La cultura della disumanizzazione del nemico ideologico.

 

La cultura della disumanizzazione del nemico ideologico.

 

 

 

La disumanizzazione come strumento:

dal nazismo agli estremismi contemporanei.

Centrtomachiavelli.com - Rita Angelini – (8 settembre 2025) – ci dice:

 

Nel panorama degli estremismi del XX secolo, la disumanizzazione dell’altro ha rappresentato uno strumento per la legittimazione della violenza e dell’omicidio, un mezzo di privazione dell’identità e dell’umanità di un nemico, scelto, in alcuni casi pianificato, con la finalità di perseguirlo fino ad arrivare anche all’estremo tentativo di sterminarlo.

Il regime nazista incarna certamente la rappresentazione più nitida di come questa costruzione psicologica abbia avuto un ruolo da asse portante della propria propaganda contro gli ebrei, già catalizzatori di odio nell’Europa Orientale del 1900 e vittime di attacchi violenti, i pogrom.

 

Gli ebrei erano rappresentati dai nazisti come topi, parassiti, insetti, agenti patogeni da eliminare per garantire la “purezza” della società tedesca.

La macchina dello sterminio fu preceduta da una distruzione simbolica dell’identità umana dell’ebreo, ottenuta attraverso la stampa, il cinema (come nel noto film di propaganda” Der ewige Jude”), le vignette satiriche e l’istruzione.

 I soggetti di origine ebrea venivano spogliati di ogni umanità, diventando così corpi estranei da estirpare, una minaccia da annientare.

Nella comunicazione attuale sono state rintracciate mutazioni di tale raffigurazione impiegate nell’ambito della propaganda anti-israeliana, in particolare nelle organizzazioni radicali e nei gruppi terroristi.

L’immaginario grafico e la narrazione ricalcano gli stessi tratti disumanizzanti per delegittimare l’esistenza dell’ebreo e fornire così un’attenuante all’odio antisemita.

 

Comunicazione nella lotta armata.

Nell’Europa post-bellica, nell’ambito della lotta armata interna agli Stati, i gruppi terroristi hanno adottato forme di disumanizzazione che fornivano una giustificazione all’odio, una forma di comunicazione e narrazione che assumeva anche la funzione di combustibile per alimentare lo scontro sociale.

La strategia di spersonalizzazione fu utilizzata sia nei terrorismi di matrice ideologica che in quelli legati alle lotte indipendentiste.

Le Brigate Rosse in Italia e la RAF (Rote Armee Fraktion) in Germania descrivevano i loro obiettivi come ingranaggi del potere borghese, magistrati, manager e membri delle Istituzioni venivano privati della loro individualità diventando parte del sistema oppressore da scardinare.

 I comunicati dei gruppi definivano le vittime come mezzi, nel ruolo di esecutori di una funzione, mai come persone, riducendo l’assassinio a un’azione tecnica e inevitabile, minimizzando la gravità dell’atto criminale.

 

Le Brigate Rosse chiamavano i loro bersagli “nemici del proletariato”, “traditori della classe operaia”, “servi del potere”, gli omicidi venivano rivendicati come atti di giustizia rivoluzionaria necessari alla causa, guidati da un ipotetico fine morale superiore.

L’elaborazione mentale del processo di demonizzazione, oltre a fornire la narrativa utile alla propaganda, assumeva le caratteristiche di collante interno ai gruppi, con lo scopo di fomentare comuni sentimenti di repulsione e di edulcorare la percezione delle azioni terroriste.

In Spagna fece largo utilizzo della spersonalizzazione, per la propria propaganda e influenza, l’organizzazione terrorista” ETA” (Euskadi Ta Askatasuna) nell’ambito di una strategia del terrore legata all’indipendentismo basco e alla sinistra abertzale, cioè simpatizzante per la causa basca.

 

ETA adottò una sistematica disumanizzazione e persecuzione nei confronti delle “Fuerzas y Cuerpos de Seguridad del Estado” spagnoli, i suoi obiettivi erano la “Guardia Civil” e la “Policia Nacional”, etichettate con l’espressione basca “txakurrak”, ovvero “cani”.

Questo termine assumeva un valore simbolico di riduzione dell’avversario a un essere privo di dignità in quanto vile servo di uno Stato oppressore, legittimandone la sua eliminazione come atto di “giustizia rivoluzionaria”.

Questo linguaggio veniva diffuso anche attraverso i murales nei Paesi Baschi, le pubblicazioni militanti e i cori di piazza, e serviva a creare un immaginario condiviso in cui il nemico istituzionale non era un uomo, ma uno strumento repressivo colpevole di agire come invasore.

 

La costruzione dell’odio.

Fuori dall’Europa uno dei conflitti più significativi nel corso del quale la pratica di demonizzare l’obiettivo condusse ad azioni terrificanti è rappresentato dal genocidio del Ruanda.

La propaganda” hutu”, diffusa soprattutto attraverso la” Radio Mille Collines”, definiva i “tutsi” “scarafaggi”, spingendo la popolazione alla loro eliminazione fisica, all’umiliazione pubblica, anche attraverso gli stupri di massa e torture che venivano praticati persino di fronte ai familiari delle vittime.

Ricorre in questo conflitto l’utilizzo della retorica animale a precedere un orribile sterminio, questa funge da anestetico della morale comune e da acceleratore di uno scellerato odio collettivo.

Nel “terrorismo jihadista” contemporaneo, “Al-Qaeda” e l’”ISIS” hanno utilizzato sistematicamente questa pratica.

 I nemici, che siano occidentali, sciiti, yazidi, o musulmani non integralisti, vengono descritti come “crociati”, “maiali”, “infedeli”, “apostati” o “serpenti”.

 

I materiali di propaganda diffusi sui social, nei video o nelle riviste, non solo legittimano la violenza contro questi soggetti, ma celebrano la loro disumanizzazione come prova della purezza dell’Islam combattente.

 I prigionieri inginocchiati prima della decapitazione non sono presentati come esseri umani, ma come incarnazioni del male, oggetti sacrificali nel rituale di una vendetta ideologico-religiosa che eleva l’assassino a una sorta di giustiziere.

 

Anche in alcuni conflitti africani contemporanei, la disumanizzazione funge da innesco e da amplificatore della violenza etnica e religiosa.

In Mali, Sudan, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo, milizie armate e signori della guerra ricorrono spesso a una semantica che riduce l’altro a impuro, eretico.

 

I bambini-soldato, sia in questi contesti che nella formazione dei nuovi combattenti dell’ISIS, vengono indottrinati con immagini che mirano a costruire una visione del nemico identificabile nella figura dell’infedele, a normalizzare forme di violenza estrema che facilitano la loro partecipazione a crimini orrendi, cancellando ogni empatia residua.

La disumanizzazione, al di là delle ideologie che la veicolano, ha una struttura ricorrente che può essere rintracciata come elemento comune nelle varie tipologie di propaganda:

 l’attribuzione di tratti animali o l’immagine del nemico come parassita, la negazione della soggettività e dell’identità personale, unite alla legittimità dell’eliminazione dell’altro come soluzione al conflitto o come segno di purificazione della società.

 

Secondo autori come “Philip Zimbardo” (L’effetto Lucifero) e “Zygmunt Bauman “(Modernità e Olocausto) la disumanizzazione è uno strumento cognitivo per superare i limiti etici legati alla violenza e un modo per costruire consenso interno nei gruppi radicalizzati, un pilastro ricorrente nelle dinamiche del terrorismo, dei genocidi e dei conflitti asimmetrici.

 

“Zimbardo” la definisce come una sorta di cataratta corticale che obnubila il pensiero di un individuo e ne altera la percezione dell’altro, fornendone una visione di qualcosa di subumano.

Essa non solo precede e giustifica la violenza, ma struttura il pensiero collettivo e cementa l’identità del gruppo, è quindi il suo contrasto un possibile metodo per smantellare la semantica dell’odio proponendo la protezione delle vittime come principio cardine della civiltà umana.

 

La condivisione della dignità che appartiene a ogni essere umano può arginare la deriva ideologica che genera azioni deplorevoli, la consapevolezza che ogni persona, sia pure un nemico, sia depositaria di dignità e umanità.

 

 

 

 

Geoingegneria Sotto Accusa:

l’Udienza negli Stati Uniti.

Conoscenzealconfine.it – (21 Settembre 2025) - Arianna Graziato – ci dice:

 

Negli Stati Uniti il Parlamento discute di geoingegneria.

L’iniziativa parte dal “DOGE”, il “dipartimento dell’efficienza governativa”, che ha organizzato nelle scorse ore un’udienza sul tema.

Si intitola “giocare a fare Dio con il meteo: una previsione disastrosa”.

Tenutasi alla Camera per circa due ore, l’udienza ha voluto dare visibilità pubblica ad un tema che per troppo tempo è stato ridotto a semplice “teoria del complotto”.

Vogliamo smascherare gli esperimenti di geoingegneria e di modificazione del clima che prevedono l’irrorazione di sostanze chimiche sconosciute nei nostri cieli. Gli americani non hanno mai votato a favore di questo.

Meritiamo trasparenza!” scrive su “X” il “DOGE”.

 

Il dipartimento punta il dito contro la sinistra, colpevole di aver ignorato oltre vent’anni di articoli e riviste scientifiche che accreditavano il tema, tacendo deliberatamente sulla geoingegneria.

Il tutto perché, afferma il DOGE, “non si vuole che gli americani facciano domande, per farci tacere”.

 

Per anni, chi poneva domande in buona fede veniva ignorato, persino diffamato dai media e dal loro stesso governo.

 Quell’era è “finita“ si proclama alla Camera.

 

Presente all’udienza il dottor “Roger Pielke Jr.”, ricercatore esperto di politica scientifica e tecnologia, favorevole ad una regolamentazione internazionale della geoingegneria.

Il dottore ha parlato di “benefici incerti e rischi catastrofici”.

“La modificazione del clima è come giocare a fare Dio con i nostri cieli, utilizzando sostanze chimiche che non comprendiamo appieno. Non sappiamo quali saranno le conseguenze, ma sappiamo che potrebbero essere devastanti”.

E continua: “Non possiamo avere una scienza repubblicana e una scienza democratica.

Dobbiamo avere una scienza di cui tutti si fidino per valutare quali modifiche meteorologiche sono state apportate e quali ne sono stati gli effetti”.

Al momento negli Stati Uniti sono due gli Stati ad aver vietato ogni attività di geoingegneria: il Tennessee e la Florida.

Ma altri 24 si starebbero muovendo in tale direzione.

Si tratta di quasi il 50% del territorio americano.

(Arianna Graziato).

(byoblu.com/2025/09/18/geoingegneria-sotto-accusa-ludienza-negli-stati-uniti/).

 

 

 

 

La guerra e la strategia

della disumanizzazione.

Rsi.ch – Mattia Pelli/Red – (12 – 10 – 2024) - ci dice:

 

Una strategia antica che ha avuto una sua estremizzazione a partire del nazismo per poi propagarsi nei conflitti odierni.

Ora tra le strade di Khan Younis.

La disumanizzazione del nemico non è una reazione improvvisa, ma una strategia pianificata.

 

Privare l’avversario di quei connotati che ce lo farebbero sentire simile, esiste da sempre ed è una parte fondamentale della costruzione del concetto stesso di nemico.

 Ma solo nel 20.º e XXI secolo questo processo si è sistematizzato, è diventato scientifico, in particolare con il nazismo, ma anche con la sistematizzazione della propaganda razziale, ideologica, religiosa e con l’uso retorico della comunicazione di massa.

Oggi in Medio Oriente è innegabile che siamo di fronte a un laboratorio di disumanizzazione di grande complessità.

Su questo tema abbiamo interrogato “Laura Silvia Battaglia”, giornalista, corrispondente, documentarista, scrittrice, autrice di reportage in Libano, Israele, Palestina, Gaza, Afghanistan, Kosovo, Egitto, Tunisia.

 

In questo momento penso sia fondamentale concentrarsi su questo fenomeno, che naturalmente è comune a tutte le guerre, fa parte del processo necessario a creare un clima di guerra per fare in modo che i soldati si sacrifichino, che i miliziani si sacrifichino.

È una cosa che vediamo sistematicamente da millenni.

 Diciamo che qui il tema è assolutamente calzante per diversi motivi.

Innanzitutto siamo di fronte a una realtà in cui per anni, per motivi differenti, entrambe queste società, entrambi i giovani di questa società sono stati abituati a percepire l’altro come diverso, non uguale in termini di umanità, come un pericolo, come una minaccia, come un elemento da ignorare, da dimenticare, da pensare che non esista.

 

 Marcello Flores d’Arcais, storico studioso di genocidio, docente di Storia comparata e Storia dei diritti umani all’Università di Siena, dove dirige il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies.

 

Questa disumanizzazione c’è sempre stata nella storia.

 Possiamo dire che c’è stata solo una piccola finestra, dalla metà dell’Ottocento alla fine del Novecento, in cui l’idea di umanizzare il nemico è riuscita, se non a prevalere comunque a offrire una serie di strumenti giuridici, ma anche militari, ecc.

A partire dalla seconda guerra mondiale si assiste a una spinta terrificante di disumanizzazione apportata dal nazismo e dalle guerre successive che hanno incrementato questo carattere.

Pensiamo alla guerra nel Vietnam che per la mia generazione è stato un momento estremamente importante di consapevolezza:

il massacro della popolazione del nord con i bombardamenti con il napalm era qualche cosa che appunto aveva come idea che il nemico andava comunque distrutto chiunque esso fosse.

 Questo aspetto lo si vede ancora oggi a Gaza, grazie all’informazione e ai racconti scavati nelle vicende anche individuali.

Ma è lo stesso che è accaduto in Siria e che è accaduto in altre parti del mondo dove ci sono state ugualmente centinaia di migliaia di vittime.

 

 

 

Disumanizzare la morte:

Il rispetto della dignità

del nemico caduto.

 

Iusinitinere.it - Redazione – (17 Febbraio 2025) - A cura di Luigi Usai – ci dice:

“Digli che adirati son con esso gli Dei […]

da che sì furibondo agli strazi e i rattien l’ettòrea salma.”

(Iliade, Omero.)

 

Introduzione.

 

Il trattamento riservato ai cadaveri dei nemici è un tema ricorrente nei contesti di conflitto armato.

 Storicamente era divenuto noto il caso dei “denti di Waterloo”, ovvero i denti di giovani soldati morti in tale battaglia, estratti e rubati dalle loro salme così da fungere da denti sostitutivi.

In tempi più recenti, nel 2012, aveva creato scandalo un video in cui dei “Marines statunitensi”, in Afghanistan, urinavano su dei combattenti talebani morti.

Oppure ancora, si pensi alle accuse mosse da “Hamas” ad Israele sugli 80 corpi palestinesi a cui sarebbero stati asportati degli organi o ai video diffusi dai soldati israeliani mentre “giocano” con la lingerie ritrovata nelle case palestinesi devastate.

Risulta quindi chiaro come questa sia una questione di estrema attualità.

 

La violenza e il mancato rispetto verso i defunti comportano ostentazione e teatralità, volte a mostrare disprezzo non solo per il morto ma anche per quello che egli rappresenta (la sua nazione, etnia, religione…), con l’intento di scoraggiare e ridicolizzare gli avversari, seminare paura e affermare superiorità. In sostanza si tratta di comportamenti che disumanizzano il nemico e la sua morte.

Proprio per la rilevanza che questo tema può assumere esistono norme nel diritto internazionale umanitario (DIU), nel diritto internazionale penale e negli ordinamenti statali poste ad effettiva tutela della dignità del nemico caduto.

In questo breve lavoro si cercherà anzitutto di evidenziare come queste norme siano espressione del principio di salvaguardia della dignità umana (par. 2);

 si procederà, quindi, con una breve analisi delle disposizioni di diritto internazionale in materia (par. 3);

infine, si esplorerà la possibilità che i relativi comportamenti illeciti possano assumere rilevanza non soltanto per sé, ma anche come prova dell’esistenza di un intento genocidario (par. 4).

 

La Dignità Umana come fonte di Diritti e di Doveri.

 

Con il termine “dignità umana” si intende la “condizione di nobiltà ontologica e morale in cui l’uomo è posto dalla sua natura umana, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a sé stesso”.

Essa, dunque, è il valore che ogni persona possiede per il semplice fatto di appartenere al genere umano, è la sum di ciascuno.

Questo concetto è la “raison d’etre del DIU” e dei diritti umani.

 

Nel contesto giuridico internazionale è possibile identificare due concezioni della dignità umana.

Essa, infatti, non è soltanto un principio fondamentale e la base di diritti inviolabili dell’uomo (human dignity as empowerment), ma è anche un principio che crea doveri in quanto bene giuridico tutelato da certi divieti internazionali (human dignity as constraint).

Proprio in base alla seconda prospettiva, ovvero della dignità come fonte di doveri, si deve ritenere che, indipendentemente da un riconoscimento di diritti al/del defunto, ogni essere umano deve rispettare i morti (nel senso stabilito dalle norme che si analizzeranno in seguito).

Nella sua estrinsecazione come vincolo, dunque, la dignità umana trascende la dimensione individuale per assurgere ad attributo astratto e oggettivo appartenente alla specie umana nel suo insieme.

 

Il collegamento tra dignità umana e rispetto della salma dell’avversario è confermato anche dal dato testuale per cui la nozione di vittima di “crimini di guerra per oltraggi alla dignità personale” ricomprende, oltre alla “persona”, anche il soggetto deceduto.

Ne consegue, quindi, che la dignità umana si pone a fondamento degli obblighi di rispetto del corpo del defunto.

Con la morte dell’individuo non cessa il dovere di trattarlo secondo umanità.

 

Le Norme del Diritto Internazionale.

 

Riguardo alle concrete modalità con cui deve essere trattato il corpo del nemico morto in guerra il DIU fornisce specifiche indicazioni.

Queste sono state analizzate nello studio “Customary International Humanitarian Law” del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) al Capitolo 35.

 In esso si stabilisce che le parti del conflitto hanno l’obbligo di cercare, recuperare ed evacuare i defunti (Regola 112), facilitando la restituzione dei resti e degli effetti personali (Regola 114);

 la disposizione dei cadaveri e la conservazione delle tombe devono avvenire in modo rispettoso ed adeguato (Regola 115) e comunque dopo aver registrato tutte le informazioni disponibili (Regola 116);

inoltre, viene fatto divieto di spoliazione e mutilazione dei corpi dei morti (Regola 113).

 

È importante sottolineare come questa disciplina, che si applica ai conflitti armati sia internazionali che interni, deve essere rispettata senza “adverse distinction”, ovvero a prescindere dalla parte del conflitto cui il soggetto apparteneva e indipendentemente dal suo status di combattente o di civile.

 

Come precedentemente affermato, queste regole sono espressione del” DIU” consuetudinario.

Infatti, sono ricavabili da un lato da vari trattati internazionali, dall’altro dalla prassi della generalità degli Stati.

Per quanto concerne il primo aspetto, già dai primi anni del XX secolo i Governi iniziarono a stipulare diversi trattati che imponevano doveri analoghi a quelli appena illustrati.

Tuttavia, è a partire dalle Convenzioni di Ginevra (CG) del 1949 e dai Protocolli aggiuntivi (PA) del 1977 che si giunge ad una disciplina più organica ed esaustiva. Prendendo ad esempio in considerazione l’obbligo di ricerca e recupero dei morti questo è previsto da: I CG art. 15(1), II CG artt. 18(1) e 21(1), IV CG art. 16(2); I PA artt. 17(2) e 33 (4), II PA art. 8.

 

Riguardo la prassi degli Stati si devono considerare non soltanto le legislazioni nazionali, ma anche altri elementi quali i manuali militari, le dichiarazioni ufficiali e le pronunce giurisprudenziali.

È proprio da questi, analizzati in modo dettagliato e approfondito nel II volume dell’opera di codificazione del CICR, che si ricava la sussistenza di entrambi gli elementi della consuetudine internazionale:

“usus e opinio juris ac necessitatis”.

Di conseguenza, tali norme sono vincolanti, anche in assenza di disposizioni convenzionali, per tutti e in ogni luogo.

 

L’applicazione di queste norme è supportata anche dal “Diritto Internazionale Penale”.

 Infatti, come accennato, i “crimini di guerra di oltraggio alla dignità personale” possono perfezionarsi anche nei confronti del defunto.

Tale ambito di applicazione risulta confermato dalla recente giurisprudenza interna.

Ad esempio, nel 2016 in Germania è stato condannato a 2 anni di carcere un cittadino tedesco, convertitosi al radicalismo islamico, a causa di sue foto scattate durante un viaggio in Siria in cui posava con teste mozzate di combattenti nemici, impalate su barre di metallo.

Nel 2017, in Svezia, un immigrato iracheno è stato condannato a 9 mesi di reclusione dopo il ritrovamento di alcune sue foto del 2015, scattate durante il conflitto nel Nord Iraq e pubblicate su Facebook, in cui posava con una testa mozzata su un piatto accanto ad altri corpi decapitati.

 

Mancato Rispetto del Nemico Deceduto e Intento Genocidario.

Le violazioni delle medesime norme, oltre ad avere rilevanza di per sé, potrebbero acquisire importanza anche in altri contesti.

In particolare, esse potrebbero contribuire a provare la “mens rea” del crimine dei crimini: il genocidio.

 

Per il diritto internazionale il genocidio, sia come illecito (dello Stato) che come crimine (dell’individuo), si configura se sussistono due elementi:

l’actus reus (elemento oggettivo) e la mens rea (elemento psicologico).

Per quanto riguarda il primo devono essere realizzati i comportamenti tipici elencati dall’art. 2 lett. (a)-(e) della Convenzione sul genocidio ovvero:

(a) uccidere membri del gruppo;

(b) causare loro gravi danni fisici o mentali;

(c) infliggere deliberatamente condizioni di vita mirate alla distruzione del gruppo; (d) imporre misure volte a prevenire le nascite;

(e) trasferirne forzatamente i figli in un altro gruppo.

 

Passando alla “mens rea”, essa è definita come la commissione dei suddetti atti “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.

Tale” dolus specialis” è particolarmente difficile da provare in quanto si dovrebbe dimostrare che l’intento genocidario sia l’unica ragionevole conclusione che si può trarre dalle condotte poste in essere.

Al netto delle critiche che possono essere mosse a questo standard probatorio particolarmente elevato (che ignora come “l’intenzione di distruggere” possa coesistere con altri intenti), si deve comunque cercare di comprendere da quali dati fattuali si possa desumere l’elemento psicologico.

 

Per sua natura l’intento non è di solito suscettibile di prova diretta; solo l’accusato ha conoscenza del proprio stato mentale, ed è improbabile che confessi la sua volontà genocida.

L’intento, quindi, deve essere dedotto.

Tale inferenza logica deve essere fatta derivare dall’evidenza degli atti materiali. Dunque, se la condotta è stata accompagnata o preceduta da discorsi o dichiarazioni, il loro contenuto può aiutare a stabilire il “dolus specialis”.

Ma, in assenza di prove esplicite dirette, la giurisprudenza internazionale ha precisato che l’elemento psicologico può essere dedotto da una serie di fatti e circostanze, come: il contesto generale;

la perpetrazione di altre azioni sistematicamente dirette contro lo stesso gruppo; l’entità delle atrocità commesse;

il targeting sistematico delle vittime a causa della loro appartenenza a un particolare gruppo; la ripetizione di atti distruttivi e discriminatori.

La giurisprudenza internazionale è concorde nel ritenere che i suddetti fatti possano assumere rilevanza come prova circostanziale dell’intento genocidario.

 

Date queste premesse, è possibile chiarire se e quale possa essere il ruolo in questo ambito dei comportamenti che vìolano le norme sul rispetto dei cadaveri dei nemici.

Questi sicuramente non potranno assurgere a prova diretta del “dolus specialis”, tuttavia, sembrano rientrare perfettamente nella nozione di prova circostanziale appena analizzata.

Eventuali sistematiche violazioni del “DIU” in materia e reiterati crimini internazionali di oltraggio alla dignità personale del morto sembrano integrare le condotte di “perpetrazione di azioni sistematicamente dirette contro il gruppo”, gravi “atrocità” e “ripetizione di atti distruttivi e discriminatori” che la giurisprudenza ha indicato come fatti da cui desumere l’elemento psicologico del crimine dei crimini.

A sostegno di quanto detto si consideri, infine, che per alcuni studiosi una delle fasi del genocidio consiste proprio nella disumanizzazione del soggetto appartenente al gruppo nemico.

La medesima disumanizzazione è insita nella violenza verso il corpo del defunto in quanto simbolo della nazione, etnia, razza o religione di cui fa(ceva) parte.

 

Conclusioni.

La possibile valenza dei comportamenti che oltraggiano la dignità del nemico deceduto per dimostrare la “mens rea” genocidaria costituisce un terreno ancora poco esplorato.

Nondimeno, si deve considerare come, durante i conflitti, la disumanizzazione sottesa al disprezzo verso l’avversario defunto -ad esempio attraverso la distruzione di cimiteri (come sta avvenendo a Gaza)- spesso celi un elemento di persecuzione, un assalto non solo alla vita fisica del nemico, ma anche alla sua esistenza nazionale e religiosa.

Si potrebbe dunque concludere che, insieme a tutti gli altri fattori già analizzati dalla giurisprudenza, anche la disumanizzazione della morte del nemico tramite il vilipendio della sua salma risponde alle caratteristiche per poter essere considerato quale ulteriore elemento di prova circostanziale del” dolus specialis”.

Umiliare la salma dell’avversario significa oltraggiare il gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso cui apparteneva e che in un contesto di genocidio sono stati proprio la causa della sua morte.

Il corpo del nemico deceduto diventa così il simbolo di ciò che egli rappresentava da vivo.

 

La Campagna di Napoleone ed

il topos storico dell’alterità russa.

Historiaregni.it – (23 Aprile 2022) - Giuseppe De Simone – ci dice:

 

La Russia, pur essendo stata nella storia parte integrante delle evoluzioni politiche europee, ha sempre mantenuto un’accezione di alterità mai veramente risolta, nemmeno dopo la caduta del muro di Berlino.

Esistono poi dei paradigmi storici che sembrano rappresentare quasi una costante nella storia d’Europa, come ad esempio lo scontro franco-tedesco per l’Alsazia e la Lorena, a cui potremmo accostare facilmente la Campagna di Russia, intesa come un assalto dell’Europa proprio a quella entità, vicina eppure così diversa, che ha rappresentato forse più di ogni altra, persino di quella turca ottomana che in fondo è una realtà mediterranea, l’elemento “altro” rispetto al nostro continente.

 

Quando Napoleone invade la Russia, non ha di fronte uno stato fuori dall’Europa, ma anzi profondamente europeo.

 È la Russia di Pietro il Grande, di Elisabetta, di Caterina II la Grande, completamente immersa nell’agone politico europeo.

Con Alessandro, l’imperatore dei francesi aveva siglato la “pace di Tilsit” su quella zattera sul “Nemunas” che avrebbe dovuto delimitare le due sfere d’influenza. Napoleone avrebbe addirittura dovuto sposare una principessa russa per suggellare l’accordo.

 Le evoluzioni politiche dei due imperi, l’insofferenza russa verso il blocco continentale, porteranno le due potenze di nuovo a scontrarsi.

Ora Napoleone deve fare la guerra alla Russia conducendo un esercito composto da francesi, tedeschi, italiani, austriaci, ungheresi, polacchi, e quale miglior modo per cementarlo di raffigurare sé stesso, in maniera ideologico/propagandistica, nella qualità di campione della civiltà europea contro la barbarie asiatica?

Lo seduce l’idea di riportare la Russia fuori dal consesso europeo come elemento di alterità, giocando su una atavica visione del mondo russo, mai del tutto sopita nelle popolazioni europee.

Adesso la Russia torna ad essere quella nebbiosa area geografica abitata da irriducibili popolazioni mai domate nemmeno dalle legioni romane.

 La Russia degli sciti, dei sarmati.

Le immense steppe asiatiche tornano ad essere fucina delle minacce all’Europa proprio come dopo la caduta dell’impero d’Occidente.

 

La Grande Armata diviene dunque la potenza nullificatrice di sartriana memoria, che ha bisogno dell’annullamento e della negazione dell’altro per autodeterminarsi e a tale scopo lo definisce.

 L’impero c’è fintanto che esiste un nemico da combattere che sia la rappresentazione per antonomasia dell’estraneo.

Così la Campagna di Russia diviene a tutti gli effetti il primo strumento messo in atto da Napoleone per concretizzare quel progetto di imperialista continentale che da tempo lo assillava, col superamento del particolarismo nazionale.

 Un paradosso rispetto al periodo che sempre più si qualificherà come l’epoca dei nazionalismi, tanto da costargli la corona, ma certamente in anticipo rispetto a quanto avverrà molto più tardi in Europa.

Eppure questa costruzione ideologica non arriva sino alle estreme conseguenze che si avranno invece quando si scontreranno due diverse visioni del mondo, incarnate ancora una volta geograficamente dall’Europa, questa volta nazista, e dalla Russia ora sovietica.

 

«Dopo la vittoria non ci sono più nemici, ma solo uomini», questo è quanto avrebbe esclamato all’indirizzo di un suo sottoposto l’imperatore dei francesi quando gli fecero notare che il ferito per il quale ordinava cure immediate e che lo aveva tanto sconvolto era «solo un russo».

La contrita figura di quel grande conquistatore stava vagando derelitta sul campo di Bordino coperto di cadaveri. 

È così che ce la descrive in una delle pagine più efficaci del suo “Storia di Napoleone e della Grande Armata nell’anno 1812” un ispirato “Philippe-Paul de Ségur.”

 

Il carnaio della Moscova in quell’inizio di settembre del 1812 faceva cadere il velo che sino ad allora sembrava aver celato al suo sguardo acuto e nervoso il reale significato di quella grande guerra ai confini d’Europa.

Un Napoleone afflitto nel corpo e nell’animo si era ostinato ad inseguire il nemico in cerca di quella vittoria decisiva che oramai era definitivamente sfumata.

Questa figura tetra ed amareggiata che ora attraversa muta il proscenio di guerra in quella piana asiatica è il flebile simulacro dell’energico comandate che aveva trasformato l’esercito francese in un rullo compressore capace di travolgere in poco tempo i decrepiti regni dell’ancien regime europeo.

A guardia delle ridotte conquistate restavano ormai, tra i vittoriosi francesi, più morti che vivi.

Il colpo d’occhio era impietoso.

Persino gli agenti atmosferici sembravano rimarcare quella drammatica consapevolezza che ormai si faceva strada nei pensieri dell’imperatore:

 «si mise allora a percorrere il campo di battaglia: nessun altro aveva mai avuto un aspetto così orribile.

Tutto vi contribuiva: il cielo scuro, la pioggia fredda, il vento violento, le case ridotte in cenere, la pianura sconvolta coperta di rovine e di rottami;

all’orizzonte, il verde triste e cupo degli alberi nordici;

 dappertutto, soldati che erravano tra i cadaveri e cercavano cibo persino nello zaino dei compagni morti;

 ferite orribili giacché le pallottole russe hanno un calibro maggiore delle nostre;

e bivacchi silenziosi;

non più canti, non più racconti; solo un tetro mutismo».

Sembra la descrizione del campo di un esercito di sconfitti e invece i francesi quella battaglia l’avevano vinta.

Tuttavia ormai era chiaro a tutti è che non avrebbero più potuto inseguire i loro nemici fino ai confini del mondo.

 La forza propulsiva della Rivoluzione francese e del conseguente impero napoleonico si esauriva lì, sul campo di Bordino.

 

I loro nemici, quei pervicaci russi che prima avevano condotto una rapida e ordinata ritirata e poi si erano arrestati per affrontare gli eserciti d’Europa, avevano combattuto con fanatica determinazione.

Persino riconoscendo loro una enorme predisposizione al sacrificio e una forza d’animo smisurata però, l’aristocratico francese che sta narrando le gesta della Grande Armata in Russia ci tiene ad inserire alcune specifiche osservazioni, incentrate sull’antitesi, allo scopo di caratterizzare peculiarmente la concezione di quel fatale scontro sulle piane russe.

È l’Europa che affronta l’Oriente, è l’erede di Carlo Magno che riunite le genti europee le scaglia contro i barbari oltre i confini del continente, ricalcando di fatto l’immagine propagandistica che lo stesso Napoleone aveva voluto trasmettere a tutti i convenuti nell’incontro di Dresda, prima di avviare la campagna militare.

Una riunione di teste coronate che invece di esaltare la figura dell’imperatore dei francesi si rivelò un vero e proprio boomerang:

 i sovrani d’ancien regime praticamente costretti a parteciparvi fianco a fianco agli uomini emersi dai fuochi della Rivoluzione lo avevano vissuto come un insopportabile affronto, quelli invece che Napoleone lo avevano seguito proprio perché considerato la cuspide rivoluzionaria puntata contro i cadenti regimi della vecchia Europa ora lo osservavano contrariati mentre si raffigurava in qualità di “primus inter pares” proprio tra quelle antiche casate che avrebbe dovuto affossare definitivamente.

 

Una propaganda dunque, quella imperiale, che mirava inizialmente a rappresentare gli avversari come barbari, estranei al contesto europeo, e che de “Sigur “arricchisce con definizioni quasi antropologiche rimarcando la differenza persino nel soffrire tra francesi e russi:

«essi parvero sopportare il dolore più stoicamente dei Francesi.

 In realtà, non erano più coraggiosi nel soffrire, soffrivano meno;

 i Russi infatti sono meno sensibili, nel corpo come nello spirito, e ciò dipende dalla civiltà meno progredita e dal fisico indurito dal clima».

Benché sull’essenza del nemico l’aristocratico francese facesse cadere la mannaia di un giudizio che potremmo azzardare di definire razziale, siamo ancora lontanissimi dalla disumanizzazione che vedremo esplicitata in maniera terribile nella campagna orientale della Seconda guerra mondiale, ed infatti in altri punti del suo resoconto lo stesso “de Sigur” non lesina elogi alle “virtù primitive” dei russi.

 

È proprio l’episodio citato pocanzi che ce lo rende evidente:

Napoleone considera il nemico sconfitto, una volta conclusa la fase cruenta dello scontro militare, umanamente alla pari dei suoi stessi soldati.

 Il ferito va curato che sia russo o francese.

Quello che i francesi non riescono a spiegarsi semmai è come sia possibile che quegli uomini mostrino tanta tenacia nel difendere gli interessi di coloro che in realtà nella quotidianità li vessano, come sia possibile che il servo della gleba russo finisca per affrontare con ardimento il nemico del suo stesso padrone.

 Loro, i francesi, sono lì ai confini del mondo civilizzato evidentemente per portare le insegne del progresso civile in quelle terre desolate.

Questa è la percezione che alcuni, fossero ufficiali o uomini di truppa, testimoniano nelle loro memorie rispetto a quella particolare campagna militare.

 Altri invece mostrano di aver seguito solamente il loro carismatico imperatore, ma in nessun caso il nemico acquisisce ai loro occhi quei tratti subumani che acquisirà nella successiva campagna di Russia, quella nazista, di un secolo e mezzo dopo, come ha evidenziato” Omer Barton “nel suo “Fronte Orientale”, facendo luce sugli aspetti ideologici di quell’altra guerra.

Per lo storico israeliano lo scontro tra nazisti e sovietici ha implicazioni evidentemente di tutt’altro livello oltre a quelle di pura politica di potenza, come evidenziano in quello scenario i legami profondi tra la Wehrmacht e le politiche di sterminio del regime nazista, persino quando queste ultime erano in completo contrasto con la logica delle operazioni strettamente militari, le esigenze della logistica, e i bisogni dell’economia della guerra.

 Insomma per i soldati di Napoleone il nemico russo tutt’al più è barbaro ma pur sempre un essere umano.

Nella propaganda acquisisce il valore di estraneo, orientale, ammantato di un coacervo di retrivo e superstizioso retaggio culturale che lo accomuna più alle popolazioni delle steppe asiatiche che alla civile Europa.

D’altra parte per i russi i francesi sono paragonabili ad una razza di cavallette arrivate a bruciare la loro terra, e Napoleone non è altro che il Moloch, così come lo definisce l’imperatore Alessandro in uno dei suoi proclami alle truppe.

Dunque, quella tra francesi e russi nel 1812 è sì una battaglia ideologica propria dei conflitti post-rivoluzionari, da una parte si innalza la bandiera del progresso civile e dall’altra la difesa delle ataviche tradizioni, ma questo scontro non produce come conseguenza l’esasperazione nella sua accezione ultima di sterminio totale dell’avversario.

 

Nell’entrare finalmente a Mosca, Napoleone raccomanda a Murat e alla sua avanguardia di rispettare la massima disciplina.

Non ha condotto le sue armate sino a quella lontana città per sterminarne la popolazione.

 A “Mortie”, nominato comandante della piazza, intima «niente saccheggi! Me ne risponderete con la vostra testa.

 Difendete Mosca da tutti e contro tutti».

I saccheggi arriveranno, ma solo dopo che l’incendio della città appiccato dagli stessi russi segnerà uno spartiacque nella campagna militare.

A quel punto Napoleone, con una città ormai deserta e devastata dalle fiamme resterà impassibile ad osservare colonne di razziatori portare via tutto quello che riusciranno a trovare in quelle abitazioni semidistrutte.

Adesso lo scontro ideologico ed etnico contro l’entità “estranea” della Russia zarista, con cui Bonaparte aveva voluto mascherare la lotta per l’egemonia in Europa si tramuta in una rotta dai tratti quasi epici.

 «È Cambise avvolto dalle sabbie di Ammon, è Serse che ripassa l’Ellesponto in una barca; è Varrone che riconduce a Roma gli avanzi dell’esercito di Canne», come la descriverà Alexandre Dumas.

Per lo storico l’analogia è un’arma a doppio taglio, ma resta forse uno degli strumenti più efficaci per raccontare un evento se utilizzata con le dovute cautele. Bisogna però considerare che è una freccia all’arco anche della propaganda.

 

Napoleone era stato letteralmente tormentato dal fantasma di Carlo XII che lo perseguitò, varcato il Nime, fino a Mosca.

 E non ci è difficile immaginare che abbia rivolto un pensiero proprio al sovrano svedese mentre osservava dal Cremlino la capitale religiosa russa avvolta dalle fiamme.

 La lezione napoleonica sembra invece essere stata completamente dimenticata dai nazisti poco più di un secolo dopo, troppo intenti com’erano ad affermare il sacro furore catartico della loro lotta ideologica contro un nemico subumano.

Per i russi, in quel caso, un redivivo “Aleksandr Nevskij” doveva accompagnare l’offensiva contro i nuovi cavalieri teutonici, che li avrebbe condotti sino a Berlino nella Grande guerra patriottica.

L’imperatore dei francesi aveva portato sulle rive del Nime tutta l’Europa e la disputa non poteva che assumere dei connotati di scontro di civiltà, eppure per quanto le battaglie fossero cruente e le conseguenze del passaggio di una tale massa d’uomini in armi devastanti, non si superò mai la linea dell’aberrazione, e il nemico restò un avversario da battere in campo che una volta fuori dal contesto bellico e reso inoffensivo veniva sostanzialmente rispettato.

Non mancarono diversi episodi di combattimenti cavallereschi, quasi di un’altra epoca, e le fulgide figure dei comandanti francesi finirono per ricevere spesso l’ammirazione degli avversari, come testimonia la particolare simpatia dei cosacchi per l’esuberante “Gioacchino Murat”.

Discorso del tutto diverso un secolo e mezzo dopo, quando le truppe di Hitler invasero la Russia sovietica.

 Lì si scontravano due blocchi ideologici contrapposti, i soldati erano stati ferocemente indottrinati affinché vedessero nell’ “altro” l’antitesi di quanto loro stessi rappresentavano, una dicotomia insanabile tra il bene e il male, tra la razza eletta e le razze inferiori.

 I cani della guerra, in quel particolare contesto, non ebbero più guinzaglio né alcun tipo di freno, l’unica soluzione praticabile era lo sterminio totale del nemico.

 

L’alterità del mondo russo rispetto all’Occidente non si risolse con la fine del nazismo, la Guerra fredda ne sancì solo una nuova fase, fatta di cortine di ferro e muri di Berlino, di Vietnam ed Afghanistan ma anche parossisticamente rappresentata nell’immaginario cinematografico occidentale da film come “Alba Rossa”, “Rocky IV”, “Rambo III”, “Firefox”, “Caccia a Ottobre Rosso”, che finirono per normalizzare quella dicotomia e anticiparono di fatto tra gli anni ’80 e ’90 la “Perestrojka”.

Con la caduta del muro, però, la Russia tornava nel consesso occidentale, il capitalismo e le liberalizzazioni sfrenate la integrarono nell’alveo della finanza internazionale di stampo liberista americana e le facevano assumere i connotati di un prezioso partner con il quale fare proficui affari.

 L’alterità sembrava accantonata.

Non è andata così.

La guerra in Ucraina inaugura ora una nuova fase.

Il pendolo torna ad oscillare verso una rappresentazione dell’Orso russo in antitesi al mondo occidentale.

La stessa esistenza della Nato dopo la caduta del muro di Berlino e la stretta progressiva all’area geografica del Patto di Varsavia, con una lenta ma inesorabile erosione della sfera di influenza della Russa, denunciano probabilmente che l’idea di contrapposizione in blocchi non era mai stata veramente abbandonata dai comandi occidentali.

(Giuseppe De Simone).

 

 

 

 

 “Exterminate all the brutes.”

Laletteraturaenoi.it – (7 Febbraio 2024) - Felice Rappazzo – ci dice:

La cronaca orribile degli eventi in Medio Oriente dei nostri giorni non può esimerci da riflessioni complesse, pur in un sito letterario. Voglio provare a sondare, più che gli aspetti politici (o al di là e al di qua di questi) quelli culturali che riguardano soprattutto la civiltà occidentale e le sue doppie verità, partendo, a ritroso, da un breve e noto romanzo-saggio, per poi confrontarlo con la narrazione mediatica degli eventi.

 

Conrad e Kurtz.

L’anno 1899 è quello in cui “Joseph Conrad” completa la stesura del suo” Heart of darkness”, forse il suo romanzo più celebre (le traduzioni in lingua italiana oscillano fra Cuore di tenebra e cuore di tenebre);

è anche quello di una celebre poesia di “Kipling”, Il “fardello dell’uomo bianco”, e, se vogliamo, anche quello della pubblicazione della “Interpretazione dei sogni di “Freud”.

Coincidenze, forse, ma non così fortuite.

 

Mi soffermerò brevemente solo sul primo libro qui citato.

 In esso un uomo di mare, “Marlow”, in un complesso gioco di specchi che qui non è il caso di ricostruire, racconta del “suo viaggio in Congo”, su incarico della sua compagnia di navigazione, volto a risalire l’omonimo fiume e recuperare un singolare e mitico personaggio, un funzionario di un certo rango, che era lì rimasto bloccato da una malattia e da vari incidenti in una base interna all’immenso continente: Kurtz.

 La vicenda narrata si svolge tutta in questo territorio, oscuro così come oscura e funebre, leggiamo nelle prime righe, era la più grande città del mondo, Londra.

 Il romanzo è, insomma, l’inseguimento, l’incontro, lo scioglimento dell’enigma-Kurtz.

 Il regista americano “Francis Ford Coppola” rilegge a suo modo questo personaggio nel film “Apocalypse now”, ambientato nel Vietnam.

 

Richiamo l’attenzione sul punto cruciale, sul motore narrativo, dissimulato ma non troppo.

Verso i due terzi del testo “Kurtz”, infine raggiunto a fatica da “Marlow” ed effettivamente in cattive condizioni fisiche e in parte delirante, si dilunga a spiegare la sua filosofia di vita, le ragioni che l’hanno spinto a diventare quello che era: “Kurtz” si dichiara figlio di un padre per metà francese, di una madre per metà inglese:

Tutta l’Europa contribuiva a fare Kurtz;

 e poco dopo appresi che, molto appropriatamente, la Società Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi gli aveva dato l’incarico di redigere un rapporto, che le servisse come indicazione futura.

 

La “Società Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi” ovviamente non esiste, ed è un’allegoria satirica.

Come esponente e delegato di questa Società, Kurtz si dichiara di fatto per quel che era, un avventuriero senza scrupoli e oltre tutto corrotto, uno schiavista, un tipico esponente della Compagnia per la quale lavorava, l’incarnazione stessa del sistema coloniale europeo, del fondo oscuro della cultura e della civiltà occidentale.

 

Naturalmente Kurtz non dice questo.

Dopo infiniti rigiri e arzigogoli, che sembrano talvolta noiosi ma che in realtà sono necessari proprio per scoprire quanto invece è occultato (la sostanza del colonialismo, la sua verità interna o se vogliamo la sua ideologia), Kurtz consegna a Marlow un suo denso manoscritto.

In esso, in una prosa esotica e lirica, gli occidentali si presentano agli indigeni come esseri soprannaturali angelici e onnipotenti, oggetto di venerazione e di adorazione, unico modo per trarre fuori dai «bruti», dagli animali africani colonizzati, la scintilla della civiltà.

La storica missione dell’Occidente, infinite volte ripetuta e rivendicata!

 In una nota scarabocchiata a pie’ di pagina, tuttavia, si leggeva la sostanza, la verità vera di questo progetto di “educazione”:

 «exterminate all the brutes», sterminate tutti questi animali.

Concludo qui ogni riferimento a questo importantissimo monumento letterario, chiedendo perdono per averlo malamente scempiato.

Ma il mio intento è un altro, e il povero Conrad è stato da me usato strumentalmente.

Ancor oggi non capisco come una fine e pugnace critica “di sinistra” abbia in anni lontani letto in Conrad un esponente del colonialismo, un conservatore, se va bene. Ma questo è un altro discorso.

 

Colonialismo, e “bruti” dei nostri giorni.

 

“Bruto”, prima ancora che essere violento e irragionevole, significa proprio animale, persona dominata da istinti animaleschi («fatti non foste a viver come bruti», in Dante; «universalmente golosi, bevitori, ubriachi e più al ventre serventi a guisa d’animali bruti», Boccaccio, nella seconda novella del Decameron).

Il bruto non ha umanità, non ha dignità, è privo della scintilla della ragione e della distinzione, è feroce o piagnucoloso, subalterno e gesticolante. Un animale, ma indegno di quella simpatica indulgenza che spesso si ha per gli animali.

 

Per i colonialisti di ogni tempo e generazione, per i sopraffattori di ogni geografia e storia, i sottomessi sono appunto bruti.

 Esseri indegni e da considerare come massa, come ingombro o residuo e scarto da sfruttare o da eliminare.

 Così gli schiavi per tutte le società antiche e moderne, da Atene e Roma antica, dai nativi indonesiani o americani, dai neri a tutti gli altri “diversi”; e naturalmente agli internati nei campi di concentramento nazisti, ebrei, zingari, omosessuali, politici, disadattati, matti e così via.

Pura carne, puri oggetti, puri numeri.

 

La “popolazione di Gaza” è fatta di bruti di questo genere, per l’élite politica israeliana;

e per l’élite occidentale in genere, con il corollario dell’asservimento ideologico e politico dei giornalisti, per la maggior parte, agli interessi e allo sguardo dell’occidente globale.

Non penso affatto questo per l’insieme del popolo israeliano, ma certo è così per una quota non indifferente di esso, per quei “settlers” che hanno abusivamente invaso i territori della Cisgiordania col sostegno dei vari governi;

e per chi si trova a dover combattere “Hamas”, e invece produce una orrenda mattanza.

 Il soldato armato fino ai denti, atterrito a sua volta, produce terrore e morte, e non può far questo senza aver prima disumanizzato i suoi avversari:

 anzi, tutti coloro che si trova di fronte;

la guerra fa il soldato, la tortura fa il torturatore.

 “Sartre” ha spiegato questo processo in modo splendido e tuttora insuperato, introducendo “I dannati della terra” di “Frantz Fanon” e “La tortura” di “Henri Alleg”.

E questi stessi autori hanno mostrato (il primo, ovviamente, in modo molto più ampio) come avviene la disumanizzazione, e come si costruiscono discorsi e contro discorsi, fra colono e colonizzato, fra carnefice e vittima.

Il passaggio mentale (discorsivo e istintuale, razionalizzato e di copertura a un tempo) perché si possa giungere a questo orrore è uno e uno solo, in ogni caso: appunto la disumanizzazione del “nemico”.

Così sentiamo ministri del governo di Israele e importanti figure pubbliche lanciarsi in dichiarazioni incredibili, definire bestie umane tutti i palestinesi, chiederne la deportazione generalizzata.

Cose da far venire i brividi.

E che occorra parlare proprio di un processo di disumanizzazione, lo conferma, nel libro intervista” J’accuse” (pubblicato nel novembre 2023 da RCS libri) la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, “Francesca Albanese”, che dedica proprio a questo tema un capitolo intero del suo libro; citando uno studioso, “Enrique Galvan-Alvarez”, “Albanese” scrive che «il dominio sull’altro non si manifesta solo attraverso lo sfruttamento economico o il controllo delle strutture politico-militari, ma anche mediante la costruzione di quadri epistemici che legittimano e avallano tali pratiche di sottomissione» (p. 48).

 Il linguaggio, nella sua capacità di definire ma anche di occultare, è dunque al centro del conflitto non meno che i bombardamenti dal cielo, da terra e dal mare, il terrore e l’angoscia provocati anche dalla mancanza di cibo, di acqua, di medicine, ecc.

Da qui, soprattutto, il disequilibrio emotivo, l’astuta propaganda umanitaria che mette l’uno contro l’altro il bambino israeliano preso in ostaggio e presentato in foto o brevi filmati (ed è giusto suscitare l’empatia generale su di lui) e l’insieme dei bambini morti, ma in massa, come semplice numero, che tuttavia non possono, proprio per questo, suscitare alcuna commozione.

Un meccanismo al servizio del potente di turno, decrepito ma sempre efficace.

E chi volesse, e giustamente, parlare di disumanizzazione anche a proposito di Hamas, non dovrebbe dimenticare che nella costruzione e rappresentazione mentale dell’occidente Hamas è un gruppo terroristico, Israele uno stato “democratico” che tuttavia non ha una costituzione, non tratta tutti i suoi cittadini con parità di diritti, e considera carne da cannone e da sfruttamento i “vicini” palestinesi.

 

È proprio questo il punto che al momento mi interessa, nel voler legare (e so di farlo affannosamente), letteratura (anche saggistica) e cronaca, orrenda, dei giorni nostri; e sfondo, sfumato ma incombente, della storia.

Mi pare infatti che ci troviamo qui, per l’ennesima volta, di fronte a una sorta di maledizione, di coazione a ripetere, del pensiero o del «discorso» o della «narrazione» occidentale dominante.

 Un pensiero, badiamo bene, asservito alla forza e alla sopraffazione, nel quale potere e razionalità (ma quale?) si sostengono a vicenda;

e che dilaga, non certo a caso, sui media e nei finti dibattiti su giornali e televisioni, là dove il punto di vista “oggettivo” da cui si parte ha già deciso chi sono i buoni e chi i cattivi.

 

E qui la letteratura ci può aiutare, e può aiutare anche insegnanti e discenti.

 Il “caso di Conrad”, la noticina scarabocchiata in fretta da “Kurtz” come corollario veritiero dei discorsi umanitari sulla civilizzazione è solo un esempio, fra i più noti e radicali, che mostrano la capacità che ha la letteratura di rovesciare il tavolo delle idee ricevute, e di dar spazio a riflessioni;

di presentare il rovescio e l’ombra di ogni enunciato;

a partire da quello che ho posto come titolo e che può essere opportunamente valorizzato solo rileggendo poi, a ritroso, l’intero testo, nel quale ogni singola scena rivela l’ambivalenza, la dualità o meglio complessità del giudizio.

La storia, la cronaca, l’etica pubblica, il senso stesso delle parole «civiltà», «progresso», «libertà», possono così essere valutate criticamente e passate a contrappelo.

 

 

 

 

FRANCESCO ZEVIO - MILITARIZZAZIONE

DELLA PAROLA.

Culturainatto.com – Francesco Zevio – F.Fortini – Redazione – ci dicono:

 

(Χείρων) - (Traduzione dell'autore).

Da quanto tempo non scrivo. Ti ci metti, dopo qualche parola ti cade la penna, dopo una frase o due la fede nella parola. Perché tanto silenzio?

 Nel frattempo sono esplose guerre. Guerre e crisi e cifre d'affari, perlopiù le solite.

Nel frattempo sono bruciate foreste, sono curiosamente esplosi gasdotti e avvenuti attentati, si sono ringalluzzite e inferocite teocrazie parlamentari, sono stati imprigionati militanti, sono stati comprati da multimiliardari ettari ed ettari di terre in Nuova Zelanda, sono divampate guerre civili, sono tornate di moda minacce nucleari… perché tanto silenzio?

Ebbene, almeno in parte, tale silenzio è dovuto alla progressiva e uniforme tendenza alla militarizzazione della parola.

 L'impressione è che, in particolare a partire dal Covid, l'uso della parola sia andato sempre più polarizzandosi verso un uso militare.

Finché ce lo si poteva permettere, era il mercante a disporre della parola.

La sua propaganda era propaganda commerciale.

 Ora il criminale-pubblicitario sembra doversi mettere un po' da parte e lasciare libero il palco per il criminale-assassino.

O forse solo cambiare d'abito e di personaggio.

 

Ma il criminale-assassino non può semplicemente sbarcare e far come gli pare.

 Perché a noi, “primo mondo” in cui comunque, per privilegio storico, anche se ormai verrebbe quasi da dire per inerzia storica, esiste e per il momento continua ad avere un qualche peso l'opinione pubblica, questa cosa della guerra e dei criminali di guerra non ci piace.

 La guerra è cosa brutta, lo si sa, per farla bisogna che dall'altra parte ci sia qualcuno o qualcosa di bruttissimo.

Di inumano, di irrecuperabile:

animali, da trattare come tali (sto citando qualcuno).

E allora l'uso militare della parola è ciò che, facendo tabula rasa di tutte quelle sfumature e contraddizioni che potrebbero mettere in crisi l'opera di disumanizzazione del nemico (o dell'opinione, o del pensiero scomodo) di turno, ce lo consegna in una immagine di male assoluto e irredimibile;

e che lo fa dissimulando, al contempo, il nostro possibile contributo alla situazione da cui, giunta al parossismo, è esplosa la violenza.

 Proprio quella parola che può il contrario.

Proprio quella parola che, nella pratica del dubbio che ci sforziamo di portare avanti, tende al contrario.

 

(Parentesi:

 con questo non si vuole aggiungere a una situazione irenica di completa assenza di conflitto, di illimitata possibilità di conciliazione della parola. I limiti della dialettica esistono:

 l'inconciliabilità dei fini e dei valori può esistere.

Ma allora, se i nostri discorsi su dialogo e valori democratici sono qualcosa di diverso da mera autosuggestione e mantra ininterrotto per la sublimazione della nostra dissonanza cognitiva, questa conflittualità dovrebbe essere assunta consapevolmente, ovvero attraverso un diverso uso della parola, tendente prima di tutto a dissipare la nebulosa ideologica che alimenta visioni manichee, confusione, odio.

 Se così non sarà, i valori democratici e i loro strumenti – fra cui un uso per così dire diplomatico, non militare della parola – saranno sempre più percepiti come armi e sotterfugi “da eunuchi” da una sempre più ampia fetta di popolazione, insoddisfatta o frustrata dai sistemi che di tali valori fanno la loro bandiera, parti di popolazione.

A cui parrà preferibile il l'autoritarismo “virile” e l'aperta assunzione della violenza dei regimi autoritari.

Ma è probabile che il regime di doppia verità delle democrazie capitaliste sia ormai troppo radicato per permettere loro una decisione presa di posizione, una chiara e seria assunzione delle contraddizioni:

 si tira dunque avanti col regime ipocrita e opaco della doppia verità come si può, navigando e bombardando a vista.)

 

"Quelle immagini che ti rappresentano spesso nel pensiero, quelle stesse cose daranno forma alla tua mente.

 La tua anima, infatti, si tinge delle che in essa si forma" (Marco Aurelio, V, 16). Questo uso della parola che ho definito militare tinge le nostre anime e le prepara, o le accoglie, alla guerra.

 

 

Si era partiti dalla difesa contro il Covid. Ricordare?

 I nostri paesi erano in guerra contro il virus e bisognava mobilitarsi in massa, armarsi per contrastarlo.

 E la parola diveniva un'arma fra le altre, anche se forse non proprio fra le altre, in quanto strumento essenziale per la determinazione e l'orientamento dell'opinione pubblica, quindi per assicurare la non diserzione e lo stato di mobilitazione ininterrotta della collettività.

Già al tempo del Covid era divenuto palese come la parola tornasse con foga a servire questo scopo.

E in tempi d'urgenza-emergenza, si sa, ogni forma di perplessità, ogni tentennamento, ogni rallentamento rispetto al ritmo imposto dallo stato d'eccezione, ogni sforzo volto a isolare ea mettere in luce una sfumatura e insomma: ogni opera di dubbio è altamente sospetta.

Ogni tentativo di intelligenza cade immediatamente in sospetto di intelligenza col nemico.

Per chi, come noi, tentava un altro uso della parola, nell'atmosfera della sua militarizzazione (e concomitante superfetazione della chiacchierata: perché, coi droni che ronzano e le bombe che uccidono, alzare il volume del bla blame di fondo fa bene per pensare ad altro, ovvero per non pensare) in tale atmosfera la scelta più ragionevole, forse anche e in parte la più facile e vigliacca, era il silenzio.

Λάθε βιώσας… vivi nascosti, è una massima che conosciamo e che sappiamo applicarsi tradizionalmente ai periodi in cui l'azione e la giustizia, anche solo quelle che luogo nella parola, sembrano precluse.

Con questo non parlare non abbiamo mai inteso ridurci alla bassa mistica del silenzio:

 consci del fatto che, mentre si è indotti a tacere, oltre alla chiacchierata – o in quanto amministratrici della chiacchierata – risuonino forti e chiare ben altre voci. Ma c'è un limite alle forze mentali o fisiche o di tempo, anche solo per quelle necessarie a chiarire possibili fraintesi emergenti dal fatto di parlare, di entrare in dialogo o in polemica, soprattutto se la percezione è quella che tali fraintesi sono intrattenuti – se non direttamente seminati – in cattiva fede, ovvero sapendo trattarsi di fraintesi, se non proprio menzogne, al fine d'alimentare l'equivoco e sfruttarne l'effetto nel pubblico di lettori o spettatori.

 

L'atmosfera di cui sopra dissemina fraintesi ovunque.

Ti accingi a scrivere.

Ti senti il ​​foglio sotto le mani – l'impressione è quella di un campo minato. Ogni parola fraintendibile è una mina, ogni passo in avanti richiederebbe infinito, sfiancanti, usuranti cautele.

Oltretutto, l'effetto non è per nulla assicurato… e le forze per combattere battaglie d'ideali non ci sono, non adesso.

E allora non ti muovi, non scrivi.

Aspetti che tornino le forze.

E le forze tornano, pian piano, anche solo nel condividere qualche parola senza ferocia, per il provvidenziale ascolto di qualche amico, anche solo nell'esprimere loro e condividere con loro il tuo sentimento d'impotenza, questo stato di confusione sbigottita e disperata, per il momento, forse solo per il momento…

Franco Fortini (1917-1994)

Come dicevo, se non scelgo di star zitto (molti me lo augurano) è perché a partire da due o dieci righe scritte per provare a se stesso di essere ancora vivo – o, come è stato detto, per «provare a se stesso di non essere inferiore a quelli che disprezzo» – può darsi un lettore avvenire possa essere indotto a praticare, piuttosto che altre righe del loro autore, i pensieri non firmati, i modi di essere e di assumere il mondo e se stessi, ai quali come a una patria righe queste alludono.

(F. Fortini, Extrema ratio).

 

 

 

 

La crisi della

cultura woke.

 Huffingtonpost.it – (14 Febbraio 2025) - Sarantis Thanopulos – ci dice:

 

La crisi della cultura woke.

Voleva mobilitare gli oppressi e la società civile per promuovere una politica di inclusione delle diversità.

Gradualmente è stata infiltrata dalla “cancel culture”, dal “politicamente corretto” e dall’ideologia del “genere”, che l’hanno resa petulante, intollerante e aggressiva nei confronti di ogni dissenso.

 

Il termine “woke” è stato usato con varie accezioni simili (“sveglio”, “all’erta”, “consapevole”), già a partire dal secolo scorso, dai movimenti americani di opposizione alle ingiustizie sociali e alle discriminazioni razziali e sessuali.

 Il suo uso rilevante più recente è stato fatto dal movimento “Black lives matter” (le vite dei neri contano) che è finito prigioniero di strumentalizzazioni, perdendo la sua forza propulsiva, ma è riuscito a scuotere, per un attimo, le coscienze.

 

La cultura woke voleva mobilitare gli oppressi e la società civile per promuovere una politica di inclusione delle diversità che è il fondamento di ogni democrazia. Gradualmente è stata infiltrata dalla “cancel culture”, dal “politicamente corretto” e dall’ideologia del “genere”. L’infiltrazione l’ha resa petulante, intollerante e aggressiva nei confronti di ogni dissenso e del pensiero critico in generale.          

Il wokismo ha commesso un errore serio di prospettiva interpretando l’inclusione in termini di aggiustamenti qui e là senza un progetto di superamento reale delle condizioni che favoriscono l’esclusione.

Un esempio significativo viene dall’Università di Princeton.

Per eliminare una discriminazione oggettiva, il vantaggio sociale dei ragazzi bianchi sui i ragazzi neri nell’apprendimento del greco e del latino che ne favorisce l’ingresso alle facoltà umanistiche, si è deciso di abolire la conoscenza delle lingue antiche come requisito per l’ammissione.

Senza rendere obbligatorio il loro apprendimento durante gli studi universitari.

Si è pensato semplicemente che gli studi classici si possono fare anche leggendo le fonti tradotte in inglese.

Questa inclusione con l’appiattimento dell’uguaglianza verso il basso non è una vera inclusione.

E non risolve affatto il problema dell’esclusione:

il privilegio negli studi liceali di cui tuttora godono gli studenti bianchi.

 

La “cancel culture” viene dallo stesso ottimismo della volontà slegato dalla ragionevolezza e dal buon senso.

Aspira a cancellare tutto quello che nelle testimonianze del passato -dai monumenti celebrativi ai testi a noi tramandati dagli antichi- è dalla parte dell’ingiustizia.

 La cancellazione fa di tutta l’erba un fascio.

Se a volte la rimozione di monumenti che esaltano le tirannie è sacrosanta, nella maggior parte dei casi le statue e gli edifici controversi sono intrinsecamente legati al gusto e alla cultura di un’epoca e fanno parte della nostra storia.

Questo è più evidente nei testi:

perfino “Mein Kampf” è significativo per comprendere ciò che siamo stati, ciò che, in parte, siamo tuttora e ciò che, in determinate condizioni, potremmo tornare a essere.

Cancellare poi le parole di Aristotele che difendono la schiavitù o il discorso misogino di Ippolito in Fedra, è insensato.

Nel primo caso trovano voce, in un pensiero potentemente critico, pregiudizi gravi (ancora presenti tra di noi in forme nuove e forse più insidiose) che mostrano come la giustizia avanza qui e cede là, che sia la buona sia la cattiva eredità vadano reinterpretate e trasformate.

Nel secondo la misoginia è inserita in un intreccio di prospettive, tuttora attuale, che mette a fuoco il conflitto tra la passione erotica della donna e l’autoreferenzialità del maschio.

 

Della “cancel culture” fa parte il “politicamente corretto”:

la convinzione che le parole siano cose.

 Sì pensa che epurando il linguaggio dalle “cattive” parole (veicolo di offesa e discriminazione) e usando al loro posto parole “buone” si creino buoni sentimenti e una buona realtà.

L’esperienza ci insegna che le buone parole non creano buoni sentimenti, ma ipocrisia, mentre le cattive parole (il politicamente scorretto) i cattivi sentimenti e il consenso alle cattive idee li creano eccome.

L’inseguimento della purezza, la pretesa che un ideale astratto prenda in mano la nostra vita e, ignorando il passato, determini il nostro presente e il nostro futuro, crea un fanatismo salvifico che è perdente.

 Quando l’“acqua santa” incontra il “diavolo” (Trump o chi per lui) ha la peggio sempre.

 

A tutto questo si è aggiunta l’ideologia del “genere”, creata dallo spostamento di una parte del “movimento LGBT “dalla difesa della libertà dei modi di vivere la propria identità e il proprio orientamento sessuali alla costruzione di identità astratte dalle relazioni erotiche.

 La deriva identitaria ha portato al movimento LGBTQIA+ (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali più “altro”):

 un accumulo di identità eterogenee non relazionate tra di loro in cui il + finale apre a un’espansione classificatoria senza fine, nella direzione della neutralizzazione dell’eros che la categoria “asessuali” indica.

La distorsione del concetto di “genere”, che nato per indicare l’influenza della società sui sessi e sulla sessualità ha finito per significare la percezione soggettiva dell’appartenenza a un’identità disincarnata, priva di corporeità, ha aperto la strada all’inseguimento del “terzo genere” (il neutro) o di altri generi fantomatici di cui nulla si sa.

Questo in nome della difesa dei transessuali in cui tuttavia il sesso psichico (la percezione soggettiva dell’identità sessuale) resta sempre ancorato all’essere “donna” o “uomo” e se si dissocia dal sesso biologico non è per restare incorporeo, ma perché si lega al corpo del sesso opposto.

 

Se l’inclusione non si prende cura delle differenze e della loro intesa (del modo con cui si relazionano tra di loro eroticamente, affettivamente e mentalmente), le identità si aggiungono l’una all’altra indifferentemente.

Gli attivisti “woke” pensano ai diritti in modo astratto dai desideri delle persone che, teoricamente, difendono.

Combattono la norma ingiusta con la norma giusta ignari del fatto che la norma è sempre un pensiero unico dettato dalla legge del più forte.

Il “pensiero unico” li considera, giustamente, come sua emanazione settaria e li combatte come eresia.  

 

 

 

Il wokismo, un brusco risveglio.

Laciviltacattolica.it – (6 luglio 2024) – Nelson Faria – ci dice:

Nato nelle università statunitensi, il wokismo è un movimento che negli ultimi anni ha acquistato grande risalto nello spazio pubblico. Ne sono segni l’onnipresenza di termini come «etero-normativo», «cisgender», «non binario», o l’atto di graffitare il termine «decolonizza» sulle statue di navigatori e politici.

 Il termine «wokismo» definisce coloro che si considerano «svegli» (dall’inglese woke), vale a dire militanti in allerta contro le ingiustizie che pervadono la società e contro la refrattarietà di questa alle riforme.

Il wokismo ritiene che la discriminazione contro le persone emarginate sia sistemica, cioè non limitata a manifestazioni isolate, e che quindi dobbiamo essere consapevoli delle strutture che opprimono gli individui in base al genere, al colore, all’orientamento sessuale, alla nazionalità o all’etnia.

 

A prima vista, il wokismo sembra un movimento di movimenti, che abbraccia e dà voce al femminismo e a tutte le minoranze nella società. Tuttavia, è molto più complesso e può essere considerato una vera e propria ideologia politica, che si richiama a diverse altre scuole di pensiero ed è caratterizzata da una grande propensione all’azione.

Avvolto nelle polemiche, per non dire che esso stesso è di per sé polemico, genera reazioni particolarmente avverse da parte di altri settori della società, che qui, in mancanza di un nome migliore, possono essere definite «anti-wokismo».

Entrambi gli elementi meritano uno sguardo attento e riflessivo, perché il loro incontro sfocia in un conflitto che genera una forte tensione sociale.

Questo articolo intende ripercorrere in breve il cammino della società verso la postmodernità, il momento che ha dato origine al wokismo, per poi presentare i fili con cui è intessuta la trama woke, le ripercussioni che genera e, infine, prospettare alcune indicazioni per un possibile futuro.

Il percorso fino a ieri.

Per migliaia di anni abbiamo vissuto in comunità sedentarie e agricole, in cui i ruoli sociali erano fissi e definiti:

c’era una rigida gerarchia, basata sul genere e sull’età, e tutti avevano sostanzialmente la stessa occupazione (lavorare la terra o prendersi cura della casa).

 I nostri antenati passavano per lo più tutta la vita nella città, nel paese o nel villaggio in cui erano nati, all’interno di una cerchia ristretta di amici e vicini, con cui condividevano la stessa religione e gli stessi miti e credenze.

La mobilità sociale era praticamente impossibile.

 Non c’era alcun pluralismo, né diversità, né scelta.

 

L’emergere di civiltà che abbracciavano popoli e territori diversi ha portato a esperienze epifenomeniche di positiva convivenza, soprattutto nei luoghi di commercio.

Tuttavia, è nel clima di relativa pace del “Basso Medioevo” che possiamo individuare il momento iniziale in cui le rigide strutture sociali vanno incontro a una scossa.

Le società infatti cominciano a crescere, e si assiste all’emergere di nuove classi sociali, sorte nell’ambito del libero commercio e delle università, il cui incontrarsi ispira la creazione di nuove tecnologie di navigazione.

I confini fra gli strati sociali cominciano a sfumare con la crescente influenza della borghesia e del mondo accademico, e dal XVI secolo in avanti i viaggi intercontinentali diventano normali e la stampa agevola la diffusione delle informazioni.

 

La Riforma protestante e le guerre di religione che ne seguirono, soprattutto nel XVII secolo, misero in crisi il ruolo unificante della fede cristiana, inducendo l’Occidente a trovare nella ragione e nella libertà individuale la risposta per garantire una sana convivenza tra le nazioni e le fazioni religiose.

 La Pace di Vestfalia (1648) aprì la strada all’Illuminismo, il Secolo dei Lumi (XVIII secolo), alla nascita di una mentalità eminentemente tecnica e di una preoccupazione per la condizione umana che segna l’origine dei diritti umani, i quali, pur essendo di ispirazione cristiana, fanno a meno del riferimento a Dio.

Con la Rivoluzione industriale si verificò una brusca accelerazione, sia nel campo della tecnologia sia nel miglioramento della qualità della vita.

Tuttavia, con le due guerre mondiali combattute nella prima metà del XX secolo, al disincanto dell’Occidente nei confronti della religione si è aggiunto quello nei confronti della ragione, che si era dimostrata capace di terribili atrocità.

 

Le rigidità e le certezze della modernità, che si sono rivelate altrettanto se non più distruttive delle convinzioni religiose del passato, hanno indotto a preferire sistemi aperti e flessibili.

Lentamente, la società comincia a frammentarsi, le istituzioni cominciano a essere viste con sospetto e l’identità inizia a forgiarsi secondo una forte distinzione tra il vero «io» di ogni persona e un mondo esterno di regole e norme sociali.

È la transizione dalla modernità, con la sua enfasi sulla ragione e sull’autonomia individuale, alla postmodernità.

 

È difficile classificare efficacemente la postmodernità, poiché essa è, per definizione, plastica e soggettiva:

nega la possibilità di una conoscenza oggettiva e sostiene che il linguaggio è solo uno strumento senza alcun legame con la realtà, manipolato da chi detiene il potere.

I potenti infatti creano metanarrazioni che, a seconda delle loro convenienze, cullano la società nella dolce pace di un sogno o inducono una frenesia di incubi permanenti;

pertanto, esse devono essere decostruite.

In una prospettiva postmoderna, tutto ciò che sperimentiamo, tutte le interazioni sociali, non sono altro che ricerca del potere.

Solo questo è reale.

La conoscenza, la verità, il significato e la moralità sono costrutti sociali, originati da singole culture, nessuna delle quali possiede gli strumenti o i concetti necessari per valutare le altre.

 

Ne segue che tutte le leggi sono state inventate affinché possano – e debbano – essere infrante.

Non abbiamo ereditato la moralità dai nostri antenati, e tantomeno ce l’ha comunicata una divinità.

Essa è stata costruita, e quindi può essere modellata.

E anche l’identità di ogni individuo si forgia in un gioco di forze culturali, sicché a ciascuno spetta plasmarne il significato.

Per il postmodernismo, nulla si crea, tutto si ricicla.

Esistono solo riproduzioni, e niente è originale o autentico: solo copie di copie di copie.

C’è solo superficie, non c’è profondità.

Non c’è un significato condiviso, ma solo un gioco che ruota attorno alla conquista del potere.

Quindi, quello che dobbiamo fare è partecipare al gioco, generando ironicamente entropia e divertendoci.

Se il sistema crolla, ne seguirà un altro, e ricominceremo il gioco.

 

I moventi del soggetto postmoderno sono la libertà, il piacere e l’inclinazione naturale.

Egli lavora con l’aspettativa di godersi i profitti del suo lavoro, ma non si attende di trarre soddisfazione da ciò che fa.

 Vive per il momento, senza aderire al piacere comune di lavorare per il benessere degli altri.

Anche quando si trova inserito in un’esperienza lavorativa gerarchica, è un imprenditore autonomo, responsabile di gestire la propria immagine pubblica in conformità con le aspettative di autorealizzazione della società, sicché diventa contemporaneamente padrone di sé e schiavo delle proprie aspettative.

 

Questo orizzonte infinito di possibilità entro un ristretto campo di riferimenti ha portato, come giustamente sottolinea “Byung-Chul Han”, all’esaurimento dell’individuo.

Di fronte al fallimento, la frustrazione viene vissuta individualmente come angoscia, e a sua volta contribuisce a originare una società stanca, dove prosperano la depressione e la sindrome del burnout. Paradossalmente, in una società in cui siamo finalmente liberi di essere chi vogliamo essere, o chi eravamo destinati a essere, finiamo per scoprire che la rottura dei legami sociali non si traduce in libertà, ma piuttosto in esaurimento.

 

La collettivizzazione dell’identità.

La solitudine a cui è stato costretto l’individuo postmoderno lo ha portato a riconoscere il bisogno di identificarsi con gli altri, di scoprire «chi è» nel contesto dell’appartenenza sociale, e di impegnarsi nei cambiamenti che ritiene necessari.

Questo lavoro di riparazione dei legami di appartenenza e di ri-creazione di un orizzonte morale è un’autocorrezione della postmodernità stessa, che così cerca di rimediare agli eccessi individualistici iniziali.

Questa ricerca di identità condivise ha trovato risposte, a destra e a sinistra, attorno alle categorie che la postmodernità ha lasciato intatte o ha rafforzato – razza, genere, orientamento sessuale –, o attorno alle categorie ultraresistenti di nazione, cultura e religione.

 In Europa, la centralità, nella sinistra politica, delle questioni legate agli emarginati a scapito di quelle di classe e il risorgere di pubbliche professioni di fede sovraniste e di discorsi isolazionisti, a destra, sono segni di polarizzazione identitaria.

 

Queste reazioni non sono nate nel vuoto, ma hanno avuto origine nella postmodernità.

Si sono concretizzate in due movimenti che oggi lottano per il predominio dell’attenzione sociale: il wokismo e i suoi detrattori, che chiamano «anti-wokismo».

 

Come sottolinea Philippe Forest, il termine «wokismo» designa quelle persone che si considerano «risvegliate», cioè capaci di riconoscere le relazioni di dominio e di discriminazione che permeano l’intera società, rispetto alle quali invece la maggioranza degli individui rimane addormentata.

Particolarmente militanti, i wokisti intendono eliminare tutte le forme e gli strumenti di oppressione in cui siamo intrappolati – anche se non ne siamo pienamente consapevoli –, principalmente intorno a categorie come razza, genere e orientamento sessuale.

 

Come abbiamo accennato, il wokismo è nato nelle università degli Stati Uniti.

È largamente debitore verso quella che è stata chiamata “French Theory,” che riunisce una serie di teorie filosofiche, letterarie e sociali postmoderne, in cui il concetto di decostruzione (Heidegger, Derrida) è centrale e la cui linea post-strutturalista è innegabile.

Senza alcuna pretesa di esaustività, possiamo dire che Baudrillard, Simone de Beauvoir, Deleuze, Foucault, Derrida, Lyotard, Kristeva e Wittig ne sono tra le figure principali.

 Oltre a costoro, quando si pensa al wokismo, un riferimento da tenere in considerazione è anche il post-colonialismo di “Frantz Fanon”.

 

Tuttavia, il wokismo riunisce altre influenze.

 “Matthew Petrusek”, in “Evangelization and Ideology”, lo definisce il «Frankenstein» delle ideologie politiche, perché in esso ritroviamo idee antagoniste e persino avversari classici, come il liberalismo e l’utilitarismo.

Sia gli autori di riferimento sia questi incontri imprevisti mostrano quanto sia evidente l’impronta della postmodernità sul wokismo. Cerchiamo allora di vedere il bricolage di idee che costituisce la matrice woke.

 

Tenendo conto della “visione identitaria collettiva” del wokismo, la presenza più sorprendente nel suo corpus di influenze è la visione liberale, marcatamente individualistica.

Tuttavia, il wokismo non esita ad appropriarsi del rifiuto kantiano della metafisica classica.

Kant sostiene che non è possibile conoscere gli oggetti trascendenti – per esempio, il bene – attraverso il puro esercizio della ragione, e perciò propone che il bene possa essere raggiunto attraverso un atto di volontà.

 Il liberalismo approfitta di questo rifiuto per sostenere l’emancipazione dell’individuo, fissando il suo limite nel rispetto degli altri.

A partire da un identico rifiuto della metafisica classica, il wokismo introduce la collettività al posto dell’individuo e sostituisce il rispetto per gli altri con l’affermazione che il dissentire dalla nozione di bene definita dal gruppo è oppressione.

 

Per quanto riguarda l’utilitarismo, il wokismo ne ripropone due caratteristiche:

 la nozione consequenzialista del bene e la dimostrazione pubblica della virtù.

 Riguardo alla prima, la visione utilitaristica sostiene che, per valutare la bontà di un atto, si debbano considerarne le conseguenze intenzionali e non intenzionali.

 Tuttavia, la massima utilitaristica «il maggior bene per il maggior numero di persone», interpretata alla luce del wokismo, autorizza la collettività a denunciare uno dei suoi membri quando non si conforma ai suoi interessi.

 E questa persona, anche se è nera, omosessuale o donna, e quindi ha una biografia segnata dall’oppressione e dal superamento degli ostacoli, nel momento in cui si discosta dalla narrazione ufficiale è considerata una traditrice.

 

Per quanto riguarda la dimostrazione pubblica della virtù (virtue signaling), essa deriva dal valore attribuito dall’utilitarismo a chiari segnali di adesione alle «buone idee».

 Il gesto permette di riconoscere coloro che professano gli stessi ideali e di classificarli come «brave persone». Inevitabilmente, chi non è d’accordo è molto più che una persona con un’opinione diversa: è una «persona cattiva».

 

La dimostrazione pubblica della virtù ha generato un fenomeno curioso: il capitalismo woke.

Molte multinazionali si sono impegnate ad associare i propri marchi al wokismo, sia per convinzione sia per puro interesse commerciale (Amazon, Apple, Google, Meta, Microsoft).

Ciò ha fatto piacere ai wokisti e ha suscitato grandi proteste da parte degli anti-wokisti, le cui reazioni hanno portato a campagne di cancellazione, come è accaduto per le società Disney, Ben & Jerry’s, Bud Light o Starbucks.

 

Questa breve descrizione dell’appropriazione del liberalismo e dell’utilitarismo ci permette di vedere chiaramente come il wokismo sia un prodotto postmoderno:

 esso nega la possibilità di una conoscenza oggettiva, afferma il costruttivismo culturale, proclama che le interazioni sociali si riducono alla ricerca e alla gestione del potere e, a questo proposito, riconosce il potere del linguaggio.

 

Proprio l’ossessione postmoderna per il linguaggio viene sfruttata al meglio dal wokismo nella semantica, non solo tramite la creazione di parole, ma anche ridefinendo concetti antichi.

Per esempio, nel vocabolario woke il «razzismo» non è un pregiudizio basato sulla razza di qualcuno, ma un sistema razziale che permea tutte le interazioni sociali, rimanendo invisibile, eccetto a coloro che lo sperimentano o a coloro che hanno familiarità con i suoi metodi e pertanto sono in grado di riconoscerlo.

Non tener conto della razza di qualcuno è considerato razzista.

 Tuttavia, stabilire che in un museo ci siano orari riservati in cui i bianchi non possono entrare, affinché diventi uno «spazio sicuro», come è accaduto allo “Zeche Zollern Museum di Dortmund”, è considerato antirazzista.

Chi si identifica con il sesso assegnatogli alla nascita è «cisgender»; ma un commento che può anche essere elogiativo, se viene rivolto a un membro di un gruppo emarginato e da costui viene interpretato come offensivo, è una micro aggressione.

 A ciò si aggiunge la questione dei pronomi preferiti – la libertà di ciascuno di scegliere il pronome con cui vuol essere chiamato –, il cui rispetto è obbligatorio.

La resistenza a riferirsi a qualcuno con il pronome da lui scelto, anche quando esso contrasta con il significato convenzionale di quello stesso pronome, è considerata oppressiva, un’azione illegittima.

 

L’impronta della postmodernità può essere vista anche nell’emergere di una serie di campi di studio incentrati sul genere e sulla razza, che mettono in pratica il postulato della negazione della conoscenza oggettiva e del linguaggio come qualcosa di manipolabile.

Se tutto è visto attraverso la lente dell’identità, sono necessari studi critici che tengano debitamente conto del contesto della persona.

 Il soggettivo è rivestito così di autorità, e il contesto diventa l’elemento determinante di ogni nostra azione, negando l’universalità della conoscenza.

 

Sempre all’interno della postmodernità, esiste una scuola di pensiero che merita particolare attenzione: il post-colonialismo.

L’obiettivo di questa corrente è indagare il modo in cui le nazioni occidentali non solo hanno colonizzato altre regioni del mondo, ma hanno anche creato il soggetto colonizzato.

 Poiché a queste ultime culture sono stati imposti parametri occidentali, anche dopo la decolonizzazione politica esse permangono sotto il giogo dell’Impero in un sentimento di inferiorità, che non tiene conto delle loro caratteristiche e ricchezze.

 

“Fanon” è l’autore di riferimento in questo campo di studi, e il wokismo ne riprende due tratti essenziali, trasformandoli.

Nell’inevitabile divisione tra colonizzatore e colonizzato il wokismo trova ispirazione per le ampie categorie che utilizza: oppressore e oppresso.

In secondo luogo, esso si assume il ruolo liberatorio attribuito da” Fanon” a coloro che, effettivamente, vedono la realtà secondo una visione messianica e in una prospettiva che si concretizza nella missione di educare le masse.

 

È importante distinguere la decolonizzazione «fanoniana» dalla resistenza non violenta di Gandhi o di Martin Luther King.

 La prima non disdegna la violenza o la distruzione della proprietà pubblica, e così legittima l’attivismo woke quando vandalizza statue di personaggi considerati rappresentativi dell’oppressione, per esempio Churchill nel Regno Unito o Jefferson negli Stati Uniti d’America. Soltanto un anacronismo ci consente di considerare questi personaggi come emblemi di disumanità.

 

Ma nel wokismo è presente un altro influsso, mai ipotizzato finché non l’ha chiamato in causa lo storico “Tom Holland”: il cristianesimo.

Nella sua opera “Dominion”, egli sostiene che in Occidente il cristianesimo ha ispirato tutti:

credenti, spirituali, agnostici, atei, anche coloro che non hanno pensato alla religione.

 Cristo ha dimostrato sulla croce qualcosa che ha irritato profondamente Nietzsche:

essere vittima è fonte di potere, e una persona sconfitta agli occhi del mondo ha la capacità di mobilitare le folle.

 

Che i disprezzati debbano essere ascoltati, che gli umiliati debbano essere esaltati, che gli ultimi siano i primi e che il destino dei potenti sia quello di essere deposti dai loro troni, sono tratti distintivi cristiani. Inevitabilmente, come in tutte le altre appropriazioni del wokismo, anche la proposta cristiana è stata rivista e reinterpretata, perdendo il suo carattere universale.

Ma, come afferma eloquentemente “Holland”, senza il cristianesimo nessuno si sarebbe «risvegliato» (woke).

Cercando di sintetizzare i segni più evidenti di altre correnti di pensiero nel wokismo, possiamo affermare che, attraverso il rifiuto liberale della metafisica classica, il gruppo identitario può definire ciò che è bene, e che grazie all’utilitarismo il sentimento prevale sull’argomentazione.

Generato nel calderone postmoderno, il wokismo si sente autorizzato a negare l’esistenza della verità oggettiva e, ancor più, a sostenere che il semplice disaccordo con questa affermazione è un difetto caratteriale e non soltanto una divergenza di idee, in una strana combinazione tra nichilismo etico, da un lato, e schiacciante certezza morale, dall’altro.

Ispirandosi a Fanon, il wokismo assume una posizione messianica e riduce gli agenti sociali alle categorie di oppressori-oppressi e, come figlio dell’Occidente, si appropria del tratto distintivo cristiano della centralità della vittima, attratto dal potere che vi risiede, deviandolo dalla sua tendenza all’universalità e chiudendolo nell’identità di gruppo.

 

Risulta evidente la complessità del wokismo che, nel denunciare l’ingiustizia, riunisce e abbraccia visioni e interessi contraddittori, o addirittura inconciliabili.

Questa tensione va oltre le idee, e la si può scorgere anche all’interno delle identità collettive.

 Il confronto tra le femministe e il movimento transgender riguardo alla partecipazione delle donne trans alle attività sportive, o il tentativo di cancellare “J. K. Rowling£ per aver sostenuto che la parola «donna» è inseparabile dalla biologia, sono testimonianze eloquenti delle difficoltà affrontate dal movimento woke.

 Ma la sfida diventa sempre più grande.

Effetto specchio.

Nell’ultimo decennio il movimento woke è stato così efficace da suscitare reazioni opposte, rafforzando l’anti-wokismo.

Da una parte e dall’altra si usa come fondamento la libertà di espressione, si giustifica il fervore come lotta per la verità e la giustizia, ed entrambi proclamano la propria superiorità morale.

 

Soprattutto negli Stati Uniti, le azioni degli attivisti woke hanno spinto a raggrupparsi coloro che si oppongono con fervore a misure quali cancellare o annullare determinate personalità; abbattere statue; richiedere l’accesso ai bagni pubblici in base al genere con cui la persona si identifica; censurare o correggere libri il cui linguaggio riflette l’oppressione sistemica; istituire lettori «sensibili» per individuare micro-aggressioni nelle opere prima che vengano pubblicate;

 la scelta dei pronomi; azioni di sensibilizzazione negli asili e nelle scuole primarie, in virtù del fatto che il sesso è considerato un costrutto sociale. In questo contesto di opposizione a tali misure sono già visibili iniziative contrarie: proteste, boicottaggi e proposte di legge che mirano a preservare la lingua, i bagni, i libri, i luoghi di lavoro e le scuole dai princìpi del wokismo.

Bisogna però riconoscere che l’anti wokismo è un movimento molto eterogeneo, perché l’unica cosa che accomuna diverse frange di destra e oppositori di tutto ciò che sembra abuso di potere da parte dello Stato è avere il wokismo come nemico comune.

 

L’anti wokismo è un wokismo allo specchio:

è una sorta di conservatorismo rivisto dalla postmodernità, che, abbeverandosi alla negazione della conoscenza oggettiva e della centralità del linguaggio, non rifugge da una certa creatività, diffondendo teorie cospirazioniste e usando arbitrariamente l’espressione fake news come un’arma per squalificare l’avversario. Presenta la sua visione diametralmente opposta della realtà come un fatto alternativo (alternative fact) che, in nome del pluralismo, non può essere messo a tacere.

La politica identitaria di destra ha acquistato nuovo slancio negli ultimi decenni, legandosi alla corrente politica che propende per la limitazione dei diritti agli stranieri, la difesa dell’affidamento delle posizioni di potere a cittadini e il recupero di un modello familiare caratterizzato dalla sottomissione delle donne.

Tuttavia, all’inizio del XXI secolo, nel diritto convenzionale esisteva un ampio consenso riguardo all’illegittimità della discriminazione basata sulla razza, sul sesso o sull’orientamento sessuale di una persona.

Anche tra i conservatori, difendere la «domesticità» delle donne o la soppressione dei diritti basata sul colore della pelle o sull’orientamento sessuale significava adottare una posizione radicale riservata ai ranghi dell’estrema destra.

 

Ci sono donne, membri delle minoranze e persone omosessuali che hanno rivendicato per anni, con gesti e semplici testimonianze di vita, il diritto di esercitare a pieno titolo la cittadinanza.

Hanno combattuto una lunga battaglia per convincere i settori più conservatori che non intendevano abolire la famiglia, l’eterosessualità, la mascolinità e il femminile.

Forse i risultati sono stati inferiori alle aspettative di molti, ma non c’è dubbio che si sia imboccata la strada verso una maggiore integrazione. È stato un lungo cammino, quello percorso dalla società, in un fragile equilibrio di rispetto e positiva convivenza.

 Troppo fragile, a quanto pare, perché in pochi anni è riemersa tutta una serie di pregiudizi.

Ed essendo inseparabile dal radicalismo woke, l’anti wokismo non scomparirebbe con la moderazione del wokismo, perché le sue radici sono più profonde.

 

Superare l’«impasse».

Il wokismo ha saputo innescare un dibattito pubblico necessario.

Dando voce a diversi gruppi emarginati nella società, si generano molte conversazioni su politiche e pratiche effettivamente inclusive.

Questo dibattito, però, non sembra poter contare sugli attivisti woke, dal momento che la loro apertura al dialogo o alla mera convivenza con altri punti di vista è ridotta, se non inesistente.

Ritroviamo la stessa tendenza, ma di segno opposto e ancora più categorica, nell’anti-wokismo, che pretende di piegare tutti alla propria visione di società ideale.

 

Sebbene il wokismo e l’antiwokismo si alimentino a vicenda, le ragioni della loro forza sono più profonde delle polemiche.

Entrambi cercano di rispondere a un bisogno umano di appartenenza che non può restare senza riscontro, in quanto è un bisogno creato dallo smembramento dell’orizzonte di senso che la postmodernità ha messo in moto.

Solo una riforma che li portasse a guardare oltre gli interessi delle identità che intendono proteggere consentirebbe loro di essere agenti costruttori – o ricostruttori – delle nostre società divise.

E questo lavoro è più che una riforma: è una ri-creazione.

Si possono nutrire legittimi dubbi circa l’effettiva disponibilità esistente all’interno del wokismo e dell’antiwokismo a una simile impresa.

Nel mondo in cui entrambi sono fioriti è diffusa un’incapacità a individuare desideri comuni, accompagnata dall’insensibilità verso coloro con cui si condivide uno spazio, ma non un’affinità identitaria.

Si sentono sempre più voci che chiedono inclusione e lottano contro la discriminazione, ma le orecchie disposte ad ascoltare sono poche.

 C’è una virulenza sostanzialmente emotiva per cui l’indignazione sembra un valore in sé, e mettere in discussione o non essere d’accordo con qualcuno è un atteggiamento discriminatorio o persecutorio.

Le sfumature di autoritarismo e puritanesimo presenti in questa pratica dovrebbero indurci a prestare particolare attenzione al fenomeno, perché la diversità di pensiero e il confronto «urbano» degli argomenti sono fondamentali in una società sana; le persone dovrebbero essere giudicate in base alle loro azioni e opinioni, non in base alla razza, al genere o all’etnia.

 

La difficoltà della situazione attuale dovrebbe indurci a formulare proposte che ci consentano di superare l’impasse.

“Forest” sostiene che tra wokismo e anti wokismo esiste un elemento comune che è sfuggito alla maggior parte dei loro interlocutori: l’interesse per la ricostruzione.

Entrambi sono insoddisfatti della situazione attuale e sostengono che è necessario ricostruire la società.

Tuttavia, come giustamente sottolinea Forest, la ricostruzione non sarà possibile finché la società rimarrà divisa tra l’affermazione di nuovi valori e la restaurazione ermetica dei valori precedenti.

Per evitare la minaccia crescente di una perenne e irrisolvibile guerra culturale, Forest sostiene che è necessario decostruire la decostruzione che ha portato il wokismo a cristallizzarsi, paradossalmente, nelle identità che intendeva decostruire, come la razza e il genere, e che ha generato la virulenta recrudescenza di antichi pregiudizi che ora sono affluiti nella retorica dell’anti wokismo.

 Non si tratta tanto di costruire un ponte o di conciliare posizioni che sono inconciliabili, ma di creare una terza via, in cui entrambe le posizioni siano ugualmente esposte alla critica.

 

Questa proposta è lodevole e dovrebbe essere presa in seria considerazione.

 Essa però non risponde al desiderio di appartenenza trasversale alla società che è all’origine di queste proposte identitarie.

 Una terza via il cui corpus non vada oltre la decostruzione critica e continua di due posizioni estreme non crea un orizzonte per la società nel suo insieme.

Avrà la sua utilità terapeutica, ma possiamo dubitare che contribuirà alla costruzione di un futuro condiviso: occorre qualcosa di più.

 

Il momento presente richiede due grandi riconciliazioni:

 quella tra identità e società;

e quella tra un passato condiviso, segnato dall’ingiustizia e dalla cooperazione, e un futuro in cui le identità possano fiorire e alimentarsi a vicenda.

La grande crisi del nostro tempo, più che economica, di sicurezza, finanziaria, religiosa o politica, è culturale.

Abbiamo difficoltà a intenderci riguardo ai valori comuni e alla buona condotta morale.

Le risposte identitarie a questo problema si sono rivelate insufficienti, perché sacrificano la possibilità di un orizzonte comune a favore di interessi particolari.

È necessario denunciare le discriminazioni ed è essenziale ascoltare la voce di coloro che sono emarginati.

Ma dobbiamo andare oltre le risposte identitarie: dobbiamo recuperare la società come corpo unico e plurale, e questo dovrebbe portarci a guardare alla nostra storia, perché è in risposta alla dispersione che è emersa la civiltà attuale.

La storia dell’Occidente, fatta di luci e ombre, è la storia della ricerca dell’umanità.

E ciò che accomuna gli esseri umani è la capacità di riconoscere e desiderare la verità, il bene, la bellezza e la giustizia.

 Il nostro anelito a questi valori va ben oltre il consenso e le convenzioni sociali, le ideologie, le cause e le religioni.

Sia in una visione ispirata alla metafisica sia in una visione ispirata al relativismo morale, questi valori sono come un’intuizione incancellabile alla quale wokismo e anti wokismo non possono sfuggire.

 

Riconosciamo che una definizione tassativa di questi valori è evasiva. Ma questa difficoltà non deve portarci ad assumere posizioni scettiche o ciniche, o a dare interpretazioni contestualizzate o circostanziali.

Nel costruire una società più giusta e inclusiva, dobbiamo denunciare la discriminazione e rifiutare di rispondervi sulla base di categorie identitarie, come il bene di un gruppo.

Proteggere un’identità specifica dall’oppressione non dovrebbe essere sinonimo di segmentazione della società.

È importante ricordare questo al wokismo e all’anti wokismo.

 

Una delle proposte più interessanti per rispondere alle sfide del nostro tempo è la cultura dell’incontro proposta da papa Francesco. Nell’enciclica Fratelli tutti viene delineata una tabella di marcia per generare questa cultura, ricordando che in un poliedro la confluenza di tutte le parti non cancella l’originalità di ciascuna di esse.

 Il Papa ci invita a correre il rischio di andare oltre l’individualismo o la diluizione in un soggetto collettivo uniforme.

Chiede che la diversità venga vista come ricchezza e non come minaccia, che si abbia fiducia nella possibilità di raggiungere l’unità in un’armonia pluriforme, che richiederà un dialogo costante.

Dobbiamo riconoscere, prontamente e senza ingenuità, che il dialogo comporterà sempre un conflitto, e che tuttavia il discorso non finisce qui, ma si apre a delineare un nuovo orizzonte futuro.

 

Nell’epoca in cui viviamo non possiamo cedere alla paura, anche quando essa si maschera da prudenza.

Abbiamo bisogno di coraggio, il coraggio di superare noi stessi e di trascendere i nostri interessi.

Questa è la sfida che vale la pena accettare, senza temere le diversità e i disaccordi, certi che è attraverso l’incontro, l’ascolto e il dialogo franco che potremo tracciare un cammino verso la pace sociale.  

 

 

 

 

Da dove nasce l’ideologia woke.

Marcelloveneziani.com - Marcello Veneziani – (01 Marzo 2025) – ci dice:

È più forte di loro.

 Prendete un partito, un giornale, un gruppo di pressione, un comitato intellettuale, un collettivo di qualunque natura orientato a sinistra, e prima o poi si costituirà in ufficio permessi e divieti, tribunale dell’inquisizione.

Dimenticherà di essere una parte, un partito rispetto al tutto e si sentirà super partes, stabilendo regole, osservanza e infrazioni.

Sarà cioè inevitabilmente risucchiato da quell’ideologia che viene riassunta con l’espressione woke.

In origine woke voleva dire essere svegli, poi è mutata in vigilanza – la famigerata vigilanza democratica – quindi è diventata sorveglianza.

 L’ideologia woke è di fatto un regime di sorveglianza che decide a chi rilasciare e a chi vietare i permessi di circolazione e a quali condizioni.

 

L’ideologia woke nasce come rivendicativa, in difesa di alcune minoranze maltrattate o non adeguatamente protette, e finisce come ideologia vendicativa, che si vendica con la realtà che non corrisponde al proprio codice ideologico.

Ideologia del risentimento, direbbe Nietzsche, ma non il vago e mellifluo risentimento verso la vita, la salute, la bellezza, la grandezza che Nietzsche imputava al cristianesimo e ai suoi eredi, come il socialismo.

Ma un’ideologia rancorosa che si esercita delegittimando, denunciando, punendo e censurando l’avversario.

Mentre di solito non accade l’inverso.

 

L’ideologia vendicativa è il titolo di un libretto anti-woke scritto da una sociologa e ricercatrice del” CNRS di Parigi”, “Nathalie Heinich,” pubblicato da” Gog”. I

l titolo originario in realtà declina il woke col nuovo totalitarismo; ma la sintesi “ideologia vendicativa” è abbastanza fedele al contenuto del testo.

L’ideologia woke è inevitabilmente un’ideologia per le minoranze destinate a restare minoranza; nessuna forza maggioritaria di un paese può mantenere quell’atteggiamento censorio, elitario, sprezzante e arrogante che è tipico di una minoranza che reputa di essere su un piano etico e cognitivo superiore rispetto agli altri.

Finché sarà woke la sinistra sarà minoranza astiosa in ogni paese;

potrà avere potere di veto, potere intimidatorio e ricattatorio, potrà combinarsi ad altre oligarchie e detenere il potere in spregio alla sovranità popolare e alla volontà reale della gente.

Ma non sarà mai l’espressione compiuta di una maggioranza.

Al catechismo woke c’è chi reagisce in modo combattivo, come annuncia Trump; c’è chi invece preferisce la tattica di acquattarsi, tacere e andare avanti senza opporsi, salvo che nei comizi, come finora ha fatto il governo Meloni.

Ma l’ideologia woke è un’emergenza per la democrazia, mette in pericolo la libertà e l’intelligenza, genera un clima di odio mentre professa di volerlo avversare.

 

Se sentite di una lezione all’università, di una conferenza, di un convegno o di una manifestazione autorizzata, di un testo censurato, di un autore negato, sapete già in partenza che a decretare l’ostracismo, lo stigma, il divieto è sempre quel ceto commissario e inquisitorio chiamato in breve woke.

Così come ogni qualvolta si vuole imporre un busto correttivo alla realtà e alla verità dei fatti, ogni volta che si vuol cancellare un evento, una statua, un personaggio dalla storia, dalla topografia, dalle vie e dalle piazze sapete già che sono loro, i sorveglianti della Woke, la polizia culturale in servizio in Occidente.

 Le vittime possono essere naturalmente la destra, ridefinita sempre nazifascista o al più reazionaria, ma anche semplicemente chi non si riconosce nel canone woke, non è di sinistra, o perfino lo è ma in modo libero e critico.

Che l’ideologia woke sia una mentalità radicata a sinistra lo dimostrano mille indizi: l’ultimo è una ricerca del dipartimento di scienze sociali e politiche della Bocconi sulle “polarizzazioni affettive”.

 In una relazione mista tra una figlia di sinistra e un fidanzato di destra o viceversa, i più infastiditi e intolleranti sono i famigliari di sinistra (oltre il 60% di votanti del Pd, quasi il 75% di votanti di sinistra e verdi), mentre la grande maggioranza delle famiglie di destra sarebbero molto più tolleranti.

 Insomma l’ideologia woke opera anche a uso domestico, in famiglia.

 

“Nathalie Heinich” fa un’attenta classificazione dei tratti significativi dell’ideologia woke che potremmo così riassumere:

impone un rapporto del tutto ideologizzato col mondo; confonde la descrizione con la prescrizione, la norma correttiva a cui adeguarsi; genera un’alleanza tra l’ideologia normativa e gli interessi commerciali; ignora il contesto e non vede la differenza tra la realtà e la finzione; applica criteri di valutazione del presente anche al passato; disprezza i diritti morali degli autori, fino a stravolgere le loro opere nella censura e bonifica dei testi; infine è fanatica, e ciò compendia il moralismo, la speculazione, l’ignoranza militante e arrogante, l’abuso dei testi e degli autori, il disprezzo per l’opera d’ingegno, la negazione della realtà.

Tutto questo dà vita a quello che l’autrice chiama totalitarismo woke.

 

Il wokismo inoltre irrigidisce l’appartenenza a comunità originarie; tanto è fluido nelle questioni sessuali e morali, quanto è rigido nelle identità di partenza, quelle etniche, razziali, “comunitarie”.

Chi è bianco, maschio, europeo e cristiano è già marchiato d’infamia nella sua identità, di cui può solo vergognarsi.

Nel cercare un precedente a questa faziosità totalitaria e ideologica, la ricercatrice francese non trova di meglio che ripescare il solito fascismo;

ma non ha bisogno di allontanarsi troppo nel tempo e nemmeno dal luogo in cui vive: tutto questo si sviluppò da Parigi in poi nel ’68.

Anche quando attribuisce al fascismo la definizione del “tutto è politica” non si rende conto che fu proprio il ’68 a lanciare lo slogan “il personale è politico”, e tutto ciò che è privato sconfina nel pubblico.

A voler invece rintracciare un archetipo storico, un precedente ideale e ideologico al “catechismo woke”, restando in Francia, basta rovesciare quel numero 68 e trovarne un altro: l’89, nel senso della Rivoluzione francese dei giacobini.

 

Giustamente la “Heinich” nota che stavolta l’ideologia woke è venuta fuori dall’America, anche se il seme ideologico è europeo;

 poi se la prende col femminismo ideologico e con la discriminazione mortificante delle quote rosa.

 E auspica l’uso attivo dell’ironia e dell’umorismo per sconfiggere l’arcigna ideologia woke che ne è totalmente priva.

 

Spiegando infine le ragioni del successo dell’ideologia woke, l’autrice sottolinea innanzitutto che è redditizio, arreca vantaggi a chi lo usa o lo serve. In secondo luogo nasce dalla paura: paura di stare dalla parte sbagliata e di subirne le conseguenze e paura di invecchiare, di restare cioè fermi al passato, tagliandosi fuori da ciò che è trendy.

 Sulla scia di “Hannah Arendt”, l’autrice nota che l’ubbidienza woke attecchisce anche perché i sistemi totalitari preferiscono la mancanza d’intelligenza e di creatività, perché dà maggiori garanzie di lealtà, cioè di conformismo.

 

Per la “Heinich” il woke capovolge virtù originarie in oppressione. E come esempi di virtù originarie cita l’ideale ugualitario della Rivoluzione francese e l’ideale comunista della rivoluzione bolscevica.

Non le sfiora il sospetto che quelle virtù, proprio perché irrealizzabili e utopistiche, contenevano già in sé le premesse per la loro involuzione totalitaria, tossica e sterminatrice.

Del resto, non c’è bisogno di fare congetture: basta vedere dove condusse il Terrore giacobino e poi il totalitarismo comunista ovunque si sia imposto nel mondo.

 No, l’ideologia woke non nasce dal nulla, anche se può produrlo.

(La Verità).

 

 

 

 

«FENOMENOLOGIA WOKE.

LA BRUTTEZZA AL POTERE».

 Inchiostronero.it - Roberto Pecchioli – (15 Febbraio 2024) – ci dice:

 

”L’ambiente circostante si adatta perfettamente all’umanità disfatta che vi deambula”.

Ci è capitato tra le mani un vecchio libro sulla condizione operaia.

 È un ricordo di papà, tipografo formato alla scuola salesiana.

Tra fotografie ingiallite e un pizzico di tenerezza per il mondo di ieri, una cosa ci è balzata agli occhi in modo lancinante:

la dignità personale, dell’abbigliamento, della postura, perfino dello sguardo, dei nostri genitori.

Gente povera, e tuttavia fiera, ordinata nel vestire, portatrice di un decoro e di un ordine, esteriore e interiore, che abbiamo smarrito.

Il paragone con il presente è devastante e chi scrive, giunto alla soglia dell’età grave, compiange i più giovani, destinati a convivere con la decadenza.

L’immondo mondo contemporaneo è tale da molti punti di vista e il moto verso il basso diventa più rapido.

Negli ultimi anni il radicalismo woke dei “risvegliati” ha deformato tutto.

 Si è imposta la bruttezza, diventata programma di vita.

Ovvia conclusione di un processo di decostruzione del reale, negazione e cancellazione che ha destituito di senso l’esistenza.

Non più viandanti, ma nomadi senza meta, senza centro, senza bagaglio.

 La chiamano – orgogliosamente-autonomia del soggetto.

 Il risultato è una sciatteria visibile sin nell’andatura e nella postura, in un abbigliamento fatto di calzoni laceri, magliette con immagini orrende o paurose, scritte – rigorosamente in inglese- volgari o stupide.

 

L’ambiente circostante si adatta perfettamente all’umanità disfatta che vi deambula:

edifici brutti, parallelepipedi, cubi di vario colore o di nessun colore, muri e treni imbrattati da ogni genere di ghirigoro, arte di strada, street art, dicono, poiché parole e concetti devono essere biascicati in globish. 

Naturale che idee e visioni del mondo siano quelle che sono.

 Esiste una vera e propria fenomenologia del “quinto stato”, la plebe (come chiamarla diversamente?) a modello unificato, progressista, woke, individualista, tatuata e involgarita.

 I più sciocchi arrivano a lordare o distruggere l’arte per motivi “ambientali”.

La prevalenza del cretino diventa dittatura e infine nichilismo.

 

Secondo la mentalità corrente, nulla fonda l’ordine delle cose.

Anzi, non esiste un ordine delle cose.

 Nulla sostiene il vero, il bello, il buono.

Non è questa la sede per delinearne le origini ideologiche, le fonti “culturali”.  Tuttavia, la riconfigurazione antropologica è avvenuta con una precisa regia, il cui esito è l’anomia, l’assenza di norme, il pericolo da cui metteva in guardia “Emile Durkheim”, padre della sociologia.

Un’anomia rivendicata, ostentata come un trofeo, la vittoria del Nulla.

Per “Foucault”, “la norma ultima è la norma dell’assenza di norme, la norma dell’anormale”.

 

Per la prima volta nella storia l’anormalità fonda la normalità.

 “L’anormale, il deviante si trasformano in pietra angolare del mondo.

In tutti i campi.

 Anche in quello dell’arte convertita in non arte, nella quale la bruttezza e l’insignificanza si trasformano nel pilastro che, non si sa perché, si continua a chiamare bellezza.

 Anche nel campo della sessualità (o del genere) ciò che cercano di imporre come norma è l’anormalità della transessualità e dell’omosessualità, che non è né può costituire la norma, la direttrice”. (Rùiz Portella).

 

Ecco il motivo per cui il pazzo, il prigioniero, il “dannato della terra” di “Frantz Fanon” – il deviante che nell’ ideologia di genere prende la forma del transessuale – costituiscono il paradigma rovesciato del buono e del bello, del giusto e del vero.

Contrariamente alle apparenze, nonostante quanto fanno credere i nichilisti che tutto revocano in dubbio e tutto demoliscono, quel che cercano di imporci non è il Nulla di una “libertà” liquida, dissolta nella sabbia.

L’obiettivo è l’imposizione di un ordine più duro di tutti gli ordini del passato. Nonostante le apparenze, il “regime liberal libertario” è ferocemente dispotico, fondato sulla pretesa di fondare il mondo sull’assenza di qualunque principio diverso dalla libertà “assoluta”, sciolta da vincoli e limiti.

 L’ ingannevole, falsa libertà che sbocca inevitabilmente nella norma dell’anormale.

 

La fenomenologia – finanche la fisiognomica- dell’universo woke è il trionfo del brutto, del deforme, del bizzarro, dell’assurdo e dell’invertito.

Nel momento in cui si ergono a norma l’anormale e il deviante, avviene qualcosa di mai visto nella storia.

Quando si stabilisce il criterio delirante per cui la base del normale è l’anormale, della saggezza la follia e della bellezza la bruttezza, franano le più elementari basi dell’esistenza.

 

La bruttezza, appunto. E la bruttura.

Non si è mai vista gente così ostentatamente e politicamente brutta.

Il motivo?

Per loro – per chi li comanda e indottrina- la bruttezza è un progetto politico, esibita come la bandiera nera dei pirati.

 Il simbolo di chi non ha bandiera e vive per calpestarle tutte. 

Scrive “François Bousquet “che negli Stati Uniti- cratere e motore dell’Impero del Rovescio- “la bruttezza è progredita in maniera spettacolare, soprattutto da quando il “wokismo” si è trasformato nella “religione dello Stato”.

“Gli woke, risvegliati narcotizzati, drogati del Nulla, vogliono cancellare tutto, annullare tutto, abolire tutto.

Per Bousquet l’ideologia woke è l’unione “del signor Brutto e della signorina Brutta; tuttavia, poiché gli woke sono assai suscettibili con la storia della non binarietà, è meglio ricorrere alla scrittura inclusiva, così diciamo che costituiscono il matrimonio de* Signor* Brutt*.

 

Non hanno bisogno di esporre il loro programma:

 lo portano sulla faccia come una provocazione a madre natura.

 Basta guardare le fotografie, imbattersi in una loro manifestazione, trovarsi in un locale da loro frequentato per avere davanti agli occhi un museo degli orrori. Brutti, generalmente sporchi (lavarsi poco è un nuovo comandamento ambientalista…) cattivi o incattiviti, aggressivi.

Qualcuno somiglia alle zucche di Halloween, a cui abituano fin da bambini. Molti esibiscono tratti androgini uniti a trascuratezza fisica e comportamentale.

 

Trionfano i capelli tinti in colori innaturali:

verde sgargiante, rosa fluorescente, arancione, il viola cupo della rabbia rancorosa di cui sono intrisi.

Fanno pensare alla maschera del “Joker”, il personaggio dei “fumetti di Batman” dalla risata isterica e dalle orrende smorfie, ai protagonisti grotteschi degli spettacoli itineranti di una volta, la donna cannone, quella barbuta o il Mangiafuoco di Pinocchio.

Nulla a che vedere con la selvaggia dignità di “Queequeg”, il ramponiere di Moby Dick, gigante tatuato figlio di un capo tribù che ha abbandonato la sua gente per visitare il mondo, inseparabile da “Yojo”, un piccolo idolo che venera come una divinità.

 

Biancaneve 1 - Biancaneve 2 - Disney Lgbt gay.

Nella nuova versione della fiaba di Biancaneve – odiata da “Paola Cortellesi”, “ultima icona progre” – la matrigna ha preso il potere e non domanda più allo specchio se è la più bella.

 “Specchio delle mie brame, dimmi, chi è la più brutta del reame?”

Biancaneve stessa verrà presto proibita.

È bianca, etero, il principe che la bacia non le chiede il permesso ed entrambi – brrr…- sono bellissimi.

Quello che l’animo woke vuol distruggere è l’ultima diga della disuguaglianza: la bellezza.

Perciò assistiamo alla decostruzione della bellezza, alla sua delegittimazione e profanazione.

Percepiscono la bellezza come aggressione e offesa.

Quel che l’”uomo Zero punto Zero” deve ritenere stimabile è l’avvilimento della sua natura sino alla degradazione.

 

Forse la vera lotta di classe non è tra ricchi e poveri, ma la millenaria guerra che conducono i poetici, i raffinati, i signorili e cavallereschi contro la classe dominante dei rozzi e dei volgari;

 la guerra dei cavalieri contro i porcari; la lotta tra chi regge le colonne del tempio e chi le profana e le distrugge.

Esageriamo? No, ci limitiamo a osservare un fenomeno di bruttezza, degrado, decomposizione che si svolge sotto i nostri occhi e cambia il panorama circostante.

 

La fenomenologia woke, insieme con la bruttezza, ha a che fare con l’aggressività e con un attivismo rozzo, triviale, nemico del confronto, che investe ogni condotta sociale, privata e pubblica.

Ai lineamenti fisici descritti sembrano corrispondere certi tratti comportamentali, una specifica tipologia psichica.

Woke si diventa, prede del virus mentale del “risveglio” che resetta e riconfigura corpo e anima.

La specificità più comune è la petulanza, assoluta, indistruttibile, spocchiosa nei confronti di tutte le opinioni contrarie.

Dalla petulanza scaturisce l’assenza di messa in discussione personale, di dialogo interiore.

 Nessun indizio che la persona woke tenti di comprendere chi non lo è.

 Ciò genera una collera perpetua che porta alla lite, all’ostilità manifestata in ogni modo in qualunque occasione.

Comune è l’attitudine a tagliare i ponti con amici e familiari di diversa opinione.

 

Regna il disprezzo per ogni ipotesi trascendente, accompagnata da un nichilismo greve, convinto che tutto sia inutile, insensato, un atteggiamento esposto con una presunzione ricoperta di superiorità.

Gli woke sono portati a negare o distorcere ogni verità; nella discussione- quando si abbassano ad essa- esauriti gli argomenti, passano facilmente all’attacco personale.

 L’odio per il passato assume tratti patologici.

Il tutto è attraversato dall’ egocentrismo tipico di chi è convinto di possedere la verità.

 In realtà, è spesso sintomo di ansia e bassa autostima, effetto della vertigine nichilista.

Il degrado che conduce all’assenza di direzione prima, all’ insensatezza generalizzata poi, ha bisogno di essere colmato in qualche maniera, per non affondare completamente.

 Di qui la persistenza delle apparenze democratiche, la rivendicazione di libertà astratte, una volontà di potenza rovesciata (volontà di impotenza!) imperniata sull’odio di sé, la cancellazione di ogni passato, il rancore verso l’eccellenza e la bellezza, paragoni insostenibili, odiosi e odiati.

Nel marasma dell’anomia, della fluidità diventata gassosa, nella guerra di tutti contro tutti, al di sopra della bruttezza fisica e interiore dell’universo woke, tutto è sovrastato dalla legge del più forte.

È una giungla dominata da un unico padrone, il denaro.

 

Quel mondo dissennato e privo di centro gioca con carte truccate.

È l’inganno non visto, o peggio, accettato, che porta a precipitarsi nel burrone costruito da chi dirige il gioco sulla testa di generazioni inconsapevoli.

Padroni ideologici e padroni oligarchici.

Il programma della bruttezza, il paradigma della volgarità, la tensione verso la cancellazione, la fascinazione vertiginosa nei confronti dell’abisso, rendono vittime troppi ingenui. 

Vittime innanzitutto di sé stessi, ovviamente.

 

L’indeterminazione, il mondo al contrario, non possono reggere. La logica delle cose non è di liquefarsi, cancellarsi come si cancella un disegno di sabbia sulla riva del mare.

Le cose sono, esistono: piene, radiose di senso e avvolte nel mistero:

 in quella congiunzione di luce e oscurità senza la quale non ci sarebbe né mondo, né essere, né bellezza, né arte, né senso.

All’orribile generazione woke chiediamo di non soggiacere all’inganno che li avvolge.

 Cancellare tutto, fare tabula rasa, giudicare tutto con il mutevole metro dell’oggi, vi rende oggetti alla deriva.

 Il pensiero negativo figlio del grande rifiuto prescritto da “Herbert Marcuse” (che forse nemmeno conoscete poiché anch’egli è figlio di ieri) conduce in mille vicoli ciechi.

Li state percorrendo tutti: l’odio di voi stessi, le dipendenze, l’incapacità di credere in qualcosa, l’avversione per chi ha fede in una causa o in un sistema di valori, il consumo di voi stessi che deforma, l’ansia che fa alzare ogni giorno l’asticella dei desideri per celare il vuoto che divora, occupa la vita e rende schiavi.

 Il brutto è una croce, non un programma.

 

 

 

Come nasce la follia

dell’ideologia woke.

 Culturaidentita.it - Francesco Erario – (02 Gennaio 2025) – ci dice:

 

Una ideologia che ha strumentalizzato perfino i colori dell’arcobaleno.

 Il woke, figlio della Scuola di Francoforte e del Decostruzionismo, è una minaccia alla nostra cultura e identità e soprattutto alla libertà.

Con la svolta negli USA, però, possiamo batterlo.

Che il nuovo millennio, diretta prosecuzione del secolo breve, non dovesse essere da meno di quest’ultimo in termini di impatto sulla società, lo si poteva intuire facilmente.

Già dall’attesa per quella vigilia di capodanno 1999/2000, segnata dal timore di un disastro globale ad opera del fantomatico millennium bug – risoltasi poi in un altrettanto globale bolla di sapone – si capiva che il mondo avrebbe continuato ad accelerare sulla strada infinita dell’innovazione tecnica, della digitalizzazione del mondo, della società e dell’essere umano.

E infatti, dispositivi ogni giorno più piccoli e potenti, connessioni e schermi sempre più pervasivi ed una spinta al consumo mai vista prima, non potevano non avere una ricaduta sulla vita dell’uomo-individuo e animale sociale.

Eppure, nonostante “McLuhan” ci avesse ampiamente preparati a quel villaggio globale che tutto inghiotte e controlla, si è convinti che davvero in pochi hanno previsto che nel terzo millennio «spade sarebbero state sguainate per dimostrare» che i cromosomi XX ed XY dividono in due gruppi gli esseri umani.

 Ma la realtà dei nostri giorni è riuscita a stupire – quasi – tutti, in quella parte di mondo che comprende la cara Vecchia Europa ed i resti di quella che fu la talassocrazia britannica, e cioè quell’Occidente sempre sull’orlo del baratro, insidiato da tutti, a partire da sé stesso.

Si è detto quasi tutti perché quantomeno i risvegliati, gli woke, protagonisti del tentativo di rivoluzione in atto, saranno stati ben coscienti di dove si sarebbe giunti, proprio a causa del loro agire nelle istituzioni culturali e nei centri di potere sparsi nella suddetta porzione di mondo.

Ma cos’è, quindi, il wokeismo?

E dove siamo arrivati?

 

La via più semplice per tentare di rispondere alla prima di queste due domande è quella di guardare agli elementi teorici che costituiscono questo multiforme e disorganico campo di attivismo politico, tradottosi fin da subito in cieca ideologia.

 In questa prospettiva, gli Studi Culturali e gli Studi Postcoloniali, gli Studi di Genere e la Teoria Critica della Razza rappresentano le principali ramificazioni di quella pianta malata, seminata e coltivata principalmente da postmodernisti e francofortesi.

 È in questi ambienti ideologici marxisti del ‘900, infatti, che il wokeismo attinge per le proprie sempre nuove battaglie, il cui scopo ultimo è quello di abbattere l’ordinamento sociale e politico che – tra l’altro – ha permesso ad esso di crescere e prosperare.

 Il ragionamento logico, scientifico e razionale che è stato per secoli considerato il lume che avrebbe guidato il cammino dell’umanità, viene invece oggi attaccato e svilito in ogni modo possibile proprio da quelli che, ironia della sorte, sono a tutti gli effetti i nipoti di quell’ammaliante visione.

Un modo infido e molto efficace per minare le strutture sociali, politiche e non da ultimo economiche occidentali, declinate opportunisticamente come un’unica malefica macchina dedita a «dominare» questa o quella «minoranza marginalizzata».

 

Per capire a che punto si è giunti, invece, bisogna guardare al risultato delle ultime elezioni presidenziali statunitensi, per capire quanto in profondità gli attivisti woke siano riusciti a portare il loro attacco alla società.

In questo senso, la rielezione di Donald Trump rappresenta sì una felice e attesa risposta di buon senso della società USA, ma si configura anche come la maggiore prova di quanto l’attacco sia giunto al cuore della «macchina» da distruggere:

la Presidenza degli Stati Uniti d’America.

 L’esito delle urne evidenzia infatti come una grandissima parte degli americani non abbia avuto timore a votare per un candidato, la “Harris”, che dichiaratamente aveva nel suo programma la prosecuzione di quel processo disgregativo dell’identità statunitense in atto da circa vent’anni, ovvero la “cancel culture”.

Un processo costruito in primis attraverso la decostruzione e la ri-significazione della storia degli Stati Uniti, non più «terra dei liberi», ma raccontata come terra di usurpatori che hanno costruito una nazione sullo sfruttamento dell’altro.

Inutile sottolineare quanto questo artificio narrativo sia, appunto, un artificio strumentale, che può essere utilizzato per qualsiasi nazione o civiltà, dall’Islanda di oggi alla Persia del V secolo a.C., dalla Cina comunista al Califfato Omayyade, e ovviamente all’Antica Roma.

Ma non c’è da stupirsi se cinquant’anni di proselitismo e propaganda, via via più intensi e serrati, siano riusciti a penetrare nel profondo del comune sentire di tanti americani, ormai convintamente woke al punto di desiderare che i bianchi non facciano più figli e fare attiva propaganda in tal senso, o di conferire quote del proprio reddito alla minoranza di turno, e ciò per espiare la «colpa» di aver avuto antenati europei.

A ben guardare, questo meccanismo diventa ancor più perverso nella sua efficacia soprattutto su giovani e giovanissimi, meglio ancora se bianchi e benestanti, principale bacino da cui il wokeismo recluta sempre nuovi alleati, preziosi più degli altri proprio perché bianchi e benestanti, quindi in grado di causare enormi danni dall’interno di quel sistema simbolico che essi – agli occhi woke – incarnano.

 Ed è sicuramente anche questo che ha contribuito alla discesa in campo dell’altro grande protagonista della vittoria elettorale di Trump: Elon Musk.

L’imprenditore più ricco del mondo aveva nella tutela delle sue imprese e dei suoi progetti già sufficienti ragioni per scegliere di appoggiare uno dei due contendenti, come del resto hanno sempre fatto e sempre faranno tutti gli influenti uomini d’affari in USA ed in ogni altra parte del mondo.

Ma nel caso di Musk e di queste elezioni un’importante motivazione è da ricercarsi nella lotta a quel «virus woke», che come egli stesso ha raccontato su X avrebbe contagiato suo figlio Xavier, divenuto poi “Vivian Jenna”, e che oggi dichiara di voler abbandonare i nuovi, minacciosi e pericolosi, Stati Uniti trumpiani.

E se neanche un uomo dalle possibilità praticamente infinite come Elon Musk non è riuscito ad evitare che suo figlio venisse risucchiato dal vortice autodistruttivo del wokeismo, allora diventa chiaro a tutti del punto a cui si è giunti.

 In questo senso il “transfemminismo lgbtqai+” è forse l’arma rivelatasi nel tempo più micidiale, con una capacità impressionante di infiltrazione in ogni ambito della vita pubblica e privata, arrivata a presidiare e controllare le diverse anime della sinistra americana (e per riflesso, di noi province dell’Impero…), da quelle più radical a quelle più glamour, e che sopprime ogni voce interna dissidente o semplicemente critica.

 

Non sappiamo se Trump e Musk riusciranno a rivestire i panni di quel “katécon” che tanto serve a rallentare la corsa di questo “monstrum”, finora rivelatosi quasi inarrestabile.

Un “monstrum” vestito subdolamente dei colori dell’arcobaleno, dietro cui si cela una strategia sovversiva e rivoluzionaria.

Nemmeno possiamo dire, in realtà, se effettivamente intenderanno provarci davvero.

 

Sappiamo però che la richiesta della maggioranza degli americani è chiara, e si inserisce nella scia di altre e recenti tornate elettorali in Italia ed in Europa, e che gli elettori si aspettano che venga combattuta e possibilmente portata a termine.

Ma sappiamo anche che battersi contro il wokeismo significa difendere il diritto di affermare la verità senza avere paura di perdere il posto di lavoro per colpa della “cancel culture”.

Significa difendere i propri valori senza rischiare il blocco dei conti in banca come nell’ultra-woke Canada di Trudeau.

Vuol dire poter esprimere contrarietà alle politiche del governo sui social senza vedere la polizia bussare alla porta per un tweet come nel Regno Unito di Starmer.

Vuol dire poter difendere i propri figli dal plagio arcobaleno che approfittando dei turbamenti adolescenziali vuole spingerli a prendere ormoni o a storpiarsi chirurgicamente senza rischiare di vedersi cancellata la patria potestà, come nella California di “Newsom”.

 Vuol dire affermare il proprio diritto a essere orgogliosi di radici, passato, cultura e identità senza essere accusati d’essere «suprematisti».

 In altre parole, è ciò che tutti i patrioti hanno fatto fin dall’Ottocento: combattere per la verità e la libertà.

Una battaglia che deve essere vinta.

 

 

 

 

Il sentimento dell’odio, quintessenza

del progressismo woke.

Identitario.org – (Apr. 17, 2024) – Roberto Giacomelli – ci dice:

 

 

Ciò di cui si parla di più spesso è quello che si vuole esorcizzare, perché turba e spaventa, qualcosa di alieno e potente che attrae inconsciamente.

L’odio, nella società dell’inclusione forzata e della tolleranza obbligata, è rimosso e vietato a chi non partecipa al banchetto del potere.

Non si deve odiare nessuna delle minoranze protette, ma è permesso e incoraggiato l’odio più bieco contro chi si oppone alla narrazione dominante.

 Le strette regole del Pensiero Unico, della cultura woke e del buonismo non ammettono trasgressioni al divieto di odiare, come se si potesse reprimere un sentimento che scaturisce dal profondo.

Sentimento nobile e forte, opposto polare dell’amore con il quale condivide la passione, il desiderio di possesso o distruzione dell’oggetto amato o odiato.

Figlio di Thanatos, la pulsione di morte, spinge al proprio annientamento e a quello altrui, così come Eros è la pulsione di vita, della libido e della conservazione di sé.

Lo psicoanalista tedesco “Erich Fromm” ha identificato l’”Odio Reattivo”, nato da una ferita profonda che produce impotenza, diagnosi perfetta per i traditori del socialismo.

Passare dalla difesa dei popoli a quella dei suoi persecutori ha determinato un trauma psichico, provocando l’esaurimento di ogni spinta rivoluzionaria.

Il senso di colpa che divora chi ha tradito scatena l’odio, espressione della rabbia verso chi li ha sostituiti nelle lotte sociali e si batte contro la dittatura della democrazia autoritaria.

 

Cancel culture.

L’ipocrisia regnante nella società, sfidando logica e senso della realtà, impone un assurdo divieto che dovrebbe annullare l’ostilità e l’avversione presenti nell’animo umano.

Come tutte le regole che si rispettano anche questa ha la sua buona eccezione, l’odio verso tutto ciò che esula dalla coercitiva visione dei buoni è ammesso senza riserve.

L’odio che le forze della globalizzazione riversano sul nemico è dato da un meccanismo di proiezione di contenuti rimossi e nascosti nell’Ombra, serbatoio psichico dell’impresentabile.

Invidia per la coerenza ed il coraggio, rabbia e frustrazione di chi ha tradito ogni ideale per svendersi al miglior offerente, insofferenza per chi non sostituisce la realtà con la fantasia.

 

La paura dell’avversario politico scatena l’aggressività che sfocia in violenza fisica, in persecuzioni, assalti a sedi di partito, calunnie e diffamazione.

“Agitatori antifascisti in assenza di fascisti “organizzano spedizioni punitive all’estero per aggredire militanti identitari che manifestano pacificamente, dimostrando una pulsione violenta patologica.

Nessuna persona equilibrata sfonderebbe a martellate il cranio a degli sconosciuti se non soffre di disagio mentale.

Questi eroi che attaccano a sprangate in dieci contro uno un avversario disarmato, come nei famigerati “anni di piombo”, sono paranoici in preda al delirio di onnipotenza.

Si sentono in potere di punire a loro piacimento chi pensa diversamente da loro e pretendono arrogantemente di non essere puniti per la loro assurda violenza.

 Colpiscono a sangue freddo senza coscienza del danno che possono infliggere, soggetti privi di ogni regola morale, del senso di umanità.

 

La violenza immotivata è tutto ciò che rimane agli orfani di brigatisti rossi, ai terroristi che alle dinamiche del confronto ideologico preferiscono la sopraffazione fisica.

 In mancanza di idee trainanti, di visioni alternative al consumismo, di programmi condivisi, l’unico collante che tiene unite forze tra loro diverse e distanti come partiti centristi conservatori e gruppi rivoluzionari con il permesso del Sistema, è l’antifascismo.

A più di cento anni dalla fondazione dei “Fasci di Combattimento “negli anni ’20 del Novecento e della “scomparsa del Regime alla fine della Seconda Guerra Mondiale”, gli antifascisti si accaniscono ancora contro un fantasma tenuto in vita artificialmente per avere un nemico.

 

La sconcertante storia di “Ilaria Salis” - Jean-Baptiste Chastand                         - Internazionale.

 

La “costruzione del nemico”, dinamica studiata in psicologia sociale, è la forma attuale ed aggiornata del capro espiatorio, che nell’antichità permetteva di convogliare malcontento e rabbia verso una vittima indifesa.

Da un punto di vista storico è impossibile rivitalizzare ciò che deve essere consegnato alla Storia, che si fa con documenti e monumenti con i quali si scrive la storiografia.

“La Storia si ripete sempre due volte:

la prima come tragedia, la seconda come farsa”, l’aforisma attribuito a Marx fotografa spietatamente la situazione attuale.

La farsa è solo ridicola, la tragedia ha luci e ombre nella la sua grandezza, mentre la falsificazione è patetica e l’Antifascismo fuori tempo massimo è palesemente una farsa.

Sarebbe interessante chiedere agli “anti fa” del terzo millennio dove si annidano le camice e nere con fez e stivali, dove vedono corporazioni del lavoro, bonifiche di zone paludose e la lira a quota novanta.

Se mai hanno sentito parlare di queste opere politiche e civili, le hanno certamente dimenticate.

 

Le caratteristiche antropologiche e culturali del ventennio demonizzato non si ritrovano nei partiti liberalconservatori e nei Governi che esprimono, che di sociale e nazionale non hanno nulla.

Tutti i Partiti si definiscono democratici e mercatisti, cloni di quelli statunitensi che con le Rivoluzioni Nazionali del ‘900 non hanno nulla da spartire.

L’odio sociale serve a consolidare il gruppo, a dare una motivazione politica a chi non si riconosce più in nulla, se non in una sterile lotta a qualcosa che non c’è.

Questa dinamica politica rientra nella tecnica di manipolazione utilizzata per imporre il controllo e fare accettare le peggiori falsificazioni della realtà.

Il monopolio dell’odio è l’ennesima prevaricazione delle forze conservatrici, una pericolosa mistificazione per coprire malefatte e bugie.

Meglio essere odiati che provocare indifferenza come la Sinistra immaginaria che deve inventare uno spauracchio inesistente per avere una ragione di essere.

 

 

 

 

The woke religion:

new inquisition?

 Filodiritto.com – (10 Aprile 2024) – Maria Elena Ruggiano – ci dice:

 

Situato tra libertà di pensiero e imposizione ideologica, con caratteri analoghi ad una religione Rivelata, si diffonde, nella cultura occidentale, una moderna inquisizione: il wokeismo. 

  Il Woke ha permeato tutti gli angoli della società con l’obiettivo di sostituirla perchè malvagia e corrotta;

nato negli Stati Uniti d’America è ormai ben presente in Europa e si basa su una inedita nuova cultura morale, propone un nuovo Credo basato sulla Ragione avendo sostituito Dio con l'Umanità e la Fede nella salvezza divina con la Fede in una salvezza umana e terrena.

Premessa e cenni storici.     

Sin dagli albori del nuovo millennio, nel panorama culturale degli Stati Uniti D'America prima, dell'Europa poi, si è introdotto un nuovo elemento che rappresenta una netta cesura, sia sul piano epistemico che su quello etico, rispetto al paradigma tradizionale socio - religioso che il mondo occidentale ha costruito, secolo dopo secolo, dagli inizi della sua civiltà.

 

Il nuovo elemento prende il nome di Woke (dall'espressione “stay wake”) e deriva da un registro informale americano, diffusosi presso alcune comunità afroamericane che dal 2016 è stato usato per descrivere persone consapevoli ovvero “che si sono svegliate” o che rimangono vigili verso ogni tipo di aggressione, non solamente fisica, ma anche verbale e simbolica.

 

L'uomo contemporaneo dal suo canto si sta abituando a confrontarsi con realtà sempre più complesse e variegate, caratterizzate da mutazioni veloci ma costanti che rendono quasi impossibile chiudere in categorie ordinate gli eventi. Certamente la globalizzazione, avvenuta nel corso del ventesimo secolo, ha avuto un peso importante in questa trasformazione sociale e tra le sue conseguenze troviamo la metamorfosi del sacro e l'avvento dei “nuovi movimenti religiosi”.

 

La storia, d’altro canto, insegna e testimonia che nuovi movimenti religiosi si sono sempre affermati, nel corso dei secoli, e quasi tutte le epoche hanno conosciuto tali fenomeni ma questi, contrariamente ad oggi, si inserivano nel solco tracciato dalle religioni secolari, discostandosi da esse, ma ripetendo le tradizioni e gli schemi di base.

 Le nuove contemporanee formazioni, invece, si propongono, distaccandosi dalle religioni Rivelate, come “autentici realizzatori dell'originario messaggio” proponendo percorsi inediti per raggiungere tale obiettivo.

La loro capacità di offrire visioni diverse e laiche del mondo le fanno risultare affascinanti, anzitutto a una gran parte della popolazione giovane ma, anche, a tutti coloro che vivono in stati di precarietà, incertezze e smarrimento, tipiche del mondo contemporaneo, o che non comprendono più o mal sopportano le sovrastrutture dogmatiche e teleologiche delle religioni tradizionali.

Oggi certamente non esiste, nelle scienze sociali e nello studio delle religioni, in genere, una definizione condivisa di religione e le definizioni che fanno riferimento a un Dio personale e quelle che insistono sulla distinzione fra una sfera del sacro e una del profano sono ormai minoritarie.

 

A differenza del passato, abbiamo a disposizione un ampio “mercato religioso” in cui poter trovare una vasta gamma di prodotti da scegliere e preferire; assistiamo ad una divaricazione profonda fra etica e religione con un netto orientamento individualistico nella formazione del giudizio morale soggettivo.

La ricerca della spiritualità che, pur permane negli individui, e il bisogno di senso e di esperienze emotivamente coinvolgenti si evolve e, insieme, si evolve anche la stessa immagine di Dio che rimane, si divino ma senza più volto e nome, spinto verso una mistica cosmica del tipo New Age più che verso i tradizionali libri sacri.

 

Nel mondo si moltiplicano coloro che affermano che tutte le religioni si equivalgono e le differenze confessionali si assottigliano al punto che è difficile coglierne le differenze reali e sostanziali.

Il pluralismo delle offerte religiose induce inoltre processi fondamentalistici di chiusura e porta la riduzione della identità collettiva e individuale a informarsi sempre meno sulla propria appartenenza religiosa.

 

Gli aderenti alla Woke religion “des blancs issus de milieux tres privilegies”, pur muovendo da premesse eterogenee “condividono la pretesa di aver raggiunto – attraverso un processo decostruttivo molto lontanamente ispirato al metodo derridiano – una superiore consapevolezza circa le autentiche radici storico – culturali della società occidentale; radici che affonderebbero in buona sostanza, nello sfruttamento e nella prevaricazione ai danni di un insieme più o meno infinito e di indefiniti  gruppi etnici o sociali percepiti, ex post, come vittime.

Da una simile consapevolezza, reale o supposta, deriva un giudizio di stampo etico estremamente negativo nonché una fortissima spinta verso una radicale riforma dell'assetto sociale e del sistema valoriale dei Paesi occidentali, riforma da attuarsi a qualunque costo e con qualunque mezzo, anche violento”.

 

Le idee sveglie ritengono che “le nazioni occidentali non siano affatto democratiche perché in esse le persone di colore soffrono rispetto ai bianchi, i bianchi godono di molti privilegi, le diseguaglianze nei luoghi di lavoro dimostrano una forte discriminazione tra i gruppi, le forze dell’ordine discriminano le persone di colore e le minoranze in genere, le donne sono vittime di sessismo e gli individui che non si identificano in alcun genere non sono attenzionati come esercitanti un loro diritto”.

 

L'esigenza di religiosità, di assoluto, di senso dell'esistenza e di certezza, si pone alla base del proliferare, al di là del permanere delle religioni tradizionali, di forme nuove di religioni ed una in particolare, è la” Woke Religion”, nata negli Stati Uniti di America, e già molto diffusa in Europa.     

Il pensiero Woke: principi e base culturale.

L' Università americana “Evergreen State College”, nello Stato di Washington d.c.,  fin dagli anni settanta del secolo scorso osservava una tradizione che andava sotto il nome di “Giorno di assenza”;

un giorno, nel corso del quale, i docenti e gli studenti non bianchi lasciavano il campus e si riunivano altrove.

Con tale comportamento erano decisi a ricordare quanto la loro presenza, in seno all'Ateneo, fosse significativa e preziosa per la stessa istituzione universitaria.

 

Nel 2017, molti lustri dopo la nascita di questa tradizione, gli organizzatori invertirono le parti pretendendo che fossero i docenti e gli studenti bianchi ad osservare il “Giorno di assenza”.

 

Il “Professore Bret Weinstein”, bianco, docente di biologia si oppose fortemente, nella convinzione che tale cambiamento potesse concretizzare un pericoloso precedente:

 affidò il suo pensiero ad una dichiarazione indirizzata agli organizzatori dell’evento con la quale affermava che “esiste una enorme differenza tra un gruppo o una coalizione che decide di assentarsi volontariamente da uno spazio condiviso per evidenziare i propri ruoli vitali e sottovalutati, da un gruppo che incoraggia un altro ad andarsene.

Il primo è un forte richiamo alla coscienza che, ovviamente paralizza la logica dell'oppressione.

 Il secondo è una dimostrazione di forza e un atto di oppressione in sé e per sè”.

 

Non appena la dichiarazione venne resa pubblica il Docente si dovette confrontare con la collera degli studenti, si difese contro atti di ritorsione e di aggressione quotidiane subendo, al contempo, l'ostilità della amministrazione universitaria al punto che, sia lui che la moglie, collega al Campus, dovettero rassegnare le loro dimissioni e allontanarsi dal luogo dove erano accaduti i fatti.

 

Successivamente a tale episodio molti osservatori e studiosi si interessarono a questo tipo di fenomeno che, poi venne designato con il termine WOKE;

 fenomeno che, per un certo tempo, rimase relegato nei ristretti ambiti di alcuni College americani fino a quando nel 2020, dopo la morte di “George Floyd,” si è molto esteso, conquistando un grande spazio mediatico parallelamente al movimento “Black Lives Matter”.

In Europa si sta diffondendo rapidamente ed anche in Italia sono molti coloro che consapevolmente o meno hanno accolto le istanze wokiste.

 Non ha più le sembianze di un movimento ma ha assunto i connotati di un vero Credo.

Il termine Woke, di non facile traduzione, significa “essere svegliati” e già questo è un tipico segnale religioso:

essersi svegliati significa, infatti, aver raggiunto una nuova consapevolezza perché si ha ascoltato la Buona Novella e visto la Luce.

L'essersi risvegliato presuppone un discernimento che pone gli adepti nella condizione sia di testimoniare la Verità rivelata che sperimentare la loro trasformazione spirituale.

 

Oggi questo “risveglio” individuale ha preso la forma di una enunciazione collettiva, di una “nuova chiesa nazionale, riformata e trasformata per sostituire la Società originaria che è malvagia e corrotta”.

 

Il Woke si basa su  una inedita nuova cultura morale e propone un nuovo Credo basato sulla Ragione ma con gli stessi paradigmi e dogmi della Religione rivelata, entrando a far parte di quelle che vengono definite le Religioni laiche, aventi come unica differenza, rispetto  a quelle tradizionali, di aver sostituito Dio con l'Umanità e la Fede nella salvezza divina con la Fede in una salvezza umana e terrena, dando vita ad uno scontro profondo tra fede e ateismo e  destando in alcuni forme di incredulità e in molti un vero e proprio allarme misto ad una inquietudine crescente.

 

Gli adepti sono attivisti entusiasti che si impegnano a formare la nuova umanità predicata dalla religione risvegliata;

le religioni tradizionali, quindi, trovano nel Woke un competitor insidioso poiché promette un mondo utopico in cui la giustizia sociale arriva alla sua massima perfezione gettando nella oscurità eterna (cancel culture) coloro che non si adegueranno.

 

La “Woke religion” fa suoi molti elementi della mentalità religiosa tradizionale ma nella loro forma più negativa e senza nessuna delle caratteristiche redentrici o delle sue virtù;

 il senso dell'umiltà e della indegnità, componenti essenziali della vocazione del fedele tradizionale, non rientrano nella comprensione Woke così come il perdono che le è del tutto sconosciuto: come ben sappiamo, infatti, nella azione redentrice del perdono il peccatore viene guarito e sollevato dal peso della colpa e chi ha agito male viene sempre risanato   mentre per i wokisti non esiste nessuno degno di essere sanato ma il mondo si divide tra i “risvegliati” e gli altri che devono essere eliminati.

 

Gli aderenti alla “Woke religion” si pongono in un uno stato di giustizia eterna a spese degli altri; il pensiero del gruppo è obbligatorio per tutti, basato sulla convinzione di rettitudine e la benedetta certezza di essere separati dai ben più ripugnanti peccatori del resto della umanità, che sono predestinati alla punizione eterna.

 

Un giudizio scevro da preconcetti ci impone di riconoscere che la “Woke religion” nacque con un obiettivo nobile, ovvero, quello di combattere le diseguaglianze e le ingiustizie presenti nella società con tutti i mezzi a disposizione ma, nel corso degli anni, malgrado la nobiltà degli iniziali intenti, ha ottenuto una connotazione negativa e ciò è dovuto al fatto che gli aderenti hanno esasperato le loro posizioni, diventando estremamente intolleranti nei confronti di tutti quelli che sono in disaccordo con la loro visione del mondo.

 

Parallelamente ha contribuito a diffondere un nuovo concetto, quello della “cancel culture” (cultura della cancellazione o del boicottaggio) che ha come obiettivo primario di cancellare personaggi – pubblici o privati, veri o inventati, storici o contemporanei, a motivo di aver detto o fatto qualche azione che è errata od offensiva nei confronti di una qualunque minoranza.

A nulla vale lo spiegare loro che è assolutamente necessario contestualizzare e storicizzare gli eventi messi sotto accusa perché giudicare la storia con categorie contemporanee è scientificamente inesatto.

 

La “Woke religion” si fonda su di un approccio postmoderno al sapere dove si sostengono il rimescolamento delle frontiere, il relativismo culturale ovvero l'impossibilità di classificare una cultura come superiore o inferiore ad un'altra, il potere attribuito al linguaggio che si ritiene costruisca la nostra percezione del reale e il confinamento dell'individuo all'interno di sovrastrutture, legate all'influenza che ha colui che detiene il potere all'interno della società.

 

Coloro che aderiscono a questa “religione” hanno ben poche possibilità di uscirne poiché, come avviene anche nelle teorie del complotto, ogni argomentazione della cultura Woke fa da puntello a tutte le altre, restando all'interno di uno spazio chiuso di moralità che recinta “i buoni” ed estromette i “cattivi” per lo più additati come retrogradi, privilegiati o parte del problema.

 

Stiamo assistendo sempre più ad una perdita di potere delle religioni spirituali con un incremento crescente delle religioni sociali e tra queste il wokism”:

religioni sociali che creano veri e propri culti della personalità, simboli, strutture del linguaggio, strutture morali, frasi e slogan da ripetere a memoria come preghiere.

 I testi sacri a cui fare riferimento sono:

per il colonialismo i testi di Di Angelo, Fassin Enric;

per il gender quelli di Sterling Anne Fausto, Butler Judith, Serrano Julia;

per l’intersezionalità Crenshaw kimberle e Mazouz Sarah.

“Proprio come una religione - e spesso in modo molto più visibile di molte religioni reali – la volontà del movimento woke di prendere sul serio – ad esempio - il razzismo offre una risposta pubblica ai reali bisogni e sofferenze umane. Incontrano persone laddove soffrono, si prendono cura delle loro ferite e forniscono un linguaggio in cui possono esprimere il loro dolore.

Queste sono azioni religiose.

Ancor più, nella loro forma migliore, queste pratiche condivise producono proprio il tipo di energia gratuita, generosa e consolante così spesso associata alla religione”.

I metodi di azione e le condizioni culturali e sociali del wokismo.

I principi alla base della “Woke religion” sono espressi essenzialmente per gli effetti che essi sono destinati a produrre più che per la loro pertinenza in sé.

Ciò vuol dire che essa non è interessata a propugnare e difendere principi e la coerenza interna di questi diventa un fattore secondario poiché l'obiettivo importante da realizzare sarà quello di far avanzare la causa globale.

Sarà dunque del tutto legittimo sostenere un principio incoerente, contraddittorio o mal definito se questo sarà utile e consentirà la progressione di una finalità considerata buona.

 

Gli ideatori del wokismo sanno perfettamente che la coerenza a volte può trasformarsi in un inconveniente;

ad esempio “Eve Kosofsky Sedgwick”, esponente importante della filosofia queer, valorizza la contraddizione e l'incoerenza per la loro facoltà di rendere il movimento che ella sostiene più difficile da circoscrivere.

Una eminente teorica della corrente postcoloniale, “Gayatri Chakravorty Spivak”, dal canto suo, elogia il “concetto di essenzialismo strategico”, cioè di un approccio che mira ad essenzializzare questo o quel gruppo marginalizzato in funzione di situazioni giudicate politicamente opportune onde resistere meglio “ai colonizzatori”;

anche in questo caso le contraddizioni interne diventano una questione secondaria.

 

Consapevoli che è più facile far aderire ad un principio piuttosto che a un metodo gli adepti woke imparano a non sopravvalutare l'importanza della coerenza logica e tendono a formulare i metodi come principi. Seguendo il loro pensiero si potrebbe credere che la diversità sia difesa in quanto tale ma in tale sistema applicativo non esiste, non è previsto che un adepto lamenti, in nome del principio della diversità, che non vi siano abbastanza uomini bianchi o eterosessuali in un paese, un quartiere o una istituzione.

 Ça va sans dire che se la diversità fosse apprezzata in sé un comportamento di questo tipo si dovrebbe osservare tutte le volte in cui si presenti.

La sua assenza mette bene in evidenza l'approccio conseguenziale degli adepti dal momento che “il discorso diverso rivela di non essere altro che un mezzo per la sbiancatura delle società”.

 

Con un simile approccio strategico ai concetti, nella certezza che un buon concetto genera buoni effetti, i pensatori Woke teorizzano se stessi positivamente come “diffusori di virus”.

 In effetti appare chiaro che “l’Occident souffre actuellement d’une pandemie terriblement devastatrice, une maladie collective qui dtruit la capacitè des gens a penser  rationnellement”.

 

Le condizioni sociologiche che hanno permesso l'emersione della Woke religion sono state studiate a fondo ed in particolare dai sociologi B. Campbell e J. Manning che in uno studio rilevante del 2018 asseriscono che un pilastro importante del woke sia la “cultura della vittimizzazione”.

 

La cultura della vittimizzazione si differenzia e ha, di fatto, soppiantato sia la cultura dell'onore che la cultura della dignità che hanno dominato, per molti secoli, le società tradizionali.

La prima valorizzava il fatto di dover difendere il proprio onore in prima persona senza chiamare in causa terze persone per regolare le proprie controversie mentre la seconda spinge a non offendersi per delle inezie e regolare eventualmente i propri disaccordi per le vie di giustizia soltanto nei casi che lo meritano.

Contrariamente la cultura della vittimizzazione incoraggia la capacità di offendersi e di regolare conflitti tramite gli interventi dei terzi e lo status di vittima diviene oggetto di sacralizzazione.

Il meccanismo è semplice e consiste nel creare false accuse su fatti odiosi, in seguito poi, porre una persona “dominante” nella posizione del carnefice e una persona considerata “dominata” in quella della vittima.

Ed è ormai chiaro che tutto ciò avviene proprio perché assumere il ruolo della vittima consente vantaggi immediati e questa nuova condizione è ormai divenuta una risorsa sociale, una forma di status dal quale trarre benefici e guadagni.

I Wokisti considerano la cultura occidentale responsabile di essersi storicamente strutturata intorno al cd. “Principio di esclusione”. Sostengono che l'occidente avrebbe, volutamente ed erroneamente condiviso, nel corso della sua millenaria storia, valori etico -morali, determinati canoni estetici ed una particolare visione del mondo ai danni di altre civiltà che, non condividendo la stessa visione della realtà, sono stati sfruttate, danneggiate o sminuite.

Inoltre la “ Weltanschuung occidentale” ancora oggi rimane un enorme limite alla integrazione, nella nostra società, di tutte quelle comunità o soggetti singoli che per motivazioni etniche, storico, culturali o ideali hanno adottato sistemi valoriali differenti e alternativi da quelli dominanti nelle popolazioni europee.

 

In realtà tale accusa è superficiale e approssimativa in quanto ha come baricentro la medesima ottica eurocentrica che invece i wokisti si prefiggono di combattere.

Non bisogna essere esperti storici o competenti geopolitici per avere chiaro che, nel corso della storia, tutte le civiltà, europee e non, sufficientemente strutturate ed in grado di esprimere una organizzazione militare adeguata, abbiano fatto il possibile per estendere il loro dominio politico, economico e culturale ai danni delle civiltà più piccole o più deboli.   

L'imperialismo non è quindi un peccato dell'occidente ma, eventualmente, di tutte le culture umane che abbiano raggiunto un grado di sviluppo adeguato.

Le tesi wokiste sono viziate da un grave errore di fondo ovvero che rigettando l'universo socioculturale occidentale perché viziato da istanze violente e discriminatorie sarà necessario creare una nuova sfera culturale basata sulla inclusività:

il problema sarà però che qualunque contenuto culturale, anche basico, come salutarsi scambiandosi un bacio piuttosto che darsi la mano, per sua stessa natura arbitrario e convenzionale, sarà, da un lato, elemento identitario per coloro che lo usano e, dall'altro, motivo di divisione agli occhi di chi ritenga migliore una ipotesi alternativa;

 per superare questa impasse la woke religion ha tentato la via della trascendenza ovvero un piano meta culturale in grado di fornire uno spazio vuoto nel quale accogliere tutte le culture e ogni preferenza possibile in condizione paritetica: una sorta quindi di super – cultura che rifiuti qualsiasi identità specifica e accogliente di tutte senza distinzioni.

 

Il grande limite di questa impostazione, di per sé anche affascinante, risiede nel semplice fatto che essa non ha come obiettivo di proporre una idea culturale e morale alternativa bensì di rappresentare l'unico orizzonte entro cui sia ammissibile pensare.

I suoi principi di fondo si sono molto velocemente ampliati prima negli Stati Uniti e poi in Europa tanto che oggi è quasi impossibile non essere esposti a questa nuova visione antropologica che viene presentata non come una teoria valutabile o verificabile ma come un dato di fatto, una chiave di lettura universalmente condivisa: un unico orizzonte possibile.

 

I “risvegliati” sono convinti che la loro visione sia l'unica giusta e intendono imporla come unica e ultima basandosi sull'assunto che costituisce una nuova meta – cultura e una nuova meta – antropologia prive di postulati contenutistici ma imperniate su criteri formali della massima inclusività e dell'assoluto rispetto per la libertà individuale e per le minoranze.

 

Tale assunto è  palesemente errato poiché l'esclusione del dato di realtà e della contestualizzazione storica e sociale degli eventi o di comprensione delle differenti culture rappresenta una scelta che non si può non considerare nel momento in cui si esprimono giudizi ma anzi la scelta opposta, tradizionale, che parte dal dato reale e tiene conto dei suoi aspetti quantitativi e misurabili anziché delle fantasie personali è preferibile e priva di difetti; ciò rappresenta il Tallone di Achille della woke religion ed è essenziale comprenderlo ovvero che la loro presunta neutralità etico - epistemica non basta per poter rivendicare un supposto diritto a definire il perimetro entro il quale circoscrivere l'incontro e lo scontro delle differenti idee e posizioni: i principi woke sono estremamente parziali e riconoscerlo permetterebbe di uscire dalla gabbia etico – lessicale con cui i risvegliati cercano con forza e tenacia di rinchiudere il dibattito pubblico.

“Se si perde fiducia nella razionalità quale strumento di comprensione della realtà il soggetto si ritrova a pensare sé stesso come una monade e a percepire solo la propria dimensione psichica”.

  

Una consapevolezza importante.

“Quest’idea di purezza, di non scendere mai a compromessi ed essere sempre politicamente “woke” [consapevoli], quel genere di cose.

 Ecco, dovreste lasciarvelo alle spalle in fretta.

Il mondo è caotico, ci sono ambiguità; ci sono persone che fanno cose eccellenti eppure hanno dei difetti”.

 

La Woke religion non è un fenomeno limitato a ristretti circoli; nata negli USA si è rapidamente diffusa nel vecchio continente e viene definita come un “fenomeno rivoluzionario e come tale pronto ad estendersi ovunque in Occidente” e può anche essere considerata “molto pericolosa”.

Il Woke, con la “cancel culture” e il “differenzialismo inclusivo” della quale sono dirette conseguenze, possiamo considerarla, senza tema di essere smentiti, la prima rivoluzione post – cristiana: e non a caso possiede molti caratteri dello gnosticismo.

 

Si potrebbe anche pensare che il Woke sia una fase ancora decisamente fondamentale e necessaria nella storia moderna mondiale e di ogni singolo Paese, al fine di raggiungere pari diritti e opportunità, per tutte quelle categorie di persone spesso non rispettate o non sufficientemente legalmente tutelate dallo Stato.

Tuttavia è bene sempre focalizzarsi su pari opportunità e diritti invece che sui privilegi che una simile visione del mondo porta con sé.

Il wokismo sta certamente rappresentando per il mondo occidentale una forza che cerca di porre fine alla sua sfera culturale e al suo sistema valoriale e si alimenta in alcune caratteristiche tipiche degli anni che stiamo vivendo quali la globalizzazione priva di regole, la crescente concentrazione del potere economico nelle mani di pochi grandi corporation apolidi e disinteressate della sorte dei popoli e il margine di manovra in crescita delle strutture sovranazionali con conseguente riduzione della sovranità degli Stati.

 

In questa contrapposizione tra ideali troviamo non solamente un pericoloso e forse definitivo sorpasso della sfera cristiana ma anche la perdita della libertà di espressione, la democrazia e il primato del pensiero razionale sulla emotività.

Il Woke potrebbe rappresentare una nuova inquisizione o tirannia, senza dubbio mascherata, che si pone contro le promesse di libertà, espressione, uguaglianza e rispetto che invece vorrebbe proteggere.        

Certamente questa nuova forma inquisitoria non si manifesta con la brutalità del passato ma è in grado di esercitare il suo potere in maniera sottile e persistente.

Coloro che aderiscono al Woke hanno l'ambizione di smantellare la civiltà occidentale percependola come la fonte di un sistema oppressivo e per far sì che questo avvenga ricorrono alla cancellazione, al boicottaggio o alla vergogna di coloro che dissentono dai membri dei loro gruppi ai quali viene assicurata una protezione speciale.

 

“Il linguaggio diventa uno strumento per creare una nuova realtà e coloro che osano dissentire si trovano ad affrontare campagne diffamatorie che mirano all'assassinio civile del pensiero divergente”.

Attraverso la paura e la censura, che vengono utilizzate per raggiungere gli scopi prefissati, è facile evocare altri momenti di intolleranza religiosa e ideologica;

al pari del linguaggio volutamente adattato per imporre le idee e non per attuare un confronto sereno e democratico.

Oggi siamo al punto a titolo esemplificativo che ogni critica alla discriminazione positiva contro le donne è etichettata come machismo, la mancanza di sostegno ai gruppi LGBT è considerata omofobia, la richiesta di una immigrazione ordinata è etichettata come xenofobia.

Di fronte a ciò non pare azzardato ipotizzare una necessità di una disobbedienza intellettuale al fine di tutelare il libero pensiero, la tolleranza delle divergenze e il diritto al dissenso e di porli alla base della convivenza pacifica e democratica.

Sarà opportuno considerare criticamente questa impostazione piuttosto che aderirvi senza indugi, cercando di essere prudenti e consapevoli nella certezza che una visione unica del mondo, della realtà che ci circonda e della storia non potrà essere mai considerata giusta, scientifica e aderente alla realtà stessa.

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