Il robot e l’uomo.

 

Il robot e l’uomo.

 

 

 

Robot intelligenti e “umani”:

presente e futuro della biorobotica.

Agendadigitale.eu – (28 aprile 2025) – Paolo Dario – ci dice:

 

(Paolo Dario - Direttore Scientifico di ARTES 4.0 e Professore Emerito della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa).

 

Cultura e società digitali.

La biorobotica unisce biologia e robotica per creare tecnologie che supportano l’umanità.

Dai robot chirurgici alle protesi intelligenti, questa disciplina rivoluzionaria sviluppa soluzioni concrete per la salute, l’assistenza e la tutela dell’ambiente.

La biorobotica rappresenta oggi il ponte tra l’ingegneria robotica e le scienze della vita, un campo rivoluzionario che va ben oltre le visioni fantascientifiche per offrire soluzioni concrete alle sfide dell’umanità.

Attraverso lo studio e l’imitazione dei sistemi biologici, questa disciplina sviluppa tecnologie che non sostituiscono l’uomo, ma lo supportano e potenziano, dall’assistenza medica alla tutela ambientale.

L’opinione pubblica della quarta rivoluzione industriale teme che i robot possano sostituire le persone.

Ma mentre l’intelligenza artificiale è sempre più mainstream e sembra invadere qualunque nostra percezione sulla tecnologia, io credo che l’intelligenza debba andare alla fisicità delle macchine, e che queste possano essere concretamente di supporto e aiuto alle esigenze dell’umanità e dell’ambiente.

Indice degli argomenti:

Origine e significato della biorobotica.

La nascita e l’affermazione della biorobotica.

Gli approcci della biorobotica: bio-ispirazione e bio-applicazione.

Biorobotica e intelligenza artificiale: l’importanza della fisicità.

Le applicazioni della biorobotica per l’umanità e l’ambiente.

Le sfide future della biorobotica.

La biorobotica nel prossimo futuro.

La biorobotica per migliorare la vita quotidiana.

Origine e significato della biorobotica.

L’ambizione di realizzare creature artificiali intelligenti simili a ciò che è umano, gli “umanoidi”, appartiene in qualche modo al confine tra scienza e fantascienza che, se da una parte ha arricchito il nostro immaginario e la creatività di artisti, registi e scrittori e scrittrici, dall’altra ha stimolato le sfide dell’ingegneria e della ricerca consentendo il passaggio dalle tecno-utopie al post-umano che tanto “post” non è più:

 i robot sono già tra noi, nella nostra vita quotidiana, compagni alleati tra specie umana e macchine intelligenti per affrontare insieme le grandi sfide della conoscenza, della dignità e della difesa del pianeta, del supporto alla vita delle persone.

 Non a caso coniammo il termine “biorobotica”, dove il prefisso “bio” rappresenta la necessaria attenzione a questi aspetti.

La nascita e l’affermazione della biorobotica.

Quando iniziammo a parlare di biorobotica, circa quarant’anni fa, sembrava un concetto quasi visionario.

Oggi invece è diventata una scienza pienamente affermata, capace di incidere profondamente sulla nostra vita, sulle tecnologie che utilizziamo, sulla salute e sulla comprensione stessa del funzionamento del corpo umano.

Personalmente ho avuto l’onore e la fortuna di contribuire alla nascita di questa disciplina, convinto sin da subito che la robotica potesse e dovesse diventare non solo una tecnologia applicata all’industria, ma un campo scientifico in grado di dialogare con la biologia, la medicina, le neuroscienze, l’ambiente.

 

Nei primi anni Ottanta provammo ad applicare la robotica alla soluzione delle esigenze di salute delle persone:

 a quel tempo, parlare di robot applicati al corpo umano suscitava diffidenza, a volte persino ironia.

Eppure, nel 1989 contribuimmo a organizzare uno dei primi convegni internazionali dedicati al tema.

 Era una scommessa culturale e scientifica.

La fondazione dell’”Istituto di Bio-Robotica della Scuola Superiore Sant’Anna” ha rappresentato il coronamento di un percorso iniziato con pochi allievi, oggi più di 300 tra ricercatori, docenti e colleghi.

Oggi l’Istituto è riconosciuto a livello mondiale come uno dei centri d’eccellenza nel settore ed una delle più grandi scuole di dottorato al mondo.

 

Gli approcci della biorobotica: bio-ispirazione e bio-applicazione.

All’inizio, persino usare la parola biorobotica era considerato eccessivo.

Ma io ero e resto convinto che servisse una massa critica di scienziati/e ed ingegneri/e per esplorare un territorio nuovo, in cui biologia e ingegneria potessero convergere.

Abbiamo sviluppato la distinzione tra bio-ispirazione, ovvero osservare la natura per imitarla, e bio-applicazione, cioè usare la robotica per risolvere problemi concreti in medicina e riabilitazione.

 

Con la biorobotica abbiamo progressivamente dato concretezza a concetti che sembravano destinati alla fantascienza:

 la chirurgia robotica, le protesi intelligenti, i robot collaborativi capaci di condividere spazi e compiti con l’uomo.

Oggi è normale parlare di robot in sala operatoria.

 Ma negli anni Ottanta solo ipotizzarlo appariva folle.

 Eppure, siamo riusciti a trasformare quel sogno in realtà, sviluppando successivamente altri ambiti, fino al punto in cui la robotica ha iniziato a uscire dalle fabbriche e ad affiancare l’essere umano in compiti sempre più raffinati e delicati.

Biorobotica e intelligenza artificiale: l’importanza della fisicità.

In questo processo, anche l’intelligenza artificiale ha giocato un ruolo importante, ma non sempre determinante.

Abbiamo assistito a fasi alterne di entusiasmo e disillusione: le reti neurali, la mancanza di dati, i limiti computazionali.

Oggi, grazie alla diffusione di smartphone e sensori, l’AI ha conosciuto una nuova stagione.

 Tuttavia, la vera sfida rimane la fisicità, la capacità di replicare la grazia di un gatto, l’equilibrio del corpo umano, l’armonia del gesto.

 

Le applicazioni della biorobotica per l’umanità e l’ambiente.

La nostra ricerca guarda in due direzioni:

capire come funziona il mondo vivente – animali, piante, esseri umani – e progettare soluzioni tecnologiche per affrontare problemi concreti.

Dalla riabilitazione alle disabilità, dalla chirurgia alla cura dell’ambiente.

 

Sì, perché la biorobotica si occupa anche di aiutare il nostro pianeta, con macchine che intervengono in ambienti inquinati, che monitorano la biodiversità, che migliorano l’efficienza energetica. È una visione olistica, che parte dalla vita per restituirle vita.

Un robot è prima di tutto un corpo che agisce nel mondo reale.

 È lì che si gioca la sua utilità e la sua efficacia.

Per questo continuo a pensare che non basti un software intelligente:

serve una meccanica intelligente, un corpo ben progettato, una comprensione profonda della biomeccanica e della fisiologia.

In questo senso, ho sempre creduto nell’importanza del dialogo tra robotica e neuroscienze, come nel progetto” Neurobotics”, uno dei primi tentativi di integrazione profonda tra queste due discipline.

 

Non a caso oggi si parla di “robotica collaborativa”, e l’Europa – l’Italia in primis – ha dato un contributo determinante in questo campo.

 I robot che immaginiamo per il futuro non dovranno necessariamente parlare come esseri umani, ma dovranno sapere aiutare, fisicamente, nei gesti quotidiani, nella cura, nell’assistenza.

 Saranno “compagni di strada”, silenziosi e discreti, ma sempre più presenti.

 

Le sfide future della biorobotica.

Il futuro della biorobotica si giocherà dunque su molte sfide, ma una è più decisiva delle altre, quella da cui partii tanti anni fa:

capire meglio il corpo umano per progettare macchine che non lo sostituiscano, ma lo completino.

Da qui derivano nuove esigenze ingegneristiche: materiali più leggeri, più efficienti, più sostenibili.

Serve un pensiero che unisca scienza fisica e sensibilità umanistica.

Non si tratta solo di realizzare nuove tecnologie, ma di farlo in modo etico e consapevole.

 

Il riferimento a “virtute e canoscenza” del XXVI Canto dell’Inferno – che cita Ulisse – mi accompagna da sempre.

Rappresenta la sintesi tra sapere e valore, tra spinta alla scoperta e senso di responsabilità.

La biorobotica deve essere questo: una scienza che fa bene, che innova senza dimenticare il bene comune.

 

La biorobotica nel prossimo futuro.

Guardando al futuro, non vedo rivoluzioni improvvise, ma un’evoluzione profonda. Le conoscenze si stanno integrando, le competenze si fondono.

 I giovani, oggi, sono la linfa della robotica mondiale, e la loro presenza massiccia ai congressi internazionali è un segnale fortissimo.

Stiamo andando verso un mondo in cui la coabitazione tra umani e robot sarà una realtà.

Dalle auto autonome ai droni, dai robot subacquei a quelli domestici, le applicazioni robotiche saranno ovunque e con chiunque.

 

Nessuno aveva immaginato davvero l’impatto di Internet o dell’iPhone.

 Le vere rivoluzioni, quelle che cambiano tutto, sono imprevedibili.

Ma una cosa l’ho imparata e la insegno: le rivoluzioni sono più spesso figlie della scienza che della tecnologia.

Sono le scoperte fondamentali che aprono strade mai viste prima.

 

La biorobotica per migliorare la vita quotidiana.

Penso che i prossimi salti arriveranno dalla biologia, dalla fisica, dai nuovi materiali. E saranno questi a renderci capaci di costruire robot migliori, davvero compagni.

Il mio sogno continua a essere quello dei robot personali, che ci affianchino nella vita quotidiana.

 Non più intelligenti di noi, ma capaci di parlare come Dante o Shakespeare. Devono essere forti, affidabili, silenziosi, come un bravo maggiordomo inglese.

 Che pulisce il bagno, rifà il letto, mette in ordine.

 Non devono minacciare o emozionare, devono aiutare.

 

Questa è la mia idea di robotica: un campo che nasce dallo stupore, cresce nella conoscenza, e si realizza nell’utilità per l’uomo e per il mondo.

Non sarà la fantascienza a guidarci, ma una scienza concreta, rigorosa e appassionata, nata dallo studio della natura e mossa dalla volontà di migliorare la condizione umana.

 

 

 

 

 

I robot tra scienza e filosofia:

ecco come ridefiniscono

le relazioni umane.

Agendadigitale.eu – (20 aprile 2023) – Paolo Ricci Sindoni – ci dice:

 

(Paolo Ricci Sindoni -Docente di Filosofia morale, Università di Messina e componente del Consulting Committee UCBM).

 

Cultura e società digitali - Intelligenza artificiale generativa.

Le nuove interazioni uomo-robot in ambiti quali la sanità e l’assistenza modificano i rapporti sociali, ponendo la tecnica al punto cruciale di intersezione fra persona e società.

Da queste correlazioni si creano nuovi ambiti e differenti modelli, in grado di ridefinire la complessità etica delle relazioni umane

Negli ultimi dieci anni alcuni tipi di robot collaborativi, “agenti artificiali ad autonomia crescente”, hanno ampliato il registro delle loro capacità percettive, empatiche, cognitive ed operative.

Parliamo di robot socialmente interattivi che stanno trovando molteplici applicazioni pratiche in ambienti di lavoro e di vita, come ad esempio nell’ambito sanitario o nell’assistenza alla persona, risultando sempre più graditi sia alle aziende sia ai singoli utenti.

Indice degli argomenti:

Il pensiero antropologico ed etico sul confronto uomo-robot.

Il rapporto necessario e complesso tra robot e esseri umani.

Il concetto di responsabilità.

Conclusioni.

Il pensiero antropologico ed etico sul confronto uomo-robot

La riflessione sulle capacità che stanno assumendo i robot, così come l’intelligenza artificiale e tutti i sistemi intelligenti, non deve far perdere di vista il loro fine ultimo che è la persona.

 

I robot vanno consideranti innanzitutto come un fattore abilitante della persona, uno strumento per facilitare il nostro futuro, mezzi altamente tecnologici da mettere a servizio del bene e del benessere della persona.

Certo è che la loro presenza e potenza stanno crescendo a ritmi elevati, anche se meno velocemente rispetto alle previsioni di alcuni anni fa.

 Se infatti nel 2018 il “World Economic Forum” prospettava, per il 2025, il 50 per cento delle mansioni lavorative associate ai robot, oggi l’asticella è stata spostata in avanti e le proiezioni parlano del raggiungimento di quei livelli nel 2040.

 

Se dunque il confronto uomo-robot su larga scala è appena rimandato, è urgente comprendere se e come il pensiero antropologico ed etico riescano a muoversi in questo nuovo scenario, che interpella la nostra responsabilità e la nostra capacità di interpretare questa grande opportunità scientifica.

Non vorrei infatti – come talvolta è capitato – che scienza da un lato e filosofia dall’altro iniziassero, da parti opposte, a scavare un tunnel sotto la montagna, finendo però per non incontrarsi mai.

La speranza invece è che riescano a trovare un terreno comune di elaborazione culturale, in grado di valorizzare al meglio tutte le risorse per quello che possiamo chiamare “personalismo relazionale”.

 

Questo spazio sembra possibile individuarlo laddove, come all’Università Campus Bio-Medico di Roma e in altri atenei del mondo, la robotica è terreno di quotidiano confronto tra medici e ingegneri che lavorano insieme per dar vita a una medicina sempre più personalizzata.

La tecnologia centrata sulla persona è proprio questo:

sviluppo di strumenti utilizzabili dai medici che siano adattabili a un sempre maggior numero di pazienti.

Strumenti che possano tener conto dello stato della persona e del loro comportamento, migliorando quindi il rapporto stesso del paziente con il robot rendendolo sempre più fisiologicamente accettabile e quindi effettivamente efficiente e utilizzabile.

Ecco perché, per esempio, oggetti innovativi come gli esoscheletri per la riabilitazione dopo gravi lesioni stanno avendo successo e avranno grande sviluppo nei prossimi anni diffondendosi come strumento di cura.

 

Il rapporto necessario e complesso tra robot e esseri umani.

Il ruolo della scienza e della tecnica nell’introduzione dei robot e quello della filosofia nello strutturare il rapporto tra l’uomo e le nuove macchine, con le implicazioni che riguardano la persona e il suo approccio alla realtà, sono state al centro di una lezione aperta lo scorso 22 marzo presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma.

Organizzato dal Consulting Commitee – “Comitato Universitario per la Filosofia e la Scienza”, l’incontro ha ospitato il prof. Paolo Dario, professore Emerito della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa tra i pionieri mondiali della robotica, e offerto il contributo di studenti, docenti e ricercatori universitari impegnati nello sviluppo di progetti integrati nei quali robotica ed etica sono strettamente interconnesse.

 

Obiettivo:

fare il punto sul rapporto necessario ma complesso tra robot ed esseri umani segnalando la necessità di fissare precise regole che pongano alla base il valore della responsabilità umana.

 

Il concetto di responsabilità.

Ed è proprio quando si ricercano e sperimentano le soluzioni più innovative che diventa cruciale tenere conto del concetto di responsabilità.

 E’ lì che si entra profondamente in contatto con il significato che una tecnologia può assumere quando entra nei gesti che compongono la nostra vita. Soluzioni tecnologiche innovative in grado di sostituirsi alle capacità umane richiedono infatti risultati robusti, che sappiano cioè riprodurre la complessità che normalmente la nostra mente e il nostro cuore sono in grado di gestire. Così la filosofia morale e i suoi valori entrano a pieno titolo nell’ambito della tecnologia e la responsabilità degli scienziati si arricchisce di un ulteriore aspetto particolarmente incisivo.

Se in molti casi, come accade già in alcune parti del mondo come in Giappone, le persone anziane assistite nelle case di riposo hanno mostrato maggiore gradimento per i robot (che li curano e ne riconoscono alcune emozioni) piuttosto che per i tradizionali infermieri, dobbiamo in primo luogo interrogarci sulla necessità di attivare sempre di più fra noi umani un’etica della condivisione, della vicinanza, della gentilezza, dell’accoglienza che a volte si può perdere; dall’altro lato dovremo prendere atto di come queste nuove interazioni modifichino i rapporti sociali generali, ponendo la tecnica al punto cruciale di intersezione fra persona e società.

 

Da queste correlazioni infatti si creano nuovi ambiti e differenti modelli, in grado di ridefinire la complessità etica delle relazioni umane anche nell’ordine dei comportamenti e nella ridefinizione dei valori in campo. In tale prospettiva tutte le forme hard di antropocentrismo sono destinate ad eclissarsi, per far posto ad un intreccio di relazioni ancora tutte da ripensare, e che possono genericamente essere comprese nel grande capitolo del rapporto fra cultura personalista e tecnologia all’interno del quale l’etica, intesa come rivalutazione dinamica dei valori e dei principi morali sembra assumere un ruolo decisivo.

 

In riferimento all’ “autonomia” dell’agente artificiale, specie in ordine alle questioni morali, alla costruzione cioè di artefatti artificiali in grado di decifrare la differenza fra bene e male, va detto che potrebbero non esserci limiti di ordine tecnico, ma certamente di ordine etico chiamando in causa la nostra responsabilità morale ed anche politica.

Conclusioni.

Non sappiamo dunque se verranno posti limiti, e quali, alla costruzione dei robot. Di certo esistono oggi limiti netti che noi stessi poniamo (nell’ambito assistenziale come in altri) nel considerare gli uomini come unici soggetti deputati allo svolgimento di determinate mansioni lavorative.

 

Ancora una volta diventa necessario riaprire la possibilità della creazione di un nuovo circolo relazionale che veda l’anziano (o il malato), il medico, l’ingegnere, il robot e l’infermiere dentro un circuito virtuoso di correlazioni che si intrecciano e si potenziano a vicenda.

Insomma un’etica relazionale di tipo circolare, ma che veda un nucleo generatore negli obiettivi e nei valori indicati dall’uomo. Superata la tradizionale visione totalitaria dell’antropocentrismo, potrebbe insinuarsi una nuova prospettiva, riassunta nella felice espressione, utilizzata da alcuni robotici, “Human in the loop” l’umano nello snodo, nel crocevia delle relazioni, nel punto, sempre dinamico e mobile, di un movimento che non può girare su sé stesso, ma che preveda che sia sempre l’uomo a prendere l’ultima decisione.

L’uomo in the loop, ma anche “at the end of the loop”.

 

 

 

Robotica Psico-sociale: i progressi

nell’interazione Uomo-Macchina.

Stateofmind.it – (13 ottobre 2021) - Concetta Papapicco – ci dice :

 

E se l’uomo fosse sostituito dai robot? Questa domanda è sempre più esasperata in relazione al progresso dell’Intelligenza Artificiale (IA).

Robot e interazione uomo-macchina progressi tra vantaggi e timori.

Qual è il compito dei robot?

Uno dei compiti è sicuramente quello di sostituire l’uomo, ma non con il progetto di eliminarlo, bensì per evitare lavori pericolosi o stancanti.

Le persone sono da tempo interessate alle macchine che simulano i processi naturali, in particolare alle tecnologie che replicano il comportamento e/o l’aspetto umano.

Questo desiderio ha radici antiche:

partendo dalla creazione di una varietà di ‘simulacri’ in Egitto circa 2000 anni fa, fino alla costruzione di dispositivi altamente sofisticati, creati utilizzando le conoscenze scientifiche (Richter, 2015).

 Altri esempi impressionanti di simulazioni umane includono prime forme di androidi costruiti nel XVI, XVII e XVIII secolo in Europa, dove sono state costruite una varietà di macchine, in grado di simulare attività umane, come la scrittura o la danza.

Da questi primi interventi di simulazione nasce l’ambiziosa sfida tecnologica e scientifica del tentativo di replicare la flessibilità e l’adattabilità dell’intelligenza umana (Breazeal, 2004).

In questa veloce evoluzione, a delinearsi è un dilemma morale: e se l’uomo fosse sostituito dalle macchine?

 Questa domanda è sempre più esasperata in relazione al progresso dell’Intelligenza Artificiale (IA) fino alla comparsa dei robot.

In risposta a questo dilemma morale, invero, alcune parti della cultura contemporanea reagiscono infondendo un rifiuto e una paura apocalittica.

Questo è visibile anche da scenari trasmessi dal cinema, dove il robot è rappresentato come uno schiavo meccanico, che si ribella e conquista il mondo eliminando il nemico umano.

Ciò che, infatti, spaventa di più la società contemporanea è l’autonomia, ovvero la capacità di ragionare, apprendere e risolvere i problemi in maniera autonoma.

 

Ma cosa sono i robot?

La parola “robot” deriva dal ceco ‘robota’, ovvero ‘lavoro servile’, con cui lo scrittore cèco “Karel Čapek” denominava gli automi che lavorano al posto degli operai nel suo dramma fantascientifico R.U.R., del 1920.

Al di là di questa immagine fantascientifica di “Čapek”, è evidente che i robot fanno parte della nostra vita:

 pensiamo alle aspirapolveri automatiche, capaci di mappare il territorio ed evitare gli ostacoli.

Qual è, quindi, il compito dei robot?

 Uno dei compiti è sicuramente quello di sostituire l’uomo, ma non con il progetto di eliminarlo, bensì per evitare lavori pericolosi o stancanti.

Il fatto che, con l’evoluzione tecnologica, ci siano più generazioni di robot (dal doll-like allo human-like) non ci deve far dimenticare che il robot non è in grado di attribuirsi da sé “stati mentali”, che restano sotto il controllo esterno ed estraneo (Damiano et al., 2019, p. 21), in genere di chi lo programma, ovvero dell’essere umano.

Questo modo di risignificare il robot come “sostituto”, per cercare di rispondere al dilemma etico, ci fa comprendere che è necessario anche ripensare il rapporto Uomo-Macchina, o meglio, Uomo-Robot.

 La ricerca scientifica, soprattutto, psico-sociale non si limita a prendere una posizione nel dibattito sulla natura della mente, ma i robot diventano strumenti di una trasformazione sociale (Damiano et al., 2019, p 22).

In questa trasformazione sociale, ad esempio, i robot possono interagire con i bambini per aiutarli nella raccolta differenziata (De Carolis et al., 2019) o ad “empatizzare” con persone anziane (Garcia et al., 2017).

La logica, quindi, non è quella di sostituzione di figure professionali, che interagiscono con i bambini o con gli anziani, ma quella di supportare, ad esempio gli operatori, magari oberati di lavoro, nella pratica clinica o educativa.

Da queste premesse, risulta necessaria la branca della psicologia che si occupa di interazione Uomo-Robot, verso una robotica psico-sociale, capace, ad esempio, di interrogarsi sull’interazione emotiva Uomo-Robot, dando, magari, avvio ad una generazione di Robot con “Intelligenza Emotiva Artificiale” (Papapicco, 2021).

 

Apprendere a interagire e a collaborare

con i robot: l’apporto delle scienze cognitive.

Tech4future.info – (18 -3 -2022) – Paola Cozzi – ci dice:

 

Dalle scienze cognitive, un possibile metodo di insegnamento-apprendimento affinché l’essere umano - nei luoghi di lavoro, nei luoghi di cura o in ambito domestico - possa interagire e collaborare in modo sempre più efficace con i robot.

TAKEAWAY.

Riuscire a prevedere (perché li si sa riconoscere) i comportamenti dei robot, i loro movimenti all’interno di un determinato spazio, è tra le abilità più complesse da acquisire da parte dell’essere umano nell’ambito dell’interazione con le macchine.

Uno studio del “Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory” (CSAIL) del MIT tenta un nuovo approccio, ricorrendo ad alcune teorie cognitiviste sull’apprendimento umano, tra cui l’”Analogical Transfer Theory e la Variation Theory of Learning”.

Secondo la prima teoria, l’interazione con un robot che, ad esempio, si muove su ruote potrebbe essere agevolata dal compiere un’analogia con le comuni automobili, oggetti percepiti dagli utenti come più familiari.

 In base alla seconda teoria, invece, più è ricca la varietà di modelli forniti sui movimenti dei robot, più l’essere umano è in grado di costruirsi una mappa mentale coerente circa i loro comportamenti.

Comprendere in profondità le dinamiche dell’interazione uomo-robot non è, oggi, pura speculazione intellettuale, bensì un’esigenza dettata dal costante aumento, a livello globale – nei luoghi di lavoro, nei luoghi di cura, in ambito domestico e in situazioni di soccorso – dei robot, sia antropomorfi che umanoidi, con i quali in futuro saremo sempre più chiamati a collaborare.

 Bisogna essere preparati, pronti a un rapporto proficuo con loro.

Anche perché, per quanto concerne, nello specifico, i robot antropomorfi e i robot Scara, i dati SIRI (Associazione Italiana di Robotica e Automazione) inerenti al 2021 ci parlano di un aumento degli ordini pari al 50,3% sull’anno precedente.

E relativamente alle nuove applicazioni dei robot umanoidi, basti ricordare il progetto in corso dell’Istituto Italiano di Tecnologia, che vede il suo” iCub” impegnato in nuove operazioni, tra cui quelle in volo per interventi in caso di disastri naturali.

Un altro esempio è quello di “RoBee” (sviluppato da Oversonic), robot umanoide oggetto di sperimentazioni all’interno di siti produttivi per compiti in collaborazione con i lavoratori e, più recentemente, nella realtà ospedaliera come supporto alla neuroriabilitazione dei pazienti con problematiche neurologiche [per approfondimenti, consigliamo la lettura della nostra guida alla robotica che spiega cos’è, come funziona e quali sono gli ambiti di applicazione – ndr].

 

Uno degli aspetti da sempre considerati più critici dell’interazione uomo-robot riguarda la difficoltà, da parte del primo, nel comprendere e nel prevedere i comportamenti del secondo, la sua mobilità nello spazio.

In quanto si tratta di una mobilità completamente diversa da quella dell’essere umano, anche il fatto di imparare a prevederla è problematico, specie per quanto concerne quei cambiamenti impercettibili dei movimenti.

 

Uno studio a cura dell’”Interactive Robotics Group del Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory” (CSAIL) del “Massachusetts Institute of Technology” (MIT), in collaborazione con la “School of Engineering and Applied Sciences dell’”Università di Harvard” – descritto nel paper dal titolo “Revisiting Human-Robot Teaching and Learning Through the Lens of Human Concept Learning” – si propone di indagare l’asse insegnamento-apprendimento all’interno della relazione uomo-robot, attingendo da alcune teorie che fanno capo alle scienze cognitive.

 

L’interazione uomo-robot vista attraverso la lente delle teorie sull’apprendimento.

Consideriamo, innanzitutto, una domanda:

come viene percepito il robot da parte dell’essere umano?

 È dalla riposta a questa domanda che ha origine il seme dell’interazione tra i due. E per spiegare il ragionamento che vi è alla base, gli autori ricorrono alla considerazione secondo la quale le versioni sempre più evolute del braccio robotico lo rendono molto simile, per forma e funzionalità, a un braccio umano.

Ma il fatto che esso si muova in modo del tutto differente rispetto al braccio umano, lo fa percepire come qualcosa di estremamente estraneo e di cui si fa fatica a costruire una mappa mentale, un modello coerente.

 

Proprio tale “non-corrispondenza” tra immagine esteriore e funzioni del robot (in cui ci si riconosce) da un lato e il suo comportamento (in cui non ci si riconosce) dall’altro, porterebbe – in linea con alcune teorie cognitiviste sull’apprendimento umano prese come modello concettuale dal team del MIT – ad avere difficoltà nell’apprendere a interagire con queste macchine.

 In particolare, la teoria dell’apprendimento definita “Analogical Transfer Theory” vuole «gli esseri umani apprendere per analogia. Quando interagiscono con un nuovo dominio o concetto, cercano implicitamente qualcosa di familiare che possano impiegare per comprendere la nuova entità».

Teoria – questa – che spiega l’iniziale corrispondenza tra uomo e robot, poi interrottasi guardando ai suoi movimenti.

 

Cuore di questa teoria è il cosiddetto “allineamento strutturale”, utilizzato – fanno notare i ricercatori del MIT – «in molti schemi di insegnamento-apprendimento all’interno della relazione uomo-robot, di solito per supportare il rilevamento delle differenze tra i due».

In precedenti lavori sul tema, in cui compare questo schema, si insiste sulla percezione delle differenze, senza considerare «come allineare al massimo tutte le informazioni nel loro insieme, in modo tale che l’essere umano sia nella posizione migliore per effettuare valutazioni complessive in merito al robot, prive di polarizzazioni».

Questo è un suggerimento per il futuro, volto a supportare l’apprendimento fluido dell’interazione uomo-robot.

Sempre attinta dalle scienze cognitive, un’altra teoria dell’apprendimento – detta “Variation Theory of Learning” – dimostra che «presentare esempi strategicamente vari, migliora i risultati dell’apprendimento».

In questo caso, l’esempio citato è quello degli studenti impegnati nella soluzione di problemi di geometria, per i quali lo sforzo minore e una migliore prestazione sono correlati a un’elevata molteplicità di esempi dello stesso problema, rispetto allo sforzo compiuto da coloro che, invece, studiano avvalendosi di esempi poco vari, ripetitivi.

Una maggiore varietà ha, dunque, un impatto positivo sulla costruzione degli schemi mentali.

 E questo risulta valido anche nell’apprendimento dell’interazione con i robot, dove la presentazione di un’ampia varietà di esempi dei comportamenti di questi ultimi aiuterebbe gli utenti a comprenderli meglio.

Un esempio pratico: affinché chi – in fabbrica, a casa o in ospedale – si trova a contatto con robot antropomorfi o umanoidi, possa costruire un modello mentale accurato di queste macchine, la “Variation Theory of Learning” «suggerisce che vengano mostrati più serie di esempi dei robot impegnati in attività diverse in ambienti diversi, tra cui vi siano anche esempi di robot che commettono errori». Quest’ultimo punto, in particolare, li rende – nella percezione che l’uomo ha di loro – più simili all’umano, favorendo così l’interazione e la collaborazione.

Nel paper si legge:

 

«L’utilizzo strutturato della varietà di esempi prescritto dalla “Variation Theory of Learning” è un territorio inesplorato nei sistemi di insegnamento-apprendimento nell’ambito dell’interazione uomo-robot, ma offre una potenziale soluzione a questa sfida e può ulteriormente elevare la capacità umana di comprendere le macchine»

 

L’applicazione delle teorie delle scienze cognitive alla comprensione dei comportamenti dei robot.

In tema di interazione uomo-robot, si prenda in considerazione lo scenario all’interno di una fabbrica o di un magazzino, in cui operai e robot sono chiamati a collaborare nell’esecuzione di dati compiti.

Che cosa accade ai due protagonisti?

«I robot si fermano ogni volta che un lavoratore entra all’interno di uno spazio di lavoro condiviso. Per una collaborazione di successo, il lavoratore dovrebbe conoscere tale comportamento, imparare che cosa fare di fronte ad esso e comprendere l’area di lavoro dei robot, al fine di contribuire a ottimizzare i tempi della loro attività»

spiegano i ricercatori.

Tuttavia, un approccio che potremmo definire limitato mostra all’operaio soltanto uno spazio di lavoro del robot e un solo esempio dei suoi movimenti.

Prendendo, invece, spunto dalla “Variation Theory of Learning” appena descritta, dando più posizionamenti e più movimenti dei robot, l’utente è in grado di costruirsi una mappa mentale, un modello concettuale più coerente, puntuale ed efficace della loro area di lavoro e dei loro comportamenti all’interno di essa.

 

Il fatto di poter contare su una mappa mentale di questo tipo, si traduce – in chi si trova a dovere interagire e a collaborare con le macchine – in un maggior senso di sicurezza, potendo “predire” come si muoverà il robot ed evitare di interferire con la sua pianificazione dei movimenti.

 

In altre applicazioni di robotica, «il robot potrebbe avere interazioni frequenti con utenti non esperti, come accade, ad esempio, ai robot di consegna quando si trovano a navigare insieme ai pedoni. In tali applicazioni, in particolare quando gli esseri umani hanno solo brevi incontri con i robot, viene in aiuto l”’Analogical Transfer Theory”».

 In che modo?

 

Gli autori dello studio, nel caso specifico dei robot di consegna, pongono il focus sulle loro ruote omnidirezionali, di fronte alle quali l’utente prova disagio in quanto i loro movimenti sono difficili da prevedere. Ecco che un modo per applicare l’”Analogical Transfer Theory” sta nel progettare e nel costruire robot di consegna che sfruttino le analogie fisiche tra le loro ruote omnidirezionali e l’automobile. Col risultato che «se il robot in questione assomiglia a un’auto, gli utenti che interagiscono con lui sarebbero in grado di anticiparne i movimenti, come fanno abitualmente in presenza delle automobili».

 

Interazione uomo-robot: come realizzarla e implementarla.

Dunque, come poter intervenire concretamente per agevolare l’interazione uomo-robot, in modo che i due attori giungano a una collaborazione sempre più proficua in quei contesti che li vedono in contatto?

 A tale proposito, il lavoro dell’”Interactive Robotics Group del Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory” (CSAIL) del MIT, guardando alle teorie dell’apprendimento proprie delle scienze cognitive, conclude con una serie di linee guida, suggerendo, in prima istanza – a chi si occupa di addestrare le persone a comprendere i comportamenti dei robot – di servirsi dei contenuti dell’”Analogical Transfer Theory” utili a insegnare a fare analogie appropriate nel rapportarsi alla macchina, in modo che non vi sia disagio, né confusione di fronte alle sue azioni.

 

Inoltre, il fatto di includere nell’addestramento esempi sia positivi che negativi dei comportamenti dei robot, guida gli utenti a divenire consapevoli di come «le variazioni dei parametri della “politica” dei robot influenzino il loro stesso modo di agire».

 

Negli obiettivi degli autori della ricerca vi è, infine, l’intenzione di testare le teorie alle quali si è accennato, ricostruendo il set di alcuni degli esperimenti che hanno studiato, con l’obiettivo di verificare sul campo se questi davvero hanno il merito di portare miglioramenti significativi nel modo in cui l’essere umano impara a rapportarsi ai robot, comprendendone i comportamenti al punto da riuscire ad anticiparli e a rispondervi di conseguenza.

 

 

Intelligenza artificiale:

i robot sostituiranno l’uomo?

Businnesintelligencegroup.it – (7 -12-2023) - Redazione online – ci dice:

 

I robot sostituiranno l’uomo?

 Nonostante il veloce avanzamento delle tecnologie come l’IA, ci sono degli aspetti cruciali che richiedono ancora l’intervento dell’uomo.

 La collaborazione tra l’uomo e le macchine potrebbe portare ad un potenziamento delle capacità nel settore, ma non ad una sostituzione completa.

 

Il timore che le macchine rubino il lavoro all’uomo, potrebbe essere esagerato?

Essenzialmente sono quattro le ragioni principali per cui la paura che le macchine rubino il lavoro all’uomo potrebbe essere esagerata.

Complessità delle Decisioni.

Molti aspetti nel contesto aziendale coinvolgono decisioni complesse e strategiche che richiedono una profonda comprensione delle dinamiche di mercato e delle relazioni interpersonali.

 L’intelligenza artificiale attuale è limitata nel comprendere appieno queste complessità e nel prendere decisioni altamente contestualizzate.

Creatività e Innovazione.

La creatività è spesso una componente cruciale nel contesto aziendale, soprattutto quando si tratta di trovare soluzioni innovative per problemi complessi.

 Le macchine attuali sono ancora lontane dall’essere in grado di replicare la creatività umana e di proporre soluzioni originali.

Relazioni Interpersonali.

Nel settore aziendale, le relazioni sono spesso fondamentali per il successo.

La capacità di costruire rapporti, negoziare e gestire le dinamiche interpersonali è un’abilità umana che, almeno per ora, è difficile da sostituire con l’intelligenza artificiale.

Etica e Valori Aziendali.

Le decisioni aziendali spesso coinvolgono considerazioni etiche e valori aziendali. Le macchine non sono in grado di comprendere del tutto queste sfumature e prendere decisioni in linea con gli standard etici specifici di un’organizzazione.

I robot sostituiranno l’uomo?

Il coinvolgimento umano rimane ancora essenziale.

La sostituzione del lavoro da parte dei robot sembra concentrarsi principalmente sulle attività manuali e le professioni più semplici, piuttosto che coinvolgere lavori che richiedono un alto livello di abilità e competenze, come nel settore dell’approvvigionamento e degli acquisti.

Sebbene i robot basati sull’intelligenza artificiale siano sempre più utilizzati per automatizzare parti della produzione, della catena di approvvigionamento e della logistica, è importante sottolineare che essi non possono sostituire completamente l’essere umano in situazioni di trattativa con i fornitori.

 

Le professioni legate all’approvvigionamento e agli acquisti implicano decisioni complesse, creatività nell’affrontare sfide uniche e la gestione di relazioni interpersonali.

Queste abilità umane sono al di là delle capacità attuali delle macchine.

Pertanto, nonostante l’automatizzazione in corso in vari settori, sembra che il coinvolgimento umano rimarrà cruciale, specialmente in contesti in cui sono richieste competenze avanzate e decisioni basate su fattori complessi e contestuali.

(I robot sostituiranno l'uomo – Canva)

L’istruzione come elemento chiave nella salvaguardia dell’occupazione.

Un’istruzione solida emerge come elemento chiave nella salvaguardia dell’occupazione.

La probabilità di essere sostituiti sul posto di lavoro aumenta per coloro che non hanno completato il percorso educativo.

Questa sostituzione riguarda prevalentemente ruoli operai con minor potere decisionale, mentre i lavoratori in posizioni altamente qualificate sono meno suscettibili.

 

Nel contesto dell’approvvigionamento, dove le competenze personali e professionali giocano un ruolo fondamentale, coloro che dispongono di un elevato livello di istruzione avranno minori probabilità di essere completamente sostituiti.

Le posizioni in questo settore richiedono una comprensione approfondita delle dinamiche aziendali, abilità decisionali avanzate e la capacità di gestire complesse trattative con i fornitori.

 Questi aspetti richiedono un livello di istruzione e competenze che le attuali tecnologie non sono in grado di replicare in modo esaustivo.

 

Il lavoro di approvvigionamento è più complesso di quanto si pensi.

Con l’evolversi della tecnologia, l’approvvigionamento si trova ad operare con una crescente quantità di dati e informazioni.

 L’intelligenza artificiale (IA) gioca un ruolo importante nell’elaborazione dei big data, ma ciò non implica la sostituzione del ruolo degli esperti di approvvigionamento.

Al contrario, l’IA diventa un prezioso alleato per questi professionisti.

 

Esaminando le molteplici attività svolte dal professionista medio dell’approvvigionamento, che spaziano dalla gestione delle relazioni con i fornitori e la negoziazione, alla gestione degli stakeholder e alla creazione di valore e vantaggio competitivo per l’azienda, emerge l’idea che automatizzare anche parzialmente tali mansioni sarebbe quasi impossibile.

 

L’IA si rivela un supporto efficace, facilitando l’elaborazione di grandi quantità di dati e consentendo agli esperti di approvvigionamento di concentrarsi su aspetti più strategici e complessi della loro professione.

In questo modo, l’integrazione dell’IA non è vista come una minaccia alla sostituzione, ma come una leva che potenzia l’efficacia e l’efficienza delle operazioni di approvvigionamento, permettendo ai responsabili di concentrarsi su compiti che richiedono intuizione, creatività e una profonda comprensione del contesto aziendale.

 

L’IA può sostenere l’uomo, non sostituirlo!

L’intelligenza artificiale (IA), anziché sostituire l’uomo, sembra destinata a sostenere attivamente l’operato umano in varie attività, specialmente nell’ambito dell’approvvigionamento.

 La presenza crescente e l’utilizzo dell’IA si manifestano, ad esempio, nell’esecuzione di controlli automatici sulla conformità dei fornitori o nella raccolta e analisi approfondita di ampie fasce di dati nelle catene di approvvigionamento.

 

L’IA, pertanto, conferisce la capacità di comprendere meglio e acquisire conoscenze più approfondite, consentendo di risparmiare tempo riducendo le attività manuali e amministrative.

 L’IA, dunque, non è da considerare un sostituto, ma piuttosto un partner collaborativo.

La tecnologia diventa un alleato strategico, offrendo la possibilità di apportare un valore strategico alla professione di approvvigionamento.

(I robot sostituiranno l'uomo. Canva).

 

Business Intelligence Group Srl, grazie alla propria infrastruttura High Performance Computing, è l’unica società Start Up Innovativa in Italia in grado di realizzare Modelli Previsionali, Sistemi di Business Intelligence, Geomarketing e Ricerche di Mercato che richiedono una grande “potenza di calcolo” per l’elaborazione dei BIG DATA e lo sviluppo di sistemi di Intelligenza Artificiale.

 

 

 

 

Trump può staccare la spina a

 Internet e l'Europa

non può farci niente.

Politico.eu – (23 giugno 2025) - MATHIEU POLLET – Bruxelles – ci dice:

 

Trump è tornato, e con lui il rischio che gli Stati Uniti possano staccare l'Europa dal mondo digitale.

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca costringe l'Europa a fare i conti con una grave vulnerabilità digitale: gli Stati Uniti hanno un” kill switch” sulla propria rete Internet.

Mentre l'amministrazione statunitense alza la posta in gioco in una partita di poker geopolitica iniziata quando Trump ha lanciato la sua guerra commerciale, gli europei si stanno rendendo conto che anni di eccessiva dipendenza da una manciata di giganti tecnologici statunitensi hanno dato a Washington una carta vincente.

 

La vulnerabilità fatale è la dipendenza quasi totale dell'Europa dai provider cloud statunitensi.

Il cloud computing è la linfa vitale di Internet, alimentando tutto, dalle email che inviamo ai video che trasmettiamo in streaming, all'elaborazione dati industriale e alle comunicazioni governative.

 Solo tre colossi americani – Amazon, Microsoft e Google – detengono oltre due terzi del mercato regionale, mettendo l'esistenza online dell'Europa nelle mani di aziende che cercano di ingraziarsi il presidente degli Stati Uniti per evitare regolamenti e sanzioni imminenti.

 

I falchi della sovranità in Europa esprimono da tempo la preoccupazione che la dipendenza dal cloud significhi che le agenzie statunitensi possano spiare i dati sensibili degli europei archiviati su server di proprietà americana in qualsiasi luogo, grazie alle leggi statunitensi.

 

Ora, in un ciclo politico che ha visto il presidente degli Stati Uniti ribaltare le leggi in un attimo e il procuratore capo della Corte penale internazionale perdere l'accesso alla sua posta elettronica Microsoft dopo essere stato sanzionato da Washington (in seguito ai mandati di arresto per alti funzionari israeliani), ci sono timori concreti che gli Stati Uniti possano usare il loro dominio tecnologico come arma per ottenere influenza all'estero.

"Trump odia davvero l'Europa.

 Pensa che l'unico scopo dell'UE sia quello di ' fottere ' l'America", ha affermato Zach Meyers, direttore della ricerca presso il think tank CERRE di Bruxelles.

 "L'idea che possa ordinare un “kill switch” o fare qualcos'altro che danneggerebbe gravemente gli interessi economici non è così improbabile come poteva sembrare sei mesi fa".

 

“Alexander Windbichler”, CEO dell'azienda austriaca di cloud computing “Anexia”, ha affermato che avrebbe preferito che gli "esperti IT" come lui avessero parlato prima di questa "dipendenza malsana", sostenendo che per troppo tempo l'industria europea del cloud ha evitato attività di lobbying e politica, concentrandosi invece sulla competitività tecnologica.

 

Trump staccherebbe la spina ai servizi cloud in Europa? "Non lo so.

Ma non mi sarei mai aspettato che gli Stati Uniti minacciassero di portarci via la Groenlandia ", ha detto “Windbichler”.

"È più folle che chiudere il cloud".

 

Come il "cosa succederebbe se" è diventato realtà.

Gli avvertimenti iniziarono un paio di mesi dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca.

"Non è più ragionevole presumere di poter contare totalmente sul nostro partner americano.

C'è il serio rischio che tutti i nostri dati vengano utilizzati dall'amministrazione statunitense o che le nostre infrastrutture vengano rese inaccessibili da altri Paesi", ha dichiarato “Matthias Ecke”, deputato socialdemocratico tedesco al Parlamento europeo, durante un evento a marzo.

"Il rischio di un blocco è il nuovo paradigma", ha dichiarato “Benjamin Revcolevschi”, capo del campione francese” OVHcloud”, durante lo stesso evento. "Il cloud è come un rubinetto dell'acqua. Cosa succede se a un certo punto il rubinetto si chiude?"

 

 

Gli avvertimenti sono iniziati un paio di mesi dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca.

L'equivalente tecnologico di chiudere il rubinetto sarebbe che l'amministrazione statunitense ordinasse alle aziende di cloud di interrompere i servizi in Europa.

Il cloud computing funziona offrendo alle aziende accesso virtuale all'archiviazione dei dati e alla potenza di elaborazione, ampliando enormemente le loro capacità grazie alle vaste reti di data center fisici in tutto il mondo.

 

E anche se un'interruzione del servizio resta uno scenario estremo, i giganti della tecnologia statunitense non la escludono più come possibilità.

Ad aprile, Microsoft ha dichiarato che avrebbe aggiunto una clausola vincolante ai contratti con i governi europei per mantenerli online e contestare eventuali ordini di sospensione in tribunale.

Sebbene il presidente “Brad Smith” abbia affermato che il rischio che l'amministrazione statunitense ordini alle aziende tecnologiche americane di interrompere le operazioni nell'UE fosse "estremamente improbabile", ha ammesso che si trattava di "una reale preoccupazione per i cittadini di tutta Europa".

Questo mese, Microsoft ha anche presentato nuove funzionalità nel tentativo di calmare i nervi europei.

Amazon ha annunciato una nuova struttura di governance per la sua cosiddetta "offerta sovrana" in Europa per garantire "operazioni indipendenti e continue" e alleviare le preoccupazioni.

 Secondo quanto riferito, l'azienda ha preparato il personale a rispondere alle domande dei clienti sui divieti internazionali, istruendoli a dire che "nel caso teorico in cui tali sanzioni dovessero mai essere applicate, [l'unità cloud di Amazon] avrebbe fatto tutto il possibile per garantire la continuità del servizio".

 

Diversi esperti si chiedono quale potere avrebbero le aziende statunitensi per resistere alla Casa Bianca.

"Se quella dimensione politica diventa ostile, quanto è credibile che aziende con le migliori intenzioni possano sfidare il loro presidente?",

ha dichiarato a POLITICO “Cristina Caffarra”, economista specializzata in tecnologia e concorrenza e professoressa onoraria all'”University College” di Londra.

 

La notizia che a maggio il procuratore capo della” Corte penale internazionale” “Karim Khan” ha avuto accesso alla sua email ospitata da Microsoft, interrotta dopo le sanzioni statunitensi relative al mandato d'arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha suscitato ulteriori preoccupazioni.

Microsoft ha rifiutato di commentare il suo preciso coinvolgimento nella disconnessione della email di Khan,

  limitandosi a dichiarare in termini più generali: "In nessun momento Microsoft ha cessato o sospeso i suoi servizi alla CPI".

Mentre il presidente di Microsoft” Brad Smith” ha affermato che il rischio che l'amministrazione statunitense ordini alle aziende tecnologiche americane di interrompere le operazioni nell'UE era "estremamente improbabile", ha ammesso che questa era "una reale preoccupazione per i cittadini di tutta Europa".

"Naturalmente, le aziende statunitensi devono rispettare le leggi degli Stati Uniti", ha scritto” Aura Salla”, parlamentare finlandese di centro-destra al Parlamento europeo ed ex principale lobbista di Meta a Bruxelles, in risposta alla notizia della CPI, aggiungendo che "per gli europei, ciò significa che non possiamo fidarci dell'affidabilità e della sicurezza dei sistemi operativi delle aziende statunitensi".

 

Politici ed esperti stanno sostenendo la necessità di una vera alternativa tecnologica europea.

 "Si percepisce che siamo a un solo ordine esecutivo dal perdere l'accesso a tecnologie e infrastrutture critiche", ha affermato “Francesca Bria”, docente di innovazione presso l'University College di Londra.

"È ormai chiaro che l'Europa non deve dipendere da alcuna potenza esterna che abbia la capacità di staccare la spina".

 

Un piano di riserva da 300 miliardi di euro.

La spinta dell'Europa ad abbandonare il cloud statunitense si scontra con una dura realtà: smantellare il predominio tecnologico americano non sarà facile né economico.

"Se si considera il cloud, l'intelligenza artificiale, i data center, sfortunatamente non ci sono sufficienti alternative a quanto offerto dall'industria digitale americana", ha affermato ad aprile l'ex ministro delle Finanze tedesco “Jörg Kukies”, esortando l'Unione a procedere con cautela in merito alle ritorsioni commerciali contro Trump.

 

Un'iniziativa di politica industriale che sta prendendo piede come modello per il riequilibrio dei bilanci dell'Unione europea stima un costo di 300 miliardi di euro. Ideata da un gruppo di esperti di tecnologia ed economisti e sostenuta dall'industria europea, la cosiddetta iniziativa "Euro Stack" mira a rendere l'Europa autosufficiente nell'infrastruttura digitale, fino al software.

 

Il movimento vuole che l'UE si unisca attorno a tre obiettivi: "Comprare europeo", "Vendere europeo" e "Finanziare europeo".

 Esortano i decisori a dare priorità alle aziende dell'UE negli appalti pubblici, stabilendo quote per gli acquisti governativi e lanciando un fondo “Euro Stack” per sostenere la tecnologia nazionale.

La spinta dell'Europa ad abbandonare il cloud statunitense si scontra con una dura realtà:

smantellare il dominio tecnologico americano non sarà facile, né economico.

"Non c'è nulla di eccezionale in questo approccio:

 questi strumenti di politica industriale sono stati ampiamente utilizzati in altre giurisdizioni, compresi gli Stati Uniti, per decenni, poiché i grandi appalti pubblici hanno alimentato la crescita degli attuali giganti della tecnologia", scrivono gli organizzatori.

 

Non sarà così facile, afferma Meyers del think tank CERRE.

"Stanno chiedendo un sacco di soldi per questo progetto.

Centinaia di miliardi. L'idea che appaia magicamente è piuttosto fantasiosa", ha detto.

Gli oppositori, come l'associazione commerciale americana “Chamber of Progress”, sostengono che i costi potrebbero superare i 5.000 miliardi di euro.

Diversi paesi europei e alti esponenti del Parlamento europeo hanno già espresso il loro sostegno all'iniziativa “Euro Stack”, menzionata esplicitamente nel recente accordo di coalizione in Germania.

Ma anche i politici stanno camminando sul filo del rasoio mentre cercano di capire come bilanciare eventuali mosse verso la sovranità europea senza essere accusati di protezionismo, che potrebbe ostacolare una reazione degli Stati Uniti.

"Nessun paese o regione può guidare da solo la rivoluzione tecnologica", ha dichiarato il 5 giugno ai giornalisti a Bruxelles “Henna Virkkunen”, responsabile della sovranità tecnologica dell'UE, presentando una strategia che riconosceva anche che l'Unione "corre il rischio di militarizzare le sue dipendenze tecnologiche ed economiche".

In un vicolo cieco.

Un'iniziativa normativa in fase di elaborazione a Bruxelles potrebbe limitare significativamente la futura influenza di Trump nel generare una diffusa disruption digitale.

Ma l'iniziativa, che definisce le condizioni per una nuova etichetta progettata per elevare la sicurezza informatica delle soluzioni cloud utilizzate da aziende e amministrazioni, è rimasta bloccata per mesi nei paesi dell'UE proprio perché rappresenta un punto dolente per gli Stati Uniti.

La proposta potrebbe includere una certificazione di alto livello che garantisca l'immunità dalle leggi straniere.

 

Ha diviso i paesi in base a quanto sono disposti ad abbandonare la tecnologia statunitense e a esprimersi contro le relazioni transatlantiche.

Una richiesta di accesso ai dati presentata da POLITICO a ottobre ha rivelato diverse comunicazioni del Dipartimento di Stato americano alla Commissione europea risalenti a settembre 2023, mentre Washington faceva pressioni sulla bozza dei piani. Il dipartimento tecnico della Commissione si è rifiutato di divulgare i documenti, sostenendo che la divulgazione "avrebbe compromesso la fiducia reciproca tra UE e Stati Uniti e quindi minato le loro relazioni".

La Francia è stata una fervente sostenitrice dell'utilizzo dell'etichetta per mettere i dati europei al di fuori della portata di leggi extraterritoriali come il “Cloud Act statunitense”, emarginando di fatto le Big Tech.

"Le tensioni geopolitiche ci costringono, più che mai, a mettere in discussione la sovranità dei nostri dati e, di conseguenza, il loro hosting", ha dichiarato la Ministra francese per il Digitale “Clara Chappaz” .

 

I Paesi Bassi, che dipendono fortemente dalla tecnologia statunitense, sono rimasti fino a poco tempo fa un importante oppositore all'uso dell'etichetta per escludere gli “hyperscaler americani”.

 Ma il forte atlantismo del Paese ha mostrato segni di cedimento nel contesto dei recenti disordini politici transatlantici.

 

Mentre il primo responsabile della sovranità tecnologica della Commissione europea prende in mano l'iniziativa, cresce la pressione affinché sostenga senza mezzi termini la tecnologia made in Europe e mantenga la propria posizione di fronte alle resistenze di Washington.

"L'Europa si fidava ciecamente degli Stati Uniti, che sarebbero sempre stati lì, sempre dalla loro parte", ha affermato” Bria”, professoressa all'University College di Londra.

 "Ora la situazione sembra molto diversa".

 

 

 

 

Una “simpatica” relazione tra uomo,

robot e intelligenza artificiale?

 La Germania ha messo a punto un progetto

di “30science” per Il Fatto.

Ilfattoquotidiano.it – Gianmarco Pondrano Altavilla – (16 luglio 2024) – ci dice:

Non è in realtà una novità: per decenni l’uomo si è interrogato sui rapporti con le Intelligenze artificiali e i robot e sui possibili modi per rendere questi rapporti i più “agevoli possibili”.

Ma il momento che stiamo vivendo nello sviluppo di queste tecnologie è tale che la questione di come gli esseri umani percepiscano la presenza di esseri meccanici che interagiscono con loro è diventata cruciale.

 Ecco perché in Germania è stato avviato il progetto “ZEN-MRI”, che è finanziato dal “Ministero federale tedesco dell’istruzione e della ricerca” (BMBF) e che durerà fino alla fine di agosto 2025.

 

Il progetto ha proprio il compito di studiare e rendere piacevoli le relazioni uomo/robot e uomo/IA favorendo una introduzione quanto più “dolce” possibile delle nuove applicazioni di intelligenza artificiale.

 Il lavoro verrà portato avanti da studiosi ed esperti dell’”Università di Magonza e Ulm”, e dell’Istituto per l’etica digitale dell’Università dei media di Stoccarda, in collaborazione con la città di Ulm, “Adlatus Robotics GmbH”, che produce i robot in esame, e il “Fraunhofer Institute for Industrial Engineering IAO di Stoccarda”. L’obiettivo è determinare come si possa ottenere una congeniale coesistenza tra esseri umani e robot nelle aree pubbliche.

 

Verranno studiate questioni come l’aspetto e il comportamento dei robot. Verranno inoltre prese in considerazione le informazioni che devono essere fornite ai cittadini per garantire che abbiano una chiara comprensione di quello che ci si può aspettare quando si incontrano gli specifici robot.

 I vari aspetti saranno inoltre valutati nel contesto di situazioni estreme per garantire che i robot possano svolgere le loro attività con interferenze minime e, se tutto va bene, siano persino accettati come simpatiche presenze nella vita degli esseri umani.

 Un altro obiettivo importante del progetto è determinare come i robot possano essere utilizzati per migliorare a loro volta l’accessibilità e la progettazione inclusiva delle interazioni uomo-robot.

 

In quest’ottica, è attualmente in corso uno studio che coinvolge soggetti ipovedenti per esaminare le loro esigenze specifiche in relazione ai robot negli spazi pubblici.

 “Stiamo creando un laboratorio in cui possiamo studiare le reazioni degli individui a vari robot in diverse situazioni in ambienti virtuali.

Esamineremo, ad esempio, quanto rapidamente e quanto vicino i robot possono avvicinarsi agli umani senza che questi ultimi si sentano a disagio e che tipo di suoni i robot devono produrre per garantire che siano percepiti non solo come non minacciosi ma persino simpatici” hanno spiegato i ricercatori.

(Gianmarco Pondrano Altavilla).

 

 

 

 

L’arte della dissimulazione di Donald

 Trump: il falso attacco all’Iran è

la replica del falso attacco alla Siria.

Lacrunadellago.net - Cesare Sacchetti –(22- 6 – 2025) – ci dice:

 

A quanto pare, la storia ama ripetersi come si vedrà meglio in seguito.

Stanotte, il presidente Trump ha scritto sul suo social, “Truth”, che avrebbe colpito i tre siti nucleari iraniani di “Fordow”, “Isfahan” e “Natanz” attraverso un attacco mirato per distruggere il programma nucleare dell’Iran.

 

Ai vari guerrafondai degli organi di stampa e dei loro fedeli alleati della falsa controinformazione non deve essere sembrato vero perché avranno pensato che “finalmente” il tanto atteso “Armageddon nucleare” da loro ardentemente desiderato sia finalmente arrivato.

E invece, ad uno sguardo più attento, ma soprattutto ad uno che si soffermi semplicemente a guardare le immagini degli attacchi si scoprirà che di essi non c’è traccia.

La mattina dopo l’attacco, l’agenzia di stampa iraniana dell’IRNA mostra che il sito di “Fordow” è perfettamente intatto e operativo e quindi, se qualche bomba è stata sganciata, non ha colpito di certo questa centrale nucleare, ma probabilmente i deserti dell’Iran.

 

Anche nei siti di Natanz e Isfahan si assiste allo stesso scenario.

Sono tutti intatti, non presentano nessun danno di sorta come avrebbe dovuto esserci qualora fossero stati sottoposti a bombardamenti, e non risulta esserci nessuna vittima civile.

I vari organi di stampa, tra i quali Repubblica, che non trovano immagini dei presunti bombardamenti hanno pubblicato delle foto di attacchi israeliani avvenuti all’Iran giorni prima cercando di farle passare invece per le immagini degli attacchi americani.

Le immagini pubblicate da Repubblica sono in realtà quelle di un attacco ad un deposito di petrolio iraniano avvenuto il 14 giugno.

 

Il precedente siriano: il false flag di “Khan Sheikhun”.

Cosa è accaduto dunque stanotte?

Il presidente Trump sembra aver aperto il manuale della dissimulazione a lui ben noto e ha messo in scena una strategia già vista ai tempi della guerra in Siria nel 2017.

 

Era allora il primo anno della sua presidenza, e la lobby sionista neocon voleva a tutti i costi che gli Stati Uniti continuassero nei loro sforzi per rovesciare il presidente siriano Assad, considerato nemico dallo stato ebraico per la sua contrarietà al piano imperialista della Grande Israele e per essere fermamente determinato a difendere la sovranità del suo Paese.

Il presidente allora si trovò subito di fronte ad una trappola dei suoi nemici.

All’inizio di aprile, iniziò a diffondersi la notizia che nel villaggio siriano di “Khan Sheikhun” ci sarebbe stato un attacco chimico eseguito da parte del governo Assad.

 

Il” false flag” di Khan Sheikhun.

In quel periodo, erano molto attivi i cosiddetti elmetti bianchi, un gruppo di terroristi finanziato dallo stato profondo di Washington, dall’Arabia Saudita, dal Qatar e ovviamente dallo stato di Israele che ha sempre sostenuto e alimentato il fenomeno del terrorismo islamico per destabilizzare l’area e scogliere i vari tagliagole dell’ISIS contro gli avversari di Sion.

 

Tale apparato decise di mettere in scena una classica falsa bandiera, nota come false flag nel gergo dell’intelligence, ovvero l’esecuzione di un attentato di vario tipo che poi viene fatto passare come eseguito dall’avversario che si vuole colpire.

I servizi segreti israeliani hanno una lunga storia di questo tipo di attentati, tra i quali c’è quello fatto contro la stessa ambasciata di Israele a Londra, un attacco, come ha rivelato l’ex agente del servizio segreto britannico del MI5, “Annie Machon”, messo in atto dai servizi segreti di Israele per accusare falsamente i Palestinesi di esserne stati invece i responsabili.

 

Non è molto dissimile quello che avvenne nel famigerato attentato del giornale satirico di “Charlie Hebdo”.

Charlie Hebdo era una pubblicazione estremamente dissacratoria nei riguardi delle religioni, in particolar modo quella cristiana, e dopo una controversa vignetta su Maometto, la sede del quotidiano fu vittima di un agguato che secondo la narrazione ufficiale venne eseguito dalla” nota ISIS”.

 

L’attacco serviva ancora una volta, da un lato, ad alimentare il fenomeno del terrorismo islamico e provocare così uno scontro tra l’Europa e Islam, si veda la famosa lettera di Pike a Mazzini al riguardo, e dall’altro, di consentire a Israele di avere dalla sua parte il mondo Occidentale nel suo piano di espansione del suo Stato e del dominio così della intera regione Medio – orientale a discapito dei vari Paesi arabi avversari del sionismo e della sua visione imperialista.

 

Non molto tempo dopo quell’attacco, emersero alcune testimonianze che riferivano come i terroristi “islamici” avessero gli occhi cerulei, una caratteristica somatica che fa pensare ad un fenotipo molto diverso da quello arabo o Medio – orientale, ma piuttosto a quello caucasico, magari a quello askenazita dell’Europa Orientale.

 

A confermare che l’attentato di Charlie Hebdo venne eseguito da agenti del Mossad fu anche una cosiddetta insider che si faceva chiamare “Ellie Katsnelson”, una nobildonna di origini tedesche che affermava di essere imparentata con la” famiglia Rothschild”, e che dimostrava una profonda conoscenza delle dinamiche che muovevano e muovono il terrorismo islamico.

La “Katsnelson scrisse che quell’attacco fu concepito dallo stato ebraico, a dimostrazione che non c’era nulla di spontaneo negli attacchi che venivano attribuiti ai vari islamici, ma che essi erano concepiti nell’ottica di alimentare uno scontro tra mondo cristiano e islam, e servire così meglio la logica di dominio di Israele.

 

Due anni dopo, nel 2017, lo stesso apparato che concepì la “falsa bandiera di Charlie Hebdo,” ne eseguì un’altra attraverso il citato attacco di Khan Sheikhun che venne falsamente attribuito ad Assad, quando a concepirlo ed eseguirlo erano stati ambienti del Mossad, della CIA e del MI6 pur di costringere gli Stati Uniti ad un intervento diretto armato contro Assad e scatenare così una probabile guerra mondiale perché la Siria si trovata sotto la diretta protezione militare della Russia che ha salvato Damasco dallo smembramento territoriale desiderato da Tel Aviv.

 

Il presidente Trump sapeva perfettamente che quell’operazione era stata concepita per tirarlo dentro nel conflitto siriano e servire così gli scopi di Israele.

 

Trump però all’inganno rispose con l’inganno.

Ordinò il 7 aprile di quell’anno un “attacco” contro la Siria che non fece praticamente nessun danno sostanziale, e che fu con ogni probabilità coordinato con la stessa Siria e la Russia per evitare così di scatenare una escalation e al tempo stesso buggerare coloro che avevano concepito il falso flag di Khan Sheikhun e mostrare che gli Stati Uniti avevano “punito” Assad.

 

Gli Stati Uniti da quel momento in poi hanno iniziato un percorso di separazione dalla lobby militarista del Pentagono, dallo stato ebraico e dalla NATO, ma in tali contesti così complessi e sofisticati è necessario in più di un’occasione ricorrere alla dissimulazione per non cadere nelle trappole dell’avversario anche se agli occhi della opinione pubblica tali azioni a volte possono apparire, a torto, come dei “tradimenti”.

 

La geopolitica non è sempre un campo lineare, dove una linea parte dal punto A e arriva al punto B senza alcuna deviazione.

Non di rado in questo mondo la linea parte da A ma prima di arrivare a B fa alcuni giri laterali che non sempre possono essere compresi da tutti.

Stanotte, c’è stata un’altra dimostrazione della abilità diplomatiche e geopolitiche di Trump attraverso l’annuncio di aver bombardato i tre siti nucleari citati in precedenza.

 

Una volta visto che non ci sono danni di sorta alle strutture e una volta costatato che l’attacco, se c’è stato, ha colpito il vuoto, si è fatto presto a comprendere che il presidente degli Stati Uniti ha messo in atto ancora una volta uno dei suoi colpi da maestro.

A confermare che l’attacco è stato una messinscena concordata è stato anche un ufficiale governativo iraniano che ad “Amwaj Media” ha dichiarato che Teheran era stata avvisata in anticipo dell’azione di Trump.

Gli Stati Uniti si sono così astutamente tirati fuori da ogni possibile ulteriore coinvolgimento nel conflitto perché in fin dei conti Israele dichiarava di voler neutralizzare i siti nucleari iraniani,  e non appena finita la messinscena, hanno dato nuovamente mano libera all’Iran per bombardare Israele, la cui contraerea è ancora a secco senza che Trump muova un dito per rifornirla.

È di poche ora fa la notizia che l’Iran ha colpito l’aeroporto di Tel Aviv, e la conferma di tale attacco viene dal fatto che gli aerei che dovevano atterrare lì hanno dirottato su altri aeroporti per poter atterrare.

 

La strategia e la comunicazione di Trump su Israele.

Se si vuole dunque davvero comprendere Trump, bisogna andare oltre le apparenze e le varie dichiarazioni di facciata per ingannare il nemico, ma bisogna esclusivamente guardare alle linee sostanziali della sua politica estera.

Se Donald Trump è un politico “sionista” come afferma la solita falsa controinformazione, allora ci si chiede dove sia il suo sionismo, considerato il fatto che il presidente non rifornisce la contraerea israeliana, e non interviene per difendere direttamente lo stato ebraico, ma lo lascia bombardare incessantemente da Teheran.

 

Trump si serve della dissimulazione per una ragione alquanto semplice.

Ogni singolo organo di informazione americano e internazionale è nelle mani della lobby israeliana, ogni ramo del Congresso è dominato dalla potentissima setta sionista di “Chabad” e dall’altro potente gruppo dell’”AIPAC”, l’organizzazione che ha sempre avuto in mano le redini della politica estera americana.

 

Il presidente ha scelto di muoversi in tal modo.

Non è ricorso ad un attacco frontale e diretto nei confronti di questi poteri, ma ha mandato loro dichiarazioni di “amicizia” nei primi anni del suo mandato servendosi di essi per attaccare l’altro lato del mondo ebraico, quello progressista e internazionalista più vicino a George Soros e alla sua Open Society.

Trump non si è però schierato né con il sionismo israeliano, né con l’internazionalismo ebraico, ma semplicemente è un presidente che ha messo al centro della sua agenda gli interessi nazionali del suo Paese, e che ha scelto di mettere in gioco anche la sua stessa vita pur di mettere fine alle interminabili guerre che Washington ha scatenato in giro per il mondo per conto di Israele.

 

Il tycoon sa che per liberare gli Stati Uniti da tutti i tentacoli che controllano tale potente nazione, è necessario a volte mettere un ambiente contro l’altro, fino ad arrivare al definitivo affrancamento del suo Paese.

Ed è quello che sta accadendo proprio in questi ultimi mesi. Il presidente americano ha messo alla porta l’AIPAC e non riceve nemmeno le chiamate di Miriam Adelson.

Ogni tentacolo dunque è stato accuratamente rimosso, ma è stato fatto con i tempi e i modi giusti.

 

Sono giochi che sono noti nelle varie cancellerie.

Lo sa certamente, ad esempio, proprio Teheran che all’indomani dell’omicidio del generale “Solei mani”, decise di rispondere colpendo una base americana, ma prima di farlo si premurò di avvertire Trump, rassicurandolo che nessuno dei 18 missili lanciati dall’Iran avrebbe colpito la base in questione.

 

Il retroscena getta chiaramente una luce completamente diversa sulla morte del generale Solei mani, che se effettivamente avvenuta, non deve aver turbato più di tanto l’Iran, mentre se non c’è stata, allora si è trattato evidentemente a tutti gli effetti di un’”altra psy-op” concepita sempre per ingannare gli avversari di Trump che volevano costringerlo già nel 2019 ad una guerra contro l’Iran, voluta solo e soltanto da Israele.

Si potrebbe metterla in questi termini.

A volte in questo mondo il nero è bianco e viceversa perché appunto l’inganno e la dissimulazione sono una condizione costante negli affari esteri e nella geopolitica poiché gli avversari ricorrono in continuazione a depistaggi di vario tipo, e non si può non rispondere loro con la stessa moneta per neutralizzare i loro tranelli.

Ci si chiede cosa succederà ora.

 

A giudicare dai precedenti, si veda il generale Solei mani, nulla di diverso da quanto accaduto nel 2019.

Se ci sarà una “risposta” dell’Iran agli Stati Uniti, sarà con ogni probabilità concordata come quella di 6 anni prima.

Nel frattempo, l’Iran continua a bombardare Israele senza sosta, mentre lo stato ebraico che voleva il coinvolgimento diretto e attivo degli Stati Uniti in guerra, è rimasto con un pugno di mosche in mano.

Israele si è risvegliata peggio di prima e giocata ancora una volta da Donald Trump, il “sionista” che sta lasciando affondare Tel Aviv.

 

 

 

Germania e Italia, l’ipotesi di rimpatriare

l’oro da New York:

«Trump può limitare l’accesso».

 Open.online.it - 23 Giugno 2025 - Filippo di Chio – ci dice:

Secondo il Financial Times, la situazione di insicurezza geopolitica ed economica potrebbe spingere i due governi europei a optare per un controllo diretto sulle riserve auree.

Ma Meloni dovrebbe fare uno sgarbo al suo alleato.

 I 245 miliardi in lingotti nelle casse della Fed.

Lingotti d’oro per un valore complessivo di 245 miliardi di dollari potrebbero presto essere trasferiti da New York a Berlino e Roma.

Secondo il Financial Times, Germania e Italia starebbero valutando di prelevare il loro oro, conservato dalla Federal Reserve americana, per riportarlo sotto il loro diretto controllo.

Il timore sempre più diffuso, infatti, è che le scintille causate dallo scontro periodico tra il presidente americano Donald Trump e la banca centrale statunitense possano causare un incendio.

E che, con un colpo di mano, il tycoon possa guadagnare una sempre maggiore influenza sulle politiche della Fed.

Andando a limitare la capacità di accedere ai lingotti in caso di crisi.

Le ricchezze di Germania e Italia: il 43% della riserva negli Usa.

Stati Uniti, Germania e Italia:

i tre fulcri del triangolo dorato, essendo i Paesi che hanno a loro disposizione la maggiore riserva aurea al mondo.

Secondo i dati del “World Gold Council”, Berlino segue a distanza Washington con 3.352 tonnellate mentre Roma occupa l’ultimo gradino del podio con 2.452 tonnellate.

 Le due capitali europee, però, hanno affidato una buona fetta delle loro riserve proprio a New York.

Rispettivamente il 37% dell’oro tedesco e il 43% di quello italiano, per un valore complessivo di 245 miliardi.

Una ricchezza che non è mai stata in discussione, perché sotto il diretto controllo della banca più potente e influente al mondo, ma che adesso rischia di traballare. Soprattutto di fronte alle minacce di Trump nei confronti della decisione della Fed di non abbassare i tassi: «Forzerò qualcosa».

Esiste il Grafico a barre delle tonnellate metriche che mostra le riserve auree delle banche centrali.

Un grafico che ritrae i dieci Paesi al mondo con le più grandi riserve auree, misurate in tonnellate (Fonte: “Financial Times”).

Perché l’oro italiano si trova negli Stati Uniti.

Ma perché quasi metà dell’oro italiano si trova negli Stati Uniti?

Si tratta di una semplice eredità storica, in particolare di quegli accordi di Bretton Woods che nel 1944 avevano inchiodato i cambi delle valute di tutto il mondo al valore del dollaro, a sua volta fissato al valore dell’oro.

In quegli anni, insomma, avere i lingotti negli Stati Uniti era una sicurezza.

E il collasso degli accordi nel 1971, con l’uscita degli Usa ordinata dall’allora presidente Richard Nixon, non ha intaccato la decisione di Germania e Italia. Parigi, al contrario, aveva anticipato la decisione di Washington ritirando tutti i suoi lingotti per paura dell’implosione del sistema monetario internazionale.

La paura della mano di Trump e la posizione di Giorgia Meloni

Nel 2013, in realtà, la Bundesbank tedesca aveva deciso di depositare metà delle sue riserve a Berlino, trasferendo 674 tonnellate di lingotti da Parigi e New York a Francoforte.

Una mossa per salvaguardare una parte delle proprie riserve, come ha sottolineato l’ex deputato conservatore “Peter Gauweiler”:

«Dobbiamo chiederci se negli ultimi dieci anni conservare l’oro all’estero sia diventato più sicuro e stabile oppure no.

 La risposta è ovvia».

Il rischio, si mormora nel Bundestag, è che «Trump possa manomettere l’indipendenza della Fed, limitando il controllo dell’oro da parte delle banche centrali europee».

Anche perché, in caso di crisi, «quello che conta davvero è il controllo fisico delle riserve».

È lo stesso “Financial Times” a ricordare come uno dei cavalli di battaglia della premier Giorgia Meloni, prima della vittoria elettorale, fosse proprio il rimpatrio della riserva.

Ora, invece, dal suo partito filtra una linea opposta:

«La posizione geografica dell’oro ha solo un’importanza relativa», ha detto “Fabio Rampelli” di FdI.

«È in custodia di uno storico amico e alleato».

 

 

 

 

Un Nuovo Paradigma

dello “Scontro di Civiltà.”

Conoscenzealconfine.it – (22 Giugno 2025) - Loretta Napoleoni – ci dice:

 

Dalla caduta del muro di Berlino abbiamo assistito al proliferarsi di conflitti armati;

 il vento di democrazia che dall’occidente soffiava intorno al mondo non è stato come ci si aspettava pacificatore, la globalizzazione non ci ha regalato la pace.

Conscio di questo fallimento Papa Bergoglio coniò la celeberrima frase: “la terza guerra mondiale a pezzi”.

Ricomponendo sul mappamondo l’agghiacciante puzzle dei conflitti insorti negli ultimi trent’anni, torna in mente la tesi del professor “Samuel Huntington” riguardo allo scontro di civiltà.

 Una tesi che a distanza di tre decenni sembra descrivere l’evoluzione della guerra fredda, una guerra non più fredda ma calda, non più tra due blocchi ma tra diversi poli caratterizzati da differenze etnico-culturali.

Ed infatti i fronti sembrano strutturarsi lungo linee di omogeneità etnica culturale con alcune nazioni intrappolate geograficamente tra i diversi blocchi.

 

L’Ucraina è uno di questi.

La mancanza di omogeneità esistenziale con il blocco Russo-slavo-centro-asiatico che Huntington definisce blocco ortodosso, in parte causata dal desiderio dell’establishment ucraino di appartenere a quello europeo, nonostante etnia, religione e cultura storica, ha trasformato il paese in un teatro di guerra dove due civiltà si scontrano, da una parte l’occidente ingaggiato in una guerra per procura e dall’altra la Russia, leader del blocco ortodosso, che reclama quella fetta di terra che dichiara le appartiene etnicamente, storicamente e culturalmente.

 

Discorso analogo si può fare per l’espansionismo israeliano sostenuto dall’occidente che ormai è arrivato allo scontro bellico con l’Iran ed alla distruzione di Gaza.

A confronto ci sono due realtà contrastanti:

 Israele che è, e si presenta come espressione del blocco occidentale, ma che si trova geograficamente ubicata all’interno del blocco islamico e dall’altra l’Iran, che, come la Russia, si considera leader del proprio blocco.

 Ma lo scontro in questo caso non è solo circoscritto alla natura delle due civiltà, ha al suo interno elementi moderni, che lo differenziano dal modello classico di Huntington e da quello in Ucraina.

 

Secondo il professor “Huntington” lo scontro tra Israele e la civiltà islamica è un conflitto strutturale, sistemico, radicato non solo nella storia coloniale del Novecento ma nel cuore stesso della ridefinizione del Medio Oriente seguita al crollo dell’Impero Ottomano.

Israele è un’anomalia strategica, una potenza militare, tecnologica ed economica che rappresenta, per molti versi, l’avamposto del mondo occidentale nel cuore della civiltà islamica.

Tuttavia, non appartiene davvero all’Occidente:

 è una creazione postbellica, nata dentro l’architettura del dopoguerra, funzionale agli interessi angloamericani, ed è come la guerra fredda un prodotto dell’assetto post-bellico.

 

Nel paradigma dello “scontro di civiltà” Israele è dunque un elemento di frattura, il punto critico, il detonatore.

Circondato da Stati mussulmani, molti dei quali deboli, autoritari, o falliti, ha costruito un sistema di sopravvivenza fondato sulla superiorità militare, l’intelligence, e un’alleanza quasi organica con Washington, ed oggi con l’Europa.

È, in questo senso, un attore protetto ma isolato.

La civiltà islamica, dal canto suo, vive la sua relazione con Israele come una continua umiliazione, un tarlo.

La questione palestinese è stata una ferita aperta, l’elemento che ha dato coerenza ideologica e politica anche a regimi altrimenti divergenti: sunniti, sciiti, laici o islamisti.

 

L’Islam politico ha fatto della lotta contro Israele un simbolo della resistenza contro l’occidentale.

Hamas, Hezbollah, la Jihad Islamica, e prima ancora l’OLP, sono figli di questa visione.

Ma anche i regimi più conservatori, come l’Arabia Saudita, hanno usato per decenni l’antisionismo come valvola di sfogo per il malcontento interno. 

Poi qualcosa è cambiato.

Durante il primo mandato di Trump abbiamo assistito alla progressiva normalizzazione dei rapporti (Accordi di Abramo) delle potenze del Golfo con Israele, un cambiamento dettato più da interessi economici e geopolitici – il contenimento dell’Iran, le nuove rotte commerciali, l’accesso alla tecnologia israeliana – che da una reale riconciliazione ideologica.

Su questo terreno Israele ha lavorato per risolvere una volta per tutte la questione palestinese e sbarazzarsi della fetta del blocco islamico ancora ostile:

l’Iran.

 

Parlare ancora di scontro di civiltà sembra dunque riduttivo, piuttosto ci troviamo di fronte ad un nuovo paradigma, una guerra territoriale, di supremazia che ha gettato le insegne ideologico-culturali per abbracciare quelle della forza, quale manifestazione di potenza.

È un conflitto moderno, post globalizzazione, che non teme di presentarsi al mondo fuori degli schemi dello scontro di civiltà, una guerra che si combatte con la tecnologia, le alleanze strategiche fondate sul commercio, il profitto e la convenienza e non più su valori comuni religiosi, culturali o storici.

Una guerra moderna senza possibilità di pacificazione diplomatica, che, ahimè, potrebbe essere combattuta fino all’annientamento del nemico.

(Loretta Napoleoni).

(lantidiplomatico.it/dettnews-il_nuovo_paradigma_dello_scontro_di_civilt/56082_61487).

 

 

 

 

 

Generale F. Mini: “la Guerra di

 Netanyahu è la Prova che

Teheran Non Ha l’Atomica.”

Conoscenzealconfine.it – (19 Giugno 2025) - Intervista di Paolo Rossetti al Generale Fabio Mini – ci dice:

 

Israele vuole punire l’Iran perché è un contendente in Medio Oriente.

Netanyahu vuole le armi USA ma la sua guerra non risolverà niente.

 

L’obiettivo di Israele è quello di affermarsi come potenza egemone nel Medio Oriente.

 E per farlo ha deciso di attaccare l’Iran, di destrutturarlo come Paese.

Per portare a compimento il piano, però, spiega Fabio Mini, generale già capo di stato maggiore della NATO per il Sud Europa e comandante delle operazioni di pace della NATO in Kosovo (autore de “La Nato in guerra”, Dedalo, 2025), Netanyahu ha bisogno che Trump gli fornisca le armi adatte.

 

Così impostata, la guerra andrà avanti fino a che entrambe le parti non avranno finito le munizioni.

 Si spiegano così anche i nuovi attacchi a Israele annunciati da Khamenei e la decisione di trasferire i poteri esecutivi ai pasdaran.

 Trump dice che per ora la guida della Rivoluzione non sarà ucciso, ma è sempre uno degli obiettivi degli israeliani.

 

Il G7, intanto, firma unito un documento contro l’Iran per la de-escalation, ma anche di sostegno alla sicurezza di Israele, in un contesto in cui non è esclusa neanche la partecipazione alla guerra di Paesi europei.

Trump dice che in Iran non vuole un cessate il fuoco, ma la fine della questione nucleare iraniana.

 Qual è il vero obiettivo di Israele e come si esce da questa situazione complicata?

 

Mi sembra una situazione in cui nessuno dice veramente quello che intende. Israele vuole coinvolgere l’America nel conflitto perché gli fornisca gli equipaggiamenti, le bombe e i ricambi che servono per attaccare l’Iran in profondità, ma senza un intervento diretto degli USA:

 Netanyahu non vuole passare per quello che ha dovuto mendicare l’intervento perché non riusciva a sbloccare la situazione da solo.

Fino a quando andrà avanti a combattere?

Fino a quando avrà delle munizioni.

Quelle di Israele non sono infinite, come anche i missili.

Non sono infinite neppure le munizioni degli iraniani.

Anche nella guerra tra Iraq e Iran successe questo:

finite le munizioni si smise di combattere.

Ma non sarà finito il conflitto.

 

Ma perché Israele ha deciso di attaccare?

 

Vuole punire l’Iran con il pretesto dell’armamento nucleare.

Se Teheran avesse avuto la bomba, Israele sarebbe stato più cauto nell’attacco, ma siccome si diceva che potesse avere un’arma nucleare nel giro di dieci giorni o un mese, ha sferrato una sorta di attacco preventivo.

 

Per cosa Netanyahu vuole punire l’Iran, per quello che ha fatto in Medio Oriente con i suoi “proxy”?

È più di questo.

 L’Iran ha un ruolo in campo internazionale, ha un trattato di cooperazione con la Russia, con la Cina, anche in campo nucleare, per scopi civili, fa parte dei BRICS. Insomma, non è isolato come la Nord Corea.

Ha pure una rilevanza storica e una posizione geografica estremamente strategica: lo Stretto di Hormuz lo controlla Teheran, così come il Golfo Persico;

se l’Iran non vuole, lì non si muove neanche un barile di petrolio.

Quello che vuole veramente Israele è togliere l’Iran dal contesto internazionale come Paese di riferimento per qualcuno, eliminarlo strutturalmente.

 

Cosa vuol dire?

Eliminare le strutture di comando, politiche, economiche, destrutturarlo come Paese in modo che non abbia neanche la capacità di avere uno sgabello nelle Nazioni Unite.

 Israele vuole estendere la sua sfera di intervento a tutto il Medio Oriente.

 

È un progetto israeliano, o è americano e viene applicato per interposta persona?

È un progetto neoconservatore, come quelli che si vanno praticando dagli inizi degli anni ’90 che molti hanno appoggiato fin da quando Israele era un nano in mezzo ai giganti.

Adesso, invece, Israele, soprattutto dal punto di vista militare, è un gigante fra i nani.

Un gigante che si è messo a fare il bullo senza considerare che per questo è destinato a perdere:

facendo del male a destra e a sinistra, prima o poi si troverà tutti i suoi nemici di nuovo contro.

 

Gli americani asseconderanno Netanyahu oppure no?

Nei giorni scorsi Trump aveva detto addirittura di vedere Putin come mediatore: potrebbe percorrere questa strada?

Questa intermediazione la vedo sulla carta, per fare un po’ di scena.

Se dovesse realizzarsi, sarebbe solo perché i due contendenti dimostreranno la volontà di negoziare, di concedere qualche cosa.

Anche la trattativa per il nucleare da un certo punto di vista è di una banalità assoluta:

l’Iran è da tempo disponibile a un accordo che limiti la sua capacità nucleare soltanto al civile, rinunciando alla bomba atomica.

L’ha già detto mille volte, ha anche sottoscritto il trattato di non proliferazione (TNP) di queste armi.

Trump e Israele, però, dicono che gli iraniani barano.

 

Per entrambe le parti si tratta di una guerra molto dispendiosa. Questo elemento potrebbe fermare il conflitto?

A questo ritmo di attacchi tutti e due le parti sono destinate a svenarsi.

Ogni notte, Israele spende il PIL di mezza Europa.

È vero che è un Paese ricco, ma prima o poi dovranno darci un taglio.

Dall’altra parte, bisogna chiedersi quanto è disposto l’Iran a sostenere questo tasso di perdite e vedere le proprie strutture distrutte ogni giorno.

E Israele quanto potrà continuare, se tutte le notti un grattacielo si sbriciola.

Si tratta di grosse perdite anche dal punto di vista materiale e morale.

 

Non c’è nessuna possibilità, comunque, che riprendano i negoziati?

 L’unico scenario possibile al momento è quello della guerra?

Se intervengono gli Stati Uniti si arriverà a una guerra conclamata, che rischia di coinvolgere anche l’Europa.

Con tutta questa retorica sulla salvezza di Israele, se gli americani chiedono di formare una coalizione vuoi che anche l’Italia non partecipi?

 

Nel documento del G7 si parla del diritto di Israele a difendersi.

 Può aprire la strada a un intervento dei Paesi europei?

 

Sì, sarebbe un’altra spinta verso il precipizio. Siamo già sull’orlo, basta che qualcuno dia uno spintone.

 

Se l’obiettivo di Israele è destrutturare l’Iran perché forse è il solo Paese che può contrastarne l’egemonia in Medio Oriente, che ne sarà dell’Iran stesso dopo la guerra?

 

Mark Rutte”, il segretario generale della NATO, ha detto che comunque vada a finire la guerra in Ucraina, la Russia sarà sempre lì.

La stessa cosa si può dire dell’Iran.

 Una volta che l’hai destrutturato, ci si può mettere un governo amico dell’Occidente, magari riesumando qualche discendente dello Scià di Persia;

si può lasciare tutto in mano a bande locali e presentare tutto ugualmente come una vittoria.

Non credo che gli americani possano occuparlo:

 ripeterebbero le loro esperienze in Afghanistan e Iraq.

 Alla fine della guerra, insomma, Israele potrà aver risolto il problema per 5-10 anni, ma non sarà la soluzione definitiva.

(Intervista di Paolo Rossetti al Generale Fabio Mini).

(ilsussidiario.net/news/israele-vs-iran-mini-la-guerra-di-netanyahu-e-la-prova-che-teheran-non-ha-latomica/2846406/).

Il grande cambiamento monetario:

come la spinta della Cina verso un

 sistema monetario “multipolare”

 maschera una presa di potere globalista.

  Naturalnews.com – (22/06/2025) - Lance D. Johnson – ci dice:

 

Mentre il mondo assiste al rallentatore crollo del dollaro statunitense, il governatore della banca centrale cinese, “Pan Gongsheng”, ha dichiarato l' alba di un "sistema monetario internazionale multipolare" , in cui il renminbi (e la sua unità principale, lo yuan) compete con il dollaro e l'euro.

Ma sotto la superficie di questo cambiamento apparentemente liberatorio si cela una verità più oscura:

gli stessi potenti broker d'élite che hanno orchestrato il vecchio ordine finanziario stanno semplicemente riconfezionando il loro controllo sotto una nuova veste.

Il Financial Times, Goldman Sachs e le istituzioni globaliste hanno da tempo annunciato questa transizione, presentandola come un progresso economico, mentre stringevano silenziosamente il cappio della sorveglianza e dello sfruttamento.

Punti chiave:

Il governatore della banca centrale cinese prevede l'ascesa di un sistema monetario "multipolare", che segnerebbe la fine del predominio del dollaro.

Questo cambiamento rispecchia il progetto BRICS elaborato da Goldman Sachs in decenni di attività, dimostrando che questa transizione è stata pianificata e non organica.

Nonostante le affermazioni di decentralizzazione, il nuovo sistema resta controllato dalle stesse élite globaliste, questa volta dotate di capacità di sorveglianza potenziate.

I parallelismi storici con gli accordi di Bretton Woods rivelano come gli spostamenti monetari consolidino il potere anziché disperderlo.

L'alleanza dei BRICS, lungi dall'essere una ribellione contro l'egemonia occidentale, è un progetto globalista riconfezionato con la Cina al timone.

Il mito della liberazione multipolare.

Il recente discorso di “Pan Gongsheng” a Shanghai ha inquadrato il declino del dollaro come un'evoluzione inevitabile, citando l'ascesa dell'euro e la crescente influenza finanziaria della Cina dalla crisi del 2008.

Ma questa narrazione ignora le fondate basi gettate da istituzioni come “Goldman Sachs”, che per prima coniò il termine "BRICS" nel 2001 come tabella di marcia per il riallineamento economico.

Lungi dall'essere un movimento dal basso, il blocco BRICS – ora esteso per includere il Sudafrica – è sempre stato un progetto verticistico, concepito per spostare l'influenza economica mantenendo intatte le strutture globaliste.

 

Come ha osservato “Rolo Slavskiy” nella sua analisi, il multipolarismo non è uno smantellamento del globalismo, ma un rebranding:

un sistema in cui le élite regionali impongono la stessa agenda sotto bandiere diverse.

 Vladimir Putin, spesso descritto come uno sfidante dell'egemonia occidentale, ha perseguito le stesse politiche globaliste del suo predecessore Boris Eltsin.

Lo stesso si può dire del Partito Comunista Cinese, che promuove la "de-dollarizzazione" mentre costruisce un sistema distopico di credito sociale che lega la valuta al comportamento.

 

Il manuale di Bretton Woods si ripete.

L'ultima grande riforma monetaria avvenne nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods, che consolidarono il dominio del dollaro come valuta di riserva mondiale. Quel sistema, creato dalle potenze occidentali, diede vita anche al FMI e alla Banca Mondiale, istituzioni che da allora hanno imposto austerità e schiavitù del debito ai paesi in via di sviluppo.

Ora, mentre la presidente della Banca Centrale Europea e del PAN Christine Lagarde discutono di un "nuovo ordine monetario globale", la storia ci avverte che tali transizioni raramente conferiscono potere alle masse.

 Al contrario, ridistribuiscono il controllo tra gli stessi architetti finanziari.

Anche la proposta di utilizzare i Diritti Speciali di Prelievo (DSP) del FMI – un paniere di valute – come alternativa al dollaro solleva dei dubbi.

I DSP sono ancora gestiti dal FMI, un'istituzione storicamente allineata agli interessi occidentali.

Come ha osservato “Sam X “del podcast “Uncharted Territory, "Roma non cade mai. Si limita a spostarsi e a nascondersi".

Il vero potere, sostiene, rimane concentrato nelle tre Città-Stato: Londra, Vaticano e Washington, DC.

 

BRICS: un cavallo di Troia per il capitalismo della sorveglianza.

L'aggressiva accumulazione di oro da parte della Cina – una copertura contro il crollo del dollaro – è stata presentata come un passo verso la sovranità finanziaria.

 Eppure, questa strategia si allinea perfettamente con la previsione di Goldman Sachs del 2003, secondo cui i paesi BRICS avrebbero eclissato le economie occidentali entro il 2039.

 Ciò che i sostenitori di questa transizione omettono è l'infrastruttura di sorveglianza che la accompagna.

 Un sistema monetario multipolare non significherà solo riserve concorrenti, ma significherà anche identità digitali, denaro programmabile e punteggi di credito sociale che determineranno l'accesso al capitale.

Il Financial Times, Goldman Sachs e le banche centrali globali non stanno proclamando la libertà; stanno programmando una forma di controllo più efficiente.

 La domanda non è se il dollaro crollerà, ma chi trarrà profitto dal suo declino.

(Expose-News.com).

 

 

 

 

Un enorme drone stealth cinese avvistato

 in una base segreta dello Xinjiang potrebbe

rappresentare un potenziale punto di svolta

 nella guerra nel Pacifico.

 Naturalnews.com – (23/06/2025) - Zoey Sky – ci dice:

 

Un grande drone stealth cinese, mai visto prima, simile a un'ala volante, è stato fotografato in una base militare segreta nello Xinjiang.

 Con un'apertura alare quasi pari a quella del bombardiere statunitense B-2, è probabilmente progettato per missioni ad alta quota e lunga autonomia come sorveglianza, guerra elettronica o persino attacchi aerei.

Il drone è stato avvistato presso la base di test di Malan, altamente classificata, dotata di grandi hangar simili alle strutture per bombardieri stealth statunitensi.

Ciò suggerisce che la Cina stia sviluppando un mix di velivoli stealth con e senza pilota, in linea con i programmi di guerra aerea di nuova generazione degli Stati Uniti.

 

Il drone potrebbe effettuare spionaggio a penetrazione profonda, jamming elettronico, attacchi di precisione o bersagli per missili ipersonici.

 Il suo design stealth gli permetterebbe di operare inosservato vicino alle risorse militari statunitensi nel Pacifico, rappresentando una grave minaccia strategica.

 

Poiché la Cina sa che i satelliti monitorano le sue basi, lasciare il drone visibile potrebbe essere stato intenzionale.

Potrebbe essere un avvertimento per gli Stati Uniti e i suoi alleati sulle sue avanzate capacità in materia di droni, colmando il divario tecnologico con i sistemi stealth americani.

 

Se operativo, questo drone potrebbe costringere gli Stati Uniti ad accelerare le misure di contrasto alla furtività e a ripensare le strategie di guerra con i droni.

I rapidi progressi della Cina nei sistemi senza pilota segnalano un cambiamento nella potenza di combattimento aerea, con il potenziale di alterare l'equilibrio nell'Indo-Pacifico.

Un enorme drone stealth mai visto prima è stato fotografato in una base militare cinese altamente segreta, scatenando l'allarme tra gli analisti della difesa circa la rapida espansione delle capacità di guerra senza pilota di Pechino.

L'aereo, che ricorda un'ala volante futuristica, è stato immortalato in un'immagine satellitare scattata il 14 maggio 2025 presso la base di collaudo di Malan.

 La struttura, situata nella remota regione cinese dello Xinjiang, è un polo noto per i programmi di combattimento aereo più avanzati del Paese.

Il drone, con un'apertura alare stimata in 52 metri, quasi pari a quella del bombardiere stealth statunitense B-2 Spirit, sembra essere un velivolo senza pilota ad alta quota e lunga autonomia (HALE), probabilmente progettato per missioni di sorveglianza a penetrazione profonda, guerra elettronica o persino attacco.

La sua comparsa segnala l'aggressiva spinta della Cina a dominare la guerra aerea di nuova generazione, potenzialmente in grado di modificare l'equilibrio di potere nel Pacifico.

 

La base di Malan è stata a lungo avvolta nel mistero, ma recenti immagini satellitari rivelano un vasto complesso di hangar, alcuni abbastanza grandi da ospitare bombardieri stealth.

Il nuovo drone era parcheggiato all'esterno di una di queste enormi strutture, il che suggerisce che la base sia ora un banco di prova per un intero ecosistema di velivoli di nuova generazione, dai bombardieri stealth come il vociferato H-20 ai droni avanzati e ai caccia di nuova generazione.

 

L'infrastruttura assomiglia molto alle strutture statunitensi per i bombardieri stealth, come quelle della base aerea di Whiteman in Missouri, dove sono di stanza i B-2 Spirit.

La varietà di dimensioni degli hangar indica che Malan potrebbe sviluppare un mix di piattaforme stealth con e senza pilota, in linea con il programma “Next Generation Air Dominance” (NGAD) del Dipartimento della Difesa statunitense.

 

Il velivolo appena avvistato assomiglia sorprendentemente all'RQ-180 statunitense, un drone da ricognizione stealth classificato, ma su scala molto più grande.

(Gli Stati Uniti si assicurano la catena di fornitura dei droni mentre il predominio della Cina nel mercato dei droni commerciali minaccia la SICUREZZA NAZIONALE.)

 

Gli analisti ritengono che il drone cinese potrebbe svolgere molteplici funzioni:

Sorveglianza a penetrazione profonda – Grazie al suo design stealth e alla lunga autonomia, il drone potrebbe aggirarsi inosservato nelle regioni contese, raccogliendo informazioni sulle risorse militari statunitensi, tra cui portaerei e basi nel Pacifico.

 

Guerra elettronica L'aereo può essere dotato di sistemi di disturbo per interrompere i radar e le comunicazioni nemiche, una capacità fondamentale nella guerra moderna.

Missioni di attacco Se armato, potrebbe fungere da bombardiere stealth senza pilota, in grado di lanciare attacchi di precisione contro obiettivi di alto valore nascosti dietro le linee nemiche.

 

Monitoraggio delle navi nemiche:

 il crescente arsenale di armi ipersoniche della Cina si basa su dati di puntamento in tempo reale, un aspetto che questo drone potrebbe fornire individuando e tracciando navi o installazioni nemiche.

Un drone costruito per lo spionaggio a lungo raggio, o peggio.

Il design ad ala volante del drone, le estremità alari tagliate e l'apparente mancanza di una cabina di pilotaggio visibile suggeriscono fortemente che si tratti di un velivolo senza pilota.

 Tuttavia, l'immagine satellitare a bassa risoluzione lascia spazio a speculazioni. Alcuni esperti avvertono che potrebbe trattarsi comunque di un prototipo con equipaggio o addirittura di un'esca destinata a trarre in inganno i servizi segreti stranieri.

La Cina sa bene che i satelliti commerciali monitorano le sue basi militari.

 Il fatto che questo drone sia stato lasciato allo scoperto suggerisce che Pechino potrebbe aver voluto renderlo visibile, una mossa calcolata per mettere in mostra le sue avanzate capacità in materia di droni stealth.

 

Questa rivelazione segue una serie di recenti rivelazioni sui programmi di combattimento aereo di nuova generazione della Cina, tra cui il drone stealth CH-7 e il caccia stealth J-36.

Ogni nuovo sviluppo rafforza le preoccupazioni sulla rapidità con cui la Cina sta colmando il divario tecnologico con gli Stati Uniti, in particolare nei sistemi senza pilota.

 

Se operativo, questo drone potrebbe rappresentare una minaccia significativa per le forze statunitensi e alleate nell'Indo-Pacifico.

La sua capacità di operare inosservato per lunghi periodi lo renderebbe uno strumento ideale per tracciare i movimenti navali americani, guidare attacchi missilistici o persino condurre attacchi segreti.

L'esercito statunitense ha a lungo fatto affidamento sui propri droni stealth o su missioni di ricognizione ad alto rischio. Ora, la Cina sembra schierare un concorrente, che potrebbe far pendere la bilancia in un futuro conflitto.

 

Funzionari e analisti della Difesa esamineranno attentamente ulteriori immagini satellitari alla ricerca di tracce di test di volo o di ulteriori prototipi.

 Se questo drone entrasse in servizio attivo, potrebbe costringere il Dipartimento della Difesa ad accelerare le misure anti-stealth e a riconsiderare le proprie strategie relative ai droni.

(WWIII.news).

 

 

 

Lo Stato e la guerra.

Comedonchisciotte.org – Redazione CDC - Giorgio Agamben, quodlibet.it – (24 Giugno 2025) – ci dice:

Ciò che noi chiamiamo Stato è, in ultima analisi, una macchina per fare guerre e prima o poi questa sua costitutiva vocazione finisce con l’emergere al di là di tutti gli scopi più o meno edificanti che esso può darsi per giustificare la sua esistenza.

Questo è oggi particolarmente evidente.

 Netanyahu, Zelens’kyj, i governi europei perseguono a ogni costo una politica di guerra per la quale si possono certamente identificare scopi e giustificazioni, ma il cui movente ultimo è inconscio e riposa sulla natura stessa dello stato come macchina di guerra.

Questo spiega perché la guerra, com’è evidente per Zelens’kyj e per l’Europa, ma com’ è vero anche nel caso di Israele, sia perseguita anche a costo di andare incontro alla propria possibile autodistruzione.

 Ed è vano sperare che una macchina da guerra possa arrestarsi di fronte a questo rischio.

Essa andrà avanti fino alla fine, qualunque sia il prezzo che dovrà pagare.

(Giorgio Agamben, quodlibet.it)- (quodlibet.it/giorgio-agamben-lo-stato-e-la-guerra).

(Giorgio Agamben è un filosofo italiano. Ha scritto diverse opere che spaziano dall’estetica alla filosofia politica, dalla linguistica alla storia dei concetti, proponendo interpretazioni originali di categorie come forma di vita, homo sacer, stato di eccezione e biopolitica.)

 

 

 

 

Cattive abitudini.

Comdonchisciotte.org – CptHook – (23 Giugno 2025) - Irina Slav – Irina Slav on Energy – ci dice:

 

L’Unione Europea sta cercando di aumentare i prestiti congiunti nel tentativo di rafforzare la presenza dell’euro sulla scena internazionale.

Secondo il presidente della Banca Centrale Europea, “Christine Lagarde”, “nonostante la forte posizione fiscale aggregata, con un rapporto debito/PIL dell’89% rispetto al 124% degli Stati Uniti, l’offerta di asset sicuri di alta qualità è in ritardo”.

 

Mi sono imbattuto in questo rapporto nella mia newsletter quotidiana del FT e lo stavo leggendo casualmente finché non sono giunta a questa citazione.

 Scorrendo verso il basso ho appreso che la Francia da anni spinge per un maggiore indebitamento, ma la Germania e i Paesi Bassi, che dovrebbero rimborsare una parte maggiore del debito, si oppongono.

Ho anche appreso, senza troppa sorpresa, che “l’UE sta già lottando per ripagare i quasi 800 miliardi di euro di debito comune che ha emesso durante la pandemia di Covid-19 per finanziare gli stimoli economici” e che, secondo un diplomatico di alto livello dell’UE, “se la situazione si deteriora” la pressione crescerà soprattutto perché l’economia di alcuni Stati membri non è in – beh – “condizioni così buone”. Eppure “giovedì i ministri delle finanze europei hanno raccomandato che la Bulgaria diventi il 21° membro dell’Eurogruppo, aprendo la strada all’adozione dell’euro da parte della nazione dell’Europa orientale”.

 

Non preoccupatevi, questo non è l’ennesimo post sul destino valutario della Bulgaria;

no, questo è un post sulle cattive abitudini e, più precisamente, sulla pessima abitudine di vivere a debito.

 

Per “Christine Lagarde”, un rapporto debito/PIL di appena l’11% inferiore al 100% rappresenta “una forte posizione fiscale aggregata”.

A me, un profano della finanza, questo sembra tanto sano quanto chiedere 650.000 euro per questa casa, che è in effetti ciò che chiede il venditore.

La cosa più assurda?

Probabilmente troveranno qualcuno che pagherà quel prezzo, perché le banche sono ansiose di concedere prestiti.

 

L’idea del leasing e del mutuo è relativamente nuova dalle mie parti, ma qui ha trovato terreno fertile.

Voglio dire, la gratificazione differita è così sopravvalutata, soprattutto quando è tutt’altro che certa, quindi ovviamente ha senso comprare qualcosa – una casa, un’auto, un ferro da stiro – adesso, e pagarla nel tempo.

 E se alla fine costa un po’ (molto) di più?

 

È così che siamo finiti in una bolla immobiliare che sta per scoppiare l’anno prossimo.

I prestiti sono stati resi così facili che tutti si sono precipitati ad accendere un mutuo e ad acquistare immobili che altrimenti non si sarebbero potuti permettere. Ovviamente non c’è nulla di sbagliato nell’acquistare una casa con un mutuo. Diventa sbagliato, cioè un po’ pericoloso dal punto di vista finanziario, quando si presume di poter comprare tutto in questo modo.

 E ci sono molte cose che si vorrebbero comprare.

 

Storia vera di un mio conoscente:

“Ho appena estinto il mio ultimo prestito, quindi ne chiederò un altro per un impianto solare per la nuova casa”.

Il debito è diventato lo stile di vita standard per molti.

 

Il motivo per cui questo è problematico è, per me, abbastanza semplice da capire: la sicurezza del lavoro non esiste.

 In tempi difficili, chiunque e tutti possono cadere e le banche si riservano sempre il diritto di “aggiustare” i loro tassi.

Eppure il tenore di vita basato sul debito, alimentato dal debito, si può dire, è diventato così normale che qualsiasi deviazione dalla norma diventa, beh, una deviazione.

 Inaccettabile. Innaturale. Insondabile.

 

Una storia vera di un amico bulgaro a Chicago:

“Quando stavamo comprando la nostra casa, ho insistito per versare un anticipo maggiore per ridurre l’importo dovuto.

L’agente immobiliare è quasi scoppiato in lacrime cercando di convincermi che era molto più intelligente prendere un prestito maggiore, rifinanziare e tutte quelle stronzate.

Ho rifiutato“.

Quell’agente immobiliare è rimasto sicuramente traumatizzato dall’idea che qualcuno voglia possedere una parte maggiore della propria casa in modo completo, prima o poi.

 

L’idea che più prestiti da parte dell’UE aumenterebbero il profilo globale dell’euro, cioè lo renderebbero più diffuso, deriva dallo stesso presupposto:

 l’indebitamento, noto anche come vivere al di sopra delle proprie possibilità, è la norma.

Si parla di maggiore liquidità che “invoglierà gli investitori” (a fare cosa, esattamente? Comprare debito denominato in euro mentre l’eurozona sprofonda sempre più nella recessione)?

Si parla di “asset sicuri denominati in euro”, che presumibilmente significa anche debito denominato in euro.

 

Alla fine, si tratta di vivere davvero molto al di sopra dei propri mezzi, di voler estendere ulteriormente la distanza dai propri mezzi, perché il net zero e blah-blah, e di cercare modi per evitare di ripagare il proprio debito.

“La Francia e altri Paesi fortemente indebitati, tra cui l’Italia e la Spagna, hanno a lungo spinto per un prestito più comune, al fine di essere in grado di spendere di più per priorità come la difesa senza aumentare l’onere nazionale”.

Ma quanto è adorabile?

È come indebitarsi fino al collo per comprare una casa enorme che non ci si può permettere con il proprio stipendio, aggiungere un paio di auto di lusso, mettere il più grande impianto solare sul tetto di quella casa e iscrivere i figli alla scuola privata più costosa perché non si crede che le scuole pubbliche siano abbastanza buone per la propria prole.

 Per poi essere licenziati perché non stavate facendo abbastanza bene il vostro lavoro, con la distrazione di tutti questi acquisti di cui credete sinceramente di avere bisogno.

 

Questo è il problema delle cattive abitudini di spesa.

 I desideri si trasformano in bisogni prima che si possa dire “dipendenza”.

I drogati dicono che dobbiamo azzerare le nostre economie.

Non è vero.

 Lo volete perché siete ignoranti e vi hanno fatto il lavaggio del cervello.

Dobbiamo riarmare, dicono.

Beh, sì, ma non per le ragioni che ci dite voi.

Volete riarmare perché – ecco il colpo di scena – avete bisogno di andare in guerra per distogliere l’attenzione da tutte le disastrose decisioni politiche che avete preso per anni, i cui inevitabili effetti stanno ora affiorando in superficie e cominciano a manifestarsi in modo molto forte.

E a puzzare.

E per farlo, volete sprofondare ancora di più nel mucchio di merda di vostra creazione da cui state cercando di uscire, indebitandovi ancora di più invece di eliminare, per quanto possibile, queste politiche disastrose, in modo che non vi costringano a indebitarvi ancora di più.

Ma credo che questa sia un’idea davvero oltraggiosa, simile al suggerimento di aspettare un po’ e risparmiare un po’ di soldi per una casa invece di accendere un mutuo mentre si è in cassa integrazione.

(Irina_SlavIrina Slav: “Viviamo nei tempi più interessanti che il mondo abbia mai vissuto. Come andrà a finire è difficile dirlo ora, ma non andrà secondo i piani)

(irinaslav.substack.com/p/bad-habits).

 

 

 

 

Dalla Russia: “Se l’Iran cade,

noi siamo i prossimi.”

Comedonchisciotte.org - Redazione CDC – (23 Giugno 2025) - Georgiy Berezovsky, Rt.com – ci dice:

 

Cosa dicono esperti e politici russi sugli attacchi statunitensi.

 Russia Today ha raccolto le reazioni a Mosca, che vanno dall'allarme geopolitico all'amara ironia, dopo l'attacco statunitense ai siti nucleari iraniani.

Il 22 giugno, gli Stati Uniti, agendo a sostegno del loro più stretto alleato Israele, hanno lanciato attacchi aerei contro siti nucleari in Iran.

Le conseguenze complete dell’operazione – per il programma nucleare iraniano e per il più ampio equilibrio di potere in Medio Oriente – rimangono incerte.

Ma a Mosca le reazioni non si sono fatte attendere.

 I politici russi e gli esperti di politica estera hanno iniziato a trarre conclusioni, offrendo prime previsioni e interpretazioni strategiche di ciò che potrebbe accadere in futuro.

 

In questo speciale reportage, “RT” presenta il punto di vista della Russia:

 una raccolta di opinioni acute e spesso contrastanti di analisti e funzionari su ciò che l’ultima mossa militare di Washington significa per la regione e per il mondo.

 

“Fyodor Lukyanov”, caporedattore di “Russia” in Global Affairs:

La trappola che attende Trump è semplice, ma molto efficace.

Se l’Iran risponderà prendendo di mira gli interessi americani, gli Stati Uniti saranno trascinati in un confronto militare quasi inevitabile.

 Se invece Teheran si asterrà dal reagire o offrirà solo una risposta simbolica, la leadership israeliana, sostenuta dai suoi alleati neoconservatori a Washington, coglierà l’occasione per fare pressione sulla Casa Bianca:

 ora è il momento di dare il colpo di grazia a un regime indebolito e imporre un sostituto conveniente.

Fino a quando ciò non accadrà, sosterranno che il lavoro non è finito.

Resta da vedere se Trump sia disposto, o addirittura in grado, di resistere a tale pressione.

Molto probabilmente, l’Iran eviterà di colpire direttamente obiettivi statunitensi nel tentativo di evitare un’escalation senza ritorno con le forze americane.

È invece probabile che intensificherà i suoi attacchi contro Israele.

Netanyahu, a sua volta, raddoppierà gli sforzi per convincere Washington che il cambio di regime a Teheran è l’unica via percorribile, cosa a cui Trump, almeno per ora, rimane istintivamente contrario.

Tuttavia, lo slancio del coinvolgimento militare ha una sua logica, ed è raramente facile resistergli.

 

“Tigran Meloyan”, analista presso il “Centro per la ricerca strategica”, Scuola superiore di economia:

Se l’Iran non fa nulla, rischia di apparire debole, sia all’interno che all’estero.

 Ciò rende quasi inevitabile una risposta attentamente calibrata:

una risposta progettata non per intensificare il conflitto, ma per preservare la legittimità interna e mostrare determinazione.

È improbabile che Teheran vada oltre.

Nel frattempo, continuando a rafforzare la propria presenza militare, Washington invia un chiaro messaggio deterrente, segnalando sia la prontezza che la determinazione nel caso in cui Teheran commetta un errore di calcolo.

 

Un’altra opzione per l’Iran potrebbe essere una mossa simbolica drammatica:

il ritiro dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP).

Un passo del genere sarebbe il modo in cui Teheran dichiarerebbe che Trump, colpendo le infrastrutture nucleari, ha di fatto smantellato il regime globale di non proliferazione.

 Il TNP avrebbe dovuto garantire la sicurezza dell’Iran, invece ha prodotto l’effetto opposto.

Tuttavia, se l’Iran intraprenderà questa strada, rischierà di danneggiare i rapporti con Mosca e Pechino, che non vogliono vedere una sfida all’ordine nucleare esistente.

 La domanda più importante ora è se l’Iran prenderà anche solo in considerazione la possibilità di tornare al tavolo dei negoziati con Washington dopo questo attacco.

Perché negoziare quando le promesse americane non hanno più alcun valore? Teheran ha urgente bisogno di un mediatore che possa impedire a Trump di inasprire ulteriormente la situazione e, al momento, l’unico candidato credibile è Mosca.

 

Il ministro degli Esteri iraniano, [Abbas] “Araghchi”, incontrerà il presidente Putin il 23 giugno.

È difficile immaginare che un potenziale ritiro dal TNP non sarà sul tavolo delle trattative.

Se in passato la bomba iraniana era considerata una minaccia esistenziale per Israele, ora il calcolo si è invertito:

 per l’Iran, la capacità nucleare sta rapidamente diventando una questione di sopravvivenza.

 

“Konstantin Kosachev”, vice presidente del “Consiglio della Federazione”:

Diciamo le cose come stanno:

l’Iraq, la Libia e ora l’Iran sono stati bombardati perché non potevano reagire.

 Non avevano armi di distruzione di massa o non le avevano ancora sviluppate.

 In alcuni casi, non avevano nemmeno intenzione di farlo.

Nel frattempo, l’Occidente non tocca i quattro paesi che rimangono fuori dal Trattato di non proliferazione: India, Pakistan, Corea del Nord e Israele.

Perché? Perché a differenza dell’Iraq, della Libia e dell’Iran, questi Stati possiedono effettivamente armi nucleari.

 Il messaggio alle cosiddette nazioni “sulla soglia” non potrebbe essere più chiaro: se non volete essere bombardati dall’Occidente, armatevi.

Costruite una deterrenza.

Andate fino in fondo, anche al punto di sviluppare armi di distruzione di massa. Questa è la triste conclusione a cui giungeranno molti paesi.

 È una lezione pericolosa, che va contro la sicurezza globale e l’idea stessa di un ordine internazionale basato sulle regole.

Eppure è l’Occidente che continua a seguire questa logica.

L’Iraq è stato invaso per una fiala di polverina.

La Libia ha rinunciato al suo programma nucleare ed è stata fatta a pezzi.

 L’Iran ha aderito al TNP, ha collaborato con l’AIEA e non ha attaccato Israele, a differenza di Israele, che ha appena colpito l’Iran rimanendo fuori dal TNP e rifiutando di cooperare con gli organismi di controllo nucleare.

Questo è più che ipocrisia, è un fallimento catastrofico della politica statunitense. L’amministrazione Trump ha commesso un errore colossale.

 La ricerca del Premio Nobel per la Pace ha assunto proporzioni grottesche e pericolose.

 

Alexander Dugin, filosofo politico e analista geopolitico.

Alcuni continuano ad aggrapparsi all’illusione che la terza guerra mondiale si possa in qualche modo evitare:

Non sarà così.

Ci siamo già dentro.

Gli Stati Uniti hanno sferrato un attacco aereo contro l’Iran, nostro alleato.

Nulla li ha fermati.

E se nulla li ha fermati dal bombardare l’Iran, nulla li fermerà dal prendere di mira noi.

A un certo punto, potrebbero decidere che la Russia, come l’Iran, non dovrebbe essere autorizzata a possedere armi nucleari, oppure trovare qualche altro pretesto per attaccare.

Non commettiamo errori: siamo in guerra.

Gli Stati Uniti possono attaccare sia mentre avanziamo, sia mentre ci ritiriamo. Non è una questione di strategia, è una questione di volontà.

 L’Ucraina non sarà Israele agli occhi dell’Occidente, ma svolge un ruolo simile. Israele non è sempre esistito;

è stato creato e rapidamente è diventato un proxy dell’Occidente collettivo, anche se alcuni israeliani sostengono il contrario, ovvero che l’Occidente è solo un proxy di Israele.

 L’Ucraina ha seguito la stessa traiettoria.

Non c’è da stupirsi che Zelensky non stia chiedendo il sostegno dell’Occidente:

lo sta esigendo, comprese le armi nucleari.

 Il modello è chiaro.

E proprio come Israele bombarda Gaza impunemente, Kiev ha bombardato il Donbass per anni, anche se con meno risorse e meno restrizioni da parte di Mosca. I nostri appelli all’ONU e le nostre richieste di pace sono diventate prive di significato.

 Se l’Iran cade, la Russia è la prossima.

 Trump, ancora una volta, è saldamente nelle mani dei neoconservatori, proprio come durante il suo primo mandato.

 Il progetto MAGA è finito.

Non c’è nessuna “grande America”, solo il globalismo standard al suo posto. Trump pensa di poter colpire una volta – come ha fatto con Soleimani – e poi fare marcia indietro.

Ma non è possibile fare marcia indietro.

Ha scatenato una guerra mondiale che non può controllare, figuriamoci vincerla.

 

Ora tutto dipende dall’Iran.

Se rimane in piedi e continua a combattere, potrebbe ancora prevalere.

 Lo Stretto di Hormuz è chiuso.

 Gli Houthi hanno bloccato il traffico nel Mar Rosso.

 Con l’entrata in scena di nuovi attori, la situazione evolverà rapidamente.

La Cina cercherà di restarne fuori, per ora.

Fino a quando il primo colpo non colpirà anche lei.

 

Ma se l’Iran crolla, non perderà solo sé stesso, ma metterà a rischio anche tutti noi.

Compresa la Russia, che ora si trova di fronte a una scelta esistenziale.

La questione non è se combattere.

La Russia sta già combattendo. La questione è come.

I vecchi metodi sono ormai esauriti.

Ciò significa che dovremo trovare un nuovo modo di combattere, e in fretta.

 

Dmitry Novikov, professore associato presso la Scuola Superiore di Economia.

A giudicare dalle dichiarazioni di “Hegseth” e del generale “Cain” alla conferenza stampa, gli Stati Uniti sembrano segnalare la fine del loro coinvolgimento diretto, almeno per ora.

Ufficialmente, il programma nucleare iraniano è stato “eliminato”.

Che ciò sia vero o meno è irrilevante.

 Anche se Teheran riuscisse a costruire una bomba tra sei mesi, la narrazione è già pronta:

l’operazione era mirata esclusivamente alle infrastrutture nucleari, senza attacchi alle forze militari o ai civili.

Una missione mirata, pulita e, secondo Washington, decisamente riuscita.

Il lavoro è fatto, il sipario cala.

 

Ciò non significa che Washington se ne vada.

Gli Stati Uniti continueranno a sostenere Israele e mantengono la capacità di intensificare l’escalation se necessario.

 Ma per il momento, l’umore sembra essere quello di una chiusura autocelebrativa.

 

Naturalmente, se avessero davvero voluto andare fino in fondo, avrebbero potuto usare un’arma nucleare tattica.

 Ciò avrebbe fornito una “prova” inconfutabile dell’esistenza di una bomba iraniana:

 se esplode, deve esistere.

 In secondo luogo, avrebbe permesso all’amministrazione di affermare di aver distrutto armi nucleari sul suolo iraniano.

 Entrambe le affermazioni sarebbero state tecnicamente accurate, anche se strategicamente assurde.

Nessuna delle due sarebbe stata falsa dal punto di vista fattuale.

Solo moralmente e politicamente radioattiva.

 

“Sergey Markov”, analista politico.

Perché gli Stati Uniti hanno scelto di attaccare l’Iran proprio ora, dopo anni di moderazione?

La risposta è semplice: paura.

Per decenni Washington si è trattenuta per timore che qualsiasi attacco potesse scatenare un’ondata di attacchi terroristici di ritorsione, forse centinaia, perpetrati da cellule dormienti legate all’Iran e ai suoi alleati come Hezbollah.

 L’ipotesi prevalente era che l’Iran avesse preparato in segreto reti in tutti gli Stati Uniti e in Israele, pronte a scatenare il caos in risposta.

Ma la guerra di Israele in Libano ha sfatato questo mito.

Le temute cellule dormienti non si sono mai materializzate.

Una volta che questo è diventato chiaro, sia Israele che gli Stati Uniti hanno capito che potevano colpire l’Iran con un rischio minimo di gravi ripercussioni.

E così, ironicamente, la moderazione dell’Iran – la sua apparente “pacificità” – ha spianato la strada alla guerra.

C’è una lezione da trarre per la Russia:

quando l’Occidente percepisce sia la volontà di negoziare che il rifiuto di sottomettersi, non risponde con la diplomazia, ma con la forza.

Questo è il vero volto dell’imperialismo occidentale.

 

“Vladimir Batyuk”, ricercatore capo presso l’Istituto di studi statunitensi e canadesi dell’Accademia delle scienze russa.

Trump ha superato il limite.

Ora ci troviamo di fronte alla possibilità concreta di un grave scontro militare. L’Iran potrebbe reagire colpendo le installazioni militari statunitensi in Medio Oriente, spingendo Washington a rispondere con la stessa moneta.

Ciò segnerebbe l’inizio di un conflitto armato di lunga durata, che gli Stati Uniti potrebbero trovare sempre più difficile contenere.

Quello a cui stiamo assistendo sembra proprio una vittoria del cosiddetto “Stato profondo”.

Molti si aspettavano che Trump si trattenesse, per evitare di abboccare all’esca. Ma si è lasciato trascinare in un gioco d’azzardo ad alto rischio, le cui conseguenze sono impossibili da prevedere.

 E dal punto di vista politico, questo potrebbe ritorcersi contro.

Se lo stallo con l’Iran fa salire alle stelle i prezzi del petrolio, le conseguenze potrebbero essere gravi.

Negli Stati Uniti, i prezzi della benzina sono sacrosanti.

Qualsiasi amministrazione che permetta loro di sfuggire al controllo rischia gravi ripercussioni interne.

 Per Trump, questo potrebbe trasformarsi in una grave vulnerabilità.

 

“Dmitry Medvedev”, vice presidente del Consiglio di sicurezza russo; ex presidente della Russia.

Allora, cosa ha ottenuto esattamente gli Stati Uniti con il suo attacco notturno contro tre obiettivi in Iran?

1.Le infrastrutture nucleari critiche dell’Iran sembrano essere intatte o, nel peggiore dei casi, solo minimamente danneggiate.

2. L’arricchimento dell’uranio continuerà. E diciamolo chiaramente: lo stesso vale per il programma nucleare iraniano.

3. Secondo alcune fonti, diversi paesi sarebbero pronti a fornire direttamente all’Iran testate nucleari.

4. Israele è sotto attacco, le esplosioni risuonano nelle città e la popolazione civile è in preda al panico.

5. Gli Stati Uniti sono ora coinvolti in un altro conflitto, che questa volta comporta la possibilità concreta di una guerra terrestre.

6. La leadership politica iraniana non solo è sopravvissuta, ma potrebbe essere diventata più forte.

7. Anche gli iraniani che si opponevano al regime ora si stanno schierando dalla sua parte.

8. Donald Trump, il sedicente presidente della pace, ha appena lanciato una nuova guerra.

9. La stragrande maggioranza della comunità internazionale si schiera contro gli Stati Uniti e Israele.

10. Di questo passo, Trump può dire addio al Premio Nobel per la Pace, per quanto assurdo sia diventato questo riconoscimento.

Quindi, congratulazioni, signor Presidente.

Davvero un inizio stellare.

(Georgiy Berezovsky, Rt.com).

(Georgiy Berezovsky, giornalista con sede a Vladikavkaz).

(rt.com/russia/620253-if-iran-falls-were-next/).

 

 

 

 

 

L'accusa nucleare chiave che ha dato

 inizio alla guerra è stato preso da un

 algoritmo di controllo dello spionaggio

della “Palantir”.

 Unz.com - Alastair Crooke  - (23 giugno 2025) – ci dice:

 

Trump si è schierato con gli israeliani, affermando che l'Iran era "molto vicino" ad avere una bomba, e ha aggiunto che non gli importava cosa pensasse la “Gabbard”.

La risoluzione di "non conformità" del Consiglio dell'AIEA del 12 giugno 2025 è stata il precursore pianificato per l'attacco "fulmine a ciel sereno" di Israele contro l'Iran il giorno successivo.

Gli israeliani dicono che il piano di entrare in guerra con l'Iran si basava sull'"opportunità" di colpire, e non sull'intelligence che l'Iran stava accelerando verso una bomba (che era il punto di partenza per la guerra).

(Alastair Crooke).

L'improvvisa affermazione che l'Iran è molto vicino a una bomba (che sembra essere saltata fuori dal "nulla" per lasciare gli americani perplessi su come sia potuto accadere che – in un battitore d'occhio, stiamo andando in guerra – sia stata successivamente confutata dal capo dell'”AIEA” “Grossi” alla CNN il 17 giugno (ma solo dopo che il brusco attacco all'Iran aveva già avuto luogo):

 

"Non abbiamo alcuna prova di uno sforzo sistematico [da parte dell'Iran] per passare a un'arma nucleare", ha confermato “Grossi” alla CNN.

Questa dichiarazione ha suscitato la seguente risposta da parte dell'Iran da parte del suo portavoce del Ministero degli Esteri, “Esmaeil Baqaei”, il 19 giugno :

"E' troppo tardi, signor “Grossi”, lei ha oscurato questa verità nel suo rapporto assolutamente di parte che è stato strumentalizzato dall'E3/USA per trattare una risoluzione con accuse infondate di 'non conformità' [iraniana];

 la stessa risoluzione è stata poi utilizzata, come ultimo pretesto, da un regime guerrafondaio genocida per condurre una guerra di aggressione contro l'Iran e per lanciare un attacco illegale contro i nostri pacifici impianti nucleari.

 Sapete quanti iraniani innocenti sono stati uccisi/mutilati a causa di questa guerra criminale?

Lei ha trasformato l'”AIEA” in uno strumento di convenienza per i non membri del TNP per privare i membri del loro diritto fondamentale ai sensi dell'articolo 4.

Ha la coscienza pulita?".

Al che il dottor “Ali Larijani”, consigliere della “Guida Suprema”, ha aggiunto:

"Quando la guerra finirà, chiederemo conto al direttore dell'AIEA, Rafael Grossi".

Cosa dicono:

 

Dichiarazione del Ministero degli Esteri russo, in relazione all'escalation del conflitto iraniano-israeliano:

 

"Furono proprio questi "simpatizzanti" [EU3] a esercitare pressioni sulla dirigenza dell'Agenzia [AIEA] affinché preparasse una controversa "valutazione completa" del programma nucleare iraniano, i cui difetti furono successivamente sfruttati per far approvare una risoluzione anti-Iran faziosa presso il Consiglio dei governatori dell'AIEA il 12 giugno [2025].

Questa risoluzione diede di fatto il via libera alle azioni di Gerusalemme Ovest, portando alla tragedia" [vale a dire all'attacco a sorpresa del giorno successivo, il 13 giugno].

 

Dietro le quinte:

 

Le basi della risoluzione dell'AIEA del 12 giugno 2025 – che fornisce il pretesto a Israele per colpire l'Iran (è concepita per convincere il presidente Trump a respingere gli avvertimenti del suo stesso Direttore dell'Intelligence Nazionale, secondo cui non vi erano prove di un avvicinamento dell'Iran alla militarizzazione) – sarebbero state tratte non dal Mossad o da altri servizi segreti occidentali, ma dal software dell'AIEA.

Come sottolinea DD Geo-politics , dal 2015 l'AIEA si affida alla piattaforma “Mosaic di Palantir” , un sistema di intelligenza artificiale da 50 milioni di dollari che analizza milioni di dati – immagini satellitari, social media, registri del personale – per prevedere le minacce nucleari:

 

Le scorte iraniane [di uranio arricchito] erano in costante crescita da mesi, eppure la narrazione di un'imminente svolta si è fatta più forte solo dopo la censura dell'AIEA del 6 giugno 2025.

Quella risoluzione, adottata con 19 voti favorevoli e 3 contrari, ha fornito a Israele la copertura diplomatica di cui aveva bisogno.

La piattaforma “Mosaic di Palantir “ha svolto un ruolo cruciale in questa svolta.

I suoi dati hanno plasmato il rapporto del 31 maggio, segnalando anomalie a Fordow e Lavisan-Shian e riciclando precedenti accuse di Turquzabad, nonostante le smentite e i sabotaggi iraniani di anni fa...

“Mosaic” era stato concepito originariamente per identificare le attività degli insorti in Iraq e Afghanistan.

 

Il suo algoritmo cerca di identificare e

Cosa dicono i principali commentatori israeliani:

Il principale commentatore israeliano di centro-destra,Ben Caspit (Ma'ariv):

Il commentatore israeliano Nahum Barnea ( Yedioth Ahoronot):

"La decisione di iniziare una guerra è stata tutta di Netanyahu.

 Ed eccolo qui, deciso e responsabile: tutto il merito è suo.

Trump ha dato a Israele il via libera per iniziare una guerra, a condizione che non presenti l'America come partner e responsabile.

Il metodo Trump non fa distinzione tra l'Ucraina di Zelensky e l'Iran di Khamenei: l'umiliazione lungo il cammino è la garanzia di un accordo alla fine".

 

Il commentatore israeliano edel NY Times,” Ronan Bergman” (Yedioth Ahoronot):

 

"La necessità della serie di omicidi della scorsa settimana è emersa per la prima volta come pensiero lo scorso settembre, tra gli alti funzionari dell'Unità 8200, la divisione di ricerca della Direzione dell'Intelligence, il Mossad e altre parti del sistema.

La causa scatenante è stata la sconfitta inflitta dall'IDF a Hezbollah, seguita dal successo dell'attacco all'Iran e dalla distruzione del suo sistema di difesa aerea in ottobre, seguita a dicembre dal crollo del regime di Assad a Damasco e dalla distruzione del suo sistema di difesa aerea da parte dell'IDF.

 La sequenza degli eventi ha portato molti alti funzionari israeliani a credere che si fosse presentata un'opportunità senza precedenti, una finestra di una vita, per attaccare l'Iran.

 

Quadro generale:

A quanto pare, Trump era stato convinto da Netanyahu, Ron Dermer e dal generale Kurilla del CENTOM (Politico riporta che Kurilla è stato determinante nel persuadere Trump che il DNI “Tulsi Gabbar”d aveva torto nella sua valutazione che l'Iran non aveva "nessuna bomba").

Trump si è schierato con gli israeliani, affermando che l'Iran era " molto vicino " ad avere una bomba, e ha aggiunto che "non gli importava cosa pensasse lei [Gabbard]". Trump ha speculato ad alta voce – il giorno prima dell'evento del 13 giugno – che un attacco israeliano (all'Iran) "potrebbe accelerare un accordo".

Non c'è dubbio che l'inaspettata e improvvisa "caduta" della Siria abbia spinto i neo-conservatori a immaginare che potrebbe rapidamente ripetere l'esercitazione in Iran.

Questo è anche il motivo per cui si pone così tanta enfasi sull'assassinio della Guida Suprema.

 Quando l'Iran non è crollato; quando il sistema iraniano si è riavviato inaspettatamente e rapidamente; e sono iniziati gli attacchi di rappresaglia dell'Iran contro Israele, il blocco filo-israeliano è andato nel panico ed ha esercitato un'enorme pressione su Trump affinché gli Stati Uniti entrassero in guerra per conto di Israele.

 

Questo ha lasciato Trump di fronte a un terribile dilemma – dover scegliere tra le sirene, Scilla e Cariddi – o alienarsi la sua base di sostegno MAGA (che ha votato per lui proprio per evitare che gli Stati Uniti si unissero a un'altra guerra eterna (causando così probabilmente una sconfitta del GOP alle prossime elezioni di metà mandato)), o per alienare i suoi donatori ebrei ultra-ricchi (come Miriam Adelson, i cui soldi hanno influenza sul Congresso, e le cui risorse sono sfruttate dal Stato Profondo per interessi ricorrenti reciproci con i sostenitori di Israele), che si rivolterebbero contro di lui.

(Sfumature di Iraq e il ruolo di Colin Powell...)

 

 

 

 

Trump porta l'America in guerra.

 Unz.com - Philip Giraldi – (22 giugno 2025 – ci dice:

 

L'attacco all'Iran porterà un massacro senza fine e inutile.

 

C'è un retroscena un po' problematico nella glorificazione del presidente Donald Trump di come l'attacco delle forze statunitensi di sabato su tre siti nucleari iraniani che "ha completamente cancellato" i loro obiettivi sia stato effettuato senza alcuna dichiarazione di guerra contro un paese che non ha attaccato e non stava in alcun modo minacciando gli Stati Uniti.

Al netto di qualsiasi minaccia imminente come giustificazione, si trattava di una sfida diretta del ramo esecutivo al “War Powers Act del 1973, che aveva lo scopo di mantenere la chiara intenzione della Costituzione degli Stati Uniti che solo il "popolo" americano che agiva attraverso i suoi rappresentanti al Congresso avrebbe dovuto avere l'autorità di iniziare una guerra.

Ciò significa che l'attacco all'Iran era illegale e coloro che lo hanno pianificato ed eseguito, preferibilmente compreso il presidente Trump, dovrebbero essere considerati “impeachable”.

Alcuni democratici al Congresso stanno infatti già chiedendo l'impeachment.

 

Trump ha celebrato la sua vittoria sui persiani con un discorso a tarda notte alla nazione mentre si trovava di fronte al suo segretario di Stato “Marco Rubio”, al segretario alla Difesa “Pete Hegseth” e al vicepresidente “JD Vance”.

Ha detto al pubblico e ai media riuniti che "Abbiamo completato il nostro attacco di grande successo ai tre siti nucleari in Iran, tra cui Fordow, Natanz ed Esfahan.

Tutti gli aerei sono ora al di fuori dello spazio aereo iraniano.

Un carico completo di BOMBE è stato sganciato sul sito primario, Fordow.

Tutti gli aerei sono in sicurezza sulla via del ritorno a casa. Congratulazioni ai nostri grandi guerrieri americani.

 Non c'è un altro esercito al mondo che avrebbe potuto fare questo.

ORA È IL MOMENTO DELLA PACE.

 Grazie per l'attenzione che avete prestato a questa domanda".

 Trump ha aggiunto che se "la pace non arriva rapidamente", gli Stati Uniti eseguiranno presto altri attacchi più grandi.

"O ci sarà la pace o ci sarà la tragedia. Ricorda, ci sono molti obiettivi rimasti. … Se la pace non arriva rapidamente, andremo a caccia di quegli altri obiettivi con precisione, velocità e abilità".

 

I primi cinque mesi di mandato di Trump hanno dimostrato un deplorevole disprezzo per la Costituzione degli Stati Uniti, preferendo credere che la sua autodichiarata autorità esecutiva di presidente prevalga sulle prerogative costituzionali sia della magistratura che del legislatore.

 Ciò ha anche portato il governo a commettere abusi palesemente illegali, ignorando il giusto processo.

 Ciò è stato evidente nella gestione della questione dell'immigrazione clandestina e nella repressione della libertà di parola per coloro che si oppongono al sostegno degli Stati Uniti al genocidio israeliano a Gaza. Iniziare una guerra inutile dopo essere stato eletto presidente con la promessa di porre fine alle guerre di Joe Biden è forse una manifestazione dell'arroganza che guida l'attuale pensiero alla Casa Bianca.

 

Considerato tutto quanto sopra, è forse necessario chiedersi se la "distruzione" vantata da Trump abbia effettivamente ottenuto qualcosa di diverso dalla distruzione di strutture sul terreno.

 I tre siti colpiti negli attacchi – Natanz, Fordow e Isfahan – erano certamente vulnerabili ai missili da crociera Tomahawk lanciati da sottomarini e anche alle pesanti bombe penetranti GBU-57 da 30.000 libbre sganciate dai bombardieri stealth B-2 statunitensi, ma due dei siti, Fordow e Isfahan, si trovano in profondità nel sottosuolo, protetti dall'alto da montagne rocciose.

 Isfahan avrebbe un lungo tunnel attraverso la roccia per raggiungere la struttura.

Fonti iraniane riferiscono che, anche se le strutture protette fossero state danneggiate, non vi sarebbe stato nulla, e che tutto l'uranio arricchito e le attrezzature critiche come le centrifughe sarebbero stati rimossi in previsione di un attacco.

 La loro nuova ubicazione sembra essere sconosciuta all'intelligence statunitense.

 

E a proposito di intelligence statunitense, c'è stato un chiaro fallimento di intelligence legato all'entrata in guerra contro l'Iran, che Trump ora chiede di cessare la resistenza e di richiedere una resa incondizionata che comporterà qualcosa di simile al disarmo completo.

 La posizione del presidente sulla questione dell'Iran è stata in qualche modo complicata dai suoi commenti contraddittori relativi allo stato del presunto programma di armamento nucleare di Teheran, la cui esistenza è negata dalla maggior parte delle fonti di intelligence statunitensi e occidentali.

 Dopo un'iniziale esitazione, Donald Trump ora afferma di "sapere" che l'Iran è "molto vicino ad avere armi nucleari", forse tra "un paio di settimane", nonostante l'intelligence americana gli avesse detto a marzo che l'Iran non sta costruendo un'arma nucleare e che la “Guida Suprema Ayatollah Ali Khamenei” non ha autorizzato il programma di armi nucleari che aveva sospeso nel 2003.

 Ma a Trump non importa, e ha persino respinto quanto gli aveva detto la “Direttrice dell'Intelligence Nazionale statunitense Tulsi Gabbard” in merito alla valutazione dell'intelligence statunitense, affermando:

"Non mi interessa cosa ha detto."

 Il direttore della CIA “John Ratcliffe”, fedele sostenitore di Trump, ha contribuito a rigirare il coltello nella piaga di “Gabbard”, che presumibilmente se ne andrà presto, cambiando rotta su quello che era stato un giudizio unanime della comunità di intelligence e dicendo alla Casa Bianca che l'Iran era "sulla linea di un metro" dal possedere un'arma nucleare.

 

Trump ha quindi deciso di ignorare e denigrare esplicitamente le conclusioni raggiunte dal suo stesso staff di intelligence, giungendo alla convinzione che Netanyahu, che ha mantenuto regolari comunicazioni telefoniche con il presidente americano nonostante le storie del mese scorso sui dissidi tra i due uomini, sappia meglio di chiunque altro cosa stia accadendo in Iran.

Trump è stato anche destinatario di informazioni provenienti dall'agenzia di spionaggio esterna israeliana, il “Mossad,” il che, per chiunque fosse meno ingenuo di Trump, avrebbe dovuto essere un segnale d'allarme che gli stavano alimentando disinformazione.

Il motto del Mossad è letteralmente:

"Con l'inganno vi impegnerete in guerra" e si dice che avesse una linea diretta con Ratcliffe e la CIA” per "punti di discussione" che fornissero "indicazioni" sulla "minaccia" iraniana.

E così il presidente degli Stati Uniti ha impegnato la sua amministrazione a sostenere gli atti di aggressione israeliani contro l'Iran e ha informato Teheran che, se risponderà agli atti di guerra, gli Stati Uniti aiuteranno Israele a distruggerlo, una promessa che sembra stia mantenendo proprio ora.

 

In effetti, Israele era chiaramente coinvolto nella pianificazione della missione.

Alti funzionari e giornalisti israeliani hanno confermato che Tel Aviv era stata informata dell'attacco prima che l'operazione avesse effettivamente luogo.

E Trump ha anche chiamato il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu dopo l'attacco, portando Netanyahu a pubblicare un videomessaggio sui suoi social media sabato sera, elogiando la decisione di Trump di bombardare i siti iraniani.

 "Congratulazioni, Presidente Trump. La sua coraggiosa decisione di colpire gli impianti nucleari iraniani con la straordinaria e giusta potenza degli Stati Uniti cambierà la storia.

Nell'operazione “Rising Lion”, Israele ha fatto cose davvero straordinarie.

Ma nell'azione di stasera contro gli impianti nucleari iraniani, l'America è stata davvero insuperabile. Ha fatto ciò che nessun altro paese al mondo avrebbe potuto fare".

 

In effetti, si potrebbe sostenere che l'attacco degli Stati Uniti all'Iran fosse interamente incentrato su Israele, e questo è un'ulteriore indicazione di chi effettivamente governa Washington.

Trump si è umiliato per ringraziare il governo israeliano, che sta attualmente perpetrando un genocidio a Gaza, per il suo aiuto e la sua cooperazione nell'operazione.

"Voglio ringraziare e congratularmi con il Primo Ministro Bibi Netanyahu; abbiamo lavorato come una squadra come forse nessun'altra squadra ha mai fatto prima, e abbiamo fatto molta strada per cancellare questa orribile minaccia per Israele.

O ci sarà la pace, o ci sarà una tragedia per l'Iran ben più grande di quella a cui abbiamo assistito negli ultimi otto giorni".

 

Nonostante le affermazioni di un'operazione completamente riuscita provenienti dalla Casa Bianca e dal Pentagono, come già accennato, l'entità dei danni effettivi ai siti iraniani presi di mira non è ancora del tutto nota.

Ma gli osanna hanno già iniziato a raccogliere i benefici politici ottenuti grazie a quello che viene descritto come uno "spettacolare successo militare".

Il Segretario alla Difesa “Pete Hegseth” ha guidato il gruppo di iene jodel con un'iperbolica dichiarazione:

"L'operazione pianificata dal Presidente Trump è stata audace e brillante, dimostrando al mondo che la deterrenza americana è tornata. Quando questo presidente parla, il mondo dovrebbe ascoltare".

Quindi cosa succederà ora?

 L'Iran reagirà sicuramente in qualche modo, forse colpendo le basi statunitensi nella regione del Golfo Persico e uccidendo cittadini americani, il che non farà altro che aggravare la guerra, con gli Stati Uniti e Israele che attualmente chiedono la distruzione della stessa città di Teheran, obiettivo raggiungibile solo con armi nucleari.

 Inoltre, l'Iran potrebbe chiudere lo Stretto di Hormuz, facendo salire i prezzi della benzina fino a 30 dollari al gallone.

E se l'Iran recuperasse davvero il suo uranio arricchito e le attrezzature necessarie per potenziarlo e costruire una bomba, l'intera operazione potrebbe portare alla creazione di un nuovo propalatore della proliferazione nucleare a scopo difensivo, in totale contrasto con l'intenzione dichiarata di negare a Teheran la propria arma nucleare.

Considerate tutto questo e, se volete attribuire la colpa, rivolgetevi all'eternamente ignorante Donald Trump e ai suoi protettori neoconservatori e israeliani.

 Il fatto che Trump e i suoi compagni siano in grado di esercitare un tale potere suggerisce piuttosto che qualcosa non va nel nostro Paese in questo momento ed è ora che l'opinione pubblica si sollevi e chieda la fine di ciò che sta accadendo in Medio Oriente, in particolare, ma anche in Ucraina.

Basta, signor Trump! Ha esagerato!

(Philip M. Giraldi, Ph.D., è Direttore Esecutivo del Council for the National Interest, una fondazione educativa 501(c)3 fiscalmente deducibile (numero di identificazione federale #52-1739023) che promuove una politica estera statunitense in Medio Oriente maggiormente incentrata sugli interessi degli Stati Uniti. Il sito web è councilforthenationalinterest.org, l'indirizzo è PO Box 2157, Purcellville, VA 20134).

 

 

 

 

Trump si immerge in qualche “strana

 merda di Satana” mentre si prepara

 per una grande guerra per Israele.

 Unz.com - Andrew Anglin – (20 giugno 2025) – ci dice:

 

Donald Trump, il "presidente americano" di proprietà israeliana, ha postato alcune strane parole su Satana da parte di “Mike Huckabee”.

 

Il fatto che Mike Huckabee pensa di essere il profeta Natan che consiglia il re Davide è forse prevedibile.

È un individuo profondamente confuso, satanico, che è stato compreso per decenni.

Crede letteralmente nello sterminio dei bambini per "Dio", e non ci vuole davvero un teologo per capire quale "dio" starebbe chiedendo l'omicidio di massa dei bambini.

Tutti sanno cosa aspettarsi da questo ragazzo.

 

Esistono ovviamente diverse forme di cristianesimo, e ci sono veri seguaci di queste diverse forme di cristianesimo, e credo che ci siano brave persone nella maggior parte di esse. Non ci sono brave persone nella forma di cristianesimo del "benedici coloro che benedicono Israele". Almeno non dopo aver visto cosa significa a Gaza. È impossibile avere una forma di cristianesimo che sostenga l'omicidio di massa di bambini. Al di là di qualsiasi teologia, è semplicemente stupido che Gesù Cristo voglia che la gente uccida in massa i bambini. Ci sono persone che credono in questa religione, ma non è cristianesimo, è satanismo con una (sottilissima patina di puritanesimo/materialismo calvinista) patina di cristianesimo.

 

Quello che non ci si aspetterebbe è che Donald Trump pubblichi questo testo sul suo sito “Truth Social “come se pensasse che alla gente piacciano queste cose.

Sono sicuro che ci siano persone a cui piacciono queste cose.

 Ma al momento sono davvero poche.

La maggior parte di coloro che erano coinvolti in questo genere di "satanismo mascherato da cristianesimo" del tipo "sangue per il dio del sangue" sono già morti.

 Erano vecchi vent'anni fa, quando George W. Bush sosteneva che Dio gli stesse dicendo di uccidere, uccidere, uccidere per Israele.

Di quelli ancora vivi, la maggior parte non sarà su internet.

 

Capisco che molti politici professino questa forma satanica di "cristianesimo", ma lo fanno perché l'AIPAC glielo impone.

 È molto redditizio avere questo sistema di credenze.

“Lee Fang” è andato a Washington nel 2023, poco dopo il 7 ottobre, e ha parlato con questi squilibrati.

 

E, naturalmente, abbiamo appena visto “Ted Cruz” dire a” Tucker Carlson” che il nocciolo della sua convinzione è che dobbiamo "benedire lo stato politico di Israele" aiutandolo a uccidere persone innocenti.

 Ma non poteva citare alcun versetto della Bibbia e non poteva elaborare il sistema di credenze.

 Quindi è solo qualcosa che dice.

 

Mike Huckabee probabilmente ci crede davvero.

 È una figura oscura e satanica, molto più di “Ted Cruz”, che è chiaramente solo un truffatore da quattro soldi.

 

Ma quale percentuale di persone normali ci crede?

Non molti.

Non mi aspettavo che Trump si schiantasse così duramente, così velocemente.

Quando sei al punto in cui stai parlando di Dio che ti manda messaggi parlandoti letteralmente, è piuttosto difficile immaginare di scendere più in basso.

 

Che casinò.

Sto davvero iniziando a sentirmi male per Trump.

Ovviamente non era quello che voleva.

Ma eccolo qui, una piccola creatura indifesa nelle mani della Bestia senza la volontà o la forza di carattere per alzarsi e rischiare qualsiasi cosa per respingere questo.

Invece, si aggrappa all'idea di poter mantenere un qualche tipo di sostegno diventando completamente strambo di Satana.

 

Il supporto alla base è già crollato in gran parte, e crollerà completamente non appena entrerà ufficialmente in guerra. “Seymour Hersh” (che è un tipo "le mie fonti me lo dicono" e fa sul serio) ha detto che gli attacchi potrebbero arrivare già questo fine settimana.

Personalmente non ne ho idea, ma se dovessi tirare a indovinare, Trump vorrebbe che il Mossad colpisse qualche installazione americana in Iraq, così da poter andare in giro a parlare di americani morti prima di entrare in guerra.

 Ma potrebbe non averne bisogno. Non ne ho idea e non ha davvero importanza.

 

Ciò che conta è che sia finita.

Qualsiasi speranza e sogno avessi per un Trump 2.0 è ufficialmente infranto.

 E con esso, ogni speranza di un futuro per l'America così come è attualmente composta.

 

È triste.

Immagino sia triste. Certo, è ovviamente triste. È anche un po' cupamente esilarante, credo.

Voglio dire, se fai solo due passi indietro, a parte le infinite pile di cadaveri, è tutto molto divertente.

 

Proprio come Trump non può tornare indietro da questa situazione, nemmeno Israele può.

Non avrà mai più alcun tipo di sostegno significativo dal popolo americano, e al contrario, ci sarà una massiccia ostilità, e folle di persone al seguito dei politici filo-israeliani, che li scherniranno.

 

La tempistica sulla griglia di controllo totale dell'IA di “Palantir” e l'entrata degli Stati Uniti in guerra su vasta scala in Medio Oriente non coincidevano del tutto.

Di nuovo, piuttosto divertente.

 

Comunque.

Immagino che nessun lettore del “Daily Stormer” nutrisse grandi speranze su tutto questo.

Sono tutte cose che dicevo già da più di un anno.

 Non appena Trump è stato graffiato all'orecchio e hanno iniziato a dire che era il messia, ho richiamato tutto questo, fin nei minimi dettagli.

 

Non mi sto vantando. Sto solo dicendo.

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