Il grande gioco globale.
Il
grande gioco globale.
Il
bivio euro atlantico: tra cooperazione
e
competizione nel nuovo grande gioco globale.
Affariitaliani.it
– (Venerdì, 4 luglio 2025) - Valerio De Luca – ci dice:
La
conferenza Nato ha ribadito l’importanza cruciale della sicurezza collettiva
nell’attuale scenario globale.
Nato
all’Aia: la sicurezza collettiva al centro della nuova strategia difensiva.
La
conferenza NATO ha riproposto ancora una volta la centralità del tema legato
alla sicurezza.
Dall’incontro
di fine giugno all’Aia, infatti, è emersa l’urgenza di rafforzare la difesa
collettiva e ripensare i nostri strumenti strategici.
Non è
un caso che i 32 stati membri abbiano concordato di portare la spesa difensiva
complessiva al 5 % del PIL entro il 2035, con il 3,5 % dedicato a forze armate
e armamenti e l’1,5 % a cyber‑difesa, infrastrutture militari e
resilienza. Questo obiettivo rappresenta un cambio di passo significativo
rispetto al precedente tetto minimo del 2 %, ed è stato accolto come una
risposta concreta alla crescente insicurezza globale.
Alla
base di questa decisione c’è la consapevolezza che viviamo una fase in cui il
vecchio ordine mondiale basato sul libero scambio, cooperazione multilaterale e
rispetto delle leggi internazionali è scosso da guerre ibride, conflitti e
tensioni commerciali, causando instabilità.
Il vertice ha rafforzato questo proposito
anche di fronte alle sfide poste da Russia e Cina, riconoscendo che solo
strumenti forti, visione strategica e capacità di cooperare nella competizione
possono garantire una difesa efficace.
Sul
tavolo c’è anche la spinta verso un’Europa più autonoma.
L’idea è quella di costruire industrie
integrate, interoperabilità concreta, catene difensive comuni e risposte
coordinate a cyber‑minacce e operazioni ibride.
In
altre parole, trasformare l’impegno politico in capacità operative reali sul territorio.
A
questo si aggiunge la necessità di riscrivere la narrazione occidentale.
Non si
tratta solo di hardware militare, ma di difendere un modello aperto e
pluralista: stato di diritto, libero mercato, trasparenza e pluralismo
rimangono i pilastri identitari.
È su
questi valori che si contrappone il modello cinese, centrato su autoritarismo e
controllo verticale.
Il
dossier Cina è emerso in controluce:
Pechino
rafforza rapporti militari con Mosca, organizza esercitazioni congiunte e
considera la presenza NATO nell’Indo‑Pacifico come segno di un ritorno
della Guerra Fredda — un messaggio che sfida direttamente la nostra
narrativa multilaterale.
Per
orientarsi in questo contesto è utile il paradigma della “coopetition”, proposto da “Barry Nalebuff”:
crescere
insieme (innovazione, sicurezza, sostenibilità) per aumentare la misura della torta
ma competere su quale porzione della torta si ottiene.
Applicato
al contesto euro‑atlantico, significa cooperare nella
definizione di standard globali su “AI” e “data governance”, sfidarsi nell’”attrazione di talenti e capitali”, e
“competere sui mercati” senza rinunciare alla cooperazione industriale e
difensiva.
La
sfida più stringente resta trasformare questa prospettiva in realtà, gli
impegni presi devono tradursi in investimenti concreti su cyber, tecnologia,
ricerca, infrastrutture e soprattutto formazione.
Non
basta aumentare i numeri sulla carta, serve cambiare il modo in cui progettiamo
e realizziamo la difesa europea.
Proprio
per questo è necessario il contributo di tutti, dalle istituzioni alle
accademie, come stiamo cercando di fare con il “nuovo corso di SPES Academy”
insieme ad “AmCham Italy” e il “Centro Studi Americani”.
La
centralità del tema sicurezza, ribadita anche all’Aia, non è un tecnicismo, ma
un segnale politico chiaro.
Solo con strumenti forti, visione strategica e
capacità di cooperare nella competizione possiamo affrontare le sfide del mondo
nuovo.
Occorre riconoscere che la competizione con la
Cina non è solo militare, ma soprattutto un confronto di sistemi, modelli,
narrazioni.
Come ricordava John F. Kennedy “la partnership
atlantica non è una semplice alleanza tra governi.
È un'alleanza tra popoli — popoli liberi —
uniti da ideali comuni e fiducia nel futuro.”
Mantenere fede a questa visione significa non
solo difendere territori, ma costruire un ordine globale capace di sostenere
valori condivisi e progresso.
Il
summit all’Aia ha tracciato la rotta: ora sta a noi realizzarla.
IL
GRANDE GIOCO MEDIORIENTALE
É UNO SPECCHIO DEL MULTILATERALISMO GLOBALE?
Iari.site.it - Omar Mohsen - (13 Settembre
2023) – ci dice:
A
osservare le dinamiche geopolitiche contemporanee sembrerebbe che l’area vicino
orientale sia una sorta di cartina tornasole rispetto a ciò che sta avvenendo a
livello globale.
Tuttavia,
a una lettura attenta, il quadro diventa più articolato e non è affatto così
scontato che il disimpegno statunitense dall’area MENA sia sintomo di un inizio
della fine dell’egemonia globale americana.
Il
dis-engagement statunitense dal teatro mediorientale sembrerebbe rispecchiare
un processo più ampio; un processo che vede la Superpotenza rinunciare alla
guida dell’ordine unipolare post-1989 a favore di un riassetto in chiave
multipolare. In tal senso il ritiro dall’Afghanistan, il disimpegno dall’Iraq e
la riduzione dei contingenti militari nell’area del Mediterraneo allargato
altro non sarebbero che avvisaglie di un processo di più ampia portata, sintomo
della stanchezza imperiale che affligge gli Stati Uniti.
Fine
di un’era, fase in cui incorrono ciclicamente tutti gli imperi, prima del loro
tramonto e, successivamente, della loro scomparsa.
Il non intervento in Siria, che ha aperto al
grande ritorno della Russia nella regione, il ritiro dall’Afghanistan e la Pace
negoziata con i Talebani non hanno fatto che confermare, agli occhi dei più
incauti osservatori, questa tendenza.
Certo, tutti i grandi imperi, prima o poi, si
ritrovano a fare i conti con i costi dell’egemonia: costi umani e materiali.
La
potenza, nel richiedere sacrifici ai propri cittadini, si ritrova prima o poi
costretta a redistribuire i dividendi delle proprie imprese, scambiando gioco
forza parte dell’afflato egemonico con il benessere interno.
Vedasi
l’Inghilterra dopo il Secondo Conflitto Mondiale, quando optò per il baratto
dell’impero con il welfare.
Ma
allora c’erano gli Stati Uniti, la nuova grande talassocrazia venuta da
oltreoceano a impedire l’unificazione dell’Heartland sotto le insegne del giogo
nazi-fascista; e gli Stati europei erano ormai macerie.
O,
quantomeno, nani geopolitici al cospetto di sovietici e americani.
Motivo
per cui non possiamo essere certi che il retrenchement degli Stati Unti da un
quadrante geopolitico come quello del Vicino Oriente, fondamentale fino al
decennio scorso, coincida con una tendenza più ampia, volta alla riduzione
dell’afflato egemonico a favore del benessere.
Al
riguardo si consideri:
Che il
ritiro dall’Afghanistan, più che essere segnale della debolezza americana, ha
rappresentato una scelta razionale, sintomo di un’avvenuta maturità strategica.
In tal modo Washington ha concluso quella che di fatto era divenuta una
“endless war”, consegnando la “patata bollente” dell’instabilità afghana nelle
mani degli attori regionali.
Attori
tra cui, tra l’altro, figurano le tre maggiori potenze revisioniste dell’ordine
internazionale: Iran, Cina e Russia.
Se la
minaccia riguarda la possibilità che gruppi terroristici utilizzino il suolo
afghano per riorganizzarsi con l’obiettivo di colpire l’America, più che di
contingenti militari si rivela necessaria la presenza e il ruolo
dell’intelligence.
La
rivoluzione dello “shale”, combinata con il processo di decarbonizzazione
dell’economia mondiale.
Al netto degli ingenti danni ambientali, le
tecniche di estrazione legate alla tecnologia del fracking hanno reso
secondario per Washington lo stazionamento nella regione più importante al
mondo per quanto riguarda la disponibilità di combustibili fossili.
Da ciò
si deduce che la presenza Russa prima e cinese poi nell’area MENA, nonché il
rinnovato attivismo di alcuni attori regionali, hanno rappresentato la
compensazione di un vuoto lasciato dalla superpotenza.
Tuttavia,
alla politica del” laissez faire “adottata dagli Stati Uniti nei confronti
delle potenze revisioniste nel quadrante MENA, non è coinciso identico
atteggiamento in zone ritenute più importanti: vedasi Ucraina e Indopacifico.
Su un
piano più squisitamente internazionale, la Guerra nel Donbass, in maniera
diametralmente opposta a quanto successo in Siria, ha finito per indebolire
significativamente la potenza russa.
Per quanto riguarda la Cina, sul fronte del
cosiddetto “sea power”, allo stato attuale non è minimamente in grado di
sfidare gli Stati Uniti.
Lo stesso dicasi a proposito della forza
aerea.
Questo
sia in termini di comparto che di tecnologie.
L’unico ambito nel quale Pechino pare
costituire al momento una minaccia è quello economico commerciale. Tuttavia, le
ambizioni revisioniste ed egemoniche cinesi concernono il lungo periodo.
Motivo
per cui Washington si impegna nel loro contenimento.
Un
capitolo a parte rispetto alla più ampia area MENA merita la microregione del
Golfo. Essendo il cuore del potere talassocratico americano incentrato sul
controllo degli stretti, difficilmente gli Stati Uniti manterranno lo stesso
lassismo qualora si sentissero realmente sfidati in un’area che vede la
presenza di due dei più importanti colli di bottiglia per il transito dei
commerci globali.
A conferma di ciò il recente attivismo in seno
al G20, che ha condotto all’adozione di un progetto alternativo alla BRI
cinese.
Un
progetto volto a connettere India, Paesi del Golfo ed Europa.
Considerati
questi fattori, pare che la politica di Washington sia stata, e sia tutt’ora,
quella di permettere un’influenza relativa da parte degli altri maggiori attori
internazionali nel quadrante mediorientale.
Un’influenza che consente di cogestire un’area
comunque problematica, condividendone “costi” e sacrifici.
Ciò
può aver generato fraintendimenti, facendo maturare l’idea di un approccio
isolazionista della superpotenza su scala globale e incentivando azzardi
da parte degli altri attori.
Guerra
Israele-Iran: nucleare
come
pretesto, egemonia come fine.
Iari.site.it - Omar Mohsen – (1° Luglio 2025)
– ci dice:
Il
fine strategico sotteso all’attacco di Israele contro la Repubblica islamica è
realmente l’annientamento del programma nucleare iraniano?
Rispetto
a Teheran, fino a che punto gli obiettivi di Washington e Tel Aviv coincidono?
L’Iran
non può avere l’atomica.
È
questo il mantra con cui da più parti si cerca di giustificare l’aggressione
Israele-statunitense nei confronti della Repubblica Islamica.
A
detta di molti esponenti del mondo politico occidentale, un Iran in grado di
raggiungere lo status di potenza atomica sarebbe un pericolo da scongiurare.
Ciò anche in ragione del fatto che la
Repubblica islamica abbia più volte dichiarato di voler distruggere quella che
definisce come l’“entità sionista”.
Tuttavia,
molti dei proclami infuocati e delle invettive che il regime degli
Ayatollah, dal momento della sua nascita
in poi, sferra nei confronti di Israele
possono essere letti come un tentativo di accattivarsi le piazze islamiche per
avere una leva negoziale da usare nei confronti del vicinato arabo; una leva
negoziale atta a scongiurare un’intesa
tra i Paesi arabi e Tel Aviv in funzione anti-iraniana.
Inoltre,
resta da comprendere quanto la questione del nucleare iraniano rappresenti il
fattore realmente determinante rispetto all’attacco portato avanti dallo Stato
ebraico e quanto essa, invece, costituisca un pretesto finalizzato alla
ridefinizione di un nuovo ordine regionale incentrato sull’egemonia israeliana.
Se con
gli Accordi del JCPOA del 2015, ponendo severi limiti e controlli alla
possibilità di arricchimento dell’uranio, l’amministrazione Obama era riuscita
a mettere un freno alle velleità “atomiche” di Teheran, attizzando una forte
opposizione da parte tanto di Netanyahu quanto dell’AIPAC, con il primo Governo
Trump gli Stati Uniti cedono alle pressioni di Israele e si ritirano
unilateralmente dall’Accordo sul nucleare.
Il
fatto che lo Stato ebraico abbia osteggiato attivamente il raggiungimento e il
mantenimento del JCPOA è rivelatore di come, in realtà, a preoccupare Tel Aviv
non sia tanto “l’atomica dell’Iran”, ma piuttosto la normalizzazione delle
relazioni tra Teheran e l’Occidente.
Israele,
che iniziò la propria corsa verso l’arma atomica alla fine degli anni ‘50 con
la costruzione del “reattore di Dimona”, detiene, sebbene ufficiosamente, lo
status di unica potenza nucleare della regione dal 1967;
si stima che attualmente Tel Aviv possegga
almeno 90 testate di questo tipo.
Ma, a
fare la differenza è soprattutto la capacità che lo Stato ebraico ha di
infliggere quello che in gergo viene definito
“second strike” .
Ciò
grazie alla disponibilità di sottomarini classe Dolphin di produzione tedesca
in grado di trasportare missili balistici nucleari: qualora Israele venisse
colpito sul proprio territorio da un’arma atomica, potrebbe, in ogni caso e
anche se “al collasso”, rispondere in direzione dell’aggressore proprio da uno
di questi sottomarini. Fattore di deterrenza non indifferente e che prescinde
dalla capacità dei propri vicini: questi, infatti, a differenza di Tel Aviv,
non potrebbero rispondere a un primo strike di tipo nucleare.
A determinare l’attacco israeliano non sembra
dunque essere stato il timore rispetto al programma atomico di Teheran, ma, in
primis, la necessità di spostare l’attenzione pubblica, tanto interna quanto
internazionale, dal genocidio di Gaza — e dall’incapacità di conseguire i
risultati strategici dichiarati, ovvero l’eliminazione di Hamas e il ritorno
degli ostaggi — verso un altro fronte di maggiore intensità, di modo da non
avere i riflettori puntati rispetto al vero obiettivo dell’esecutivo Netanyahu:
de-popolare
e occupare i territori della Striscia e della Cisgiordania.
Nei
confronti dell’Iran, da un punto di vista strategico e di interesse nazionale,
gli obiettivi degli USA — al netto delle pressioni dell’AIPAC— e di Tel Aviv
divergono. Gli Stati Uniti, infatti, non avrebbero potuto che beneficiare di un”
engangement” di Teheran nella propria sfera d’influenza, o quantomeno di una
distensione dei rapporti con il “rivale” mediorientale.
Ed è
per questo motivo che il JCPOA si poneva come un tentativo di impedire che la
Repubblica islamica si dotasse dell’arma atomica — cosa che avrebbe potuto e
che potrebbe ancora determinare un pericoloso effetto spillover presso tutti
gli altri paesi dell’area.
Tel
Aviv, invece, mira a trasformarsi in soggetto egemonico e vede in un Iran
prospero e attivo nella regione un intralcio ai suoi piani espansionistici.
Espansionismo che a sua volta può essere letto come “frontiera” per mezzo della
quale sublimare quelle forze centrifughe e quelle contraddizioni che rischiano
di spaccare la società israeliana dall’interno.
In
tutto ciò non si può non fare riferimento alla debolezza del premier Netanyahu
che, lungi dall’essere l’uomo forte alla guida del proprio Paese, rappresenta
un soggetto politicamente debole e ricattabile, costretto a cedere ai
desiderata delle frange più estreme presenti nella sua coalizione di governo.
Rimanendo
in tema di nucleare, e considerando la differenza in termini di approccio
strategico tra Stati Uniti e Israele, è possibile leggere gli avvenimenti degli
ultimi giorni in un’ottica peculiare.
Ovvero
è plausibile che, sentendosi in difficoltà di fronte all’inaspettata reazione
iraniana, gli israeliani abbiano paventato, in ultima istanza, l’eventualità
dell’utilizzo delle proprie testate nucleari contro Teheran;
l’attacco
americano, dagli esiti tutt’ora incerti, potrebbe aver evitato l’inveramento di
un simile scenario.
Tuttavia, indipendentemente dal tranello teso
a Washington dal proprio alleato, e a dispetto della narrativa molto più
assertiva e pro-Israele dell’amministrazione repubblicana, è verosimile
ritenere che gli Usa e l’Iran abbiano comunque mantenuto aperti canali
diplomatici, comunicativi e di intelligence —prevalentemente mediati da
soggetti terzi — in grado di favorire una de-escalation.
L’uso delle potenti bombe americane ha
diminuito e rallentato, ma non annullato, la possibilità per l’Iran di poter
disporre di testate nucleari in un contesto di medio-lungo termine. Inoltre,
gli attacchi di Stati Uniti e Israele
parrebbero aver incentivato ancor di più la volontà della Repubblica islamica
di “correre verso la bomba atomica”.
In
conclusione è possibile ritenere che, a differenza degli Stati Uniti, Israele
non è tanto preoccupato di un Iran “nucleare”, quanto di una Repubblica
islamica prospera e influente, in grado di rivaleggiare da un punto di vista
egemonico nel quadrante mediorientale.
Inoltre,
l’attacco dello Stato ebraico e la controffensiva della Repubblica islamica,
hanno avuto l’effetto, in un momento di forti tensioni interne su ambo i
fronti, di compattare entrambe le società attorno ai rispettivi governi,
finendo paradossalmente per ricreare quell’atavico rapporto” win -win” che ha
spesso caratterizzato la relazione tra Teheran e Tel Aviv, due nemici
esistenziali, ma al contempo indispensabili l’uno nei confronti
dell’altro.
Il
Sionismo Non
è Ebraismo.
Conoscenzealvonfine.it
– (6 Luglio 2025) - Armando Savini -ci dice:
I
rabbini più importanti hanno apertamente respinto l’affermazione del premier
israeliano Benjamin Netanyahu secondo cui Israele combatte per tutti gli ebrei.
Essi
hanno messo in luce la profonda divisione col sionismo – il movimento per stabilire
e mantenere una patria ebraica più grande attraverso la colonizzazione di altre
terre.
Rabbi
Yaakov Jacobowitz:
– Il
popolo ebraico non è un sinonimo del governo israeliano;
– I
sionisti stanno letteralmente calpestando il nome dell’intero collettivo
religioso;
– Il
sionismo è un grave FURTO DI IDENTITÀ.
Rabbino
Yakov Shapiro:
– Il
sionismo è una minaccia esistenziale al popolo ebraico e alla sua religione.
Gli
ebrei non sono responsabili delle azioni o dell’ideologia dello Stato di
Israele;
– I
sionisti vogliono DISTRUGGERE i valori, scardinare la religione e riscrivere la
storia di Israele;
– Le
affermazioni di Bibi sembrano quelle di una DITTATURA, non di una democrazia.
Gli ebrei non hanno votato per Netanyahu e lui
non li rappresenta;
–
Poiché i sionisti diffondono il messaggio di essere lo Stato del popolo
ebraico, gli ebrei di tutto il mondo vengono incolpati per qualsiasi cosa
faccia Israele.
Rabbi
David Basch:
– Il
sionismo non riguarda l’ebraismo, ma un gruppo di non credenti, terroristi, che
hanno preso il nome di Israele e ora si rivolgono al mondo in suo nome;
– Il
nome stesso di “Forze di Difesa Israeliane” è del tutto fuorviante, non sono
israeliane;
–
Costringono le persone a lasciare le loro terre e impongono decreti malvagi in
quello che chiamano un governo democratico;
“Basch”
sottolinea di essere a favore di Dio, della religione e dell’umanità, nonché a
favore della morale, della pace e dei diritti umani, motivo per cui è
antisionista.
(Armando
Savini).
(t.me/geopolitics_prime/52987).
(t.me/chaosmega).
Chi
sono i Sionisti?
Significato,
storia e ideologia
politica
del movimento.
Lavocedilucca.it
– (9-04 – 2024) – l libero pensiero – Redazione – ci dice:
Chi
sono i Sionisti?
I sionisti costituiscono uno dei pilastri
fondamentali della scena politica in Israele, accompagnando l’intera evoluzione
storica dello Stato ebraico.
Esploriamo
la loro identità e gli obiettivi che perseguono.
Chi
sono i Sionisti?
Significato del termine “sionismo” Il sionismo
è una dottrina o un movimento che si propone di riunire gli ebrei in Palestina
per fondare uno Stato proprio.
Questo
concetto ha trovato il suo primo sviluppo politico nel 1896, con l’opera “Stato
degli ebrei” di “Theodor Herzl”, ha poi ottenuto una chiara definizione nel
1897 con il “Congresso mondiale sionista tenutosi a Basilea”, e ha raggiunto un
significativo punto di svolta il 15 maggio 1948, quando è stato fondato lo
Stato di Israele Riguardo all’origine del termine, il “sionismo” deriva dalla
parola “Sion,” che è la collina di Gerusalemme simbolo della Terra promessa.
Si crede che questa collina possa ospitare la
tomba del re Davide e rappresenta il luogo in cui ogni credente ebreo auspica
di fare ritorno.
Storia e ideologia politica del movimento
sionista.
Alla base del sionismo giace innegabilmente il
concetto di un legame profondo, secondo i suoi sostenitori, tra gli ebrei e la
Terra Santa.
Questo
collegamento è stato trasmesso attraverso il ricordo della ‘patria perduta’ e
il forte desiderio di fare ritorno.
Quattro
fondamentali presupposti costituiscono il fondamento dell’ideologia di Herzl:
l’esistenza
di un popolo ebraico distintivo, l’idea che l’assimilazione in altre società
sia impossibile a causa della rapida dispersione degli ebrei, il riconoscimento
del loro diritto alla ‘Terra promessa’ e la convinzione che non vi sia un altro
popolo che possieda diritti sovrani su quel territorio.
Herzl
immaginava la creazione di uno stato-nazione ebraico che avrebbe posto fine
alle persecuzioni subite dagli ebrei in Europa, dalle violenze dei pogrom russi
all’infamia dell’affare Dreyfus in Francia.
Tuttavia,
i ‘sionisti’, come vennero chiamati i seguaci di Herzl, non considerarono
l’importante fatto che su quella terra vivevano già mezzo milione di arabi con
profonde radici e tradizioni millenarie.
Il sionismo perseguì una politica che
implicava un’alleanza con le grandi potenze capitalistiche, ma al contempo
negava al popolo palestinese il riconoscimento del diritto all’identità
nazionale, che invece veniva rivendicato per il popolo ebraico. Questo
approccio, con radici eurocentriche, si ricollega a figure come “Cecil Rhodes”,
“Jules Ferry” e il cancelliere Bismarck, e ha lasciato un’impronta indelebile,
dalla quale il sionismo non è stato ancora in grado di emanciparsi, nonostante
l’esistenza di correnti interne di sinistra e persino settori che si
autodefinivano socialisti.
Il sionismo, da un lato, considerava gli ebrei
come esuli da raccogliere da ogni angolo del mondo e organizzò un ‘ritorno’ in
Palestina.
Nei
primi anni del XX secolo, in Palestina vivevano circa mezzo milione di arabi e
50.000 ebrei, un numero che salì a 300.000 nel decennio tra il 1930 e il 1940.
La
persecuzione antisemita nell’era nazista tedesca portò a un aumento
dell’immigrazione che superò le ‘quote’ consentite dalla legge.
Gli
inglesi, che avevano autorità sulla Palestina, si preoccuparono poiché vedevano
minacciata la loro egemonia nella regione.
Nel 1939, il Regno Unito dichiarò che
l’obiettivo non era più la creazione di uno stato ebraico, ma piuttosto uno
stato palestinese indipendente ‘in cui entrambi i popoli partecipassero al
governo’.
I sionisti, con l’aiuto di contributi raccolti
tra gli ebrei di tutto il mondo, che spaziavano dai banchieri alle persone
comuni, acquistarono terre arabe da ricchi proprietari che spesso risiedevano a
Beirut o Parigi, dimostrandosi indifferenti al destino dei loro affittuari, i
contadini palestinesi.
Gli
ebrei arrivarono con titoli di proprietà, cacciarono le famiglie agricole
locali e stabilirono colonie agricole, i “kibbutzim”, che venivano difesi da
milizie sioniste contro un ambiente percepito come ostile.
Di
fronte all’escalation degli attacchi anti-britannici, Londra presentò la
questione palestinese alle Nazioni Unite nel febbraio 1947.
Un
comitato speciale raccomandò la suddivisione del territorio in due stati
indipendenti, uno arabo e uno ebraico, con Gerusalemme sotto autorità
internazionale.
Le diramazioni del sionismo Il movimento
sionista ha conosciuto nel corso degli anni diverse sfaccettature e filoni del
suo pensiero originale.
Tra
questi troviamo:
il sionismo socialista, caratterizzato da
ideali di sinistra e dall’istituzione dei kibbutz;
il sionismo religioso, che si fonda su una
stretta osservanza delle pratiche religiose ebraiche;
il sionismo revisionista, emerso in Israele e
con connotazioni di estrema destra, rappresentato oggi dal “partito Likud” di
Benjamin Netanyahu.
Oggi,
soprattutto tra i suoi critici, il sionismo è spesso associato a un
nazionalismo ebraico che mira a espandere lo Stato d’Israele su tutto il
territorio della Palestina, incluso l’occupare le terre assegnate all’origine
alla popolazione araba dall’ONU nel 1948.
In questo contesto, l’attività dei sionisti
moderni è concentrata sulla pressione e sull’isolamento della “Striscia di Gaza”,
oltre alla continua colonizzazione dei “territori della Cisgiordania”.
Differenza
tra movimento sionista e Stato di Israele.
È
importante distinguere tra il movimento sionista e lo Stato di Israele, creato
da esso, da un lato, e la maggioranza degli ebrei che hanno scelto di rimanere
nei paesi dei cinque continenti in cui hanno sempre vissuto, dall’altro.
Questa
distinzione è diventata particolarmente rilevante quando la politica di
oppressione aperta e brutale portata avanti da Israele contro i palestinesi, a
nome di una visione distorta dell’ebraismo, rischia di generare nel resto del
mondo, insieme alla legittima critica, manifestazioni di antisemitismo.
Alla
Germania Serve il Gas:
Trivellerà
nell’Area Marina Protetta.
Conoscenzealconfine.it
– (8 Luglio 2025) – Redazione- Imolaoggi.it – ci dice:
La
ministra degli Esteri, Reiche: “Rafforziamo la sicurezza
dell’approvvigionamento in tutta Europa”.
Gli
ecologisti protestano: “Conseguenze devastanti per la biodiversità nel Mare del
Nord”.
Il
governo tedesco ha approvato un controverso progetto per l’estrazione di gas
naturale nel Mare del Nord, in un sito marino protetto al largo dell’isola di
Borkum, una scelta che per gli ambientalisti avrà “conseguenze devastanti”.
Il via libera riguarda fino a 13 miliardi di
metri cubi di gas e arriva dopo l’intesa formale con i Paesi Bassi, necessaria
perché la” società energetica One-Dyas” trivellerà orizzontalmente da una
piattaforma olandese verso il territorio tedesco.
Secondo
la ministra dell’Economia” Katharina Reiche”, l’accordo “non solo rafforza la
sicurezza dell’approvvigionamento dei nostri vicini, ma anche il mercato
europeo del gas, e quindi anche il nostro”.
Decisione
Rimandata per Motivi Ambientali.
“One-Dyas”
aveva ottenuto l’autorizzazione dalle autorità locali già un anno fa, ma
l’approvazione a livello nazionale era rimasta bloccata sotto il precedente
ministro dell’Economia,” Robert Habeck”, esponente dei Verdi, per via delle
forti obiezioni ambientali.
Ora
l’esecutivo del cancelliere conservatore “Friedrich Merz” ha sbloccato il
dossier, coerentemente con la linea del governo di sfruttare le riserve
nazionali pur mantenendo l’obiettivo della “neutralità climatica” entro il 2045.
Secondo
l’azienda, la produzione prevista potrà coprire fino al 15% del fabbisogno
tedesco di gas dell’anno scorso.
La fase di test è partita a marzo, ma
l’operatività completa dipenderà ancora da un passaggio formale: il via libera
alle attività da parte del Land della Bassa Sassonia, anche se l’autorità
mineraria regionale ha già dato l’ok alle trivellazioni nell’agosto 2024.
Per
mitigare l’impatto climatico, l’azienda ha promesso di utilizzare elettricità
da un parco eolico offshore tedesco.
Inoltre, “One-Dyas” si è impegnata a fermare
le attività “non appena la domanda di gas naturale in entrambi i Paesi verrà
meno, in modo che il progetto non contraddica l’obiettivo della neutralità
climatica”.
Proteste
degli Ambientalisti.
Il
sito di trivellazione si trova nel” Mare dei Wadden”, un’area dichiarata
patrimonio dell’umanità dall’Unesco, e la decisione ha già scatenato forti
critiche da parte delle organizzazioni ambientaliste.
“Ulteriori
industrializzazioni avrebbero conseguenze devastanti per la biodiversità nel
Mare del Nord”, ha dichiarato “Sascha Müller-Kraenner,” direttore generale
della “Ong Environmental Action Germany”.
(imolaoggi.it/2025/07/07/germania-gas-area-marina-protetta/).
(europa.today.it/ambiente/germania-gas-trivellazioni-area-marina-mare-nord.html).
La “CO2”
Rivoluziona la Coltivazione
nelle Serre a Livello Mondiale.
Conoscenzealconfine.it
– (7 Luglio 2025) - Dr. Peter F. Maye – ci dice:
La CO2
rivoluziona la coltivazione in serra a livello mondiale e decentralizza l’approvvigionamento
alimentare.
La CO2
è un nutriente per le piante, non un “inquinante”, e gli operatori delle serre
la iniettano consapevolmente (fino a 1000 ppm) per aumentare i raccolti
dell’80% o più.
Cina, Spagna e Stati Uniti guidano una
rivoluzione nell’agricoltura in serra e utilizzano la CO2 per coltivare cibo
nei deserti e su terreni urbani abbandonati – una prova che le emissioni
possono nutrire il mondo.
Mentre
governi ed élite aziendali promuovono politiche climatiche draconiane – tasse
sulla CO2, razionamento energetico e deindustrializzazione forzata – la verità
sull’anidride carbonica (CO2) rimane sepolta sotto strati di allarmismo.
Mentre
gli attivisti parlano di una “crisi climatica esistenziale”, agricoltori e
scienziati utilizzano silenziosamente la CO2 per moltiplicare i raccolti,
combattere la fame e rivoluzionare l’agricoltura.
Una
ricerca pubblicata su “Nature” dall’Università di Copenaghen, a cura di “Xiaoye
Tong et al.”, dal titolo “Global area boom for greenhouse cultivation revealed
by satellite mapping” (La mappatura satellitare rivela il boom globale della
coltivazione in serra), smentisce l’opinione comune e dimostra che livelli
elevati di CO2 accelerano la crescita delle piante e portano a raccolti
abbondanti nelle serre di tutto il mondo.
Gli
“esperti” climatici dell’ONU e i media aziendali, naturalmente, non ne parlano.
Il complesso industriale del clima vive di inganni, non di soluzioni.
Nel
frattempo, la CO2 sta rivoluzionando la coltivazione in serra, decentralizzando
l’approvvigionamento alimentare e permettendo alle comunità di liberarsi dal
controllo delle multinazionali sul cibo.
La
Rivoluzione delle Serre: la CO2 Come Ingrediente Mancante.
Da
decenni i propagandisti climatici demonizzano la CO2 come “emissione mortale”,
ignorando il suo ruolo fondamentale nella fotosintesi.
Ma
nelle serre – dalla Spagna meridionale al deserto di Xinjiang in Cina – gli
agricoltori trattano la CO2 come oro liquido.
Con
generatori alimentati a propano o gas naturale, pompano concentrazioni di 1000
ppm o più, trasformando paesaggi aridi in granai.
Il “Ministero
dell’Agricoltura dell’Ontario” definisce apertamente la CO2 un nutriente,
sottolineando la sua capacità di accelerare la fioritura, rafforzare i fusti e
ridurre l’uso di pesticidi.
Nella regione spagnola di Almería, le serre
arricchite di CO2 producono ora 30 chilogrammi di pomodori per metro quadrato –
un risultato straordinario per una coltura un tempo limitata dal clima secco
della Spagna.
A
Xinjiang, le serre nel deserto con 1200 ppm di CO2 producono annualmente 19.000
tonnellate di frutta e verdura, dimostrando che non è il “cambiamento
climatico” a distruggere i raccolti, ma le politiche dei governi.
Perché
succede questo?
Le piante assorbono la CO2 dalla parte
inferiore delle foglie tramite aperture chiamate stomi, che, grazie alla
fotosintesi con luce solare e acqua, trasformano la CO2 in zuccheri.
Più CO2 c’è nell’aria, più rapidamente si
chiudono gli stomi e meno acqua la pianta perde per gocciolamento o
evaporazione.
L’aumento della CO2 ha portato anche al
rinverdimento di aree molto aride – un incremento globale del 13%, come
mostrato dai satelliti.
La
Grande Carestia da CO2: Come gli Allarmisti Affamano il Pianeta.
500
milioni di anni fa, la concentrazione di CO2 era superiore a 7000 ppm, e la
vita prosperava.
Oggi, con appena 420 ppm, le piante soffrono
la fame.
Gli
operatori delle serre lo sanno bene:
durante
il giorno, le piante riducono la CO2 a 200 ppm, rallentando la crescita.
Eppure
le élite climatiche attuali chiedono valori ancora più bassi, senza cogliere
l’ironia.
“Se la
CO2 è così tossica”, chiede il ricercatore cinese “Xiaoye Tong”, “perché
triplichiamo la sua concentrazione nelle nostre serre per nutrire milioni di
persone?”
La risposta è semplice: non l’eccesso, ma la carenza
di CO2 minaccia la sicurezza alimentare.
Mentre
l’Occidente demonizza i combustibili fossili, un solo complesso di serre in
North Carolina – “Metrolina”, con una superficie riscaldata di 743.000 metri
quadrati – dipende dalla CO2 per rifornire i supermercati tutto l’anno.
Il
complesso industriale del clima non solo sbaglia, ma sbaglia pericolosamente (diciamo intenzionalmente e
colpevolmente – nota di conoscenzealconfine).
L’attuale livello di CO2 nell’atmosfera è
ancora criticamente basso rispetto ai valori delle precedenti ere interglaciali
– eppure gli attivisti ambientalisti gridano ai “valori senza precedenti”.
In
realtà, alla fine dell’ultima era glaciale, la concentrazione di CO2
nell’atmosfera era scesa a 185 ppm.
Un
valore pericolosamente basso, perché a 150 ppm la vita vegetale si arresta: è
il limite minimo per la crescita delle piante.
A
causa delle variazioni orbitali della Terra secondo i “cicli di Milanković”,
circa 11.000 anni fa si verificò un riscaldamento di circa 10-12 gradi.
Gli
oceani rilasciarono più CO2 e i livelli salirono di nuovo a 300-400 ppm.
Il
Meyers Conversations lexicon riporta misurazioni di CO2 da parte di chimici nel
XIX secolo:
intorno
al 1820 si registrarono valori di circa 420 ppm.
Misurazioni
successive tra il 1870 e il 1910 mostrarono un calo, causato dal raffreddamento
dovuto al “minimo di Dalton” del Sole intorno al 1800.
Il riscaldamento successivo al 1820 portò a un
aumento ritardato della CO2, che osserviamo oggi.
E
tutto ciò è ben al di là dell’influenza umana.
Ma i
“credenti climatici” preferirebbero demolire le centrali elettriche piuttosto
che permettere agli agricoltori di utilizzare le loro emissioni.
L’agenda contro la CO2 mira a creare scarsità
e dipendenza da sistemi alimentari centralizzati.
Distruggendo
l’energia a prezzi accessibili e limitando la fornitura di CO2, i globalisti
creano crisi per giustificare il controllo totale su cibo ed energia – minando
la sovranità di nazioni, comunità e famiglie.
Le
Serre Arricchite con CO2 Catturata dall’Atmosfera.
Vicino
a “Zurigo” funziona già un impianto, sviluppato dalla “Clime works”, capace di
catturare la CO2 dall’atmosfera e di inviarla ad una serra per la coltivazione
di pomodori e cetrioli (inizio articolo).
Secondo
la stampa svizzera l’impianto è in grado di catturare 900 tonnellate/anno di
CO2 atmosferica, una quantità che aumenta del 20% la produttività della serra.
(Dr.
Peter F. Maye).
(tkp.at/2025/07/05/co2-revolutioniert-weltweit-den-gewaechshausanbau-und-dezentralisiert-die-nahrungsmittelversorgung/).
(nogeoingegneria.com/tecnologie/carbon-capture/la-co2-rivoluziona-la-coltivazione-nelle-serre-a-livello-mondiale/).
Perché
l’Occidente odia
e ha paura della Russia.
Linterferenza.info - Fabrizio Marchi – (22
Gennaio 2023) – ci dice:
Stavo
riflettendo, giorni fa, sul fatto che la Russia è forse l’unico paese che non
sia mai stato colonizzato e occupato militarmente – se non per brevi periodi ai
quali hanno fatto seguito ritirate disastrose – dall’Occidente.
Quest’ultimo
ci ha provato a più riprese con aggressioni dirette (guerre napoleoniche,
guerra di Crimea, guerra civile post rivoluzione del ’17, attacco nazista nella
seconda guerra mondiale) e indirette (il tentativo degli USA di colonizzazione
economica e politica subito dopo il crollo dell’URSS), ma tutti questi
tentativi sono sempre clamorosamente e fragorosamente falliti (e negli ultimi vent’anni,
naturalmente, l’espansione ad est della NATO e il colpo di stato in Ucraina nel
2014).
È
questa forse una delle principali ragioni della atavica ostilità occidentale
nei confronti di quel paese.
Insieme
probabilmente all’ incapacità di comprendere lo spirito di quel popolo che non
c’è stato verso di addomesticare.
Probabilmente
è un’ostilità che ha radici ancora più antiche, essendo la Russia l’erede del
grande scisma che ha dato vita alla chiesa ortodossa.
E poi naturalmente la prima grande rivoluzione
socialista della storia con tutto quello che ne è conseguito.
E
ancora la sua estensione e la sua cultura, intrinsecamente irriducibile a
quella anglosassone, dominante in Occidente.
Ed è
forse proprio quella incapacità di comprensione che ha generato e continua a
generare nel mondo occidentale quella sorta di mistero frammista a inquietudine
che a sua volta genera inevitabilmente la paura.
La
Russia non ha mai attaccato l’Occidente – dal quale è stata invece
ripetutamente aggredita, anche ferocemente, come nel caso dell’invasione
nazifascista – eppure viene percepita da una gran parte della cosiddetta
opinione pubblica occidentale come un pericolo costante, come una minaccia
perennemente incombente, come una forza bruta pronta in qualsiasi momento a
scatenarsi.
Al di
là delle considerazioni di ordine politico e geopolitico che si sono verificate
di volta in volta e che naturalmente hanno le loro cause e ragioni concrete,
credo che sia questo sentimento – in larga parte alimentato ad arte ma comunque
profondamente radicato – a generare quell’ostilità.
Cosa
non torna nella narrazione
sulla forza dell’economia statunitense.
Linterferenza.info
- Alessandro Volpi – (8 Luglio 2025) – ci dice:
Nonostante
l’indebolimento del dollaro e l’enorme debito pubblico, i mass media celebrano
la presunta ottima salute dell’economia statunitense.
È
sempre più evidente che esiste una vera e propria costruzione narrativa
finalizzata ad alimentare la sudditanza europea nei confronti degli Stati Uniti.
Alcuni
dei principali giornali italiani stanno celebrando la forza dell’economia
statunitense, che prescinderebbe persino dalla politica.
E si
stanno affannando a ribadire la ripresa dell’occupazione e i “record” di Borsa
interpretati come i segni inequivocabili della buona salute dell’impero
americano. Il messaggio è chiaro:
cari
italiani e care italiane, non potete fare a meno degli Stati Uniti perché
mantengono il primato nonostante Donald Trump.
Cosa
non torna nei parametri che dovrebbero indicare la salute dell’economia
statunitense.
Ora,
in questa narrazione ci sono molte cose che non tornano.
A
parte il fatto di trascurare l’elefante nella stanza costituito da un debito
federale che lo stesso presidente della Federal Reserve ha dichiarato
insostenibile e che costa 1.200 miliardi di dollari di interessi, faticando a
trovare compratori, e senza considerare l’indebolimento strutturale del dollaro
pur in presenza di tassi al 4,25-50, sono gli stessi dati citati dagli aedi
nostrani a lasciare perplessi.
La
tenuta dell’economia statunitense dipenderebbe dalla capacità di creare in un
mese 147mila posti di lavoro in più!
È
facile capire che si tratta di un dato molto parziale.
Tanto più perché la rilevazione avviene sulla
base dei numeri forniti dalle imprese circa le buste paga di quel mese.
Senza
alcuna indicazione sulla natura dei contratti, sulla durata degli impieghi e su
altre variabili considerate invece nelle rilevazioni fatte in Europa.
In
più, il dato dell’occupazione americana è una stima perché si basa, di fatto,
su un campione scelto in maniera alquanto discutibile.
Pensare
che questo dato sia un indicatore della tenuta dell’economia statunitense è
davvero poco credibile, a fronte di una stima del Pil negativa dello 0,5% nel
primo trimestre 2025.
Dietro
la crescita delle Borse c’è solo speculazione.
Ma
anche il tema delle Borse andrebbe chiarito meglio.
I
listini sono tornati a salire perché alcuni titoli hanno beneficiato delle
iniezioni di liquidità dei grandi fondi.
Soprattutto da parte delle “Big Three”,
spaventate dal tracollo avviatosi da gennaio.
In
questo senso ha pesato anche il conflitto tra Trump e Jerome Powell, che ha
convinto gli stessi grandi fondi a sostenere le Borse Usa per evitare il taglio
degli interessi che certo non gioverebbe loro, visto che sono già in possesso
della liquidità e quindi non hanno bisogno del credito animato dalla Federal
Reserve.
In
estrema sintesi, da questo punto di vista i grandi fondi, dopo aver stimolato e
iniziato a cavalcare l’onda del riarmo europeo, hanno deciso di sostenere
ancora le Big Tech americane per evitare che una caduta dei listini rendesse
inevitabile la riduzione dei tassi da parte di Powell.
Con l’evidente conseguenza di favorire la
finanza altamente speculativa di Trump, competitiva con le Big Three e
bisognosa di tassi bassi.
Questa
tenuta dei listini, però, non può nascondere proprio il braccio di ferro fra il
presidente Trump e una parte della finanza che rende le piazze finanziarie
statunitensi del tutto inaffidabili per il resto del mondo.
Che,
infatti, ha smesso di trasferire Oltreoceano i propri capitali e i propri
risparmi.
Questo
accade ovunque nel mondo al di fuori dell’Europa, dove la narrazione dominante
sta facendo di tutto per mantenere in vita un’economia in profondo collasso,
come quella statunitense, sostenendo che sta benissimo.
I
negoziati su Gaza e il sisma
che
scuote il Medio oriente.
It.insideover.com
- Davide Mala caria - Piccolenote.it – (8 Luglio 2025) – ci dice:
I
negoziati per un cessate il fuoco a Gaza sembrano procedere in modo positivo.
Così titola il “Timsofisrael”:
“Israele
afferma che la svolta sui colloqui di Gaza è vicina dopo l’incontro tra Trump e
Netanyahu”.
Il
sottotitolo recita, che secondo i funzionari israeliani, nella cena alla Casa
Bianca i due leader “hanno concordato l’80-90% dei termini della tregua”.
Sempre
nel sottotitolo si legge che Israele “insiste sulla distruzione totale di
Hamas”, che evidentemente è parte di quel che rimane in sospeso, come
divergenze restano “sui meccanismi di attuazione [del cessate il fuoco], in
particolare sulle clausole relative al ritiro [dell’IDF] e agli aiuti
umanitari”, che Hamas vorrebbe non siano monopolizzati dalla” Gaza Humanitarian
Foundation”, l’organismo umanitario genocida che li gestisce attualmente (sono
più di 700 i palestinesi uccisi dai soldati israeliani e dalla sicurezza della
GHF mentre cercavano di ricevere gli aiuti).
‘Going
hungry’: More than 700 Palestinians killed seeking aid in Gaza.
Era
noto che le parti avevano forti divergenze sul destino di Hamas, sul ritiro
dell’IDF da Gaza e sulla distribuzione degli aiuti, ma a stare a quanto
dichiarato dal consigliere di Netanyahu “Ron Dermer al “Times of israel” “le
divergenze si sono abbastanza ridotte”, tanto da poter immaginare che possano
essere (forse) superate.
I
negoziati tra israeliani e Hamas proseguono a Doha dove a breve giungerà anche
l’inviato di Trump “Steve Witkoff” perché l’accordo venga finalizzato.
Lo vuole fortemente Trump che stavolta ha
messo alle strette il premier israeliano, impedendogli, almeno finora, di far
saltare tutto.
Da parte sua Netanyahu sta facendo di tutto
per compiacere il suo anfitrione, tanto da candidarlo al Nobel per la pace (evitiamo di commentare…).
Detto
questo, anche se alla fine Trump la spuntasse, tutto resta sospeso alla
sanguinaria imprevedibilità del premier israeliano, che potrebbe facilmente
eludere il passo cruciale dell’accordo in fieri, quello in cui si dichiara
solennemente che durante la tregua di 60 giorni si dovrà trattare per arrivare
a una pace duratura e che il negoziato dovrà proseguire, insieme alla tregua,
se in quella finestra temporale le trattative non avranno conseguito tale
esito.
Certo,
gli Stati Uniti si sono fatti garanti dell’accordo complessivo, impegnandosi a
tenere a freno Israele se intendesse riprendere le ostilità, ma si può ben
comprendere quanto precaria sia tale garanzia.
Comunque,
ovviamente, è meglio di niente. Darebbe un po’ di sollievo ai palestinesi,
nella speranza che duri, anche se il destino che li attende resta durissimo,
anzitutto per le condizioni in cui è stata ridotta Gaza, di fatto invivibile se
non per i disperati che vi abitano.
Peraltro,
nell’incertezza sui contenuti reali delle trattative, si intensificano le
notizie di uno sfollamento “volontario” della Striscia, della creazione di un
campo di concentramento per ospitarli sulle rovine di Rafah, mentre resta
avvolto nel mistero quale forma di governo verrà insediata o chi garantirà
l’ordine.
Tra le
tante variabili in gioco anche quella delle bande di tagliagole, tra cui
spiccano i terroristi dell’Isis, assoldate da Tel Aviv per contrastare Hamas,
che di certo resteranno sulla scena del crimine, con tutto quel che consegue.
Netanyahu
arma milizia Isis contro Hamas a Gaza. Attacco israeliano alla periferia sud di
Beirut.
Tanta
l’incertezza sul futuro, quel che è certo è che Trump sta cercando di allettare
Netanyahu a chiudere la guerra di Gaza offrendogli doni.
Anzitutto
la Siria, che dovrebbe aderire agli accordi di Abramo grazie al nuovo governo
formato dai terroristi di fiducia dell’Occidente.
Ciò
consentirà a Tel Aviv di avere una grande influenza sul Paese confinante, che
però dovrà dividere con quella esercitata dalla Turchia, che vede in tal modo
ridimensionato il sogno di fare di Damasco il trampolino di lancio del nuovo
impero ottomano per il quale il presidente Erdogan si è tanto profuso nel
decennio passato, associandosi alle manovre per rimuovere Assad sia in maniera
diretta sia facendo del suo Paese una testa di ponte per le sanguinarie
iniziative dei suoi alleati d’Occidente, che hanno scatenato nel Paese le bande
di tagliagole ascese al potere.
Oltre
alla Siria, Trump vuole offrire in dono a Israele anche il Libano.
Ad
oggi è davvero difficile immaginare che Beirut possa aderire agli Accordi di
Abramo, ancora troppo forte l’influenza di Hezbollah, ma Washington può
ottenere un fortissimo ridimensionamento della milizia sciita, che col tempo
potrebbe rendere possibile ciò che ora non è.
A tale
scopo si sta prodigando l’inviato Usa per il Libano “Tom Barrak”, che nelle sue
continue visite nel Paese dei cedri sta esercitando fortissime pressioni sulla
sua leadership politica perché accolga le richieste di Washington, che sono poi
di Tel Aviv.
Richieste
che si concentrano sull’eliminazione di Hezbollah come milizia, che dovrebbe
essere disarmata e privata di ogni sostegno, finanziario e militare.
La
triangolazione Siria-Libano-Israele vede anche un mutamento dei confini
territoriali dei tre Stati a tutto vantaggio di Tel Aviv.
Ne scrive “Jason Ditz” su “Antiwar”:
“Sono
in corso colloqui tra Israele e Siria sulle alture del Golan occupate e le
proposte si concentrano sul fatto che la Siria accetti che Israele possa
mantenere parte del Golan [in realtà più o meno tutto ndr.] in cambio del
permesso alla Siria di impossessarsi di parti del Libano settentrionale” (di
quest’ultimo aspetto se ne sta occupando Barrak).
Lebanon
Responds to US Demand, US Envoy ‘Unbelievably Satisfied’ Despite Rejection.
Le
pressioni di “Barrak” si accompagnano alle diuturne incursioni dell’esercito
israeliano in territorio libanese, che ogni giorno mietono vittime e devastano
villaggi in violazione al cessate il fuoco stabilito con Hezbollah nel novembre
scorso, mentre continua a occupare le alture libanesi al confine con Israele.
Un’occupazione
che doveva finire con il cessate il fuoco e che continuerà anche se il Libano
soddisferà appieno le richieste imperiali, come ha chiarito lo stesso Barrak
affermando di non poter garantire la fine dell’acquisizione territoriale
israeliana.
D’altronde,
da tempo Israele vuole occupare il Libano meridionale fino al fiume Litani. E,
senza Hezbollah a contrastarlo, nel tempo riuscirà.
Tale
la situazione, tale il caos che sta dilagando in Medio oriente perché sia
confacente ai desiderata israeliani. Il genocidio di Gaza è solo l’orribile
epicentro di un sommovimento tellurico che sta destabilizzando l’intera
regione.
Trump
è arrivato a cose fatte, quando il terremoto era già iniziato, apparentemente
inarrestabile. Non può fermarlo, o forse non vuole. Quel che è certo è che
tenta, assecondando il sommovimento, di attutirne le scosse (com’è avvenuto per
la guerra Israele-Iran) e di chiudere la mattanza dei palestinesi.
Forse
il tempo gli darà ragione, forse, invece, al contrario, il sisma aumenterà di
intensità anche grazie alle sue iniziative. Ma questo è l’incerto futuro
prossimo, adesso quel che conta è se il mattatoio Gaza può essere messo in
pausa, si spera duratura.
Il
“nuovo grande gioco”. L’ambizione delle
superpotenze
sui paesi dell’Asia Centrale.
Geopolitica.info - Asia Pesce – (15/07/2023) – ci
dice:
Il
termine “grande gioco” risale al XIX secolo quando Regno Unito e Impero Russo
si contendevano il controllo dei paesi dell’Asia Centrale.
Si
trattava di una competizione moderata e perlopiù diplomatica, caratterizzata da
accordi e alleanze, che tutt’ora contraddistinguono la regione.
Oggi il termine è tornato di moda, riferendosi
anzi a un “nuovo grande gioco” che vede competere le grandi potenze mondiali
per ottenere alleanze sempre più solide e vincolanti.
Kazakistan,
Kirghizistan, Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan, nonostante vogliano
condurre una politica multi-vettoriale, indirizzata a intrattenere relazioni
con tutti i paesi, si trovano oggi all’interno di un’arena in cui le maggiori
potenze straniere quali Russia, Cina, Stati Uniti, ma anche Turchia, perseguono
i loro obiettivi cercando di accaparrarsi lo status di miglior partner.
I
territori dell’Asia Centrale, rimasti perlopiù sconosciuti fino alla
dissoluzione dell’URSS, sono oggi al centro delle ambizioni egemoniche dei
maggiori attori internazionali che competono per stringere alleanze e
impegnarsi in investimenti sempre più ingenti sulla regione.
Se
fino a poco fa questi paesi erano ancora legati all’ex Madre Patria Russia, che
garantiva loro sicurezza e rappresentava il principale partner commerciale;
dall’altra un altro importante attore si sta facendo strada nella regione: la
Cina.
Quest’ultima,
infatti, ha bisogno delle risorse necessarie per sostenere i ritmi incessanti
della sua economia e la regione dell’Asia Centrale rappresenta un ottimo
alleato in tal senso.
A
questo proposito, lo scorso 19 maggio si è concluso a Xi’an, in Cina, il
vertice di due giorni tra i cinque paesi dell’Asia Centrale e il presidente
cinese Xi Jinping.
L’obiettivo
dell’incontro, come ha dichiarato il numero uno cinese, era quello di
“rinnovare la nostra amicizia millenaria e aprire nuove prospettive per il
futuro”. Al SUMMIT, tuttavia, non è passata inosservata l’assenza del
presidente russo Vladimir Putin.
Il
nuovo “grande gioco” coinvolge le grandi potenze che, seppur per motivi interni
apparentemente differenti, competono per un obiettivo comune: aumentare la loro
sfera di influenza nella regione andando inevitabilmente a ridurre quella
avversaria.
A tal
fine è utile citare l’organizzazione fondata nel 1996 da Cina, Russia,
Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan, diventata poi “Shanghai Cooperation
Organization” (SCO) con l’adesione dell’Uzbekistan nel 2001.
L’organizzazione nasceva con l’obiettivo di
sconfiggere il terrorismo, il separatismo e l’estremismo dalla regione
dell’Asia Centrale, ma oggi è evidente la tendenza antioccidentale che Cina e
soprattutto Russia vogliono dare all’organizzazione per limitare l’influenza di
attori stranieri nella regione.
La
Russia in particolare rappresenta il primo partner commerciale per i paesi
dello spazio post-sovietico, come ad esempio il Kazakhistan.
Nonostante
si tratti del paese più vasto dell’Asia Centrale e maggior produttore di
petrolio della regione grazie alle riserve a Tengiz, Kachaganak e la più
recente, a Kashagan, il paese è ancora strettamente legato ai gasdotti russi.
Tuttavia,
la produzione annuale di petrolio kazako dal 2015 varia tra i 77 e i 79 milioni
di tonnellate, e proprio grazie all’ultima riserva petrolifera scoperta nel
2013, si stima che il paese aumenti la produzione del 60% entro il 2030.
Questo
indubbiamente modifica gli equilibri geopolitici inserendo un ulteriore
competitor ai già affermati paesi dell’OPEC, e più in generale, ai paesi
esportatori di risorse energetiche.
Il boom produttivo di Astana ha spinto Pechino a
inserirsi sempre più in profondità nella regione cercando un rifornimento
diretto senza dover passare attraverso Mosca.
Il
Turkmenistan al contrario è ricco di gas naturali e grazie alla posizione
strategica in prossimità del Mar Caspio, il paese è il quarto al mondo per
riserve di gas. Il 70% delle importazioni cinesi provengono proprio dal
Turkmenistan che esporta i suoi gas principalmente in Cina.
Anche
l’Uzbekistan con la regione della Fergana è un grande produttore di energia,
nonostante però venga esportata solo una ridotta quantità a causa dell’aumento
della domanda interna.
La
regione dell’Asia Centrale è anche produttrice di energia idroelettrica, in
particolare il Kyrgyzstan, che con una superficie di acqua di quasi 2458 metri
quadrati esporta energia soprattutto in Afghanistan.
Queste
risorse rendono i territori dell’Asia Centrale altamente desiderabili e se da
un lato la Russia considera ancora questi paesi come suo “backyard” e vuole
assicurarsi lo status di principale alleato proteggendo i confini a sud contro
le minacce di terrorismo islamico e traffico di droga, dall’altro la Cina sta
investendo sempre di più nella regione, specialmente con il progetto “One Belt
One Road” poi diventato “Belt Road Initiative”, volto a incrementare e
perfezionare i collegamenti commerciali con i paesi dell’Eurasia.
Nonostante
sia stato lo stesso presidente Vladimir Putin nel febbraio 2022 a descrivere
l’amicizia con la Cina come “senza confini”, ci troviamo oggi dinanzi un cambio
di rotta.
Se da
una parte la Russia condivide il sentimento antioccidentale cinese, dall’altra
non può dare il suo beneplacito all’avanzata cinese in Asia Centrale.
Tuttavia,
è proprio la guerra portata avanti dal presidente russo che involontariamente
allontana i paesi centroasiatici a causa delle ripercussioni delle sanzioni sul
commercio e l’economia.
Dal
canto suo, la Cina si sta rivelando attualmente il miglior partner per i paesi
come è stato più volte ribadito dallo stesso presidente Xi Jinping nel corso
del SUMMIT dello scorso maggio in cui ha dichiarato la volontà cinese di
aumentare la cooperazione con i paesi dell’Asia centrale.
In particolare, “la Cina si impegnerà ad
aumentare il volume del trasporto merci transfrontaliero, migliorando la
capacità di traffico dell’autostrada China-Kirghizistan-Uzbekistan e
dell’autostrada China-Tajikistan-Uzbekistan e portando avanti le consultazioni
sulla ferrovia China-Kirghizistan-Uzbekistan”.
Tra le
altre cose, il presidente ha proposto l’istituzione di un partenariato per lo
sviluppo energetico tra Cina e Asia Centrale.
Questi
sono solo alcuni degli investimenti che Xi ha promesso.
È
inevitabile, dunque, che la Russia stia perdendo terreno sugli ex paesi
sovietici, lasciando spazio all’influenza di Pechino.
Se in
parte potrebbe sembrare che il “nuovo grande gioco” si limiti alla contesa tra
l’orso e il dragone, ci sono altri attori che spingono per ottenere il loro
spazio in questo delicato contesto.
Gli
Stati Uniti, nonostante il loro interesse sia diminuito soprattutto in seguito
al ritiro dall’Afghanistan, desiderano diminuire l’influenza russa per evitare
un monopolio russo sulle risorse energetiche in Asia Centrale che possa portare
a una manipolazione dei prezzi così come hanno fatto i paesi dell’OPEC nel
1973.
A
Questo proposito Washington ha supportato il gasdotto Baku-Tbilisi-Ceyhan
completato nel 2005 che esclude Mosca dalla rotta passando invece per
Azerbaijan, Georgia e Turchia.
Proprio
quest’ultima, a sua volta, sta cercando di ritagliarsi uno spazio per dialogare
con i paesi “stan”, offrendosi come alternativa al vuoto lasciato dagli Stati
Uniti e dalla Russia.
Attraverso
l’Organizzazione degli Stati Turchi, Erdogan prova infatti a dirottare
l’attenzione dei paesi centroasiatici verso di sé.
Kazakistan,
Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan che da una parte sono
ambiti dai diversi attori mondiali, devono orientarsi attentamente per
massimizzare il loro potenziale economico, mantenere stabilità e salvaguardare
la loro indipendenza.
I
cinque paesi dell’Asia Centrale, inoltre, intendono perseguire una politica
estera multi-vettoriale, stabilendo relazioni ed alleanze con tutti gli altri
paesi.
Questa
scelta è dovuta anche dalla posizione geografica in cui si trovano.
Per paesi come l’Uzbekistan, senza sbocchi sul
mare, intrattenere relazioni amichevoli con i diversi stati diventa
fondamentale.
Questa
politica però, è divenuta ancora più difficile da seguire dopo la guerra in
Ucraina.
In
conclusione, le dinamiche geopolitiche in Asia Centrale sono manovrate perlopiù
dal conflitto di interessi tra Russia e Cina, nonostante anche altri attori
stiano cercando di comunicare con i paesi centroasiatici.
Mentre
la Russia fa leva sui legami storici e sullo status, sempre più debole, di
garante della sicurezza nella regione, la Cina concretamente si sta impegnando
sul piano economico, commerciale, e logistico, favorendo lo sviluppo dei paesi.
Dal
canto loro anche gli Stati Uniti cercano di mantenere le relazioni grazie il
summit diplomatico C5+1, che si riunisce ogni anno per discutere temi non solo
di carattere economico, ma anche relativi la sicurezza (gli Stati Uniti si impegnano in
prima persona grazie alla presenza di basi militari nel territorio).
Si può
osservare dunque come nonostante la volontà iniziale dei cinque paesi ex
sovietici a mantenere rapporti con tutti i paesi, al momento sia il versante
cinese quello più conveniente con cui relazionarsi, voltando per la prima volta
le spalle alla vecchia Madre Patria, occupata sul fronte ucraino.
Probabilmente un distaccamento dalla Russia si
sarebbe raggiunto in un prossimo futuro.
Tuttavia, l’attuale conflitto ha velocizzato
tale processo senza il quale, altrimenti, i paesi centroasiatici si
ritroverebbero ancora più isolati e senza rifornimenti da Mosca.
Sicuramente,
fintanto che i paesi non riusciranno ad emergere economicamente ed essere del
tutto indipendenti, sarà difficile per loro trovarsi in una posizione
favorevole nei diversi tavoli dei negoziati.
Ciò
che suscita interesse, infine, è capire se in futuro i cinque “stan”
riusciranno a raggiungere tale indipendenza o se, al contrario, l’attuale
vicinanza con Pechino continuerà a rafforzarsi, spostando semplicemente i paesi
dall’area di influenza russa a quella cinese.
Il
“Grande gioco” di Mosca attraversa
una
fase difficile. Le paure del Cremlino.
Formiche.net
- Lorenzo Piccioli – (10-2-2025) – ci dice:
Un
documento governativo russo ottenuto dal Financial Times rivela un piano di
lungo periodo per creare un blocco eurasiatico per contrapporsi a Usa, Ue e
Cina.
Piano
che deve fare i conti con un Occidente tutt’altro che collaborativo
All’interno
della sua azione diplomatica per riavvicinare a sé i Paesi del cosiddetto
“Estero Vicino”, termine con cui si indicano gli Stati ex-sovietici, così come
in quello di rafforzare i legami politico-economici con i Paesi del Sud
Globale, il Cremlino si trova a dover fare i conti con delle pressioni
occidentali capaci di influenzare in modo sostanziale i suoi sforzi.
Il
combinato disposto delle sanzioni imposte nei confronti della Federazione Russa
in seguito all’inizio del conflitto in Ucraina e degli inviti rivolti
dall’Occidente ai Paesi in questione a rafforzare le collaborazioni economiche
sembra infatti aver suscitato apprensione nella nomenklatura moscovita, che
avrebbe discusso la questione all’interno di una riunione che ha avuto luogo
nell’aprile dell’anno scorso.
A
certificarlo è il leak di un documento governativo ottenuto dal Financial Times
utilizzato durante il meeting in questione, e presentato dal primo ministro
“Mikhail Mishustin” a diverse decine di alti funzionari governativi e dirigenti
di alto rango di alcune delle più grandi aziende statali russe, oltre che a
personalità di spicco nel mondo politico russo come” Sergei Karaganov” o
“Alexander Dugin”.
Il
documento mette in chiaro come l’obiettivo di Mosca sia quello di ripristinare
il proprio accesso alla rete commerciale globale, istituendo un blocco
commerciale eurasiatico incentrato proprio sulla Russia, allo scopo di
rivaleggiare con le sfere di influenza economica di Stati Uniti, Unione Europea
e Cina.
Questa formula permetterebbe alla Russia di
collegarsi al Sud globale, dando a ciascuna delle due parti l’accesso alle
materie prime, sviluppando legami finanziari e di trasporto e unendole
attraverso una comune “visione del mondo […] in cui scrivere regole per il
nuovo mondo [e avere] la nostra politica di sanzioni”.
La creazione di questo blocco (o
“macroregione”, come viene definita nel documento in questione) viene
considerato come un importante progetto a lungo termine, il cui orizzonte
temporale si estende ben oltre quello della questione ucraina.
Ma le
interferenze occidentali avrebbero un impatto tutt’altro che trascurabile sullo
sviluppo di questo progetto.
Basti
pensare a quanto fatto con i Paesi dell’Asia centrale, a cui è stato offerto
l’accesso ai mercati globali, ai corridoi di trasporto e alle supply chain che
aggirano Mosca, per convincerli a rispettare il regime di sanzioni imposto
contro la Russia.
Nel
frattempo, viene evidenziato nel rapporto, i Paesi più vicini a Mosca hanno
tratto profitto dalle sanzioni allontanando le imprese russe dalla loro
giurisdizione nazionale, prendendo il controllo dei flussi di importazione ed
esportazione e delocalizzando la produzione dalla Russia.
Mentre
i Paesi dell’Asia centrale più compiacenti verso il Cremlino hanno comunque
cercato di ottenere ulteriori vantaggi per compensare i rischi di violazione
delle sanzioni.
Allo
stesso tempo, il momento di relativa vulnerabilità di Mosca ha spinto alcuni di
questi attori ad avvicinarsi ad altri blocchi regionali, come ad esempio
l’Organizzazione degli Stati Turchi.
Il
rapporto afferma che la Russia dovrà impegnarsi a lungo per mantenere i Paesi
dell’Asia centrale nella sua orbita.
Mosca
dovrà stressare loro storia condivisa, rispettando allo stesso tempo la loro
indipendenza.
E ammette che “Le relazioni strette con un
Paese [come la Russia] saranno fonte di difficoltà”.
Concludendo
che i Paesi in questione dovranno “prendere una decisione sulla loro posizione
nei confronti della Russia”.
Il “grande
gioco” per
l’impero
digitale.
Avvenire.it
- Simone Paliaga – (12 ottobre 2024) – ci dice:
Altro
che cloud: i dati corrono sotto il mare.
E su essi è in corso una vera battaglia, che
può sfociare in un nuovo colonialismo. Una serie di saggi affronta il tema
Rami
Malek nella serie "Mr. Robot".
Cloud,
dematerializzazione, virtuale.
Sono
alcune delle parole chiave del fenomeno oggi riconosciuto come “transizione
digitale”.
L’orizzonte
di senso che schiudono allude a mondi eterei e intangibili.
Dati,
informazioni, siti risiedono lassù, tra le nuvole, cloud, appunto.
Ma
siamo sicuri che sia proprio così e non un errore di parallasse che adombra ben
più terrene e cruente dinamiche di potere, inedite forme di colonialismo,
scontri tra superpotenze?
Ne è
convinto “Antonio Deruda” che, in Geopolitica digitale , La competizione globale per il
controllo della Rete (Carocci, pagine 184), aiuta a riportare lo sguardo a
terra, in particolare nelle profondità marine.
È lì
che si svolge il grande gioco del mondo multipolare.
«La scelta su dove far passare un nuovo cavo
sottomarino in fibra ottica o l’identificazione di un luogo dove costruire un
importante data center – precisa – è una decisione strategica che può incidere
sul futuro di intere aree del mondo».
Ridisegnare
le mappe della geografia digitale non è un atto insignificante. Equivale a
cavalcare l’onda di un colonialismo 4.0, stabilendo le aree destinate allo
sviluppo economico e quelle che diventeranno periferia.
Senza
contare le aree destinate a rimanere preda di un colonialismo d’antan, mere
riserve di metalli rari preziosi indispensabili alla costruzione di
infrastrutture e componentistica, come i cosiddetti semiconduttori, più noti
col termine microchip.
Intelligenza
artificiale, Internet delle cose, supercomputer quantistici, 5G, realtà
virtuale e metaverso sono fenomeni che ridefiniscono nuovi rapporti e geografie
del potere, passando dal monopolio di Washington a un bipolarismo con Pechino,
senza escludere Nuova Dehli e la società di telecomunicazioni Tata
Communications e Mosca con la sua sperimentazione di un’internet sovrana, “RuNet”.
Questo
scenario è destinato a segnare, nei prossimi decenni, non solo i rapporti di
forza tra le potenze ma anche le vite di tutti i loro cittadini.
Per
maneggiare il digitale e l’intelligenza artificiale, Il nuovo fuoco (Bocconi
University Press, pagine 370), occorre dotarsi di strategie efficaci,
altrimenti se ne perde il controllo.
“Ben
Buchanan” e “Andrew Imbrie”, nello studiare guerra, pace e democrazia nell’era
dell’IA, lo sanno bene.
E ne
parlano a ragion veduta, visto che il primo è special advisor della Casa Bianca
sull’IA.
A
imprimere la recente accelerazione tecnologica, per gli autori, contano
l’aumento della potenza di calcolo, lo sviluppo di algoritmi di nuova
generazione e le messi di dati a disposizione degli algoritmi di apprendimento
necessari all’IA.
Su
questi ambiti la rivalità tra Usa e Cina si acuisce, puntando entrambe sulla
supremazia politica.
Bisogna
però, per i due autori, non perdere di vista il fattore umano, spesso
trascurato dagli analisti.
I
nuovi algoritmi rivelano opacità, distorsioni ideologiche o bug dovuti
all’inizializzazione, certo, ma spesso si scorda che «le tecnologie non sono
deterministiche, modellano e sono modellate dalle società».
Pesa
chi disegna, sviluppa e perfeziona macchine e algoritmi, orientandone l’azione.
Non a
caso si assiste, in questo ultimo periodo, a un’autentica guerra dei talenti
per attirare nelle università e nei centri di ricerca studiosi e studenti
provenienti da ogni parte del mondo.
Perché
è nell’ambito della ricerca, e prima ancora nella formazione, che si giocherà
la partita per evitare che Il nuovo fuoco, una volta acceso, divampi
incontrollato soprattutto a causa della fluidità, favorita dalle nuove
tecnologie, tra ambiti civile e militare.
Difficile
rinvenire un punto di accordo tra le potenze.
Rispetto
alla deterrenza nucleare dei tempi della Guerra Fredda, oggi, in una realtà in
evoluzione su una terra incognita, non esistono punti di riferimento stabili,
come allora era quello della distruzione atomica, intorno a cui negoziare e
accordarsi per fissare standard di ricerca condivisi.
Se
indiscusse sono le novità suscitate dalle conquiste tecnologiche, esse si
iscrivono in una storia di lungo periodo, come sottolinea a buon diritto ma con
qualche ingenuità” David Runciman” in “ Affidarsi”.
“Come
abbiamo ceduto il controllo della nostra vita a imprese, Stati e intelligenze
artificiali “(Einaudi, pagine 320).
Per lo
scienziato della politica di Cambridge, pur senza celare l’inedito dell’IA, è
da secoli che l’uomo si affida a macchine.
Lo
sarebbero Stato e imprese, macchine agenti e non intelligenti, magari, ma
sempre macchine a cui gli uomini si sono affidati per assumere decisioni che
ampie comunità non potevano adottare senza aprire faglie di conflitto al loro
interno.
Se il mondo è stato modellato in passato da
Stati e imprese, ora lo sarà dall’intelligenza artificiale.
Niente
di nuovo sotto il sole ma con il rischio di quella che lo studioso inglese
chiama «seconda singolarità» che «potrebbe rappresentare una trasformazione
biologica, se le macchine cambiassero non soltanto le nostre prospettive ma
anche le nostre capacità naturali fondamentali».
Non ci
siamo ancora, secondo “Runciman”, dal momento viviamo ancora la condizione
moderna «né semplicemente la condizione umana né quella post-umana».
Siamo
però davanti a una scelta.
Investire
sull’intelligenza, rendendo Stati e imprese più intelligenti, tenere separati
IA e l’azione di Stati e imprese oppure, terza ipotesi, fornire potere di
azione alle IA?
Ma, in tal caso, risponderebbero del loro
operato, in uno scenario in cui a confrontarsi non sarebbero solo gli Stati ma
anche Stati e imprese tra loro?
Ben
più realistica l’idea sottesa a” Tecnologie dell’Impero”, come recita il titolo
del libro di “Francesca e Luca Balestrieri” (Luiss University Press, pagine
262).
«Tutto si è digitalizzato e tutto in
prospettiva potrà intelligentizzarsi», affermano gli autori.
L’IA travolgerà tutti i comparti, dal
politico-economico al simbolico-immaginario, aprendo una discontinuità con il
passato che richiederà «un surplus di creatività istituzionale» per il
controllo dello sviluppo tecnologico.
All’attuale
disfunzionalità della politica non sfugge l’Europa, irretita in dedali
istituzionali, ma neppure gli Stati Uniti, sconvolti dall’estrema
polarizzazione, e la Cina, si cui incombono problemi di coesione interna.
In
gioco sarebbe «il labirinto del Minotauro», la rifondazione della sovranità,
per governare progettazione, coesione e competizione dei sistemi
tecno-industriali, orientare i flussi di capitali, di proprietà intellettuali e
know-how, sorvegliando le migrazioni di dati affinché alimentino i processi di
produzione interni basati sull’intelligenza artificiale.
E con
la sovranità, diciamo noi, anche la democrazia.
Scomode
verità.
Ariannaeditrice.it
- Alessandro Di Battista – (08/07/2025) – ci dice:
Alcuni
giorni fa (esattamente dal 18 al 21 giugno 2025) si è svolto a San Pietroburgo
il Forum economico internazionale.
Al
termine dei lavori Vladimir Putin ha risposto alle domande di alcuni
giornalisti stranieri.
In
particolare, un giornalista spagnolo gli ha chiesto di commentare la decisione
dei Paesi NATO (tutti tranne la Spagna) di raggiungere il 5% del Pil in spese
militari nei prossimi anni.
Per noi italiani significherebbe spendere
centinaia di miliardi di euro in più in spese per la difesa.
Ebbene,
salvo rarissime eccezioni, la risposta di Putin è stata del tutto ignorata dal
sistema mediatico italiano.
Eppure
credo che gli europei avessero e abbiano il diritto di ascoltare la sua
risposta.
Ogni
giorno ci dicono che la Russia è un nemico, una minaccia per l’Europa.
Mark
Rutte, il segretario generale della NATO, ha detto alcune settimane fa che tra
4-5 anni la Russia “potrebbe iniziare a pensare di attaccare l’Europa”.
Insomma, è opportuno conoscere il pensiero di Putin riguardo al riarmo europeo.
Ebbene,
Putin così ha risposto:
“In
Europa dicono che stiamo per attaccare la NATO. Ma che assurdità è?
Tutti
capiscono che è un’assurdità.
Stanno
ingannando le loro popolazioni per spillare soldi dai bilanci statali.
5%, 3,5%, +1,5%.
Usano
tutto questo per giustificare i fallimenti nell’economia e nel settore sociale.
Sullo sfondo di questa retorica sulla presunta aggressività immaginaria della
Russia, si comincia a parlare della necessità di armarsi.
Bene,
che si armino pure.
Riteniamo
che il riferimento all’aggressività della Russia sia assolutamente infondato.
Non siamo noi ad essere aggressivi, ma questo cosiddetto Occidente collettivo e
aggressivo”.
Magari
mentirà. Ad ogni modo Putin, quello descritto come il nuovo Hitler pronto a
invadere l’Europa occidentale o ad attaccare la NATO, ha detto che la
narrazione europea è falsa. Che i russi non hanno alcun interesse ad attaccare
un Paese dell’Alleanza Atlantica e che questa balla serve solo a togliere
denari dai bilanci degli Stati europei o NATO per farli arrivare alle grandi
fabbriche di armi (le prime 5 sono statunitensi) e ai fondi finanziari
(soprattutto USA) che sono i principali azionisti delle stesse fabbriche di
armamenti.
Ha
detto questo, e temo abbia ragione.
Inoltre
ha parlato delle spese militari della Russia e anche in questo caso ha detto
cose incredibili.
“Noi
pianifichiamo di ridurre la spesa militare, mentre la NATO di aumentarla.
Stiamo pianificando di ridurre le spese per la difesa. Per il prossimo anno,
per quello dopo ancora, e per i prossimi tre anni. Non c’è ancora un accordo
definitivo tra il ministero della Difesa, il ministero delle Finanze e il
ministero dello Sviluppo Economico, ma in generale tutti stanno pensando in
questa direzione. E l’Europa sta pensando a come aumentare le proprie spese, al
contrario”.
La
Russia oggi spende per la difesa il 6,35% del Pil. Spende dunque 172 miliardi
di dollari all’anno. In pratica spende già adesso molto meno di quanto non
spendano i Paesi UE.
In
tutto ciò, due giorni dopo queste dichiarazioni di Putin ha parlato Zelensky e
ha detto: “Putin potrebbe attaccare entro 5 anni un Paese NATO”. Non oggi, tra
5 anni. Intanto spendiamo centinaia di miliardi di euro in armi.
Vi
faccio una domanda. Alla luce di tutto questo, chi è più pericoloso per gli
interessi dei cittadini europei (soprattutto quelli italiani), la NATO o Putin?
A voi la risposta!
L'industria
e il Green Deal.
Commission.europa.com
– (02 -02 - 2024) – Redazione – ci dice:
Una
strategia industriale per un'Europa competitiva, verde e digitale.
Il
Green Deal europeo è la nuova strategia dell'UE per la crescita che mira a
trasformare l'Unione in una società giusta e prospera, dotata di un'economia
moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva che a partire
dal 2050 non genererà più emissioni nette di gas a effetto serra.
L'obiettivo
principale è sfruttare il notevole potenziale dei mercati globali in termini di
tecnologie a basse emissioni e prodotti e servizi sostenibili al fine di
conseguire la neutralità climatica entro il 2050.
Tuttavia,
per arrivare a un'economia circolare e a impatto climatico zero è necessaria la
piena mobilitazione dell'industria.
Tutte
le catene del valore industriali, compresi i settori ad alta intensità
energetica, avranno un ruolo chiave.
La
nuova strategia industriale per l'Europa guiderà la duplice transizione verde e
digitale e farà diventare l'UE ancora più competitiva a livello mondiale.
Aiuterà
l'industria a ridurre la propria impronta di carbonio fornendo soluzioni
tecnologiche pulite e a prezzi accessibili e sviluppando nuovi modelli
d'impresa.
Con la
strategia aggiornata basata sugli insegnamenti tratti dalla pandemia di
COVID-19, l'UE mira a garantire che l'industria europea possa guidare la
transizione verde e digitale accelerata.
La
Commissione europea ha adottato una serie di proposte per trasformare le
politiche dell'UE in materia di clima, energia, trasporti e fiscalità in modo
da ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il
2030 rispetto ai livelli del 1990.
Maggiori
informazioni sulla realizzazione del Green Deal europeo.
Nel
febbraio 2024 la Commissione ha adottato una strategia di gestione industriale
del carbonio dell'UE per garantire investimenti in tecnologie in grado di
catturare e stoccare in modo sostenibile il carbonio e riutilizzarlo.
Ciò è
essenziale se si auspica che l'UE consegua il suo obiettivo di neutralità
climatica entro il 2050.
La strategia definisce le modalità per
potenziare le tecnologie di cattura del carbonio a livello nazionale e dell'UE
e creare le infrastrutture necessarie per creare un mercato unico della CO2 in
Europa nei prossimi decenni.
Cosmetici
Sostenibili:
La
Rivoluzione Green.
Stilsano.it
– (7 Ottobre 2024) – Redazione – ci dice:
L’Industria
Cosmetica verso la Sostenibilità Ambientale.
L’industria
cosmetica sta vivendo una vera e propria rivoluzione green, mettendo al centro
della sua missione la riduzione delle emissioni di gas serra e l’adozione di
pratiche di produzione ecologiche.
I
cosmetici sostenibili stanno diventando un must per chi desidera prendersi cura
della propria bellezza nel pieno rispetto del nostro pianeta.
Le aziende che abbracciano questa filosofia
non solo si distinguono nel mercato, ma conquistano anche la fiducia di
consumatori sempre più sensibili alle questioni ambientali.
Ma non
è tutto: il panorama normativo si fa sempre più rigoroso e le aziende devono
stare al passo.
Il Green Deal Europeo, il piano dell’Unione
Europea per trasformare l’economia del nostro continente, punta a raggiungere
la neutralità climatica entro il 2050, mira inoltre a proteggere la
biodiversità, ad eliminare le sostanze tossiche ed a tutelare le risorse.
Questo
piano d’azione avrà un impatto sempre più significativo sulla vita dei
cittadini europei e imporrà sfide crescenti alle aziende.
La
Direttiva (UE) 2024/825, nota come “Direttiva Greenwashing”, è in vigore dal 26
marzo 2024 e ha un obiettivo chiaro:
proteggere i consumatori nella transizione
verde e combattere le pratiche ingannevoli che mascherano la vera sostenibilità
dei prodotti.
La
Direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori definisce l’elenco delle
pratiche commerciali considerate sleali e associate al greenwashing, come
l’esibizione di un marchio di sostenibilità che non sia basato su un sistema di
certificazione.
Ma
quando si parla di cosmetico sostenibile?
Un cosmetico può essere definito sostenibile
quando:
Gli
ingredienti sono naturali, biologici, biodegradabili e/o riciclati;
Gli
imballaggi sono riciclabili e/o realizzati con materiale riciclato;
La
produzione è a basso impatto ambientale;
Sono
presenti certificazioni che attestano l’impegno dell’azienda per la
sostenibilità.
Per
dimostrare l’impegno dell’azienda verso la sostenibilità ambientale, occorre
individuare i punti critici della filiera, misurando l’impatto ambientale e
fissando obiettivi di mitigazione.
Un
metodo scientifico validabile a livello internazionale è lo studio di “Carbon
Footprint di Organizzazione” (CFO), il quale permette di identificare le
attività legate all’azienda più impattanti per quanto riguarda le emissioni di
gas ad effetto serra.
Ma non
dimentichiamo il nodo centrale: il prodotto.
Per realizzare articoli con ottime performance
ambientali, la sostenibilità deve permeare ogni fase del ciclo di vita, dalla
formulazione alla distribuzione, dall’uso fino al fine vita.
Un’opportunità
straordinaria per rendere i prodotti cosmetici più green e sostenibili è
abbracciare la” filosofia dell’upcycling”.
Questa pratica innovativa trasforma scarti in
risorse preziose, portando ingredienti riciclati all’interno delle formulazioni
cosmetiche, come gli scarti dell’industria alimentare, che altrimenti
finirebbero in discarica.
Abbracciare
l’upcycling non significa solo ridurre i rifiuti, ma anche valorizzare ciò che
la natura ci offre.
Un
altro aspetto cruciale nella produzione di cosmetici è il packaging.
Per
ridurre questo impatto, ci sono soluzioni innovative e sostenibili che fanno
davvero la differenza.
Un esempio è poter ricaricare i propri
cosmetici grazie a contenitori progettati per il refill.
Questa
pratica non solo riduce i rifiuti, ma permette anche di continuare a godere dei
propri prodotti in modo più responsabile.
L’”ecodesign”
si fa strada nel settore:
prevede
la riduzione dell’impiego di alcuni imballaggi ed una scelta intelligente di
imballaggi progettati per essere facilmente riciclati.
Queste iniziative non solo semplificano la
raccolta differenziata, ma aiutano a ridurre l’impatto ambientale.
L’innovazione
sta rapidamente evolvendo, puntando a identificare sostanze biocompatibili che
non solo nutrono e proteggono la pelle, ma garantiscono anche un basso impatto
ecologico durante tutte le fasi di produzione e distribuzione.
Per
misurare l’impatto ambientale del cosmetico e del relativo packaging, lo studio
del ciclo di vita,” Life Cycle Assesment” (LCA), è lo strumento più adatto,
poiché segue un metodo scientifico certificabile.
L’obiettivo
è analizzare quali fasi del processo produttivo hanno il maggiore impatto
sull’ambiente e sulla salute, dalla produzione e dall’approvvigionamento delle
materie prime, al packaging, al trasporto, fino all’utilizzo del prodotto e al
suo impatto ambientale finale.
Le
Impronte Ambientali dei prodotti e i relativi schemi di certificazione offrono
alle aziende un’importante opportunità competitiva per comunicare il loro
impegno e le eccellenze delle loro prestazioni, evitando così il rischio di “greenwashing”.
Come
possiamo aiutarti?
La “Carbon
Footprint di Organizzazione” (CFO) è uno strumento operativo che consente la
misurazione delle emissioni climalteranti espresse in quantità di CO2
equivalente, attribuibili ai processi della tua azienda cosmetica e della tua
filiera.
“Life
Cycle Assessment” (LCA) è una metodologia analitica e sistematica che valuta
l’impronta ambientale del cosmetico lungo tutte le fasi del suo ciclo di vita,
come l’estrazione delle materie prime, la lavorazione dei materiali, l’uso e lo
scenario di fine vita (“dalla culla alla tomba”).
La “Carbon
Footprint di Prodotto” (CFP) è uno strumento operativo che consente la
misurazione delle emissioni climalteranti espresse in quantità di CO2
equivalente, attribuibili al ciclo di vita del cosmetico.
Biomateriali,
dalla moda
all’edilizia
una vera rivoluzione.
Ilsole24ore.com
- Daniela Russo – (21 maggio 2025) – ci dice:
Dalle
pelli coltivate in laboratorio ai costumi del San Carlo realizzati dalla
fermentazione di scarti della frutta. C’è una nuova filiera di aziende.
I
punti chiave:
Agricoltura
cellulare per il cuoio del futuro.
La
moda bio-based sul palco del San Carlo.
Non
solo moda.
Dalla
moda all’edilizia, passando per design e comparto medicale: la rivoluzione
green passa per i materiali, sempre più sostenibili e circolari.
Secondo
lo studio “Scaling next-gen materials in fashion: an executive guide” di
“Boston Consulting Group e Fashion for Good”, i materiali rappresentano circa
il 30% del costo del venduto nel comparto moda e, allo stesso tempo, sono
responsabili di oltre il 90% delle emissioni complessive derivanti da
estrazione, lavorazione e produzione.
I
materiali di nuova generazione, realizzati con biotecnologie avanzate e
materiali riciclati o bio-based, garantiscono alte prestazioni riducendo allo
stesso tempo l’impatto ambientale e hanno il potenziale per coprire l’8% del
mercato globale delle fibre entro il 2030, pari a 13 milioni di tonnellate,
rispetto all’1% attuale.
Secondo
l’analisi, l’adozione su larga scala di questi strumenti potrebbe ridurre il
costo del venduto fino al 4% nei prossimi cinque anni, consentendo di liberare
risorse, ma anche di rendere la “supply chain” più resiliente, riducendo
l’esposizione delle aziende del comparto a interruzioni della filiera e a
fluttuazioni dei costi delle materie prime tradizionali.
Agricoltura cellulare per il cuoio del futuro.
Nonostante
le difficoltà incontrate a causa di ostacoli economici, tecnici e operativo,
sono numerose le realtà europee che stanno lavorando per contribuire alla
trasformazione dell’industria della moda.
È il caso di “Qorium”, società biotech basata
in Olanda che sta reinventando l’industria del cuoio utilizzando l’agricoltura
cellulare per coltivare pelle di alta qualità con un impatto climatico minimo e
nessuna crudeltà sugli animali.
La
startup, nel portfolio di “Sofinnova Partners”, ha raggiunto traguardi
importanti nella produzione sostenibile di pelli coltivate in laboratorio, con
effetti diretti sulla sostenibilità ambientale:
fino
all’87% in meno di emissioni di carbonio, eliminazione delle emissioni di
metano, riduzione del 64% del consumo di acqua e di oltre il 95% di utilizzo di
terreno.
«Gran
parte dell’impatto ambientale è legato alla possibilità di evitare
l’allevamento degli animali, ma alcuni elementi riguardano le differenze nella
lavorazione, la riduzione dei rifiuti e l’eliminazione di alcune sostanze
chimiche», commenta “Joško Bobanović,” partner” Industrial Biotechnology Funds
Sofinnova Partners”.
Il
processo produttivo di Qorium consente di ottenere pelle coltivata in
laboratorio a partire da cellule di pelle animale, coltivate in un bioreattore
e poi su un substrato per formare ritagli di pelle.
L’azienda
ha riscontrato il maggiore interesse da parte dei settori della moda,
dell’abbigliamento, delle calzature, del settore automobilistico, dei trasporti
e dell’arredamento, dove la domanda di pelle di alta qualità e ad alte
prestazioni è significativa.
La
moda bio-based sul palco del San Carlo.
È
frutto della ricerca italiana ScobySkin, materiale bio-fabbricato da
microrganismi batterici a partire da scarti di frutta, nato nel laboratorio
campano Biologic, specializzato nella realizzazione di nuovi materiali e
soluzioni a partire da processi di crescita biologica.
ScobySkin è realizzato a partire da fogli di
nano-cellulosa in purezza ottenuta con un processo di fermentazione batterica
direttamente in vasche di coltura, utilizzando scarti delle produzioni
frutticole, tra cui mele, kiwi, arance, uva, albicocche, e delle industrie
conserviere.
Un
bio-materiale modellabile, sostenibile e innovativo per il design e la moda,
dotato di una struttura fibrillare tra i 50 e 100 nanometri organizzata dai
batteri in maniera tridimensionale, riproducendo il lavoro svolto dai bachi da
seta. La fermentazione permette ai micro-organismi di creare trama e ordito del
bio-film, che viene poi trattato e lavorato con tecniche di stampa green e di
taglio laser.
Il
biofilm, protagonista dei costumi e dei gioielli in scena lo scorso marzo al
Teatro San Carlo di Napoli con la Salomè di Richard Strauss, può essere
utilizzato anche in ambiti diversi: cosmetica, edilizia, biomedicale.
È il
risultato di cinque anni di ricerca e sviluppo da parte del laboratorio nato
dalla collaborazione tra “Knowledge for Business”, “TecUp” e “Medaarch”,
sostenuto tra gli altri dal Ministero del Made in Italy e dalla Regione
Campania.
Non
solo moda.
I
materiali innovativi stanno trasformando anche il volto e la produzione di
ambiti diversi dalla moda, come il medicale e l’edilizia.
Secondo le stime di “Mordor Intelligence”, il
mercato dei biomateriali raggiungerà una dimensione di 202 miliardi di dollari
nel 2025 e i 384 miliardi di dollari entro il 2030, con un Cagr del 13,69% nel
periodo di previsione (2025-2030).
Il
settore sta vivendo una trasformazione guidata dai cambiamenti demografici
globali e dalle crescenti richieste di assistenza sanitaria, che stanno creando
una domanda senza precedenti di soluzioni mediche avanzate.
Nuove
tecniche di produzione, in particolare la biostampa 3D e la nanotecnologia,
stanno consentendo lo sviluppo di soluzioni di biomateriali più sofisticate e
personalizzate.
L’integrazione di biomateriali medici
polimerici intelligenti, in grado di rispondere a parametri fisiologici e
stimoli esterni, rappresenta un progresso significativo nella medicina moderna.
Questi
materiali vengono sempre più utilizzati in applicazioni di medicina
rigenerativa, ingegneria tissutale e sistemi di somministrazione mirata di
farmaci, dimostrando lo spostamento del settore verso soluzioni sanitarie più
personalizzate.
In
questa puntata di Start parliamo dell’intenzione del Governo di congelare
l’aumento di 3 mesi dell’età pensionabile dal 2027, della decisione del
Tribunale di Roma sui Rolex contesi tra Francesco Totti...
I
materiali bio-based contribuiscono anche alla decarbonizzazione del settore
edilizio.
La
progressiva sostituzione dei materiali di origine petrolchimica con alternative
derivate da risorse organico-naturali rinnovabili sta accelerando la
trasformazione del comparto.
La produzione di cemento e calcestruzzo è
responsabile dell’8% delle emissioni globali di gas serra.
Realtà
come “Prometheus Materials” stanno investendo in ricerca e sviluppo per ridurre
questa percentuale.
La startup ha sviluppato un processo di
produzione del cemento ispirata alla formazione dei coralli e delle conchiglie
marine.
Utilizzando microalghe marine coltivate in
stagni aperti tramite fotosintesi, viene assorbita anidride carbonica, e il
calcare è prodotto attraverso la bio-mineralizzazione.
Viene poi miscelato con additivi naturali
appropriati, ottenendo un sostituto del cemento a impatto carbonico negativo.
Sicurezza
sul lavoro in agricoltura
La
carta vincente per una produzione
etica
e green.
Previdenzaagricola.it
– (6 Giugno 2022) - Giovanni Mininni, Segretario Generale Flai Cgil - Enpaia –
ci dice:
Il
tema della sicurezza nel settore agricolo, pur non rientrando tra quelli
espressamente indicati nelle politiche europee, è un elemento sotteso al nuovo
impianto programmatico Ue.
La
stessa Agenda 2030 dell’Onu pone il lavoro dignitoso tra i 17 obiettivi da
perseguire per fare dello sviluppo sostenibile la carta vincente del prossimo
futuro.
Mai
come negli ultimi anni il tema della produzione di cibo e delle ricadute in
termini ambientali che questa comporta è stato dibattuto.
Da un lato, senza dubbio, questo è stato
determinato dal risveglio delle giovani generazioni, con il movimento “Friday
for future” ed il piglio di una giovanissima leader come “Greta Thunberg”, che
hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica e della politica la
centralità dei temi ambientali e la necessità inderogabile di affrontare il
problema del cambiamento climatico e dello spreco di risorse energetiche.
Dall’altro, lo scoppio della pandemia ha messo
in evidenza la necessità di ripensare il modello di sviluppo, i mercati e le
produzioni con modalità diverse da quelle dello sfruttamento e della
globalizzazione.
Il
concorso di questi elementi ha posto alla politica in modo perentorio l’urgenza
di intervenire per ridisegnare un quadro normativo e programmatico che avesse
alla base la sostenibilità ambientale, la riduzione di emissione di gas e
sostanze nocive, la riduzione di pesticidi, la spinta verso l’utilizzo di
energie rinnovabili e pulite. Possiamo dire, quindi, che il “New Green Deal”,
la strategia “A Farm to fork” e la “PAC 2021-2027” rappresentano la risposta a
queste sollecitazioni e gli strumenti di cui l’Europa si è dotata per
affrontare queste sfide.
L’’Italia
ha declinato nel “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” le strategie europee
e le politiche necessarie al rilancio del Paese dopo la “crisi pandemica,” per
stimolare la” transizione ecologica” e favorire un” cambiamento strutturale del
sistema economico”.
Un
cambiamento in cui il carattere sociale delle misure, con il contrasto alle
disuguaglianze territoriali, di genere e tra generazioni, rappresenta un punto
qualificante e dirimente per determinare davvero una trasformazione del sistema
produttivo e, in ultima analisi, della nostra stessa società.
Il
tema della sicurezza sul lavoro in agricoltura, pur non rientrando tra quelli
espressamente indicati nelle politiche europee citate, di fatto è un elemento
sotteso a questo nuovo impianto programmatico ed è imprescindibile affinché
esso possa davvero realizzarsi.
La stessa Agenda 2030 delle Nazioni Unite pone
il lavoro dignitoso tra i 17 obiettivi da perseguire per fare dello sviluppo
sostenibile la carta vincente per il prossimo futuro.
Per
parte nostra siamo convinti che la “sostenibilità ambientale” non possa
realizzarsi in assenza di “sostenibilità sociale”, ovvero laddove non si
applicano i contratti e le condizioni di lavoro sono molto al di sotto degli
standard minimi indicati dalle leggi.
Già,
perché la sostenibilità sociale è legata indissolubilmente al lavoro di
qualità.
Prendiamo
a riferimento la Legge 199 del 2016 contro lo sfruttamento ed il caporalato:
tra gli indici di sfruttamento elencati come
indicatori della condizione dei lavoratori è esplicitamente inserito il
rispetto delle norme sulla sicurezza e l’igiene nei luoghi di lavoro.
La
Rete del lavoro agricolo di qualità, con le sue Sezioni territoriali,
rappresenta di fatto l’impalcatura attraverso cui garantire uno “standard
minimo di qualità” ai lavoratori nello svolgimento del proprio lavoro, creando
allo stesso tempo le condizioni affinché le aziende operino nella legalità e
nel rispetto delle norme.
Per
standard minimo intendiamo trasparenza nel reclutamento della manodopera
attraverso un incontro tra domanda e d’offerta di lavoro in luogo pubblico,
applicazione del contratto collettivo e dunque anche rispetto delle norme in
materia di salute e sicurezza, accesso ai servizi, trasporti, alloggi
dignitosi.
È
evidentemente impossibile che ad un lavoratore sia garantito un luogo di lavoro
sano ed un mantenimento di standard di sicurezza adeguati in assenza del
rispetto della contrattazione collettiva in agricoltura.
Dunque, in questo senso, la “mancata
estensione della Rete del lavoro agricolo di qualità” e lo scarsissimo numero
di Sezioni territoriali sino ad ora insediate – 22 con l’ultima a Caserta – non
solo sta determinando una scarsa applicazione della parte preventiva della
Legge 199 del 2016, ma è anche l’ennesima occasione mancata per affrontare il
tema della salute e sicurezza in agricoltura.
Il 29
marzo 2022 è stato firmato il “Decreto ministeriale n. 55/2022 del Ministro
del Lavoro e delle Politiche sociali”, in cui si stabilisce la ripartizione di
200 milioni di euro assegnati alle Amministrazioni locali, tramite il PNRR, per
il superamento degli insediamenti abusivi dei braccianti agricoli a favore del
recupero di soluzioni alloggiative dignitose per i lavoratori del settore
agricolo.
Ma siamo a maggio, a ridosso dell’inizio delle
campagne di raccolta, quanti di questi 200 milioni sono già operativi?
Quanti
lavoratori agricoli vedranno migliorata la loro condizione di vita e di lavoro
quest’anno?
A
questo aggiungiamo un’altra riflessione.
La
centralità del tema salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è emersa in modo
drammaticamente dirompente durate la pandemia, quando i lavoratori
dell’agricoltura e dell’industria alimentare sono divenuti essenziali perché
produttori di un bene primario come il cibo.
In quella difficilissima fase abbiamo dovuto
affrontare, per la prima volta nel nostro lavoro, anche la sfida di misurarci
con il mantenimento delle produzioni, da un lato, e la salvaguardia della
salute dei lavoratori dall’altro, mettendo in atto un nuovo modello di
organizzazione del lavoro adeguato alla situazione emergenziale.
Ne
sono nati protocolli specifici negli stabilimenti dell’industria alimentare,
che hanno tenuto in considerazione le restrizioni imposte dai decreti per il
contenimento della diffusione del virus, al fine di preservare la salute dei
lavoratori dipendenti di quelle imprese, ed hanno permesso allo stesso tempo di
proseguire l’attività lavorativa.
Più difficile è stato, invece, sottoscrivere
protocolli similari in agricoltura, dove la continuità dei processi lavorativi
è stata a volte anteposta alla salvaguardia della salute dei lavoratori:
se è
vero che il distanziamento nei campi era forse più facile, altrettanto vero è
che moltissimi lavoratori hanno continuato ad essere “invisibili” e dunque
privi anche dei più elementari dispositivi di protezione come la mascherina.
Pur
consapevoli che la stragrande maggioranza delle imprese agricole sono sane ed
operano nella legalità, non possiamo però tacere sulla presenza, non marginale,
di imprese che hanno lucrato e lucrano sulla pelle di lavoratori privati di
diritti e che, in quella specifica congiuntura, sono stati deliberatamente
messi nella condizione di lavorare rischiando il contagio e dunque la propria
salute.
La
pandemia ha accentuato, laddove già esistenti, questi processi ed il tema della
salute non ha trovato in agricoltura lo stesso diritto di cittadinanza che
invece ha avuto e continua ad avere in altri settori.
Occorre
uno forzo collettivo in tal senso, teso a favorire rapidamente anzitutto
l’istituzione delle Sezioni territoriali, ma anche una maggiore presa di
coscienza delle imprese nella opportunità offerta dall’iscrizione alla” Rete
del lavoro agricolo di qualità”.
In
questo senso, forse, andrebbe avviata una riflessione anche tra le Associazioni
datoriali, affinché si rendano maggiormente protagoniste di un’opera di “moral
persuasion” con le loro associate.
Occorre
una presa di coscienza che la sicurezza in agricoltura non è tema marginale.
Lo
dimostrano gli ultimi dati resi noti dall’INAIL per il 2021, dove ancora il
settore primario detiene il triste primato di settore tra i più esposti ad
infortuni sul lavoro mortali, complice anche la vetustà e l’inadeguatezza dei
mezzi agricoli:
il
ribaltamento del mezzo è ancora la prima causa di infortunio mortale in
agricoltura.
500
milioni di euro sono previsti nel PNRR per l’innovazione e la meccanizzazione
nel settore agricolo, a riprova dell’urgenza di affrontare il tema, e ci
auguriamo che siano resi operativi in breve tempo.
D’altra
parte la stessa PAC ha assunto una veste straordinariamente innovativa in
questo senso, con l’introduzione, grazie anche alla pressione da noi
esercitata, della condizionalità sociale come requisito fondamentale per
l’accesso agli aiuti comunitari.
Il terzo pilastro, quello della condizionalità
appunto, richiama espressamente il rispetto anche di alcune Direttive europee
incentrate sul tema della sicurezza come parametri nel calcolo delle
percentuali di riduzione dei finanziamenti ai Paesi aderenti.
La
Direttiva 89/391/CE, per esempio, che riguarda l’obbligo dei datori di lavoro
di rispettare tutte le norme su salute e sicurezza, è tra quelle indicate come
riferimento nella condizionalità sociale, solo per citarne una.
Le norme dunque ci sono, così come gli
investimenti, occorre invece che il tema sicurezza in agricoltura trovi
finalmente il suo ruolo da protagonista nell’attività quotidiana in azienda e
non venga relegato a noioso adempimento burocratico, perché ne va della vita
delle persone.
Il futuro green passa dalla sicurezza sul
lavoro in agricoltura.
Green
Deal Industrial Plan:
il
piano per l’industria verde.
Modofluido.hydac.it – (11/08/2023) -
Redazione, pubblicato in Sostenibilità d'impianto, ci dice:
Nel
corso degli ultimi anni, le principali economie globali (dagli Stati Uniti
all'India, alla Cina al Giappone) hanno avviato massicci investimenti nelle
innovazioni a impatto ambientale ridotto. Mentre ciò rappresenta indubbiamente
una notizia positiva per il nostro pianeta, al contempo esercita notevole
pressione sulla transizione ecologica dell'Unione Europea.
Per
effettuare con successo questa transizione verde a livello europeo è necessario
garantire equità sia a livello continentale che mondiale
. Ciò
implica la creazione di contesti più favorevoli allo sviluppo delle nostre
industrie, dalle tecnologie legate all'idrogeno, dalle biotecnologie alle
nanotecnologie.
Proprio
per questo motivo è stato lanciato il piano industriale all'interno del Green
Deal.
Il
Green Deal Industrial Plan mira a potenziare la competitività dell'industria
europea a emissioni nette zero, accelerando, allo stesso tempo, il percorso
verso la neutralità climatica.
Ciò
avviene attraverso la creazione di un ambiente più propizio per l'espansione
delle capacità produttive dell'Unione Europea relative alle tecnologie e ai
prodotti associati.
Questi
ultimi sono fondamentali per realizzare gli ambiziosi traguardi climatici
dell'Europa.
Che
cosa prevede il piano industriale del Green Deal europeo?
Lo approfondiamo in questo articolo, nello
specifico parliamo di:
Green
Deal europeo per un'UE climaticamente neutrale.
Green
Deal Industrial Plan: cosa prevede.
Economia
Circolare HYDAC.
Green Deal europeo per un'UE climaticamente
neutrale.
A
novembre 2019, il Parlamento ha proclamato lo stato di emergenza climatica e ha
richiesto alla Commissione europea di garantire che tutte le proposte siano in
accordo con l'obiettivo di limitare l'aumento della temperatura globale a meno
di 1,5°C, oltre a conseguire una significativa riduzione delle emissioni di gas
a effetto serra.
A
partire da questi presupposti, la Commissione ha introdotto il Green Deal
europeo, un piano strategico finalizzato a conseguire la neutralità climatica
in Europa entro il 2050.
Il 24
giugno 2021, il Parlamento europeo ha ratificato la legge sul clima dell'Unione
Europea, conferendo un'impostazione giuridicamente vincolante all'obiettivo di
ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 e di raggiungere la neutralità
climatica entro il 2050. Questa decisione colloca l'UE in una posizione sempre
più prossima al conseguimento dell'obiettivo di emissioni negative dopo il
2050, riaffermando al contempo il suo ruolo guida nella lotta globale contro il
cambiamento climatico.
Tali
provvedimenti sono volti a semplificare la trasposizione di questi obiettivi
nella sfera legislativa, portando con sé notevoli vantaggi in termini di aria,
acqua e terreni più puliti, riduzione dei costi energetici, ristrutturazione
delle abitazioni, miglioramenti nei trasporti pubblici e una proliferazione di
punti di ricarica per veicoli elettrici, riduzione dei rifiuti, promozione di
una dieta più salutare e miglioramento della salute per le attuali e future
generazioni.
La
strategia europea per sollevare gli standard globali e creare opportunità non
solo fornirà vantaggi tangibili alle imprese in queste aree, ma si prevede che
porti anche all'aumento delle opportunità lavorative. Ad esempio, settori come
le energie rinnovabili e la ricerca di soluzioni integrate per l'efficienza
energetica degli edifici potrebbero assistere a una crescita significativa di
posti di lavoro.
Green
Deal Industrial Plan: cosa prevede
L'elemento
cardine del Green Deal europeo risiede nella legislazione sul clima, che
sancisce l'obbligo, in conformità con le normative dell'Unione Europea, di
ridurre le emissioni provenienti dai settori dei trasporti, dell'industria e
dell'agricoltura.
Green
Deal Industrial Plan.
Per
consolidare il ruolo dell'Europa come centro propulsore delle innovazioni
industriali e delle tecnologie ecocompatibili, il piano industriale del Green
Deal si basa su quattro pilastri portanti:
Un
contesto normativo prevedibile e semplificato: il fondamento iniziale del piano
è centrato sull'aspetto normativo.
Il suo
obiettivo è la creazione di un quadro normativo semplificato, tempestivo e
affidabile, garantendo un adeguato approvvigionamento di materie prime e
assicurando che gli utenti possano fruire di energia rinnovabile a costi
contenuti.
Questo obiettivo è supportato da tre
iniziative specifiche: normativa sull'industria a zero emissioni nette;
normativa sulle materie prime critiche; riforma dell'assetto del mercato
dell'energia elettrica.
Un
accesso più rapido ai finanziamenti: il secondo fondamento del piano accelererà
gli investimenti e il finanziamento destinati alla produzione di tecnologie
ecocompatibili in Europa.
Inoltre,
la Commissione faciliterà l'utilizzo delle risorse finanziarie dell'Unione
Europea già esistenti, tra cui “RE Power EU”, “Invest EU” e il “Fondo per
l'Innovazione”, al fine di sostenere l'innovazione, la produzione e la
diffusione delle tecnologie ecologiche.
Parallelamente,
sarà perseguita la creazione di un Fondo per la Sovranità Europea, a fungere da
risposta strutturale a medio termine alle necessità di investimento.
Il
miglioramento delle competenze: l'imponente avanzamento delle nuove tecnologie
comporterà un considerevole incremento delle competenze e dei professionisti
qualificati all'interno del settore. Con l'obiettivo di coltivare le abilità
necessarie per guidare la transizione ecologica, la Commissione pianificherà
l'istituzione di accademie industriali a zero emissioni nette, destinate a
favorire l'implementazione di programmi finalizzati all'arricchimento delle
competenze e alla riconversione professionale nelle industrie di rilevanza
strategica.
Commercio
aperto per catene di approvvigionamento resilienti: il quarto elemento portante
si concentra sulla collaborazione globale e sul contributo del commercio al
progresso verso una transizione ecologica, rispettando i principi di equità
concorrenziale e di scambi aperti, basati sugli impegni presi con i partner
dell'Unione Europea e sulle attività dell'Organizzazione Mondiale del
Commercio.
A tale scopo, la Commissione proseguirà
nell'espansione della rete di accordi di libero scambio dell'UE e in altre
forme di cooperazione con i partner, al fine di agevolare la transizione verso
l'ecocompatibilità e tutelare il mercato unico da pratiche commerciali
scorrette.
Sebbene
il Green Deal Industrial Plan prometta una rivoluzione ecologica nell'industria
europea, ci sono sfide da affrontare. La transizione verso un'economia a basse
emissioni di carbonio richiede investimenti significativi, sia finanziari che
in termini di ricerca e innovazione. Inoltre, alcune industrie tradizionali
potrebbero incontrare difficoltà nell'adottare nuove tecnologie e cambiare i
propri processi.
Tuttavia,
questa trasformazione offre anche opportunità considerevoli. La spinta verso
l'innovazione potrebbe portare a nuove scoperte scientifiche e tecnologiche,
creando nuovi mercati e posti di lavoro. Inoltre, l'Europa potrebbe diventare
un leader mondiale nell'ambito dell'industria verde, guadagnando prestigio
internazionale e sfruttando il vantaggio competitivo derivante da un'economia
più sostenibile.
In
conclusione, questo piano ambizioso promette di creare un futuro in cui
l'industria e l'ambiente possano coesistere in armonia. Tuttavia, il successo
di questa trasformazione dipenderà dall'impegno delle istituzioni,
dell'industria e della società nel suo complesso.
LA
“DITTATURA MILITARE”
DI
BRUXELLES.
Opinione.it
- Daniele Trabucco e Aldo Rocco Vitale – (30 aprile 2025) – ci dicono:
La
“dittatura militare” di Bruxelles.
La
raccomandazione (non giuridicamente vincolante) adottata il 23 aprile 2025
dalla “Commissione Affari giuridici del Parlamento europeo” ha posto in luce
rilevanti criticità giuridiche in merito all’utilizzo dell’articolo 122,
paragrafo 1, del “Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea” (Tfue) quale
base normativa per l’istituzione dello strumento “Safe” (Security and Defence
Investment Facility), concepito come elemento centrale del piano “ReArm
Europe”.
L’oggetto
della raccomandazione non è l’intero progetto strategico volto al rafforzamento
della base industriale e tecnologica europea nel settore della difesa, bensì la
scelta della base giuridica per la sua componente finanziaria, fondata
sull’emissione di debito comune a sostegno di investimenti nel comparto
militare-industriale.
L’articolo
122, paragrafo 1, Tfue consente al Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea
di adottare, su proposta della Commissione, misure appropriate in presenza di
“gravi difficoltà” nell’approvvigionamento di determinati beni con riferimento
esplicito al settore energetico.
Si
tratta di una disposizione normativa eccezionale, che trova giustificazione in
contingenze straordinarie e imprevedibili e che si caratterizza per una
funzione eminentemente suppletiva e transitoria.
Essa
si colloca, per sua stessa natura, all’interno della categoria delle norme di
emergenza, il cui impiego presuppone una situazione di crisi acuta e l’assenza
di strumenti ordinari adeguati ad affrontarla.
Utilizzare
tale norma per introdurre un meccanismo finanziario complesso, strutturato e di
lunga durata, quale “Safe”, destinato a finanziare in modo sistemico
l’industria della difesa, appare giuridicamente forzato in quanto implica
un’interpretazione estensiva e teleologicamente deviata del testo normativo.
La
finalità dell’articolo 122, paragrafo 1, non è, infatti, quella di consentire
la creazione di politiche pubbliche permanenti, quanto di autorizzare
interventi straordinari e puntuali.
La
portata materiale della norma, inoltre, è chiaramente settoriale e limitata
alla gestione delle crisi nel mercato interno, non estendendosi alla
definizione di politiche industriali o di sicurezza.
La sua
ratio, pertanto, non può essere manipolata per sorreggere iniziative di
carattere strutturale in ambiti altamente sensibili e privi di competenza
legislativa attribuita all’Unione, come quello della difesa.
In
questo senso, l’uso della disposizione in esame risulta anche “funzionalmente
distonico”, poiché altera la coerenza sistemica del diritto primario,
distaccando la norma dalla sua funzione originaria e rendendola strumentale a
fini che eccedono il suo ambito logico e teleologico.
Come
già accaduto durante la pandemia e poi con le politiche climatiche la
Commissione Europea guidata da Ursula von der Leyen ha deciso ancora una volta
– una volta di troppo – di esercitare un potere senza, oltre e contro il
diritto, dimenticando che in un vero sistema democratico e in un reale Stato di
diritto le ragioni del diritto devono sempre prevalere sulle ragioni di
qualunque altra specie, come quella sanitaria, quella ambientale, quella
bellica.
Il
diritto ignorato o piegato alle esigenze pur emergenziali della politica è un
diritto violato e tradito, e un sistema politico e istituzionale che ignora le
inderogabili ragioni del diritto è un sistema che si oppone frontalmente e
sostanzialmente alla razionalità giuridica tipica dello Stato di diritto per
vestire i panni dell’arbitrio decisionale tipico dello Stato totalitario.
Tralasciando,
infine, la compatibilità di questo strumento con il “Trattato di Lisbona del
2007”, resta un fatto ben rilevato da” Lucano”, autore del “poema epico
Pharsalia”, che così scriveva a proposito della guerra civile tra Cesare e
Pompeo:
“Arma tenenti omnia, dat qui iusta negat.
Chi nega il diritto (le cose giuste), dà ogni
cosa a chi porta le armi”.
La
legislazione dell’Unione Europea.
Erickson.it - Luciano Rondanini – (9 febbraio
2025) – ci dice:
La
legislazione dell’Unione Europea.
Indice:
Il
quadro di riferimento.
Il
diritto primario.
Il
diritto secondario o derivato.
Gli
strumenti non vincolanti.
Il
rapporto tra l’ordinamento europeo e quello degli Stati membri.
1. Il
quadro di riferimento.
L’Unione
Europea (UE) nasce ufficialmente con il Trattato di Maastricht, firmato nella
cittadina olandese il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre del
1993.
In ordine di importanza, dopo il Trattato
dell’Unione Europea (TUE), segue il Trattato di Lisbona, iniziato come progetto
costituzionale alla fine del 2001 con la presidenza dell’UE di Romano Prodi ed
entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Quello di Lisbona viene rinominato
Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), mentre la parola
«Comunità» viene sostituita, in tutto il testo, dal termine «Unione».
Il
Trattato di Lisbona conferisce all’UE una personalità giuridica propria e, in
quanto tale, ha un ordinamento a sé stante distinto da quello internazionale.
Inoltre, il diritto UE produce un effetto diretto o indiretto sui provvedimenti
legislativi degli Stati membri ed entra a far parte del sistema giuridico di
ciascun paese.
Anche
in ambito europeo le fonti del diritto ubbidiscono a una struttura gerarchica:
esiste, cioè, un ordine verticale di atti giuridici in base al quale quelli di
livello più basso sono soggetti ai provvedimenti di un ordine superiore.
Il
vertice della gerarchia delle norme UE è ordinato dal diritto primario,
riconducibile:
ai
trattati costitutivi dell’Unione (il trattato sull’Unione europea e trattato
sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)) e i loro protocolli);
alla
Carta dei diritti fondamentali (articolo 6 del trattato sull’Unione europea);
ai
principi generali stabiliti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Seguono
gli accordi internazionali con paesi terzi o con organizzazioni internazionali.
Tali
accordi sono separati dal diritto primario e formano una categoria unica.
A un
livello inferiore, le norme sono regolate dal diritto secondario, che comprende
tutti gli atti legislativi e non adottati dalle istituzioni dell’Unione che
permettono a essa di esercitare i suoi poteri (regolamenti, direttive,
decisioni, raccomandazioni, ecc.).
In
sintesi, l’ordinamento giuridico dell’UE si articola in norme di:
diritto
primario (trattati e principi generali stabiliti dalla Corte di Giustizia
dell’UE);
diritto
secondario o derivato (conforme agli atti del diritto primario).
L'Unione
europea ha istituito un sistema completo di atti giuridici e di procedimenti,
affidando alla Corte di Giustizia dell’UE il controllo della legittimità di
tali atti.
Come
già sottolineato, i trattati e i principi generali si trovano al vertice della
gerarchia delle norme e sono considerati diritto primario.
A
seguito dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009, lo
stesso valore è riconosciuto alla Carta dei diritti fondamentali, che sancisce
i diritti individuali, civili, politici, economici e sociali delle cittadine e
dei cittadini dell’Unione europea.
Nel
1999, il Consiglio europeo ha ritenuto che fosse opportuno riunire in una Carta
i diritti fondamentali riconosciuti a livello dell’Unione, per dare loro
maggiore visibilità.
La
Carta è stata proclamata ufficialmente a Nizza nel dicembre 2000 dal Parlamento
europeo, dal Consiglio dell’Unione europea e dalla Commissione.
È
diventata giuridicamente vincolante con l’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona nel dicembre 2009, e ora ha lo stesso effetto giuridico dei trattati
dell’Unione.
Comprende
un preambolo introduttivo e 54 articoli, suddivisi in sette capi: dignità;
libertà; uguaglianza; solidarietà; cittadinanza; giustizia. L’ultimo capo, il
settimo, si occupa di disposizioni generali.
La
Corte di giustizia ha ribadito, sin dalla sua istituzione, che il diritto
dell’UE ha il primato assoluto su quello nazionale degli Stati membri, e che
ciò deve essere tenuto in considerazione dai tribunali nazionali nelle loro
decisioni.
2. Il
diritto primario.
Il
diritto dell’Unione europea (diritto comunitario) è l’insieme delle norme
giuridiche relative all’organizzazione delle istituzioni dell’Unione e ai
rapporti che essa intrattiene con gli Stati membri.
L’ordinamento
giuridico dell’UE è parte integrante della realtà politica e sociale dei Paesi
che ne fanno parte.
Sulla
base dei trattati e dei provvedimenti che l’Unione ogni anno approva, vengono
adottate molte decisioni, che concorrono in modo determinante a formare il
contesto in cui si collocano gli Stati membri e i loro cittadini.
Il
Trattato di Maastricht, firmato il 7 dicembre 1992, o Trattato sull’Unione
Europea (TUE) e il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE o
Trattato di Lisbona) vengono indicati come «diritto costituzionale europeo» e
hanno identico valore giuridico.
Gli
strumenti di cui le istituzioni europee possono avvalersi sono enumerati
nell’art. 288 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea. Si tratta dei
cosiddetti «atti tipici», in quanto predeterminati dal Trattato stesso.
In
ambito scolastico, come in altri settori, risulta sempre più urgente e
opportuna una buona conoscenza del quadro giuridico dell’UE.
Infatti, le scelte dei singoli paesi membri
dell’Unione dipendono anche dagli orientamenti impartiti dagli organismi che
fanno capo a Bruxelles e Strasburgo.
Ai
sensi dell’art. 296, 2 c. del TFUE, gli atti giuridici sono motivati e fanno
riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste e pareri
previsti dai trattati.
La motivazione è una formalità sostanziale
dell’atto, pena l’invalidità dell’atto stesso.
Gli
atti legislativi sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea
(GUUE) ed entrano in vigore alla data da essi stabilita.
Il
principio gerarchico delle fonti prevede che:
le
fonti di grado superiore non possono essere modificate da quelle di livello
inferiore;
le
fonti di grado inferiore devono rispettare quanto stabilito da quelle di grado
superiore.
Nel
caso di fonti di pari grado, prevale quella approvata nel tempo più recente.
Il
diritto primario deriva principalmente dai trattati istitutivi, in primis il
Trattato di Maastricht e il Trattato di Lisbona. In essi viene definita la
ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati membri.
Il
diritto primario (detto anche fonte primaria) comprende:
i
trattati istitutivi;
i
trattati modificativi;
i
trattati di adesione;
protocolli
allegati a tali trattati;
trattati
complementari, che apportano modifiche settoriali ai trattati istitutivi;
la
Carta dei diritti fondamentali.
I
Trattati possono essere modificati conformemente a una procedura di revisione
ordinaria o semplificata.
Nel
primo caso, il governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la
Commissione possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i
trattati con la finalità di accrescere o di ridurre le competenze attribuite
all’UE nei trattati medesimi.
La
procedura di revisione semplificata prevede che il governo di uno Stato membro,
il Parlamento europeo o la Commissione possano sottoporre al Consiglio europeo
progetti intesi a modificare in tutto o in parte le disposizioni della parte
terza del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) relative alle
politiche e azioni interne dell'Unione.
3. Il
diritto secondario o derivato.
Per
realizzare gli obiettivi stabiliti nei trattati l’Unione europea adotta diversi
tipi di atti giuridici appartenenti al diritto secondario: alcuni sono
vincolanti, altri no. Si tratta di atti tipici previsti dall’art. 288 del
Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Alcuni si applicano in
tutti i Paesi dell’UE, altri solo in alcuni di questi.
Gli
strumenti vincolanti più frequentemente utilizzati ai fini dell’assolvimento
dei compiti dei diversi organismi sopra richiamati sono i seguenti:
le
Direttive, provvedimenti legislativi che stabiliscono uno o più obiettivi a cui
lo Stato cui sono rivolte è tenuto a sottostare.
Spetta
tuttavia a ogni singola realtà definire le disposizioni di recepimento, anche
se la Direttiva deve essere inserita nell’ordinamento giuridico nazionale.
La
Direttiva vincola lo Stato membro per quanto riguarda il risultato da
raggiungere;
è compito però del singolo Stato decidere in
merito alla forma e ai mezzi per rendere efficace il contenuto della direttiva
stessa.
Con le
direttive cosiddette «dettagliate» o «particolareggiate» il contenuto delle
stesse è molto più vincolante per lo Stato che ha quindi minor libertà di
adattamento sul proprio territorio del contenuto della direttiva stessa;
i
Regolamenti, atti legislativi vincolanti, che devono essere applicati
nell’ambito dell’intera Unione europea da ciascun Stato membro. Il regolamento
ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente
applicabile negli Stati membri: ha cioè efficacia diretta senza che vi sia
necessità che lo Stato lo recepisca nel proprio ordinamento con apposito atto
normativo.
Dunque,
le norme contenute in un regolamento entrano in vigore e cominciano a produrre
direttamente i loro effetti giuridici senza bisogno di misure di recepimento da
parte degli Stati membri nel loro ordinamento giuridico interno (cosiddette
norme «self-executing»);
le
Decisioni, atti vincolanti per i destinatari ai quali il dispositivo è rivolto.
Sono
obbligatorie in tutti i loro elementi.
Gli
Stati membri sono tenuti ad adeguarsi a esse, ma non hanno libertà di
scegliere, come nel caso delle direttive, forme e mezzi di recezione, essendo
già tutto ciò contemplato nelle decisioni medesime.
Se la decisione si rivolge a singoli
individui, è direttamente efficace al pari di un atto amministrativo (ad
esempio, se la Commissione infligge con una decisione un’ammenda a un’impresa
per violazione delle regole sulla concorrenza, questa è direttamente efficace,
salvo il diritto dell’impresa al ricorso in via giurisdizionale al Tribunale
UE).
4. Gli
strumenti non vincolanti.
Le
istituzioni comunitarie, oltre agli atti dotati di efficacia vincolante,
emanano poi ulteriori atti normativi che, pur non essendo vincolanti, possono
avere importanti ricadute sulle politiche dei Paesi membri. I due strumenti
giuridici di questa tipologia giuridica più frequentemente utilizzati sono le
Raccomandazioni e i Pareri.
Le
Raccomandazioni sono provvedimenti non vincolanti con i quali il Parlamento e
il Consiglio invitano i Paesi membri a seguire determinati indirizzi. Sebbene
non abbiano conseguenze legali, possono offrire indicazioni
sull’interpretazione e sul contenuto del diritto dell’UE. Hanno il preciso
scopo di obbligare il destinatario a tenere un determinato comportamento
considerato più rispondente alle esigenze comuni.
Il
parere tende a fissare il punto di vista dell’istituzione che lo emette in
ordine a una specifica questione.
È il
caso della Raccomandazione del 22 maggio 2018, relativa alle otto competenze
chiave per l’apprendimento permanente. Essendo l’istruzione una materia di
competenza non esclusiva delle politiche dell’UE, il Parlamento e il Consiglio
emanano spesso raccomandazioni che il nostro Paese tiene in particolare
evidenza. La Commissione europea formula raccomandazioni su argomenti di ampia
portata, compresi quelli relativi alla dimensione europea dell’istruzione:
competenze chiave per l’apprendimento permanente, qualifiche professionali,
educazione nella fascia 0-6 anni, integrazione degli alunni con disabilità,
ecc. Anche il Parlamento europeo, il Consiglio e la Banca centrale europea
emettono raccomandazioni.
I
Pareri sono dispositivi che consentono alle istituzioni comunitarie di
manifestare orientamenti senza imporre obblighi per i destinatari; il parere
tende a fissare il punto di vista dell’istituzione che lo emette in ordine a
una specifica questione.
In
sintesi, le Raccomandazioni e i Pareri sono atti non vincolanti che possono
essere adottati da tutte le istituzioni comunitarie, anche se un ruolo
preminente in materia è attribuito alla Commissione. Le due fonti non sono
facilmente distinguibili tra loro. In linea generale, mentre le Raccomandazioni
sono normalmente dirette agli Stati membri e contengono l’invito a conformarsi
a un certo comportamento, i Pareri costituiscono l’atto con cui le stesse
istituzioni comunitarie fanno conoscere il loro punto di vista su di una
determinata materia.
Le
istituzioni dell’Unione emanano inoltre:
le
Strategie, programmi a lungo termine, come la Strategia Europa 2020 nella quale
si afferma che l’Europa deve promuovere una crescita intelligente, sostenibile
e inclusiva;
le
Comunicazioni: la necessità di una comunicazione efficace ha la sua base
giuridica nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che
assicura a tutti i cittadini di essere informati circa le problematiche
relative alle scelte dell’Unione. La Carta, come già sottolineato, è stata resa
vincolante dal Trattato di Lisbona e ha lo stesso valore giuridico dei
trattati. L’UE ha la responsabilità di comunicare le proprie decisioni e
attività ai cittadini dell'Unione e alle altre parti interessate.
5. Il
rapporto tra l’ordinamento europeo e quello degli Stati membri
La
dimensione costituzionale dei rapporti tra ordinamento europeo e quello degli
Stati nazionali è riconducibile all’affermazione del principio della primauté
(primato) del diritto comunitario. Il principio del primato (definito anche
«preminenza» o «supremazia») del diritto dell’Unione si basa sull’idea che, ove
insorga un conflitto tra un aspetto del diritto dell’Unione e un aspetto del
diritto di uno Stato membro (diritto nazionale), prevale il diritto
dell’Unione. Se così non fosse, gli Stati membri potrebbero semplicemente
consentire al loro diritto nazionale di avere la precedenza sul diritto
primario o derivato dell’Unione e il perseguimento delle politiche dell’Unione
diverrebbe impraticabile.
Nei
decenni la supremazia del diritto comunitario formulata dalla Corte di
giustizia europea, fin dalla sua istituzione nel 1952, si è andata via via
rafforzando, anche se tale cammino è risultato tutt’altro che agevole.
Infatti,
benché i Trattati fondativi non avessero esplicitamente affrontato tale
problematica, la Corte di giustizia europea non ebbe esitazioni a dichiarare la
supremazia del diritto comunitario su tutto il diritto nazionale, compreso
quello di rango costituzionale.
A
questo proposito si precisa che la normativa comunitaria entra a far parte del
nostro ordinamento sulla base di quanto affermato nell’art. 11 della
Costituzione, nel quale, dopo l’affermazione che «l’Italia ripudia la guerra
come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», si sottolinea quanto
segue:
l’Italia
consente, in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a
tale scopo.
Lo
stesso principio è ribadito anche nell’art. 117 della Costituzione (che risale
al 2001), nel quale si afferma:
la
potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali.
Dunque, la natura sovra ordinante del diritto
europeo esige che nessuno Stato membro possa addurre ragioni di ordine interno,
per giustificare il proprio inadempimento a un obbligo comunitario.
Questo
principio suscitò inizialmente non poche reazioni da parte delle Corti
nazionali, compresa la nostra Corte costituzionale, il massimo organo di
garanzia costituzionale, prevista dalla Carta del 1948, ma attuata solo nel
1956 per una serie di dubbi da parte di diversi membri dell’Assemblea
costituente.
In
ogni caso, le limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 della
Costituzione non possono comportare per gli organi comunitari il potere di
violare «i princípi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato».
Per
effetto dell’adesione del nostro Paese alla Comunità Europea prima e all’Unione
Europea poi, il sistema giuridico italiano si compone quindi di norme derivanti
da fonti del diritto italiano e di disposizioni derivanti da fonti del diritto
comunitario (in special modo gli atti vincolanti, cioè i regolamenti, le
direttive e le decisioni).
Sul
punto è più volte intervenuta la nostra Corte Costituzionale, la quale ha
affermato la prevalenza delle disposizioni di diritto comunitario su quelle
incompatibili di diritto nazionale, e la necessaria disapplicazione da parte
del giudice della fonte interna contrastante.
Il
primato del diritto dell’UE sul diritto degli Stati membri è stato ribadito
anche dalla sentenza del Giudice europeo dell’11 gennaio 2024 su una questione
posta dalla Corte di Budapest, in cui si riafferma che tutte le istituzioni
degli Stati membri sono tenute a dare pieno effetto alle norme dell’Unione.
Ne
discende che, in forza del principio del primato del diritto dell’UE, il fatto
che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di
rango costituzionale, non può pregiudicare l’unità e l’efficacia del diritto
dell’Unione medesima.
In
ogni caso, va sottolineato che, nel rapporto tra norme europee e norme
nazionali, soprattutto con riferimento alle Costituzioni degli Stati membri,
nella Carta di Nizza (2000), che declina e tutela i diritti fondamentali dei
cittadini appartenenti all’Unione europea, si afferma che:
nessuna
disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o
lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel
rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell'Unione, dal diritto
internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l'Unione o tutti
gli Stati membri sono parti.
La
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea costituisce uno strumento
moderno e completo del diritto dell'Unione che promuove i diritti e le libertà
delle persone di fronte ai cambiamenti nella società, al progresso sociale e
agli sviluppi scientifici e tecnologici.
Ursula
von der Leyen, l’aristocratica incompetente che ha affondato la Bundeswehr tra
scandali e sprechi. Il Parlamento Europeo la rimuova prima che porti alla
rovina anche la UE (A.T.).
Farodiroma.it – Aurelio Tarquini - Redazione –
(08/05/2025) – ci dice:
Ursula
von der Leyen, oggi presidente della Commissione europea, non è solo una figura
politica controversa per la sua gestione fallimentare e corrotta della Difesa
tedesca, ma si sta rivelando un pericolo concreto per l’Unione Europea.
La sua
spinta guerrafondaia nel sostenere senza tregua il conflitto in Ucraina, con un
riarmo massiccio e una politica di escalation, rischia di trascinare l’Europa
in una guerra senza fine con la Russia.
Parallelamente,
lo scandalo delle consulenze opache e degli sprechi milionari ai tempi del
ministero della Difesa getta un’ombra pesante sulla sua credibilità e
integrità. In questo quadro, von der Leyen appare non solo incapace e corrotta,
ma anche un elemento di instabilità che mette a rischio la sicurezza e l’unità
dell’UE.
Rinfreschiamoci
la memoria sulla sua catastrofica e corrotta gestione del Ministero della
Difesa.
Ursula
von der Leyen, ministra della Difesa tedesca dal 2013 al 2019, lascia dietro di
sé un’eredità di caos, scandali e fallimenti clamorosi che hanno segnato uno
dei periodi più bui nella storia recente della Bundeswehr.
Lungi
dall’essere una riformatrice efficace, von der Leyen si è rivelata un’incapace
amministratrice, più attenta alla propria immagine politica che a risolvere i
problemi strutturali dell’esercito tedesco. Il suo mandato è stato
contrassegnato da scontri aspri con i vertici militari, scandali di corruzione,
sprechi milionari e una gestione disastrosa che ha messo a rischio la sicurezza
nazionale.
Lo
scandalo dei militari filonazisti: un fallimento nella gestione interna.
Nel
2017-2018 esplose uno scandalo che avrebbe dovuto scuotere le fondamenta della
Bundeswehr: la scoperta di militari con simpatie neonaziste e ideologie
estremiste all’interno delle forze armate. Von der Leyen, invece di affrontare
la questione con fermezza e trasparenza, si limitò ad accusare i vertici
militari di “debolezza”, scatenando un conflitto che non portò a soluzioni
concrete ma solo a tensioni e divisioni interne.
La
ministra dimostrò così la sua incapacità di gestire una crisi delicata,
preferendo lo scontro mediatico alla costruzione di una strategia efficace per
bonificare l’esercito da queste infiltrazioni pericolose. Questo episodio è
emblematico della sua gestione superficiale e politicizzata della Difesa.
Riforme
fallimentari tra burocrazia e disorganizzazione.
Von
der Leyen si presentò come la paladina della modernizzazione della Bundeswehr,
promettendo investimenti faraonici e un aumento del personale.
Ma
dietro le promesse si celava una realtà ben diversa: ritardi cronici, sprechi e
una burocrazia paralizzante che hanno fatto naufragare ogni tentativo di
riforma.
Sotto
la sua guida, la Bundeswehr ha continuato a mostrare problemi operativi
gravissimi: aerei e elicotteri spesso non erano utilizzabili, la marina era
praticamente ferma e la preparazione dei soldati lasciava molto a desiderare.
Le sue politiche, come l’apertura delle forze
armate a cittadini stranieri dell’UE, furono accolte con scetticismo e
critiche, rivelando una visione poco realistica e poco attenta alle esigenze
concrete dell’esercito.
Lo
scandalo delle consulenze esterne: sprechi e nepotismo.
Il
vero simbolo del disastro von der Leyen è lo scandalo delle consulenze esterne,
che ha travolto il ministero della Difesa con una spesa folle di oltre 155
milioni di euro in contratti affidati in modo opaco e poco trasparente.
Decine
di milioni di euro sono stati spesi in consulenze inutili o gonfiate, con
accuse di favoritismi e nepotismo che hanno coinvolto anche ex manager di
società come McKinsey.
La
Corte dei Conti federale ha denunciato l’esplosione dei costi e la mancanza di
controlli efficaci, mentre la commissione d’inchiesta del Bundestag ha accusato
von der Leyen di essere corresponsabile e di aver ostacolato le indagini.
Nonostante
le ammissioni di “errori”, la sua gestione è stata definita un “totale
fallimento” da più parti, con critiche trasversali che hanno travolto la sua
immagine pubblica.
Crisi
di leadership e isolamento politico.
Il
progressivo indebolimento di von der Leyen al ministero della Difesa è stato
evidente negli ultimi anni del suo mandato. Critiche dure sono arrivate non
solo dall’opposizione, ma anche da alleati politici e persino dai suoi stessi
colleghi di partito. L’accusa principale è stata quella di una leadership
debole, incapace di affrontare con decisione i problemi e di guidare una vera
trasformazione.
La sua
nomina a presidente della Commissione europea, più che un riconoscimento di
meriti, è stata vista da molti come una mossa per allontanarla da Berlino,
lasciando dietro di sé un ministero in rovina e un esercito ancora fragile e
mal preparato.
Il
bilancio di Ursula von der Leyen come ministra della Difesa tedesca è un quadro
desolante di incapacità, scandali e scontri inutili.
La sua
gestione ha aggravato i problemi della Bundeswehr, trasformando un ministero
chiave in un terreno di sprechi e inefficienze. Gli scandali delle consulenze,
la gestione superficiale delle infiltrazioni neonaziste e la mancanza di
risultati concreti nelle riforme hanno segnato un fallimento politico e
amministrativo che pesa ancora oggi sulla Germania.
Più
che una riformatrice, von der Leyen si è dimostrata un simbolo di
un’aristocrazia politica incapace di governare con competenza e trasparenza un
settore cruciale per la sicurezza nazionale. Il suo passaggio alla Commissione
europea non cancella però il pesante fardello lasciato alla difesa tedesca, che
ancora oggi paga il prezzo delle sue scelte sbagliate. Al contrario la sua
nuova posizione di potere favorisce tutte le sue caratteristiche negative. Il
rischio per i cittadini europei è enorme. Il suo incarico a Presidente della
Commissione Europea rischia di aggravare la già precaria situazione della UE
facendola fallire come ha fatto per il Bundeswehr.
Visto
che i 447 milioni di cittadini europei non hanno alcun potere di rimuovere il
presidente della Commissione Europea manco eletto da loro, spetta al parlamento
europeo votare la sfiducia e rimuoverla dall’incarico.
La mancata azione equivalera’ ad una
conclamata complicità e alla divisione delle pesanti responsabilità verso i
cittadini, la Democrazia e la Pace.
(Aurelio
Tarquini).
La
"lealtà politica" è un concetto senza senso.
Unz.com
- Andrew Anglin – (9 luglio 2025) – ci dice:
Dall'inizio
della carriera politica di Donald Trump nel 2015, "Make America Great
Again" (MAGA) è stato più di uno slogan, ma piuttosto un concetto che
incarna una serie di principi semplici e facilmente comprensibili sui problemi
che l'America deve affrontare e sulle soluzioni a questi problemi.
Il
MAGA non è mai stato una serie specifica di proposte politiche, poiché era
inteso come qualcosa di più grande di qualsiasi politica specifica.
Era la
visione di una nuova America.
Anche
se a corto di dettagli, la visione era chiara: l'attuale establishment aveva
sprecato la ricchezza dell'America in guerre all'estero e agende di ingegneria
sociale interna che avevano svuotato la nazione.
Anche
se non era teocratico o puritano o altrimenti moralizzante, si opponeva a
"cose strane" che cercavano di minare quelli che erano
tradizionalmente considerati "valori americani", ed era contro
l'immigrazione e contro la guerra.
Ancora
una volta, non è mai stato specifico, ma tutti hanno sicuramente capito questi
tre principali capisaldi del programma.
(Era anche "anti-corruzione", anche
se poiché nessuno è efficace "pro-corruzione", questa non è una
posizione particolarmente significativa da prendere).
Durante
il suo primo mandato, Trump non è riuscito a fare molto MAGA, ma è stato
generalmente capito che stava cercando di farlo, ma che il presidente
semplicemente non ha molto potere in America. Tuttavia, in questi primi mesi
del suo secondo mandato, Trump non sta semplicemente fallendo nel vivere
all'altezza degli ideali del MAGA, ma sta tentando di confondere completamente
il significato del termine, tentando di convincere i suoi seguaci che
"MAGA" non è mai stato davvero quello che pensavano che fosse.
In una
serie di dichiarazioni che ricordano la famigerata pronuncia di Anthony Fauci
secondo cui "Io sono la scienza", Trump ha recentemente affermato che
"Io sono MAGA" e che è lui a decidere cosa è o non è MAGA, e
qualunque nuova politica decida non deve necessariamente avere alcuna relazione
con quella che in precedenza era intesa come la piattaforma politica MAGA.
Quello
che sta effettivamente dicendo è che il suo movimento politico è sempre stato
solo su di lui come persona, e che chiunque abbia mai sostenuto MAGA lo stava
sostenendo come persona.
Pertanto,
chiunque non sia d'accordo con la sua serie di politiche totalmente nuove che
ha sviluppato nelle ultime settimane, la maggior parte delle quali sono
l'opposto di come il MAGA era stato precedentemente definito, non è in realtà
un credente nel MAGA, perché il MAGA non è mai stato una serie di politiche, ma
piuttosto un'espressione di lealtà a Donald Trump personalmente, e un impegno a
sostenere qualsiasi cosa decida di fare in qualsiasi momento.
Questa
situazione è particolarmente evidente nel modo in cui Trump ha trattato il
deputato Thomas Massie, che è, a mio avviso, il portavoce del programma MAGA,
così come è stato inizialmente introdotto da Trump nel 2015.
Trump ha definito Massie un traditore e ha
giurato di distruggerlo. È evidente a tutti che Massie non ha cambiato alcuna
posizione su nulla.
Nel
più recente tradimento degli ideali che sono stati venduti come rappresentanti
del MAGA, Donald Trump ha deciso di voler continuare la guerra senza fine in
Ucraina. Durante l'incontro con il suo gestore e padrone terrestre Bibi
Netanyahu questa settimana, Trump ha dichiarato che non c'è alcun piano per
tagliare i finanziamenti all'Ucraina, e che in realtà prevede di aumentare le
spedizioni di armi.
Anche
se non è del tutto chiaro cosa sia successo, sembra che la scorsa settimana
Pete Hegseth abbia interrotto le spedizioni di armi all'Ucraina. Durante
l'interrogatorio di fronte al suo capo, Trump ha affermato di non sapere chi
fosse responsabile dell'annullamento di queste spedizioni di armi e ha chiesto
ai media di dirgli chi l'ha fatto. (Hegseth era seduto direttamente alla sua
sinistra.) Ha poi dichiarato un aumento pianificato delle armi.
A
seguito di queste dichiarazioni, il comitato editoriale del Washington Post si
è affrettato a sostenere Trump, pubblicando un editoriale che elogiava il suo
sostegno all'Ucraina.
Non
suppongo che chiunque abbia votato per Trump in una qualsiasi delle sue tre
elezioni si aspettasse che il comitato editoriale del WaPo sarebbe diventato il
portabandiera del MAGA, ma a quanto pare è esattamente quello che è successo.
Trump
aveva precedentemente affermato che coinvolgere gli Stati Uniti nella guerra di
Israele con l'Iran era in realtà in realtà in linea con la politica MAGA, che
era esplicitamente contro la guerra, perché in realtà non stava facendo una
guerra, stava solo facendo un bombardamento.
In
un’altra tradizione, l'AG di Trump, Pam Bimbo, ha affermato che in realtà non
esiste un elenco di clienti di Epstein. Non so cosa significa e nessuno l'ha
spiegato, ma l'implicazione apparentemente è che Epstein non aveva clienti, e o
nessuna donna è stata trafficata, o non sono state trafficate a nessuno.
Anche
se forse è un'offesa un po' minore all'agenda MAGA, che non è mai stata
particolarmente focalizzata sulla responsabilità fiscale, questa settimana
Trump si è anche mosso per far esplodere il debito nazionale con la più grande
spesa della storia americana.
La cosa più notevole di questo è che ha
enormemente ampliato la spesa militare ai livelli più alti di sempre, poche
settimane dopo aver affermato che avrebbe tentato di dimezzare il bilancio
militare.
Sebbene
la "responsabilità fiscale" possa essere leggermente al di là della
portata intellettuale del MAGA, che non è mai stato particolarmente
sofisticato, "smetteremo di sprecare soldi in guerre all'estero e li
spenderemo qui in patria, dove il nostro Paese sta cadendo a pezzi" è
sicuramente qualcosa che tutti noi abbiamo compreso essere fondamentale per la
dottrina del MAGA. Ora, poiché il MAGA è stato ridefinito a partire da una
serie di principi su come l'America dovrebbe essere trattata "qualunque
cosa dica Donald Trump in qualsiasi momento si trovi a parlare", la
continuazione della guerra in Ucraina, i bombardamenti di paesi per conto di
Israele e la spesa di più soldi di sempre per la guerra, rientrano tutti nella
definizione di "MAGA".
Una
prova dei limiti della "lealtà politica."
La
"lealtà" è una qualità che dovrebbe essere esplicitamente riservata
alle relazioni personali. Un uomo dovrebbe essere leale alla sua famiglia. La
lealtà verso una figura politica o un movimento politico non dovrebbe essere
possibile, poiché non serve a nulla.
Essere
leali a qualcuno significa stargli accanto, che abbia ragione o torto. Il
motivo per cui siamo leali alle nostre famiglie è che abbiamo bisogno che lo
siano anche a noi, perché è così che gli esseri umani sopravvivono. Se le
persone abbandonassero i propri familiari perché sbagliano su qualcosa, saremmo
tutti completamente soli. Dobbiamo accettare il bene e il male con i nostri
familiari, perché abbiamo bisogno di loro.
La
lealtà ha senso anche nelle unità militari. Potrebbe avere senso nel contesto
di varie relazioni commerciali. E ci sono, ne sono certo, altri esempi in cui
la qualità comportamentale della lealtà sarebbe o potrebbe essere appropriata.
Un
posto in cui la lealtà non è appropriata è la politica. Essere
"leali" a una figura politica non ha senso. L'unica ragione per cui
una persona sosterrebbe qualsiasi figura politica è che quella figura politica
sta facendo cose politiche con cui è d'accordo e che aiuta loro e la loro
agenda personale.
Non
c'è posto per la lealtà a una figura politica, poiché non si conosce
personalmente la figura politica, e quindi non si deve fedeltà personale.
Non
c'è alcuna reciprocità.
O la figura politica sta promuovendo un'agenda
con cui sei d'accordo, e quindi ti unisci per loro e li difendi perché ne trai
beneficio, o stanno facendo qualcosa di diverso, di cui tu non trai beneficio,
nel qual caso non gli devi nulla.
Ciò
che Trump ha fatto con intenzione è formare una sorta di culto della
personalità, in cui le persone sentono di conoscerlo, e quindi gli devono una
sorta di lealtà personale al di fuori del suo ruolo di decisore politico.
Questo è qualcosa che è davvero possibile solo
nell'era dei media elettronici.
La maggior parte delle persone vede Donald
Trump parlare quasi ogni giorno, e il loro subconscio, che non ha familiarità
con la natura degli schermi video, lo registra come qualcuno che conosce
personalmente e con cui escono regolarmente socialmente.
Una persona del genere sarebbe il tipo di
persona a cui dovrebbe una lealtà personale ei cui errori trascureresti, almeno
fino al punto in cui sono completamente fuori controllo.
Vedremo
i limiti del culto della personalità della "lealtà" messi alla prova.
Chiaramente,
il culto della personalità non è considerato ferreo, come lo sarebbe con
qualcuno come Jim Jones, poiché si capisce che c'è bisogno di distrazioni.
Questa
settimana, Trump sta insabbiando la serie di tradimenti con un "circo
della crudeltà" in stile romanico, mandando gli immigrati in gabbie in una
palude di alligatori.
I media che sostengono Trump diranno "sì,
quindi immagino che non ci sia mai stata una lista di Epstein, e sì, a quanto
pare continueremo a fare quella guerra in Ucraina per sempre – ora torniamo
alla scena della fossa degli alligatori, dove i vostri nemici tribali, gli
immigrati, verranno dati in pasto a grosse e disgustose lucertole".
Continueranno
a distrarsi con le loro distrazioni da circo, ne sono certo.
Ma
alla fine, ci sarà una rigida equazione matematica su quante persone saranno
disposte a ignorare il fatto che Trump sta abbandonando gran parte del nucleo
del suo programma, non solo non riuscendo a fare ciò che aveva promesso di
fare, ma dicendo alla gente che comunque non gliene è mai importato veramente.
Vale
la pena ricordare che le persone continueranno a sostenere una figura politica
che fallisce se sentono che sta facendo del suo meglio, motivo per cui Trump è
rimasto così popolare dopo non aver fatto molto la prima volta che è stato
presidente.
Ma
questa volta, sembra che sta tentando di cambiare completamente le sue priorità
dichiarate.
Questa
settimana ha detto "dobbiamo difendere l'Ucraina". Questo è l'esatto
opposto di ciò su cui ha fatto campagna elettorale quando ha detto che
"non è nostra responsabilità difendere l'Ucraina".
Questo
è diverso da "mi dispiace, non riesco a capire come convincere il
Congresso a smettere di finanziare l'Ucraina" o "Non riesco a capire
cosa dovrei fare per porre fine a questa guerra, tutta questa faccenda è
davvero confusa e non so cosa fare".
Quello che voglio dire è: il fallimento è
diverso dal tradimento, e mentre il fallimento è tollerabile, il tradimento non
dovrebbe essere tollerabile.
Nel
caso di "in realtà, non c'è mai stata una lista di clienti di
Epstein", si tratta solo di un'ovvia menzogna, che rientrerebbe nella
categoria del "tradimento", a meno che una persona non sia abbastanza
stupida da credere che Ghislaine Maxwell sia stata condannata per traffico
sessuale di ragazze minorenni a nessuno, cosa che alcuni sostenitori di Trump
sono probabilmente abbastanza stupidi da credere, anche se non posso dirlo con
certezza.
Purtroppo:
la democrazia.
Fortunatamente
per Donald Trump e i suoi dirigenti, e sfortunatamente per tutte le persone in
America, vivono in una democrazia, e quindi è possibile che nessuna persona
sostenga Donald Trump, e che lui rimanga presidente, e continui a fare
qualsiasi cosa si senta di fare in un dato momento.
Ci
sono probabilmente alcune ragioni per cui il sostegno politico è importante in
una democrazia, ma non riesco a pensare a quali possano essere.
Trump
sembra preoccuparsi personalmente del sostegno popolare, perché sembra avere un
ego piuttosto fragile che si nutre del sostegno popolare, e se la gente lo
fischia, sembra che questo lo ferisca.
Ma in
definitiva, poiché questa è una democrazia e quindi non esiste un meccanismo
attraverso il quale il pubblico possa presentare petizioni, può fare ciò che
vuole finché rimane in carica, e l'opinione di nessuno su ciò che fa non ha
alcun significato.
Detto
questo, Trump probabilmente manterrà una base di fanatici idioti che non sanno
molto di quello che sta succedendo, ma sono molto eccitati dagli alligatori.
E
naturalmente, i sondaggi pubblicati possono dire quello che vogliono.
Poi,
dopo aver fatto quello che ha intenzione di fare, può cedere il governo a Gavin
Newsom o ad AOC, e loro possono essere popolari per un po' dopo aver dichiarato
di voler fare qualcosa, e poi diventare impopolari dopo aver fatto qualcosa di
diverso da ciò che avevano promesso.
E
continueremo così finché, alla fine, qualcosa cederà, l'impero americano cadrà
nel caos, e finalmente accadrà qualcosa.
Commenti
Posta un commento