia non è un caso che il cerchio si chiuda su questo testo, che
porta a sintesi e coronamento “l’ultimo” Tronti, e non su un altro. Come se nel
momento della fine “il pensatore politico, anzi il politico pensante”, come
Tronti era solito definirsi per sottolineare la vocazione militante del suo
lavoro filosofico, ci invitasse a non rinchiuderlo nella galleria dei classici,
dove un posto post-mortem non si nega a nessuno, nemmeno al padre fondatore di
una tradizione sovversiva come l’operaismo, ma a confrontarci con il suo
messaggio più urticante per il presente e fin qui non abbastanza recepito, con
il “passaggio più difficile, aspro,
respingente, improponibile”, della sua ricerca: la critica, “urgente e
incomunicabile”, per non dire blasfema, della religione democratica, nell’epoca
in cui su di essa a tutti, e a tutte, viene richiesto ogni giorno un giuramento
di fede, quando non un arruolamento armato.
3.
Il
progetto intitolato “Per la critica della democrazia politica”, parafrasi e
complemento della marxiana critica dell’economia politica, venne lanciato da
Tronti – ne sono testimone diretta – in un seminario alla Certosa di Pontignano
del 1988, quando gli eventi del 1989-91 non erano né previsti né prevedibili,
ma il XVIII Congresso aveva già innescato nella cultura del PCI la sostituzione
dell’“orizzonte del comunismo”, come lo chiamava Cesare Luporini, con
l’orizzonte liberaldemocratico, sostituzione che diventerà esplicita e
programmatica con la svolta della Bolognina all’indomani del crollo del Muro di
Berlino. Da allora la critica della democrazia reale non ha più smesso di
contrassegnare la produzione trontiana: compare già in Con le spalle al futuro,
viene messa a tema in due saggi del 2001 e del 2005 entrambi intitolati per
l’appunto Per la critica della democrazia politica, si fa più affilata nelle
Tesi su Benjamin che concludono La politica al tramonto, ricompare in Dello
spirito libero, si cala nel vivo della crisi della sinistra e dell’emergenza
populista ne Il popolo perduto. Fin dall’inizio si intreccia con la
reinterpretazione storica del Novecento, mette in tensione filosoficamente la
tradizione del pensiero liberale con quella democratica, e nel corso del tempo
si confronta con la cronaca della crisi estenuante ed estenuata delle
democrazie contemporanee. Soprattutto, e a differenza dei molti altri discorsi
sullo stato delle democrazie occidentali, non guarda solo né tanto al
disfunzionamento dei sistemi politici e istituzionali: va, a monte, alla radice
del paradigma democratico, mettendo sotto analisi le sue aporie costitutive; e
insiste, a valle, sulla crisi antropologica che attacca lo stato di salute del
demos ancor più di quanto non appaia compromesso quello del kratos. Questo
stesso impianto analitico ritorna nel libro-testamento, ma supportato da una
diagnosi più stringente dei processi storici che ne radicalizza la prognosi
politica.
4.
Il
punto di partenza è la data spartiacque del 1989-91, il “biennio bianco” come
lo chiama Tronti riprendendo il titolo del suo intervento a un convegno del CRS
(Centro per la Riforma dello Stato) sul trentennale della caduta del Muro. Il
nome, in evidente contrapposizione con il “biennio rosso” operaio del 1919-20,
dice la cosa. Celebrati dalla narrativa neoliberale dominante, di destra e di
sinistra, come l’inizio di un’era di libertà, progresso economico e ordine
mondiale, l’abbattimento del Muro e il crollo dell’Unione Sovietica – il
secondo per Tronti più importante del primo, per implicazioni e conseguenze
storiche e geopolitiche – sono stati in realtà il sigillo di un’età di
restaurazione. Più precisamente, il coronamento definitivo del “ritorno all’ordine”
decretato dalla Trilateral già nel 1973 contro il “disordine” sociale degli
anni Sessanta-Settanta, e portata avanti già durante gli anni Ottanta dalla
ristrutturazione postindustriale del capitalismo e dalla razionalità
neoliberale, unite nel demolire le condizioni di esistenza del conflitto di
classe.
Celebrati
dalla narrativa neoliberale dominante, di destra e di sinistra, come l’inizio
di un’era di libertà, progresso economico e ordine mondiale, l’abbattimento del
Muro e il crollo dell’Unione Sovietica sono stati in realtà il sigillo di
un’età di restaurazione.
Il
1989-91 completa l’opera, con una tragica ambivalenza che la versione dei
vincitori traduce in una marcia trionfale. Il crollo del Muro sancisce sì la
liberazione dall’oppressione totalitaria dei regimi dell’Est, ma con la libertà
degli individui scatena anche quella degli “spiriti animali” del capitalismo
che quei regimi “avevano malamente trattenuto”. Il collasso dell’Unione
Sovietica mette sì la parola fine a un esperimento fallito, ma con la fine di
quell’esperimento viene decretata anche la fine tout court del conflitto fra
capitalismo e socialismo. Abbattuta la carica simbolica del suo Altro, scrive
Tronti, resta in campo solo la potenza indiscussa del capitalismo reale – ma
qui si potrebbe dire, con Jacques Lacan, il Reale del capitalismo, o con Mark
Fisher il “realismo capitalista” –, senza più nemmeno la pensabilità di
un’alternativa di sistema.
Non
avere tenuto aperta questa pensabilità è l’imperdonabile colpa che Tronti
attribuisce alla sinistra post-1989, italiana ed europea. Il “biennio bianco”
segna una rottura in senso proprio catastrofica del corso della storia, che
andava pensata come tale e contrastata con un contrattacco, e che invece i
cattivi eredi del Movimento operaio hanno interpretato come una tappa evolutiva
verso il meglio, accodandosi alla narrativa dominante e attaccandosi alla tara
storicista e progressista della propria cultura. Nessuna lettura critica della
fine della guerra fredda da parte degli sconfitti, nessun laboratorio
paragonabile alla Vienna o alla Weimar del primo dopoguerra. Nessuna analisi
del perché e per come “un miracolo cominciato con il ‘che fare?’ di Lenin sia
giunto alla fine con le sbronze di Eltsin” senza riuscire a mettere al mondo
“l’uomo nuovo”, ovvero un’antropologia politica alternativa a quella della
società capitalistica. E dunque, nessun tentativo di salvare l’assalto al cielo
del 1917 dai misfatti dello stalinismo e dall’esito fallimentare del socialismo
reale (“Quei regimi meritavano di cadere? Sì. Quell’esperimento meritava di
morire? No”). Nell’“agghiacciante silenzio dei perdenti” la narrativa
messianica dei vincitori – modernizzazione, globalizzazione e democrazia come
unico regime politico legittimo e desiderabile, da esportare con le buone o con
le cattive – diventa l’unico paradigma in campo. “I postcomunisti ne rimasero
abbagliati, come il gatto che di notte si ferma davanti ai fari dell’auto in
corsa”.
Da
quell’abbaglio, le sinistre europee non si sono mai più riprese; e basta
pensare alla loro sostanziale indistinguibilità dal fronte di centrodestra
nella gestione europea della guerra d’Ucraina per capire quanto pesi tuttora
nella loro cultura politica un difetto d’analisi del 1989-91 e dei suoi effetti
di lungo periodo. Ma è la vicenda del principale partito della sinistra
italiana, con quel progressivo slittamento dall’aggettivo “comunista”
all’aggettivo “democratico” senza più neanche il sostantivo “sinistra”, a
restare la più emblematica su scala continentale di quello che dopo il 1989-91
non fu affatto il “nuovo inizio” allora predicato, bensì “un cupio dissolvi” e
“una resa senza condizioni”. Per uno come Tronti, che del PCI-PDS è stato un
iscritto fedele ancorché eterodosso per quaranta anni, e che del PD è stato
senatore sia pure indipendente dal 2013 al 2018, si tratta di un giudizio forse
tardivo, ma definitivo e senza appello.
5.
Ma non
è solo dal punto di vista delle sorti della sinistra che con il 1989-91 “i
conti non sono stati fatti”: il “biennio bianco” riverbera all’indietro, sulla
lettura complessiva del Novecento, e in avanti, sulla lettura complessiva del
presente. È una tesi nota e discussa di Tronti, fin da La politica al tramonto,
che la fine dell’assetto bipolare del mondo chiuda l’epoca della “grande
politica” basata sul criterio amico/nemico, di cui la guerra fredda e il
conflitto di classe sarebbero state l’ultima e civilizzata forma, e apra
un’epoca di spoliticizzazione di massa sotto le insegne della democrazia. Nuova
è invece in quest’ultimo libro l’analisi delle variazioni che il criterio
dell’amico/nemico subisce fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, con effetti
che si prolungano per tutta la guerra fredda e arrivano ai giorni nostri.
La
contrapposizione fra democrazia e totalitarismo trapassa intatta dalla Seconda
guerra mondiale alla guerra fredda, con la conseguenza nefasta
dell’equiparazione fra il totalitarismo nazista e quello comunista, che furono
invece contrapposti, per origini e fini. E rimane operativa anche dopo la fine
della guerra fredda, quando viene riattivata nella sequenza di guerre “giuste”.
È con
la Seconda guerra mondiale che alle motivazioni militaristiche tradizionali dei
conflitti armati subentra il paradigma di ascendenze medievali della guerra
giusta e moralmente giustificata contro un nemico identificato come il male
assoluto. Non poteva che essere così, ed era giusto che fosse così, sottolinea
Tronti, contro il nazismo che combatteva a sua volta in nome della superiorità
della razza ariana: “Nasce sui cruenti campi di battaglia la contrapposizione
ideale fra democrazia e totalitarismo che segnerà la seconda metà del
Novecento”. E “il Movimento operaio degli anni Trenta fece la scelta giusta,
irreversibile, di schierarsi dalla parte della democrazie”, mettendo fra
parentesi il conflitto di classe per dare la priorità ai fronti popolari
antifascisti; la guerra civile spagnola e la Resistenza italiana restano nella
loro drammaticità scuole ineguagliate di formazione di un’intera generazione.
Senonché “Qual è il problema? Il problema è che quella parentesi non si è più
chiusa”. Lo schema di gioco della contrapposizione fra democrazia e
totalitarismo trapassa intatto dalla Seconda guerra mondiale alla guerra
fredda, con la conseguenza nefasta dell’equiparazione fra il totalitarismo
nazista e quello comunista, che furono invece radicalmente diversi, anzi
contrapposti, per origini e fini. E rimane operativo anche dopo la fine della
guerra fredda, quando viene periodicamente riattivato nella sequenza di guerre
“giuste” condotte in nome della democrazia contro nemici di varia natura, dai
terroristi ai dittatori agli autocrati, ogni volta rappresentati come il male
assoluto e ogni volta paragonati, non a caso, a Hitler. La risposta del fronte
atlantista all’invasione russa dell’Ucraina (sulla quale Tronti si esprime più
ampiamente nella bella intervista con Andrea Ampollini che chiude la recente
riedizione DeriveApprodi di La politica al tramonto) è l’ultimo esempio di
questa sequenza.
Non
solo. Nel corso dei decenni il conflitto democrazia/totalitarismo ha finito con
l’oscurare, anzi con l’eclissare, il conflitto di classe. “Si guardi a quanto è
facile oggi essere antifascisti, quanto difficile essere anticapitalisti”. Si
potrebbe obiettare, e molti di sicuro obietteranno, che oggi, di fronte alla
nuova “internazionale nera” che va stringendo in una tenaglia le due sponde
dell’Atlantico, essere antifascisti torna a essere un esercizio tutt’altro che
facile oltre che necessario. Ma proprio la difficoltà di assegnare
automaticamente alla categoria storica del fascismo le nuove destre, figlie
dell’epoca neoliberale e contraddittoriamente intessute di reazione
tradizionalista e innovazione capitalista, di gerarchismo e libertarismo, di
protezionismo antiglobale e liberismo sfrenato, dimostra che oggi come e più di
un secolo fa l’antifascismo senza analisi e critica del capitalismo rischia di
essere una postura tanto nobile quanto insufficiente. Un’altra sveglia che
suona, o dovrebbe, per una sinistra di cui il capitalismo è diventato, come
denunciava Slavoj Žižek già svariati anni fa, il “fantasma fondamentale”,
rimosso e innominabile.
6.
Dunque
che cosa resta, un secolo dopo, della contrapposizione frontale fra democrazia
e totalitarismo che ha plasmato il discorso teorico e orientato le politiche e
la geopolitica novecenteschi, e che tuttora si ripresenta nel dibattito
pubblico nella forma della contrapposizione fra democrazia e autocrazia? La
categoria apparentemente ossimorica di “totalitarismo democratico” cui Tronti
approda nel libro-testamento – ma che compare già nel primo dei due già citati
saggi Per la critica della democrazia politica, e ricompare nella produzione successiva – dice
che quella contrapposizione non funziona più o non è più così frontale, e
suggerisce di ripensare entrambi i termini che la compongono, nelle differenze che li distinguono ma anche
nelle segrete affinità che li accomunano, o nelle porosità che rendono
possibile lo slittamento dall’uno all’altro. Tronti definisce il totalitarismo
come “un sistema chiuso, internamente totalizzante, che mira a introiettare la
funzione del potere nelle singole soggettività”, uniformando e massificando la
coscienza individuale attraverso un forte apparato ideologico e l’uso dall’alto
di mezzi di formazione di un consenso fideistico. Totalitario, attenzione, non
è sinonimo di autoritario: che i due totalitarismi novecenteschi si siano
avvalsi di metodi e forme di governo autoritari non esclude che la vocazione o
la deriva totalitaria di un sistema politico possano presentarsi senza supporto
autoritario o repressivo, o con un supporto autoritario debole infiltrato nella
centralizzazione e verticalizzazione delle forme di esercizio del potere. Che è
precisamente quello che sta accadendo nelle democrazie contemporanee. Dove la
massificazione procede grazie alla “conta quantitativa dell’individuo senza
qualità” e all’omologazione delle forme di vita, “la dittatura non è imposta
con la violenza ma introdotta con il messaggio”, e “la servitù volontaria
prende il posto della proibizione imposta”.
Non si
tratta per Tronti, si badi, solo dell’effetto contingente delle note tendenze
degenerative dei sistemi democratici contemporanei (torsione maggioritaria,
presidenzialismo, uso manipolativo dei mass media), bensì di una deriva
inerente allo statuto del modello democratico, contrassegnato ab origine da una
matrice identitaria che annoda demos e kratos e non sopporta il taglio
conflittuale della differenza (e infatti lo assorbe costantemente in un
differenzialismo inclusivo che si ribalta sempre in pluralismo identitario). A
questa deriva totalitaria originaria – che spiega fra l’altro il
rispecchiamento fra popolo e leader tipico dei populismi contemporanei – se ne
aggiunge al compimento della parabola democratica un’altra, che è la
controfaccia del trionfo planetario conseguito dalla democrazia dopo il
1989-91, un trionfo che consacrandola come destino universale senza alternative
ne alimenta perciò stesso la pretesa totalizzante.
7.
Ma se
queste derive totalitarie sono vere, e se il totalitarismo è nemico della
libertà, occorre spezzare il nesso automatico e scontato che tanto nella teoria
quanto nel senso comune lega democrazia e libertà. Non si tratta solo, sul
piano politico, di prendere atto che nelle democrazie contemporanee, tutte
attraversate dai processi di massificazione della società e di
verticalizzazione e personalizzazione del potere di cui sopra, “la libertà non
viene negata ma raggirata” e il suo esercizio “diventa sempre più formale”. Si
tratta anche di prendere atto sul piano teorico che la democrazia può
divaricare dal liberalismo e rivelarsi invece compatibile con il totalitarismo.
Accade all’esito di un processo storico e concettuale che per un verso ha
annodato libertà politica e libertà economica fino a sovrapporle, per l’altro
verso ha creduto di presidiare la libertà politica agganciandola a un sistema
di diritti e garanzie giuridiche che finisce con l’essere complice di un
individualismo esasperato e spoliticizzato. E accade all’esito di un gigantesco
equivoco, anche questo teorico e politico, che equiparando autorità e
autoritarismo ha messo in contrapposizione libertà e autorità.
Nel
corso dei decenni il conflitto democrazia/totalitarismo ha finito con
l’oscurare, anzi con l’eclissare, il conflitto di classe: “Si guardi a quanto è
facile oggi essere antifascisti, quanto difficile essere anticapitalisti”.
Fra
libertà e autorità – qui è esplicito il debito di Tronti con il laboratorio
teorico-politico del femminismo della differenza – va riattivato invece un
circolo positivo, perché la libertà è correlata al riconoscimento spontaneo
della valenza simbolica dell’autorità e ne è potenziata. E viceversa,
l’autoritarismo spunta proprio nei sistemi politici caratterizzati da un potere
privo di autorità: una condizione, quest’ultima, che accomuna la parabola
fallimentare del socialismo reale, dove l’esperimento rivoluzionario non ha
generato una classe dirigente alla sua altezza, e la crisi terminale delle
democrazie reali, dove il deficit d’autorità della politica sta alla radice
dell’antipolitica e del populismo. Ne consegue un duplice compito, concettuale
e pratico. Per un verso l’autorità va riformulata in positivo contro la sua
identificazione corrente con l’autoritarismo, e “la distinzione fra potere e
autorità acquista una portata strategica”. Per l’altro verso la libertà va
riformulata come autonomia di pensiero contro il conformismo dilagante e come
libertà affermativa, politica e relazionale contro la sua concezione
individualistica e impolitica corrente. Repressa dai totalitarismi, impensata o
subordinata all’eguaglianza dal marxismo, ridotta a libertà negativa dal
liberalismo, a libertà di mercato dal neoliberalismo, a catalogo di diritti dal
costituzionalismo, la libertà è il problema che il Novecento ci consegna
aperto, e oggi più che mai domanda, come diceva Hannah Arendt, di essere
rimessa al mondo.
8.
Al
fondo, ciò che muove la critica trontiana della democrazia non è solo la
constatazione che le democrazie contemporanee mostrano una crescente incapacità
di governare crisi sistemiche ricorrenti (economiche, ecologiche, pandemiche,
belliche), ma soprattutto la duplice convinzione che la base quantitativa e
contabile del paradigma democratico è strutturalmente convergente con la logica
capitalistica della merce, e che la
democrazia reale si è rivelata
“la forma politica finora meglio riuscita di neutralizzazione e
spoliticizzazione del conflitto sociale”. Quest’ultima tesi è correlata al
punto forse più contestato – anche dalla sottoscritta – dell’ultimo Tronti, la
sua svalutazione del Sessantotto come una stagione solo illusoriamente
rivoluzionaria, di fatto riassorbita dai processi di modernizzazione
capitalistica e di inclusione democratica. È vero che nel ragionamento
trontiano la denuncia della deriva spoliticizzante della democrazia fa velo
alla comprensione dei processi di politicizzazione – non solo della sfera
produttiva ma di quella riproduttiva, e della vita intera – che dal Sessantotto
e dal femminismo in poi i movimenti sociali non cessano di innescare, scuotendo
il teatro democratico e invadendolo con forme di soggettivazione irriducibili
alla sua contabilità individualistica, alla sua grammatica dei diritti, alla
sua sintassi rappresentativa. Ma è anche vero che il problema dell’effettiva
capacità di rottura antisistemica di queste insorgenze è un punto irrisolto in
tutta la teoria politica critica contemporanea, da quella marxista e
moltitudinaria di Toni Negri e Michael Hardt a quella postmarxista e populista
di Ernesto Laclau.
Lascio
aperto questo punto – peraltro a mio avviso indecidibile solo in punta di
teoria – per fare un’ultima considerazione. Tronti ha sempre presentato la sua
critica della democrazia come una postazione teorica priva di implicazioni
pratiche contro la democrazia. “Si può fare oggi critica della democrazia
politica accettando, difendendo, sviluppando, riformando i sistemi politici
democratici”, aveva scritto qualche anno fa (Dello spirito libero, p. 183)
rivendicando, come altre volte, lo scarto fra teoria e pratica che spesso gli è
stato contestato. Quella trontiana è dunque soprattutto una sfida per la
pensabilità e l’immaginazione di un’altra forma di vita e di regime politico,
contro le pretese universali e totalizzanti della religione democratica. Questa
sfida deve partire dalla presa d’atto che il paradigma democratico è ormai
realizzato e compiuto, che la sua crisi non dipende dalle sue promesse mancate,
come sosteneva Norberto Bobbio già mezzo secolo fa, ma dalle sue premesse
realizzate, e che dunque “è scaduto il termine per un uso diverso del concetto”
(ibidem) e si sono ristretti i margini per riformarne gli esiti storici.
9.
Rispetto
a quando, un anno e mezzo fa, Mario Tronti ha licenziato il suo
libro-testamento, la storia si è messa a correre rendendo tanto più difficile
quanto più necessario “apprendere il proprio tempo col pensiero”. E ha impresso
un’accelerazione vertiginosa alla crisi della democrazia, che oggi non appare
tanto, o soltanto, assediata da regimi autocratici ostili, come recita la
vulgata dominante, quanto divorata dalle sue contraddizioni interne, come
dimostra la parabola degli Stati Uniti trumpiani nonché il moto retrogrado
delle democrazie europee verso suggestioni neo- e postfasciste che parevano
consegnate all’archivio della storia. Il sodalizio fra democrazia e liberalismo
sembra avviato a un divorzio tutt’altro che consensuale, l’autoritarismo avanza
forte del consenso popolare, l’ottimismo progressista delle sinistre post-1989
viene stracciato dal futurismo tradizionalista della coppia Trump–Musk, il
capitalismo tecnocratico e oligarchico è chiaramente intenzionato a emanciparsi
definitivamente dalle correzioni redistributive novecentesche e comanda alla
politica di riarmarsi, la libertà individualistica, prestazionale e competitiva
dell’epoca neoliberale evolve nel libertarismo sovranista di quelli che
possono, basato sulla schiavitù e la deportazione di quelli che non possono.
Occorre
spezzare il nesso che tanto nella teoria quanto nel senso comune lega
democrazia e libertà: nelle democrazie contemporanee “la libertà non viene
negata ma raggirata” e il suo esercizio “diventa sempre più formale”.
Ma
mentre la crisi della democrazia galoppa, la critica – e l’autocritica – tace,
balbetta, indugia su rattoppi inefficaci e su retoriche poco credibili, si
rifugia dentro trincee difensive friabili. Non ci voleva l’aggressione di Putin
all’Ucraina per accorgersi che l’ordine mondiale istituito dopo la fine della
guerra fredda stava per implodere. E non ci voleva la seconda incoronazione di
Trump per accorgersi che la democrazia rischia di entrare a far parte del
panorama di macerie novecentesche da cui avrebbe dovuto salvarsi e salvarci. Di
fronte a questo rischio che impone ultimativamente la necessità di pensare
un’altra forma di vita prima che un altro regime politico, la sfida lanciata da
Tronti suona ancora più urgente, e ancora più calzante il suo invito a “cercare
ancora” e a “credere nel possibile, malgrado tutte le prove empiriche
dimostrino l’impossibile”. Cercheremo di essere all’altezza.
Trump
Indica il “Clinton Body Count.”
Conoscenzealconfine.it
– (23 Maggio 2025) – Redazione – ci dice:
Sabato
il presidente “Trump” ha pubblicato su “Truth Social” un video con la conta
delle vittime dei Clinton, in cui si suggerisce che diverse morti misteriose
avvenute negli ultimi decenni siano collegate ai Clinton.
Nella
clip vengono menzionati l’ex vice consigliere della Casa Bianca di Clinton,
“Vince Foster”, il collaboratore di Clinton, “James McDougal”, il membro del
“Comitato Nazionale Democratico”, “Seth Rich”, e la misteriosa morte di JFK Jr., che
ha spianato la strada a Hillary Clinton per diventare senatrice degli Stati
Uniti.
È
degno di nota che “Foster” fu mentore di Hillary quando lavoravano insieme
presso lo studio legale “Rose Law Firm” di “Little Rock”, in Arkansas.
Quando Bill Clinton fu confermato 42°
Presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 1993, “Foster “assunse il ruolo di
suo Vice Consigliere alla Casa Bianca.
Sei mesi dopo, esattamente in quel giorno,
“Foster” fu trovato morto a” Fort Marcy Park”, lungo il fiume Potomac,
apparentemente per “suicidio” causato da un colpo di pistola calibro 38.
È
interessante notare che l’espressione “Clinton Body Count” fu coniata
originariamente dallo scrittore “Danny Casolaro” alla fine degli anni Ottanta.
“Casolaro” si “suicidò” nel 1991, mentre lavorava a un articolo che
presumibilmente coinvolgeva una “cabala internazionale”.
L’ultima
volta che #ClintonBodyCount è stato di tendenza su X (ex Twitter) è stato
quando l’amico di Clinton, “Jeffrey Epstein”, avrebbe tentato il suicidio
(prima di essere trovato morto nella sua cella) mentre attendeva il processo
per le accuse di traffico sessuale di minori.
Come
riportato da” Renovatio 21”, tre anni fa l’ex consigliere del presidente
Clinton “Mark Middleton “fu trovato impiccato con un colpo di fucile al petto
in un ranch in Arkansas.
La morte venne dichiarata per suicidio.
Negli
anni ’90, “Middleton” ha servito da filo conduttore tra “Clinton” e il pedofilo
defunto miliardario “Jeffrey Epstein”, avendo organizzato almeno 7 delle 17
visite che Epstein fece alla Casa Bianca, e ha volato lui stesso più volte sul
“Lolita Express”, secondo il “Daily Mail”.
Secondo
la giornalista d’inchiesta “Whitney Webb”, il “Middleton” sarebbe stato legato
negli anni Novanta allo scandalo detto “Chinagate”, ora dimenticato.
Come
noto, la presidenza Clinton fu il fattore determinante dell’ingresso della “Repubblica
Popolare Cinese nel WTO”, con la conseguente delocalizzazione massiva della manifattura
e la distruzione della classe media occidentale.
Nel
2016 la “CBS di Las Vegas “pubblicò per intero questo elenco di persone in
relazione con “Bill e Hillary Clinton” morti in circostanze misteriose durante
tutta la durata del potere della coppia, dagli esordi nel piccolo stato
dell’Arkansas alla Casa Bianca ed oltre.
La lista finì citata anche in un bizzarro
documentario inglese sulle teorie cospirative intorno al potere americano
andato in onda nel Regno Unito nella settimana del voto americano nel 2016.
1 –
James McDougal – morto
per un apparente attacco cardiaco, mentre era in isolamento.
Fu un
testimone chiave nelle indagini di “Kenneth Starr”, il procuratore che voleva
incastrare “Bill Clinton” passato poi incredibilmente ad avvocato difensore di “Epstein”
al suo primo processo in Florida.
Coinvolto nel caso “Whitewater,” uno scandalo
immobiliare dei Clinton.
2 –
Mary Mahoney – Un’ex
stagista della Casa Bianca assassinata nel luglio 1997 in una caffetteria “Starbucks”
a “Georgetown”.
L’omicidio
avvenne subito dopo la pubblicazione di una sua storia di molestie sessuali
alla Casa Bianca.
3 –
Vince Foster – Ex consigliere della Casa Bianca e collega di Hillary Clinton presso lo
“studio legale Rose di Little Rock”.
Morì per una ferita da arma da fuoco alla
testa, venne categorizzato come suicidio.
4 –
Ron Brown –
Segretario
al Commercio ed ex Presidente dei Democratici. Morto ufficialmente per
l’impatto di un incidente aereo.
Un patologo vicino alle indagini ha riferito
che c’era un buco nella parte superiore del cranio di Brown che ricordava una
ferita da arma da fuoco.
Al
momento della sua morte Brown era indagato e parlava pubblicamente della sua
volontà di concludere un accordo con i pubblici ministeri.
Morirono
anche il resto delle persone a bordo dell’aereo e pochi giorni dopo il
controllore del traffico aereo si suicidò.
5 – C.
Victor Raiser, II – Raiser, uno dei principali responsabili dell’organizzazione
di raccolta fondi di Clinton, morì in un incidente aereo privato nel luglio
1992.
6 –
Paul Tulley – Direttore
politico del Comitato nazionale democratico trovato morto in una stanza
d’albergo a Little Rock, nel settembre 1992. Descritto da Clinton come «caro
amico e consigliere fidato».
7 – Ed
Willey – Addetto alla raccolta fondi dei
Clinton, trovato morto nel novembre 1993 nel profondo del bosco in Virginia per
una ferita da arma da fuoco alla testa.
Si è suicidato.
Ed
Willey morì lo stesso giorno in cui sua moglie Kathleen Willey affermò che Bill
Clinton la approcciò nell’ufficio ovale alla Casa Bianca.
8 –
Jerry Parks – Capo
della squadra di sicurezza governativa di Clinton a Little Rock.
Gli
spararono in macchina in un incrocio deserto fuori Little Rock Park.
Il figlio disse che suo padre stava costruendo
un dossier su Clinton. Dopo la sua morte i file furono misteriosamente rimossi
da casa sua.
9 –
James Bunch – Deceduto
per suicidio da arma da fuoco. È stato riferito che aveva un «Libro nero» che
conteneva nomi di persone influenti che visitavano prostitute in Texas e
Arkansas.
10 –
James Wilson – Fu
trovato impiccato nel maggio 1993. È stato riferito che aveva legami con”
Whitewater”, lo scandalo legato agli investimenti immobiliari in Arkansas di
Bill e Hillary Clinton e dei loro soci.
11 –
Kathy Ferguson – Ex moglie del soldato dell’Arkansas “Danny Ferguson”, fu trovata morta
nel maggio 1994, nel suo salotto con un colpo di pistola alla testa.
Fu considerato un suicidio anche se c’erano
diverse valigie piene, come se stesse andando da qualche parte.
“Danny
Ferguson” era un co-imputato insieme a “Bill Clinton” nella causa di “Paula
Jones”, una donna che si disse molestata da Bill Clinton.
Kathy
Ferguson era un possibile testimone corroborante di Paula Jones.
12 –
Bill Shelton – Arkansas
State Trooper e fidanzato di Kathy Ferguson. Critico dell’idea secondo la quale
la sua fidanzata si sarebbe uccisa, è stato trovato morto nel giugno 1994 per
una ferita da arma da fuoco davanti alla tomba dell’amata.
13 –
Gandy Baugh – L’avvocato
dell’amico di Clinton” Dan Lassater”, è morto saltando fuori da una finestra di
un alto edificio nel gennaio 1994. Il suo cliente era un distributore di droga
condannato.
14 –
Florence Martin – Ragioniere
e subappaltatore per la “CIA”, era legato al caso Barry Seal, Mena (Arkansas)
un caso di traffico di droga aeroportuale.
15 –
Suzanne Coleman – Secondo
quanto riferito, aveva una relazione con Clinton quando era procuratore
generale dell’Arkansas. Morì per una ferita da arma da fuoco alla parte
posteriore della testa: la morte venne schedata come suicidio. Era incinta al
momento della sua morte.
16 –
Paula Grober – Interprete
vocale di Clinton per non udenti dal 1978 fino alla sua morte, il 9 dicembre
1992. Morì in un incidente automobilistico.
17 –
Danny Casolaro – Giornalista
investigativo, stava indagando sull’aeroporto di Mena e sull’autorità di
finanziamento dello sviluppo dell’Arkansas. Si è tagliato i polsi, a quanto
pare, nel mezzo della sua indagine.
18 –
Paul Wilcher – L’avvocato
che indaga sulla corruzione all’aeroporto di Mena con Casolaro e la «October
surprise» del 1980 fu trovato morto in bagno il 22 giugno 1993, nel suo
appartamento di Washington DC aveva consegnato un rapporto a Janet Reno 3
settimane prima della sua morte.
19 –
Jon Parnell Walker – Investigatore dello “Scandalo Whitewater “per la risoluzione “Trust
Corp”.
Saltò
dal suo balcone dell’appartamento di Arlington, in Virginia, il 15 agosto 1993.
Stava indagando sullo scandalo “Morgan
Guaranty”, un altro scandalo che investiva i “McDougal, amici dei Clinton
implicati anche nel “Whitewater.”
20 –
Barbara Wise – Staff
del dipartimento del commercio. Ha lavorato a stretto contatto con Ron Brown e
John Huang. Causa della morte: sconosciuta. Morì il 29 novembre 1996. Il suo
corpo nudo e percosso fu trovato chiuso nel suo ufficio presso il Dipartimento
del Commercio.
21 –
Charles Meissner – Assistente
del Segretario al Commercio che ha concesso a John Huang un nulla osta di
sicurezza, è morto poco dopo in un piccolo incidente aereo.
22 –
Dr. Stanley Heard – Il presidente del Comitato consultivo nazionale per la cura
della chiropratica è morto con il suo avvocato Steve Dickson in un piccolo
incidente aereo.
23 –
Barry Seal –
Pilota
della compagnia aerea commerciale TWA che agiva come corriere della droga da
Mena (Arkansas).
Testimoniò
il coinvolgimento della CIA nelle attività di contrabbando di droga dal
Sudamerica, cartello di Pablo Escobar in uso.
È
morto per tre ferite da arma da fuoco.
Di
recente Tom Cruise ci ha fatto un film, “American Made”, che include anche le
figure di Clinton (di cui si vede una telefonata che libera Seal appena
arrestato) e di Bush.
24 –
Johnny Lawhorn, Jr. – Meccanico, trovò un assegno intestato a Bill Clinton nel
bagagliaio di un’auto lasciata nel suo negozio di riparazioni. Fu quindi
trovato morto dopo che la sua macchina colpì un traliccio telefonico.
25 –
Stanley Huggins – Altro investigatore del caso “Madison Guaranty”. La sua morte
fu un presunto suicidio e il suo rapporto non fu mai pubblicato.
26 –
Hershell Friday – L’avvocato
della raccolta fondi di Clinton morì il 1° marzo 1994, quando il suo aereo
esplose.
27 –
Kevin Ives e Don Henry – Noto come caso dei «ragazzi dei binari».
I
rapporti dicono che i ragazzi potrebbero essersi imbattuti nell’operazione di
droga dell’aeroporto di Mena Arkansas.
Un
caso controverso:
secondo
il rapporto iniziale sulla morte, si sarebbero addormentati sui binari della
ferrovia.
Rapporti
successivi affermano che i 2 ragazzi erano stati uccisi prima di essere messi
sui binari.
Molti
sospettano che la testimonianza potesse arrivare davanti a un Gran Giurì.
La
loro morte potrebbe aver ingenerato, sostiene qualcuno, le seguenti morti di
persone che avevano informazioni sul caso.
28 –
Keith Coney – Morì
quando la sua moto sbatté sul retro di un camion, luglio ‘88. Potrebbe aver
avuto informazioni su Ives/Henry.
29 –
Keith McMaskle – Pugnalato
113 volte, novembre 1988. Potrebbe aver avuto informazioni su Ives/Henry.
30 –
Gregory Collins – Morì
per una ferita da arma da fuoco del gennaio 1989. Potrebbe aver avuto
informazioni su Ives/Henry.
31 –
Jeff Rhodes – Gli
hanno sparato, lo hanno mutilato e trovato bruciato in una discarica
nell’aprile 1989. Potrebbe aver avuto informazioni su Ives/Henry.
32 –
James Milan – Trovato
decapitato. Tuttavia, il medico legale ha stabilito che la sua morte era dovuta
a «cause naturali». Potrebbe aver avuto informazioni su Ives/Henry.
34 –
Richard Winters – Un
sospettato nelle morti di Ives / Henry. Fu ucciso in una rapina organizzata nel
luglio 1989.
Vi è
quindi una lista di bodyguard dei Clinton, mestiere tra i più pericolosi al
mondo:
35 –
Major William S. Barkley, Jr.
36 –
Capitano Scott J. Reynolds.
37 –
Sergente Brian Hanley,
38 –
Sergente Tim Sabel.
39 –
Generale Maggiore William Robertson.
40 –
Colonnello William Densberger.
41 –
Colonnello Robert Kelly.
42 –
Gary Rhodes.
43 –
Steve Willis.
44 –
Robert Williams.
45 –
Conway LeBleu.
46 –
Todd McKeehan.
Infine
non dimentichiamo il caso sospetto più recente, “Seth Rich”, assassinato e
«rapinato» (di nulla) il 10 luglio 2016.
Per
alcuni era coinvolto nell’hacking delle email dei democratici.
Il
fondatore di “Wikileaks Assange” afferma di avere informazioni in merito;
sappiamo cosa poi accadde ad Assange.
In
questa lista non sono inclusi i 4 ex-soldati al soldo della CIA uccisi a
Bengasi per difendere l’ambasciatore nel fatale 2011.
Lasciati morire senza che dalla Sicilia
partisse nemmeno mezzo drone per togliere l’assedio sanguinario in cui erano
finiti.
Ciò è
visibile perfino nel film fracassone che ne ha fatto Hollywood, 13 hours, un
polpettone action di pura propaganda che sembra creato per dare la colpa alla “CIA
invece che al Dipartimento di Stato e agli intrighi orditi dall’allora “segretario
di Stato Hillary Clinton”.
(renovatio21.com/trump-indica-il-clinton-body-count/).
La
politica come esistenza autentica
e la storia come narrazione:
“Hannah
Arendt e l'esperienza totalitaria”.
Storicamento.org
- Mara Casale – (31 -12 -2006) – ci dice:
Nota
in tutto il mondo come filosofa politica, sebbene abbia sempre preferito
definirsi un «pensatore» politico, Hannah Arendt è senza dubbio una delle
personalità intellettuali più complesse e significative del Novecento.
Costantemente
controversa e mai allineata, testimone consapevole della tragedia del proprio
tempo, ella si è assunta il difficile compito di impegnarsi nella comprensione
del male che ha segnato il XX secolo e che ha fatto di lei, come di milioni di
altre persone, un’esule, un’apolide, una sradicata.
“Le
origini del totalitarismo” resta ancora oggi la testimonianza più sofferta e
più lucida dello sforzo da lei compiuto di illuminare l’evento più tragico che
l’umanità abbia mai conosciuto, di rendere conoscibile ciò che non sarebbe mai
dovuto accadere e che si configura come un momento estremo di rottura nella
storia occidentale:
si può
dire che l’opera del ’51 costituisca in un certo senso il momento fondamentale
del suo complesso percorso esistenziale e intellettuale, l’esito maturo delle
riflessioni elaborate in Francia e proseguite negli Stati Uniti, e nello stesso
tempo il punto di partenza dal quale costruisce la sua teoria politica.
Si può
dire, in sostanza, che tutta la produzione della Arendt sia in qualche modo
un’indagine continua, affrontata da una prospettiva in cui all’analisi degli
elementi storici si innestano costantemente teorizzazioni di carattere
filosofico e politico, del fenomeno totalitario.
“Le
origini del totalitarismo” è un’opera che svela i suoi segreti un po’ alla
volta e che richiede molte letture prima di essere compresa in profondità.
Ciò avviene perché la sua complessa
stratificazione risponde perfettamente a un approccio metodologico che non può
essere definito propriamente “accademico”, e che spazia liberamente tra
molteplici suggestioni di carattere storico, filosofico, politico, letterario
che si connettono tra di loro secondo la modalità del racconto che è propria
dello stile e del pensiero di Hannah Arendt, e che rispecchiano appieno la sua
ricca formazione intellettuale.
A tal proposito è necessario osservare come
tale formazione, benché stimolata e arricchita dal confronto con la realtà
statunitense, avvenga essenzialmente in Europa e si ispiri principalmente alla
cultura europea:
pur rimanendo legata al nuovo paese che la
ospita e al quale guarda come un esempio di democrazia in cui la nazionalità
dominante non si identifica con lo Stato, la Arendt privilegia senza dubbio le
fonti europee a quelle americane in un percorso che fa proprie con assoluta
naturalezza la filosofia politica dell’antica Grecia, la poesia tedesca, la
letteratura dell’Europa orientale, la fenomenologia tedesca e francese, la
tradizione ebraica dei” pariah” e quella rivoluzionaria della partecipazione diretta dei
cittadini alla cosa pubblica.
L’eterogenea
strutturazione di questo strano capolavoro, che si snoda attraverso l’intreccio
di molteplici storie e singoli episodi che improvvisamente si addensano
nell’evento totalitario, deriva quasi certamente dalla presa di distanza
dell’autrice rispetto alle posizioni espresse dalla tradizione storicistica
tedesca, intendendo con ciò non solo la dottrina, di ispirazione hegeliana, che
concepisce la storia come svolgimento reale e necessario, o quella più
propriamente fideistica sostenuta da Troeltsch e Meinecke;
ma anche il dibattito degli ultimi decenni
dell’800, che riceve un sostanziale contributo dal pensiero di Max Weber, in
merito ai problemi del metodo e della spiegazione della realtà storica, della
storia intesa come un sistema di connessioni causali concrete, del legame che
unisce ricerca storica e scienze sociali.
Sebbene
il modello di spiegazione weberiano non possa essere quello di una “deduzione”
degli avvenimenti da leggi generali, per Weber ogni scienza si avvale sempre
della spiegazione causale, ed essa non può fare a meno non soltanto di concetti
generali, ma anche di “regole empiriche”, di leggi.
L’obiezione
principale che la Arendt muove alle scienze sociali presuppone il netto rifiuto
dell’autrice di assumere la storia come insieme di eventi sottoposti a leggi o
a “regolarità”:
le
scienze sociali, infatti, attraverso l’esercizio della predizione e della
ripetizione, negano la novità dei fenomeni, come quello totalitario,
riconducendoli al già noto e riconducendo sempre ad altro l’azione umana, a
cause psicologiche, sociali, culturali, economiche.
Al
contrario l’azione umana, col suo carattere spontaneo e imprevedibile, si
inserisce in un contesto di relazioni già date e difficilmente consegue lo
scopo perseguito, di conseguenza il fatto storico trascende sempre i fattori
che lo hanno determinato.
Scrive lei stessa in un articolo del 1954:
La
causalità, comunque, è una categoria assolutamente estranea e ingannevole nelle
scienze storiche.
Non
solo il significato effettivo di ogni evento in verità trascende qualsiasi
serie di cause passate che possiamo attribuirgli […] ma questo stesso passato
viene alla luce solo con l’evento stesso.
Solo
quando qualcosa di irrevocabile è avvenuto possiamo cercare di ricostruirne la
storia: l’evento illumina il proprio passato, non può mai essere dedotto da
esso.
In
nota si legge:
Tra
gli elementi del totalitarismo vanno incluse anche le sue origini, se per
origini non intendiamo cause.
Gli
elementi in quanto tali non causano mai nulla.
Essi diventano origini di eventi se e quando
si cristallizzano improvvisamente in forme immutabili e definite.
È la luce stessa dell’evento che ci consente
di distinguere i suoi elementi reali da un numero infinito di possibilità
astratte, ed è sempre questa stessa luce che deve guidarci all’indietro nel
passato sempre oscuro e incerto di questi elementi stessi. In questo senso, è
corretto parlare delle origini del totalitarismo, o di qualsiasi altro evento
storico.
In
tutta l’opera della Arendt è possibile scorgere una sorta di corrispondenza tra
analisi degli avvenimenti concreti e riflessione concettuale, in una rete di
rimandi e sollecitazioni imposte dall’urgenza di confrontarsi con il mondo
reale e dalla necessità di fornire risposte nell’ambito della teorizzazione
filosofico-politica.
La
storia come narrazione è dunque l’espediente che l’autrice utilizza per
ricostruire gli avvenimenti, mettendo in risalto la loro singolarità e
tracciando un quadro che privilegia le azioni umane piuttosto che le forze
impersonali della storia: in questo senso il rifiuto della processualità
configura l’evento come «crocevia di itinerari possibili», e rappresenta il
perno attorno al quale ruota la generale teoria politica dell’autrice.
L’obiettivo di questo lavoro, pertanto, è
quello di mettere in risalto la stretta connessione tra la teoria politica
arendtiana e la struttura dell’opera.
La
Arendt cominciò a scrivere “Le origini del totalitarismo” negli Stati Uniti tra
il 1945 e il 1946, ma già in Francia aveva in mente di intraprendere un lavoro
sull’ antisemitismo e sull’imperialismo, una ricerca storica su quel fenomeno
che allora chiamava «imperialismo razziale», vale a dire l’oppressione delle
minoranze nazionali da parte della nazione dominante di uno Stato sovrano.
Il titolo provvisorio era “Gli elementi della
vergogna:
antisemitismo, imperialismo e razzismo, e
sarebbero passati sei anni prima di giungere al titolo definitivo e alla
struttura tripartita che conosciamo.
I tre elementi, spiega la Arendt, sono
ciascuno espressione di un insieme di problemi politici reali alla base del
fenomeno totalitario, sorti sullo sfondo della disintegrazione dello
Stato-nazione ottocentesco e del collasso delle strutture politiche e sociali.
Proprio
all’interno di questa cornice si sviluppano gli elementi che costituiscono la
trama dell’opera:
la
questione ebraica, la nuova organizzazione dei popoli, l’organizzazione di un
mondo che diventa sempre più piccolo, la nuova concezione del genere umano.
La
trattazione del problema degli apolidi in particolare, tema molto caro alla
Arendt anche in relazione alla sua esperienza personale, è senza dubbio la più
rappresentativa per ciò che concerne il nesso tra la concezione della storia e
della politica dell’autrice e la peculiare struttura dell’opera.
Le
considerazioni di Hannah Arendt sulla figura dell’apolide muovono infatti
dall’analisi del fenomeno da un punto di vista storico-politico per poi
giungere a una riflessione critica sulla questione dei diritti umani e sul
paradosso caratteristico della cittadinanza moderna, cioè la coincidenza fra
quest’ultima e la nazionalità come principio fondante dello Stato-nazione:
mentre le dichiarazioni dei diritti dell’uomo
di stampo illuminista proclamavano l’ammissione di tutti gli individui al
riconoscimento sociale e giuridico, il mondo assisteva sempre più
all’aggravamento dei fenomeni di esclusione, da un lato, e allo slittamento del
tentativo di inclusione nella pratica dell’assimilazione dall’altro.
Per
comprendere appieno la catastrofe che si abbatte su individui che hanno perso
la tutela di un governo e la garanzia di protezione dei diritti umani, è quindi
necessario estendere il discorso alla più generale rappresentazione della
politica che fornisce Hannah Arendt:
infatti,
solo inserita all’interno della sua riflessione politica la condizione degli
apolidi risalta in tutta la sua drammaticità, perché viene affrontato
direttamente il problema tragico della perdita del mondo.
Punto
di partenza è la distinzione del rapporto dell’uomo con il mondo secondo tre
modalità:
l’attività lavorativa, l’operare e l’agire,
che insieme costituiscono la vita attiva.
La
prima, l’attività lavorativa, corrisponde allo sviluppo biologico del corpo
umano ed è legata al circolo prescritto dal processo biologico all’organismo
vivente, nel quale tutto ciò che il lavoro produce viene immesso e consumato
immediatamente per rigenerare il processo vitale e riprodurre nuova forza
lavoro.
Al
lavoro corrisponde la figura dell’”animal laborans”, l’uomo schiavo della
necessità e dei bisogni del suo corpo, estraniato ed espulso dal mondo appunto
perché imprigionato nella privatezza del proprio corpo.
L’operare
invece è l’attività il cui frutto corrisponde al mondo “artificiale”,
caratterizzato dalla durevolezza e nettamente distinto dal mondo naturale;
è
l’attività dell’”homo faber” che letteralmente opera e fabbrica quell’infinita
varietà di oggetti che saranno innanzitutto oggetti d’uso e solo
secondariamente di consumo.
L’agire,
sostiene la Arendt, è la sola attività che metta in rapporto diretto gli
uomini, e corrisponde alla condizione umana della pluralità, «al fatto che gli
uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo»;
la
pluralità è la condizione preliminare di ogni vita politica ed è «il
presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in
modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà».
Quindi
possiamo dire che l’azione politica è l’attività specificamente umana, il luogo
dell’esistenza autentica dove all’uomo è dato di realizzarsi come uomo e che
scaturisce dalla libertà come potere di intraprendere qualcosa di nuovo.
Strettamente connessa all’azione e categoria centrale del pensiero politico è
pertanto la natalità, perché ogni nuova nascita dà inizio a qualcosa di nuovo. Spiega Enegrén:
Prima
di tutto la nascita come venire al mondo è apparizione nel senso più forte:
ogni nascita è l’inaugurazione di una linearità unica che rompe con l’eterno
ritorno della natura poiché fa emergere nel mondo un essere che prima non
esisteva.
Similmente
l’azione fa apparire l’inedito.
Ma il concetto di natalità fornisce anche un
punto d’appoggio ontologico all’agire, in quanto ogni azione si può intendere
come l’eco dell’inizio di una vita essa stessa destinata a cominciare: la
condizione umana di natalità, a questo titolo, si declina appunto al livello
delle azioni particolari di cui costituisce l’archetipo metafisico.
Se,
infine, l’azione è appunto la risposta umana alla condizione di essere nato ,
ciò accade in quanto la nascita è, più originariamente, come matrice di tutte
le azioni, la libertà prima che consente di rompere con il passato.
Solo
nell’agire l’uomo è libero dalle necessità naturali e dagli imperativi della
tecnica, e soprattutto dal rapporto strumentale mezzo-fine che introduce
necessariamente un elemento di violenza.
L’azione non è mai possibile nell’isolamento
perché la sfera politica sorge direttamente dall’agire-insieme e dal confronto
fra soggetti diversamente opinanti che si incontrano in uno spazio pubblico;
questa
pluralità è contraddistinta dal duplice aspetto dell’eguaglianza e della
distinzione, dove all’eguaglianza di condizione politica, che si esplica
nell’accesso di tutti allo spazio pubblico e nell’eguale partecipazione al
potere, si affianca la distinzione intesa come possibilità di distinguersi
dagli altri manifestando la propria peculiare identità.
È
proprio perché con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo che
ci si può attendere l’inatteso dall’uomo:
agire, ci fa notare la Arendt, ha proprio il
significato di iniziare, come indica la parola greca “archein”, incominciare,
condurre, governare;
e
scaturisce dalla pluralità di essere unici, perché «se l’azione come
cominciamento corrisponde al fatto della nascita, […] allora il discorso
corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della condizione
umana della pluralità».
Per la
Arendt, dunque, il discorso e l’azione sono le modalità essenziali attraverso
le quali riveliamo questa unicità nella distinzione, come per Aristotele erano
le uniche due attività stimate politiche e costitutive del “bios politikos”, da
cui trae origine il dominio degli affari umani nel quale ogni considerazione
sull’utile o sulla necessità era rigorosamente esclusa.
La
concezione politica di “Hannah Arendt” si ancora saldamente alla riflessione
sull’esempio storico della polis greca, dove l’azione veniva innalzata al rango
supremo, perché essa «ha determinato in misura decisiva, sul piano linguistico
e del contenuto, l’idea europea della reale natura e del senso della politica»
.
Questo
non significa che la Arendt vagheggi nostalgicamente un ritorno a quel tipo di
esperienza;
il suo
scopo è quello di evidenziare come nell’esperienza greca si disveli uno spazio
che può essere creato solo da molti e nel quale ognuno si muove tra i suoi
pari, in contrasto con «l’espropriazione moderna della politica» e
l’irresistibile ascesa della macchina amministrativa contro la possibilità
della politica intesa come cittadinanza diretta.
Va
aggiunto che nel pensiero politico tradizionale “Hannah Arendt” vede il
progressivo affermarsi di determinazioni non originarie dell’agire e del
politico, come evidenzia “Franco Volpi”:
Esse
non sono originarie nel senso che non poggiano su un accoglimento genuino e
appropriato dei caratteri specifici di tale campo fenomenico, ma lo comprendono
invece nel quadro di un implicito privilegio della teoria, non messo in
questione .
Il
filo conduttore che attraversa le motivazioni originarie del progetto di Hannah
Arendt è l’intento di una decostruzione del carattere teoretico del pensiero
politico tradizionale, la quale, mutuando da Aristotele alcune strutture
categoriali importanti, mira a spianare il terreno per una comprensione
specifica dell’autenticità dell’agire come determinazione fondamentale del
vivere umano.
Aristotele,
ci dice la Arendt, distingueva diversi modi di vita che gli uomini potevano
scegliere in libertà (la vita dei piaceri corporei, la vita dedicata alla polis
e la vita del filosofo dedita alla contemplazione delle cose eterne),
escludendo tutti quei modi di vita principalmente dediti alla conservazione
della vita stessa, dunque l’attività lavorativa e l’operare.
Infatti, poiché essi producevano ciò che era
necessario, erano costretti dalle necessità umane e pertanto non potevano
essere liberi, diversamente dalla vita politica che si svolgeva in una forma di
organizzazione, la polis, liberamente scelta, e che presupponeva la costante
presenza degli altri.
Quindi,
mentre la libertà risiedeva esclusivamente nella sfera politica, la necessità
era soprattutto un fenomeno prepolitico caratteristico dell’organizzazione
domestica privata, in cui il capo della casa reggeva la famiglia e i suoi
schiavi.
Poiché
la polis rappresentava la forma più alta di convivenza umana, essere liberi e
vivere in una polis erano in un certo senso la stessa cosa:
tuttavia, per essere partecipe di questa
esperienza, occorreva in primo luogo che l’uomo fosse già libero;
non
poteva essere né uno schiavo soggetto all’altrui coercizione né un lavoratore
manuale soggetto al bisogno di guadagnarsi il pane quotidiano.
Il
mezzo decisivo per acquisire la libertà che avrebbe permesso la partecipazione
alla vita politica e alla polis era la schiavitù, il potere di costringere
altri ad assumersi l’onere del vivere quotidiano:
La
polis si distingueva dalla sfera domestica in quanto si basava sull’eguaglianza
di tutti i cittadini, mentre la vita familiare era il centro della più rigida
disuguaglianza.
Essere
liberi significava sia non essere soggetti alla necessità della vita o al
comando di un altro, sia non essere in una situazione di comando.
Significava non governare né essere governati.
[…]
Essere liberi voleva dire essere liberi dalla
disuguaglianza connessa a ogni tipo di dominio e muoversi in una sfera dove non
si doveva né governare né essere governati.
Nella
sfera domestica, quindi, non esisteva libertà, ma privazione dell’autenticità:
in essa si realizzava l’emancipazione prepolitica per la libertà nella polis, e
il capofamiglia era considerato libero solo in quanto aveva il potere di
lasciare la propria casa per accedere alla sfera politica costituita dai suoi
pari.
Questa
sfera, in cui si muovono uomini uguali, è caratterizzata dall’isonomia, dal
pari diritto all’attività politica, che nella polis era prevalentemente
un’attività dialogica.
L’atto
libero del discorso, nel mondo greco, è un surrogato del fare, o meglio, non vi
è distinzione tra parlare e agire:
in Omero infatti «chi compie grandi gesta deve
sempre proferire anche grandi parole, e non solo perché le grandi parole devono
accompagnare a mo’ di spiegazione le grandi gesta, che altrimenti, mute,
cadrebbero nell’oblio, ma perché lo stesso parlare era considerato a priori un
modo di agire”.
La
capacità di dialogare, di comunicare con i molti e di esperire quella pluralità
complessiva che è il mondo era l’effettivo contenuto del politico, perché
soltanto nella libertà di dialogare il mondo appare nella sua obiettività
visibile:
per questo la vita privata ai greci appariva
«idiota”, perché le era negata quella pluralità di discorrere e con essa
l’esperienza della realtà del mondo.
Discorso
ed azione venivano considerati equivalenti, e ciò significava che l’azione più
politica si realizzava nel discorso, perché trovare le parole opportune al
momento opportuno era l’unica risposta ai colpi inferti dagli dei.
Essere
politici, vivere nella polis, significava che tutto si decideva con le parole:
per questo alla famosa definizione
aristotelica dell’uomo come “zoon politikon” si affianca l’altra, altrettanto
famosa, dell’uomo come “zoon logon ekhon”, un essere vivente capace di
discorso.
In base a questa determinazione, lo schiavo,
il barbaro, chiunque si trovasse al di fuori della polis era considerato “aneu
logou”, «privo, naturalmente, non della facoltà di parlare, ma di un modo di
vita nel quale solo il discorso aveva senso e nel quale l’attività fondamentale
di tutti i cittadini era di parlare tra loro».
A
garantire che la realtà fosse discussa e affermata da tutti e che tutti i pari
avessero la possibilità di sperimentare effettivamente le condizioni di
eguaglianza e libertà era lo spazio pubblico, l’elemento comune in cui tutti si
raccolgono e in cui tutti gli oggetti possono risaltare nella loro
poliedricità.
La
facoltà argomentativa, sostiene la Arendt, consisteva nella facoltà di vedere
realmente le cose da diversi lati, cioè di assumere sul piano politico le tante
possibili posizioni presenti nel mondo reale da cui la stessa cosa può essere
osservata;
lo spazio pubblico è il luogo nel quale una
cosa può essere vista e udita da tutti, e vivere insieme significa
essenzialmente «che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune
[…];
il mondo, come ogni in-fra (in-between), mette
in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo (…].
La
realtà della sfera pubblica si fonda sulla presenza simultanea di innumerevoli
prospettive; ciascuno può essere visto e udito perché ciascuno vede e ode da
una diversa posizione, e questo multi prospettivismo è l’unica garanzia della
realtà del mondo, perché «solo dove le cose possono essere viste da molti in
una varietà di aspetti senza che sia cambiata la loro identità, […]
la
realtà del mondo può apparire certa e sicura».
Parzialità
e pluralità di prospettive sono due concetti essenziali che la Arendt condivide
del resto con “Merleau-Ponty”, il quale ci suggerisce un’esperienza del mondo
nel senso di una totalità aperta la cui sintesi è interminabile e in cui gli
oggetti sono reali perché penetrati da tutti i lati da un’infinità di sguardi:
la pluralità di prospettive, che assicura la
realtà e l’identità del mondo, «se è il mezzo che gli oggetti hanno per
dissimularsi, è anche il mezzo che essi hanno per svelarsi. […]
In altri termini: guardare un oggetto
significa venire ad abitarlo, e da qui cogliere tutte le cose secondo la faccia
che gli rivolgono».
La
facoltà di osservare la stessa cosa dai punti di vista più disparati fa sì che
alla propria posizione determinata l’uomo sostituisca quella degli altri con i
quali condivide il mondo:
Il
cogito altrui – continua “Merleau-Ponty” – destituisce di ogni valore il mio
proprio cogito e mi fa perdere la sicurezza, che avevo nella solitudine, di
accedere all’unico essere per me concepibile, all’essere così come viene
intenzionato e costituito da me. […]
In realtà, l’altro non è chiuso nella mia
prospettiva sul mondo poiché questa prospettiva stessa non ha limiti definiti e
scivola spontaneamente in quella altrui, poiché sono entrambe raccolte in un
unico mondo al quale noi tutti partecipiamo come soggetti anonimi della
percezione.
Per
questo motivo il senso comune è definito il senso politico per eccellenza, che
a sua volta assume a modello il giudizio estetico kantiano espresso nella “Critica
del giudizio”, il quale riguarda un oggetto assolutamente particolare (giudizio
riflettente).
Esso
si radica «in una specie di “sensus communis”» come facoltà di giudicare che
tiene conto, nella sua riflessione, del modo di rappresentare di tutti gli
altri uomini, per mantenere il proprio giudizio nei limiti della ragione umana
nel suo complesso e per evitare l’illusione di ritenere oggettive delle
condizioni particolari e soggettive.
Il
senso comune occupa un posto così rilevante nella gerarchia delle qualità
politiche perché tramite esso i nostri cinque sensi riescono ad aderire alla
realtà complessiva delle cose.
Così
il giudizio estetico-politico di Kant ci porta inevitabilmente agli altri (la
Arendt parla di” otherdirectedness”, l’eterodirezione fondamentale del
giudizio) grazie al senso comune tramite il quale gli uomini comunicano;
infatti, sebbene il giudizio sia segnato da
interessi soggettivi,
[…] il
dibattito decanta e moltiplica questa soggettività che, invece di
relativizzarsi, si conferma incessantemente nello scambio e acquista
un’oggettività di nuovo genere, poiché il mondo che si offre nella discussione
è interamente presente negli aspetti infinitamente diversi che presenta. […]
Giudicare
è scoprire un senso nel mondo, allo scopo di orientarsi in esso per un’azione
il cui ambiente naturale è la contingenza nella quale essa deve sempre aprirsi
un cammino, imprevedibilmente.
La
parola, sostiene pertanto la Arendt, è rivelatrice, ed è anche manifestazione
di colui che parla, il quale si scopre e si espone agli altri:
egli è
l’attore esposto agli occhi di tutti e che ha come testimoni coloro insieme ai
quali agisce, che non è nulla senza l’eco che gli rimandano i suoi pari;
in
lui, essere-al-mondo e per-il-mondo, si intrecciano desiderio di vedere e
desiderio di essere visto insieme all’incessante premura di distinguersi.
Il singolo, nel suo isolamento, non è mai
libero e la libertà, pertanto, trae sempre origine dall’infra che si crea
soltanto dove si radunano molte persone e che può sussistere soltanto finché
esse rimangono insieme;
così,
nel mondo greco, essa era limitata spazialmente dalle mura della città,
coincideva con la polis al di fuori della quale non era possibile essere uomini
politici.
«L’infra – suggerisce la Arendt – è ciò che è
autenticamente storico-politico […]: non è l’uomo a essere uno “zoon politikon”,
o a essere storico, ma gli uomini, nella misura in cui si muovono nell’ambito
che sta tra di loro».
Attraverso
il recupero dell’etimo originario della parola “agire”, la Arendt vuole
mostrare anzitutto la stretta connessione tra azione e inizio, e quindi, tra
azione e novità, nel senso che solo agendo si può imprimere una svolta alla
storia:
per
questo tutta la sua concezione politica si determina negativamente in rapporto
alla natura, luogo della ineluttabilità in cui la spontaneità non riesce mai a
collocare un elemento d’incertezza:
Solo
nella sfera politica – commenta “Paolo Flores d’Arcais” – l’uomo attinge la
propria «natura», si sottrae e contrappone cioè alla natura.
Solo
politicamente vive fino in fondo il tratto peculiare che, entro il mondo della
natura, lo qualifica come uomo, lo individua rispetto alla spora e
all’unicorno. Privato della politica, l’uomo è privato di ciò che appartiene
solo a lui e che perciò gli è proprio, gli appartiene in modo eminente: la
differenza.
La
natura è sinonimo di un incessante trascorrere, di un ordine necessario in cui
la spontaneità assoluta, «il segno della possibilità essenziale dell’essere
liberi», non trova espressione.
Perciò l’azione è essenzialmente contro
natura, nel senso che si sottrae alla in-differenza.
Dal
carattere innovativo e libero che la Arendt imputa all’azione derivano i suoi
esiti problematici e irrazionali, vale a dire la sua imprevedibilità e la sua
irrevocabilità.
Poiché imprevedibile, l’azione entra in modo
del tutto inatteso in collisione con altre iniziative comportando ripercussioni
non dominabili;
essa
possiede una straordinaria capacità di propagazione e innesta catene di
conseguenze che sfuggono totalmente alle intenzioni degli attori.
Poiché irrevocabile, ogni azione determina
conseguenze incancellabili nelle quali impegniamo la nostra responsabilità,
sebbene nessuno di noi sia in grado di valutare il senso oggettivo della
propria azione, non perché non ne siamo del tutto gli autori, ma perché «essa è
sempre interazione che suscita effetti di composizione perfettamente inattesi».
L’intuizione
fondamentale della Arendt consiste nel pensare che l’azione non dev’essere
rappresentata secondo il rapporto strumentale mezzo-fine che governa la
fabbricazione:
per questo l’azione è essenzialmente “energeia”,
“attualità”, nel senso di essere in atto, termine che Aristotele impiegava per
designare tutte le attività che non perseguono un fine, ma esauriscono il loro
significato nell’esecuzione stessa.
L’azione
è dunque fine a sé stessa, perché il suo fine si trova nella stessa attività e
perché esiste solo in pura attualità.
Poiché
non mira ad alcun bene tangibile, essa, come direbbe “Lévinas”, «richiede a
coloro che la esercitano una posta a fondo perduto»:
in
altre parole, «il mezzo per conseguire il fine sarebbe già il fine; e questo
fine, d’altro canto, non può esser considerato come un mezzo anche a diverso
titolo, perché non c’è nulla di più elevato da raggiungere che questa stessa
attualità».
La
«triplice frustrazione» connessa all’agire – imprevedibilità dell’esito,
irreversibilità del processo e anonimità degli autori – è il prezzo che l’uomo
paga per poter esperire la realtà, e deriva in prima istanza dalla condizione
umana della pluralità, il requisito preliminare di quello spazio dell’apparenza
che è la sfera pubblica, lo spazio di visibilità in cui gli uni appaiono agli
altri e si riconoscono a vicenda, che in sostanza costituisce la condizione di
possibilità dell’essere-insieme.
Poiché
ognuno detiene una propria posizione delimitata nel mondo, la caratteristica
dello spazio pubblico è quella di unire e separare allo stesso tempo, cioè di
«articolare la pluralità attraverso relazioni che non siano né verticali né
gerarchiche né di tipo fusionale».
Colpisce subito come la Arendt definisca il
suo concetto di politica a partire da una concezione puramente orizzontale del
potere, prodotto dell’interazione discorsiva e pratica di individui liberi ed
eguali, che esclude ogni tipo di professionalizzazione della politica ed ogni
tentativo di sottrazione della sfera pubblica.
Ciò che mantiene in vita la sfera pubblica è
il potere che si genera dal vivere insieme delle persone, dal condividere
parole e azioni; esso corrisponde in primo luogo alla condizione della
pluralità e per questa ragione può essere diviso senza che diminuisca:
«Potere corrisponde alla capacità umana non
solo di agire ma di agire di concerto. Il potere non è mai proprietà di un
individuo; appartiene a un gruppo e continua a esistere soltanto finché il
gruppo rimane unito».
Il
potere, quindi, consiste nella coesione dello spazio politico che si crea tra
uomini che condividono parole e azioni, e pertanto non presuppone affatto la
possibilità di sottomettere la volontà altrui.
Anziché
caratterizzare il politico secondo le categorie dominio/obbedienza, per Hannah
Arendt non esiste politica dove c’è dominio:
come per i greci la relazione tra governare ed
essere governati era considerata identica a quella tra padrone e schiavo e di
conseguenza precludeva ogni possibilità di azione, così la Arendt intende
qualsiasi forma di assoggettamento come il sintomo di una perdita di potere dei
cittadini riuniti che assume connotazioni fondamentalmente antipolitiche.
La
violenza è un principio opposto e incompatibile con il potere, non sarà mai
potere, ma solo dispotismo e prevaricazione (sebbene la Arendt ammetta il ricorso
alla violenza qualora l’uomo venga offeso nei fondamenti più elementari della
sua dignità).
Per
questo motivo propone un modello della politica che si ispira alla democrazia
consiliare, individuando le molteplici occasioni in cui i cittadini hanno
tentato spontaneamente di dar vita a forme di partecipazione diretta alla vita
pubblica:
le sezioni parigine della Rivoluzione
francese, la Comune del 1871, i soviet del 1905 e del 1917, i Räte della
Germania del primo dopoguerra, e infine i consigli della Rivoluzione ungherese
del 1956.
Il
modello della democrazia dei consigli si delinea come un tentativo di
frammentazione del potere, che si configura così come un potere con-diviso, «il
che non vuol dire semplicemente distribuito fra tutti, ma fra tutti partecipato
a partire da divisione, punti di vista parziali (di parte!), opinioni che per
definizione non aspirano affatto a oggettività».
L’estensione del potere deve avvenire
attraverso una condivisione che prevenga la sua degenerazione in una forza
monopolizzabile, proprio perché il potere è pluralità; in questo senso i
consigli (e qui ancora una volta avvertiamo l’influenza di Rosa Luxemburg) sono
stati la testimonianza di un movimento interamente politico che cercava di
assicurare la partecipazione attiva delle masse popolari in una democrazia
senza limiti.
Come la Luxemburg, Hannah Arendt insiste sul
fatto che la buona organizzazione non precede l’azione ma ne è il prodotto, e
proprio per questo nei suoi scritti non troviamo altro che indicazioni sparse
intorno all’idea di un’organizzazione orizzontale del potere, ma mai un
programma preciso o uno schema stabilito che, come osserva “Enegrén”,
«ipotecherebbe una creazione che non può che essere inattesa».
Questo,
a grandi linee, è lo sfondo che determina la riflessione della Arendt in merito
al problema degli apolidi.
È
chiaro che, inserita in questo contesto, la condizione dei senza patria si
carica di un senso tragico che deriva dall’essere considerati, una volta persi
i diritti nazionali, nient’altro che nuda vita.
Oltre
ad aver perso la patria, vale a dire l’ambiente circostante, il tessuto sociale
in cui si sono creati un posto nel mondo, e la protezione del governo con la
conseguente perdita dello status giuridico in tutti i paesi, essi sono
costretti a vivere al di fuori di ogni comunità.
Per
loro non esiste più nessuna legge: essi sono diventati perfettamente
«superflui», perché «la privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto
nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle
azioni un effetto».
Su un
numero crescente di persone si è abbattuta la sventura di aver perso una
comunità disposta a garantire qualsiasi diritto:
perdendo
la comunità, essi sono considerati “aneu logou”, privi della capacità di
instaurare ogni tipo di relazione umana e di intraprendere un’azione politica.
In questo senso, si trovano condannati a
vivere una condizione di superfluità che deriva dal fatto di non poter vedere
né essere visti all’interno dello spazio pubblico, di essere privati della
capacità di muoversi tra i propri pari e di riconoscersi come membri di una
comunità composta di individui liberi ed uguali.
Per i
greci, un uomo che non poteva accedere alla sfera pubblica, che non poteva
apparire, come lo schiavo o il barbaro, non era pienamente umano:
questa
è anche la condizione degli apolidi che, una volta costretti a vivere al di
fuori di ogni comunità, sono confinati nella loro condizione naturale e ridotti
a null’altro che rappresentanti della propria diversità assolutamente unica,
l’astratta nudità dell’essere-nient’altro-che-uomo spogliata di ogni
significato perché privata dell’azione in un mondo comune.
La
perdita della comunità politica pertanto equivale, nella concezione della
Arendt, alla perdita dell’umanità:
e
«poiché soltanto i selvaggi non hanno più nulla da esibire all’infuori del
minimo dell’origine umana, gli apolidi si aggrappano disperatamente alla loro
nazionalità, che li distingue da quelli, pur non assicurandogli più né
protezione né diritti», perché rappresenta l’unico superstite legame con
l’umanità.
Dal
momento che il” concetto di politica” significa appartenenza attiva ad una
comunità di uomini liberi, l’uomo può essere protetto solo da una comunità
politica che permette di eguagliare le differenze e consente l’azione paritaria
di individui e popoli diversi.
La vita politica si fonda sul presupposto
dell’instaurazione dell’eguaglianza attraverso l’organizzazione, poiché,
sostiene la Arendt, non si nasce eguali, «ma si diventa eguali come membri di
un gruppo in virtù della decisione di garantirsi reciprocamente eguali
diritti».
Solo
la politica, intesa come impegno contrario al ripiegamento nella sfera
individuale, può ridare il mondo agli uomini:
nella
nuova congiuntura storica del primo dopoguerra, chi non possiede la nazionalità
è come se non fosse nemmeno umano;
l’espulsione dal mondo, la privazione di
quello che la Arendt ha definito lo spazio dell’apparenza, sono come «un invito
all’omicidio, in quanto che la morte di uomini esclusi da ogni rapporto di
natura giuridica, sociale e politica, rimane priva di qualsiasi conseguenza per
i sopravviventi».
La
Arendt osserva che con la scomparsa dell’”antica città-stato” il termine “vita acetiva”
perdette il suo significato originario e specificamente politico a favore di
una concezione contemplativa della vita (bios theoretikos) che veniva elevata
ad attività suprema dell’uomo e indicata come il solo modo di vita veramente
libero.
La
superiorità della vita contemplativa ha origine nella filosofia politica di
Platone, dove la riorganizzazione utopistica della vita della polis non ha
altro scopo che rendere possibile il modo di vita del filosofo:
Platone,
il padre della filosofia politica occidentale, ha tentato in vario modo di
contrapporsi alla polis e alla sua idea di libertà.
Lo ha fatto ricorrendo a una teoria politica
in cui i criteri del politico sono desunti non dalla politica stessa ma dalla
filosofia, a una dettagliata stesura di una costituzione le cui leggi
corrispondono alla idee accessibili soltanto ai filosofi.
L’evento
decisivo fu il conflitto tra il filosofo e la polis che data dalla morte di
Socrate:
con
Platone si è affermato il primato del” bios theoretikos” e del modo di vita
filosofico in opposizione alla futilità delle cose umane, poiché «nessuna opera
prodotta dalle mani dell’uomo può eguagliare in bellezza e verità il “kosmos
fisico”, che ruota nell’eternità immutabile senza alcuna interferenza o
assistenza dall’esterno». La supremazia della contemplazione dell’eterno fa
dell’apolitia una categoria privilegiata che riceverà la sua consacrazione dal
cristianesimo.
L’”antipolitica
cristiana” infatti, con il suo ripiegarsi sulla vita privata e
sull’interiorità, si basava sull’assunto che il mondo non sarebbe durato, e fu
in un certo senso la risposta destinata a tenere insieme una comunità di
persone che avevano perduto il loro interesse nel mondo comune.
Il
cristianesimo, con la sua fede in una vita futura, invitava all’astensione dal
mondo;
poiché
è questo, e non più l’uomo, ad essere mortale, è preferibile vivere calmi,
occuparsi dei propri affari e rinviare qualsiasi forma di attività alle
necessità della vita terrestre:
L’attività
politica, che fino allora aveva derivato il suo più grande stimolo
dall’aspirazione all’immortalità mondana, piombava ora al basso livello di
un’attività soggetta alla necessità, destinata a riparare le conseguenze dello
stato di peccato dell’uomo da una parte, e a provvedere ai legittimi bisogni e
necessità della vita terrena, dall’altra.
L’insistenza
cristiana sulla sacralità della vita tendeva oltretutto a livellare le antiche
distinzioni all’interno della “vita attiva” e a considerare il lavoro, l’opera
e l’azione come tre modalità egualmente soggette alla necessità del presente.
In
seguito, nell’età moderna, l’opera prese il posto della vita contemplativa al
culmine della gerarchia dei modi d’essere, conseguenza della rivoluzione
galileiana che faceva coincidere il fare e il sapere e garantiva il trionfo
dell’”homo faber”, il cui modello artificialista si sarebbe imposto anche nel
pensiero politico con l’introduzione del rapporto strumentale mezzo-fine.
A questo proposito la Arendt parla di
alienazione e di perdizione dell’individuo nel genere, dell’opinione politica
nella regola tecnica, del luogo pubblico nell’universo della fabbricazione in
cui vige, sopra tutti, il principio di utilità.
Gli atteggiamenti tipici dell’”homo faber”, la
sua strumentalizzazione del mondo, la sua fiducia negli strumenti e nella
portata onnicomprensiva della categoria mezzo-fine, la sua convinzione che ogni
motivazione umana possa essere ridotta al principio di utilità, hanno portato
inevitabilmente ad una identificazione acritica della fabbricazione con
l’azione. Infine, a partire dalla rivoluzione industriale, anche gli ideali
dell’”homo faber,” il costruttore del mondo, sono stati sacrificati a favore di
quelli dell’”animal laborans” che, con l’emancipazione del lavoro e l’avvento
della società, è stato messo nella condizione di occupare la sfera pubblica:
nella
società moderna del consumo, infatti, rimaneva solo la forza del processo
vitale, alla quale tutti gli uomini e tutte le attività umane erano egualmente
sottomesse e il cui solo scopo era la sopravvivenza della specie dell’animale
umano.
L’apparizione e la visibilità del ciclo
biologico del lavoro e del consumo in ultima analisi conducono al livellamento
di tutte le possibilità di vita attiva che viene ridotta alla pura
soddisfazione delle necessità della vita.
Nel
ciclo produzione-consumo l’uomo non ottiene altro che un benessere istupidito:
L’ultimo
stadio della società del lavoro, – afferma la Arendt – la società degli
impiegati, richiede ai suoi membri un duplice funzionamento automatico, come se
la vita individuale in effetti fosse stata sommersa dal processo vitale della
specie e la sola decisione attiva ancora richiesta all’individuo fosse di
lasciare andare, per così dire di abbandonare la sua individualità, la fatica e
la pena di vivere sentiti ancora individualmente, e di adagiarsi in un
attonito, tranquillizzato, tipo funzionale di comportamento.
La
critica di Hannah Arendt verte principalmente sulla moderna scomparsa della
sfera pubblica e della sua sostituzione con la sfera sociale:
quest’ultima, che non è né privata né
pubblica, è un fenomeno relativamente nuovo che ha coinciso con il sorgere
dell’età moderna e ha trovato piena espressione politica nello Stato nazionale.
Ciò
che la Arendt intende quando parla di questo ibrido che è il sociale è
l’estensione della comunità domestica (oikia), e delle attività economiche ad
essa connesse, al dominio pubblico, e la gestione collettiva di faccende che
precedentemente rientravano nella sfera familiare:
«La collettività di famiglie economicamente
organizzate come facsimile di una famiglia superumana è ciò che chiamiamo
società, e la sua forma politica di organizzazione è la nazione».
Fin
dal principio la società è definita come una forma di comunità in cui
l’economico, usurpando lo spazio prima riservato al politico, è trasportato
nella visibilità del pubblico, e, come la sfera domestica, esclude la
possibilità dell’azione che viene ora assorbita da un «potere amministrativo»
sempre più esteso.
Naturalmente
questo avvento della società ha preteso da ciascuno dei suoi membri la
conformazione a un certo genere di comportamento, arrogandosi il diritto di
stabilire regole e norme per «normalizzare» la loro condotta e per designare
come «anormale» chiunque sfugga alle tipologie stabilite:
la società di massa è riuscita anche ad
estinguere la sfera privata, controllando tutti i membri della comunità in
maniera uniforme e con la stessa forza.
L’eguaglianza
moderna, riflette la Arendt, non è altro che il riconoscimento politico e
giuridico del fatto che la società ha conquistato l’ambito pubblico, è cioè
basata sul conformismo e sul fatto che «il comportamento ha sostituito l’azione
come modalità primaria di relazione fra gli uomini».
La critica alla società di massa condotta
dalla Arendt si incentra sul problema della mancanza di responsabilità politica
dei singoli e sui pericoli di una delega dell’azione politica a pochi esperti,
tutti fattori che conducono ad una pericolosa chiusura degli uomini nella loro
sfera lavorativa e alla perdita del mondo comune.
È
proprio a partire da questo vasto quadro di riferimento che la peculiare
struttura dell’opera, frutto di un complesso procedimento a ritroso teso a
rintracciare i fattori che in qualche misura si sono cristallizzati nell’evento
totalitario, appare motivata e in conformità con la visione politica della
Arendt:
infatti, l’assunzione e la descrizione della
storia come insieme di eventi sottoposti a leggi – e la conseguente
sottomissione alla coerenza che sottende il ragionamento logico e che è
impossibile trovare nel reale –, significherebbe cancellare lo spazio per
l’azione libera che sceglie, prodotta da individui che comunicano tra di loro.
Non vi sarebbero più esistenze, ma solo le
eterne leggi dell’essere nel suo processo causale:
se vi è Storia, commenta allora “Flores
d’Arcais”, non vi è futuro.
Perché
le filosofie della storia e la filosofia politica hanno in comune il fatto di non
cogliere mai il nocciolo della politica:
l’uomo che agisce come essere-con-gli-altri
superando tutti i calcoli e le aspettative.
Il pensiero politico di Hannah Arendt muove da
premesse diverse:
la
vicenda umana è il luogo dell’inatteso, delle conseguenze impreviste e non
pianificabili, e la contingenza degli eventi è il prezzo che si deve pagare se
si vuole mantenere la libertà, l’«abisso della libertà» dove il giudizio
diventa la prassi della responsabilità.
Sui
dazi Elon Musk non
è
d’accordo con Trump.
Ilpost.it
– Mondo -Redazione – (5 aprile 2025) – ci dice:
Intervistato
da Matteo Salvini al congresso della Lega ha detto di sperare che presto ci
saranno «zero dazi» fra Europa e Stati Uniti.
Sabato
il miliardario Elon Musk, fra i più stretti collaboratori di Donald Trump, ha
detto di sperare che in futuro si arriverà a una «situazione di zero dazi» e a
una «zona di libero scambio» fra Europa e Stati Uniti.
Ha
aggiunto che questo è il «consiglio che ho dato al presidente».
Nonostante non l’abbia direttamente criticata,
Musk ha in parte preso le distanze dalla decisione di Trump di imporre dei dazi
nei confronti di tutti i partner commerciali degli Stati Uniti:
tra
questi c’è anche l’intera Unione Europea, a cui saranno imposti dazi del 20 per
cento a partire dal 9 aprile.
Musk
ha fatto queste dichiarazioni mentre veniva intervistato da remoto da Matteo
Salvini durante il congresso della Lega, che si sta svolgendo questo fine
settimana a Firenze.
Elon
Musk è stato fino ad oggi uno dei più leali collaboratori di Trump, ma i toni
della sua risposta sono stati molto diversi rispetto a quelli tenuti negli
ultimi mesi: nell’ultimo anno ha sempre sostenuto e lodato pubblicamente tutte
le proposte e le misure attuate da Trump e dalla sua amministrazione.
Mercoledì invece non era presente all’evento
in cui Trump annunciava i dazi e negli ultimi giorni non ha quasi commentato la
misura su “X”, il social network che possiede e su cui pubblica abitualmente
decine di tweet al giorno.
Oltre
a far parte dell’amministrazione di Trump come capo del dipartimento per
l’Efficienza del governo (DOGE), Elon Musk è amministratore delegato di diverse
aziende, fra cui le più importanti sono “Tesla” e “SpaceX”, che insieme a
moltissime altre hanno subito un contraccolpo economico in seguito all’annuncio
dei dazi e a maggior ragione subiranno grosse perdite quando i dazi entreranno
in vigore.
Oltre
alle grosse perdite in borsa, “Tesla” produce e vende i suoi veicoli elettrici
in molti paesi che non sono gli Stati Uniti, fra cui diversi stati membri
dell’Unione Europea.
Sia “SpaceX
“che Tesla inoltre si procurano molti componenti e materiali necessari per i
loro prodotti dall’estero:
“
SpaceX” per esempio fa affidamento su fornitori che hanno sedi a Taiwan, in
Vietnam e in Thailandia, su cui il governo statunitense ha imposto
rispettivamente dei dazi del 32, 46 e 36 per cento.
I dazi
annunciati da Trump, tra i più alti della storia recente e molto problematici,
sono stati ampiamente criticati negli ultimi giorni da moltissimi leader
internazionali, imprenditori ed economisti.
Giovedì
hanno fatto crollare le borse, fra cui in particolare quella statunitense che
ha avuto la sua giornata peggiore dalla primavera del 2020.
Molti
ne hanno parlato come la possibile causa di una futura recessione globale, a
partire da un probabile rallentamento della crescita economica degli Stati
Uniti, cosa che Trump ha fortemente smentito.
Nessuno
è contento dei dazi di Trump.
Di un
possibile intervento di Musk al congresso della Lega si parlava già da qualche
giorno.
Nelle
ultime settimane Musk si era infatti avvicinato a Salvini e allontanato dalla
presidente del Consiglio Giorgia Meloni per via dei ripensamenti di Fratelli
d’Italia sull’opportunità di definire un accordo con “SpaceX” per affidargli i
servizi di telecomunicazione satellitare in ambiti istituzionali e militari.
Prima
Elon Musk puntava su Meloni, ora su Salvini.
Le
ginocchiate sotto
la
cinta dell'Occidente.
Corriere.it
- Andrea Marinelli & C. – (20
febbraio 2025) – ci dicono:
Il
nuovo asse fra Washington e Mosca spaventa l'Europa e fa felici alleati e
sostenitori dei due leader:
nella
capitale americana si seguono le decisioni imposte dal presidente, che fa
cancellare gli abbonamenti ai giornali per ambasciate e consolati nel mondo e
si intanto si proclama re di New York;
in quella russa si festeggia per la
ginocchiata inflitta sotto la cintura dell'Occidente collettivo dall'amico
Donald.
Intanto
a Bruxelles si cerca ancora un compromesso.
Oggi
America Cina riparte da qua:
dal
patto fra Trump e Putin, dalle conseguenze per l'Ucraina spinta verso le
trattative e per la nostra vecchia Europa.
C'è
tanto Donald, ancora una volta:
si
accorda con il nemico, ne diffonde la propaganda, fa proposte che non si
possono rifiutare, cancella d'autorità il pedaggio deciso a New York
scavalcando la sovranità dello Stato, manda Musk a trattare con la Boeing
perché vuole il suo nuovo Air Force One prima possibile.
Insomma,
buona lettura.
1.
Cosa c’è dietro il patto Putin-Trump.
Editorialista : Federico Fubini.
“Kirill
Dmitriev,” amministratore delegato del «Fondo russo per gli investimenti
diretti», pura creatura politica, era a Riad due giorni fa.
Accompagnava
la sua delegazione per il primo incontro fra emissari di Mosca e Washington da
oltre tre anni.
Al
termine, lui stesso ha spiegato ai media che le due parti avevano discusso di
«riprendere i legami economici in aree d’interesse comune», non solo del
destino Ucraina.
Da
sempre vicino a Vladimir Putin, “Dmitriev “conosce queste dinamiche.
Secondo
il “Washington Post”, nell’aprile del 2017 era alle Seychelles per discutere di
affari con” Erik Prince”, fondatore della milizia privata “Black water “e a
quel tempo mediatore privato per Donald Trump (allora appena eletto alla Casa Bianca).
Da
Mosca circola una voce, per il momento priva di conferme, coerente con la
versione di “Dmitriev”:
il
Cremlino stilerebbe una «lista bianca» di imprese americane alle quali offrire
il privilegio di investire in Russia.
Lo
stesso comunicato del dipartimento di Stato martedì da “Riad” parlava di
«gettare le basi per una futura cooperazione su questioni di comune interesse
geopolitico e su storiche opportunità economiche e d’investimento».
Il cambio climatico, fra l’altro, permette di
sviluppare le estrazioni di idrocarburi dal fondale dell’Artico:
progetti per i quali la tecnologia americana
tornerebbe utile;
specie
se le opportunità sono offerte a figure influenti a Washington.
Tutto
questo presuppone un allentarsi delle sanzioni, naturalmente.
Oggi contro la Russia ce ne sono in vigore 15
mila — un numero mai visto — da parte di Stati Uniti, Unione europea, Regno
Unito, Canada, Australia, Giappone, Corea del Sud.
I
mercati finanziari anticipano già una loro ritirata dal 5 febbraio, quando
Bloomberg scrisse che l’inviato americano “Keith Kellogg” avrebbe presentato un
piano di pace sull’Ucraina alla “Conferenza sulla Sicurezza” di Monaco.
Da
quel giorno “Sberbank”, principale banca russa, è salita del 13% alla Borsa di
Mosca;
l’austriaca “Raiffeisen”, banca europea più
radicata in Russia, è balzata di oltre il 16%;
bene
anche l’italiana “Danieli “(più 19%) che ha una presenza storica sia in Ucraina
che soprattutto in Russia nei macchinari di lavorazione del metallo.
2.
Mosca esulta per la nuova linea degli Usa: «Uniamoci per dividere l’Europa».
Editorialista : Marco Imarisio.
La
parola «svet» in russo significa al tempo stesso luce e mondo.
Come è
facile immaginare, in questi giorni abbondano i titoli di giornale e le facezie
sul fatto che l’Europa, intesa come vecchio mondo, sia rimasta al buio.
Dal canale di Stato” Rossiya-1” al quotidiano “Izvestia”,
è tutto un infierire sul corpo di quello che visto da Mosca appare come un
continente morto, o quasi.
“Rossiskaya
Gazeta”, il giornale che esprime la posizione ufficiale del governo, esulta per
questa settimana che viene definita come «la più grande doccia fredda possibile
per le élite europee».
Il “Moskovsky Komsomolets”, giornale di
riferimento della capitale e del potere, racconta di una «Europa sbalordita»,
che continua a ricevere «ginocchiate sotto la cintura dall’America, senza avere
neppure il tempo di respirare».
Stanno
vincendo, e lo sanno.
All’improvviso, il Grande Satana americano,
corruttore dei costumi e avanguardia del degrado dei valori del vivere civile,
frasi ripescate da rassegne stampa neppure troppo lontane degli organi di
informazione già menzionati, non è più tale.
Evaporato,
in una nuvola di esaltazione verso il nuovo corso di Donald Trump.
Il
nuovo presidente americano è anzi la persona che ha riconosciuto una semplice
verità:
«Non si può discutere dell’ordine mondiale senza di
noi, cercando in ogni modo di isolarci, e fallendo nell’impresa a causa
dell’intelligenza e della pazienza di Vladimir Putin», come ha appena affermato “Dmitry
Kiselyov”, il decano dei propagandisti russi.
3.
Trump ribalta la realtà contro Zelensky: «Un dittatore che ha iniziato la
guerra».
Editorialista : Matteo Percivalle.
«I
clown sono i pali di sostegno che reggono il tendone del circo», diceva P.T.
Barnum (1810-1891), leggendario impresario circense e inventore del moderno
showbusiness, e nessuno meglio di Donald Trump al giorno d’oggi ricorda questa
lezione.
Perché si possono ingaggiare gli acrobati più
bravi, esibire i leoni dal ruggito più terrificante, ma neanche i fenomeni da
baraccone più strani potrebbero sorreggere il perituro interesse del pubblico
senza la presenza decisiva dei pagliacci.
La baraonda
è dunque il collante del metodo trumpiano:
gli ha
fatto vincere due volte la Casa Bianca e scalare il partito repubblicano che,
indossato il celebre berrettino rosso «Make America Great Again» e riposti in cantina i
nobili ritratti di Lincoln, Eisenhower e Reagan, in Campidoglio approva
speditamente ogni sua nomina — anche la più irrituale — senza fiatare (se il partito che un tempo fu del
tonitruante Teddy Roosevelt si è trasformato nel maggiordomo di Batman, i
democratici mettono in scena quotidianamente il remake di Weekend con il
morto).
La
puntata dell’altra notte del serial tv sulla presidenza Trump tornato in onda
un mese fa dopo la cancellazione voluta dagli elettori americani nel 2020 è
stata, finora, una delle più movimentate:
chi
ragiona ancora con gli strumenti del secolo scorso forse immaginava una qualche
correzione di rotta dopo il varo dell’inedita alleanza Washington-Mosca
celebrata a Riad (senza rappresentanti dell’Ucraina: «Yalta, ma con Hitler
seduto al tavolo» ha chiosato l’ex ambasciatore americano Michael McFaul).
La realtà dello show trumpiano segue invece i suoi
ferrei comandamenti strategici, che gli insegnò il mentore della sua gioventù,
l’avvocato maccartista “Roy Cohn” (sul rapporto tra i due c’è un film candidato agli
imminenti Oscar,” The Apprentice”):
«La vita non è lo sport: segui sempre l’uomo,
non la palla», e «se ti attaccano con un coltello tu rispondi con il bazooka».
4.
Quella «proposta» che il leader ucraino «non può rifiutare».
Editorialista : Paolo Valentino.
Sull’Ucraina,
è ancora una volta Il” padrino di Francis Ford Coppola” a darci il vocabolario
per descrivere cosa stia succedendo.
Donald
Trump sta facendo a Volodymyr Zelensky «una proposta che non può rifiutare».
Nella liturgia mafiosa, significava
costringere qualcuno a firmare un contratto a lui sfavorevole, puntandogli una
pistola alla testa.
Il presidente americano, infatti, non solo ha
già dato via ogni carta negoziale della trattativa in fieri, dicendosi pronto a
concedere alla Russia tutto o quasi ciò che chiede:
Kiev
fuori dalla Nato, nessuna restituzione dei territori occupati da Mosca, limiti
alle sue forze armate, oltre alla ciliegina del rientro della Russia nel G7.
Ma
chiede anche una compensazione a tassi da usuraio dell’aiuto fin qui fornito
dall’America all’Ucraina, fissato arbitrariamente in 500 miliardi di dollari.
5.
Perché ora serve una nuova Unione europea.
Editorialista:
Danilo Taino.
Siamo
rimasti un po’ tutti stupiti, qualche giorno fa, quando “Mario Draghi” ha detto
che le barriere al commercio interne all’Unione europea sono dazi che ci siamo
imposti da soli, più alti di quelli di Trump.
Probabilmente
è perché eravamo distratti, lo scorso 24 ottobre, quando il direttore del “Dipartimento
europeo del Fondo monetario internazionale”, Alfred Kammer, ha spiegato i
contenuti dell’analisi effettuata nell’”Economic Outlook” autunnale
dell’istituzione.
Il primo messaggio del rapporto dell’Fmi secondo Kammer:
«La ripresa dell’Europa è inferiore al suo
pieno potenziale.
E, ancora più importante, le prospettive di
medio termine non sono meglio. L’Europa è rimasta indietro».
L’analisi
del Fondo individua tre ragioni principali alla base di questo rimanere
indietro.
La prima – citata da Draghi nel suo articolo
nel Financial Times – è la frammentazione del mercato interno della Ue, quello
che dovrebbe consentire la libera circolazione di merci e servizi e che è
considerato il maggiore successo dell’integrazione.
In realtà lo è stato poco.
«Noi – ha spiegato Kammer – stimiamo le barriere
esistenti nel Mercato Unico Europeo essere equivalenti a un dazio ad valorem
(in percentuale del valore, ndr) del 44% per la manifattura (tra gli Stati
americani è il 15%) e quel dazio equivalente è il 110% per i servizi tra Paesi
Ue».
Numeri
«sbalorditivi».
6.
L'escalation trumpiana di Conte e Salvini.
(Emanuele
Buzzi).
L’asse
gialloverde torna a farsi sentire prepotentemente.
Un
uno-due targato Matteo Salvini e Giuseppe Conte, che, in piena sintonia e in
momenti diversi, sposano pubblicamente la linea trumpiana sulla guerra in
Ucraina.
«Ho
enorme stima di Trump che sta facendo in poche settimane più di Biden in
quattro anni, nell’interesse di tutti, a partire dall’Occidente, e quindi anche
nostro», commenta Salvini.
E fa
di più, porta il partito a prendere posizione.
Durante
la riunione dei vertici della Lega, presieduta dal vicepremier, è stato
evidenziato «il pieno sostegno all’impegno di Donald Trump per la fine dei conflitti».
Ma se
Salvini sposa le prese di posizione del presidente Usa, Conte ne celebra le
posizioni in contrasto all’Ue:
«Trump con ruvidezza smaschera tutta la propaganda
bellicista dell’Occidente sull’Ucraina e dice una verità che noi del Movimento
5 stelle stiamo dicendo da tre anni, insieme a tutti gli esperti militari,
ossia che battere militarmente la Russia era irrealistico».
E
aggiunge: «È
una verità che pesa come un macigno sulla premier Meloni, che poteva ritagliare
per l’Italia un ruolo da protagonista nel negoziato e invece ci ha portato a
questo fallimento pur di compiacere le cancellerie internazionali.
Io al posto della premier Meloni, di fronte a
questa vergogna, a questo fallimento, mi dimetterei».
7. La
forza, i diritti: Trump non si pone più limiti.
Editorialista : Massimo Gaggi.
Nel
sistema americano un presidente ha pochi limiti:
all’interno
gode della presunzione di immunità per tutti gli atti ufficiali, ha ampi poteri
per attuare la sua agenda e può perdonare chiunque (compreso Elon Musk in caso
di illegalità della sua task force).
Certo, ci sono la Costituzione e la separazione dei
poteri: ma con diversi ordini esecutivi Donald Trump ha già invaso l’area di
competenza del Congresso, cioè del potere legislativo, mentre quello
giudiziario, che reagisce sospendendo alcuni suoi atti, viene tenuto a bada con
quel «chi salva il Paese non viola alcuna legge» che sa di presidenza
imperiale: parole paragonate a quelle di Napoleone.
Mentre
l’America si chiede se sia ancora possibile attivare il sistema di contrappesi
creato per bilanciare i vasti poteri esecutivi che il presidente tende a
rendere assoluti sostenendo che la vittoria elettorale gli dà carta bianca,
Trump usa in modo ancor più brutale la sua forza nell’arena della politica
estera.
Qui la Costituzione gli lascia poteri pressoché
assoluti.
Gli
argini dovrebbero essere le alleanze, i trattati, il diritto internazionale.
Ma,
sganciata la forza dal diritto, Trump non si pone più limiti:
se
ancora di recente riconosceva a Zelensky una volontà di pace e ammoniva un
recalcitrante Putin, oggi capovolge tutto.
Il
presidente ucraino diventa dittatore impopolare: un attore fallito responsabile
del conflitto che ha fatto spendere agli americani 350 miliardi di dollari per
una guerra insensata mentre l’attacco agli alleati europei da commerciale
diventa politico: «Incapaci di portare la pace».
8. ...
e si «incorona» re di New York:
«Il pedaggio per Manhattan è morto».
(Andrea
Marinelli).
L’amministrazione Trump vuole eliminare il
«congestion pricing» di New York, il sistema di pedaggi introdotto appena un
mese fa per decongestionare il traffico nell’area centrale di Manhattan e al
tempo stesso finanziare i lavori necessari al sistema dei trasporti pubblici.
Secondo la Casa Bianca, il governo federale ha
giurisdizione sulle strade che portano in città e per questo ha intenzione di
rescindere l'accordo stipulato con l'amministrazione locale ed eliminare un
programma che — sostengono a Washington –— pesa ingiustamente sui lavoratori
della regione.
«IL
CONGESTION PRICING è MORTO. Manhattan, e tutta New York, è SALVA. LUNGA VITA AL
RE!», ha tuonato Trump sui social con il solito ricorso alle maiuscole,
definendosi un sovrano.
Le sue parole hanno scatenato l'immediata
reazione della governatrice democratica “Kathy Hochul”, che ha promesso
battaglia legale:
«Siamo una nazione di leggi, non governata da
un re», ha replicato.
«Ci
vediamo in tribunale».
La
governatrice è stata informata con una lettera dal nuovo segretario ai
Trasporti “Sean Duff”:
il
governo non approva più il piano — ha riferito il ministro, definendo il
«congestion pricing» uno «schiaffo in faccia ai lavoratori americani» — e vuole
rescindere l’accordo.
«I
pendolari che utilizzano le autostrade per entrare a New York hanno già
finanziato la costruzione e il miglioramento delle infrastrutture attraverso le
tasse su benzina o altro.
Ogni
americano — ha specificato “Duffy “— dovrebbe avere il diritto di accedere a
New York, indipendentemente dalle sue possibilità economiche».
9. ...
e poi vuole anche il
suo
nuovo Air Force One.
Editorialista : Irene Soave.
Donald
Trump vuole il suo nuovo Air Force One, e fa sapere che se Boeing — che
storicamente produce lo speciale jet in dotazione al presidente degli Stati
Uniti — tarderà ancora a consegnarglielo, se lo farà fare da qualcun altro.
Specie
dopo che ha visitato un Boeing 747-800 di tredici anni fa prodotto per la
famiglia reale del Qatar:
era parcheggiato all'aeroporto internazionale
di Palm Beach, in Florida, e la visita è un modo di sottolineare l'idea di
comprarne uno simile, e farlo riadattare.
In una recente intervista a Fox News si è
scatenato contro i produttori di Boeing: «Stanno costruendo questa roba da
secoli, non so cosa stia succedendo».
E
secondo il New York Times «vede l'aereo presidenziale come uno strumento di
potere, e viaggiare sullo stesso aereo datato che trasportava già Bush padre lo
rende furioso».
La
consegna di due nuovi aerei presidenziali, indicata da un contratto, è in
effetti in ritardo sulla data pattuita, che era il 2024;
Boeing, in difficoltà per diverse settimane di
scioperi, per l'incidente del volo Alaska Airlines e per la coda lunga delle
perdite degli anni di pandemia, ha fatto slittare la consegna al 2027-28.
E gli
aerei in uso hanno 35 anni.
Trump,
che ormai parla spesso della sua insoddisfazione con Boeing, non si rivolgerà
comunque al concorrente europeo di Boeing, Airbus:
a domanda precisa di un giornalista ha
risposto:
«No, non prenderei in considerazione Airbus rispetto alla Boeing, ma potrei
comprarne uno usato e convertirlo».
Di qui
la visita al jet dei qatarini.
Un
altro grattacapo per Boeing, di cui secondo diverse fonti citate dalla stampa
statunitense il presidente si lamenterebbe continuamente:
il
contratto con la Casa Bianca è già costato all'azienda 2,4 miliardi di dollari
in penali, ed era già stato negoziato al ribasso proprio da Trump durante il
suo primo mandato da presidente.
E il
New York Times riporta che per accelerare la consegna dei due aerei che aspetta
Donald Trump ha ingaggiato persino Elon Musk.
Ormai
uomo dei tagli per la Casa Bianca, Musk sarebbe stato autorizzato a «esplorare
opzioni drastiche per spingere la Boeing ad agire più velocemente, tra cui
allentare gli standard di autorizzazione di sicurezza per alcuni che lavorano
sugli aerei presidenziali».
10.
Hamas consegna le bare con i corpi degli ostaggi israeliani.
(redazione
Esteri) .
I
funzionari della Croce rossa internazionale hanno firmato i documenti per la
consegna dei corpi di quattro ostaggi israeliani.
Poco
prima, il movimento islamista palestinese Hamas aveva disposto quattro bare
contrassegnate ciascuna da una foto, che dovrebbero contenere i corpi di Shiri
Bibas, dei suoi due figli Ariel e Kfir e di Oded Lifshitz.
Secondo
il gruppo armato i quattro sono stati uccisi dagli attacchi israeliani sulla
Striscia di Gaza mentre erano prigionieri.
La Croce Rossa porterà i corpi alle truppe
dell'Idf a Gaza.
Dopo
aver ricevuto i corpi, l'esercito eseguirà una breve cerimonia militare guidata
dal rabbino dell'Idf “Eyal Karim”, prima di portare gli ostaggi uccisi
all'istituto forense Abu Kabir per l'identificazione.
Il
processo di identificazione potrebbe richiedere fino a 48 ore.
Secondo
l'emittente pubblica “Kan”, le bare sono state chiuse a chiave e Hamas non ha
consegnato le chiavi per aprirle.
L'Idf
sta controllando se con i corpi siano stati restituiti effetti personali
appartenenti agli ostaggi.
Prima
dell'apertura dei feretri, con altri mezzi, l'Idf ha controllato che non ci
fossero trappole esplosive.
«Questo
è un momento di angoscia e dolore.
Il
cuore di un intero popolo è in frantumi. A nome dello Stato di Israele, chino
la testa e chiedo perdono.
Mi
dispiace di non avervi protetti in quel giorno maledetto.
Mi
dispiace di non avervi riportato a casa sani e salvi. Che la loro memoria sia
benedetta», ha dichiarato il presidente israeliano “Isaac Herzog”, mentre Hamas
torna a sostenere che i quattro ostaggi sono «vittime dei bombardamenti di
Israele».
Il
gruppo rivendica di aver «preservato le vite dei prigionieri, di aver fornito
loro ciò che era possibile e di averli trattati umanamente.
Ma il loro esercito li ha uccisi insieme ai
loro carcerieri».
Rivolgendosi
alle famiglie “Bibas” e “Lifshitz”,” Hamas “aggiunge:
«Avremmo preferito i vostri figli fossero
tornati vivi, ma i vostri leader militari e di governo hanno scelto di
ucciderli invece di riportarli indietro».
Nel
novembre del 2023 le “Brigate al-Qassam”, braccio armato di Hamas, avevano già
accusato Israele di aver ucciso i “Bibas”, la mamma e i suoi due figli, in un
attacco aereo.
Israele
non ha mai confermato che fossero morti.
Lo
spettacolo inscenato da Hamas per mostrare alla folla le salme dei quattro
ostaggi morti restituite oggi a Israele, si è tenuto accanto a un cimitero a
Bani Suheila, dove — secondo al Jazeera — erano stati sepolti i corpi.
Un
anno fa, riferisce l'Idf, era stato scoperto un tunnel sotterraneo proprio
sotto il cimitero, con l'ufficio del comandante di battaglione di Khan Yunis da
dove ha diretto i combattimenti del 7 ottobre.
Alla
fine di gennaio scorso, afferma l'Idf, era stato individuato un passaggio
sotterraneo con esplosivi e porte blindate.
All'interno
del tunnel erano state trovate sale operative, postazioni di comando e
dormitori per alti funzionari di Hamas.
Il
tunnel faceva parte di un complesso sotterraneo lungo circa un chilometro. Dopo
averlo trovato, l'esercito l'aveva distrutto.
11.
Intanto al confine con il Messico si contrabbandano uova.
Editorialista : Guido Olimpio.
Non
solo droga.
Al
confine tra Usa e Messico è aumentato del 29 per cento il sequestro di uova di
contrabbando.
Un fenomeno legato alla penuria sul mercato
americano a causa dell’aviaria e al rialzo, inevitabile dei prezzi.
Così
molti americani attraversano la frontiera, acquistano il prodotto e tornano
indietro «sfidando» il divieto.
Che
riguarda anche pollame e carne.
Sono,
invece, diminuiti i fermi di clandestini nel settore sud.
L’ultimo dato della” Border Patrol “registra
61.465 casi. Il calo è attribuito ad una serie di fattori:
un
minor numero di illegali tenta di passare; ci sono maggiori controlli e
soprattutto i migranti temono l’espulsione immediata;
i messicani hanno condotto grandi retate per
dare un segnale a Donald Trump;
i trafficanti aspettano e studiano
contromisure, storicamente c’è sempre un periodo di aggiustamento da parte
delle organizzazioni criminali.
Il
Pentagono, intanto, continua a inviare rinforzi, con alcune centinaia di
militari inviati ad appoggiare la polizia impegnata nella sorveglianza della
«linea».
Da segnalare anche un incontro ad alto livello
tra ufficiali americani e messicani per avere un maggiore coordinamento.
È un quadrante in pieno movimento dove la Casa
Bianca potrebbe autorizzare azioni ancora più decise.
12.
Pechino sogna la sesta portaerei
(ma per ora ne ha tre).
Editorialista : Paolo Salom.
Da tre
a sei.
La
Cina si vuole proiettare sui mari e dunque progetta di raddoppiare la sua
squadra di portaerei: da tre a sei appunto.
La Marina militare è forse il settore delle
forze armate di Pechino dove si investe di più e la ragione è semplice:
l’avversario è potente e dispone di una flotta
che governa il mondo dagli oceani. Per contrastare gli Stati Uniti, insomma,
occorre raggiungere la parità strategica nel settore più efficace nel
proiettare la potenza militare.
Esiste
il modello in progetto.
Al
momento, la Cina ha due portaerei operative, la “Liaoning “(ex vascello
sovietico acquistato dall’Ucraina), la “Shandong” — di costruzione nazionale
simile alla “Liaoning” (di vecchia concezione) — e la moderna “Fujian”,
completamente progettata in Cina e al momento in mare per le prove finali prima
di essere dichiarata operativa.
Secondo
indiscrezioni, nei cantieri militari di” Jiangnan” sarebbe già in costruzione
una quarta portaerei che, si dice, potrebbe essere dotata di propulsione
nucleare.
Gli
esperti sono ancora dubbiosi sulle capacità dei cinesi di realizzare un simile
progetto.
Ma non
sulla volontà di farlo: la spesa per la difesa è arrivata, nel 2024, a 215,5
miliardi di dollari, con un aumento del 7,2% rispetto all’anno precedente e
dell’1,2% sul Pil che, come sappiamo, è secondo soltanto a quello degli Stati
Uniti.
Ecco
dunque che sulla carta la Repubblica popolare ha in animo di arrivare a mettere
in mare fino a sei portaerei, le ultime delle quali dovranno essere capaci di
competere con quelle americane.
Dunque,
la sesta — quando sarà realizzata, intorno al 2030 — avrà sicuramente la
propulsione nucleare, sistemi di lancio dei velivoli con tecnologia
elettromagnetica e armamenti difensivi ultra sofisticati.
Nel complesso, Pechino avrà a disposizione una
flotta di 370 navi da guerra (gli Usa ne hanno circa 290) e, appunto, sei
portaerei.
Sarà
allora che comincerà la battaglia per il controllo degli oceani?
13.
Milei inciampa sul crypto-gate: twitta, scatena gli acquisti e poi vola in
America.
Editorialista : Sara Gandolfi.
Sarà
anche lui caduto nel «trappolone», incantato dalle sirene della moneta facile,
oppure conosceva l’inghippo?
È il dubbio amletico che attanaglia in questi
giorni la società argentina, e in particolare i fan del «turbo-capitalista»
Javier Milei che, inseguito dai sospetti, ha pensato bene di prendere un volo
per gli Stati Uniti, nona volta in un anno.
A
Washington, il presidente più spettinato del pianeta oggi incontrerà la
direttrice del” Fondo monetario internazionale” (Fmi) “Kristalina Georgieva”
per raccontarle i successi delle sue riforme economico-istituzionali.
Sabato
parlerà alla “Conservative Action Conference”, poche ore prima di Donald Trump,
con cui spera di condividere una nuova «photo-opportunity» per dimostrare che
sono ancora buoni amici.
Di sicuro vedrà Elon Musk, che forse gli darà qualche
consiglio per tirarsi fuori dallo scandalo che lo perseguita: il cryptogate.
Riassumiamo.
Dazi o
no? Il caso Argentina: con la deregulation di Milei l’economia torna a crescere.
Il
presidente argentino ha promosso sui social network — o «condiviso», secondo la
sua versione dei fatti — la “meme coin” «$LIBRA».
Per
chi non fosse avvezzo al linguaggio, le” meme coin”, o monete meme, sono
appunto monete o «token» di criptovalute, che combinano cultura pop e
investimenti digitali, spesso basate sui «meme» di Internet.
Un
sistema altamente speculativo, in cui spesso si rischia soltanto di perdere
soldi. Stavolta, però, un economista del calibro di Milei (3,8 milioni di
followers su X) ci credeva.
«Questo progetto privato sarà dedicato a
incoraggiare la crescita dell’economia argentina», ha scritto l’autoproclamato
anarco-capitalista venerdì sera.
Ecco
perché Elon Musk si ritira
dalla
politica: tutti i (veri) motivi.
Msn.com – il Giornale – (25-05-2025) - Storia
di Valerio Chiapparino – ci dice:
Il
ritiro di Elon Musk dal mondo della politica americana è ormai cosa certa. O,
almeno, così sembra.
Nei giorni scorsi, intervenendo in video al “Qatar
Economic Forum”, il patron di Tesla e Starlink ha dichiarato che da questo
momento in poi ridurrà il suo contributo in donazioni politiche.
Una
sortita accompagnata da una precisazione che lascia sperare una parte del
partito repubblicano in vista delle elezioni di midterm del 2026: “se vedrò una
ragione in futuro” per contribuire politicamente lo farò ma “al momento non ne
vedo alcun motivo”.
Musk è
tornato sull’argomento in un post pubblicato ieri su “X” nel quale ha scritto
che deve concentrarsi “moltissimo su X/xAi e Tesla (oltre al lancio della “Starship”
la prossima settimana) perché abbiamo tecnologie critiche in fase di sviluppo”.
Il capo del Doge ha affermato che è tornato il
momento di spendere la totalità del suo tempo al lavoro e di dormire “in sala
conferenze/server/azienda”, ammettendo, a proposito di una serie di
malfunzionamenti del social network di sua proprietà, che “importanti
miglioramenti operativi sono necessari”.
I
primi segnali di un ripensamento politico erano già emersi in occasione di una
riunione di “Tesla” ad aprile nel corso della quale Musk aveva anticipato che
avrebbe dedicato” uno o due giorni a settimana a questioni governative finché
il presidente vorrà e finché sarà utile ma a partire dal mese prossimo
dedicherò molto più tempo a Tesla, ora che il lavoro principale per istituire
il dipartimento per l’Efficienza governativa è stato completato”.
La
parabola da” attivista Maga” dell’imprenditore sudafricano, che questa
settimana ha partecipato al teso vertice nello “Studio Ovale tra Donald Trump e
il leader del Sud Africa Cyril Ramaphosa”, è cominciata circa un anno fa
quando, in piena campagna elettorale per le presidenziali, Musk ha riunito
strateghi e confidenti repubblicani nella sua abitazione ad Austin in Texas.
Obiettivo dell’incontro: comunicare la sua
disponibilità a fare "qualsiasi cosa" e a pagare "qualsiasi
cifra" per sollevare “un’onda rossa” in tutto il Paese in grado di
riportare Trump alla Casa Bianca.
Per il
“Ceo di Tesla”, la vittoria del tycoon era ritenuta infatti essenziale per il
futuro degli Stati Uniti.
E su
questo non sembra comunque aver cambiato idea.
I
commentatori Usa cercano in queste ore di ricostruire i motivi del dietrofront
del miliardario.
Come
confidano al “Washington Post” un paio di fonti vicine al capo del Doge,
l’"ossessione politica" di Musk “si è trasformata in disincanto” a
causa dei costi personali e le difficoltà nel produrre risultati.
Il
proprietario di “X “sarebbe anche “profondamente” preoccupato per la sicurezza
personale sua e della sua famiglia non avendo previsto le reazioni negative
contro di lui e le sue aziende, spesso sfociate in attacchi violenti contro gli
stabilimenti delle auto elettriche, e un forte calo di popolarità personale.
In
contemporanea a queste considerazioni, Musk sarebbe inoltre tornato ad
interessarsi alle sue due attività principali – “Tesla e SpaceX” – e al sogno di portare l’uomo su
Marte.
Pesante,
in effetti, è stato il costo economico pagato dalle aziende dell’imprenditore
sudafricano che, in qualità di responsabile del Doge, ha visto crescere le
contestazioni nei suoi confronti sin dal lancio della sua campagna di tagli nel
settore federale.
Conto
salato in particolare per Tesla che lo scorso mese ha riportato un calo
dell’utile netto del 71%, del 9% dei ricavi e del 20% del fatturato dell'auto.
Numeri che avrebbero convinto una volta di più Musk,
che di recente ha incassato una sconfitta del “suo” candidato alla “Corte
Suprema del Wisconsin”, a tornare a guardare altrove, o allo spazio in
direzione di Marte.
E
adesso c'è da giurare che per il miliardario visionario il Pianeta Rosso
potrebbe apparire ben più vicino di quanto non lo sia Washington.
Il
manifesto dell'assassinio
all'ambasciata
israeliana.
Unz.com
-Kevin Barrett – (22 maggio 2025) – ci dice:
Elias
Rodriguez su "La moralità della manifestazione armata.”
Dal “Substack”
(altamente
raccomandato) di “Ken Klippenstein”.
(Klippenstein
è un giornalista professionista serio che controlla le sue fonti, con una
solida esperienza, quindi possiamo accettarlo come autentico. “KB”.)
“Halintar”
è una parola che significa qualcosa come tuono o fulmine.
Sulla
scia di un atto le persone cercano un testo per fissarne il significato, quindi
ecco un tentativo.
Le
atrocità commesse dagli israeliani contro la Palestina sfidano la descrizione e
la quantificazione.
Invece
di leggere le descrizioni, per lo più le guardiamo svolgersi in video, a volte
dal vivo.
Dopo alcuni mesi di rapido aumento del numero
di morti, Israele aveva cancellato la capacità di continuare a contare i morti,
il che ha servito bene il suo genocidio.
Al
momento in cui scriviamo, il ministero della sanità di Gaza registra 53.000
morti con la forza traumatica, almeno diecimila giacciono sotto le macerie, e
chissà quante altre migliaia di morti di malattie prevenibili, la fame, con
decine di migliaia ora a rischio di carestia imminente a causa del blocco
israeliano, il tutto reso possibile dalla complicità del governo occidentale e
arabo.
L'ufficio informazioni di Gaza include i
diecimila sotto le macerie con i morti nel loro stesso conteggio.
Nei
notiziari ci sono stati quei "diecimila" sotto le macerie per mesi,
nonostante la continua produzione di altre macerie e i ripetuti bombardamenti
di macerie ancora e ancora e il bombardamento di tende tra le macerie.
Come
il bilancio delle vittime dello Yemen, che è stato congelato a poche migliaia
per anni sotto i bombardamenti sauditi, britannici e statunitensi prima di
essere tardivamente rivelato a 500.000 morti, tutte queste cifre sono quasi
sicuramente un sotto conteggio criminale.
Non ho
problemi a credere alle stime che mettono il bilancio a 100.000 o più.
Da
marzo di quest'anno sono stati uccisi più che in "Protective Edge" e
"Piombo fuso" messi insieme.
Che altro si può dire a questo punto sulla proporzione
di esseri umani maciullati, bruciati ed esplosi che erano bambini.
Noi che abbiamo permesso che ciò accadesse non
meriteremo mai il perdono dei palestinesi.
Ce lo
hanno fatto sapere.
Un'azione
armata non è necessariamente un'azione militare.
Di
solito non lo è.
Di solito è teatro e spettacolo, una qualità
che condivide con molte azioni disarmate.
Le
proteste non violente nelle prime settimane del genocidio sembravano segnare
una sorta di punto di svolta.
Mai
prima d'ora così tante decine di migliaia di persone si erano unite ai
palestinesi nelle strade di tutto l'Occidente.
Mai
prima d'ora così tanti politici americani erano stati costretti ad ammettere
che, almeno retoricamente, anche i palestinesi erano esseri umani.
Ma
finora la retorica non ha prodotto molto.
Gli stessi israeliani si vantano del “proprio
shock” per la mano libera che gli americani hanno dato loro per sterminare i
palestinesi.
L'opinione
pubblica si è rivoltata contro lo stato di apartheid genocida, e il governo
americano ha semplicemente scrollato le spalle:
allora faranno a meno dell'opinione pubblica,
la criminalizzeranno dove possono, la soffocheranno con blande rassicurazioni
sul fatto che stanno facendo tutto il possibile per frenare Israele laddove non
può criminalizzare apertamente le proteste.
“Aaron
Bushnell “e altri si sono sacrificati nella speranza di fermare il massacro e
lo Stato si impegna a farci credere che il loro sacrificio sia stato vano, che
non c'è speranza di un'escalation a Gaza e che non ha senso riportare la guerra
a casa. Non possiamo permettergli di avere successo.
I loro
sacrifici non sono stati vani.
L'impunità
che i rappresentanti del nostro governo provano nel favorire questo massacro
dovrebbe rivelarsi un'illusione, allora.
L'impunità che vediamo è la peggiore per
quelli di noi che si trovano nelle immediate vicinanze dei genocidi.
Un
chirurgo che ha curato le vittime del “genocidio Maya “da parte dello stato
guatemalteco racconta un episodio in cui stava operando un paziente che era
stato gravemente ferito durante un massacro quando, all'improvviso, uomini
armati sono entrati nella stanza e hanno sparato al paziente a morte sul suo
tavolo operatorio, ridendo mentre lo uccidevano.
Il
medico ha detto che la parte peggiore è stata vedere gli assassini, a lui ben
noti, girando apertamente spavaldi per le strade locali negli anni successivi.
Altrove
un uomo di coscienza una volta tentò di gettare in mare “Robert McNamara” da un
traghetto diretto a “Martha's Vineyard”, infuriato per la stessa impunità e
arroganza che vedeva in quel macellaio del “Vietnam” mentre sedeva nella sala
del traghetto a ridere con gli amici.
L'uomo
ha contestato "l'atteggiamento di McNamara, dicendoti:
'La mia storia va bene, e posso essere
accucciato su un bar come questo con il mio buon amico Ralph qui e dovrai fare
un grumo'".
L'uomo non è riuscito a far cadere McNamara da una
passerella in acqua, l'ex segretario di Stato è riuscito ad aggrapparsi alla
ringhiera e a rialzarsi in piedi, ma l'aggressore ha spiegato il valore del tentativo
dicendo "Beh,
l'ho portato fuori, solo noi due, e all'improvviso la sua storia non era così
bella, Era così?"
Una
parola sulla moralità delle manifestazioni armate.
Chi di noi è contrario al genocidio si compiace di
sostenere che autori e complici abbiano perso la loro umanità.
Condivido
questo punto di vista e ne comprendo il valore nel lenire la psiche che non
sopporta di accettare le atrocità a cui assiste, nemmeno mediate attraverso lo
schermo.
Ma la
disumanità si è da tempo dimostrata scandalosamente comune, banale,
prosaicamente umana.
Un
autore può quindi essere un genitore amorevole, un figlio devoto, un amico
generoso e caritatevole, un amabile sconosciuto, capace di forza morale quando
gli conviene e a volte anche quando non gli conviene, e tuttavia essere un
mostro. L'umanità
non esime nessuno dalla responsabilità.
Un'azione
del genere sarebbe stata moralmente giustificata se intrapresa 11 anni fa
durante "Margine Protettivo", più o meno nel periodo in cui sono
diventato personalmente consapevole della nostra brutale condotta in Palestina.
Ma
penso che per la maggior parte degli americani un'azione del genere sarebbe
stata illeggibile, sarebbe sembrata folle.
Sono
contento che almeno oggi ci siano molti americani per i quali questa azione
sarà estremamente comprensibile e, in un certo senso, l'unica cosa sensata da
fare.
Vi amo
mamma, papà, sorellina, il resto della mia famiglia, incluso te, O*****
(Palestina
libera -Elias Rodríguez).
Far
sparire la Palestina.
Unz.com
- Filippo Giraldi – (23 maggio 2025) – ci dice:
Gli Stati
Uniti e l'Europa danno a Netanyahu il via libera per la pulizia etnica.
È
stata un'altra settimana emozionante in un mondo in guerra, dove la parola
"diplomazia" non ha alcun significato e verrebbe probabilmente
definita dal capo della Sicurezza Interna americana “Kristi Noem” come una
dottrina in cui si spara a qualcuno prima che lui o lei possa sparare a te.
Nel
mio articolo della scorsa settimana ho discusso le notizie secondo cui ci
sarebbe stata una grave frattura tra il presidente Donald Trump e il primo
ministro israeliano Benjamin Netanyahu, esemplificata dalla riluttanza di Trump
a parlare con il leader israeliano, seguita dalla sua mancata visita in Israele
durante il suo recente viaggio in Medio Oriente.
Alcune
fonti hanno attribuito la rottura alla percezione di Trump di essere
"manipolato" dagli israeliani, il che era del tutto plausibile,
sebbene qualcosa che avrebbe dovuto essere riconosciuto e messo in guardia dai
consiglieri di politica estera di Trump quando è salito alla presidenza nel
2017.
Israele manipola sempre l'opinione pubblica
sugli Stati Uniti attraverso il controllo dei media da parte della sua lobby e
la corruzione dei politici.
Ho
sostenuto che i resoconti sulla disillusione nei confronti del "miglior
amico d'America" fossero credibili, probabilmente legati a un'attività di
spionaggio che coinvolgeva il “Consigliere per la Sicurezza Nazionale” “Mike
Waltz”, sebbene abbia anche osservato che molti dei miei contatti erano
scettici, avvertendo che l'intera faccenda poteva essere una montatura
orchestrata da “Steve Witkoff”, il negoziatore sionista itinerante di Trump,
specificamente progettata per favorire Israele.
Ciò
significa che gli Stati Uniti stavano fingendo una "rottura" con
Netanyahu per raggiungere un accordo con tutti i principali paesi arabi del
Medio Oriente al fine di confermare la sicurezza di Israele, mentre Netanyahu
stava completamente cancellando i palestinesi dalla faccia della terra.
Trump
ha infatti affermato che le sue politiche e il viaggio in Medio Oriente erano
"molto positivi per Israele".
In un
seguito al mio articolo, durante un'intervista con il giudice Andrew
Napolitano, ho sostenuto che conviene essere scettici, poiché Trump non ha
fatto assolutamente nulla per cambiare il comportamento di Israele, anzi,
nonostante abbia avuto l'opportunità di sostenere la sovranità palestinese nel
contesto dell'adesione alle Nazioni Unite e di chiedere la fine del genocidio
in corso a Gaza.
La
verità dietro l'effettiva rottura dei rapporti personali tra i due leader
dovrebbe essere valutata alla luce della presenza o meno di conseguenze quando
Israele persegue politiche dannose per gli interessi statunitensi.
In
effetti, Netanyahu ha confermato personalmente che tutto va bene negli Stati
Uniti.
Mercoledì
scorso, in una conferenza stampa, ha dichiarato che il presidente Trump gli
aveva assicurato che gli Stati Uniti e la sua amministrazione erano
completamente impegnati nei confronti di Israele, nonostante la serie di
resoconti dei media che hanno segnalato un problema tra i due leader.
"Lasciatemi fornirvi alcuni dettagli che
forse non sono stati resi pubblici.
Qualche
giorno fa – credo circa 10 giorni fa, forse un po' di più – ho parlato al
telefono con il presidente Trump.
E mi ha detto, letteralmente: 'Bibi, voglio che tu
sappia: ho un impegno assoluto nei tuoi confronti. Ho un impegno assoluto nei
confronti dello Stato di Israele'".
Netanyahu
ha anche parlato con il vicepresidente “JD Vance”, che, insieme al segretario
alla Difesa Pete Hegseth”, aveva anche evitato una visita in Israele.
"[Vance]
mi ha detto... "Ascolta, non prestare attenzione a tutte queste notizie
false su questa rottura tra di noi... Ha detto: È tutta una montatura.
Questa
non è la verità, sapete che non è vera, e vi sto dicendo che, da parte nostra,
non è vera".
Netanyahu
ha anche detto che Israele vuole portare avanti "il piano di Trump"
per Gaza per includere la rimozione permanente della popolazione palestinese
per creare un resort sul lungomare gestito dagli Stati Uniti sulle rovine della
Striscia.
Secondo
Netanyahu, gli israeliani hanno ora incluso la creazione di "Trump
Gaza" come una delle condizioni per consentire la fine della guerra contro
Hamas.
I
media israeliani e mediorientali hanno ampiamente e criticamente trattato il
genocidio e i vari attori coinvolti nell'agenda di Netanyahu.
Un recente articolo ha parlato dei 29 paesi,
per lo più dell'Unione Europea (UE), guidati da Regno Unito, Francia e Canada,
che hanno ora chiesto a Israele di moderare il suo comportamento, pena sanzioni
e la sospensione degli accordi commerciali UE-Israele, che avvantaggiano
notevolmente lo Stato ebraico.
L'UE ha dichiarato che l'annuncio di Israele
di consentire l'ingresso di alcuni aiuti era "totalmente inadeguato.
Se Israele non cessa la rinnovata offensiva
militare e non revoca le restrizioni sugli aiuti umanitari, adotteremo
ulteriori misure concrete in risposta", si legge nella dichiarazi
one
dei leader.
Netanyahu
ha risposto alla minaccia dichiarando assurdamente:
"Siete dalla parte sbagliata
dell'umanità e della storia".
Ma,
come si dice, purtroppo le chiacchiere sono a buon mercato, sia da parte di
Netanyahu che dei nuovi critici di Israele.
Israele
sta commettendo alcuni dei peggiori crimini di guerra a cui l'umanità abbia mai
assistito e gli europei e gli americani danno l'impressione che certamente
faranno marcia indietro, sottomettendosi a Israele e continuando a non fare
assolutamente nulla che possa porre fine alle sofferenze.
Il
gesto europeo, in particolare, è un tentativo di rimediare in qualche modo al
suo sostegno a 19 mesi di genocidio.
Il
completamente spregevole primo ministro del Regno Unito “Keir Starmer,” di fronte a un'opinione pubblica
britannica fortemente anti-israeliana, ha fatto un grande spettacolo
sull'azione contro Israele e gli israeliani hanno collaborato con lui facendo
la loro parte, esprimendo indignazione per la temerarietà di chiunque dica loro
come trattare con i loro vicini.
In
effetti, c'è stata qualche conferma da parte di fonti israeliane informate che
le minacce e le risposte da entrambe le parti erano poco più di un po' di
Kabuki.
Un
alto funzionario israeliano ha persino spiegato ai media perché i leader
europei si sono presi la briga di cambiare posizione dopo 19 mesi di silenzio
sul genocidio omicida di Gaza, per fingere invece un'indignazione immediata.
Tutto
è stato coordinato in anticipo con Israele.
Ha
detto che "le ultime 24 ore hanno fatto tutte parte di un'imboscata
pianificata di cui eravamo a conoscenza.
Si è trattato di una sequenza coordinata di
mosse in vista della riunione dell'UE a Bruxelles e, grazie agli sforzi
congiunti dei nostri ambasciatori e del ministro degli Esteri, siamo riusciti a
moderare il risultato".
L'attuale
indignazione è orchestrata tanto quanto il silenzio precedente.
Il
ministro delle Finanze israeliano estremista “Bezalel Smotrich” ha spiegato
perché Israele dovrebbe mantenere un equilibrio tra l'uccisione di tutti i
palestinesi e il mantenimento del sostegno occidentale, consentendo l'ingresso
di cibo a Gaza al minimo indispensabile:
"Abbiamo
bisogno che i nostri amici nel mondo continuino a fornirci un ombrello
internazionale di protezione contro il Consiglio di Sicurezza e il Tribunale
dell'Aja, e che continuiamo a combattere, se Dio vuole, fino alla vittoria".
Ha
anche affermato che il suo piano per la “Cisgiordania e Gaza” include la scelta
tra “sottomissione”, “emigrazione” e “morte”.
“Smotrich”
ha ripetutamente sostenuto l'uso della forza letale contro i bambini
palestinesi, per evitare che crescano e diventino terroristi.
Mercoledì l'esercito israeliano ha ribadito
questo messaggio, dimostrando quanto poco gli importi di coccolare gli
stranieri intrusi, aprendo il fuoco su 31 diplomatici europei in rappresentanza
di 29 paesi, in visita all'”insediamento palestinese di Jenin” in “Cisgiordania”,
in quello che si presumeva essere territorio amministrato al 100% dalla
Palestina.
Il
fatto è che a nessuno nei governi europeo e americano importa davvero dei
palestinesi o del loro sterminio.
L'unica
preoccupazione dei governanti è l'apparenza del loro atteggiamento agli occhi
del resto del mondo e degli elettori dei loro paesi.
Israele mente con tale entusiasmo nel sostenere le sue
tesi e nel fornire false prove a sostegno del suo comportamento che c'è la
tendenza a sospettare di qualsiasi cosa faccia.
L'assassinio di due membri dello staff
dell'ambasciata israeliana a Washington DC, avvenuto la scorsa settimana da un
uomo che aveva appena urlato "Liberate la Palestina!", è stata una
buona notizia per lo Stato ebraico, in quanto ha creato simpatia per un paese
che è stato considerato una cattiva notizia per oltre un anno.
Negli
ambienti dell'intelligence si sussurra già che si sia trattato di un attacco
"false flag" architettato dal “Mossad” per creare un ciclo di notizie
favorevole, mentre Israele si prepara segretamente a un imminente attacco
contro l'Iran.
L'”Iran
fobia” compare regolarmente nei media israeliani, inclusa una recente
affermazione israeliana secondo cui l'Iran starebbe nascondendo i suoi impianti
di arricchimento nucleare, il che è vero ma progettato per impedire agli
israeliani di farli saltare in aria.
Il
"ciclo di notizie favorevoli" ha incluso il deputato ebreo” Randy
Fine” della Florida che ha chiesto l'uso di armi nucleari per distruggere Gaza
e uccidere i suoi abitanti rimasti, proprio come "il Giappone alla fine
della Seconda guerra mondiale".
E per
assicurarsi che l'Iran riesca a sentire la punta affilata della spada,
l'emissario presidenziale “Witoffh” ha ora dichiarato che l'accordo di
monitoraggio nucleare in fase di negoziazione con l'Iran deve includere
l'arricchimento zero dell'uranio, qualcosa che non era sul tavolo quando sono
iniziati i colloqui, quindi non andranno da nessuna parte garantiti.
Per
Witkoff, "Non possiamo permettere nemmeno l'uno per cento di una capacità
di arricchimento. L'arricchimento consente l'armamento".
Da
dove viene questa domanda?
Da un
Israele segretamente dotato di armi nucleari attraverso i traditori senatori “Israel
Firster”, “Lindsey Graham” e “Tom Cotton”, senza dubbio.
E se
si segue questa linea di pensiero, si può presumere che anche “Donald Trump”
sia a bordo, in fila per tirare fuori la sedia di Netanyahu e inchinarsi a lui
e poi alzare il suo potente pugno chiuso prima di inviare gli yankee per
completare la distruzione della Persia.
E se
l'Iran risponde efficacemente con la forza, Israele ha anche circa 200 armi
nucleari che senza dubbio non esiterà a utilizzare come parte del suo piano di
guerra "Opzione Sansone".
E “Trump”
dirà senza dubbio qualcosa del tipo: "Ehi, che grande e bella esplosione!
Non c'è niente di sbagliato in questo!
Abbiamo
usato armi simili per porre fine alla Prima Guerra Mondiale!"
(Philip
M. Giraldi, Ph.D., è Direttore Esecutivo del “Council for the National Interest”,
una fondazione educativa 501(c)3).
Perché
i leader occidentali sono
dei
pagliacci così squilibrati?
Unz.com
- Kevin Barrett – (25 maggio 2025) – ci dice:
Cervelli
divorati da un virus? Demenza senile?
I
malati ricattati da Zio devono solo fare domande?
Ultimamente
si è notato molto.
La
gente si sta accorgendo del genocidio di Gaza.
Si sta
accorgendo che i leader occidentali, soprattutto quelli americani, lo stanno
rendendo possibile.
E si sta accorgendo del rapporto tra la
complicità nel genocidio e la pessima qualità della leadership che prevale
nell'Occidente odierno.
“Smuskiewicz
osserva che il “POTUS-46”, alias "Dementia Joe”, meglio conosciuto come “Genocide
Joe", era ancora più cerebralmente morto di quanto pensassimo, come
spiegato nel nuovo libro di “Jake Tapper”.
Casualmente,
proprio mentre il libro di “Tapper” sollevava dubbi su gravi illeciti e
possibile tradimento da parte dei responsabili di “Zombie Biden”, abbiamo
appreso che a Biden è stato "improvvisamente" diagnosticato un cancro
alla prostata con punteggio Gleason 9/10, che doveva essersi diffuso da molti
anni.
I responsabili di Biden hanno forse insabbiato
anche questo?
Oliver
“Boyd-Barrett” commenta:
Accettiamo
semplicemente che soffrisse di demenza e che per un lungo periodo abbiamo avuto
un presidente che non era realmente funzionale.
Ma si
potrebbe dire che, beh, un presidente che ha fatto buone scelte in materia di
consiglieri, segretari di Stato e così via, nonostante ciò, un buon governo può
essere mantenuto.
Ma quello che è successo in realtà è che
persone come “Sullivan” e “Blinken” hanno preso il controllo del governo per
conto della cricca neoconservatrice che ha sostanzialmente governato almeno
fino all'insediamento di Trump, e credo che in realtà governi ancora gli Stati
Uniti.
Quindi
avere un presidente zombie cerebralmente morto controllato da gestori della
cabala neocon era in realtà abbastanza conveniente per quella cabala neocon.
Ha
permesso il primo genocidio al mondo in diretta streaming, per prima cosa.
La
cabala governa ancora?
Stanno
usando un altro settantenne squilibrato?
Lo “squilibrio
di Trump” si manifesta nel comportamento erratico satireggiato da “Smuskiewicz”:
La
NATO e gli Stati Uniti hanno provocato la Russia a invadere l'Ucraina.
Putin ha invaso l'Ucraina senza essere stato
provocato perché vuole conquistare l'intero Paese, e forse anche la Polonia.
La
Russia sta vincendo la guerra e ha tutte le carte in mano.
La
Russia non sta vincendo la guerra e non ha nessuna carta in mano.
Forse
l'Ucraina può entrare nella NATO.
L'Ucraina
non potrà mai entrare nella NATO.
Putin
vuole la pace.
Putin
non vuole la pace, quindi colpiremo la Russia con sanzioni schiaccianti.
Non ci
saranno più sanzioni contro la Russia.
Zelensky vuole la pace.
Zelensky non vuole la pace.
Fermeremo
l'invio di tutte le armi all'Ucraina.
Invieremo armi più numerose e migliori
all'Ucraina.
L'Ucraina
ha bisogno di elezioni. L'Ucraina non ha bisogno di elezioni.
Abbiamo
un accordo sui minerali.
Non
abbiamo un accordo sui minerali.
Nessuna
truppa europea dovrebbe essere in Ucraina.
Le
truppe europee dovrebbero essere in Ucraina.
Gli
Stati Uniti dovrebbero interrompere ogni coinvolgimento in Ucraina. Gli Stati
Uniti dovrebbero prendere il controllo delle centrali elettriche ucraine.
Sto
parlando con Putin. Non sto parlando con Putin.
Ho
solo parlato con Putin. Chi è Putin?
Israele
dovrebbe finire il lavoro a Gaza e fare tutto il necessario per eliminare Hamas
e vincere la guerra.
Israele
deve fermare i combattimenti e le uccisioni a Gaza.
La
gente di Gaza sta soffrendo e vuole vivere in pace.
Li
aiuteremo.
La
gente di Gaza non vuole la pace. Sono terroristi e devono essere distrutti.
Israele può cacciare tutti i palestinesi e prendere il controllo di Gaza.
Ho
intenzione di comprare Gaza e costruirvi resort e casinò.
Sarà
bellissimo per tutti!
Netanyahu
è un singhiozzo e io lo odio. Ho appena fatto l’ incontro con Bibi nello Studio
Ovale mentre Miriam guardava, e ho detto a entrambi che avrei fatto tutto ciò
che volevano che facessi.
Abbiamo
completamente schiacciato i malvagi e deboli Houthi nello Yemen.
Gli Houthi sono combattenti coraggiosi e
forti.
“Ahmed
al-Sharaa” è un malvagio terrorista con una taglia di 10 milioni di dollari
sulla sua testa.
“Ahmed
al-Sharaa” è un uomo molto attraente con un forte passato.
Serve
un tè delizioso e adoro la sua barba!
L'Iran
ha il diritto di arricchire l'uranio per il suo programma nucleare.
L'Iran deve fermare ogni arricchimento
dell'uranio e porre fine al suo programma nucleare.
Adoro
le tariffe!
Le
tariffe saranno del 10 per cento. No, il 20 per cento. 25 per cento. No
aspetta, fallo al 50 percento.
Ok, che ne dici del 125 percento? Ci
arrivereste al 145 per cento?
Aspettate, farò di loro cento miliardi di
miliardi di trilioni per cento!
Le tariffe più grandi che se siano mai viste,
sarà un record! Tutti rimarranno a bocca aperta! Oh, dimenticatelo, torniamo al
10 per cento.
Tariffe
doganali?
Tariffa
non voglio. Non mi piacciono.
Al
giorno d'oggi non serve esagerare molto per scrivere satira, come ho imparato a
mie spese (o dovrei dire nel modo più semplice). E se cercate una diagnosi
psichiatrica plausibilmente poco lusinghiera di “Genocide Don”, “Bandy Lee” e i
suoi colleghi ci lavorano da quasi un decennio.
“Dementia Joe” e “Dementia Don£ (anche
noti come “Genocide Joe” e Genocide Don) potrebbero essere casi estremi, ma
esemplificano il livello di leadership da pagliaccio che caratterizza l'Impero
Occidentale di oggi.
Il
pagliaccio più malvagio, ovviamente, è Netanyahu, la cui brama di torturare e
uccidere i giovani fa sembrare “John Wayne Gacy “un assassino.
Ma
Bibi non è l'unico clown malvagio che ha la responsabilità del primo genocidio
al mondo trasmesso in diretta streaming.
Prendete
“Macron” e “Starmer”, per favore.
Macron
ha appena "preso il centro della scena" nel rovesciare la democrazia
in Romania. Il
vincitore
e legittimo presidente rumeno, “Călin Georgescu”,ha visto la sua vittoria
annullata da un tribunale controllato dagli oligarchi sulla base del fatto che
la Russia aveva "interferito".
Si tenne una nuova votazione truccata, e gli
oligarchi vi introdurranno qualcuno di nome” Nicursor Dan” (nessuna parentela
con Steely).
Il
Prof. Boyd-Barrett ha offerto alcune informazioni:
Suppongo
che la linea di fondo a mio avviso, “Kevin”, sia che c'è un rapporto di lunga
data tra Francia e Romania.
Il francese è abbastanza ampiamente compreso e
utilizzato in Romania, tra l'altro.
Quindi
questo è qualcosa su cui Macron è in grado di costruire.
Ma per
arrivare alla linea di fondo, la cosa principale qui, credo, è alla luce delle
precedenti dichiarazioni di Macron e delle precedenti azioni di Macron, la cosa
principale è se Macron, a nome dell'Unione Europea, può inviare truppe francesi
in Romania e posizionarle in modo tale da avere un facile accesso da una
posizione rumena in Ucraina, potenziale per difendere Odessa da un'ulteriore
penetrazione russa in Ucraina.
Penso
che questa sia la linea di fondo qui.
Affinché
Macron sia in grado di farlo, lui e l'Unione europea devono mantenere buone
relazioni con la Romania.
E
questo è quasi certamente, a mio avviso, ciò che c'è dietro questi recenti
imbrogli che sono andati avanti con la saga delle elezioni rumene.
Come hai sottolineato, abbiamo avuto elezioni
regolari a novembre o dicembre dello scorso anno, 2024.
Il
candidato principale è che ha vinto il primo turno, “Georgescu-Roegen”, non era
affatto un favore della continua partecipazione della Romania alla guerra
dell'Europa contro la Russia per l'Ucraina come delegato.
E
all'improvviso, dopo che i risultati del primo turno mostravano “Georgescu in
testa”, in modo abbastanza misterioso, l'”intelligence rumena” ha inventato una
stupida storia su come le elezioni fossero state corrotte da una sorta di
pubblicità russa e simili su “TikTok”.
È
stato stupido quasi quanto le accuse fatte su Trump nelle elezioni del 2016
negli Stati Uniti.
Ma
questa volta hanno davvero ribaltato le elezioni, a differenza di Trump.
Quindi
la Corte Costituzionale rumena ha semplicemente chiuso le elezioni.
E ci
sono molte segnalazioni che lo abbiano fatto con il totale incoraggiamento, se
non sotto il comando, di fonti a Bruxelles provenienti dai paesi europei.
Quindi
hanno indetto un turno elettorale completamente nuovo, in cui un signore di
nome “Simeon” ha ottenuto ottimi risultati al primo turno e ci si aspettava che
vincesse al secondo, ma misteriosamente non ci è riuscito.
Invece,
questo signore, “Dan”, viene più o meno dal nulla.
È un
centrista assoluto.
È totalmente favorevole all'Unione Europea.
In
ogni caso, Macron ora si sente più forte.
Ha un
amico in Romania. Se vuole, a nome della “Coalizione dei Morti di Cervello”,
inviare un contingente di 10 truppe francesi per attaccare un'avanzata russa a
Odessa... beh, buona fortuna a lui.
E
speriamo che non scateni la Terza Guerra Mondiale, cosa che potrebbe benissimo
accadere, tra l'altro.
Macron
è stato plausibilmente accusato di omosessualità promiscua.
Sua moglie, ex sua insegnante, lo ha molestato
quando aveva quindici anni. “Candace Owens “ha strombazzato teorie secondo cui la moglie di Macron è un uomo, mentre Ron Unz sospetta che queste e
altre accuse bizzarre e infondate possano essere state alimentate dalla squadra
di copertura di Macron per distrarre dai veri scandali, proprio come la teoria "Michelle Obama è un
uomo"
ha distolto l'attenzione dalle accuse più plausibili di Larry Sinclair secondo
cui Obama è un omosessuale promiscuo che abusa di cocaina e che le persone sono
state uccise per coprire questo fatto.
I
leader occidentali sono forse un branco di stupratori (Bill Clinton e Trump
sono stati plausibilmente accusati) e pervertiti (la famiglia Bush, Obama,
Biden)? Un recente incendio scoppiato nella casa del Primo Ministro britannico “Keir
Starmer”, attribuito come sempre ai russi, ha rafforzato questa impressione.
Il
primo ministro britannico “Keir Starmer” non ha pagato i servizi di escort di
tre giovani ucraini, così questi hanno deciso di vendicarsi e hanno dato fuoco
alla casa.
Lo
riporta il canale televisivo ucraino "Politics of the country" con
riferimento ai media britannici. (fonte).
Coincidenza
o no, lo scandalo è scoppiato nello stesso momento in cui Netanyahu denunciava
furiosamente “Starmer” come presunto “agente di Hamas”:
Incendiando
la casa di “Starmer” e incolpando i call-boy non pagati, qualcuno potrebbe
inviare un messaggio.
Lo
stesso tipo di messaggio è stato consegnato a Bill Clinton a metà degli anni
'90 da una risorsa oligarca sionista di nome” Monica Lewinsky”.
Lo
scandalo che ne seguì minò il capitale politico di Clinton e lo distrasse,
impedendogli di costringere Israele a rispettare il processo di pace di Oslo, e
silurando le speranze di Clinton di passare alla storia come "il
presidente che ha portato la pace in Medio Oriente".
Quindi,
se i leader occidentali sono fondamentalmente un gruppo di pagliacci
pervertiti, probabilmente è così intenzionale.
Gli oligarchi ebrei sionisti che governano
l'Occidente sono specializzati nel ricatto politico, come ha dimostrato il caso
“Jeffrey Epstein”.
Fin dai tempi in cui “J. Edgar Hoover” aveva
materiale di ricatto su praticamente chiunque fosse importante, e il boss
mafioso ebreo sionista” Meyer Lansky “aveva materiale di ricatto su Hoover,
[gli oligarchi] hanno usato il loro denaro e le loro capacità di criminalità
organizzata, ovvero di operazioni sotto copertura, per assicurarsi il controllo
dei leader occidentali.
Persone senza talento come il molestatore di
bambini “Dennis Hastert” vengono promosse a posizioni elevate proprio perché
gli ebrei sionisti li hanno filmati mentre facevano sesso con dei bambini.
È così
che funziona il processo di selezione.
Non
c'è da stupirsi che siano tutti dei pagliacci malvagi.
Ma la
gente sta iniziando a notarlo.
Nota
la presenza di pagliacci malvagi ai piani alti.
Nota “Jeffrey
Epstein”.
Nota
il “genocidio di Gaza” da parte di Israele e la complicità dei pagliacci
malvagi che gli oligarchi ebrei hanno scelto per guidare l'Occidente.
Stanno
persino notando che notare è ora un segno di antisemitismo.
Tutto
questo nota mi ricorda i ferri da maglia di “Madame Defarge” in “A Tale of Two
Cities”.
Resta
da vedere quanto ancora ci vorrà prima che la gente si stufi della clowneria
malvagia e inizi a prendere d'assalto le fortezze e a creare ghigliottine.
Il
missile ipersonico iraniano
"Fattah-1"
è preciso, letale
e inarrestabile.
Unz.com - Mike Whitney – (22 aprile 2025) – ci
dice:
Nel
caso in cui gli Stati Uniti e Israele lanciano un attacco preventivo contro
l'Iran, l'Iran è pronto a fornire una risposta fulminea che distruggerà le basi
militari statunitensi, gli impianti di produzione petrolifera, le
infrastrutture critiche ei centri di comando e controllo in tutto il Medio
Oriente.
In
breve, l'Iran ha la capacità di incendiare l'intera regione con la semplice
pressione di un interruttore grazie alla sua prodigiosa capacità missilistica
che supera quella degli Stati Uniti o di Israele.
Dai
un'occhiata a questo estratto da un articolo di “The National Interest”
intitolato Perché
il missile ipersonico iraniano Fattah-1 è un disastro per la sicurezza
israeliana:
Due
anni fa, nel giugno 2023, la Repubblica Islamica dell'Iran ha presentato il
Fattah-1, il primo missile balistico ipersonico del Paese, almeno secondo il
Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane.
Fattah
significa "Conquistatore" in persiano.
Il
missile rappresenta una pietra miliare significativa nelle ambizioni militari
dell'Iran, segnalando la sua intenzione di proiettare potenza e sottolineando
la natura radicale e in continua evoluzione della minaccia missilistica
iraniana.
Per
molti aspetti, questa minaccia preoccupa ancora di più gli strateghi
occidentali rispetto alla soglia di capacità nucleare dell'Iran.
Dopotutto,
anche se l'Iran sviluppasse tali armi, non potrebbe usarle senza rischiare il
proprio annientamento.
Ma se
Teheran avesse davvero sviluppato un missile balistico ipersonico, tutti sanno
quale nazione prenderebbe di mira per prima...
A
differenza dei tradizionali missili balistici che seguono traiettorie
paraboliche prevedibili, il Fattah-1 è dotato di un veicolo di rientro
manovrabile (MaRV), che gli consente di modificare la propria rotta in volo,
sia all'interno che all'esterno dell'atmosfera terrestre.
Questa
manovrabilità, facilitata da un sistema di propulsione a combustibile solido e
da un ugello secondario mobile, è fondamentale per la capacità del Fattah-1 di
eludere la maggior parte dei sistemi di difesa missilistica più avanzati, come
l'”Arrow israeliano”, la” Fionda di David” e l'”Iron Dome”, o persino i sistemi
americani come l'”Aegis” e il “Patriot”.
In
altre parole, la presenza di “Fattah-1” dovrebbe indurre sia gli americani che
gli israeliani a riflettere sulla necessità di attacchi aerei preventivi contro
presunti impianti di sviluppo di armi nucleari iraniani.
Perché
il missile ipersonico Fattah-1 dell'Iran è un disastro per la sicurezza e
l'interesse nazionale israeliano.
Ripeto:
i sistemi di difesa missilistica più avanzati degli Stati Uniti e di Israele
(l'israeliano Arrow, il David's Sling, l'Iron Dome, l'Aegis e il Patriot) sono
inutili contro i missili ipersonici iraniani. I
n
altre parole,il Fattah-1 è inarrestabile.
Donald
Trump è qualcosa di tutto questo?
No.
Trump è circondato da "yes-men" e neoconservatori che gli dicono solo
quello che vogliono fargli sentire
. È
rinchiuso in una bolla di politica estera in cui tutti gli occupanti credono al
mito illusorio dell'"invincibilità americana".
Trump pensa che obsoleti gruppi di portaerei e
bombardieri stealth B-2 vinceranno le guerre anche quando i suoi avversari
avranno modernizzato e rifornito i loro arsenali di sistemi missilistici
balistici all'avanguardia in grado di eludere qualsiasi dei loro obsoleti
sistemi di difesa aerea e di puntare il loro carico direttamente sul bersaglio.
Ecco un altro estratto dallo stesso articolo:
Mentre
i bombardieri stealth a lungo raggio B-2 Spirit statunitensi potrebbero
probabilmente colpire gli impianti nucleari iraniani dall'alto, gli iraniani
possono minacciare rappresaglie contro una lunga lista di obiettivi nella
regione:
basi statunitensi esposte vicino al territorio
iraniano, raffinerie di petrolio sensibili nella vicina Arabia Saudita,
portaerei statunitensi nel Mar Rosso, nello Stretto di Hormuz e persino nel
lontano Israele.
L'abbondanza
di obiettivi deboli nella regione rappresenta una minaccia profonda contro la
quale esiste poca difesa affidabile...
Il
possesso da parte dell'Iran di missili come il Fattah-1 significa che la
rappresaglia iraniana rappresenta una minaccia significativa per la regione.
Né
Washington né Gerusalemme dovrebbero minimizzare questa reale minaccia alla
loro sicurezza e prosperità economica.
E, per
tutti gli oppositori che dicono che i precedenti round di "massicce
rappresaglie" dell'Iran contro Israele nell'ultimo anno sono falliti, è
importante capire il contesto geopolitico.
L'Iran
sembra aver trattenuto le sue armi più importanti in quegli attacchi di
rappresaglia e ci sono prove che suggeriscono che abbia tirato i pugni in
seguito alle pressioni del suo principale partner militare, la Russia.
Perché
l'Iran si è tirato indietro?
Sebbene
la presa russa sull'Iran sia forte, il fatto è che i precedenti attacchi
israeliani contro obiettivi iraniani hanno evitato i sospetti impianti di
sviluppo di armi nucleari del paese.
Queste
strutture rappresentano l'equivalente del Santo Graal per il regime islamico
iraniano.
Se gli
israeliani o gli americani colpissero queste strutture e le distruggessero – o
addirittura le degradassero – è improbabile che anche la presa della Russia
sull'Iran dissuaderebbe gli islamici infuriati dal colpire obiettivi
statunitensi, israeliani e sauditi in modi finora inimmaginabili.
Pertanto,
la minaccia missilistica iraniana è reale.
Dovrebbe
essere evitata, se possibile.
E
sebbene sia improbabile che i negoziati con l'Iran portino a grandi risultati,
gli attacchi aerei sono un miraggio strategico.
L'incertezza e l'instabilità che possono
scatenare in una regione già caotica non valgono il rischio.
Perché
il missile ipersonico Fattah-1 dell'Iran è un disastro per la sicurezza
israeliana,” National Interest”.
La
cosa interessante di questo articolo è che l'autore, che sembra essere un
convinto sostenitore di Stati Uniti e Israele, offre un avvertimento basato
sulla sua analisi oggettiva della sorprendente capacità missilistica dell'Iran.
Non
sta esprimendo un giudizio morale sulla guerra imminente in sé, ma sta solo
informando i presunti autori che incontreranno una forte resistenza e
potrebbero perdere.
Esatto,
gli Stati Uniti potrebbero perdere una guerra con l'Iran.
(In
effetti, questo stesso scenario è stato "implementato" molte volte in
passato e l'esito è sempre stato lo stesso).
Come
minimo, uno scoppio delle ostilità con l'Iran manderebbe alle stelle i prezzi
del petrolio, i mercati azionari in rovina e l'economia globale in una spirale
mortale.
Trump
spera di minimizzare i danni passando rapidamente ad armi nucleari tattiche
"bunker buster" che (a suo avviso) porranno fine al conflitto in
tempi rapidi.
Ma
questo non accadrà.
Dopotutto,
l'Iran si sta preparando a una guerra con gli Stati Uniti da quasi vent'anni e
sono pronti a partire.
Ogni
attacco ai loro impianti nucleari metterebbe in moto l'effetto domino,
innescando ondate successive di attacchi con missili balistici contro obiettivi
morbidi e duri in Israele e in tutto il Medio Oriente.
Naturalmente,
diversi analisti ritengono che le capacità del Fattah-1 siano state
notevolmente esagerate e siano tutte parte di una campagna di propaganda
iraniana.
Non
sorprende che siano le stesse persone che vogliono trascinare gli Stati Uniti
in una guerra con l'Iran.
Vale
la pena notare, tuttavia, che persino il conservatore “Washington Post” ha fornito "immagini satellitari di
Planet Labs e valutazioni di esperti, che hanno confermato che almeno 24-32
missili (iraniani Fattah) hanno colpito o atterrato vicino a obiettivi
israeliani, inclusi 20-32 colpi alla “base aerea di Nevatim”, tre alla “”base
aerea di Tel Nof e due vicino al “quartier generale del Mossad.
(I siti più protetti al mondo!)
I
danni sono stati limitati, ma questo indica che alcuni missili sono sfuggiti
all'intercettazione".
Quindi,
alcuni missili sono stati intercettati?
Non è
probabile.
Come
ha confermato l'autore, i sistemi di difesa aerea statunitensi e israeliani non
sono in grado di abbattere i missili ipersonici iraniani.
A
proposito, il danno è stato "limitato" perché l'Iran non ha usato le
sue testate più distruttive.
Si è
trattato fondamentalmente di una "dimostrazione di forza", un
"colpo a vuoto" da parte di aggressori impulsivi che non comprendono
la portata della catastrofe che affronteranno se continueranno a seguire la
loro strategia sbagliata.
Naturalmente,
la copertura mediatica degli attacchi iraniani è stata in gran parte nascosta
all'opinione pubblica per evitare che Trump si tirasse indietro e si rifiutasse
di lanciare attacchi aerei secondo i piani.
In breve, Israele ha teso una trappola a
Trump, e Trump sembra esserci finito dritto dentro. Questo è tratto da un post
del “Middle East Spectator”.
Il
radar OTH iraniano "Sepehr" con una portata di 2.000 chilometri è
finalmente diventato operativo, le immagini satellitari sembrano confermare.
Il
radar è uno dei radar over-the-horizon più avanzati dell'Iran, con una
lunghezza di oltre 1,5 chilometri.
È in grado di rilevare decolli di singoli
aerei o lanci di missili balistici a una distanza massima di 2.000 chilometri,
anche all'interno dell'intero territorio di Israele.
Solo
una manciata di paesi ha padroneggiato una tecnologia radar OTH così avanzata,
e il radar fornisce all'Iran un prezioso sistema di allerta precoce in caso di
un attacco imminente.
Spettatore del Medio Oriente.
L'Iran
ha quindi sviluppato sistemi radar avanzati in grado di rilevare qualsiasi
aereo nemico o missile balistico lanciato da 2.000 chilometri di distanza.
Ciò significa che l'esercito iraniano avrà
tutto il tempo per impegnare i propri assetti difensivi mentre ordina qualsiasi
attacco missilistico balistico di prima ondata abbia in mente.
Ma
questo è solo l'inizio, perché – come sappiamo dagli attacchi aerei
"occhio per occhio" (avvenuti) tra Israele e Iran lo scorso anno –
questi sistemi di difesa aerea all'avanguardia e multistrato (integrati con
S-200, S-300 russi, sistemi cinesi e altri elementi sconosciuti) hanno
costretto gli aerei israeliani a invertire la rotta e a ritirarsi durante
l'attacco del 19 aprile.
In
effetti, gli israeliani "non si sono mai avvicinati a più di 70 km
dall'Iran perché erano agganciati da "un sistema di difesa aerea
sconosciuto" che li ha spaventati, spingendoli a una ritirata frettolosa.
Di
conseguenza, i piloti israeliani sono stati costretti a lanciare i loro missili
a lungo raggio contro obiettivi troppo lontani per essere efficaci.
In
breve, il sistema di difesa aerea iraniano ha costretto gli israeliani ad
abbandonare la missione e a tornare in patria dopo aver inflitto solo danni
minori ai siti militari iraniani.
Ci sono tutte le ragioni per credere che uno scenario
simile si verificherà se saranno coinvolti caccia e bombardieri d'alta quota
statunitensi.
Conclusione.
L'assalto
aereo israeliano dimostra che i sistemi di difesa aerea iraniani, che sono tra
i migliori al mondo, sono in grado di rilevare e contrastare aerei stealth come
l'F-35.
I
sistemi di guerra elettronica dell'Iran migliorano le sue difese aeree
interrompendo il targeting o la comunicazione del nemico
Gli
avanzati sistemi radar iraniani, in grado di rilevare qualsiasi aereo nemico o
missile balistico da 2.000 chilometri di distanza, forniscono tutto il tempo
alle forze armate iraniane per impegnare le loro risorse difensive e
organizzare i contratti.
Il
missile ipersonico iraniano Fattah-1, che viaggia a una velocità di Mach 13
(circa 10.000 miglia orarie), può eludere qualsiasi sistema di difesa aerea
statunitense o israeliana e lanciare la sua testata con precisione sul
bersaglio.
L'ex
ufficiale dell'intelligence del Corpo dei Marines e ispettore delle Nazioni
Unite, “Scott Ritter”, ha riassunto la situazione così:
Se
entriamo in guerra con l'Iran, non vinceremo... L'Iran ha una significativa
forza di missili balistici, con una capacità straordinaria.
È in grado di prendere di mira le navi
militari americane, affondare le portaerei americane...
La
guerra con l'Iran sarebbe un suicidio e gli Stati Uniti perderanno.
Una
parola al saggio è sufficiente.
Il
vero default di Trump è la guerra
europea con la Russia in modo
che
gli Stati Uniti possano intensificare
la guerra con la Cina – il caso della linea
di
rifornimento di armi da Rzeszow a Kiev.
Unz.com
- John Helmer – (22 aprile 2025) – ci dice:
Nella
lettura del Dipartimento di Stato della telefonata del Segretario di Stato “Marco
Rubio” al Segretario Generale della NATO,” Mark Rutte”, Rubio ha detto:
"mentre la nostra nazione si è
impegnata ad aiutare a porre fine alla guerra, se non emergerà presto un chiaro
percorso verso la pace, gli Stati Uniti faranno un passo indietro dagli sforzi
per mediare la pace".
Era lo scorso venerdì, 18 aprile.
“Rubio”
ripeteva ciò che aveva detto a Parigi due giorni prima, dopo i suoi colloqui su
quelli che ha definito "contorni specifici di ciò che potrebbe essere
necessario per porre fine alla guerra".
Nella
sua breve conferenza stampa all'aeroporto di Le Bourget, Rubio si è ripetuto
cinque volte in altrettanti minuti.
"Stiamo
raggiungendo un punto in cui dobbiamo decidere e determinare se questo è
possibile o meno, motivo per cui stiamo coinvolgendo entrambe le parti... Così
siamo venuti qui ieri per... Cercate di capire molto presto – e sto parlando di
una questione di giorni, non di settimane – se questa è una guerra che può
essere conclusa o meno.
Se
possibile, siamo pronti a fare tutto il possibile per giocare questo e
assicurarci che accada, che finisca in modo duraturo e giusto.
Se non è possibile – se siamo così distanti
che questo non accadrà – allora penso che accada, che finisca in modo duraturo
e giusto.
E che
il Presidente sia probabilmente a un punto in cui dirà, beh, abbiamo finito.
Faremo quello che possiamo ai margini Saremo pronti ad aiutarti ogni volta che
sarai pronto per avere la pace”.
Ripeto: "Non c'è... nessuno dice che
questo possa essere fatto in 12 ore. Ma vogliamo vedere quanto sono distanti e
se queste differenze possono essere ridotte, se è possibile ottenere un
movimento entro il periodo di tempo che abbiamo in mente".
E
ancora: "Dobbiamo capire ora, nel giro di pochi giorni, se questo è fattibile a
breve termine.
Perché
se non lo è, allora penso che, dal nostro punto di vista, dovremo semplicemente
andare avanti.
Il
Presidente è fermamente convinto di questo. Ha dedicato molto tempo ed energie
a questo, e ci sono molte cose che stanno succedendo nel mondo in questo
momento su cui dobbiamo concentrarci.
Quindi,
questo è importante, ma ci sono molte altre cose davvero importanti in corso
che meritano altrettanta, se non maggiore, attenzione".
E
ancora: "Dobbiamo
capire se è possibile anche a breve termine. Posso dirvi questo:
questa
guerra non ha una soluzione militare. In realtà non è così.
Non si
deciderà con nessuna delle due parti e ha una certa capacità strategica per
porre fine a questa guerra rapidamente...
Se non accadrà, allora andremo avanti.
Passeremo
ad altri argomenti che sono altrettanto, se non più importanti in qualche modo,
per gli Stati Uniti".
E per
la quinta volta:
"Ora siamo arrivati al punto in cui
abbiamo altre cose su cui dobbiamo concentrarci.
Siamo
pronti a impegnarci in questo per tutto il tempo necessario, ma non a tempo
indeterminato, non senza progressi.
Se
questo non è possibile, dovremo andare avanti... Ma se non accadrà, dobbiamo
saperlo ora perché abbiamo altre cose da affrontare".
Trump
ha poi ripetuto le ripetizioni di Rubio.
"Se
per qualche motivo una delle parti lo rende molto difficile, diremo
semplicemente che siete sciocchi, siete sciocchi, siete persone orribili, e
passeremo oltre.
Speriamo
di non doverlo fare... E Marco ha ragione a dire che stiamo arrivando...
vogliamo vederlo finire".
Questo
non è altro che orchestrazione.
L'interpretazione
che ne deriva è che esiste una posizione predefinita degli Stati Uniti che
Trump e i suoi uomini hanno già discusso e alla quale hanno deciso di tornare.
In
alternativa, non si sono ancora messi d'accordo sul da farsi, e le ripetizioni
di Rubio e Trump sono un bluff negoziale per ottenere ulteriori concessioni da
Kiev, Mosca e dalle capitali europee.
In
realtà, il default è entrambi:
un bluff di Trump che a Rubio è stato detto di
ripetere; e un pianoforte per combattere la guerra sia contro la Russia che
contro la Cina, anche se non con la stessa intensità allo stesso tempo.
Questo
schema predefinito è stato illustrato qualche tempo fa da “Wess Mitchell”, alto
funzionario del Dipartimento di Stato durante il primo mandato di Trump e socio
in affari di “Elbridge Colby”, ora capo stratega del Pentagono.
Lo
schema predefinito di “Mitchell”, per citare i titoli di due dei suoi articoli,
è " Per impedire alla Cina di appropriarsi di Taiwan, fermare la Russia in
Ucraina " e " Sequenza strategica, rivisitata ".
Questo
è l'obiettivo. I mezzi sono riorientare il grosso delle forze statunitensi verso la
guerra contro la Cina; evitare una guerra su due fronti con Russia e Cina
contemporaneamente;
e
aumentare le capacità degli stati europei di continuare la lotta contro la
Russia in Ucraina, pur mantenendo, o addirittura rafforzando, le riserve di
truppe, missili e armi nucleari della potenza di fuoco statunitense in Europa.
"Il
sequenziamento è una strategia", ha dichiarato “Mitchel” lo scorso
ottobre, "per ottenere un vantaggio iniziale in quella competizione, non
un rimedio per il fatto stesso che la competizione è intrinseca. Il punto è
gestire il tempo con saggezza, utilizzando le guerre per procura in corso in
Ucraina e Israele per aumentare la nostra capacità di condurre una guerra, in
modo che una guerra più grande e con maggiori conseguenze possa essere evitata
grazie alla nostra maggiore forza.
Se una strategia di sequenziamento fallisce
nei suoi obiettivi immediati, ma apporta comunque un significativo incremento
alle capacità collettive dell'Occidente, ci lascerà comunque in una situazione
migliore di quella in cui saremmo stati altrimenti per combattere una futura
guerra nell'Indo-Pacifico, quando arriverà".
L'impostazione
predefinita di Trump negli attuali "negoziati di pace" con la Russia
è la guerra Mitchell-Colby contro Russia e Cina, ma non contemporaneamente: è la strategia militare dell'omelia
del XVIII secolo, il punto in tempo per salvarne nove.
La
prova pratica che questo è ciò che sta accadendo in questo momento è al confine
polacco con l'Ucraina, dove le recenti dimostrano rivelano che l'esercito
americano sta ritirando le sue scorte militari, uomini, missili e basi di
trasporto a Rzezow.
“Mitchell”,
un accademico americano di lingua tedesca, è stato premiato per l'idea che i
governi che gestiscono l'impero con confini, basi e interessi lontani da
difendere dovrebbero evitare troppi scontri con troppi nemici
contemporaneamente.
La
soluzione militare di Mitchell è l'orologio:
mettere in sequenza le priorità militari nel
tempo in modo da massimizzare la forza necessaria, un combattimento o una
guerra alla volta.
In
passato lo stipendio di Mitchell è stato pagato da un think tank impegnato
nella guerra contro la Russia, denominato “Centre for European Policy Analysis”
(CEPA), con sede a Washington; si può ,volendo, saperne di più sul CEPA .
Più di
recente, Mitchell ha fondato un think tank autonomo chiamato “The Marathon
Initiative” con “Elbridge Colb£y, ora terzo funzionario al Pentagono in qualità
di “Sottosegretario alla Difesa per la Politica””.
Nel 2023, l'ente benefico Marathon ha
incassato 1,07 milioni di dollari, di cui 374.000 a Mitchell e 377.216 a Colby.
Le fonti di finanziamento provenivano da contratti con la “Defense Threat
Reduction Agency “del Pentagono, da fondazioni e trust come il “Fidelity
Investments Charitable Gift Fund” , a controllo familiare . Ora che Colby si è
trasferito al Pentagono, è probabile che le donazioni alla Marathon Initiative “si
moltiplichino come canale di influenza.
Come
consulenti del loro think tank, Mitchell e Colby hanno reclutato l'ammiraglio “Dennis
Blair”, ex comandante della flotta del Pacifico e direttore dell'intelligence
nazionale (2009-2010); “Thomas de Maizière, “ministro della Difesa tedesco
nell'amministrazion”e Merkel; due persone nominate da Trump al primo mandato e “Druva
Jaishankar, figlio dell'attuale ministro degli Esteri indiano .
Si avvicinava
alla campagna per la rielezione di Trump.
Nel
2021 ha sostenuto la costruzione della “Fortezza Ucraina” per ritardare la
guerra diretta degli Stati Uniti e della NATO contro la Russia.
"L'obiettivo della diplomazia americana -
e il punto cruciale della nostra strategia per evitare una guerra su due fronti
- dovrebbe essere quello di acquisire il dilemma della Russia e rendere quel
paese meno minaccioso per noi stessi in una tempistica più rapida di quanto la
Cina sia in grado di realizzare il suo ambizioso potenziale militare come
grande potenza.
infliggendo una sconfitta molto più grave di
quella che ha sperimentato finora in Ucraina) presentando al contemporaneo
nuove opportunità di cooperazione, investimenti e crescita nell'est della
Russia".
Il 14
marzo 2022, tre settimane dopo che la Russia aveva deciso di difendersi
preventivamente da questo schema, lanciando l'”Operazione Militare Speciale”, “Mitchell”
si ripeté.
"È
giusto che gli Stati Uniti e i suoi alleati esercitino la massima pressione il
prima possibile nel conflitto, l'opposto dell'approccio a gradini [ sic ]
dell'amministrazione Biden.
Siamo
stati in grado di procedere con moderazione sui primi due cicli di sanzioni
solo perché l'esercito russo ha finito per comportarsi male nei primi giorni
del conflitto.
La Cina poteva ragionevolmente concludere che
in un lasso di tempo simile avrebbe potuto consolidare la sua posizione su
Taiwan, mentre gli Stati Uniti e i suoi alleati si attardavano a valutare la
volontà taiwanese di resistere.
Se gli
Stati Uniti ora intendono sanzionare il settore energetico russo, sarebbe di
gran lunga preferibile farlo insieme agli europei, anche per dimostrare ai
cinesi che gli Stati Uniti e i loro alleati sono disposti ad accettare
congiuntamente il dolore della recessione per fermare un'aggressione su larga
scala".
Ignorando
l'evidenza del tempo – e delle sconfitte sul campo di battaglia di ogni arma e
piano operativo statunitense forniti dagli Stati Uniti nella guerra in Ucraina,
e la perdita di gran parte dell'esercito ucraino – Mitchell scrisse il 18
ottobre 2024:
"Quello
che vogliamo nell'Europa orientale è un forte “glacis” [termine che indica una
fortificazione militare] che contribuisca a mantenere l'Europa stabile negli
anni a venire, mentre gli Stati Uniti concentrano maggiormente l'attenzione
sull'Asia.
L'Ucraina
sarebbe logicamente il fulcro di quel “glacis”, poiché sarà la più grande e
migliore forza combattente in Europa nel prossimo futuro. La diplomazia
dovrebbe quindi sforzarsi di creare le condizioni per un'Ucraina il più
possibile estesa territorialmente ed economicamente sostenibile".
Mitchell
stava scrivendo questo alla vigilia della rielezione di Trump.
È
stato il suggerimento suo, di Colby e dei loro collaboratori per la linea della
campagna di Trump che avrebbe potuto negoziare una rapida fine della guerra in
Ucraina.
"Nel
caso dell'Ucraina", ha annunciato Mitchell, "non possiamo essere
ansiosi di un accordo se arriva in un momento in cui è probabile che la realtà
del campo di battaglia consegnino uno stato di scarto che avrà una bassa
utilità nel ghiacciaio dell'Europa orientale di cui abbiamo bisogno per
condurre un perno... forma che consente un riorientamento dell'attenzione verso
il teatro primario senza assumere rischi eccessivi nel primo...
Dovremmo
essere chiari sul fatto che non si tratta di "abbandonare" l'Europa.
Anche una volta che gli Stati Uniti avranno dato priorità all'Asia, saranno una
potenza europea e continueranno ad avere ragioni strategiche convincenti per
mantenere certi tipi di hardware militare di fascia alta in quel teatro, sia
per aumentare le capacità europee che per avere un punto d'appoggio [termine
militare] da cui proiettare il potere in altri luoghi, compresa l'Asia.
Washington dovrebbe cercare un nuovo grande accordo con l'Europa volto a
modificare questo stato di cose.
Dovrebbe
essere disposto a sostenere accordi creativi, comprese le formazioni militari
congiunte franco-polacco-tedesche...
Per
fare perno sull'Asia, l'America ha bisogno di un fulcro in Europa, e questo può
essere fornito solo dagli europei stessi ".
A
riprova del fatto che Trump non si sta ritirando dalla guerra con la Russia, ma
sta lanciando l'orologio contro il presidente Vladimir Putin, i recenti
rapporti dalla Polonia si rivelano camuffati, non con coincidenze.
Il 4
marzo, il politico polacco, rappresentante del partito della Confederazione
Polacca al Parlamento europeo, ha pubblicato quella che ha definito la prova di
"segnali concreti della fine degli aiuti finanziari statunitensi
all'Ucraina".
Questo
è apparso in un lungo testo che “Buczek” ha twittato con un filmato ripreso da
un'auto di passaggio vicino, nella Polonia meridionale.
L'aeroporto,
che prende il nome dal villaggio di” Jasionka”, alla periferia della città di “Rzeszów”,
si trova a meno di 100 chilometri a est del confine ucraino;
dal 2022 funge da hub per la consegna di
uomini e materiali dagli Stati Uniti e dai paesi NATO, che sono stati poi
trasferiti via camion o treno a Leopoli e poi verso il fronte orientale.
Secondo
“Buczek”, "l'aeroporto di Rzeszow-Jasionka.
In
questo luogo pochi giorni fa si trovavano le strutture logistiche e di
magazzino dell'esercito americano con camion e attrezzature inviate in Ucraina.
Anche la piazza lastricata di lastre di
cemento, costruita a passo sostenuto nel 2022, sta scomparendo di questo passo.
In
pochi giorni, le ultime sono state rimosse da un'area di quasi 2 ettari e il
prossimo in linea per la liquidazione è già un altro di questi impianti tecnici
con una superficie di circa 4 ettari".
(twitter.com/buczek_tomasz/status/1896877495238193331)
“Buczek
ha poi concluso”:
"Nessuna
alleanza dura per sempre.
E
l'articolo 5 della NATO non è mai stato messo alla prova nella pratica.
Pertanto “Confederation” ha messo in guardia
contro tendenze pacifiste troppo ampie in Polonia e in Europa e contro le
aspettative eccessive di sicurezza militare nelle alleanze internazionali.
Le alleanze sono necessarie, è vero, ma più
efficaci saranno uno stato ricco, una nazione forte, una propria industria
bellica, un grande esercito dotato di carri armati e attrezzature ad alta
tecnologia.
Nel
frattempo, l'élite di Bruxelles è preoccupata per il clima".
Sebbene
questa fosse un'eco della linea dell'amministrazione Trump e dell'obiettivo
Mitchell-Colby di costruire forze anti-russe in Polonia, l'agenzia di stampa
statale polacca ha riferito il giorno successivo, il 5 marzo, che “Buczek” si
era sbagliato.
"Fake
news", ha affermato il governo di Varsavia.
C'è stato un trasferimento dagli Stati Uniti
al controllo europeo e polacco dell'hub aeroportuale e dei suoi sistemi di
difesa missilistica Patriot forniti dagli Stati Uniti, ma questa non è stata
una decisione di Trump, né un ritiro degli Stati Uniti dalla guerra con la
Russia.
Al contrario, la fonte governativa ha
annunciato che l'aeroporto sarà presto rinforzato da unità missilistiche
tedesche e da uno squadrone di caccia F-35 dell'aeronautica militare norvegese.
(stripes.com/)
Il
passaggio formale di consegne dei compiti relativi alla difesa missilistica
dell'aeroporto di “Jasionka” un importante snodo militare per i rifornimenti
all'Ucraina in guerra, da parte del battaglione missilistico Patriot
statunitense, è avvenuto il 3 marzo.
Tuttavia,
la decisione di sostituire gli americani con la Germania è stata presa prima
dell'insediamento del presidente Donald Trump.
Il
ritiro degli americani da “Jasionka” non è quindi direttamente correlato
all'ultima decisione dell'amministrazione statunitense di sospendere gli aiuti
militari all'Ucraina.
Non
indica nemmeno che gli americani intendano ritirarsi dal territorio polacco, né
che – come suggerisce l'autore [Buczek] del post verificato – l'alleanza
polacco-americana si stia indebolendo.
Piuttosto, i segnali provenienti dalla nuova
amministrazione statunitense indicano che la presenza di truppe statunitensi in
Polonia non è minacciata ...
Questo
post contiene almeno due manipolazioni:
la
rimozione degli americani da “Jasionka,” di cui l'abbandono dell'area occupata
è un segno visibile, non è direttamente correlata alla recente decisione del
presidente Trump di sospendere gli aiuti militari statunitensi all'Ucraina, e
non è nemmeno un presagio del ritiro di migliaia di altri soldati americani
dalla Polonia.
Come
riportato il 3 marzo di quest'anno dal portale militare americano “Stripes.com”
[il quotidiano a stelle e strisce], i soldati statunitensi hanno formalmente
consegnato la missione di difesa missilistica Patriot in Polonia (a Jasionka)
alle forze tedesche all'inizio di marzo, ma le decisioni in merito erano state
prese molto prima.
Il 5°
Battaglione dell'Esercito, 7° Reggimento di Artiglieria di Difesa Aerea,
l'unico battaglione missilistico Patriot statunitense di stanza in Europa, è
stato schierato all'aeroporto di “Rzeszow-Jasionka” poco dopo l'invasione russa
su vasta scala dell'Ucraina all'inizio del 2022.
La
notizia del trasferimento del battaglione missilistico Patriot in una base in
Germania è apparsa pochi giorni prima del giuramento del presidente Donald
Trump il 3 gennaio di quest'anno.
"Il principale catalizzatore di questo
cambiamento è che siamo stati dirottati verso gli sforzi di modernizzazione dal
Capo di Stato Maggiore dell'Esercito", ha affermato il comandante di
battaglione, il Tenente Colonnello Daniel Corbett, come riportato da”
stripes.com”.
L'unità
statunitense sarà il primo battaglione Patriot operativo a schierare il nuovo
Sistema di Comando Integrato di Difesa Aerea e Missilistica (IPDC)
dell'esercito. Pertanto, secondo Corbett, "si temeva che sarebbe stato
difficile farlo durante lo svolgimento della missione in Polonia".
A loro
volta, come si può leggere sul sito web del governo polacco, i tedeschi, che da
marzo hanno sostituito gli americani, hanno delegato al nostro Paese,
nell'ambito della missione dell'Alleanza Nord Atlantica, ovvero la NATO
Security Assistance and Training for Ukraine, due batterie di missili antiaerei
Patriot del 21° Gruppo missilistico antiaereo della Luftwaffe, provenienti da
Sanitz, in Pomerania.
D'altra parte, insieme alle batterie del
sistema di difesa antiaerea e antimissile, sono arrivati in Polonia circa 200
soldati tedeschi.
Lo stazionamento di truppe tedesche in Polonia
rafforza anche la difesa aerea integrata della NATO sul fianco orientale
dell'Alleanza.
"Nel
novembre 2024, i norvegesi hanno anche accettato di difendere l'hub di “Jasionka”.
La missione dell'unità di difesa aerea
norvegese a Jasionka, che dispone del sistema NASAMS, è quella di mettere in
sicurezza lo spazio aereo dell'aeroporto.
L'operazione
in Norvegia fa parte dell'Operazione di Difesa Aerea e Missilistica Integrata
della NATO, coordinata dal Comando Aereo Europeo dell'Alleanza (AIRCOM).
Entro la Pasqua del 2025, la missione
norvegese sarà estesa per includere quattro caccia F-35".
Il
rapporto del governo polacco del 5 marzo:
"Contrariamente
a quanto suggerito nella voce verificata [tweet di Buczek], non c'è nemmeno
menzione del ritiro dei soldati americani dalla Polonia.
Dopo l'incontro con il presidente Trump a
Washington, “Andrzej Duda” ha ammesso in un'intervista ai giornalisti che il
leader americano, "per quanto riguarda la Polonia", prevede di
rafforzare la presenza dell'esercito americano, sottolineando che siamo uno
degli alleati più affidabili.
Il
presidente “Duda” ha avuto un'impressione simile – che la presenza militare
americana in Polonia sarebbe stata 'almeno mantenuta' – dall'incontro a
Varsavia con il segretario alla Difesa degli Stati Uniti “Pete Hegseth”.
Questa
risposta polacca è stata rafforzata dall'annuncio del 7 aprile da parte del
quartier generale dell'Esercito degli Stati Uniti in Europa che era in corso un
riposizionamento di truppe statunitensi da Jasionka, pianificato da tempo, ma
che le forze non avrebbero lasciato il fronte contro la Russia, bensì si
sarebbero trasferite in altre basi in Polonia. "L'Esercito degli Stati
Uniti in Europa e Africa annuncia il riposizionamento pianificato di
equipaggiamenti e personale militare statunitense da Jasionka, in Polonia, ad
altri siti nel paese. Questa transizione fa parte di una strategia più ampia
per ottimizzare le operazioni militari statunitensi, migliorando il livello di
supporto ad alleati e partner e aumentando al contempo l'efficienza. La decisione
di riposizionare truppe ed equipaggiamenti riflette mesi di valutazione e
pianificazione, in stretto coordinamento con i paesi ospitanti polacchi e gli
alleati della NATO. L'importante lavoro di facilitare gli aiuti militari
all'Ucraina tramite Jasionka proseguirà sotto la guida polacca e della NATO,
supportata da una presenza militare statunitense snella. La Polonia e i suoi
alleati manterranno la solida infrastruttura protettiva attorno a questo sito
critico."
(europeafrica.army.mil/)
Nel
2022, le forze statunitensi hanno stabilito una presenza temporanea a Jasionka
dopo l'invasione russa su vasta scala dell'Ucraina.
Il sito non si trova presso una base militare
polacca permanente, ma è stato utilizzato da forze statunitensi, NATO e partner
per tre anni.
Nel frattempo, l'esercito statunitense ha
istituito la guarnigione in Polonia e strutture più solide sulla base di
accordi con la nazione ospitante e di investimenti significativi in tali
strutture da parte sia del governo polacco che di quello statunitense.
Osservate
attentamente le date e la cronologia che rivelano.
Il ridispiegamento delle forze statunitensi in
Polonia – in realtà, un aumento del loro numero e della loro potenza di fuoco,
secondo lo Stato Maggiore polacco – è stato deciso dall'amministrazione Biden
come parte del suo piano di guerra contro la Russia.
Trump, Rubio e il Segretario alla Difesa
statunitense” Hegseth” stanno attuando questo piano, ma facendolo apparire come
una loro iniziativa, non di Biden; e anche come parte dei "negoziati di
pace" di Trump, non della guerra contro la Russia.
L'evidenza
sul campo in Polonia è che questa è la posizione predefinita
dell'amministrazione Trump. Gli annunci di Rubio e Trump della scorsa settimana
sono camuffati.
Questa
è la convinzione anche dell'intelligence militare russa, dello Stato Maggiore e
del Presidente Putin.
Per il momento, nessun russo lo dirà
pubblicamente.
Tuttavia, domenica (20 aprile) un blogger
militare moscovita ha pubblicato una tabella degli arrivi di aerei statunitensi
all'aeroporto di Rzeszów-Jasionka da gennaio 2023 a metà di questo mese.
Il
commento afferma:
"Nonostante
la retorica pubblica e le speculazioni sui media, il cambio di amministrazione
americana non ha ancora influenzato il volume delle consegne di merci militari
all'Ucraina... Se consideriamo i trasporti militari C-17 e S-5, così come i cargo
civili noleggiati "Boeing-747" e "Douglas MD-11F", il
quadro presentato nel grafico sopra risulta coerente.
Ci
sono stati notevoli picchi anomali di rifornimenti nella preparazione
dell'offensiva delle Forze Armate ucraine nel 2023 e alla fine del 2024 a causa
dei timori dell'amministrazione Biden circa la cessazione delle consegne dopo
l'insediamento di Trump.
Se si
escludono queste anomalie, allora in media mensile nel 2023-2024, 35 di tali
voli sono arrivati a Rzeszów.
E tra
febbraio e aprile 2025, nonostante la pausa settimanale di marzo, si è
registrata una media di 25 voli al mese. Durante i primi 19 giorni di Aprile,
sono arrivati 20 voli."
Il 27
marzo il Ministero della Difesa di Varsavia ha imposto nuove norme per impedire
a “Buczek” e ai “mini blogger russi “di pubblicare filmati e fotografie che
espongano ciò che gli Stati Uniti, i tedeschi e le altre forze della NATO
stanno facendo in Polonia.
"I
nuovi regolamenti, introdotti come parte di un emendamento all'”Homeland
Defense and Counter intelligence Act”, mirano a salvaguardare le infrastrutture
nazionali chiave", ha annunciato la radio di Stato il 15 aprile.
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