La cultura della disumanizzazione del nemico ideologico.
La
cultura della disumanizzazione del nemico ideologico.
La
disumanizzazione come strumento:
dal
nazismo agli estremismi contemporanei.
Centrtomachiavelli.com
- Rita Angelini – (8 settembre 2025) – ci dice:
Nel
panorama degli estremismi del XX secolo, la disumanizzazione dell’altro ha
rappresentato uno strumento per la legittimazione della violenza e
dell’omicidio, un mezzo di privazione dell’identità e dell’umanità di un
nemico, scelto, in alcuni casi pianificato, con la finalità di perseguirlo fino
ad arrivare anche all’estremo tentativo di sterminarlo.
Il
regime nazista incarna certamente la rappresentazione più nitida di come questa
costruzione psicologica abbia avuto un ruolo da asse portante della propria
propaganda contro gli ebrei, già catalizzatori di odio nell’Europa Orientale
del 1900 e vittime di attacchi violenti, i pogrom.
Gli
ebrei erano rappresentati dai nazisti come topi, parassiti, insetti, agenti
patogeni da eliminare per garantire la “purezza” della società tedesca.
La
macchina dello sterminio fu preceduta da una distruzione simbolica
dell’identità umana dell’ebreo, ottenuta attraverso la stampa, il cinema (come
nel noto film di propaganda” Der ewige Jude”), le vignette satiriche e
l’istruzione.
I soggetti di origine ebrea venivano spogliati
di ogni umanità, diventando così corpi estranei da estirpare, una minaccia da
annientare.
Nella
comunicazione attuale sono state rintracciate mutazioni di tale raffigurazione
impiegate nell’ambito della propaganda anti-israeliana, in particolare nelle
organizzazioni radicali e nei gruppi terroristi.
L’immaginario
grafico e la narrazione ricalcano gli stessi tratti disumanizzanti per
delegittimare l’esistenza dell’ebreo e fornire così un’attenuante all’odio
antisemita.
Comunicazione
nella lotta armata.
Nell’Europa
post-bellica, nell’ambito della lotta armata interna agli Stati, i gruppi
terroristi hanno adottato forme di disumanizzazione che fornivano una
giustificazione all’odio, una forma di comunicazione e narrazione che assumeva
anche la funzione di combustibile per alimentare lo scontro sociale.
La
strategia di spersonalizzazione fu utilizzata sia nei terrorismi di matrice
ideologica che in quelli legati alle lotte indipendentiste.
Le
Brigate Rosse in Italia e la RAF (Rote Armee Fraktion) in Germania descrivevano
i loro obiettivi come ingranaggi del potere borghese, magistrati, manager e
membri delle Istituzioni venivano privati della loro individualità diventando
parte del sistema oppressore da scardinare.
I comunicati dei gruppi definivano le vittime
come mezzi, nel ruolo di esecutori di una funzione, mai come persone, riducendo
l’assassinio a un’azione tecnica e inevitabile, minimizzando la gravità
dell’atto criminale.
Le
Brigate Rosse chiamavano i loro bersagli “nemici del proletariato”, “traditori
della classe operaia”, “servi del potere”, gli omicidi venivano rivendicati
come atti di giustizia rivoluzionaria necessari alla causa, guidati da un
ipotetico fine morale superiore.
L’elaborazione
mentale del processo di demonizzazione, oltre a fornire la narrativa utile alla
propaganda, assumeva le caratteristiche di collante interno ai gruppi, con lo
scopo di fomentare comuni sentimenti di repulsione e di edulcorare la
percezione delle azioni terroriste.
In
Spagna fece largo utilizzo della spersonalizzazione, per la propria propaganda
e influenza, l’organizzazione terrorista” ETA” (Euskadi Ta Askatasuna)
nell’ambito di una strategia del terrore legata all’indipendentismo basco e
alla sinistra abertzale, cioè simpatizzante per la causa basca.
ETA
adottò una sistematica disumanizzazione e persecuzione nei confronti delle
“Fuerzas y Cuerpos de Seguridad del Estado” spagnoli, i suoi obiettivi erano la
“Guardia Civil” e la “Policia Nacional”, etichettate con l’espressione basca
“txakurrak”, ovvero “cani”.
Questo
termine assumeva un valore simbolico di riduzione dell’avversario a un essere
privo di dignità in quanto vile servo di uno Stato oppressore, legittimandone
la sua eliminazione come atto di “giustizia rivoluzionaria”.
Questo
linguaggio veniva diffuso anche attraverso i murales nei Paesi Baschi, le
pubblicazioni militanti e i cori di piazza, e serviva a creare un immaginario
condiviso in cui il nemico istituzionale non era un uomo, ma uno strumento
repressivo colpevole di agire come invasore.
La
costruzione dell’odio.
Fuori
dall’Europa uno dei conflitti più significativi nel corso del quale la pratica
di demonizzare l’obiettivo condusse ad azioni terrificanti è rappresentato dal
genocidio del Ruanda.
La
propaganda” hutu”, diffusa soprattutto attraverso la” Radio Mille Collines”,
definiva i “tutsi” “scarafaggi”, spingendo la popolazione alla loro
eliminazione fisica, all’umiliazione pubblica, anche attraverso gli stupri di
massa e torture che venivano praticati persino di fronte ai familiari delle
vittime.
Ricorre
in questo conflitto l’utilizzo della retorica animale a precedere un orribile
sterminio, questa funge da anestetico della morale comune e da acceleratore di
uno scellerato odio collettivo.
Nel “terrorismo
jihadista” contemporaneo, “Al-Qaeda” e l’”ISIS” hanno utilizzato
sistematicamente questa pratica.
I nemici, che siano occidentali, sciiti,
yazidi, o musulmani non integralisti, vengono descritti come “crociati”,
“maiali”, “infedeli”, “apostati” o “serpenti”.
I
materiali di propaganda diffusi sui social, nei video o nelle riviste, non solo
legittimano la violenza contro questi soggetti, ma celebrano la loro
disumanizzazione come prova della purezza dell’Islam combattente.
I prigionieri inginocchiati prima della
decapitazione non sono presentati come esseri umani, ma come incarnazioni del
male, oggetti sacrificali nel rituale di una vendetta ideologico-religiosa che
eleva l’assassino a una sorta di giustiziere.
Anche
in alcuni conflitti africani contemporanei, la disumanizzazione funge da
innesco e da amplificatore della violenza etnica e religiosa.
In
Mali, Sudan, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo, milizie armate e
signori della guerra ricorrono spesso a una semantica che riduce l’altro a
impuro, eretico.
I
bambini-soldato, sia in questi contesti che nella formazione dei nuovi
combattenti dell’ISIS, vengono indottrinati con immagini che mirano a costruire
una visione del nemico identificabile nella figura dell’infedele, a
normalizzare forme di violenza estrema che facilitano la loro partecipazione a
crimini orrendi, cancellando ogni empatia residua.
La
disumanizzazione, al di là delle ideologie che la veicolano, ha una struttura
ricorrente che può essere rintracciata come elemento comune nelle varie
tipologie di propaganda:
l’attribuzione di tratti animali o l’immagine
del nemico come parassita, la negazione della soggettività e dell’identità
personale, unite alla legittimità dell’eliminazione dell’altro come soluzione
al conflitto o come segno di purificazione della società.
Secondo
autori come “Philip Zimbardo” (L’effetto Lucifero) e “Zygmunt Bauman “(Modernità
e Olocausto) la disumanizzazione è uno strumento cognitivo per superare i
limiti etici legati alla violenza e un modo per costruire consenso interno nei
gruppi radicalizzati, un pilastro ricorrente nelle dinamiche del terrorismo,
dei genocidi e dei conflitti asimmetrici.
“Zimbardo”
la definisce come una sorta di cataratta corticale che obnubila il pensiero di
un individuo e ne altera la percezione dell’altro, fornendone una visione di
qualcosa di subumano.
Essa
non solo precede e giustifica la violenza, ma struttura il pensiero collettivo
e cementa l’identità del gruppo, è quindi il suo contrasto un possibile metodo
per smantellare la semantica dell’odio proponendo la protezione delle vittime
come principio cardine della civiltà umana.
La
condivisione della dignità che appartiene a ogni essere umano può arginare la
deriva ideologica che genera azioni deplorevoli, la consapevolezza che ogni
persona, sia pure un nemico, sia depositaria di dignità e umanità.
Geoingegneria
Sotto Accusa:
l’Udienza
negli Stati Uniti.
Conoscenzealconfine.it
– (21 Settembre 2025) - Arianna Graziato – ci dice:
Negli
Stati Uniti il Parlamento discute di geoingegneria.
L’iniziativa
parte dal “DOGE”, il “dipartimento dell’efficienza governativa”, che ha
organizzato nelle scorse ore un’udienza sul tema.
Si
intitola “giocare a fare Dio con il meteo: una previsione disastrosa”.
Tenutasi
alla Camera per circa due ore, l’udienza ha voluto dare visibilità pubblica ad
un tema che per troppo tempo è stato ridotto a semplice “teoria del complotto”.
“Vogliamo smascherare gli esperimenti
di geoingegneria e di modificazione del clima che prevedono l’irrorazione di
sostanze chimiche sconosciute nei nostri cieli. Gli americani non hanno mai
votato a favore di questo.
Meritiamo
trasparenza!” scrive su “X” il “DOGE”.
Il
dipartimento punta il dito contro la sinistra, colpevole di aver ignorato oltre
vent’anni di articoli e riviste scientifiche che accreditavano il tema, tacendo
deliberatamente sulla geoingegneria.
Il
tutto perché, afferma il DOGE, “non si vuole che gli americani facciano
domande, per farci tacere”.
“Per anni, chi poneva domande in buona
fede veniva ignorato, persino diffamato dai media e dal loro stesso governo.
Quell’era è “finita“ si proclama alla Camera.
Presente
all’udienza il dottor “Roger Pielke Jr.”, ricercatore esperto di politica
scientifica e tecnologia, favorevole ad una regolamentazione internazionale
della geoingegneria.
Il
dottore ha parlato di “benefici incerti e rischi catastrofici”.
“La
modificazione del clima è come giocare a fare Dio con i nostri cieli,
utilizzando sostanze chimiche che non comprendiamo appieno. Non sappiamo quali
saranno le conseguenze, ma sappiamo che potrebbero essere devastanti”.
E
continua: “Non possiamo avere una scienza repubblicana e una scienza
democratica.
Dobbiamo
avere una scienza di cui tutti si fidino per valutare quali modifiche
meteorologiche sono state apportate e quali ne sono stati gli effetti”.
Al
momento negli Stati Uniti sono due gli Stati ad aver vietato ogni attività di
geoingegneria: il Tennessee e la Florida.
Ma
altri 24 si starebbero muovendo in tale direzione.
Si
tratta di quasi il 50% del territorio americano.
(Arianna
Graziato).
(byoblu.com/2025/09/18/geoingegneria-sotto-accusa-ludienza-negli-stati-uniti/).
La
guerra e la strategia
della
disumanizzazione.
Rsi.ch
– Mattia Pelli/Red – (12 – 10 – 2024) - ci dice:
Una
strategia antica che ha avuto una sua estremizzazione a partire del nazismo per
poi propagarsi nei conflitti odierni.
Ora tra
le strade di Khan Younis.
La
disumanizzazione del nemico non è una reazione improvvisa, ma una strategia
pianificata.
Privare
l’avversario di quei connotati che ce lo farebbero sentire simile, esiste da
sempre ed è una parte fondamentale della costruzione del concetto stesso di
nemico.
Ma solo nel 20.º e XXI secolo questo processo
si è sistematizzato, è diventato scientifico, in particolare con il nazismo, ma
anche con la sistematizzazione della propaganda razziale, ideologica, religiosa
e con l’uso retorico della comunicazione di massa.
Oggi
in Medio Oriente è innegabile che siamo di fronte a un laboratorio di
disumanizzazione di grande complessità.
Su
questo tema abbiamo interrogato “Laura Silvia Battaglia”, giornalista,
corrispondente, documentarista, scrittrice, autrice di reportage in Libano,
Israele, Palestina, Gaza, Afghanistan, Kosovo, Egitto, Tunisia.
In
questo momento penso sia fondamentale concentrarsi su questo fenomeno, che
naturalmente è comune a tutte le guerre, fa parte del processo necessario a
creare un clima di guerra per fare in modo che i soldati si sacrifichino, che i
miliziani si sacrifichino.
È una
cosa che vediamo sistematicamente da millenni.
Diciamo che qui il tema è assolutamente
calzante per diversi motivi.
Innanzitutto
siamo di fronte a una realtà in cui per anni, per motivi differenti, entrambe
queste società, entrambi i giovani di questa società sono stati abituati a
percepire l’altro come diverso, non uguale in termini di umanità, come un
pericolo, come una minaccia, come un elemento da ignorare, da dimenticare, da
pensare che non esista.
Marcello Flores d’Arcais, storico studioso di
genocidio, docente di Storia comparata e Storia dei diritti umani
all’Università di Siena, dove dirige il Master europeo in Human Rights and
Genocide Studies.
Questa
disumanizzazione c’è sempre stata nella storia.
Possiamo dire che c’è stata solo una piccola
finestra, dalla metà dell’Ottocento alla fine del Novecento, in cui l’idea di
umanizzare il nemico è riuscita, se non a prevalere comunque a offrire una
serie di strumenti giuridici, ma anche militari, ecc.
A
partire dalla seconda guerra mondiale si assiste a una spinta terrificante di
disumanizzazione apportata dal nazismo e dalle guerre successive che hanno
incrementato questo carattere.
Pensiamo
alla guerra nel Vietnam che per la mia generazione è stato un momento
estremamente importante di consapevolezza:
il
massacro della popolazione del nord con i bombardamenti con il napalm era
qualche cosa che appunto aveva come idea che il nemico andava comunque
distrutto chiunque esso fosse.
Questo aspetto lo si vede ancora oggi a Gaza,
grazie all’informazione e ai racconti scavati nelle vicende anche individuali.
Ma è
lo stesso che è accaduto in Siria e che è accaduto in altre parti del mondo
dove ci sono state ugualmente centinaia di migliaia di vittime.
Disumanizzare
la morte:
Il
rispetto della dignità
del
nemico caduto.
Iusinitinere.it
- Redazione – (17 Febbraio 2025) - A cura di Luigi Usai – ci dice:
“Digli
che adirati son con esso gli Dei […]
da che
sì furibondo agli strazi e i rattien l’ettòrea salma.”
(Iliade,
Omero.)
Introduzione.
Il
trattamento riservato ai cadaveri dei nemici è un tema ricorrente nei contesti
di conflitto armato.
Storicamente era divenuto noto il caso dei
“denti di Waterloo”, ovvero i denti di giovani soldati morti in tale battaglia,
estratti e rubati dalle loro salme così da fungere da denti sostitutivi.
In
tempi più recenti, nel 2012, aveva creato scandalo un video in cui dei “Marines
statunitensi”, in Afghanistan, urinavano su dei combattenti talebani morti.
Oppure
ancora, si pensi alle accuse mosse da “Hamas” ad Israele sugli 80 corpi
palestinesi a cui sarebbero stati asportati degli organi o ai video diffusi dai
soldati israeliani mentre “giocano” con la lingerie ritrovata nelle case
palestinesi devastate.
Risulta
quindi chiaro come questa sia una questione di estrema attualità.
La
violenza e il mancato rispetto verso i defunti comportano ostentazione e
teatralità, volte a mostrare disprezzo non solo per il morto ma anche per
quello che egli rappresenta (la sua nazione, etnia, religione…), con l’intento
di scoraggiare e ridicolizzare gli avversari, seminare paura e affermare
superiorità. In sostanza si tratta di comportamenti che disumanizzano il nemico
e la sua morte.
Proprio
per la rilevanza che questo tema può assumere esistono norme nel diritto
internazionale umanitario (DIU), nel diritto internazionale penale e negli
ordinamenti statali poste ad effettiva tutela della dignità del nemico caduto.
In
questo breve lavoro si cercherà anzitutto di evidenziare come queste norme
siano espressione del principio di salvaguardia della dignità umana (par. 2);
si procederà, quindi, con una breve analisi
delle disposizioni di diritto internazionale in materia (par. 3);
infine,
si esplorerà la possibilità che i relativi comportamenti illeciti possano
assumere rilevanza non soltanto per sé, ma anche come prova dell’esistenza di
un intento genocidario (par. 4).
La
Dignità Umana come fonte di Diritti e di Doveri.
Con il
termine “dignità umana” si intende la “condizione di nobiltà ontologica e
morale in cui l’uomo è posto dalla sua natura umana, e insieme il rispetto che
per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a sé stesso”.
Essa,
dunque, è il valore che ogni persona possiede per il semplice fatto di
appartenere al genere umano, è la sum di ciascuno.
Questo
concetto è la “raison d’etre del DIU” e dei diritti umani.
Nel
contesto giuridico internazionale è possibile identificare due concezioni della
dignità umana.
Essa,
infatti, non è soltanto un principio fondamentale e la base di diritti
inviolabili dell’uomo (human dignity as empowerment), ma è anche un principio che crea
doveri in quanto bene giuridico tutelato da certi divieti internazionali (human dignity as constraint).
Proprio
in base alla seconda prospettiva, ovvero della dignità come fonte di doveri, si
deve ritenere che, indipendentemente da un riconoscimento di diritti al/del
defunto, ogni essere umano deve rispettare i morti (nel senso stabilito dalle
norme che si analizzeranno in seguito).
Nella
sua estrinsecazione come vincolo, dunque, la dignità umana trascende la
dimensione individuale per assurgere ad attributo astratto e oggettivo appartenente
alla specie umana nel suo insieme.
Il collegamento
tra dignità umana e rispetto della salma dell’avversario è confermato anche dal
dato testuale per cui la nozione di vittima di “crimini di guerra per oltraggi
alla dignità personale” ricomprende, oltre alla “persona”, anche il soggetto
deceduto.
Ne
consegue, quindi, che la dignità umana si pone a fondamento degli obblighi di
rispetto del corpo del defunto.
Con la
morte dell’individuo non cessa il dovere di trattarlo secondo umanità.
Le
Norme del Diritto Internazionale.
Riguardo
alle concrete modalità con cui deve essere trattato il corpo del nemico morto
in guerra il DIU fornisce specifiche indicazioni.
Queste
sono state analizzate nello studio “Customary International Humanitarian Law”
del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) al Capitolo 35.
In esso si stabilisce che le parti del
conflitto hanno l’obbligo di cercare, recuperare ed evacuare i defunti (Regola
112), facilitando la restituzione dei resti e degli effetti personali (Regola
114);
la disposizione dei cadaveri e la
conservazione delle tombe devono avvenire in modo rispettoso ed adeguato
(Regola 115) e comunque dopo aver registrato tutte le informazioni disponibili
(Regola 116);
inoltre,
viene fatto divieto di spoliazione e mutilazione dei corpi dei morti (Regola
113).
È
importante sottolineare come questa disciplina, che si applica ai conflitti
armati sia internazionali che interni, deve essere rispettata senza “adverse
distinction”, ovvero a prescindere dalla parte del conflitto cui il soggetto
apparteneva e indipendentemente dal suo status di combattente o di civile.
Come
precedentemente affermato, queste regole sono espressione del” DIU”
consuetudinario.
Infatti,
sono ricavabili da un lato da vari trattati internazionali, dall’altro dalla
prassi della generalità degli Stati.
Per
quanto concerne il primo aspetto, già dai primi anni del XX secolo i Governi
iniziarono a stipulare diversi trattati che imponevano doveri analoghi a quelli
appena illustrati.
Tuttavia,
è a partire dalle Convenzioni di Ginevra (CG) del 1949 e dai Protocolli
aggiuntivi (PA) del 1977 che si giunge ad una disciplina più organica ed
esaustiva. Prendendo ad esempio in considerazione l’obbligo di ricerca e
recupero dei morti questo è previsto da: I CG art. 15(1), II CG artt. 18(1) e
21(1), IV CG art. 16(2); I PA artt. 17(2) e 33 (4), II PA art. 8.
Riguardo
la prassi degli Stati si devono considerare non soltanto le legislazioni
nazionali, ma anche altri elementi quali i manuali militari, le dichiarazioni
ufficiali e le pronunce giurisprudenziali.
È
proprio da questi, analizzati in modo dettagliato e approfondito nel II volume
dell’opera di codificazione del CICR, che si ricava la sussistenza di entrambi
gli elementi della consuetudine internazionale:
“usus
e opinio juris ac necessitatis”.
Di
conseguenza, tali norme sono vincolanti, anche in assenza di disposizioni
convenzionali, per tutti e in ogni luogo.
L’applicazione
di queste norme è supportata anche dal “Diritto Internazionale Penale”.
Infatti, come accennato, i “crimini di guerra
di oltraggio alla dignità personale” possono perfezionarsi anche nei confronti
del defunto.
Tale
ambito di applicazione risulta confermato dalla recente giurisprudenza interna.
Ad
esempio, nel 2016 in Germania è stato condannato a 2 anni di carcere un
cittadino tedesco, convertitosi al radicalismo islamico, a causa di sue foto
scattate durante un viaggio in Siria in cui posava con teste mozzate di
combattenti nemici, impalate su barre di metallo.
Nel
2017, in Svezia, un immigrato iracheno è stato condannato a 9 mesi di
reclusione dopo il ritrovamento di alcune sue foto del 2015, scattate durante
il conflitto nel Nord Iraq e pubblicate su Facebook, in cui posava con una
testa mozzata su un piatto accanto ad altri corpi decapitati.
Mancato
Rispetto del Nemico Deceduto e Intento Genocidario.
Le
violazioni delle medesime norme, oltre ad avere rilevanza di per sé, potrebbero
acquisire importanza anche in altri contesti.
In
particolare, esse potrebbero contribuire a provare la “mens rea” del crimine
dei crimini: il genocidio.
Per il
diritto internazionale il genocidio, sia come illecito (dello Stato) che come
crimine (dell’individuo), si configura se sussistono due elementi:
l’actus
reus (elemento oggettivo) e la mens rea (elemento psicologico).
Per
quanto riguarda il primo devono essere realizzati i comportamenti tipici
elencati dall’art. 2 lett. (a)-(e) della Convenzione sul genocidio ovvero:
(a)
uccidere membri del gruppo;
(b)
causare loro gravi danni fisici o mentali;
(c)
infliggere deliberatamente condizioni di vita mirate alla distruzione del
gruppo; (d) imporre misure volte a prevenire le nascite;
(e)
trasferirne forzatamente i figli in un altro gruppo.
Passando
alla “mens rea”, essa è definita come la commissione dei suddetti atti “con
l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico,
razziale o religioso”.
Tale”
dolus specialis” è particolarmente difficile da provare in quanto si dovrebbe
dimostrare che l’intento genocidario sia l’unica ragionevole conclusione che si
può trarre dalle condotte poste in essere.
Al
netto delle critiche che possono essere mosse a questo standard probatorio
particolarmente elevato (che ignora come “l’intenzione di distruggere” possa
coesistere con altri intenti), si deve comunque cercare di comprendere da quali
dati fattuali si possa desumere l’elemento psicologico.
Per
sua natura l’intento non è di solito suscettibile di prova diretta; solo
l’accusato ha conoscenza del proprio stato mentale, ed è improbabile che
confessi la sua volontà genocida.
L’intento,
quindi, deve essere dedotto.
Tale
inferenza logica deve essere fatta derivare dall’evidenza degli atti materiali.
Dunque, se la condotta è stata accompagnata o preceduta da discorsi o
dichiarazioni, il loro contenuto può aiutare a stabilire il “dolus specialis”.
Ma, in
assenza di prove esplicite dirette, la giurisprudenza internazionale ha
precisato che l’elemento psicologico può essere dedotto da una serie di fatti e
circostanze, come: il contesto generale;
la
perpetrazione di altre azioni sistematicamente dirette contro lo stesso gruppo;
l’entità delle atrocità commesse;
il
targeting sistematico delle vittime a causa della loro appartenenza a un
particolare gruppo; la ripetizione di atti distruttivi e discriminatori.
La
giurisprudenza internazionale è concorde nel ritenere che i suddetti fatti
possano assumere rilevanza come prova circostanziale dell’intento genocidario.
Date
queste premesse, è possibile chiarire se e quale possa essere il ruolo in
questo ambito dei comportamenti che vìolano le norme sul rispetto dei cadaveri
dei nemici.
Questi
sicuramente non potranno assurgere a prova diretta del “dolus specialis”,
tuttavia, sembrano rientrare perfettamente nella nozione di prova
circostanziale appena analizzata.
Eventuali
sistematiche violazioni del “DIU” in materia e reiterati crimini internazionali
di oltraggio alla dignità personale del morto sembrano integrare le condotte di
“perpetrazione di azioni sistematicamente dirette contro il gruppo”, gravi
“atrocità” e “ripetizione di atti distruttivi e discriminatori” che la
giurisprudenza ha indicato come fatti da cui desumere l’elemento psicologico
del crimine dei crimini.
A
sostegno di quanto detto si consideri, infine, che per alcuni studiosi una
delle fasi del genocidio consiste proprio nella disumanizzazione del soggetto
appartenente al gruppo nemico.
La
medesima disumanizzazione è insita nella violenza verso il corpo del defunto in
quanto simbolo della nazione, etnia, razza o religione di cui fa(ceva) parte.
Conclusioni.
La
possibile valenza dei comportamenti che oltraggiano la dignità del nemico
deceduto per dimostrare la “mens rea” genocidaria costituisce un terreno ancora
poco esplorato.
Nondimeno,
si deve considerare come, durante i conflitti, la disumanizzazione sottesa al
disprezzo verso l’avversario defunto -ad esempio attraverso la distruzione di
cimiteri (come sta avvenendo a Gaza)- spesso celi un elemento di persecuzione,
un assalto non solo alla vita fisica del nemico, ma anche alla sua esistenza
nazionale e religiosa.
Si
potrebbe dunque concludere che, insieme a tutti gli altri fattori già
analizzati dalla giurisprudenza, anche la disumanizzazione della morte del
nemico tramite il vilipendio della sua salma risponde alle caratteristiche per
poter essere considerato quale ulteriore elemento di prova circostanziale del”
dolus specialis”.
Umiliare
la salma dell’avversario significa oltraggiare il gruppo nazionale, etnico,
razziale o religioso cui apparteneva e che in un contesto di genocidio sono
stati proprio la causa della sua morte.
Il
corpo del nemico deceduto diventa così il simbolo di ciò che egli rappresentava
da vivo.
La
Campagna di Napoleone ed
il
topos storico dell’alterità russa.
Historiaregni.it
– (23 Aprile 2022) - Giuseppe De Simone – ci dice:
La
Russia, pur essendo stata nella storia parte integrante delle evoluzioni
politiche europee, ha sempre mantenuto un’accezione di alterità mai veramente
risolta, nemmeno dopo la caduta del muro di Berlino.
Esistono
poi dei paradigmi storici che sembrano rappresentare quasi una costante nella
storia d’Europa, come ad esempio lo scontro franco-tedesco per l’Alsazia e la
Lorena, a cui potremmo accostare facilmente la Campagna di Russia, intesa come
un assalto dell’Europa proprio a quella entità, vicina eppure così diversa, che
ha rappresentato forse più di ogni altra, persino di quella turca ottomana che
in fondo è una realtà mediterranea, l’elemento “altro” rispetto al nostro
continente.
Quando
Napoleone invade la Russia, non ha di fronte uno stato fuori dall’Europa, ma
anzi profondamente europeo.
È la Russia di Pietro il Grande, di
Elisabetta, di Caterina II la Grande, completamente immersa nell’agone politico
europeo.
Con
Alessandro, l’imperatore dei francesi aveva siglato la “pace di Tilsit” su
quella zattera sul “Nemunas” che avrebbe dovuto delimitare le due sfere
d’influenza. Napoleone avrebbe addirittura dovuto sposare una principessa russa
per suggellare l’accordo.
Le evoluzioni politiche dei due imperi,
l’insofferenza russa verso il blocco continentale, porteranno le due potenze di
nuovo a scontrarsi.
Ora
Napoleone deve fare la guerra alla Russia conducendo un esercito composto da
francesi, tedeschi, italiani, austriaci, ungheresi, polacchi, e quale miglior
modo per cementarlo di raffigurare sé stesso, in maniera
ideologico/propagandistica, nella qualità di campione della civiltà europea
contro la barbarie asiatica?
Lo
seduce l’idea di riportare la Russia fuori dal consesso europeo come elemento
di alterità, giocando su una atavica visione del mondo russo, mai del tutto
sopita nelle popolazioni europee.
Adesso
la Russia torna ad essere quella nebbiosa area geografica abitata da
irriducibili popolazioni mai domate nemmeno dalle legioni romane.
La Russia degli sciti, dei sarmati.
Le
immense steppe asiatiche tornano ad essere fucina delle minacce all’Europa
proprio come dopo la caduta dell’impero d’Occidente.
La
Grande Armata diviene dunque la potenza nullificatrice di sartriana memoria,
che ha bisogno dell’annullamento e della negazione dell’altro per
autodeterminarsi e a tale scopo lo definisce.
L’impero c’è fintanto che esiste un nemico da
combattere che sia la rappresentazione per antonomasia dell’estraneo.
Così
la Campagna di Russia diviene a tutti gli effetti il primo strumento messo in
atto da Napoleone per concretizzare quel progetto di imperialista continentale
che da tempo lo assillava, col superamento del particolarismo nazionale.
Un paradosso rispetto al periodo che sempre
più si qualificherà come l’epoca dei nazionalismi, tanto da costargli la
corona, ma certamente in anticipo rispetto a quanto avverrà molto più tardi in
Europa.
Eppure
questa costruzione ideologica non arriva sino alle estreme conseguenze che si
avranno invece quando si scontreranno due diverse visioni del mondo, incarnate
ancora una volta geograficamente dall’Europa, questa volta nazista, e dalla
Russia ora sovietica.
«Dopo
la vittoria non ci sono più nemici, ma solo uomini», questo è quanto avrebbe
esclamato all’indirizzo di un suo sottoposto l’imperatore dei francesi quando
gli fecero notare che il ferito per il quale ordinava cure immediate e che lo
aveva tanto sconvolto era «solo un russo».
La
contrita figura di quel grande conquistatore stava vagando derelitta sul campo
di Bordino coperto di cadaveri.
È così
che ce la descrive in una delle pagine più efficaci del suo “Storia di
Napoleone e della Grande Armata nell’anno 1812” un ispirato “Philippe-Paul de
Ségur.”
Il
carnaio della Moscova in quell’inizio di settembre del 1812 faceva cadere il
velo che sino ad allora sembrava aver celato al suo sguardo acuto e nervoso il
reale significato di quella grande guerra ai confini d’Europa.
Un
Napoleone afflitto nel corpo e nell’animo si era ostinato ad inseguire il
nemico in cerca di quella vittoria decisiva che oramai era definitivamente
sfumata.
Questa
figura tetra ed amareggiata che ora attraversa muta il proscenio di guerra in
quella piana asiatica è il flebile simulacro dell’energico comandate che aveva
trasformato l’esercito francese in un rullo compressore capace di travolgere in
poco tempo i decrepiti regni dell’ancien regime europeo.
A
guardia delle ridotte conquistate restavano ormai, tra i vittoriosi francesi,
più morti che vivi.
Il
colpo d’occhio era impietoso.
Persino
gli agenti atmosferici sembravano rimarcare quella drammatica consapevolezza
che ormai si faceva strada nei pensieri dell’imperatore:
«si mise allora a percorrere il campo di
battaglia: nessun altro aveva mai avuto un aspetto così orribile.
Tutto
vi contribuiva: il cielo scuro, la pioggia fredda, il vento violento, le case
ridotte in cenere, la pianura sconvolta coperta di rovine e di rottami;
all’orizzonte,
il verde triste e cupo degli alberi nordici;
dappertutto, soldati che erravano tra i
cadaveri e cercavano cibo persino nello zaino dei compagni morti;
ferite orribili giacché le pallottole russe
hanno un calibro maggiore delle nostre;
e
bivacchi silenziosi;
non
più canti, non più racconti; solo un tetro mutismo».
Sembra
la descrizione del campo di un esercito di sconfitti e invece i francesi quella
battaglia l’avevano vinta.
Tuttavia
ormai era chiaro a tutti è che non avrebbero più potuto inseguire i loro nemici
fino ai confini del mondo.
La forza propulsiva della Rivoluzione francese
e del conseguente impero napoleonico si esauriva lì, sul campo di Bordino.
I loro
nemici, quei pervicaci russi che prima avevano condotto una rapida e ordinata
ritirata e poi si erano arrestati per affrontare gli eserciti d’Europa, avevano
combattuto con fanatica determinazione.
Persino
riconoscendo loro una enorme predisposizione al sacrificio e una forza d’animo
smisurata però, l’aristocratico francese che sta narrando le gesta della Grande
Armata in Russia ci tiene ad inserire alcune specifiche osservazioni,
incentrate sull’antitesi, allo scopo di caratterizzare peculiarmente la
concezione di quel fatale scontro sulle piane russe.
È
l’Europa che affronta l’Oriente, è l’erede di Carlo Magno che riunite le genti
europee le scaglia contro i barbari oltre i confini del continente, ricalcando
di fatto l’immagine propagandistica che lo stesso Napoleone aveva voluto
trasmettere a tutti i convenuti nell’incontro di Dresda, prima di avviare la
campagna militare.
Una
riunione di teste coronate che invece di esaltare la figura dell’imperatore dei
francesi si rivelò un vero e proprio boomerang:
i sovrani d’ancien regime praticamente
costretti a parteciparvi fianco a fianco agli uomini emersi dai fuochi della
Rivoluzione lo avevano vissuto come un insopportabile affronto, quelli invece
che Napoleone lo avevano seguito proprio perché considerato la cuspide
rivoluzionaria puntata contro i cadenti regimi della vecchia Europa ora lo
osservavano contrariati mentre si raffigurava in qualità di “primus inter pares”
proprio tra quelle antiche casate che avrebbe dovuto affossare definitivamente.
Una
propaganda dunque, quella imperiale, che mirava inizialmente a rappresentare
gli avversari come barbari, estranei al contesto europeo, e che de “Sigur “arricchisce
con definizioni quasi antropologiche rimarcando la differenza persino nel
soffrire tra francesi e russi:
«essi
parvero sopportare il dolore più stoicamente dei Francesi.
In realtà, non erano più coraggiosi nel
soffrire, soffrivano meno;
i Russi infatti sono meno sensibili, nel corpo
come nello spirito, e ciò dipende dalla civiltà meno progredita e dal fisico
indurito dal clima».
Benché
sull’essenza del nemico l’aristocratico francese facesse cadere la mannaia di
un giudizio che potremmo azzardare di definire razziale, siamo ancora
lontanissimi dalla disumanizzazione che vedremo esplicitata in maniera
terribile nella campagna orientale della Seconda guerra mondiale, ed infatti in
altri punti del suo resoconto lo stesso “de Sigur” non lesina elogi alle “virtù
primitive” dei russi.
È
proprio l’episodio citato pocanzi che ce lo rende evidente:
Napoleone
considera il nemico sconfitto, una volta conclusa la fase cruenta dello scontro
militare, umanamente alla pari dei suoi stessi soldati.
Il ferito va curato che sia russo o francese.
Quello
che i francesi non riescono a spiegarsi semmai è come sia possibile che quegli
uomini mostrino tanta tenacia nel difendere gli interessi di coloro che in
realtà nella quotidianità li vessano, come sia possibile che il servo della
gleba russo finisca per affrontare con ardimento il nemico del suo stesso
padrone.
Loro, i francesi, sono lì ai confini del mondo
civilizzato evidentemente per portare le insegne del progresso civile in quelle
terre desolate.
Questa
è la percezione che alcuni, fossero ufficiali o uomini di truppa, testimoniano
nelle loro memorie rispetto a quella particolare campagna militare.
Altri invece mostrano di aver seguito
solamente il loro carismatico imperatore, ma in nessun caso il nemico
acquisisce ai loro occhi quei tratti subumani che acquisirà nella successiva
campagna di Russia, quella nazista, di un secolo e mezzo dopo, come ha
evidenziato” Omer Barton “nel suo “Fronte Orientale”, facendo luce sugli
aspetti ideologici di quell’altra guerra.
Per lo
storico israeliano lo scontro tra nazisti e sovietici ha implicazioni
evidentemente di tutt’altro livello oltre a quelle di pura politica di potenza,
come evidenziano in quello scenario i legami profondi tra la Wehrmacht e le
politiche di sterminio del regime nazista, persino quando queste ultime erano
in completo contrasto con la logica delle operazioni strettamente militari, le
esigenze della logistica, e i bisogni dell’economia della guerra.
Insomma per i soldati di Napoleone il nemico
russo tutt’al più è barbaro ma pur sempre un essere umano.
Nella
propaganda acquisisce il valore di estraneo, orientale, ammantato di un
coacervo di retrivo e superstizioso retaggio culturale che lo accomuna più alle
popolazioni delle steppe asiatiche che alla civile Europa.
D’altra
parte per i russi i francesi sono paragonabili ad una razza di cavallette
arrivate a bruciare la loro terra, e Napoleone non è altro che il Moloch, così
come lo definisce l’imperatore Alessandro in uno dei suoi proclami alle truppe.
Dunque,
quella tra francesi e russi nel 1812 è sì una battaglia ideologica propria dei
conflitti post-rivoluzionari, da una parte si innalza la bandiera del progresso
civile e dall’altra la difesa delle ataviche tradizioni, ma questo scontro non
produce come conseguenza l’esasperazione nella sua accezione ultima di
sterminio totale dell’avversario.
Nell’entrare
finalmente a Mosca, Napoleone raccomanda a Murat e alla sua avanguardia di
rispettare la massima disciplina.
Non ha
condotto le sue armate sino a quella lontana città per sterminarne la
popolazione.
A “Mortie”, nominato comandante della piazza,
intima «niente saccheggi! Me ne risponderete con la vostra testa.
Difendete Mosca da tutti e contro tutti».
I
saccheggi arriveranno, ma solo dopo che l’incendio della città appiccato dagli
stessi russi segnerà uno spartiacque nella campagna militare.
A quel
punto Napoleone, con una città ormai deserta e devastata dalle fiamme resterà
impassibile ad osservare colonne di razziatori portare via tutto quello che
riusciranno a trovare in quelle abitazioni semidistrutte.
Adesso
lo scontro ideologico ed etnico contro l’entità “estranea” della Russia
zarista, con cui Bonaparte aveva voluto mascherare la lotta per l’egemonia in
Europa si tramuta in una rotta dai tratti quasi epici.
«È Cambise avvolto dalle sabbie di Ammon, è
Serse che ripassa l’Ellesponto in una barca; è Varrone che riconduce a Roma gli
avanzi dell’esercito di Canne», come la descriverà Alexandre Dumas.
Per lo
storico l’analogia è un’arma a doppio taglio, ma resta forse uno degli
strumenti più efficaci per raccontare un evento se utilizzata con le dovute
cautele. Bisogna però considerare che è una freccia all’arco anche della
propaganda.
Napoleone
era stato letteralmente tormentato dal fantasma di Carlo XII che lo perseguitò,
varcato il Nime, fino a Mosca.
E non ci è difficile immaginare che abbia
rivolto un pensiero proprio al sovrano svedese mentre osservava dal Cremlino la
capitale religiosa russa avvolta dalle fiamme.
La lezione napoleonica sembra invece essere
stata completamente dimenticata dai nazisti poco più di un secolo dopo, troppo
intenti com’erano ad affermare il sacro furore catartico della loro lotta
ideologica contro un nemico subumano.
Per i
russi, in quel caso, un redivivo “Aleksandr Nevskij” doveva accompagnare
l’offensiva contro i nuovi cavalieri teutonici, che li avrebbe condotti sino a
Berlino nella Grande guerra patriottica.
L’imperatore
dei francesi aveva portato sulle rive del Nime tutta l’Europa e la disputa non
poteva che assumere dei connotati di scontro di civiltà, eppure per quanto le
battaglie fossero cruente e le conseguenze del passaggio di una tale massa
d’uomini in armi devastanti, non si superò mai la linea dell’aberrazione, e il
nemico restò un avversario da battere in campo che una volta fuori dal contesto
bellico e reso inoffensivo veniva sostanzialmente rispettato.
Non
mancarono diversi episodi di combattimenti cavallereschi, quasi di un’altra
epoca, e le fulgide figure dei comandanti francesi finirono per ricevere spesso
l’ammirazione degli avversari, come testimonia la particolare simpatia dei
cosacchi per l’esuberante “Gioacchino Murat”.
Discorso
del tutto diverso un secolo e mezzo dopo, quando le truppe di Hitler invasero
la Russia sovietica.
Lì si scontravano due blocchi ideologici
contrapposti, i soldati erano stati ferocemente indottrinati affinché vedessero
nell’ “altro” l’antitesi di quanto loro stessi rappresentavano, una dicotomia
insanabile tra il bene e il male, tra la razza eletta e le razze inferiori.
I cani della guerra, in quel particolare
contesto, non ebbero più guinzaglio né alcun tipo di freno, l’unica soluzione
praticabile era lo sterminio totale del nemico.
L’alterità
del mondo russo rispetto all’Occidente non si risolse con la fine del nazismo,
la Guerra fredda ne sancì solo una nuova fase, fatta di cortine di ferro e muri
di Berlino, di Vietnam ed Afghanistan ma anche parossisticamente rappresentata
nell’immaginario cinematografico occidentale da film come “Alba Rossa”, “Rocky
IV”, “Rambo III”, “Firefox”, “Caccia a Ottobre Rosso”, che finirono per
normalizzare quella dicotomia e anticiparono di fatto tra gli anni ’80 e ’90 la
“Perestrojka”.
Con la
caduta del muro, però, la Russia tornava nel consesso occidentale, il
capitalismo e le liberalizzazioni sfrenate la integrarono nell’alveo della
finanza internazionale di stampo liberista americana e le facevano assumere i
connotati di un prezioso partner con il quale fare proficui affari.
L’alterità sembrava accantonata.
Non è
andata così.
La
guerra in Ucraina inaugura ora una nuova fase.
Il
pendolo torna ad oscillare verso una rappresentazione dell’Orso russo in
antitesi al mondo occidentale.
La
stessa esistenza della Nato dopo la caduta del muro di Berlino e la stretta
progressiva all’area geografica del Patto di Varsavia, con una lenta ma
inesorabile erosione della sfera di influenza della Russa, denunciano
probabilmente che l’idea di contrapposizione in blocchi non era mai stata
veramente abbandonata dai comandi occidentali.
(Giuseppe
De Simone).
“Exterminate all the brutes.”
Laletteraturaenoi.it
– (7 Febbraio 2024) - Felice Rappazzo – ci dice:
La
cronaca orribile degli eventi in Medio Oriente dei nostri giorni non può
esimerci da riflessioni complesse, pur in un sito letterario. Voglio provare a
sondare, più che gli aspetti politici (o al di là e al di qua di questi) quelli
culturali che riguardano soprattutto la civiltà occidentale e le sue doppie
verità, partendo, a ritroso, da un breve e noto romanzo-saggio, per poi
confrontarlo con la narrazione mediatica degli eventi.
Conrad
e Kurtz.
L’anno
1899 è quello in cui “Joseph Conrad” completa la stesura del suo” Heart of
darkness”, forse il suo romanzo più celebre (le traduzioni in lingua italiana
oscillano fra Cuore di tenebra e cuore di tenebre);
è
anche quello di una celebre poesia di “Kipling”, Il “fardello dell’uomo
bianco”, e, se vogliamo, anche quello della pubblicazione della
“Interpretazione dei sogni di “Freud”.
Coincidenze,
forse, ma non così fortuite.
Mi
soffermerò brevemente solo sul primo libro qui citato.
In esso un uomo di mare, “Marlow”, in un
complesso gioco di specchi che qui non è il caso di ricostruire, racconta del
“suo viaggio in Congo”, su incarico della sua compagnia di navigazione, volto a
risalire l’omonimo fiume e recuperare un singolare e mitico personaggio, un
funzionario di un certo rango, che era lì rimasto bloccato da una malattia e da
vari incidenti in una base interna all’immenso continente: Kurtz.
La vicenda narrata si svolge tutta in questo
territorio, oscuro così come oscura e funebre, leggiamo nelle prime righe, era
la più grande città del mondo, Londra.
Il romanzo è, insomma, l’inseguimento,
l’incontro, lo scioglimento dell’enigma-Kurtz.
Il regista americano “Francis Ford Coppola”
rilegge a suo modo questo personaggio nel film “Apocalypse now”, ambientato nel
Vietnam.
Richiamo
l’attenzione sul punto cruciale, sul motore narrativo, dissimulato ma non
troppo.
Verso
i due terzi del testo “Kurtz”, infine raggiunto a fatica da “Marlow” ed
effettivamente in cattive condizioni fisiche e in parte delirante, si dilunga a
spiegare la sua filosofia di vita, le ragioni che l’hanno spinto a diventare
quello che era: “Kurtz” si dichiara figlio di un padre per metà francese, di
una madre per metà inglese:
Tutta
l’Europa contribuiva a fare Kurtz;
e poco dopo appresi che, molto
appropriatamente, la
Società Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi gli aveva dato l’incarico di redigere
un rapporto, che le servisse come indicazione futura.
La “Società
Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi” ovviamente non esiste,
ed è un’allegoria satirica.
Come
esponente e delegato di questa Società, Kurtz si dichiara di fatto per quel che
era, un avventuriero senza scrupoli e oltre tutto corrotto, uno schiavista, un
tipico esponente della Compagnia per la quale lavorava, l’incarnazione stessa
del sistema coloniale europeo, del fondo oscuro della cultura e della civiltà
occidentale.
Naturalmente
Kurtz non dice questo.
Dopo
infiniti rigiri e arzigogoli, che sembrano talvolta noiosi ma che in realtà
sono necessari proprio per scoprire quanto invece è occultato (la sostanza del
colonialismo, la sua verità interna o se vogliamo la sua ideologia), Kurtz
consegna a Marlow un suo denso manoscritto.
In
esso, in una prosa esotica e lirica, gli occidentali si presentano agli
indigeni come esseri soprannaturali angelici e onnipotenti, oggetto di
venerazione e di adorazione, unico modo per trarre fuori dai «bruti», dagli
animali africani colonizzati, la scintilla della civiltà.
La
storica missione dell’Occidente, infinite volte ripetuta e rivendicata!
In una nota scarabocchiata a pie’ di pagina,
tuttavia, si leggeva la sostanza, la verità vera di questo progetto di
“educazione”:
«exterminate all the brutes», sterminate tutti questi
animali.
Concludo
qui ogni riferimento a questo importantissimo monumento letterario, chiedendo
perdono per averlo malamente scempiato.
Ma il
mio intento è un altro, e il povero Conrad è stato da me usato strumentalmente.
Ancor
oggi non capisco come una fine e pugnace critica “di sinistra” abbia in anni
lontani letto in Conrad un esponente del colonialismo, un conservatore, se va
bene. Ma questo è un altro discorso.
Colonialismo,
e “bruti” dei nostri giorni.
“Bruto”,
prima ancora che essere violento e irragionevole, significa proprio animale,
persona dominata da istinti animaleschi («fatti non foste a viver come
bruti», in Dante; «universalmente golosi, bevitori, ubriachi e più al ventre
serventi a guisa d’animali bruti», Boccaccio, nella seconda novella del
Decameron).
Il
bruto non ha umanità, non ha dignità, è privo della scintilla della ragione e
della distinzione, è feroce o piagnucoloso, subalterno e gesticolante. Un
animale, ma indegno di quella simpatica indulgenza che spesso si ha per gli
animali.
Per i
colonialisti di ogni tempo e generazione, per i sopraffattori di ogni geografia
e storia, i sottomessi sono appunto bruti.
Esseri indegni e da considerare come massa,
come ingombro o residuo e scarto da sfruttare o da eliminare.
Così gli schiavi per tutte le società antiche
e moderne, da Atene e Roma antica, dai nativi indonesiani o americani, dai neri
a tutti gli altri “diversi”; e naturalmente agli internati nei campi di
concentramento nazisti, ebrei, zingari, omosessuali, politici, disadattati,
matti e così via.
Pura
carne, puri oggetti, puri numeri.
La “popolazione
di Gaza” è fatta di bruti di questo genere, per l’élite politica israeliana;
e per
l’élite occidentale in genere, con il corollario dell’asservimento ideologico e
politico dei giornalisti, per la maggior parte, agli interessi e allo sguardo
dell’occidente globale.
Non
penso affatto questo per l’insieme del popolo israeliano, ma certo è così per
una quota non indifferente di esso, per quei “settlers” che hanno abusivamente
invaso i territori della Cisgiordania col sostegno dei vari governi;
e per
chi si trova a dover combattere “Hamas”, e invece produce una orrenda mattanza.
Il soldato armato fino ai denti, atterrito a
sua volta, produce terrore e morte, e non può far questo senza aver prima
disumanizzato i suoi avversari:
anzi, tutti coloro che si trova di fronte;
la
guerra fa il soldato, la tortura fa il torturatore.
“Sartre” ha spiegato questo processo in modo
splendido e tuttora insuperato, introducendo “I dannati della terra” di “Frantz
Fanon” e “La tortura” di “Henri Alleg”.
E
questi stessi autori hanno mostrato (il primo, ovviamente, in modo molto più
ampio) come avviene la disumanizzazione, e come si costruiscono discorsi e
contro discorsi, fra colono e colonizzato, fra carnefice e vittima.
Il
passaggio mentale (discorsivo e istintuale, razionalizzato e di copertura a un
tempo) perché si possa giungere a questo orrore è uno e uno solo, in ogni caso:
appunto la disumanizzazione del “nemico”.
Così
sentiamo ministri del governo di Israele e importanti figure pubbliche
lanciarsi in dichiarazioni incredibili, definire bestie umane tutti i
palestinesi, chiederne la deportazione generalizzata.
Cose
da far venire i brividi.
E che
occorra parlare proprio di un processo di disumanizzazione, lo conferma, nel
libro intervista” J’accuse” (pubblicato nel novembre 2023 da RCS libri) la
relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, “Francesca
Albanese”, che dedica proprio a questo tema un capitolo intero del suo libro;
citando uno studioso, “Enrique Galvan-Alvarez”, “Albanese” scrive che «il dominio sull’altro non si
manifesta solo attraverso lo sfruttamento economico o il controllo delle
strutture politico-militari, ma anche mediante la costruzione di quadri
epistemici che legittimano e avallano tali pratiche di sottomissione» (p. 48).
Il linguaggio, nella sua capacità di definire
ma anche di occultare, è dunque al centro del conflitto non meno che i
bombardamenti dal cielo, da terra e dal mare, il terrore e l’angoscia provocati
anche dalla mancanza di cibo, di acqua, di medicine, ecc.
Da
qui, soprattutto, il disequilibrio emotivo, l’astuta propaganda umanitaria che
mette l’uno contro l’altro il bambino israeliano preso in ostaggio e presentato
in foto o brevi filmati (ed è giusto suscitare l’empatia generale su di lui) e
l’insieme dei bambini morti, ma in massa, come semplice numero, che tuttavia
non possono, proprio per questo, suscitare alcuna commozione.
Un
meccanismo al servizio del potente di turno, decrepito ma sempre efficace.
E chi
volesse, e giustamente, parlare di disumanizzazione anche a proposito di Hamas,
non dovrebbe dimenticare che nella costruzione e rappresentazione mentale
dell’occidente Hamas è un gruppo terroristico, Israele uno stato “democratico”
che tuttavia non ha una costituzione, non tratta tutti i suoi cittadini con
parità di diritti, e considera carne da cannone e da sfruttamento i “vicini”
palestinesi.
È
proprio questo il punto che al momento mi interessa, nel voler legare (e so di
farlo affannosamente), letteratura (anche saggistica) e cronaca, orrenda, dei
giorni nostri; e sfondo, sfumato ma incombente, della storia.
Mi
pare infatti che ci troviamo qui, per l’ennesima volta, di fronte a una sorta
di maledizione, di coazione a ripetere, del pensiero o del «discorso» o della
«narrazione» occidentale dominante.
Un pensiero, badiamo bene, asservito alla
forza e alla sopraffazione, nel quale potere e razionalità (ma quale?) si
sostengono a vicenda;
e che
dilaga, non certo a caso, sui media e nei finti dibattiti su giornali e televisioni,
là dove il punto di vista “oggettivo” da cui si parte ha già deciso chi sono i
buoni e chi i cattivi.
E qui
la letteratura ci può aiutare, e può aiutare anche insegnanti e discenti.
Il “caso di Conrad”, la noticina
scarabocchiata in fretta da “Kurtz” come corollario veritiero dei discorsi
umanitari sulla civilizzazione è solo un esempio, fra i più noti e radicali,
che mostrano la capacità che ha la letteratura di rovesciare il tavolo delle
idee ricevute, e di dar spazio a riflessioni;
di
presentare il rovescio e l’ombra di ogni enunciato;
a
partire da quello che ho posto come titolo e che può essere opportunamente
valorizzato solo rileggendo poi, a ritroso, l’intero testo, nel quale ogni
singola scena rivela l’ambivalenza, la dualità o meglio complessità del
giudizio.
La
storia, la cronaca, l’etica pubblica, il senso stesso delle parole «civiltà»,
«progresso», «libertà», possono così essere valutate criticamente e passate a
contrappelo.
FRANCESCO
ZEVIO - MILITARIZZAZIONE
DELLA
PAROLA.
Culturainatto.com
– Francesco Zevio – F.Fortini – Redazione – ci dicono:
(Χείρων)
- (Traduzione dell'autore).
Da
quanto tempo non scrivo. Ti ci metti, dopo qualche parola ti cade la penna,
dopo una frase o due la fede nella parola. Perché tanto silenzio?
Nel frattempo sono esplose guerre. Guerre e
crisi e cifre d'affari, perlopiù le solite.
Nel
frattempo sono bruciate foreste, sono curiosamente esplosi gasdotti e avvenuti
attentati, si sono ringalluzzite e inferocite teocrazie parlamentari, sono
stati imprigionati militanti, sono stati comprati da multimiliardari ettari ed
ettari di terre in Nuova Zelanda, sono divampate guerre civili, sono tornate di
moda minacce nucleari… perché tanto silenzio?
Ebbene,
almeno in parte, tale silenzio è dovuto alla progressiva e uniforme tendenza
alla militarizzazione della parola.
L'impressione è che, in particolare a partire
dal Covid, l'uso della parola sia andato sempre più polarizzandosi verso un uso
militare.
Finché
ce lo si poteva permettere, era il mercante a disporre della parola.
La sua
propaganda era propaganda commerciale.
Ora il criminale-pubblicitario sembra doversi
mettere un po' da parte e lasciare libero il palco per il criminale-assassino.
O
forse solo cambiare d'abito e di personaggio.
Ma il
criminale-assassino non può semplicemente sbarcare e far come gli pare.
Perché a noi, “primo mondo” in cui comunque,
per privilegio storico, anche se ormai verrebbe quasi da dire per inerzia
storica, esiste e per il momento continua ad avere un qualche peso l'opinione
pubblica, questa cosa della guerra e dei criminali di guerra non ci piace.
La guerra è cosa brutta, lo si sa, per farla
bisogna che dall'altra parte ci sia qualcuno o qualcosa di bruttissimo.
Di
inumano, di irrecuperabile:
animali,
da trattare come tali (sto citando qualcuno).
E
allora l'uso militare della parola è ciò che, facendo tabula rasa di tutte
quelle sfumature e contraddizioni che potrebbero mettere in crisi l'opera di
disumanizzazione del nemico (o dell'opinione, o del pensiero scomodo) di turno,
ce lo consegna in una immagine di male assoluto e irredimibile;
e che
lo fa dissimulando, al contempo, il nostro possibile contributo alla situazione
da cui, giunta al parossismo, è esplosa la violenza.
Proprio quella parola che può il contrario.
Proprio
quella parola che, nella pratica del dubbio che ci sforziamo di portare avanti,
tende al contrario.
(Parentesi:
con questo non si vuole aggiungere a una
situazione irenica di completa assenza di conflitto, di illimitata possibilità
di conciliazione della parola. I limiti della dialettica esistono:
l'inconciliabilità dei fini e dei valori può
esistere.
Ma
allora, se i nostri discorsi su dialogo e valori democratici sono qualcosa di
diverso da mera autosuggestione e mantra ininterrotto per la sublimazione della
nostra dissonanza cognitiva, questa conflittualità dovrebbe essere assunta
consapevolmente, ovvero attraverso un diverso uso della parola, tendente prima
di tutto a dissipare la nebulosa ideologica che alimenta visioni manichee,
confusione, odio.
Se così non sarà, i valori democratici e i
loro strumenti – fra cui un uso per così dire diplomatico, non militare della
parola – saranno sempre più percepiti come armi e sotterfugi “da eunuchi” da
una sempre più ampia fetta di popolazione, insoddisfatta o frustrata dai
sistemi che di tali valori fanno la loro bandiera, parti di popolazione.
A cui
parrà preferibile il l'autoritarismo “virile” e l'aperta assunzione della
violenza dei regimi autoritari.
Ma è
probabile che il regime di doppia verità delle democrazie capitaliste sia ormai
troppo radicato per permettere loro una decisione presa di posizione, una
chiara e seria assunzione delle contraddizioni:
si tira dunque avanti col regime ipocrita e
opaco della doppia verità come si può, navigando e bombardando a vista.)
"Quelle
immagini che ti rappresentano spesso nel pensiero, quelle stesse cose daranno
forma alla tua mente.
La tua anima, infatti, si tinge delle che in
essa si forma" (Marco Aurelio, V, 16). Questo uso della parola che ho
definito militare tinge le nostre anime e le prepara, o le accoglie, alla
guerra.
Si era
partiti dalla difesa contro il Covid. Ricordare?
I nostri paesi erano in guerra contro il virus
e bisognava mobilitarsi in massa, armarsi per contrastarlo.
E la parola diveniva un'arma fra le altre,
anche se forse non proprio fra le altre, in quanto strumento essenziale per la
determinazione e l'orientamento dell'opinione pubblica, quindi per assicurare
la non diserzione e lo stato di mobilitazione ininterrotta della collettività.
Già al
tempo del Covid era divenuto palese come la parola tornasse con foga a servire
questo scopo.
E in
tempi d'urgenza-emergenza, si sa, ogni forma di perplessità, ogni
tentennamento, ogni rallentamento rispetto al ritmo imposto dallo stato
d'eccezione, ogni sforzo volto a isolare ea mettere in luce una sfumatura e
insomma: ogni opera di dubbio è altamente sospetta.
Ogni
tentativo di intelligenza cade immediatamente in sospetto di intelligenza col
nemico.
Per
chi, come noi, tentava un altro uso della parola, nell'atmosfera della sua
militarizzazione (e concomitante superfetazione della chiacchierata: perché,
coi droni che ronzano e le bombe che uccidono, alzare il volume del bla blame
di fondo fa bene per pensare ad altro, ovvero per non pensare) in tale
atmosfera la scelta più ragionevole, forse anche e in parte la più facile e
vigliacca, era il silenzio.
Λάθε
βιώσας… vivi nascosti, è una massima che conosciamo e che sappiamo applicarsi
tradizionalmente ai periodi in cui l'azione e la giustizia, anche solo quelle
che luogo nella parola, sembrano precluse.
Con
questo non parlare non abbiamo mai inteso ridurci alla bassa mistica del
silenzio:
consci del fatto che, mentre si è indotti a
tacere, oltre alla chiacchierata – o in quanto amministratrici della
chiacchierata – risuonino forti e chiare ben altre voci. Ma c'è un limite alle
forze mentali o fisiche o di tempo, anche solo per quelle necessarie a chiarire
possibili fraintesi emergenti dal fatto di parlare, di entrare in dialogo o in
polemica, soprattutto se la percezione è quella che tali fraintesi sono
intrattenuti – se non direttamente seminati – in cattiva fede, ovvero sapendo
trattarsi di fraintesi, se non proprio menzogne, al fine d'alimentare
l'equivoco e sfruttarne l'effetto nel pubblico di lettori o spettatori.
L'atmosfera
di cui sopra dissemina fraintesi ovunque.
Ti
accingi a scrivere.
Ti
senti il foglio sotto le mani – l'impressione è quella di un campo minato.
Ogni parola fraintendibile è una mina, ogni passo in avanti richiederebbe
infinito, sfiancanti, usuranti cautele.
Oltretutto,
l'effetto non è per nulla assicurato… e le forze per combattere battaglie
d'ideali non ci sono, non adesso.
E
allora non ti muovi, non scrivi.
Aspetti
che tornino le forze.
E le
forze tornano, pian piano, anche solo nel condividere qualche parola senza
ferocia, per il provvidenziale ascolto di qualche amico, anche solo
nell'esprimere loro e condividere con loro il tuo sentimento d'impotenza,
questo stato di confusione sbigottita e disperata, per il momento, forse solo
per il momento…
Franco Fortini (1917-1994)
Come
dicevo, se non scelgo di star zitto (molti me lo augurano) è perché a partire
da due o dieci righe scritte per provare a se stesso di essere ancora vivo – o,
come è stato detto, per «provare a se stesso di non essere inferiore a quelli
che disprezzo» – può darsi un lettore avvenire possa essere indotto a
praticare, piuttosto che altre righe del loro autore, i pensieri non firmati, i
modi di essere e di assumere il mondo e se stessi, ai quali come a una patria
righe queste alludono.
(F.
Fortini, Extrema ratio).
La
crisi della
cultura
woke.
Huffingtonpost.it – (14 Febbraio 2025) - Sarantis
Thanopulos – ci dice:
La
crisi della cultura woke.
Voleva
mobilitare gli oppressi e la società civile per promuovere una politica di
inclusione delle diversità.
Gradualmente
è stata infiltrata dalla “cancel culture”, dal “politicamente corretto” e
dall’ideologia del “genere”, che l’hanno resa petulante, intollerante e
aggressiva nei confronti di ogni dissenso.
Il
termine “woke” è stato usato con varie accezioni simili (“sveglio”, “all’erta”,
“consapevole”), già a partire dal secolo scorso, dai movimenti americani di
opposizione alle ingiustizie sociali e alle discriminazioni razziali e
sessuali.
Il suo uso rilevante più recente è stato fatto
dal movimento “Black lives matter” (le vite dei neri contano) che è finito
prigioniero di strumentalizzazioni, perdendo la sua forza propulsiva, ma è
riuscito a scuotere, per un attimo, le coscienze.
La
cultura woke voleva mobilitare gli oppressi e la società civile per promuovere
una politica di inclusione delle diversità che è il fondamento di ogni
democrazia. Gradualmente è stata infiltrata dalla “cancel culture”, dal
“politicamente corretto” e dall’ideologia del “genere”. L’infiltrazione l’ha
resa petulante, intollerante e aggressiva nei confronti di ogni dissenso e del
pensiero critico in generale.
Il
wokismo ha commesso un errore serio di prospettiva interpretando l’inclusione
in termini di aggiustamenti qui e là senza un progetto di superamento reale
delle condizioni che favoriscono l’esclusione.
Un
esempio significativo viene dall’Università di Princeton.
Per
eliminare una discriminazione oggettiva, il vantaggio sociale dei ragazzi
bianchi sui i ragazzi neri nell’apprendimento del greco e del latino che ne
favorisce l’ingresso alle facoltà umanistiche, si è deciso di abolire la
conoscenza delle lingue antiche come requisito per l’ammissione.
Senza
rendere obbligatorio il loro apprendimento durante gli studi universitari.
Si è
pensato semplicemente che gli studi classici si possono fare anche leggendo le
fonti tradotte in inglese.
Questa
inclusione con l’appiattimento dell’uguaglianza verso il basso non è una vera
inclusione.
E non
risolve affatto il problema dell’esclusione:
il
privilegio negli studi liceali di cui tuttora godono gli studenti bianchi.
La
“cancel culture” viene dallo stesso ottimismo della volontà slegato dalla
ragionevolezza e dal buon senso.
Aspira
a cancellare tutto quello che nelle testimonianze del passato -dai monumenti
celebrativi ai testi a noi tramandati dagli antichi- è dalla parte
dell’ingiustizia.
La cancellazione fa di tutta l’erba un fascio.
Se a
volte la rimozione di monumenti che esaltano le tirannie è sacrosanta, nella
maggior parte dei casi le statue e gli edifici controversi sono intrinsecamente
legati al gusto e alla cultura di un’epoca e fanno parte della nostra storia.
Questo
è più evidente nei testi:
perfino
“Mein Kampf” è significativo per comprendere ciò che siamo stati, ciò che, in
parte, siamo tuttora e ciò che, in determinate condizioni, potremmo tornare a
essere.
Cancellare
poi le parole di Aristotele che difendono la schiavitù o il discorso misogino
di Ippolito in Fedra, è insensato.
Nel
primo caso trovano voce, in un pensiero potentemente critico, pregiudizi gravi
(ancora presenti tra di noi in forme nuove e forse più insidiose) che mostrano
come la giustizia avanza qui e cede là, che sia la buona sia la cattiva eredità
vadano reinterpretate e trasformate.
Nel
secondo la misoginia è inserita in un intreccio di prospettive, tuttora
attuale, che mette a fuoco il conflitto tra la passione erotica della donna e
l’autoreferenzialità del maschio.
Della “cancel
culture” fa parte il “politicamente corretto”:
la
convinzione che le parole siano cose.
Sì pensa che epurando il linguaggio dalle
“cattive” parole (veicolo di offesa e discriminazione) e usando al loro posto
parole “buone” si creino buoni sentimenti e una buona realtà.
L’esperienza
ci insegna che le buone parole non creano buoni sentimenti, ma ipocrisia,
mentre le cattive parole (il politicamente scorretto) i cattivi sentimenti e il
consenso alle cattive idee li creano eccome.
L’inseguimento
della purezza, la pretesa che un ideale astratto prenda in mano la nostra vita
e, ignorando il passato, determini il nostro presente e il nostro futuro, crea
un fanatismo salvifico che è perdente.
Quando l’“acqua santa” incontra il “diavolo”
(Trump o chi per lui) ha la peggio sempre.
A
tutto questo si è aggiunta l’ideologia del “genere”, creata dallo spostamento
di una parte del “movimento LGBT “dalla difesa della libertà dei modi di vivere
la propria identità e il proprio orientamento sessuali alla costruzione di
identità astratte dalle relazioni erotiche.
La deriva identitaria ha portato al movimento LGBTQIA+
(lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali più
“altro”):
un accumulo di identità eterogenee non
relazionate tra di loro in cui il + finale apre a un’espansione classificatoria
senza fine, nella direzione della neutralizzazione dell’eros che la categoria
“asessuali” indica.
La
distorsione del concetto di “genere”, che nato per indicare l’influenza della
società sui sessi e sulla sessualità ha finito per significare la percezione
soggettiva dell’appartenenza a un’identità disincarnata, priva di corporeità,
ha aperto la strada all’inseguimento del “terzo genere” (il neutro) o di altri
generi fantomatici di cui nulla si sa.
Questo
in nome della difesa dei transessuali in cui tuttavia il sesso psichico (la
percezione soggettiva dell’identità sessuale) resta sempre ancorato all’essere
“donna” o “uomo” e se si dissocia dal sesso biologico non è per restare
incorporeo, ma perché si lega al corpo del sesso opposto.
Se
l’inclusione non si prende cura delle differenze e della loro intesa (del modo
con cui si relazionano tra di loro eroticamente, affettivamente e mentalmente),
le identità si aggiungono l’una all’altra indifferentemente.
Gli
attivisti “woke” pensano ai diritti in modo astratto dai desideri delle persone
che, teoricamente, difendono.
Combattono
la norma ingiusta con la norma giusta ignari del fatto che la norma è sempre un
pensiero unico dettato dalla legge del più forte.
Il “pensiero
unico” li considera, giustamente, come sua emanazione settaria e li combatte
come eresia.
Il
wokismo, un brusco risveglio.
Laciviltacattolica.it
– (6 luglio 2024) – Nelson Faria – ci dice:
Nato
nelle università statunitensi, il wokismo è un movimento che negli ultimi anni
ha acquistato grande risalto nello spazio pubblico. Ne sono segni
l’onnipresenza di termini come «etero-normativo», «cisgender», «non binario», o
l’atto di graffitare il termine «decolonizza» sulle statue di navigatori e
politici.
Il termine «wokismo» definisce coloro che si
considerano «svegli» (dall’inglese woke), vale a dire militanti in allerta
contro le ingiustizie che pervadono la società e contro la refrattarietà di
questa alle riforme.
Il
wokismo ritiene che la discriminazione contro le persone emarginate sia
sistemica, cioè non limitata a manifestazioni isolate, e che quindi dobbiamo
essere consapevoli delle strutture che opprimono gli individui in base al
genere, al colore, all’orientamento sessuale, alla nazionalità o all’etnia.
A
prima vista, il wokismo sembra un movimento di movimenti, che abbraccia e dà
voce al femminismo e a tutte le minoranze nella società. Tuttavia, è molto più complesso e può
essere considerato una vera e propria ideologia politica, che si richiama a
diverse altre scuole di pensiero ed è caratterizzata da una grande propensione
all’azione.
Avvolto
nelle polemiche, per non dire che esso stesso è di per sé polemico, genera
reazioni particolarmente avverse da parte di altri settori della società, che
qui, in mancanza di un nome migliore, possono essere definite «anti-wokismo».
Entrambi
gli elementi meritano uno sguardo attento e riflessivo, perché il loro incontro
sfocia in un conflitto che genera una forte tensione sociale.
Questo
articolo intende ripercorrere in breve il cammino della società verso la
postmodernità, il momento che ha dato origine al wokismo, per poi presentare i
fili con cui è intessuta la trama woke, le ripercussioni che genera e, infine,
prospettare alcune indicazioni per un possibile futuro.
Il
percorso fino a ieri.
Per
migliaia di anni abbiamo vissuto in comunità sedentarie e agricole, in cui i
ruoli sociali erano fissi e definiti:
c’era
una rigida gerarchia, basata sul genere e sull’età, e tutti avevano
sostanzialmente la stessa occupazione (lavorare la terra o prendersi cura della
casa).
I nostri antenati passavano per lo più tutta
la vita nella città, nel paese o nel villaggio in cui erano nati, all’interno
di una cerchia ristretta di amici e vicini, con cui condividevano la stessa
religione e gli stessi miti e credenze.
La
mobilità sociale era praticamente impossibile.
Non c’era alcun pluralismo, né diversità, né
scelta.
L’emergere
di civiltà che abbracciavano popoli e territori diversi ha portato a esperienze
epifenomeniche di positiva convivenza, soprattutto nei luoghi di commercio.
Tuttavia,
è nel clima di relativa pace del “Basso Medioevo” che possiamo individuare il
momento iniziale in cui le rigide strutture sociali vanno incontro a una
scossa.
Le
società infatti cominciano a crescere, e si assiste all’emergere di nuove
classi sociali, sorte nell’ambito del libero commercio e delle università, il
cui incontrarsi ispira la creazione di nuove tecnologie di navigazione.
I
confini fra gli strati sociali cominciano a sfumare con la crescente influenza
della borghesia e del mondo accademico, e dal XVI secolo in avanti i viaggi
intercontinentali diventano normali e la stampa agevola la diffusione delle
informazioni.
La
Riforma protestante e le guerre di religione che ne seguirono, soprattutto nel
XVII secolo, misero in crisi il ruolo unificante della fede cristiana,
inducendo l’Occidente a trovare nella ragione e nella libertà individuale la
risposta per garantire una sana convivenza tra le nazioni e le fazioni
religiose.
La Pace di Vestfalia (1648) aprì la strada
all’Illuminismo, il Secolo dei Lumi (XVIII secolo), alla nascita di una
mentalità eminentemente tecnica e di una preoccupazione per la condizione umana
che segna l’origine dei diritti umani, i quali, pur essendo di ispirazione
cristiana, fanno a meno del riferimento a Dio.
Con la
Rivoluzione industriale si verificò una brusca accelerazione, sia nel campo
della tecnologia sia nel miglioramento della qualità della vita.
Tuttavia,
con le due guerre mondiali combattute nella prima metà del XX secolo, al
disincanto dell’Occidente nei confronti della religione si è aggiunto quello
nei confronti della ragione, che si era dimostrata capace di terribili atrocità.
Le
rigidità e le certezze della modernità, che si sono rivelate altrettanto se non
più distruttive delle convinzioni religiose del passato, hanno indotto a
preferire sistemi aperti e flessibili.
Lentamente,
la società comincia a frammentarsi, le istituzioni cominciano a essere viste
con sospetto e l’identità inizia a forgiarsi secondo una forte distinzione tra
il vero «io» di ogni persona e un mondo esterno di regole e norme sociali.
È la
transizione dalla modernità, con la sua enfasi sulla ragione e sull’autonomia
individuale, alla postmodernità.
È
difficile classificare efficacemente la postmodernità, poiché essa è, per
definizione, plastica e soggettiva:
nega
la possibilità di una conoscenza oggettiva e sostiene che il linguaggio è solo
uno strumento senza alcun legame con la realtà, manipolato da chi detiene il
potere.
I
potenti infatti creano metanarrazioni che, a seconda delle loro convenienze,
cullano la società nella dolce pace di un sogno o inducono una frenesia di
incubi permanenti;
pertanto,
esse devono essere decostruite.
In una
prospettiva postmoderna, tutto ciò che sperimentiamo, tutte le interazioni
sociali, non sono altro che ricerca del potere.
Solo
questo è reale.
La
conoscenza, la verità, il significato e la moralità sono costrutti sociali,
originati da singole culture, nessuna delle quali possiede gli strumenti o i
concetti necessari per valutare le altre.
Ne
segue che tutte le leggi sono state inventate affinché possano – e debbano –
essere infrante.
Non
abbiamo ereditato la moralità dai nostri antenati, e tantomeno ce l’ha
comunicata una divinità.
Essa è
stata costruita, e quindi può essere modellata.
E
anche l’identità di ogni individuo si forgia in un gioco di forze culturali,
sicché a ciascuno spetta plasmarne il significato.
Per il
postmodernismo, nulla si crea, tutto si ricicla.
Esistono
solo riproduzioni, e niente è originale o autentico: solo copie di copie di
copie.
C’è
solo superficie, non c’è profondità.
Non
c’è un significato condiviso, ma solo un gioco che ruota attorno alla conquista
del potere.
Quindi,
quello che dobbiamo fare è partecipare al gioco, generando ironicamente
entropia e divertendoci.
Se il
sistema crolla, ne seguirà un altro, e ricominceremo il gioco.
I
moventi del soggetto postmoderno sono la libertà, il piacere e l’inclinazione
naturale.
Egli
lavora con l’aspettativa di godersi i profitti del suo lavoro, ma non si
attende di trarre soddisfazione da ciò che fa.
Vive per il momento, senza aderire al piacere
comune di lavorare per il benessere degli altri.
Anche
quando si trova inserito in un’esperienza lavorativa gerarchica, è un
imprenditore autonomo, responsabile di gestire la propria immagine pubblica in
conformità con le aspettative di autorealizzazione della società, sicché
diventa contemporaneamente padrone di sé e schiavo delle proprie aspettative.
Questo
orizzonte infinito di possibilità entro un ristretto campo di riferimenti ha
portato, come giustamente sottolinea “Byung-Chul Han”, all’esaurimento
dell’individuo.
Di
fronte al fallimento, la frustrazione viene vissuta individualmente come
angoscia, e a sua volta contribuisce a originare una società stanca, dove
prosperano la depressione e la sindrome del burnout. Paradossalmente, in una società in
cui siamo finalmente liberi di essere chi vogliamo essere, o chi eravamo
destinati a essere, finiamo per scoprire che la rottura dei legami sociali non
si traduce in libertà, ma piuttosto in esaurimento.
La
collettivizzazione dell’identità.
La
solitudine a cui è stato costretto l’individuo postmoderno lo ha portato a
riconoscere il bisogno di identificarsi con gli altri, di scoprire «chi è» nel
contesto dell’appartenenza sociale, e di impegnarsi nei cambiamenti che ritiene
necessari.
Questo
lavoro di riparazione dei legami di appartenenza e di ri-creazione di un
orizzonte morale è un’autocorrezione della postmodernità stessa, che così cerca
di rimediare agli eccessi individualistici iniziali.
Questa
ricerca di identità condivise ha trovato risposte, a destra e a sinistra,
attorno alle categorie che la postmodernità ha lasciato intatte o ha rafforzato
– razza, genere, orientamento sessuale –, o attorno alle categorie
ultraresistenti di nazione, cultura e religione.
In Europa, la centralità, nella sinistra politica,
delle questioni legate agli emarginati a scapito di quelle di classe e il
risorgere di pubbliche professioni di fede sovraniste e di discorsi
isolazionisti, a destra, sono segni di polarizzazione identitaria.
Queste
reazioni non sono nate nel vuoto, ma hanno avuto origine nella postmodernità.
Si
sono concretizzate in due movimenti che oggi lottano per il predominio
dell’attenzione sociale: il wokismo e i suoi detrattori, che chiamano «anti-wokismo».
Come
sottolinea Philippe Forest, il termine «wokismo» designa quelle persone che si
considerano «risvegliate», cioè capaci di riconoscere le relazioni di dominio e
di discriminazione che permeano l’intera società, rispetto alle quali invece la
maggioranza degli individui rimane addormentata.
Particolarmente
militanti, i wokisti intendono eliminare tutte le forme e gli strumenti di
oppressione in cui siamo intrappolati – anche se non ne siamo pienamente
consapevoli –, principalmente intorno a categorie come razza, genere e
orientamento sessuale.
Come
abbiamo accennato, il wokismo è nato nelle università degli Stati Uniti.
È
largamente debitore verso quella che è stata chiamata “French Theory,” che
riunisce una serie di teorie filosofiche, letterarie e sociali postmoderne, in
cui il concetto di decostruzione (Heidegger, Derrida) è centrale e la cui linea
post-strutturalista è innegabile.
Senza
alcuna pretesa di esaustività, possiamo dire che Baudrillard, Simone de
Beauvoir, Deleuze, Foucault, Derrida, Lyotard, Kristeva e Wittig ne sono tra le
figure principali.
Oltre a costoro, quando si pensa al wokismo,
un riferimento da tenere in considerazione è anche il post-colonialismo di “Frantz
Fanon”.
Tuttavia,
il wokismo riunisce altre influenze.
“Matthew Petrusek”, in “Evangelization and
Ideology”, lo definisce il «Frankenstein» delle ideologie politiche, perché in
esso ritroviamo idee antagoniste e persino avversari classici, come il
liberalismo e l’utilitarismo.
Sia
gli autori di riferimento sia questi incontri imprevisti mostrano quanto sia
evidente l’impronta della postmodernità sul wokismo. Cerchiamo allora di vedere
il bricolage di idee che costituisce la matrice woke.
Tenendo
conto della “visione identitaria collettiva” del wokismo, la presenza più
sorprendente nel suo corpus di influenze è la visione liberale, marcatamente
individualistica.
Tuttavia,
il wokismo non esita ad appropriarsi del rifiuto kantiano della metafisica
classica.
Kant
sostiene che non è possibile conoscere gli oggetti trascendenti – per esempio,
il bene – attraverso il puro esercizio della ragione, e perciò propone che il
bene possa essere raggiunto attraverso un atto di volontà.
Il liberalismo approfitta di questo rifiuto per
sostenere l’emancipazione dell’individuo, fissando il suo limite nel rispetto
degli altri.
A
partire da un identico rifiuto della metafisica classica, il wokismo introduce
la collettività al posto dell’individuo e sostituisce il rispetto per gli altri
con l’affermazione che il dissentire dalla nozione di bene definita dal gruppo
è oppressione.
Per
quanto riguarda l’utilitarismo, il wokismo ne ripropone due caratteristiche:
la nozione consequenzialista del bene e la
dimostrazione pubblica della virtù.
Riguardo alla prima, la visione utilitaristica
sostiene che, per valutare la bontà di un atto, si debbano considerarne le
conseguenze intenzionali e non intenzionali.
Tuttavia, la massima utilitaristica «il
maggior bene per il maggior numero di persone», interpretata alla luce del
wokismo, autorizza la collettività a denunciare uno dei suoi membri quando non
si conforma ai suoi interessi.
E questa persona, anche se è nera, omosessuale o
donna, e quindi ha una biografia segnata dall’oppressione e dal superamento
degli ostacoli, nel momento in cui si discosta dalla narrazione ufficiale è
considerata una traditrice.
Per
quanto riguarda la dimostrazione pubblica della virtù (virtue signaling), essa
deriva dal valore attribuito dall’utilitarismo a chiari segnali di adesione
alle «buone idee».
Il gesto permette di riconoscere coloro che
professano gli stessi ideali e di classificarli come «brave persone».
Inevitabilmente, chi non è d’accordo è molto più che una persona con
un’opinione diversa: è una «persona cattiva».
La
dimostrazione pubblica della virtù ha generato un fenomeno curioso: il capitalismo woke.
Molte
multinazionali si sono impegnate ad associare i propri marchi al wokismo, sia
per convinzione sia per puro interesse commerciale (Amazon, Apple, Google,
Meta, Microsoft).
Ciò ha
fatto piacere ai wokisti e ha suscitato grandi proteste da parte degli anti-wokisti,
le cui reazioni hanno portato a campagne di cancellazione, come è accaduto per
le società Disney, Ben & Jerry’s, Bud Light o Starbucks.
Questa
breve descrizione dell’appropriazione del liberalismo e dell’utilitarismo ci
permette di vedere chiaramente come il wokismo sia un prodotto postmoderno:
esso nega la possibilità di una conoscenza
oggettiva, afferma il costruttivismo culturale, proclama che le interazioni
sociali si riducono alla ricerca e alla gestione del potere e, a questo
proposito, riconosce il potere del linguaggio.
Proprio
l’ossessione postmoderna per il linguaggio viene sfruttata al meglio dal
wokismo nella semantica, non solo tramite la creazione di parole, ma anche
ridefinendo concetti antichi.
Per
esempio, nel vocabolario woke il «razzismo» non è un pregiudizio basato sulla
razza di qualcuno, ma un sistema razziale che permea tutte le interazioni
sociali, rimanendo invisibile, eccetto a coloro che lo sperimentano o a coloro
che hanno familiarità con i suoi metodi e pertanto sono in grado di
riconoscerlo.
Non
tener conto della razza di qualcuno è considerato razzista.
Tuttavia, stabilire che in un museo ci siano
orari riservati in cui i bianchi non possono entrare, affinché diventi uno
«spazio sicuro», come è accaduto allo “Zeche Zollern Museum di Dortmund”, è
considerato antirazzista.
Chi si
identifica con il sesso assegnatogli alla nascita è «cisgender»; ma un commento
che può anche essere elogiativo, se viene rivolto a un membro di un gruppo
emarginato e da costui viene interpretato come offensivo, è una micro aggressione.
A ciò si aggiunge la questione dei pronomi
preferiti – la libertà di ciascuno di scegliere il pronome con cui vuol essere
chiamato –, il cui rispetto è obbligatorio.
La
resistenza a riferirsi a qualcuno con il pronome da lui scelto, anche quando
esso contrasta con il significato convenzionale di quello stesso pronome, è
considerata oppressiva, un’azione illegittima.
L’impronta
della postmodernità può essere vista anche nell’emergere di una serie di campi
di studio incentrati sul genere e sulla razza, che mettono in pratica il
postulato della negazione della conoscenza oggettiva e del linguaggio come
qualcosa di manipolabile.
Se
tutto è visto attraverso la lente dell’identità, sono necessari studi critici
che tengano debitamente conto del contesto della persona.
Il soggettivo è rivestito così di autorità, e
il contesto diventa l’elemento determinante di ogni nostra azione, negando
l’universalità della conoscenza.
Sempre
all’interno della postmodernità, esiste una scuola di pensiero che merita
particolare attenzione: il post-colonialismo.
L’obiettivo
di questa corrente è indagare il modo in cui le nazioni occidentali non solo
hanno colonizzato altre regioni del mondo, ma hanno anche creato il soggetto
colonizzato.
Poiché a queste ultime culture sono stati
imposti parametri occidentali, anche dopo la decolonizzazione politica esse
permangono sotto il giogo dell’Impero in un sentimento di inferiorità, che non
tiene conto delle loro caratteristiche e ricchezze.
“Fanon”
è l’autore di riferimento in questo campo di studi, e il wokismo ne riprende
due tratti essenziali, trasformandoli.
Nell’inevitabile
divisione tra colonizzatore e colonizzato il wokismo trova ispirazione per le
ampie categorie che utilizza: oppressore e oppresso.
In
secondo luogo, esso si assume il ruolo liberatorio attribuito da” Fanon” a
coloro che, effettivamente, vedono la realtà secondo una visione messianica e
in una prospettiva che si concretizza nella missione di educare le masse.
È
importante distinguere la decolonizzazione «fanoniana» dalla resistenza non
violenta di Gandhi o di Martin Luther King.
La prima non disdegna la violenza o la
distruzione della proprietà pubblica, e così legittima l’attivismo woke quando
vandalizza statue di personaggi considerati rappresentativi dell’oppressione,
per esempio Churchill nel Regno Unito o Jefferson negli Stati Uniti d’America.
Soltanto un anacronismo ci consente di considerare questi personaggi come
emblemi di disumanità.
Ma nel
wokismo è presente un altro influsso, mai ipotizzato finché non l’ha chiamato
in causa lo storico “Tom Holland”: il cristianesimo.
Nella
sua opera “Dominion”, egli sostiene che in Occidente il cristianesimo ha
ispirato tutti:
credenti,
spirituali, agnostici, atei, anche coloro che non hanno pensato alla religione.
Cristo ha dimostrato sulla croce qualcosa che ha
irritato profondamente Nietzsche:
essere
vittima è fonte di potere, e una persona sconfitta agli occhi del mondo ha la
capacità di mobilitare le folle.
Che i
disprezzati debbano essere ascoltati, che gli umiliati debbano essere esaltati,
che gli ultimi siano i primi e che il destino dei potenti sia quello di essere
deposti dai loro troni, sono tratti distintivi cristiani. Inevitabilmente, come
in tutte le altre appropriazioni del wokismo, anche la proposta cristiana è
stata rivista e reinterpretata, perdendo il suo carattere universale.
Ma,
come afferma eloquentemente “Holland”, senza il cristianesimo nessuno si
sarebbe «risvegliato» (woke).
Cercando
di sintetizzare i segni più evidenti di altre correnti di pensiero nel wokismo,
possiamo affermare che, attraverso il rifiuto liberale della metafisica
classica, il gruppo identitario può definire ciò che è bene, e che grazie
all’utilitarismo il sentimento prevale sull’argomentazione.
Generato
nel calderone postmoderno, il wokismo si sente autorizzato a negare l’esistenza
della verità oggettiva e, ancor più, a sostenere che il semplice disaccordo con
questa affermazione è un difetto caratteriale e non soltanto una divergenza di
idee, in una strana combinazione tra nichilismo etico, da un lato, e
schiacciante certezza morale, dall’altro.
Ispirandosi
a Fanon, il wokismo assume una posizione messianica e riduce gli agenti sociali
alle categorie di oppressori-oppressi e, come figlio dell’Occidente, si
appropria del tratto distintivo cristiano della centralità della vittima,
attratto dal potere che vi risiede, deviandolo dalla sua tendenza
all’universalità e chiudendolo nell’identità di gruppo.
Risulta
evidente la complessità del wokismo che, nel denunciare l’ingiustizia, riunisce
e abbraccia visioni e interessi contraddittori, o addirittura inconciliabili.
Questa
tensione va oltre le idee, e la si può scorgere anche all’interno delle
identità collettive.
Il confronto tra le femministe e il movimento
transgender riguardo alla partecipazione delle donne trans alle attività
sportive, o il tentativo di cancellare “J. K. Rowling£ per aver sostenuto che
la parola «donna» è inseparabile dalla biologia, sono testimonianze eloquenti
delle difficoltà affrontate dal movimento woke.
Ma la sfida diventa sempre più grande.
Effetto
specchio.
Nell’ultimo
decennio il movimento woke è stato così efficace da suscitare reazioni opposte,
rafforzando l’anti-wokismo.
Da una
parte e dall’altra si usa come fondamento la libertà di espressione, si
giustifica il fervore come lotta per la verità e la giustizia, ed entrambi
proclamano la propria superiorità morale.
Soprattutto
negli Stati Uniti, le azioni degli attivisti woke hanno spinto a raggrupparsi
coloro che si oppongono con fervore a misure quali cancellare o annullare
determinate personalità; abbattere statue; richiedere l’accesso ai bagni
pubblici in base al genere con cui la persona si identifica; censurare o
correggere libri il cui linguaggio riflette l’oppressione sistemica; istituire
lettori «sensibili» per individuare micro-aggressioni nelle opere prima che
vengano pubblicate;
la scelta dei pronomi; azioni di
sensibilizzazione negli asili e nelle scuole primarie, in virtù del fatto che
il sesso è considerato un costrutto sociale. In questo contesto di opposizione
a tali misure sono già visibili iniziative contrarie: proteste, boicottaggi e
proposte di legge che mirano a preservare la lingua, i bagni, i libri, i luoghi
di lavoro e le scuole dai princìpi del wokismo.
Bisogna
però riconoscere che l’anti wokismo è un movimento molto eterogeneo, perché
l’unica cosa che accomuna diverse frange di destra e oppositori di tutto ciò
che sembra abuso di potere da parte dello Stato è avere il wokismo come nemico
comune.
L’anti
wokismo è un wokismo allo specchio:
è una
sorta di conservatorismo rivisto dalla postmodernità, che, abbeverandosi alla
negazione della conoscenza oggettiva e della centralità del linguaggio, non
rifugge da una certa creatività, diffondendo teorie cospirazioniste e usando
arbitrariamente l’espressione fake news come un’arma per squalificare
l’avversario. Presenta la sua visione diametralmente opposta della realtà come
un fatto alternativo (alternative fact) che, in nome del pluralismo, non può
essere messo a tacere.
La
politica identitaria di destra ha acquistato nuovo slancio negli ultimi
decenni, legandosi alla corrente politica che propende per la limitazione dei
diritti agli stranieri, la difesa dell’affidamento delle posizioni di potere a
cittadini e il recupero di un modello familiare caratterizzato dalla
sottomissione delle donne.
Tuttavia,
all’inizio del XXI secolo, nel diritto convenzionale esisteva un ampio consenso
riguardo all’illegittimità della discriminazione basata sulla razza, sul sesso
o sull’orientamento sessuale di una persona.
Anche
tra i conservatori, difendere la «domesticità» delle donne o la soppressione
dei diritti basata sul colore della pelle o sull’orientamento sessuale
significava adottare una posizione radicale riservata ai ranghi dell’estrema
destra.
Ci
sono donne, membri delle minoranze e persone omosessuali che hanno rivendicato
per anni, con gesti e semplici testimonianze di vita, il diritto di esercitare
a pieno titolo la cittadinanza.
Hanno
combattuto una lunga battaglia per convincere i settori più conservatori che
non intendevano abolire la famiglia, l’eterosessualità, la mascolinità e il
femminile.
Forse
i risultati sono stati inferiori alle aspettative di molti, ma non c’è dubbio
che si sia imboccata la strada verso una maggiore integrazione. È stato un
lungo cammino, quello percorso dalla società, in un fragile equilibrio di
rispetto e positiva convivenza.
Troppo fragile, a quanto pare, perché in pochi
anni è riemersa tutta una serie di pregiudizi.
Ed
essendo inseparabile dal radicalismo woke, l’anti wokismo non scomparirebbe con
la moderazione del wokismo, perché le sue radici sono più profonde.
Superare
l’«impasse».
Il
wokismo ha saputo innescare un dibattito pubblico necessario.
Dando
voce a diversi gruppi emarginati nella società, si generano molte conversazioni
su politiche e pratiche effettivamente inclusive.
Questo
dibattito, però, non sembra poter contare sugli attivisti woke, dal momento che
la loro apertura al dialogo o alla mera convivenza con altri punti di vista è
ridotta, se non inesistente.
Ritroviamo
la stessa tendenza, ma di segno opposto e ancora più categorica, nell’anti-wokismo,
che pretende di piegare tutti alla propria visione di società ideale.
Sebbene
il wokismo e l’antiwokismo si alimentino a vicenda, le ragioni della loro forza
sono più profonde delle polemiche.
Entrambi
cercano di rispondere a un bisogno umano di appartenenza che non può restare
senza riscontro, in quanto è un bisogno creato dallo smembramento
dell’orizzonte di senso che la postmodernità ha messo in moto.
Solo
una riforma che li portasse a guardare oltre gli interessi delle identità che
intendono proteggere consentirebbe loro di essere agenti costruttori – o
ricostruttori – delle nostre società divise.
E
questo lavoro è più che una riforma: è una ri-creazione.
Si
possono nutrire legittimi dubbi circa l’effettiva disponibilità esistente
all’interno del wokismo e dell’antiwokismo a una simile impresa.
Nel
mondo in cui entrambi sono fioriti è diffusa un’incapacità a individuare
desideri comuni, accompagnata dall’insensibilità verso coloro con cui si
condivide uno spazio, ma non un’affinità identitaria.
Si
sentono sempre più voci che chiedono inclusione e lottano contro la
discriminazione, ma le orecchie disposte ad ascoltare sono poche.
C’è una virulenza sostanzialmente emotiva per
cui l’indignazione sembra un valore in sé, e mettere in discussione o non
essere d’accordo con qualcuno è un atteggiamento discriminatorio o
persecutorio.
Le
sfumature di autoritarismo e puritanesimo presenti in questa pratica dovrebbero
indurci a prestare particolare attenzione al fenomeno, perché la diversità di
pensiero e il confronto «urbano» degli argomenti sono fondamentali in una
società sana; le persone dovrebbero essere giudicate in base alle loro azioni e
opinioni, non in base alla razza, al genere o all’etnia.
La
difficoltà della situazione attuale dovrebbe indurci a formulare proposte che
ci consentano di superare l’impasse.
“Forest”
sostiene che tra wokismo e anti wokismo esiste un elemento comune che è
sfuggito alla maggior parte dei loro interlocutori: l’interesse per la
ricostruzione.
Entrambi
sono insoddisfatti della situazione attuale e sostengono che è necessario
ricostruire la società.
Tuttavia,
come giustamente sottolinea Forest, la ricostruzione non sarà possibile finché
la società rimarrà divisa tra l’affermazione di nuovi valori e la restaurazione
ermetica dei valori precedenti.
Per
evitare la minaccia crescente di una perenne e irrisolvibile guerra culturale,
Forest sostiene che è necessario decostruire la decostruzione che ha portato il
wokismo a cristallizzarsi, paradossalmente, nelle identità che intendeva
decostruire, come la razza e il genere, e che ha generato la virulenta
recrudescenza di antichi pregiudizi che ora sono affluiti nella retorica
dell’anti wokismo.
Non si tratta tanto di costruire un ponte o di
conciliare posizioni che sono inconciliabili, ma di creare una terza via, in
cui entrambe le posizioni siano ugualmente esposte alla critica.
Questa
proposta è lodevole e dovrebbe essere presa in seria considerazione.
Essa però non risponde al desiderio di
appartenenza trasversale alla società che è all’origine di queste proposte
identitarie.
Una terza via il cui corpus non vada oltre la
decostruzione critica e continua di due posizioni estreme non crea un orizzonte
per la società nel suo insieme.
Avrà
la sua utilità terapeutica, ma possiamo dubitare che contribuirà alla
costruzione di un futuro condiviso: occorre qualcosa di più.
Il
momento presente richiede due grandi riconciliazioni:
quella tra identità e società;
e
quella tra un passato condiviso, segnato dall’ingiustizia e dalla cooperazione,
e un futuro in cui le identità possano fiorire e alimentarsi a vicenda.
La
grande crisi del nostro tempo, più che economica, di sicurezza, finanziaria,
religiosa o politica, è culturale.
Abbiamo
difficoltà a intenderci riguardo ai valori comuni e alla buona condotta morale.
Le
risposte identitarie a questo problema si sono rivelate insufficienti, perché
sacrificano la possibilità di un orizzonte comune a favore di interessi
particolari.
È
necessario denunciare le discriminazioni ed è essenziale ascoltare la voce di
coloro che sono emarginati.
Ma
dobbiamo andare oltre le risposte identitarie: dobbiamo recuperare la società
come corpo unico e plurale, e questo dovrebbe portarci a guardare alla nostra
storia, perché è in risposta alla dispersione che è emersa la civiltà attuale.
La
storia dell’Occidente, fatta di luci e ombre, è la storia della ricerca
dell’umanità.
E ciò
che accomuna gli esseri umani è la capacità di riconoscere e desiderare la
verità, il bene, la bellezza e la giustizia.
Il nostro anelito a questi valori va ben oltre
il consenso e le convenzioni sociali, le ideologie, le cause e le religioni.
Sia in
una visione ispirata alla metafisica sia in una visione ispirata al relativismo
morale, questi valori sono come un’intuizione incancellabile alla quale wokismo
e anti wokismo non possono sfuggire.
Riconosciamo
che una definizione tassativa di questi valori è evasiva. Ma questa difficoltà
non deve portarci ad assumere posizioni scettiche o ciniche, o a dare
interpretazioni contestualizzate o circostanziali.
Nel
costruire una società più giusta e inclusiva, dobbiamo denunciare la
discriminazione e rifiutare di rispondervi sulla base di categorie identitarie,
come il bene di un gruppo.
Proteggere
un’identità specifica dall’oppressione non dovrebbe essere sinonimo di
segmentazione della società.
È
importante ricordare questo al wokismo e all’anti wokismo.
Una
delle proposte più interessanti per rispondere alle sfide del nostro tempo è la
cultura dell’incontro proposta da papa Francesco. Nell’enciclica Fratelli tutti
viene delineata una tabella di marcia per generare questa cultura, ricordando
che in un poliedro la confluenza di tutte le parti non cancella l’originalità
di ciascuna di esse.
Il Papa ci invita a correre il rischio di
andare oltre l’individualismo o la diluizione in un soggetto collettivo
uniforme.
Chiede
che la diversità venga vista come ricchezza e non come minaccia, che si abbia
fiducia nella possibilità di raggiungere l’unità in un’armonia pluriforme, che
richiederà un dialogo costante.
Dobbiamo
riconoscere, prontamente e senza ingenuità, che il dialogo comporterà sempre un
conflitto, e che tuttavia il discorso non finisce qui, ma si apre a delineare
un nuovo orizzonte futuro.
Nell’epoca
in cui viviamo non possiamo cedere alla paura, anche quando essa si maschera da
prudenza.
Abbiamo
bisogno di coraggio, il coraggio di superare noi stessi e di trascendere i
nostri interessi.
Questa
è la sfida che vale la pena accettare, senza temere le diversità e i
disaccordi, certi che è attraverso l’incontro, l’ascolto e il dialogo franco
che potremo tracciare un cammino verso la pace sociale.
Da
dove nasce l’ideologia woke.
Marcelloveneziani.com
- Marcello Veneziani – (01 Marzo 2025) – ci dice:
È più
forte di loro.
Prendete un partito, un giornale, un gruppo di
pressione, un comitato intellettuale, un collettivo di qualunque natura
orientato a sinistra, e prima o poi si costituirà in ufficio permessi e
divieti, tribunale dell’inquisizione.
Dimenticherà
di essere una parte, un partito rispetto al tutto e si sentirà super partes,
stabilendo regole, osservanza e infrazioni.
Sarà
cioè inevitabilmente risucchiato da quell’ideologia che viene riassunta con
l’espressione woke.
In
origine woke voleva dire essere svegli, poi è mutata in vigilanza – la
famigerata vigilanza democratica – quindi è diventata sorveglianza.
L’ideologia woke è di fatto un regime di
sorveglianza che decide a chi rilasciare e a chi vietare i permessi di
circolazione e a quali condizioni.
L’ideologia
woke nasce come rivendicativa, in difesa di alcune minoranze maltrattate o non
adeguatamente protette, e finisce come ideologia vendicativa, che si vendica
con la realtà che non corrisponde al proprio codice ideologico.
Ideologia
del risentimento, direbbe Nietzsche, ma non il vago e mellifluo risentimento
verso la vita, la salute, la bellezza, la grandezza che Nietzsche imputava al
cristianesimo e ai suoi eredi, come il socialismo.
Ma
un’ideologia rancorosa che si esercita delegittimando, denunciando, punendo e
censurando l’avversario.
Mentre
di solito non accade l’inverso.
L’ideologia
vendicativa è il titolo di un libretto anti-woke scritto da una sociologa e
ricercatrice del” CNRS di Parigi”, “Nathalie Heinich,” pubblicato da” Gog”. I
l titolo
originario in realtà declina il woke col nuovo totalitarismo; ma la sintesi
“ideologia vendicativa” è abbastanza fedele al contenuto del testo.
L’ideologia
woke è inevitabilmente un’ideologia per le minoranze destinate a restare
minoranza; nessuna forza maggioritaria di un paese può mantenere
quell’atteggiamento censorio, elitario, sprezzante e arrogante che è tipico di
una minoranza che reputa di essere su un piano etico e cognitivo superiore
rispetto agli altri.
Finché
sarà woke la sinistra sarà minoranza astiosa in ogni paese;
potrà
avere potere di veto, potere intimidatorio e ricattatorio, potrà combinarsi ad
altre oligarchie e detenere il potere in spregio alla sovranità popolare e alla
volontà reale della gente.
Ma non
sarà mai l’espressione compiuta di una maggioranza.
Al
catechismo woke c’è chi reagisce in modo combattivo, come annuncia Trump; c’è
chi invece preferisce la tattica di acquattarsi, tacere e andare avanti senza
opporsi, salvo che nei comizi, come finora ha fatto il governo Meloni.
Ma
l’ideologia woke è un’emergenza per la democrazia, mette in pericolo la libertà
e l’intelligenza, genera un clima di odio mentre professa di volerlo avversare.
Se
sentite di una lezione all’università, di una conferenza, di un convegno o di
una manifestazione autorizzata, di un testo censurato, di un autore negato,
sapete già in partenza che a decretare l’ostracismo, lo stigma, il divieto è sempre quel ceto
commissario e inquisitorio chiamato in breve woke.
Così
come ogni qualvolta si vuole imporre un busto correttivo alla realtà e alla
verità dei fatti, ogni volta che si vuol cancellare un evento, una statua, un
personaggio dalla storia, dalla topografia, dalle vie e dalle piazze sapete già che sono loro, i
sorveglianti della Woke, la polizia culturale in servizio in Occidente.
Le vittime possono essere naturalmente la
destra, ridefinita sempre nazifascista o al più reazionaria, ma anche
semplicemente chi non si riconosce nel canone woke, non è di sinistra, o
perfino lo è ma in modo libero e critico.
Che
l’ideologia woke sia una mentalità radicata a sinistra lo dimostrano mille
indizi: l’ultimo è una ricerca del dipartimento di scienze sociali e politiche
della Bocconi sulle “polarizzazioni affettive”.
In una relazione mista tra una figlia di
sinistra e un fidanzato di destra o viceversa, i più infastiditi e intolleranti
sono i famigliari di sinistra (oltre il 60% di votanti del Pd, quasi il 75% di
votanti di sinistra e verdi), mentre la grande maggioranza delle famiglie di
destra sarebbero molto più tolleranti.
Insomma l’ideologia woke opera anche a uso
domestico, in famiglia.
“Nathalie
Heinich” fa un’attenta classificazione dei tratti significativi dell’ideologia
woke che potremmo così riassumere:
impone
un rapporto del tutto ideologizzato col mondo; confonde la descrizione con la
prescrizione, la norma correttiva a cui adeguarsi; genera un’alleanza tra
l’ideologia normativa e gli interessi commerciali; ignora il contesto e non
vede la differenza tra la realtà e la finzione; applica criteri di valutazione
del presente anche al passato; disprezza i diritti morali degli autori, fino a
stravolgere le loro opere nella censura e bonifica dei testi; infine è
fanatica, e ciò compendia il moralismo, la speculazione, l’ignoranza militante
e arrogante, l’abuso dei testi e degli autori, il disprezzo per l’opera
d’ingegno, la negazione della realtà.
Tutto
questo dà vita a quello che l’autrice chiama totalitarismo woke.
Il
wokismo inoltre irrigidisce l’appartenenza a comunità originarie; tanto è
fluido nelle questioni sessuali e morali, quanto è rigido nelle identità di
partenza, quelle etniche, razziali, “comunitarie”.
Chi è
bianco, maschio, europeo e cristiano è già marchiato d’infamia nella sua
identità, di cui può solo vergognarsi.
Nel
cercare un precedente a questa faziosità totalitaria e ideologica, la
ricercatrice francese non trova di meglio che ripescare il solito fascismo;
ma non
ha bisogno di allontanarsi troppo nel tempo e nemmeno dal luogo in cui vive:
tutto questo si sviluppò da Parigi in poi nel ’68.
Anche
quando attribuisce al fascismo la definizione del “tutto è politica” non si
rende conto che fu proprio il ’68 a lanciare lo slogan “il personale è
politico”, e tutto ciò che è privato sconfina nel pubblico.
A
voler invece rintracciare un archetipo storico, un precedente ideale e
ideologico al “catechismo woke”, restando in Francia, basta rovesciare quel
numero 68 e trovarne un altro: l’89, nel senso della Rivoluzione francese dei
giacobini.
Giustamente
la “Heinich” nota che stavolta l’ideologia woke è venuta fuori dall’America,
anche se il seme ideologico è europeo;
poi se la prende col femminismo ideologico e
con la discriminazione mortificante delle quote rosa.
E auspica l’uso attivo dell’ironia e
dell’umorismo per sconfiggere l’arcigna ideologia woke che ne è totalmente
priva.
Spiegando
infine le ragioni del successo dell’ideologia woke, l’autrice sottolinea
innanzitutto che è redditizio, arreca vantaggi a chi lo usa o lo serve. In
secondo luogo nasce dalla paura: paura di stare dalla parte sbagliata e di
subirne le conseguenze e paura di invecchiare, di restare cioè fermi al
passato, tagliandosi fuori da ciò che è trendy.
Sulla scia di “Hannah Arendt”, l’autrice nota
che l’ubbidienza woke attecchisce anche perché i sistemi totalitari
preferiscono la mancanza d’intelligenza e di creatività, perché dà maggiori
garanzie di lealtà, cioè di conformismo.
Per la
“Heinich” il woke capovolge virtù originarie in oppressione. E come esempi di
virtù originarie cita l’ideale ugualitario della Rivoluzione francese e
l’ideale comunista della rivoluzione bolscevica.
Non le
sfiora il sospetto che quelle virtù, proprio perché irrealizzabili e
utopistiche, contenevano già in sé le premesse per la loro involuzione
totalitaria, tossica e sterminatrice.
Del
resto, non c’è bisogno di fare congetture: basta vedere dove condusse il
Terrore giacobino e poi il totalitarismo comunista ovunque si sia imposto nel
mondo.
No, l’ideologia woke non nasce dal nulla,
anche se può produrlo.
(La
Verità).
«FENOMENOLOGIA
WOKE.
LA
BRUTTEZZA AL POTERE».
Inchiostronero.it - Roberto Pecchioli – (15 Febbraio
2024) – ci dice:
”L’ambiente
circostante si adatta perfettamente all’umanità disfatta che vi deambula”.
Ci è
capitato tra le mani un vecchio libro sulla condizione operaia.
È un ricordo di papà, tipografo formato alla
scuola salesiana.
Tra
fotografie ingiallite e un pizzico di tenerezza per il mondo di ieri, una cosa
ci è balzata agli occhi in modo lancinante:
la
dignità personale, dell’abbigliamento, della postura, perfino dello sguardo,
dei nostri genitori.
Gente
povera, e tuttavia fiera, ordinata nel vestire, portatrice di un decoro e di un
ordine, esteriore e interiore, che abbiamo smarrito.
Il
paragone con il presente è devastante e chi scrive, giunto alla soglia dell’età
grave, compiange i più giovani, destinati a convivere con la decadenza.
L’immondo
mondo contemporaneo è tale da molti punti di vista e il moto verso il basso
diventa più rapido.
Negli
ultimi anni il radicalismo woke dei “risvegliati” ha deformato tutto.
Si è imposta la bruttezza, diventata programma
di vita.
Ovvia
conclusione di un processo di decostruzione del reale, negazione e
cancellazione che ha destituito di senso l’esistenza.
Non
più viandanti, ma nomadi senza meta, senza centro, senza bagaglio.
La chiamano – orgogliosamente-autonomia del
soggetto.
Il risultato è una sciatteria visibile sin
nell’andatura e nella postura, in un abbigliamento fatto di calzoni laceri,
magliette con immagini orrende o paurose, scritte – rigorosamente in inglese-
volgari o stupide.
L’ambiente
circostante si adatta perfettamente all’umanità disfatta che vi deambula:
edifici
brutti, parallelepipedi, cubi di vario colore o di nessun colore, muri e treni
imbrattati da ogni genere di ghirigoro, arte di strada, street art, dicono,
poiché parole e concetti devono essere biascicati in globish.
Naturale
che idee e visioni del mondo siano quelle che sono.
Esiste una vera e propria fenomenologia del
“quinto stato”, la plebe (come chiamarla diversamente?) a modello unificato,
progressista, woke, individualista, tatuata e involgarita.
I più sciocchi arrivano a lordare o
distruggere l’arte per motivi “ambientali”.
La
prevalenza del cretino diventa dittatura e infine nichilismo.
Secondo
la mentalità corrente, nulla fonda l’ordine delle cose.
Anzi,
non esiste un ordine delle cose.
Nulla sostiene il vero, il bello, il buono.
Non è
questa la sede per delinearne le origini ideologiche, le fonti
“culturali”. Tuttavia, la
riconfigurazione antropologica è avvenuta con una precisa regia, il cui esito è
l’anomia, l’assenza di norme, il pericolo da cui metteva in guardia “Emile
Durkheim”, padre della sociologia.
Un’anomia
rivendicata, ostentata come un trofeo, la vittoria del Nulla.
Per
“Foucault”, “la norma ultima è la norma dell’assenza di norme, la norma
dell’anormale”.
Per la
prima volta nella storia l’anormalità fonda la normalità.
“L’anormale, il deviante si trasformano in
pietra angolare del mondo.
In
tutti i campi.
Anche in quello dell’arte convertita in non
arte, nella quale la bruttezza e l’insignificanza si trasformano nel pilastro
che, non si sa perché, si continua a chiamare bellezza.
Anche nel campo della sessualità (o del
genere) ciò che cercano di imporre come norma è l’anormalità della
transessualità e dell’omosessualità, che non è né può costituire la norma, la
direttrice”. (Rùiz Portella).
Ecco
il motivo per cui il pazzo, il prigioniero, il “dannato della terra” di “Frantz
Fanon” – il deviante che nell’ ideologia di genere prende la forma del
transessuale – costituiscono il paradigma rovesciato del buono e del bello, del
giusto e del vero.
Contrariamente
alle apparenze, nonostante quanto fanno credere i nichilisti che tutto revocano
in dubbio e tutto demoliscono, quel che cercano di imporci non è il Nulla di
una “libertà” liquida, dissolta nella sabbia.
L’obiettivo
è l’imposizione di un ordine più duro di tutti gli ordini del passato.
Nonostante le apparenze, il “regime liberal libertario” è ferocemente
dispotico, fondato sulla pretesa di fondare il mondo sull’assenza di qualunque
principio diverso dalla libertà “assoluta”, sciolta da vincoli e limiti.
L’ ingannevole, falsa libertà che sbocca
inevitabilmente nella norma dell’anormale.
La
fenomenologia – finanche la fisiognomica- dell’universo woke è il trionfo del
brutto, del deforme, del bizzarro, dell’assurdo e dell’invertito.
Nel
momento in cui si ergono a norma l’anormale e il deviante, avviene qualcosa di
mai visto nella storia.
Quando
si stabilisce il criterio delirante per cui la base del normale è l’anormale,
della saggezza la follia e della bellezza la bruttezza, franano le più
elementari basi dell’esistenza.
La
bruttezza, appunto. E la bruttura.
Non si
è mai vista gente così ostentatamente e politicamente brutta.
Il
motivo?
Per
loro – per chi li comanda e indottrina- la bruttezza è un progetto politico,
esibita come la bandiera nera dei pirati.
Il simbolo di chi non ha bandiera e vive per
calpestarle tutte.
Scrive
“François Bousquet “che negli Stati Uniti- cratere e motore dell’Impero del
Rovescio- “la bruttezza è progredita in maniera spettacolare, soprattutto da
quando il “wokismo” si è trasformato nella “religione dello Stato”.
“Gli
woke, risvegliati narcotizzati, drogati del Nulla, vogliono cancellare tutto,
annullare tutto, abolire tutto.
Per
Bousquet l’ideologia woke è l’unione “del signor Brutto e della signorina
Brutta; tuttavia, poiché gli woke sono assai suscettibili con la storia della
non binarietà, è meglio ricorrere alla scrittura inclusiva, così diciamo che
costituiscono il matrimonio de* Signor* Brutt*.
Non
hanno bisogno di esporre il loro programma:
lo portano sulla faccia come una provocazione
a madre natura.
Basta guardare le fotografie, imbattersi in
una loro manifestazione, trovarsi in un locale da loro frequentato per avere
davanti agli occhi un museo degli orrori. Brutti, generalmente sporchi (lavarsi
poco è un nuovo comandamento ambientalista…) cattivi o incattiviti, aggressivi.
Qualcuno
somiglia alle zucche di Halloween, a cui abituano fin da bambini. Molti
esibiscono tratti androgini uniti a trascuratezza fisica e comportamentale.
Trionfano
i capelli tinti in colori innaturali:
verde
sgargiante, rosa fluorescente, arancione, il viola cupo della rabbia rancorosa
di cui sono intrisi.
Fanno
pensare alla maschera del “Joker”, il personaggio dei “fumetti di Batman” dalla
risata isterica e dalle orrende smorfie, ai protagonisti grotteschi degli
spettacoli itineranti di una volta, la donna cannone, quella barbuta o il
Mangiafuoco di Pinocchio.
Nulla
a che vedere con la selvaggia dignità di “Queequeg”, il ramponiere di Moby
Dick, gigante tatuato figlio di un capo tribù che ha abbandonato la sua gente
per visitare il mondo, inseparabile da “Yojo”, un piccolo idolo che venera come
una divinità.
Biancaneve
1 - Biancaneve 2 - Disney Lgbt gay.
Nella
nuova versione della fiaba di Biancaneve – odiata da “Paola Cortellesi”, “ultima
icona progre” – la matrigna ha preso il potere e non domanda più allo specchio
se è la più bella.
“Specchio delle mie brame, dimmi, chi è la più
brutta del reame?”
Biancaneve
stessa verrà presto proibita.
È
bianca, etero, il principe che la bacia non le chiede il permesso ed entrambi –
brrr…- sono bellissimi.
Quello
che l’animo woke vuol distruggere è l’ultima diga della disuguaglianza: la
bellezza.
Perciò
assistiamo alla decostruzione della bellezza, alla sua delegittimazione e
profanazione.
Percepiscono
la bellezza come aggressione e offesa.
Quel
che l’”uomo Zero punto Zero” deve ritenere stimabile è l’avvilimento della sua
natura sino alla degradazione.
Forse
la vera lotta di classe non è tra ricchi e poveri, ma la millenaria guerra che
conducono i poetici, i raffinati, i signorili e cavallereschi contro la classe
dominante dei rozzi e dei volgari;
la guerra dei cavalieri contro i porcari; la
lotta tra chi regge le colonne del tempio e chi le profana e le distrugge.
Esageriamo?
No, ci limitiamo a osservare un fenomeno di bruttezza, degrado, decomposizione
che si svolge sotto i nostri occhi e cambia il panorama circostante.
La
fenomenologia woke, insieme con la bruttezza, ha a che fare con l’aggressività
e con un attivismo rozzo, triviale, nemico del confronto, che investe ogni
condotta sociale, privata e pubblica.
Ai
lineamenti fisici descritti sembrano corrispondere certi tratti
comportamentali, una specifica tipologia psichica.
Woke
si diventa, prede del virus mentale del “risveglio” che resetta e riconfigura
corpo e anima.
La
specificità più comune è la petulanza, assoluta, indistruttibile, spocchiosa
nei confronti di tutte le opinioni contrarie.
Dalla
petulanza scaturisce l’assenza di messa in discussione personale, di dialogo
interiore.
Nessun indizio che la persona woke tenti di
comprendere chi non lo è.
Ciò genera una collera perpetua che porta alla
lite, all’ostilità manifestata in ogni modo in qualunque occasione.
Comune
è l’attitudine a tagliare i ponti con amici e familiari di diversa opinione.
Regna
il disprezzo per ogni ipotesi trascendente, accompagnata da un nichilismo
greve, convinto che tutto sia inutile, insensato, un atteggiamento esposto con
una presunzione ricoperta di superiorità.
Gli
woke sono portati a negare o distorcere ogni verità; nella discussione- quando
si abbassano ad essa- esauriti gli argomenti, passano facilmente all’attacco
personale.
L’odio per il passato assume tratti
patologici.
Il
tutto è attraversato dall’ egocentrismo tipico di chi è convinto di possedere
la verità.
In realtà, è spesso sintomo di ansia e bassa
autostima, effetto della vertigine nichilista.
Il
degrado che conduce all’assenza di direzione prima, all’ insensatezza
generalizzata poi, ha bisogno di essere colmato in qualche maniera, per non
affondare completamente.
Di qui la persistenza delle apparenze
democratiche, la rivendicazione di libertà astratte, una volontà di potenza
rovesciata (volontà di impotenza!) imperniata sull’odio di sé, la cancellazione
di ogni passato, il rancore verso l’eccellenza e la bellezza, paragoni
insostenibili, odiosi e odiati.
Nel
marasma dell’anomia, della fluidità diventata gassosa, nella guerra di tutti
contro tutti, al di sopra della bruttezza fisica e interiore dell’universo
woke, tutto è sovrastato dalla legge del più forte.
È una
giungla dominata da un unico padrone, il denaro.
Quel
mondo dissennato e privo di centro gioca con carte truccate.
È
l’inganno non visto, o peggio, accettato, che porta a precipitarsi nel burrone
costruito da chi dirige il gioco sulla testa di generazioni inconsapevoli.
Padroni
ideologici e padroni oligarchici.
Il
programma della bruttezza, il paradigma della volgarità, la tensione verso la
cancellazione, la fascinazione vertiginosa nei confronti dell’abisso, rendono
vittime troppi ingenui.
Vittime
innanzitutto di sé stessi, ovviamente.
L’indeterminazione,
il mondo al contrario, non possono reggere. La logica delle cose non è di
liquefarsi, cancellarsi come si cancella un disegno di sabbia sulla riva del
mare.
Le
cose sono, esistono: piene, radiose di senso e avvolte nel mistero:
in quella congiunzione di luce e oscurità
senza la quale non ci sarebbe né mondo, né essere, né bellezza, né arte, né
senso.
All’orribile
generazione woke chiediamo di non soggiacere all’inganno che li avvolge.
Cancellare tutto, fare tabula rasa, giudicare
tutto con il mutevole metro dell’oggi, vi rende oggetti alla deriva.
Il pensiero negativo figlio del grande rifiuto
prescritto da “Herbert Marcuse” (che forse nemmeno conoscete poiché anch’egli è
figlio di ieri) conduce in mille vicoli ciechi.
Li
state percorrendo tutti: l’odio di voi stessi, le dipendenze, l’incapacità di
credere in qualcosa, l’avversione per chi ha fede in una causa o in un sistema
di valori, il consumo di voi stessi che deforma, l’ansia che fa alzare ogni
giorno l’asticella dei desideri per celare il vuoto che divora, occupa la vita
e rende schiavi.
Il brutto è una croce, non un programma.
Come
nasce la follia
dell’ideologia
woke.
Culturaidentita.it - Francesco Erario – (02
Gennaio 2025) – ci dice:
Una
ideologia che ha strumentalizzato perfino i colori dell’arcobaleno.
Il woke, figlio della Scuola di Francoforte e del
Decostruzionismo, è una minaccia alla nostra cultura e identità e soprattutto
alla libertà.
Con la
svolta negli USA, però, possiamo batterlo.
Che il
nuovo millennio, diretta prosecuzione del secolo breve, non dovesse essere da
meno di quest’ultimo in termini di impatto sulla società, lo si poteva intuire
facilmente.
Già
dall’attesa per quella vigilia di capodanno 1999/2000, segnata dal timore di un
disastro globale ad opera del fantomatico millennium bug – risoltasi poi in un
altrettanto globale bolla di sapone – si capiva che il mondo avrebbe continuato
ad accelerare sulla strada infinita dell’innovazione tecnica, della
digitalizzazione del mondo, della società e dell’essere umano.
E
infatti, dispositivi ogni giorno più piccoli e potenti, connessioni e schermi
sempre più pervasivi ed una spinta al consumo mai vista prima, non potevano non
avere una ricaduta sulla vita dell’uomo-individuo e animale sociale.
Eppure,
nonostante “McLuhan” ci avesse ampiamente preparati a quel villaggio globale
che tutto inghiotte e controlla, si è convinti che davvero in pochi hanno
previsto che nel terzo millennio «spade sarebbero state sguainate per
dimostrare» che i cromosomi XX ed XY dividono in due gruppi gli esseri umani.
Ma la realtà dei nostri giorni è riuscita a
stupire – quasi – tutti, in quella parte di mondo che comprende la cara Vecchia
Europa ed i resti di quella che fu la talassocrazia britannica, e cioè
quell’Occidente sempre sull’orlo del baratro, insidiato da tutti, a partire da
sé stesso.
Si è
detto quasi tutti perché quantomeno i risvegliati, gli woke, protagonisti del
tentativo di rivoluzione in atto, saranno stati ben coscienti di dove si
sarebbe giunti, proprio a causa del loro agire nelle istituzioni culturali e
nei centri di potere sparsi nella suddetta porzione di mondo.
Ma
cos’è, quindi, il wokeismo?
E dove
siamo arrivati?
La via
più semplice per tentare di rispondere alla prima di queste due domande è
quella di guardare agli elementi teorici che costituiscono questo multiforme e
disorganico campo di attivismo politico, tradottosi fin da subito in cieca
ideologia.
In questa prospettiva, gli Studi Culturali e
gli Studi Postcoloniali, gli Studi di Genere e la Teoria Critica della Razza
rappresentano le principali ramificazioni di quella pianta malata, seminata e
coltivata principalmente da postmodernisti e francofortesi.
È in questi ambienti ideologici marxisti del
‘900, infatti, che il wokeismo attinge per le proprie sempre nuove battaglie,
il cui scopo ultimo è quello di abbattere l’ordinamento sociale e politico che
– tra l’altro – ha permesso ad esso di crescere e prosperare.
Il ragionamento logico, scientifico e
razionale che è stato per secoli considerato il lume che avrebbe guidato il
cammino dell’umanità, viene invece oggi attaccato e svilito in ogni modo
possibile proprio da quelli che, ironia della sorte, sono a tutti gli effetti i
nipoti di quell’ammaliante visione.
Un
modo infido e molto efficace per minare le strutture sociali, politiche e non
da ultimo economiche occidentali, declinate opportunisticamente come un’unica
malefica macchina dedita a «dominare» questa o quella «minoranza
marginalizzata».
Per
capire a che punto si è giunti, invece, bisogna guardare al risultato delle
ultime elezioni presidenziali statunitensi, per capire quanto in profondità gli
attivisti woke siano riusciti a portare il loro attacco alla società.
In
questo senso, la rielezione di Donald Trump rappresenta sì una felice e attesa
risposta di buon senso della società USA, ma si configura anche come la
maggiore prova di quanto l’attacco sia giunto al cuore della «macchina» da
distruggere:
la
Presidenza degli Stati Uniti d’America.
L’esito delle urne evidenzia infatti come una
grandissima parte degli americani non abbia avuto timore a votare per un
candidato, la “Harris”, che dichiaratamente aveva nel suo programma la
prosecuzione di quel processo disgregativo dell’identità statunitense in atto
da circa vent’anni, ovvero la “cancel culture”.
Un
processo costruito in primis attraverso la decostruzione e la ri-significazione
della storia degli Stati Uniti, non più «terra dei liberi», ma raccontata come
terra di usurpatori che hanno costruito una nazione sullo sfruttamento
dell’altro.
Inutile
sottolineare quanto questo artificio narrativo sia, appunto, un artificio
strumentale, che può essere utilizzato per qualsiasi nazione o civiltà,
dall’Islanda di oggi alla Persia del V secolo a.C., dalla Cina comunista al
Califfato Omayyade, e ovviamente all’Antica Roma.
Ma non
c’è da stupirsi se cinquant’anni di proselitismo e propaganda, via via più
intensi e serrati, siano riusciti a penetrare nel profondo del comune sentire
di tanti americani, ormai convintamente woke al punto di desiderare che i
bianchi non facciano più figli e fare attiva propaganda in tal senso, o di
conferire quote del proprio reddito alla minoranza di turno, e ciò per espiare
la «colpa» di aver avuto antenati europei.
A ben
guardare, questo meccanismo diventa ancor più perverso nella sua efficacia
soprattutto su giovani e giovanissimi, meglio ancora se bianchi e benestanti,
principale bacino da cui il wokeismo recluta sempre nuovi alleati, preziosi più
degli altri proprio perché bianchi e benestanti, quindi in grado di causare
enormi danni dall’interno di quel sistema simbolico che essi – agli occhi woke
– incarnano.
Ed è sicuramente anche questo che ha
contribuito alla discesa in campo dell’altro grande protagonista della vittoria
elettorale di Trump: Elon Musk.
L’imprenditore
più ricco del mondo aveva nella tutela delle sue imprese e dei suoi progetti
già sufficienti ragioni per scegliere di appoggiare uno dei due contendenti,
come del resto hanno sempre fatto e sempre faranno tutti gli influenti uomini
d’affari in USA ed in ogni altra parte del mondo.
Ma nel
caso di Musk e di queste elezioni un’importante motivazione è da ricercarsi
nella lotta a quel «virus woke», che come egli stesso ha raccontato su X
avrebbe contagiato suo figlio Xavier, divenuto poi “Vivian Jenna”, e che oggi
dichiara di voler abbandonare i nuovi, minacciosi e pericolosi, Stati Uniti
trumpiani.
E se
neanche un uomo dalle possibilità praticamente infinite come Elon Musk non è
riuscito ad evitare che suo figlio venisse risucchiato dal vortice
autodistruttivo del wokeismo, allora diventa chiaro a tutti del punto a cui si
è giunti.
In questo senso il “transfemminismo lgbtqai+”
è forse l’arma rivelatasi nel tempo più micidiale, con una capacità
impressionante di infiltrazione in ogni ambito della vita pubblica e privata,
arrivata a presidiare e controllare le diverse anime della sinistra americana
(e per riflesso, di noi province dell’Impero…), da quelle più radical a quelle
più glamour, e che sopprime ogni voce interna dissidente o semplicemente
critica.
Non
sappiamo se Trump e Musk riusciranno a rivestire i panni di quel “katécon” che
tanto serve a rallentare la corsa di questo “monstrum”, finora rivelatosi quasi
inarrestabile.
Un “monstrum”
vestito subdolamente dei colori dell’arcobaleno, dietro cui si cela una
strategia sovversiva e rivoluzionaria.
Nemmeno
possiamo dire, in realtà, se effettivamente intenderanno provarci davvero.
Sappiamo
però che la richiesta della maggioranza degli americani è chiara, e si
inserisce nella scia di altre e recenti tornate elettorali in Italia ed in
Europa, e che gli elettori si aspettano che venga combattuta e possibilmente
portata a termine.
Ma
sappiamo anche che battersi contro il wokeismo significa difendere il diritto
di affermare la verità senza avere paura di perdere il posto di lavoro per
colpa della “cancel culture”.
Significa
difendere i propri valori senza rischiare il blocco dei conti in banca come
nell’ultra-woke Canada di Trudeau.
Vuol
dire poter esprimere contrarietà alle politiche del governo sui social senza
vedere la polizia bussare alla porta per un tweet come nel Regno Unito di
Starmer.
Vuol
dire poter difendere i propri figli dal plagio arcobaleno che approfittando dei
turbamenti adolescenziali vuole spingerli a prendere ormoni o a storpiarsi
chirurgicamente senza rischiare di vedersi cancellata la patria potestà, come
nella California di “Newsom”.
Vuol dire affermare il proprio diritto a
essere orgogliosi di radici, passato, cultura e identità senza essere accusati
d’essere «suprematisti».
In altre parole, è ciò che tutti i patrioti
hanno fatto fin dall’Ottocento: combattere per la verità e la libertà.
Una
battaglia che deve essere vinta.
Il
sentimento dell’odio, quintessenza
del
progressismo woke.
Identitario.org
– (Apr. 17, 2024) – Roberto Giacomelli – ci dice:
Ciò di
cui si parla di più spesso è quello che si vuole esorcizzare, perché turba e
spaventa, qualcosa di alieno e potente che attrae inconsciamente.
L’odio,
nella società dell’inclusione forzata e della tolleranza obbligata, è rimosso e
vietato a chi non partecipa al banchetto del potere.
Non si
deve odiare nessuna delle minoranze protette, ma è permesso e incoraggiato
l’odio più bieco contro chi si oppone alla narrazione dominante.
Le strette regole del Pensiero Unico, della cultura
woke e del buonismo non ammettono trasgressioni al divieto di odiare, come se
si potesse reprimere un sentimento che scaturisce dal profondo.
Sentimento
nobile e forte, opposto polare dell’amore con il quale condivide la passione,
il desiderio di possesso o distruzione dell’oggetto amato o odiato.
Figlio
di Thanatos, la pulsione di morte, spinge al proprio annientamento e a quello
altrui, così come Eros è la pulsione di vita, della libido e della
conservazione di sé.
Lo
psicoanalista tedesco “Erich Fromm” ha identificato l’”Odio Reattivo”, nato da
una ferita profonda che produce impotenza, diagnosi perfetta per i traditori
del socialismo.
Passare
dalla difesa dei popoli a quella dei suoi persecutori ha determinato un trauma
psichico, provocando l’esaurimento di ogni spinta rivoluzionaria.
Il
senso di colpa che divora chi ha tradito scatena l’odio, espressione della
rabbia verso chi li ha sostituiti nelle lotte sociali e si batte contro la
dittatura della democrazia autoritaria.
Cancel
culture.
L’ipocrisia
regnante nella società, sfidando logica e senso della realtà, impone un assurdo
divieto che dovrebbe annullare l’ostilità e l’avversione presenti nell’animo
umano.
Come
tutte le regole che si rispettano anche questa ha la sua buona eccezione,
l’odio verso tutto ciò che esula dalla coercitiva visione dei buoni è ammesso
senza riserve.
L’odio
che le forze della globalizzazione riversano sul nemico è dato da un meccanismo
di proiezione di contenuti rimossi e nascosti nell’Ombra, serbatoio psichico
dell’impresentabile.
Invidia
per la coerenza ed il coraggio, rabbia e frustrazione di chi ha tradito ogni
ideale per svendersi al miglior offerente, insofferenza per chi non sostituisce
la realtà con la fantasia.
La
paura dell’avversario politico scatena l’aggressività che sfocia in violenza
fisica, in persecuzioni, assalti a sedi di partito, calunnie e diffamazione.
“Agitatori
antifascisti in assenza di fascisti “organizzano spedizioni punitive all’estero
per aggredire militanti identitari che manifestano pacificamente, dimostrando
una pulsione violenta patologica.
Nessuna
persona equilibrata sfonderebbe a martellate il cranio a degli sconosciuti se
non soffre di disagio mentale.
Questi
eroi che attaccano a sprangate in dieci contro uno un avversario disarmato,
come nei famigerati “anni di piombo”, sono paranoici in preda al delirio di
onnipotenza.
Si
sentono in potere di punire a loro piacimento chi pensa diversamente da loro e
pretendono arrogantemente di non essere puniti per la loro assurda violenza.
Colpiscono a sangue freddo senza coscienza del danno
che possono infliggere, soggetti privi di ogni regola morale, del senso di
umanità.
La
violenza immotivata è tutto ciò che rimane agli orfani di brigatisti rossi, ai
terroristi che alle dinamiche del confronto ideologico preferiscono la
sopraffazione fisica.
In mancanza di idee trainanti, di visioni
alternative al consumismo, di programmi condivisi, l’unico collante che tiene
unite forze tra loro diverse e distanti come partiti centristi conservatori e
gruppi rivoluzionari con il permesso del Sistema, è l’antifascismo.
A più
di cento anni dalla fondazione dei “Fasci di Combattimento “negli anni ’20 del
Novecento e della “scomparsa del Regime alla fine della Seconda Guerra Mondiale”,
gli
antifascisti si accaniscono ancora contro un fantasma tenuto in vita
artificialmente per avere un nemico.
La
sconcertante storia di “Ilaria Salis” - Jean-Baptiste Chastand - Internazionale.
La
“costruzione del nemico”, dinamica studiata in psicologia sociale, è la forma
attuale ed aggiornata del capro espiatorio, che nell’antichità permetteva di
convogliare malcontento e rabbia verso una vittima indifesa.
Da un
punto di vista storico è impossibile rivitalizzare ciò che deve essere
consegnato alla Storia, che si fa con documenti e monumenti con i quali si
scrive la storiografia.
“La
Storia si ripete sempre due volte:
la
prima come tragedia, la seconda come farsa”, l’aforisma attribuito a Marx
fotografa spietatamente la situazione attuale.
La
farsa è solo ridicola, la tragedia ha luci e ombre nella la sua grandezza,
mentre la falsificazione è patetica e l’Antifascismo fuori tempo massimo è
palesemente una farsa.
Sarebbe
interessante chiedere agli “anti fa” del terzo millennio dove si annidano le
camice e nere con fez e stivali, dove vedono corporazioni del lavoro, bonifiche
di zone paludose e la lira a quota novanta.
Se mai
hanno sentito parlare di queste opere politiche e civili, le hanno certamente
dimenticate.
Le
caratteristiche antropologiche e culturali del ventennio demonizzato non si
ritrovano nei partiti liberalconservatori e nei Governi che esprimono, che di
sociale e nazionale non hanno nulla.
Tutti
i Partiti si definiscono democratici e mercatisti, cloni di quelli statunitensi
che con le Rivoluzioni Nazionali del ‘900 non hanno nulla da spartire.
L’odio
sociale serve a consolidare il gruppo, a dare una motivazione politica a chi
non si riconosce più in nulla, se non in una sterile lotta a qualcosa che non
c’è.
Questa
dinamica politica rientra nella tecnica di manipolazione utilizzata per imporre
il controllo e fare accettare le peggiori falsificazioni della realtà.
Il
monopolio dell’odio è l’ennesima prevaricazione delle forze conservatrici, una
pericolosa mistificazione per coprire malefatte e bugie.
Meglio
essere odiati che provocare indifferenza come la Sinistra immaginaria che deve
inventare uno spauracchio inesistente per avere una ragione di essere.
The
woke religion:
new
inquisition?
Filodiritto.com – (10 Aprile 2024) – Maria
Elena Ruggiano – ci dice:
Situato
tra libertà di pensiero e imposizione ideologica, con caratteri analoghi ad una
religione Rivelata, si diffonde, nella cultura occidentale, una moderna
inquisizione: il wokeismo.
Il Woke ha permeato tutti gli angoli della
società con l’obiettivo di sostituirla perchè malvagia e corrotta;
nato
negli Stati Uniti d’America è ormai ben presente in Europa e si basa su una inedita nuova
cultura morale, propone un nuovo Credo basato sulla Ragione avendo sostituito
Dio con l'Umanità e la Fede nella salvezza divina con la Fede in una salvezza
umana e terrena.
Premessa
e cenni storici.
Sin
dagli albori del nuovo millennio, nel panorama culturale degli Stati Uniti
D'America prima, dell'Europa poi, si è introdotto un nuovo elemento che
rappresenta una netta cesura, sia sul piano epistemico che su quello etico,
rispetto al paradigma tradizionale socio - religioso che il mondo occidentale
ha costruito, secolo dopo secolo, dagli inizi della sua civiltà.
Il
nuovo elemento prende il nome di Woke (dall'espressione “stay wake”) e deriva
da un registro informale americano, diffusosi presso alcune comunità
afroamericane che dal 2016 è stato usato per descrivere persone consapevoli
ovvero “che si sono svegliate” o che rimangono vigili verso ogni tipo di
aggressione, non solamente fisica, ma anche verbale e simbolica.
L'uomo
contemporaneo dal suo canto si sta abituando a confrontarsi con realtà sempre
più complesse e variegate, caratterizzate da mutazioni veloci ma costanti che
rendono quasi impossibile chiudere in categorie ordinate gli eventi. Certamente
la globalizzazione, avvenuta nel corso del ventesimo secolo, ha avuto un peso
importante in questa trasformazione sociale e tra le sue conseguenze troviamo
la metamorfosi del sacro e l'avvento dei “nuovi movimenti religiosi”.
La
storia, d’altro canto, insegna e testimonia che nuovi movimenti religiosi si
sono sempre affermati, nel corso dei secoli, e quasi tutte le epoche hanno
conosciuto tali fenomeni ma questi, contrariamente ad oggi, si inserivano nel
solco tracciato dalle religioni secolari, discostandosi da esse, ma ripetendo
le tradizioni e gli schemi di base.
Le nuove contemporanee formazioni, invece, si
propongono, distaccandosi dalle religioni Rivelate, come “autentici
realizzatori dell'originario messaggio” proponendo percorsi inediti per
raggiungere tale obiettivo.
La
loro capacità di offrire visioni diverse e laiche del mondo le fanno risultare
affascinanti, anzitutto a una gran parte della popolazione giovane ma, anche, a
tutti coloro che vivono in stati di precarietà, incertezze e smarrimento,
tipiche del mondo contemporaneo, o che non comprendono più o mal sopportano le
sovrastrutture dogmatiche e teleologiche delle religioni tradizionali.
Oggi
certamente non esiste, nelle scienze sociali e nello studio delle religioni, in
genere, una definizione condivisa di religione e le definizioni che fanno
riferimento a un Dio personale e quelle che insistono sulla distinzione fra una
sfera del sacro e una del profano sono ormai minoritarie.
A
differenza del passato, abbiamo a disposizione un ampio “mercato religioso” in
cui poter trovare una vasta gamma di prodotti da scegliere e preferire;
assistiamo ad una divaricazione profonda fra etica e religione con un netto
orientamento individualistico nella formazione del giudizio morale soggettivo.
La
ricerca della spiritualità che, pur permane negli individui, e il bisogno di
senso e di esperienze emotivamente coinvolgenti si evolve e, insieme, si evolve
anche la stessa immagine di Dio che rimane, si divino ma senza più volto e
nome, spinto verso una mistica cosmica del tipo New Age più che verso i
tradizionali libri sacri.
Nel
mondo si moltiplicano coloro che affermano che tutte le religioni si
equivalgono e le differenze confessionali si assottigliano al punto che è
difficile coglierne le differenze reali e sostanziali.
Il
pluralismo delle offerte religiose induce inoltre processi fondamentalistici di
chiusura e porta la riduzione della identità collettiva e individuale a
informarsi sempre meno sulla propria appartenenza religiosa.
Gli
aderenti alla Woke religion “des blancs issus de milieux tres privilegies”, pur
muovendo da premesse eterogenee “condividono la pretesa di aver raggiunto –
attraverso un processo decostruttivo molto lontanamente ispirato al metodo
derridiano – una superiore consapevolezza circa le autentiche radici storico –
culturali della società occidentale; radici che affonderebbero in buona
sostanza, nello sfruttamento e nella prevaricazione ai danni di un insieme più
o meno infinito e di indefiniti gruppi
etnici o sociali percepiti, ex post, come vittime.
Da una
simile consapevolezza, reale o supposta, deriva un giudizio di stampo etico
estremamente negativo nonché una fortissima spinta verso una radicale riforma
dell'assetto sociale e del sistema valoriale dei Paesi occidentali, riforma da
attuarsi a qualunque costo e con qualunque mezzo, anche violento”.
Le
idee sveglie ritengono che “le nazioni occidentali non siano affatto
democratiche perché in esse le persone di colore soffrono rispetto ai bianchi,
i bianchi godono di molti privilegi, le diseguaglianze nei luoghi di lavoro
dimostrano una forte discriminazione tra i gruppi, le forze dell’ordine
discriminano le persone di colore e le minoranze in genere, le donne sono
vittime di sessismo e gli individui che non si identificano in alcun genere non
sono attenzionati come esercitanti un loro diritto”.
L'esigenza
di religiosità, di assoluto, di senso dell'esistenza e di certezza, si pone
alla base del proliferare, al di là del permanere delle religioni tradizionali,
di forme nuove di religioni ed una in particolare, è la” Woke Religion”, nata
negli Stati Uniti di America, e già molto diffusa in Europa.
Il
pensiero Woke: principi e base culturale.
L'
Università americana “Evergreen State College”, nello Stato di Washington
d.c., fin dagli anni settanta del secolo
scorso osservava una tradizione che andava sotto il nome di “Giorno di
assenza”;
un
giorno, nel corso del quale, i docenti e gli studenti non bianchi lasciavano il
campus e si riunivano altrove.
Con
tale comportamento erano decisi a ricordare quanto la loro presenza, in seno
all'Ateneo, fosse significativa e preziosa per la stessa istituzione
universitaria.
Nel
2017, molti lustri dopo la nascita di questa tradizione, gli organizzatori
invertirono le parti pretendendo che fossero i docenti e gli studenti bianchi
ad osservare il “Giorno di assenza”.
Il “Professore
Bret Weinstein”, bianco, docente di biologia si oppose fortemente, nella
convinzione che tale cambiamento potesse concretizzare un pericoloso
precedente:
affidò il suo pensiero ad una dichiarazione
indirizzata agli organizzatori dell’evento con la quale affermava che “esiste
una enorme differenza tra un gruppo o una coalizione che decide di assentarsi
volontariamente da uno spazio condiviso per evidenziare i propri ruoli vitali e
sottovalutati, da un gruppo che incoraggia un altro ad andarsene.
Il
primo è un forte richiamo alla coscienza che, ovviamente paralizza la logica
dell'oppressione.
Il secondo è una dimostrazione di forza e un
atto di oppressione in sé e per sè”.
Non
appena la dichiarazione venne resa pubblica il Docente si dovette confrontare
con la collera degli studenti, si difese contro atti di ritorsione e di
aggressione quotidiane subendo, al contempo, l'ostilità della amministrazione
universitaria al punto che, sia lui che la moglie, collega al Campus, dovettero
rassegnare le loro dimissioni e allontanarsi dal luogo dove erano accaduti i
fatti.
Successivamente
a tale episodio molti osservatori e studiosi si interessarono a questo tipo di
fenomeno che, poi venne designato con il termine WOKE;
fenomeno che, per un certo tempo, rimase
relegato nei ristretti ambiti di alcuni College americani fino a quando nel
2020, dopo la morte di “George Floyd,” si è molto esteso, conquistando un
grande spazio mediatico parallelamente al movimento “Black Lives Matter”.
In
Europa si sta diffondendo rapidamente ed anche in Italia sono molti coloro che
consapevolmente o meno hanno accolto le istanze wokiste.
Non ha più le sembianze di un movimento ma ha assunto
i connotati di un vero Credo.
Il
termine Woke, di non facile traduzione, significa “essere svegliati” e già
questo è un tipico segnale religioso:
essersi
svegliati significa, infatti, aver raggiunto una nuova consapevolezza perché si
ha ascoltato la Buona Novella e visto la Luce.
L'essersi
risvegliato presuppone un discernimento che pone gli adepti nella condizione
sia di testimoniare la Verità rivelata che sperimentare la loro trasformazione
spirituale.
Oggi
questo “risveglio” individuale ha preso la forma di una enunciazione
collettiva, di una “nuova chiesa nazionale, riformata e trasformata per
sostituire la Società originaria che è malvagia e corrotta”.
Il
Woke si basa su una inedita nuova
cultura morale e propone un nuovo Credo basato sulla Ragione ma con gli stessi
paradigmi e dogmi della Religione rivelata, entrando a far parte di quelle che
vengono definite le Religioni laiche, aventi come unica differenza,
rispetto a quelle tradizionali, di aver
sostituito Dio con l'Umanità e la Fede nella salvezza divina con la Fede in una
salvezza umana e terrena, dando vita ad uno scontro profondo tra fede e ateismo
e destando in alcuni forme di
incredulità e in molti un vero e proprio allarme misto ad una inquietudine
crescente.
Gli
adepti sono attivisti entusiasti che si impegnano a formare la nuova umanità
predicata dalla religione risvegliata;
le
religioni tradizionali, quindi, trovano nel Woke un competitor insidioso poiché
promette un mondo utopico in cui la giustizia sociale arriva alla sua massima
perfezione gettando nella oscurità eterna (cancel culture) coloro che non si
adegueranno.
La “Woke
religion” fa suoi molti elementi della mentalità religiosa tradizionale ma
nella loro forma più negativa e senza nessuna delle caratteristiche redentrici
o delle sue virtù;
il senso dell'umiltà e della indegnità,
componenti essenziali della vocazione del fedele tradizionale, non rientrano
nella comprensione Woke così come il perdono che le è del tutto sconosciuto:
come ben sappiamo, infatti, nella azione redentrice del perdono il peccatore
viene guarito e sollevato dal peso della colpa e chi ha agito male viene sempre
risanato mentre per i wokisti non
esiste nessuno degno di essere sanato ma il mondo si divide tra i “risvegliati”
e gli altri che devono essere eliminati.
Gli
aderenti alla “Woke religion” si pongono in un uno stato di giustizia eterna a
spese degli altri; il pensiero del gruppo è obbligatorio per tutti, basato
sulla convinzione di rettitudine e la benedetta certezza di essere separati dai
ben più ripugnanti peccatori del resto della umanità, che sono predestinati
alla punizione eterna.
Un
giudizio scevro da preconcetti ci impone di riconoscere che la “Woke religion”
nacque con un obiettivo nobile, ovvero, quello di combattere le diseguaglianze
e le ingiustizie presenti nella società con tutti i mezzi a disposizione ma,
nel corso degli anni, malgrado la nobiltà degli iniziali intenti, ha ottenuto
una connotazione negativa e ciò è dovuto al fatto che gli aderenti hanno
esasperato le loro posizioni, diventando estremamente intolleranti nei
confronti di tutti quelli che sono in disaccordo con la loro visione del mondo.
Parallelamente
ha contribuito a diffondere un nuovo concetto, quello della “cancel culture”
(cultura della cancellazione o del boicottaggio) che ha come obiettivo primario
di cancellare personaggi – pubblici o privati, veri o inventati, storici o
contemporanei, a motivo di aver detto o fatto qualche azione che è errata od
offensiva nei confronti di una qualunque minoranza.
A
nulla vale lo spiegare loro che è assolutamente necessario contestualizzare e
storicizzare gli eventi messi sotto accusa perché giudicare la storia con
categorie contemporanee è scientificamente inesatto.
La “Woke
religion” si fonda su di un approccio postmoderno al sapere dove si sostengono
il rimescolamento delle frontiere, il relativismo culturale ovvero
l'impossibilità di classificare una cultura come superiore o inferiore ad
un'altra, il potere attribuito al linguaggio che si ritiene costruisca la
nostra percezione del reale e il confinamento dell'individuo all'interno di
sovrastrutture, legate all'influenza che ha colui che detiene il potere
all'interno della società.
Coloro
che aderiscono a questa “religione” hanno ben poche possibilità di uscirne
poiché, come avviene anche nelle teorie del complotto, ogni argomentazione
della cultura Woke fa da puntello a tutte le altre, restando all'interno di uno
spazio chiuso di moralità che recinta “i buoni” ed estromette i “cattivi” per
lo più additati come retrogradi, privilegiati o parte del problema.
“Stiamo assistendo sempre più ad una
perdita di potere delle religioni spirituali con un incremento crescente delle
religioni sociali e tra queste il wokism”:
religioni
sociali che creano veri e propri culti della personalità, simboli, strutture
del linguaggio, strutture morali, frasi e slogan da ripetere a memoria come
preghiere.
I testi sacri a cui fare riferimento sono:
per il
colonialismo i testi di Di Angelo, Fassin Enric;
per il
gender quelli di Sterling Anne Fausto, Butler Judith, Serrano Julia;
per
l’intersezionalità Crenshaw kimberle e Mazouz Sarah.
“Proprio
come una religione - e spesso in modo molto più visibile di molte religioni
reali – la volontà del movimento woke di prendere sul serio – ad esempio - il
razzismo offre una risposta pubblica ai reali bisogni e sofferenze umane.
Incontrano persone laddove soffrono, si prendono cura delle loro ferite e
forniscono un linguaggio in cui possono esprimere il loro dolore.
Queste
sono azioni religiose.
Ancor
più, nella loro forma migliore, queste pratiche condivise producono proprio il
tipo di energia gratuita, generosa e consolante così spesso associata alla
religione”.
I
metodi di azione e le condizioni culturali e sociali del wokismo.
I
principi alla base della “Woke religion” sono espressi essenzialmente per gli
effetti che essi sono destinati a produrre più che per la loro pertinenza in
sé.
Ciò
vuol dire che essa non è interessata a propugnare e difendere principi e la
coerenza interna di questi diventa un fattore secondario poiché l'obiettivo
importante da realizzare sarà quello di far avanzare la causa globale.
Sarà
dunque del tutto legittimo sostenere un principio incoerente, contraddittorio o
mal definito se questo sarà utile e consentirà la progressione di una finalità
considerata buona.
Gli
ideatori del wokismo sanno perfettamente che la coerenza a volte può
trasformarsi in un inconveniente;
ad
esempio “Eve Kosofsky Sedgwick”, esponente importante della filosofia queer,
valorizza la contraddizione e l'incoerenza per la loro facoltà di rendere il
movimento che ella sostiene più difficile da circoscrivere.
Una
eminente teorica della corrente postcoloniale, “Gayatri Chakravorty Spivak”,
dal canto suo, elogia il “concetto di essenzialismo strategico”, cioè di un
approccio che mira ad essenzializzare questo o quel gruppo marginalizzato in
funzione di situazioni giudicate politicamente opportune onde resistere meglio
“ai colonizzatori”;
anche
in questo caso le contraddizioni interne diventano una questione secondaria.
Consapevoli
che è più facile far aderire ad un principio piuttosto che a un metodo gli
adepti woke imparano a non sopravvalutare l'importanza della coerenza logica e
tendono a formulare i metodi come principi. Seguendo il loro pensiero si
potrebbe credere che la diversità sia difesa in quanto tale ma in tale sistema
applicativo non esiste, non è previsto che un adepto lamenti, in nome del
principio della diversità, che non vi siano abbastanza uomini bianchi o
eterosessuali in un paese, un quartiere o una istituzione.
Ça va sans dire che se la diversità fosse
apprezzata in sé un comportamento di questo tipo si dovrebbe osservare tutte le
volte in cui si presenti.
La sua
assenza mette bene in evidenza l'approccio conseguenziale degli adepti dal
momento che “il discorso diverso rivela di non essere altro che un mezzo per la
sbiancatura delle società”.
Con un
simile approccio strategico ai concetti, nella certezza che un buon concetto
genera buoni effetti, i pensatori Woke teorizzano se stessi positivamente come
“diffusori di virus”.
In effetti appare chiaro che “l’Occident
souffre actuellement d’une pandemie terriblement devastatrice, une maladie
collective qui dtruit la capacitè des gens a penser rationnellement”.
Le
condizioni sociologiche che hanno permesso l'emersione della Woke religion sono
state studiate a fondo ed in particolare dai sociologi B. Campbell e J. Manning
che in uno studio rilevante del 2018 asseriscono che un pilastro importante del
woke sia la “cultura della vittimizzazione”.
La
cultura della vittimizzazione si differenzia e ha, di fatto, soppiantato sia la
cultura dell'onore che la cultura della dignità che hanno dominato, per molti
secoli, le società tradizionali.
La
prima valorizzava il fatto di dover difendere il proprio onore in prima persona
senza chiamare in causa terze persone per regolare le proprie controversie
mentre la seconda spinge a non offendersi per delle inezie e regolare
eventualmente i propri disaccordi per le vie di giustizia soltanto nei casi che
lo meritano.
Contrariamente
la cultura della vittimizzazione incoraggia la capacità di offendersi e di
regolare conflitti tramite gli interventi dei terzi e lo status di vittima
diviene oggetto di sacralizzazione.
Il
meccanismo è semplice e consiste nel creare false accuse su fatti odiosi, in
seguito poi, porre una persona “dominante” nella posizione del carnefice e una
persona considerata “dominata” in quella della vittima.
Ed è
ormai chiaro che tutto ciò avviene proprio perché assumere il ruolo della
vittima consente vantaggi immediati e questa nuova condizione è ormai divenuta
una risorsa sociale, una forma di status dal quale trarre benefici e guadagni.
I
Wokisti considerano la cultura occidentale responsabile di essersi storicamente
strutturata intorno al cd. “Principio di esclusione”. Sostengono che
l'occidente avrebbe, volutamente ed erroneamente condiviso, nel corso della sua
millenaria storia, valori etico -morali, determinati canoni estetici ed una
particolare visione del mondo ai danni di altre civiltà che, non condividendo
la stessa visione della realtà, sono stati sfruttate, danneggiate o sminuite.
Inoltre
la “ Weltanschuung occidentale” ancora oggi rimane un enorme limite alla
integrazione, nella nostra società, di tutte quelle comunità o soggetti singoli
che per motivazioni etniche, storico, culturali o ideali hanno adottato sistemi
valoriali differenti e alternativi da quelli dominanti nelle popolazioni
europee.
In
realtà tale accusa è superficiale e approssimativa in quanto ha come baricentro
la medesima ottica eurocentrica che invece i wokisti si prefiggono di
combattere.
Non
bisogna essere esperti storici o competenti geopolitici per avere chiaro che,
nel corso della storia, tutte le civiltà, europee e non, sufficientemente
strutturate ed in grado di esprimere una organizzazione militare adeguata,
abbiano fatto il possibile per estendere il loro dominio politico, economico e
culturale ai danni delle civiltà più piccole o più deboli.
L'imperialismo
non è quindi un peccato dell'occidente ma, eventualmente, di tutte le culture
umane che abbiano raggiunto un grado di sviluppo adeguato.
Le
tesi wokiste sono viziate da un grave errore di fondo ovvero che rigettando
l'universo socioculturale occidentale perché viziato da istanze violente e
discriminatorie sarà necessario creare una nuova sfera culturale basata sulla
inclusività:
il
problema sarà però che qualunque contenuto culturale, anche basico, come
salutarsi scambiandosi un bacio piuttosto che darsi la mano, per sua stessa
natura arbitrario e convenzionale, sarà, da un lato, elemento identitario per
coloro che lo usano e, dall'altro, motivo di divisione agli occhi di chi
ritenga migliore una ipotesi alternativa;
per superare questa impasse la woke religion
ha tentato la via della trascendenza ovvero un piano meta culturale in grado di
fornire uno spazio vuoto nel quale accogliere tutte le culture e ogni
preferenza possibile in condizione paritetica: una sorta quindi di super –
cultura che rifiuti qualsiasi identità specifica e accogliente di tutte senza
distinzioni.
Il
grande limite di questa impostazione, di per sé anche affascinante, risiede nel
semplice fatto che essa non ha come obiettivo di proporre una idea culturale e
morale alternativa bensì di rappresentare l'unico orizzonte entro cui sia
ammissibile pensare.
I suoi
principi di fondo si sono molto velocemente ampliati prima negli Stati Uniti e
poi in Europa tanto che oggi è quasi impossibile non essere esposti a questa
nuova visione antropologica che viene presentata non come una teoria valutabile
o verificabile ma come un dato di fatto, una chiave di lettura universalmente
condivisa: un unico orizzonte possibile.
I
“risvegliati” sono convinti che la loro visione sia l'unica giusta e intendono
imporla come unica e ultima basandosi sull'assunto che costituisce una nuova
meta – cultura e una nuova meta – antropologia prive di postulati
contenutistici ma imperniate su criteri formali della massima inclusività e
dell'assoluto rispetto per la libertà individuale e per le minoranze.
Tale
assunto è palesemente errato poiché
l'esclusione del dato di realtà e della contestualizzazione storica e sociale
degli eventi o di comprensione delle differenti culture rappresenta una scelta
che non si può non considerare nel momento in cui si esprimono giudizi ma anzi
la scelta opposta, tradizionale, che parte dal dato reale e tiene conto dei
suoi aspetti quantitativi e misurabili anziché delle fantasie personali è
preferibile e priva di difetti; ciò rappresenta il Tallone di Achille della
woke religion ed è essenziale comprenderlo ovvero che la loro presunta
neutralità etico - epistemica non basta per poter rivendicare un supposto
diritto a definire il perimetro entro il quale circoscrivere l'incontro e lo
scontro delle differenti idee e posizioni: i principi woke sono estremamente
parziali e riconoscerlo permetterebbe di uscire dalla gabbia etico – lessicale
con cui i risvegliati cercano con forza e tenacia di rinchiudere il dibattito
pubblico.
“Se si
perde fiducia nella razionalità quale strumento di comprensione della realtà il
soggetto si ritrova a pensare sé stesso come una monade e a percepire solo la
propria dimensione psichica”.
Una
consapevolezza importante.
“Quest’idea
di purezza, di non scendere mai a compromessi ed essere sempre politicamente
“woke” [consapevoli], quel genere di cose.
Ecco, dovreste lasciarvelo alle spalle in
fretta.
Il
mondo è caotico, ci sono ambiguità; ci sono persone che fanno cose eccellenti
eppure hanno dei difetti”.
La
Woke religion non è un fenomeno limitato a ristretti circoli; nata negli USA si
è rapidamente diffusa nel vecchio continente e viene definita come un “fenomeno rivoluzionario e come tale
pronto ad estendersi ovunque in Occidente” e può anche essere considerata
“molto pericolosa”.
Il
Woke, con la “cancel culture” e il “differenzialismo inclusivo” della quale
sono dirette conseguenze, possiamo considerarla, senza tema di essere smentiti,
la prima rivoluzione post – cristiana: e non a caso possiede molti caratteri
dello gnosticismo.
Si
potrebbe anche pensare che il Woke sia una fase ancora decisamente fondamentale
e necessaria nella storia moderna mondiale e di ogni singolo Paese, al fine di
raggiungere pari diritti e opportunità, per tutte quelle categorie di persone
spesso non rispettate o non sufficientemente legalmente tutelate dallo Stato.
Tuttavia
è bene sempre focalizzarsi su pari opportunità e diritti invece che sui
privilegi che una simile visione del mondo porta con sé.
Il
wokismo sta certamente rappresentando per il mondo occidentale una forza che
cerca di porre fine alla sua sfera culturale e al suo sistema valoriale e si
alimenta in alcune caratteristiche tipiche degli anni che stiamo vivendo quali
la globalizzazione priva di regole, la crescente concentrazione del potere
economico nelle mani di pochi grandi corporation apolidi e disinteressate della
sorte dei popoli e il margine di manovra in crescita delle strutture
sovranazionali con conseguente riduzione della sovranità degli Stati.
In
questa contrapposizione tra ideali troviamo non solamente un pericoloso e forse
definitivo sorpasso della sfera cristiana ma anche la perdita della libertà di
espressione, la democrazia e il primato del pensiero razionale sulla emotività.
Il
Woke potrebbe rappresentare una nuova inquisizione o tirannia, senza dubbio
mascherata, che si pone contro le promesse di libertà, espressione, uguaglianza
e rispetto che invece vorrebbe proteggere.
Certamente
questa nuova forma inquisitoria non si manifesta con la brutalità del passato
ma è in grado di esercitare il suo potere in maniera sottile e persistente.
Coloro
che aderiscono al Woke hanno l'ambizione di smantellare la civiltà occidentale
percependola come la fonte di un sistema oppressivo e per far sì che questo
avvenga ricorrono alla cancellazione, al boicottaggio o alla vergogna di coloro
che dissentono dai membri dei loro gruppi ai quali viene assicurata una
protezione speciale.
“Il
linguaggio diventa uno strumento per creare una nuova realtà e coloro che osano
dissentire si trovano ad affrontare campagne diffamatorie che mirano
all'assassinio civile del pensiero divergente”.
Attraverso
la paura e la censura, che vengono utilizzate per raggiungere gli scopi
prefissati, è facile evocare altri momenti di intolleranza religiosa e
ideologica;
al
pari del linguaggio volutamente adattato per imporre le idee e non per attuare
un confronto sereno e democratico.
Oggi
siamo al punto a titolo esemplificativo che ogni critica alla discriminazione
positiva contro le donne è etichettata come machismo, la mancanza di sostegno
ai gruppi LGBT è considerata omofobia, la richiesta di una immigrazione
ordinata è etichettata come xenofobia.
Di
fronte a ciò non pare azzardato ipotizzare una necessità di una disobbedienza
intellettuale al fine di tutelare il libero pensiero, la tolleranza delle
divergenze e il diritto al dissenso e di porli alla base della convivenza
pacifica e democratica.
Sarà
opportuno considerare criticamente questa impostazione piuttosto che aderirvi
senza indugi, cercando di essere prudenti e consapevoli nella certezza che una
visione unica del mondo, della realtà che ci circonda e della storia non potrà
essere mai considerata giusta, scientifica e aderente alla realtà stessa.
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