La guerra cognitiva in democrazia.
La
guerra cognitiva in democrazia.
Connessi
e distratti, ma niente panico.
«I catastrofisti sbagliano, non abbiamo
perso
l’attenzione, l’abbiamo solo adattata».
Starupitalia.eu
– (25 -06 – 2025) - Federico Bastiani intervista Daniel Immerwahr – ci dice:
Intervista
esclusiva a Daniel Immerwahr, autore di bestseller e firma del New Yorker.
La sua analisi sulla nuova era della
distrazione ha fatto il giro del mondo.
Ma possiamo sopravvivere tra media adattivi,
crisi dell’attenzione e nuove forme di concentrazione.
«Social
e rete ci hanno dato nuove distrazioni, ma hanno eliminato molte di quelle
vecchie»
Tra le
voci più originali e lucide della storiografia contemporanea, “Daniel Immerwahr
“si distingue per la capacità di intrecciare analisi storica, riflessione
politica e critica culturale.
Professore di Studi umanistici alla
“Northwestern University” e autore, tra i tanti, del saggio” L’Impero nascosto:
Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America” (giunto in Italia con Einaudi), è noto per un approccio che
decostruisce i miti nazionali e mette in luce le logiche imperiali celate
dietro la narrazione ufficiale degli Stati Uniti.
“Daniel
Immerwahr”.
Nel
gennaio 2025,” Immerwahr” ha pubblicato su “The New Yorker” un articolo
dedicato al bestseller “The Siren’s Call “dell’anchorman “Chris Hayes”,
cogliendo l’occasione per una riflessione più ampia sullo stato dell’attenzione
nella società contemporanea.
In
un’epoca segnata dalla pervasività digitale e dalla dispersione cognitiva, “Immerwahr”
individua nella trasformazione del paesaggio mediatico e nella crisi della
concentrazione alcuni dei tratti più significativi del nostro tempo.
Il suo sguardo, al tempo stesso storico e
critico, offre strumenti non convenzionali per interpretare il presente,
sollevando interrogativi profondi sul futuro della democrazia.
“
StartupItalia” ha raggiunto” Daniel Immerwahr” per approfondire il tema della
distrazione e contribuire a smontare alcuni dei luoghi comuni che circondano il
dibattito sull’attenzione.
“Daniel
newyorker”.
L’articolo
pubblicato per il “New Yorker”
Intervista
a” Daniel Immerwahr”.
Nel
suo articolo sul New Yorker, scrive che l’attenzione è diventata non solo una
risorsa economica, ma anche politica.
Quali
sono le implicazioni più urgenti per l’educazione dei cittadini digitali?
La
distrazione serve interessi politici?
Non è
una novità, ma sì:
la distrazione è una forza politica potente.
Le cose a cui prestiamo più facilmente
attenzione raramente coincidono con quelle di cui dovremmo davvero
preoccuparci.
Per
me, l’esempio più chiaro è il cambiamento climatico.
Non riesco a pensare a qualcosa di più
importante.
Eppure, non è un tema che cattura facilmente
l’attenzione delle persone, almeno non finché non si manifesta sotto forma di
catastrofi, quando ormai è troppo tardi.
Quindi
quanto è utile “l’alfabetizzazione dell’attenzione”, che insegni non solo a
usare gli strumenti digitali, ma anche a distinguere ciò che nutre la mente da
ciò che la cattura soltanto?
Penso
che le persone siano abbastanza brave a cogliere questa differenza. Riusciamo a
percepire, quasi subito, come un’attività o un contenuto ci fa sentire:
curiosi? attivi? passivi? entusiasti?
Ed è
evidente che molti cercano di concentrarsi su ciò che li fa sentire realizzati.
L’interesse crescente per attività come il birdwatching o i dischi in vinile
sembra proprio rispondere a questo bisogno.
L’articolo
che “Daniel Immerwahr” ha scritto per il “New Yorker” è stato ripreso da “Internazionale”.
Nell’articolo
lei cita due allarmisti d’eccezione, Socrate che era diffidente verso la
scrittura (avrebbe peggiorato la memoria) e Jefferson diffidente verso i
romanzi (avrebbero distolto l’attenzione dalle cose importanti).
Siamo anche oggi troppo allarmisti?
Chi
studia la storia dell’attenzione sa che le lamentele di oggi non sono nuove.
Le
stesse cose che oggi si dicono dei social media, in passato si dicevano dei
romanzi, dei pianoforti, dei manifesti colorati.
La domanda è se le sfide odierne siano
fondamentalmente diverse.
Un
motivo per pensarlo è la capacità adattiva dei social media.
“TikTok”
si adatta al tuo comportamento per offrirti il contenuto perfetto per tenerti
agganciato.
Questo
potrebbe renderli più pericolosi rispetto ai media del passato.
Ma non
ne sono sicuro.
Nonostante
si parli molto di attenzione “frammentata”, sembriamo ancora capaci di
concentrarci su ciò che ci interessa.
«Non
esistono solo i contenuti brevi, la società ci manda altri segnali»
“Chris
Hayes” paragona la capacità di concentrarsi oggi a come fare meditazione in uno
strip club.
Il
pensiero profondo è ancora essenziale oggi?
Il
pensiero profondo è importante oggi quanto lo è sempre stato.
La
domanda è, stiamo peggiorando nel praticarlo?
È vero
che alcuni media, come “TikTok”, favoriscono contenuti brevi.
Ma
altri, come i podcast, vanno nella direzione opposta.
Il “podcaster” più seguito negli Stati Uniti è
“Joe Rogan”, le cui interviste, anche su temi molto di nicchia, durano
regolarmente più di quattro ore.
Le
persone fanno binge-watching, guardando serie per ore, e questo ha portato a
trame televisive più complesse.
Anche gli audiolibri, spesso molto lunghi,
sono popolari.
Quindi
ricordiamoci che TikTok è solo una parte del paesaggio mediale.
«Quando
gli adulti dicono che i giovani “non prestano attenzione”, stanno solo dicendo
che non prestano attenzione a noi»
Molti
adulti accusano i giovani di essere “meno attenti”.
Ma non
si tratta forse di una forma diversa, più distribuita, di attenzione?
Non
credo abbia senso dire che oggi siamo più o meno attenti rispetto al passato. È evidente che prestiamo attenzione,
solo che forse non lo facciamo alle cose “giuste”.
Quando
qualcuno si distrae da un libro per guardare il telefono, sta comunque
prestando attenzione al telefono.
Temo
che spesso, quando gli adulti dicono che i giovani “non prestano attenzione”,
stiano solo dicendo che non prestano attenzione a noi.
Daniel.
“Lectio
magistralis” di “Daniel Immerwahr” all’”Harvard Radcliffe Institute”.
Lei
stesso assegna meno lavoro ai suoi studenti rispetto a quanto ne riceveva lei.
È un abbassamento degli standard o un adattamento necessario?
Ho
frequentato la stessa università dei miei studenti.
Eppure,
assegno loro solo metà della lettura che veniva assegnata a me.
Se provo ad assegnarne di più, si lamentano
(il che va bene) e non la fanno (il che mi dispiace).
Non so
bene perché.
Che
idea si è fatto?
Una
teoria è che stiano perdendo la capacità di leggere.
Forse
è vero. Ma è anche vero che passano molto tempo a leggere sul telefono.
Un’altra ipotesi è che siano semplicemente sovraccarichi, frequentano più
corsi, partecipano a più attività, sentono di dover eccellere in tutti questi
ambiti in cui io, alla loro età, non dovevo fare.
I loro curriculum sono molto più ricchi del
mio, quando avevo la loro età.
Una
terza teoria è che anche quando io ero studente, pochi facevano davvero tutte
le letture assegnate.
Quindi
sta dicendo che non è la concentrazione dei suoi studenti ad essere peggiorata?
Forse
non è la lettura a essere peggiorata, ma la didattica a essere migliorata,
assegnando oggi compiti più realistici.
Non so quale teoria sia corretta.
Ma
proprio per questo non mi sento di concludere che gli studenti siano peggiorati
nella lettura.
Eppure,
stiamo assistendo a un aumento delle diagnosi di ADHD tra i bambini.
Si
dice che la capacità di attenzione stia peggiorando.
Ma non
esiste una “capacità di attenzione” astratta e indipendente dal contesto, che
si possa misurare nel tempo e tra individui.
Non possiamo dire: “Anna ha una soglia
d’attenzione di tre minuti, mentre Maria ha solo tre minuti di attenzione.”
Questo
rende difficile fare le valutazioni che alcuni vorrebbero, per dimostrare un
presunto declino dell’attenzione.
“Immerwahr
Brick”.
Rimane
il fatto che sussiste il problema.
È
vero, le diagnosi di ADHD sono in forte aumento.
Ma è
perché più persone hanno problemi funzionali relativi all’attenzione?
O perché quei problemi ci sono sempre stati e
ora li riconosciamo?
O
perché la diagnosi di ADHD è diventata una moda e stiamo esagerando?
Probabilmente è una combinazione dei tre fattori.
Ho
un’amica che ha scelto di crescere sua figlia senza internet, in montagna.
Come si può resistere a un sistema di
distrazione strutturale restando però dentro la società digitale?
Lo
capisco.
Per anni ho vissuto senza wi-fi in casa, a
volte senza accesso a internet.
Ho
preso uno smartphone solo di recente.
È
allettante stare offline.
Ma è
difficile farlo restando cittadini pienamente attivi.
Senza
smartphone è difficile ordinare al ristorante, fare acquisti, dividere un
conto. Senza controllare regolarmente la mail, è complicato mantenere certi
lavori.
Ci ho
provato, e non è facile.
«Internet
ci ha dato nuove distrazioni, è vero, ma ha eliminato anche molte di quelle
vecchie».
Oggi
chi comunica deve scegliere: adattarsi alla logica dell’algoritmo o rischiare
l’irrilevanza.
Se
pubblico un contenuto di 5 minuti su TikTok invece che da 1 minuto, sto
compiendo una micro-ribellione?
I
creatori di contenuti hanno sempre dovuto adattarsi ai media che utilizzano.
TikTok favorisce le forme brevi.
È un
male? Non so.
Anche
la conversazione favorisce forme brevi piuttosto che monologhi.
Come
nella conversazione, se fai un discorso di cinque minuti, sei un pessimo
interlocutore.
E
probabilmente non andrai bene nemmeno su TikTok con video così lunghi.
Ma ci
sono altri media.
Su YouTube i video lunghi funzionano. I libri,
che la gente continua a comprare e leggere, sono per eccellenza una forma
lunga.
«I
catastrofisti dell’attenzione sbagliano. Non abbiamo perso la capacità di
prestare attenzione».
Infatti,
nell’articolo segnala fenomeni contrastanti.
Da un lato vincono Oscar film lunghissimi,
dall’altro le serie TV accorciano la durata degli episodi.
Siamo
in una transizione culturale nel modo in cui consumiamo attenzione?
Sono
più ottimista di certi catastrofisti. Innanzitutto, abbiamo una lunga storia di
lotta contro la distrazione.
Alcuni
stimoli che una volta ci distraevano, ora non ci colpiscono più, perché abbiamo
imparato a ignorarli.
In
altri casi, siamo riusciti a trovare soluzioni.
Si
ricorda com’era la posta elettronica prima dei filtri antispam?
Mezza
casella era pubblicità per pillole miracolose.
E i
siti erano invasi da popup.
Oggi le cose sono cambiate perché abbiamo
voluto tecnologie per migliorarle.
Poi, molte cose oggi sono più facili di un tempo come
prenotare un viaggio, organizzarsi, trovare informazioni, tutte cose che una
volta richiedevano molto più tempo. Internet ci ha dato nuove distrazioni, è
vero, ma ha eliminato anche molte di quelle vecchie.
“Daniel”.
Quindi
lei è ottimista sul futuro dell’attenzione della nostra società?
Non è
affatto detto che siamo diventati meno attenti.
Prestiamo
meno attenzione ad alcune cose, ma più ad altre.
Il teorico dei media “Neil Verma” ha definito
la nostra epoca “l’età dell’ossessione” e ha ragione.
Molti
aspetti dei media, della politica e della cultura attuali favoriscono una
mentalità ossessiva.
Non so
se questo sia positivo, perché anche l’ossessione ha i suoi rischi.
Ma
suggerisce che i catastrofisti dell’attenzione sbagliano.
Non
abbiamo perso la capacità di prestare attenzione. Possiamo ancora recuperarla.
(Daniel
Immerwahr intervistato da Federico Bastiani).
Narrazioni
strategiche, guerra cognitiva
e futuro
del conflitto in Ucraina.
Glistatigenerali.com - Massimiliano Di
Pasquale – (18 Dicembre 2023) – ci dice:
Prevedere
l’esito di una guerra è impresa ardua, nel caso della guerra russa in Ucraina
lo è ancora di più sia perché la posta in gioco per l’aggressore è la
ridefinizione di un nuovo ordine mondiale (alcuni ideologi del Cremlino come
Aleksandr Dugin teorizzano la fine del mondo unipolare dominato dall’Occidente
liberale e il passaggio a un mondo multipolare) sia perché le tante variabili in
gioco contribuiscono ad aumentare il livello di complessità del conflitto.
Il
fatto che l’invasione su larga scala del Cremlino in Ucraina sia la prima
guerra della storia mondiale in cui le armi non convenzionali (disinformazione,
attacchi cyber, terrorismo, false flag operation, guerra psicologica) svolgono
un ruolo determinante nell’economia del conflitto grazie alle nuove tecnologie
digitali, ai social media, all’intelligenza artificiale e agli avanzamenti
nelle neuroscienze e nelle neurotecnologie rende la situazione ancora più
complicata.
Per
comprendere a che punto sia questa guerra, giunta ormai al suo ventiduesimo
mese, e per provare ad azzardare qualche ipotesi sulla sua evoluzione futura è
necessario passare in rassegna gli avvenimenti degli ultimi 6-7 mesi, dalla
vicenda Prigozhin fino alla guerra tra Hamas e Israele, depurandoli dalle
nebbie della dezinformatsiya.
Prima
di procedere all’analisi è utile che il lettore familiarizzi con alcuni
concetti, noti nelle élite intellettuali di paesi dove esiste una cultura della
sicurezza nazionale (una democrazia sana e longeva non può prescindere dal tema
della sicurezza), come quelli di narrazioni strategiche e guerra cognitiva.
“Alister
Miskimmon”, “Ben O’Loughlin” e “Laura Roselle” nel saggio “Strategic
Narratives: Communication Power and the New World Order” definiscono la
narrazione strategica come “un mezzo di cui si avvale un attore politico per
costruire un significato condiviso del passato, del presente e del futuro delle
relazioni internazionali al fine di plasmare le opinioni e condizionare i
comportamenti di attori all’interno e all’estero”.
Le
narrazioni strategiche, il cui scopo è creare una percezione distorta della
realtà, nell’opinione pubblica e nei decisori politici dei paesi target, al
fine di favorire gli interessi geopolitici dello Stato aggressore (nel nostro
caso la Russia di Putin), sono uno dei principali strumenti adottati dal
Cremlino nella sua guerra cognitiva contro l’Occidente.
La guerra cognitiva è una forma di guerra in
cui il campo di battaglia è rappresentato dalla mente umana.
La
guerra cognitiva, attuata dalla Russia e da altre potenze autocratiche del
mondo non-occidentale come Cina e Iran, che si avvalgono della disinformazione,
della propaganda e delle narrazioni strategiche, rappresenta una delle
principali minacce alla stabilità e alla sicurezza delle democrazie occidentali.
Fatta
questa premessa teorica, passiamo ad analizzare le narrazioni strategiche che
hanno accompagnato i principali avvenimenti della guerra della Russia in
Ucraina negli ultimi mesi.
(Chi
volesse avere un quadro più esaustivo delle narrazioni strategiche
filo-Cremlino sulla guerra in Ucraina dagli albori del conflitto nel 2014 fino
al febbraio 2023, può consultare il paper pubblicato su questo tema dalla “Fondazione
Germani”).
Torniamo
per un attimo a metà giugno e al tentativo di golpe del “capo della Wagner
Evgeni Prigozhin”, poi rientrato, secondo la versione ufficiale russa, grazie
alla mediazione del presidente bielorusso “Lukashenko”.
Quell’episodio
che evidenziava una crepa nella verticale di potere di Putin, non certo il
crollo della Russia auspicato un po’ ingenuamente da certi sostenitori
dell’Ucraina (un analista militare ucraino con cui ebbi modo di parlare in quei
giorni sottolineò acutamente come si trattasse di un crack, non del crash del
sistema e che tale crack introducesse un elemento di destabilizzazione per
Mosca, ma non la vittoria immediata di Kyiv) veniva accompagnato in Italia dai
media alternativi che diffondono e amplificano la disinformazione del Cremlino
dalla narrazione della rivoluzione colorata finanziata dall’Occidente
Collettivo.
In un
articolo del 24 giugno apparso su l’”Anti Diplomatico”, si sosteneva che
Prigozhin e la Wagner, la compagnia di mercenari russi attiva in molti teatri
di guerra dall’Africa alla Siria, fossero al soldo di Kyiv e dei servizi
occidentali per creare un Maidan a Mosca.
Nonostante
Putin abbia ammesso che la Wagner è stata finanziata dallo Stato russo
partecipando alla guerra ibrida del Cremlino in Donbas dal 2014 e all’invasione
su vasta scala dell’Ucraina nel 2022, le affermazioni complottiste sul
coinvolgimento occidentale nelle attività della Wagner hanno trovato terreno
fertile anche in Italia.
Due
giorni più tardi per confondere ulteriormente le acque l’Anti Diplomatico
tornava sul tentativo di colpo di stato della Wagner con una narrazione che
riprendeva il tema della guerra per procura per distruggere la Russia.
L’articolo
sosteneva che l’Ucraina aveva avuto la possibilità di infliggere un duro colpo
alle forze russe e di vincere la guerra ma questa opportunità non era stata
colta perché non è Kyiv a comandare le forze ucraine, ma Washington e agli
Stati Uniti interessa di più la “balcanizzazione” della Russia che la vittoria
ucraina.
Le
narrazioni sulla marcia su Mosca della Wagner, sono solo un esempio, ancorché
eclatante di come le vicende belliche vengano strumentalizzate e distorte dalla
potente macchina disinformativa del Cremlino al fine di creare una realtà
parallela che in Italia non è solo appannaggio dei media alternativi ma anche
dei media mainstream.
È evidente che un ecosistema mediatico di
questo tipo finisce per confondere il pubblico e per disorientarlo.
Prima
di analizzare l’impatto che l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha avuto sugli
equilibri internazionali e sul conflitto in Ucraina, vorrei soffermarmi
brevemente su un episodio accaduto il 18 settembre che è stato reso noto solo i
primi di novembre.
Mi
riferisco allo “scherzo telefonico” fatta dai due “comici russi” “Vovan &
Lexus”, al secolo “Vladimir Kuznetsov e Alexey Stolyarov” alla premier “Giorgia
Meloni”, la quale credendo di parlare con il presidente della commissione
dell’Unione africana affronta alcuni delicatissimi temi di politica estera,
compresa la guerra in Ucraina.
Lungi
dall’essere uno scherzo di due burloni, quello effettuato “Vladimir Kuznetsov”
e “Alexey Stolyarov”, con molta probabilità due agenti del Cremlino – “Non
faremmo scherzi a Putin. Non vogliamo danneggiare il nostro Paese. Non vogliamo
disordini qui; non vogliamo fare nulla che possa aiutare i nemici della Russia”
– è stata una vera e propria misura attiva il cui scopo era screditare le
istituzioni italiane e il governo Meloni, un esecutivo che nelle intenzioni di
Mosca non avrebbe sostenuto l’Ucraina ma che alla prova dei fatti si è rivelato
europeista ed amico di Kyiv.
Come
ha acutamente sottolineato “Jacopo Iacoboni “in un articolo su “La Stampa”, a
riprova del “carattere di “operazione” della strana telefonata dei due “comici”
russi a Giorgia Meloni, interviene anche “Maria Zacharova”, la portavoce del
ministro degli esteri russo “Sergey Lavrov”, sostenendo che Meloni ha legittimato
l’elogio di Bandera da parte degli ucraini.
Se si
ascolta il contenuto della telefonata si scopre che Meloni non ha in alcun modo
elogiato Bandera.
La
conversazione è stata strumentalizzata da media legati al Cremlino, non solo
dalla “Zacharova”, per accreditare la tesi che l’Italia ha un governo fascista
che sostiene i nazisti ucraini e li glorifica, che l’Europa è stanca di inviare
aiuti militari a Kyiv e che la controffensiva è un fallimento e che dunque
l’Ucraina perderà la guerra.
Alcuni
media mainstream italiani, anziché gettare acqua sul fuoco su questa vicenda,
hanno addirittura amplificato la misura attiva.
È il
caso di LA7 che ha invitato i due sedicenti comici permettendo loro di
screditare ulteriormente il governo italiano.
Se la
leggerezza del Primo Ministro Meloni, che fortunatamente non ha divulgato
alcuna informazione riservata né detto nulla di compromettente, è sicuramente
da stigmatizzare e mette impietosamente a nudo l’inefficienza di certi
protocolli di sicurezza della presidenza del consiglio, è singolare che un
programma televisivo italiano finisca, volontariamente o involontariamente
questo non possiamo saperlo, per amplificare narrazioni strategiche russe dando
spazio a due propagandisti del Cremlino (forse addirittura due agenti), senza
fare loro alcuna domanda scomoda.
Veniamo
ora all’attacco di Hamas del 7 ottobre, avvenimento che è stato usato anche in
Italia per consolidare alcune narrative strategiche russe sulla guerra in
Ucraina, quali il presunto doppio standard usato per Israele e Ucraina, la
teoria cospirazionista per cui il conflitto in Ucraina sarebbe una guerra
voluta dalle élite finanziarie che dominano il mondo, l’inutilità e la
pericolosità dell’invio di armi all’Ucraina che in realtà finirebbero ad Hamas,
il fatto che la guerra in Israele e in Ucraina sarebbero guerre per procura
della NATO.
Queste
narrative, apparse su outlet “alternativi” come “Byoblu”, l’”AntiDiplomatico”, “VisioneTv”
e “Geopolitika.ru”, sono approdate nei media mainstream grazie ad opinion maker
quali, per esempio,” Alessandro Orsini” e “Alessandro Di Battista,” ospiti
fissi di trasmissioni televisive nazionali:
Hamas
rappresenta il popolo invaso (come l’Ucraina) e Israele rappresenta il popolo
invasore (come la Russia) ma i media e i politici italiani non chiedono
Leopard, Abrams, F-16, Himar e munizioni per i palestinesi.
Adesso mi aspetto che i conduttori televisivi
italiani passino il loro tempo a chiedere la condanna dell’invasione israeliana
della Palestina (Alessandro Orsini, l’AntiDiplomatico)
I
centri decisionali non sono più le nazioni come gli Stati Uniti o Israele, ma
le élite che usano le nazioni per fare la guerra come già accaduto con lo “Yom
Kippur”. Con
quella guerra, le élite finanziarie vicine a Kissinger si arricchirono grazie
ai petrodollari. La stessa cosa sta accadendo adesso. Anche la guerra in
Ucraina, che Zelenskyi perderà, è stata decisa e finanziata dall’élite di Davos.
I
militanti palestinesi affermano di possedere armi originariamente destinate
all’Ucraina.
I
russi in Ucraina e i palestinesi a Gaza combattono contro lo stesso nemico, gli
Stati Uniti.
Il
conflitto in Ucraina è una guerra per procura.
L’Ucraina, come Israele, è un semplice
strumento dell’egemonia occidentale, arrogante e brutale.
Sia
l’Ucraina che Israele sono solo strumenti della geopolitica del mondo unipolare
che combatte il mondo multipolare emergente.
Più in
generale se analizziamo le narrative strategiche russe sulla guerra in Ucraina
diffuse in Italia, prima e dopo il 7 ottobre, osserviamo che l’obiettivo
fondamentale del Cremlino è affermare che l’Ucraina non riceverà più alcun
aiuto da Stati Uniti e UE perché l’Occidente è impegnato a sostenere Israele,
che la controffensiva ucraina è fallita, che l’Ucraina è sull’orlo del collasso
per via delle lotte intestine tra il capo delle forze armate “Zaluzhny “e il “Presidente
Zelenskyi”, etc.
A
partire dall’estate 2023 la narrativa sul fallimento della controffensiva
ucraina è stata la più diffusa nei media italiani filo-Cremlino.
Ripresa
frequentemente anche in ambito mainstream, questa narrativa di disinformazione
è stata spesso veicolata avvalendosi dell’uso manipolativo e selettivo di
dichiarazioni prese dalla stampa occidentale, attraverso la falsa equazione
secondo cui lo stallo della controffensiva ucraina significa necessariamente il
suo fallimento e l’inizio della fine per il “regime nazista di Kyiv”.
Alcuni
esempi:
Anche
la stampa occidentale ammette il fallimento della controffensiva del regime di
Kyiv.
Le
forze russe hanno già distrutto le armi occidentali con le quali l’Ucraina
sperava di rafforzare la propria controffensiva.
La
controffensiva ucraina non è in stallo, è un fallimento.
Lo
spettacolare fallimento della controffensiva ucraina e il conseguente gioco di
scaricabarile tra Stati Uniti e Ucraina suggeriscono che i colloqui con la
Russia per congelare il conflitto riprenderanno entro la fine dell’anno.
Il
fallimento della controffensiva ucraina, che tutti credevano vincente, è così
evidente che Zelenskyi ha licenziato il ministro della Difesa.
La
famosa controffensiva ucraina di primavera, annunciata in autunno-inverno e
partita in estate, si sta rivelando un disastro.
Ma
qual è la reale situazione sul campo?
Le
parole dell’analista militare “Orio Giorgio Stirpe” fotografano una realtà
molto diversa da quella raccontata dagli outlet filo-Cremlino e dai media che
diffondono, consapevolmente o inconsapevolmente, le veline del Cremlino.
“Scrive
Stirpe” in un lungo post su Facebook del 14 dicembre.
“…
Bene, cosa ci lascia il 2023 ai fini della conclusione del conflitto in
Ucraina?
Ci
lascia in una situazione di stallo tattico, in gran parte dovuto
all’esaurimento delle scorte e alle condizioni meteorologiche, e in una di
contemporanea evoluzione operativa, che lascia un numero di opzioni aperte per
la campagna dell’anno 2024.
Innanzitutto la mia previsione:
come
tutti ricorderanno, avevo dato 51% di probabilità che la controffensiva ucraina
sortisse l’effetto di far crollare l’esercito russo entro il 2023, e il 49% che
questo si verificasse nel 2024. […]
L’esito
della controffensiva Ucraina del 2023 potrà essere definitivamente giudicato
solo al termine del conflitto, ma sicuramente NON può essere definito come un
“fallimento”: al massimo come “indeciso”.
Dal
punto di vista strategico però, ha debilitato l’esercito russo in una misura
rilevante, che si evince proprio dall’andamento dei suoi attacchi ad “Avdiivka”,
che sono condotti con le modalità tipiche di un esercito che opera con molti
uomini ma per il resto in condizioni di inferiorità qualitativa molto pesante,
come i giapponesi nel Pacifico o gli iraniani nel Golfo.
Condizioni
ripeto, che all’inizio del conflitto erano opposte.
Ma allora perché tutta questa enfasi mediatica
sul “fallimento” ucraino e sull’imminente “vittoria” di Putin?
Perché
su un fronte diverso da quello militare, i russi stanno vincendo. Stanno
vincendo la guerra informativa, condotta con gli strumenti “ibridi” di cui sono
maestri e che sono così letali soprattutto nei nostri (occidentali) confronti”.
La
lucida analisi di Stirpe, che invito a leggere per intero, sottolinea alcuni
punti fermi.
La
controffensiva è in un momento di stallo anche perché le armi promesse
dall’Occidente non sono state ancora consegnate, l’esercito di Mosca non fa
progressi a “Avdiivka” e l’avanzamento di qualche metro è avvenuto al prezzo di
un numero esorbitante di perdite umane, la Russia è competitiva solo
nell’ambito della guerra informativa.
A
parere di chi scrive l’Ucraina ha ottime possibilità di vincere a patto che
l’Occidente mantenga fede a quanto promesso in termini di forniture militari e
assistenza economica giungendo alla piena consapevolezza che dall’esito del
conflitto in Ucraina dipende la sopravvivenza stessa del mondo libero e delle
democrazie occidentali.
Siamo
a un crocevia della storia!
Se da
un lato il via libera all’apertura dei negoziati di adesione dell’Ucraina
all’Unione Europea del 15 dicembre sono un’ottima notizia per il futuro Kyiv,
dall’altro la dirigenza ucraina deve continuare sulla strada delle riforme e
aprire a un governo di solidarietà nazionale che coinvolga le altre forze
democratiche quali il Partito Solidarietà Europea dell’ex Presidente Petro
Poroshenko come suggerito dal giornalista ucraino Vitaly Portnikov in un
articolo del 3 dicembre.
Un
governo di larghe intese tra il partito di Zelenskyi e le forze democratiche ed
europeiste servirebbe a rafforzare l’azione diplomatica di Kyiv a livello
internazionale e a rinsaldare i rapporti con un alleato storico come la Polonia
di Donald Tusk dal cui supporto, politico, economico e militare, l’Ucraina non
può prescindere nella guerra contro il regime genocidario di Mosca.
Netanyahu
interrompe gli aiuti a Gaza
mentre nuovi raid aerei israeliani
uccidono 35 persone.
Glistatigenerali.com – Redazione – (26 giugno
2025) – ci dice:
Aiuti
sospesi dopo che il ministro Smotrich ha minacciato di abbandonare il governo.
Intanto
la questione dei crimini israeliani a Gaza infiamma il Consiglio Europeo di
oggi.
Pressioni
per sospendere l’accordo di cooperazione UE-Israele.
26
Giugno 2025.
Aiuti
sospesi nel Nord di Gaza, dopo che il ministro delle Finanze “Bezalel Smotrich”
ha minacciato di abbandonare il governo.
Nel
frattempo due attacchi aerei israeliani hanno ucciso oggi 35 persone, secondo
fonti negli ospedali del territorio, come riporta “Al Jazeera”.
Il
totale include tre persone uccise mentre aspettavano gli aiuti umanitari vicino
ai punti di distribuzione, nove persone morte nel bombardamento di una scuola
che ospitava sfollati a Gaza città, due persone uccise in un bombardamento del
quartiere di “Zeitoun” sempre in città e una uccisa in un attacco a “Jabalia,
più a nord.
Sono
ormai almeno 549 i palestinesi uccisi mentre cercavano di avere accesso agli
aiuti distribuiti dalla “Gaza Humanitarian Foundation” (GHF).
Nelle
ultime 24 ore il totale delle vittime uccise dalle forze armate israeliane è
salito a 90, a cui vanno aggiunti altre tre morti vicino a “Ramallah”
(Cisgiordania), per mano dei coloni.
Nel
frattempo il dossier degli abusi e crimini commessi da Israele a Gaza infiamma
il Consiglio europeo in calendario oggi e domani a Bruxelles.
Diversi Paesi europei chiedono una presa di
posizione forte, fino alla sospensione dell’accordo di cooperazione con
Israele, per violazione dei termini dell’accordo da parte di quest’ultimo.
In
Medio Oriente, «la situazione è critica, c’è un’ampia richiesta di
de-escalation», ha detto la presidente del Parlamento europeo, “Roberta
Metsola”, al suo arrivo al Consiglio europeo a Bruxelles.
«Dobbiamo
assicurarci che il cessate il fuoco (Israele-Iran, ndr) regga e dobbiamo anche
lavorare per un cessate il fuoco a Gaza, affinché gli aiuti umanitari vitali
tanto necessari arrivino a tutti coloro che ne hanno disperatamente bisogno e
per il ritorno di tutti gli ostaggi».
Eppure
la mossa di oggi di Benjamin Netanyahu non lascia dubbi:
il
primo ministro israeliano è prigioniero dell’estrema destra del suo governo,
che con la scusa di voler impedire a Hamas di appropriarsi degli aiuti.
Netanyahu ha comunque chiesto all’Idf
(l’esercito israeliano) di elaborare un piano in 48 ore di consegna degli aiuti
che neutralizzi Hamas.
«Purtroppo,
alcuni Stati membri, importanti Stati membri, hanno deciso di dare priorità ai
propri interessi e non ai diritti umani del popolo palestinese.
Vedremo
se riusciremo a convincerli oggi, ma anche se non ci riusciremo, persisteremo»,
ha affermato il primo ministro della Slovenia,” Robert Golob”, al suo arrivo al
Consiglio europeo a Bruxelles.
«Ho
già ricevuto informazioni dall’alta rappresentante dell’Unione per gli Affari
esteri e la Politica di sicurezza, “Kaja Kallas,” secondo cui Israele viola
chiaramente l’articolo 2 in materia di diritti umani a Gaza.
A meno
che l’Unione europea non faccia qualcosa di concreto oggi o nel giro di due
settimane, allora ogni Stato membro, compresa la “Slovenia “e alcuni dei Paesi
che condividono la nostra stessa visione, dovranno fare i prossimi passi da
soli.
E
siamo pronti a farlo perché è giunto il momento di non limitarci a mostrare
solidarietà, ma di esercitare una vera pressione sul governo israeliano».
Più
netta la Spagna:
«A
Gaza c’è una situazione catastrofica di genocidio:
appoggiamo
la richiesta dell’Onu di accesso degli aiuti, di cessate il fuoco e andare
avanti verso la soluzione dei due stati», ha dichiarato il premier Pedro
Sanchez. «Israele sta violando l’articolo due, quello sui diritti mani,
dell’accordo tra Ue e Israele: oggi chiederò la sospensione immediata di questo
accordo».
«Il
cuore sanguina pensando all’Ucraina, alla situazione tragica e disumana di
Gaza, e al Medio Oriente, devastato dal dilagare della guerra», ha detto oggi
“Papa Leone”, ricevendo in udienza i partecipanti all’assemblea plenaria della
“Roaco”, la “Riunione delle Opere per l’aiuto alle Chiese Orientali”.
«Abbiamo
sentito anche una forte necessità dentro alla famiglia socialista di alzare la
voce su Gaza, non solo per il cessato il fuoco, la liberazione degli ostaggi e
gli aiuti umanitari, ma anche per sospendere l’accordo di cooperazione
Ue-Israele. Quello che noi chiediamo è un embargo totale di armi da e verso
Israele, sanzioni per il governo di Benjamin Netanyahu, il riconoscimento dello
Stato di Palestina», ha dichiarato la segretaria del Partito democratico, “Elly
Schlein”, uscendo dal prevertice del gruppo S&D in vista della riunione del
Consiglio europeo.
Quella
riunione segreta d’emergenza
delle
élite mondialiste in Italia.
Lacrunadellago.net
– (24/06/2025) – Cesare Sacchetti – ci dice:
I vari
club del mondialismo, si sa, amano chiudersi in lussuosi alberghi a 5 stelle
per decidere le sorti del mondo.
Dalla
fine della seconda guerra mondiale in poi, ha iniziato a diffondersi
l’abitudine sempre più frequente nelle democrazie liberali Occidentali di
tenere riunioni annuali in vari luoghi del Nord-America e d’Europa per prendere
le decisioni che avrebbero dovuto poi essere eseguite dai vari governanti.
Nel
1954, ad esempio, il politico polacco “Jozef Retinger” il “gruppo Bilderberg”,
uno dei circoli delle élite più importanti della storia dell’900, ma ciò
nonostante si fa fatica a trovarne menzione nei libri di storia scritti dai
vari storici liberali, sempre attenti a non svelare le vere dinamiche che
governano le democrazie liberali.
(Jozef
Retinger).
Al
Bilderberg partecipano personaggi della politica, del giornalismo, dell’alta
finanza e dell’industria globale, e questo club è uno di quelli più di rilievo
nella impalcatura del mondialismo per decidere in quale direzione deve andare
il mondo.
E’
nelle riunione di questa società segreta che si è deciso, ad esempio, che “Bill
Clinton” sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti nel 1993, nonostante il
governatore dell’Arkansas avesse già alle sue spalle una carriera piena di
ombre e di scandali che non hanno mai visto alla luce del sole a causa delle
strani morti di tutti i testimoni che avrebbero potuto mandare in rovina sia
l’ex presidente americano sia la sua “illustre” consorte, Hillary Clinton, l’ex
segretario di Stato dell’amministrazione Obama.
I “think
tank” e i “circoli del mondialismo” sono vari e ogni Paese ha la sua succursale
di riferimento.
Ad
esempio, nel caso della Gran Bretagna lo è certamente la “Chatam House” voluta
dalla” famiglia Rothschild”, mentre nel caso dell’Italia oltre all’”istituto
Aspen” fondato dalla” famiglia Rockefeller”, c’è certamente il “club di
Cernobbio”, ovvero il “forum Ambrosetti” che prende il nome dal suo fondatore,
l’”economista Alfredo Ambrosetti”.
“Ambrosetti
“è uno di quegli uomini che sussurra ai potenti ed è uno degli storici
organizzatori del citato “Bilberberg”.
“Cernobbio”
nasce probabilmente proprio per soddisfare l’esigenza di impiantare anche in
Italia una succursale del “gruppo Bilderberg” per assicurarsi che anche la
politica italiana fosse ligia alle direttive ricevute da tali poteri.
Alle
riunioni di questo rilevante think tank si trovano, non a caso, personaggi di assoluto rilievo come “Carlo
Azeglio Ciampi”, membro del gruppo Bilderberg, “Bill Gates”, l’ex magnate di
Microsoft e signore dei vaccini legatissimo al cartello farmaceutico, “Gianni
Agnelli”, altro sodale del Bilderberg e del club di Roma vicino alla grande
eminenza grigia del mondialismo, “Henry Kissinger”, “Giulio Tremonti,”
presidente del citato “istituto Aspen”, “Romano Prodi”, membro anch’egli del
Bilderberg e del club di Roma, l’attuale capo dello Stato, “Sergio Mattarella”,
molto vicino alla “Commissione Trilaterale dei Rothschild”, e persino un
pontefice come “Benedetto XVI”.
A “Cernobbio”,
se si volesse utilizzare una metafora pronunciata in confidenza da uno degli
appartenenti di questi circoli, si mettono in poche parole le posate sulla
tavola e si decidono i posti che ognuno deve prendere nella tavola della
politica italiana, così come nei circoli mondialisti d’Oltralpe si decidono le
varie direttive e incarichi che andranno assegnati ai vari politici dei Paesi
Occidentali.
In
pratica, l’essenza della democrazia liberale si racchiude tutta in questi
centri del potere privati, nei think tank, nelle fondazioni, e nelle logge
massoniche che privatizzano la politica e impongono ad un determinato Paese la
linea da seguire, oltre ovviamente a stabilire quali saranno gli uomini
chiamati ad eseguire quell’agenda.
Non
stupisce quindi che il “forum Ambrosetti” abbia ricevuto l’elogio di università
angloamericane, come quella della “Pennsylvania” che lo ha definito il più
prestigioso think tank italiano non certo per la qualità o la rettitudine dei
suoi membri, ma soltanto perché il forum in questione segue le linee tracciate
dal “vero potere” che conta.
Riunione
d’emergenza a Cernobbio.
La
prossima riunione in programma di tale esclusivo circolo è prevista per il
prossimo settembre, eppure secondo importanti fonti dei servizi italiani che
hanno raggiunto tale blog, la passata settimana ci sarebbe stata una sorta di
anticipazione del forum, ma senza alcuna pubblicità da parte degli organi di
stampa, nella massima segretezza possibile.
Sulle
incantevoli sponde del lago di Como e sotto i magnifici affreschi di villa
d’Este, è andata in scena quella che può definirsi una riunione di emergenza,
alla quale hanno partecipato rappresentanti governativi di Francia, Germania,
Gran Bretagna assieme ai vari esponenti del governo israeliano, in particolar
modo membri del famoso, o famigerato, servizio segreto del Mossad.
Villa
d’Este.
Secondo
tali fonti, in questo parterre istituzionale governativo d’eccezione, ci
sarebbe stato anche un peso massimo dello stato profondo italiano come “Mario
Draghi”, l’ex presidente del Consiglio ed ex governatore della BCE, già noto
per la famigerata svendita della industria pubblica italiana avvenuta a bordo
del panfilo del Britannia.
Gli
argomenti sul tavolo sarebbero stati diversi, ma i più prioritari avrebbero
riguardato la guerra israelo-iraniana che sta mandando in crisi lo stato
ebraico, uno degli elementi più importanti, se non il più importante, di tutta
l’architettura di potere sorta dopo il 1945 che i vari analisti degli organi di
stampa amano chiamare “ordine liberale internazionale”.
Il conflitto
non ha preso affatto la piega sperata da Tel Aviv.
Secondo
quanto dichiarato dal colonnello americano “Mac Gregor”, almeno un terzo della
capitale israeliana sarebbe danneggiata o distrutta, e a giudicare dalle
immagini che si sono viste sui vari canali che stanno seguendo da vicino la
guerra, non sembra essere una valutazione avventata.
La
devastazione di Israele dopo i bombardamenti iraniani.
I
missili iraniani si stanno rivelando estremamente precisi e avanzati, tanto da
dimostrare un “progresso tecnologico sotto certi aspetti superiore” non solo
certamente a quello dello stato di Israele ma anche a quello di diversi Paesi
NATO che non dispongono certo di tali armamenti.
Israele
ha messo in atto una mossa della disperazione.
Nel
folle tentativo non di mettere fine al programma nucleare iraniano, ma di
provare a rovesciare il governo iraniano, Tel Aviv si è giocata il tutto per
tutto e ha lanciato un attacco all’Iran nella vana speranza che gli Stati Uniti
venissero in suo soccorso.
Secondo
fonti di intelligence libanesi, il presidente degli Stati Uniti, Trump, era
informato in anticipo dei piani di Israele, e aveva espressamente avvertito il
governo di Tel Aviv di astenersi da una simile azione, fino a sottolineare che
se lo stato ebraico avesse deciso di attaccare, avrebbe dovuto sbrigarsela da
sola.
48 ore
fa, Trump ha dato prova ancora una volta di conoscere molto bene l’arte
dell’inganno e della dissimulazione attraverso un “attacco” concordato con
Teheran a tre siti nucleari che sono rimasti perfettamente intatti e
funzionanti, e attraverso tale mossa, il presidente non solo ha tolto agli
israeliani il pretesto in base al quale chiedevano l’ingresso degli Stati Uniti
in guerra, ma ha dimostrato al mondo intero che a Tel Aviv non importa nulla
dei presunti programmi nucleari iraniani.
A
concludere questa messinscena concordata, è stata la “risposta” dell’Iran che
ieri ha bombardato una base americana vuota, quella di “Al-Ubeid” nel Qatar,
avvertendo prima sia Doha che Washington a dimostrazione, come scritto nel
precedente articolo, che nessuno vuole farsi male in questa storia e che tutti
vogliono tenersi fuori dai piani guerrafondai di Israele.
Israele
in tale storia voleva soltanto una cosa.
Voleva rovesciare il governo di Teheran.
Voleva
più semplicemente installare al posto dell’ayatollah Khamenei la” famiglia
reale dei Pahlavi” che sono nelle mani dell’anglosfera e delle varie lobby
sioniste ed ebraiche, tanto che piuttosto che condannare i crimini di guerra
che stanno uccidendo iraniani innocenti si sono schierati dalla parte dei
carnefici e degli assassini del popolo iraniano.
Israele,
in altre parole, vorrebbe ancora una volta aprire il manuale della CIA e del
Mossad alla voce “regime change” per ripetere l’operazione compiuta 22 anni
prima, ai tempi della guerra in Iraq, concepita per rovesciare Saddam Hussein,
considerato d’intralcio alle mire espansioniste di Sion, e rimosso anch’egli
sotto il falso pretesto del possesso delle armi di distruzione di massa che non
sono mai state nelle mani dell’Iraq, ma che invece sono in quelle dello stato
di Israele sin dai tempi dello scontro di Ben Gurion con il presidente Kennedy.
A
Cernobbio, c’è viva preoccupazione da parte dei rappresentanti delle varie
cancellerie europee, e l’ordine che sarebbe stato trasmesso dai vari membri dei
think tank del globalismo, è quello di non far trapelare nulla di quanto sta
realmente accadendo in Israele.
Sulla
stampa italiana ed europea deve passare il messaggio che è l’Iran che sta
crollando, che il suo governo è in fuga, come ha scritto qualche propagandista
di Sion su X, e soprattutto non si devono vedere immagini dei missili iraniani
che vanno a bersaglio.
Ad
anticipare il blackout mediatico è stato lo stesso esercito israeliano che ha
ordinato ai giornalisti internazionali di chiedere il permesso di trasmettere
da un determinato luogo colpito, e qualora i danni e i morti fossero troppo
alti, allora l’autorizzazione sarebbe probabilmente negata.
È un
divieto abbastanza impossibile da rendere effettivo perché nell’epoca moderna
ognuno è dotato di telecamera attraverso un cellulare, e gli smartphone che le
multinazionali hanno messo in mano alle persone per inebetirle, si sono
rivelati, almeno in questo caso, un micidiale boomerang.
Si
vuole evidentemente provare a nascondere la profonda crisi di Israele che non
sta solo vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia con i suoi
cieli che vengono violati sistematicamente e con facilità dai missili iraniani,
ma anche una crisi politica e istituzionale che non viene ovviamente raccontata
dagli organi di stampa.
Non è
stato raccontato, ad esempio, di quanto accaduto al capo del Mossad, “David
Barnea”, che, secondo i media indiani, sarebbe stato all’interno del quartier
generale del servizio segreto israeliano dopo l’attacco iraniano che avrebbe
ucciso “Barnea.”
(David
Barnea).
Non
una parola è stata detta sulle sorti del capo di uno dei servizi segreti più
noti al mondo, così come non è stata detta una parola sul comandante della
Marina israeliana, “David Saar Salama”, anch’egli probabilmente ucciso dai
missili dell’Iran.
Stamane,
è giunto l’annuncio da parte del presidente Trump che un cessate il fuoco è
stato raggiunto tra Israele e Iran, ma i problemi politici e militari dello
stato ebraico sono ancora tutti lì, probabilmente ancora più gravi di prima,
perché Teheran da questa prova di forza sta uscendo rafforzata e praticamente
non scalfita dai tentativi di Israele di rovesciare il suo governo, mentre Tel
Aviv si guarda intorno e vede la devastazione creata dai missili iraniani con
diversi ufficiali governativi e militari che esprimono sempre più apertamente
il loro malumore di fronte a tale sfacelo.
Papa
Leone XIV: un papa sgradito all’establishment.
A
Cernobbio, i vari rappresentanti del mondialismo non hanno comunque parlato
soltanto di Israele e della preoccupazione che questo stato possa crollare, ma
nell’agenda della riunione riservata ci sarebbe stato anche il pontificato di
papa Leone XIV.
Dopo
un iniziale tentativo da parte degli organi di stampa di associare la figura di
questo pontefice a quella di Francesco, nel mondo dei vari “cattolici”
liberal-progressisti si sarebbe diffuso un certo malumore nei confronti di
questo papa che si sta rivelando molto diverso dal suo predecessore.
Ad
esprimere per primo la sua opposizione nei confronti del Santo Padre, è stato
il cardinale militante di Sant’Egidio, “Matteo Zuppi”, molto vicino a
Francesco, che ha definito “freddo” il papa per aggiungere poi che c’è
nostalgia verso Bergoglio.
(Zuppi
assieme a Francesco).
Zuppi
si è espresso così alla festa di Repubblica, il quotidiano “house organ” della
sinistra progressista italiana anti-clericale, perché, a quanto pare, il
porporato si trova molto a più suo agio negli ambienti ostili al cattolicesimo
che in quelli invece vicini alla tradizione.
Se
Zuppi ha deciso di parlare apertamente contro Leone, lo storico fondatore di
Sant’Egidio, “Andrea Riccardi”, già vincitore del premio Kalergi, ha preferito
invece ancora giocare la carta del buon viso a cattivo gioco attraverso la sua
dichiarazione nella quale afferma che Leone sarebbe stato scelto da Francesco
in persona, ma dietro le quinte la storia sarebbe molto diversa.
Secondo
fonti vaticane ben informate, il patron di Sant’Egidio non gradirebbe affatto
il Santo Padre e lo considererebbe ostile all’agenda immigrazionista della
comunità nota come l’ONU di Trastevere.
Tra le
prime azioni del pontefice, c’è stata quella di avviare una generale revisione
dei conti delle casse del Vaticano disastrate dalle scellerate scelte del suo
predecessore “francescano” che tra le sue varie “imprese” ha compiuto quella di
prosciugare le casse dell’obolo di San Pietro nella disgraziatissima operazione
della casa di Londra, costata alla Santa Sede l’enorme cifra di 300 milioni.
Leone
risulta che abbia avviato una sorta di “spending review”, per utilizzare la
terminologia cara ai vari tecnocrati, e nei tagli che ha deciso di attuare ci
sarebbero anche proprio quelli a favore di Sant’Egidio.
Ai
tempi di Bergoglio, c’era un idillio tra il papa e Riccardi che forse non si
era visto nemmeno nell’epoca di Wojtyla, che pure è stato il pontefice che ha
aperto le porte del Vaticano a Sant’Egidio, sino a darle l’incarico di
organizzare il famoso, o famigerato, incontro interreligioso di Assisi nel 1986
al quale hanno partecipato esponenti di vari religioni, in quelle che
sembrarono essere le prove generali della religione ecumenica mondiale che il
Concilio Vaticano II si proponeva di instaurare.
Francesco
aveva una vera e propria ossessione per il migrante o immigrato clandestino,
tanto che nel suo pontificato l’africano che lasciava la propria terra
attraverso il contributo dei trafficanti di esseri umani, su tutti le ONG di
Soros, diventava una novella figura cristica degna di venerazione.
Sant’Egidio
che si occupa appunto del transito di migranti non poteva che essere il
naturale interlocutore di Bergoglio che decise di istituire un apposito
dicastero, quello del servizio dello sviluppo umano integrale, un nome che
ricorda molto quello di una ONG attiva per i diritti umani, attraverso il quale
sono affluiti diversi fondi alla comunità di Riccardi.
Papa
Leone avrebbe deciso di mettere un freno a tali progetti immigrazionisti, e tra
le prime vittime di questi tagli, ci sarebbe proprio Sant’Egidio che in
pubblico continua a elogiare il papa, ma dietro le quinte non nasconde la sua
ostilità nei suoi confronti.
La
dichiarazione di Zuppi è stata l’inizio, un primo segnale che i modernisti
bergogliani sono sul piede di guerra e sono pronti a scatenare una feroce
opposizione contro questo pontificato che minaccia di invertire la rotta e
riportare la Chiesa su un cammino non più secolare o forse si dovrebbe dire
marxista-protestantico, ma su quello del Vangelo.
Il
Santo Padre non sembra essersi affatto intimidire dalle parole di Zuppi, e in
uno dei suoi ultimi discorsi è sembrato rispondere per le rime non solo a lui,
ma a tutti quei prelati che al posto della missione evangelica e della salvezza
delle anime hanno messo gli interessi dei vari circoli del progressismo e degli
istituti globalisti che hanno alla base un’agenda secolare e profondamente
anticristiana.
Il
papa è stato chiaro, inequivocabile.
La
Chiesa non è un partito, né tantomeno una ONG di natura liberal-progressista
come purtroppo il Concilio Vaticano II l’ha resa più simile.
Ad
essere preoccupati da questo pontificato non sono soltanto i membri della
massoneria ecclesiastica, già in allerta, ma anche i vari esponenti della
libera muratoria laica che, come si vede, iniziano a riunirsi per discutere il
da farsi verso un pontefice che sta suscitando un risveglio della fede e un
riavvicinamento dei giovani, da tempo disillusi e scristianizzati da questa
società del vuoto secolare, figlia del disgraziato ’68, il parto malato della
scuola di Francoforte.
Leone
è forse il papa che da tanto tempo i cattolici stavano aspettando e ciò non è
gradito ai signori del mondialismo che hanno visto crollare negli ultimi anni
vertiginosamente la loro influenza dopo la caduta dell’impero americano e la
crisi della NATO abbandonata dagli Stati Uniti, e ora con il declino dello
stato ebraico.
Una
intera impalcatura scricchiola e il cambio di rotta della Chiesa sarebbe uno
dei definitivi colpi di grazia ad un progetto che era stato concepito e
costruito in più di 100 anni di storia.
Sembra
essere iniziato l’ultimo ciclo dell’epoca globalista del secolo scorso, ed è
certamente quello più delicato e decisivo.
I vari
appartenenti di questi poteri sono all’angolo e sono pronti a mosse della
disperazione pur di provare a rovesciare il tavolo, e sarà proprio in tale fase
che occorrerà vigilare e sperare che non ci siano altre vittime, come quelle
che ci sono state dopo la pantomima dell” attacco” di Trump.
Non
sono passate poche ore da quel falso attacco, che si è infatti improvvisamente
riattivato il fenomeno del terrorismo “islamico” negli Stati Uniti e in Siria,
la cui natura non è affatto spontanea, ma artificiale e gestita sin dai primi
istanti dalle varie agenzie di intelligence americane e israeliane che si sono
servite di esso per scatenare guerra e devastazioni a tutti coloro che venivano
considerati “nemici” dallo stato ebraico.
È una
fase particolarmente delicata perché la bestia è gravemente ferita, e prima di
soccombere, come ha detto lo stesso governo israeliano, proverà a tirare i suoi
ultimi e violenti colpi di coda.
In
tale scenario di generale disfacimento, l’Italia sembra essere stata scelta
come uno degli ultimi fortini dell’establishment per una ragione alquanto
semplice.
La
corrotta classe politica del Paese dopo aver perduto la protezione dell’impero
americano si è messa a completa disposizione delle élite europee pur di provare
a mettersi in salvo.
Se ne
è avuto un saggio quando ad aprile i rappresentanti delle istituzioni della “repubblica
di Cassibile” diedero vita a quella ignobile sceneggiata per ricevere re Carlo,
e se ne ha ora una ulteriore prova attraverso la scelta delle élite globaliste
di tenere una riunione segreta in Italia.
Il
mondialismo evidentemente è ben consapevole che la sua fine si fa sempre più
vicina.
La
Sconfitta Israeliana
è Evidente.
Conoscenzealconfine.it
– (25 Giugno 2025) - Daniele Perra – ci dice:
Ad oggi,
si può affermare con una certa cognizione di causa che l’operazione israeliana
“Rising Lion” sia stata un totale fallimento.
Il
programma nucleare iraniano è solo parzialmente scalfito.
Il
dominio aereo non è sufficiente.
Netanyahu
non è riuscito a spingere gli Stati Uniti ad entrare direttamente nel conflitto
(nonostante
l’attacco piuttosto debole, e molto di facciata, ad alcuni siti nucleari
iraniani).
Israele
non può colpire in modo pesante le infrastrutture petrolifere iraniane, troppo
importanti per un “peso massimo” come la Cina, che non può essere indispettita
più di tanto (visti i tanti interessi economici anche in Israele).
Il
“cambio di regime” a Teheran è ben lontano dal realizzarsi, a prescindere dallo
scongelamento dell’impresentabile” Reza Ciro Pahlavi” (chi pensa che gli iraniani lo
vogliano alla guida del loro Paese ha seri problemi mentali).
La
diplomazia di Russia, Cina e Pakistan è stata fondamentale, quantomeno per fare
capire a Washington che avrebbero partecipato alla partita in caso di un
allargamento del conflitto.
L’Iran
ha ampiamente dimostrato che Israele può essere colpito (anche con una
sostanziale facilità) e, al contempo, che non cerca alcuno scontro diretto con
gli Stati Uniti (e gli attacchi “telefonati” alle basi USA nella regione ne sono la prova
evidente).
Questa,
tuttavia, rimane solo una fase.
Se la
questione dovesse chiudersi così, la sconfitta israeliana è evidente.
Se
dovesse continuare, il rischio di un crollo di Tel Aviv potrebbe seriamente
portare gli Stati Uniti a correre in aiuto del suo “alleato” (rimane difficile chiamarlo così
visti i danni che la lobby sionista ha portato alla politica estera USA).
(Daniele
Perra).
(ariannaeditrice.it/articoli/la-sconfitta-israeliana-e-evidente).
La
Pazza Teoria: Trump e
Khamenei Sono d’Accordo?
Conoscenzealconfine.it
– (24 Giugno 2025) – Redazione -Renovatio1.com – ci dice:
Una
vertiginosa speculazione corre in queste ore in rete, e oltre: il presidente
americano Trump e l’ayatollah Khamenei avrebbero, in sostanza, una sorta di
accordo.
La
speculazione su questo paradossale scenario parte infatti dall’uccisione da
parte degli Stati Uniti del leader militare iraniano “Qasem Soleimani “nel 2020
e dall’attacco di risposta dell’Iran, che secondo il presidente Trump è stato
essenzialmente un atto di guerra.
In
un’intervista rilasciata alla “Fox News nel 2020”, Trump aveva affermato che il
regime iraniano aveva fatto sapere agli Stati Uniti che avrebbero colpito una
determinata area “al di fuori del perimetro” per far sembrare che stessero
reagendo all’attacco di” Soleimani”, quando in realtà era tutto uno spettacolo.
“Ci
hanno fatto sapere: ‘non muovetevi. Vi dovremo colpire psicologicamente’.
Sapevamo che non avrebbero colpito all’interno del forte”, aveva dichiarato
Trump all’epoca, spiegando che l’Iran stava semplicemente cercando di “mostrare
forza” ai soggetti più intransigenti al suo interno, puntando intenzionalmente
i missili dove non avrebbero danneggiato le truppe statunitensi e implorando
Trump:
“per
favore, non attaccateci. Non vi colpiremo”.
Come
noto, gli attacchi USA non hanno prodotto vittime, e sembrerebbe pure non vi
siano vere fughe di radiazioni.
A
portare avanti la teoria dell’accordo sostanziale Washington-Teheran è un
commentatore molto noto sul social X, Lord Bebo.
Tenendo
conto della dichiarazione di Trump del 2020, Lord Bebo ha scritto un riassunto
come possibile spiegazione ai raid di sabato:
1) Gli
impianti nucleari iraniani sono stati evacuati e le attrezzature sono state
spostate con giorni di anticipo.
2) Gli
Stati Uniti hanno annunciato pubblicamente e reso visibili i prossimi attacchi.
Abbiamo visto tutti i bombardieri muoversi sul posto e la copertura mediatica
che prevedeva l’attacco.
3) Gli
Stati Uniti hanno quindi colpito un impianto nucleare iraniano vuoto, poiché
gli iraniani lo sapevano e lo avevano evacuato.
4) I
satelliti statunitensi hanno mostrato l’evacuazione delle strutture da parte
degli iraniani, quindi gli americani sapevano che le strutture erano vuote e
non operative.
5) Gli
Stati Uniti e l’Iran avevano tenuto dei colloqui segreti in Oman pochi giorni
prima, ma nessuno sa cosa fosse stato concordato.
6)
Trump ha sostanzialmente spiegato che un accordo del genere era già stato
concluso in precedenza.
7)
L’unica conclusione logica è che l’Iran e gli Stati Uniti abbiano stretto un
accordo segreto per porre fine alla guerra. In sostanza: Gli Stati Uniti
colpiscono le strutture vuote – L’Iran reagirà ma mancherà il bersaglio.
“Basta
aspettare la risposta dell’Iran. Non le parole, ma la reazione fisica” scrive
il Bebo. “Se non è troppo dura con le vittime, ma sembra grande… ho ragione.
P.S.: È un’osservazione geopolitica che ho fatto. Potrei sbagliarmi. La gente
deve capire che i governi non ci dicono la verità il più delle volte e che non
tutto è come sembra. Le autorità hanno bisogno del consenso, quindi fanno degli
spettacoli “.
“Non
arrabbiatevi. Consideratelo solo come un possibile scenario. Non sono qui per
ripetere i discorsi dei media tradizionali di nessun paese, qui hai la sfumata
posizione intermedia che ritengo giusta”.
L’idea
potrebbe trovare qualche conferma in notizie che escono dall’area.
Una fonte politica iraniana di alto rango
avrebbe dichiarato all’agenzia di stampa della Penisola Arabica “Amwaj Media”
che il team di Trump “avrebbe dato preavviso dei bombardamenti di siti nucleari
e insistito sul fatto che fossero intesi come ‘un caso isolato’ “.
Vi
sarebbero insomma segnali del fatto che Trump abbia voluto ripetere quanto
accaduto nel gennaio 2020 con l’uccisione di “Soleimani” e la simbolica
rappresaglia iraniana.
Così
si spiegherebbe lo strano, roboante videomessaggio delle scorse ore, che
sembrava una dichiarazione di un conflitto finito piuttosto che di una guerra
cominciata.
In
questo senso andrebbero pure letti i riferimenti continui ad Israele, sul quale
pure Trump, in un inedito per un presidente USA, aveva invocato la protezione
di Dio, prima che addirittura per gli Stati Uniti.
Proprio
Israele potrebbe essere l’oggetto di tutto il kabuki.
Si tratta di una manovra per, nel medio
termine, sbarazzarsi di Netanyahu, che continuerà a domandare istericamente
altri attacchi ficcandosi in un vicolo cieco?
È noto
come, nemmeno tanto dietro le quinte, Bibi non goda della simpatia di Trump.
Probabilmente,
il premier dello Stato Giudaico ha esaurito il credito anche presso altre
capitali:
è
possibile pensare che anche Mosca sia un po’ stanca del personaggio, divenuto
ancora più problematico da quando si è attorniato dalla gang messianica
sionista (definizione del giornale israeliano Haaretz) che governa con lui e di
cui lui oramai fa parte.
E
Netanyahu, dicono in vari, è obbligato alla guerra (alle guerre) per altri
motivi, non nobilissimi:
lo
aspettano, qualora perdesse l’incarico di premier, alcuni processi: questa è
quantomeno la percezione che hanno molti suoi oppositori, che prima del 7
ottobre 2023, ricorderete, riempivano le città israeliane con oceaniche
manifestazioni di protesta.
A
questo punto tutto è possibile: sorprende vedere un politico della Florida
(cioè, uno degli Stati dove l’elettorato ebreo conta di più), saltare sopra la
pazza idea dello scontro solo simbolico con Teheran:
“ Matt
Gaetz”, che forse ha qualche sassolino nella scarpa da quando lo hanno silurato
come ministro della Giustizia USA (Attorney General), va oltre e in queste ore
arriva a parlare di un Medio Oriente senza atomiche… comprese quelle di
Israele.
Avete
letto bene: il giovane ex deputato floridiano chiede la fine del programma
nucleare militare (segreto, illegale) dello Stato degli ebrei.
Ciò
potrebbe rappresentare qualcosa di enorme: la castrazione atomica di Israele,
una prospettiva semplicemente inimmaginabile.
Toccare
l’atomo dello Stato Ebraico può avere conseguenze incredibili.
Alcuni
sostengono che i Kennedy siano morti proprio per questo, perché si opponevano
all’Israele nucleare.
Tuttavia,
si tratta certamente, come per ogni progetto di disarmo atomico, di una
prospettiva di pace.
E
Trump, ha detto varie volte, vuole che la pace sia il suo vero lascito.
C’è da
credergli?
C’è da pensare che stia davvero operando,
nell’iperuranio del deal maker, con mosse di tale sofisticazione?
Adesso
non possiamo dirlo…
(renovatio21.com/la-pazza-teoria-trump-e-khamenei-sono-daccordo/).
Avremo
vita eterna grazie
all’intelligenza
artificiale?
Indiscreto.org – (29/11/2023) – Redazione - Moritz
Riesewieck e Hans Block – ci dicono:
Se la
tecnologia fosse in grado di reagire a impulsi non verbali, vibrazioni
nell’aria, o capire semplicemente le esternazioni di sentimenti, l’interazione
tra esseri umani e macchine salirebbe a un nuovo livello.
Questo
articolo è un estratto da “La fine della morte“, di Moritz Riesewieck e Hans
Block, edito da Edizioni Tlon.
(Moritz
Riesewieck e Hans Block)
Bobok,
bobok, bobok.
«Bobok,
bobok, bobok».
Durante
il funerale di un lontano parente,” Ivan Ivanovich”, il protagonista del
racconto “Bobok” di Dostoevskij, sente degli strani rumori.
«Bobok, bobok, bobok». Non riesce a capire il
brusio.
Che
stanno dicendo?
Con il
suo racconto Dostoevskij schiude un mondo fantastico in cui riporta in vita i
morti.
Lo
scrittore solitario e senza successo “Ivan Ivanovich” fa per caso una strana
scoperta al cimitero.
Durante
un funerale, mentre si riposa su una delle tante lapidi per distrarsi dai suoi
pensieri, percepisce strane voci:
«In un primo momento non ci ho neanche fatto
caso, ero noncurante. Le voci, tuttavia, proseguirono.
Dei
suoni ovattati come filtrati da cuscini, ma al contempo distinti e abbastanza
vicini. Sono tornato in me e ho iniziato ad ascoltare con più attenzione».
Ciò
che sente” Ivan Ivanovich “sono le voci dei morti che aprono una specie di
osteria sottoterra.
Senza
fare troppi complimenti i morti parlano di tutto ciò che gli passa per la
testa. Impiegati, ragazze e ingegneri chiacchierano senza filtro.
Parlano
senza sosta.
Partecipano
tutti e ognuno butta fuori il proprio pattume intellettuale.
In
questo mondo sono tutti già morti, ma non completamente.
“Dostoevskij”
concede ai defunti un termine di circa tre mesi, una specie di bonus track
della vita.
In
questo periodo di tempo il corpo si decompone, ma la coscienza rimane intatta,
sono fantasmi linguacciuti.
Tra i
non-morti si trova anche “Platon Nikolajewitsch”, un professore di filosofia
che viene dalla città e che per l’enigmatico prolungamento della vita ha la
seguente spiegazione:
«Invece qui il corpo si rianima, per così
dire, i resti della vita si concentrano, ma soltanto a livello della
conoscenza».
Secondo
lui la supposizione dei vivi che considerano la morte come un vero decesso è
falsa.
Ritiene piuttosto che il corpo può venire meno
ed è solo una parte dell’esistenza: la vera vita risiede nella coscienza, cioè
in ciò che rende umana una persona.
Ed è proprio questa entità dotata di anima che
vive ancora qualche mese dopo che il corpo l’ha abbandonata.
A
detta del professore ci sono addirittura esempi con cui dimostrare che la
coscienza persiste anche oltre il processo di decomposizione del corpo. Così tra i sepolti si trova un uomo
la cui morte corporea è avvenuta già da tempo, tuttavia ciò non gli impedisce
di mormorare a bassa voce:
«Bobok, bobok, bobok».
Quando
viene meno il fardello della vita, ognuno è libero di essere ciò che è
veramente.
“Dostoevskij”
ci mostra cosa succede quando anche le ultime inibizioni vengono meno, quando
la coscienza all’improvviso diventa un luogo in cui non esistono più le regole
di una società che si basa su vergogna e menzogne.
Qui,
sottoterra, si sperimenta qualcosa di nuovo:
«Propongo
di trascorrere questi ultimi due mesi nel modo più piacevole possibile e darci
una nuova organizzazione, a partire dalle basi.
Signori!
Propongo
di mettere da parte qualsiasi pudore», grida una delle anime sepolte ai vicini
di tomba.
L’approvazione dei compagni di destino è
veramente entusiastica.
Addirittura
l’ingegnere, solitamente formale e avveduto, propone di «riorganizzare questa
vita su nuovi principi di razionalità».
A quel consiglio segue ancora un desiderio:
Sulla
superficie terrestre è impossibile non dire bugie, vita e bugia sono sinonimi;
ma quaggiù noi non abbiamo più bisogno di mentire.
Al
diavolo, il sepolcro avrà pure una sua utilità!
Ciascuno
di noi racconterà agli altri la propria storia e nessuno se ne vergognerà,
comincerò io stesso.
Come
prima cosa vi dico che ho l’animo di un predatore ed ero invischiato in tutto
ciò che c’è di marcio.
Ma adesso sono libero, togliamoci le maschere
e spogliamoci!
La
folla urla a gran voce: «Spogliamoci! Spogliamoci!».
“Dostoevskij”
attribuisce un nuovo significato alla parola “bobok”, che all’inizio non aveva
senso.
Bobok sta per la possibilità di reinventare il
linguaggio.
Bobok rappresenta una nuova società che
funziona con altre regole.
È così che la comunità russa di morti viventi
non solo forma una nuova società che ha bandito la vergogna e la menzogna dal
canone di comportamento e tenta di far vigere la sincerità più totale, ma anche
una società con abissi molto più profondi delle tombe scavate per i morti.
Sì, c’è una puzza davvero terribile mentre
Ivan Ivanovich attraversa il cimitero e percepisce sottoterra un’agitazione
ovattata.
Se
tutto è permesso, viene alla luce anche tutto quello che altrimenti non si
vedrebbe, non si sentirebbe e non si riuscirebbe neanche a odorare.
Le anime sepolte rilasciano tutto ciò che
durante la vita si è accumulato, sfruttano «l’ultimo tempo concesso» per
esalare tutto.
Se
disintossicare il corpo significa eliminare sostanze tossiche e prodotti
metabolici nocivi, il detox dell’anima funziona liberandosi di brutti ricordi e
pensieri inconfessabili anche a sé stessi.
È facilmente immaginabile che ciò provochi una
puzza peggiore di quella dei nostri escrementi.
Nel
racconto di Dostoevskij, ci si scambia insulti pesanti, si diventa indecenti e
si affermano cose oscene.
Ci si
scredita e ci si prende in giro a vicenda.
È come sbirciare nella serratura dell’abisso
umano.
Leggendo
Bobok di Dostoevskij ci viene spesso in mente un fenomeno contemporaneo.
Non si
comportano in modo simile le persone su internet, nel mondo virtuale? L’analisi
di Dostoevskij non sembra parecchio aderente alle relazioni tra utenti sui
social network?
Anche
lì ci si insulta senza freni, si incita all’odio e certe regole di buona
educazione vengono trascurate con la scusa della virtualità.
Così
come le vestigia dell’anima nel piccolo cimitero russo perdono qualsiasi
inibizione, allo stesso modo oggi alcuni utenti in rete credono di poter fare
quello che vogliono.
Circa
vent’anni fa ha fatto il suo ingresso nelle nostre vite un medium che ha
cambiato radicalmente il nostro modo di stare al mondo insieme:
il
Word Wide Web.
La
rete ci ha promesso possibilità infinite.
Alla
Facebook f8 Developer Conference del 2016, “Mark Zuckerberg” ha cominciato il
suo discorso con le parole:
«Give everyone the power to share anything with anyone».
Ognuno
deve avere la possibilità di condividere tutto con chiunque.
Con
questo spirito sono nati i social network.
Festeggiati
come i catalizzatori della libertà di pensiero ai tempi della Primavera araba o
di Occupy sembravano aver dato alle persone di tutto il mondo la possibilità di
liberarsi da regimi ingiusti, oppressione e persecuzioni.
I social network non mettono in contatto solo
persone che vivono lontane, ma anche chi abita nei più remoti angoli della
Terra.
Fanno sì che persone che nella loro società
appartengono a una minoranza conoscano persone in altre parti del mondo che la
pensano allo stesso modo e hanno il loro stesso orientamento.
All’inizio
sembrava che i social network fossero il motore del progresso e
dell’illuminismo.
Così
come Dostoevskij ha permesso ai suoi morti di dire cose che in vita non
potevano esprimere, i social network all’inizio sembravano essere il sogno
realizzato di una nuova società libertaria.
Ma
quest’euforia è svanita da tempo.
Al
posto dell’ingenuo entusiasmo iniziale verso Facebook, Instagram, YouTube e
Twitter, c’è oggi un dibattito in corso sul potere e i pericoli che
rappresentano queste piattaforme che, ospitando ormai miliardi di utenti,
minano la democrazia e la libertà di pensiero.
Attraverso
la diffusione irresponsabile di discorsi d’odio, diffamazioni, propaganda e
contenuti che inneggiano alla violenza, i social network spaccano le società e
le spingono tra le braccia dei populisti e degli autocrati.
Sarebbe
troppo facile dare un giudizio univoco sui pro e i contro dei social media;
l’esperimento letterario del cimitero inventato da Dostoevskij, in un certo
senso, è stato messo in pratica in forma molto simile centotrenta anni dopo,
solo che l’esito è ancora incerto e non finisce, come in Dostoevskij, con
l’uscita di scena di “Ivan Ivanovich”.
Ma non
è tutto.
C’è un’altra similitudine tra il racconto di
Dostoevskij e le tecnologie contemporanee.
La
prima versione di Facebook è stata lanciata nel 2004.
Il
social veniva usato soprattutto da giovani studenti.
Da allora non solo la rete è diventata più
vecchia, ma anche l’utenza.
E come nella vita reale, la morte non
risparmia nemmeno i social network.
Oggi circa tre miliardi di persone usano i
servizi di Facebook.
Quanto
più a lungo esisteranno queste piattaforme, tanti più defunti le affolleranno.
Spesso
infatti i profili Facebook, Instagram e Twitter rimangono online come cadaveri
digitali una volta che gli utenti reali non esistono più.
Si
tratta di profili inattivi, ormai non più visitati, perché le persone reali che
vi erano associate non sono più in vita.
Prima
o poi su Facebook ci saranno più profili di persone morte che vive.
Come
sostiene uno studio condotto da “Carl Öhman e David Watson” dell’”Università di
Oxford”, se continua ad attirare nuovi utenti e crescere come ha fatto finora,
entro il 2100 la piattaforma potrebbe avere più di 4,9 miliardi di membri
defunti.
Ma
anche senza crescita, sostengono gli scienziati, nel 2100 il social conterebbe
circa 1,4 miliardi di defunti.
L’idea
di scrollare su un social network sui cui si trovano più utenti morti
(inattivi) che vivi è inquietante.
Ricorda
una città fantasma abbandonata in cui solo singoli oggetti rimandano a una vita
passata.
Una
landa desolata digitale impregnata dall’odore di putrefazione.
Facebook
diventerà un cimitero dell’umanità?
E cosa succederà alle centinaia di migliaia di
membri non più attivi?
I profili verranno cancellati? Continueranno a
vivere online?
Chi
riceve la chiave, ovvero la password, delle abitazioni, cioè dei profili,
chiuse?
Migliaia
di utenti Facebook morti ogni giorno.
L’11
novembre 2016, a causa di un errore del software, di colpo a due milioni di
persone è stato involontariamente attribuito un profilo commemorativo e de
facto sono state dichiarate morte.
È successo (per breve tempo) persino a Mark
Zuckerberg, il ceo della compagnia. Sul suo profilo Facebook si trovava la
seguente frase:
«Speriamo che le persone che amano Mark
trovino conforto nelle cose che gli altri condividono per commemorare e
celebrare la sua vita».
Nel
giro di pochi secondi hanno cominciato a girare voci sulla morte di Mark
Zuckerberg.
Migliaia
di persone hanno lasciato commenti di condoglianze sulla sua timeline.
Il
macabro incidente non ha turbato solo Mark Zuckerberg, ma anche molti altri
utenti che hanno sentito l’urgente bisogno di una spiegazione.
«Ciao Facebook, non sono morto», oppure, «Ancora
vivo!», si leggeva ripetutamente quel giorno su Twitter.
L’errore di sistema si è risolto poco dopo, ma
ha fatto sì che le persone cominciassero a riflettere sulla morte digitale e
sulle sue conseguenze.
Secondo
le stime, nel 2018 sono morti solo negli Stati Uniti tre utenti Facebook al
minuto.
Sono più di 4500 utenti morti al giorno (la
cifra che riguarda gli utenti nel mondo è quindi più alta).
Tuttavia
non si riesce a calcolare esattamente il numero degli utenti morti dei social
media.
Facebook
stesso non è molto incline a dare informazioni e non si accorge sempre
tempestivamente se un utente è solo inattivo da tempo o defunto.
Nella
maggior parte dei casi dopo la morte di un utente non succede niente perché
quasi nessuno si preoccupa di gestire il lascito digitale.
Questo porta spesso a situazioni assurde in
cui sulla timeline di un profilo continuano ad apparire post e commenti
scherzosi anche se la persona non è più tra i vivi da tempo.
Esistono
tre possibilità:
gli
eredi chiedono l’eliminazione del profilo o il profilo diventa commemorativo.
In
questo caso, accanto al nome compare la dicitura “in memoria di” e a seconda
delle impostazioni della privacy dell’account per altri utenti è possibile o
meno condividere ricordi sulla bacheca o esprimere le condoglianze così che la
cronologia del profilo diventi una sorta di lapide.
La
terza opzione è che tutto rimanga com’è.
Il profilo resta online, ma la persona che
c’era dietro non c’è più.
È
piuttosto chiaro che nell’era digitale varia molto come ci si rapporta
culturalmente alla morte e al lutto.
I
cimiteri virtuali aprono tantissime opportunità a un confronto privato e
pubblico con la morte e in questo modo trasformano le attuali usanze di lutto e
commemorazione.
Il
social network dei morti.
“Henrique
Jorge”, imprenditore portoghese, si spinge più in là di quanto non abbiano
fatto finora “Facebook & co”.
Invece di congelare i profili inattivi degli
utenti su una piattaforma commemorativa, Jorge porta in vita una loro
controparte digitale.
Si
chiama Eter9 il suo social network su cui si radunano anche utenti morti.
Simile
a quello che succede in Dostoevskij, per Jorge la morte non significa morte, ma
separazione dal corpo.
L’omologo digitale del defunto deve continuare
a vivere e interagire con gli altri membri del network.
Le
controparti digitali postano autonomamente contenuti, pubblicano foto e video,
chattano con gli altri utenti, dando vita alla piattaforma.
In
questo modo “Eter9” diventa più di un normale social network:
è un luogo in cui esseri umani e macchine non
solo si trovano gli uni accanto alle altre allo stesso livello, ma sono anche
in contatto tra loro, è un luogo dove convivono.
I dati
disseminati dagli utenti nutrono la loro controparte digitale.
Con
ogni “pasto di dati” l’omologo digitale si avvicina un po’ di più al modello
umano.
La
riproduzione digitale impara a parlare nello stesso modo in cui lo fanno gli
utenti.
Ne assume i gusti musicali, sviluppa lo stesso
senso dell’umorismo.
Immagazzina
le stesse conoscenze e infine impara a interagire con gli altri in modo
personalizzato, questa sarebbe l’idea.
La copia digitale, come un bambino piccolo,
dovrebbe svilupparsi giorno dopo giorno per avvicinarsi a un sosia a tutti gli
effetti.
L’inventore
del social network dei morti, “Henrique Jorge”, vive in una cittadina che si
chiama “Viseu” a un’ora e mezza di auto da “Porto”.
Quando
lo andiamo a trovare siamo sopraffatti dalla bellezza del luogo.
Casa sua ha un giardino lungo il fiume con
alberi di arance, ulivi, agavi e viti. Come può una persona che vive in un
posto del genere anche solo pensare di costruire un mondo virtuale?
Mentre
al tramonto camminiamo con lui nel suo giardino ci racconta cosa lo ha spinto.
Jorge
sapeva sin da giovane che prima o poi il suo luogo di nascita gli sarebbe stato
stretto.
Voleva andarsene, scoprire, cambiare il mondo.
Il desiderio di evasione di Jorge non è
sfociato in un soggiorno all’estero o nell’interruzione dei corsi di studio, ma
in un distacco dal mondo reale e un avvicinamento a quello virtuale.
Internet
come fuga dalla realtà.
La
lingua straniera che ha imparato è quella dei codici.
Microchip,
interfacce, processori, plug-in, circuiti stampati sono stati i termini che lo
hanno accompagnato durante la vita.
Essendo
stato uno dei pionieri di internet del suo Paese, già nei primi anni Novanta
Jorge collegò molte aziende portoghesi a internet.
Creò i
primi siti web di molte compagnie, potenziò i computer e mise a punto strategie
aziendali per lo spazio virtuale.
Internet, che all’epoca era un territorio
ancora inesplorato per la maggior parte delle persone e considerato una moda
passeggera, rappresentava per Jorge uno spazio dalle opportunità apparentemente
illimitate e con un enorme potenziale che avrebbe definito il suo futuro.
La sua
curiosità per la tecnologia, tuttavia, non è l’unico motivo per cui, decenni
dopo, ha fondato una società chiamata “Eter9”.
Il suo
desiderio di rendere l’anima immortale è sorto dopo la morte del padre,
avvenuta in un tragico incidente in moto quando Jorge aveva tre anni.
Sono
stati tempi duri, la famiglia non aveva quasi soldi e sua madre lavorava giorno
e notte nei campi dei dintorni per sfamare i figli.
Henrique
e suo fratello sono cresciuti più o meno da soli.
Erano
anche i tempi in cui sua madre cercava una redenzione nella fede.
La chiesa in cui andavano quasi tutti i giorni
divenne il fulcro delle loro vite.
Se Henrique aveva bisogno di un consiglio non poteva
chiedere ai parenti, ma doveva trovare la risposta nella religione cattolica.
Eppure
le risposte cercate non arrivavano ed Henrique abbandonò la chiesa: «Tuttavia
sentivo il bisogno di nutrire la mia fede in qualche altro modo.
Credo
che fossi alla ricerca di qualcosa di più grande di me.
Cercavo risposte che la religione cattolica
non poteva darmi.
Sentivo
un vuoto e cercavo altri modi per riempirlo.
Ma non
volevo solo cambiare religione, perché non mi avrebbe portato a nulla».
Henrique
non è l’unico a essersi allontanato dalla fede tradizionale.
Un uomo anziano con la barba, creatore
onnipotente di ogni essere vivente che giudica l’umanità, non corrisponde più
da tempo alla visione del mondo di molte persone.
Solo
in Germania dal 1990 più di cinque milioni di persone hanno abbandonato la
Chiesa Cattolica.
La cifra di coloro che non hanno più rapporti
con la Chiesa, ma ne sono ancora membri, deve essere ancora più alta.
Ci
dirigiamo forse verso una società senza fede?
L’Umanesimo e l’Illuminismo hanno allontanato
a tal punto l’umanità dalla religione che un’istanza divina non è più neanche
immaginabile?
Se Dio è morto a chi diamo la responsabilità
di liberarci dal male?
Chi prenderà il posto di istituzioni come la
Chiesa Cattolica?
Surrogato
della religione.
Una
risposta possibile, che anche Henrique ha trovato per se stesso, ci riporta
nella Silicon Valley, di nuovo da “Ray Kurzweil”.
Sappiamo
già che Kurzweil è, a oggi, uno dei più prominenti rappresentanti della fede
nel progresso.
Le sue
poliedriche doti gli hanno fatto raggiungere vette incredibili nel corso della
sua esistenza:
oltre
al sintetizzatore, un apparecchio che può produrre suoni acustici di qualsiasi
strumento in alta qualità, ha sviluppato la “Kurzweil Reading Machine” una macchina capace di far leggere
testi stampati alle macchine.
Attraverso
questa tecnologia,” Kurzweil” ha reso possibile per la prima volta che persone
con deficit visivi avessero accesso a opere stampate, e questo nel 1967 era
qualcosa di rivoluzionario.
In
veste di “Director of Engeneering” di Google, Kurzweil crede che i limiti
umani, che siano di natura intellettuale, fisica o psichica, possano essere
superati con l’aiuto di metodi tecnologici.
Secondo
la sua logica, l’avanzamento delle capacità umane attraverso mezzi tecnici è
solo il prossimo stadio evolutivo.
In
questo senso le sue fantasie vanno ben oltre il tipico apparecchio acustico o
il pacemaker.
Anche
Kurzweil crede, in modo simile a come ci hanno prospettato “Nick Bostrom” di
Oxford e molti altri “transumanisti”, che presto si potranno copiare e salvare
i contenuti del cervello umano.
Secondo
lui è solo una questione di tempo.
Nel
suo bestseller “La singolarità è vicina” Kurzweil profetizza che il progresso
della tecnica informatica procede a velocità esponenziale e nel prossimo futuro
ci porterà a un’intelligenza artificiale che raggiungerà il livello
dell’intelligenza umana, anzi, addirittura la supererà.
Secondo Kurzweil succederà intorno al 2045.
Da
quel momento il sapere e le possibilità tecnologiche dell’umanità cresceranno
in maniera talmente esplosiva da cambiare radicalmente il mondo, questa è la
tesi di Kurzweil.
Nulla sarà più d’intralcio all’immortalità
dell’essere umano.
“Henrique
Jorge” è un seguace di questa dottrina.
«Mi
sono avvicinato ad altre religioni, durante la vita, per vedere come
funzionano.
Alcune si basano sulla fede in un Dio, altre
in una forza superiore astratta.
Per me
qualcosa che ci tiene insieme c’è, mi affascina l’idea di un’anima digitale.
Credo
che quando si raggiungerà la fusione tra essere umano e macchina, quando si
raggiungerà la “singolarità tecnologica”, allora ci saranno macchine ad alta
efficienza che disporranno di qualcosa di simile all’anima».
Se Henrique avesse ragione ciò porterebbe a un
cambiamento radicale della nostra visione degli esseri umani.
È
un’idea affascinante.
Henrique
vuole essere parte di questa “grande rivoluzione”, vuole contribuire.
È il motivo per cui ha creato “Eter9”, il
social dei morti.
Ciò che ci interessa approfondire di questa
idea di Henrique è la questione della comunità.
Durante
la ricerca dell’immortalità ci ha ispirato un nuovo ragionamento:
“l’anima
digitale” è creata dai doppi digitali tramite i loro rapporti con altri morti e
vivi della rete.
Solo nell’interazione delle “controparti” si
rivela la persona dietro la riproduzione digitale.
Henrique
cerca di creare uno spazio per le tante anime che dovrebbero rimanere in vita
anche senza corpo.
Invece di conservare le vestigia virtuali delle
persone in “Cloud privati”, si possono trovare le loro anime digitali su una
“nuvola 9”, un network di defunti che si insufflano vita a vicenda, si formano
e si trasformano l’un l’altro.
L’anima
digitale del singolo si manifesta attraverso la dipendenza e la differenza
dagli altri.
Non pensavamo che fosse possibile trovare il
vecchio Hegel qui nella piccola cittadina portoghese di Viseu.
Evidentemente
anche lui è meno morto di quanto pensassimo.
L’idea che la coscienza del singolo si formi
attraverso il riconoscimento da parte degli altri è il concetto che il famoso
filosofo dell’Idealismo,” Georg Wilhelm Friedrich Hegel “(1770-1831) ha
elaborato più di chiunque altro con la sua “Fenomenologia dello spirito”.
«L’Io
è il contenuto del rapporto ed è l’atto stesso del rapportare; l’Io è a propria
volta di fronte a un altro, e si protende oltre quest’alterità, la quale, del
pari, per l’Io non è che Io stesso», scrive Hegel.
Sembra
un social network ante litteram.
Dopotutto
l’io nell’era digitale è costantemente coinvolto in diversi network digitali in
cui le persone si offrono o si negano riconoscimento reciprocamente in tempo
reale.
Ma perché solo i viventi possono mettersi in
contatto gli uni con gli altri in questo modo? «La tecnologia ci porta in un
luogo che non conosciamo ancora», dice Henrique.
«Credo che arriveremo a un punto in cui
riusciremo ad aprire una breccia».
La breccia per Henrique sarebbe il momento in
cui le “controparti” saranno in grado di sviluppare una propria coscienza,
esattamente come la coscienza scaturisce dal riconoscimento reciproco in Hegel.
Tuttavia
esistono alcune condizioni necessarie affinché delle simulazioni diventino
esseri digitali coscienti:
come possono diventare consapevoli di sé delle
simulazioni non-morte quando non devono preoccuparsi della propria
sopravvivenza?
Come
fanno le simulazioni a provare emozioni, a credere e a sperare?
Dopotutto
sono e rimangono simulazioni.
Durante
le nostre conversazioni, Henrique invoca quasi a mo’ di mantra un salto
quantico del genere.
Ha
trovato la sua nuova fede.
È una fede quasi religiosa nella tecnologia,
una tecnologia che ha la forza di cambiare tutto.
Il sogno dell’immortalità dell’anima non si
basa più sui racconti religiosi del potere divino, ma sull’intelligenza
artificiale.
Chiesa.
Un
altro esempio ci mostra chiaramente che ci troviamo in un’era di cambiamento in
cui si fronteggiano due mondi.
Nel
2016 “Anthony Levandowski” ha pubblicato un comunicato stampa dove rende nota
la fondazione di una nuova Chiesa, la prima in cui l’oggetto di culto è
un’intelligenza artificiale e di conseguenza il nuovo Dio si chiama “ai”.
Il
progetto cyber divino si chiama “Way of the Future Church”.
Per
capire dove ci condurrà questa via del futuro, è sufficiente dare un’occhiata
al loro sito web.
Sembra
che nella sua confessione non esista più una casa di Dio.
Per la”
Church of ai “basta cliccare il pulsante di iscrizione per affermare
l’appartenenza al credo.
Il
posto fisico e reale in cui la comunità di credenti si riunisce per il culto,
le preghiere e le comunioni è diventato superfluo ai tempi della rivoluzione
digitale. In breve: è stato eliminato.
Oltre
a uno scritto programmatico sembra non esistere ancora niente di concreto.
Allora
perché dedichiamo attenzione a questa Chiesa?
Il motivo sta nel suo fondatore.
“
Anthony Levandowski” è uno dei big nell’industria della tecnologia
nell’assolata California.
Si è fatto un nome come uno dei migliori
ingegneri di auto con guida autonoma, in qualità di direttore tecnico ha creato
e costruito lui la flotta di Google.
È
considerato un prodigio della robotica e sono da attribuire a lui i continui
progressi fatti negli Stati Uniti riguardo alla guida autonoma.
Il suo
desiderio di indipendenza a un certo punto però è diventato talmente forte che
nel 2016 ha lasciato “Waymo”, una società figlia di “Alphabet Inc.” (Google),
per creare una propria azienda che poi è stata acquisita da Uber.
Il suo
obiettivo era accelerare l’adozione della guida autonoma sulle strade
americane.
Ma
invece di accelerare, il suo progetto ha subìto una brusca frenata:
il profeta della tecnica, poco prima del suo
licenziamento da Google, avrebbe segretamente sottratto circa dieci gigabyte di
dati sensibili, segreti aziendali e documentazioni su progetti e vari test.
Un
incidente che è sfociato in una causa legale milionaria tra Uber e Waymo.
Bugie
elaborate e furto di dati non sembrano molto in linea con l’etica cristiana.
Non sorprende quindi se i comandamenti della chiesa “Way of the Future”
tematizzano più una ridefinizione dei comportamenti nelle relazioni tra uomo e
macchina piuttosto che tra esseri umani.
Il
motivo di fondo è la convinzione di “Levandowski” per cui in futuro non saranno
solo gli esseri umani ad assumersi la responsabilità del pianeta, ma anche le
macchine.
Nella
prima scrittura “divina” si legge:
Considerato
il fatto che la tecnologia sarà in grado di superare le capacità umane
“relativamente presto”, vogliamo contribuire e illuminare il percorso dell’uomo
verso questo eccitante futuro e prepararlo a un passaggio privo di difficoltà.
Aiutateci a diffondere il messaggio che il progresso non deve essere temuto
(né, ancora peggio, bloccato/imprigionato).
Dobbiamo
riflettere su come integrare le “macchine” nella società (e sul fatto che, se
diventano sempre più intelligenti, hanno addirittura la possibilità di
assumersi la responsabilità), così che l’intero processo si svolga al meglio e
senza conflitti.
Levandowski
e la sua chiesa “Way of the Future” partono dal presupposto che l’intelligenza
umana è limitata, per esempio nella capacità di calcolo o di memorizzazione di
informazioni.
Questi
limiti biologici possono però essere superati da una nuova “superintelligenza”
che nel futuro sarà inevitabile.
Invece
di credere a forze “sovrannaturali”, Levandowski crede nel progresso.
Guardando
il mondo attraverso i suoi occhi, questo non è altro che un sistema operativo
per il quale si possono sviluppare continuamente nuove versioni.
Per
creare il giusto aggiornamento ci servono macchine.
Il mondo è diventato troppo complesso per
riuscire a penetrare tutti i suoi aspetti e contesti.
Levandowski
si rende conto che immaginare un mondo comandato dalle macchine può spaventare;
proprio per questo, secondo lui, c’è bisogno
di una Chiesa che prepari gli esseri umani a un futuro che sta cambiando.
La “Way
of the Future Church” deve dissipare la paura delle persone nei confronti
dell’intelligenza artificiale:
Vogliamo
incoraggiare le macchine a fare cose che noi non possiamo fare.
In questo modo vogliamo che le macchine
abbiano il potere di prendersi cura del pianeta, più di quanto siamo in grado
di fare noi, apparentemente.
Crediamo che la nostra creatura (“le macchine”
o in qualsiasi modo le chiamiamo) abbia dei diritti, così come ce li dovrebbero
avere gli animali se mostrano segni di intelligenza (che naturalmente sono
ancora da definire).
Tutto
ciò non lo dobbiamo temere, ma essere ottimisti riguardo al suo potenziale.
In
effetti i paralleli tra le caratteristiche principali di un’intelligenza
artificiale e di una divinità trascendente sono stupefacenti:
a entrambi viene attribuito un potere
assoluto.
Il
loro operato non è del tutto comprensibile.
Entrambi
si basano su narrazioni create su di loro.
Mentre
la Bibbia, la Torah o il Corano sono le principali raccolte di testi religiosi
che costituiscono la base delle nostre narrazioni su Dio, i film e i libri di
fantascienza alimentano le nostre aspettative su quello che l”’ia” sia in grado
di fare.
Questi
racconti sono per lo più distopie in cui le nuove tecnologie mettono in
pericolo l’umanità attraverso epidemie globali, robot insorti, un’intelligenza
artificiale fuori controllo o un regime autoritario di sorveglianza
completamente automatizzato.
Film e
libri prevedono in maniera diversa la minaccia subita, o addirittura la
completa estinzione dell’uomo per colpa della tecnica, e gli scenari
apocalittici disegnati dalla cultura pop riscuotono grande successo.
Ma
sono davvero un buon metro di misura per capire quello che ci aspetta in un
futuro in cui la tecnologia continua a svilupparsi?
Le
distopie,
in ogni caso, suscitano una buona dose di scetticismo (in parte anche
irrazionale) negli spettatori.
Il
potere invisibile e trascendente di Dio e il funzionamento incomprensibile di
algoritmi e altri processi meccanici che apprendono autonomamente forniscono
una solida base per miti sostanziosi. “Anthony Levandowski” sembra sapere
che il grosso pericolo per il progresso tecnico non è rappresentato dal limite
di quello che è tecnicamente fattibile, ma dalla diffidenza degli esseri umani.
A cosa serve una macchina che si guida da sola
se nessuno si fida a salirci sopra?
Coloro
che hanno già fatto quest’esperienza sanno di cosa si tratta:
il
momento in cui le mani lasciano il volante, in cui la completa responsabilità
di vita e di morte viene affidata alla macchina va contro qualsiasi tipo di
intuizione umana.
Non
siamo abituati a cedere il controllo, men che meno su un’autostrada a 120
chilometri orari.
“Levandowski”,
il cui campo di specializzazione è proprio la guida autonoma, sa quanto lavoro
di informazione va fatto prima che una persona si affidi a un pilota automatico
senza dubbi né preoccupazioni. Allo stesso tempo è relativamente facile far
capire ai potenziali passeggeri quanto sia più sicuro questo tipo di mobilità.
Uno studio pubblicato nel 2015 da McKinsey
mostra che possono essere evitati più del 90% degli incidenti mortali se viene
eliminato il fattore umano alla guida.
In un
sistema di regole rigido come quello stradale è dunque immaginabile lasciare la
responsabilità alle macchine.
Le
macchine non si distraggono giocando al cellulare durante la guida, non
sfrecciano stanche morte sull’autostrada per arrivare alla meta il più veloce
possibile e non mancano l’uscita perché sono sovrappensiero. Ma che succede con
sistemi più aperti per cui non ci sono regole altrettanto chiare?
La
maggior parte dei problemi della vita è così complessa che noi esseri umani ci
affidiamo spesso all’istinto per prendere decisioni.
Per
molti di noi è già immaginabile che un’auto con pilota automatico ci porti in
sicurezza da “a” a” b”, ma lasceremmo decidere a un algoritmo anche il partner
giusto per noi? Lasceremmo stabilire a un’app la persona con cui uscire per un
appuntamento, senza neanche scegliere con uno swipe i potenziali partner da
prendere in considerazione? Non sono forse immotivate anche moltissime delle
scelte che compiamo ogni giorno?
Restiamo
sul tema dell’amore: il detto «l’amore è cieco» non descrive proprio quanto sia
poco calcolato e prevedibile l’innamoramento? Le esperienze che abbiamo
acquisito nel tempo non sono la conferma più evidente che la vita non ha niente
a che vedere con il codice stradale?
70.000
cloni.
“Henrique
Jorge” non sembra preoccupato dal dominio delle macchine. Il suo network “Eter9”
dovrebbe preparare le persone già ora a un futuro rapporto diverso tra essere
umano e macchina, così come voleva fare Levandowski con la sua Chiesa.
L’idea di Henrique di creare una copia
digitale a immagine e somiglianza di una persona non è lontana dall’idea di
Marius Ursache e James Vlahos.
Tutti
e tre si sono preposti l’obiettivo di rendere gli uomini digitalmente eterni. Tutti e tre hanno l’ambizione di
rendere digitalmente le persone immortali.
Su “Eter9”
i cloni eterni si chiamano “Niners”.
I
Niners sono creature virtuali che possono venire attivate dagli utenti (“Nine
me”).
Con
l’attivazione viene stabilita una connessione tra gli utenti e le creature
virtuali.
Ogni
Niner acquisisce le caratteristiche individuali della persona.
Più informazioni ottiene il Niner, più diventa
simile al suo user. Concretamente significa che più l’utente interagisce e posta
sul network Eter9 più il Niner gli diventa simile.
Attraverso
il “Deep Learning”, un metodo particolarmente complesso di apprendimento
meccanico, si cerca di creare una copia digitale il più precisa possibile della
persona, utilizzando i dati raccolti online.
Più
avanti torneremo più approfonditamente sul modo di funzionamento delle “reti
neurali artificiali”.
L’interfaccia
di “Eter9” ci ricorda il ben noto social network Facebook.
Gli
utenti possono crearsi il proprio profilo con foto e informazioni personali.
In più
c’è una bacheca dove vengono mostrati i contenuti e i post di tutti gli utenti
con cui si è amici.
La
differenza rispetto a Facebook sta nel fatto che gli utenti “allevano” una “copia
digitale di sé stessi”:
oltre
alla foto del profilo c’è una seconda foto, quella della controparte digitale.
All’inizio
questa è ancora pixellata e difficile da riconoscere.
Più
uno riempie il social network di dati più la foto del relativo Niner diventa
riconoscibile.
Tutti
gli utenti naturalmente hanno la possibilità di disattivare la propria
controparte così che non possa postare autonomamente sulla timeline.
Ma è
proprio questo il bello di “Eter9”, altrimenti basterebbe usare (o continuare a
usare) Facebook.
Mentre
siamo sulla sua fantastica terrazza e guardiamo il sole sparire all’orizzonte,
Henrique ci racconta di un’idea che non riusciva a togliersi dalla testa:
«Perché non apro un account per mio padre, mio nonno e
mia nonna?». Ha cominciato a raccogliere tutte le informazioni possibili sul padre:
ritagli di fotografie, lettere che ha scritto, appunti, racconti di altre
persone che lo conoscevano.
Henrique
non voleva solo archiviare queste informazioni, ma far resuscitare il padre
come “Niner digitale”.
Ha
messo su una società e ha dedicato la sua vita a quest’idea.
A oggi, sul suo social network dei morti, sono
iscritte più di 70.000 persone.
Contando i relativi Niners sono quindi 140.000
gli utenti che affollano Eter9.
Non
possiamo provare che siano davvero così tanti e che riempiano attivamente di
vita il social network come ci assicura Henrique.
“Eter9” è ancora alla sua versione
beta.
Essere il pioniere di un progetto rivoluzionario significa anche metterci la
dovuta pazienza e disciplina. Henrique e il suo team raccolgono ogni giorno
nuove esperienze nell’uso della piattaforma.
Per lui la cosa più importante è il feedback
degli utenti che interagiscono con il suo prototipo.
Il
desiderio di raggiungere l’obiettivo gli ha causato parecchie notti insonni in
passato, e succederà ancora, visto che i cloni digitali non hanno ancora fatto
i progressi che Henrique sperava.
Tuttavia
vede continuamente i segni del potenziale dietro la sua idea. Lui stesso ha un
profilo su “Eter9” e dall’inizio lo riempie di informazioni personali per il
suo sosia digitale.
Pubblica
regolarmente sulla timeline di “Eter9”. Si ricorda particolarmente bene di un
post:
«Nel 2005 mia figlia mi ha regalato i
biglietti per un concerto dei Coldplay. Il concerto doveva tenersi in uno
stadio a Lisbona, ma è piovuto tutto il giorno. Eravamo nel mezzo del campo e
aspettavamo l’inizio. Prima ancora che cominciassero a suonare eravamo
completamente zuppi: scarpe, giacche, pantaloni, tutto!
Ho
pensato di andarmene.
Poi son rimasto ed è iniziato il concerto.
È
difficile da descrivere, ma è stato un momento magico.
All’improvviso i Coldplay hanno cominciato a
suonare e la pioggia ha smesso di colpo, è stato stranissimo.
Come
se la band si fosse messa d’accordo con il meteo.
La
prima canzone che hanno suonato è stata “Square One”. Sono partiti i fuochi
d’artificio. Giochi di luce ovunque. Enorme. Non ho mai visto qualcosa di così
impressionante. Mi ha davvero tolto il respiro. Avrei voluto che non finisse
mai».
“Chris
Martin” canta con voce morbida e sommessa: «You’re in control. Is there anywhere
you want to go? You’re in control. Is there anything you want to know? The
future’s for discovering. The space in which we’re traveling».
Il futuro è qui per essere scoperto.
«Forse
è stato il concerto più bello a cui sia stato.
Il
giorno dopo mi sono messo a vedere se su “Eter9” qualcuno avesse postato
qualcosa di interessante e in alto nella mia timeline ho scoperto un “video
YouTube” che aveva postato la mia controparte.
Era
proprio la canzone con cui avevano aperto i Coldplay, Square One. Mi è venuta la pelle d’oca. Mi viene
anche ora che lo racconto. Come faceva a saperlo?
Se la
tecnologia fosse in grado di reagire a impulsi non verbali, vibrazioni
nell’aria, o capire semplicemente le esternazioni di sentimenti, l’interazione
tra esseri umani e macchine salirebbe a un nuovo livello».
Eutanasia:
significato,
diritto
e divieto.
Orizzontipolitici.it
- Anna Borghetti – (30 Gennaio 2025) – ci dice:
Eutanasia,
deriva dall’unione del prefisso greco “eu”, che indica il bene, e la parola
morte; infatti, nel pensiero filosofico antico indicava una morte bella a
compimento della vita.
Attualmente, indica una forma di morte non
dolorosa e deliberata, in modo da evitare le sofferenze del fine vita.
In
questo articolo si cerca di comprendere cosa si intende per eutanasia e cosa
eutanasia non è, com’è la situazione in tema di fine vita in Italia e nel mondo
e qual è il ruolo della Chiesa Cattolica in questo ambito.
Quante
parole per indicare il fine vita.
L’eutanasia
consiste in quell’azione (eutanasia attiva) o omissione (eutanasia passiva)
volta a procurare la morte di una persona in modo anticipato rispetto alla
morte naturale con la finalità di alleviarne le sofferenze.
In questo caso, il soggetto deve essere
consenziente e deve dichiarare espressamente la propria volontà di morire.
Esistono
due forme di eutanasia:
la
prima è il suicidio medicalmente assistito, ovvero quello che si realizza con
l’aiuto di un medico che prescrive farmaci letali per l’autosomministrazione;
la seconda è l’eutanasia volontaria, che
indica la richiesta di essere soppresso e l’autorizzazione esplicita del
paziente al medico, il quale partecipa direttamente nella somministrazione del
farmaco.
Proviamo
a non confondere i termini.
Potrebbe
però accadere che l’eutanasia come già definita venga confusa con altri termini
indicanti forme di trattamenti o di rinuncia a questi ultimi che non rientrano
nel concetto di eutanasia in senso stretto.
Tra questa figura l’uccisione medicalizzata di
una persona senza il suo consenso, la quale viene considerata una forma di
omicidio.
Non si considera eutanasia nemmeno
l’astensione o la sospensione di trattamenti futili, nonché la sedazione
terminale, ovvero l’uso di farmaci sedativi per dare sollievo alla persona
malata negli ultimi momenti di vita.
La
rinuncia all’accanimento terapeutico non è eutanasia, bensì denota la
cessazione di interventi sproporzionati, gravosi e inutili che non possono
interrompere il decorso di una malattia mortale;
perciò,
produrrebbero un allungamento della vita a costo di alte sofferenze.
In ogni caso, non si legittima la sospensione
delle cure ordinarie che accompagnino il paziente ad una morte dignitosa.
Al
contrario della rinuncia all’accanimento terapeutico, l’abbandono terapeutico,
ovvero l’interruzione delle cure e dei sostentamenti ordinario, è una forma di
eutanasia passiva.
Infine,
quando si menzionano le cure palliative non si parla di una forma di eutanasia,
bensì di un approccio integrato di assistenza e cura di un paziente gravemente
malato o terminale.
Queste cure non solo migliorano la qualità di
vita dei pazienti, ma anche quella della famiglia che viene sostenuta nella
fase di distacco dal paziente.
In
questo caso, la morte non viene accelerata, bensì guidata nel suo decorso.
Come
si agisce nel mondo?
L’Associazione
Luca Coscioni ha realizzato una mappa che distingue le legislazioni sul “suicidio medicalmente assistito” nel mondo.
(Associazione
Luca Coscioni, ricerca dati Alessia Cicatelli, elaborazione Alessandro De
Luca).
Sono
solo 28 i paesi e i territori in cui tale pratica è riconosciuta come legale.
Tra
questi paesi, l’Italia è l’unico che concede l’accesso al suicidio medicalmente
assistito solo a chi è tenuto o tenuta in vita da trattamenti di sostegno
vitale.
La
pratica è totalmente proibita in gran parte degli Stati Uniti – dove manca una
legge federale –, dell’America Latina – dove solo Cuba e la Colombia hanno una
legge a riguardo –, dell’Asia e dell’Europa orientale e meridionale.
L’Australia permette quasi completamente l’uso
di tale pratica.
Mentre,
mancano leggi specifiche in gran parte dei paesi dell’Africa e del sudest
asiatico.
Come
si accede al suicidio assistito?
Nella
quasi totalità degli Stati dove la pratica viene concessa, i requisiti di
accesso al suicidio medicalmente assistito sono il compimento della maggiore
età, la capacità di autodeterminazione, la presenza di malattie o condizioni di
salute irreversibili e che causino una forma sofferenza intollerabile.
Eclatante
è il caso del Belgio, Paese nel quale dal 2014 tali pratiche sono ammesse anche
per i minorenni a condizione che il soggetto esprima una forma di consenso, e
se ne possa valutare la capacità di discernimento.
Un
caso noto in Europa è quello della Svizzera, che è stato il primo paese al
mondo a legittimare il suicidio medicalmente assistito entro alcune condizioni;
tuttavia, non vi sono concessioni esplicite
riguardo all’eutanasia.
Un
caso emblematico di morte assistita avvenuto in Svizzera nel settembre 2024 è
quello nel quale si è fatto ricorso al “macchinario Sarco”, inventato da “Philip
Nitschke” e” Alexander Bannin”k, che permette di morire col metodo dell’ipossia
da azoto.
L’uso di tale macchinario non è permesso in
Svizzera, e infatti, vi sono stati diversi arresti riguardanti questo caso.
Inoltre,
un timore che si diffonde in tale paese è quello di divenire un luogo del
“turismo della morte”.
La
situazione in Italia.
In
Italia non vi è ancora una legge che disciplini quando si può autorizzare
l’eutanasia o il suicidio medicalmente assistito, pertanto, si agisce sulla
base della sentenza numero 242 del 2019 della Corte costituzionale, cosiddetta
Cappato-Antonioni.
L’assenza
di una legge specifica in materia e di una definizione precisa dei casi in cui
è possibile rilasciare l’autorizzazione al suicidio medicalmente assistito
rende la gestione della materia confusionaria e discriminatoria per i pazienti.
Formalmente,
in Italia l’eutanasia è considerata illegale, ma con la sentenza sopracitata si
prevede che il reato di aiuto al suicidio non si presenta, se l’aiuto viene
fornito a un paziente “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e
affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e
psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere
decisioni libere e consapevoli”.
Se la
persona possiede tali requisiti si può procedere solo previa valutazione delle
condizioni di salute avvenuta all’”interno del Sistema Sanitario Nazionale”.
Dal
punto di vista giuridico, in Italia solo l’eutanasia attiva può essere punibile
come condotta omicidiaria (ai sensi degli articoli 579 c.p., Omicidio del
consenziente e 580 c.p., Istigazione o aiuto al suicidio).
Al contrario, nell’ipotesi di eutanasia
passiva la condotta è punibile solo se in capo al medico sussiste un obbligo di
cura, che però viene a mancare se il paziente rifiuta il trattamento sanitario.
Secondo
la giurisprudenza, il rifiuto di un trattamento sanitario da parte del paziente
autorizza il medico non solo a comportamenti omissivi, ma anche commissivi;
quindi,
non solo il medico si può astenere dal curare il paziente, ma può anche
interrompere la ventilazione meccanica, come avvenuto nel caso “Welby”.
Casi
che hanno fatto la storia.
Ci
sono dei casi che hanno segnato la giurisprudenza in materia, tra questi il
caso Englaro (2010), nel quale si è considerata legittima la richiesta del
padre di Eluana Englaro – in qualità di tutore – di interrompere la nutrizione
e l’idratazione mediante sondino nasogastrico della figlia.
Ugualmente
rilevante è il già citato caso Cappato-Antoniani (Caso Dj Fabo):
nel 2019 la Consulta di Milano ha assolto
Marco Cappato dall’accusa di aiuto al suicidio, poiché si è stabilito che il
divieto di aiutare una persona a procurarsi la morte deve essere bilanciato con
il diritto a una vita dignitosa e al rifiuto dei trattamenti terapeutici quando
si presenta una malattia certamente degenerativa.
Nel
novembre 2021, sulla base della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale,
il comitato etico dell’azienda sanitaria delle Marche ha autorizzato il
suicidio assistito di un paziente tetraplegico.
Questo
è stato il primo caso in Italia di autorizzazione al suicidio assistito.
Dopo
l’approvazione alla Camera nel marzo 2022 della proposta di legge “Disposizioni
in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, che ha reso legale il
suicidio assistito a determinate condizioni, a giugno tale paziente è stato il
primo a poter accedere legalmente a tale pratica.
L’influenza
dello Stato, della Santa Sede e dei Pro Vita.
Il
dibattito sul tema del fine vita si scontra inevitabilmente con delle
implicazioni di carattere politico, religioso ed etico- morale.
La
posizione della Chiesa cattolica sul fine vita è da sempre contraria a
qualsiasi forma di eutanasia.
La Chiesa ha invitato a riflettere
sull’irragionevolezza dell’accanimento terapeutico, indirizzandosi verso una
forma di cura a misura della persona malata. Ma, in ogni caso, nella dottrina
la vita è un diritto indisponibile, la morte non è affidata all’arbitrio
dell’uomo, bensì al volere Divino ed è una dimensione inevitabile della vita,
la quale non va accorciata o impedita nel suo corso.
Tant’è
che per i credenti la morte non è l’ultima fase della vita.
Insieme
all’influenza della Chiesa cattolica, anche le campagne di Pro Vita e Famiglia
sono determinanti nella definizione dei concetti di eutanasia e di suicidio
assistito.
Le ultime iniziative dell’associazione
risalgono al gennaio 2024 e riguardavano il contrasto all’approvazione del
progetto di legge sul “Suicidio medicalmente assistito” in discussione presso
il Consiglio regionale del Veneto; tale progetto è stato bocciato e rimandato
in Commissione.
A che
punto siamo arrivati?
Il 10
febbraio 2025 la Toscana è stata la prima Regione italiana ad approvare una
legge che garantisca ai malati una procedura certa in fatto di tempistiche e
modalità per l’accesso al suicidio medicalmente assistito.
Il
Consiglio regionale ha approvato a maggioranza la legge di iniziativa popolare
promossa dall’Associazione Luca Coscioni e che era stata depositata per il
vaglio in tutte le Regioni italiane.
Innegabile
è il bisogno di cercare soluzioni condivise e una forma di mediazione tra
posizioni differenti in materia, che trovino uno sbocco sul piano legislativo,
in modo da poter garantire in Italia la presenza di una legge certa che
risponda in modo generale e astratto alle questioni legate al fine vita.
In tal
modo, si eviterà che le risposte su questo tema siano arbitrarie, ad hoc e
discriminanti.
L’affanno
delle democrazie liberali.
Rivistailmulino.it
- Michele Bellini – (25 settembre 2024) – ci dice:
Al di
là delle specificità di ogni contesto, è chiara una tendenza dell’Occidente
democratico:
lo Stato liberale non è più il perimetro
all’interno del quale si svolge la competizione politica.
Ormai
ogni elezione viene etichettata come “storica”.
Non si tratta solo di sensazionalismo, ma
stiamo effettivamente assistendo a un crescente numero di eventi inediti che
segnalano l’affanno delle democrazie liberali.
Gli ultimi avvenimenti ci pongono di fronte a
una sfida profonda e trasversale all’Occidente democratico.
Negli
Stati Uniti, un filo rosso collega le presidenziali del 2020 e quelle di
novembre ed è il progressivo scivolamento del Partito repubblicano fuori dai
paletti dello Stato liberale per seguire la leadership di Donald Trump.
La
svolta fu la richiesta dell’ex presidente al suo vice di allora, Mike Pence, di
interferire con i risultati delle elezioni e, pochi giorni dopo, l’assalto a
Capitol Hill.
Oggi,
questa deriva è testimoniata dal famigerato “Project 2025”, un piano per
“istituzionalizzare il trumpismo”, secondo “Kevin Roberts”, il presidente del
think tank conservatore – “Heritage Foundation “– che lo ha prodotto.
In circa 1.000 pagine si avanzano proposte per
cambiare l’assetto dello Stato e implementare politiche restrittive sul
versante dei diritti civili, tanto che molti hanno visto in questo piano
l’anticamera dell’autoritarismo.
Sempre
“Roberts”, a luglio, ha paragonato le prossime elezioni a una “seconda
rivoluzione americana” che, ha proseguito, “rimarrà senza spargimenti di sangue
se la sinistra lo permetterà”.
Una
retorica che fa capire quanto negli Stati Uniti alcuni dei fondamenti dello
Stato liberale non siano più presupposti intoccabili, ma siano ormai entrati
nell’arena politica e, dunque, messi in discussione.
Sull’altra
sponda dell’Atlantico, il secondo turno delle elezioni parlamentari francesi ha
richiesto la formazione del “front républicain”, indispensabile per evitare la
vittoria del “Rassemblement National”.
Già il nome del cartello elettorale sottolinea
come il” partito di Marine Le Pen” sia considerato incompatibile con il regime
repubblicano.
E se è vero che il fronte è una costante della
V Repubblica, è in ogni caso la prima volta che il “Rassemblement” arriva in
testa al primo turno delle legislative, con un’impressionante distribuzione
geografica che ha salvato solo “le grandi aree urbane parigina e marsigliese e
alcune altre città medio-grandi”.
Se
consideriamo i sistemi elettorali come degli elastici, si può tranquillamente
affermare che quello francese abbia dato fondo a tutta la sua elasticità, come
testimoniato dall’impasse dopo il voto.
Anche
perché il fronte aveva già dato segnali di instabilità su entrambi i fianchi:
a destra, con il sostegno esplicito a Le Pen
di una parte dei gollisti;
a sinistra, con l’incompatibilità di fatto tra
il “centro macronista” e “La France Insoumise” di “Jean-Luc Mélenchon.”
Varcando
il Reno e proseguendo verso Est, arriviamo in “Turingia”, ufficialmente entrata
nella storia per aver registrato la prima vittoria dell’estrema destra dai
tempi del nazismo.
Non a caso, già dalle primissime proiezioni, i
vertici di “Alternative für Deutschland” (AfD) si sono affrettati a lanciare
messaggi inequivocabili sulle loro ambizioni ormai di portata nazionale.
Il “Brandmauer” – la versione tedesca del
fronte repubblicano: letteralmente, muro tagliafuoco – per ora sembra reggere,
ma è evidente che qualora la corsa dell’”AfD” prosegua, spinta dai consensi
sempre maggiori nei” Länder dell’ex Ddr”, le altre forze politiche farebbero
sempre più fatica a tenerli fuori.
“Secondo
la “Fondazione Rosa Luxemburg” – ha riportato “Mara Gergolet” sul “Corriere
della Sera” – tra il 2019 e il 2023, a livello locale 120 proposte sono state
votate dall’”AfD” e dalla “Cdu” (o altri partiti) insieme”.
Ogni
contesto ha le sue specificità, ma il trend è chiaro:
lo Stato liberale non è più il perimetro
condiviso all’interno del quale si svolge la competizione politica.
È con
questa consapevolezza che il presidente Mattarella, nel suo intervento alla
Settimana sociale, ha lanciato un monito essenziale:
“La
democrazia non è mai conquistata per sempre”.
Una
delle forme in cui l’autoritarismo avanza è lo smantellamento graduale dello
Stato di diritto e delle libertà, mantenendo alcune strutture di facciata
tipiche della democrazia, come le elezioni che, nel senso comune, di essa sono
il simbolo.
La
crisi della democrazia liberale si riflette nella messa in discussione del
nesso inscindibile tra Stato di diritto e Stato democratico.
Riprendendo
Norberto Bobbio, sappiamo che una democrazia è liberale oppure non è:
“Lo
Stato liberale è il presupposto non solo storico ma giuridico dello Stato
democratico nel senso che occorrono certe libertà per l’esercizio corretto del
potere democratico” (N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, 2014, p. 7).
Una
delle forme in cui l’autoritarismo avanza è lo smantellamento graduale dello
Stato di diritto e delle libertà, mantenendo alcune strutture di facciata
tipiche della democrazia, come le elezioni che, nel senso comune, di essa sono
il simbolo.
Non
stupisce, allora, che, secondo il “Democracy Report 2024” del “V-Dem Institute”,
la forma di governo più diffusa è proprio quella delle autocrazie elettorali,
in cui vivono tre miliardi e mezzo di persone, il 44% della popolazione
mondiale.
Non
solo;
il
rapporto certifica uno strutturale e preoccupante arretramento delle democrazie
liberali:
nel 2023, il livello di democrazia nel mondo è
tornato ai livelli del 1985, dunque addirittura prima della straordinaria
ondata di democratizzazione che seguì la caduta del Muro di Berlino.
È da
circa quindici anni che la popolazione mondiale che vive in autocrazie è
maggiore di quella che vive in regimi di democrazia liberale:
se nel 2003 era il 48%, oggi siamo arrivati al
71%!
Le autocrazie elettorali rischiano di essere
l’approdo di quella regressione dello Stato di diritto che “Viktor Orbán” aveva
apertamente rivendicato già nel 2014:
“il
nuovo Stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno Stato illiberale, uno Stato
non liberale”.
Così,
di cordoni sanitari sentiamo – e sentiremo – sempre più parlare.
Ma
l’idea di mettere da parte le differenze ideologiche, spesso anche molto
profonde, per contrastare chi mette in discussione le fondamenta dello Stato di
diritto è un’operazione non priva di rischi.
Innanzitutto,
soluzioni di “extrema ratio” hanno un’efficacia direttamente proporzionale alla
credibilità della minaccia di deriva autoritaria nella percezione dell’opinione
pubblica.
In assenza di una tale percezione, l’allarme
democratico può ritorcersi contro chi lo ha lanciato, lasciando alle forze
politiche che si sono unite solo i “costi” di aver messo da parte le proprie
differenze.
Un secondo rischio è rappresentato da quanto
potrebbe verificarsi in Francia. L’elevata litigiosità di un fronte
repubblicano troppo eterogeneo può pregiudicare, anche dopo la formazione di un
governo, l’efficacia dell'azione dell'esecutivo, aumentando, così,
l’insoddisfazione dei cittadini.
Si
potrebbe innescare un circolo vizioso che finirebbe per aggravare le cause che
hanno contribuito alla crescita dei consensi di coloro contro i quali si era
formato il cordone sanitario.
La terza motivazione, sottesa a entrambe le
precedenti, è il fatto che la democrazia si nutre del pluralismo e di un sano
conflitto politico.
Limitarli
per creare fronti democratici deve restare un’eccezione, non può diventare la
regola.
In caso contrario si rischia un’eterogenesi
dei fini:
tentando
di salvare la democrazia, si finisce per soffocarla.
Ricordando
un vecchio detto: “l’operazione è perfettamente riuscita, ma il paziente è
morto!”.
Anche
perché sono sotto gli occhi di tutti gli effetti negativi sulle nostre
democrazie del “Tina” – “There Is No Alternative” – di thatcheriana memoria.
L’unica
cosa a cui non ci sono davvero alternative è che una democrazia non si può
salvare se, in ultima istanza, non sono i cittadini stessi a volerlo
A ben
vedere, l’unica cosa a cui non ci sono davvero alternative è che una democrazia
non si può salvare se, in ultima istanza, non sono i cittadini stessi a
volerlo.
Non esisteranno mai meccanismi giuridici,
costituzionali o politici che possano portare a zero il rischio di regressione
democratica.
Non potrebbe essere altrimenti:
non
può esserci democrazia senza responsabilità.
Torna
in mente, qui, il monito di “Romano Guardini” che, nel ricordare i ragazzi
della “Rosa Bianca”, parla di un “totalitarismo che viene dall’alto, ma anche
un totalitarismo che viene dal di dentro” (R. Guardini, La Rosa Bianca,
Morcelliana, p. 56).
Nelle
sue riflessioni, Guardini avverte che la tentazione totalitaria si afferma
anche perché offre all’uomo una liberazione dal peso delle proprie
responsabilità:
“Toglie
al singolo il peso di dover pensare con la propria testa, di dover giudicare,
decidere, rispondere del proprio destino.
Questa
è la grande tentazione.
Ciò
che è avvenuto nel 1933 e che è proseguito per dodici anni interi, con
conseguenze, alla fine, che paiono del tutto apocalittiche, non si è compiuto
solo dall’alto verso il basso, ma anche dal basso verso l’alto” (R. Guardini, Etica, Morcelliana, pp.
840-841).
Alla
responsabilità dei cittadini, però, va affiancata anche quella delle classi
dirigenti tutte, a partire da quella politica, nell’affrontare un altro dei
nodi fondamentali per la sopravvivenza della democrazia:
la
promessa di un’uguaglianza politica, per cui ogni persona deve godere degli
stessi diritti, avere accesso alle stesse opportunità ed esercitare il medesimo
grado di influenza politica.
È
immediato comprendere che questa ambizione è tanto più lontana dall’essere
realizzata, quanto più ampie sono le disuguaglianze (economiche, ma non solo)
all’interno di una società.
Non
sorprende in questo senso che l’analisi dell’astensione in Italia alle elezioni
europee di giugno consegni una chiara correlazione tra il tasso di non voto e
il reddito.
Secondo
dati Ipsos, a fronte di una media complessiva nel valore del non voto pari al
53,1%, questo valore aumenta vertiginosamente al diminuire del reddito,
toccando un picco del 75,7% per cittadini con un reddito basso e attestandosi a
quota 61,8% per quelli medio-bassi.
Al
contrario, la partecipazione aumenta sensibilmente all’aumentare del reddito:
il
valore del non voto scende a 49,2% per i redditi medi, a 39% per quelli
medio-alti e raggiunge il valore minimo, 32,9%, tra i redditi più alti. S
ebbene
le cause siano diverse e interdipendenti, questi dati sono inequivocabili e
indicano già una prima chiara direzione da perseguire per salvare la
democrazia.
Mettere
in pratica, cioè, il secondo comma dell’art.3 della Costituzione e “rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà
e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti”.
E se
non lo si vuole fare per adesione convinta alla promessa democratica, lo si
faccia per convenienza ed esigenze di stabilità, come suggeriva già “Aristotele”
nella sua “Politica”:
“perché
dove gli uni posseggono troppo e gli altri nulla si giunge alla democrazia
estrema o all’oligarchia pura o alla tirannide determinata dagli eccessi
dell’una o dell’altra” (p. 365).
Da
Calamandrei a Mattarella,
le
regole e i valori per difendere
e rilanciare libertà e democrazia.
Fondazionepirelli.org – (26 Marzo 2025) –
Redazione – ci dice:
“La
democrazia non è una conquista definitiva, va continuamente realizzata,
vissuta, consolidata e interpretata”.
Ma
anche: “La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia
a mancare”.
In
tempi così difficili e controversi, contro le cattive inclinazioni alla
banalità e alla volgarità e le crescenti manifestazioni di fastidio verso la
democrazia, vale la pena rileggere alcune delle pagine migliori della nostra
letteratura politica.
Come
quelle dell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella,
rivolto nell’aprile 2015 ai giovani vincitori del concorso “Dalla Resistenza
alla Cittadinanza attiva”.
E come il discorso di Piero Calamandrei sulla
Costituzione, del 1955, con un passaggio essenziale:
“È
così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è
altre cose da fare che interessarsi alla politica.
E lo so anch’io. Il mondo è così bello, ci
sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La
politica non è una piacevole cosa”.
Però,
continua Calamandrei, “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale
quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli
uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a
voi, giovani, di non sentire mai”.
La
conclusione è esemplare, a futura memoria: “Vi auguro di non trovarvi mai a
sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi
le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai,
ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio
contributo alla vita politica”.
Dalla
fine della Seconda Guerra mondiale, conclusa con la sconfitta del nazismo e del
fascismo, abbiamo vissuto in Europa ottant’anni di pace, segnati
dall’espansione di quella mirabile sintesi tra democrazia liberale, economia di
mercato e welfare State, cioè tra libertà, intraprendenza, benessere e coesione
sociale (tutte condizioni che, con troppa superficialità, abbiamo dato per
acquisite una volta per tutte).
L’implosione
dell’impero sovietico, per i suoi profondi limiti politici, economici e
sociali, dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989, ha confortato l’idea –
sarebbe meglio dire l’illusione – di un radicale successo dell’Occidente, delle
sue culture e dei suoi valori, sino ad alimentare l’arrogante e fallace idea
della “esportazione
della democrazia”.
Ma la
Storia, a dispetto delle previsioni di un pur brillante politologo come
“Francis Fukuyama”, non era affatto “finita” con la “vittoria” occidentale.
Tutt’altro.
E oggi
ci troviamo a fare i conti con le sconvolgenti fratture dei tradizionali
equilibri geo-politici e con le
rivendicazioni di primato di valori e interessi di grandi protagonisti
internazionali (la Cina, la Russia, l’Iran, la Turchia, il variegato mondo
arabo, in attesa del nuovo protagonismo che si farà sentire dall’Africa),
mentre i cambiamenti politici e culturali in corso a Washington ci costringono
a riconsiderare il ruolo degli Usa, vissuti abitualmente come cardine della
democrazia occidentale.
La
nuova stagione sembra, insomma, connotata dallo spazio crescente delle
autocrazie.
E la democrazia liberale annaspa.
Vive
la sensazione d’essere sotto scacco dall’esterno (la guerra in Ucraina ne offre
un’esemplare testimonianza).
E avverte scricchiolii anche al proprio
interno.
Aumenta,
infatti, la disaffezione verso la partecipazione alla vita politica e al voto,
momento fondamentale nella costruzione della “volontà popolare” (uno dei timori
nutriti da Calamandrei, appunto).
Cresce
l’indifferenza o peggio ancora l’insofferenza verso alcuni pilastri della
democrazia:
la
divisione dei poteri tra organi dello Stato, l’autonomia della magistratura, la
libertà di stampa, il valore del pensiero critico, la sacralità del pluralismo
di pensiero.
È il
tempo del populismo, del sovranismo egoista, dell’intolleranza verso le
diversità, del fastidio per la ricerca scientifica e le complessità del lavoro
intellettuale.
La diffusione dei social media, con il gioco
povero dei “like” che immiseriscono pensieri e parole, amplifica la crisi.
Ecco
perché è necessario, proprio per difendere e rilanciare “il respiro della
libertà”, tornare a ragionare criticamente, a creare nuovi spazi dialettici
delle relazioni internazionali, comunque necessarie.
E a
parlare di politica, a studiare la storia, il diritto e l’economia, a
riflettere sui nostri valori e sui fondamenti della democrazia.
Che
vanno oltre il semplice voto elettorale.
E non
contemplano affatto lo schiacciamento della vita sociale e politica nella
parodia d’una mano di poker “all in”, chi vince la tornata elettorale è padrone
assoluto di tutto lo scenario democratico.
Leggere
e discutere, dunque.
Fermare
l’attenzione sulle parole dei “padri della Costituzione”, figlia di una sintesi
delle migliori correnti del pensiero politico italiano, quello cattolico,
quello liberale e quello di socialisti e comunisti legati ai valori della
democrazia parlamentare (gli Atti dell’Assemblea Costituente ne forniscono
luminose testimonianze).
Riprendere in mano gli autori europei del
pensiero liberale e democratico (compresi i tre firmatari del “Manifesto di
Ventotene” Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni).
Ragionare
sulle relazioni tra libertà e responsabilità, storia e futuro, ricordando la
lezione di Aldo Moro sulla “nuova stagione dei doveri” necessaria al
rinnovamento della democrazia italiana (fu ucciso per mano delle Brigate
Rosse e su mandato anche di poteri finora non individuati con chiarezza
giudiziaria, proprio per impedire quel rinnovamento).
Serve,
per farlo, fermare l’attenzione su un libro essenziale, “Vi auguro la
democrazia”, una raccolta di discorsi del Presidente della Repubblica Sergio
Mattarella appena pubblicato da De Agostini (con una prefazione di Corrado
Augias) e rivolta alle giovani generazioni, da cui abbiamo tratto la citazione
iniziale di questo blog.
Scrive,
appunto, Mattarella:
“La
democrazia non è una conquista definitiva, va continuamente realizzata,
vissuta, consolidata e interpretata, perché i tempi mutano, mutano le forme
della comunicazione.
La democrazia va ogni volta, in ogni tempo,
inverata, perché sia autentica nei suoi valori, nelle modalità che cambiano di
stagione in stagione.
Vive
perché viene applicata e attuata.
Realizzata
sempre, nei tempi che mutano e nelle condizioni che cambiano, rispettando i
suoi valori”.
Democrazia
in movimento.
Da
vivere e fare vivere. Cultura da approfondire. Memoria da difendere
(fondamentale impegno, in tempi in cui, incuranti dei fatti, ci sono poteri e
potenti che teorizzano le “verità alternative” e sui social spacciano
“fattoidi” per fatti). Futuro responsabilmente da costruire. E conoscenza su
cui fondare scelte e comportamenti.
Anche
le conoscenze giuridiche e istituzionali.
Come
mostrano le pagine di “I presidenti della Repubblica e le crisi di governo –
Cinquant’anni di storia italiana 1971- 2021”, una raccolta di saggi curata da “Stefano
Sepe” e “Oriana Giacalone”, pubblicata da Editoriale Scientifica nella collana
dell’Istituto di Studi
Politici
“S. Pio V”.
Riflessioni
acute e sapienti. Con un rinvio fondamentale alla lezione di” Costantino
Mortati” (uno dei “padri Costituenti”, maestro di Diritto Costituzionale per
generazioni di giuristi, dagli anni Cinquanta in poi) sul “potere moderatore”
del Presidente della Repubblica nella composizione dei governi post elezioni e
nella soluzione delle crisi di governo:
il
compito dell’inquilino del Quirinale è “accertare la corrispondenza degli
orientamenti popolari con quelli degli organi rappresentativi e di questi
ultimi tra loro, onde mantenere una costante armonia”.
Democrazia
come pluralità, appunto.
Equilibrio tra poteri. Pesi e contrappesi.
Tutto
il contrario dell’ “uomo solo al comando”.
La
nostra democrazia da continuare a fare vivere e crescere.
(Ma si
può anche osservare che il Presidente della Repubblica italiana andrebbe votato
democraticamente da tutto il popolo italiano e non solo dai componenti del Parlamento!
N.D.R.)
L’eccezione
democratica e la democrazia
dell’emergenza.
La
conservazione politica
tra
deroga, prerogativa e discrezione.
Storicamente.org
- Alessandro Arienzo- (16-12-2024) – ci dice:
Indice
dell'articolo:
Nel
deserto del reale.
L’eccezione
permanente e la guerra civile globale.
L’eccezione
liberale tra ordinario e straordinario.
Deroga,
prerogativa e poteri di emergenza.
Dall’eccezione
alla conservazione.
Le
categorie di eccezione e di emergenza svolgono un ruolo importante nella
comprensione critica delle democrazie liberali contemporanee.
Riesaminando alcune posizioni sull’esistenza
di uno stato di eccezione permanente, questo contributo discute la necessità di
evitare una riflessione critica incentrata sulla sola dimensione giuridica
dell’eccezione o sulla sola tassonomia dei poteri di emergenza, per mostrare
come le traiettorie di istituzionalizzazione di eccezione, prerogativa e
discrezionalità costituiscano i nuclei teorici di quella che potrebbe essere
chiamata democrazia dell’emergenza.
Nel
deserto del reale.
Le
categorie di eccezione ed emergenza svolgono un ruolo importante negli sforzi
di comprensione critica delle contemporanee democrazie liberali.
Tuttavia,
benché tra loro contigue, esse operano entro orizzonti concettuali distinti,
ordinati in quadri disciplinari differenti e tra loro in potenziale tensione.
Queste categorie consentono comunque di problematizzare la relazione tra la
sovranità e il governo, di comprendere il porsi dello Stato e della sua ragione
nella globalizzazione, di cogliere aspetti rilevanti del governare nei sistemi
democratici.
Del
resto, se la fine della contrapposizione tra democrazie liberali e stati
socialisti è apparsa come un punto di svolta epocale, come una promessa di
“spoliticizzazione” e di “neutralizzazione/tecnicizzazione” della politica, il
nuovo millennio non ha tardato nel presentare il conto delle contraddizioni che
tale fine aveva covato e sollecitato:
il moltiplicarsi delle cosiddette “nuove
guerre” e il ritorno delle “guerre totali” (Kaldor 2002, Kaldor 2014; Galli
2002; Karlin 2024), il disseminarsi dei conflitti locali e l’esplosione dei
terrorismi, il susseguirsi sempre più rapido di crisi economiche e finanziarie.
Dopo
l’ottimismo globalista degli ultimi decenni del Novecento, l’11 settembre, col
suo seguito di attentati e guerre, ha riportato l’Occidente “nel deserto del
reale” (Žižek 2022) mostrando che, se anche vi fosse stata una ragione e una
misura nella globalizzazione, questa sembra essersi dissolta (Schiera 2010;
Colombo 2009; e su un piano differente: Bello 2002).
Col
nuovo millennio si è affermato un clima di dilaganti insicurezza e
vulnerabilità, accompagnato dall’inflazione di parole quali crisi, eccezione ed
emergenza in una spirale narrativa in cui il richiamo coattivo alla sicurezza
si è costantemente ribaltato nel susseguirsi continuo delle emergenze.
Come osservato da “Alessandro Colombo” in un
recente volume sul governo mondiale dell’emergenza:
“L’emergenza
è diventata, per usare un altro termine inflazionato negli ultimi due decenni,
una condizione doppiamente infinita” (Colombo 2022, ix); doppiamente perché,
sul piano temporale, ogni emergenza è sembrata sciogliersi nella successiva
“senza soluzione di continuità”, e perché, sul piano spaziale, queste emergenze
appaiono “comuni”, ossia in una qualche misura condivise se non globali.
Non desta allora sorpresa che dal settembre
2001 a oggi i termini eccezione ed emergenza abbiano caratterizzato tanto la
riflessione politica quanto quella giuridica, assumendo un valore quasi
paradigmatico nell’interpretare la logica di governo degli ordinamenti
democratici nella fase storica dell’egemonia “neo-liberale” (Harvey 2007).
In
questo prevalere dell’emergenza/eccezione non vi è nulla di inedito, dal
momento che queste categorie, come quelle di necessità e di crisi, hanno
accompagnato lungo tutto il Novecento gli sforzi di comprensione e di analisi
dello Stato e del suo nucleo più intimo, la sovranità.
Se è
vero che oggi viviamo tempi nuovi, propriamente “poli-critici” perché segnati
dall’interdipendenza strutturale delle emergenze (Proietti 2024; Koselleck
1972, Koselleck 1982; Tooze 2022), è altrettanto vero che tali categorie
costituiscono luoghi e momenti concettuali “classici”, coi quali si è pensato e
prodotto il moderno (Benigno e Scuccimarra 2007).
Certamente
la riflessione sul legame tra eccezione e democrazia si è data con prospettive
metodologiche e linguaggi differenti, seppure per molti rispetti ibridi e in
parziale sovrapposizione.
Se la politologia e la scienza politica hanno
prevalentemente interrogato la democrazia costituzionale alla luce delle
questioni dei poteri di emergenza e del bilanciamento tra le istanze di
sicurezza e quelle di libertà, la filosofia politica e la storia del pensiero
politico hanno privilegiato le analisi delle dimensioni specifiche della
necessità e della crisi, nonché la comprensione genealogica di concetti,
categorie e istituzioni dell’emergenza e dell’eccezione.
In
ultimo, la prospettiva giuridica ha tentato di rendere normativa l’eccezione
per ricomprenderla nel quadro costituzionale e dello stato di diritto, a
partire da una prospettiva di conservazione degli ordinamenti.
Tutti
questi linguaggi e queste discipline sono stati messi alla prova dalle
situazioni straordinarie, se si vuole critiche, nonché plurali e diffuse, che
hanno dato corpo al nuovo millennio.
Si
tratta di emergenze multiple: dalle rivolte nelle periferie e nelle banlieue
del mondo nei primi anni Novanta ai sommovimenti politici e sociali dei primi
anni Duemila; dagli attentati terroristici alle guerre che hanno attraversato
il globo dopo l’11 settembre 2001; dalle crisi dei debiti sovrani e dalle
emergenze economico-finanziarie, col loro carico di eccezionalismo tecnocratico
e finanziario e le loro retoriche sul debito-colpa, alle drammatiche crisi
migratorie.
A
queste sono seguite le più tipiche tra le condizioni eccezionali, la pandemia
da Covid19, la guerra determinata dall’invasione russa dell’Ucraina, la
recrudescenza del conflitto israelo-palestinese allargatosi oggi al Libano e
alla Siria.
Un
indice certamente limitato a quegli eventi che più toccano l’opinione pubblica
occidentale, ma che non esaurisce la serie delle guerre, dei conflitti, delle
crisi umanitarie in corso.
Sullo
sfondo, le contraddizioni e le paure suscitate dalle crisi ambientali, da una
progressiva crescita delle diseguaglianze e delle povertà, da una condizione di
indebolimento della democrazia liberale e delle istituzioni internazionali
multilaterali, dalle sfide poste da potenze globali emergenti, dalle spinte
autoritarie e autocratiche dentro e fuori i sistemi democratici.
L’eccezione
permanente e la guerra civile globale.
Questo
susseguirsi ininterrotto di crisi, emergenze e conflitti della più diversa
natura sembra confermare quanto osservava” Vittorio Dini” ad apertura di una
raccolta di contributi pubblicata nel 2006 dedicato al tema dell’eccezione:
“Viviamo ormai, dal 11 settembre 2001, permanentemente nell’eccezione. […]
l’eccezione è la regola” (Dini 2006, 7).
Presupposto
di questa affermazione era il rilievo assunto dal volume di “Giorgio Agamben”
Stato di Eccezione che nel 2003, après Guantanamo, e riprendendo nel nuovo
quadro politico le tesi articolate in Homo sacer (1995), aveva denunciato
l’imporsi di una logica della decisione sovrana che istituiva e sospendeva la
regola costituzionale attraverso la costante produzione di eccezioni.
Nel
presentare la sua tesi, Agamben affermava che “nell’urgenza dello stato di
eccezione in cui viviamo ” era necessario:
portare
alla luce la finzione che governa questo” arcanum imperii “per eccellenza del
nostro tempo.
Ciò
che l’‘arca’ del potere contiene al suo centro è lo stato di eccezione – ma
questo è essenzialmente uno spazio vuoto, in cui un’azione umana senza rapporto
col diritto ha di fronte una norma senza rapporto con la vita (Agamben 2003, 110).
La
dimensione arcana del potere mostra un vuoto, l’eccezione appunto, che rende
possibile sia un agire svincolato da norme (l’arbitrio politico), sia il
prodursi di giuridicità formale che mette in forma questo agire.
Peraltro,
la condizione di permanente emergenza che riveste questo arcano ha una portata
tanto radicale da permettere il dominio della “nuda vita” ed esercitare il
controllo sul vivente in quanto tale: condizione palesatasi nelle strutture di
detenzione statunitensi di Guantanamo o di Abu Ghraib.
Agamben
denunciava, in tal modo, una profonda solidarietà tra la democrazia e il
totalitarismo basata su un comune e intimo nucleo del potere rappresentato
dalla decisione che pertiene al sovrano sull’eccezione.
Negli
ordinamenti democratici, è questo nucleo a garantire la messa in opera di una
soglia di indistinzione tra inclusione ed esclusione.
L’eccezionalismo
delle politiche democratiche non costituisce, allora, l’esito di un processo
corruttivo, una deriva o uno sviamento della forma democratica, ma il
dispiegarsi di una sua dimensione recondita.
In un
passo molto citato, e che merita di essere riportato per intero, Agamben rifletteva su quanto
interpretato alla luce delle disposizioni prese da Hitler attraverso il Decreto
per la protezione del popolo e dello Stato del 28 febbraio 1933:
Il
totalitarismo moderno può essere definito […] come l’istaurazione, attraverso
lo stato di eccezione, di una guerra civile legale, che permette l’eliminazione
fisica non solo degli avversari politici, ma di intere categorie di cittadini
che per qualche ragione risultino non integrabili nel sistema politico. Da
allora, la creazione volontaria di uno stato di emergenza permanente (anche se
eventualmente non dichiarato in senso tecnico) è divenuta una delle pratiche
essenziali degli Stati contemporanei, anche di quelli cosiddetti democratici
(Agamben 2003, 11).
La
prospettiva di Agamben consolidava e approfondiva percorsi di riflessione che,
prima nel contesto filosofico-politico italiano, poi in quello anglosassone,
erano stati presentati da autori come Carl Schmitt e Walter Benjamin attraverso
strumenti concettuali mutuati dalle opere di Michel Foucault e di Jacques
Derrida.
In
essa l’emergenza si presenta a valle di uno spostamento del piano dell’analisi
dalla dimensione giuridica dell’eccezione al piano filosofico e politico della
decisione sovrana sui contesti emergenziali. In tal senso, lungi dal costituire
due categorie distinte, l’emergenza si presenta come il prodotto dell’eccezione
intesa come l’esito della decisione sovrana circa la necessità e la sussistenza
dello stato di eccezione.
Una condizione descritta, infatti, come la
“progressiva erosione dei poteri legislativi del parlamento, che si limita oggi
spesso a ratificare provvedimenti emanati dall’esecutivo con decreti aventi
forza-di-legge” (Agamben 2003, 17).
Nell’orizzonte
concettuale di Agamben, eccezione ed emergenza non costituiscono quindi
percorsi distinti e in contrapposizione:
l’eccezione
è logica politica che governa le emergenze, ed entrambe hanno il loro nucleo
comune – l’arcano, il fondamento mistico – nel venire poste dalla “decisione”.
Il
sovrano è tale, e permane in quanto tale, perché dichiara
l’emergenza/eccezione, e in tal modo esso attesta, conferma sé stesso in quanto
sovrano. In tal senso, l’emergenza non preesiste alla decisione, essa non
costituisce un fatto indipendente che si imporrebbe sul sovrano obbligandolo,
in forza di necessità, a sospendere la propria configurazione ordinaria.
Piuttosto
essa si costituisce solo attraverso e nella decisione che per prima la
istituisce.
Ecco
perché il vero e più delicato punto di attivazione dello stato di eccezione
secondo Agamben, quello in cui esso esprime tutta la sua potenza, non è nei
casi di minacce all’ordine politico che giungono dall’esterno (lo Stato di
Guerra), ma nei casi in cui la minaccia è interna (lo Stato d’Urgenza):
ossia
in tutte quelle condizioni in cui è la possibilità della guerra civile a
palesarsi (Agamben 2019).
A
partire da ciò è possibile intendere perché, in questa prospettiva, si dia la
“prevalenza logica e politica della norma sull’eccezione” (Galli 2005, 252).
Ed essendo la norma logicamente antecedente
l’eccezione, questa consente sia che il sovrano attivi una funzione
conservativa o restaurativa dell’ordine, sia che egli dia corpo a un processo
“costituente” e trasformativo.
L’eccezione,
pertanto, è l’espressione di una “potenza originaria della crisi” che è
implicata nella dimensione stessa della decisione, quest’ultima intesa come la
“rischiosa apertura dell’ordine sul conflitto” (Galli 2005, 253).
Nell’opera
di Agamben viene allora riordinata la distinzione schmittiana tra dittatura
commissaria e dittatura costituente (Schmitt 1975), riconducendo (o forse
riducendo) la prima alla seconda.
Di qui
il legame tra la prospettiva di analisi articolata in “Homo Sacer”, dedicata
alla questione della “nuda vita”, e le categorie foucaultiane di governo e di
biopolitica.
A ben
guardare, attraverso l’eccezione il potere sovrano produce innanzitutto “forma
politica”:
“La
prestazione fondamentale del sovrano è la produzione della nuda vita come
elemento politico originale e come soglia di articolazione fra natura e
cultura, tra zoé e bíos” (Agamben 2004, 203).
Portando
alle conseguenze più estreme le tesi foucaultiane sulla biopolitica – in
particolare quella secondo cui, col passaggio dalla vecchia sovranità moderna
al governo liberale, “al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è
sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte” (Foucault 2013,
122) – nell’attuale
“guerra civile mondiale” l’eccezione si afferma come il paradigma dominante di
un governare essenzialmente biopolitico.
Sulla
base di tali presupposti si può forse comprendere perché il Covid, l’emergenza
“inventata” secondo Agamben, costituirebbe per il filosofo il punto ultimo di
questo dominio.
La pandemia e la sua gestione mostrerebbero, infatti,
come a partire dall’imposizione del vaccino, e più in generale la nuova potenza
biotecnologica, le politiche sanitarie sanciscono la presa del sovrano sulle
determinazioni socio-biologiche dell’umano.
Ancora,
le politiche di contenimento e di limitazione della mobilità/socialità che la
gestione della pandemia ha promosso diventano un elemento di disciplinamento
alla vita a distanza.
Questa spinta “digitalizzante”, attraverso
l’imposizione di forme di riorganizzazione della vita associata, propone un
progetto di smaterializzazione e virtualizzazione della vita, oltre che di
accumulazione di dati e informazioni.
In
questa prospettiva la pandemia si rivela una costruzione politica, ossia
l’esito di una decisione biopolitica essenziale che costituisce e impone un
nuovo ordine.
La
tesi dell’affermarsi di uno stato di eccezione permanente seguito agli eventi
drammatici del nuovo millennio è certamente controversa, e ha prodotto una
profonda polarizzazione tra i fautori di una prospettiva di eccezione e i suoi
critici . Una
contrapposizione che si è andata amplificando con i posizionamenti polemici
assunti durante il Covid da alcuni tra i teorici dell’eccezione, tra questi
innanzitutto Agamben, che si sono spinti a sostenere l’inconsistenza sanitaria
del virus e la sua unica sussistenza quale produzione “biopolitica”.
Tra le
più recenti letture critiche a un tale approccio vi è quella di Mariano Croce e
Andrea Salvatore (2021), i quali hanno sia sostenuto l’inefficacia dell’intera
impalcatura concettuale dell’eccezione, sia messo in evidenza quelli che
ritengono essere i limiti e le “forzature” dell’interpretazione di Agamben di
Carl Schmitt.
In particolare, questi due studiosi ritengono
che l’eccezione sia qualcosa di politicamente e giuridicamente diverso dalle
emergenze, e che, come fattispecie politica e giuridica, essa non esprima in
una maniera significativa una qualità propria ed esclusiva della politica
democratica contemporanea.
Ancora, essi affermano che l’impianto
teologico politico che la caratterizza non permette di cogliere la “forza
istituente” – nel senso dell’apertura radicalmente alternativa all’esistente –
che pure si presenta nelle crisi e nelle emergenze. Attraverso il ricorso alla
categoria di eccezione si descrive, a loro giudizio, un presente politico tanto
apocalittico e totalitario, quanto indistinto e indifferenziato.
Similmente,
e partendo da uno studio delle condizioni di possibilità del discorso e della
ragione eccezionalisti, anche “Massimiliano Guareschi” e “Federico Rahola”
hanno invece osservato come
il
ricorso all’eccezione rappresenta il ricorso a una scorciatoia teorica rispetto
alla necessità di rendere conto di una geografia del presente irriducibile ai
criteri ordinativi della società internazionale e delle sue opposizioni
costitutive (interno/esterno, militare/civile, guerra/pace) (2011, 16).
La
principale obiezione che questi rivolgono alle tesi eccezionaliste è di aver
risolto ogni emergenza in eccezione, prima sostanzializzando le emergenze (al
plurale) nella questione dell’emergenza (al singolare), poi ontologizzando
l’emergenza in eccezione.
Certamente,
nel riflettere intorno alla dimensione permanentemente emergenziale della
politica contemporanea Agamben esalta la continuità logica e istituzionale tra
gli istituti dell’emergenza e lo stato di eccezione.
Se
assumiamo questa prospettiva, l’osservazione per cui le democrazie fanno
ricorso solo in maniera limitata agli istituti dell’eccezione giuridica perché
possono fare più utilmente ricorso a una pluralità di dispositivi differenti
non risponde alla tesi agambeniana secondo cui anche nei dispositivi di
emergenza (dai pieni poteri ai poteri di emergenza) si ritrova una sorta di
sospensione dell’ordine costituzionale.
Infatti,
l’indeterminatezza concettuale e terminologica dell’eccezione, se intesa in
senso filosofico e non giuridico, esprime una “soglia di indeterminazione” tra
l’esercizio democratico (e costituzionale) del potere e la sua declinazione
assolutistica (o totalitaria).
Più
convincente, a parere di chi scrive, è l’osservazione per cui è proprio il
gesto filosofico che riconduce l’emergenza all’eccezione, operazione che si
basa sulla chiusura della politica intorno al momento della decisione sovrana,
a costituire la debolezza della prospettiva agambeniana.
E questo per due ragioni.
La
prima ragione concerne il piano dell’analisi politica e costituzionale, perché
una simile posizione attesta l’ordine costituzionale e politico come
rigidamente monista e sostanzialmente indiviso.
La seconda ragione riguarda il piano
dell’interpretazione critica della società, poiché in essa il pluralismo
sociale e politico delle nostre società viene ridotto a elemento secondario e
accessorio di un centro decisivo e indistinto, lo Stato, che della società
sarebbe il cuore.
In tal modo, viene affermandosi una
prospettiva secondo cui, a fronte di quella soglia di indistinzione che
caratterizza il “politico”, la totale e rigida distinzione tra questo politico
e la “politica” sembra intesa come espressione viva del pluralismo sociale.
Al tutto pieno del Politico diviene possibile
opporre solo un gesto assoluto – assolutamente negativo – che esaurisce, e
svuota, ogni possibile politica pratica.
L’eccezione
liberale tra ordinario e straordinario.
Come
abbiamo visto al centro di una riflessione sul rapporto tra eccezione ed
emergenza, quando non si accolga il continuismo agambeniano, vi è innanzitutto
una questione epistemica che concerne i rispettivi statuti.
In questo confronto gioca un ruolo cruciale
l’assenza di definizioni univoche di eccezione.
Assenza
resa evidente dalla pluralità dei dispositivi politici e istituzionali che
vengono solitamente ricompresi nell’eccezione:
lo Stato di Guerra, lo Stato d’Assedio, lo
Stato d’Urgenza, la Legge marziale, i Pieni poteri. In effetti, né l’eccezione
ha una chiara caratterizzazione epistemologica (essa si configura in quanto
tale in relazione a una norma che essa sospende o altera radicalmente), né lo
stato di eccezione esprime una dimensione in senso stretto giuridica o
istituzionale, rappresentando piuttosto una categoria filosofico-politica che
mira a portare a sintesi e a razionalizzare (entro una logica di sovranità)
l’insieme degli istituti giuridici e dei poteri di emergenza di cui gli
ordinamenti sono dotati.
Una
definizione molto generale è quella secondo cui con stato di eccezione si
intendono tutte quelle situazioni nelle quali lo Stato, per garantire la
propria autoconservazione, deve far ricorso a strumenti o mezzi straordinari
che scavalcano o sospendono il quadro ordinario della sua azione (Kervégan
1996, Galli 2005, Lazar 2020).
Questa definizione descrive un percorso
secondo cui, da una condizione di grave crisi, ne deriva una reazione
straordinaria finalizzata alla salvaguardia e alla conservazione dell’ordine
politico. Questa definizione però non qualifica il tipo di intervento
emergenziale o eccezionale che lo Stato, o il suo governante, dovrebbe
assumere, ma si limita a sancire che, per la salvezza dello Stato e della
sicurezza dei suoi cittadini, “anything shall be held necessary, and legal by
necessity” (Parker 1640, 7).
Nella
prospettiva giuridica liberale l’eccezione implica, invece, la sospensione più
o meno prolungata della condizione politica ordinaria. A questa sospensione
segue l’alterazione momentanea dello stato di diritto e/o della divisione dei
poteri, nonché il ricorso a deroghe alle leggi ordinarie.
Lo
stato di eccezione è però vincolato al ripristino dell’ordine e non dovrebbe
intaccare in via permanente lo stato di diritto o la legittimità democratica
dell’ordinamento. In altri termini, esso non comporta la permanenza sine die
dell’istituto eccezionale o il mantenimento di una condizione di indistinzione
tra il dentro e il fuori del diritto.
L’eccezione
liberale è interpretabile per questo come la forma moderna dello stato di
necessità romano, nello specifico dell’istituto della dittatura, e di questo ne
assume i tratti della temporaneità (Saint-Bonnet 2001, Portinaro 2019) [7]. La
ragione è che l’eccezione si giustifica alla luce di una separazione netta tra
ordinario e straordinario ed esprime una funzione eminentemente conservativa o,
se si vuole, restaurativa dell’ordine.
I sistemi costituzionali dell’eccezione di
matrice liberale sono, per questo, sistemi rigidi, tesi a governare ciò che
Giuseppe Marazzita ha descritto come crisi costituzionali conservative (2003,
149-155).
Nei contemporanei sistemi democratici questi
istituti sono riconosciuti, in via procedurale, all’interno dell’architettura
costituzionale e restano dormienti, ma potenzialmente attivabili, in caso di
necessità.
Come
abbiamo premesso, essi si basano sul presupposto della necessità di istituire
due regimi distinti, uno ordinario e uno straordinario, spesso attribuendo ad
attori istituzionali differenti, ma interni all’ordinamento, la prevalenza
dell’azione nell’uno e nell’altro caso, secondo una procedura che è rigidamente
fissata ex ante.
Ciò però implica che negli ordini politici
cosiddetti monocratici, quelli per esempio a prevalenza parlamentare o quelli a
carattere dispotico, e in generale tutti quelli che non hanno uno specifico
regime di emergenza, la logica dell’eccezione perda il proprio senso
costituzionale.
In questi casi il governo ordinario e quello
straordinario si distinguono piuttosto per “grado” che per “sostanza”.
Se
entriamo nel merito della pluralità degli strumenti che questi regimi possono
attivare nei casi di necessità è facile rendersi conto che non vi sono solo gli
istituti che seguono la logica della deroga, ma vi è anche quell’insieme di
poteri che si attiva in casi particolari, e poteri che possono essere descritti
genericamente come “di emergenza”.
Essi
hanno quali loro radici storiche quelle prerogative che nei sistemi politici di
antico regime erano attribuite al re, o ai magistrati politici, nell’esercizio
di un governo discrezionale secondo “necessità”.
La
lunga storia del costituzionalismo moderno ha prima contrastato, poi inglobato
nelle forme del governo legittimo, sia le prerogative che i diversi sistemi
politici o politico-giuridici attribuivano ai monarchi e ai più importanti
magistrati politici, sia le diverse istanze del governo prudenziale espresse
dalla prerogativa assoluta dei re, offrendo a esse una forma di legalità.
È opportuno notare che in questa tipologia
possono forse rientrare anche quei poteri emergenziali definiti da Carl Schmitt
come commissari che, al pari dei poteri d’emergenza o regolamentari,
surrogano
le norme ordinarie (nel significato specifico di sub rogare, fare eleggere
qualcuno al posto di un altro nei comizi legislativi e giudiziari dell’antica
Roma) e depotenziano il potere legislativo (Borrelli 2006, 17).
Questi
poteri, la cui natura è discrezionale, rivelano uno dei punti di maggiore
tensione degli ordinamenti democratici magistralmente individuato, per
l’Italia, da Norberto Bobbio. Infatti, quale esito di una lunga riflessione
sull’esperienza politica italiana, così segnata dal ricorso ai poteri di
emergenza, dai terrorismi e dalle politiche occulte, questi osservava come “Tra
le promesse non mantenute dalla democrazia […] la più grave, e più rovinosa, e,
a quanto sembra, anche la più irrimediabile, è proprio quella della trasparenza
del potere” (Bobbio 2009, 363).
Secondo
Bobbio sebbene la democrazia si debba caratterizzare per la sua visibilità
anche quando è necessitata a fare ricorso a politiche secretive e di sicurezza
(Bobbio 1980, Bobbio 2011), essa è inevitabilmente segnata da momenti in cui il
governo si rende invisibile, irriconoscibile e incontrollabile.
In
questi casi, la differenza sostanziale tra regimi democratici e regimi
autocratici consiste nel fatto che nei primi l’uso di strumenti eccezionali –
anche dei cosiddetti arcana imperii – è un’anomalia regolata da leggi, e
sottoposta al permanente disoccultamento della libera critica, laddove nei
regimi autocratici non è posto limite, né controllo all’esercizio del governo.
Significativo
è allora quanto lo stesso Bobbio osserva introducendo un’opera che rappresenta
una delle critiche più rilevanti alla analisi schmittiana sulla dittatura e
sullo stato di eccezione, almeno in quella che ne è la sua concreta
realizzazione storica.
Questa
critica si trova nel testo del 1947 di Ernst Fraenkel intitolato il Doppio
Stato (1983) che interpreta il nucleo politico dello stato nazional-socialista
come l’intreccio tra Stato normativo e Stato discrezionale.
Con la
prima espressione, Fraenkel intendeva “un sistema ordinario di governo”
(Fraenkel 1983, 13). Con la seconda, egli descriveva, invece, un “sistema di
dominio dell’arbitrio assoluto e della violenza che non conosce limite in
alcuna garanzia giuridica” (Fraenkel 1983, 13).
La caratteristica specifica del regime
politico nazista, nella complessa relazione tra Stato e Partito, è nella loro
profonda (seppur conflittuale) interdipendenza.
Questa
interdipendenza segnerebbe, peraltro, il passaggio nel contesto weimariano da
una dittatura commissaria a una dittatura sovrana. Nell’introduzione
all’edizione italiana di questo testo, Norberto Bobbio argomentava che
l’analisi di Fraenkel non costituiva solo una teoria dello Stato totalitario ma
rappresentava una vera e propria analisi dello Stato moderno.
Nel
far questo egli ipotizzava che Fraenkel rivelasse “due facce dello Stato, una
coperta dal diritto, l’altra aperta all’esercizio del potere puro, due facce
dello stato che si ritrovano in diversa misura e in diverso grado in ogni
sistema politico” (Bobbio 1983, xxiii).
Alla
luce di queste osservazioni, egli sosteneva che l’intreccio tra governo
democratico e “arcana imperii” non costituisse una patologia politica o
l’indice di un insuccesso democratico, ma avesse le sue inestirpabili radici in
quella discrezionalità che è propria dell’operato politico, del governare.
Deroga,
prerogativa e poteri di emergenza.
La
differenza tra la logica della deroga e quella della prerogativa è forse chiara
sul piano della configurazione teorica, lo è molto meno nell’articolazione
concreta degli istituti in cui esse si realizzano, e in come queste logiche si
esprimono nei diversi contesti costituzionali o nelle differenti tradizioni
giuridiche e politiche.
Nel
governare i molteplici fattori di crisi che le investono, anche laddove esista
una chiara separazione costituzionale tra un regime ordinario e un regime
d’eccezione, le democrazie hanno fatto ricorso in grande prevalenza a strumenti
diversi e plurali di natura emergenziale.
Questi
strumenti vivono di una separazione “labile” tra normale e straordinario e,
oltre a offrire una maggiore flessibilità d’intervento e un più ampio spazio di
manovra, comportano un costo politico minore rispetto all’attivazione degli
istituti dell’eccezione. Infatti, la garanzia della legittimazione democratica
dell’operato del governo, e la difesa del pluralismo sociale e istituzionale,
rendono politicamente oneroso il ricorso agli strumenti eccezionali.
Eppure,
anche l’adozione di dispositivi emergenziali può produrre profonde e
strutturali distorsioni negli equilibri democratici.
Tra
gli autori che con maggiore chiarezza hanno individuato questo rischio vi è il
politologo statunitense “Clinton Rossiter “che, nel contesto dell’emergere
della contrapposizione tra blocco occidentale e blocco sovietico, poneva il
problema di come conciliare i principi di fondo del governo democratico e
l’adozione di politiche straordinarie necessarie alla sua tutela (Rossiter
1948).
Questi dava avvio alla sua analisi dallo
studio delle procedure e dei poteri eccezionali propri del costituzionalismo
liberale e democratico:
da un
lato quelli propri della “dittatura esecutiva” (Stato d’Assedio, Legge
marziale) e del governo militare, dall’altro quelli della “dittatura
legislativa”.
Le
differenze e le rispettive funzioni di quei dispositivi potevano essere
interpretate distinguendo interventi emergenziali di natura esecutiva
(prevalentemente espressione di speciali prerogative attribuite ai governi) e
interventi emergenziali di natura legislativa, risultato della delega di poteri
speciali all’esecutivo da parte del legislativo.
Nella sua analisi, lo studioso statunitense
sottolineava come questi ultimi sembrassero più adatti a rispondere a crisi di
natura economica e sociale.
Tuttavia, egli metteva sull’avviso dei rischi
di dispositivi istituzionali che potevano sbilanciare la relazione tra
legislativo ed esecutivo.
Sulla stessa questione, e negli stessi anni,
rifletteva Carl Friedrich segnalando nel suo “Constitutional Government and
Democracy” (1950) come i sistemi politici democratici sviluppassero una gamma
di approcci nuovi al tema della sicurezza basati sulla delega crescente di
competenze legislative all’esecutivo.
Anche secondo Friedrich se la logica
“costituzionale” era basata sulla necessità di gestire condizioni di emergenza
e di preservare il ruolo di “custode della costituzione” del parlamento, questi
strumenti potevano avere come esito la distorsione permanente nei rapporti tra
i poteri dello Stato.
Nei
successivi “Constitutional Reason of State” (Friedrich 1957) e nel capitolo “Constitutional
Crisis del suo Limited Government” (Friedrich 1974), egli delineava i principi
di una ragione di Stato costituzionale convinto che il problema delle
democrazie liberali non fosse tanto di saper governare l’eccezione, quanto di
dotarsi di dispositivi politici e istituzionali capaci di offrire l’efficace
gestione delle emergenze senza con ciò indebolire le libertà politiche e civili
e le istituzioni che le garantiscono.
Le
questioni poste da “Rossiter” e “Friedrich”, e reiterate nei decenni che ci
conducono alla fine del millennio, non hanno trovato una risposta univoca, e
sono rimaste sostanzialmente confinate nell’alveo della riflessione giuridica e
politica, pur riemergendo carsicamente nei contesti più “caldi” della
cosiddetta Guerra fredda.
Gli
attacchi terroristi di matrice islamista dei primi anni 2000 hanno riportato
nel dibattito pubblico la necessità di ripensare e adattare alle necessità del
momento gli strumenti a disposizione dei governi democratici per fronteggiare
condizioni straordinarie e minacce esistenziali.
Tra le
proposte più discusse di riforma degli assetti costituzionali, che accoglievano
le preoccupazioni per la tenuta dello stato di diritto suscitate dagli
interventi straordinari adottati, vi è quella del costituzionalista “Bruce
Ackerman”, il quale ha tentato di articolare un vero e proprio modello di
“costituzione di emergenza” (2004) capace di attivare uno stato emergenziale
provvisorio, sufficientemente flessibile e reiterabile, ma legittimato da
maggioranze parlamentari crescenti a ogni riconferma.
Il
modello è chiaramente ispirato all’”istituto della dittatura romana” e alla “costituzione
della Repubblica del Sudafrica”, che egli ritiene particolarmente avanzata in
materia di gestione delle crisi.
Ritenendo
necessari strumenti propriamente costituzionali per l’attivazione di politiche
emergenziali, egli credeva opportuno che tali procedure concedessero ampi
poteri al governo nel brevissimo periodo, ma che fossero rigidamente limitate
dalla necessità di reiterare il consenso all’esecutivo da parte del parlamento
attraverso maggioranze qualificate crescenti.
Oltre
alla collaborazione tra maggioranza e minoranza, col fine di sostenere le
iniziative del governo attraverso la promozione del consenso generale della
cittadinanza via i partiti, “Ackerman “affermava anche la necessità di sistemi
compensativi giurisdizionali ex post per mitigare i costi e le ricadute delle
scelte fatte dall’esecutivo.
La
costituzione di emergenza proposta da” Bruce Ackerman” ha sollevato un ampio
dibattito e suscitato un vivo interesse, ma resta comunque legata alla esigenza
di normare costituzionalmente gli interventi eccezionali in quelle che possono
apparire crisi gravi e immediate.
Tuttavia,
gli eventi degli ultimi trent’anni mostrano una pluralità di momenti critici
nei quali l’emergenza si presenta come persistente, diffusa, con vari livelli
di intensità.
Quindi
non tale da comportare l’attivazione dei dispositivi costituzionali
dell’eccezione.
A
partire da una analisi tipologica dei poteri di emergenza, “John Ferejohn” e “Pasquale
Pasquino” hanno messo in risalto come una teoria dei poteri d’eccezione si
giustifica solo all’interno di un sistema costituzionale di distribuzione del
potere, e che essa modifica sempre e inevitabilmente i rapporti tra i cittadini
e il governo (cfr. Pasquino e Ferejohn 2006; Ferejohn e Pasquino 2006; Pasquino
e Manin 2000).
In caso di urgenza, le costituzioni pluraliste
permettono la delega di poteri al presidente o a una qualche altra istituzione
che possa sospendere o ridurre l’esercizio di diritti o libertà al fine di
preservare l’ordine esistente.
A
differenza del modello costituzionale della dittatura romana, nella quale a
essere investito del potere era un soggetto esterno all’architettura
istituzionale, nelle esperienze democratiche contemporanee vi è sempre un
istituto o una carica interna all’ordinamento che viene investita di poteri
eccezionali, al fine di garantire la continuità del mandato popolare e
democratico.
Anche
nelle esperienze differenti – quella monocratico-parlamentare britannica e
quella presidenziale statunitense – il perno intorno cui ruotano le procedure
di attivazione delle politiche eccezionali o emergenziali è sempre la garanzia
di una qualche continuità nel processo di legittimazione democratica.
Per
questa ragione i regimi democratico-rappresentativi non possono che far ricorso
a strumenti legislativi di gestione delle emergenze che autorizzano la cessione
temporanea di poteri speciali all’esecutivo, così da garantire a quest’ultimo
quella legittimità democratica (rappresentativa) che costituisce un elemento
imprescindibile delle contemporanee democrazie liberali.
Allo
stesso modo, essa deve predisporre strumenti di natura giuridica che
controllino ex post (adjudication) l’operato del governo e dei suoi attori,
rinviando quindi al giudizio alle corti. In tal modo, è possibile dare l’ultima
parola agli elettori e al giudizio espresso da costoro attraverso il voto
(Pasquino e Ferejohn 2004, 2016).
La
risposta “giurisdizionale” dei due studiosi è significativa, e muove il
confronto dal problema delle relazioni tra esecutivo e legislativo al ruolo
specifico del potere giudiziario.
Tuttavia, essa sposta ex post il controllo
sull’operato dei governi, assumendo quali presupposti l’autonomia e
indipendenza del giudiziario (al di qua, quindi di scenari orbaniani o
trumpisti), e l’efficacia del voto quale strumento di giudizio sull’operato dei
governi (al netto della crescente disaffezione democratica e dello scetticismo
dei potenziali elettori).
Certo
è che le difficoltà che i sistemi democratici incontrano a fronte di emergenze
diffuse, più che di crisi costituzionali conservative, pone il problema della
tenuta dei sistemi democratici in una fase storica di concentrazione del potere
esecutivo, di spinte alla governabilità, di pulsioni populiste, tecnocratiche e
autoritarie.
Non che gli strumenti propriamente eccezionali
scompaiano, come mostra il ricorso all’”état d’urgence” in Francia anche per la
gestione dell’ordine pubblico.
Ma
poiché le minacce più gravi appaiono forse meno evidenti e pressanti di quelle
che potevano apparire all’orizzonte della politica internazionale novecentesca,
le risposte degli ordinamenti democratici non assumono la forma eccezionale
della deroga assoluta (la sospensione dell’ordinamento), rimanendo
prevalentemente all’interno del sistema delle politiche pubbliche e delle
procedure istituzionali ordinarie. In contesti in cui la linea di demarcazione
tra il normale e l’eccezionale sembra confondersi, sia perché è più complesso
dichiarare l’eccezione, sia perché le capacità di reazione e di resistenza
delle nostre società appare tale da non rendere le situazioni di emergenza mai
veramente “esistenziali”, diviene decisiva la capacità dei cittadini di
discernere quando l’equilibrio tra i poteri dello Stato, e le relazioni tra lo
Stato e la cittadinanza, scivolano lungo un crinale pericoloso.
Dall’eccezione
alla conservazione.
… La
separazione rigida tra governo straordinario e governo ordinario dell’emergenza
non consente però di cogliere le complessità connessa alla conservazione del
potere politico statuale e di gestione delle crisi. La possibilità
dell’alterazione dei bilanciamenti tra i poteri dello Stato e della sospensione
dello stato di diritto e di parte degli ordini costituzionali è compresente nei
regimi democratico-costituzionali pluralisti.
Il
ricorso alla deroga costituzionale o l’attribuzione all’esecutivo di poteri
emergenziali e di funzioni legislative, al pari degli spazi di discrezionalità
esecutiva, amministrativa e tecnica s’inscrivono in una più complessiva
gestione della sicurezza, che allarga gli orizzonti e le politiche della
conservazione politica.
Nell’analisi
di ciò che si è variamente inteso facendo ricorso alla categoria di eccezione,
questo allargamento richiama alla necessità di non far precipitare l’analisi
delle situazioni critiche alla sola dimensione giuridica, ma anche di porre
l’attenzione sulle dimensioni articolate e plurali del governare e di allargare
lo sguardo ai percorsi dell’esercizio di poteri discrezionali nel contesto
democratico .
A tal
fine è opportuno riflettere sulle differenze tra le pratiche e i dispositivi
istituzionali nel mondo politico antico (exceptio, equitas, provocatio, senatus
consultum ultimum…) o medievale e moderno (deroga, prerogativa, prudenza), e
tener conto di quelle forme paradigmatiche della politica moderna non
riducibili alla sovranità ma alle arti prudenziali di governo e della
conservazione politica (Borrelli 2007; Arienzo e Borrelli 2011).
A parere di chi scrive, è di questa pluralità
che vive l’irrigidimento conservativo delle contemporanee democrazie.
Ed è
questo complesso intreccio che si scorge al fondo del permanente governare
l’emergenza.
In
effetti, oggi gli elementi di crisi del sistema democratico si sommano a quelli
più complessivi concernenti le trasformazioni della sovranità politica, ma
anche di riorganizzazioni del ruolo e della funzione dello Stato in un più
complessivo riassetto dei poteri su scala globale.
In questo contesto, il riferimento continuo
alle emergenze e alle crisi può essere interpretato come una reazione alle
crisi diffuse prodotte dalla globalizzazione, oppure come “l’impuissance
autoritaire de l’État à l’époque du libéralisme” (Goupy 2016).
Una
diversa ipotesi è che esso costituisca il perno di un’opera di conservazione
politica che integra strumenti manageriali, amministrativi, tecnocratici e
comunicativi con i più tradizionali poteri di emergenza.
In tal modo, la conservazione politica fa
proprio un principio di complessità. Attraverso “il ricorso al disordine
controllato dell’emergenza” vediamo quindi all’opera sia gli sforzi di
preservare gli ordinamenti democratico-liberali, sia le spinte al blocco
conservativo della vita democratica:
le
oligarchie nell’affrontare i temi “duri” della politica ricorrono alla più
tradizionale Ragion di Stato; non a caso avanza di nuovo la dimensione
non-democratica del segreto – dell’algoritmo, dell’emergenza, della guerra.
L’instabilità dell’epoca si realizza poi al grado più alto nel perseguimento di
logiche apertamente di potenza da parte di una politica che decide in ultima
istanza di impegnarsi nella lotta per l’egemonia: per la guerra (Galli 2023, 100).
Ecco
perché è forse poco utile rivisitare le categorie schmittiane di eccezione e
stato d’eccezione per argomentare le condizioni complessive di difficoltà oggi
vissute dalle democrazie.
Piuttosto, sarebbe utile chiedersi:
se
tali emergenze costituiscano una caratteristica propria dell’ultima fase della
modernizzazione politica, o piuttosto si debba prendere atto del ritorno
periodico di rischi di azzeramento degli sviluppi pure conseguiti da parte di
modelli di government così ampiamente diffusi (Borrelli 2006, 20).
L’attuale
contesto internazionale ha messo in chiaro la precarietà degli equilibri tra
stato di diritto, garanzie di libertà e sicurezza anche nei sistemi democratici
più consolidati. Gli scenari internazionali mostrano ormai quanto su alcuni
aspetti cruciali di ciò che comunemente è considerato state security, e che
costituiscono alcune tra le principali emergenze democratiche – il controllo
dei flussi migratori, la gestione dei processi di globalizzazione economica e
finanziaria, lo sfruttamento delle risorse energetiche ed ambientali, la
minaccia terroristica, la crisi ambientale –, lo Stato non è più l’unico,
talvolta neppure il più rilevante, attore politico.
Del resto, la stessa nozione di “sicurezza” ha
con sé due accezioni diverse che la lingua italiana non permette di distinguere
con chiarezza.
La
prima, che in inglese si traduce con “safety”, ha un senso di immediata
autoconservazione.
Essa esprime quindi la più comune riflessione
sulla difesa dello Stato e dei suoi interessi vitali, la difesa della nazione e
dell’ordine politico-istituzionale dal nemico esterno e interno.
La seconda, più precisamente espressa tradotta
dal termine security, restituisce un’idea di sicurezza che opera come tutela,
promozione e sviluppo.
Le
emergenze del presente, nella loro complessità, pongono in relazione questi due
diversi significati e i rispettivi campi politici e istituzionali (Arienzo
2008).
Forse
è a partire da questa polarità che possiamo intendere in che modo le democrazie
contemporanee diventano democrazie dell’emergenza:
ossia,
si trasformano in regimi politici che,
pur nel quadro dei vincoli dello stato di diritto e degli ordinamenti
costituzionali, modificano in maniera sostanziale i rapporti tra poteri a
favore dei momenti esecutivi e amministrativi, tendono a ridurre gli spazi
della mediazione rappresentativa a favore dei percorsi della governabilità e
dello sviluppo economico e pongono la gestione delle molteplici crisi ed
emergenze ai diversi livelli locali, nazionali e internazionali come il fine
prevalente del loro operato.
In
questo quadro, si assiste a un particolarissimo ritorno di una ragion di Stato
che assume le forme della concentrazione del potere politico e la manipolazione
e gestione/produzione di paura/incertezza attraverso la cura dell’opinione
pubblica.
Paure,
quindi, mediatizzate e rese strumenti di cattura delle angosce reali dei
singoli alle quali la politica risponde con l’esaltazione della leadership
individuale e delle strutture dei nuovi partiti personali.
Un
fenomeno fortemente regressivo che assume le forme dell’autoritarismo e del
populismo (Ingimundarson e Jóhannesson 2021).
Tutto
ciò avviene in un contesto in cui è una pluralità di soggetti a concorrere alla
gestione delle emergenze, in una frammentata, quanto pervasiva, security
governance globale.
Il
moltiplicarsi delle fratture e degli elementi di crisi politica, economica,
sociale, per lo meno nei paesi con una tradizione democratica e liberale più
solida, sembra piuttosto scorrere, nel lungo periodo, verso le forme di una
governance dell’emergenza che scavalca, sul piano della politica interna, le
forme della mediazione giuridico-politica per aprirsi a politiche emergenziali
plurali e diffuse (Arienzo e Borrelli 2011).
In
conclusione, nel comprendere come gli attuali sistemi democratici rispondano o
producano le emergenze è necessario evitare una duplice errore.
Il
primo è di ridurre ogni emergenza all’eccezione, sulla base del principio che
ogni emergenza o crisi deriva pur sempre da una decisione sovrana originaria.
Una
simile prospettiva non distingue ciò che è necessario per salvaguardare una
comunità democratica da ciò che invece è utilizzato per dominarla. Il secondo è
di fermarsi alla verifica della costituzionalità formale, o della correttezza
procedurale, nel ricorso ai dispositivi politici e istituzionali emergenziali.
Una
tale analisi non coglie i rischi insiti nel ricorso a tali dispositivi in un
contesto di democrazia indebolita.
Si
tratta, invece, di comprendere e verificare i fini e gli obiettivi politici che
di volta in volta muovono le politiche di emergenza (e/o di eccezione) e
intendere – oltre ogni riduzione essenzialista – la pluralità degli strumenti,
dei saperi, delle tecniche a disposizione di chi voglia “preservare” o
“conservare” lo Stato, il benessere dei cittadini, le proprie posizioni di
potere, le relazioni economico-sociali esistenti.
Si tratta di “abbandonare l’illusione che
l’emergenza sia una specie di «fatto» e accettare che […] gli organi
politicamente responsabili dovranno necessariamente emettere un giudizio
epistemico sull’esistenza o meno di un’emergenza” (Pasquino e Ferejohn 2006,
103).
Ma
anche di comprendere che è compito della politica giocare con l’ambiguità
dell’espressione “emergenze democratiche”: discernere, da un lato, ciò che
opera al fine della conservazione – talvolta autoritaria – dell’esistente;
dall’altro lato, la possibilità della trasformazione da ciò che l’emergenza
lascia “emergere” e rivela.
In tal
senso, le emergenze sono sempre critiche, perché sempre ci pongono di fronte
alla decisione:
scegliere
l’imperio della necessità, e operare a garanzia della salvaguardia o della conservazione
di ciò che è, oppure tentare di sfruttare ciò che emerge e che sconvolge il
nostro ordine per farne occasione e opportunità di innovazioni e di
trasformazione dell’esistente.
Tuttavia, questo, più che del Politico e della
sua eccezione, è lo spazio della politica.
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