La guerra cognitiva in democrazia.

 

La guerra cognitiva in democrazia.

 

 

 

Connessi e distratti, ma niente panico.

 «I catastrofisti sbagliano, non abbiamo

perso l’attenzione, l’abbiamo solo adattata».

Starupitalia.eu – (25 -06 – 2025) - Federico Bastiani intervista Daniel Immerwahr – ci dice:

Intervista esclusiva a Daniel Immerwahr, autore di bestseller e firma del New Yorker.

 La sua analisi sulla nuova era della distrazione ha fatto il giro del mondo.

 Ma possiamo sopravvivere tra media adattivi, crisi dell’attenzione e nuove forme di concentrazione.

«Social e rete ci hanno dato nuove distrazioni, ma hanno eliminato molte di quelle vecchie»

Tra le voci più originali e lucide della storiografia contemporanea, “Daniel Immerwahr “si distingue per la capacità di intrecciare analisi storica, riflessione politica e critica culturale.

 Professore di Studi umanistici alla “Northwestern University” e autore, tra i tanti, del saggio” L’Impero nascosto: Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America” (giunto in Italia con Einaudi), è noto per un approccio che decostruisce i miti nazionali e mette in luce le logiche imperiali celate dietro la narrazione ufficiale degli Stati Uniti.

 

 

“Daniel Immerwahr”.

Nel gennaio 2025,” Immerwahr” ha pubblicato su “The New Yorker” un articolo dedicato al bestseller “The Siren’s Call “dell’anchorman “Chris Hayes”, cogliendo l’occasione per una riflessione più ampia sullo stato dell’attenzione nella società contemporanea.

In un’epoca segnata dalla pervasività digitale e dalla dispersione cognitiva, “Immerwahr” individua nella trasformazione del paesaggio mediatico e nella crisi della concentrazione alcuni dei tratti più significativi del nostro tempo.

 Il suo sguardo, al tempo stesso storico e critico, offre strumenti non convenzionali per interpretare il presente, sollevando interrogativi profondi sul futuro della democrazia.

“ StartupItalia” ha raggiunto” Daniel Immerwahr” per approfondire il tema della distrazione e contribuire a smontare alcuni dei luoghi comuni che circondano il dibattito sull’attenzione.

 

“Daniel newyorker”.

L’articolo pubblicato per il “New Yorker”

Intervista a” Daniel Immerwahr”.

Nel suo articolo sul New Yorker, scrive che l’attenzione è diventata non solo una risorsa economica, ma anche politica.

Quali sono le implicazioni più urgenti per l’educazione dei cittadini digitali?

La distrazione serve interessi politici?

Non è una novità, ma sì:

 la distrazione è una forza politica potente.

 Le cose a cui prestiamo più facilmente attenzione raramente coincidono con quelle di cui dovremmo davvero preoccuparci.

Per me, l’esempio più chiaro è il cambiamento climatico.

 Non riesco a pensare a qualcosa di più importante.

 Eppure, non è un tema che cattura facilmente l’attenzione delle persone, almeno non finché non si manifesta sotto forma di catastrofi, quando ormai è troppo tardi.

Quindi quanto è utile “l’alfabetizzazione dell’attenzione”, che insegni non solo a usare gli strumenti digitali, ma anche a distinguere ciò che nutre la mente da ciò che la cattura soltanto?

Penso che le persone siano abbastanza brave a cogliere questa differenza. Riusciamo a percepire, quasi subito, come un’attività o un contenuto ci fa sentire: curiosi? attivi? passivi? entusiasti?

Ed è evidente che molti cercano di concentrarsi su ciò che li fa sentire realizzati. L’interesse crescente per attività come il birdwatching o i dischi in vinile sembra proprio rispondere a questo bisogno.

 

L’articolo che “Daniel Immerwahr” ha scritto per il “New Yorker” è stato ripreso da “Internazionale”.

Nell’articolo lei cita due allarmisti d’eccezione, Socrate che era diffidente verso la scrittura (avrebbe peggiorato la memoria) e Jefferson diffidente verso i romanzi (avrebbero distolto l’attenzione dalle cose importanti).

 Siamo anche oggi troppo allarmisti?

Chi studia la storia dell’attenzione sa che le lamentele di oggi non sono nuove.

Le stesse cose che oggi si dicono dei social media, in passato si dicevano dei romanzi, dei pianoforti, dei manifesti colorati.

 La domanda è se le sfide odierne siano fondamentalmente diverse.

Un motivo per pensarlo è la capacità adattiva dei social media.

“TikTok” si adatta al tuo comportamento per offrirti il contenuto perfetto per tenerti agganciato.

Questo potrebbe renderli più pericolosi rispetto ai media del passato.

Ma non ne sono sicuro.

Nonostante si parli molto di attenzione “frammentata”, sembriamo ancora capaci di concentrarci su ciò che ci interessa.

 

«Non esistono solo i contenuti brevi, la società ci manda altri segnali»

“Chris Hayes” paragona la capacità di concentrarsi oggi a come fare meditazione in uno strip club.

Il pensiero profondo è ancora essenziale oggi?

Il pensiero profondo è importante oggi quanto lo è sempre stato.

La domanda è, stiamo peggiorando nel praticarlo?

È vero che alcuni media, come “TikTok”, favoriscono contenuti brevi.

Ma altri, come i podcast, vanno nella direzione opposta.

 Il “podcaster” più seguito negli Stati Uniti è “Joe Rogan”, le cui interviste, anche su temi molto di nicchia, durano regolarmente più di quattro ore.

Le persone fanno binge-watching, guardando serie per ore, e questo ha portato a trame televisive più complesse.

 Anche gli audiolibri, spesso molto lunghi, sono popolari.

Quindi ricordiamoci che TikTok è solo una parte del paesaggio mediale.

«Quando gli adulti dicono che i giovani “non prestano attenzione”, stanno solo dicendo che non prestano attenzione a noi»

Molti adulti accusano i giovani di essere “meno attenti”.

Ma non si tratta forse di una forma diversa, più distribuita, di attenzione?

Non credo abbia senso dire che oggi siamo più o meno attenti rispetto al passato. È evidente che prestiamo attenzione, solo che forse non lo facciamo alle cose “giuste”.

Quando qualcuno si distrae da un libro per guardare il telefono, sta comunque prestando attenzione al telefono.

Temo che spesso, quando gli adulti dicono che i giovani “non prestano attenzione”, stiano solo dicendo che non prestano attenzione a noi.

 

Daniel.

“Lectio magistralis” di “Daniel Immerwahr” all’”Harvard Radcliffe Institute”.

Lei stesso assegna meno lavoro ai suoi studenti rispetto a quanto ne riceveva lei. È un abbassamento degli standard o un adattamento necessario?

Ho frequentato la stessa università dei miei studenti.

Eppure, assegno loro solo metà della lettura che veniva assegnata a me.

 Se provo ad assegnarne di più, si lamentano (il che va bene) e non la fanno (il che mi dispiace).

Non so bene perché.

 

Che idea si è fatto?

Una teoria è che stiano perdendo la capacità di leggere.

Forse è vero. Ma è anche vero che passano molto tempo a leggere sul telefono. Un’altra ipotesi è che siano semplicemente sovraccarichi, frequentano più corsi, partecipano a più attività, sentono di dover eccellere in tutti questi ambiti in cui io, alla loro età, non dovevo fare.

 I loro curriculum sono molto più ricchi del mio, quando avevo la loro età.

Una terza teoria è che anche quando io ero studente, pochi facevano davvero tutte le letture assegnate.

 

Quindi sta dicendo che non è la concentrazione dei suoi studenti ad essere peggiorata?

Forse non è la lettura a essere peggiorata, ma la didattica a essere migliorata, assegnando oggi compiti più realistici.

 Non so quale teoria sia corretta.

Ma proprio per questo non mi sento di concludere che gli studenti siano peggiorati nella lettura.

 

Eppure, stiamo assistendo a un aumento delle diagnosi di ADHD tra i bambini.

Si dice che la capacità di attenzione stia peggiorando.

Ma non esiste una “capacità di attenzione” astratta e indipendente dal contesto, che si possa misurare nel tempo e tra individui.

 Non possiamo dire: “Anna ha una soglia d’attenzione di tre minuti, mentre Maria ha solo tre minuti di attenzione.”

Questo rende difficile fare le valutazioni che alcuni vorrebbero, per dimostrare un presunto declino dell’attenzione.

 

“Immerwahr Brick”.

Rimane il fatto che sussiste il problema.

È vero, le diagnosi di ADHD sono in forte aumento.

Ma è perché più persone hanno problemi funzionali relativi all’attenzione?

 O perché quei problemi ci sono sempre stati e ora li riconosciamo?

O perché la diagnosi di ADHD è diventata una moda e stiamo esagerando? Probabilmente è una combinazione dei tre fattori.

 

Ho un’amica che ha scelto di crescere sua figlia senza internet, in montagna.

 Come si può resistere a un sistema di distrazione strutturale restando però dentro la società digitale?

Lo capisco.

 Per anni ho vissuto senza wi-fi in casa, a volte senza accesso a internet.

Ho preso uno smartphone solo di recente.

È allettante stare offline.

Ma è difficile farlo restando cittadini pienamente attivi.

Senza smartphone è difficile ordinare al ristorante, fare acquisti, dividere un conto. Senza controllare regolarmente la mail, è complicato mantenere certi lavori.

Ci ho provato, e non è facile.

 

«Internet ci ha dato nuove distrazioni, è vero, ma ha eliminato anche molte di quelle vecchie».

Oggi chi comunica deve scegliere: adattarsi alla logica dell’algoritmo o rischiare l’irrilevanza.

Se pubblico un contenuto di 5 minuti su TikTok invece che da 1 minuto, sto compiendo una micro-ribellione?

I creatori di contenuti hanno sempre dovuto adattarsi ai media che utilizzano. TikTok favorisce le forme brevi.

È un male? Non so.

Anche la conversazione favorisce forme brevi piuttosto che monologhi.

Come nella conversazione, se fai un discorso di cinque minuti, sei un pessimo interlocutore.

E probabilmente non andrai bene nemmeno su TikTok con video così lunghi.

Ma ci sono altri media.

 Su YouTube i video lunghi funzionano. I libri, che la gente continua a comprare e leggere, sono per eccellenza una forma lunga.

 

«I catastrofisti dell’attenzione sbagliano. Non abbiamo perso la capacità di prestare attenzione».

Infatti, nell’articolo segnala fenomeni contrastanti.

 Da un lato vincono Oscar film lunghissimi, dall’altro le serie TV accorciano la durata degli episodi.

Siamo in una transizione culturale nel modo in cui consumiamo attenzione?

Sono più ottimista di certi catastrofisti. Innanzitutto, abbiamo una lunga storia di lotta contro la distrazione.

Alcuni stimoli che una volta ci distraevano, ora non ci colpiscono più, perché abbiamo imparato a ignorarli.

In altri casi, siamo riusciti a trovare soluzioni.

Si ricorda com’era la posta elettronica prima dei filtri antispam?

Mezza casella era pubblicità per pillole miracolose.

E i siti erano invasi da popup.

 Oggi le cose sono cambiate perché abbiamo voluto tecnologie per migliorarle.

 Poi, molte cose oggi sono più facili di un tempo come prenotare un viaggio, organizzarsi, trovare informazioni, tutte cose che una volta richiedevano molto più tempo. Internet ci ha dato nuove distrazioni, è vero, ma ha eliminato anche molte di quelle vecchie.

“Daniel”.

Quindi lei è ottimista sul futuro dell’attenzione della nostra società?

Non è affatto detto che siamo diventati meno attenti.

Prestiamo meno attenzione ad alcune cose, ma più ad altre.

 Il teorico dei media “Neil Verma” ha definito la nostra epoca “l’età dell’ossessione” e ha ragione.

Molti aspetti dei media, della politica e della cultura attuali favoriscono una mentalità ossessiva.

Non so se questo sia positivo, perché anche l’ossessione ha i suoi rischi.

Ma suggerisce che i catastrofisti dell’attenzione sbagliano.

Non abbiamo perso la capacità di prestare attenzione. Possiamo ancora recuperarla.

(Daniel Immerwahr intervistato da Federico Bastiani).

 

 

 

 

Narrazioni strategiche, guerra cognitiva

e futuro del conflitto in Ucraina.

 Glistatigenerali.com - Massimiliano Di Pasquale – (18 Dicembre 2023) – ci dice:

 

Prevedere l’esito di una guerra è impresa ardua, nel caso della guerra russa in Ucraina lo è ancora di più sia perché la posta in gioco per l’aggressore è la ridefinizione di un nuovo ordine mondiale (alcuni ideologi del Cremlino come Aleksandr Dugin teorizzano la fine del mondo unipolare dominato dall’Occidente liberale e il passaggio a un mondo multipolare) sia perché le tante variabili in gioco contribuiscono ad aumentare il livello di complessità del conflitto.

 

 

Il fatto che l’invasione su larga scala del Cremlino in Ucraina sia la prima guerra della storia mondiale in cui le armi non convenzionali (disinformazione, attacchi cyber, terrorismo, false flag operation, guerra psicologica) svolgono un ruolo determinante nell’economia del conflitto grazie alle nuove tecnologie digitali, ai social media, all’intelligenza artificiale e agli avanzamenti nelle neuroscienze e nelle neurotecnologie rende la situazione ancora più complicata.

Per comprendere a che punto sia questa guerra, giunta ormai al suo ventiduesimo mese, e per provare ad azzardare qualche ipotesi sulla sua evoluzione futura è necessario passare in rassegna gli avvenimenti degli ultimi 6-7 mesi, dalla vicenda Prigozhin fino alla guerra tra Hamas e Israele, depurandoli dalle nebbie della dezinformatsiya.

 

Prima di procedere all’analisi è utile che il lettore familiarizzi con alcuni concetti, noti nelle élite intellettuali di paesi dove esiste una cultura della sicurezza nazionale (una democrazia sana e longeva non può prescindere dal tema della sicurezza), come quelli di narrazioni strategiche e guerra cognitiva.

“Alister Miskimmon”, “Ben O’Loughlin” e “Laura Roselle” nel saggio “Strategic Narratives: Communication Power and the New World Order” definiscono la narrazione strategica come “un mezzo di cui si avvale un attore politico per costruire un significato condiviso del passato, del presente e del futuro delle relazioni internazionali al fine di plasmare le opinioni e condizionare i comportamenti di attori all’interno e all’estero”.

 

Le narrazioni strategiche, il cui scopo è creare una percezione distorta della realtà, nell’opinione pubblica e nei decisori politici dei paesi target, al fine di favorire gli interessi geopolitici dello Stato aggressore (nel nostro caso la Russia di Putin), sono uno dei principali strumenti adottati dal Cremlino nella sua guerra cognitiva contro l’Occidente.

 La guerra cognitiva è una forma di guerra in cui il campo di battaglia è rappresentato dalla mente umana.

La guerra cognitiva, attuata dalla Russia e da altre potenze autocratiche del mondo non-occidentale come Cina e Iran, che si avvalgono della disinformazione, della propaganda e delle narrazioni strategiche, rappresenta una delle principali minacce alla stabilità e alla sicurezza delle democrazie occidentali.

Fatta questa premessa teorica, passiamo ad analizzare le narrazioni strategiche che hanno accompagnato i principali avvenimenti della guerra della Russia in Ucraina negli ultimi mesi.

(Chi volesse avere un quadro più esaustivo delle narrazioni strategiche filo-Cremlino sulla guerra in Ucraina dagli albori del conflitto nel 2014 fino al febbraio 2023, può consultare il paper pubblicato su questo tema dalla “Fondazione Germani”).

 

Torniamo per un attimo a metà giugno e al tentativo di golpe del “capo della Wagner Evgeni Prigozhin”, poi rientrato, secondo la versione ufficiale russa, grazie alla mediazione del presidente bielorusso “Lukashenko”.

Quell’episodio che evidenziava una crepa nella verticale di potere di Putin, non certo il crollo della Russia auspicato un po’ ingenuamente da certi sostenitori dell’Ucraina (un analista militare ucraino con cui ebbi modo di parlare in quei giorni sottolineò acutamente come si trattasse di un crack, non del crash del sistema e che tale crack introducesse un elemento di destabilizzazione per Mosca, ma non la vittoria immediata di Kyiv) veniva accompagnato in Italia dai media alternativi che diffondono e amplificano la disinformazione del Cremlino dalla narrazione della rivoluzione colorata finanziata dall’Occidente Collettivo.

 

In un articolo del 24 giugno apparso su l’”Anti Diplomatico”, si sosteneva che Prigozhin e la Wagner, la compagnia di mercenari russi attiva in molti teatri di guerra dall’Africa alla Siria, fossero al soldo di Kyiv e dei servizi occidentali per creare un Maidan a Mosca.

Nonostante Putin abbia ammesso che la Wagner è stata finanziata dallo Stato russo partecipando alla guerra ibrida del Cremlino in Donbas dal 2014 e all’invasione su vasta scala dell’Ucraina nel 2022, le affermazioni complottiste sul coinvolgimento occidentale nelle attività della Wagner hanno trovato terreno fertile anche in Italia.

 

Due giorni più tardi per confondere ulteriormente le acque l’Anti Diplomatico tornava sul tentativo di colpo di stato della Wagner con una narrazione che riprendeva il tema della guerra per procura per distruggere la Russia.

L’articolo sosteneva che l’Ucraina aveva avuto la possibilità di infliggere un duro colpo alle forze russe e di vincere la guerra ma questa opportunità non era stata colta perché non è Kyiv a comandare le forze ucraine, ma Washington e agli Stati Uniti interessa di più la “balcanizzazione” della Russia che la vittoria ucraina.

 

Le narrazioni sulla marcia su Mosca della Wagner, sono solo un esempio, ancorché eclatante di come le vicende belliche vengano strumentalizzate e distorte dalla potente macchina disinformativa del Cremlino al fine di creare una realtà parallela che in Italia non è solo appannaggio dei media alternativi ma anche dei media mainstream.

 È evidente che un ecosistema mediatico di questo tipo finisce per confondere il pubblico e per disorientarlo.

 

Prima di analizzare l’impatto che l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha avuto sugli equilibri internazionali e sul conflitto in Ucraina, vorrei soffermarmi brevemente su un episodio accaduto il 18 settembre che è stato reso noto solo i primi di novembre.

Mi riferisco allo “scherzo telefonico” fatta dai due “comici russi” “Vovan & Lexus”, al secolo “Vladimir Kuznetsov e Alexey Stolyarov” alla premier “Giorgia Meloni”, la quale credendo di parlare con il presidente della commissione dell’Unione africana affronta alcuni delicatissimi temi di politica estera, compresa la guerra in Ucraina.

 

Lungi dall’essere uno scherzo di due burloni, quello effettuato “Vladimir Kuznetsov” e “Alexey Stolyarov”, con molta probabilità due agenti del Cremlino – “Non faremmo scherzi a Putin. Non vogliamo danneggiare il nostro Paese. Non vogliamo disordini qui; non vogliamo fare nulla che possa aiutare i nemici della Russia” – è stata una vera e propria misura attiva il cui scopo era screditare le istituzioni italiane e il governo Meloni, un esecutivo che nelle intenzioni di Mosca non avrebbe sostenuto l’Ucraina ma che alla prova dei fatti si è rivelato europeista ed amico di Kyiv.

Come ha acutamente sottolineato “Jacopo Iacoboni “in un articolo su “La Stampa”, a riprova del “carattere di “operazione” della strana telefonata dei due “comici” russi a Giorgia Meloni, interviene anche “Maria Zacharova”, la portavoce del ministro degli esteri russo “Sergey Lavrov”, sostenendo che Meloni ha legittimato l’elogio di Bandera da parte degli ucraini.

 

Se si ascolta il contenuto della telefonata si scopre che Meloni non ha in alcun modo elogiato Bandera.

La conversazione è stata strumentalizzata da media legati al Cremlino, non solo dalla “Zacharova”, per accreditare la tesi che l’Italia ha un governo fascista che sostiene i nazisti ucraini e li glorifica, che l’Europa è stanca di inviare aiuti militari a Kyiv e che la controffensiva è un fallimento e che dunque l’Ucraina perderà la guerra.

Alcuni media mainstream italiani, anziché gettare acqua sul fuoco su questa vicenda, hanno addirittura amplificato la misura attiva.

È il caso di LA7 che ha invitato i due sedicenti comici permettendo loro di screditare ulteriormente il governo italiano.

Se la leggerezza del Primo Ministro Meloni, che fortunatamente non ha divulgato alcuna informazione riservata né detto nulla di compromettente, è sicuramente da stigmatizzare e mette impietosamente a nudo l’inefficienza di certi protocolli di sicurezza della presidenza del consiglio, è singolare che un programma televisivo italiano finisca, volontariamente o involontariamente questo non possiamo saperlo, per amplificare narrazioni strategiche russe dando spazio a due propagandisti del Cremlino (forse addirittura due agenti), senza fare loro alcuna domanda scomoda.

 

Veniamo ora all’attacco di Hamas del 7 ottobre, avvenimento che è stato usato anche in Italia per consolidare alcune narrative strategiche russe sulla guerra in Ucraina, quali il presunto doppio standard usato per Israele e Ucraina, la teoria cospirazionista per cui il conflitto in Ucraina sarebbe una guerra voluta dalle élite finanziarie che dominano il mondo, l’inutilità e la pericolosità dell’invio di armi all’Ucraina che in realtà finirebbero ad Hamas, il fatto che la guerra in Israele e in Ucraina sarebbero guerre per procura della NATO.

 

Queste narrative, apparse su outlet “alternativi” come “Byoblu”, l’”AntiDiplomatico”, “VisioneTv” e “Geopolitika.ru”, sono approdate nei media mainstream grazie ad opinion maker quali, per esempio,” Alessandro Orsini” e “Alessandro Di Battista,” ospiti fissi di trasmissioni televisive nazionali:

 

Hamas rappresenta il popolo invaso (come l’Ucraina) e Israele rappresenta il popolo invasore (come la Russia) ma i media e i politici italiani non chiedono Leopard, Abrams, F-16, Himar e munizioni per i palestinesi.

 Adesso mi aspetto che i conduttori televisivi italiani passino il loro tempo a chiedere la condanna dell’invasione israeliana della Palestina (Alessandro Orsini, l’AntiDiplomatico)

I centri decisionali non sono più le nazioni come gli Stati Uniti o Israele, ma le élite che usano le nazioni per fare la guerra come già accaduto con lo “Yom Kippur”. Con quella guerra, le élite finanziarie vicine a Kissinger si arricchirono grazie ai petrodollari. La stessa cosa sta accadendo adesso. Anche la guerra in Ucraina, che Zelenskyi perderà, è stata decisa e finanziata dall’élite di Davos.

I militanti palestinesi affermano di possedere armi originariamente destinate all’Ucraina.

I russi in Ucraina e i palestinesi a Gaza combattono contro lo stesso nemico, gli Stati Uniti.

Il conflitto in Ucraina è una guerra per procura.

 L’Ucraina, come Israele, è un semplice strumento dell’egemonia occidentale, arrogante e brutale.

Sia l’Ucraina che Israele sono solo strumenti della geopolitica del mondo unipolare che combatte il mondo multipolare emergente.

Più in generale se analizziamo le narrative strategiche russe sulla guerra in Ucraina diffuse in Italia, prima e dopo il 7 ottobre, osserviamo che l’obiettivo fondamentale del Cremlino è affermare che l’Ucraina non riceverà più alcun aiuto da Stati Uniti e UE perché l’Occidente è impegnato a sostenere Israele, che la controffensiva ucraina è fallita, che l’Ucraina è sull’orlo del collasso per via delle lotte intestine tra il capo delle forze armate “Zaluzhny “e il “Presidente Zelenskyi”, etc.

 

A partire dall’estate 2023 la narrativa sul fallimento della controffensiva ucraina è stata la più diffusa nei media italiani filo-Cremlino.

Ripresa frequentemente anche in ambito mainstream, questa narrativa di disinformazione è stata spesso veicolata avvalendosi dell’uso manipolativo e selettivo di dichiarazioni prese dalla stampa occidentale, attraverso la falsa equazione secondo cui lo stallo della controffensiva ucraina significa necessariamente il suo fallimento e l’inizio della fine per il “regime nazista di Kyiv”.

Alcuni esempi:

Anche la stampa occidentale ammette il fallimento della controffensiva del regime di Kyiv.

Le forze russe hanno già distrutto le armi occidentali con le quali l’Ucraina sperava di rafforzare la propria controffensiva.

La controffensiva ucraina non è in stallo, è un fallimento.

Lo spettacolare fallimento della controffensiva ucraina e il conseguente gioco di scaricabarile tra Stati Uniti e Ucraina suggeriscono che i colloqui con la Russia per congelare il conflitto riprenderanno entro la fine dell’anno.

Il fallimento della controffensiva ucraina, che tutti credevano vincente, è così evidente che Zelenskyi ha licenziato il ministro della Difesa.

La famosa controffensiva ucraina di primavera, annunciata in autunno-inverno e partita in estate, si sta rivelando un disastro.

Ma qual è la reale situazione sul campo?

 

Le parole dell’analista militare “Orio Giorgio Stirpe” fotografano una realtà molto diversa da quella raccontata dagli outlet filo-Cremlino e dai media che diffondono, consapevolmente o inconsapevolmente, le veline del Cremlino.

 

“Scrive Stirpe” in un lungo post su Facebook del 14 dicembre.

“… Bene, cosa ci lascia il 2023 ai fini della conclusione del conflitto in Ucraina?

Ci lascia in una situazione di stallo tattico, in gran parte dovuto all’esaurimento delle scorte e alle condizioni meteorologiche, e in una di contemporanea evoluzione operativa, che lascia un numero di opzioni aperte per la campagna dell’anno 2024.

 Innanzitutto la mia previsione:

come tutti ricorderanno, avevo dato 51% di probabilità che la controffensiva ucraina sortisse l’effetto di far crollare l’esercito russo entro il 2023, e il 49% che questo si verificasse nel 2024. […]

 

L’esito della controffensiva Ucraina del 2023 potrà essere definitivamente giudicato solo al termine del conflitto, ma sicuramente NON può essere definito come un “fallimento”: al massimo come “indeciso”.

Dal punto di vista strategico però, ha debilitato l’esercito russo in una misura rilevante, che si evince proprio dall’andamento dei suoi attacchi ad “Avdiivka”, che sono condotti con le modalità tipiche di un esercito che opera con molti uomini ma per il resto in condizioni di inferiorità qualitativa molto pesante, come i giapponesi nel Pacifico o gli iraniani nel Golfo.

Condizioni ripeto, che all’inizio del conflitto erano opposte.

 Ma allora perché tutta questa enfasi mediatica sul “fallimento” ucraino e sull’imminente “vittoria” di Putin?

 

Perché su un fronte diverso da quello militare, i russi stanno vincendo. Stanno vincendo la guerra informativa, condotta con gli strumenti “ibridi” di cui sono maestri e che sono così letali soprattutto nei nostri (occidentali) confronti”.

La lucida analisi di Stirpe, che invito a leggere per intero, sottolinea alcuni punti fermi.

 

La controffensiva è in un momento di stallo anche perché le armi promesse dall’Occidente non sono state ancora consegnate, l’esercito di Mosca non fa progressi a “Avdiivka” e l’avanzamento di qualche metro è avvenuto al prezzo di un numero esorbitante di perdite umane, la Russia è competitiva solo nell’ambito della guerra informativa.

A parere di chi scrive l’Ucraina ha ottime possibilità di vincere a patto che l’Occidente mantenga fede a quanto promesso in termini di forniture militari e assistenza economica giungendo alla piena consapevolezza che dall’esito del conflitto in Ucraina dipende la sopravvivenza stessa del mondo libero e delle democrazie occidentali.

Siamo a un crocevia della storia!

 

Se da un lato il via libera all’apertura dei negoziati di adesione dell’Ucraina all’Unione Europea del 15 dicembre sono un’ottima notizia per il futuro Kyiv, dall’altro la dirigenza ucraina deve continuare sulla strada delle riforme e aprire a un governo di solidarietà nazionale che coinvolga le altre forze democratiche quali il Partito Solidarietà Europea dell’ex Presidente Petro Poroshenko come suggerito dal giornalista ucraino Vitaly Portnikov in un articolo del 3 dicembre.

Un governo di larghe intese tra il partito di Zelenskyi e le forze democratiche ed europeiste servirebbe a rafforzare l’azione diplomatica di Kyiv a livello internazionale e a rinsaldare i rapporti con un alleato storico come la Polonia di Donald Tusk dal cui supporto, politico, economico e militare, l’Ucraina non può prescindere nella guerra contro il regime genocidario di Mosca.

 

 

 

Netanyahu interrompe gli aiuti a Gaza

 mentre nuovi raid aerei israeliani

 uccidono 35 persone.

  Glistatigenerali.com – Redazione – (26 giugno 2025) – ci dice:

Aiuti sospesi dopo che il ministro Smotrich ha minacciato di abbandonare il governo.

Intanto la questione dei crimini israeliani a Gaza infiamma il Consiglio Europeo di oggi.

Pressioni per sospendere l’accordo di cooperazione UE-Israele.

26 Giugno 2025.

Aiuti sospesi nel Nord di Gaza, dopo che il ministro delle Finanze “Bezalel Smotrich” ha minacciato di abbandonare il governo.

Nel frattempo due attacchi aerei israeliani hanno ucciso oggi 35 persone, secondo fonti negli ospedali del territorio, come riporta “Al Jazeera”.

Il totale include tre persone uccise mentre aspettavano gli aiuti umanitari vicino ai punti di distribuzione, nove persone morte nel bombardamento di una scuola che ospitava sfollati a Gaza città, due persone uccise in un bombardamento del quartiere di “Zeitoun” sempre in città e una uccisa in un attacco a “Jabalia, più a nord.

Sono ormai almeno 549 i palestinesi uccisi mentre cercavano di avere accesso agli aiuti distribuiti dalla “Gaza Humanitarian Foundation” (GHF).

Nelle ultime 24 ore il totale delle vittime uccise dalle forze armate israeliane è salito a 90, a cui vanno aggiunti altre tre morti vicino a “Ramallah” (Cisgiordania), per mano dei coloni.

 

Nel frattempo il dossier degli abusi e crimini commessi da Israele a Gaza infiamma il Consiglio europeo in calendario oggi e domani a Bruxelles.

 Diversi Paesi europei chiedono una presa di posizione forte, fino alla sospensione dell’accordo di cooperazione con Israele, per violazione dei termini dell’accordo da parte di quest’ultimo.

 

In Medio Oriente, «la situazione è critica, c’è un’ampia richiesta di de-escalation», ha detto la presidente del Parlamento europeo, “Roberta Metsola”, al suo arrivo al Consiglio europeo a Bruxelles.

«Dobbiamo assicurarci che il cessate il fuoco (Israele-Iran, ndr) regga e dobbiamo anche lavorare per un cessate il fuoco a Gaza, affinché gli aiuti umanitari vitali tanto necessari arrivino a tutti coloro che ne hanno disperatamente bisogno e per il ritorno di tutti gli ostaggi».

Eppure la mossa di oggi di Benjamin Netanyahu non lascia dubbi:

il primo ministro israeliano è prigioniero dell’estrema destra del suo governo, che con la scusa di voler impedire a Hamas di appropriarsi degli aiuti.

 Netanyahu ha comunque chiesto all’Idf (l’esercito israeliano) di elaborare un piano in 48 ore di consegna degli aiuti che neutralizzi Hamas.

 

«Purtroppo, alcuni Stati membri, importanti Stati membri, hanno deciso di dare priorità ai propri interessi e non ai diritti umani del popolo palestinese.

Vedremo se riusciremo a convincerli oggi, ma anche se non ci riusciremo, persisteremo», ha affermato il primo ministro della Slovenia,” Robert Golob”, al suo arrivo al Consiglio europeo a Bruxelles.

«Ho già ricevuto informazioni dall’alta rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, “Kaja Kallas,” secondo cui Israele viola chiaramente l’articolo 2 in materia di diritti umani a Gaza.

A meno che l’Unione europea non faccia qualcosa di concreto oggi o nel giro di due settimane, allora ogni Stato membro, compresa la “Slovenia “e alcuni dei Paesi che condividono la nostra stessa visione, dovranno fare i prossimi passi da soli.

E siamo pronti a farlo perché è giunto il momento di non limitarci a mostrare solidarietà, ma di esercitare una vera pressione sul governo israeliano».

 

Più netta la Spagna:

«A Gaza c’è una situazione catastrofica di genocidio:

appoggiamo la richiesta dell’Onu di accesso degli aiuti, di cessate il fuoco e andare avanti verso la soluzione dei due stati», ha dichiarato il premier Pedro Sanchez. «Israele sta violando l’articolo due, quello sui diritti mani, dell’accordo tra Ue e Israele: oggi chiederò la sospensione immediata di questo accordo».

«Il cuore sanguina pensando all’Ucraina, alla situazione tragica e disumana di Gaza, e al Medio Oriente, devastato dal dilagare della guerra», ha detto oggi “Papa Leone”, ricevendo in udienza i partecipanti all’assemblea plenaria della “Roaco”, la “Riunione delle Opere per l’aiuto alle Chiese Orientali”.

 

«Abbiamo sentito anche una forte necessità dentro alla famiglia socialista di alzare la voce su Gaza, non solo per il cessato il fuoco, la liberazione degli ostaggi e gli aiuti umanitari, ma anche per sospendere l’accordo di cooperazione Ue-Israele. Quello che noi chiediamo è un embargo totale di armi da e verso Israele, sanzioni per il governo di Benjamin Netanyahu, il riconoscimento dello Stato di Palestina», ha dichiarato la segretaria del Partito democratico, “Elly Schlein”, uscendo dal prevertice del gruppo S&D in vista della riunione del Consiglio europeo.

 

Quella riunione segreta d’emergenza

delle élite mondialiste in Italia.

Lacrunadellago.net – (24/06/2025) – Cesare Sacchetti – ci dice:

 

I vari club del mondialismo, si sa, amano chiudersi in lussuosi alberghi a 5 stelle per decidere le sorti del mondo.

Dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, ha iniziato a diffondersi l’abitudine sempre più frequente nelle democrazie liberali Occidentali di tenere riunioni annuali in vari luoghi del Nord-America e d’Europa per prendere le decisioni che avrebbero dovuto poi essere eseguite dai vari governanti.

Nel 1954, ad esempio, il politico polacco “Jozef Retinger” il “gruppo Bilderberg”, uno dei circoli delle élite più importanti della storia dell’900, ma ciò nonostante si fa fatica a trovarne menzione nei libri di storia scritti dai vari storici liberali, sempre attenti a non svelare le vere dinamiche che governano le democrazie liberali.

(Jozef Retinger).

Al Bilderberg partecipano personaggi della politica, del giornalismo, dell’alta finanza e dell’industria globale, e questo club è uno di quelli più di rilievo nella impalcatura del mondialismo per decidere in quale direzione deve andare il mondo.

E’ nelle riunione di questa società segreta che si è deciso, ad esempio, che “Bill Clinton” sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti nel 1993, nonostante il governatore dell’Arkansas avesse già alle sue spalle una carriera piena di ombre e di scandali che non hanno mai visto alla luce del sole a causa delle strani morti di tutti i testimoni che avrebbero potuto mandare in rovina sia l’ex presidente americano sia la sua “illustre” consorte, Hillary Clinton, l’ex segretario di Stato dell’amministrazione Obama.

 

I “think tank” e i “circoli del mondialismo” sono vari e ogni Paese ha la sua succursale di riferimento.

 

Ad esempio, nel caso della Gran Bretagna lo è certamente la “Chatam House” voluta dalla” famiglia Rothschild”, mentre nel caso dell’Italia oltre all’”istituto Aspen” fondato dalla” famiglia Rockefeller”, c’è certamente il “club di Cernobbio”, ovvero il “forum Ambrosetti” che prende il nome dal suo fondatore, l’”economista Alfredo Ambrosetti”.

 

“Ambrosetti “è uno di quegli uomini che sussurra ai potenti ed è uno degli storici organizzatori del citato “Bilberberg”.

“Cernobbio” nasce probabilmente proprio per soddisfare l’esigenza di impiantare anche in Italia una succursale del “gruppo Bilderberg” per assicurarsi che anche la politica italiana fosse ligia alle direttive ricevute da tali poteri.

Alle riunioni di questo rilevante think tank si trovano, non a caso,  personaggi di assoluto rilievo come “Carlo Azeglio Ciampi”, membro del gruppo Bilderberg, “Bill Gates”, l’ex magnate di Microsoft e signore dei vaccini legatissimo al cartello farmaceutico, “Gianni Agnelli”, altro sodale del Bilderberg e del club di Roma vicino alla grande eminenza grigia del mondialismo, “Henry Kissinger”, “Giulio Tremonti,” presidente del citato “istituto Aspen”, “Romano Prodi”, membro anch’egli del Bilderberg e del club di Roma, l’attuale capo dello Stato, “Sergio Mattarella”, molto vicino alla “Commissione Trilaterale dei Rothschild”, e persino un pontefice come “Benedetto XVI”.

 

A “Cernobbio”, se si volesse utilizzare una metafora pronunciata in confidenza da uno degli appartenenti di questi circoli, si mettono in poche parole le posate sulla tavola e si decidono i posti che ognuno deve prendere nella tavola della politica italiana, così come nei circoli mondialisti d’Oltralpe si decidono le varie direttive e incarichi che andranno assegnati ai vari politici dei Paesi Occidentali.

 

In pratica, l’essenza della democrazia liberale si racchiude tutta in questi centri del potere privati, nei think tank, nelle fondazioni, e nelle logge massoniche che privatizzano la politica e impongono ad un determinato Paese la linea da seguire, oltre ovviamente a stabilire quali saranno gli uomini chiamati ad eseguire quell’agenda.

Non stupisce quindi che il “forum Ambrosetti” abbia ricevuto l’elogio di università angloamericane, come quella della “Pennsylvania” che lo ha definito il più prestigioso think tank italiano non certo per la qualità o la rettitudine dei suoi membri, ma soltanto perché il forum in questione segue le linee tracciate dal “vero potere” che conta.

 

Riunione d’emergenza a Cernobbio.

La prossima riunione in programma di tale esclusivo circolo è prevista per il prossimo settembre, eppure secondo importanti fonti dei servizi italiani che hanno raggiunto tale blog, la passata settimana ci sarebbe stata una sorta di anticipazione del forum, ma senza alcuna pubblicità da parte degli organi di stampa, nella massima segretezza possibile.

 

Sulle incantevoli sponde del lago di Como e sotto i magnifici affreschi di villa d’Este, è andata in scena quella che può definirsi una riunione di emergenza, alla quale hanno partecipato rappresentanti governativi di Francia, Germania, Gran Bretagna assieme ai vari esponenti del governo israeliano, in particolar modo membri del famoso, o famigerato, servizio segreto del Mossad.

 

Villa d’Este.

 

Secondo tali fonti, in questo parterre istituzionale governativo d’eccezione, ci sarebbe stato anche un peso massimo dello stato profondo italiano come “Mario Draghi”, l’ex presidente del Consiglio ed ex governatore della BCE, già noto per la famigerata svendita della industria pubblica italiana avvenuta a bordo del panfilo del Britannia.

 

Gli argomenti sul tavolo sarebbero stati diversi, ma i più prioritari avrebbero riguardato la guerra israelo-iraniana che sta mandando in crisi lo stato ebraico, uno degli elementi più importanti, se non il più importante, di tutta l’architettura di potere sorta dopo il 1945 che i vari analisti degli organi di stampa amano chiamare “ordine liberale internazionale”.

 

Il conflitto non ha preso affatto la piega sperata da Tel Aviv.

Secondo quanto dichiarato dal colonnello americano “Mac Gregor”, almeno un terzo della capitale israeliana sarebbe danneggiata o distrutta, e a giudicare dalle immagini che si sono viste sui vari canali che stanno seguendo da vicino la guerra, non sembra essere una valutazione avventata.

La devastazione di Israele dopo i bombardamenti iraniani.

 

I missili iraniani si stanno rivelando estremamente precisi e avanzati, tanto da dimostrare un “progresso tecnologico sotto certi aspetti superiore” non solo certamente a quello dello stato di Israele ma anche a quello di diversi Paesi NATO che non dispongono certo di tali armamenti.

Israele ha messo in atto una mossa della disperazione.

 

Nel folle tentativo non di mettere fine al programma nucleare iraniano, ma di provare a rovesciare il governo iraniano, Tel Aviv si è giocata il tutto per tutto e ha lanciato un attacco all’Iran nella vana speranza che gli Stati Uniti venissero in suo soccorso.

Secondo fonti di intelligence libanesi, il presidente degli Stati Uniti, Trump, era informato in anticipo dei piani di Israele, e aveva espressamente avvertito il governo di Tel Aviv di astenersi da una simile azione, fino a sottolineare che se lo stato ebraico avesse deciso di attaccare, avrebbe dovuto sbrigarsela da sola.

 

48 ore fa, Trump ha dato prova ancora una volta di conoscere molto bene l’arte dell’inganno e della dissimulazione attraverso un “attacco” concordato con Teheran a tre siti nucleari che sono rimasti perfettamente intatti e funzionanti, e attraverso tale mossa, il presidente non solo ha tolto agli israeliani il pretesto in base al quale chiedevano l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, ma ha dimostrato al mondo intero che a Tel Aviv non importa nulla dei presunti programmi nucleari iraniani.

A concludere questa messinscena concordata, è stata la “risposta” dell’Iran che ieri ha bombardato una base americana vuota, quella di “Al-Ubeid” nel Qatar, avvertendo prima sia Doha che Washington a dimostrazione, come scritto nel precedente articolo, che nessuno vuole farsi male in questa storia e che tutti vogliono tenersi fuori dai piani guerrafondai di Israele.

 

Israele in tale storia voleva soltanto una cosa.

 Voleva rovesciare il governo di Teheran.

 

Voleva più semplicemente installare al posto dell’ayatollah Khamenei la” famiglia reale dei Pahlavi” che sono nelle mani dell’anglosfera e delle varie lobby sioniste ed ebraiche, tanto che piuttosto che condannare i crimini di guerra che stanno uccidendo iraniani innocenti si sono schierati dalla parte dei carnefici e degli assassini del popolo iraniano.

 

Israele, in altre parole, vorrebbe ancora una volta aprire il manuale della CIA e del Mossad alla voce “regime change” per ripetere l’operazione compiuta 22 anni prima, ai tempi della guerra in Iraq, concepita per rovesciare Saddam Hussein, considerato d’intralcio alle mire espansioniste di Sion, e rimosso anch’egli sotto il falso pretesto del possesso delle armi di distruzione di massa che non sono mai state nelle mani dell’Iraq, ma che invece sono in quelle dello stato di Israele sin dai tempi dello scontro di Ben Gurion con il presidente Kennedy.

 

A Cernobbio, c’è viva preoccupazione da parte dei rappresentanti delle varie cancellerie europee, e l’ordine che sarebbe stato trasmesso dai vari membri dei think tank del globalismo, è quello di non far trapelare nulla di quanto sta realmente accadendo in Israele.

 

Sulla stampa italiana ed europea deve passare il messaggio che è l’Iran che sta crollando, che il suo governo è in fuga, come ha scritto qualche propagandista di Sion su X, e soprattutto non si devono vedere immagini dei missili iraniani che vanno a bersaglio.

 

Ad anticipare il blackout mediatico è stato lo stesso esercito israeliano che ha ordinato ai giornalisti internazionali di chiedere il permesso di trasmettere da un determinato luogo colpito, e qualora i danni e i morti fossero troppo alti, allora l’autorizzazione sarebbe probabilmente negata.

È un divieto abbastanza impossibile da rendere effettivo perché nell’epoca moderna ognuno è dotato di telecamera attraverso un cellulare, e gli smartphone che le multinazionali hanno messo in mano alle persone per inebetirle, si sono rivelati, almeno in questo caso, un micidiale boomerang.

 

Si vuole evidentemente provare a nascondere la profonda crisi di Israele che non sta solo vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia con i suoi cieli che vengono violati sistematicamente e con facilità dai missili iraniani, ma anche una crisi politica e istituzionale che non viene ovviamente raccontata dagli organi di stampa.

Non è stato raccontato, ad esempio, di quanto accaduto al capo del Mossad, “David Barnea”, che, secondo i media indiani, sarebbe stato all’interno del quartier generale del servizio segreto israeliano dopo l’attacco iraniano che avrebbe ucciso “Barnea.”

 

(David Barnea).

Non una parola è stata detta sulle sorti del capo di uno dei servizi segreti più noti al mondo, così come non è stata detta una parola sul comandante della Marina israeliana, “David Saar Salama”, anch’egli probabilmente ucciso dai missili dell’Iran.

Stamane, è giunto l’annuncio da parte del presidente Trump che un cessate il fuoco è stato raggiunto tra Israele e Iran, ma i problemi politici e militari dello stato ebraico sono ancora tutti lì, probabilmente ancora più gravi di prima, perché Teheran da questa prova di forza sta uscendo rafforzata e praticamente non scalfita dai tentativi di Israele di rovesciare il suo governo, mentre Tel Aviv si guarda intorno e vede la devastazione creata dai missili iraniani con diversi ufficiali governativi e militari che esprimono sempre più apertamente il loro malumore di fronte a tale sfacelo.

 

Papa Leone XIV: un papa sgradito all’establishment.

A Cernobbio, i vari rappresentanti del mondialismo non hanno comunque parlato soltanto di Israele e della preoccupazione che questo stato possa crollare, ma nell’agenda della riunione riservata ci sarebbe stato anche il pontificato di papa Leone XIV.

Dopo un iniziale tentativo da parte degli organi di stampa di associare la figura di questo pontefice a quella di Francesco, nel mondo dei vari “cattolici” liberal-progressisti si sarebbe diffuso un certo malumore nei confronti di questo papa che si sta rivelando molto diverso dal suo predecessore.

Ad esprimere per primo la sua opposizione nei confronti del Santo Padre, è stato il cardinale militante di Sant’Egidio, “Matteo Zuppi”, molto vicino a Francesco, che ha definito “freddo” il papa per aggiungere poi che c’è nostalgia verso Bergoglio.

 

(Zuppi assieme a Francesco).

Zuppi si è espresso così alla festa di Repubblica, il quotidiano “house organ” della sinistra progressista italiana anti-clericale, perché, a quanto pare, il porporato si trova molto a più suo agio negli ambienti ostili al cattolicesimo che in quelli invece vicini alla tradizione.

Se Zuppi ha deciso di parlare apertamente contro Leone, lo storico fondatore di Sant’Egidio, “Andrea Riccardi”, già vincitore del premio Kalergi, ha preferito invece ancora giocare la carta del buon viso a cattivo gioco attraverso la sua dichiarazione nella quale afferma che Leone sarebbe stato scelto da Francesco in persona, ma dietro le quinte la storia sarebbe molto diversa.

Secondo fonti vaticane ben informate, il patron di Sant’Egidio non gradirebbe affatto il Santo Padre e lo considererebbe ostile all’agenda immigrazionista della comunità nota come l’ONU di Trastevere.

Tra le prime azioni del pontefice, c’è stata quella di avviare una generale revisione dei conti delle casse del Vaticano disastrate dalle scellerate scelte del suo predecessore “francescano” che tra le sue varie “imprese” ha compiuto quella di prosciugare le casse dell’obolo di San Pietro nella disgraziatissima operazione della casa di Londra, costata alla Santa Sede l’enorme cifra di 300 milioni.

Leone risulta che abbia avviato una sorta di “spending review”, per utilizzare la terminologia cara ai vari tecnocrati, e nei tagli che ha deciso di attuare ci sarebbero anche proprio quelli a favore di Sant’Egidio.

Ai tempi di Bergoglio, c’era un idillio tra il papa e Riccardi che forse non si era visto nemmeno nell’epoca di Wojtyla, che pure è stato il pontefice che ha aperto le porte del Vaticano a Sant’Egidio, sino a darle l’incarico di organizzare il famoso, o famigerato, incontro interreligioso di Assisi nel 1986 al quale hanno partecipato esponenti di vari religioni, in quelle che sembrarono essere le prove generali della religione ecumenica mondiale che il Concilio Vaticano II si proponeva di instaurare.

 

Francesco aveva una vera e propria ossessione per il migrante o immigrato clandestino, tanto che nel suo pontificato l’africano che lasciava la propria terra attraverso il contributo dei trafficanti di esseri umani, su tutti le ONG di Soros, diventava una novella figura cristica degna di venerazione.

Sant’Egidio che si occupa appunto del transito di migranti non poteva che essere il naturale interlocutore di Bergoglio che decise di istituire un apposito dicastero, quello del servizio dello sviluppo umano integrale, un nome che ricorda molto quello di una ONG attiva per i diritti umani, attraverso il quale sono affluiti diversi fondi alla comunità di Riccardi.

 

Papa Leone avrebbe deciso di mettere un freno a tali progetti immigrazionisti, e tra le prime vittime di questi tagli, ci sarebbe proprio Sant’Egidio che in pubblico continua a elogiare il papa, ma dietro le quinte non nasconde la sua ostilità nei suoi confronti.

La dichiarazione di Zuppi è stata l’inizio, un primo segnale che i modernisti bergogliani sono sul piede di guerra e sono pronti a scatenare una feroce opposizione contro questo pontificato che minaccia di invertire la rotta e riportare la Chiesa su un cammino non più secolare o forse si dovrebbe dire marxista-protestantico, ma su quello del Vangelo.

 

Il Santo Padre non sembra essersi affatto intimidire dalle parole di Zuppi, e in uno dei suoi ultimi discorsi è sembrato rispondere per le rime non solo a lui, ma a tutti quei prelati che al posto della missione evangelica e della salvezza delle anime hanno messo gli interessi dei vari circoli del progressismo e degli istituti globalisti che hanno alla base un’agenda secolare e profondamente anticristiana.

 

Il papa è stato chiaro, inequivocabile.

La Chiesa non è un partito, né tantomeno una ONG di natura liberal-progressista come purtroppo il Concilio Vaticano II l’ha resa più simile.

Ad essere preoccupati da questo pontificato non sono soltanto i membri della massoneria ecclesiastica, già in allerta, ma anche i vari esponenti della libera muratoria laica che, come si vede, iniziano a riunirsi per discutere il da farsi verso un pontefice che sta suscitando un risveglio della fede e un riavvicinamento dei giovani, da tempo disillusi e scristianizzati da questa società del vuoto secolare, figlia del disgraziato ’68, il parto malato della scuola di Francoforte.

Leone è forse il papa che da tanto tempo i cattolici stavano aspettando e ciò non è gradito ai signori del mondialismo che hanno visto crollare negli ultimi anni vertiginosamente la loro influenza dopo la caduta dell’impero americano e la crisi della NATO abbandonata dagli Stati Uniti, e ora con il declino dello stato ebraico.

Una intera impalcatura scricchiola e il cambio di rotta della Chiesa sarebbe uno dei definitivi colpi di grazia ad un progetto che era stato concepito e costruito in più di 100 anni di storia.

Sembra essere iniziato l’ultimo ciclo dell’epoca globalista del secolo scorso, ed è certamente quello più delicato e decisivo.

I vari appartenenti di questi poteri sono all’angolo e sono pronti a mosse della disperazione pur di provare a rovesciare il tavolo, e sarà proprio in tale fase che occorrerà vigilare e sperare che non ci siano altre vittime, come quelle che ci sono state dopo la pantomima dell” attacco” di Trump.

 

Non sono passate poche ore da quel falso attacco, che si è infatti improvvisamente riattivato il fenomeno del terrorismo “islamico” negli Stati Uniti e in Siria, la cui natura non è affatto spontanea, ma artificiale e gestita sin dai primi istanti dalle varie agenzie di intelligence americane e israeliane che si sono servite di esso per scatenare guerra e devastazioni a tutti coloro che venivano considerati “nemici” dallo stato ebraico.

È una fase particolarmente delicata perché la bestia è gravemente ferita, e prima di soccombere, come ha detto lo stesso governo israeliano, proverà a tirare i suoi ultimi e violenti colpi di coda.

 

In tale scenario di generale disfacimento, l’Italia sembra essere stata scelta come uno degli ultimi fortini dell’establishment per una ragione alquanto semplice.

La corrotta classe politica del Paese dopo aver perduto la protezione dell’impero americano si è messa a completa disposizione delle élite europee pur di provare a mettersi in salvo.

Se ne è avuto un saggio quando ad aprile i rappresentanti delle istituzioni della “repubblica di Cassibile” diedero vita a quella ignobile sceneggiata per ricevere re Carlo, e se ne ha ora una ulteriore prova attraverso la scelta delle élite globaliste di tenere una riunione segreta in Italia.

 

Il mondialismo evidentemente è ben consapevole che la sua fine si fa sempre più vicina.

 

 

 

La Sconfitta Israeliana

 è Evidente.

Conoscenzealconfine.it – (25 Giugno 2025) - Daniele Perra – ci dice:

 

Ad oggi, si può affermare con una certa cognizione di causa che l’operazione israeliana “Rising Lion” sia stata un totale fallimento.

Il programma nucleare iraniano è solo parzialmente scalfito.

Il dominio aereo non è sufficiente.

Netanyahu non è riuscito a spingere gli Stati Uniti ad entrare direttamente nel conflitto (nonostante l’attacco piuttosto debole, e molto di facciata, ad alcuni siti nucleari iraniani).

 

Israele non può colpire in modo pesante le infrastrutture petrolifere iraniane, troppo importanti per un “peso massimo” come la Cina, che non può essere indispettita più di tanto (visti i tanti interessi economici anche in Israele).

Il “cambio di regime” a Teheran è ben lontano dal realizzarsi, a prescindere dallo scongelamento dell’impresentabile” Reza Ciro Pahlavi” (chi pensa che gli iraniani lo vogliano alla guida del loro Paese ha seri problemi mentali).

 

La diplomazia di Russia, Cina e Pakistan è stata fondamentale, quantomeno per fare capire a Washington che avrebbero partecipato alla partita in caso di un allargamento del conflitto.

L’Iran ha ampiamente dimostrato che Israele può essere colpito (anche con una sostanziale facilità) e, al contempo, che non cerca alcuno scontro diretto con gli Stati Uniti (e gli attacchi “telefonati” alle basi USA nella regione ne sono la prova evidente).

Questa, tuttavia, rimane solo una fase.

Se la questione dovesse chiudersi così, la sconfitta israeliana è evidente.

Se dovesse continuare, il rischio di un crollo di Tel Aviv potrebbe seriamente portare gli Stati Uniti a correre in aiuto del suo “alleato” (rimane difficile chiamarlo così visti i danni che la lobby sionista ha portato alla politica estera USA).

(Daniele Perra).

(ariannaeditrice.it/articoli/la-sconfitta-israeliana-e-evidente).

La Pazza Teoria: Trump e

 Khamenei Sono d’Accordo?

Conoscenzealconfine.it – (24 Giugno 2025) – Redazione -Renovatio1.com – ci dice:

Una vertiginosa speculazione corre in queste ore in rete, e oltre: il presidente americano Trump e l’ayatollah Khamenei avrebbero, in sostanza, una sorta di accordo.

La speculazione su questo paradossale scenario parte infatti dall’uccisione da parte degli Stati Uniti del leader militare iraniano “Qasem Soleimani “nel 2020 e dall’attacco di risposta dell’Iran, che secondo il presidente Trump è stato essenzialmente un atto di guerra.

 

In un’intervista rilasciata alla “Fox News nel 2020”, Trump aveva affermato che il regime iraniano aveva fatto sapere agli Stati Uniti che avrebbero colpito una determinata area “al di fuori del perimetro” per far sembrare che stessero reagendo all’attacco di” Soleimani”, quando in realtà era tutto uno spettacolo.

 

“Ci hanno fatto sapere: ‘non muovetevi. Vi dovremo colpire psicologicamente’. Sapevamo che non avrebbero colpito all’interno del forte”, aveva dichiarato Trump all’epoca, spiegando che l’Iran stava semplicemente cercando di “mostrare forza” ai soggetti più intransigenti al suo interno, puntando intenzionalmente i missili dove non avrebbero danneggiato le truppe statunitensi e implorando Trump:

“per favore, non attaccateci. Non vi colpiremo”.

Come noto, gli attacchi USA non hanno prodotto vittime, e sembrerebbe pure non vi siano vere fughe di radiazioni.

A portare avanti la teoria dell’accordo sostanziale Washington-Teheran è un commentatore molto noto sul social X, Lord Bebo.

Tenendo conto della dichiarazione di Trump del 2020, Lord Bebo ha scritto un riassunto come possibile spiegazione ai raid di sabato:

 

1) Gli impianti nucleari iraniani sono stati evacuati e le attrezzature sono state spostate con giorni di anticipo.

2) Gli Stati Uniti hanno annunciato pubblicamente e reso visibili i prossimi attacchi. Abbiamo visto tutti i bombardieri muoversi sul posto e la copertura mediatica che prevedeva l’attacco.

3) Gli Stati Uniti hanno quindi colpito un impianto nucleare iraniano vuoto, poiché gli iraniani lo sapevano e lo avevano evacuato.

4) I satelliti statunitensi hanno mostrato l’evacuazione delle strutture da parte degli iraniani, quindi gli americani sapevano che le strutture erano vuote e non operative.

5) Gli Stati Uniti e l’Iran avevano tenuto dei colloqui segreti in Oman pochi giorni prima, ma nessuno sa cosa fosse stato concordato.

6) Trump ha sostanzialmente spiegato che un accordo del genere era già stato concluso in precedenza.

7) L’unica conclusione logica è che l’Iran e gli Stati Uniti abbiano stretto un accordo segreto per porre fine alla guerra. In sostanza: Gli Stati Uniti colpiscono le strutture vuote – L’Iran reagirà ma mancherà il bersaglio.

“Basta aspettare la risposta dell’Iran. Non le parole, ma la reazione fisica” scrive il Bebo. “Se non è troppo dura con le vittime, ma sembra grande… ho ragione. P.S.: È un’osservazione geopolitica che ho fatto. Potrei sbagliarmi. La gente deve capire che i governi non ci dicono la verità il più delle volte e che non tutto è come sembra. Le autorità hanno bisogno del consenso, quindi fanno degli spettacoli “.

 

“Non arrabbiatevi. Consideratelo solo come un possibile scenario. Non sono qui per ripetere i discorsi dei media tradizionali di nessun paese, qui hai la sfumata posizione intermedia che ritengo giusta”.

L’idea potrebbe trovare qualche conferma in notizie che escono dall’area.

 Una fonte politica iraniana di alto rango avrebbe dichiarato all’agenzia di stampa della Penisola Arabica “Amwaj Media” che il team di Trump “avrebbe dato preavviso dei bombardamenti di siti nucleari e insistito sul fatto che fossero intesi come ‘un caso isolato’ “.

Vi sarebbero insomma segnali del fatto che Trump abbia voluto ripetere quanto accaduto nel gennaio 2020 con l’uccisione di “Soleimani” e la simbolica rappresaglia iraniana.

 

Così si spiegherebbe lo strano, roboante videomessaggio delle scorse ore, che sembrava una dichiarazione di un conflitto finito piuttosto che di una guerra cominciata.

In questo senso andrebbero pure letti i riferimenti continui ad Israele, sul quale pure Trump, in un inedito per un presidente USA, aveva invocato la protezione di Dio, prima che addirittura per gli Stati Uniti.

 

Proprio Israele potrebbe essere l’oggetto di tutto il kabuki.

 Si tratta di una manovra per, nel medio termine, sbarazzarsi di Netanyahu, che continuerà a domandare istericamente altri attacchi ficcandosi in un vicolo cieco?

È noto come, nemmeno tanto dietro le quinte, Bibi non goda della simpatia di Trump.

Probabilmente, il premier dello Stato Giudaico ha esaurito il credito anche presso altre capitali:

è possibile pensare che anche Mosca sia un po’ stanca del personaggio, divenuto ancora più problematico da quando si è attorniato dalla gang messianica sionista (definizione del giornale israeliano Haaretz) che governa con lui e di cui lui oramai fa parte.

 

E Netanyahu, dicono in vari, è obbligato alla guerra (alle guerre) per altri motivi, non nobilissimi:

lo aspettano, qualora perdesse l’incarico di premier, alcuni processi: questa è quantomeno la percezione che hanno molti suoi oppositori, che prima del 7 ottobre 2023, ricorderete, riempivano le città israeliane con oceaniche manifestazioni di protesta.

 

A questo punto tutto è possibile: sorprende vedere un politico della Florida (cioè, uno degli Stati dove l’elettorato ebreo conta di più), saltare sopra la pazza idea dello scontro solo simbolico con Teheran:

“ Matt Gaetz”, che forse ha qualche sassolino nella scarpa da quando lo hanno silurato come ministro della Giustizia USA (Attorney General), va oltre e in queste ore arriva a parlare di un Medio Oriente senza atomiche… comprese quelle di Israele.

 

Avete letto bene: il giovane ex deputato floridiano chiede la fine del programma nucleare militare (segreto, illegale) dello Stato degli ebrei.

Ciò potrebbe rappresentare qualcosa di enorme: la castrazione atomica di Israele, una prospettiva semplicemente inimmaginabile.

Toccare l’atomo dello Stato Ebraico può avere conseguenze incredibili.

Alcuni sostengono che i Kennedy siano morti proprio per questo, perché si opponevano all’Israele nucleare.

Tuttavia, si tratta certamente, come per ogni progetto di disarmo atomico, di una prospettiva di pace.

E Trump, ha detto varie volte, vuole che la pace sia il suo vero lascito.

C’è da credergli?

 C’è da pensare che stia davvero operando, nell’iperuranio del deal maker, con mosse di tale sofisticazione?

Adesso non possiamo dirlo…

(renovatio21.com/la-pazza-teoria-trump-e-khamenei-sono-daccordo/).

 

 

 

 

Avremo vita eterna grazie

all’intelligenza artificiale?

 

  Indiscreto.org – (29/11/2023) – Redazione - Moritz Riesewieck e Hans Block – ci dicono:

Se la tecnologia fosse in grado di reagire a impulsi non verbali, vibrazioni nell’aria, o capire semplicemente le esternazioni di sentimenti, l’interazione tra esseri umani e macchine salirebbe a un nuovo livello.

Questo articolo è un estratto da “La fine della morte“, di Moritz Riesewieck e Hans Block, edito da Edizioni Tlon.

(Moritz Riesewieck e Hans Block)

 

Bobok, bobok, bobok.

«Bobok, bobok, bobok».

Durante il funerale di un lontano parente,” Ivan Ivanovich”, il protagonista del racconto “Bobok” di Dostoevskij, sente degli strani rumori.

 «Bobok, bobok, bobok». Non riesce a capire il brusio.

Che stanno dicendo?

Con il suo racconto Dostoevskij schiude un mondo fantastico in cui riporta in vita i morti.

 

Lo scrittore solitario e senza successo “Ivan Ivanovich” fa per caso una strana scoperta al cimitero.

Durante un funerale, mentre si riposa su una delle tante lapidi per distrarsi dai suoi pensieri, percepisce strane voci:

 «In un primo momento non ci ho neanche fatto caso, ero noncurante. Le voci, tuttavia, proseguirono.

Dei suoni ovattati come filtrati da cuscini, ma al contempo distinti e abbastanza vicini. Sono tornato in me e ho iniziato ad ascoltare con più attenzione».

Ciò che sente” Ivan Ivanovich “sono le voci dei morti che aprono una specie di osteria sottoterra.

Senza fare troppi complimenti i morti parlano di tutto ciò che gli passa per la testa. Impiegati, ragazze e ingegneri chiacchierano senza filtro.

Parlano senza sosta.

Partecipano tutti e ognuno butta fuori il proprio pattume intellettuale.

In questo mondo sono tutti già morti, ma non completamente.

 

“Dostoevskij” concede ai defunti un termine di circa tre mesi, una specie di bonus track della vita.

In questo periodo di tempo il corpo si decompone, ma la coscienza rimane intatta, sono fantasmi linguacciuti.

Tra i non-morti si trova anche “Platon Nikolajewitsch”, un professore di filosofia che viene dalla città e che per l’enigmatico prolungamento della vita ha la seguente spiegazione:

 «Invece qui il corpo si rianima, per così dire, i resti della vita si concentrano, ma soltanto a livello della conoscenza».

Secondo lui la supposizione dei vivi che considerano la morte come un vero decesso è falsa.

 Ritiene piuttosto che il corpo può venire meno ed è solo una parte dell’esistenza: la vera vita risiede nella coscienza, cioè in ciò che rende umana una persona.

 Ed è proprio questa entità dotata di anima che vive ancora qualche mese dopo che il corpo l’ha abbandonata.

A detta del professore ci sono addirittura esempi con cui dimostrare che la coscienza persiste anche oltre il processo di decomposizione del corpo. Così tra i sepolti si trova un uomo la cui morte corporea è avvenuta già da tempo, tuttavia ciò non gli impedisce di mormorare a bassa voce:

 «Bobok, bobok, bobok».

Quando viene meno il fardello della vita, ognuno è libero di essere ciò che è veramente.

 

“Dostoevskij” ci mostra cosa succede quando anche le ultime inibizioni vengono meno, quando la coscienza all’improvviso diventa un luogo in cui non esistono più le regole di una società che si basa su vergogna e menzogne.

Qui, sottoterra, si sperimenta qualcosa di nuovo:

«Propongo di trascorrere questi ultimi due mesi nel modo più piacevole possibile e darci una nuova organizzazione, a partire dalle basi.

Signori!

Propongo di mettere da parte qualsiasi pudore», grida una delle anime sepolte ai vicini di tomba.

 L’approvazione dei compagni di destino è veramente entusiastica.

Addirittura l’ingegnere, solitamente formale e avveduto, propone di «riorganizzare questa vita su nuovi principi di razionalità».

 A quel consiglio segue ancora un desiderio:

Sulla superficie terrestre è impossibile non dire bugie, vita e bugia sono sinonimi; ma quaggiù noi non abbiamo più bisogno di mentire.

Al diavolo, il sepolcro avrà pure una sua utilità!

Ciascuno di noi racconterà agli altri la propria storia e nessuno se ne vergognerà, comincerò io stesso.

Come prima cosa vi dico che ho l’animo di un predatore ed ero invischiato in tutto ciò che c’è di marcio.

 Ma adesso sono libero, togliamoci le maschere e spogliamoci!

 

La folla urla a gran voce: «Spogliamoci! Spogliamoci!».

 

“Dostoevskij” attribuisce un nuovo significato alla parola “bobok”, che all’inizio non aveva senso.

 Bobok sta per la possibilità di reinventare il linguaggio.

 Bobok rappresenta una nuova società che funziona con altre regole.

 È così che la comunità russa di morti viventi non solo forma una nuova società che ha bandito la vergogna e la menzogna dal canone di comportamento e tenta di far vigere la sincerità più totale, ma anche una società con abissi molto più profondi delle tombe scavate per i morti.

 Sì, c’è una puzza davvero terribile mentre Ivan Ivanovich attraversa il cimitero e percepisce sottoterra un’agitazione ovattata.

Se tutto è permesso, viene alla luce anche tutto quello che altrimenti non si vedrebbe, non si sentirebbe e non si riuscirebbe neanche a odorare.

 Le anime sepolte rilasciano tutto ciò che durante la vita si è accumulato, sfruttano «l’ultimo tempo concesso» per esalare tutto.

Se disintossicare il corpo significa eliminare sostanze tossiche e prodotti metabolici nocivi, il detox dell’anima funziona liberandosi di brutti ricordi e pensieri inconfessabili anche a sé stessi.

 È facilmente immaginabile che ciò provochi una puzza peggiore di quella dei nostri escrementi.

Nel racconto di Dostoevskij, ci si scambia insulti pesanti, si diventa indecenti e si affermano cose oscene.

Ci si scredita e ci si prende in giro a vicenda.

 È come sbirciare nella serratura dell’abisso umano.

Leggendo Bobok di Dostoevskij ci viene spesso in mente un fenomeno contemporaneo.

Non si comportano in modo simile le persone su internet, nel mondo virtuale? L’analisi di Dostoevskij non sembra parecchio aderente alle relazioni tra utenti sui social network?

Anche lì ci si insulta senza freni, si incita all’odio e certe regole di buona educazione vengono trascurate con la scusa della virtualità.

Così come le vestigia dell’anima nel piccolo cimitero russo perdono qualsiasi inibizione, allo stesso modo oggi alcuni utenti in rete credono di poter fare quello che vogliono.

 

Circa vent’anni fa ha fatto il suo ingresso nelle nostre vite un medium che ha cambiato radicalmente il nostro modo di stare al mondo insieme:

il Word Wide Web.

La rete ci ha promesso possibilità infinite.

Alla Facebook f8 Developer Conference del 2016, “Mark Zuckerberg” ha cominciato il suo discorso con le parole:

 «Give everyone the power to share anything with anyone».

Ognuno deve avere la possibilità di condividere tutto con chiunque.

Con questo spirito sono nati i social network.

Festeggiati come i catalizzatori della libertà di pensiero ai tempi della Primavera araba o di Occupy sembravano aver dato alle persone di tutto il mondo la possibilità di liberarsi da regimi ingiusti, oppressione e persecuzioni.

 I social network non mettono in contatto solo persone che vivono lontane, ma anche chi abita nei più remoti angoli della Terra.

 Fanno sì che persone che nella loro società appartengono a una minoranza conoscano persone in altre parti del mondo che la pensano allo stesso modo e hanno il loro stesso orientamento.

All’inizio sembrava che i social network fossero il motore del progresso e dell’illuminismo.

Così come Dostoevskij ha permesso ai suoi morti di dire cose che in vita non potevano esprimere, i social network all’inizio sembravano essere il sogno realizzato di una nuova società libertaria.

Ma quest’euforia è svanita da tempo.

Al posto dell’ingenuo entusiasmo iniziale verso Facebook, Instagram, YouTube e Twitter, c’è oggi un dibattito in corso sul potere e i pericoli che rappresentano queste piattaforme che, ospitando ormai miliardi di utenti, minano la democrazia e la libertà di pensiero.

Attraverso la diffusione irresponsabile di discorsi d’odio, diffamazioni, propaganda e contenuti che inneggiano alla violenza, i social network spaccano le società e le spingono tra le braccia dei populisti e degli autocrati.

Sarebbe troppo facile dare un giudizio univoco sui pro e i contro dei social media; l’esperimento letterario del cimitero inventato da Dostoevskij, in un certo senso, è stato messo in pratica in forma molto simile centotrenta anni dopo, solo che l’esito è ancora incerto e non finisce, come in Dostoevskij, con l’uscita di scena di “Ivan Ivanovich”.

 

Ma non è tutto.

 C’è un’altra similitudine tra il racconto di Dostoevskij e le tecnologie contemporanee.

La prima versione di Facebook è stata lanciata nel 2004.

Il social veniva usato soprattutto da giovani studenti.

 Da allora non solo la rete è diventata più vecchia, ma anche l’utenza.

 E come nella vita reale, la morte non risparmia nemmeno i social network.

 Oggi circa tre miliardi di persone usano i servizi di Facebook.

Quanto più a lungo esisteranno queste piattaforme, tanti più defunti le affolleranno.

Spesso infatti i profili Facebook, Instagram e Twitter rimangono online come cadaveri digitali una volta che gli utenti reali non esistono più.

Si tratta di profili inattivi, ormai non più visitati, perché le persone reali che vi erano associate non sono più in vita.

Prima o poi su Facebook ci saranno più profili di persone morte che vive.

Come sostiene uno studio condotto da “Carl Öhman e David Watson” dell’”Università di Oxford”, se continua ad attirare nuovi utenti e crescere come ha fatto finora, entro il 2100 la piattaforma potrebbe avere più di 4,9 miliardi di membri defunti.

Ma anche senza crescita, sostengono gli scienziati, nel 2100 il social conterebbe circa 1,4 miliardi di defunti.

L’idea di scrollare su un social network sui cui si trovano più utenti morti (inattivi) che vivi è inquietante.

Ricorda una città fantasma abbandonata in cui solo singoli oggetti rimandano a una vita passata.

Una landa desolata digitale impregnata dall’odore di putrefazione.

Facebook diventerà un cimitero dell’umanità?

 E cosa succederà alle centinaia di migliaia di membri non più attivi?

 I profili verranno cancellati? Continueranno a vivere online?

Chi riceve la chiave, ovvero la password, delle abitazioni, cioè dei profili, chiuse?

 

Migliaia di utenti Facebook morti ogni giorno.

L’11 novembre 2016, a causa di un errore del software, di colpo a due milioni di persone è stato involontariamente attribuito un profilo commemorativo e de facto sono state dichiarate morte.

 È successo (per breve tempo) persino a Mark Zuckerberg, il ceo della compagnia. Sul suo profilo Facebook si trovava la seguente frase:

 «Speriamo che le persone che amano Mark trovino conforto nelle cose che gli altri condividono per commemorare e celebrare la sua vita».

Nel giro di pochi secondi hanno cominciato a girare voci sulla morte di Mark Zuckerberg.

Migliaia di persone hanno lasciato commenti di condoglianze sulla sua timeline.

Il macabro incidente non ha turbato solo Mark Zuckerberg, ma anche molti altri utenti che hanno sentito l’urgente bisogno di una spiegazione.

 «Ciao Facebook, non sono morto», oppure, «Ancora vivo!», si leggeva ripetutamente quel giorno su Twitter.

 L’errore di sistema si è risolto poco dopo, ma ha fatto sì che le persone cominciassero a riflettere sulla morte digitale e sulle sue conseguenze.

 

Secondo le stime, nel 2018 sono morti solo negli Stati Uniti tre utenti Facebook al minuto.

 Sono più di 4500 utenti morti al giorno (la cifra che riguarda gli utenti nel mondo è quindi più alta).

Tuttavia non si riesce a calcolare esattamente il numero degli utenti morti dei social media.

Facebook stesso non è molto incline a dare informazioni e non si accorge sempre tempestivamente se un utente è solo inattivo da tempo o defunto.

Nella maggior parte dei casi dopo la morte di un utente non succede niente perché quasi nessuno si preoccupa di gestire il lascito digitale.

 Questo porta spesso a situazioni assurde in cui sulla timeline di un profilo continuano ad apparire post e commenti scherzosi anche se la persona non è più tra i vivi da tempo.

Esistono tre possibilità:

gli eredi chiedono l’eliminazione del profilo o il profilo diventa commemorativo.

In questo caso, accanto al nome compare la dicitura “in memoria di” e a seconda delle impostazioni della privacy dell’account per altri utenti è possibile o meno condividere ricordi sulla bacheca o esprimere le condoglianze così che la cronologia del profilo diventi una sorta di lapide.

La terza opzione è che tutto rimanga com’è.

 Il profilo resta online, ma la persona che c’era dietro non c’è più.

 

È piuttosto chiaro che nell’era digitale varia molto come ci si rapporta culturalmente alla morte e al lutto.

I cimiteri virtuali aprono tantissime opportunità a un confronto privato e pubblico con la morte e in questo modo trasformano le attuali usanze di lutto e commemorazione.

Il social network dei morti.

“Henrique Jorge”, imprenditore portoghese, si spinge più in là di quanto non abbiano fatto finora “Facebook & co”.

 Invece di congelare i profili inattivi degli utenti su una piattaforma commemorativa, Jorge porta in vita una loro controparte digitale.

Si chiama Eter9 il suo social network su cui si radunano anche utenti morti.

Simile a quello che succede in Dostoevskij, per Jorge la morte non significa morte, ma separazione dal corpo.

 L’omologo digitale del defunto deve continuare a vivere e interagire con gli altri membri del network.

Le controparti digitali postano autonomamente contenuti, pubblicano foto e video, chattano con gli altri utenti, dando vita alla piattaforma.

 

In questo modo “Eter9” diventa più di un normale social network:

 è un luogo in cui esseri umani e macchine non solo si trovano gli uni accanto alle altre allo stesso livello, ma sono anche in contatto tra loro, è un luogo dove convivono.

I dati disseminati dagli utenti nutrono la loro controparte digitale.

Con ogni “pasto di dati” l’omologo digitale si avvicina un po’ di più al modello umano.

La riproduzione digitale impara a parlare nello stesso modo in cui lo fanno gli utenti.

 Ne assume i gusti musicali, sviluppa lo stesso senso dell’umorismo.

Immagazzina le stesse conoscenze e infine impara a interagire con gli altri in modo personalizzato, questa sarebbe l’idea.

 La copia digitale, come un bambino piccolo, dovrebbe svilupparsi giorno dopo giorno per avvicinarsi a un sosia a tutti gli effetti.

L’inventore del social network dei morti, “Henrique Jorge”, vive in una cittadina che si chiama “Viseu” a un’ora e mezza di auto da “Porto”.

Quando lo andiamo a trovare siamo sopraffatti dalla bellezza del luogo.

 Casa sua ha un giardino lungo il fiume con alberi di arance, ulivi, agavi e viti. Come può una persona che vive in un posto del genere anche solo pensare di costruire un mondo virtuale?

Mentre al tramonto camminiamo con lui nel suo giardino ci racconta cosa lo ha spinto.

Jorge sapeva sin da giovane che prima o poi il suo luogo di nascita gli sarebbe stato stretto.

 Voleva andarsene, scoprire, cambiare il mondo.

 Il desiderio di evasione di Jorge non è sfociato in un soggiorno all’estero o nell’interruzione dei corsi di studio, ma in un distacco dal mondo reale e un avvicinamento a quello virtuale.

Internet come fuga dalla realtà.

La lingua straniera che ha imparato è quella dei codici.

Microchip, interfacce, processori, plug-in, circuiti stampati sono stati i termini che lo hanno accompagnato durante la vita.

Essendo stato uno dei pionieri di internet del suo Paese, già nei primi anni Novanta Jorge collegò molte aziende portoghesi a internet.

Creò i primi siti web di molte compagnie, potenziò i computer e mise a punto strategie aziendali per lo spazio virtuale.

 Internet, che all’epoca era un territorio ancora inesplorato per la maggior parte delle persone e considerato una moda passeggera, rappresentava per Jorge uno spazio dalle opportunità apparentemente illimitate e con un enorme potenziale che avrebbe definito il suo futuro.

 

La sua curiosità per la tecnologia, tuttavia, non è l’unico motivo per cui, decenni dopo, ha fondato una società chiamata “Eter9”.

Il suo desiderio di rendere l’anima immortale è sorto dopo la morte del padre, avvenuta in un tragico incidente in moto quando Jorge aveva tre anni.

Sono stati tempi duri, la famiglia non aveva quasi soldi e sua madre lavorava giorno e notte nei campi dei dintorni per sfamare i figli.

Henrique e suo fratello sono cresciuti più o meno da soli.

Erano anche i tempi in cui sua madre cercava una redenzione nella fede.

 La chiesa in cui andavano quasi tutti i giorni divenne il fulcro delle loro vite.

 Se Henrique aveva bisogno di un consiglio non poteva chiedere ai parenti, ma doveva trovare la risposta nella religione cattolica.

Eppure le risposte cercate non arrivavano ed Henrique abbandonò la chiesa: «Tuttavia sentivo il bisogno di nutrire la mia fede in qualche altro modo.

Credo che fossi alla ricerca di qualcosa di più grande di me.

 Cercavo risposte che la religione cattolica non poteva darmi.

Sentivo un vuoto e cercavo altri modi per riempirlo.

Ma non volevo solo cambiare religione, perché non mi avrebbe portato a nulla».

 

Henrique non è l’unico a essersi allontanato dalla fede tradizionale.

 Un uomo anziano con la barba, creatore onnipotente di ogni essere vivente che giudica l’umanità, non corrisponde più da tempo alla visione del mondo di molte persone.

Solo in Germania dal 1990 più di cinque milioni di persone hanno abbandonato la Chiesa Cattolica.

 La cifra di coloro che non hanno più rapporti con la Chiesa, ma ne sono ancora membri, deve essere ancora più alta.

Ci dirigiamo forse verso una società senza fede?

 L’Umanesimo e l’Illuminismo hanno allontanato a tal punto l’umanità dalla religione che un’istanza divina non è più neanche immaginabile?

 Se Dio è morto a chi diamo la responsabilità di liberarci dal male?

 Chi prenderà il posto di istituzioni come la Chiesa Cattolica?

Surrogato della religione.

Una risposta possibile, che anche Henrique ha trovato per se stesso, ci riporta nella Silicon Valley, di nuovo da “Ray Kurzweil”.

Sappiamo già che Kurzweil è, a oggi, uno dei più prominenti rappresentanti della fede nel progresso.

Le sue poliedriche doti gli hanno fatto raggiungere vette incredibili nel corso della sua esistenza:

oltre al sintetizzatore, un apparecchio che può produrre suoni acustici di qualsiasi strumento in alta qualità, ha sviluppato la “Kurzweil Reading Machine” una macchina capace di far leggere testi stampati alle macchine.

Attraverso questa tecnologia,” Kurzweil” ha reso possibile per la prima volta che persone con deficit visivi avessero accesso a opere stampate, e questo nel 1967 era qualcosa di rivoluzionario.

 

In veste di “Director of Engeneering” di Google, Kurzweil crede che i limiti umani, che siano di natura intellettuale, fisica o psichica, possano essere superati con l’aiuto di metodi tecnologici.

Secondo la sua logica, l’avanzamento delle capacità umane attraverso mezzi tecnici è solo il prossimo stadio evolutivo.

In questo senso le sue fantasie vanno ben oltre il tipico apparecchio acustico o il pacemaker.

Anche Kurzweil crede, in modo simile a come ci hanno prospettato “Nick Bostrom” di Oxford e molti altri “transumanisti”, che presto si potranno copiare e salvare i contenuti del cervello umano.

Secondo lui è solo una questione di tempo.

Nel suo bestseller “La singolarità è vicina” Kurzweil profetizza che il progresso della tecnica informatica procede a velocità esponenziale e nel prossimo futuro ci porterà a un’intelligenza artificiale che raggiungerà il livello dell’intelligenza umana, anzi, addirittura la supererà.

 Secondo Kurzweil succederà intorno al 2045.

Da quel momento il sapere e le possibilità tecnologiche dell’umanità cresceranno in maniera talmente esplosiva da cambiare radicalmente il mondo, questa è la tesi di Kurzweil.

 Nulla sarà più d’intralcio all’immortalità dell’essere umano.

 

“Henrique Jorge” è un seguace di questa dottrina.

«Mi sono avvicinato ad altre religioni, durante la vita, per vedere come funzionano.

 Alcune si basano sulla fede in un Dio, altre in una forza superiore astratta.

Per me qualcosa che ci tiene insieme c’è, mi affascina l’idea di un’anima digitale.

Credo che quando si raggiungerà la fusione tra essere umano e macchina, quando si raggiungerà la “singolarità tecnologica”, allora ci saranno macchine ad alta efficienza che disporranno di qualcosa di simile all’anima».

 Se Henrique avesse ragione ciò porterebbe a un cambiamento radicale della nostra visione degli esseri umani.

È un’idea affascinante.

Henrique vuole essere parte di questa “grande rivoluzione”, vuole contribuire.

 È il motivo per cui ha creato “Eter9”, il social dei morti.

 Ciò che ci interessa approfondire di questa idea di Henrique è la questione della comunità.

Durante la ricerca dell’immortalità ci ha ispirato un nuovo ragionamento:

“l’anima digitale” è creata dai doppi digitali tramite i loro rapporti con altri morti e vivi della rete.

 Solo nell’interazione delle “controparti” si rivela la persona dietro la riproduzione digitale.

Henrique cerca di creare uno spazio per le tante anime che dovrebbero rimanere in vita anche senza corpo.

 Invece di conservare le vestigia virtuali delle persone in “Cloud privati”, si possono trovare le loro anime digitali su una “nuvola 9”, un network di defunti che si insufflano vita a vicenda, si formano e si trasformano l’un l’altro.

L’anima digitale del singolo si manifesta attraverso la dipendenza e la differenza dagli altri.

 Non pensavamo che fosse possibile trovare il vecchio Hegel qui nella piccola cittadina portoghese di Viseu.

Evidentemente anche lui è meno morto di quanto pensassimo.

 L’idea che la coscienza del singolo si formi attraverso il riconoscimento da parte degli altri è il concetto che il famoso filosofo dell’Idealismo,” Georg Wilhelm Friedrich Hegel “(1770-1831) ha elaborato più di chiunque altro con la sua “Fenomenologia dello spirito”.

«L’Io è il contenuto del rapporto ed è l’atto stesso del rapportare; l’Io è a propria volta di fronte a un altro, e si protende oltre quest’alterità, la quale, del pari, per l’Io non è che Io stesso», scrive Hegel.

Sembra un social network ante litteram.

Dopotutto l’io nell’era digitale è costantemente coinvolto in diversi network digitali in cui le persone si offrono o si negano riconoscimento reciprocamente in tempo reale.

 Ma perché solo i viventi possono mettersi in contatto gli uni con gli altri in questo modo? «La tecnologia ci porta in un luogo che non conosciamo ancora», dice Henrique.

 «Credo che arriveremo a un punto in cui riusciremo ad aprire una breccia».

 La breccia per Henrique sarebbe il momento in cui le “controparti” saranno in grado di sviluppare una propria coscienza, esattamente come la coscienza scaturisce dal riconoscimento reciproco in Hegel.

Tuttavia esistono alcune condizioni necessarie affinché delle simulazioni diventino esseri digitali coscienti:

 come possono diventare consapevoli di sé delle simulazioni non-morte quando non devono preoccuparsi della propria sopravvivenza?

Come fanno le simulazioni a provare emozioni, a credere e a sperare?

Dopotutto sono e rimangono simulazioni.

Durante le nostre conversazioni, Henrique invoca quasi a mo’ di mantra un salto quantico del genere.

Ha trovato la sua nuova fede.

 È una fede quasi religiosa nella tecnologia, una tecnologia che ha la forza di cambiare tutto.

 Il sogno dell’immortalità dell’anima non si basa più sui racconti religiosi del potere divino, ma sull’intelligenza artificiale.

Chiesa.

Un altro esempio ci mostra chiaramente che ci troviamo in un’era di cambiamento in cui si fronteggiano due mondi.

Nel 2016 “Anthony Levandowski” ha pubblicato un comunicato stampa dove rende nota la fondazione di una nuova Chiesa, la prima in cui l’oggetto di culto è un’intelligenza artificiale e di conseguenza il nuovo Dio si chiama “ai”.

Il progetto cyber divino si chiama “Way of the Future Church”.

Per capire dove ci condurrà questa via del futuro, è sufficiente dare un’occhiata al loro sito web.

Sembra che nella sua confessione non esista più una casa di Dio.

Per la” Church of ai “basta cliccare il pulsante di iscrizione per affermare l’appartenenza al credo.

Il posto fisico e reale in cui la comunità di credenti si riunisce per il culto, le preghiere e le comunioni è diventato superfluo ai tempi della rivoluzione digitale. In breve: è stato eliminato.

Oltre a uno scritto programmatico sembra non esistere ancora niente di concreto.

 

Allora perché dedichiamo attenzione a questa Chiesa?

 Il motivo sta nel suo fondatore.

“ Anthony Levandowski” è uno dei big nell’industria della tecnologia nell’assolata California.

 Si è fatto un nome come uno dei migliori ingegneri di auto con guida autonoma, in qualità di direttore tecnico ha creato e costruito lui la flotta di Google.

È considerato un prodigio della robotica e sono da attribuire a lui i continui progressi fatti negli Stati Uniti riguardo alla guida autonoma.

Il suo desiderio di indipendenza a un certo punto però è diventato talmente forte che nel 2016 ha lasciato “Waymo”, una società figlia di “Alphabet Inc.” (Google), per creare una propria azienda che poi è stata acquisita da Uber.

Il suo obiettivo era accelerare l’adozione della guida autonoma sulle strade americane.

Ma invece di accelerare, il suo progetto ha subìto una brusca frenata:

 il profeta della tecnica, poco prima del suo licenziamento da Google, avrebbe segretamente sottratto circa dieci gigabyte di dati sensibili, segreti aziendali e documentazioni su progetti e vari test.

Un incidente che è sfociato in una causa legale milionaria tra Uber e Waymo.

 

Bugie elaborate e furto di dati non sembrano molto in linea con l’etica cristiana. Non sorprende quindi se i comandamenti della chiesa “Way of the Future” tematizzano più una ridefinizione dei comportamenti nelle relazioni tra uomo e macchina piuttosto che tra esseri umani.

Il motivo di fondo è la convinzione di “Levandowski” per cui in futuro non saranno solo gli esseri umani ad assumersi la responsabilità del pianeta, ma anche le macchine.

Nella prima scrittura “divina” si legge:

Considerato il fatto che la tecnologia sarà in grado di superare le capacità umane “relativamente presto”, vogliamo contribuire e illuminare il percorso dell’uomo verso questo eccitante futuro e prepararlo a un passaggio privo di difficoltà. Aiutateci a diffondere il messaggio che il progresso non deve essere temuto (né, ancora peggio, bloccato/imprigionato).

Dobbiamo riflettere su come integrare le “macchine” nella società (e sul fatto che, se diventano sempre più intelligenti, hanno addirittura la possibilità di assumersi la responsabilità), così che l’intero processo si svolga al meglio e senza conflitti.

 

Levandowski e la sua chiesa “Way of the Future” partono dal presupposto che l’intelligenza umana è limitata, per esempio nella capacità di calcolo o di memorizzazione di informazioni.

Questi limiti biologici possono però essere superati da una nuova “superintelligenza” che nel futuro sarà inevitabile.

Invece di credere a forze “sovrannaturali”, Levandowski crede nel progresso.

Guardando il mondo attraverso i suoi occhi, questo non è altro che un sistema operativo per il quale si possono sviluppare continuamente nuove versioni.

Per creare il giusto aggiornamento ci servono macchine.

 Il mondo è diventato troppo complesso per riuscire a penetrare tutti i suoi aspetti e contesti.

Levandowski si rende conto che immaginare un mondo comandato dalle macchine può spaventare;

 proprio per questo, secondo lui, c’è bisogno di una Chiesa che prepari gli esseri umani a un futuro che sta cambiando.

La “Way of the Future Church” deve dissipare la paura delle persone nei confronti dell’intelligenza artificiale:

 

Vogliamo incoraggiare le macchine a fare cose che noi non possiamo fare.

 In questo modo vogliamo che le macchine abbiano il potere di prendersi cura del pianeta, più di quanto siamo in grado di fare noi, apparentemente.

 Crediamo che la nostra creatura (“le macchine” o in qualsiasi modo le chiamiamo) abbia dei diritti, così come ce li dovrebbero avere gli animali se mostrano segni di intelligenza (che naturalmente sono ancora da definire).

Tutto ciò non lo dobbiamo temere, ma essere ottimisti riguardo al suo potenziale.

 

In effetti i paralleli tra le caratteristiche principali di un’intelligenza artificiale e di una divinità trascendente sono stupefacenti:

 a entrambi viene attribuito un potere assoluto.

Il loro operato non è del tutto comprensibile.

Entrambi si basano su narrazioni create su di loro.

Mentre la Bibbia, la Torah o il Corano sono le principali raccolte di testi religiosi che costituiscono la base delle nostre narrazioni su Dio, i film e i libri di fantascienza alimentano le nostre aspettative su quello che l”’ia” sia in grado di fare.

Questi racconti sono per lo più distopie in cui le nuove tecnologie mettono in pericolo l’umanità attraverso epidemie globali, robot insorti, un’intelligenza artificiale fuori controllo o un regime autoritario di sorveglianza completamente automatizzato.

Film e libri prevedono in maniera diversa la minaccia subita, o addirittura la completa estinzione dell’uomo per colpa della tecnica, e gli scenari apocalittici disegnati dalla cultura pop riscuotono grande successo.

Ma sono davvero un buon metro di misura per capire quello che ci aspetta in un futuro in cui la tecnologia continua a svilupparsi?

 

Le distopie, in ogni caso, suscitano una buona dose di scetticismo (in parte anche irrazionale) negli spettatori.

Il potere invisibile e trascendente di Dio e il funzionamento incomprensibile di algoritmi e altri processi meccanici che apprendono autonomamente forniscono una solida base per miti sostanziosi. “Anthony Levandowski” sembra sapere che il grosso pericolo per il progresso tecnico non è rappresentato dal limite di quello che è tecnicamente fattibile, ma dalla diffidenza degli esseri umani.

 A cosa serve una macchina che si guida da sola se nessuno si fida a salirci sopra?

Coloro che hanno già fatto quest’esperienza sanno di cosa si tratta:

il momento in cui le mani lasciano il volante, in cui la completa responsabilità di vita e di morte viene affidata alla macchina va contro qualsiasi tipo di intuizione umana.

Non siamo abituati a cedere il controllo, men che meno su un’autostrada a 120 chilometri orari.

“Levandowski”, il cui campo di specializzazione è proprio la guida autonoma, sa quanto lavoro di informazione va fatto prima che una persona si affidi a un pilota automatico senza dubbi né preoccupazioni. Allo stesso tempo è relativamente facile far capire ai potenziali passeggeri quanto sia più sicuro questo tipo di mobilità.

 Uno studio pubblicato nel 2015 da McKinsey mostra che possono essere evitati più del 90% degli incidenti mortali se viene eliminato il fattore umano alla guida.

 

In un sistema di regole rigido come quello stradale è dunque immaginabile lasciare la responsabilità alle macchine.

Le macchine non si distraggono giocando al cellulare durante la guida, non sfrecciano stanche morte sull’autostrada per arrivare alla meta il più veloce possibile e non mancano l’uscita perché sono sovrappensiero. Ma che succede con sistemi più aperti per cui non ci sono regole altrettanto chiare?

La maggior parte dei problemi della vita è così complessa che noi esseri umani ci affidiamo spesso all’istinto per prendere decisioni.

Per molti di noi è già immaginabile che un’auto con pilota automatico ci porti in sicurezza da “a” a” b”, ma lasceremmo decidere a un algoritmo anche il partner giusto per noi? Lasceremmo stabilire a un’app la persona con cui uscire per un appuntamento, senza neanche scegliere con uno swipe i potenziali partner da prendere in considerazione? Non sono forse immotivate anche moltissime delle scelte che compiamo ogni giorno?

 

Restiamo sul tema dell’amore: il detto «l’amore è cieco» non descrive proprio quanto sia poco calcolato e prevedibile l’innamoramento? Le esperienze che abbiamo acquisito nel tempo non sono la conferma più evidente che la vita non ha niente a che vedere con il codice stradale?

 

 

 

70.000 cloni.

“Henrique Jorge” non sembra preoccupato dal dominio delle macchine. Il suo network “Eter9” dovrebbe preparare le persone già ora a un futuro rapporto diverso tra essere umano e macchina, così come voleva fare Levandowski con la sua Chiesa.

 L’idea di Henrique di creare una copia digitale a immagine e somiglianza di una persona non è lontana dall’idea di Marius Ursache e James Vlahos.

Tutti e tre si sono preposti l’obiettivo di rendere gli uomini digitalmente eterni. Tutti e tre hanno l’ambizione di rendere digitalmente le persone immortali.

 

Su “Eter9” i cloni eterni si chiamano “Niners”.

I Niners sono creature virtuali che possono venire attivate dagli utenti (“Nine me”).

Con l’attivazione viene stabilita una connessione tra gli utenti e le creature virtuali.

Ogni Niner acquisisce le caratteristiche individuali della persona.

 Più informazioni ottiene il Niner, più diventa simile al suo user. Concretamente significa che più l’utente interagisce e posta sul network Eter9 più il Niner gli diventa simile.

Attraverso il “Deep Learning”, un metodo particolarmente complesso di apprendimento meccanico, si cerca di creare una copia digitale il più precisa possibile della persona, utilizzando i dati raccolti online.

Più avanti torneremo più approfonditamente sul modo di funzionamento delle “reti neurali artificiali”.

 

L’interfaccia di “Eter9” ci ricorda il ben noto social network Facebook.

Gli utenti possono crearsi il proprio profilo con foto e informazioni personali.

In più c’è una bacheca dove vengono mostrati i contenuti e i post di tutti gli utenti con cui si è amici.

La differenza rispetto a Facebook sta nel fatto che gli utenti “allevano” una “copia digitale di sé stessi”:

oltre alla foto del profilo c’è una seconda foto, quella della controparte digitale.

All’inizio questa è ancora pixellata e difficile da riconoscere.

Più uno riempie il social network di dati più la foto del relativo Niner diventa riconoscibile.

Tutti gli utenti naturalmente hanno la possibilità di disattivare la propria controparte così che non possa postare autonomamente sulla timeline.

Ma è proprio questo il bello di “Eter9”, altrimenti basterebbe usare (o continuare a usare) Facebook.

 

Mentre siamo sulla sua fantastica terrazza e guardiamo il sole sparire all’orizzonte, Henrique ci racconta di un’idea che non riusciva a togliersi dalla testa:

 «Perché non apro un account per mio padre, mio nonno e mia nonna?». Ha cominciato a raccogliere tutte le informazioni possibili sul padre: ritagli di fotografie, lettere che ha scritto, appunti, racconti di altre persone che lo conoscevano.

Henrique non voleva solo archiviare queste informazioni, ma far resuscitare il padre come “Niner digitale”.

Ha messo su una società e ha dedicato la sua vita a quest’idea.

 A oggi, sul suo social network dei morti, sono iscritte più di 70.000 persone.

 Contando i relativi Niners sono quindi 140.000 gli utenti che affollano Eter9.

Non possiamo provare che siano davvero così tanti e che riempiano attivamente di vita il social network come ci assicura Henrique.

 

Eter9” è ancora alla sua versione beta. Essere il pioniere di un progetto rivoluzionario significa anche metterci la dovuta pazienza e disciplina. Henrique e il suo team raccolgono ogni giorno nuove esperienze nell’uso della piattaforma.

 Per lui la cosa più importante è il feedback degli utenti che interagiscono con il suo prototipo.

Il desiderio di raggiungere l’obiettivo gli ha causato parecchie notti insonni in passato, e succederà ancora, visto che i cloni digitali non hanno ancora fatto i progressi che Henrique sperava.

Tuttavia vede continuamente i segni del potenziale dietro la sua idea. Lui stesso ha un profilo su “Eter9” e dall’inizio lo riempie di informazioni personali per il suo sosia digitale.

Pubblica regolarmente sulla timeline di “Eter9”. Si ricorda particolarmente bene di un post:

 «Nel 2005 mia figlia mi ha regalato i biglietti per un concerto dei Coldplay. Il concerto doveva tenersi in uno stadio a Lisbona, ma è piovuto tutto il giorno. Eravamo nel mezzo del campo e aspettavamo l’inizio. Prima ancora che cominciassero a suonare eravamo completamente zuppi: scarpe, giacche, pantaloni, tutto!

Ho pensato di andarmene.

 Poi son rimasto ed è iniziato il concerto.

È difficile da descrivere, ma è stato un momento magico.

 All’improvviso i Coldplay hanno cominciato a suonare e la pioggia ha smesso di colpo, è stato stranissimo.

Come se la band si fosse messa d’accordo con il meteo.

La prima canzone che hanno suonato è stata “Square One”. Sono partiti i fuochi d’artificio. Giochi di luce ovunque. Enorme. Non ho mai visto qualcosa di così impressionante. Mi ha davvero tolto il respiro. Avrei voluto che non finisse mai».

 

“Chris Martin” canta con voce morbida e sommessa: «You’re in control. Is there anywhere you want to go? You’re in control. Is there anything you want to know? The future’s for discovering. The space in which we’re traveling».

 Il futuro è qui per essere scoperto.

«Forse è stato il concerto più bello a cui sia stato.

Il giorno dopo mi sono messo a vedere se su “Eter9” qualcuno avesse postato qualcosa di interessante e in alto nella mia timeline ho scoperto un “video YouTube” che aveva postato la mia controparte.

Era proprio la canzone con cui avevano aperto i Coldplay, Square One. Mi è venuta la pelle d’oca. Mi viene anche ora che lo racconto. Come faceva a saperlo?

Se la tecnologia fosse in grado di reagire a impulsi non verbali, vibrazioni nell’aria, o capire semplicemente le esternazioni di sentimenti, l’interazione tra esseri umani e macchine salirebbe a un nuovo livello».

 

 

 

 

Eutanasia: significato,

diritto e divieto.

 

Orizzontipolitici.it - Anna Borghetti – (30 Gennaio 2025) – ci dice:

 

Eutanasia, deriva dall’unione del prefisso greco “eu”, che indica il bene, e la parola morte; infatti, nel pensiero filosofico antico indicava una morte bella a compimento della vita.

 Attualmente, indica una forma di morte non dolorosa e deliberata, in modo da evitare le sofferenze del fine vita.

In questo articolo si cerca di comprendere cosa si intende per eutanasia e cosa eutanasia non è, com’è la situazione in tema di fine vita in Italia e nel mondo e qual è il ruolo della Chiesa Cattolica in questo ambito.

 

Quante parole per indicare il fine vita.

L’eutanasia consiste in quell’azione (eutanasia attiva) o omissione (eutanasia passiva) volta a procurare la morte di una persona in modo anticipato rispetto alla morte naturale con la finalità di alleviarne le sofferenze.

 In questo caso, il soggetto deve essere consenziente e deve dichiarare espressamente la propria volontà di morire.

Esistono due forme di eutanasia:

la prima è il suicidio medicalmente assistito, ovvero quello che si realizza con l’aiuto di un medico che prescrive farmaci letali per l’autosomministrazione;

 la seconda è l’eutanasia volontaria, che indica la richiesta di essere soppresso e l’autorizzazione esplicita del paziente al medico, il quale partecipa direttamente nella somministrazione del farmaco.

 

Proviamo a non confondere i termini.

Potrebbe però accadere che l’eutanasia come già definita venga confusa con altri termini indicanti forme di trattamenti o di rinuncia a questi ultimi che non rientrano nel concetto di eutanasia in senso stretto.

 Tra questa figura l’uccisione medicalizzata di una persona senza il suo consenso, la quale viene considerata una forma di omicidio.

 Non si considera eutanasia nemmeno l’astensione o la sospensione di trattamenti futili, nonché la sedazione terminale, ovvero l’uso di farmaci sedativi per dare sollievo alla persona malata negli ultimi momenti di vita.

 

La rinuncia all’accanimento terapeutico non è eutanasia, bensì denota la cessazione di interventi sproporzionati, gravosi e inutili che non possono interrompere il decorso di una malattia mortale;

perciò, produrrebbero un allungamento della vita a costo di alte sofferenze.

 In ogni caso, non si legittima la sospensione delle cure ordinarie che accompagnino il paziente ad una morte dignitosa.

Al contrario della rinuncia all’accanimento terapeutico, l’abbandono terapeutico, ovvero l’interruzione delle cure e dei sostentamenti ordinario, è una forma di eutanasia passiva.

 

Infine, quando si menzionano le cure palliative non si parla di una forma di eutanasia, bensì di un approccio integrato di assistenza e cura di un paziente gravemente malato o terminale.

 Queste cure non solo migliorano la qualità di vita dei pazienti, ma anche quella della famiglia che viene sostenuta nella fase di distacco dal paziente.

In questo caso, la morte non viene accelerata, bensì guidata nel suo decorso.

 

Come si agisce nel mondo?

L’Associazione Luca Coscioni ha realizzato una mappa che distingue le legislazioni sul “suicidio medicalmente assistito” nel mondo.

(Associazione Luca Coscioni, ricerca dati Alessia Cicatelli, elaborazione Alessandro De Luca).

Sono solo 28 i paesi e i territori in cui tale pratica è riconosciuta come legale.

Tra questi paesi, l’Italia è l’unico che concede l’accesso al suicidio medicalmente assistito solo a chi è tenuto o tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.

 

La pratica è totalmente proibita in gran parte degli Stati Uniti – dove manca una legge federale –, dell’America Latina – dove solo Cuba e la Colombia hanno una legge a riguardo –, dell’Asia e dell’Europa orientale e meridionale.

 L’Australia permette quasi completamente l’uso di tale pratica.

Mentre, mancano leggi specifiche in gran parte dei paesi dell’Africa e del sudest asiatico.

 

Come si accede al suicidio assistito?

Nella quasi totalità degli Stati dove la pratica viene concessa, i requisiti di accesso al suicidio medicalmente assistito sono il compimento della maggiore età, la capacità di autodeterminazione, la presenza di malattie o condizioni di salute irreversibili e che causino una forma sofferenza intollerabile.

Eclatante è il caso del Belgio, Paese nel quale dal 2014 tali pratiche sono ammesse anche per i minorenni a condizione che il soggetto esprima una forma di consenso, e se ne possa valutare la capacità di discernimento.

 

Un caso noto in Europa è quello della Svizzera, che è stato il primo paese al mondo a legittimare il suicidio medicalmente assistito entro alcune condizioni;

 tuttavia, non vi sono concessioni esplicite riguardo all’eutanasia.

Un caso emblematico di morte assistita avvenuto in Svizzera nel settembre 2024 è quello nel quale si è fatto ricorso al “macchinario Sarco”, inventato da “Philip Nitschke” e” Alexander Bannin”k, che permette di morire col metodo dell’ipossia da azoto.

 L’uso di tale macchinario non è permesso in Svizzera, e infatti, vi sono stati diversi arresti riguardanti questo caso.

Inoltre, un timore che si diffonde in tale paese è quello di divenire un luogo del “turismo della morte”.

 

La situazione in Italia.

In Italia non vi è ancora una legge che disciplini quando si può autorizzare l’eutanasia o il suicidio medicalmente assistito, pertanto, si agisce sulla base della sentenza numero 242 del 2019 della Corte costituzionale, cosiddetta Cappato-Antonioni.

L’assenza di una legge specifica in materia e di una definizione precisa dei casi in cui è possibile rilasciare l’autorizzazione al suicidio medicalmente assistito rende la gestione della materia confusionaria e discriminatoria per i pazienti.

 

Formalmente, in Italia l’eutanasia è considerata illegale, ma con la sentenza sopracitata si prevede che il reato di aiuto al suicidio non si presenta, se l’aiuto viene fornito a un paziente “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

Se la persona possiede tali requisiti si può procedere solo previa valutazione delle condizioni di salute avvenuta all’”interno del Sistema Sanitario Nazionale”.

 

Dal punto di vista giuridico, in Italia solo l’eutanasia attiva può essere punibile come condotta omicidiaria (ai sensi degli articoli 579 c.p., Omicidio del consenziente e 580 c.p., Istigazione o aiuto al suicidio).

 Al contrario, nell’ipotesi di eutanasia passiva la condotta è punibile solo se in capo al medico sussiste un obbligo di cura, che però viene a mancare se il paziente rifiuta il trattamento sanitario.

Secondo la giurisprudenza, il rifiuto di un trattamento sanitario da parte del paziente autorizza il medico non solo a comportamenti omissivi, ma anche commissivi;

quindi, non solo il medico si può astenere dal curare il paziente, ma può anche interrompere la ventilazione meccanica, come avvenuto nel caso “Welby”.

 

Casi che hanno fatto la storia.

Ci sono dei casi che hanno segnato la giurisprudenza in materia, tra questi il caso Englaro (2010), nel quale si è considerata legittima la richiesta del padre di Eluana Englaro – in qualità di tutore – di interrompere la nutrizione e l’idratazione mediante sondino nasogastrico della figlia.

Ugualmente rilevante è il già citato caso Cappato-Antoniani (Caso Dj Fabo):

 nel 2019 la Consulta di Milano ha assolto Marco Cappato dall’accusa di aiuto al suicidio, poiché si è stabilito che il divieto di aiutare una persona a procurarsi la morte deve essere bilanciato con il diritto a una vita dignitosa e al rifiuto dei trattamenti terapeutici quando si presenta una malattia certamente degenerativa.

Nel novembre 2021, sulla base della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, il comitato etico dell’azienda sanitaria delle Marche ha autorizzato il suicidio assistito di un paziente tetraplegico.

Questo è stato il primo caso in Italia di autorizzazione al suicidio assistito.

Dopo l’approvazione alla Camera nel marzo 2022 della proposta di legge “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, che ha reso legale il suicidio assistito a determinate condizioni, a giugno tale paziente è stato il primo a poter accedere legalmente a tale pratica.

 

L’influenza dello Stato, della Santa Sede e dei Pro Vita.

Il dibattito sul tema del fine vita si scontra inevitabilmente con delle implicazioni di carattere politico, religioso ed etico- morale.

La posizione della Chiesa cattolica sul fine vita è da sempre contraria a qualsiasi forma di eutanasia.

 La Chiesa ha invitato a riflettere sull’irragionevolezza dell’accanimento terapeutico, indirizzandosi verso una forma di cura a misura della persona malata. Ma, in ogni caso, nella dottrina la vita è un diritto indisponibile, la morte non è affidata all’arbitrio dell’uomo, bensì al volere Divino ed è una dimensione inevitabile della vita, la quale non va accorciata o impedita nel suo corso.

Tant’è che per i credenti la morte non è l’ultima fase della vita.

 

Insieme all’influenza della Chiesa cattolica, anche le campagne di Pro Vita e Famiglia sono determinanti nella definizione dei concetti di eutanasia e di suicidio assistito.

 Le ultime iniziative dell’associazione risalgono al gennaio 2024 e riguardavano il contrasto all’approvazione del progetto di legge sul “Suicidio medicalmente assistito” in discussione presso il Consiglio regionale del Veneto; tale progetto è stato bocciato e rimandato in Commissione.

A che punto siamo arrivati?

Il 10 febbraio 2025 la Toscana è stata la prima Regione italiana ad approvare una legge che garantisca ai malati una procedura certa in fatto di tempistiche e modalità per l’accesso al suicidio medicalmente assistito.

Il Consiglio regionale ha approvato a maggioranza la legge di iniziativa popolare promossa dall’Associazione Luca Coscioni e che era stata depositata per il vaglio in tutte le Regioni italiane.

 

Innegabile è il bisogno di cercare soluzioni condivise e una forma di mediazione tra posizioni differenti in materia, che trovino uno sbocco sul piano legislativo, in modo da poter garantire in Italia la presenza di una legge certa che risponda in modo generale e astratto alle questioni legate al fine vita.

In tal modo, si eviterà che le risposte su questo tema siano arbitrarie, ad hoc e discriminanti.

 

 

 

L’affanno delle democrazie liberali.

Rivistailmulino.it - Michele Bellini – (25 settembre 2024) – ci dice:

 

Al di là delle specificità di ogni contesto, è chiara una tendenza dell’Occidente democratico:

 lo Stato liberale non è più il perimetro all’interno del quale si svolge la competizione politica.

 

Ormai ogni elezione viene etichettata come “storica”.

 Non si tratta solo di sensazionalismo, ma stiamo effettivamente assistendo a un crescente numero di eventi inediti che segnalano l’affanno delle democrazie liberali.

 Gli ultimi avvenimenti ci pongono di fronte a una sfida profonda e trasversale all’Occidente democratico.

 

Negli Stati Uniti, un filo rosso collega le presidenziali del 2020 e quelle di novembre ed è il progressivo scivolamento del Partito repubblicano fuori dai paletti dello Stato liberale per seguire la leadership di Donald Trump.

La svolta fu la richiesta dell’ex presidente al suo vice di allora, Mike Pence, di interferire con i risultati delle elezioni e, pochi giorni dopo, l’assalto a Capitol Hill.

Oggi, questa deriva è testimoniata dal famigerato “Project 2025”, un piano per “istituzionalizzare il trumpismo”, secondo “Kevin Roberts”, il presidente del think tank conservatore – “Heritage Foundation “– che lo ha prodotto.

 In circa 1.000 pagine si avanzano proposte per cambiare l’assetto dello Stato e implementare politiche restrittive sul versante dei diritti civili, tanto che molti hanno visto in questo piano l’anticamera dell’autoritarismo.

Sempre “Roberts”, a luglio, ha paragonato le prossime elezioni a una “seconda rivoluzione americana” che, ha proseguito, “rimarrà senza spargimenti di sangue se la sinistra lo permetterà”.

Una retorica che fa capire quanto negli Stati Uniti alcuni dei fondamenti dello Stato liberale non siano più presupposti intoccabili, ma siano ormai entrati nell’arena politica e, dunque, messi in discussione.

 

Sull’altra sponda dell’Atlantico, il secondo turno delle elezioni parlamentari francesi ha richiesto la formazione del “front républicain”, indispensabile per evitare la vittoria del “Rassemblement National”.

 Già il nome del cartello elettorale sottolinea come il” partito di Marine Le Pen” sia considerato incompatibile con il regime repubblicano.

 E se è vero che il fronte è una costante della V Repubblica, è in ogni caso la prima volta che il “Rassemblement” arriva in testa al primo turno delle legislative, con un’impressionante distribuzione geografica che ha salvato solo “le grandi aree urbane parigina e marsigliese e alcune altre città medio-grandi”.

Se consideriamo i sistemi elettorali come degli elastici, si può tranquillamente affermare che quello francese abbia dato fondo a tutta la sua elasticità, come testimoniato dall’impasse dopo il voto.

Anche perché il fronte aveva già dato segnali di instabilità su entrambi i fianchi:

 a destra, con il sostegno esplicito a Le Pen di una parte dei gollisti;

 a sinistra, con l’incompatibilità di fatto tra il “centro macronista” e “La France Insoumise” di “Jean-Luc Mélenchon.”

 

Varcando il Reno e proseguendo verso Est, arriviamo in “Turingia”, ufficialmente entrata nella storia per aver registrato la prima vittoria dell’estrema destra dai tempi del nazismo.

 Non a caso, già dalle primissime proiezioni, i vertici di “Alternative für Deutschland” (AfD) si sono affrettati a lanciare messaggi inequivocabili sulle loro ambizioni ormai di portata nazionale.

 Il “Brandmauer” – la versione tedesca del fronte repubblicano: letteralmente, muro tagliafuoco – per ora sembra reggere, ma è evidente che qualora la corsa dell’”AfD” prosegua, spinta dai consensi sempre maggiori nei” Länder dell’ex Ddr”, le altre forze politiche farebbero sempre più fatica a tenerli fuori.

“Secondo la “Fondazione Rosa Luxemburg” – ha riportato “Mara Gergolet” sul “Corriere della Sera” – tra il 2019 e il 2023, a livello locale 120 proposte sono state votate dall’”AfD” e dalla “Cdu” (o altri partiti) insieme”.

 

Ogni contesto ha le sue specificità, ma il trend è chiaro:

 lo Stato liberale non è più il perimetro condiviso all’interno del quale si svolge la competizione politica.

È con questa consapevolezza che il presidente Mattarella, nel suo intervento alla Settimana sociale, ha lanciato un monito essenziale:

“La democrazia non è mai conquistata per sempre”.

 

Una delle forme in cui l’autoritarismo avanza è lo smantellamento graduale dello Stato di diritto e delle libertà, mantenendo alcune strutture di facciata tipiche della democrazia, come le elezioni che, nel senso comune, di essa sono il simbolo.

 

La crisi della democrazia liberale si riflette nella messa in discussione del nesso inscindibile tra Stato di diritto e Stato democratico.

Riprendendo Norberto Bobbio, sappiamo che una democrazia è liberale oppure non è:

“Lo Stato liberale è il presupposto non solo storico ma giuridico dello Stato democratico nel senso che occorrono certe libertà per l’esercizio corretto del potere democratico” (N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, 2014, p. 7).

Una delle forme in cui l’autoritarismo avanza è lo smantellamento graduale dello Stato di diritto e delle libertà, mantenendo alcune strutture di facciata tipiche della democrazia, come le elezioni che, nel senso comune, di essa sono il simbolo.

Non stupisce, allora, che, secondo il “Democracy Report 2024” del “V-Dem Institute”, la forma di governo più diffusa è proprio quella delle autocrazie elettorali, in cui vivono tre miliardi e mezzo di persone, il 44% della popolazione mondiale.

Non solo;

il rapporto certifica uno strutturale e preoccupante arretramento delle democrazie liberali:

 nel 2023, il livello di democrazia nel mondo è tornato ai livelli del 1985, dunque addirittura prima della straordinaria ondata di democratizzazione che seguì la caduta del Muro di Berlino.

È da circa quindici anni che la popolazione mondiale che vive in autocrazie è maggiore di quella che vive in regimi di democrazia liberale:

 se nel 2003 era il 48%, oggi siamo arrivati al 71%!

 Le autocrazie elettorali rischiano di essere l’approdo di quella regressione dello Stato di diritto che “Viktor Orbán” aveva apertamente rivendicato già nel 2014:

“il nuovo Stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno Stato illiberale, uno Stato non liberale”.

 

Così, di cordoni sanitari sentiamo – e sentiremo – sempre più parlare.

Ma l’idea di mettere da parte le differenze ideologiche, spesso anche molto profonde, per contrastare chi mette in discussione le fondamenta dello Stato di diritto è un’operazione non priva di rischi.

Innanzitutto, soluzioni di “extrema ratio” hanno un’efficacia direttamente proporzionale alla credibilità della minaccia di deriva autoritaria nella percezione dell’opinione pubblica.

 In assenza di una tale percezione, l’allarme democratico può ritorcersi contro chi lo ha lanciato, lasciando alle forze politiche che si sono unite solo i “costi” di aver messo da parte le proprie differenze.

 Un secondo rischio è rappresentato da quanto potrebbe verificarsi in Francia. L’elevata litigiosità di un fronte repubblicano troppo eterogeneo può pregiudicare, anche dopo la formazione di un governo, l’efficacia dell'azione dell'esecutivo, aumentando, così, l’insoddisfazione dei cittadini.

Si potrebbe innescare un circolo vizioso che finirebbe per aggravare le cause che hanno contribuito alla crescita dei consensi di coloro contro i quali si era formato il cordone sanitario.

 La terza motivazione, sottesa a entrambe le precedenti, è il fatto che la democrazia si nutre del pluralismo e di un sano conflitto politico.

Limitarli per creare fronti democratici deve restare un’eccezione, non può diventare la regola.

 In caso contrario si rischia un’eterogenesi dei fini:

tentando di salvare la democrazia, si finisce per soffocarla.

Ricordando un vecchio detto: “l’operazione è perfettamente riuscita, ma il paziente è morto!”.

Anche perché sono sotto gli occhi di tutti gli effetti negativi sulle nostre democrazie del “Tina” – “There Is No Alternative” – di thatcheriana memoria.

 

L’unica cosa a cui non ci sono davvero alternative è che una democrazia non si può salvare se, in ultima istanza, non sono i cittadini stessi a volerlo

 

A ben vedere, l’unica cosa a cui non ci sono davvero alternative è che una democrazia non si può salvare se, in ultima istanza, non sono i cittadini stessi a volerlo.

 Non esisteranno mai meccanismi giuridici, costituzionali o politici che possano portare a zero il rischio di regressione democratica.

 Non potrebbe essere altrimenti:

non può esserci democrazia senza responsabilità.

Torna in mente, qui, il monito di “Romano Guardini” che, nel ricordare i ragazzi della “Rosa Bianca”, parla di un “totalitarismo che viene dall’alto, ma anche un totalitarismo che viene dal di dentro” (R. Guardini, La Rosa Bianca, Morcelliana, p. 56).

Nelle sue riflessioni, Guardini avverte che la tentazione totalitaria si afferma anche perché offre all’uomo una liberazione dal peso delle proprie responsabilità:

 

“Toglie al singolo il peso di dover pensare con la propria testa, di dover giudicare, decidere, rispondere del proprio destino.

Questa è la grande tentazione.

Ciò che è avvenuto nel 1933 e che è proseguito per dodici anni interi, con conseguenze, alla fine, che paiono del tutto apocalittiche, non si è compiuto solo dall’alto verso il basso, ma anche dal basso verso l’alto” (R. Guardini, Etica, Morcelliana, pp. 840-841).

 

Alla responsabilità dei cittadini, però, va affiancata anche quella delle classi dirigenti tutte, a partire da quella politica, nell’affrontare un altro dei nodi fondamentali per la sopravvivenza della democrazia:

la promessa di un’uguaglianza politica, per cui ogni persona deve godere degli stessi diritti, avere accesso alle stesse opportunità ed esercitare il medesimo grado di influenza politica.

È immediato comprendere che questa ambizione è tanto più lontana dall’essere realizzata, quanto più ampie sono le disuguaglianze (economiche, ma non solo) all’interno di una società.

 

Non sorprende in questo senso che l’analisi dell’astensione in Italia alle elezioni europee di giugno consegni una chiara correlazione tra il tasso di non voto e il reddito.

Secondo dati Ipsos, a fronte di una media complessiva nel valore del non voto pari al 53,1%, questo valore aumenta vertiginosamente al diminuire del reddito, toccando un picco del 75,7% per cittadini con un reddito basso e attestandosi a quota 61,8% per quelli medio-bassi.

Al contrario, la partecipazione aumenta sensibilmente all’aumentare del reddito:

il valore del non voto scende a 49,2% per i redditi medi, a 39% per quelli medio-alti e raggiunge il valore minimo, 32,9%, tra i redditi più alti. S

ebbene le cause siano diverse e interdipendenti, questi dati sono inequivocabili e indicano già una prima chiara direzione da perseguire per salvare la democrazia.

Mettere in pratica, cioè, il secondo comma dell’art.3 della Costituzione e “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti”.

E se non lo si vuole fare per adesione convinta alla promessa democratica, lo si faccia per convenienza ed esigenze di stabilità, come suggeriva già “Aristotele” nella sua “Politica”:

“perché dove gli uni posseggono troppo e gli altri nulla si giunge alla democrazia estrema o all’oligarchia pura o alla tirannide determinata dagli eccessi dell’una o dell’altra” (p. 365).

 

 

 

 

Da Calamandrei a Mattarella,

le regole e i valori per difendere

 e rilanciare libertà e democrazia.

  Fondazionepirelli.org – (26 Marzo 2025) – Redazione – ci dice:

 

“La democrazia non è una conquista definitiva, va continuamente realizzata, vissuta, consolidata e interpretata”.

Ma anche: “La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.

 

In tempi così difficili e controversi, contro le cattive inclinazioni alla banalità e alla volgarità e le crescenti manifestazioni di fastidio verso la democrazia, vale la pena rileggere alcune delle pagine migliori della nostra letteratura politica.

Come quelle dell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rivolto nell’aprile 2015 ai giovani vincitori del concorso “Dalla Resistenza alla Cittadinanza attiva”.

 E come il discorso di Piero Calamandrei sulla Costituzione, del 1955, con un passaggio essenziale:

“È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica.

 E lo so anch’io. Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa”.

Però, continua Calamandrei, “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai”.

 

La conclusione è esemplare, a futura memoria: “Vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica”.

 

Dalla fine della Seconda Guerra mondiale, conclusa con la sconfitta del nazismo e del fascismo, abbiamo vissuto in Europa ottant’anni di pace, segnati dall’espansione di quella mirabile sintesi tra democrazia liberale, economia di mercato e welfare State, cioè tra libertà, intraprendenza, benessere e coesione sociale (tutte condizioni che, con troppa superficialità, abbiamo dato per acquisite una volta per tutte).

L’implosione dell’impero sovietico, per i suoi profondi limiti politici, economici e sociali, dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989, ha confortato l’idea – sarebbe meglio dire l’illusione – di un radicale successo dell’Occidente, delle sue culture e dei suoi valori, sino ad alimentare l’arrogante e fallace idea della “esportazione della democrazia”.

 

Ma la Storia, a dispetto delle previsioni di un pur brillante politologo come “Francis Fukuyama”, non era affatto “finita” con la “vittoria” occidentale.

Tutt’altro.

E oggi ci troviamo a fare i conti con le sconvolgenti fratture dei tradizionali equilibri geo-politici e con le  rivendicazioni di primato di valori e interessi di grandi protagonisti internazionali (la Cina, la Russia, l’Iran, la Turchia, il variegato mondo arabo, in attesa del nuovo protagonismo che si farà sentire dall’Africa), mentre i cambiamenti politici e culturali in corso a Washington ci costringono a riconsiderare il ruolo degli Usa, vissuti abitualmente come cardine della democrazia occidentale.

 

La nuova stagione sembra, insomma, connotata dallo spazio crescente delle autocrazie.

 E la democrazia liberale annaspa.

Vive la sensazione d’essere sotto scacco dall’esterno (la guerra in Ucraina ne offre un’esemplare testimonianza).

 E avverte scricchiolii anche al proprio interno.

Aumenta, infatti, la disaffezione verso la partecipazione alla vita politica e al voto, momento fondamentale nella costruzione della “volontà popolare” (uno dei timori nutriti da Calamandrei, appunto).

Cresce l’indifferenza o peggio ancora l’insofferenza verso alcuni pilastri della democrazia:

la divisione dei poteri tra organi dello Stato, l’autonomia della magistratura, la libertà di stampa, il valore del pensiero critico, la sacralità del pluralismo di pensiero.

 

È il tempo del populismo, del sovranismo egoista, dell’intolleranza verso le diversità, del fastidio per la ricerca scientifica e le complessità del lavoro intellettuale.

 La diffusione dei social media, con il gioco povero dei “like” che immiseriscono pensieri e parole, amplifica la crisi.

 

Ecco perché è necessario, proprio per difendere e rilanciare “il respiro della libertà”, tornare a ragionare criticamente, a creare nuovi spazi dialettici delle relazioni internazionali, comunque necessarie.

E a parlare di politica, a studiare la storia, il diritto e l’economia, a riflettere sui nostri valori e sui fondamenti della democrazia.

Che vanno oltre il semplice voto elettorale.

E non contemplano affatto lo schiacciamento della vita sociale e politica nella parodia d’una mano di poker “all in”, chi vince la tornata elettorale è padrone assoluto di tutto lo scenario democratico.

 

Leggere e discutere, dunque.

Fermare l’attenzione sulle parole dei “padri della Costituzione”, figlia di una sintesi delle migliori correnti del pensiero politico italiano, quello cattolico, quello liberale e quello di socialisti e comunisti legati ai valori della democrazia parlamentare (gli Atti dell’Assemblea Costituente ne forniscono luminose testimonianze).

 Riprendere in mano gli autori europei del pensiero liberale e democratico (compresi i tre firmatari del “Manifesto di Ventotene” Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni).

Ragionare sulle relazioni tra libertà e responsabilità, storia e futuro, ricordando la lezione di Aldo Moro sulla “nuova stagione dei doveri” necessaria al rinnovamento della democrazia italiana (fu ucciso per mano delle Brigate Rosse e su mandato anche di poteri finora non individuati con chiarezza giudiziaria, proprio per impedire quel rinnovamento).

 

Serve, per farlo, fermare l’attenzione su un libro essenziale, “Vi auguro la democrazia”, una raccolta di discorsi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella appena pubblicato da De Agostini (con una prefazione di Corrado Augias) e rivolta alle giovani generazioni, da cui abbiamo tratto la citazione iniziale di questo blog.

Scrive, appunto, Mattarella:

“La democrazia non è una conquista definitiva, va continuamente realizzata, vissuta, consolidata e interpretata, perché i tempi mutano, mutano le forme della comunicazione.

 La democrazia va ogni volta, in ogni tempo, inverata, perché sia autentica nei suoi valori, nelle modalità che cambiano di stagione in stagione.

Vive perché viene applicata e attuata.

Realizzata sempre, nei tempi che mutano e nelle condizioni che cambiano, rispettando i suoi valori”.

 

Democrazia in movimento.

Da vivere e fare vivere. Cultura da approfondire. Memoria da difendere (fondamentale impegno, in tempi in cui, incuranti dei fatti, ci sono poteri e potenti che teorizzano le “verità alternative” e sui social spacciano “fattoidi” per fatti). Futuro responsabilmente da costruire. E conoscenza su cui fondare scelte e comportamenti.

 

Anche le conoscenze giuridiche e istituzionali.

Come mostrano le pagine di “I presidenti della Repubblica e le crisi di governo – Cinquant’anni di storia italiana 1971- 2021”, una raccolta di saggi curata da “Stefano Sepe” e “Oriana Giacalone”, pubblicata da Editoriale Scientifica nella collana dell’Istituto di Studi

Politici “S. Pio V”.

Riflessioni acute e sapienti. Con un rinvio fondamentale alla lezione di” Costantino Mortati” (uno dei “padri Costituenti”, maestro di Diritto Costituzionale per generazioni di giuristi, dagli anni Cinquanta in poi) sul “potere moderatore” del Presidente della Repubblica nella composizione dei governi post elezioni e nella soluzione delle crisi di governo:

il compito dell’inquilino del Quirinale è “accertare la corrispondenza degli orientamenti popolari con quelli degli organi rappresentativi e di questi ultimi tra loro, onde mantenere una costante armonia”.

Democrazia come pluralità, appunto.

 Equilibrio tra poteri. Pesi e contrappesi.

Tutto il contrario dell’ “uomo solo al comando”.

La nostra democrazia da continuare a fare vivere e crescere.

(Ma si può anche osservare che il Presidente della Repubblica italiana andrebbe votato democraticamente da tutto il popolo italiano e non solo dai componenti del Parlamento! N.D.R.)

 

 

 

 

 

L’eccezione democratica e la democrazia

dell’emergenza.

La conservazione politica

tra deroga, prerogativa e discrezione.

Storicamente.org - Alessandro Arienzo- (16-12-2024) – ci dice:

 

Indice dell'articolo:

Nel deserto del reale.

L’eccezione permanente e la guerra civile globale.

L’eccezione liberale tra ordinario e straordinario.

Deroga, prerogativa e poteri di emergenza.

Dall’eccezione alla conservazione.

Le categorie di eccezione e di emergenza svolgono un ruolo importante nella comprensione critica delle democrazie liberali contemporanee.

 Riesaminando alcune posizioni sull’esistenza di uno stato di eccezione permanente, questo contributo discute la necessità di evitare una riflessione critica incentrata sulla sola dimensione giuridica dell’eccezione o sulla sola tassonomia dei poteri di emergenza, per mostrare come le traiettorie di istituzionalizzazione di eccezione, prerogativa e discrezionalità costituiscano i nuclei teorici di quella che potrebbe essere chiamata democrazia dell’emergenza.

 

Nel deserto del reale.

Le categorie di eccezione ed emergenza svolgono un ruolo importante negli sforzi di comprensione critica delle contemporanee democrazie liberali.

Tuttavia, benché tra loro contigue, esse operano entro orizzonti concettuali distinti, ordinati in quadri disciplinari differenti e tra loro in potenziale tensione. Queste categorie consentono comunque di problematizzare la relazione tra la sovranità e il governo, di comprendere il porsi dello Stato e della sua ragione nella globalizzazione, di cogliere aspetti rilevanti del governare nei sistemi democratici.

Del resto, se la fine della contrapposizione tra democrazie liberali e stati socialisti è apparsa come un punto di svolta epocale, come una promessa di “spoliticizzazione” e di “neutralizzazione/tecnicizzazione” della politica, il nuovo millennio non ha tardato nel presentare il conto delle contraddizioni che tale fine aveva covato e sollecitato:

 il moltiplicarsi delle cosiddette “nuove guerre” e il ritorno delle “guerre totali” (Kaldor 2002, Kaldor 2014; Galli 2002; Karlin 2024), il disseminarsi dei conflitti locali e l’esplosione dei terrorismi, il susseguirsi sempre più rapido di crisi economiche e finanziarie.

Dopo l’ottimismo globalista degli ultimi decenni del Novecento, l’11 settembre, col suo seguito di attentati e guerre, ha riportato l’Occidente “nel deserto del reale” (Žižek 2022) mostrando che, se anche vi fosse stata una ragione e una misura nella globalizzazione, questa sembra essersi dissolta (Schiera 2010; Colombo 2009; e su un piano differente: Bello 2002).

Col nuovo millennio si è affermato un clima di dilaganti insicurezza e vulnerabilità, accompagnato dall’inflazione di parole quali crisi, eccezione ed emergenza in una spirale narrativa in cui il richiamo coattivo alla sicurezza si è costantemente ribaltato nel susseguirsi continuo delle emergenze.

 Come osservato da “Alessandro Colombo” in un recente volume sul governo mondiale dell’emergenza:

“L’emergenza è diventata, per usare un altro termine inflazionato negli ultimi due decenni, una condizione doppiamente infinita” (Colombo 2022, ix); doppiamente perché, sul piano temporale, ogni emergenza è sembrata sciogliersi nella successiva “senza soluzione di continuità”, e perché, sul piano spaziale, queste emergenze appaiono “comuni”, ossia in una qualche misura condivise se non globali.

 Non desta allora sorpresa che dal settembre 2001 a oggi i termini eccezione ed emergenza abbiano caratterizzato tanto la riflessione politica quanto quella giuridica, assumendo un valore quasi paradigmatico nell’interpretare la logica di governo degli ordinamenti democratici nella fase storica dell’egemonia “neo-liberale” (Harvey 2007).

 

In questo prevalere dell’emergenza/eccezione non vi è nulla di inedito, dal momento che queste categorie, come quelle di necessità e di crisi, hanno accompagnato lungo tutto il Novecento gli sforzi di comprensione e di analisi dello Stato e del suo nucleo più intimo, la sovranità.

Se è vero che oggi viviamo tempi nuovi, propriamente “poli-critici” perché segnati dall’interdipendenza strutturale delle emergenze (Proietti 2024; Koselleck 1972, Koselleck 1982; Tooze 2022), è altrettanto vero che tali categorie costituiscono luoghi e momenti concettuali “classici”, coi quali si è pensato e prodotto il moderno (Benigno e Scuccimarra 2007).

Certamente la riflessione sul legame tra eccezione e democrazia si è data con prospettive metodologiche e linguaggi differenti, seppure per molti rispetti ibridi e in parziale sovrapposizione.

 Se la politologia e la scienza politica hanno prevalentemente interrogato la democrazia costituzionale alla luce delle questioni dei poteri di emergenza e del bilanciamento tra le istanze di sicurezza e quelle di libertà, la filosofia politica e la storia del pensiero politico hanno privilegiato le analisi delle dimensioni specifiche della necessità e della crisi, nonché la comprensione genealogica di concetti, categorie e istituzioni dell’emergenza e dell’eccezione.

In ultimo, la prospettiva giuridica ha tentato di rendere normativa l’eccezione per ricomprenderla nel quadro costituzionale e dello stato di diritto, a partire da una prospettiva di conservazione degli ordinamenti.

Tutti questi linguaggi e queste discipline sono stati messi alla prova dalle situazioni straordinarie, se si vuole critiche, nonché plurali e diffuse, che hanno dato corpo al nuovo millennio.

Si tratta di emergenze multiple: dalle rivolte nelle periferie e nelle banlieue del mondo nei primi anni Novanta ai sommovimenti politici e sociali dei primi anni Duemila; dagli attentati terroristici alle guerre che hanno attraversato il globo dopo l’11 settembre 2001; dalle crisi dei debiti sovrani e dalle emergenze economico-finanziarie, col loro carico di eccezionalismo tecnocratico e finanziario e le loro retoriche sul debito-colpa, alle drammatiche crisi migratorie.

A queste sono seguite le più tipiche tra le condizioni eccezionali, la pandemia da Covid19, la guerra determinata dall’invasione russa dell’Ucraina, la recrudescenza del conflitto israelo-palestinese allargatosi oggi al Libano e alla Siria.

Un indice certamente limitato a quegli eventi che più toccano l’opinione pubblica occidentale, ma che non esaurisce la serie delle guerre, dei conflitti, delle crisi umanitarie in corso.

Sullo sfondo, le contraddizioni e le paure suscitate dalle crisi ambientali, da una progressiva crescita delle diseguaglianze e delle povertà, da una condizione di indebolimento della democrazia liberale e delle istituzioni internazionali multilaterali, dalle sfide poste da potenze globali emergenti, dalle spinte autoritarie e autocratiche dentro e fuori i sistemi democratici.

 

L’eccezione permanente e la guerra civile globale.

Questo susseguirsi ininterrotto di crisi, emergenze e conflitti della più diversa natura sembra confermare quanto osservava” Vittorio Dini” ad apertura di una raccolta di contributi pubblicata nel 2006 dedicato al tema dell’eccezione: “Viviamo ormai, dal 11 settembre 2001, permanentemente nell’eccezione. […] l’eccezione è la regola” (Dini 2006, 7).

Presupposto di questa affermazione era il rilievo assunto dal volume di “Giorgio Agamben” Stato di Eccezione che nel 2003, après Guantanamo, e riprendendo nel nuovo quadro politico le tesi articolate in Homo sacer (1995), aveva denunciato l’imporsi di una logica della decisione sovrana che istituiva e sospendeva la regola costituzionale attraverso la costante produzione di eccezioni.

Nel presentare la sua tesi, Agamben affermava che “nell’urgenza dello stato di eccezione in cui viviamo ” era necessario:

 

portare alla luce la finzione che governa questo” arcanum imperii “per eccellenza del nostro tempo.

Ciò che l’‘arca’ del potere contiene al suo centro è lo stato di eccezione – ma questo è essenzialmente uno spazio vuoto, in cui un’azione umana senza rapporto col diritto ha di fronte una norma senza rapporto con la vita (Agamben 2003, 110).

 

La dimensione arcana del potere mostra un vuoto, l’eccezione appunto, che rende possibile sia un agire svincolato da norme (l’arbitrio politico), sia il prodursi di giuridicità formale che mette in forma questo agire.

Peraltro, la condizione di permanente emergenza che riveste questo arcano ha una portata tanto radicale da permettere il dominio della “nuda vita” ed esercitare il controllo sul vivente in quanto tale: condizione palesatasi nelle strutture di detenzione statunitensi di Guantanamo o di Abu Ghraib.

Agamben denunciava, in tal modo, una profonda solidarietà tra la democrazia e il totalitarismo basata su un comune e intimo nucleo del potere rappresentato dalla decisione che pertiene al sovrano sull’eccezione.

Negli ordinamenti democratici, è questo nucleo a garantire la messa in opera di una soglia di indistinzione tra inclusione ed esclusione.

L’eccezionalismo delle politiche democratiche non costituisce, allora, l’esito di un processo corruttivo, una deriva o uno sviamento della forma democratica, ma il dispiegarsi di una sua dimensione recondita.

In un passo molto citato, e che merita di essere riportato per intero, Agamben rifletteva su quanto interpretato alla luce delle disposizioni prese da Hitler attraverso il Decreto per la protezione del popolo e dello Stato del 28 febbraio 1933:

 

Il totalitarismo moderno può essere definito […] come l’istaurazione, attraverso lo stato di eccezione, di una guerra civile legale, che permette l’eliminazione fisica non solo degli avversari politici, ma di intere categorie di cittadini che per qualche ragione risultino non integrabili nel sistema politico. Da allora, la creazione volontaria di uno stato di emergenza permanente (anche se eventualmente non dichiarato in senso tecnico) è divenuta una delle pratiche essenziali degli Stati contemporanei, anche di quelli cosiddetti democratici (Agamben 2003, 11).

 

La prospettiva di Agamben consolidava e approfondiva percorsi di riflessione che, prima nel contesto filosofico-politico italiano, poi in quello anglosassone, erano stati presentati da autori come Carl Schmitt e Walter Benjamin attraverso strumenti concettuali mutuati dalle opere di Michel Foucault e di Jacques Derrida.

In essa l’emergenza si presenta a valle di uno spostamento del piano dell’analisi dalla dimensione giuridica dell’eccezione al piano filosofico e politico della decisione sovrana sui contesti emergenziali. In tal senso, lungi dal costituire due categorie distinte, l’emergenza si presenta come il prodotto dell’eccezione intesa come l’esito della decisione sovrana circa la necessità e la sussistenza dello stato di eccezione.

 Una condizione descritta, infatti, come la “progressiva erosione dei poteri legislativi del parlamento, che si limita oggi spesso a ratificare provvedimenti emanati dall’esecutivo con decreti aventi forza-di-legge” (Agamben 2003, 17).

Nell’orizzonte concettuale di Agamben, eccezione ed emergenza non costituiscono quindi percorsi distinti e in contrapposizione:

l’eccezione è logica politica che governa le emergenze, ed entrambe hanno il loro nucleo comune – l’arcano, il fondamento mistico – nel venire poste dalla “decisione”.

Il sovrano è tale, e permane in quanto tale, perché dichiara l’emergenza/eccezione, e in tal modo esso attesta, conferma sé stesso in quanto sovrano. In tal senso, l’emergenza non preesiste alla decisione, essa non costituisce un fatto indipendente che si imporrebbe sul sovrano obbligandolo, in forza di necessità, a sospendere la propria configurazione ordinaria.

Piuttosto essa si costituisce solo attraverso e nella decisione che per prima la istituisce.

Ecco perché il vero e più delicato punto di attivazione dello stato di eccezione secondo Agamben, quello in cui esso esprime tutta la sua potenza, non è nei casi di minacce all’ordine politico che giungono dall’esterno (lo Stato di Guerra), ma nei casi in cui la minaccia è interna (lo Stato d’Urgenza):

ossia in tutte quelle condizioni in cui è la possibilità della guerra civile a palesarsi (Agamben 2019).

A partire da ciò è possibile intendere perché, in questa prospettiva, si dia la “prevalenza logica e politica della norma sull’eccezione” (Galli 2005, 252).

 Ed essendo la norma logicamente antecedente l’eccezione, questa consente sia che il sovrano attivi una funzione conservativa o restaurativa dell’ordine, sia che egli dia corpo a un processo “costituente” e trasformativo.

 

L’eccezione, pertanto, è l’espressione di una “potenza originaria della crisi” che è implicata nella dimensione stessa della decisione, quest’ultima intesa come la “rischiosa apertura dell’ordine sul conflitto” (Galli 2005, 253).

Nell’opera di Agamben viene allora riordinata la distinzione schmittiana tra dittatura commissaria e dittatura costituente (Schmitt 1975), riconducendo (o forse riducendo) la prima alla seconda.

Di qui il legame tra la prospettiva di analisi articolata in “Homo Sacer”, dedicata alla questione della “nuda vita”, e le categorie foucaultiane di governo e di biopolitica.

A ben guardare, attraverso l’eccezione il potere sovrano produce innanzitutto “forma politica”:

“La prestazione fondamentale del sovrano è la produzione della nuda vita come elemento politico originale e come soglia di articolazione fra natura e cultura, tra zoé e bíos” (Agamben 2004, 203).

Portando alle conseguenze più estreme le tesi foucaultiane sulla biopolitica – in particolare quella secondo cui, col passaggio dalla vecchia sovranità moderna al governo liberale, “al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte” (Foucault 2013, 122) – nell’attuale “guerra civile mondiale” l’eccezione si afferma come il paradigma dominante di un governare essenzialmente biopolitico.

 

Sulla base di tali presupposti si può forse comprendere perché il Covid, l’emergenza “inventata” secondo Agamben, costituirebbe per il filosofo il punto ultimo di questo dominio.

 La pandemia e la sua gestione mostrerebbero, infatti, come a partire dall’imposizione del vaccino, e più in generale la nuova potenza biotecnologica, le politiche sanitarie sanciscono la presa del sovrano sulle determinazioni socio-biologiche dell’umano.

Ancora, le politiche di contenimento e di limitazione della mobilità/socialità che la gestione della pandemia ha promosso diventano un elemento di disciplinamento alla vita a distanza.

 Questa spinta “digitalizzante”, attraverso l’imposizione di forme di riorganizzazione della vita associata, propone un progetto di smaterializzazione e virtualizzazione della vita, oltre che di accumulazione di dati e informazioni.

In questa prospettiva la pandemia si rivela una costruzione politica, ossia l’esito di una decisione biopolitica essenziale che costituisce e impone un nuovo ordine.

La tesi dell’affermarsi di uno stato di eccezione permanente seguito agli eventi drammatici del nuovo millennio è certamente controversa, e ha prodotto una profonda polarizzazione tra i fautori di una prospettiva di eccezione e i suoi critici . Una contrapposizione che si è andata amplificando con i posizionamenti polemici assunti durante il Covid da alcuni tra i teorici dell’eccezione, tra questi innanzitutto Agamben, che si sono spinti a sostenere l’inconsistenza sanitaria del virus e la sua unica sussistenza quale produzione “biopolitica”.

Tra le più recenti letture critiche a un tale approccio vi è quella di Mariano Croce e Andrea Salvatore (2021), i quali hanno sia sostenuto l’inefficacia dell’intera impalcatura concettuale dell’eccezione, sia messo in evidenza quelli che ritengono essere i limiti e le “forzature” dell’interpretazione di Agamben di Carl Schmitt.

 In particolare, questi due studiosi ritengono che l’eccezione sia qualcosa di politicamente e giuridicamente diverso dalle emergenze, e che, come fattispecie politica e giuridica, essa non esprima in una maniera significativa una qualità propria ed esclusiva della politica democratica contemporanea.

 Ancora, essi affermano che l’impianto teologico politico che la caratterizza non permette di cogliere la “forza istituente” – nel senso dell’apertura radicalmente alternativa all’esistente – che pure si presenta nelle crisi e nelle emergenze. Attraverso il ricorso alla categoria di eccezione si descrive, a loro giudizio, un presente politico tanto apocalittico e totalitario, quanto indistinto e indifferenziato.

Similmente, e partendo da uno studio delle condizioni di possibilità del discorso e della ragione eccezionalisti, anche “Massimiliano Guareschi” e “Federico Rahola” hanno invece osservato come

il ricorso all’eccezione rappresenta il ricorso a una scorciatoia teorica rispetto alla necessità di rendere conto di una geografia del presente irriducibile ai criteri ordinativi della società internazionale e delle sue opposizioni costitutive (interno/esterno, militare/civile, guerra/pace) (2011, 16).

 

La principale obiezione che questi rivolgono alle tesi eccezionaliste è di aver risolto ogni emergenza in eccezione, prima sostanzializzando le emergenze (al plurale) nella questione dell’emergenza (al singolare), poi ontologizzando l’emergenza in eccezione.

Certamente, nel riflettere intorno alla dimensione permanentemente emergenziale della politica contemporanea Agamben esalta la continuità logica e istituzionale tra gli istituti dell’emergenza e lo stato di eccezione.

Se assumiamo questa prospettiva, l’osservazione per cui le democrazie fanno ricorso solo in maniera limitata agli istituti dell’eccezione giuridica perché possono fare più utilmente ricorso a una pluralità di dispositivi differenti non risponde alla tesi agambeniana secondo cui anche nei dispositivi di emergenza (dai pieni poteri ai poteri di emergenza) si ritrova una sorta di sospensione dell’ordine costituzionale.

Infatti, l’indeterminatezza concettuale e terminologica dell’eccezione, se intesa in senso filosofico e non giuridico, esprime una “soglia di indeterminazione” tra l’esercizio democratico (e costituzionale) del potere e la sua declinazione assolutistica (o totalitaria).

Più convincente, a parere di chi scrive, è l’osservazione per cui è proprio il gesto filosofico che riconduce l’emergenza all’eccezione, operazione che si basa sulla chiusura della politica intorno al momento della decisione sovrana, a costituire la debolezza della prospettiva agambeniana.

 E questo per due ragioni.

La prima ragione concerne il piano dell’analisi politica e costituzionale, perché una simile posizione attesta l’ordine costituzionale e politico come rigidamente monista e sostanzialmente indiviso.

 La seconda ragione riguarda il piano dell’interpretazione critica della società, poiché in essa il pluralismo sociale e politico delle nostre società viene ridotto a elemento secondario e accessorio di un centro decisivo e indistinto, lo Stato, che della società sarebbe il cuore.

 In tal modo, viene affermandosi una prospettiva secondo cui, a fronte di quella soglia di indistinzione che caratterizza il “politico”, la totale e rigida distinzione tra questo politico e la “politica” sembra intesa come espressione viva del pluralismo sociale.

 Al tutto pieno del Politico diviene possibile opporre solo un gesto assoluto – assolutamente negativo – che esaurisce, e svuota, ogni possibile politica pratica.

 

L’eccezione liberale tra ordinario e straordinario.

Come abbiamo visto al centro di una riflessione sul rapporto tra eccezione ed emergenza, quando non si accolga il continuismo agambeniano, vi è innanzitutto una questione epistemica che concerne i rispettivi statuti.

 In questo confronto gioca un ruolo cruciale l’assenza di definizioni univoche di eccezione.

Assenza resa evidente dalla pluralità dei dispositivi politici e istituzionali che vengono solitamente ricompresi nell’eccezione:

 lo Stato di Guerra, lo Stato d’Assedio, lo Stato d’Urgenza, la Legge marziale, i Pieni poteri. In effetti, né l’eccezione ha una chiara caratterizzazione epistemologica (essa si configura in quanto tale in relazione a una norma che essa sospende o altera radicalmente), né lo stato di eccezione esprime una dimensione in senso stretto giuridica o istituzionale, rappresentando piuttosto una categoria filosofico-politica che mira a portare a sintesi e a razionalizzare (entro una logica di sovranità) l’insieme degli istituti giuridici e dei poteri di emergenza di cui gli ordinamenti sono dotati.

Una definizione molto generale è quella secondo cui con stato di eccezione si intendono tutte quelle situazioni nelle quali lo Stato, per garantire la propria autoconservazione, deve far ricorso a strumenti o mezzi straordinari che scavalcano o sospendono il quadro ordinario della sua azione (Kervégan 1996, Galli 2005, Lazar 2020).

 Questa definizione descrive un percorso secondo cui, da una condizione di grave crisi, ne deriva una reazione straordinaria finalizzata alla salvaguardia e alla conservazione dell’ordine politico. Questa definizione però non qualifica il tipo di intervento emergenziale o eccezionale che lo Stato, o il suo governante, dovrebbe assumere, ma si limita a sancire che, per la salvezza dello Stato e della sicurezza dei suoi cittadini, “anything shall be held necessary, and legal by necessity” (Parker 1640, 7).

 

Nella prospettiva giuridica liberale l’eccezione implica, invece, la sospensione più o meno prolungata della condizione politica ordinaria. A questa sospensione segue l’alterazione momentanea dello stato di diritto e/o della divisione dei poteri, nonché il ricorso a deroghe alle leggi ordinarie.

Lo stato di eccezione è però vincolato al ripristino dell’ordine e non dovrebbe intaccare in via permanente lo stato di diritto o la legittimità democratica dell’ordinamento. In altri termini, esso non comporta la permanenza sine die dell’istituto eccezionale o il mantenimento di una condizione di indistinzione tra il dentro e il fuori del diritto.

L’eccezione liberale è interpretabile per questo come la forma moderna dello stato di necessità romano, nello specifico dell’istituto della dittatura, e di questo ne assume i tratti della temporaneità (Saint-Bonnet 2001, Portinaro 2019) [7]. La ragione è che l’eccezione si giustifica alla luce di una separazione netta tra ordinario e straordinario ed esprime una funzione eminentemente conservativa o, se si vuole, restaurativa dell’ordine.

 I sistemi costituzionali dell’eccezione di matrice liberale sono, per questo, sistemi rigidi, tesi a governare ciò che Giuseppe Marazzita ha descritto come crisi costituzionali conservative (2003, 149-155).

 Nei contemporanei sistemi democratici questi istituti sono riconosciuti, in via procedurale, all’interno dell’architettura costituzionale e restano dormienti, ma potenzialmente attivabili, in caso di necessità.

Come abbiamo premesso, essi si basano sul presupposto della necessità di istituire due regimi distinti, uno ordinario e uno straordinario, spesso attribuendo ad attori istituzionali differenti, ma interni all’ordinamento, la prevalenza dell’azione nell’uno e nell’altro caso, secondo una procedura che è rigidamente fissata ex ante.

 Ciò però implica che negli ordini politici cosiddetti monocratici, quelli per esempio a prevalenza parlamentare o quelli a carattere dispotico, e in generale tutti quelli che non hanno uno specifico regime di emergenza, la logica dell’eccezione perda il proprio senso costituzionale.

 In questi casi il governo ordinario e quello straordinario si distinguono piuttosto per “grado” che per “sostanza”.

 

Se entriamo nel merito della pluralità degli strumenti che questi regimi possono attivare nei casi di necessità è facile rendersi conto che non vi sono solo gli istituti che seguono la logica della deroga, ma vi è anche quell’insieme di poteri che si attiva in casi particolari, e poteri che possono essere descritti genericamente come “di emergenza”.

Essi hanno quali loro radici storiche quelle prerogative che nei sistemi politici di antico regime erano attribuite al re, o ai magistrati politici, nell’esercizio di un governo discrezionale secondo “necessità”.

La lunga storia del costituzionalismo moderno ha prima contrastato, poi inglobato nelle forme del governo legittimo, sia le prerogative che i diversi sistemi politici o politico-giuridici attribuivano ai monarchi e ai più importanti magistrati politici, sia le diverse istanze del governo prudenziale espresse dalla prerogativa assoluta dei re, offrendo a esse una forma di legalità.

 È opportuno notare che in questa tipologia possono forse rientrare anche quei poteri emergenziali definiti da Carl Schmitt come commissari che, al pari dei poteri d’emergenza o regolamentari,

 

surrogano le norme ordinarie (nel significato specifico di sub rogare, fare eleggere qualcuno al posto di un altro nei comizi legislativi e giudiziari dell’antica Roma) e depotenziano il potere legislativo (Borrelli 2006, 17).

 

Questi poteri, la cui natura è discrezionale, rivelano uno dei punti di maggiore tensione degli ordinamenti democratici magistralmente individuato, per l’Italia, da Norberto Bobbio. Infatti, quale esito di una lunga riflessione sull’esperienza politica italiana, così segnata dal ricorso ai poteri di emergenza, dai terrorismi e dalle politiche occulte, questi osservava come “Tra le promesse non mantenute dalla democrazia […] la più grave, e più rovinosa, e, a quanto sembra, anche la più irrimediabile, è proprio quella della trasparenza del potere” (Bobbio 2009, 363).

Secondo Bobbio sebbene la democrazia si debba caratterizzare per la sua visibilità anche quando è necessitata a fare ricorso a politiche secretive e di sicurezza (Bobbio 1980, Bobbio 2011), essa è inevitabilmente segnata da momenti in cui il governo si rende invisibile, irriconoscibile e incontrollabile.

In questi casi, la differenza sostanziale tra regimi democratici e regimi autocratici consiste nel fatto che nei primi l’uso di strumenti eccezionali – anche dei cosiddetti arcana imperii – è un’anomalia regolata da leggi, e sottoposta al permanente disoccultamento della libera critica, laddove nei regimi autocratici non è posto limite, né controllo all’esercizio del governo.

Significativo è allora quanto lo stesso Bobbio osserva introducendo un’opera che rappresenta una delle critiche più rilevanti alla analisi schmittiana sulla dittatura e sullo stato di eccezione, almeno in quella che ne è la sua concreta realizzazione storica.

Questa critica si trova nel testo del 1947 di Ernst Fraenkel intitolato il Doppio Stato (1983) che interpreta il nucleo politico dello stato nazional-socialista come l’intreccio tra Stato normativo e Stato discrezionale.

Con la prima espressione, Fraenkel intendeva “un sistema ordinario di governo” (Fraenkel 1983, 13). Con la seconda, egli descriveva, invece, un “sistema di dominio dell’arbitrio assoluto e della violenza che non conosce limite in alcuna garanzia giuridica” (Fraenkel 1983, 13).

 La caratteristica specifica del regime politico nazista, nella complessa relazione tra Stato e Partito, è nella loro profonda (seppur conflittuale) interdipendenza.

Questa interdipendenza segnerebbe, peraltro, il passaggio nel contesto weimariano da una dittatura commissaria a una dittatura sovrana. Nell’introduzione all’edizione italiana di questo testo, Norberto Bobbio argomentava che l’analisi di Fraenkel non costituiva solo una teoria dello Stato totalitario ma rappresentava una vera e propria analisi dello Stato moderno.

Nel far questo egli ipotizzava che Fraenkel rivelasse “due facce dello Stato, una coperta dal diritto, l’altra aperta all’esercizio del potere puro, due facce dello stato che si ritrovano in diversa misura e in diverso grado in ogni sistema politico” (Bobbio 1983, xxiii).

Alla luce di queste osservazioni, egli sosteneva che l’intreccio tra governo democratico e “arcana imperii” non costituisse una patologia politica o l’indice di un insuccesso democratico, ma avesse le sue inestirpabili radici in quella discrezionalità che è propria dell’operato politico, del governare.

 

Deroga, prerogativa e poteri di emergenza.

La differenza tra la logica della deroga e quella della prerogativa è forse chiara sul piano della configurazione teorica, lo è molto meno nell’articolazione concreta degli istituti in cui esse si realizzano, e in come queste logiche si esprimono nei diversi contesti costituzionali o nelle differenti tradizioni giuridiche e politiche.

Nel governare i molteplici fattori di crisi che le investono, anche laddove esista una chiara separazione costituzionale tra un regime ordinario e un regime d’eccezione, le democrazie hanno fatto ricorso in grande prevalenza a strumenti diversi e plurali di natura emergenziale.

Questi strumenti vivono di una separazione “labile” tra normale e straordinario e, oltre a offrire una maggiore flessibilità d’intervento e un più ampio spazio di manovra, comportano un costo politico minore rispetto all’attivazione degli istituti dell’eccezione. Infatti, la garanzia della legittimazione democratica dell’operato del governo, e la difesa del pluralismo sociale e istituzionale, rendono politicamente oneroso il ricorso agli strumenti eccezionali.

Eppure, anche l’adozione di dispositivi emergenziali può produrre profonde e strutturali distorsioni negli equilibri democratici.

Tra gli autori che con maggiore chiarezza hanno individuato questo rischio vi è il politologo statunitense “Clinton Rossiter “che, nel contesto dell’emergere della contrapposizione tra blocco occidentale e blocco sovietico, poneva il problema di come conciliare i principi di fondo del governo democratico e l’adozione di politiche straordinarie necessarie alla sua tutela (Rossiter 1948).

 Questi dava avvio alla sua analisi dallo studio delle procedure e dei poteri eccezionali propri del costituzionalismo liberale e democratico:

da un lato quelli propri della “dittatura esecutiva” (Stato d’Assedio, Legge marziale) e del governo militare, dall’altro quelli della “dittatura legislativa”.

Le differenze e le rispettive funzioni di quei dispositivi potevano essere interpretate distinguendo interventi emergenziali di natura esecutiva (prevalentemente espressione di speciali prerogative attribuite ai governi) e interventi emergenziali di natura legislativa, risultato della delega di poteri speciali all’esecutivo da parte del legislativo.

 Nella sua analisi, lo studioso statunitense sottolineava come questi ultimi sembrassero più adatti a rispondere a crisi di natura economica e sociale.

 Tuttavia, egli metteva sull’avviso dei rischi di dispositivi istituzionali che potevano sbilanciare la relazione tra legislativo ed esecutivo.

 Sulla stessa questione, e negli stessi anni, rifletteva Carl Friedrich segnalando nel suo “Constitutional Government and Democracy” (1950) come i sistemi politici democratici sviluppassero una gamma di approcci nuovi al tema della sicurezza basati sulla delega crescente di competenze legislative all’esecutivo.

 Anche secondo Friedrich se la logica “costituzionale” era basata sulla necessità di gestire condizioni di emergenza e di preservare il ruolo di “custode della costituzione” del parlamento, questi strumenti potevano avere come esito la distorsione permanente nei rapporti tra i poteri dello Stato.

Nei successivi “Constitutional Reason of State” (Friedrich 1957) e nel capitolo “Constitutional Crisis del suo Limited Government” (Friedrich 1974), egli delineava i principi di una ragione di Stato costituzionale convinto che il problema delle democrazie liberali non fosse tanto di saper governare l’eccezione, quanto di dotarsi di dispositivi politici e istituzionali capaci di offrire l’efficace gestione delle emergenze senza con ciò indebolire le libertà politiche e civili e le istituzioni che le garantiscono.

 

Le questioni poste da “Rossiter” e “Friedrich”, e reiterate nei decenni che ci conducono alla fine del millennio, non hanno trovato una risposta univoca, e sono rimaste sostanzialmente confinate nell’alveo della riflessione giuridica e politica, pur riemergendo carsicamente nei contesti più “caldi” della cosiddetta Guerra fredda.

Gli attacchi terroristi di matrice islamista dei primi anni 2000 hanno riportato nel dibattito pubblico la necessità di ripensare e adattare alle necessità del momento gli strumenti a disposizione dei governi democratici per fronteggiare condizioni straordinarie e minacce esistenziali.

Tra le proposte più discusse di riforma degli assetti costituzionali, che accoglievano le preoccupazioni per la tenuta dello stato di diritto suscitate dagli interventi straordinari adottati, vi è quella del costituzionalista “Bruce Ackerman”, il quale ha tentato di articolare un vero e proprio modello di “costituzione di emergenza” (2004) capace di attivare uno stato emergenziale provvisorio, sufficientemente flessibile e reiterabile, ma legittimato da maggioranze parlamentari crescenti a ogni riconferma.

Il modello è chiaramente ispirato all’”istituto della dittatura romana” e alla “costituzione della Repubblica del Sudafrica”, che egli ritiene particolarmente avanzata in materia di gestione delle crisi.

Ritenendo necessari strumenti propriamente costituzionali per l’attivazione di politiche emergenziali, egli credeva opportuno che tali procedure concedessero ampi poteri al governo nel brevissimo periodo, ma che fossero rigidamente limitate dalla necessità di reiterare il consenso all’esecutivo da parte del parlamento attraverso maggioranze qualificate crescenti.

Oltre alla collaborazione tra maggioranza e minoranza, col fine di sostenere le iniziative del governo attraverso la promozione del consenso generale della cittadinanza via i partiti, “Ackerman “affermava anche la necessità di sistemi compensativi giurisdizionali ex post per mitigare i costi e le ricadute delle scelte fatte dall’esecutivo.

La costituzione di emergenza proposta da” Bruce Ackerman” ha sollevato un ampio dibattito e suscitato un vivo interesse, ma resta comunque legata alla esigenza di normare costituzionalmente gli interventi eccezionali in quelle che possono apparire crisi gravi e immediate.

Tuttavia, gli eventi degli ultimi trent’anni mostrano una pluralità di momenti critici nei quali l’emergenza si presenta come persistente, diffusa, con vari livelli di intensità.

Quindi non tale da comportare l’attivazione dei dispositivi costituzionali dell’eccezione.

A partire da una analisi tipologica dei poteri di emergenza, “John Ferejohn” e “Pasquale Pasquino” hanno messo in risalto come una teoria dei poteri d’eccezione si giustifica solo all’interno di un sistema costituzionale di distribuzione del potere, e che essa modifica sempre e inevitabilmente i rapporti tra i cittadini e il governo (cfr. Pasquino e Ferejohn 2006; Ferejohn e Pasquino 2006; Pasquino e Manin 2000).

 In caso di urgenza, le costituzioni pluraliste permettono la delega di poteri al presidente o a una qualche altra istituzione che possa sospendere o ridurre l’esercizio di diritti o libertà al fine di preservare l’ordine esistente.

A differenza del modello costituzionale della dittatura romana, nella quale a essere investito del potere era un soggetto esterno all’architettura istituzionale, nelle esperienze democratiche contemporanee vi è sempre un istituto o una carica interna all’ordinamento che viene investita di poteri eccezionali, al fine di garantire la continuità del mandato popolare e democratico.

Anche nelle esperienze differenti – quella monocratico-parlamentare britannica e quella presidenziale statunitense – il perno intorno cui ruotano le procedure di attivazione delle politiche eccezionali o emergenziali è sempre la garanzia di una qualche continuità nel processo di legittimazione democratica.

Per questa ragione i regimi democratico-rappresentativi non possono che far ricorso a strumenti legislativi di gestione delle emergenze che autorizzano la cessione temporanea di poteri speciali all’esecutivo, così da garantire a quest’ultimo quella legittimità democratica (rappresentativa) che costituisce un elemento imprescindibile delle contemporanee democrazie liberali.

Allo stesso modo, essa deve predisporre strumenti di natura giuridica che controllino ex post (adjudication) l’operato del governo e dei suoi attori, rinviando quindi al giudizio alle corti. In tal modo, è possibile dare l’ultima parola agli elettori e al giudizio espresso da costoro attraverso il voto (Pasquino e Ferejohn 2004, 2016).

 

La risposta “giurisdizionale” dei due studiosi è significativa, e muove il confronto dal problema delle relazioni tra esecutivo e legislativo al ruolo specifico del potere giudiziario.

 Tuttavia, essa sposta ex post il controllo sull’operato dei governi, assumendo quali presupposti l’autonomia e indipendenza del giudiziario (al di qua, quindi di scenari orbaniani o trumpisti), e l’efficacia del voto quale strumento di giudizio sull’operato dei governi (al netto della crescente disaffezione democratica e dello scetticismo dei potenziali elettori).

Certo è che le difficoltà che i sistemi democratici incontrano a fronte di emergenze diffuse, più che di crisi costituzionali conservative, pone il problema della tenuta dei sistemi democratici in una fase storica di concentrazione del potere esecutivo, di spinte alla governabilità, di pulsioni populiste, tecnocratiche e autoritarie.

 Non che gli strumenti propriamente eccezionali scompaiano, come mostra il ricorso all’”état d’urgence” in Francia anche per la gestione dell’ordine pubblico.

Ma poiché le minacce più gravi appaiono forse meno evidenti e pressanti di quelle che potevano apparire all’orizzonte della politica internazionale novecentesca, le risposte degli ordinamenti democratici non assumono la forma eccezionale della deroga assoluta (la sospensione dell’ordinamento), rimanendo prevalentemente all’interno del sistema delle politiche pubbliche e delle procedure istituzionali ordinarie. In contesti in cui la linea di demarcazione tra il normale e l’eccezionale sembra confondersi, sia perché è più complesso dichiarare l’eccezione, sia perché le capacità di reazione e di resistenza delle nostre società appare tale da non rendere le situazioni di emergenza mai veramente “esistenziali”, diviene decisiva la capacità dei cittadini di discernere quando l’equilibrio tra i poteri dello Stato, e le relazioni tra lo Stato e la cittadinanza, scivolano lungo un crinale pericoloso.

 

Dall’eccezione alla conservazione.

… La separazione rigida tra governo straordinario e governo ordinario dell’emergenza non consente però di cogliere le complessità connessa alla conservazione del potere politico statuale e di gestione delle crisi. La possibilità dell’alterazione dei bilanciamenti tra i poteri dello Stato e della sospensione dello stato di diritto e di parte degli ordini costituzionali è compresente nei regimi democratico-costituzionali pluralisti.

Il ricorso alla deroga costituzionale o l’attribuzione all’esecutivo di poteri emergenziali e di funzioni legislative, al pari degli spazi di discrezionalità esecutiva, amministrativa e tecnica s’inscrivono in una più complessiva gestione della sicurezza, che allarga gli orizzonti e le politiche della conservazione politica.

 

Nell’analisi di ciò che si è variamente inteso facendo ricorso alla categoria di eccezione, questo allargamento richiama alla necessità di non far precipitare l’analisi delle situazioni critiche alla sola dimensione giuridica, ma anche di porre l’attenzione sulle dimensioni articolate e plurali del governare e di allargare lo sguardo ai percorsi dell’esercizio di poteri discrezionali nel contesto democratico .

A tal fine è opportuno riflettere sulle differenze tra le pratiche e i dispositivi istituzionali nel mondo politico antico (exceptio, equitas, provocatio, senatus consultum ultimum…) o medievale e moderno (deroga, prerogativa, prudenza), e tener conto di quelle forme paradigmatiche della politica moderna non riducibili alla sovranità ma alle arti prudenziali di governo e della conservazione politica (Borrelli 2007; Arienzo e Borrelli 2011).

 A parere di chi scrive, è di questa pluralità che vive l’irrigidimento conservativo delle contemporanee democrazie.

Ed è questo complesso intreccio che si scorge al fondo del permanente governare l’emergenza.

 

In effetti, oggi gli elementi di crisi del sistema democratico si sommano a quelli più complessivi concernenti le trasformazioni della sovranità politica, ma anche di riorganizzazioni del ruolo e della funzione dello Stato in un più complessivo riassetto dei poteri su scala globale.

 In questo contesto, il riferimento continuo alle emergenze e alle crisi può essere interpretato come una reazione alle crisi diffuse prodotte dalla globalizzazione, oppure come “l’impuissance autoritaire de l’État à l’époque du libéralisme” (Goupy 2016).

Una diversa ipotesi è che esso costituisca il perno di un’opera di conservazione politica che integra strumenti manageriali, amministrativi, tecnocratici e comunicativi con i più tradizionali poteri di emergenza.

 In tal modo, la conservazione politica fa proprio un principio di complessità. Attraverso “il ricorso al disordine controllato dell’emergenza” vediamo quindi all’opera sia gli sforzi di preservare gli ordinamenti democratico-liberali, sia le spinte al blocco conservativo della vita democratica:

 

le oligarchie nell’affrontare i temi “duri” della politica ricorrono alla più tradizionale Ragion di Stato; non a caso avanza di nuovo la dimensione non-democratica del segreto – dell’algoritmo, dell’emergenza, della guerra. L’instabilità dell’epoca si realizza poi al grado più alto nel perseguimento di logiche apertamente di potenza da parte di una politica che decide in ultima istanza di impegnarsi nella lotta per l’egemonia: per la guerra (Galli 2023, 100).

 

Ecco perché è forse poco utile rivisitare le categorie schmittiane di eccezione e stato d’eccezione per argomentare le condizioni complessive di difficoltà oggi vissute dalle democrazie.

 Piuttosto, sarebbe utile chiedersi:

 

se tali emergenze costituiscano una caratteristica propria dell’ultima fase della modernizzazione politica, o piuttosto si debba prendere atto del ritorno periodico di rischi di azzeramento degli sviluppi pure conseguiti da parte di modelli di government così ampiamente diffusi (Borrelli 2006, 20).

 

L’attuale contesto internazionale ha messo in chiaro la precarietà degli equilibri tra stato di diritto, garanzie di libertà e sicurezza anche nei sistemi democratici più consolidati. Gli scenari internazionali mostrano ormai quanto su alcuni aspetti cruciali di ciò che comunemente è considerato state security, e che costituiscono alcune tra le principali emergenze democratiche – il controllo dei flussi migratori, la gestione dei processi di globalizzazione economica e finanziaria, lo sfruttamento delle risorse energetiche ed ambientali, la minaccia terroristica, la crisi ambientale –, lo Stato non è più l’unico, talvolta neppure il più rilevante, attore politico.

 Del resto, la stessa nozione di “sicurezza” ha con sé due accezioni diverse che la lingua italiana non permette di distinguere con chiarezza.

La prima, che in inglese si traduce con “safety”, ha un senso di immediata autoconservazione.

 Essa esprime quindi la più comune riflessione sulla difesa dello Stato e dei suoi interessi vitali, la difesa della nazione e dell’ordine politico-istituzionale dal nemico esterno e interno.

 La seconda, più precisamente espressa tradotta dal termine security, restituisce un’idea di sicurezza che opera come tutela, promozione e sviluppo.

Le emergenze del presente, nella loro complessità, pongono in relazione questi due diversi significati e i rispettivi campi politici e istituzionali (Arienzo 2008).

Forse è a partire da questa polarità che possiamo intendere in che modo le democrazie contemporanee diventano democrazie dell’emergenza:

ossia, si trasformano in  regimi politici che, pur nel quadro dei vincoli dello stato di diritto e degli ordinamenti costituzionali, modificano in maniera sostanziale i rapporti tra poteri a favore dei momenti esecutivi e amministrativi, tendono a ridurre gli spazi della mediazione rappresentativa a favore dei percorsi della governabilità e dello sviluppo economico e pongono la gestione delle molteplici crisi ed emergenze ai diversi livelli locali, nazionali e internazionali come il fine prevalente del loro operato.

In questo quadro, si assiste a un particolarissimo ritorno di una ragion di Stato che assume le forme della concentrazione del potere politico e la manipolazione e gestione/produzione di paura/incertezza attraverso la cura dell’opinione pubblica.

Paure, quindi, mediatizzate e rese strumenti di cattura delle angosce reali dei singoli alle quali la politica risponde con l’esaltazione della leadership individuale e delle strutture dei nuovi partiti personali.

Un fenomeno fortemente regressivo che assume le forme dell’autoritarismo e del populismo (Ingimundarson e Jóhannesson 2021).

Tutto ciò avviene in un contesto in cui è una pluralità di soggetti a concorrere alla gestione delle emergenze, in una frammentata, quanto pervasiva, security governance globale.

Il moltiplicarsi delle fratture e degli elementi di crisi politica, economica, sociale, per lo meno nei paesi con una tradizione democratica e liberale più solida, sembra piuttosto scorrere, nel lungo periodo, verso le forme di una governance dell’emergenza che scavalca, sul piano della politica interna, le forme della mediazione giuridico-politica per aprirsi a politiche emergenziali plurali e diffuse (Arienzo e Borrelli 2011).

 

In conclusione, nel comprendere come gli attuali sistemi democratici rispondano o producano le emergenze è necessario evitare una duplice errore.

Il primo è di ridurre ogni emergenza all’eccezione, sulla base del principio che ogni emergenza o crisi deriva pur sempre da una decisione sovrana originaria.

Una simile prospettiva non distingue ciò che è necessario per salvaguardare una comunità democratica da ciò che invece è utilizzato per dominarla. Il secondo è di fermarsi alla verifica della costituzionalità formale, o della correttezza procedurale, nel ricorso ai dispositivi politici e istituzionali emergenziali.

Una tale analisi non coglie i rischi insiti nel ricorso a tali dispositivi in un contesto di democrazia indebolita.

Si tratta, invece, di comprendere e verificare i fini e gli obiettivi politici che di volta in volta muovono le politiche di emergenza (e/o di eccezione) e intendere – oltre ogni riduzione essenzialista – la pluralità degli strumenti, dei saperi, delle tecniche a disposizione di chi voglia “preservare” o “conservare” lo Stato, il benessere dei cittadini, le proprie posizioni di potere, le relazioni economico-sociali esistenti.

 Si tratta di “abbandonare l’illusione che l’emergenza sia una specie di «fatto» e accettare che […] gli organi politicamente responsabili dovranno necessariamente emettere un giudizio epistemico sull’esistenza o meno di un’emergenza” (Pasquino e Ferejohn 2006, 103).

Ma anche di comprendere che è compito della politica giocare con l’ambiguità dell’espressione “emergenze democratiche”: discernere, da un lato, ciò che opera al fine della conservazione – talvolta autoritaria – dell’esistente; dall’altro lato, la possibilità della trasformazione da ciò che l’emergenza lascia “emergere” e rivela.

In tal senso, le emergenze sono sempre critiche, perché sempre ci pongono di fronte alla decisione:

scegliere l’imperio della necessità, e operare a garanzia della salvaguardia o della conservazione di ciò che è, oppure tentare di sfruttare ciò che emerge e che sconvolge il nostro ordine per farne occasione e opportunità di innovazioni e di trasformazione dell’esistente.

 Tuttavia, questo, più che del Politico e della sua eccezione, è lo spazio della politica.

 

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