Gli antichi valori tornano in occidente.

 

Gli antichi valori tornano in occidente.

 

 

Volpi cinesi, squali americani, roditori europei.

Controinformazione.info – Pepe Escobar – (2 agosto 2025) – ci dice:

 

Il “laboratorio BRICS” ha uno spirito creativo instancabile e in continua evoluzione. Sconfigge sempre la demenza tariffaria.

 

La quarta sessione plenaria del Partito Comunista Cinese è stata programmata dal Politburo per ottobre (non sono stati annunciati dati precisi; probabilmente quattro giorni nella seconda metà di ottobre).

 In quella occasione, Pechino delibererà le linee guida del suo prossimo piano quinquennale.

 Al plenum dovrebbero partecipare oltre 370 membri del Comitato Centrale dell’élite del partito.

Perché questo è così cruciale?

 Perché la Cina è il bersaglio principale indiscusso, insieme ai principali membri dei BRICS, della nuova “legge” universale ideata dall’Impero del Caos: “Io dazio, dunque esisto”.

Quindi il prossimo piano quinquennale dovrà prendere in considerazione tutti i vettori derivanti dalla nuova “legge”.

 

Il plenum avrà luogo poche settimane dopo la grande parata organizzata da Pechino per celebrare la fine della Seconda guerra mondiale; Vladimir Putin sarà uno degli ospiti d’onore di Xi.

 

Inoltre, il plenum si terrà subito prima del vertice annuale dell’”APEC” (Asia-Pacific Economic Cooperation), che inizierà il 31 ottobre a Seul.

Questo vertice offre l’opportunità di un incontro diretto e faccia a faccia tra Trump e Xi, che il direttore del circo, nonostante il suo atteggiamento e le sue tergiversazioni, sta attivamente perseguendo.

 

APEC summit 2024, tenutosi in Perù.

 

Il plenum dovrà valutare attentamente come una guerra commerciale, tecnologica e geopolitica di fatto tra Stati Uniti e Cina non potrà che intensificarsi.

Per quanto Made in China 2025 si sia rivelato un successo clamoroso – nonostante la pressione massima di Trump 1.0 – le nuove decisioni tecnologiche cinesi prese nel 2025 definiranno la tabella di marcia futura su tutto, dall’intelligenza artificiale all’informatica quantistica, dalla biotecnologia alla fusione nucleare controllata.

 

Sono così emozionato di essere il tuo lacchè.

Tutto ciò che conta in materia di commercio e tecnologia sarà deciso tra le due superpotenze economiche.

Ormai è chiaro che un potenziale terzo attore, l’UE, si è semplicemente suicidato in serie.

 

Cominciamo con il vertice Cina-UE del 24 luglio, che ha visto, tra le altre finezze, il protocollo di Pechino degnarsi di inviare, nella migliore delle ipotesi, un modesto autobus turistico per accogliere la delegazione europea, e Xi Jinping che, a tutti gli effetti, ha concluso il vertice prima del previsto con un messaggio ampiamente interpretato nel Sud del mondo come “non abbiamo tempo da perdere con voi pagliacci”.

 

Era esattamente ciò che voleva il direttore del circo.

Poi arrivò l’incontro tra UE e USA, che suggellò in modo spettacolare la fase già accelerata del secolo dell’umiliazione europea.

 

Von Der Leyen riceve tutte le direttive di Trump su Dazi e Acquisti di energia e armi….

Tutto inizia con Trump che di fatto cancella la Russia dal futuro energetico dell’UE. Bruxelles è stata costretta – in stile mafioso, “un’offerta irrinunciabile” – ad acquistare 250 miliardi di dollari di energia statunitense a prezzi esorbitanti all’anno, ogni anno, per i prossimi 3 anni.

 E nel frattempo si ritrova con dazi del 15% – e basta.

Quindi, la distruzione del Nord Stream 2, un’operazione portata avanti dalla precedente amministrazione “DC Autopen”, aveva fin dall’inizio un chiaro scopo imperiale.

Oltretutto, l‘UE deve pagare per la sua guerra in Ucraina, già persa, acquistando quantità illimitate di armi statunitensi a prezzi esorbitanti, per un valore pari al 5% del PIL.

 Questo è ciò che Trump ha imposto alla NATO di imporre all’UE.

Seguite i soldi.

 

Eppure, qualunque sia l'”affare” pubblicizzato con una profusione di superlativi dal direttore del circo, i numeri non tornano.

Nel 2024 l’UE ha speso ben 375 miliardi di euro in energia; di questi, solo 76 miliardi di euro sono stati versati agli Stati Uniti.

Ciò significa che l’UE dovrebbe acquistare tre volte più energia dagli Stati Uniti nei prossimi tre anni.

 E solo GNL prodotto negli Stati Uniti: niente Norvegia, del resto, che vende gas da gasdotto a un prezzo più basso.

 

Sfidando la realtà – e ovviamente non messa a freno dai mansueti media mainstream europei – la tossica Medusa di Bruxelles ha gridato che il GNL statunitense è più economico del gasdotto russo.

 

 

Gasdotto power of Siberia.

 

Mosca non si preoccupa minimamente, perché i suoi principali clienti sono sparsi in tutta l’Eurasia.

 Quanto agli americani, non dirotteranno tutte le loro esportazioni verso l’UE, poiché le raffinerie europee possono gestire solo una fornitura limitata di petrolio di scisto americano.

 Inoltre, non c’è modo che gli eurocrati possano costringere le compagnie energetiche europee ad acquistare petrolio americano.

Quindi, per arrotondare le cifre, dovranno acquistare altrove. In questo caso, la Norvegia, e persino la Russia, ammesso che i russi siano interessati.

 

Trump 2.0 è stato abbastanza intelligente da “esentare” alcuni settori dalla demenza tariffaria, come aeromobili e componenti aeronautici, semiconduttori, prodotti chimici critici e alcuni settori agricoli.

Naturalmente: tutti questi settori fanno parte di catene di approvvigionamento strategiche.

 

L’unica cosa che contava davvero era intrappolare l’Europa nel ruolo di grande acquirente di energia americana e costringerla a investire nelle infrastrutture e nel complesso industriale-militare degli Stati Uniti.

 

E questo indica l’unico modo per “sfuggire” alla demenza tariffaria: quando ci si trova di fronte a un'”offerta irrinunciabile”, non si rifiuta; la si accetta, la si apprezza e si offrono investimenti di ogni tipo negli Stati Uniti.

 Gli antichi imperi costringevano i loro “partner” a pagare tributi.

Benvenuti alla versione del XXI secolo.

Dopotutto, cosa ha da offrire l’Europa come leva finanziaria? Nulla.

Nessuna azienda europea nella Top Ten mondiale della tecnologia.

Nemmeno un motore di ricerca europeo; o uno smartphone di successo a livello mondiale; o un sistema operativo; o una piattaforma di streaming; o un’infrastruttura cloud.

Per non parlare dell’assenza di un produttore leader di semiconduttori. E solo una casa automobilistica tra le prime dieci più vendute al mondo.

 

Tutti a bordo dell’”improvvisazione diretta.”

 

Se gli squali americani non hanno dato letteralmente nulla ai roditori dell’UE, la furba Cina è stata abbastanza benigna da dare solo un piccolo contributo: un bla bla bla sul cambiamento climatico.

Il risultato finale – sotto gli occhi di tutto il mondo – è l’UE come un misero giocatore con un’autonomia strategica inferiore a zero sullo scacchiere globale. Viene regalmente ignorata nelle guerre eterne dell’Impero – dall’Ucraina all’Asia occidentale.

E fa la predica a Pechino – a Pechino – (corsivo mio) quando è totalmente dipendente dalle materie prime cinesi, dalle attrezzature industriali e dalle complesse catene di approvvigionamento per la tecnologia verde e digitale.

 

“ Yuen Yuen Ang”, originaria di Singapore, è professoressa di economia politica alla “Johns Hopkins University” di Baltimora.

Forse dovrà adeguarsi alle rigide linee del mondo accademico statunitense, che è eccezionalista per definizione.

Ma almeno è capace di spunti preziosi.

Ad esempio: ” Soffriamo tutti di deficit di attenzione. Prima leggevamo libri, poi articoli, poi saggi, poi blog, e ora tutto si riduce ulteriormente a tweet di 280 caratteri. Quindi puoi immaginare che tipo di messaggi si adattino a quello spazio così piccolo. Deve essere semplicistico”.

 

Yuen Yuen.

 

Ciò tocca il nocciolo della questione del modo in cui il direttore del circo sta conducendo la sua politica estera, governando attraverso un accumulo di post senza senso.

Yuen Yuen tocca un terreno più serio quando commenta come la Cina “voglia abbandonare un vecchio modello economico che dipendeva fortemente dalle esportazioni a basso costo, dall’edilizia e dal settore immobiliare.

Vuole uno sviluppo basato sull’alta tecnologia e sull’ innovazione“.

 

Ed è proprio questo l’argomento che verrà discusso nel corso del plenum di Pechino di ottobre.

 

Yuen Yuen osserva inoltre come “negli anni ’80 e ’90” la Cina potesse “imitare il modello di industrializzazione tardiva dell’Asia orientale. Oggi non ci sono molti modelli di riferimento. La Cina stessa è diventata un’apripista e altri Paesi la vedono come un modello”.

 

Da qui il suo concetto di “improvvisazione diretta”, condotta dalla leadership di Pechino. Questa conosce la destinazione finale preferita, ma deve comunque testare tutti i percorsi possibili. Lo stesso, tra l’altro, vale anche per i BRICS, attraverso quello che ho definito il “laboratorio BRICS”, dove vengono testati modelli di ogni tipo. Ciò che conta, soprattutto, è uno spirito creativo incessante e in continua evoluzione.

Sconfigge sempre la demenza tariffaria.

(Traduzione: Luciano Lago).

 

 

 

 

Elezioni 2016: Non

è Stato Putin!

 

 Conoscenzealconfine.it – (5 Agosto 2025) -  Massimo Mazzucco – ci dice:

 

Che le famose “interferenze” russe a favore di Trump, nelle elezioni del 2016, fossero tutte una montatura da parte della cricca Clinton-Obama, lo avevamo capito tutti.

Ora escono le prove.

Ricostruiamo brevemente la vicenda:

 Come molti ricorderanno, durante le elezioni del 2016 (Hillary Clinton vs. Donald Trump) il candidato repubblicano venne ripetutamente accusato di aver usufruito di “interferenze illegali” da parte dei russi per fargli vincere le elezioni.

E anche se all’ultimo momento Trump riuscì a vincere “a corto muso”, la macchia di “amico dei russi” e di “burattino di Putin” gli rimase appiccicata addosso.

 

Ma Trump non è uno che perdona facilmente, e durante il suo mandato fece istituire una commissione, guidata dal procuratore speciale “John Durham”, per indagare sulla faccenda.

Il “Rapporto Durham”, pubblicato nel 2023, sostanzialmente rivelava la collusione dell’FBI con i democratici nell’ignorare sistematicamente gli indizi che emergevano dallo scandalo e-mail della Clinton, mentre la stessa FBI approfondiva, in modo forzato e maniacale, presunti indizi della collusione fra Trump e Putin.

Il rapporto Durham però si fermava lì, poiché tutte le informazioni dettagliate erano contenute in una appendice (“Annex”) che era rimasta secretata.

 

Ora il senatore repubblicano “Grassley”, presidente della commissione di giustizia, ha chiesto e ottenuto la desecretazione dell’ “Annex”, che ha reso pubblico sulla sua pagina ufficiale.

Abbiamo quindi, finalmente, il Rapporto Durham nella sua interezza.

Dalla somma del Rapporto e dell’Annex possiamo concludere che:

 

A – La campagna diffamatoria contro Trump è stata costruita artificiosamente dall’FBI di Comey (uomo di Obama) sulla base di documentazione falsa o inesistente del tutto.

 

B – La campagna diffamatoria è stata costruita con il contributo attivo della presidente del partito democratico, “Debbie Wasserman Schultz”, in collaborazione con due uomini di “Soros”.

 

C – La ricerca di materiale incriminante contro Trump era stata finanziata direttamente dalla Clinton e dal Partito Democratico.

 

D – L’FBI è stata usata per disseminare intenzionalmente le false informazioni, facendole arrivare in modo sistematico ai media più importanti (New York Times, Washington Post, CNN).

 

E – Pur avendo tutte le informazioni necessarie, la FBI ha scelto di non indagare sulle fonti che fornivano quelle false informazioni.

 

Insomma, un vero e proprio “colpo di stato” mediatico, concepito e gestito direttamente dalla coppia Clinton-Obama per cercare di affossare in ogni modo possibile la campagna elettorale di Trump.

In conclusione della faccenda, il senatore “Grassley” ha dichiarato:

 “In base a quanto emerge dall’”allegato Durham”, l’FBI di Obama non ha esaminato e indagato adeguatamente i rapporti di intelligence che dimostravano che la campagna di Clinton avrebbe potuto inventare la falsa narrativa Trump-Russia, per il vantaggio politico di Clinton, cosa che alla fine è stata fatta attraverso il ‘Dossier Steele’ e altri mezzi.

 

Questi rapporti di intelligence e i relativi documenti, veri o falsi che fossero, sono stati insabbiati per anni.

La storia dimostrerà che le forze dell’ordine e le agenzie di intelligence delle amministrazioni Obama e Biden sono state strumentalizzate contro il Presidente Trump.

Questa strumentalizzazione politica ha causato danni critici alle nostre istituzioni ed è uno dei più grandi scandali politici e insabbiamenti nella storia americana.

 La nuova amministrazione Trump ha un’enorme responsabilità nei confronti del popolo americano: riparare il danno causato e farlo con la massima rapidità e trasparenza.”

Peccato che Trump in questo momento sia in altre faccende affaccendato.

Ma almeno questo tassello della storia è stato messo al giusto posto.

(Massimo Mazzucco).

(luogocomune.net/news-internazionali/elezioni-2016-non-ha-stato-putin).

 

 

 

 

 

Ministro Valditara:

 cos'è questo Occidente?

Doppiozero.com - Alessandro Vanoli – (19 Marzo 2025) – ci dice:

Occidente. Prendete questa parola e guardatela con attenzione, perché mi sa che stia lì la posta in gioco.

Ormai sono passati un po’ di giorni dalla pubblicazione delle “Nuove indicazioni per la scuola”; quelle partorite dalla commissione nominata dal Ministero dell’Istruzione e del merito.

 Il tempo utile per fare un po’ di conti e misurare la temperatura delle tante reazioni che il testo ha suscitato.

 Vale per tutto il documento, ma in particolare per la sezione relativa all’insegnamento della storia.

Un po’ per l’importanza che la stessa commissione le attribuisce, un po’ perché in quella materia si avverte tutto il peso sociale e politico dell’operazione condotta dal Ministero.

 

Cominciamo dall’inizio.

 “Solo l’Occidente conosce la storia”.

La frase ha colpito forte. E forse l’effetto era voluto.

 Di sicuro ha suscitato non poca indignazione.

L’abbiamo scritto in tanti che non era possibile parlare con toni così eurocentrici (qualcuno ha detto più precisamente ottocenteschi o colonialisti) e che era assolutamente scorretto dimenticarsi di tutte le altre storie prodotte nel mondo: dalla Cina al mondo arabo o persiano.

Per giunta la commissione rincarava la dose aggiungendo ad arte una frase di “Marc Bloch”, che per chi fa il nostro mestiere è quasi un nume tutelare più che uno storico:

metodologicamente rivoluzionario, martire della resistenza, colui insomma che tutti citiamo quando vogliamo rafforzare il nostro pensiero senza essere obbligati a fare troppi altri distinguo.

E “Marc Bloch” ha detto che «I greci e i latini, nostri primi maestri, erano popoli scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici. […] è nella durata, dunque nella storia, che si svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione».

 

Così eccoci qua, con una linea chiaramente tracciata.

Da che parte continuiamo?

Beh, tanto vale dire che “Bloch” aveva perfettamente ragione.

Certo che i greci e i latini rappresentano una delle radici più dirette del nostro pensiero;

e certo che il cristianesimo è una religione di storici, per il suo poggiare su eventi concreti (o ritenuti tali), per l’idea di tempo che si lega alla storia della salvezza e per tanti altri motivi.

Ma non è mai buon metodo citare una frase fuori dal contesto per asseverare le proprie idee.

Perché con lo stesso criterio, potrei anche aggiungere che, nello stesso libro (la famosissima “Apologia della storia”), Bloch disse che «Non possiamo comprendere nulla di veramente umano se ci chiudiamo nell’isolamento di una singola civiltà. Il confronto non è un modo per giudicare, ma per illuminare».

 

Quindi sancito che non cambia molto avere greci, romani e cristiani dalla nostra, andiamo al punto centrale: solo l’Occidente conosce la storia.

 Quale storia?

La commissione ha le idee chiare e lo dice subito dopo.

Quella che si è forgiata con i greci; per essere più precisi a partire da Erodoto e Tucidide.

Su questo, per tentare una prima risposta a un simile argomento, perdonatemi se scivolo nel personale: ero poco più di un ragazzo quando in Spagna cominciai a distinguere tra” ta’rihk” e “akhbar”, le due forme classiche arabe di scrittura storica.

E negli anni successivi non so quanto tempo ho trascorso traducendo “Tabari”,” al-Mas’udi”,” Ibn Khaldun”, tutti autori musulmani che si erano sentiti in dovere di scrivere enormi libri di storia.

Poi incontrai gli storici cinesi di duemila anni fa, che potevo leggere solo in traduzione ma che erano a dir poco affascinanti: “Sima Qian”, “Ban Gu” e altri. Potrei continuare, ma la domanda più sottile è se un simile elenco sia un argomento sufficiente.

Qualche collega particolarmente colto – e polemico – potrebbe oppormi il fatto che gli antichi autori cinesi siano stati più portati a scrivere eventi in successione cronologica e basta, mentre molti autori arabi classici sono stati spesso condizionati dal peso della religione.

 E lo stesso collega potrebbe aggiungere che tanto in “Tucidide” quanto in “Erodoto” emerge invece l’importanza della testimonianza oculare e della pretesa di verità: basi più solide insomma per i futuri luminosi della storia.

E io, con qualche distinguo, potrei pure essere d’accordo.

 

Quindi potremmo smetterla qua, se la domanda vera però non fosse un’altra: quanto è davvero rilevante una simile discussione?

Per quale motivo dobbiamo stabilire una scala di valori?

Posso anche ammettere (con parecchie difficoltà) che il metodo storico critico, a cui devo buona parte di quello che so, abbia come trisavolo più diretto “Tucidide”, ma questo non fa di me una persona culturalmente superiore.

Il confronto, giusto per citare di nuovo Bloch, non è un modo per giudicare, ma per illuminare.

Quindi perché gettarsi in questa assurda mischia culturale?

 

La risposta, temo, sta tutta nella prima parola: Occidente.

 Guardiamo al modo di leggere il passato per dirci chi siamo: «solo l’Occidente conosce la storia» afferma la commissione del Ministero dell’istruzione e del merito.

Ma qui arriva la domanda che conta per davvero: e cosa sarebbe l’Occidente?

 Chi saremmo noi?

Non ho mai invidiato le persone senza dubbi.

E loro non ne hanno: noi, ci dicono, siamo quell’«Occidente cristiano e laico» dove la storia diviene «lo specchio dei progressi dello spirito umano» per citare “Condorcet” e l’”illuminismo tutto”.

 

E qui arriviamo al punto forse più debole di tutto questo castello di affermazioni un po’ tronfie: ammesso che sia facile dire oggi cosa sia l’Occidente, siamo proprio sicuri che questa strana cosa geografico-storica esista da sempre?

 

Lasciamo perdere gli inizi, visto che per millenni “occidente” è stata solo una direzione geografica.

E lasciamo perdere i secoli delle prime imprese atlantiche, dove la parola fece la sua apparizione per indicare uno spazio pensabile (e conquistabile).

 La storia dell’idea di Occidente è storia di imperi e di conquista.

 I primi furono Spagnoli e Portoghesi, che dividendosi il mondo separarono un occidente da un oriente.

Poi vennero gli olandesi e poi infine gli inglesi.

E non è un caso che proprio nell’impero inglese l’idea di Occidente si affinò così tanto.

Perché è sempre un problema di relazione: l’occidente come lo intendiamo oggi cominciò a esistere perché esisteva anche un oriente.

E furono i grandi imperi coloniali inglesi e francesi che inventarono l’Oriente così come ancora oggi lo sogniamo o lo temiamo.

Quell’idea di un mondo sottomesso a un potere più forte e sostanzialmente uguale in tutta la sua estensione.

Un Oriente che dai Dardanelli sino al Sud Est asiatico sia fatto delle stesse cose: indolenza, propensione alla tirannide, lussuria e magari, in senso positivo, anche una certa predisposizione alla saggezza e alla spiritualità.

Tutti stereotipi che avevano una lunga storia e che erano già propri degli antichi greci (come certa storia, guarda caso proprio a partire da Erodoto), ma che l’imperialismo ottocentesco rese a dir poco attuali.

Non è un caso che fu proprio negli anni Novanta dell’Ottocento, all’interno della diplomazia britannica che nacque quella divisione che oggi diamo per scontata: Vicino, Medio ed Estremo Oriente.

Che non ci vuol molto a capire che ha senso solo se si prende come prospettiva quella di un centro che sta a Londra o a Parigi.

E non è ovviamente un caso che quel concetto che pensiamo appartenerci da sempre, “civiltà occidentale” sia nato in realtà in inglese, sempre nello stesso ambito, sempre negli stessi anni Novanta:

 “Western Civilisation”, con buona pace della commissione Valditara che è convinta di appartenervi da sempre.

Poi fu che anche l’impero inglese nel Novecento segnò il passo lasciando buona parte di quell’eredità agli Stati Uniti.

E potrebbe stupire meno a questo punto scoprire che la “storia dell’occidente” se la inventarono loro.

 O meglio fu nel 1919 che alla Columbia University di New York venne fondato un corso didattico denominato per la prima volta “Western Civilisation”.

E fu dopo la Seconda Guerra mondiale, nel 1949, che questo percorso venne definito dal congresso dell’”American Historical Association”.

L’idea era ormai chiara: c’era una civiltà la cui evoluzione andava dai greci ai romani, passando per l’Europa rinascimentale per giungere sino agli Stati Uniti, intesi come apice della libertà e della democrazia.

 

Quindi per favore basta, o almeno imparate a fare la storia per davvero. Che la storia al suo meglio non è quel triste positivismo di ritorno che dite voi: «La storia come specchio dei progressi dello spirito umano ma al tempo stesso, necessariamente, anche degli ostacoli che ad esso si frappongono».

 

No, la storia al suo meglio è dubbio. Dubbio nei confronti delle fonti che si studiano e dubbio applicato ai facili concetti utilizzati per comprendere il passato.

Ma proprio in nome del dubbio, rimane a questo punto un’ultima domanda: perché tutto questo bisogno di Occidente nella scuola?

Perché ora? Perché in questo modo?

Basta la presenza di un governo populista a spiegare una simile marcia indietro dopo anni di faticosi tentativi verso una storia plurale e un po’ più globale?

Credo di no.

Credo anzi che la questione sia molto più drammatica.

Qualche tempo fa avevo cominciato un mio libro invitando i lettori a provare a disegnarlo, l’Occidente.

Suggerivo allora che si sarebbe potuto cominciare con gli Stati Uniti e l’Unione europea, ma poi avremmo dovuto aggiungere anche il Canada e l’Australia; e a questo punto a pensarci meglio avremmo unito anche il Giappone, la Nuova Zelanda e la Corea del Sud.

E questa assenza di geografia sarebbe stata tenuta insieme da cosa?

Da una certa idea di libertà e garanzie individuali, liberalismo e democrazia, oltre soprattutto a una chiara economia di mercato.

Ecco è passato neanche un anno e questa immagine sta già svanendo.

Il mondo si sta ridisegnando sotto i nostri occhi, trascinato da una serie di drammatici conflitti che trasformano priorità e strategie.

E in tutto questo uno dei pochi elementi di convergenza tra alcuni dei grandi protagonisti di questi cambiamenti è proprio l’odio nei confronti dell’Occidente.

Lo ripetono in modo talvolta sguaiato i russi, che almeno dall’Ottocento vivono un rapporto conflittuale contro il molle occidente europeo, colpevole di minacciare i sani valori ancestrali del loro paese;

 lo sentono i cinesi, che non hanno mai dimenticato le umiliazioni subite in periodo coloniale;

lo gridano nei paesi musulmani ogni volta che una strage di civili insanguina le strade.

 

E forse, in un misto di indifferenza e ingenuo senso di superiorità, tutto questo potevamo pure sopportarlo.

Ma ora anche gli Stati Uniti guardano alla vecchia Europa con un misto di disgusto e incomprensione, obbligandoci dunque all’unica domanda che non avremmo mai voluto farci: noi chi siamo?

 Così “occidente” diventa una parola improvvisamente necessaria, un modo per aggrapparci a qualcosa di solido, specie se il nuovo ci fa paura, perché non lo capiamo e sentiamo di non appartenergli.

E finisce che magari in qualche piazza, qualcuno ritorni ai greci e di lì ricostruisca con orgoglio il proprio canone occidentale, fatto di monumenti bellissimi: Omero, Dante, Leopardi, Shakespeare…

 

Ma se c’è una cosa che la storia insegna è che i monumenti diventano importanti quando sentiamo che il loro senso comincia a sfuggirci.

Parlare di monarchia o di impero è sempre stato più necessario quando simili istituzioni erano al tramonto.

E forse con l’Occidente sta capitando la stessa cosa.

Certo niente finirà domani e quella parola avrà ancora una lunga storia, ma non è affatto detto che il suo significato continuerà ad essere lo stesso, soprattutto perché già oggi non c’è alcun significato così solido a cui aggrapparsi. Intendiamoci:

sono il primo ad essere convinto che studiare le proprie radici a cominciare da quelle cittadine, regionali e nazionali, sia importante.

Aiuta a definirsi e a percepire delle coordinate con cui guardare il mondo.

 Ma questo non vuol dire pensare che tali radici siano le uniche o, peggio, siano in qualche senso superiori ad altre.

Vuol dire solo darsi un punto di riferimento per guardare al mondo.

Perché non c’è nulla di male nell’essere attraversati da sempre da una storia plurale;

non c’è nulla di male nel sapere che gran parte dei nostri risultati migliori, dagli algoritmi, alla bussola sino al divano, tanto per dire, ci è stato dato grazie alle mescolanze e agli incontri di culture.

Non c’è nulla di male nel saperci parte di un mondo più vasto che possiamo studiare solo conoscendone la storia: araba, turca, cinese, indiana, russa… Soprattutto, non vale quasi mai la pena scommettere sui muri; molto meglio scavare alla ricerca di radici grandi: profonde certo, ma capaci di allargarsi sino ad abbracciare il mondo.

 

Le due libertà di Benjamin

Constant e la crisi dell’Occidente.

  Linkiesta.it – (16 aprile 2024) - Ugo Arrigo – Redazione – ci dice:

Nonostante i campanelli d’allarme, Europa e Stati Uniti hanno continuato a pensare che le democrazie liberali non potessero vacillare, ma il forte individualismo nelle società moderne potrebbe portare alla loro disfatta.

(LaPresse).

Le crisi internazionali in corso, la guerra iniziata due anni fa dalla Russia nell’Europa stessa, il massacro del 7 ottobre e quello che ne è seguito a Gaza e gli attacchi tra Israele e Iran devono farci riflettere su quali rischi stia correndo la civiltà occidentale.

Siamo certi che i valori delle nostre democrazie liberali, che si sono formati lentamente e gradualmente a partire dalla civiltà greco-romana ma sono giunti a completo riconoscimento solo dopo la Seconda guerra mondiale, non siano a rischio?

 

Dopo il 1989 ci siamo illusi che i nostri valori di libertà, tolleranza, confronto delle idee nel reciproco rispetto, cooperazione e solidarietà, controllo democratico dei poteri, ed economia di mercato sarebbero divenuti universalmente accettati e promossi.

 Il crollo improvviso e inatteso del muro di Berlino e della cortina di ferro come anche il loro dissolvimento senza macerie, quasi fossero stati solo cortine di nebbia, ci hanno introdotto a una sorta di paradiso terrestre dell’ottimismo.

 

E, quali novelli Candidi, ci siamo adagiati per un trentennio in una realtà immaginaria e illusoria, trascurando i campanelli d’allarme.

Eppure, abbiamo avuti diversi segnali che non tutto stesse andando per il verso giusto nell’ultimo ventennio.

 

Il massimo successo dell’Occidente e la massima espansione delle democrazie si sono realizzati nel quindicennio successivo alla caduta del muro, quando in Europa anche i Paesi dell’Est, dopo la caduta dei regimi autoritari di destra in Grecia, Portogallo e Spagna, hanno adottato regimi democratici ed era ipotizzabile che potesse farlo anche la Russia.

 

Nel 2004 l’Unione europea si è ampliata, passando da quindici membri a ventisette, includendo otto paesi dell’Est Europa, tra cui i tre baltici, che avevano fatto parte dell’Unione Sovietica, e altri quattro che avevano fatto parte del patto di Varsavia (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), mentre la Germania Orientale era già entrata con l’unificazione tedesca.

 

Quando nel 2007 l’Unione europea raggiunse la massima espansione ammettendo gli ultimi due Paesi del patto di Varsavia, la Romania e la Bulgaria, era tuttavia già iniziata la fase negativa del ciclo geopolitico, che è peggiorata sino alla crisi in corso.

 A metà del 2005 i francesi e gli olandesi si erano infatti espressi in maggioranza negativamente nei referendum di ratifica della Costituzione europea, con l’effetto di bloccare l’intero processo e di mandare la Costituzione su un binario morto. Quello è stato il vero punto di svolta, molto prima della Brexit e dei vari movimenti nazionali sovranisti e antieuro.

 

Perché i popoli europei non hanno compreso la necessità di una cittadinanza europea accanto a quella nazionale, e di un salto di qualità nella cooperazione tra gli Stati europei che attraverso la Costituzione avrebbe creato le condizioni per una possibile federazione, oltre che accresciuto le garanzie per le nostre libertà e per la nostra sicurezza?

Quando la sua ratifica è avvenuta tramite voto parlamentare è andata in porto quasi all’unanimità, mentre i quattro referendum hanno avuto esito negativo in due casi, e anche in Lussemburgo, storico europeista e padre fondatore di tutte le istituzioni comunitarie, il quarantatré per cento dei votanti si espresse in maniera contraria.

Solo gli spagnoli sostennero in massa la Costituzione, portando il sì quasi al settantasette per cento.

 

Vi è stata dunque una dicotomia, uno scollamento, tra valutazione dei parlamenti e valutazione diretta dei popoli.

Le opinioni pubbliche non sembravano più allineate con quelle dei rappresentanti eletti poco tempo prima.

Lo stesso si è ripetuto con esiti ancora più traumatici nel successivo referendum britannico che ha avviato la Brexit.

E non parliamo dei diversi movimenti populisti che si sono diffusi in molti paesi e hanno raggiunto (per ora) il culmine nel 2016 con l’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti.

 

Quale può essere la spiegazione di questa incapacità politica dei popoli persino nelle storiche e consolidate democrazie liberali?

 L’interpretazione che ritengo più adeguata si basa su un carattere fondamentale della modernità del mondo occidentale, ossia la separazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra agire individuale e agire collettivo.

La sfera privata prevede il perseguimento individuale del proprio benessere, incluso quello materiale, secondo i propri valori e le proprie preferenze.

 

In questo differisce la libertà dei moderni rispetto a quella degli antichi, come illustrato da Benjamin Constant nella famosa conferenza del 1819 “De la liberté des anciens comparée à celle des modernes”:

«Il fine degli antichi era la divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo che essi chiamavano libertà.

Il fine dei moderni è la sicurezza dei godimenti privati;

ed essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti».

Inoltre, «l’indipendenza individuale è il primo bisogno dei moderni: di conseguenza non se ne deve mai chieder loro il sacrificio per stabilire la libertà politica».

 

Ma poiché le libertà individuali debbono essere garantite dalle istituzioni politiche vi è la necessità accanto alla sfera privata di quella pubblica, il cui obiettivo è il perseguimento collettivo della sicurezza e della difesa degli spazi individuali privati dai mali collettivi:

«La libertà individuale, lo ripeto, (è) la vera libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è quindi indispensabile», spiega “Constant”.

In società complesse non è pensabile che esistano preferenze condivise dall’intera collettività su ciò che è bene.

 

Al più, sono condivise da sottoinsiemi più o meno ampi, ma che non esauriscono l’intero corpo sociale.

Un esempio possono essere le preferenze in merito alla religione: se la religione è ricondotta alla sfera privata delle persone allora in una società tollerante possono convivere pacificamente cristiani, musulmani, ebrei, atei, ecc.

Un altro esempio sono le preferenze politiche, tutte ammesse nei sistemi liberaldemocratici a condizione che non mettano in discussione e non tentino di sovvertire i medesimi.

 

Se i gusti e le preferenze su ciò che è bene sono necessariamente divergenti tra le persone, lo stesso non si può dire per i mali, rispetto ai quali non può che esistere identità di giudizio: guerre, epidemie, carestie, cataclismi, violenze sono mali per chiunque si possa ritrovare a subirli, senza sfumature di opinione possibili.

 Ma quali sono le istituzioni e i mezzi che consentono di perseguire il bene individuale, e quali invece quelli che permettono di sfuggire con efficacia ai mali collettivi?

La risposta al primo quesito è facile: scelte individuali non alterate da forze esterne e l’economia di mercato.

È altrettanto semplice, ma non così riconosciuta, la risposta al secondo:

l’azione politica degli Stati e, al loro interno, l’azione politica dei cittadini.

 

Noi possiamo comprare sul mercato quasi tutti i «beni» che ci servono, ma non la garanzia delle nostre libertà e la nostra sicurezza.

Ecco dunque che torna in campo la libertà degli antichi, quella politica, che occorre invocare come deus ex machina quando le libertà individuali – e con esse anche i godimenti privati – appaiono a rischio.

Sul tema tre affermazioni di “Constant”, a distanza di più di duecento anni, appaiono attualissime e su di esse dobbiamo riflettere.

 

La prima:

«Se la libertà che conviene ai moderni è differente da quella che conveniva agli antichi il dispotismo che era possibile presso gli antichi non è più possibile presso i moderni».

Ne siamo ancora certi dopo la prima elezione di Trump, la fine golpista di quel mandato e gli attuali sondaggi sulle prossime elezioni?

 

La seconda:

«Dal fatto che siamo spesso distratti dalla libertà politica più di quanto potevano esserlo (gli antichi) e che nella nostra condizione ordinaria possiamo essere meno appassionati per essa può derivare che talvolta trascuriamo troppo, e sempre a torto, le garanzie che essa ci assicura».

Questa è un’analisi di strepitosa validità:

 dopo il 1989 e la caduta dei regimi in Europa Orientale abbiamo ritenuto che tutti i rischi alle nostre libertà fossero scomparsi, ci siamo cullati nel mercato e abbiamo colpevolmente trascurato la politica.

 E non ci siamo accorti che non ci troviamo più in una «condizione ordinaria».

“Benjamin Constant” continua così, con ottimismo che ci farebbe piacere condividere, l’affermazione precedente:

 «Ma al tempo stesso, poiché teniamo assai più degli antichi alla libertà individuale, noi la difenderemo, se è attaccata, con maggior abilità e tenacia; e per difenderla abbiamo mezzi che gli antichi non avevano».

Sui mezzi ha indubbiamente ragione, e quelli di cui possiamo disporre noi ora sono assai più estesi rispetto a quelli della sua epoca.

Ma siamo certi che stiamo effettivamente difendendo la nostra libertà individuale «con maggior abilità e tenacia»?

Per esempio in relazione alla libertà a rischio degli ucraini?

 

Infine:

 «Dal fatto che la libertà moderna differisce dalla libertà antica deriva infatti che essa è altresì minacciata da un pericolo di natura differente.

Il pericolo della libertà antica era che gli uomini, attenti soltanto ad assicurarsi la partecipazione al potere sociale, non rinunciassero troppo a buon mercato ai diritti e ai godimenti individuali.

Il pericolo della libertà moderna è che, assorbiti nel godimento della nostra indipendenza privata e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, noi possiamo rinunciare troppo facilmente al nostro diritto a partecipare al potere politico».

E come dargli torto?

Uscire dall’UE costerebbe alla

Germania 2,5 milioni di

 posti di lavoro.

Rsi.ch-(18-02-2025) - ATS/ANSA/M. Ang. – Redazione – ci dice:

 

La cosiddetta Dexit, l’uscita della Germania dall’Unione europea, costerebbe al Paese due milioni e mezzo di posti di lavoro e la perdita di circa il 5,6% del PIL reale; conti al netto di un’uscita anche dalla moneta unica.

 Sono i calcoli dell’Institut der deutschen Wirtschaft (IW) che ha analizzato il programma elettorale del partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD).

 

Quello sui rapporti con l’Europa è il tema che più di tutti preoccupa gli imprenditori tedeschi rispetto alla crescita del partito:

 il 77% degli imprenditori considera AfD “un rischio per la sopravvivenza dell’Euro e dell’Unione europea”.

Altro elemento preoccupante è quello relativo alla necessità di forza lavoro, la cui mancanza può essere affrontata solo ricorrendo agli stranieri.

In questo caso il problema sarebbe rappresentato dal convincere manodopera straniera a trasferirsi nelle roccaforti elettorali di AfD.

 

Nel presentare il rapporto “Hildegard Mueller”, presidente dell’Associazione dell’industria automobilistica, ha detto che “la politica economica di AfD è dannosa per l’economia e significherebbe, se realizzata, un’enorme perdita di benessere”.

Analizzate dall’”IW “sono anche le idee del partito sulle tasse e sul cambiamento climatico, rispetto al quale il partito mostra un chiaro atteggiamento negazionista e propone di abbattere i sistemi eolici.

 “Essendo quest’ultimi in gran parte in mano privata, questa proposta rivela un atteggiamento ambivalente del partito rispetto alla proprietà privata”.

 “Tutti questi risultati - conclude il rapporto - dimostrano che l’impegno politico-partitico, finora unico nel suo genere, di aziende, imprenditori e associazioni a favore della cultura democratica è nel loro ben noto interesse”.

 

Secondo un sondaggio” Fdp” e “Linke” rientreranno in Parlamento.

 

Intanto, a meno di una settimana dalle elezioni, l’”istituto Forsa” ha reso noti i risultati di un sondaggio condotto per le reti Rtl/Ntv.

I nuovi dati sono incoraggianti per i liberali della Fdp e la Linke che rientrerebbero in Parlamento.

La situazione, dunque, si complica perché i seggi vanno divisi tra più partiti e questo rende più difficile la strada per definire una coalizione.

 Al momento in testa resta la Cdu-Csu (Unione Cristiano-Democratica e Unione Cristiano-Sociale) (30%), AfD (20%), Spd (Partito Socialdemocratico, 16%), Verdi (13%), Linke (La Sinistra, 7%) e Fdp (Partito Liberale Democratco, 5%).

Resterebbe fuori dal Parlamento il gruppo di “Sahra Wagenknecht “(Bsw), sostanzialmente una forza di sinistra.

 In questo scenario una coalizione tra conservatori e socialdemocratici avrebbe una maggioranza di appena due seggi, mentre mancherebbe del tutto nel caso di una coalizione tra Verdi e conservatori.

 

 

 

 

Grossraum Europa, o

dell’‘irresponsabile’

egemonia tedesca

 

lacostituzione.info - Andrea Guazzarotti – (25 Febbraio 2025) – ci dice:

 

L’anomalia tedesca è l’anomalia dell’UE:

una Nazione cui era interdetto, dopo la disfatta del Terzo Reich, il perseguimento della propria prosperità attraverso la forza dello Stato, e che sceglieva, pertanto, di basare quella prosperità sull’economia e derubricare lo Stato a mero apparato servente.

Questa l’essenza dell’ordoliberismo tedesco, secondo Foucault:

 esso risponderebbe alla domanda cruciale per cui, «dato uno stato che non esiste, in che modo farlo esistere a partire da quello spazio non statale che è quello di una libertà economica?» (Foucault, 83ss.).

L’aforisma di Foucault è applicabile all’Unione europea, declinandolo più chiaramente:

 «dato uno Stato che non esiste e che non può esistere», essendo l’UE la risultante di una duplice sconfitta (militare di Germania e Italia, geopolitica di Francia e Regno Unito) e della scelta statunitense di incentivare l’unione economica garantendo al contempo la difesa militare dell’Europa occidentale.

Ma un’entità che non ha l’onore e l’onere della difesa esterna non ha neppure il potere di scegliere il proprio nemico esterno, che è poi l’essenza della sovranità secondo Carl Schmitt.

Quel nemico veniva, infatti, predeterminato dagli USA e individuato nell’Unione sovietica.

La rinuncia a una politica estera autonoma era una condizione posta dal vincitore che tollerava assai poche eccezioni, come dimostrato dalla precoce avversione USA alla Ostpolitik della Germania federale negli anni Settanta e già sotto l’amministrazione Kennedy, la quale impose, tramite NATO, l’embargo sulle esportazioni di oleodotti dalla RFT all’URSS (Halevi, 218).

Ma era la natura stessa delle entità statuali europee che gradualmente venivano “federate” a rendere indispensabile l’eterodirezione della politica estera e di difesa:

la differenza di vedute degli Stati europei in politica estera era tale da rendere possibile l’unione sempre più stretta tra i loro popoli (come recitano i Trattati europei) solo a patto che la difesa fosse esternalizzata agli USA attraverso la NATO (Chessa).

Il che si è reso sempre più evidente dopo l’allargamento a Est dell’UE all’inizio degli anni Duemila.

 Sotto questo punto di vista, la moneta unica è stata la conferma di tale assetto sbilenco.

Solo chi reputa di non dover mai proiettare potenza attraverso la guerra – anche difensiva – può disfarsi della sovranità monetaria, attribuendola a un’entità completamente de-politicizzata e irresponsabile.

Tutte le guerre sono state condotte attraverso la gestione monetaria del debito pubblico (Eichengreen et al.).

Non è per caso che un Paese come il Regno Unito abbia evitato la follia dell’euro.

 

La Germania non rinunciava, però, a ciò cui uno Stato – specie se potente – è necessariamente chiamato, la proiezione della propria potenza, appunto.

 Solo che lo faceva attraverso l’economia:

mentre l’anglosfera usava la finanza per proiettare la propria potenza, la Germania usava il mercantilismo dei propri crescenti surplus commerciali (Mangia).

Un mercantilismo a lungo tollerato dagli USA, fintanto che rimaneva confinabile al piano economico;

 poi stroncato una volta che il mix su cui era basato – energia a basso costo dalla Russia e fortissimo interscambio con la Cina – assumeva implicazioni sempre più chiaramente geopolitiche.

 

L’UE dell’euro e dell’austerity ne paga le conseguenze, per essersi prestata a strumento di tale proiezione di potenza mercantilista tedesca:

euro e austerity, negli anni immediatamente precedenti la Brexit e il primo mandato di Trump, non solo non hanno frenato quella pulsione delle élite tedesche – intrinseca al moralismo religioso dell’ordoliberismo (van der Walt), ovvero alla struttura produttiva tedesca (Halevy), o ancora alla logica della “società-macchina” (Todd, 180) – ma l’hanno amplificata fino all’estremo.

Come e più del “Sistema Monetario Europeo” (SME) varato nel 1978, l’euro ha costituito la naturale cintura protettiva che ha consentito alla Germania di accumulare surplus commerciali senza contraccolpi sul debito pubblico, diversamente dal Giappone (Halevy, 220).

E, tuttavia, il rifiuto di ogni ruolo apertamente e responsabilmente egemonico delle élite tedesche ha reso del tutto impermeabile l’opinione pubblica tedesca alle ricorrenti rivendicazioni di solidarietà redistributiva da parte degli Stati (Italia e Francia) che più hanno perso in quella scommessa dell’euro (Streek 2022).

 

La macchina dell’UE si è rivelata un dispositivo quanto mai duttile ed efficace nel veicolare, in quegli anni della crisi dei debiti sovrani e della Troika, la scelta geopolitica tedesca, barattata per scelta economica razionale ed efficiente per tutti gli Stati.

Istruttiva la narrazione nostrana di un irenico convergere di valori costituzionali comuni degli Stati membri che il diritto europeo si sarebbe limitato a razionalizzare (Della Cananea).

Un ottundimento di governi e di istituzioni europee (BCE e Commissione in testa) che, anziché tentare di frenare quella pulsione tedesca, l’hanno irresponsabilmente presa a modello (Flassbeck, Lapavitsas).

L’esito – anche da un punto di vista meramente geoeconomico – è stato squilibrante non solo entro l’UE ma nell’intera “economia mondo”:

 se fino al 2010 la bilancia dei pagamenti dell’intera Eurozona era tendenzialmente in equilibrio col resto del mondo (il surplus tedesco venendo normalmente compensato dal deficit commerciale degli Stati membri mediterranei), a partire dal 2010 il surplus cresceva a livelli mai raggiunti prima e inconcepibili per un’economia così vasta e così benestante (Bellofiore et a., 95).

Che si trattasse di qualcosa di diverso da un’autentica politica economica era parso già chiaro a chi ha sempre diffidato delle dottrine ordoliberiste tedesche:

le politiche economiche trainate dall’export (che impongono la repressione della domanda interna e deflazione salariale) hanno visto la Germania frenare per decenni la propria crescita (e di conseguenza quella dei propri partner) di almeno l’1,5% del Pil all’anno, lasciandosi dietro più di un sospetto circa la loro reale finalità geopolitica (Ciocca).

 L’esito di questo “successo” nella gara dell’export è stato destabilizzante anche all’interno della società tedesca:

 non si tratta solo del noto deficit di investimenti pubblici e privati che affliggono da anni la Germania, ma anche dell’aumento impressionante dell’indice di disuguaglianza (DIW).

La qual cosa ha reso ampie fasce dell’elettorato tedesco refrattarie a ogni discorso sulla solidarietà europea e facili prede della retorica anti-immigrati e anti-UE di partiti “revisionisti” come AfD.

 

L’aforisma di Foucault sull’imperativo della Germania post-nazista di non pensarsi come Stato-nazione bensì come “economia nazionale aperta”, andrebbe invero completato: non si è trattato – per la Germania – solo di interdire a sé stessa ogni idea di potenza dello Stato, bensì anche ogni idea di egemonia spaziale.

 

Carl Schmitt aveva prospettato, ben prima del suo famoso “Nomos della terra” del 1950, una soluzione per uscire dal diritto internazionale alla vigilia della guerra (Schmitt): adattando la dottrina Monroe degli USA al contesto europeo e alla dottrina razziale nazista, la proposta di Schmitt rinnegava frontalmente l’uguaglianza formale degli Stati e immaginava la contrapposizione di “grandi spazi” (Grossräume), ciascuno incentrato su uno Stato guida cui sono subordinati Stati satellite (Losano 59ss.).

Dopo la fine della guerra fu rinvenuto nell’Archivio del Ministero degli Esteri tedesco un progetto di trattato fra Germania, Italia e Giappone sulla configurazione dei grandi spazi in Europa e nell’Est asiatico, il cui preambolo parlava della «necessità storica di trasformare i Grandi Spazi in Comunità internazionali di tipo nuovo e con una propria personalità giuridica».

Quei grandi spazi avrebbero dovuto proteggere gli Stati dal «timore dell’oppressione da parte di potenze e influenze intruse».

Quel progetto distopico fallì, nella sua modalità bellicistica e razziale, per poi rinascere – in Europa occidentale – nella sua versione pacifica (e pacifista?) di un’egemonia economica fondata sul consenso e/o l’organizzazione internazionale utopicamente tendente al federalismo (Losano 71ss.).

Gli storici hanno rilevato plurime tracce di una riconversione di piani, idee, protagonisti del “Grossraum nazista” in altrettanti piani, idee e protagonisti della costruzione dell’Europa funzionalista dei primi anni (Heilbronner).

L’aspirazione di fondo, al di là del progetto razziale nazista, di difendere il continente europeo dalla minaccia bolscevica (soprattutto) e (poi) dall’egemonia economica degli USA era condivisa dalle élite post-liberali di altri Paesi europei (ibidem, p. 1585ss.).

 

Chi, tra i migliori giuristi tedeschi studiosi dell’UE, ha analizzato il progetto del “Grossraum nazista”, ha concluso che si trattava di un’entità nebulosa anche sotto il profilo economico (oltre che giuridico, amministrativo, ecc.), di cui era chiaro soltanto il primato della volontà dello Stato-guida sugli Stati satellite (Joerges). Specularmente, l’Unione europea è un’entità volutamente nebulosa quanto alla gerarchia materiale tra i suoi Stati membri, ma di cui – a partire dalle riforme “che hanno salvato l’euro” – è inequivoco l’indirizzo politico-economico fondamentale (il mercantilismo di stampo tedesco).

 

Un importante storico inglese studioso dell’integrazione europea ha cercato di dimostrare come quest’ultima, lungi dall’essere un progetto di progressiva e incrementale federalizzazione tra Stati europei desiderosi di trasformarsi negli Stati Uniti d’Europa, è nata e avanzata come progetto di governi nazionali guidati da due priorità:

imbrigliare la Germania e sostenere le preferenze politiche interne, in modo da salvare il modello di Stato-nazione dalla catastrofe della guerra e dalla fine del colonialismo europeo (Milward).

Questo quadro, tuttavia, appare coerente con gli sviluppi avutisi fino alla fine della guerra fredda, la riunificazione tedesca e il varo della moneta unica, ove la rete concepita (specie dalla Francia e dalla Commissione Delors) per tenere imbrigliata la Germania al resto della “Vecchia Europa” si è rivelata non solo troppo debole ma convertibile in un volano per la stessa egemonia economica tedesca sul resto dell’Unione.

 Le radici di questo squilibrio risalgono, invero, alla fine di Bretton Woods, che era poi quel reticolo di istituzioni che consentivano agli USA di usare egemonia verso il resto del Mondo e di assumersene la responsabilità, secondo un modello di capitalismo “embedded”, imbrigliato in regole e istituzioni internazionali (in primis, controllo della circolazione dei capitali) e addomesticato dalle logiche di pieno impiego keynesiane.

Dal crollo di quel modello è scaturita l’egemonia irresponsabile degli USA, da cui, a sua volta, è derivata quella tedesca, diversamente irresponsabile.

 

La retorica del “Grossraum Europa” e i discorsi sull’egemonia europea della Germania nazista (affermatisi dopo un’iniziale fase “euroscettica” del nazionalsocialismo) erano tali da rendere impronunciabile, nella Germania federale del Secondo dopoguerra, la parola “egemonia” (Streeck).

Un tabù che è perdurato fino ai nostri giorni, nonostante l’evidente ruolo egemonico giocato dalla Germania, specie dopo la riunificazione.

 Il perpetuarsi di quel tabù, contro ogni evidenza materiale, è equivalso a irresponsabilità, se non soggettiva senz’altro oggettiva.

Oggi l’estrema destra tedesca di AfD non osa (ancora) pronunciare la parola “egemonia tedesca”, mentre non disdegna riferimenti alla “teoria del Grossraum” di Carl Schmitt, per scimmiottare l’invocazione al multipolarismo di Putin e di Xi, non certo per portare acqua al mulino dell’europeismo anti egemonico delle “Carte dei diritti e della solidarietà europea”, bensì per accodarsi alle critiche strumentali all’”universalismo dei diritti umani” (Pfahl-Traughber; Janzen).

 In questo trovando pieno sostegno nella nuova amministrazione Trump. Quest’ultima è soltanto l’espressione più estremizzata di una tendenza statunitense iniziata già all’inizio del Duemila che ha visto gli USA reagire all’aumento di potenza di Cina, India, ecc., nelle istituzioni multilaterali (WTO in primis) ricorrendo al boicottaggio di queste stesse istituzioni e del multilateralismo tout court, preferendo ricorrere alla logica del divide et impera, ossia ricorrendo a negoziazioni bilaterali con i singoli Stati, specie i più deboli.

Sostenere prima la Brexit e, attraverso AfD, un’eventuale “Germanexit”, sembra l’applicazione all’UE di tale strategia.

 

Il “Grossraum non era fondato su una Costituzione, bensì su un trattato”.

Che i destini di UE e Germania siano in qualche modo convergenti è rispecchiato anche dal rebus della loro Costituzione: come l’UE, nonostante si proclami dal lontano 1963 un’entità indipendente e autonoma dal diritto internazionale (Corte di giustizia, Van Gend, 1963) dotata di una propria “carta costituzionale” (Corte di giustizia, Le Vert, 1986), continua a fondarsi su due trattati internazionali, così la Germania continua a fondarsi su un atto volutamente non intitolato “Costituzione/Verfassung” bensì “Legge fondamentale/Grundgesetz”.

Come l’UE ha fallito nel darsi una propria Costituzione, con il maldestro tentativo del 2004 naufragato nei referendum olandese e francese del 2005, così la Germania si è sottratta alla promessa costituzionale iscritta nella sua Legge fondamentale (art. 146) di dar vita a un autentico processo costituente all’atto della sua agognata riunificazione.

Quest’ultima si fonda, ancor oggi, sul “Trattato di riunificazione” del 1990 (che qualcuno ha cupamente ma lucidamente ribattezzato “Annessione”: Giacchè), che, a sua volta, si basa sul più “burocratico” art. 23 della Legge fondamentale, oggi abrogato, che ne consentiva l’estensione ad “altre parti della Germania”.

Un’autentica fase costituente avrebbe avuto “l’effetto simbolico di non far sentire alla popolazione della DDR che qualcosa era stato imposto loro, ma che avevano partecipato alla creazione dell’ordinamento giuridico” dell’intero Paese (Grimm).

È tutt’altro che certo che tale processo costituente sarebbe bastato, da solo, a scongiurare future spaccature, ma è chiaro che ciò contribuisce oggi ad alimentare quel senso di subalternità nei cittadini tedeschi dell’Est, i quali tendono “a credere che la promessa di uguaglianza della Legge fondamentale non sia stata realizzata” (Lorenz).

 

La Germania ha, in fondo, rispecchiato quanto avvenuto nelle economie nazionali dell’Europa centrorientale integrate nella sua economia esportatrice:

un parallelo e crescente processo di integrazione (economica) esterna e disintegrazione (sociale) interna (Guazzarotti).

Integrazione economica esterna sempre più accentuata con l’Eurasia (Cina e Russia) e sempre più debole rispetto all’Europa mediterranea;

disintegrazione sociale interna, che dalla linea di faglia Est-Ovest si allarga all’intera società, tramutandosi nella rivolta guidata dalla forza “antisistema” di AfD.

 Il paradosso è che quest’ultima, mentre rifiuta di riconoscere agli immigrati il ruolo cruciale che spetta loro nella “macchina produttiva” tedesca, è perfettamente consapevole dell’insostituibilità del legame economico con la Russia.

 

Non sappiamo cosa produrrà questo intreccio di contraddizioni nella politica tedesca dopo le elezioni del 23 febbraio 2025.

 Ma è chiaro che l’UE ne rifletterà gli andamenti.

Come la riforma dell’UE in senso deflattivo del 2011-2013 è stata preceduta dalla revisione costituzionale tedesca del 2009 che ha introdotto il famigerato “Schuldenbremse” (freno al debito), così la revisione (impossibile ma necessaria) dei Trattati europei non potrà che dipendere dall’abrogazione di quella norma costituzionale tedesca.

 L’amaro paradosso è stato quello per cui il “nuovo Patto di stabilità del 2024 “ha tradito anni di proposte per l’inversione dello spirito deflattivo del vecchio Patto (voluto sempre dai tedeschi nel 1997) a causa della disperata lotta del (micro) Partito liberale tedesco contro la propria estinzione guidata dal Ministro delle finanze Lindner, poi resosi responsabile delle elezioni anticipate e infine dimessosi dopo la disfatta del suo partito alle ultime elezioni.

 

Uscire dalla crisi tedesca ed europea “da sinistra” sembra davvero un’utopia.

Gli USA di Trump potrebbero rendere pericolosamente concreta la distopia di un’uscita dalla crisi attraverso il riarmo dei Paesi UE, uniti dalla “affratellante” esigenza di economie di scala dell’industria bellica europea.

La storia dello “Eurofighter”, che ha visto per decenni collaborare imprese britanniche e tedesche prima della Brexit potrebbe essere istruttiva.

 

 

 

Germania e Unione europea allineate:

norme sulla sostenibilità, vade retro!

Valori.it - Andrea Di Turi – (17.04.2025) – Redazione – ci dice:

 

 

Il nuovo governo tedesco mette subito nel mirino le norme nazionali sulla due diligence.

Un po’ la stessa cosa che sta accadendo in Europa.

(La nuova coalizione tedesca di governo cancella la legge nazionale sulla due diligence.)

La scusa è la stessa:

semplificare per non gravare sulle imprese, tutelare la competitività e omaggiare il solito totem neoliberista della crescita.

Ma anche la realtà, al di là delle scuse, è la stessa:

 si vuole deregolamentare.

 Dando il chiaro segnale che la sostenibilità non è più una priorità.

Il punto è che sembra, da una parte, che si stia prendendo una china da cui sarà poi molto complicato risalire.

Dall’altra, che forse il peggio deve ancora venire.

Perché si sa poi come vanno le cose, quando la palla di neve rotola a valle:

diventa valanga e si salvi chi può.

Sulla due diligence la Germania si mette in “scia” alla Commissione europea.

A lanciare la palla, per stare in metafora, è stata la Commissione europea con l’ormai famigerato “pacchetto Omnibus”:

 una bella sforbiciata a normative di sostenibilità che fino a ieri erano considerate architravi dell’impegno del blocco su questi temi, e via così perché il vento politico è cambiato.

 Ora è la volta del Paese più importante del Vecchio continente, la Germania, che si è messo idealmente in scia di Bruxelles.

 

Poco dopo aver trovato la quadra sull’accordo di coalizione, i partiti di governo tedeschi – i conservatori di CDU-CSU e i progressisti della SPD – hanno deciso anch’essi di prendere in mano le forbici.

E le hanno usate, come ha fatto l’Europa, per dare un bel taglio alle norme sulla sostenibilità.

La scelta della vittima sacrificale è ricaduta sulla legge tedesca sulla due diligence su diritti umani e ambientali nelle catene di fornitura.

Con un’aggravante, se possibile, rispetto alle sforbiciate operate a Bruxelles. Perché, in questo caso, parliamo di una legge già in vigore.

 

Il “Supply chain Act” (LkSG), infatti, era stato introdotto nel 2021 ed era vigente dal 2023.

Imponeva alle grandi aziende tedesche di prevenire e mitigare i possibili rischi di violazioni di diritti umani e gli impatti ambientali negativi lungo la catena di fornitura.

Si applicava dal 2023 alle aziende con più di tremila dipendenti e dal 2024 a quelle con più di mille, con sanzioni fino al 2% del fatturato.

Quella introdotta in Germania era una sorta di anticipazione lungimirante della “Csddd”, la direttiva europea sulla due diligence in materia di sostenibilità pubblicata nella Gazzetta ufficiale Ue a luglio 2024.

 

Sulla due diligence la Germania passa la palla alla Csddd.

Che, però, slitta slitta.

I sostenitori di questo passo indietro hanno affermato che la Germania non poteva far altro che bloccare il “Supply chain Act”.

Perché a detta loro si trattava di un atto dovuto, legato a questioni di armonizzazione della normativa nazionale con quella europea.

 Sarà.

All’opposto, però, c’è chi sempre in punta di diritto aveva detto, già quando il precedente governo tedesco aveva avanzato l’intenzione di intervenire sul Supply chain Act, che così facendo la Germania sarebbe potuta entrare in conflitto con il diritto europeo.

Perché l’arrivo di una nuova normativa europea non consentirebbe di abbassare il livello di protezione garantito da una normativa nazionale in essere.

E le previsioni della “Csddd” sono meno stringenti rispetto alla legge che era già attiva in Germania.

 

Al di là delle interpretazioni, il punto vero è che di fatto la “Csddd” ancora non c’è. Nel senso che la sua introduzione è stata fatta slittare da un’altra sforbiciata operata dall’Unione europea a inizio aprile con il “provvedimento stop the clock”. Prevede l’allungamento di un anno delle scadenze della “Csddd”, riguardo sia al recepimento negli ordinamenti nazionali (che dovrà avvenire non più entro il 2026 ma entro il 2027), sia alla sua applicazione (che partirà non più dal 2027 ma dal 2028).

 E, insieme, il rinvio di due anni dei nuovi obblighi derivanti dalla direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità (Csrd).

Per cui si sta lanciando la palla da una norma nazionale a una europea, la quale però non può riceverla perché è ancora in attesa di iniziare a giocare.

Il generale dietrofront sulla sostenibilità.

Non si può dire che il passo indietro della Germania sulla due diligence dipenda unicamente, anche se un po’ avrà contato, dal colore politico del nuovo governo. Primo, perché nella coalizione ci sono ancora i progressisti, o supposti tali. Secondo, perché già il precedente premier tedesco, espressione dalla SPD, non si era fatto problemi a chiedere esplicitamente un alleggerimento delle norme europee sulla sostenibilità.

Adducendo motivazioni che ricalcavano quelle avanzate dal mondo economico e imprenditoriale tedesco, che rispetto a quelle norme si era spesso messo di traverso.

 

Certo, non siamo (ancora) ai livelli di quanto accade Oltreoceano, dove Donald Trump fin da quando è rientrato nello Studio ovale ha aperto il lanciafiamme contro tutto ciò che avesse anche un vago sentore di sostenibilità, ambiente, clima.

Ma c’è poco da stare allegri.

Perché è vero che la Germania non sarà più la locomotiva d’Europa, o quanto meno è una locomotiva che arranca.

Però resta sempre il Paese che, quando vuole, detta legge in questa parte di mondo.

O, per dirla in modo “politically correct”, che è difficile ignorare quando imbocca con decisione una strada.

E oggi sulla sostenibilità l’ordine che arriva dalla Germania, come dall’Unione europea, è quello di un perentorio dietrofront.

Miope e pericoloso.

 

 

 

Germania (e Ue) Kaputt?

Sbilanciamoci.info - Vincenzo Comito – (3 Luglio 2025) – ci dice:

 

Dalla deriva economica al boom delle spese militari, il punto sulla situazione e sulle prospettive dell’economia e della politica tedesca, non certo brillanti, che influenzano anche altri Paesi Ue, in primis l’Italia.

Il testo che segue, appoggiandosi a numerose fonti internazionali, cerca di fare il punto sulla situazione e sulle prospettive dell’economia e della politica tedesca, situazione e prospettive che non appaiono certo brillanti, influenzando necessariamente e in senso negativo anche gli altri Paesi dell’UE, dati gli stretti rapporti economici esistenti.

 

L’analisi di Munchau.

Sul fronte dell’Europa a 27 si percepisce un diffuso sentimento di pessimismo sul futuro del continente, accanto ai primi cigolii dei carri armati.

 Al cuore della crisi ci sono indubbiamente le difficoltà della Germania, il Paese di gran lunga più importante dell’Unione.

A volte un solo libro riesce a ricostruire in modo convincente delle situazioni anche molto complesse.

 Per capire il quadro generale dell’economia tedesca può così forse bastare l’analisi che sul tema ha svolto “Wolfgang Munchau”, uno dei migliori giornalisti economici occidentali;

 egli ha pubblicato nel 2024 un volume dal titolo “Kaputt” (Munchau, 2024), che parte dalla constatazione della fine del miracolo economico tedesco e ne analizza con acume le cause.

 

In sintesi, l’autore ricorda che il mondo è cambiato e la Germania no;

essa per l’autore ha ancora un’economia da XX secolo, la cui spinta propulsiva appare ormai del tutto esaurita (tra l’altro, negli ultimi tre anni il Pil tedesco ha mostrato un segno negativo, anche se le difficoltà si percepivano già nel 2019).

 Se pensiamo poi che la Germania è di gran lunga il Paese dell’UE economicamente più importante, in particolare con il suo sistema industriale e con le strette interconnessioni di fornitura con molti altri Paesi dell’area, c’è naturalmente motivo di preoccuparsi seriamente.

 

Le ragioni della crisi tedesca per l’autore stanno principalmente nel fatto che il Paese ha gestito male lo stesso settore industriale su cui si basava il suo sviluppo e ha valutato sempre male l’evoluzione delle tecnologie e delle questioni geopolitiche.

Al momento dell’unificazione aveva alcune delle migliori imprese industriali del mondo, in particolare nell’auto, nella chimica, nella meccanica, ma non ha visto arrivare le tecnologie digitali e quando lo ha capito ne ha tratto le conclusioni sbagliate; il rifiuto di adottare le nuove tecnologie è per Munchau il peccato originale del sistema.

 

Ricordiamo che, quanto al settore tradizionalmente più importante dell’economia tedesca, l’auto, che l’era della benzina o del diesel, con tutte le sue sofisticazioni meccaniche in cui le case tedesche eccellevano, sta finendo e che l’auto elettrica che la sta sostituendo è un’altra cosa, composta com’è di batteria e software.

 Le imprese tedesche del settore automotive se ne sono accorte operativamente molto tardi ed ecco che milioni di posti di lavoro al momento sono a rischio. Mentre da Oriente incalza l’auto a guida autonoma.

 

I capi delle grandi imprese e i leader politici hanno continuato a effettuare scommesse sbagliate, tecnologiche, geopolitiche ed economiche, con l’idea che l’economia coincidesse con l’industria.

Si è diffusa presto nel Paese, continua Munchau, una mentalità neo-mercantilista che ricorda le politiche commerciali della Francia del diciottesimo secolo e che ha contagiato i politici e i manager.

 I mercantilisti amano commerciare in beni fisici e sono sospettosi delle tecnologie innovative.

 La cosa ha prima funzionato, poi però ha smesso di farlo.

La controparte del mercantilismo è il corporativismo.

Per diversi decenni i governi di destra e di sinistra hanno lavorato mano nella mano con le grandi imprese, facendo gli interessi di alcune industrie campione.

La politica industriale così si è sviluppata a spese di una diversificazione produttiva e del sostegno alle industrie nuove.

 

Anche puntare, parallelamente, gran parte delle carte sullo sviluppo delle esportazioni è apparsa a suo tempo una mossa vincente;

ma la mancanza di un rinnovamento tecnologico e l’assenza del Paese di settori nuovi, le confusioni del mondo anche prima dell’arrivo di Trump, e ancora la crescente concorrenza cinese sui settori tradizionali, dopo che Berlino aveva puntato tante delle sue carte sul gigante asiatico, hanno bloccato tale strategia.

La chiusura delle forniture del gas russo dopo lo scoppio della guerra in Ucraina ha fatto il resto.

 Intanto, il blocco della spesa pubblica ha comportato come risultato avere infrastrutture decrepite, accelerando così la débâcle.

Aggiungiamo una burocrazia elefantiaca;

 si pensi che per ottenere un permesso di costruzione in certi casi bisogna rispettare circa 3.000 normative diverse.

Nel settore militare la decisione sull’acquisto di un martello richiede sette anni di tempo, per fare giusto un esempio paradossale.

 

Leggendo il testo di Munchau a chi scrive veniva alla mente un altro libro più antico, “La strana disfatta” del grande storico francese Marc Bloch, volume scritto nel 1940, nel pieno della guerra, che racconta come i generali francesi avessero combattuto nella seconda guerra mondiale l’esercito tedesco con gli armamenti e l’organizzazione della prima.

 

La questione del lavoro.

 

È noto come il settore dell’auto sia al cuore dell’industria europea.

 Secondo una stima molto prudenziale occupa, nei Paesi dell’UE, circa 15 milioni di addetti.

E al cuore dell’auto europea c’è la Germania.

I tecnici tedeschi del settore, grazie a prodotti sofisticati venduti con forti margini in tutto il mondo, sono tra i più pagati a livello internazionale e godono tuttora di un grande prestigio (Boutelet, 2025, a).

Ma l’avvento dell’auto elettrica e in prospettiva di quella a guida autonoma, con relativo grande mutamento della tecnologia, nonché la concorrenza cinese e i ritardi accumulati dalle aziende tedesche, cui abbiamo già fatto cenno, nonché la concorrenza anche dai gruppi francesi, stanno cambiando del tutto le carte in tavola.

 Si chiudono le fabbriche, si riduce il numero dei dipendenti; è tutto uno stile di vita che è messo in causa.

 

Si perdono ogni mese 10.000 impieghi industriali, mentre il peso del settore industriale sul totale del Paese, che era del 48% nel 1960, è sceso al 28% nel 2000 e al 23% nel 2024 (Boutelet, 2025, a).

 Parallelamente diventa sempre più importante, anzi dominante, il settore dei servizi, che passa nello stesso periodo dal 38% al 76%.

 

I temi della campagna elettorale.

 

Come sottolinea “Wolfgang Streeck” (Streeck, 2025), la campagna elettorale tedesca non è stata dominata dalla grave crisi fiscale, né dal processo di riscaldamento globale, né ancora dalla stagnazione economica, dall’aumento della povertà, dal crescente decadimento delle infrastrutture fisiche del Paese, o dal declino della qualità dell’istruzione primaria e secondaria.

 Il principale argomento della campagna è stato la crescita dell’AfD e quale ruolo permettergli di giocare nella politica tedesca.

Va a questo proposito sottolineato che in tema di immigrazione le posizioni del partito di estrema destra sono in larga parte identiche a quelle del partito di Merz e che poco prima del giorno delle elezioni la AfD ha votato a favore di una risoluzione dello stesso futuro cancelliere proprio sull’immigrazione.

 

La caduta del freno al debito.

 

Quella descritta da Munchau è sostanzialmente la situazione economica che eredita il nuovo governo tedesco.

Vogliamo preliminarmente sottolineare che tra le cose buone che a nostro parere aveva fatto a suo tempo Angela Merkel c’era proprio l’allontanamento dalla vita politica di “Friedrich Merz”.

Ora tale singolare personaggio ha vinto in qualche modo le elezioni e sta cercando di portare avanti una sua politica, che ci sembra molto avventurosa su vari fronti.

I punti principali della strategia del nuovo governo sono sostanzialmente tre: l’allentamento del freno al debito, la parallela politica di riarmo, la lotta all’immigrazione.

 

Come scrive” Carlo Giordana” (Giordana, 2025), la Germania ha storicamente fatto della prudenza fiscale un pilastro identitario della propria politica economica;

 nel 2008, dopo la crisi finanziaria, è stata così introdotta una norma costituzionale per limitare severamente la spesa pubblica, provvedimento noto come lo Schuldenbremse (freno all’indebitamento).

Se vogliamo, come scrive ancora Giordana, la paura del debito era anche il riflesso dei traumi dell’iperinflazione e del collasso economico del Novecento, che si sono fortemente impressi, anche per gli esiti che hanno portato, nella coscienza collettiva.

Ma si potrebbe aggiungere che la diffidenza dei tedeschi verso il debito si può far risalire a molti secoli prima, al periodo della” Lega Anseatica”, organismo commerciale che proibì le vendite a credito per stroncare la concorrenza dei mercanti italiani nell’area.

 

Il riarmo.

 

Con le modifiche costituzionali adottate di recente al precedente meccanismo di freno al debito, la Germania investirà ora 500 miliardi in 12 anni per le infrastrutture, mentre gli investimenti nella difesa di base ammonteranno a 95 miliardi già quest’anno e raggiungeranno il 3,5% del Pil nel 2029.

Berlino farà così circa 845 miliardi di euro di nuovo debito nei prossimi quattro anni.

Intanto Merz ha deciso di mandare all’Ucraina i missili Taurus, capaci di volare sino a 500 chilometri dentro il territorio russo.

 

Il forte aumento della spesa per il riarmo è giustificato dal cancelliere Merz con la minaccia russa e con il presumibile distacco militare progressivo degli Stati Uniti dal nostro continente.

Sembra però soprattutto un facile modo per far ripartire l’economia.

 

Tale mossa trova una forte opposizione non solo da parte della Linke, della BSW, da una parte del partito dei Verdi, ma anche dalla sinistra socialdemocratica, dall’AfD e da alcuni esponenti dello stesso partito di Merz.

In particolare la vecchia guardia dell’SPD ha pubblicato una mozione che critica i piani di riarmo del Governo mentre spinge per un graduale ritorno alla distensione e alla cooperazione con la Russia.

Se un rafforzamento della difesa in Germania e in Europa appare globalmente necessario, si legge nel documento, esso deve essere inserito in una strategia di de-escalation e di costruzione di un clima di fiducia, non in una nuova corsa agli armamenti (Chassany, 2025, a).

Ricordiamo incidentalmente che i rapporti amichevoli tra Germania e Russia si sono dispiegati nell’arco di alcuni secoli.

 

I dissidenti potrebbero rendere la vita difficile al governo, che dispone di una maggioranza di soli 13 voti, in particolar modo nel far passare in Parlamento il budget, la spedizione di nuove armi all’Ucraina e il ritorno alla leva obbligatoria (Chassany, 2025, a).

 

Si sta infatti discutendo di ripristinare in Germania la leva militare obbligatoria. Sulla sia del primo discorso al Bundestag del cancelliere Merz, nel quale ha promesso di creare l’esercito più potente d’Europa a livello convenzionale.

Sempre Streek sottolinea, nel testo già citato, come il piano di riarmo del nuovo cancelliere sia stato accolto con entusiasmo dalla stampa europea.

 Così The Economist ha parlato di “una partenza magnifica del nuovo governo”, mentre si trattava di “un salto coraggioso e necessario” secondo The Guardian, di “un risveglio della Germania” per il Financial Times, di “una svolta importante e benvenuta” per Le Monde.

 

Il 4 giugno il governo di Berlino ha annunciato un piano per rilanciare gli investimenti;

 esso prevede 46 miliardi di riduzione di imposte e di accelerazione degli ammortamenti entro il 2029, misure di sostegno all’acquisto di vetture elettriche, agevolazioni per le spese in ricerca e sviluppo (Boutelet, 2025, b).

 

La politica anti-immigrati.

 

Mentre la Germania lotta con il problema della mancanza di manodopera, non riuscendo a far funzionare adeguatamente neanche i servizi pubblici di base, in giro si diffonde sempre più un sentimento anti-immigrati.

Il nuovo governo tende ad allinearsi con quei Paesi europei che cercano di inasprire le politiche migratorie.

Tra l’altro, si è avviato un programma di respingimento alle frontiere di tutti gli immigrati irregolari, compresi quelli che vogliono chiedere il diritto di asilo.

Merz ha inoltre dichiarato la volontà di istituire dei centri per migranti in Paesi terzi, mentre sta tagliando i finanziamenti alle ONG che operano a favore dei migranti in difficoltà e promette di porre fine alla possibilità degli immigrati di ottenere la cittadinanza rapidamente.

 Comunque su questo tema il cancelliere deve far fronte alle riserve e ai freni degli alleati socialisti.

 

Il problema delle pensioni e la proposta di lavorare di più.-

 

Oggi il 27% del budget del governo federale, circa 133 miliardi di euro nel 2025, viene utilizzato per coprire i buchi negli schemi pensionistici pubblici.

Gli sviluppi demografici, in particolare l’invecchiamento della popolazione, pongono pressioni crescenti sulle finanze del Paese.

Il cancelliere propone a questo proposito di introdurre incentivi fiscali per i lavoratori che decidano di continuare a lavorare dopo l’età normale di pensionamento, ma la Bundesbank avverte che tale proposta avrebbe soltanto un effetto limitato sulle finanze (Storbeck,2025).

 Un adeguato inserimento di immigrati nel tessuto produttivo potrebbe contribuire a ridurre il problema, ma su questo punto il nuovo governo non sembra disponibile.

 

Il fatto è che mentre si registrano gravi mancanze di personale in molti settori produttivi, entro il 2035 4.8 milioni di lavoratori, il 9% della forza lavoro totale, andranno in pensione e il governo deve persuadere le giovani generazioni a lavorare di più, mentre sino a ieri i sindacati spingevano per ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni.

 La Germania ha il più basso numero di ore lavorate per dipendente di tutto il mondo occidentale, mentre d’altro canto ha uno dei più alti tassi di partecipazione alla forza lavoro.

Quattro su cinque persone in età lavorativa hanno un impiego.

 

I rapporti con gli Usa e con Israele.

 

Nei primi mesi del 2025 Merz, dopo le minacce di Trump sui dazi e i suoi rapporti amichevoli con la Russia sulla questione ucraina, aveva affermato che l’Europa non poteva contare più sugli Usa per la sua difesa, che bisognava raggiungere l’indipendenza dagli stessi e che gli Usa erano ormai indifferenti al destino dell’Europa (Chassany, 2025, b).

 

Ora, a distanza di poche settimane, il cancelliere racconta invece che la Germania rimarrà dipendente dagli Usa ancora molto a lungo e, avendo parlato con Trump, si sente rassicurato dall’impegno degli Usa verso la Nato.

Inoltre egli accetta di buon grado di portare la spesa militare al 5% del Pil, come suggerito da Trump e come hanno accettato di fare quasi tutti i leader dell’UE, in un incredibile atto di servilismo atlantico.

Evidentemente a Washington dispongono di mezzi molto persuasivi nei confronti del cancelliere e degli altri.

 

Anche sul fronte dei dazi di Trump, Merz mantiene un atteggiamento amichevole, mentre spinge per un accordo rapido con Washington, a tutti i costi, è pronto ad accettare una soluzione asimmetrica, tutta a favore degli Usa, come del resto sembra auspicare la maggioranza dei Paesi dell’UE.

Si può prevedere che il negoziato si concluderà sostanzialmente più o meno alle condizioni di Trump.

 I paesi dell’UE hanno anche accettato di esentare sostanzialmente le imprese Usa dalla tassa globale minima sulle multinazionali.

Alla fine la pagheranno solo gli europei.

 

Sul fronte israeliano, bisogna ricordare che il Paese ha un complesso di colpa molto forte verso il popolo ebraico;

sembra però sia ormai passato ogni segno e la Germania non solo non ha preso posizione contro le atrocità della macchina bellica di Israele, ma ora sulla guerra all’Iran Merz ha dichiarato che Israele stava facendo il lavoro sporco “anche per noi”.

Al contrario di quanto è successo nel caso del conflitto in Ucraina, i Paesi dell’UE sono bene lontani da un accordo sulla necessità di esercitare pressioni su Israele e non si parla certo di sanzioni.

I popoli del Sud del mondo prendono nota.

 

Conclusioni.

 

L’analisi di Munchau, così come la forte affermazione dell’AfD a livello politico, ci mostrano in maniera precisa la profondità della crisi tedesca e indirettamente di quella dell’UE.

Ora, l’elezione di Merz, un personaggio di cui la maggioranza dei cittadini tedeschi, e non solo la Merkel, diffida, e che non sembra poter affrontarla in maniera adeguata, si è inaugurata una nuova stagione.

La coalizione con i socialdemocratici appare abbastanza debole e non si può prevedere quanto durerà e anche le minacce di dazi di Trump tendono a indebolire ancora di più un’economia tedesca, ed europea, già in difficoltà (Editorial, 2025). Invece degli errori sottolineati da Munchau il nuovo governo sembra incline a farne di nuovi.

 

Certo, l’allentamento del freno al debito permetterà di concentrare delle risorse importanti sul decrepito sistema infrastrutturale del Paese e ciò appare una cosa positiva, così come appare positivo il previsto aumento del salario minimo, sia pure annunciato in due tempi.

Ma il forte accento messo soprattutto sull’aumento delle spese militari mostra il tentativo di nascondere l’incapacità di pensare ad una nuova politica economica adeguata;

 quella dell’investire sulle armi appare in sostanza una costosa diversione dalla necessità di costruire un’economia del XXI secolo.

 Il problema fondamentale dell’economia tedesca appare in effetti quello di trovare il modo di inserirsi in maniera almeno dignitosa nei settori ad alte tecnologie, traguardo a cui oggi il Paese e la stessa UE sono ancora lontane.

 Su questo fronte le proposte languono.

 

Sul fronte esterno invece la ribadita e cieca fedeltà agli Stati Uniti e l’ostilità che traspare, oltre che verso la Russia, verso la Cina, mentre più in generale i rapporti con il resto del Sud del mondo restano su uno sfondo lontano, mostrano di nuovo un atteggiamento ottuso e controproducente, seguito anche da parte dell’UE. Naturalmente poi la politica di immigrazione del nuovo governo appare ripugnante.

 

Sulla base di tali premesse, chi scrive si sente di dire che presumibilmente il lento declino economico della Germania e dell’UE proseguirà indisturbato, mentre si accentuerà l’irrilevanza politica delle due entità nel contesto mondiale.

 

 

 

 

 

Germania: turno a Merz,

carte decisive.

Ispionline.it – Beda Romano – (1° luglio 2025) – Redazione – ci dice:

Il nuovo cancelliere tedesco punta su maggiore debito e riarmo.

 Ma la coalizione di governo resta fragile e la vocazione europeista è chiamata a passi dimostrativi più importanti.

 

“Friedrich Merz” è diventato in primavera all’età di 69 anni il decimo cancelliere della Repubblica federale, alla guida di un’ennesima grande coalizione democristiana-socialdemocratica.

 La sua elezione suscita sentimenti contrastanti.

Preoccupazione per via dell’incertissimo contesto politico tedesco.

Speranza, ma anche grande prudenza sul fronte europeo.

Quanto riuscirà il nuovo cancelliere a ridare slancio all’economia tedesca, rivedere i rapporti con gli Stati Uniti, cavalcare nuove forme di integrazione europea?

 

Un inizio movimentato.

Questi sentimenti si riflettono nei primi passi del nuovo governo.

 Prima ancora di essere eletto in parlamento, Friedrich Merz è riuscito a far adottare da esso una storica riforma costituzionale che permetterà al Paese di indebitarsi ben oltre i livelli consentiti dal Schuldenbremse (“freno al debito”). L’operazione è stata un evidente successo politico.

Il cancelliere è riuscito a coalizzare una maggioranza dei due terzi del Bundestag. Oltre alla CDU-CSU e all’SPD hanno votato a favore anche i verdi.

 

Il dato è interessante perché mette in luce la debolezza della maggioranza di governo.

C’era un tempo quando democristiani e socialdemocratici dominavano il Bundestag.

 Oggi controllano una maggioranza risicatissima.

 D’altro canto, si sono moltiplicati i partiti presenti nella Camera bassa. Gradualmente, a conferma di una frammentazione del quadro politico, sono saliti a sei.

CDU-CSU ed SPD contano appena 328 deputati su 630 (il 52% del totale).

 In passato la “Grosse Koalition” era sostenuta da maggioranze assai più ampie (a titolo di esempio: nel 1966-1969 di 447 seggi su 496, nel 2005-2009 di 448 seggi su 614, nel 2013-2018 di 504 seggi su 631).

 

Non per altro, per la prima volta nella Storia tedesca del dopoguerra, il cancelliere non è stato eletto al primo turno.

Incredibilmente Merz ha avuto bisogno di un secondo scrutinio in parlamento prima di recarsi finalmente allo “Schloss Bellevue” e giurare nelle mani del capo dello Stato.

 In una prima tornata il leader democristiano ottenne appena 310 voti, rispetto alla maggioranza richiesta di 316.

Successivamente in una seconda imbarazzante tornata riuscì a strappare 325 voti. I franchi-tiratori hanno espresso chiaramente dubbi sia sul programma della “Grosse Koalition” che sul cancelliere stesso, un uomo tornato alla politica dopo un decennio negli affari.

 

Eppure, il nuovo cancelliere ha assicurato di voler ridare alla Germania “le sue responsabilità di leader in Europa, insieme agli altri Paesi membri dell’Unione”. Guardiamo innanzitutto al fronte interno.

 Riuscirà il nuovo governo a ridare dinamismo all’economia tedesca?

Il programma di governo è ricco di ambiguità e di compromessi.

 C’è l’obiettivo di ridurre le tasse sulle società, introdurre detrazioni fiscali per chi acquista macchinari e altre attrezzature, abolire la legge che impone sostenibilità nelle filiere internazionali delle grandi aziende.

La maggioranza è fragile, l’economia è debole, Alternative für Deutschland è forte e i rischi di inciampare sono molti, tanto più che sul fronte migratorio la stretta chiesta dai democristiani non fa l’unanimità tra i socialdemocratici.

 

Più in generale, il nuovo governo ha deciso di giocare la carta dell’indebitamento, non solo nella difesa, come vedremo, ma anche nell’economia, pur di modernizzare vecchie infrastrutture.

Resta da capire se il volano sarà prevalentemente nazionale o se la Repubblica federale si appoggerà anche sugli strumenti europei.

In visita a Bruxelles nel maggio scorso il nuovo cancelliere non ha preso posizione sull’ipotesi di nuovo debito in comune pur di sostenere l’indispensabile revisione del modello economico tedesco, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra ambiente e industria:

 “Nuovo debito europeo deve essere una eccezione (…)

 Lo dicono anche i Trattati europei”, ha affermato.

 Poi però ha aggiunto: al di là delle “differenze di opinione” tra la Germania e i suoi partner, “non voglio pregiudicare delle discussioni all’interno del governo e con la Commissione europea”.

 

Nella sua raccolta di ricordi (Mémoires, Plon, 2004)” Jacques Delors” (1925-2023) racconta che, da presidente della Commissione europea al momento dell’unificazione della Germania, propose all’allora cancelliere, “Helmut Kohl”, di partecipare ai costi dell’unificazione con fondi comunitari.

Scrive “Jacques Delors”:

“Proposi a Kohl un aiuto fuori norma, più sostanzioso di quello stabilito dalle disposizioni legali previste dalla coesione economica e sociale.

Stavo per presentare la proposta dinanzi al Consiglio europeo a Dublino.

Il cancelliere me ne dissuase: ‘Jacques, ho già sufficienti difficoltà, per via delle preoccupazioni dei miei partner. Non voglio peggiorare la situazione’”.

 

Nota ancora l’allora presidente della Commissione europea:

“Non potei quindi dare seguito alla mia idea.

Oggi, non posso impedirmi di notare che abbiamo tutti pagato indirettamente la nostra fetta di riunificazione tedesca, subendo sulla nostra crescita le conseguenze dei tassi d’interesse elevati praticati in Germania”.

Dietro alla scelta tedesca si nascondeva un’implicita, malcelata, surrettizia forma di orgoglio nazionale, o più semplicemente di nazionalismo economico.

C’era il desiderio di fare da sé.

Nei fatti c’è il rischio che la Repubblica federale scelga lo stesso cammino e ci faccia correre lo stesso pericolo.

Tra le altre cose, molto dipenderà dal fatto se Friedrich Merz abbia utilizzato con la modifica costituzionale tutto il capitale politico a sua disposizione.

 

Le scelte difficili davanti.

Proviamo per un attimo a essere ottimisti.

 Tre fattori potrebbero indurre la Germania a giocare la carta europea.

 Il primo è relativo al bilancio comunitario del prossimo settennato 2028-2034: nuovo debito in comune potrebbe aiutare a risolvere la complessa equazione che i governi sono chiamati a risolvere.

Il secondo elemento è relativo al desiderio tedesco di rafforzare il ruolo internazionale dell’euro.

 Solo con ulteriore debito in comune si può pensare di promuovere seriamente la moneta unica sui mercati mondiali.

Infine, maggiore collaborazione europea anche in campo finanziario potrebbe essere utile a una Germania che in particolare nella difesa ha accumulato un ritardo decennale, anche in termini di expertise.

Gli elementi a favore di un maggiore coinvolgimento europeo ed europeista della Repubblica federale sono tutti presenti.

Gli Stati Uniti del presidente Donald Trump hanno preso una deriva unilaterale e forse anche autoritaria.

La guerra russa in Ucraina e più in generale l’incerta situazione internazionale inducono alla creazione di una difesa comune.

 L’agguerrita concorrenza cinese esorta all’autonomia strategica e a nuove forme di sovranità europea.

In ultima analisi, un’ulteriore integrazione europea sarebbe la risposta più naturale e più efficace agli scombussolamenti mondiali.

 

Merz ne sembra consapevole.

 In febbraio, all’indomani della vittoria alle elezioni federali, aveva spiegato che la “priorità assoluta” della Germania è di rafforzare la difesa europea fino a raggiungere “progressivamente l’indipendenza rispetto agli Stati Uniti”.

 Atlantista di formazione, il nuovo cancelliere aveva ammesso che l’attuale dirigenza americana è “largamente indifferente al destino dell’Europa”.

Aveva poi aggiunto: “Non mi faccio alcuna illusione su ciò che sta accadendo in America”.

 Infine, aveva evocato la nascita di una capacità di difesa europea autonoma, in alternativa “alla NATO nella sua forma attuale”.

 

In poche settimane il nuovo cancelliere ha imposto una svolta alla Germania, modificando la Costituzione e permettendo nuovo debito per investire sia in infrastrutture che in difesa.

Di recente, la presidente dell’Ufficio federale per l’acquisto di armamenti “Annette Lehnigk-Emden” ha spiegato che le forze armate si sono date tre anni per acquistare i mezzi necessari in modo da difendersi da una invasione russa, che la Bundeswehr ritiene possa avvenire dal 2029 in poi.

Nel 2024 le forze armate tedesche contavano 180mila uomini.

Il ministro della Difesa “Boris Pistorius” punta a reclutare altri 50-60mila soldati. Nel frattempo, il presidente dell’Ufficio federale per la protezione civile “Ralph Tiesler”sta costruendo bunker per proteggere la popolazione in caso di attacco, repertoriando gallerie, tunnel, cantine, parcheggi sotterranei e stazioni della metropolitana.

 

L’obiettivo di Merz è di creare “l’esercito convenzionale più potente d’Europa”.

A tutta prima le intenzioni appaiono positive.

 Quante volte in passato abbiamo rimproverato alla Germania di non volersi assumere il ruolo che le spetta in Europa?

Il Paese non è più una “grande Svizzera”, come veniva chiamato in passato, e sta finalmente accettando responsabilità politiche ed economiche che per decenni aveva evitato.

La nuova America di Donald Trump è riuscita a scuotere l’establishment tedesco dal suo dormiveglia.

C’è sempre la convinzione che senza la Germania una nuova sovranità europea anche in campo militare sia impossibile.

 

Eppure, il riarmo della Repubblica federale – perché di questo in fondo si tratta – non può avvenire in un vuoto politico.

Al centro del continente il Paese è sempre stato oggetto di un drammatico dilemma.

Storicamente, è stato o troppo debole (come nel Seicento e nel Settecento) o troppo forte (come alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento).

Le altre potenze si sono coalizzate contro la Germania o sono state dominate da essa.

Nel Seicento e nel Settecento il Paese era alla mercé della Francia e dell’Austria. Nell’Ottocento e nel Novecento l’Europa era sotto il giogo di Berlino.

Per molti versi la Storia europea dimostra come la stabilità del continente sia funzione soprattutto della forza della Germania.

 

Dalla fine della Seconda guerra mondiale e poi successivamente dopo la caduta del Muro di Berlino le straordinarie energie tedesche sono state convogliate dalla doppia presenza dell’alleanza americana e del progetto europeo.

Da un lato, la Germania ha affidato la propria sicurezza agli Stati Uniti.

Dall’altro, ha incanalato la sua forza economica prima nel mercato comune e poi nella moneta unica.

 

Il nuovo riarmo tedesco ha già provocato i primi interrogativi sul fronte finanziario.

 I nuovi previsti investimenti tedeschi avranno certo un impatto positivo sull’economia europea, ma c’è il rischio di provocare un generalizzato aumento dei tassi d’interesse e soprattutto di contribuire a un’Unione europea sempre confederale, quando il momento richiederebbe un salto federale.

 Il rischio di nuove tensioni finanziarie, simili a quelle scatenate dalla crisi debitoria in Grecia, non può essere sottovalutato.

 

Dubbi poi potrebbero emergere anche sul fronte politico.

 Il progetto europeo è poggiato per 70 anni su delicati equilibri, anche militari. L’ombrello americano non ha consentito solo agli Stati europei di concentrare la spesa pubblica su welfare e previdenza.

 Ha anche avuto un ruolo nel compensare agli occhi dei tedeschi la” force de frappe” francese.

In questo senso il disimpegno americano e il riarmo tedesco impongono alla coppia franco-tedesca di trovare una nuova armonia, un nuovo ambito in cui possano essere arginate le eventuali spinte centrifughe e nazionaliste.

 

“Jean Monnet” (1888-1979) credeva fermamente che per evitare nuovi conflitti in Europa fosse necessario mettere in comune la gestione dell’acciaio e del carbone, le due materie prime che nei secoli avevano contribuito a numerose guerre sul continente.

Nel 1952 nacque così la CECA.

 L’uomo politico francese aveva ragione e da allora il progetto comunitario ha fatto passi da gigante, successivamente con la nascita della CEE e poi dell’Unione europea.

Oggi la stessa comunità d’intenti e la stessa condivisione degli strumenti e dei poteri appaiono urgenti per evitare tensioni finanziarie, per sfogare pressioni nazionaliste, per prevenire corse al riarmo e squilibri pericolosi.

 Il ragionamento di Jean Monnet rimane straordinariamente attuale.

(Beda Romano).

(Corrispondente da Bruxelles, Il Sole 24 Ore).

 

 

 

 

Il Whatever it Takes

della Germania.

Salto.bz - Simonetta Nardin – (26 – 3 -2025) – Tonia Mastrobuoni - ci dicono:

I cambiamenti delle posizioni tedesche su debito e alleanze atlantiche e le ripercussioni per l’Europa.

 Il significato di un pacchetto straordinario di investimenti in difesa e infrastrutture nell'analisi della corrispondente di Repubblica “Tonia Mastrobuoni.”

Tonia Mastrobuoni arriva a Bolzano con la febbre ma, da vera professionista, mantiene fede alla promessa di un incontro prima della presentazione al “Raiffeisen Presseempfang”.

Tema: la nuova situazione geopolitica in Europa.

È un tema che Mastrobuoni conosce molto bene:

corrispondente dalla Germania, prima della Stampa e ora di Repubblica, segue attentamente le vicende europee dal 2011, anno in cui cominciò a seguire la Banca Centrale Europea (BCE) sotto la presidenza di Mario Draghi, per poi trasferirsi a Berlino nel 2014.

È quindi la persona ideale per discutere dei profondi cambiamenti che hanno attraversato il paese, simbolicamente rappresentato dal Whatever it Takes del cancelliere Friedrich Merz, che ha preso in prestito proprio le parole dell’ex presidente della BCE per dire che avrebbe fatto “qualunque cosa” e abbandonato la cautela fiscale per sostenere la Germania e l’Europa nel nuovo quadro geopolitico segnato dalla minaccia russa e dal disimpegno americano.

 

SALTO: Mastrobuoni, per un’attenta osservatrice della Germania come lei questo cambiamento cosa significa?

 

Tonia Mastrobuoni:

Quella del cancelliere Merz è una vera e propria rivoluzione.

Lo dimostra già il fatto che abbia usato la frase simbolo di un uomo molto odiato in Germania come Draghi, che nell'ortodossia tedesca è considerato colui che ha svenduto l'euro, che ha mantenuto troppo a lungo i tassi di interesse bassi ‘perché l'inflazione incombe sempre’.

Sappiamo che sono tutte sciocchezze teoriche perché poi il mercato negli anni della crisi dell’euro è stato inondato da un'enormità di liquidità e l'inflazione non c'è mai stata (è arrivata poi con il COVID e l’invasione russa dell’Ucraina).

 In più reggeva questo tabù del debito.

 Nel 2009 la Germania aveva deciso di iscrivere nella propria Costituzione un freno al debito con il limite del disavanzo di 0,35% del prodotto interno lordo (PIL) al bilancio federale.

 La Germania ha sempre mantenuto fede a questo principio e in effetti adesso si ritrova con un debito al 63% del PIL.

Ma l'austerità non l'ha applicata solo a se stessa, l’ha imposta anche agli altri paesi negli anni della crisi dell’euro.

 

Pensa che il cambiamento interno possa riflettersi anche sull’atteggiamento nei confronti delle politiche fiscali europee?

 

Vedere oggi la Germania che dice ‘abbiamo fatto un errore clamoroso e dobbiamo in qualche modo emendare questo freno al debito per liberare risorse per la nostra economia, e investire in un pacchetto da 500 miliardi per le infrastrutture' è una buona notizia.

Questo consente forse all’Europa di avere un po' più di spazio di manovra - anche se l'Italia sa benissimo che con un debito al 135% del PIL non può permettersi di fare la stessa cosa della Germania.

E anche dal punto di vista geopolitico credo che Merz si allineerà molto rapidamente a questo direttorio che si è creato intorno a una ‘coalizione dei volenterosi' a trazione franco-britannica, che sta cercando di proteggere l'Europa e l’Ucraina e di trovare rapidamente delle soluzioni per andare avanti sulla difesa europea.

 Ci aspettiamo che la Germania sia più generosa con i paesi che chiedono di avere le stesse opportunità senza avere gli spazi fiscali per farlo:

l’Italia deve avere la possibilità per spendere soldi per la difesa e l’Europa deve dare più spazio anche ai singoli paesi per farlo.

Perché fa un po’ specie pensare oggi alle misure di austerità imposte dall’Europa a guida tedesca ai paesi indebitati come la Grecia durante la crisi dell’euro.

 

Tonia Mastrobuoni è nata a Bruxelles nel 1971, dove si erano conosciuti i genitori - la madre tedesca lavorava alla Commissione europea mentre il padre era corrispondente dell’ANSA.

Cresciuta a Roma, ha scritto numerosi libri tra i quali” L' inattesa. Angela Merkel”. “Una biografia politica” (2021) e “L'erosione”.

“Come i sovranismi stanno spazzando via la democrazia in Europa” (2023), entrambi editi da Mondadori.

Sta lavorando ora a un libro inchiesta sulla destra in Germania che uscirà per Feltrinelli.

 

Come si è arrivati a questo cambiamento e ad una cifra così alta per gli investimenti?

 

Dal punto di vista puramente politico i socialdemocratici della SPD hanno fatto una cosa molto interessante.

 Hanno detto va bene, caro Merz, tu vuoi i tuoi 500 miliardi per aumentare la spesa della difesa fuori dal debito, benissimo, però ci dai 500 miliardi per gli investimenti nell’economia e nelle infrastrutture.

Così contraddicono quelli che dicono che si pensa solo alla difesa e nessuno pensa più al sociale, all'economia, alle scuole fatiscenti: beh, la SPD ci ha pensato.

 Certo, è in una posizione comoda perché sta andando al governo con la CDU e si trova in una posizione negoziale più favorevole rispetto, ad esempio, al Partito Democratico in Italia.

Tuttavia, c'è un altro aspetto da considerare.

In Italia si usa spesso l'argomento secondo cui bisogna scegliere tra il riarmo e la spesa sociale.

 Ma chi l'ha detto che sia davvero così?

Sarà interessante capire se ci sarà una vera e propria riforma per le spese della difesa o se a questo punto il capitolo si chiude - e quindi se significa che anche in Europa Merz è disponibile ad ascoltare i paesi che chiedono che gli investimenti nella difesa vengano finanziati con gli eurobond.

Perché bisogna dare ragione a chi dice che oggi bisogna fare un piano con gli eurobond per compensare anche un po' questo maxi-piano tedesco, altrimenti potrebbe creare un enorme squilibrio in Europa, con l’accelerata dell'economia tedesca rispetto alle altre economie.

 Ma certo gli investimenti servono, eccome - basta pensare che ora in Germania si leggono moltissimi articoli che parlano di come funzionano bene i treni italiani rispetto a quelli tedeschi.

E anche scuole e strade hanno un enorme bisogno di investimenti!

 

In Italia si usa spesso l'argomento secondo cui bisogna scegliere tra il riarmo e la spesa sociale. Ma chi l'ha detto che sia davvero così?

 

Un cambiamento nell’atteggiamento di Merz in geopolitica si è notato con l’inasprimento delle posizioni contro l’Europa dell’amministrazione americana….

 

Senz’altro.

Il primo trauma è stato il discorso del vice presidente americano JD Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco il 14 febbraio scorso (quando ha detto che in Europa il pericolo veniva da dentro e non dalla Russia, ndr), seguito dal suo incontro con il partito di estrema destra Alternative für Deutschland  (AfD).

 Il secondo è stato la scena incresciosa alla Casa Bianca di umiliazione pubblica del presidente ucraino Zelensky da parte del presidente Donald Trump e Vance.

Così questo brutale esordio degli americani in Europa (confermato dalle recenti rivelazioni sulla “chat di Signal” che dimostra il totale disprezzo che hanno “Vance” e il segretario alla difesa americano “Pete Hegseth” per l’Europa) ha trasformato colui che si annunciava come il segretario più atlantista di sempre della CDU in uno che ha capito che la tradizionale alleanza degli Stati Uniti con l’Europa era finita e occorreva trovare altre strade.

 

Ma il cambiamento nei confronti della Schuldenbremse era già nell’aria, anche se Merz non ne aveva parlato in campagna elettorale?

 

Il cambiamento doveva arrivare, e Merz lo sapeva.

Dopo che un rigorista come l’ex ministro delle Finanze “Christian Lindner” aveva usato quella che da noi in Italia chiameremmo “finanza creativa” per aggirare la Schuldenbremse (mossa bocciata poi dalla Corte costituzionale tedesca), il governo ha vivacchiato per 11 mesi ed è poi caduto proprio sulla spesa pubblica.

 Merz stesso aveva detto mille volte durante la campagna elettorale stiamo entrando nel terzo anno di recessione, abbiamo bisogno di tagliare le tasse, abbiamo bisogno di fare questo e quello, ha messo su un costosissimo programma elettorale, e come poteva finanziarlo quando risparmiare non si può più?

Secondo me lui una riforma ce l'aveva in testa, e infatti non ha mai escluso di farlo, dicendo però che non era il momento.

 Ora gli elettori glielo rinfacciano, ma sarebbe sbagliato dire che ha mentito, è stato possibilista, ha detto per me non è una priorità in questo momento - ma poi con i cambiamenti drammatici in America ha capito l'urgenza del quadro politico e ha agito.

 

L'atteggiamento italiano nei confronti dell'Europa.

Che problemi vede con la posizione attuale italiana sulla situazione geopolitica?

 

In Germania anche i più cauti politici della CDU in questo momento pensano che bisogna trovare un'unità europea per affrontare insieme questo cambiamento epocale, anche per contrastare la minaccia russa.

Minaccia che viene sentita molto di più in Germania:

 in Italia, mi sembra ci sia molta meno consapevolezza del pericolo russo.

 Siamo stretti tra la Russia e l'America in questo momento, per questo la posizione della premier Meloni è incomprensibile:

 in questa Europa che sta convergendo, in cui ci sono anche dei leader molto abili come il premier inglese “Starmer”, che sta cercando di tenere i piedi in due staffe, i funambolismi italiani sono ridicoli.

 Meloni non ha leverage, non ha leve su Trump, e se si illude ancora di averle, questo è un problema.

Se si tiene in disparte rispetto ad un'Europa che si sta ricompattando l'unica cosa che provoca è diffidenza - un sentimento che troppo spesso vediamo in Europa verso l’Italia.

Meloni non ha leve su Trump, e se si illude ancora di averle, questo è un problema.

 

 Come giudica il sostegno di Elon Musk all’AfD prima delle elezioni del 23 febbraio?

 

Gli ultimi sondaggi subito prima delle elezioni davano l’AfD al 22 per cento, alla fine hanno preso il 20…

Ero al quartiere generale della AfD la sera delle elezioni e ho visto le facce deluse….

Io stessa pensavo che sarebbero arrivati al 25 per cento:

andando in giro per i comizi c'era una partecipazione impressionante, soprattutto da parte della classe media - una partecipazione molto diversa rispetto a 10 anni fa.

Però io ho avuto l'impressione netta che tutto quel tifo sfegatato di Elon Musk per la leader” Alice Weidel”, che è cominciato a metà dicembre, quando l’AfD viaggiava intorno al 19 per cento, all'inizio forse le ha regalato un punto ma poi basta, è rimasta a quei Livelli, finendo con al 20 per cento.

 È stato un mezzo flop, non ha fatto guadagnare un elettore in più alla AfD.

Ha fatto invece crollare la vendita della Tesla in Germania del 70% (rispetto a una perdita del 40% in tutta Europa): ha fatto imbestialire i suoi acquirenti tradizionali che le compravano per istinto ecologico.

 

Che ruolo hanno avuto i Verdi in questi negoziati?

 

I Verdi hanno avuto un ruolo eccezionale nel negoziato con Merz per chiudere l'accordo sul Sondervermögen, perché dopo essere stati tenuti fuori goffamente da Merz sono rientrati dalla finestra, si sono messi al tavolo e hanno negoziato delle cose molto intelligenti.

La prima: hanno strappato alla SPD che dei 500 miliardi di investimenti 100 miliardi andranno al fondo per il clima.

Poi hanno imposto alla CDU una riscrittura della modalità con cui verranno investiti i soldi nel riarmo, dicendo:

non vogliamo che riarmo significhi solo soldi nella Bundeswehr, per noi la difesa vuol dire difesa contro il cyberterrorism, il rafforzamento della protezione civile, e il rafforzamento dei servizi segreti.

I Verdi tedeschi, infatti, dopo essere stati sotto osservazione dai servizi segreti nei primi decenni della loro esistenza, negli ultimi anni hanno sviluppato un rapporto di fiducia molto forte con questi stessi servizi.

Secondo i Verdi, queste strutture garantiscono la sicurezza del Paese, anche quella civile, e vanno tutte rafforzate.

Per questo ritengono che non sia sufficiente destinare fondi solo all'esercito e agli armamenti, un cambiamento significativo e intelligente che sono riusciti a ottenere.

 

Terzo, hanno inserito nell’accordo per il famoso piano di investimenti  una parolina fondamentale, che è zusätzlich - hanno infatti ottenuto che questi investimenti siano zusätzlich.

Perché è importante?

 Perché i Verdi avevano già capito che facendo un po' il gioco delle tre carte, il nuovo governo avrebbe spostato fondi e coperto con questi soldi da spendere a debito, e quindi hanno detto, questi sono problemi che vi risolvete a prescindere, per tutte le spese che avete già preventivato dovete trovare voi i finanziamenti, però dovete inventarvi dei progetti aggiuntivi su cui investire 500 miliardi di euro.

Per evitare che alcune cose che aveva chiesto la CSU, come ad esempio il taglio dell’ IVA per i ristoratori, venissero finanziate a debito, hanno insistito nel chiedere che tutti questi soldi siano per progetti nuovi, aggiuntivi.

 

Quindi i Verdi hanno avuto un ruolo fondamentale in questa fase molto importante, si sono dimostrati, come fanno da anni, una forza politica razionale, forse la più razionale che c'è adesso.

Il problema è questo attacco che arriva da destra e anche dai partiti centristi, i Verdi hanno sofferto enormemente di una campagna di odio, di attacchi che vengono ormai non solo più dall'estrema destra come l’AfD ma anche dalla CDU e dalla CSU, che hanno massacrato i Verdi in campagna elettorale, come fossero loro il nemico e non la AfD.

 

 

La Cassazione a sezioni unite dice che nel caso Diciotti l'Italia ha trattenuto illegalmente i migranti e dovrà risarcire il danno non patrimoniale.

Unipd-centrodirittiumani.it – Paolo De Stefani – (8 marzo 2025) – ci dice:

 

Sommario.

Alcuni casi collegati: i procedimenti penali “Gregoretti” e “Open Arms” contro il Ministro dell’Interno Salvini .

Il ricorso contro le sentenze del tribunale e della Corte d’appello di Roma.

Il divieto di sbarco non è un atto politico

L’errore inescusabile dell’amministrazione dello Stato.

Una violazione della libertà personale. Il caso Khalifia davanti alla Corte europea dei diritti umani.

Il danno come conseguenza della privazione della libertà personale e il diritto al risarcimento.

Conclusioni. Separare la dialettica politica dalle misure che incidono sui diritti umani.

La Cassazione, a sezioni unite civili, con ordinanza pubblicata il 6 marzo 2025 (R.G.N. 17687/2024), ha accolto il ricorso presentato da M.G.K., cittadino eritreo, contro la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1803 del 13 marzo 2024 che aveva respinto la domanda di risarcimento danni non patrimoniali presentata dal ricorrente insieme ad altri connazionali conseguenti al loro trattenimento in condizione di detenzione a bordo della nave “Diciotti” della Guardia Costiera italiana tra il 16 e il 25 agosto 2018.

Secondo la Cassazione, il ricorrente ha diritto a un risarcimento, che dovrà essere definito dalla stessa Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

 

La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione interviene su una controversia che ha visto coinvolti, in separati giudizi, anche esponenti del governo italiano che, nell’agosto 2018, avevano imposto di bloccare l’accesso ai porti italiani di migranti irregolari tratti in salvo da navi dello stato o imbarcazioni di ONG umanitarie.

Sulla vicenda della nave “Ugo Diciotti” era infatti stata ipotizzata la responsabilità penale per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini.

La sezione del tribunale di Catania competente per i reati ministeriali aveva chiesto il rinvio a giudizio per l’esponente politico, ma il 19 marzo 2019 il Senato (ramo del Parlamento in cui il Ministro Salvini era stato eletto) aveva votato per la sua immunità.

 

Alcuni casi collegati: i procedimenti penali “Gregoretti” e “Open Arms” contro il Ministro dell’Interno Salvini.

È utile ricordare che Il caso relativo alla nave “Diciotti” si ricollega a quelli riguardanti altre occasioni in cui il governo italiano aveva impedito lo sbarco sul territorio nazionale di migranti soccorsi in mare, in attuazione di norme adottate tra il 2018 e il 2019. In particolare, ciò era avvenuto per la nave “Gregoretti”, vascello della Guardia Costiera italiana con a bordo circa 60 migranti imbarcati il 25  luglio 2019, e per una nave operata dalla ONG spagnola “Proactiva Open Arms”, che tra il 1 e il 20 agosto 2019 ha dovuto trattenere a bordo circa 150 migranti a cui era impedito l’accesso al territorio italiano per ordini promananti da esponenti governativi.

Nel caso “Gregoretti”, il “tribunale dei ministri” competente, quello di Catania, aveva richiesto il rinvio a giudizio del ministro dell’Interno Salvini, ottenendo dal Senato l’autorizzazione a procedere nel febbraio 2020; il procedimento si era poi chiuso con sentenza di non luogo a procedere da parte del giudice dell’udienza preliminare di Catania, perché “il fatto non sussiste”.

 Anche nel caso nato intorno alle operazioni di soccorso della nave della ONG “Open Arms”, il Senato aveva negato l’immunità all’esponente del governo (voto del  30 luglio 2020); nell’aprile 2021, il giudice dell’udienza preliminare aveva disposto il rinvio a giudizio del Ministro Salvini per i reati di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio.

Il ministro è stato poi prosciolto in primo grado dal tribunale di Palermo con decisione del 20 dicembre 2024, sempre con la formula “perché il fatto non sussiste”.

 

Il ricorso contro le sentenze del tribunale e della Corte d’appello di Roma.

Nel 2018, M.G.K. e altri cittadini eritrei erano a bordo della “Diciotti”, presenta un ricorso al tribunale di Roma per ottenere dal governo italiano il risarcimento dei danni subiti a causa del forzato trattenimento a bordo della nave tra il 16 e il 25 agosto 2019.

 Il tribunale respinge il ricorso, affermando che la scelta del governo di ritardare l’indicazione del luogo sicuro per lo sbarco dei migranti e poi di non consentire per alcuni altri giorni lo sbarco stesso nel porto prescelto di Catania doveva considerarsi un “atto politico”, motivato dalla necessità di gestire la tensione tra Italia e Malta circa i rispettivi obblighi di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali e di rivedere le regole dell’Unione Europea in materia di ripartizione degli oneri di accoglienza dei migranti irregolari in arrivo sul territorio europeo. Su tale scelta, la giustizia italiana non poteva avere giurisdizione.

 

La sentenza di primo grado è stata impugnata davanti alla Corte d’appello di Roma.

 Quest’ultima, con sentenza n. 1803 del 13 marzo 2024 ha escluso che la decisione governativa di negare lo sbarco ai migranti presenti sulla nave “Diciotti” potesse essere considerata un insindacabile “atto politico”, qualificandola invece come atto di alta amministrazione, richiesto dalle norme internazionali in materia di protezione della sicurezza in mare (la convenzioni SOLAS e SAR).

 La Corte, però, non riscontrava alcuna colpa nella condotta del governo italiano e quindi respingeva la domanda di risarcimento del danno.

 

Contro questa decisione verte il ricorso di M.G.K., che denuncia la violazione degli articoli 13 (libertà personale), 24 (accesso alla giustizia), 111 (giusto processo) e 117.1 (rispetto dei trattati internazionali) della Costituzione, dell’art. 5 della Convenzione Europea dei diritti umani (CEDU) (libertà personale), dell’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE) (libertà e sicurezza individuale), nonché gli articoli 7 e 14 della direttiva 2008/115/CE (direttiva rimpatri). Il fatto che per svariati giorni i ricorrenti siano stati privati della libertà personale senza giustificazione legale è motivo sufficiente per attribuire loro un risarcimento. Lo stato italiano, dal canto suo, chiede che la Cassazione ribadisca che la scelta dell’allora governo (in particolare del Ministro dell’Interno) di non indicare con prontezza il “luogo sicuro” (“place of safety” – POS) in cui far sbarcare i naufraghi tratti in salvo a completamento dell’operazione di search and rescue (SAR), nonché il divieto di sbarco seguito all’indicazione come POS del porto di Catania deve essere considerata come atto politico insindacabile, da cui non può derivare nessun danno risarcibile.

L’attesa dei migranti a bordo della nave militare italiana, infatti, si giustificava con la necessità di giungere a un chiarimento politico con le autorità maltesi e con i partner dell’UE circa le modalità di gestione delle operazioni SAR e di “redistribuzione” dei migranti irregolari tra vari paesi europei.

 

Il divieto di sbarco non è un atto politico.

Il primo punto che le sezioni unite della Corte di cassazione affrontano è quindi stabilire il carattere “politico” della scelta fatta dal governo italiano di non permettere lo sbarco dei migranti.

Un atto politico in senso stretto, secondo la Cassazione, deve rivestire specifici caratteri soggettivi e oggettivi, ed è per sua natura eccezionale.

Dal punto di vista soggettivo, deve provenire da un organo preposto all'indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello.

Dal punto vi sta oggettivo, deve essere un atto libero nel fine e riguardare la vita dei pubblici poteri dello stato.

La qualifica di un atto come “politico” deve essere intesa come eccezionale.

 In effetti, gran parte degli atti di un governo sono soggetti a qualche norma di legge, in particolare quando incidono su diritti individuali.

 Sono quindi generalmente soggetti al controllo giurisdizionale.

La Cassazione quindi conclude che il diniego di indicare il POS e il successivo divieto di sbarco imposto ai migranti non possono essere considerati atti politici in senso oggettivo, sottratti al controllo giudiziario, poiché, benché rientrino in un disegno attribuibile ai vertici del governo e specificamente ascrivibili al Ministro dell’Interno, comunque non attengono “alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali”.

 Sono quindi atti amministrativi, ancorché ispirati da finalità politiche, e non possono essere sottratte a un giudizio di legittimità.

In questo caso, poiché l’atto incide su diritti soggettivi di valore costituzionale, la sua legittimità è valutata dal giudice civile.

 

L’errore inescusabile dell’amministrazione dello Stato.

Il passo successivo riguarda l’accertamento di una “colpa” in capo all’istituzione statale che ha agito. Secondo la Corte d’appello, lo Stato non è in colpa in quanto, da un lato, la normativa internazionale in merito alla indicazione del POS è complessa e non univoca, per cui i giorni impiegati per effettuarla non possono essere considerati irragionevoli; dall’altro, la normativa vigente non impone un termine per definire il POS e procedere alle operazioni di sbarco.

A parte il caso in cui vi sia un imminente pericolo di vita, gli individui tratti in salvo non hanno un “diritto di sbarco” e lo Stato deve avere il tempo per bilanciare tutti gli opportuni elementi (dinamiche internazionali e eventuali accordi bilaterali, contrasto dell’immigrazione clandestina, tutela dell’ordine pubblico, ecc.), oltre alle valutazioni tecniche e logistiche, pur essendo naturalmente tenuto a contenere il più possibili il disagio per le persone coinvolte.

Se ne ricava che, pur avendo causato considerevoli disagi ai migranti, il loro trattenimento sulla nave “Diciotti” non fa nascere una responsabilità per danno ingiusto.

 

Secondo le Sezioni Unite della Cassazione, però, tale impostazione non è quella corretta. Il punto da cui partire, infatti, non è l’indicazione del POS e le successive operazioni di sbarco, ma l’obbligo di soccorso in mare, stabilito dalla consuetudine internazionale e ribadito nella normativa internazionale e interna.

La Convenzione SAR, in particolare, impone agli Stati che intervengono nel salvataggio di naufraghi in mare di indicare un POS.

Di questo è responsabile, per l’ordinamento italiano, il Ministro dell’Interno.

Un POS è il luogo in cui, tra le altre cose, si possa esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale e si possano svolgere le procedure di identificazione previste dall’art. 10-ter del Testo Unico sull’Immigrazione (d.lgs 286/1998).

 Una nave, per quanto si tratti di un’imbarcazione della Guardia Costiera, non può essere considerata un POS (in senso conforme: Cassazione penale, sent. 6626/2020, sul caso della nave “Sea Watch” – v. Annuario 2021, p. 204-5; Yearbook 2021, p. 200-1).

 L’indicazione di un POS è un atto amministrativo che il Ministero è tenuto a effettuare senza ritardo; l’identificazione della località di sbarco rientra nella discrezionalità delle autorità di governo, che possono indicare un luogo diverso astrattamente più plausibile, il più vicino al luogo dell’operazione di soccorso, per esempio, dovendo prendere in considerazione molteplici esigenze “tecniche”.

 Non è quindi corretto dire che le norme in materia non sono chiare e univoche: lo sono, nella misura in cui non devono essere condizionate da valutazioni di ordine politico, quali sono il controllo dei flussi migratori o le politiche migratorie nazionali o europee.

 Sono queste valutazioni politiche invece ad avere ritardato di svariati giorni lo sbarco a Catania dei circa 150 migranti tratti in salvo.

Proprio queste considerazioni politiche dovevano rimanere estranee all’ambito decisionale nel caso in questione.

È questo l’errore inescusabile che le autorità italiane hanno commesso.

 

Una violazione della libertà personale. Il caso” Khalifia” davanti alla Corte europea dei diritti umani.

Queste considerazioni assumono particolare rilievo alla luce del particolare valore che il divieto di sbarco ha intaccato. Infatti, è stata compressa la libertà personale, ed è la violazione di questo diritto fondamentale – un tema che nella sentenza della Corte d’appello di Roma è quasi totalmente assente – ciò che più conta, secondo la Cassazione, nel concludere per la illegittimità del danno causato al ricorrente e quindi per il suo diritto a un risarcimento in base all’art. 2043 del Codice Civile (responsabilità extracontrattuale per danno ingiusto).

 

Il trattenimento dei migranti sulla nave Diciotti ha infatti comportato una lesione al diritto protetto dall’art. 13 Cost., nonché dagli articoli 5 CEDU, 6 CDFUE, 3 Dichiarazione universale dei diritti umani e 9 del Patto sui diritti civili e politici.

 

L’art. 5 CEDU è particolarmente pertinente in questo caso, poiché le sentenze Khlaifia e Altri c. Italia (della Camera, Khlaifia and Others v. Italy, no. 16483/12, 1 September 2015, e della Grande Camera, Khlaifia and Others v. Italy [GC], no. 16483/12, 15 December 2016; rispettivamente Annuario 2016, p. 207 e Annuario 2017, p. 242) hanno già chiarito come la “detenzione di fatto” dei migranti in strutture di accoglienza (centri di assistenza temporanea di Lampedusa o navi alla fonda nel porto di Palermo) non rispetti i requisiti di legalità e legittimità fissati in forma tassativa dall’art. 5 CEDU alle limitazioni alla libertà personale. Secondo la Cassazione, “l’insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l’arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi dell’art. 5 CEDU”, e quindi la sua contrarietà all’art. 13 Cost.

È escluso infatti che il trattenimento dei migranti sulla “Diciotti” possa essere inteso come “arresto o [...] detenzione regolar[e] di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione” (art. 5, lett. f) CEDU).

Il carattere arbitrario della misura, non fondata su atti formali, comporta una violazione dell’art. 5 CEDU anche sul versante procedurale, in quanto le modalità scelte rendono la misura restrittiva della libertà personale non impugnabile in giustizia (art. 5.4 CEDU: “ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso a un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima”).

 

La Corte di Cassazione critica, dunque, la conclusione della Corte d’appello di Roma che non ha riscontrato nessuna negligenza o errore inescusabile nella condotta della amministrazione statale (Ministero dell’Interno) che per dieci giorni ha lasciato i ricorrenti in attesa di sbarco, in stato di detenzione di fatto, e in condizioni incompatibili con il rispetto della dignità individuale, nonostante l’evidente obbligo, derivante da esplicite norme internazionali, di provvedere al più presto alla loro presa in carico in un luogo sicuro (fosse questo il porto di Catania, dove la “Diciotti” è rimasta per cinque giorni, o qualunque altro porto italiano).

 

È vero che il Senato, nel 2020, ha votato l’immunità penale del Ministro dell’Interno, il senatore Salvini, per i reati connessi alla vicenda della nave “Diciotti”, tra cui il delitto di sequestro di persona.

Tale decisione, insindacabile dal giudice, riguarda tuttavia solo la persona del Ministro e la sua responsabilità penale.

 Non può estendersi alla responsabilità della pubblica amministrazione per un danno ingiusto cagionato agli individui oggetto del fatto ingiusto, tanto più se il danno subito riguarda la lesione di un diritto inviolabile come quello alla libertà personale.

Anche su questo punto la sentenza della Corte d’appello di Roma è censurata, in quanto invece di concentrarsi sulla distinzione tra responsabilità penale (del Ministro) e civile (dell’amministrazione dello Stato), sembra creare una (dubbia) separazione tra la responsabilità civile del ministro e quella dell’apparato amministrativo statale.

 

Il danno come conseguenza della privazione della libertà personale e il diritto al risarcimento.

Il danno non patrimoniale derivante dalla detenzione durata per circa dieci giorni, non giustificata da alcuna ragione giuridicamente apprezzabile e riconducibile a un errore dell’amministrazione, è dato dalle conseguenze personali e sociali del mancato rispetto del diritto alla libertà personale.

Si tratta di un danno che non richiede un onere di prova particolarmente gravoso, essendo esperienza comune e agevolmente inferibile dai fatti il senso di umiliazione e la sofferenza psicologica connessa al dover subire una coercizione ingiusta della propria libertà.

 

Gli ultimi paragrafi della sentenza sono dedicati alla trattazione di una seconda difesa avanzata dallo Stato, i cui rappresentanti hanno segnalato che la Corte d’appello non aveva affrontato l’eccezione con sui si contestava che taluni dei ricorrenti fossero davvero dei naufraghi della “Diciotti”.

 La Cassazione non ritiene che il punto sia rilevante, poiché la sentenza impugnata aveva risolto la controversia su altre basi, e comunque la questione dell’identità della persona a cui dovrà essere eventualmente corrisposto il risarcimento potrà essere presentata al giudice del rinvio.

 

Conclusioni. Separare la dialettica politica dalle misure che incidono sui diritti umani.

La sentenza della Cassazione ribadisce un punto che anche il giudice d’appello aveva risolto nello stesso modo: la decisione di non concedere il porto d’approdo alla nave “Diciotti” e divieto di sbarco imposto ai migranti che essa aveva tratto in salvo non sono atti politici, bensì atti amministrativi che si inseriscono in una procedura che il diritto internazionale e interno regolano in modo chiaro e sufficientemente preciso, avendo come principio-cardine la protezione della vita delle persone oggetto di salvataggio in mare e dei loro diritti fondamentali.

Se ne discosta per l’avere adottato un approccio più rigoroso nel valutare gli obblighi delle autorità di governo nel dare seguito ai loro impegni internazionali nei riguardi degli individui titolari di diritti fondamentali, compreso quello alla libertà personale. Il perseguimento di obiettivi di politica migratoria a livello nazionale o internazionale non possono giustificare misure che si traducono in restrizioni illegittime ai diritti individuali.

Se tali misure sono prese, lo Stato è tenuto a risarcire le vittime per il danno ingiusto da esse sofferto.

 La decisione della Cassazione è in larga misura debitrice della sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso Khalifia e Altri c. Italia.

In tale occasione, l’equo indennizzo deciso dalla Corte di Strasburgo a favore delle persone oggetto di una detenzione “di fatto” per alcuni giorni contraria all’art. 5 CEDU era stato di 2500 euro a testa.

Si suppone che anche il giudice di rinvio, nel caso pronunci una sentenza a favore di M.G.K., possa disporre un risarcimento a carico della Stato di analoga entità.

(Paolo De Stefani).

 

 

 

 

Tutte le contraddizioni del governo

sulle politiche migratorie.

Lavoce.info - Maurizio Ambrosini – (25/10/2024) - Immigrazione – ci dice:                                       

La politica migratoria del governo Meloni naviga a vista tra opposte esigenze: la chiusura delle frontiere, la solidarietà con l’Ucraina, l’apertura ai lavoratori richiesti dal sistema produttivo.

L’accordo con l’Albania rientra in questo quadro.

 

Tre diverse politiche migratorie.

 

Il governo Meloni inalbera la bandiera del sovranismo e della chiusura delle frontiere verso i profughi, ma in realtà ha tre diverse politiche migratorie.

Più o meno come gli altri governi europei, ma con una maggiore drammatizzazione, a scopi essenzialmente propagandistici, che ne rende più acute le tensioni interne, le contraddizioni, i conflitti con le norme costituzionali e internazionali.

 

La prima politica è quella più trascurata, spinta sotto il tappeto perché contraddice l’immagine di una difesa granitica dei confini nazionali:

 la prosecuzione della buona accoglienza dei rifugiati ucraini, varata d’urgenza dal governo Draghi nel marzo del 2022, ma continuata senza scosse anche sotto l’esecutivo di destra-centro.

 Non si tratta precisamente di poche famiglie:

il dato si aggira su una cifra di circa 150mila persone, un terzo del numero complessivo dei rifugiati e richiedenti asilo accolti in Italia.

 È vero che si tratta di una popolazione formata essenzialmente da donne e bambini, che suscitano meno allarme e più compassione;

che l’accoglienza dei profughi è stata una reazione insieme politica ed emozionale a un’aggressione ingiusta;

che tutta l’Europa ne è partecipe, compresi i governi sovranisti dell’Europa orientale.

Detto tutto questo, l’accoglienza degli ucraini non è priva di costi per il bilancio dello stato e senza conseguenze per i servizi sociali.

 Nel caso italiano, come in Polonia o in Ungheria, stride particolarmente il contrasto con la sorte riservata ai profughi provenienti dal Sud del mondo.

 

La seconda politica, anch’essa non nuova ma rafforzata dal governo in carica, consiste nell’apertura nei confronti degli ingressi di lavoratori.

Dall’uscita dalla pandemia, e in qualche caso anche prima (Germania, Giappone), si avverte in molte economie avanzate una diffusa carenza di manodopera per molte occupazioni.

Non solo di lavoratori altamente qualificati, già richiesti e ben accolti un po’ ovunque, ma pressoché sconosciuti in Italia, con la sola eccezione del settore sanitario.

Pesa il calo degli arrivi dai paesi neo-comunitari, come Polonia, Romania, Bulgaria, che per circa vent’anni avevano fornito ai partner occidentali gran parte dei lavoratori di cui avevano bisogno.

Già il governo Draghi aveva alzato le quote d’ingresso e alleggerito le procedure, gravate dall’ossessione securitaria, il governo Meloni, però, è andato oltre.

 Ha previsto 452 mila nuovi ingressi in tre anni, perlopiù per lavoro stagionale, ma anche per occupazioni stabili.

Ha inoltre cercato di alleggerire ulteriormente i passaggi burocratici, coinvolgendo le associazioni datoriali, ma senza avere il coraggio politico di abolire il decreto flussi e la surreale lotteria dei click-day:

 una specialità italiana, senza paralleli in Europa.

Anche nel secondo caso il governo italiano è in buona compagnia, ma spicca per l’ampiezza dell’apertura, per le contraddizioni con i suoi indirizzi politici generali, per la difficoltà a rendere operative ed efficienti le proprie decisioni.

Dire “vogliamo sceglierli noi”, come ripete la retorica governativa per contrapporre lavoratori e rifugiati, non basta a risolvere i problemi.

Infatti, non è che i lavoratori, una volta insediati anche provvisoriamente, si astengano dall’esprimere domande sociali e culturali: basti pensare a ciò che accade a Monfalcone, dove gli operai bangladesi della cantieristica, tutti regolari, sono il bersaglio di politiche locali che cercano di negare loro il diritto alla libertà di culto o alla pratica del gioco del cricket.

 

Tre aspetti inoltre colpiscono.

Il primo è l’attivismo delle associazioni imprenditoriali, che dopo molti anni di sostanziale silenzio o di prese di posizione scolorite in materia di politiche migratorie, hanno preso apertamente la parola per chiedere maggiori aperture.

 Il secondo è lo scarso senso pragmatico:

in altri paesi, come Svezia, Germania, in parte Francia, i richiedenti asilo diniegati possono essere assunti o inseriti in percorsi formativi finalizzati all’assunzione, e a quel punto regolarizzati.

In Italia si lamenta la mancanza di manodopera e si lasciano vegetare nel sommerso, quando va bene, giovani atti al lavoro e desiderosi d’inserirsi. L’ideologia prevale sugli interessi del paese e del sistema economico.

 Il terzo aspetto è la ristrettezza della visione sottostante ai decreti flussi. Richiamano la politica dei lavoratori-ospiti della Germania degli anni Cinquanta e Sessanta.

Si pensa soltanto all’ingresso di braccia, senza ragionare su misure di integrazione linguistica, abitativa, familiare.

 Il governo sembra dimenticare che insieme alle braccia arrivano le persone, e poi anche le famiglie.

Non appare azzardato prevedere che nell’arco di una decina d’anni, con i ricongiungimenti familiari e le nuove nascite, l’apertura alle braccia comporti l’insediamento di almeno un milione di nuovi residenti.

 

Chiusura netta agli ingressi per ragioni umanitarie.

 

A questo punto entra in scena la terza politica, quella della chiusura verso gli ingressi per ragioni umanitarie.

Il governo Meloni, costretto a rinfoderare la spada del sovranismo su altri e più impegnativi dossier, come la solidarietà atlantica con l’Ucraina o il rigore di bilancio richiesto da Bruxelles, ha individuato nella politica dell’asilo il terreno su cui dare soddisfazione alle attese dei propri sostenitori e lucidare la propria immagine ideologica.

Tra l’altro a basso costo, e comunicando persino il messaggio di risparmiare sulle spese per l’accoglienza, avendo accuratamente rimosso il dossier ucraino.

 

Gli impedimenti frapposti ai salvataggi in mare da parte delle ong, il “decreto Cutro” con la quasi abolizione della protezione speciale per i rifugiati e la conseguente condanna a una vita di stenti per i richiedenti asilo respinti, ma raramente espulsi, le restrizioni dell’accoglienza dei minori non accompagnati, costretti a convivere per mesi con gli adulti in spregio dei diritti dell’infanzia, i ripetuti viaggi e gli accordi con il regime tunisino e con quello egiziano, oltre a quelli con la Libia, hanno disegnato una linea politica a suo modo coerente.

 Il governo italiano sta di fatto rinnegando l’articolo 10 della Costituzione e le convenzioni internazionali sul diritto d’asilo.

A un mondo attraversato da crescenti crisi umanitarie risponde con una restrizione di umanità.

Se poi, come è probabile, arriveranno un giorno sentenze che limiteranno gli effetti di queste misure, il risultato politico e propagandistico sarà stato comunque raggiunto.

Va aggiunto che l’Unione europea di Ursula von der Leyen, e diversi governi europei, in questa fase mostrano una progressiva convergenza con le posizioni meloniane:

 pensano di contrastare il populismo sovranista adottandone le proposte.

 

In questa cornice s’inserisce l’accordo con l’Albania e la realizzazione di centri extraterritoriali per l’esame delle domande di asilo.

 Meloni non ha esitato a parlare di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti.

Il fatto – pure sbandierato – che nei due centri verranno trattenuti soltanto uomini adulti non fragili, tratti in salvo da navi militari e provenienti da paesi classificati come sicuri, conferma l’intenzione punitiva del progetto e dunque l’obiettivo di spargere paura tra i candidati all’asilo.

Non per caso, l’ispirazione è venuta dal progetto britannico di deportazione in Ruanda dei migranti sbarcati dal mare.

Già al primo viaggio, quattro naufraghi sono stati però reindirizzati verso l’Italia perché non rientravano nei criteri per l’invio in Albania: erano minorenni, oppure adulti fragili.

 

(Il soccorso in mare è ancora un obbligo).

Altri interrogativi riguardano sia il livello pratico-operativo, sia quello dei principi. Anzitutto, al di là dei costi (800 milioni di euro in cinque anni secondo il Sole-24Ore, ma il calcolo probabilmente è approssimato per difetto), il piano governativo si concentra su una parte dei richiedenti asilo: 39mila casi all’anno.

Ma si basa sull’ipotesi di trattare le domande di asilo in quattro settimane, grazie a una procedura accelerata, mentre oggi serve mediamente più di un anno, spesso due.

Si prevedono collegamenti online con Roma e altre forzature procedurali.

Per accelerare i tempi, si comprimono i diritti dei richiedenti, lasciando loro pochissimo tempo per prepararsi all’audizione, raccogliere la documentazione utile a suffragare la loro richiesta, fare appello alla giustizia in caso di diniego: una settimana soltanto per quest’ultima azione.

 

Quanto all’elenco dei paesi sicuri, è già emerso il pressapochismo con cui si è mosso il governo Meloni.

Qualche mese fa la lista italiana è stata allargata a ventidue paesi, tra cui Egitto, Tunisia, Nigeria, contro nove soltanto della Germania.

Casi dunque assai dubbi, “sbiancati” per poter accrescere i dinieghi dell’asilo: non i rimpatri, molto più complicati e costosi.

 Poi è stata ignorata la sentenza della Corte di giustizia europea degli inizi di ottobre, che ha condotto all’annullamento del trattenimento dei primi dodici malcapitati.

 Ora è stata approvata una nuova lista, ridotta a diciannove paesi, senza la Nigeria.

 Per contro, paesi come Egitto e Tunisia sono stati dichiarati sicuri per tutti, senza eccezioni.

La lunga carcerazione di Patrick Zaki a quanto pare è stata dimenticata.

 Per evitare altri incidenti di percorso, la controversa lista è stata inoltre incardinata in un decreto-legge che dovrebbe essere più difficilmente attaccabile da parte della magistratura.

 

Non è chiaro poi che cosa succederà ai richiedenti la cui domanda verrà respinta.

Data la scarsa capacità delle autorità italiane di realizzare i rimpatri, si potrebbe pensare a un rilascio in Albania, ma il presidente Rama si è già risolutamente opposto.

Si potrebbe così configurare l’esito paradossale di un trasferimento in Italia dei richiedenti diniegati.

 

In conclusione, il governo Meloni in materia migratoria naviga tra opposte esigenze: quella della chiusura delle frontiere, quella della solidarietà con l’Ucraina, quella dell’apertura ai lavoratori richiesti dal sistema produttivo.

Si muove in una materia complicata tra approssimazione, forzature delle regole, ricerca di consenso.

 Ogni tanto cade in contraddizione o inciampa in qualche sentenza sfavorevole: numerose le vittorie legali dell’”Asgi”, Associazione di studi giuridici sull’immigrazione, su varie misure discriminatorie, come quelle in materia di edilizia sociale.

Il governo Meloni continua apparentemente a beneficiare di un certo consenso presso l’opinione pubblica, ma suscita anche la reazione della parte più avvertita della società civile.

Il cattivismo programmatico porta voti, ma anche dissenso.

 

Il governo Merz e i migranti.

 1.war.de – (19.05.2025) – Redazione Cosmo - Luciana Caglioti - Cristina Giordano e Cristiano Cruciani – ci dicono:

 

Il Ministro dell'Interno “Dobrindt” ha stabilito controlli più severi verso i richiedenti asilo, ma la misura rimane controversa: ci aggiorna Cristina Giordano.

Qual è la situazione reale dei respingimenti ai confini tedeschi?

Lo abbiamo chiesto a “Andreas Roßkopf” del sindacato tedesco della polizia.

 A “Eleonora Celoria”, avvocato dell'Associazione studi giuridici sull’immigrazione, abbiamo chiesto una valutazione delle politiche europee sui respingimenti alla luce del diritto vigente.

 

(Polizei, Grenzkontrolle -Controlli della polizia alle frontiere in Germania).

Merz e Meloni: stessa linea dura sui migranti.

Sabato 18 maggio Friedrich Merz (CDU) ha incontrato a Roma Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia).

Tra i due capi di governi c’è accordo sul perseguire una politica più decisa contro i migranti irregolari.

Merz appoggia tra l'altro anche l'idea del centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) costruito dall’Italia a Gjader, in Albania, definita dal neo cancelliere tedesco “un’iniziativa di successo”.

Merz ha dichiarato che il suo governo valuterà possibili centri per migranti in Paesi terzi.

 

Attualmente è in esame dell’UE la compatibilità del centro albanese con il diritto europeo in materia di diritti umani.

 Merz e Meloni hanno inoltre concordato, dopo una pausa durata 7 anni, la ripresa regolare di consultazioni italo-tedesche, per l'anno prossimo.

Vengono messi a tacere così i dissapori nati dopo la recente visita a Kiev dei capi di Stato di Francia, Regno Unito, Polonia e Germania, in cui l’Italia era stata esclusa.

 

La nuova direttiva tedesca sui respingimenti alle frontiere.

Annunciata il 7 maggio nella conferenza stampa di presa in carica del ministero, il neo ministro dell'Interno “Alexander Dobrindt” (CSU) ha spiegato che la nuova direttiva governativa prevede di respingere alle frontiere i richiedenti asilo privi di documenti di ingresso validi o in caso abbiano presentato una domanda di asilo in un altro Paese dell'Unione Europea.

La polizia tedesca non avrebbe l’obbligo di respingimento, ma il potere di procedere, valutando caso per caso.

Escluse dai respingimenti restano le categorie di migranti più vulnerabili: i minori non accompagnati, le donne incinte e le persone malate.

 

I respingimenti in Germania sono legali?

(Innenminister Alexander Dobrindt, CSUIl ministro dell'Interno Alexander Dobrindt, CSU)

La direttiva rimanda all’articolo 18 della legge tedesca sul diritto di asilo, la quale prevede il respingimento se gli stranieri in entrata in Germania arrivano da un Paese terzo sicuro, intendendo il Paese di arrivo del viaggio e non il Paese di provenienza del migrante.

Tutti i nove Paesi stranieri limitrofi alla Germania sono di fatto sicuri, dalla Polonia, alla Repubblica Ceca, dall‘Austria alla Francia.

 

Il secondo elemento giuridico di riferimento è l’articolo 72 del Trattato europeo, che consente deroghe temporanee alla libera circolazione di Schengen, per: “mantenere l'ordine pubblico e salvaguardare la sicurezza interna”. Deroga utilizzata anche durante gli Europei di calcio in Francia.

E per questo l'ex cancelliere Olaf Scholz (SPD) era stato pesantemente criticato.

 

Secondo “Eleonoria Celoria”, avvocata di ASGI, l'Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione: secondo le norme europee, i richiedenti asilo non potrebbero in alcun modo essere respinti.

Si tratterebbe quindi di una direttiva in contrasto con il diritto europeo.

E si dovrebbe rispettare la Convenzione di Dublino, sulla presentazione della domanda di asilo nel primo Paese di approdo.

La sua valutazione nella lunga intervista di questa puntata.

 

Le critiche alla nuova politica migratoria tedesca

Secondo l'ex presidente della Corte costituzionale federale, “Hans-Jürgen Papier”, la valutazione giuridica regge ed è corretta.

Ma ci sono anche molti altri esperti critici sull’utilizzo di quello che viene ritenuto un escamotage giuridico.

 

La capogruppo dei Verdi “Katharina Dröge” ha definito i respingimenti “contrari al diritto europeo”, perché I richiedenti asilo hanno il diritto di vedere esaminato sul suolo tedesco il loro caso.

Critiche anche dalla Linke.

Mentre l'AfD ritiene che la risposta alla questione migratoria del neo- governo Merz sia fin troppo debole.

 

La SPD vorrebbe un maggior coordinamento con i Paesi vicini.

Ma gli stessi Paesi sono critici, Polonia e Svizzera in primis.

Alexander Dobrindt ha promesso di fornire spiegazioni alla Commissione UE nei prossimi giorni.

 

I respingimenti sono già in corso?

A una settimana dall’entrata in vigore della nuova linea politica, secondo quanto riporta il “Tagesschau” si è registrato il 45% in più di respingimenti rispetto alla settimana precedente.

“Andreas Roßkopf”, a capo del sindacato della polizia GdP, responsabile per la polizia doganale e di frontiera ci conferma l’attuazione della nuova linea politica, con l’intensificazione dei respingimenti.

 Roßkopf sottolinea la difficoltà di gestire tutti i confini tedeschi, non avendo a sufficienza personale.

“La situazione non può andare avanti così per molto.

 È necessario trovare una soluzione al più tardi entro l'inizio di giugno” ha dichiarato il sindacalista a COSMO Italiano.

E sorgono già i primi problemi, la Polonia si è rifiutata di accogliere due richiedenti asilo rimpatriati dalla Germania.

 

 

Comprendere i sensi, la realtà

e i miti delle migrazioni.

Ilbolive.unipd.it - Valerio Calzolaio – (6 -12- 2024) – Redazione- ci dice:            

 

 Considerare una presentazione di ricerche scientifiche come assolutamente nuova e definitiva non depone a favore di chi lo dice o scrive, anche se è solo per opportunismo editoriale.

 Nel retro di copertina di un bel volume recentissimo sulle migrazioni, opera di un ottimo esperto sociologo olandese, l’offerta di una “prospettiva nuova e definitiva su uno degli argomenti più divisivi del nostro tempo” coglie nel segno sulle divisioni esistenti ma rischia di essere fuorviante sulla capacità di superarle.

Nella vita c’è sempre poco di nuovo e definitivo.

Per ciascuno di noi è abbastanza definitiva la morte, come sappiamo tuttavia, nemmeno la fine dell’esistenza di un singolo individuo di una specie è forse del tutto definitiva (abbia o meno contribuito a procreare) e addirittura nemmeno l’estinzione di una singola specie è ormai davvero definitiva (per fare un esempio banale, i geni dei neanderthal sono ancora fra noi sapiens).

Anche ciò che è davvero nuovo, biologicamente e culturalmente, risulta di difficile definizione e prova.

Ancor più rispetto a un fenomeno decisivo per ogni vita, come il migrare; co-evoluto con le specie viventi, di ogni sorta; permanente e mutevole per la nostra specie, anche in prospettiva.

 

Il sottotitolo italiano del volume aggiunge che “la verità” potrà finalmente oltrepassare le ideologie, ancora una volta esagerando un poco.

Non ce ne è una di stabile verità scientifica e le ideologie sanno spesso plasmare a (proprio) piacimento dati e fatti parzialmente reali.

 Resta il fatto che possono essere decisamente consigliati la lettura, lo studio e la propagazione dei contenuti offerti da “Hein de Haa”s, con il suo corposo “Migrazioni”.

La verità oltre le ideologie.

 Dati alla mano, traduzione di Michele Martino, Einaudi Torino 2024 (orig. estate 2023, How Migrations Really Works), pag. 608.

 L’autore si occupa di gran parte dei territori e dei paesi del mondo.

 Illustra accuratamente lo stato delle conoscenze sul fenomeno migratorio negli ultimi centocinquanta anni, circa.

Ed è vero quanto scrive di continuo con passione e precisione: strabordano ancor oggi (tristemente) molte confusioni e decine di miti quando si parla dell’umano migrare contemporaneo. Documentarsi meglio sarebbe un’utile accortezza, visto che tutti ci hanno avuto in qualche modo a che fare nella propria vita e tutti dovremo tenerne conto.

 

Definire la "migrazione."

La definizione precisa su cosa sia una “migrazione” attiene al cambio di residenza abituale oltre un confine amministrativo, spostarsi stabilmente altrove per almeno sei mesi o un anno, a prescindere dal motivo, sia a livello personale che a livello collettivo, dovendosi distinguere bene con circospezione (le regole e il giudizio) un trasferimento internazionale.

Tante persone hanno sentimenti complessi e ambivalenti riguardo al fenomeno e ai fatti, ma il dibattito politico, con la sua crescente polarizzazione (semplicisticamente costruita su fazioni pro e contro), non riflette questo oggettivo livello di ambiguità.

Dalla fine della Guerra Fredda, i politici occidentali hanno portato avanti una vera e propria Guerra all’Immigrazione, così la chiama correttamente “De Haas” e ben lo sappiamo: i paesi occidentali hanno speso risorse ingenti per frenare l’afflusso di lavoratori stranieri, con le loro famiglie.

 

Da decenni, politici di ogni orientamento promettono di correggere il sistema di accoglienza e di riprendere il controllo sull’immigrazione.

Tutti i governi, però, secondo “De Haas”, hanno costantemente mancato di rispettare le loro promesse.

 Chi ci governa avrebbe ignorato le evidenze scientifiche sui trend, sulle cause e sull’impatto delle migrazioni, seminando solo paure ingiustificate e roboante disinformazione.

 Anche gruppi d’interesse come i sindacati e le lobby commerciali avrebbero esagerato i danni (oppure i benefici) delle migrazioni, mentre le agenzie dell’Onu spesso finirebbero per gonfiare o travisare i numeri di migranti e rifugiati, nell’apparente tentativo di farsi pubblicità e ottenere i finanziamenti.

Non sarebbe male capire davvero natura e radici del fenomeno, per ogni cittadino che legge libri e per ogni sapiens che opera in comunità, tanto più che la migrazione appartiene letteralmente a ognuno e a ogni tempo, è antica quanto l’umanità.

 Ho tentato di riassumere in queste poche frasi di prologo la nota per noi lettori e l’introduzione al volume, l’intento dell’autore è giustificato e positivo, anche lo svolgimento sostanzialmente stimolante e condivisibile.

 

Il sociologo e geografo olandese “Hein de Haas” (1969) ha vissuto e lavorato nei Paesi Bassi, in Marocco e nel Regno Unito, è stato a lungo direttore dell'”International Migration Institute dell'Università di Oxford”, ha promosso e coordinato seri modelli interpretativi e insegna attualmente (dal 2015) la materia ad Amsterdam.

Il suo nuovo volume ci offre un ottimo utile fertile scandaglio sulla cruciale questione del migrare contemporaneo, documentato e riflettuto, "esperito" nel senso che raccoglie trent'anni di ricerche sul campo in vari continenti e una notevole letteratura scientifica, grafici e tabelle (talora originali), frequentazioni interdisciplinari, con argomentazioni solide e abbastanza aperte.

 Il testo è strutturato in tre parti e ventidue capitoli, in ognuno “De Haas” demolisce un mito sul migrare:

riassume il mito nel titolo e nelle prime due pagine in cui cita sia "politici" che documenti che urlano quel mito con le loro convinte parole, per quanto errate; poi spiega (dettagliatamente) in successivi paragrafi come funzionano davvero le cose (How Migrations Really Works, il titolo inglese originale).

 

Politiche migratorie e flussi.

L’autore fa spesso riferimento a un progetto pluriennale di raccolta dati, statistico e sociologico, da lui stesso promosso.

 Nel 2010 un finanziamento del Consiglio europeo della ricerca (Erc) gli ha permesso di creare un team presso l’International Migration Institute (Imi) dell’Università di Oxford per analizzare l’evoluzione delle politiche migratorie nell’ultimo secolo e misurarne l’efficacia nell’incidere sui flussi migratori.

 Il progetto Demig (Determinants of International Migration) è andato avanti dal 2010 al 2015.

Per due anni sono stati letti pile di rapporti, leggi e regolamenti per documentare i principali cambiamenti occorsi nelle politiche migratorie, giungendo alla creazione di un database (Demig Policy) che ha registrato 6.500 variazioni nelle discipline su immigrazione ed emigrazione in quarantacinque paesi tra il 1900 e il 2014.

 I numeri erano stati raccolti in origine per misurare l’evoluzione e l’efficacia delle politiche migratorie e potevamo anche utilizzarli per valutare se i governi di destra avessero davvero una linea più dura sull’immigrazione rispetto a quelli di sinistra (pare non sia così).

 

Sono state aggiunte poi altre variabili al database Demig e De Haas ha via via aggiornato i dati e ampliato le valutazioni, per esempio in merito all’effetto delle politiche migratorie restrittive sui flussi in entrata e in uscita; a come hanno concretamente reagito i flussi alla eliminazione delle frontiere tra gli Stati europei sia quelli migratori interni europei, sia quelli verso e dall’Unione Europea; alla quantità di visti di cui hanno bisogno i cittadini di ciascun Paese del mondo per viaggiare in altri Paesi.

In vari capitoli i grafici e le tabelle illustrano i dati che contribuiscono a smontare miti e luoghi comuni, un ricco preciso supporto statistico che, utilizzando molte altre fonti ufficiali, serve a corroborare analisi e verifiche in ogni parte del testo.

 

Gli strali polemici del volume sono prevalentemente indirizzati ai "politici" (genericamente, talora confondendo politica e governo, cita comunque capi di governo, ministri e dirigenti, anche italiani) e frequentemente agli economisti puri (antica contrapposizione fra le due scienze, per una discutibile egemonia);

 la sua letteratura scientifica è prevalentemente sociologica, ma mostra di avere una certa attitudine interdisciplinare, curiosità intellettuale, opinioni riflettute e condivise con altri, verifiche non pregiudiziali.

Quel che più manca è una maggiore consapevolezza evoluzionistica delle scienze sociali.

Le migrazioni non iniziano quando la sociologia inizia a considerarle statisticamente ben oltre metà ottocento, tantomeno dopo la Rivoluzione Industriale o la Rivoluzione Francese, tanto meno con i viaggi oltre Atlantico di metà secondo millennio, tanto meno qualche millennio prima quando i confini di un territorio diventano costrutto umano (dopo la prevalenza della stanzialità con la cosiddetta rivoluzione neolitica), tanto meno quando i primi sapiens sono usciti dall’Africa.

 E, soprattutto, la definizione (pur antropocentrica) può essere facilmente estesa alle specie umane precedenti la nostra, alle specie animali, addirittura alle specie vegetali:

 il cambio di residenza abituale fuori del proprio areale precedente, individuale o collettivo, una tantum o ciclico, verso ecosistemi abbastanza simili o molto diversi rispetto alla biodiversità dei punti di partenza, dei transiti, dei punti di arrivo.

 

Avere consapevolezza evoluzionistica eviterebbe alcune imprecisioni di linguaggio e inesattezze sui contesti della biodiversità del pianeta.

L’autore fa un solo riferimento (credo) alla vita prima della Rivoluzione Industriale, abbastanza corretto:

la “Rivoluzione agricola (o neolitica) ha consentito agli esseri umani di insediarsi stabilmente in comunità rurali e di abbandonare a poco a poco uno stile di vita itinerante, nomadico o pastorale.

 Dall’inizio del XIX secolo, la Rivoluzione industriale ha portato a una migrazione su larga scala dalle aree rurali…”.

Tuttavia noi esistevamo da prima e migravamo da sempre, comunque da prima di essere stanziali, sicché la maggiore residenzialità agricola ha comportato anche l’utilità di distinguere le emigrazioni dalle immigrazioni e di dover tenere abbastanza separata l’analisi del migrare nel luogo di partenza da quella negli ecosistemi di transito e di arrivo.

Il fenomeno migratorio è totale (De Haas cita bene Sayad), ma pure asimmetrico e diacronico, nel testo in esame ne tiene abbastanza conto, pur non sottolineando la rilevanza di aspetti non sociologici della libertà di migrare e del diritto di restare (per esempio, stando alla contemporaneità, citando spesso il vincolo generico dei diritti umani fondamentali, ma non citando mai in specifico l’articolo 13 della Dichiarazione Universale e non citando nemmeno i due recenti Global Compact dell’Onu, forse per un fastidio, comprendibile ma discutibile, pure verso i formalismi giuridici).

 

La consapevolezza evoluzionistica avrebbe, inoltre, motivato meglio alcune argomentazioni di De Haas, anche per comprendere come i miti e il senso comune (che perlopiù giustamente contesta) siano divenuti così “radicati” nelle nostre società e culture istituzionali statuali.

Il suo volume è, comunque, fertile.

Entrando nel merito specialistico, dei sette capitoli della prima parte, quattro sono quasi del tutto condivisibili, tre sostanzialmente condivisibili;

 degli otto capitoli della seconda parte 3 e 3, ma ce ne sono anche 2 che andrebbero forse parzialmente meglio approfonditi. Nella terza parte 2+3+1 abbastanza bene, uno che invece andrebbe meditato e criticato sotto molti differenti aspetti: riguarda i cambiamenti climatici ed ecologici antropici globali.

De Haas non è un negazionista climatico, al contrario, e discute questioni effettivamente controverse nell’ultimo capitolo (prima delle conclusioni), si affida molto a colleghi competenti e ai geografi (anche quelli purtroppo prevalentemente “non” evoluzionistici), cita solo la sintesi dell'ultimo rapporto dell'IPCC (per ragioni opportune) ma mostra di non conoscere i precedenti e, soprattutto, il nesso evoluzionistico fra clima e migrazioni.

 

Come la maggior parte dei sociologi delle migrazioni sembra sottovalutare una base culturale evoluzionistica, biologica e antropologica.

In secondo luogo, è troppo mosso da una (pur sana) vis polemica: segnala che gli rimproverano di essere parte del polo favorevole alle migrazioni, mentre ritiene (giustamente) di essere solo uno studioso accurato, fra l’altro molto attento alle differenze e ai contrasti di classe.

Fatto sta che da decenni, proletari e sottoproletari sono in maggioranza nel polo contrario alle migrazioni.

 Se ne può prendere atto, ormai ogni campo della politica e della cultura è polarizzato.

L’autore ne è frustrato, ricorda quando nel 2015 torna nei suoi Paesi Bassi dopo dieci anni a Oxford e viene invitato a un dibattito sui profughi siriani, il moderatore lo cataloga (dopo l’intervento) come “a favore dell’immigrazione” e lui lo interrompe per criticare proprio quell’impostazione:

“La costante rappresentazione dei dibattiti sulla migrazione in binari li rende indegni della parola dibattito”.

 

De Haas deve confrontarsi con interlocutori potenti istituzionalmente e culturalmente presuntuosi, e da trent'anni vede prevalere atteggiamenti sbagliati sulla cosa che più studia, ama, conosce e divulga, vorrebbe che la sua analisi possa essere accolta come sopra “ogni” parte, visto che critica insieme destra e sinistra (in modo comunque competente e motivato), razzisti e umanitaristi (talvolta con rigida equidistanza).

 Occorre, dunque, analizzare meticolosamente ognuno dei ventidue miti, dedicando loro uno specifico compiuto approfondimento.

In questa sede non mettiamo in discussione l’uso del termine “mito” che ha certo pure altre definizioni e connessioni, rimanda talora solo a ideologie diffuse (quanto possa essere capace di “polarizzare” le aspirazioni di una comunità o di un'epoca, elevandosi a simbolo privilegiato e trascendente), talora proprio ad atti e fatti “idealizzati” e non solo a pensieri teorici (in corrispondenza di una carica di eccezionale e diffusa partecipazione fantastica o religiosa), talora a caratteri storici e letterari o metaforici.

Rende l’idea, è vero.

In Italia, fra l’altro, i miti si associano spesso a un “cattivo” senso comune, cattivo perché non buono (secondo il buon Manzoni) e perché asseconda pulsioni aggressive verso deboli rispetto noi, qui e ora (prevalentemente).

Vediamoli presto uno per uno, allora, questi “miti sulla migrazione”.

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