Gli antichi valori tornano in occidente.
Gli
antichi valori tornano in occidente.
Volpi
cinesi, squali americani, roditori europei.
Controinformazione.info
– Pepe Escobar – (2 agosto 2025) – ci dice:
Il “laboratorio
BRICS” ha uno spirito creativo instancabile e in continua evoluzione. Sconfigge
sempre la demenza tariffaria.
La
quarta sessione plenaria del Partito Comunista Cinese è stata programmata dal
Politburo per ottobre (non sono stati annunciati dati precisi; probabilmente
quattro giorni nella seconda metà di ottobre).
In quella occasione, Pechino delibererà le
linee guida del suo prossimo piano quinquennale.
Al plenum dovrebbero partecipare oltre 370
membri del Comitato Centrale dell’élite del partito.
Perché
questo è così cruciale?
Perché la Cina è il bersaglio principale
indiscusso, insieme ai principali membri dei BRICS, della nuova “legge” universale ideata
dall’Impero del Caos: “Io dazio, dunque esisto”.
Quindi
il prossimo piano quinquennale dovrà prendere in considerazione tutti i vettori
derivanti dalla nuova “legge”.
Il
plenum avrà luogo poche settimane dopo la grande parata organizzata da Pechino
per celebrare la fine della Seconda guerra mondiale; Vladimir Putin sarà uno
degli ospiti d’onore di Xi.
Inoltre,
il plenum si terrà subito prima del vertice annuale dell’”APEC” (Asia-Pacific
Economic Cooperation), che inizierà il 31 ottobre a Seul.
Questo
vertice offre l’opportunità di un incontro diretto e faccia a faccia tra Trump
e Xi, che il direttore del circo, nonostante il suo atteggiamento e le sue
tergiversazioni, sta attivamente perseguendo.
APEC
summit 2024, tenutosi in Perù.
Il
plenum dovrà valutare attentamente come una guerra commerciale, tecnologica e
geopolitica di fatto tra Stati Uniti e Cina non potrà che intensificarsi.
Per
quanto Made in China 2025 si sia rivelato un successo clamoroso – nonostante la
pressione massima di Trump 1.0 – le nuove decisioni tecnologiche cinesi prese
nel 2025 definiranno la tabella di marcia futura su tutto, dall’intelligenza
artificiale all’informatica quantistica, dalla biotecnologia alla fusione
nucleare controllata.
Sono
così emozionato di essere il tuo lacchè.
Tutto
ciò che conta in materia di commercio e tecnologia sarà deciso tra le due
superpotenze economiche.
Ormai
è chiaro che un potenziale terzo attore, l’UE, si è semplicemente suicidato in
serie.
Cominciamo
con il vertice Cina-UE del 24 luglio, che ha visto, tra le altre finezze, il
protocollo di Pechino degnarsi di inviare, nella migliore delle ipotesi, un
modesto autobus turistico per accogliere la delegazione europea, e Xi Jinping
che, a tutti gli effetti, ha concluso il vertice prima del previsto con un
messaggio ampiamente interpretato nel Sud del mondo come “non abbiamo tempo da perdere con voi
pagliacci”.
Era
esattamente ciò che voleva il direttore del circo.
Poi
arrivò l’incontro tra UE e USA, che suggellò in modo spettacolare la fase già
accelerata del secolo dell’umiliazione europea.
Von
Der Leyen riceve tutte le direttive di Trump su Dazi e Acquisti di energia e
armi….
Tutto
inizia con Trump che di fatto cancella la Russia dal futuro energetico dell’UE.
Bruxelles è stata costretta – in stile mafioso, “un’offerta irrinunciabile” –
ad acquistare 250 miliardi di dollari di energia statunitense a prezzi
esorbitanti all’anno, ogni anno, per i prossimi 3 anni.
E nel frattempo si ritrova con dazi del 15% –
e basta.
Quindi,
la distruzione del Nord Stream 2, un’operazione portata avanti dalla precedente
amministrazione “DC Autopen”, aveva fin dall’inizio un chiaro scopo imperiale.
Oltretutto,
l‘UE deve pagare per la sua guerra in Ucraina, già persa, acquistando quantità
illimitate di armi statunitensi a prezzi esorbitanti, per un valore pari al 5%
del PIL.
Questo è ciò che Trump ha imposto alla NATO di
imporre all’UE.
Seguite
i soldi.
Eppure,
qualunque sia l'”affare” pubblicizzato con una profusione di superlativi dal
direttore del circo, i numeri non tornano.
Nel
2024 l’UE ha speso ben 375 miliardi di euro in energia; di questi, solo 76
miliardi di euro sono stati versati agli Stati Uniti.
Ciò
significa che l’UE dovrebbe acquistare tre volte più energia dagli Stati Uniti
nei prossimi tre anni.
E solo GNL prodotto negli Stati Uniti: niente
Norvegia, del resto, che vende gas da gasdotto a un prezzo più basso.
Sfidando
la realtà – e ovviamente non messa a freno dai mansueti media mainstream
europei – la tossica Medusa di Bruxelles ha gridato che il GNL statunitense è
più economico del gasdotto russo.
Gasdotto
power of Siberia.
Mosca
non si preoccupa minimamente, perché i suoi principali clienti sono sparsi in
tutta l’Eurasia.
Quanto agli americani, non dirotteranno tutte
le loro esportazioni verso l’UE, poiché le raffinerie europee possono gestire
solo una fornitura limitata di petrolio di scisto americano.
Inoltre, non c’è modo che gli eurocrati
possano costringere le compagnie energetiche europee ad acquistare petrolio
americano.
Quindi,
per arrotondare le cifre, dovranno acquistare altrove. In questo caso, la
Norvegia, e persino la Russia, ammesso che i russi siano interessati.
Trump
2.0 è stato abbastanza intelligente da “esentare” alcuni settori dalla demenza
tariffaria, come aeromobili e componenti aeronautici, semiconduttori, prodotti
chimici critici e alcuni settori agricoli.
Naturalmente:
tutti questi settori fanno parte di catene di approvvigionamento strategiche.
L’unica
cosa che contava davvero era intrappolare l’Europa nel ruolo di grande
acquirente di energia americana e costringerla a investire nelle infrastrutture
e nel complesso industriale-militare degli Stati Uniti.
E
questo indica l’unico modo per “sfuggire” alla demenza tariffaria: quando ci si
trova di fronte a un'”offerta irrinunciabile”, non si rifiuta; la si accetta,
la si apprezza e si offrono investimenti di ogni tipo negli Stati Uniti.
Gli antichi imperi costringevano i loro
“partner” a pagare tributi.
Benvenuti
alla versione del XXI secolo.
Dopotutto,
cosa ha da offrire l’Europa come leva finanziaria? Nulla.
Nessuna
azienda europea nella Top Ten mondiale della tecnologia.
Nemmeno
un motore di ricerca europeo; o uno smartphone di successo a livello mondiale;
o un sistema operativo; o una piattaforma di streaming; o un’infrastruttura
cloud.
Per
non parlare dell’assenza di un produttore leader di semiconduttori. E solo una
casa automobilistica tra le prime dieci più vendute al mondo.
Tutti
a bordo dell’”improvvisazione diretta.”
Se gli
squali americani non hanno dato letteralmente nulla ai roditori dell’UE, la
furba Cina è stata abbastanza benigna da dare solo un piccolo contributo: un
bla bla bla sul cambiamento climatico.
Il
risultato finale – sotto gli occhi di tutto il mondo – è l’UE come un misero
giocatore con un’autonomia strategica inferiore a zero sullo scacchiere
globale. Viene regalmente ignorata nelle guerre eterne dell’Impero –
dall’Ucraina all’Asia occidentale.
E fa
la predica a Pechino – a Pechino – (corsivo mio) quando è totalmente dipendente
dalle materie prime cinesi, dalle attrezzature industriali e dalle complesse
catene di approvvigionamento per la tecnologia verde e digitale.
“ Yuen
Yuen Ang”, originaria di Singapore, è professoressa di economia politica alla “Johns
Hopkins University” di Baltimora.
Forse
dovrà adeguarsi alle rigide linee del mondo accademico statunitense, che è
eccezionalista per definizione.
Ma
almeno è capace di spunti preziosi.
Ad
esempio: ” Soffriamo tutti di deficit di attenzione. Prima leggevamo libri, poi
articoli, poi saggi, poi blog, e ora tutto si riduce ulteriormente a tweet di
280 caratteri. Quindi puoi immaginare che tipo di messaggi si adattino a quello
spazio così piccolo. Deve essere semplicistico”.
Yuen
Yuen.
Ciò
tocca il nocciolo della questione del modo in cui il direttore del circo sta
conducendo la sua politica estera, governando attraverso un accumulo di post
senza senso.
Yuen
Yuen tocca un terreno più serio quando commenta come la Cina “voglia
abbandonare un vecchio modello economico che dipendeva fortemente dalle
esportazioni a basso costo, dall’edilizia e dal settore immobiliare.
Vuole
uno sviluppo basato sull’alta tecnologia e sull’ innovazione“.
Ed è
proprio questo l’argomento che verrà discusso nel corso del plenum di Pechino
di ottobre.
Yuen
Yuen osserva inoltre come “negli anni ’80 e ’90” la Cina potesse “imitare il
modello di industrializzazione tardiva dell’Asia orientale. Oggi non ci sono
molti modelli di riferimento. La Cina stessa è diventata un’apripista e altri
Paesi la vedono come un modello”.
Da qui
il suo concetto di “improvvisazione diretta”, condotta dalla leadership di
Pechino. Questa conosce la destinazione finale preferita, ma deve comunque
testare tutti i percorsi possibili. Lo stesso, tra l’altro, vale anche per i
BRICS, attraverso quello che ho definito il “laboratorio BRICS”, dove vengono
testati modelli di ogni tipo. Ciò che conta, soprattutto, è uno spirito
creativo incessante e in continua evoluzione.
Sconfigge
sempre la demenza tariffaria.
(Traduzione:
Luciano Lago).
Elezioni
2016: Non
è
Stato Putin!
Conoscenzealconfine.it – (5 Agosto 2025) - Massimo Mazzucco – ci dice:
Che le
famose “interferenze” russe a favore di Trump, nelle elezioni del 2016, fossero
tutte una montatura da parte della cricca Clinton-Obama, lo avevamo capito
tutti.
Ora
escono le prove.
Ricostruiamo
brevemente la vicenda:
Come molti ricorderanno, durante le elezioni del 2016
(Hillary Clinton vs. Donald Trump) il candidato repubblicano venne
ripetutamente accusato di aver usufruito di “interferenze illegali” da parte
dei russi per fargli vincere le elezioni.
E
anche se all’ultimo momento Trump riuscì a vincere “a corto muso”, la macchia
di “amico dei russi” e di “burattino di Putin” gli rimase appiccicata addosso.
Ma
Trump non è uno che perdona facilmente, e durante il suo mandato fece istituire
una commissione, guidata dal procuratore speciale “John Durham”, per indagare
sulla faccenda.
Il
“Rapporto Durham”, pubblicato nel 2023, sostanzialmente rivelava la collusione
dell’FBI con i democratici nell’ignorare sistematicamente gli indizi che
emergevano dallo scandalo e-mail della Clinton, mentre la stessa FBI
approfondiva, in modo forzato e maniacale, presunti indizi della collusione fra
Trump e Putin.
Il
rapporto Durham però si fermava lì, poiché tutte le informazioni dettagliate
erano contenute in una appendice (“Annex”) che era rimasta secretata.
Ora il
senatore repubblicano “Grassley”, presidente della commissione di giustizia, ha
chiesto e ottenuto la desecretazione dell’ “Annex”, che ha reso pubblico sulla
sua pagina ufficiale.
Abbiamo
quindi, finalmente, il Rapporto Durham nella sua interezza.
Dalla
somma del Rapporto e dell’Annex possiamo concludere che:
A – La campagna diffamatoria contro
Trump è stata costruita artificiosamente dall’FBI di Comey (uomo di Obama)
sulla base di documentazione falsa o inesistente del tutto.
B – La campagna diffamatoria è stata
costruita con il contributo attivo della presidente del partito democratico,
“Debbie Wasserman Schultz”, in collaborazione con due uomini di “Soros”.
C – La ricerca di materiale incriminante
contro Trump era stata finanziata direttamente dalla Clinton e dal Partito
Democratico.
D – L’FBI è stata usata per disseminare
intenzionalmente le false informazioni, facendole arrivare in modo sistematico
ai media più importanti (New York Times, Washington Post, CNN).
E – Pur avendo tutte le informazioni
necessarie, la FBI ha scelto di non indagare sulle fonti che fornivano quelle
false informazioni.
Insomma,
un vero e proprio “colpo di stato” mediatico, concepito e gestito direttamente
dalla coppia Clinton-Obama per cercare di affossare in ogni modo possibile la
campagna elettorale di Trump.
In
conclusione della faccenda, il senatore “Grassley” ha dichiarato:
“In base a quanto emerge dall’”allegato Durham”,
l’FBI di Obama non ha esaminato e indagato adeguatamente i rapporti di
intelligence che dimostravano che la campagna di Clinton avrebbe potuto
inventare la falsa narrativa Trump-Russia, per il vantaggio politico di
Clinton, cosa che alla fine è stata fatta attraverso il ‘Dossier Steele’ e
altri mezzi.
Questi
rapporti di intelligence e i relativi documenti, veri o falsi che fossero, sono
stati insabbiati per anni.
La
storia dimostrerà che le forze dell’ordine e le agenzie di intelligence delle
amministrazioni Obama e Biden sono state strumentalizzate contro il Presidente
Trump.
Questa
strumentalizzazione politica ha causato danni critici alle nostre istituzioni
ed è uno dei più grandi scandali politici e insabbiamenti nella storia
americana.
La nuova amministrazione Trump ha un’enorme
responsabilità nei confronti del popolo americano: riparare il danno causato e
farlo con la massima rapidità e trasparenza.”
Peccato
che Trump in questo momento sia in altre faccende affaccendato.
Ma
almeno questo tassello della storia è stato messo al giusto posto.
(Massimo
Mazzucco).
(luogocomune.net/news-internazionali/elezioni-2016-non-ha-stato-putin).
Ministro
Valditara:
cos'è questo Occidente?
Doppiozero.com
- Alessandro Vanoli – (19 Marzo 2025) – ci dice:
Occidente.
Prendete questa parola e guardatela con attenzione, perché mi sa che stia lì la
posta in gioco.
Ormai
sono passati un po’ di giorni dalla pubblicazione delle “Nuove indicazioni per
la scuola”; quelle partorite dalla commissione nominata dal Ministero
dell’Istruzione e del merito.
Il tempo utile per fare un po’ di conti e
misurare la temperatura delle tante reazioni che il testo ha suscitato.
Vale per tutto il documento, ma in particolare
per la sezione relativa all’insegnamento della storia.
Un po’
per l’importanza che la stessa commissione le attribuisce, un po’ perché in
quella materia si avverte tutto il peso sociale e politico dell’operazione
condotta dal Ministero.
Cominciamo
dall’inizio.
“Solo l’Occidente conosce la storia”.
La
frase ha colpito forte. E forse l’effetto era voluto.
Di sicuro ha suscitato non poca indignazione.
L’abbiamo
scritto in tanti che non era possibile parlare con toni così eurocentrici
(qualcuno ha detto più precisamente ottocenteschi o colonialisti) e che era
assolutamente scorretto dimenticarsi di tutte le altre storie prodotte nel
mondo: dalla Cina al mondo arabo o persiano.
Per
giunta la commissione rincarava la dose aggiungendo ad arte una frase di “Marc
Bloch”, che per chi fa il nostro mestiere è quasi un nume tutelare più che uno
storico:
metodologicamente
rivoluzionario, martire della resistenza, colui insomma che tutti citiamo
quando vogliamo rafforzare il nostro pensiero senza essere obbligati a fare
troppi altri distinguo.
E
“Marc Bloch” ha detto che «I greci e i latini, nostri primi maestri, erano
popoli scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici. […] è nella durata, dunque nella
storia, che si svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione».
Così
eccoci qua, con una linea chiaramente tracciata.
Da che
parte continuiamo?
Beh,
tanto vale dire che “Bloch” aveva perfettamente ragione.
Certo
che i greci e i latini rappresentano una delle radici più dirette del nostro
pensiero;
e
certo che il cristianesimo è una religione di storici, per il suo poggiare su
eventi concreti (o ritenuti tali), per l’idea di tempo che si lega alla storia
della salvezza e per tanti altri motivi.
Ma non
è mai buon metodo citare una frase fuori dal contesto per asseverare le proprie
idee.
Perché
con lo stesso criterio, potrei anche aggiungere che, nello stesso libro (la
famosissima “Apologia della storia”), Bloch disse che «Non possiamo comprendere nulla di
veramente umano se ci chiudiamo nell’isolamento di una singola civiltà. Il
confronto non è un modo per giudicare, ma per illuminare».
Quindi
sancito che non cambia molto avere greci, romani e cristiani dalla nostra,
andiamo al punto centrale: solo l’Occidente conosce la storia.
Quale storia?
La
commissione ha le idee chiare e lo dice subito dopo.
Quella
che si è forgiata con i greci; per essere più precisi a partire da Erodoto e
Tucidide.
Su
questo, per tentare una prima risposta a un simile argomento, perdonatemi se
scivolo nel personale: ero poco più di un ragazzo quando in Spagna cominciai a
distinguere tra” ta’rihk” e “akhbar”, le due forme classiche arabe di scrittura
storica.
E
negli anni successivi non so quanto tempo ho trascorso traducendo “Tabari”,”
al-Mas’udi”,” Ibn Khaldun”, tutti autori musulmani che si erano sentiti in
dovere di scrivere enormi libri di storia.
Poi
incontrai gli storici cinesi di duemila anni fa, che potevo leggere solo in
traduzione ma che erano a dir poco affascinanti: “Sima Qian”, “Ban Gu” e altri.
Potrei continuare, ma la domanda più sottile è se un simile elenco sia un
argomento sufficiente.
Qualche
collega particolarmente colto – e polemico – potrebbe oppormi il fatto che gli
antichi autori cinesi siano stati più portati a scrivere eventi in successione
cronologica e basta, mentre molti autori arabi classici sono stati spesso
condizionati dal peso della religione.
E lo stesso collega potrebbe aggiungere che
tanto in “Tucidide” quanto in “Erodoto” emerge invece l’importanza della
testimonianza oculare e della pretesa di verità: basi più solide insomma per i
futuri luminosi della storia.
E io,
con qualche distinguo, potrei pure essere d’accordo.
Quindi
potremmo smetterla qua, se la domanda vera però non fosse un’altra: quanto è
davvero rilevante una simile discussione?
Per
quale motivo dobbiamo stabilire una scala di valori?
Posso
anche ammettere (con parecchie difficoltà) che il metodo storico critico, a cui
devo buona parte di quello che so, abbia come trisavolo più diretto “Tucidide”,
ma questo non fa di me una persona culturalmente superiore.
Il
confronto, giusto per citare di nuovo Bloch, non è un modo per giudicare, ma
per illuminare.
Quindi
perché gettarsi in questa assurda mischia culturale?
La
risposta, temo, sta tutta nella prima parola: Occidente.
Guardiamo al modo di leggere il passato per
dirci chi siamo: «solo l’Occidente conosce la storia» afferma la commissione del Ministero
dell’istruzione e del merito.
Ma qui
arriva la domanda che conta per davvero: e cosa sarebbe l’Occidente?
Chi saremmo noi?
Non ho
mai invidiato le persone senza dubbi.
E loro
non ne hanno: noi, ci dicono, siamo quell’«Occidente cristiano e laico» dove la
storia diviene «lo specchio dei progressi dello spirito umano» per citare “Condorcet”
e l’”illuminismo tutto”.
E qui
arriviamo al punto forse più debole di tutto questo castello di affermazioni un
po’ tronfie: ammesso che sia facile dire oggi cosa sia l’Occidente, siamo
proprio sicuri che questa strana cosa geografico-storica esista da sempre?
Lasciamo
perdere gli inizi, visto che per millenni “occidente” è stata solo una
direzione geografica.
E
lasciamo perdere i secoli delle prime imprese atlantiche, dove la parola fece
la sua apparizione per indicare uno spazio pensabile (e conquistabile).
La storia dell’idea di Occidente è storia di
imperi e di conquista.
I primi furono Spagnoli e Portoghesi, che
dividendosi il mondo separarono un occidente da un oriente.
Poi
vennero gli olandesi e poi infine gli inglesi.
E non
è un caso che proprio nell’impero inglese l’idea di Occidente si affinò così
tanto.
Perché
è sempre un problema di relazione: l’occidente come lo intendiamo oggi cominciò
a esistere perché esisteva anche un oriente.
E
furono i grandi imperi coloniali inglesi e francesi che inventarono l’Oriente
così come ancora oggi lo sogniamo o lo temiamo.
Quell’idea
di un mondo sottomesso a un potere più forte e sostanzialmente uguale in tutta
la sua estensione.
Un
Oriente che dai Dardanelli sino al Sud Est asiatico sia fatto delle stesse
cose: indolenza, propensione alla tirannide, lussuria e magari, in senso
positivo, anche una certa predisposizione alla saggezza e alla spiritualità.
Tutti
stereotipi che avevano una lunga storia e che erano già propri degli antichi
greci (come certa storia, guarda caso proprio a partire da Erodoto), ma che
l’imperialismo ottocentesco rese a dir poco attuali.
Non è
un caso che fu proprio negli anni Novanta dell’Ottocento, all’interno della
diplomazia britannica che nacque quella divisione che oggi diamo per scontata:
Vicino, Medio ed Estremo Oriente.
Che
non ci vuol molto a capire che ha senso solo se si prende come prospettiva
quella di un centro che sta a Londra o a Parigi.
E non
è ovviamente un caso che quel concetto che pensiamo appartenerci da sempre,
“civiltà occidentale” sia nato in realtà in inglese, sempre nello stesso
ambito, sempre negli stessi anni Novanta:
“Western Civilisation”, con buona pace della
commissione Valditara che è convinta di appartenervi da sempre.
Poi fu
che anche l’impero inglese nel Novecento segnò il passo lasciando buona parte
di quell’eredità agli Stati Uniti.
E
potrebbe stupire meno a questo punto scoprire che la “storia dell’occidente” se
la inventarono loro.
O meglio fu nel 1919 che alla Columbia
University di New York venne fondato un corso didattico denominato per la prima
volta “Western Civilisation”.
E fu
dopo la Seconda Guerra mondiale, nel 1949, che questo percorso venne definito
dal congresso dell’”American Historical Association”.
L’idea
era ormai chiara: c’era una civiltà la cui evoluzione andava dai greci ai
romani, passando per l’Europa rinascimentale per giungere sino agli Stati
Uniti, intesi come apice della libertà e della democrazia.
Quindi
per favore basta, o almeno imparate a fare la storia per davvero. Che la storia
al suo meglio non è quel triste positivismo di ritorno che dite voi: «La storia come specchio dei
progressi dello spirito umano ma al tempo stesso, necessariamente, anche degli
ostacoli che ad esso si frappongono».
No, la
storia al suo meglio è dubbio. Dubbio nei confronti delle fonti che si studiano
e dubbio applicato ai facili concetti utilizzati per comprendere il passato.
Ma
proprio in nome del dubbio, rimane a questo punto un’ultima domanda: perché
tutto questo bisogno di Occidente nella scuola?
Perché
ora? Perché in questo modo?
Basta
la presenza di un governo populista a spiegare una simile marcia indietro dopo
anni di faticosi tentativi verso una storia plurale e un po’ più globale?
Credo
di no.
Credo
anzi che la questione sia molto più drammatica.
Qualche
tempo fa avevo cominciato un mio libro invitando i lettori a provare a
disegnarlo, l’Occidente.
Suggerivo
allora che si sarebbe potuto cominciare con gli Stati Uniti e l’Unione europea,
ma poi avremmo dovuto aggiungere anche il Canada e l’Australia; e a questo
punto a pensarci meglio avremmo unito anche il Giappone, la Nuova Zelanda e la
Corea del Sud.
E
questa assenza di geografia sarebbe stata tenuta insieme da cosa?
Da una
certa idea di libertà e garanzie individuali, liberalismo e democrazia, oltre
soprattutto a una chiara economia di mercato.
Ecco è
passato neanche un anno e questa immagine sta già svanendo.
Il
mondo si sta ridisegnando sotto i nostri occhi, trascinato da una serie di
drammatici conflitti che trasformano priorità e strategie.
E in
tutto questo uno dei pochi elementi di convergenza tra alcuni dei grandi
protagonisti di questi cambiamenti è proprio l’odio nei confronti
dell’Occidente.
Lo
ripetono in modo talvolta sguaiato i russi, che almeno dall’Ottocento vivono un
rapporto conflittuale contro il molle occidente europeo, colpevole di
minacciare i sani valori ancestrali del loro paese;
lo sentono i cinesi, che non hanno mai
dimenticato le umiliazioni subite in periodo coloniale;
lo
gridano nei paesi musulmani ogni volta che una strage di civili insanguina le
strade.
E
forse, in un misto di indifferenza e ingenuo senso di superiorità, tutto questo
potevamo pure sopportarlo.
Ma ora
anche gli Stati Uniti guardano alla vecchia Europa con un misto di disgusto e
incomprensione, obbligandoci dunque all’unica domanda che non avremmo mai
voluto farci: noi chi siamo?
Così “occidente” diventa una parola
improvvisamente necessaria, un modo per aggrapparci a qualcosa di solido,
specie se il nuovo ci fa paura, perché non lo capiamo e sentiamo di non
appartenergli.
E
finisce che magari in qualche piazza, qualcuno ritorni ai greci e di lì
ricostruisca con orgoglio il proprio canone occidentale, fatto di monumenti
bellissimi: Omero, Dante, Leopardi, Shakespeare…
Ma se
c’è una cosa che la storia insegna è che i monumenti diventano importanti
quando sentiamo che il loro senso comincia a sfuggirci.
Parlare
di monarchia o di impero è sempre stato più necessario quando simili
istituzioni erano al tramonto.
E
forse con l’Occidente sta capitando la stessa cosa.
Certo
niente finirà domani e quella parola avrà ancora una lunga storia, ma non è
affatto detto che il suo significato continuerà ad essere lo stesso,
soprattutto perché già oggi non c’è alcun significato così solido a cui
aggrapparsi. Intendiamoci:
sono
il primo ad essere convinto che studiare le proprie radici a cominciare da
quelle cittadine, regionali e nazionali, sia importante.
Aiuta
a definirsi e a percepire delle coordinate con cui guardare il mondo.
Ma questo non vuol dire pensare che tali
radici siano le uniche o, peggio, siano in qualche senso superiori ad altre.
Vuol
dire solo darsi un punto di riferimento per guardare al mondo.
Perché
non c’è nulla di male nell’essere attraversati da sempre da una storia plurale;
non
c’è nulla di male nel sapere che gran parte dei nostri risultati migliori,
dagli algoritmi, alla bussola sino al divano, tanto per dire, ci è stato dato
grazie alle mescolanze e agli incontri di culture.
Non
c’è nulla di male nel saperci parte di un mondo più vasto che possiamo studiare
solo conoscendone la storia: araba, turca, cinese, indiana, russa… Soprattutto,
non vale quasi mai la pena scommettere sui muri; molto meglio scavare alla
ricerca di radici grandi: profonde certo, ma capaci di allargarsi sino ad
abbracciare il mondo.
Le due
libertà di Benjamin
Constant
e la crisi dell’Occidente.
Linkiesta.it – (16 aprile 2024) - Ugo Arrigo
– Redazione – ci dice:
Nonostante
i campanelli d’allarme, Europa e Stati Uniti hanno continuato a pensare che le
democrazie liberali non potessero vacillare, ma il forte individualismo nelle
società moderne potrebbe portare alla loro disfatta.
(LaPresse).
Le
crisi internazionali in corso, la guerra iniziata due anni fa dalla Russia
nell’Europa stessa, il massacro del 7 ottobre e quello che ne è seguito a Gaza
e gli attacchi tra Israele e Iran devono farci riflettere su quali rischi stia
correndo la civiltà occidentale.
Siamo
certi che i valori delle nostre democrazie liberali, che si sono formati
lentamente e gradualmente a partire dalla civiltà greco-romana ma sono giunti a
completo riconoscimento solo dopo la Seconda guerra mondiale, non siano a
rischio?
Dopo
il 1989 ci siamo illusi che i nostri valori di libertà, tolleranza, confronto
delle idee nel reciproco rispetto, cooperazione e solidarietà, controllo
democratico dei poteri, ed economia di mercato sarebbero divenuti
universalmente accettati e promossi.
Il crollo improvviso e inatteso del muro di
Berlino e della cortina di ferro come anche il loro dissolvimento senza
macerie, quasi fossero stati solo cortine di nebbia, ci hanno introdotto a una
sorta di paradiso terrestre dell’ottimismo.
E,
quali novelli Candidi, ci siamo adagiati per un trentennio in una realtà
immaginaria e illusoria, trascurando i campanelli d’allarme.
Eppure,
abbiamo avuti diversi segnali che non tutto stesse andando per il verso giusto
nell’ultimo ventennio.
Il
massimo successo dell’Occidente e la massima espansione delle democrazie si
sono realizzati nel quindicennio successivo alla caduta del muro, quando in
Europa anche i Paesi dell’Est, dopo la caduta dei regimi autoritari di destra
in Grecia, Portogallo e Spagna, hanno adottato regimi democratici ed era
ipotizzabile che potesse farlo anche la Russia.
Nel
2004 l’Unione europea si è ampliata, passando da quindici membri a ventisette,
includendo otto paesi dell’Est Europa, tra cui i tre baltici, che avevano fatto
parte dell’Unione Sovietica, e altri quattro che avevano fatto parte del patto
di Varsavia (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), mentre la
Germania Orientale era già entrata con l’unificazione tedesca.
Quando
nel 2007 l’Unione europea raggiunse la massima espansione ammettendo gli ultimi
due Paesi del patto di Varsavia, la Romania e la Bulgaria, era tuttavia già
iniziata la fase negativa del ciclo geopolitico, che è peggiorata sino alla
crisi in corso.
A metà del 2005 i francesi e gli olandesi si erano
infatti espressi in maggioranza negativamente nei referendum di ratifica della
Costituzione europea, con l’effetto di bloccare l’intero processo e di mandare
la Costituzione su un binario morto. Quello è stato il vero punto di svolta, molto prima
della Brexit e dei vari movimenti nazionali sovranisti e antieuro.
Perché
i popoli europei non hanno compreso la necessità di una cittadinanza europea
accanto a quella nazionale, e di un salto di qualità nella cooperazione tra gli
Stati europei che attraverso la Costituzione avrebbe creato le condizioni per
una possibile federazione, oltre che accresciuto le garanzie per le nostre
libertà e per la nostra sicurezza?
Quando
la sua ratifica è avvenuta tramite voto parlamentare è andata in porto quasi
all’unanimità, mentre i quattro referendum hanno avuto esito negativo in due
casi, e anche in Lussemburgo, storico europeista e padre fondatore di tutte le
istituzioni comunitarie, il quarantatré per cento dei votanti si espresse in
maniera contraria.
Solo
gli spagnoli sostennero in massa la Costituzione, portando il sì quasi al
settantasette per cento.
Vi è
stata dunque una dicotomia, uno scollamento, tra valutazione dei parlamenti e
valutazione diretta dei popoli.
Le
opinioni pubbliche non sembravano più allineate con quelle dei rappresentanti
eletti poco tempo prima.
Lo
stesso si è ripetuto con esiti ancora più traumatici nel successivo referendum
britannico che ha avviato la Brexit.
E non
parliamo dei diversi movimenti populisti che si sono diffusi in molti paesi e
hanno raggiunto (per ora) il culmine nel 2016 con l’elezione di Trump a
presidente degli Stati Uniti.
Quale
può essere la spiegazione di questa incapacità politica dei popoli persino
nelle storiche e consolidate democrazie liberali?
L’interpretazione che ritengo più adeguata si
basa su un carattere fondamentale della modernità del mondo occidentale, ossia
la separazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra agire individuale e
agire collettivo.
La
sfera privata prevede il perseguimento individuale del proprio benessere,
incluso quello materiale, secondo i propri valori e le proprie preferenze.
In
questo differisce la libertà dei moderni rispetto a quella degli antichi, come
illustrato da Benjamin Constant nella famosa conferenza del 1819 “De la liberté des anciens comparée à
celle des modernes”:
«Il
fine degli antichi era la divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di
una stessa patria: era questo che essi chiamavano libertà.
Il
fine dei moderni è la sicurezza dei godimenti privati;
ed
essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi
godimenti».
Inoltre,
«l’indipendenza individuale è il primo bisogno dei moderni: di conseguenza non
se ne deve mai chieder loro il sacrificio per stabilire la libertà politica».
Ma
poiché le libertà individuali debbono essere garantite dalle istituzioni
politiche vi è la necessità accanto alla sfera privata di quella pubblica, il
cui obiettivo è il perseguimento collettivo della sicurezza e della difesa
degli spazi individuali privati dai mali collettivi:
«La
libertà individuale, lo ripeto, (è) la vera libertà moderna. La libertà
politica ne è la garanzia; la libertà politica è quindi indispensabile», spiega
“Constant”.
In
società complesse non è pensabile che esistano preferenze condivise dall’intera
collettività su ciò che è bene.
Al
più, sono condivise da sottoinsiemi più o meno ampi, ma che non esauriscono
l’intero corpo sociale.
Un
esempio possono essere le preferenze in merito alla religione: se la religione
è ricondotta alla sfera privata delle persone allora in una società tollerante
possono convivere pacificamente cristiani, musulmani, ebrei, atei, ecc.
Un
altro esempio sono le preferenze politiche, tutte ammesse nei sistemi
liberaldemocratici a condizione che non mettano in discussione e non tentino di
sovvertire i medesimi.
Se i
gusti e le preferenze su ciò che è bene sono necessariamente divergenti tra le
persone, lo stesso non si può dire per i mali, rispetto ai quali non può che
esistere identità di giudizio: guerre, epidemie, carestie, cataclismi, violenze
sono mali per chiunque si possa ritrovare a subirli, senza sfumature di
opinione possibili.
Ma quali sono le istituzioni e i mezzi che
consentono di perseguire il bene individuale, e quali invece quelli che
permettono di sfuggire con efficacia ai mali collettivi?
La
risposta al primo quesito è facile: scelte individuali non alterate da forze
esterne e l’economia di mercato.
È
altrettanto semplice, ma non così riconosciuta, la risposta al secondo:
l’azione
politica degli Stati e, al loro interno, l’azione politica dei cittadini.
Noi
possiamo comprare sul mercato quasi tutti i «beni» che ci servono, ma non la
garanzia delle nostre libertà e la nostra sicurezza.
Ecco
dunque che torna in campo la libertà degli antichi, quella politica, che
occorre invocare come deus ex machina quando le libertà individuali – e con
esse anche i godimenti privati – appaiono a rischio.
Sul
tema tre affermazioni di “Constant”, a distanza di più di duecento anni,
appaiono attualissime e su di esse dobbiamo riflettere.
La
prima:
«Se la
libertà che conviene ai moderni è differente da quella che conveniva agli
antichi il
dispotismo che era possibile presso gli antichi non è più possibile presso i
moderni».
Ne
siamo ancora certi dopo la prima elezione di Trump, la fine golpista di quel
mandato e gli attuali sondaggi sulle prossime elezioni?
La
seconda:
«Dal fatto che siamo spesso distratti
dalla libertà politica più di quanto potevano esserlo (gli antichi) e che nella
nostra condizione ordinaria possiamo essere meno appassionati per essa può
derivare che talvolta trascuriamo troppo, e sempre a torto, le garanzie che
essa ci assicura».
Questa
è un’analisi di strepitosa validità:
dopo il 1989 e la caduta dei regimi in Europa
Orientale abbiamo ritenuto che tutti i rischi alle nostre libertà fossero
scomparsi, ci siamo cullati nel mercato e abbiamo colpevolmente trascurato la
politica.
E non ci siamo accorti che non ci troviamo più
in una «condizione ordinaria».
“Benjamin
Constant” continua così, con ottimismo che ci farebbe piacere condividere,
l’affermazione precedente:
«Ma al tempo stesso, poiché teniamo assai più degli
antichi alla libertà individuale, noi la difenderemo, se è attaccata, con
maggior abilità e tenacia; e per difenderla abbiamo mezzi che gli antichi non
avevano».
Sui
mezzi ha indubbiamente ragione, e quelli di cui possiamo disporre noi ora sono
assai più estesi rispetto a quelli della sua epoca.
Ma
siamo certi che stiamo effettivamente difendendo la nostra libertà individuale
«con maggior abilità e tenacia»?
Per
esempio in relazione alla libertà a rischio degli ucraini?
Infine:
«Dal fatto che la libertà moderna differisce dalla
libertà antica deriva infatti che essa è altresì minacciata da un pericolo di
natura differente.
Il
pericolo della libertà antica era che gli uomini, attenti soltanto ad
assicurarsi la partecipazione al potere sociale, non rinunciassero troppo a
buon mercato ai diritti e ai godimenti individuali.
Il
pericolo della libertà moderna è che, assorbiti nel godimento della nostra
indipendenza privata e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, noi
possiamo rinunciare troppo facilmente al nostro diritto a partecipare al potere
politico».
E come
dargli torto?
Uscire
dall’UE costerebbe alla
Germania
2,5 milioni di
posti di lavoro.
Rsi.ch-(18-02-2025)
- ATS/ANSA/M. Ang. – Redazione – ci dice:
La
cosiddetta Dexit, l’uscita della Germania dall’Unione europea, costerebbe al
Paese due milioni e mezzo di posti di lavoro e la perdita di circa il 5,6% del
PIL reale; conti al netto di un’uscita anche dalla moneta unica.
Sono i calcoli dell’Institut der deutschen
Wirtschaft (IW) che ha analizzato il programma elettorale del partito di
estrema destra Alternative für Deutschland (AfD).
Quello
sui rapporti con l’Europa è il tema che più di tutti preoccupa gli imprenditori
tedeschi rispetto alla crescita del partito:
il 77% degli imprenditori considera AfD “un
rischio per la sopravvivenza dell’Euro e dell’Unione europea”.
Altro
elemento preoccupante è quello relativo alla necessità di forza lavoro, la cui
mancanza può essere affrontata solo ricorrendo agli stranieri.
In
questo caso il problema sarebbe rappresentato dal convincere manodopera
straniera a trasferirsi nelle roccaforti elettorali di AfD.
Nel
presentare il rapporto “Hildegard Mueller”, presidente dell’Associazione
dell’industria automobilistica, ha detto che “la politica economica di AfD è
dannosa per l’economia e significherebbe, se realizzata, un’enorme perdita di
benessere”.
Analizzate
dall’”IW “sono anche le idee del partito sulle tasse e sul cambiamento
climatico, rispetto al quale il partito mostra un chiaro atteggiamento
negazionista e propone di abbattere i sistemi eolici.
“Essendo quest’ultimi in gran parte in mano
privata, questa proposta rivela un atteggiamento ambivalente del partito
rispetto alla proprietà privata”.
“Tutti questi risultati - conclude il rapporto
- dimostrano che l’impegno politico-partitico, finora unico nel suo genere, di
aziende, imprenditori e associazioni a favore della cultura democratica è nel
loro ben noto interesse”.
Secondo
un sondaggio” Fdp” e “Linke” rientreranno in Parlamento.
Intanto,
a meno di una settimana dalle elezioni, l’”istituto Forsa” ha reso noti i
risultati di un sondaggio condotto per le reti Rtl/Ntv.
I
nuovi dati sono incoraggianti per i liberali della Fdp e la Linke che
rientrerebbero in Parlamento.
La
situazione, dunque, si complica perché i seggi vanno divisi tra più partiti e
questo rende più difficile la strada per definire una coalizione.
Al momento in testa resta la Cdu-Csu (Unione
Cristiano-Democratica e Unione Cristiano-Sociale) (30%), AfD (20%), Spd
(Partito Socialdemocratico, 16%), Verdi (13%), Linke (La Sinistra, 7%) e Fdp
(Partito Liberale Democratco, 5%).
Resterebbe
fuori dal Parlamento il gruppo di “Sahra Wagenknecht “(Bsw), sostanzialmente
una forza di sinistra.
In questo scenario una coalizione tra
conservatori e socialdemocratici avrebbe una maggioranza di appena due seggi,
mentre mancherebbe del tutto nel caso di una coalizione tra Verdi e
conservatori.
Grossraum
Europa, o
dell’‘irresponsabile’
egemonia
tedesca
lacostituzione.info
- Andrea Guazzarotti – (25 Febbraio 2025) – ci dice:
L’anomalia
tedesca è l’anomalia dell’UE:
una
Nazione cui era interdetto, dopo la disfatta del Terzo Reich, il perseguimento
della propria prosperità attraverso la forza dello Stato, e che sceglieva,
pertanto, di basare quella prosperità sull’economia e derubricare lo Stato a
mero apparato servente.
Questa
l’essenza dell’ordoliberismo tedesco, secondo Foucault:
esso risponderebbe alla domanda cruciale per
cui, «dato uno stato che non esiste, in che modo farlo esistere a partire da
quello spazio non statale che è quello di una libertà economica?» (Foucault,
83ss.).
L’aforisma
di Foucault è applicabile all’Unione europea, declinandolo più chiaramente:
«dato uno Stato che non esiste e che non può
esistere», essendo l’UE la risultante di una duplice sconfitta (militare di
Germania e Italia, geopolitica di Francia e Regno Unito) e della scelta
statunitense di incentivare l’unione economica garantendo al contempo la difesa
militare dell’Europa occidentale.
Ma
un’entità che non ha l’onore e l’onere della difesa esterna non ha neppure il
potere di scegliere il proprio nemico esterno, che è poi l’essenza della
sovranità secondo Carl Schmitt.
Quel
nemico veniva, infatti, predeterminato dagli USA e individuato nell’Unione
sovietica.
La
rinuncia a una politica estera autonoma era una condizione posta dal vincitore
che tollerava assai poche eccezioni, come dimostrato dalla precoce avversione
USA alla Ostpolitik della Germania federale negli anni Settanta e già sotto
l’amministrazione Kennedy, la quale impose, tramite NATO, l’embargo sulle
esportazioni di oleodotti dalla RFT all’URSS (Halevi, 218).
Ma era
la natura stessa delle entità statuali europee che gradualmente venivano
“federate” a rendere indispensabile l’eterodirezione della politica estera e di
difesa:
la
differenza di vedute degli Stati europei in politica estera era tale da rendere
possibile l’unione sempre più stretta tra i loro popoli (come recitano i
Trattati europei) solo a patto che la difesa fosse esternalizzata agli USA
attraverso la NATO (Chessa).
Il che
si è reso sempre più evidente dopo l’allargamento a Est dell’UE all’inizio
degli anni Duemila.
Sotto questo punto di vista, la moneta unica è
stata la conferma di tale assetto sbilenco.
Solo
chi reputa di non dover mai proiettare potenza attraverso la guerra – anche
difensiva – può disfarsi della sovranità monetaria, attribuendola a un’entità
completamente de-politicizzata e irresponsabile.
Tutte
le guerre sono state condotte attraverso la gestione monetaria del debito
pubblico (Eichengreen et al.).
Non è
per caso che un Paese come il Regno Unito abbia evitato la follia dell’euro.
La
Germania non rinunciava, però, a ciò cui uno Stato – specie se potente – è necessariamente
chiamato, la proiezione della propria potenza, appunto.
Solo che lo faceva attraverso l’economia:
mentre
l’anglosfera usava la finanza per proiettare la propria potenza, la Germania
usava il mercantilismo dei propri crescenti surplus commerciali (Mangia).
Un
mercantilismo a lungo tollerato dagli USA, fintanto che rimaneva confinabile al
piano economico;
poi stroncato una volta che il mix su cui era
basato – energia a basso costo dalla Russia e fortissimo interscambio con la
Cina – assumeva implicazioni sempre più chiaramente geopolitiche.
L’UE
dell’euro e dell’austerity ne paga le conseguenze, per essersi prestata a
strumento di tale proiezione di potenza mercantilista tedesca:
euro e
austerity, negli anni immediatamente precedenti la Brexit e il primo mandato di
Trump, non solo non hanno frenato quella pulsione delle élite tedesche –
intrinseca al moralismo religioso dell’ordoliberismo (van der Walt), ovvero
alla struttura produttiva tedesca (Halevy), o ancora alla logica della
“società-macchina” (Todd, 180) – ma l’hanno amplificata fino all’estremo.
Come e
più del “Sistema Monetario Europeo” (SME) varato nel 1978, l’euro ha costituito
la naturale cintura protettiva che ha consentito alla Germania di accumulare
surplus commerciali senza contraccolpi sul debito pubblico, diversamente dal
Giappone (Halevy, 220).
E,
tuttavia, il rifiuto di ogni ruolo apertamente e responsabilmente egemonico
delle élite tedesche ha reso del tutto impermeabile l’opinione pubblica tedesca
alle ricorrenti rivendicazioni di solidarietà redistributiva da parte degli
Stati (Italia e Francia) che più hanno perso in quella scommessa dell’euro
(Streek 2022).
La
macchina dell’UE si è rivelata un dispositivo quanto mai duttile ed efficace
nel veicolare, in quegli anni della crisi dei debiti sovrani e della Troika, la
scelta geopolitica tedesca, barattata per scelta economica razionale ed
efficiente per tutti gli Stati.
Istruttiva
la narrazione nostrana di un irenico convergere di valori costituzionali comuni
degli Stati membri che il diritto europeo si sarebbe limitato a razionalizzare
(Della Cananea).
Un
ottundimento di governi e di istituzioni europee (BCE e Commissione in testa)
che, anziché tentare di frenare quella pulsione tedesca, l’hanno
irresponsabilmente presa a modello (Flassbeck, Lapavitsas).
L’esito
– anche da un punto di vista meramente geoeconomico – è stato squilibrante non
solo entro l’UE ma nell’intera “economia mondo”:
se fino al 2010 la bilancia dei pagamenti
dell’intera Eurozona era tendenzialmente in equilibrio col resto del mondo (il
surplus tedesco venendo normalmente compensato dal deficit commerciale degli
Stati membri mediterranei), a partire dal 2010 il surplus cresceva a livelli
mai raggiunti prima e inconcepibili per un’economia così vasta e così
benestante (Bellofiore et a., 95).
Che si
trattasse di qualcosa di diverso da un’autentica politica economica era parso
già chiaro a chi ha sempre diffidato delle dottrine ordoliberiste tedesche:
le
politiche economiche trainate dall’export (che impongono la repressione della
domanda interna e deflazione salariale) hanno visto la Germania frenare per
decenni la propria crescita (e di conseguenza quella dei propri partner) di
almeno l’1,5% del Pil all’anno, lasciandosi dietro più di un sospetto circa la
loro reale finalità geopolitica (Ciocca).
L’esito di questo “successo” nella gara
dell’export è stato destabilizzante anche all’interno della società tedesca:
non si tratta solo del noto deficit di
investimenti pubblici e privati che affliggono da anni la Germania, ma anche
dell’aumento impressionante dell’indice di disuguaglianza (DIW).
La
qual cosa ha reso ampie fasce dell’elettorato tedesco refrattarie a ogni
discorso sulla solidarietà europea e facili prede della retorica anti-immigrati
e anti-UE di partiti “revisionisti” come AfD.
L’aforisma
di Foucault sull’imperativo della Germania post-nazista di non pensarsi come
Stato-nazione bensì come “economia nazionale aperta”, andrebbe invero
completato: non si è trattato – per la Germania – solo di interdire a sé stessa
ogni idea di potenza dello Stato, bensì anche ogni idea di egemonia spaziale.
Carl
Schmitt aveva prospettato, ben prima del suo famoso “Nomos della terra” del
1950, una soluzione per uscire dal diritto internazionale alla vigilia della
guerra (Schmitt): adattando la dottrina Monroe degli USA al contesto europeo e
alla dottrina razziale nazista, la proposta di Schmitt rinnegava frontalmente
l’uguaglianza formale degli Stati e immaginava la contrapposizione di “grandi
spazi” (Grossräume), ciascuno incentrato su uno Stato guida cui sono
subordinati Stati satellite (Losano 59ss.).
Dopo
la fine della guerra fu rinvenuto nell’Archivio del Ministero degli Esteri
tedesco un progetto di trattato fra Germania, Italia e Giappone sulla
configurazione dei grandi spazi in Europa e nell’Est asiatico, il cui preambolo
parlava della «necessità storica di trasformare i Grandi Spazi in Comunità
internazionali di tipo nuovo e con una propria personalità giuridica».
Quei
grandi spazi avrebbero dovuto proteggere gli Stati dal «timore dell’oppressione
da parte di potenze e influenze intruse».
Quel
progetto distopico fallì, nella sua modalità bellicistica e razziale, per poi
rinascere – in Europa occidentale – nella sua versione pacifica (e pacifista?)
di un’egemonia economica fondata sul consenso e/o l’organizzazione
internazionale utopicamente tendente al federalismo (Losano 71ss.).
Gli
storici hanno rilevato plurime tracce di una riconversione di piani, idee,
protagonisti del “Grossraum nazista” in altrettanti piani, idee e protagonisti
della costruzione dell’Europa funzionalista dei primi anni (Heilbronner).
L’aspirazione
di fondo, al di là del progetto razziale nazista, di difendere il continente
europeo dalla minaccia bolscevica (soprattutto) e (poi) dall’egemonia economica
degli USA era condivisa dalle élite post-liberali di altri Paesi europei
(ibidem, p. 1585ss.).
Chi,
tra i migliori giuristi tedeschi studiosi dell’UE, ha analizzato il progetto
del “Grossraum nazista”, ha concluso che si trattava di un’entità nebulosa
anche sotto il profilo economico (oltre che giuridico, amministrativo, ecc.),
di cui era chiaro soltanto il primato della volontà dello Stato-guida sugli
Stati satellite (Joerges). Specularmente, l’Unione europea è un’entità
volutamente nebulosa quanto alla gerarchia materiale tra i suoi Stati membri,
ma di cui – a partire dalle riforme “che hanno salvato l’euro” – è inequivoco
l’indirizzo politico-economico fondamentale (il mercantilismo di stampo
tedesco).
Un
importante storico inglese studioso dell’integrazione europea ha cercato di
dimostrare come quest’ultima, lungi dall’essere un progetto di progressiva e
incrementale federalizzazione tra Stati europei desiderosi di trasformarsi
negli Stati Uniti d’Europa, è nata e avanzata come progetto di governi
nazionali guidati da due priorità:
imbrigliare
la Germania e sostenere le preferenze politiche interne, in modo da salvare il
modello di Stato-nazione dalla catastrofe della guerra e dalla fine del
colonialismo europeo (Milward).
Questo
quadro, tuttavia, appare coerente con gli sviluppi avutisi fino alla fine della
guerra fredda, la riunificazione tedesca e il varo della moneta unica, ove la
rete concepita (specie dalla Francia e dalla Commissione Delors) per tenere
imbrigliata la Germania al resto della “Vecchia Europa” si è rivelata non solo
troppo debole ma convertibile in un volano per la stessa egemonia economica
tedesca sul resto dell’Unione.
Le radici di questo squilibrio risalgono,
invero, alla fine di Bretton Woods, che era poi quel reticolo di istituzioni
che consentivano agli USA di usare egemonia verso il resto del Mondo e di
assumersene la responsabilità, secondo un modello di capitalismo “embedded”,
imbrigliato in regole e istituzioni internazionali (in primis, controllo della
circolazione dei capitali) e addomesticato dalle logiche di pieno impiego
keynesiane.
Dal
crollo di quel modello è scaturita l’egemonia irresponsabile degli USA, da cui,
a sua volta, è derivata quella tedesca, diversamente irresponsabile.
La
retorica del “Grossraum Europa” e i discorsi sull’egemonia europea della
Germania nazista (affermatisi dopo un’iniziale fase “euroscettica” del
nazionalsocialismo) erano tali da rendere impronunciabile, nella Germania
federale del Secondo dopoguerra, la parola “egemonia” (Streeck).
Un
tabù che è perdurato fino ai nostri giorni, nonostante l’evidente ruolo
egemonico giocato dalla Germania, specie dopo la riunificazione.
Il perpetuarsi di quel tabù, contro ogni
evidenza materiale, è equivalso a irresponsabilità, se non soggettiva
senz’altro oggettiva.
Oggi
l’estrema destra tedesca di AfD non osa (ancora) pronunciare la parola
“egemonia tedesca”, mentre non disdegna riferimenti alla “teoria del Grossraum”
di Carl Schmitt, per scimmiottare l’invocazione al multipolarismo di Putin e di
Xi, non certo per portare acqua al mulino dell’europeismo anti egemonico delle “Carte
dei diritti e della solidarietà europea”, bensì per accodarsi alle critiche
strumentali all’”universalismo dei diritti umani” (Pfahl-Traughber; Janzen).
In questo trovando pieno sostegno nella nuova
amministrazione Trump. Quest’ultima è soltanto l’espressione più estremizzata
di una tendenza statunitense iniziata già all’inizio del Duemila che ha visto
gli USA reagire all’aumento di potenza di Cina, India, ecc., nelle istituzioni
multilaterali (WTO in primis) ricorrendo al boicottaggio di queste stesse
istituzioni e del multilateralismo tout court, preferendo ricorrere alla logica
del divide et impera, ossia ricorrendo a negoziazioni bilaterali con i singoli
Stati, specie i più deboli.
Sostenere
prima la Brexit e, attraverso AfD, un’eventuale “Germanexit”, sembra
l’applicazione all’UE di tale strategia.
Il “Grossraum
non era fondato su una Costituzione, bensì su un trattato”.
Che i
destini di UE e Germania siano in qualche modo convergenti è rispecchiato anche
dal rebus della loro Costituzione: come l’UE, nonostante si proclami dal
lontano 1963 un’entità indipendente e autonoma dal diritto internazionale
(Corte di giustizia, Van Gend, 1963) dotata di una propria “carta
costituzionale” (Corte di giustizia, Le Vert, 1986), continua a fondarsi su due
trattati internazionali, così la Germania continua a fondarsi su un atto
volutamente non intitolato “Costituzione/Verfassung” bensì “Legge
fondamentale/Grundgesetz”.
Come
l’UE ha fallito nel darsi una propria Costituzione, con il maldestro tentativo
del 2004 naufragato nei referendum olandese e francese del 2005, così la
Germania si è sottratta alla promessa costituzionale iscritta nella sua Legge
fondamentale (art. 146) di dar vita a un autentico processo costituente
all’atto della sua agognata riunificazione.
Quest’ultima
si fonda, ancor oggi, sul “Trattato di riunificazione” del 1990 (che qualcuno
ha cupamente ma lucidamente ribattezzato “Annessione”: Giacchè), che, a sua
volta, si basa sul più “burocratico” art. 23 della Legge fondamentale, oggi
abrogato, che ne consentiva l’estensione ad “altre parti della Germania”.
Un’autentica
fase costituente avrebbe avuto “l’effetto simbolico di non far sentire alla
popolazione della DDR che qualcosa era stato imposto loro, ma che avevano
partecipato alla creazione dell’ordinamento giuridico” dell’intero Paese
(Grimm).
È
tutt’altro che certo che tale processo costituente sarebbe bastato, da solo, a
scongiurare future spaccature, ma è chiaro che ciò contribuisce oggi ad
alimentare quel senso di subalternità nei cittadini tedeschi dell’Est, i quali
tendono “a credere che la promessa di uguaglianza della Legge fondamentale non
sia stata realizzata” (Lorenz).
La
Germania ha, in fondo, rispecchiato quanto avvenuto nelle economie nazionali
dell’Europa centrorientale integrate nella sua economia esportatrice:
un
parallelo e crescente processo di integrazione (economica) esterna e
disintegrazione (sociale) interna (Guazzarotti).
Integrazione
economica esterna sempre più accentuata con l’Eurasia (Cina e Russia) e sempre
più debole rispetto all’Europa mediterranea;
disintegrazione
sociale interna, che dalla linea di faglia Est-Ovest si allarga all’intera
società, tramutandosi nella rivolta guidata dalla forza “antisistema” di AfD.
Il paradosso è che quest’ultima, mentre
rifiuta di riconoscere agli immigrati il ruolo cruciale che spetta loro nella
“macchina produttiva” tedesca, è perfettamente consapevole
dell’insostituibilità del legame economico con la Russia.
Non
sappiamo cosa produrrà questo intreccio di contraddizioni nella politica
tedesca dopo le elezioni del 23 febbraio 2025.
Ma è chiaro che l’UE ne rifletterà gli
andamenti.
Come
la riforma dell’UE in senso deflattivo del 2011-2013 è stata preceduta dalla
revisione costituzionale tedesca del 2009 che ha introdotto il famigerato
“Schuldenbremse” (freno al debito), così la revisione (impossibile ma
necessaria) dei Trattati europei non potrà che dipendere dall’abrogazione di
quella norma costituzionale tedesca.
L’amaro paradosso è stato quello per cui il “nuovo
Patto di stabilità del 2024 “ha tradito anni di proposte per l’inversione dello
spirito deflattivo del vecchio Patto (voluto sempre dai tedeschi nel 1997) a
causa della disperata lotta del (micro) Partito liberale tedesco contro la
propria estinzione guidata dal Ministro delle finanze Lindner, poi resosi
responsabile delle elezioni anticipate e infine dimessosi dopo la disfatta del
suo partito alle ultime elezioni.
Uscire
dalla crisi tedesca ed europea “da sinistra” sembra davvero un’utopia.
Gli
USA di Trump potrebbero rendere pericolosamente concreta la distopia di
un’uscita dalla crisi attraverso il riarmo dei Paesi UE, uniti dalla
“affratellante” esigenza di economie di scala dell’industria bellica europea.
La
storia dello “Eurofighter”, che ha visto per decenni collaborare imprese
britanniche e tedesche prima della Brexit potrebbe essere istruttiva.
Germania
e Unione europea allineate:
norme
sulla sostenibilità, vade retro!
Valori.it
- Andrea Di Turi – (17.04.2025) – Redazione – ci dice:
Il
nuovo governo tedesco mette subito nel mirino le norme nazionali sulla due
diligence.
Un po’
la stessa cosa che sta accadendo in Europa.
(La
nuova coalizione tedesca di governo cancella la legge nazionale sulla due
diligence.)
La
scusa è la stessa:
semplificare
per non gravare sulle imprese, tutelare la competitività e omaggiare il solito
totem neoliberista della crescita.
Ma
anche la realtà, al di là delle scuse, è la stessa:
si vuole deregolamentare.
Dando il chiaro segnale che la sostenibilità
non è più una priorità.
Il
punto è che sembra, da una parte, che si stia prendendo una china da cui sarà
poi molto complicato risalire.
Dall’altra,
che forse il peggio deve ancora venire.
Perché
si sa poi come vanno le cose, quando la palla di neve rotola a valle:
diventa
valanga e si salvi chi può.
Sulla
due diligence la Germania si mette in “scia” alla Commissione europea.
A
lanciare la palla, per stare in metafora, è stata la Commissione europea con
l’ormai famigerato “pacchetto Omnibus”:
una bella sforbiciata a normative di
sostenibilità che fino a ieri erano considerate architravi dell’impegno del
blocco su questi temi, e via così perché il vento politico è cambiato.
Ora è la volta del Paese più importante del
Vecchio continente, la Germania, che si è messo idealmente in scia di
Bruxelles.
Poco
dopo aver trovato la quadra sull’accordo di coalizione, i partiti di governo
tedeschi – i conservatori di CDU-CSU e i progressisti della SPD – hanno deciso
anch’essi di prendere in mano le forbici.
E le
hanno usate, come ha fatto l’Europa, per dare un bel taglio alle norme sulla
sostenibilità.
La
scelta della vittima sacrificale è ricaduta sulla legge tedesca sulla due
diligence su diritti umani e ambientali nelle catene di fornitura.
Con
un’aggravante, se possibile, rispetto alle sforbiciate operate a Bruxelles.
Perché, in questo caso, parliamo di una legge già in vigore.
Il “Supply
chain Act” (LkSG), infatti, era stato introdotto nel 2021 ed era vigente dal
2023.
Imponeva
alle grandi aziende tedesche di prevenire e mitigare i possibili rischi di
violazioni di diritti umani e gli impatti ambientali negativi lungo la catena
di fornitura.
Si
applicava dal 2023 alle aziende con più di tremila dipendenti e dal 2024 a
quelle con più di mille, con sanzioni fino al 2% del fatturato.
Quella
introdotta in Germania era una sorta di anticipazione lungimirante della “Csddd”,
la direttiva europea sulla due diligence in materia di sostenibilità pubblicata
nella Gazzetta ufficiale Ue a luglio 2024.
Sulla
due diligence la Germania passa la palla alla Csddd.
Che,
però, slitta slitta.
I
sostenitori di questo passo indietro hanno affermato che la Germania non poteva
far altro che bloccare il “Supply chain Act”.
Perché
a detta loro si trattava di un atto dovuto, legato a questioni di
armonizzazione della normativa nazionale con quella europea.
Sarà.
All’opposto,
però, c’è chi sempre in punta di diritto aveva detto, già quando il precedente
governo tedesco aveva avanzato l’intenzione di intervenire sul Supply chain
Act, che così facendo la Germania sarebbe potuta entrare in conflitto con il
diritto europeo.
Perché
l’arrivo di una nuova normativa europea non consentirebbe di abbassare il
livello di protezione garantito da una normativa nazionale in essere.
E le
previsioni della “Csddd” sono meno stringenti rispetto alla legge che era già
attiva in Germania.
Al di
là delle interpretazioni, il punto vero è che di fatto la “Csddd” ancora non
c’è. Nel senso che la sua introduzione è stata fatta slittare da un’altra
sforbiciata operata dall’Unione europea a inizio aprile con il “provvedimento
stop the clock”. Prevede l’allungamento di un anno delle scadenze della “Csddd”,
riguardo sia al recepimento negli ordinamenti nazionali (che dovrà avvenire non
più entro il 2026 ma entro il 2027), sia alla sua applicazione (che partirà non
più dal 2027 ma dal 2028).
E, insieme, il rinvio di due anni dei nuovi
obblighi derivanti dalla direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità
(Csrd).
Per
cui si sta lanciando la palla da una norma nazionale a una europea, la quale
però non può riceverla perché è ancora in attesa di iniziare a giocare.
Il
generale dietrofront sulla sostenibilità.
Non si
può dire che il passo indietro della Germania sulla due diligence dipenda
unicamente, anche se un po’ avrà contato, dal colore politico del nuovo
governo. Primo, perché nella coalizione ci sono ancora i progressisti, o
supposti tali. Secondo, perché già il precedente premier tedesco, espressione
dalla SPD, non si era fatto problemi a chiedere esplicitamente un
alleggerimento delle norme europee sulla sostenibilità.
Adducendo
motivazioni che ricalcavano quelle avanzate dal mondo economico e
imprenditoriale tedesco, che rispetto a quelle norme si era spesso messo di
traverso.
Certo,
non siamo (ancora) ai livelli di quanto accade Oltreoceano, dove Donald Trump
fin da quando è rientrato nello Studio ovale ha aperto il lanciafiamme contro
tutto ciò che avesse anche un vago sentore di sostenibilità, ambiente, clima.
Ma c’è
poco da stare allegri.
Perché
è vero che la Germania non sarà più la locomotiva d’Europa, o quanto meno è una
locomotiva che arranca.
Però
resta sempre il Paese che, quando vuole, detta legge in questa parte di mondo.
O, per
dirla in modo “politically correct”, che è difficile ignorare quando imbocca
con decisione una strada.
E oggi
sulla sostenibilità l’ordine che arriva dalla Germania, come dall’Unione
europea, è quello di un perentorio dietrofront.
Miope
e pericoloso.
Germania
(e Ue) Kaputt?
Sbilanciamoci.info
- Vincenzo Comito – (3 Luglio 2025) – ci dice:
Dalla
deriva economica al boom delle spese militari, il punto sulla situazione e
sulle prospettive dell’economia e della politica tedesca, non certo brillanti,
che influenzano anche altri Paesi Ue, in primis l’Italia.
Il
testo che segue, appoggiandosi a numerose fonti internazionali, cerca di fare
il punto sulla situazione e sulle prospettive dell’economia e della politica
tedesca, situazione e prospettive che non appaiono certo brillanti,
influenzando necessariamente e in senso negativo anche gli altri Paesi dell’UE,
dati gli stretti rapporti economici esistenti.
L’analisi di Munchau.
Sul
fronte dell’Europa a 27 si percepisce un diffuso sentimento di pessimismo sul
futuro del continente, accanto ai primi cigolii dei carri armati.
Al cuore della crisi ci sono indubbiamente le
difficoltà della Germania, il Paese di gran lunga più importante dell’Unione.
A
volte un solo libro riesce a ricostruire in modo convincente delle situazioni
anche molto complesse.
Per capire il quadro generale dell’economia
tedesca può così forse bastare l’analisi che sul tema ha svolto “Wolfgang
Munchau”, uno dei migliori giornalisti economici occidentali;
egli ha pubblicato nel 2024 un volume dal
titolo “Kaputt” (Munchau, 2024), che parte dalla constatazione della fine del
miracolo economico tedesco e ne analizza con acume le cause.
In
sintesi, l’autore ricorda che il mondo è cambiato e la Germania no;
essa
per l’autore ha ancora un’economia da XX secolo, la cui spinta propulsiva
appare ormai del tutto esaurita (tra l’altro, negli ultimi tre anni il Pil
tedesco ha mostrato un segno negativo, anche se le difficoltà si percepivano
già nel 2019).
Se pensiamo poi che la Germania è di gran
lunga il Paese dell’UE economicamente più importante, in particolare con il suo
sistema industriale e con le strette interconnessioni di fornitura con molti
altri Paesi dell’area, c’è naturalmente motivo di preoccuparsi seriamente.
Le
ragioni della crisi tedesca per l’autore stanno principalmente nel fatto che il
Paese ha gestito male lo stesso settore industriale su cui si basava il suo
sviluppo e ha valutato sempre male l’evoluzione delle tecnologie e delle
questioni geopolitiche.
Al
momento dell’unificazione aveva alcune delle migliori imprese industriali del
mondo, in particolare nell’auto, nella chimica, nella meccanica, ma non ha
visto arrivare le tecnologie digitali e quando lo ha capito ne ha tratto le
conclusioni sbagliate; il rifiuto di adottare le nuove tecnologie è per Munchau
il peccato originale del sistema.
Ricordiamo
che, quanto al settore tradizionalmente più importante dell’economia tedesca,
l’auto, che l’era della benzina o del diesel, con tutte le sue sofisticazioni
meccaniche in cui le case tedesche eccellevano, sta finendo e che l’auto
elettrica che la sta sostituendo è un’altra cosa, composta com’è di batteria e
software.
Le imprese tedesche del settore automotive se
ne sono accorte operativamente molto tardi ed ecco che milioni di posti di
lavoro al momento sono a rischio. Mentre da Oriente incalza l’auto a guida
autonoma.
I capi
delle grandi imprese e i leader politici hanno continuato a effettuare
scommesse sbagliate, tecnologiche, geopolitiche ed economiche, con l’idea che
l’economia coincidesse con l’industria.
Si è
diffusa presto nel Paese, continua Munchau, una mentalità neo-mercantilista che
ricorda le politiche commerciali della Francia del diciottesimo secolo e che ha
contagiato i politici e i manager.
I mercantilisti amano commerciare in beni
fisici e sono sospettosi delle tecnologie innovative.
La cosa ha prima funzionato, poi però ha
smesso di farlo.
La
controparte del mercantilismo è il corporativismo.
Per
diversi decenni i governi di destra e di sinistra hanno lavorato mano nella
mano con le grandi imprese, facendo gli interessi di alcune industrie campione.
La
politica industriale così si è sviluppata a spese di una diversificazione
produttiva e del sostegno alle industrie nuove.
Anche
puntare, parallelamente, gran parte delle carte sullo sviluppo delle
esportazioni è apparsa a suo tempo una mossa vincente;
ma la
mancanza di un rinnovamento tecnologico e l’assenza del Paese di settori nuovi,
le confusioni del mondo anche prima dell’arrivo di Trump, e ancora la crescente
concorrenza cinese sui settori tradizionali, dopo che Berlino aveva puntato
tante delle sue carte sul gigante asiatico, hanno bloccato tale strategia.
La
chiusura delle forniture del gas russo dopo lo scoppio della guerra in Ucraina
ha fatto il resto.
Intanto, il blocco della spesa pubblica ha
comportato come risultato avere infrastrutture decrepite, accelerando così la
débâcle.
Aggiungiamo
una burocrazia elefantiaca;
si pensi che per ottenere un permesso di
costruzione in certi casi bisogna rispettare circa 3.000 normative diverse.
Nel
settore militare la decisione sull’acquisto di un martello richiede sette anni
di tempo, per fare giusto un esempio paradossale.
Leggendo
il testo di Munchau a chi scrive veniva alla mente un altro libro più antico, “La
strana disfatta” del grande storico francese Marc Bloch, volume scritto nel
1940, nel pieno della guerra, che racconta come i generali francesi avessero
combattuto nella seconda guerra mondiale l’esercito tedesco con gli armamenti e
l’organizzazione della prima.
La
questione del lavoro.
È noto
come il settore dell’auto sia al cuore dell’industria europea.
Secondo una stima molto prudenziale occupa,
nei Paesi dell’UE, circa 15 milioni di addetti.
E al
cuore dell’auto europea c’è la Germania.
I
tecnici tedeschi del settore, grazie a prodotti sofisticati venduti con forti
margini in tutto il mondo, sono tra i più pagati a livello internazionale e
godono tuttora di un grande prestigio (Boutelet, 2025, a).
Ma
l’avvento dell’auto elettrica e in prospettiva di quella a guida autonoma, con
relativo grande mutamento della tecnologia, nonché la concorrenza cinese e i
ritardi accumulati dalle aziende tedesche, cui abbiamo già fatto cenno, nonché
la concorrenza anche dai gruppi francesi, stanno cambiando del tutto le carte
in tavola.
Si chiudono le fabbriche, si riduce il numero
dei dipendenti; è tutto uno stile di vita che è messo in causa.
Si
perdono ogni mese 10.000 impieghi industriali, mentre il peso del settore
industriale sul totale del Paese, che era del 48% nel 1960, è sceso al 28% nel
2000 e al 23% nel 2024 (Boutelet, 2025, a).
Parallelamente diventa sempre più importante,
anzi dominante, il settore dei servizi, che passa nello stesso periodo dal 38%
al 76%.
I temi
della campagna elettorale.
Come
sottolinea “Wolfgang Streeck” (Streeck, 2025), la campagna elettorale tedesca
non è stata dominata dalla grave crisi fiscale, né dal processo di
riscaldamento globale, né ancora dalla stagnazione economica, dall’aumento
della povertà, dal crescente decadimento delle infrastrutture fisiche del
Paese, o dal declino della qualità dell’istruzione primaria e secondaria.
Il principale argomento della campagna è stato
la crescita dell’AfD e quale ruolo permettergli di giocare nella politica
tedesca.
Va a
questo proposito sottolineato che in tema di immigrazione le posizioni del
partito di estrema destra sono in larga parte identiche a quelle del partito di
Merz e che poco prima del giorno delle elezioni la AfD ha votato a favore di
una risoluzione dello stesso futuro cancelliere proprio sull’immigrazione.
La
caduta del freno al debito.
Quella
descritta da Munchau è sostanzialmente la situazione economica che eredita il
nuovo governo tedesco.
Vogliamo
preliminarmente sottolineare che tra le cose buone che a nostro parere aveva
fatto a suo tempo Angela Merkel c’era proprio l’allontanamento dalla vita
politica di “Friedrich Merz”.
Ora
tale singolare personaggio ha vinto in qualche modo le elezioni e sta cercando
di portare avanti una sua politica, che ci sembra molto avventurosa su vari
fronti.
I
punti principali della strategia del nuovo governo sono sostanzialmente tre:
l’allentamento del freno al debito, la parallela politica di riarmo, la lotta
all’immigrazione.
Come
scrive” Carlo Giordana” (Giordana, 2025), la Germania ha storicamente fatto
della prudenza fiscale un pilastro identitario della propria politica
economica;
nel 2008, dopo la crisi finanziaria, è stata
così introdotta una norma costituzionale per limitare severamente la spesa
pubblica, provvedimento noto come lo Schuldenbremse (freno all’indebitamento).
Se
vogliamo, come scrive ancora Giordana, la paura del debito era anche il
riflesso dei traumi dell’iperinflazione e del collasso economico del Novecento,
che si sono fortemente impressi, anche per gli esiti che hanno portato, nella
coscienza collettiva.
Ma si
potrebbe aggiungere che la diffidenza dei tedeschi verso il debito si può far
risalire a molti secoli prima, al periodo della” Lega Anseatica”, organismo
commerciale che proibì le vendite a credito per stroncare la concorrenza dei
mercanti italiani nell’area.
Il
riarmo.
Con le
modifiche costituzionali adottate di recente al precedente meccanismo di freno
al debito, la Germania investirà ora 500 miliardi in 12 anni per le
infrastrutture, mentre gli investimenti nella difesa di base ammonteranno a 95
miliardi già quest’anno e raggiungeranno il 3,5% del Pil nel 2029.
Berlino
farà così circa 845 miliardi di euro di nuovo debito nei prossimi quattro anni.
Intanto
Merz ha deciso di mandare all’Ucraina i missili Taurus, capaci di volare sino a
500 chilometri dentro il territorio russo.
Il
forte aumento della spesa per il riarmo è giustificato dal cancelliere Merz con
la minaccia russa e con il presumibile distacco militare progressivo degli
Stati Uniti dal nostro continente.
Sembra
però soprattutto un facile modo per far ripartire l’economia.
Tale
mossa trova una forte opposizione non solo da parte della Linke, della BSW, da
una parte del partito dei Verdi, ma anche dalla sinistra socialdemocratica,
dall’AfD e da alcuni esponenti dello stesso partito di Merz.
In
particolare la vecchia guardia dell’SPD ha pubblicato una mozione che critica i
piani di riarmo del Governo mentre spinge per un graduale ritorno alla
distensione e alla cooperazione con la Russia.
Se un
rafforzamento della difesa in Germania e in Europa appare globalmente necessario,
si legge nel documento, esso deve essere inserito in una strategia di
de-escalation e di costruzione di un clima di fiducia, non in una nuova corsa
agli armamenti (Chassany, 2025, a).
Ricordiamo
incidentalmente che i rapporti amichevoli tra Germania e Russia si sono
dispiegati nell’arco di alcuni secoli.
I
dissidenti potrebbero rendere la vita difficile al governo, che dispone di una
maggioranza di soli 13 voti, in particolar modo nel far passare in Parlamento
il budget, la spedizione di nuove armi all’Ucraina e il ritorno alla leva
obbligatoria (Chassany, 2025, a).
Si sta
infatti discutendo di ripristinare in Germania la leva militare obbligatoria.
Sulla sia del primo discorso al Bundestag del cancelliere Merz, nel quale ha
promesso di creare l’esercito più potente d’Europa a livello convenzionale.
Sempre
Streek sottolinea, nel testo già citato, come il piano di riarmo del nuovo
cancelliere sia stato accolto con entusiasmo dalla stampa europea.
Così The Economist ha parlato di “una partenza
magnifica del nuovo governo”, mentre si trattava di “un salto coraggioso e
necessario” secondo The Guardian, di “un risveglio della Germania” per il
Financial Times, di “una svolta importante e benvenuta” per Le Monde.
Il 4
giugno il governo di Berlino ha annunciato un piano per rilanciare gli
investimenti;
esso prevede 46 miliardi di riduzione di
imposte e di accelerazione degli ammortamenti entro il 2029, misure di sostegno
all’acquisto di vetture elettriche, agevolazioni per le spese in ricerca e
sviluppo (Boutelet, 2025, b).
La
politica anti-immigrati.
Mentre
la Germania lotta con il problema della mancanza di manodopera, non riuscendo a
far funzionare adeguatamente neanche i servizi pubblici di base, in giro si
diffonde sempre più un sentimento anti-immigrati.
Il
nuovo governo tende ad allinearsi con quei Paesi europei che cercano di
inasprire le politiche migratorie.
Tra
l’altro, si è avviato un programma di respingimento alle frontiere di tutti gli
immigrati irregolari, compresi quelli che vogliono chiedere il diritto di
asilo.
Merz
ha inoltre dichiarato la volontà di istituire dei centri per migranti in Paesi
terzi, mentre sta tagliando i finanziamenti alle ONG che operano a favore dei
migranti in difficoltà e promette di porre fine alla possibilità degli
immigrati di ottenere la cittadinanza rapidamente.
Comunque su questo tema il cancelliere deve
far fronte alle riserve e ai freni degli alleati socialisti.
Il
problema delle pensioni e la proposta di lavorare di più.-
Oggi
il 27% del budget del governo federale, circa 133 miliardi di euro nel 2025,
viene utilizzato per coprire i buchi negli schemi pensionistici pubblici.
Gli
sviluppi demografici, in particolare l’invecchiamento della popolazione,
pongono pressioni crescenti sulle finanze del Paese.
Il
cancelliere propone a questo proposito di introdurre incentivi fiscali per i
lavoratori che decidano di continuare a lavorare dopo l’età normale di
pensionamento, ma la Bundesbank avverte che tale proposta avrebbe soltanto un
effetto limitato sulle finanze (Storbeck,2025).
Un adeguato inserimento di immigrati nel
tessuto produttivo potrebbe contribuire a ridurre il problema, ma su questo
punto il nuovo governo non sembra disponibile.
Il
fatto è che mentre si registrano gravi mancanze di personale in molti settori
produttivi, entro il 2035 4.8 milioni di lavoratori, il 9% della forza lavoro
totale, andranno in pensione e il governo deve persuadere le giovani
generazioni a lavorare di più, mentre sino a ieri i sindacati spingevano per
ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni.
La Germania ha il più basso numero di ore
lavorate per dipendente di tutto il mondo occidentale, mentre d’altro canto ha
uno dei più alti tassi di partecipazione alla forza lavoro.
Quattro
su cinque persone in età lavorativa hanno un impiego.
I
rapporti con gli Usa e con Israele.
Nei
primi mesi del 2025 Merz, dopo le minacce di Trump sui dazi e i suoi rapporti
amichevoli con la Russia sulla questione ucraina, aveva affermato che l’Europa
non poteva contare più sugli Usa per la sua difesa, che bisognava raggiungere
l’indipendenza dagli stessi e che gli Usa erano ormai indifferenti al destino
dell’Europa (Chassany, 2025, b).
Ora, a
distanza di poche settimane, il cancelliere racconta invece che la Germania
rimarrà dipendente dagli Usa ancora molto a lungo e, avendo parlato con Trump,
si sente rassicurato dall’impegno degli Usa verso la Nato.
Inoltre
egli accetta di buon grado di portare la spesa militare al 5% del Pil, come
suggerito da Trump e come hanno accettato di fare quasi tutti i leader dell’UE,
in un incredibile atto di servilismo atlantico.
Evidentemente
a Washington dispongono di mezzi molto persuasivi nei confronti del cancelliere
e degli altri.
Anche
sul fronte dei dazi di Trump, Merz mantiene un atteggiamento amichevole, mentre
spinge per un accordo rapido con Washington, a tutti i costi, è pronto ad
accettare una soluzione asimmetrica, tutta a favore degli Usa, come del resto
sembra auspicare la maggioranza dei Paesi dell’UE.
Si può
prevedere che il negoziato si concluderà sostanzialmente più o meno alle
condizioni di Trump.
I paesi dell’UE hanno anche accettato di
esentare sostanzialmente le imprese Usa dalla tassa globale minima sulle
multinazionali.
Alla
fine la pagheranno solo gli europei.
Sul
fronte israeliano, bisogna ricordare che il Paese ha un complesso di colpa
molto forte verso il popolo ebraico;
sembra
però sia ormai passato ogni segno e la Germania non solo non ha preso posizione
contro le atrocità della macchina bellica di Israele, ma ora sulla guerra
all’Iran Merz ha dichiarato che Israele stava facendo il lavoro sporco “anche
per noi”.
Al
contrario di quanto è successo nel caso del conflitto in Ucraina, i Paesi
dell’UE sono bene lontani da un accordo sulla necessità di esercitare pressioni
su Israele e non si parla certo di sanzioni.
I
popoli del Sud del mondo prendono nota.
Conclusioni.
L’analisi
di Munchau, così come la forte affermazione dell’AfD a livello politico, ci
mostrano in maniera precisa la profondità della crisi tedesca e indirettamente
di quella dell’UE.
Ora,
l’elezione di Merz, un personaggio di cui la maggioranza dei cittadini
tedeschi, e non solo la Merkel, diffida, e che non sembra poter affrontarla in
maniera adeguata, si è inaugurata una nuova stagione.
La
coalizione con i socialdemocratici appare abbastanza debole e non si può
prevedere quanto durerà e anche le minacce di dazi di Trump tendono a
indebolire ancora di più un’economia tedesca, ed europea, già in difficoltà
(Editorial, 2025). Invece degli errori sottolineati da Munchau il nuovo governo
sembra incline a farne di nuovi.
Certo,
l’allentamento del freno al debito permetterà di concentrare delle risorse
importanti sul decrepito sistema infrastrutturale del Paese e ciò appare una
cosa positiva, così come appare positivo il previsto aumento del salario
minimo, sia pure annunciato in due tempi.
Ma il
forte accento messo soprattutto sull’aumento delle spese militari mostra il
tentativo di nascondere l’incapacità di pensare ad una nuova politica economica
adeguata;
quella dell’investire sulle armi appare in
sostanza una costosa diversione dalla necessità di costruire un’economia del
XXI secolo.
Il problema fondamentale dell’economia tedesca
appare in effetti quello di trovare il modo di inserirsi in maniera almeno
dignitosa nei settori ad alte tecnologie, traguardo a cui oggi il Paese e la
stessa UE sono ancora lontane.
Su questo fronte le proposte languono.
Sul
fronte esterno invece la ribadita e cieca fedeltà agli Stati Uniti e l’ostilità
che traspare, oltre che verso la Russia, verso la Cina, mentre più in generale
i rapporti con il resto del Sud del mondo restano su uno sfondo lontano,
mostrano di nuovo un atteggiamento ottuso e controproducente, seguito anche da
parte dell’UE. Naturalmente poi la politica di immigrazione del nuovo governo
appare ripugnante.
Sulla
base di tali premesse, chi scrive si sente di dire che presumibilmente il lento
declino economico della Germania e dell’UE proseguirà indisturbato, mentre si
accentuerà l’irrilevanza politica delle due entità nel contesto mondiale.
Germania:
turno a Merz,
carte
decisive.
Ispionline.it
– Beda Romano – (1° luglio 2025) – Redazione – ci dice:
Il
nuovo cancelliere tedesco punta su maggiore debito e riarmo.
Ma la coalizione di governo resta fragile e la
vocazione europeista è chiamata a passi dimostrativi più importanti.
“Friedrich
Merz” è diventato in primavera all’età di 69 anni il decimo cancelliere della
Repubblica federale, alla guida di un’ennesima grande coalizione
democristiana-socialdemocratica.
La sua elezione suscita sentimenti
contrastanti.
Preoccupazione
per via dell’incertissimo contesto politico tedesco.
Speranza,
ma anche grande prudenza sul fronte europeo.
Quanto
riuscirà il nuovo cancelliere a ridare slancio all’economia tedesca, rivedere i
rapporti con gli Stati Uniti, cavalcare nuove forme di integrazione europea?
Un
inizio movimentato.
Questi
sentimenti si riflettono nei primi passi del nuovo governo.
Prima ancora di essere eletto in parlamento,
Friedrich Merz è riuscito a far adottare da esso una storica riforma
costituzionale che permetterà al Paese di indebitarsi ben oltre i livelli
consentiti dal Schuldenbremse (“freno al debito”). L’operazione è stata un
evidente successo politico.
Il
cancelliere è riuscito a coalizzare una maggioranza dei due terzi del
Bundestag. Oltre alla CDU-CSU e all’SPD hanno votato a favore anche i verdi.
Il
dato è interessante perché mette in luce la debolezza della maggioranza di
governo.
C’era
un tempo quando democristiani e socialdemocratici dominavano il Bundestag.
Oggi controllano una maggioranza
risicatissima.
D’altro canto, si sono moltiplicati i partiti
presenti nella Camera bassa. Gradualmente, a conferma di una frammentazione del
quadro politico, sono saliti a sei.
CDU-CSU
ed SPD contano appena 328 deputati su 630 (il 52% del totale).
In passato la “Grosse Koalition” era sostenuta
da maggioranze assai più ampie (a titolo di esempio: nel 1966-1969 di 447 seggi
su 496, nel 2005-2009 di 448 seggi su 614, nel 2013-2018 di 504 seggi su 631).
Non
per altro, per la prima volta nella Storia tedesca del dopoguerra, il
cancelliere non è stato eletto al primo turno.
Incredibilmente
Merz ha avuto bisogno di un secondo scrutinio in parlamento prima di recarsi
finalmente allo “Schloss Bellevue” e giurare nelle mani del capo dello Stato.
In una prima tornata il leader democristiano
ottenne appena 310 voti, rispetto alla maggioranza richiesta di 316.
Successivamente
in una seconda imbarazzante tornata riuscì a strappare 325 voti. I
franchi-tiratori hanno espresso chiaramente dubbi sia sul programma della
“Grosse Koalition” che sul cancelliere stesso, un uomo tornato alla politica
dopo un decennio negli affari.
Eppure,
il nuovo cancelliere ha assicurato di voler ridare alla Germania “le sue
responsabilità di leader in Europa, insieme agli altri Paesi membri
dell’Unione”. Guardiamo innanzitutto al fronte interno.
Riuscirà il nuovo governo a ridare dinamismo
all’economia tedesca?
Il
programma di governo è ricco di ambiguità e di compromessi.
C’è l’obiettivo di ridurre le tasse sulle
società, introdurre detrazioni fiscali per chi acquista macchinari e altre
attrezzature, abolire la legge che impone sostenibilità nelle filiere
internazionali delle grandi aziende.
La
maggioranza è fragile, l’economia è debole, Alternative für Deutschland è forte
e i rischi di inciampare sono molti, tanto più che sul fronte migratorio la
stretta chiesta dai democristiani non fa l’unanimità tra i socialdemocratici.
Più in
generale, il nuovo governo ha deciso di giocare la carta dell’indebitamento,
non solo nella difesa, come vedremo, ma anche nell’economia, pur di
modernizzare vecchie infrastrutture.
Resta
da capire se il volano sarà prevalentemente nazionale o se la Repubblica
federale si appoggerà anche sugli strumenti europei.
In
visita a Bruxelles nel maggio scorso il nuovo cancelliere non ha preso
posizione sull’ipotesi di nuovo debito in comune pur di sostenere
l’indispensabile revisione del modello economico tedesco, alla ricerca di un
nuovo equilibrio tra ambiente e industria:
“Nuovo debito europeo deve essere una
eccezione (…)
Lo dicono anche i Trattati europei”, ha
affermato.
Poi però ha aggiunto: al di là delle
“differenze di opinione” tra la Germania e i suoi partner, “non voglio
pregiudicare delle discussioni all’interno del governo e con la Commissione
europea”.
Nella
sua raccolta di ricordi (Mémoires, Plon, 2004)” Jacques Delors” (1925-2023)
racconta che, da presidente della Commissione europea al momento
dell’unificazione della Germania, propose all’allora cancelliere, “Helmut
Kohl”, di partecipare ai costi dell’unificazione con fondi comunitari.
Scrive
“Jacques Delors”:
“Proposi
a Kohl un aiuto fuori norma, più sostanzioso di quello stabilito dalle
disposizioni legali previste dalla coesione economica e sociale.
Stavo
per presentare la proposta dinanzi al Consiglio europeo a Dublino.
Il
cancelliere me ne dissuase: ‘Jacques, ho già sufficienti difficoltà, per via
delle preoccupazioni dei miei partner. Non voglio peggiorare la situazione’”.
Nota
ancora l’allora presidente della Commissione europea:
“Non
potei quindi dare seguito alla mia idea.
Oggi,
non posso impedirmi di notare che abbiamo tutti pagato indirettamente la nostra
fetta di riunificazione tedesca, subendo sulla nostra crescita le conseguenze
dei tassi d’interesse elevati praticati in Germania”.
Dietro
alla scelta tedesca si nascondeva un’implicita, malcelata, surrettizia forma di
orgoglio nazionale, o più semplicemente di nazionalismo economico.
C’era
il desiderio di fare da sé.
Nei
fatti c’è il rischio che la Repubblica federale scelga lo stesso cammino e ci
faccia correre lo stesso pericolo.
Tra le
altre cose, molto dipenderà dal fatto se Friedrich Merz abbia utilizzato con la
modifica costituzionale tutto il capitale politico a sua disposizione.
Le
scelte difficili davanti.
Proviamo
per un attimo a essere ottimisti.
Tre fattori potrebbero indurre la Germania a
giocare la carta europea.
Il primo è relativo al bilancio comunitario
del prossimo settennato 2028-2034: nuovo debito in comune potrebbe aiutare a
risolvere la complessa equazione che i governi sono chiamati a risolvere.
Il
secondo elemento è relativo al desiderio tedesco di rafforzare il ruolo
internazionale dell’euro.
Solo con ulteriore debito in comune si può
pensare di promuovere seriamente la moneta unica sui mercati mondiali.
Infine,
maggiore collaborazione europea anche in campo finanziario potrebbe essere
utile a una Germania che in particolare nella difesa ha accumulato un ritardo
decennale, anche in termini di expertise.
Gli
elementi a favore di un maggiore coinvolgimento europeo ed europeista della
Repubblica federale sono tutti presenti.
Gli
Stati Uniti del presidente Donald Trump hanno preso una deriva unilaterale e
forse anche autoritaria.
La
guerra russa in Ucraina e più in generale l’incerta situazione internazionale
inducono alla creazione di una difesa comune.
L’agguerrita concorrenza cinese esorta
all’autonomia strategica e a nuove forme di sovranità europea.
In
ultima analisi, un’ulteriore integrazione europea sarebbe la risposta più
naturale e più efficace agli scombussolamenti mondiali.
Merz
ne sembra consapevole.
In febbraio, all’indomani della vittoria alle
elezioni federali, aveva spiegato che la “priorità assoluta” della Germania è
di rafforzare la difesa europea fino a raggiungere “progressivamente
l’indipendenza rispetto agli Stati Uniti”.
Atlantista di formazione, il nuovo cancelliere
aveva ammesso che l’attuale dirigenza americana è “largamente indifferente al
destino dell’Europa”.
Aveva
poi aggiunto: “Non mi faccio alcuna illusione su ciò che sta accadendo in
America”.
Infine, aveva evocato la nascita di una
capacità di difesa europea autonoma, in alternativa “alla NATO nella sua forma
attuale”.
In
poche settimane il nuovo cancelliere ha imposto una svolta alla Germania,
modificando la Costituzione e permettendo nuovo debito per investire sia in
infrastrutture che in difesa.
Di
recente, la presidente dell’Ufficio federale per l’acquisto di armamenti “Annette
Lehnigk-Emden” ha spiegato che le forze armate si sono date tre anni per
acquistare i mezzi necessari in modo da difendersi da una invasione russa, che
la Bundeswehr ritiene possa avvenire dal 2029 in poi.
Nel
2024 le forze armate tedesche contavano 180mila uomini.
Il
ministro della Difesa “Boris Pistorius” punta a reclutare altri 50-60mila
soldati. Nel frattempo, il presidente dell’Ufficio federale per la protezione
civile “Ralph Tiesler”sta costruendo bunker per proteggere la popolazione in
caso di attacco, repertoriando gallerie, tunnel, cantine, parcheggi sotterranei
e stazioni della metropolitana.
L’obiettivo
di Merz è di creare “l’esercito convenzionale più potente d’Europa”.
A
tutta prima le intenzioni appaiono positive.
Quante volte in passato abbiamo rimproverato
alla Germania di non volersi assumere il ruolo che le spetta in Europa?
Il
Paese non è più una “grande Svizzera”, come veniva chiamato in passato, e sta
finalmente accettando responsabilità politiche ed economiche che per decenni
aveva evitato.
La
nuova America di Donald Trump è riuscita a scuotere l’establishment tedesco dal
suo dormiveglia.
C’è
sempre la convinzione che senza la Germania una nuova sovranità europea anche
in campo militare sia impossibile.
Eppure,
il riarmo della Repubblica federale – perché di questo in fondo si tratta – non
può avvenire in un vuoto politico.
Al
centro del continente il Paese è sempre stato oggetto di un drammatico dilemma.
Storicamente,
è stato o troppo debole (come nel Seicento e nel Settecento) o troppo forte
(come alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento).
Le
altre potenze si sono coalizzate contro la Germania o sono state dominate da
essa.
Nel
Seicento e nel Settecento il Paese era alla mercé della Francia e dell’Austria.
Nell’Ottocento e nel Novecento l’Europa era sotto il giogo di Berlino.
Per
molti versi la Storia europea dimostra come la stabilità del continente sia
funzione soprattutto della forza della Germania.
Dalla
fine della Seconda guerra mondiale e poi successivamente dopo la caduta del
Muro di Berlino le straordinarie energie tedesche sono state convogliate dalla
doppia presenza dell’alleanza americana e del progetto europeo.
Da un
lato, la Germania ha affidato la propria sicurezza agli Stati Uniti.
Dall’altro,
ha incanalato la sua forza economica prima nel mercato comune e poi nella
moneta unica.
Il
nuovo riarmo tedesco ha già provocato i primi interrogativi sul fronte
finanziario.
I nuovi previsti investimenti tedeschi avranno
certo un impatto positivo sull’economia europea, ma c’è il rischio di provocare
un generalizzato aumento dei tassi d’interesse e soprattutto di contribuire a
un’Unione europea sempre confederale, quando il momento richiederebbe un salto
federale.
Il rischio di nuove tensioni finanziarie,
simili a quelle scatenate dalla crisi debitoria in Grecia, non può essere
sottovalutato.
Dubbi
poi potrebbero emergere anche sul fronte politico.
Il progetto europeo è poggiato per 70 anni su
delicati equilibri, anche militari. L’ombrello americano non ha consentito solo
agli Stati europei di concentrare la spesa pubblica su welfare e previdenza.
Ha anche avuto un ruolo nel compensare agli
occhi dei tedeschi la” force de frappe” francese.
In
questo senso il disimpegno americano e il riarmo tedesco impongono alla coppia
franco-tedesca di trovare una nuova armonia, un nuovo ambito in cui possano
essere arginate le eventuali spinte centrifughe e nazionaliste.
“Jean
Monnet” (1888-1979) credeva fermamente che per evitare nuovi conflitti in
Europa fosse necessario mettere in comune la gestione dell’acciaio e del
carbone, le due materie prime che nei secoli avevano contribuito a numerose
guerre sul continente.
Nel
1952 nacque così la CECA.
L’uomo politico francese aveva ragione e da
allora il progetto comunitario ha fatto passi da gigante, successivamente con
la nascita della CEE e poi dell’Unione europea.
Oggi
la stessa comunità d’intenti e la stessa condivisione degli strumenti e dei
poteri appaiono urgenti per evitare tensioni finanziarie, per sfogare pressioni
nazionaliste, per prevenire corse al riarmo e squilibri pericolosi.
Il ragionamento di Jean Monnet rimane
straordinariamente attuale.
(Beda
Romano).
(Corrispondente
da Bruxelles, Il Sole 24 Ore).
Il
Whatever it Takes
della
Germania.
Salto.bz
- Simonetta Nardin – (26 – 3 -2025) – Tonia Mastrobuoni - ci dicono:
I
cambiamenti delle posizioni tedesche su debito e alleanze atlantiche e le
ripercussioni per l’Europa.
Il significato di un pacchetto straordinario
di investimenti in difesa e infrastrutture nell'analisi della corrispondente di
Repubblica “Tonia Mastrobuoni.”
Tonia
Mastrobuoni arriva a Bolzano con la febbre ma, da vera professionista, mantiene
fede alla promessa di un incontro prima della presentazione al “Raiffeisen
Presseempfang”.
Tema:
la nuova situazione geopolitica in Europa.
È un
tema che Mastrobuoni conosce molto bene:
corrispondente
dalla Germania, prima della Stampa e ora di Repubblica, segue attentamente le
vicende europee dal 2011, anno in cui cominciò a seguire la Banca Centrale
Europea (BCE) sotto la presidenza di Mario Draghi, per poi trasferirsi a
Berlino nel 2014.
È
quindi la persona ideale per discutere dei profondi cambiamenti che hanno
attraversato il paese, simbolicamente rappresentato dal Whatever it Takes del
cancelliere Friedrich Merz, che ha preso in prestito proprio le parole dell’ex
presidente della BCE per dire che avrebbe fatto “qualunque cosa” e abbandonato
la cautela fiscale per sostenere la Germania e l’Europa nel nuovo quadro
geopolitico segnato dalla minaccia russa e dal disimpegno americano.
SALTO:
Mastrobuoni,
per un’attenta osservatrice della Germania come lei questo cambiamento cosa
significa?
Tonia
Mastrobuoni:
Quella
del cancelliere Merz è una vera e propria rivoluzione.
Lo
dimostra già il fatto che abbia usato la frase simbolo di un uomo molto odiato
in Germania come Draghi, che nell'ortodossia tedesca è considerato colui che ha
svenduto l'euro, che ha mantenuto troppo a lungo i tassi di interesse bassi
‘perché l'inflazione incombe sempre’.
Sappiamo
che sono tutte sciocchezze teoriche perché poi il mercato negli anni della
crisi dell’euro è stato inondato da un'enormità di liquidità e l'inflazione non
c'è mai stata (è arrivata poi con il COVID e l’invasione russa dell’Ucraina).
In più reggeva questo tabù del debito.
Nel 2009 la Germania aveva deciso di iscrivere
nella propria Costituzione un freno al debito con il limite del disavanzo di
0,35% del prodotto interno lordo (PIL) al bilancio federale.
La Germania ha sempre mantenuto fede a questo
principio e in effetti adesso si ritrova con un debito al 63% del PIL.
Ma
l'austerità non l'ha applicata solo a se stessa, l’ha imposta anche agli altri
paesi negli anni della crisi dell’euro.
Pensa
che il cambiamento interno possa riflettersi anche sull’atteggiamento nei
confronti delle politiche fiscali europee?
Vedere
oggi la Germania che dice ‘abbiamo fatto un errore clamoroso e dobbiamo in
qualche modo emendare questo freno al debito per liberare risorse per la nostra
economia, e investire in un pacchetto da 500 miliardi per le infrastrutture' è
una buona notizia.
Questo
consente forse all’Europa di avere un po' più di spazio di manovra - anche se
l'Italia sa benissimo che con un debito al 135% del PIL non può permettersi di
fare la stessa cosa della Germania.
E
anche dal punto di vista geopolitico credo che Merz si allineerà molto
rapidamente a questo direttorio che si è creato intorno a una ‘coalizione dei
volenterosi' a trazione franco-britannica, che sta cercando di proteggere
l'Europa e l’Ucraina e di trovare rapidamente delle soluzioni per andare avanti
sulla difesa europea.
Ci aspettiamo che la Germania sia più generosa
con i paesi che chiedono di avere le stesse opportunità senza avere gli spazi
fiscali per farlo:
l’Italia
deve avere la possibilità per spendere soldi per la difesa e l’Europa deve dare
più spazio anche ai singoli paesi per farlo.
Perché
fa un po’ specie pensare oggi alle misure di austerità imposte dall’Europa a
guida tedesca ai paesi indebitati come la Grecia durante la crisi dell’euro.
Tonia
Mastrobuoni è nata a Bruxelles nel 1971, dove si erano conosciuti i genitori -
la madre tedesca lavorava alla Commissione europea mentre il padre era
corrispondente dell’ANSA.
Cresciuta
a Roma, ha scritto numerosi libri tra i quali” L' inattesa. Angela Merkel”.
“Una biografia politica” (2021) e “L'erosione”.
“Come
i sovranismi stanno spazzando via la democrazia in Europa” (2023), entrambi
editi da Mondadori.
Sta
lavorando ora a un libro inchiesta sulla destra in Germania che uscirà per
Feltrinelli.
Come
si è arrivati a questo cambiamento e ad una cifra così alta per gli
investimenti?
Dal
punto di vista puramente politico i socialdemocratici della SPD hanno fatto una
cosa molto interessante.
Hanno detto va bene, caro Merz, tu vuoi i tuoi
500 miliardi per aumentare la spesa della difesa fuori dal debito, benissimo,
però ci dai 500 miliardi per gli investimenti nell’economia e nelle
infrastrutture.
Così
contraddicono quelli che dicono che si pensa solo alla difesa e nessuno pensa
più al sociale, all'economia, alle scuole fatiscenti: beh, la SPD ci ha
pensato.
Certo, è in una posizione comoda perché sta
andando al governo con la CDU e si trova in una posizione negoziale più
favorevole rispetto, ad esempio, al Partito Democratico in Italia.
Tuttavia,
c'è un altro aspetto da considerare.
In
Italia si usa spesso l'argomento secondo cui bisogna scegliere tra il riarmo e
la spesa sociale.
Ma chi l'ha detto che sia davvero così?
Sarà
interessante capire se ci sarà una vera e propria riforma per le spese della
difesa o se a questo punto il capitolo si chiude - e quindi se significa che
anche in Europa Merz è disponibile ad ascoltare i paesi che chiedono che gli
investimenti nella difesa vengano finanziati con gli eurobond.
Perché
bisogna dare ragione a chi dice che oggi bisogna fare un piano con gli eurobond
per compensare anche un po' questo maxi-piano tedesco, altrimenti potrebbe
creare un enorme squilibrio in Europa, con l’accelerata dell'economia tedesca
rispetto alle altre economie.
Ma certo gli investimenti servono, eccome -
basta pensare che ora in Germania si leggono moltissimi articoli che parlano di
come funzionano bene i treni italiani rispetto a quelli tedeschi.
E
anche scuole e strade hanno un enorme bisogno di investimenti!
In
Italia si usa spesso l'argomento secondo cui bisogna scegliere tra il riarmo e
la spesa sociale. Ma chi l'ha detto che sia davvero così?
Un
cambiamento nell’atteggiamento di Merz in geopolitica si è notato con
l’inasprimento delle posizioni contro l’Europa dell’amministrazione americana….
Senz’altro.
Il
primo trauma è stato il discorso del vice presidente americano JD Vance alla
Conferenza sulla sicurezza di Monaco il 14 febbraio scorso (quando ha detto che
in Europa il pericolo veniva da dentro e non dalla Russia, ndr), seguito dal
suo incontro con il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD).
Il secondo è stato la scena incresciosa alla
Casa Bianca di umiliazione pubblica del presidente ucraino Zelensky da parte
del presidente Donald Trump e Vance.
Così
questo brutale esordio degli americani in Europa (confermato dalle recenti
rivelazioni sulla “chat di Signal” che dimostra il totale disprezzo che hanno “Vance”
e il segretario alla difesa americano “Pete Hegseth” per l’Europa) ha
trasformato colui che si annunciava come il segretario più atlantista di sempre
della CDU in uno che ha capito che la tradizionale alleanza degli Stati Uniti
con l’Europa era finita e occorreva trovare altre strade.
Ma il
cambiamento nei confronti della Schuldenbremse era già nell’aria, anche se Merz
non ne aveva parlato in campagna elettorale?
Il
cambiamento doveva arrivare, e Merz lo sapeva.
Dopo
che un rigorista come l’ex ministro delle Finanze “Christian Lindner” aveva
usato quella che da noi in Italia chiameremmo “finanza creativa” per aggirare
la Schuldenbremse (mossa bocciata poi dalla Corte costituzionale tedesca), il
governo ha vivacchiato per 11 mesi ed è poi caduto proprio sulla spesa
pubblica.
Merz stesso aveva detto mille volte durante la
campagna elettorale stiamo entrando nel terzo anno di recessione, abbiamo
bisogno di tagliare le tasse, abbiamo bisogno di fare questo e quello, ha messo
su un costosissimo programma elettorale, e come poteva finanziarlo quando
risparmiare non si può più?
Secondo
me lui una riforma ce l'aveva in testa, e infatti non ha mai escluso di farlo,
dicendo però che non era il momento.
Ora gli elettori glielo rinfacciano, ma
sarebbe sbagliato dire che ha mentito, è stato possibilista, ha detto per me
non è una priorità in questo momento - ma poi con i cambiamenti drammatici in
America ha capito l'urgenza del quadro politico e ha agito.
L'atteggiamento
italiano nei confronti dell'Europa.
Che
problemi vede con la posizione attuale italiana sulla situazione geopolitica?
In
Germania anche i più cauti politici della CDU in questo momento pensano che
bisogna trovare un'unità europea per affrontare insieme questo cambiamento
epocale, anche per contrastare la minaccia russa.
Minaccia
che viene sentita molto di più in Germania:
in Italia, mi sembra ci sia molta meno
consapevolezza del pericolo russo.
Siamo stretti tra la Russia e l'America in
questo momento, per questo la posizione della premier Meloni è incomprensibile:
in questa Europa che sta convergendo, in cui
ci sono anche dei leader molto abili come il premier inglese “Starmer”, che sta
cercando di tenere i piedi in due staffe, i funambolismi italiani sono
ridicoli.
Meloni non ha leverage, non ha leve su Trump,
e se si illude ancora di averle, questo è un problema.
Se si
tiene in disparte rispetto ad un'Europa che si sta ricompattando l'unica cosa
che provoca è diffidenza - un sentimento che troppo spesso vediamo in Europa
verso l’Italia.
Meloni
non ha leve su Trump, e se si illude ancora di averle, questo è un problema.
Come giudica il sostegno di Elon Musk all’AfD prima
delle elezioni del 23 febbraio?
Gli
ultimi sondaggi subito prima delle elezioni davano l’AfD al 22 per cento, alla
fine hanno preso il 20…
Ero al
quartiere generale della AfD la sera delle elezioni e ho visto le facce
deluse….
Io
stessa pensavo che sarebbero arrivati al 25 per cento:
andando
in giro per i comizi c'era una partecipazione impressionante, soprattutto da
parte della classe media - una partecipazione molto diversa rispetto a 10 anni
fa.
Però
io ho avuto l'impressione netta che tutto quel tifo sfegatato di Elon Musk per
la leader” Alice Weidel”, che è cominciato a metà dicembre, quando l’AfD
viaggiava intorno al 19 per cento, all'inizio forse le ha regalato un punto ma
poi basta, è rimasta a quei Livelli, finendo con al 20 per cento.
È stato un mezzo flop, non ha fatto guadagnare
un elettore in più alla AfD.
Ha
fatto invece crollare la vendita della Tesla in Germania del 70% (rispetto a
una perdita del 40% in tutta Europa): ha fatto imbestialire i suoi acquirenti
tradizionali che le compravano per istinto ecologico.
Che
ruolo hanno avuto i Verdi in questi negoziati?
I
Verdi hanno avuto un ruolo eccezionale nel negoziato con Merz per chiudere
l'accordo sul Sondervermögen, perché dopo essere stati tenuti fuori goffamente
da Merz sono rientrati dalla finestra, si sono messi al tavolo e hanno
negoziato delle cose molto intelligenti.
La
prima:
hanno strappato alla SPD che dei 500 miliardi di investimenti 100 miliardi
andranno al fondo per il clima.
Poi
hanno imposto alla CDU una riscrittura della modalità con cui verranno
investiti i soldi nel riarmo, dicendo:
non
vogliamo che riarmo significhi solo soldi nella Bundeswehr, per noi la difesa
vuol dire difesa contro il cyberterrorism, il rafforzamento della protezione
civile, e il rafforzamento dei servizi segreti.
I
Verdi tedeschi, infatti, dopo essere stati sotto osservazione dai servizi
segreti nei primi decenni della loro esistenza, negli ultimi anni hanno
sviluppato un rapporto di fiducia molto forte con questi stessi servizi.
Secondo
i Verdi,
queste strutture garantiscono la sicurezza del Paese, anche quella civile, e
vanno tutte rafforzate.
Per
questo ritengono che non sia sufficiente destinare fondi solo all'esercito e
agli armamenti, un cambiamento significativo e intelligente che sono riusciti a
ottenere.
Terzo, hanno inserito nell’accordo per il
famoso piano di investimenti una
parolina fondamentale, che è zusätzlich - hanno infatti ottenuto che questi
investimenti siano zusätzlich.
Perché
è importante?
Perché i Verdi avevano già capito che facendo
un po' il gioco delle tre carte, il nuovo governo avrebbe spostato fondi e
coperto con questi soldi da spendere a debito, e quindi hanno detto, questi
sono problemi che vi risolvete a prescindere, per tutte le spese che avete già
preventivato dovete trovare voi i finanziamenti, però dovete inventarvi dei
progetti aggiuntivi su cui investire 500 miliardi di euro.
Per
evitare che alcune cose che aveva chiesto la CSU, come ad esempio il taglio
dell’ IVA per i ristoratori, venissero finanziate a debito, hanno insistito nel
chiedere che tutti questi soldi siano per progetti nuovi, aggiuntivi.
Quindi
i Verdi hanno avuto un ruolo fondamentale in questa fase molto importante, si
sono dimostrati, come fanno da anni, una forza politica razionale, forse la più
razionale che c'è adesso.
Il
problema è questo attacco che arriva da destra e anche dai partiti centristi, i
Verdi hanno sofferto enormemente di una campagna di odio, di attacchi che
vengono ormai non solo più dall'estrema destra come l’AfD ma anche dalla CDU e
dalla CSU, che hanno massacrato i Verdi in campagna elettorale, come fossero
loro il nemico e non la AfD.
La
Cassazione a sezioni unite dice che nel caso Diciotti l'Italia ha trattenuto
illegalmente i migranti e dovrà risarcire il danno non patrimoniale.
Unipd-centrodirittiumani.it
– Paolo De Stefani – (8 marzo 2025) – ci dice:
Sommario.
Alcuni
casi collegati: i procedimenti penali “Gregoretti” e “Open Arms” contro il
Ministro dell’Interno Salvini .
Il
ricorso contro le sentenze del tribunale e della Corte d’appello di Roma.
Il
divieto di sbarco non è un atto politico
L’errore
inescusabile dell’amministrazione dello Stato.
Una
violazione della libertà personale. Il caso Khalifia davanti alla Corte europea
dei diritti umani.
Il
danno come conseguenza della privazione della libertà personale e il diritto al
risarcimento.
Conclusioni.
Separare la dialettica politica dalle misure che incidono sui diritti umani.
La
Cassazione, a sezioni unite civili, con ordinanza pubblicata il 6 marzo 2025
(R.G.N. 17687/2024), ha accolto il ricorso presentato da M.G.K., cittadino
eritreo, contro la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1803 del 13 marzo
2024 che aveva respinto la domanda di risarcimento danni non patrimoniali
presentata dal ricorrente insieme ad altri connazionali conseguenti al loro
trattenimento in condizione di detenzione a bordo della nave “Diciotti” della
Guardia Costiera italiana tra il 16 e il 25 agosto 2018.
Secondo
la Cassazione, il ricorrente ha diritto a un risarcimento, che dovrà essere
definito dalla stessa Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
La
decisione delle Sezioni Unite della Cassazione interviene su una controversia
che ha visto coinvolti, in separati giudizi, anche esponenti del governo
italiano che, nell’agosto 2018, avevano imposto di bloccare l’accesso ai porti
italiani di migranti irregolari tratti in salvo da navi dello stato o
imbarcazioni di ONG umanitarie.
Sulla
vicenda della nave “Ugo Diciotti” era infatti stata ipotizzata la
responsabilità penale per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio
dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini.
La
sezione del tribunale di Catania competente per i reati ministeriali aveva
chiesto il rinvio a giudizio per l’esponente politico, ma il 19 marzo 2019 il
Senato (ramo del Parlamento in cui il Ministro Salvini era stato eletto) aveva
votato per la sua immunità.
Alcuni
casi collegati: i procedimenti penali “Gregoretti” e “Open Arms” contro il
Ministro dell’Interno Salvini.
È
utile ricordare che Il caso relativo alla nave “Diciotti” si ricollega a quelli
riguardanti altre occasioni in cui il governo italiano aveva impedito lo sbarco
sul territorio nazionale di migranti soccorsi in mare, in attuazione di norme
adottate tra il 2018 e il 2019. In particolare, ciò era avvenuto per la nave
“Gregoretti”, vascello della Guardia Costiera italiana con a bordo circa 60
migranti imbarcati il 25 luglio 2019, e
per una nave operata dalla ONG spagnola “Proactiva Open Arms”, che tra il 1 e il
20 agosto 2019 ha dovuto trattenere a bordo circa 150 migranti a cui era
impedito l’accesso al territorio italiano per ordini promananti da esponenti
governativi.
Nel
caso “Gregoretti”, il “tribunale dei ministri” competente, quello di Catania,
aveva richiesto il rinvio a giudizio del ministro dell’Interno Salvini,
ottenendo dal Senato l’autorizzazione a procedere nel febbraio 2020; il
procedimento si era poi chiuso con sentenza di non luogo a procedere da parte
del giudice dell’udienza preliminare di Catania, perché “il fatto non
sussiste”.
Anche nel caso nato intorno alle operazioni di
soccorso della nave della ONG “Open Arms”, il Senato aveva negato l’immunità
all’esponente del governo (voto del 30
luglio 2020); nell’aprile 2021, il giudice dell’udienza preliminare aveva
disposto il rinvio a giudizio del Ministro Salvini per i reati di sequestro di
persona e rifiuto di atti d’ufficio.
Il
ministro è stato poi prosciolto in primo grado dal tribunale di Palermo con
decisione del 20 dicembre 2024, sempre con la formula “perché il fatto non
sussiste”.
Il
ricorso contro le sentenze del tribunale e della Corte d’appello di Roma.
Nel
2018, M.G.K. e altri cittadini eritrei erano a bordo della “Diciotti”, presenta
un ricorso al tribunale di Roma per ottenere dal governo italiano il
risarcimento dei danni subiti a causa del forzato trattenimento a bordo della
nave tra il 16 e il 25 agosto 2019.
Il tribunale respinge il ricorso, affermando
che la scelta del governo di ritardare l’indicazione del luogo sicuro per lo
sbarco dei migranti e poi di non consentire per alcuni altri giorni lo sbarco
stesso nel porto prescelto di Catania doveva considerarsi un “atto politico”,
motivato dalla necessità di gestire la tensione tra Italia e Malta circa i
rispettivi obblighi di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali e di
rivedere le regole dell’Unione Europea in materia di ripartizione degli oneri
di accoglienza dei migranti irregolari in arrivo sul territorio europeo. Su
tale scelta, la giustizia italiana non poteva avere giurisdizione.
La
sentenza di primo grado è stata impugnata davanti alla Corte d’appello di Roma.
Quest’ultima, con sentenza n. 1803 del 13
marzo 2024 ha escluso che la decisione governativa di negare lo sbarco ai
migranti presenti sulla nave “Diciotti” potesse essere considerata un
insindacabile “atto politico”, qualificandola invece come atto di alta
amministrazione, richiesto dalle norme internazionali in materia di protezione
della sicurezza in mare (la convenzioni SOLAS e SAR).
La Corte, però, non riscontrava alcuna colpa
nella condotta del governo italiano e quindi respingeva la domanda di
risarcimento del danno.
Contro
questa decisione verte il ricorso di M.G.K., che denuncia la violazione degli
articoli 13 (libertà personale), 24 (accesso alla giustizia), 111 (giusto
processo) e 117.1 (rispetto dei trattati internazionali) della Costituzione,
dell’art. 5 della Convenzione Europea dei diritti umani (CEDU) (libertà
personale), dell’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE)
(libertà e sicurezza individuale), nonché gli articoli 7 e 14 della direttiva
2008/115/CE (direttiva rimpatri). Il fatto che per svariati giorni i ricorrenti
siano stati privati della libertà personale senza giustificazione legale è
motivo sufficiente per attribuire loro un risarcimento. Lo stato italiano, dal
canto suo, chiede che la Cassazione ribadisca che la scelta dell’allora governo
(in particolare del Ministro dell’Interno) di non indicare con prontezza il
“luogo sicuro” (“place of safety” – POS) in cui far sbarcare i naufraghi tratti
in salvo a completamento dell’operazione di search and rescue (SAR), nonché il
divieto di sbarco seguito all’indicazione come POS del porto di Catania deve
essere considerata come atto politico insindacabile, da cui non può derivare
nessun danno risarcibile.
L’attesa
dei migranti a bordo della nave militare italiana, infatti, si giustificava con
la necessità di giungere a un chiarimento politico con le autorità maltesi e
con i partner dell’UE circa le modalità di gestione delle operazioni SAR e di
“redistribuzione” dei migranti irregolari tra vari paesi europei.
Il
divieto di sbarco non è un atto politico.
Il
primo punto che le sezioni unite della Corte di cassazione affrontano è quindi
stabilire il carattere “politico” della scelta fatta dal governo italiano di
non permettere lo sbarco dei migranti.
Un
atto politico in senso stretto, secondo la Cassazione, deve rivestire specifici
caratteri soggettivi e oggettivi, ed è per sua natura eccezionale.
Dal
punto di vista soggettivo, deve provenire da un organo preposto all'indirizzo e
alla direzione della cosa pubblica al massimo livello.
Dal
punto vi sta oggettivo, deve essere un atto libero nel fine e riguardare la
vita dei pubblici poteri dello stato.
La
qualifica di un atto come “politico” deve essere intesa come eccezionale.
In effetti, gran parte degli atti di un
governo sono soggetti a qualche norma di legge, in particolare quando incidono
su diritti individuali.
Sono quindi generalmente soggetti al controllo
giurisdizionale.
La
Cassazione quindi conclude che il diniego di indicare il POS e il successivo
divieto di sbarco imposto ai migranti non possono essere considerati atti
politici in senso oggettivo, sottratti al controllo giudiziario, poiché, benché
rientrino in un disegno attribuibile ai vertici del governo e specificamente
ascrivibili al Ministro dell’Interno, comunque non attengono “alla direzione
suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue
istituzioni fondamentali”.
Sono quindi atti amministrativi, ancorché
ispirati da finalità politiche, e non possono essere sottratte a un giudizio di
legittimità.
In
questo caso, poiché l’atto incide su diritti soggettivi di valore
costituzionale, la sua legittimità è valutata dal giudice civile.
L’errore
inescusabile dell’amministrazione dello Stato.
Il
passo successivo riguarda l’accertamento di una “colpa” in capo all’istituzione
statale che ha agito. Secondo la Corte d’appello, lo Stato non è in colpa in
quanto, da un lato, la normativa internazionale in merito alla indicazione del
POS è complessa e non univoca, per cui i giorni impiegati per effettuarla non
possono essere considerati irragionevoli; dall’altro, la normativa vigente non
impone un termine per definire il POS e procedere alle operazioni di sbarco.
A
parte il caso in cui vi sia un imminente pericolo di vita, gli individui tratti
in salvo non hanno un “diritto di sbarco” e lo Stato deve avere il tempo per
bilanciare tutti gli opportuni elementi (dinamiche internazionali e eventuali
accordi bilaterali, contrasto dell’immigrazione clandestina, tutela dell’ordine
pubblico, ecc.), oltre alle valutazioni tecniche e logistiche, pur essendo
naturalmente tenuto a contenere il più possibili il disagio per le persone
coinvolte.
Se ne
ricava che, pur avendo causato considerevoli disagi ai migranti, il loro
trattenimento sulla nave “Diciotti” non fa nascere una responsabilità per danno
ingiusto.
Secondo
le Sezioni Unite della Cassazione, però, tale impostazione non è quella
corretta. Il punto da cui partire, infatti, non è l’indicazione del POS e le
successive operazioni di sbarco, ma l’obbligo di soccorso in mare, stabilito
dalla consuetudine internazionale e ribadito nella normativa internazionale e
interna.
La
Convenzione SAR, in particolare, impone agli Stati che intervengono nel
salvataggio di naufraghi in mare di indicare un POS.
Di
questo è responsabile, per l’ordinamento italiano, il Ministro dell’Interno.
Un POS
è il luogo in cui, tra le altre cose, si possa esercitare il diritto di
chiedere protezione internazionale e si possano svolgere le procedure di
identificazione previste dall’art. 10-ter del Testo Unico sull’Immigrazione
(d.lgs 286/1998).
Una nave, per quanto si tratti di
un’imbarcazione della Guardia Costiera, non può essere considerata un POS (in
senso conforme: Cassazione penale, sent. 6626/2020, sul caso della nave “Sea
Watch” – v. Annuario 2021, p. 204-5; Yearbook 2021, p. 200-1).
L’indicazione di un POS è un atto
amministrativo che il Ministero è tenuto a effettuare senza ritardo;
l’identificazione della località di sbarco rientra nella discrezionalità delle
autorità di governo, che possono indicare un luogo diverso astrattamente più
plausibile, il più vicino al luogo dell’operazione di soccorso, per esempio,
dovendo prendere in considerazione molteplici esigenze “tecniche”.
Non è quindi corretto dire che le norme in
materia non sono chiare e univoche: lo sono, nella misura in cui non devono
essere condizionate da valutazioni di ordine politico, quali sono il controllo
dei flussi migratori o le politiche migratorie nazionali o europee.
Sono queste valutazioni politiche invece ad
avere ritardato di svariati giorni lo sbarco a Catania dei circa 150 migranti
tratti in salvo.
Proprio
queste considerazioni politiche dovevano rimanere estranee all’ambito
decisionale nel caso in questione.
È
questo l’errore inescusabile che le autorità italiane hanno commesso.
Una
violazione della libertà personale. Il caso” Khalifia” davanti alla Corte
europea dei diritti umani.
Queste
considerazioni assumono particolare rilievo alla luce del particolare valore
che il divieto di sbarco ha intaccato. Infatti, è stata compressa la libertà
personale, ed è la violazione di questo diritto fondamentale – un tema che
nella sentenza della Corte d’appello di Roma è quasi totalmente assente – ciò
che più conta, secondo la Cassazione, nel concludere per la illegittimità del
danno causato al ricorrente e quindi per il suo diritto a un risarcimento in
base all’art. 2043 del Codice Civile (responsabilità extracontrattuale per
danno ingiusto).
Il
trattenimento dei migranti sulla nave Diciotti ha infatti comportato una
lesione al diritto protetto dall’art. 13 Cost., nonché dagli articoli 5 CEDU, 6
CDFUE, 3 Dichiarazione universale dei diritti umani e 9 del Patto sui diritti
civili e politici.
L’art.
5 CEDU è particolarmente pertinente in questo caso, poiché le sentenze Khlaifia
e Altri c. Italia (della Camera, Khlaifia and Others v. Italy, no. 16483/12, 1
September 2015, e della Grande Camera, Khlaifia and Others v. Italy [GC], no.
16483/12, 15 December 2016; rispettivamente Annuario 2016, p. 207 e Annuario
2017, p. 242) hanno già chiarito come la “detenzione di fatto” dei migranti in
strutture di accoglienza (centri di assistenza temporanea di Lampedusa o navi
alla fonda nel porto di Palermo) non rispetti i requisiti di legalità e
legittimità fissati in forma tassativa dall’art. 5 CEDU alle limitazioni alla
libertà personale. Secondo la Cassazione, “l’insussistenza di un provvedimento
giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé
sufficiente ad affermare l’arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi
dell’art. 5 CEDU”, e quindi la sua contrarietà all’art. 13 Cost.
È
escluso infatti che il trattenimento dei migranti sulla “Diciotti” possa essere
inteso come “arresto o [...] detenzione regolar[e] di una persona per impedirle
di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è
in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione” (art. 5, lett. f)
CEDU).
Il
carattere arbitrario della misura, non fondata su atti formali, comporta una
violazione dell’art. 5 CEDU anche sul versante procedurale, in quanto le
modalità scelte rendono la misura restrittiva della libertà personale non
impugnabile in giustizia (art. 5.4 CEDU: “ogni persona privata della libertà
mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso a un
tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua
detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima”).
La
Corte di Cassazione critica, dunque, la conclusione della Corte d’appello di
Roma che non ha riscontrato nessuna negligenza o errore inescusabile nella
condotta della amministrazione statale (Ministero dell’Interno) che per dieci
giorni ha lasciato i ricorrenti in attesa di sbarco, in stato di detenzione di
fatto, e in condizioni incompatibili con il rispetto della dignità individuale,
nonostante l’evidente obbligo, derivante da esplicite norme internazionali, di
provvedere al più presto alla loro presa in carico in un luogo sicuro (fosse
questo il porto di Catania, dove la “Diciotti” è rimasta per cinque giorni, o
qualunque altro porto italiano).
È vero
che il Senato, nel 2020, ha votato l’immunità penale del Ministro dell’Interno,
il senatore Salvini, per i reati connessi alla vicenda della nave “Diciotti”,
tra cui il delitto di sequestro di persona.
Tale
decisione, insindacabile dal giudice, riguarda tuttavia solo la persona del
Ministro e la sua responsabilità penale.
Non può estendersi alla responsabilità della
pubblica amministrazione per un danno ingiusto cagionato agli individui oggetto
del fatto ingiusto, tanto più se il danno subito riguarda la lesione di un
diritto inviolabile come quello alla libertà personale.
Anche
su questo punto la sentenza della Corte d’appello di Roma è censurata, in
quanto invece di concentrarsi sulla distinzione tra responsabilità penale (del
Ministro) e civile (dell’amministrazione dello Stato), sembra creare una
(dubbia) separazione tra la responsabilità civile del ministro e quella
dell’apparato amministrativo statale.
Il
danno come conseguenza della privazione della libertà personale e il diritto al
risarcimento.
Il
danno non patrimoniale derivante dalla detenzione durata per circa dieci
giorni, non giustificata da alcuna ragione giuridicamente apprezzabile e
riconducibile a un errore dell’amministrazione, è dato dalle conseguenze
personali e sociali del mancato rispetto del diritto alla libertà personale.
Si
tratta di un danno che non richiede un onere di prova particolarmente gravoso,
essendo esperienza comune e agevolmente inferibile dai fatti il senso di
umiliazione e la sofferenza psicologica connessa al dover subire una
coercizione ingiusta della propria libertà.
Gli
ultimi paragrafi della sentenza sono dedicati alla trattazione di una seconda
difesa avanzata dallo Stato, i cui rappresentanti hanno segnalato che la Corte
d’appello non aveva affrontato l’eccezione con sui si contestava che taluni dei
ricorrenti fossero davvero dei naufraghi della “Diciotti”.
La Cassazione non ritiene che il punto sia
rilevante, poiché la sentenza impugnata aveva risolto la controversia su altre
basi, e comunque la questione dell’identità della persona a cui dovrà essere
eventualmente corrisposto il risarcimento potrà essere presentata al giudice
del rinvio.
Conclusioni.
Separare la dialettica politica dalle misure che incidono sui diritti umani.
La
sentenza della Cassazione ribadisce un punto che anche il giudice d’appello
aveva risolto nello stesso modo: la decisione di non concedere il porto
d’approdo alla nave “Diciotti” e divieto di sbarco imposto ai migranti che essa
aveva tratto in salvo non sono atti politici, bensì atti amministrativi che si
inseriscono in una procedura che il diritto internazionale e interno regolano
in modo chiaro e sufficientemente preciso, avendo come principio-cardine la
protezione della vita delle persone oggetto di salvataggio in mare e dei loro
diritti fondamentali.
Se ne
discosta per l’avere adottato un approccio più rigoroso nel valutare gli
obblighi delle autorità di governo nel dare seguito ai loro impegni
internazionali nei riguardi degli individui titolari di diritti fondamentali,
compreso quello alla libertà personale. Il perseguimento di obiettivi di
politica migratoria a livello nazionale o internazionale non possono
giustificare misure che si traducono in restrizioni illegittime ai diritti
individuali.
Se
tali misure sono prese, lo Stato è tenuto a risarcire le vittime per il danno
ingiusto da esse sofferto.
La decisione della Cassazione è in larga misura
debitrice della sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso
Khalifia e Altri c. Italia.
In
tale occasione, l’equo indennizzo deciso dalla Corte di Strasburgo a favore
delle persone oggetto di una detenzione “di fatto” per alcuni giorni contraria
all’art. 5 CEDU era stato di 2500 euro a testa.
Si
suppone che anche il giudice di rinvio, nel caso pronunci una sentenza a favore
di M.G.K., possa disporre un risarcimento a carico della Stato di analoga
entità.
(Paolo
De Stefani).
Tutte
le contraddizioni del governo
sulle
politiche migratorie.
Lavoce.info
- Maurizio Ambrosini – (25/10/2024) - Immigrazione – ci dice:
La
politica migratoria del governo Meloni naviga a vista tra opposte esigenze: la
chiusura delle frontiere, la solidarietà con l’Ucraina, l’apertura ai
lavoratori richiesti dal sistema produttivo.
L’accordo
con l’Albania rientra in questo quadro.
Tre
diverse politiche migratorie.
Il
governo Meloni inalbera la bandiera del sovranismo e della chiusura delle
frontiere verso i profughi, ma in realtà ha tre diverse politiche migratorie.
Più o
meno come gli altri governi europei, ma con una maggiore drammatizzazione, a
scopi essenzialmente propagandistici, che ne rende più acute le tensioni
interne, le contraddizioni, i conflitti con le norme costituzionali e
internazionali.
La
prima politica è quella più trascurata, spinta sotto il tappeto perché contraddice
l’immagine di una difesa granitica dei confini nazionali:
la prosecuzione della buona accoglienza dei
rifugiati ucraini, varata d’urgenza dal governo Draghi nel marzo del 2022, ma
continuata senza scosse anche sotto l’esecutivo di destra-centro.
Non si tratta precisamente di poche famiglie:
il
dato si aggira su una cifra di circa 150mila persone, un terzo del numero
complessivo dei rifugiati e richiedenti asilo accolti in Italia.
È vero che si tratta di una popolazione
formata essenzialmente da donne e bambini, che suscitano meno allarme e più
compassione;
che
l’accoglienza dei profughi è stata una reazione insieme politica ed emozionale
a un’aggressione ingiusta;
che
tutta l’Europa ne è partecipe, compresi i governi sovranisti dell’Europa
orientale.
Detto
tutto questo, l’accoglienza degli ucraini non è priva di costi per il bilancio
dello stato e senza conseguenze per i servizi sociali.
Nel caso italiano, come in Polonia o in
Ungheria, stride particolarmente il contrasto con la sorte riservata ai
profughi provenienti dal Sud del mondo.
La
seconda politica, anch’essa
non nuova ma rafforzata dal governo in carica, consiste nell’apertura nei
confronti degli ingressi di lavoratori.
Dall’uscita
dalla pandemia, e in qualche caso anche prima (Germania, Giappone), si avverte
in molte economie avanzate una diffusa carenza di manodopera per molte
occupazioni.
Non
solo di lavoratori altamente qualificati, già richiesti e ben accolti un po’
ovunque, ma pressoché sconosciuti in Italia, con la sola eccezione del settore
sanitario.
Pesa
il calo degli arrivi dai paesi neo-comunitari, come Polonia, Romania, Bulgaria,
che per circa vent’anni avevano fornito ai partner occidentali gran parte dei
lavoratori di cui avevano bisogno.
Già il
governo Draghi aveva alzato le quote d’ingresso e alleggerito le procedure,
gravate dall’ossessione securitaria, il governo Meloni, però, è andato oltre.
Ha previsto 452 mila nuovi ingressi in tre
anni, perlopiù per lavoro stagionale, ma anche per occupazioni stabili.
Ha
inoltre cercato di alleggerire ulteriormente i passaggi burocratici,
coinvolgendo le associazioni datoriali, ma senza avere il coraggio politico di
abolire il decreto flussi e la surreale lotteria dei click-day:
una specialità italiana, senza paralleli in
Europa.
Anche
nel secondo caso il governo italiano è in buona compagnia, ma spicca per
l’ampiezza dell’apertura, per le contraddizioni con i suoi indirizzi politici
generali, per la difficoltà a rendere operative ed efficienti le proprie
decisioni.
Dire
“vogliamo sceglierli noi”, come ripete la retorica governativa per contrapporre
lavoratori e rifugiati, non basta a risolvere i problemi.
Infatti,
non è che i lavoratori, una volta insediati anche provvisoriamente, si
astengano dall’esprimere domande sociali e culturali: basti pensare a ciò che
accade a Monfalcone, dove gli operai bangladesi della cantieristica, tutti
regolari, sono il bersaglio di politiche locali che cercano di negare loro il
diritto alla libertà di culto o alla pratica del gioco del cricket.
Tre
aspetti inoltre colpiscono.
Il
primo è
l’attivismo delle associazioni imprenditoriali, che dopo molti anni di
sostanziale silenzio o di prese di posizione scolorite in materia di politiche
migratorie, hanno preso apertamente la parola per chiedere maggiori aperture.
Il secondo è lo scarso senso pragmatico:
in
altri paesi, come Svezia, Germania, in parte Francia, i richiedenti asilo
diniegati possono essere assunti o inseriti in percorsi formativi finalizzati
all’assunzione, e a quel punto regolarizzati.
In
Italia si lamenta la mancanza di manodopera e si lasciano vegetare nel
sommerso, quando va bene, giovani atti al lavoro e desiderosi d’inserirsi.
L’ideologia prevale sugli interessi del paese e del sistema economico.
Il terzo aspetto è la ristrettezza della visione
sottostante ai decreti flussi. Richiamano la politica dei lavoratori-ospiti
della Germania degli anni Cinquanta e Sessanta.
Si
pensa soltanto all’ingresso di braccia, senza ragionare su misure di
integrazione linguistica, abitativa, familiare.
Il governo sembra dimenticare che insieme alle
braccia arrivano le persone, e poi anche le famiglie.
Non
appare azzardato prevedere che nell’arco di una decina d’anni, con i
ricongiungimenti familiari e le nuove nascite, l’apertura alle braccia comporti
l’insediamento di almeno un milione di nuovi residenti.
Chiusura
netta agli ingressi per ragioni umanitarie.
A
questo punto entra in scena la terza politica, quella della chiusura verso gli
ingressi per ragioni umanitarie.
Il
governo Meloni, costretto a rinfoderare la spada del sovranismo su altri e più
impegnativi dossier, come la solidarietà atlantica con l’Ucraina o il rigore di
bilancio richiesto da Bruxelles, ha individuato nella politica dell’asilo il
terreno su cui dare soddisfazione alle attese dei propri sostenitori e lucidare
la propria immagine ideologica.
Tra
l’altro a basso costo, e comunicando persino il messaggio di risparmiare sulle
spese per l’accoglienza, avendo accuratamente rimosso il dossier ucraino.
Gli
impedimenti frapposti ai salvataggi in mare da parte delle ong, il “decreto
Cutro” con la quasi abolizione della protezione speciale per i rifugiati e la
conseguente condanna a una vita di stenti per i richiedenti asilo respinti, ma
raramente espulsi, le restrizioni dell’accoglienza dei minori non accompagnati,
costretti a convivere per mesi con gli adulti in spregio dei diritti
dell’infanzia, i ripetuti viaggi e gli accordi con il regime tunisino e con
quello egiziano, oltre a quelli con la Libia, hanno disegnato una linea
politica a suo modo coerente.
Il governo italiano sta di fatto rinnegando
l’articolo 10 della Costituzione e le convenzioni internazionali sul diritto
d’asilo.
A un
mondo attraversato da crescenti crisi umanitarie risponde con una restrizione
di umanità.
Se
poi, come è probabile, arriveranno un giorno sentenze che limiteranno gli
effetti di queste misure, il risultato politico e propagandistico sarà stato
comunque raggiunto.
Va
aggiunto che l’Unione europea di Ursula von der Leyen, e diversi governi
europei, in questa fase mostrano una progressiva convergenza con le posizioni
meloniane:
pensano di contrastare il populismo sovranista
adottandone le proposte.
In
questa cornice s’inserisce l’accordo con l’Albania e la realizzazione di centri
extraterritoriali per l’esame delle domande di asilo.
Meloni non ha esitato a parlare di una misura
di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti.
Il
fatto – pure sbandierato – che nei due centri verranno trattenuti soltanto
uomini adulti non fragili, tratti in salvo da navi militari e provenienti da
paesi classificati come sicuri, conferma l’intenzione punitiva del progetto e
dunque l’obiettivo di spargere paura tra i candidati all’asilo.
Non
per caso, l’ispirazione è venuta dal progetto britannico di deportazione in
Ruanda dei migranti sbarcati dal mare.
Già al
primo viaggio, quattro naufraghi sono stati però reindirizzati verso l’Italia
perché non rientravano nei criteri per l’invio in Albania: erano minorenni,
oppure adulti fragili.
(Il
soccorso in mare è ancora un obbligo).
Altri
interrogativi riguardano sia il livello pratico-operativo, sia quello dei
principi. Anzitutto, al di là dei costi (800 milioni di euro in cinque anni
secondo il Sole-24Ore, ma il calcolo probabilmente è approssimato per difetto),
il piano governativo si concentra su una parte dei richiedenti asilo: 39mila
casi all’anno.
Ma si
basa sull’ipotesi di trattare le domande di asilo in quattro settimane, grazie
a una procedura accelerata, mentre oggi serve mediamente più di un anno, spesso
due.
Si
prevedono collegamenti online con Roma e altre forzature procedurali.
Per
accelerare i tempi, si comprimono i diritti dei richiedenti, lasciando loro
pochissimo tempo per prepararsi all’audizione, raccogliere la documentazione
utile a suffragare la loro richiesta, fare appello alla giustizia in caso di
diniego: una settimana soltanto per quest’ultima azione.
Quanto
all’elenco dei paesi sicuri, è già emerso il pressapochismo con cui si è mosso
il governo Meloni.
Qualche
mese fa la lista italiana è stata allargata a ventidue paesi, tra cui Egitto,
Tunisia, Nigeria, contro nove soltanto della Germania.
Casi
dunque assai dubbi, “sbiancati” per poter accrescere i dinieghi dell’asilo: non
i rimpatri, molto più complicati e costosi.
Poi è stata ignorata la sentenza della Corte
di giustizia europea degli inizi di ottobre, che ha condotto all’annullamento
del trattenimento dei primi dodici malcapitati.
Ora è stata approvata una nuova lista, ridotta
a diciannove paesi, senza la Nigeria.
Per contro, paesi come Egitto e Tunisia sono
stati dichiarati sicuri per tutti, senza eccezioni.
La
lunga carcerazione di Patrick Zaki a quanto pare è stata dimenticata.
Per evitare altri incidenti di percorso, la
controversa lista è stata inoltre incardinata in un decreto-legge che dovrebbe
essere più difficilmente attaccabile da parte della magistratura.
Non è
chiaro poi che cosa succederà ai richiedenti la cui domanda verrà respinta.
Data
la scarsa capacità delle autorità italiane di realizzare i rimpatri, si
potrebbe pensare a un rilascio in Albania, ma il presidente Rama si è già
risolutamente opposto.
Si
potrebbe così configurare l’esito paradossale di un trasferimento in Italia dei
richiedenti diniegati.
In
conclusione, il governo Meloni in materia migratoria naviga tra opposte
esigenze: quella della chiusura delle frontiere, quella della solidarietà con
l’Ucraina, quella dell’apertura ai lavoratori richiesti dal sistema produttivo.
Si
muove in una materia complicata tra approssimazione, forzature delle regole,
ricerca di consenso.
Ogni tanto cade in contraddizione o inciampa
in qualche sentenza sfavorevole: numerose le vittorie legali dell’”Asgi”,
Associazione di studi giuridici sull’immigrazione, su varie misure
discriminatorie, come quelle in materia di edilizia sociale.
Il
governo Meloni continua apparentemente a beneficiare di un certo consenso
presso l’opinione pubblica, ma suscita anche la reazione della parte più
avvertita della società civile.
Il
cattivismo programmatico porta voti, ma anche dissenso.
Il
governo Merz e i migranti.
1.war.de – (19.05.2025) – Redazione Cosmo - Luciana
Caglioti - Cristina Giordano e Cristiano Cruciani – ci dicono:
Il
Ministro dell'Interno “Dobrindt” ha stabilito controlli più severi verso i
richiedenti asilo, ma la misura rimane controversa: ci aggiorna Cristina
Giordano.
Qual è
la situazione reale dei respingimenti ai confini tedeschi?
Lo
abbiamo chiesto a “Andreas Roßkopf” del sindacato tedesco della polizia.
A “Eleonora Celoria”, avvocato
dell'Associazione studi giuridici sull’immigrazione, abbiamo chiesto una
valutazione delle politiche europee sui respingimenti alla luce del diritto
vigente.
(Polizei,
Grenzkontrolle -Controlli della polizia alle frontiere in Germania).
Merz e
Meloni: stessa linea dura sui migranti.
Sabato
18 maggio Friedrich Merz (CDU) ha incontrato a Roma Giorgia Meloni (Fratelli
d’Italia).
Tra i
due capi di governi c’è accordo sul perseguire una politica più decisa contro i
migranti irregolari.
Merz
appoggia tra l'altro anche l'idea del centro di permanenza per il rimpatrio
(CPR) costruito dall’Italia a Gjader, in Albania, definita dal neo cancelliere
tedesco “un’iniziativa di successo”.
Merz
ha dichiarato che il suo governo valuterà possibili centri per migranti in
Paesi terzi.
Attualmente
è in esame dell’UE la compatibilità del centro albanese con il diritto europeo
in materia di diritti umani.
Merz e Meloni hanno inoltre concordato, dopo
una pausa durata 7 anni, la ripresa regolare di consultazioni italo-tedesche,
per l'anno prossimo.
Vengono
messi a tacere così i dissapori nati dopo la recente visita a Kiev dei capi di
Stato di Francia, Regno Unito, Polonia e Germania, in cui l’Italia era stata
esclusa.
La
nuova direttiva tedesca sui respingimenti alle frontiere.
Annunciata
il 7 maggio nella conferenza stampa di presa in carica del ministero, il neo
ministro dell'Interno “Alexander Dobrindt” (CSU) ha spiegato che la nuova
direttiva governativa prevede di respingere alle frontiere i richiedenti asilo
privi di documenti di ingresso validi o in caso abbiano presentato una domanda
di asilo in un altro Paese dell'Unione Europea.
La
polizia tedesca non avrebbe l’obbligo di respingimento, ma il potere di
procedere, valutando caso per caso.
Escluse
dai respingimenti restano le categorie di migranti più vulnerabili: i minori
non accompagnati, le donne incinte e le persone malate.
I
respingimenti in Germania sono legali?
(Innenminister
Alexander Dobrindt, CSUIl ministro dell'Interno Alexander Dobrindt, CSU)
La
direttiva rimanda all’articolo 18 della legge tedesca sul diritto di asilo, la
quale prevede il respingimento se gli stranieri in entrata in Germania arrivano
da un Paese terzo sicuro, intendendo il Paese di arrivo del viaggio e non il
Paese di provenienza del migrante.
Tutti
i nove Paesi stranieri limitrofi alla Germania sono di fatto sicuri, dalla
Polonia, alla Repubblica Ceca, dall‘Austria alla Francia.
Il
secondo elemento giuridico di riferimento è l’articolo 72 del Trattato europeo,
che consente deroghe temporanee alla libera circolazione di Schengen, per:
“mantenere l'ordine pubblico e salvaguardare la sicurezza interna”. Deroga
utilizzata anche durante gli Europei di calcio in Francia.
E per
questo l'ex cancelliere Olaf Scholz (SPD) era stato pesantemente criticato.
Secondo
“Eleonoria Celoria”, avvocata di ASGI, l'Associazione per gli Studi Giuridici
sull'Immigrazione: secondo le norme europee, i richiedenti asilo non potrebbero
in alcun modo essere respinti.
Si
tratterebbe quindi di una direttiva in contrasto con il diritto europeo.
E si
dovrebbe rispettare la Convenzione di Dublino, sulla presentazione della
domanda di asilo nel primo Paese di approdo.
La sua
valutazione nella lunga intervista di questa puntata.
Le
critiche alla nuova politica migratoria tedesca
Secondo
l'ex presidente della Corte costituzionale federale, “Hans-Jürgen Papier”, la
valutazione giuridica regge ed è corretta.
Ma ci
sono anche molti altri esperti critici sull’utilizzo di quello che viene
ritenuto un escamotage giuridico.
La
capogruppo dei Verdi “Katharina Dröge” ha definito i respingimenti “contrari al
diritto europeo”, perché I richiedenti asilo hanno il diritto di vedere
esaminato sul suolo tedesco il loro caso.
Critiche
anche dalla Linke.
Mentre
l'AfD ritiene che la risposta alla questione migratoria del neo- governo Merz
sia fin troppo debole.
La SPD
vorrebbe un maggior coordinamento con i Paesi vicini.
Ma gli
stessi Paesi sono critici, Polonia e Svizzera in primis.
Alexander
Dobrindt ha promesso di fornire spiegazioni alla Commissione UE nei prossimi
giorni.
I
respingimenti sono già in corso?
A una
settimana dall’entrata in vigore della nuova linea politica, secondo quanto
riporta il “Tagesschau” si è registrato il 45% in più di respingimenti rispetto
alla settimana precedente.
“Andreas
Roßkopf”, a capo del sindacato della polizia GdP, responsabile per la polizia
doganale e di frontiera ci conferma l’attuazione della nuova linea politica,
con l’intensificazione dei respingimenti.
Roßkopf sottolinea la difficoltà di gestire
tutti i confini tedeschi, non avendo a sufficienza personale.
“La
situazione non può andare avanti così per molto.
È necessario trovare una soluzione al più
tardi entro l'inizio di giugno” ha dichiarato il sindacalista a COSMO Italiano.
E
sorgono già i primi problemi, la Polonia si è rifiutata di accogliere due
richiedenti asilo rimpatriati dalla Germania.
Comprendere
i sensi, la realtà
e i
miti delle migrazioni.
Ilbolive.unipd.it
- Valerio Calzolaio – (6 -12- 2024) – Redazione- ci dice:
Considerare una presentazione di ricerche
scientifiche come assolutamente nuova e definitiva non depone a favore di chi
lo dice o scrive, anche se è solo per opportunismo editoriale.
Nel retro di copertina di un bel volume
recentissimo sulle migrazioni, opera di un ottimo esperto sociologo olandese,
l’offerta di una “prospettiva nuova e definitiva su uno degli argomenti più
divisivi del nostro tempo” coglie nel segno sulle divisioni esistenti ma
rischia di essere fuorviante sulla capacità di superarle.
Nella
vita c’è sempre poco di nuovo e definitivo.
Per
ciascuno di noi è abbastanza definitiva la morte, come sappiamo tuttavia,
nemmeno la fine dell’esistenza di un singolo individuo di una specie è forse
del tutto definitiva (abbia o meno contribuito a procreare) e addirittura
nemmeno l’estinzione di una singola specie è ormai davvero definitiva (per fare
un esempio banale, i geni dei neanderthal sono ancora fra noi sapiens).
Anche
ciò che è davvero nuovo, biologicamente e culturalmente, risulta di difficile
definizione e prova.
Ancor
più rispetto a un fenomeno decisivo per ogni vita, come il migrare; co-evoluto
con le specie viventi, di ogni sorta; permanente e mutevole per la nostra
specie, anche in prospettiva.
Il
sottotitolo italiano del volume aggiunge che “la verità” potrà finalmente
oltrepassare le ideologie, ancora una volta esagerando un poco.
Non ce
ne è una di stabile verità scientifica e le ideologie sanno spesso plasmare a
(proprio) piacimento dati e fatti parzialmente reali.
Resta il fatto che possono essere decisamente
consigliati la lettura, lo studio e la propagazione dei contenuti offerti da “Hein
de Haa”s, con il suo corposo “Migrazioni”.
La
verità oltre le ideologie.
Dati alla mano, traduzione di Michele Martino,
Einaudi Torino 2024 (orig. estate 2023, How Migrations Really Works), pag. 608.
L’autore si occupa di gran parte dei territori
e dei paesi del mondo.
Illustra accuratamente lo stato delle
conoscenze sul fenomeno migratorio negli ultimi centocinquanta anni, circa.
Ed è
vero quanto scrive di continuo con passione e precisione: strabordano ancor
oggi (tristemente) molte confusioni e decine di miti quando si parla dell’umano
migrare contemporaneo. Documentarsi meglio sarebbe un’utile accortezza, visto
che tutti ci hanno avuto in qualche modo a che fare nella propria vita e tutti
dovremo tenerne conto.
Definire
la "migrazione."
La
definizione precisa su cosa sia una “migrazione” attiene al cambio di residenza
abituale oltre un confine amministrativo, spostarsi stabilmente altrove per
almeno sei mesi o un anno, a prescindere dal motivo, sia a livello personale
che a livello collettivo, dovendosi distinguere bene con circospezione (le
regole e il giudizio) un trasferimento internazionale.
Tante
persone hanno sentimenti complessi e ambivalenti riguardo al fenomeno e ai
fatti, ma il dibattito politico, con la sua crescente polarizzazione
(semplicisticamente costruita su fazioni pro e contro), non riflette questo
oggettivo livello di ambiguità.
Dalla
fine della Guerra Fredda, i politici occidentali hanno portato avanti una vera
e propria Guerra all’Immigrazione, così la chiama correttamente “De Haas” e ben
lo sappiamo: i paesi occidentali hanno speso risorse ingenti per frenare
l’afflusso di lavoratori stranieri, con le loro famiglie.
Da
decenni, politici di ogni orientamento promettono di correggere il sistema di
accoglienza e di riprendere il controllo sull’immigrazione.
Tutti
i governi, però, secondo “De Haas”, hanno costantemente mancato di rispettare
le loro promesse.
Chi ci governa avrebbe ignorato le evidenze
scientifiche sui trend, sulle cause e sull’impatto delle migrazioni, seminando
solo paure ingiustificate e roboante disinformazione.
Anche gruppi d’interesse come i sindacati e le
lobby commerciali avrebbero esagerato i danni (oppure i benefici) delle
migrazioni, mentre le agenzie dell’Onu spesso finirebbero per gonfiare o
travisare i numeri di migranti e rifugiati, nell’apparente tentativo di farsi
pubblicità e ottenere i finanziamenti.
Non
sarebbe male capire davvero natura e radici del fenomeno, per ogni cittadino
che legge libri e per ogni sapiens che opera in comunità, tanto più che la
migrazione appartiene letteralmente a ognuno e a ogni tempo, è antica quanto
l’umanità.
Ho tentato di riassumere in queste poche frasi
di prologo la nota per noi lettori e l’introduzione al volume, l’intento
dell’autore è giustificato e positivo, anche lo svolgimento sostanzialmente
stimolante e condivisibile.
Il
sociologo e geografo olandese “Hein de Haas” (1969) ha vissuto e lavorato nei
Paesi Bassi, in Marocco e nel Regno Unito, è stato a lungo direttore dell'”International
Migration Institute dell'Università di Oxford”, ha promosso e coordinato seri
modelli interpretativi e insegna attualmente (dal 2015) la materia ad
Amsterdam.
Il suo
nuovo volume ci offre un ottimo utile fertile scandaglio sulla cruciale
questione del migrare contemporaneo, documentato e riflettuto,
"esperito" nel senso che raccoglie trent'anni di ricerche sul campo
in vari continenti e una notevole letteratura scientifica, grafici e tabelle
(talora originali), frequentazioni interdisciplinari, con argomentazioni solide
e abbastanza aperte.
Il testo è strutturato in tre parti e ventidue
capitoli, in ognuno “De Haas” demolisce un mito sul migrare:
riassume
il mito nel titolo e nelle prime due pagine in cui cita sia
"politici" che documenti che urlano quel mito con le loro convinte
parole, per quanto errate; poi spiega (dettagliatamente) in successivi
paragrafi come funzionano davvero le cose (How Migrations Really Works, il
titolo inglese originale).
Politiche
migratorie e flussi.
L’autore
fa spesso riferimento a un progetto pluriennale di raccolta dati, statistico e
sociologico, da lui stesso promosso.
Nel 2010 un finanziamento del Consiglio
europeo della ricerca (Erc) gli ha permesso di creare un team presso
l’International Migration Institute (Imi) dell’Università di Oxford per
analizzare l’evoluzione delle politiche migratorie nell’ultimo secolo e
misurarne l’efficacia nell’incidere sui flussi migratori.
Il progetto Demig (Determinants of
International Migration) è andato avanti dal 2010 al 2015.
Per
due anni sono stati letti pile di rapporti, leggi e regolamenti per documentare
i principali cambiamenti occorsi nelle politiche migratorie, giungendo alla
creazione di un database (Demig Policy) che ha registrato 6.500 variazioni
nelle discipline su immigrazione ed emigrazione in quarantacinque paesi tra il
1900 e il 2014.
I numeri erano stati raccolti in origine per
misurare l’evoluzione e l’efficacia delle politiche migratorie e potevamo anche
utilizzarli per valutare se i governi di destra avessero davvero una linea più
dura sull’immigrazione rispetto a quelli di sinistra (pare non sia così).
Sono
state aggiunte poi altre variabili al database Demig e De Haas ha via via
aggiornato i dati e ampliato le valutazioni, per esempio in merito all’effetto
delle politiche migratorie restrittive sui flussi in entrata e in uscita; a
come hanno concretamente reagito i flussi alla eliminazione delle frontiere tra
gli Stati europei sia quelli migratori interni europei, sia quelli verso e
dall’Unione Europea; alla quantità di visti di cui hanno bisogno i cittadini di
ciascun Paese del mondo per viaggiare in altri Paesi.
In
vari capitoli i grafici e le tabelle illustrano i dati che contribuiscono a
smontare miti e luoghi comuni, un ricco preciso supporto statistico che,
utilizzando molte altre fonti ufficiali, serve a corroborare analisi e
verifiche in ogni parte del testo.
Gli
strali polemici del volume sono prevalentemente indirizzati ai
"politici" (genericamente, talora confondendo politica e governo,
cita comunque capi di governo, ministri e dirigenti, anche italiani) e
frequentemente agli economisti puri (antica contrapposizione fra le due
scienze, per una discutibile egemonia);
la sua letteratura scientifica è
prevalentemente sociologica, ma mostra di avere una certa attitudine
interdisciplinare, curiosità intellettuale, opinioni riflettute e condivise con
altri, verifiche non pregiudiziali.
Quel
che più manca è una maggiore consapevolezza evoluzionistica delle scienze
sociali.
Le
migrazioni non iniziano quando la sociologia inizia a considerarle
statisticamente ben oltre metà ottocento, tantomeno dopo la Rivoluzione
Industriale o la Rivoluzione Francese, tanto meno con i viaggi oltre Atlantico
di metà secondo millennio, tanto meno qualche millennio prima quando i confini
di un territorio diventano costrutto umano (dopo la prevalenza della
stanzialità con la cosiddetta rivoluzione neolitica), tanto meno quando i primi
sapiens sono usciti dall’Africa.
E, soprattutto, la definizione (pur
antropocentrica) può essere facilmente estesa alle specie umane precedenti la
nostra, alle specie animali, addirittura alle specie vegetali:
il cambio di residenza abituale fuori del
proprio areale precedente, individuale o collettivo, una tantum o ciclico,
verso ecosistemi abbastanza simili o molto diversi rispetto alla biodiversità
dei punti di partenza, dei transiti, dei punti di arrivo.
Avere
consapevolezza evoluzionistica eviterebbe alcune imprecisioni di linguaggio e
inesattezze sui contesti della biodiversità del pianeta.
L’autore
fa un solo riferimento (credo) alla vita prima della Rivoluzione Industriale,
abbastanza corretto:
la
“Rivoluzione agricola (o neolitica) ha consentito agli esseri umani di
insediarsi stabilmente in comunità rurali e di abbandonare a poco a poco uno
stile di vita itinerante, nomadico o pastorale.
Dall’inizio del XIX secolo, la Rivoluzione
industriale ha portato a una migrazione su larga scala dalle aree rurali…”.
Tuttavia
noi esistevamo da prima e migravamo da sempre, comunque da prima di essere
stanziali, sicché la maggiore residenzialità agricola ha comportato anche
l’utilità di distinguere le emigrazioni dalle immigrazioni e di dover tenere
abbastanza separata l’analisi del migrare nel luogo di partenza da quella negli
ecosistemi di transito e di arrivo.
Il
fenomeno migratorio è totale (De Haas cita bene Sayad), ma pure asimmetrico e
diacronico, nel testo in esame ne tiene abbastanza conto, pur non sottolineando
la rilevanza di aspetti non sociologici della libertà di migrare e del diritto
di restare (per esempio, stando alla contemporaneità, citando spesso il vincolo
generico dei diritti umani fondamentali, ma non citando mai in specifico
l’articolo 13 della Dichiarazione Universale e non citando nemmeno i due
recenti Global Compact dell’Onu, forse per un fastidio, comprendibile ma
discutibile, pure verso i formalismi giuridici).
La
consapevolezza evoluzionistica avrebbe, inoltre, motivato meglio alcune
argomentazioni di De Haas, anche per comprendere come i miti e il senso comune
(che perlopiù giustamente contesta) siano divenuti così “radicati” nelle nostre
società e culture istituzionali statuali.
Il suo
volume è, comunque, fertile.
Entrando
nel merito specialistico, dei sette capitoli della prima parte, quattro sono
quasi del tutto condivisibili, tre sostanzialmente condivisibili;
degli otto capitoli della seconda parte 3 e 3,
ma ce ne sono anche 2 che andrebbero forse parzialmente meglio approfonditi.
Nella terza parte 2+3+1 abbastanza bene, uno che invece andrebbe meditato e
criticato sotto molti differenti aspetti: riguarda i cambiamenti climatici ed
ecologici antropici globali.
De
Haas non è un negazionista climatico, al contrario, e discute questioni
effettivamente controverse nell’ultimo capitolo (prima delle conclusioni), si
affida molto a colleghi competenti e ai geografi (anche quelli purtroppo
prevalentemente “non” evoluzionistici), cita solo la sintesi dell'ultimo
rapporto dell'IPCC (per ragioni opportune) ma mostra di non conoscere i
precedenti e, soprattutto, il nesso evoluzionistico fra clima e migrazioni.
Come
la maggior parte dei sociologi delle migrazioni sembra sottovalutare una base
culturale evoluzionistica, biologica e antropologica.
In
secondo luogo, è troppo mosso da una (pur sana) vis polemica: segnala che gli
rimproverano di essere parte del polo favorevole alle migrazioni, mentre
ritiene (giustamente) di essere solo uno studioso accurato, fra l’altro molto
attento alle differenze e ai contrasti di classe.
Fatto
sta che da decenni, proletari e sottoproletari sono in maggioranza nel polo
contrario alle migrazioni.
Se ne può prendere atto, ormai ogni campo
della politica e della cultura è polarizzato.
L’autore
ne è frustrato, ricorda quando nel 2015 torna nei suoi Paesi Bassi dopo dieci
anni a Oxford e viene invitato a un dibattito sui profughi siriani, il
moderatore lo cataloga (dopo l’intervento) come “a favore dell’immigrazione” e
lui lo interrompe per criticare proprio quell’impostazione:
“La
costante rappresentazione dei dibattiti sulla migrazione in binari li rende
indegni della parola dibattito”.
De
Haas deve confrontarsi con interlocutori potenti istituzionalmente e
culturalmente presuntuosi, e da trent'anni vede prevalere atteggiamenti
sbagliati sulla cosa che più studia, ama, conosce e divulga, vorrebbe che la
sua analisi possa essere accolta come sopra “ogni” parte, visto che critica
insieme destra e sinistra (in modo comunque competente e motivato), razzisti e
umanitaristi (talvolta con rigida equidistanza).
Occorre, dunque, analizzare meticolosamente
ognuno dei ventidue miti, dedicando loro uno specifico compiuto
approfondimento.
In
questa sede non mettiamo in discussione l’uso del termine “mito” che ha certo
pure altre definizioni e connessioni, rimanda talora solo a ideologie diffuse
(quanto possa essere capace di “polarizzare” le aspirazioni di una comunità o
di un'epoca, elevandosi a simbolo privilegiato e trascendente), talora proprio
ad atti e fatti “idealizzati” e non solo a pensieri teorici (in corrispondenza
di una carica di eccezionale e diffusa partecipazione fantastica o religiosa),
talora a caratteri storici e letterari o metaforici.
Rende
l’idea, è vero.
In
Italia, fra l’altro, i miti si associano spesso a un “cattivo” senso comune,
cattivo perché non buono (secondo il buon Manzoni) e perché asseconda pulsioni
aggressive verso deboli rispetto noi, qui e ora (prevalentemente).
Vediamoli
presto uno per uno, allora, questi “miti sulla migrazione”.
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