La politica come spettacolo.

 

La politica come spettacolo.

 

 

 

 

Il disegno segreto

di Trump.

 Italiareportusa.com - Gabriele Felice by Gabriele Felice – (Giugno 15, 2025) – ci dice:

 

La lucida strategia per demolire l'ordine globale e rifondare il potere americano.

Quella che per quattro anni – durante la prima presidenza Trump – è apparsa a molti come una politica estemporanea, contraddittoria e a tratti infantile, ha in realtà una coerenza strategica spietata.

Il disegno segreto di Trump oggi sembra chiaro (almeno per chi scrive).

L’attuale amministrazione americana non ha agito e non agisce a caso.

 

Il Presidente degli Stati Uniti sta portando avanti un disegno preciso, che non segue la logica della diplomazia tradizionale.

Al contrario, agisce come un costruttore che, per realizzare un nuovo edificio, ritiene necessario demolire completamente quello esistente, giudicato ormai fatiscente.

 È una visione radicale, che però – va detto – potrebbe apparire eccessiva, soprattutto se l’edificio da abbattere assomiglia più a una villetta liberty che a un rudere.

Ma questa è una considerazione soggettiva.

Questa strategia ha un nome:

Realpolitik, spogliata da ogni ipocrisia. La missione è chiara: distruggere per ricostruire.

 

Le sue dimensioni sono tre e strettamente intrecciate:

 internazionale, interna, economica.

Non sono tre cose diverse, ma un unico, grande progetto di ristrutturazione del potere americano e globale.

L’approccio è olistico: una guerra culturale all’interno, una politica economica basata sui dazi, e una strategia geopolitica fondata sulle sfere di influenza.

Distruzione dell’ordine globale: far esplodere i “bubboni.”

La prima fase del progetto è chiaramente distruttiva e spietatamente semplice: demolire l’ordine liberale emerso dopo la Seconda Guerra Mondiale, considerato non più un vantaggio ma un freno per gli Stati Uniti.

Un ordine che, nella visione trumpiana, si era trasformato in un sistema di vincoli e costi che avvantaggiava tutti tranne gli Stati Uniti.

 I pilastri di questo ordine erano per Trump diventati tre “bubboni” da far esplodere.

 

Il bubbone del multilateralismo:

 Istituzioni come l’ONU, l’UNESCO, l’OMC e accordi come quello di Parigi sul clima o sul nucleare iraniano.

Considerati teatri di parole dove alleati “approfittatori” e rivali strategici imbrigliavano la potenza americana.

L’attacco è stato frontale: ritiri, definanziamenti, paralisi degli organi decisionali.

Il bubbone della globalizzazione:

 il libero scambio, incarnato dal TPP o dal NAFTA, visto come la causa della deindustrializzazione della classe media americana a favore della Cina.

La risposta: una guerra dei dazi, protezionismo e la rinegoziazione bilaterale di ogni accordo.

Il bubbone della sicurezza collettiva:

la NATO, descritta come un club dove gli europei ricchi non pagano il conto della propria difesa.

 La pressione costante per il 2% del PIL non era un capriccio, ma il tentativo di trasformare un’alleanza di valori in un accordo transazionale:

pagate per la protezione, o la protezione cesserà.

Lo specchio interno: “purgare” la Nazione.

Questa logica demolitrice ha trovato la sua più violenta applicazione all’interno.

 

Per poter ricostruire un’America forte, era necessario prima far deflagrare le tensioni che la stavano, a suo avviso, indebolendo.

L’obiettivo: “ridare l’America agli americani” e forgiare una nuova omogeneità culturale.

 

I nemici interni sono altrettanto chiari: la cultura “woke”, il politicamente corretto, le teorie gender, il “Deep State”, i media “fake news”, l’antiamericanismo sempre più diffuso e strisciante.

Ogni dichiarazione incendiaria non è un errore di comunicazione, ma un colpo di piccone mirato a polarizzare, a costringere a una scelta di campo, a demolire il consenso culturale progressista per ricostruire sulle sue ceneri una nazione unita attorno a valori tradizionali, patriottici e giudaico-cristiani.

 

I dazi.

I dazi da “strumento di politica economica” ad “arma strategica multifunzione”.

Non si tratta di un protezionismo ottocentesco, ma di qualcosa di molto più sofisticato e dirompente.

Si pongono due obiettivi, uno interno ed uno esterno:

 

L’obiettivo interno: ricostruire la fortezza America.

“Riportare produzione e domanda in Patria” è la traduzione economica del motto “Make America Great Again”.

La logica è ferrea:

 

Identificare il “bubbone”: la globalizzazione ha svuotato la base industriale americana (la Rust Belt), delocalizzando la produzione in Cina e altrove, e creando una dipendenza strategica da potenziali avversari.

 

Azione distruttiva (i dazi):

 i dazi rendono le merci d’importazione più costose. Questo attacca direttamente il modello di business basato su “supply chain globali” e manodopera a basso costo. È un colpo al cuore del sistema che ha arricchito le multinazionali e le élite finanziarie, a scapito (nella narrazione trumpiana) del lavoratore americano.

 

Obiettivo ricostruttivo: “reshoring”, incentivare le aziende a riportare la produzione negli Stati Uniti per evitare i dazi e servire il mercato interno.

Sicurezza nazionale: Ridurre la dipendenza dalla Cina per beni essenziali (dai farmaci ai semiconduttori).

Una nazione non può essere sovrana se il suo nemico produce le sue medicine e i suoi chip.

Rilancio della domanda interna: Se i prodotti sono fatti in America da lavoratori americani, i salari (in teoria) restano nel paese e alimentano un circolo virtuoso di domanda interna.

 

Questo crea quella “nuova America unita e coesa” di cui parlavamo: una nazione economicamente più autosufficiente, meno vulnerabile agli shock esterni e con una classe lavoratrice industriale a cui viene restituita dignità e potere d’acquisto.

L’Obiettivo esterno: affossare il sistema globale con l’Incertezza.

Il danno maggiore dei dazi non è tanto il costo aggiunto, quanto l’incertezza che generano.

 L’incertezza è un’arma strategica potentissima.

 

Paralisi degli investimenti e degli scambi commerciali: il capitalismo globale si basa sulla prevedibilità.

 Un imprenditore in Germania o in Corea del Sud investe miliardi per costruire una fabbrica basandosi su catene di approvvigionamento e regimi tariffari che si presume siano stabili per anni.

Se un tweet può imporre un dazio del 25% da un giorno all’altro, ogni calcolo salta. L’investimento viene congelato.

Il business globale si ferma.

 

Disintegrazione delle Supply Chain:

 l’incertezza costringe ogni CEO a porsi una domanda fondamentale:

“La mia catena di approvvigionamento globale è un asset o una vulnerabilità?”.

La risposta diventa “una vulnerabilità”.

 

Le aziende sono quindi forzate a cercare alternative: non più la catena più efficiente ed economica, ma quella più sicura e resiliente.

Questo significa accorciare le filiere, preferire il near-shoring (Messico) o il friend-shoring (paesi alleati affidabili), e idealmente l’on-shoring (in patria).

Sabotaggio del multilateralismo:

usando i dazi come arma unilaterale, Trump bypassa e di fatto distrugge l’autorità dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).

Dimostra che il potere di un singolo stato forte è superiore a qualsiasi accordo multilaterale.

 

“Affossare il commercio internazionale prima ancora che con i dazi, con l’incertezza”.

È come gettare sabbia negli ingranaggi perfettamente oliati della globalizzazione. Il sistema non si rompe, semplicemente smette di funzionare perché nessuno si fida più a farlo girare.

In conclusione, la politica tariffaria non è una parentesi o una mossa tattica.

È lo strumento pratico, il martello pneumatico, con cui si persegue il duplice obiettivo:

demolire l’ordine economico globale basato sul libero scambio e ricostruire le fondamenta di una fortezza economica nazionale.

Ricostruire.

La deflagrazione: il ritorno della storia.

Ricostruire:

La demolizione quindi è solo il preludio, il fine ultimo è la ricostruzione di un nuovo assetto, sia interno che esterno.

Un disegno sovranista basato non sui valori universali, ma sul potere e sull’interesse nazionale.

All’esterno, si disegna un mondo di macroaree, un “concerto di grandi potenze” dove ogni player dominante gestisce la propria sfera di influenza.

L’America di Trump non vuole più fare il gendarme del mondo, ma il padrone del proprio emisfero.

La sua sfera d’influenza va dalla Groenlandia a Panama. In questo schema, si riconosce implicitamente alla Russia il suo “estero vicino” e alla Cina il suo ruolo di potenza regionale (purché non bari sul piano economico).

 

Gli Accordi di Abramo ieri, le guerre di Israele oggi, sono il manifesto di questa politica:

bypassare l’irrisolvibile bubbone palestinese per creare un’alleanza pragmatica (Israele e Golfo) in funzione anti-iraniana, con gli USA come mediatori e garanti esterni, non come gestori diretti.

 

All’interno, l’obiettivo è una nazione coesa, purgata dalle sue divisioni.

Un’America unita e forte, non più paralizzata dai sensi di colpa post-coloniali o dalle guerre culturali, pronta a esercitare il suo dominio senza remore nel proprio “giardino”.

 

La deflagrazione: il ritorno della storia.

Se questa interpretazione è giusta, le conseguenze sono catastrofiche.

 In questo nuovo mondo, l’Occidente come alleanza politica e di valori è finito.

L’Europa, privata dell’ombrello americano, diventerebbe un vaso di coccio. Non si farà fagocitare passivamente, come dimostra la reazione all’invasione russa. E proprio qui sta il dramma: la sua resistenza, in un mondo senza arbitri, potrebbe innescare una guerra continentale.

Nel frattempo, la Cina, più scaltra, non usa i carri armati ma erode dall’interno, comprando infrastrutture, creando dipendenze, trasformando il continente in un vassallo economico.

L’Asia-Pacifico (Giappone, Corea del Sud, Australia) si troverebbe sola di fronte al Dragone, costretta a scegliere tra un accomodamento umiliante e una disperata corsa al riarmo, forse persino nucleare.

Il Medio Oriente diventerebbe, è un’arena per le potenze regionali (Israele, Turchia, Iran, Arabia Saudita), libere di regolare i conti senza mediazioni esterne.

Il colpo di grazia a questo fragile equilibrio è il ritorno delle guerre di annessione, (che hanno poco di ideale ma molto di economico legato all’accaparramento di risorse) tornate drammaticamente “di moda” con l’Ucraina e la logica territoriale di Gaza.

 

Il tabù fondamentale del dopoguerra è infranto.

L’Afghanistan 2.0 è l’azione di demolizione:

il taglio netto, il ritiro, la distruzione degli impegni e delle alleanze considerate un costo netto.

Il Monroe 2.0 è il progetto di ricostruzione:

 la Fortezza America che si concentra sul proprio dominio regionale dopo aver abbandonato le postazioni avanzate non più difendibili.

 

Il pragmatismo isolazionista, nato per evitare i conflitti, finisce per creare le condizioni ideali per una deflagrazione senza precedenti.

 

Il disegno è grandioso, nella sua brutale coerenza.

Un tentativo di fermare il declino americano strappando via le fondamenta di un mondo che non si ritiene più vantaggioso, per costruirne uno nuovo, più piccolo, più gestibile, più americano.

Ma le fondamenta del mondo, una volta divelte, possono scatenare un terremoto capace di inghiottire anche il demolitore.

(Stephen K. Bannon: Generation Zero (2010) – Film).

(Peter Navarro: Death by China).

(Michael Anton: The Flight 93 Election).

 

 

 

 

Politica, rappresentazione

e responsabilità.

Filosofemme.it - Gerardina Spatola – (19 Settembre 2022) – ci dice:

Politica.

Come intendiamo la parola “politica”? Generalmente, o almeno in misura più vicina alla nostra quotidianità, si possono tracciare almeno due sfere di significato con cui tale termine viene adoperato: uno attiene all’universo dell’amministrazione, della performance, della gestione della sfera pubblica, banalmente alla politica dei partiti e delle campagne elettorali;

l’altro, invece, più profondo e per questo essenziale, riguarda la politica come mondo comune, come sfera dell’esistenza concreta, come quella “cosa pubblica” fondante che sta alla base di tutti i modi di intendere il politico e la politica.

 

È interessante provare ad analizzare come questi due emisferi si rapportino tra loro e come si vengano a delineare rimandi e sovrapposizioni spesso inosservati.

Uno degli angoli che offre una prospettiva privilegiata su questo raffronto è, senza dubbio, quello della duplice accezione con cui la rappresentazione, in questo caso politica, può essere intesa.

Ci viene in soccorso la” metafora di Arendt” della rappresentazione teatrale, su cui si costruisce il parallelismo con quella politica (1).

La politica, come la rappresentazione teatrale, può essere intesa nel doppio significato di spazio in cui apparire e messa in scena dell’apparire degli individui. La sfera pubblica, cioè, si configura sia come luogo di apparenza, sia come possibilità dell’apparenza, dal momento che è proprio agendo che si dà forma alla società, così come il mondo-teatro prende forma tra gli attori stessi.

 

Se ne deduce che è l’apparire attraverso gesti, forme, parole e discorsi – ovvero la performance, l’agire – che rende possibile l’apparenza – cioè l’esistere, dato che per Arendt essere e apparire coincidono (2) – dello spazio (pubblico) in cui farlo, così come dipende dalla messa in scena degli attori l’esistenza dello spettacolo: senza azione, movimento, il luogo-teatro cessa di essere, scompare e si disintegra. Allo stesso tempo, il vincolo tra apparire e apparenza è reciproco: comporta da un lato che la performance orienti lo spazio delle apparenze, dall’altro che lo spazio influenzi e plasmi la messa in scena stessa.

Detto in altri termini: se la sfera pubblica si configura come spazio mobile di incontro-scontro tra soggetti e pluralità che si mostrano e agiscono reciprocamente, è proprio da questa co-esistenza nella sfera pubblica che si esplica il modo di vivere comune.

Come uno spettacolo, è dal movimento armonioso tra le parti e il tutto che emerge la trama, che i discorsi prendono una sfumatura di colore, che assumono significato le azioni degli attori.

 Rappresentandosi, agendo nello spazio pubblico, si contribuisce sia creare il mondo così come gli attori creano lo spettacolo, sia a calcare la via dei mo(n)di possibili di agire.

Da questo gioco di rimandi e di metafore si può dedurre, quindi, che nella messa in scena della politica, agendo e scegliendo cosa rappresentare, si sceglie anche cosa è scena pubblica, cosa dovrebbe essere (3).

 

Agendo nello spazio pubblico, cioè, non solo si agisce per se stessi, ma si delinea il contorno delle azioni altrui, si sorregge la possibile messa in scena delle altre soggettività. É certamente suggestivo che la Repubblica italiana sia improntata sulla democrazia rappresentativa, ma ho l’impressione che spesso si perda il peso del valore della parola “rappresentazione”.

Se, come abbiamo detto, ogni messa in scena forma la possibilità e i modi di apparizione altrui, ne deriva che ogni azione porti con sé la responsabilità sia individuale che collettiva.

Rappresentare in politica, quindi, è carico di questo significato vincolante: il mio agire dipende dal tuo e viceversa.

Se già noi soli, agendo, siamo responsabili per tutti, portando sul nostro capo il peso delle sorti del mondo, chi del mondo è chiamato a farsi carico, nella sua funzione di rappresentare la collettività, dovrebbe percepire sulle proprie azioni il peso di una responsabilità infinitamente più grande.

(1) (H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 101, dove si legge: «Gli esseri viventi fanno la loro apparizione nel mondo come attori su una scena allestita per loro».

(2)( H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 99.)

(3) (J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Ugo Mursia Editore, Milano, 1946, p. 31, dove si legge: «Quando diciamo che l’uomo si sceglie, intendiamo che ciascuno di noi, scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini. Infatti, non c’è un solo dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere, non crei nello stesso tempo una immagine dell’uomo quale noi giudichiamo debba essere».)

 

 

 

 

La politica come spettacolo.

Ariannaeditrice.it - Luca Ricolfi – (07/03/2025) – ci dice:

 

La politica come spettacolo.

A proposito dell’agguato mediatico a Zelensky

 

Fra le accuse che più frequentemente, e più impietosamente, vengono rivolte ai leader europei, vi è quella di non aver mai preso un’iniziativa diplomatica per fare cessare la guerra fra Ucraina e Federazione Russa.

Dal primo giorno della guerra, l’unica preoccupazione dell’Europa è stata di respingere l’invasione russa, ristabilendo la legalità internazionale (ossia i confini precedenti allo scoppio della guerra).

Di qui l’assoluta latitanza della diplomazia: l’obiettivo di punire Putin ha sempre sovrastato quello di fermarlo.

Ora l’agguato teso da Trump a Zelensky, con il plateale litigio davanti alla stampa e alle tv, ha fatto ulteriormente precipitare le cose, mettendo fuori gioco ogni possibile diplomazia e ricerca di un ragionevole compromesso.

Ok, questo è successo, e si capisce perfettamente che tutti i maggiori editorialisti esternino il loro sgomento per questa rottura, per il cattivo gusto di Trump e Vance, per la violazione plateale delle regole minime dell’ospitalità, dell’educazione, del rispetto reciproco.

 Insomma, quella che è andata in onda nello Studio Ovale sarebbe una inaccettabile, orribile, disgustosa spettacolarizzazione della politica, che rompe – per la prima volta nella storia – convenzioni e preziose ipocrisie da tempo vigenti nei rapporti internazionali, tanto più quando coinvolgono questioni militari e strategiche.

Non a caso le espressioni più usate per descrivere quel che è successo sono “senza precedenti” e “storico”.

Come a dire: è inaudito, non era mai successo, è un punto di non ritorno.

In un certo senso è proprio così.

Mentre leggevo questi commenti, però, in me è riaffiorato un ricordo.

Il ricordo di quel che pensavo e provavo nei primi mesi della guerra.

 Ebbene, io ricordo che ero semplicemente sbalordito. E, non intendendomi di questioni di guerra, ho sempre pensato che fossi io a non capire.

Che cosa mi sbalordiva?

Mi sbalordiva, innanzitutto, che nel giro di pochi giorni un normale capo di stato fosse stato trasformato dalle autorità europee in un’autentica star mediatica. Collegamenti in diretta con i parlamenti, ovazioni delle assemblee collegate, partecipazioni ad incontri che normalmente si svolgono a parte chiuse fra pochi potenti, persino un surreale dibattitto sulla necessità che Zelensky leggesse un messaggio al Festival di Sanremo.

 Tutto ciò mi sembrava folle, e incompatibile con l’eventuale aspirazione dell’Europa a svolgere un ruolo di mediazione e moderazione.

Come era possibile, mi chiedevo, che la politica europea sulla guerra si formasse non nelle segrete stanze della diplomazia, ma attraverso eventi mediatici e spettacolari?

 Come avrebbero mai potuto, i parlamenti e i governi europei, dibattere serenamente e prendere decisioni ponderate, se tutto veniva discusso enfaticamente, in presenza di una parte in causa, e con toni da comizio?

Insomma, la prima cosa che voglio dire è che la spettacolarizzazione delle questioni internazionali l’abbiamo iniziata noi europei, non certo gli Stati Uniti di Trump.

Ma c’è anche una seconda cosa che mi ha sempre lasciato interdetto, anche qui non capendo se ci fosse qualcosa che mi sfuggiva.

Come mai il tema della guerra è sempre stato affrontato, in Europa ma anche negli Stati Uniti di Biden, come un tema etico?

Ovvero come un episodio dell’eterna lotta del Bene contro il Male?

Come mai questa ossessiva, martellante e acritica retorica dell’aggressore e dell’aggredito?

È vero che l’etica del conflitto era il presupposto logico che rendeva possibile inscenare lo spettacolo della santificazione dell’eroe Zelensky, ma come non vedere che nel conflitto ucraino, come in innumerevoli altri conflitti condotti in nome del Bene, nessuna delle parti in conflitto era esente da responsabilità e colpe (nel caso di Zelensky, per fare un solo esempio, il mancato rispetto degli accordi di Minsk)?

Sul conflitto ucraino, come su quello israeliano, si possono avere, ovviamente, le opinioni più diverse. Nessuno, fra noi comuni cittadini, è adeguatamente informato, e alla fine a guidarci sono l’istinto politico e le nostre passioni.

Ma, tornando all’Europa,

quel che mi resta incomprensibile è come l’Europa possa dolersi di non avere un ruolo al tavolo della pace, avendo sempre e senza esitazioni parteggiato per una delle parti in campo, e avendolo fatto nel modo più plateale e spettacolare possibile.

 Se vuoi fare l’arbitro, non puoi giocare tutta la partita con una delle due squadre in campo.

Quello che a noi europei appare solo come un tradimento (il brusco voltafaccia di Trump) è anche un modo di indossare la maglietta dell’arbitro.

Una maglietta che, se tre anni fa non avessimo sconsideratamente inaugurato la politica-spettacolo con la star Zelensky, oggi potremmo provare a indossare noi stessi.

 

 

 

 

Cosa non si fa per amore della libertà.

 Ariannaeditrice.it - Andrea Zhok – (15/06/2025) – ci dice:

 

Cosa non si fa per amore della libertà.

Una rapida escursione sulle pagine dei principali giornali, telegiornali e talk show mostra come sia partito l’ordine di scuderia alle giumente da lavoro del giornalismo italiano:

“È il momento del dissidente iraniano!”

E così da ieri si fa a gara a intervistare fuoriusciti e dissidenti iraniani, a dare voce con sguardo compunto e addolorato alle loro sofferenze spirituali e materiali, nel sacro nome della Libertà.

Il pattern è sempre lo stesso dall’era dei dissidenti russi, agli esuli cubani, ai rifugiati libici, iracheni, siriani, ecc. ecc.

È come andare in bicicletta, una volta imparato lo fai anche ad occhi chiusi.

Si alimenta e facilita economicamente, con permessi di soggiorno speciali, ecc. il costituirsi di reti di fuoriusciti, che devono alimentare la narrazione per cui il paese X, che vorremmo smantellare, altro non è che l’ennesima incarnazione del Male da espungere.

 Simultaneamente si esercitano tutte le pressioni sanzionatorie esterne per rendere la vita nel paese d’origine il più miserabile possibile, in modo da far crescere il numero degli scontenti.

Se tutto funziona a dovere, prima o poi l’opinione pubblica è cotta abbastanza da giustificare qualunque porcata purché sia a detrimento di quell’incarnazione del Male, dalla Baia dei Porci al bombardamento di Baghdad.

(Per inciso, ogni tanto mi domando cosa accadrebbe se qualcuno facesse lo stesso gioco con i 100.000 giovani che lasciano l’Italia ogni anno. Dubito sarebbe difficile trovarne qualche centinaio che applaudirebbe a reti unificate la prospettiva di un “regime chance” in Italia).

Bisogna dire che è sempre ammirevole vedere quanto terribilmente a cuore ci stanno i diritti umani violati (a nostro insindacabile giudizio) nel paese X, quando X possiede risorse che non è disposto a cedere per una bustarella.

Allora il cuore dell’informazione italiana batte forte, desideroso di salvare dall’oppressione e dall’illibertà questa o quella “categoria debole” nei paesi oppressori.

Cosa non si fa per liberare le donne afghane!

Duecentomila morti e venti anni di occupazione e tutto perché sentivamo l’impellente dovere morale di esportare i nostri valori.

Con evidente successo.

Per non parlare della liberazione della popolazione irachena da un figuro brutto brutto, brutto, laico sì, ma malvagio come Saddam Hussein:

 tra 600.000 e un milione di morti per esportare la nostra superiore civiltà. Alla fine hanno perso il conto perché dello stato iracheno non è rimasta più pietra su pietra per poter fare un censimento.

E quando abbiamo liberato la Libia dall’oppressione sanguinaria di Gheddafi?

Bei tempi, eroici. Ora abbiamo finalmente un paese libero, prospero, emancipato. No?

Ora, questo giochino si potrebbe continuare a lungo.

Le poche storie che non sono finite in tragedie abissali sono quelle in cui i famosi “governi oppressivi”, come a Cuba o in Venezuela, non hanno subito un regime chance forzoso e hanno trovato la propria strada, faticosa, come ogni strada nel mondo reale, ancora più faticosa perché sabotata dai sedicenti “liberatori”, ma una strada tuttavia.

Ma il punto qualificante in questa discussione, almeno per me, francamente, non è una questione di politica internazionale, ma una questione eminentemente culturale e tutta interna, all’Occidente, all’Europa, all’Italia.

Quello che mi lascia sempre insieme stupito e inquieto e vedere come questo giochino mentale continui non solo ad essere tentato, ma a riuscire presso un’ampia fetta della popolazione.

 Cioè, quello che mi chiedo è come sia possibile che qualcuno possa davvero pensare che se il paese X viola i diritti umani (ammesso e non concesso lo faccia, ammesso e non concesso lo faccia secondo la nostra interpretazione di quei diritti, ecc.), allora fargli la guerra sarebbe giusto, rovesciare il loro governo sarebbe lodevole, sostituirlo con pupazzi occidentali sarebbe salutare, sradicare la loro cultura sarebbe meritorio, ecc.

Ora, dovrebbe essere ovvio anche a un deficiente terminale che un’aggressione militare a freddo, con 200 cacciabombardieri, che ha distrutto con tanto di contaminazione radioattiva una centrale nucleare (Natanz), che ha colpito aeroporti, condomini e aree civili, uccidendo il primo giorno 12 militari e 66 civili, in nessun mondo possibile può rientrare nella rubrica “Gli stiamo esportando la civiltà”.

Eppure, anche se questo argomento non viene svolto “apertis verbis” (perché così apparirebbe nella sua follia), di fatto è precisamente la leva argomentativa che viene usata:

 “Vedete, se cacciamo quei bruti islamici ed esportiamo McDonald’s a Teheran, renderemo felici quegli esuli, tutta gente come noi, gente che non mette copricapi buffi, gente che non soffre di paturnie identitarie, cittadini del mondo, come noi!”

Infatti noi stiamo così bene con noi stessi, siamo talmente sereni e appagati, che – curiosamente - non riusciamo proprio a starcene in pace a godere delle meraviglie del nostro mondo, ma saltabecchiamo ovunque sul globo a spiegare agli altri come vivere (e il grosso delle spiegazioni glielo diamo coi B-52, si fa prima).

Con una metafora.

Ecco un paesetto (7/8 del globo) in cui esiste ancora una maggioranza di famiglie vecchio stampo, un po’ rigide, talvolta bacchettone, con la loro fisiologica dose di adolescenti ribelli.

 E d’un tratto arriva una carovana di tossici disfunzionali, sul perenne orlo di una crisi di nervi, a spiegarti che loro sono felicissimi, proprio una favola, e lo sono perché hanno roba buona, addirittura eccellente, e che tu saresti uno squallido piccolo borghese a non permettere che tua figlia si emancipi e veda la luce, provando un po’ di quella roba ottima che ci rende tanto felici.

 Alle tue rispettose repliche che, mai e poi mai vorresti deprivarli di quella roba così magnifica, “Grazie, stiamo bene così, come accettato”, la carovana comincia a prenderti a sassate le finestre di casa, spiegandoti che tutti i tuoi problemi vengono dal non saper accettare il dono che ti fanno.

Per poi passare a dar fuoco al giardino e infine al tetto di casa.

 (Questa è quasi letteralmente la Guerra dell’Oppio (1839-1842), antesignano storico di tutte le “esportazioni dei dritti e delle libertà”; e quella storia non è mai finita.)

 

 

 

Fermate Netanyahu prima

che ci faccia morire tutti.

Ariannaeditrice.it - Jeffrey D. Sachs e Sybil Fares – (17/06/2025) -ci dicono:

 

Fermate Netanyahu prima che ci faccia morire tutti

Per quasi 30 anni, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha trascinato il Medio Oriente nella guerra e nella distruzione.

Quest’uomo è una polveriera di violenza.

In tutte le guerre che ha sostenuto, Netanyahu ha sempre sognato la grande sfida: sconfiggere e rovesciare il governo iraniano.

 La sua guerra a lungo agognata, appena iniziata, potrebbe farci morire tutti in un Armageddon nucleare, a meno che Netanyahu non venga fermato.

L’ossessione di Netanyahu per la guerra risale ai suoi mentori estremisti, Ze’ev Jabotinsky, Yitzhak Shamir e Menachem Begin.

La generazione precedente credeva che i sionisti dovessero usare qualsiasi violenza – guerre, omicidi, terrore – necessaria per raggiungere il loro obiettivo di eliminare qualsiasi rivendicazione palestinese di una patria.

I fondatori del movimento politico di Netanyahu, il “Likud”, rivendicavano il controllo esclusivo sionista su tutta quella che era stata la Palestina sotto mandato britannico.

All’inizio del Mandato britannico, nei primi anni ’20, gli arabi musulmani e cristiani costituivano circa l’87% della popolazione e possedevano una terra dieci volte superiore a quella ebraica.

Nel 1948, gli arabi superavano ancora gli ebrei di circa due a uno.

 Ciononostante, lo statuto fondativo del “Likud” (1977) dichiarava che “tra il Mar Rosso e il Giordano ci sarà solo la sovranità israeliana “.

L’ormai famigerato slogan “dal fiume al mare”, definito antisemita, si rivela essere il grido di battaglia antipalestinese del Likud.

La sfida per il Likud era come perseguire i suoi obiettivi massimalisti nonostante la loro palese illegalità secondo il diritto e la morale internazionale, che richiedono entrambi una soluzione a due stati.

Nel 1996, Netanyahu e i suoi consiglieri americani elaborarono una strategia di “rottura netta“.

 Sostenevano che Israele non si sarebbe ritirato dai territori palestinesi conquistati nella guerra del 1967 in cambio della pace regionale.

 Al contrario, Israele avrebbe rimodellato il Medio Oriente a proprio piacimento. Fondamentalmente, la strategia vedeva gli Stati Uniti come la forza principale per raggiungere questi obiettivi:

condurre guerre nella regione per smantellare i governi che si opponevano al dominio israeliano sulla Palestina.

 Gli Stati Uniti erano chiamati a combattere guerre per conto di Israele.

La strategia “Clean Break” fu attuata con efficacia dagli Stati Uniti e da Israele dopo l’11 settembre.

Come rivelò il Comandante Supremo della NATO, il “Generale Wesley Clark”, subito dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti pianificarono di “attaccare e distruggere i governi di sette paesi in cinque anni, iniziando dall’Iraq, poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran “.

La prima delle guerre, all’inizio del 2003, mirava a rovesciare il governo iracheno.

 I piani per ulteriori guerre furono rimandati a causa del coinvolgimento degli Stati Uniti in Iraq.

 Ciononostante, gli Stati Uniti sostennero la scissione del Sudan nel 2005, l’invasione israeliana del Libano nel 2006 e l’incursione dell’Etiopia in Somalia nello stesso anno.

Nel 2011, l’amministrazione Obama lanciò l’operazione “Timber Sycamore” della CIA contro la Siria e, insieme a Regno Unito e Francia, rovesciò il governo libico con una campagna di bombardamenti nel 2011.

Oggi, questi paesi giacciono in rovina e molti sono coinvolti in guerre civili.

Netanyahu è stato un sostenitore di queste guerre scelte, sia pubblicamente che dietro le quinte, insieme ai suoi alleati neoconservatori nel governo degli Stati Uniti, tra cui Paul Wolfowitz, Douglas Feith, Victoria Nuland, Hillary Clinton, Joe Biden, Richard Perle, Elliott Abrams e altri.

Testimoniando al Congresso degli Stati Uniti nel 2002, Netanyahu si schierò a favore della disastrosa guerra in Iraq, dichiarando:

“Se eliminerete Saddam, il regime di Saddam, vi garantisco che ciò avrà enormi ripercussioni positive sulla regione “.

Ha continuato: “E penso che le persone sedute proprio accanto a noi in Iran, i giovani e molti altri, diranno che il tempo di tali regimi, di tali despoti è finito “. Ha anche dichiarato falsamente al Congresso:

 “Non c’è alcun dubbio che Saddam stia cercando, stia lavorando e stia progredendo verso lo sviluppo di armi nucleari “.

Lo slogan di ricostruire un “Nuovo Medio Oriente” è lo slogan di queste guerre. Inizialmente formulato nel 1996 con “Clean Break”, è stato reso popolare dalla Segretaria Condoleezza Rice nel 2006.

Mentre Israele bombardava brutalmente il Libano, la Rice dichiarò:

“In un certo senso, quello a cui stiamo assistendo qui è la crescita, le doglie del parto di un nuovo Medio Oriente e qualunque cosa facciamo dobbiamo essere certi di procedere verso il nuovo Medio Oriente, non di tornare a quello vecchio”.

Nel settembre 2023, Netanyahu presentò all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite una mappa del “Nuovo Medio Oriente”, che avrebbe cancellato completamente uno Stato palestinese.

Nel settembre 2024, elaborò questo piano mostrando due mappe: una parte del Medio Oriente come “benedizione”, e l’altra – che includeva Libano, Siria, Iraq e Iran – come maledizione, poiché auspicava un cambio di regime in questi ultimi Paesi.

La guerra di Israele contro l’Iran è la mossa finale di una strategia decennale. Stiamo assistendo al culmine di decenni di manipolazione estremista sionista della politica estera statunitense.

La premessa dell’attacco israeliano all’Iran è l’affermazione che l’Iran sia sul punto di acquisire armi nucleari.

Tale affermazione è infondata, poiché l’Iran ha ripetutamente chiesto negoziati proprio per eliminare l’opzione nucleare in cambio della fine di decenni di sanzioni statunitensi.

Dal 1992, Netanyahu e i suoi sostenitori hanno affermato che l’Iran diventerà una potenza nucleare “in pochi anni”. 

Nel 1995, i funzionari israeliani e i loro sostenitori statunitensi dichiararono una tempistica di 5 anni.

 Nel 2003, il direttore dell’intelligence militare israeliana dichiarò che l’Iran sarebbe diventato una potenza nucleare “entro l’estate del 2004“.

Nel 2005, il capo del Mossad affermò che l’Iran avrebbe potuto costruire la bomba in meno di 3 anni.

Nel 2012, Netanyahu dichiarò alle Nazioni Unite che “mancano solo pochi mesi, forse poche settimane, prima che ottengano abbastanza uranio arricchito per la prima bomba”.

E così via.

Questa tendenza trentennale a rinviare le scadenze ha segnato una strategia deliberata, non un fallimento profetico.

Le affermazioni sono propaganda; c’è sempre una “minaccia esistenziale”.

 Ancora più importante, c’è la falsa affermazione di Netanyahu secondo cui i negoziati con l’Iran sono inutili.

L’Iran ha ripetutamente affermato di non volere un’arma nucleare e di essere da tempo pronto a negoziare.

Nell’ottobre 2003, la Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha emesso una fatwa che proibiva la produzione e l’uso di armi nucleari – una sentenza poi citata ufficialmente dall’Iran in una riunione dell’AIEA a Vienna nell’agosto 2005 e da allora considerata un ostacolo religioso e legale al perseguimento delle armi nucleari.

Anche per chi è scettico sulle intenzioni dell’Iran, quest’ultimo ha costantemente sostenuto un accordo negoziale supportato da verifiche internazionali indipendenti.

Al contrario, la lobby sionista si è opposta a qualsiasi accordo di questo tipo, esortando gli Stati Uniti a mantenere le sanzioni e a rifiutare accordi che consentirebbero un rigoroso monitoraggio da parte dell’AIEA in cambio della revoca delle sanzioni.

Nel 2016, l’amministrazione Obama, insieme a Regno Unito, Francia, Germania, Cina e Russia, ha raggiunto un accordo storico con l’Iran per il monitoraggio rigoroso del programma nucleare iraniano in cambio della revoca delle sanzioni. Tuttavia, sotto la pressione incessante di Netanyahu e della lobby sionista, il presidente Trump si è ritirato dall’accordo nel 2018.

 Com’era prevedibile, quando l’Iran ha risposto espandendo l’arricchimento dell’uranio, è stato accusato di aver violato un accordo che gli stessi Stati Uniti avevano abbandonato.

Doppio standard e propaganda difficili da ignorare.

L’11 aprile 2021, il Mossad israeliano ha attaccato gli impianti nucleari iraniani di Natanz.

 In seguito all’attacco, il 16 aprile, l’Iran ha annunciato che avrebbe ulteriormente incrementato l’arricchimento dell’uranio come leva negoziale, mentre ha ripetutamente chiesto la ripresa dei negoziati su un accordo simile al JCPOA. L’amministrazione Biden ha respinto qualsiasi tipo di negoziato.

All’inizio del suo secondo mandato, Trump ha accettato di avviare un nuovo negoziato con l’Iran.

 L’Iran si è impegnato a rinunciare alle armi nucleari e a sottoporsi alle ispezioni dell’AIEA, ma si è riservato il diritto di arricchire l’uranio per scopi civili. L’amministrazione Trump sembrava aver accettato fino a questo punto, ma poi ha fatto marcia indietro.

Da allora, si sono svolti cinque round di negoziati, con entrambe le parti che hanno segnalato progressi in ogni occasione.

Il sesto round avrebbe dovuto svolgersi apparentemente domenica 15 giugno. Invece, Israele ha lanciato una guerra preventiva contro l’Iran il 12 giugno.

Trump ha confermato che gli Stati Uniti erano anticipatamente a conoscenza dell’attacco, nonostante l’amministrazione parlasse pubblicamente dei prossimi negoziati.

L’attacco israeliano è avvenuto non solo nel bel mezzo di negoziati che stavano procedendo, ma anche pochi giorni prima di una conferenza ONU programmata sulla Palestina, che avrebbe fatto avanzare la causa della soluzione a due stati. Tale conferenza è stata ora rinviata.

L’attacco di Israele all’Iran minaccia ora di degenerare in una guerra a tutti gli effetti che coinvolge Stati Uniti ed Europa dalla parte di Israele, e Russia e forse anche il Pakistan dalla parte dell’Iran.

Potremmo presto vedere diverse potenze nucleari schierarsi l’una contro l’altra, trascinando il mondo verso l’annientamento nucleare.

 L’Orologio dell’Apocalisse segna 89 secondi a mezzanotte, il punto più vicino all’Armageddon nucleare da quando è stato lanciato nel 1947.

Negli ultimi 30 anni, Netanyahu e i suoi sostenitori statunitensi hanno distrutto o destabilizzato una fascia di 4.000 km di paesi che si estende tra il Nord Africa, il Corno d’Africa, il Mediterraneo orientale e l’Asia occidentale.

 Il loro obiettivo è stato quello di bloccare la nascita di uno Stato palestinese rovesciando i governi che sostengono la causa palestinese. Il mondo merita di meglio di questo estremismo.

Oltre 180 paesi alle Nazioni Unite hanno invocato la soluzione dei due Stati e la stabilità regionale.

Questo ha più senso di un Israele che porta il mondo sull’orlo dell’Armageddon nucleare perseguendo i suoi obiettivi illegali ed estremisti.

 

 

 

 

 

L’ “Anello di Gige” e l’Orizzonte

della Violenza Illimitata.

Conoscenzealconfine.it – (17 Giugno 2025) - Andrea Zhok – ci dice:

 

Dopo l’aggressione a freddo di Israele all’Iran e la robusta risposta iraniana, e prima che eventi ulteriori ci travolgano, alcuni bilanci possono essere già tratti.

 

In particolare credo che due considerazioni possano essere fatte.

 La prima considerazione da fare è che il fallimento conclamato della politica di Donald Trump è l’ultima definitiva conferma che niente può modificare la rotta di collisione dell’Occidente a guida americana col resto del mondo.

 Trump non è mai stato un cavaliere bianco mosso da ideali di pacificazione, ma si è ritrovato a incarnare il ruolo di rappresentante di quell’America profonda che non ha interesse a proiezioni di potenza internazionale e vorrebbe mettere a posto le cose a casa propria.

La sequenza dei fiaschi dell’amministrazione Trump, dai colloqui russo-ucraini, agli scontri di Los Angeles, all’attacco israeliano all’Iran mostrano chiaramente come tutte le promesse trumpiane di pacificazione internazionale e ripresa del mercato interno sono impercorribili.

 Non credo che Trump abbia ingannato volontariamente il suo elettorato.

Credo che, più semplicemente, né gli USA né l’Europa siano più governati dal ceto politico che nominalmente li governa.

Qui non è neanche questione di “Deep State”, perché siamo proprio al di fuori del perimetro statale, che serve soltanto da albero di trasmissione di decisioni prese altrove.

Ora, io so benissimo che ogni qual volta si introduce questo tema dei “poteri occulti” un sacco di babbei che si credono astuti cominciano ad agitarsi sulla sedia e a gridare al complottismo.

Purtroppo che oggi il vero potere passi attraverso il governo dei flussi monetari e che l’oligarchia che governa tali flussi eserciti la sua influenza da dietro le quinte sono semplici dati di fatto, abbastanza ovvi se li si guarda da vicino.

Spesso ci stupiamo della pochezza culturale, della miseria umana, della contraddittorietà sfacciata dei personaggi che apparentemente vediamo ai vertici del potere mondiale.

 Che Trump sia un personaggio dei Simpsons, la” Baerbock” una gaffe ambulante, la “Kallas” il nulla con la russofobia intorno, “Merz” un eterno perdente recuperato dalla differenziata politica, “Starmer” un quaquaraquà inviso anche a chi lo ha eletto, “Macron” l’epitome delle comunità BDSM, ecc. ecc. sono cose che stanno davanti agli occhi di tutti, e che spesso ci ostiniamo a non vedere perché vederlo con chiarezza ci farebbe troppa paura.

Preferiamo pensare che questi pupazzi “c’hanno una strategia”. Invece no, sono pupazzi e basta. E la strategia qualcuno anche ce l’ha, ma sta al piano di sopra a muovere i pupi con le stringhe.

 

L’Occidente, a causa del lungo processo di presa del potere reale da parte delle oligarchie finanziarie, ha raggiunto un livello di non ritorno dal punto di vista della degenerazione della sua classe politica.

 Il problema in tutto ciò è solo uno:

 siccome chi esercita il potere è dietro le quinte e non può venire chiamato a prendere alcuna responsabilità, di fatto oggi siamo nella condizione di più straordinaria deresponsabilizzazione delle classi dirigenti della storia dell’Occidente:

chi comanda non risponde in nessun modo di ciò che fa, né formalmente, né istituzionalmente, né moralmente.

E l’esercizio del potere al riparo dagli sguardi altrui conduce inevitabilmente all’abiezione, come rammentava “Platone” nel racconto dell’”Anello di Gige”.

 

È così che la crisi interna della società occidentale, la sua perdita progressiva di egemonia economica e politica, genera una tendenza completamente fuori controllo alla degenerazione perpetua dei comportamenti, all’uso sempre più sfacciato della violenza, dei doppi standard, della menzogna strumentale. Israele è un caso esemplare: prima della “distrazione del Mossad” del 7 ottobre Israele era un paese a pezzi, spaccato da anni a metà, incapace di formare governi che non fossero effimeri.

L’uscita da questo stato di paralisi e crisi è stata l’adozione di una serie di rilanci continui, prima verso Gaza, poi verso il Libano, la Siria, l’Iran.

 E temo che i rilanci non siano finiti: come un giocatore che deve recuperare una grande somma, ogni perdita è un invito a rilanciare ancora nella speranza di poter chiudere la partita con un grande colpo finale.

Spesso, per i giocatori d’azzardo, questo colpo finale è alle proprie cervella, ma intanto hanno disseminato miseria intorno a sé.

Ma Israele è solo un esempio.

Questa dinamica di tentativo di uscita da un’impasse attraverso continui rilanci è la medesima prassi che vediamo in Europa verso la Russia.

 La sequenza quasi incredibile di errori (cioè, quelli che sarebbero errori se l’interesse dei propri popoli fosse l’obiettivo), prosegue in un continuo rilancio. L’Europa ha perso la propria competitività, ha impoverito e continua ad impoverire la propria popolazione, mette tutti a rischio di una guerra totale e anzi la fomenta apertamente.

Tutto questo si pensava all’inizio fosse un tributo alla predominanza USA.

 

Ma non è così. Anche quando gli USA hanno iniziato a ritirarsi, l’UE ha proseguito e continua a proseguire nell’esacerbare la situazione.

Questo perché, come si diceva, né gli USA sono governati da Trump, ne l’UE da quei quattro scappati di casa della Commissione.

 Sono solo pupazzi ventriloqui mossi da oligarchie multinazionali che vestono l’anello di Gige.

 

Questo quadro ci conduce alla seconda, breve, considerazione.

Siccome l’inaffidabilità, i doppi standard, la mancanza di responsabilità e credibilità dell’Occidente in blocco è percepito ovunque nel mondo (salvo in quella parte di Occidente che ancora si abbevera all’informazione più venduta della storia), ne segue che lo spazio degli accordi, dei patti fra gentiluomini, del calcolo reso affidabile dal bilanciamento degli interessi, è svanito.

Tutto il mondo extra-occidentale – e oggi sono in primo piano Russia e Iran, ma la Cina è dietro l’angolo – non crede più ad una parola di quanto proviene dai nostri ventriloqui, perché ha capito di star trattando con attori e prestanome, maschere che devono recitare una parte per i propri elettorati ma devono rispondere a tutt’altre strategie per appagare il vero potere dietro le quinte.

Questa completa mancanza di credibilità delle classi dirigenti occidentali non è un crimine senza vittime, non è qualcosa cui ci possiamo sottrarre con la proverbiale alzata di spalle dicendoci che “tanto noi non ci caschiamo”.

La principale conseguenza dell’inaffidabilità conclamata dell’odierno Occidente è che la parola verrà ovunque lasciata sempre di più alle armi, alla violenza all’esterno e al controllo all’interno, perché è l’unica cosa che rimane quando le parole hanno perduto di valore.

 E questo processo degenerativo coinvolgerà tutti, scettici e grulli, scaltri e boccaloni.

(Andrea Zhok).

(ariannaeditrice.it/articoli/l-anello-di-gige-e-l-orizzonte-della-violenza-illimitata.

 

 

 

 

 

La politica dello spettacolo: quando

l’immagine sovrasta la sostanza

 

Corrierenazionale.net – Redazione – Carlo Di Stanislao – (4 Aprile 2025) ci dice:

“La politica è l’arte di ottenere il potere, ma anche di mantenerlo. E, oggi, l’arte sembra sempre più essere quella di farsi vedere.”

(Jean-Paul Sartre).

 

Nel panorama politico contemporaneo, l’arte della politica sembra non essere più quella di unire idee e valori, ma quella di costruire e mantenere un’immagine pubblica che possa attrarre e influenzare l’elettorato.

 La politica, come intesa nei decenni passati, ha ceduto il passo a un nuovo modello in cui l’immagine, la spettacolarizzazione e la presenza mediatica sono diventate cruciali tanto quanto, se non più, della sostanza delle politiche proposte.

 

Esempi emblematici di questa trasformazione sono Silvio Berlusconi e Donald Trump, che hanno fatto della politica un grande palcoscenico.

Entrambi, con il loro carisma e la loro abilità nell’uso dei media, sono riusciti a entrare nella vita quotidiana degli elettori, spesso come figure familiari piuttosto che come semplici politici.

 Berlusconi ha usato la televisione per costruire la sua immagine, mentre Trump ha sfruttato il potere dei social media per diventare una figura globale, un personaggio più che un politico tradizionale.

 

Oggi, il gioco della politica spettacolare è giocato anche dai leader contemporanei, tra cui Giorgia Meloni, Elly Schlein, Matteo Salvini, Antonio Tajani e, non da ultimo, Emmanuel Macron.

 Se da un lato Meloni si è imposta come una leader capace di attrarre l’attenzione dei media e di costruire una figura forte e sicura, dall’altro, Schlein fatica a ritagliarsi un’identità altrettanto incisiva, dominata da un immaginario più tradizionale e meno “mediatico”.

La Meloni, abile nel gestire la sua immagine e nel costruire una narrativa che la posizioni come una politica decisa e determinata, sembra, sotto il profilo della visibilità, superare Schlein, la quale deve ancora dimostrare di avere lo stesso impatto mediatico.

 

Allo stesso modo, Matteo Salvini, con il suo stile diretto e provocatorio, ha saputo conquistare il centro della scena, molto più di Antonio Tajani, che, pur ricoprendo ruoli di prestigio, non è riuscito a emergere con la stessa forza carismatica e mediatica.

 Salvini ha costruito un marchio politico basato sulla sua presenza costante nei media e sulla capacità di affrontare temi spinosi con toni populisti, mentre Tajani, pur essendo una figura di peso nelle istituzioni europee, non ha la stessa capacità di attrarre l’attenzione e di influenzare il dibattito pubblico in modo altrettanto incisivo.

Macron, dal canto suo, rappresenta un “campione di visibilità” in un contesto politico europeo, ma lo fa con mille acrobazie e contraddizioni.

Il presidente francese, tra una riforma e l’altra, è stato capace di costruire una presenza mediatica che lo ha reso una figura di spicco sulla scena mondiale, ma non senza controversie.

 Le sue riforme, spesso impopolari, e il suo stile autoritario hanno sollevato critiche, ma la sua capacità di rimanere sotto i riflettori, giocando costantemente tra l’immagine di un leader progressista e quella di un uomo pragmatico (spesso visto come distante dalla realtà delle persone), lo ha consolidato come uno dei più visibili e polarizzanti politici contemporanei.

 Le sue contraddizioni – tra la promozione di una Francia più moderna e l’imposizione di politiche che sembrano privilegiare l’élite – ne hanno fatto una figura che mescola abilità comunicativa e azioni politiche che dividono.

 

Il problema di questo fenomeno non risiede solo nel fatto che la politica si trasforma in spettacolo, ma nel fatto che il dibattito pubblico si svuota di contenuti reali e si concentra esclusivamente su una continua ricerca di attenzione.

 Le dichiarazioni provocatorie, i toni populisti e le strategie mediatiche prendono il sopravvento sulle discussioni politiche serie, e l’elettorato si trova a fare scelte basate più sull’intrattenimento che su un’analisi ragionata delle politiche proposte.

Questo scenario solleva una questione fondamentale per la democrazia: possiamo ancora distinguere tra la politica autentica e quella costruita?

 In un’epoca dove l’immagine è tutto, rischiamo di perdere di vista l’essenza della politica stessa, quella che dovrebbe occuparsi dei problemi concreti dei cittadini, e non solo delle emozioni e delle reazioni istintive del pubblico.

La politica dello spettacolo è una sfida, un enigma per la nostra società.

 La domanda che rimane aperta è se riusciremo a ristabilire un equilibrio tra la visibilità mediatica e la vera sostanza delle politiche, per evitare che la politica diventi un gioco in cui l’arte del “farsi vedere” sostituisce la responsabilità del “fare”.

(Carlo Di Stanislao).

 

 

 

 

 

Il Sottile Confine tra

Politica e Spettacolo.

   Farecultura.net – (6 Maggio 2024) - Eugenio Flajani Galli – ci dice:

 

Se vincere le elezioni è il sogno di ogni candidato, il come vincerle è oggi sempre più segnato da una campagna elettorale molto diversa rispetto al passato.

La RAI ha definito questo 2024 come “l’anno più elettorale di sempre”. E non potrebbe essere altrimenti: in Italia le regionali e le amministrative, in Europa le europee, in Russia, Regno Unito, India, Taiwan, Iran, Indonesia, USA, eccetera, le politiche. Se vincere le elezioni è il sogno di ogni candidato, il come vincerle è oggi sempre più segnato da una campagna elettorale molto diversa rispetto al passato, soprattutto in merito alla sfera della comunicazione con i potenziali elettori.

 

Al giorno d’oggi il modo di fare politica è drasticamente e inevitabilmente cambiato rispetto al passato, con candidati sempre più social e istrionici, finendo con il cancellare la sottile linea di demarcazione tra politica e spettacolo. Forse anche per tale motivo VIP, influencer e celebrità di ogni ordine e grado si sentono in dovere di intervenire dicendo la loro su temi politici, così come facendo endorsement nei confronti di quel tale candidato piuttosto che di quel tale partito. E alcuni di loro, perché no, vengono anche candidati, come nel recente caso del Generale Vannacci. Questa, però, non è altro che l’ultima di una serie di candidature di VIP/influencer che in Italia affonda le sue radici negli anni ’90, dal momento che il primo politico ad aver giocato le carte della spettacolarità e della visibilità mediatica a suo favore è stato Silvio Berlusconi. Non a caso la sua figura politica ha attirato tanti haters, così come tanti fan. E sia tra gli haters che tra i fan ci sono (stati) pure tantissimi VIP.

 

Ma la “discesa in campo” di Berlusconi è stata profetica di ciò che sarebbe avvenuto circa vent’anni più tardi, quando Donald Trump, il primo non politico candidato presidente USA, avrebbe vinto le presidenziali.

 E anche Trump, ha avuto e avrà molti haters provenienti dallo show business, così come qualche sostenitore proveniente da questa cerchia di VIP.

Probabilmente il fatto in sé che un candidato − come Trump o Berlusconi − faccia massiccio utilizzo della spettacolarizzazione della politica e si presenti come uno showman anziché come un politico di professione, può attirare le attenzioni dei vari VIP ed influencer, i quali si sentono praticamente in dovere di criticarlo (ma anche elogiarlo, in casi più rari) pubblicamente proprio per il fatto che evidentemente lo considerano alla stregua di un loro simile.

 

Influencer.

D’altra parte anche la sig.ra Meloni (o più semplicemente Giorgia, se preferisce essere così chiamata e votata), una volta divenuta premier, ha sovente utilizzato la sua figura pubblica e i suoi canali social come se fosse una sorta di zia capitolina della Ferragni.

Pose, inquadrature, modo di porsi e di parlare:

tutto pensato per prestarsi a essere una influencer che influenza un pubblico (leggasi l’elettorato), cercando altresì di cavalcare l’onda della presenza mediatica, con il fine ultimo di ottenere una visibilità che oggi, a maggior ragione dato il crollo vertiginoso dell’affluenza alle urne, è più che mai fondamentale per ottenere un seguito di elettori.

Ne è la conferma la vicenda in cui la premier, all’ennesimo confronto con l’on. Bonelli, si nascondeva la testa scomparendo a mo’ di struzzo dinanzi a una pletora stupita di parlamentari (e telecamere).

Che il gesto sia stato voluto e premeditato non c’è ombra di dubbio:

 ella aveva infatti già avuto modo, più e più volte, di vedere e sentire l’on. Bonelli intento a criticarla, e lei già gli aveva risposto “alla Berlusconi maniera”.

Ad esempio quando Bonelli la accusò di stare portando avanti una politica energetica fonte anche di siccità, mostrando in Aula delle pietre raccolte sul greto del fiume Adige, lei le rispose “di non essere Mosè”.

La trovata teatrale di nascondersi sotto il vestito al solo sentir parlare Bonelli è stata dunque una mera evoluzione di questa spettacolarizzazione del dibattito politico già ravvisabile nella vicenda “Mosè”.

E ciò ha funzionato.

Se ne è parlato tantissimo (in TV, sui giornali, sui social…) e sono nati innumerevoli meme inerenti il suo “nascondino” con Bonelli.

 

E che dire dei tanti altri politici venuti dopo Berlusconi? Salvini, Grillo, De Luca, Zaia…sono solo alcuni tra i massimi esponenti di come la politica faccia spettacolo e di come lo spettacolo serva alla politica.

Ma non si tratta di un fenomeno esclusivamente italiano: pensiamo ad esempio a Milei che alza e sventola la motosega al pari di un serial killer di qualche film per soli adulti, a Zelensky che suona il piano con il pene (?) o a Trump che si improvvisa star del wrestling.

Quest’ultimo è stato probabilmente il presidente USA con più haters in assoluto, soprattutto perché la maggioranza delle star di Hollywood, così come cantanti, atleti professionisti e quanti altri personaggi famosi, lo hanno aspramente criticato, anche se con qualche importante eccezione.

D’altra parte si potrebbe forse fare il contrario?

Non sarebbe come sparare sulla croce rossa dir male di Biden alla stessa maniera di come si spara a zero su Trump?

 Magari sarebbe un tantino impietoso demolire il presidente più vecchio degli Stati Uniti, noto per le sue spiccate capacità nel dimenticare, inciampare, appisolarsi e scorreggiare.

Morale a parte, da un punto di vista pratico può rivelarsi veramente utile per un candidato che un VIP si schieri dalla sua parte e/o si schieri contro un avversario? Pare proprio di no.

Ad esempio nel 2016 quasi tutti i sondaggi davano la Clinton in vantaggio e quasi tutti i VIP made in USA si schieravano dalla sua parte e contro Trump. Ma fu quest’ultimo a vincere le elezioni.

Non fu poi riconfermato, ma d’altra parte non sarebbe potuta andare diversamente in piena pandemia, con gli USA che detenevano (e detengono tuttora) il record di nazione con più decessi per SARS CoV-2, un primato strappato all’Italia, che precedentemente aveva strappato alla Cina.

Ma nonostante Trump sia ancora oggi aspramente criticato dalla comunità VIP, nei sondaggi è dato in vantaggio su Biden alle prossime presidenziali, e molto probabilmente tornerà a occupare la Casa Bianca.

 

Ai fini del voto, le opinioni degli influencer sono inefficaci.

Di conseguenza pare proprio che non vi sia alcuna correlazione tra i “consigli” dei VIP/influencer riguardo chi votare e i risultati elettorali.

 Probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che molto spesso i VIP affrontano il tema politico con molta superficialità e/o incoerenza (e non potrebbe essere altrimenti, dato che interessarsi di politica richiede tempo e i VIP ne hanno sempre poco).

Riguardo la superficialità, non di rado, a ridosso delle elezioni, si può leggere che il tale VIP ha detto/scritto di votare per quel tale candidato e/o quel dato partito, o al contrario ha detto di non votare quel tale candidato e/o quel dato partito.

 Però quasi mai un VIP che esterna tali sue considerazioni politiche approfondisce il perché è necessario votare il partito X piuttosto che quello Y e/o il candidato X piuttosto che quello Y; di conseguenza viene proprio a mancare l’azione persuasiva − che per sua natura deve convincere qualcuno a seguito di un ragionamento credibile e ben preciso − e il tutto finisce con un nulla di fatto.

Riguardo invece l’incoerenza possiamo prendere in considerazione le esemplari gesta della celebre cantante, attrice e modella inglese “Dua Lipa”.

Costei è nota per aver fatto diverse dichiarazioni politiche, finendo però il più delle volte per fare delle pessime figure.

Di seguito le tre figuracce maggiori, estratte da Wikipedia:

 

1) Ha twittato una mappa della “Grande Albania”, un’entità politica rivendicata dai nazionalisti albanesi.

Per tale motivo è stata da subito aspramente criticata, venendo bollata perfino come fascista e nazista.

Poi ha fatto marcia indietro dichiarando che tale tweet era stato “male interpretato”. Sì, vabbè. 

 

2) Ha invitato i suoi follower USA a votare Biden, salvo poi criticarne la politica estera, dal momento che insieme ad altre celebrità gli ha indirizzato una lettera aperta invitandolo a fermare il bombardamento della Striscia di Gaza e ad attuare un immediato cessate il fuoco.

 Da notare che tale dichiarazione è stata fatta ad ottobre 2023, quindi già fin dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, in cui l’opinione pubblica dominante era ancora incline ad accettare le azioni belliche israeliane.

Ma, un attimo…Dua Lipa non è la stessa persona che si era schierata a favore della cosiddetta “Grande Albania”, comprendente quindi anche il Kosovo e parti di altre regioni dei balcani?

 In tal caso, per par condicio, la Dua Lipa nazionalista avrebbe pure dovuto accettare di buon grado l’occupazione della Striscia di Gaza e la sua annessione a Israele, che d’altra parte è il fine ultimo dell’attuale governo nazionalista israeliano.

 

3) Chicca finale:

durante le politiche UK del 2019 invitò a votare il labour party, che però ottenne il suo risultato peggiore dal lontano 1935. Da sprofondare come quando la Meloni sente l’on. Bonelli.

 

Di conseguenza pare ovvio che perfino una cantante pluripremiata, oggi onnipresente in radio, con quasi 100 milioni di follower su Instagram e che fa da testimonial anche per noti marchi come Versace, non ha la possibilità di influenzare i risultati elettorali.

D’altra parte è stata lei stessa ad ammettere che ai suoi fan non interessi che lei sia intelligente (leggasi “non gli interessano le mie opinioni su questioni importanti”).

E d’altronde perchè mai gli dovrebbero importare?

Essere suoi fan può essere dovuto al fatto di trovare belle le sue canzoni, di reputarla una star della musica dance e una degna erede di icone musicali come Gloria Gaynor e Donna Summer.

Magari mettiamoci anche il fatto che sia una bellissima ragazza…ma cosa diavolo c’entra con tutto ciò la politica?

 Ed è proprio questo il punto: un individuo apprezza un VIP per quella cosa o quelle cose che lo rendono famoso, non per altro.

 Una semplice conferma di ciò l’ho avuta parlando con una ragazza conosciuta su Tinder: le chiesi quali cantanti o gruppi le piacciono di più, e lei me ne elencò alcuni tra cui “Ed Sheeran”; a quel punto replicai che però mi pareva di aver notato che lei non lo segue su Instagram…lei allora mi rispose: “E perchè lo dovrei seguire? Lui mi piace come cantante, ma è bruttissimo…non voglio vedere le foto sue quando scrollo la home di Instagram”.

Chiaro il concetto: mi piace la sua musica, ma di vedere anche la sua faccia sul mio smartphone ne faccio proprio a meno.

Questo meccanismo psicologico riguarda appunto l’accettazione di una persona, ma solo parziale: in questo caso simpatizzare per un dato cantante per la sua musica, ma non per il suo aspetto.

D’altra parte, facendo un paragone sportivo, è ovvio che i milioni di persone che hanno tifato e straveduto per Francesco Totti nella sua lunga carriera di calciatore, l’hanno fatto, appunto, perchè è stato un grande calciatore.

Però non penso proprio che un tifoso della Roma, nonchè padre di famiglia, nel pieno delle sue facoltà mentali abbia mai ipotizzato che Totti avrebbe potuto insegnare qualcosa anche solo di lontanamente culturale e didattico ai suoi figli.

 

Concludo ora con un esempio cinematografico:

 Carlo Verdone è uno degli attori italiani ancora viventi che personalmente apprezzo maggiormente.

E appunto lo apprezzo per quello che è: un ottimo attore e regista.

 Ma se lui in un’intervista dicesse che la Roma è la squadra più forte d’Italia e che ogni italiano la dovrebbe tifare, sinceramente mi interesserebbe meno di quanto interessa alla Meloni ciò che dice Bonelli.

Stessa cosa dicasi per la politica, che a maggior ragione oggi è considerata di gran lunga meno rilevante di una cosa ben più seria e fondamentale per il Paese come il calcio.

 Di conseguenza che Carlo Verdone dicesse di tifare per una squadra piuttosto che per un’altra, così come di votare per un partito piuttosto che per un altro, a me non farebbe né caldo né freddo.

In fin dei conti è proprio questo il meccanismo psicologico che porta a ignorare ciò che un VIP dice a proposito della politica.

Semplicemente, dal momento che non è un politico, non gli si attribuiscono competenze e conoscenze politiche, pertanto tali sue posizioni non vengono proprio prese in considerazione.

Sono e rimangono gossip fine a sé stesso.

E per giunta, in un contesto politico in cui i politici pretendono sempre più di apparire come influencer, che bisogno c’è di ascoltarne anche altri?

(Dott. Eugenio Flajani Galli –psicologogiulianova.wix.com/info).

 

 

 

 

Teatro e politica.

Quodlibet.it – Giorgio Agamben – (19 gennaio 2024) – ci dice:

 

È quanto meno singolare che non ci si interroghi sul fatto, non meno imprevisto che inquietante, che il ruolo di leader politico sia nel nostro tempo sempre più spesso assunto da attori:

è il caso di Zelensky in Ucraina, ma lo stesso era avvenuto in Italia con Grillo (eminenza grigia del Movimento 5 stelle) e ancor prima negli Stati Uniti con Reagan.

 È certo possibile vedere in questo fenomeno una prova del tramonto della figura del politico di professione e dell’influsso crescente dei media e della propaganda su ogni aspetto della vita sociale;

 è però evidente in ogni caso che quanto sta avvenendo implica una trasformazione del rapporto fra politica e verità su cui occorre riflettere.

Che la politica avesse a che fare con la menzogna è, infatti, scontato; ma questo significava semplicemente che il politico, per raggiungere degli scopi che riteneva dal suo punto di vista veri, poteva senza troppi scrupoli dire il falso.

Quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi è qualcosa di diverso:

non vi è più un uso della menzogna per i propri fini politici, ma, al contrario, la menzogna è diventata in sé stessa il fine della politica.

La politica è, cioè, puramente e semplicemente l’articolazione sociale del falso.

Si capisce allora perché l’attore sia oggi necessariamente il paradigma del leader politico.

 Secondo un paradosso che da Diderot a Brecht ci è diventato familiare, II buon attore non è, infatti, quello che si identifica appassionatamente nella sua parte, ma colui che, conservando il suo sangue freddo, la tiene per così dire a distanza.

Egli sembrerà tanto più vero, quanto meno nasconderà la sua menzogna.

 La scena teatrale è, cioè, il luogo di un’operazione sulla verità e sulla menzogna, in cui si produce il vero esibendo il falso.

 Il sipario si solleva e si chiude proprio per ricordare agli spettatori l’irrealtà di quanto stanno vedendo.

Quel che definisce oggi la politica – divenuta, com’è stato efficacemente detto, la forma estrema dello spettacolo – è un inedito capovolgimento del rapporto teatrale fra verità e menzogna, che mira a produrre la menzogna attraverso una particolare operazione sulla verità.

La verità, come abbiamo potuto vedere in questi ultimi tre anni, non viene, infatti, occultata e resta anzi facilmente accessibile a chiunque abbia voglia di conoscerla;

 ma se prima – e non soltanto a teatro – si raggiungeva la verità mostrando e smascherando la falsità (veritas patefacit se ipsam et falsum), ora si produce invece la menzogna per così dire esibendo e smascherando la verità (di qui l’importanza decisiva del discorso sulle fake news).

Se il falso era un tempo un momento nel movimento della verità, ora la verità vale soltanto come un momento nel movimento del falso.

In questa situazione l’attore è per così dire di casa, anche se, rispetto al paradosso di Diderot, deve in qualche modo raddoppiarsi.

Nessun sipario separa più la scena dalla realtà, che – secondo un espediente che i registi moderni ci hanno reso familiare, obbligando gli spettatori a partecipare alla recita. – diventa essa stessa teatro.

Se l’attore Zelensky risulta così convincente come leader politico è proprio perché egli riesce a proferire sempre e dovunque menzogne senza mai nascondere la verità, come se questa non fosse che una parte inaggirabile della sua recita.

 Egli –come del resto la maggioranza dei leader dei paesi della Nato – non nega il fatto che i russi abbiano conquistato e annesso il 20 % per cento del territorio ucraino (che del resto è stato abbandonato da più di dodici milioni dei suoi abitanti) né che la sua controffensiva sia completamente fallita;

nemmeno che, in una situazione in cui la sopravvivenza del suo paese dipende in tutto e per tutto da finanziamenti stranieri che possono cessare da un momento all’altro, né lui né l’Ucraina hanno davanti a sé alcuna reale possibilità.

 Decisivo è per questo che, come attore, Zelensky provenga dalla commedia.

A differenza dell’eroe tragico, che deve soccombere alla realtà di fatti che non conosceva o che credeva non reali, il personaggio comico fa ridere perché non cessa di esibire l’irrealtà e l’assurdità delle sue stesse azioni.

L’Ucraina, un tempo chiamata la Piccola Russia, non è però una scena comica e la commedia di Zelensky non potrà in ultimo che convertirsi in un’amara, realissima tragedia.

(Giorgio Agamben).

 

 

 

 

Offensiva contro l’Iran.

Israele getta il Medio Oriente

nel caos.

 

 Orientxxi.info - Alain Gresh - Sarra Grira – (17 giugno 2025) – ci dice:

Accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) Gaza 2023-2025 - Medio Oriente -Agence internationale de l’énergie atomique (AIEA) -Striscia di Gaza -Stati Uniti- Francia- Iran -Israele- Libano- Armi nucleari -Palestina- Siria-

     

Un forte incendio illumina il cielo notturno, con fumi neri e auto in movimento.

(Shahran, a nord-ovest di Teheran, 15 giugno 2025).

I veicoli bloccano un’autostrada mentre scoppia un incendio nei depositi di petrolio nelle vicinanze.

 

Come il presidente americano George W. Bush, che nel 2003 annunciava l’avvio delle operazioni militari in Iraq, anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu, incriminato dalla Corte penale internazionale (CPI), mira, ben oltre l’Iran, a “ridisegnare la mappa del Medio Oriente”.

 Se i neoconservatori credevano che la conquista di Baghdad avrebbe aperto un’era democratica in tutta la regione, i leader di Tel Aviv si vedono impegnati in una lotta apocalittica contro “il Male”, con l’alibi della difesa della cosiddetta “civiltà giudaico-cristiana”.

Ma questa nuova aggressione israeliana rischia di essere la scintilla che dà fuoco a conflitti che renderanno la regione e i paesi invivibili.

Israele si vanta di condurre una guerra su “sette fronti”:

Gaza, Libano, Cisgiordania, Iraq, Iran, Yemen e Siria.

 Avrebbe potuto aggiungere anche Gerusalemme Est, dove l’espansione degli insediamenti e la confisca delle proprietà palestinesi si stanno intensificando.

 

L’Iran è l’obiettivo principale degli ultimi attacchi dietro il falso pretesto della minaccia nucleare, falso quanto lo erano le armi di distruzione di massa nascoste da Saddam Hussein.

I raid israeliani avvengono inoltre mentre proseguono i negoziati sul programma nucleare iraniano e sulla revoca delle sanzioni economiche tra Washington e Teheran, con la mediazione dell’Oman.

 Per la seconda volta, quindi, Israele sta sabotando una soluzione diplomatica.

 

Già nel maggio 2018, incoraggiato da Netanyahu, Donald Trump aveva ritirato la firma degli Stati Uniti dal trattato sul nucleare iraniano firmato tre anni prima e approvato in due risoluzioni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

In seguito, il presidente statunitense aveva intensificato le sanzioni contro l’Iran, molto più severe di quelle in vigore prima del 2015, che miravano a colpire tutte le aziende che intrattenevano rapporti commerciali con il Paese, siano esse americane o meno, impedendo de facto a Teheran di vendere il proprio petrolio e i propri prodotti petrolchimici.

Sanzioni quindi in grado di strangolare progressivamente un paese membro delle Nazioni Unite, misure illegali che avevano suscitato ben poche reazioni da parte della “comunità internazionale”.

Quanto all’idea che l’Iran fosse sul punto di dotarsi di armi nucleari, basta riportare alcune dichiarazioni riprese in maniera compiacente dai media per rendersi conto che agitare lo spauracchio non è affatto una novità.

 

Inversione della colpa.

Da diversi decenni, Teheran viene costantemente presentata come la principale minaccia alla stabilità del Medio Oriente, sia per le sue ambizioni nucleari che per la natura islamica del suo regime.

Abbiamo sentito più volte Benjamin Netanyahu insistere su tale assunto, anche davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, mentre conduceva un’operazione di pulizia etnica a Gaza, bombardando città e villaggi nel sud del Libano e interi quartieri di Beirut.

 Se questa retorica è stata a lungo sostenuta dall’Arabia Saudita, la reazione di Riyadh – prima capitale a denunciare l’offensiva israeliana – e poi quella degli altri paesi del Golfo, sottolinea l’aspirazione dei paesi della regione alla stabilità.

Chi sarebbe così ingenuo – per non dire in malafede – da credere che il ruolo di minaccia regionale sia rappresentato da un altro Stato della regione oltre a Israele?

 

La minaccia israeliana è tanto più incontrollabile in quanto è – guarda un po’ – sostenuta in maniera acritica dalle cancellerie occidentali. Chiusa la parentesi, appena aperta, della critica a Tel Aviv per il genocidio che sta conducendo da 20 mesi a Gaza;

accantonata la velleità di tracciare una linea rossa ai leader israeliani, anche se spesso si è tradotta nell’incriminare il solo Benjamin Netanyahu, per preservare l’innocenza israeliana, mentre le forze politiche del Paese e gran parte dell’opinione pubblica sostenevano la sua politica a Gaza.

 La sacra alleanza occidentale è tornata, invocando di nuovo il famoso “diritto di Israele a difendersi”, in totale violazione del diritto internazionale.

 

Del resto, il programma nucleare israeliano e il categorico rifiuto di Tel Aviv di sottoporsi al controllo da parte dell’”Agenzia internazionale per l’energia atomica” (AIEA) non hanno mai turbato i leader occidentali. Nella sua conferenza stampa di venerdì 13 giugno, il presidente francese Emmanuel Macron non ha speso una sola parola per le vittime civili iraniane – finora il bilancio è salito a 224 morti –, ricordando come Israele abbia preso di mira solo le installazioni militari e nucleari. Invertendo le colpe, il presidente ha attribuito all’Iran la “grave responsabilità nella destabilizzazione dell’intera regione”.

 Sembrava di sentire l’ex premier israeliana Golda Meir rimproverare agli “arabi” di aver costretto gli israeliani a “uccidere i loro figli”.

 

Una minaccia ben più grave pesa sulla popolazione civile iraniana e sui Paesi della regione fintanto che dureranno i bombardamenti israeliani: quella di una catastrofe nucleare ed ecologica.

 Il grande impianto di arricchimento dell’uranio di “Natanz”, a sud di Teheran, è stato colpito venerdì 13 giugno dai raid israeliani.

 Una situazione che il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), “Rafael Grossi”, ha definito “profondamente preoccupante”.

Se la carestia organizzata a Gaza non ha fatto battere ciglio ai leader occidentali, il rischio di radiazioni per le popolazioni del Medio Oriente li porterà a reagire?

 

Far dimenticare Gaza.

Aprendo questo nuovo fronte di guerra, Israele ha confermato di rompere con la sua dottrina militare strategica che prevedeva guerre brevi e contro un numero limitato di avversari.

Oggi non cerca la fine ma il loro prolungamento delle ostilità, anche a costo di violare accordi già ratificati.

Tel Aviv ha infatti firmato un testo sul cessate il fuoco con il Libano, entrato in vigore il 27 novembre 2024. Ciononostante, continua a occupare parte del territorio dopo aver commesso 1.500 violazioni del cessate il fuoco tra quella data e il 3 aprile 2025, senza che la Francia, che partecipa alla supervisione dell’accordo, abbia mai sollevato obiezioni.

 

A Gaza, la tregua è entrata in vigore il 19 gennaio e ha permesso il rilascio di numerosi ostaggi e centinaia di prigionieri politici palestinesi.

Ma Israele l’ha violata con la ripresa unilaterale dei raid il 18 marzo, dimostrando di non avere alcun riguardo nemmeno per gli ostaggi. Anche in questo caso, né gli Stati Uniti né l’Occidente hanno protestato, ma hanno attribuito le colpe ad Hamas.

 Non è un caso che l’attacco contro l’Iran sia stato sferrato nelle 48 ore successive a un blackout totale su Gaza, con l’interruzione di tutte le comunicazioni dopo che Israele aveva distrutto l’ultima linea in fibra ottica.

 Tagliata fuori dal mondo, Gaza, che aveva appena ripreso ad occupare il posto che le spetta nella copertura mediatica, scompariva dalle prime pagine e il genocidio poteva continuare lontano dagli occhi di tutti.

Durante i tre giorni del blackout totale, l’IDF ha ucciso uomini, spesso giovani, mentre cercavano aiuti umanitari nel” Corridoio di Netzarim” per sfamare le loro famiglie vittime della carestia organizzata.

 Il loro sangue si è mescolato alla vitale polvere bianca che fuoriusciva dai sacchi di farina.

 Tra loro c’era anche Obeida, il nipote del nostro corrispondente Rami Abu Jamous.

Aveva 18 anni.

 

Anche se esiste una dimensione personale nella volontà di Netanyahu di impegnarsi in una guerra senza fine – la paura del giudizio per i suoi processi per corruzione e di una commissione d’inchiesta sulle sue responsabilità personali nel fallimento del 7 ottobre 2023 – sarebbe sbagliato limitarsi solo a questa interpretazione.

L’obiettivo del premier israeliano non è quello di far emergere un Medio Oriente democratico come avevano immaginato i neoconservatori americani, ma di seminare il caos per impedire la nascita di qualsiasi Stato o forza strutturata in grado di resistere in relazione a Israele.

 

La posizione tenuta nel corso della guerra in Siria è significativa.

 Tel Aviv ha approfittato della caduta del regime di Bashar al-Assad non solo per espandere il territorio già occupato illegalmente nel Golan, ma anche per alimentare le tensioni interne bombardando regolarmente il territorio e cercando di stringere relazioni con le “minoranze”, siano esse druse o alawite, per impedire la ricostituzione di uno Stato siriano stabile.

Così ha ripreso una vecchia strategia di alleanza con le “minoranze” che ha sempre scandito, almeno in parte, la politica israeliana, in particolare in Libano durante la guerra civile (1975-1989), attraverso l’alleanza con i gruppi maroniti.

Una strategia con un obiettivo chiaro che “Michael Young”, redattore capo del “blog Diwan”, spiega in un editoriale pubblicato da [L’Orient-Le-Jour il 16 gennaio 2025:

 

Per gli israeliani, la frammentazione della Siria e dei Paesi arabi circostanti sarebbe una manna dal cielo.

Non solo garantirebbe la debolezza dei vicini di Israele, ma significherebbe anche, nel caso della Siria, che non esiste un governo credibile in grado di contestare l’annessione illegale dell’altopiano del Golan.

Gli Stati arabi indeboliti aprono anche altre porte, in particolare quella che consente a Israele di procedere a una pulizia etnica della popolazione palestinese spingendola verso i Paesi vicini, senza incontrare grande resistenza.

Questi sarebbero i vantaggi di una divisione del Paese secondo linee etnico-confessionali, che consentirebbe agli israeliani di stabilire zone cuscinetto vicino ai propri confini o in zone di influenza.

 

Un Medio Oriente caotico e diviso su cui regnerebbe uno Stato apertamente affrancato dal diritto internazionale. È questa la promessa di Israele, ai cui gli alleati occidentali assicurano ogni mezzo per attuarla.

 

(Anthony Cordesman e Khalid Al-Rodhan sono due ricercatori che, nel loro libro pubblicato nel giugno 2006 Iran’s Weapons of Mass Destruction:

The Real and Potential Threat, raccolgono le previsioni dei servizi di intelligence e dei responsabili sulla tempistica necessaria all’Iran per dotarsi dell’arma nucleare. I seguenti esempi sono stati riportati da “Alain Gresh” sul suo blog Nouvelles d’Orient [Alain Gresh, “Quand l’Iran aura-t-il l’arme nucléaire?”, Nouvelles d’Orient, 4 settembre 2006.] già quasi 20 anni fa.

 

Fine 1991: rapporti presentati al Congresso e valutazioni della CIA stimano che esiste “una forte probabilità che l’Iran abbia acquisito tutti o quasi tutti i componenti necessari per fabbricare due o tre bombe nucleari”.

Un rapporto del febbraio 1992 alla Camera dei rappresentanti suggerisce che queste due o tre bombe sarebbero operative tra febbraio e aprile 1992.

 

24 febbraio 1993: secondo il direttore della CIA “James Woolsey”, l’Iran, tra otto o dieci anni, potrebbe produrre la propria bomba nucleare, ma con un aiuto esterno potrebbe diventare molto presto una potenza nucleare.

 

Gennaio 1995: secondo la testimonianza del direttore dell’Agenzia americana per il controllo degli armamenti e il disarmo “John Holum”, l’Iran potrebbe avere la bomba nucleare nel 2003.

 

5 gennaio 1995: il segretario alla Difesa “William Perry “afferma, tra meno di cinque anni, l’Iran potrebbe costruire una bomba nucleare, anche se “la rapidità... dipenderà da come lavoreranno per ottenerla”.

 

29 aprile 1996: il primo ministro israeliano “Shimon Peres” “crede che da qui a quattro anni loro (l’Iran) potrebbero avere delle armi nucleari”.

 

21 ottobre 1998: secondo il generale “Anthony Zinni”, capo del Comando Centrale degli Stati Uniti, l’Iran potrebbe avere la capacità di lanciare bombe nucleari nel giro di cinque anni.

 “Se dovessi scommettere, direi che saranno operativi entro cinque anni, e che ne avranno le capacità”.

 

17 gennaio 2000: secondo una nuova valutazione sulle capacità nucleari iraniane, la CIA non esclude la possibilità che l’Iran possieda già armi nucleari.

La valutazione si basa sul fatto che la CIA non è in grado di seguire con precisione le attività nucleari iraniane, e quindi non può escludere la possibilità che l’Iran possieda armi nucleari.

(Alain Gresh - Sarra Grira).

 

 

 

 

Il caos mediorientale che

sta oscurando Kiev.

Ilgiornale.it – (18-6-2025) - Augusto Minzolini – ci dice:

 

La toccata e fuga in Canada dimostra ancora una volta che nella dottrina di Trump il concetto di Occidente non dico è superato, ma sicuramente ha assunto una dimensione residuale.

L'eventualità tragica è dietro l'angolo ma già si percepisce.

 La metto giù in maniera bruta:

in questo moltiplicarsi di guerre c'è il rischio che alla fine l'Ucraina faccia la parte di Cenerentola e che Kiev diventi l'agnello sacrificale di un accordo generale che rimetta in equilibrio le cose in Medio Oriente.

 I segnali sono molteplici e purtroppo univoci.

 Alla vigilia dell'intervento in Iran - elemento che suffraga l'ipotesi che Donald Trump conoscesse le intenzioni di Netanyahu - gli Stati Uniti hanno spostato forze militari a cominciare da sistemi missilistici di difesa nello scacchiere medio-orientale.

Dimostrando quali siano le loro priorità.

 Da quando sono cominciati i bombardamenti su Teheran, Donald Trump ha poi fatto tre mosse che sono segnali emblematici della sua politica:

 ha avuto l'idea bislacca di proporre Putin per il ruolo di mediatore tra Israele e Iran;

ha criticato la decisione di dieci anni fa di escludere la Russia dal G7 (magari forse con qualche ragione);

e, ovviamente al vertice canadese, per non essere in contraddizione, ha soprasseduto sulla proposta di aumentare le sanzioni verso il Cremlino.

 A leggere attentamente le sue parole sembra che abbia liquidato del tutto questa prospettiva:

 «L'Europa dovrebbe farle prima e ci costerebbero miliardi e miliardi di dollari».

 Più chiaro di così?

 Inoltre la sua partecipazione al G7 è stata poco più di un'apparizione: un modo neppure tanto nascosto per dimostrare quanta importanza assegni a quel consesso che nel formato attuale rappresenta l'Occidente.

 

 

È la conferma inequivocabile che all'inquilino della Casa Bianca del vecchio continente e della guerra che si combatte lì importa poco e niente.

Sembra che la sua attenzione ormai sia concentrata su ben altri scacchieri.

Questo non vuol dire nascondersi che la soluzione della crisi medio-orientale non sia prioritaria, che non abbia dimensioni tragiche e che l'obiettivo di evitare che l'Iran possa disporre della bomba atomica non sia fondamentale, ma allo stesso tempo non si può sottacere che possa diventare anche il classico alibi pronto all'uso del pragmatismo spietato del Tycoon per disimpegnarsi dal pantano ucraino e lasciare Kiev al suo destino.

 

Una riflessione che si porta dietro un'altra amara verità:

la toccata e fuga in Canada dimostra ancora una volta che nella dottrina di Trump il concetto di Occidente non dico è superato, ma sicuramente ha assunto una dimensione residuale.

A lui non importa un fico secco se dopo l'Afghanistan l'Ucraina possa rappresentare la seconda sconfitta dell'Occidente, forse quella decisiva, a livello globale.

Non ne intravvede le conseguenze: per lui, diciamoci la verità, i valori delle democrazie occidentali non sono discriminanti semmai sono intercambiabili a seconda degli interessi del momento.

 Altrimenti come si fa ad immaginare un ruolo di mediatore per Putin, per il personaggio che ha scatenato una guerra nel cuore dell'Europa con centinaia di migliaia di vittime e che è lungi dall'avere una soluzione?

Considerarlo il possibile mediatore di una crisi internazionale grave come quella medio-orientale significa legittimarne l'operato, comprenderne le ragioni e ipotecare da che parte tenderà la lancetta della bilancia nell'epilogo della crisi ucraina.

 Se si aggiunge poi che ai riconoscimenti a Putin Trump accompagna una litigata pubblica contro il più convinto avversario dello Zar in Europa, cioè “Macron”, si capisce quale sia la rotta del Presidente USA.

 

Insomma, tutto questo è la conferma che stiamo entrando in una fase complicata che potrebbe modificare i nostri punti di riferimento.

Non accorgersene è da imprudenti per non dire incoscienti.

Un discorso che vale soprattutto per l'Europa che potrebbe essere costretta a sobbarcarsi oneri ben più pesanti di quelli che ha sostenuto finora nel garantire la pace nel continente e nel difendere le democrazie occidentali.

 L'America di Trump è un alleato distratto che guarda altrove.

Un alleato a cui piace se non flirtare con il nemico soprassedere sui principi su cui si basa l'Alleanza Atlantica.

Un alleato che segue un'unica bussola quella degli interessi americani che possono incontrarsi o non incontrarsi con quelli dei partner occidentali.

 

 

 

Medio Oriente in fiamme: caos

 nei cieli e impatti sui voli europei.

Finanza.com - Stefano Mossetti – (16 Giugno 2025) – ci dice:

 

Nel cuore di un Mediterraneo già attraversato da incertezze, le tensioni in Medio Oriente hanno nuovamente lasciato il segno, scatenando una reazione a catena che si riflette ben oltre i confini regionali.

La crisi esplosa in seguito all’attacco israeliano alle installazioni iraniane ha avuto effetti immediati e tangibili su settori chiave come i trasporti, l’economia e la finanza internazionale, ponendo l’accento sulla fragilità degli equilibri globali.

 Gli eventi degli ultimi giorni non solo hanno acceso i riflettori sulle vulnerabilità del sistema, ma hanno anche offerto uno spaccato delle dinamiche che muovono il mondo in situazioni di emergenza.

 

Guerra in Medio Oriente: deviazioni e impatti sul traffico aereo europeo.

La chiusura simultanea degli spazi aerei in Medio Oriente di Iran, Iraq, Giordania, Siria, Libano e Israele ha mandato in tilt il traffico aereo europeo, costringendo a riprogrammare i voli con nuove rotte.

 

I cieli si sono così spostati verso Egitto e Arabia Saudita, allungando inevitabilmente i tempi di percorrenza e facendo lievitare i costi operativi delle compagnie.

 Il contraccolpo si è tradotto in una drastica riduzione dei margini di profitto, complici le spese aggiuntive per carburante, equipaggi e manutenzione, mentre i passeggeri hanno dovuto fare i conti con ritardi e cancellazioni a catena.

Una situazione che, come spesso accade in questi casi, rischia di trasformarsi in un vero e proprio boomerang per l’intero settore.

 

Mercati finanziari in fermento e oscillazioni del prezzo petrolio.

Il conflitto non si è limitato a sconvolgere i cieli, ma ha fatto sentire il suo peso anche sui mercati finanziari.

I titoli delle aziende aerospaziali e della difesa hanno registrato performance da capogiro:

Lockheed Martin ha messo a segno un balzo dell’8%, seguita da Northrop Grumman (+7%) e Raytheon Technologies (+6%).

 

In parallelo, il prezzo petrolio ha subito un’impennata del 5%, alimentando timori legati all’approvvigionamento energetico e allargando la forbice dell’incertezza sui mercati globali.

Un contesto in cui ogni movimento viene scrutato con attenzione, perché basta poco per cambiare le regole del gioco.

 

Catene logistiche sotto pressione: il boom del trasporto marittimo.

Le tensioni in Medio Oriente stanno avendo ripercussioni anche sulle catene di approvvigionamento, dove il trasporto marittimo ha dovuto fare i conti con una vera e propria escalation dei costi:

 le tariffe per le spedizioni Asia-Europa sono schizzate del 173%, superando quota 4.000 dollari per container da 40 piedi.

 

Parallelamente, il trasporto aereo internazionale ha segnato un calo della domanda del 26%, sintomo di un clima di estrema incertezza che mette in discussione le strategie tradizionali di movimentazione delle merci.

 In questo scenario, le compagnie aeree sono chiamate a ripensare le proprie rotte e a stringere accordi con paesi estranei al conflitto, mentre gli investitori si trovano di fronte alla necessità di valutare con estrema attenzione rischi e opportunità, soprattutto nei comparti energetico e dei trasporti. Un equilibrio precario, dove ogni scelta può fare la differenza.

 

 

 

 

Missili su Teheran e Tel Aviv:

il Medio Oriente precipita nel caos.

  Gazzettadimalta.com – (Giugno 18, 2025) - Redazione AI – ci dice:

 

Palazzi sventrati, interi quartieri ridotti in macerie: l’odore acre del fumo ha svegliato all’alba milioni di persone in Iran e Israele, trascinati in un incubo di fuoco e morte. In una notte di terrore senza precedenti, Israele ha colpito il ministero della Difesa iraniano a Teheran, mentre l’Iran ha risposto con una pioggia letale di missili, seminando distruzione da nord a sud.

A Tel Aviv e Gerusalemme, le sirene d’allarme hanno squarciato il silenzio della notte.

Secondo l’esercito israeliano, milioni di civili sono stati costretti a correre nei rifugi. Le squadre di soccorso parlano di almeno otto morti, tra cui bambini, e circa 200 feriti.

Ma l’elenco delle vittime, ora dopo ora, si fa sempre più lungo.

“Non possiamo negoziare mentre ci bombardano”, ha tuonato l’Iran, annunciando l’interruzione dei negoziati nucleari con gli Stati Uniti.

Questo terzo giorno di attacchi incrociati, tra due nemici giurati, segna una svolta tragica:

 per la prima volta, dopo anni di tensioni e scontri indiretti, Teheran e Tel Aviv si scambiano fuoco diretto su larga scala.

 Gli osservatori temono che la situazione degeneri in una guerra regionale senza ritorno.

L’offensiva israeliana, iniziata all’alba di venerdì, ha preso di mira centrali nucleari e basi militari iraniane.

Secondo fonti di Teheran, sarebbero già deceduti decine di militari, tra cui alti comandanti e scienziati atomici.

 “Benjamin Netanyahu” ha promesso di colpire “ogni obiettivo del regime degli ayatollah”, mentre il presidente iraniano “Masoud Pezeshkian” ha avvertito: “Qualsiasi ulteriore attacco riceverà una risposta ancora più severa e devastante” .

 

Nella città israeliana di Bat Yam, a sud di Tel Aviv, i primi soccorritori, caschi e torce in testa, hanno scavato tra le macerie alle prime luci del giorno.

Due donne di 69 e 80 anni, una ragazza e un bambino di 10 anni sono rimasti uccisi.

Altre 100 persone ferite, secondo quanto riferito da un portavoce del “Magen David Adom” (MDA).

Altri 37 feriti sono stati segnalati nella regione di Sheila, a ovest di Gerusalemme. Nel nord, in Galilea Occidentale, un missile ha raso al suolo un palazzo di tre piani, uccidendo tre donne.

 Una giovane di 20 anni è morta dopo che un razzo iraniano ha colpito una casa nella zona di Haifa. Circa una dozzina i feriti.

Secondo Channel 12, circa 200 persone sarebbero rimaste ferite nella pioggia di missili iraniani durante la notte.

L’ambasciatore iraniano all’ONU ha dichiarato che le prime ondate di attacchi israeliani, venerdì, avevano già provocato 78 morti e 320 feriti.

Le autorità iraniane non hanno aggiornato il bilancio alla mattina di domenica.

Obiettivi nucleari nel mirino.

L’esercito israeliano ha riferito di aver colpito la sede del ministero della Difesa iraniano e infrastrutture legate al “progetto di armi nucleari”, inclusi depositi di carburante, intorno alle 2:40 di domenica (23:40 GMT di sabato).

Tra i siti colpiti, anche il quartier generale dell’SPND, l’”Organizzazione per l’Innovazione e la Ricerca Difensiva”, accusata da Israele di essere al centro dello sviluppo dell’arsenale nucleare iraniano.

L’agenzia iraniana Tasin aveva già riportato che uno degli edifici del ministero della Difesa a Teheran era stato danneggiato da un attacco israeliano. Il ministero non ha rilasciato commenti ufficiali.

Nel frattempo, i Guardiani della Rivoluzione iraniana hanno affermato di aver colpito basi israeliane usate per il rifornimento degli aerei da guerra, come risposta agli attacchi subiti.

“Le operazioni offensive delle forze armate iraniane continueranno con più forza e ampiezza se proseguiranno le aggressioni”, si legge in un comunicato.

Secondo il ministero del Petrolio iraniano, Israele avrebbe colpito due serbatoi di carburante a Teheran nella notte:

uno a Shahram, a nord-ovest della capitale, l’altro a sud.

Un giornalista AFP ha confermato di aver visto il deposito di Shahram in fiamme.

Preoccupazione internazionale.

Netanyahu ha dichiarato che l’operazione israeliana gode del “pieno appoggio” del presidente statunitense Donald Trump.

 In una telefonata di sabato con Vladimir Putin, Trump avrebbe concordato sul fatto che “il conflitto tra Iran e Israele deve cessare”.

 

Ma Pezeshkian ha attaccato l’atteggiamento ambiguo di Washington, accusandola di “ipocrisia” per sostenere Israele mentre era ancora formalmente impegnata nei colloqui nucleari.

Il mediatore Oman ha confermato che gli incontri previsti per domenica non si sarebbero più tenuti.

I governi occidentali continuano ad accusare l’Iran di voler sviluppare un’arma nucleare, accusa che Teheran respinge con forza.

 Il ministro degli Esteri Abbas Araghchi, capo negoziatore nucleare, ha dichiarato che gli attacchi israeliani “minano ogni possibilità di dialogo e stanno trascinando l’intera regione in un ciclo pericoloso di violenza”.

 

Tra gli obiettivi centrali dell’attacco israeliano, figura l’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz.

Sono rimasti uccisi Mohammad Bagheri, il massimo comandante delle forze armate iraniane, e Hossein Salami, capo delle potentissime Guardie Rivoluzionarie. L’esercito israeliano parla di oltre 20 comandanti iraniani eliminati.

I media iraniani confermano la morte di cinque membri delle Guardie Rivoluzionarie sabato, mentre un’amministrazione provinciale del nord-ovest ha dichiarato che 30 militari sono stati uccisi dall’inizio dell’attacco, venerdì.

La Mezzaluna Rossa iraniana ha segnalato che un’ambulanza è stata colpita sabato nella città di Urmia, uccidendo due persone.

 

Teheran ha esortato i suoi cittadini a unirsi nella difesa del Paese, mentre Netanyahu ha lanciato un appello opposto: “Sollevatevi contro il vostro governo”.

 

A conferma del clima d’allarme globale, il presidente turco “Recep Tayyip Erdogan” ha avvertito del rischio “di una guerra devastante” in una telefonata con il principe ereditario saudita “Mohammed bin Salman”.

Il primo ministro britannico “Keir Starmer” ha annunciato sabato il dispiegamento di caccia e altri mezzi nel Medio Oriente “come supporto precauzionale”, pur invitando tutte le parti a una de-escalation.

 

 

 

 

Attacco israeliano all’Iran,

il mito del cambio di regime.

Ilmanifesto.it – Alberto Negri – (18 – giugno – 2025) – ci dice:

 

Medio oriente L’obiettivo strategico di Usa e Israele è il caos in Medio Oriente, perché lo stato ebraico resti la sola superpotenza regionale.

 I precedenti in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria.

 

Sulla guerra Iran-Israele (e Stati Uniti) cominciano a circolare le notizie più disparate, ma forse anche fondate, tra queste – come sostengono settori dell’intelligence americana – che l’Iran è lontano anni da una bomba nucleare.

Ma ci sono anche mitologie ricorrenti come quella del cambio di regime come vorrebbe il premier israeliano Netanyahu.

Il quale per altro non è chiaro se abbia i mezzi per farlo.

Appare complicato rovesciare un regime solo con attacchi aerei, diciamo che Israele può scatenare il caos in un Paese che è cinque volte l’Italia con 90 milioni di abitanti, confina con altri sette Paesi tra cui un membro Nato (Turchia), un altro a enorme instabilità (Afghanistan).

Si affaccia su Caspio e Golfo, dispone delle seconde riserve al mondo di gas e le quarte di petrolio.

Un bel boccone, forse un po’ troppo per il governo estremista e messianico di Israele.

 Come sostiene e scrive da tempo “Alastair Crooke”, diplomatico e agente dell’MI-6 britannico, il vero e forse unico obiettivo strategico di Usa e Israele è quello di portare il caos in Medio Oriente in modo che lo stato ebraico rimanga l’incontrastata superpotenza regionale.

 

I precedenti sono chiari.

Negli ultimi trent’anni i cambi di regime imposti dall’esterno hanno prodotto disastri clamorosi.

 Basti pensare all’Afghanistan nel 2001 con la fuga da Kabul venti anni dopo e il ritorno dei talebani;

all’Iraq nel 2003 sprofondato nella guerra civile e nel jihadismo;

alla Libia di Gheddafi nel 2011, fuori controllo e sempre divisa.

 Per contrasto in Siria, a dicembre, sono state le forze locali a far cadere Bashar Assad, per quanto sostenute dall’estero.

 

Possiamo detestare quanto vogliamo il regime degli ayatollah ma pensare, come scrive” Pierre Haski” su “Internazionale”, che la caduta di quello di Teheran possa creare progresso e libertà significa essere ingenui e confondere i desideri con la realtà.

Un crollo del regime sotto i colpi dell’esercito israeliano non farebbe altro che alimentare un caos da cui potrebbero emergere forze oppressive e antidemocratiche.

 

MA GLI OCCIDENTALI ancora una volta sono pronti ad accettare la narrativa di un premier israeliano che scatena guerre per tenersi in sella e distrarre i media da Gaza dove l’esercito di Tel Aviv continua uccidere centinaia di palestinesi.

 Ieri al G7 il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha detto:

 «Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti noi in Iran».

Come a Gaza, verrebbe da aggiungere.

 

Tutto questo non può indurci a ignorare i fattori interni di destabilizzazione dell’Iran e il sempre maggiore scollamento tra il regime e la popolazione, testimoniato dalle manifestazioni di piazza cominciate in maniera diffusa con il movimento “Donne, vita, libertà” nato nel 2022 dopo la morte della giovane Mahsa Amini, avvenuta mentre si trovava nelle mani della polizia per non aver indossato il velo nella maniera corretta.

E proprio nel tentativo di riprendere almeno una parte del consenso che il regime, dopo la misteriosa morte del presidente Raisi in un incidente di elicottero, ha fatto eleggere l’anno scorso il riformista “Pezeshkian” al posto di un fondamentalista ultra-conservatore.

Ma anche questo non è bastato a riconciliare popolazione e regime.

 Ancora una volta si è registrato un calo della partecipazione con circa il 40% dei votanti: la legittimità della repubblica islamica fondata nel 1979 con la rivoluzione di Khomeini è in discussione per le pesanti disillusioni sul sistema.

 

PROPRIO PER QUESTO il regime aveva serrato i ranghi.

Trovare un successore dell’attuale Guida Suprema Khamenei era già apparsa prima di questa guerra una questione di vitale importanza per la sopravvivenza della repubblica islamica.

 Per questo l’ala religiosa del potere si poteva appoggiare soltanto sugli onnipresenti Pasdaran, le Guardie della rivoluzione da anni impegnati sui fronti di guerra, dall’Iraq alla Siria, dal Libano allo Yemen.

Nati dal movimento di massa della rivoluzione del ’79 e dalla necessita di sostenere l’attacco del 1980 portato dall’Iraq di Saddam Hussein, sono diventati negli ultimi decenni i veri padroni del Paese e controllano oltre all’apparato militare anche le leve economiche.

Ma non basta la loro potenza a tenere in piedi la repubblica islamica e soprattutto a garantirne la legittimità popolare.

 

L’alone dell’utopia rivoluzionaria con cui il turbante dei mullah si era sostituito alla corona imperiale è svanito da un pezzo.

Il sistema – così almeno avrebbe voluto Khomeini – doveva andare a beneficio dei mostazafin, letteralmente i senza scarpe, i diseredati e gli oppressi in nome dei quali era stata fatta la rivoluzione.

 In realtà religiosi, ex rivoluzionari, Pasdaran e uomini d’affari, si sono impadroniti del business e dell’economia di un Paese con enormi riserve di gas e petrolio.

 

NON SOLO I POVERI oggi sono sempre più poveri ma anche la classe media è in crisi.

E poi ci sono le incognite sulla “generazione X” iraniana che abbiamo visto scendere in piazza, giovani che non hanno partecipato ovviamente né alla rivoluzione khomeinista del ‘79 né alla guerra Iran-Iraq (1980-1988).

 Gli iraniani sono più di 90 milioni, di questi oltre 40 milioni sono nati dopo la rivoluzione e la metà (fonte Undp) sono tra i 10 e i 24 anni.

Eppure finora il sistema statuale ha retto perché elargisce la metà degli stipendi mentre il welfare iraniano, che insieme ai prezzi sussidiati valeva la metà del Pil, nonostante i tagli è ancora in piedi.

C’è un Iran che teme il regime ma forse teme ancora di più l’anarchia e il caos che ha investito il confinante Iraq.

Mai trarre facili conclusioni sull’Iran, erede di un impero, di una cultura antica e di una delle grandi rivoluzioni della storia.

 

 

 

 

Il medio oriente è nel caos

e a Trump non piace.

Ilfoglio.it – (31 mar. 2025) – Redazione -Trad. Giulio Menotti – ci dice:

     Ogni presidente americano vuole un medio oriente calmo che pompa petrolio e gas e compra beni americani senza coinvolgerlo in altre guerre.

 

"Anche prima che le figure di spicco della Sicurezza nazionale discutessero di piani di guerra segreti in una chat di “Signal”, che inavvertitamente includeva un giornalista dell’Atlantic, era chiaro che la March Madness era scoppiata in medio oriente” scrive Walter Russell Mead sul Wall Street Journal.

 “Conflitti militari e disordini politici sono simultaneamente in ebollizione in tutta la regione.

Trump sta inviando un secondo gruppo di portaerei nella regione mentre si intensifica lo scontro degli Stati Uniti con gli Houthi.

L’Iran, sconvolto dalle sue perdite catastrofiche e umilianti contro Israele, esita tra le alternative di un’accelerazione nucleare e un accordo con i nemici.

Mentre i mercati finanziari turchi crollavano e i dimostranti in tutto il paese chiedevano la democrazia, il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan ha incarcerato il suo più formidabile rivale con accuse di corruzione.

Le truppe israeliane sono tornate a Gaza mentre aumentavano la pressione in Siria e Libano.

Le strade israeliane si sono riempite di nuovo di manifestanti che denunciavano il governo di Benjamin Netanyahu, mentre il governo licenziava il capo dell’agenzia di intelligence interna e avviava le procedure per estromettere il procuratore generale, e i missili Houthi mandavano milioni di israeliani nei rifugi.

Nel frattempo, Israele sta uscendo dalla guerra con l’Iran e i suoi delegati più potente e meno isolato di prima, ma i suoi problemi fondamentali, interni ed esterni, rimangono irrisolti.

 Mai dai tempi successivi alla guerra d’indipendenza israeliana i palestinesi sono stati così deboli o così divisi.

 Sia a Gaza che in Cisgiordania, i palestinesi potrebbero dover affrontare nuove annessioni israeliane mentre il conflitto si trascina.

 Eppure il peggior incubo di Israele, il programma nucleare iraniano, sta diventando, se non altro, un pericolo maggiore.

La resistenza palestinese rimane una spina nel fianco di Israele, mentre l’economia e la società israeliana barcollano sotto il peso di una guerra lunga e costosa.

 Le divisioni interne tra gli israeliani minacciano di dividere il paese tra destra e sinistra, religiosi e laici.

Se un alto numero di palestinesi della Cisgiordania sentisse il richiamo della sirena del terrorismo e della vendetta, potrebbero verificarsi anche annessioni israeliane in Cisgiordania.

 

 I palestinesi hanno ragione a temere che l’interesse di Trump nel ‘trasferire’ i palestinesi da Gaza rappresenti una svolta.

 Incoraggiare i palestinesi a emigrare da Gaza e dalla Cisgiordania potrebbe diventare una caratteristica più importante della politica israeliana e americana. La domanda più importante in medio oriente oggi riguarda il futuro ruolo dell’America.

 Tutti gli occhi sono puntati su Trump.

Tutti vogliono il sostegno americano; tutti temono le conseguenze se il presidente americano si schierasse dalla parte dei loro rivali.

 L’agenda di Trump in medio oriente è semplice.

Vuole ciò che ogni presidente americano ha voluto dalla Seconda guerra mondiale: un medio oriente tranquillo che pompa petrolio e gas e acquista beni americani (comprese le armi) senza coinvolgere gli Stati Uniti in altre guerre.

Le potenze del medio oriente che cercano l’amicizia di Trump dovrebbero tenerlo a mente.

 I paesi che gli offrono stabilità al costo più basso sono quelli che hanno maggiori probabilità di godere del suo sostegno”.

(Traduzione di Giulio Meotti).

 

 

 

 

Tecnologie e difesa, Trump firma

accordi miliardari con l’Arabia Saudita.

Ilsole24ore.com – (14 maggio 2025) - Luca Veronese – ci dice:

 

Ai sauditi pacchetto di forniture in armamenti per quasi 146 miliardi di dollari, più contratti con Boeing, Starlink, Oracle, Nvidia, Ge, Amazon.

 Il presidente americano incontrerà a Riad il nuovo leader della Siria “Ahmed Hussein al-Sharia).

Donald Trump incontra il principe saudita Mohammed Bin Salman a Riad.

«Mohammad bin Salman è un amico. Credo davvero che ci piacciamo molto».

La diplomazia personale di Donald Trump ha conquistato i Paesi del Golfo.

Nel primo giorno della sua visita nella regione, il presidente americano ha concluso un accordo economico strategico con l’Arabia Saudita su energia e difesa, ha ottenuto garanzie per investimenti miliardari dei sauditi negli Stati Uniti, coinvolgendo diverse grandi società americane.

«Con questo viaggio, stiamo aggiungendo oltre mille miliardi di dollari, in termini di investimenti nel nostro Paese e di acquisto dei nostri prodotti», ha detto Trump intervenendo all’Investment forum Usa-Arabia Saudita a Riad, avviando una missione che proseguirà nei prossimi giorni in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti.

 

 Lo scontro degli Stati arabi con Israele, la guerra a Gaza e i rapporti con l’Iran sono rimasti in secondo piano:

 il business, come ampiamente previsto, ha preso tutta l’attenzione degli incontri. Il presidente Usa non farà tappa in Israele ed eviterà così il confronto con il premier Benjamin Netanyahu, in una fase molto tesa, con le forze israeliane sempre impegnate nell’operazione nella Striscia.

 Anche il richiamo all’Iran sul nucleare è sembrato abbastanza scontato:

 «Voglio un accordo con l’Iran ma diversamente non avremo altra scelta che infliggere la massima pressione, portando a zero l’export del petrolio iraniano.

Ora spetta a Teheran decidere ma la nostra offerta non durerà per sempre», ha detto Trump, promettendo, tra gli applausi, che «l’Iran non avrà mai l’arma nucleare».

In Arabia, Trump incontrerà invece il presidente siriano Ahmed Hussein al-Sharia (al Jolani) e potrebbe annunciare la revoca delle sanzioni Usa.

 

A Riad, Trump è sceso dall’Air Force One, con il pugno in alto in segno di vittoria accolto da sfarzi e tappeto rosso.

 Assieme ai ceo dei grandi gruppi statunitensi tra i quali il fedele Elon Musk, è subito passato agli affari: con Mbs, il principe Mohammad bin Salman, l’intesa è stata totale su difesa, petrolio ed energia, ed estrazione mineraria.

Gli Stati Uniti hanno accettato di vendere all’Arabia un pacchetto di armi del valore di quasi 142 miliardi di dollari, secondo una nota della Casa Bianca, che parla del «più grande accordo di cooperazione in materia di difesa» mai stipulato da Washington.

Verranno coinvolte oltre una dozzina di aziende Usa che forniranno sistemi di difesa aerea e missilistica e contribuiranno allo sviluppo aeronautico e spaziale, alla sicurezza marittima e alle comunicazioni.

Previsto anche supporto per l’addestramento delle forze armate saudite «per la sicurezza nella regione».

Nei colloqui sono state definite collaborazioni nella tecnologia, nei trasporti e nei servizi anche con Starlink, Oracle, Amazon, Nvidia, Amad, Ge Vernova, Boeing.

 

«Speriamo in opportunità di investimento per un valore di 600 miliardi di dollari, inclusi accordi per 300 miliardi di dollari firmati durante questo forum», ha dichiarato il principe ereditario saudita.

 «Lavoreremo nei prossimi mesi - ha aggiunto - alla seconda fase per completare gli accordi e portarli a mille miliardi di dollari».

 Negli incontri tra le delegazioni si è discusso anche - secondo fonti citate dall’agenzia Reuters - dell’acquisto da parte saudita dei jet Lockheed F-35.

 

«Sebbene l’energia rimanga un pilastro delle nostre relazioni, gli investimenti e le opportunità commerciali nel regno si sono ampliati e moltiplicati a dismisura», ha sottolineato il ministro degli Investimenti saudita Khalid al-Falih.

 Anche “MbS” si è concentrato sulla diversificazione dell’economia saudita in un programma di riforme denominato “Vision 2030”, che include «giga-progetti» come “Neom”, la città futuristica nel deserto delle dimensioni del Belgio.

 

Il presidente americano si è trattenuto a lungo anche con il governatore del fondo sovrano di Riad, “Yaser al-Rumayyan”, e con il ceo di Aramco, “Amin Nasser”.

 Al di là degli accordi miliardari, ancora tutti da sviluppare, non c’è dubbio che Trump abbia centrato l’obiettivo di rafforzare ulteriormente i legami economici e militari con una potenza della regione come l’Arabia Saudita, oltre che quelli personali con l’«amico» “Mbs”.

 

 

 

 

Trump, maxi accordi con Arabia Saudita,

 Qatar ed Emirati: investimenti

 in Usa per mille miliardi.

   Corriere.it - Massimiliano Jattoni Dall’Asen – (13 maggio 2025) – ci dice:

 

Donald Trump in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti per firmare accordi su armi, tecnologia e infrastrutture. La diplomazia resta sullo sfondo: la guerra a Gaza blocca i tentativi di negoziati tra Israele e il mondo arabo.

Trump in Arabia Saudita: maxi investimenti da 1.000 miliardi, ma la guerra a Gaza blocca la pace con Israele.

Donald Trump è atterrato oggi 13 maggio a Riad, accolto con tutti gli onori riservati ai leader delle grandi potenze, in un’atmosfera sfarzosa.

Tra cerimonie regali, palazzi dorati e una lunga processione di limousine e tappeti rossi, l’ex presidente — tornato alla guida della Casa Bianca da appena quattro mesi — inaugura così il suo primo tour ufficiale nel Medio Oriente, dopo la breve apparizione a Roma per i funerali di Papa Francesco.

 

Il viaggio, che proseguirà in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti nei prossimi giorni, ha un obiettivo dichiarato:

 attrarre mille miliardi di dollari di investimenti verso gli Stati Uniti, rafforzando legami economici con alcune delle economie più liquide e dinamiche del pianeta, in un mix di accordi industriali, energetici, tecnologici e militari.

Un’operazione imponente, che segna la continuità con l’approccio di «diplomazia commerciale» già avviato da Trump nel suo primo mandato.

 

L’AEREO PRESIDENZIALE.

Il nuovo Air Force One arriva dal Qatar: la famiglia reale regala a Trump un Boeing 747 (che potrà usare anche quando non sarà più presidente).

La guerra a Gaza frena la diplomazia.

Sullo sfondo delle trattative c'è la crisi aperta tra Israele e Hamas, che rende al momento impraticabile l’obiettivo — caro a Trump fin dal primo mandato — di normalizzare i rapporti tra Israele e Arabia Saudita.

 Fonti vicine all’amministrazione hanno confermato che funzionari statunitensi stanno facendo pressioni su Tel Aviv per ottenere un cessate il fuoco immediato, condizione posta dal principe ereditario “Mohammed bin Salman” per riaprire i colloqui con lo Stato ebraico.

Ma il premier israeliano Benjamin Netanyahu non intende arretrare.

 

«Un viaggio storico».

Dunque, se la diplomazia è costretta a restare in secondo piano, soffocata dalle macerie di Gaza, è il business a dettare l’agenda.

 «La mia visita in Medio Oriente sarà storica», ha annunciato Trump prima della partenza da Washington.

 E il messaggio è chiaro: più che una missione diplomatica, il tour sarà una passerella di accordi economici.

Il presidente americano si presenta forte dei suoi rapporti personali consolidati con i leader del Golfo, costruiti nel tempo non solo a livello istituzionale, ma anche attraverso affari privati che spaziano dai grattacieli ai golf resort, dalle criptovalute al Real estate.

 

“Business forum” con i colossi USA.

A Riad si terrà il 14 maggio un forum economico con i principali ceo americani e sauditi, centrato su tecnologia, intelligenza artificiale, energia e sicurezza.

Elon Musk, Sam Altman, Mark Zuckerberg e Larry Fink sono attesi tra i relatori.

 In agenda ci sono intese in settori strategici, e un primo pacchetto di accordi per oltre 100 miliardi di dollari in forniture militari, inclusi missili, radar e aerei da trasporto.

Proprio per agevolare questi contratti, il mese scorso Trump ha firmato un ordine esecutivo che allenta le restrizioni sulle vendite di armamenti a Paesi terzi.

 

Arabia Saudita: tecnologia, difesa e energia.

Sul tavolo anche accordi energetici e minerari, nell’ottica di rafforzare la cooperazione bilaterale nel settore delle terre rare e della transizione energetica.

Il piano di “Vision 2030”, che punta a trasformare l’Arabia Saudita in una potenza tecnologica post-petrolio, trova negli Stati Uniti un partner naturale, e Trump vuole capitalizzare su questa convergenza.

Il pacchetto saudita è il più consistente.

 Il principe ereditario “Mohammed bin Salman” avrebbe già promesso 600 miliardi di dollari in investimenti nei prossimi quattro anni.

Trump punta però più in alto:

«Questa volta chiederemo mille miliardi», avrebbe detto ai suoi consiglieri, come riportato da Bloomberg e dal Wall Street Journal.

 Le intese previste includono forniture militari per oltre 100 miliardi di dollari, tra cui missili balistici, sistemi radar e aerei da trasporto, resi possibili da un ordine esecutivo firmato da Trump per facilitare le esportazioni di armi; ma anche accordi su intelligenza artificiale, cybersecurity ed energia verde.

 

Esteri.

Donald Trump è arrivato in Arabia Saudita: inizia da Riad il suo viaggio all'estero

Medioriente, l'arrivo di Trump in Arabia Saudita.

Qatar: Boeing, droni e infrastrutture.

Dopo l’Arabia Saudita, Trump farà tappa in Qatar, dove — secondo una fonte a conoscenza del dossier — sarà annunciato un pacchetto di investimenti da 200-300 miliardi di dollari.

Tra questi, spicca un grande accordo per la fornitura di aerei commerciali Boeing e un acquisto da 2 miliardi di dollari di droni MQ-9 Reaper.

 Infine, investimenti in infrastrutture digitali e telecomunicazioni, con particolare attenzione alla sicurezza dei data center e alla gestione dei big data.

Anche qui, il legame personale tra Trump e l’élite qatariota potrebbe accelerare la firma degli accordi.

 Il Qatar,” sede del comando centrale Usa in Medio Oriente”, resta un alleato chiave, anche per il suo ruolo diplomatico tra Stati Uniti, Iran e Hamas.

Ma, come detto, Trump, almeno per ora, evita la sfera geopolitica e si concentra sul «deal making».

 

Emirati Arabi Uniti: AI, semiconduttori e manifattura.

Negli Emirati Arabi Uniti, ultima tappa del viaggio, il governo ha già annunciato a marzo investimenti per 1.400 milioni di dollari nei prossimi dieci anni, in settori come intelligenza artificiale, semiconduttori, energia e manifattura.

 Una strategia, quella di Abu Dhabi, in linea con le ambizioni degli Emirati di diventare “hub globale” per l’innovazione tecnologica.

 

Economia vs geopolitica.

Come detto, se il viaggio potrà vantare una lunga lista di memorandum e partnership, resta il dubbio su quanto queste mosse possano incidere davvero sul quadro regionale.

Come ha osservato il “Financial Times”, «gli accordi economici non bastano a nascondere la mancanza di una visione politica condivisa», mentre “The Guardian “sottolinea che «la pace, senza giustizia per i palestinesi, resta una chimera che nemmeno Trump può comprare».

 

 

 

Il Medio Oriente è entrato

 nella corsa all'AI, con

 l'aiuto di Trump.

Wired.it – Will Knight – (26 -5- 2025) – ci dice:

I recenti accordi firmati dal presidente americano con Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita promettono di accelerare gli sforzi della regione nel settore (e contrastare la Cina).

Il presidente statunitense Donald Trump durante il recente tour in Medio Oriente ha siglato diversi accordi sull' “AIWin McNamee”.

La recente missione di Donald Trump in Medio Oriente verrà ricordata per lo stuolo di miliardari del settore tecnologico che hanno accompagnato il presidente statunitense, per la scorta aerea di cacciabombardieri al seguito dell'Air force one e, soprattutto, per una serie di accordi commerciali destinati a rimodellare il panorama globale dell'intelligenza artificiale.

Gli accordi di Trump in Arabia Saudita ed Emirati.

Durante l'ultima tappa del suo tour, ad “Abu Dhabi”, Trump ha annunciato che alcune aziende statunitensi non meglio specificate collaboreranno con gli Emirati Arabi Uniti per creare il “più grande cluster di data center AI “al di fuori del territorio americano.

 Le imprese in questione aiuteranno la” società emiratina G42” a mettere in piedi cinque gigawatt di capacità di calcolo per l'AI nel paese, ha spiegato Trump.

Lo sceicco “Tahnoon bin Zayed Al Nahyan” – che guida il “Consiglio per l'intelligenza artificiale” e le “tecnologie avanzate degli Emirati e gestisce una fortuna di ben 1.500 miliardi di dollari finalizzata alla costruzione di infrastrutture per l’AI” – ha dichiarato che la partnership rafforzerà la posizione degli Emirati Arabi Uniti "come hub per la ricerca all'avanguardia e lo sviluppo sostenibile, garantendo benefici trasformativi all'umanità".

 

Pochi giorni prima, in occasione dell'arrivo di Trump a Riyadh, l'Arabia Saudita ha lanciato “Humain,” una società di investimenti per l'AI di proprietà del fondo sovrano del regno.

 Prima ancora di essere annunciata, la società aveva già siglato importanti accordi con Nvidia, Amd, Qualcomm e Aws, giganti tecnologici statunitensi in grado di costruire l'infrastruttura necessaria per addestrare e alimentare gli ultimi modelli di intelligenza artificiale.

In un discorso a Riyadh, Trump ha dichiarato che le aziende statunitensi e saudite firmeranno accordi da centinaia di miliardi di dollari, concentrandosi su settori come” infrastrutture, tecnologia e difesa”.

Le ultime intese raggiunte in Medio Oriente hanno l'obiettivo di rafforzare l'importanza globale dei chip e dell'AI statunitensi, ma aiuteranno anche nazioni come l'Arabia Saudita ad assumere un ruolo più significativo nella corsa globale allo sviluppo e alla distribuzione di tecnologie all'avanguardia.

 

"Aiuteranno i sauditi e gli Emirati Arabi Uniti a diventare attori più importanti nella fornitura di infrastrutture per l'AI – afferma “Paul Triolo,” socio di “Dga-Albright Stonebridge Group”, un gruppo di consulenza geopolitica –.

Ottenere l'accesso a queste “gpu” ha un grande peso".

 

L'accordo tra Arabia Saudita e Nvidia, che domina il mercato degli hardware per l'addestramento dell'AI, prevede tra le altre cose la fornitura di "diverse centinaia di migliaia delle “gpu” più avanzate di Nvidia nei prossimi cinque anni", ha dichiarato l'azienda in un comunicato.

Secondo una stima, tutto questo potrebbe tradursi in circa 250mila chip di frontiera dell'azienda, che sono quattro volte migliori nell'addestramento e 30 volte migliori nell'inferenza (cioè l’esecuzione di modelli già addestrati) rispetto alla concorrenza.

Una capacità che potrebbe consentire all'Arabia Saudita di creare modelli di AI all’avanguardia.

 

“Amazon web services” e “Humain” hanno promesso un investimento congiunto da 5 miliardi di dollari in infrastrutture per l'AI in Arabia Saudita, a cui si aggiungono quelli annunciati dalla sola “Aws” per oltre 5,3 miliardi di dollari e quello di “Humain” e “Amd” da 10 miliardi (divisi in questo caso tra Arabia Saudita e Stati Uniti).

 

Come noto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altre nazioni della regione possono contare sugli enormi proventi derivanti dal petrolio, hanno accesso a una grande quantità di energia e puntano a trasformarsi in economie più tecnologiche, costruendo infrastrutture di ultima generazione.

 Ma dal momento che hanno anche importanti legami commerciali con la Cina – che vende la propria tecnologia alla regione – questi paesi sono anche al centro di una crescente rivalità geopolitica sul futuro dell'AI.

 

La nuova strategia AI degli USA in Medio Oriente.

Pochi giorni prima della visita di Trump in Medio Oriente, l'amministrazione statunitense ha revocato un'importante decisione dell'era Biden che avrebbe posto limitazioni alla vendita di chip a livello globale, istituendo diversi livelli di accesso alla tecnologia di ultima generazione e cercando di limitare il numero di microchip che l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti potevano acquistare.

I critici avevano sottolineato che la misura rischiava di spingere alcuni paesi ad acquistare componenti cinesi.

In una dichiarazione sul cambio di rotta deciso dall'attuale governo, l'ufficio statunitense per l'Industria e la sicurezza ha affermato che il provvedimento di Biden "avrebbe soffocato l'innovazione americana e appesantito le aziende con nuovi e onerosi requisiti normativi" e "minato le relazioni diplomatiche degli Stati Uniti con decine di paesi, declassandoli a uno status di secondo livello".

 

Secondo gli esperti, l'obiettivo dei nuovi accordi di Trump in Medio Oriente è quello di promuovere un maggiore allineamento della regione con gli Stati Uniti.

"Non si tratta di costringere esplicitamente l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti a scegliere da che parte stare – osserva Triolo –.

È come dire: «vi stiamo facendo un'offerta che non potete rifiutare»".

 

Le intese potrebbero rafforzare il dollaro statunitense creando legami finanziari tra l'Occidente e il Medio Oriente ma anche aiutare l'America ad assicurarsi risorse energetiche e minerarie.

Le infrastrutture costruite dall'Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti saranno sfruttate con ogni probabilità dalle aziende locali e da quelle in zone del mondo come l'Africa.

 E dal momento che i modelli AI statunitensi sono di gran lunga migliori di quelli prodotti in Medio Oriente – almeno per ora – la strategia potrebbe contribuire a garantire che una quota maggiore dei sistemi di intelligenza artificiale usati nel mondo siano prodotti in America.

 

“Robert Tanger”, direttore dell'”Oxford Martin AI Governance Initiative” dell'”Università di Oxford”, sostiene che gli accordi fanno parte di uno sforzo finalizzato a rafforzare l'influenza tecnologica degli Stati Uniti a livello globale.

 

“Se da un lato c'è l'idea di una corsa contro la Cina, dall'altro c'è la sensazione che gli Stati Uniti vogliano essere fondamentali per lo stock tecnologico di tutto il mondo – afferma Tanger –.

Penso che gli Stati Uniti non sappiano esattamente come far quadrare il cerchio, ma non vogliono trovarsi nella situazione in cui Deep Seek diventa il fondamento dell'ecosistema AI in tutto il mondo".

 

Verso un nuovo equilibrio nella corsa all'AI.

Negli ultimi anni sia Arabia Saudita che Emirati Arabi Uniti si sono concentrati sullo sviluppo di AI all'avanguardia, investendo in modo significativo in laboratori accademici e industriali che lavorano sulla ricerca di frontiera.

Nel 2020, gli Emirati hanno messo” Eric Xing”, un importante ricercatore di AI, a capo dell'Università di intelligenza artificiale “Mohamed bin Zayed.” Successivamente un laboratorio di ricerca del governo ha lanciato una serie di modelli di “AI avanzati “in lingua araba, noti come “Falcon”.

Nel 2021, l'”Università King Abdullah per la Scienza e la Tecnologia dell'Arabia Saudita” ha affidato a “Jürgen Schmidhuber”, un pioniere dell'AI moderna, la guida degli sforzi nel settore.

 

Secondo Triolo, la ricerca sull'AI prodotta dai due paesi è stata fin qui di qualità modesta se confrontata ai progressi raggiunti dagli Stati Uniti e dalla Cina.

 Ma l'accesso a una maggiore potenza di calcolo potrebbe imprimere un'accelerata alla regione.

 "Cambieranno l'equilibrio", dice Tanger a proposito dei chip Nvidia diretti in Arabia Saudita.

"Questi non sono i chip di ieri, ma quelli di nuova generazione", gli fa eco “Georgia Adamson”, ricercatrice associata dell'”Istituto Wadhwani” per l'intelligenza artificiale presso il “Centro per gli studi strategici e internazionali.”

 

China calling.

A complicare il quadro ci sono però le tensioni tra Stati Uniti e Cina.

L'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono più vicini a Pechino che a paesi tradizionalmente considerati alleati di Washington.

Per le loro infrastrutture di telecomunicazione, per esempio, utilizzano apparecchiature Huawei, un'azienda finita nella lista nera americana.

 

Per placare i timori degli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti stanno cercando di interrompere alcuni di questi rapporti.

Nel 2024, G42 ha annunciato che avrebbe rimosso le apparecchiature cinesi dalle sue strutture e ha poi firmato un accordo con Microsoft incentrato sulle infrastrutture.

Il paese è anche uno dei principali finanziatori del “progetto Stargate di OpenAI”, che promette di investire 500 miliardi di dollari per la “creazione di infrastrutture AI” negli Stati Uniti.

 

Lo sviluppo locale del settore potrebbe essere ulteriormente ostacolato dalla guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina.

 Nonostante il recente accordo tra Washington e Pechino, i dazi e le restrizioni alle esportazioni rischiano di alzare i costi di questi progetti.

 

Secondo” Adamstown”, gli Stati Uniti corrono due rischi principali quando si parla di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita.

 Il primo è che i nuovi accordi favoriscano il contrabbando di chip in Cina o l'accesso delle aziende cinesi a grandi cluster di ultima generazione.

 Il secondo è che questi paesi diventino rivali tecnologici degli Stati Uniti.

 "C'è un tema di concorrenza – osserva la ricercatrice –.

Non vogliamo che gli alleati di oggi diventino i nemici di domani".

 

Per il momento, le potenze petrolifere sono una manna per i piccoli attori statunitensi impegnati nella corsa all'intelligenza artificiale.

A febbraio, l'Arabia Saudita ha dichiarato che avrebbe investito 1,5 miliardi di dollari per espandere un “centro dati di Dammam” gestito da “Groq”, un'azienda statunitense che produce chip AI.

E lo scorso marzo, “G42” ha dichiarato che avrebbe finanziato lo sviluppo di un grande centro dati negli Stati Uniti dotato di “chip Cerebras”, un'altra società statunitense che sta provando a imporsi come rivale con Nvidia.

 

Gli accordi siglati da Trump "segnalano che l'Arabia Saudita punta a diventare un attore globale nell'AI", afferma una fonte che lavora a stretto contatto con diversi governi sul tema dell’intelligenza artificiale (e che ha chiesto di rimanere anonima per evitare di compromettere le proprie relazioni diplomatiche).

 

L'Arabia Saudita ha intrapreso sforzi ambiziosi per digitalizzare la sua economia e favorire così il settore dell'intelligenza artificiale.

 "Questi impegni suggeriscono che l'Arabia Saudita vede l'AI non solo come una frontiera tecnologica, ma come un settore strategico per diversificare la propria economia andando oltre il petrolio", aggiunge la fonte.

(Wired US).

 

 

 

 

Trump in Arabia Saudita fa affari:

 accordo da 142 miliardi

per la vendita di armi.

It.euronews.com - Kieran Guilbert & AP – (13/05/2025) – ci dice:

 

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il principe ereditario saudita “Mohammed bin Salman” gesticolano mentre incontrano le delegazioni al Palazzo Reale di Riyadh, in Arabia Saudita, martedì 13 maggio 2025.

Dopo la visita nella capitale saudita Riad, il tour regionale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump prevede viaggi in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti (EAU).

La Casa Bianca ha annunciato un contratto di vendita di armi del valore di 142 miliardi di dollari stipulato con l'Arabia Saudita in occasione della visita di Donald Trump a Riad.

Si tratta, dice Washington, del “più importante della storia”.

 

L'accordo, che fa parte di un più ampio pacchetto di investimenti che secondo l'esecutivo americano ammonta a 600 miliardi di dollari, consentirà alla monarchia saudita di acquistare “attrezzature militari all'avanguardia da una dozzina di aziende americane del settore della difesa”, in particolare nei settori della difesa aerea, dei missili, della sicurezza marittima e dei sistemi di comunicazione.

 

Il tour di Trump nel Golfo.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha dato il via martedì al suo tour nel Golfo con una visita in Arabia Saudita, primo appuntamento ufficiale all’estero del suo secondo mandato.

Accolto a Riad dal principe ereditario “Mohammed bin Salman,” Trump punta a consolidare i legami economici con uno dei principali alleati di Washington in Medio Oriente, cercando di strappare fino a 1.000 miliardi di dollari di investimenti sauditi negli Stati Uniti.

Il viaggio, che arriva a pochi giorni dai funerali di Papa Francesco a Roma, si inserisce in una strategia diplomatica marcatamente transazionale, che privilegia accordi economici rispetto agli equilibri geopolitici tradizionali.

L’Arabia Saudita, già impegnata a versare circa 600 miliardi di dollari in progetti americani, è vista come il perno del nuovo assetto regionale promosso da Trump.

Al tavolo degli affari: Altman, Musk e i colossi USA.

Durante l’incontro bilaterale, seguito da un pranzo ufficiale nella corte reale, Trump e MBS si sono confrontati su una vasta gamma di dossier economici, con la presenza di figure chiave della finanza e della tecnologia americana.

Tra gli invitati: Larry Fink, CEO di BlackRock, Sam Altman di OpenAI e Elon Musk, magnate di Tesla e consigliere informale del presidente.

Le immagini dei tre in colloquio con il leader saudita hanno fatto rapidamente il giro del mondo.

 

Elon Musk fa parte della delegazione Usa a Riad.

Obiettivi del viaggio: AI, energia e armi.

Nel pomeriggio Trump parteciperà a una conferenza sugli investimenti tra Stati Uniti e Arabia Saudita, mentre nei prossimi giorni visiterà anche Qatar ed Emirati Arabi Uniti.

In programma: intese su intelligenza artificiale, cooperazione energetica e forniture militari, inclusa una possibile nuova vendita di missili aria-aria per 3,5 miliardi di dollari ai sauditi.

Il Qatar, protagonista suo malgrado del weekend, ha fatto notizia dopo l’annuncio di Trump che si è detto disposto ad accettare in dono un jet presidenziale Boeing 747-8 dalla famiglia regnante di Doha.

 

Israele fuori dal tour: si apre una crepa diplomatica.

Non passa inosservata l’esclusione di Israele dal tour, segnale che secondo alcuni analisti testimonia una ridefinizione delle priorità dell’amministrazione Trump, sempre più orientata ai benefici economici diretti.

"Il viaggio suggerisce che oggi i governi del Golfo sono alleati più stretti di Trump rispetto all’attuale esecutivo israeliano", ha dichiarato “William Wechsler “dell’”Atlantic Council”.

 

Tensioni che affiorano anche sul fronte della sicurezza:

 Washington ha interrotto senza preavviso a Tel Aviv i raid contro i ribelli Houthi nello Yemen, nonostante questi continuino a colpire obiettivi israeliani.

 Inoltre, Israele è stato lasciato all’oscuro dei colloqui tra gli USA e Hamas, così come di quelli con l’Iran.

 

Donald Trump arriva a Riad a bordo dell'Air Force One.

Normalizzazione Israele-Arabia ancora lontana.

Nonostante le recenti dichiarazioni dell’inviato speciale “Steve Witkoff” su possibili progressi negli “Accordi di Abraham”, un'intesa storica tra Israele e Arabia Saudita resta improbabile.

Riyadh chiede in cambio garanzie di sicurezza, collaborazione sul nucleare civile e progressi concreti sulla questione palestinese.

Ma con la guerra a Gaza ancora in corso e i toni sempre più duri da parte di Netanyahu, una soluzione diplomatica appare, al momento, fuori portata.

 

 

 

Guerra nucleare

in modalità Ala?

Unz.com - Filippo Giraldi – (17 giugno 2025) – ci dice:

 

Trump e Netanyahu cospirano per distruggere l'Iran.

 

Uno degli aspetti più interessanti dell'espansione della guerra tra Israele e Iran è il modo in cui i media e la folla di "esperti" hanno evitato qualsiasi discussione sulla possibile, o forse anche probabile, in attesa della decisione del primo ministro Benjamin Netanyahu di scavare in profondità nel suo arsenale segreto di armi nucleari per consentire la distruzione totale degli obiettivi primari dell'Iran.

È probabile che tali obiettivi includano il programma di sviluppo nucleare iraniano, apparentemente per uso civile, che è protetto nelle profondità sotterranee di Natanz e altrove.

Si ritiene che i leader militari e civili sopravvissuti dell'Iran siano ora ben protetti sottoterra dopo la recente debacle che ha visto il primo attacco israeliano uccidere un certo numero di generali e altri alti funzionari. Netanyahu vorrebbe finire il lavoro rendendo un Iran senza leader incapace di difendersi e mantenere la sovranità come nazione indipendente.

 

L'andirivieni quotidiano di attacchi missilistici e droni continua e, dato il successo del primo giorno, Netanyahu e altri leader israeliani hanno ora anche parlato di distruggere completamente la capitale iraniana Teheran, una città di 18 milioni di abitanti che non sarebbe stata trasformata in macerie simili a Gaza usando armi convenzionali.

Se qualcuno dovesse dubitare che il folle Netanyahu farebbe una cosa del genere, iniziando il primo uso sul campo di battaglia di tali armi dal 1945, dovrebbe esaminare i precedenti del Primo Ministro sul comportamento sconsiderato, in cui non ha rivali tra i leader nazionali.

Senza esitazione, "difenderebbe il suo paese e la sua leadership", avviando un'escalation che potrebbe avere conseguenze devastanti se altre potenze nucleari come il Pakistan venissero coinvolte a sostegno degli iraniani.

 

E poi c'è il ruolo del presidente Donald Trump, la cui sordità di tono su qualsiasi domanda che richieda un minimo di qualche secondo di riflessione è ben consolidata.

 Il “Trumpster” si è già contraddetto più volte sul fatto che sapesse in anticipo dell'attacco a sorpresa di Israele contro l'Iran e se gli Stati Uniti fossero coinvolti.

Ora sta dicendo che "non vuole parlare dell'Iran", ma sta ripetendo l'appello israeliano per l'evacuazione di Teheran, aggiungendo che qualcosa di "molto brutto" sta arrivando se l'Iran non soddisfa tutte le richieste di Washington.

Tali richieste includono la cessazione totale di qualsiasi arricchimento dell'uranio, anche se è per scopi medici o scientifici e anche se è completamente e regolarmente ispezionato dalle Nazioni Unite e da altri organismi internazionali.

 

L'ironia di tutto questo è che Israele viene trattato come la vittima, come al solito, anche se ha un arsenale segreto di armi nucleari composto da circa 200 testate e Tel Aviv non è firmataria del trattato di non proliferazione nucleare (TNP) che impone ispezioni regolari.

 Come notato sopra, l'Iran è firmatario e ha accettato la routine di ispezione.

 Inoltre, sia l'intelligence statunitense che quella israeliana hanno confermato che l'Iran non ha alcun programma di armi nucleari, quindi il paese, che non ha attaccato né Israele né gli Stati Uniti, non costituisce una minaccia per nessuna delle due nazioni, eppure viene attaccato come se fosse l'aggressore.

 Questa realtà non ha impedito a Netanyahu di dichiarare che la minaccia delle armi nucleari iraniane era il suo casus belli prima di iniziare la sua guerra, a cui sembra che Trump e la sua macchina da guerra, recentemente osservati sfilare su” Constitution Avenue” a Washington, potrebbero presto unirsi.

Il modo frammentato e spesso contraddittorio di Trump nell'esprimersi sulle domande suggerisce che la guerra sta arrivando e che, per impostazione predefinita, si tratta solo dell'arricchimento iraniano dell'uranio.

 

Paul Craig Roberts è uno degli osservatori più informati di quanto si stia sviluppando.

In un recente articolo si è chiesto: "Cosa fare quando il presidente Trump è nelle mani dell'assassino di massa Netanyahu?".

Risponde alla sua stessa domanda: "Trump dice di SAPERE che l'Iran è 'molto vicino ad avere armi nucleari'.

Come fa Trump a SAPERLO?

Netanyahu glielo ha detto... [Ma] cosa ha detto a Trump la comunità dell'intelligence statunitense?

L'intelligence americana ha detto a Trump che l'intelligence statunitense ritiene che l'Iran non stia costruendo un'arma nucleare e che la Guida Suprema Ayatollah Ali Khamenei non abbia autorizzato il programma di armi nucleari che ha sospeso nel 2003.

Ma a Trump non importa ciò che il Direttore dell'Intelligence Nazionale statunitense gli dice essere la valutazione dell'intelligence statunitense [dicendo] 'Non mi interessa cosa ha detto [la Direttrice dell'Intelligence Nazionale Tulsi Gabbard]', ha dichiarato Trump.

Netanyahu la sa lunga.

Quindi Trump sostiene gli atti di aggressione israeliani contro l'Iran e informa l'Iran che se risponde agli atti di guerra, gli Stati Uniti aiuteranno Israele a distruggere l'Iran".

 

Nell'ultimo polverone sul ruolo di Trump nell'attaccare gli iraniani per conto di Israele, il presidente degli Stati Uniti ha ora minacciato di "eliminare" la Guida Suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, se l'Iran non si arrenderà incondizionatamente.

Afferma di conoscere il "luogo segreto" in cui si nasconde Ali Khamenei, "ma non ti uccideremo ancora".

Alla luce di questo e di altri commenti di Trump, “Roberts” solleva un punto molto importante:

"Questo è il comportamento di una persona folle. Trump è un enorme fallimento come presidente. Ha permesso a un mostro genocida di prendere il controllo della politica estera degli Stati Uniti. Trump ha permesso a Netanyahu di trascinare l'America sull'orlo della guerra con l'Iran. Trump ha permesso il genocidio dei palestinesi in modo che Gaza possa essere trasformata in un luogo di villeggiatura.

Ma andrei oltre, perché Trump sta anche dando a Netanyahu il via libera per iniziare una guerra nucleare...

Netanyahu ha iniziato una guerra che Israele non può vincere e ha passato la guerra a Trump".

 

Il Congresso degli Stati Uniti, cane dormiente, sembra essersi finalmente reso conto di quanto sia pericolosa la situazione.

 Sta frettolosamente elaborando una legge che bloccherà il coinvolgimento degli Stati Uniti in qualsiasi guerra autorizzata unilateralmente da Trump a sostegno delle azioni militari condotte da Israele contro gli iraniani.

Ciò includerebbe la fornitura a Israele di qualsiasi armamento per condurre la sua guerra, o di denaro o persino di copertura politica per proteggerlo quando, inevitabilmente, commette crimini di guerra.

Trump richiederebbe il consenso e l'autorizzazione del Congresso, in conformità con la” Risoluzione sui Poteri di Guerra del 1973”.

Il disegno di legge è promosso dal senatore “Time Kaine” della Virginia, che ha spiegato:

"Sono profondamente preoccupato che la recente escalation delle ostilità tra Israele e Iran possa rapidamente trascinare gli Stati Uniti in un altro conflitto senza fine".

La legge incontrerà una forte opposizione da parte dei sostenitori del MAGA, dei neoconservatori e dei conservatori nazionalisti, nonché dai media nazionali a predominanza ebraica e dallo stesso Trump, che considerano tutti un vangelo, se si può accettare questa espressione, sostenere tutto ciò che Israele fa, incluso l'omicidio di massa.

 Il vigliacco lacchè sionista “Mike Johnson”, Presidente della Camera dei Rappresentanti della Louisiana, "Mike della cintura della Bibbia", ha appena rimandato un viaggio a Gerusalemme, in Israele, per parlare alla “Knesse”t, dove ci si sarebbe aspettati di vederlo baciare il sedere di Netanyahu con una passione raramente vista.

 Per citare ancora una volta “Paul Craig Roberts”, "la presa di Israele sul governo degli Stati Uniti rende impossibile a Washington rappresentare gli interessi americani.

In tutto il Congresso degli Stati Uniti c'è un solo membro che non è nelle mani di Israele".

Quest'unica persona sarebbe il deputato “Thomas Massie” del Kentucky, che la lobby israeliana ha giurato di sconfiggere alle prossime elezioni "non importa quanti soldi ci vogliano".

 

“Trump” sembra così entusiasta all'idea di procedere con la distruzione dell'Iran che ha abbandonato in anticipo una riunione del “G7” , dove la sua presenza avrebbe potuto rivelarsi utile per le questioni commerciali, ammesso che fosse effettivamente informato sugli interessi degli Stati Uniti e consapevole di ciò che avrebbe detto.

Forse è più facile coinvolgersi in una guerra che preoccuparsi di chi possiede cosa e di chi commercia con chi.

Potrebbe persino essere più facile coinvolgersi in una guerra nucleare, se questo è ciò che Israele e Benjamin Netanyahu vogliono.

Non devono far altro che chiedere gentilmente a Trumpster!

(Philip M. Giraldi, Ph.D., è direttore esecutivo del Council for the National Interest, una fondazione educativa deducibile dalle tasse 501(c)3).

 

 

 

 

 

 

L'Iran è ora la prima linea

di difesa dei BRICS e

del Sud del mondo.

 Unz.com - Pepe Escobar – (17 giugno 2025) – ci dice:

 

Questo è il massimo che si possa immaginare.

 Esaminiamo la scacchiera, dal micro al macro.

L'ombra piangente nella danza funebre,

il forte lamento della sconsolata chimera.

(TS Eliot, Norton bruciato)

 

Lo shock n'awe di Israele sull'Iran – direttamente dal copione degli Stati Uniti – è sostanzialmente fallito, nonostante l'iniziale combinazione di velocità, meticolosa pianificazione militare e l'elemento sorpresa, compreso l'hacking delle comunicazioni elettroniche iraniane all'interno della rete militare;

decapitazione della nomenklatura verticale dell'IRGC;

il play book dell'attacco dei droni a ragnatela; e bombardamenti – in ultima analisi inefficaci – di nodi chiave dell'infrastruttura nucleare iraniana.

 

Ci sono volute ore ai migliori tecnici iraniani per riavere la loro rete.

 E una volta che ciò è accaduto, la marea ha iniziato a cambiare, al punto che dopo raffiche di missili chirurgici nel cuore della notte di domenica, l'IRGC ha annunciato la sua capacità di interrompere seriamente i sistemi di comando e controllo di Israele utilizzando "l'intelligence potenziata", violando così l'Iron – o Paper – Dome.

 

Snodi infrastrutturali assolutamente cruciali a Tel Aviv e Haifa sono stati distrutti: dal complesso bellico Rafael (specializzato in missili, droni, guerra informatica e componenti dell'Iron Dome) alla centrale elettrica e alla raffineria di petrolio di Haifa. Questo è un evento storico sotto più di un aspetto.

 

Aggiungete alle grida di gioia che si levano in tutto il territorio islamico l'enorme trauma psicologico inflitto a Israele.

 Il mito dell'invincibilità israeliana è stato definitivamente infranto.

 Scatenare l'inferno dall'alto, uccidere donne e bambini e girare come se non ci fosse un domani non significa vincere una guerra contro un vero avversario.

La strategia modificata dell'IRGC – applicata da una leadership immediatamente rinnovata – viene perfezionata giorno dopo giorno in modo calcolato e chirurgico.

Non è poi così difficile per l'IRGC paralizzare completamente l'economia israeliana.

Israele ha una sola raffineria di petrolio (già bombardata); tre porti, di cui uno già in bancarotta (Eilat) e un altro in fiamme (Haifa); e un aeroporto (già in gravi difficoltà).

La reazione alla mossa disperata, anzi suicida, di Tel Aviv – non c'entra niente con gli scacchi – è in atto.

Teheran sta dimostrando che ogni calcolo dell'asse sionista secondo cui l'Iran avrebbe potuto – e lo è stato – essere dissanguato in poche ore era, prevedibilmente, falso.

 

Il POTUS, da parte sua, cadde in una trappola vorace. La sua base MAGA è già fratturata, in profondità.

I MAGA non sionisti sono la stragrande maggioranza.

Ha ammesso in uno stupefacente post sull'infantilista che sapeva tutto dello” shock'n awe” israeliano fin dall'inizio.

 

Meno di 10 giorni fa, in un incontro a New York pieno di soliti sospetti miliardari, lo stesso” Steve Witkoff” – il Talleyrand di Trump – ha osservato esplicitamente che i missili balistici iraniani sono "una minaccia per l'America".

 Considerando la loro performance nelle ultime 48 ore, tutto fa pensare che Washington stia di fatto di entrare nella Guerra Calda.

 

Fonti diplomatiche a Teheran sottolineano che la leadership sta lavorando in questo scenario.

 Ecco perché stanno essenzialmente mantenendo le loro capacità e calibrando attentamente i prossimi grandi passi nella scala dell'escalation.

 Ancora una volta: la pazienza strategica iraniana in mostra.

La domanda allora è, in uno scenario in cui gli Stati Uniti sono di fatto in guerra, cosa ci vorrà perché Russia e Cina, di concerto, perdano la loro pazienza strategica.

L'orgoglio persiano – e la fiducia nelle proprie capacità, come ho osservato il mese scorso in Iran – governa che dovrà avere tutte le risorse necessarie per sopravvivere all'asse sionista, Stati Uniti compresi.

Dopotutto, solo ora stanno iniziando a usare i loro missili veramente avanzati, dal Kheybar-Shekan 2 e dal Fattah-1 all'Haji Qassem.

 

La vera guerra: contro i BRICS.

Quindi, in poche parole, la risposta iraniana ha completamente rivolto la scacchiera.

Il direttore del circo – con tanto di ospite di una patetica parata militare a Washington – è nudo.

 È smascherato.

Ora possiede non una, ma due guerre per procura: contro la Russia e contro l'Iran, con i neonazisti a Kiev e i genocidi a Tel Aviv in prima linea.

 Tutto fa parte della Grande Guerra del Quadro: contro i BRICS.

 

Ormai è chiaro anche ai sordi, ai muti e ai ciechi che non si è mai trattato del programma nucleare iraniano, né dello "sforzo" di costruire un JCPOA 2.0 di proprietà di Trump.

Si tratta dell'ossessione di sempre dell'asse sionista: il cambio di regime a Teheran.

Questo è il “Santo Graal”, sognato fin dalla fine degli anni Novanta, capace di aprire le porte al profondamente travagliato “Impero del Caos” dell'immensa ricchezza di risorse naturali dell'Iran, dall'energia ai giacimenti di terre rare, prolungando così la vita dell'Impero indebitato per migliaia di miliardi di dollari.

 

I bonus extra sono ancora più allettanti: isolare la Cina da una questione di sicurezza nazionale – le importazioni di energia – e dai cruciali corridoi di connettività della Nuova Via della Seta, aprendo al contempo un enorme ascesso nel ventre molle della Russia.

 Un colpo decisivo è tripartito, in un colpo solo, ai tre principali BRICS – Iran, Russia, Cina; all'integrazione eurasiatica; e alla spinta verso un sistema di relazioni internazionali multipolare e multinodale (corsivo mio).

 

Anche se i principali stati-civiltà stanno facendo capriole per sopravvivere all'Impero del Caos e alla spinta dei suoi padroni a scatenare la Terza Guerra Mondiale, non ci sono illusioni a Mosca e Pechino che per affrontare questo scenario sia imperativo agire in modo asimmetrico – con suprema astuzia, invece di limitarsi a rispondere alle provocazioni (che è stato il copione russo predominante nella guerra per procura in Ucraina).

 

L'intelligence russa, nel frattempo, ha già fatto i conti sull'effetto specchio dell'operazione Spider web di Israele, che ha impiegato esattamente lo stesso modus operandi di quello che l'SBU ucraino – di facciata per l'MI6 e il Mossad – ha scatenato contro i bombardieri strategici russi che fanno parte della triade nucleare.

 

Ci si interroga seriamente sul fatto che Tel Aviv sia direttamente coinvolta nel sabotaggio di Mosca.

Così come ora stanno spuntando seri interrogativi sulla pista ucraina.

 I silos di informazioni dell'intelligence a Mosca ritengono che il processo di "cessate il fuoco" di Trump cammini e parli come un rozzo camuffamento per costringere la Russia a fare marcia indietro per un po', mentre i chihuahua della NATO agli ordini dello stato profondo preparano un primo attacco (almeno nei loro sogni distorti).

Quindi, prima o poi, potremmo vedere la Russia espandere l'attuale strategia iraniana: una massiccia guerra infrastrutturale, che fa precipitare l'Ucraina in un blackout completo, metaforico e non, proprio come il bombardamento di una centrale elettrica ad Haifa ha fatto precipitare la città in un blackout completo.

 

Perché non si deve permettere che l'Iran fallisca.

Naturalmente l'attuale, folle scala dell'escalation sarebbe inesistente se Trump fosse stato abbastanza maturo da accettare l'offerta di Ali Shamkhani – poi assassinato da Israele:

 l'Iran potrebbe permettere del suo uranio altamente arricchito e firmare un nuovo accordo nucleare se le sanzioni fossero revocate.

Teheran arricchirebbe quindi l'uranio solo a bassi livelli per il suo programma civile.

 

Parallelamente, Teheran aveva persino suggerito un progetto congiunto di arricchimento nucleare con investimenti statunitensi, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Il ministro degli Esteri iraniano “Abbas Araghchi” lo aveva illustrato personalmente all'inviato speciale statunitense “Steve Witkoff” in Oman, prima che i colloqui si interrompessero.

 

Nel frattempo, il Sud del mondo osserva l'orribile e mortale ping-pong tra Israele e Iran, con una crescente consapevolezza che l'Occidente, messo alle strette, è un animale sempre più pericoloso, che combatte una guerra totale sotto la maschera della pace.

 

L'incendio di Tel Aviv è l'inizio di una nuova era.

Nella loro rabbia, ora minacciano il modello "Beirut" di Teheran: la distruzione indiscriminata dei quartieri civili. Ancora una volta, quello che sanno fare meglio: il terrorismo.

Eppure, non ci sarà più impunità per un sistema genocida.

Le conseguenze saranno inevitabilmente discusse questa settimana al “Forum economico di San Pietroburgo”, fino al discorso di Putin alla sessione plenaria di venerdì, e fino al vertice dei BRICS a Rio de Janeiro all'inizio di luglio.

Tastando il polso del Sud del mondo, la sensazione è che l'Iran sia de facto in procinto di ripristinare l'etica e l'autorità geopolitica in tutta l'Asia occidentale, così come l'impero persiano l'ha esercitata per secoli.

 Questo è ciò che fanno gli Stati-civiltà:

il loro ruolo di guardiani privilegiati della loro sfera di influenza è sempre essenziale.

È improbabile – sotto la presidenza brasiliana; ma i BRICS prima o poi dovranno compiere la transizione strategica da una macchina di dichiarazione iper-educata a diventare la vera, solida, infrangibile spina dorsale del Sud del mondo e dell'Asse della Resistenza Globale.

Perché l'Occidente, infuriato e scombussolato, non è più in modalità guerra ibrida; è diventato “Totalen Krieg” – il massimo della sua potenza.

Quindi, il Sud del mondo deve passare a una modalità post-ibrida, quella dei Ribelli con una Causa.

Dalla Nigeria all'Indonesia al Vietnam – membri e partner BRICS – c'è un crescente consenso sul fatto che non si deve permettere che l'Iran cada.

 È così serio.

L'incantesimo dei diktat occidentali senza restrizioni è stato finalmente spezzato: tutto ciò che sopravviverà è "il forte lamento della chimera sconsolata".

Ci vuole uno shock e un timore reverenziale per far traboccare il vaso.

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