Il grande gioco globale.

 

Il grande gioco globale.

 

 

 

Il bivio euro atlantico: tra cooperazione

e competizione nel nuovo grande gioco globale.

Affariitaliani.it – (Venerdì, 4 luglio 2025) - Valerio De Luca – ci dice:

 

La conferenza Nato ha ribadito l’importanza cruciale della sicurezza collettiva nell’attuale scenario globale.

Nato all’Aia: la sicurezza collettiva al centro della nuova strategia difensiva.

La conferenza NATO ha riproposto ancora una volta la centralità del tema legato alla sicurezza.

Dall’incontro di fine giugno all’Aia, infatti, è emersa l’urgenza di rafforzare la difesa collettiva e ripensare i nostri strumenti strategici.

Non è un caso che i 32 stati membri abbiano concordato di portare la spesa difensiva complessiva al 5 % del PIL entro il 2035, con il 3,5 % dedicato a forze armate e armamenti e l’1,5 % a cyberdifesa, infrastrutture militari e resilienza. Questo obiettivo rappresenta un cambio di passo significativo rispetto al precedente tetto minimo del 2 %, ed è stato accolto come una risposta concreta alla crescente insicurezza globale.

 

Alla base di questa decisione c’è la consapevolezza che viviamo una fase in cui il vecchio ordine mondiale basato sul libero scambio, cooperazione multilaterale e rispetto delle leggi internazionali è scosso da guerre ibride, conflitti e tensioni commerciali, causando instabilità.

 Il vertice ha rafforzato questo proposito anche di fronte alle sfide poste da Russia e Cina, riconoscendo che solo strumenti forti, visione strategica e capacità di cooperare nella competizione possono garantire una difesa efficace.

 

Sul tavolo c’è anche la spinta verso un’Europa più autonoma.

 L’idea è quella di costruire industrie integrate, interoperabilità concreta, catene difensive comuni e risposte coordinate a cyberminacce e operazioni ibride.

In altre parole, trasformare limpegno politico in capacità operative reali sul territorio.

A questo si aggiunge la necessità di riscrivere la narrazione occidentale.

Non si tratta solo di hardware militare, ma di difendere un modello aperto e pluralista: stato di diritto, libero mercato, trasparenza e pluralismo rimangono i pilastri identitari.

È su questi valori che si contrappone il modello cinese, centrato su autoritarismo e controllo verticale.

 

Il dossier Cina è emerso in controluce:

Pechino rafforza rapporti militari con Mosca, organizza esercitazioni congiunte e considera la presenza NATO nell’IndoPacifico come segno di un ritorno della Guerra Fredda un messaggio che sfida direttamente la nostra narrativa multilaterale.

Per orientarsi in questo contesto è utile il paradigma della coopetition, proposto da “BarryNalebuff”:

crescere insieme (innovazione, sicurezza, sostenibilità) per aumentare la misura della torta ma competere su quale porzione della torta si ottiene.

Applicato al contesto euroatlantico, significa cooperare nella definizione di standard globali su “AI” e “data governance”, sfidarsi nell’”attrazione di talenti e capitali”, e “competere sui mercati” senza rinunciare alla cooperazione industriale e difensiva.

 

La sfida più stringente resta trasformare questa prospettiva in realtà, gli impegni presi devono tradursi in investimenti concreti su cyber, tecnologia, ricerca, infrastrutture e soprattutto formazione.

Non basta aumentare i numeri sulla carta, serve cambiare il modo in cui progettiamo e realizziamo la difesa europea.

Proprio per questo è necessario il contributo di tutti, dalle istituzioni alle accademie, come stiamo cercando di fare con il “nuovo corso di SPES Academy” insieme ad “AmCham Italy” e il “Centro Studi Americani”.

 

La centralità del tema sicurezza, ribadita anche all’Aia, non è un tecnicismo, ma un segnale politico chiaro.

 Solo con strumenti forti, visione strategica e capacità di cooperare nella competizione possiamo affrontare le sfide del mondo nuovo.

 Occorre riconoscere che la competizione con la Cina non è solo militare, ma soprattutto un confronto di sistemi, modelli, narrazioni.

 Come ricordava John F. Kennedy “la partnership atlantica non è una semplice alleanza tra governi.

 È un'alleanza tra popoli — popoli liberi — uniti da ideali comuni e fiducia nel futuro.”

 Mantenere fede a questa visione significa non solo difendere territori, ma costruire un ordine globale capace di sostenere valori condivisi e progresso.

Il summit all’Aia ha tracciato la rotta: ora sta a noi realizzarla.

 

 

 

 

 

IL GRANDE GIOCO MEDIORIENTALE

 É UNO SPECCHIO DEL MULTILATERALISMO GLOBALE?

 

 Iari.site.it - Omar Mohsen - (13 Settembre 2023) – ci dice:

A osservare le dinamiche geopolitiche contemporanee sembrerebbe che l’area vicino orientale sia una sorta di cartina tornasole rispetto a ciò che sta avvenendo a livello globale.

Tuttavia, a una lettura attenta, il quadro diventa più articolato e non è affatto così scontato che il disimpegno statunitense dall’area MENA sia sintomo di un inizio della fine dell’egemonia globale americana.

 

 

Il dis-engagement statunitense dal teatro mediorientale sembrerebbe rispecchiare un processo più ampio; un processo che vede la Superpotenza rinunciare alla guida dell’ordine unipolare post-1989 a favore di un riassetto in chiave multipolare. In tal senso il ritiro dall’Afghanistan, il disimpegno dall’Iraq e la riduzione dei contingenti militari nell’area del Mediterraneo allargato altro non sarebbero che avvisaglie di un processo di più ampia portata, sintomo della stanchezza imperiale che affligge gli Stati Uniti.

Fine di un’era, fase in cui incorrono ciclicamente tutti gli imperi, prima del loro tramonto e, successivamente, della loro scomparsa.

 Il non intervento in Siria, che ha aperto al grande ritorno della Russia nella regione, il ritiro dall’Afghanistan e la Pace negoziata con i Talebani non hanno fatto che confermare, agli occhi dei più incauti osservatori, questa tendenza.

 Certo, tutti i grandi imperi, prima o poi, si ritrovano a fare i conti con i costi dell’egemonia: costi umani e materiali.

 

La potenza, nel richiedere sacrifici ai propri cittadini, si ritrova prima o poi costretta a redistribuire i dividendi delle proprie imprese, scambiando gioco forza parte dell’afflato egemonico con il benessere interno.

Vedasi l’Inghilterra dopo il Secondo Conflitto Mondiale, quando optò per il baratto dell’impero con il welfare.

Ma allora c’erano gli Stati Uniti, la nuova grande talassocrazia venuta da oltreoceano a impedire l’unificazione dell’Heartland sotto le insegne del giogo nazi-fascista; e gli Stati europei erano ormai macerie. 

O, quantomeno, nani geopolitici al cospetto di sovietici e americani.

 

Motivo per cui non possiamo essere certi che il retrenchement degli Stati Unti da un quadrante geopolitico come quello del Vicino Oriente, fondamentale fino al decennio scorso, coincida con una tendenza più ampia, volta alla riduzione dell’afflato egemonico a favore del benessere.

Al riguardo si consideri:

Che il ritiro dall’Afghanistan, più che essere segnale della debolezza americana, ha rappresentato una scelta razionale, sintomo di un’avvenuta maturità strategica. In tal modo Washington ha concluso quella che di fatto era divenuta una “endless war”, consegnando la “patata bollente” dell’instabilità afghana nelle mani degli  attori  regionali.

Attori tra cui, tra l’altro, figurano le tre maggiori potenze revisioniste dell’ordine internazionale: Iran, Cina e Russia.

Se la minaccia riguarda la possibilità che gruppi terroristici utilizzino il suolo afghano per riorganizzarsi con l’obiettivo di colpire l’America, più che di contingenti militari si rivela necessaria la presenza e il ruolo dell’intelligence.

La rivoluzione dello “shale”, combinata con il processo di decarbonizzazione dell’economia mondiale.

 Al netto degli ingenti danni ambientali, le tecniche di estrazione legate alla tecnologia del fracking hanno reso secondario per Washington lo stazionamento nella regione più importante al mondo per quanto riguarda la disponibilità di combustibili fossili.

Da ciò si deduce che la presenza Russa prima e cinese poi nell’area MENA, nonché il rinnovato attivismo di alcuni attori regionali, hanno rappresentato la compensazione di un vuoto lasciato dalla superpotenza.

Tuttavia, alla politica del” laissez faire “adottata dagli Stati Uniti nei confronti delle potenze revisioniste nel quadrante MENA, non è coinciso identico atteggiamento in zone ritenute più importanti: vedasi Ucraina e Indopacifico.

Su un piano più squisitamente internazionale, la Guerra nel Donbass, in maniera diametralmente opposta a quanto successo in Siria, ha finito per indebolire significativamente la potenza russa.

 Per quanto riguarda la Cina, sul fronte del cosiddetto “sea power”, allo stato attuale non è minimamente in grado di sfidare gli Stati Uniti.

 Lo stesso dicasi a proposito della forza aerea.

Questo sia in termini di comparto che di tecnologie.

  L’unico ambito nel quale Pechino pare costituire al momento una minaccia è quello economico commerciale. Tuttavia, le ambizioni revisioniste ed egemoniche cinesi concernono il lungo periodo.

Motivo per cui Washington si impegna nel loro contenimento.

 

Un capitolo a parte rispetto alla più ampia area MENA merita la microregione del Golfo. Essendo il cuore del potere talassocratico americano incentrato sul controllo degli stretti, difficilmente gli Stati Uniti manterranno lo stesso lassismo qualora si sentissero realmente sfidati in un’area che vede la presenza di due dei più importanti colli di bottiglia per il transito dei commerci globali.

 A conferma di ciò il recente attivismo in seno al G20, che ha condotto all’adozione di un progetto alternativo alla BRI cinese.

Un progetto volto a connettere India, Paesi del Golfo ed Europa. 

 

Considerati questi fattori, pare che la politica di Washington sia stata, e sia tutt’ora, quella di permettere un’influenza relativa da parte degli altri maggiori attori internazionali nel quadrante mediorientale.

 Un’influenza che consente di cogestire un’area comunque problematica, condividendone “costi” e sacrifici.

Ciò può aver generato fraintendimenti, facendo maturare l’idea di un approccio isolazionista della superpotenza su scala globale e incentivando azzardi

 da parte degli altri attori.

 

Guerra Israele-Iran: nucleare

come pretesto, egemonia come fine.

 

 Iari.site.it - Omar Mohsen – (1° Luglio 2025) – ci dice: 

 

Il fine strategico sotteso all’attacco di Israele contro la Repubblica islamica è realmente l’annientamento del programma nucleare iraniano?

Rispetto a Teheran, fino a che punto gli obiettivi di Washington e Tel Aviv coincidono?

 

L’Iran non può avere l’atomica.

È questo il mantra con cui da più parti si cerca di giustificare l’aggressione Israele-statunitense nei confronti della Repubblica Islamica.

A detta di molti esponenti del mondo politico occidentale, un Iran in grado di raggiungere lo status di potenza atomica sarebbe un pericolo da scongiurare.

 Ciò anche in ragione del fatto che la Repubblica islamica abbia più volte dichiarato di voler distruggere quella che definisce come l’“entità sionista”.

Tuttavia, molti dei proclami infuocati e delle invettive che il regime degli Ayatollah,  dal momento della sua nascita in poi, sferra  nei confronti di Israele possono essere letti come un tentativo di accattivarsi le piazze islamiche per avere una leva negoziale da usare nei confronti del vicinato arabo; una leva negoziale  atta a scongiurare un’intesa tra i Paesi arabi e Tel Aviv in funzione anti-iraniana.

 

Inoltre, resta da comprendere quanto la questione del nucleare iraniano rappresenti il fattore realmente determinante rispetto all’attacco portato avanti dallo Stato ebraico e quanto essa, invece, costituisca un pretesto finalizzato alla ridefinizione di un nuovo ordine regionale incentrato sull’egemonia israeliana.

 

Se con gli Accordi del JCPOA del 2015, ponendo severi limiti e controlli alla possibilità di arricchimento dell’uranio, l’amministrazione Obama era riuscita a mettere un freno alle velleità “atomiche” di Teheran, attizzando una forte opposizione da parte tanto di Netanyahu quanto dell’AIPAC, con il primo Governo Trump gli Stati Uniti cedono alle pressioni di Israele e si ritirano unilateralmente dall’Accordo sul nucleare.

 

Il fatto che lo Stato ebraico abbia osteggiato attivamente il raggiungimento e il mantenimento del JCPOA è rivelatore di come, in realtà, a preoccupare Tel Aviv non sia tanto “l’atomica dell’Iran”, ma piuttosto la normalizzazione delle relazioni tra Teheran e l’Occidente.

 

Israele, che iniziò la propria corsa verso l’arma atomica alla fine degli anni ‘50 con la costruzione del “reattore di Dimona”, detiene, sebbene ufficiosamente, lo status di unica potenza nucleare della regione dal 1967;

 si stima che attualmente Tel Aviv possegga almeno 90 testate di questo tipo.

Ma, a fare la differenza è soprattutto la capacità che lo Stato ebraico ha di infliggere quello che in gergo viene definito  “second strike” .

Ciò grazie alla disponibilità di sottomarini classe Dolphin di produzione tedesca in grado di trasportare missili balistici nucleari: qualora Israele venisse colpito sul proprio territorio da un’arma atomica, potrebbe, in ogni caso e anche se “al collasso”, rispondere in direzione dell’aggressore proprio da uno di questi sottomarini. Fattore di deterrenza non indifferente e che prescinde dalla capacità dei propri vicini: questi, infatti, a differenza di Tel Aviv, non potrebbero rispondere a un primo strike di tipo nucleare.

 

 A determinare l’attacco israeliano non sembra dunque essere stato il timore rispetto al programma atomico di Teheran, ma, in primis, la necessità di spostare l’attenzione pubblica, tanto interna quanto internazionale, dal genocidio di Gaza — e dall’incapacità di conseguire i risultati strategici dichiarati, ovvero l’eliminazione di Hamas e il ritorno degli ostaggi — verso un altro fronte di maggiore intensità, di modo da non avere i riflettori puntati rispetto al vero obiettivo dell’esecutivo Netanyahu:

de-popolare e occupare i territori della Striscia e della Cisgiordania.

Nei confronti dell’Iran, da un punto di vista strategico e di interesse nazionale, gli obiettivi degli USA — al netto delle pressioni dell’AIPAC— e di Tel Aviv divergono. Gli Stati Uniti, infatti, non avrebbero potuto che beneficiare di un” engangement” di Teheran nella propria sfera d’influenza, o quantomeno di una distensione dei rapporti con il “rivale” mediorientale.

Ed è per questo motivo che il JCPOA si poneva come un tentativo di impedire che la Repubblica islamica si dotasse dell’arma atomica — cosa che avrebbe potuto e che potrebbe ancora determinare un pericoloso effetto spillover presso tutti gli altri paesi dell’area.

Tel Aviv, invece, mira a trasformarsi in soggetto egemonico e vede in un Iran prospero e attivo nella regione un intralcio ai suoi piani espansionistici. Espansionismo che a sua volta può essere letto come “frontiera” per mezzo della quale sublimare quelle forze centrifughe e quelle contraddizioni che rischiano di spaccare la società israeliana dall’interno.

In tutto ciò non si può non fare riferimento alla debolezza del premier Netanyahu che, lungi dall’essere l’uomo forte alla guida del proprio Paese, rappresenta un soggetto politicamente debole e ricattabile, costretto a cedere ai desiderata delle frange più estreme presenti nella sua coalizione di governo.

 

Rimanendo in tema di nucleare, e considerando la differenza in termini di approccio strategico tra Stati Uniti e Israele, è possibile leggere gli avvenimenti degli ultimi giorni in un’ottica peculiare.

 

Ovvero è plausibile che, sentendosi in difficoltà di fronte all’inaspettata reazione iraniana, gli israeliani abbiano paventato, in ultima istanza, l’eventualità dell’utilizzo delle proprie testate nucleari contro Teheran;

l’attacco americano, dagli esiti tutt’ora incerti, potrebbe aver evitato l’inveramento di un simile scenario.

 Tuttavia, indipendentemente dal tranello teso a Washington dal proprio alleato, e a dispetto della narrativa molto più assertiva e pro-Israele dell’amministrazione repubblicana, è verosimile ritenere che gli Usa e l’Iran abbiano comunque mantenuto aperti canali diplomatici, comunicativi e di intelligence —prevalentemente mediati da soggetti terzi — in grado di favorire una de-escalation.

 L’uso delle potenti bombe americane ha diminuito e rallentato, ma non annullato, la possibilità per l’Iran di poter disporre di testate nucleari in un contesto di medio-lungo termine. Inoltre,

 gli attacchi di Stati Uniti e Israele parrebbero aver incentivato ancor di più la volontà della Repubblica islamica di “correre verso la bomba atomica”.

 

In conclusione è possibile ritenere che, a differenza degli Stati Uniti, Israele non è tanto preoccupato di un Iran “nucleare”, quanto di una Repubblica islamica prospera e influente, in grado di rivaleggiare da un punto di vista egemonico nel quadrante mediorientale.

 

Inoltre, l’attacco dello Stato ebraico e la controffensiva della Repubblica islamica, hanno avuto l’effetto, in un momento di forti tensioni interne su ambo i fronti, di compattare entrambe le società attorno ai rispettivi governi, finendo paradossalmente per ricreare quell’atavico rapporto” win -win” che ha spesso caratterizzato la relazione tra Teheran e Tel Aviv, due nemici esistenziali, ma al contempo indispensabili l’uno nei confronti dell’altro.     

 

 

 

Il Sionismo Non

 è Ebraismo.

Conoscenzealvonfine.it – (6 Luglio 2025) - Armando Savini -ci dice:

 

I rabbini più importanti hanno apertamente respinto l’affermazione del premier israeliano Benjamin Netanyahu secondo cui Israele combatte per tutti gli ebrei.

Essi hanno messo in luce la profonda divisione col sionismo – il movimento per stabilire e mantenere una patria ebraica più grande attraverso la colonizzazione di altre terre.

 

Rabbi Yaakov Jacobowitz:

– Il popolo ebraico non è un sinonimo del governo israeliano;

– I sionisti stanno letteralmente calpestando il nome dell’intero collettivo religioso;

– Il sionismo è un grave FURTO DI IDENTITÀ.

 

Rabbino Yakov Shapiro:

– Il sionismo è una minaccia esistenziale al popolo ebraico e alla sua religione.

Gli ebrei non sono responsabili delle azioni o dell’ideologia dello Stato di Israele;

– I sionisti vogliono DISTRUGGERE i valori, scardinare la religione e riscrivere la storia di Israele;

– Le affermazioni di Bibi sembrano quelle di una DITTATURA, non di una democrazia.

 Gli ebrei non hanno votato per Netanyahu e lui non li rappresenta;

– Poiché i sionisti diffondono il messaggio di essere lo Stato del popolo ebraico, gli ebrei di tutto il mondo vengono incolpati per qualsiasi cosa faccia Israele.

 

Rabbi David Basch:

– Il sionismo non riguarda l’ebraismo, ma un gruppo di non credenti, terroristi, che hanno preso il nome di Israele e ora si rivolgono al mondo in suo nome;

– Il nome stesso di “Forze di Difesa Israeliane” è del tutto fuorviante, non sono israeliane;

– Costringono le persone a lasciare le loro terre e impongono decreti malvagi in quello che chiamano un governo democratico;

“Basch” sottolinea di essere a favore di Dio, della religione e dell’umanità, nonché a favore della morale, della pace e dei diritti umani, motivo per cui è antisionista.

(Armando Savini).

(t.me/geopolitics_prime/52987).

(t.me/chaosmega).

 

 

 

 

Chi sono i Sionisti?

Significato, storia e ideologia

politica del movimento.

Lavocedilucca.it – (9-04 – 2024) – l libero pensiero – Redazione – ci dice: 

 

Chi sono i Sionisti?

 I sionisti costituiscono uno dei pilastri fondamentali della scena politica in Israele, accompagnando l’intera evoluzione storica dello Stato ebraico.

Esploriamo la loro identità e gli obiettivi che perseguono.

Chi sono i Sionisti?

 Significato del termine “sionismo” Il sionismo è una dottrina o un movimento che si propone di riunire gli ebrei in Palestina per fondare uno Stato proprio.

Questo concetto ha trovato il suo primo sviluppo politico nel 1896, con l’opera “Stato degli ebrei” di “Theodor Herzl”, ha poi ottenuto una chiara definizione nel 1897 con il “Congresso mondiale sionista tenutosi a Basilea”, e ha raggiunto un significativo punto di svolta il 15 maggio 1948, quando è stato fondato lo Stato di Israele Riguardo all’origine del termine, il “sionismo” deriva dalla parola “Sion,” che è la collina di Gerusalemme simbolo della Terra promessa.

 Si crede che questa collina possa ospitare la tomba del re Davide e rappresenta il luogo in cui ogni credente ebreo auspica di fare ritorno.

 Storia e ideologia politica del movimento sionista.

 Alla base del sionismo giace innegabilmente il concetto di un legame profondo, secondo i suoi sostenitori, tra gli ebrei e la Terra Santa.

Questo collegamento è stato trasmesso attraverso il ricordo della ‘patria perduta’ e il forte desiderio di fare ritorno.

Quattro fondamentali presupposti costituiscono il fondamento dell’ideologia di Herzl:

l’esistenza di un popolo ebraico distintivo, l’idea che l’assimilazione in altre società sia impossibile a causa della rapida dispersione degli ebrei, il riconoscimento del loro diritto alla ‘Terra promessa’ e la convinzione che non vi sia un altro popolo che possieda diritti sovrani su quel territorio.

Herzl immaginava la creazione di uno stato-nazione ebraico che avrebbe posto fine alle persecuzioni subite dagli ebrei in Europa, dalle violenze dei pogrom russi all’infamia dell’affare Dreyfus in Francia.

Tuttavia, i ‘sionisti’, come vennero chiamati i seguaci di Herzl, non considerarono l’importante fatto che su quella terra vivevano già mezzo milione di arabi con profonde radici e tradizioni millenarie.

 Il sionismo perseguì una politica che implicava un’alleanza con le grandi potenze capitalistiche, ma al contempo negava al popolo palestinese il riconoscimento del diritto all’identità nazionale, che invece veniva rivendicato per il popolo ebraico. Questo approccio, con radici eurocentriche, si ricollega a figure come “Cecil Rhodes”, “Jules Ferry” e il cancelliere Bismarck, e ha lasciato un’impronta indelebile, dalla quale il sionismo non è stato ancora in grado di emanciparsi, nonostante l’esistenza di correnti interne di sinistra e persino settori che si autodefinivano socialisti.

 Il sionismo, da un lato, considerava gli ebrei come esuli da raccogliere da ogni angolo del mondo e organizzò un ‘ritorno’ in Palestina.

Nei primi anni del XX secolo, in Palestina vivevano circa mezzo milione di arabi e 50.000 ebrei, un numero che salì a 300.000 nel decennio tra il 1930 e il 1940.

La persecuzione antisemita nell’era nazista tedesca portò a un aumento dell’immigrazione che superò le ‘quote’ consentite dalla legge.

Gli inglesi, che avevano autorità sulla Palestina, si preoccuparono poiché vedevano minacciata la loro egemonia nella regione.

 Nel 1939, il Regno Unito dichiarò che l’obiettivo non era più la creazione di uno stato ebraico, ma piuttosto uno stato palestinese indipendente ‘in cui entrambi i popoli partecipassero al governo’.

 I sionisti, con l’aiuto di contributi raccolti tra gli ebrei di tutto il mondo, che spaziavano dai banchieri alle persone comuni, acquistarono terre arabe da ricchi proprietari che spesso risiedevano a Beirut o Parigi, dimostrandosi indifferenti al destino dei loro affittuari, i contadini palestinesi.

Gli ebrei arrivarono con titoli di proprietà, cacciarono le famiglie agricole locali e stabilirono colonie agricole, i “kibbutzim”, che venivano difesi da milizie sioniste contro un ambiente percepito come ostile.

Di fronte all’escalation degli attacchi anti-britannici, Londra presentò la questione palestinese alle Nazioni Unite nel febbraio 1947.

Un comitato speciale raccomandò la suddivisione del territorio in due stati indipendenti, uno arabo e uno ebraico, con Gerusalemme sotto autorità internazionale.

 Le diramazioni del sionismo Il movimento sionista ha conosciuto nel corso degli anni diverse sfaccettature e filoni del suo pensiero originale.

Tra questi troviamo:

 il sionismo socialista, caratterizzato da ideali di sinistra e dall’istituzione dei kibbutz;

 il sionismo religioso, che si fonda su una stretta osservanza delle pratiche religiose ebraiche;

 il sionismo revisionista, emerso in Israele e con connotazioni di estrema destra, rappresentato oggi dal “partito Likud” di Benjamin Netanyahu.

Oggi, soprattutto tra i suoi critici, il sionismo è spesso associato a un nazionalismo ebraico che mira a espandere lo Stato d’Israele su tutto il territorio della Palestina, incluso l’occupare le terre assegnate all’origine alla popolazione araba dall’ONU nel 1948.

 In questo contesto, l’attività dei sionisti moderni è concentrata sulla pressione e sull’isolamento della “Striscia di Gaza”, oltre alla continua colonizzazione dei “territori della Cisgiordania”.

Differenza tra movimento sionista e Stato di Israele.

È importante distinguere tra il movimento sionista e lo Stato di Israele, creato da esso, da un lato, e la maggioranza degli ebrei che hanno scelto di rimanere nei paesi dei cinque continenti in cui hanno sempre vissuto, dall’altro.

Questa distinzione è diventata particolarmente rilevante quando la politica di oppressione aperta e brutale portata avanti da Israele contro i palestinesi, a nome di una visione distorta dell’ebraismo, rischia di generare nel resto del mondo, insieme alla legittima critica, manifestazioni di antisemitismo.

 

 

 

Alla Germania Serve il Gas:

Trivellerà nell’Area Marina Protetta.

 

Conoscenzealconfine.it – (8 Luglio 2025) – Redazione- Imolaoggi.it – ci dice:

 

La ministra degli Esteri, Reiche: “Rafforziamo la sicurezza dell’approvvigionamento in tutta Europa”.

Gli ecologisti protestano: “Conseguenze devastanti per la biodiversità nel Mare del Nord”.

 

Il governo tedesco ha approvato un controverso progetto per l’estrazione di gas naturale nel Mare del Nord, in un sito marino protetto al largo dell’isola di Borkum, una scelta che per gli ambientalisti avrà “conseguenze devastanti”.

 Il via libera riguarda fino a 13 miliardi di metri cubi di gas e arriva dopo l’intesa formale con i Paesi Bassi, necessaria perché la” società energetica One-Dyas” trivellerà orizzontalmente da una piattaforma olandese verso il territorio tedesco.

 

Secondo la ministra dell’Economia” Katharina Reiche”, l’accordo “non solo rafforza la sicurezza dell’approvvigionamento dei nostri vicini, ma anche il mercato europeo del gas, e quindi anche il nostro”.

 

Decisione Rimandata per Motivi Ambientali.

“One-Dyas” aveva ottenuto l’autorizzazione dalle autorità locali già un anno fa, ma l’approvazione a livello nazionale era rimasta bloccata sotto il precedente ministro dell’Economia,” Robert Habeck”, esponente dei Verdi, per via delle forti obiezioni ambientali.

Ora l’esecutivo del cancelliere conservatore “Friedrich Merz” ha sbloccato il dossier, coerentemente con la linea del governo di sfruttare le riserve nazionali pur mantenendo l’obiettivo della “neutralità climatica” entro il 2045.

 

Secondo l’azienda, la produzione prevista potrà coprire fino al 15% del fabbisogno tedesco di gas dell’anno scorso.

 La fase di test è partita a marzo, ma l’operatività completa dipenderà ancora da un passaggio formale: il via libera alle attività da parte del Land della Bassa Sassonia, anche se l’autorità mineraria regionale ha già dato l’ok alle trivellazioni nell’agosto 2024.

 

Per mitigare l’impatto climatico, l’azienda ha promesso di utilizzare elettricità da un parco eolico offshore tedesco.

 Inoltre, “One-Dyas” si è impegnata a fermare le attività “non appena la domanda di gas naturale in entrambi i Paesi verrà meno, in modo che il progetto non contraddica l’obiettivo della neutralità climatica”.

 

Proteste degli Ambientalisti.

Il sito di trivellazione si trova nel” Mare dei Wadden”, un’area dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, e la decisione ha già scatenato forti critiche da parte delle organizzazioni ambientaliste.

 

“Ulteriori industrializzazioni avrebbero conseguenze devastanti per la biodiversità nel Mare del Nord”, ha dichiarato “Sascha Müller-Kraenner,” direttore generale della “Ong Environmental Action Germany”.

(imolaoggi.it/2025/07/07/germania-gas-area-marina-protetta/).

(europa.today.it/ambiente/germania-gas-trivellazioni-area-marina-mare-nord.html).

 

 

 

 

La “CO2” Rivoluziona la Coltivazione

 nelle Serre a Livello Mondiale.

Conoscenzealconfine.it – (7 Luglio 2025) - Dr. Peter F. Maye – ci dice:

 

La CO2 rivoluziona la coltivazione in serra a livello mondiale e decentralizza l’approvvigionamento alimentare.

La CO2 è un nutriente per le piante, non un “inquinante”, e gli operatori delle serre la iniettano consapevolmente (fino a 1000 ppm) per aumentare i raccolti dell’80% o più.

 Cina, Spagna e Stati Uniti guidano una rivoluzione nell’agricoltura in serra e utilizzano la CO2 per coltivare cibo nei deserti e su terreni urbani abbandonati – una prova che le emissioni possono nutrire il mondo.

 

Mentre governi ed élite aziendali promuovono politiche climatiche draconiane – tasse sulla CO2, razionamento energetico e deindustrializzazione forzata – la verità sull’anidride carbonica (CO2) rimane sepolta sotto strati di allarmismo.

Mentre gli attivisti parlano di una “crisi climatica esistenziale”, agricoltori e scienziati utilizzano silenziosamente la CO2 per moltiplicare i raccolti, combattere la fame e rivoluzionare l’agricoltura.

 

Una ricerca pubblicata su “Nature” dall’Università di Copenaghen, a cura di “Xiaoye Tong et al.”, dal titolo “Global area boom for greenhouse cultivation revealed by satellite mapping” (La mappatura satellitare rivela il boom globale della coltivazione in serra), smentisce l’opinione comune e dimostra che livelli elevati di CO2 accelerano la crescita delle piante e portano a raccolti abbondanti nelle serre di tutto il mondo.

 

Gli “esperti” climatici dell’ONU e i media aziendali, naturalmente, non ne parlano. Il complesso industriale del clima vive di inganni, non di soluzioni.

Nel frattempo, la CO2 sta rivoluzionando la coltivazione in serra, decentralizzando l’approvvigionamento alimentare e permettendo alle comunità di liberarsi dal controllo delle multinazionali sul cibo.

 

La Rivoluzione delle Serre: la CO2 Come Ingrediente Mancante.

Da decenni i propagandisti climatici demonizzano la CO2 come “emissione mortale”, ignorando il suo ruolo fondamentale nella fotosintesi.

Ma nelle serre – dalla Spagna meridionale al deserto di Xinjiang in Cina – gli agricoltori trattano la CO2 come oro liquido.

Con generatori alimentati a propano o gas naturale, pompano concentrazioni di 1000 ppm o più, trasformando paesaggi aridi in granai.

 

Il “Ministero dell’Agricoltura dell’Ontario” definisce apertamente la CO2 un nutriente, sottolineando la sua capacità di accelerare la fioritura, rafforzare i fusti e ridurre l’uso di pesticidi.

 Nella regione spagnola di Almería, le serre arricchite di CO2 producono ora 30 chilogrammi di pomodori per metro quadrato – un risultato straordinario per una coltura un tempo limitata dal clima secco della Spagna.

A Xinjiang, le serre nel deserto con 1200 ppm di CO2 producono annualmente 19.000 tonnellate di frutta e verdura, dimostrando che non è il “cambiamento climatico” a distruggere i raccolti, ma le politiche dei governi.

 

Perché succede questo?

 Le piante assorbono la CO2 dalla parte inferiore delle foglie tramite aperture chiamate stomi, che, grazie alla fotosintesi con luce solare e acqua, trasformano la CO2 in zuccheri.

 Più CO2 c’è nell’aria, più rapidamente si chiudono gli stomi e meno acqua la pianta perde per gocciolamento o evaporazione.

 L’aumento della CO2 ha portato anche al rinverdimento di aree molto aride – un incremento globale del 13%, come mostrato dai satelliti.

 

La Grande Carestia da CO2: Come gli Allarmisti Affamano il Pianeta.

500 milioni di anni fa, la concentrazione di CO2 era superiore a 7000 ppm, e la vita prosperava.

 Oggi, con appena 420 ppm, le piante soffrono la fame.

Gli operatori delle serre lo sanno bene:

durante il giorno, le piante riducono la CO2 a 200 ppm, rallentando la crescita.

Eppure le élite climatiche attuali chiedono valori ancora più bassi, senza cogliere l’ironia.

 

“Se la CO2 è così tossica”, chiede il ricercatore cinese “Xiaoye Tong”, “perché triplichiamo la sua concentrazione nelle nostre serre per nutrire milioni di persone?”

 La risposta è semplice: non l’eccesso, ma la carenza di CO2 minaccia la sicurezza alimentare.

Mentre l’Occidente demonizza i combustibili fossili, un solo complesso di serre in North Carolina – “Metrolina”, con una superficie riscaldata di 743.000 metri quadrati – dipende dalla CO2 per rifornire i supermercati tutto l’anno.

Il complesso industriale del clima non solo sbaglia, ma sbaglia pericolosamente (diciamo intenzionalmente e colpevolmente – nota di conoscenzealconfine).

 L’attuale livello di CO2 nell’atmosfera è ancora criticamente basso rispetto ai valori delle precedenti ere interglaciali – eppure gli attivisti ambientalisti gridano ai “valori senza precedenti”.

 

In realtà, alla fine dell’ultima era glaciale, la concentrazione di CO2 nell’atmosfera era scesa a 185 ppm.

Un valore pericolosamente basso, perché a 150 ppm la vita vegetale si arresta: è il limite minimo per la crescita delle piante.

 

A causa delle variazioni orbitali della Terra secondo i “cicli di Milanković”, circa 11.000 anni fa si verificò un riscaldamento di circa 10-12 gradi.

Gli oceani rilasciarono più CO2 e i livelli salirono di nuovo a 300-400 ppm.

Il Meyers Conversations lexicon riporta misurazioni di CO2 da parte di chimici nel XIX secolo:

intorno al 1820 si registrarono valori di circa 420 ppm.

Misurazioni successive tra il 1870 e il 1910 mostrarono un calo, causato dal raffreddamento dovuto al “minimo di Dalton” del Sole intorno al 1800.

 Il riscaldamento successivo al 1820 portò a un aumento ritardato della CO2, che osserviamo oggi.

E tutto ciò è ben al di là dell’influenza umana.

 

Ma i “credenti climatici” preferirebbero demolire le centrali elettriche piuttosto che permettere agli agricoltori di utilizzare le loro emissioni.

 L’agenda contro la CO2 mira a creare scarsità e dipendenza da sistemi alimentari centralizzati.

Distruggendo l’energia a prezzi accessibili e limitando la fornitura di CO2, i globalisti creano crisi per giustificare il controllo totale su cibo ed energia – minando la sovranità di nazioni, comunità e famiglie.

 

Le Serre Arricchite con CO2 Catturata dall’Atmosfera.

Vicino a “Zurigo” funziona già un impianto, sviluppato dalla “Clime works”, capace di catturare la CO2 dall’atmosfera e di inviarla ad una serra per la coltivazione di pomodori e cetrioli (inizio articolo).

 

Secondo la stampa svizzera l’impianto è in grado di catturare 900 tonnellate/anno di CO2 atmosferica, una quantità che aumenta del 20% la produttività della serra.

(Dr. Peter F. Maye).

(tkp.at/2025/07/05/co2-revolutioniert-weltweit-den-gewaechshausanbau-und-dezentralisiert-die-nahrungsmittelversorgung/).

(nogeoingegneria.com/tecnologie/carbon-capture/la-co2-rivoluziona-la-coltivazione-nelle-serre-a-livello-mondiale/).

 

 

 

Perché l’Occidente odia

 e ha paura della Russia.

  Linterferenza.info - Fabrizio Marchi – (22 Gennaio 2023) – ci dice:                       

 

Stavo riflettendo, giorni fa, sul fatto che la Russia è forse l’unico paese che non sia mai stato colonizzato e occupato militarmente – se non per brevi periodi ai quali hanno fatto seguito ritirate disastrose – dall’Occidente.

Quest’ultimo ci ha provato a più riprese con aggressioni dirette (guerre napoleoniche, guerra di Crimea, guerra civile post rivoluzione del ’17, attacco nazista nella seconda guerra mondiale) e indirette (il tentativo degli USA di colonizzazione economica e politica subito dopo il crollo dell’URSS), ma tutti questi tentativi sono sempre clamorosamente e fragorosamente falliti (e negli ultimi vent’anni, naturalmente, l’espansione ad est della NATO e il colpo di stato in Ucraina nel 2014).

 

È questa forse una delle principali ragioni della atavica ostilità occidentale nei confronti di quel paese.

Insieme probabilmente all’ incapacità di comprendere lo spirito di quel popolo che non c’è stato verso di addomesticare.

Probabilmente è un’ostilità che ha radici ancora più antiche, essendo la Russia l’erede del grande scisma che ha dato vita alla chiesa ortodossa.

 E poi naturalmente la prima grande rivoluzione socialista della storia con tutto quello che ne è conseguito.

E ancora la sua estensione e la sua cultura, intrinsecamente irriducibile a quella anglosassone, dominante in Occidente.

 

Ed è forse proprio quella incapacità di comprensione che ha generato e continua a generare nel mondo occidentale quella sorta di mistero frammista a inquietudine che a sua volta genera inevitabilmente la paura.

La Russia non ha mai attaccato l’Occidente – dal quale è stata invece ripetutamente aggredita, anche ferocemente, come nel caso dell’invasione nazifascista – eppure viene percepita da una gran parte della cosiddetta opinione pubblica occidentale come un pericolo costante, come una minaccia perennemente incombente, come una forza bruta pronta in qualsiasi momento a scatenarsi.

 

Al di là delle considerazioni di ordine politico e geopolitico che si sono verificate di volta in volta e che naturalmente hanno le loro cause e ragioni concrete, credo che sia questo sentimento – in larga parte alimentato ad arte ma comunque profondamente radicato – a generare quell’ostilità.

 

 

 

Cosa non torna nella narrazione

 sulla forza dell’economia statunitense.

Linterferenza.info - Alessandro Volpi – (8 Luglio 2025) – ci dice:

 

Nonostante l’indebolimento del dollaro e l’enorme debito pubblico, i mass media celebrano la presunta ottima salute dell’economia statunitense.

 

È sempre più evidente che esiste una vera e propria costruzione narrativa finalizzata ad alimentare la sudditanza europea nei confronti degli Stati Uniti.

Alcuni dei principali giornali italiani stanno celebrando la forza dell’economia statunitense, che prescinderebbe persino dalla politica.

E si stanno affannando a ribadire la ripresa dell’occupazione e i “record” di Borsa interpretati come i segni inequivocabili della buona salute dell’impero americano. Il messaggio è chiaro:

cari italiani e care italiane, non potete fare a meno degli Stati Uniti perché mantengono il primato nonostante Donald Trump.

 

Cosa non torna nei parametri che dovrebbero indicare la salute dell’economia statunitense.

Ora, in questa narrazione ci sono molte cose che non tornano.

A parte il fatto di trascurare l’elefante nella stanza costituito da un debito federale che lo stesso presidente della Federal Reserve ha dichiarato insostenibile e che costa 1.200 miliardi di dollari di interessi, faticando a trovare compratori, e senza considerare l’indebolimento strutturale del dollaro pur in presenza di tassi al 4,25-50, sono gli stessi dati citati dagli aedi nostrani a lasciare perplessi.

 

La tenuta dell’economia statunitense dipenderebbe dalla capacità di creare in un mese 147mila posti di lavoro in più!

È facile capire che si tratta di un dato molto parziale.

 Tanto più perché la rilevazione avviene sulla base dei numeri forniti dalle imprese circa le buste paga di quel mese.

Senza alcuna indicazione sulla natura dei contratti, sulla durata degli impieghi e su altre variabili considerate invece nelle rilevazioni fatte in Europa.

In più, il dato dell’occupazione americana è una stima perché si basa, di fatto, su un campione scelto in maniera alquanto discutibile.

Pensare che questo dato sia un indicatore della tenuta dell’economia statunitense è davvero poco credibile, a fronte di una stima del Pil negativa dello 0,5% nel primo trimestre 2025.

 

Dietro la crescita delle Borse c’è solo speculazione.

Ma anche il tema delle Borse andrebbe chiarito meglio.

I listini sono tornati a salire perché alcuni titoli hanno beneficiato delle iniezioni di liquidità dei grandi fondi.

 Soprattutto da parte delle “Big Three”, spaventate dal tracollo avviatosi da gennaio.

In questo senso ha pesato anche il conflitto tra Trump e Jerome Powell, che ha convinto gli stessi grandi fondi a sostenere le Borse Usa per evitare il taglio degli interessi che certo non gioverebbe loro, visto che sono già in possesso della liquidità e quindi non hanno bisogno del credito animato dalla Federal Reserve.

 

In estrema sintesi, da questo punto di vista i grandi fondi, dopo aver stimolato e iniziato a cavalcare l’onda del riarmo europeo, hanno deciso di sostenere ancora le Big Tech americane per evitare che una caduta dei listini rendesse inevitabile la riduzione dei tassi da parte di Powell.

 Con l’evidente conseguenza di favorire la finanza altamente speculativa di Trump, competitiva con le Big Three e bisognosa di tassi bassi.

 

Questa tenuta dei listini, però, non può nascondere proprio il braccio di ferro fra il presidente Trump e una parte della finanza che rende le piazze finanziarie statunitensi del tutto inaffidabili per il resto del mondo.

Che, infatti, ha smesso di trasferire Oltreoceano i propri capitali e i propri risparmi.

Questo accade ovunque nel mondo al di fuori dell’Europa, dove la narrazione dominante sta facendo di tutto per mantenere in vita un’economia in profondo collasso, come quella statunitense, sostenendo che sta benissimo.

 

 

 

 

I negoziati su Gaza e il sisma

che scuote il Medio oriente.

 

It.insideover.com - Davide Mala caria - Piccolenote.it – (8 Luglio 2025) – ci dice:

 

I negoziati per un cessate il fuoco a Gaza sembrano procedere in modo positivo. Così titola il “Timsofisrael”:

“Israele afferma che la svolta sui colloqui di Gaza è vicina dopo l’incontro tra Trump e Netanyahu”.

Il sottotitolo recita, che secondo i funzionari israeliani, nella cena alla Casa Bianca i due leader “hanno concordato l’80-90% dei termini della tregua”.

 

Sempre nel sottotitolo si legge che Israele “insiste sulla distruzione totale di Hamas”, che evidentemente è parte di quel che rimane in sospeso, come divergenze restano “sui meccanismi di attuazione [del cessate il fuoco], in particolare sulle clausole relative al ritiro [dell’IDF] e agli aiuti umanitari”, che Hamas vorrebbe non siano monopolizzati dalla” Gaza Humanitarian Foundation”, l’organismo umanitario genocida che li gestisce attualmente (sono più di 700 i palestinesi uccisi dai soldati israeliani e dalla sicurezza della GHF mentre cercavano di ricevere gli aiuti).

 

‘Going hungry’: More than 700 Palestinians killed seeking aid in Gaza.

Era noto che le parti avevano forti divergenze sul destino di Hamas, sul ritiro dell’IDF da Gaza e sulla distribuzione degli aiuti, ma a stare a quanto dichiarato dal consigliere di Netanyahu “Ron Dermer al “Times of israel” “le divergenze si sono abbastanza ridotte”, tanto da poter immaginare che possano essere (forse) superate.

 

I negoziati tra israeliani e Hamas proseguono a Doha dove a breve giungerà anche l’inviato di Trump “Steve Witkoff” perché l’accordo venga finalizzato.

 Lo vuole fortemente Trump che stavolta ha messo alle strette il premier israeliano, impedendogli, almeno finora, di far saltare tutto.

 Da parte sua Netanyahu sta facendo di tutto per compiacere il suo anfitrione, tanto da candidarlo al Nobel per la pace (evitiamo di commentare…).

 

Detto questo, anche se alla fine Trump la spuntasse, tutto resta sospeso alla sanguinaria imprevedibilità del premier israeliano, che potrebbe facilmente eludere il passo cruciale dell’accordo in fieri, quello in cui si dichiara solennemente che durante la tregua di 60 giorni si dovrà trattare per arrivare a una pace duratura e che il negoziato dovrà proseguire, insieme alla tregua, se in quella finestra temporale le trattative non avranno conseguito tale esito.

 

Certo, gli Stati Uniti si sono fatti garanti dell’accordo complessivo, impegnandosi a tenere a freno Israele se intendesse riprendere le ostilità, ma si può ben comprendere quanto precaria sia tale garanzia.

 

Comunque, ovviamente, è meglio di niente. Darebbe un po’ di sollievo ai palestinesi, nella speranza che duri, anche se il destino che li attende resta durissimo, anzitutto per le condizioni in cui è stata ridotta Gaza, di fatto invivibile se non per i disperati che vi abitano.

 

Peraltro, nell’incertezza sui contenuti reali delle trattative, si intensificano le notizie di uno sfollamento “volontario” della Striscia, della creazione di un campo di concentramento per ospitarli sulle rovine di Rafah, mentre resta avvolto nel mistero quale forma di governo verrà insediata o chi garantirà l’ordine.

Tra le tante variabili in gioco anche quella delle bande di tagliagole, tra cui spiccano i terroristi dell’Isis, assoldate da Tel Aviv per contrastare Hamas, che di certo resteranno sulla scena del crimine, con tutto quel che consegue.

 

Netanyahu arma milizia Isis contro Hamas a Gaza. Attacco israeliano alla periferia sud di Beirut.

Tanta l’incertezza sul futuro, quel che è certo è che Trump sta cercando di allettare Netanyahu a chiudere la guerra di Gaza offrendogli doni.

Anzitutto la Siria, che dovrebbe aderire agli accordi di Abramo grazie al nuovo governo formato dai terroristi di fiducia dell’Occidente.

 

Ciò consentirà a Tel Aviv di avere una grande influenza sul Paese confinante, che però dovrà dividere con quella esercitata dalla Turchia, che vede in tal modo ridimensionato il sogno di fare di Damasco il trampolino di lancio del nuovo impero ottomano per il quale il presidente Erdogan si è tanto profuso nel decennio passato, associandosi alle manovre per rimuovere Assad sia in maniera diretta sia facendo del suo Paese una testa di ponte per le sanguinarie iniziative dei suoi alleati d’Occidente, che hanno scatenato nel Paese le bande di tagliagole ascese al potere.

 

Oltre alla Siria, Trump vuole offrire in dono a Israele anche il Libano.

Ad oggi è davvero difficile immaginare che Beirut possa aderire agli Accordi di Abramo, ancora troppo forte l’influenza di Hezbollah, ma Washington può ottenere un fortissimo ridimensionamento della milizia sciita, che col tempo potrebbe rendere possibile ciò che ora non è.

 

A tale scopo si sta prodigando l’inviato Usa per il Libano “Tom Barrak”, che nelle sue continue visite nel Paese dei cedri sta esercitando fortissime pressioni sulla sua leadership politica perché accolga le richieste di Washington, che sono poi di Tel Aviv.

Richieste che si concentrano sull’eliminazione di Hezbollah come milizia, che dovrebbe essere disarmata e privata di ogni sostegno, finanziario e militare.

 

La triangolazione Siria-Libano-Israele vede anche un mutamento dei confini territoriali dei tre Stati a tutto vantaggio di Tel Aviv.

 Ne scrive “Jason Ditz” su “Antiwar”:

“Sono in corso colloqui tra Israele e Siria sulle alture del Golan occupate e le proposte si concentrano sul fatto che la Siria accetti che Israele possa mantenere parte del Golan [in realtà più o meno tutto ndr.] in cambio del permesso alla Siria di impossessarsi di parti del Libano settentrionale” (di quest’ultimo aspetto se ne sta occupando Barrak).

 

 

Lebanon Responds to US Demand, US Envoy ‘Unbelievably Satisfied’ Despite Rejection.

Le pressioni di “Barrak” si accompagnano alle diuturne incursioni dell’esercito israeliano in territorio libanese, che ogni giorno mietono vittime e devastano villaggi in violazione al cessate il fuoco stabilito con Hezbollah nel novembre scorso, mentre continua a occupare le alture libanesi al confine con Israele.

 

Un’occupazione che doveva finire con il cessate il fuoco e che continuerà anche se il Libano soddisferà appieno le richieste imperiali, come ha chiarito lo stesso Barrak affermando di non poter garantire la fine dell’acquisizione territoriale israeliana.

D’altronde, da tempo Israele vuole occupare il Libano meridionale fino al fiume Litani. E, senza Hezbollah a contrastarlo, nel tempo riuscirà.

Tale la situazione, tale il caos che sta dilagando in Medio oriente perché sia confacente ai desiderata israeliani. Il genocidio di Gaza è solo l’orribile epicentro di un sommovimento tellurico che sta destabilizzando l’intera regione.

Trump è arrivato a cose fatte, quando il terremoto era già iniziato, apparentemente inarrestabile. Non può fermarlo, o forse non vuole. Quel che è certo è che tenta, assecondando il sommovimento, di attutirne le scosse (com’è avvenuto per la guerra Israele-Iran) e di chiudere la mattanza dei palestinesi.

 

Forse il tempo gli darà ragione, forse, invece, al contrario, il sisma aumenterà di intensità anche grazie alle sue iniziative. Ma questo è l’incerto futuro prossimo, adesso quel che conta è se il mattatoio Gaza può essere messo in pausa, si spera duratura.

 

 

 

Il “nuovo grande gioco”. L’ambizione delle

superpotenze sui paesi dell’Asia Centrale.

 Geopolitica.info - Asia Pesce – (15/07/2023) – ci dice:

 

Il termine “grande gioco” risale al XIX secolo quando Regno Unito e Impero Russo si contendevano il controllo dei paesi dell’Asia Centrale.

Si trattava di una competizione moderata e perlopiù diplomatica, caratterizzata da accordi e alleanze, che tutt’ora contraddistinguono la regione.

 Oggi il termine è tornato di moda, riferendosi anzi a un “nuovo grande gioco” che vede competere le grandi potenze mondiali per ottenere alleanze sempre più solide e vincolanti.

 

Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan, nonostante vogliano condurre una politica multi-vettoriale, indirizzata a intrattenere relazioni con tutti i paesi, si trovano oggi all’interno di un’arena in cui le maggiori potenze straniere quali Russia, Cina, Stati Uniti, ma anche Turchia, perseguono i loro obiettivi cercando di accaparrarsi lo status di miglior partner.

 

I territori dell’Asia Centrale, rimasti perlopiù sconosciuti fino alla dissoluzione dell’URSS, sono oggi al centro delle ambizioni egemoniche dei maggiori attori internazionali che competono per stringere alleanze e impegnarsi in investimenti sempre più ingenti sulla regione.

Se fino a poco fa questi paesi erano ancora legati all’ex Madre Patria Russia, che garantiva loro sicurezza e rappresentava il principale partner commerciale; dall’altra un altro importante attore si sta facendo strada nella regione: la Cina.

Quest’ultima, infatti, ha bisogno delle risorse necessarie per sostenere i ritmi incessanti della sua economia e la regione dell’Asia Centrale rappresenta un ottimo alleato in tal senso.

A questo proposito, lo scorso 19 maggio si è concluso a Xi’an, in Cina, il vertice di due giorni tra i cinque paesi dell’Asia Centrale e il presidente cinese Xi Jinping.

L’obiettivo dell’incontro, come ha dichiarato il numero uno cinese, era quello di “rinnovare la nostra amicizia millenaria e aprire nuove prospettive per il futuro”. Al SUMMIT, tuttavia, non è passata inosservata l’assenza del presidente russo Vladimir Putin.

 

Il nuovo “grande gioco” coinvolge le grandi potenze che, seppur per motivi interni apparentemente differenti, competono per un obiettivo comune: aumentare la loro sfera di influenza nella regione andando inevitabilmente a ridurre quella avversaria.

A tal fine è utile citare l’organizzazione fondata nel 1996 da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan, diventata poi “Shanghai Cooperation Organization” (SCO) con l’adesione dell’Uzbekistan nel 2001.

 L’organizzazione nasceva con l’obiettivo di sconfiggere il terrorismo, il separatismo e l’estremismo dalla regione dell’Asia Centrale, ma oggi è evidente la tendenza antioccidentale che Cina e soprattutto Russia vogliono dare all’organizzazione per limitare l’influenza di attori stranieri nella regione.

La Russia in particolare rappresenta il primo partner commerciale per i paesi dello spazio post-sovietico, come ad esempio il Kazakhistan.

Nonostante si tratti del paese più vasto dell’Asia Centrale e maggior produttore di petrolio della regione grazie alle riserve a Tengiz, Kachaganak e la più recente, a Kashagan, il paese è ancora strettamente legato ai gasdotti russi.

Tuttavia, la produzione annuale di petrolio kazako dal 2015 varia tra i 77 e i 79 milioni di tonnellate, e proprio grazie all’ultima riserva petrolifera scoperta nel 2013, si stima che il paese aumenti la produzione del 60% entro il 2030.

Questo indubbiamente modifica gli equilibri geopolitici inserendo un ulteriore competitor ai già affermati paesi dell’OPEC, e più in generale, ai paesi esportatori di risorse energetiche.

 Il boom produttivo di Astana ha spinto Pechino a inserirsi sempre più in profondità nella regione cercando un rifornimento diretto senza dover passare attraverso Mosca.

 

Il Turkmenistan al contrario è ricco di gas naturali e grazie alla posizione strategica in prossimità del Mar Caspio, il paese è il quarto al mondo per riserve di gas. Il 70% delle importazioni cinesi provengono proprio dal Turkmenistan che esporta i suoi gas principalmente in Cina.

 

Anche l’Uzbekistan con la regione della Fergana è un grande produttore di energia, nonostante però venga esportata solo una ridotta quantità a causa dell’aumento della domanda interna.

 

La regione dell’Asia Centrale è anche produttrice di energia idroelettrica, in particolare il Kyrgyzstan, che con una superficie di acqua di quasi 2458 metri quadrati esporta energia soprattutto in Afghanistan.

 

Queste risorse rendono i territori dell’Asia Centrale altamente desiderabili e se da un lato la Russia considera ancora questi paesi come suo “backyard” e vuole assicurarsi lo status di principale alleato proteggendo i confini a sud contro le minacce di terrorismo islamico e traffico di droga, dall’altro la Cina sta investendo sempre di più nella regione, specialmente con il progetto “One Belt One Road” poi diventato “Belt Road Initiative”, volto a incrementare e perfezionare i collegamenti commerciali con i paesi dell’Eurasia.

 

Nonostante sia stato lo stesso presidente Vladimir Putin nel febbraio 2022 a descrivere l’amicizia con la Cina come “senza confini”, ci troviamo oggi dinanzi un cambio di rotta.

Se da una parte la Russia condivide il sentimento antioccidentale cinese, dall’altra non può dare il suo beneplacito all’avanzata cinese in Asia Centrale.

Tuttavia, è proprio la guerra portata avanti dal presidente russo che involontariamente allontana i paesi centroasiatici a causa delle ripercussioni delle sanzioni sul commercio e l’economia.

Dal canto suo, la Cina si sta rivelando attualmente il miglior partner per i paesi come è stato più volte ribadito dallo stesso presidente Xi Jinping nel corso del SUMMIT dello scorso maggio in cui ha dichiarato la volontà cinese di aumentare la cooperazione con i paesi dell’Asia centrale.

 In particolare, “la Cina si impegnerà ad aumentare il volume del trasporto merci transfrontaliero, migliorando la capacità di traffico dell’autostrada China-Kirghizistan-Uzbekistan e dell’autostrada China-Tajikistan-Uzbekistan e portando avanti le consultazioni sulla ferrovia China-Kirghizistan-Uzbekistan”.

Tra le altre cose, il presidente ha proposto l’istituzione di un partenariato per lo sviluppo energetico tra Cina e Asia Centrale.

Questi sono solo alcuni degli investimenti che Xi ha promesso.

È inevitabile, dunque, che la Russia stia perdendo terreno sugli ex paesi sovietici, lasciando spazio all’influenza di Pechino.

 

Se in parte potrebbe sembrare che il “nuovo grande gioco” si limiti alla contesa tra l’orso e il dragone, ci sono altri attori che spingono per ottenere il loro spazio in questo delicato contesto.

Gli Stati Uniti, nonostante il loro interesse sia diminuito soprattutto in seguito al ritiro dall’Afghanistan, desiderano diminuire l’influenza russa per evitare un monopolio russo sulle risorse energetiche in Asia Centrale che possa portare a una manipolazione dei prezzi così come hanno fatto i paesi dell’OPEC nel 1973.

A Questo proposito Washington ha supportato il gasdotto Baku-Tbilisi-Ceyhan completato nel 2005 che esclude Mosca dalla rotta passando invece per Azerbaijan, Georgia e Turchia.

 

Proprio quest’ultima, a sua volta, sta cercando di ritagliarsi uno spazio per dialogare con i paesi “stan”, offrendosi come alternativa al vuoto lasciato dagli Stati Uniti e dalla Russia.

Attraverso l’Organizzazione degli Stati Turchi, Erdogan prova infatti a dirottare l’attenzione dei paesi centroasiatici verso di sé.

 

Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan che da una parte sono ambiti dai diversi attori mondiali, devono orientarsi attentamente per massimizzare il loro potenziale economico, mantenere stabilità e salvaguardare la loro indipendenza.

I cinque paesi dell’Asia Centrale, inoltre, intendono perseguire una politica estera multi-vettoriale, stabilendo relazioni ed alleanze con tutti gli altri paesi.

Questa scelta è dovuta anche dalla posizione geografica in cui si trovano.

 Per paesi come l’Uzbekistan, senza sbocchi sul mare, intrattenere relazioni amichevoli con i diversi stati diventa fondamentale.

Questa politica però, è divenuta ancora più difficile da seguire dopo la guerra in Ucraina.

 

In conclusione, le dinamiche geopolitiche in Asia Centrale sono manovrate perlopiù dal conflitto di interessi tra Russia e Cina, nonostante anche altri attori stiano cercando di comunicare con i paesi centroasiatici. 

Mentre la Russia fa leva sui legami storici e sullo status, sempre più debole, di garante della sicurezza nella regione, la Cina concretamente si sta impegnando sul piano economico, commerciale, e logistico, favorendo lo sviluppo dei paesi.

 

Dal canto loro anche gli Stati Uniti cercano di mantenere le relazioni grazie il summit diplomatico C5+1, che si riunisce ogni anno per discutere temi non solo di carattere economico, ma anche relativi la sicurezza (gli Stati Uniti si impegnano in prima persona grazie alla presenza di basi militari nel territorio).

 

Si può osservare dunque come nonostante la volontà iniziale dei cinque paesi ex sovietici a mantenere rapporti con tutti i paesi, al momento sia il versante cinese quello più conveniente con cui relazionarsi, voltando per la prima volta le spalle alla vecchia Madre Patria, occupata sul fronte ucraino.

 Probabilmente un distaccamento dalla Russia si sarebbe raggiunto in un prossimo futuro.

 Tuttavia, l’attuale conflitto ha velocizzato tale processo senza il quale, altrimenti, i paesi centroasiatici si ritroverebbero ancora più isolati e senza rifornimenti da Mosca.

 

Sicuramente, fintanto che i paesi non riusciranno ad emergere economicamente ed essere del tutto indipendenti, sarà difficile per loro trovarsi in una posizione favorevole nei diversi tavoli dei negoziati.

Ciò che suscita interesse, infine, è capire se in futuro i cinque “stan” riusciranno a raggiungere tale indipendenza o se, al contrario, l’attuale vicinanza con Pechino continuerà a rafforzarsi, spostando semplicemente i paesi dall’area di influenza russa a quella cinese.

 

 

 

 

Il “Grande gioco” di Mosca attraversa

una fase difficile. Le paure del Cremlino.

Formiche.net - Lorenzo Piccioli – (10-2-2025) – ci dice:

Un documento governativo russo ottenuto dal Financial Times rivela un piano di lungo periodo per creare un blocco eurasiatico per contrapporsi a Usa, Ue e Cina.

Piano che deve fare i conti con un Occidente tutt’altro che collaborativo

 

All’interno della sua azione diplomatica per riavvicinare a sé i Paesi del cosiddetto “Estero Vicino”, termine con cui si indicano gli Stati ex-sovietici, così come in quello di rafforzare i legami politico-economici con i Paesi del Sud Globale, il Cremlino si trova a dover fare i conti con delle pressioni occidentali capaci di influenzare in modo sostanziale i suoi sforzi.

Il combinato disposto delle sanzioni imposte nei confronti della Federazione Russa in seguito all’inizio del conflitto in Ucraina e degli inviti rivolti dall’Occidente ai Paesi in questione a rafforzare le collaborazioni economiche sembra infatti aver suscitato apprensione nella nomenklatura moscovita, che avrebbe discusso la questione all’interno di una riunione che ha avuto luogo nell’aprile dell’anno scorso.

 

A certificarlo è il leak di un documento governativo ottenuto dal Financial Times utilizzato durante il meeting in questione, e presentato dal primo ministro “Mikhail Mishustin” a diverse decine di alti funzionari governativi e dirigenti di alto rango di alcune delle più grandi aziende statali russe, oltre che a personalità di spicco nel mondo politico russo come” Sergei Karaganov” o “Alexander Dugin”.

 

Il documento mette in chiaro come l’obiettivo di Mosca sia quello di ripristinare il proprio accesso alla rete commerciale globale, istituendo un blocco commerciale eurasiatico incentrato proprio sulla Russia, allo scopo di rivaleggiare con le sfere di influenza economica di Stati Uniti, Unione Europea e Cina.

 Questa formula permetterebbe alla Russia di collegarsi al Sud globale, dando a ciascuna delle due parti l’accesso alle materie prime, sviluppando legami finanziari e di trasporto e unendole attraverso una comune “visione del mondo […] in cui scrivere regole per il nuovo mondo [e avere] la nostra politica di sanzioni”.

 La creazione di questo blocco (o “macroregione”, come viene definita nel documento in questione) viene considerato come un importante progetto a lungo termine, il cui orizzonte temporale si estende ben oltre quello della questione ucraina.

 

Ma le interferenze occidentali avrebbero un impatto tutt’altro che trascurabile sullo sviluppo di questo progetto.

Basti pensare a quanto fatto con i Paesi dell’Asia centrale, a cui è stato offerto l’accesso ai mercati globali, ai corridoi di trasporto e alle supply chain che aggirano Mosca, per convincerli a rispettare il regime di sanzioni imposto contro la Russia.

 

Nel frattempo, viene evidenziato nel rapporto, i Paesi più vicini a Mosca hanno tratto profitto dalle sanzioni allontanando le imprese russe dalla loro giurisdizione nazionale, prendendo il controllo dei flussi di importazione ed esportazione e delocalizzando la produzione dalla Russia.

Mentre i Paesi dell’Asia centrale più compiacenti verso il Cremlino hanno comunque cercato di ottenere ulteriori vantaggi per compensare i rischi di violazione delle sanzioni.

Allo stesso tempo, il momento di relativa vulnerabilità di Mosca ha spinto alcuni di questi attori ad avvicinarsi ad altri blocchi regionali, come ad esempio l’Organizzazione degli Stati Turchi.

 

Il rapporto afferma che la Russia dovrà impegnarsi a lungo per mantenere i Paesi dell’Asia centrale nella sua orbita.

Mosca dovrà stressare loro storia condivisa, rispettando allo stesso tempo la loro indipendenza.

 E ammette che “Le relazioni strette con un Paese [come la Russia] saranno fonte di difficoltà”.

Concludendo che i Paesi in questione dovranno “prendere una decisione sulla loro posizione nei confronti della Russia”.

 

 

 

Il “grande gioco” per

l’impero digitale.

Avvenire.it - Simone Paliaga – (12 ottobre 2024) – ci dice:

 

Altro che cloud: i dati corrono sotto il mare.

 E su essi è in corso una vera battaglia, che può sfociare in un nuovo colonialismo. Una serie di saggi affronta il tema

Rami Malek nella serie "Mr. Robot".

 

Cloud, dematerializzazione, virtuale.

Sono alcune delle parole chiave del fenomeno oggi riconosciuto come “transizione digitale”.

L’orizzonte di senso che schiudono allude a mondi eterei e intangibili.

Dati, informazioni, siti risiedono lassù, tra le nuvole, cloud, appunto.

Ma siamo sicuri che sia proprio così e non un errore di parallasse che adombra ben più terrene e cruente dinamiche di potere, inedite forme di colonialismo, scontri tra superpotenze?

 

Ne è convinto “Antonio Deruda” che, in Geopolitica digitale , La competizione globale per il controllo della Rete (Carocci, pagine 184), aiuta a riportare lo sguardo a terra, in particolare nelle profondità marine.

È lì che si svolge il grande gioco del mondo multipolare.

 «La scelta su dove far passare un nuovo cavo sottomarino in fibra ottica o l’identificazione di un luogo dove costruire un importante data center – precisa – è una decisione strategica che può incidere sul futuro di intere aree del mondo».

Ridisegnare le mappe della geografia digitale non è un atto insignificante. Equivale a cavalcare l’onda di un colonialismo 4.0, stabilendo le aree destinate allo sviluppo economico e quelle che diventeranno periferia.

Senza contare le aree destinate a rimanere preda di un colonialismo d’antan, mere riserve di metalli rari preziosi indispensabili alla costruzione di infrastrutture e componentistica, come i cosiddetti semiconduttori, più noti col termine microchip.

 

Intelligenza artificiale, Internet delle cose, supercomputer quantistici, 5G, realtà virtuale e metaverso sono fenomeni che ridefiniscono nuovi rapporti e geografie del potere, passando dal monopolio di Washington a un bipolarismo con Pechino, senza escludere Nuova Dehli e la società di telecomunicazioni Tata Communications e Mosca con la sua sperimentazione di un’internet sovrana, “RuNet”.

Questo scenario è destinato a segnare, nei prossimi decenni, non solo i rapporti di forza tra le potenze ma anche le vite di tutti i loro cittadini.

 

Per maneggiare il digitale e l’intelligenza artificiale, Il nuovo fuoco (Bocconi University Press, pagine 370), occorre dotarsi di strategie efficaci, altrimenti se ne perde il controllo.

“Ben Buchanan” e “Andrew Imbrie”, nello studiare guerra, pace e democrazia nell’era dell’IA, lo sanno bene.

E ne parlano a ragion veduta, visto che il primo è special advisor della Casa Bianca sull’IA.

A imprimere la recente accelerazione tecnologica, per gli autori, contano l’aumento della potenza di calcolo, lo sviluppo di algoritmi di nuova generazione e le messi di dati a disposizione degli algoritmi di apprendimento necessari all’IA.

Su questi ambiti la rivalità tra Usa e Cina si acuisce, puntando entrambe sulla supremazia politica.

Bisogna però, per i due autori, non perdere di vista il fattore umano, spesso trascurato dagli analisti.

I nuovi algoritmi rivelano opacità, distorsioni ideologiche o bug dovuti all’inizializzazione, certo, ma spesso si scorda che «le tecnologie non sono deterministiche, modellano e sono modellate dalle società».

Pesa chi disegna, sviluppa e perfeziona macchine e algoritmi, orientandone l’azione.

Non a caso si assiste, in questo ultimo periodo, a un’autentica guerra dei talenti per attirare nelle università e nei centri di ricerca studiosi e studenti provenienti da ogni parte del mondo.

Perché è nell’ambito della ricerca, e prima ancora nella formazione, che si giocherà la partita per evitare che Il nuovo fuoco, una volta acceso, divampi incontrollato soprattutto a causa della fluidità, favorita dalle nuove tecnologie, tra ambiti civile e militare.

Difficile rinvenire un punto di accordo tra le potenze.

Rispetto alla deterrenza nucleare dei tempi della Guerra Fredda, oggi, in una realtà in evoluzione su una terra incognita, non esistono punti di riferimento stabili, come allora era quello della distruzione atomica, intorno a cui negoziare e accordarsi per fissare standard di ricerca condivisi.

 

Se indiscusse sono le novità suscitate dalle conquiste tecnologiche, esse si iscrivono in una storia di lungo periodo, come sottolinea a buon diritto ma con qualche ingenuità” David Runciman” in “ Affidarsi”.

“Come abbiamo ceduto il controllo della nostra vita a imprese, Stati e intelligenze artificiali “(Einaudi, pagine 320).

Per lo scienziato della politica di Cambridge, pur senza celare l’inedito dell’IA, è da secoli che l’uomo si affida a macchine.

Lo sarebbero Stato e imprese, macchine agenti e non intelligenti, magari, ma sempre macchine a cui gli uomini si sono affidati per assumere decisioni che ampie comunità non potevano adottare senza aprire faglie di conflitto al loro interno.

 Se il mondo è stato modellato in passato da Stati e imprese, ora lo sarà dall’intelligenza artificiale.

Niente di nuovo sotto il sole ma con il rischio di quella che lo studioso inglese chiama «seconda singolarità» che «potrebbe rappresentare una trasformazione biologica, se le macchine cambiassero non soltanto le nostre prospettive ma anche le nostre capacità naturali fondamentali».

Non ci siamo ancora, secondo “Runciman”, dal momento viviamo ancora la condizione moderna «né semplicemente la condizione umana né quella post-umana».

Siamo però davanti a una scelta.

Investire sull’intelligenza, rendendo Stati e imprese più intelligenti, tenere separati IA e l’azione di Stati e imprese oppure, terza ipotesi, fornire potere di azione alle IA?

 Ma, in tal caso, risponderebbero del loro operato, in uno scenario in cui a confrontarsi non sarebbero solo gli Stati ma anche Stati e imprese tra loro?

 

Ben più realistica l’idea sottesa a” Tecnologie dell’Impero”, come recita il titolo del libro di “Francesca e Luca Balestrieri” (Luiss University Press, pagine 262).

 «Tutto si è digitalizzato e tutto in prospettiva potrà intelligentizzarsi», affermano gli autori.

 L’IA travolgerà tutti i comparti, dal politico-economico al simbolico-immaginario, aprendo una discontinuità con il passato che richiederà «un surplus di creatività istituzionale» per il controllo dello sviluppo tecnologico.

All’attuale disfunzionalità della politica non sfugge l’Europa, irretita in dedali istituzionali, ma neppure gli Stati Uniti, sconvolti dall’estrema polarizzazione, e la Cina, si cui incombono problemi di coesione interna.

In gioco sarebbe «il labirinto del Minotauro», la rifondazione della sovranità, per governare progettazione, coesione e competizione dei sistemi tecno-industriali, orientare i flussi di capitali, di proprietà intellettuali e know-how, sorvegliando le migrazioni di dati affinché alimentino i processi di produzione interni basati sull’intelligenza artificiale.

E con la sovranità, diciamo noi, anche la democrazia.

 

 

 

 

Scomode verità.

Ariannaeditrice.it - Alessandro Di Battista – (08/07/2025) – ci dice:

 

Alcuni giorni fa (esattamente dal 18 al 21 giugno 2025) si è svolto a San Pietroburgo il Forum economico internazionale.

Al termine dei lavori Vladimir Putin ha risposto alle domande di alcuni giornalisti stranieri.

In particolare, un giornalista spagnolo gli ha chiesto di commentare la decisione dei Paesi NATO (tutti tranne la Spagna) di raggiungere il 5% del Pil in spese militari nei prossimi anni.

 Per noi italiani significherebbe spendere centinaia di miliardi di euro in più in spese per la difesa.

Ebbene, salvo rarissime eccezioni, la risposta di Putin è stata del tutto ignorata dal sistema mediatico italiano.

Eppure credo che gli europei avessero e abbiano il diritto di ascoltare la sua risposta.

Ogni giorno ci dicono che la Russia è un nemico, una minaccia per l’Europa.

Mark Rutte, il segretario generale della NATO, ha detto alcune settimane fa che tra 4-5 anni la Russia “potrebbe iniziare a pensare di attaccare l’Europa”. Insomma, è opportuno conoscere il pensiero di Putin riguardo al riarmo europeo.

Ebbene, Putin così ha risposto:

“In Europa dicono che stiamo per attaccare la NATO. Ma che assurdità è?

Tutti capiscono che è un’assurdità.

Stanno ingannando le loro popolazioni per spillare soldi dai bilanci statali.

 5%, 3,5%, +1,5%.

Usano tutto questo per giustificare i fallimenti nell’economia e nel settore sociale. Sullo sfondo di questa retorica sulla presunta aggressività immaginaria della Russia, si comincia a parlare della necessità di armarsi.

Bene, che si armino pure.

Riteniamo che il riferimento all’aggressività della Russia sia assolutamente infondato. Non siamo noi ad essere aggressivi, ma questo cosiddetto Occidente collettivo e aggressivo”.

Magari mentirà. Ad ogni modo Putin, quello descritto come il nuovo Hitler pronto a invadere l’Europa occidentale o ad attaccare la NATO, ha detto che la narrazione europea è falsa. Che i russi non hanno alcun interesse ad attaccare un Paese dell’Alleanza Atlantica e che questa balla serve solo a togliere denari dai bilanci degli Stati europei o NATO per farli arrivare alle grandi fabbriche di armi (le prime 5 sono statunitensi) e ai fondi finanziari (soprattutto USA) che sono i principali azionisti delle stesse fabbriche di armamenti.

Ha detto questo, e temo abbia ragione.

Inoltre ha parlato delle spese militari della Russia e anche in questo caso ha detto cose incredibili.

“Noi pianifichiamo di ridurre la spesa militare, mentre la NATO di aumentarla. Stiamo pianificando di ridurre le spese per la difesa. Per il prossimo anno, per quello dopo ancora, e per i prossimi tre anni. Non c’è ancora un accordo definitivo tra il ministero della Difesa, il ministero delle Finanze e il ministero dello Sviluppo Economico, ma in generale tutti stanno pensando in questa direzione. E l’Europa sta pensando a come aumentare le proprie spese, al contrario”.

La Russia oggi spende per la difesa il 6,35% del Pil. Spende dunque 172 miliardi di dollari all’anno. In pratica spende già adesso molto meno di quanto non spendano i Paesi UE.

In tutto ciò, due giorni dopo queste dichiarazioni di Putin ha parlato Zelensky e ha detto: “Putin potrebbe attaccare entro 5 anni un Paese NATO”. Non oggi, tra 5 anni. Intanto spendiamo centinaia di miliardi di euro in armi.

Vi faccio una domanda. Alla luce di tutto questo, chi è più pericoloso per gli interessi dei cittadini europei (soprattutto quelli italiani), la NATO o Putin? A voi la risposta!

 

 

 

 

L'industria e il Green Deal.

Commission.europa.com – (02 -02 - 2024) – Redazione – ci dice:

 

Una strategia industriale per un'Europa competitiva, verde e digitale.

 

Il Green Deal europeo è la nuova strategia dell'UE per la crescita che mira a trasformare l'Unione in una società giusta e prospera, dotata di un'economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva che a partire dal 2050 non genererà più emissioni nette di gas a effetto serra.

 

L'obiettivo principale è sfruttare il notevole potenziale dei mercati globali in termini di tecnologie a basse emissioni e prodotti e servizi sostenibili al fine di conseguire la neutralità climatica entro il 2050.

Tuttavia, per arrivare a un'economia circolare e a impatto climatico zero è necessaria la piena mobilitazione dell'industria.

Tutte le catene del valore industriali, compresi i settori ad alta intensità energetica, avranno un ruolo chiave.

 

La nuova strategia industriale per l'Europa guiderà la duplice transizione verde e digitale e farà diventare l'UE ancora più competitiva a livello mondiale.

Aiuterà l'industria a ridurre la propria impronta di carbonio fornendo soluzioni tecnologiche pulite e a prezzi accessibili e sviluppando nuovi modelli d'impresa.

Con la strategia aggiornata basata sugli insegnamenti tratti dalla pandemia di COVID-19, l'UE mira a garantire che l'industria europea possa guidare la transizione verde e digitale accelerata.

 

La Commissione europea ha adottato una serie di proposte per trasformare le politiche dell'UE in materia di clima, energia, trasporti e fiscalità in modo da ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.

Maggiori informazioni sulla realizzazione del Green Deal europeo.

 

Nel febbraio 2024 la Commissione ha adottato una strategia di gestione industriale del carbonio dell'UE per garantire investimenti in tecnologie in grado di catturare e stoccare in modo sostenibile il carbonio e riutilizzarlo.

Ciò è essenziale se si auspica che l'UE consegua il suo obiettivo di neutralità climatica entro il 2050.

 La strategia definisce le modalità per potenziare le tecnologie di cattura del carbonio a livello nazionale e dell'UE e creare le infrastrutture necessarie per creare un mercato unico della CO2 in Europa nei prossimi decenni.

 

 

 

 

Cosmetici Sostenibili:

La Rivoluzione Green.

Stilsano.it – (7 Ottobre 2024) – Redazione – ci dice:

 

L’Industria Cosmetica verso la Sostenibilità Ambientale.

L’industria cosmetica sta vivendo una vera e propria rivoluzione green, mettendo al centro della sua missione la riduzione delle emissioni di gas serra e l’adozione di pratiche di produzione ecologiche.

 

I cosmetici sostenibili stanno diventando un must per chi desidera prendersi cura della propria bellezza nel pieno rispetto del nostro pianeta.

 Le aziende che abbracciano questa filosofia non solo si distinguono nel mercato, ma conquistano anche la fiducia di consumatori sempre più sensibili alle questioni ambientali.

 

Ma non è tutto: il panorama normativo si fa sempre più rigoroso e le aziende devono stare al passo.

 Il Green Deal Europeo, il piano dell’Unione Europea per trasformare l’economia del nostro continente, punta a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, mira inoltre a proteggere la biodiversità, ad eliminare le sostanze tossiche ed a tutelare le risorse.

Questo piano d’azione avrà un impatto sempre più significativo sulla vita dei cittadini europei e imporrà sfide crescenti alle aziende.

 

La Direttiva (UE) 2024/825, nota come “Direttiva Greenwashing”, è in vigore dal 26 marzo 2024 e ha un obiettivo chiaro:

 proteggere i consumatori nella transizione verde e combattere le pratiche ingannevoli che mascherano la vera sostenibilità dei prodotti.

La Direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori definisce l’elenco delle pratiche commerciali considerate sleali e associate al greenwashing, come l’esibizione di un marchio di sostenibilità che non sia basato su un sistema di certificazione.

 

Ma quando si parla di cosmetico sostenibile?

 Un cosmetico può essere definito sostenibile quando:

 

Gli ingredienti sono naturali, biologici, biodegradabili e/o riciclati;

Gli imballaggi sono riciclabili e/o realizzati con materiale riciclato;

La produzione è a basso impatto ambientale;

Sono presenti certificazioni che attestano l’impegno dell’azienda per la sostenibilità.

Per dimostrare l’impegno dell’azienda verso la sostenibilità ambientale, occorre individuare i punti critici della filiera, misurando l’impatto ambientale e fissando obiettivi di mitigazione.

Un metodo scientifico validabile a livello internazionale è lo studio di “Carbon Footprint di Organizzazione” (CFO), il quale permette di identificare le attività legate all’azienda più impattanti per quanto riguarda le emissioni di gas ad effetto serra.

 

Ma non dimentichiamo il nodo centrale: il prodotto.

 Per realizzare articoli con ottime performance ambientali, la sostenibilità deve permeare ogni fase del ciclo di vita, dalla formulazione alla distribuzione, dall’uso fino al fine vita.

Un’opportunità straordinaria per rendere i prodotti cosmetici più green e sostenibili è abbracciare la” filosofia dell’upcycling”.

 Questa pratica innovativa trasforma scarti in risorse preziose, portando ingredienti riciclati all’interno delle formulazioni cosmetiche, come gli scarti dell’industria alimentare, che altrimenti finirebbero in discarica.

Abbracciare l’upcycling non significa solo ridurre i rifiuti, ma anche valorizzare ciò che la natura ci offre.

 

Un altro aspetto cruciale nella produzione di cosmetici è il packaging.

Per ridurre questo impatto, ci sono soluzioni innovative e sostenibili che fanno davvero la differenza.

 Un esempio è poter ricaricare i propri cosmetici grazie a contenitori progettati per il refill.

Questa pratica non solo riduce i rifiuti, ma permette anche di continuare a godere dei propri prodotti in modo più responsabile.

 

L’”ecodesign” si fa strada nel settore:

prevede la riduzione dell’impiego di alcuni imballaggi ed una scelta intelligente di imballaggi progettati per essere facilmente riciclati.

 Queste iniziative non solo semplificano la raccolta differenziata, ma aiutano a ridurre l’impatto ambientale.

 

L’innovazione sta rapidamente evolvendo, puntando a identificare sostanze biocompatibili che non solo nutrono e proteggono la pelle, ma garantiscono anche un basso impatto ecologico durante tutte le fasi di produzione e distribuzione.

 

Per misurare l’impatto ambientale del cosmetico e del relativo packaging, lo studio del ciclo di vita,” Life Cycle Assesment” (LCA), è lo strumento più adatto, poiché segue un metodo scientifico certificabile.

L’obiettivo è analizzare quali fasi del processo produttivo hanno il maggiore impatto sull’ambiente e sulla salute, dalla produzione e dall’approvvigionamento delle materie prime, al packaging, al trasporto, fino all’utilizzo del prodotto e al suo impatto ambientale finale.

 

Le Impronte Ambientali dei prodotti e i relativi schemi di certificazione offrono alle aziende un’importante opportunità competitiva per comunicare il loro impegno e le eccellenze delle loro prestazioni, evitando così il rischio di “greenwashing”.

Come possiamo aiutarti?

La “Carbon Footprint di Organizzazione” (CFO) è uno strumento operativo che consente la misurazione delle emissioni climalteranti espresse in quantità di CO2 equivalente, attribuibili ai processi della tua azienda cosmetica e della tua filiera.

“Life Cycle Assessment” (LCA) è una metodologia analitica e sistematica che valuta l’impronta ambientale del cosmetico lungo tutte le fasi del suo ciclo di vita, come l’estrazione delle materie prime, la lavorazione dei materiali, l’uso e lo scenario di fine vita (“dalla culla alla tomba”).

La “Carbon Footprint di Prodotto” (CFP) è uno strumento operativo che consente la misurazione delle emissioni climalteranti espresse in quantità di CO2 equivalente, attribuibili al ciclo di vita del cosmetico.

 

Biomateriali, dalla moda

all’edilizia una vera rivoluzione.

Ilsole24ore.com - Daniela Russo – (21 maggio 2025) – ci dice:

 

Dalle pelli coltivate in laboratorio ai costumi del San Carlo realizzati dalla fermentazione di scarti della frutta. C’è una nuova filiera di aziende.

I punti chiave:

Agricoltura cellulare per il cuoio del futuro.

La moda bio-based sul palco del San Carlo.

Non solo moda.

 

Dalla moda all’edilizia, passando per design e comparto medicale: la rivoluzione green passa per i materiali, sempre più sostenibili e circolari.

Secondo lo studio “Scaling next-gen materials in fashion: an executive guide” di “Boston Consulting Group e Fashion for Good”, i materiali rappresentano circa il 30% del costo del venduto nel comparto moda e, allo stesso tempo, sono responsabili di oltre il 90% delle emissioni complessive derivanti da estrazione, lavorazione e produzione.

 

I materiali di nuova generazione, realizzati con biotecnologie avanzate e materiali riciclati o bio-based, garantiscono alte prestazioni riducendo allo stesso tempo l’impatto ambientale e hanno il potenziale per coprire l’8% del mercato globale delle fibre entro il 2030, pari a 13 milioni di tonnellate, rispetto all’1% attuale.

Secondo l’analisi, l’adozione su larga scala di questi strumenti potrebbe ridurre il costo del venduto fino al 4% nei prossimi cinque anni, consentendo di liberare risorse, ma anche di rendere la “supply chain” più resiliente, riducendo l’esposizione delle aziende del comparto a interruzioni della filiera e a fluttuazioni dei costi delle materie prime tradizionali.

 

 Agricoltura cellulare per il cuoio del futuro.

Nonostante le difficoltà incontrate a causa di ostacoli economici, tecnici e operativo, sono numerose le realtà europee che stanno lavorando per contribuire alla trasformazione dell’industria della moda.

 È il caso di “Qorium”, società biotech basata in Olanda che sta reinventando l’industria del cuoio utilizzando l’agricoltura cellulare per coltivare pelle di alta qualità con un impatto climatico minimo e nessuna crudeltà sugli animali.

 

La startup, nel portfolio di “Sofinnova Partners”, ha raggiunto traguardi importanti nella produzione sostenibile di pelli coltivate in laboratorio, con effetti diretti sulla sostenibilità ambientale:

fino all’87% in meno di emissioni di carbonio, eliminazione delle emissioni di metano, riduzione del 64% del consumo di acqua e di oltre il 95% di utilizzo di terreno.

«Gran parte dell’impatto ambientale è legato alla possibilità di evitare l’allevamento degli animali, ma alcuni elementi riguardano le differenze nella lavorazione, la riduzione dei rifiuti e l’eliminazione di alcune sostanze chimiche», commenta “Joško Bobanović,” partner” Industrial Biotechnology Funds Sofinnova Partners”.

Il processo produttivo di Qorium consente di ottenere pelle coltivata in laboratorio a partire da cellule di pelle animale, coltivate in un bioreattore e poi su un substrato per formare ritagli di pelle.

L’azienda ha riscontrato il maggiore interesse da parte dei settori della moda, dell’abbigliamento, delle calzature, del settore automobilistico, dei trasporti e dell’arredamento, dove la domanda di pelle di alta qualità e ad alte prestazioni è significativa.

La moda bio-based sul palco del San Carlo.

È frutto della ricerca italiana ScobySkin, materiale bio-fabbricato da microrganismi batterici a partire da scarti di frutta, nato nel laboratorio campano Biologic, specializzato nella realizzazione di nuovi materiali e soluzioni a partire da processi di crescita biologica.

 ScobySkin è realizzato a partire da fogli di nano-cellulosa in purezza ottenuta con un processo di fermentazione batterica direttamente in vasche di coltura, utilizzando scarti delle produzioni frutticole, tra cui mele, kiwi, arance, uva, albicocche, e delle industrie conserviere.

 

Un bio-materiale modellabile, sostenibile e innovativo per il design e la moda, dotato di una struttura fibrillare tra i 50 e 100 nanometri organizzata dai batteri in maniera tridimensionale, riproducendo il lavoro svolto dai bachi da seta. La fermentazione permette ai micro-organismi di creare trama e ordito del bio-film, che viene poi trattato e lavorato con tecniche di stampa green e di taglio laser.

 

Il biofilm, protagonista dei costumi e dei gioielli in scena lo scorso marzo al Teatro San Carlo di Napoli con la Salomè di Richard Strauss, può essere utilizzato anche in ambiti diversi: cosmetica, edilizia, biomedicale.

È il risultato di cinque anni di ricerca e sviluppo da parte del laboratorio nato dalla collaborazione tra “Knowledge for Business”, “TecUp” e “Medaarch”, sostenuto tra gli altri dal Ministero del Made in Italy e dalla Regione Campania.

Non solo moda.

I materiali innovativi stanno trasformando anche il volto e la produzione di ambiti diversi dalla moda, come il medicale e l’edilizia.

 Secondo le stime di “Mordor Intelligence”, il mercato dei biomateriali raggiungerà una dimensione di 202 miliardi di dollari nel 2025 e i 384 miliardi di dollari entro il 2030, con un Cagr del 13,69% nel periodo di previsione (2025-2030).

Il settore sta vivendo una trasformazione guidata dai cambiamenti demografici globali e dalle crescenti richieste di assistenza sanitaria, che stanno creando una domanda senza precedenti di soluzioni mediche avanzate.

 

Nuove tecniche di produzione, in particolare la biostampa 3D e la nanotecnologia, stanno consentendo lo sviluppo di soluzioni di biomateriali più sofisticate e personalizzate.

 L’integrazione di biomateriali medici polimerici intelligenti, in grado di rispondere a parametri fisiologici e stimoli esterni, rappresenta un progresso significativo nella medicina moderna.

Questi materiali vengono sempre più utilizzati in applicazioni di medicina rigenerativa, ingegneria tissutale e sistemi di somministrazione mirata di farmaci, dimostrando lo spostamento del settore verso soluzioni sanitarie più personalizzate.

In questa puntata di Start parliamo dell’intenzione del Governo di congelare l’aumento di 3 mesi dell’età pensionabile dal 2027, della decisione del Tribunale di Roma sui Rolex contesi tra Francesco Totti...

I materiali bio-based contribuiscono anche alla decarbonizzazione del settore edilizio.

La progressiva sostituzione dei materiali di origine petrolchimica con alternative derivate da risorse organico-naturali rinnovabili sta accelerando la trasformazione del comparto.

 La produzione di cemento e calcestruzzo è responsabile dell’8% delle emissioni globali di gas serra.

Realtà come “Prometheus Materials” stanno investendo in ricerca e sviluppo per ridurre questa percentuale.

 La startup ha sviluppato un processo di produzione del cemento ispirata alla formazione dei coralli e delle conchiglie marine.

 Utilizzando microalghe marine coltivate in stagni aperti tramite fotosintesi, viene assorbita anidride carbonica, e il calcare è prodotto attraverso la bio-mineralizzazione.

 Viene poi miscelato con additivi naturali appropriati, ottenendo un sostituto del cemento a impatto carbonico negativo.

 

 

 

Sicurezza sul lavoro in agricoltura

La carta vincente per una produzione

etica e green.

Previdenzaagricola.it – (6 Giugno 2022) - Giovanni Mininni, Segretario Generale Flai Cgil - Enpaia – ci dice:

 

Il tema della sicurezza nel settore agricolo, pur non rientrando tra quelli espressamente indicati nelle politiche europee, è un elemento sotteso al nuovo impianto programmatico Ue.

La stessa Agenda 2030 dell’Onu pone il lavoro dignitoso tra i 17 obiettivi da perseguire per fare dello sviluppo sostenibile la carta vincente del prossimo futuro.

Mai come negli ultimi anni il tema della produzione di cibo e delle ricadute in termini ambientali che questa comporta è stato dibattuto.

 Da un lato, senza dubbio, questo è stato determinato dal risveglio delle giovani generazioni, con il movimento “Friday for future” ed il piglio di una giovanissima leader come “Greta Thunberg”, che hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica e della politica la centralità dei temi ambientali e la necessità inderogabile di affrontare il problema del cambiamento climatico e dello spreco di risorse energetiche.

 Dall’altro, lo scoppio della pandemia ha messo in evidenza la necessità di ripensare il modello di sviluppo, i mercati e le produzioni con modalità diverse da quelle dello sfruttamento e della globalizzazione.

Il concorso di questi elementi ha posto alla politica in modo perentorio l’urgenza di intervenire per ridisegnare un quadro normativo e programmatico che avesse alla base la sostenibilità ambientale, la riduzione di emissione di gas e sostanze nocive, la riduzione di pesticidi, la spinta verso l’utilizzo di energie rinnovabili e pulite. Possiamo dire, quindi, che il “New Green Deal”, la strategia “A Farm to fork” e la “PAC 2021-2027” rappresentano la risposta a queste sollecitazioni e gli strumenti di cui l’Europa si è dotata per affrontare queste sfide.

 

L’’Italia ha declinato nel “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” le strategie europee e le politiche necessarie al rilancio del Paese dopo la “crisi pandemica,” per stimolare la” transizione ecologica” e favorire un” cambiamento strutturale del sistema economico”.

Un cambiamento in cui il carattere sociale delle misure, con il contrasto alle disuguaglianze territoriali, di genere e tra generazioni, rappresenta un punto qualificante e dirimente per determinare davvero una trasformazione del sistema produttivo e, in ultima analisi, della nostra stessa società.

Il tema della sicurezza sul lavoro in agricoltura, pur non rientrando tra quelli espressamente indicati nelle politiche europee citate, di fatto è un elemento sotteso a questo nuovo impianto programmatico ed è imprescindibile affinché esso possa davvero realizzarsi.

 La stessa Agenda 2030 delle Nazioni Unite pone il lavoro dignitoso tra i 17 obiettivi da perseguire per fare dello sviluppo sostenibile la carta vincente per il prossimo futuro.

 

Per parte nostra siamo convinti che la “sostenibilità ambientale” non possa realizzarsi in assenza di “sostenibilità sociale”, ovvero laddove non si applicano i contratti e le condizioni di lavoro sono molto al di sotto degli standard minimi indicati dalle leggi.

Già, perché la sostenibilità sociale è legata indissolubilmente al lavoro di qualità.

Prendiamo a riferimento la Legge 199 del 2016 contro lo sfruttamento ed il caporalato:

 tra gli indici di sfruttamento elencati come indicatori della condizione dei lavoratori è esplicitamente inserito il rispetto delle norme sulla sicurezza e l’igiene nei luoghi di lavoro.

La Rete del lavoro agricolo di qualità, con le sue Sezioni territoriali, rappresenta di fatto l’impalcatura attraverso cui garantire uno “standard minimo di qualità” ai lavoratori nello svolgimento del proprio lavoro, creando allo stesso tempo le condizioni affinché le aziende operino nella legalità e nel rispetto delle norme.

Per standard minimo intendiamo trasparenza nel reclutamento della manodopera attraverso un incontro tra domanda e d’offerta di lavoro in luogo pubblico, applicazione del contratto collettivo e dunque anche rispetto delle norme in materia di salute e sicurezza, accesso ai servizi, trasporti, alloggi dignitosi.

È evidentemente impossibile che ad un lavoratore sia garantito un luogo di lavoro sano ed un mantenimento di standard di sicurezza adeguati in assenza del rispetto della contrattazione collettiva in agricoltura.

 Dunque, in questo senso, la “mancata estensione della Rete del lavoro agricolo di qualità” e lo scarsissimo numero di Sezioni territoriali sino ad ora insediate – 22 con l’ultima a Caserta – non solo sta determinando una scarsa applicazione della parte preventiva della Legge 199 del 2016, ma è anche l’ennesima occasione mancata per affrontare il tema della salute e sicurezza in agricoltura.

 

Il 29 marzo 2022 è stato firmato il “Decreto ministeriale n. 55/2022 del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali”, in cui si stabilisce la ripartizione di 200 milioni di euro assegnati alle Amministrazioni locali, tramite il PNRR, per il superamento degli insediamenti abusivi dei braccianti agricoli a favore del recupero di soluzioni alloggiative dignitose per i lavoratori del settore agricolo.

 Ma siamo a maggio, a ridosso dell’inizio delle campagne di raccolta, quanti di questi 200 milioni sono già operativi?

Quanti lavoratori agricoli vedranno migliorata la loro condizione di vita e di lavoro quest’anno?

 

A questo aggiungiamo un’altra riflessione.

La centralità del tema salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è emersa in modo drammaticamente dirompente durate la pandemia, quando i lavoratori dell’agricoltura e dell’industria alimentare sono divenuti essenziali perché produttori di un bene primario come il cibo.

 In quella difficilissima fase abbiamo dovuto affrontare, per la prima volta nel nostro lavoro, anche la sfida di misurarci con il mantenimento delle produzioni, da un lato, e la salvaguardia della salute dei lavoratori dall’altro, mettendo in atto un nuovo modello di organizzazione del lavoro adeguato alla situazione emergenziale.

Ne sono nati protocolli specifici negli stabilimenti dell’industria alimentare, che hanno tenuto in considerazione le restrizioni imposte dai decreti per il contenimento della diffusione del virus, al fine di preservare la salute dei lavoratori dipendenti di quelle imprese, ed hanno permesso allo stesso tempo di proseguire l’attività lavorativa.

 Più difficile è stato, invece, sottoscrivere protocolli similari in agricoltura, dove la continuità dei processi lavorativi è stata a volte anteposta alla salvaguardia della salute dei lavoratori:

se è vero che il distanziamento nei campi era forse più facile, altrettanto vero è che moltissimi lavoratori hanno continuato ad essere “invisibili” e dunque privi anche dei più elementari dispositivi di protezione come la mascherina.

Pur consapevoli che la stragrande maggioranza delle imprese agricole sono sane ed operano nella legalità, non possiamo però tacere sulla presenza, non marginale, di imprese che hanno lucrato e lucrano sulla pelle di lavoratori privati di diritti e che, in quella specifica congiuntura, sono stati deliberatamente messi nella condizione di lavorare rischiando il contagio e dunque la propria salute.

La pandemia ha accentuato, laddove già esistenti, questi processi ed il tema della salute non ha trovato in agricoltura lo stesso diritto di cittadinanza che invece ha avuto e continua ad avere in altri settori.

Occorre uno forzo collettivo in tal senso, teso a favorire rapidamente anzitutto l’istituzione delle Sezioni territoriali, ma anche una maggiore presa di coscienza delle imprese nella opportunità offerta dall’iscrizione alla” Rete del lavoro agricolo di qualità”.

In questo senso, forse, andrebbe avviata una riflessione anche tra le Associazioni datoriali, affinché si rendano maggiormente protagoniste di un’opera di “moral persuasion” con le loro associate.

 

Occorre una presa di coscienza che la sicurezza in agricoltura non è tema marginale.

Lo dimostrano gli ultimi dati resi noti dall’INAIL per il 2021, dove ancora il settore primario detiene il triste primato di settore tra i più esposti ad infortuni sul lavoro mortali, complice anche la vetustà e l’inadeguatezza dei mezzi agricoli:

il ribaltamento del mezzo è ancora la prima causa di infortunio mortale in agricoltura.

500 milioni di euro sono previsti nel PNRR per l’innovazione e la meccanizzazione nel settore agricolo, a riprova dell’urgenza di affrontare il tema, e ci auguriamo che siano resi operativi in breve tempo.

D’altra parte la stessa PAC ha assunto una veste straordinariamente innovativa in questo senso, con l’introduzione, grazie anche alla pressione da noi esercitata, della condizionalità sociale come requisito fondamentale per l’accesso agli aiuti comunitari.

 Il terzo pilastro, quello della condizionalità appunto, richiama espressamente il rispetto anche di alcune Direttive europee incentrate sul tema della sicurezza come parametri nel calcolo delle percentuali di riduzione dei finanziamenti ai Paesi aderenti.

La Direttiva 89/391/CE, per esempio, che riguarda l’obbligo dei datori di lavoro di rispettare tutte le norme su salute e sicurezza, è tra quelle indicate come riferimento nella condizionalità sociale, solo per citarne una.

 Le norme dunque ci sono, così come gli investimenti, occorre invece che il tema sicurezza in agricoltura trovi finalmente il suo ruolo da protagonista nell’attività quotidiana in azienda e non venga relegato a noioso adempimento burocratico, perché ne va della vita delle persone.

 Il futuro green passa dalla sicurezza sul lavoro in agricoltura.

Green Deal Industrial Plan:

il piano per l’industria verde.

 Modofluido.hydac.it – (11/08/2023) - Redazione, pubblicato in Sostenibilità d'impianto, ci dice:

 

Nel corso degli ultimi anni, le principali economie globali (dagli Stati Uniti all'India, alla Cina al Giappone) hanno avviato massicci investimenti nelle innovazioni a impatto ambientale ridotto. Mentre ciò rappresenta indubbiamente una notizia positiva per il nostro pianeta, al contempo esercita notevole pressione sulla transizione ecologica dell'Unione Europea.

Per effettuare con successo questa transizione verde a livello europeo è necessario garantire equità sia a livello continentale che mondiale

. Ciò implica la creazione di contesti più favorevoli allo sviluppo delle nostre industrie, dalle tecnologie legate all'idrogeno, dalle biotecnologie alle nanotecnologie.

Proprio per questo motivo è stato lanciato il piano industriale all'interno del Green Deal.

 

Il Green Deal Industrial Plan mira a potenziare la competitività dell'industria europea a emissioni nette zero, accelerando, allo stesso tempo, il percorso verso la neutralità climatica.

Ciò avviene attraverso la creazione di un ambiente più propizio per l'espansione delle capacità produttive dell'Unione Europea relative alle tecnologie e ai prodotti associati.

Questi ultimi sono fondamentali per realizzare gli ambiziosi traguardi climatici dell'Europa.

 

Che cosa prevede il piano industriale del Green Deal europeo?

 Lo approfondiamo in questo articolo, nello specifico parliamo di:

Green Deal europeo per un'UE climaticamente neutrale.

Green Deal Industrial Plan: cosa prevede.

 

Economia Circolare HYDAC.

 

 Green Deal europeo per un'UE climaticamente neutrale.

A novembre 2019, il Parlamento ha proclamato lo stato di emergenza climatica e ha richiesto alla Commissione europea di garantire che tutte le proposte siano in accordo con l'obiettivo di limitare l'aumento della temperatura globale a meno di 1,5°C, oltre a conseguire una significativa riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.

A partire da questi presupposti, la Commissione ha introdotto il Green Deal europeo, un piano strategico finalizzato a conseguire la neutralità climatica in Europa entro il 2050.

Il 24 giugno 2021, il Parlamento europeo ha ratificato la legge sul clima dell'Unione Europea, conferendo un'impostazione giuridicamente vincolante all'obiettivo di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 e di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Questa decisione colloca l'UE in una posizione sempre più prossima al conseguimento dell'obiettivo di emissioni negative dopo il 2050, riaffermando al contempo il suo ruolo guida nella lotta globale contro il cambiamento climatico.

Tali provvedimenti sono volti a semplificare la trasposizione di questi obiettivi nella sfera legislativa, portando con sé notevoli vantaggi in termini di aria, acqua e terreni più puliti, riduzione dei costi energetici, ristrutturazione delle abitazioni, miglioramenti nei trasporti pubblici e una proliferazione di punti di ricarica per veicoli elettrici, riduzione dei rifiuti, promozione di una dieta più salutare e miglioramento della salute per le attuali e future generazioni.

La strategia europea per sollevare gli standard globali e creare opportunità non solo fornirà vantaggi tangibili alle imprese in queste aree, ma si prevede che porti anche all'aumento delle opportunità lavorative. Ad esempio, settori come le energie rinnovabili e la ricerca di soluzioni integrate per l'efficienza energetica degli edifici potrebbero assistere a una crescita significativa di posti di lavoro.

 

Green Deal Industrial Plan: cosa prevede

L'elemento cardine del Green Deal europeo risiede nella legislazione sul clima, che sancisce l'obbligo, in conformità con le normative dell'Unione Europea, di ridurre le emissioni provenienti dai settori dei trasporti, dell'industria e dell'agricoltura.

 

Green Deal Industrial Plan.

Per consolidare il ruolo dell'Europa come centro propulsore delle innovazioni industriali e delle tecnologie ecocompatibili, il piano industriale del Green Deal si basa su quattro pilastri portanti:

 

Un contesto normativo prevedibile e semplificato: il fondamento iniziale del piano è centrato sull'aspetto normativo.

Il suo obiettivo è la creazione di un quadro normativo semplificato, tempestivo e affidabile, garantendo un adeguato approvvigionamento di materie prime e assicurando che gli utenti possano fruire di energia rinnovabile a costi contenuti.

 Questo obiettivo è supportato da tre iniziative specifiche: normativa sull'industria a zero emissioni nette; normativa sulle materie prime critiche; riforma dell'assetto del mercato dell'energia elettrica.

Un accesso più rapido ai finanziamenti: il secondo fondamento del piano accelererà gli investimenti e il finanziamento destinati alla produzione di tecnologie ecocompatibili in Europa.

Inoltre, la Commissione faciliterà l'utilizzo delle risorse finanziarie dell'Unione Europea già esistenti, tra cui “RE Power EU”, “Invest EU” e il “Fondo per l'Innovazione”, al fine di sostenere l'innovazione, la produzione e la diffusione delle tecnologie ecologiche.

Parallelamente, sarà perseguita la creazione di un Fondo per la Sovranità Europea, a fungere da risposta strutturale a medio termine alle necessità di investimento.

Il miglioramento delle competenze: l'imponente avanzamento delle nuove tecnologie comporterà un considerevole incremento delle competenze e dei professionisti qualificati all'interno del settore. Con l'obiettivo di coltivare le abilità necessarie per guidare la transizione ecologica, la Commissione pianificherà l'istituzione di accademie industriali a zero emissioni nette, destinate a favorire l'implementazione di programmi finalizzati all'arricchimento delle competenze e alla riconversione professionale nelle industrie di rilevanza strategica.

Commercio aperto per catene di approvvigionamento resilienti: il quarto elemento portante si concentra sulla collaborazione globale e sul contributo del commercio al progresso verso una transizione ecologica, rispettando i principi di equità concorrenziale e di scambi aperti, basati sugli impegni presi con i partner dell'Unione Europea e sulle attività dell'Organizzazione Mondiale del Commercio.

 A tale scopo, la Commissione proseguirà nell'espansione della rete di accordi di libero scambio dell'UE e in altre forme di cooperazione con i partner, al fine di agevolare la transizione verso l'ecocompatibilità e tutelare il mercato unico da pratiche commerciali scorrette.

Sebbene il Green Deal Industrial Plan prometta una rivoluzione ecologica nell'industria europea, ci sono sfide da affrontare. La transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio richiede investimenti significativi, sia finanziari che in termini di ricerca e innovazione. Inoltre, alcune industrie tradizionali potrebbero incontrare difficoltà nell'adottare nuove tecnologie e cambiare i propri processi.

 

Tuttavia, questa trasformazione offre anche opportunità considerevoli. La spinta verso l'innovazione potrebbe portare a nuove scoperte scientifiche e tecnologiche, creando nuovi mercati e posti di lavoro. Inoltre, l'Europa potrebbe diventare un leader mondiale nell'ambito dell'industria verde, guadagnando prestigio internazionale e sfruttando il vantaggio competitivo derivante da un'economia più sostenibile.

 

In conclusione, questo piano ambizioso promette di creare un futuro in cui l'industria e l'ambiente possano coesistere in armonia. Tuttavia, il successo di questa trasformazione dipenderà dall'impegno delle istituzioni, dell'industria e della società nel suo complesso.

 

 

 

LA “DITTATURA MILITARE”

DI BRUXELLES.

Opinione.it - Daniele Trabucco e Aldo Rocco Vitale – (30 aprile 2025) – ci dicono:

 

La “dittatura militare” di Bruxelles.

La raccomandazione (non giuridicamente vincolante) adottata il 23 aprile 2025 dalla “Commissione Affari giuridici del Parlamento europeo” ha posto in luce rilevanti criticità giuridiche in merito all’utilizzo dell’articolo 122, paragrafo 1, del “Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea” (Tfue) quale base normativa per l’istituzione dello strumento “Safe” (Security and Defence Investment Facility), concepito come elemento centrale del piano “ReArm Europe”.

 

L’oggetto della raccomandazione non è l’intero progetto strategico volto al rafforzamento della base industriale e tecnologica europea nel settore della difesa, bensì la scelta della base giuridica per la sua componente finanziaria, fondata sull’emissione di debito comune a sostegno di investimenti nel comparto militare-industriale.

 

L’articolo 122, paragrafo 1, Tfue consente al Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea di adottare, su proposta della Commissione, misure appropriate in presenza di “gravi difficoltà” nell’approvvigionamento di determinati beni con riferimento esplicito al settore energetico.

 

Si tratta di una disposizione normativa eccezionale, che trova giustificazione in contingenze straordinarie e imprevedibili e che si caratterizza per una funzione eminentemente suppletiva e transitoria.

 

Essa si colloca, per sua stessa natura, all’interno della categoria delle norme di emergenza, il cui impiego presuppone una situazione di crisi acuta e l’assenza di strumenti ordinari adeguati ad affrontarla.

Utilizzare tale norma per introdurre un meccanismo finanziario complesso, strutturato e di lunga durata, quale “Safe”, destinato a finanziare in modo sistemico l’industria della difesa, appare giuridicamente forzato in quanto implica un’interpretazione estensiva e teleologicamente deviata del testo normativo.

 

La finalità dell’articolo 122, paragrafo 1, non è, infatti, quella di consentire la creazione di politiche pubbliche permanenti, quanto di autorizzare interventi straordinari e puntuali.

La portata materiale della norma, inoltre, è chiaramente settoriale e limitata alla gestione delle crisi nel mercato interno, non estendendosi alla definizione di politiche industriali o di sicurezza.

La sua ratio, pertanto, non può essere manipolata per sorreggere iniziative di carattere strutturale in ambiti altamente sensibili e privi di competenza legislativa attribuita all’Unione, come quello della difesa.

 

In questo senso, l’uso della disposizione in esame risulta anche “funzionalmente distonico”, poiché altera la coerenza sistemica del diritto primario, distaccando la norma dalla sua funzione originaria e rendendola strumentale a fini che eccedono il suo ambito logico e teleologico.

 

Come già accaduto durante la pandemia e poi con le politiche climatiche la Commissione Europea guidata da Ursula von der Leyen ha deciso ancora una volta – una volta di troppo – di esercitare un potere senza, oltre e contro il diritto, dimenticando che in un vero sistema democratico e in un reale Stato di diritto le ragioni del diritto devono sempre prevalere sulle ragioni di qualunque altra specie, come quella sanitaria, quella ambientale, quella bellica.

Il diritto ignorato o piegato alle esigenze pur emergenziali della politica è un diritto violato e tradito, e un sistema politico e istituzionale che ignora le inderogabili ragioni del diritto è un sistema che si oppone frontalmente e sostanzialmente alla razionalità giuridica tipica dello Stato di diritto per vestire i panni dell’arbitrio decisionale tipico dello Stato totalitario.

 

Tralasciando, infine, la compatibilità di questo strumento con il “Trattato di Lisbona del 2007”, resta un fatto ben rilevato da” Lucano”, autore del “poema epico Pharsalia”, che così scriveva a proposito della guerra civile tra Cesare e Pompeo:

 “Arma tenenti omnia, dat qui iusta negat.

 Chi nega il diritto (le cose giuste), dà ogni cosa a chi porta le armi”.

 

 

 

La legislazione dell’Unione Europea.

 Erickson.it - Luciano Rondanini – (9 febbraio 2025) – ci dice:

 

La legislazione dell’Unione Europea.

Indice:

Il quadro di riferimento.

Il diritto primario.

Il diritto secondario o derivato.

Gli strumenti non vincolanti.

Il rapporto tra l’ordinamento europeo e quello degli Stati membri.

1. Il quadro di riferimento.

L’Unione Europea (UE) nasce ufficialmente con il Trattato di Maastricht, firmato nella cittadina olandese il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre del 1993.

 In ordine di importanza, dopo il Trattato dell’Unione Europea (TUE), segue il Trattato di Lisbona, iniziato come progetto costituzionale alla fine del 2001 con la presidenza dell’UE di Romano Prodi ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Quello di Lisbona viene rinominato Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), mentre la parola «Comunità» viene sostituita, in tutto il testo, dal termine «Unione».

 

Il Trattato di Lisbona conferisce all’UE una personalità giuridica propria e, in quanto tale, ha un ordinamento a sé stante distinto da quello internazionale. Inoltre, il diritto UE produce un effetto diretto o indiretto sui provvedimenti legislativi degli Stati membri ed entra a far parte del sistema giuridico di ciascun paese.

 

Anche in ambito europeo le fonti del diritto ubbidiscono a una struttura gerarchica: esiste, cioè, un ordine verticale di atti giuridici in base al quale quelli di livello più basso sono soggetti ai provvedimenti di un ordine superiore.

 

Il vertice della gerarchia delle norme UE è ordinato dal diritto primario, riconducibile:

ai trattati costitutivi dell’Unione (il trattato sull’Unione europea e trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)) e i loro protocolli);

alla Carta dei diritti fondamentali (articolo 6 del trattato sull’Unione europea);

ai principi generali stabiliti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.

Seguono gli accordi internazionali con paesi terzi o con organizzazioni internazionali.

Tali accordi sono separati dal diritto primario e formano una categoria unica.

 

A un livello inferiore, le norme sono regolate dal diritto secondario, che comprende tutti gli atti legislativi e non adottati dalle istituzioni dell’Unione che permettono a essa di esercitare i suoi poteri (regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni, ecc.).

In sintesi, l’ordinamento giuridico dell’UE si articola in norme di:

diritto primario (trattati e principi generali stabiliti dalla Corte di Giustizia dell’UE);

diritto secondario o derivato (conforme agli atti del diritto primario).

 

L'Unione europea ha istituito un sistema completo di atti giuridici e di procedimenti, affidando alla Corte di Giustizia dell’UE il controllo della legittimità di tali atti.

Come già sottolineato, i trattati e i principi generali si trovano al vertice della gerarchia delle norme e sono considerati diritto primario.

 

A seguito dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009, lo stesso valore è riconosciuto alla Carta dei diritti fondamentali, che sancisce i diritti individuali, civili, politici, economici e sociali delle cittadine e dei cittadini dell’Unione europea.

Nel 1999, il Consiglio europeo ha ritenuto che fosse opportuno riunire in una Carta i diritti fondamentali riconosciuti a livello dell’Unione, per dare loro maggiore visibilità.

La Carta è stata proclamata ufficialmente a Nizza nel dicembre 2000 dal Parlamento europeo, dal Consiglio dell’Unione europea e dalla Commissione.

È diventata giuridicamente vincolante con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel dicembre 2009, e ora ha lo stesso effetto giuridico dei trattati dell’Unione.

 

Comprende un preambolo introduttivo e 54 articoli, suddivisi in sette capi: dignità; libertà; uguaglianza; solidarietà; cittadinanza; giustizia. L’ultimo capo, il settimo, si occupa di disposizioni generali.

La Corte di giustizia ha ribadito, sin dalla sua istituzione, che il diritto dell’UE ha il primato assoluto su quello nazionale degli Stati membri, e che ciò deve essere tenuto in considerazione dai tribunali nazionali nelle loro decisioni.

 

2. Il diritto primario.

Il diritto dell’Unione europea (diritto comunitario) è l’insieme delle norme giuridiche relative all’organizzazione delle istituzioni dell’Unione e ai rapporti che essa intrattiene con gli Stati membri.

L’ordinamento giuridico dell’UE è parte integrante della realtà politica e sociale dei Paesi che ne fanno parte.

Sulla base dei trattati e dei provvedimenti che l’Unione ogni anno approva, vengono adottate molte decisioni, che concorrono in modo determinante a formare il contesto in cui si collocano gli Stati membri e i loro cittadini.

Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 dicembre 1992, o Trattato sull’Unione Europea (TUE) e il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE o Trattato di Lisbona) vengono indicati come «diritto costituzionale europeo» e hanno identico valore giuridico.

 

Gli strumenti di cui le istituzioni europee possono avvalersi sono enumerati nell’art. 288 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea. Si tratta dei cosiddetti «atti tipici», in quanto predeterminati dal Trattato stesso.

 

In ambito scolastico, come in altri settori, risulta sempre più urgente e opportuna una buona conoscenza del quadro giuridico dell’UE.

 Infatti, le scelte dei singoli paesi membri dell’Unione dipendono anche dagli orientamenti impartiti dagli organismi che fanno capo a Bruxelles e Strasburgo.

 

Ai sensi dell’art. 296, 2 c. del TFUE, gli atti giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste e pareri previsti dai trattati.

 La motivazione è una formalità sostanziale dell’atto, pena l’invalidità dell’atto stesso.

Gli atti legislativi sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea (GUUE) ed entrano in vigore alla data da essi stabilita.

 

Il principio gerarchico delle fonti prevede che:

 

le fonti di grado superiore non possono essere modificate da quelle di livello inferiore;

le fonti di grado inferiore devono rispettare quanto stabilito da quelle di grado superiore.

 

Nel caso di fonti di pari grado, prevale quella approvata nel tempo più recente.

Il diritto primario deriva principalmente dai trattati istitutivi, in primis il Trattato di Maastricht e il Trattato di Lisbona. In essi viene definita la ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati membri.

 

Il diritto primario (detto anche fonte primaria) comprende:

i trattati istitutivi;

i trattati modificativi;

i trattati di adesione;

protocolli allegati a tali trattati;

trattati complementari, che apportano modifiche settoriali ai trattati istitutivi;

la Carta dei diritti fondamentali.

 

I Trattati possono essere modificati conformemente a una procedura di revisione ordinaria o semplificata.

 

Nel primo caso, il governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i trattati con la finalità di accrescere o di ridurre le competenze attribuite all’UE nei trattati medesimi.

La procedura di revisione semplificata prevede che il governo di uno Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione possano sottoporre al Consiglio europeo progetti intesi a modificare in tutto o in parte le disposizioni della parte terza del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) relative alle politiche e azioni interne dell'Unione.

 

3. Il diritto secondario o derivato.

Per realizzare gli obiettivi stabiliti nei trattati l’Unione europea adotta diversi tipi di atti giuridici appartenenti al diritto secondario: alcuni sono vincolanti, altri no. Si tratta di atti tipici previsti dall’art. 288 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Alcuni si applicano in tutti i Paesi dell’UE, altri solo in alcuni di questi.

 

Gli strumenti vincolanti più frequentemente utilizzati ai fini dell’assolvimento dei compiti dei diversi organismi sopra richiamati sono i seguenti:

 

le Direttive, provvedimenti legislativi che stabiliscono uno o più obiettivi a cui lo Stato cui sono rivolte è tenuto a sottostare.

Spetta tuttavia a ogni singola realtà definire le disposizioni di recepimento, anche se la Direttiva deve essere inserita nell’ordinamento giuridico nazionale.

La Direttiva vincola lo Stato membro per quanto riguarda il risultato da raggiungere;

 è compito però del singolo Stato decidere in merito alla forma e ai mezzi per rendere efficace il contenuto della direttiva stessa.

Con le direttive cosiddette «dettagliate» o «particolareggiate» il contenuto delle stesse è molto più vincolante per lo Stato che ha quindi minor libertà di adattamento sul proprio territorio del contenuto della direttiva stessa;

i Regolamenti, atti legislativi vincolanti, che devono essere applicati nell’ambito dell’intera Unione europea da ciascun Stato membro. Il regolamento ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile negli Stati membri: ha cioè efficacia diretta senza che vi sia necessità che lo Stato lo recepisca nel proprio ordinamento con apposito atto normativo.

Dunque, le norme contenute in un regolamento entrano in vigore e cominciano a produrre direttamente i loro effetti giuridici senza bisogno di misure di recepimento da parte degli Stati membri nel loro ordinamento giuridico interno (cosiddette norme «self-executing»);

 

le Decisioni, atti vincolanti per i destinatari ai quali il dispositivo è rivolto.

Sono obbligatorie in tutti i loro elementi.

Gli Stati membri sono tenuti ad adeguarsi a esse, ma non hanno libertà di scegliere, come nel caso delle direttive, forme e mezzi di recezione, essendo già tutto ciò contemplato nelle decisioni medesime.

 Se la decisione si rivolge a singoli individui, è direttamente efficace al pari di un atto amministrativo (ad esempio, se la Commissione infligge con una decisione un’ammenda a un’impresa per violazione delle regole sulla concorrenza, questa è direttamente efficace, salvo il diritto dell’impresa al ricorso in via giurisdizionale al Tribunale UE).

 

4. Gli strumenti non vincolanti.

Le istituzioni comunitarie, oltre agli atti dotati di efficacia vincolante, emanano poi ulteriori atti normativi che, pur non essendo vincolanti, possono avere importanti ricadute sulle politiche dei Paesi membri. I due strumenti giuridici di questa tipologia giuridica più frequentemente utilizzati sono le Raccomandazioni e i Pareri.

Le Raccomandazioni sono provvedimenti non vincolanti con i quali il Parlamento e il Consiglio invitano i Paesi membri a seguire determinati indirizzi. Sebbene non abbiano conseguenze legali, possono offrire indicazioni sull’interpretazione e sul contenuto del diritto dell’UE. Hanno il preciso scopo di obbligare il destinatario a tenere un determinato comportamento considerato più rispondente alle esigenze comuni.

Il parere tende a fissare il punto di vista dell’istituzione che lo emette in ordine a una specifica questione.

È il caso della Raccomandazione del 22 maggio 2018, relativa alle otto competenze chiave per l’apprendimento permanente. Essendo l’istruzione una materia di competenza non esclusiva delle politiche dell’UE, il Parlamento e il Consiglio emanano spesso raccomandazioni che il nostro Paese tiene in particolare evidenza. La Commissione europea formula raccomandazioni su argomenti di ampia portata, compresi quelli relativi alla dimensione europea dell’istruzione: competenze chiave per l’apprendimento permanente, qualifiche professionali, educazione nella fascia 0-6 anni, integrazione degli alunni con disabilità, ecc. Anche il Parlamento europeo, il Consiglio e la Banca centrale europea emettono raccomandazioni.

 

I Pareri sono dispositivi che consentono alle istituzioni comunitarie di manifestare orientamenti senza imporre obblighi per i destinatari; il parere tende a fissare il punto di vista dell’istituzione che lo emette in ordine a una specifica questione.

 

In sintesi, le Raccomandazioni e i Pareri sono atti non vincolanti che possono essere adottati da tutte le istituzioni comunitarie, anche se un ruolo preminente in materia è attribuito alla Commissione. Le due fonti non sono facilmente distinguibili tra loro. In linea generale, mentre le Raccomandazioni sono normalmente dirette agli Stati membri e contengono l’invito a conformarsi a un certo comportamento, i Pareri costituiscono l’atto con cui le stesse istituzioni comunitarie fanno conoscere il loro punto di vista su di una determinata materia.

 

Le istituzioni dell’Unione emanano inoltre:

 

le Strategie, programmi a lungo termine, come la Strategia Europa 2020 nella quale si afferma che l’Europa deve promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva;

 

le Comunicazioni: la necessità di una comunicazione efficace ha la sua base giuridica nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che assicura a tutti i cittadini di essere informati circa le problematiche relative alle scelte dell’Unione. La Carta, come già sottolineato, è stata resa vincolante dal Trattato di Lisbona e ha lo stesso valore giuridico dei trattati. L’UE ha la responsabilità di comunicare le proprie decisioni e attività ai cittadini dell'Unione e alle altre parti interessate.

 

5. Il rapporto tra l’ordinamento europeo e quello degli Stati membri

La dimensione costituzionale dei rapporti tra ordinamento europeo e quello degli Stati nazionali è riconducibile all’affermazione del principio della primauté (primato) del diritto comunitario. Il principio del primato (definito anche «preminenza» o «supremazia») del diritto dell’Unione si basa sull’idea che, ove insorga un conflitto tra un aspetto del diritto dell’Unione e un aspetto del diritto di uno Stato membro (diritto nazionale), prevale il diritto dell’Unione. Se così non fosse, gli Stati membri potrebbero semplicemente consentire al loro diritto nazionale di avere la precedenza sul diritto primario o derivato dell’Unione e il perseguimento delle politiche dell’Unione diverrebbe impraticabile.

 

Nei decenni la supremazia del diritto comunitario formulata dalla Corte di giustizia europea, fin dalla sua istituzione nel 1952, si è andata via via rafforzando, anche se tale cammino è risultato tutt’altro che agevole.

Infatti, benché i Trattati fondativi non avessero esplicitamente affrontato tale problematica, la Corte di giustizia europea non ebbe esitazioni a dichiarare la supremazia del diritto comunitario su tutto il diritto nazionale, compreso quello di rango costituzionale.

A questo proposito si precisa che la normativa comunitaria entra a far parte del nostro ordinamento sulla base di quanto affermato nell’art. 11 della Costituzione, nel quale, dopo l’affermazione che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», si sottolinea quanto segue:

 

l’Italia consente, in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Lo stesso principio è ribadito anche nell’art. 117 della Costituzione (che risale al 2001), nel quale si afferma:

la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

 

 Dunque, la natura sovra ordinante del diritto europeo esige che nessuno Stato membro possa addurre ragioni di ordine interno, per giustificare il proprio inadempimento a un obbligo comunitario.

Questo principio suscitò inizialmente non poche reazioni da parte delle Corti nazionali, compresa la nostra Corte costituzionale, il massimo organo di garanzia costituzionale, prevista dalla Carta del 1948, ma attuata solo nel 1956 per una serie di dubbi da parte di diversi membri dell’Assemblea costituente.

In ogni caso, le limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 della Costituzione non possono comportare per gli organi comunitari il potere di violare «i princípi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato».

Per effetto dell’adesione del nostro Paese alla Comunità Europea prima e all’Unione Europea poi, il sistema giuridico italiano si compone quindi di norme derivanti da fonti del diritto italiano e di disposizioni derivanti da fonti del diritto comunitario (in special modo gli atti vincolanti, cioè i regolamenti, le direttive e le decisioni).

Sul punto è più volte intervenuta la nostra Corte Costituzionale, la quale ha affermato la prevalenza delle disposizioni di diritto comunitario su quelle incompatibili di diritto nazionale, e la necessaria disapplicazione da parte del giudice della fonte interna contrastante.

 

Il primato del diritto dell’UE sul diritto degli Stati membri è stato ribadito anche dalla sentenza del Giudice europeo dell’11 gennaio 2024 su una questione posta dalla Corte di Budapest, in cui si riafferma che tutte le istituzioni degli Stati membri sono tenute a dare pieno effetto alle norme dell’Unione.

Ne discende che, in forza del principio del primato del diritto dell’UE, il fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, non può pregiudicare l’unità e l’efficacia del diritto dell’Unione medesima.

In ogni caso, va sottolineato che, nel rapporto tra norme europee e norme nazionali, soprattutto con riferimento alle Costituzioni degli Stati membri, nella Carta di Nizza (2000), che declina e tutela i diritti fondamentali dei cittadini appartenenti all’Unione europea, si afferma che:

nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell'Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l'Unione o tutti gli Stati membri sono parti.

 

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea costituisce uno strumento moderno e completo del diritto dell'Unione che promuove i diritti e le libertà delle persone di fronte ai cambiamenti nella società, al progresso sociale e agli sviluppi scientifici e tecnologici.

 

 

 

 

Ursula von der Leyen, l’aristocratica incompetente che ha affondato la Bundeswehr tra scandali e sprechi. Il Parlamento Europeo la rimuova prima che porti alla rovina anche la UE (A.T.).

  Farodiroma.it – Aurelio Tarquini - Redazione – (08/05/2025) – ci dice:

 

Ursula von der Leyen, oggi presidente della Commissione europea, non è solo una figura politica controversa per la sua gestione fallimentare e corrotta della Difesa tedesca, ma si sta rivelando un pericolo concreto per l’Unione Europea.

La sua spinta guerrafondaia nel sostenere senza tregua il conflitto in Ucraina, con un riarmo massiccio e una politica di escalation, rischia di trascinare l’Europa in una guerra senza fine con la Russia.

Parallelamente, lo scandalo delle consulenze opache e degli sprechi milionari ai tempi del ministero della Difesa getta un’ombra pesante sulla sua credibilità e integrità. In questo quadro, von der Leyen appare non solo incapace e corrotta, ma anche un elemento di instabilità che mette a rischio la sicurezza e l’unità dell’UE.

 

Rinfreschiamoci la memoria sulla sua catastrofica e corrotta gestione del Ministero della Difesa.

Ursula von der Leyen, ministra della Difesa tedesca dal 2013 al 2019, lascia dietro di sé un’eredità di caos, scandali e fallimenti clamorosi che hanno segnato uno dei periodi più bui nella storia recente della Bundeswehr.

 

Lungi dall’essere una riformatrice efficace, von der Leyen si è rivelata un’incapace amministratrice, più attenta alla propria immagine politica che a risolvere i problemi strutturali dell’esercito tedesco. Il suo mandato è stato contrassegnato da scontri aspri con i vertici militari, scandali di corruzione, sprechi milionari e una gestione disastrosa che ha messo a rischio la sicurezza nazionale.

 

Lo scandalo dei militari filonazisti: un fallimento nella gestione interna.

 

Nel 2017-2018 esplose uno scandalo che avrebbe dovuto scuotere le fondamenta della Bundeswehr: la scoperta di militari con simpatie neonaziste e ideologie estremiste all’interno delle forze armate. Von der Leyen, invece di affrontare la questione con fermezza e trasparenza, si limitò ad accusare i vertici militari di “debolezza”, scatenando un conflitto che non portò a soluzioni concrete ma solo a tensioni e divisioni interne.

 

La ministra dimostrò così la sua incapacità di gestire una crisi delicata, preferendo lo scontro mediatico alla costruzione di una strategia efficace per bonificare l’esercito da queste infiltrazioni pericolose. Questo episodio è emblematico della sua gestione superficiale e politicizzata della Difesa.

 

Riforme fallimentari tra burocrazia e disorganizzazione.

Von der Leyen si presentò come la paladina della modernizzazione della Bundeswehr, promettendo investimenti faraonici e un aumento del personale.

Ma dietro le promesse si celava una realtà ben diversa: ritardi cronici, sprechi e una burocrazia paralizzante che hanno fatto naufragare ogni tentativo di riforma.

 

Sotto la sua guida, la Bundeswehr ha continuato a mostrare problemi operativi gravissimi: aerei e elicotteri spesso non erano utilizzabili, la marina era praticamente ferma e la preparazione dei soldati lasciava molto a desiderare.

 Le sue politiche, come l’apertura delle forze armate a cittadini stranieri dell’UE, furono accolte con scetticismo e critiche, rivelando una visione poco realistica e poco attenta alle esigenze concrete dell’esercito.

 

Lo scandalo delle consulenze esterne: sprechi e nepotismo.

 

Il vero simbolo del disastro von der Leyen è lo scandalo delle consulenze esterne, che ha travolto il ministero della Difesa con una spesa folle di oltre 155 milioni di euro in contratti affidati in modo opaco e poco trasparente.

Decine di milioni di euro sono stati spesi in consulenze inutili o gonfiate, con accuse di favoritismi e nepotismo che hanno coinvolto anche ex manager di società come McKinsey.

 

La Corte dei Conti federale ha denunciato l’esplosione dei costi e la mancanza di controlli efficaci, mentre la commissione d’inchiesta del Bundestag ha accusato von der Leyen di essere corresponsabile e di aver ostacolato le indagini.

Nonostante le ammissioni di “errori”, la sua gestione è stata definita un “totale fallimento” da più parti, con critiche trasversali che hanno travolto la sua immagine pubblica.

 

Crisi di leadership e isolamento politico.

 

Il progressivo indebolimento di von der Leyen al ministero della Difesa è stato evidente negli ultimi anni del suo mandato. Critiche dure sono arrivate non solo dall’opposizione, ma anche da alleati politici e persino dai suoi stessi colleghi di partito. L’accusa principale è stata quella di una leadership debole, incapace di affrontare con decisione i problemi e di guidare una vera trasformazione.

 

La sua nomina a presidente della Commissione europea, più che un riconoscimento di meriti, è stata vista da molti come una mossa per allontanarla da Berlino, lasciando dietro di sé un ministero in rovina e un esercito ancora fragile e mal preparato.

Il bilancio di Ursula von der Leyen come ministra della Difesa tedesca è un quadro desolante di incapacità, scandali e scontri inutili.

 

La sua gestione ha aggravato i problemi della Bundeswehr, trasformando un ministero chiave in un terreno di sprechi e inefficienze. Gli scandali delle consulenze, la gestione superficiale delle infiltrazioni neonaziste e la mancanza di risultati concreti nelle riforme hanno segnato un fallimento politico e amministrativo che pesa ancora oggi sulla Germania.

 

Più che una riformatrice, von der Leyen si è dimostrata un simbolo di un’aristocrazia politica incapace di governare con competenza e trasparenza un settore cruciale per la sicurezza nazionale. Il suo passaggio alla Commissione europea non cancella però il pesante fardello lasciato alla difesa tedesca, che ancora oggi paga il prezzo delle sue scelte sbagliate. Al contrario la sua nuova posizione di potere favorisce tutte le sue caratteristiche negative. Il rischio per i cittadini europei è enorme. Il suo incarico a Presidente della Commissione Europea rischia di aggravare la già precaria situazione della UE facendola fallire come ha fatto per il Bundeswehr.

 

Visto che i 447 milioni di cittadini europei non hanno alcun potere di rimuovere il presidente della Commissione Europea manco eletto da loro, spetta al parlamento europeo votare la sfiducia e rimuoverla dall’incarico.

 La mancata azione equivalera’ ad una conclamata complicità e alla divisione delle pesanti responsabilità verso i cittadini, la Democrazia e la Pace.

(Aurelio Tarquini).

 

 

 

 

La "lealtà politica" è un concetto senza senso.

 

Unz.com - Andrew Anglin – (9 luglio 2025) – ci dice:

 

Dall'inizio della carriera politica di Donald Trump nel 2015, "Make America Great Again" (MAGA) è stato più di uno slogan, ma piuttosto un concetto che incarna una serie di principi semplici e facilmente comprensibili sui problemi che l'America deve affrontare e sulle soluzioni a questi problemi.

Il MAGA non è mai stato una serie specifica di proposte politiche, poiché era inteso come qualcosa di più grande di qualsiasi politica specifica.

Era la visione di una nuova America.

Anche se a corto di dettagli, la visione era chiara: l'attuale establishment aveva sprecato la ricchezza dell'America in guerre all'estero e agende di ingegneria sociale interna che avevano svuotato la nazione.

Anche se non era teocratico o puritano o altrimenti moralizzante, si opponeva a "cose strane" che cercavano di minare quelli che erano tradizionalmente considerati "valori americani", ed era contro l'immigrazione e contro la guerra.

Ancora una volta, non è mai stato specifico, ma tutti hanno sicuramente capito questi tre principali capisaldi del programma.

 (Era anche "anti-corruzione", anche se poiché nessuno è efficace "pro-corruzione", questa non è una posizione particolarmente significativa da prendere).

 

Durante il suo primo mandato, Trump non è riuscito a fare molto MAGA, ma è stato generalmente capito che stava cercando di farlo, ma che il presidente semplicemente non ha molto potere in America. Tuttavia, in questi primi mesi del suo secondo mandato, Trump non sta semplicemente fallendo nel vivere all'altezza degli ideali del MAGA, ma sta tentando di confondere completamente il significato del termine, tentando di convincere i suoi seguaci che "MAGA" non è mai stato davvero quello che pensavano che fosse.

 

In una serie di dichiarazioni che ricordano la famigerata pronuncia di Anthony Fauci secondo cui "Io sono la scienza", Trump ha recentemente affermato che "Io sono MAGA" e che è lui a decidere cosa è o non è MAGA, e qualunque nuova politica decida non deve necessariamente avere alcuna relazione con quella che in precedenza era intesa come la piattaforma politica MAGA.

 

Quello che sta effettivamente dicendo è che il suo movimento politico è sempre stato solo su di lui come persona, e che chiunque abbia mai sostenuto MAGA lo stava sostenendo come persona.

Pertanto, chiunque non sia d'accordo con la sua serie di politiche totalmente nuove che ha sviluppato nelle ultime settimane, la maggior parte delle quali sono l'opposto di come il MAGA era stato precedentemente definito, non è in realtà un credente nel MAGA, perché il MAGA non è mai stato una serie di politiche, ma piuttosto un'espressione di lealtà a Donald Trump personalmente, e un impegno a sostenere qualsiasi cosa decida di fare in qualsiasi momento.

 

Questa situazione è particolarmente evidente nel modo in cui Trump ha trattato il deputato Thomas Massie, che è, a mio avviso, il portavoce del programma MAGA, così come è stato inizialmente introdotto da Trump nel 2015.

 Trump ha definito Massie un traditore e ha giurato di distruggerlo. È evidente a tutti che Massie non ha cambiato alcuna posizione su nulla.

 

 

Nel più recente tradimento degli ideali che sono stati venduti come rappresentanti del MAGA, Donald Trump ha deciso di voler continuare la guerra senza fine in Ucraina. Durante l'incontro con il suo gestore e padrone terrestre Bibi Netanyahu questa settimana, Trump ha dichiarato che non c'è alcun piano per tagliare i finanziamenti all'Ucraina, e che in realtà prevede di aumentare le spedizioni di armi.

 

Anche se non è del tutto chiaro cosa sia successo, sembra che la scorsa settimana Pete Hegseth abbia interrotto le spedizioni di armi all'Ucraina. Durante l'interrogatorio di fronte al suo capo, Trump ha affermato di non sapere chi fosse responsabile dell'annullamento di queste spedizioni di armi e ha chiesto ai media di dirgli chi l'ha fatto. (Hegseth era seduto direttamente alla sua sinistra.) Ha poi dichiarato un aumento pianificato delle armi.

 

 

A seguito di queste dichiarazioni, il comitato editoriale del Washington Post si è affrettato a sostenere Trump, pubblicando un editoriale che elogiava il suo sostegno all'Ucraina.

 

Non suppongo che chiunque abbia votato per Trump in una qualsiasi delle sue tre elezioni si aspettasse che il comitato editoriale del WaPo sarebbe diventato il portabandiera del MAGA, ma a quanto pare è esattamente quello che è successo.

Trump aveva precedentemente affermato che coinvolgere gli Stati Uniti nella guerra di Israele con l'Iran era in realtà in realtà in linea con la politica MAGA, che era esplicitamente contro la guerra, perché in realtà non stava facendo una guerra, stava solo facendo un bombardamento.

 

In un’altra tradizione, l'AG di Trump, Pam Bimbo, ha affermato che in realtà non esiste un elenco di clienti di Epstein. Non so cosa significa e nessuno l'ha spiegato, ma l'implicazione apparentemente è che Epstein non aveva clienti, e o nessuna donna è stata trafficata, o non sono state trafficate a nessuno.

 

Anche se forse è un'offesa un po' minore all'agenda MAGA, che non è mai stata particolarmente focalizzata sulla responsabilità fiscale, questa settimana Trump si è anche mosso per far esplodere il debito nazionale con la più grande spesa della storia americana.

 La cosa più notevole di questo è che ha enormemente ampliato la spesa militare ai livelli più alti di sempre, poche settimane dopo aver affermato che avrebbe tentato di dimezzare il bilancio militare.

 

Sebbene la "responsabilità fiscale" possa essere leggermente al di là della portata intellettuale del MAGA, che non è mai stato particolarmente sofisticato, "smetteremo di sprecare soldi in guerre all'estero e li spenderemo qui in patria, dove il nostro Paese sta cadendo a pezzi" è sicuramente qualcosa che tutti noi abbiamo compreso essere fondamentale per la dottrina del MAGA. Ora, poiché il MAGA è stato ridefinito a partire da una serie di principi su come l'America dovrebbe essere trattata "qualunque cosa dica Donald Trump in qualsiasi momento si trovi a parlare", la continuazione della guerra in Ucraina, i bombardamenti di paesi per conto di Israele e la spesa di più soldi di sempre per la guerra, rientrano tutti nella definizione di "MAGA".

 

Una prova dei limiti della "lealtà politica."

 

La "lealtà" è una qualità che dovrebbe essere esplicitamente riservata alle relazioni personali. Un uomo dovrebbe essere leale alla sua famiglia. La lealtà verso una figura politica o un movimento politico non dovrebbe essere possibile, poiché non serve a nulla.

Essere leali a qualcuno significa stargli accanto, che abbia ragione o torto. Il motivo per cui siamo leali alle nostre famiglie è che abbiamo bisogno che lo siano anche a noi, perché è così che gli esseri umani sopravvivono. Se le persone abbandonassero i propri familiari perché sbagliano su qualcosa, saremmo tutti completamente soli. Dobbiamo accettare il bene e il male con i nostri familiari, perché abbiamo bisogno di loro.

La lealtà ha senso anche nelle unità militari. Potrebbe avere senso nel contesto di varie relazioni commerciali. E ci sono, ne sono certo, altri esempi in cui la qualità comportamentale della lealtà sarebbe o potrebbe essere appropriata.

 

Un posto in cui la lealtà non è appropriata è la politica. Essere "leali" a una figura politica non ha senso. L'unica ragione per cui una persona sosterrebbe qualsiasi figura politica è che quella figura politica sta facendo cose politiche con cui è d'accordo e che aiuta loro e la loro agenda personale.

Non c'è posto per la lealtà a una figura politica, poiché non si conosce personalmente la figura politica, e quindi non si deve fedeltà personale.

Non c'è alcuna reciprocità.

 O la figura politica sta promuovendo un'agenda con cui sei d'accordo, e quindi ti unisci per loro e li difendi perché ne trai beneficio, o stanno facendo qualcosa di diverso, di cui tu non trai beneficio, nel qual caso non gli devi nulla.

 

Ciò che Trump ha fatto con intenzione è formare una sorta di culto della personalità, in cui le persone sentono di conoscerlo, e quindi gli devono una sorta di lealtà personale al di fuori del suo ruolo di decisore politico.

 Questo è qualcosa che è davvero possibile solo nell'era dei media elettronici.

 La maggior parte delle persone vede Donald Trump parlare quasi ogni giorno, e il loro subconscio, che non ha familiarità con la natura degli schermi video, lo registra come qualcuno che conosce personalmente e con cui escono regolarmente socialmente.

 Una persona del genere sarebbe il tipo di persona a cui dovrebbe una lealtà personale ei cui errori trascureresti, almeno fino al punto in cui sono completamente fuori controllo.

 

Vedremo i limiti del culto della personalità della "lealtà" messi alla prova.

 

Chiaramente, il culto della personalità non è considerato ferreo, come lo sarebbe con qualcuno come Jim Jones, poiché si capisce che c'è bisogno di distrazioni.

Questa settimana, Trump sta insabbiando la serie di tradimenti con un "circo della crudeltà" in stile romanico, mandando gli immigrati in gabbie in una palude di alligatori.

 I media che sostengono Trump diranno "sì, quindi immagino che non ci sia mai stata una lista di Epstein, e sì, a quanto pare continueremo a fare quella guerra in Ucraina per sempre – ora torniamo alla scena della fossa degli alligatori, dove i vostri nemici tribali, gli immigrati, verranno dati in pasto a grosse e disgustose lucertole".

 

Continueranno a distrarsi con le loro distrazioni da circo, ne sono certo.

Ma alla fine, ci sarà una rigida equazione matematica su quante persone saranno disposte a ignorare il fatto che Trump sta abbandonando gran parte del nucleo del suo programma, non solo non riuscendo a fare ciò che aveva promesso di fare, ma dicendo alla gente che comunque non gliene è mai importato veramente.

 

Vale la pena ricordare che le persone continueranno a sostenere una figura politica che fallisce se sentono che sta facendo del suo meglio, motivo per cui Trump è rimasto così popolare dopo non aver fatto molto la prima volta che è stato presidente.

Ma questa volta, sembra che sta tentando di cambiare completamente le sue priorità dichiarate.

Questa settimana ha detto "dobbiamo difendere l'Ucraina". Questo è l'esatto opposto di ciò su cui ha fatto campagna elettorale quando ha detto che "non è nostra responsabilità difendere l'Ucraina".

Questo è diverso da "mi dispiace, non riesco a capire come convincere il Congresso a smettere di finanziare l'Ucraina" o "Non riesco a capire cosa dovrei fare per porre fine a questa guerra, tutta questa faccenda è davvero confusa e non so cosa fare".

 Quello che voglio dire è: il fallimento è diverso dal tradimento, e mentre il fallimento è tollerabile, il tradimento non dovrebbe essere tollerabile.

 

Nel caso di "in realtà, non c'è mai stata una lista di clienti di Epstein", si tratta solo di un'ovvia menzogna, che rientrerebbe nella categoria del "tradimento", a meno che una persona non sia abbastanza stupida da credere che Ghislaine Maxwell sia stata condannata per traffico sessuale di ragazze minorenni a nessuno, cosa che alcuni sostenitori di Trump sono probabilmente abbastanza stupidi da credere, anche se non posso dirlo con certezza.

Purtroppo: la democrazia.

 

Fortunatamente per Donald Trump e i suoi dirigenti, e sfortunatamente per tutte le persone in America, vivono in una democrazia, e quindi è possibile che nessuna persona sostenga Donald Trump, e che lui rimanga presidente, e continui a fare qualsiasi cosa si senta di fare in un dato momento.

 

Ci sono probabilmente alcune ragioni per cui il sostegno politico è importante in una democrazia, ma non riesco a pensare a quali possano essere.

Trump sembra preoccuparsi personalmente del sostegno popolare, perché sembra avere un ego piuttosto fragile che si nutre del sostegno popolare, e se la gente lo fischia, sembra che questo lo ferisca.

Ma in definitiva, poiché questa è una democrazia e quindi non esiste un meccanismo attraverso il quale il pubblico possa presentare petizioni, può fare ciò che vuole finché rimane in carica, e l'opinione di nessuno su ciò che fa non ha alcun significato.

 

Detto questo, Trump probabilmente manterrà una base di fanatici idioti che non sanno molto di quello che sta succedendo, ma sono molto eccitati dagli alligatori.

E naturalmente, i sondaggi pubblicati possono dire quello che vogliono.

 

Poi, dopo aver fatto quello che ha intenzione di fare, può cedere il governo a Gavin Newsom o ad AOC, e loro possono essere popolari per un po' dopo aver dichiarato di voler fare qualcosa, e poi diventare impopolari dopo aver fatto qualcosa di diverso da ciò che avevano promesso.

E continueremo così finché, alla fine, qualcosa cederà, l'impero americano cadrà nel caos, e finalmente accadrà qualcosa.

 

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.