Differenza tra bugia e menzogna.

Differenza tra bugia e menzogna.

 

 

 

Cronaca, Editoriali, Interno, Politica.

Si vis bellum spara balle.

Infosannio.com – (27 giugno 2025) – Redazione - Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano – ci dice:

 

L’unica cosa seria che dovrebbe fare la Nato, non da oggi ma da quando sparì il Patto di Varsavia, sarebbe sciogliersi per mancanza di nemici.

Invece, da allora, se li inventa.

Anzi li lascia inventare ai padroni Usa, che ogni due per tre sfornano un Impero del Male:

l’Iran sciita, l’Iraq sunnita, l’Afghanistan dei talebani (che piacevano tanto quando combattevano i russi), l’Isis sunnita, di nuovo l’Iran sciita, gli alleati della Russia come la Serbia di Milosevic e la Libia di Gheddafi, poi direttamente la Russia.

Ora però Trump s’è messo d’accordo con Putin, che gli ha dato una mano a placare l’ira degli ayatollah e a trasformare la guerra all’Iran in una sveltina di una notte, e può tornargli utile in Medio Oriente e con la Cina.

Infatti, al vertice Nato dell’Aja, ha sbianchettato ogni accenno all’“aggressione russa in Ucraina”:

è rimasta solo la “minaccia” di Mosca, senza precisare per chi e perché, e una postilla sulla Cina che era appena diventata buona contro i dazi trumpiani ed è tornata cattiva perché si papperà Taiwan d’intesa con Mosca (come se “Xi” avesse bisogno di Putin).

Quindi spezzeremo le reni pure alla Cina, che però affaccia sul Pacifico mentre la Nato è l’alleanza del Nord Atlantico (ma questo “Rutte & C.” lo scopriranno solo se incontreranno un mappamondo).

 

Il bello è che, mentre sparisce l’ultimo nemico rimasto, la Nato approva un mostruoso piano di riarmo a carico dell’Europa, che non spendeva tanto dalla II guerra mondiale (il 5% del Pil, mentre gli Usa restano al 3).

Per difendersi da chi, nessuno lo sa.

 Sempre dalla Russia, ripetono i trombettieri del riarmo, costretti a inventarsi una balla al giorno per farci digerire un salasso che avremmo rifiutato pure ai tempi della guerra fredda.

Dicono che i russi le buscano in Ucraina, ma stanno per invadere Baltici, Finlandia, Polonia e Germania (come minimo);

però si scordano di spiegare che cosa se ne farebbe Putin, perché mai dovrebbe attaccare gli amici dell’amico Trump e con quali forze respingerebbe i 32 eserciti Nato.

Dicono che gli Usa si sono stufati di mantenere la nostra difesa, come se le loro basi in Europa fossero un favore a noi e non un interesse loro (infatti non han ritirato un marine, un missile, una testata nucleare).

Dicono che il 5% non è poi così male perché non sono mica armi (infatti i produttori di carri armati, missili, bombe e bombardieri volano in Borsa), ma cybersicurezza e infrastrutture tipo Ponte sullo Stretto, utilissimo ai nostri soldati per fermare gl’invasori russi tra Scilla e Cariddi.

In pratica il “ragionier Ugo Rutte” e gli altri “lecca-Donald” prima ci rapinano col riarmo, poi con calma decideranno a cosa serve.

Ad aprile Trump disse: “C’è la fila per baciarmi il culo”.

 Parlava dell’Europa, alla memoria.

 

 

 

 

Qual è il confine tra

bugia e inganno?

Agazineunibo.it – (10 Febbraio 2021) – Redazione – ci dice:

 

La comunicazione disonesta può favorire la diffusione della disinformazione. Ma mentre è possibile ingannare attraverso l’uso di insinuazioni, supposizioni o domande, solo un’affermazione, con il carico di responsabilità che comporta, può essere una vera e propria menzogna.

Fake news, “fatti alternativi”, inganni, raggiri, promesse mancate.

 Negli ultimi anni è diventato evidente a tutti quanto forme di comunicazione disonesta possano favorire la diffusione della disinformazione, con conseguenze pericolose.

Ma qual è il confine tra bugia e inganno?

 E che cos’è, esattamente, una menzogna?

La questione a prima vista sembra semplice, ma nasconde molte insidie.

Una proposta di definizione arriva ora con due studi firmati da “Neri Marsili”, ricercatore al Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna: uno pubblicato sulla rivista “Synthese” e uno sulla rivista “Erkenntnis”.

 

La risposta?

Si può parlare di "menzogna” vera e propria solo quando chi parla si assume la responsabilità della verità di ciò che ha detto, per mezzo di un'affermazione insincera.

 Bisogna quindi distinguere le affermazioni - che possono essere menzogne vere e proprie - da altre forme di discorso come insinuazioni, suggerimenti, supposizioni, consigli e domande, che possono invece essere utilizzate per ingannare l’interlocutore, ma non possono essere considerate vere e proprie bugie.

 

"Per molti, essere accusati di aver ingannato senza però aver mentito è comunque preferibile al veder macchiata la propria reputazione con una menzogna vera e propria:

si tratta di un’idea che ha radici antiche, è stata difesa da Sant’Agostino e poi da San Tommaso, fino ad arrivare alla tradizione moderna con Kant", spiega Marsili. "Ed è una distinzione che oggi ha anche valore legale in molti ordinamenti giuridici:

negli Stati Uniti, ad esempio, la menzogna viene punita severamente in sede processuale, ma c’è maggiore tolleranza per le testimonianze che magari sono ingannevoli, ma risultano letteralmente vere".

Molti tra linguisti, filosofi e giuristi hanno tentato di tracciare un confine netto tra la menzogna e altre forme di inganno, ma con risultati mai del tutto soddisfacenti. Mentire significa dire il falso con l’intenzione di ingannare?

 Oppure dire qualcosa che crediamo falso volendo far credere al nostro interlocutore che quel che abbiamo detto sia vero?

 O ancora dire qualcosa con l’intenzione di comunicare che quel che abbiamo detto sia vero, pur sapendo che è falso?

 

"Tutte queste definizioni risultano in realtà imprecise, perché non tengono conto del fatto che per mentire è necessario prima di tutto affermare qualcosa: solo le affermazioni possono essere menzogne", precisa Marsili.

"Se lascio intendere qualcosa di falso, per esempio per mezzo di un’insinuazione, una supposizione, una scommessa, o anche una domanda, posso certamente ingannare il mio interlocutore, ma quello che dico non può definirsi, in senso stretto, una menzogna".

 

Quando facciamo un’affermazione ci assumiamo infatti la responsabilità del fatto che quello che diciamo sia vero.

Se quello che abbiamo detto si rivela falso la nostra credibilità sarà danneggiata: ne va della nostra reputazione.

 Nel caso di ipotesi, supposizioni o domande, anche ingannevoli, non ci sono invece conseguenze così nette.

La distinzione tra la menzogna e altri tipi di inganno sembra dunque essere fondata sulle diverse responsabilità legate a queste diverse forme di comunicazione.

 

"Questo spiegherebbe anche perché alla menzogna sia assegnata una valenza morale particolare", dice in conclusione Marsili.

 "Chi mente fa leva sulla propria reputazione per far credere qualcosa di falso, ma nel semplice inganno questo invito esplicito a credere 'sulla parola' non è presente".

 

 

 

Menzogna: una linea sottile tra ciò

che è reale e quello che non lo è.

Guidapsicologi.it – (6 ottobre 2023) – Dott.ssa Nicoletta Del Monaco -Relazioni sociali- ci dice:

Almeno una volta nella vita, ognuno di noi, si è trovato costretto, per svariati motivi e in differenti contesti a dover raccontare qualche bugia che possa essere piccola o grande.

Ma cosa significa mentire?

 

Menzogna: una linea sottile tra ciò che è reale e quello che non lo è

 A volte lo si fa per sfuggire dall'eseguire un semplice compito, altre volte per evitare conflitti all'interno delle nostre relazioni (amicali, amorose, familiare e lavorative) o ancora, può capitare, di farlo semplicemente per non volerci assumere le nostre responsabilità etc.

Ma quando, raccontare una menzogna rientra in casi clinici significativi?

Quando essa diventa una brutta abitudine di vita.

 

Perché mentiamo?

Come da premessa, tutti noi abbiamo raccontato qualche bugia nel corso della nostra esperienza di vita in quanto, molto spesso, questa tendenza, può rivelarsi essere un efficace alleato nel superare difficoltà quotidiane.

In questi casi, quando mettiamo in atto questa tendenza, indipendentemente dalla reale motivazione per cui lo facciamo, siamo coscienti e consapevoli della non realtà dei fatti raccontati.

Pertanto, potremmo trovarci a raccontare:

Bugie bianche o a fin di bene volte a tutelare l'altra persona, come ad esempio quando una nostra amica ci chiede un parere sul suo nuovo taglio di capelli e noi, per evitare che possa rimanerci male, confermiamo di come le stia bene, nonostante il nostro pensiero possa essere opposto;

Bugie sfacciate raccontate con un'espressione facciale seria e un tono della voce convincente, ma che non ingannano l'interlocutore;

Bugie grosse per convincere l'interlocutore/ascoltatore di un grande evento nonostante esse vengano contraddette da ciò che l'altro sa essere vero o dal suo buon senso.

In questi casi il nostro interlocutore/ascoltatore fa fatica a credere che qualcuno possa raccontare una menzogna su qualcosa di così importante o grosso;

Bugie da commiato usate per concludere delle conversazioni;

Bugie fabbricate che corrispondono in parte a verità, utilizzate molto spesso per accrescere l'effetto di ciò che si racconta;

Bugie esagerate usate per enfatizzare un'affermazione reale rendendola ancor di più significativa;

Bugia onesta utilizzata quando ad esempio si ricorda un evento in modo sbagliato.

Cos'è la mitomania?

A questa serie di menzogne, potremmo però aggiungervene altre che tendenzialmente appaiono estreme in cui, il confine fra bugia e realtà, appare confuso soprattutto per colui che le racconta.

 In questo caso, il mitomane (colui che crea una realtà fittizia), dà adito alle proprie bugie credendo a ciò che esse raccontano, cercando di imporre la "propria realtà" agli altri con fermezza e convinzione.

 

Per chi soffre di mitomania si genera una vera e propria dipendenza dalle menzogne che si alimenta costantemente con ulteriori bugie, creando un vero e proprio circolo vizioso.

In tal caso, il mitomane non riesce a smettere di raccontare menzogne in quanto questa dipendenza crea, a volte, senza un motivo ben preciso, un bisogno fisiologico per essere accettati, come risposta ad una pressione sociale percepita da lui stesso come insopportabile, per nascondere le proprie debolezze, come protezione dal giudizio altrui, per suscitare ammirazione, stima e in alcuni casi compassione o anche per accrescere la propria autostima evidenziando, molto spesso, i propri tratti narcisistici.

Questa tendenza a mentire non crea difficoltà solo a colui che mente, ma anche a chi gli sta vicino come amici, partner, familiari e colleghi i quali rappresentano le vittime principali.

Parlando di una vera e propria dipendenza dalle menzogne, il mitomane, laddove dovesse venire scoperto non riesce ad ammettere di aver mentito e per questo, di fronte ad una grande crisi interiore, tenderà a continuare ad affermare i suoi racconti e a reagire in maniera aggressiva.

 

Cos'è la mitomania?

 

A tal proposito possiamo definire il mitomane, una persona che può presentarsi come aggressiva, con un'immagine di sé negativa, privo di empatia, con scarse capacità di instaurare un legame affettivo con l'altro, con difficoltà nel ripetere la stessa bugia in maniera esatta, convinto di avere sempre ragione, intollerante, impaziente, egocentrico e con una posizione corporea "da fuga" che li porta a gesticolare, toccarsi costantemente i vestiti quando mentono, abbassare la testa durante il racconto ecc.

Nel parlare di queste forme di bugie estreme è necessario fare una distinzione tra le due tipologie principali di bugiardi quello compulsivo ed il bugiardo patologico:

 

Il bugiardo compulsivo è una persona che tende a dare una versione alterata della realtà senza uno scopo preciso. Assume questo comportamento perché gli risulta naturale e perché si sente a suo agio nel farlo, senza avere un'intenzione manipolatoria.

Mentono solo se in difficoltà o a disagio.

Sono insicuri.

Non sono manipolativi.

Tollerano le critiche.

Provano rimorso delle bugie dette, ma non riescono a non mentire.

Sono capaci di relazioni affettive mature.

Il bugiardo patologico è colui che mente per uno scopo preciso sena preoccuparsi delle conseguenze del suo comportamento.

Generalmente si presenta come un vincitore dalla vita perfetta, mostra una realtà diversa dalla sua per riuscire ad essere elogiato e accettato dal proprio interlocutore.

Manipolativi, egoisti, con scarsa empatia.

Provocano problemi e dolore a chi lo circonda.

Presentano un ego smisurato di sé.

Mentono gratuitamente, anche se non necessario.

Sono seduttivi e disinibiti.

Non provano nessun rimorso.

Come precedentemente accennato, è difficile non solo per chi mente ma anche per chi subisce le menzogne vivere a contatto con bugiardi costanti.

 Non essendoci modi realmente effettivi per capire se una persona ci stia mentendo o meno, è possibile adottare alcune strategie tramite le quali si potranno osservare degli indicatori specifici.

 Ciò che sarebbe opportuno fare, nel momento in cui entriamo in contatto con una persona della quale non riusciamo a fidarci è farla parlare, ponendole domande sui fatti narrati e chiedendo, laddove necessario, ulteriori chiarimenti.

 Nel momento in cui, il presunto bugiardo, racconta la propria realtà possiamo fare affidamento ad alcuni indicatori quali:

Uso di un linguaggio impersonale in cui vengono evitati nomi propri.

Utilizzo di intercalari e pause per avere il tempo di pensare a cosa dire.

Evasività nelle risposte in caso di domande.

Utilizzo di frasi specifiche come "per dirti la verità…" o "per essere onesti…" all'inizio del discorso.

Quando riconoscete in una persona la patologia del bugiardo patologico è necessario cercare di portarlo verso un processo di consapevolezza attraverso un percorso di psicoterapia, cercando, allo stesso tempo di non assecondarlo più e allontanandosi da lui attraverso il no contact.

Inoltre, alla base delle bugie potrebbero in realtà esserci altri disturbi psicologici importanti, per cui bisogna sempre avvicinarsi con le giuste tempistiche ed appropriate metodologie.

 

 

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LA BUGIA COME STRUMENTO DEL POTERE.

It.linkedin.com - Post di Salvatore Rizzo & C.- C.I.O./Controller presso C.D.S. S.p.A – (10-01-2025) – ci dice:

 

“Mentire continuamente non ha lo scopo di far credere alle persone una bugia, ma di garantire che nessuno creda più in nulla.

Un popolo che non sa più distinguere tra verità e menzogna non può distinguere tra bene e male.

E un popolo così, privato del potere di pensare e giudicare, è, senza saperlo o volerlo, completamente sottomesso all’impero della menzogna.

Con persone come queste, puoi fare quello che vuoi.“

(Hannah Arendt, storica e filosofa tedesca, sviluppò il concetto di “la banalità del male”).

 

SE SIAMO TUTTI DENTRO A UN KARAOKE.

Post di Gabriella Ambrosio.

 

Ero molto giovane quando mi ritrovai per la prima volta fra le mani un saggio dal titolo affascinante, “Il potere dei senza potere”.

 In una nota, l’editore avvertiva d’averlo tradotto all’insaputa del suo autore, “Vaclav Havel”: dissidente del regime sovietico, in quel momento era in prigione a Praga.

 

Nel libro si sosteneva che qualsiasi sovvertimento positivo della realtà può nascere da una presa di coscienza e un atto individuale:

“Nessuno sa quando una qualsiasi palla di neve può provocare una valanga”.

E che per combattere l’ideologia e il potere non servono un’altra ideologia e potere: basta pensare e muoversi e vivere dentro la verità.

Questo fu per me un mantra in un’età in cui, appena finiti gli studi di filosofia, lavoravo come giornalista di cronaca, e nutrivo la velleità di dare voce a chi non ne aveva una - il potere dei senza potere - e di inseguire ogni giorno la verità.

 

Ma oggi, in un mondo dominato da strapoteri sovranazionali controllanti, abbiamo un problema in più riguardo la "verità":

siamo capaci di riconoscere cosa è autentico?

 C’è troppo chiasso intorno per capirlo.

Il potere di chi ha potere opera indisturbato una continua manipolazione delle parole, manomettendole, stravolgendole, abusandole, svuotandole di significato.

 

Faccio un piccolo ma famoso esempio di abuso del significato, che riguarda il nostro Paese e la nostra lingua (in alcuni campi siamo degli apripista): se ricordate, a un certo punto abbiamo cominciato a parlare di libertà al plurale. Improvvisamente non esisteva più la libertà, ma le libertà: una delle aspirazioni più alte dell’umanità era stata ridotta di colpo ad arbitrio e piccolo potere individuale.

 

Quando la parola scivola così nel buco nero delle demagogie e del camuffamento del potere, si sporca, invischia e inghiotte ogni pensiero e movimento che possa essere autenticamente contrario.

 

Le parole sono indispensabili per raccontare a noi stessi e agli altri la nostra storia e disegnare i nostri desideri.

Sono il pilastro di ogni costruzione, mentale, etica, sociale, politica.

Quale consapevolezza possiamo raggiungere, quale visione alternativa, quale capacità di rovesciare il tavolo, se veniamo scippati dell’unica maniera che abbiamo per condividere il significato delle cose?

Se i mezzi di comunicazione più diffusi, ovunque nel mondo, continuano a lavorare a cavallo fra bieca informazione e bieco intrattenimento, in piena confusione semantica, quale scampo ci resta?

Sono stata fra i primi a credere che il web sarebbe stato capace di aprire un vero, grande e funzionale squarcio, di diluire l’inquinamento verbale, ripulire la parola, ridare il potere ai senza potere.

Di costruire ogni giorno, con il confronto e il dialogo fra mondi lontani, una società vera, pulita e consapevole, capace di dare un senso nuovo alla parola democrazia e rendere migliori noi stessi e il mondo.

Al momento però non vedo luce.

Non so voi, che il web come me lo frequentate.

 

 

MANIPOLAZIONE CHE DIVENTA TERRORE.

Post di Enzo Passaro.

 

L’autore de “Il Principe”, con il suo proverbiale e spietato pragmatismo, ci svela una verità scomoda: chi detiene il potere può usare la manipolazione per instillare timore e mantenere il controllo. E spesso lo fa, sapendo di farlo.

Un esempio storico?

Il regime del terrore instaurato da Robespierre durante la Rivoluzione Francese. Con la scusa di difendere la rivoluzione, Robespierre utilizzò la ghigliottina come strumento di repressione, instaurando un clima di paura e sospetto che paralizzò l'intera popolazione.

 

Avere competenze in ambito neurolinguistico ci permette di individuare le parole che vengono usate come armi, per influenzare, condizionare, intimidire.

Un capo manipolatore, infatti, sa usare il linguaggio per creare un clima di incertezza e timore, per imporre la sua volontà e soffocare il dissenso.

 Ma proprio conoscendo le tecniche di manipolazione, possiamo difenderci meglio e promuovere un uso più etico e responsabile del linguaggio.

Ma il potere non è solo coercizione, anche se le imminenti presidenziali a stelle e strisce sono state esasperanti in tal senso.

Esiste anche un potere "buono", basato sulla fiducia, il rispetto, la collaborazione. Il potere della leadership che ispira e motiva, invece di opprimere.

 

Post di Silvia Pedretti.

 

Il problema dei tre corpi: riflessioni su potere e responsabilità

 "Il problema dei tre corpi" di Liu Cixin, bestseller da cui è tratta una recente serie Netflix di successo, affascina poiché tutti noi siamo continuamente immersi in questioni di difficile soluzione.

Tra queste, spiccano il problema dell’uguaglianza e quello della giustizia, strettamente legati alla dinamica del potere.

 

Il potere corrompe quando diventa capacità di condizionare o determinare il comportamento degli altri per mettersi al riparo dalle rappresaglie, rendendo impossibile la vendetta dopo un’ingiustizia o il tradimento dei principi di lealtà e solidarietà.

Più la struttura gerarchica è rigida ed immutabile, più chi sta in alto diventa intoccabile: su chi detiene il potere non è possibile la rappresaglia.

 

Nel testo si associa il potere che corrompe, come strategia per scongiurare le rappresaglie, da una parte al rifiuto della trasparenza ed all’assenza di responsabilità dall'altra.

 

Vi ricorda qualcosa? Occultamento della verità, rifiuto delle responsabilità, negazione degli effetti negativi delle proprie decisioni: sono i principi immutabili dell’autoritarismo!

 Eppure, c’è una strada, propriamente umana, che passa dalla trasparenza e dalla responsabilità.

Per questo, il potere che salva è il potere legato alla verità ed al farsi carico delle conseguenze del proprio operare.

 

Penso che trasparenza e responsabilità non siano solo ideali, ma pratiche quotidiane che possono trasformare il modo di esercitare il potere.

 

 

Perché il potere responsabile è

l'unica forma di potere ammissibile.

(vita.it)

Post di Nicola Moiraghi.

 

"La politica, spesso, ci appare come un teatrino dell'assurdo. Un luogo dove le parole, vuote e fumose, sostituiscono i fatti. Dove la retorica, quella bella e scintillante, è usata come un narcotico per placare le masse. Ma la politica non dovrebbe essere questo. Non dovrebbe essere un gioco di prestigio, un inganno ben orchestrato.

La politica, al contrario, dovrebbe essere l'arena dove si confrontano idee diverse, dove si cerca il bene comune, dove si costruisce il futuro. La politica è, o dovrebbe essere, l'alternativa alla menzogna, alla manipolazione, alla propaganda. È il luogo dove la verità, anche se scomoda, deve prevalere.

Ognuno di noi, in questo gioco complesso, è un ago. Un ago che può scegliere se lasciarsi infilzare nella cruna della mediocrità, dell'indifferenza, dell'accettazione passiva, oppure se farsi strada, con forza e determinazione, verso la libertà.

La libertà non è un dono, non ci viene data. La libertà si conquista, giorno dopo giorno, con le nostre scelte, con le nostre azioni, con la nostra voce. Non deleghiamo ad altri la responsabilità di pensare al nostro posto, di decidere per noi. Siamo noi i protagonisti della nostra storia.

È tempo di risvegliarsi dal torpore, di uscire dall'ombra, di prendere in mano il nostro destino. È tempo di dire basta alla politica come spettacolo, di esigere una politica fatta di sostanza, di proposte concrete, di visioni lungimiranti. È tempo di diventare protagonisti attivi di un cambiamento profondo e radicale."

 

 

LA VERITA' CI RENDE LIBERI?

ASSOLUTAMENTE NO!

Post di Pasquale Foglia.

 

La verità ci rende liberi? Perché non lo chiediamo a Giordano Bruno o a Galileo Galilei, o anche a Joseph Goebbels?

La verità non può renderci liberi perché non esiste la verità assoluta o dogma.

Anzi c'è il rischio che la presunta verità ci renda vittime o carnefici in quanto genera fanatismo!

La storia ci insegna che tutte le ideologie crollano inesorabilmente a distanza di tempo e si afferma quella opposta, come è accaduto tra il comunismo e il capitalismo!

Ogni parola può esistere solamente se c’è anche il suo contrario. Esiste forse la luce senza il buio, il caldo senza il freddo, l'inspirazione senza l’espirazione, la sistole senza la diastole, l’afelio senza il perielio, l'intelligenza senza l'ottusità, l'abilità senza la disabilità, l'attenzione senza la distrazione, la felicità senza l'infelicità, il bene senza il male, la pace senza la guerra?

Creando un nuovo termine si genera automaticamente anche il suo contrario.

La verità dunque convive con la falsità!

Ricordiamoci dei “vax” e dei “no vax”.

In un primo tempo sono prevalsi i vax, e guai a chi non si vaccinava; ma a distanza di due-tre anni la verità è venuta a galla.

Il contrasto tra due o più persone è causato proprio dalla coesistenza di verità e falsità.

Secondo me, ogni parola per esistere deve potersi trasformare nel suo opposto, proprio come fa il giorno che si trasforma nella notte e viceversa.

 

 

 

Le ragioni per Cui Diciamo le Bugie:

La Psicologia Dietro le Menzogne-.

Klinikos.eu - Redazione – (Giugno 25, 2025) – ci dice:

Mentire è un comportamento che accomuna molti esseri umani.

A volte si tratta di piccole bugie bianche, altre volte di vere e proprie menzogne, capaci di influenzare relazioni, lavoro e benessere personale.

Ma perché si dicono le bugie? Quali sono i meccanismi psicologici che ci spingono a non dire la verità?

La risposta non è mai semplice, perché dietro ogni menzogna si nascondono motivazioni profonde legate alla nostra psicologia, al nostro passato e al contesto in cui viviamo.

Spesso il desiderio di proteggere sé stessi o gli altri, la paura del giudizio, il bisogno di approvazione o, in alcuni casi, dinamiche più complesse legate a veri e propri disturbi psicologici, possono portarci a mentire.

 

Quali sono le principali cause che ci spingono a dire bugie e quali e implicazioni emotive e relazionali ne derivano, scopriamolo insieme.

 

Cosa Spinge le Persone a Mentire: Le Cause Psicologiche.

Quando ci chiediamo perché mentiamo, è importante considerare che le motivazioni della menzogna non sono sempre consapevoli o intenzionali.

La psicologia della bugia ci insegna che il mentire spesso nasce da meccanismi cognitivi profondi e da vere e proprie difese psicologiche attivate per gestire emozioni che non riusciamo a controllare.

 

La menzogna può servire a proteggere sé stessi, a evitare situazioni spiacevoli o a raggiungere determinati obiettivi, ma ogni bugia ha dietro di sé una sua ragione ben precisa.

Vediamo insieme quali sono le principali motivazioni che si celano dietro alle bugie.

 

La Paura del Conflitto e del Giudizio.

Molte volte, le persone mentono per evitare conflitti o per il timore del giudizio altrui.

L’ansia sociale gioca un ruolo centrale: chi teme di essere criticato o rifiutato può ricorrere alla menzogna per proteggersi.

 

In questi casi, le bugie rappresentano una forma di difesa dell’Io, utile a ridurre la tensione che nasce nei rapporti interpersonali, specialmente in situazioni ad alto rischio emotivo.

Protezione dell’Immagine di Sé.

Spesso le bugie servono a salvaguardare la propria immagine sociale e l’autostima.

 

In presenza di un’autostima fragile, la persona può cercare di costruire una realtà idealizzata che maschera insicurezze e fallimenti.

Questo processo di autoinganno consente di mantenere una percezione positiva di sé e di ricevere conferme dall’ambiente esterno, evitando di mostrare vulnerabilità o debolezze.

 

Desiderio di Ottenere Vantaggi o Manipolare.

In alcuni casi, la menzogna viene usata come vera e propria strategia di manipolazione.

Chi mente per vantaggi personali o per esercitare un certo controllo sugli altri agisce con una logica opportunistica.

 

Le bugie a fini opportunistici vengono messe in atto in modo deliberato per ottenere benefici materiali, relazionali o professionali.

Paura delle Conseguenze.

Un’altra spinta frequente alla menzogna è la paura delle punizioni o delle conseguenze negative.

In questo caso, la persona mente per evitare responsabilità e per sfuggire a situazioni che potrebbero generare sensi di colpa o sanzioni.

È un tipico esempio di meccanismo di evitamento, che permette di aggirare temporaneamente il problema senza doverlo affrontare direttamente.

 

Mentire per Proteggere gli Altri (Le “Bugie Bianche”).

Non tutte le bugie nascono da intenti egoistici.

 

Le cosiddette bugie bianche hanno spesso una funzione positiva: vengono dette per non ferire i sentimenti degli altri o per evitare di generare sofferenza inutile.

In questi casi, la compassione e l’empatia spingono la persona a scegliere la menzogna come forma di tutela verso chi le sta vicino, anche se comporta una deviazione dalla verità.

 

Automatismi e Abitudini Apprese.

A volte il mentire diventa un vero e proprio comportamento appreso, frutto di schemi comportamentali consolidati nel tempo.

In alcuni contesti educativi o familiari, la bugia può essere stata premiata o tollerata, trasformandosi così in un’abitudine automatica.

Questi schemi automatici spesso si radicano senza che la persona ne sia pienamente consapevole.

 

Disturbi Psicologici e Bugie Patologiche.

Infine, esistono casi in cui il ricorso alla menzogna assume i contorni di una vera e propria psicopatologia della menzogna.

La mitomania, il disturbo borderline di personalità o il disturbo narcisistico sono condizioni in cui le bugie patologiche diventano parte integrante del funzionamento mentale.

 

In questi casi la menzogna compulsiva richiede spesso un intervento specialistico per essere compresa e trattata.

 

Quali Conseguenze Ha il Mentire a Lungo Termine.

Anche se nell’immediato può sembrare una soluzione efficace, mentire a lungo termine comporta inevitabilmente effetti negativi sul piano emotivo, relazionale e psicologico.

Ogni menzogna, infatti, genera un accumulo di tensioni interiori e rischia di minare alla base la qualità dei rapporti interpersonali.

La rottura della fiducia rappresenta forse il danno più evidente: una volta scoperta la bugia, la persona tradita fa fatica a credere nuovamente all’altro, compromettendo spesso in modo irreparabile il legame.

Sul piano individuale, il costante ricorso alla menzogna alimenta un forte senso di colpa e un crescente stress emotivo.

 

Mantenere in piedi versioni alternative della realtà richiede uno sforzo cognitivo importante, che può portare nel tempo a stati di ansia, insonnia e persino episodi depressivi.

Chi mente abitualmente finisce spesso per isolarsi, temendo che la verità possa emergere in ogni momento, con il rischio di perdere affetti, credibilità e relazioni significative.

In alcuni casi, l’abitudine alla menzogna porta anche a una progressiva perdita del contatto con il proprio io autentico.

Non è raro che la persona inizi a confondere realtà e finzione, generando una condizione di profondo disorientamento psicologico.

 

Quando le Bugie Diventano un Problema Psicologico.

Non tutte le menzogne indicano un disturbo, ma esistono situazioni in cui la tendenza a mentire diventa ricorrente, incontrollabile e fonte di sofferenza.

In questi casi è importante riconoscere i segnali che indicano un possibile bisogno di aiuto.

Quando la persona non riesce più a gestire il proprio comportamento menzognero, o quando le bugie iniziano a compromettere la qualità della vita e delle relazioni, può essere il momento di valutare un percorso di supporto psicologico.

 

La menzogna patologica spesso si manifesta con un bisogno compulsivo di alterare la realtà anche in assenza di reali benefici.

A differenza delle bugie occasionali, qui il comportamento diventa una strategia costante, quasi automatica, difficilmente controllabile senza un intervento mirato.

In questi casi la consulenza psicologica rappresenta uno spazio sicuro dove poter indagare le cause profonde della difficoltà e lavorare su eventuali fragilità emotive, dinamiche relazionali compromesse o disturbi della personalità sottostanti.

 

Rivolgersi a un professionista di Klinikos a Roma consente non solo di capire le radici del problema, ma anche di intraprendere un percorso di consapevolezza e cambiamento.

Attraverso il giusto supporto professionale, è possibile superare la dipendenza dalla menzogna e costruire relazioni più autentiche e serene.

 

Come la Psicoterapia Può Aiutare a Gestire la Tendenza a Mentire.

Cercare di far fronte alla propria difficoltà nel dire la verità richiede spesso un lavoro profondo di autoconsapevolezza e di rielaborazione delle emozioni.

La psicoterapia clinica rappresenta uno strumento efficace per comprendere le ragioni della tendenza a mentire e avviare un reale cambiamento comportamentale.

 

Non si tratta soltanto di interrompere l’atto del mentire, ma di lavorare sui meccanismi interiori che alimentano la necessità di costruire realtà alternative.

Durante il percorso psicologico, il terapeuta aiuta la persona a riconoscere le proprie vulnerabilità, a gestire l’ansia e la paura che spesso si nascondono dietro le bugie e a sviluppare nuove modalità di relazione più autentiche e trasparenti.

Attraverso specifiche tecniche terapeutiche, è possibile esaminare le emozioni che spingono a mentire e favorire una maggiore padronanza sul proprio vissuto.

 

La terapia per le menzogne lavora anche sulla gestione dei pensieri automatici e sulla ricostruzione della fiducia in sé stessi e negli altri.

Con il tempo, la persona può imparare a tollerare l’esposizione alla verità senza percepirla come una minaccia, consolidando così relazioni più stabili e soddisfacenti.

Conclusione.

La menzogna, per quanto possa sembrare a volte un meccanismo semplice per gestire situazioni difficili, nasconde sempre dinamiche complesse legate alla nostra psicologia e al nostro mondo emotivo.

A volte capire perché mentiamo è il primo passo per riconoscere eventuali fragilità interiori e per lavorare su un cambiamento duraturo.

Quando la tendenza a mentire diventa frequente e difficile da controllare, rivolgersi a un percorso di psicoterapia clinica significa iniziare un percorso di cambiamento.

Attraverso il sostegno di un professionista, è possibile acquisire strumenti concreti per elaborare le emozioni, superare le paure che alimentano la menzogna e costruire relazioni basate sulla trasparenza e sull’autenticità.

 

 

 

 

Il bugiardo patologico, come si

riconosce: il profilo psicologico.

Santagostino.it – Redazione - (10 Ottobre 2023) – ci dice:

 

Quando una persona mente in modo patologico? Come si comporta? Come è possibile aiutarla a cambiare?

 

Il bugiardo patologico è un individuo le cui bugie vanno oltre la semplice distorsione della realtà.

Se, infatti, dire qualche bugia o adattare la realtà in alcuni suoi aspetti può capitare a tutti, per alcune persone mentire assume caratteristiche estreme, diventando una vera e propria patologia, un disturbo psicologico.

In questo articolo, tratteremo di come sia possibile riconoscere un bugiardo patologico e delle possibilità per correggere il suo comportamento.

 

Quando la bugia diventa patologica?

Una bugia è patologica se va oltre il semplice adattamento della realtà.

Mentire in modo patologico significa mentire in modo continuo e sistematico, senza un motivo apparente o per ottenere benefici specifici.

 

Come si comporta un bugiardo patologico?

I bugiardi patologici sono molto abili e convincenti nel mentire.

Tuttavia, nel tempo, le loro storie iniziano a cadere sotto il peso delle contraddizioni o della mancanza di prove.

 Alcuni sintomi comuni che contraddistinguono il comportamento di un bugiardo patologico includono:

menzogne continue e sistematiche:

l’abitudine di mentire è costante e può arrivare a interferire in modo significativo nella vita quotidiana del bugiardo patologico e nelle sue relazioni con gli altri.

Nessun rimorso riguardo agli effetti delle bugie:

 a differenza delle persone che occasionalmente mentono e possono sentirsi in colpa o preoccupate per le conseguenze delle loro bugie, il bugiardo patologico rimane in genere insensibile agli effetti che la sua menzogna può avere su coloro che lo circondano.

Bugie complesse e convincenti:

 le bugie di un bugiardo patologico sono spesso intricate e ben costruite.

Sono in grado di inventare storie dettagliate e credibili che possono facilmente ingannare gli altri.

Tendenza a evitare di parlare sinceramente di sé stessi:

chi mente in maniera sistematica preferisce mantenere un certo grado di mistero sulla propria vita ed è riluttante a condividere informazioni personali autentiche:

segni di depressione, ansia o altri disturbi psicologici: la bugia patologica può essere associata a problemi emotivi e psicologici sottostanti.

Perché i narcisisti sono bugiardi?

Un bugiardo cronico spesso può avere dei tratti di personalità narcisistica.

 La tendenza a mentire in modo patologico, infatti, si accompagna a delle caratteristiche che sono anche del narcisismo:

bisogno di validazione:

il narcisista è animato dall’insaziabile bisogno di essere approvato e ammirato dagli altri.

Per soddisfarlo, tende a creare un’immagine idealizzata e grandiosa di sé attraverso le bugie.

Insicurezza:

il narcisista vive con la costante paura di essere scoperto per ciò che è realmente. Ha problemi di autostima, ma cerca tenacemente di nascondere queste insicurezze agli altri.

Le bugie rappresentano uno strumento per prevenire che gli altri vedano le sue vulnerabilità.

Manipolazione:

il narcisismo è caratterizzato dal tentativo di controllare le situazioni e le persone per ottenere ciò che si vuole. Mentire, in questo senso, è un modo per modellare la realtà secondo i propri desideri e per avere il controllo sulle situazioni a proprio vantaggio.

“Egocentrismo:

le personalità narcisistiche vivono in una realtà distorta di cui si sentono il centro indiscusso.

Mentono per creare una narrazione che le metta in una posizione di superiorità rispetto agli altri e giustifichi le loro azioni.

Assenza di empatia nei confronti degli altri:

 il narcisista non si preoccupa delle conseguenze delle sue bugie sugli altri.

È interessato a soddisfare i propri bisogni e desideri personali, anche se ciò significa danneggiare gli altri.

Quando un bugiardo patologico viene scoperto?

Quando si sospetta che qualcuno stia mentendo in modo patologico, l’istinto è quello di cercare di verificare la veridicità delle storie che racconta e di metterlo alle strette.

In che modo si può smascherare un bugiardo?

Ci sono varie strategie che possono essere attuate:

contraddizioni nelle storie:

 non di rado nelle narrazioni di un bugiardo patologico emergono delle incongruenze.

Si può trattare di cambiamenti nella sequenza degli eventi raccontati o nella descrizione dei personaggi coinvolti oppure di altre imprecisioni che lasciano trapelare che si tratta di una messa in scena.

Un buon modo per cercare di appurare la coerenza delle storie è fare domande dettagliate o chiedere ulteriori informazioni su eventi specifici.

Verifica attraverso fonti esterne:

un altro modo per verificare le storie raccontate da una persona bugiarda è rifarsi a fonti esterne.

Ad esempio, parlare con altre persone coinvolte nella vicenda per ottenere conferme o smentite.

Comportamento evasivo:

chi mente tende a mostrarsi sfuggente quando gli vengono poste domande approfondite o richieste di ulteriori informazioni.

Rilevare questi segnali comportamentali è un indizio per capire che si ha a che fare con un bugiardo.

Segni di nervosismo:

quando un bugiardo patologico si trova sotto pressione, potrebbe manifestare segni di nervosismo e irritabilità. Osservare questi atteggiamenti può aiutare a smascherarlo.

Una volta scoperto, il bugiardo patologico può reagire in vari modi.

In alcuni casi può negare in modo veemente le accuse, continuando a sostenere la verità delle sue bugie. In altri potrebbe mettersi sulla difensiva o diventare aggressivo.

 

Perché il bugiardo si arrabbia?

La reazione di rabbia che potrebbe avere una persona bugiarda messa di fronte all’evidenza delle sue menzogne può essere spiegata in diversi modi:

protezione della propria immagine idealizzata:

quando l’immagine di sé che ha finemente costruito viene messa in discussione, il bugiardo può reagire con rabbia nel tentativo disperato di preservarla.

Paura delle conseguenze:

 molti bugiardi patologici sono portati a mentire per paura che, se dicessero la verità, dovrebbero affrontare reazioni negative come critiche, rifiuto o disapprovazione.

Quando vengono scoperti, temono che queste conseguenze diventino realtà e possono per questo reagire con rabbia.

Vulnerabilità emotiva:

 i bugiardi patologici, come abbiamo appena detto, possono aver paura di essere rifiutati o giudicati per la loro vera personalità e, quindi, utilizzano le bugie come un mezzo per proteggersi da questa vulnerabilità.

Quando, dopo essere stati scoperti, la loro vulnerabilità emerge, possono sentirsi messi a nudo e quindi alterarsi.

Difficoltà nell’ammissione:

ammettere di essere un bugiardo può essere estremamente difficile.

La negazione è spesso una difesa psicologica che permette di mantenere l’illusione di essere chi si vuole essere, nonostante le evidenze contrarie.

 La rabbia può essere interpretata quindi come una reazione al dover ammettere la verità.

Frustrazione per le proprie azioni:

nonostante possano sembrare abili nel mentire, alcuni bugiardi patologici possono provare una certa frustrazione nei confronti delle proprie azioni.

 Potrebbero rendersi conto che le loro bugie causano problemi nelle relazioni e nella loro vita quotidiana.

La rabbia potrebbe derivare dalla frustrazione per non essere in grado di smettere di mentire.

 

Come curare una persona bugiarda?

Aiutare un bugiardo patologico è un processo complesso che richiede pazienza e impegno, nonché l’intervento di una figura professionale, come uno psicologo o uno psicoterapeuta.

Il primo passo per farlo è sicuramente portare la persona a riconoscere il problema e ad agire per affrontarlo.

 Un risultato non sempre facile da raggiungere, poiché i bugiardi patologici spesso negano o minimizzano il proprio comportamento.

 

La terapia è fondamentale per guidare il paziente nell’esplorazione delle radici profonde del suo comportamento.

 Un approccio terapeutico ampiamente utilizzato è la terapia cognitivo-comportamentale (CBT):

questo tipo di terapia aiuta il paziente a identificare i pensieri e i comportamenti disfunzionali legati alla menzogna. Insieme al terapeuta, il paziente lavora per sostituire questi schemi di pensiero con altri più salutari.

 

Coinvolgere nella terapia familiari e amici del paziente può essere un passo importante, poiché il comportamento del bugiardo patologico spesso ha un impatto significativo sulle relazioni familiari e sociali.

Un solido sistema di supporto sociale è prezioso nel percorso di guarigione, perché può incoraggiare il paziente a impegnarsi nel processo di cambiamento.

Un altro aspetto cruciale della cura è lavorare sull’autoconsapevolezza.

 Il paziente deve imparare a riconoscere le situazioni o i trigger che scatenano il suo istinto a mentire e sviluppare strategie per modificare la propria risposta ad essi.

 

 

 

 

Il riarmo tedesco e la fine dell’Europa pacifica.

Antimaca.org - Donatella Di Cesare - Fatto Quotidiano- (16 – 3 – 2025) – ci dice:

 

La decisione della Germania di aumentare massicciamente le spese militari - sostiene “Donatella Di Cesare” sul Il Fatto Quotidiano - è una svolta epocale e pericolosa per l’Europa.

L’autrice critica la narrazione di “Ursula von der Leyen” sul riarmo come difesa della democrazia, sostenendo che questa scelta segnerà la "disgregazione politica" del continente e un ritorno della Germania come potenza militare autonoma.

Con il concetto di “Zeitenwende” ("svolta dei tempi"), Berlino abbandona la prudenza postbellica per riaffermarsi come leader strategico.

Di Cesare avverte che questo processo, accelerato senza dibattito democratico, potrebbe avere conseguenze imprevedibili, riaprendo fratture storiche.

Conclude sottolineando il rischio di un’accettazione passiva della militarizzazione europea, "perfino nelle università, lì dove ci si attenderebbe una resistenza".

La decisione della Germania di aumentare significativamente le spese militari ha un significato politico e storico cruciale.

Secondo l'analisi di Donatella Di Cesare sul Fatto Quotidiano. La storica descrive questo momento come una "sospensione della democrazia" in Europa, un evento che potrebbe essere ricordato come un "imponente stato d'eccezione".

 

Secondo Di Cesare, la decisione della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, di rilanciare il riarmo segna la "fine delle illusioni" per chi credeva che l’Europa fosse un progetto politico basato sulla pace e sulla cooperazione.

 L’autrice critica la retorica utilizzata per giustificare questa svolta, sostenendo che l'idea di una difesa comune dell'Europa sia un pretesto per una nuova militarizzazione.

Il risultato, secondo lei, sarà la "disgregazione politica del vecchio continente", con effetti economici devastanti soprattutto per gli Stati più deboli, come Italia, Grecia, Croazia e Iran.

 

Un punto centrale dell'analisi è l’idea che il riarmo non sia una decisione tecnica, ma una svolta epocale per la Germania.

L’uso del termine Zeitenwende (svolta dei tempi), coniato dal cancelliere Olaf Scholz nel discorso al Bundestag del febbraio 2022, è considerato dalla Di Cesare come un’indicazione chiara che la Germania intende tornare a essere una potenza militare autonoma.

"Il ‘tempo di un nuovo inizio’" sarebbe quindi la fine della Germania postbellica, che aveva sempre evitato di assumere un ruolo aggressivo negli equilibri europei.

 

L’autrice si sofferma sulle implicazioni politiche di questa decisione, sottolineando che il nuovo Bundestag "di fatto privo di legittimità", con una maggioranza costruita artificialmente, sta portando avanti una accelerazione del processo di riarmo senza un vero dibattito democratico.

 La "religione del vincolo di bilancio" che per decenni ha limitato la spesa pubblica viene ora sospesa per consentire un riarmo massiccio, con investimenti di oltre 500 miliardi nei prossimi dieci anni.

Questo segna una rottura rispetto al passato e un ritorno della Germania come "signora, padrona di sé, sovrana".

 

Di Cesare evidenzia il rischio che questa svolta venga accolta con entusiasmo da alcuni, come avvenne in passato con il sostegno degli USA alla riabilitazione della Germania postbellica.

 Tuttavia, oggi questo cambio di paradigma potrebbe avere conseguenze imprevedibili, portando l’Europa verso una nuova era di competizione geopolitica invece che di unità.

L’autrice mette in guardia sulla possibilità che questa evoluzione possa riaprire ferite del passato e minare le basi della coesione europea.

 

Conclude con una nota pessimistica, sottolineando come in alcuni ambienti accademici e universitari si sia già diffusa un’accettazione passiva di questa nuova militarizzazione, "come se fosse naturale", mentre in realtà ci si dovrebbe aspettare una reazione di resistenza.

 

 

 

 

Trump, Musk e

il potere assoluto.

Antimaka.org - Maurizio Ferrera - Il Corriere della Sera – (10-02- 2025) – ci dice:

 

Un editoriale di Maurizio Ferrera analizza le mosse di Donald Trump nei primi mesi del suo ritorno alla Casa Bianca.

 Le sue politiche stanno erodendo i principi dello stato di diritto, tra cui la protezione della cittadinanza, i diritti civili e il sistema di pesi e contrappesi.

Il presidente utilizza in modo aggressivo gli ordini esecutivi per accrescere il proprio potere, mentre la sua ammirazione per leader illiberali come Orbán solleva timori di una deriva autoritaria.

Tuttavia, la resistenza istituzionale è in atto, con giudici e amministrazioni locali che sfidano i provvedimenti più controversi.

L’editoriale di Maurizio Ferrera su “Il Corriere della Sera del 9 febbraio” analizza il primo impatto delle politiche di Donald Trump dopo il suo ritorno alla Casa Bianca.

Nel suo discorso d’insediamento, il presidente aveva promesso di provocare “shock and awe” (scossoni e panico), e finora ha mantenuto la parola con una serie di provvedimenti radicali che stanno mettendo a dura prova il sistema di pesi e contrappesi della democrazia americana.

 

Ferrera sottolinea che, sebbene ogni presidente eletto abbia il diritto di realizzare il proprio programma, nelle democrazie liberali il decisionismo deve rispettare dei limiti.

 L’impressione di molti è che Trump stia cercando di oltrepassarli, mettendo nel mirino alcuni pilastri dello stato di diritto.

 

Uno dei primi provvedimenti più controversi riguarda la cittadinanza:

 l’abolizione dello ius soli rischia di privare retroattivamente della nazionalità migliaia di minori, in violazione del Quattordicesimo Emendamento della Costituzione.

 Altre decisioni, come l’eliminazione di ogni iniziativa pubblica a tutela della diversità, dell’equità e dell’inclusione, rappresentano un netto passo indietro rispetto ai progressi sociali ottenuti dagli anni Sessanta in poi.

Sul fronte dell’immigrazione, Trump ha varato misure che potrebbero portare alla deportazione forzata di milioni di immigrati irregolari, con molti di loro destinati alla detenzione nella base di Guantanamo, tristemente nota per le violazioni dei diritti fondamentali.

 La sua visione rigidamente binaria dell’identità di genere ha portato al trasferimento delle detenute transgender nelle carceri maschili, esponendole a gravi rischi di violenza.

 

Anche la gestione amministrativa sta subendo trasformazioni profonde:

 il nuovo “Dipartimento per l’efficienza governativa” (DOGE), affidato a Elon Musk, ha forzato l’accesso a banche dati federali, sollevando preoccupazioni sulla violazione della privacy.

Molti uffici pubblici sono stati aboliti e alcune figure di controllo, come gli ispettori generali, sono state licenziate con procedure dubbie.

 

Ferrera evidenzia come Trump stia cercando di estendere il potere dell’autorità esecutiva a scapito di quello legislativo e giudiziario, utilizzando in modo aggressivo gli ordini esecutivi. Sebbene tutti i presidenti si avvalgano di questo strumento per attuare il loro programma, essi sono tenuti a rispettare la Costituzione e le leggi vigenti.

 L’abuso di questa pratica potrebbe minare uno dei cardini della democrazia americana: l’equilibrio tra i poteri.

 

Trump ha spesso espresso ammirazione per “Viktor Orbán”, mentre Elon Musk strizza l’occhio alla destra europea più radicale.

Questo scenario solleva interrogativi sulla possibilità di una progressiva deriva illiberale negli Stati Uniti, simile a quanto accaduto in Ungheria, Polonia e Slovacchia.

Tuttavia, Ferrera sottolinea che lo stato di diritto non è inerme di fronte a questi attacchi.

 Il sistema giudiziario e le amministrazioni locali stanno già reagendo: ventidue Stati e diverse città hanno intentato cause legali contro la Casa Bianca, ottenendo la sospensione del provvedimento sulla cittadinanza.

Alcuni procuratori statali hanno avviato azioni legali contro il DOGE per tentativi di accesso illecito a dati sensibili.

Anche in seno al Congresso cresce il malcontento, e alcuni parlamentari repubblicani stanno prendendo le distanze da Trump, al punto da firmare con i democratici una lettera di protesta contro il licenziamento degli ispettori generali.

Il vero banco di prova sarà la Corte Suprema, alla quale la Costituzione americana affida il compito di arbitrare i conflitti tra poteri e le controversie sui diritti fondamentali.

Con una maggioranza conservatrice di sei giudici su nove, una sentenza favorevole a Trump su una questione simbolica potrebbe spalancargli le porte per un’espansione ulteriore del potere presidenziale.

 

Ferrera conclude con un monito: lo stato di diritto è il fondamento della democrazia liberale, ma oggi non è adeguatamente compreso e apprezzato dall’opinione pubblica, né in America né in Europa.

Questa mancanza di consapevolezza lo rende vulnerabile agli attacchi populisti. L’esperienza di Paesi come l’Ungheria dimostra che non servono colpi di Stato per smantellare la democrazia: si può procedere per gradi, con la strategia delle "mille ferite", eliminando progressivamente le garanzie liberali fino a privare i cittadini delle protezioni essenziali contro gli abusi di potere.

 

 

 

La “democrazia” israeliana tra

disinformazione e propaganda.

Antimaka.org – Redazione – A.I – (1 nov.2024) – ci dice:

I media mainstream spesso adottano una posizione giustificazionista verso Israele, partendo dall'assunto che sia una “democrazia” e quindi un avamposto dell'Occidente in Medio Oriente, regione dominata da regimi variamente autocratici.

 Raramente si indaga la natura della democrazia israeliana, che gli studiosi chiamano “democrazia etnica”, una versione diminuita del

modello occidentale.

Ancora più raro è il confronto sulle vere somiglianze tra Israele e l’Occidente, in particolare la deriva verso forme di democrazia illiberale, sebbene per vie diverse.

Questo mix di disinformazione e propaganda richiede di essere portato alla luce.

 

La democrazia civica e lo scivolamento verso l’illiberalismo.

 

La” democrazia liberale” si basa sull’idea di uguaglianza tra cittadini e sulla neutralità etnica dello stato.

Si dice per questo anche democrazia “civica”, dove la comunità politica è programmaticamente pluralistica e inclusiva, basandosi sul concetto di cittadinanza universale.

Oggi però molte democrazie occidentali mostrano segni di erosione delle proprie caratteristiche liberali.

L’ascesa di governi che, pur rispettando le procedure elettorali, limitano le libertà civili, manipolano il potere esecutivo e riducono i diritti delle minoranze è uno dei principali sintomi della deriva verso la “democrazia illiberale” (il termine fu coniato 30 anni fa dal politologo” Fareed Zakaria”).

In questo modello lo stato, pur formalmente democratico, riduce la propria neutralità e inclusività.

Emergono così movimenti identitari e nazional-populisti, che polarizzano la società e invocano la “tirannia della maggioranza” contro minoranze e dissidenti, trasformati in capri espiatori della rabbia generata altrove:

nell’impoverimento, nelle crescenti disuguaglianze, nell’insicurezza e nell’incapacità dei governi di affrontare tali sfide.

 

Negli Stati Uniti ciò traspare dalla polarizzazione politica e da un atteggiamento sempre più aggressivo contro gruppi minoritari e dissenzienti, tendenza che non potrà non aggravarsi sotto la nuova amministrazione Trump.

 In Europa, la deriva illiberale si manifesta con una riduzione dei diritti e delle libertà civili in nome della sovranità e della sicurezza nazionale, come già si vede nell’Ungheria di Orban.

 

La “democrazia etnica” e l’illiberalismo strutturale.

 

A differenza delle democrazie liberali, la “democrazia etnica” si presenta già in origine come un modello in cui il gruppo etnico dominante controlla lo stato e ne orienta le politiche secondo i propri interessi.

Israele, che si autodefinisce “Stato ebraico e democratico”, rientra pienamente in questo modello:

 gli israeliani ebrei costituiscono il fondamento dello stato, mentre gli arabi israeliani — circa 2 milioni di persone su una popolazione totale di 10 milioni — sono de facto (e in parte de iure) cittadini di serie B.

 

La “democrazia etnica israeliana” presenta dunque elementi strutturali di illiberalismo:

 le politiche favoriscono cultura, lingua e identità del gruppo dominante, mentre i diritti delle minoranze sono solo parzialmente riconosciuti.

 La “Legge del Ritorno”, ad esempio, concede la cittadinanza automatica agli ebrei, ma non ai palestinesi, neppure a quelli provenienti dai territori occupati.

I cittadini arabi hanno anche minori opportunità di accesso alle risorse e meno influenza sulle decisioni del governo.

 Il sociologo “Sammy Smooha” della “Bar-Ilan University “di Tel Aviv, definisce la democrazia etnica come una “democrazia diminuita”:

 le minoranze possono votare, ma l’uguaglianza politica e sociale è limitata dall’ordine etnico.

Pur presenti in parlamento, i partiti arabi vedono sistematicamente respinte le proposte per trasformare Israele in uno “stato di tutti i cittadini.”

 Questa situazione rischia di peggiorare con l’esplosione di odio etnico e religioso seguita all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e alla reazione militare israeliana con il massacro di decine di migliaia di civili palestinesi a Gaza.

 

Divergenze e convergenze.

Democrazia liberale e democrazia etnica differiscono profondamente nei loro approcci alla gestione della diversità.

La democrazia liberale è formalmente inclusiva e neutrale, mentre la democrazia etnica è concepita per sostenere un gruppo a discapito degli altri.

Sostenere che Israele sia tout-court una “democrazia”, suggerendo un’affinità con l’Occidente sul piano dei valori e delle istituzioni, è dunque mera propaganda o palese disinformazione.

 

La somiglianza tra le due forme di democrazia va cercata piuttosto nella comune deriva verso l’illiberalismo, seppur con percorsi diversi.

Nelle democrazie liberali, l’erosione dei valori politici e delle garanzie costituzionali per le minoranze è graduale, spesso accelerata da profonde crisi sociali ed economiche.

Nella “democrazia etnica”, invece, l’illiberalismo è intrinseco al sistema e si intensifica con le tensioni etnico-religiose.

In Israele, questa” predisposizione strutturale”  è esasperata dal governo di destra fondamentalista di Netanyahu e dallo scontro armato con Hamas, vissuto come un conflitto “esistenziale.”

Ciò tende a legittimare un sistema sempre più orientato alla difesa degli interessi esclusivi del gruppo dominante.

La democrazia israeliana, dunque, che già all’origine si colloca fuori dal modello liberale e civico, si starebbe trasformando in una democrazia etnica non solo illiberale, ma potenzialmente autoritaria.

 

 Riarmo e deterrenza: l’uomo del futuro

 sarà uomo di pace, o non sarà.

  Ilfattoquotidiano.it – Redazione - (25 giugno 2025) – Blog di Pasquale Pugliese, Filosofo – ci dice:

Spese Militari.

“La crisi multiforme e planetaria genera paure e disorientamenti che portano nazioni, etnie, religioni a rinchiudersi in sé stesse e accendere nuove rivalità e tensioni geopolitiche.

Gli Stati si affrontano come dinosauri o pterodattili.

 La politica è ancora nell’era secondaria”, scrivono “Mauro Ceruti” e “Francesco Bellusci” nel volume “Umanizzare l’umanità” (2023), indicando “un modo nuovo di pensare il futuro.”

 Ma non c’è alcun segnale che i governi vogliano uscire dalla “modalità pterodattilo” che ha trascinato l’umanità in questa “strategia del caos” (Le Monde/Internazionale).

Anzi, il riarmo globale è in pieno dispiegamento e con esso, a testimonianza del fallimento delle politiche di deterrenza, il saldarsi progressivo della terza guerra mondiale, di cui l’ultimo tassello è il proditorio attacco Usa all’Iran.

 

Lo ha certificato il “Sipri” nel Rapporto 2025: la spesa militare mondiale ha raggiunto i 2.718 miliardi di dollari nel 2024, con il decimo anno consecutivo di aumenti ed il + 9,4% in termini reali rispetto al 2023, ossia il più forte aumento annuo almeno dalla fine della Guerra Fredda.

Il 55% di questa enorme spesa militare globale è dei governi membri della Nato, pari complessivamente a 1.506 miliardi di dollari, dei quali circa 1.000 degli Usa ed i rimanenti oltre 500 miliardi dei paesi europei, che nel loro insieme spendono già in armamenti oltre il triplo della Federazione Russa, che ha speso in armi 149 miliardi di dollari.

 

In questa escalation militarista, la spesa militare di Israele è aumentata del 65%, raggiungendo i 46,5 miliardi di dollari, mentre la spesa militare dell’Iran – in netta contro tendenza – nel 2024 è diminuita del 10% in termini reali, attestandosi a 7,9 miliardi di dollari.

 Inoltre, mentre l’”AIEA” smentisce che l’Iran stia costruendo armi nucleari, il “Sipri” ritiene che “Israele, che non riconosce pubblicamente di possedere armi nucleari, stia modernizzando il proprio arsenale nucleare.

Nel 2024 ha condotto un test di un sistema di propulsione missilistica che potrebbe essere correlato alla sua famiglia di missili balistici a capacità nucleare “Jericho”.

Sembra anche che Israele stia ammodernando il suo sito di “produzione di plutonio” a Dimona”.

 

Questa corsa globale agli armamenti, anche nucleare, già in atto – rispetto alla quale il “Rearm Europe”, voluto dalla “Commissione Europea”, ed il 5% del Pil, voluto dalla Nato, sono la certificazione del dominio sempre più pesante del complesso militare industriale sui governi democraticamente eletti – va di pari passo con l’aumento dei conflitti armati, a diversa intensità, in corso sul pianeta, passati dai 169 del 2022 ai 175 del 2024, documentati dall’”Uppsala Conflict Data Program”.

 E va di pari passo con l’aumento delle vittime civili delle guerre, già nel 2023 +72% rispetto al 2022 (dati Onu), e dei rifugiati, passati da 117,3 milioni nel 2023 a 122,6 nel 2024 (dati UNHCR).

È l’illusione, ripetuta ossessivamente dai governi e dai media, della ricerca della “sicurezza” attraverso l’aumento degli armamenti, che rimuove il “dilemma della sicurezza” definito da “John H. Herz “nel 1950:

il tentativo di garantire la sicurezza di uno Stato attraverso la militarizzazione porta alla diminuzione della sicurezza dei potenziali antagonisti che, a loro volta, si armano per rispondere al primo, in una spirale bellicista che genera guerre e insicurezza per tutti.

 E’ il trionfo della irrazionalità, il “si vis pacem para bellum”, ultimo rifugio degli imbonitori, come “Giorgia Meloni”.

Vertice Nato, cresce la pressione sul 5% in spesa militare.

Madrid: “Target raggiunti con il 2,1%”.

Trump attacca.

Il dilemma della sicurezza impatta in pieno il nostro Paese, a cui è chiesto di adeguarsi alle imposizioni della Nato di passare dal 2% del Pil di spesa militare al 5% in dieci anni.

Ciò significa trasferire in armamenti risorse da altri capitoli di investimento – sanità, istruzione, welfare – dai 45 miliardi di euro di oggi fino ai 144 miliari del 2035.

Spiega il “Milex”, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, che per arrivare a questi livelli di spesa si “porterà l’Italia a spendere in totale, nei prossimi dieci anni, quasi mille miliardi di euro”.

 Una manna per l’industria bellica, che non servirà come deterrenza:

il territorio nazionale, che “ospita” il maggior numero di testate militari Usa in Europa e il cui governo ne è il più servile vassallo, rimane primario target nucleare.

 

A questo punto, le mobilitazioni dal basso per la pace devono fare un salto di qualità non violenta volto ad imporre alle agende della politica – a cominciare da quelle italiana ed europea – un radicale cambio di rotta e l’adozione di un paradigma alternativo, fondato sulla ragione anziché sulla irrazionalità, sull’umanità e il diritto anziché sulla barbarie: la costruzione della pace con mezzi di pace.

Non la partecipazione alle guerre, ma la fine di ogni supporto militare;

non la corsa agli armamenti ma il disarmo;

non la militarizzazione dell’economia e delle società, ma la costruzione di strumenti civili di risoluzione dei conflitti;

non il passaggio ad una “mentalità di guerra” (Mark Rutte), ma la formazione ai saperi della nonviolenza.

Non è una opzione tra le altre, è l’unica possibile.

Per dirla con Ernesto Balducci, “l’uomo del futuro sarà uomo di pace, o non sarà”.

 

 

 

 

La Nato e il piano di riarmo europeo.

   Valigiablu.it – (4 Luglio 2025) - Gabriele Catania – ci dice:  

 

Media e analisti europei hanno definito il vertice della NATO che si è tenuto all’Aia tra il 24 e il 25 giugno come il “vertice del riarmo”. In realtà quanto deciso nella capitale de facto dei Paesi Bassi (nonché città simbolo del processo di unificazione europeo) non rappresenta uno spartiacque per l’Alleanza Atlantica, e il clamore è probabilmente eccessivo.

 

Senz’altro il vertice accelera l’evoluzione di quella che ama definirsi “la più forte Alleanza nella storia”, ma a dispetto della presenza di un Presidente geopoliticamente di rottura come Donald Trump non si sono acuite le tensioni tra Stati Uniti da un lato, l’Europa e il Canada dall’altro. Anzi. Nella conferenza stampa al termine del summit un Trump quasi amichevole ha riconosciuto che “queste persone [i leader NATO] amano davvero i loro paesi” e ha dichiarato che “noi [statunitensi] siamo qui per aiutarli a proteggere i loro paesi”.

 

Entrambe le parti hanno ottenuto – entro certi limiti – quanto si prefiggevano: Trump che gli alleati si impegnassero a dedicare, entro il 2035, il 5% del PIL annuo per “requisiti essenziali di difesa e per le spese legate alla difesa e alla sicurezza”; gli europei e i canadesi che venisse ribadito “il ferreo impegno alla difesa collettiva, come sancito dall’articolo 5 del Trattato di Washington, in base al quale un attacco a uno è un attacco a tutti” e che venisse riconosciuta “la minaccia a lungo termine posta dalla Russia alla sicurezza euroatlantica” (elemento per nulla scontato, se si considerano i toni morbidi verso Mosca pretesi dagli Stati Uniti al recente G7 di Kananaskis, in Canada).

 

La soglia del 5% è per Trump una vittoria significativa.

 Esperti sentiti da Fox News (emittente televisiva molto seguita dall’elettorato repubblicano) hanno elogiato il presidente, in grado di provocare un ”cambiamento tettonico” nella NATO semplicemente “essendo sé stesso”. A margine del vertice il presidente (uscente) polacco Andrzej Duda ha in effetti ammesso che l’aumento delle spese “è un successo del presidente Donald Trump”.

 

Il tema del “burden sharing” è storicamente un nervo scoperto delle relazioni euroatlantiche.

Washington ha sempre rinfacciato agli europei (e ai canadesi) di essere dei grandi “free-riders” in ambito difesa, e nella retorica repubblicana l’Europa “continente di smidollati” è quasi un cliché.

 Nel 2003, al culmine del militarismo neocon, un commentatore influente come “Robert Kagan” scriveva che “per quanto riguarda le maggiori questioni strategiche e internazionali, gli statunitensi vengono da Marte e gli europei da Venere”.

 

Recentemente il primo ministro polacco “Donald Tusk” ha rilasciato dichiarazioni vicine alle posizioni statunitensi, parlando persino di “codardia” dell’Europa:

“[i]n questo momento 500 milioni di europei stanno implorando la protezione di 300 milioni di americani da 140 milioni di russi che non riescono a sopraffare 50 milioni di ucraini da 3 anni”.

 

Ma se il valore simbolico della soglia del 5% è indiscutibile, diverso è il discorso su come tale soglia verrà raggiunta, e quando.

Il 2035 è lontano, dieci anni sono un’eternità in politica.

 A meno che non si verifichino eventi straordinari (e molto improbabili, come la modifica del XXII Emendamento della Costituzione americana) nel 2029, quando si effettuerà una verifica sulla traiettoria di spesa, alla Casa Bianca non risiederà più Trump, instancabile detrattore degli europei “che non pagano [per la loro difesa]” (mentre l’anno scorso gli Stati Uniti hanno speso in difesa quasi mille miliardi di dollari).

 Un presidente diverso potrebbe essere un po’ più conciliante con gli alleati NATO.

 

Europei e canadesi hanno sempre promesso agli Stati Uniti di spendere di più.

Nel lontano 2006 i ministri della difesa dei paesi NATO concordarono di investire il 2% del PIL nella difesa, obiettivo ribadito nel 2014 al vertice di Newport in Galles, e da raggiungere in una decade;

 nel 2024 però ben otto Stati membri, inclusa l’Italia, destinavano alla difesa meno del 2%.

 

Quest’anno l’Italia dovrebbe raggiungere la soglia del 2%, ma solo perché il governo guidato da Giorgia Meloni includerà nei capitoli di bilancio della difesa voci quali le pensioni dei militari: un espediente astuto, che però non accresce la capacità dell’Italia di difendere sé stessa e gli altri paesi membri.

 

Secondo quanto deciso all’Aia solo il 3,5% del PIL dovrà consistere in spese propriamente di difesa, “per soddisfare i requisiti fondamentali della difesa e raggiungere i Capability Targets della NATO”.

 Il restante 1,5% potrà essere composto, ad esempio, da spese per “proteggere infrastrutture critiche, difendere reti, garantire la preparazione e la resilienza civile, innovare e rafforzare la base industriale della difesa”.

Spese per la sicurezza, potenzialmente utili anche per le forze armate in caso di conflitto (ad esempio una “ferrovia AV” per trasportare materiale bellico da un punto a un altro).

Non a caso sembra che il governo italiano voglia includere, curiosamente, le “spese per il ponte sullo Stretto di Messina” nell’1,5%.

 

La minaccia del neoimperialismo russo e una NATO più europea.

Per comprendere come mai i paesi europei (e il Canada) dovranno spendere di più in difesa bisogna fare alcuni passi indietro. Nel corso del suo primo mandato il presidente democratico Barack Obama lanciò il cosiddetto Pivot to Asia:

di fronte alla prepotente ascesa geopolitica della Repubblica Popolare Cinese gli Stati Uniti decidevano di concentrarsi su Asia orientale e Sudest asiatico, e focalizzarsi di meno su Europa, Medio Oriente e Africa.

I russi accolsero tale decisione con grande soddisfazione, come spiegò nel 2013 un diplomatico scandinavo a chi scrive.

Già nel 2012, alla luce del controverso intervento della NATO in Libia l’anno prima (fortemente voluto da Francia e Regno Unito), gli addetti ai lavori iniziarono a parlare di un’Alleanza Atlantica “post-americana”.

 

Nel 2015 i russi, che soltanto l’anno prima avevano invaso e illegalmente occupato la Crimea di un’Ucraina ancora neutrale, intervenivano militarmente a sostegno del sanguinario dittatore siriano Bashar al-Assad.

Nel paese arabo i russi creavano un hub logistico-militare essenziale per la loro proiezione in Africa: la base aerea di” Khmeimim”, senza la quale molte iniziative russe in Libia o in Africa subsahariana sarebbero state impossibili.

 

Proprio a causa della pericolosa situazione in Siria (e del ritiro statunitense dal nord del paese arabo, nonché della contestuale offensiva turca) nel novembre del 2019 il presidente Macron dichiarava che la NATO era in uno Stato di "morte cerebrale”, guadagnandosi il plauso dei russi e irritando Washington, con il segretario di stato Mike Pompeo che sottolineava invece la necessità di una maggior condivisione degli oneri finanziari, se non si voleva rischiare di rendere la NATO ”inefficace od obsoleta”.

 

Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan deciso da Trump durante il suo primo mandato (e ultimatosi nell’agosto 2021 sotto il democratico Joe Biden) costituiva un ulteriore segnale del crescente disinteresse di Washington da quello che i neocon all’inizio del millennio amavano definire il “Grande Medio Oriente”.

Pochi mesi dopo il ritiro delle forze statunitensi dal paese centroasiatico, Mosca lanciava l’invasione su larga scala dell’Ucraina.

 

Proprio l’espansionismo militarista del regime russo, e la possibilità sempre più concreta di un’Europa “circondata”, hanno spinto dal 2014 in poi, dopo l’invasione russa della Crimea, alcuni governi europei al riarmo: nordici, polacchi e baltici.

La Svezia e la Finlandia sono addirittura entrate nella NATO, una decisione storica (e anche traumatica) per entrambi i paesi.

 

Perché la Polonia e i paesi baltici vogliono il riarmo.

Nel 2024 tutti i paesi della regione nordico-baltica hanno speso in difesa più del 2% del PIL, a differenza di Italia, Spagna e altri stati geograficamente lontani dal Fianco Est; Polonia ed Estonia (entrambi in prima linea qualora la Russia decidesse di attaccare uno stato membro della UE) hanno persino già raggiunto la soglia del 3,5% decisa all’Aia pochi giorni fa.

Tra il 2015 e il 2024, secondo il SIPRI di Stoccolma, la spesa militare svedese è più che raddoppiata.

 

Al vertice dell’Aia nordici, polacchi e baltici hanno brillato per attivismo. La preoccupazione che la Russia in qualche modo vinca la guerra in Ucraina è palpabile, a Varsavia come a Riga, a Stoccolma come a Helsinki (ma anche a Londra e Berlino).

E benché l’entrata dell’Ucraina nella NATO non sia più un tema all’ordine del giorno, con buona pace di quanto si dichiarava al vertice NATO di Vilnius del 2023 sul ”futuro dell’Ucraina nella NATO”, è stato ribadito l’impegno a “fornire sostegno all’Ucraina, la cui sicurezza contribuisce alla nostra”.

 

A differenza del vertice di Vilnius, all’Aia si è parlato poco di Medio ed Estremo Oriente.

Nella dichiarazione dei capi di Stato e di governo non si cita la Repubblica Popolare Cinese, ed è presente solo un breve riferimento al terrorismo.

 Sembra che gli Stati Uniti vogliano che gli europei si concentrino principalmente sull’Europa, lasciando il Medio Oriente ad altri (ad esempio a sauditi e israeliani, sotto la supervisione di Washington?), e l’Asia agli Stati Uniti e ai suoi alleati indo-pacifici.

 

Per l’Europa più Marte e meno Venere?

Il riarmo europeo è in corso, ed è stato causato dal neoimperialismo del regime russo.

Con la fine della Guerra Fredda la spesa militare aveva cessato di essere una priorità per i governi europei.

Prima dell’invasione russa dell’Ucraina la “Bundeswehr “aveva solo otto brigate con una readiness al 65%;

l’invio di armi, munizioni ed equipaggiamento a Kyïv ha ulteriormente deteriorato la prontezza dell’esercito tedesco.

 Ed era dai tempi delle guerre napoleoniche che l’esercito britannico non era così piccolo:

 la BBC ha riferito stime di esperti secondo i quali l’esercito finirebbe le munizioni in due settimane di guerra convenzionale “all’ucraina”.

 

Certo, senza il pivot to Asia di Obama, e con un presidente un po’ meno volubile di Trump, il 5% non si sarebbe mai concretizzato.

 Polacchi, lituani e finlandesi non dimenticano quanto dichiarava nel febbraio del 2024 il leader repubblicano: avrebbe incoraggiato la Russia “a fare quel che cavolo voleva” con i paesi NATO che non raggiungevano le soglie di spesa per la difesa.

 

Ovviamente il riarmo europeo sarà un’enorme opportunità per le aziende statunitensi attive nel settore difesa: non solo player storici, come la Lockheed Martin e la Northrop Grumman, ma per i potentati economici della Silicon Valley. I campi di battaglia dell’Ucraina dimostrano che IA e sistemi di comunicazione satellitare sono fondamentali.

 

Nell’ambito degli armamenti pesanti l’esempio polacco è illuminante. La Polonia, che confina con la Bielorussia (da tempo un satellite militare di Mosca) e con l’oblast’ russo di Kaliningrad, e che ancora nel 2015 spendeva “appena” il 2,1% del PIL in difesa, ha deciso di acquistare 250 nuovi carri armati Abrams M1A2, 26 ARV, 116 Abrams usati e molto altro, per una spesa totale di oltre sei miliardi di dollari (in parte coperti da prestiti statunitensi). Il “pugno di ferro” dell’esercito polacco, come dicono a Varsavia, non è mai stato così armato.

 

Non solo: la Polonia ha deciso di comprare dagli statunitensi aerei multiruolo F-35, elicotteri d’attacco Apache e altro ancora, e sta acquistando armi, carri armati e aerei dalla Corea del Sud, che a causa della perdurante minaccia nordcoreana ha sviluppato un complesso militare-industriale degno di nota. Seul sta diventando per i polacchi un partner cruciale.

 

Ma a beneficiare del riarmo continentale saranno anche le aziende europee maggiormente in grado di soddisfare le necessità militari emerse dalla lunga guerra in Ucraina: produttori di carri armati e blindati, munizioni, droni e sistemi di difesa aerea.

La Germania dispone del complesso militare-industriale più attrezzato del continente (si pensi solo ai carri armati Leopard, che anche l’Italia sta acquistando, e ai missili aria-superficie a lungo raggio stealth Taurus).

 

E dopo anni di cautele e ambiguità verso il regime putiniano, Berlino ha varato un riarmo massiccio e inusitato:

prima con una certa timidezza, nella cornice della “Zeitenwende” del cancelliere socialdemocratico “Olaf Scholz”, poi in modo esplicito e muscolare in virtù della promessa del nuovo cancelliere della CDU “Friedrich Merz” di rendere la “Bundeswehr ”il più forte esercito convenzionale in Europa”.

 

Come è stato rilevato dal SIPRI, “[n]el 2024 la spesa militare tedesca è cresciuta per il terzo anno consecutivo raggiungendo gli 88,5 miliardi di dollari, cioè l’1,9% del PIL, facendo [della Germania] il quarto paese che più spende [in difesa] a livello globale, e il più grande in Europa centrale e occidentale per la prima volta dalla riunificazione. La spesa militare tedesca è salita del 28% rispetto al 2023 e dell’89% rispetto al 2015”.

 

Sempre secondo il SIPRI, “nel 2024 la spesa militare totale in Europa è aumentata del 17% sino a 693 miliardi, con un aumento dell’83% rispetto al 2015”. A spingerla, nota l’autorevole istituto, è la guerra russo-ucraina. Nel Regno Unito ha superato gli 80 miliardi di dollari, in Francia ha sfiorato i 65, in Polonia ha toccato i 38 e in Svezia i 12.

 

Il riarmo può, a determinate condizioni e in certi casi, sostenere l’industria manifatturiera del continente, in affanno di fronte all’incalzare della concorrenza cinese e statunitense nelle auto elettriche, nell’aerospaziale, nel solare e nella robotica.

Ma a parte il fatto che la realizzazione (o conversione) di stabilimenti produttivi e l’acquisizione di specifico know-how hanno tempi lunghi, resta il problema di come finanziare il riarmo, specie considerando che in base alle stime della Commissione Europea la UE dovrebbe crescere di appena l’1,1% nel 2025 e dello 1,5% nel 2026, e che molte materie prime necessarie all’industria militare devono essere importate:

dall’alluminio alle cosiddette terre rare, oggi assai costose.

 

Senza dubbio il riarmo avrà un impatto sull’affidabilità finanziaria di molti Stati europei.

 Per l’agenzia di rating tedesca Scope Ratings “i membri UE della NATO dovranno allocare, in media, un ulteriore 1,3% del PIL ogni anno per raggiungere la nuova soglia di spesa nella difesa del 3,5% del PIL, innalzando la spesa annuale a più di 600 miliardi di dollari (dai 360 miliardi attuali)”.

 

Se si esclude il “ReArm Europe Plan/Readiness 2030” presentato dalla Commissione Europea, ogni paese europeo (UE o non-UE) ha la sua strategia di finanziamento: a causa del cospicuo debito pubblico Parigi punta sulla mobilitazione del risparmio privato e dei venture capitals; Berlino conta sulla lungimiranza delle imprese (come Rheinmetall) e può permettersi di fare deficit; Londra ha già iniziato a ridurre gli aiuti allo sviluppo.

 

Non tutti i paesi europei mostrano per il riarmo la stessa (comprensibile) determinazione di nordici, baltici e polacchi. Per ragioni finanziarie e di politica interna Madrid è fermamente contraria al 5% deciso al vertice dell’Aia, tanto da aver strappato una sorta di clausola di opt out; per il governo guidato dal socialista Pedro Sánchez le forze armate spagnole riusciranno a raggiungere i capability targets della NATO spendendo solo il 2,1% (cosa che avrebbe già destato forti perplessità nell’Alleanza Atlantica).

La presa di posizione di Madrid ha scatenato l’ira di Trump, ma non è da escludersi che il capo del governo spagnolo punti proprio a uno scontro con la Casa Bianca per rivitalizzare una coalizione fragilissima.

 

Madrid sembra credere in un riarmo trainato dalla cooperazione continentale, a partire dallo “European Defence Industrial Programme” (EDIP) e dalla” Security Assistance Facility for Europe” (SAFE).

Non solo: promette di spendere in Spagna la maggior parte delle risorse extra destinate alla difesa, stimolando il manifatturiero avanzato nazionale e generando nuovi posti di lavoro di qualità.

Per Sánchez «l’obiettivo è trasformare questa crisi in un nuovo stimolo economico per la Spagna, basato su industria, formazione e sviluppo di tecnologie a duplice uso necessarie nel campo della sicurezza e della difesa, ma che possano essere utilizzate anche per applicazioni e opportunità in ambito civile».

Il governo italiano, per quanto politicamente all’opposto di quello spagnolo, farebbe bene a ispirarsi all’esempio di Madrid. L’enorme debito pubblico è un freno al riarmo nazionale, e l’opinione pubblica italiana è nel complesso contraria a un serio aumento della spesa militare.

 L’Italia si è già impegnata a dedicare entro il 2028 il 2% del PIL alla difesa, un obiettivo in sé ambizioso, a fronte della crescita anemica della nostra economia.

 

Oltre a sfruttare la «flessibilità» assicurata al vertice dell’Aia, l’unica possibilità per l’Italia (e altri paesi europei) di tenere la spesa sotto controllo è sperare che dopo Trump arrivi alla Casa Bianca un democratico, e soprattutto aumentare il sostegno militare all’Ucraina. La resistenza di Kyïv alla Russia, e in futuro l’ingresso dell’Ucraina nella UE, sono la migliore garanzia contro un attacco di Mosca alla Lituania o all’Estonia.

Se l’Ucraina fosse uno Stato membro, Bruxelles si ritroverebbe con le migliori forze armate del continente, temprate da anni di durissimi combattimenti con gli invasori russi.

 

 

 

Sudan, l’Inferno Invisibile.

Conoscenzealconfine.it – (3 Luglio 2025) - Zela Santi – ci dice:

 

Fosse comuni, stupri e bombardamenti nel disinteresse del mondo.

 

 

Nel Sudan in fiamme, ogni regola di guerra è stata infranta.

Fosse comuni, stupri, assedi, bombardamenti indiscriminati e una popolazione ridotta alla fame: siamo davanti a una tragedia che avrebbe bisogno di ogni riflettore acceso.

Invece, cala il buio.

 

Sudan, l’Inferno Invisibile.

Nel silenzio quasi totale dei media internazionali, il Sudan affonda ogni giorno di più nell’abisso della barbarie.

A oltre due anni dall’inizio della guerra civile tra l’esercito regolare sudanese (FAS), guidato dal generale “Abdel Fattah Al-Burhan”, e le Forze di supporto rapido (RSF) del generale “Mohammed Hamdan Dagalo”, il conflitto ha assunto proporzioni apocalittiche.

 

Non solo per il numero di morti – oltre 27 mila secondo Amnesty International – o per i milioni di sfollati, ma per la qualità degli orrori commessi, che rimandano a scenari da genocidio.

L’ultima scoperta:

fosse comuni nei pressi di “Salha”, nella periferia di “Khartoum”, contenenti decine di corpi gettati in container, testimoni muti di esecuzioni sommarie e stupri sistematici.

 

Un Paese Diviso, una Guerra tra Golpisti.

Il Sudan, terzo Paese più esteso del continente africano, è oggi teatro di uno scontro tra due fazioni nate entrambe da colpi di Stato.

Da una parte Al-Burhan, capo di un governo militare che ha preso il potere nel 2021.

Dall’altra le RSF, milizia paramilitare nata da una precedente alleanza e poi trasformatasi in forza ribelle dopo la rottura degli accordi di transizione democratica.

 

Il conflitto è deflagrato il 15 aprile 2023 e da allora ha inghiottito il paese intero, dividendo il Sudan in una mappa di dominio che cambia di giorno in giorno:

 nord ed est al controllo delle FAS, ovest e sud, inclusa l’area strategica del Darfur, saldamente nelle mani delle RSF.

 

Il Darfur: un Forziere d’Oro e Sangue.

Cuore della contesa resta il Darfur, regione ricca di oro e minerali, già tristemente nota per le pulizie etniche dei primi anni Duemila.

 Oggi è sotto il controllo quasi totale delle RSF, che ne sfruttano le risorse per finanziare la guerra e rafforzare il proprio arsenale militare.

Negli ultimi mesi, le “milizie di Dagalo” hanno introdotto droni armati che hanno colpito obiettivi cruciali, come la città di Port Sudan – capitale amministrativa provvisoria – dove sono stati bombardati aeroporto, porto e depositi di carburante, costringendo l’ONU a sospendere i voli umanitari.

È la prima volta che una fazione interna sudanese impiega armi di questo tipo con tale efficacia, cambiando drasticamente l’equilibrio delle forze.

 

La Firma dell’Orrore: Fosse Comuni e Stupri.

La conferma del massacro è arrivata con la scoperta delle fosse comuni a Salha.

 I container metallici pieni di cadaveri sono la testimonianza brutale di esecuzioni sistematiche di civili.

A queste si aggiungono decine di testimonianze raccolte da ONG e osservatori indipendenti su stupri di massa, violenze su minori, distruzioni di interi villaggi.

 

Secondo “Amnesty International”, lo stupro viene usato come strumento deliberato di guerra.

 Il rapporto 2024-2025 documenta 27.000 vittime accertate e 33.000 feriti in meno di due anni, ma si tratta probabilmente di stime per difetto.

Oltre l’80% degli ospedali del Paese non è più operativo, mentre due terzi della popolazione è priva di accesso a cure mediche.

 

L’Assedio di “El-Fasher” e il Collasso di Port Sudan.

Le RSF non si limitano al Darfur.

La milizia ha circondato El-Fasher, una delle ultime roccaforti nel Nord Darfur ancora in mano governativa.

 L’assedio ha provocato nuovi flussi di sfollati verso il Ciad, che già ospita oltre 1,3 milioni di rifugiati sudanesi.

Nelle ultime due settimane, almeno 20.000 persone hanno attraversato il confine, affrontando razzie, stupri, estorsioni e, spesso, la morte per sfinimento o per le condizioni dei trasporti.

Intanto, Port Sudan – che funge da snodo logistico e sede di ministeri temporanei – è sotto attacco. La città, inizialmente risparmiata dal conflitto, è diventata un obiettivo strategico: bombardamenti hanno colpito il porto e l’aeroporto, mentre le Nazioni Unite denunciano l’impossibilità di far giungere aiuti umanitari.

Gli Attori Esterni: Ciad, Emirati e Traffici d’Armi.

Dietro i fronti interni si muovono potenze regionali e globali.

 Le accuse più gravi vengono rivolte agli Emirati Arabi Uniti e al Ciad, sospettati di rifornire le RSF.

 Secondo fonti ONU, il Ciad orientale avrebbe facilitato il transito di armi verso le RSF tramite due aeroporti di confine.

Gli Emirati, da parte loro, sono accusati da Al-Burhan di complicità nel “genocidio della comunità masalita.”

Accuse non del tutto provate, ma supportate da report che segnalano traffici sospetti e armamenti sofisticati nelle mani della milizia ribelle.

In questo scenario, le RSF ricevono supporto anche da altri attori globali:

 le forniture di armi, rilevate dai rapporti internazionali, arrivano da Russia, Cina e Turchia.

Le forze governative, dal canto loro, non sono esenti da crimini:

il conflitto ha mostrato in modo evidente la simmetria della crudeltà.

Entrambe le parti utilizzano il terrore come arma, e nessuna via diplomatica concreta sembra all’orizzonte.

Un Genocidio Dimenticato?

Il Sudan è oggi un laboratorio di atrocità quasi ignorato dalla comunità internazionale.

Le dichiarazioni ufficiali di condanna, comprese quelle congiunte di Stati Uniti e Nazioni Unite per l’attacco delle RSF a “Zamzam” e l’uccisione di membri della Croce Rossa, rimangono parole nel vuoto.

La sproporzione con la mobilitazione politica e mediatica su altri scenari, come Gaza o l’Ucraina, è drammatica.

 E il Sudan, privo di alleati potenti e senza una narrazione egemonica a suo favore, rischia di essere cancellato dalla memoria collettiva, anche mentre si compie il massacro.

(Zela Santi).

(kulturjam.it/politica-e-attualita/sudan-linferno-invisibile-fosse-comuni-stupri-e-bombardamenti-nel-disinteresse-del-mondo/).

La Spinta per Chiudere la Guerra di Gaza

Rafforzata dal Confronto con Teheran.

Conoscenzealconfine.it – (1 Luglio 2025)  - Davide Malacaria – ci dice:

 

Trump ribadisce che la carneficina di Gaza finirà “entro una settimana”. Possibile che, come in altre circostanze, la tempistica indicata dal presidente Usa sia troppo ristretta rispetto alla realtà, ma la sollecitazione serve a urgere Netanyahu a muoversi in tal senso.

E sembra avere una certa efficacia.

 

Netanyahu Pronto alla Pace?

I media israeliani informano che Netanyahu si sta confrontando con i suoi collaboratori sulla questione.

Sul punto, le dichiarazioni di “Aryeh Deri”, membro del gabinetto di sicurezza di Netanyahu: “Ora più che mai sono state create le condizioni per porre fine alla guerra a Gaza”.

 

Le ha riportate il “Washington Post”, commentandole con le osservazioni di “Shira Efron”, dell’”Israel Policy Forum”, secondo la quale la “vittoria” nella guerra contro l’Iran ha conferito nuova popolarità al premier israeliano, “un capitale politico necessario per poter accettare un cessate il fuoco a Gaza”.

 

Commenti che si intersecano con quanto riferisce il” Times of Israel”:

“Gli analisti politici di “Channel 12” hanno affermato che ci sono indizi che Netanyahu potrebbe essere pronto per la prima volta a prendere in considerazione la possibilità di porre fine alla guerra di Gaza“.

I segnali non arrivano solo dalla politica.

Questo il titolo dell’articolo del “Times of Israel” citato: “L’offensiva di Gaza raggiungerà presto i limiti stabiliti dal governo, afferma il capo delle IDF”.

Nella nota, le dichiarazioni del Capo di Stato Maggiore “Eyal Zamir”, il quale ha affermato che l’esercito ha raggiunto i suoi obiettivi grazie alla “campagna vittoriosa” contro l’Iran.

Sempre il media israeliano riferisce che  “Zamir ha recentemente annullato i piani per la chiamata d’emergenza di una brigata di riservisti. L’analista (militare di Canale 12, Nir Dvori) ha affermato si trattava di un segnale per i vertici politici, che indicava come le truppe siano esauste dopo 20 mesi di guerra“, un tragico eufemismo per definire il genocidio di Gaza.

 

Una prosopopea vanagloriosa che serve a celare ben altro, cioè che dopo la sconfitta subita nel corso della guerra iraniana, con un Paese devastato da missili che hanno inferto duri colpi ai centri nevralgici della sua infrastruttura di intelligence e militare, diventa sempre più insostenibile perseverare nella mattanza dei palestinesi, sia a livello militare, anche perché Hamas ha dimostrato di essere ancora attiva, sia a livello politico, con Israele ormai diventata indifendibile anche dai tanti politici occidentali consegnati all’ “hasbara”.

 

Così Netanyahu ha assunto un atteggiamento più conciliante verso le sollecitazioni dell’alleato d’oltreoceano, ritenendo che sia meglio chiudere questo capitolo ora che le circostanze sono a lui più favorevoli che rischiare di logorare la posizione di forza conseguita con la vittoria della guerra persa contro l’Iran con altri mesi di inutili stragi a Gaza.

 

Se la narrazione di una vittoria totale su Teheran ha tale esito, ben venga.

 E se accordo sarà, Trump è pronto ad accogliere in America per fargli tributare l’ennesima standing ovation dal Congresso, con democratici e repubblicani, a parte quale eccezione, pronti a spellarsi le mani in onore del genocida mediorientale.

Così va il mondo. Consapevole dei ristretti ambiti di manovra, Trump ha trovato un modo per chiudere la vicenda, sfidando fin troppo gli ambiti internazionali che premono per la soluzione finale dei palestinesi e l’incenerimento dell’Iran usando la sanguinaria determinazione del premier israeliano. Non è un caso che Putin, parlando del suo omologo americano, l’abbia definito un “uomo coraggioso.“

 

Le Iniziative di De-Escalation di Trump e il Senso del Limite.

Nel frattempo, il giorno in cui chiudeva la guerra iraniana, Trump firmava un accordo commerciale con la Cina, ponendo fine, almeno per ora, al braccio di ferro avviato con Pechino all’inizio della sua presidenza (avendo interrotto, va ricordato, le continue provocazioni militari su Taiwan della precedente presidenza; non è poco).

 

Inoltre, nello stesso giorno, imponeva la firma di un accordo di pace tra Repubblica democratica del Congo e Ruanda, siglato a Washington, che dovrebbe porre fine a una guerra ultradecennale che ha visto Kigali sponsorizzare a più riprese bande di tagliagole inviate nel Paese confinante allo scopo di consentire alle multinazionali americane di depredarne le immani risorse minerarie.

 

La predazione andrà avanti, ovviamente, ma l’accordo dovrebbe almeno garantire che avvenga in maniera meno sanguinaria, risparmiando le inutili stragi che hanno consentito alle aziende “Hig Tech” di incassare dividendi stellari e ai cittadini occidentali di possedere computer, telefonini et similia a prezzi accessibili.

Quanto all’Iran, la cessazione delle ostilità sembra dover perdurare, in particolare perché Israele sta assecondando la narrazione dell’amministrazione Usa sulla completa eliminazione del pericolo – inesistente – del nucleare iraniano.

 Le spinte per riaprire le ostilità, che pure persistono (facendo leva sulla persistenza del pericolo inesistente), appaiono al momento velleitarie.

 

Né Israele vuole riaprire quel capitolo, avendo realizzato quanto fossero infondati i report della sua intelligence che riferivano di un Paese ormai indifeso e sull’orlo del collasso a causa dei raid dalla sua aviazione dello scorso settembre, e quanto sia inadeguato il suo apparato militare e difensivo, sopraffatto dalla resilienza di Teheran.

La vittoriosa sconfitta subita ad opera dell’Iran ha imposto un limite alle pulsioni espansionistiche israeliane, che le recenti vittorie contro Hezbollah e in Siria avevano alimentato al parossismo.

Non è solo uno scacco militare, perché tocca un livello esistenziale proprio di certo ambito ebraico – più potente di quello alieno da tali fumisterie – e dei circoli liberal-neocon a cui si accompagna, che hanno in comune l’assenza del senso della realtà e dei limiti che essa pone.

La dura realtà si è imposta e ha posto un limite alla dilagante follia. Da vedere se il rinnovato senso del limite si imporrà anche a Gaza (e nella Cisgiordania, in cui continua lo stillicidio seriale di coloni ed esercito contro la popolazione indifesa). Questa la scommessa di Trump, la speranza di tanti, in Palestina e nel mondo.

(Davide Malacaria).

(piccolenote.it/mondo/la-spinta-per-chiudere-la-guerra-di-gaza-rafforzata-dal-confronto-che-teheran).

La folle corsa al riarmo.

Azionecattolica.it – (15 maggio 2025) – (sito sipri.org) – ci dice:

 

Nel 2024 la spesa militare globale ha raggiunto il nuovo record di 2.718 miliardi di dollari, con un incremento del 9,4% rispetto all’anno precedente.

Lo rivela l’ultimo rapporto pubblicato dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) lo scorso 28 aprile (com. stampa) , che lancia un allarme chiaro: siamo di fronte al più rapido aumento annuale delle spese militari dalla fine della Guerra Fredda.

(Rapporto Sipri: aumento senza precedenti della spesa militare globale).

 

Si tratta di un dato storico, che segna il decimo anno consecutivo di crescita ininterrotta.

E a differenza del passato, non sono più solo le grandi potenze a trainare questa escalation.

 Oltre 100 Paesi hanno aumentato i propri bilanci per la difesa, rendendo la corsa agli armamenti un fenomeno globale, strutturale e trasversale, che coinvolge economie e governi di ogni tipo.

Dietro questi numeri si nasconde una visione del mondo sempre più improntata alla competizione, alla paura, alla logica del nemico.

Una visione miope, che continua a considerare la forza militare come garanzia di sicurezza, trascurando invece le vere sfide del nostro tempo:

 giustizia sociale, crisi ambientale, coesione democratica, salute globale.

 

Sipri: della Nato oltre metà della spesa militare mondiale.

Un dato particolarmente significativo riguarda i Paesi membri della Nato, che nel 2024 hanno speso complessivamente 1.506 miliardi di dollari: più della metà dell’intera spesa militare mondiale.

Sempre più Stati dell’Alleanza hanno superato la soglia del 2% del PIL destinata alla difesa, trasformando quella che inizialmente era una raccomandazione politica in un vincolo di bilancio sempre più stringente.

 Questa pressione sta ridefinendo le priorità economiche dei governi, determinando scelte che hanno un impatto diretto sulla vita quotidiana dei cittadini.

 

Ma a quale prezzo?

Il “rapporto Sipri” segnala che l’aumento delle spese militari avviene spesso a scapito dei settori civili.

 In molti Paesi europei, la crescita dei bilanci per la difesa è accompagnata da tagli alla sanità pubblica, riduzioni nei fondi per l’istruzione, smantellamento del welfare e aumento del debito pubblico.

 Alcuni governi hanno già introdotto nuove tasse o misure di austerità, scaricando sui cittadini il costo di una militarizzazione che non è stata oggetto di un vero dibattito democratico.

 

I cinque Paesi che spendono di più in armi.

I cinque Paesi che nel 2024 hanno investito maggiormente nelle forze armate sono, nell’ordine: Stati Uniti, Cina, Russia, Germania, India.

Da soli rappresentano il 60% della spesa militare globale, pari a 1.635 miliardi di dollari.

Gli Stati Uniti restano nettamente in testa, con una spesa che da sola supera quella dei successivi dieci Paesi messi insieme.

La Germania, nel frattempo, ha consolidato il proprio ruolo come primo investitore in difesa in Europa occidentale, accelerando la propria trasformazione in potenza militare continentale.

Anche l’Italia ha seguito questa tendenza, con una spesa pari a 38 miliardi di dollari, posizionandosi al 12° posto a livello mondiale.

L’aumento dell’1,4% rispetto al 2023 può sembrare contenuto, ma va inserito nel contesto di una strategia più ampia di riarmo condivisa all’interno della Nato, che spinge tutti i membri ad allinearsi agli standard militari imposti dall’Alleanza.

 

Sipri: un mondo che investe nella guerra mentre ignora la pace.

«La sicurezza militare viene sempre più spesso in modo prioritario dai governi, anche a scapito di altri settori fondamentali per la società», ha osservato “Xiao Liang,” ricercatore del SIPRI.

Il rapporto indica che la spesa militare globale ha raggiunto il 2,5% del PIL mondiale, con aumenti significativi in Europa e Medio Oriente, due aree devastate dai conflitti in Ucraina e nella Striscia di Gaza.

 

Ciò che inquieta non è solo la cifra in sé, ma la direzione verso cui ci stiamo muovendo come comunità internazionale.

 I governi continuano a rispondere alle crisi globali con più armi, più investimenti in tecnologie belliche, più blindatura dei confini, come se la sicurezza potesse essere garantita solo da mezzi coercitivi.

Ma davvero la sicurezza si costruisce con più carri armati, più caccia militari, più missili?

O forse è tempo di riconoscere che le vere minacce alla nostra sopravvivenza collettiva – crisi climatica, ingiustizia sociale, povertà, pandemie – non si affrontano con le armi, ma con cooperazione, dialogo, solidarietà e prevenzione?

 

Un appello alla responsabilità collettiva.

In un mondo sconvolto da crisi multiple – climatiche, sanitarie, sociali, geopolitiche – ogni scelta di spesa ha un impatto che va ben oltre il piano economico. Ogni miliardo investito nella guerra è una sconfitta della civiltà.

Abbiamo bisogno di un altro paradigma di sicurezza, basato sulla prevenzione dei conflitti, sulla riduzione delle disuguaglianze, sull’accesso equo alle risorse. Abbiamo bisogno di un’economia che investa nella cura delle persone e non nella distruzione reciproca.

Scegliere la pace non è utopia.

È una decisione politica e civile, possibile, urgente, necessaria.

Ma richiede volontà, impegno costante e coraggio morale.

 Il coraggio di chi non si arrende all’evidenza di un mondo armato e sceglie invece la via della convivenza, della responsabilità condivisa e della speranza.

 

 

 

Il Regno Unito segna la strada

per il riarmo dell’Europa. Analisi

 e considerazioni sul discorso

del Primo Ministro Starmer.

 Geopolitica.info - Davide Sotgia – (5-3-2025) – ci dice:

 

I recenti avvenimenti sullo scenario internazionale hanno reso evidente la necessità per i Paesi europei di provvedere maggiormente alla propria sicurezza.

 In questo contesto il primo grande passo in tal senso è stato fatto dal governo del Regno Unito, il quale ha annunciato un importante incremento della spesa della difesa ponendosi come apripista per quella che sarà la futura ed inevitabile revisione delle politiche di difesa delle principali potenze europee.

 

Nel suo discorso di martedì 25 febbraio alla “House Of Commons” il Primo Ministro britannico “Starmer” ha annunciato “il più grande incremento della spesa per la difesa dalla fine della Guerra Fredda” ponendosi l’obiettivo di raggiungere la soglia del 2.5% del PIL entro il 2027, con la prospettiva di incrementare ulteriormente le spese al 3% del PIL (definito informalmente il “nuovo 2%”) durante la legislatura successiva.

In concreto questo comporterà l’impiego di 13.4 miliardi di sterline aggiuntive (circa 16 miliardi di euro) ogni anno a partire dal 2027.

Queste risorse saranno ricavate interamente tramite il taglio di parte dei fondi dedicati allo sviluppo internazionale (da 0.5% a 0.3% del PIL).

 

La ragione e lo scopo della decisione.

 

La decisione del governo inglese risponde a più logiche. Queste sono complementari tra loro, egualmente rilevanti ed applicabili alla situazione delle altre potenze europee.

In tutto sono sostanzialmente tre.

 

La prima riguarda il soddisfacimento delle – decisamente non nuove – richieste americane per quanto riguarda una maggior responsabilità ed un maggior contributo dei Paesi europei per la difesa dell’Europa stessa. L’attuale amministrazione degli Stati Uniti si è dimostrata particolarmente sensibile a questo tema dato che il Presidente Trump ritiene l’impiego di forze americane in teatri considerati non molto rilevanti, tra cui anche l’Europa, come “uno spreco di risorse” che potrebbero essere impiegate altrove (sostanzialmente nel teatro dell’Indo-Pacifico).

 

La seconda logica è quella che potremmo definire della “prevenzione”. Un rafforzamento delle capacità belliche, convenzionali e non, del Regno Unito, ed in prospettiva futura anche delle varie potenze europee, è sicuramente utile e decisamente necessario se rapportato al caso in cui l’attuale amministrazione statunitense dovesse decidere effettivamente di ritirarsi, parzialmente o completamente, dall’Europa continentale, come più volte minacciato. Le possibilità che questa decisione venga effettivamente presa sono molto remote, ma con una Presidenza che ha fatto dell’imprevedibilità un punto cardine della sua politica estera non si può mai essere sicuri e quindi è sicuramente utile ragionare anche in tal senso.

 

La terza logica è di carattere esclusivamente economico ed industriale.

 Il Primo Ministro Starmer ha descritto chiaramente queste nuove spese come un “investimento al fine di migliorare la posizione del Regno Unito sullo scenario internazionale, ma anche come uno strumento per avere un importante ritorno economico”.

Per raggiungere questo obiettivo è però necessario uscire, anche solo in parte, dalla logica del “buy american” ed investire apertamente ed ingentemente sulle industrie, sulle produzioni e sui progetti nazionali/internazionali a livello continentale.

Il fine ultimo deve essere anche quello di trasformare questa spesa aggiuntiva in una solida base industriale, capace di soddisfare pienamente i bisogni delle forze armate del Paese, e quindi in “british growth, british skills, british jobs and british innovation” con una sostanziale e virtuosa ricaduta anche sulla società civile.

 

Un modello per l’Europa.

 

Questa decisione rappresenta il primo impegno ufficiale da parte di una grande potenza europea ad aumentare notevolmente ed in maniera stabile nel tempo le spese per la difesa. In più, viene anche posto un modello da seguire per tutte le altre grandi e medie potenze europee in cui misure di questo tipo sono ancora solo ipotetiche o in fase di discussione tra circoli ristretti.

Ad esempio, in Francia si vocifera di un ipotetico incremento fino al 5% del PIL nel caso del ritiro degli Stati Uniti dall’Europa.

In Italia, invece, si parla di incrementare la spesa fino al 2.5% del PIL, rispetto all’odierno 1,56% (si tratta di circa 20 miliardi in aggiunta), nel caso in cui questa dovesse essere esclusa dalle regole del patto di stabilità dell’Unione Europea.

È chiaro che queste “dichiarazioni d’intenti” da sole non siano sufficienti per rassicurare gli alleati e per portare avanti politiche strutturate ed efficaci; sono necessari ulteriori passi avanti. Proprio per questa “lentezza”, in parte giustificata dalla necessità di trovare coperture finanziarie adeguate e politicamente/elettoralmente accettabili, il Primo Ministro britannico ha invitato gli alleati europei a “fare lo stesso ed a impegnarsi maggiormente per la difesa collettiva” sulla scia del suo operato.

In definitiva il governo inglese ha indicato una strada per una politica di riarmo in grado di tener conto delle richieste di maggior impegno di USA e NATO e della necessità di rinvigorire la base industriale del Vecchio Continente, specie in ragione della manifesta inadeguatezza dimostrata nel corso della guerra in Ucraina, al fine di aumentarne l’indipendenza e le capacità di deterrenza.

 Questa politica è attenta anche a rassicurare l’opinione pubblica sulla bontà dell’investimento, prospettando crescita economica e la creazione di posti di lavoro nel medio/lungo periodo, al fine di rendere l’investimento sostenibile anche dal punto di vista politico/elettorale.

 

 

 

 

Fermare il piano europeo di riarmo

è il primo obbiettivo del movimento

contro la guerra.

 Transform-italia.it – (16/04/2025) - Franco Ferrari – ci dice:

Il 5 aprile il centro di Roma è stato attraversato da un imponente corteo che ha contestato l’ingente piano di riarmo di 800 miliardi proposto dalla Commissione Ue guidata da Ursula Von der Leyen e sostenuto dalla maggioranza del Parlamento europeo.

La manifestazione è stata indetta del Movimento 5 Stelle che, nato come formazione populista anti-casta che non si identificava né con la destra né con la sinistra, si è andato ridefinendo come formazione progressista che si propone di far parte di uno schieramento alternativo alla destra al governo.

Su diversi temi Conte ha impresso una svolta a sinistra, tant’è vero che i suoi europarlamentari, dopo le elezioni del giugno scorso, hanno deciso di aderire al gruppo “The Left”.

Una notevole evoluzione se si pensa che il primo approccio per la costituzione di un eurogruppo avvenne con i britannici ultraliberisti e anti-UE di Nigel Farage.

Naturalmente la strategia del Movimento 5 Stelle, anche assumendo il tema del no al riarmo, è di competere con il Partito Democratico per la direzione di una potenziale coalizione di centro-sinistra, i cui contorni e i cui contenuti programmatici restano al momento abbastanza indefiniti.

Negli ultimi giorni si sono registrati inediti momenti di convergenza tra PD, M5S e AVS, in particolare con una presa di posizione comune sulla Palestina, decisamente più netta di interventi precedenti, ma resta ancora lontana una proposta credibile che intacchi il consenso della destra.

La leader del PD, Elly Schlein, ha cercato di spostare il partito su posizioni socialdemocratiche ma ha trovato molti ostacoli nella componente centrista che guarda con aperta ostilità ad una potenziale alleanza con i 5 Stelle.

 Sul piano di riarmo ha avanzato delle critiche ritenendo eccessiva la somma degli 800 miliardi e contestandone l’utilizzo per gli eserciti nazionali e non per una difesa comune europea.

La sua posizione, pur prudente, è stata apertamente contrastata dalla destra PD che è particolarmente rappresentata nel gruppo parlamentare a Bruxelles.

 L’esito dei quattro referendum della CGIL che mettono in discussione diversi aspetti del Jobs Act renziano e di quello sulla cittadinanza promosso dal PRC e da altre forze, rappresenta un passaggio importante nella tenuta della leadership di Elly Schlein.

 

La manifestazione del 5 aprile un successo di Conte e dell’opposizione al “ReArm Europe”.

La manifestazione del 5 aprile ha visto la partecipazione di diverse decine di migliaia di persone, 100.000 secondo gli organizzatori, ed è stata caratterizzata da una mobilitazione popolare che è andata molto oltre i militanti del partito promotore. Conte aveva pubblicamente invitato alla partecipazione tutti coloro che sono contrari al piano di riarmo degli 800 miliardi proposto da Bruxelles, così come aveva auspicato Rifondazione Comunista.

Il PRC si è schierato nettamente contro il piano di riarmo. La presenza di migliaia di militanti del partito nella manifestazione del M5S, caratterizzata da una grande bandiera della pace, è stata un segnale importante della capacità di mobilitazione che il partito ancora mantiene nei territori, una presenza significativa in un contesto generale di declino dell’adesione ai partiti politici. Così come della capacità di riprendere relazioni politiche significative in piena autonomia.

Nel suo intervento dal palco, il segretario del partito Maurizio Acerbo ha sottolineato la necessità di costruire un largo movimento popolare contro il piano di riarmo e per la cessazione delle guerre in corso come parte di un schieramento alternativo antifascista che si ponga come obbiettivo la realizzazione dei principi fondamentali della Costituzione nata dalla vittoria sul nazifascismo. In particolare la difesa dell’articolo 11 sulla base del quale l’Italia “ripudia la guerra”. Acerbo ha portato la solidarietà del partito al popolo palestinese, vittima di un quotidiano massacro, denunciando le complicità italiane ed europee con il governo di Netanyahu.

Il PRC, Transform! Italia e ad altre organizzazioni avevano partecipato alla realizzazione di una prima iniziativa di mobilitazione il 15 marzo scorso a Piazza Barberini a Roma, raccogliendo in pochi giorni migliaia di firme su una piattaforma di chiaro rifiuto del piano di riarmo della Von der Leyen. Il presidio di Piazza Barberini, poi trasformatosi in corteo grazie alla partecipazione di migliaia di persone, rappresentava una dichiarata alternativa rispetto all’iniziativa promossa dal quotidiano liberale Repubblica che cercava di utilizzare il rilancio di un generico europeismo per sostenere la politica di militarizzazione in atto a livello europeo.

 

Nasce la campagna “Stop ReArm Europe.”

In queste settimane è stata avviata una campagna di mobilitazione a livello europeo denominata “Stop Rearm”, sulla base di un appello molto sintetico che prende però una posizione netta nell’opporsi al piano della Von der Leyen. L’appello europeo è il seguente e deve tenere naturalmente conto che all’interno della sinistra alternativa europea si sono espresse in questi anni posizioni notevolmente diverse rispetto alla guerra in Ucraina. Si sono ora aperte possibilità nuove di convergenza e mobilitazione comune. In Spagna oltre 1.000 organizzazioni e associazioni del mondo pacifista hanno già aderito a “Stop Rearm”.

 

Il testo diffuso è il seguente:

Organizziamo un movimento europeo contro ReArm Europe!

Ci opponiamo ai piani dell’UE di spendere altri 800 miliardi di euro in armi. Saranno 800 miliardi di euro rubati. Rubati ai servizi sociali, alla sanità, all’istruzione, al lavoro, alla costruzione della pace, alla cooperazione internazionale, a una giusta transizione e alla giustizia climatica. Andrà solo a beneficio dei produttori di armi in Europa, negli Stati Uniti e altrove.

Renderà la guerra più probabile e il futuro meno sicuro per tutti! Genererà più debito, più austerità, più confini. Approfondirà il razzismo. Alimenterà il cambiamento climatico.  Non abbiamo bisogno di più armi; non abbiamo bisogno di prepararci ad altre guerre. Abbiamo bisogno di un piano totalmente diverso: una sicurezza reale, sociale, ecologica e comune per l’Europa e per il mondo.

Opponetevi alla guerra.

 Fermiamo ReArm Europe.

 

I firmatari italiani all’iniziativa “Stop ReArm”, Transform! Italia, l’ARCI e ATTAC Italia hanno promosso poi un’ampia coalizione a livello nazionale (“Ferma il Riarmo”) avviando un confronto con la storica Rete italiana Pace e Disarmo al fine di promuovere un piano di mobilitazione comune. Questa Rete è stata costituita nel 2020 e di essa fanno parte la CGIL, l’ANPI e numerose associazioni cattoliche e pacifiste.

Tutti coloro che avevano sottoscritto l’appello per la manifestazione del 15 marzo in Piazza Barberini, tra i quali numerosi intellettuali, sono stati sollecitati da Transform! Italia ad aderire all’appello europeo di “Stop ReArm”, per il quale è possibile la sottoscrizione individuale.

 

La coalizione unitaria italiana contro il ReArm e contro la guerra.

La coalizione italiana si è dotata di un proprio documento che affianca quello europeo nel quale si afferma:

Fermiamo il riarmo, ripudiamo la guerra.

 

Fermiamo il piano europeo di riarmo: 800 miliardi di euro rubati ai servizi sociali, alla salute, all’educazione, al lavoro, agli enti locali, ai beni comuni, alla cooperazione internazionale, alla transizione giusta.

Fermiamo la crescita vertiginosa delle spese militari nel nostro paese, che va avanti da anni. Fermiamo la riconversione bellica dell’economia europea: porterà solo nuovi immensi profitti alle imprese militari.

Contro un’economia di guerra serve un’economia di pace fondata sul lavoro, diritti, l’ambiente, il welfare. La guerra alimenta i profitti dei mercanti di morte ed è contro gli interessi dei popoli, dei lavoratori, delle lavoratrici, delle persone, dei territori e dell’ecosistema.

Rifiutiamo l’ideologia bellicista, la preparazione di un clima sociale e culturale che ci porta alla guerra, la diffusione della paura, la sindrome del nemico esterno, il nazionalismo europeo reazionario, l’Europa fortezza.

Militarismo fa rima con autoritarismo, repressione e chiusura degli spazi democratici. Fa rima con machismo e patriarcato, con razzismo, con due pesi e due misure e con l’omicidio del diritto internazionale.

Ripudiamo la guerra come sancisce la nostra Costituzione. Le guerre e le occupazioni vanno fermate con il diritto internazionale e la diplomazia. Destre estreme e autocrazie si battono con più democrazia e più stato di diritto.

La nostra Europa è sicurezza comune e condivisa, sociale ed ecologica. È disarmo, democrazia, uguaglianza, diritti, lavoro, giustizia climatica, convivenza, rispetto delle differenze, liberà di manifestazione. È vita degna, e diritto al futuro.

La guerra distrugge tutto.

 

Il documento italiano collega in modo netto l’opposizione al piano di riarmo con l’opposizione alla guerra interpretando una sensibilità che nel nostro Paese è particolarmente forte e radicata sia nel campo della sinistra comunista e socialista che nel mondo cattolico.

 

Negli incontri avviati in queste settimane sono stati definiti alcuni obbiettivi che vengono anche anticipati nel documento comune: una prima fase di informazione e sensibilizzazione dovrà avere un momento significativo di convergenza con iniziative locali che si concentreranno tra l’8 e il 10 maggio, in coincidenza con la celebrazione degli 80 anni dalla fine della seconda guerra mondiale. L’opposizione al piano di Riarmo troverà spazio anche nelle tradizionali manifestazioni del 25 aprile e 1° maggio. Infine si propone la tenuta di una manifestazione nazionale per il 21 giugno prossimo, in coincidenza con la riunione della NATO che dovrebbe formalizzare l’aumento delle spese militari per i paesi che ne fanno parte. L’auspicio è che questa iniziativa sia parte di una contestuale mobilitazione europea.

 

Cambiando data rispetto ad una precedente intenzione, anche Potere al Popolo ha lanciato un appello per una manifestazione nazionale da tenersi il 21 giugno. Le organizzazioni che l’hanno sottoscritto sono per lo più sigle che fanno riferimento a PaP e alla Rete dei Comunisti. Inoltre il testo tende ad introdurre molteplici elementi di divisione piuttosto che favorire le condizioni per realizzare un’ampia mobilitazione unitaria. Queste organizzazioni, d’altra parte, proseguono una loro linea politica che si è già concretizzata nella manifestazione di Piazza Barberini del 15 marzo, con il tentativo di appropriarsene cancellando le altre forze che ne avevano garantito il successo, e con il boicottaggio della manifestazione del 5 aprile promossa dal Movimento 5 Stelle.

 

Ciò nonostante esistono tutte le condizioni affinché il movimento contro il riarmo e contro la guerra segni la più ampia convergenza, condizione indispensabile per riuscire a bloccare un progetto che, a livello europeo, avrebbe un pesante impatto negativo sui diritti sociali e il welfare e potrebbe aprire scenari di guerra che la nostra Costituzione si è posta giustamente l’obbiettivo di impedire per sempre.

(Franco Ferrari).

 

 

 

 

L’Italia pronta a lasciare

l’euro con l’aiuto di Trump?

Lacrunadellago.net - Cesare Sacchetti – (10 -06- 2025) – ci dice:

 

Il prossimo viaggio negli Stati Uniti di Matteo Salvini sarebbe imminente. Secondo La Stampa, il ministro dell’Interno dovrebbe volare a Washington già la prossima settimana, il 17 giugno.

Il feeling tra le due sponde opposte dell’Atlantico negli ultimi mesi sembra essersi rafforzato notevolmente.

 

Le incomprensioni e i dubbi suscitati nella parte americana riguardo all’adesione dell’Italia alla Via della Seta cinese, sembrano essere stati del tutto superati.

Roma resta un interlocutore privilegiato e un partner chiave per Washington per colpire l’UE franco-tedesca, che assieme alla Cina accumula surplus commerciali a discapito degli altri partner internazionali.

In questa prospettiva, il risultato elettorale alle elezioni europee dello scorso 26 maggio affida alla nuova Lega sovranista di Salvini un ruolo decisivo nel condurre la battaglia per cambiare l’UE sotto il dominio franco-tedesco.

 

Se Washington quindi è alla ricerca di un cavallo di Troia per smantellare un’organizzazione definita “nemica” dallo stesso Trump, Roma è alla ricerca di un partner che la aiuti a lasciare la gabbia dell’eurozona senza contraccolpi troppo pesanti.

Il viaggio di Salvini in America in questo senso continua a tessere un rapporto sempre più stretto tra i due Paesi.

Il leader della Lega sembra essere pienamente consapevole che Bruxelles non solo non ha alcuna intenzione di cambiare rotta in merito alle politiche di austerità, ma non accetta minimamente che l’Italia possa essere guidata da un governo euroscettico.

 

La minaccia della Commissione UE di aprire una procedura d’infrazione per regole che sono state praticamente violate da tutti gli Stati membri, dimostra che l’UE non ha alcuna intenzione di trattare con Roma.

 

L’UE sostanzialmente mira all’ennesima crisi indotta dello spread, capace di scatenare quel clima di emergenza necessario per preparare il terreno ad un governo tecnico.

 

Francia e Germania pronte a spartirsi gli incarichi UE.

 

Mentre quindi l’UE assume una postura sempre più aggressiva nei confronti dell’Italia, a Bruxelles già fervono le trattative per dividersi le poltrone.

Sono molte le caselle da riempire, a partire dalla presidenza della Commissione UE, dal Consiglio UE fino alla pesantissima poltrona della presidenza della Bce, che Draghi libererà dal prossimo ottobre.

Lo scorso venerdì, nella capitale dell’UE, avrebbe avuto luogo una cena per discutere di questi incarichi, alla quale avrebbero partecipato 6 primi ministri di Paesi europei, tra questi il primo ministro belga, Michel, e quello spagnolo, Sanchez

 

Le prime indiscrezioni filtrate raccontano di un possibile patto franco-tedesco per avere la presidenza della Commissione europea e quella della Bce.

 Se la Merkel dovesse rinunciare alla candidatura di Weber, leader del PPE, in questo caso proporrebbe Weidmann, governatore della Bundesbank, alla presidenza dell’istituto di Francoforte.

   Angela Merkel in visita ad Emmanuel Macron)

La strategia dell’asse franco-tedesco sostanzialmente mira a isolare Roma dai tavoli europei senza permetterle di entrare in lizza per gli incarichi che potrebbero cambiare il corso seguito attualmente dall’UE.

 

L’Italia si prepara a lasciare l’euro con l’aiuto di Trump?

Se quindi Parigi e Berlino vogliono escludere Roma dai tavoli che contano, la tendenza naturale dell’Italia è quella di guardare al suo alleato più forte e più agguerrito nei confronti dell’UE franco-tedesca, ovvero gli Stati Uniti.

 

Salvini, dopo il 26 maggio, ha di fatto assunto la leadership in pectore del governo italiano, assumendo un piglio molto più duro e determinato nei confronti di Bruxelles.

Le fratture con l’alleato di governo, Luigi Di Maio, sono state ricomposte e ora il ministro dell’Interno non pare avere la minima intenzione di cedere di fronte alle richieste dell’UE.

 

Il viaggio a Washington in questo senso potrebbe essere preparatorio alla fase successiva dello scontro tra Roma e Bruxelles.

(Il primo ministro Conte in visita con il presidente Trump)

Il primo passo per uscire dalla gabbia dei vincoli dell’UE in questo senso, potrebbe essere sicuramente l’approvazione dei minibot.

Questo strumento di pagamento, se applicato, consentirebbe allo Stato di saldare le passività con le imprese che ammontano a circa 65 miliardi di euro.

Il minibot non avendo le caratteristiche di una moneta a corso legale, aggirerebbe le norme europee che vietano l’emissione di moneta, e creerebbe di fatto un canale di liquidità alternativa.

In questo modo, il governo riuscirebbe a immettere liquidità nel circuito economico senza violare la lettera dei trattati europei.

 

Nonostante la legalità di questo mezzo di pagamento, Bruxelles e Francoforte non sembrano intenzionate a concedere nulla all’Italia.

Ecco perché Roma si prepara ad andare allo scontro con l’UE, facendosi forte della sponda degli USA che potrebbe manifestarsi nelle prossime settimane nella forza di dazi, che colpirebbero soprattutto l’export di auto tedesche.

Uno scenario al quale sembrano si stiano già preparando a Bruxelles, convinti che i dazi americani arriveranno presto.

Lo scontro geopolitico nelle prossime settimane sarà quindi tra due fronti. Da un lato l’asse franco-tedesco che sostiene l’UE e dall’altro, l’asse Washington – Roma intenzionato a porre fine a questo strapotere.

 

Dalle sorti di questo scontro, si saprà presto se l’UE continuerà ad esistere o se si prepara al canto del cigno.

 

 

Scuola 4.0: La rivoluzione digitale

che trasforma l’apprendimento.

Usaretecnologia.it – (3-3-2025) – Roberto Vito Gerardo – ci dice:

 

L’educazione sta vivendo una delle sue più grandi rivoluzioni: la Scuola 4.0.

Non si tratta solo di introdurre la tecnologia nelle aule, ma di ripensare completamente il modo in cui si insegna e si apprende.

 

La Scuola 4.0 è un modello che abbatte i muri della didattica tradizionale e crea un ponte tra presente e futuro, tra scuola e mondo del lavoro, tra insegnanti e studenti, trasformando l’apprendimento in un’esperienza dinamica, inclusiva e coinvolgente.

 

L’aula diventa un ecosistema di apprendimento.

Dimentichiamo la vecchia aula con banchi in fila e lavagna di ardesia.

Nella Scuola 4.0, gli spazi diventano flessibili e interattivi, adattandosi alle esigenze di studenti e docenti.

 

Le aule sono organizzate in modo da poter essere trasformate in base all’attività didattica: una mattina si lavora in piccoli gruppi, il pomeriggio si segue una lezione in realtà aumentata, il giorno successivo si simula una conferenza scientifica con esperti collegati da tutto il mondo.

Nei laboratori digitali, gli studenti possono creare prototipi con stampanti 3D o sviluppare applicazioni di intelligenza artificiale, mentre nei Fab Lab imparano a progettare e realizzare oggetti grazie alla tecnologia.

 

Un apprendimento attivo e coinvolgente.

La Scuola 4.0 non si limita a trasmettere nozioni, ma sviluppa competenze attraverso metodologie innovative.

 

Il “problem solving” diventa la base dell’apprendimento:

 per comprendere la matematica, gli studenti costruiscono ponti virtuali e ne calcolano la resistenza;

per studiare storia, ricostruiscono antiche città con la realtà virtuale e analizzano le cause dei conflitti.

 

La didattica si fonde con il gioco attraverso tecniche di “gamification”, aumentando il coinvolgimento degli studenti e stimolando la loro creatività.

Grazie alla didattica ibrida, che integra lezioni in presenza con simulazioni online, gli studenti possono seguire il proprio ritmo di apprendimento, rafforzando le competenze con piattaforme interattive.

 

Competenze digitali per un futuro consapevole.

Nella Scuola 4.0, anche i docenti diventano facilitatori dell’apprendimento, aggiornandosi su nuove tecnologie e strategie didattiche innovative.

 

Le competenze digitali non si limitano all’uso del computer, ma comprendono la programmazione, la cybersecurity e la capacità di navigare nel web in modo critico.

 

Gli studenti imparano a progettare software, proteggere i propri dati e distinguere le informazioni affidabili da quelle manipolate.

In un mondo sempre più interconnesso, saper interagire con l’intelligenza artificiale e comprendere i meccanismi della tecnologia diventa una competenza indispensabile.

 

Tecnologie e infrastrutture per la Scuola 4.0.

Per rendere tutto questo possibile, le scuole si dotano di infrastrutture all’avanguardia:

Wi-Fi ad alta velocità per garantire l’accesso alle risorse digitali senza interruzioni, strumenti digitali come tablet, lavagne touch di grandi dimensioni, visori VR e stampanti 3D per trasformare la teoria in esperienza concreta.

 

Le piattaforme educative online consentono la condivisione di materiali, la collaborazione tra studenti e docenti e il monitoraggio del percorso di apprendimento personalizzato.

L’innovazione tecnologica non è fine a sé stessa, ma uno strumento per rendere l’educazione più accessibile e inclusiva.

 

Inclusione e personalizzazione dell’apprendimento.

La Scuola 4.0 è pensata per tutti, abbattendo le barriere e offrendo opportunità anche a chi ha bisogni educativi speciali.

 

Strumenti digitali avanzati permettono agli studenti con difficoltà di apprendimento di seguire lezioni personalizzate, con materiali adattati alle loro esigenze.

L’intelligenza artificiale viene utilizzata per costruire percorsi individualizzati, suggerendo esercizi e contenuti in base al livello di ciascuno.

In questo modo, ogni studente può sviluppare le proprie capacità senza essere frenato da metodi didattici rigidi.

 

Un ponte tra scuola e mondo del lavoro.

La Scuola 4.0 non è solo un luogo di apprendimento, ma una palestra per il futuro.

 

Il legame con il mondo del lavoro è sempre più stretto, con percorsi formativi orientati alle professioni emergenti. L’attenzione alle STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) prepara gli studenti alle sfide del mercato globale, mentre l’alternanza scuola-lavoro si arricchisce di esperienze reali grazie a collaborazioni con aziende, università e startup.

Gli studenti non solo acquisiscono competenze tecniche, ma sviluppano anche soft skills come il problem solving, il lavoro di squadra e la capacità di adattarsi a situazioni complesse.

Le simulazioni aziendali, i laboratori di imprenditorialità e i progetti interdisciplinari offrono agli studenti un assaggio concreto di cosa significhi innovare e creare valore nel mondo del lavoro.

 

Educazione alla cittadinanza digitale.

Essere cittadini digitali significa sapere come muoversi in rete in modo sicuro e consapevole. La Scuola 4.0 forma gli studenti alla cybersecurity, insegnando loro a proteggere i propri dati e riconoscere le minacce informatiche.

 

In un’epoca di disinformazione, sviluppare il pensiero critico è fondamentale: gli studenti imparano a distinguere notizie affidabili da fake news e a navigare il web con responsabilità.

L’uso dei social media viene affrontato con un approccio educativo, per prevenire dipendenze digitali e promuovere un’interazione rispettosa e consapevole.

La Scuola 4.0 è il futuro, e il futuro è adesso.

La Scuola 4.0 rappresenta una necessità più che un’innovazione.

Non possiamo più pensare alla scuola come a un luogo statico in cui si trasmettono informazioni.

L’educazione deve essere dinamica, inclusiva, digitale e connessa alla realtà. Il cambiamento non riguarda solo l’introduzione della tecnologia, ma un nuovo modo di apprendere, insegnare e prepararsi al domani.

 

Il futuro dell’istruzione è già qui, e sta a noi coglierne tutte le opportunità.

(Roberto Vito Gerardo).

 

 

 

 

 

Il piano dell'impero statunitense

per il dominio globale.

 Unz.com - Michael Hudson – (27 giugno 2025) – ci dice:

La guerra contro l'Iran fa parte del più ampio tentativo dell'impero statunitense di reimporre il suo dominio unipolare sul sistema politico e finanziario globale, sostiene l'economista Michael Hudson.

Washington vuole preservare l'egemonia del dollaro e del petrodollaro, interrompendo al contempo i BRICS e l'integrazione eurasiatica con Cina e Russia.

Hudson lo ha spiegato nella seguente intervista con “Ben Norton”, redattore di “Geopolitical Economy Report”.

 

BEN NORTON: Perché gli Stati Uniti sono così preoccupati per l'Iran?

 

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ammesso che ciò che Washington vuole è un cambio di regime a Teheran, per rovesciare il governo iraniano.

Trump ha sostenuto una guerra contro l'Iran a giugno, in cui sia gli Stati Uniti che Israele hanno bombardato direttamente il territorio iraniano.

Trump ha affermato di aver negoziato un cessate il fuoco dopo quella che chiama la guerra dei 12 giorni che gli Stati Uniti e Israele hanno intrapreso contro l'Iran. Ma è molto difficile credere che questo “cessa il fuoco” reggerà.

 

Soprattutto considerando che Trump ha detto lo stesso a gennaio.

Ha affermato di negoziare un cessate il fuoco a Gaza, ma poi a marzo, due mesi dopo, Israele ha ricominciato la guerra, dopo che Trump aveva dato a Israele il via libera per violare il cessate il fuoco che aveva contribuito a negoziare.

 

Quindi è molto difficile per i funzionari iraniani credere che il cessate il fuoco reggerà davvero.

 E anche se dovesse reggere a breve termine, la realtà è che il governo degli Stati Uniti ha condotto una sorta di guerra politica ed economica contro l'Iran per molti decenni, a partire dal 1953, quando gli Stati Uniti effettuarono un colpo di stato che rovesciò il primo ministro iraniano democraticamente eletto Mohammad Mossadeq e installò un dittatore filo-americano: Scià Mohammad Reza Pahlavi.

 

Allora perché? Cosa vuole ottenere Washington dalla sua infinita guerra politica ed economica contro l'Iran?

 

Per cercare di rispondere a questa domanda, ho intervistato il famoso economista “Michael Hudson”, che ha scritto molti libri ed è un esperto di economia politica globale.

 

Michael Hudson ha pubblicato un articolo in cui delinea le ragioni economiche e politiche di questa guerra contro l'Iran, e postula che questo fa parte del tentativo dell'impero statunitense di imporre un ordine unipolare al mondo, come abbiamo visto negli anni '90, quando gli Stati Uniti erano l'unica superpotenza e potevano imporre la loro volontà politica ed economica a quasi tutti i paesi della Terra.

 

L'Iran era uno dei pochissimi paesi che stava effettivamente resistendo all'egemonia unipolare degli Stati Uniti.

 E oggi vediamo, mentre il mondo è sempre più multipolare, che l'Iran svolge un ruolo importante come membro dei BRICS e come sostenitore dei gruppi di resistenza.

L'Iran sta spingendo per un mondo più multipolare, in opposizione all'unipolarismo dell'impero statunitense, come descrive l'economista Michael Hudson in questo saggio.

 

Hudson ha scritto:

Ciò che è in gioco è il tentativo degli Stati Uniti di controllare il Medio Oriente e il suo petrolio come contrafforte del potere economico degli Stati Uniti, e di impedire ad altri paesi di muoversi per creare la propria autonomia dall'ordine neoliberista centrato sugli Stati Uniti amministrato dal FMI, dalla Banca Mondiale e da altre istituzioni per rafforzare il potere unipolare degli Stati Uniti.

 

Nella nostra discussione di oggi, Michael collega tutti i diversi fattori coinvolti in questo conflitto, tra cui il petrolio e il gas e altre risorse in Asia occidentale (nel cosiddetto Medio Oriente);

compreso il ruolo del dollaro USA e del sistema del petrodollaro;

e come l'Iran, in quanto membro dei BRICS, e molti altri paesi del Sud del mondo, si stanno de-dollarizzando e cercando alternative al dollaro.

 

Si parla anche della geopolitica della regione, delle rotte commerciali e dell'interconnettività tra Cina, Iran e Russia, nell'ambito di un progetto di integrazione eurasiatica;

parliamo degli obiettivi geopolitici degli Stati Uniti e di Israele; e molto, molto di più.

Ecco un estratto della nostra conversazione, e poi passiamo direttamente all'intervista:

MICHAEL HUDSON:

Quello che abbiamo visto nell'ultimo mese – o dovrei dire negli ultimi due anni in realtà – è il culmine della lunga strategia che l'America ha avuto fin dalla Seconda Guerra Mondiale, per prendere il controllo completo delle terre petrolifere del Vicino Oriente e renderle proxy degli Stati Uniti, sotto governanti clienti, come l'Arabia Saudita e il re di Giordania.

 

L'Iran rappresenta una minaccia militare al confine meridionale della Russia, perché se gli Stati Uniti ottenere mettere un regime cliente in Iran, o dividere l'Iran in gruppi etnici che sarebbero in grado di interferire con il corridoio commerciale della Russia verso sud, nell'accesso all'Oceano Indiano, beh, allora hai inscatolato in Russia, hai inscatolato in Cina: e tu sei riuscito a isolarli.

 

Questa è l'attuale politica estera americana. Se si possono isolare i paesi che non vogliono far parte del sistema finanziario e commerciale internazionale americano, allora la convinzione è che non possono esistere da soli; sono troppo piccoli.

 

L'America sta ancora vivendo nell'epoca della Conferenza di Bandung del 1955 in Indonesia. Quando altri paesi volevano andare da soli, erano troppo piccoli economicamente.

 

Ma oggi, per la prima volta nella storia moderna, avete l'opzione dell'Eurasia, della Russia, della Cina, dell'Iran e di tutti i paesi vicini nel mezzo. Per la prima volta, sono abbastanza grandi da non aver bisogno di scambi e investimenti con gli Stati Uniti.

Infatti, mentre gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO in Europa si stanno riducendo – sono economie de-industrializzate, neo-liberiste e post-industriali – la maggior parte della crescita della produzione, della manifattura e del commercio mondiale è avvenuta in Cina, insieme al controllo della raffinazione delle materie prime, come le terre rare, ma anche il cobalto, persino l'alluminio e molti altri materiali in Cina.

 

Così il tentativo strategico dell'America di isolare la Russia, la Cina e tutti i loro alleati nei BRICS o nell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai finisce per isolare sé stessa.

Sta costringendo altri paesi a fare una scelta.

 

Questa è l'unica cosa che l'America ha da offrire agli altri paesi del mondo di oggi. Non possono offrire le loro esportazioni. Non possono offrire la loro stabilità monetaria.

L'unica cosa che l'America ha da offrire al mondo è di astenersi dal distruggere la propria economia e causare il caos economico, come Trump ha minacciato di fare con i suoi dazi, e quello che ha minacciato di fare a qualsiasi paese che cerchi di creare un'alternativa al dollaro.

 

Da qui questo pranzo gratis, dove altri paesi possono guadagnare dollari, ma devono prestarli di nuovo agli Stati Uniti.

 E gli Stati Uniti, in quanto loro banchiere, devono tenere tutto, e il banchiere può decidere chi pagare e chi non pagare.

 

È un gangster.

È stato definito uno stato gangster, proprio per queste ragioni.

 E altri paesi hanno paura di ciò che gli Stati Uniti possono fare, non solo sotto Donald Trump, ma anche di ciò che hanno fatto negli ultimi 50 anni.

Sta semplicemente confiscando, destabilizzando e rovesciando.

L'America ha sostanzialmente dichiarato guerra a qualsiasi tentativo di creare un sistema di commercio e investimenti internazionali che gli Stati Uniti non controllano, nel proprio interesse, volendo tutti i guadagni che ne derivano, tutti i proventi che ne derivano, non solo una parte di essi.

È un impero avido.

 

Intervista.

BEN NORTON:

Michael, grazie per essere qui con me. È sempre un vero piacere averti con noi.

Parliamo di questo articolo che hai scritto, in cui sostieni che la guerra contro l'Iran fa parte di un tentativo degli Stati Uniti di imporre la loro egemonia unipolare sul mondo.

 

Vediamo che stiamo vivendo in un mondo sempre più multipolare, e l'Iran ha svolto un ruolo importante nel progetto multipolare come membro dei BRICS, come membro dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, come partner di Cina e Russia.

L'Iran ha anche spinto verso la de-dollarizzazione del sistema finanziario globale.

 

Parlaci di come vedi la guerra contro l'Iran – che non è iniziata sotto Donald Trump, risale a molti anni fa – e di come la vedi in particolare come economista.

 

MICHAEL HUDSON:

Beh, la guerra contro l'Iran è iniziata nel 1953, quando gli Stati Uniti e l'MI6 hanno rovesciato il primo ministro eletto [Mohammad Mossadegh], e la ragione per cui è stato rovesciato è perché voleva nazionalizzare le riserve petrolifere dell'Iran.

Gli Stati Uniti hanno sempre visto l'Iran come parte del Golfo petrolifero del Vicino Oriente.

La politica estera americana, in termini di armamento del suo commercio estero, si è sempre basata su due materie prime:

i cereali alimentari – la capacità di smettere di esportare cibo verso i paesi che si oppongono alla politica degli Stati Uniti, come gli Stati Uniti hanno smesso di esportare grano in Cina sotto Mao – e il petrolio.

 

Per un secolo, gli Stati Uniti si sono concentrati sul controllo del petrolio come base della loro bilancia commerciale internazionale – è il più grande contribuente alla bilancia commerciale – e della loro capacità di sanzionare il resto del mondo, interrompendo la fornitura di petrolio, e quindi spegnendo l'elettricità, spegnendo il gas.

Spegnere il riscaldamento domestico, dei paesi che si allontanano dalla politica statunitense.

 

Quando lavoravo per l'Hudson Institute nei primi anni '70, Herman Kahn mi portò a un incontro con alcuni generali, e stavano discutendo su cosa fare con l'Iran nel caso in cui, sotto lo Scià, l'Iran aveva mai cercato di affermare la sua autonomia e andare per la sua strada.

 

L'Iran è sempre stato la potenza più forte dell'intero Vicino Oriente e la chiave di volta per il controllo del Vicino Oriente.

Non si può controllare completamente il petrolio del Vicino Oriente – Siria, Iraq, il resto dei paesi – senza controllare anche l'Iran, a causa delle dimensioni della sua popolazione e della forza della sua economia.

 

È stato un incontro molto interessante. “Herman Kahn”, il modello del Dottor Stranamore, discute su come dividere l'Iran nelle sue varie etnie, cinque o sei etnie, nel caso in cui avesse adottato una politica indipendente dagli Stati Uniti.

 

La preoccupazione degli Stati Uniti già negli anni '70, 50 anni fa, era: "Cosa facciamo se gli altri paesi non seguono il tipo di ordine mondiale internazionale che stiamo organizzando?"

 

“Herman” ha detto che pensava che il punto di crisi che stava per esplodere nelle notizie internazionali sarebbe stato il “Balochistan”, al confine dell'Iran con il Pakistan.

I beluci sono una popolazione distinta, proprio come gli azeri, gli azeri, i curdi.

 

L'Iran è un insieme di molti gruppi etnici, tra cui un gruppo ebraico molto numeroso.

È una società multietnica, e la strategia degli Stati Uniti, nel caso ci fosse stata una guerra contro l'Iran, era quella di giocare su queste etnie – proprio come piani simili sono stati elaborati per la Russia, come dividerla in parti etniche separate; e la Cina, come dividere la Cina in parti etniche, nel momento in cui l'America vuole affrontarle.

 

E la ragione per cui questa divisione etnica si è sviluppata è che, come democrazia, specialmente negli anni '70, è diventato molto evidente che gli Stati Uniti non avrebbero mai più potuto schierare un esercito per l'invasione, come stavano facendo in Vietnam.

 

All'epoca in cui partecipai a questa riunione, alla fine del 1974 credo, o all'inizio del '75, ci furono delle manifestazioni.

Era ovvio che non ci sarebbe mai più stata una leva militare.

 

Come potevano gli Stati Uniti esercitare il loro potere internazionale senza potere militare?

Aveva basi militari in tutto il mondo;

Ha speso di più per l'esercito di qualsiasi altro paese.

 

L'intero deficit della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti era costituito da spese militari all'estero, eppure non poteva andare in guerra.

Doveva usare proxy.

 

Questo è stato il momento in cui, oltre alle discussioni a cui ho partecipato su come usare le etnie nei paesi a cui abbiamo dichiarato guerra, come oppositori;

L'America decise di creare la più grande base militare del Vicino Oriente, e cioè Israele.

 

“Henry Jackson”, il senatore pro-guerra, del Complesso Militare-Industriale, si incontrò con “Herman Kahn” – io ero nell'ufficio di Herman, ascoltando la telefonata, quando arrivò – e l'accordo era che il Complesso Militare-Industriale e Jackson avrebbero appoggiato Israele, se Israele avesse accettato di agire come portaerei atterrate degli Stati Uniti nel Vicino Oriente, come si diceva all'epoca.

 

Herman fece molto volentieri quell'accordo, perché l'Hudson Institute a quel tempo era un'organizzazione sionista, ed era un campo di addestramento per il Mossad.

Uno dei miei colleghi era Uzi Arad.

Abbiamo fatto una serie di viaggi insieme in Asia.

E Uzi è diventato consigliere di Netanyahu e capo del Mossad negli anni successivi.

 

Quindi, in un certo senso, mi sono seduto nel momento in cui si stava delineando la strategia americana.

Israele sarebbe stato il volto dell'America, e infatti ha coordinato il sostegno americano ad Al-Qaeda e ai macellai wahhabiti che hanno preso il controllo della Siria, e ora sono impegnati a uccidere i cristiani, a uccidere gli sciiti, a uccidere gli alawiti.

 

E non vedrete mai alcuna critica a Israele da parte di Al-Qaeda, o del gruppo [Hayat Tahrir al-Sham (HTS)] in Siria, comunque lo si voglia chiamare lì. E viceversa, c'è sempre stato un rapporto di lavoro.

Quindi questo fornisce un po' di informazioni su quanto tempo gli Stati Uniti hanno anticipato il giorno in cui avrebbero cercato di concludere finalmente la loro invasione dell'Iraq, il loro attacco alla Siria, la loro distruzione della Libia, il loro sostegno alla distruzione del Libano e di altri paesi, nel Nord Africa, ecc.

 

Quello che abbiamo visto nell'ultimo mese – o dovrei dire negli ultimi due anni in realtà – è il culmine della lunga strategia che l'America ha avuto fin dalla Seconda Guerra Mondiale, per prendere il controllo completo delle terre petrolifere del Vicino Oriente e renderle alleate degli Stati Uniti, sotto governanti clienti, come l'Arabia Saudita e il re di Giordania.

 

Geopolitica e commercio globale.

BEN NORTON:

Hai sollevato così tanti punti interessanti, Michael.

 Voglio concentrarmi sulle due questioni principali:

 una è la geopolitica dell'integrazione dell'Iran con l'Eurasia, e l'altra è il petrolio e il sistema del petrodollaro.

 

Inizierò con la geopolitica.

 Naturalmente, quando parliamo del petrodollaro, dobbiamo tenere a mente che l'Iran ha venduto il suo petrolio e il suo gas in altre valute e ha spinto per la de-dollarizzazione.

 

Ma prima di arrivare a questo, voglio parlare del ruolo che l'Iran ha svolto non solo nel sostenere i gruppi di resistenza in Asia occidentale, ma anche nell'approfondire la sua partnership politica ed economica con la Cina e la Russia, come parte di una più ampia partnership eurasiatica.

 

Ci sono numerosi progetti fisici che integrano queste regioni.

L'Iran è al centro della Nuova Via della Seta cinese.

Questo è stato originariamente lanciato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013, e poi si è espanso nella “Belt and Road Initiative” (BRI).

 

L'Iran è una parte importante in questo, collegando l'Asia orientale, attraverso l'Asia centrale, attraverso l'Iran, all'Asia occidentale.

E gli Stati Uniti hanno davvero cercato di interrompere tutto questo.

 

L'Iran svolge anche un ruolo importante in un corridoio economico guidato dalla Russia che collega da San Pietroburgo, attraverso Mosca, attraverso il Mar Caspio, attraverso l'Iran e l'India.

 

Questo è noto come Corridoio Internazionale di Trasporto Nord-Sud,” l'INSTC.

 

Abbiamo visto che l'Iran ha svolto un ruolo molto importante sfidando il dollaro USA, sfidando l'egemonia degli Stati Uniti e cercando anche l'integrazione economica e politica con altri paesi dell'Eurasia.

 

Puoi dirci di più su questo e sul perché questi pianificatori imperiali a Washington vedono questo come una minaccia?

 

MICHAEL HUDSON:

Beh, hai appena riassunto le due mappe che ho incluso nel mio articolo.

 

Circa un mese fa, l'Iran ha appena completato la sua ferrovia Belt and Road, che arriva fino a Teheran. Per la prima volta, c'è un corridoio terrestre dall'Iran alla Cina.

 

Ora, il corridoio Belt and Road significa che stanno evitando di andare via mare.

La politica militare americana e britannica si è basata per un centinaio di anni sul controllo dei mari, e il controllo del commercio petrolifero faceva parte di quella strategia.

 

Perché se l'Iran, l'Arabia Saudita, il Kuwait e gli altri paesi produttori di petrolio non possono caricare le petroliere di petrolio, come faranno a esportare?

E come possono importatori come la Cina o l'India ottenere petrolio dal Vicino Oriente?

 

 

Beh, con la “Belt and Road Initiative” della Cina, la sua intenzione era quella di andare fino in fondo, attraverso l'Iran, e poi procedere fino all'Oceano Atlantico, fino all'Europa.

 

Questa “Belt and Road “doveva coprire l'intero continente eurasiatico, l'intero emisfero orientale.

E se gli Stati Uniti riuscissero a conquistare l'Iran ea prenderne il controllo, ciò interferirebbe con lo sviluppo ferroviario a lunga distanza della Cina, e lo bloccherebbe – proprio come gli Stati Uniti sperano di spingere l'India e il Pakistan una sorta di lotta che interromperebbe l'iniziativa cinese” Belt and Road “che passa attraverso il Pakistan [il Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC)].

Quindi, da un lato, l'Iran è la chiave per il trasporto via terra della Cina verso l'Europa.

 

E come hai appena sottolineato, con la Russia:

 l'Iran rappresenta una minaccia militare per il confine meridionale della Russia, perché se gli Stati Uniti potessero mettere in piedi un regime clientelare in Iran, o dividere l'Iran in gruppi etnici che sarebbero in grado di interferire con il corridoio commerciale russo verso sud, con accesso all'Oceano Indiano, beh, allora avresti messo alle strette la Russia, avresti messo alle strette la Cina e saresti riuscito a isolarli.

 

Questa è l'attuale politica estera americana.

 Se si riescono a isolare i Paesi che non vogliono far parte del sistema finanziario e commerciale internazionale americano, si finisce per credere che non possano sopravvivere da soli: sono troppo piccoli.

 

L'America sta ancora vivendo l'epoca della “Conferenza di Bandung del 1955,” delle nazioni non allineate, in Indonesia. Quando gli altri paesi decisero di procedere da soli, si resero conto che erano economicamente troppo piccoli.

 

Ma oggi, per la prima volta nella storia moderna, abbiamo la possibilità di scegliere tra l'Eurasia, la Russia, la Cina, l'Iran e tutti i paesi confinanti. Per la prima volta, sono abbastanza grandi da non aver bisogno di scambi commerciali e investimenti con gli Stati Uniti.

 

Infatti, mentre gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO in Europa si stanno riducendo (sono economie de-industrializzate, neo liberiste e post industriali), la maggior parte della crescita della produzione, della manifattura e del commercio mondiale si è verificata in Cina, insieme al controllo della raffinazione delle materie prime, come le terre rare, ma anche il cobalto, perfino l'alluminio e molti altri materiali in Cina.

 

Così il tentativo strategico dell'America di isolare la Russia, la Cina e tutti i loro alleati nei BRICS o nell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai finisce per isolare se stessa.

Sta costringendo altri paesi a fare una scelta.

 

Questo è stato reso molto chiaro immediatamente dopo che Trump ha assunto la presidenza e ha annunciato la sua politica tariffaria, dicendo:

 "In tre mesi, imporrò tariffe così devastanti che voi, i paesi del Sud del mondo, i paesi a maggioranza globale, le vostre economie saranno nel caos senza avere accesso al mercato americano".

Ma, [Trump ha detto], "Abbiamo tre mesi per negoziare, e, se ci date un cambio, ridurrò queste tariffe al 10%, in modo che non devastino le vostre economie.

E uno degli accordi che devi fare è accettare le sanzioni americane per non commerciare con la Cina, per non investire in Cina, per non usare alternative al dollaro USA".

 

La Cina sta cercando di evitare di usare i dollari, proprio come la Russia non è più in grado di usare i dollari, perché gli Stati Uniti hanno semplicemente confiscato 300 miliardi di dollari di riserve di valuta estera della Russia in Occidente, che detenevano a Bruxelles, al fine di gestire la sua valuta estera, per stabilizzare il suo tasso di cambio, che è ciò che fanno le banche centrali in tutto il mondo.

 

Beh, è molto interessante.

Il “Financial Times” ha pubblicato un articolo in prima pagina [riportando] che ora i paesi europei, in particolare Germania e Italia, che detengono rispettivamente il secondo e il terzo maggiore giacimento aurifero, hanno chiesto:

 "Potreste per favore [restituirci il nostro oro]? Noi, dalla Seconda Guerra Mondiale, abbiamo lasciato tutte le nostre riserve auree alla Federal Reserve di New York".

 

L'oro americano si trova a Fort Knox, ma altri paesi conservano le loro riserve auree nei sotterranei della “Federal Reserve Bank”, proprio di fronte alla “banca Chase Manhattan”, nel centro della città.

E altri paesi ora si rendono conto che, sotto Trump, se lui dice: "Beh, l'Europa si è davvero approfittata di noi; ci ha esportato più di quanto gli abbiamo venduto" - sapete, Italia e Germania temono che in qualche modo l'America dirà: "Beh, ci prenderemo tutto questo oro che avete accumulato approfittando di noi".

 

Quindi il resto del mondo si sta ritirando dal dollaro.

Questo riflette l'effetto di tutto ciò che gli Stati Uniti stanno cercando di fare per isolare le altre parti del mondo dai contatti con gli Stati Uniti, se cercano di avere un sistema economico alternativo al capitalismo finanziario neoliberista, se cercano di avere un socialismo industriale – che è in realtà un capitalismo industriale in via di sviluppo, con investimenti pubblici attivi nelle infrastrutture di base, invece di privatizzare le infrastrutture in stile Margaret Thatcher.

 

L'effetto sarà quello di lasciare gli Stati Uniti isolati, e tutto il resto del mondo che va per la sua strada, incapace di commerciare con gli Stati Uniti a causa delle alte tariffe che Trump ha imposto, e spaventato dal commercio in dollari a causa della militarizzazione predatoria del dollaro standard, che era stato il pasto gratis dell'America sotto l'intera epoca dello standard dei buoni del tesoro degli Stati Uniti. da quando l'America ha perso l'oro nel 1971.

 

Il petrolio e il petrodollaro.

BEN NORTON:

Ancora una volta, Michael, hai sollevato così tanti punti positivi.

 

Voglio rimanere sulla questione del petrolio, del dollaro USA e del sistema del petrodollaro.

 

Ora, lei ha detto un paio di volte che gli Stati Uniti dipendono davvero dalle esportazioni di petrolio e dal controllo del commercio petrolifero, in parte per cercare di ridurre il loro enorme deficit delle correnti partite – che, voglio dire, non ha ancora molto successo.

 Gli Stati Uniti hanno un massiccio deficit delle partite correnti, cioè deficit commerciale con il resto del mondo.

 

Ma ciò che è diverso negli anni 2020 è che gli Stati Uniti sono ora il più grande esportatore mondiale di petrolio.

È il più grande produttore di petrolio sulla Terra e il più grande produttore di gas.

Quindi questa è una differenza significativa.

Questo è in gran parte uno sviluppo dell'ultimo decennio dovuto all'esplosione del fracking negli Stati Uniti e anche alla rivoluzione del petrolio di scisto.

Quindi, non è necessariamente che gli Stati Uniti abbiano bisogno di avere fisicamente accesso a tutto il petrolio della regione.

Anche se, naturalmente, le società statunitensi di combustibili fossili vorrebbero privatizzare tutto il petrolio dell'Asia occidentale, che è di proprietà statale.

 

Ad esempio, abbiamo parlato di “Mohammad Mosaddegh”, il primo ministro dell'Iran che fu rovesciato dal colpo di stato del 1953 sostenuto dalla CIA, dopo aver nazionalizzato il petrolio in Iran e cacciato le compagnie petrolifere statunitensi e britanniche.

 

Ebbene, l'attuale governo iraniano, dopo la rivoluzione iraniana del 1979, ha nazionalizzato anche il petrolio e lo Stato iraniano ha effettivamente molta influenza sull'economia, anche attraverso le imprese statali.

Quindi, ovviamente, gli Stati Uniti vorrebbero privatizzare tutto questo. Ma non si tratta necessariamente di ottenere l'accesso a tutto quel petrolio.

 

Si tratta di mantenere l'attuale ordine finanziario, che è in realtà sostenuto dal petrolio, soprattutto dopo che nel 1971 Richard Nixon staccò il dollaro dall'oro.

 

Poi, nel 1974, Nixon inviò il suo segretario al Tesoro, William Simon – Bill Simon, della Salomon Brothers – che era un esperto di obbligazioni.

Dirigeva il dipartimento del Tesoro, negoziando titoli di Stato statunitensi presso la Salomon Brothers, la principale banca d'investimento di Wall Street.

Fu inviato a Gedda nel 1974, dove negoziarono un accordo in base al quale gli Stati Uniti avrebbero protetto la monarchia saudita e, in cambio, l'Arabia Saudita avrebbe venduto tutto il suo petrolio in dollari, mantenendo così la domanda globale di dollari USA.

 

Ciò è avvenuto un anno dopo l'embargo petrolifero dell'OPEC, in cui i paesi del Sud del mondo hanno dimostrato di poter usare il loro controllo del petrolio come strumento geopolitico per punire gli Stati Uniti e l'Occidente per il loro sostegno a Israele.

 

Voglio dire, tutta questa storia è ancora così rilevante oggi.

 

Ora, l'Iran sta sfidando direttamente quel sistema del petrodollaro. L'Iran sta vendendo il suo petrolio alla Cina in yuan cinese, il renminbi.

 

L'Iran commercia anche con l'India, vende il suo petrolio e usa la sua valuta, il “rial”.

Anche l'India sta utilizzando la sua valuta, la “rupia”, e l'India sta essenzialmente scambiando i suoi prodotti agricoli con il petrolio iraniano.

 

Quindi puoi parlarci di questo sistema del petrodollaro, e perché l'Iran è visto come una sfida così importante per questo sistema?

E in realtà ciò significa una sfida diretta al dominio globale del dollaro USA stesso.

 

MICHAEL HUDSON:

Beh, ho detto che l'obiettivo originario degli Stati Uniti era quello di controllare il petrolio del Vicino Oriente.

Ero l'economista della bilancia dei pagamenti per la Chase Manhattan Bank, e ho fatto un intero studio per conto dell'industria petrolifera statunitense per calcolare i rendimenti della bilancia dei pagamenti, e il dollaro medio speso dalle Sette Sorelle, le grandi compagnie petrolifere.

 

Il dollaro medio investito in Arabia Saudita, Kuwait e altri paesi arabi è stato recuperato in soli 18 mesi.

Il petrolio era l'investimento più redditizio dell'intera economia degli Stati Uniti e lo era essenzialmente.

 

Ora, il piano originale, come ho detto, degli Stati Uniti nel Vicino Oriente, era visto come avere petrolio.

Poi è arrivata la guerra del petrolio – ed è stata più di una guerra del petrolio – nel 1974, dopo che Israele ha intrapreso la guerra del 1973 e dopo che gli Stati Uniti hanno quadruplicato i prezzi del grano.

 

Beh, hai menzionato “Bill Simon [“il Segretario al Tesoro di Nixon].

“Herman Kahn” e io andammo a incontrare Bill Simon nel 1974, per discutere quale dovesse essere la strategia americana con le compagnie petrolifere.

Simon ha detto: "Abbiamo spiegato loro che possono chiedere il prezzo del petrolio a loro piacimento. Possono quadruplicarne i prezzi".

 

Di fatto, ciò rese molto felici la “Standard Oil of New Jersey”, la Socony [in seguito Mobil] e le altre compagnie petrolifere americane, perché, come hai sottolineato, l'America stessa era un enorme produttore di petrolio.

Quando i paesi OPEC quadruplicarono il prezzo del petrolio, le compagnie petrolifere americane trassero enormi profitti dalla loro produzione e da quella del Canada.

 

Bill Simon mi ha raccontato di aver spiegato loro che potevano far pagare il petrolio a qualsiasi prezzo; quadruplicarlo andava bene.

 

Ma l'accordo era che dovevano tenere tutti i loro risparmi da quello che avevano ricavato da questo petrolio – non lo chiamerò profitto, perché in realtà è una resa di risorse naturali – dovevano mantenere le loro rendite nell'economia degli Stati Uniti.

 

L'accordo era che l'Arabia Saudita e altri paesi avrebbero esportato il loro petrolio in dollari; non avrebbero rimosso questi dollari dagli Stati Uniti.

Lascerebbero i dollari che sono stati pagati dai paesi europei, dagli altri paesi che comprano il loro petrolio; lo investirebbero principalmente in titoli del Tesoro degli Stati Uniti e potrebbero anche acquistare azioni e obbligazioni statunitensi.

 

Ma non poteva fare quello che l'America ha fatto con il suo cambio di valuta europea, per esempio.

 I paesi dell'OPEC non potevano comprare il controllo di nessuna grande azienda americana.

 

Potevano acquistare azioni e obbligazioni, ma dovevano distribuire l'investimento nel mercato azionario su tutto il mercato.

Quindi penso che il re dell'Arabia Saudita abbia comprato un miliardo di dollari di ogni azione del “Dow Jones Industrial Average”, per distribuire il tutto.

 

Ma la maggior parte del loro denaro era conservata al sicuro nei titoli del Tesoro degli Stati Uniti.

 

Quindi, essenzialmente, le entrate dell'OPEC – non dirò guadagni perché, ancora una volta, non sono state realmente guadagnate;

sono redditi non guadagnati – le entrate dell'OPEC derivanti dalle vendite di petrolio sono finite tutte negli Stati Uniti, la maggior parte delle quali prestate al governo degli Stati Uniti.

 

Ebbene, quell'afflusso di dollari è ciò che ha permesso agli Stati Uniti di fare due cose.

Uno, come afflusso della bilancia dei pagamenti, ha permesso agli Stati Uniti di continuare a spendere le loro spese militari all'estero, al fine di avere il pugno militare dietro il loro impero economico.

 

Ma ha anche finanziato il deficit di bilancio interno.

 Le banche centrali straniere finanziavano in gran parte il deficit di bilancio interno dell'America, con la loro detenzione di buoni del Tesoro americano.

Quindi i paesi dell'OPEC sono diventati sostanzialmente parti prigioniere del sistema finanziario americano che avevo descritto nel mio libro Super Imperialismo.

 

Così mi sono incontrato con la gente del Tesoro del Tesoro, spiegando fondamentalmente quello in cui avevo scritto “Super Imperialismo”, su come porre fine alla pratica di altri paesi di detenere le loro riserve monetarie internazionali in oro, ma di tenerle in prestiti al Tesoro degli Stati Uniti sotto forma di acquisto di buoni del Tesoro come veicolo per i loro risparmi, ha essenzialmente reso i risparmi del mondo intero, il risparmio monetario, tutto concentrato a Washington e New York.

 

Quel controllo di quello che era iniziato come il controllo del commercio del petrolio, per trasformare il commercio del petrolio in un'arma, è diventato il controllo del sistema finanziario internazionale con le eccedenze del dollaro che sono state gettate via dal commercio del petrolio.

 

Quindi c'era quella simbiosi tra il sistema commerciale e il sistema finanziario come base per la politica militare americana, e quello che io chiamavo” super imperialismo”.

 

Super imperialismo.

BEN NORTON:

Sì, e quello che hai descritto più di 50 anni fa, in modo così brillante, come il sistema del super imperialismo, quello che stiamo vedendo oggi è che l'Iran e altri paesi BRICS stanno sfidando quel sistema.

 

Stanno sfidando l'esorbitante privilegio del dollaro USA e stanno cercando di cercare alternative.

Quindi forse si può parlare di più di questo movimento globale di de-dollarizzazione e di come l'Iran svolga un ruolo centrale in questo.

 

E questo è uno dei motivi, naturalmente, per cui è un obiettivo degli Stati Uniti.

 

MICHAEL HUDSON:

Beh, l'Iran non era davvero al centro di tutto questo, perché gli Stati Uniti sono stati in grado di isolare l'Iran.

Non appena lo Scià è stato rovesciato, gli Stati Uniti hanno giocato un brutto scherzo all'Iran, lo ha fatto la “Chase Manhattan Bank”.

 

L'Iran aveva un debito estero – come ogni paese ha, emettendo obbligazioni estere – e ha inviato i dollari alla Chase Manhattan Bank, per pagare i dividendi ai detentori di obbligazioni.

 

Il Tesoro andò da David Rockefeller e gli disse:

"Non mandare avanti questo denaro iraniano. Tienilo lì".

E così l'Iran è stato considerato in default, e l'intero debito estero è scaduto, e l'America ha sequestrato, confiscato, le risorse economiche e finanziarie iraniane negli Stati Uniti.

 

In seguito hanno negoziato per restituirlo, perché tutto questo era illegale secondo il diritto internazionale, ma questo non ha mai fermato gli Stati Uniti, come stiamo vedendo in questo momento.

Dopo che lo Scià fu rovesciato, gli Stati Uniti dissero:

"Dobbiamo destabilizzare il nuovo governo iraniano, e se ci impadroniamo delle sue riserve estere, questo lo paralizzerà e causerà il caos, ed è così che gestiamo il mondo, causando il caos".

 

Questa è l'unica cosa che l'America ha da offrire agli altri paesi del mondo di oggi. Non possono offrire le loro esportazioni. Non possono offrire la loro stabilità monetaria.

L'unica cosa che l'America può offrire al mondo è di astenersi dal distruggere la propria economia e dal causare caos economico, come Trump ha minacciato di fare con i suoi dazi e come ha minacciato di fare a qualsiasi paese che provi a creare un'alternativa al dollaro.

 

Da qui questo pranzo gratis, in cui altri paesi possono guadagnare dollari, ma devono poi prestarli agli Stati Uniti.

E gli Stati Uniti, in quanto loro banchiere, devono detenere tutto, e il banchiere può decidere chi pagare e chi no.

È un gangster.

È stato definito uno stato gangster, proprio per queste ragioni.

E altri paesi temono ciò che gli Stati Uniti possono fare, non solo sotto Donald Trump, ma anche ciò che stanno facendo da 50 anni.

Semplicemente confiscare, destabilizzare e rovesciare.

 

L'America ha sostanzialmente dichiarato guerra a qualsiasi tentativo di creare un sistema di commercio e investimenti internazionali che non sia sotto il suo controllo, nel proprio interesse personale, volendone tutti i guadagni, tutte le entrate, non solo una parte.

È un impero avido.

 

Sanzioni e guerra economica.

BEN NORTON:

Sì, e quello a cui vuoi arrivare, Michael, è un punto molto importante, perché in sostanza dimostra che queste tattiche di cui gli Stati Uniti hanno abusato sempre più frequentemente negli ultimi decenni non sono del tutto nuove.

Oggi un terzo di tutti i paesi della Terra è soggetto a sanzioni unilaterali da parte degli Stati Uniti, che sono illegali secondo il diritto internazionale.

Ma naturalmente l'Iran è stato uno dei primi paesi ad essere sanzionato, dopo la rivoluzione del 1979.

 

E sappiamo che nel 2022 gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno sequestrato beni russi per un valore di 300 miliardi di dollari ed euro, e questo è stato un enorme campanello d'allarme per il mondo.

Ma, in realtà, l'Iran è stato il primo caso di prova. Sono stati gli Stati Uniti a sequestrare per primi i beni iraniani, poi quelli del Venezuela, poi quelli dell'Afghanistan e ora la Russia.

Quindi l'Iran è sempre stato il primo paese ad essere preso di mira da queste tattiche aggressive, e ora sono diventati così comuni che abbiamo assistito a una sorta di ribellione globale contro questo sistema, anche da parte di alleati di lunga data degli Stati Uniti.

Come ad esempio l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che storicamente sono stati clienti degli Stati Uniti, ma vedono cosa è successo a Russia, Iran e Venezuela e sono preoccupati che potrebbero essere i prossimi.

 

MICHAEL HUDSON:

Ebbene, questo è esattamente ciò che sta plasmando la politica dell'Arabia Saudita e degli altri paesi arabi nella regione.

 

Ovviamente, agli arabi non piace quello che Israele sta facendo a Gaza.

A loro non piace la pulizia etnica, e la pulizia etnica della Cisgiordania, e l'intero attacco contro i palestinesi e le altre popolazioni arabe.

Ma hanno paura di agire per conto dell'Iran.

 Potrebbero essere molto solidali con esso.

 Le popolazioni di questi paesi sono molto contrarie alla violenza che Israele sta conducendo contro gli stati arabi, ma i leader di questi paesi hanno un problema:

 tutti i risparmi che l'Arabia Saudita ha accumulato negli ultimi 50 anni sono tenuti in ostaggio nel Tesoro degli Stati Uniti e nelle banche degli Stati Uniti.

 

E le banche statunitensi, in sostanza, sono rami del Tesoro.

 Soprattutto, Chase Manhattan era una banca designata che avrebbe agito per conto del Tesoro.

Citibank era più indipendente, da questo punto di vista.

Quindi non avete sentito nulla dall'Arabia Saudita e dai paesi produttori di petrolio limitrofi, perché hanno paura.

Si rendono conto di trovarsi in una posizione molto delicata.

 

Tutto questo denaro, il loro fondo sovrano che hanno accumulato per finanziare il loro sviluppo futuro, se così possiamo chiamare quello che stanno facendo, è uno sviluppo contorto, ma i loro piani per il futuro sono tenuti in ostaggio e sono stati neutralizzati politicamente a causa di questa esposizione al dollaro statunitense.

Bene, potete immaginare che altri paesi si rendano conto di cosa sta succedendo, e i paesi asiatici, i paesi del Sud del mondo e persino paesi europei come Germania e Italia dicano:

"Non vogliamo restare intrappolati nella stessa trappola in cui sono intrappolati i paesi arabi, dove non solo i nostri risparmi, i titoli del Tesoro, le azioni e obbligazioni statunitensi e i nostri investimenti negli Stati Uniti sono tenuti in ostaggio; anche la nostra riserva d'oro è trattenuta lì!"

 

E tutto il mondo ora si sta orientando verso l'oro.

Hanno paura di detenere dollari.

Le riserve in dollari delle banche centrali straniere sono rimaste stabili, mentre le riserve auree sono aumentate.

E molte riserve auree ufficiali straniere sono tenute fuori dai libri contabili.

Il governo deterrà le azioni di una società che ferma l'oro. Si può nascondere quello che stanno facendo, in modo che non venga mostrato in modo molto evidente che stanno scaricando il dollaro.

 

C'è una sorta di “danza Kabuki” in corso nelle statistiche finanziarie, così come nel lancio di bombe sui paesi.

Il complesso militare-industriale.

BEN NORTON:

 Michael, vorrei parlare del complesso militare-industriale perché un altro punto che hai sollevato in questo articolo, che è molto importante e che spesso viene tralasciato, è il modo in cui i contractor militari statunitensi traggono profitto da queste guerre, come abbiamo visto in quella che ora chiamano la guerra dei 12 giorni, tra Stati Uniti/Israele e Iran.

 

Lei ha sottolineato che l'Iran stava usando principalmente i suoi missili più vecchi. Stava svuotando la sua scorta di vecchi missili per colpire Israele e stava cercando di sopraffare il sistema di difesa aerea israeliana.

Ora, sappiamo che gli appaltatori militari statunitensi si sono vantati dell'equipaggiamento militare avanzato che gli Stati Uniti hanno dato a Israele, come l'”Iron Dome”, il sistema “David's Sling” e il sistema “Arrow”.

 

Le società statunitensi hanno beneficiato dell'aiuto alla progettazione di questi sistemi e della fornitura di missili e intercettori.

Così Israele ha speso molti milioni di dollari cercando di abbattere questi vecchi missili iraniani di cui l'Iran voleva salvare comunque.

Se la guerra fosse continuata, avrebbe ovviamente dissanguato sempre più risorse di Israele e degli Stati Uniti.

 

Ma come fai notare, questo è in realtà qualcosa di cui beneficia il complesso militare-industriale negli Stati Uniti, perché ciò che gli Stati Uniti chiamano "aiuto" che danno a molti paesi in realtà non è un aiuto;

 in realtà si tratta di contratti dati ad appaltatori privati statunitensi, e poi danno quell'equipaggiamento militare a Israele, o all'Egitto, o al Giappone, alla Corea del Sud e ad altri paesi.

 

Quindi puoi parlarci di più del ruolo del complesso militare-industriale e di come ha tratto profitto da tutto questo?

 

MICHAEL HUDSON:

Beh, questa è la chiave del dibattito al Congresso che si sta verificando ora sulla legge fiscale repubblicana.

L'enorme quantità di denaro che viene spesa per il complesso militare-industriale che, in fondo, le armi che producono non funzionano.

 

Abbiamo visto in Ucraina l'incapacità dei paesi della NATO di difendersi dai missili russi.

Abbiamo visto in Israele che l”'Iron Dome” è molto facilmente penetrato dall'Iran.

 

E l'Iran, già diversi mesi fa, lo ha dimostrato quando ha inviato due serie di razzi. Ha avvertito Israele:

 "Non vogliamo andare in guerra. Non vogliamo fare del male a nessuno, ma vogliamo solo dimostrarvi che possiamo bombardarvi quando vogliamo, e quindi sganceremo una bomba su questo particolare luogo; portare tutti fuori da lì;

Ti mostreremo solo che funziona. Cercate di abbatterci".

E l'hanno lasciato cadere.

Hanno fatto lo stesso con gli Stati Uniti, in Iraq, dicendo:

"Sai, non vogliamo davvero dover andare in guerra con te in Iraq.

Abbiamo perso un milione di iraniani che combattevano contro gli iracheni, quando voi mettevate Saddam Hussein contro di noi prima [nella guerra Iran-Iraq negli anni '80], ma dovreste sapere che possiamo spazzare via le vostre basi americane quando vogliamo.

 Ti diamo una dimostrazione.

Ecco una base che non è molto popolata.

 Stiamo per bombardarlo, quindi tirate fuori tutti;

 Non vogliamo che nessuno si faccia male.

Ti bombarderemo in una data o nell'altra Fate tutto il possibile per abbatterci". Fruscio! L'hanno bombardata.

L'America non poteva abbatterli.

 

Beh, l'”Iron Dome “ovviamente non funziona, né funziona la difesa militare americana.

Beh, il presidente Trump è appena uscito allo scoperto e ha detto:

"Aumenteremo enormemente il deficit di bilancio degli Stati Uniti creando una cupola di ferro negli Stati Uniti per 1 trilione di dollari".

 

Beh, immaginate di spendere un trilione di dollari per replicare il sistema che l'Iran e la Russia dimostrano di poter penetrare subito.

 

BEN NORTON:

Michael, questo si chiama “Golden Dome”. E le aziende di Elon Musk come “SpaceX” sono pronte a ottenere enormi contratti con il governo statunitense.

Si stima che centinaia di miliardi di dollari in totale saranno spesi per realizzare questo “Golden Dome” che non funzionerà nemmeno.

 

MICHAEL HUDSON:

Naturalmente, per Trump tutto è oro, non ferro. Avrei dovuto notarlo, proprio come le maniglie delle porte delle sue Trump Towers, ovviamente.

Quindi stiamo assistendo a questa fantasia.

Ciò che il complesso militare-industriale produce non sono armi da usare effettivamente in guerra.

Sono armi da barattare o vendere.

 

E, come hai sottolineato, oltre all'enorme quantità di spesa diretta del Congresso per l'acquisto di armi per l'esercito, la marina e i marines degli Stati Uniti, gli Stati Uniti forniscono aiuti esteri alla Corea del Sud, al Giappone e ad altri paesi, e questi aiuti esteri vengono spesi per acquistare armi militari statunitensi.

 

Questa soluzione non è inclusa nel bilancio militare americano, ma di fatto finanzia il complesso militare-industriale attraverso la porta di servizio, dando soldi agli alleati dell'America per acquistare armi americane, il che non funziona.

 

Bene, vi chiederete cosa stiano pensando ora questi alleati, soprattutto in Europa: è quasi imbarazzante vedere la NATO rifiutarsi di riconoscere il fatto che le armi americane che vuole acquistare e quelle europee che ha prodotto non sono semplicemente in grado di difendersi dalle armi russe e iraniane.

 

La tecnologia americana è arretrata perché le aziende del complesso militare-industriale hanno preso tutti questi enormi soldi che hanno pagato, i profitti che hanno realizzato, distribuendo dividendi e acquistando le proprie azioni.

 

Non lo hanno speso in ricerca e sviluppo.

 Il 92% di ogni dollaro che hanno viene riciclato per sostenere il prezzo delle loro azioni, non per produrre effettivamente armi.

 

Così, finanziarizzando il loro sistema militare, insieme all'economia industriale nel suo complesso, gli Stati Uniti si sono sostanzialmente de-industrializzati, e si potrebbe quasi dire disarmati, contro il resto del mondo, che in realtà spende i loro soldi militari in armi che funzionano, armi che sono destinate a funzionare, non semplicemente per fare profitti, per aumentare i prezzi delle azioni delle aziende militari-industriali.

 

BEN NORTON:

Sì, penso che sia davvero un'ottima conclusione. Potremmo continuare per un'altra ora, ma è meglio rimandare l'argomento a un'altra volta.

 

Michael, c'è qualcosa che vorresti consigliare alle persone che vogliono scoprire di più del tuo lavoro?

 

MICHAEL HUDSON:

Beh, ho il mio sito web, Michael-Hudson.com, e tutti i miei articoli sono lì, compreso quello che Ben ha appena menzionato.

Quindi potete leggere i miei commenti su tutto questo.

 

E il mio libro “Super Imperialismo” ha spiegato l'intera dinamica di tutto questo.

 

BEN NORTON:

Come sempre, Michael, è un vero piacere. Grazie per essere qui oggi, ci sentiamo presto.

 

MICHAEL HUDSON:

Beh, la discussione è stata al momento giusto. Grazie per avermi invitato. 

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