Differenza tra bugia e menzogna.
Differenza
tra bugia e menzogna.
Cronaca,
Editoriali, Interno, Politica.
Si vis
bellum spara balle.
Infosannio.com
– (27 giugno 2025) – Redazione - Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano – ci
dice:
L’unica
cosa seria che dovrebbe fare la Nato, non da oggi ma da quando sparì il Patto
di Varsavia, sarebbe sciogliersi per mancanza di nemici.
Invece,
da allora, se li inventa.
Anzi
li lascia inventare ai padroni Usa, che ogni due per tre sfornano un Impero del
Male:
l’Iran
sciita, l’Iraq sunnita, l’Afghanistan dei talebani (che piacevano tanto quando
combattevano i russi), l’Isis sunnita, di nuovo l’Iran sciita, gli alleati
della Russia come la Serbia di Milosevic e la Libia di Gheddafi, poi
direttamente la Russia.
Ora
però Trump s’è messo d’accordo con Putin, che gli ha dato una mano a placare
l’ira degli ayatollah e a trasformare la guerra all’Iran in una sveltina di una
notte, e può tornargli utile in Medio Oriente e con la Cina.
Infatti,
al vertice Nato dell’Aja, ha sbianchettato ogni accenno all’“aggressione russa
in Ucraina”:
è
rimasta solo la “minaccia” di Mosca, senza precisare per chi e perché, e una
postilla sulla Cina che era appena diventata buona contro i dazi trumpiani ed è
tornata cattiva perché si papperà Taiwan d’intesa con Mosca (come se “Xi”
avesse bisogno di Putin).
Quindi
spezzeremo le reni pure alla Cina, che però affaccia sul Pacifico mentre la
Nato è l’alleanza del Nord Atlantico (ma questo “Rutte & C.” lo scopriranno
solo se incontreranno un mappamondo).
Il
bello è che, mentre sparisce l’ultimo nemico rimasto, la Nato approva un
mostruoso piano di riarmo a carico dell’Europa, che non spendeva tanto dalla II
guerra mondiale (il 5% del Pil, mentre gli Usa restano al 3).
Per
difendersi da chi, nessuno lo sa.
Sempre dalla Russia, ripetono i trombettieri
del riarmo, costretti a inventarsi una balla al giorno per farci digerire un
salasso che avremmo rifiutato pure ai tempi della guerra fredda.
Dicono
che i russi le buscano in Ucraina, ma stanno per invadere Baltici, Finlandia,
Polonia e Germania (come minimo);
però
si scordano di spiegare che cosa se ne farebbe Putin, perché mai dovrebbe
attaccare gli amici dell’amico Trump e con quali forze respingerebbe i 32
eserciti Nato.
Dicono
che gli Usa si sono stufati di mantenere la nostra difesa, come se le loro basi
in Europa fossero un favore a noi e non un interesse loro (infatti non han
ritirato un marine, un missile, una testata nucleare).
Dicono
che il 5% non è poi così male perché non sono mica armi (infatti i produttori
di carri armati, missili, bombe e bombardieri volano in Borsa), ma
cybersicurezza e infrastrutture tipo Ponte sullo Stretto, utilissimo ai nostri
soldati per fermare gl’invasori russi tra Scilla e Cariddi.
In
pratica il “ragionier Ugo Rutte” e gli altri “lecca-Donald” prima ci rapinano
col riarmo, poi con calma decideranno a cosa serve.
Ad
aprile Trump disse: “C’è la fila per baciarmi il culo”.
Parlava dell’Europa, alla memoria.
Qual è
il confine tra
bugia
e inganno?
Agazineunibo.it
– (10 Febbraio 2021) – Redazione – ci dice:
La
comunicazione disonesta può favorire la diffusione della disinformazione. Ma
mentre è possibile ingannare attraverso l’uso di insinuazioni, supposizioni o
domande, solo un’affermazione, con il carico di responsabilità che comporta,
può essere una vera e propria menzogna.
Fake
news, “fatti alternativi”, inganni, raggiri, promesse mancate.
Negli ultimi anni è diventato evidente a tutti
quanto forme di comunicazione disonesta possano favorire la diffusione della
disinformazione, con conseguenze pericolose.
Ma
qual è il confine tra bugia e inganno?
E che cos’è, esattamente, una menzogna?
La
questione a prima vista sembra semplice, ma nasconde molte insidie.
Una
proposta di definizione arriva ora con due studi firmati da “Neri Marsili”,
ricercatore al Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di
Bologna: uno pubblicato sulla rivista “Synthese” e uno sulla rivista “Erkenntnis”.
La
risposta?
Si può
parlare di "menzogna” vera e propria solo quando chi parla si assume la
responsabilità della verità di ciò che ha detto, per mezzo di un'affermazione
insincera.
Bisogna quindi distinguere le affermazioni -
che possono essere menzogne vere e proprie - da altre forme di discorso come
insinuazioni, suggerimenti, supposizioni, consigli e domande, che possono
invece essere utilizzate per ingannare l’interlocutore, ma non possono essere
considerate vere e proprie bugie.
"Per
molti, essere accusati di aver ingannato senza però aver mentito è comunque
preferibile al veder macchiata la propria reputazione con una menzogna vera e
propria:
si
tratta di un’idea che ha radici antiche, è stata difesa da Sant’Agostino e poi
da San Tommaso, fino ad arrivare alla tradizione moderna con Kant", spiega
Marsili. "Ed
è una distinzione che oggi ha anche valore legale in molti ordinamenti
giuridici:
negli
Stati Uniti, ad esempio, la menzogna viene punita severamente in sede
processuale, ma c’è maggiore tolleranza per le testimonianze che magari sono
ingannevoli, ma risultano letteralmente vere".
Molti
tra linguisti, filosofi e giuristi hanno tentato di tracciare un confine netto
tra la menzogna e altre forme di inganno, ma con risultati mai del tutto
soddisfacenti. Mentire significa dire il falso con l’intenzione di ingannare?
Oppure dire qualcosa che crediamo falso
volendo far credere al nostro interlocutore che quel che abbiamo detto sia
vero?
O ancora dire qualcosa con l’intenzione di
comunicare che quel che abbiamo detto sia vero, pur sapendo che è falso?
"Tutte
queste definizioni risultano in realtà imprecise, perché non tengono conto del
fatto che per mentire è necessario prima di tutto affermare qualcosa: solo le
affermazioni possono essere menzogne", precisa Marsili.
"Se
lascio intendere qualcosa di falso, per esempio per mezzo di un’insinuazione,
una supposizione, una scommessa, o anche una domanda, posso certamente
ingannare il mio interlocutore, ma quello che dico non può definirsi, in senso
stretto, una menzogna".
Quando
facciamo un’affermazione ci assumiamo infatti la responsabilità del fatto che
quello che diciamo sia vero.
Se
quello che abbiamo detto si rivela falso la nostra credibilità sarà
danneggiata: ne va della nostra reputazione.
Nel caso di ipotesi, supposizioni o domande,
anche ingannevoli, non ci sono invece conseguenze così nette.
La
distinzione tra la menzogna e altri tipi di inganno sembra dunque essere
fondata sulle diverse responsabilità legate a queste diverse forme di
comunicazione.
"Questo
spiegherebbe anche perché alla menzogna sia assegnata una valenza morale
particolare", dice in conclusione Marsili.
"Chi mente fa leva sulla propria
reputazione per far credere qualcosa di falso, ma nel semplice inganno questo
invito esplicito a credere 'sulla parola' non è presente".
Menzogna:
una linea sottile tra ciò
che è
reale e quello che non lo è.
Guidapsicologi.it
– (6 ottobre 2023) – Dott.ssa Nicoletta Del Monaco -Relazioni sociali- ci dice:
Almeno
una volta nella vita, ognuno di noi, si è trovato costretto, per svariati
motivi e in differenti contesti a dover raccontare qualche bugia che possa
essere piccola o grande.
Ma
cosa significa mentire?
Menzogna:
una linea sottile tra ciò che è reale e quello che non lo è
A volte lo si fa per sfuggire dall'eseguire un
semplice compito, altre volte per evitare conflitti all'interno delle nostre
relazioni (amicali, amorose, familiare e lavorative) o ancora, può capitare, di
farlo semplicemente per non volerci assumere le nostre responsabilità etc.
Ma
quando, raccontare una menzogna rientra in casi clinici significativi?
Quando
essa diventa una brutta abitudine di vita.
Perché
mentiamo?
Come
da premessa, tutti noi abbiamo raccontato qualche bugia nel corso della nostra
esperienza di vita in quanto, molto spesso, questa tendenza, può rivelarsi
essere un efficace alleato nel superare difficoltà quotidiane.
In
questi casi, quando mettiamo in atto questa tendenza, indipendentemente dalla
reale motivazione per cui lo facciamo, siamo coscienti e consapevoli della non
realtà dei fatti raccontati.
Pertanto,
potremmo trovarci a raccontare:
Bugie
bianche o a fin di bene volte a tutelare l'altra persona, come ad esempio
quando una nostra amica ci chiede un parere sul suo nuovo taglio di capelli e
noi, per evitare che possa rimanerci male, confermiamo di come le stia bene,
nonostante il nostro pensiero possa essere opposto;
Bugie
sfacciate raccontate con un'espressione facciale seria e un tono della voce
convincente, ma che non ingannano l'interlocutore;
Bugie
grosse per convincere l'interlocutore/ascoltatore di un grande evento
nonostante esse vengano contraddette da ciò che l'altro sa essere vero o dal
suo buon senso.
In
questi casi il nostro interlocutore/ascoltatore fa fatica a credere che
qualcuno possa raccontare una menzogna su qualcosa di così importante o grosso;
Bugie
da commiato usate per concludere delle conversazioni;
Bugie
fabbricate che corrispondono in parte a verità, utilizzate molto spesso per
accrescere l'effetto di ciò che si racconta;
Bugie
esagerate usate per enfatizzare un'affermazione reale rendendola ancor di più
significativa;
Bugia
onesta utilizzata quando ad esempio si ricorda un evento in modo sbagliato.
Cos'è
la mitomania?
A
questa serie di menzogne, potremmo però aggiungervene altre che tendenzialmente
appaiono estreme in cui, il confine fra bugia e realtà, appare confuso
soprattutto per colui che le racconta.
In questo caso, il mitomane (colui che crea una realtà
fittizia), dà adito alle proprie bugie credendo a ciò che esse raccontano,
cercando di imporre la "propria realtà" agli altri con fermezza e
convinzione.
Per
chi soffre di mitomania si genera una vera e propria dipendenza dalle menzogne
che si alimenta costantemente con ulteriori bugie, creando un vero e proprio
circolo vizioso.
In tal
caso, il mitomane non riesce a smettere di raccontare menzogne in quanto questa
dipendenza crea, a volte, senza un motivo ben preciso, un bisogno fisiologico
per essere accettati, come risposta ad una pressione sociale percepita da lui
stesso come insopportabile, per nascondere le proprie debolezze, come
protezione dal giudizio altrui, per suscitare ammirazione, stima e in alcuni
casi compassione o anche per accrescere la propria autostima evidenziando,
molto spesso, i propri tratti narcisistici.
Questa
tendenza a mentire non crea difficoltà solo a colui che mente, ma anche a chi
gli sta vicino come amici, partner, familiari e colleghi i quali rappresentano
le vittime principali.
Parlando
di una vera e propria dipendenza dalle menzogne, il mitomane, laddove dovesse
venire scoperto non riesce ad ammettere di aver mentito e per questo, di fronte
ad una grande crisi interiore, tenderà a continuare ad affermare i suoi
racconti e a reagire in maniera aggressiva.
Cos'è
la mitomania?
A tal
proposito possiamo definire il mitomane, una persona che può presentarsi come
aggressiva, con un'immagine di sé negativa, privo di empatia, con scarse
capacità di instaurare un legame affettivo con l'altro, con difficoltà nel
ripetere la stessa bugia in maniera esatta, convinto di avere sempre ragione,
intollerante, impaziente, egocentrico e con una posizione corporea "da
fuga" che li porta a gesticolare, toccarsi costantemente i vestiti quando
mentono, abbassare la testa durante il racconto ecc.
Nel
parlare di queste forme di bugie estreme è necessario fare una distinzione tra
le due tipologie principali di bugiardi quello compulsivo ed il bugiardo
patologico:
Il
bugiardo compulsivo è una persona che tende a dare una versione alterata della
realtà senza uno scopo preciso. Assume questo comportamento perché gli risulta
naturale e perché si sente a suo agio nel farlo, senza avere un'intenzione
manipolatoria.
Mentono
solo se in difficoltà o a disagio.
Sono
insicuri.
Non
sono manipolativi.
Tollerano
le critiche.
Provano
rimorso delle bugie dette, ma non riescono a non mentire.
Sono
capaci di relazioni affettive mature.
Il
bugiardo patologico è colui che mente per uno scopo preciso sena preoccuparsi
delle conseguenze del suo comportamento.
Generalmente
si presenta come un vincitore dalla vita perfetta, mostra una realtà diversa
dalla sua per riuscire ad essere elogiato e accettato dal proprio
interlocutore.
Manipolativi,
egoisti, con scarsa empatia.
Provocano
problemi e dolore a chi lo circonda.
Presentano
un ego smisurato di sé.
Mentono
gratuitamente, anche se non necessario.
Sono
seduttivi e disinibiti.
Non
provano nessun rimorso.
Come
precedentemente accennato, è difficile non solo per chi mente ma anche per chi
subisce le menzogne vivere a contatto con bugiardi costanti.
Non essendoci modi realmente effettivi per
capire se una persona ci stia mentendo o meno, è possibile adottare alcune
strategie tramite le quali si potranno osservare degli indicatori specifici.
Ciò che sarebbe opportuno fare, nel momento in
cui entriamo in contatto con una persona della quale non riusciamo a fidarci è
farla parlare, ponendole domande sui fatti narrati e chiedendo, laddove
necessario, ulteriori chiarimenti.
Nel momento in cui, il presunto bugiardo, racconta la
propria realtà possiamo fare affidamento ad alcuni indicatori quali:
Uso di
un linguaggio impersonale in cui vengono evitati nomi propri.
Utilizzo
di intercalari e pause per avere il tempo di pensare a cosa dire.
Evasività
nelle risposte in caso di domande.
Utilizzo
di frasi specifiche come "per dirti la verità…" o "per essere
onesti…" all'inizio del discorso.
Quando
riconoscete in una persona la patologia del bugiardo patologico è necessario
cercare di portarlo verso un processo di consapevolezza attraverso un percorso
di psicoterapia, cercando, allo stesso tempo di non assecondarlo più e
allontanandosi da lui attraverso il no contact.
Inoltre,
alla base delle bugie potrebbero in realtà esserci altri disturbi psicologici
importanti, per cui bisogna sempre avvicinarsi con le giuste tempistiche ed
appropriate metodologie.
.
LA
BUGIA COME STRUMENTO DEL POTERE.
It.linkedin.com
- Post di Salvatore Rizzo & C.- C.I.O./Controller presso C.D.S. S.p.A –
(10-01-2025) – ci dice:
“Mentire
continuamente non ha lo scopo di far credere alle persone una bugia, ma di
garantire che nessuno creda più in nulla.
Un
popolo che non sa più distinguere tra verità e menzogna non può distinguere tra
bene e male.
E un
popolo così, privato del potere di pensare e giudicare, è, senza saperlo o
volerlo, completamente sottomesso all’impero della menzogna.
Con
persone come queste, puoi fare quello che vuoi.“
(Hannah
Arendt, storica e filosofa tedesca, sviluppò il concetto di “la banalità del
male”).
SE
SIAMO TUTTI DENTRO A UN KARAOKE.
Post
di Gabriella Ambrosio.
Ero
molto giovane quando mi ritrovai per la prima volta fra le mani un saggio dal
titolo affascinante, “Il potere dei senza potere”.
In una nota, l’editore avvertiva d’averlo
tradotto all’insaputa del suo autore, “Vaclav Havel”: dissidente del regime
sovietico, in quel momento era in prigione a Praga.
Nel
libro si sosteneva che qualsiasi sovvertimento positivo della realtà può
nascere da una presa di coscienza e un atto individuale:
“Nessuno
sa quando una qualsiasi palla di neve può provocare una valanga”.
E che
per combattere l’ideologia e il potere non servono un’altra ideologia e potere:
basta pensare e muoversi e vivere dentro la verità.
Questo
fu per me un mantra in un’età in cui, appena finiti gli studi di filosofia,
lavoravo come giornalista di cronaca, e nutrivo la velleità di dare voce a chi
non ne aveva una - il potere dei senza potere - e di inseguire ogni giorno la
verità.
Ma
oggi, in un mondo dominato da strapoteri sovranazionali controllanti, abbiamo
un problema in più riguardo la "verità":
siamo
capaci di riconoscere cosa è autentico?
C’è troppo chiasso intorno per capirlo.
Il
potere di chi ha potere opera indisturbato una continua manipolazione delle
parole, manomettendole, stravolgendole, abusandole, svuotandole di significato.
Faccio
un piccolo ma famoso esempio di abuso del significato, che riguarda il nostro
Paese e la nostra lingua (in alcuni campi siamo degli apripista): se ricordate,
a un certo punto abbiamo cominciato a parlare di libertà al plurale. Improvvisamente non esisteva più la
libertà, ma le libertà: una delle aspirazioni più alte dell’umanità era stata
ridotta di colpo ad arbitrio e piccolo potere individuale.
Quando
la parola scivola così nel buco nero delle demagogie e del camuffamento del
potere, si sporca, invischia e inghiotte ogni pensiero e movimento che possa
essere autenticamente contrario.
Le
parole sono indispensabili per raccontare a noi stessi e agli altri la nostra
storia e disegnare i nostri desideri.
Sono
il pilastro di ogni costruzione, mentale, etica, sociale, politica.
Quale
consapevolezza possiamo raggiungere, quale visione alternativa, quale capacità
di rovesciare il tavolo, se veniamo scippati dell’unica maniera che abbiamo per
condividere il significato delle cose?
Se i
mezzi di comunicazione più diffusi, ovunque nel mondo, continuano a lavorare a
cavallo fra bieca informazione e bieco intrattenimento, in piena confusione
semantica, quale scampo ci resta?
Sono
stata fra i primi a credere che il web sarebbe stato capace di aprire un vero,
grande e funzionale squarcio, di diluire l’inquinamento verbale, ripulire la
parola, ridare il potere ai senza potere.
Di
costruire ogni giorno, con il confronto e il dialogo fra mondi lontani, una
società vera, pulita e consapevole, capace di dare un senso nuovo alla parola
democrazia e rendere migliori noi stessi e il mondo.
Al
momento però non vedo luce.
Non so
voi, che il web come me lo frequentate.
MANIPOLAZIONE
CHE DIVENTA TERRORE.
Post
di Enzo Passaro.
L’autore
de “Il Principe”, con il suo proverbiale e spietato pragmatismo, ci svela una
verità scomoda: chi detiene il potere può usare la manipolazione per instillare
timore e mantenere il controllo. E spesso lo fa, sapendo di farlo.
Un
esempio storico?
Il
regime del terrore instaurato da Robespierre durante la Rivoluzione Francese.
Con la scusa di difendere la rivoluzione, Robespierre utilizzò la ghigliottina
come strumento di repressione, instaurando un clima di paura e sospetto che
paralizzò l'intera popolazione.
Avere
competenze in ambito neurolinguistico ci permette di individuare le parole che
vengono usate come armi, per influenzare, condizionare, intimidire.
Un
capo manipolatore, infatti, sa usare il linguaggio per creare un clima di
incertezza e timore, per imporre la sua volontà e soffocare il dissenso.
Ma proprio conoscendo le tecniche di
manipolazione, possiamo difenderci meglio e promuovere un uso più etico e
responsabile del linguaggio.
Ma il
potere non è solo coercizione, anche se le imminenti presidenziali a stelle e
strisce sono state esasperanti in tal senso.
Esiste
anche un potere "buono", basato sulla fiducia, il rispetto, la
collaborazione. Il potere della leadership che ispira e motiva, invece di
opprimere.
Post
di Silvia Pedretti.
Il
problema dei tre corpi: riflessioni su potere e responsabilità
"Il problema dei tre corpi" di Liu Cixin,
bestseller da cui è tratta una recente serie Netflix di successo, affascina
poiché tutti noi siamo continuamente immersi in questioni di difficile
soluzione.
Tra
queste, spiccano il problema dell’uguaglianza e quello della giustizia,
strettamente legati alla dinamica del potere.
Il
potere corrompe quando diventa capacità di condizionare o determinare il
comportamento degli altri per mettersi al riparo dalle rappresaglie, rendendo
impossibile la vendetta dopo un’ingiustizia o il tradimento dei principi di
lealtà e solidarietà.
Più la
struttura gerarchica è rigida ed immutabile, più chi sta in alto diventa
intoccabile: su chi detiene il potere non è possibile la rappresaglia.
Nel
testo si associa il potere che corrompe, come strategia per scongiurare le
rappresaglie, da una parte al rifiuto della trasparenza ed all’assenza di
responsabilità dall'altra.
Vi
ricorda qualcosa? Occultamento della verità, rifiuto delle responsabilità,
negazione degli effetti negativi delle proprie decisioni: sono i principi
immutabili dell’autoritarismo!
Eppure, c’è una strada, propriamente umana, che passa
dalla trasparenza e dalla responsabilità.
Per
questo, il potere che salva è il potere legato alla verità ed al farsi carico
delle conseguenze del proprio operare.
Penso
che trasparenza e responsabilità non siano solo ideali, ma pratiche quotidiane
che possono trasformare il modo di esercitare il potere.
Perché
il potere responsabile è
l'unica
forma di potere ammissibile.
(vita.it)
Post
di Nicola Moiraghi.
"La
politica, spesso, ci appare come un teatrino dell'assurdo. Un luogo dove le
parole, vuote e fumose, sostituiscono i fatti. Dove la retorica, quella bella e
scintillante, è usata come un narcotico per placare le masse. Ma la politica
non dovrebbe essere questo. Non dovrebbe essere un gioco di prestigio, un
inganno ben orchestrato.
La
politica, al contrario, dovrebbe essere l'arena dove si confrontano idee
diverse, dove si cerca il bene comune, dove si costruisce il futuro. La
politica è, o dovrebbe essere, l'alternativa alla menzogna, alla manipolazione,
alla propaganda. È il luogo dove la verità, anche se scomoda, deve prevalere.
Ognuno
di noi, in questo gioco complesso, è un ago. Un ago che può scegliere se
lasciarsi infilzare nella cruna della mediocrità, dell'indifferenza,
dell'accettazione passiva, oppure se farsi strada, con forza e determinazione,
verso la libertà.
La
libertà non è un dono, non ci viene data. La libertà si conquista, giorno dopo
giorno, con le nostre scelte, con le nostre azioni, con la nostra voce. Non
deleghiamo ad altri la responsabilità di pensare al nostro posto, di decidere
per noi. Siamo noi i protagonisti della nostra storia.
È
tempo di risvegliarsi dal torpore, di uscire dall'ombra, di prendere in mano il
nostro destino. È tempo di dire basta alla politica come spettacolo, di esigere
una politica fatta di sostanza, di proposte concrete, di visioni lungimiranti.
È tempo di diventare protagonisti attivi di un cambiamento profondo e radicale."
LA
VERITA' CI RENDE LIBERI?
ASSOLUTAMENTE
NO!
Post
di Pasquale Foglia.
La
verità ci rende liberi? Perché non lo chiediamo a Giordano Bruno o a Galileo
Galilei, o anche a Joseph Goebbels?
La
verità non può renderci liberi perché non esiste la verità assoluta o dogma.
Anzi
c'è il rischio che la presunta verità ci renda vittime o carnefici in quanto
genera fanatismo!
La
storia ci insegna che tutte le ideologie crollano inesorabilmente a distanza di
tempo e si afferma quella opposta, come è accaduto tra il comunismo e il
capitalismo!
Ogni
parola può esistere solamente se c’è anche il suo contrario. Esiste forse la
luce senza il buio, il caldo senza il freddo, l'inspirazione senza
l’espirazione, la sistole senza la diastole, l’afelio senza il perielio,
l'intelligenza senza l'ottusità, l'abilità senza la disabilità, l'attenzione
senza la distrazione, la felicità senza l'infelicità, il bene senza il male, la
pace senza la guerra?
Creando
un nuovo termine si genera automaticamente anche il suo contrario.
La
verità dunque convive con la falsità!
Ricordiamoci
dei “vax” e dei “no vax”.
In un
primo tempo sono prevalsi i vax, e guai a chi non si vaccinava; ma a distanza
di due-tre anni la verità è venuta a galla.
Il
contrasto tra due o più persone è causato proprio dalla coesistenza di verità e
falsità.
Secondo
me, ogni parola per esistere deve potersi trasformare nel suo opposto, proprio
come fa il giorno che si trasforma nella notte e viceversa.
Le
ragioni per Cui Diciamo le Bugie:
La
Psicologia Dietro le Menzogne-.
Klinikos.eu
- Redazione – (Giugno 25, 2025) – ci dice:
Mentire
è un comportamento che accomuna molti esseri umani.
A
volte si tratta di piccole bugie bianche, altre volte di vere e proprie
menzogne, capaci di influenzare relazioni, lavoro e benessere personale.
Ma
perché si dicono le bugie? Quali sono i meccanismi psicologici che ci spingono
a non dire la verità?
La
risposta non è mai semplice, perché dietro ogni menzogna si nascondono
motivazioni profonde legate alla nostra psicologia, al nostro passato e al
contesto in cui viviamo.
Spesso
il desiderio di proteggere sé stessi o gli altri, la paura del giudizio, il
bisogno di approvazione o, in alcuni casi, dinamiche più complesse legate a
veri e propri disturbi psicologici, possono portarci a mentire.
Quali
sono le principali cause che ci spingono a dire bugie e quali e implicazioni
emotive e relazionali ne derivano, scopriamolo insieme.
Cosa
Spinge le Persone a Mentire: Le Cause Psicologiche.
Quando
ci chiediamo perché mentiamo, è importante considerare che le motivazioni della
menzogna non sono sempre consapevoli o intenzionali.
La
psicologia della bugia ci insegna che il mentire spesso nasce da meccanismi
cognitivi profondi e da vere e proprie difese psicologiche attivate per gestire
emozioni che non riusciamo a controllare.
La
menzogna può servire a proteggere sé stessi, a evitare situazioni spiacevoli o
a raggiungere determinati obiettivi, ma ogni bugia ha dietro di sé una sua
ragione ben precisa.
Vediamo
insieme quali sono le principali motivazioni che si celano dietro alle bugie.
La
Paura del Conflitto e del Giudizio.
Molte
volte, le persone mentono per evitare conflitti o per il timore del giudizio
altrui.
L’ansia
sociale gioca un ruolo centrale: chi teme di essere criticato o rifiutato può ricorrere
alla menzogna per proteggersi.
In
questi casi, le bugie rappresentano una forma di difesa dell’Io, utile a
ridurre la tensione che nasce nei rapporti interpersonali, specialmente in
situazioni ad alto rischio emotivo.
Protezione
dell’Immagine di Sé.
Spesso
le bugie servono a salvaguardare la propria immagine sociale e l’autostima.
In
presenza di un’autostima fragile, la persona può cercare di costruire una
realtà idealizzata che maschera insicurezze e fallimenti.
Questo
processo di autoinganno consente di mantenere una percezione positiva di sé e
di ricevere conferme dall’ambiente esterno, evitando di mostrare vulnerabilità
o debolezze.
Desiderio
di Ottenere Vantaggi o Manipolare.
In
alcuni casi, la menzogna viene usata come vera e propria strategia di
manipolazione.
Chi
mente per vantaggi personali o per esercitare un certo controllo sugli altri
agisce con una logica opportunistica.
Le
bugie a fini opportunistici vengono messe in atto in modo deliberato per
ottenere benefici materiali, relazionali o professionali.
Paura
delle Conseguenze.
Un’altra
spinta frequente alla menzogna è la paura delle punizioni o delle conseguenze
negative.
In
questo caso, la persona mente per evitare responsabilità e per sfuggire a
situazioni che potrebbero generare sensi di colpa o sanzioni.
È un
tipico esempio di meccanismo di evitamento, che permette di aggirare
temporaneamente il problema senza doverlo affrontare direttamente.
Mentire
per Proteggere gli Altri (Le “Bugie Bianche”).
Non
tutte le bugie nascono da intenti egoistici.
Le
cosiddette bugie bianche hanno spesso una funzione positiva: vengono dette per
non ferire i sentimenti degli altri o per evitare di generare sofferenza
inutile.
In
questi casi, la compassione e l’empatia spingono la persona a scegliere la
menzogna come forma di tutela verso chi le sta vicino, anche se comporta una
deviazione dalla verità.
Automatismi
e Abitudini Apprese.
A
volte il mentire diventa un vero e proprio comportamento appreso, frutto di
schemi comportamentali consolidati nel tempo.
In
alcuni contesti educativi o familiari, la bugia può essere stata premiata o
tollerata, trasformandosi così in un’abitudine automatica.
Questi
schemi automatici spesso si radicano senza che la persona ne sia pienamente
consapevole.
Disturbi
Psicologici e Bugie Patologiche.
Infine,
esistono casi in cui il ricorso alla menzogna assume i contorni di una vera e
propria psicopatologia della menzogna.
La
mitomania, il disturbo borderline di personalità o il disturbo narcisistico
sono condizioni in cui le bugie patologiche diventano parte integrante del
funzionamento mentale.
In
questi casi la menzogna compulsiva richiede spesso un intervento specialistico
per essere compresa e trattata.
Quali
Conseguenze Ha il Mentire a Lungo Termine.
Anche
se nell’immediato può sembrare una soluzione efficace, mentire a lungo termine
comporta inevitabilmente effetti negativi sul piano emotivo, relazionale e
psicologico.
Ogni
menzogna, infatti, genera un accumulo di tensioni interiori e rischia di minare
alla base la qualità dei rapporti interpersonali.
La
rottura della fiducia rappresenta forse il danno più evidente: una volta
scoperta la bugia, la persona tradita fa fatica a credere nuovamente all’altro,
compromettendo spesso in modo irreparabile il legame.
Sul
piano individuale, il costante ricorso alla menzogna alimenta un forte senso di
colpa e un crescente stress emotivo.
Mantenere
in piedi versioni alternative della realtà richiede uno sforzo cognitivo
importante, che può portare nel tempo a stati di ansia, insonnia e persino
episodi depressivi.
Chi
mente abitualmente finisce spesso per isolarsi, temendo che la verità possa
emergere in ogni momento, con il rischio di perdere affetti, credibilità e
relazioni significative.
In
alcuni casi, l’abitudine alla menzogna porta anche a una progressiva perdita
del contatto con il proprio io autentico.
Non è
raro che la persona inizi a confondere realtà e finzione, generando una
condizione di profondo disorientamento psicologico.
Quando
le Bugie Diventano un Problema Psicologico.
Non
tutte le menzogne indicano un disturbo, ma esistono situazioni in cui la
tendenza a mentire diventa ricorrente, incontrollabile e fonte di sofferenza.
In
questi casi è importante riconoscere i segnali che indicano un possibile
bisogno di aiuto.
Quando
la persona non riesce più a gestire il proprio comportamento menzognero, o
quando le bugie iniziano a compromettere la qualità della vita e delle
relazioni, può essere il momento di valutare un percorso di supporto
psicologico.
La
menzogna patologica spesso si manifesta con un bisogno compulsivo di alterare
la realtà anche in assenza di reali benefici.
A
differenza delle bugie occasionali, qui il comportamento diventa una strategia
costante, quasi automatica, difficilmente controllabile senza un intervento
mirato.
In
questi casi la consulenza psicologica rappresenta uno spazio sicuro dove poter
indagare le cause profonde della difficoltà e lavorare su eventuali fragilità
emotive, dinamiche relazionali compromesse o disturbi della personalità
sottostanti.
Rivolgersi
a un professionista di Klinikos a Roma consente non solo di capire le radici
del problema, ma anche di intraprendere un percorso di consapevolezza e
cambiamento.
Attraverso
il giusto supporto professionale, è possibile superare la dipendenza dalla
menzogna e costruire relazioni più autentiche e serene.
Come
la Psicoterapia Può Aiutare a Gestire la Tendenza a Mentire.
Cercare
di far fronte alla propria difficoltà nel dire la verità richiede spesso un
lavoro profondo di autoconsapevolezza e di rielaborazione delle emozioni.
La
psicoterapia clinica rappresenta uno strumento efficace per comprendere le
ragioni della tendenza a mentire e avviare un reale cambiamento
comportamentale.
Non si
tratta soltanto di interrompere l’atto del mentire, ma di lavorare sui
meccanismi interiori che alimentano la necessità di costruire realtà
alternative.
Durante
il percorso psicologico, il terapeuta aiuta la persona a riconoscere le proprie
vulnerabilità, a gestire l’ansia e la paura che spesso si nascondono dietro le
bugie e a sviluppare nuove modalità di relazione più autentiche e trasparenti.
Attraverso
specifiche tecniche terapeutiche, è possibile esaminare le emozioni che
spingono a mentire e favorire una maggiore padronanza sul proprio vissuto.
La
terapia per le menzogne lavora anche sulla gestione dei pensieri automatici e
sulla ricostruzione della fiducia in sé stessi e negli altri.
Con il
tempo, la persona può imparare a tollerare l’esposizione alla verità senza
percepirla come una minaccia, consolidando così relazioni più stabili e
soddisfacenti.
Conclusione.
La
menzogna, per quanto possa sembrare a volte un meccanismo semplice per gestire
situazioni difficili, nasconde sempre dinamiche complesse legate alla nostra
psicologia e al nostro mondo emotivo.
A
volte capire perché mentiamo è il primo passo per riconoscere eventuali
fragilità interiori e per lavorare su un cambiamento duraturo.
Quando
la tendenza a mentire diventa frequente e difficile da controllare, rivolgersi
a un percorso di psicoterapia clinica significa iniziare un percorso di
cambiamento.
Attraverso
il sostegno di un professionista, è possibile acquisire strumenti concreti per
elaborare le emozioni, superare le paure che alimentano la menzogna e costruire
relazioni basate sulla trasparenza e sull’autenticità.
Il
bugiardo patologico, come si
riconosce:
il profilo psicologico.
Santagostino.it
– Redazione - (10 Ottobre 2023) – ci dice:
Quando
una persona mente in modo patologico? Come si comporta? Come è possibile
aiutarla a cambiare?
Il
bugiardo patologico è un individuo le cui bugie vanno oltre la semplice
distorsione della realtà.
Se,
infatti, dire qualche bugia o adattare la realtà in alcuni suoi aspetti può
capitare a tutti, per alcune persone mentire assume caratteristiche estreme,
diventando una vera e propria patologia, un disturbo psicologico.
In
questo articolo, tratteremo di come sia possibile riconoscere un bugiardo
patologico e delle possibilità per correggere il suo comportamento.
Quando
la bugia diventa patologica?
Una
bugia è patologica se va oltre il semplice adattamento della realtà.
Mentire
in modo patologico significa mentire in modo continuo e sistematico, senza un
motivo apparente o per ottenere benefici specifici.
Come
si comporta un bugiardo patologico?
I
bugiardi patologici sono molto abili e convincenti nel mentire.
Tuttavia,
nel tempo, le loro storie iniziano a cadere sotto il peso delle contraddizioni
o della mancanza di prove.
Alcuni sintomi comuni che contraddistinguono
il comportamento di un bugiardo patologico includono:
menzogne
continue e sistematiche:
l’abitudine
di mentire è costante e può arrivare a interferire in modo significativo nella
vita quotidiana del bugiardo patologico e nelle sue relazioni con gli altri.
Nessun
rimorso riguardo agli effetti delle bugie:
a differenza delle persone che occasionalmente
mentono e possono sentirsi in colpa o preoccupate per le conseguenze delle loro
bugie, il bugiardo patologico rimane in genere insensibile agli effetti che la
sua menzogna può avere su coloro che lo circondano.
Bugie
complesse e convincenti:
le bugie di un bugiardo patologico sono spesso
intricate e ben costruite.
Sono
in grado di inventare storie dettagliate e credibili che possono facilmente
ingannare gli altri.
Tendenza
a evitare di parlare sinceramente di sé stessi:
chi
mente in maniera sistematica preferisce mantenere un certo grado di mistero
sulla propria vita ed è riluttante a condividere informazioni personali
autentiche:
segni
di depressione, ansia o altri disturbi psicologici: la bugia patologica può
essere associata a problemi emotivi e psicologici sottostanti.
Perché
i narcisisti sono bugiardi?
Un
bugiardo cronico spesso può avere dei tratti di personalità narcisistica.
La tendenza a mentire in modo patologico,
infatti, si accompagna a delle caratteristiche che sono anche del narcisismo:
bisogno
di validazione:
il
narcisista è animato dall’insaziabile bisogno di essere approvato e ammirato
dagli altri.
Per
soddisfarlo, tende a creare un’immagine idealizzata e grandiosa di sé
attraverso le bugie.
Insicurezza:
il
narcisista vive con la costante paura di essere scoperto per ciò che è
realmente. Ha
problemi di autostima, ma cerca tenacemente di nascondere queste insicurezze
agli altri.
Le
bugie rappresentano uno strumento per prevenire che gli altri vedano le sue
vulnerabilità.
Manipolazione:
il narcisismo
è caratterizzato dal tentativo di controllare le situazioni e le persone per
ottenere ciò che si vuole. Mentire, in questo senso, è un modo per modellare la
realtà secondo i propri desideri e per avere il controllo sulle situazioni a
proprio vantaggio.
“Egocentrismo:
le
personalità narcisistiche vivono in una realtà distorta di cui si sentono il
centro indiscusso.
Mentono
per creare una narrazione che le metta in una posizione di superiorità rispetto
agli altri e giustifichi le loro azioni.
Assenza
di empatia nei confronti degli altri:
il narcisista non si preoccupa delle
conseguenze delle sue bugie sugli altri.
È
interessato a soddisfare i propri bisogni e desideri personali, anche se ciò
significa danneggiare gli altri.
Quando
un bugiardo patologico viene scoperto?
Quando
si sospetta che qualcuno stia mentendo in modo patologico, l’istinto è quello
di cercare di verificare la veridicità delle storie che racconta e di metterlo
alle strette.
In che
modo si può smascherare un bugiardo?
Ci
sono varie strategie che possono essere attuate:
contraddizioni
nelle storie:
non di rado nelle narrazioni di un bugiardo
patologico emergono delle incongruenze.
Si può
trattare di cambiamenti nella sequenza degli eventi raccontati o nella
descrizione dei personaggi coinvolti oppure di altre imprecisioni che lasciano
trapelare che si tratta di una messa in scena.
Un
buon modo per cercare di appurare la coerenza delle storie è fare domande
dettagliate o chiedere ulteriori informazioni su eventi specifici.
Verifica
attraverso fonti esterne:
un
altro modo per verificare le storie raccontate da una persona bugiarda è
rifarsi a fonti esterne.
Ad
esempio, parlare con altre persone coinvolte nella vicenda per ottenere
conferme o smentite.
Comportamento
evasivo:
chi
mente tende a mostrarsi sfuggente quando gli vengono poste domande approfondite
o richieste di ulteriori informazioni.
Rilevare
questi segnali comportamentali è un indizio per capire che si ha a che fare con
un bugiardo.
Segni
di nervosismo:
quando
un bugiardo patologico si trova sotto pressione, potrebbe manifestare segni di
nervosismo e irritabilità. Osservare questi atteggiamenti può aiutare a
smascherarlo.
Una
volta scoperto, il bugiardo patologico può reagire in vari modi.
In
alcuni casi può negare in modo veemente le accuse, continuando a sostenere la
verità delle sue bugie. In altri potrebbe mettersi sulla difensiva o diventare
aggressivo.
Perché
il bugiardo si arrabbia?
La
reazione di rabbia che potrebbe avere una persona bugiarda messa di fronte
all’evidenza delle sue menzogne può essere spiegata in diversi modi:
protezione
della propria immagine idealizzata:
quando
l’immagine di sé che ha finemente costruito viene messa in discussione, il
bugiardo può reagire con rabbia nel tentativo disperato di preservarla.
Paura
delle conseguenze:
molti bugiardi patologici sono portati a
mentire per paura che, se dicessero la verità, dovrebbero affrontare reazioni
negative come critiche, rifiuto o disapprovazione.
Quando
vengono scoperti, temono che queste conseguenze diventino realtà e possono per
questo reagire con rabbia.
Vulnerabilità
emotiva:
i bugiardi patologici, come abbiamo appena
detto, possono aver paura di essere rifiutati o giudicati per la loro vera
personalità e, quindi, utilizzano le bugie come un mezzo per proteggersi da
questa vulnerabilità.
Quando,
dopo essere stati scoperti, la loro vulnerabilità emerge, possono sentirsi
messi a nudo e quindi alterarsi.
Difficoltà
nell’ammissione:
ammettere
di essere un bugiardo può essere estremamente difficile.
La
negazione è spesso una difesa psicologica che permette di mantenere l’illusione
di essere chi si vuole essere, nonostante le evidenze contrarie.
La rabbia può essere interpretata quindi come
una reazione al dover ammettere la verità.
Frustrazione
per le proprie azioni:
nonostante
possano sembrare abili nel mentire, alcuni bugiardi patologici possono provare
una certa frustrazione nei confronti delle proprie azioni.
Potrebbero rendersi conto che le loro bugie
causano problemi nelle relazioni e nella loro vita quotidiana.
La
rabbia potrebbe derivare dalla frustrazione per non essere in grado di smettere
di mentire.
Come
curare una persona bugiarda?
Aiutare
un bugiardo patologico è un processo complesso che richiede pazienza e impegno,
nonché l’intervento di una figura professionale, come uno psicologo o uno
psicoterapeuta.
Il
primo passo per farlo è sicuramente portare la persona a riconoscere il
problema e ad agire per affrontarlo.
Un risultato non sempre facile da raggiungere,
poiché i bugiardi patologici spesso negano o minimizzano il proprio
comportamento.
La
terapia è fondamentale per guidare il paziente nell’esplorazione delle radici
profonde del suo comportamento.
Un approccio terapeutico ampiamente utilizzato
è la terapia cognitivo-comportamentale (CBT):
questo
tipo di terapia aiuta il paziente a identificare i pensieri e i comportamenti
disfunzionali legati alla menzogna. Insieme al terapeuta, il paziente lavora
per sostituire questi schemi di pensiero con altri più salutari.
Coinvolgere
nella terapia familiari e amici del paziente può essere un passo importante,
poiché il comportamento del bugiardo patologico spesso ha un impatto
significativo sulle relazioni familiari e sociali.
Un
solido sistema di supporto sociale è prezioso nel percorso di guarigione,
perché può incoraggiare il paziente a impegnarsi nel processo di cambiamento.
Un
altro aspetto cruciale della cura è lavorare sull’autoconsapevolezza.
Il paziente deve imparare a riconoscere le
situazioni o i trigger che scatenano il suo istinto a mentire e sviluppare
strategie per modificare la propria risposta ad essi.
Il
riarmo tedesco e la fine dell’Europa pacifica.
Antimaca.org
- Donatella Di Cesare - Fatto Quotidiano- (16 – 3 – 2025) – ci dice:
La
decisione della Germania di aumentare massicciamente le spese militari -
sostiene “Donatella Di Cesare” sul Il Fatto Quotidiano - è una svolta epocale e
pericolosa per l’Europa.
L’autrice
critica la narrazione di “Ursula von der Leyen” sul riarmo come difesa della
democrazia, sostenendo che questa scelta segnerà la "disgregazione
politica" del continente e un ritorno della Germania come potenza militare
autonoma.
Con il
concetto di “Zeitenwende” ("svolta dei tempi"), Berlino abbandona la
prudenza postbellica per riaffermarsi come leader strategico.
Di
Cesare avverte che questo processo, accelerato senza dibattito democratico,
potrebbe avere conseguenze imprevedibili, riaprendo fratture storiche.
Conclude
sottolineando il rischio di un’accettazione passiva della militarizzazione
europea, "perfino nelle università, lì dove ci si attenderebbe una
resistenza".
La
decisione della Germania di aumentare significativamente le spese militari ha
un significato politico e storico cruciale.
Secondo
l'analisi di Donatella Di Cesare sul Fatto Quotidiano. La storica descrive questo momento
come una "sospensione della democrazia" in Europa, un evento che
potrebbe essere ricordato come un "imponente stato d'eccezione".
Secondo
Di Cesare, la decisione della presidente della Commissione Europea, Ursula von
der Leyen, di rilanciare il riarmo segna la "fine delle illusioni"
per chi credeva che l’Europa fosse un progetto politico basato sulla pace e
sulla cooperazione.
L’autrice critica la retorica utilizzata per
giustificare questa svolta, sostenendo che l'idea di una difesa comune
dell'Europa sia un pretesto per una nuova militarizzazione.
Il
risultato, secondo lei, sarà la "disgregazione politica del vecchio
continente", con effetti economici devastanti soprattutto per gli Stati
più deboli, come Italia, Grecia, Croazia e Iran.
Un
punto centrale dell'analisi è l’idea che il riarmo non sia una decisione
tecnica, ma una svolta epocale per la Germania.
L’uso
del termine Zeitenwende (svolta dei tempi), coniato dal cancelliere Olaf Scholz
nel discorso al Bundestag del febbraio 2022, è considerato dalla Di Cesare come
un’indicazione chiara che la Germania intende tornare a essere una potenza
militare autonoma.
"Il
‘tempo di un nuovo inizio’" sarebbe quindi la fine della Germania
postbellica, che aveva sempre evitato di assumere un ruolo aggressivo negli
equilibri europei.
L’autrice
si sofferma sulle implicazioni politiche di questa decisione, sottolineando che
il nuovo Bundestag "di fatto privo di legittimità", con una
maggioranza costruita artificialmente, sta portando avanti una accelerazione
del processo di riarmo senza un vero dibattito democratico.
La "religione del vincolo di
bilancio" che per decenni ha limitato la spesa pubblica viene ora sospesa
per consentire un riarmo massiccio, con investimenti di oltre 500 miliardi nei
prossimi dieci anni.
Questo
segna una rottura rispetto al passato e un ritorno della Germania come
"signora, padrona di sé, sovrana".
Di
Cesare evidenzia il rischio che questa svolta venga accolta con entusiasmo da
alcuni, come avvenne in passato con il sostegno degli USA alla riabilitazione
della Germania postbellica.
Tuttavia, oggi questo cambio di paradigma
potrebbe avere conseguenze imprevedibili, portando l’Europa verso una nuova era
di competizione geopolitica invece che di unità.
L’autrice
mette in guardia sulla possibilità che questa evoluzione possa riaprire ferite
del passato e minare le basi della coesione europea.
Conclude
con una nota pessimistica, sottolineando come in alcuni ambienti accademici e
universitari si sia già diffusa un’accettazione passiva di questa nuova
militarizzazione, "come se fosse naturale", mentre in realtà ci si
dovrebbe aspettare una reazione di resistenza.
Trump,
Musk e
il
potere assoluto.
Antimaka.org
- Maurizio Ferrera - Il Corriere della Sera – (10-02- 2025) – ci dice:
Un
editoriale di Maurizio Ferrera analizza le mosse di Donald Trump nei primi mesi
del suo ritorno alla Casa Bianca.
Le sue politiche stanno erodendo i principi
dello stato di diritto, tra cui la protezione della cittadinanza, i diritti
civili e il sistema di pesi e contrappesi.
Il
presidente utilizza in modo aggressivo gli ordini esecutivi per accrescere il
proprio potere, mentre la sua ammirazione per leader illiberali come Orbán
solleva timori di una deriva autoritaria.
Tuttavia,
la resistenza istituzionale è in atto, con giudici e amministrazioni locali che
sfidano i provvedimenti più controversi.
L’editoriale
di Maurizio Ferrera su “Il Corriere della Sera del 9 febbraio” analizza il
primo impatto delle politiche di Donald Trump dopo il suo ritorno alla Casa
Bianca.
Nel
suo discorso d’insediamento, il presidente aveva promesso di provocare “shock
and awe” (scossoni e panico), e finora ha mantenuto la parola con una serie di
provvedimenti radicali che stanno mettendo a dura prova il sistema di pesi e
contrappesi della democrazia americana.
Ferrera
sottolinea che, sebbene ogni presidente eletto abbia il diritto di realizzare
il proprio programma, nelle democrazie liberali il decisionismo deve rispettare
dei limiti.
L’impressione di molti è che Trump stia
cercando di oltrepassarli, mettendo nel mirino alcuni pilastri dello stato di
diritto.
Uno
dei primi provvedimenti più controversi riguarda la cittadinanza:
l’abolizione dello ius soli rischia di privare
retroattivamente della nazionalità migliaia di minori, in violazione del
Quattordicesimo Emendamento della Costituzione.
Altre decisioni, come l’eliminazione di ogni
iniziativa pubblica a tutela della diversità, dell’equità e dell’inclusione,
rappresentano un netto passo indietro rispetto ai progressi sociali ottenuti
dagli anni Sessanta in poi.
Sul
fronte dell’immigrazione, Trump ha varato misure che potrebbero portare alla
deportazione forzata di milioni di immigrati irregolari, con molti di loro
destinati alla detenzione nella base di Guantanamo, tristemente nota per le
violazioni dei diritti fondamentali.
La sua visione rigidamente binaria
dell’identità di genere ha portato al trasferimento delle detenute transgender
nelle carceri maschili, esponendole a gravi rischi di violenza.
Anche
la gestione amministrativa sta subendo trasformazioni profonde:
il nuovo “Dipartimento per l’efficienza
governativa” (DOGE), affidato a Elon Musk, ha forzato l’accesso a banche dati
federali, sollevando preoccupazioni sulla violazione della privacy.
Molti
uffici pubblici sono stati aboliti e alcune figure di controllo, come gli
ispettori generali, sono state licenziate con procedure dubbie.
Ferrera
evidenzia come Trump stia cercando di estendere il potere dell’autorità
esecutiva a scapito di quello legislativo e giudiziario, utilizzando in modo
aggressivo gli ordini esecutivi. Sebbene tutti i presidenti si avvalgano di questo
strumento per attuare il loro programma, essi sono tenuti a rispettare la
Costituzione e le leggi vigenti.
L’abuso di questa pratica potrebbe minare uno
dei cardini della democrazia americana: l’equilibrio tra i poteri.
Trump
ha spesso espresso ammirazione per “Viktor Orbán”, mentre Elon Musk strizza
l’occhio alla destra europea più radicale.
Questo
scenario solleva interrogativi sulla possibilità di una progressiva deriva
illiberale negli Stati Uniti, simile a quanto accaduto in Ungheria, Polonia e
Slovacchia.
Tuttavia,
Ferrera sottolinea che lo stato di diritto non è inerme di fronte a questi
attacchi.
Il sistema giudiziario e le amministrazioni
locali stanno già reagendo: ventidue Stati e diverse città hanno intentato
cause legali contro la Casa Bianca, ottenendo la sospensione del provvedimento
sulla cittadinanza.
Alcuni
procuratori statali hanno avviato azioni legali contro il DOGE per tentativi di
accesso illecito a dati sensibili.
Anche
in seno al Congresso cresce il malcontento, e alcuni parlamentari repubblicani
stanno prendendo le distanze da Trump, al punto da firmare con i democratici
una lettera di protesta contro il licenziamento degli ispettori generali.
Il
vero banco di prova sarà la Corte Suprema, alla quale la Costituzione americana
affida il compito di arbitrare i conflitti tra poteri e le controversie sui
diritti fondamentali.
Con
una maggioranza conservatrice di sei giudici su nove, una sentenza favorevole a
Trump su una questione simbolica potrebbe spalancargli le porte per
un’espansione ulteriore del potere presidenziale.
Ferrera
conclude con un monito: lo stato di diritto è il fondamento della democrazia
liberale, ma oggi non è adeguatamente compreso e apprezzato dall’opinione
pubblica, né in America né in Europa.
Questa
mancanza di consapevolezza lo rende vulnerabile agli attacchi populisti.
L’esperienza di Paesi come l’Ungheria dimostra che non servono colpi di Stato
per smantellare la democrazia: si può procedere per gradi, con la strategia delle
"mille ferite", eliminando progressivamente le garanzie liberali fino
a privare i cittadini delle protezioni essenziali contro gli abusi di potere.
La
“democrazia” israeliana tra
disinformazione
e propaganda.
Antimaka.org
– Redazione – A.I – (1 nov.2024) – ci dice:
I
media mainstream spesso adottano una posizione giustificazionista verso
Israele, partendo dall'assunto che sia una “democrazia” e quindi un avamposto
dell'Occidente in Medio Oriente, regione dominata da regimi variamente
autocratici.
Raramente si indaga la natura della democrazia
israeliana, che gli studiosi chiamano “democrazia etnica”, una versione
diminuita del
modello
occidentale.
Ancora
più raro è il confronto sulle vere somiglianze tra Israele e l’Occidente, in
particolare la deriva verso forme di democrazia illiberale, sebbene per vie
diverse.
Questo
mix di disinformazione e propaganda richiede di essere portato alla luce.
La
democrazia civica e lo scivolamento verso l’illiberalismo.
La”
democrazia liberale” si basa sull’idea di uguaglianza tra cittadini e sulla
neutralità etnica dello stato.
Si
dice per questo anche democrazia “civica”, dove la comunità politica è
programmaticamente pluralistica e inclusiva, basandosi sul concetto di
cittadinanza universale.
Oggi
però molte democrazie occidentali mostrano segni di erosione delle proprie
caratteristiche liberali.
L’ascesa
di governi che, pur rispettando le procedure elettorali, limitano le libertà
civili, manipolano il potere esecutivo e riducono i diritti delle minoranze è
uno dei principali sintomi della deriva verso la “democrazia illiberale” (il
termine fu coniato 30 anni fa dal politologo” Fareed Zakaria”).
In
questo modello lo stato, pur formalmente democratico, riduce la propria
neutralità e inclusività.
Emergono
così movimenti identitari e nazional-populisti, che polarizzano la società e
invocano la “tirannia della maggioranza” contro minoranze e dissidenti,
trasformati in capri espiatori della rabbia generata altrove:
nell’impoverimento,
nelle crescenti disuguaglianze, nell’insicurezza e nell’incapacità dei governi
di affrontare tali sfide.
Negli
Stati Uniti ciò traspare dalla polarizzazione politica e da un atteggiamento
sempre più aggressivo contro gruppi minoritari e dissenzienti, tendenza che non
potrà non aggravarsi sotto la nuova amministrazione Trump.
In Europa, la deriva illiberale si manifesta
con una riduzione dei diritti e delle libertà civili in nome della sovranità e
della sicurezza nazionale, come già si vede nell’Ungheria di Orban.
La “democrazia
etnica” e l’illiberalismo strutturale.
A
differenza delle democrazie liberali, la “democrazia etnica” si presenta già in
origine come un modello in cui il gruppo etnico dominante controlla lo stato e
ne orienta le politiche secondo i propri interessi.
Israele,
che si autodefinisce “Stato ebraico e democratico”, rientra pienamente in
questo modello:
gli israeliani ebrei costituiscono il
fondamento dello stato, mentre gli arabi israeliani — circa 2 milioni di
persone su una popolazione totale di 10 milioni — sono de facto (e in parte de
iure) cittadini di serie B.
La “democrazia
etnica israeliana” presenta dunque elementi strutturali di illiberalismo:
le politiche favoriscono cultura, lingua e
identità del gruppo dominante, mentre i diritti delle minoranze sono solo
parzialmente riconosciuti.
La “Legge del Ritorno”, ad esempio, concede la
cittadinanza automatica agli ebrei, ma non ai palestinesi, neppure a quelli
provenienti dai territori occupati.
I
cittadini arabi hanno anche minori opportunità di accesso alle risorse e meno
influenza sulle decisioni del governo.
Il sociologo “Sammy Smooha” della “Bar-Ilan
University “di Tel Aviv, definisce la democrazia etnica come una “democrazia
diminuita”:
le minoranze possono votare, ma l’uguaglianza
politica e sociale è limitata dall’ordine etnico.
Pur
presenti in parlamento, i partiti arabi vedono sistematicamente respinte le
proposte per trasformare Israele in uno “stato di tutti i cittadini.”
Questa situazione rischia di peggiorare con
l’esplosione di odio etnico e religioso seguita all’attacco di Hamas del 7
ottobre 2023 e alla reazione militare israeliana con il massacro di decine di
migliaia di civili palestinesi a Gaza.
Divergenze
e convergenze.
Democrazia
liberale e democrazia etnica differiscono profondamente nei loro approcci alla
gestione della diversità.
La
democrazia liberale è formalmente inclusiva e neutrale, mentre la democrazia
etnica è concepita per sostenere un gruppo a discapito degli altri.
Sostenere
che Israele sia tout-court una “democrazia”, suggerendo un’affinità con
l’Occidente sul piano dei valori e delle istituzioni, è dunque mera propaganda
o palese disinformazione.
La
somiglianza tra le due forme di democrazia va cercata piuttosto nella comune
deriva verso l’illiberalismo, seppur con percorsi diversi.
Nelle
democrazie liberali, l’erosione dei valori politici e delle garanzie
costituzionali per le minoranze è graduale, spesso accelerata da profonde crisi
sociali ed economiche.
Nella “democrazia
etnica”, invece, l’illiberalismo è intrinseco al sistema e si intensifica con
le tensioni etnico-religiose.
In
Israele, questa” predisposizione strutturale”
è esasperata dal governo di destra fondamentalista di Netanyahu e dallo
scontro armato con Hamas, vissuto come un conflitto “esistenziale.”
Ciò
tende a legittimare un sistema sempre più orientato alla difesa degli interessi
esclusivi del gruppo dominante.
La
democrazia israeliana, dunque, che già all’origine si colloca fuori dal modello
liberale e civico, si starebbe trasformando in una democrazia etnica non solo
illiberale, ma potenzialmente autoritaria.
Riarmo e deterrenza: l’uomo del futuro
sarà uomo di pace, o non sarà.
Ilfattoquotidiano.it – Redazione - (25 giugno
2025) – Blog di Pasquale Pugliese, Filosofo – ci dice:
Spese
Militari.
“La
crisi multiforme e planetaria genera paure e disorientamenti che portano
nazioni, etnie, religioni a rinchiudersi in sé stesse e accendere nuove
rivalità e tensioni geopolitiche.
Gli
Stati si affrontano come dinosauri o pterodattili.
La politica è ancora nell’era secondaria”,
scrivono “Mauro Ceruti” e “Francesco Bellusci” nel volume “Umanizzare
l’umanità” (2023), indicando “un modo nuovo di pensare il futuro.”
Ma non c’è alcun segnale che i governi
vogliano uscire dalla “modalità pterodattilo” che ha trascinato l’umanità in
questa “strategia del caos” (Le Monde/Internazionale).
Anzi,
il riarmo globale è in pieno dispiegamento e con esso, a testimonianza del
fallimento delle politiche di deterrenza, il saldarsi progressivo della terza
guerra mondiale, di cui l’ultimo tassello è il proditorio attacco Usa all’Iran.
Lo ha
certificato il “Sipri” nel Rapporto 2025: la spesa militare mondiale ha
raggiunto i 2.718 miliardi di dollari nel 2024, con il decimo anno consecutivo
di aumenti ed il + 9,4% in termini reali rispetto al 2023, ossia il più forte
aumento annuo almeno dalla fine della Guerra Fredda.
Il 55%
di questa enorme spesa militare globale è dei governi membri della Nato, pari
complessivamente a 1.506 miliardi di dollari, dei quali circa 1.000 degli Usa
ed i rimanenti oltre 500 miliardi dei paesi europei, che nel loro insieme
spendono già in armamenti oltre il triplo della Federazione Russa, che ha speso
in armi 149 miliardi di dollari.
In
questa escalation militarista, la spesa militare di Israele è aumentata del
65%, raggiungendo i 46,5 miliardi di dollari, mentre la spesa militare
dell’Iran – in netta contro tendenza – nel 2024 è diminuita del 10% in termini
reali, attestandosi a 7,9 miliardi di dollari.
Inoltre, mentre l’”AIEA” smentisce che l’Iran
stia costruendo armi nucleari, il “Sipri” ritiene che “Israele, che non
riconosce pubblicamente di possedere armi nucleari, stia modernizzando il
proprio arsenale nucleare.
Nel
2024 ha condotto un test di un sistema di propulsione missilistica che potrebbe
essere correlato alla sua famiglia di missili balistici a capacità nucleare
“Jericho”.
Sembra
anche che Israele stia ammodernando il suo sito di “produzione di plutonio” a
Dimona”.
Questa corsa globale agli armamenti,
anche nucleare, già in atto – rispetto alla quale il “Rearm Europe”, voluto
dalla “Commissione Europea”, ed il 5% del Pil, voluto dalla Nato, sono la
certificazione del dominio sempre più pesante del complesso militare
industriale sui governi democraticamente eletti – va di pari passo con
l’aumento dei conflitti armati, a diversa intensità, in corso sul pianeta,
passati dai 169 del 2022 ai 175 del 2024, documentati dall’”Uppsala Conflict
Data Program”.
E va di pari passo con l’aumento delle vittime
civili delle guerre, già nel 2023 +72% rispetto al 2022 (dati Onu), e dei
rifugiati, passati da 117,3 milioni nel 2023 a 122,6 nel 2024 (dati UNHCR).
È
l’illusione, ripetuta ossessivamente dai governi e dai media, della ricerca
della “sicurezza” attraverso l’aumento degli armamenti, che rimuove il “dilemma
della sicurezza” definito da “John H. Herz “nel 1950:
il
tentativo di garantire la sicurezza di uno Stato attraverso la militarizzazione
porta alla diminuzione della sicurezza dei potenziali antagonisti che, a loro
volta, si armano per rispondere al primo, in una spirale bellicista che genera
guerre e insicurezza per tutti.
E’ il trionfo della irrazionalità, il “si vis
pacem para bellum”, ultimo rifugio degli imbonitori, come “Giorgia Meloni”.
Vertice
Nato, cresce la pressione sul 5% in spesa militare.
Madrid:
“Target raggiunti con il 2,1%”.
Trump
attacca.
Il
dilemma della sicurezza impatta in pieno il nostro Paese, a cui è chiesto di
adeguarsi alle imposizioni della Nato di passare dal 2% del Pil di spesa
militare al 5% in dieci anni.
Ciò
significa trasferire in armamenti risorse da altri capitoli di investimento –
sanità, istruzione, welfare – dai 45 miliardi di euro di oggi fino ai 144
miliari del 2035.
Spiega
il “Milex”, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, che per arrivare a
questi livelli di spesa si “porterà l’Italia a spendere in totale, nei prossimi
dieci anni, quasi mille miliardi di euro”.
Una manna per l’industria bellica, che non
servirà come deterrenza:
il
territorio nazionale, che “ospita” il maggior numero di testate militari Usa in
Europa e il cui governo ne è il più servile vassallo, rimane primario target
nucleare.
A
questo punto, le mobilitazioni dal basso per la pace devono fare un salto di
qualità non violenta volto ad imporre alle agende della politica – a cominciare
da quelle italiana ed europea – un radicale cambio di rotta e l’adozione di un
paradigma alternativo, fondato sulla ragione anziché sulla irrazionalità,
sull’umanità e il diritto anziché sulla barbarie: la costruzione della pace con
mezzi di pace.
Non la
partecipazione alle guerre, ma la fine di ogni supporto militare;
non la
corsa agli armamenti ma il disarmo;
non la
militarizzazione dell’economia e delle società, ma la costruzione di strumenti
civili di risoluzione dei conflitti;
non il
passaggio ad una “mentalità di guerra” (Mark Rutte), ma la formazione ai saperi
della nonviolenza.
Non è
una opzione tra le altre, è l’unica possibile.
Per
dirla con Ernesto Balducci, “l’uomo del futuro sarà uomo di pace, o non sarà”.
La
Nato e il piano di riarmo europeo.
Valigiablu.it – (4 Luglio 2025) - Gabriele
Catania – ci dice:
Media
e analisti europei hanno definito il vertice della NATO che si è tenuto all’Aia
tra il 24 e il 25 giugno come il “vertice del riarmo”. In realtà quanto deciso
nella capitale de facto dei Paesi Bassi (nonché città simbolo del processo di
unificazione europeo) non rappresenta uno spartiacque per l’Alleanza Atlantica,
e il clamore è probabilmente eccessivo.
Senz’altro
il vertice accelera l’evoluzione di quella che ama definirsi “la più forte
Alleanza nella storia”, ma a dispetto della presenza di un Presidente
geopoliticamente di rottura come Donald Trump non si sono acuite le tensioni
tra Stati Uniti da un lato, l’Europa e il Canada dall’altro. Anzi. Nella
conferenza stampa al termine del summit un Trump quasi amichevole ha
riconosciuto che “queste persone [i leader NATO] amano davvero i loro paesi” e
ha dichiarato che “noi [statunitensi] siamo qui per aiutarli a proteggere i
loro paesi”.
Entrambe
le parti hanno ottenuto – entro certi limiti – quanto si prefiggevano: Trump
che gli alleati si impegnassero a dedicare, entro il 2035, il 5% del PIL annuo
per “requisiti essenziali di difesa e per le spese legate alla difesa e alla
sicurezza”; gli europei e i canadesi che venisse ribadito “il ferreo impegno
alla difesa collettiva, come sancito dall’articolo 5 del Trattato di
Washington, in base al quale un attacco a uno è un attacco a tutti” e che
venisse riconosciuta “la minaccia a lungo termine posta dalla Russia alla
sicurezza euroatlantica” (elemento per nulla scontato, se si considerano i toni
morbidi verso Mosca pretesi dagli Stati Uniti al recente G7 di Kananaskis, in
Canada).
La
soglia del 5% è per Trump una vittoria significativa.
Esperti sentiti da Fox News (emittente
televisiva molto seguita dall’elettorato repubblicano) hanno elogiato il
presidente, in grado di provocare un ”cambiamento tettonico” nella NATO
semplicemente “essendo sé stesso”. A margine del vertice il presidente
(uscente) polacco Andrzej Duda ha in effetti ammesso che l’aumento delle spese
“è un successo del presidente Donald Trump”.
Il
tema del “burden sharing” è storicamente un nervo scoperto delle relazioni
euroatlantiche.
Washington
ha sempre rinfacciato agli europei (e ai canadesi) di essere dei grandi “free-riders”
in ambito difesa, e nella retorica repubblicana l’Europa “continente di
smidollati” è quasi un cliché.
Nel 2003, al culmine del militarismo neocon,
un commentatore influente come “Robert Kagan” scriveva che “per quanto riguarda
le maggiori questioni strategiche e internazionali, gli statunitensi vengono da
Marte e gli europei da Venere”.
Recentemente
il primo ministro polacco “Donald Tusk” ha rilasciato dichiarazioni vicine alle
posizioni statunitensi, parlando persino di “codardia” dell’Europa:
“[i]n
questo momento 500 milioni di europei stanno implorando la protezione di 300
milioni di americani da 140 milioni di russi che non riescono a sopraffare 50
milioni di ucraini da 3 anni”.
Ma se
il valore simbolico della soglia del 5% è indiscutibile, diverso è il discorso
su come tale soglia verrà raggiunta, e quando.
Il
2035 è lontano, dieci anni sono un’eternità in politica.
A meno che non si verifichino eventi
straordinari (e molto improbabili, come la modifica del XXII Emendamento della
Costituzione americana) nel 2029, quando si effettuerà una verifica sulla
traiettoria di spesa, alla Casa Bianca non risiederà più Trump, instancabile
detrattore degli europei “che non pagano [per la loro difesa]” (mentre l’anno
scorso gli Stati Uniti hanno speso in difesa quasi mille miliardi di dollari).
Un presidente diverso potrebbe essere un po’
più conciliante con gli alleati NATO.
Europei
e canadesi hanno sempre promesso agli Stati Uniti di spendere di più.
Nel
lontano 2006 i ministri della difesa dei paesi NATO concordarono di investire
il 2% del PIL nella difesa, obiettivo ribadito nel 2014 al vertice di Newport
in Galles, e da raggiungere in una decade;
nel 2024 però ben otto Stati membri, inclusa
l’Italia, destinavano alla difesa meno del 2%.
Quest’anno
l’Italia dovrebbe raggiungere la soglia del 2%, ma solo perché il governo
guidato da Giorgia Meloni includerà nei capitoli di bilancio della difesa voci
quali le pensioni dei militari: un espediente astuto, che però non accresce la
capacità dell’Italia di difendere sé stessa e gli altri paesi membri.
Secondo
quanto deciso all’Aia solo il 3,5% del PIL dovrà consistere in spese
propriamente di difesa, “per soddisfare i requisiti fondamentali della difesa e
raggiungere i Capability Targets della NATO”.
Il restante 1,5% potrà essere composto, ad
esempio, da spese per “proteggere infrastrutture critiche, difendere reti,
garantire la preparazione e la resilienza civile, innovare e rafforzare la base
industriale della difesa”.
Spese
per la sicurezza, potenzialmente utili anche per le forze armate in caso di
conflitto (ad esempio una “ferrovia AV” per trasportare materiale bellico da un
punto a un altro).
Non a
caso sembra che il governo italiano voglia includere, curiosamente, le “spese
per il ponte sullo Stretto di Messina” nell’1,5%.
La
minaccia del neoimperialismo russo e una NATO più europea.
Per
comprendere come mai i paesi europei (e il Canada) dovranno spendere di più in
difesa bisogna fare alcuni passi indietro. Nel corso del suo primo mandato il
presidente democratico Barack Obama lanciò il cosiddetto Pivot to Asia:
di
fronte alla prepotente ascesa geopolitica della Repubblica Popolare Cinese gli
Stati Uniti decidevano di concentrarsi su Asia orientale e Sudest asiatico, e
focalizzarsi di meno su Europa, Medio Oriente e Africa.
I
russi accolsero tale decisione con grande soddisfazione, come spiegò nel 2013
un diplomatico scandinavo a chi scrive.
Già
nel 2012, alla luce del controverso intervento della NATO in Libia l’anno prima
(fortemente voluto da Francia e Regno Unito), gli addetti ai lavori iniziarono
a parlare di un’Alleanza Atlantica “post-americana”.
Nel
2015 i russi, che soltanto l’anno prima avevano invaso e illegalmente occupato
la Crimea di un’Ucraina ancora neutrale, intervenivano militarmente a sostegno
del sanguinario dittatore siriano Bashar al-Assad.
Nel
paese arabo i russi creavano un hub logistico-militare essenziale per la loro
proiezione in Africa: la base aerea di” Khmeimim”, senza la quale molte
iniziative russe in Libia o in Africa subsahariana sarebbero state impossibili.
Proprio
a causa della pericolosa situazione in Siria (e del ritiro statunitense dal
nord del paese arabo, nonché della contestuale offensiva turca) nel novembre
del 2019 il presidente Macron dichiarava che la NATO era in uno Stato di
"morte cerebrale”, guadagnandosi il plauso dei russi e irritando
Washington, con il segretario di stato Mike Pompeo che sottolineava invece la
necessità di una maggior condivisione degli oneri finanziari, se non si voleva
rischiare di rendere la NATO ”inefficace od obsoleta”.
Il
ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan deciso da Trump durante il suo primo
mandato (e ultimatosi nell’agosto 2021 sotto il democratico Joe Biden)
costituiva un ulteriore segnale del crescente disinteresse di Washington da
quello che i neocon all’inizio del millennio amavano definire il “Grande Medio
Oriente”.
Pochi
mesi dopo il ritiro delle forze statunitensi dal paese centroasiatico, Mosca
lanciava l’invasione su larga scala dell’Ucraina.
Proprio
l’espansionismo militarista del regime russo, e la possibilità sempre più
concreta di un’Europa “circondata”, hanno spinto dal 2014 in poi, dopo
l’invasione russa della Crimea, alcuni governi europei al riarmo: nordici,
polacchi e baltici.
La
Svezia e la Finlandia sono addirittura entrate nella NATO, una decisione
storica (e anche traumatica) per entrambi i paesi.
Perché
la Polonia e i paesi baltici vogliono il riarmo.
Nel
2024 tutti i paesi della regione nordico-baltica hanno speso in difesa più del
2% del PIL, a differenza di Italia, Spagna e altri stati geograficamente
lontani dal Fianco Est; Polonia ed Estonia (entrambi in prima linea qualora la
Russia decidesse di attaccare uno stato membro della UE) hanno persino già
raggiunto la soglia del 3,5% decisa all’Aia pochi giorni fa.
Tra il
2015 e il 2024, secondo il SIPRI di Stoccolma, la spesa militare svedese è più
che raddoppiata.
Al
vertice dell’Aia nordici, polacchi e baltici hanno brillato per attivismo. La
preoccupazione che la Russia in qualche modo vinca la guerra in Ucraina è
palpabile, a Varsavia come a Riga, a Stoccolma come a Helsinki (ma anche a
Londra e Berlino).
E
benché l’entrata dell’Ucraina nella NATO non sia più un tema all’ordine del
giorno, con buona pace di quanto si dichiarava al vertice NATO di Vilnius del
2023 sul ”futuro dell’Ucraina nella NATO”, è stato ribadito l’impegno a
“fornire sostegno all’Ucraina, la cui sicurezza contribuisce alla nostra”.
A
differenza del vertice di Vilnius, all’Aia si è parlato poco di Medio ed
Estremo Oriente.
Nella
dichiarazione dei capi di Stato e di governo non si cita la Repubblica Popolare
Cinese, ed è presente solo un breve riferimento al terrorismo.
Sembra che gli Stati Uniti vogliano che gli
europei si concentrino principalmente sull’Europa, lasciando il Medio Oriente
ad altri (ad esempio a sauditi e israeliani, sotto la supervisione di
Washington?), e l’Asia agli Stati Uniti e ai suoi alleati indo-pacifici.
Per
l’Europa più Marte e meno Venere?
Il
riarmo europeo è in corso, ed è stato causato dal neoimperialismo del regime
russo.
Con la
fine della Guerra Fredda la spesa militare aveva cessato di essere una priorità
per i governi europei.
Prima
dell’invasione russa dell’Ucraina la “Bundeswehr “aveva solo otto brigate con
una readiness al 65%;
l’invio
di armi, munizioni ed equipaggiamento a Kyïv ha ulteriormente deteriorato la
prontezza dell’esercito tedesco.
Ed era dai tempi delle guerre napoleoniche che
l’esercito britannico non era così piccolo:
la BBC ha riferito stime di esperti secondo i
quali l’esercito finirebbe le munizioni in due settimane di guerra
convenzionale “all’ucraina”.
Certo,
senza il pivot to Asia di Obama, e con un presidente un po’ meno volubile di
Trump, il 5% non si sarebbe mai concretizzato.
Polacchi, lituani e finlandesi non dimenticano
quanto dichiarava nel febbraio del 2024 il leader repubblicano: avrebbe
incoraggiato la Russia “a fare quel che cavolo voleva” con i paesi NATO che non
raggiungevano le soglie di spesa per la difesa.
Ovviamente
il riarmo europeo sarà un’enorme opportunità per le aziende statunitensi attive
nel settore difesa: non solo player storici, come la Lockheed Martin e la
Northrop Grumman, ma per i potentati economici della Silicon Valley. I campi di battaglia dell’Ucraina
dimostrano che IA e sistemi di comunicazione satellitare sono fondamentali.
Nell’ambito
degli armamenti pesanti l’esempio polacco è illuminante. La Polonia, che
confina con la Bielorussia (da tempo un satellite militare di Mosca) e con
l’oblast’ russo di Kaliningrad, e che ancora nel 2015 spendeva “appena” il 2,1%
del PIL in difesa, ha deciso di acquistare 250 nuovi carri armati Abrams M1A2,
26 ARV, 116 Abrams usati e molto altro, per una spesa totale di oltre sei
miliardi di dollari (in parte coperti da prestiti statunitensi). Il “pugno di
ferro” dell’esercito polacco, come dicono a Varsavia, non è mai stato così
armato.
Non
solo: la Polonia ha deciso di comprare dagli statunitensi aerei multiruolo
F-35, elicotteri d’attacco Apache e altro ancora, e sta acquistando armi, carri
armati e aerei dalla Corea del Sud, che a causa della perdurante minaccia
nordcoreana ha sviluppato un complesso militare-industriale degno di nota. Seul
sta diventando per i polacchi un partner cruciale.
Ma a
beneficiare del riarmo continentale saranno anche le aziende europee
maggiormente in grado di soddisfare le necessità militari emerse dalla lunga
guerra in Ucraina: produttori di carri armati e blindati, munizioni, droni e
sistemi di difesa aerea.
La
Germania dispone del complesso militare-industriale più attrezzato del
continente (si pensi solo ai carri armati Leopard, che anche l’Italia sta
acquistando, e ai missili aria-superficie a lungo raggio stealth Taurus).
E dopo
anni di cautele e ambiguità verso il regime putiniano, Berlino ha varato un
riarmo massiccio e inusitato:
prima
con una certa timidezza, nella cornice della “Zeitenwende” del cancelliere
socialdemocratico “Olaf Scholz”, poi in modo esplicito e muscolare in virtù
della promessa del nuovo cancelliere della CDU “Friedrich Merz” di rendere la “Bundeswehr
”il più forte esercito convenzionale in Europa”.
Come è
stato rilevato dal SIPRI, “[n]el 2024 la spesa militare tedesca è cresciuta per
il terzo anno consecutivo raggiungendo gli 88,5 miliardi di dollari, cioè
l’1,9% del PIL, facendo [della Germania] il quarto paese che più spende [in
difesa] a livello globale, e il più grande in Europa centrale e occidentale per
la prima volta dalla riunificazione. La spesa militare tedesca è salita del 28%
rispetto al 2023 e dell’89% rispetto al 2015”.
Sempre
secondo il SIPRI, “nel 2024 la spesa militare totale in Europa è aumentata del
17% sino a 693 miliardi, con un aumento dell’83% rispetto al 2015”. A
spingerla, nota l’autorevole istituto, è la guerra russo-ucraina. Nel Regno
Unito ha superato gli 80 miliardi di dollari, in Francia ha sfiorato i 65, in
Polonia ha toccato i 38 e in Svezia i 12.
Il
riarmo può, a determinate condizioni e in certi casi, sostenere l’industria
manifatturiera del continente, in affanno di fronte all’incalzare della
concorrenza cinese e statunitense nelle auto elettriche, nell’aerospaziale, nel
solare e nella robotica.
Ma a
parte il fatto che la realizzazione (o conversione) di stabilimenti produttivi
e l’acquisizione di specifico know-how hanno tempi lunghi, resta il problema di
come finanziare il riarmo, specie considerando che in base alle stime della
Commissione Europea la UE dovrebbe crescere di appena l’1,1% nel 2025 e dello
1,5% nel 2026, e che molte materie prime necessarie all’industria militare
devono essere importate:
dall’alluminio
alle cosiddette terre rare, oggi assai costose.
Senza
dubbio il riarmo avrà un impatto sull’affidabilità finanziaria di molti Stati
europei.
Per l’agenzia di rating tedesca Scope Ratings
“i membri UE della NATO dovranno allocare, in media, un ulteriore 1,3% del PIL
ogni anno per raggiungere la nuova soglia di spesa nella difesa del 3,5% del
PIL, innalzando la spesa annuale a più di 600 miliardi di dollari (dai 360
miliardi attuali)”.
Se si
esclude il “ReArm Europe Plan/Readiness 2030” presentato dalla Commissione
Europea, ogni paese europeo (UE o non-UE) ha la sua strategia di finanziamento:
a causa del cospicuo debito pubblico Parigi punta sulla mobilitazione del
risparmio privato e dei venture capitals; Berlino conta sulla lungimiranza
delle imprese (come Rheinmetall) e può permettersi di fare deficit; Londra ha
già iniziato a ridurre gli aiuti allo sviluppo.
Non
tutti i paesi europei mostrano per il riarmo la stessa (comprensibile)
determinazione di nordici, baltici e polacchi. Per ragioni finanziarie e di
politica interna Madrid è fermamente contraria al 5% deciso al vertice
dell’Aia, tanto da aver strappato una sorta di clausola di opt out; per il
governo guidato dal socialista Pedro Sánchez le forze armate spagnole
riusciranno a raggiungere i capability targets della NATO spendendo solo il
2,1% (cosa che avrebbe già destato forti perplessità nell’Alleanza Atlantica).
La
presa di posizione di Madrid ha scatenato l’ira di Trump, ma non è da
escludersi che il capo del governo spagnolo punti proprio a uno scontro con la
Casa Bianca per rivitalizzare una coalizione fragilissima.
Madrid
sembra credere in un riarmo trainato dalla cooperazione continentale, a partire
dallo “European Defence Industrial Programme” (EDIP) e dalla” Security
Assistance Facility for Europe” (SAFE).
Non
solo: promette di spendere in Spagna la maggior parte delle risorse extra
destinate alla difesa, stimolando il manifatturiero avanzato nazionale e
generando nuovi posti di lavoro di qualità.
Per
Sánchez «l’obiettivo è trasformare questa crisi in un nuovo stimolo economico
per la Spagna, basato su industria, formazione e sviluppo di tecnologie a
duplice uso necessarie nel campo della sicurezza e della difesa, ma che possano
essere utilizzate anche per applicazioni e opportunità in ambito civile».
Il
governo italiano, per quanto politicamente all’opposto di quello spagnolo,
farebbe bene a ispirarsi all’esempio di Madrid. L’enorme debito pubblico è un
freno al riarmo nazionale, e l’opinione pubblica italiana è nel complesso
contraria a un serio aumento della spesa militare.
L’Italia si è già impegnata a dedicare entro
il 2028 il 2% del PIL alla difesa, un obiettivo in sé ambizioso, a fronte della
crescita anemica della nostra economia.
Oltre
a sfruttare la «flessibilità» assicurata al vertice dell’Aia, l’unica
possibilità per l’Italia (e altri paesi europei) di tenere la spesa sotto
controllo è sperare che dopo Trump arrivi alla Casa Bianca un democratico, e
soprattutto aumentare il sostegno militare all’Ucraina. La resistenza di Kyïv
alla Russia, e in futuro l’ingresso dell’Ucraina nella UE, sono la migliore
garanzia contro un attacco di Mosca alla Lituania o all’Estonia.
Se
l’Ucraina fosse uno Stato membro, Bruxelles si ritroverebbe con le migliori
forze armate del continente, temprate da anni di durissimi combattimenti con
gli invasori russi.
Sudan,
l’Inferno Invisibile.
Conoscenzealconfine.it
– (3 Luglio 2025) - Zela Santi – ci dice:
Fosse
comuni, stupri e bombardamenti nel disinteresse del mondo.
Nel
Sudan in fiamme, ogni regola di guerra è stata infranta.
Fosse
comuni, stupri, assedi, bombardamenti indiscriminati e una popolazione ridotta
alla fame: siamo davanti a una tragedia che avrebbe bisogno di ogni riflettore
acceso.
Invece,
cala il buio.
Sudan,
l’Inferno Invisibile.
Nel
silenzio quasi totale dei media internazionali, il Sudan affonda ogni giorno di
più nell’abisso della barbarie.
A
oltre due anni dall’inizio della guerra civile tra l’esercito regolare sudanese
(FAS), guidato dal generale “Abdel Fattah Al-Burhan”, e le Forze di supporto
rapido (RSF) del generale “Mohammed Hamdan Dagalo”, il conflitto ha assunto
proporzioni apocalittiche.
Non
solo per il numero di morti – oltre 27 mila secondo Amnesty International – o
per i milioni di sfollati, ma per la qualità degli orrori commessi, che
rimandano a scenari da genocidio.
L’ultima
scoperta:
fosse
comuni nei pressi di “Salha”, nella periferia di “Khartoum”, contenenti decine
di corpi gettati in container, testimoni muti di esecuzioni sommarie e stupri
sistematici.
Un
Paese Diviso, una Guerra tra Golpisti.
Il
Sudan, terzo Paese più esteso del continente africano, è oggi teatro di uno
scontro tra due fazioni nate entrambe da colpi di Stato.
Da una
parte Al-Burhan, capo di un governo militare che ha preso il potere nel 2021.
Dall’altra
le RSF, milizia paramilitare nata da una precedente alleanza e poi
trasformatasi in forza ribelle dopo la rottura degli accordi di transizione
democratica.
Il
conflitto è deflagrato il 15 aprile 2023 e da allora ha inghiottito il paese
intero, dividendo il Sudan in una mappa di dominio che cambia di giorno in
giorno:
nord ed est al controllo delle FAS, ovest e
sud, inclusa l’area strategica del Darfur, saldamente nelle mani delle RSF.
Il
Darfur: un Forziere d’Oro e Sangue.
Cuore
della contesa resta il Darfur, regione ricca di oro e minerali, già tristemente
nota per le pulizie etniche dei primi anni Duemila.
Oggi è sotto il controllo quasi totale delle
RSF, che ne sfruttano le risorse per finanziare la guerra e rafforzare il
proprio arsenale militare.
Negli
ultimi mesi, le “milizie di Dagalo” hanno introdotto droni armati che hanno
colpito obiettivi cruciali, come la città di Port Sudan – capitale
amministrativa provvisoria – dove sono stati bombardati aeroporto, porto e
depositi di carburante, costringendo l’ONU a sospendere i voli umanitari.
È la
prima volta che una fazione interna sudanese impiega armi di questo tipo con
tale efficacia, cambiando drasticamente l’equilibrio delle forze.
La
Firma dell’Orrore: Fosse Comuni e Stupri.
La
conferma del massacro è arrivata con la scoperta delle fosse comuni a Salha.
I container metallici pieni di cadaveri sono
la testimonianza brutale di esecuzioni sistematiche di civili.
A
queste si aggiungono decine di testimonianze raccolte da ONG e osservatori
indipendenti su stupri di massa, violenze su minori, distruzioni di interi
villaggi.
Secondo
“Amnesty International”, lo stupro viene usato come strumento deliberato di
guerra.
Il rapporto 2024-2025 documenta 27.000 vittime
accertate e 33.000 feriti in meno di due anni, ma si tratta probabilmente di
stime per difetto.
Oltre
l’80% degli ospedali del Paese non è più operativo, mentre due terzi della
popolazione è priva di accesso a cure mediche.
L’Assedio
di “El-Fasher” e il Collasso di Port Sudan.
Le RSF
non si limitano al Darfur.
La
milizia ha circondato El-Fasher, una delle ultime roccaforti nel Nord Darfur
ancora in mano governativa.
L’assedio ha provocato nuovi flussi di
sfollati verso il Ciad, che già ospita oltre 1,3 milioni di rifugiati sudanesi.
Nelle
ultime due settimane, almeno 20.000 persone hanno attraversato il confine,
affrontando razzie, stupri, estorsioni e, spesso, la morte per sfinimento o per
le condizioni dei trasporti.
Intanto,
Port Sudan – che funge da snodo logistico e sede di ministeri temporanei – è
sotto attacco. La città, inizialmente risparmiata dal conflitto, è diventata un
obiettivo strategico: bombardamenti hanno colpito il porto e l’aeroporto,
mentre le Nazioni Unite denunciano l’impossibilità di far giungere aiuti
umanitari.
Gli
Attori Esterni: Ciad, Emirati e Traffici d’Armi.
Dietro
i fronti interni si muovono potenze regionali e globali.
Le accuse più gravi vengono rivolte agli
Emirati Arabi Uniti e al Ciad, sospettati di rifornire le RSF.
Secondo fonti ONU, il Ciad orientale avrebbe
facilitato il transito di armi verso le RSF tramite due aeroporti di confine.
Gli
Emirati, da parte loro, sono accusati da Al-Burhan di complicità nel “genocidio
della comunità masalita.”
Accuse
non del tutto provate, ma supportate da report che segnalano traffici sospetti
e armamenti sofisticati nelle mani della milizia ribelle.
In
questo scenario, le RSF ricevono supporto anche da altri attori globali:
le forniture di armi, rilevate dai rapporti
internazionali, arrivano da Russia, Cina e Turchia.
Le
forze governative, dal canto loro, non sono esenti da crimini:
il
conflitto ha mostrato in modo evidente la simmetria della crudeltà.
Entrambe
le parti utilizzano il terrore come arma, e nessuna via diplomatica concreta
sembra all’orizzonte.
Un
Genocidio Dimenticato?
Il
Sudan è oggi un laboratorio di atrocità quasi ignorato dalla comunità
internazionale.
Le
dichiarazioni ufficiali di condanna, comprese quelle congiunte di Stati Uniti e
Nazioni Unite per l’attacco delle RSF a “Zamzam” e l’uccisione di membri della
Croce Rossa, rimangono parole nel vuoto.
La
sproporzione con la mobilitazione politica e mediatica su altri scenari, come
Gaza o l’Ucraina, è drammatica.
E il Sudan, privo di alleati potenti e senza una
narrazione egemonica a suo favore, rischia di essere cancellato dalla memoria
collettiva, anche mentre si compie il massacro.
(Zela
Santi).
(kulturjam.it/politica-e-attualita/sudan-linferno-invisibile-fosse-comuni-stupri-e-bombardamenti-nel-disinteresse-del-mondo/).
La
Spinta per Chiudere la Guerra di Gaza
Rafforzata
dal Confronto con Teheran.
Conoscenzealconfine.it
– (1 Luglio 2025) - Davide Malacaria –
ci dice:
Trump
ribadisce che la carneficina di Gaza finirà “entro una settimana”.
Possibile che, come in altre circostanze, la tempistica indicata dal presidente
Usa sia troppo ristretta rispetto alla realtà, ma la sollecitazione serve a
urgere Netanyahu a muoversi in tal senso.
E
sembra avere una certa efficacia.
Netanyahu
Pronto alla Pace?
I
media israeliani informano che Netanyahu si sta confrontando con i suoi
collaboratori sulla questione.
Sul
punto, le dichiarazioni di “Aryeh Deri”, membro del gabinetto di sicurezza di
Netanyahu: “Ora più che mai sono state create le condizioni per porre fine alla
guerra a Gaza”.
Le ha
riportate il “Washington Post”, commentandole con le osservazioni di “Shira
Efron”, dell’”Israel Policy Forum”, secondo la quale la “vittoria” nella guerra
contro l’Iran ha conferito nuova popolarità al premier israeliano, “un capitale
politico necessario per poter accettare un cessate il fuoco a Gaza”.
Commenti
che si intersecano con quanto riferisce il” Times of Israel”:
“Gli
analisti politici di “Channel 12” hanno affermato che ci sono indizi che
Netanyahu potrebbe essere pronto per la prima volta a prendere in
considerazione la possibilità di porre fine alla guerra di Gaza“.
I
segnali non arrivano solo dalla politica.
Questo
il titolo dell’articolo del “Times of Israel” citato: “L’offensiva di Gaza
raggiungerà presto i limiti stabiliti dal governo, afferma il capo delle IDF”.
Nella
nota, le dichiarazioni del Capo di Stato Maggiore “Eyal Zamir”, il quale ha
affermato che l’esercito ha raggiunto i suoi obiettivi grazie alla “campagna
vittoriosa” contro l’Iran.
Sempre
il media israeliano riferisce che “Zamir
ha recentemente annullato i piani per la chiamata d’emergenza di una brigata di
riservisti. L’analista (militare di Canale 12, Nir Dvori) ha affermato si
trattava di un segnale per i vertici politici, che indicava come le truppe
siano esauste dopo 20 mesi di guerra“, un tragico eufemismo per definire il
genocidio di Gaza.
Una
prosopopea vanagloriosa che serve a celare ben altro, cioè che dopo la
sconfitta subita nel corso della guerra iraniana, con un Paese devastato da
missili che hanno inferto duri colpi ai centri nevralgici della sua
infrastruttura di intelligence e militare, diventa sempre più insostenibile
perseverare nella mattanza dei palestinesi, sia a livello militare, anche
perché Hamas ha dimostrato di essere ancora attiva, sia a livello politico, con
Israele ormai diventata indifendibile anche dai tanti politici occidentali
consegnati all’ “hasbara”.
Così
Netanyahu ha assunto un atteggiamento più conciliante verso le sollecitazioni
dell’alleato d’oltreoceano, ritenendo che sia meglio chiudere questo capitolo
ora che le circostanze sono a lui più favorevoli che rischiare di logorare la
posizione di forza conseguita con la vittoria della guerra persa contro l’Iran
con altri mesi di inutili stragi a Gaza.
Se la
narrazione di una vittoria totale su Teheran ha tale esito, ben venga.
E se accordo sarà, Trump è pronto ad
accogliere in America per fargli tributare l’ennesima standing ovation dal
Congresso, con democratici e repubblicani, a parte quale eccezione, pronti a
spellarsi le mani in onore del genocida mediorientale.
Così
va il mondo. Consapevole dei ristretti ambiti di manovra, Trump ha trovato un
modo per chiudere la vicenda, sfidando fin troppo gli ambiti internazionali che
premono per la soluzione finale dei palestinesi e l’incenerimento dell’Iran
usando la sanguinaria determinazione del premier israeliano. Non è un caso che
Putin, parlando del suo omologo americano, l’abbia definito un “uomo coraggioso.“
Le
Iniziative di De-Escalation di Trump e il Senso del Limite.
Nel
frattempo, il giorno in cui chiudeva la guerra iraniana, Trump firmava un
accordo commerciale con la Cina, ponendo fine, almeno per ora, al braccio di
ferro avviato con Pechino all’inizio della sua presidenza (avendo interrotto, va ricordato, le
continue provocazioni militari su Taiwan della precedente presidenza; non è
poco).
Inoltre,
nello stesso giorno, imponeva la firma di un accordo di pace tra Repubblica
democratica del Congo e Ruanda, siglato a Washington, che dovrebbe porre fine a
una guerra ultradecennale che ha visto Kigali sponsorizzare a più riprese bande
di tagliagole inviate nel Paese confinante allo scopo di consentire alle
multinazionali americane di depredarne le immani risorse minerarie.
La
predazione andrà avanti, ovviamente, ma l’accordo dovrebbe almeno garantire che
avvenga in maniera meno sanguinaria, risparmiando le inutili stragi che hanno
consentito alle aziende “Hig Tech” di incassare dividendi stellari e ai
cittadini occidentali di possedere computer, telefonini et similia a prezzi
accessibili.
Quanto
all’Iran, la cessazione delle ostilità sembra dover perdurare, in particolare
perché Israele sta assecondando la narrazione dell’amministrazione Usa sulla
completa eliminazione del pericolo – inesistente – del nucleare iraniano.
Le spinte per riaprire le ostilità, che pure
persistono (facendo leva sulla persistenza del pericolo inesistente), appaiono
al momento velleitarie.
Né
Israele vuole riaprire quel capitolo, avendo realizzato quanto fossero
infondati i report della sua intelligence che riferivano di un Paese ormai
indifeso e sull’orlo del collasso a causa dei raid dalla sua aviazione dello
scorso settembre, e quanto sia inadeguato il suo apparato militare e difensivo,
sopraffatto dalla resilienza di Teheran.
La
vittoriosa sconfitta subita ad opera dell’Iran ha imposto un limite alle
pulsioni espansionistiche israeliane, che le recenti vittorie contro Hezbollah
e in Siria avevano alimentato al parossismo.
Non è
solo uno scacco militare, perché tocca un livello esistenziale proprio di certo
ambito ebraico – più potente di quello alieno da tali fumisterie – e dei
circoli liberal-neocon a cui si accompagna, che hanno in comune l’assenza del
senso della realtà e dei limiti che essa pone.
La
dura realtà si è imposta e ha posto un limite alla dilagante follia. Da vedere
se il rinnovato senso del limite si imporrà anche a Gaza (e nella Cisgiordania,
in cui continua lo stillicidio seriale di coloni ed esercito contro la
popolazione indifesa). Questa la scommessa di Trump, la speranza di tanti, in
Palestina e nel mondo.
(Davide
Malacaria).
(piccolenote.it/mondo/la-spinta-per-chiudere-la-guerra-di-gaza-rafforzata-dal-confronto-che-teheran).
La
folle corsa al riarmo.
Azionecattolica.it
– (15 maggio 2025) – (sito sipri.org) – ci dice:
Nel
2024 la spesa militare globale ha raggiunto il nuovo record di 2.718 miliardi
di dollari, con un incremento del 9,4% rispetto all’anno precedente.
Lo
rivela l’ultimo rapporto pubblicato dal Sipri (Stockholm International Peace
Research Institute) lo scorso 28 aprile (com. stampa) , che lancia un allarme
chiaro: siamo di fronte al più rapido aumento annuale delle spese militari
dalla fine della Guerra Fredda.
(Rapporto
Sipri: aumento senza precedenti della spesa militare globale).
Si
tratta di un dato storico, che segna il decimo anno consecutivo di crescita
ininterrotta.
E a
differenza del passato, non sono più solo le grandi potenze a trainare questa
escalation.
Oltre 100 Paesi hanno aumentato i propri
bilanci per la difesa, rendendo la corsa agli armamenti un fenomeno globale,
strutturale e trasversale, che coinvolge economie e governi di ogni tipo.
Dietro
questi numeri si nasconde una visione del mondo sempre più improntata alla
competizione, alla paura, alla logica del nemico.
Una
visione miope, che continua a considerare la forza militare come garanzia di
sicurezza, trascurando invece le vere sfide del nostro tempo:
giustizia sociale, crisi ambientale, coesione
democratica, salute globale.
Sipri:
della Nato oltre metà della spesa militare mondiale.
Un
dato particolarmente significativo riguarda i Paesi membri della Nato, che nel
2024 hanno speso complessivamente 1.506 miliardi di dollari: più della metà
dell’intera spesa militare mondiale.
Sempre
più Stati dell’Alleanza hanno superato la soglia del 2% del PIL destinata alla
difesa, trasformando quella che inizialmente era una raccomandazione politica
in un vincolo di bilancio sempre più stringente.
Questa pressione sta ridefinendo le priorità
economiche dei governi, determinando scelte che hanno un impatto diretto sulla
vita quotidiana dei cittadini.
Ma a
quale prezzo?
Il “rapporto
Sipri” segnala che l’aumento delle spese militari avviene spesso a scapito dei
settori civili.
In molti Paesi europei, la crescita dei
bilanci per la difesa è accompagnata da tagli alla sanità pubblica, riduzioni
nei fondi per l’istruzione, smantellamento del welfare e aumento del debito
pubblico.
Alcuni governi hanno già introdotto nuove
tasse o misure di austerità, scaricando sui cittadini il costo di una
militarizzazione che non è stata oggetto di un vero dibattito democratico.
I
cinque Paesi che spendono di più in armi.
I
cinque Paesi che nel 2024 hanno investito maggiormente nelle forze armate sono,
nell’ordine: Stati Uniti, Cina, Russia, Germania, India.
Da
soli rappresentano il 60% della spesa militare globale, pari a 1.635 miliardi
di dollari.
Gli
Stati Uniti restano nettamente in testa, con una spesa che da sola supera
quella dei successivi dieci Paesi messi insieme.
La
Germania, nel frattempo, ha consolidato il proprio ruolo come primo investitore
in difesa in Europa occidentale, accelerando la propria trasformazione in
potenza militare continentale.
Anche
l’Italia ha seguito questa tendenza, con una spesa pari a 38 miliardi di
dollari, posizionandosi al 12° posto a livello mondiale.
L’aumento
dell’1,4% rispetto al 2023 può sembrare contenuto, ma va inserito nel contesto
di una strategia più ampia di riarmo condivisa all’interno della Nato, che
spinge tutti i membri ad allinearsi agli standard militari imposti
dall’Alleanza.
Sipri:
un mondo che investe nella guerra mentre ignora la pace.
«La
sicurezza militare viene sempre più spesso in modo prioritario dai governi,
anche a scapito di altri settori fondamentali per la società», ha osservato “Xiao
Liang,” ricercatore del SIPRI.
Il
rapporto indica che la spesa militare globale ha raggiunto il 2,5% del PIL
mondiale, con aumenti significativi in Europa e Medio Oriente, due aree
devastate dai conflitti in Ucraina e nella Striscia di Gaza.
Ciò
che inquieta non è solo la cifra in sé, ma la direzione verso cui ci stiamo
muovendo come comunità internazionale.
I governi continuano a rispondere alle crisi
globali con più armi, più investimenti in tecnologie belliche, più blindatura
dei confini, come se la sicurezza potesse essere garantita solo da mezzi
coercitivi.
Ma
davvero la sicurezza si costruisce con più carri armati, più caccia militari,
più missili?
O
forse è tempo di riconoscere che le vere minacce alla nostra sopravvivenza
collettiva – crisi climatica, ingiustizia sociale, povertà, pandemie – non si
affrontano con le armi, ma con cooperazione, dialogo, solidarietà e
prevenzione?
Un
appello alla responsabilità collettiva.
In un
mondo sconvolto da crisi multiple – climatiche, sanitarie, sociali,
geopolitiche – ogni scelta di spesa ha un impatto che va ben oltre il piano economico.
Ogni miliardo investito nella guerra è una sconfitta della civiltà.
Abbiamo
bisogno di un altro paradigma di sicurezza, basato sulla prevenzione dei
conflitti, sulla riduzione delle disuguaglianze, sull’accesso equo alle
risorse. Abbiamo bisogno di un’economia che investa nella cura delle persone e
non nella distruzione reciproca.
Scegliere
la pace non è utopia.
È una
decisione politica e civile, possibile, urgente, necessaria.
Ma
richiede volontà, impegno costante e coraggio morale.
Il coraggio di chi non si arrende all’evidenza
di un mondo armato e sceglie invece la via della convivenza, della
responsabilità condivisa e della speranza.
Il
Regno Unito segna la strada
per il
riarmo dell’Europa. Analisi
e considerazioni sul discorso
del
Primo Ministro Starmer.
Geopolitica.info - Davide Sotgia – (5-3-2025) – ci
dice:
I
recenti avvenimenti sullo scenario internazionale hanno reso evidente la
necessità per i Paesi europei di provvedere maggiormente alla propria
sicurezza.
In questo contesto il primo grande passo in
tal senso è stato fatto dal governo del Regno Unito, il quale ha annunciato un
importante incremento della spesa della difesa ponendosi come apripista per
quella che sarà la futura ed inevitabile revisione delle politiche di difesa
delle principali potenze europee.
Nel
suo discorso di martedì 25 febbraio alla “House Of Commons” il Primo Ministro
britannico “Starmer” ha annunciato “il più grande incremento della spesa per la
difesa dalla fine della Guerra Fredda” ponendosi l’obiettivo di raggiungere la
soglia del 2.5% del PIL entro il 2027, con la prospettiva di incrementare
ulteriormente le spese al 3% del PIL (definito informalmente il “nuovo 2%”)
durante la legislatura successiva.
In
concreto questo comporterà l’impiego di 13.4 miliardi di sterline aggiuntive
(circa 16 miliardi di euro) ogni anno a partire dal 2027.
Queste
risorse saranno ricavate interamente tramite il taglio di parte dei fondi
dedicati allo sviluppo internazionale (da 0.5% a 0.3% del PIL).
La
ragione e lo scopo della decisione.
La
decisione del governo inglese risponde a più logiche. Queste sono complementari
tra loro, egualmente rilevanti ed applicabili alla situazione delle altre
potenze europee.
In
tutto sono sostanzialmente tre.
La
prima riguarda
il soddisfacimento delle – decisamente non nuove – richieste americane per
quanto riguarda una maggior responsabilità ed un maggior contributo dei Paesi
europei per la difesa dell’Europa stessa. L’attuale amministrazione degli Stati
Uniti si è dimostrata particolarmente sensibile a questo tema dato che il
Presidente Trump ritiene l’impiego di forze americane in teatri considerati non
molto rilevanti, tra cui anche l’Europa, come “uno spreco di risorse” che
potrebbero essere impiegate altrove (sostanzialmente nel teatro
dell’Indo-Pacifico).
La
seconda logica
è quella che potremmo definire della “prevenzione”. Un rafforzamento delle
capacità belliche, convenzionali e non, del Regno Unito, ed in prospettiva
futura anche delle varie potenze europee, è sicuramente utile e decisamente
necessario se rapportato al caso in cui l’attuale amministrazione statunitense
dovesse decidere effettivamente di ritirarsi, parzialmente o completamente,
dall’Europa continentale, come più volte minacciato. Le possibilità che questa
decisione venga effettivamente presa sono molto remote, ma con una Presidenza
che ha fatto dell’imprevedibilità un punto cardine della sua politica estera
non si può mai essere sicuri e quindi è sicuramente utile ragionare anche in
tal senso.
La
terza logica è di carattere esclusivamente economico ed industriale.
Il Primo Ministro Starmer ha descritto chiaramente
queste nuove spese come un “investimento al fine di migliorare la posizione del
Regno Unito sullo scenario internazionale, ma anche come uno strumento per
avere un importante ritorno economico”.
Per
raggiungere questo obiettivo è però necessario uscire, anche solo in parte,
dalla logica del “buy american” ed investire apertamente ed ingentemente sulle
industrie, sulle produzioni e sui progetti nazionali/internazionali a livello
continentale.
Il
fine ultimo deve essere anche quello di trasformare questa spesa aggiuntiva in
una solida base industriale, capace di soddisfare pienamente i bisogni delle
forze armate del Paese, e quindi in “british growth, british skills, british
jobs and british innovation” con una sostanziale e virtuosa ricaduta anche
sulla società civile.
Un
modello per l’Europa.
Questa
decisione rappresenta il primo impegno ufficiale da parte di una grande potenza
europea ad aumentare notevolmente ed in maniera stabile nel tempo le spese per
la difesa. In più, viene anche posto un modello da seguire per tutte le altre
grandi e medie potenze europee in cui misure di questo tipo sono ancora solo
ipotetiche o in fase di discussione tra circoli ristretti.
Ad
esempio, in Francia si vocifera di un ipotetico incremento fino al 5% del PIL
nel caso del ritiro degli Stati Uniti dall’Europa.
In
Italia, invece, si parla di incrementare la spesa fino al 2.5% del PIL,
rispetto all’odierno 1,56% (si tratta di circa 20 miliardi in aggiunta), nel
caso in cui questa dovesse essere esclusa dalle regole del patto di stabilità
dell’Unione Europea.
È
chiaro che queste “dichiarazioni d’intenti” da sole non siano sufficienti per
rassicurare gli alleati e per portare avanti politiche strutturate ed efficaci;
sono necessari ulteriori passi avanti. Proprio per questa “lentezza”, in parte
giustificata dalla necessità di trovare coperture finanziarie adeguate e
politicamente/elettoralmente accettabili, il Primo Ministro britannico ha
invitato gli alleati europei a “fare lo stesso ed a impegnarsi maggiormente per
la difesa collettiva” sulla scia del suo operato.
In
definitiva il governo inglese ha indicato una strada per una politica di riarmo
in grado di tener conto delle richieste di maggior impegno di USA e NATO e
della necessità di rinvigorire la base industriale del Vecchio Continente,
specie in ragione della manifesta inadeguatezza dimostrata nel corso della
guerra in Ucraina, al fine di aumentarne l’indipendenza e le capacità di
deterrenza.
Questa politica è attenta anche a rassicurare
l’opinione pubblica sulla bontà dell’investimento, prospettando crescita
economica e la creazione di posti di lavoro nel medio/lungo periodo, al fine di
rendere l’investimento sostenibile anche dal punto di vista
politico/elettorale.
Fermare
il piano europeo di riarmo
è il
primo obbiettivo del movimento
contro
la guerra.
Transform-italia.it – (16/04/2025) - Franco Ferrari
– ci dice:
Il 5
aprile il centro di Roma è stato attraversato da un imponente corteo che ha
contestato l’ingente piano di riarmo di 800 miliardi proposto dalla Commissione
Ue guidata da Ursula Von der Leyen e sostenuto dalla maggioranza del Parlamento
europeo.
La
manifestazione è stata indetta del Movimento 5 Stelle che, nato come formazione
populista anti-casta che non si identificava né con la destra né con la
sinistra, si è andato ridefinendo come formazione progressista che si propone
di far parte di uno schieramento alternativo alla destra al governo.
Su
diversi temi Conte ha impresso una svolta a sinistra, tant’è vero che i suoi
europarlamentari, dopo le elezioni del giugno scorso, hanno deciso di aderire
al gruppo “The Left”.
Una
notevole evoluzione se si pensa che il primo approccio per la costituzione di
un eurogruppo avvenne con i britannici ultraliberisti e anti-UE di Nigel
Farage.
Naturalmente
la strategia del Movimento 5 Stelle, anche assumendo il tema del no al riarmo,
è di competere con il Partito Democratico per la direzione di una potenziale
coalizione di centro-sinistra, i cui contorni e i cui contenuti programmatici
restano al momento abbastanza indefiniti.
Negli
ultimi giorni si sono registrati inediti momenti di convergenza tra PD, M5S e
AVS, in particolare con una presa di posizione comune sulla Palestina,
decisamente più netta di interventi precedenti, ma resta ancora lontana una
proposta credibile che intacchi il consenso della destra.
La
leader del PD, Elly Schlein, ha cercato di spostare il partito su posizioni
socialdemocratiche ma ha trovato molti ostacoli nella componente centrista che
guarda con aperta ostilità ad una potenziale alleanza con i 5 Stelle.
Sul piano di riarmo ha avanzato delle critiche
ritenendo eccessiva la somma degli 800 miliardi e contestandone l’utilizzo per
gli eserciti nazionali e non per una difesa comune europea.
La sua
posizione, pur prudente, è stata apertamente contrastata dalla destra PD che è
particolarmente rappresentata nel gruppo parlamentare a Bruxelles.
L’esito dei quattro referendum della CGIL che
mettono in discussione diversi aspetti del Jobs Act renziano e di quello sulla
cittadinanza promosso dal PRC e da altre forze, rappresenta un passaggio
importante nella tenuta della leadership di Elly Schlein.
La
manifestazione del 5 aprile un successo di Conte e dell’opposizione al “ReArm
Europe”.
La
manifestazione del 5 aprile ha visto la partecipazione di diverse decine di
migliaia di persone, 100.000 secondo gli organizzatori, ed è stata
caratterizzata da una mobilitazione popolare che è andata molto oltre i
militanti del partito promotore. Conte aveva pubblicamente invitato alla
partecipazione tutti coloro che sono contrari al piano di riarmo degli 800
miliardi proposto da Bruxelles, così come aveva auspicato Rifondazione
Comunista.
Il PRC
si è schierato nettamente contro il piano di riarmo. La presenza di migliaia di
militanti del partito nella manifestazione del M5S, caratterizzata da una
grande bandiera della pace, è stata un segnale importante della capacità di
mobilitazione che il partito ancora mantiene nei territori, una presenza
significativa in un contesto generale di declino dell’adesione ai partiti
politici. Così come della capacità di riprendere relazioni politiche
significative in piena autonomia.
Nel
suo intervento dal palco, il segretario del partito Maurizio Acerbo ha
sottolineato la necessità di costruire un largo movimento popolare contro il
piano di riarmo e per la cessazione delle guerre in corso come parte di un
schieramento alternativo antifascista che si ponga come obbiettivo la
realizzazione dei principi fondamentali della Costituzione nata dalla vittoria
sul nazifascismo. In particolare la difesa dell’articolo 11 sulla base del
quale l’Italia “ripudia la guerra”. Acerbo ha portato la solidarietà del
partito al popolo palestinese, vittima di un quotidiano massacro, denunciando
le complicità italiane ed europee con il governo di Netanyahu.
Il
PRC, Transform! Italia e ad altre organizzazioni avevano partecipato alla
realizzazione di una prima iniziativa di mobilitazione il 15 marzo scorso a
Piazza Barberini a Roma, raccogliendo in pochi giorni migliaia di firme su una
piattaforma di chiaro rifiuto del piano di riarmo della Von der Leyen. Il
presidio di Piazza Barberini, poi trasformatosi in corteo grazie alla
partecipazione di migliaia di persone, rappresentava una dichiarata alternativa
rispetto all’iniziativa promossa dal quotidiano liberale Repubblica che cercava
di utilizzare il rilancio di un generico europeismo per sostenere la politica
di militarizzazione in atto a livello europeo.
Nasce
la campagna “Stop ReArm Europe.”
In
queste settimane è stata avviata una campagna di mobilitazione a livello
europeo denominata “Stop Rearm”, sulla base di un appello molto sintetico che
prende però una posizione netta nell’opporsi al piano della Von der Leyen.
L’appello europeo è il seguente e deve tenere naturalmente conto che
all’interno della sinistra alternativa europea si sono espresse in questi anni
posizioni notevolmente diverse rispetto alla guerra in Ucraina. Si sono ora
aperte possibilità nuove di convergenza e mobilitazione comune. In Spagna oltre
1.000 organizzazioni e associazioni del mondo pacifista hanno già aderito a
“Stop Rearm”.
Il
testo diffuso è il seguente:
Organizziamo
un movimento europeo contro ReArm Europe!
Ci
opponiamo ai piani dell’UE di spendere altri 800 miliardi di euro in armi.
Saranno 800 miliardi di euro rubati. Rubati ai servizi sociali, alla sanità,
all’istruzione, al lavoro, alla costruzione della pace, alla cooperazione
internazionale, a una giusta transizione e alla giustizia climatica. Andrà solo
a beneficio dei produttori di armi in Europa, negli Stati Uniti e altrove.
Renderà
la guerra più probabile e il futuro meno sicuro per tutti! Genererà più debito,
più austerità, più confini. Approfondirà il razzismo. Alimenterà il cambiamento
climatico. Non abbiamo bisogno di più
armi; non abbiamo bisogno di prepararci ad altre guerre. Abbiamo bisogno di un
piano totalmente diverso: una sicurezza reale, sociale, ecologica e comune per
l’Europa e per il mondo.
Opponetevi
alla guerra.
Fermiamo ReArm Europe.
I
firmatari italiani all’iniziativa “Stop ReArm”, Transform! Italia, l’ARCI e
ATTAC Italia hanno promosso poi un’ampia coalizione a livello nazionale (“Ferma
il Riarmo”) avviando un confronto con la storica Rete italiana Pace e Disarmo
al fine di promuovere un piano di mobilitazione comune. Questa Rete è stata
costituita nel 2020 e di essa fanno parte la CGIL, l’ANPI e numerose
associazioni cattoliche e pacifiste.
Tutti
coloro che avevano sottoscritto l’appello per la manifestazione del 15 marzo in
Piazza Barberini, tra i quali numerosi intellettuali, sono stati sollecitati da
Transform! Italia ad aderire all’appello europeo di “Stop ReArm”, per il quale
è possibile la sottoscrizione individuale.
La
coalizione unitaria italiana contro il ReArm e contro la guerra.
La
coalizione italiana si è dotata di un proprio documento che affianca quello
europeo nel quale si afferma:
Fermiamo
il riarmo, ripudiamo la guerra.
Fermiamo
il piano europeo di riarmo: 800 miliardi di euro rubati ai servizi sociali,
alla salute, all’educazione, al lavoro, agli enti locali, ai beni comuni, alla
cooperazione internazionale, alla transizione giusta.
Fermiamo
la crescita vertiginosa delle spese militari nel nostro paese, che va avanti da
anni. Fermiamo la riconversione bellica dell’economia europea: porterà solo
nuovi immensi profitti alle imprese militari.
Contro
un’economia di guerra serve un’economia di pace fondata sul lavoro, diritti,
l’ambiente, il welfare. La guerra alimenta i profitti dei mercanti di morte ed
è contro gli interessi dei popoli, dei lavoratori, delle lavoratrici, delle
persone, dei territori e dell’ecosistema.
Rifiutiamo
l’ideologia bellicista, la preparazione di un clima sociale e culturale che ci
porta alla guerra, la diffusione della paura, la sindrome del nemico esterno,
il nazionalismo europeo reazionario, l’Europa fortezza.
Militarismo
fa rima con autoritarismo, repressione e chiusura degli spazi democratici. Fa
rima con machismo e patriarcato, con razzismo, con due pesi e due misure e con
l’omicidio del diritto internazionale.
Ripudiamo
la guerra come sancisce la nostra Costituzione. Le guerre e le occupazioni
vanno fermate con il diritto internazionale e la diplomazia. Destre estreme e
autocrazie si battono con più democrazia e più stato di diritto.
La
nostra Europa è sicurezza comune e condivisa, sociale ed ecologica. È disarmo,
democrazia, uguaglianza, diritti, lavoro, giustizia climatica, convivenza,
rispetto delle differenze, liberà di manifestazione. È vita degna, e diritto al
futuro.
La
guerra distrugge tutto.
Il
documento italiano collega in modo netto l’opposizione al piano di riarmo con
l’opposizione alla guerra interpretando una sensibilità che nel nostro Paese è
particolarmente forte e radicata sia nel campo della sinistra comunista e
socialista che nel mondo cattolico.
Negli
incontri avviati in queste settimane sono stati definiti alcuni obbiettivi che
vengono anche anticipati nel documento comune: una prima fase di informazione e
sensibilizzazione dovrà avere un momento significativo di convergenza con
iniziative locali che si concentreranno tra l’8 e il 10 maggio, in coincidenza
con la celebrazione degli 80 anni dalla fine della seconda guerra mondiale.
L’opposizione al piano di Riarmo troverà spazio anche nelle tradizionali
manifestazioni del 25 aprile e 1° maggio. Infine si propone la tenuta di una
manifestazione nazionale per il 21 giugno prossimo, in coincidenza con la
riunione della NATO che dovrebbe formalizzare l’aumento delle spese militari
per i paesi che ne fanno parte. L’auspicio è che questa iniziativa sia parte di
una contestuale mobilitazione europea.
Cambiando
data rispetto ad una precedente intenzione, anche Potere al Popolo ha lanciato
un appello per una manifestazione nazionale da tenersi il 21 giugno. Le
organizzazioni che l’hanno sottoscritto sono per lo più sigle che fanno
riferimento a PaP e alla Rete dei Comunisti. Inoltre il testo tende ad
introdurre molteplici elementi di divisione piuttosto che favorire le
condizioni per realizzare un’ampia mobilitazione unitaria. Queste
organizzazioni, d’altra parte, proseguono una loro linea politica che si è già
concretizzata nella manifestazione di Piazza Barberini del 15 marzo, con il
tentativo di appropriarsene cancellando le altre forze che ne avevano garantito
il successo, e con il boicottaggio della manifestazione del 5 aprile promossa
dal Movimento 5 Stelle.
Ciò
nonostante esistono tutte le condizioni affinché il movimento contro il riarmo
e contro la guerra segni la più ampia convergenza, condizione indispensabile
per riuscire a bloccare un progetto che, a livello europeo, avrebbe un pesante
impatto negativo sui diritti sociali e il welfare e potrebbe aprire scenari di
guerra che la nostra Costituzione si è posta giustamente l’obbiettivo di
impedire per sempre.
(Franco
Ferrari).
L’Italia
pronta a lasciare
l’euro
con l’aiuto di Trump?
Lacrunadellago.net
- Cesare Sacchetti – (10 -06- 2025) – ci dice:
Il
prossimo viaggio negli Stati Uniti di Matteo Salvini sarebbe imminente. Secondo
La Stampa, il ministro dell’Interno dovrebbe volare a Washington già la
prossima settimana, il 17 giugno.
Il
feeling tra le due sponde opposte dell’Atlantico negli ultimi mesi sembra
essersi rafforzato notevolmente.
Le
incomprensioni e i dubbi suscitati nella parte americana riguardo all’adesione
dell’Italia alla Via della Seta cinese, sembrano essere stati del tutto
superati.
Roma
resta un interlocutore privilegiato e un partner chiave per Washington per
colpire l’UE franco-tedesca, che assieme alla Cina accumula surplus commerciali
a discapito degli altri partner internazionali.
In
questa prospettiva, il risultato elettorale alle elezioni europee dello scorso
26 maggio affida alla nuova Lega sovranista di Salvini un ruolo decisivo nel
condurre la battaglia per cambiare l’UE sotto il dominio franco-tedesco.
Se
Washington quindi è alla ricerca di un cavallo di Troia per smantellare
un’organizzazione definita “nemica” dallo stesso Trump, Roma è alla ricerca di
un partner che la aiuti a lasciare la gabbia dell’eurozona senza contraccolpi
troppo pesanti.
Il
viaggio di Salvini in America in questo senso continua a tessere un rapporto
sempre più stretto tra i due Paesi.
Il
leader della Lega sembra essere pienamente consapevole che Bruxelles non solo
non ha alcuna intenzione di cambiare rotta in merito alle politiche di
austerità, ma non accetta minimamente che l’Italia possa essere guidata da un
governo euroscettico.
La
minaccia della Commissione UE di aprire una procedura d’infrazione per regole
che sono state praticamente violate da tutti gli Stati membri, dimostra che
l’UE non ha alcuna intenzione di trattare con Roma.
L’UE
sostanzialmente mira all’ennesima crisi indotta dello spread, capace di
scatenare quel clima di emergenza necessario per preparare il terreno ad un
governo tecnico.
Francia
e Germania pronte a spartirsi gli incarichi UE.
Mentre
quindi l’UE assume una postura sempre più aggressiva nei confronti dell’Italia,
a Bruxelles già fervono le trattative per dividersi le poltrone.
Sono
molte le caselle da riempire, a partire dalla presidenza della Commissione UE,
dal Consiglio UE fino alla pesantissima poltrona della presidenza della Bce,
che Draghi libererà dal prossimo ottobre.
Lo
scorso venerdì, nella capitale dell’UE, avrebbe avuto luogo una cena per
discutere di questi incarichi, alla quale avrebbero partecipato 6 primi
ministri di Paesi europei, tra questi il primo ministro belga, Michel, e quello
spagnolo, Sanchez
Le
prime indiscrezioni filtrate raccontano di un possibile patto franco-tedesco
per avere la presidenza della Commissione europea e quella della Bce.
Se la Merkel dovesse rinunciare alla
candidatura di Weber, leader del PPE, in questo caso proporrebbe Weidmann,
governatore della Bundesbank, alla presidenza dell’istituto di Francoforte.
Angela Merkel in visita ad Emmanuel Macron)
La
strategia dell’asse franco-tedesco sostanzialmente mira a isolare Roma dai
tavoli europei senza permetterle di entrare in lizza per gli incarichi che
potrebbero cambiare il corso seguito attualmente dall’UE.
L’Italia
si prepara a lasciare l’euro con l’aiuto di Trump?
Se
quindi Parigi e Berlino vogliono escludere Roma dai tavoli che contano, la
tendenza naturale dell’Italia è quella di guardare al suo alleato più forte e
più agguerrito nei confronti dell’UE franco-tedesca, ovvero gli Stati Uniti.
Salvini,
dopo il 26 maggio, ha di fatto assunto la leadership in pectore del governo
italiano, assumendo un piglio molto più duro e determinato nei confronti di
Bruxelles.
Le
fratture con l’alleato di governo, Luigi Di Maio, sono state ricomposte e ora
il ministro dell’Interno non pare avere la minima intenzione di cedere di
fronte alle richieste dell’UE.
Il
viaggio a Washington in questo senso potrebbe essere preparatorio alla fase
successiva dello scontro tra Roma e Bruxelles.
(Il
primo ministro Conte in visita con il presidente Trump)
Il
primo passo per uscire dalla gabbia dei vincoli dell’UE in questo senso,
potrebbe essere sicuramente l’approvazione dei minibot.
Questo
strumento di pagamento, se applicato, consentirebbe allo Stato di saldare le
passività con le imprese che ammontano a circa 65 miliardi di euro.
Il
minibot non avendo le caratteristiche di una moneta a corso legale, aggirerebbe
le norme europee che vietano l’emissione di moneta, e creerebbe di fatto un
canale di liquidità alternativa.
In
questo modo, il governo riuscirebbe a immettere liquidità nel circuito
economico senza violare la lettera dei trattati europei.
Nonostante
la legalità di questo mezzo di pagamento, Bruxelles e Francoforte non sembrano
intenzionate a concedere nulla all’Italia.
Ecco
perché Roma si prepara ad andare allo scontro con l’UE, facendosi forte della
sponda degli USA che potrebbe manifestarsi nelle prossime settimane nella forza
di dazi, che colpirebbero soprattutto l’export di auto tedesche.
Uno
scenario al quale sembrano si stiano già preparando a Bruxelles, convinti che i
dazi americani arriveranno presto.
Lo
scontro geopolitico nelle prossime settimane sarà quindi tra due fronti. Da un
lato l’asse franco-tedesco che sostiene l’UE e dall’altro, l’asse Washington –
Roma intenzionato a porre fine a questo strapotere.
Dalle
sorti di questo scontro, si saprà presto se l’UE continuerà ad esistere o se si
prepara al canto del cigno.
Scuola
4.0: La rivoluzione digitale
che
trasforma l’apprendimento.
Usaretecnologia.it
– (3-3-2025) – Roberto Vito Gerardo – ci dice:
L’educazione
sta vivendo una delle sue più grandi rivoluzioni: la Scuola 4.0.
Non si
tratta solo di introdurre la tecnologia nelle aule, ma di ripensare
completamente il modo in cui si insegna e si apprende.
La
Scuola 4.0 è un modello che abbatte i muri della didattica tradizionale e crea
un ponte tra presente e futuro, tra scuola e mondo del lavoro, tra insegnanti e
studenti, trasformando l’apprendimento in un’esperienza dinamica, inclusiva e
coinvolgente.
L’aula
diventa un ecosistema di apprendimento.
Dimentichiamo
la vecchia aula con banchi in fila e lavagna di ardesia.
Nella
Scuola 4.0, gli spazi diventano flessibili e interattivi, adattandosi alle
esigenze di studenti e docenti.
Le
aule sono organizzate in modo da poter essere trasformate in base all’attività
didattica: una mattina si lavora in piccoli gruppi, il pomeriggio si segue una
lezione in realtà aumentata, il giorno successivo si simula una conferenza
scientifica con esperti collegati da tutto il mondo.
Nei
laboratori digitali, gli studenti possono creare prototipi con stampanti 3D o
sviluppare applicazioni di intelligenza artificiale, mentre nei Fab Lab
imparano a progettare e realizzare oggetti grazie alla tecnologia.
Un
apprendimento attivo e coinvolgente.
La
Scuola 4.0 non si limita a trasmettere nozioni, ma sviluppa competenze
attraverso metodologie innovative.
Il
“problem solving” diventa la base dell’apprendimento:
per comprendere la matematica, gli studenti
costruiscono ponti virtuali e ne calcolano la resistenza;
per
studiare storia, ricostruiscono antiche città con la realtà virtuale e
analizzano le cause dei conflitti.
La
didattica si fonde con il gioco attraverso tecniche di “gamification”,
aumentando il coinvolgimento degli studenti e stimolando la loro creatività.
Grazie
alla didattica ibrida, che integra lezioni in presenza con simulazioni online,
gli studenti possono seguire il proprio ritmo di apprendimento, rafforzando le
competenze con piattaforme interattive.
Competenze
digitali per un futuro consapevole.
Nella
Scuola 4.0, anche i docenti diventano facilitatori dell’apprendimento,
aggiornandosi su nuove tecnologie e strategie didattiche innovative.
Le
competenze digitali non si limitano all’uso del computer, ma comprendono la
programmazione, la cybersecurity e la capacità di navigare nel web in modo
critico.
Gli
studenti imparano a progettare software, proteggere i propri dati e distinguere
le informazioni affidabili da quelle manipolate.
In un
mondo sempre più interconnesso, saper interagire con l’intelligenza artificiale
e comprendere i meccanismi della tecnologia diventa una competenza
indispensabile.
Tecnologie
e infrastrutture per la Scuola 4.0.
Per
rendere tutto questo possibile, le scuole si dotano di infrastrutture
all’avanguardia:
Wi-Fi
ad alta velocità per garantire l’accesso alle risorse digitali senza
interruzioni, strumenti digitali come tablet, lavagne touch di grandi
dimensioni, visori VR e stampanti 3D per trasformare la teoria in esperienza
concreta.
Le
piattaforme educative online consentono la condivisione di materiali, la
collaborazione tra studenti e docenti e il monitoraggio del percorso di
apprendimento personalizzato.
L’innovazione
tecnologica non è fine a sé stessa, ma uno strumento per rendere l’educazione
più accessibile e inclusiva.
Inclusione
e personalizzazione dell’apprendimento.
La
Scuola 4.0 è pensata per tutti, abbattendo le barriere e offrendo opportunità
anche a chi ha bisogni educativi speciali.
Strumenti
digitali avanzati permettono agli studenti con difficoltà di apprendimento di
seguire lezioni personalizzate, con materiali adattati alle loro esigenze.
L’intelligenza
artificiale viene utilizzata per costruire percorsi individualizzati,
suggerendo esercizi e contenuti in base al livello di ciascuno.
In
questo modo, ogni studente può sviluppare le proprie capacità senza essere
frenato da metodi didattici rigidi.
Un
ponte tra scuola e mondo del lavoro.
La
Scuola 4.0 non è solo un luogo di apprendimento, ma una palestra per il futuro.
Il
legame con il mondo del lavoro è sempre più stretto, con percorsi formativi
orientati alle professioni emergenti. L’attenzione alle STEM (Scienza,
Tecnologia, Ingegneria e Matematica) prepara gli studenti alle sfide del
mercato globale, mentre l’alternanza scuola-lavoro si arricchisce di esperienze
reali grazie a collaborazioni con aziende, università e startup.
Gli
studenti non solo acquisiscono competenze tecniche, ma sviluppano anche soft
skills come il problem solving, il lavoro di squadra e la capacità di adattarsi
a situazioni complesse.
Le
simulazioni aziendali, i laboratori di imprenditorialità e i progetti
interdisciplinari offrono agli studenti un assaggio concreto di cosa significhi
innovare e creare valore nel mondo del lavoro.
Educazione
alla cittadinanza digitale.
Essere
cittadini digitali significa sapere come muoversi in rete in modo sicuro e
consapevole. La Scuola 4.0 forma gli studenti alla cybersecurity, insegnando
loro a proteggere i propri dati e riconoscere le minacce informatiche.
In
un’epoca di disinformazione, sviluppare il pensiero critico è fondamentale: gli
studenti imparano a distinguere notizie affidabili da fake news e a navigare il
web con responsabilità.
L’uso
dei social media viene affrontato con un approccio educativo, per prevenire
dipendenze digitali e promuovere un’interazione rispettosa e consapevole.
La
Scuola 4.0 è il futuro, e il futuro è adesso.
La
Scuola 4.0 rappresenta una necessità più che un’innovazione.
Non
possiamo più pensare alla scuola come a un luogo statico in cui si trasmettono
informazioni.
L’educazione
deve essere dinamica, inclusiva, digitale e connessa alla realtà. Il
cambiamento non riguarda solo l’introduzione della tecnologia, ma un nuovo modo
di apprendere, insegnare e prepararsi al domani.
Il
futuro dell’istruzione è già qui, e sta a noi coglierne tutte le opportunità.
(Roberto
Vito Gerardo).
Il
piano dell'impero statunitense
per il
dominio globale.
Unz.com - Michael Hudson – (27 giugno 2025) – ci dice:
La
guerra contro l'Iran fa parte del più ampio tentativo dell'impero statunitense
di reimporre il suo dominio unipolare sul sistema politico e finanziario
globale, sostiene l'economista Michael Hudson.
Washington
vuole preservare l'egemonia del dollaro e del petrodollaro, interrompendo al
contempo i BRICS e l'integrazione eurasiatica con Cina e Russia.
Hudson
lo ha spiegato nella seguente intervista con “Ben Norton”, redattore di “Geopolitical
Economy Report”.
BEN
NORTON: Perché gli Stati Uniti sono così preoccupati per l'Iran?
Il
presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ammesso che ciò che Washington
vuole è un cambio di regime a Teheran, per rovesciare il governo iraniano.
Trump
ha sostenuto una guerra contro l'Iran a giugno, in cui sia gli Stati Uniti che
Israele hanno bombardato direttamente il territorio iraniano.
Trump
ha affermato di aver negoziato un cessate il fuoco dopo quella che chiama la
guerra dei 12 giorni che gli Stati Uniti e Israele hanno intrapreso contro
l'Iran. Ma è molto difficile credere che questo “cessa il fuoco” reggerà.
Soprattutto
considerando che Trump ha detto lo stesso a gennaio.
Ha
affermato di negoziare un cessate il fuoco a Gaza, ma poi a marzo, due mesi
dopo, Israele ha ricominciato la guerra, dopo che Trump aveva dato a Israele il
via libera per violare il cessate il fuoco che aveva contribuito a negoziare.
Quindi
è molto difficile per i funzionari iraniani credere che il cessate il fuoco
reggerà davvero.
E anche se dovesse reggere a breve termine, la
realtà è che il governo degli Stati Uniti ha condotto una sorta di guerra
politica ed economica contro l'Iran per molti decenni, a partire dal 1953,
quando gli Stati Uniti effettuarono un colpo di stato che rovesciò il primo
ministro iraniano democraticamente eletto Mohammad Mossadeq e installò un
dittatore filo-americano: Scià Mohammad Reza Pahlavi.
Allora
perché? Cosa vuole ottenere Washington dalla sua infinita guerra politica ed
economica contro l'Iran?
Per
cercare di rispondere a questa domanda, ho intervistato il famoso economista “Michael
Hudson”, che ha scritto molti libri ed è un esperto di economia politica
globale.
Michael
Hudson ha pubblicato un articolo in cui delinea le ragioni economiche e
politiche di questa guerra contro l'Iran, e postula che questo fa parte del
tentativo dell'impero statunitense di imporre un ordine unipolare al mondo,
come abbiamo visto negli anni '90, quando gli Stati Uniti erano l'unica
superpotenza e potevano imporre la loro volontà politica ed economica a quasi
tutti i paesi della Terra.
L'Iran
era uno dei pochissimi paesi che stava effettivamente resistendo all'egemonia
unipolare degli Stati Uniti.
E oggi vediamo, mentre il mondo è sempre più
multipolare, che l'Iran svolge un ruolo importante come membro dei BRICS e come
sostenitore dei gruppi di resistenza.
L'Iran
sta spingendo per un mondo più multipolare, in opposizione all'unipolarismo
dell'impero statunitense, come descrive l'economista Michael Hudson in questo
saggio.
Hudson
ha scritto:
Ciò
che è in gioco è il tentativo degli Stati Uniti di controllare il Medio Oriente
e il suo petrolio come contrafforte del potere economico degli Stati Uniti, e
di impedire ad altri paesi di muoversi per creare la propria autonomia
dall'ordine neoliberista centrato sugli Stati Uniti amministrato dal FMI, dalla
Banca Mondiale e da altre istituzioni per rafforzare il potere unipolare degli
Stati Uniti.
Nella
nostra discussione di oggi, Michael collega tutti i diversi fattori coinvolti
in questo conflitto, tra cui il petrolio e il gas e altre risorse in Asia
occidentale (nel cosiddetto Medio Oriente);
compreso
il ruolo del dollaro USA e del sistema del petrodollaro;
e come
l'Iran, in quanto membro dei BRICS, e molti altri paesi del Sud del mondo, si
stanno de-dollarizzando e cercando alternative al dollaro.
Si
parla anche della geopolitica della regione, delle rotte commerciali e
dell'interconnettività tra Cina, Iran e Russia, nell'ambito di un progetto di
integrazione eurasiatica;
parliamo
degli obiettivi geopolitici degli Stati Uniti e di Israele; e molto, molto di
più.
Ecco
un estratto della nostra conversazione, e poi passiamo direttamente
all'intervista:
MICHAEL
HUDSON:
Quello
che abbiamo visto nell'ultimo mese – o dovrei dire negli ultimi due anni in
realtà – è il culmine della lunga strategia che l'America ha avuto fin dalla
Seconda Guerra Mondiale, per prendere il controllo completo delle terre
petrolifere del Vicino Oriente e renderle proxy degli Stati Uniti, sotto
governanti clienti, come l'Arabia Saudita e il re di Giordania.
L'Iran
rappresenta una minaccia militare al confine meridionale della Russia, perché
se gli Stati Uniti ottenere mettere un regime cliente in Iran, o dividere
l'Iran in gruppi etnici che sarebbero in grado di interferire con il corridoio
commerciale della Russia verso sud, nell'accesso all'Oceano Indiano, beh,
allora hai inscatolato in Russia, hai inscatolato in Cina: e tu sei riuscito a
isolarli.
Questa
è l'attuale politica estera americana. Se si possono isolare i paesi che non
vogliono far parte del sistema finanziario e commerciale internazionale
americano, allora la convinzione è che non possono esistere da soli; sono
troppo piccoli.
L'America
sta ancora vivendo nell'epoca della Conferenza di Bandung del 1955 in
Indonesia. Quando altri paesi volevano andare da soli, erano troppo piccoli
economicamente.
Ma
oggi, per la prima volta nella storia moderna, avete l'opzione dell'Eurasia,
della Russia, della Cina, dell'Iran e di tutti i paesi vicini nel mezzo. Per la
prima volta, sono abbastanza grandi da non aver bisogno di scambi e
investimenti con gli Stati Uniti.
Infatti,
mentre gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO in Europa si stanno
riducendo – sono economie de-industrializzate, neo-liberiste e post-industriali
– la maggior parte della crescita della produzione, della manifattura e del
commercio mondiale è avvenuta in Cina, insieme al controllo della raffinazione
delle materie prime, come le terre rare, ma anche il cobalto, persino l'alluminio
e molti altri materiali in Cina.
Così
il tentativo strategico dell'America di isolare la Russia, la Cina e tutti i
loro alleati nei BRICS o nell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai
finisce per isolare sé stessa.
Sta
costringendo altri paesi a fare una scelta.
Questa
è l'unica cosa che l'America ha da offrire agli altri paesi del mondo di oggi.
Non possono offrire le loro esportazioni. Non possono offrire la loro stabilità
monetaria.
L'unica
cosa che l'America ha da offrire al mondo è di astenersi dal distruggere la
propria economia e causare il caos economico, come Trump ha minacciato di fare
con i suoi dazi, e quello che ha minacciato di fare a qualsiasi paese che
cerchi di creare un'alternativa al dollaro.
Da qui
questo pranzo gratis, dove altri paesi possono guadagnare dollari, ma devono
prestarli di nuovo agli Stati Uniti.
E gli Stati Uniti, in quanto loro banchiere,
devono tenere tutto, e il banchiere può decidere chi pagare e chi non pagare.
È un
gangster.
È
stato definito uno stato gangster, proprio per queste ragioni.
E altri paesi hanno paura di ciò che gli Stati
Uniti possono fare, non solo sotto Donald Trump, ma anche di ciò che hanno
fatto negli ultimi 50 anni.
Sta
semplicemente confiscando, destabilizzando e rovesciando.
L'America
ha sostanzialmente dichiarato guerra a qualsiasi tentativo di creare un sistema
di commercio e investimenti internazionali che gli Stati Uniti non controllano,
nel proprio interesse, volendo tutti i guadagni che ne derivano, tutti i
proventi che ne derivano, non solo una parte di essi.
È un
impero avido.
Intervista.
BEN
NORTON:
Michael,
grazie per essere qui con me. È sempre un vero piacere averti con noi.
Parliamo
di questo articolo che hai scritto, in cui sostieni che la guerra contro l'Iran
fa parte di un tentativo degli Stati Uniti di imporre la loro egemonia
unipolare sul mondo.
Vediamo
che stiamo vivendo in un mondo sempre più multipolare, e l'Iran ha svolto un
ruolo importante nel progetto multipolare come membro dei BRICS, come membro
dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, come partner di Cina e
Russia.
L'Iran
ha anche spinto verso la de-dollarizzazione del sistema finanziario globale.
Parlaci
di come vedi la guerra contro l'Iran – che non è iniziata sotto Donald Trump,
risale a molti anni fa – e di come la vedi in particolare come economista.
MICHAEL
HUDSON:
Beh,
la guerra contro l'Iran è iniziata nel 1953, quando gli Stati Uniti e l'MI6
hanno rovesciato il primo ministro eletto [Mohammad Mossadegh], e la ragione
per cui è stato rovesciato è perché voleva nazionalizzare le riserve
petrolifere dell'Iran.
Gli
Stati Uniti hanno sempre visto l'Iran come parte del Golfo petrolifero del
Vicino Oriente.
La
politica estera americana, in termini di armamento del suo commercio estero, si
è sempre basata su due materie prime:
i
cereali alimentari – la capacità di smettere di esportare cibo verso i paesi
che si oppongono alla politica degli Stati Uniti, come gli Stati Uniti hanno
smesso di esportare grano in Cina sotto Mao – e il petrolio.
Per un
secolo, gli Stati Uniti si sono concentrati sul controllo del petrolio come
base della loro bilancia commerciale internazionale – è il più grande
contribuente alla bilancia commerciale – e della loro capacità di sanzionare il
resto del mondo, interrompendo la fornitura di petrolio, e quindi spegnendo
l'elettricità, spegnendo il gas.
Spegnere
il riscaldamento domestico, dei paesi che si allontanano dalla politica
statunitense.
Quando
lavoravo per l'Hudson Institute nei primi anni '70, Herman Kahn mi portò a un
incontro con alcuni generali, e stavano discutendo su cosa fare con l'Iran nel
caso in cui, sotto lo Scià, l'Iran aveva mai cercato di affermare la sua
autonomia e andare per la sua strada.
L'Iran
è sempre stato la potenza più forte dell'intero Vicino Oriente e la chiave di
volta per il controllo del Vicino Oriente.
Non si
può controllare completamente il petrolio del Vicino Oriente – Siria, Iraq, il
resto dei paesi – senza controllare anche l'Iran, a causa delle dimensioni
della sua popolazione e della forza della sua economia.
È
stato un incontro molto interessante. “Herman Kahn”, il modello del Dottor
Stranamore, discute su come dividere l'Iran nelle sue varie etnie, cinque o sei
etnie, nel caso in cui avesse adottato una politica indipendente dagli Stati
Uniti.
La
preoccupazione degli Stati Uniti già negli anni '70, 50 anni fa, era:
"Cosa facciamo se gli altri paesi non seguono il tipo di ordine mondiale
internazionale che stiamo organizzando?"
“Herman”
ha detto che pensava che il punto di crisi che stava per esplodere nelle
notizie internazionali sarebbe stato il “Balochistan”, al confine dell'Iran con
il Pakistan.
I
beluci sono una popolazione distinta, proprio come gli azeri, gli azeri, i
curdi.
L'Iran
è un insieme di molti gruppi etnici, tra cui un gruppo ebraico molto numeroso.
È una
società multietnica, e la strategia degli Stati Uniti, nel caso ci fosse stata
una guerra contro l'Iran, era quella di giocare su queste etnie – proprio come piani
simili sono stati elaborati per la Russia, come dividerla in parti etniche
separate; e la Cina, come dividere la Cina in parti etniche, nel momento in cui
l'America vuole affrontarle.
E la
ragione per cui questa divisione etnica si è sviluppata è che, come democrazia,
specialmente negli anni '70, è diventato molto evidente che gli Stati Uniti non
avrebbero mai più potuto schierare un esercito per l'invasione, come stavano
facendo in Vietnam.
All'epoca
in cui partecipai a questa riunione, alla fine del 1974 credo, o all'inizio del
'75, ci furono delle manifestazioni.
Era
ovvio che non ci sarebbe mai più stata una leva militare.
Come
potevano gli Stati Uniti esercitare il loro potere internazionale senza potere
militare?
Aveva
basi militari in tutto il mondo;
Ha
speso di più per l'esercito di qualsiasi altro paese.
L'intero
deficit della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti era costituito da spese
militari all'estero, eppure non poteva andare in guerra.
Doveva
usare proxy.
Questo
è stato il momento in cui, oltre alle discussioni a cui ho partecipato su come
usare le etnie nei paesi a cui abbiamo dichiarato guerra, come oppositori;
L'America
decise di creare la più grande base militare del Vicino Oriente, e cioè
Israele.
“Henry
Jackson”, il senatore pro-guerra, del Complesso Militare-Industriale, si
incontrò con “Herman Kahn” – io ero nell'ufficio di Herman, ascoltando la
telefonata, quando arrivò – e l'accordo era che il Complesso
Militare-Industriale e Jackson avrebbero appoggiato Israele, se Israele avesse
accettato di agire come portaerei atterrate degli Stati Uniti nel Vicino
Oriente, come si diceva all'epoca.
Herman
fece molto volentieri quell'accordo, perché l'Hudson Institute a quel tempo era
un'organizzazione sionista, ed era un campo di addestramento per il Mossad.
Uno
dei miei colleghi era Uzi Arad.
Abbiamo
fatto una serie di viaggi insieme in Asia.
E Uzi
è diventato consigliere di Netanyahu e capo del Mossad negli anni successivi.
Quindi,
in un certo senso, mi sono seduto nel momento in cui si stava delineando la
strategia americana.
Israele
sarebbe stato il volto dell'America, e infatti ha coordinato il sostegno
americano ad Al-Qaeda e ai macellai wahhabiti che hanno preso il controllo
della Siria, e ora sono impegnati a uccidere i cristiani, a uccidere gli
sciiti, a uccidere gli alawiti.
E non
vedrete mai alcuna critica a Israele da parte di Al-Qaeda, o del gruppo [Hayat
Tahrir al-Sham (HTS)] in Siria, comunque lo si voglia chiamare lì. E viceversa,
c'è sempre stato un rapporto di lavoro.
Quindi
questo fornisce un po' di informazioni su quanto tempo gli Stati Uniti hanno
anticipato il giorno in cui avrebbero cercato di concludere finalmente la loro
invasione dell'Iraq, il loro attacco alla Siria, la loro distruzione della
Libia, il loro sostegno alla distruzione del Libano e di altri paesi, nel Nord
Africa, ecc.
Quello
che abbiamo visto nell'ultimo mese – o dovrei dire negli ultimi due anni in
realtà – è il culmine della lunga strategia che l'America ha avuto fin dalla Seconda
Guerra Mondiale, per prendere il controllo completo delle terre petrolifere del
Vicino Oriente e renderle alleate degli Stati Uniti, sotto governanti clienti,
come l'Arabia Saudita e il re di Giordania.
Geopolitica
e commercio globale.
BEN
NORTON:
Hai
sollevato così tanti punti interessanti, Michael.
Voglio concentrarmi sulle due questioni principali:
una è la geopolitica dell'integrazione
dell'Iran con l'Eurasia, e l'altra è il petrolio e il sistema del petrodollaro.
Inizierò
con la geopolitica.
Naturalmente, quando parliamo del
petrodollaro, dobbiamo tenere a mente che l'Iran ha venduto il suo petrolio e
il suo gas in altre valute e ha spinto per la de-dollarizzazione.
Ma
prima di arrivare a questo, voglio parlare del ruolo che l'Iran ha svolto non
solo nel sostenere i gruppi di resistenza in Asia occidentale, ma anche
nell'approfondire la sua partnership politica ed economica con la Cina e la
Russia, come parte di una più ampia partnership eurasiatica.
Ci
sono numerosi progetti fisici che integrano queste regioni.
L'Iran
è al centro della Nuova Via della Seta cinese.
Questo
è stato originariamente lanciato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013, e
poi si è espanso nella “Belt and Road Initiative” (BRI).
L'Iran
è una parte importante in questo, collegando l'Asia orientale, attraverso
l'Asia centrale, attraverso l'Iran, all'Asia occidentale.
E gli
Stati Uniti hanno davvero cercato di interrompere tutto questo.
L'Iran
svolge anche un ruolo importante in un corridoio economico guidato dalla Russia
che collega da San Pietroburgo, attraverso Mosca, attraverso il Mar Caspio,
attraverso l'Iran e l'India.
Questo
è noto come Corridoio Internazionale di Trasporto Nord-Sud,” l'INSTC.
Abbiamo
visto che l'Iran ha svolto un ruolo molto importante sfidando il dollaro USA,
sfidando l'egemonia degli Stati Uniti e cercando anche l'integrazione economica
e politica con altri paesi dell'Eurasia.
Puoi
dirci di più su questo e sul perché questi pianificatori imperiali a Washington
vedono questo come una minaccia?
MICHAEL
HUDSON:
Beh,
hai appena riassunto le due mappe che ho incluso nel mio articolo.
Circa
un mese fa, l'Iran ha appena completato la sua ferrovia Belt and Road, che
arriva fino a Teheran. Per la prima volta, c'è un corridoio terrestre dall'Iran
alla Cina.
Ora,
il corridoio Belt and Road significa che stanno evitando di andare via mare.
La
politica militare americana e britannica si è basata per un centinaio di anni
sul controllo dei mari, e il controllo del commercio petrolifero faceva parte
di quella strategia.
Perché
se l'Iran, l'Arabia Saudita, il Kuwait e gli altri paesi produttori di petrolio
non possono caricare le petroliere di petrolio, come faranno a esportare?
E come
possono importatori come la Cina o l'India ottenere petrolio dal Vicino
Oriente?
Beh,
con la “Belt and Road Initiative” della Cina, la sua intenzione era quella di
andare fino in fondo, attraverso l'Iran, e poi procedere fino all'Oceano
Atlantico, fino all'Europa.
Questa
“Belt and Road “doveva coprire l'intero continente eurasiatico, l'intero
emisfero orientale.
E se
gli Stati Uniti riuscissero a conquistare l'Iran ea prenderne il controllo, ciò
interferirebbe con lo sviluppo ferroviario a lunga distanza della Cina, e lo
bloccherebbe – proprio come gli Stati Uniti sperano di spingere l'India e il
Pakistan una sorta di lotta che interromperebbe l'iniziativa cinese” Belt and
Road “che passa attraverso il Pakistan [il Corridoio economico Cina-Pakistan
(CPEC)].
Quindi,
da un lato, l'Iran è la chiave per il trasporto via terra della Cina verso
l'Europa.
E come
hai appena sottolineato, con la Russia:
l'Iran rappresenta una minaccia militare per
il confine meridionale della Russia, perché se gli Stati Uniti potessero
mettere in piedi un regime clientelare in Iran, o dividere l'Iran in gruppi
etnici che sarebbero in grado di interferire con il corridoio commerciale russo
verso sud, con accesso all'Oceano Indiano, beh, allora avresti messo alle
strette la Russia, avresti messo alle strette la Cina e saresti riuscito a
isolarli.
Questa
è l'attuale politica estera americana.
Se si riescono a isolare i Paesi che non
vogliono far parte del sistema finanziario e commerciale internazionale
americano, si finisce per credere che non possano sopravvivere da soli: sono
troppo piccoli.
L'America
sta ancora vivendo l'epoca della “Conferenza di Bandung del 1955,” delle
nazioni non allineate, in Indonesia. Quando gli altri paesi decisero di
procedere da soli, si resero conto che erano economicamente troppo piccoli.
Ma
oggi, per la prima volta nella storia moderna, abbiamo la possibilità di
scegliere tra l'Eurasia, la Russia, la Cina, l'Iran e tutti i paesi confinanti.
Per la prima volta, sono abbastanza grandi da non aver bisogno di scambi
commerciali e investimenti con gli Stati Uniti.
Infatti,
mentre gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO in Europa si stanno
riducendo (sono economie de-industrializzate, neo liberiste e post industriali),
la maggior parte della crescita della produzione, della manifattura e del
commercio mondiale si è verificata in Cina, insieme al controllo della
raffinazione delle materie prime, come le terre rare, ma anche il cobalto,
perfino l'alluminio e molti altri materiali in Cina.
Così
il tentativo strategico dell'America di isolare la Russia, la Cina e tutti i
loro alleati nei BRICS o nell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai
finisce per isolare se stessa.
Sta
costringendo altri paesi a fare una scelta.
Questo
è stato reso molto chiaro immediatamente dopo che Trump ha assunto la
presidenza e ha annunciato la sua politica tariffaria, dicendo:
"In tre mesi, imporrò tariffe così
devastanti che voi, i paesi del Sud del mondo, i paesi a maggioranza globale,
le vostre economie saranno nel caos senza avere accesso al mercato
americano".
Ma,
[Trump ha detto], "Abbiamo tre mesi per negoziare, e, se ci date un cambio, ridurrò
queste tariffe al 10%, in modo che non devastino le vostre economie.
E uno
degli accordi che devi fare è accettare le sanzioni americane per non
commerciare con la Cina, per non investire in Cina, per non usare alternative
al dollaro USA".
La
Cina sta cercando di evitare di usare i dollari, proprio come la Russia non è
più in grado di usare i dollari, perché gli Stati Uniti hanno semplicemente
confiscato 300 miliardi di dollari di riserve di valuta estera della Russia in
Occidente, che detenevano a Bruxelles, al fine di gestire la sua valuta estera,
per stabilizzare il suo tasso di cambio, che è ciò che fanno le banche centrali
in tutto il mondo.
Beh, è
molto interessante.
Il “Financial
Times” ha pubblicato un articolo in prima pagina [riportando] che ora i paesi
europei, in particolare Germania e Italia, che detengono rispettivamente il
secondo e il terzo maggiore giacimento aurifero, hanno chiesto:
"Potreste per favore [restituirci il
nostro oro]? Noi, dalla Seconda Guerra Mondiale, abbiamo lasciato tutte le
nostre riserve auree alla Federal Reserve di New York".
L'oro
americano si trova a Fort Knox, ma altri paesi conservano le loro riserve auree
nei sotterranei della “Federal Reserve Bank”, proprio di fronte alla “banca
Chase Manhattan”, nel centro della città.
E
altri paesi ora si rendono conto che, sotto Trump, se lui dice: "Beh,
l'Europa si è davvero approfittata di noi; ci ha esportato più di quanto gli
abbiamo venduto" - sapete, Italia e Germania temono che in qualche modo
l'America dirà: "Beh, ci prenderemo tutto questo oro che avete accumulato
approfittando di noi".
Quindi
il resto del mondo si sta ritirando dal dollaro.
Questo
riflette l'effetto di tutto ciò che gli Stati Uniti stanno cercando di fare per
isolare le altre parti del mondo dai contatti con gli Stati Uniti, se cercano
di avere un sistema economico alternativo al capitalismo finanziario
neoliberista, se cercano di avere un socialismo industriale – che è in realtà
un capitalismo industriale in via di sviluppo, con investimenti pubblici attivi
nelle infrastrutture di base, invece di privatizzare le infrastrutture in stile
Margaret Thatcher.
L'effetto
sarà quello di lasciare gli Stati Uniti isolati, e tutto il resto del mondo che
va per la sua strada, incapace di commerciare con gli Stati Uniti a causa delle
alte tariffe che Trump ha imposto, e spaventato dal commercio in dollari a
causa della militarizzazione predatoria del dollaro standard, che era stato il
pasto gratis dell'America sotto l'intera epoca dello standard dei buoni del
tesoro degli Stati Uniti. da quando l'America ha perso l'oro nel 1971.
Il
petrolio e il petrodollaro.
BEN
NORTON:
Ancora
una volta, Michael, hai sollevato così tanti punti positivi.
Voglio
rimanere sulla questione del petrolio, del dollaro USA e del sistema del
petrodollaro.
Ora,
lei ha detto un paio di volte che gli Stati Uniti dipendono davvero dalle
esportazioni di petrolio e dal controllo del commercio petrolifero, in parte
per cercare di ridurre il loro enorme deficit delle correnti partite – che,
voglio dire, non ha ancora molto successo.
Gli Stati Uniti hanno un massiccio deficit
delle partite correnti, cioè deficit commerciale con il resto del mondo.
Ma ciò
che è diverso negli anni 2020 è che gli Stati Uniti sono ora il più grande
esportatore mondiale di petrolio.
È il
più grande produttore di petrolio sulla Terra e il più grande produttore di
gas.
Quindi
questa è una differenza significativa.
Questo
è in gran parte uno sviluppo dell'ultimo decennio dovuto all'esplosione del
fracking negli Stati Uniti e anche alla rivoluzione del petrolio di scisto.
Quindi,
non è necessariamente che gli Stati Uniti abbiano bisogno di avere fisicamente
accesso a tutto il petrolio della regione.
Anche
se, naturalmente, le società statunitensi di combustibili fossili vorrebbero
privatizzare tutto il petrolio dell'Asia occidentale, che è di proprietà
statale.
Ad
esempio, abbiamo parlato di “Mohammad Mosaddegh”, il primo ministro dell'Iran
che fu rovesciato dal colpo di stato del 1953 sostenuto dalla CIA, dopo aver
nazionalizzato il petrolio in Iran e cacciato le compagnie petrolifere
statunitensi e britanniche.
Ebbene,
l'attuale governo iraniano, dopo la rivoluzione iraniana del 1979, ha
nazionalizzato anche il petrolio e lo Stato iraniano ha effettivamente molta
influenza sull'economia, anche attraverso le imprese statali.
Quindi,
ovviamente, gli Stati Uniti vorrebbero privatizzare tutto questo. Ma non si
tratta necessariamente di ottenere l'accesso a tutto quel petrolio.
Si
tratta di mantenere l'attuale ordine finanziario, che è in realtà sostenuto dal
petrolio, soprattutto dopo che nel 1971 Richard Nixon staccò il dollaro
dall'oro.
Poi,
nel 1974, Nixon inviò il suo segretario al Tesoro, William Simon – Bill Simon,
della Salomon Brothers – che era un esperto di obbligazioni.
Dirigeva
il dipartimento del Tesoro, negoziando titoli di Stato statunitensi presso la
Salomon Brothers, la principale banca d'investimento di Wall Street.
Fu
inviato a Gedda nel 1974, dove negoziarono un accordo in base al quale gli
Stati Uniti avrebbero protetto la monarchia saudita e, in cambio, l'Arabia
Saudita avrebbe venduto tutto il suo petrolio in dollari, mantenendo così la
domanda globale di dollari USA.
Ciò è avvenuto
un anno dopo l'embargo petrolifero dell'OPEC, in cui i paesi del Sud del mondo
hanno dimostrato di poter usare il loro controllo del petrolio come strumento
geopolitico per punire gli Stati Uniti e l'Occidente per il loro sostegno a
Israele.
Voglio
dire, tutta questa storia è ancora così rilevante oggi.
Ora,
l'Iran sta sfidando direttamente quel sistema del petrodollaro. L'Iran sta
vendendo il suo petrolio alla Cina in yuan cinese, il renminbi.
L'Iran
commercia anche con l'India, vende il suo petrolio e usa la sua valuta, il “rial”.
Anche
l'India sta utilizzando la sua valuta, la “rupia”, e l'India sta essenzialmente
scambiando i suoi prodotti agricoli con il petrolio iraniano.
Quindi
puoi parlarci di questo sistema del petrodollaro, e perché l'Iran è visto come
una sfida così importante per questo sistema?
E in
realtà ciò significa una sfida diretta al dominio globale del dollaro USA
stesso.
MICHAEL
HUDSON:
Beh,
ho detto che l'obiettivo originario degli Stati Uniti era quello di controllare
il petrolio del Vicino Oriente.
Ero
l'economista della bilancia dei pagamenti per la Chase Manhattan Bank, e ho
fatto un intero studio per conto dell'industria petrolifera statunitense per
calcolare i rendimenti della bilancia dei pagamenti, e il dollaro medio speso
dalle Sette Sorelle, le grandi compagnie petrolifere.
Il
dollaro medio investito in Arabia Saudita, Kuwait e altri paesi arabi è stato
recuperato in soli 18 mesi.
Il
petrolio era l'investimento più redditizio dell'intera economia degli Stati
Uniti e lo era essenzialmente.
Ora,
il piano originale, come ho detto, degli Stati Uniti nel Vicino Oriente, era
visto come avere petrolio.
Poi è
arrivata la guerra del petrolio – ed è stata più di una guerra del petrolio –
nel 1974, dopo che Israele ha intrapreso la guerra del 1973 e dopo che gli
Stati Uniti hanno quadruplicato i prezzi del grano.
Beh,
hai menzionato “Bill Simon [“il Segretario al Tesoro di Nixon].
“Herman
Kahn” e io andammo a incontrare Bill Simon nel 1974, per discutere quale
dovesse essere la strategia americana con le compagnie petrolifere.
Simon
ha detto: "Abbiamo
spiegato loro che possono chiedere il prezzo del petrolio a loro piacimento.
Possono quadruplicarne i prezzi".
Di
fatto, ciò rese molto felici la “Standard Oil of New Jersey”, la Socony [in
seguito Mobil] e le altre compagnie petrolifere americane, perché, come hai
sottolineato, l'America stessa era un enorme produttore di petrolio.
Quando
i paesi OPEC quadruplicarono il prezzo del petrolio, le compagnie petrolifere
americane trassero enormi profitti dalla loro produzione e da quella del
Canada.
Bill
Simon mi ha raccontato di aver spiegato loro che potevano far pagare il
petrolio a qualsiasi prezzo; quadruplicarlo andava bene.
Ma
l'accordo era che dovevano tenere tutti i loro risparmi da quello che avevano
ricavato da questo petrolio – non lo chiamerò profitto, perché in realtà è una
resa di risorse naturali – dovevano mantenere le loro rendite nell'economia
degli Stati Uniti.
L'accordo
era che l'Arabia Saudita e altri paesi avrebbero esportato il loro petrolio in
dollari; non avrebbero rimosso questi dollari dagli Stati Uniti.
Lascerebbero
i dollari che sono stati pagati dai paesi europei, dagli altri paesi che
comprano il loro petrolio; lo investirebbero principalmente in titoli del
Tesoro degli Stati Uniti e potrebbero anche acquistare azioni e obbligazioni
statunitensi.
Ma non
poteva fare quello che l'America ha fatto con il suo cambio di valuta europea,
per esempio.
I paesi dell'OPEC non potevano comprare il
controllo di nessuna grande azienda americana.
Potevano
acquistare azioni e obbligazioni, ma dovevano distribuire l'investimento nel
mercato azionario su tutto il mercato.
Quindi
penso che il re dell'Arabia Saudita abbia comprato un miliardo di dollari di
ogni azione del “Dow Jones Industrial Average”, per distribuire il tutto.
Ma la
maggior parte del loro denaro era conservata al sicuro nei titoli del Tesoro
degli Stati Uniti.
Quindi,
essenzialmente, le entrate dell'OPEC – non dirò guadagni perché, ancora una
volta, non sono state realmente guadagnate;
sono
redditi non guadagnati – le entrate dell'OPEC derivanti dalle vendite di
petrolio sono finite tutte negli Stati Uniti, la maggior parte delle quali
prestate al governo degli Stati Uniti.
Ebbene,
quell'afflusso di dollari è ciò che ha permesso agli Stati Uniti di fare due
cose.
Uno,
come afflusso della bilancia dei pagamenti, ha permesso agli Stati Uniti di
continuare a spendere le loro spese militari all'estero, al fine di avere il
pugno militare dietro il loro impero economico.
Ma ha
anche finanziato il deficit di bilancio interno.
Le banche centrali straniere finanziavano in
gran parte il deficit di bilancio interno dell'America, con la loro detenzione
di buoni del Tesoro americano.
Quindi
i paesi dell'OPEC sono diventati sostanzialmente parti prigioniere del sistema
finanziario americano che avevo descritto nel mio libro Super Imperialismo.
Così
mi sono incontrato con la gente del Tesoro del Tesoro, spiegando
fondamentalmente quello in cui avevo scritto “Super Imperialismo”, su come
porre fine alla pratica di altri paesi di detenere le loro riserve monetarie
internazionali in oro, ma di tenerle in prestiti al Tesoro degli Stati Uniti
sotto forma di acquisto di buoni del Tesoro come veicolo per i loro risparmi,
ha essenzialmente reso i risparmi del mondo intero, il risparmio monetario,
tutto concentrato a Washington e New York.
Quel
controllo di quello che era iniziato come il controllo del commercio del
petrolio, per trasformare il commercio del petrolio in un'arma, è diventato il
controllo del sistema finanziario internazionale con le eccedenze del dollaro
che sono state gettate via dal commercio del petrolio.
Quindi
c'era quella simbiosi tra il sistema commerciale e il sistema finanziario come
base per la politica militare americana, e quello che io chiamavo” super
imperialismo”.
Super
imperialismo.
BEN
NORTON:
Sì, e
quello che hai descritto più di 50 anni fa, in modo così brillante, come il
sistema del super imperialismo, quello che stiamo vedendo oggi è che l'Iran e
altri paesi BRICS stanno sfidando quel sistema.
Stanno
sfidando l'esorbitante privilegio del dollaro USA e stanno cercando di cercare
alternative.
Quindi
forse si può parlare di più di questo movimento globale di de-dollarizzazione e
di come l'Iran svolga un ruolo centrale in questo.
E
questo è uno dei motivi, naturalmente, per cui è un obiettivo degli Stati
Uniti.
MICHAEL
HUDSON:
Beh,
l'Iran non era davvero al centro di tutto questo, perché gli Stati Uniti sono
stati in grado di isolare l'Iran.
Non
appena lo Scià è stato rovesciato, gli Stati Uniti hanno giocato un brutto
scherzo all'Iran, lo ha fatto la “Chase Manhattan Bank”.
L'Iran
aveva un debito estero – come ogni paese ha, emettendo obbligazioni estere – e
ha inviato i dollari alla Chase Manhattan Bank, per pagare i dividendi ai
detentori di obbligazioni.
Il
Tesoro andò da David Rockefeller e gli disse:
"Non
mandare avanti questo denaro iraniano. Tienilo lì".
E così
l'Iran è stato considerato in default, e l'intero debito estero è scaduto, e
l'America ha sequestrato, confiscato, le risorse economiche e finanziarie
iraniane negli Stati Uniti.
In
seguito hanno negoziato per restituirlo, perché tutto questo era illegale
secondo il diritto internazionale, ma questo non ha mai fermato gli Stati
Uniti, come stiamo vedendo in questo momento.
Dopo
che lo Scià fu rovesciato, gli Stati Uniti dissero:
"Dobbiamo
destabilizzare il nuovo governo iraniano, e se ci impadroniamo delle sue
riserve estere, questo lo paralizzerà e causerà il caos, ed è così che gestiamo
il mondo, causando il caos".
Questa
è l'unica cosa che l'America ha da offrire agli altri paesi del mondo di oggi.
Non possono offrire le loro esportazioni. Non possono offrire la loro stabilità
monetaria.
L'unica
cosa che l'America può offrire al mondo è di astenersi dal distruggere la
propria economia e dal causare caos economico, come Trump ha minacciato di fare
con i suoi dazi e come ha minacciato di fare a qualsiasi paese che provi a
creare un'alternativa al dollaro.
Da qui
questo pranzo gratis, in cui altri paesi possono guadagnare dollari, ma devono
poi prestarli agli Stati Uniti.
E gli
Stati Uniti, in quanto loro banchiere, devono detenere tutto, e il banchiere
può decidere chi pagare e chi no.
È un
gangster.
È
stato definito uno stato gangster, proprio per queste ragioni.
E
altri paesi temono ciò che gli Stati Uniti possono fare, non solo sotto Donald
Trump, ma anche ciò che stanno facendo da 50 anni.
Semplicemente
confiscare, destabilizzare e rovesciare.
L'America
ha sostanzialmente dichiarato guerra a qualsiasi tentativo di creare un sistema
di commercio e investimenti internazionali che non sia sotto il suo controllo,
nel proprio interesse personale, volendone tutti i guadagni, tutte le entrate,
non solo una parte.
È un
impero avido.
Sanzioni
e guerra economica.
BEN
NORTON:
Sì, e
quello a cui vuoi arrivare, Michael, è un punto molto importante, perché in
sostanza dimostra che queste tattiche di cui gli Stati Uniti hanno abusato
sempre più frequentemente negli ultimi decenni non sono del tutto nuove.
Oggi
un terzo di tutti i paesi della Terra è soggetto a sanzioni unilaterali da
parte degli Stati Uniti, che sono illegali secondo il diritto internazionale.
Ma
naturalmente l'Iran è stato uno dei primi paesi ad essere sanzionato, dopo la
rivoluzione del 1979.
E
sappiamo che nel 2022 gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno sequestrato beni
russi per un valore di 300 miliardi di dollari ed euro, e questo è stato un
enorme campanello d'allarme per il mondo.
Ma, in
realtà, l'Iran è stato il primo caso di prova. Sono stati gli Stati Uniti a
sequestrare per primi i beni iraniani, poi quelli del Venezuela, poi quelli
dell'Afghanistan e ora la Russia.
Quindi
l'Iran è sempre stato il primo paese ad essere preso di mira da queste tattiche
aggressive, e ora sono diventati così comuni che abbiamo assistito a una sorta
di ribellione globale contro questo sistema, anche da parte di alleati di lunga
data degli Stati Uniti.
Come
ad esempio l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che storicamente sono
stati clienti degli Stati Uniti, ma vedono cosa è successo a Russia, Iran e
Venezuela e sono preoccupati che potrebbero essere i prossimi.
MICHAEL
HUDSON:
Ebbene,
questo è esattamente ciò che sta plasmando la politica dell'Arabia Saudita e
degli altri paesi arabi nella regione.
Ovviamente,
agli arabi non piace quello che Israele sta facendo a Gaza.
A loro
non piace la pulizia etnica, e la pulizia etnica della Cisgiordania, e l'intero
attacco contro i palestinesi e le altre popolazioni arabe.
Ma
hanno paura di agire per conto dell'Iran.
Potrebbero essere molto solidali con esso.
Le popolazioni di questi paesi sono molto
contrarie alla violenza che Israele sta conducendo contro gli stati arabi, ma i
leader di questi paesi hanno un problema:
tutti i risparmi che l'Arabia Saudita ha
accumulato negli ultimi 50 anni sono tenuti in ostaggio nel Tesoro degli Stati
Uniti e nelle banche degli Stati Uniti.
E le
banche statunitensi, in sostanza, sono rami del Tesoro.
Soprattutto, Chase Manhattan era una banca
designata che avrebbe agito per conto del Tesoro.
Citibank
era più indipendente, da questo punto di vista.
Quindi
non avete sentito nulla dall'Arabia Saudita e dai paesi produttori di petrolio
limitrofi, perché hanno paura.
Si
rendono conto di trovarsi in una posizione molto delicata.
Tutto
questo denaro, il loro fondo sovrano che hanno accumulato per finanziare il
loro sviluppo futuro, se così possiamo chiamare quello che stanno facendo, è
uno sviluppo contorto, ma i loro piani per il futuro sono tenuti in ostaggio e
sono stati neutralizzati politicamente a causa di questa esposizione al dollaro
statunitense.
Bene,
potete immaginare che altri paesi si rendano conto di cosa sta succedendo, e i
paesi asiatici, i paesi del Sud del mondo e persino paesi europei come Germania e
Italia dicano:
"Non
vogliamo restare intrappolati nella stessa trappola in cui sono intrappolati i
paesi arabi, dove non solo i nostri risparmi, i titoli del Tesoro, le azioni e
obbligazioni statunitensi e i nostri investimenti negli Stati Uniti sono tenuti
in ostaggio; anche la nostra riserva d'oro è trattenuta lì!"
E
tutto il mondo ora si sta orientando verso l'oro.
Hanno
paura di detenere dollari.
Le
riserve in dollari delle banche centrali straniere sono rimaste stabili, mentre
le riserve auree sono aumentate.
E
molte riserve auree ufficiali straniere sono tenute fuori dai libri contabili.
Il
governo deterrà le azioni di una società che ferma l'oro. Si può nascondere quello che stanno
facendo, in modo che non venga mostrato in modo molto evidente che stanno
scaricando il dollaro.
C'è
una sorta di “danza Kabuki” in corso nelle statistiche finanziarie, così come
nel lancio di bombe sui paesi.
Il
complesso militare-industriale.
BEN
NORTON:
Michael, vorrei parlare del complesso
militare-industriale perché un altro punto che hai sollevato in questo
articolo, che è molto importante e che spesso viene tralasciato, è il modo in
cui i contractor militari statunitensi traggono profitto da queste guerre, come
abbiamo visto in quella che ora chiamano la guerra dei 12 giorni, tra Stati
Uniti/Israele e Iran.
Lei ha
sottolineato che l'Iran stava usando principalmente i suoi missili più vecchi.
Stava svuotando la sua scorta di vecchi missili per colpire Israele e stava
cercando di sopraffare il sistema di difesa aerea israeliana.
Ora,
sappiamo che gli appaltatori militari statunitensi si sono vantati
dell'equipaggiamento militare avanzato che gli Stati Uniti hanno dato a
Israele, come l'”Iron Dome”, il sistema “David's Sling” e il sistema “Arrow”.
Le
società statunitensi hanno beneficiato dell'aiuto alla progettazione di questi
sistemi e della fornitura di missili e intercettori.
Così
Israele ha speso molti milioni di dollari cercando di abbattere questi vecchi
missili iraniani di cui l'Iran voleva salvare comunque.
Se la
guerra fosse continuata, avrebbe ovviamente dissanguato sempre più risorse di
Israele e degli Stati Uniti.
Ma
come fai notare, questo è in realtà qualcosa di cui beneficia il complesso
militare-industriale negli Stati Uniti, perché ciò che gli Stati Uniti chiamano
"aiuto" che danno a molti paesi in realtà non è un aiuto;
in realtà si tratta di contratti dati ad
appaltatori privati statunitensi, e poi danno quell'equipaggiamento militare a
Israele, o all'Egitto, o al Giappone, alla Corea del Sud e ad altri paesi.
Quindi
puoi parlarci di più del ruolo del complesso militare-industriale e di come ha
tratto profitto da tutto questo?
MICHAEL
HUDSON:
Beh,
questa è la chiave del dibattito al Congresso che si sta verificando ora sulla
legge fiscale repubblicana.
L'enorme
quantità di denaro che viene spesa per il complesso militare-industriale che,
in fondo, le armi che producono non funzionano.
Abbiamo
visto in Ucraina l'incapacità dei paesi della NATO di difendersi dai missili
russi.
Abbiamo
visto in Israele che l”'Iron Dome” è molto facilmente penetrato dall'Iran.
E
l'Iran, già diversi mesi fa, lo ha dimostrato quando ha inviato due serie di
razzi. Ha avvertito Israele:
"Non vogliamo andare in guerra. Non
vogliamo fare del male a nessuno, ma vogliamo solo dimostrarvi che possiamo
bombardarvi quando vogliamo, e quindi sganceremo una bomba su questo
particolare luogo; portare tutti fuori da lì;
Ti
mostreremo solo che funziona. Cercate di abbatterci".
E
l'hanno lasciato cadere.
Hanno
fatto lo stesso con gli Stati Uniti, in Iraq, dicendo:
"Sai,
non vogliamo davvero dover andare in guerra con te in Iraq.
Abbiamo
perso un milione di iraniani che combattevano contro gli iracheni, quando voi
mettevate Saddam Hussein contro di noi prima [nella guerra Iran-Iraq negli anni
'80], ma dovreste sapere che possiamo spazzare via le vostre basi americane
quando vogliamo.
Ti diamo una dimostrazione.
Ecco
una base che non è molto popolata.
Stiamo per bombardarlo, quindi tirate fuori
tutti;
Non vogliamo che nessuno si faccia male.
Ti
bombarderemo in una data o nell'altra Fate tutto il possibile per
abbatterci". Fruscio! L'hanno bombardata.
L'America
non poteva abbatterli.
Beh,
l'”Iron Dome “ovviamente non funziona, né funziona la difesa militare
americana.
Beh,
il presidente Trump è appena uscito allo scoperto e ha detto:
"Aumenteremo
enormemente il deficit di bilancio degli Stati Uniti creando una cupola di
ferro negli Stati Uniti per 1 trilione di dollari".
Beh,
immaginate di spendere un trilione di dollari per replicare il sistema che
l'Iran e la Russia dimostrano di poter penetrare subito.
BEN
NORTON:
Michael,
questo si chiama “Golden Dome”. E le aziende di Elon Musk come “SpaceX” sono
pronte a ottenere enormi contratti con il governo statunitense.
Si
stima che centinaia di miliardi di dollari in totale saranno spesi per
realizzare questo “Golden Dome” che non funzionerà nemmeno.
MICHAEL
HUDSON:
Naturalmente,
per Trump tutto è oro, non ferro. Avrei dovuto notarlo, proprio come le
maniglie delle porte delle sue Trump Towers, ovviamente.
Quindi
stiamo assistendo a questa fantasia.
Ciò
che il complesso militare-industriale produce non sono armi da usare
effettivamente in guerra.
Sono
armi da barattare o vendere.
E,
come hai sottolineato, oltre all'enorme quantità di spesa diretta del Congresso
per l'acquisto di armi per l'esercito, la marina e i marines degli Stati Uniti,
gli Stati Uniti forniscono aiuti esteri alla Corea del Sud, al Giappone e ad
altri paesi, e questi aiuti esteri vengono spesi per acquistare armi militari
statunitensi.
Questa
soluzione non è inclusa nel bilancio militare americano, ma di fatto finanzia
il complesso militare-industriale attraverso la porta di servizio, dando soldi
agli alleati dell'America per acquistare armi americane, il che non funziona.
Bene,
vi chiederete cosa stiano pensando ora questi alleati, soprattutto in Europa: è
quasi imbarazzante vedere la NATO rifiutarsi di riconoscere il fatto che le
armi americane che vuole acquistare e quelle europee che ha prodotto non sono
semplicemente in grado di difendersi dalle armi russe e iraniane.
La
tecnologia americana è arretrata perché le aziende del complesso
militare-industriale hanno preso tutti questi enormi soldi che hanno pagato, i
profitti che hanno realizzato, distribuendo dividendi e acquistando le proprie
azioni.
Non lo
hanno speso in ricerca e sviluppo.
Il 92% di ogni dollaro che hanno viene
riciclato per sostenere il prezzo delle loro azioni, non per produrre
effettivamente armi.
Così,
finanziarizzando il loro sistema militare, insieme all'economia industriale nel
suo complesso, gli Stati Uniti si sono sostanzialmente de-industrializzati, e
si potrebbe quasi dire disarmati, contro il resto del mondo, che in realtà
spende i loro soldi militari in armi che funzionano, armi che sono destinate a
funzionare, non semplicemente per fare profitti, per aumentare i prezzi delle
azioni delle aziende militari-industriali.
BEN
NORTON:
Sì,
penso che sia davvero un'ottima conclusione. Potremmo continuare per un'altra
ora, ma è meglio rimandare l'argomento a un'altra volta.
Michael,
c'è qualcosa che vorresti consigliare alle persone che vogliono scoprire di più
del tuo lavoro?
MICHAEL
HUDSON:
Beh,
ho il mio sito web, Michael-Hudson.com, e tutti i miei articoli sono lì,
compreso quello che Ben ha appena menzionato.
Quindi
potete leggere i miei commenti su tutto questo.
E il
mio libro “Super Imperialismo” ha spiegato l'intera dinamica di tutto questo.
BEN
NORTON:
Come
sempre, Michael, è un vero piacere. Grazie per essere qui oggi, ci sentiamo
presto.
MICHAEL
HUDSON:
Beh, la discussione è stata al momento giusto. Grazie per avermi invitato.
Commenti
Posta un commento